Anno XXXIV N. 6 Dicembre 2013 Euro 2,00 Il Natale e i grandi della letteratura... Allan Ramsay (pittore scozzese) La parabola artistica e le visite ad Ischia Luigi Polito poeta e scrittore foriano nel centenario della nascita Piero Malcovati guida del termalismo ischitano Ragguaglio istorico topografico dell'Isola d'Ischia (IV) Messico : appunti di viaggio Palenque, l'antica Lakam Ha Iscrizione greca di Pithekoussai Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Dir. responsabile Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Anno XXXIV- N. 6 Dicembre 2013 Euro 2,00 Periodico di ricerche e di temi turistici, culturali, politici e sportivi Editore e Direttore responsabile : Raffaele Castagna La Rassegna d’Ischia Via IV novembre 19 - 80076 Lacco Ameno (NA) Registrazione Tribunale di Napoli n. 2907 del 16.02.1980 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione n. 8661. Stampa : Press Up - Ladispoli (Roma) Sommario 3 Il Natale e i grandi della letteratura... 4 Iscrizione greca di Pithekoussai 7 Allan Ramsay (pittore scozzese) La parabola artistica e le visite ad Ischia 11 Panza, Sant'Agelo, Serrara, Barano... Ne L'Infermo struito di G. A. D'Aloisio 13 Luigi Polito poeta e scrittore foriano nel centenario della nascita 14 Novella di Luigi Polito "Tommaso Mbruogli" 16 Piero Malcovati guida del termalismo ischitano 20 Scommetti su te stesso! 21 Ragguaglio istorico topografico dell'Isola d'Ischia (IV) 37 Coordinamento Festival Campania 38 Rassegna Libri 47 Ischia Teatro Festival 48 Emozioni vere e vive allora, come oggi... 49 Ex libris 52 Messico : appunti di viaggio Palenque, l'antica Lakam H Chiuso in redazione l'8 dicembre 2013 In copertina (I) - Natività di Alfonso Di Spigna (Forio - Chiesa di Visitapoveri) Ischia – Presepi La sezione ischitana dell’Associazione Amici del Presepio, nell’ambito della valorizzazione delle attività turistiche ed al fine di rendere partecipe tutta la cittadinanza alle festività natalizie 2013-2014, ha indetto un percorso di presepi viventi nelle vetrine, negli spazi o negli angoli dell’isola. Lo spirito della manifestazione è quello di creare, insomma, un itinerario presepistico che coinvolga l’intera isola d’Ischia. Isolaverde TV realizzerà e metterà in onda sulla home page del proprio portale un video con le immagini di tutti i presepi che aderiranno al concorso, aprendo nel contempo un sondaggio fra tutti coloro che voteranno l’opera più bella: il 6 gennaio, allo scadere della mezzanotte, il presepio più apprezzato dai lettori sarà premiato con un soggiorno per quattro persone in pensione completa a Barcellona.. (www.isolaverde.com) Dal 27 al 31 dicembre 20013 si terrà, a Ischia, nel borgo di Campagnano ”Il presepe vivente 2013". La tradizione natalizia si fonde con le tradizioni locali per dare vita ad un’atmosfera incantata. Per l’occasione il borgo contadino di Campagnano si trasformerà in un villaggio antico, con le botteghe dei mestieri: il fabbro, il falegname, il ceramista, le ricamatrici. Numerosi stand di gastronomia locale e prodotti tipici della terra, contribuiranno a rendere ancora più magica l’atmosfera. (www.myischia.it) Anche quest’anno, come accade da molti anni a questa parte, l’Associazione M.A.C.S.S. (Mestieri, Arte, Cultura, Sport e Spettacoli), presieduta dal Maestro Francovito D’Ambra, parteciperà attivamente ad alimentare la tradizione natalizia sull’isola d’Ischia. E per le prossime festività, ci sarà anche una sostanziosa novità, costituita dal fatto che la esposizione dei vari lavori presepiali di artigiani locali sarà allestita nei locali dell’ex Bar Elio a Monterone messi a disposizione gentilmente da Idraulica Regine di Franco Castagliuolo. La mostra sarà visitabile fino al 6 gennaio 2014. Inoltre l’Associazione M.A.C.S.S. precisa che il presepe da loro realizzato sarà costruito nello stesso sito dell’anno scorso, e precisamente a Vico Piazza, nel pieno centro storico di Forio, lungo il corso principale. * Le opinioni espresse dagli autori non impegnano la rivista La collaborazione ospitata s’intende offerta gratuitamente - Manoscritti, fotografie ed altro (anche se non pubblicati), libri e giornali non si restituiscono - La Direzione ha facoltà di condensare, secondo le esigenze di impaginazione e di spazio e senza alterarne la sostanza, gli scritti a disposizione. conto corrente postale n. 29034808 intestato a Raffaele Castagna - Via IV novembre 19 80076 Lacco Ameno (NA) www.larassegnadischia.i www.ischiainsula.eu [email protected] [email protected] Il Natale e i grandi autori della letteratura... La leggenda dei Re Magi di Gabriele D’Annunzio La notte era senza luna; ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca e uguale come il plenilunio, poiché il Divino era nato; dalla campagna lontana i raggi si diffondevano.... Il Bambino Gesù rideva teneramente, tenendo le braccia aperte verso l’alto, come in atto di adorazione; e l’asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell’aria gelida. La Madonna e San Giuseppe di tratto in tratto si scuotevano dalla contemplazione, e si chinavano per baciare il figliolo. Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni e vennero anche i Re Magi. Erano tre: il Re Vecchio, il Re Giovane e il Re Moro. Come giunse la lieta novella della natività di Gesù si adunarono. E uno disse: - È nato un altro Re. Vogliamo andare a visitarlo ? - Andiamo - risposero gli altri due. - Ma con quali doni? - Con oro, incenso e mirra. Nel viaggio i Re Magi discutevano animatamente, perché non potevano ancora stabilire chi, per primo, dovesse offrire il dono. Primo voleva essere chi portava l’oro. E diceva: - L’oro è più prezioso dell’incenso e della mirra; dunque io debbo essere il primo donatore. Gli altri due alla fine cedettero. Quando entrarono nella capanna, il primo a farsi innanzi fu dunque il Re con l’oro. Si inginocchiò ai piedi del bambino; e accanto a lui si inginocchiarono i due con l’incenso e la mirra. Gesù mise la sua piccoletta mano sul capo del Re che gli offerse l’oro, quasi volesse abbassarne la superbia. Rifiutò l’oro; soltanto prese l’incenso e la mirra, dicendo: - L’oro non è per me! Natale di Giuseppe Ungaretti Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade. Ho tanta stanchezza sulle spalle. Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata. Qui non si sente altro che il caldo buono. Sto con le quattro capriole di fumo del focolare Sogno di Natale (1896) di Luigi Pirandello Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi. Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: - Buon Natale - e sparivo... Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita. Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’immagine di lui m’attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii. Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo. Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide. A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie. - Non dormono... - mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: - Anche per costoro io son morto... Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse: - Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere. Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d’oro alla volta, piena d’una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l’altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano a ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale. - E per costoro - disse Gesù entro di me - sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte. Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese: Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’io son morto per questo mondo, che La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 3 pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo... Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà. - La città, Gesù? - io risposi sgomento. - E la casa e i miei cari e i miei sogni? - Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari. - Ah! io non posso, Gesù... - feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona. Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. È qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa. Una stella sulla strada di Betlemme di Boris Pasternak Era inverno e soffiava il vento della steppa. Freddo aveva il neonato nella grotta sul pendio del colle. L’alito del bue lo riscaldava. Animali domestici stavano nella grotta. Sulla culla vagava un tiepido vapore. Dalle rupi guardavano assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte. E lì accanto, sconosciuta prima d’allora, più modesta di un lucignolo alla finestrella di un capanno, tremava una stella sulla strada di Betlemme. Natale a Regalpetra di Leonardo Sciascia Il vento porta via le orecchie - dice il bidello. Dalle vetrate vedo gli alberi piegati come nello slancio di una corsa. I ragazzi battono i piedi, si soffiano sulle mani cariche di geloni. L’aula 4 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 ha quattro grandi vetrate: damascate di gelo, tintinnano per il vento come le sonagliere di un mulo. Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale: tutti hanno giocato a carte, a scopa, sette e mezzo; sono andati alla messa di mezzanotte, hanno mangiato il cappone e sono andati al cinematografo. Qualcuno afferma di aver studiato dall’alba, dopo la messa, fino a mezzogiorno; ma è menzogna evidente. In complesso tutti hanno fatto le stesse cose; ma qualcuno le racconta con aria di antica cronaca: “La notte di Natale l’ho passata alle carte, poi andai alla Matrice che era piena di gente e tutta luminaria, e alle ore sei fu la nascita di Gesù”. Alcuni hanno scritto, senza consapevole amarezza, amarissime cose: “Nel giorno di Natale ho giocato alle carte e ho vinto quattrocento lire e con questo denaro prima di tutto compravo i quaderni e la penna e con quelli che restano sono andato al cinema e ho pagato il biglietto a mio padre per non spendere i suoi denari e lui lì dentro mi ha comprato sei caramelle e gazosa”. Il ragazzo si è sentito felice, ha fatto da amico a suo padre pagandogli il biglietto del cinema… Ha fatto un buon Natale. Ma il suo Natale io l’avrei voluto diverso, più spensierato. “La mattina del Santo Natale - scrive un altro – mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto”. La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre “per fare la spesa”. Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone. “E così ho passato il Santo Natale”. È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza. È Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri. È Natale La notte è scesa e brilla la cometa che ha segnato il cammino. Sono davanti a Te, Santo Bambino! Tu, Re dell’universo, ci hai insegnato che tutte le creature sono uguali, che le distingue solo la bontà, tesoro immenso, dato al povero e al ricco. Gesù, fa ch’io sia buono, che in cuore non abbia che dolcezza. Fa che il tuo dono s’accresca in me ogni giorno e intorno lo diffonda, nel Tuo nome. di Madre Teresa di Calcutta È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l'altro. È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società. È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale. Il Presepe di Salvatore Quasimodo Natale. Guardo il presepe scolpito dove sono i pastori appena giunti alla povera stalla di Betlemme. Anche i Re Magi nelle lunghe vesti salutano il potente Re del mondo. Pace nella finzione e nel silenzio delle figure in legno ed ecco i vecchi del villaggio e la stalla che risplende e l’asinello di colore azzurro. Luce, pace e amore di L. Housman La pace guardò in basso e vide la guerra, “Là voglio andare” disse la pace. L’amore guardò in basso e vide l’odio, “Là voglio andare” disse l’amore. La luce guardò in basso e vide il buio, “Là voglio andare” disse la luce. Così apparve la luce e risplendette. Così apparve la pace e offrì riposo. Così apparve l’amore e portò vita. A Gesù Bambino di Umberto Saba Iscrizione greca di Pithekoussai ινος μ ' εποίσε(ν) Firma dipinta su un frammento di cratere del tardo geometrico di produzione locale, museo di Lacco Ameno; ca 700 a. C. Frammento di cratere locale con decorazione dipinta di stile tardo geometrico ed iscrizione dipinta recante la firma dell’artista, trovato al di sotto delle pietre di fondazione di una delle strutture. L’iscrizione retrograda dipinta è la più antica firma di vasaio che sia mai stata trovata nel mondo greco. Il nome è incompleto così come il disegno della creatura alata raffigurata sotto il nome, forse identificabile con una sfinge di chiara estrazione orientale1; secondo Emilio Peruzzi2 si tratterebbe di una scimmia che si tiene la testa tra le mani e che è accovacciata con i gomiti sulle ginocchia: posizione caratteristica di questo animale e che si ritrova nelle rappresentazioni di epoca orientalizzante. Il nome di Pitecusa sarebbe stato dato all’isola da navigatori colpiti dalla presenza delle scimmie. A proposito dell’iscrizione, Maria Luisa Catoni3 scrive: - La più antica firma per noi riconoscibile come tale4 1 G. Buchner e C. Gialanella: Museo archeologico di Pithecusa, itinerari, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994. 2 E. Peruzzi, Le scimmie di Pithecusa, in Parola del passato 263, 1992. 3 M. L. Catoni, Bere vino puro, immagini del simposio, p. 123 sgg., Feltrinelli – Campi del sapere, 2010. 4 Alcuni frammenti che recano nomi propri, magari anch’essi frammentari, potrebbero ben essere firme o parti di firme. è quella di un artigiano che fu verosimilmente sia vasaio sia pittore e risale all’ultimo venticinquennio dell’VIII secolo a. C. È dipinta (con andamento da destra a sinistra com’è normale per le iscrizioni più antiche) su un frammento di cratere fabbricato nella colonia euboica di Pithecusa, la moderna Ischia, e dice: “[**]inos mi fece”5. È un caso eccezionale da almeno tre punti di vista. È, fino a oggi, la più antica firma attestata di un artigiano. Al periodo fra VIII e VII secolo a.C. risalgono in totale otto firme, provenienti da tutto il mondo greco, dalla Grecia propria all’Italia. Sono tutte di ceramisti e la più antica precede di oltre un secolo le firme degli scultori (attestate epigraficamente). Tutte, tranne una della metà del VII secolo, usano la formula “Il Tale fece”. Ai ceramisti che apposero queste firme si deve probabilmente sia la modellazione sia la decorazione dell’oggetto: sta di fatto, però, che ritennero importante indicare solo l’attività del “fare”, o perché questa riuniva in sé sia la modellazione sia la decorazione dell’oggetto o perché, delle due, la modellazione era ritenuta più significativa, magari rispetto al mercato. Su un frammento di vaso proveniente da Naxos, datato alla metà del VII secolo, potrebbe comparire per la prima volta il riferimento all’attività di decorare il vaso, visto che si leggono i resti del verbo gràphein. Nei pri5 Frammento di cratere fabbricato a Pithecusa. Dall’insediamento in località Mazzola. 725-700 a. C. circa. Lacco Ameno, Museo archeologico di Pithecusa, inv. 239083. Iscrizione retrograda dipinta sul collo. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 5 mi decenni del VI secolo a. C. il verbo gràphein viene usato da alcuni, pochi, pittori di vasi e poche sono anche le firme che utilizzano il verbo “fare”. Nella ceramica attica a figure nere, la prima firma a noi nota è quella di Sophilos, che la dipinge tre volte come pittore e una volta come vasaio (queste potrebbero salire a tre, a seconda di come si integrano altre sue firme conservate in modo frammentario). Al periodo fra 575 e 550 risalgono alcune firme apposte su un genere di manufatti che si presta, per noi, a minori ambiguità rispetto ai vasi, visto che fanno riferimento soltanto all’attività della decorazione e mai a quella della modellazione; questo è probabilmente dovuto al tipo di oggetto, la cui fattura non era forse ritenuta segno di particolare maestria. Si tratta di tavolette d’argilla di fabbrica corinzia che vennero dedicate in un santuario di Poseidon sul colle dell’Acrocorinto. Molte sono decorate su entrambi i lati. Sul retro sono spesso raffigurate scene relative alla produzione ceramica, con uomini di fronte alla fornace o intenti all’estrazione o alla lavorazione dell’argilla, con vasi dentro il forno, e così via. Proprio in considerazione dell’inusuale abbondanza di scene relative al lavoro dei ceramisti, è stato ipotizzato che i dedicanti delle tavolette fossero per lo più vasai. Su una di queste, Timonidas appose la sua firma entro la scena figurata, dipingendola prima della cottura; in un secondo momento qualcuno, non si sa se una persona diversa dal pittore, dedicò l’oggetto a Poseidon incidendo la propria dedica sulla tavoletta già finita. In un altro caso, il pittore Milonidas registrò il suo ruolo di pittore e di dedicante prima della cottura del manufatto, dipingendo sul margine “Milonidas mi dipinse e dedicò”. Il secondo tratto di eccezionalità del frammento firmato da “[**]inos” è che ci fornisce una delle più antiche attestazioni dell’uso della scrittura in alfabeto greco. La terza particolarità è che si tratta di un’iscrizione dipinta e non graffita. Esistono due tipi di iscrizioni graffite: quelle secondarie vengono apposte sul manufatto già finito e non testimoniano un uso dell’oggetto previsto all’origine, pianificato contestualmente alla sua produzione. Implicano poi il passaggio di un lasso di tempo, che è per noi difficile quantificare con precisione, fra il momento della produzione dell’oggetto e il momento dell’uso documentato dall’iscrizione graffita. Nonostante questi elementi sottraggano informazioni, l’iscrizione secondaria graffita è una testimonianza preziosissima: a differenza di quella primaria, infatti, testimonia usi potenziali dell’oggetto su cui è apposta che possono estendersi, teoricamente, a tutti gli oggetti simili. L’iscrizione graffita primaria viene realizzata sull’argilla ancora molle, allo stesso stadio di essiccatura in cui viene inciso il disegno preparatorio, la prima fase, cioè, della decorazione figurata che ornerà il vaso cotto e finito. Questo secondo tipo di iscrizione graffita ha un tratto in comune con le iscrizioni dipinte (e con l’eventuale decorazione figurata): entrambe vengono realizzate prima della cottura del vaso, sono pianificate perciò contestualmente alla produzione dell’oggetto e ne testimoniano l’uso previsto in origine. Le otto firme di artigiani databili fra VIII e VII secolo sono tutte dipinte. Non sono un’eccezione rispetto alla successiva norma del genere “firma su vaso”; lo sono, però, rispetto alla gran parte delle iscrizioni coeve. In questo stesso periodo, infatti, la maggior parte delle rare iscrizioni su vasi, di tipo diverso dalla firma, è graffita6. 6 Delle poche iscrizioni dipinte di VIII secolo ben tre vengono da Pithecusa. E sempre da Pithecusa proviene circa la metà di tutte le iscrizioni dell'VIII secolo. Bartoněk 1997: Le iscrizioni greche arcaiche dei secoli VIII e VII da Ischia in Cassio; Bartoněk e Buchner 1995: Die altesten griechischen Inschriften von Pithekoussai. Lacco Ameno - Villa Arbusto, sede del Museo archeologico 6 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Allan Ramsay (pittore scozzese) La parabola artistica e le visite ad Ischia di Jonathan Esposito Quest’anno si è celebrato il terzo centenario della nascita del pittore scozzese Allan Ramsay (17131784), considerato uno dei maggiori ritrattisti del Settecento. Il suo stile artistico si evolse da una prima fase barocca - lo stile studiato a Napoli con Francesco Solimena - ad uno stile più solenne, che suscitò grande favore tra l’aristocrazia britannica del tempo, una specie di fusione del nuovo classicismo con la tradizione ritrattistica britannica. In età matura abbandonò i pennelli per abbracciare la ricerca archeologica in Italia e, in particolare, dedicò l’ultima parte della sua vita alla scoperta e alla descrizione della villa del poeta Orazio, che fu individuata a pochi chilometri da Tivoli, nella valle di Licenza. Più di ogni altro artista del suo tempo amò l’Italia, e soprattutto Roma e il Sud, come dimostrano i quattro viaggi fatti in Italia, che furono importanti non solo per la sua formazione artistica, ma soprattutto per la sua crescita intellettuale e personale. Non è stato mai messo in evidenza, tuttavia, quanto significativa fosse stata per lui l’isola di Ischia. I suoi quattro viaggi scandiscono perfettamente dei momenti fondamentali della sua esistenza. La prima visita risale agli anni 1736-38 quando, da giovane artista, accompagnato dall’amico di famiglia Alexander Cunyngham, si stabilì prima a Roma dove studiò sotto la guida del pittore Imperiali, per poi andare a Napoli, dove riuscì ad entrare nel favore dell’anziano maestro Solimena, grazie ad una raccomandazione del viaggiatore inglese William Bristol, che si era recato all’isola di Ischia per curarsi. Anche se rimase a Napoli solo per tre mesi, il suo stile risentì molto dell’influenza dell’anziano maestro, come dimostrano vari ritratti e disegni del suo primo periodo. Grazie ad un diario scritto dall’amico, possiamo seguirlo nell’avventurosa visita in Italia, a partire dal drammatico naufragio al largo di Pisa, fino ai vari episodi del soggiorno romano.1 Tornato in Scozia, Ramsay si affermò subito come ritrattista di spicco e si sposò, ma i suoi trionfi professionali furono accompagnati da profondi dolori personali. Nel giro di quattro anni vide morire il primo figlio e la moglie. Anche gli altri due figli morirono giovanissimi dopo qualche anno. I fatti detti così, terribili come sono, non possono però toccarci quanto il piccolo e quasi sconosciuto ritratto del bambino morto, custodito 1 Cfr. Mrs. Atholl Forbes, “Sir Alexander Dick’s Travels”, in Curiosities of a Scots Charta Chest, 1600-1800, Edinburgh 1897. nella National Gallery of Scotland. Si racconta che, distrutto dal dolore per la prematura scomparsa del figlio a soli quattordici mesi, seduto di fianco al letto dove giaceva morto, sentì l’improvviso desiderio di fissare per sempre la faccia del bimbo e, presi i colori ed il pennello, eseguì questo toccante ritratto. Con infinita delicatezza riuscì a riprodurre i capelli biondi, gli occhi chiusi per sempre, la piccola bocca dello sfortunato figlio, in modo tale che è impossibile guardare questo quadro senza un brivido di commozione. Il ritratto fu trovato solo dopo la morte dell’artista insieme alle sue carte personali. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 7 Segnato da questi tremendi lutti Ramsay dimostrò un’incredibile forza di carattere e riuscì a ricostruirsi la vita dedicandosi anima e corpo alla sua arte e riscuotendo successi sempre più grandi nella capitale inglese, dove si era trasferito dalla sua Edimburgo. L’inizio degli anni Cinquanta del Settecento fu decisivo sia per la sua vita professionale che personale. Dopo la fuga d’amore con la bella ed aristocratica Margaret Lindsay, trovò una felicità domestica duratura, insieme ad un certo progresso sociale, anche se, come scrive Alistair Smart nella più autorevole biografia dell’artista, “i genitori (di lei) non approvavano affatto la frequentazione. Un artista, a metà Settecento, non godeva di una grande posizione nella società; né è probabile che i Lindsay avrebbero considerato il figlio di un libraio in pensione e manifatturiere di parrucche socialmente adeguato per la loro figlia.”2 Ramsay, che non mancava mai di una certa tenacia e caparbietà, prese la situazione in mano scappando con Margaret e sposandola. Se non fosse stato per l’ostinata contrarietà dei genitori di lei, si sarebbe potuto dire che siano stati felici e contenti, perché il matrimonio, per quanto improprio per i codici sociali del tempo, fu pieno di gioie reciproche. Poco dopo il matrimonio, Ramsay volle portare la sua giovane sposa in Italia per un lungo soggiorno a Roma dove nacque la loro prima figlia, Amelia, e dove l’artista si mise di nuovo a studiare i grandi maestri del passato e, nonostante fosse un affermato e famoso pittore di una certa età, si mise di nuovo sui banchi di studio dell’Accademia Francese per poter perfezionare la sua tecnica di disegno dal vivo. La famiglia Ramsay restò in Italia dal 1754 all’estate del 1757; a questo soggiorno risale l’importante amicizia con Piranesi, i primi scritti e la prima escursione nella valle di Licenza alla ricerca della villa di Orazio, che sarebbe diventata, in seguito, la vera passione degli ultimi anni della sua vita. In una lettera al suo vecchio compagno di viaggio Cunyngham, datata Roma Nov. 12, 1755, Ramsay descrisse il suo entusiasmo: “Un’escursione di due giorni 2 Alistair Smart, Allan Ramsay: Painter, Essayist and Man of the Enlightenment, New Haven 1992, pp. 95-96. 8 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 e mezzo alla quale tu, come qualunque uomo di buon gusto, saresti stato felice di partecipare, e che ricorderemmo con piacere per il resto della nostra vita. Lo scopo di questo percorso era la ricerca della villa di Orazio in Sabinia.”3 Tornato a Londra, fu eletto ritrattista ufficiale della casa reale e si trovò all’apice del successo, ricco ed influente, tuttavia sembra che Ramsay bramasse ben altri stimoli intellettuali. Si dedicava sempre di più a scrivere saggi artistici, politici e storici. La sua sete intellettuale lo aveva portato ad una lunga amicizia col filosofo scozzese David Hume, più tardi conobbe Rousseau e fece visita a Voltaire a Ginevra - ci ha anche lasciato due splendidi ritratti di Hume e Rous����� seau. La sua stella, però, inevitabilmente iniziò a declinare e, in seguito ad una rovinosa caduta nel 1773, subì un danno permanente al braccio destro per il quale fu obbligato a ritirarsi per sempre dal mestiere di pittore all’età di sessant’anni. L’episodio dell’incidente è perfettamente rivelatore del carattere dell’artista: si verificò a causa della sua eccessiva preoccupazione per la sicurezza della sua famiglia. Avendo appreso da un giornale di un incendio che aveva distrutto tutte le stanze al primo piano di una casa, uccidendo varie persone, fu “così commosso da questa calamità,” che improvvisamente si alzò dalla sedia e mandò a chiamare tutta la famiglia, gli allievi e i servi, invitandoli a seguirlo fino alla mansarda. Poi, spingendo una scala attraverso una porta nel soffitto che dava sui tetti, si arrampicò in alto, mentre tutti lo guardavano, e spiegò loro: “Ora sono al sicuro, posso scappare sui tetti delle case adiacenti. Ma, voltandosi per scendere, inciampò su un piolo e cadde, slogandosi il braccio destro in modo così grave che non guarì completamente mai più.”4 A causa dei forti e persistenti dolori Ramsay cercò sollievo in una località inglese famosa per le sue acque curative, Buxton, ma non dovette trovare gio3 Mrs. Atholl Forbes, Curiosities of a Scots Charta Chest, 1600-1800, Edinburgh 1897, p. 165. 4 Allan Cunningham, The Lives of the Most Eminent British Painters, London 1829-33, citato in Alistair Smart, Allan Ramsay: Painter, Essayist and Man of the Enlightenment, New Haven 1992, p. 238. vamento, in quanto decise di partire per l’Italia e si diresse presso le acque calde di Ischia. E così, a sessant’anni suonati, affetto da dolori costanti, intraprese l’arduo viaggio verso la sua amata Italia insieme alla moglie e alla prima figlia Amelia ormai ventenne, bella e vivace. Lasciò due figli più piccoli, Charlotte e John, presso sua sorella a Londra. La famiglia Ramsay soggiornò sull’isola di Ischia nei mesi di luglio ed agosto del 1776 e la cura a cui si sottopose l’anziano pittore sembra avergli dato grande sollievo. Rincuorato per la migliorata condizione fisica, fu incoraggiato a tornare a disegnare, e ci ha lasciato vari splendidi ritratti in gesso eseguiti sull’isola. I ritratti più riusciti di Ramsay, secondo le sue stesse parole, non volevano essere soltanto una fedele e naturale somiglianza, ma dovevano toccare i sentimenti, penetrando nella personalità dell’individuo. E questo è certamente vero per la splendida serie di ritratti di famiglia, realizzati dopo anni di forzata inattività, durante l’estate sull’isola di Ischia. Ci sono almeno sei disegni che appertengono a quest’ultima fase della sua attività artistica: il più famoso è l’autoritratto, dove possiamo leggere la tristezza e la sofferenza rassegnata di un uomo che ha conosciuto non pochi dolori nella sua lunga vita, eppure rimane indomito e fiero, con lo sguardo pieno di simpatia umana; due disegni della moglie, uno “che fissa il momento in cui con la testa abbassata guarda in giù” è per A. Smart, critico d’arte e biografo di Ramsay, “uno dei ritratti più belli di lei.”5 Ci sono, inoltre, due disegni della giovane e vivace Amelia, ed una bella “contadina di Surrentum” (fig. 4) che fa pensare a una sosta sulla penisola sorrentina prima di tornare a Roma. Rinvigorito dalle acque termali, rinacque in Ramsay il desiderio di riprendere l’indagine sul sito della villa Sabina di Orazio. Trascorse tutta l’estate del 1777 a fare escursioni nell’area del presunto sito di Licenza e a scrivere la sua ultima opera, Enquiry into the Situation and Circumstances of Horace’s Sabine Villa, avendo la moglie come amanuense. 5 Alistair Smart, Allan Ramsay: Painter, Essayist and Man of the Enlightenment, New Haven 1992, p.247. Tutta la famiglia si divertì a conoscere la gente semplice di campagna che lavorava la terra, notò Ramsay proprio “come coloro che, secondo i poeti e gli storici, abitavano la campagna nei giorni di Numa Pompilius.” Questo terzo viaggio in Italia durò solo due anni, con il rientro a Londra verso la fine del 1777. Dopo di che Ramsay pubblicò vari saggi e partecipò a circoli intellettuali e politici, godendosi la sua posizione di ricco e stimato artista in pensione. Poco dopo, la cara Amelia sposò il governatore Archibald Campbell e lo raggiunse sull’isola di Giamaica insieme alla sorella minore che insistette a seguirla. Negli ultimi anni della sua vita Ramsay si ritirò dalla società mondana in compagnia della moglie, dedicandosi soprattutto alla lettura. La salute di entrambi era precaria e dovettero soffrire molto per l’allontanamento delle due figlie, tuttavia trovavano sollievo nel loro ultimo figlio John, nato nel 1768. Margaret Lindsay, la signora Ramsay, morì nel mese di marzo 1782 dopo aver dedicato la sua vita al benessere del marito e dei figli. E lui l’aveva immortalata nel famoso ritratto considerato il suo capolavoro. Ormai vecchio ed infermo Ramsay compì il suo ultimo atto di amore verso l’Italia, togliendo il figlio quattordicenne dalla scuola di Westminster, dove stava studiando, e portandolo con sé in un viaggio in Italia, a scopo formativo. È evidente che volle dare questa possibilità al figlio prima di morire. È anche vero che l’insopportabile dolore per la perdita della moglie, la solitudine e la lontananza delle figlie lo spinse a passare gli ultimi due anni della sua vita con John, il giovane a cui più voleva bene, nel paese che amava più di ogni altro. Il diario di questo viaggio che John, grazie alle sollecitazioni del padre, fu costretto a tenere, è certamente uno dei più insoliti resoconti del Grand Tour. Conservato nella biblioteca di Edimburgo, il diario non offre quelle considerazioni e quei dettagli che ci saremmo potuti aspettare da un osservatore più maturo, ma il suo fascino sta proprio nella disarmante semplicità e nella schiettezza con cui vengono narrate le attività giornaliere.6 Dare al figlio un’esperienza formativa in Italia fu lo scopo principale del viaggio. Il giovane John dovette leggere passi di Omero, Esiodo, Tacito, Livio, ma anche Boccaccio, Alfieri, Goldoni, e studiarli con il padre in lingua originale. Dovette, inoltre, seguire lezioni di geometria, ma soprattutto poté conoscere tutta la nuova generazione di artisti che vollero incontrare suo padre. Accorsero presso il suo alloggio a Roma non solo pittori, ma prelati, politici e vari artisti, tutti diligentemente annotati nel diario. Ramsay ottenne, dal grande vecchio Pompeo Batoni, la disponibilità ad ammettere il figlio a lezioni di disegno “per due ore ogni mattina dopo colazione.” Il fitto giro di incontri, l’educazione del figlio, la lettura dei classici e la mitezza dell’inverno romano aiutarono Ramsay non solo a superare la perdita della moglie, ma anche a rinvigorire la sua debole costituzione fiisca. Presto si rimise in salute e si sentì abbastanza forte per poter portare John per tre mesi a Napoli. Partirono da Roma mercoledì 9 aprile: “…Io a dorso di un cavallo e mio padre in carrozza. Il vetturino arrivò alle cinque. Partimmo da Roma alle sei.” Dopo quattro giorni di viaggio, a Capua John fu costretto a salire anche lui in carrozza, a causa della forte pioggia, e “…dopo una breve sosta in un piccolo paese, Averso (sic), dove prendemmo un caffè, arrivammo a Napoli verso l’una.” Nei tre mesi seguenti, nonostante la cagionevole salute del padre, John riuscì a visitare molti luoghi d’interesse, Napoli, Pozzuoli, i Campi Flegrei, nonché i recenti scavi di Ercolano e il museo di Portici, e infine intraprese col padre un’escursione di quasi una settimana a Paestum, visitando anche Salerno e Pompei. A Napoli Ramsay senior strinse un’amicizia con sir William Hamilton che spesso gli fece visita, portando con sé “…dei giornali inglesi e dell’ottimo burro.” 6 MSS 1833, 1834, Nationnal Library of di John Ingamells. Prima di lasciare il Sud, Allan Ramsay volle visitare l’isola di Ischia per l’ultima volta e mostrare al figlio dove era stato sette anni prima. Scotland. “John Ramsay’s Italian Diary, 1782-84”, è stato pubblicato dal Walpole Society, Vol. LXV, 2003, in una edizione limitata ai soli soci della società ed a cura Dopo aver atteso per qualche giorno un vento favorevole, Allan e John lasciarono le stanze alle Crocelle in Via Chiatamone a Napoli la mattina di lunedì 23 giugno 1783: “Il nostro padrone è venuto da noi alle sei e ci ha detto che il tempo era buono e che la barca era pronta alla sbarcatura lì vicino. Abbiamo salpato verso le sette. Abbiamo attraccato ad Ischia alle dieci, il vento è stato piuttosto contrario. Siamo andati dove aveva alloggiato mio padre l’ultima volta che era stato qui, ma poiché Don Ciccio Sagaglione, il proprietario e vecchio amico di mio padre, non era in casa, abbiamo mandato un ragazzo in paese a cercarlo. Nel frattempo abbiamo preso il nostro cesto dalla barca e abbiamo mangiato sul balcone dell’ottima carne di vitello fredda ed altre cose che abbiamo portato con noi da Napo- Dal 19 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014 la National Gallery of Scotland di Edimburgo, ha programmato una mostra di alcuni dei disegni di Ramsay - Allan Ramsay at 300. Una mostra più importante, invece, è visitabile alla Hunterian Art Gallery di Glasgow dal 13 settembre 2013 al 5 gennaio 2014, dove insieme a molti dei ritratti più significativi dell’artista sono esposti libri, disegni ed acquerelli - Allan Ramsay, Portraits of the Enlightenment. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 9 li. Dopo pranzo ho preso un asino e sono andato al paese dove ho trovato Don Ciccio Cito che è venuto da Napoli per assistere all’elezione del Governo di Ischia e per aiutare l’elezione del Governatore di Ischia. Lungo la strada verso il paese ho incontrato Don Ciccio Sagaglione che mi ha accompagnato da mio padre. Dopo essere stato un po’ di tempo seduto con loro, sono andato a fare il bagno nel mare. Don Orlando Buonocuore è venuto a farci visita. Martedì 24 Vento ancora contrario. Mi sono svegliato alle sei. Don F. Sagaglione ed io siamo andati in uno dei bagni caldi, che sono molto famosi. Questi bagni si possono avere a qualsivoglia temperatura, infatti l’acqua nel suo stato primitivo è bollente, perciò lasciano arrivare solo una piccola quantità alla volta, che resta nel serbatoio finché raggiunge un grado di freddezza gradevole per i bagnanti. Ho trovato il bagno molto piacevole e sono rimasto immerso quasi un’ora. Non appena siamo tornati a casa, abbiamo preso gli asini e siamo andati al paese di Ischia. Tra i bagni e il paese la strada passa attraverso un’enorme quantità di lava che le persone qui chiamano La Cremata. Siamo andati alla casa di Buonocuore, dove ci sono dei bei quadri ed in particolare un Cristo Morto di Vandyke, ma poiché stanno ristrutturando la casa, i quadri erano tutti in disordine e non abbiamo potuto vederlo. Dopo pranzo Don Sagaglione ed io abbiamo ripreso gli asini e abbiamo fatto un piccolo giro nelle vicinanze. Dopo aver cavalcato per quasi un’ora nella più deliziosa e romantica campagna che io abbia mai visto, siamo arrivati a Burano, un paesino davvero grazioso in una bellissima posizione. Circa un miglio più avanti siamo arrivati ad una fonte molto copiosa che scaturisce da una roccia qui chiamata La Nitriolle essendo molto ricca di nitro. Sulla strada di ritorno abbiamo incontrato vari contadini con dei vasi in testa per prendere quest’acqua che loro reputano efficace per quasi tutti i mali. Non lontano da Burano abbiamo visto enormi resti dei crateri dai quali scaturì la lava che copre tutta la pianura tra i bagni ed Ischia. Circa alle otto di sera, visto che il tempo era calmo, ci siamo congedati da Don Francesco e da questo posto molto delizioso, non senza rimpianto. A mezzanotte circa un bel vento si è alzato e ci ha spinti molto velocemente ed alle undici circa di mercoledì 25 giugno siamo arrivati a Terracina.” La pubblicazione, però, all’epoca, non avvenne, a causa della morte dell’autore. Il libro è stato pubblicato solo nel 2001, in una splendida edizione critica, che ci fa capire quanto il suo approccio fosse stato originale ed anticipatore del secolo successivo. A proposito di questo, Bernard Frischer ha scritto: “Il saggio di Ramsay è la prima rappresentazione completa del sito di Licenza identificato con il sito della villa di Orazio, e la quantità e varietà di informazioni che contiene è superiore a tutte le altre opere fino a Mazzoleni (1891) e Lugli (1926).”7 Particolarmente interessante è quanto aveva appreso dai contadini della valle con i quali fu capace di aver rapporti diretti, visitando le loro case, ascoltando le loro esperienze e annotando i vari nomi dei luoghi che loro usavano. Ramsay si distinse per una straordinaria capacità di parlare con la gente comune, a differenza di altri eruditi viaggiatori del suo tempo. L’anziano pittore, tuttavia, lasciò i suoi studi archeologici improvvisamente, per andare ad incontrare le figlie che stavano tornando in Inghilterra dalla Giamaica, dopo un’assenza di quattro anni, ma il suo fragile corpo non resse al viaggio scomodo e, “…indebolito dalla febbre, poco dopo essere arrivato a Dover, il 10 agosto morì tra le braccia del figlio. E come spesso l’esperienza dolente dell’umanità dimostra, l’ora della sua morte gli negò la gioia di un ultimo momento di felicità, l’unico motivo del suo ultimo viaggio.”8 La figlia Amelia, privata di quest’ultimo saluto al padre, partì per l’India con il marito che era stato promosso governatore di Madras, e in quella città si acquistò una certa fama per i suoi sforzi nel miglioramento degli ospedali e delle scuole, e nel 1787 fondò anche un orfanotrofio per ragazze. John, orfano a soli 15 anni, intraprese una carriera di successo nell’esercito raggiungendo il grado di generale nel 1830. Aveva, comunque, ereditato dal padre un amore per l’arte e per l’Italia, che visitò in tempi di pace per comprare quadri e oggetti per la sua collezione. L’insolita parabola della vita di questo grande artista e intellettuale dell’Illuminismo è intercalata dai suoi quattro lunghi soggiorni in Italia. Ma insieme al ricordo dell’atmosfera cosmopolita e stimolante della sua amata Roma, Ramsay evidentemente aveva un ricordo particolare per l’isola di Ischia che dovette rappresentare non solo il luogo del suo parziale ricovero dopo il rovinoso incidente, ma soprattutto il posto dove passò in vacanza con la figlia Amelia e la moglie due dei mesi più felici della sua lunga vita. Per questo motivo, prima di lasciare Napoli, portò il figlio a visitare le meraviglie naturali dell’isola, mentre lui rimase a chiacchierare con qualche vecchio conoscente ed a sfogliare il suo album di disegni perdendosi nei ricordi. Alzando gli occhi sullo splendore azzurro del mare dovette avvertire tutto il peso della condizione mortale e transitoria della umana vita. Tornati a Roma, Allan Ramsay, per tutta l’estate del 1783, si dedicò al completamento delle sue ricerche archeologiche a Licenza, e alla preparazione del suo saggio per la stampa. Ramsay and the Search for Horace’s Villa, Aldershot 2001, p. 74. 8 Alistair Smart, Allan Ramsay: Painter, Essayist and Man of the 10 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Jonathan Esposito 7 Bernard. Frischer e Iain Golden Brown (a cura di), Allan Enlightenment, New Haven 1992, p. 276. Panza - Sant'Angelo - Serrano - Fontana Barano - Moropano - Testaccio in L'Infermo istruito di D'Aloisio (1757) * Della Villa di Panza Partendosi da Forio verso lebeccio, siccome a sinistra si incontra il pendio del monte Epomeo, così a destra si scorge la spiaggia di Citara, indi il promontorio detto Lomperadore; appresso a questo per la via di mare si giugne alla marina di Soleceto chiamata, ove vi scaturisce il bagno di Soleceto: da cui volendosi all’alto salire, si arriva alla Villa di Panza, alla quale dalla parte di terra volendosi da Forio incamminare, migliori, e più comodi sentieri tra fertili poderi, e bellissime possessioni vi si incontrano. È una tale Villa situata sotto un ottimo clima, ed in sito piano riposta. Avanti della sua piazza vi giace la Chiesa Madre e dedicata a San Leonardo, ed una Congregazione dei laici sotto il titolo della SS. Nunciata: come pure altro tempiuccio al glorioso nostro protettore S. Gennaro consegrato. Le abitazioni sono per li rusticani diporti molto comode, tanto più che nella primavera, nel mese di settembre, di quaglie, e tortorelle vi si fa una dilettevole e copiosa caccia. Per tale motivo fu un tempo la Villa di Panza di sollazzo al re Ferdinando: vedendosi fino ad oggi il luogo in cui quel sovrano si metteva a sedere, chiamato dagli abitanti la Sedia del Re. Dalla suddetta Villa salendo si arriva ai casali di Serrano e Fontana, con lasciare dalla parte di mare il Ciglio ed altre possessioni di uve e di fichi. Del casale di Serrano e Fontana Il casale di Serrano ritrovandosi dalla parte sinistra la sommità dell’Epomeo, ha dalla destra verso mezzo giorno il suo pendio sino al mare detto lo Gradone, o marina di S. Angelo. In essa è situato il vago promontorio che Sant’Angelo si dice, per contenere sopra di sé una divota cappella al Celeste Guerriero dedicata. A guisa di penisola il detto promontorio s’alza dall’onde del mare, imitando di molto la figura sferica nella sua circonferenza. Sopra di esso salza una buona Torre, che di pezzi di cannoni è ben fornita con non poco moschetteria e guarda da ambedue i lati le marittime spiagge. Volendosi da ivi salire verso tramontana si arriva alla sopra accennata parte Serrano chiamata; ove in un ristretto sito si radunano le abitazioni, nel di cui mezzo la Parocchia sen giace, ed altro tempiuccio con una congregazione di laici. Ma incamminandosi verso al dorso dell’Epomeo si ritrovano le altre abitazioni chiamate Fontana. Fu questo luogo in un * D'Aloisio Giovanni Andrea, L'Infermo istruito nel vero salutevole uso de' rimedi naurali dell'isola d'Ischia, 1757. tempo asilo agli Angioini col proprio vescovo dal Castello d’Ischia discacciati dagli Aragonesi. Quindi in esso casale ancora si conserva la memoria di quella cappelluccia, in cui il prelato celebrava, che ora si dice la Sagra. In due chiese si venera il SS. Sagramento dell’Altare, in una per comodo della cura dell’anime, e nell’altra per devozione, essendoci altro tempiuccio di Sant’Antonio. È il piccolo clero di Fontana e Serrano esemplare, e con molta prudenza sa regolare gli affari della coscienza. All’opposto, benché la gente minuta sia di cervello acuto ed arguta, pure vive incolta e rozza. I poderi anticamente erano feracissimi di ottimo grano, e di altre biade, come anche di pascoli di lanute greggie, ma ora piccole e scarse vi si veggono le mandrie; e non molto frumento le campagne producono, per avervi gli abitanti abbondanti vigne piantate. Da questo luogo si ascende alla sommità dell’Epomeo, nella di cui cima si venera la statua di San Nicolò arcivescovo di Mirra, in bianco marmo scolpita; veggonsi colà numerose grotticelle dentro la grossezza del sasso scavate; dovevano essere quelle un ritiro di monache, che nei secoli trascorsi D. Beatrice della Quadra dama napoletana aveva intrapreso per ivi menare con altre compagne vita solitaria: ma non essendosi potuto in un tal luogo effettuare il suo devoto pensiero per la rigidezza del freddo, abbandonò la incominciata opera, col ritirarsi dentro al Castello d’Ischia, ove fondò quel monastero di religiose, che tuttavia con vita molto esemplare si mantiene. Né pei suddetti incomodi venne mai quella sommità dell’Epomeo con le sue descritte grotticelle abbandonata. Se in qualunque età e secolo, dopo quello di D. Beatrice della Quadra, s’è veduto tutto albergato da copiose persone oltramontane, amiche della solitudine, con menare ivi vita eremita, e tal ora in concetto di santità, come si stima di quel Fra Giorgio Bavaro, che anni scorsi sen morì in una tale opinione. Ne’ i dì presenti si gode colà comodissimo ospizio per potervi soggiornare non pochi religiosi, essendovi incavati dentro l’istesso sasso i propri dormitori, cenacoli, corridori per diporto, e forestierie; ogni cosa politamente disposta, e giudiziosamente regolata dalla bella, devota idea dell’eremita fra Giuseppe Nargout, il quale da tre anni facendo una così lodevole lezione di vita, abbandonando la carica di capitano comandante nel Castello di Ischia, colà su si ritirò con altri nobili signori militari, che sotto la sua disciplina e proprie regole divotamente vivono con molta esemplarità. È in un tal sito il monte Epomeo, ovvero Epopeo, non solo per la sua eminenza considerabile, ma insieme dilettevole per lo sterminato tratto di paese, che d’ogni intorno La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 11 da ivi si scopre, precisamente da quella cima, che dicesi il Monte della Guardia, da cui non solamente buona parte del Regno di Napoli, ma benanche dello stato pontificio di prospetto si scorge. Quindi da una tale vasta ed ampia veduta si comprende perché Plinio invece del volgare monte di Epomeo con cui da Strabone e comunemente dagli altri autori così è detto, egli lo chiami Epopeo da parola greca che significa guardo, vedo, poiché appunto dalla di lui sommità d’ogni intorno un vastissimo tratto di paese si scorge, dandosi perciò immediatamente, e presto dalla cima di questo monte il segno con le fumate al Castello Sant’Elmo in Napoli, qual ora ha per questo nostro mare grossi legni si scoprono. Non mancano perfettissime piante mediche per quelle valli, e pendici, benché arido e secco comparisca il terreno. Scendendosi poscia dalla cima di questo monte pel suo dorso verso la parte d’austro si incontrano ampie valloni, come quello del Rio, e l’altro più giù chiamato la Cava oscura, li quali terminando nella marina detta Maronti, formano l’acquaro, così chiamata dalle acque del Fonte di Nitroli e del Olmitello, che per ivi dall’alto scendono dentro al mare nella parte destra verso Occidente le caldissime scaturigini del bagno una volta detto di Sant’Angelo. Dalla accennata marina, o spiaggia dei Maronti, incominciano per la via di mare le pertinenze del casale di Barano. Del casale di Barano, Monopano, e Testaccio È Testaccio una di quelle tre Parocchie, che costituiscono il casale di Barano, come lo è Monopano ancora, ai quali salendosi da Maronti si giugne alle abitazioni, ove il sudatorio di Testaccio svapora; la di lui Chiesa è dedicata a S. Giorgio. Nella parte di levante vi sono i promontori detti: Piano di Leguoro, S. Pancrazio, Monte di Barano, ecc. come anche Chiumano in cui si venera in una cappella divotissima Immagine della B. V. M., siccome dalla parte del mare un altro tempiuccio si scorge dedicato a S. Pancrazio. Avanti a Testaccio dalla parte di greco vi giaciono alcune pianure, che si nominano il Piano, ferace di biade e di uve. Ma dalla parte di Occidente, salendosi per le colline chiamate Tizzano, la Valle, ecc. si conduce il viaggiatore verso Monopano, che per la strada pubblica vi troverà un ponte assai alto, servendo di varco ad un profondo vallone, sopra di cui passando con breve tratto di strada si cala alla sorgente dell’acqua di Nitroli situata nella parte sinistra. Sopra della sorgente fra le vigne sono situate le abitazioni del paese, che contiene la sua Parocchiale Chiesa di San Giovanni Battista. È Monopano luogo abbondante di vino, e produce gli abitatori, che a primo aspetto compariscono umili, e pietosi, ma che poi per occasioni anche leggiere diventano fieri e crudeli, di maniera che né pure fanno conto dei rigori della giustizia. Si alza d’incontro a lui verso Oriente il famoso promontorio detto da paesani l’Ottaviello che contiene memorie ed avvanzi di antichissime fabbriche, da cui si discende al casale di Barano, il quale non da poche abitazioni viene 12 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 formato, nella di cui Chiesa Madre il proprio protettore San Sebastiano si venera, siccome in un’altra detta San Rocco si celebra sontuosa festa al Santo di Padova. Vi è anche una congregazione dei laici, sotto il titolo della Vergine del Carmine. Il territorio di Barano produce abbondanti uve bianche. Verso tramontana si incontrano le possessioni chiamate Piede, la Cesa, Sciajano, ed un luogo detto lo Cretaio, ove vi è il polito tempiuccio della SS. Trinità. Veggonsi più sopra gli acquedotti che nel borgo di Celsa formano la fontana delle acque fresche, siccome verso Oriente si scopre l’orrido tratto delle pietre bruciate, col sudatorio della Testa. Dimostrano li nativi di Barano docilità è piacevolezza, ma nell’irascibile non si distinguono punto da quei di Monopano; conservandosi ancora la memoria di un fiero e numeroso eccidio accaduto fra di loro nei tempi passati per cagione di una bellissima cintola, così che volendosi ad alcuno minacciare qualche aspra vendetta, per proverbio dal Volgo si dice: farò rinnovare la cintola di Barano. Le persone ecclesiastiche sono di prudenza e dottrina ornate, e sanno molto bene governare lo stato della coscienza. Di alcune Ville della Città d’Ischia Finalmente confinano con il casale di Barano alcune Ville della Città d’Ischia, una delle quali è la Villa detta lo Corvone, la quale resta situata dalla parte di una collina detta Belvedere e che oltre di essere fertile di vino greco, di altre saporite frutta ancora abbonda. Da questo salendosi verso sirocco, si scuopre un’altra Villa detta Campagnano, in cui si ritrova una Chiesa dedicata alla Vergine SS. dall’Angelo annunciata, con buone e ben coltivate vigne, avendo un monte dalla parte di Sirocco, che la guarda da i venti australi, siccome in prospettiva bellissima, non solo l’isola delle Sirene, ma benanche Pozzuolo, Posilipo, Castel sant’Elmo di Napoli, e la Real Villa di Portici, col monte Vesuvio avanti di sé vagheggia e gode. Dalla parte di mare si incontrano quei seni considerabili da marinari profittevoli per la pesca, che da essi la parata, l’aguglia e li cefaglioli volgarmente sono chiamati. Tra questi aprendosi un sassoso speco, riceve egli l’acque del mare, così che nascondervisi potrebbero più fragate. Per mare in barca costeggiandosi la picciola spiaggia, detta oggidì Carta romana, il fonte di questo nome vi si può agevolmente rincontrare e salendosi all’alto per boschetti e possessioni di greco feraci si trovano casini per villeggiatura deliziosi, fra i quali vi è quello del Vescovo d’Ischia che lo Cilento si si chiama. Ivi vicino un tempo fa vi era un monastero dei Frati di S. Domenico, che da quelli abbandonato dà ora comodo al paroco per l’amministrazione dei Sagramenti in beneficio dei parrochiani della Villa del Vico, dello Corvone e di Campagnano. Da questa Villa di Campagnano alzandosi sopra l’onde del mare la punta del promontorio detto San Pancrazio sembra che da esso, dalla parte di Oriente la naturale positura e giro dell’isola d’Ischia incomincia, o finisca. * Luigi Polito poeta e scrittore foriano nel centenario della nascita Dopo Giovanni Maltese, Forio ricorda e celebra anche Luigi Polito, poeta e scrittore, nel centenario della nascita. Nel comune isolano nacque il 6 marzo 1913; adolescente si recò a Gerusalemme con i missionari, per proseguire gli studi , come egli stesso racconta nella poesia di presentazione a Vasapiedi (poesie alternate con novelle): “A Gerusalemme andai a quindici ann ed a venti qui tornai; ora me ne andrei pure senza panni, ma son legato qui con cento funi. Mi diverto e mi sfogo ora scrivendo i vizi e i difetti di qualcuno”. Questi scritti andarono formando la successiva pubblicazione di poesie in dialetto foriano (alcune tradotte anche in lingua italiana) e di novelle che fu stampata nel 1967. La sua figura rappresenta, insieme al Maltese, la massima espressione della antica parlata foriana, che oggi capita di sentire raramente. «Il dialetto foriano – scrive Polito – presenta non poche difficoltà grafiche e foniche. Io non ho cercato di ridurle, soltanto ho scritto riportando i suoni senza alcuna contrazione1». Giovanni Castagna: «Le poesie in dialetto foriano di Luigi Polito ci sono apparse interessanti, sul piano linguistico, perché presentano forme con il frangimento vocalico. D’altra parte, essendo più moderne, danno la possibilità di controllare come termini nuovi vengono accolti nel linguaggio foriano. Le composizioni, poi, presentano alcuni tipi di metafonesi che non trovano alcuna spiegazione etimologica, per esempio: “E memme”che, se non è un errore di stampa, rappresenta un caso unico. Viceversa, vocaboli nuovi, per influsso dell’italiano, rifuggono dalla metafonesi: “u marziane”. Ciò che colpisce di più, però, è la grande difficoltà nella trascrizione grafica dei fonemi d’una lingua che purtuttavia Polito sembra conoscere alla perfezione oralmente. Molte le indecisioni e, a volte, in uno stesso verso lo stesso fonema è trascritto in maniere diverse. Sul piano poetico, alcune composizioni sono perfette, anche se troppo spesso il tono è piuttosto moraleggiante, ma d’una morale “pro domo sua”, intendendo con “domo” la classe sociale cui il poeta appartiene. L’opera rivela, inoltre, che l’autore conosce molto bene i poeti dialettali, non solo Maltese, di cui presenta qualche verso dovuto forse a “memoria poetica”, ma anche Matarese, al quale Polito prende in prestito alcune costruzioni grammaticali2». Luigi Polito fu professore di materie letterarie nelle Scuole Medie e di Italiano e Storia in quelle superiori. Vinse il concorso di direttore didattico e la sua prima nomina fu in quel di Vigevano (Pavia). Anche lì si distinse per rendere la scuola più attiva, poi finalmente tornò a Ischia dove svolse la sua opera nella Scuola Marconi di Ischia Porto fino al raggiungimento della pensione. Nell’immediato dopoguerra insieme ai suoi amici 1 Luigi Polito, Vasapiedi, premiate poesie in dialetto foriano alternate con novelle. Arti Grafiche Amodio, 1967. 2 Giovanni Castagna, Guida grammaticale del dialetto foriano letterario, La Rassegna d’Ischia, 1982. Frontespizio del libro Vasapiedi di Luigi Polito La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 13 scrittori, come Giovanni Verde, creò una scuola teatrale in cui coinvolgeva giovani talenti del posto e le esibizioni si svolgevano nella sua casa di Largo Rosa Thea. Celebre fu la rappresentazione della “Sficciata”, un primo esempio di esibizioni teatrali che, dati i tempi, era qualcosa di veramente innovativo per l’isola. Il Comune di Forio, insieme con l’Associazione Vicoli Saraceni, ha organizzato una serata artistico-cul- turale, in cui è prevista, tra l’altro, la rappresentazione scenica di una novella dello stesso Polito, tratta dal libro Vasapiedi, e cioè Tommaso Mbruogli, convertita da Gaetano Maschio da un’idea della prof. Anna Capodanno. Personaggi e interpreti Tommaso Mbruogli : Pasquale Matarese - Saturiegghie, ‘U Putechere : Salvatore Mattera - Vituccio : Vito Calise - Franciaisca : Francesca Patalano - ‘Onna Nannina : Anna Insante - ‘Ntunetta : Antonietta De Siano - Mariuccia : Anna Castagna Giuvanne ‘U Napulitane : Giovanni Ambrosio - Prizzeta : Maria Cristina Mattera - Il Comandante : Salvatore Castagna - Bettina : Elisabetta Maschio - Gennarino : Matteo Lubreto Donna Angelica Amalfitano, Soprano : Filomena Piro - M° Giuseppe Colella : Peppino Iacono - Soldati naufraghi: Vincenzo Barbato, Peppe Iacono, Diego Boria, Salvatore Iacono - Soldati/Popolo: Luigi Castaldi Bijoux, Ciro Maschio Jr., Francesco Raul Verde. Tommaso Mbruogli Novella di Luigi Polito, in Vasapiedi, premiate poesie in dialetto foriano alternate con novelle d’ambiente isolano, 1967 Improvvisa s’era scatenata la burrasca ed il mare, sotto le sferzate della tramontana estremamente vigorosa, pareva che volesse inghiottire gli scogli, il litorale e tutto intero il paese. Tra i legni a mare uno non era riuscito a guadagnare in ,tempo la rada, e, sbattuto dalla tempesta, era ritenuto ormai spacciato. Componevano l’equipaggio cinque persone, fra le quali Gennarino, un ragazzo di tredici anni, la cui avventura commosse tutto il paese accorso in cima al promontorio a vedere la scena. Purtroppo nulla potevano gli accorsi con le loro lacrime e con i loro gesti a favore dei marinai che lottavano contro l’infuriare della tempesta che aumentava paurosamente d’intensità. Il bastimento, chiamato Crocifisso, doveva attraversare un tratto di mare abbastanza breve per ritenersi al sicuro; ma era fortemente ostacolato dal vento e dalla traversia. La tramontana, infatti, soffiava in senso obliquo alla rada e non permetteva all’imbarcazione di virare nell’insenatura relativamente tranquilla senza il grave pregiudizio di essere presa di traverso da qualche ondata più violenta e di abbattersi su una fiancata. L’imbarcazione già aveva accolto molta acqua e da terra si poteva scorgere e si seguiva con trepidazione la titanica lotta del minuscolo equipaggio in conflitto con i venti. Sul promontorio pochi osavano aprire bocca per azzardare dei pareri su questa o su quella manovra da farsi. I più tacevano, perché un’immensa pietà stringeva loro la gola e soltanto le labbra tremavano in una sommessa preghiera. Tra la folla era anche Tommaso Mbruogli, che seguiva le manovre del veliero con molta attenzione, preoccupato come tutti gli altri per la sorte dei marinai e rammaricato di non poter recare aiuto. Osservando la scena, un sudore gelido gli imperlava la fronte. Qualche oggetto fu visto volare dalla coperta del Crocifisso, buttato a mare nel tentativo di alleggerire il carico. La decisione del Capitano era evidente. Avrebbe tentato di virare, deciso a sfidare l’unica via di salvezza rimasta. Indietro, infatti, non poteva andare perché sarebbe stato un correre in braccio a sicura morte; altro asilo non era possibile nelle vicinanze e la situazione, intanto, diventava sempre più precaria. Ed il legno virò. E accadde la disgrazia. Il bastimento, investito da un’ondata poderosa, non resse all’urto formidabile e si abbatté su un lato come un fragile guscio di noce. All’equipaggio sbalzato in mare, non rimaneva altra alternativa che tentare di portare in salvo la vita. E uno dietro l’altro, gli sfortunati furon visti in cresta alle onde avviarsi a nuoto verso il lido. Il fato ineluttabile s’era compiuto. Soli, nella lotta titanica, presi nel conflitto degli elementi che facevano risuonare il mare di orride voci, nuotavano i naufraghi per raggiungere la costa, per trovare salvezza, senza alcun altro aiuto che quello solo delle proprie braccia intirizzite dal brivido, senz’altra speranza che quella sola della fede. Un urlo disperato attraversò ad un tratto la rada, agghiacciando gli animi già impietositi della folla; e, dopo l’urlo, una invocazione non meno disperata: «Gennarino!...». Era stata la madre dell’adolescente che non vedeva tra i naufraghi il figlio avviarsi verso la salvezza. Il ragazzo non aveva osato lasciare l’imbarcazione, aggrappato con le unghie alla fiancata di essa, come ormai ad un relitto. Compariva e scompariva agli occhi degli osservatori atterriti in cima al promontorio. Quanto tempo avrebbe potuto resistere il ragazzo in quella posizione precaria e pericolosa ? Ognuno degli spettatori si rendeva conto delle difficoltà di tentarne il salvataggio. Un gelo percorse le ossa di tutti. Pretendere da uno dei componenti l’equipaggio un ulteriore sforzo a favore di Gennarino sarebbe stato pretendere l’assurdo. Ma ecco che dalla folla avanzò un audace. Lasciando dietro la gente stupefatta e qui il berrettaccio, lì la giacca, quindi ogni altro indumento nel breve tratto di terra che ancora lo separava dal mare, un vecchio si tuffò e a bracciate sostenute arrancò verso il naufrago. > 14 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 La bracciata era sicura, ritmata, anche se apparentemente lenta. Il nome dell’audacissimo volò tra la folla. Non era il padre del ragazzo, né alcuno dei parenti. Non era un amico di famiglia. Era il canzonato, lo zimbello di quella stessa popolazione, ora in preda allo stupore: era Tommaso Mbruogli. Lo chiamavano «Mbruogli», perché apparteneva ad una famiglia di vecchi volponi del paese, i quali avevano, spesso, fatto parlare di sé per essere stati al centro di imprese condotte con la scaltrezza più raffinata e per essere riusciti a fare buoni progressi dal niente mediante imbrogli. Ma lui, Tommaso, aveva tralignato. Soltanto fisicamente rassomigliava agli antenati. L’appellativo, perciò, con Tommaso aveva assunto un tono canzonatorio e, qualche volta, sarcastico. Basti pensare che a cinquant’anni giocava ancora con ardore puerile con i ragazzi del paese e questi riuscivano a metterlo nel sacco con sollazzo di quanti assistevano ai giuochi. Tutte le volte, però, che l’imbroglio o l’inganno era da lui scoperto, Tommaso piangeva come un bambino. Nel piccolo centro marinaro Tommaso Mbruogli era il tipo da canzonare in ogni occasione, con beffe e sberleffi che spesso rasentavano la cattiveria. Non era stato sempre così, però. Fino all’età di leva il giovane era stato normale. Il declino verso l’idiotismo era stato repentino, dalla sera alla mattina, verso una forma di malattia mentale che soltanto un Lombroso avrebbe potuto spiegare e, forse, con grandi e sollecite cure, sanare. Una sera, in una grande camerata di marinai, un sottufficiale di giornata fu bersagliato da una nutrita salve di sberleffi, sonoramente potenti. Apriti cielo ! Fu ordinata l’adunata. Fu minacciato il finimondo, se l’autore dell’inqualificabile scorrettezza non avesse avuto il coraggio di confessare la sua colpa. Furono tali e tante le minacce di tremendi castighi per tutti, nel caso non fosse stato indicato il colpevole, che Tommaso, retto e buono di cuore, decise di sacrificarsi per tutti. Fatto un passo avanti, in mezzo alla camerata, in faccia a tutti i commilitoni, che non osarono ribellarsi né in quel momento né in seguito dinanzi al sacrificio dell’autoaccusa e delle sue conseguenze, Tommaso, tremando e balbettando, confessò la colpa non sua. Una valanga di improperi si rovesciò allora sul poverino, che ne rimase come sommerso. Fu come un precipitare da un pendio, già salito faticosamente. Bersaglio continuo degli umori dei superiori e dei militari, il giovane passò da una punizione all’altra, che ne minarono lo spirito ed il corpo; e, quando, al termine del servizio di leva, tornò al paese, fu irriconoscibile. Il calvario dei tentativi di guarigione da uno specialista all’altro, fino all’esaurimento di ogni risorsa finanziaria spossò i genitori di lui, ultimi a cedere all’ardua lotta. Fino al giorno in cui il povero uomo poté essere spremuta delle ultime risorse fisiche, tutto procedette senza gravi scosse: mancò l’agiatezza, ma non difettò il cibo. Quando, però, anche le energie fisiche vennero, con l’età, paurosamente meno, Tommaso non trovò uno che mosso a pietà gli fornisse di che sfamarsi; ed il povero semplicione più volte fu costretto a sentire gli stimoli prepotenti della fame. Nel suo nuovo stato venne meno pure la canzonatura. I più non avevano cuore di canzonare quel rudere. Tutti i mezzi erano ormai adatti per riempire lo stomaco vuoto e la canzonatura prese una nuova piega: si fece ricorso alle scommesse, organizzate da ignoranti. Un giorno furono offerte a Tommaso, davanti ad una ventina di spettatori senza cuore, dodici fichidindia da mangiare. Dodici fiichidindia da mangiare con tutte le bucce e le spine. Premio dieci soldi ed un sigaro. Tommaso esitò un poco; quindi, spinto dalla fame, davanti alla platea allibita, fece scomparire l’uno dopo l’altro tutti e dodici i fichidindia. Si parlò dell’avvenimento per più giorni e si temettero complicazioni per il povero stomaco di Tommaso, ma questi non accusò eccessivi disturbi. La serie delle scommesse continuò, graduata nelle difficoltà e sempre più impegnativa della robustezza di stomaco del semplicione che ormai ispirava pietà. Un giorno, sfiduciato ed abbattuto, senza più forza di reagire alla depressione dell’animo indebolito, confidò ad una persona che lo compiangeva: — Vorrei saziarmi con una tegamata di stoccafisso; quindi, vorrei essere portato sazio ed ubriaco ad un miglio al largo ed essere calato in fondo al mare con un grande sasso legato al collo. Era sincero. Le sue pretese erano diventate modestissime. L’unico vero e solo stimolo avvertito ancora era quello della fame. E tutte le volte che intravedeva, nella solitudine e nell’abbandono, prossima la fine, non sognava che il mare come camposanto e l’acqua salata come elemento nel quale anelava per sempre riposare. Ora il canzonato era lì, al cospetto della popolazione stupita, ed arrancava verso il naufrago. Quando, attraversato il tratto di mare più pericoloso per lo infuriare della burrasca, egli fu presso il ragazzo, la folla, commossa e pentita delle mille canzonature, scoppiò in pianto ed in esclamazioni di giubilo. Non fu sentito che cosa disse il vecchio al ragazzo. Furono brevi parole, furono pochi monosillabi, forse come note musicali, ma convincenti. Difatti, presto si videro i due, l’uno a cavalluccio dell’altro, abbandonare il bastimento e procedere lentamente verso la rada. La folla li seguiva con l’animo sospeso. Quando Mbruogli scompariva tra le onde giganti era trattenuto dagli spettatori il respiro, che fuoriusciva alla successiva apparizione dei due in cima al cavallone. Quando il pericolo della corrente fu superato, la popolazione ebbe un fremito. Ognuno voleva essere vicino all’eroe, complimentarsi con lui, felicitarsi con il naufrago salvato. A pochi metri dalla riva, intanto, Gennarino, abbandonò il dorso del salvatore e corse tra le braccia della madre, che intenta a stringere al seno il figlio redivivo, non si voltò indietro ad osservare gli ultimi affascinanti sprazzi della scena. Tommaso Mbruogli, esausto, novello eroe d’antichi tempi, raggiunta a sua volta la riva, schiantato dall’immane fatica, giacque per sempre, con una luce di gloria negli occhi vitrei. * La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 15 Il Centro Studi Isola d'Ischia ne ha ricordato la sua figura e attività... Piero Malcovati guida del termalismo ischitano di Gina Menegazzi Lunedì 11 novembre 2013, presso la Biblioteca Antoniana, il Centro Studi Isola d’Ischia ha organizzato un incontro per ricordare Piero Malcovati, medico filantropo, a cinquant’anni dalla scomparsa, inaugurando altresì una mostra, aperta fino all’8 dicembre, che attraverso gli scritti del professore, le opere che lui ha fatto realizzare e le testimonianze pittoriche da lui raccolte1, illustra al meglio la personalità dell’uomo e dello studioso. Nel suo progetto volto a riportare alla memoria i protagonisti del '900 ischitano, e dopo aver onorato Francesco Iovene, Giovan Giuseppe Cervera, Onofrio Buonocore e Aniellantonio Mascolo, il Centro Studi si è imbattuto in un personaggio non ischitano, che ha dimostrato di amare tanto la nostra isola e la cui importanza per Ischia è stata decisiva. Piero Malcovati, medico generoso, è stato molto ben illustrato sia dai vari relatori: Antonino Italiano, presidente del Centro Studi Isola d’Ischia; Carmine Monti, sindaco di Lacco Ameno; Giosuè Mazzella, assessore del Comune d’Ischia; Giovan Giuseppe Balestrieri, presidente del Centro Studi Termali “Giulio Iasolino”; Fausto Malcovati, uno dei figli; Giuseppe Silvestri, storico; Giuseppe Di Costanzo, presidente dell’Associazione Termalisti Ischia; Riccardo D’Ambra, cinefilo, sia dall’ampio materiale presentato: eccezionali filmati d’epoca 1 Documenti messi a disposizione dalla famiglia Ischia - Biblioteca Antoniana, incontro per Piero Malcovati 16 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Piero Malcovati e testimonianze di persone che conobbero ed ebbero modo di apprezzare l’umanità e la generosità del Professore, montati da Gianni Mattera, e mostra documentaria curata da Ernesta Mazzella e Gilda Cortese. La serata è stata poi conclusa da un omaggio che sarebbe stato particolarmente gradito al Professore: la “’Ndrezzata” di Buonopane è venuta ad accogliere i partecipanti all’uscita dal convegno e li ha allietati con questa antica danza. Ma chi era Piero Malcovati? Nato a Pavia nel 1902, questo insigne ginecologo ha svolto un’intensa attività ospedaliera, affiancandola a quella didattica, e ha pubblicato più di 130 fra testi e relazioni. Fu direttore, tra l’altro, dell’Istituto Provinciale per la Maternità di Milano. In un momento storico che vedeva ancora molto forte il preconcetto che il parto dovesse essere per forza doloroso, ha introdotto in Italia il metodo della preparazione psicoprofilattica. Tale metodo, volto a interrompere il circolo vizioso paura-tensione-dolorepaura durante il parto, fu approvato ed elogiato da Pio XII nel corso di una udienza riservata agli ostetrici dei Paesi occidentali.2 2 Introduzione alla psicoprofilassi ostetrica, in Riv. di ostetricia e ginecologia pra- Malcovati si è preoccupato inoltre dell’assistenza della donna durante il parto e il puerperio, fondando anche una sezione ostetrico-ginecologica per infermiere, realizzando e dirigendo un consultorio prematrimoniale e istituendo un centro di preparazione psicoprofilattica al parto. Specializzato in idroclimatologia e appassionato bibliofilo, il professor Malcovati durante la guerra, a seguito del bombardamento della nave “Arno” sulla quale era imbarcato come ufficiale medico, fu costretto a terra, a Napoli, e si dedicò ad approfondite ricerche presso la biblioteca dei Girolamini, ove rinvenne due preziosi e quasi sconosciuti testi medievali sulle acque termali partenopee3 che lo portarono a coltivare un costante interesse per il trattamento crenoterapico delle affezioni femminili, la climatoterapia nel campo ostetrico-ginecologico e le cure termali in ginecologia. In occasione del congresso della Società d’Idroclimatologia che ebbe luogo a Napoli nel 1948, e la cui ultima giornata si svolse a Ischia, Piero Malcovati, oltre a presentare la sua comunicazione4, portò l’intero gruppo di scienziati a redigere un ordine del giorno in cui si esprimeva il rammarico che le locali sorgenti non fossero sufficientemente valorizzate con attrezzature moderne, sì da consentire un’adeguata utilizzazione. Nell’anno successivo, venuto a conoscenza che le Terme Regina Isabella di Lacco Ameno erano in tica, XLII [1960], pp. 699-715; Medicina psicosomatica in ostetricia, in Medicina psicosomatica, VII [1962], pp. 117-162 3 Pietro da Eboli, De Balneis Terrae Laboris ed Elisio, La volgare instauratione Elisiana de li bagne neapolitane et puteolane ad comone utilità de li indocte. Et recreatione delle gente marime per le primarie femine de la felice campania in Annali di ostetricia e ginecologia, Anno LXVI [gennaio-dicembre 1944] 4 Le cure termali in ginecologia. Relazione al XXVII Congresso nazionale di idroclimatologia in Annali di ostetricia e ginecologia, LXX [1948], pp. 503-531 vendita, le acquistò, insieme ad altri amici, fondando la società Pithecusa. La loro ristrutturazione, però ben presto richiese dei capitali che la società Pithecusa non aveva. Malcovati si rivolse allora ad Angelo Rizzoli, di cui era amico, e questi, pur valutando che l’operazione sarebbe stata in perdita, si fece coinvolgere dall’entusiasmo del medico e diede vita ad un’impresa che, nel breve volgere di pochi anni, trasformò completamente la fisionomia di Lacco Ameno e diede un grosso impulso alla nascita dell’industria turistica su tutta l’isola. Il Malcovati avrà modo di scrivere: “Tutto ciò è potuto accadere perché le forze propulsive di questo animoso rinnovamento non sono state, come spesso accade, l’interesse, il calcolo, la speculazione, ma l’entusiasmo, la fede e – lasciatemi dire – la fantasia, nell’accezione squisitamente napoletana di questa parola, che vuol dire gioia di sognare cose belle, grandi, liete e quasi distaccate dalla realtà della vita.”5 Questo sviluppo infatti si svolse con il costante supporto scientifico del Centro Studi Termali, creato da Piero Malcovati per l’occasione e da lui diretto, il che ha fatto sì che non si trattasse solo di un rilancio turistico, ma che avesse anche una forte base scientifica. Il Centro Studi fin dall’inizio pubblicò una serie di studi, effettuati per suo incarico dalle Scuole Universitarie di tutta Italia, e organizzò alcuni congressi a Ischia, il più importante dei quali fu quello del 1958, a cui parteciparono più di 600 studiosi da 20 nazioni. Le terme, secondo Malcovati, erano patrimonio di tutti, e, vista l’enorme ricchezza e differenza di caratteristiche tra un luogo e l’altro dell’isola, egli avrebbe voluto svilupparne 5 Nascita, vita e miracoli di Lacco Ameno Terme, Estratto da “Terme e Riviere” – Giornale di Idrologia e Turismo – Pisa. Numero straordinario per il Congresso Internazionale di Idrologia – Ischia 4-8 ottobre 1958 le varie capacità idrotermali e dotare ogni comune di uno stabilimento termale moderno, scientificamente condotto. Il professore aveva nel frattempo acquistato, a Ischia Ponte, lo Scuopolo, antica torre di avvistamento contro i pirati, costruita nel 1580 da don Orazio Tuttavilla, come fu in grado di stabilire Maria Algranati, incaricata di svolgere studi e ricerche sulle origini della casa, poi pubblicati in un volumetto fatto stampare dal Malcovati con incisioni da lui volute. Questa casa “molto marinara”, come la definiva Vera Menegazzi Malcovati, moglie di Piero, fu sempre aperta, da un lato all’ospitalità di personaggi illustri e non - i premi Nobel Eugenio Montale e Josif Brodskij, il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, l’onorevole Ezio Vanoni, Rizzoli stesso, il pittore Giuseppe Novello e tanti altri -, dall’altro a chiunque avesse bisogno. Come hanno ricordato vari testimoni, quando il professore era a Ischia, si formava, in Vico Marina, una lunga fila di persone che venivano a farsi visitare, o che portavano i loro figli. Piero accoglieva e visitava tutti, faceva comprare, se necessario, le medicine a sue spese, s’interessava di eventuali ricoveri a Milano. Fu sempre lui che convinse Rizzoli a costruire l’ospedale Anna Rizzoli, a Lacco Ameno, inaugurato dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Amintore Fanfani, il 31 ottobre 1962. Ma l’amore per l’isola si manifestò anche in altro modo, in Malcovati: oltre allo studio, già ricordato, sulle origini dello Scuopolo, egli volle che il grande terrazzo della sua casa venisse pavimentato (nel dicembre 1957) secondo l’antica tecnica della “battuta del lapillo”, con una cerimonia che si protrasse per alcuni giorni e di cui è rimasta testimonianza nel filmato girato, su sua richiesta, da una troupe della Rizzoli Film. E, qualche anno prima, riscoperta nel paese di Buonopane La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 17 l’antica danza della “’Ndrezzata”, si preoccupò di far rifare i costumi ai trenta figuranti, completi di scarpe fatte a mano e… valigia con il nome di ognuno, facendo arrivare da Milano il velluto verde, introvabile sull’isola. Ancora, nel 1954, in occasione del centenario dell’apertura del porto d’Ischia, volle far riprodurre, da stampe d’epoca, i costumi locali delle donne dell’isola, facendone confezionare un grande numero: alcuni, per la moglie ed altri, dalla sartoria della Scala, altri realizzati in maniera più semplice. Infine, non va dimenticata la sua passione per gli artisti locali: prima di tutto Luigi De Angelis, da cui acquistò numerosissime opere; e poi Aniellantonio Mascolo, per il quale organizzò una mostra a Milano nel 1959, alla Galleria San Fedele; e Mario Mazzella, i fratelli Colucci… Quando si spense improvvisamen- te, il 27 maggio 1963 a Milano, Piero Malcovati aveva ormai lasciato un segno indelebile della sua presenza nell’isola d’Ischia, non solo per la sua attività in campo scientifico Fausto Malcovati, figlio di Piero Nel suo intervento sulla figura di Piero Malcovati, il figlio Fausto ha voluto ricordare soprattutto i momenti della sua scoperta dell’isola e la successiva passione per questa terra, per le sue tradizioni, per le tante manifestazioni, alcune delle quali da lui scoperte ed entusiasticamente seguite. «La scoperta di mio padre dell’isola d’Ischia si può dire che comincia con il bombardamento della nave Arno, su cui era imbarcato come medico ufficiale; la nave dovette restare a lungo nel porto di Napoli e mio padre si dette da fare per seguire i suoi studi di idrologia. E così nel 1941, durante il servizio militare a Napoli, aveva rintracciato nella biblioteca dei Girolamini due interessanti pubblicazioni sulle terme partenopee: un poemetto di Pietro da 18 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Ischia - Biblioteca Antoniana, la Ndrezzata e professionale, ma soprattutto per il suo rapporto con la gente, che fa sì che ancora oggi sia ricordato con immutato affetto e stima. Gina Menegazzi Eboli del 1200, il De balneis Terrae Laboris, e il trattato del medico napoletano Elisio, vissuto alla fine del 1400, in cui si parla dei bagni della Regione e dell’isola d’Ischia. L’esame di questi due testi lo stimolò a proseguire gli studi sulle strutture termali di queste zone. Nel 1939 si era iscritto a Parma alla Scuola di idroclimatologia e ginecologia, ed a Napoli concluse la sua specializzazione sugli studi termali in ginecologia. In occasione di un congresso del 1948 a Napoli, l’ultima giornata si svolse a Ischia e qui ci fu anche una comunicazione di mio padre; l’intero gruppo di scienziati in un ordine del giorno espresse il rammarico che le sorgenti non fossero utilizzate con attenzioni moderne, per consentirne una piena efficacia e funzionalità. L’anno dopo, 1949, venne segnalata a mio padre la possibilità dell’acquisto delle Terme della Regina Isabella di Lacco Ameno. Fu costituita una società detta Pithecusa, in cui i principali capitali erano forniti dall’ing. Campisi. Ma la ristrutturazione delle Terme richiedeva ulteriori capitali che la società Pithecusa non aveva. E a questo punto mio padre si rivolse a Rizzoli, che con i suoi capitali e con entusiasmo trasformò completamente la fisionomia dell’impresa. Rizzoli non solo finanziò la ristrutturazione delle terme, ma iniziò anche la realizzazione dei grandi alberghi, e poi la costruzione dell’Ospedale inaugurato ufficialmente nel 1962». Questa impresa aveva il supporto scientifico del Centro studi, voluto dal prof. Malcovati, sicché il rilancio termale poté contare su una forte base scientifica a cui il professore credette fin dall’inizio; pubblicò una serie di studi, organizzò alcuni congressi, tra cui il più importante si svolse nel 19581 a livello internazionale: furono accolti a Lacco Ameno scienziati e studiosi provenienti da tutto il mondo2. gioia di sognare cose belle, grandi e quasi distaccate dalla realtà della vita». C’era l’entusiasmo di una grande impresa basata sul supporto della vera scienza del termalismo. Fausto Malcovati ha letto una nota di suo padre ad inizio dei lavori: «Potrà sembrare da parte mia facile dire che dal punto di vista professionale la mia più grande soddisfazione sia aver assistito alla rinascita di Lacco Ameno Terme. È stata una rinascita, perché l’utilizzo di queste fonti si perde nella notte dei tempi. Ma quello che è accaduto dal 1951 in qua sembra sia stato per Lacco Ameno un parto miracoloso, mitologico, cui hanno dato forza il gigante Tifeo sepolto vivo nei visceri dell’isola d’Ischia e grazia Santa Restituta. Io posseggo – continua mio padre – e tengo ancora caro un piccolo dipinto di Luigi De Angelis che mi dà ogni volta che lo guardo una viva commozione. Il pittore ha colto poeticamente un’immagine fugace che ha per noi pionieri un sapore nostalgico: nella breve landa assolata e desertica ai piedi di Monte Vico solo il colonnato neoclassico delle Terme è in piedi, separato dal mare dalla bassa quinta delle casette rosa dei pescatori; intorno lo squallido scenario del più povero comune dell’isola con un retaggio di antica miseria appena allietata da prepotenti oleandri e dalle bouganville. Oggi una piccola, una perfetta città termale occupa quella landa deserta con le sue terme, con i suoi alberghi lussuosi, con la sua piazza armoniosa allietata dalla fontana, con i suoi studi e laboratori scientifici… Crediamo di poter affermare che in nessuna parte del mondo è accaduto nel campo idrologico qualcosa di simile: una creazione modernissima, originale, funzionale, sbocciata da una antica tradizione termale. Tutto ciò è potuto accadere perché le forze propulsive di questo grandioso rinnovamento non sono state, come spesso accade, l’interesse, il calcolo, la speculazione, ma l’entusiasmo, la fede e, lasciatemi dire, la fantasia nell’accezione napoletana del termine che vuol dire «Vale la pena adesso – ha inoltre detto Fausto Malcovati - raccontare qualcosa di quello che ha fatto mio padre per la riscoperta e il rilancio delle tradizioni locali dell’isola. Anzitutto la “Ndrezzata”, rilanciata proprio da mio padre che ne trovò le tracce nel comune di Buonopane, ed anche la cerimonia della battuta del lapillo (‘a vattute ‘e l’asteche) da parte di artigiani. Il terrazzo dello Scuopolo è fatto così. Altre cose cui teneva moltissimo erano la festa di Sant’Anna (organizzò alcune barche, una delle quali si chiamava Pithecusa, celebrazione dell’isola delle scimmie), la storia di Sant’Antuono, ambientata sull’Epomeo con il demonietto che tentava il santo. Partecipò anche alle celebrazioni del porto del 19543: si riprodussero i costumi dell’isola, basati su antiche stampe, alcuni realizzati dalla sartoria del Teatro La Scala di Milano. Inoltre dobbiamo ricordare la valorizzazione dello Scuopolo, acquistato, ristrutturato e rimodernato con la collaborazione di Luca Scotti e dell’architetto Sandro Petti. Fu mio padre a commissionare a Maria Algranati, scrittrice e poetessa napoletana, una ricerca sulle origini storiche di questa casa detta “La casa della torre”. E tutti si chiedevano dove fosse questa torre. La studiosa seppe risolvere il giallo4. Lo Scuopolo diventò per mio padre un luogo di ospitalità dei suoi amici. Vi passarono tante personalità: il premio Nobel Eugenio Montale, il presidente Luigi Einaudi, il pittore Giuseppe Novello, Ezio Vanoni e, naturalmente, Angelo Rizzoli. Forte fu anche la passione di mio padre per gli artisti isolani: Luigi De Angelis, di cui acquistò molti dipinti; Aniellantonio Mascolo, del quale organizzò una mostra a Milano nel 1959, e poi Mario Mazzella, Gabriele Mattera, ed altri. Fu amico di varie personalità isolane, come Sandro Petti, i Pignatelli, i Colucci, i Buchner…. nonché di molte famiglie dell’isola». 1 Al Congresso partecipò anche il prof. Camillo Porlezza, il quale ricordò la visita qui fatta nel 1918 da Madame Curie. 2 Il prof. Piero Malcovati vi svolse una relazione su Le cure termali salse radioattive nella senescenza femminile. Presentandone nel 1962 il volume con tutti gli interventi, egli scrive: «Sono lieto di presentare alla Classe medica italiana e straniera questo volume – edito dal Centro Studi e ricerche delle Terme Regina Isabella e Santa Restituta di Lacco Ameno d’Ischia, che raccoglie le relazioni e le comunicazioni del Congresso internazionale che ha riunito nel 1958 a Lacco Ameno in una unica assise eccezionalmente numerosa, operosa e qualificata, le International Society of Medical Hydrology e la Fédération Internationale du Thermalisme et du Climatisme. Credo di non eccedere nel compiacimento affermando che questo volume – che segna un nuovo titolo di nobiltà per il Centro studi e ricerche Lacco Ameno Terme – rimarrà a lungo nella letteratura medico-idrologica come un’opera di studio e di consultazione». Al termine è stato proiettato un filmato d’epoca e poi la sorpresa finale della Ndrezzata nel cortile del convento di Sant’Antonio: un omaggio riconoscente del famoso gruppo alla memoria di Piero Malcovati. Giuseppe Silvestri 3 Il prof. Malcovati pubblicò nella rivista L’Isola Verde, numero unico a ricordo del celebrato centenario dl porto, un articolo dal titolo Passato, presente e futuro di Ischia termale. Nel 1957 pubblicò anche un opuscolo dal titolo Lacco Ameno termale. 4 Note in merito allo Scuopolo e alla Torre si possono leggere nel sito www.ischiainsula.eu sezioni indicate nella Home, Pagine storiche: Le torri litorali (di Maria Algranati); Varie: Ischia Ponte – Borgo di Celsa (di Vincenzo Belli), Lo Scuopolo (di Maria Algranati). La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 19 A cura dell'Associazone Pro Casamicciola Terme Scommetti su te stesso! I giovani dell’isola d’Ischia riflettono insieme sul gioco d’azzardo L’Associazione Pro Casamicciola Terme, presente sul territorio dal 1974, su sollecitazione di un gruppo di cittadini, ha promosso un’iniziativa per sensibilizzare il territorio sulla diffusione della ludopatia, soprattutto presso i giovani. Il piccolo percorso è promosso d’intesa con i referenti dell’ASL NA 2 Nord e prevede l'attivo coinvolgimento di alcune classi degli istituti secondari superiori dell’isola d’Ischia, all’insegna di “Scommetti su te stesso! – I giovani dell’isola d’Ischia riflettono insieme sul gioco d’azzardo”. Il progetto, dopo l’evento di presentazione alla comunità del percorso teso soprattutto alla sensibilizzazione del territorio sulla tematica del “gioco d’azzardo”, anche al fine di catalizzare energie diverse presenti sull’isola, ha previsto per il prosieguo l’individuazione, da parte dei Dirigenti Scolastici delle classi degli Istituti secondari superiori dell’isola d’Ischia che parteciperanno all’iniziativa, di un gruppo di alunni, al massimo 250, ai quali sarà offerta la possibilità di discutere/approfondire il fenomeno ad Ischia nel periodo febbraio/ aprile 2014, anche con la presenza concordata presso le classi coinvolte di operatori del SerT di Ischia, di ex-giocatori d’azzardo e rappresentanti delle Forze dell’Ordine. Parallelamente sarà attivato un piccolo percorso formativo e, soprattutto, operativo rivolto agli insegnanti coinvolti, al fine di discutere insieme obiettivi e finalità del breve percorso con gli operatori del Dipartimento prevenzione della ASL NA 2 Nord, ai quali è affidato il compito di redigere, somministrare e validare un questionario per una prima indagine conoscitiva relativa al fenomeno “gioco d’azzardo”. Infine nel mese di maggio 2014 è programmato un doppio momento finale del piccolo percorso. Una prima parte sarà dedicata agli studenti coinvolti, ai quali saranno presentati i risultati della citata indagine. Inoltre saranno attivamente coinvolti in un incontro-dibattito sul gioco d’azzardo. Nell’occasione saranno invitati ad offrire la loro testimonianza alcuni personaggi del mondo della prevenzione, d’intesa con gli studenti stessi ed il gruppo di docenti che ha seguito il percorso formativo previsto dal progetto. Una seconda parte sarà dedicata alla comunità isolana, alla quale saranno presentati i risultati della citata indagine e dell’intero percorso, anche attraverso il coinvolgimento degli attori del percorso, delle autorità civili e scolastiche, degli operatori sociali del territorio. * 20 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia Si pubblica, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il testo del manoscritto adespoto identificato come "Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia", conservato presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Napoli, Fondo S. Martino, ms 439, ritenuto, secondo quanto scrive Agostino Lauro (1970), «degno di attenzione da parte di chi si è interessato alla storia d'Ischia negli ultimi trenta anni». Ma «le conclusioni alle quali sono pervenuti i diversi studiosi, dopo esame più o meno diligente di esso, non sono concordi sul valore, sul tempo della compilazione, sull'autenticità dell'opera» (A. Lauro1). Rimandando ad altra occasione il riferimento specifico a coloro che hanno voluto ricercarne e valutarne gli aspetti controversi sopra indicati, diciamo che il manoscritto è diviso in tre parti con i seguenti titoli: 1) Ragguaglio istorico topografico dell'isola d'Ischia (fogli1-101). 2) Ragguaglio istorico topografico del castello d'Ischia (fogli 102-129). 3) Ragguaglio istorico ecclesiastico d'Ischia (fogli 130-174). Trascrizione del testo di Giovanni Castagna Parte IV Ragguaglio Istorico Topografico del Castello d'Ischia Precedenti inserti n. 3 giugno/luglio 2013 n. 4 agosto/settembre 2013 n. 5 ottobre/novembre 2013 1) Lauro Agostino, A proposito di un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli, in Archivio storico per le Province napoletante, terza serie, anni VII-VIII - LXXXV-LXXXVI dell'intera collezione, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1970. Ragguaglio istorico topografico della Isola d’Ischia IV Nota di quell’istorici, Geografi, Poeti, e Scrittori, i quali o hanno fatto espressa menzione, e memoria, o parola della Città, e dell’isola d’Ischia, senza però numerarsi gli istorici napoletani. Omero, Pindaro, Esiodo, Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, Solino, Servio, Silio, Claudiano, Valerio, Timeo, Livio, Strabone, Appiano, Ales.no, Dionisio, Ales.no, Tolomeo, Mela, Festo, Silace, Stefano, Stefano Bisantino, Guida, Pontano, Fazzello, Giovio, Volaterrano, Ermolao, Elisio, Solinardo, Ossequente, Baccio, Lombardo, Iasolino, Sulmasio, Bochart, Eritreo, Arduino, Casaubono, Ariosto, De Quintiis, Aloisio, Verlicchi, Andria, Siano. Ughello: Insula habet vicos Pansam, Fontanam, Testaceum, Baronum, Campagnanum, Casanizzolam, Laccum, Foreum, (qui major ad occidentem millia capita continens, et munitior multis turribus occidentali plaga ), situ, fructuum, vinorumque copiu, et aprico coelo coeteris insulis loci praestantior. Cives vel quod ignis nimium sanguinem excitat, vel quod mores insularum sectantur, proclives sunt iniuria. Castellio: Aenaria, hodie Ischia, vino, alumine, sulphure, balneis, opere figulino, et oppido in saxo praerupto, natura, et arte munito, nobilis. Vulpes: Balnea, Vina, Aer, sic praebes Iscla salubre! Praestans in toto; qui magis orbe locus? Ariosto 33.29 Ne’ quest’Isola avrà da starsi cheta, chè non s’essalti, e non si levi al cielo. Ragguaglio Istorico Topografico del Castello d’Ischia In un tempo rimotissimo, ed all’intutto ignoto, per ef- fetto di una violentissima sotterranea eruzione vulcanica in mezzo al mare si formò, e si elevò uno scoglio, o sia rupe di pietra dura a color di piombo, e propriamente basalto, quale nella figura, e forma va al conico, e, che dal suo acume, e cima riguardante il nord è tagliato trasversalmente verso l’est, il sud, e il vest, in modo che nel fine della trasversale tagliata, proporzionata, e come gradata rimane meno della mettà dell’intiero tronco, e masso dello scoglio, il quale in tutto il suo giro intieramente porge nel mare a perpendicolo. La sua punta, e cima dalla superficie del mare è circa 900 piedi: Il suo circuito è di circa 600 passi. La linea del tronco, e del masso da sotto la cima, verso il nord, tirando per l’est, e per il sud, è curva, e circolare; la linea poi dal sud al nord, che guarda il vest, è all’intutto convessa; Ed è sito nel mare Cumano. Tale scoglio, chiamato Castello d’Ischia, per via di un lungo molo di fabrica, roborato ne’ lati da scogliera, e come istmo, di piedi 800 circa, si unisce alla prima terra dell’isola, nominata Gelso, dove esiste l’attuale città, ed abitazione. Il detto Castello oltre la propria aria, purissima, salubre, vivificante, e balsamica, all’est, e verso il sud guarda il mare di Sicilia e di Calabria, l’isola di Capri e la punta della Campanella, e nel dentro tra l’una, e l’altra l’Alico- sa, il littorale d’Acropoli, e il sito dell’antica Pesto; indi mira la costa, li lidi, li piani, e la lunga, e l’alta catena de’ monti di Massa, di Sorrento, di Vico, e di Castell’a mare, che la dilettevole Portici, li monti del Vesuvio, e di Somma, e di Sant’Eramo, che la campagna di Posillipo, e Pozzuoli, li monti della Solfatara, e Gauro, non meno che li Camaldoli, di Baia, e di Miseno, e la bella e graziosa vista del cratere, l’isola di Procida, e di Guevara. Al nord si vede il sito della distrutta antica Cuma, colla riviera della campagna felice, colli siti delle antiche distrutte Linterno, Padria, e Vico, e le speciose campagne del Volturno, Garigliano, e Mondragone; In prosieguo la tirata de’ monti di Sessa, Traetto, e di Gaeta, ed il monte Circello, verso il vest, e il sud tiene la gaia, e graziosa prospettiva della villa di Campagnano, e suoi grati territori, la lunga pianura, che porta a Barano, ed a Testaccio; e dappoi il gruppo delle colline, de’ colli, e de’ monti che vanno a terminare coll’Epomeo, onde l’occhio ne riceva tutta la sodisfazione; e questa ultima veduta di prospettiva forma lo stemma della città d’Ischia, ed a guisa di una pigna intieramente contornata di diamanti. Negli antichi tempi, e prima del Rè Alfonso d’Aragona si saliva su di esso per una strada, o gradone costruita da fuori, ed in faccia allo scoglio, e di modo, che dalla parte superiore una sola guardia potea far tornare in dietro, e La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 21 se faceva d’uopo ammazzare un’intiera colonna; e sin’agli ultimi tempi comparvero nel castello le palle di pietra dura, quali erano allora gli istrumenti di difesa. Il cennato Sovrano essendo entrato in una passione per tale Castello, con eccessivo dispendio lo fece mettere in un aspetto di validissima resistenza, e di difesa; e facendo levare la salita da fuori, a forza di martello, e di scalpello fece incavare il duro scoglio per dentro, e vi fece costruire una salita per la parte che guarda il vest, larga piedi 12, lunga circa piedi 400; ed alta piedi 20. Nell’entrata guardante il mare, e il cennato Istmo vi fece formare due batterie; ed indi nel fine dell’incavamento, ed a linea del piano del Castello, e dove termina la trasversale tagliatura, vi fece costruire una grande batteria, che sta situata quasi al disopra delle due mentovate batterie. Dappoi con muraglioni, con torri, con piatteforme, con piazze d’armi, e con batterie fece circondare tutta quella parte del Castello, che mira il sud, l’est, ed il nordest, e sempre per la linea della divisata ultima tagliata trasversale, ed in dove lo scoglio porge a perpendicolo sul mare. E se l’Ariosto cantò: Nè quest’isola havrà da starsi cheta, che non s’essalti, e non si levi in cielo. Translativamente s’intende per l’isola d’Ischia ma effettivamente s’intese cantare per il Castello d’Ischia, in dove nacque Ferdinando Francesco d’Avalos, che era l’eroe di quelli versi; ed infatti per tale Castello così si prosegue a cantare: Il Padre suo d’un altro o padre, o forse Avolo, e l’un dall’altro sin’a quello ch’a udirlo da quel proprio ritrovosse, che l’immagini fe’ senza pennello, che qui vedete bianche, azurre, e rosse, udì che quando al Rè mostrò il Castello, ch’or mostro a voi su quest’altro scoglio li disse quel ch’a voi riferir voglio. Cotale altero scoglio da rimoti tempi, e sin’al 16 secolo conteneva un rispettabile Castello con un Maschio, una nobile, e rinomata Città, una Terra, ed un borgo, e gli abitanti in esso erano sì numerosi, che arrivarono a formare il numero, ed il ruolo di 1892 fuochi; e lo stesso tanto nell’istorie, quanto ne’ diplomi viene sempre mentovato sotto la denominazione di Castello d’Ischia. L’intiera sua salita, dalla prima porta della prima batteria sin’al Maschio, o sia cima, è di piedi 1200. Tutte le nomenclature colle quali veniva indicata, e conosciuta l’isola, tutte venivano apposte, e addette alla Città, ed in conseguenza al Castello, in cui fu sempre la Città, e forsi sin’al decorso del 16 secolo: Ma le più speciali, colle quali intesero nominarla, e distinguerla l’istorie, e gli antichi autori, e con essa il Castello, sono le seguenti: 22 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Pithecusa, e Pithecusae; e si rileva più d’ogn’altro da Ovidio (Metam.): Inarimen, Prochitamque legit, sterilique locatas colle Pithecusas habitantium nomine dictas Pe’l foco, e l’ardor fremendo Inarime Procida scuote, e pur le Pitecuse, che sovr’un sterile colle situate dagli abitanti suoi così son dette. Altra traduzione antica Inarime toccò e Procida, e in colle sterile le riposte Pitecuse dagli abitanti suoi così chiamate. Ecco Ovidio come distingue l’Isola, Procida, ed il Castello, e questo poi colla particolare condizione d’essere un colle sterile, come era, per essere uno scoglio di pietra vulcanica, ma densa, e forte. È vero che πίθος significa botte, ziro, ed ogni lavoro rotondo fatto di creta, della quale il Castello n’è privo all’intutto, ma nel Castello esistevano i figlini, i lavoratori della creta, di cui abbonda l’isola, perché negli antichi tempi tutti abitavano nel Castello, siccome li governanti, gli amministratori, e li direttori delle fattorie, particolarmente della creta, e dell’argilla. Da Pomponio Mela al c.6 così pure viene denominata, e chiamata, distinguendola da Enaria, e da Procida Pithecusas…..Aenaria….. Capreae, Prochita. Livio parimenti con chiarezza distingue i luoghi di Enaria, e di Pitecusa, scrivendo, che li Cumani venuti da Eubea fecero empeto, e sbarcarono in Enaria, e nelle Pitecuse, e volle individuare quel seno, e quella rada in dove poteva stazionare la flotta. Hjerunda negli antichi tempi, Gerunda nell’età media; da Jerone, o sia Gerone, Rè di Siracusa, che mandò nell’isola una colonia di Siracusani siculi, i quali fondarono sul castello una Città, e la chiamarono così dal nome del loro Rè, il quale era un filosofo, e un gran politico. Le carte nautiche anco lo tengono notato col nome di Gerone. Iscla viene denominata nella media età, e così viene chiamato, e notato nell’antiche iscrizioni, ne’ diplomi, e nell’antiche iscrizioni ecclesiastiche, siccome Castrum Isclae, Civitas Isclae. Ischia da molti secoli in quà, ed uno de’ primi, che in tal modo la chiamò in uno de suoi trionfi = Non bollì mai Vulcan, Lipari ed Ischia, = fu il Petrarca. Ischia unicamente derivata dalla voce antica Iscla, la quale coll’introduzione della lingua italiana soffrì, e ricevè una piccola alterazione, essendosili apposte per la lettera l, le due lettere h, ed i, ed aggiunte. Taluni scrittori (Ermolao, Volaterrano, Giovio) riflettendo su la voce Iscla hanno opinato di poter derivare dalle voci greche ισχυς, forte, ed ισχυρος fortitudo. Talun’altro ha opinato derivare, dalli vocaboli Coxendrix, e Coxa, significanti l’osso d’Ischio, e l’Ischio; ed anche dalla voce greca ισχίον, coxa, qual è quell’osso sito su la coscia, o sia cossa dell’uomo, su cui l’uomo con rubustezza, e fermezza s’appoggia, e si sostiene. Però deve confessarsi, che la prima etimologia è alludente al sito del Castello, ed all’antica città in esso sistente, che è fortissimo, e quasi inespugnabile, maggiormante in quel tempo, che non ci era il cannone, e la bomba: pur tutta volta quando di dentro ci è da vivere, e ci è mediocre guarniggione, difficilissimamente può soggiogarsi. Siccome è alludente alla nobilissima, e rispettabilissima famiglia Cossa, o Coscia, la quale, come cittadina, fu potentissima in esso; e ne fu in certi tempi pure dispotica. (Francesco De Petris). Icla ancora si trova presso gli autori denominata. Fa d’uopo leggersi ciò che se ne disse nel ragguaglio dell’Isola. Sicché l’isola negli antichi tempi venendo spesso spesso da tremuoti, eruzioni, e fuochi disturbata, scossa, ed in qualche parte benvero sovvertita, e distrutta, e non meno che dall’invasioni, e dalle incursioni o de’ barbari, o delle nazioni nimiche, e guerreggianti, la gente per stare, e per essere al sicuro, ed al coverto delle proprie persone, e de’ danni, e d’ogni sinistro, e funesto, dimorava, e domiciliava nel Castello, in dove dimorava, e domiciliava il governo militare, ecclesiastico, politico, ed amministrativo economico, ed ogni famiglia distinta, e nobile, e nobilissima, e di modo che soprattutto li contadini, li marinari, li fattorieri, li lavoratori, e tutti quelli i quali avevano interesse, e negozio nell’isola, nel mattino ben di notte uscivano, e nella sera all’imbrunire si ritiravano, portando con loro sempre ogni bene, ed ogni prodotto fruttifero della terra: Onde nel Castello tutti abitavano, all’infuori di quei pochi dispersi per l’isola addetti a guardare, ed a lavorare, abitanti ne’ tuguri, e nelle grotti, ma sempre nel tutto dipendenti da rispettivi governi sistenti in esso. Il medesimo, principiandosi dalla fine della menzionata trasversale intiera tagliatura dello stesso, e che formava quasi un piano, e sin’all’ultima punta di acume, e cima, compariva, ed era adornato con ordine, simetria, e quasi gradatamente di Palazzi, di quarti di case, di torri, di forti, di chiese, di diverse cappelle, di monasteri, del Real Palazzo nel mezzo sistente, delle rispettive publiche officine, e nell’ultimo del maschio, o sia del forte, su la cima con fossata, e fermi muraglioni, sopra il quale soleva ventilare con maestoso modo una gran bandiera. In esso, oltre l’eccessivo numero degli abitanti, esistevano le prime famiglie cospicue del regno, ed illustri tanto negli eserciti di terra, quanto nelle armate navali; ed era in tale stima, e considerazione l’abitazione nel Castello, che niuno poteva essere giamai aggregato alla cittadinan- za, ed al patriziato, se non aveva nello stesso propria casa, e casa di proprio dritto; ed all’orchè le famiglie cittadine, le quali erano al privativo governo, ed amministrazione del publico, mantennero sin’alla mettà del 18 secolo tale costumanza. L’ordine, la simetria, e la gradata costruzione delle fabriche come sopra mentovati, dalla base della linea trasversale del tronco, e masso dello scoglio che porge nel mare, sin al suo acume, e cima, dove è il maschio, in particolare dalla parte del sud, e dalla parte del monte di Campagnano, facevano una veduta tanto gaia, bella, e graziosa, che sorprendeva ogni occhio finissimo, e di tutto buon gusto. Chi è nel piacere d’osservarne alcuna idea, può rilevarla dalla pianta, in piccola, dipinta nella soffitta della seconda stanza della Torre di Guevara sita nel Ninfario; in dove sta dipinta la pianta del medesimo a vista della figura del Castello, nel laterale di un gruppo di belle figure dipinte di sfinci, e di sirene. L’aria finissima, e salubre dello stesso, e il sito dotato da per ogni punto di sodisfacenti prospettive rendeva naturalmente giulivi, e sempre ilari gli abitanti, e li faceva godere buona salute e lunga serie d’anni, siccome l’inclinava alla conversazione, al suono, ed al marziale. Era sicura tradizione, che in esso non si osservò mai epidemia maligna, ne mai s’introdusse peste; e per quante ne’ trapassati tempi attaccò la capitale, e il regno. Il Castello d’Ischia dunque fu oggetto di considerazione presso le nazioni e per li suoi illustri abitanti, e per il suo inespugnabile sito, onde n’avvenne, che ben vero l’isola presso la stessa fusse stata in contemplazione. Quindi gli antichi Napoletani, dopo che li Siracusani Siculi per il solito tributo all’ora de tremuoti, e dell’eruzione furono costretti ad abbandonarla, subito se ne fecero padroni; Intanto li Romani essendosi informati delle diverse buone qualità a viva forza, ed a guerra dichiarata ne li cacciarono, e se ne posero nel possesso; come se ne servirono in tutto, e per tutto nelle ricorrenze; A qual’effetto Libone Generale de Romani sotto la direzione di Pompeo per mantenere al sicuro, ed al coverto l’armata da sé comandata, non meno che per esplorare, e scovrire lo stato delle forze nemiche, fece capitale del Castello, e della sua baia. Pertanto abbenchè Ottaviano Augusto cedé il Castello coll’isola a Napolitani per essersi da loro presa l‘isola di Capri, pur tutta volta li Romani, che l’avevano sempre a cuore, quando avvennero l’incursioni de barbari, e specialmente nel tempo de’ Longobardi, se ne impossessarono, e per farla restituire dopo molto tempo si dové impiegare presso gli Imperatori d’Oriente tutta l’autorità, tutta la dottrina, e tutta l’angelica persuasiva di San Gregorio Magno; e così passato il Castello coll’isola di nuovo sotto il dominio de’ seniori, e cittadini di Napoli, sin’al decorso del 12 secolo nell’istoria non mi sono incontrato co’ fatti, e notizie dell’istesso alludenti, e concernenti. Arrigo VI Imperatore, e Rè di Germania, e d’Italia è il primo ad essermi venuto sotto gli occhi nella lettura La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 23 dell’istoria, il quale dimostrò far conto del Castello d’Ischia coll’isola, e trattò ogni modo con destrezza a poterlo avere al suo dominio, e così levarsi un’inimico alle spalle per conquistare li regni di Napoli, e soprattutto di Sicilia, mentre il Castello si riputava d’essere un’idoneo canale per la comunicazione de’ due regni. Egli alla fine del 12 secolo nell’aver’intesa la morte del Rè Tancredi, ad oggetto di far prevalere l’effettivo, e Reale dritto, e ragione della sua moglie Costanza, figlia di Ruggiero, e legittima erede de’ troni di Napoli, e di Sicilia, e del sangue Normando, si condusse in Italia con un potente esercito, ed indi nel regno di Napoli: Prima pose uno stretto, e duro assedio a Gaeta, e la prese, onde n’avvenne, che si li fusse resa Napoli; Intanto principiò a pensare di acquistare il Castello d’Ischia, e pose in uso tutti gli opportuni mezzi, onde li riuscì ad avere senza danno al suo dominio il Castello coll’isola; e dopo d’aver tenuto da quel comandante militare il giuramento di fedeltà si determinò ad acquistare il rimanente del regno di Napoli, per poi subito passare all’acquisto di Sicilia, che stava sotto il governo di Guglielmo III figlio di Tangredi. Federico I Rè di Sicilia figlio di Arrigo VI, e di Costanza, Rè di Germania, e d’Italia, e poi Imperatore, nello spirare del 12 secolo, e nel principio del 13 pensando, che nel regno di Napoli poteva ricevere della vicissitudine, e dell’alterazione, si determinò a ben conservarsi il Castello d’Ischia, come luogo, e mezzo opportuno di comunicazione tra li due regni, e tra quei sudditi al proprio sovrano attaccati, e far’in esso sempre sostenere le sue bandiere, e le sue Reali ragioni, destinò al governo, ed al comando dello stesso uno de’ suoi più fedeli, e costanti, e questi fu il Cavaliere Giovanni Caracciolo Rosso, il quale al proprio Sovrano si dimostrò nel corso del comando fedelissimo, e coraggioso senza temer la morte: Egli dopo aver difeso, e sostenuto il Castello, osservandosi inferiore alle forze forti di Ottone IV, e de’ ribelli, si ritirò in una torre con quelli militari onorati, e fedeli, in cui fece risplendere il proprio valore, e l’arte guerriera, ma come contro la moltitudine ben regolata, finisce, e cede ogni gigante, e forte, ed erculeo, si vide cinto dalle fiamme, per cui vennero bruciate tutte le porte, e finestre; Ed esso con la propia gente volle più tosto morir bruciato, che rendersi alli nemici; e così pieno di gloria, e d’onore finì di vivere con quell’orrenda morte. A beneficio del di lui figlio Liguoro Caracciolo nell’anno 1238, e dopo l’elasso di molti anni il Rè Federico I come Sovrano di Sicilia, e Federico II come Imperatore emanò un diploma sodisfacentissimo d’onore, e di riconoscenza. Pietro d’Aragona, dopo l’avvenimento del vespro Siciliano, essendosi impadronito del regno di Sicilia, usò ogni impegno, e mezzo d’ impossessarsi del Castello, e levarlo al Rè Carlo I d’Angiò con tutta l’isola, e li venne fatto; il quale difese, sostenne, e mantenne, lasciandolo, e trasmettendolo a suoi posteri: ma Carlo II poi pose de’ tali mezzi, che se ne impadronì. Federico II Rè di Sicilia, Fratello del Rè Giacomo, e 24 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Figlio di Pietro, stimando, che col possedere il Castello d’Ischia coll’isola poteva arrecar pregiudizio a Carlo II d’Angiò Rè di Napoli, ed a poterli impedire il commercio per la Capitale, si determinò ad averlo per tutte le vie, e per tutti li mezzi: Sicchè trattò secretamente colle famiglie Coscia, Salvacoscia, e Bolgaro, quali erano le potenti, e le dominanti nel Castello, ed in tale maniera li riuscì d’ottenere il dominio del Castello, e dell’isola. A vista, che l’ottenne, ben munì il Castello, e lo guarnì con una forte guarniggione siciliana; dando il comando dell’istesso, e dell’isola a Marino Bolgaro, ed a Pietro Salvacossa, a cui diede ancora come gran comandante navale una flottiglia, ad oggetto di difendere l’isola, e di dar da fare alla Città di Napoli, con impedirle, ed intercettarle per mare il commercio, e la comunicazione. Pertanto li cittadini di Napoli per il lungo dominio avevano d’essa tenuto, si erano avvezzati a bere il vino che si produceva dalla stessa isola; a quali non ostanti, che si stava in guerra, si permetteva di negoziare nella medesima, e di far compra di vino: se non che Federico tanto per dispettare li sudditi, quanto per tirare profitto dal di loro commercio, impose il dazio di un ducato per ogni botte. Tale imposizione ferì di molto li Napolitani, che s’impegnarono a volersene vendicare, quindi unitisi col governo armarono nove navi ben corredate, e difese; e con quest’armata si diressero verso l’isola per invaderla, e così d’impadronirsi d’essa, e del Castello. Pietro ad una tale veduta stando con cinque navi nella baia laterale al Castello, subito si pose in ordine, e diede le disposizioni, acciò l’equipaggio in specie siciliano si fusse posto in attività, in coraggio, ed in difesa; sicchè levatesi le ancore, Pietro drizzò la rotta verso l’armata nemica, la raggiunse, l’attaccò, e la vinse, impadronendosi di cinque navi; e d’una gran quantità di priggionieri; e le altre quattro assai mal conce s’aiutarono colla fuga, ed in questo modo pervennero nella rada di Napoli. Il Rè Ladislao, che visse dall’anno 1386 sin all’anno 1414, fu quello, che dimostrò maggiore impegno per avere al suo dominio il Castello d’Ischia. Uscito dalla piazza di Gaeta, e da confini degli Abruzzi li successe di poter conquistare Napoli: Indi si determinò a fare altro in passare nelle provincie, che erano sotto il dominio del Rè Ludovico d’Angiò, se prima non avesse acquistato il Castello, e l’isola d’Ischia. In essi il medesimo ci teneva della molta forza, e dell’esercito, per cui convenne a Ladislao spedire nella stessa anco un’esercito; Infatti ci giunse, e li due eserciti nemici stavano a fronte accampati verso li monti d’Abuceto, e del Cretajo; dopo alcuna dimora calarono nel piano li due eserciti, e diedero la battaglia; e riuscì all’esercito di Ladislao abbattere, e vincere quello di Ludovico; onde poi il Castello, e l’isola vennero sotto il totale, e pieno dominio. Ladislao impaziente partì dalla Capitale a solo oggetto di condursi di persona nell’isola, e disporne ciochè stimava corrisponderli: ma arrivato a Miliscola, ebbe la felice notizia della vittoria del suo esercito, e della preda dell’isola, e della resa del Castello; per cui li convenne tornare indietro, e di andare nelle provincie, nelle quali la fortuna accompagnandolo, ottenne delle vittorie contro Ludovico, e così si rese padrone di tutto il regno. Il Rè Alfonso d’Aragona più d’ogni altro Sovrano nutrì impegno, e dimostrò considerazione per tenere il dominio del Castello, e dell’isola: Egli quantunque ottenne dalla Regina Giovanna II l’adozione, in appresso entrò nel sospetto, e nel dispetto della medesima. Intanto nutrendo eccessiva ambizione d’acquistare il regno di Napoli, e di vedersene Rè, attese a pensare su tutte le vie, e mezzi a poterci riuscire o di buona, o di mala voglia di Giovanna; ed essendo nella sicurezza, che il Castello d’Ischia fusse un luogo molto atto, ed opportuno per comunicare col suo regno di Sicilia, e di aggire in Napoli, prese le misure di tirare alla sua divozione, come lo tirò, Michele Cossa quarto signor di Procida, e potente cittadino d’Ischia; ed avvenne il concerto nel tempo, che Michele s’era allontanato dalla Regina Giovanna per l’odio, e per l’inimicizia teneva contro Sergian Caracciolo, dispotico della stessa. Sicchè Alfonso nell’anno 1423 stando in Ischia, e come se avesse voluto assediare il Castello, per l’efficace opera, e maneggio di Michele ebbe il piacere di mettersi al possesso del Castello, e dell’Isola; e perciò pieno di contento, e di consolazione se ne partì per la città di Napoli, in dove aveva a sua disposizione il Castel nuovo. Questa venuta d’Alfonso fu causa di fargli pigliare passione, ed amore per il Castello, e per l’isola; per cui quando divenne verso l’anno 1443 ad essere pacifico possessore del regno, si dispose a mettere il Castello in stato di una validissima difesa; e con eccessivo dispendio lo guarnì di tante batterie con cannoni, con piatte forme, con muraglioni, con un Maschio su la cima, e con un’incavamento nel forte dello scoglio per la salita per dentro, mentre prima si saliva per fuori. Gli ingegneri, e direttori d’allora, sembra, che ad una costruzione, e fattura mancarono, e fu quella di non aversi costruito alcun camino coverto, acciò senza pericolo, e senza farsi vedere, si avesse potuto comunicare colle batterie, colle muraglie, col palazzo reale, e col maschio. Come destinò l’isola per un suo diporto, e divertimento reale, motivo che molti luoghi si determinarono per la real caccia; e questi con particolarità furono il Lago, che in tempo d’autunno, e d’inverno stava sempre pieno di diversi volatili, ed in gran numero; una valle detta de’ Liguori, ed il Vateliero, aumentati di faggiani, di lepri, e di cunigli, e la villa di Pansa. È vero, che Alfonso per la passione, che contrasse, e s’indusse a profondere tanto per la costruzione del Castello, ma ebbe ancora una ragione di stato, e politica avanti gli occhi, affinchè in ogni caso o di rivoluzione, o di ribellione, o di disturbo, la real famiglia avesse potuto tenere in luogo sicuro di riserva, e di ricovero; ed infatti questo Castello servì per ricoverare Ferdinando II, la real famiglia, e tante famiglie nobili, d’onde poi passò in Messina, ed a vista ricuperò il regno. Alfonso ben sapeva, e conosceva l’indole de regnicoli in generale, e particolarmente de baroni, tirata per le novità, per la rivoluzione, e per le mutazioni; ed opinando, che il Castello d’Ischia poteva essere quello, che poteva l’altrui sicurezza, e l’altrui persone difendere, e sostenere, e renderle esenti da ogni violenza; e mentre un tale Castello si potea riputare fuori della dominante, e delle provincie per la sicurezza, e dentro la stessa per la comunicativa e corrispondenza. Alfonso nel nutrire una stravagante, ed eccessiva inclinazione per Lucrezia Alagni Catalana, essendo giunto vicino a morte, ciò che l’era stato di più caro, qual fu il Castello, e l’isola d’Ischia, li donò ad essa Lucrezia, ed essendosene la stessa posta nel pacifico possesso, ne affidò il comando, e l’amministrazione al suo cognato Giovanni Torella, o sia Toreglia; soggetto lo più infame, lo più infedele, e lo più traditore, che simile, ed eguale non era per darsi sotto la luce. Egli non contento di un totale dispotismo, che aveva acquistato, e la di lui ingordigia non vedendosi mai sazio, architettò una nera, e falsa calunnia contro l’infelice Lucrezia, consistente in una corrispondenza, che teneva, colla casa Angioina, e ne fece la dinunzia al Rè Ferdinando I, che ingannato, levò il Castello coll’isola alla prefata, e con maggiori prerogative, e grazie confermò il Torella nel comando, nel governo; e nell’amministrazione; di chi più appresso, e del di lui infame carattere, e del di lui svergognato sfratto dal regno se ne farà in appresso parola. Giovanni d’Angiò figlio di Renato, figlio di Ludovico, adottato dalla Regina Giovanna, si facea chiamare Duca di Calabria: mentre egli era al governo di Genova soggetta all’ora al suo parente Rè di Francia, invitato da baroni del regno, venne alla conquista dello stesso con truppa di terra, e con armata di mare; e fu nel principio assai felice, e riportò contro il Rè Ferdinando I una segnalata vittoria vicino al fiume Sarno: Egli per non voler eseguire li consigli di Giovanni Cossa duca di Brisak, diede tempo al Rè Ferdinando, che avesse potuto avere degli aiuti, e soccorsi interni, ed esterni ed avesse potuto far’uso de maneggi, e delle destrezze, per cui gli affari del Duca Giovanni d’Angiò in tale maniera peggiorarono, che lo stesso dovè venire a convenzione non troppo onorata co’ Ferdinando, ed a chi fu data libertà d’eleggersi un luogo per propria dimora; Quindi il Duca Giovanni posponendo il Castello dell’Ovo nella capitale, si elesse il Castello d’Ischia, in dove passò con otto galere. (Nota a margine: “Dalla lettura dell’istoria di Napoli si rileva che Giovanni Torella marito di Antonia Alagni, sorella della famosa Lucrezia” – “Beninteso, che tale Castello si trovava alla sua divozione, e dominio, mentre il Toreglia per far’un dispetto, ed un tradimento a Ferrante, si convenne, e si unì in lega con esso Duca Giovanni”). Giovanni qui venuto, e ritiratosi, diede colla sua flottiglia molto da fare al Rè Fernando, ed al littorale del Regno, impedendoli sin’al commercio; Per lo che Fernando La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 25 si vide nella condizione di dichiararli la guerra, e scrisse al suo zio il Rè d’Aragona, che l’avesse spedita l’armata Catalana, ad oggetto d’assediare, con tutte le forze e per mare, e per terra il Castello, e di sottometterlo; A tal avviso Giovanni non vedendo venire armata a suo favore, abbandonò il Castello, ed imbarcatosi su due galere tirò per la Provenza a fine di raccogliere forza per terra, e per mare. Arrivata l’armata Catalana, per la partenza del Duca Giovanni, al comando, e governo del Castello entrò di nuovo il Torella, il quale nulla curando l’armata nemica, si pose nel difensivo. Sicchè Fernando nell’osservare, che per le circostanze il Castello non potevasi sottomettere, pensò d’ottenerlo colle vie de’ mezzi, e de maneggi; ed avvalutosi delle promesse degli inviati, e dell’autorità dell’ammiraglio Catalano divenne a corrompere il Torella, a cui si diedero cinquanta mila ducati, si li restituirono due galere prese, e si li liberò il fratello col figlio di Lucrezia, che era priggioniere di guerra, e partì per Barcellona. Il Toreglia colla conferma del comando in altro campo, ed occasione entrò con maggiore audacia, e superbia, e tanto che giunse a disprezzare gli ordini del Re, a non più eseguirli, ed a non più farne conto; Infatti dichiarò la guerra a Pietro Cossa V Signor di Procida; e lo costrinse in modo, che Pietro si vedeva di già prossimo a cederli Procida. Fernando guardandosi disprezzato dal Torella, e considerando, che le di lui mire tendevano a passare oltre, e ad inquietare la corona, e lo stato; si risolse a mettere in opera, ed in azzione tutte le sue reali forze, e diede di maniera sopra il Toreglia (che non solo l’obligò a liberare Procida) che lo forzò (a liberare Procida e Castello), come avvenne; che a ritornarsene in Barcellona disonorato, e miserabile. Uomo per la di lui perfidia, per la di lui malvaggità, e per li di lui continui tradimenti era ben degno, e meritevole dell’estremo più che atroce tormento, e supplicio, ma non già d’essere dal regno sfrattato abbenchè povero, svergognato, e meschino. Tutto ciò accadde verso il 1464. Ferdinando I morì nel 1494, e li successe il suo figlio Duca di Calabria Alfonso II. Alfonso II abbenché guerriere, e che negli esercizi, e nelle battaglie aveva dimostrato, ed avea fatto risplendere li suoi talenti, e ‘l suo marziale, e coraggio, avendo intesa la venuta di Carlo VIII Rè di Francia erede della casa d’Angiò, che s’accostava verso il regno con poderosa armata, ed esaminando di esser in odio de’ baroni, e di molti regnicoli, mentre d’unita al padre s’era vendicato delle passate rivoluzioni, e tradimenti, si determinò nel fine del primo anno del suo reame rinunciare il regno al suo figlio Ferdinando; e con tutta fretta si ritirò in Messina, ove si chiuse in un monastero. Ferdinando II nel principio del suo regnare nel 1497, osservando, che Carlo VIII con rapidità metteva sotto il di lui dominio le provincie del regno, in dove era ricevuto con dimostranze di onore, si risolse ad allontanarsi dalla città di Napoli, e per sicuro ricovero, ed asilo si condusse 26 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 nel Castello, d’unita al suo zio Federico, alla famiglia reale, all’Ava, alla zia, e da tante famiglie nobili, e con 14 galere ma non bene guarnite, ed equipaggiate. Ferdinando calato dalla sua galera, in cui stava imbarcato, si condusse verso la prima porta del Castello rimpetto al vest vicino al mare, la quale incontrò chiusa, ben guardata, e senza poter essere ascolto, ed in questa assai critica circostanza si vidde tra il sommo delli palpiti, e delle angustie, ed aggitazioni. Il comandante era un tal Giusto della Candida di nazione catalano, che essendo di fazione Angioina, e di Carlo VIII, corruppe, e tirò a sé la guarniggione militare, e con sfacciato tradimento, e fellonia si negò ad aprire le porte,ed a far’entrare il Rè nel Castello. Li fedeli cittadini dimoranti nello stesso, sdegnati per un’azzione si orrenda, si unirono, e diedero sopra alla milizia, e di maniera, che li venne fatto di costringere il fellone comandante ad aprire le porte, e darsi al Rè il libero ingresso come avvenne, ed a tutti gli altri del seguito reale. Fernando prima vista nell’incontrare il traditore, mosso dal sangue giovanile, e da un giusto, e ragionato risentimento cavò dal suo petto un pugnale, ed innanzi alli suoi sudditi fedeli, colle sue proprie mani l’ammazzò: Indi ordinò, che si li fusse tagliata la testa, e si fusse in una buca da dentro la porta situata, e dal fuori venisse chiusa con una pietra, come successe, e nella stessa pietra furono incise le barre d’Aragona; e tale memoria fu guardata sin’agli ultimi giorni. Da poi il corpo fu gettato nell’alto mare; e così il Rè fu accolto tra gli evviva con tutto il seguito reale. Successivamente dispose, che in una lapide si fusse incisa la seguente iscrizione, che fu posta sopra l’accennata prima porta, ed ove esisté sin’all’anno 1660 Hospes Defunctum hic, ubi castellani fidem nemini ultrici Rex ipse Stricto in perduellum ferro Defunctum, et simul reddit infidum Et utrique Infido, et infidelitati Infidum dedit mare sepulcrum Arcis Arge Mercurio canente vigila ex jani templo aut clauso, aut aperto Horrentia Martis arma stringe A mortuo disce vivere, fuge mori Hoc tibi Regium diadema, claves, solidus adamas Nobili Aenariae stemma Stemmate isto induit. (Nota a margine: “Il penultimo verso divisa lo stemma della città d’Ischia, e manca nella copia, siccome mancano gli ultimi due versi”). Fra le carte del Signor Carlo Manso morto nel 1703 fu trovata la trascritta iscrizione ancora o da lui, o da altri potuta copiare, e così ne fu altra più distesa trovata. Hospes Defunctum hic, ubi castellani fidem Ferdinandus secundus ac fidelis Ischia vidit Nemini ultrici Rex ipse stricto in rebellem ferro Defunctum simul reddit infidum Et utrique Infido, et infidelitati Infidum reddit mare sepolcrum Arcis Arge Mercurio canente vigila ex jani templo Aut clauso, aut aperto Horrentia mortis arma stringe disce vivere, fuge mori Hoc tibi Regale diadema, claves, solidus adamas Nobili Aenariae stemma stemmate isto induit Non igitur ferro, non igne vi nulla effuso, nec sanguine toto Austriacae Aquilae data rumpatur fides Hinc Carolus de Manso Nobilis ejusdem civitatis Ad aeternitatis monumentum Majestati Catholici, ac invictissimi Hispaniarum Regis ultrice fide fidem fidit Anno Domini MDCXCII Il Rè Fernando dopo aver dimorato un mese nel Castello, considerando, che né appoggio, né più speranza poteva tenere su gli animi de’ suoi sudditi, e su la di loro fedeltà si dispose a partire, come effettivamente partì per la volta di Messina insieme cogli suoi cavalieri i più valorosi, e fedeli, e colla forza di 14 galere, ove giunse nel dì 20 marzo del medesimo anno 1497, ricevuto da’ Messinesi co’ segni di giubilo, di festa, e di gioia. Prima però di partire affidò il comando, e il governo del Castello coll’isola, come la real famiglia, e le tante famiglie de’ tanti distinti fedeli cavalieri, all’esperimentatissimo, fedele, e valoroso Cavaliere D. Innico d’Avalos marchese del Vasto, il quale mantenne, difese, e sostenne il Castello al suo Sovrano con intrepidezza, con valore, con saviezza, e con un ordine, e regolamento da sorprendere contro le potenti forze, e sforzi del Rè Carlo VIII, che essendo restato deluso, e molto dispiaciuto di non aver potuto soggiogare il solo Castello d’Ischia, avendo tutto il regno sottomesso, disse, e spacciò di volersi vendicare del detto marchese; perciò dispose di farsi subito venire da Genova, e da Provenza una grand’armata navale, e di quanti bastimenti si poteano radunare, ad unico oggetto di bloccare, e di assediare il Castello, e per ogni via, e mezzo sottometterlo. che passa il Liri, e tutto il regno prende senza mai stringer spada, o abbassar lancia, fuorchè lo scoglio, ch’a Tifeo si stende su le braccia, su’l petto, e su la pancia, che del buon sangue d’Avolo al contrasto la virtù trova d’Innico del Vasto. Udì, che gli dicea, che in questo loco di quel buon Cavalier, che lo difende con tant’ardir, che par disprezzi il foco, che d’ogn’intorno, e sin’al Faro incende. Pertanto l’invitto Marchese Comandante nulla contento di dimostrare la sua saviezza, e coraggio nel sostenere il Castello a sé affidato, volle far nota la sua bravura, e mandarla in effetto nell’aperto mare, e perciò s’imbarcò sopra alcune galere di sua disposizione, e girò per la costa della Capitale, e del regno, e sin’a Messina, impedendo a danno del governo francese tutto il commercio, nulla facendo conto delle forze di mare, e di terra, e diede assai da fare all’inimico. Egli però prima di partire lasciò il governo, ed il comando alla nobil donzella sua figlia Costanza d’Avalos, la quale in nulla inferiore al valore, sapere, e coraggio del padre seppe assai bene difendere, e sostenere il Castello; Anzi venendo il Castello assediato dall’armata navale di fresco giunta, si condusse con tanto buon ordine, vigilanza, e providenza, che stancò il nimico in maniera che fu costretto a tirare l’ancore, a levar l’assedio, ed a rimanere libero il Castello coll’isola, onde di tale valorosa, e savia dama si cantò … Priscas intermemoranda Camillas Peltiferae victura decus Costantia gentis. Cotal degno successo per centinaia d’anni in vigore di tradizione si mantenne vivo presso li vecchi, e le stesse donne. È in vero avvenimento ben degno di lunga, ed indelebile memoria, che un Padre, ed una figlia rispettivamente, in uno stato d’abbandono, di confusione, di rivoluzione, d’insurrezione, e senza il rappresentante del tutto si seppero tanto bene condurre, difendersi, e sostenersi! E pure difesero, e sostennero il Castello coll’isola, e lo conservaLa Rassegna d’Ischia n. 6/2013 27 rono al di loro Sovrano, che successivamente a Federico, e poi a Fernando il Cattolico. Si rileva ancora la fedeltà, l’attaccamento, e la buona condotta de cittadini, che influirono nel sostegno del governo in tempo di rovesci, e di rivoluzioni. Il Rè Carlo mentre faceva sì rapidi progressi, ed aveva con tanta velocità sottomesso l’intiero regno, a di lui danno si formò una potente lega delle sovranità italiane, e ruppero il passo a Carlo nel ritorno, ragion per cui Carlo quasi precipitosamente, e prima che la lega non si fusse ingrossata, e via rinforzata, partì dal regno con una parte dell’esercito, mentre un’altra parte destinò per difendere, e mantenere il regno alla propria soggezzione, e dominio. Fratanto Ferdinando II dopo consigliatosi bene col padre Alfonso in Messina, e coll’avviso, che avrebbe nelle vicinanze di Napoli incontrato con grande armata il Gran Capitano Consalvo di Cordova, partì da Messina con bastante forza, e veramente ritrovato Consalvo spedito dal Rè Ferdinando il Cattolico si pose in marcia, e si portò con tanto valore, e con tanta marziale condotta, che superò la forza francese, la discacciò dal regno con tutta sollecitudine, e si pose nel pacifico dominio, e possesso del reame, ed entrò nel suo regno con trionfo, e fu ricevuto con onore, e con somma gloria. Ferdinando dopo tale riacquisto si collocò in matrimonio, ma l’infelice giovine Principe mentre stava godendo la felicità del suo regno fu sorpreso da morbo, che lo portò a morte tra il fiore de verdi suoi anni, e fu sepolto in San Domenico Maggiore di Napoli colla seguente iscrizione. Ferrandum mors saeva diu fugit arma gerentem Mox positis, illum impia falce necat. An. D. MCCCCXCVI Federico zio di Fernando successe nel reame, Principe, e sovrano degno di questo, e d’altri regni per la sua saviezza, per il suo coraggio, e per la sua lodevole condotta, e prudenza, ma infelice, e sfortunato, per essere asceso alla reale dignità in tempo, che lo stato si trovava senza forza, ed in circostanze, che li baroni, e li sudditi venivano dominati da una certa volubilità, e non guardavano più la real persona del legitimo sovrano con quella costanza d’amore, e di attaccamento, che formare devono il carattere del vero suddito; e nella condizione, che siccome in pochi anni avevano osservate tante vicissitudini di diversi sovrani, e del regno, così stavano di già minando l’unione di due formidabili potenze, di Spagna, e di Francia, cioè de’ due Regnanti il Rè Fernando il Cattolico, e il Rè Luigi Duodecimo, collegate a danno, e pregiudizio del Rè Federico, e con intenzione di levarli il trono, e di dividersi il regno, come successe. Infatti per parte de due regnanti di Spagna, e di Francia pretendenti, o invasori, che avevano di già fatto il trattato per la divisione del regno in due eguali parti, si fece intimare lo sfortunato Principe Federico, che subito s’avesse eletto un luogo per sua dimora, e coll’espressa dichiara28 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 zione di uscire dalle provincie, e dal regno, facendoli in parole, e senza fatti un’assegnamento di trecento mila fiorini annui, che non erano affatto proporzionati per il mantenimento di un sovrano tanto rispettabile dimesso, e carico d’una real famiglia tanto numerosa. Federico dunque sottoposto all’altrui violenza si scelse il Castello d’Ischia, in cui si ritirò colla propia real famiglia, e colle Reali persone viventi discendenti da suoi Reali illustri parenti di già morti; dopo averci dimorato per poco tempo, non contenti gli accennati Rè di Spagna, e di Francia li fecero decisamente sentire che si fusse determinato a partire o per Aragona, o per Castiglia, o per la Francia. Quindi il savio sfortunato principe divenuto il bersaglio della rea fortuna, e di due ingordi invasori, ad oggetto d’evitare le ulteriori irreiterate violenze per sé, e per le persone reali si risolse a partire per la Francia, dove era stato educato, posponendo li stati di Aragona, e di Castiglia appartenenti a suoi parenti, i quali stimava come traditori, e come inimici del suo sangue. Parte l’infelice Real Principe tra la confusione, e sconsigliatezza, e si conduce in Francia. Cotale partenza non ben pensata viene riprovata da tutti gli istorici napolitani, perchè Federico doveva temporeggiare, e se fusse stato di bisogno mettersi nella difesa: mentre e li baroni, e Regnicoli realmente annoiati, e dispettati da Spagnoli, e Francesi, e dalle stesse scissure de medesimi, senza meno con tutte le di loro gran forze, e con gli animi di loro sinceri l’avrebbero effettivamente ricercato, l’avrebbero fatto ripigliare la Corona, ed avrebbero discacciato dal regno, e dall’Italia l’una, e l’altra nazione; e via più che Federico veniva amato per la nota sua saviezza, per la sua buona, e prudente condotta, e per saper governare, e distinguere; e così finì il sangue del grande Alfonso d’Aragona nella linea de’ regnanti di Napoli. Verso l’anno 1503 le rotture tra Spagnoli, e Francesi in maniera si avanzarono, che si divenne ad aperta guerra, ed a fiere battaglie. Gli spagnoli, i quali venivano regolati dal Gran Capitano Cordova, generale abile, capace, ed esperimentato ne’ fatti, e nell’armi di terra, e di mare, riportarono tali, e tante vittorie sopra li Francesi, che il rimanente fu costretto ad uscire dal regno, lasciandolo liberamente a Spagnoli. Ferdinando il Cattolico Rè d’Aragona, Rè di Sicilia, ed Amministratore di Castiglia diviene Rè di Napoli nell’anno 1503, e pacificamente trasmette a suoi Reali discendenti li due regni di Napoli, e Sicilia, i quali nella real persona di Carlo I Rè di Spagna, e V Imperatore di Germania, qual figlio della Regina Giovanna, figlia di Ferdinando il Cattolico, e di D.a Isabella la Cattolica possederono il reame d’essi due regni sin all’anno 1707. Da tale anno sin al 1734 passarono sotto il reale, ed imperiale dominio della Casa d’Austria. Nel 1734 l’Infante D. Carlo figlio di Filippo V Rè di Spagna con esercito poderoso riacquistò al Real Padre li due regni, e lo stesso li rinunciò all’infante Carlo, che divenne Padrone, e Rè de’ medesimi, i quali poi nell’anno 1759 dovendo passare al Reame di Spagna, rinunciò li suddetti due Regni al figlio il Rè Ferdinando, che li sta oggi possedendo pacificamente. (Nota margine: “A q. o General G. Capitano, e vicere Innico d’Avalos, nel dì 14 maggio, presentò le chiavi del Castello, ed indi la di lui figlia Costanza, la quale era al comando, cedè il Castello.” – “Barbarossa fu l’ultimo che in giugno del 1544 si volle provare con assediare, e pretendere d’assaltare il Castello d’Ischia, affine di vendicarsi, e di dispettare Alfonso d’Avalos marchese del Vasto, e di Pescara, il quale aveva forzato il Principe d’Enguien ad abbandonare Nizza, ed a far allontanare Barbarossa da tale luogo: ma il Castello essendosi ben difeso, e sostenuto, Barbarossa pieno di rossore, e di sdegno diede sopra Procida, dandoli il sacco, siccome fece anco per la costa, come aveva fatto per tutta Italia.”). Quel Castello cotanto riputato, e ricercato sin dalla medesima romana potenza, da cotanti Sovrani, e tanti Rè dell’estere nazioni, abitato da tante nobilissime famiglie, chiare, e risplendenti nelle guerre, e negli incontri, e nelle battaglie di mar, e di terra, e da un popolo sì numeroso, ora è divenuto sì derelitto, ed abbandonato, che siccome l’antica nobile città e terra, piena di palazzi, e di case è divenuto un mucchio, ed un ammasso di pietre, e ridotto a piccoli territori, così appena al presente è abitato, e guarnito da pochi Artiglieri, e da pochi soldati distaccati, li quali trattano sempre con diversi pretesti, ed appoggi lasciarlo, e dimorare in mezzo all’attuale abitato, che forma presentemente la città, e la comune d’Ischia, la stessa, che un tempo il Castello era nel di lui floridissimo stato, non era altro, che un sobborgo pieno di gelsi, d’orti, e di boschi. Il prefato Castello ha sofferto la disaccortezza, che de’ suoi onorati, e grandi uomini cittadini, li quali in ogni tempo si distinsero, e risplenderono ne’ fatti, e ne’ successi gloriosi di mare e di terra, e nella santità o poco, o nulla se ne scrisse, e se alcuna memoria ne fu scritta, non ci rimase carta da rilevarla, mentre niun cittadino, o naturale è stato tirato per il bene, e per il vantaggio della Padria, e per il di lei onore, e splendore; Almeno, che si fussero conservate quelle carte, le quali erano negli archivi, o ne’ scrigni di talune particolari famiglie, in dove effettivamente ce ne stavano. Le notizie, che ho dalla lettura potuto tirare relative alli gloriosi cittadini della città, e del Castello d’Ischia si raggirano circa il 12, il 13, il 14, e il 15 secolo. Liguoro Coscia nel 13 secolo era Comandante, Generale, e Padrone di navi. Stefano Coscia prestò tali servizi interessanti alla Corona, che ottenne un assegnamento da Carlo II di annue sei once d’oro su la bagliva d’Ischia, che poi il di lui figlio Marino l’ebbe avanzato dal Rè Roberto su la bagliva di Napoli sin’a quaranta in ogni anno; e questi comprò Procida da Adinolfo Salernitano, e ne fu il primo Signore. Giovanni Cossa Generale, Cavaliere borbontino, secondo Signor di Procida, Cittadino d’Ischia menò la di lui vita nel decorso del 14 secolo, e morì nell’anno 1388, e fu sepolto in un celebre mausoleo eretto dentro la cattedrale d’Ischia sita nel Castello, e fu Padre tra gli altri di tanti gloriosi figli nati nel Castello, tra i quali 3. di Gaspare Cossa de Signori di Procida, che colle sue galere liberò il Pontefice Bonifacio IX perseguitato da Romani, e liberò l’Italia dalle scorrerie de turchi, saraceni, e barbari a scorno delle potenze italiane; il quale fu Padre di quel Giovanni Cossa Conte di Troja, che fu sì prode, ed invitto contro Alfonso, e Ferdinando in favore della Casa Angioina, e che formò la casa Cossa in Angiò come Conte di Brisac, di cui si farà parola più appresso. Di Baldassarre Cossa Cardinale, e Vescovo d’Ischia, ed indi Pontefice sotto il nome di Giovanni XXIII. E di Marino Cossa, che fu Maresciallo, e Signore di Caliginario. La famiglia Salvacoscia cittadina del Castello, de Duchi di Bellante ebbe de’ grandi Ammiragli del Regno, de Giustizieri; di terra di lavoro, e del contado di Molise, del pari che li Generali, Buonavita, Biaggio, Novello Salvacosci li quali nel 13 secolo erano Padroni di galere. Pietro Salvacoscia nel medesimo secolo era Ammiraglio, e con cinque navi a vista del Castello ruppe l’armata de Napolitani, e s’impadronì di cinque navi con la priggionia dell’equipaggio; e quattro malconce si salvarono colla fuga. Borrello Assanco della famiglia Assanco fu il terrore de’ turchi, che prestò gran servizi al Rè di Cipro. (Baldassare Coscia diede onore al Castello d’Ischia per la via dell’ Ecclesiastico onde fu fatto Cardinale e Vescovo d’Ischia, ed infine Pontefice Giovanni XXIII. cancellato nel testo.) Antonio Bolgaro nel 12 secolo per la via d’una santa vita onorò il Castello. Giovan Giuseppe Calosirto lo decorò tra il 17, e il 18 secolo col grado della Santità dichiarata. Giuseppe Aniello de la Guardia lo sta onorando nella Real marina di Spagna, in dove ora sta servendo col grado di Brigadiere. Fernando Francesco d’Avalos fu quell’insigne Generale, in capite, che via più d’ogni altro gli apportò dell’onore,e della gloria, il di cui elevato merito, di cui fu decantato che in questo loco Nascer deve in quel tempo, e dopo poco (E ben li disse l’anno, e le calende) Un Cavalier, a cui sarà secondo ogn’altro, che fin quì sia stato al mondo. Più appresso se ne farà più lunga memoria. Le famiglie cittadine del Castello, e dell’antica città d’Ischia, le quali si distinsero nel Real servizio e nelle La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 29 armi; e che furono l’onore, il decoro, e la gloria del Castello, della città, ed indi dell’isola d’Ischia, e se ne ha memoria, sono le seguenti. La Coscia, o sia Cossa, è antichissima Cittadina. L’antica chiesa cattedrale sita nel Castello, che poi verso il 12 secolo divenne soccorpo d’una nuova cattedrale, conteneva una magnifica cappella collo stemma d’una coscia, e di tre sbarre. Gli monaci Agostiniani, di quelli dispersi nell’occidente prima d’istituirsi il di loro ordine, ebbero il sito per un monastero, e per una chiesa, siccome ebbero poi la di loro torre, che servì per formarsi il campanile, conservarono, siccome si conserva ancora, lo stemma di tale famiglia incisa in una pietra rozza; e tale sito sta nel luogo denominato Gelso. Nello stesso luogo, dove fu eretta la chiesa dello Spirito Santo ci era una grossa Cappella denominata Santa Sofia di padronato di tale famiglia, eretta per darsi il comodo a quella poca gente, e ad alcun marinaro dimorava in Gelso, ed a quelli marinari di quelli bastimenti d’essa famiglia; cotale cappella fin dal 15 secolo di già era profanata, e per la grande antichità s'era resa diruta. Taluno stima che essa famiglia venuta in Ischia e propriamente nel Castello sia di quel Cornelio Cosso dell’anno di Roma 297, che offrì a Giove Feretrio le spoglie del nemico Lolamnio; di Gn. Cornello Cosso Tribuno Militare nell’anno di Roma 353; e di L. Cornelio Cosso Console nell’anno di Roma 422. Altri poi vuole da Roma venuta circa il quinto secolo dell’era cristiana, all’orchè per l’incursione de barbari tante cospicue famiglie romane abbandonando Roma si ritirarono in quelli luoghi, in dove non venivano molestati, o pure si potevano difendere. Alcuni lumi alla posterità giunti fanno rilevare d’essere nel 12 secolo di già formata in uno stato assai illustre e florido la detta famiglia, ancorche dalle mentovate cappelle gentilizie si deduce d’essere molti secoli prima ben fondata, e radicata, e fu una di quelle che meritò uno de primi luoghi nel sedile di Nilo. Marino Coscia Cittadino d’Ischia fu il primo Signore di Procida, che comprò nell’anno 1340 da Adinolfo di Procida Signore Salernitano. Giovanni figlio di Marino fu il secondo Signor di Procida, che da Generale prestò diversi servizi. Lo stesso morì nel 1388, e fu sepolto nella chiesa cattedrale, e si li costruì un magnifico, e celebre mausoleo, stava sito sopra la porta maggiore: Li Vescovi nel modernare la cattedrale, e nel formare l’organo sopra la cennata porta, con biasimo ardirono diroccare si bella opera costruita, rimanendo alcune colonne ben intagliate, ed incise, ed al laterale della porta. Quest’urna nello scomponersi il mausoleo, e nel situarsi sopra certe colonne, dové essere dilingenziata con molta ricerca; e ciò non ostanti in Agosto 1809 all’orchè successero tante vicissitudini, e catastrofi nel Castello, e dalla malnata, ed ingorda gentaglia fu gettata a terra, e spezzata l’urna, pure tra le ossa fu trovato un’anello d’oro da dito, qual’ebbi occasione di vedere. 30 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Le colonne, e le statuette, che adornano l’attuale battistero della cattedrale fattosi costruire sono un residuo dell’accennato mausoleo. L’iscrizione sta riportata nel ragguaglio della chiesa d’Ischia. Questo celebre, e distinto Generale procreò in costanza di matrimonio con Cicciola Barile de Duchi di Monteriso, della razza del Pontefice Bonifacio 9, Petrino, Gaspare, Baldassarre e Marino, i quali furono la gloria del Padre, e de’ medesimi quantunque se n’è detta parola, pure successivamente se ne parlerà un poco più diffuso. Petrillo, o sia Pietro figlio di Giovanni fu il terzo Signore di Procida. Michele figlio di Petrillo quarto Signor di Procida fu colui, che non correndo troppo bene Ser Gian Caracciolo, s’allontanò dalla Regina Giovanna, e dalla Real Corte, e si unì con Alfonso d’Aragona; onde n’avvenne, che essendo egli cittadino potente d’Ischia, o sia del Castello si cooperò con tanta efficacia, forza, e destrezza, che fece venire nel 1423 il Castello sotto pieno dominio del lodato Alfonso d’Aragona, che verso la sera di sì felice giornata con la sua flotta pieno di contento, e di allegrezza si ritirò in Napoli in Castel Nuovo, e fu sempre attento a mantenersene il dominio, e fin’al 1443, in cui divenne Rè di Napoli. Pietro figlio di Michele, quinto signor di Procida, fu colui che fece conoscere al Rè Fernando II il mal’animo e la pessima intenzione di Giovanni Torella, che comandava il Castello d’Ischia come assoluto Padrone, e che voleva passare oltre; Finalmente a ragion veduta Fernando si ridusse a mettere in opera tutte le sue reali forze, onde acquistò il Castello coll’isola, e sfrattò dal regno il Torella, mandandolo in Catalogna vituperevolmente, e miseramente. Michele figlio di Pietro, sesto Signore di Procida ebbe l’investitura nel 1466: ma nel 1510 ne fece la cessione al suo figlio Pietro, ed a Michele suo nipote. Ebbe un altro figlio chiamato Giov. Vincenzio, che inteso assai nell’arte della guerra fu fatto Maestro di Campo dell’esercito del celeberrimo Prospero Colonna. Pietro figlio di Michele, settimo Signor di Procida. Egli avendo tenuto parola nel sedile di Nilo con Giovanni Battista Marramaldo famoso duellista, venne a fatto di duello col medesimo fuori porta nolana. Marramaldo non ostanti d’essere il primo duellista di quei tempi, d’una egregia disposizione di corpo, e di una seducente eloquenza, colla quale soleva ingannare, ed incantare il campione, riuscì a Pietro nell’atto del duello mandare a morte il Marramaldo. Michele figlio di Pietro, ottavo Signor di Procida, ne fu l’ultimo Signore, mentre sul pretesto d’aver favorito l’esercito Francese sotto la condotta di Lautrek li fu levata tale Signoria, la quale nel 1529 passò ad Alfonso Marchese del Vasto Castellano d’Ischia. Sicchè dopo 180 anni di possesso di Procida la famiglia Cossa nella persona d’esso Michele rimase solo Padrone del feudo di Vairano, con cui proseguì a mantenersi da rispettabile nobile cavaliere. Questa famiglia forsi verso il fine del 17 secolo si estinse, e nella persona dell’Arcivescovo di Brindisi, il quale come cittadino, ed erede della stessa fece una cessione d’una cappella, e di un certo dritto dentro la cattedrale, ed io ne lessi la scrittura== della stessa famiglia ne rimase in Ischia alcun ramo, ma nel detto secolo 17 pure s’estinse. Da quel tempo in poi no’ si è fatta più menzione di tale illustre famiglia. Di sopra si è accennato, che da Giovanni II Sig.r di Procida, oltre Petrillo primogenito, ne vennero tre altri figli Gaspare, Baldassare, e Marino. Gaspare Cossa de Signori di Procida formò un altro ramo, che fu assai più illustre, e fu quello de’ Conti di Troja. Egli al comando di due propie galere, e di altre due a spese del Pontefice Bonifacio 9 suo parente sostenne, e difese esso Pontefice, il quale era perseguitato da’ Romani, che fecero delle varie congiure; ed egli fu che discacciò dalli lidi d’Italia li turchi, i quali riunivano, ed assassinavano le coste maritime, e li riuscì de renderle libere, e metterle nel commercio a scorno delle potenze italiane. Giovanni Conte di Troja, figlio di Gaspare, e nipote di Giovanni II Signor di Procida si rese celebre, e famoso per il valore, per la grandezza d’animo, e per l’eccessiva fedeltà verso Renato suo Sovrano. Era il Comandante del Castel Capuano, quando Alfonso Rè d’Aragona, e Sicilia divenne Rè di Napoli, e circa il 1443, e si trovava nel Castelnuovo, affine di fare ivi presente a Renato lo stato infelice di quel Castello, e per essere all’intutto sprovvisto di vettovaglia: Intanto ebbe la destrezza d’uscire dal Castelnuovo, e d’immettersi nel Castel Capuano, e di ottenere da Alfonso, e dal Generale Giovanni Caraffa una tregua, quantunque ben sapevano l’infelice condizione e tutto di quella guarniggione. Intanto Renato si determinò ad uscire da Castelnuovo, imbarcarsi su la flotta, e tirare per la Toscana: mentre era in Firenze seppe, che il Castello di S. Eramo aveva capitolato, ed il Castelnuovo era vicino a capitolare, disse a Giovanni, che l’aveva seguito, di rendere il Castel Capuano colla condizione, che Alfonso doveva tenere riguardo al medesimo, ed a tutti quelli, che l’avevano seguito; Per cui Alfonso lasciò uscire libera la famiglia di Giovanni, la guarniggione, e tutta la robba: Indi Giovanni non volle rimanere in Napoli, e con la perdita de’ di lui si ritirò presso Renato in Provenza; tutto ciò nel 1443. Il Duca Giovanni figlio di Renato nel 1459 partito per governare Genova a nome del Rè di Francia, concepì di voler ammanire un’esercito, ed un’armata navale per conquistare il regno di Napoli, e ne venne a capo: Allora Renato li diede per guida, direttore, e consigliere Giovanni Cossa; In fatti il Duca Giovanni arrivato nel Regno coll’esercito li riuscì dare in Sarno una totale rotta a Fernando I figlio d’Alfonso. Quindi Giovanni Cossa esperimentato nella condotta di guerra subito diede il consiglio di darsi sopra Napoli, ma come che Giov. Ant. Orsino Principe di Taranto fu di sentimento di darsi sopra la provincia, il duca Giovannu aderì al sentimento del Principe, e non di Giov. Cossa, onde diede tempo, e comodo a Fernando di rimettersi, e di ristabilirsi in forze, che il Duca venne a perdere ogni speranza di poter acquistare più il regno, stante le sue forze s’indebolirono, ed il primo, che principiò a perdere, il quale si alienò, fu il prefato Principe. Giovanni Cossa vedendo, che il Duca non seguiva li di lui buoni consigli, si ritirò nel Castello di Troja di lui feudo per difendersi, e sostenersi, siccome valorosamente si difese, e si sostenne contro Alessandro Sforza, che l’assediò; e contro le gran forze dello stesso non si potè per altro tempo sostenere, venne ad onorata capitolazione, e si rendè con tutti gli onori militari. Dappoi Giovanni essendosi presentato al Rè Fernando, fu accolto con distinzioni e con lodi, che fu ben vero impegnato a rimanere nel regno col possesso di tutti li di lui beni, e cogli onori, siccome si li promise la reale grazia: ma egli non volle accettare l’invito, e si ritirò in Francia, in dove meritò gli elogi di tutti, e specialmente della Signoria Francese, come quelli del Duca Rè Renato, e del Rè Luigi. Tale famiglia sotto il cognome di Cossé si radicò in Francia, ed ebbe lo stato di Brisac nel ducato d’Angiò; che in appresso detto stato fu dichiarato di real novo ducato, e pari. Monsignor di Brisac tanto celebre nelle guerre d’Italia, e di Francia era di detta famiglia. Giovanni e per li di lui meriti, e per la di lui gran nobiltà era presso Renato in tanta stima, e venerazione, che il suo figlio Duca Giovanni pretendente la corona d’Aragona per li dritti della madre, situato ne primi posti di Francia, de Reali, e parente strettissimo del Rè Luigi, avesse preso per moglie, come prese, la figlia d’esso Giovanni Cossè. Il Duca Giovanni poco dopo partito da Napoli, e dal Castello d’Ischia, e poco dopo del matrimonio contratto invitato dagli Aragonesi a riceversi la corona d’Aragona, ivi arrivato o per mancanza d’aria, o per altra maligna causa nel fiore della sua età se ne morì, onde appresso gli stati passarono alli Rè di Francia. Da Giovanni Cossa II Signor di Procida, ne venne Gaspare, dal quale uscì Giovanni Conte di Troja, ed indi Signore di Brisac nell’Angiò, segue Carlo Cossé denominato Maresciallo di Francia, Maresciallo di Brisac fu noto, e celebre in specie nelle guerre di Napoli, e del Piemonte, e soprattutto nell’assedio di Perpignano del 1541. Difese, e sostenne nel 1543 Landrecj contro Carlo V, di cui disfece ancora la retroguardia nel levarsi l’assedio, e battè 2000 inglesi vicino a Calé, e morì in Parigi nel dì 31 dicembre del 1563. Veramente Carlo nacque da Renato Cossé, e Renato dovè nascere o da Giovanni o da un figlio di Giovanni. Questo Ramo lasciando la nomenclatura degli antichi Giovanni Cittadini d’Ischia, si insignì del nome di Renato in memoria di quel Principe che amò tanto Giovanni de Conti di Troja, e beneficò. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 31 Carlo Cossé figlio secondogenito del precedente, duca di Brisac, Pari, e Maresciallo di Francia, fu quello che essendo Governatore di Parigi nel 1594, nel dì 22 marzo la diede al legittimo Sovrano Arrigo IV; e morì in Brisac nel 1621. Timoleonte Cossé Conte di Brisac altro figlio di Monsignor Colonnello delle Truppe del Piemonte morì nell’assedio di Snucidad nel Perigord con una casuale archibugiata. Brandone, e ‘l Sigr de Thon ne fanno delle lodi. Arto Cossé (nota a margine: “Questo è un nome di un gran Principe di Normandia per quanto mi ricordo) figlio di Renato, Maresciallo di Francia, e Signore di Gonnor nell’Angiò, e della Casa di Brisac, prestò gran servizi alli Rè di Francia, ed in particolare ad Arrigo III, che era prima duca d’Angiò. Morì in Gonnor a 15 Gennaro del 1582: Brandone ne fa parola. Filippo Cossé altro figlio di Renato fu Grand’elemosiniere di Francia, e dotto Vescovo di Costanza. Ludovico le Roi a di lui impegno scrisse la vita di Budeo: Protesse, e garantì li letterati. Tale Ill.a, ed Ecc.te famiglia nel 1750 esisteva con splendore, ed il Marchese dell’Opidal Ambasciatore di Francia ne diede contezza in Ischia. Baldassarre Cossa altro figlio di Giovanni II Signor di Procida, e fratello di Gaspare, per li suoi talenti, e gran meriti in tempo di pace, e di guerra, che per la scienza dell’uno, e dell’altro dritto, fu eletto Cardinale da Bonifacio IX Pontefice, e dappoi nel 1410 immediatamente dopo la morte del Papa Alessandro V in Bologna avvenuta, in essa città fu del concilio di XVI Cardinali prescelto, e fatto Pontefice, e si pose il nome di Giovanni XXIII (forsi intendendo onorare il nome del Padre); e vero che in appresso per il gran bene, e per la totale quiete della Chiesa cattolica dovè rinunciare al Ponteficato, per così dare un’esempio a due, che allora, e nel tempo di Giovanni erano Antipapi, e veniva la cristianità scissa, e turbata, tutta volta rimase coll’onore di Cardinale Decano, e cotanto stimato dal Pontefice eletto nel Concilio di Costanza e dall’Imperatore. Egli dopo la sua rinuncia si ritirò in Firenze, dove non a lungo se ne morì, lasciando de beni, e del gran contante, onde tal morte molto influì nel rendere maggiormente ricca la Casa Medici. Nel tempo del Cardinalato tenne in commenda ancora il vescovato d’Ischia. L’iscrizione sulla di lui sepoltura si è rapportata tra le notizie della Chiesa d’Ischia. Egli dopo aver fatto gli studi in Bologna, nel partire per Roma fu dimandato, dove se ne andasse, e rispose, a farmi Papa. Marino fu il quarto figlio di Giovanni II, fratello di Gaspare, e di Baldassarre, fu Maresciallo degli eserciti del Regno di Napoli, e Signore di Caliginario; e ciò si rileva da un diploma del 1398. Nel tempo che nel Castello, o sia nella città d’Ischia viveva, risplendeva, e dominava la famiglia Coscia, o sia 32 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Cossa, colma di Signorie, di beni, di ricchezze, e di gradi, e d’onori militari di terra, e di mare, viveva, dominava, e risplendeva La famiglia Salvacoscia (salvacosci, e Salvacossa), de Duchi di Bellante, i quali erano stati e Ammiragli del Regno, e Generali, che Giustizieri di terra di lavoro, e del contado di Molise. Buonavita, Biaggio, e Novello Salvacosci a tempo del Rè Carlo I erano Padroni di Navi, e di Galere. Pietro Salvacossa viveva nel tempo di Carlo I, e di Carlo II, ed era padrone, e Comandante di navi, e di galere. Nel tempo di Federico Rè di Sicilia egli mantenne a divozione, e dominio del medesimo contro li Rè di Napoli il castello, e l’isola d’Ischia. Quando la potenza di Carlo II, e de’ cittadini di Napoli con nove navi da guerra ben corredate, equipaggiate, e munite di soldatesca si drizzò verso l’isola per invaderla, e sottomettere il Castello, Pietro si trovava nel mare d’Ischia con cinque navi: A tale vista si fece in alto mare, si pose in atto di battaglia, diede di sopra all’armata inimica, ed in tal modo regolò l’azzione navale che prese cinque navi, e fece gran priggionieri di guerra, oltre degli altri, che morirono; e di altre quatto malconce si salvarono colla fuga. Lo stesso disponeva, e dominava in modo il Castello, e l’isola, che non vedendosi ben corrisposto da Federico, passò col Castello, e l’isola al servizio di Carlo II; e perchè era valoroso, ed inteso assai nell’arte della guerra soprattutto di mare, fu fatto da Carlo Vece Ammiraglio. Intanto fidandosi del suo valore, e della sua fortuna, all’orchè il Prenze figlio di Carlo II partì con grande armata ad oggetto di acquistare la Sicilia, si fece trasportare per seguirlo; ed il fatto fu, che il Prenze in terra fu rotto, e fatto priggioniere, ed anco lui fu preso, avendo dovuto tenere l’audacia di calare a terra. Fu posto in consiglio di guerra, e soffrì la sentenza di morte. La famiglia Bolgaro è una dell’antiche famiglie Cittadine del Castello d’Ischia, nobilissima e per l’antichità della prosapia, e per l’offici nobili, che esercitò; ed era guarnita del titolo di Conte; L’iscrizione di Antonio Bolgaro del 1201 stava nella Cattedrale d’Ischia dà qualche idea dell’antichità della stessa; siccome lo stemma, che si vedeva in un’antica cappella sita nell’antica chiesa vescovile, la quale era gentilizia della famiglia Coscia, e di altre due famiglie. Marino Bolgaro siccome per la sua potenza, e per la sua esperimentata condotta fu mandante, e Governatore del Castello, così sostenne, difese, e mantenne l’isola, e il Castello alla divozione, e dominio di Federico contro le forze di Carlo I, e II. Egli nel governo, e comando fu ancora compagno di Pietro Salvacoscia. La famiglia Assanen, detta pure Assanti è ancora delle antichissime cittadine, e nobili del Castello d’Ischia. L’iscrizione stava nella cattedrale divisava la nobiltà, e la Signoria della stessa. Hic jacet nobilis vir Dominus Joannes Assanens de Iscla quondam Insulae isclanæ Dominus, qui obiit anno domini MCCCXL. Marullo nell’istoria de’ G. Maestri di Malta fa menzione di Borrello Assante, o sia Assaneo, che per li gran servizi prestati al Rè di Cipro, e per li gran consigli datili contro la potenza turca, aveva ricevute nell’Arcipelago diverse Signorie. La famiglia Mellusi è benvero dell’antiche cittadine, e nobili del Castello: Essa oltre de’ gran beni possedeva in mezzo, e nel miglior luogo del Castello un celebre palazzo, che poi divenne Reale, e per uso de’ Rè, quando venivano a dimorare in Ischia. In un diploma del 9 secolo che si conservava nel monastero di D.a Alvina si faceva parola del Conte Mellusi d’Ischia. Il ceppo di tale famiglia sembra essere rimasto senza maschi, ed eredi, verso la fine del 15, e principio del 16 secolo; mentre in tale tempo essendoci due donne, passarono a mariti con due Notari di buone, e cospicue famiglie, le quali si divisero la ricca eredità, e si formarono due famiglie, la Calosirti, a cui pochissimi beni sono restati, e l’Astolfo Grimaldi, estinta. La famiglia Magnozia era ancora Cittadina del Castello, e potente tanto, che a tempo di Alfonso d’Aragona teneva alla di lei divozione la mettà degli abitanti, in modo che Michele 4 Signore di Procida, affine di far divenire Alfonso Padrone d’Ischia nel 1423, dovè usare tutte le destrezze, acciò li Magnozi addetti, ed attaccati alla Regina Giovanna, non l’avessero percepito; ed all’improvviso, e senza prevenzione avvenne di darsi sopra al Castello, ed impadronirsi per la parte di Alfonso. (Nota a margine: - Hic jacet corpus venerabilis viri Cicci Magnotiae de Iscla qui obiit a.D. MCCCC) Ci era nel Castello altra famiglia nobile, di cui si legge iscrizione verso il 1306 apposta in un risplendente tumulo sito dentro la Cattedrale. Dux jacet hoc Felix tumulo vocitata Beatrix Cum nato Domino Isclae, Comiteque Marino, Qui legit hoc metrum, sciat, et sub marmore Petrum Natum Felicis genti dictae Beatricis, Hoc fieri jussit Felix Comitissa Beatrix Oltre le divisate nobili famiglie, ci erano nel Castello negli antichi tempi altre nobilissime famiglie, delle quali in carte manoscritte, memorie, e forsi anco tirate dalla tradizione, erano notate le seguenti. Buonomma, Galiziana, Lambarti, Marziale. Forsi tutte estinte. Afflitta, Navarra, Capece, Pappacoda passate altrove, e nella dominante. Pesce, Arcamone, Agnese, Mormile, passate nella Ca- pitale; se anche delle medesime rimasti alcuni piccoli Rami, specialmente ne distretti dell’attuale città, e del Casale di Testaccio, esistono con tali cognomi molte famiglie, che sono tutte ridotte alla miseria; all’infuori della Mormile che dopo la mettà del secolo 17 si estinse: Abbensì l’ultimo D. Agostino Mormile Canonico lasciò molti beni stabili, e territori, e ne chiamò erede la chiesa dello Spirito Santo d’Ischia, che se ne pose nel possesso. Esisteva ancora nel medesimo Castello la nobile famiglia Talericia, oggi detta Talercio, e Taliercio della quale la seguente iscrizione si leggeva nella Cattedrale. Haec Capella edificata, et dotata fuit per nobilem virum quondam Bernese Taliaricium ubi jacet. Hic jacet corpus nobilis viri Antonii Talerci, dicti Imbriaci, et filiorum qui obiit An. D. MCCCC. In Cathedrali In Capella Annuntiatae Nella Cattedrale, e nella navata a mano dritta esisteva tale Cappella, e propriamente nel fondo, e con pittura continente l’ Annunciata, e Santa Caterina. Gli ultimi Cossa vantarono dritto sulla detta Cappella di S. Catarina. Famiglie di distinti Galantuomini esistevano ancora nel Castello, ove tenevano de’ Palagi, e che passarono ad abitare specialmente in Napoli, ed erano, come sono, la Mascanbruno, la Sebastiani, e la Mascolo; Di chi nell’attuale città rimase rampollo, che vive coll’esercizio delle braccia. Quello che in primo grado ha recato maggiore onore, maggiore fama, maggior nome, e maggiore considerazione al Castello, alla Città, ed all’isola d’Ischia fu la fortunata, e felice nascita in esso Castello di Fernando Francesco d’Avalos Marchese di Pescara nel decorso del 1495. All’orchè il Rè Fernando II fu nella dura, e critica condizione di abbandonare la Città, ed il regno di Napoli, attesa la veloce, violenta, e rapida forza di Carlo VIII, e di ritirarsi nel Castello d’Ischia, ad oggetto di tenere, e d’incontrare un sicuro asilo, e ricovero, e di osservare, e sentire in esso lo stato, le mosse, e le determinazioni de’ suoi sudditi, e delle sue piccole forze, seco condusse, e su la sua armata diverse nobili famiglie, e tra le altre ci fu la famiglia di Alfonso d’Avalos Marchese di Pescara, che allora si trovava Governatore, e Castellano di Castel nuovo, e tra essa famiglia ci venne nel Castello la moglie del nomato Sig.r Marchese di Pescara. La prefata Marchesa (nota a margine. “D. Ippolita Cardona erede del M.to di Pescara) moglie di Alfonso nel decorso del divisato anno 1495 onorò l’enunciato Castello con dare alla luce un Bambino, a cui fu imposto il nome di Fernando Francesco d’Avalos, il quale tra gli pochi anni della sua gloriosa età divenne il decoro, l’ornamento, il modello, e l’esemplare de veri valorosi, savi, e prudenti Generali, e Condottieri di grandi armate. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 33 Fernando Francesco d’Avalos fu quell’illustre, eccellente e glorioso Eroe, che divenne uno degli de’ celebri pensieri, e de famosi obbietti della penna divina dell’immortale Ariosto, e fu causa, che lo stesso divino Autore avesse reso nel mondo il nome del Castello, e dell’Isola d’Ischia degno di una onorata memoria, e considerazione. …………………. che in questo loco ……………………………………….. Nascer deve in quei tempi, o dopo poco (e ben li disse l’anno, e le calende) un cavalier a cui sarà secondo ogn’altro, che fin qui sia stato al mondo. Non fu Nereo sì bel, non sì eccellente di forze Achille, e non sì ardito Ulisse Non sì veloce Lada, non sì prudente Nestor, che tanto seppe, e tanto visse, Non tanto liberal, tanto clemente l’antica fama Cesare descrisse; che verso l’uom che in Ischia nascer deve Non abbia ogni lor vanto a restar lieve. E se si gloriò l’antica Creta Quando il nepote in Lei nacque di Celo, Se Tebe fece Ercole, e Bacco lieta, Se si vantò dei due gemelli Delo; Né quest’isola avrà da starsi cheta, che non s’essalti, e non si levi in cielo Quando nascerà in Lei quel gran Marchese che avrà sì d’ogni grazia il Ciel cortese. Ariosto c. 33 str. 27,28,29 D. Innico d’Avalos, figlio di D. Roderigo Gran Contestabile di Castiglia venne nel regno col Rè Alfonso I d’Aragona; e fu dal Rè Fernando I creato G. Camerlengo, e G. Camerario. Prese per moglie Antonia D’Aquino Figlia di Gaspare, e procreò Scipione, Innico, Martino, Roderigo; e Costanza, (nota a margine: “l’istorico ha dovuto far’errore, perché Costanza deve essere figlia d’Innico, figlio di Rodarigo) la quale in vece del Padre comandò saviamente, e valorosamente il Castello d’Ischia, e nello stato di zitella (che poi moglie di Federico del Balzo Principe d’Altamura), lo sostenne contro l’assedio dell’armata di Carlo VIII, (nota a margine: Il Gen.le di lei Padre nel dì 14 di Maggio del 1503 presentò al G. Capitano Cordova Vicerè le chiavi del Castello, ed indi Costanza) ed indi gloriosamente, e con pienezza di nome immortale lo cedè al G. Capitano Consalvo di Cordova come legittima persona di Fernando il Cattolico Amministratore delle Castiglie, e Rè d’Aragona discendente dal Rè Alfonso. Di questa dama si è fatta altrove degna memoria; Come nacque Beatrice moglie del Marchese di Vincevano dallo stesso D. Innico. Scipione procreò Alonso; Alonso prese per moglie Ippolita Cardona, che con essa portò la bella eredità del Marchesato di Pescara. Da questa felice unione venne alla luce il cotanto celebre, ed immortale Fernando nato nel Castello d’Ischia nel 1495, e che morendo dopo poco 34 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 il 1525 senza lasciare figli dalla cospicua, savia, e letterata Dama D. Vittoria Colonna, chiamò erede del Marchesato di Pescara il suo cugino Alfonso Marchese del Vasto figlio d’Innico. Fernando dunque nella sua giovanile età divenuto dotto nelle scienze, che dottissimo, ed esperimentato nella scienza, e nell’arte della guerra, fu da Carlo V Imperatore fatto prima Gran Ciambellano, del Regno di Napoli, ed indi investito della dignità di Generalissimo delle armi Imperiali, ed era in vero egli il primo Capitano dell’Europa, e dell’Asia. Egli appunto fu, che stando in Pavia alla vista del Rè di Francia Francesco I, e del di lui esercito, e ruminando il modo di riportare su lo stesso una compita, e segnalata vittoria, dispose d’unita al di lui cugino Alonso Marchese del Vasto, che in una notte l’armi imperiali quasi all’improvviso avessero date di sopra all’esercito Francese comandato dallo stesso Rè; e per la via, e per il mezzo del buon’ordine riuscì in tale maniera disordinarsi, e sottomettersi l’esercito Francese, che il Rè Francesco rimasto solo, abbandonato si pose in una condizione di validissima difesa, acciò niuno dell’esercito imperiale si li fusse accostato, mentre o l’avrebbe ammazzato, o finalmente non potendo sottrarsi dalla forza, e dalla violenza, si sarebbe colla propia spada impugnata ucciso. Infatti diede gran pruove del di lui marziale valore, e della sua bravura, uccidendone molti, come uccise il Cap.n D. Ferrante Castriota marchese di Civitad S. Angelo, che audacemente con stocco sfoderato pretese accostarsili, e farlo prigioniere; A tal’incontro il Rè li dà su la testa un fatale colpo di spada, che l’apre l’elmo, e l’ammazza: ma come la soldatesca voleva invaderlo, e violentarlo, ed egli s’impugnò sotto il petto la spada; ed un tal Giovan Battista Castaldo, che aveva una volta il Rè servito, se l’accostò inginocchiandosi, e con rispetto, e buon dire fece così conoscere al Rè il suo pericolissimo stato, che il Rè pronunciò, che in esclusiva del Generalissimo Lanoja Fiamengo, del Generale Borbone Francese suo disleale, e di ogni altro si fusse chiamato, e fatto venire Fernando d’Avalos, a chi si sarebbe dato per vinto. Quindi Fernando mentre stava medicandosi una piccola ferita ricevuta tra la zuffa nel viso, subito si vestì di nero, e si presentò al Rè Francesco, il quale li fece il massimo degli onori, alzandosi, e dicendoli che l’Imperatore si poteva riputare Beato per aver tenuto la sorte di un sì valoroso Capitano; e si li diede priggioniero. Il Rè di Scozia, e il Rè di Navarra ii questo fatto d’armi furono fatti anco priggionieri. Francesco fu condotto a Pizzighettone, e Fernando non lasciò mai di starli vicino, e prestarli tutti gli ossequi, che si dovevano a sì gran Rè. Il Generalissimo in quella guerra Lannoi dispettatosi, e dispiaciuto della compiacenza, e dell’amore del Rè verso Fernando, pensò di mettere in opera tutti gli artifici, acciò senza saputa di Fernando seco fusse condotto in Madrid, come avvenne, dandosi il fiamengo il pravo gusto di far mostra di trionfo coll’entrata di Francesco; della di cui mossa, ed azzione s’intese tanto offeso Fernando che invitò a duello Launoja, il quale non essendosi fidato accettare, ed a parole, ed in scritto Fernando lo trattò da vile, e lo pubblicò con carico di villanie, e d’ingiurie. Quindi fu, che il Launoja godendo la grazia dell’Imperatore, principiò a dare de’ forti carichi a Fernando, tra gli altri, che essendosi fatto un concerto fra il Pontefice Clemente VII, e le potenze assolute d’Italia di conferirsi il Trono, ed il regno di Napoli a Fernando, egli si opinò d’averci assentito, e quantunque l’Imperatore si dichiarò di non poterlo credere, e di non crederlo, per tutta volta si osservò, che Fernando qual’altro Ulisse in forze di corpo s’ammalò in Milano, e tanto, che nel fiore de’ suoi anni se ne morì, e prima dell’età di trentadue anni. (Nota a margine: “Se Fernando veramente morì verso il fine del 1525 dovè morire in età di anni 30 a 24 nov.) Il cadavere di quel grand’ Eroe degno dell’immortalità fu trasportato in Napoli e fu seppellito in San Domenico Maggiore. Fernando fu dotto, e fu Poeta, e protesse, e beneficiò li letterati. Essendo stato fatto prigioniero nella battaglia di Ravenna nel 1512, ed in età di 17 anni compose un bello, ed ingegnoso Poema dell’Amore, e lo dedicò alla sua sposa. Il Launoja pieno di perfidia, e di mal talento ritornandosene in Napoli a ripigliare la carica di vicerè, fu accompagnato da Alfonso d’Avalos, il cugino di Fernando; e il fatto fu, che Launoja non passò Aversa, dove s’infermò, e morì, correndo all’ora voce d’essere morto avvelenato, giusta controcambio, che si li corrispose. Tutto il padiglione del Rè Francesco passò nella Casa d’Avalos in segno di puro onore, in dove si conservò con tutti li componenti. Del successo di Pavia così venne cantato Così per colpa de’ ministri avari, e per bontà del re, che se ne fida, sotto l’insegne si raccolgon rari; quando la notte il campo all’arme grida che si vede assalir dentro i ripari dal sagace Spagnuolo, che colla guida di due del sangue d’Avalo ardiria farsi nel Ciel, e nell’inferno via. Vedete il meglio della nobilitade di tutta Francia alla Campagna estinto, vedete quante lance, e quante spade hanno d’ogni intorno il re animoso cinto: Vedete, che il destrier sotto li cade né per questo si rende, o chiama vinto, ben ch’a lui solo attenda, a lui sol corra lo stuol nemico, e non è chi il soccorra. Il re gagliardo si difende a piede, e tutto dell’ostil sangue si bagna, ma virtù al fin a troppa forza cede. Ecco il re preso, eccolo in Ispagna, et a quel di Pescara dar si vede, et a chi mai da lui non si scompagna, a quel del Vasto le prime corone, del campo rotto, e del gran re prigione. Ar. c.33, str. 51 a 54 Non si può negare, che l’Imperator Carlo V si conduceva co’ segni, e con procedura di far’intendere che aspirava ad una monarchia universale: Indi li regnanti di Europa stando in guardia, le potenze d’Italia d’unita al Pontefice effettivamente avevano fissati gli occhi sopra Fernando d’Avalos, come quel campione, che essendo dotato, e fornito di tutte le qualità, che formano un grande uomo, un gran Cavaliere, ed un grand’eroe: Onde quel Rè di Napoli, e per Capo, e General direttore delle forze d’Italia avrebbe potuto mettere freno alla gran potenza, ed alli grandi eserciti di Carlo V. Ma Fernando, anco col savio consiglio della sua prudentissima consorte non vi prestò il menomo ascolto, o consenso: tutta via però, ciò non ostante l’onore della milizia, e degli eserciti finì di vivere. L’Ill.a, ed Ecc.ma Famiglia d’Avalos dal 1495 a tutto il 1734 si mantenne al comando del Castello, e dell’isola con un quasi mero, e misto impero, non solo mettendo li veci comandanti militari nel Castello, ma benvero per lo stesso, e per l’isola li Giudici, che solevano chiamarsi capitani, ad oggetto di esercitare la giustizia nelle vertenze, ed occorrenze civili, e criminali. Il Governatore, e Comandante del Castello teneva la giudicatura ancora in grado d’appello, e si diceva di giudicare le seconde cause. Nella ricorrenza d’essersi Carlo figlio di Filippo V impadronito de’ due regni di Napoli, e di Sicilia, e fatto Rè, nel divisato anno costituì, e destinò nel Castel nuovo Comandante militare, come per la giustizia civile, e criminale, il Giudice; che poi ebbe il nome, e facoltà di Governatore, e Giudice. Si levò pure la milizia, e guarniggione de paesani giusta gli antichi privilegi, e disposizioni di Fernando II, che guarnivano, e difendevano il Castello, e si destinò per tale guarnigione la truppa di linea, che al n.ro di sessanta circa mensualmente veniva distaccato, e finì per il Comandante, e Governatore militare benvero la giudicatura, e decretazione in grado d’appello, e delle seconde cause. La medesima Famiglia coll’occasione di trovarsi al comando del Castello, come dell’isola, nell’anno 1529 ed anco a riguardo della vittoria di Pavia divenne Signore di Procida, per aver perduta tale Signoria Michele per l’imputazione datili d’avere favoriti li Francesi in tempo di Lautrek. Se non chè la dovè poi cedere il marchese del Vasto al Rè Carlo di Borbone, in di cui vece ottenne un’equivalente Padronanza e feudo. Il Guicciardini loda la fedeltà di Alfonso, e d’Innico La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 35 d’Avalos, e li loda come uomini amendue di virtù, e di egregia fede il di loro Sovrano. (nota a margine “a 9 Gen. 1543 fece levare l’assedio di Nizza al Principe d’Enguien, onde Barbarossa dispettato in giugno 1544 diede sopra Ischia per pigliarsi il Castello, ma no’ essendoci potuto riuscire, passò a dare il sacco a Procida. Egli fu un Gran Generale e Grand’uomo di Stato che nel 1540 essendo Ambasciatore in Venezia fece trucidare Cesare Fregoso Gen.se e Antonio Rincon Spagnolo, mandati da Francesco I in d.a città. Seguì Carlo V nella spedizione di Tunisi, morì l’ultimo di marzo del 1546 a 46 anni.) Alfonso figlio di Innico ebbe per moglie Maria d’Aragona: Egli fu Marchese del Vasto, e di Pescara. Francesco Fernando di Alfonso Marchese di Pescara fu Vicerè di Sicilia. Ebbe per moglie Isabella Gonzaga di Mantova. Alfonso Marchese di Pescara, e Tomaso d’Avalos Figli. Vittoria Colonna Dama dotta, atta a regnare, prudente, e Poeta dopo la morte del di lei amato sviscerato consorte Fernando Francesco invitto Marchese di Pescara si ritirò nel Castello d’Ischia. In tale dimora Bernardino Rota famoso Poeta di quel tempo fece diverse composizioni in di lei lode: L’aria non giovandole, se ne passò in Roma, ed indi si condusse in Milano; e lasciando il mondo, si ritirò nel monastero di S.M., dandosi all’intutto, e pertutto alle applicazioni scientifiche, e dove morì nel 1542. Ella quantunque rimase giovinetta, dimostrò l’amore che conservava verso il consorte Fernando, non volendo, e rifiutando di passare a seconde nozze; Anzichè pose su le di lei vesti il segno significante, che il di lei amore verso il consorte non sarebbe mai morto, ma sarebbe stato sempre vivo; e ad effetto di coronare la di lei amorosa memoria, compose un poema, nel quale, si occupò a descrivere le più belle azzioni, e le più gloriose gesta del medesimo. Compose in prosa un libretto col titolo Pianto della Marchesa di Pescara sopra la passione di Cristo, siccome un’orazione fatta in un Venerdì Santo, ed altra orazione sopra l’Ave Maria con tre sonetti. Tomaso Musconio insigne poeta la preferisce a Porzia Non vivam sine te mi Brute, exterrita dixit Porcia, et ardentes sorbuit ore faces; Davale, te extincto, dixit Victoria, vivam Perpetuo moestas sic dolitura dies. Utraque romana est, sed in hoc Victoria majot; Perpetuo haec luctus sustinet; illa semel. 36 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 La celebre e più che rinomata Maria d’Aragona dopo la morte del di lei consorte Gran Generale, e luogo Tenente delle armi imperiali in Italia (cugino di Fernando) E Marchese del Vasto, e di Pescara avvenuta nell’anno 1546, ben vero si determinò a ritirarsi nel Castello d’Ischia, dove si ritirò, ed in cui per tal causa accorse quantità di personaggi distinti d’Europa, mentre Maria era una dama cospicua, dotata di rara dottrina, e di rara bellezza; Infatti Brantone sincero, e critico scrittore di quel tempo attesta, che la di lei bellezza fu appunto quella, che durò lungo tempo, ed il di lei autunno sorpassava tutte le primavere delle più belle donne dl mondo, in maniera che essendo nell’età di sessant’anni innamorò il Gran Priore di Francia; ed il Guano nella di lui eccellente istoria enuncia, che per l’occorrenza della prefata dama, e della di lei dimora nel Castello d’Ischia l’isola d’ischia divenne di principale considerazione per essere stato il luogo del ritiro della medesima: Essa Signora però dopo lungo tempo per causa di salute dovè passare nella capitale, ove morì, e fu seppellita nella chiesa di San Domenico, e si l’appose la seguente iscrizione. Heu vastis domina excellens virtutibus fuit; Sarcofago jacet hoc nunc parvus corpore pulvis, spiritus angelicis sed nitet ipsa choris. Della Ecc.ma Famiglia d’Avalos la Diocesi d’Ischia fu in commenda del Cardinale D. Innico d’Avalos nel 1564, ma ne fece rinuncia nel 1565. Ed Innico d’Avalos Can.co Lateranese fatto Vescovo d’Ischia, nel dì 28 di Gennaro del 1590, governò la sua chiesa per anni 40. Tra gli uomini grandi, che colla propia dimora onorarono il Castello, e l’Isola d’Ischia, uno fu Giovanni, o sia Gioviano Pontano, uomo dotto, e celebre in tutte le scienze, il quale per aver’opportunità di luogo ameno, placido, quieto, e sicuro ad oggetto di potere scrivere, e componere con serenità, da Napoli si conduceva in Ischia, e si ritirava in un luogo vicino, e rimpetto al Castello, ed in una casa con giardino, e passeggio di delizia. Questo luogo seguita a denominarsi per tale dimora il Pontano. Egli fu secretario degli Aragonesi, specialmente di Fernando II. Paolo Giovio famoso istorico, e letterato fu l’altro, che per alcun tempo si scelse il Castello, affine di scrivere con spirito quieto le sue istorie, che in particolare la vita, e le gesta di Fernando Francesco d’Avalos nato nell’istesso. IV - Continua Coordinamento Festival Cinematografici Campania Sabato 30 novembre 2013 è stato ufficialmente presentato il Coordinamento dei Festival Cinematografici della Campania. Sono soci fondatori i seguenti festival: A Corto di Donne, CineFortFestival, Corto Nero, Faito Doc Festival, Festival del Cinema dei Diritti Umani, Intima Lente, Ischia Film Festival, Linea d’Ombra – Festival delle Culture Giovani, Marano Ragazzi Spot Festival, Mediterraneo Video Festival, Mitreo Film Festival, Napoli Film Festival, Omovies – Festival di cinema omosessuale e questioning, Premio Nazionale Bernardino Zapponi per Cortometraggi, SchermoNapoli, Social World Film Festival, Valsele International Film Festival. Il presidente e primo promotore del Coordinamento, Giuseppe Colella, curatore del progetto SchermoNapoli in seno al Napoli Film Festival, ha ricordato come l’associazione risponda ad una specifica esigenza riscontrata, all’atto della prima convocazione, anche tra gli altri colleghi ed operatori culturali; «la mutua collaborazione ed il lavoro che svolgiamo inseguendo obiettivi comuni rafforzeranno sicuramente i singoli progetti culturali che ci hanno accomunati». Valerio Caprara, critico cinematografico, docente universitario, nonché presidente della Film Commission Regione Campania, si è soffermato sugli obiettivi che l’Associazione dovrebbe perseguire: “l’armonizzazione delle date degli eventi; la circuitazione e diffusione delle opere, tramite scambi tra i vari festival; l’istituzione di un tavolo permanente tra gli addetti ai lavori, per la realizzazione della Casa del Cinema a Napoli”. Il professor Caprara ha inoltre ribadito “l’importanza di realizzare festival per il pubblico, che non siano né inutili passerelle di ospiti illustri, né penitenziali riunioni di adepti”. La vice presidente del Coordinamento, Enny Mazzella, direttrice organizzativa dell’Ischia Film Festival, ha ricordato come “l’aver previsto dei parametri da rispettare per aderire al Coordinamento - almeno 3 edizioni di svolgimento, la presenza di un concorso e di una giuria, la produzione di un catalogo cartaceo oppure on line - vada nell’interesse dei festival stessi, a tutela della serietà dei soggetti coinvolti”. Mazzella ha anche ricordato che, in aggiunta ai fondatori del Coordinamento, “sono già numerosi i festival che hanno fatto richiesta di adesione. Per le realtà che non rispettassero pienamente i requisiti di ammissibilità, verrà creato una sorta di laboratorio, propedeutico all’ingresso nel vero e proprio Coordinamento”. Antonio Borrelli, responsabile del gruppo cinema del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, e membro del consiglio direttivo del Coordinamento, ha preso la parola per ribadire “l’urgenza, da parte dell’istituzione regionale, di approvare la legge sul cinema, essendo la Campania una delle poche regioni a non essersi dotata ancora di questo strumento di regolazione normativa del settore”. Borrelli ha inoltre ricordato “l’attenzione privilegiata e il dialogo che il Coordinamento istituirà con gli operatori che a vario titolo – sotto forma di rassegne, eventi, cineforum – contribuiscono alla promozione della cultura cinematografica”. Finestra ufficiale del Coordinamento è il sito internet – www.festivalcinemacampania.it – attraverso il quale saranno aggiornate le attività dei festival aderenti e dei partner culturali, segnalando nuove pubblicazioni di bandi, date di svolgimento delle manifestazioni e ogni altra notizia utile. Il sito intende divenire nel tempo, filtrando e armonizzando i contenuti provenienti da fonti diverse, il portale dell’informazione cinematografica in Campania, uno strumento tecnologico specializzato a disposizione di cinefili, studiosi e appassionati per orientarsi tra le molteplici attività legate al cinema. * Soci fondatori del Coordinamento Festival Cinematografici Campania La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 37 Colligite fragmenta, ne pereant Fonti archivistiche per la storia dell’isola d’Ischia A cura di Agostino Di Lustro La Chiesa e il convento francescano di S. Maria delle Grazie o dell'Arena - II Dell’antica chiesa del convento francescano di Santa Maria delle Grazie, o dell’Arena, dei Minori Conventuali esistente nei pressi del borgo di Celsa sull’isola d’Ischia, non abbiamo alcuna descrizione. Tuttavia possiamo farcene un’idea approssimativa attraverso le note che riguardano le entrate dei legati che si riferiscono ai vari altari esistenti in essa. Questi erano così intitolati. 1) Altare maggiore dedicato a S. Maria delle Grazie, o dell’Arena, «nella quale cappella detta città (d’Ischia) tiene jus di potere aggregare li cittadini come per istrumento rogato per mano di Notar Gasparo Melluso nel 14921». 2) Altare della Concezione Giovannella Manso paga a questo altare carlini quindici su un territorio ubicato probabilmente a Forio «nel territorio detto Santo Laurienzo di Mazzeo Capuano», per la celebrazione di una messa la settimana come risulta da un atto rogato dal not. Giovanni Andrea de Crescenzo del 13 gennaio 15442. Questa cappella è la più antica testimonianza sulla nostra Isola del culto verso questo titolo mariano che si diffonderà sempre maggiormente, forse, grazie anche alla presenza e all’attività svolta dai Francescani. A proposito di questo altare, nella «Platea piccola» leggiamo il seguente documento che però riguarda l’altare che verrà eretto dopo la ricostruzione settecentesca della chiesa: «Si nota a futura memoria come per breve del Sommo Romano Pontefice Benedetto decimo quarto fu concesso con breve apostolico sotto il quattro di ottobre dell’anno 1751 un altare privilegiato in perpetuum quotidie in ogni chiesa delli Padri Minori Conventuali tam pro Regularibus, quam pro secularibus dando detto Sommo Pontefice l’autorità al Reverendissimo Generale di nominare l’altare nelle chiese sudette e per questa nostra chiesa della città d’Ischia sotto il titolo di Santa Maria delle Grazie fu nominato l’altare della Santissima Concezione, nel quale altare in cornu evangelii3 è stato posta una lapide, e sopra di detto altare è stata posta una tabella, che dimostra il detto altare essere privilegiato 4». 3) Altare dello Spirito Santo 1) A.S.N. (Archivio di Stato di Napoli ), C.R.S. (Corporazioni Religiose Soppresse) fascio 5368 f. 83. 2) Ibidem, fascio 5226, f. 2. 3) Oggi questo altare non esiste più perché è stato smantellato per far posto all’urna con le reliquie di S. Giovan Giuseppe della Croce. È stata però lasciata al suo posto la tela del sec. XVIII raffigurante l’Immacolata. 4) Ibidem. ff. nn. 38 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 La presenza di questa cappella è documentata da un atto del not. Giovan Domenico Malfitano del 27 luglio 1560. Giovanni dello Puzzo dona al convento una masseria denominata «fasolara di tomola otto in circa arbostata, e vitata, con uno gallinaro, bosco, qual confina con lo bosco delli predetti heredi con duj ancij nominati lo pertuso e l’accuccio grande, pescina forno, et attione in lo cortiglio, e palmento construtto in una massaria delli heredi del prefato quondam Magnifico Giovanni con tutti li stighi, dette vacue, con la terra detta l’orto sito nelle pertinenze d’Isca dove si dice la fasolara, justa li beni del detto Magnifico Giovanni della Quadra, lo demanio via publica e via vicinale con peso che li detti Padri di detto Convento siano tenuti doppo la morte di esso testatore costruire, et edificare una cappella sotto il titolo dello Spirito Santo con spendersi docati cento in cappella delli frutti di detta massaria nella quale cappella costruenda ut supra siano tenuti celebrare ogni anno inperpetuum un anniversario nel dì della morte di esso testatore e della quondam Gasparra sua moglie e messe due la settimana5». 4) Cappella di S. Leonardo Il culto verso questo Santo si è particolarmente sviluppato nella nostra Isola nel corso degli ultimi secoli. Lo incontriamo a partire dalla prima metà del secolo XVI quando il vescovo d’Ischia Agostino Pastineo di Giffoni (1534-1548) fondò una cappella, con annesso beneficio di patronato della sua famiglia, lungo la salita che porta alla città6. Fu fiorente nel borgo di Celsa, soprattutto nella chiesa dello Spirito Santo7, e a Panza dove gli è dedicata la chiesa parrocchiale8. Nel convento di S. Maria delle Grazie di Ischia già lo troviamo nel 1588 quando Pietro Vincenzo Scotto, con suo testamento per not. Giovanni Aniello Mancuso, lascia il suo 5) Ibidem, f. 21 r-v. 6) Lo cita la «Platea d’Avalos»: «Nelle porte della città vi è la cappella di Santo Leonardo, è jus patronato di Casa Pastinea, si possede per Giovanni Thomaso di Manso, ha di peso ogni quindici dì una messa letta, et il dì suo il Vespro, et messa cantata, rende l’anno ducati 11» , Cfr. P. Lopez , op. cit. p. 217. Il «Notamento degli atti beneficali…..» cita solo il seguente documento che non esiste più: «Ischie 1712= Notitie pro beneficio S. Leonardi in medio crypte hujus Civitatis de jure patronatus de domo Pastinei de terra Jefuni, ad presens quarumdam monialium de domo Vitale sistentium intus vnerabilem Monasterium huius Civitatis folia scripta n. 2» ( f. 2 r. ). 7) A. Di Lustro, I marinai di Celsa e la loro chiesa dello Spirito Santo ad Ischia, Forio, Tipolito Puntostampa 2003, p. 101 e ss. 8) A. Di Lustro, La parrocchia di S. Leonardo in Panza sull’isola d’Ischia, Forio Tipolito Puntostampa 2004, p. 11 e ss. corpo «nella sepoltura della cappella di S. Lonardo quale cappella e delli Magnifici Giovan Pietro e Michele Scotto e di esso testatore» e dona a detta cappella annui carlini venti perché si celebri una messa alla settimana per la sua anima9. 5) Cappella di S. Michele e S. Antonio di Padova Con atto del not. Giovanni Aniello Mancusi del 5 marzo 1597 «li padri del detto convento concedono a Giovan Vincenzo Matarese una cappella dentro la chiesa di detto convento sotto il titolo di S. Michele Arcangelo, con sepoltura» per carlini venti all’anno più altri 15 per una messa a settimana. Il Matarese, inoltre, lascia la selva detta «la fratanza» alla «sua cappella del Carmine e S. Antonio di Padova dentro la chiesa di Santa Maria delle Grazie, et a S. Giovanni del casale di Moropano detta selva, vole che sia pro equali portioni di tutto e tre le cappelle10». Ma Giovanni Matarese già il 5 marzo 1592, per mano dello stesso notaio Mancusi aveva promesso al guardiano del convento di comprare un censo di carlini 35 e altro di carlini 20 per una cappella nella chiesa del convento a mano sinistra quando si entra con sepoltura e cona, e altri carlini 15 per una messa ogni settimana in perpetuo da celebrarsi in questa cappella per l’anima del quondam Giuliano Matarese suo padre, e promette ancora di pagare per prezzo della cona da farsi in detta cappella, detta di S. Michele, ducati dieci in due volte. Il compilatore del volume però aggiunge che non si sa se questo legato sia stato adempiuto appieno11. 6) Cappella di Sant’Anna Il 29 luglio 1600 per notar Giovanni Aniello Mancusi «li padri di detto convento concedono a Scipione Cigliano una cappella con altare, e cona, sotto il titolo di Santa Anna12 con sepoltura sistente dentro la chiesa di detto convento e il detto Scipione Cigliano» paga ducati quattro e mezzo per una messa a settimana e messa cantata il giorno della festa sopra tutti frutti di una casa ubicata a Celsa presso i beni di Nunzio Cigliano, Benedetto Agnese ed altri con potestà di poter affrancare detto censo . Inoltre per l’altare di Sant’Anna, il Reverendo D. Francesco Coda paga al convento altro censo di carlini sette e mezzo «per la cagione che Scipione avendo da detto convento comprata una cappella posta nella sua chiesa sotto il titolo di Sant’Anna per la quale compra si obligò pagarli annui carlini trenta e legò a beneficio di detto convento annui carlini quindici con peso di un annuo anniversario che in unum si obligò a pagare sopra alcune case a Celsa come per istromento di not. Giovanni Aniello Mancusi». Il 25 luglio 1600 poi donò la casa alla Mensa Vescovile e ai parenti che non si curarono di pagare il dovuto ai frati. Alla fine in vescovo e i parenti rinunciarono al patronato sulla cappella14. 9) A.S.N., C.R.S. fascio 5226 cit. f. 3. 10) Ibidem, f. 13 r. 11) Ibidem, fascio 5230 f.72 12) Il culto a S. Anna è piuttosto antico nella nostra Isola. Già nel 1396 esiste nella chiesa cattedrale un beneficio ad esso intitolato del quale non conosciamo l’anno di fondazione (cfr. A. Di Lustro, Ecclesia Maior Insulana la cattedrale d’Ischia dalle origini ai nostri giorni, Forio, Tipografia Puntostampa 2010, p. 49 e ss. 13) C.R.S. fascio 5226 f. 28. 14) Ibidem, fascio 5382 f. 71. 7) Altare di S. Francesco d’Assisi L’esistenza di una cappella, o altare, dedicato a S. Francesco ci viene documentato dall’annotazione di un legato per la celebrazione di due messe settimanali per l’anima di Vittoria Galatola all’altare del Santo disposto da Claudia e Camilla Melluso nel 160115. Qualche decennio dopo, troviamo un’altra annotazione che chiarisce ulteriormente le vicende di questo altare: «Li Padri di detto Convento asseriscono, come havendo conceduto a Sebastiano Guarniero una cappella in detta chiesa con la figura di San Francesco per docati venti in virtù d’istromento rogato per notar Scipione Calosirto sotto il 15 maggio 1639, e perchè detta concessione era stata fatta senza l’assenso del padre Provinciale, però era nulla, onde si venne a nuova conventione, e mediante assenso del padre Commissario Provinciale di nuovo concedono a detto Sebastiano Guarniero detta cappella con sepoltura per detti ducati quaranta de quali havendone ricevuti venti ne resta dovendo altri docati venti, per li quali detto Sebastiano promette pagarne annui carlini venti e come aumento di dote altri docati sei e carlini sette che deve avere da Francesco Mazzella alias pancicco per celebrazione di una messa cantata ogni terza domenica e altri docati cinque e mezzo che deve avere da Cesare Iacono quante ne capeno secondo la tassa di Urbano, promette di dare la pietanza ai padri il quattro ottobre de valuta cinque carlini16». 7) Altare di Santa Maria degli Angeli Con atto del not. Scipione Calosirto del 5 gennaio 1628, Scipione Russo, figlio del quondam Alfonso, asserisce di essere debitore al detto convento in annui ducati quattro per la concessione fattagli di una cappella sotto il titolo di Santa Maria degli Angeli. Per questo dispone di donare ducati sette che deve conseguire da Sebastiano di Scala per capitale di ducati settanta sopra un territorio ubicato a Barano dove si dice «A casa Liciello17». 8) Cappella Santa Maria del Parto Anche le notizie su questa cappella ci vengono dalla relazione su di un legato ad esso annesso. Il documento risale al 15 marzo 1645: «il quondam Giovan Vincenzo Ferraro nel suo ultimo testamento lasciò alla cappella di Santa Maria del Parto esistente dentro la chiesa di Santa Maria delle Grazie d’Ischia dei frati Minori Conventuali ducati trenta per tante messe quante capivano secondo la bolla di Urbano ottavo». Essendo passati alcuni anni senza che gli eredi avessero pagato il dovuto, il Reverendo D. Ambrosio Ferraro, figlio del quondam Giovanni Vincenzo, mosso dallo zelo con il Padre maestro Clemente da Napoli guardiano calcolate le messe non celebrate che era la somma di ducati dieci, e poiché il quondam Giovanni Vincenzo doveva dare al convento altri ducati dieci per la concessione della sudetta cappella, che facevano ducati venti che uniti ai ducati trenta del legato erano ducati cinquanta, il detto D. Ambrosio volendo sodisfare e non avendone possibilità li prese a censo sopra due camere superiori coll’astrico a sole, e un orto murato 15) Ibidem fascio 5226 f. 19 v. 16) Ibidem f. 50 v. 17) Ibidem, f. 48. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 39 dalla parte della via seminatorio con frutti pervenuti ad esso D. Ambrosio per donazione da Giovan Tomaso Ferraro suo fratello come per istromento di Giulio Cesare Foglia fuori le mura del Borgo vicino all’Arso presso i beni del Convento, la via pubblica, l’orto: «Si obbliga a pagare docati cinque al convento di cui tre per tante messe quante ce ne capeno secondo la bolla d’Urbano ottavo per l’anima della quondam Medea Mancuso moglie del quondam Giovan Vincenzo Ferraro18». Su questa cappella e relativo legato, troviamo ancora questa annotazione: «Giovan Vincenzo Ferraro lascia docati tre per legato per tante messe, e docati dieci per la cappella del Parto per mano di notar Scipione Calosirto girati da D. Ambrosio Ferraro per mano di notar Scipione Calosirto, s’è fatto nuovo instromento et accordo per l’annue decorse, e s’è obligato sopra il luogho detto la Mandra confina alla via publica vicino al nostro convento per mano di notar Scipione Calosirto ducati cinque19 ». Da un «inventario: dì XXV de magio 1582 » apprendiamo dell’esistenza di un’altra cappella della quale non troviamo altri riscontri. Infatti vi leggiamo: «un altro panno de raso rosso al’altar de la Pietà20». Nel regesto di un atto del quale non è riportata la data, si legge ancora: «Giovan Dominico Amalfitano lasciò pesi di calce quattrocento che si facesse la cappella di Santa Maria di Costantinopoli, dove sta cominciata e carlini venti in perpetuum per messe che sono messe dieci per mano di Notar Andrea Monti21». Come si è potuto constatare, tutti questi legati presupponevano la celebrazione di messe. I fasci del fondo C. R. S. appartenenti a questo convento, presentano diverse note di obblighi di messe. In uno di questi leggiamo la seguente annotazione che è certamente utile trascrivere in questa sede: Archivio di Stato di Napoli Fondo: Corporazioni Religiose Soppresse Fascio N. 5230 F. 1 r. La città del Isola d’Isca possedeva nelle sue pertinenze e poco discosto da essa una chiesa indicata Santa Maria delle Grazie seu dell’Arena con pocho casamento et affine detta città fusse servita et aumentata la donorno e concessero alla religione de’ Padri Minori Conventuali in virtù di breve Apostolico concesso dalla felice memoria di Papa Paolo terzo sotto la data delli 10 di gennaro 1544 e tal concessione fu libera senza chapparesse ne vincolo ne obligo ma fu graziosamente data. Li Padri che stavano in detta chiesa mancarono d’annotare li legati di messe quali si facevano a beneficio di detta chiesa; per il che a IJ di marzo 1599 D. Lonardo Magnio commissario et auditore della reverenda Fabrica di S. Pietro d’Urbe dichiaro esserno assoluti delle messe preterite e che piu non fossero stati molestati stante sasseriva dal padre Guardiano fra Bartolomeo farina che in detta chiesa vi dimoravano tre sacerdoti e che erano sufi18) Ibidem, fascio 5227 f. 1 v. 19) Ibidem, fascio 5230 f. 56. 20) Ibidem, fascio 5230 cit. f. 56. 21) Ibidem, f. 1 r. 40 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 cienti de celebrare loblighi che detta chiesa teneva. I vari fasci dell’antico archivio del convento oggi conservati nel più volte ricordato fondo dell’Archivio di Stato di Napoli una volta chiamato Monasteri Soppressi e oggi indicato come fondo: Corporazioni Religiose Soppresse, nell’enucleare i vari legati e beni che nel corso dei secoli XVI-XVIII sono pervenuti al convento, indicano solo poche volte l’anno di donazione per cui non possiamo seguire da vicino l’incremento del patrimonio e delle rendite che, in circa tre secoli, sono state donate dai diversi testatori. Possediamo, però, alcuni inventari di beni mobili, sia della chiesa che del convento, insieme con notizie molto generiche su alcuni aspetti dell’amministrazione dei beni. Anche se, a volte, tali documenti sono scritti con un linguaggio per noi piuttosto difficile da capire, soprattutto per quanto riguarda il vocabolario e pur tenendo presente che i vari estensori usano una grafia non sempre di agevole interpretazione, tuttavia mi sembra utile trascriverne alcuni. Certamente essi possono non interessare tutti «i miei venticinque lettori». Per questo sottolineo ancora una volta che questa serie di appunti, che ho volutamente indicare con il sottotitolo di: «Colligite fragmenta ne pereant» prendendola in prestito dal Vangelo22, vuole essere principalmente una segnalazione di documenti inediti che possono interessare poche persone, ma facilitare ulteriori ricerche e approfondimenti. Per chi non fosse interessato a questi documenti, faccio mio l’invito che il Manzoni rivolge ai suoi lettori nell’accingersi a delineare la figura e la personalità del cardinale Federico Borromeo sul quale vuole spendere «quattro parole: chi non si curasse di sentirle e avesse voglia d’andare avanti nella storia salti addirittura al capitolo seguente23». In questo caso gli chiederei di avere pazienza e aspettare i prossimi numeri de «La Rassegna d’Ischia». L’inventario più antico che ci è stato tramandato è del 1582. Archivio di Stato di Napoli Fondo: Corporazioni Religiose Soppresse Fascio n. 5227 f. 1 r. Inventario: ali XXV de magio 1582 Bona sacristie Calici tre indorate le coppe et patene all’argento, et li piedi di rame; item una croce de argento figurata con quattro bottoni di rame in detta et il Crucifixo de relievo de argento ; item uno voto piccolo de argento figurato con un giovene moratore; item doi faculetti de calici uno tutto biancho a reza lavorato et l’altro de filo de seta a crucetta lavorato da piu colori con frangi atorno; item una cappella de debretto de seta come pianeta et tunicelle …. de armosino carmosino et zagarelle de frange bianche et rosso et lo bianco con lo panno de altar ancora con frangia…con carmosina; item cinque piantete videlicet una de damasco fioricato, con il campo a rose… in mezo lastate bianche et rosa et trena attorno un’altra pianeta verde schello giallo fiuricato con croce de velluto 22) Cfr. Giovanni VI, 12. 23) A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXII. paunazo et zagarelle bianche attorno un’altra de debretto turchino con croce de…. et un’altra …. areta con la croce de taffita giallo in… quella de la cappella ut supra descritta et f. 1 v. anti de altare in primo uno pano de moscatello… giallo et rosso con una croce in mezzo con uno monte verde con frangia de seta gialla e rossa; item un altro panno de raso carmosino lavorato de trene in mezzo con la frangia de capisciola gialla in mezzo; item altro panno strutto de damasco biancho con frangia de seta biancha verde et rose secche in mezzo; item un altro panno de velluto pardiglio vecchio lavorato con croce picciola et giallo in mezzo; item uno panno de velluto torchino vecchio, con fransche in mezzo de taffita rosso; item all’altare maggiore uno panno de pelle usato; item all’altare del Spirito Santo uno panno de taffita giallo con una croce et monte verde in mezzo et frangia torchina gialla; item all’altare de Santo Antonio un panno de raso verde vecchio; item all’altare dela Madonna del Carmino un panno de centro pella verde; item all’altare dela fasolara un panno de taffita torchino coperto de reza vecchio et a Santo Lonardo un altro velo medesmo, et un altro panno de reza rosso vecchio all’altare de la pietà f. 2 r. item dui para de coscino videlicet uno paro de armosino verde con zagarelle atorno seu passamani gialli et rossi con li fiochi de medesimo una faccia et laltra faccia de copro figurato et altro paro de coscini de capisciola listati de piu colori; item un altro paro de coscini de auro pella: indorati et un altro paro de medesimo vecchio; item una cotta per le epistole de seta vecchia; tovaglie de altare de piu sorte imprimis una tovaglia de tela lavorata e li capi de seta carmosina et frange et li capi de seta bianche et rossa item un’altra tovaglia de tela tutte vecchie con le liste in mezzo de seta carmosina fatte a mano; item unaltra tovaglia piccola vecchia et de tela carmosina et biancha f. 3 r. item unaltra tovaglia de tela lestata et vecchia de seta carmosina gialla; item unaltra tovaglia de tela con uno lavoro de tela a… et frangia in frone et ali capi de seta turchina et gialla; item unaltra tovaglia de tela con lo frontale de filo un lo fatto a mano et francia giontamente; item un’altra tovaglia de tela lestata in mezo con dui cruci in mezzo et frangia li capi et in fronte de filo biancho; item unaltra tovaglia de tela piccola con tre croci in mezzo, et frangia in fronte de filo de ruto; item unaltra tovaglia vecchia et piccola con una croce in mezzo; item unaltra tovaglia de tela nova con tre cruci in mezo et a li lati lavorate de filo de ruco et frangette intorno; item unaltra tovaglia de filondente listata ditta rusciata; item unaltra tovaglia simile de filondente et rosciata listata;item dui tovaglie de bambaci listate torchine usate; item unaltra tovaglia de tela con le liste torchini, ali capi et dui crucetti piccoli perbanda; item unaltra tovaglia de tela con la croce in mezo le frange bianche et listelli torchini; item unaltra tovaglia grande de tela con la lista torchine ali capi et una croce in mezzo et frange infronte torchini et bianchi; item una tovaglia grande muresca scachiata strutta; item tre altre tovaglie una murescha quale sta al crucifixo et una lestata de filo indorato et laltra lestata turchina et è de bambace; item dieci tovaglie piccoli de filondente et tela usati et strutti assai; Camisi per le messe inprimis uno ….. hoc modo videlicet tre finiti et uno bonarello de teli et l’altro vecchissimo de trettina sono sguarniti, et alcuni fimbrie; item tre case de corporali: tutte consumati con alcuni corporali vecchissimi; item dui para de carrafelle un oparo de cristallo torchino indorati et laltro paro de faenza lavorati con lo baciletto. Nota che se li agionge un altro fazuletto per il calice di tela dolanda con le pizilli d’oro atorno et fachetti quale detto fazuletto……. A la Masinda de detto luocho fra Angelo Eunacho portinaro de… f. 3 v. Item altar magiore vi sono dui xpitti vestiti con tunicelle de più colori et uno crucifixo de alabastro, con dui personagi a piedi sopra il mantello del medesimo; item un Sangiovanni de alabastro, con uno Angelo un montetto con suo archetto con una palombella di sopra et a basso uno pulpitetto tutte de alabastro; Un paro de candelieri piccolinj de ramo cipro con quattro candelieri di legname lavorati et indorati et un paro de candelieri grandi per il Santissimo Sacramento, uno sichietto piccolo per lacqua sta et ala travo del crucifixo dui sfettetorci di cera biancha et sono grossi e piccoli; uno graduale novo misali moderni usati et uno breviario stracciato che non vale un paro de ferri per le ostie et un altro paro resta in potere de un preite pure del luocho D. Geronimo di Costanzo. Zona dormitorij Ala prima camera dove la torretta: che vi sta lo padre Guardiano et lo priore Vico ci sono dentro una lettera un saccone uno matarazo et una coperta cardata ogni cosa stracciato et poco buono; item una banchetta: con le predistalli; item una banchetta con le predistalli; item ala seconda camera una lettera et un saccone stracciato; item ala terza camera dove si dici la despensa ci sta una matera da fare pane quattro barrile per la vendegnie et una meza botticella dove ci sta sale del luogho: qual si retrova da tre tomola incircha: più questo mancha che più; item cola quarta camera nichil: ala sesta camera una lettera un saccone et uno matarazo vecchi ogni cosa et una banchetta; ala settima camera dove il destro nichil. Bona despensa seu cellaro Item una pala dui zappe de ferro ogni cosa in primis dui stagnate de stagno con dui fundelli et dui salere de stagno; item un bucale tutte de stagno et laltro bucale e per… sicome per laltro inventario appar due setacci: uno per lo pane et laltro per le ostie dui sache per le cerche et dui misale per le tavole per uno non vale niente. Inprimis una calodaro un puzunetto una padella una volta pescie un scumarolo de rame una graticola un spostillo un trepite f. 4 r. Instrumenti del convento in carta de cipro serviti in una cascia de lo convento numero questi vide licet inprimis uno strumento de dono de Silvestro balestrieri de dodici lanno et di in carta de cojro; item unaltro instromento de India Boso de docato uno llanno et e in carta di cojro; item unaltro instrumento de Iacovo Monte de carlini otto l’anno in carta pecorina in forma per bante; item unaltro instromento de La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 41 Antonio Martino contieni de terra alienati nel … seu luocho de Ischia puro informa probante; item unaltro instromento de beatrice stagnola de una eredità; item unaltro instromento de cardetto de docato uno lanno in forma probante; item unaltro instrumento della concessione del luocho talche instrumento sono in tutto numero quindici computandoci bulle et brevi de concessione del luocho de Santa Maria dela Grazia de Ischa et veni sono alcuni instrumenti alienati per tutti sono in carta pecorina in forma probante. Le instrumenta in carte de bambace: tre cautele copie de testamenti et altri legati sono n. XXIJ salvo meliori carculo: il tenor de quelli in che consistano apresso se noterano: item una bulla seu in piu terni del convento antighie dui altri libri del introito et exito moderni; item una cascia de noce de palmi quattro con dui ciavi dove stano le scritture seu instrumenti del convento; item uno sigillo de rame con il segno et figura de Santa Maria dela Gratia quale tiene il padre guardiano; item una cascietta de noce listata per le cerche ordinarie f. 4 v. Ogi XXV de magio 1583 si fa notamento per me Fra Antonio palumbo de robbe qualmente tutte le retroscritte robbe inventariate si sono per me predetto consegnati al padre fra silvestro castaldi discha per ordine del padre fra Alfonso de potenza al presente guardiano di detto luocho In presentia de tutti li sottoscritti padri et detto padre guardiano Agiogendoci de piu ale retroscritti robbi inprimis…….. de piu talche restano numero diciasette et ora sono sedici. Ala nove cocina unaltra tiella seu sartania nova de acciaro con una scolarola. Al dormitorio inprimis ala prima camera dove sta lo padre guardiano fra Alfonso nichil et la retro scritta robba assegnati a detta camera, sono ne li altre camere portati perche detto padre guardiano ne ha portato leto et ogni suo bisogno inprimis una lettera nova dui matarazi una manta cardata nova doppia et uno forniero pieno di sue robbe ( et detto padre guardiano tiene nulla de lo luocho ) talche se ge agionge e dette de lo luocho uno capisole quale tiene et sta in camera de fra Silvestro quale si e fatto dela lana che avanzata al nuovo matarazo de faccia nova che o fatto far io fra Antonio de Rallo per amor e Dio et gosta lo cotone et fattura carlini quattordici, et non si pone nienti alo luocho per esito uno messale nuovo comparato per me sopra detto quale gosta carlini sedici non lo consegno perche me si deve carlini nove a complimento de carlini venti spesi per elemosina al matarazo et missale et recevuti per elemosina per mano de Santolo Gaetano carlini diciotto et per lo Signor Pompeo Melluso et altri carlini tre tutto lo sopra piu speso (mancano i fogli 5 e 6 ) f. 7 r. Numero carte segnati incomincia da uno sino ali vinte. Io Silvestro Acetto le sopradette et introscritte robe che per me sono state asignate Io fra Silvestro manu propria. Accetto da fra Antonio de rovello: Io fra Antonio Manzo de napoli sono stato presente alle retroscritte consigniacione. Io fra paulo giliano de melito sono testimonio ut supra. Io fra Laurenzo de castello forte so testimonio.Io fra Alfonso de potenza fui presente f. 8 r. Die secunda martij 1584. Inventario nuovo de tutti instru42 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 menti del luocho nostro d’Isca et di qualsivoglia scrittura, et copie che in esso si ritrova fatto dal presente Reverendo Generale vide licet: uno instrumento in carta bergamina d’India Rosa d’uno ducato l’anno sopra suoi beni numero 1; unaltro instrumento di Giacomo Monti di carlini otto annui sopra un bosco che è della chiesa; unaltro instrumentto di Antonio Martino di terre alienati sono in liti; unaltro instromento di beatrice stagnola d’eredità di tremila ducati de li quali ne verrà al luogho la mità et rende sette docati l’anno ; unaltro instromento di cadetto d’uno ducato l’anno per lascito; unaltro instromento di D. Silvestro di carlini quindici l’anno sopra una terra; uno breve di Nostro Signore di D. Silvestro con doi sugelli; uno stromento di Valentino Baldedes di certi magazeni dirupati; unaltro instromento pur di Valentino Baldades d’una terra di voceta di due tomoli e mezzo di terra; uno instromento di fonso sioli che rende nove carlini l’anno; f. 8 v. uno instromento di Valentino Baldades di docati trentasei da cinque beni da ricoperarsi lo luogho essendo rimasto heredi del detto Valentino; unaltro instromento che non è della chiesa che è del medesimo fonso di Jon; uno Breve del Sali che ha il luogho ogn’anno un breve della concessione del luogho; Un instrumento della Donatione, et investitura del luogho d’Isca fatta dall’Università d’Isca alla religione nostra; un altro instromento della fondazione del luogho d’Isca videlicet Breve concesso d’Innocentio ottavo sopra la detta fundatione; Quali tre Brevi di concessione et Donationi del nostro luogho di Santa Maria della Gratia d’Isca sono conservati nell’Archivio nostro di S. Lorenzo di Napoli per maggior sicurtà. Item unaltro Instromento de li Bassi non si nota perche s’è censuata la terra a tonno adamo per trenta docati l’anno, che ….stava docati venti docati delli quali ha tempo un anno a fare l’instromento in carta bergamena; item venti copie de legati, testamenti et codicilli in carta bombagina legati in uno mazzo f. 9 r. Quale inventario fedelmente e fatto per ordini del padre reverendissimo da me fra Giulio Tasso da Napoli sì è dimandato al luogho nostro d’Isca con tutte le cennate scritture et instromenti. Solo le tre che restano in Archivio di S. Lorenzo, con l’annotato…… al luogho suo, seli consegnano ancora doi quinterno d’introito, et essito di detto luogho, con una bastar duolo ove sono notati titti le liti fatti, e mossi dal detto fra Silvestro, quali liti importano da tre, a quattro milia docati per lo luogho nostro di Santa Maria della Gratia fra Antonio fora …manu propia. Queste sei carte de inventario fatto dal Padre Reverendissimo Generale fra Antonio fera il Padre baccelliero fra Bernardino di Napoli li ha ritrovato in uno quinterno lacerato come Guardiano e Conservatore delle scritture dello convento et ha cosito in questo libro della platea, ad futuram rei memoriam Amen hoggi il primo di luglio 1629 fra Bernardino Guardiano del Convento. Agostino Di Lustro (II- Continua ) Rassegna LIBRI Monsignor Onofrio Buonocore Proposta per una bio-bibliografia di un illustre personaggio ischitano di Lucia Annicelli Pubblicazione dell’Editoriale del Golfo, foto di copertina: conferenza per i giovani tenutasi presso l’Arciconfraternita di S. Maria di Costantinopoli nei giorni 3-5 gennaio 1943 (archivio privato famiglia Morelli), ottobre 2013. Mons. Onofrio Buonocore La Biblioteca Antoniana d’Ischia: una istituzione creata da Mons. Onofrio Buonocore, ossia voluta ed organizzata con una iniziativa privata, come altre in ambito isolano, che nel tempo sembrano “essere di peso”, quando la loro gestione passa al settore pubblico. Vero è che l’Amministrazione comunale non riesce a nominare un responsabile per la conduzione della biblioteca e fa appello al volontariato per questa espressione culturale, il cui ideatore è stato ricordato nella sua figura di “discente”, “docente” e “bibliotecario” nella ricerca e testimonianza di Lucia Annicelli con il libro Monsignor Onofrio Buonocore – Proposta per una bio-bibliografia di un illustre personaggio ischitano. Un personaggio, il Buonocore, massimamente presente nella vita sociale dei suoi tempi con la sua attività non solo pastorale ed ecclesiastica, ma anche giornalistica, letteraria e, forse, soprattutto come propugnatore di istituzioni scolastiche, primarie e secondarie; ma la sua creatura più cara fu senz’altro la Biblioteca Antoniana che vide crescere costantemente con donazioni, acquisti, convegni, ricerche nelle case degli isolani, come ricorda don Camillo D’Ambra: “Il prof. Buonocore andò chiedendo piccoli contributi agli alunni stessi, alle loro famiglie, alla larga cerchia degli amici suoi personali e dei simpatizzanti. Salì e scese le scale delle abitazioni dei preti e dei vari professionisti isolani passati a miglior vita perché i libri lasciati non finissero sulle bancarelle dei libri usati o venissero dati al macero. Così il numero dei volumi crebbe a vista d’occhio”. Il libro curato da Lucia Annicelli si compone di due sezioni: la prima riservata alla biografia del Buonocore, la seconda alla sua produzione: gli istituti scolastici, la biblioteca, i giornali La Cultura, La Vedetta del Golfo, i vari libri di storia locale. Nell’Introduzione l’autrice scrive: «I titoli dei tre capitoli della pima sezione esprimono in una perfetta sintesi terminologica l’intera parabola di vita del fondatore della Biblioteca Antoniana. “Discente”, “docente” e “bibliotecario” non sono soltanto frammenti di vita ma autentici reperti, il cui valore archeologico dialoga con noi altri. La sezione dedicata alla bibliografia dell’opera del sacerdote-bibliotecario segue un andamento cronologico e include quasi l’intero spoglio della rivista mensile La Cultura. La monotematicità di ogni singolo fascicolo, seppur scevra di apparato critico (come nello stile dell’enigmatico storico), conferisce ai contributi una spiccata valenza culturale dovuta ai contenuti seppur ideologicamente impregnati del suo sentire. Da una rapida scorsa dei titoli di ogni singolo fascicolo è possibile rilevare l’intellettuale, e in alcuni casi il cronista, nella poliedricità delle tematiche e talvolta nella loro attualità. È, altresì, ravvisabile l’appassionato investigatore della nostra storia». Si ricorda l’esistenza di un manoscritto inedito del Buonocore, che meriterebbe di essere pubblicato integralmente, dal titolo: Ischia di ieri e di oggi. Sembra un romanzo ed è mezzo secolo di vita storicamente vissuta (R. C.). La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 43 Le radici della zucca di Alina Maria Adamczyk Aiello Coproduzione Dante & Descartes / Candilita, grafica di Giulia Cantabene, disegno di copertina di Giuseppe Aiello La signora Alina Maria Adamczyk Aiello, ricordando forse il poeta che richiamava “quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua e guata”, ripercorre nelle pagine che ha voluto a noi affidare il percorso fatto e gli eventi che l’hanno caratterizzato. Ischia, nel meridione italiano, e una “infanzia trascorsa tra Varsavia e la campagna polacca, passando per la catastrofe della guerra, l’invasione tedesca e la ricostruzione di un paese devastato”: queste le espressioni e le significazioni caratteristiche di un racconto (“il racconto di una vita”) che appare, metaforicamente - dice l’autrice - come lo sviluppo di una zucca cresciuta su di uno stelo molto lungo. Dal mondo contadinesco delle Betulle (il podere dei nonni paterni) “sempre vasto e nuovo”, con l’unica cosa sempre eguale della “bellezza nelle sue pur diverse manifestazioni”, a quello altrettanto contadinesco (almeno inizialmente) di Ischia: “piccoli insediamenti in uno scenario naturale da capogiro: mi incantava con la sua grazia e la sua naturale bellezza”. Qui anche tutto appare “nuovo”, ma per motivi diversi: paesaggio, abitudini, tradizioni, comportamenti… Ecco come l’isola si presentava in quegli anni: “Una natura per me nuova ed esotica, verde anche nei mesi invernali, piena di piante sconosciute o viste solo negli atlanti di botanica. In ogni giardino, per strada, in ogni spazio libero straripava vegetazione. Palme, oleandri, piante grasse, agrumeti, vigneti, tutto nuovo per me. Il mare aveva la purezza del cristallo, con colori diversi e impensabili via via che passavano le ore del giorno. Le spiagge, invece, mi intimidivano con la loro sabbia lavica così scura, delimitate improvvisamente da rocce, e non chiare, piatte e senza limiti come le spiagge del Baltico”. Come 44 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 sanno questi riferimenti delle tante appassionate descrizioni dei viaggiatori del Grand Tour che venivano al Sud per scoprire realtà diverse dai loro paesi! Ma, nonostante questi contorni, su cui era previsto più che un provvisorio passaggio, c’era qualcosa che mancava alla ragazza che metteva piede sul suolo isolano: la vita di città, i contatti, l’atmosfera, le usanze, i modi di vivere, la lingua… L’emancipazione concreta della donna qui doveva compiere ancora una strada molto lunga… Ma la sostenevano l’amore e le premure del marito (Lino) Anni egualmente difficili dunque, questi iniziali di Ischia, come quelli del paese natio, tutti rivisti, ricordati, quasi rivissuti nel declinarli da una sponda sicura e non più minacciosa. La guerra certamente, l’invasione tedesca segnarono duramente grandi e piccoli dall’inizio alla fine. Nella sua infanzia, pur in tale situazione, la signora Alina fu sempre accompagnata dalla “fame di lettura”: aveva imparato a leggere in fretta, praticamente da sola; “lessi di tutto, dalle vite dei santi ai romanzi storici, dai racconti storici ai calendari della vita dei campi”. E sarà poi quest’amore, questa esigenza che l’accompagneranno anche ad Ischia, dove si iscriverà con successo al corso di laurea di Storia e Filologia dell’Europa orientale, per sentirsi, come dirà al suo professore, più vicina al paese d’origine: per non far appassire quello stelo lungo formatosi tra Ischia e la Polonia, dove col tempo, come dice il poeta, “ritornammo a rivedere le stelle”, e fu una piacevole sorpresa: le spighe di grano, segale, miglio, avena ripresero ad ondeggiare al vento, verdi ad aprirsi i campi di bietole e patate, il trifoglio a rosseggiare. “La terra, questa forza primordiale muta ma esigente che pretende il sudore, lo sforzo, la cura; che non permette di cullarsi nella disperazione più nera ma vuole tutta l’attenzione, ancora una volta la terra aveva imposto alla gente la sua legge che non tollera i lutto ma chiede lavoro”. E tutto continua... Raffaele Castagna La luna nell’Arno di Ischia di Mauro Olmastroni Youcanprint Self –Publishing, Tricase (LE) Una vacanza ad Ischia, un incontro occasionale, il ricordo di una notte magica, quella del luglio 1969, che raccolse tanta gente dinanzi alla TV, perché vide la discesa dell’uomo sulla luna. Si trattò di un evento memorabile, vissuto negli anni felici e spensierati degli sudi universitari. Ma con il passare degli anni l’entusiasmo, la conquista dello spazio, la speranza di chissà quali sviluppi, lo spirito giovanile pian piano si raffreddarono, fino a farli dimenticare quasi del tutto, anche perché ci si era indirizzati ciascuno verso obiettivi diversi. Ora… una vacanza inconsapevolmente fa ritornare alla mente quei tempi… Fabio, un ingegnere sessantenne, ormai realizzato nella vita, si ritrova nella “calda acqua termale di Ischia” a “rivivere quei giorni elettrizzanti, ma allo stesso tempo a entrare in un tunnel psicologico infinito, stressante e contorto”: “hai visto che bella luna c’è in questi giorni?" Strano messaggio questo che accresce la sua pressante ricerca nei ricordi, ancora incerti e nebbiosi. Poi il dubbio comincia a farsi certezza e trova conferma, quando la donna, Teresa, gli dice: “L’ho chiamata Luna, spero ti piaccia, Fabio, almeno questo lo vorrei da te. Addio per sempre anche a te, unico amore mio”. "Luna" come quel giorno, in cui ogni discorso si concentrava sull’astro celeste… Quell’Addio rappresenta un tormento per Fabio, un’esigenza di sapere di più, di non rassegnarsi a volgere ancora una volta il tutto nell’oblio, anche se c’è la realtà della sua attuale famiglia a frenarlo. Ma, nonostante tale intimo richiamo, ha inizio l’affannosa ricerca per arrivare a Teresa e a Luna. “Presi un impegno con me stesso: avrei fatto il possibile, in segreto, per rintracciare Luna e, solo se ci fossi riuscito, avrei pensato a prendere una successiva decisione, cosa che ora non potevo fare”. “Il racconto scava in modo leggero nei meandri dell’animo umano, ma resta un romanzo, non un trattato di psicologia. Esso è narrato in prima persona, anche perché è l’animo di Fabio e solo questi è in grado di descrivere i sentimenti che per varie ragioni l'agitano durante lo svolgimento della vicenda”. Vicenda che felicemente procede passo passo verso la conclusione, ma poi ne verrà fuori una scelta che “forse non tutti si sentiranno di condividere, ma sicuramente quella più comprensibile e giustificabile”. “Solo le acque torbide dell’Arno riusciranno a calmarlo, anche se sarà impossibile cancellare del tutto la tempesta che aveva agitato la sua esistenza”. * I trent’anni del Garibaldi di Nino d’Ambra di Pasquale Balestriere Radici nel mondo - Son passati trent’anni - circa un terzo di secolo- dalla pubblicazione del poderoso volume Giuseppe Garibaldi: cento vite in una (edito dal Centro di Ricerche Storiche d’Ambra e da Arti Grafiche Grassi, Napoli 1983), splendida elaborazione storica dello scrittore foriano Nino d’Ambra. Trent’anni in cui il libro ha messo radici nel mondo, offrendo il suo frutto ad una platea internazionale: proprio come internazionale è stato l'eroe dei due mondi. Un po’ di dati - Per confortare quest’affermazione con dati di fatto, vale la pena di citare i luoghi “raggiunti” dal volume di cui si parla: - Ambasciate italiane in:Francia, Lussemburgo, Belgio, Iraq, Turchia, Danimarca, Malta, Egitto, Grecia, Finlandia, Polonia, Cina, Etiopia, Sud Africa, Paraguay, Australia, Giappone, Venezuela, Malesia, Libia, Perù, Cile, Paesi Bassi, Cecoslovacchia, Haiti, Vietnam, Stato del Vaticano, Senegal, Spagna, Singapore, Honduras, Sudan, Nazioni Unite,Nuova Zelanda, Algeria, Colombia, Stati Uniti. - Ambasciata francese in Italia. - Consolati italiani a: Oporto, Basilea, Principato di Monaco, Melbourne, Lille, Metz, Colonia, Alessandria d’Egitto, Hannover, Friburgo, Bastia, Berlino, Rotterdam, Barcellona, New York, Parigi, Casablanca, Bruxelles, Tangeri, Caracas, Vancouver, Adelaide, Lucerna, Curitiba, Losanna, Santa Cruz, Calcutta, ecc. - Consolato greco e consolato francese a Napoli. -Istituti italiani di cultura a Vienna, in Siria, Marocco, ecc. Questa lunga elencazione, peraltro incompleta, non ha nulla di gratuito, giacché è necessaria per capire dove è giunto il Garibaldi di Nino d'Ambra che reputo sia il libro più am- piamente (proprio in senso spaziale e geografico) diffuso tra quelli scritti da autori isolani. È tempo di bilanci. Ed ecco qui un altro gruzzolo di informazioni. Tra i quotidiani e i periodici su cui sono apparse notizie e recensioni dell’opera in questione si ricordano: Paese sera, Napoli oggi, Il Mattino, La Provincia di Napoli, Napolinotte, Il Settimanale d’Ischia, Ischia oggi, L’Osservatore Romano, AGI, Ischia mondo, Nuova stagione, Lettera da Ischia, La Rassegna d’Ischia, Il giornale d’Ischia nuovo, Il Fotogramma, Tribuna giudiziaria, Il Foglio di Napoli, La Provincia di Sassari, Rivista Letteraria, L’Impegno, Il Golfo, Alto Adige. Si sono espressi sul “Garibaldi”, tra molti altri, Domenico Rea, Raffaele Castagna, Ugo Tassinari, Italo Palumbo, Pasquale Balestriere, Giuseppe Valentino, Mario Parente, Giuseppe Binni, Paolo Befani, Biagio Iacono, Giuseppe Garibaldi jr, Giuseppe Balzano, Giuseppe Russo, Franco Iacono, Giuseppe Giliberti, Elio Morelli, Renato Pintus, Joseph Maurer, Quirino Bezzi, Gaetano Regine, Antonio Lubrano, Maria Luise Maurer, Mario Buono, Franco Coppa, Vincenzo Mennella, Sebastiano Conte, Edoardo Malagoli, Agostino di Lustro,Luigi Fienga. Il volume è presente in una cinquantina delle principali biblioteche italiane (nazionali, regionali, provinciali, comunali, universitarie, ecc.), accreditate presso il Ministero dei beni culturali (dati desunti dal catalogo ICCU), in particolare nelle seguenti città: Roma (10), Torino (8), Napoli (7), Firenze (4), Milano (3), Perugia (3). Numerosissime note di plauso sono giunte a Nino d’Ambra, nel corso degli anni, da istituti culturali, ambasciate, consolati, biblioteche, da politici e da uomini di cultura. La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 45 Qualche considerazione Innanzitutto due curiosità. La prima: quello di d’Ambra sembra proprio essere l’unico libro “garibaldino” recensito dall’Osservatore Romano. Sarà perché il tempo passato ha lenito certe dolorose ferite o perché il Garibaldi si porge al lettore perfuso di serena obiettività? La seconda: molte tavole e vignette (una quarantina) inserite nel testo sono opera del caricaturista Antonio Manganaro, prolifico artista filogaribaldino nato a Manfredonia nel 1840 e trapiantato a Napoli dove operò e morì nel 1931. Fu ben noto in vita, ma poi inspiegabilmente “scomparso” dalla memoria dei posteri. Eppure, insieme ai suoi due figli, pure loro pittori, è sepolto a Napoli, nella Prima Cappella dell’Arciconfraternita SS. Salvatore degli Orefici del Cimitero Monumentale di Poggioreale. Ebbene, Nino d’Ambra, prima di tutti gli altri, ha ritrovato quest’autore sulle classiche bancarelle e nei mercatini napoletani, acquistandone tutte le tavole in cui si è imbattuto. Ora l'artista è stato riscoperto e rivalutato con tutti i crismi dell'ufficialità. Il Garibaldi ha conseguito numerosi premi letterari, fra cui il “Pedrocchi” di Padova (in cui il Garibaldi risultò secondo classificato, dopo un libro di poesie di Giovanni Paolo II) e il “Procida, Isola di Arturo-Elsa Morante” (menzione speciale). La struttura dell’opera Tra i lettori di quest'articolo ci sono senz'altro persone che posseggono il Garibaldi. Di queste, alcune l'hanno letto, altre assaggiato, altre ancora non l'hanno aperto che per curiosità. E probabilmente c'è pure chi non lo possiede e non l'ha letto. Sembra quindi opportuno almeno delinearne sommariamente la struttura. Tutta l''opera è racchiusa in 600 pagine. Di queste 366 contengono la biografia di Garibaldi, seguita da una rilevante Appendice di documenti (nel numero di 90, con relativo indice), che occupa ben 155 pagine; poi la ricchissima parte dedicata alla bibliografia e fonti di ricerca, tripartita in Libri, opuscoli e articoli (440 titoli); Quotidiani e periodici (italiani e stranieri, nel numero di 88); Archivi e biblioteche (27); un Repertorio biografico di 44 pagine (che riguarda tutti i personaggi citati nell’opera, con l’indicazione del corrispondente numero di pagina); infine l’ Indice delle illustrazioni, contenuto in 6 pagine, di ben 296 immagini, seguito dall’Indice generale e, in ultima pagina, da Altri scritti di Nino d’Ambra. Va altresì annotato che la bandella d’apertura della sovraccoperta reca una scheda introduttiva dello scrittore Domenico Rea e quella di chiusura una nota biografica dell’autore. 46 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Passiamo alle considerazioni. La prima riguarda la mole dell’opera che va anche (e ben oltre!) le 600 pagine già dette, qualora si consideri che il ricchissimo corredo iconografico è fuori testo. Ora questo ponderoso volume può certamente intimidire il lettore debole e poco motivato. Ma, se comincia a leggere, è difficile che si fermi. Perché uno dei pregi più evidenti del Garibaldi risiede nella tecnica affabulatoria con cui Nino d’Ambra porge la storia: egli narra in modo così perspicuo e accattivante da avvincere il lettore, ma sempre tenendo d’occhio fatti, dati e fonti. Come è giusto. Va sottolineata anche la bella fluidità narrativa, conseguita sia per le già dette capacità affabulanti, sia per aver eliminato ogni ostacolo che potesse rallentare od ostacolare in qualche modo il flusso diegetico: così si spiega la scelta di sistemare l’utilissimo Repertorio biografico nella parte finale del volume, evitando in tal modo l’appesantimento del testo con note esplicative ed espressioni parentetiche, ed anche la collocazione a parte - rispetto alla narrazione - dell’intero corpus dell’appendice documentale. Ma c'è un altro aspetto significativo, quello dello stile. E vorrei qui richiamare, a tal proposito, un concetto da me espresso alcuni decenni fa: "...d'Ambra è avvocato: ma il suo stile non ha nulla degli stereotipi giuridici, pesanti, vieti e un po’ comici; e come rifugge dal forense e dal burocratico, così il suo dettato è lontano dalla letterarietà, dall'aulicità e dalle ricercatezze sintattiche e lessicali, inutili orpelli che nuocerebbero all'essenzialità e alla serietà del contenuto. E forse l'autore foriano è il primo isolano, o uno dei primi, che io abbia letto senza avvertire, con un certo fastidio, la difettosa padronanza linguistica (...). D'Ambra ha, invece, saputo crearsi uno stile lontano dagli estremi sia dell’ovvio e nudo semplicismo sia del sofisticato e pretenzioso intellettualismo; uno stile garbato e disinvolto, senza cadute di tono, che poggia su strutture sintattiche agili, chiare ed efficaci”. Lo scrittore ama Garibaldi. E questo è fuor di dubbio, perché altrimenti non sarebbe spiegabile il severo impegno di otto lunghi anni per la compilazione di un’opera di tali proporzioni. Ma, proprio perché intende essere scudiero della verità storica, al fine di evitare ogni tentazione encomiastica e mantenere intatte l’oggettività e la serenità necessarie all’operazione storiografica, apre ampiamente a fonti e documenti di parte borbonica; che, quasi paradossalmente, contribuiscono a rendere più imponente e fulgida la figura di Garibaldi. Della quale l’autore, autentico e instancabile ricercatore, rivela aspetti inediti proprio per la marea di carte e di atti consultati con passione e acribia. Una biografia, quella di Garibaldi, saldamente ancorata a documenti d’epoca. Per esempio molti ritengono che il Nizzardo sia venuto nel 1864 a Ischia per cure termali. Nino d’Ambra, dopo faticose ricerche, ha scoperto (nella biblioteca “Angelo Mai” di Bergamo e nell’Istituto di Storia del Risorgimento Ischia Teatro Festival Programma Dicembre 2013 – Aprile 2014 Ischia - Sala Teatro Polifunzionale 6, 7, 8 dicembre Uomini di mondo Le bugie hanno le gambe.. scoperte Tratto da Two into one di Ray Cooney Regia Valerio Buono 13, 14, 15 dicembre Art Music e Movie Made in Ischia Spettacolo di cabaret 20, 21, 22 dicembre Amici del Teatro L’improvvisa storia di Biancaneve Spettacolo per grandi e piccini A cura degli Strani Tipici 27, 28, 29 dicembre Amici del Teatro Marriage Liberamente tratto da Boston Marriage di David Mamet Regia di Leonardo Bilardi 3, 4, 5 gennaio Amici del Teatro Sempre da Napoli Spettacolo di prosa e canzoni napoletane di Romolo Bianco con la partecipazione di Valerio Sgarra di Roma) documenti governativi da cui emerge con chiarezza che l'Eroe era venuto a Ischia per organizzare e pianificare il completamento dell'unità d'Italia. Altro che bagni termali! E poiché il Nostro discende da una famiglia di socialisti libertari, egli del Generale preferisce porre in maggior risalto lo spirito umanitario, la nobiltà dei sentimenti, l'amore per la libertà, il carisma conclamato, gli ideali sociali, dando meno rilievo alle qualità strategiche e tattiche. Sicché a ragione Edoardo Malagoli scrisse nel 1991 che "il Garibaldi di Nino d'Ambra tiene più di Spartaco che di Napoleone". Resta - in fondo a tutto- una meravigliosa opulenza di notizie e di documenti, composti in una saggia, paziente, dotta e solida (ri)costruzione storica. Un Garibaldi un po' più “meridionale" visto che largo spazio è dato alla permanenza (a vario titolo e per le ragioni più diverse) dell’Eroe nella parte bassa dello Stivale. Per tutto quanto detto, meritoriamente quest’opera si va ad affiancare alle molte altre che costituiscono il vasto e variegato mondo della letteratura garibaldina. E vi occupa il posto di rilievo che ad essa compete. Quanto poi all’ambito isolano, mi pare che Nino d’Ambra, per la consistenza dell’impegno profuso, per la serietà della ricerca e per la qualità complessiva del Garibaldi (ma anche di altre sue opere), trovi ideali rispondenze in figure degne come Giuseppe D’Ascia, Pietro Monti e Giorgio Buchner. Il che non mi pare affatto di poco conto. Pasquale Balestriere 10, 11, 12 gennaio Artù Marcolfa Tratto da “La Marcolfa” di Dario Fo Regi di Milena Cassano 7, 8, 9 marzo Amici del teatro Non ci resta che piangere Libero adattamento di Corrado Visone 17, 18, 19 gennaio Giannino Messina Eredità di Raffaele Caianiello 24, 25, 26 gennaio Ischia Teatro Stabile ‘E grazie d’o paravise di R. Caianiello 31 gennaio, 1, 2 febbraio Strani Tipici Match Improvvisazione Teatrale Triangolare Ischia – Roma – Arezzo 7, 8, 9 febbraio Pane Amore e Fantasia ‘A verità è zoppe, ‘a fortuna è cecate, ‘e sorde so ciunche di Gaetano Di Maio 14, 15, 16 marzo Compagnia Instabile del Torrione Forio ‘O miedeco d’ ‘e pazze di Eduardo Scarpetta. Regia di Gaetano Maschio 21, 22, 23 marzo Don Bosco Morte di carnevale di Raffaele Viviani 28, 29, 30 marzo Divini Commedianti Filumena Marturano di Eduardo De Filippo 4, 5, 6 aprile Attori per caso ‘A casa de pazze di Giulio Fotia Regia di Teresa Sasso 14, 15, 16 febbraio Amici del Teatro Chiara e Francesco il Musical – L’amore quello vero Libero adattamento dei Piccoli Soli 11, 12, 13 aprile Filodrammatica E. Canestrini Miseria bella e trampoli e cilindro di P. De Filippo 21, 22, 23 febbraio Amici del teatro (data da confermare) Ronga 19 aprile Amici del teatro / U.C.A. Pasqua Rock Festival Fuori cartellone 28 febbraio, 1, 2 marzo Amici del teatro (data da confermare) Ischia Film Festival / Brandelli d’Italia 25, 26, 27 aprile Compagnia della Danza Alice in wonderland Adattamento di Barbara Castagliuolo La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 47 Emozioni vere e vive allora, come oggi.... di Gaetano Ponzano Ritornando a Ischia ... Ecco, oggi mi ritrovo su quel lungomare alberato e profumato di odori vari e di salsedine, della mia Forio. La brezza dal mare antistante, sospinta da Eolo, mi giunge, leggera e soave e mi accarezza il viso, il mio, appassito e or mai smunto dal tempo che scorre ahimè inesorabile… ma i ricordi della mia adolescenza, quelli no, quelli restano, non sfumano con il tempo, anzi si ingigantiscono nella mente, la mia che vive sì la realtà, ma con la nostalgia del tempo che fu. Con gli occhi lucidi e con il cuore in fibrillazione, osservo emozionato il volo leggero del bianco gabbiano che or baciando le onde dell’azzurro-verdeggiante mare e or svettando su nel cielo terso, pare, col suo stridulo garrire, sussurrarmi: coraggio caro Gaetano, noi vivremo sempre in simbiosi, emozionandoci sempre insieme, arrivederci a presto. Ricordi ed emozioni della mia Forio Durante la mia prima adolescenza, nell’anno millenovecentoquarantotto iniziai ad andare in spiaggia, con il mio fratello maggiore, Giacomo, in compagnia di alcuni compagni di scuola e di vicinato. Giocavamo, allegramente, a nascondino o ai corsari, utilizzando barche o pescherecci in secca sulla sabbia o in acqua a ridosso del bagnasciuga. Trascorrevo, in tale modo, in compagnia, molti pomeriggi, giocando e divertendomi. Ben presto mi accorsi che durante questi giochi, sopragiungeva in me, una sensazione di strana insoddisfazione, il mio animo veniva posseduto da un senso di vuoto, ricercavo qualche sensazione vera e più intensa, e degna di essere vissuta con interezza dal mio animo. Abbandonavo tutto e tutti, e dopo essere rincasato, riordinato a puntino, mi trasformavo, presentandomi con un nuovo ‘Io’, il vero, al cospetto di ‘Vere’, ‘Piene’, ‘Mie’, contemplative sensazioni, che volevo io , solo per me, provandole gelosamente ed intensamente, centellinandone gli insegnamenti, giorno dopo giorno, poiché sensazioni indelebili. A lungo passeggiavo sul lungo mare, laddove la strada, fiancheggiata da inebrianti fiori variopinti, multicolori e colmi di quei profumi intensi e dolcissimi, intensamente mi avvolgevano esaltando il mio spirito. Passeggiavo sul lungomare, osservando alla mia sinistra, le onde azzurro-verdeggianti, infrangersi sulla scogliera, fiancheggiante la strada, emanando nell’aria spruzzi salmastri, indorati dai raggi del sole calante all’orizzonte, dove miracolosamente, spesso si poteva ammirare, il mirabile Raggio Verde, senza esserne posseduti interamente, da sì ancestrale bellezza. 48 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 Dove trovare sensazioni più sconvolgenti e vere, più piene e più genuine e contemplative?! Queste sono emozioni, vere e sconvolgenti che io ho serbato gelosamente e serberò perennemente nel mio animo, poiché parti integranti del mio essere!!! Emozioni più che mai vive oggi, come allora, e che dimoreranno per sempre nel mio cuore… Io ad Ischia Io ad Ischia… sono rinato … a Forio sono stato cullato … sopra il Soccorso ho fantasticato … per la sua divina sacralità … sull’orizzonte ho continuato a volare … su quelle ali del bianco gabbiano … a capofitto mi sono buttato … in quelle acque azzurro-verdi … del mio bel mare che maestoso … m’avvolge intero accarezzandomi … e dolcemente ora mi culla … e piano . … m’abbraccia … e piano sussurra: … culliamoci … e amiamoci in eterno. Nostalgia Sul lungomare scorgo la mia infanzia e la rivivo tra luci di lampare e quelle dei lampioni. L’odore di oleandri e i colori accesi delle campanelle m’avvolgono intensamente, ed io gioisco in cuore. Il libeccio dal mare m’accarezza il viso, io m’inebrio estasiato e attonito mentre salsedine e odori d’infanzia colmano il cuore di ricordi di una vita lontana: nostalgia della terra materna. Ex libris Alcuni Fatti di Alfonso I d’Aragona dal 15 Aprile 1437 al 31 di Maggio 1458 di Miniero Riccio C. Napoli, ASPN, Anno VI, fsc. I, (Parte prima), pp. 1-35 (1891). Anno VI, fsc, II, pp.231- 258; Anno VI, fsc. III, pp. 411-461. File pdf in GOOGLE BOOKS, via www.archive.org. Anche in BSNBP. p.28: [a.1441] Alfonso spedisce la nave di Marcello di Nizza all’Isola d’Ischia per impedire che da quell’isola con navi possano trasportarsi soccorsi alla città di Napoli p.29: [a. 1441] Alfonso con due barche dell’isola d’Ischia fa trasportare due grosse bombarde da Pozzuoli alla Torre del Greco per combattere questa terra. p.448: [1456] Alfonso dà una sontuosa colazione nel ca- stello dell’Uovo in Napoli quando vi tiene a convito alcuni ambasciadori e signori del Regno e della sua corte. Altra simile ne dà nell’isola d’Ischia a madama Lucrezia d’Alagno ed a molte altre dame di onore. .... Alfonso manda per inalberrasi nella isola d’Ischia, una bandiera colle armi di Aragona e del Regno di Napoli. p.449: [1456] Tuttavia si lavora alla costruzione del- la grande sala di Castelnuovo nella città di Napoli, per la quale si tagliano le pietre nell’isola d’Ischia; e nello stesso tempo si sta formando il giardino nell’ambito dello stesso castello con palmi 3417 di fabbrica di pietra dolce e con palmi 563 di pietra di piperno. p.458-459: [1458] Febbraio 28. Per la scalinata della grande sala di Castelnuovo di Napoli Alfonso fa tagliare le pietre nel monte dell’isola d’Ischia. Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli del sig. Carlo De Lellis, parte prima, Napoli 1654. La Famiglia Della Quadra - Nei tempi del Re Cattolico Ferdinando venne nel nostro Regno il Dottor Diego, in Italia chiamato Giacomo della Quadra, d’antichissima e nobil famiglia della Città di Seviglia nella Spagna; il che si rende chiaro dal vedersi che non potendosi ciascuno ammettere a far il corso de’ suoi feudi nel Collegio della Nation Spagnola eretto con questa legge dal Cardinal Albornoz nella Città di Bologna, se rigorosamente non fa primieramente le prove dell’antica sua nobiltà, per parte di padre, e di madre, a similitudioe di colui, che agli ordini militari vuol essere ammesso; D. Giacomo in quel Collegio fu aggregato, ove compì il corso de’suoi studi legali, e ricevé il grado del dottorato; havendo primieramente fatto in Seviglia sua patria nel 1496 le prove della sua nobiltà, così per parte di Don Alvaro Bernal della Quadra suo padre, figliuolo del Licentiato D. Giovanni, e di D. Maria Gonzales, come per parte di sua madre Violante della Quadra, figliuola di D. Diego della Quadra, e di D. Beatrice Gonzales; vedendosi intorno a’ medefimi tempi, e propriamente nel 1517 essere anche fatte le prove della sua nobiltà del modo sopra detto, per essere ammesso al medesimo Collegio di Bologna, da D. Giovanni Lopes della Quadra, nato da D. Sancio Ortiz della Quadra, in virtù delle quali vi fu anch’egli incorporato; costando poscia da una fedel relatione d’una lunga genealogia della famiglia della Quadra, transuntata in un publico instrumento, come essa famiglia così fusse detta dal folar di questo nome in Biscaglia, e come era discendente da i Re d’Aragona; e ritornando a D. Giacomo diviene egli così dotto nella profession legale, e negli affari del mondo di tanta prudenza e sagacità, che i suoi detti, e consigli eran tenuti come oracoli, e giudicati sufficientissimi a risolvere ogni più astrosa difficoltà, di modo che bastava haverlo detto il Dottor Quadra et hoggi il giorno volendosi ad alcuno attribuire un nome di gran dottrina, e gravità, dir si suole, fusse mai costui il Dottor Quadra, quindi fu da i Vicerè del Regno adoperato in molti gravi maneggi, e dall’imperador Carlo V fatto nel 1519 del suo Consiglio di Santa Chiara, fu delegato nelle cause contro ribelli nei tempi della guerra di Monsù di Lautrech, e per rimuneration de’ suoi servigi hebbe dal medesimo imperador Carlo concessione delle Terre di Santa Severana, di Centola, di Foria e della Poderia, & hebbe anche concessione d’annui scudi quattrocento detti del Sole; fu costui casato con Donna Anna Serone nobilissima Signora di nation Spagnola, sorella di D. Antonio Serone secretario del nostro Regno, con la quale fé D. Ludovico, D. Alvaro, D. Maurizio, D. Girolamo, Donna Beatrice, D. Violante e D. Vittoria e morta D. Anna ne’ dolori del parto, e sepolta dietro l’altar maggiore della Chiesa di Santo Antonio Abbate, fuor le mura di Napoli nel Borgo. […] Delle figliuole di Don Giacomo, Donna Beatrice fu maritata col Regente di Cancellaria del nostro Regno Martiale; del qual vedova si rimaritò con Don Mutio d’Avolos de’ Signori di Ceppaloni, e come pia, e Religiosa Signora fondò in Ischia il Monasterio di donne monache. ----------------------------------------------------------------- L’atto di fondazione e di costruzione del monastero La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 49 porta la data del 10 settembre 1575, il Breve Pontificio è dell’11 febbraio 1576, la proclamazione della clausura da parte del Vescovo d’Ischia, Mons. Fabio Polverino, del 14 luglio 1577; esso viene intitolato sotto il nome di S. Maria della Consolazione, con la regola di S. Francesco d’Assisi. La Signora Beatrice della Quadra, come fondatrice, dona il luogo dove s’ha da fare il monastero, e cioè una grande casa da adattarsi a convento, posta dentro la Città del Castello; inoltre fa dei legati per provvedere dopo la sua morte: uno lo carica sopra un fondo di Matarace, a Barano d’Ischia, un altro sopra una proprietà posta a Casamicciola denominata Rostinale. Il Breve Pontificio reca il nome del papa Gregorio XIII, il solenne riformatore del calendario: «Per opera di cittadini isolani, e in particolare di Beatrice Quadra, matrona napoletana, vedova di Muzio d’Avalos, non essendovi nell’isola d’Ischia monastero di donne, nel quale le vergini possano votarsi al Signore, si è stabilito di fondare un monastero dell’Ordine di Santa Chiara, sotto il titolo di Santa Maria della Consolazione. La detta signora ha fatto dono della casa, e promette adattarla a forma di convento col beneplacito del Vescovo d’Ischia. Fummo umilmente supplicati dell’erigere detto monastero, e l’erigiamo e lo costituiamo1» 1 Dal Diario del convento delle Clarisse isclane, esistente presso la Biblioteca Antoniana) L’Italia descritta e dipinta con le sue isole per cura di D. B. – Seconda edizione, tomo II, Regno di Napoli, Torino 1837 Io aveva esplorato i luoghi dai versi di Virgilio fatti immortali : avea veduto i Campi Flegrei ed i Campi Elisj; la grotta di Posilipo e quella del Cane e quella della Sibilla e la Dragonaria, le bollenti acque di Tritoli e la palude Stigia, il tempio di Giove Serapide e tutti que’ lidi di Baja ove i Romani, non ben contenti della terra, fondavano i lor palagi nell’onde. Avea calcato da ogni banda quel suolo, ricoperto altre volte di monumenti fastosi, ora sparso d’informi reliquie, e m’era penetrato nell’animo l’eloquente silenzio di quelle rovine. Mi facea d’uopo trovar sollievo alla mestizia che sempre vien dentro al cuore di chi cogitabondo si ferma a contemplare gli avanzi delle generazioni che sono passate sopra la terra. Perciò deliberai di tragittarmi ad Ischia che è presentemente per Napoli ciò che Baja era per gli antichi, il convegno de’ ragguardevoli e degli eleganti a cagione de’ suoi bagni minerali. Andai pertanto in vettura sino a Bagnoli, dove si trova una barca sulla quale si traversa il braccio di mare detto canale di Procida, largo quattro o cinque miglia. Queste barche camminano a vele ed a remi. Sopra ad uno di questi 50 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 piccoli legni mi confidai al perfido elemento che, all’atto del nostro dipartire, era placido e terso come uno specchio, e riverberava il più bel chiarore di luna. Estatico io contemplava questo delizioso spettacolo ed assaporava le dolcezze del poetico incanto, allorquando l’impetuoso scirocco venne a cambiar la scena colla rapidità con cui ad un colpo di fischietto le vediamo cambiare nei teatri. Si ammonticchiarono le nubi e stesero un tenebroso velo. Sopravvenne la pioggia, il mare si commosse, ed i lampi tratto tratto solcavano il cielo, non lasciando vedere sul quadro ch’io avea dinanzi agli occhi che bagliori di luce: due o tre vele bianchiccie si mostravano sole nel mare, imprudenti anch’esse come la nostra. La burrasca fu gagliarda; ma non durò, ed approdammo a Borgo d’Ischia. Quest’isola, la più ampia e la più ragguardevole tra quelle che stanno nel golfo di Napoli, fu per lungo tempo chiamata Pitecusa, nome che taluni fanno derivare, senza che ne sappia il perché, dalla quantità di scimie che racchiudeva, e di cui altri attribuiscono l’origine alle stoviglie delle quali tuttora vi son molte fabbriche. Omero, Pindaro e Mons. Camillo d’Ambra così scrive parlando del vescovo Polverino2: «Fiore all’occhiello del suo episcopato fu la fondazione in Ischia di un Monastero di clausura, quello di S. Maria della Consolazione che avrà una vita di trecentosette anni. La Signora Beatrice Quadra, due volte vedova di un Marziale e di un d’Avalos, volendosi consacrare alla vita monastica donò il suo palazzo trasformandolo in monastero. Il nuovo cenobio di Clarisse ricevette l’approvazione eccclesiastica con un Breve di Gregorio XIII». * 2 Camillo d’Ambra, Ischia tra fede e cultura, storia dell’Isola verde attraverso i suoi vescovi, Rotary Club Isola d’Ischia, 1988. Virgilio la chiamarono Inarime. Ora addimandasi Ischia, ma non da assai. S’ignora onde le venisse questo suo nome moderno. Racconta Strabone che i primi abitatori della presente Ischia furono Eritrei, ma che i suoi vulcani sempre accesi e le terribili loro eruzioni avendoli costretti ad uscirne, ella rimase deserta sino all’anno 450 avanti l’E. V. Finalmente i Romani, più animosi, vi posero stanza e vi rimasero sino al tempo d’Augusto, il quale preferendo Capri, fece il cambio di quest’isola coi Napolitani. Ischia ebbe a gemere delle dissensioni che straziarono il reame di Napoli, e, come gli abitanti della capitale, fu sottoposta al giogo dei varj vincitori. Nel 1440 Alfonso d’Aragona ne cacciò tutti gli abitanti maschi e surrogò ad essi altrettanti Spagnuoli e Catalani del suo esercito che costrinse a sposare le vedove e le figliuole degli lschiotti espulsi. L’isola d’Ischia è riccamente coltivata su tutta la superficie, non eccettuandone l’Epomeo, il cui cono è alto quanto quel del Vesuvio; mostrasi questo monte ricoperto di vigne sino alla sua sommità. Può l’isola risguardarsi come un immenso vigneto; i suoi frutti sono squisiti ed i suoi fichi si meritarono i versi di Orazio: Et nux ornabat mensas cum duplice ficu (Sat. II, lib. II v. 421) Ischia ha di popolazione 24.000 ani- me, ed i suoi abitanti sono spiritosi ed industri; ma della sua celebrità va tenuta alle sue fontane d’acque minerali, a’ suoi bagni caldi ed alle sue stufe di sabbia; vi si trovano undici sorgenti d’acqua fredda, e trentacinque d’acqua calda. Un gentiluomo che sino dal 1806 si tolse da Napoli per venir a vivere solitario quasi nell’isola d’Ischia, ed al quale io era raccomandato, mi accolse cortesemente e promise di accompagnarmi a vedere tutte le curiosità del paese. Egli volle dissuadermi di salire alla città d’Ischia, dicendomi non vedersi più che le rovine di quella edificata nel medio evo, e distrutta nell’eruzione dell’Epomeo del 1302, la quale tenne tutta l’isola in fuoco per lo spazio di due mesi. Mi piegai tanto più volentieri a questo consiglio, quanto che per andar a vedere un’antica cattedrale, l’arcivescovado, pochi villici ed una cinquantina di soldati invalidi non valeva il pregio di avventurarsi in un cammino aspro troppo e disastroso, dovendosi per andarvi salire penosamente una rupe di lava. Ci contentammo di vedere il Borgo, che è popolatissimo e ben fabbricato. Le vie ne son larghe, diritte ed abbellite di varie fontane d’acqua viva che sorge dall’Epomeo. Montati sul docile animal di Sileno prendemmo a far una scorsa nel paese. Bastano dieci ore per far il giro di tutta l’isola. Appena usciti dal Borgo vedemmo con meraviglia il campo di lava detto l’Arso, formato dalla eruzione che inghiottì questa nuova Ercolano; è un’eminenza di circa 50 piedi, che separa il Borgo dai Bagni. Questa lava, dopo 530 anni, conserva tuttora il suo aspetto spaventoso e malinconico; quanti secoli ci vorranno ancora per renderla atta alla vegetazione! Di lì scendemmo nel piano che si stende dal mare sino ai piedi dei due antichi vulcani. Sorge a sinistra una bella villa del Re, e a destra il lago d’Ischia disgiunto dal mare per un banco di sabbia largo cinquanta piedi. Prima di giungervi trovammo i Bagni, che danno il nome ad un casale posto in questa pianura; sono essi alimentati da due abbondantissime sorgenti d’acque calde. Ci pungeva il desiderio di arrivare alle stufe di Castiglione, edificate immediatamente di sopra a varie aperture, dalle quali le viscere della terra lasciano sfuggire un caldo vapore. Quivi concorrono gli infermi a prendere bagni a vapore in una fossa quasi dell’altezza di un uomo. Si trovano in questi dintorni le rovine di varj maestosi antichi edifizj, piscine e serbatoi, che spettavano all’antica città degli Eubei, distrutta dall’eruzione. di Rotaro. Proseguendo il cammino, passammo a Foria, altro villaggio passabilmente ricco, dove ci soffermammo a prendere riposo. Foria rappresenta l’immagine dell’agiatezza ed anche talora del lusso. Dopo mezz’ora ripigliammo il viaggio e poggiammo in sulla vetta dell’Epomeo, vasta piramide di cui avevamo fatto il giro descrivendo una spirale dalla sponda del mare sino alla sua cima. Discesi dalle nostre pacifiche cavalcature, un buono anacoreta ci accolse alla porta del suo eremo; egli ci accolse per un andito oscuro sopra un terrazzino scoperto, posto sull’orlo di un precipizio. Non è possibile provare più viva sensazione e più grata sorpresa. Quale stupenda scena al nostro sguardo s’offerse! La lunga ma graduata salita da Foria sino al vertice, ci avea impedito di computare la vera elevazione di questa montagna. La nostra vista si stendeva coi territori di Casamice, d’Ischia, di Lacco, di Foria e dei piccoli villaggi e casali sparsi sulle pendici del monte. L’isola intera, guardata da questa sommità, somiglia ad una miniatura, ed esibisce agli occhi i colori più brillanti, le tinte più armoniche. L’eremo è interamente scavato nel sasso, tranne la sola facciata della cappella, che è di cotto. Il piccolo santuario conserva la sua semplicità primitiva, a malgrado della sua rinomanza che vi chiama sempre grandissimo concorso di pellegrini. Il tranquillo abitatore di questa caverna vive una vita contemplativa, ed è quasi collocato tra il cielo e la terra. Invece di scendere in linea retta, ci piacque fare il rimanente giro della base dell’Epomeo: pochi stranieri scorrono questo solitario e selvaggio calle pieno di oggetti atti a far dimenticare il soprappiù della fatica che può cagionare quest’ultima scorsa. Dovevamo di quinci arrivare a Casamice; ma per evitare un’aspra china ritornammo indietro verso l’acquedotto, a fior di terra, che attraversa l’opposta pendice dell’Epomeo e reca al Borgo le acque di Boceto. Mezz’ora dopo eravamo a Casamice, i cui bagni sono sì rinomati. Qui concorre gente da tutte le parti del reame e trovasi unita la brigata de’ più gentili. Esaminando minutamente lo stabilimento dei bagni pubblici, ci scorgemmo pulitezza ed ordine in modo esemplare. Ogni anno trecento poveri ammalati qui vengono a farsi guarire a spese dello spedale di Napoli. Principia la loro cura coi bagni, poi gl’immergono nella sabbia, che anche sott’acqua conserva un ardente calore. Si trova presso Casamice un masso d’antica lava che forma una caverna dove si pongono a rinfrescare, come in una ghiacciaia, i frutti e le bevande; non vi si può rimaner qualche tempo senza risentire insopportabili dolori. Questa freschezza è maravigliosa soprattutto perché non è mai accompagnata dal vento. Sembra ch’essa provenga dalla immensa quantità di nitro di che tutto quel terreno abbonda. Non trascurammo di visitare la bella manifattura di cappelli di paglia, dove si fanno anche bellissimi panieri. Altro non era da vedersi, perché le antichità d’Ischia si ristringono ad alcune iscrizioni ed a pochi bassirilievi : vi si trovò un’urna cineraria di marmo bianco con un’iscrizione. Nel tornarmene a Napoli per mare, diedi un saluto alla vaga isoletta di Nisida, di tondeggiante forma, che siede nell’onde dove finisce il Posilipo, monte dal quale anticamente venne divelta. La sua bellezza la fece dal Sannazaro convertire in Ninfa d’Arcadia. * La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 51 Appunti di viaggio: Messico Palenque, l’antica Lakam Ha, custode dei misteri della grande civiltà Maya di Carmine Negro Quando si arriva a Palenque, un importante sito archeologico situato nello stato messicano del Chiapas, si resta estasiati dalla lussureggiante vegetazione che avvolge i luoghi. Dopo aver lasciato il bus che ci ha accompagnati in uno spiazzo, varcato l’ingresso, ci incamminiamo lungo un viale. La guida ci aiuta ad individuare nel verde cupo degli alberi lo splendente piumaggio dei pappagalli, il becco giallo del tucano: volano veloci, danno la sensazione di saltellare tra un albero e l’altro. L’antico centro di cerimonie Maya, non ancora invaso dalla folla di visitatori, è in attesa dei primi raggi del sole. La grande quiete che avvolge la città sepolta è interrotta e disturbata dal grido acuto e dagli strilli bizzarri delle scimmie urlatrici che abitano la foresta dintorno. L’area visitabile è solo 1/10 della superficie totale della città nel periodo di massima espansione; buona parte delle strutture restano coperte dalla foresta. Designata come zona protetta dal 1981 e dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1987 Palenque contiene alcune delle più belle opere di architettura e di scultura che i Maya abbiano prodotto. Fu il frate domenicano Pedro Lorenzo de la Nada, impegnato a convertire alla religione cattolica il popolo Ch’ol che abi- tava la zona, il primo europeo a visitare le rovine nel 1567 e a farne una breve descrizione. Al tempo i residenti chiamavano quei luoghi Otolum, “terra con forti case”, De la Nada lo tradusse come Palenque, che in spagnolo voleva dire “fortezza”. Un altro nome era anticamente associato a questa città: Lakam Ha, “grandi acque”, a ricordare i fiumi e le grandi cascate che si trovavano in quella che era la capitale dell’importante stato di B’aakal. Nessuno dedicò particolare attenzione alla città abbandonata fino al 1773, quando Don Ramón de Ordoñez y Aguilar a seguito di una visita dei luoghi inviò una relazione al Capitano Generale di stanza nella città di Antigua in Guatemala. Successivamente la città antica fu rivisitata, le rovine furono riclassificate di alto interesse e l’esploratore e architetto Antonio Bernasconi, accompagnato da un contingente militare, disegnò la prima mappa del sito e produsse alcune copie delle figure dei bassorilievi e delle sculture. Nel 1822 con le informazioni ricavate dalle spedizioni, incisioni di Bernasconi e disegni di Castañeda, fu pubblicato a Londra il primo libro su Palenque, dal titolo “Descriptions of the Ruins of an Ancient City, discovered near Palenque” (Descrizione delle rovine antiche scoperte vicino a Palenque). Fu l’esploratore militare Juan Galindo a nota- Rovine della città preispanica di Palenque 52 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 re che le figure rappresentate a Palenque erano simili alla popolazione locale e non agli Egiziani, ai Polinesiani o alle Dieci Tribù d’Israele come erroneamente ritenuto all’inizio del XIX secolo. Nel 1832 Jean Frédéric Waldeck convinto della stretta relazione tra gli antichi Maya, la civiltà egizia e il mito del continente perduto di Atlantide, ha realizzato con i suoi disegni una ricostruzione poco attendibile dei luoghi e alimentato la speculazione su un presunto comune legame tra mondi vecchi e nuovi. Con il tempo, alle sue composizioni artistiche, è stato riconosciuto il merito di aver costruito nell’immaginario europeo dell’epoca scorci di un mondo pre-colombiano del tutto ignoto nel vecchio continente, e rappresentato uno dei primi tentativi per confrontarsi con un passato diverso e completamente “altro”. Fu grazie a questi disegni che nel 1839 John Lloyd Stephens, avvocato di New York con la passione per l’archeologia, e Frederick Catherwood, giovane architetto inglese, bravissimo disegnatore e anche lui gran viaggiatore, decisero di compiere un viaggio nell’America Centrale per indagare, conoscere e scoprire resti e testimonianze di popoli vissuti nel passato. Il viaggio durò diversi mesi e quando si trattò di raggiungere una città come Palenque che si trovava all’interno di una zona difficile con foreste molto fitte, il percorso diventò arduo e faticoso. Nelle parole dell’etnoarcheologo Victor van Hagen, il racconto della scoperta: “All’alba, mentre la foresta era ancora opaca dei vapori notturni, Stephens e Catherwood avanzarono su Palenque in perfetto ordine militare… Palenque era a malapena visibile, immersa nel mare verde della foresta. Pareva sospesa al limite estremo delle montagne, sull’orlo di uno sperone sporgente da una catena coperta di vegetazione tropicale… La città dominava una pianura dolcemente ondulata dove in passato, migliaia di anni prima, campi di mais a scacchiera avevano fornito il sostentamento ai suoi costruttori e ai suoi abitatori… Gli artigiani maya avevano dato prova di grande audacia architettonica erigendo gli edifici sull’orlo di una gola ripida… Il luogo pareva… tecnicamente più progredito degli altri che avevano visto… Durante i primi dieci giorni, nonostante il vento, la pioggia, gli insetti e i pipistrelli, riuscirono a misurare, a disegnare e a esplorare la massa sgretolata dall’azione distruttiva di un millennio. Però la mancanza di sonno si faceva sentire con effetti visibili su tutti quanti. Catherwood ogni tanto lasciava cadere di colpo la testa sul cavalletto e soltanto il ronzio insistente dei minuscoli tormentatori riusciva a svegliarlo...”. Nel 1841, John Lloyd Stephens nel volume ‘Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatán’, scrisse: ‘Nel fantastico romanzo d’avventure che è la storia del mondo, nulla mi lasciò l’impressione più forte dello spettacolo di questa città, in passato grande e bella, e oggi devastata, desolata, perduta’. All’inizio del XX secolo molte spedizioni visitarono il sito archeologico ma le scoperte archeologiche più importanti sono state fatte tra il 1949 e il 1952, quando il governo messicano, tramite l’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH), inviò una squadra di esploratori e scavatori capeggiata dall’archeologo messicano Alberto Ruz Lhuillier. *** Il Tempio, o Piramide delle Iscrizioni deriva il suo nome dai geroglifici che furono ritrovati al suo interno. Sulla piramide alta 65 metri e formata da nove gradini, i nove mondi religiosi dei Maya, è situato un tempio che con le sue cinque porte simboleggia la terra, mentre con la merlatura, nota come il “pettine”, il cielo. La struttura nel suo insieme rappresenta l’albero della vita, più volte raffigurato nei palazzi della città. Nel 1949, l’archeologo messicano Alberto Ruz Lhuiller mentre stava lavorando a dei restauri si imbatté in una lastra del pavimento munita di alcuni fori. Accidentalmente vide che la lastra si sollevava e si accorse di un passaggio segreto che conduceva ad una piccola cripta situata nel cuore della piramide, a diciotto metri di profondità. Dopo averla rimossa, si trovò davanti l’inizio di una scala il cui accesso era bloccato da un cumulo di macerie; furono necessari tre anni di lavoro per sgomberarla. Ai piedi della scala, situata esattamente a livello del suolo, ancora una pietra triangolare infissa e gli scheletri di sei giovani, molto probabilmente vittime sacrificali. Rimossa la lapide, Lhuiller si trovò in una sala che era rimasta intatta per oltre mille anni: ‘un’immensa stanza vuota che sembrava scavata nel ghiaccio, una sorta di grotta le cui pareti e il tetto parevano essere stati piallati fino a divenire perfettamente lisci, oppure una cappella abbandonata avente la cupola drappeggiata da cortine di stalattiti, e dal cui pavimento s’innalzavano stalagmiti spesse come sgocciolature di candele...’. Questa cripta funeraria con alle pareti i bassorilievi dei nove Signori Maya della Notte, gruppo di nove divinità che governavano ciclicamente le notti conteneva un sarcofago sormontato Palenque - Lastra-pacal La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 53 da una lastra finemente incisa oggetto di grandi discussioni tra gli archeologi. Vi è rappresentato il re Pakal, nelle sembianze di una manifestazione del dio maya del mais che sta emergendo o inabissandosi nel mondo dei morti. Akal K’inich Janaab’ (Palenque, 23 marzo 603 – Palenque, 28 agosto 683), conosciuto anche come Pacal il Grande o semplicemente Pakal, è stato il più celebre re maya di Palenque. Durante il suo governo furono costruiti la maggior parte degli edifici e dei templi di Palenque. La città fiorì eclissando la fama di altre città Maya. La scoperta sotto al Tempio delle Iscrizioni, della tomba del re Pakal il Grande (K’inich Janaab’ Pakal), considerata da molti la tomba più importante ritrovata in tutta l’area mesoamericana per il bassorilievo e per il sarcofago. Le incisioni raffigurano Pakal che cade dall’albero della vita verso il regno dei morti. Questa immagine ha dato luogo alla storia dell’astronauta di Palenque. La struttura a croce somiglierebbe alla fusoliera di un velivolo spaziale, con dietro le fiamme di un reattore acceso e l’ala di deviazione dei gas di propulsione. Pakal avrebbe nelle narici un respiratore mentre la sua mano destra sarebbe sull’asse di comando e il piede sinistro sull’acceleratore. In realtà i sostenitori di questa tesi osservavano la lastra funebre del re Pakal nel verso orizzontale. Orientando la lastra in modo verticale re Pakal, è a metà strada tra la vita e la morte, in quanto sta cadendo dall’albero della vita verso il mondo dei morti. Sta per essere fagocitato dalle fauci di un serpente, mentre sotto di lui c’è la raffigurazione del dio della terra e della morte. La terra che dà la vita e che la toglie è, quindi, una metafora per raffigurare l’ingresso di Pakal nel mondo dei morti. In cima all’albero della vita c’è il serpente piumato che rappresenta Itzamnà, il dio creatore, e vicino una pianta di mais, ancora oggi alimento base della cucina centroamericana. Pakal è raffigurato con il gonnellino tipico del dio maya del mais. Dentro il sarcofago, Lhuiller trovò i resti di un uomo con il corpo e il volto ricoperti da gioielli di giada verde che creavano un brusco contrasto con il rosso vermiglio del rivestimento della tomba. L’elemento più straordinario era la maschera mortuaria, un mosaico di giada: gli occhi, intarsiati di ossidiana e conchiglia, producevano un sinistro e arcano effetto. Se è pur vero che Pakal è stato il più importante, il primo Re di Palenque di cui si ha traccia storica è invece Chaacal I che regnò a partire dal 501 mentre Kuk, l’ultimo sovrano, chiuse l’apogeo nel 784. *** Sebbene il sito di Palenque fosse già occupato nel I sec. a.C., la città conosce il suo massimo splendore nel VII sec. d.C., quando il regno è guidato dal sovrano Kin Pacal e poi da suo figlio Chan Bahlum. Gli edifici più importanti, come il Gruppo della Croce, il Tempio delle Iscrizioni e il Palazzo, sono tutti databili ad un periodo che va dall’inizio del VII secolo alla metà dell’VIII secolo, quando Palenque e i suoi sovrani dominavano un vasto territorio. La città, magnifico esempio di architettura maya doveva apparire grandiosa al tempo del suo massimo splendore. Le piramidi dipinte di rosso avvolte dal verde cupo della vegetazione, l’utilizzo dello stucco, per ricoprire interamente gli edifici consentivano un elevato livello estetico e un forte impatto emotivo. La città è la vera capitale dello stucco grazie anche all’umi54 La Rassegna d’Ischia n. 6/2013 dità della foresta tropicale che meglio conservava tale tipo di decorazione. Gli stessi tetti inclinati a mansarda avevano probabilmente la funzione di proteggere i delicati rilievi a stucco collocati sui muri esterni. E poi ancora le snelle cresterías, alte merlature traforate che, con una esplicita funzione estetica, elevavano e alleggerivano le costruzioni. In altre parole slanciavano i tozzi edifici che in questo modo assumevano una leggerezza formale superiore a quella concessa dalle spesse strutture murarie. Situato nella parte centrale della zona archeologica su una terrazza artificiale alta 10 metri, il cosiddetto Palácio, è un complesso di edifici adiacenti e interconnessi da cortili. Il suo nome è dovuto proprio all’unione di corti, portici e passaggi sotterranei. Quasi al centro del Palácio si innalza la torre, utilizzata forse per osservazioni astronomiche. I Maya hanno precise competenze in campo astronomico: pur non essendo a conoscenza della forma della terra, i Maya, padroneggiavano le cause delle eclissi e sapevano calcolare i momenti dei solstizi e degli equinozi con esattezza. Alla base di tali conoscenze c’era sicuramente il loro progresso in campo matematico: conoscevano infatti lo zero ed adottavano la numerazione posizionale. Il loro calendario molto preciso, aveva due diverse misurazioni del tempo: una rituale di 260 giorni; l’altra solare, di 365 giorni divisi in 18 mesi di 20 giorni ciascuno più un periodo aggiuntivo di 5 giorni. I cicli e il ripetersi dei fenomeni astronomici avevano assunto presso i Maya un significato talmente importante che il loro calendario, ad uso civile e religioso, era esclusivamente basato sui fenomeni celesti. Alle spalle del Palazzo furono fatti costruire, dal Re Chan Bahlum, figlio di Pacal, alla fine del VII secolo, tre templi, il Tempio della Croce, il Tempio della Croce Fogliata e il Tempio del Sole, tre edifici a pianta rettangolare rivestiti all’interno da pannelli istoriati. Il Tempio della Croce e quello della Croce Fogliata devono il loro nome a un’errata interpretazione dei primi scopritori, che videro sulle pareti un rilievo che somigliava a una croce, ma che in realtà raffigurava la Ceiba, l’Albero Cosmico dei Maya. Il Tempio del Sole mostra invece delle immagini di giaguaro e si pensa, quindi, che fosse dedicato ai sacrifici di sangue e alla guerra. I tre edifici rappresentano un ideale percorso cosmico: si parte dal Tempio della Croce, che è il più elevato, a simboleggiare il sovrannaturale per poi scendere al Tempio del Sole notturno, la fase sotterranea di questo viaggio immaginifico che si chiude con la rinascita e la fertilità rappresentate del Tempio de la Cruz Foliada. La famiglia maya era monogamica; l’economia si fondava sulla caccia, sulla pesca, sulla coltivazione del mais. L’abbigliamento consisteva in brache lunghe sino al ginocchio e decorate per gli uomini, di una gonna di cotone e una blusa, entrambe ricamate, per le donne; le classi superiori usavano spesso ornarsi di giada e di piume. L’idea di bellezza era diversa rispetto a quella degli europei: ai neonati delle famiglie nobili veniva serrato il cranio tra due assi, per produrre una deformazione ed un allungamento, segni di bellezza; lo strabismo era considerato una dote, e per provocarlo, si appendevano palle di legno agli occhi dei neonati; orecchie, labbra, naso venivano perforati per inserirvi degli ornamenti; i giovani amavano dipingersi di nero, gli adulti di rosso. A Palenque una vasta area era destinata al Gioco della Palla. I campi da gioco erano costruzioni rettangolari a forma di doppio T circondate da mura: un anello di pietra conficcato perpendicolarmente su una parete fungeva da porta attraverso la quale doveva passare il pallone. Venivano chiamati “campi di gioco degli dei”, perché il gioco era considerato una vera e propria cerimonia religiosa. Uno dei miti Maya narra di due giovani che disturbarono i signori del mondo sotterraneo giocando a palla, per questo motivo uno dei due fu decapitato e la sua testa venne usata come palla. Per tale ragione nelle competizioni reali era stabilito che la palla non toccasse mai il terreno, per non disturbare il mondo sotterraneo. Il pallone era formato da una grossa palla di caucciù, massiccia ma anche molto elastica del peso di tre chilogrammi, la quale non poteva essere colpita, come ricorda il Codice Mendoza, “se non con la giuntura della coscia, o del braccio, o del gomito; chiunque la toccava con la mano o col piede o con qualunque altra parte del corpo perdeva un punto. Chiunque faceva passare il pallone attraverso l’anello, il che accadeva raramente, vinceva la partita”. Il senso profondo del gioco consisteva appunto nel suo valore sacrale: rimettere in moto il Sole, rinnovando ritualmente il gesto dell’Essere supremo che crea il cosmo, mettendo in moto tempo e spazio. Gli anelli di pietra portavano spesso incisa l’immagine del Sole o di simboli celesti sui due lati. *** Dopo l’anno 800 non vi furono nuove costruzioni nel cen- Palenque - palazzo Palenque - Tempio delle iscrizioni Palenque - Tempio del Sole tro cerimoniale, benché sia noto che all’inizio del IX secolo non vi fossero ancora segni di abbandono o di emigrazioni nella regione di B’aakal. Lakam Ha continuò ad essere abitata per alcune generazioni che si dedicarono soprattutto all’agricoltura. Gradatamente il luogo fu abbandonato lasciando che la foresta avanzasse e rioccupasse i propri spazi. Nel XVI secolo la regione era completamente disabitata. Questa area silenziosa e quieta rimanda ad altri tempi, porta a riflettere sui segni lasciati da quanti l’hanno abitata perché gran parte della sua storia Palenque la porta scritta nei rilievi, nei glifi e nelle architetture dei suoi monumenti. Il mondo dei mortali è rappresentato dal Palácio, il mondo degli dei dai Templi del Gruppo della Croce, mentre il Tempio delle Iscrizioni è il luogo dove l’uomo si fa dio. Ed è una storia alla ricerca di conferme personali e collettive che fa riflettere sul rapporto con le cose e sul senso profondo della vita. Per Stephens “… vi sono buone ragioni per ritenere che tutta questa regione fosse, molto tempo fa, occupata da un unico popolo, che parlava un’unica lingua o almeno impiegava la stessa scrittura… Seduti tra le rovine abbiamo invano cercato di penetrare il mistero: chi erano gli uomini che costruirono quelle città”. "La città di rovine era davanti a noi come il rottame di un’imbarcazione in mezzo al mare, con l’alberatura scomparsa, il nome cancellato, l’equipaggio sommerso; e nessuno sa dire donde provenga, a chi appartenesse, quanto tempo sia stata in viaggio, quale sia stata la causa del naufragio; e quale fosse la sua ciurma, si può solo indovinare da una presunta somiglianza nella struttura del bastimento, ma non si potrà mai conoscere con sicurezza". … gli uomini che avevano costruito questa città avevano smarrito il progetto e se stessi? … sono le domande che ci poniamo sul passato, le stesse che ci rivolgiamo nel presente, in un momento in cui sul futuro sembra spegnersi la speranza. Carmine Negro www.isolaverde.com www.myischia.it