Una famiglia della resistenza . . . i Cervi Conosciamo la storia della famiglia Cervi solo a partire dal padre di Alcide, Agostino Cervi. La famiglia Cervi dal 1893 lavora a mezzadria un podere in località Tagliavino di Campegine. Nel 1869 Agostino è uno dei protagonisti dei moti contro la tassa sul macinato, e passa sei mesi in carcere. Agostino Cervi e Virginia, sua moglie, hanno quattro figli: Pietro, Emilio, Alcide ed Ettore che è stato adottato. Nel 1899 Alcide Cervi sposa Genoeffa Cocconi di due anni più giovane di lui e tra il 1901 e il 1921 nascono nove figli, sette maschi e due femmine: Gelindo, nato nel 1901; Antenore, nato nel 1906; Aldo, nato nel 1909; Ferdinando, nato nel 1911; Agostino, nato nel 1916; Ovidio, nato nel 1918; Ettore, nato nel 1921; avevano due sorelle, Diomira e Rina Nel 1920 Alcide Cervi esce dalla famiglia patriarcale del padre Agostino per formare la propria, e si trasferisce su un fondo a Olmo di Gattatico. Nel 1934 Alcide Cervi e i figli decidono di prendere un podere in affitto in località Campi Rossi, nel comune di Gattatico, rinunciando così alla condizione di mezzadri per quella di affittuari. La famiglia di Alcide Cervi, se nelle sue linee generali è riconducibile al modello patriarcale e solidale tipico delle famiglie contadine emiliano-romagnole, presenta però alcuni tratti di originalità: il protagonismo di alcuni dei figli, la forte personalità della madre Genoeffa Cocconi, la tendenza a prendere assieme le decisioni fondamentali. L'evoluzione della famiglia contadina dei Cervi si inserisce comunque in un processo più ampio che vede - a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, e con una forte accelerazione dopo la prima guerra mondiale - entrare progressivamente in crisi la struttura gerarchica e autoritaria delle famiglie contadine, ed affermarsi nelle campagne l'organizzazione socialista, fatta di cooperative, case del popolo, mutue, leghe di resistenza, camere del lavoro, protagoniste di numerose lotte per il rinnovo dei patti agrari. Il tutto in un quadro di profondo mutamento e modernizzazione dell'agricoltura emiliana. CONTADINI di SCIENZA Nella loro casa, oggi trasformata in museo, è possibile percepire da subito il carattere agricolo della loro identità: un luogo di memoria e di studio calato nella campagna coltivata, che ci parla di loro e del mondo contadino di cui facevano parte. Alcide Cervi e Genoeffa Cocconi nascono negli ultimi decenni dell’800, nelle campagne tra Campegine e Gattatico. Hanno nove figli, sette maschi e due femmine: un numero non straordinario per le famiglie contadine di quel tempo, dove il nucleo domestico era una sorta di piccola società allargata a fratelli, nuore, zii e nipotini. All’inizio del ‘900 la vita nei campi era dura e ai limiti della sopravvivenza, specialmente per quei contadini (ed erano la maggior parte) che non possedevano la terra che lavoravano. Era molto diffusa la mezzadria: secondo questo contratto, gli agricoltori svolgevano tutto l’anno il proprio lavoro, per poi consegnare al padrone della terra la metà (spesso era una percentuale maggiore) dei raccolti. I mezzadri, per di più, erano costretti a trasferirsi molto spesso da un podere all’altro, senza mai la possibilità di costruire un futuro stabile per sé e per i propri figli. Anche i Cervi erano stati mezzadri per lungo tempo: si erano stabiliti in diverse case e terreni delle campagne circostanti, ma costretti sempre al trasloco ogniqualvolta il contratto mezzadrile terminava, solitamente attorno alla metà di novembre. Ad ogni "San Martino" (l'11 di novembre), modo di dire ancora oggi in uso nella zona come sinonimo di trasloco, i mezzadri raccoglievano le poche masserizie di proprietà, per trasferirsi altrove, e ricominciare da capo il proprio lavoro su una terra diversa. Per i Cervi, che avevano già sviluppato idee e progetti innovativi per la coltivazione e l'allevamento, significava una sofferenza ulteriore, da aggiungere alle difficoltà di sussistenza comuni a molti contadini. Fino al momento in cui la famiglia di Alcide arriva in questo grande podere, da tutti chiamato “ai Campi Rossi”. Fu un grande salto di qualità: i Cervi lasciavano per sempre la mezzadria, per diventare affittuari. Il contratto prevedeva, cioè, che la famiglia, pur non essendo proprietaria, potesse condurre il fondo come meglio credeva, dopo aver pagato l’affitto al padrone. E’ il momento della svolta, l’occasione - per questa famiglia di contadini coraggiosi - di lavorare la terra e governare la stalla sulla base delle proprie idee all’avanguardia. I Cervi, infatti, non erano contadini che si accontentavano della sopravvivenza: avevano capito prima degli altri che per uscire dalla povertà e dallo sfruttamento occorreva soprattutto il cervello e la volontà, e non solo la fatica delle braccia. Con tale spirito arrivarono su questo podere dissestato, pronti a trasformarlo da cima fondo. In casa di Alcide e Genoeffa era comune veder circolare libri ed opuscoli; nonostante la scolarizzazione nelle campagne fosse molto bassa a quel tempo, i loro figli erano stati allevati con l’amore per la lettura e il sapere. Una passione che i Cervi trasferirono subito nel loro lavoro, procurandosi volumi e pubblicazioni – per citarne alcuni – sulla coltivazione del frumento, sulla coltivazione e trasformazione dell’uva, e sulla grande passione di Ferdinando, l’allevamento delle api. Tutti i fratelli parteciparono ai corsi di formazione promossi nella zona, mentre il padre conseguiva diplomi e riconoscimenti che premiavano la "razionale conduzione del fondo" e la produttività. I Cervi precorrono i tempi della meccanizzazione nelle campagne, con l’acquisto nel 1939 del trattore “Balilla” per il lavoro nei campi, tra i primi della zona. Il trattore, oggi campeggia all'ingresso di Casa Cervi insieme al mappamondo di Aldo Cervi, che venne acquistato proprio insieme al trattore e incarna la grande apertura mentale, la curiosità intellettuale di questa famiglia fuori dal comune. E’ soprattutto nella stalla, però, che si avvertono i maggiori benefici delle innovazioni applicate dai Cervi. Il latte è da sempre la vera “ricchezza” di queste terre, patria del Parmigiano-Reggiano, e la stalla rappresenta la cassaforte che custodisce la preziosa tradizione casearia reggiana. E’ qui, infatti, che anche i Cervi concentrano i propri maggiori sforzi, aumentando la produzione di latte e progettando nel 1938 il raddoppio del ricovero per il bestiame, realizzato poi nel 1941, che ancora oggi si può notare a partire dal secondo portico. La stalla,dove il ricovero per le vacche non era soltanto il “cuore economico” della cascina di pianura, ma anche il centro della socialità rurale, il “salotto” della casa contadina. E’ qui che alcune delle lavorazioni invernali, come la filatura della canapa e il lavoro al telaio, avevano luogo. L’antica usanza di andér in filòs, l’abituale riunione delle famiglie contadine nelle stalle dei vicini, non era soltanto un’esigenza pratica – la stalla era l’unico ambiente caldo nelle serate d’inverno - ma una tradizione che rimanda alla trasmissione orale delle conoscenze e dei saperi, tra una generazione e l’altra, proprio tra quelle mucche che davano il principale sostentamento ai contadini della zona. Alcide Cervi nel 1921 è iscritto al Partito Popolare, di ispirazione cattolica, pochi mesi prima dell’avvento della dittatura fascista in Italia. La famiglia Cervi come tutti, assiste all’ondata repressiva che dal 1924 in poi il Fascismo scatenerà sulla nazione. Tra i Cervi, il primo a conoscere le pene del carcere è Aldo, il terzogenito, per una ingiusta condanna durante il periodo di leva. Mentre la famiglia continua a chiedere giustizia, Aldo passa 25 mesi dietro le sbarre a Gaeta, dove ha modo di conoscere i prigionieri politici: intellettuali e esponenti dei movimenti antifascisti . Essere antifascisti durante il regime, però, significava agire in stretta clandestinità, e al ritorno dalla detenzione , Aldo Cervi è ben consapevole del rischio, insieme ai fratelli e ai familiari che iniziano da subito a condividere quell’impegno. Anche la cultura, a cui i Cervi sono tanto appassionati, era caduta sotto i colpi del regime. Non stupisce dunque l’iniziativa della famiglia per l’istituzione di una biblioteca popolare, allo scopo di diffondere liberamente libri e riviste di ogni tipo. Nelle campagne, il regime faceva sentire la sua morsa attraverso l’ammasso, una sovra tassa sui raccolti imposta a tutti gli agricoltori. In pratica una porzione dei prodotti agricoli veniva confiscata ed “ammassata” in depositi pubblici a disposizione delle autorità. I Cervi, ben consci della dura vita nei campi, incitano alla rivolta contro l’ammasso i lavoratori dei campi, al grido “W il pane, W la Pace”. Tutta la famiglia è ormai coinvolta nell’opposizione al regime. Uno dei più attivi insieme ad Aldo è Gelindo, il primogenito della famiglia: Già “ammonito” dalle autorità nel 1939 per la sua attività sediziosa, e successivamente incarcerato, Gelindo finisce in carcere anche nel 1942 (insieme al fratello Ferdinando), proprio per aver ostacolato l’ammasso della produzione agricola. Sarà la guerra ad accelerare gli eventi: trascinando l’Italia nel secondo conflitto mondiale nel 1940, il fascismo precipita la popolazione nella miseria e nella prostrazione. Pare la fine dei lunghi anni di violenze ed ingiustizie, e anche a Casa Cervi si festeggia: tanta è la gioia per la notizia, che la famiglia porta una grande pentola di pastasciutta in piazza a Campegine, per festeggiare insieme alla popolazione la caduta del regime. La guerra, però, non è ancora finita, e sta anzi per entrare nella sua fase più cruenta. Dopo l’8 settembre 1943, le truppe tedesche occupano militarmente il suolo italiano. I Cervi iniziano la lotta armata a partire da questa casa, che diventa un centro di smistamento per rifugiati e rifornimenti ai partigiani. E’ il 25 novembre dello stesso anno, quando tutta la “banda Cervi” viene sorpresa nella loro cascina ai Campi Rossi. I militi fascisti, dopo uno scontro a fuoco, appiccano un incendio al fienile e alla stalla. A questo punto la famiglia si arrende e i Cervi vengono trascinati via dai fascisti. I sette fratelli Cervi rimangono in carcere a Reggio sino al 28 dicembre, quando i fascisti decidono la loro fucilazione come rappresaglia ad un attentato dei partigiani. Nei ricordi di Papà Cervi, anch’egli imprigionato e ignaro della sorte dei figli, vi sono le ultime commoventi frasi di commiato di Gelindo e di Ettore, il più giovane dei sette. L’estremo sacrificio dei sette fratelli Cervi e del loro compagno Quarto Camurri, consumato all’alba del 28 dicembre 1943 al poligono di Reggio Emilia, rappresenta uno spartiacque per la Resistenza reggiana: dapprima scompaginato dalla cattura e dalla barbara uccisione di quella che era di fatto la sua punta avanzata, il movimento partigiano si riorganizza, facendo di quel martirio un simbolo per gli altri resistenti. Soltanto il 25 aprile del 1945, il giorno della Liberazione, anche a Reggio Emilia, si potrà festeggiare, dopo tante sofferenze, la fine della guerra e l’inizio di una riconquistata libertà. Per la famiglia Cervi, la Liberazione è un momento di gioia, ma dal sapore diverso: dopo l’ennesima intimidazione dei fascisti alla famiglia, pur colpita già duramente dalla guerra, la madre Genoeffa Cocconi cede al dolore e si spegne nell’autunno del 1944, , lasciando gli undici nipotini, le quattro vedove e il vecchio Alcide. Per papà Cervi e il resto della famiglia sarà possibile riavere le spoglie dei sette fratelli soltanto diversi mesi dopo per tributare loro le solenni esequie. Davanti alla folla silenziosa che si raduna a Campegine, il 25 ottobre 1945, per l’ultimo saluto ai fratelli Cervi, Alcide ha la forza di prendere la parola, per dire con commossa ma lucida saggezza “Non chiedo vendetta, ma giustizia”. Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti”. Quando le restrizioni alla libertà di azioni e di parola si fanno più violente i Cervi iniziano l’azione di opposizione con atti di sabotaggio agli ammassi imposti dal regime, alle linee dell’alta tensione che alimentavano le fabbriche Reggiane dove si producevano le armi belliche. La loro casa diventa una casa di latitanza, dove si fanno riunioni clandestine e si organizza l’opposizione al regime. Organizzano attentati contro i presidi fascisti della zona da cui ricavano cibo e armi, utili per ospitare nella loro casa i numerosi renitenti alla leva che rifiutavano di prendere le armi dopo l’8 settembre 1943 e la proclamazione della repubblica di Salò, e per sostenere i numerosi alleati che si erano dispersi. Moltissimi antifascisti passeranno e sosterranno nella loro casa. Casa Cervi viene messa a ferro e fuoco dai fascisti la notte fra il 24 – 25 novembre 1943.I sette fratelli verranno fucilati senza processo all’alba del 28 dicembre 1943. FIUME ENZA: È un fiume appenninico dell’Italia settentrionale, affluente del fiume Po’. Il fiume Enza nasce dal monte Palerà, poco distante dall’alpe di Succiso, sull’ Appennino tosco – emiliano, forma a 1157 m il lago artificiale Paludi o di Lagastrello in provincia di Massa Carrara e sviluppa il suo corso di 93 Km separando le provincie di Parma e Reggio Emilia. Durante la primavera riceve un piccolo contributo di scioglimento delle nevi Appenniniche. DATI: Lunghezza 93 Km; portata media 12,1 m cubi/sec; sfocia nel fiume Po’ e passa le regioni Toscana ed Emilia Romagna. PARMA La città appare divisa in due parti quasi uguali dal torrente parma che la attraversa da sud a nord, ma è sulla riva destra che si è svolta prevalentemente la sua storia politica ed artistica, la si trova tuttora il centro cittadino. DUOMO La cattedrale di Parma, dedicata all’Assunta, è il duomo di Parma e la chiesa madre della diocesi di Parma. Sorge in piazza duomo , accanto al battistero e al palazzo vescovile. Esternamente è in stile romanico, con la facciata a capanna tipica anche delle chiese di altre città padane (Piacenza e Cremona). L’interno è a tre navate, su pilastri dai bei capitelli, con il presbiterio sopraelevato sulla cripta. Le pareti dell’alta navata mediana sono rivestite di affreschi del XVI sec.; al terzo pilastro sinistro, vi è una statua in rame dorato del 1294. Nella cupola, “l’assunzione della vergine” grandiosa composizione, ardita di movimento e di scorci. Il duomo è accompagnato da un alto campanile gotico in cotto, a trifore nella cella campanaria. BATTISTERO Il battistero di Parma è considerato come il punto di giunzione tra l’architettura romanica e quella gotica. Il battistero fu commissionato a Benedetto Altelami, che ne iniziò la decorazione nel 1196, come attesta un iscrizione sul portale. La conclusione avvenne entro il 1270 quando l’edificio venne solennemente consacrato. L’interno è costituito da 16 arcate che compongono delle nicchie, ciascuna delle quali contiene una scena tipica fra le quali le stagioni (notare in particolare l’inverno e la primavera) e i segni zodiacali. La parte più rilevante tuttavia è costituita dalla cupola a ombrello del soffitto, dipinto con figure di santi. TEATRO REGIO Il teatro Regio di Parma è il massimo teatro della città di Parma ed uno dei tanti teatri più conosciuti nel panorama lirico Italiano. La sua storia inizia quando la duchessa Maria Luigia, ritenne inappropriato alle sue esigenze il teatro Farnese. Perciò decise di fare edificare un teatro adeguato. Nacque cosi su progetto dell’ architetto Nicola Bettoli il teatro ducale la cui costruzione, che costò 1.190.664 lire, iniziò nel 1821 e si concluse dopo 8 anni, nel 1829. Fu inaugurato il 16 maggio 1829, con l’opera lirica “Zaira”. CITTADELLA Fu voluta da Pier Luigi Farnese nel 1546, fu realizzata a partire dal 1591 in forma di pentagono con 5 bastioni circondati dall’acqua. La cittadella è anche il quartiere più esclusivo e aristocratico della città, soprattutto per la presenza di antiche residenze nobiliari. PARCO DUCALE Il parco Ducale è situato in pieno centro cittadino, sulla sponda occidentale del torrente Parma, e con i suoi 208.700 m quadri rappresenta da secoli il polmone verde della città. La nascita del parco si deve ad Ottavio Farnese che nel 1561 diede mandato all’architetto Giovanni Boscoli di ricavare una nuova residenza, più degna del suo casato, nella zona allora occupata dal trecentesco castello edificato da Bernasò Visconti. Nella grande area verde circostante il palazzo venne contemporaneamente realizzato un giardino all’italiana provvisto di un viale centrale.