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CAMPO
DEI FIORI
collana diretta
da Vito Mancuso
e Elido Fazi
020
I edizione: febbraio 2013
© 1995 Librairie Arthème Fayard
© 2013 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: Giordano Bruno
Traduzione dal francese di Manuela Maddamma
ISBN: 978-88-6411-295-4
www.fazieditore.it
www.campodeifiori.eu
Bertrand Levergeois
GIORDANO BRUNO
traduzione di Manuela Maddamma
Il cammino più breve
da noi
a noi stessi
è l’Universo.
MALCOLM DE CHAZAL, Sens magique
Introduzione
Inattualità di Giordano Bruno
Era perciò davvero un abbandonarsi ai propri desideri, quando mi figuravo che avrei potuto trovare come
educatore un vero filosofo, che potesse strappare un
uomo all’insoddisfazione dovuta all’epoca e gli insegnasse di nuovo ad essere, nel pensiero e nella vita,
semplice e schietto, quindi inattuale nel senso più
profondo della parola.
FRIEDRICH NIETZSCHE
Galileo, Bruno: due processi, due trattamenti. Il sapiente
torna sulle sue posizioni e si ritrova condannato agli arresti
domiciliari; il filosofo si rifiuta e muore sul rogo dell’Inquisizione.
Di recente, in occasione della sua apparente riabilitazione,
il primo ha meritato la clemenza di Giovanni Paolo II. «Doloroso malinteso», queste, alla lettera, le parole del pontefice.
L’affaire Galileo, le cui conclusioni non sono state riesaminate, si chiude con la constatazione del ritardo della Chiesa sulla storia della scienza: in loro nome, Roma ammette che «alcuni teologi contemporanei non hanno saputo interpretare il
significato profondo, non letterale delle Scritture, quando descrivono la struttura dell’universo creato, e questo li ha portati a trasporre indebitamente una questione di osservazione
fattuale nel campo della fede»1.
Bruno, invece, non avrà il beneficio di questa confessione.
Confrontati a quelli di Galileo, i suoi errori non possono appellarsi ad alcuna misericordia: «La condanna per eresia [di
Bruno], riaffermano le autorità vaticane, indipendentemente
dal giudizio che si voglia rivolgere alla pena di morte che gli
fu imposta, si presenta come pienamente motivata»2. Ulteriori
ricerche hanno dato torto al condannato perché il suo copernicanesimo «non si fonda su ragioni scientifiche». Ed è chia-
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GIORDANO BRUNO
ro che, seguendo questa argomentazione fatale, l’Inquisizione
non ha avuto torto nel giustiziare l’autore di argomentazioni
non confermate dalla posterità. A questo punto non bisognerebbe punire anche Newton invocando Einstein? Del resto,
non rischieremmo d’incatenare la teologia cristiana sottomettendola tirannicamente all’evoluzione delle tecnoscienze?
Più di recente, al di là di questo pericoloso ricorso a principi criptoscientifici, Bruno è stato oggetto di un anatema in
piena regola. In una rivista cattolica italiana, le elucubrazioni
più azzardate e certe interpretazioni riduttive sono state l’occasione per una violenta denuncia3: il filosofo è stato accusato di essere una spia, un assassino, un panteista confuso – praticamente un ateo, un pensatore noioso che negava il libero
arbitrio e l’immortalità dell’anima; in definitiva niente di meno che la prefigurazione delle tesi dei teorici dei campi nazisti e stalinisti… Il diluvio di calunnie per un solo scopo: giustificare a tutti i costi la decisione dell’Inquisizione al fine di
ridurre Bruno alla sua eresia. Non è forse da tempo che i migliori specialisti sono concordi nel considerare il processo al
filosofo perfettamente regolare? E a dire il vero, come avrebbero potuto Roma e i suoi fedeli non considerare eretico un
ex religioso apostata che aveva ostinatamente rifiutato di abiurare? Da un punto di vista puramente disciplinare, senza dubbio i processi a Galileo e a Bruno non hanno molto in comune perché il secondo appartiene alla storia della Chiesa.
Tuttavia il filosofo non può essere ridotto alla sua formazione domenicana dei primi anni. La rottura con il suo ordine, il suo itinerario da esule attraverso l’Europa, la ricerca instancabile di una cattedra dalla quale professare liberamente,
i suoi numerosi scritti distribuiti nell’arco di nemmeno dieci
anni, la sua frequentazione degli ambienti intellettuali e delle
più alte sfere politiche, tutto dimostra come egli sfuggisse all’obbedienza d’origine. Che si tratti di mnemotecnica, letteratura, cosmologia, morale, matematica, fisica o magia, Bruno è
innanzitutto un filosofo dichiarato.
Durante la seconda metà del XVI secolo, ch’egli attraversa
INTRODUZIONE
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come un lampo, il filosofo si colloca in una linea in cui neoplatonismo e aristotelismo si oppongono e si mescolano. È alle loro fonti che si abbevera, pur senza ubriacarsi. Peripatetico per la logica delle sue dimostrazioni, rinnega in blocco i settari d’Aristotele; nel concepire un universo infinito popolato
da mondi innumerevoli, appoggiandosi su Copernico che supera, è il primo filosofo ad abbandonare la concezione aristotelico-tolemaica di un mondo chiuso, geocentrico. Neoplatonico nel suo aspirare alla divinità, confina tuttavia il suo slancio a un «furore» eroico che lo porta a riconoscere i propri limiti, rinunciando pertanto alle ambizioni spirituali, per esempio, di un Ficino. Né ateo né materialista, Bruno rifiuta di asservirsi a una corrente: rigetta ogni riduzione alla trascendenza o all’immanenza, che invece fa coesistere in virtù dell’omogeneità della struttura ontologica. Ammette il contraddittorio,
non cessa di decentrare il suo punto di vista, affrancandosi da
ogni orizzonte del pensiero: non cede mai alla tentazione di
elaborare una visione sistematica e se rivendica l’inaccessibilità dell’assoluto è solo per impedirsi di avallare il relativismo
degli scettici.
A dispetto delle caricature cattoliche del nostro tempo, il
divino risiede nel cuore delle speculazioni bruniane. E proprio da esso scaturiscono: da qui la sua rilettura di san Tommaso d’Aquino, che stima, di Lullo, che approfondisce, e di
Niccolò Cusano, che riorienta nella sua riflessione sull’infinito e la coincidenza degli opposti. Le loro argomentazioni gli
danno modo di riflettere sull’arte della memoria, strumento
decisivo per tentare di definire, per parole e immagini, tutta
la conoscenza del reale. Gli danno anche l’occasione di mettere in discussione la matematica del suo tempo, in favore di
una rivalutazione qualitativa (e non più quantitativa) della stessa e di un nuovo confronto con i dati dell’esperienza. Nel pieno evolversi della Controriforma e nel vivo delle guerre di Religione, le dispute teologiche gli permettono di fare il punto
sulla morale; utilizza Erasmo contro Lutero, colpevole di aspirare a una relazione privilegiata con un Dio che, in assenza di
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GIORDANO BRUNO
un’opera giustificatrice, non saprebbe testimoniare la sua grandezza. «Teocentrico», a dispetto delle apparenze, Bruno vuole tuttavia modellare la teologia cristiana e le sue incarnazioni cabalistiche, aspira a denunciarne l’«asinità» – ovvero l’incapacità e l’incompetenza –, assegnando alla Chiesa (Romana,
secondo la sua riflessione) un solo compito e una sola missione: preservare gli interessi della comunità umana.
Bruno non teme di mettere a repentaglio i teologi, gli umanisti e gli spiriti nuovi del suo tempo, non si serve neppure
delle loro esperienze. Riconoscendo il proprio scacco di fronte a Dio, ch’egli considera necessariamente fuori portata, preferisce mettersi dalla parte della natura, dell’«infinitamente finito». Metafisicamente, non si trova più integrato di quanto
non sarebbe l’essere sul piano della divinità; ma quest’ultima,
legittimando una corrispondenza analogica tra i differenti gradi della struttura ontologica, gli apre l’accesso a una certa forma di verità. In questo senso il filosofo fece riferimento alla
tradizione magico-ermetica non, come sostenuto fino a poco
tempo fa dagli studi della Yates, al fine di una misteriosa ricerca di segreti astrologici, ma piuttosto per illustrare con i
fatti ciò che lega sapere e debolezza, ignoranza e potere. Solo
così si può comprendere la sua instancabile ricerca di un trampolino universitario e le sue relazioni privilegiate con le corti
di Enrico III, Elisabetta I e Rodolfo II: per lui, nessuna filosofia senza politica, nessuna politica senza filosofia.
Scomunicato da cattolici, calvinisti e luterani, Bruno segna
i limiti della messa in atto delle sue concezioni, dai suoi ripetuti insuccessi accademici (non si presenta forse, volente o nolente, come «accademico di nulla accademia»?) fino alla sua
tragica fine sul rogo il 17 febbraio 1600. Certo, gli ultimi decenni insanguinati del suo secolo non si sono granché prestati allo sforzo di conciliare le esigenze della verità con quelle
dell’onestà: Enrico III, anche lui, ha pagato con la vita. Senza
arrivare a parlare di tolleranza (come dimenticare la violenza
degli attacchi di Bruno contro i protestanti?), si deve constatare nel filosofo la preoccupazione di placare le dispute del
INTRODUZIONE
13
momento facendo la guerra ai loro responsabili teorici. Questa posizione intellettualista non equivale certo a trincerarsi
dietro le idee. Bruno se ne assume sempre le conseguenze, anche le più pesanti. In questa prospettiva dobbiamo ricollocare il suo ultimo faccia a faccia con l’Inquisizione.
Liberare la filosofia dalla sua impotenza è senza dubbio uno
dei principali obiettivi di Bruno. Ma sia per le sue origini domenicane, sia per l’evoluzione della Chiesa post-tridentina e
forse anche per la specificità stessa dell’esperienza filosofica4,
la sua impresa fallisce. Nient’affatto eresiarca, Bruno non desidera mai sostituirsi al potere ecclesiastico poiché egli insiste
sul suo «annullamento» di filosofo davanti a Dio; ma è rifiutando di abiurare che egli raccomanda una insurrezione assoluta davanti all’autorità religiosa. Necessaria e volontaria a un
tempo, la sua impotenza inaugura una svolta nella filosofia che,
a quanto pare, rivive nel confronto con i teologi cattolici: a
partire da Bruno, la filosofia rinasce liberandosi dalle pretese
della religione cristiana5. Là dove non è costretta in gerarchie,
s’impone: in seno alla Chiesa di Roma, ch’egli abbandona ma
che desidererebbe ritrovare; attraverso città dalle fedi così discordanti come Ginevra, Tolosa, Londra, Helmstedt o Venezia, così come all’incrocio di discipline – cosmologia, magia,
matematica… Reagendo contro l’attualità, Bruno reagisce
«contro il tempo, e in tal modo, sul tempo», annunciando «un
tempo venturo»6. Inattesa, la prova letteraria ch’egli conduce
diventa immediatamente avvincente: criticando Petrarca e i
pedanti umanisti ispirerà da subito Joyce. E così il suo interrogarsi sulla conquista dell’America, che disapprova, sulla lingua, le donne, i matematici o l’infinito cosmologico: se sembra smarrirsi è in fin dei conti per meglio farci da guida, e non
da punto di riferimento, poiché egli non si preoccupa che di
moltiplicare i centri, decentrando senza sosta l’approccio filosofico, avvicinandolo in particolar modo alla poesia e alla
pittura. Né moderno né arcaico, Bruno è inattuale: prima di
lui forse Socrate; dopo di lui, Dom Deschamps, Nietzsche e il
matrimonio dell’arte col pensiero di Pessoa. Inesauribilmen-
14
GIORDANO BRUNO
te prodigo, la filosofia è insorta in lui, come in tutti coloro che
s’impegnano nella lotta della verità contro i saccheggiatori della libertà e della vita.
La prima biografia francese di Bruno, opera di Christian
Bartholmèss, risale al 1846 e, fatta eccezione per una breve
monografia di Émile Namer, niente di paragonabile, da questo versante delle Alpi. In Italia numerosi lavori, molti dei
quali insuperabili, hanno tuttavia arricchito la ricerca: nel
1921, Vincenzo Spampanato pubblica la sua voluminosa Vita di Giordano Bruno con documenti editi e inediti, la quale fa
già il punto su aspetti poco conosciuti; cinquant’anni dopo
Giovanni Aquilecchia, senza dubbio il più esperto in quel momento per ciò che concerne l’impianto dei testi bruniani, raccoglie il frutto delle sue scoperte in un opuscolo di rara densità; infine, nel 1990, Michele Ciliberto ci offre una riflessione filosofica che tiene conto della maggior parte dei documenti biografici disponibili.
Da una decina d’anni sono apparse alcune traduzioni francesi che ci hanno permesso di apprezzare testi inaccessibili in
questa lingua da più di quattro secoli: attualmente la filosofia
bruniana si manifesta nella sua ampiezza. Alla luce di questa
inversione di tendenza, i materiali sono certi e abbastanza ricchi per poter tentare al meglio una presentazione biografica.
Certo, il mito di Bruno sussiste, come testimoniano in Francia, Italia e Germania molte versioni romanzate della sua vita.
In compenso, sia per la qualità che per l’abbondanza, gli studi, in particolare italiani, sono sufficienti a controbilanciare
d’ora in poi il fiorire di versioni favolistiche, e invitano anzi a
non dissociare mai più un pensiero da un’esistenza che non ha
smesso di nutrirsene, di rifletterne gli aspetti, anche i meno
compatibili. In Bruno nessuna biografia senza filosofia e nessuna filosofia senza biografia. Del resto, ad eccezione della sua
opera filosofica, i documenti relativi alla sua vita non sono numerosi, tanto basti: nessuna corrispondenza come per un Era-
INTRODUZIONE
15
smo. Al di fuori del contenuto delle sue opere è attraverso coloro che l’hanno incrociato, sostenitori o detrattori, che abbiamo trovato materiale per poter considerare chi è stato –
«plausibilmente», come avrebbe detto Lucien Febvre7.
Un metodo biografico s’impone? In uno dei suoi ultimi articoli, Alberto Savinio, fratello di Giorgio De Chirico e creatore multiforme, considera il modo migliore per intendere il
filosofo: «Per comprendere chiaramente (non dico “profondamente”) un uomo, e soprattutto un uomo come Giordano
Bruno, è necessario non soltanto mettersi fuori Giordano Bruno, ma mettersi pure fuori da se stessi»8. Abbiamo cercato di
seguire questa lezione (il pensiero e la vita del filosofo, confessiamolo, vi si prestano a meraviglia) per non sprofondare,
trascinando il lettore con noi, in un tema ancora così propizio a essere ricondotto a luoghi comuni: Bruno martire del libero pensiero, Bruno precursore delle scienze moderne ecc.
Abbiamo cercato di rispettare l’avvertimento del supremo consigliere: «La piccola forza che occorre per spingere una barca nel fiume non deve essere confusa con la forza di questo
fiume che da allora in poi la porta: ma ciò accade in quasi tutte le biografie»9.
Senza i lavori di tutti coloro che hanno studiato da vicino
Giordano Bruno, il nostro non avrebbe potuto compiersi. La
lista dei “collaboratori” sarebbe troppo lunga per essere stilata: l’orientamento bibliografico che chiude la nostra opera ne
fornisce un riassunto. Una menzione speciale merita chi ci ha
aiutato in modo più diretto. I nostri ringraziamenti sono rivolti innanzitutto a Bénédicte Leugen de Kergolan per averci riletto, a Tullio Kezich per i riferimenti cinematografici, a Ivanka
Stoianova, Thierry de La Croix, Giuliano Zosi e Gaetano delli Santi per le informazioni musicali, ad Amalia Perfetti per le
sue indicazioni bibliografiche e a Rita Sturlese per le sue precisazioni sul passaggio di Bruno a Oxford e le sue proposte di
rilettura riguardo la funzione della memoria nel filosofo.
16
GIORDANO BRUNO
Infine, vorremmo rivolgere un pensiero speciale a un pittore, Fabrizio Clerici. Poco tempo prima della sua scomparsa, evocando il progetto di uno dei suoi quadri (l’incontro postumo del filosofo col cardinale Bellarmino!), ci aveva reso
partecipi della sua scoperta, alla Biblioteca Vaticana, di un documento la cui pubblicazione avrebbe gettato una luce nuova
sulla condanna di Bruno. Non sapremo mai se questo segreto
sia o no di Pulcinella, non ci resta che piangere la perdita del
suo confidente.
Parigi, febbraio 1995
All’angolo di rue Giordano Bruno
PARTE PRIMA
L’apprendistato dell’esilio
1. Nola. L’orizzonte dell’infanzia
«In verità, a stento oserei affermare ciò di cui alcuni storici fanno fede, che siano stati uccisi duemilaottocento nemici e
dei Romani non siano caduti più di cinquecento; ma sia che la
vittoria sia stata così grande, sia che sia stata di minori proporzioni, in quel giorno forse fu compiuta la più grande impresa
di quella guerra: infatti, non essere vinti da Annibale allora fu
più difficile che vincerlo poi»1. È con queste parole che Tito
Livio evoca la prima vittoria sui cartaginesi delle truppe del
pretore Claudio Marcello, alle porte di Nola, nel 216 avanti
Cristo. Poco più avanti ne parla di nuovo, esaltandone il coraggio, trionfante: «In quel giorno furono uccisi dai Romani
più di cinquemila nemici, seicento furono presi vivi con diciotto insegne militari e due elefanti; quattro di essi erano stati uccisi in combattimento. Dei Romani caddero meno di mille» 2.
Tralasciando le sue origini ausoniche, questo è il più lontano ricordo che la storia ci ha lasciato di Nola, la città natale di
Giordano Bruno: ricordo al quale egli non restò affatto insensibile poiché, nel marzo 1588, donò ai suoi ammiratori di Wittenberg una xilografia che glorificava l’episodio3.
Un simile slancio di patriottismo, piuttosto controverso4,
non può far dimenticare le vicissitudini di questa piazzaforte,
prima etrusca, poi sannita e romana. «Città di pianura, non
circondata né da fiume né da mare»5, Nola soffrì una lunga serie di invasioni, dal sacco dei visigoti fino ai saccheggi dei van-
20
I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
dali nel 455. Sarà solo con la dominazione angioina, quando
Guido di Montfort ne farà il suo feudo nel 1269, che una certa serenità comincerà a regnare nei dintorni. Ma Nola sarà ancora destinata a subire le tensioni provocate dalla lotta tra guelfi e ghibellini, i danni di piogge torrenziali, la peste6, gli sbalzi d’umore del Vesuvio così come l’attrazione famelica da parte di Napoli, qualche chilometro a sud-est.
All’alba del XVI secolo Nola ha già acquisito una certa fama. A dispetto della sua scarsa popolazione (meno di quattromila abitanti intra muros), questo cupo bastione della Campania, con la sua sede episcopale, testimonianza delle insigni figure di san Felice e san Paolino7 e della sua antica nobiltà, «a
lungo vassalla degli Orsini»8, ha finito per costituire il crogiolo di una rinascita sociale ed economica. Ne sono testimonianza la sua attività commerciale e il numero crescente di ambiziose carriere, soprattutto sotto le armi (più del cinquanta per
cento di chiamate), dal suo ricongiungimento al vicereame spagnolo nel 1528. Altrettanto onorati la politica, il diritto9, la medicina e le lettere: come dimenticare Ambrogio Leone, ellenista e storico della città, «amicorum omnium suavissimus» di
Erasmo o Luigi Tansillo, il poeta petrarchista così stimato dal
Tasso e di cui Bruno citerà il licenziosissimo Vendemmiatore?
Non c’è da stupirsi dunque che la città abbia accolto alcuni
grandi poeti dell’epoca, da Giovan Francesco Caracciolo a
Giovanni Pontano.
La famiglia di Bruno discendeva da questo vivaio culturale? Certamente no. I registri municipali, soprattutto a uso del
fisco, che enumerano i «focolari» nolani segnalano la presenza dei Bruno a partire almeno dal 1452, ma questo censimento patronimico fa il repertorio di famiglie che vivevano perlopiù di umili mestieri, se non nell’indigenza. Da qui ad affermare la bassa estrazione sociale del filosofo il passo è breve, e
alcuni non hanno esitato a farlo10. Ma la condizione del padre,
Giovanni Bruno, invita a rivedere una conclusione del genere. Soldato, come suo figlio dichiarerà11, faceva parte delle compagnie agli ordini del viceré o dei suoi signori – fino al 1571,
1. NOLA. L’ORIZZONTE DELL’INFANZIA
21
di quella del conte di Caserta, per esempio. Ebbene, secondo
Tansillo, anch’egli al servizio degli spagnoli, e la cui poesia religiosa ispirerà Malherbe, queste erano esclusivamente composte da «gentiluomini»12; per ragioni di prestigio i loro uomini d’armi, stando a quello che dicono le relazioni degli ambasciatori veneziani, «erano tutti obbligati a tenere due buoni
cavalli»13.
Così i più bei gioielli delle casate locali, persuasi di veder
confermata nell’occupazione militare la fondatezza delle loro
prerogative, raggiungevano in massa quelle unità. Dobbiamo
dedurre dal disprezzo per la plebe spesso mostrato da Bruno
nei suoi scritti che suo padre fosse di ceppo aristocratico? A
giudicare dalla sua paga, che aumentò in fretta e in proporzioni eccezionali, è probabile che il padre si fosse distinto in combattimento14. A quanto pare15, però, non arrivò mai a superare il grado di portabandiera16 e nel 1571 rinunciò ai vantaggi
che aveva ottenuto raggiungendo un’altra compagnia. Non si
hanno notizie dei beni in suo possesso. Così, non ci resta che
considerare il padre di Bruno un «gentiluomo» senza titolo e
dal reddito modesto17.
La famiglia di sua moglie, i Savolino, abitava nel territorio
della parrocchia di San Paolo, come attestano ancora una volta i registri dei «focolari»18. Secondo quelli del 1526, sua moglie, Flaulisa o Fraulissa, vi nacque nel 1522. Non ci sfugge
questo strano nome di origine tedesca19; quanto ai nomi di suo
cugino e sua cugina – Mercurio e Morgana –, figli del fratello
di sua madre, Scipione, ricordano l’abitudine che avevano i
genitori d’ispirarsi alla mitologia, alla storia o alla cavalleria
per battezzare i loro discendenti: una tale usanza non mancò
di preoccupare la Chiesa20 e forse influenzò il filosofo nell’assegnare i nomi agli interlocutori dei suoi dialoghi21.
Fraulissa era di rango più elevato rispetto al marito? Certamente molti membri della famiglia di lei svolgevano funzioni riservate ai gentiluomini e non si sposò senza dote, visto che
Giovanni ricevette per l’occasione una piccola proprietà agricola nei pressi di Nola e di San Paolo: senza dubbio questo
22
I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
contributo rappresentò per lui più il mezzo per un’ascesa sociale che un consolidamento del suo status22.
È in questa contrada, nel casale di San Giovanni del Cesco,
piccolo borgo di Nola, che il filosofo venne alla luce, «alle radici del monte Cicada»23 (o delle Cicale), nel gennaio o febbraio del 154824. In onore di Filippo II, futuro erede del trono
di Spagna25, fu chiamato Filippo – scelta del tutto comprensibile, considerando il ruolo di Giovanni Bruno nell’esercito.
Non sappiamo nulla di certo sulla prima infanzia di questo figlio, molto probabilmente unico. Ma non è difficile immaginare le giornate di un ragazzino spesso abbandonato a se stesso (suo padre sarà ancora in carica intorno alla sessantina!).
Quarant’anni più tardi, in certe ore di noia, il filosofo non tornerà forse col pensiero alla sua lotta «fin da giovane contro le
sorti della fortuna?»26.
Un aneddoto fa presumere le preoccupazioni economiche
della sua famiglia27. Bruno racconta che, ancora in fasce, scorgendo un serpente che si avvicinava alla sua culla, fu capace
di chiamare in soccorso suo padre, con voce chiara e distinta28! Il rettile era penetrato attraverso la crepa di un muro, forse segno della decadenza della dimora dei genitori? O forse
questa disavventura dal sapore mitologico serve a testimoniare le facoltà prodigiose alle quali il filosofo farà riferimento
per dimostrare di cosa siano capaci alcuni esseri d’eccezione29?
Le evocazioni di Nola sono frequenti nell’opera di Bruno,
e spesso affiora l’universo della sua infanzia. A volte sotto forma di personaggi occasionali, ma senz’altro ispirati alla realtà.
Come quel malato incapace di spiegare al medico dove alberga il suo male30; il farmacista oltraggiosamente opportunista
che apre bottega all’insegna del maiale; la vedova avida che
cerca, costi quel che costi, di far sposare le figlie e addottorare il figlio; il curato che assolve incondizionatamente31 oppure l’abate dal presunto sapere enciclopedico32. Altre volte invece sono parenti del ramo materno, come Laodomia e Giu-
1. NOLA. L’ORIZZONTE DELL’INFANZIA
23
lia Savolino33, il poeta Tansillo34 o ancora Giovanni Bruno in
persona35.
Bruno attinge dunque alla sorgente della sua infanzia, ma
senza una irrefrenabile nostalgia: quando torna sul suo passato, è sempre per esaltare meglio la sua sfida alle avversità36.
Certo, non possiamo negargli un profondo attaccamento alla
sua terra natia. Ma avremmo torto se applicassimo l’espressione romantica di un tormento per la lontananza e l’esilio 37 in
uno spirito che, in modo indefesso, ha voluto sbarazzarsi di
ogni preoccupazione accessoria38.
Il sentimento dell’infanzia del XVI secolo non ha niente a
che fare col nostro: «Due o tre figli mi sono morti a balia, non
senza rimpianto o cruccio», confessa Montaigne, per il quale
la sola società che vale è quella degli adulti39. L’ideale è allevare i bambini più con l’indifferenza che con le «moine». Montaigne si lamenta della troppa attenzione rivolta ai pargoli:
«Non posso ammettere quella passione con cui si abbracciano i bambini appena nati, che non hanno né impulso nell’anima né forma riconoscibile nel corpo per cui possano rendersi amabili. E non ho sopportato di buon grado che fossero allevati vicino a me» 40. Pur restituendo valore all’umanità del
bambino, Bruno non fa che ratificare la posizione esasperata
di questo scrittore41.
In realtà, l’evocazione della sua infanzia resta indissociabile dalla sua strategia di spostare il centro del mondo e ricentrarlo precisamente a Nola, cioè dove non avrebbe nessuna ragione di trovarsi ma dove, in profondità, si trova quanto si trova altrove. Il filosofo esclude, così, ogni ricentramento esclusivo. Se rifiuta di privilegiare il luogo delle sue origini – lo stesso che tornerà a mettere avanti a scapito di altre prospettive
–, è perché lo rivendica come una fonte necessaria di decentramento: da allora, il centro del mondo è dappertutto, compresi Nola e l’universo della sua infanzia.
Eccoci lontani da uno sradicamento affettivo, di fronte all’ennesima espressione della teoria dei climi42. Il villaggio natale di Bruno diventa punto di riferimento obbligato di un de-
24
I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
centramento e ricentramento simultaneo del quale bisogna tenere conto per apprezzare l’incessante deriva del punto di vista che risiede nel cuore della sua filosofia.
Quando Bruno dipinge i dintorni della dimora familiare e
i lavoretti degli abitanti della contrada non è tanto per dare
smalto al testo con «piccoli fatti veri» commoventi o bizzarri
quanto per assegnare alla Provvidenza una nuova funzione43.
E così quando il padre si prende gioco del comportamento di
un vicino non è solo per il gusto di una battuta, ma è con l’intenzione di esplicitare, perfino in forma triviale, la portata di
uno strumento teorico così decisivo come quello della coincidenza degli opposti44. In questo senso non ci sono frontiere tra
il ricordo di Nola e la filosofia di Bruno: si rispondono a vicenda come se niente potesse dissociarli.
Fin dalla prima giovinezza, Bruno, per mezzo del suo paesaggio familiare, ha compreso l’impossibilità di limitare ogni
prospettiva. Ecco come renderà conto di questa scoperta primordiale45:
«Quando ero fanciullo, o dolce monte Cicala, ed il tuo lieto grembo nutriva le mie giovani carni, mi attraeva, ricordo,
la tua sacra immagine.
Eri avvolto d’edera, coperto dai rami d’olivo, del cornio,
dell’alloro, del mirto e del rosmarino, circondato dai castagni,
querce, pioppi, olmi, lieti per l’unione con le viti feconde; e
mentre la ruvida mano alla tenera porgeva l’uva, con l’indice
puntato dicesti a me: “Guarda a sud, guarda da quella parte
il mio fratello Vesuvio. Anche lui, mio fratello, ti vuole bene,
lo credi? Ti devo mandare là? Di’: vuoi andare? Rimarrai con
lui, poi”.
Figgendo i piccoli occhi vitrei all’informe figura e cogliendo l’immagine di un oscuro ammasso, dissi: “Quello con il dorso ricurvo, quello che si piega su se stesso con una dentata china, che fende il cielo contiguo? Tanto lontano di qui, così brutto, coperto di fumo, non produce alcun frutto, né mele, né uva,
né dolci fichi. È privo di alberi e giardini, oscuro, tetro, triste,
truce, spregevole, avaro”. E tu, con un sorriso: “Eppure è mio
1. NOLA. L’ORIZZONTE DELL’INFANZIA
25
fratello, ama me e vuole bene a te. Guardalo bene, dunque, e
non disprezzare le sue attrattive. So che non farà niente che ti
sia molesto, e, se non vorrai rimanere, ritornerai”».
Una volta giunto presso il Vesuvio, Bruno si rende conto
che le pendici del monte sono ugualmente ricche di «molta vegetazione», di «uva pendente abbondantemente dai rami» e
«di frutta svariata». I suoi occhi lo hanno ingannato. Accolto
a braccia aperte dal vulcano che gli offre «corone di fronde»
e «frutti sconosciuti», ascolta la sua lezione:
«Rimani qui, dunque, disprezza i Lari del tuo Cicala, considera bene come io sia lo scrigno delle ricchezze, rigoglioso
di coltivazioni e come l’abbondanza si riversi su di me dal corno ripieno.
Ora distogli di qui il tuo sguardo, osserva il Cicala, quel
mio fratello è situato all’altro estremo e con una nera vetta tocca il cielo, con una veste del color della pece copre le oscure
membra ed umile e pudico avvolge il misero corpo di una oscura caligine».
Il bambino spiega allora al Vesuvio:
«Così mi appariva anche la tua immagine prima che venissi ai tuoi campi e quello apparirà simile a te, se io vado lì».
La distanza «trasforma l’aspetto delle cose». Soltanto grazie a un avvicinamento svaniscono le illusioni ed emerge la verità. Il centro del mondo si sposta con noi. Pertanto, non c’è
più alcun riparo, nessun fondamento immutabile, se non questo ritorno a Nola che apre tutte le prospettive. L’infanzia di
Bruno può così imporsi in ogni istante della sua riflessione filosofica, e da questo confronto tra ieri e oggi nasce una rimessa in discussione di tutta l’attualità. Da allora, la storia dell’infanzia scaturisce in quanto infanzia della storia46.
A parte l’evocare la sua famiglia e i luoghi privilegiati della sua giovinezza, Bruno non mancherà di farsi conoscere e riconoscere nella sua qualità di «Nolano»: con questo nome firmerà i suoi scritti, così lo chiameranno gli interlocutori dei
suoi dialoghi e con esso si presenterà in terza persona; nelle
università, nelle accademie o a corte, sarà sempre il «Nolano»
26
I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
a essere ascoltato, criticato, espulso. Il filosofo definirà il suo
stesso pensiero «nolano»47: sorprendente punto di fuga iscritto nel passato, la sua infanzia investirà l’insieme della sua filosofia per identificarsi ed essere un tutt’uno con essa48.
Non bisognerà dimenticarlo nel corso delle pagine che seguono: non c’è frattura nel Nolano tra l’esperienza della sua
vita e quella del suo pensiero, perché considera entrambe come decentramento dal resto e da loro stesse. La rappresentazione delle origini (l’infanzia bruniana è un teatro della memoria, un palcoscenico in favore del quale il ricordo serve la
verità) sarà il perno, in perpetuo movimento, attorno al quale la filosofia nolana prende forma, senza tuttavia essere limitata a questo. Questa “nolanizzazione” assumerà una funzione eminentemente direttrice verso tutte le cose, o meglio verso tutto ciò che dev’essere superato: proprio come, diremmo,
l’orizzonte.
2. Napoli. I primi maestri
Fu un prete, don Gian Domenico Iannello, a insegnare a
leggere e a scrivere al giovane Bruno1. Tuttavia, a Nola, l’educazione non dipendeva dagli istituti religiosi (soltanto i gesuiti riuscirono a fondarvi un collegio nel 1559), di conseguenza
il bambino finì per seguire un insegnamento non assoggettato, o almeno non direttamente, alle prescrizioni della Chiesa2.
Molto probabilmente egli seguì i corsi della scuola più vicina,
fondata da Bartolo di Aloia delle Castelle sull’esempio di quella che il grammatico Lucio Giovanni Scoppa3 aveva istituito a
Napoli e la cui reputazione ne fece col tempo il più storico istituto pubblico del vicereame4.
Il contenuto dei programmi dell’istituto di Scoppa può darci un’idea di cosa trovò Bruno quando raggiunse quello di Bartolo di Aloia. Destinato a istruire i giovani nelle lettere e in
tutte le arti liberali5, tale insegnamento metteva l’accento, in
linea con la corrente umanista, sulla lettura degli autori classici e sullo studio della lingua e della grammatica latine.
Una tale impostazione ripugnò il Nolano al punto che non
smise di fustigarla in tutte le sue opere6. Del resto la sua condanna non fu la sola, dato che la si ritrova già in Sannazaro, autore dell’Arcadia7. Tuttavia questa pedagogia lasciò in lui tracce tanto profonde quanto amare, se si giudica il ritratto al vetriolo del grammatico che il filosofo si divertirà ad abbozzare:
«Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contem-
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I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
pla la sua divinità nel specchio d’un Spicilegio, un Dizionario,
un Calepino, un Lessico, un Cornucopia, un Nizzolio8. Con questa sufficienza dotato, mentre ciascuno è uno, lui solo è tutto.
Se avvien che rida si chiama Democrito, s’avvien che si dolga
si chiama Eraclito, se disputa si chiama Crisippo, se discorre
si noma Aristotele, se fa chimere si appella Platone, se mugge
un sermoncello se intitola Demostene, se construisce Virgilio
lui è il Marone. Qua correge Achille, approva Enea, riprende
Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo, arguisce
Turno, iscusa Didone, comenda Acate; e in fine, mentre verbum verbo reddit e infilza salvatiche sinonimie, nihil divinum
a se alienum putat. E cossì borioso smontando da la sua cattedra, come colui c’ha disposti i cieli, regolati i senati, domati
eserciti, riformati i mondi, è certo che, se non fusse l’ingiuria
del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa con l’opinione. – O tempora, o mores! Quanti son rari quei che intendeno
la natura de’ partecipi, degli adverbii, delle coniunctioni!
Quanto tempo è scorso, che non s’è trovata la raggione e vera causa, per cui l’adiectivo deve concordare col sostantivo, il
relativo con l’antecedente deve coire, e con che regola ora si
pone avanti, ora addietro de l’orazione; e con che misure e
quali ordini vi s’intermesceno quelle interiezione dolentis, gaudentis, heu, oh, ahi, hem, ohe, hui, ed altri condimenti, senza
i quali tutto il discorso è insipidissimo?»9.
Fin dai tempi di Nola e dei banchi di Bartolo di Aloia, il
giovane Bruno si confrontò con i grammatici umanisti. Questi primi scontri dovettero segnarlo per sempre. La sua critica al pedantismo, prima di svilupparsi in altre direzioni, attingerà alla sorgente di questi Trissotin dallo spirito ottuso e dal
sapere ripiegato su se stesso.
Basta una simile delusione a spiegare la sua partenza da Nola all’età di quattordici anni? Probabilmente no. A dispetto
del suo prestigioso passato e delle sue bellezze naturali, la piccola città campana non offriva grandi speranze a un semplice
figlio di soldato; se il giovane Bruno voleva tentare di sfuggire alla propria condizione sociale doveva prendere il largo10.
2. NAPOLI. I PRIMI MAESTRI
29
Estremamente fiorente grazie agli spagnoli, Napoli, vera e
propria capitale del vicereame, si presentava come destinazione obbligata11. Sotto la tutela di Pietro da Toledo, viceré dal
1532 al 155312, si era ingrandita di oltre un terzo e addirittura
arricchita di una cinta muraria; verso la metà del secolo, con
i suoi duecentomila abitanti (la popolazione era raddoppiata
grazie a una costante emigrazione dalle terre circostanti), era
diventata una delle città più popolose d’Italia. Questo sviluppo era avvenuto a scapito di dolorose concessioni: la sottomissione delle baronie, continuamente costrette, nonostante qualche sussulto, ad abbassare la guardia di fronte al «nuovo ordine politico»13, la soppressione della maggior parte delle libertà (espulsione degli ebrei emigrati dalla Spagna14, divieto
di stampare e far circolare testi teologici) o il controllo economico. Il governo vicereale aveva tuttavia reso questa metropoli una specie di terra promessa. I cittadini beneficiavano di privilegi fiscali e godevano di una relativa sicurezza, a seguito dell’accanita repressione esercitata contro i capeadores o ladri di
cappa, antenati dei camorristi15, al punto che Napoli, malgrado il suo clima politico oppressivo e le incertezze internazionali16, attirava chi cercava di sottrarsi al torpore di una provincia ancora impregnata di feudalesimo. A Nola, come in tutto
il vicereame, vigeva ormai l’abitudine di abbandonare i propri penati per sbarcare il lunario, arricchirsi o, semplicemente, istruirsi17. Oltre a queste circostanze, la predisposizione intellettuale che il giovane Bruno aveva forse già manifestato18 e
il suo modesto stato sociale certamente contribuirono a farne
uno dei numerosi nolani candidati all’esodo.
Grazie ai frequenti spostamenti, suo padre Giovanni aveva
senz’altro avuto il sentore delle opportunità offerte dalla metropoli. Fu lui a consigliare il figlio? In ogni caso, sappiamo
che gli fu impossibile accompagnarlo quando nel 1562 Bruno
raggiunse l’università pubblica di Napoli19.
Situata al pianoterra e sui due lati di un cortile che serviva
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I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
da accesso al convento dei frati predicatori di San Domenico
Maggiore, questa università o studium era in contatto permanente con la comunità religiosa. L’edificio comprendeva tre
sale col soffitto a volta (due davano sul convento, la cui infermeria era al piano superiore): la prima accoglieva gli allievi di
diritto canonico e di grammatica greca, la seconda quelli di diritto civile e la terza quelli delle arti liberali20.
Su insistenza dei napoletani, che andavano fieri di questa
istituzione risalente a Federico II21, le lezioni ripresero nel 1506,
tre anni dopo l’instaurazione del vicereame, e in seguito furono interrotte solo per brevi intervalli22. L’Università di Napoli si distingueva dagli altri istituti italiani perché ormai dipendeva solo dal potere spagnolo che ne aveva assunto l’amministrazione e la nomina dei professori. Non disponeva di alcuna autonomia, non era nient’altro che uno strumento pedagogico al servizio della Spagna. La sua missione era quella di limitarsi a diffondere una sorta di cultura ufficiale formando
un’élite, principalmente di medici e avvocati, destinata a rispondere esattamente ai bisogni della regione. Così, come in
ogni altra scala della società, vi si combinavano assolutismo
politico e mercantilismo economico23, tanto che la creazione
di qualsiasi altra istituzione analoga era strettamente vietata
sul territorio del vicereame. Se a qualche intrepido fosse per
caso venuto in mente di ottenere un diploma altrove, questo
diploma era dichiarato nullo e il suo detentore minacciato di
pesanti pene. L’Università di Napoli rifletteva gli aspetti paradossali del regime; puro prodotto del centralismo protezionista, ne subiva il contraccolpo: quello che da un lato guadagnava in autorità per la sua posizione privilegiata nel vicereame,
dall’altro perdeva in libertà e influenza.
Vetrina culturale del potere, lo studium ha sempre beneficiato di forti sovvenzioni24. Ma il suo insegnamento non aveva nessuna possibilità di rinnovarsi poiché ci si accontentava
di riprendere i programmi dispensati dalle altre università.
Certo, per ragioni di prestigio, venivano invitati i migliori professori25. Peccato però che questi ultimi non riuscissero a com-
2. NAPOLI. I PRIMI MAESTRI
31
petere, in filosofia e teologia, con i corsi privati che i domenicani e i gesuiti prodigavano e che gli alunni dello studium, ben
coscienti di questa carenza, seguivano più volentieri. Quanto
alla medicina, non potevano nemmeno competere con Salerno, dove contrariamente all’organizzazione napoletana, il conseguimento dei diplomi non dipendeva dalla volontà vicereale 26. A dispetto delle sue ambizioni, dunque, l’Università di
Napoli perdeva a poco a poco terreno, soprattutto rispetto ai
liberi docenti, spesso più aperti, che venivano da fuori; non
essendo mai uscite dal loro ambiente, le università tendevano
ormai a non insegnare nient’altro che teorie datate27. Così, quelle aule che, conformemente alle istruzioni spagnole, avrebbero dovuto rigurgitare di allievi disciplinati conobbero disordini e violenze (la detenzione di armi era perfino stata proibita, senza dubbio invano, da due decreti vicereali del 1556 e
155828!), quando non erano addirittura disertate…
Quando il giovane Bruno entra all’università nell’ottobre
del 156229, l’egemonia del potere diventa ancora più tangibile. Benché il corpo insegnante fosse di un livello rispettabile,
ci si formava sempre meno. Tuttavia, lo studium non arrivò a
far dimenticare l’età dell’oro delle accademie napoletane, grazie alle quali aveva regnato una certa libertà intellettuale, in
particolare durante la dominazione aragonese: le accademie di
Pontano, dei Sereni, degli Ardenti, degli Incogniti erano tutte state soppresse, una dopo l’altra, dal giogo vicereale col pretesto di aver sostenuto dottrine “eretiche” – in realtà, nella loro essenza, troppo d’avanguardia.
Forte della sua reputazione (che ne farà ugualmente la più
notevole istituzione scolastica di Napoli), l’università cercava
senza successo di rispondere sia alla sparizione delle accademie sia all’influenza crescente degli insegnamenti venuti da
fuori. Ma come dar credito a una simile istituzione? Qualche
anno più tardi i suoi professori titolari non avrebbero forse dovuto giurare la loro fede cattolica conformemente alla bolla di
Pio IV del 156430? Preoccupate di affidare – benché a loro spese – l’educazione dei loro ragazzi a professori privati più libe-
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I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
rali e aggiornati, le famiglie agiate trascurarono a poco a poco
l’istituto. Oppressa dal suo clima conformista, l’università veniva così asservita anche alla moneta sonante. Incapace di reagire stava diventando suo malgrado la scuola dei poveri 31.
In quel periodo Napoli era sottoposta a dure prove: nel
1561, per due volte, un terremoto scosse la città; dal novembre 1562 al gennaio 1563 un’epidemia falciò più di ventimila
napoletani32. Il nuovo orizzonte di Bruno appariva molto cupo. Lontano dai suoi e sottomesso all’autorità di una “accademia di Stato”, essa stessa alla mercé di un potere poco incline
alle lettere 33, il Nolano si rassegnò all’asprezza di un ordine
politico senza ambizioni intellettuali. La disillusione, ecco il
sentimento che travolgeva il suo animo – oltre al fatto che gli
insegnanti dell’università, come confesserà più tardi, non gli
trasmettevano granché34. Occorre però dire che questi maestri, tutto sommato mal pagati, erano poco rispettati dalla società napoletana (i più competenti s’arricchivano con le lezioni private) e che i diplomi ottenuti grazie allo studium, cioè
grazie ai collegi che li rilasciavano non senza negligenza35, attiravano paradossalmente solo quelli che volevano sfuggire alla carriera accademica. I più accorti preferivano quelle da avvocato o da medico, molto più redditizie.
Tutto fa pensare che nei primi anni napoletani Bruno si nutrì di lezioni private36. Scelse di seguire l’insegnamento di un
certo Teofilo da Vairano, «il principale maestro di filosofia che
abbia mai avuto»37, disse.
Allievo nel 1558 del convento napoletano di Sant’Agostino,
dove divenne lettore e maestro il 23 aprile 1562, ottenne il diploma e poi, divenuto professore di teologia sacra a partire dal
1565, l’anno successivo gli furono assegnate cariche temporanee all’Università di Firenze; questo padre agostiniano terminò
la sua carriera a Roma, all’Università “La Sapienza”, prima di
spegnersi a Palermo al servizio del principe Marco Antonio
Colonna in qualità di maestro di filosofia38. Questo è pressap-
2. NAPOLI. I PRIMI MAESTRI
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poco ciò che sappiamo di lui. Ma c’è da scommettere che il suo
agostinismo lasciò sul giovane Nolano un’impronta indelebile39, che potrebbe averlo portato a criticare l’aristotelismo in
nome di una versione cristianizzata del platonismo. Influenzando con la loro presenza la vita culturale di Napoli, illustri
rappresentanti di questa corrente platonizzante, come Egidio
da Viterbo, non esitarono ad avvicinarsi all’averroismo di un
Nifo oppure, seguendo l’esempio di Girolamo Seripando, «il
più gran pensatore ebreo dell’epoca» 40, ad aprirsi alla mistica
cabalistica per difendere al Concilio di Trento la teologia della doppia predestinazione41. Da qui deriva, probabilmente, in
Bruno, una tendenza a trovare Dio «non soltanto all’interno
dell’anima credente e amante e nella perfezione esemplare del
mondo intellegibile, ma ugualmente in tutta la natura»42. Da
qui, inoltre, il desiderio d’interrogarsi su una teologia negativa (cfr. il sermone 17 di Agostino: Si comprehendis, non est
Deus [‘Se comprendi, non è Dio’]), appoggiandosi nel contempo sulla rivelazione dell’immanenza divina, essa stessa accessibile alla ragione umana (Intellige ut credas, diceva ancora il
vescovo di Ippona [‘Capisci, per credere’])43.
Se questa prima influenza si esercitò al di fuori di un quadro scolastico, non possiamo dire altrettanto per la seconda,
che si riallaccia a teorie opposte, cioè al ritorno all’autentico
Aristotele. Questa tendenza aveva già arricchito le dispute teologiche del XIII secolo, ma una sua più larga diffusione, a partire dal 1530-154044 – grazie all’esegesi di Alessandro di Afrodisia, di Giovanni Filopono, di Ammonio e Simplicio –, aveva stimolato numerose ricerche sullo Stagirita, mirando sia a
“purificarne” il testo con Simone Porzio, sia a riempire le “crepe” con Marco Antonio Zimara, Bernardino Tomitano e soprattutto Girolamo Balduino, il celebre logico della scuola padovana45. Giunto a insegnare all’Università di Napoli, questi
aveva fatto della diffidenza che provava nei confronti delle interpretazioni filologiche il suo principale cavallo di battaglia.
34
I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
Uno dei suoi discepoli, Vincenzo Colle da Sarno, seguiva
la stessa tesi46 e fu il secondo maestro del giovane Bruno47. Secondo questo aristotelico, poco importava che questo o quel
giudizio risalisse o no ad Averroè, ciò che contava in definitiva
era più la sostanza che la forma del testo – più le cose che le parole. E se il filosofo arabo aveva compreso il pensiero di Aristotele, poco importava che la lingua nella quale si era espresso
fosse impura e le sue traduzioni approssimative. Mal tradotto
in latino, Averroè restava tuttavia intellegibile e, quand’anche
non fosse stato l’autore dei commenti che gli erano attribuiti,
questi ultimi non risultavano meno utili o necessari e, di conseguenza, peripatetici: insomma, Vincenzo Colle da Sarno proponeva un approccio aristotelico ma antifilologico e dunque
antiumanista, e questo non poteva che rafforzare le reticenze
del Nolano nei confronti dei grammatici.
Le lezioni pubbliche tenute all’Università di Napoli da Vincenzo Colle segnarono risolutamente Bruno poiché, a suo dire, è nella dottrina dello Stagirita che fu allevato48. Al tempo
stesso l’adolescente doveva confrontarsi con i temi filosofici
di allora: da una parte scopriva le difficoltà del platonismo
agostiniano in piena restaurazione cattolica (il Concilio di Trento aveva rifiutato la tesi della doppia predestinazione proposta da Seripando49); dall’altra, in nome della sua avversione per
i grammatici e per la corrente umanista, rinunciava al sostegno degli aristotelici di stretta osservanza. D’altronde, s’incamminava verso ciò che aveva le sembianze di un dilemma
inevitabile: da un lato, con gli eredi del Liceo, si faceva partigiano di una soluzione universale, propizia nei riguardi di una
Chiesa minacciata dalle divisioni; dall’altro, con quelli dell’Accademia, optava per una speculazione individuale rivolta a una
relazione personale e privilegiata con la verità divina50.
Parallelamente, la lettura del Phoenix sive artificiosa memoria (Venezia, 1491) di Pietro Tommai, detto Pietro da Ravenna, iniziò il Nolano a un’altra tradizione di pensiero, vivacis-
2. NAPOLI. I PRIMI MAESTRI
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sima nel XVI secolo, l’arte della memoria 51: «Fu una piccola
scintilla che, progredendo in una ininterrotta meditazione, fece propagare un incendio su vaste alture. Da quei fiammeggianti fuochi sprizzarono numerose scintille»52.
Di che si trattava? Per farcene un’idea bisogna far riferimento alla corrente mnemotecnica cui Pietro da Ravenna s’ispirò, quella che risaliva a Cicerone. Nella sua teoria sull’eloquenza53, l’oratore latino ricorda l’episodio del poeta Simonide di Ceo – che aveva identificato i corpi dei partecipanti a un
banchetto sfigurati dal crollo del soffitto ricordandosi il posto
che essi avevano occupato – per mettere l’accento sulla necessità di sviluppare la memoria scegliendo prima di tutto dei “luoghi”, poi formando immagini corrispondenti ai fatti o concetti che si vogliono ricordare al fine di legare immagini e luoghi.
Poiché l’ordine secondo il quale queste immagini sono disposte permette di facilitare la memorizzazione, l’arte ciceroniana della memoria poteva essere paragonata a un sistema di scrittura: i luoghi corrispondevano alle collocazioni disponibili su
una tavoletta di cera, le immagini alle lettere dell’alfabeto.
A partire da questo modello Pietro da Ravenna aveva stabilito, stando a quello che diceva, più di centomila luoghi, e
questo gli permetteva di trionfare su chiunque nella conoscenza delle Sacre Scritture e del diritto: appena ventenne e grazie
alla determinazione di questi luoghi, era capace di citare a memoria le lezioni del suo maestro all’Università di Pavia!
In realtà, al di là di queste prodezze, spesso rivendicate dal
suo autore54 ma anche attestate in tutta Europa55, Pietro da Ravenna non si accontentò di proporre un procedimento di memoria artificiale in puro stile ciceroniano – altrimenti come
spiegare l’entusiasmo del giovane Bruno per una tecnica semplicemente oratoria, quand’egli era il primo a denunciare l’imperizia dei grammatici? Ciò su cui Pietro da Ravenna aveva insistito era innanzitutto la potenza delle immagini:
«Solitamente colloco nei luoghi alcune fanciulle formosissime che eccitano molto la mia memoria… e credimi: se mi sono servito come immagini di fanciulle bellissime, più facilmen-
36
I. L’APPRENDISTATO DELL’ESILIO
te e regolarmente posso ripetere le nozioni che avevo affidato
ai luoghi. Possiedi ora un segreto utilissimo alla memoria artificiale. A lungo ne ho taciuto per pudore. Ma se desideri ricordare presto colloca nei luoghi vergini bellissime. La memoria è infatti mirabilmente eccitata dalla collocazione delle fanciulle [...]. Questo precetto non potrà servire a chi detesta e
disprezza le donne e costoro raccoglieranno con più difficoltà
i frutti di quest’arte. Vogliano perdonarmi gli uomini casti e
religiosi: avevo il dovere di non tacere una regola che, in quest’arte, mi ha procurato lodi ed onori, e desidero acquisire,
con tutte le mie forze, eccellenti successori»56.
Particolarmente stimolante agli occhi di un adolescente, questo metodo, a differenza dei suoi antecedenti medievali, presentava anche il vantaggio di non essere più legato alla morale cristiana: Pietro da Ravenna laicizzava l’arte della memoria.
Inoltre, ricorrendo alle immagini per supplire le carenze delle
parole, entrava apertamente in contrasto con grandi menti che,
da Cornelio Agrippa a Erasmo, avevano una pessima considerazione della mnemotecnica in nome del rispetto delle facoltà
naturali57. Conciliare la scoperta di Pietro da Ravenna, già arcaica per gli umanisti, col suo doppio orientamento filosofico,
nel cuore stesso dei dibattiti tra platonici e aristotelici: questa
la difficoltà che si presentava allora al giovane Bruno e che non
mancò di nutrire tutte le sue riflessioni successive.
Dal 1562 al 1565, l’adolescente di Nola si ritrovò sotto il
giogo delle prescrizioni accademiche del potere vicereale. Ma,
già scottato dalla sua prima esperienza scolastica, egli continuò a rigettare il brusio dei grammatici per cercare qualche
via d’uscita, proprio confrontando approcci a priori incompatibili. Così, platonismo agostiniano, averroismo e mnemotecnica divennero un ventaglio di possibilità per “decentrare” la
sua formazione e respingerne sempre i limiti senza mai risolversi a adottare una prospettiva che escludesse un approccio
multiforme.
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