S studio del mese Benedetto XV La Grande guerra Preghiera e diplomazia A. Bucci, In trincea, 1915. Collezione privata dell’autore. Quale fu la posizione di Benedetto XV, il papa dell’«inutile strage», nei confronti del primo conflitto mondiale? L’analisi storica rivela quanto i cent’anni trascorsi abbiano conosciuto un’evoluzione nell’atteggiamento della Chiesa cattolica rispetto al tema della guerra e della pace, parallelamente al modificarsi profondo della guerra stessa nelle sue modalità. Nei suoi interventi il pontefice cercò di proporsi come guida morale sovranazionale, e di ottenere autorevolezza presso la comunità internazionale, utilizzando gli spazi e gli strumenti di cui disponeva: i rapporti diplomatici, l’assistenza e il soccorso prestati in diversi ambiti a tutte le vittime della guerra a prescindere dalla nazionalità e dalla confessione religiosa, e la «mobilitazione spirituale» dei cattolici attraverso la preghiera: di qui le devozioni al Sacro Cuore e a Maria Regina pacis. Sottolineò la linea di imparzialità cui la Santa Sede era tenuta ad attenersi, motivandola sia con la presenza dei cattolici nei paesi dei due fronti contrapposti, sia con l’universalità dei principi cristiani, che imponevano un’accettazione limitata e condizionata del patriottismo e del principio di nazionalità. Il Regno - attualità 18/2014 663 tudio del mese S 664 N egli ultimi decenni la storiografia contemporaneistica ha evidenziato l’importanza del fattore religioso nel primo conflitto mondiale, avviando filoni di ricerca che, benché ancora non esauriti, hanno già conseguito rilevanti esiti conoscitivi. Gli studi hanno evidenziato alcuni tratti del rapporto tra religione e guerra trasversali ai paesi coinvolti nel conflitto e alle diverse confessioni al loro interno. Risulta oramai un dato assodato il ruolo, svolto dalla religione, di «costruzione di senso» di un evento traumatico e devastante per l’ampiezza della mobilitazione richiesta e per i livelli di violenza raggiunti. È emerso anche come tutte le religioni abbiano dato un supporto alla causa dei paesi in cui erano presenti, e come questo abbia consentito in particolare ai cattolici la piena reintegrazione nella vita delle rispettive nazioni laddove erano stati respinti ai loro margini dalle tensioni generate dai processi di laicizzazione.1 È questo il caso anche del cattolicesimo italiano, che accompagnò l’ingresso del paese nel conflitto con un’efflorescenza di celebrazioni religiose che oscillavano tra l’invocazione divina per la protezione e la vittoria e l’assunzione della retorica interventista sulla guerra di redenzione, rigenerazione e restaurazione del diritto dei popoli: un «fervore religioso» che condivise con le minoranze evangelica ed ebraica, e che (come anche in queste ultime) si ridimensionò nel corso del conflitto.2 Al di là di questi tratti generali, comuni alle diverse confessioni religiose nei diversi paesi, gli studi sul cattolicesimo italiano hanno evidenziato l’esistenza al suo interno di una pluralità di articolazioni di posizioni nel rapporto con la guerra, riconducibili non solo a sensibilità personali, ma anche ai condizionamenti imposti dai ruoli istituzionali e dalla collocazione rispetto al fronte. Riguardo all’esercito, ad esempio, la religione proposta dai cappellani militari si configura come molto diversa da quella effettivamente vissuta dai soldati. Nella prima, l’offerta a questi ultimi di un supporto psicologico e spirituale e la sostanziale imposizione di una regolare pratica sacramentale e di momenti di istruzione religiosa s’innestano in un orizzonte più vasto segnato da due obiettivi di fondo: la «(ri)cristianizzazione» dell’esercito e, attraverso essa, del paese; l’ottimizzazione dell’efficienza in guerra dei soldati secondo le attese delle autorità politiche e militari. Questo secondo obiettivo, in particolare, richiedeva necessariamente l’assunzione nel discorso religioso dei contenuti della propaganda di guerra e la formulazione di preghiere per la vittoria del paese. La religiosità spontanea dei soldati era invece normalmente ingenua e superstiziosa (in ragione dell’umile estrazione sociale della maggior parte di essi), ne esprimeva i timori e le ansie e chiedeva alle figure divine protezione e una fine del conflitto senza condizioni.3 Studi recenti su singole diocesi hanno evidenziato come, malgrado la struttura gerarchica della Chiesa cattolica e malgrado la forza del legame del clero e dei laici cattolici italiani con il pontefice, tra i diversi livelli Il Regno - attualità 18/2014 gerarchici e anche all’interno di ciascuno di essi si dessero spesso posizioni non del tutto sovrapponibili, e talora profondamente diverse, sul rapporto tra religione e guerra, religione e patria, religione e nazione.4 Non essendovi qui lo spazio per dare conto in modo esaustivo delle acquisizioni conoscitive delle diverse piste di ricerca percorse, vorrei focalizzare l’attenzione su un aspetto che mi sembra consenta di richiamare i termini essenziali di molte di esse: la dialettica sul rapporto con la guerra che si diede tra il pontefice e i cattolici italiani, esaminata attraverso l’osservatorio della preghiera. La sua illustrazione richiede tuttavia una previa messa a fuoco dell’atteggiamento complessivo della Santa Sede rispetto alla guerra, sul piano sia delle categorie culturali attraverso cui la lesse, sia dei problemi specifici posti dalla sua collocazione sul territorio italiano. La Santa Sede, la guerra, l’Italia Durante il conflitto la Santa Sede cercò di svolgere un ruolo di pacificazione giocato su più piani: dagli appelli ai paesi belligeranti, a un’intensa attività diplomatica, all’orientamento della mobilitazione cattolica nei diversi paesi nella direzione della costruzione di una pace stabile e duratura. Questo articolato impegno s’innestava in una precisa lettura del conflitto, radicata nella rielaborazione della tradizionale dottrina della «guerra giusta» operata nel corso dell’Ottocento dalla cultura cattolica di matrice intransigente. Secondo tale lettura, la guerra era un castigo divino determinato dai processi di secolarizzazione della società e di laicizzazione dello stato, e una pace stabile e duratura richiedeva il riconoscimento del pontefice come arbitro supremo nella vita interna degli stati come nelle relazioni tra essi.5 Già presente in Pio X, a essa aderiva anche Benedetto XV, ma con alcune specificità. Negli interventi di papa Giacomo Della Chiesa non si ritrova l’attribuzione alla guerra di una funzione di per sé espiatoria e catartica, strumentale alla ricostruzione di una società cristiana: un tema di matrice demaistriana che già agli inizi del conflitto è abbozzato negli interventi di papa Sarto e appare diffuso negli ambienti della curia romana e negli articoli di una rivista vicina alla Santa Sede, come La Civiltà cattolica. Inoltre, nella definizione delle colpe per le quali la provvidenza avrebbe consentito lo scatenamento della guerra come castigo, Benedetto XV non si limitava a indicare il rifiuto di una società cristiana nei suoi ordinamenti, ma vi aggiungeva la mancata osservanza dei dettami della morale cattolica a livello individuale. Infine, nei suoi interventi sul conflitto, non fu troppo esplicito sulla rivendicazione al pontefice di un ruolo arbitrale, ma cercò piuttosto il riconoscimento di un’autorevolezza presso la comunità internazionale che perseguì utilizzando gli spazi e gli strumenti di cui disponeva: i rapporti diplomatici, l’assistenza e il soccorso prestati in diversi ambiti a tutte le vittime della guerra a prescindere dalla nazionalità e dalla confessione religiosa e la «mobilitazione spirituale» dei cattolici attraverso la preghiera. Allo stesso scopo sottolineò la linea di imparzialità cui la Santa Sede era tenuta ad attenersi, mo- tivandola sia con la presenza dei cattolici nei paesi dei due fronti contrapposti, sia con l’universalità dei principi cristiani, che imponevano un’accettazione limitata e condizionata del patriottismo e del principio di nazionalità.6 L’applicazione di questa linea sul piano concreto fu tuttavia estremamente problematica. Sul piano internazionale il pontefice non riuscì infatti a evitare che da entrambe le parti gli venissero mosse accuse di parzialità a favore della controparte (in particolare a favore degli imperi centrali). Le difficoltà s’accrebbero con l’ingresso dell’Italia nel conflitto. La Santa Sede cercò sino all’ultimo di evitarlo, operando per persuadere l’Impero austro-ungarico a fare all’Italia le concessioni territoriali da essa richieste. La spingevano in questa direzione non solo la considerazione che un’estensione del conflitto ne avrebbe anche implicato un prolungamento, ma anche il timore per la sopravvivenza dell’Impero austro-ungarico, cui guardava come un baluardo cattolico contro la Germania protestante e la Russia ortodossa. Inoltre, la collocazione del Vaticano sul territorio di uno stato belligerante con il quale aveva rotto le relazioni diplomatiche rendeva estremamente complessi i rapporti sia con lo stato ospite sia con quelli del fronte opposto. L’incarico a Carlo Monti, direttore generale degli Affari di culto dello stato italiano, di tenere rapporti ufficiosi con il pontefice, di cui era amico d’infanzia, non riuscì a colmare questa lacuna. Una guida morale sovranazionale Di fatto una delle conseguenze dell’ingresso dell’Italia nel conflitto fu lo spostamento in Svizzera delle ambasciate austriaca e tedesca presso la Santa Sede. La situazione era ulteriormente complicata dalla natura dei rapporti con lo stato italiano, che continuavano a essere tesi a causa di motivazioni ideologiche e di circostanze oggettive. Sul piano ideologico, all’ossessione antimassonica vaticana si contrapponeva l’anticlericalismo di settori del governo e di alcune forze politiche nel paese. Sul piano concreto, non esistevano relazioni diplomatiche ufficiali. La natura giurisdizionalista di parte della legislazione ecclesiastica dello stato italiano e la censura governativa di guerra (che al pontefice sembravano penalizzare soprattutto i cattolici) indisponevano la Santa Sede, che sottolineò l’evidenza, nel contesto bellico, dell’insufficienza della Legge delle guarentigie come propria garanzia di libertà e indipendenza: la guerra dava insomma visibilità alla «questione romana». Il governo italiano lo aveva previsto operando, già prima dell’intervento, per evitare che a seguito di quest’ultimo la soluzione di tale questione venisse spostata in una sede internazionale. Non a caso fece aggiungere al Patto segreto di Londra (26 aprile 1915) una clausola, che impegnava le altre potenze dell’Intesa ad appoggiare l’Italia nella sua opposizione a ogni proposta che avesse cercato di rendere la Santa Sede partecipe dei negoziati di pace e più in generale della regolazione di tutte le questioni sollevate dalla guerra in corso. Tale clausola, sulla quale già nel corso del 1916 giunse a Benedetto qualche informazione e che venne resa nota alla fine del 1917 (a seguito della pubblicazione da parte dei bolscevichi dei trattati segreti di cui erano in possesso, stipulati durante la guerra) concorse ad alimentare le tensioni tra le due parti.7 Al di là dei timori del governo italiano, è indubbio che durante il conflitto il pontefice cercò di proporsi come guida morale sovranazionale e mediatore tra le parti contrapposte. È stato rilevato come la tipologia dei suoi interventi subisse degli spostamenti nel corso del tempo. Nel primo anno di guerra Benedetto XV e il segretario di stato Gasparri si concentrarono sui soccorsi a civili e soldati, e nella primavera 1915 fu costituita in Vaticano l’Opera dei prigionieri, con sede nei locali della Segreteria di stato. Nel corso dello stesso anno fu insediata a Berna una delegazione pontificia per supervisionare l’organizzazione degli interventi umanitari svizzero-vaticani. Soprattutto dall’estate 1915, con l’esortazione apostolica del 28 luglio Ad populos belligerantes, la Santa Sede dispiegò un’intensa attività diplomatica per sollecitare i belligeranti a porsi attorno al tavolo dei negoziati di pace.8 Sostenere il morale delle popolazioni Questo impegno culminò nella nota pontificia del 1° agosto 1917, nella quale Della Chiesa definva la guerra «inutile strage», lasciando intravedere la possibilità di negare a essa lo statuto di «guerra giusta» che – secondo la dottrina cattolica tradizionale – avrebbe richiesto che avesse uno scopo utile (il ristabilimento dell’ordine e del diritto nei rapporti internazionali). Minacciando di delegittimare la guerra, cercava così di fare pressione sugli stati interessati perché aderissero alle proposte che, nello stesso documento, aveva formulato sul piano politicodiplomatico.9 I diversi paesi coinvolti colsero chiaramente l’obiettivo ultimo della nota – riconoscere al pontefice un ruolo decisivo nella soluzione del presente conflitto, e più in generale di suprema autorità nelle relazioni internazionali –, mostrando di non gradirla. In Italia essa diede inizio a una nuova ondata di polemiche contro Benedetto XV e i cattolici, che non si attenuò neanche quando, dopo Caporetto, il governo italiano cercò di utilizzare la diplomazia vaticana per portare il paese fuori dall’impasse in cui si era ritrovato. Nelle settimane successive alla rotta il papa cercò di persuadere l’AustriaUngheria a restituire i territori italiani occupati, e all’inizio del nuovo anno il ministro delle Finanze Nitti chiese al Vaticano di intercedere per una pace separata con l’Impero austro-ungarico. Negli stessi mesi, il governo italiano chiese alla Santa Sede di sollecitare i vescovi a sostenere il morale delle popolazioni per aiutare la resistenza dell’esercito italiano e agevolarne le operazioni militari. Malgrado ciò, e malgrado laici e chierici cattolici dessero prova di sentimenti patriottici, le autorità e la stampa italiane sembravano persistere in un atteggiamento ostile verso la Santa Sede.10 All’inizio del 1918 il primo ministro Orlando e il Vaticano furono contattati da numerosi vescovi di frontiera, che lamentavano le critiche di disfattismo e spionaggio rivolte al loro clero. Il pontefice cercò di reagire a questa situazione con una lettera all’episcopato lombar- Il Regno - attualità 18/2014 665 tudio del mese S 666 do (la cui bozza era stata preparata dal gesuita Enrico Rosa), pubblicata il 24 maggio 1918, dopo la quale il governo italiano mise in atto controlli più stringenti per il controllo della pubblica opinione e della stampa.11 L’ostilità verso la Santa Sede del resto, nel paese come nel governo, non era generalizzata. L’accondiscendenza mostrata dalla prima verso il secondo in diverse circostanze come il contributo dato dalle masse cattoliche – specie contadine – alla guerra e la mobilitazione a sostegno della stessa di clero e laici, avevano significativamente indebolito gli orientamenti anticlericali. Di fatto, fino a quando durò il ministero Orlando, sembrò vi fossero le premesse per una riconciliazione e per la definizione di una soluzione condivisa della questione romana. La fine del ministero Orlando e le nuove tensioni generate dalla Conferenza di pace di Versailles (dalla quale la Santa Sede fu esclusa e dalle cui risoluzioni prese le distanze) allontanarono nuovamente questa prospettiva, riapertasi soltanto sotto il regime fascista.12 Il papa e il patriottismo dei cattolici Nel quadro delle difficoltà incontrate da Benedetto sul piano diplomatico, e in particolare nei rapporti con lo stato italiano, s’inserisce il suo tentativo di moderare il patriottismo dei cattolici divisi sui due fronti richiamandoli tutti al rispetto dell’universalismo cristiano. In questo il papa rielaborava con la propria specifica sensibilità una tradizione già abbozzata nel magistero pontificio da Pio IX, ma precisatasi in quello di Leone XIII. Papa Pecci aveva definito con chiarezza i limiti di ammissibilità dell’amore per la patria per un cattolico. Esso doveva essere subordinato all’amore per la Chiesa, e questo implicava il riconoscimento al pontefice del ruolo di suprema autorità nelle relazioni internazionali, l’impegno dei cattolici per la confessionalizzazione dei rispettivi paesi e (soprattutto per i cattolici italiani) tenere alta l’attenzione sulla questione romana.13 I cattolici nei diversi paesi avevano dato letture articolate di queste direttive, talora allontanandosene e slittando verso forme di nazionalismo che implicavano una sacralizzazione autonoma della patria e della nazione. In Italia il problema era già emerso durante la guerra di Libia (1911-1912), che aveva visto l’entusiasta adesione di larga parte dell’episcopato italiano (che ne aveva anche accreditato la lettura come crociata per l’affermazione della civiltà cristiana), a fronte di un’estrema riservatezza della Santa Sede.14 Durante il conflitto mondiale, il tradizionale lealismo cattolico nei confronti dell’autorità costituita, la legittimazione – sia pure condizionata – del patriottismo ottocentesco da parte del magistero pontificio e le linee di fondo della lettura data da quest’ultimo della guerra esplosa nel 1914 (dalla sua caratterizzazione come flagello mandato da Dio per i peccati degli uomini all’indicazione del ritorno a una società cristiana come unica condizione per il ristabilimento di una pace stabile e duratura) si tradussero, nel loro intreccio, nel sostegno delle Chiese nazionali all’impegno bellico dei rispettivi paesi. In ciascuno di tali paesi larga parte Il Regno - attualità 18/2014 dei cattolici professavano l’amore per la propria patria, affermavano la propria disponibilità al sacrificio, sottolineavano il proprio senso del dovere e rovesciavano sul paese avverso l’accusa di essere stato fattore della secolarizzazione e dunque la causa dell’ira divina che aveva scatenato la guerra. Per contro, presentavano la vittoria del proprio paese come la condizione e la chiave per il ritorno a un ordine cristiano sul piano internazionale.15 Il pontefice intervenne per ridimensionare le forme di patriottismo che oltrepassavano i limiti definiti dall’istituzione ecclesiastica e tendevano a tradursi in una sacralizzazione della guerra, senza tuttavia mettere in discussione la legittimità dell’amore per la patria. Un articolo pubblicato su L’Osservatore romano dell’8 ottobre 1914, a lui attribuito, sollecitava i cattolici, schierati su fronti opposti, a contenerlo e ad aderire alla linea di «imparzialità e di moderazione» cui la Santa Sede doveva attenersi in virtù della sua «missione di pace e di carità fra tutti i popoli della terra». A tutti i credenti chiedeva dunque di formulare giudizi equi e di usare moderazione e correttezza nel linguaggio, secondo quanto «si addice ai seguaci di una legge di carità d’una religione di pace». Al clero, in particolare, ingiungeva di anteporre «al voto, per se stesso legittimo, della vittoria del proprio paese, quello tanto più umanitario e cristiano della pace universale» e, con specifico riferimento alla dimensione cultuale, ricordava che «i sacri recinti destinati al culto divino, le chiese (…) sono asili di pace» sulle cui soglie «debbono tacere le umane passioni, i rancori e gli odi». Nel testo emergevano chiaramente due principali motivi dell’esigenza di evitare che il culto divenisse cassa di risonanza delle contrapposte passioni del conflitto: tutelare l’universalismo cristiano ed evitare che l’esposizione in senso patriottico dei cattolici di un paese avesse ripercussioni negative sui rapporti dei correligionari del fronte opposto con le rispettive autorità politiche.16. Benedetto XV, dunque, pur riconoscendo i sentimenti patriottici come legittimi e in qualche modo insopprimibili, ne sottolineava la tensione, in un contesto bellico, con la carità cristiana e con il ruolo della Chiesa di guida universale, sollecitando tutti i cattolici – e in particolare il clero – a moderarne la manifestazione e a subordinarli a tali superiori esigenze. Orientare la mobilitazione cattolica italiana: la preghiera Questi orientamenti furono riproposti ai cattolici italiani subito dopo l’ingresso del loro paese nel conflitto, con una specifica attenzione alla dimensione cultuale. Il 26 maggio 1915 la Segreteria di stato vaticana emanava una circolare segreta agli ordinari d’Italia, con la quale dava istruzioni ai destinatari sulla condotta da tenere durante la guerra.17 Riprendendo ed estendendo disposizioni già date durante la guerra di Libia dalla Congregazione dei riti,18 essa era diretta a evitare la saldatura tra funzioni religiose legate in vario modo alla guerra e un troppo ostentato patriottismo. Si affermava infatti che i vescovi, e in generale tutto il clero, non dovevano farsi «promotori di funerali per i caduti, di funzioni per rendimento di grazie», ma potevano celebrarli solo se veniva loro esplicitamente richiesto. I vescovi, in particolare, dovevano anche evitare di pronunciare «discorsi in occasione della partenza o dell’arrivo di truppe, dei funerali per i caduti in guerra o di simili avvenimenti e cerimonie pubbliche». Li si sollecitava inoltre a riservare i Te Deum solenni solo «per vittorie decisive» e a evitare possibilmente di prendervi personalmente parte.19 Il pontefice mostrava così di voler moderare le manifestazioni del patriottismo cattolico nel paese intervenendo in particolare su quelle tipologie di riti più facilmente esposti a slittamenti nazionalistici, che prevedibilmente si sarebbero moltiplicati in modo spontaneo. In questo testo sembrava prevalere il timore che un’esposizione patriottica eccessiva dei cattolici italiani pregiudicasse le relazioni diplomatiche della Santa Sede con i paesi del fronte opposto o mettesse in pericolo i cattolici al loro interno. L’insieme degli interventi di Benedetto XV sul piano cultuale delinea però una strategia molto più articolata, che nei suoi sviluppi appare assegnare una crescente importanza alla preghiera nella costruzione delle condizioni ritenute dal papa imprescindibili per il ritorno della pace: l’espiazione dei peccati per placare l’ira divina; l’emendamento dei comportamenti dei credenti nella direzione di una maggiore adesione ai principi cristiani (in particolare l’amore universale e il rispetto dell’autorità suprema del Vicario di Cristo); il ritorno a una società cristiana. L’orientamento del culto verso il perseguimento di questi scopi fu operato dal papa sia attingendo al repertorio della tradizione sia risignificando (anche con l’introduzione di nuove preghiere) forme di culto molto popolari piegate nella circostanza bellica all’invocazione della vittoria del proprio paese. Al riguardo sono significativi i suoi interventi su due devozioni molto diffuse: quella al Sacro Cuore e quella mariana. Entrambe nel corso dell’Ottocento erano divenute veicolo dell’opposizione cattolica alla modernità, e durante la guerra vennero caricate dai cattolici dei diversi fronti di significati nazionalistici.20 Il 10 gennaio 1915 un decreto del card. Gasparri disponeva per i cattolici di tutto il mondo preghiere e opere espiatorie per impetrare la fine della guerra, di cui riproponeva la lettura di castigo divino per i peccati degli uomini. A pratiche di preghiera tradizionali incentrate sulla devozione eucaristica e mariana si aggiungeva una preghiera personalmente composta dal pontefice che impetrava la pace dal «Dio delle misericordie» (che chiamava anche «Re pacifico») e indicava nel suo cuore la fonte della carità capace di eliminare ogni discordia tra gli uomini. A Dio chiedeva, ancora, pietà per le madri, le famiglie e tutta l’Europa, nonché di ispirare ai capi di stato «consigli di mitezza», di «comporre i dissidi che lacerano le nazioni» e di rispondere, «placato», alla fiduciosa preghiera dei fedeli facendo tornare la pace nel mondo. Nella conclusione, destinataria della preghiera diveniva anche Maria, cui si chiedeva protezione e aiuto.21 Il ruolo di Maria era Il Regno - attualità 18/2014 667 tudio del mese S poi precisato in un’allocuzione al concistoro del 22 gennaio successivo, che assegnava alla preghiera a lei rivolta la funzione di aprire la mente e il cuore degli uomini alla luce della verità e al senso della giustizia.22 Nei mesi successivi, con la prosecuzione e l’estensione del conflitto, Benedetto XV assegnò a queste due devozioni funzioni più specifiche in relazione al suo progetto di pacificazione. Lo fece con discrezione e spesso in modo indiretto, quasi mai esplicitando (se non a posteriori) il suo disegno più complessivo. Con riferimento alla devozione al Sacro Cuore, il 27 aprile 1915 scrisse una lettera al religioso latinoamericano p. Mateo Crawley-Boevey (della Congregazione dei sacri Cuori di Gesù e Maria detta di Picpus), che negli anni precedenti aveva diffuso una pratica religiosa familiare rivolta al Sacro Cuore diretta a promuovere una complessiva ricristianizzazione della società sul piano sia degli ordinamenti pubblici sia dei comportamenti dei cattolici. La devozione al Sacro Cuore per la ricostruzione della società Si trattava di una forma di consacrazione delle famiglie al Sacro Cuore (divenuta nota con il nome di «intronizzazione»), che già aveva avuto da Pio X diversi riconoscimenti. Adesso Benedetto XV estendeva le indulgenze associate a essa dal predecessore solo in alcuni paesi a tutte le famiglie del mondo. Lo scopo era quello di promuovere all’interno di queste ultime una devozione meno sentimentale e più consapevole, capace di tutelare l’istituto familiare dagli attacchi della società contemporanea diretti a rovesciare, sul piano pubblico e privato (ad esempio con l’introduzione del divorzio e l’obbligatorietà dell’istruzione pubblica), i costumi generati e plasmati dalla Chiesa nei secoli. Nelle intenzioni del papa, le famiglie cattoliche, custodi dei princìpi della società preservati e alimentati dalla devozione al Sacro Cuore, dovevano così farsi strumento di quella ricostruzione di una società cristiana, nella quale egli aveva ripetutamente indicato una condizione imprescindibile per la pace.23 Dopo l’intervento italiano nel conflitto, forse anche per la più chiara percezione del crescente livello di esposizione patriottica delle preghiere spontanee dei cattolici nel paese, il pontefice intervenne in modo più diretto per orientare la complessiva dimensione cultuale cattolica verso l’invocazione della pace universale in sostituzione della diffusa impetrazione della vittoria. Il 18 settembre 1915 scriveva al domenicano Costanzo M. Becchi, direttore dell’Associazione del Rosario perpetuo in Italia, una lettera (anch’essa ampiamente pubblicizzata) nella quale finalizzava la preghiera del Rosario del mese successivo all’invocazione della misericordia divina per la cessazione del conflitto attraverso la mediazione di Maria – invocata sotto i titoli di «Madre della misericordia» e «Regina della pace» – e con l’aggiunta alle consuete litanie di «qualche speciale preghiera per la pace».24 Il pontefice correggeva in tal modo la forte torsione nazionalistica data al culto mariano dal religioso, che 668 Il Regno - attualità 18/2014 nel giugno precedente, in un rosario a S. Maria Novella, aveva invocato Maria come «grande Castellana d’Italia», chiedendole di custodire i «confini nostri naturali» e i soldati che per essi combattevano.25 Nella stessa direzione, il 16 novembre successivo acconsentiva alla richiesta di alcuni vescovi di modificare le litanie lauretane inserendovi a titolo temporaneo un’invocazione a Maria «Regina pacis», con l’intento di agevolare la preghiera del popolo cristiano per il ritorno della pace.26 Il 4 dicembre indulgenziava invece una preghiera al Sacro Cuore – che si limitava a chiedere la conversione del cuore, protezione e consolazione per l’orante –, la cui diffusione, come si evince dal testo che la introduceva negli Acta Apostolicae Sedis, era diretta a determinare una trasformazione interiore dei credenti capace di portare alla tessitura di relazioni più pacifiche.27 Le due devozioni dunque concorrevano in modo diverso allo stesso fine. Lo chiariva una lettera a Gasparri del 5 maggio 1917, con la quale il papa spiegava che due anni prima, con la Libenter tuas, aveva inteso favorire lo stabilimento del regno di Cristo nei focolari domestici per preparare gli animi ad accogliere il suo invito alla pace, diretto non solo ai popoli ma anche ai capi di governo. Tuttavia, essendo rimasti i suoi appelli inascoltati, aveva deciso di ricorrere a Maria con funzione intercessoria presso il Sacro Cuore e con gli stessi fini. Per questo, adesso, estendeva alla Chiesa universale e rendeva definitiva l’invocazione a Maria «Regina pacis» nelle litanie lauretane.28 Eccessi patriottici da ridimensionare Ci si può chiedere se questa scelta non fosse dettata, oltre che dalla sordità delle potenze belligeranti ai suoi appelli, anche dall’intensificazione della declinazione nazionalistica subita dal culto del Sacro Cuore negli stessi mesi: il 5 gennaio 1917 Agostino Gemelli aveva fatto solennemente consacrare a esso l’esercito italiano e nel marzo successivo vi era stata a Paray-le-Monial una solenne consacrazione al Sacro Cuore delle potenze dell’Intesa.29 Il tentativo di rafforzare la richiesta al Sacro Cuore di una trasformazione della dimensione interiore dei credenti come primo passo per il perseguimento della pace sembra sottendere, insomma, anche la difficoltà del pontefice di ottenere l’allineamento dei cattolici alle proprie posizioni. Si trattava di una difficoltà reale, della cui consistenza l’osservatorio della preghiera offre altre significative attestazioni. Il 27 aprile 1916 il papa aveva indulgenziato un’orazione che chiedeva all’apostolo Pietro, in quanto principe degli apostoli e primate di tutta la Chiesa, di rafforzare non solo, genericamente, la fede dei credenti (rendendoli disponibili anche al sacrificio della vita per la sua difesa), ma anche il loro legame con la Chiesa e con il pontefice, definito «l’erede della vostra fede, della vostra autorità, unico vero capo visibile della Chiesa cattolica, che è quell’arca misteriosa fuori della quale non v’è salvezza». Il rapporto di questo testo con il contesto bellico era esplicitato nella richiesta finale di determinare un mutamento di atteggiamento nei fedeli e negli uomini in direzione di una maggiore disponibilità all’obbedienza al pontefice, senza la quale non poteva darsi una vera pace.30 La preghiera tradiva dunque l’esigenza di una restaurazione dell’autorità pontificia anche all’interno della comunità ecclesiale. Al di là del piano pubblico, Benedetto interveniva anche sul piano privato, correggendo le intenzioni di preghiera, associate a celebrazioni di vario tipo riferite alla guerra, che gli giungevano dal clero e dai fedeli laici di tutte le parti d’Italia per essere approvate e ricevere la benedizione apostolica. Il pontefice era attento a non far venir meno il conforto spirituale e il supporto psicologico agli scriventi (soprattutto quando si trattava di soldati o parenti di vittime della guerra) ma, al contempo, ridimensionava sistematicamente gli eccessi patriottici di alcune intenzioni di preghiera.31 In questa prospettiva, ad esempio, il 26 giugno 1916 indiceva per il 30 luglio successivo una comunione generale dei bambini d’Europa con lo scopo evidente di orientare verso l’invocazione della pace universale una cerimonia che alcuni tendevano ad associare all’invocazione della vittoria per il proprio paese.32 In coerenza, poi, con i contenuti della suddetta preghiera a san Pietro, mostrava di apprezzare molto le funzioni sottoposte alla sua approvazione, nelle quali la richiesta della pace era associata al riconoscimento dell’importanza del suo ruolo di vicario di Cristo per l’ottenimento di quest’ultima. Fu così molto calorosa la sua risposta alle educande delle Orsoline romane di via Nomentana, che lo informavano di avere, nella festa di San Giusep- pe, invocato una benedizione per il pontefice diretta a suscitare in lui «come già altre volte, la potenza di arrestare il flagello» e a renderlo «fautore della pace invocata».33 L’apprezzamento del riconoscimento del ruolo del pontefice come guida dell’umanità non sembra registrare, nella corrispondenza esaminata, soluzioni di continuità. Per contro, l’impegno volto a correggere le intenzioni di preghiera che avessero accentuazioni troppo patriottiche subì dopo Caporetto una rimodulazione, in parte sollecitata dalla richiesta del Governo italiano di un più intenso impegno di vescovi e clero a sostegno del morale delle popolazioni e dell’esercito.34. Di fatto dalla fine dell’ottobre 1917 il pontefice mostrò una maggiore indulgenza verso le funzioni funebri che si limitavano a pregare per i soli caduti italiani (mentre in passato aveva insistito perché lo si facesse per tutte le vittime della guerra), e si preoccupava anzi che non si mancasse di svolgerle soprattutto nelle regioni maggiormente investite dalle conseguenze della disfatta.35 1 Mi limito a indicare il recente volume di X. Boniface, Histoire religieuse de la Grande guerre, Fayard, Paris 2014, e alla sua sezione bibliografica. 2 Con riferimento anche alle altre confessioni religiose nel paese cf. D. Menozzi (a cura di), Religione, nazione e guerra nel primo conflitto mondiale, numero monografico della Rivista di storia del cristianesimo 3(2006)2 e G. Rochat, La spada e la croce. I cappellani militari italiani nelle due guerre mondiali. Atti del convegno della Società di studi valdesi (28-30.8.1994), numero monografico del Bollettino della società di studi valdesi 112(1995)1. Sul cattolicesimo italiano, oltre alle note successive, cf. D. Menozzi (a cura di), La Chiesa e la guerra. I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale, numero monografico di Humanitas 63(2008)6 e Id., G. Procacci, S. Soldani (a cura di), Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), Unicopli, Milano 2010, 269-315. 3 R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980; A. Gibelli, C. Stiaccini, «Appunti su religione e superstizione nei soldati della Grande Guerra», in N. Labanca, G. Rochat (a cura di), Il soldato, la guerra e il rischio di morire, Unicopli, Milano 2006, 125-136; C. Stiaccini, L’anima religiosa della guerra. Testimonianze popolari tra fede e superstizione, Aracne, Roma 2009. 4 M. Malpensa, «Religione, nazione e guerra nella diocesi di Bologna (1914-1918)», in Menozzi (a cura di), Religione, nazione e guerra nel primo conflitto mondiale, 383-408, e M. Caponi, «Una diocesi in guerra: Firenze (1914-1918)», in Studi storici 50(2009), 231-255. 5 D. Menozzi, «Ideologia di cristianità e pratica della “guerra giusta”», in M. Franzinelli, R. Bottoni, Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris», Il Mulino, Bologna 2005, 91-127. 6 D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione dei conflitti religiosi, Il Mulino, Bologna 2008, 15-46; A. Monticone, La croce e il filo spinato. Tra prigionieri e internati civili nella Grande guerra 1914-1918. La missione umanitaria dei delegati religiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014; M. Paiano, «La “mobilisation spirituelle” catholique en Italie pendant la Grande guerre», in corso di pubblicazione negli atti del convegno «Foi, religions et sacré dans la Grande guerre», Verdun, 8-9.11.2012. 7 Su questi aspetti si rimanda alla sintesi di J. Pollard, The unknown pope. Benedict XV (1914-1922) and the pursuit of the peace, G. Chapman, London 1999 (trad. it. Il papa sconosciuto. Benedetto XV, 1914-1922 e la ricerca della pace, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001), 85-102; J.J. Becker, Le pape et la grande guerre, Bayard, Paris 2006. Sul Patto di Londra cf. R. Mosca, «La mancata revisione dell’art. 15 del Patto di Londra», in Benedetto XV, i cattolici e la Prima guerra mondiale. Atti del Convegno di studio tenuto a Spoleto nei giorni 7-8-9 settembre 1962, a cura di G. Rossini, Cinque lune, Roma 1963, 401-412. 8 Pollard, Benedict XV, 112-139. Benedetto XV, Ad populos belligerantes, in AAS 7, 1915, 365-368. 9 Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, 39-46. 10 Pollard, Benedict XV, 112-139. Cf. A. Scottà (a cura di), La conciliazione ufficiosa. Diario del barone Carlo Monti «incaricato d’affari» del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922), 2 voll., Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1997, vol. II, Le annotazioni dal 4 al 23 novembre 1917, 196-215. 11 Scottà, La conciliazione ufficiosa, vol. I, «Introduzione». 12 Scottà, La conciliazione ufficiosa, vol. II, 191ss; A. Guasco, «“L’uomo che la provvidenza ci ha fatto incontrare”. Dal dopoguerra alla Conciliazione», in M. Paiano (a cura di), Cattolici e unità d’Italia. Tappe, esperienze, problemi di un discusso percorso, Cittadella, Assisi 2012, 313-331. 13 M. Paiano, «Cattolici e unità d’Italia tra secolarizzazione della società e sacralizzazione della politica», in Id. (a cura di), Cattolici e unità d’Italia, 19-56, qui 39-50. 14 G. Cavagnini, «Soffrire, ubbidire, combattere. Prime note sull’episcopato e la guerra libica (1911-1912)», in Rivista di storia del cristianesimo 8(2011)1, 27-44; M. Caponi, «Liturgie funebri e sacrificio patriottico. I riti di suffragio per i caduti nella guerra di Libia (19111912)», in Rivista di storia del cristianesimo 10(2013)2, 437-459. 15 D. Menozzi, «La cultura cattolica davanti alle due guerre mondiali», in Rochat, La spada e la croce, 28-60; U. Mazzone, «A religious war? Suggestions from the First world war», in Annali di storia dell’esegesi 26(2009), 251-277. 16 A. [Benedetto XV], «La Chiesa e i suoi ministri nelle amarez- Le «perseveranti preghiere dei buoni» L’ammorbidimento della Santa Sede sull’esposizione patriottica del culto nell’ultimo anno di guerra restò tuttavia circoscritto alle funzioni per i caduti o comunque per momenti particolarmente significativi del conflitto. Ne restavano esclusi riti e festività del calendario liturgico romano, che anzi il papa valorizzava come momenti non solo di preservazione ma anche di Il Regno - attualità 18/2014 669 tudio del mese S 670 rilancio di una preghiera che, pur riferita alla guerra e anche alle sue vittime, aderiva a quell’orientamento universalistico che nel corso del conflitto egli aveva cercato di imprimere – nei limiti del possibile – a tutte le forme di preghiera dei cattolici. Il 22 febbraio 1918 il cardinale vicario invitava i fedeli romani a partecipare alle stazioni quaresimali delle chiese della diocesi, cui quell’anno il pontefice aveva voluto conferire una particolare solennità. Il nesso tra la valorizzazione di questa antica tradizione liturgica e la riproposizione della preghiera per la pace universale era strettissimo. Dopo avere affermato che «le condizioni tristissime della società e delle nazioni, gli effetti della guerra micidiale che sconvolge e affligge, con il nostro paese, tanta parte del mondo (...) debbono persuadere a ricorrere con più fervore, con più assiduità e con maggiore fiducia alla preghiera e specialmente alla preghiera collettiva e pubblica», indicava l’intenzione di preghiera delle funzioni quaresimali proposte nel «ristabilimento della pace tra i popoli, per i nostri fratelli combattenti, per tutti quelli che soffrono le conseguenze della guerra, per le anime di coloro che sono caduti sui campi insanguinati o sono stati altrimenti vittime del terribile flagello».36 Il doppio registro, che distingueva le celebrazioni specificamente riferite al conflitto da quelle appartenenti al calendario liturgico della Chiesa, venne mantenuto dal pontefice anche alla fine della guerra. Dopo la vittoria delle armi italiane non ebbe nulla da eccepire sulla celebrazione di Te Deum in tutta la penisola e il 9 novembre ne fece anzi celebrare uno nella chiesa dell’Ara Coeli dal cardinale vicario Pompili, cui parte- ciparono tutte le autorità politiche, militari, civili.37 Al contempo però continuava a programmare funzioni per la pace universale. La sua attenzione era adesso rivolta alla conferenza per la pace, in vista della quale con l’enciclica Quod iam diu l’1 dicembre 1918 – dopo avere attribuito proprio «alle perseveranti preghiere dei buoni» la conclusione del conflitto – sollecitò i vescovi di tutto il mondo a prescrivere preghiere nelle loro diocesi per «invocare su coloro che parteciperanno alla Conferenza della pace “la sapiente assistenza del Signore”», così che «frutto dell’imminente Congresso sia quel gran dono di Dio che è una vera pace fondata sui principî cristiani della giustizia».38 Alle stesse intenzioni di preghiera dedicò la solenne funzione di fine anno, celebrata nella basilica di S. Maria Maggiore.39 La sua esclusione dal consesso che a Versailles avrebbe stabilito l’assetto politico dell’Europa post-bellica costituiva un’emergenza significativa del totale disconoscimento del suo ruolo sul piano politico-diplomatico. Nondimeno, Benedetto XV sembrava nutrire la fiducia che la preghiera dei credenti – cui attribuiva, nella sua lettura degli eventi, la fine della guerra – avesse la forza per orientare le decisioni delle potenze sedute al tavolo delle trattative verso l’assunzione, sia pure implicita, dei principi cristiani. Alla fine del conflitto, dunque, le condizioni per lo stabilimento di una pace duratura sembravano essere circoscritte dal pontefice – almeno quanto all’assetto della comunità internazionale – essenzialmente a quella semplice assunzione. Maria Paiano* ze dell’ora presente», in L’Osservatore romano (OR) 8.10.1914, 1. Il testo è riprodotto in Scottà, La conciliazione ufficiosa, vol. II, 111-113, dove è attribuito dal curatore al pontefice. 17 La circolare, recapitata a mano ai destinatari da alcuni funzionari della curia romana, raccomandava agli ordinari di comunicare tali norme ai propri suffraganei a voce: Archivio segreto vaticano, Segreteria di stato, Guerra (1914-1918), Fasc. 63, n. p. 6813, circolare della Segreteria di stato «Ai revmi ordinari delle diocesi d’Italia». 18 Cf. la circolare della Congregazione dei riti De suffragiis pro defunctis in bello Tripolitano (3 febbraio 1912), cit. in M. Caponi, «Il culto dei caduti nella Chiesa cattolica fiorentina (1914-1926)», in Rivista di storia del cristianesimo 8(2011)1, 63-90, qui 65, n. 15. 19 Archivio segreto vaticano, Segreteria di stato, Guerra (19141918), Fasc. 63, n. p. 6813, circolare della Segreteria di stato «Ai revmi ordinari delle diocesi d’Italia». 20 D. Menozzi, Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Viella, Roma 2001, 264-267; S. Lesti, «Per la vittoria, la pace, la rinascita cristiana. Padre Gemelli e la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore (1916-1917)», in Menozzi (a cura di), La Chiesa e la guerra, 959-975. Sulla devozione mariana cf. M. Paiano, «Pregare in guerra. Gli opuscoli cattolici per i soldati», in Menozzi, Procacci, Soldani (a cura di), Un paese in guerra Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), 274-294, qui 289. Cf. pure infra. 21 Segreteria di stato vaticana (P. Gasparri), Preces pro pace certis diebus dicendae praescribuntur, in AAS 7, 1915, 9-10. 22 Benedetto XV, Allocutio habita in concistoro diei 22 ianuarii 1915, in AAS 2, 1915, 33-38, qui 38. 23 Benedetto XV, Libenter tuas, [epistola], 27.4.1915, in AAS 7, 1915, 203-205. 24 «Lettera del s. padre Benedetto XV sul Rosario perpetuo», in Bollettino della diocesi di Bologna 6(1915)11, 327-328. Testo datato 18 settembre 1915 25 M. Caponi, «Parole di guerra: cattolicesimo e cultura bellica a Firenze (1848-1918)», in Annali di storia di Firenze (2013)8, 278-305, qui 296. 26 Sacra Congregatio pro negotiis ecclestiasticis extraordinariis, De invocatione addenda postremo loco in litaniis lauretanis, Il Regno - attualità 18/2014 16.11.1915, in AAS 7, 1915, 498. 27 Benedetto XV, Quaedam ad SS. Cor Iesu oratio indulgentia ditatur, 4.12.1915, in AAS 7, 1915, 565-566. 28 Benedetto XV, epistola Il 27 aprile, 5.5.1917, in AAS 9, 1917, 265-267. 29 Lesti, «Per la vittoria, la pace, la rinascita cristiana», 34. 30 Benedetto XV, Oratio quaedam ad S. Petrum apostolorum principem indulgentia ditatur, in AAS 8, 1916, 139-140. 31 Una più ampia ricostruzione di questi aspetti in M. Paiano, «Benedetto XV e la preghiera cattolica durante la Grande guerra: il caso italiano», in corso di pubblicazione in Rivista svizzera di storia religiosa e culturale, 2014. 32 P. Gasparri, De eucharistica puerorum utriusque sexus comunione ad mentem summi pontificis, diei 30 mensis julii sollemni ritu promovenda, 26.6.1916, in AAS 8, 1916, 218. 33 Archivio Segreto Vaticano, Guerra (1914-1918), 62, n. p. 28623. La lettera delle educande è datata 19 marzo 1917 e la minuta di risposta della Segreteria di stato alla superiora delle stesse è del 24 marzo successivo. 34 L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella Grande guerra, Editori riuniti, Roma 1982, 112-138, e Scottà, La conciliazione ufficiosa, vol. II, 196-216. 35 Paiano, «Benedetto XV e la preghiera cattolica durante la Grande guerra». 36 «Per le SS Stazioni quaresimali», in OR 22.2.1917, 3. 37 «Il solenne Te Deum nella chiesa dell’Ara Coeli», in OR 11.11.1918, 2. 38 Benedetto XV, lett. enc. Quod iam diu sull’indizione di pubbliche preghiere per la conferenza di pace, 1.12.1918, in EE 4/419. 39 Ai cattolici romani. Indizione di pubbliche preghiere per il Convegno della pace, Tipografia poliglotta vaticana, Roma 1918. * Ricercatore del Dipartimento di Storia, archeologia, geografia arte e spettacolo (SAGAS) presso l’Università degli studi di Firenze.