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Anno 6 - Numero 4 - Euro 2,00
l’ORIOLI
Periodico di cultura, costume e società
Diretto da Nicola Piermartini
www.orioli.it
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Giugno/Dicembre 2008
Il giornale è distribuito gratuitamente alle istituzioni pubbliche alle associazioni culturali
EDITORIALE
Cultura:
galassia senza
tempo e senza
confini
di Nicola Piermartini
Florilegio suggestivo di indagini culturali
anche questo numero de “l’Orioli”.
Da Wolfgang Amadeus Mozart a Francesco
Orioli, a Giacomo Leopardi; dai panorami
eterogenei di diversi continenti alle “perle”
artistiche della Tuscia. La cultura è galassia
senza tempo, né confini. Interminabile, perciò, è il viaggio per esplorarla, per comprenderla, per respirarla. Concetto esemplificato
in maniera limpida e coinvolgente nelle note
di viaggio di Stefania Zanni. Sorretto da una
prosa comunicativa e scorrevole, fluisce un
fiume di immagini, di sensazioni, di emozioni, alimentato da esperienze interiorizzate in
varie latitudini del mondo. Eloquenti i versi
d’apertura di Kostantinos Kavafis: “Non
sciuparla ( la vita) portandola in giro in balia
del quotidiano/ gioco balordo degli incontri/ e degli inviti; / fino a farne una stucchevole estranea”. Legata a filo doppio alle riflessioni precedenti è l’analisi di Ludovico
Pacelli, presidente dell’associazione culturale “Francesco Orioli”, del volume “Itinerari
culturali del primo Novecento. Lettere e testi
inediti dell’archivio di Alberto Cappelletti”,
pubblicato dal prof. Filippo Sallusto. Nel libro sono documentati, con acutezza e ricchezza connotativa, le figure di san Francesco e di santa Caterina e il fiorire di studi, a
loro connessi, con implicazioni anche turistiche. Il volume riporta, inoltre, corrispondenze e aneddoti della vita di Benedetto Croce,
Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Giuseppe Verdi, Giosuè Carducci e Gabriele
D’Annunzio. Di sicuro interesse i rapporti di
quest’ultimo con la pianista Luisa Baccara,
compagna-segretaria-maggiordomo dell’
“Immaginifico”. Un viaggio staccato dalle
radici terrene ed oltre il presente è offerto dal
testo del prof. Giovanni De Maria, ordinario
di Chimica Fisica all’Università di Roma, ricercatore, che vanta collaborazioni con università e istituti italiani e stranieri. “Colonie
lunari” è il titolo del brano, che ripropone le
fasi scientifiche della conquista della Luna e
le ricerche della N.A.S.A. mirate al ritorno
sul nostro satellite nel 2018 per istallarvi basi
abitate stabilmente dagli astronauti. Alla Luna è dedicata una riflessione del dott. Massimo Fornicoli, autore anche di una biografia
circostanziata e psicologicamente approfondita di Mozart e di un’intervista, curata dal
dott. Luca Poleggi, sul pregiato organo del
Santuario valleranese della Madonna del
Ruscello. Altro omaggio a Mozart, fresco di
celebrazioni per il 250° anniversario della nascita (1756), è il saggio di Sandro Cappelletto,
filosofo, scrittore e storico della musica. Saggio, che, attraverso le recensioni di critici di
vaglia, le considerazioni di grandi direttori
d’orchestra e le analisi di partiture immortali del genio austriaco, cerca di mettere in luce
le caratteristiche formali, melodiche e armoniche, della perfezione compositiva mozartiana. “Orioli ispiratore di Leopardi: paragrandini e mesmerismo”: il saggio di Gaspare Polizzi discopre un orizzonte di suggestione immensa. Innanzitutto perché Francesco
Orioli ( 1785 – 1856) nacque a Valleranno e
poi perché Giacomo Leopardi è genio assoluto, irripetibile della letteratura di ogni epoca
e nazione. Acclarare il fatto che l’ “usignolo
di Recanati” è stato ispirato dalle ricerche
dell’Orioli è scoperta di valenza altissima.
Certo è che i due si incontrarono a Bologna
continua a pagina 28
PASSATO
FUTURO
Maria di Scozia
Salisburgo:
musica e silenzi
L’
entusiasmo con cui gli
scozzesi hanno accolto
la mostra fotografica
“Fusti tu mai a Vinegia?” di Maria Orioli è
paragonabile a quello riservato, un
tempo, alla loro amata regina. Le suggestive immagini di Venezia hanno rapito dapprima i visitatori dell’Istituto
Italiano di Cultura a Edimburgo e poi,
per appassionata richiesta dell’Ordine
degli Architetti Scozzesi, sono state
esposte nella sala delle mostre dell’associazione. Un autentico successo per
PRESENTE
(PER
Maria, per noi dell’Orioli e per coloro
che hanno fortemente creduto nel valore di questa mirabile iniziativa: Massimo Troili, infaticabile direttore dell’Istituto di Cultura e Mary Wrenn, architetto e presidente dell’Ordine. Un
piccolo gruppo ha seguito l’evento da
vicino, trascorrendo quattro giorni
nella meravigliosa capitale scozzese. A
pagina 2 abbiamo scelto di pubblicare
i commenti di tutti coloro che hanno
potuto apprezzare l’esposizione di
quelle, ormai memorabili, 23 immagini dense di suggestioni.
S
iamo lieti di anticipare ai nostri lettori la prossima mostra in programma. L’Associazione Culturale Europea
Francesco Orioli anche quest’anno potrà andare fiera del suo nome. Il 2 giugno, festa della Repubblica
Italiana, saremo accolti dal Comitato
di Salisburgo della Società Dante Alighieri. Questa occasione raccoglie in
sé molti degli obiettivi che, con volontà e tenacia, abbiamo perseguito in
questi anni: tutti assieme, perché siamo un’associazione, desideriamo rispettare la nostra vocazione culturale
portando i valori in cui crediamo nei
Paesi amici dell’Europa. Dopo l’Irlanda e la Scozia, arriveremo in Austria e
più precisamente nella città di Mozart. Questo numero dell’Orioli sem-
bra avere una funzione di ouverture
dell’opera di Maria Orioli. La mostra
dal titolo I silenzi italiani, presenterà
una selezione di fotografie che l’artista ha scattato nel nostro Paese: un’antologia scelta per mettere in risalto
l’armonia, o meglio, quella “musica
silenziosa” che è il tratto distintivo
dell’arte di Maria Orioli. Riflettendo
sulla data in cui si inaugura la mostra,
che resterà aperta per tutto il periodo
dei Festspiele, ci è parso che la scelta
del titolo potesse assumere una valenza più ampia della mera definizione
stilistica e, onestamente, ci piace pensare che “i silenzi italiani” siano un
monito per tutti noi: per chi parla
troppo e per chi non dice niente. Speriamo che ci seguiate numerosi nei nostri viaggi, ideali o reali che siano!
SEMPRE)
Mozart Speciale
È
davvero speciale il modo in
cui abbiamo trattato l’infinito universo mozartiano. Oltre all’onore di accogliere il
denso articolo di uno dei
più autorevoli musicologi italiani, Sandro Cappelletto, abbiamo il privilegio
di pubblicare uno tra gli ultimi pezzi
scritti dall’indimenticabile amico Franco Lanza. Il suo è un aneddoto su una
C.G.Firmian, ritratto di Mozart
al piano
recita di Don Giovanni alla quale partecipò rocambolescamente a Salisburgo. Abbiamo voluto anche cercare una
vicinanza maggiore con il grande musicista, sentirne la presenza: Vincenzo
Ceniti ha ritrovato per noi le fonti che
confermano il passaggio e la sosta di
Mozart, accompagnato dal padre nel
suo primo viaggio in Italia, in terra di
Tuscia. Anche Maurizio Bianchini ci fa
gustare il breve soggiorno del giovane
musicista nel fantasioso racconto, offerto su uno di quei succulenti piatti
INSERTO TUSCIA
STATI D’ANIMO
In cammino
Dove abitano le emozioni...
L
È
e pagine dell’inserto Tuscia, a
cura del Centro di Ricerca sul
Viaggio (CIRIV) dell’Università
della Tuscia e dell’Assessorato
al Turismo della Provincia di
Viterbo, sono dedicate alla Via Francigena, “strada” che rappresenta uno strumento straordinario di comunicazione, di
scambio e di interazione culturale. Noi siamo fermamente convinti che la via dei pellegrini può essere utile a restituire al Paese
e alla nostra Provincia una parte importante della sua storia, rivitalizzando un
“turismo minore” ma significativo, e siamo altresì certi che può fungere da volano
per favorire un cammino più celere e consapevole verso l’Europa dei popoli. L’Associazione Orioli, che ha scelto di definirsi
fin dalla sua nascita “culturale europea”,
ha sempre agito come laboratorio di esperienza di cittadinanza europea e si augura
di continuare nel suo “cammino” a fianco
di tutti coloro che condividono le stesse
idee, forse non così “peregrine”!
questo il titolo di un piccolo e
fortunato libro uscito di recente dalla penna di Giuseppe Zois: una piacevole e
istruttiva discussione dell’autore con Mario Botta e Giulio Crepet sull’architettura e sulle sue varie influenze,
urbanistiche ma anche sociali ed umane.
Già …, dove abitano le emozioni, dove
risiedono le cose, le persone, i gesti, le
parole e i luoghi che fanno variare il nostro stato d’animo? Dove abitano le emozioni che permettono talora di rendere
felice la nostra esistenza quotidiana
quando inconsapevolmente varchiamo
la soglia della loro residenza ideale? A
volte capita nell’incontro di una persona.
Una persona che magari vediamo quotidianamente, eppure, solo in quel momento, e solo per quel momento, ci accorgiamo che la sua presenza, la sua voce, il suo sguardo, evocano sensazioni
che, fino ad allora, la nostra disattenzione, ci portava a dare per scontate.
E capita anche con tutto ciò che possiamo ordinariamente toccare, vedere, valutare, senza renderci conto che i rapporti umani sono fatti di storie e momenti
intimamente condivisi, e per sempre entrati a far parte di noi.
E allora, ecco che le persone care, i luoghi percorsi e vissuti , il paese amato e
l’amata città, ci vengono incontro con il
loro bagaglio di ricordi e di sensazioni
piacevoli, emergendo, ad un tratto, da un
muro che ritenevamo ormai invalicabile.
Questo numero dell’Orioli è esso stesso
una fonte di emozioni quanto mai varie,
ma tutte egualmente coinvolgenti. Emozioni profonde come il ricordo del nostro
amico Franco Lanza , sempre vicino alla
nostra Associazione, a lui debitrice di
molta della sua insperata autorevolezza.
Emozioni della memoria per la mostra, a
Edimburgo, delle foto di Maria Orioli su
Venezia. Amata città! Contenitore di emozioni forti che ci turbano anche solo da
spettatori attenti e che ci hanno ancor più
travolto quando siamo stati, per un attimo, suoi protagonisti con la mostra a Palazzo Zorzi. E chi di noi immaginava di
trovare a Venezia tanti amici e persone care che rimarranno sempre nei nostri ricordi?
Una su tutte (colei che abbiamo coinvolto,
o forse meglio, davvero “travolto” con le
nostre iniziative) la carissima Carla Ferraro, ora responsabile delle nostre relazioni
esterne e supervisore di questo numero.
Più passa il tempo, più scopriamo la sua
competenza e la sua modestia nel correggere le nostre imperfezioni e nel risolvere
le nostre incertezze. Venezia si diceva.
Città che va direttamente al cuore e alla
mente parla, facilitando il distacco dalle
miserie quotidiane, per innalzarci alla di-
che solo lui sa preparare! Dall’aspetto
giocoso si passa all’aspetto geniale di
Mozart attraverso l’esauriente saggio
di Massimo Fornicoli, il quale illumina
con stimolante perizia il percorso formativo del sommo musicista accendendo in noi una scintilla di volontà.
Ed ecco il prodigioso “Effetto Mozart”:
se realmente vogliamo migliorare il nostro stato psichico e fisico, grazie al metodo Tomatis, presentato da Piera Rettenbacher, tutti possiamo raggiungere
la nostra personale armonia.
mensione del sogno dove tutto è possibile: anche quelle storie improbabili che,
mentre le vivi ti lasciano delle preziosissime sensazioni di dolore, per ricordarti
che è, sì, il tempo l’elemento che condiziona la vita con il suo trascorrere inesorabile, ma è la bellezza, o anche solo il
suo ricordo, ad alimentare la speranza.
Emozioni come la musica, cibo dell’anima, che in questo numero è per noi lo
speciale su Mozart.
Suggestive sono le note e le impressioni
di viaggio di Stefania Zanni, girovaga
della vita e del mondo nella continua ricerca di una tranquilla oasi dove far riposare la mente e forse anche il cuore;
accompagnata dalle impressioni di Camilla Pacelli, con il suo entusiasmo giovanile forse ingenuo, ma carico di speranze e sfide contagiose ad affacciarsi
sul mondo.
Emozioni, infine, che abitano nello speciale sulla nostra terra amatissima della
Tuscia, dove tante bellezze, ancora poco
conosciute, sembrano rivolgere un accorato appello a preservarle, a prendersene
cura contro l’usura dell’indifferenza.
Tanta obbligata simpatia per quanti (e
non sono più pochissimi) condividono i
nostri intenti e le nostre emozioni.
Ludovico Pacelli
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
1
MOSTRA
DI FOTOGRAFIE
Le fotografie di Maria Orioli ad Edimburgo
L’
Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo ha recentemente ospitato la
mostra di Maria Orioli
“Fusti tu mai a Vinegia?”.
Le foto non mostrano, come spesso accade, il fasto e la grandiosità dei palazzi
nobiliari ma la vita di tutti i giorni che
Maria Orioli ha saputo cogliere con indubbia sensibilità: sembra quasi di sentire il ciacolar in un silenzioso campo o
il vociare a squarciagola dei ragazzi in
uno squero, di vedere gli scaricatori di
carbone o i raccoglitori di telline nella
laguna o di essere avvolti dalla luce invernale che illumina capitelli, maschere
e teste architettoniche. Ammirare le foto
e desiderare di essere di nuovo a Venezia è come un tutt’uno: si viene subito
presi dalla voglia di tornare ad ammirare l’acqua, il cielo e il marmo della città
che, quando partimmo, ci disse “Veni
etiam!”. All’apertura della mostra, oltre
all’artista e a Ludovico Pacelli, Presidente dell’Associazione Culturale Europea Franceso Orioli, sono intervenuti il
Console Generale del Giappone, i Consoli di Austria e Norvegia, Richard Calvocoressi, Direttore della Scottish National Gallery of Modern Art, Lord
Clarke, Senator of the Court of Justice,
Ian McIntosh della Royal Scottish Academy e Mary Wrenn, Chief Executive
della Royal Incorporation of Scottish
Architecs, dove le foto sono state in seguito esposte, nel quadro della collaborazione da tempo instaurata con questo
Istituto. La mostra di Maria Orioli si inserisce tra le manifestazioni che l’Istituto organizza per offrire al pubblico scozzese una visione quanto più ampia e articolata della realtà culturale del nostro
Paese nei suoi vari aspetti.
In tale contesto si colloca, ad esempio,la
nostra partecipazione ai Festival che si
tengono a Edimburgo nel corso dell’estate: l’anno scorso è stata sponsorizzata per l’Edinburgh International Festival, l’esecuzione nella Greyfriars Kirk
dei Madrigali di Monteverdi, a cura di
Concerto Italiano diretto da Rinaldo
Alessandrini. All’Edinburgh Book Festi-
val Beppe Severgnini ha presentato l’edizione inglese del suo ultimo libro La
bella figura. Negli anni scorsi vi hanno
partecipato Dario Fo e Franca Rame, Simonetta Agnello Hornby, Gianrico Carofiglio e Gianni Riotta.
In occasione del secondo centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, la
compagnia di Mike Maran ha preso
parte all’Edinburgh Fringe Festival, con
un lavoro teatrale, Garibaldi!, estremamente originale incentrato sulla parteci-
pazione di due soldati scozzesi che parteciparono alla spedizione dei Mille. Altre manifestazioni, tra cui un concerto,
si sono svolte a Glasgow in collaborazione col comune di Barga, da dove tanti emigrarono in Scozia alla fine del XIX
secolo.
L’Istituto ha recentemente celebrato il
50º anniversario della firma dei Trattati
di Roma con una tavola rotonda 50
Years in the European Union, cui hanno
partecipato il Dr. Maurizio Carbone del-
l’Università di Glasgow, il Dr. David
Howarth e il Professor Charlie Jeffrey
dell’Universita’ di Edimburgo.
Nel campo dell’editoria, Canongate - la
più importante casa editrice scozzese ha pubblicato, con il nostro contributo,
Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, Seta, Senza Sangue e L’Iliade di Alessandro Baricco, oltre a Non ho paura e
Ti prendo e ti porto via di Niccolo’ Ammaniti e L’Angelo della storia di Bruno
Arpaia, mentre per i tipi di Oneworldclassics è recentemente uscita una traduzione dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Nell’ambito della collaborazione con i musei scozzesi, sono state
realizzate al National Museum of Scotland le mostre Treasures from Tuscany:
The Etruscan Legacy e Aroundesigners:
New Work by Giulio Iachetti e Matteo
Ragni, ambedue inaugurate da S.E.
Giancarlo Aragona, Ambasciatore d’Italia nel Regno Unito. Presso la Lighthouse di Glasgow, in collaborazione con la
Società Dante Alighieri e il Comune di
Glagow, è stata presentata la mostra
Gran Sera - dalla Hollywood sul Tevere
agli anni ottanta: una stupenda selezione di abiti di alta moda dei maggiori stilisti italiani, da Valentino a Giorgio Armani da Roberto Capucci a Gianni Versace da Renato Balestra a Emilio Pucci.
La Scottish National Gallery of Modern
Art e l’Edinburgh College of Art hanno
ospitato rispettivamente una retrospettiva e una bellissima installazione di
Iannis Kounellis, uno dei maggiori
esponenti dell’Arte Povera. Tra i numerosi convegni organizzati, ricordiamo in
particolare La donna nella società italiana dal 1946 al 1960 - in cui è intervenuta Natalia Aspesi - all’Università di Glasgow, Collecting Italian Old Master
Paintings in Scotland in the XVIII and
XIX cent. all’Università di St. Andrews,
Scotland and Piedmont: Gastronomia e
Cultura all’Università di Strathclyde,
l’Historic Garden Seminar Gardens in
Italy and U.K. al City Art Centre di
Edimburgo, The Age of Titian: Venetian
Renaissance Art from Scottish Collections alla National Gallery di Edimbur-
go e il convegno internazionale su Carlo Emilio Gadda alla National Library
of Scotland. L’Italian Film Festival presenta ogni anno non solo un’ampia selezione di film e documentari di recente
produzione, ma anche retrospettive dei
più importanti registi italiani. Alle ultime edizioni sono intervenuti Lina Wertmuller, Vincenzo Marra, Laura Muscardin, Giuseppe Piccioni e Paolo Sorrentino. Numerose le retrospettive programmate in occasione dell’Edinburgh International Film Festival alla Filmhouse di
Edimburgo, tra cui quelle di Elio Petri,
di Pierpaolo Pasolini, di Francesco Rosi,
di Luchino Visconti, di Federico Fellini e
di Valerio Zurlini, oltre alla rassegna
Psycotronic Cinema. L’Istituto ha inoltre sponsorizzato una serie di concerti
di musica contemporanea da Scelsi a
Nono, Clementi e Berio; per la musica
jazz, sono stati invitati Enrico Rava,
Carlo Actis Dato, Gianluigi Trovesi ,
Gianni Coscia e il Giovanni Falzone
Quartet.
Una delle primarie attività dell’Istituto
consiste nell’organizzazione di corsi di
lingua e cultura italiana a tre livelli, secondo il Quadro Comune Europeo di
Riferimento, che coinvolgono circa 130
studenti a trimestre.
Mi fa piacere che la mostra di Maria
Orioli si sia tenuta quasi alla fine del
mio lungo soggiorno a Edimburgo, prolungatosi per ben sei anni e alla vigilia
della mia imminente partenza per Beirut dove dirigerò quell’Istituto Italiano
di Cultura: è stata questa di certo una
delle esperienze più interessanti del mio
lavoro all’estero, che aveva in precedenza toccato Cape Town, Londra, New
York e Ankara.
Lascio Edimburgo, città che amo e conosco da tanti anni, con profondo rimpianto, ma sono estremamente contento
di raggiungere una sede indubbiamente di grande interesse e non solo sotto
l’aspetto culturale.
Ennio Troili
Direttore dell’ Istituto Italiano di Cultura
per la Scozia e l’Irlanda del Nord.
Maria degli Scozzesi
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I
l giorno 29 marzo, alle ore 18,
si inaugura a Edimburgo-Scozia (82, Nicolson Street), nella
sede dell’Istituto Italiano di
Cultura, la mostra fotografica
“Fusti tu mai a Vinegia?”. Alla domanda di San Bernardino risponde
compiutamente ogni singolo scatto
della fotografa Maria Orioli: sì, lei a
Venezia c’è stata per un lungo periodo e l’ha amata; ci torna spesso e
continua ad osservarla con un affetto immutato. Accompagnate da raffinate citazioni letterarie che ne evocano la poesia, le 23 immagini in
bianco e nero lasciano trasparire
tutte le sfumature della passione
dell’artista per la città, ma soprattutto per l’arte della fotografia. La
mostra, che ha già riscosso grande
successo a Roma e Venezia, è organizzata e promossa dalla Associazione Culturale Europea Francesco
Orioli che sostiene prodigiosamente
attività volte alla diffusione dei valori culturali espressi attraverso le
diverse arti e discipline. Questa iniziativa ha raccolto attorno a sé grandi estimatori e molti sostenitori (si
ringrazia a questo proposito in particolare Unifarco Dolomia) che hanno contribuito alla realizzazione degli obiettivi programmatici dell’Associazione, e cioè il suo essere Culturale ed Europea. Il prezioso catalogo, a cura dell’Associazione, regala all’artista il tributo che merita: le
encomiastiche parole si inverano
nello scorrere delle accurate riproduzioni. La mostra, che resterà
aperta dal 30 marzo al 30 aprile, si
avvale del contributo e della preziosa collaborazione dell’Istituto
Italiano di Cultura di Edimburgo.
Il direttore Ennio Troili ha colto immediatamente la “delicata bellezza
di quelle fotografie” e ha voluto offrire ai visitatori di Edimburgo il
suo stesso incanto, destare in loro il
piacere di ammirare l’armonia racchiusa in ogni scatto e, attraverso le
suggestive atmosfere colte dall’obiettivo di Maria Orioli, renderli
sensibili al richiamo della città lagunare, che sembra sussurrare: “Veni
etiam!”(Venezia).
Vallerano li 13 Marzo 2007
MOSTRA
DI FOTOGRAFIE
Ritorno a Venezia
L
a mostra fotografica di Maria Orioli, apertasi a Venezia
dal 5 al 13 giugno dello
scorso anno, è stata una
splendida occasione per
tornare, dopo qualche anno di assenza, nella città mito.
Nata su iniziativa della Consigliera
della Società Dante Alighieri, signora
Mirella Pasquinucci, ed organizzata
dalla nostra Associazione insieme al
Comitato di Venezia della Società
Dante Alighieri, la mostra è stata ospitata nella sede veneziana della UNESCO, all’interno del prestigioso spazio
di Palazzo Zorzi. Tornare a Venezia
chiamati dall’importanza della manifestazione e in piacevole compagnia di
un ristretto gruppo di amici dell’Associazione Francesco Orioli, ha offerto la
possibilità di rinnovare l’incontro con
la città in un modo diverso e di rivederla al di fuori dello scontato circuito
di monumenti, chiese, palazzi, musei e
altri suoi luoghi simbolo.
E questo è stato possibile perché Venezia è la città dalle infinite immagini e
dalle infinite interpretazioni. Sottratti
quindi ai canoni della città-monumento, è stato bello percorrere tranquillamente le calli anguste, i campi e i campielli, le fondamenta lungo i rii e i canali, guardando con interesse anche
quanto poteva essere giudicato insignificante: muri corrosi dalla salsedine, riflessi di luce sull’acqua, bambini
che giocano nei campi. Entrare a Palazzo Zorzi all’apertura ufficiale della
Mostra e poter vedere un interno di
palazzo patrizio veneziano, non come
freddo spazio museale ma come organismo vivente e vissuto nella sua attualità culturale operante, dà già un
segno dell’eccezionalità dell’evento.
Nei discorsi inaugurali della professoressa Rosella Mamoli Zorzi e di Ludovico Pacelli abbiamo potuto ascoltare
una conferma delle sensazioni ricevute dalla visione delle fotografie: queste
sono vere opere d’arte. Maria Orioli
con la sua macchina fotografica ha fermato ciò che in passeggiata attraverso
Venezia via via si mostra ai nostri occhi, scorre e rapidamente sfuma; e fissandolo ce ne restituisce il senso più
nascosto. E così, fermandosi in contemplazione delle sue icone fotografiche nasce quasi la strana sensazione
che esse siano non la riproduzione, ma
loro, proprio loro, l’originale delle “cose” viste. Accolti poi gentilmente in casa Pasquinucci per una cena offerta a
un folto gruppo di ospiti, si è data la
felice occasione di poter vedere e vivere per alcune ore un “interno” di vita
sociale veneziana. Questo insolito ultimo incontro con Venezia ha così suscitato nuove suggestive impressioni che
si vanno ad aggiungere a quelle già da
tempo consegnate alla memoria.
Ernesto Gennari
The Royal Incorporation of Architects in Scotland
(RIAS) was delighted to host the exhibition “Fusti tu mai
a Vinegia?” at our gallery in Rutland Square, Edinburgh
from 2 May to 1 June 2007.
The RIAS is the professional body for chartered architects in Scotland, with over 3000 members. We are delighted to have excellent connections with the Italian Cultural Institute. Maia Orioli’s delightful exhibition was
the second exhibition we have hosted at Rutland Square,
working in collaboration with the Institute’s Director,
Ennio Troili and his team. When I first saw Maria Orioli’’s photographs at the Italian Institute in March, I was
enchanted.
I had made my first ever visit to Venice just four months
earlier (it is shameful not to have visited before then!)
and the atmospheric images transported me immediately back to the misty, beautiful charm of the city.
On the day the photographs arrived in our own gallery,
it was as if the collection had been created and planned
to fit exactly into our space. The exhibition looked wonderful and we lost count of the visitors who said “Oh, I
must go back to Venice soon!”.
As Ennio Troili so eloquently says in the introduction to
the exhibition catalogue, “Living in a city such as Edinburgh, where the light at times has its own glittering flashes, one appreciates even more the silent light, the quiet
glow spreading over the lagoon, lighting up the Angel,
the wisteria bloom, the marble lace, the capitals, defining
the beauty of the architecture”. The architects of Edinburgh greatly appreciated this opportunity to admire the
architecture of a truly beautiful city through the perceptive and sensitive eyes of Maria Orioli.
La Royal Incorporation of Architects in
Scotland (RIAS) è stata felice di ospitare, dal
2 maggio al 1 Giugno 2007, la mostra Fusti tu
mai a Vinegia? nella galleria della propria
sede in Rutland Square a Edimburgo.
Il RIAS è l’associazione dell’albo degli architetti scozzesi
e conta più di 3000 membri.
Tra noi e l’Istituto Italiano di Cultura vi è una fattiva collaborazione e la mostra di Maria Orioli ha rappresentato
la seconda esperienza in cui abbiamo condiviso le scelte
del Direttore Ennio Troili. Appena ho visto le fotografie
di Maria Orioli, in marzo all’Istituto di Cultura, sono rimasta incantata. Ero stata a Venezia solo quattro mesi
prima, e con vergogna confesso per la prima volta, e le
suggestive immagini mi hanno fatto ritornare nella misteriosa bellezza della città. Quando le foto sono arrivate nella nostra galleria mi è sembrato che la mostra fosse
stata progettata per essere ospitata in quello spazio: l’allestimento era meraviglioso e abbiamo perso il conto dei
numerosi visitatori che hanno espresso il loro apprezzamento dicendo: “oh, devo tornare a Venezia al più presto!” Come Ennio Troili ha eloquentemente scritto nella
sua introduzione al catalogo “vivendo in una città come
Edimburgo, dove la luce ha talora bagliori tutti suoi, si
apprezza ancora di più quella silenziosa luce, quel chiarore che si spande sulla laguna, che illumina l’Angelo, i
glicini in fiore, i pizzi di marmo, i capitelli, e che staglia
la bellezza degli elementi architettonici”.
Gli architetti di Edimburgo hanno apprezzato l’opportunità di vedere ed ammirare le architetture di una città
straordinariamente bella attraverso la percezione e la
sensibilità di Maria Orioli.
Mary Wrenn
Chief Executive of The Royal Incorporation of Architects in Scotland
Intervento del Presidente
all’inaugurazione della
mostra a Edimburgo
G
entili signore, egregi signori buonasera. Nel piccolo paese di Vallerano,
da cui io provengo, la casa in cui, nel 1782, nacque
Francesco Orioli, è posta giusto all’incrocio di un quadrivio che, dalla quota
più alta del paese, scende in basso ad
attraversare tutto il suo centro storico.
La sobria geometria del luogo lascia
facilmente immaginare la possibilità
che in passato era data, allo sguardo,
di spaziare su tutto il territorio circostante. Ci piace per questo supporre
che il verde intenso della Tuscia ( carico di suggestioni talora impenetrabili,
qua e là interrotto, dalle rupi tufacee
sulle quali si ergono, improvvisi, gran
parte dei centri abitati) dovette non
poco influire sulla ampiezza e sulla
qualità degli interessi dell’insigne
umanista e scienziato. E ci piace altrettanto constatare come le attività della
nostra Associazione (talora per circostanze del tutto causali e sempre molto aldilà dei nostri meriti) si trovano
spesso a sperimentare questa benevola istigazione alla massima apertura
degli orizzonti culturali. La nostra presenza qui, ad Edimburgo, non può che
rafforzare questa impressione, obbligandoci, naturalmente, ad una grande
gratitudine per quanti l’hanno resa
possibile. Grazie innanzitutto a Maria
Orioli, per avere fornito con le sue foto di Venezia, la splendida occasione
di questo incontro. Grazie al Direttore
dell’Istituto di Cultura di Edimburgo
Dott. Ennio Troili, alla Professoressa
Zorzi Rosella e alla Dr.ssa Carla Ferraro del Comitato di Venezia della Societa’ Dante Alighieri che con la loro
premurosa sollecitudine, hanno sostenuto i nostri passi, talora molto esitanti. Grazie, soprattutto, a tutti coloro
che con la loro presenza qui, a questa
Mostra, confermano che in piena era
della virtualità, rimane insostituibile il
valore di ogni incontro reale tra persone, ed esperienze di vita, abitualmente lontane. Grazie della vostra attenzione.
Ludovico Pacelli
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
3
SCIENZA
Colonie Lunari
N
el corso della storia nessuna altra epoca ha visto
avanzamenti e sviluppi
nel campo della scienza
e della tecnologia così intensi e tumultuosi quali quelli sperimentati dalla nostra generazione.
Agli inizi del ventesimo secolo si ebbe
nella fisica una grande rivoluzione
con l’avvento della meccanica quantistica e della teoria della relatività di
Einstein. Le ricerche sulla radioattività dettero avvio all’era atomica che
vide nel 1942 la realizzazione della
prima pila atomica presso l’Università
di Chicago ad opera di Enrico Fermi.
Nel 1969 l’uomo per la prima volta
metteva piede su un altro corpo celeste inaugurando una nuova era, l’era
spaziale. Lo straordinario e rapido
sviluppo dell’informatica che ne seguì
ha inciso radicalmente nei rapporti
della comunicazione a livello globale,
mentre la scienza medica si avvaleva,
come mai prima di allora, dello sviluppo delle conoscenze nel campo
della biologia molecolare che partendo dalla soluzione della struttura del
DNA, ha portato alla completa mappatura del genoma umano.
Di tutte queste conquiste certamente
lo sbarco sulla Luna ha rappresentato
la realizzazione di un sogno perseguito da tempo dall’uomo di poter uscire
fuori dal nostro pianeta e lanciarsi alla scoperta di nuovi mondi.
La conquista della Luna fu preparata
molto prima del 1969, anno dell’allunaggio, con l’invio tra il 1961 e il 1965
di ben nove sonde automatiche denominate Ranger, una sorta di sonde kamikaze, seguite da sonde del tipo Surveyor -predisposte per l’atterraggio
non distruttivo e la posa in opera di
stazioni di rilevazione dati- e da sonde di tipo Lunar Orbiter, destinate ad
orbitare intorno alla Luna.
Il successo di questi lanci aprì la strada alle missioni Apollo. Grazie ai cinque Lunar Orbiter messi in orbita tra
il 1966 e il 1967 si riuscì a compilare
una mappa ad alta definizione della
superficie lunare allo scopo di aumentare la sicurezza degli atterraggi Apollo. Il progetto Apollo vide la partecipazione di circa 30.000 persone che lavorarono incessantemente in varie località degli Stati Uniti, dal Massachussets al Mississipi, Florida (Cape Canaveral) e Huston (Johnson Space Center). Prima dello sbarco sulla Luna degli astronauti dell’Apollo 11 vennero
effettuate ben 10 missioni con varie finalità. L’Apollo 8 fu la prima missione
a compiere il percorso Terra-LunaTerra effettuando 10 orbite intorno al
nostro satellite. Con l’Apollo 9 si cominciò a provare il LEM e con l’Apollo 10 si tentò una discesa fino a 1500
metri dalla superficie.
Queste missioni consentirono l’individuazione di un posto ideale per l’atterraggio che doveva obbedire a due
vincoli: la sicurezza di tutta l’opera-
zione e il ritorno scientifico. Il 19 Luglio 1969 l’Apollo 11 venne messo in
orbita intorno alla Luna; le 28 ore che
seguirono furono tutte impiegate per
preparare il distacco dell’Aquila (il
LEM) dal Columbia (il modulo di comando). Il distacco avvenne secondo i
programmi ma, a circa 800 metri dal
suolo, Armstrong fu costretto a disinserire il pilota automatico e pilotare a
vista il modulo, cambiando così il
punto di atterraggio programmato a
causa di una riscontrata accidentalità
del suolo.
Come tutti sanno l’Apollo 11 si posò
felicemente nel Mare della Tranquillità e dopo quattro ore di controllo dei
sistemi di sicurezza avvenne lo sbarco. Gli astronauti lasciarono sulla superficie lunare diversi strumenti quali
sismometri per la rivelazione di lunamoti o impatti meteorici ed uno specchio rivolto verso la Terra capace di riflettere i raggi laser inviati dal nostro
pianeta al fine di misurare la distanza
Terra-Luna; le misure effettuate successivamente hanno permesso di verificare che questa distanza va lenta-
del comportamento dei
campioni selenici alla vaporizzazione in condizioni di equilibrio termodinamico alle alte temperature.
La ricerca da me eseguita
era stata ispirata dalla possibilità di conoscere la composizione della nebulosa primordiale dalla quale -quattro miliardi di anni fa- vennero a formarsi in un processo di condensazione i corpi solidi del sistema solare.
I reperti lunari, non avendo la luna né
atmosfera né vegetazione, dovevano
considerarsi rappresentativi di una situazione primordiale, sicché la possibilità di studiare la composizione molecolare della fase gassosa ottenuta in
equilibrio termodinamico con la fase
condensata delle rocce lunari avrebbe
fornito preziose indicazioni sulla composizione molecolare della nebulosa
primordiale (G. De Maria et al. “Mass
spectrometric investigation of the vaporization process of Apollo 12 lunar
samples” Proceedings of the Lunar
Il Presidente della repubblica conferisce al Prof. Giovanni De Maria la
medaglia d’oro e il diploma di “Benemerito della Scienza e della Cultura” (3 Aprile 2002).
mente aumentando. All’Apollo 11 seguirono altre missioni tutte effettuate
con successo ad eccezione dell’Apollo
13 che fu protagonista di una terribile
avventura risoltasi fortunatamente
con il rientro, sani e salvi, dei membri
dell’equipaggio. Oltre a misurazioni
scientifiche dirette sul suolo lunare
queste missioni hanno consentito di
portare sulla terra una dovizia di campioni prelevati in vari siti del nostro
satellite che sono stati, e continuano
ad esserlo, oggetto di numerosi studi
da parte della comunità internazionale di scienziati.
Nel lontano 1972 ebbi il privilegio di
effettuare un vasto programma di ricerche su campioni dell’Apollo 12 e
delle altre missioni che seguirono, mediante analisi massa-spettrometrica
Science Conference, 1971, vol. 2,
p.1367). Nel corso della ricerca, oltre
ai risultati connessi al processo di formazione dei pianeti, intravidi la possibilità di produrre ossigeno gassoso
estraendolo dai composti solidi. Queste ricerche appaiono oggi di particolare interesse in relazione al progetto
della NASA di ritornare nuovamente
nel 2018 sul nostro satellite per installarvi delle vere e proprie basi lunari
abitate stabilmente dagli astronauti.
Si aprono quindi nuove frontiere per
la ricerca scientifica miranti alla soluzione di una vastissima gamma di
problemi connessi con la colonizzazione del nostro satellite. Sarebbe tropo lungo enumerare la serie di problemi che si dovranno affrontare per rendere possibile una permanenza uma-
na
sulla
Luna. Il
nostro satellite è certamente
uno dei corpi celesti più
inospitali non avendo atmosfera né
elementi chimici indispensabili alla
vita quali carbonio, azoto e idrogeno.
L’ossigeno potrebbe essere prodotto
estraendolo dai minerali presenti oppure dalla decomposizione con energia solare dell’acqua la cui presenza
sembra essere accertata nelle profondità dei crateri ai poli, ove, dopo l’impatto cometario di circa tre miliardi di
anni fa, potrebbe essere rimasta in
piena ombra siderale, coperta da strati di detriti e polvere. L’estrazione
dell’ossigeno da alcuni minerali presenti sul suolo lunare potrebbe essere
ottenuta utilizzando idrogeno e energia solare. Nel 2002 la NASA ha puntato sulla Luna il telescopio spaziale
Hubble scoprendo diversi minerali
atti a venire utilizzati per produrre
ossigeno. In particolare è stata scoperta una presenza diffusa sulla superficie dell’ilmenite, un titanato di ferro
con proprietà magnetiche che ne consentirebbe una facile estrazione dal
resto della polvere lunare costituita in
gran parte di plagioclasi, pirosseni e
olivine. Le ricerche condotte dal mio
gruppo negli anni passati hanno effettivamente dimostrato la fattibilità
di estrazione dell’ossigeno da questo
minerale utilizzando idrogeno e energia solare (De Maria et al. “High temperature interaction between H2,
CH4, NH3 and ilmenite” AIP Conference Proceedings 2003, 654 STAIF
2003, 1142-1149). Come già detto sulla
Luna non è presente l’idrogeno; questo gas dovrà essere portato dalla Terra e utilizzato per estrarre ossigeno
dall’ilmenite producendo l’acqua che
verrebbe decomposta elettroliticamente in idrogeno e ossigeno. Quest’ultimo composto verrebbe utilizzato sia per la respirazione dell’equipaggio che come combustibile delle
navicelle spaziali per il rientro sulla
Terra o per missioni su altri pianeti,
mentre l’idrogeno ritornerebbe in ciclo. Le nostre ricerche inoltre hanno
messo in evidenza la possibile utilizzazione del residuo quale catalizzato-
re
per la
degradazione
delle sostanze organiche.
Non un solo atomo di carbonio, azoto
e idrogeno, sostanze che dovranno essere portate dalla Terra, dovrà essere
perduto, sicché ogni prodotto dovrà
essere riciclato attraverso un processo
di degradazione chimica. La reazione
dell’idrogeno con ilmenite oltre a consentire l’estrazione dell’ossigeno produce un prezioso catalizzatore a base
di ferro e biossido di titanio che si rivelerà certamente di grande utilità
nella complessa organizzazione delle
colonie lunari. Nella figura è riportata una struttura, rilevata tramite microscopia elettronica, di tale residuo,
dove si può osservare una struttura di
tipo lamellare (vein like structure)
con numerosi filamenti e noduli di
ferro alternati a lamelle di TiO2. E’ interessante rilevare che filamenti di
biossido di titanio si formano facilmente in natura. Essi furono osservati e descritti già da Plinio nella Naturalis Historia che, colpito dalla loro
bellezza, li denominò “capelli di Venere”.
Mai Plinio, aggirandosi nella campagna romana alla ricerca di minerali,
avrebbe immaginato che microscopici
capelli di Venere si sarebbero formati
estraendo ossigeno da un minerale
lunare!
Con il ritorno sulla Luna inizierà certamente una nuova era volta alla colonizzazione di altri pianeti. L’esperienza che l’uomo maturerà sul nostro satellite, imparando a vivere permanentemente su un sito inospitale
come la Luna, sarà di fondamentale
importanza per futuri progetti di missioni spaziali su altri pianeti,primo
fra tutti Marte. Il pianeta rosso è il più
simile alla Terra per cui sarà meno ardua la sopravvivenza dell’uomo e la
creazione di colonie abitabili. L’esperienza che ci faremo vivendo sulla
Luna sarà certamente fondamentale
per affrontare nel futuro la creazione
di basi su pianeti più lontani.
Prof. Giovanni De Maria
Curriculum Vitae di Giovanni de Maria
Dottore in Chimica, libero docente in Chimica Fisica (1962), professore ordinario di Chimica Fisica nell’Università di Roma (1965), Direttore dell’Istituto di Chimica Fisica ed Elettrochimica, Università di Roma, 1966/70. Ha fatto parte di numerosi Consigli Direttivi, talora in veste di presidente, di diverse associazioni scientifiche e culturali nazionali ed internazionali: Unione Nazionale Chimici Italiani, Associazione Italiana di Chimica Fisica, Società Italiana per l’Energia Solare, Federazione Internazionale dei Chimici Europei, etc.
E’ stato inoltre il primo studioso italiano ad essere incaricato dalla NASA a svolgere ricerche sui campioni lunari della Missione Apollo 11, sviluppando poi negli anni successivi ulteriori ricerche
sui campioni delle missioni Apollo 12, Apollo 14, Apollo 15-16 e 17 ed è stato uno dei trenta studiosi a livello mondiale insigniti dalla NASA, nel decennale del primo volo umano sulla Luna, dello “Special NASA Award”. E’ autore di oltre 130 pubblicazioni scientifiche, la maggior parte apparse su riviste internazionali ed ha avuto numerosi allievi italiani e stranieri, che insegnano presso
le Università degli Stati Uniti, Unione Sovietica, Brasile, Cecoslovacchia e presso l’Università di Roma e della Basilicata. Consulente di istituti stranieri operanti nel settore della tecnologia avanzata dei materiali nucleari e di impiego nel campo missilistico ed è da diversi anni consulente dell’Euratom. E’ stato inoltre direttore di un programma di ricerche nel settore delle energie alternative,
con particolare riguardo all’energia solare. Tra i promotori della istituzione e dello sviluppo dell’Università di Basilicata dove ha ricoperto per diversi anni la carica di Presidente del Comitato Ordinatore della facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Dal 1990 è membro della International Academy of Ceramics venendo eletto nello “Advisory Board for Science” per il triennio 199396. Nel 1994 è stato insignito della medaglia H. C. Kurhakov dell’Accademia delle Scienze della Russia. Nel 2001, unico italiano, è entrato a far parte della SCTC (Space Colonization Technical Commettee) della AIAA (American Institute of Aeronautics and Astronautics) un organo di consulenza della NASA per la programmazione di attività spaziali. Nello stesso anno gli è stata conferita dal
Presidente della Repubblica Italiana la medaglia d’oro di “Benemerito della Scienza e della Cultura”. Attualmente collabora con il Prof. C. Rubbia allo sviluppo del Project 242 dell’ASI per la realizzazione di un motore spaziale a propulsione nucleare basato sulla fissione dell’isotopo metastabile 242 dell’Americio.
4
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
R
CIFLESSI
OLONIE“L
LUNARI
UNARI”
“Q
uando il saggio indica
la Luna, lo sciocco
guarda il dito”. Così
recita un antico adagio
orientale. Noi sapienti
occidentali abbiamo invece puntato direttamente alla Luna, in una corsa verso l´esterno, il lontano, verso i pianeti
non ancora colonizzati: una corsa affannosa che dunque ci è propria. Non
ci ha sfiorato minimamente l´idea di ridimensionare il nostro modo di vivere
consumistico: in una sorta di folle gara,
abbiamo investito enormi quantità di
denaro nelle imprese spaziali, denaro
che invece avrebbe potuto risolvere,
qui ed ora, molti problemi strettamente legati alla sopravvivenza.
Se è tipica del pensiero umano la progettualità, un guardare avanti al prossimo futuro, occorre che essa sia accompagnata da una altrettanto buona
dose di riflessione su ciò che sta accadendo intorno a noi e non lasciare che
quotidianamente il nostro pianeta Terra subisca attacchi di ogni sorta. Vandana Shiva, laureata in fisica e convertita all´ecologia, definisce questo modo
di ragionare “monocultura della mente”, in linea con quanto nel 1855 il
grande capo indiano della Tribù Pellerossa espresse in una lettera all´allora
presidente degli Stati Uniti, Franklin
Pierce; una lettera da cui prendo, poiché ancora attualissimi, degli stralci:
“[...] continuate a contaminare il vostro
letto e una notte sarete soffocati dai vostri stessi rifiuti [...] quando gli angoli
segreti delle foreste saranno invasi
dall´odore di molti uomini, e la vista
delle colline sarà oscurata dai fili che
parlano, allora l´uomo si chiederà: “dove sono gli alberi e i cespugli?” Scomparsi. “Dove è l´aquila?” Scomparsa. E
cosa significa dire addio al rondone se
non la fine della vita e l´inizio della sopravvivenza?”
È indubbio che grazie alla scienza applicata ai progetti spaziali abbiamo potuto usufruire di tecnologie che hanno
migliorato la nostra vita terrestre; ma
spesso ci siamo trovati davanti ad una
grande freddezza per i problemi umani da parte di scienziati che avremmo
voluto più partecipi nella comprensione del mondo, della società, e degli
stessi uomini meglio di altri cittadini.
Questo anelito può forse essere spiegato dal complesso di Icaro, figlio di Dedalo che fuggì da Creta con ali attaccate con la cera, ma salì così in alto che il
Sole sciolse la cera facendolo precipitare in mare, legato alle aspirazioni temerarie dove a dominare è un aspetto
narcisistico del carattere, privo di quelle connotazioni altruistiche che dovrebbero caratterizzare la spinta che
muove i pionieri di qualsiasi scoperta
umanitaria. Mai dimenticare l´uomo,
che è il fulcro di qualsiasi ragionevole
sviluppo, e con esso la natura, senza la
quale siamo monchi, privi di qualsiasi
richiamo al bello. Il passaggio dalla volontà magico-religiosa di esorcizazzione della natura, all´impegno di conoscere le leggi della natura per adattarsi
ad esse è indubbiamente un´esigenza
scientifica. Non bisogna dimenticare,
come fa notare Nietzsche, che “anche
sulla scienza incombono pericoli interni ed esterni di assolutizzazione: per
questa ragione ciò che importa è lo spirito scientifico da cui dovrà maturare
nell´uomo quella virtù di prudente
astensione, quella saggia moderazione,
che sono più note nel campo della vita
pratica che nel campo della vita teoretica” Egli stesso sente la necessità di
confermare la distinzione tra albero
della conoscenza e albero della vita, i
frutti dei quali non possono essere
scambiati.
Masimo Fornicoli
Verso la luna,
per una strada desueta
L
e nuove generazioni di
fronte ad una scelta per il
proprio futuro appaiono
disorientate. D’altra parte
si parla così spesso di precarietà e di cambiamento occupazionale nel corso della vita che quelle sicurezze, che avevamo noi adulti e
che ci permettevano di fare progetti,
o almeno sogni, sembrano svanite.
Se poi un ragazzo ha intenzione di
affrontare gli studi classici, le reticenze si fanno maggiori, perché sembra
più semplice intraprendere percorsi
legati alla modernità.
Un bravo insegnante di greco un
giorno, parlando ad alunni e genitori, disse che molti, errando, equiparano classico a vecchio o addirittura
ad antiquato, ma, se in un negozio
viene loro proposto un abito classico,
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xxxxxxxx
xxxxx
xxxx
u
Sulla terra
sono soddisfatti, perché ritengono
che si tratti di un capo che non passerà rapidamente di moda.
Gli studi classici possono essere
equiparati a quel vestito, perché
non essendo strettamente legati al
presente, hanno in sé qualcosa di
eterno ed universale, infatti sono
cambiati i tempi, ma l’animo dell’uomo, per molti aspetti, è rimasto
immutato e le domande che si ponevano gli antichi spesso sono le stesse che ci poniamo noi, così pure le
emozioni.
Osservando la meraviglia di una
notte stellata ricordo i versi di Saffo:
Gli astri d’intorno alla leggiadra luna
Nascondono l’immagine lucente,
quando piena più risplende, bianca
sopra la terra.
E paragono Giacomo Leopardi alla
poetessa greca
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.
Scopro così l’incanto dei miei studi
liceali e sono felice di aver intrapreso
una strada apparentemente desueta
ed antiquata.
Francesca Rossi
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
(1829-1830)
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e piú e piú s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio piú grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sí pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
spesso quand’io ti miro
star cosí muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dí natale.
Giacomo Leopardi
h
Alla Luna
(l8l9)
O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, che travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
o mia diletta luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!
Giacomo Leopardi
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N. 4 Giugno/Dicembre 2008
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MOZART
SPECIALE
D
i un artista, bisognerebbe
scrivere una nuova biografia almeno una volta ogni
cinquant’anni, diceva Hermann Abert parlando di
Mozart.
La storia della musica intesa e raccontata come storia, anche, della diffusione e
della ricezione del lavoro di un autore,
della formazione e delle metamorfosi
del gusto e delle opinioni, non era ancora diventata una disciplina critica,
ma l’intuizione del filologo e storico
della musica tedesco appare netta; come accade negli esperimenti di laboratorio, il punto di vista dell’osservatore
condiziona il risultato.
Allora – era il 1919 – da tempo vacillava l’immagine del “Raffaello della musica” attribuita a Mozart dal suo primo
biografo Franz Niemetschek, che scrive
nel 1798, e ripresa dalla breve biografia
che Stendhal, quasi ricalcando quel testo, redige nel 1814. Durante l’Ottocento, la ricezione della sua opera aveva
conosciuto il successo e l’oblio, la devozione e la trascuratezza, nel frequente
mutare dell’orizzonte di attesa del pubblico. “Mozart non è più alla moda, bisogna convenirne. Ora, di tutte le qualità che possono brillare in un’opera, in
un quadro, in una statua, quella che ci
rimette di più a non essere alla moda, è
la grazia. Il sentimento comune degli
uomini disprezza facilmente la grazia.
Ciò che è energico e forte piace più a
lungo, ed è proprio delle anime volgari
stimare soltanto ciò che un po’ temono”, constata nel Journal de Paris del
1825 ancora Stendhal, con la sua diffusa autorevolezza di intellettuale e artista.
Niemetschek aveva scritto il proprio
racconto rivolgendosi “alle anime delicate e sensibili”, chiedendosi se mai
possa esistere un “amante della più affascinante delle arti che, consacrandosi
al puro e dolce godimento delle opere
mozartiane, non abbia mai pensato con
l’emozione più viva all’uomo cui siamo
debitori di questa gioia celeste”; ma soltanto una generazione dopo la sua
morte, il romanticismo esprime altre
pulsioni, altri pesi sonori, altri tormenti: “la grâce” non lo entusiasma.
Scrivendo nel 1956 – secondo centenario della nascita – Massimo Mila storicizzava con chiarezza: “Varie immagini
di Mozart si sono succedute nel tempo.
Ai contemporanei egli apparve come
un inquietante romantico. Se ne ammirò l’efficacia fino ad allora inaudita,
nel dipingere e muovere gli affetti; molte sue audacie lasciarono dubbiosi,
quando non indignarono i pedanti. Fu
giudicato un inquieto novatore, e non
sfuggì all’accusa di aver sacrificato la
voce, nell’opera, all’orchestra. Ma il romanticismo vero era alle porte; già fremeva ribelle nei drammi giovanili di
Schiller e, per la musica, nell’opera di
Beethoven, appassionata e tempestosa.
Man mano che questa si veniva affermando, fu tolta a Mozart ogni traccia di
romanticismo novatore, ed egli divenne simbolo di reazione, segno di raccolta agli aderenti dell’ ancien régime musicale, urtati dall’inaudita asprezza del
verbo beethoveniano, ai melomani appassionati e nostalgici di un’età in cui
l’arte era essenzialmente classica euritmia e ordinata decenza” (1). “Dimmi
come vedi Mozart e ti dirò chi sei”, concludeva il nostro studioso declinando
al musicale la riflessione dello storico e
critico della letteratura Harold Bloom:
“Quello che sei è l’unica cosa che puoi
leggere”. Mozart apollineo che “dopo
aver totalmente sottomesso ogni impurità e offuscamento evoca la perfetta
bellezza” (Otto Jahn), o Mozart dissonante? Il genio bambino iscritto nella
dimensione galante e rococò del tardo
Settecento, amabile e lietamente inventivo, o il compositore troppo ricco di
idee, “estremamente innaturale, se nella sua musica c’è dapprima allegria, poi
all’improvviso tristezza e subito dopo
di nuovo allegria” (così già nel 1782 il
compositore e saggista berlinese
Johann Friedrich Reichardt), incapace
dunque di esprimere nei suoi lavori
strumentali un carattere unitario, una
costante e prevedibile drammaturgia
6
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
emotiva?
In La fortuna di Mozart, lo storico della
musica Gernot Gruber documenta con
amplissima scelta di fonti due secoli di
ricezione mozartiana e fotografa le contrastanti pulsioni del nostro tempo, privilegiando il punto di vista dell’interprete, colui che trasforma e traduce la
nota scritta da segno grafico in fenomeno acustico, denso di significati formali, emotivi, intellettuali.
Se da un lato è cresciuta l’attenzione filologica, il considerare “sacrosanto
ogni minimo segno di una partitura
mozartiana”, dall’altro non si può sottovalutare l’ “interesse legittimo di ogni
interprete a portare alla ribalta il suo
messaggio artistico. Persino quando si
pone in termini inconsueti, esso non è
né un illecito commento all’opera, né
un’interpretazione funzionale o una
mediazione. Esso diventa viceversa ‘arte su arte’” (2). Osservazione che vale
per le opere strumentali e, ancor più,
per i lavori di teatro musicale che, a
partire dagli anni Trenta del Novecento, si fronteggiano ormai con l’autonomia dello sguardo dei registi d’opera.
Lo studio della fortuna esecutiva e critica – che cosa scelgono i direttori artistici, ascolta il pubblico, approva la critica, promuove l’industria discografica,
in quale modo suonano gli interpreti –
genera il complesso insieme della fruizione, cioè del formarsi, diffondersi e
stratificarsi del giudizio diffuso, del gu-
afferrato dall’ascoltatore, e in che modo
esso venga compreso, dipende sempre
da abitudini di ascolto e convenzioni
linguistiche, che sono vincolanti all’interno di una cultura e di un’epoca” (3)
“Il livello di informazione” riguarda
ovviamente anche gli interpreti: il trentenne direttore inglese Daniel Harding
ha dichiarato, inaugurando la stagione
2005-2006 del Teatro alla Scala con Idomeneo, re di Creta, che è sua abitudine
“aprire una partitura per me nuova con
sguardo vergine, cercando di coglierne
lo spirito senza passare attraverso la
storia delle tante interpretazioni che ha
avuto”. Ma, alla verifica esecutiva, l’attacco secco, corto, immediato, bruciante del suono, l’accurato evitare ogni effetto di vibrato, il ricorso, per attutire il
suono degli strumenti ad arco, alle sordine di legno, rivela quanto la sua attitudine interpretativa sia del tutto informata riguardo alle tecniche e alle poetiche oggi dominanti nell’interpretazione
del repertorio tardo-barocco e pre-classico. Modalità che si sono sedimentate
attraverso studi, incisioni, proposte
d’ascolto di tanti ensemble e solisti.
Un Mozart, il suo, più attento all’incalzare del dramma che alla distensione
del canto: “L’espansione delle linee vocali non deve bloccare lo sviluppo dell’azione”. Una frase che mai ascolteremo pronunciare a Riccardo Muti, così
teso a restituire la calda rotondità di un
suono ‘italiano’, le ampie volute del
volume e rarefazione del suono e
proietta sulla partitura uno sguardo affettuosamente illuminista, contenendo
la solennità dei momenti rituali; la
Mahler Chamber Orchestra non suona
su strumenti originali, a differenza degli English Baroque Soloists diretti da
John Eliot Gardiner nel 1995, ma in
ogni caso la lettura del maestro italiano
si può definire una “historically informed performance”, consapevole cioè di
un percorso stilistico e delle opzioni che
suggerisce. Limiti ignorati da Anne
Sophie Mutter nella sua recente proposta dei cinque concerti per violino: la
solista segue il proprio estro, consegnando un’interpretazione dove il ghiribizzo del suono, la liberissima volubilità diventa il criterio vincente, nell’ampio spazio dato all’enfasi, alle più estroverse risorse retoriche del suo talento,
tra le quali non di rado spicca un volume sonoro decisamente forzato.
Se gli esecutori restituiscono queste differenze, è perché esse convivono nelle
partiture: “Mozart contiene tutta la pienezza della vita, dal dolore profondo
alla gioia pura. Esprime i conflitti più
duri, spesso senza offrire una soluzione”, ha detto Nikolaus Harnoncourt.
La stessa struttura formale di un brano
del periodo classico si presta a diventare un contenitore capace di accogliere,
nell’alternanza dei movimenti, tutti gli
“affetti”, però ordinandoli in una prevedibile successione; spesso Mozart,
Mozart 2000
J.B.Delafosse. Leopold, Nannerl e Wolfgang a Parigi, nel1763.
sto, di ciò che piace o non piace.
Vicende biografiche, traiettorie culturali condizionano la relazione tra chi
ascolta e l’oggetto sonoro che si sta
ascoltando, e fanno dell’ascolto, per
ognuno di noi e in modi diversi, un atto, una condizione, un’aspettativa, una
memoria, un vissuto, una verità, non
“ingenui”, non “immediati”.
Aggiunge Helmut Rösing: “Qualunque
sia il livello di informazione che viene
canto: un Mozart nordico, innamorato
delle nuove potenzialità sinfoniche conosciute durante il soggiorno a
Mannheim, contrapposto a un Mozart
‘napoletano’, se – ancora per riportare
una celebre opinione di Muti – “è lui il
massimo compositore italiano del Settecento”.
Nel Flauto magico eseguito nel 2005
Claudio Abbado tende a un misurato
equilibrio tra tensione e distensione, tra
con formidabile intuizione, ne scompagina la rigida sequenzialità, li confonde, smarrendoci e creando una musica
giudicata allora certamente moderna,
fluida e densa, riconoscibile eppure
spiazzante, prevista e inattesa: ogni
musicista che affronta questo universo
creativo, ogni storico della musica, ogni
appassionato, ne illuminerà una parte,
ne svelerà una possibilità, una direzione, escludendone altre.
Assieme alle opere, la lettura più formativa per conoscere lo sviluppo e le
particolarità della personalità mozartiana è il suo epistolario: dalle prime righe, dai primi post-scritti in calce alle
missive del padre inviate alla moglie e
alla figlia rimaste a Salisburgo, alle lettere della maturità, che possiamo far
datare al suo primo incontro con la
morte, quella della madre, il 3 luglio
1778 a Parigi: Wolfgang è solo con lei e
deve riferire (lo farà con disperato pudore) la tragedia al padre.
Purtroppo, il lettore italiano non può
godere di questa messe straordinaria di
notizie e commenti: l’edizione critica
integrale dell’epistolario, avviata dall’editore tedesco Bärenreiter già nel
1962, ripresa con iniziative degne della
stessa affidabilità in Francia e Gran Bretagna, non ha ancora trovato una traduzione italiana, tante volte annunciata, sempre rinviata.
Un’assenza pesante, malissimo compensata da pubblicazioni sempre troppo parziali, prive di un serio apparato
critico, afflitte da voyeurismo verso alcuni aspetti riconducibili – in particolare per quanto riguarda l’erotismo anale
e la pornolalia – all’infanzia del compositore. Ma è nelle lettere che possiamo
apprezzarlo anche come scrittore (mai
interessato al paesaggio, sempre alle
persone, e alla musica) e comprendere
il livello della consapevolezza di sé, la
qualità, in particolare a partire dal 1781,
anno dell’insediamento a Vienna, delle
sue relazioni come delle sue letture:
l’immagine del “divino fanciullo”, del
genio inconsapevole affonda in un attimo. In Mozart rivoluzionario e massone, edito nel 2005, Lidia Bramani ricostruisce con efficace scrupolo ed esattezza questo percorso socio-culturale.
L’anniversario del 2006 è caduto in un
momento di riflessione autocritica sulle
possibilità della critica, della musicologia, di comprendere la complessità, la
specificità della lingua della musica.
Come è limitante, forzatamente parziale, parlare di musica, usare un altro linguaggio per descrivere un linguaggio
perfettamente definito che conosce, organizza e sviluppa proprie grammatica, sintassi, logica, estetica. Ma disponiamo di altro linguaggio? E possiamo
pensare di arrivare ad approssimazioni
analitiche sufficientemente chiare,
esplicative? “Forse è più facile porre
domande sul Padreterno, ce la caveremmo meglio, magari dicendo delle
castronerie orrende! Nel caso di una
realtà impalpabile come la musica,
quando vogliamo costringerci a un rapporto con essa, le parole sembrano voler svanire. La musica di Mozart è affabile e anche effabile, esprime cioè la fede che il reale possa esprimersi: sembra
voler comunicare questa possibilità”,
ha scritto Andrea Zanzotto.
“Si è obbligati a credere che la musica
esprima qualcosa, e si è condannati a
non sapere mai cosa”, annotava con lieta amarezza il critico austriaco Edward
Hanslick (1825-1904).
Come per colmare questa distanza, in
particolare tra gli studiosi di area anglo-sassone, e in numerosi esecutori e
didatti, si guarda con rinnovato interesse al rapporto tra le forme della retorica
e quelle dell’organizzazione musicale.
La relazione creativa tra retorica classica e articolazione del pensiero musicale è giudicata essenziale da John Irving,
che riprende la teoria dei tropi: “Per
Quintiliano
(Institutio
Oratoria,
VVV.vi) il tropo più importante era la
metafora, nella quale ‘un oggetto… è
in verità sostituito dalla cosa che desideriamo descrivere’. Applicata ai movimenti con variazioni, ognuna delle variazioni del tema può essere osservata
come una metafora di quel tema (un
nuovo termine che lo ‘sostituisce’, esercitando una sorta di ‘commento’), mantenendo strettamente la sua fraseologia
originale e, con occasionale eccezione,
la sua struttura armonica… Per i compositori, come per gli oratori, i luoghi
topici (topics) erano ‘fonti’ dalle quali
attingere materiale d’uso; per gli ascoltatori, costituivano un punto di riferimento, una sorta di griglia attraverso la
quale la musica si disponeva in modelli riconoscibili. I topics potevano essere
considerati come un magazzino di utili
modelli di musica, da applicare in determinate situazioni. Per i compositori
dell’opera barocca, la cui guida principale era la dottrina dell’Affetto, una conoscenza pratica dei topics era essenziale per la rappresentazione di particolari azioni ed emozioni attraverso una
musica adeguata (pastorale, festiva, militare, e così via). Simili caratteristiche
‘fonti di ispirazione’ erano ben note al
giovane Mozart che, come riportato
da Daines Barrington nel 1769, poteva
improvvisare un’ ‘Aria di furore’ a
piacere, utilizzando senza dubbio un
particolare codice o un gruppo di codici associati, come il tremolo, le triadi minori, lo spostamento di registri, e
così via” (4).
Nel trittico delle più recenti discipline
d’indagine applicate alla musica, accanto alla teoria della ricezione e all’uso dei paradigmi retorici, largo sviluppo, nel secondo Novecento, ha avuto la
sociologia della musica, inaugurata di
fatto da Theodor Adorno nel suo saggio del 1962, più attento però a episodi
e dinamiche dell’Otto e Novecento.
A Norbert Elias dobbiamo una radiografia credibile della condizione professionale, della “funzione sociale” di un
musicista del tempo di Mozart: “La posizione del musicista in tale società era
in sostanza quella di un artigiano a servizio o di un impiegato. Non era granché diversa da quella di un intagliatore,
di un pittore, un cuoco o un gioielliere
che, secondo gli ordini di nobili donne
e di signori, dovevano confezionare oggetti di gusto, eleganti o, a seconda dei
casi, sorprendenti per la loro elevazione
e per il loro intrattenimento, per migliorare cioè la qualità della loro vita. Mozart sapeva senza dubbio che la sua arte, per come la concepiva, si sarebbe
inaridita se avesse dovuto produrre
musica unicamente per il piacere di
MOZART
SPECIALE
persone sgradite, anzi odiate, e a loro
comando, indipendentemente dalla
propria opinione, dalla propria sintonia
con quanto gli veniva ordinato. Malgrado la giovane età, percepiva chiaramente che le sue energie di compositore sarebbero state sprecate se si fossero
dovute limitare ai compiti imposti nella ristrettezza della corte di Salisburgo...
Per parte sua l’arcivescovo sapeva senza dubbio che il giovane Mozart aveva
un insolito talento e che l’avere tra i
suoi servitori un uomo simile avrebbe
accresciuto la fama della sua corte” (5).
Proprio riflettendo sulla ‘condizione
sociale’ di Mozart, Pierre Boulez si è recentemente (2005, in occasione degli ottantanni del compositore, direttore,
saggista francese) chiesto quale sia la
“funzione sociale” del compositore
contemporaneo di musica d’arte – col-
ta, complessa, di tradizione classica: come mai definirla, oggi? Quali le sue
aspettative, i riscontri, quale in sostanza la sua necessità?
Continua Boulez: “Proprio l’esistenza
di Mozart ci dimostra quanto sia variabile il parametro del successo. La sua
vita è il più grande esempio della transitorietà del successo: lo ha ottenuto, lo
ha perduto. I giovani compositori di
oggi dovrebbero riflettere su questa vicenda, per imparare a seguire e rispettare soltanto le proprie inclinazioni,
senza inseguire il successo”.
La complessità e l’immediatezza, il significato profondo e la maschera che lo
nasconde agli sguardi più superficiali:
di questi differenti e simultanei livelli
di ricezione Mozart era del tutto conscio se, come notò Franz Joseph Haydn,
“aveva del gusto e inoltre la più grande
scienza della composizione”. Un raro
connubio.
Se, come ha ammesso – proprio parlando di Mozart – Saul Bellow, “i fondamenti ci sfuggono”, capita allora di
avventurarsi nella letteratura; esaurito tutto l’immaginifico possibile sulla
vicenda della morte – alla quale per
primo nella micro-tragedia Mozart e
Salieri Puskin (1832) diede dignità letteraria – la recente editoria internazionale si è dedicata alle vite parallele
della sorella Nannerl, del figlio musicista Franz Xaver (ribattezzato già in
vita Wolfgang, come il padre), mentre
non sono mancate disinvolte traiettorie che, complice Il flauto magico e le
sue ritualità, tendono a ricondurre le
radici di Mozart nell’Egitto immaginario caro alla massoneria. Ma alla fiction del 250° anniversario della nasci-
ta è mancato il contributo dell’industria cinematografica, un nuovo Amadeus di Milos Forman, film amato, criticato, detestato, con almeno un indubbio merito: aver proposto il nome,
la figura, una qualche reminiscenza di
Wolfgang Amadé Mozart ad un pubblico esteso, in larga parte giovanile;
proprio quello che oggi appare più
difficile raggiungere, coinvolgere, far
innamorare della sua musica.
“La musica è un’arte sociale, ha bisogno di luoghi pubblici, di emozioni
vissute dal vivo, durante i concerti,
nel momento in cui l’interprete fa nascere il suono di fronte ad una platea.
La musica di Mozart regala gioia, un
profondo senso di benessere che è bello condividere. Non chiede isolamento, ma partecipazione”, ha detto Claudio Abbado. In questa direzione, am-
plissimo è il cammino che si può ancora percorrere.
Sandro Cappelletto
Note
1) Massimo Mila, La fortuna e il significato di
Mozart, in Città di Milano, LXXII, dicembre
1955; ora, in Mozart – Saggi 1941-1987, Einaudi
2006; p. 170
2) Gernot Gruber, La fortuna di Mozart, Residenz Verlag, Salzburg und Wien 1985; trad. it. di
Mirella Torre, Einaudi 1987, p. 230
3) H. Rösing, in L’esperienza musicale, Teoria e
storia della ricezione, a cura di Gianmario Borio
e Michela Garda, EDT, 1989; p. 123
4) John Irving, Mozart: The Haydn Quartett,
Cambridge University Press, 1998; pp. 61-72
5) Norbert Elias, Mozart, sociologia di un genio,
a cura di M. Schröter, Framkfurt 1991, trad. it. di
Rossella Martini, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 123
Curriculum Vitae di Sandro Cappelletto
Scrittore e storico della musica, Sandro Cappelletto è nato a Venezia nella seconda metà del Novecento. Laureato in Filosofia, ha studiato armonia e composizione con il maestro Robert Mann. Tra le sue
principali pubblicazioni, la prima biografia critica di Carlo Broschi Farinelli (“La voce perduta”, EDT, 1995), un’analisi della “Turandot” di Puccini (Gremese Editore, 1988), un saggio su Gaetano Guadagni (Nuova Rivista Musicale Italiana, 1993), un’inchiesta politica sugli enti lirici italiani (“Farò grande questo teatro!”, EDT 1996). Nel 2006 è uscito “Mozart – La notte delle Dissonanze” (EDT), libro
dedicato al misterioso Adagio introduttivo del Quartetto per archi K 465. Per la “Storia del teatro moderno e contemporaneo” (Einaudi, 2001) ha scritto il saggio “Inventare la scena: regia e teatro d’opera”. Nel 2002, con Pietro Bria, dà alle stampe “Wagner o la musica degli affetti” (Franco Angeli), raccolta di riflessioni e interviste di Giuseppe Sinopoli, di cui nel 2006 cura, per Marsilio Editori, “Il
mio Wagner – il racconto della Tetralogia”. Autore di programmi radiofonici e televisivi per le frequenze Rai (crea nel 2001 la trasmissione di Rai-Radio Tre “La scena invisibile”), ha scritto numerosi
lavori teatrali (“Solo per archi’, “Quel delizioso orrore”, “Poiché l’avida sete”, “Vostro devotissimo Wolfgang Amadé”). I suoi testi per il teatro musicale sono nati dalla collaborazione con numerosi
compositori italiani: Ambrosini, Corghi, D’Amico, Gentile, Lupone, Morricone, Pennisi, Piacentini. Accademico dell’Accademia Filarmonica Romana, ha diretto su invito di Giuseppe Sinopoli il settore drammaturgia e didattica del Teatro dell’Opera di Roma. Giornalista professionista, collabora al quotidiano “La Stampa”. E’ membro della commissione artistica della Scuola di Musica di Fiesole.
Theophilus Mozart, come nasce un genio
I
l 27 gennaio 1756, mentre su Salisburgo cadeva lenta la neve,
nella casa al numero 9 della Getreidegasse, giunte oramai le
ore venti, Leopold Mozart impaziente aspettava il suo settimo figlio dalla moglie Anna Maria. Sarà
un maschio che chiamerà Wolfgang
Theophilus [tradotto poi in Amadeus] e che sarà un po’ il suo portafortuna. Proprio in quell’anno, infatti, Leopold diventa famoso per un
metodo per lo studio del violino.
Egli aveva scelto la musica, mentre
altri membri della sua famiglia erano
dei rilegatori di libri di Augusta.
L’AMBIENTE
Wolfgang già nella pancia della madre iniziava a sentire i suoni provenienti dalla sua casa, dove il padre
ripeteva le opere dei concerti di corte e con i suoi amici erano intenti a
mettere a posto un quartetto. Sua sorella Nannerl, di cinque anni più
grande, produceva note al clavicembalo, esercitandosi parecchie ore al
giorno. Così che a tre anni il piccolo
inizia sulla tastiera a scoprire le terze
armoniche, “le note che stanno bene
insieme”. Il padre e la sorella gli insegnano le lettere che corrispondono
alle note (C è do). Imparerà la musica prima di saper leggere. Qui si
comprende come l’ambiente familiare (soprattutto il padre e la sorella, in
questo caso) contribuiscano a far
sbocciare o coltivare una dote. Un
unico suono lo atterriva fino a dieci
anni, quello della tromba, soprattutto se suonata da sola: il suo timbro
squillante lo faceva addirittura impallidire; mentre gli era gradito il
suono del violino, che definiva “di
burro” per il suo timbro rotondo e
dolce. A sei anni comincerà a comporre musica prima ancora di saper
scrivere.
L’EREDITARIETÀ
Solo il nonno materno di Wolfgang
era cantante e direttore di coro. Non
sopravvaluterei troppo quindi l’ereditarietà musicale; sottolineerei piuttosto come sin dalla più tenera età
egli fosse stato circondato da un ambiente musicalmente stimolante. Anche nel caso dei Bach, prima di Johan
Sebastian non si annoverano ascendenze di musicisti. Wolfgang inoltre
Olio attribuito a P.A.Lorenzoni. Mozart fanciullo in abito di gala.
possedeva delle capacità mnesiche eccezionali, che gli erano solo proprie e
che in qualche modo lo contraddistinguevano. All’età di quattordici anni studiava musica a partire dai quattro si reca con il padre nella basilica di
San Pietro in Roma. E’ il mercoledì di
Pasqua, ed egli ascolta per la prima
volta il “Miserere” dell’Allegri: un
pezzo della durata di 15 minuti, a nove voci per due cori, bassi e tenori,
eseguito dai Cantori della Cappella Sistina. Ebbene, egli riuscì a trascriverlo
interamente una volta a casa (tornò
una seconda volta ad ascoltarlo per
controllare di non avere commesso errori). Solo in parte era stato aiutato dal
fatto di conoscere il testo latino del
salmo 51, che l’Allegri ha musicato,
per poter compiere più agevolmente
le dovute associazioni. Rimane indubbiamente questo grande dono della
capacità di memorizzare, ed anche del
possesso dell’orecchio assoluto, spesso frutto della pratica precoce di uno
strumento musicale. L’acquisizione
della giustezza vocale avviene tra i tre
e i sette anni per apprendimento a
contatto delle persone del proprio ambiente. L’intelligenza musicale è una
sorta di intelligenza specializzata, favorita specialmente in età precoce dall’educazione e dall’ambiente.
LA CONSAPEVOLEZZA
E LA DETERMINAZIONE
Wolfgang, sebbene fosse cosciente e fiero del suo dono, non lo sopravvalutava:
non smise mai di perfezionarsi, impegnandosi seriamente in composizione e
cercando ottimi maestri. Volle conoscere tutta la musica scritta prima di lui. I
suoi viaggi miravano sia a recare soddisfazione al padre, facendosi conoscere
come allievo modello, che ad apprendere come, intellettualmente parlando,
altri musicisti intendessero l’armonia
ed il contrappunto. La sua determinazione fu davvero notevole; non riuscirono a destabilizzarlo neanche le vicissitudini familiari. Si pensi che in undici
anni i Mozart cambiarono casa ben dieci volte; per non parlare dei numerosissimi luoghi attraversati durante i viaggi. All’inizio del 1762 è a Monaco; a settembre si imbarca con la famiglia sul
Danubio, passa per Linz; a Ips Wolfgang sorprende i padri francescani suonando l’organo del convento; a ottobre
si trova a Vienna e, sebbene abbia solo
sei anni, critica ad alta voce l’arciduca
che stona al violino. Wolfgang, se malato e costretto a casa, ne approfitta per
perfezionare lo studio del violino.
Nel 1763 Leopold viene nominato vice
maestro di cappella di corte; in quell’anno inizia un viaggio che durerà
quasi tre anni, fino al 1766, e che porterà per l´Europa la famiglia Mozart,
così composta: padre, madre, un domestico, Nannerl e Wolfgang, di dodici e
sette anni rispettivamente.
Nel Settecento un musicista, se non stipendiato presso una cappella, o presso
un sovrano doveva contare, esibendosi
presso le varie corti e palazzi, sulla generosità dei principi che facevano soprattutto regali preziosi. Wolfgang riuscì nelle numerose esibizioni ad avere
una collezione di orologi che, non facili
da vendere, non garantivano un salario
per vivere. Non mi meraviglio, come
raccontano i biografi, che non stesse
mai fermo. Già da piccolo amava trasportare i suoi giochi da una stanza all’altra. Era sempre in movimento, accennava passi di danza o stando fermo
batteva i talloni e agitava le dita come
se stesse suonando. Era esuberante,
aveva sempre la risposta pronta e la
battuta spesso mordace. I numerosi
viaggi, per contrasto, indussero una
“educazione alla mobilità”. In carrozza,
sballottati su strade spesso sassose, sarebbe stato impossibile scrivere: da qui il
ricorso all’immaginazione, sostenuta dal
potenziamento della memoria. Egli
componeva “a mente” senza strumento,
improvvisava e trascriveva a memoria.
L’ORECCHIO ASSOLUTO
Durante l’ascolto di un brano musicale,
Wolfgang coglieva la minima dissonanza e individuava immediatamente tra i
numerosi strumenti quale l’avesse
emessa, e quale nota avrebbe invece
dovuto eseguire. Si irritava se vi erano
dei rumori anche lievi: era concentrato sulla musica, e solo al termine dell’attività sembrava ritornare alla sua
età da bambino. Egli aveva piena consapevolezza della propria identità e
del proprio genio. A undici anni già
era oberato dal peso dell’aureola dell’enfant prodige da esibizione; voleva
dimostrare di essere un vero musicista.
GLI INCONTRI
Wolfgang a Bologna all’età di quattordici anni conobbe Padre Martini, il più
grande contrappuntista dell’epoca,
che nutrì per lui subito un trasporto filiale (avevano 50 anni di differenza) e
al quale chiederà lezioni. Egli fece
molto di più: corresse di nascosto il
suo compito per essere ammesso all’Accademia Filarmonica, dove imparerà il contrappunto vocale “alla Palestrina”. L’altro incontro che ebbe una
grande influenza su Wolfgang fu
quello con Christian, il quarto figlio
del grande Sebastian Bach ( già morto
nel 1750 ), di ventun anni più vecchio,
con cui ebbe una frequentazione assidua. Allievo di Padre Martini, aveva
abbandonato lo stile contrappuntistico del padre Johan per uno fatto di
melodie con accompagnamento. Tra i
due nasce una solida amicizia, e Christian insegnerà a Wolfgang l’arte della
sonata classica, di cui è uno degli inventori. Possiamo senza ombra di
dubbio affermare che fu un modello
per Wolfgang venticinquenne, sul
quale esercitava un grande fascino.
Haendel fu un altro grande della musica, di cui egli si ricorderà sempre
quando nelle sue opere dovrà inserire
un evento drammatico o maestoso, lo
stile fugato o una mescolanza di stile
galante e severo. Nel settembre 1785
dedica i sei quartetti all’amico Franz
Joseph Haydn di ventiquattro anni
più vecchio. Tranne che con la sorella,
di cinque anni più grande, Wolfgang
ha frequentazioni con uomini più
grandi, da cui poté apprendere molto
grazie al suo carattere gioioso ed aperto, che gli faceva riscuotere ovunque
simpatie.
I GENITORI
Il ruolo del padre Leopold è stato de-
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
7
MOZART
SPECIALE
terminante. Ottimo insegnante, ruolo che ricoprì anche con la figlia
Nannerl, egli sapeva stimolare la curiosità dei figli: pare dosasse persuasione e affetto senza mai essere duro.
Viene descritto come un uomo illuminato, intelligente e diplomatico,
ed ottimo impresario. Per non perdere le varie occasioni di far esibire nelle diverse corti i suoi figli, durante la
loro infanzia ed adolescenza se ne
addossa l´istruzione completa, per
gli studi umanistici, la matematica,
le lingue e le arti; del resto, essendo
sempre in viaggio, essi non avrebbero potuto frequentare nessuna scuola. Solo a ventidue anni Wolfgang
farà il suo primo viaggio senza il padre, accompagnato solo dalla madre:
fu trattato come “un prodotto di ser-
ra”. Egli nutriva tenerezza verso il padre, sebbene con l’età questo fosse diventato un po’ brontolone e sempre
più rigido. Wolfgang venne comunque sempre circondato di attenzioni e
vezzeggiato. Si era creato attorno un
contesto educativo e affettivo favorevole allo sviluppo della sua arte. Anna
Maria era un’eccellente madre di famiglia; da essa aveva ereditato i tratti
ingenui, gioiosi e talvolta puerili del
carattere. Molte lettere attestano che
entrambi i genitori si sentivano investiti di una missione divina: far sbocciare le doti straordinarie dei loro figli.
LA STORIA
Dentro di noi ci sono venticinquemila
geni, centomila proteine, cento miliardi di neuroni, cento trilioni di connes-
sioni: noi siamo la combinazione di tali dati, la cui organizzazione dipende,
però, anche dal contesto in cui viviamo, cresciamo, e questo vale dal punto di vista culturale, sociale e tecnologico. Il substrato biologico esprime
una potenza che l´interazione con
l´ambiente mette in atto. Niente in
biologia ha senso se non alla luce della Storia.
RIFLESSIONE
A questo punto ci si può chiedere chi
sono allora veramente i geni. Piuttosto
che dichiararli persone con doti ereditarie speciali, dovremmo dire che una
serie di fattori concomitanti li hanno
fatti germogliare. In loro la natura ha
fatto leva su alcuni fattori/atteggiamenti comportamentali quali una for-
Mozart. Turista per caso
Nel primo viaggio in Italia da Salisburgo a Napoli (1769-1771), Wolfgang Amadeus accompagnato dal padre Leopold, transita per due volte nella Tuscia Viterbese. All’andata, scendendo a Roma, sosta a Centeno e Viterbo. Al ritorno, provenendo dalla capitale e diretto verso la costa Adriatica, si ferma a Civita Castellana. Tre stop tecnici, per cambiare i cavalli della carrozza e risposare, che
vale la pena di ricordare.
N
ella Tuscia Viterbese c’è
stato un insospettato fiorire di iniziative per ricordare il 250° anniversario
della nascita di Wolfgang
Amadeus Mozart (1756-1791). Un po’
per moda, un po’ per convinzione, fatto sta che chiese, castelli e palazzi storici di ogni comune, anche il più piccolo,
si sono aperti ad artisti e organici, pure
di livello internazionale, per riproporre con l’enfasi della ricorrenza, le pagine immortali del genio salisburghese.
E’un segnale di crescita da non sottovalutare. Con il viterbese, Mozart ha avuto, in verità, fugaci contatti “mordi e
fuggi” del tutto superficiali che vale la
pena, però, di ricordare con qualche curiosità. Parliamo del primo viaggio in
Italia compreso tra il 13 dicembre 1769
e il 28 marzo 1771 e preparato meticolosamente dal padre Leopold sia per lucrare la notorietà del giovane figlioprodigio (appena quattordicenne) e sia
per fargli conoscere il jet set di allora:
Giambattista Martini a Bologna, Clemente XIV a Roma (che gli consegnerà
lo “Sperone d’oro”, una sorta di premio
Nobel di allora), Paisiello. Jommelli e
Di Majo a Napoli. I Mozart (senior e junior) partirono dunque da Salisburgo il
13 dicembre 1769 per spingersi sino a
Napoli, che raggiunsero dopo un faticoso viaggio il 28 maggio del 1770. Qui
soggiornarono per più di un mese
prendendo alloggio presso abitazioni
private: tra le altre la casa di una certa
signora Angi ed una di proprietà dei
padri Agostiniani del convento di Giovanni a Carbonara. Per arrivare a Napoli scesero lungo la dorsale centrale:
Milano, Bologna, Firenze, Siena, Roma.
Obbligato, quindi, il transito per la
consolare Cassia. L’8 aprile del 1770 sostarono a Centeno (nell’alta Tuscia)
presso la locanda della Posta. Il giorno
seguente giunsero ad Acquapendente e
il 10 aprile a Viterbo.
Il Capoluogo li accolse in una serata infernale di pioggia e tuoni. Dove dormirono? Non lo sappiamo. Probabilmente
in una locanda-osteria situata tra via
della Cava e il corso Italia (locanda dei
Muli?). Sappiamo, però, che la mattina
Stampa 1789, Mozart assiste ad una rappresentazione de Il ratto dal serraglio al teatro dell’Opera di Berlino.
8
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
seguente, prima di partire, il giovane
Mozart venne accompagnato dal padre
al santuario di Santa Rosa per ricevere
in dono dalle clarisse del monastero
una reliquia della santa, di cui Leopold
aveva sentito parlare. Nel viaggio di ritorno i due sostarono a Civita Castellana dove giunsero verso le cinque del
mattino dell’11 luglio 1770. Erano partiti da Roma intorno alle 18 della sera
precedente. “Una tappa lunga ed estenuante senza chiudere occhio”, annoterà il padre nel diario di viaggio. Nelle
ore notturne, malgrado la stagione estiva, faceva molto freddo, tanto che furono costretti ad indossare una pelliccia
prudentemente riposta nel baule.
A Civita si fermarono alcune ore presso
la locanda della Posta dove si “buttarono sul letto” fino alle 10, dopo aver gustato una provvidenziale tazza di cioccolata calda. Si recarono, quindi, ad
ascoltare la Messa nel Duomo di Santa
Maria e qui il giovane Wolfgang ebbe
l’opportunità di suonare l’organo. Va
ricordato che la chiesa era stata completamente ristrutturata qualche decennio
prima (tra il 1736 e il 1740) e che pertanto si presentava in tutto il suo splendore barocco.
Dopo il pranzo di mezzogiorno, padre
e figlio riposarono ancora un poco nella cittadina viterbese, per poi ripartire,
nel pomeriggio, alla volta di Terni, che
raggiunsero il giorno dopo, attraverso
Borghetto, Otricoli, e Narni. Da qui
avrebbero poi proseguito verso la riviera Adriatica. In una lettera inviata
alla moglie da Bologna il 21 luglio
1770, Leopold scrive “…questo è stato
uno dei viaggi più faticosi che io abbia
fatto, in parte per via del sonno scarso
e interrotto, in parte per la quantità innumerevole di pulci e di cimici che impediscono di dormire anche ad un corpo spossato dalla stanchezza; e in particolare, però, per via della mia gamba,
dove, sebbene andasse abbastanza bene, non solo si è riaperta la ferita a causa dei continui scossoni del viaggio,
ma si era anche a tal punto gonfiata
che il polpaccio e la caviglia erano della stessa grossezza….Non me ne sarei
mai andato via da Roma se non fosse
stato necessario per il crescente pericolo del caldo e dell’aria malsana; e con
tutto ciò meraviglia tutti il fatto che le
mattine e le sere siano state non soltanto fresche, ma fredde, tanto che la notte che siamo partiti da Roma per Civita Castellana abbiamo indossato la
pelliccia sopra il mantello per ripararci dal freddo…Tutta l’Italia si stupisce
di questo tempo”.
Vincenzo Ceniti
te impermeabilità all’esterno, se non
nella direzione del loro interesse primario, una capacità di concentrazione
non comune per non lasciarsi distrarre o deviare, l’aver chiaro l’obiettivo a
cui arrivare e l’essere altresì capaci di
sostenere un grande sforzo mentale
per ottenerlo, dimostrando una grande resistenza e una non meno grande
tenacia.
Nel caso di Amadeus, se si fosse esercitato tre ore al giorno già da piccolo a
sei anni poteva vantare più di tremila
ore! Il perseverare porta evidenti frutti soprattutto se è sostenuto da un
buon coefficiente intellettivo. Il messaggio da trasmettere ai giovani è
questo: cercate, sebbene faticoso all’inizio del vostro iter scolastico, di acquisire queste capacità di lavoro: sa-
ranno i vostri arnesi per esprimere al
meglio la vostra scintilla di genialità.
Massimo Fornicoli
Silhouette.
“Contessa, perdono”
Un Mozart
per “dopolavoristi”
Non senza emozione, accogliendo il monito del nostro Presidente, pubblichiamo questo
breve e fantasmagorico racconto dell’indimenticato Franco Lanza. A noi, che abbiamo lavorato sul pezzo inviatoci dal Professore pochi giorni prima della sua scomparsa, resta
qualcosa che vogliamo condividere. L’articolo ci è giunto in parte dattiloscritto, si trattava presumibilmente di una stesura precedente alla nostra richiesta di pubblicare un
pezzo dedicato a Mozart, e in parte vergato a mano, con quella calligrafia un po’ incerta che suscita sempre una nostalgia affettuosa. Il titolo, scelto da Lanza stesso, diventa
improvvisamente molto significativo: il “dopolavorista” ha voluto farci dono del suo
tempo libero, che ora sappiamo essere stato molto breve, ma molto prezioso per noi. L’onore di ospitare in questa pagina le sue ultime parole aggiunge al nostro cordoglio uno
sprone a proseguire sulla strada maestra che lui ci ha sempre indicato. Grazie Franco.
E
ra l’estate del 1959 ed io mi
trovavo a villeggiare a San
Cassiano in Val Badia. Nei
miei programmi sarebbe stata un’estate senza ambizioni
di gran turismo anche se in un angolo
della mia mente progettuale non avevo
rinunciato del tutto ad una serata mozartiana ai Festspiele di Salisburgo.
Quando mi mossi per le Dolomiti una
rapida telefonata agli uffici turistici
chiarì che i posti per quella eccezionale
“prima” di Von Karajan erano già
esauriti da un mese. Perciò non misi
nel bagaglio alcun abito elegante, ma
certo non sarei mancato a quella serata,
almeno per rendermi conto “dal di
fuori” degli apparati scenici e delle voci in campo.
Fu per questo motivo che presentandomi ai Festspiele, dopo una bella galoppata di un’ora e mezza, tra ospiti vestiti di tutto punto, chiacchierando con i
bagarini mi resi conto che tutte le porte
si aprono quando congiurano la buona
volontà ed il denaro. Mettendo loro davanti, da buon provinciale, un gruppo
di scellini, che era quasi il doppio del
semplice ingresso alla barcaccia, mi
trovai tra le mani l’agognato ingresso
che non mi avrebbe poi permesso di
vedere granché, in quanto l’abito di tela bianca che indossavo non sarebbe
stato tollerato dai sorveglianti del teatro. Sbarrata dai vigilanti la strada che
mi avrebbe portato agli ordini più alti,
aggirai l’ostacolo ficcandomi fra le scale di corda dell’impianto scenico. Era
questo regolato in modo da permettere
l’uscita di qualunque personaggio, bastava aggrapparsi alla scala di corda
che conduceva addirittura sotto i palchi. Ma quale fu la mia meraviglia
quando, volendo ritornare allo sfogo
del loggione, dopo aver risalito quella
strada poco comoda, mi vidi sbarrare
la via da un grosso inserviente che a
forza di mandarfnicht (di qui non si
passa), mi impedì il rientro più comodo imponendo di scapicollarmi per
chissà quante altre scale e piccionaie.
Infatti, il biglietto che io avevo mi consentiva sì il passaggio a quell’acrobatico loggione, ma non il libero ritorno
dopo una libera andata.
Insomma, era semplicemente un passepartout che mi apriva un passaggio
in alto o in basso, ma non una libera
circolazione. Io credo che ben pochi abbiano ascoltato arie come “Dalla sua
pace la mia dipende”, stando a caval-
cioni di un’asse portante del soffitto;
che mai il catalogo della donne squadernato da Leporello sia stato ascoltato
e seguito da uno spettatore come me,
appeso ad una corda e sempre in procinto di capitolare. Tuttavia, quanto mi
è rimasto di quella celebre serata mozartiana è un ricordo difficile da cancellare: chi vive e respira l’aria del palcoscenico è qualcosa di più di un semplice spettatore; sente per così dire palpitare la scena attraverso le proprie
reazioni, si immedesima nel canto accompagnandolo con un suono più o
meno gradevole, ma pur sempre suo.
Così credo che succeda ai cori, quando
non emettono forse neppure un suono
ma si rivestono di una gestualità solenne, di una illusa partecipazione che
può mescolare la propria voce raddoppiandola su quella della Schwarkopf.
Anche le parti dialogate dal Da Ponte
avevano un loro ritmo che faceva dimenticare l’equilibrio instabile fra il vizio e la gioia di vivere, in una corona di
umanità in apparenza innocente, che è
il grande fascino di un conflitto che tra
generosità e condanna raggiunge l’incandescenza del tragico. Per tutta quella serata, tra raccolta e distesa, tra l’imminente giudizio del Convitato di Pietra e l’urgere della resa dei conti che
precipiterà il protagonista tra le fiamme, lo svolgersi del dramma procedeva con un’urgenza drammatica che
scandiva le battute simili a quella di
una sentenza irrevocabile. A me rimase
l’abito di tela bianca a causa del quale
ero stato costretto a confrontarmi con il
gran galà della platea. Ma penso che
ben pochi portino di una prima di Von
Karajan un ricordo così originale e così
rischioso. In fondo la mia avventura
era stata uno scherzo di loggione, simile a quelli che i nostri nonni raccontavano come lacerti di aneddotiche acrobazie a fini galanti. Ma l’avermi condotto così vicino a quegli eletti dell’Olimpo, tanto da sfiorare il loro profumo
(delicato ed acuto quello di Graziella
Sciutti, quando mi porse la mano per
aiutarmi in un passo difficile!) mi dette
l’illusione di una vita comune, di un
noviziato di Wilhelm Meister trasportato dalla prosa al melodramma. Un
canto ed un profumo che ancora mi avvolgono, come una stregoneria di qualcosa che sarebbe potuto accadere, e
purtroppo non è accaduto.
Franco Lanza
MOZART
SPECIALE
Con piacere pubblichiamo questo “saporito”racconto inviatoci dall’amico Maurizio Bianchini, infaticabile promotore di attività culturali legate al territorio, autore di testi, titolare e illuminato chef del Ristorante Casa Tuscia di Nepi (VT).
I cappellacci di Mozart
I
l piccolo corteo dei viaggiatori attraversò il grande ponte sospeso
sulla forra, poi si inerpicò per una
strada lastricata di basalto prima di
giungere sulla grande piazza della
cittadina, un rettangolo con una fontana
in mezzo, chiuso da ogni lato dai palazzi, alcuni molto antichi e traforati di eleganti bifore di travertino. Le carrozze
l’attraversarono uscendo dalla parte opposta, poi percorsero una stretta via che
dava sul magnifico portale romanico di
una chiesa antica e infine, dopo avere
girato a sinistra si fermarono nel giardino interno traboccante di verde di uno
splendido palazzo rococò bianco e celeste che al ragazzo ricordò casa sua, dall’altro lato delle Alpi. Sembrava lui, più
che l’austero e segaligno padre, la persona di riguardo.
Guidata dal padrone di casa, un conte,
sia pur di recente nobiltà, una piccola
schiera di domestici gli si fece intorno e
dopo averlo aiutato a scendere si dispose sollecita ad aspettarne le richieste.
- Scaricate i bagagli, suvvia, non restate
lì imbambolati- li esortò il padrone di
casa.
- Fate attenzione agli strumenti, mi raccomando- aggiunse il padre del ragazzo, il cui accento ne tradiva le origini tedesche.
Dopo essersi salutati con qualcosa che
era più di una formalità, ma meno di un
autentico calore, i due uomini si diressero all’interno seguiti dal ragazzo che
però procedeva guardandosi intorno da
ogni parte, l’attenzione continuamente
attratta da nuove scoperte: una nicchia
con un’immagine sacra a una parete, un
vecchio portavasi in ceramica, un piccolo graffito. Finché l’eco di una musica
allegra, una tarantella suonata con stru-
menti di fortuna, non ne fermò il passo
e rapì lo sguardo.
- E’ il carnevale sapete, la gente indossa
strane maschere e se ne va in giro per la
città suonando, cantando e mangiando
fino a notte fonda.- Il conte prevenne la
domanda del padre del ragazzo, dopo
essersi a sua volta arrestato a metà della
strada.
-Oh, papà, mi piacerebbe tanto vederlo…-Sì, sì, possiamo andare a vederlo,
papà?- Anche la sorella del ragazzo, fino ad allora in silenzio, quasi invisibile
dietro di lui, si unì alla richiesta.
-Come può venirvi in mente una cosa
del genere? Siete stanchi, dovete riposare. Domani ci attende una lunga
giornata-.
-Oh papà…- gemettero i due giovani all’unisono.
-E’ una festa così bella, caro Leopold.
Un’intera città annega per una notte tutti i suoi pensieri nella musica e nell’allegria.- Il conte fece una piccola pausa.
Poi riprese in tono ancor più suadente. Potrebbero fare un giro per la città, tanto per vedere. Li farei accompagnare da
mio figlio più grande. Alessandro è la
più giovane Guardia D’Onore del Papa.
Di lui ci si può fidare.-Malvolentieri, almeno all’apparenza, Leopold accondiscese alla proposta. Dopo essersi cambiati d’abito e riposati, sotto l’occhio vigile di quella sorta di fratello maggiore
e la scorta occhiuta d’un paio di robusti
domestici i due ragazzi uscirono infine
incontro al Carnevale.
Il giorno dopo, il giovane, che si chiamava Wolfgang Amadè Mozart, suonò
per oltre un’ora il vecchio organo della
cattedrale fra lo stupore dei musici, increduli che tanta grazia, tanta scienza,
tanto pathos potessero alloggiare in
quel piccolo essere i cui piedi a malapena arrivavano ai pedali.
Nel pomeriggio, dopo una frugale colazione nel palazzo del conte, la carovana
dei Mozart partì alla volta di Roma, do-
ve la fama di quel genio bambino li aveva già preceduti creando un’attesa spasmodica per il suo arrivo.
Ma nella cittadina in cui Wolfgang aveva fatto la conoscenza del Carnevale,
tutti ricordavano il giovane salisburghese che aveva ballato con le ragazze di
campagna vestite da streghe, mangiato
con le mani i cappellacci col pecorino ed
i ravioli di ricotta e persino suonato un
violino fatto con una scatola di compensato…
Ma davvero Mozart ha mangiato questo pietanza?- Chiese la donna elegante
all’uomo che le aveva raccontato questa
storia, seduta al tavolo di un ristorante
dalle ampie volte bianche con vista sull’antico castello che qualche secolo prima aveva ospitato il dolore di Lucrezia
Borgia dopo l’assassinio del marito Ferdinando.
-Mi permetta di risponderle con un’altra domanda: vi avrebbe mai rinunciato
se avesse avuto la possibilità di farlo?Sorrisero entrambi. E chi fosse stato presente in quel momento avrebbe potuto
ascoltare in sottofondo, lontana ma
chiara, una delle melodie del grande salisburghese.
Maurizio Bianchini
Titolare del Ristorante
Casa Tuscia di Nepi (VT)
Mozart: il suono che guarisce il corpo e l’anima
Olio di J.Lange, cognato di Mozart. Ritratto incompiuto.
“Resi forti dalla potenza del suono, camminiamo gioiosi attraverso l’oscura notte della
morte.”
Q
uesta citazione da Il Flauto Magico ci fa supporre
che Mozart fosse consapevole delle virtù taumaturgiche della musica,
ma sicuramente non poteva immaginare per quali finalità oggi ascoltiamo la sua musica.
E’ormai riconosciuto da tutti che la
musica può influenzare l’organismo
modificando lo stato emotivo e mentale, ma non tutti sanno che questo meraviglioso fenomeno è stato denominato proprio “Effetto Mozart” (Don
Campbell, L’Effetto Mozart, Baldini e
Castoldi 1999)
Come hanno dimostrato alcuni studiosi dell’Università di Irvine in California, certa musica può apportare
miglioramenti alla capacità del cervello di percepire il mondo fisico, formare immagini mentali e accorgersi dei
cambiamenti negli oggetti. In altre parole, la musica può influire sul modo
in cui percepiamo lo spazio intorno a
noi. (Gordon Shaw, Keeping Mozart in
Mind, University of California, Irvine,
Academic Press, San Diego 2000). Ricercatori di varie discipline sono concordi nell’affermare che la musica di
Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
aiuta ad organizzare i circuiti neuronali
di alimentazione nella corteccia cerebrale, soprattutto rafforzando i processi
creativi dell’emisfero destro associati al
ragionamento spazio-temporale. In particolare, le sinfonie mozartiane presentano particolari caratteristiche di timbro
e di ritmo che risultano benefiche per
l’organismo. Hanno un effetto di ricarica sul cervello, stimolano la creatività e
l’energia positiva in chi le ascolta.Uno
studio ha evidenziato che ascoltare Mozart per solo dieci minuti può far aumentare temporaneamente il quoziente
di intelligenza (QI) di nove punti. Sono
i suoni ad alta frequenza a dare energia
al cervello, e l’energia cerebrale è direttamente collegata all’intelligenza.
Ulteriori studi sui topi di laboratorio
hanno dimostrato che le cavie a cui veniva fatta sentire la Sonata K.448 erano
in grado di uscire più velocemente da
un labirinto rispetto al gruppo di riferimento tenuto in silenzio o sottoposto all’ascolto di Per Elisa di Beethoven. La
superiorità di questi topolini è rimasta
intatta anche riducendo l’esposizione di
musica del 58% e facendo trascorrere 24
ore di silenzio prima del test, come a significare che il benefico effetto non è
transitorio, bensì durevole nel tempo.
Inoltre è emerso che la musica di Mozart può aiutare a rallentare i sintomi di
molti disturbi neurodegenerativi. Tra i
malati di Alzheimer, grazie all’ascolto
delle sonate, si sono ottenuti buoni risultati nei problemi di spazializzazione
e di socializzazione. Si è anche sperimentato che la musica di Mozart, e non
altra, calma l’attività elettrica associata
alle crisi dei pazienti epilettici. Poche
note ascoltate ogni giorno e gli attacchi
epilettici si riducono drasticamente. Ad
illustrare gli effetti terapeutici della musica del grande compositore è John
Jenkins del Royal College of Physicians. Per concludere in maniera leggera il catalogo delle virtù miracolose, vogliamo ricordare che esiste anche un
metodo di allenamento fisico, in cui gli
esercizi sono scanditi sui ritmi mozartiani. Marco Brazzo, chinesiologo e
osteopata, nel suo Mozart Fitness, guida all’igiene motoria con la musica di
Wolfgang Amadeus Mozart (ed.Deme-
tra) descrive tutti i possibili abbinamenti musicali ai vari esercizi ginnici e
ne assicura l’efficacia.
A questo punto ci chiediamo: perché
proprio la musica di Mozart?
Il Metodo Tomatis
Tra le molteplici metodiche che si servono del grande musicista salisburghese in veste di “guaritore” vi è il metodo
Tomatis. Nel suo libro Perché Mozart
(Ibis, 1996), molti decenni prima delle
recenti conferme venute dalle ricerche
americane, Tomatis aveva scoperto le
qualità terapeutiche ineguagliabili della musica del grande Amadeus. Il metodo Tomatis è una tecnica di stimolazione sonora e un intervento pedagogico col fine di migliorare il funzionamento dell’orecchio, la comunicazione
verbale, il desiderio di comunicare e
imparare, la consapevolezza dell’immagine corporea, il controllo audiovocale e quello motorio.
Questo medico otorinolaringoiatra
francese, Alfred Tomatis (1920-2001), ha
messo in evidenza le relazioni esistenti
fra l’orecchio e le varie funzioni dell’organismo, portando avanti le sue ricerche sull’audizione, sul linguaggio e la
comunicazione per evidenziare la relazione esistente tra orecchio, linguaggio
e psiche. Il suo metodo, basato sulla
convinzione che la funzione primaria
dell’orecchio non è l’udito ma l’ascolto,
utilizza una macchina nota come “orecchio elettronico” per filtrare la musica di
Mozart, apportando così all’orecchio le
frequenze che vanno a “ricaricare” la
corteccia cerebrale. L’orecchio, infatti,
ha il compito di fornire energia al nostro
cervello, come una dinamo che ricarica
la batteria di un’auto. Tale apporto energetico è determinato quasi esclusivamente dalle frequenze acute di cui la
musica mozartiana è ricchissima; tali
frequenze si trasformano in stimoli nervosi, a livello delle cellule ciliate della
coclea (cellule del Corti), e provocano
una dinamizzazione dell’attività corticale, che si tramuta in coscienza, concentrazione, memoria e volontà. Coloro
che si sottopongono al training di ascolto avvertono un risveglio della coscienza e della vitalità. La musica ha un effetto terapeutico sulla parte dell’orecchio
interno, detta “organo di equilibrio” che
tiene sotto controllo tutti i muscoli del
corpo. Una sana “energizzazione” agisce sulla tensione corporale, su eventuali contrazioni o rilassamenti del tono
muscolare e quindi sulla postura. Osservando il sistema nervoso parasimpatico, si comprendere il motivo per cui
questa stimolazione può aiutare a risolvere disturbi di origine psicosomatica. Il
nervo vago detto anche “nervo dell’angoscia”, si inserisce tramite il nervo auricolare sul timpano Le frequenze acute
determinano la tensione di esso, assicurando un buon equilibrio neurovegetativo. Grazie al vago tutto si può organizzare armoniosamente o squilibrarsi. In
quest’ultimo caso appaiono somatizzazioni varie.
Con il metodo Tomatis non soltanto si
curano problemi di concentrazione, di
apprendimento, di iperattività, di equilibrio, ma anche, la dislessia, la balbuzie, l’autismo. Può essere di grande aiuto anche a persone con problemi d’integrazione sensoriale o con difficoltà psicomotorie. Tomatis è efficace per l’apprendimento delle lingue straniere, per
il rilassamento e preparazione al parto,
per una migliore capacità di comunicazione (utile ai manager) e, non ultimo,
per il miglioramento delle proprie qualità fino e per trovare un’armonia con sé
stessi . Permette di lottare contro la depressione, di essere più creativi e di migliorare l’ efficacia nel lavoro. Molti
musicisti, cantanti e attori hanno utilizzato il metodo per affinare il loro talento. Chi si è sottoposto al ciclo di sedute
ha notato il suo impatto psicologico,
menzionando un’accresciuta fiducia in
se stessi, un migliorato livello d’energia e di motivazione, così come una
maggiore chiarezza di pensiero e un
migliorato senso di benessere. A questo punto se Tomatis ha stimolato una
certa curiosità possiamo consigliare la
lettura della sua interessante e piacevole autobiografia, L’Orecchio e la Vita
(Baldini e Castoldi, 1992). Per chi, invece, volesse approfondire l’aspetto
scientifico può leggere L’Orecchio e la
Voce (Baldini e Castaldi, 1993), monografia del maestro o optare per il saggio di un suo validissimo allievo, Concetto Campo, “Il metodo Tomatis”, Riza Scienze, Nov. 1993.
IL TRAINING
Per accedere allo “effetto Mozart” e alle inesauribili possibilità che esso offre,
è necessario però sviluppare un ascolto corretto, ed è ciò che persegue il metodo Tomatis.
La prima fase del training è rappresentata dal test di ascolto, il momento diagnostico, che viene effettuato attraverso un audiometro che invia al soggetto segnali sonori. In seguito ai dati ricevuti, vengono tracciate le curve dell’ascolto aereo e dell’ascolto osseo. In
base al test e ad un colloquio, lo specialista personalizza il programma d’ascolto. Il test d’ascolto offre un’immagine dell’aspetto mentale e corporale
del soggetto. Il training sonoro si prefigge lo scopo di far seguire al paziente una progressione di ascolto ideale,
simile a quella che avrebbe dovuto sviluppare dal momento del suo concepimento; la qualità del suo ascolto e di
conseguenza la comunicazione con
l’ambiente sono la risultante di tutto
ciò che non è “filato liscio” da quel
momento in poi. Con l’ausilio di speciali cuffie il paziente ascolta complessivamente 50/60 ore di musica filtrata,
con sedute di 2 ore ciascuna divise in 3
cicli: 10 giorni consecutivi a cui segue
un riposo di almeno 6 settimane, un
secondo ciclo più o meno breve secondo le necessità, una pausa e poi un terzo ciclo di 5 giorni. E’ possibile che,
dopo il periodo iniziale durante il quale il soggetto ascolta passivamente, il
terapeuta consigli delle sedute attive
che permettono di autoascoltarsi e di
padroneggiare il circuito orecchio/voce grazie a degli esercizi vocali fatti
utilizzando un microfono collegato all’orecchio elettronico. In questo modo
il soggetto è coinvolto pienamente
nella rieducazione del proprio ascolto.
Gli effetti benefici ottenuti durante il
ciclo d’ascolto formeranno per sempre una ricchezza dalla quale attingere e, in caso di necessità, è possibile ricorrere al metodo Tomatis per brevi
periodi, con un programma di ascolto
mirato alla soluzione del problema
specifico.
Piera Ferraro- Rettenbacher
Tomatis Center Tirol
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
9
RICORDO
DI
FRANCO LANZA
RIPORTIAMO L’ARTICOLO A FIRMA DI PIETRO GIBELLINI TRATTO DA L’AVVENIRE DEL 27 MARZO 2007
La letteratura come entusiasmo:
Roma dà l’addio a Franco Lanza
P
er l’autore del trattato Del
sublime il germe essenziale della grande poesia è
l’entusiasmo. Questa, dote, che trasforma il critico
da compassato analista in fervido
consigliere del lettore, apparteneva
a Franco Lanza, scomparso venerdì
a Roma a 81 anni per un crudele
malattia e i cui funerali si sono svolti ieri. Proprio l’entusiasmo unificava le qualità dell’uomo e dello studioso: la cultura eclettica ed estesa,
la curiositas per il nuovo accompagnata dall’equilibrio e dalla coerenza con un’estetica valoriale, la disponibilità ad ascoltare l’autore e a
confrontarlo con i propri radicati
convincimenti. Perciò, fra i discepoli di Mario Apollonio, Lanza era il
più simile al maestro del quale fu
assistente all’Università Cattolica di
Milano dal 1951 al 1963.
Dopo la libera docenza in Letteratura italiana, egli percorse, fino alla
cattedra, i vari gradi della carriera
accademica, che lo vide attivo negli
atenei di Malta, Palermo, Salerno e
Viterbo; ma la lunga serie di pubblicazioni scientifiche fa di questo professore anche uno studioso attivo e
originale, attento da sempre ai momenti «inquieti» della storia letteraria, ai suoi intrecci con la ricerca conoscitiva ed esistenziale.
È questo, mi pare, il denominatore
che accomuna i diversi oggetti del
suo lavoro critico, dall’Eden dantesco alle inquietudini barocche, dalla
poetica vichiana all’affresco manzoniano, dal bizantinismo di D’Annunzio all’orfismo di Onofri, dalla
meditazione di Serra all’introversione di Pavese, dal moralismo esistenziale di Alfieri e Leopardi alla spiritualità di Rebora.
Ma la maschera dell’accademico è
troppo grigia per il suo viso, che era
quello luminoso di un innamorato
della letteratura. Lo testimoniano la
curatela di testi scolastici, in cui si
manifestò la sua passione pedagogica, l’intensa attività di redattore delle
riviste Otto-Novecento e Cenobio,
l’impegno tenace che lo rese uno dei
più vivaci collaboratori letterari dell’Osservatore Romano. Da qui provenivano molte pagine delle Scritture e
anime di fine millennio (Morcelliana
2001), un libro che ci appare ora come
un esame di coscienza collettivo e un
personale testamento critico e spirituale.
Vi brillano l’abitudine a poggiare il
giudizio su equilibrate argomentazioni, senza chiusure preconcette né adesioni aprioristiche; la scrittura vivace,
elegante, limpida; la consapevolezza
di porsi al servizio dello scrittore,
senza voler sovrapporsi a lui o scimmiottarne lo stile; soprattutto, il coraggio di chiedere alla letteratura e alla critica di mirare in alto, di offrirsi
come strumento di conoscenza e come banco di prova dei valori.
Come non ricordare, di fronte a questa concordia fra disponibilità all’ascolto dell’altro e coerenza con le ragioni della propria fede nella letteratura, oltre che nella Verità con la
maiuscola, che Lanza pubblicò un
volume su Paolo VI e gli scrittori? Rileggendo ora Scritture e anime di fine
millennio, testimoniale e testamentario, vi troviamo affrontate questioni
cruciali nel trapasso fra i millenni: lo
sguardo alle metodologie, sospese fra
utopia scientista e ansia conoscitiva;
la considerazione dei diversi linguaggi come espressioni di una semiosi interdisciplinare, voci di un
grande coro; l’attenzione per gli scrittori credenti o no ma accomunati da
una tensione al bello intimamente religiosa.
Ma, soprattutto, quel libro testimoniale divenuto testamentario ci insegna che per Lanza la letteratura fu
qualcosa di ancora più alto del culto
ascetico praticato da scrittori innamorati della bellezza: era una coinvolgente ricerca di humanitas, una
partecipe attenzione ai segni del tempo che rinviano a una Verità che trascende il tempo.
É trascorso più di un anno (23 marzo 2007) dalla scomparsa di
Franco Lanza amico e direttore scientifico dell’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli e desidero pubblicare la lettera
che scrissi appena appresa la notizia.
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Caro Franco,
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Ludovico
Pietro Gibellini
RIPORTIAMO L'ARTICOLO TRATTO DAL CORRIERE DI VITERBO
DEL
25 MARZO 2007
Il paese ricorda il professor Franco Lanza
VALLERANO - “Una persona di simpatia e disponibilità squisite, di cultura vastissima, comunicatore efficace e coinvolgente. E poi, da anni, presenza
familiare in paese”.
Questo il commento unanime di chi lo ha conosciuto alla notizia della scomparsa del professor Franco
Lanza, per anni ordinario di Letteratura moderna e
contemporanea all’Università della Tuscia e dagli
ultimi anni ‘80 legatissimo a Vallerano. Si è spento
venerdì scorso a Roma all’età di 81 anni. I funerali
sono fissati per domani nella chiesa della parrocchia del Flaminio, via Guido Reni. Colpito in maniera particolare dalla morte di Lanza Ludovico
Pacelli, presidente dell’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli, per la cui rivista, l’Orioli, il
professore scomparso rivestiva il ruolo di consulente scientifico.
10
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
Il rapporto del professor Lanza con Vallerano iniziò con la partecipazione alla rassegna culturale
“Stanze con vista o prigione”, ideata da Pacelli, che
dalla metà degli Anni ‘80 al 1994 ricoprì la carica di
assessore alla Cultura del Comune. La rassegna,
che si articolava in varie serate estive aveva acquistato, nel tempo, risonanza molto vasta ed era onorata dalla presenza di personalità di spicco: Michele Mirabella, Guido Barlozzetti, Rodolfo Baldini,
Silvia Mauro, tra gli altri.
E, immancabilmente, Franco Lanza.
I suoi interventi su argomenti letterari e filosofici
riecheggiano ancora negli amarcord degli spettatori per la profondità, la limpidezza e la capacità divulgativa delle analisi.
Nicola Piermartini
RECENSIONI
Un tuffo nell’Italia di un secolo fa
V
iviamo in un mondo sempre
più aspro, meccanizzato,
astratto, in una società distinta da contrasti singolari:
informatizzazione accanto a
tutela delle tradizioni folkloriche, massificazione del (poco) tempo libero e sviluppo della creatività, scarsità di lettori
presso fasce che potenzialmente dovrebbero dedicare tempo alla lettura e accostamento al testo scritto da categorie in
precedenza aliene dalla cultura, numero
globale di lettori basso in rapporto all’enorme quantità di gente che pubblica. I
gusti dei lettori sono ovviamente varii;
all’interno dei cultori della civiltà letteraria molti guardano al passato, un po’ per
il fascino che offre il superamento dell’
“errore del tempo”,il transfert (CVO) in
anni lontani in cui molti vivevano meglio, un po’ per la difficile recezione della produzione artistica contemporanea se ancora esiste un’arte nel senso comune del termine. Così, in un tempo in cui
più che mai dominano le leggi economiche e le finalità utilitaristiche, si sviluppa
tuttavia una letteratura di studio, di curiosità, di scoperta di angoli inesplorati
nella biografia delle generazioni passate,
che è letteratura di nicchia, ma vive protetta dalla considerazione delle istituzioni accademiche, della cultura d’élite,
inerte dinanzi al becerume dei best sellers, e di lettori curiosi di figure e fatti di
anni ormai lontani nel tempo, ma vicini
nella memoria e nelle emozioni suscitate. In quest’ultimo tipo di produzione si
colloca un volume da poco uscito, Itinerari culturali del primo Novecento. Lettere e testi inediti dell’archivio di Alberto Cappelletti (CVO), pubblicato da Filippo Sallusto presso l’editore Pellegrini
(Cosenza 2006). L’autore, studioso e critico, che ha tenuto incontri culturali anche a Vallerano come studioso di Corrado Alvaro, ha avuto la buona idea di studiare e pubblicare un archivio inedito di
un giornalista e pubblicista del primo
Novecento, che per motivi di lavoro e di
amicizia personale fu in corrispondenza
con nomi grossi e minori della cultura
italiana coeva. Cappelletti da giovanissimo visse l’esperienza del Modernismo;
dai documenti pubblicati, non solo epistolari, il lettore si può fare un’idea dello
spirito che vivificava le anime di una
parte non insignificante della cultura degli anni ‘10, delle loro aspirazioni, dei legami culturali che vincolavano a nomi
importanti come Murri, Sabatier e Fogazzaro letterati minori peraltro non caratterizzati all’adesione alla temperie religiosa nominata.
L’interesse di Cappelletti per la figura di
San Francesco e poi di Santa Caterina
determina nel libro una certa attenzione
alla vita religiosa e culturale umbra, alle
prime iniziative turistiche, ma soprattutto al fiorire di studi francescani ad Assisi e cateriniani a Siena - amico di lunga
data fu Piero Misciattelli, studioso per
cui fu creata una cattedra di studi cateri-
niani nel 1926. A prescindere dall’affinità
inceramente sentita col santo umbro,
Cappelletti poteva ricevere suggestioni
letterarie dai suoi ontemporanei che si
confrontarono con lo stile e le tematiche
francescane, come d’Annunzio e alcuni
crepuscolari: non per nulla ad Assisi nel
1982 a questo tema fu dedicato un convegno, S.Francesco e il francescanesimo
collaborò con vari giornali e riviste, ma
soprattutto col ‘Giorno’ di Matilde Serao. Ecco quindi una carrellata di personaggi illustri, da Di Giacomo a Russo alla Serao stessa. Rivivono non solo gli anni di allora, con le sfaccettature della cultura, delle amicizie, delle rivalità culturali, ma anche i magici anni della fine
dell’Ottocento, narrati a Cappelletti da
artistiche, scene di interni, intimità familiari. Terza componente importante di
questo volume è d’Annunzio e i dannunziani. Cappelletti infatti trapassò
gradualmente da un gusto francescano e
crepuscolare all’estetismo dannunziano,
pubblicando articoli interessanti sull’Immaginifico e giungendo a contattarlo personalmente: testimonianza del le-
nella letteratura italiana del Novecento
(CVO). Incontriamo poi altri personaggi
famosi di allora: spicca una risposta di
Papini ad una recensione di Il pilota cieco (CVO), opera molto tormentata, tipica di un uomo in piena crisi esistenziale
e morale, risposta che lascia immaginare
lo stato mentale di quel pover’uomo.
Benedetto Croce mostra in una lettera la
sua precisione e a sua disponibilità ad
aiutare il prossimo in difficoltà, mentre
compare anche una cartolina di una
donna che fu sua convivente e che, dopo
morta, quando il filosofo si sposò regolarmente e creò famiglia, rimase sempre
nel ricordo affettuoso e tuttora vive in
un ritratto appeso a Casa Croce. L’ambiente culturale napoletano campeggia
nell’epistolario e in un album di artisti:
Cappelletti visse molti anni a Napoli e
testimoni oculari, e in particolare i soggiorni napoletani di Verdi, di Carducci e
soprattutto di d’Annunzio; rivivono le
denunzie per i primi scempi paesaggistici, il ricordo degli squarci che furono
immortalati da pittori e poeti e conservati nell’immaginario mondiale a formare una tipicità che sfida i secoli e che
rende a quelle contrade un’immagine
degna, da sostituire al disfacimento attuale, segno del degrado e della sopraffazione pubblica della feccia sociale. L’acutezza e la permalosità di Di Giacomo,
l’imperiosa eppur materna energia della
Serao, la grazia e il distacco dal presente
di Murolo e di De Leva, tutto questo
emerge da lettere e biglietti che Sallusto
ha pazientemente ordinato, trascritto,
commentato, facendo rivivere momenti
di vita culturale, germogliare di opere
game che il poeta sentì per il più giovane scrittore sono due lettere, che suggellano l’attaccamento del poeta alle sue radici abruzzesi, le stesse del destinatario,
nell’uso del dialetto in alcune frasi, e
l’impegno di Cappelletti come divulgatore dannunziano.
Un accenno di alto valore poetico riferito ad una lettera ad un’amica innomina-
ta è stato studiato da Sallusto, che è riuscito a rintracciare, tra le tante corrispondenti femminili del Comandante, la destinataria e a confrontare espressioni simili presenti in altri scritti coevi. Ruolo
importante ha l’ultima compagna stabile di d’Annunzio, la pianista Luisa Baccara. Conosciutolo a Venezia e rimastane folgorata, audace anch’essa tenne in
non cale le norme della buona creanza
borghese e se n’andò a Fiume a tenere
alto il morale dei Legionari e i sensi del
Comandante. Finita l’esperienza fiumana, dopo il ritorno a Venezia si trasferì al
Vittoriale a fungere da moglie - la vera
molti anni prima non aveva retto al
comportamento del fantasioso marito;
veniva ogni tanto a trovarlo, come buona amica. Fino alla morte di lui, Luisa rimase al Vittoriale, sopportando, allontanandosi quando occorreva, tornando
quando il suo ruolo di segretaria - maggiordomo riemergeva. Le lettere di Luisa a Cappelletti testimoniano tutto questo, oltre a questioni d’arte - pianismo, la
carriera della sorella minore, la violinista
Jole - e infine di contrasti con studiosi
dannunziani. Dopo la pubblicazione di
un album di artisti napoletani, con qualche piccolo inedito e riproduzione di autografi di nomi conosciuti e di disegni di
caricaturisti noti, l’ultima parte del volume è occupata da appendici di approfondimento, aggiornamento bibliografico e riproduzione di articoli con lettere inedite di Giuseppe Verdi. Nell’ultima appendice si riproduce materiale
iconografico scoperto da Sallusto relativo ad un disegnatore di cui trattava un
articolo postumo di un giovane studioso
amico di Croce che fu pubblicato senza
le illustrazioni e quindi come monco, ricomponendo l’unità di testo e disegno.
Non meno interessante il primo documento dell’archivio, posseduto da Cappelletti ma non a lui diretto: un biglietto
di Carducci ad una signorina non identificata, di argomento editoriale; l’autore
ha compiuto una lunga ricerca nell’enorme archivio epistolare conservato a Casa Carducci a Bologna, trovando la lettera, ancora inedita, scritta da quella signorina al poeta e svelandone le generalità. Il volume è stato presentato a Roma
alla Biblioteca Nazionale Centrale da
studiosi del calibro di Annamaria Andreoli, direttrice del Vittoriale, e di Luigi
Lombardi Satriani, antropologo ed operatore culturale di alto impegno.
a cura della redazione.
Curriculum Vitae di Filippo Sallusto
Filippo Sallusto si è dedicato a studi e pubblicazioni di letteratura latina,
da un’antologia a voci enciclopediche specialistiche sulle Enciclopedie Virgiliana ed Oraziana; si è poi dedicato a studi di letteratura italiana, con
pubblicazioni e conferenze su Corrado Alvaro e sulla letteratura di fine ottocento – primo novecento. Ha collaborato con articoli anche all’Orioli.
Duse: i luoghi del ritorno
C
on Silvio d’Amico che voleva legarla nel 1921 a un
progetto di teatro stabile,
Eleonora Duse reagì: “Stabile? Parola che non si pone
nella vita dove nulla s’arresta”. Se non
lo sapessimo dalle gazzette e dalle cronache teatrali, basterebbero le centinaia
di lettere che Duse ha scritto dai quattro
angoli del mondo a darci un’idea della
sua vertiginosa mobilità. Cambiava i
paesi come chi ha la febbre muta di continuo cuscino. Hugo von Hofmannsthal, che la vide per la prima volta a
Vienna nel 1892, dopo le numerose
tournées che avevano creato il suo carisma in Europa, la definì “la creatura più
famosa e inquieta della terra”. I suoi
viaggi erano cortei trionfali e assomigliavano a una fuga. Nella Duse privata, un analogo turbine di spostamenti:
acque termali, bagni di mare, dalla Versilia a Biarritz; alta montagna, mezza
montagna -Engadina, Vallombrosa, Boscolungo Pistoiese - colline umbre e toscane, lungolaghi svizzeri e di confine,
piovosi, caliginosi dove la desiderata
tranquillità si faceva inevitabilmente
noia inducendo a scappare.
Vi è un baricentro tuttavia in questa vita centrifuga, che incredibilmente si tiene, non deflagra: l’altrove dell’intimità,
il luogo del ritorno. “Je rentre chez moi
“, scrive spesso Duse a chiusura delle
lettere. Chez moi o “il mio rifugio” indicò naturalmente case in luoghi diversi: Firenze, Asolo, Venezia, questa luogo
a parte privilegiato, “lusso dell’anima”
per le sue radici venete. Le scelte dei
luoghi rivelano un coté internazionale
di respiro: la comunità anglo-americana
presente in tutti e tre i posti, l’austriaca
e la tedesca di Venezia, quella francese a
Firenze. Per le case Duse aveva autentici rapimenti, si innamorava a prima vista dei particolari, la luce del paesaggio
o un dettaglio della costruzione: che talvolta abitò per poco tempo, talvolta sognò solo di abitare. La più nota è la Porziuncola, vicina alla Capponcina di
d’Annunzio, che fu lei a portare sui colli di Settignano. La Porziuncola come
casa Morrison ad Asolo, a due piani, vivevano nel contesto dell’antico paesaggio italiano, in cui alle case padronali o
alle ville si affiancavano campi coltivati,
filari di alberi, maggesi, rogge. Ogni finestra, uno scorcio di bellezza. Alla Porziuncola si accedeva da un giardino, in
cui due file di rosai lungo il viale di accesso lasciavano intravedere l’orto allegramente accostato alle aiuole fiorite.
Duse detestava i giardini “pettinati”,
finti. Anche Asolo aveva aiuole, alberi e
orto sul retro della casa verso i colli e lo
sfondo del Grappa. Un altro giardino,
interno, era nell’appartamento di via
Robbia, sempre a Firenze, che Duse
scelse vicino alla casa di Giulia Gordigiani, l’amica più amata, e abitò quasi
dieci anni. Le case di Settignano, Asolo,
via Robbia furono concepite per accogliere la figlia Enrichetta prima da sola
poi con l’intera famiglia, che viveva abi-
tualmente in Inghilterra. Per sé Duse
preferiva uno studio d’artiste, come la
soffitta di Palazzo Barbaro-Wolkoff,
una casa aerea sul Canal Grande, il giardino Dario e la cupola della Salute, luogo ineguagliato del ritorno. “Parto per
ritornare”: una frase-chiave, simbolica
che Duse ripete. Perché il ritorno dà
senso compiuto all’andare.
Mimma De Leo
Curriculum Vitae di Mimma De Leo
Mimma De Leo scrive da anni di Storia delle donne. Ha pubblicato, tra gli
altri, una biografia di Olympe de Gouges, Le Donne in Italia (2 voll.), sui
diritti civili, politici, l’educazione e istruzione delle donne. Entro l’anno
uscirà una sua biografia di Eleonora Duse.
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
11
L’ARCHITETTURA
DEI GIARDINI
Il giardino delle donne
S
e vi capita di fare una gita
ed arrivare a Vignanello
certamente non rimarrete
delusi. Il paese sorge ad est
dei Monti Cimini, a 18 km
da Viterbo. Come tutti gli altri Paesi
della Comunità montana dei Monti
Cimini, Vignanello si distingue per
la sua produzione agricola di prodotti tipici di queste bellissime zone
del Viterbese, in particolare vanta
un ottimo vino: la produzione migliora costantemente e ci offre la
possibilità di acquistare un vino interamente prodotto con uve locali e
lavorato sul luogo. Inoltre le nocciole sono un vanto di questo paese e
poi le castagne ed altro ancora. Il
paesaggio è verde, dai Monti Cimini
lo sguardo si perde sulle colline verdi, sui vitigni con filari ordinati e curati da piccoli produttori locali che
amano questa terra più di ogni altra
cosa.
L’amore per la campagna forse è il
primo sentimento che si percepisce
arrivando a Vignanello. Così almeno
è stato per me, romana doc, che ha
deciso, ormai più di 10 anni fa, di lasciare la sua amatissima Roma per
queste colline.
Ma Vignanello non è solo campagna.
La piazza principale del paese è un
teatro, dove il palcoscenico è dominato da un castello del XVI secolo, perfettamente conservato, con il suo ponte levatoio, i suoi quattro bastioni e la
merlatura ghibellina che imprime alla
dimora un carattere di fortezza. Lentamente, si scopre la storia del borgo
e si rivive la cultura che qui è stata
forte dai Farnese fino al diciottesimo
secolo, facendo di questo borgo agricolo un centro importante, tanto da
ospitare un Papa (Benedetto XIII) ed
un giovane Haendel in viaggio in Italia (1707/1709) ospite del Marchese
Francesco Maria Ruspoli.
Non potete non rimanere affascinati
quando, entrando dall’atrio del Castello Ruspoli di Vignanello lo sguardo si posa sul verde giardino che si
apre sul lato est del castello. Lo si scopre lentamente. Man mano che vi av-
vicinate all’altro ponte levatoio si intravede il verde e poi, uscendo, lo
splendido parterre rinascimentale si
offre alla vista del visitatore; un
“ooh” di stupore è l’espressione più
comune che ho sentito durante questi
miei anni passati al castello accompagnando gruppi di visitatori che arrivano da tutto il mondo.
E sì, perché il giardino del Castello
Ruspoli è un giardino storico, all’italiana, perfettamente conservato come
lo volle allora, nel 1610, la sua creatrice Ottavia Orsini, figlia di Giulia Farnese e di Vicino Orsini, cresciuta a Bomarzo, altro famoso giardino.
Il parterre è formato da dodici aiuole
miste di bosso, lauroceraso, viburno,
timo e mirto che formano dei disegni
sempre uguali nel tempo; le due aiuole centrali riportano il monogramma
di Ottavia Orsini e quello dei suoi figli maschi (Sforza e Galeazzo) a cui
questo magnifico giardino è dedicato.
Ai quattro angoli di ogni aiuola i bellissimi limoni in vaso spezzano l’incantesimo monocromatico del verde
Il pirotecnico Handel
a Vignanello
Il giovane Handel visse quasi due anni tra Roma e Vignanello, quale ospite
del Marchese Francesco Maria Ruspoli che fu suo patrono e mecenate.
I
n uno straordinario articolo,
pubblicato nel 1967 la Professoressa Ursula Kirkendale , che
ha studiato a fondo il periodo
italiano di Handel, ha potuto
ricostruire con abbondanti documenti dell’Archivio Segreto Vaticano
ogni dettaglio dell’attività del giovane musicista per il Marchese, poi
Principe Francesco Maria Ruspoli,
sia nel palazzo di Roma (oggi sede
della Provincia) sia a Vignanello; attività attestata dalle fatture e dalle ricevute dei musici, dei copisti, dei
cartolai, dello stampatore dei libretti,
fino al letto noleggiato per il compositore e all’enorme quantità nonché
alla qualità di cibi da lui consumati.
In soli due mesi per esempio, fu spesa per questi una somma equivalente a quanto il contrabbassista guadagnò in quattro anni.
A Vignanello, Ruspoli fece comporre
da Handel mottetti festivi, che furono poi eseguiti alla presenza di Cardinali e Principi per il 475esimo anniversario della canonizzazione di
12
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
San Antonio da Padova.
Che in Vignanello Handel abbia composto anche la sua “Armida Abbandonata” sicuramente non fu noto a
J.S.Bach quando copiò di propria mano questa geniale opera giovanile.
Fu nel palazzo romano che Handel
non solo compose molte cantate, ma
fece eseguire tra il 1707 e 1709, la metà
delle sue circa 100 cantate italiane. Tra
l’altro il “Gloria” per soprano due violini e basso continuo, fu commissionato dal Marchese nel 1707, e fu eseguito a Vignanello durante una celebrazione liturgica. Questo brano, straordinario per qualità musicale, si inserisce fra i migliori lavori sacri del giovane Handel.
Nel 2002 il Festival Barocco di Viterbo
ha già portato a Vignanello un concerto di musiche di Handel con spettacolo pirotecnico in stile barocco. In quell’occasione, per la prima volta, la famiglia Ruspoli ha aperto al pubblico il
parco del Castello ed è stato un successo immediato con una presenza di
pubblico ben maggiore di quella pre-
vista. Nel 2007, per il tricentenario
della presenza di Handel a Vignanello, il Festival Barocco di Viterbo
ha presentato nel Parco del Castello
Ruspoli, un concerto eseguito dalla
“Accademia Bizantina” con musiche
di Handel accompagnate da fuochi
d’artificio.
Quest’iniziativa ha permesso di avviare una serie di progetti a livello
internazionale; la principessa Claudia Ruspoli ha contattato le fondazioni Handeliane negli Stati Uniti,
Inghilterra e soprattutto ha stretto
rapporti con il Festival Handeliano
di Halle (città natale del musicista) in
Germania dove, per festeggiare i trecento anni di Handel in Italia, è stata
invitata come madrina per l’apertura
del loro prestigioso festival.
Queste collaborazioni portano sempre di più una nuova dimensione alla Provincia di Viterbo e tendono ad
incoraggiare e ad attirare un turismo
che desidera scoprire l’affascinante
storia e bellezza della nostra meravigliosa Tuscia.
con un tocco di giallo intenso.
Da centinaia di anni è rimasto immutato e questo lo rende unico al mondo, le mode non lo hanno scalfito. Oggi è curato con amore e grande passione dal Signor Santino Garbuglia.
Il Castello Ruspoli è interamente privato, appartiene a Donna Claudia e
Giada Ruspoli.
In realtà la sua storia ci dimostra che
è sempre appartenuto alla stessa famiglia dal 1531, anno in cui fu costruito per volontà di Beatrice Farnese e di sua figlia Ortensia, nipote di
Papa Paolo III, che a loro regalò il feudo di Vignanello. Con il matrimonio
tra il figlio di Ottavia Orsini, Sforza
Marescotti, e Vittoria Ruspoli di Siena, il nome del casato divenne in primo ramo Ruspoli e fino ad oggi la dimora appartiene alla stessa famiglia.
Analizzando tutte le fasi storiche di
questa dimora e del suo bellissimo
giardino si delinea la forza e la volontà delle donne della famiglia a
mantenere e migliorare sempre la
proprietà. Progettato dal San Gallo ed
ingentilito dal Vignola, il giardino fu
un desiderio di Ottavia Orsini, il nome della famiglia Ruspoli fu dato da
una donna, Vittoria, e oggi si può visitare questa dimora per volontà
delle due proprietarie, che lo hanno
aperto al pubblico.
Bene se vi è venuta voglia di passare per Vignanello non esitate a fermarvi nel silenzio di questo magnifico giardino, ascoltate il fruscio dell’acqua della bellissima peschiera in
peperino che si trova al centro del
giardino, ammirate la fioritura di
rose del giardino segreto, e visitate
la storia…
Vi aspetto
Maria Gabriella Santarelli
Il Castello è aperto tutte le domeniche e festivi da Aprile a Ottobre.
Per prenotazioni o informazioni
potete contattare il numero 0761755 338 oppure scrivere una mail a
[email protected]
Accenno Storico sul
Giardino Rinascimentale
“...il giardino poco conosciuto del castello Ruspoli
a Vignanello possiede il piu’ bel parterre d’Italia…” (Georgina Masson, Italian Gardens)
N
ell’853, quando Vignanello era parte dello
stato Pontificio, venne
edificata la rocca dai
frati Benedettini. La
prima feudataria di Vignanello fu
Beatrice Farnese nel 1531. Nel 1536
Papa Paolo III Farnese confermò, alla
morte di Beatrice, la discendenza alla
figlia Ortensia, sposata a Sforza Marescotti. Il castello subì una trasformazione secondo gli schemi architettonici ghibellini, su disegno del Sangallo.
Il castello allo stato attuale e’ come lo
volle nel 1610 Ottavia Orsini, moglie
di Marc’Antonio Marescotti, figlia di
Vicino Orsini creatore del suggestivo
giardino di Bomarzo.
Nel 1704 il castello prende il nome di
Ruspoli, con l’obbligo di tramandare
il nome. Questo giardino e’ da considerarsi uno dei piu’ bei parterre esistente in Italia. Seppur creato nel ‘600
ha mantenuto sino ad oggi la sua
struttura originaria: lo spazio perfettamente rettangolare e’ attraversato da
quattro viali, suddiviso in dodici parterre di bosso allineati, squadrati e
compatti. Il giardino ha la nitidezza e
perfezione di un disegno geometrico,
al centro della piana si adagia una
grande vasca recinta da quattro arcate
di balaustre. Originariamente salvia e
rosmarino creavano le linee geometriche: oggi e’ il bosso a scandire queste
storiche geometrie. La castellana Ottavia ha lasciato una traccia indelebile
del suo amore per questo giardino:
l’incisione delle proprie iniziali e di
quelle dei suoi figli Sforza e Galeazzo,
permettendo così la datazione certa
della nascita del giardino.
L’eleganza e la sofisticata bellezza riflettono lo stile e la moda del periodo
rinascimentale italiano.
L’ARCHITETTURA
DEI GIARDINI
Il saluto del Presidente
I
n nome dell’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli
mi corre l’obbligo di salutare
tutti i convenuti: autorità, studiosi, esperti e tutti coloro che
sono qui perché interessati a vario titolo. Come Associazione Orioli siamo orgogliosi di aver sostenuto questo Convegno di studi e ringrazio la
dottoressa Sabine Frommel e il dottor Andrea Alessi, i quali mi hanno
offerto questa possibilità che rientra
nei compiti istituzionali della nostra
Associazione. Dirò in breve quello che
penso da semplice interessato al “Parco dei Mostri”: innanzitutto non sono
d’accordo con chi lo ha definito, in
modo moderno, “Jurassic Park”. Personalmente preferisco citarlo come
“Bosco Sacro”, dove sacro sia inteso
per ciò “che suscita sentimento di stupore”, che serve a stordire come un
possibile stupefacente visivo. Questo
parco assomiglia, a mio modesto parere, ad un percorso onirico, come intuì
Salvator Dalì. Il bosco, così come è oggi, deve essere cresciuto pian piano
nella mente dell’Orsini, che lo perfezionava osservandolo rimpicciolito,
per la distanza, dalle finestre di questo castello. Era la proiezione di un sogno ad occhi aperti, una sua personale follia e una sua salutare evasione.
Scusandomi per questa mia escursione nel “sacro” del bosco, prima di lasciare la parola alla dottoressa Sabine
Frommel, vorrei narrarvi di un altro
sogno, questa volta di legno intarsiato, sonoro, che fa da cassa acustica ad
un organo monumentale. L’organo,
che si trova in un altro luogo sacro, e
cioè nella secentesca chiesa di Santa
Maria del Ruscello a Vallerano, resta
muto da decenni a causa di mancanza
di fondi per il restauro. Questo divino
strumento, secondo la maggiore studiosa di Handel, Ursula Kirkendale, è
stato suonato dal Maestro durante il
suo soggiorno presso i Ruspoli di Vignanello nel 1706.
Forse ho abusato della vostra cortesia per parlare anche di questo piccolo sogno: riuscire a sentire di nuovo
suonare questa preziosa opera d’arte. Chi, come noi, opera per la promozione culturale e per la tutela del
nostro patrimonio storico, artistico e
culturale, sa che niente deve essere
lasciato intentato al fine di salvaguardare lo stesso patrimonio dal
degrado e dall’abbandono.
Grazie dell’attenzione
Ludovico Pacelli
Il sacro bosco di Bomarzo
I
l giardino di Bomarzo, studiato in
un recente convegno internazionale di studi a cura di Sabine
Frommel con la collaborazione di
Andrea Alessi (settembre 2007)
oggi ribattezzato “Parco dei Mostri”,
era conosciuto nel 500 come il “boschetto”, benché in un’epigrafe nel
giardino lo definisca “Sacro Bosco”. Il
nome odierno gli deriva dalle numerose sculture mostruose che popolano il
suo terreno collinoso, a cui si accostano architetture originali e sorprendenti. Il parco, con tutta la sua fantastica
fauna lapidea, fu voluto e forse ideato
da Pier Francesco Orsini (1523-1585),
detto Vicino come il bisnonno; egli
aveva ereditato il borgo di Bomarzo
nel 1542, dopo una lunga controversia
ereditaria risoltasi solo grazie all’intervento del card. Alessandro Farnese. Il
giardino prese forma lentamente a
partire da una data forse anteriore all’anno 1552 (testimoniato da un’epigrafe del parco), per terminare negli
anni ’80 del ‘500 con la morte del committente; eppure non è certo se il giardino a quella data fosse concluso poiché l’Orsini, come emerge dal suo epistolario, apportò durante gli ultimi decenni della sua vita continue modifiche ed aggiunte, rendendolo così un
vero e proprio work in progress. Egli si
servì di maestranze toscane e di più
artisti talentati, di cui però ci rimane
solo un nome certo: lo scultore ed ar-
chitetto Simone Moschino, la cui personalità attende ancora di essere approfondita.
Il signore di Bomarzo si dedicò intensamente alla creazione del parco soprattutto dal 1560 (data della morte
della moglie Giulia Farnese, alla cui
memoria innalzò il Tempietto), trascorrendovi gran parte del proprio
tempo nella speranza di allontanare con feste, banchetti, letture avvincenti
e frequentazioni ora amorose, ora intellettuali - l’acuta depressione (“umor
nero”) di cui soffriva. Vicino fu condottiero, poeta ed erudito; personaggio eclettico dall’intelletto vivace e
dalla personalità eccentrica. In quanto
uomo d’armi è probabile che lo stato
d’animo malinconico gli derivasse dalle orribili esperienze di guerra (soprattutto la strage di Montefortino del ’57);
in quanto uomo di lettere è quasi certo
che sia stato proprio lui a concepire
tanto le iscrizioni disseminate nel giardino, quanto le varie statue allegoriche.
Le sculture e le epigrafi riflettono infatti la duplice natura del suo committente: da un lato vi è la celebrazione
dei piaceri, della vita pastorale, dell’otium; dall’altro vi è la continua allusione alla morte, evocata da architetture
funerarie (ad es. la falsa tomba etrusca
e il Tempietto) e da mostruose figure
simboliche appartiene all’Orsini, come
si può rilevare soprattutto dalle lettere
scritte al suo amico Giovanni Drouet.
In tali epistole il pessimismo esistenziale e lo spirito autolesionistico del
nobile si mescolano alla
sua pungente vis comica,
espressa sovente in battute licenziose e irriverenti; ciò trova un puntuale corrispettivo nel
giardino stesso, dove si
trovano figure e composizioni spesso triviali e sfrontate. Se nel
‘500 il “boschetto” di
Bomarzo era piuttosto
conosciuto, nei secoli
successivi esso cadde
quasi completamente
nell’oblio; a parte
qualche acquerello
seicentesco del pittore
Bartholomeus
Breemberg (16201660), raffigurante
vedute del borgo e
del giardino, ed un
fugace accenno al
parco in un libercolo ottocentesco dello storico locale
Luigi Vittori, il
“Sacro
Bosco”
sembra essere stato dimenticato fino al XX secolo. Nella primo terzo del
‘900 vi furono altre rare menzioni del
giardino in scritti critici o letterari, ma
fu intorno agli anni ’40 del secolo che
avvenne la “riscoperta” del giardino
stesso ad opera di Salvador Dalì. Il celebre pittore, informato dell’esistenza
del parco dallo scrittore Maurice Sandoz o forse da un amico del pittore
russo Andrea Belobodoroff, fu subito
conquistato dalla dimensione onirica
di Bomarzo: non solo egli rappresentò
elementi del giardino in alcune sue tele, ma divenne il principale divulgatore del “boschetto”, organizzando intorno ad esso un’efficace propaganda
mediatica (vi girò anche un cortometraggio).
Il giardino infatti nacque - come dimostrano iscrizioni e lettere private dell’Orsini - come creazione volutamente
“ambigua” ed oscura, fondata sul
principio del serio ludere (giocare seriamente, ossia nascondere dietro i velamenti del gioco e dello scherzo alcuni importanti messaggi filosofici); e se
fu precisa volontà del committente
mettere in difficoltà intellettuale i visitatori dell’epoca (è egli stesso a parlare
di “balordi” che per ignoranza si meravigliano delle sue invenzioni senza
comprenderle), è a maggior ragione
ampiamente giustificata la difficoltà
degli studiosi odierni a decifrare le
criptiche simbologie del giardino. E’
quindi innegabile l’esistenza di un significato unificante, da legare non solo
alle epigrafi del parco, ma sicuramente anche a quelle presenti nella terrazza di Palazzo Orsini rivolta al giardino
stesso, non a caso realizzata proprio da
Vicino. Sono altresì ormai evidenti i
numerosi riferimenti alla cultura antica (si vedano le varie creature mitologiche di ispirazione classica) e alla letteratura rinascimentale. Sono state
inoltre messe di volta in volta in evi-
denza le probabili relazioni di Bomarzo con il linguaggio degli emblemi e
dei geroglifici, con l’imagerie araldica
e con quella delle grottesche, con il
mondo delle favole e con la filosofia ermetica;
nonché con l’arte etrusca (conosciuta dalle numerose tombe
della zona e citata fedelmente nel
falso
sepolcro
etrusco diroccato,
a metà tra il divertissment ed il falso
storico), con i resoconti di viaggi in
terre esotiche (da
cui si è da tempo
supposta
un’influenza orientale
sulle creazioni scultoree) e con la tradizione delle feste e
degli apparati effimeri. La quantità dei
manufatti contenuti
nel parco e la varietà
dei nessi culturali sottilmente allusi ha
spinto molti studiosi a
paragonare il “Sacro Bosco” ad una
sorta di raccolta museale, quasi una
Wunderkammer all’aperto; e per gli
stessi motivi questo fantastico giardino è stato spesso accostato a Villa
Adriana a Tivoli, così come Vicino Orsini all’imperatore Adriano: infatti, co-
me l’antica villa tiburtina era originariamente gremita di numerose e meravigliose opere, così il giardino bomarziano, nel suo piccolo, è decorato dalle
sue sculture ed architetture che sembrano imitare con ingegno e fantasia
una collezione d’arte che il signore di
Bomarzo non poteva permettersi; ed
allo stesso modo, come l’imperatore fu
committente, proprietario e probabile
ideatore della sua magnifica residenza, così lo fu altrettanto l’Orsini, visceralmente appassionato del suo “boschetto”. Purtroppo il giardino ha subito nel tempo non pochi danneggiamenti a causa dei secoli di abbandono
e trascuratezza (alcune foto mostrano
addirittura pastori locali che portavano le loro pecore lì a pascolare); a causa dell’esposizione alle intemperie e a
calamità naturali come terremoti (si
tenga conto che tutte le sculture e le architetture sono di friabile peperino) e a
causa di probabili atti di vandalismo e
trafugamenti (mancano tutte le statue
della Fontana del Pegaso e chissà quali altre opere). L’acquisto del parco da
parte di Bettini fu per lo più una benedizione poiché grazie ad una campagna di restauro finanziata dal nuovo
proprietario, il giardino fu in gran parte salvato. Nel convegno sono state
analizzate anche la semantica, l’iconografia, l’iconologia, che coadiuvate dal
prezioso apporto di archeologi e antichisti sono stati messi in luce i riferimenti al mondo romano, etrusco e/o
egizio di alcune creazioni artistiche del
parco, nonché i precedenti classici della sua concezione generale.
Ricerca e sublimazione
E
d ecco il giardino! La sua
percezione è sentita già
dall’interno della residenza. Spazio privato, che attraversando finestre e porte si spande al di fuori delle mura
per diventare lo spazio del sogno,
della meraviglia: il luogo dove l’uomo congiunge la terra al cielo. Il giardino diviene così, dimora filosofica.
Due giardini contrapposti fin dalla
loro ideazione, nati con un senso
estetico diverso ma con lo stesso intendimento artistico, e soprattutto
con lo stesso fine: stupire e impressionare l’animo del visitatore.
Uno rigorosamente geometrico rispondente a tutti i classici dettami
del giardino all’italiana rinascimen-
tale: elegante e sofisticato, dove lo
spazio rettangolare è suddiviso da 4
viali prospettici per individuare le
12 parterres con rigoroso disegno
studiato sia nelle forme che nella
scelta delle essenze.
L’altro barocco, rappresentazione
dello spazio infinito e delle sorprese,
dove la voluta casualità dell’intreccio tra architettura e natura, dà vita
ad una continua scoperta, lascia ampio spazio all’immaginazione e alla
sorpresa.
Il luogo dove la natura ritrova la sua
forma primitiva, coniugandosi e a
volte confondendosi con lo spazio
costruito, con l’architettura. Natura
cornice scenografica e suggestiva
del costruito, il tutto per creare stupore e meraviglia, capace di evocare
atmosfere da sogno, di suscitare
pathos alla parte più sensibile e
profonda dell’animo umano.
I due giardini sono manifestazione
dell’intima volontà dell’uomo di
una continua ricerca del gioco, del
mistero, dell’incredibile, condizione
unica e indispensabile per attraversare la vita sulle ali del sogno, ché
solo grazie ad esso l’essere umano si
trasforma in divino.
Antonietta Stefania Iurescia
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
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INSERTO TUSCIA
ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia
W la Tuscia: Vignanello, Vallerano e...
VIGNANELLO
T
uscia: brano d’Italia, nel
quale storia, arte e tradizioni creano atmosfere incantate, misteriose, senza tempo.
Pur se ad ogni angolo della
nazione si attaglia la denominazione
“Museo all’aria aperta”, poche realtà,
come la Tuscia, conservano vestigia
etrusche, romane, medievali, rinascimentali, barocche, neoclassiche, moderne. Tratti distinti, leggibili chiaramente; eppure amalgamati in un
“unicum” di suggestione particolare.
Metafisica. Connotazione, quest’ultima, non generalistica. Vignanello, Castello Ruspoli. Facciata principale, aggettante su piazza della Repubblica.
Da sempre, in chi scrive, quella facciata ha ricondotto alla memoria un
flash di fascino travolgente della storia dell’arte: il dipinto “Le Muse inquietanti” (1916) di Giorgio de Chirico. Nel quadro è il Castello Estense di
Ferrara a fungere da quinta ad una
rappresentazione onirica; nella luce
soffusa del crepuscolo avanzato, il
Castello Ruspoli, ammirato dalla
piazza antistante, comunica il medesimo senso di sospensione della costruzione ferrarese.
Sentimento rafforzato dalla fuga del
settecentesco Palazzo con gli archi, a
sinistra, e da quella, più dimessa, dell’antico Palazzo pretoriale seicentesco, sul lato opposto. Fantasia, sensa-
zioni metafisiche, sogni. Il Castello Ruspoli, però, non fonda la peculiarità
della sua presenza soltanto sull’aura di
magia, che lo ammanta. La merlatura
ghibellina, lo slancio vistuosistico dei
bastioni angolari, il fossato, il celebrato
Giardino di verdura ( o all’italiana, rinascimentale, storico), impreziosito da
intagli armonici nelle siepi di mirto e di
bosso e dalla peschiera del Vignola, il
Giardino segreto, il respiro vegetale del
Barchetto e del Barco; inoltre: la sontuosità degli appartamenti del piano
nobile, le segrete e, non ultima di certo,
la Cappella di Santa Giacinta Marescotti: tessere diverse di un mosaico
stupefacente di bellezza, monumentalità, natura. E storia. La vita del castello inizia nel IX secolo: nell’853 un gruppo di monaci benedettini costruisce un
convento-fortezza, trasformato in seguito, raso al suolo dai Viterbesi nel
1228. Nei secoli successivi famiglie importanti governano il paese, legando la
propria presenza al castello: Nardini,
Orsini, Borgia, Aldobrandini; quindi i
Farnese, con Beatrice e Ortensia, che,
forse su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, conferiscono al castello
l’aspetto che conserva tuttora. Con i
Marescotti e i Ruspoli il feudo di Vignanello e la sua costruzione emblematica entrano nella storia più recente.
Foto di Maria Orioli
Nicola Piermartini
VALLERANO
A
ccarezzato dai raggi timidi del sole mattutino;
affogato nella cascata di
luce del meriggio; imperlato dalla penombra
del crepuscolo; oppure baluginante
di fiaccole tremule nella sera della ricorrenza del miracolo: il Santuario
della Madonna del Ruscello, osservato dal piazzale antistante, comunica un medesimo senso di levità, di
magia, di apparizione eterea. “
MDCV INCEPTUM – MDCIX ABSOLUTUM” : iniziato nel 1605, terminato nel 1609. Date impresse al di
sopra dell’ingresso principale della
chiesa, scaturita dallo slancio di fede
popolare in seguito ad un miracolo.
L’anno precedente l’inizio dei lavori
di costruzione: 1604, mattinata del 5
luglio. Aveva necessità assoluta di
restauro un dipinto, Madonna col
Bambino, custodito in un’edicola situata nel luogo, dove poi è sorta la
chiesa: luogo rinfrescato dalle acque
cristalline di un ruscello. Avevano
deturpato il dipinto in maniera
preoccupante i fasci di legna, che le
14
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
donne, di ritorno dalla campagna, appoggiavano all’interno della cappelletta. Quel 5 luglio il pittore valleranese Stefano Menicucci si accingeva alla
paziente opera di restauro: i graffi erano profondi. Incombenza preliminare:
riempire quei solchi. Uno, evidente,
attraversava le labbra della Vergine
Maria. L’artista incominciò a depositarvi la cera con un bastoncino. Fu l’u-
nico intervento di restauro: dalle labbra della Madonna sgorgò un rivolo
di sangue.
Fotogrammi delle vicende successive:
il dipinto diventa meta di pellegrinaggi, frequenti e numerosi in misura
sempre crescente; copiose giungono le
offerte; il Pontefice concede l’indulgenza plenaria a chiunque farà visita
all’immagine sacra nella seconda do-
menica d’agosto; nel piazzale è istituita una fiera; le cascine ai lati del piazzale, fresche di ristrutturazione oggi,
erano botteghe. Nel marzo 1605 iniziano i lavori di costruzione della
chiesa. Miracolo anch’essa, edificata
su progetto del Vignola. Miracolo di
religiosità e arte. A cominciare dal
portale ligneo, impreziosito da sculture riproducenti episodi della vita del-
la Vergine e le figure di San Vittore e
Sant’Andrea. La facciata, armonia di
un barocco leggero, introduce in un
trionfo di stucchi policromi, che incorniciano capolavori di varie arti.
Qualche accenno soltanto, per non
affievolire lo stupore della scoperta:
opere pittoriche di Lanfranco, Pomarancio, Vandi; equilibrio di volumi,
di linee e marmi dell’altare maggiore, che custodisce il dipinto miracoloso: ancora visibile perfettamente la
traccia di sangue; organo e cantoria
lignei, seicenteschi, traboccanti di
sculture e intagli di maestria rara.
Testimonianze vive di secoli andati,
alle quali sono state accostati, di recente, due dipinti di Silvio Gregori,
illustratore notissimo di Famiglia
Cristiana. Nel marzo del 1993 la Madonna del Rusce3llo è stata nominata Patrona dei donatori di sangue
del Lazio dalla Conferenza Episcopale Italiana. Suggestiva la cerimonia alla presenza del cardinale Camillo Ruini.
Nicola Piermartini
INSERTO TUSCIA
ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia
Antonio Canova e la Tuscia
Quando arrivò per la
prima volta a Roma, il 4
novembre 1779, Antonio Canova aveva 22
anni ed era uno scultore
che aveva già dato prova di sicuro talento ma che era noto
solo nell’ambiente di Venezia. Qui
aveva avuto la protezione del nobile
Giovanni Falier, che gli aveva affidato la scultura del gruppo di Dedalo
ed Icaro, ora al Museo Correr di Venezia. Inoltre proprio Falier lo aveva
introdotto a Roma raccomandandolo
all’ambasciatore di Venezia Girolamo Zulian, che per tutto il tempo del
soggiorno di Canova in città lo ospiterà nella sua residenza di Palazzo
Venezia. Durante questo soggiorno
romano Canova strinse quelle importanti relazioni artistiche, culturali
e politiche, soprattutto nell’ambito
della comunità veneta, che gli consentirono subito dopo di trasferirsi
stabilmente a Roma.
Tornato infatti a Venezia nel giugno
del 1780, vi si trattenne solo i pochi
Il Lazio, e con esso anche Viterbo e la
Tuscia, ha assistito per interi secoli a
un fenomeno singolare. Il Lazio infatti e stato ininterrottamente attraversato da un flusso sterminato di viaggiatori e pellegrini diretti a Roma o di ritorno dalla Città eterna; ma da essi è
sempre stato poco visto, trascurato,
considerato a volte come inesistente.
Prima dell’avvento della ferrovia, per
i viaggiatori provenienti da Nord l’itinerario verso Roma prevedeva sostanzialmente due strade. Si poteva
percorrere la Via Cassia, lungo la direttrice Bologna, Firenze, Siena, Radicofani, Bolsena, Montefiascone, Viterbo, Ronciglione. O si poteva percorrere la costa adriatica, lungo la direttrice
Bologna, Rimini, Pesaro, Foligno, Spoleto, Terni, Civita Castellana. Nella
realtà i viaggiatori seguivano entrambi gli itinerari, scegliendone uno per
l’andata ed uno per il ritorno. Entrambi, come si vede, passano per la Tuscia; il primo anzi la attraversa completamente. Dunque tutti i viaggiatori
passano per il nostro territorio. Ma solo pochi di essi lo osservano e lo descrivono nei loro racconti di viaggio. E
pochissimi davvero vi si fermano e lo
visitano con una certa attenzione. Nelle 500 pagine del mio libro Viaggiatori
ruolo delle opere letterarie che agiscono sul suo immaginario e quindi nelle
sue aspettative e sulle sue curiosità
(ruolo oggi forse molto meno forte che
nel passato, ma degnamente sostituito
dal cinema – quanto, durante un viaggio negli USA, i nostri occhi sono condizionali dai western nella visione dei
paesaggi naturali, o dai film di Woody
Allen in quella dei paesaggi metropolitani?).
Questo stato di cose è efficacemente
simboleggiato nel motivo del “deser-
giardino di Armida, posta fra la desolazione del paesaggio dopo Radicofani e lo squallore e la solitudine della
campagna romana: «Arrivato dopo
tre ore di cammino di monte in monte, di roccia in roccia, alla cime scoscesa di Radicofani, ho trovato il caos, il
deserto, il silenzio: era notte. Ma il
giorno dopo, scendendo verso Ronciglione, ho trovato l’aurora, il canto
dell’usignolo, il primo ramo di biancospino fiorito, le valli coperte di vegetazione, il famoso lago Trasimeno e
passata la qualle arivassimo a San
Lorenzo Nuovo, loco deliziosissimo
fabricato nella somità d’una colina,
in modo ottangolare, con una bellissima Piaza, nel mezo della qualle si
scuopre il Lago di Bolsena. Sesimo la
montagna e, dietro la sponda del lago, giunsimo a Bolsena, castello ove
si siamo fermati a cena e dormire».
Il giorno seguente Canova passa per
Viterbo. Vi fa una breve sosta, giusto
per il pranzo in qualcuna delle locande o delle stazioni di posta che
scandivano il percorso dei viaggi anteriori all’età ferroviaria. E tuttavia
trova il tempo per guardarsi introno,
compiendo una rapidissima visita
almeno di qualcuno dei luoghi canonici della città, indicati dalle guide
come irrinunciabile: in primo luogo
il corpo di santa Rosa e poi le fontane cittadine, che sono menzionate
non solo nelle guide italiane ma anche in quelle inglesi scritte per quei
giovani nobili e ricchi che completavano la loro formazione facendo il
Grand Tour in Europa ed approdando infine in Italia e a Roma. Il corpo
di santa Rosa lo colpisce particolarmente e gli fa fare un confronto con i
resti intatti di un’altra santa che aveva avuto modo di vedere a Bologna,
mesi necessari per mettere a posto le
sue cose. Già nel 1781 si era stabilito
definitivamente a Roma avviando
quella straordinaria carriera artistica
che gli darà fama internazionale e
che farà della sua scultura la principale espressione del Neoclassicismo
europeo. Legato agli ambienti artistici e culturali gravitanti intorno al
nuovo classicismo di Pio VI, lasciò
Roma nel 1797 per non dover giurare fedeltà ai francesi e vi tornò solo
alla fine del 1799.
Ho ricordato la prima venuta di Canova a Roma, perchè Viterbo gioca
un ruolo di notevole interesse nel resoconto del viaggio scritto dallo
scultore e lasciato inedito fra le sue
carte. Ed è un ruolo che, proprio partendo da questi due rozzi quadernetti in cui il diario di Canova si è conservato, può aiutarci a riflettere su
fenomeni dai quali la Tuscia viene
investita oggi, a duecentotrenta anni
di distanza. La creazione dell’aeroporto è una grande opportunità per
il territorio, per la sua economia, per
il turismo. Ma è un’opportunità che
va potenziata anche nella sua dimensione culturale, nella capacità di rendere visibile la Tuscia agli occhi di
viaggiatori “in transito”, necessariamente frettolosi e mossi da stimoli
che hanno il loro centro fuori del nostro territorio. Il viaggiatore vede solo ciò che gli appare visibile e comprensibile, interessante, capace di suscitare stimoli intellettuali, curiosità
ed emozioni. L’esempio del massimo
esponente del Neoclassicismo, che in
età giovanile riesce a cogliere la bellezza di manufatti medievali, va meditato. Altrimenti il transito attraverso il territorio avviene come ad occhi
chiusi e il viaggiatore prosegue oltre.
nel Lazio. Fonti italiane e nel catalogo di
più di mille testi di viaggio nel Lazio
del solo Ottocento lì raccolto, le opere
dedicate a Viterbo e alla Tuscia sono in
numero relativamente basso. Certamente, non tenendo conto del numero
straboccante di scritti dedicati a Roma, la Tuscia e Viterbo occupano,
quanto a numero di opere, il terzo posto, dopo i Castelli Romani e Tivoli,
luoghi più vicini a Roma e perciò più
appetibili dai viaggiatori. Insomma
nel quadro disastroso delle scritture di
viaggio riferite al Lazio, Viterbo non
sta troppo male. Ma il quadro resta disastroso per il Lazio nel suo insieme
come per la Tuscia.
Le ragioni di questa disattenzione dei
viaggiatori, durata per secoli e di cui
ancora oggi il Lazio fa le spese, sono
molte e complesse. La tensione emotiva verso Roma, la meta ultima del
viaggio, da parte del viaggiatore italiano e straniero faceva affrettare il
percorso verso questa città, riducendo
la durata delle tappe intermedie necessarie nei viaggi in carrozza o in diligenza al semplice riposo notturno, al
posto in locanda, al cambio di cavalli
nella stazione di posta. C’era insomma poco tempo per guardarsi intorno
e c’era poca curiosità di vedere luoghi
e ambienti, persone e monumenti, che
non avevano goduto di una particolare attenzione da parte delle guide turistiche. E, nel presente come nel passato, i “viaggiatori di scoperta”, che
vanno alla ricerca di luoghi nuovi e di
inusuali oggetti da vedere, sono sempre pochi. In generale il viaggiatore
vede e osserva ciò che le guide turistiche, gli scritti di altri viaggiatori, il
passa-parola, gli indicano o gli suggeriscono come degno di essere visto. A
questo va inoltre aggiunto l’enorme
to” che circonda Roma; motivo più o
meno pesante nei testi di viaggio, ma
pressoché onnipresente. Esso certo
rinvia alla reale situazione della Campagna Romana, alla malaria che vi imperversa fino a dopo l’Unità, allo spopolamento, alla scarsità delle culture e
delle abitazioni. E tuttavia il “deserto”
indica anche il vuoto, l’assenza di richiami di interesse, la percezione che
non ci sia niente davvero meritevole
di essere visto. Il motivo è talmente
diffuso ed insistente, da diventare oggetto di valutazione positiva, in un’ottica provvidenzialistica, da parte di
scrittori-viaggiatori cattolici, dal francese Chateaubriand (che parla di “deserto d’Arabia che circonda Roma) fino allo scrittore romantico napoletano
Cesare Malpica, vissuto a metà dell’ottocento e giustamente bistrattato
come pessimo poeta dal grande Francesco De Sanctis.
Certamente l’estensione di questo deserto laziale, proprio per il suo contare più come elemento dell’immaginario che non come elemento concreto
del paesaggio, appare elastica e gli
ambiti in cui si estende il deserto appaiono mutevoli nel tempo: il viaggiatore è colpito solo da quello che è disposto o sensibile ad osservare e gli
capita di ampliare o restringere i confini del deserto. Vittorio Alfieri, nella
Vita, parlando del suo viaggio a Roma
nel dicembre del 1766, sembra fa la
desolazione della campagna romana
da Viterbo («benché l’orridezza e miseria del paese da Viterbo in poi mi
avesse fortemente indisposto […]»).
Invece a Charles Dupaty, che attraversa lo stesso territorio circa vent’anni
dopo, nella primavera del 1785, nelle
sue Lettres sur l’Italie, Viterbo sembra
appartenere a un’isola verde e felice, il
Viterbo tutto in fiore. Poi, all’improvviso, con un nuovo contrasto, come se
si fossero attraversati i luoghi abitati
da Armida, sotto il più bel cielo, niente è più vivo, non vegeta niente; e di
lontano s’intravede Roma. Un momento dopo, non si vede più nulla»
Rispetto ai molti che non vedono e
scorgono solo il deserto, Canova, che
aveva fatto lo stesso percorso di Dupaty sei anni prima (e 13 anni dopo
Alfieri), a Viterbo guardava e si stupiva ammirato, pur avendo anche lui
come gli altri pochissimo tempo da
dedicare alla visita della città. Canova
stava andando a Roma in compagnia
del pittore francese Pierre Fontaine. E
vi si recava per studiare l’arte classica,
come egli risponde in questo diario alla domanda di un ammiratore olandese conosciuto in casa dell’ambasciatore di Venezia Zulian: «Io li risposi che
ero venuto per vedere Roma e per
istudiare; lui mi rispose che non debbo tralasciare di fare sempre opere
d’invenzione guardando già le regole
delle statue antiche». Il messaggio è
chiaro; l’ideale classicistico non deve
risolversi feticismo e in semplice imitazione dell’Antico.
Canova scrive nel suo italiano molto
zoppicante ed approssimativo (ma
l’uso oscillante delle doppie era una
caratteristica comune negli scriventi
di area settentrionale, anche in quelli
colti). E giustamente Stendhal ha scritto che lo scultore da giovane non conosceva l’ortografia; ma gli mancava
anche altro nella conoscenza della lingua scritta. Annota dunque Canova
nel suo diario:
«A 2 novembre 1799. San Quirico.
[...] Dopo il pranso si rimontò e doppo
avere passatto varie montagne, giunsimo ad Aqua Pendente picola città,
durante questo stesso viaggio. Si
tratta del corpo di Santa Caterina Vigri, una clarissa vissuta nel Quattrocento, conservato nel Santuario del
Corpus Domini. Importante è anche
l’apprezzamento delle fontane di Viterbo. La loro menzione nelle guide
turistiche può spiegare il fatto che
esse vengono osservate e che la loro
visione viene registrata in questi appunto. Ma l’apprezzamento per questi capolavori dell’arte medievale nasce dal carattere non esclusivo del
classicismo di Canova, capace anche
di cogliere la bellezza di ciò che non
è classico. Ed è una capacità che è
particolarmente evidente soprattutto
negli anni della formazione del grande scultore. In genere i viaggiatori di
rigida cultura classicistica non vedono le antichità medievali. Ed è stato
anche questo una degli ostacoli alla
presenza dei principali monumenti
di Viterbo nei resoconti di viaggio, fino all’affermazione del gusto romantico per il Medioevo e per le rovine
post-classiche.
Dopo la visita di Viterbo, Canova si
sposta a Ronciglione dove passa la
notte. Ricordo che Ronciglione era
una tappa obbligata per la stazione
di posta e la locanda. Una antica stazione di posta era anche su un costone del lago di Vico; ma essa appariva
solo come una rovina, venata di
un’aura di arcana malinconia, già ai
viaggiatori del primo ottocento. Scrive Canova:
«A 3 novembre 1779. Bolsena.
Si portassimo da Bolsena ad ore 10 e
giunsimo al castello Montefiascone
ove passassimo al di fuori, giunsimo
poi a desinare a Viterbo, città bellina
ove vidimo il corpo di Santa Rosa da
Viterbo intatta. Le Madri Monache,
Dedico questo testo a un carissimo
amico e collega, il compianto Franco
Lanza; modesto mio contributo a
mantenerne vivo il ricordo
Q
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
15
INSERTO TUSCIA
ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia
dopo aversela fatta vedere, si diedero a ciascheduno un cordone qual
contiene la mesura del corpo di detta Santa, e ancora poi benedetto. Si
dice anco che la santa fu morta di anni 18, e che il corpo è un pocco nero
per cagione che si abbriziò la casa et
anco la cassa dov’era riposta. Ma
non ostante è meno nera di Santa
Catterina di Bologna.
Abbiamo veduto per la città varie
Fontane bellissime.
Rimontassimo in calese per due miglia, uniti anco con un Frate Filipino
che si domandò di venire con noi sino
a Roma. Dopo dunque li due miglia,
io e Fontaine abbiamo caminato tutta
una montagna e anco tutto il bordo
d’un certo lago che vi era. Rimontassimo in calese e siamo arivati a Ronciglione città, si siamo misi a caminare
per il luogo che non è cativo. Vi è anco una belissima fontana; cenassimo
bene uniti al Filipino, degno religioso
un poco orbo, e gobo, e picolo. A 4 novembre 1799. Ronciglione.
Partissimo questa matina ad ore 9 e
giunssimo a pranzo alla osteria storta.
Si partissimo di là a ore 20 e giunsimo
in Roma alle 22, ove abbisognò di portarsi alla dogana».
Il fatto che queste annotazioni siano
molto scarne e schematiche non deve
trarre in inganno facendo pensare a
uno scarso rilievo dato dal viaggiatore
a ciò che ha visto. Anzi è vero esatta-
mente il contrario. In tutti i diari di
viaggio scritti durante il percorso, come è appunto questo di Canova, la
scrittura è sempre quasi stenografica,
fatta di velocissimi appunti che servivano al viaggiatore come promemoria. E spesso, come avviene appunto
anche in questi due quadernetti in cui
è steso il diario di Canova, la scrittura
si accompagna a schizzi di disegni che
sostituiscono una descrizione dei luoghi che avrebbe richiesto troppo tem-
po e troppo spazio. Solo le cose ritenute davvero importanti da ricordare vengono perciò annotate in questo
genere di testi. Le stesure ampie dei
resoconti di viaggio dati alle stampe,
la lunghe narrazioni, le descrizioni
precise, sono operazioni che vengono compiute, sulla base appunto di
questi materiali di altro tipo, solo
quando il viaggio è terminato.
Vincenzo De Caprio
Curriculum Vitae di Vincenzo De Caprio
Vincenzo De Caprio è professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università della Tuscia, dove è anche Presidente del Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio (CIRIV). Membro
ordinario dell’istituto nazionale di Studi Romani, fa parte anche della sua Giunta direttiva. Fa parte del Comitato Nazionale per la celebrazioni di Vincenzo Monti, di quello per le celebrazioni di Lorenzo Valla, di quello per l’edizione delle opera del Valla. È Presidente del Comitato Scientifico del premio letterario Città di Cassino: conoscere la guerra per preparare la pace. Ha creato e
dirige l’Archivio telematico dei Viaggiatori italiani nel Lazio (www.avirel.unitus.it). Dirige le collane: Effetto Roma (Edizioni Studi Romani); Il viaggio e la scrittura (Vecchiarelli Editore); Antica
terra (Edizioni Sette Città). Ha fondato e dirige, insieme a Marco Mancini e a Pietro Trifone, la rivista «Carte di viaggio». Fa parte del comitato scientifico della rivista «Studi Romani», della rivista italo-croata «Adriatico / Jadran», di «Annali d’Italianistica» dell’University of North Carolina. Fra le sue ultime pubblicazioni: Progetto Letteratura (7 voll. Einaudi Scuola, ultima ristampa 2008); Viaggiatori nel Lazio: fonti italiane (Istituto Nazionale Studi Romani, 2007).
La Via Francigena nella Tuscia
L
a città di Viterbo e tutto il
territorio della Tuscia ebbero un ruolo storico importantissimo nel pellegrinaggio del passato. Di questo
ruolo restano ancora grandi testimonianze costituite da memorie, edifici,
chiese.
Il tratto della Via Francigena che attraversa la Tuscia e che giunge sin
quasi alle porte di Roma aveva una
straordinaria importanza sul piano
religioso, così come su quello organizzativo per l’accoglienza e l’assistenza dei pellegrini. Esso, con un
percorso solo in parte coincidente
con la Via Cassia vecchia, si snodava
da Acquapendente a S. Lorenzo Vecchio (ora Nuovo), a Bolsena, a Montefiascone, all’antico Borgo di San
Valentino (che venne distrutto proprio per indirizzare verso Viterbo la
sosta dei pellegrini in transito sulla
Francigena), a Viterbo, a Vetralla, a
Querce d’Orlando, a Capranica, a
Sutri, a Monterosi,fino a Settevene.
Era dunque il tratto finale della grande fatica fisica e della grande tensione spirituale cui il pellegrino si sobbarcava per giungere alla meta a volte dopo lunghi mesi di cammino. Era
un tratto quindi di intensa tensione
spirituale, costellato di molti luoghi
di culto significativamente accompagnati da luoghi d’accoglienza. Infatti
era anche il tratto in cui fatica e malattie si erano accumulate e che perciò richiedeva una particolare attenzione all’assistenza fisica dei pellegrini.
Di qui l’importanza di una ricognizione storica sui testi documentari e
su quelli letterari, così come sulle
emergenze ambientali di questo tratta conclusivo della Via Francigena.
Di grande utilità appare la ricerca
sull’organizzazione dell’accoglienza
e dell’assistenza, soprattutto ad opera degli ordini cavallereschi (dai
Templari ai Cavalieri di Gerusalemme). A questo proposito giova ricordare almeno Santa Maria di Forcassi,
presso Vetralla, con i resti dell’ospizio e del lazzaretto dei Cavalieri dei
Gerusalemme (XIII secolo).
Questa frazione importantissima
della Via Francigena, inoltre, ha lasciato una traccia di sé anche nelle
testimonianze letterarie di quanti
hanno compiuto nel passato il pellegrinaggio a Roma, soprattutto durante gli anni giubilari, quando più
intenso era l’afflusso dei pellegrini e
più numerosi si fanno i testi che narrano le diverse esperienze.
Per ricostruire il quadro, la ricognizione delle fonti storiche deve interagire con una ricerca sui testi narrativi (racconti, itinerari, lettere, poesie,
meditazioni) che hanno lasciato memoria delle esperienze biografiche e
16
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
religiose di quanti, dall’Italia o dall’esterno, da paesi più o meno lontani,
intrapresero la faticosa e lunga via
verso Roma.
Ma questo non basta. Non si deve
guardare solo al passato. L’obiettivo
non può essere solo quello di una ricostruzione archeologica della Via Francigena nel suo remoto passato medievale. Bisogna anche, invece, mettere a
fuoco il rapporto fra Cassia e Francigena oggi, come vie del viaggio e del
pellegrinaggio da potenziare, facendo
interagire i percorsi con le potenzialità
culturali, paesaggistiche e turistiche
del territorio. La Tuscia non deve rassegnarsi ad essere solo un territorio di
transito, di distratto attraversamento
da parte di chi va a Roma come turista
o come pellegrino. Questa necessità è
diventata ancora più vitale oggi e per
il futuro immediato dopo la scelta di
Viterbo come sede dell’aeroporto.
La Via Francigena, anticamente chiamata Via Francesca o Romea e detta talvolta anche Franchigena, è il percosrso
di un pellegrinaggio che da Canterbury portava a Roma e costituiva una
delle più importanti vie di comunicazione europee in epoca medioevale.
Il pellegrinaggio a Roma, in visita alla
tomba dell’apostolo Pietro era nel Medioevo una delle tre peregrinationes
maiores insieme alla Terra Santa e a
Santiago de Compostela.
“Peregrini si possono intendere in due
modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori della sua patria; in modo stretto non
s’intende peregrino se non chi va verso la
casa di Sa’ Jacopo o riede. È però da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de
l’Altissimo: chiamasi palmieri in quanto
vanno oltremare, la onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la
sepoltura di Sa’ Iacopo fue più lontana
della sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei quanti vanno a Roma.” (Dante Alighieri, Vita Nuova).
Per questo l’Italia era percorsa conti-
nuamente da pellegrini di ogni parte
d’Europa che nella maggior parte dei
casi seguivano le strade consolari romane. I pellegrini provenienti soprattutto dalla Francia cominciarono ad
entrare in Italia dal passo del Monginevro, dando così alla strada il nome
di Francigena, cioè dei francesi. La via
prese quindi a far parte di quella vasta
rete di percorsi che segnava l’Europa
di pellegrinaggio e che univa tutti i
maggiori luoghi di spiritualità del
tempo. La presenza di questi percorsi,
con la grande quantità di persone provenienti da culture anche molto diverse tra loro, ha permesso un eccezionale passaggio di segni, emblemi, culture e linguaggi dell’Occidente Cristiano. Ancora oggi sono rintracciabili sul
Cammino di Santiago di Compostela,
una dignità nazionale.
Come era successo per il cammino
spagnolo, anche il percorso della
Francigena giaceva quasi interamente
sotto l’asfalto delle autostrade e delle
statali che, col tempo, avevano ricalcato il tracciato di quelle che già erano
state le strade principali del medioevo
e dell’età romana.
L’interesse, dapprima limitato agli
studiosi, poi estesosi a molti che, dopo
aver percorso il Cammino di Santiago,
desideravano arrivare a Roma a piedi,
ha fatto nascere una rete di amanti della Francigena che, con vernice e pennello, hanno cominciato a segnare
sentieri e percorsi.
Dove è stato possibile si è cercato di
territorio le memorie di questo passaggio che ha strutturato profondamente le forme insediative e le tradizioni dei luoghi attraversati. Un passaggio continuo che ha permesso alle
diverse culture europee di comunicare e di venire in contatto, forgiando la
base culturale, artistica, economica e
politica dell’Europa Moderna. È nota
l’affermazione di Goethe secondo cui
la coscienza d’Europa è nata sulle vie
di pellegrinaggio.
La relazione di viaggio più antica risale al 990 e vi si descrive, in 79 tappe, il
viaggio di ritorno da Roma di Sigerico, arcivescovo di Canterbury. Le
informazioni contenute in questa cronaca sono utili per risalire al tracciato
originario della Francigena.
Dopo la riscoperta avvenuta negli anni ’70, del Cammino di Santiago, ci si
rese conto che anche in Italia esisteva
un simile percorso di pellegrinaggio,
la Via Francigena e a partire dal 1994
la Via Francigena è stata dichiarata
“Itinerario Culturale dal Consiglio
d’Europa” assumendo, alla pari del
recuperare il tracciato originario; altre
volte si è scelto di deviare il percorso
storico in favore di sentieri e strade
meno trafficate o, ahimè, di qualche
bar o ristorante in cerca d’avventori.
Grazie anche ad un serrato interesse
mediatico e culturale di vario genere,
cresciuto esponenzialmente con il
Giubileo del 2000, è sempre maggiore
il numero di persone che, per motivi
religiosi o no, percorre zaino in spalla
l’antico percorso. Di fatto la Francigena è oggi un tesoro dal punto di vista
turistico e questo ha portato le amministrazioni pubbliche a prendere coscienza dell’importanza del fenome-
no. In quest’ottica di recupero e riqualificazione del patrimonio storico-culturale-ambientale dell’antica
Via di Pellegrinaggio e con il sostegno tecnico-finanziario dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo, nei giorni del 6-7 dicembre
2007 si è svolto nell’Aula Magna dell’Università della Tuscia il Convegno: Fra Via Francigena e Via Cassia:
Pellegrini e Viaggiatori nella Tuscia.
Il Convegno è stato organizzato in
partenariato dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio (CIRIV), diretto dal Prof. Vincenzo De
Caprio, dalla Regione Lazio e dall’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo.
Alle due giornate di studio e riflessione sulla Via Francigena e i suoi
viaggiatori hanno partecipato professori di varie università italiane,
rappresentanti di associazioni che a
vario titolo si occupano del recupero
dell’antico itinerario (Association Internazionale Via Francigena, Confraternita dei Romei della Via Francigena, Serico gruppo Cresme). I lavori
del Convegno si sono aperti con l’intervento di S. E. Lorenzo Chiarinelli
che ci ha trasportato, con il suo eloquio ammaliante, dalla porta dell’Eden a quella dell’Apocalisse.
Il Convegno si è proposto di rafforzare il senso di appartenenza del nostro territorio a questo itinerario di
pellegrinaggio ed è stato il frutto del
raccordo integrato tra più forze in
campo: comunità scientifico-accademica, Provincia, Regione, enti locali
e sistema delle imprese del turismo.
Questo lavoro svolto in sinergia, sebbene nel rispetto delle competenze
diversificate, nasce dalla convinzione che soltanto la cooperazione tra
territorio e università, soggetti pubblici e scientifici, privati e religiosi,
può portare al recupero duraturo,
consapevole dell’antico tracciato di
pellegrinaggio e delle conseguenti
interrelazioni culturali.
Solo così si può promuovere uno sviluppo turistico “etico” e “sostenibile” nel rispetto dell’ambiente, dell’uomo, della cultura, della fede per
rendere pienamente protagonista la
riscoperta e la valorizzazione della
Via Francigena.
Cinzia Capitoni
Curriculum Vitae di Cinzia Capitoni
Cinzia Capitoni insegna Letteratura del Viaggio presso la sede di Tarquinia dell’Università della Tuscia. Si è occupata di viaggiatori dell’Ottocento in Italia e in Egitto. Relativamente alla Tuscia ha pubblicato l’inedito
diario di viaggio di uno scienziato dell’Ottocento: G. Brocchi, Viaggio nel
Lazio. La Tuscia e l’Agro Pontino, a cura di C. Capitoni, Viterbo 2004.
INSERTO TUSCIA
ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia
Musica in cammino:
un concerto per la via Francigena
el mese di dicembre,
nei giorni 6 e 7, si è tenuto presso la Facoltà
di Lingue e Letterature Straniere dell’Università della Tuscia, un interessante
incontro di studi incentrato sul rapporto tra Via Francigena e Via Cassia, organizzato dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio
N
sulla storia della Francigena, attraverso documentazioni coeve, diari,
relazioni e resoconti, ma anche sulle
prospettive che questo percorso non
più semplicemente sacro, ma rientrante a pieno diritto negli itinerari
culturali europei, può avere se incentivato.
Un aspetto particolare dell’incontro,
in quanto di solito poco noto e poco
di musica sacra.
All’ensemble corale della Camerata
Polifonica Viterbese al gran completo si è aggiunto il quartetto formato
da Claire Duri (flauto), Lorella Boldrini (cembalo), Irene Maria Caraba
(violoncello) e Maria Vittoria Bosco
(percussioni), intento a contrappuntare la voce recitante di Fausta Moretti.
rat, così denominato per il colore
vermiglio della rilegatura, delle cui
decina di canzoni sono state proposte, tra le altre, i brani Polorum Regina, Cuncti simus concanentes, Stella
splendens, Los set goigs, prima opera
conosciuta di polifonia in lingua volgare, e precisamente in catalano, e
l’inno alla morte Ad mortem festinamus, unica testimonianza di danza
Flecha (1481-1553).
Dello spettacolo messo in scena dalla Camerata Polifonica con sapiente
professionalità e grossa partecipazione emotiva, cui non si è potuto
sottrarre il numeroso pubblico, resterà impressa nella memoria l’idea
del canto come scansione metronomica del camminare, come inconscia necessità di segnare il ritmo
(CIRVI) diretto dal Professor Vincenzo De Caprio, in collaborazione
con l’Assessorato al Turismo della
Provincia di Viterbo.
E quale miglior modo per un territorio come quello viterbese, da
sempre terra di transito per i viaggiatori diretti alla città eterna e perciò particolarmente incline e sensibile alle questioni del viaggiare, se
non quello di dedicare alcune giornate di studio, confronto, analisi
pluridirezionali e multiprospettiche
alla più importante via di cammino
attraverso la Tuscia?
Gli interventi degli studiosi (professori universitari, ma anche tecnici,
membri di confraternite, prelati)
che si sono alternati durante le due
giornate sono stati di natura diversa ma complementare al fine di offrire un quadro più ampio possibile
dibattuto, è stato quello legato alla
musica in cammino, ai rapporti cioè
tra canti, suoni, danze e il viaggiare,
spesso di natura sacra. Non solo il
Maestro Piero Caraba ha offerto durante la mattinata della seconda giornata una splendida relazione sulle
Danze Sacre, come invenzione dei
pellegrini, esaltando la centralità
della musica, e consequenzialmente
delle danze rituali, nella pratica del
viaggio come momento insieme di
tributo e di tripudio che liberasse
dalle fatiche della quotidianità del
viandante. Nel pomeriggio, a conclusione dei lavori, il Maestro ha sapientemente diretto la Camerata Polifonica Viterbese in un concerto, tenutosi nell’accogliente spazio dell’Auditorium dell’Università, che si
è rivelato – anche per i neofiti – un
vero e proprio cammino lungo secoli
Il programma prevedeva composizioni tratte dalle Cantigas de Sancta
Maria (seconda metà del XIII secolo)
e dal Llibre Vermell de Montserrat (fine
XIV secolo), che insieme alle canzoni
liturgiche e paraliturgiche tramandate dal Codex Calixtinus (metà XII secolo) per celebrare San Giacomo di
Compostela formano le principali
raccolte musicali sacre d’età medievale. Le Cantigas de Sancta Maria vennero redatte sotto il regno di Alfonso
X El Sabio, re di Castiglia e Leòn, nella seconda metà del 1200 e rappresentano il codice musicale più importante della monodia cortese, cioè
del canto a una voce del Medioevo
europeo. Scritte in galiziano, lingua
aristocratica, narrano prevalentemente i miracoli della Vergine, tratti
da racconti diffusi nell’Europa del
tempo. Del Llibre Vermeill de Montser-
macabra del Medioevo, quasi a sottolineare il perenne rapporto tra vita
e morte. A queste composizioni,
struggenti o festanti a seconda dell’ambito di riferimento, si sono aggiunte una composizione dai Carmina Burana (Bache bene venies) che fungeva da apertura e la conclusiva Ande, pues, nuestro apellido del compositore e monaco carmelitano Mateo
marcando la strada che si sta percorrendo, proprio come i nativi australiani, quegli aborigeni sdoganati alla cultura occidentale da un
grande viaggiatore come Bruce
Chatwin, cantavano le proprie vie
dei canti ricreando ad ogni passo il
mito della creazione.
Stefano Pifferi
Curriculum Vitae di Stefano Pifferi
Stefano Pifferi, dottore di ricerca in Storia e cultura del viaggio presso
l’Università della Tuscia, insegna letteratura del viaggio presso la stessa
università. Ha pubblicato i volumi: Venti giorni a Roma. Impressioni di Cesare Malpica, Manziana 2005; La Città eterna vista da Napoli. La Roma di un
viaggiatore romantico, Roma 2007.
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MUSICA
Handel: Alan Curtis e
Il Complesso Barocco
INTERVISTE DI CARLA FERRARO
A
bbiamo il privilegio di
rivolgere alcune domande al Maestro Alan
Curtis, che è stato uno
degli artefici del successo del Festival Barocco di Viterbo, rassegna musicale internazionale che
presenta i maggiori specialisti di questo repertorio. Vogliamo innanzitutto
tracciare una stringata biografia de Il
Complesso Barocco: fondato ad Amsterdam da Alan Curtis (nato in Michigan, U.S.A., ma ormai italiano d’adozione), questo ensemble, formato
da solisti provenienti da ogni parte
del mondo, ha cominciato la sua attività come orchestra internazionale
barocca, con particolare interesse per
la musica italiana.
Dal 1992 risiede nel nostro Paese ed è
considerata una delle più prestigiose
orchestre europee con strumenti originali. Ospite nelle più importanti
rassegne concertistiche e Festival in
Europa e negli Stati Uniti, il Complesso Barocco si è rivolto anche verso la
musica vocale, a partire dall’ultima
fioritura del madrigale fino all’opera
del XVIII secolo. La discografia è ricchissima: spazia dal madrigale (Michelangelo Rossi, Antonio Lotti, Claudio Monteverdi , Sigismondo d’India,
Marenzio Carlo Gesualdo) all’orato-
rio (Stradella Benedetto Ferrari, Pietro
Andrea Ziani, Francesco Bartolomeo
Conti) alla cantata italiana. Nell’imponente repertorio operistico, dedicato
soprattutto a Handel, non mancano titoli vivaldiani come Motezuma, con il
quale si è appena concluso un tour internazionale con allestimento scenico,
il Tolomeo di Scarlatti, Gluck e molti
CD che contengono le voci più belle
del panorama “barocco” attuale. In
questi mesi Il Complesso Barocco è in
residenza al teatro di Poissy (Parigi).
Prima dell’intervista ci siamo documentati e nel sito del Festival di Viterbo, a proposito dell’edizione del 2006, si legge:
“Prosegue la serie delle opere di Handel
con la ripresa del Tolomeo (Montefiascone, 17 settembre) che rappresenta, anche
in questo caso, una prima esecuzione italiana di tutti i tempi in forma integrale:
questo recupero, come sanno tutti coloro
che seguono il Festival, fa parte di una serie intrapresa per iniziativa della Direzione artistica da vari anni ed affidata alla
cura di Alan Curtis che, massimo specialista mondiale del repertorio handeliano,
come ormai è consuetudine, in occasione
della nostra produzione effettuerà la registrazione discografica con la Deutsche
Grammophon”. Quali sono le opere di
Handel che Lei ci ha restituito?
Il mio lavoro con Il Complesso Barocco ha rivestito un ruolo fondamentale
nella restituzione delle opere di George Frideric Handel con strumenti originali nell’ambito del revival che questo autore ha beneficiato dagli anni ’70
ad oggi. A partire da Admeto, prima
opera a essere riproposta con prassi
esecutiva filologica in tempi moderni
e recentemente riedita in CD da Virgin, il catalogo delle nostre produzioni dedicate al grande compositore sassone, sempre documentate in registrazioni, si è arricchito di titoli noti e di
altri meno eseguiti: Rodrigo, Arminio,
Deidamia, Lotario, Rodelinda , Radamisto, Fernando re di Castiglia, Floridante,
Tolomeo, e recentemente è uscito Ario-
dante in DVD.
Ci racconti della vostra esperienza nei
luoghi handeliani?
Gli anni che abbiamo trascorso nel
Viterbese, durante il Festival, sono
stati magnifici; ci hanno permesso di
conoscere questa regione italiana così
ricca di tesori artistici e culturali. La
parte preponderante del nostro lavoro è dedicata alle opere e cantate di
Handel e quindi è stato per noi un
privilegio trovarci nel palazzo e nel
giardino di Vignanello dove Handel
trascorse estati felici scrivendo alcune delle sue migliori composizioni.
Ci ha fatto piacere incontrare la Principessa Ruspoli, ci è piaciuto risiedere nella bellissima cittadina di Tuscania dove abbiamo avuto modo di apprezzare non solo le sue qualità artistiche ma anche i suoi tesori gastronomici. Tutti i musicisti che hanno lavorato con me provano ancora una
forte nostalgia per quei luoghi.
Dalle sue parole ci sembra di intuire che
la Sua collaborazione con il Festival si
sia conclusa?
Sì, benché il pubblico del festival è
stato ovunque attento e ci è sembrato
apprezzare la musica presentata: un
pubblico formato da appassionati locali ma anche da “turisti musicali”
arrivati nella regione, anche da molto
lontano, per ascoltare le opere di
Handel. Siamo convinti che il fascino
della Tuscia continuerà a richiamare
nuovi ospiti da ogni parte, ma crediamo che il pubblico musicale internazionale non tornerà e, con grande dispiacere, nemmeno noi: siamo ancora
in attesa di ricevere i compensi per i
concerti tenuti quattro anni fa!
Questo ci crea un certo imbarazzo e ci
dispiace davvero che non si presenti di
nuovo l’occasione di ascoltarvi qui nelle
terre handeliane. Ci auguriamo che la
questione si risolva al più presto e di potervi ospitare ancora.
Speriamo, in quel caso sarete tutti invitati!
Fazioli
è il pianoforte
A
bbiamo colto al volo
(anzi, in volo tra gli
Stati Uniti e la Cina)
l’ingegnere Paolo Fazioli “di passaggio” a
Sacile, cittadina friulana, dove si trova la sua prestigiosa azienda che costruisce pianoforti.
Sappiamo che le sue origini sono laziali e
Le chiediamo quindi di offrirci una “nota” biografica.
Sì, le famiglie dei miei genitori sono
originarie di Canepina, paese della Tuscia a pochi chilometri da Vallerano.
Di quella terra ho un ricordo fanciullesco, di vacanze spensierate in mezzo ai
parenti e alla faggeta, ai boschi di castagni sulle pendici del Monte Cimino.
Lei cita questi luoghi facendo riferimento agli alberi che li popolano. Non ci
sembra un riferimento del tutto casuale.
Certo mio nonno era un commerciante di legname e mio padre aveva
una fabbrica di mobili. Il legno continua ad essere parte integrante della
mia attività.
E dunque ci racconti la storia della Fazioli Pianoforti.
Mi sono diplomato in pianoforte e poi
laureato in ingegneria: il mio desiderio è sempre stato quello di costruire
un pianoforte che mi soddisfacesse.
Dopo essermi distaccato dall’azienda
di famiglia, nell’80 ho voluto cimentarmi nell’impresa e così, dopo aver
formato una squadra di scienziati,
tecnici, artisti e artigiani di altissimo
valore, è cominciata la mia avventura.
Mi pare sia stata un’ascesa molto rapida;
in brevissimo tempo il modello 212 si è
conquistato il titolo di migliore pianoforte del mondo. Perché in Italia molti non
conoscono il nome Fazioli?
Gli addetti ai lavori capiscono il valore del prodotto, ma il sistema commerciale italiano sembra essere contrario all’affermazione del nostro
marchio. Credo di essere stato addirittura vittima di veri e propri sabotaggi. Nel nostro Paese manca l’amore per la qualità e il riconoscimento
delle competenze artigianali: il pianoforte è un oggetto complesso costituito da 12 mila componenti, costruito interamente a mano. L’“albero della musica”, l’abete rosso, ha bisogno di molto tempo per trasformarsi in un gran coda: dai boschi
della Val di Fiemme alle più famose
sale da concerto del mondo servono
almeno 4 anni di lavoro e dedizione.
Siamo certi che la soddisfazione di ascoltare i grandi interpreti esibirsi con le sue
“creature” la ripaghi però di tutto l’impegno e forse, in parte, anche dell’amarezza che Lei prova. Noi de L’Orioli cerchiamo di risvegliare un po’ di orgoglio
nazionale e abbiamo voluto averLa tra
noi per far conoscere la qualità di un prodotto di nicchia che fa grande l’Italia nel
mondo. Grazie.
A conclusione della breve ma amabilissima chiacchierata vogliamo aggiungere un’informazione che ci dà la
misura della caparbietà illuminata del
musicista-ingegnere, il quale si è voluto premiare costruendo uno scrigno in
cui condividere, con chi sa o vuole imparare ad apprezzare, l’eccellenza della musica. Alla Fazioli Concert Hall,
auditorium nel quale dal 2004 si tengono stagioni di concerti, interpreti di
fama mondiale offrono al pubblico
l’occasione di ascoltare la perfezione
del suono dei pianoforti prodotti lì a
fianco. Bravo Maestro!
Vecchie immagini per antichi suoni
S
i chiama “Liber Valerani” l’ultimo lavoro di Massimo Fornicoli. Un libro raffinatissimo in
cui delle memorabili foto d’epoca, raccontano secoli di storia e di arte, di volti e di scorci della sua
amata Vallerano. Un’operazione culturale, che sarà presentata oggi pomeriggio, ma anche un disperato tentativo,
l’estremo, di trovare i fondi necessari
per il restauro dell’organo monumentale del santuario della Madonna del Ruscello. Splendido strumento ligneo in
grado una volta, raccontano i nonni, di
deliziare col suo suono anche coloro che
passavano là dove oggi sorge il Comune. Alla fine, cioè, di una salita distante
circa 300/400 metri dal portale della
chiesa, anch’esso da non perdere. Una
battaglia, quella di Fornicoli, che dura
da anni. Lui, scelto come presidente del
Comitato per il restauro dell’organo, da
solo a combattere contro l’ottusità, spesso contro i biechi personalismi, della burocrazia e delle istituzioni.
Fornicoli, una nuova provocazione, un
nuovo tentativo di svegliare la sua comunità (ma non solo) dal torpore nel quale
sembra caduta da troppo tempo?
“E’ vero. In questi ultimi anni, sotto il
profilo culturale abbiamo disatteso
troppe domande rimaste inascoltate.
Avremmo dovuto valorizzare meglio
un territorio quale Vallerano che ha dato i natali a illustri musicisti proprio
all´inizio della polifonia. Parlo di Giovanni Maria Nanino, allievo del Palestrina e direttore della Sistina nel 1604.
Di suo fratello Giovanni Bernardino
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N. 4 Giugno/Dicembre 2008
Nanino, il primo esponente della Scuola romana ad adottare l´organo per accompagnare alcune composizioni polifoniche. E di Paolo Agostini (1592),
maestro e organista nella Cappella locale, uno dei più famosi contrappuntisti
del tempo, a far eseguire i suoi mottetti
da cori a dodici voci dislocati in varie
parti della chiesa di San Pietro”.
L’organo, simbolicamente, può essere considerato il segno tangibile di tutta questa
sapienza?
“L’organo è un pregiatissimo strumento d’epoca, nel suo genere unico, come
riporta Formentelli nella sua accuratissima relazione, con materiale fonico di
grande valore storico, artistico e artigianale, ricco di varietà timbriche, di
varie tipologie di registri ad ancia per
un totale di 33, per sola tastiera di 54
tasti e pedaliera di 18. Le canne di legno di castagno hanno piedi di forma
ottagonale e anime in noce, le canne di
facciata in stagno sono realizzate con
arte sopraffina in metallo trafilato, piallato internamente ed esternamente,
brunito a mano, mentre le canne interne sono in lega”.
Un’opera d’arte da mozzare il fiato.
“E’ terribilmente costretta in un silenzio
assordante. Non capisco come si possa
continuare a non ascoltarlo, questo silenzio. Credo che dovrebbe essere una
priorità assoluta per i valleranesi costruire intorno a questo strumento un
luogo ideale di cultura musicale. Basti
pensare elle enormi potenzialità, non
solo in termini di concerti, messe a disposizione da questo meraviglioso og-
getto e dall’eccezionale acustica della
chiesa. A Vallerano, inoltre, esiste una
scuola musicale con ben 150 iscritti nei
vari strumenti, la cui tradizione si è perpetuata dalla famiglia Floridi al maestro
Benedetti, conosciuto in tutta la provincia, fino a oggi con una sua Banda musicale. Molti valleranesi sono strumentisti nelle Bande della Guardia di finanza,
dell’Esercito, dei Carabinieri. E poi: il
maestro Lilio Narduzzi, altro valleranese doc, è stato fino a qualche anno fa insegnante di fagotto all’accademia di
Santa Cecilia e, proprio un anno fa, ha
regalato alla parrocchia un’opera sinfonica dedicata alla Madonna del Ruscello. Suo figlio, Nello Narduzzi, dirige la
banda dei Vigili del fuoco di Roma. Credo quindi che sia fondamentale partire
da questo restauro per agevolare la nascita di un luogo di cultura artistico musicale che veda confluire le varie manifestazioni provinciali, dal Festival Barocco alle serate a tema, in una cornice
architettonica di tutto rispetto nel territorio dei Monti Cimini”.
Cosa in definitiva si propone con questa
pubblicazione?
“Il libro è composto da quasi 60 foto di
Vallerano, primo Novecento, con tanto
di manifestazioni popolari e della chiesa del Ruscello, così come appariva all’inizio del secolo. Naturalmente, l’iniziativa vuole essere un appello rivolto
a tutte le varie organizzazioni o ai comitati del posto, che vogliano valorizzare il proprio paese. Non credo che ce
ne dovrebbe essere bisogno, ma siamo
fermi col restauro da diversi anni per
Video Foto Sprint
mancanza dei fondi necessari. Il titolo
di questo lavoro, “Liber Valerani”,
vuole rappresentare un doveroso
omaggio a monsignor Manfredo Manfredi, insigne latinista e rettore del santuario per lunghissimi anni. E’ stato lui
ad avermi trasmesso l’amore per questo luogo del miracolo, come manifestazione della benevolenza della Madonna per Vallerano”.
Intervista di Luca Poleggi
IMPRESSIONI
DI VIAGGIO
Vicina alla Cina
DI STEFANIA ZANNI
D
ifficile non aver mai fatto
questo pensiero sulla vita.
Difficile non aver mai fatto
ammenda di fronte allo
spietato specchio della propria anima, dovendo a volte mestamente ammettere di non aver voluto o non
essere riusciti a mantenere fede ai nostri
propositi. In effetti è un’impresa epica
riuscire a trovare un momento di interiorità, shakerati come siamo tra lavoro
& wellness, shopping tra scarpe di Gucci e panini del Mulino Bianco, organizzazione della casa che richiede un planning degno di una multinazionale, e pulizie sottotitolate in italiano da far comprendere alla nuova colf bielorussa sopravvissuta alla caduta del comunismo.
Eppure le donne sono maghe e streghe
nel riuscire ad incastrare doveri e piaceri, sminuzzando le ore e riducendo i minuti a scampoli di tempo utili per ogni
cosa. La prima parola magica è organizzazione; la seconda è tregua. Tregua è
quel lasso di tempo più o meno breve
che ciascuno di noi si ritaglia nell’arco
dei giorni, delle settimane e poi della vita per poter fare esattamente ciò che
vuole. A ognuno la propria tregua: la
mia è viaggiare. Per curiosità, o come
disse qualcuno che di viaggi se ne intendeva, per sentire meglio i sassi appuntiti del terreno sotto le suole delle proprie
scarpe, il granito del globo, per vedere
cosa c’è al di là dell’orizzonte, per capire
come vivono coloro che stanno a testa in
giù, dall’altra parte della terra. Viaggiare
è poter attaccare un’altra bandierina alla
cartina del mondo appesa alla parete del
muro, ma è anche e soprattutto comporre il puzzle delle proprie aspirazioni,
non smettere di guardare, cercare, scrutare, leggere ed incuriosirsi di fronte alle
situazioni e alle persone. Sempre. Ho
iniziato a viaggiare con la mente da giovane, leggendo libri e decidendo che un
giorno sarei andata a vedere dove avevano realmente vissuto uomini e donne
come Anna Frank, Pessoa che si muoveva guardando il mondo dalla finestra
del suo ufficio, delegando ai suoi immaginari personaggi altrettante immaginarie vite da vivere; Chatwin, inquieto
viaggiatore che narra di storie praghesi e
di canti aborigeni, Jay McInerney che
racconta delle mille luci di New York,
Kerouac con i capelli al vento su uno
sfondatissimo pick-up americano, Hemingway nella sua villa di Key West,
Joyce a Dublino, Ibsen tra i fiordi della
Norvegia e perché no... B.B.King and the
Cruseider sulle sponde del Mississipi.
Un po’ alla volta i miei desideri sono diventati realtà e ora sono fortissime le
emozioni e i ricordi legati a immagini,
profumi e persone. Persone magari conosciute e frequentate per poco tempo;
salutate e lasciate là alla loro vita di tutti
i giorni, ma che a me hanno regalato un
pezzo del loro mondo a volte povero di
cose materiali ma ricco di sorrisi, consigli e pacche sulle spalle...
Un cordoncino peruviano come portafortuna, un sasso regalatomi da un bambino nel deserto, una vecchia piccola e
rinsecchita aringa sotto vuoto a ricordo
della città più impronunciabile dell’Islanda del nord, un vecchio e lurido libretto rosso comprato su di un’altrettanto lurida bancarella fuori Pechino con
sopra annotate frasi in cinese (prima o
poi chiederò a qualcuno la traduzione
per scoprire con immenso rammarico
che è la lista della spesa), un dammusino in pietra lavica a ricordo di Pantelleria e il timbro di Rovaniemi con Babbo
Natale, la renna e me!
La quintessenza del kitch o più semplicemente piccoli pezzi di mondo che rallegrano una libreria testimoniando il
passaggio attraverso quelle zone.
“Lascia solo le orme, porta via solo i ricordi” dice un pensiero mongolo.
In effetti viviamo in un’epoca in cui tutto è già stato scoperto, raccontato e visto,
così a noi “giovani” visitatori del mondo, non rimane che spostarci e guardare attentamente cercando di carpire la
vera essenza delle cose, perché nulla è
più come prima, perché leggendo diversi libri di Terzani mi sono accorta quanto la “mia” Cina fosse diversa dalla
“sua”, vissuta neanche tantissimo tempo fa. Perché i ghiacciai si sono già sciolti, perché l’uragano Cathrina si è scagliato come un bisturi impazzito, creando
una ferita grande e profonda, su una
città povera ma allegra come New Orleans, perché le “Twin Towers” non esistono più, perché Castro con la sua tuta
in poliacetilene della Diadora (con su
scritto FIDEL) barcolla con il bastone davanti alla TV di stato, perché oramai si
può acquistare un pezzo di luna, perché
a Kuta Beach dove strepitosi Australianboys andavano a fare surf c’è una lapide,
perché i cinesi in previsione delle Olimpiadi del 2008 stanno distruggendo tutto ciò che è considerato vecchio, perché
gli aborigeni parlano delle” vie dei canti” con una birra da due litri in mano,
perché finalmente a Belfast non scoppiano più bombe? Dobbiamo accontentarci
di ciò che è rimasto, perché anagraficamente parlando non ci è dato di vedere
le cose come veramente erano, bensì di
vivere la loro trasformazione, a volte in
meglio, altre volte in peggio.
Ma va bene così, l’importante è accorgersi quanto sia banale fermarsi davanti
all’apparenza delle cose e delle persone,
monto più maestoso della mia vita. Un
assolo di chitarra e il cielo cambia sfumatura, mentre il colpo della batteria dà
il tempo allo spostamento delle nuvole.
Il buon Dio quella sera doveva essersi
dimenticato apposta alcuni colori sulla
sua tavolozza, perché sopra la mia testa
nulla era giallo o rosso, ma tutto sfumava nel viola e nel bianco accecante delle
nuvole cariche di luce riflessa; mentre la
strada nell’ormai buio e silenzioso bush,
si dipanava sotto le ruote della macchina come un tappeto srotolato dal venditore turco, sotto gli occhi dell’ingenuo
turista. Polvere. Sabbia fine che il deserto vuole regalarti a tutti i costi, per dispetto, che mal sopporti perchè si infila
in qualsiasi piega della pelle, graffiando
e facendo male, che ti asciuga la salivazione e ti secca gli occhi, ma che poi, una
volta a casa, viene raccolta come un souvenir. Sabbia e sale: il pensiero vola ad
un lembo di terra messicana, patria di
Don Diego de la Vega, che nulla ha a che
fare con gli Inca, ma che regala le emozioni di un giro in barca tra le balene.
Maestosi cetacei, enormi e silenziose
flotte marine che con una dolcezza in-
no, senza saperlo, stava viaggiando in
un altro mondo, tra gli abissi di Moby
Dick e le Centomila leghe sotto i mari,
perché quello che vide quel giorno gli fece spalancare la bocca e gli occhi a tal
punto che a me parve che tutto potessero contenere. Se vogliamo parlare di meraviglia e gioia vi posso assicurare che
Pablito, quel pomeriggio, incarnò alla
perfezione questi sentimenti e così come
non dimenticherò facilmente la vista
delle balene, altrettanto facilmente non
posso che sorridere con nostalgia pensando a quel viso olivastro e rotondo,
sul quale si leggeva come su di un foglio
immacolato la parola: felicità. In Cina ho
visto il paradosso. Chiunque abbia vissuto un’esperienza simile alla mia può
scrivere molto meglio di me che la Cina
è il paese delle contraddizioni in cui megalopoli come Shanghai distano due ore
di aereo da villaggi poveri sporchi e desolati in cui la presenza di un medico è
un lusso; o che a Pechino si distruggono
i vecchi quartieri per fare spazio ai nuovi negozi e la gente corre a rubare i mattoni degli edifici abbattuti per costruire o
rattoppare le proprie misere dimore. Ep-
guardare senza ammirare, passare di
sfuggita senza vedere o cogliere il profumo di un posto, i colori delle case, facendoci trasportare da una guida che ci obbliga a voltarci prima a destra e poi a sinistra. Siamo così abituati a camminare
guardandoci i piedi, che il più delle volte dimentichiamo di alzare lo sguardo al
cielo, anche in città, dove si stendono i
panni ad asciugare o dove l’intonaco decrepito cade a pezzi e una finestra aperta lascia intravedere una tendina ritrosa
che vorrebbe essere corteggiata dal vento. Credo che viaggiare sia anche questo.
Il vero viaggio per me è come un uomo:
si sceglie, e per questo motivo lascia un
ricordo ogni volta diverso, forte, vibrante e carico di emozioni. Chiudo gli occhi
mentre i Pink Floyd suonano “Shine on
you crazy diamond” e mi ritrovo a
Darwin, nel nord Australia, davanti alla
baia, accecata da quello che i miei piccoli occhi ricordano ancora come il tra-
spiegabile nuotano prendendo aria di
fianco al loro piccolo, accudendolo, coccolandolo, insegnandogli a vivere tra i
flutti. Ricordo lo strano silenzio della laguna, avvolta e circondata dalle saline, e
dal nulla... l’acqua che si increspa, si alza
maestosa ed immensa, dalla profondità
compare lei...la balena dagli occhi tristi
che riprende le forze prima di affrontare
gli oceani e quasi ti saluta, con quel sibilo bagnato che inonda tutto ciò che si
trova nel raggio di decine di metri. Un
pescatore mi portò in giro, su una barchetta, facendomi salire con una famigliola messicana, composta da papà,
mamma e un bambino di 6 anni che non
taceva un attimo, infervorato, eccitato,
sconvolto da quello che i suoi occhi stavano vedendo. Quanto urlò il piccolo
Pablito! A nulla servirono i gesti che il
barcaiolo gli faceva per ammutolirlo, a
nulla servirono le mani della mamma
sulla sua bocca perché Pablito, così picci-
pure nonostante questo, nonostante il
caos, lo smog che ti ammazza, lo tsunami di biciclette che ti investe quotidianamente, i semafori gracchianti, i torpedoni che sputano nuvole di fumo maleodorante, i motorini che caricano cinque
persone alla volta e nonostante i cinesi
che sbucano da ogni dove a qualsiasi ora
del giorno e della notte, ho scoperto che
anche e soprattutto lì, si vive ancora di
piccole cose. Come dimenticare la scena
di quella signora anziana che a cavallo
di una ancora più anziana bicicletta trasportava dentro una cesta di vimini, legata al manubrio, una moltitudine di
pulcini infervorati e probabilmente imbestialiti all’idea di finire al mercato.
Non ci sarebbe stato nulla da ricordare
se quella cesta non fosse rovinosamente
volata per aria al crocevia di quattro
strade ipertrafficate mentre centinaia di
pulcini schizzavano tra le ruote e le
gambe dei passanti come pelosissime
palline da tennis sottoposte alla logica fisica del moto perpetuo. Povera nonnina
cinese! Piegata come un giunco dal troppo lavoro nelle risaie, come potrò mai
dimenticare le sue urla, le sue corse tra le
auto e i suoi tentativi di radunare il
gruppo impazzito che furbamente si
sperdeva sull’asfalto esattamente come
un fuoco d’artificio accende il cielo fino
a che le sue scie luminose non si spengono in lontananza. Anche l’autista del
mio pulmino si sentì in dovere di aiutare l’anziana signora, così mentre io da
dentro tifavo per i pulcini, lui mollava il
trabiccolo in mezzo alla strada, autoalimentando (è il caso di dirlo) l’ingorgo...
Di questo immenso paese ho portato a
casa impresse nella memoria migliaia di
sensazioni e bellisimi ricordi, ma ciò che
mi ha colpito molto sono stati gli anziani. Silenziosi, piccoli, sottili, il più delle
volte curvi su loro stessi, ancora vestiti
con quelle divise blu e quelle ciabatte cucite a mano, assolutamente incuranti di
chiunque gli passi vicino, quasi come se
gli obblighi delle Unità volute da Mao,
fossero ancora vigenti. I giovani invece
sono per lo più curiosi, hanno fame di
tutto ciò che richiama l’Occidente, dal
modo di vestire alla musica, dalla nostra
scrittura al taglio di capelli!
In mezzo a questo enorme divario ci sono i bambini. Bambini delle città e bambini delle campagne. Riguardo ad una
cosa non c’è differenza: l’utilizzo del
pannolino. Inesistente, ovunque ci si trovi. Non lo sapevo e devo ammettere che
questa usanza mi ha lasciata perplessa
ed incredula visto che in Cina si portano
solo i pantaloncini tagliati fra le gambine
così da non dover utilizzare né fasce né
pampers di alcun colore, forma, misura,
fluorescenza o profumo! Ogni babybisogno si esplica a cielo aperto, ovunque ci
si trovi e se non si è all’aperto non ci si
formalizza neanche dentro un treno...
nel senso che nel treno non necessariamente si utilizzano le toilettes, anzi il più
delle volte non ci si pone neanche il problema di dove siano. In effetti la carta in
Cina è oro; se tutti i cinesi la usassero con
la frequenza di noi occidentali, il pianeta
verrebbe disboscato totalmente, così si
dice! Mi sono divertita in Cina, mi sono
entusiasmata e commossa camminando
sulla Grande Muraglia con quei suoi
gradini piccoli e scivolosi che portano
direttamente in Mongolia, mi sono rilassata navigando tra le acque torbide del
vecchio fiume LiYang, un serpente che
silenzioso ha scavato il suo alveo intorno alle montagne totalmente ricoperte
di vegetazione. Un fiume lento e sporco,
dove gli unici rumori che si sentono sono quelli dei pescatori che ci vivono, sulle loro zattere, con la ciurma di cormorani al seguito. Ricordo le risaie, il fango e
l’acqua; tanta acqua ovunque, dal cielo e
dalla terra mentre alcuni contadini a piedi nudi, su questi minuscoli terrazzamenti, con mosse da trapezisti, riuscivano a direzionare l’aratro tirato dal cavallo con enorme maestria. Ricordo anche il
tempo trascorso a guardare le persone
occupate in lavori così duri e sfiancanti,
o la curiosità che mi prendeva quando
incontravo un venditore ambulante di
cibarie, o ancora quello che riusciva a
mantenere vive le braci per le frittelle
azionando un phon a pedali...
Quando si viaggia, con il corpo e con la
mente, anche il tempo assume una valenza del tutto diversa da quella che gli
attribuiamo nella quotidianità.
Così ci si ritrova a trascorrere giornate
intensissime che scivolano via come le
gocce di pioggia sull’impermeabile,
mentre le settimane volano vertiginosamente al ritmo di nuovi avvenimenti,
nuovi paesaggi e compagni di viaggio
che si susseguono. Alla fine siamo frastornati, magari stanchi e c’è bisogno di
un attimo di decompressione per accorgersi da dove si torna e cosa si è visto;
per riordinare i pensieri e i ricordi, per
essere fieri di se stessi e pensare che sì, in
fondo si è già pronti per una nuova avventura. Buon viaggio allora, a chiunque non smetta mai di sentirsi addosso
il prurito della vita.....
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
19
IMPRESSIONI
DI VIAGGIO
Patagonia e Terra del fuoco
L
a fin del mundo si apriva finalmente davanti ad i miei
occhi anche se in realtà mi
chiedevo:”ma dove inizia la
fine di qualcosa?”.
Ho attraversato frontiere, zigzagato
tra le Ande argentine e cilene, attraversato fiordi e pianure spalmate di
nulla e piallate dal vento, ho mangiato polvere e camminato -quanto ho
camminato in questo viaggio!- per
scoprire che non esiste mai la fine di
nulla se non qualche confine fisico
che le terre emerse e le acque che le
circondano, impongono al nostro occhio. Finisce una terra ma inizia un
oceano, finisce un oceano inizia
un’immensa piattaforma di ghiaccio
dalla quale i pinguini scivolano da
una parte, per risalire dall’altra e lasciare spazio a qualche abitante della
Nuova Zelanda che scrutando l’orizzonte se la ride perché nessuno di loro vive a testa in giù, come credono
gli europei!
Andare in Patagonia significa intraprendere un viaggio nella natura e
negli spazi sconfinati, nelle pianure
rastrellate dal quel vento feroce capace di piegare alberi e fili d’erba, rom-
pere i vetri delle finestre e far dondolare i minibus con i quali si attraversano queste lande deserte. Le strade
sono carrettere che tagliano come un
bisturi le pampas argentine, un bisturi che apre una ferita nella terra i cui
aridi lembi si allontanano fra loro per
formare una cicatrice dove l’uomo ha
gettato sassi e polvere per permettere
ad altri uomini di transitare laddove,
in realtà, l’unica presenza concepibile
sarebbe il vento. Ancora lui. Spiegarlo a parole senza averlo provato è difficile perché è costante, a volte fortissimo, è violento, incessante, pauroso,
irriverente e sgradevole. Alza nuvole
di polvere che ti avvolgono e ti lasciano i segni dei ciottoli sui polpacci nudi, piega foreste creando paesaggi talmente particolari che per poterli ammirare dritti, è necessario piegare il
proprio campo visivo di 45° sulla linea dell’orizzonte! Rovi che rotolano
come palle spinose impazzite, arbusti
scheletrici che si dondolano, pinguini
immobili ad occhi chiusi come statue
di sale, pezzi di latta cigolanti sui tetti della case in lamiera, staccionate divelte e carcasse di vecchie navi arenate sullo stretto di Magellano che come
scheletri abbandonati a ricordo di
una loro antica magnificenza vengono tramutati in casse armoniche, dove il solito irriverente vento si diverte
a creare rumori e suoni sibilando tra
le costole del vecchio scafo.
20
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
Navigando sui laghi glaciali il vento
diventa gelido e non potendo piegare
ciò che la natura ha reso più resistente
di lui, si limita a spostare intere isole di
ghiaccio, i cosiddetti tempanos, enormi
blocchi di neve congelata che navigano
silenziosi nel freddo della Patagonia
Centrale. Alcuni sembrano astronavi
aliene, dipinte da mano esperta di un
color blu che cambia tonalità a seconda
del fascio di luce che li illumina. I tempanos hanno strane forme, strani buchi, sulle loro pareti si creano caverne e
capitelli corinzi e a guardarli bene vi si
potrebbero scorgere disegni ed immagini che con la fantasia danno vita a
storie di ghiaccio che cambiano di giorno in giorno. Eppure, nonostante ciò, la
Patagonia non è terra ostile, anche se la
considerarono così i primi coloni che
trasbordarono dall’altra parte del mondo delinquenti ed emarginati da rinchiudere nelle carceri della Terra illuminata dai tanti fuochi. C’era molto
spazio da utilizzare, tutto qui!
Non è una terra ostile perchè la gente è
cordiale, perché i dolci che si mangiano
in Patagonia sono tra i migliori che io
abbia mai assaggiato in giro per il
mondo! L’aria è veramente tersa e i co-
lori sono veramente colori, e se ci si va
durante il nostro periodo invernale le
giornate durano 22 ore e si cena ad
Ushuaia perdendo il senso del tempo.
Il Perito Moreno visto da vicino è talmente bello da togliere il fiato, e le case
di Puerto Natales, tutte in lamiera ondulata, hanno colori allegri e forme
bizzarre. Poi ci sono i lupini che crescono nei giardini delle estancie o ai bordi
dei laghi glaciali formando tappeti colorati di lilla, viola e rosa. Impossibile
non perdersi per El Chalten, ai piedi
del magnifico Fitz Roy, villaggio di
frontiera degno di un vecchio film, pieno di polvere e gente che arrampica su
qualsiasi cosa abbia pendenza e dove
non si può non cedere ad una fredda
cerveza in un locale pieno di gauchos
per poi salire i 26 km di trekking, fino
al lago glaciale che domina le pendici
di quella imponente ed indimenticabile guglia. Camminare è d’obbligo in
una regione del mondo in cui il
trekking la fa da padrone, oltre alle scalate delle Ande da parte dei professionisti, e alla rincorsa dei guanachi nelle
sterminate praterie da parte dei turisti.
La piccola Alaska cilena, ovvero il parco naturale delle Torri del Paine è la palestra ideale per i trekker che arrivano
da ogni parte del mondo con la unica
voglia di camminare, camminare e ancora camminare.
Zaino in spalla ci si arrampica ovunque, si attraversano fiumi su ponti di
legno, su sassi malfermi e si affrontano
impervi massi ai quali ci si attacca con
la voglia di arrivare fin su, fino a dove
il sentiero finalmente finisce per lasciare il posto a quel sipario naturale che è
la vetta. E’ un’enorme soddisfazione
arrivare alla fine, è una piccola scommessa con se stessi, una vittoria sulla
sedentarietà ma soprattutto una gioia
poter ammirare ciò che la natura così
maestosa offre ai nostri occhi.
Foreste incantate i cui alberi assumono
le forme più bizzarre, torba color arancio, muschio verde e i frutti del calafate che sembrano i mirtilli delle nostre
montagne lasciano il posto a distese
maestose di ghiaccio, i cui pinnacoli
sembrano tanti cappelli di fata, che finiscono così, all’improvviso, in pareti
verticali dentro a laghi di un azzurro
lattiginoso. Non sono ghiacciai degradanti, che lentamente e svogliatamente
si lasciano scivolare nelle acque che loro stessi formano, non si immergono
come sirene ammaliatrici i cui corpi rimangono visibili per la metà umana
che maggiormente attira l’attenzione
dei poveri marinai; sono ghiacciai violenti, decisi, muraglie di ghiaccio marmoreo che si tuffano con impeto,
creando frastuono, boati, esplosioni e
onde anomale. I seracchi si staccano
dalla parete mano a mano che il ghiacciaio avanza in un ciclo continuo di
scioglimento e precipitazioni nevose e
poter assistere visivamente ed uditivamente alla caduta di uno di questi, è
un’emozione forte che rimane impressa negli occhi e nel cuore.
Ed infine, credereste mai che la Patagonia possa essere uno dei posti più kitch
da me visitati ultimamente?!
E’ il miscuglio di razze che si è creato al
tempo della colonizzazione a renderla
tale? E’ un melting-pot di gente dalla
pelle ambrata e gli occhi azzurri, di culture, di abitudini culinarie e non, di
origini di nomi e cognomi.
A Gaiman, nel nord della Patagonia,
paese ampiamente menzionato da
Chatwin nel suo libro In Patagonia,
sembra di vivere fuori dal mondo perché, nonostante possa essere diventata
una pura trovata turistica, i gallesi che
lo fondarono ancora vivono delle loro
tradizioni, della loro lingua, dei loro
ninnoli e dei loro dolci. Le Case da Tè
sono un’istituzione, anzi forse sono
semplicemente la normalità perché
nulla è più normale di un inglese -pardon, gallese- che alle 5 del pomeriggio,
anche nella pampa argentina, si dedichi al proprio tea-time. Il tempo si è fermato in questo angolo di mondo, dove
la torta gallese è un ricordo sublime
per il palato insieme a quella di limone,
di ricotta, ai pasticcini e ogni altro ben
di dio. In effetti i primi coloni si diedero da fare e lasciando le loro donne in
cucina, riuscirono a realizzare un sistema di irrigazione tale da rendere fertile e verde un fazzoletto di terra altrimenti arido, ventoso ed inospitale. Più
gli uomini irrigavano e più le donne
sfornavano dolci, sferruzzavano centrini all’uncinetto e copri-teiera di lana,
sistemavano il servizio blu, le bottiglie
da seltz, e attaccavano alla parete le foto color seppia degli avi, della regina, e
I negozi dei piccoli centri abitati racchiudono l’essenza della Patagonia.
C’è bisogno di gratificarsi in un posto
del genere e allora le vetrine si riempiono di ogni più incredibile inutile
paccottiglia. Statuette di santi trafitti,
orologi a forma di delfini in triplo
salto carpiato, acquasantiere piccole
medie e grandi, coltellini che accendono sigarette, palloni da spiaggia
(del resto a gennaio è estate), portatovaglioli a forma di Ande, brocche a
forma di pinguino, bambachas da ap-
ultimamente anche di Lady D.
Chissà da dove proviene questa loro
mania di mostrare tutto ciò che posseggono, che proviene dalle loro famiglie
di origine, questa mania di appendere
tutto? Forse il bisogno di non dimenticare le proprie origini…
A Puerto Natales ricordo di aver dormito in una specie di B&B le cui pareti
all’ingresso sopportavano il peso di: n°
1 orologio rettangolare la cui immagine tridimensionale impressa era la
Mecca che, a secondo di dove ci si spostava nella stanza, si riempiva o si
svuotava di pellegrini (l’orologio logicamente non era funzionante); n°1 poster del primo ammaraggio sulla luna,
fotografie ritagliate da chissà quale
giornale di moda . C’erano diverse
piante rampicati il cui vaso, inchiodato
al soffitto, penzolava con i piccoli e poveri rametti tirati ed attorcigliati intorno a funi che creavano giochi di equilibrismo per atletici ragni patagonici;
ninnoli in stile China, con pendenti
pennacchi rossi e logicamente nessun
lampadario. Quello stava per terra,
forse nel tentativo di mascherarlo da
finta abat-jour, di fianco ad una stufa
ed a una serie di divani rossi finto-comodi sui quali, sedendosi, le ultime
vertebre lombari e sacrali si incastrava-
pendere, immagini sacre e profane
che finiscono sulle credenze di ogni
casa per bene della Patagonia e Terra
del Fuoco.
Ecco perché visitare la fin del mundo:
regala forti emozioni, a volte civettuole come ad Ushuaia di fronte al
cordone di auto anni ‘60 che passa la
domenica pomeriggio per l’unica
strada del centro; altre volte forti e
penetranti come quando si sale sulle
montagne incantate incastonate tra le
Ande, o quando si attraversa il deserto a cui Darwin attribuì delle qualità
negative irresistibili. In effetti il deserto non va immaginato in senso
stretto, non è un deserto di dune e
sabbia, ma una strada senza inizio e
senza fine, un pomeriggio trascorso
su di un pullman a guardare fuori tra
rovi bassi e montagne che compaiono
dal nulla come se uno scenografo
avesse modificato velocemente il palcoscenico. E’ un lago pieno di fenicotteri rosa o una distesa immensa di
pinguini che accudiscono i cuccioli e
che attraversano la strada con quella
loro andatura barcollante per arrivare a tuffarsi in mare. Il deserto non è
mai un vuoto, è semmai un’assenza
di caos, un posto dove c’è abbastanza
tempo per pensare a tutto ciò che è
no tra le molle, dando vita ad un gioco
di morse da cui ci si liberava solo con
mosse di contorsionismo degne del
miglior teatro cinese. Anche la casa
aveva una sua peculiarità, non certo il
fatto che fosse costruita in lamiera
giallo girasole, ma era stretta stretta e
lunga lunga. Lunga come un treno e
stretta come una barca a vela. La vita
all’interno si svolgeva secondo l’asse
nord-sud,ovvero ingresso-cucina. Le
cucine, come in tutti i paesi freddi in
cui il gelo la fa da padrone, risultano il
fulcro della casa e più ci si allontana
dall’equatore più le cucine diventano
kitch. In Svezia sono essenziali perché
c’è l’Ikea, ma a Punta Arenas anche il
Natale diventa una scusa per tirare
fuori dagli scatoloni estivi i Santa
Claus e le renne che si illuminano nel
giardino di casa o dentro le fioriere.
importante e a tutto ciò che è superfluo; un posto dove il silenzio è a volte assordante e i rumori sono primordiali, dove gli animali sono quelli
dell’”Enciclopedia dei piccoli” e gli
odori sono forti perché non inquinati
dal resto del mondo. “Il deserto scopre in se stesso una calma primitiva,
nota anche al più ingenuo dei selvaggi, che è forse la stessa cosa della pace di Dio” , ecco cosa mi è rimasto di
questo viaggio in Patagonia.
La pusilanimidad no penetra en quien
nace marino o viajero en tierras nuevas.
Francisco Pascacio Moreno
Bon viaje a todos...
Stefania Zanni
IMPRESSIONI
DI VIAGGIO
E’ tempo di New York
DI CAMILLA PACELLI
S
ono seduta da Starbucks, regno del caffè take away americano, sorseggiando il mio cappuccino formato gigante, attorno a me un via vai continuo
di persone che entrano per armarsi del
loro bicchierone di cartone e rituffarsi
nella city per eccellenza: New York,
così americana ma allo stesso tempo
così tremendamente diversa dal resto
dell’America. La Grande Mela è il suo
più famoso appellativo dopo una campagna pubblicitaria lanciata dalla
New York Convention and Visitors
Bureau all’inizio degli anni Settanta;
l’origine dell’espressione risale al
mondo del jazz degli anni Trenta e significa “vivere da gran signore”. Da
quel momento in poi “Big Apple” è diventato il simbolo della città.
New York, la grande madama, oggi è
vestita di bianco a causa di una forte
nevicata, fenomeno sempre più raro in
inverno dati i recenti cambiamenti climatici del pianeta. Quando arrivi qui
per la prima volta, magari di sera su
un taxi giallo, e in lontanza ti appare il
suo skyline luminoso, mentre ti immergi lentamente tra le sue protuberanze verticali, senti i tuoi sensi vibrare di fronte alla materializzazione visiva di ciò che ha sempre albergato nella tua mente. E già dall’ inizio sei immediatamente preso dalla febbre da
atmosfera newyorchese. Febbre che respiri attraversando le streets e le avenues. Febbre che penetra dentro di te,
che ti esalta e ti dà un vertiginoso desiderio di operare e di fare. Mi alzo e al
primo incrocio vengo affiancata da
persone in corsa che non si fermano
neanche con il rosso. La vecchia New
Amsterdam, questo fu il suo primo nome, ospita oggi circa 8 milioni di abitanti di lingua ed etnia diversa ed accoglie viaggiatori da ogni parte del
mondo mostrando loro i suoi mille
volti. La New York dell’arte con il Moma, il Metropolitan, il Guggenheim,
contenitori preziosi dei piu’ grandi capolavori dell’estro creativo contemporaneo, moderno ed antico.
La New York dell’architettura, mecca
dello sviluppo verticale con i suoi Empire State Building, Rockefeller Center,
Flatiron Building, delle realizzazioni
stupefacenti come la struttura elicoidale concepita da Frank Lloyd Wright
negli anni Cinquanta per la creazione
H
mostrati direttamente on the road. La
New York per tutti i palati: dal sushi
giapponese, al cinese, al coreano ai
classici americani come la cheese cake,
gli hamburgers, e gli hot dog di Central Park, fino alle grandi botteghe salutiste come il Whole Food di Union
Square, dove volentieri mi perdo. La
New York dei newyorchesi, nei quartieri fuori dai tour turistici dove la vita
scorre normalmente. New York spacco
di diversità, frenesia, azione e glamour. La New York a cui tutti vorrebbero appartenere… I love New York!
Ovunque echeggia questa scritta, dalle
magliette agli scontrini dei taxi, e io
guardandola non posso fare altro che
annuire.
Plaza de la Revolucion, una spianata
di cemento sotto un sole abbagliante
e perforante, campeggia un enorme
catafalco di pietra sul quale sono incise scene della memorabile battaglia, alcune frasi che hanno fatto la
storia, ma soprattutto c’è lui: l’eroico
guerrigliero Chè Guevara che imbraccia un fucile, ha lo sguardo assorto, il berretto con la stella a cinque
punte e la divisa militare. Una statua
bronzea, enorme, bella, fiera e maestosa. E’ un posto privo di rumori fastidiosi, in cui si sente il bisogno di
ascoltare le musiche rivoluzionarie
che un altoparlante socialista sciorina per l’etere come una doccia benefica sulle nostre teste incandescenti.
E’ un luogo di culto, come il mausoleo di Mao a Pechino o quello di Stalin a Mosca, ma è sicuramente il più
emozionante che io abbia visto.
Così tra tanti bicchieri di monito, bevuti sulle scalinate della “Casa della
Trova” di Trinidad, sotto un cielo
soffocato dalle stelle e pieno zeppo
di musica salsa che ti entra nelle vene e nelle gambe, in mezzo a gente di
ogni parte del mondo che balla per le
strade, sui balconi e canta nelle librerie, in riva al mare o nelle piazze; in
mezzo a ciurme di bambini che giocano il baseball cubano, o pelota, anche negli angusti cortili delle scuole,
tra le magnifiche donne che ti mostrano sfacciatamente la loro bellezza e tra uomini che paiono bronzi di
Riace, camminando sul Malecon al
tramonto o nel fango della Sierra, seguendo le orme del vecchio Hemingway e di Errol Flynn tra locali
fumosi di sigari Cohiba e camere
d’albergo, dormendo ovunque in
compagnia di qualche “Ernesto” a
quattro zampe, leggendo proclami
rivoluzionari, sgranocchiando noccioline a pochissimi pesos annaffiate
da strepitosi daiquiri ultra-dissetanti, si è conclusa la mia esperienza cubana. ¡Hasta la victoria, siempre! in
fondo è una frase fatta, ma spinge ad
essere ottimisti, a non mollare mai e
a credere nelle proprie emozioni. Sono quelle che ho voluto raccontare.
con una pazienza ed una calma per
noi agitati e sbuffanti europei, il più
delle volte, stoica. Le serpentine si
snodano stanche e accaldate davanti
alle banche, davanti ai negozi che attirano la clientela con grandi bouquet
di mollette per stendere; nelle farmacie i cui scaffali depauperati da anni di
embargo si ergono maestosi e fieri dei
proclami rivoluzionari che contengo-
magini oniriche. Viaggiare in pullman
attraverso Cuba permette di perdersi
in un ambiente sufficientemente grande a contenere diverse emozioni perché tutto è intriso di storia, di musica,
di magia africana, di calore e colori, di
grande povertà ma anche di dignità e
cultura, oltre che di rum.
Tutto scorre abbastanza lento, nonostante la frenesia del traffico delle
mortalare il bello che c’era e che ora
non c’è più? Significa portarsi a casa
un pezzo di storia in evoluzione o il
risultato di tanti begli ideali andati falliti? Questa non è solo pittoresca miseria, ma è anche squallore atroce.
Ho dormito nelle “casas particulares”
e mangiato, per quindici giorni, banane fresche o fritte, camarones e riso
crollo. Ho scoperto che all’interno di
un sistema ancora così fortemente comunista e totalitario c’è chi possiede
un computer o un microonde e chi, invece, possiede una libreria fornitissima o un pianoforte sgangherato ma
funzionante, una laurea in medicina e
tossicologia e che per arrotondare lo
no al loro interno, orgogliosi di aver
servito la patria, Fidel e Chè Guevara,
Cienfuegos e tutti gli altri Barbutos
che hanno fatto la storia. Altra fila per
ritirare i libri di scuola che lo stato non
fa pagare, per comprare il pane e per
rifarsi lo smalto alle unghie.
Abbondano per le strade di Santiago
de Cuba manicure ambulanti, parcheggiate come mazzi di fiori tra le
macerie di una casa abitata che sembra crollata definitivamente due ore
prima. Un tavolino di cartone bucherellato è il piano di lavoro sul quale
come in un caleidoscopio gli smalti,
infilati all’ingiù, danno forma ad im-
grandi città, dove i torpedoni pubblici, stipati di carne umana e batteri,
tossiscono nuvole di fumo incandescente e maleodorante, e le vecchie
Buick o Chevrolet americane, oramai
patrimonio nazionale, gracchiano sul
Malecon come vecchie maliarde incartapecorite ancora capaci di attirare
l’attenzione dei passanti.
In certe zone dell’Avana tutto è un rudere, tutto è fatiscente, ma a noi turisti
piace proprio per questo, per quell’aria decadente e musicale che si respira
camminando a testa in su.
Forse che fotografare questi ruderi dove la gente in realtà vive, significa im-
stipendio ospita turisti cucinando loro… camarones e riso criollo!
La dignità esiste e si respira, nonostante l’assalto che si subisce per le
strade dei posti più turistici, dove
crocchi di donne chiedono creme e
smalti, penne e colori, magliette e se
fosse possibile anche le scarpe che stai
indossando.
La loro dignità risiede anche nella loro religione intrisa di magia proveniente dalla lontana Africa e di santi
cattolici, che non sono altro che la rappresentazione degli dei pagani. Nella
loro storia, antica e moderna.
Santa Clara è un posto strano, dove in
Cuba … in coda!
o sempre snobbato l’isola di Cuba, forse perché l’associavo alla caotica Varadero, nella
quale un po’ tutti si è
stati una volta nella vita, anche se
non proprio lì, ma comunque in un
posto simile, con un mare turchese,
la sabbia fine fine che ti solletica la
pianta dei piedi abituata agli stivali
invernali, la palma come sfondo, il
caldo e il villaggio “all inclusive” con
le camere dove i letti non si sa perché
hanno tutti dimensioni ciclopiche.
Sono andata a Cuba con l’intenzione
di vederla prima che il personaggio
incontrastato della sua storia moderna passasse a miglior vita, per scoprire che probabilmente non cambierà molto anche senza Fidel, fin
tanto che ci sarà al potere il fratello
Raul. Il carisma non è lo stesso, ma il
cognome sì.
Ho evitato Varadero, ma ho ceduto
volentieri al mare caraibico e all’ombra della palma, perché di isola si
tratta e quando il caldo insistente e le
casas particulares diventavano insopportabili, lo spazio e la pulizia
che la natura può offrire, per corpo e
mente, sono migliori di qualsiasi altra sistemazione. Vivere alla maniera
cubana è per noi inconcepibile, perché inconcepibile è rimanere in fila
q.u.a.r.a.n.t.a.c.i.n.q.u.e minuti per
una cialda di gelato che scivola lentamente come una colata di lava da
un marchingegno da arrotino. Mangiare il gelato a Cuba è un’impresa,
in parte perché non esistono gelaterie, in parte perché quando esistono
il gusto è uno, e solo uno, ed infine
perché una volta che lo si ha in mano
è assolutamente impossibile distrarsi
in altre azioni, pena la liquefazione
istantanea del proprio oggetto del
desiderio.
I cubani accettano le file come parte
integrante della loro quotidianità,
del Guggenheim Museum, ma anche
dei progetti che hanno saputo sapientemente unire classicismo e modernità
come la nuova struttura del Moma di
Yosjio Taniguchi e la ristrutturazione
della Morgan Library di Renzo Piano.
La New York della nightlife con i club
di Chelsea, dove mentre aspetto che il
buttafuori decida le sorti della mia serata inganno il tempo guardando i
graffiti del genio creativo inglese Bansky. La New York della Moda di Madison Avenue con gli shops più chic,
della Fifth Avenue con i suoi negozi
storici come Tiffany, di Soho con le sue
botteghe vintage o di Chinatown, dove si comprano le imitazioni delle borse griffate scegliendole dai cataloghi
Stefania Zanni
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
21
FRANCESCO ORIOLI
E LA LETTERATURA
Orioli ispiratore di Leopardi:
paragrandini e mesmerismo
GLI SCRITTI DI ORIOLI LETTI
DA LEOPARDI
La conoscenza indiretta tra Orioli e
Leopardi ha una prima radice nella
comune cultura umanistica: entrambi
pubblicarono nel 1822 due note in latino sull’edizione di Angelo Mai del
De Republica di Cicerone, nelle pagine immediatamente successive della
stessa rivista, le «Effemeridi letterarie
di Roma»1.
Nella biblioteca di Casa Leopardi sono presenti anche due scritti di Orioli
del 1825-1826 di argomento etruscologico: Spiegazione di una gemma etrusca del Museo R. di Parigi, e in occasione di essa breve Discorso intorno al
sistema di numerazione presso gli antichi toscani (Bologna, Nobili 1825) e
Dei sepolcrali edifizi dell’Etruria media e in generale dell’architettura tuscanica (Firenze, Tipografia fiesolana,
1826) Entrambi furono acquistati o ricevuti in dono e presumibilmente letti da Giacomo. Marcello Andria ha infatti ritrovato un elenco inedito di letture di Leopardi assegnabile al 1827 in
cui figurano i due scritti2. Si trovano
nella Biblioteca Leopardi anche un
opuscolo sui paragrandini metallici
del 1826 (De’ paragrandini metallici
discorso quarto, letto alla società agraria di Bologna il giorno 26 Marzo dell’anno 1826 (Bologna, Marsigli, 1826),
nonché l’intera collezione dei quattro
tomi degli «Opuscoli scientifici» editi
a Bologna nel 1817-1818, dei quali
Orioli fu attivo redattore e contenenti
vari suoi articoli, e le annate della «Biblioteca Italiana» del 1817, con altri
due importanti articoli etruscologici
di Orioli (Di Axia non ben conosciuto,
castello etrusco nel territorio di Viterbo, e de’ cospicui suoi sepolcreti. Ragguaglio di Francesco Orioli e di Pio
Semeria, Accademici di Viterbo e
Squarcio di Lettera del sig. Francesco
Orioli al Direttore della Biblioteca Italiana intorno ad alcune antichità etrusche de’ contorni di Viterbo). Con
ogni probabilità sia i due scritti etruscologici che il discorso sui paragrandini sono arrivati in biblioteca dopo i
tre soggiorni bolognesi di Leopardi
(18-27 luglio 1825 e 29 settembre 1825
– 12 novembre 1826 e 26 aprile – 21
giugno 1827), forse donati dallo stesso
autore, ed è possibile che il discorso
fosse stato ascoltato direttamente da
Leopardi a Bologna.
Ai riscontri diretti va aggiunta anche
la lettura altamente probabile dell’articolo di Orioli presente unitamente
alla recensione alle Canzoni leopardiane del 1824 nel «Bullettino universale di scienze lettere ed arti» del 1825;
si tratta di un breve testo (Scoperta
graziosa ed interessante) che discute
del modo di misurare le piccole correnti elettriche degli elettromotori. La
recensione anonima, ma di Orioli, alle
Canzoni del Conte Giacomo Leopardi
discute l’edizione bolognese delle
Canzoni del 1824, soffermandosi piuttosto sull’erudizione espressa dall’autore nelle note linguistiche, che non
sull’efficacia poetica delle Canzoni.
Nelle predilezioni poetiche di Orioli
emerge l’elogio per l’erudizione dell’autore e per il patriottismo delle sue
liriche, ma non mancano le riserve per
lo stile ridondante e ripetitivo, oscuro
e difficile. Leopardi viene inopportunamente assimilato ai nuovi poeti bolognesi e le Canzoni vengono ridimensionate a una prova di apprendistato poetico3. Le letture leopardiane
degli scritti di Orioli e della sua recensione alle Canzoni, il soggiorno bolognese di Leopardi e le amicizie comuni contribuiranno alla reciproca conoscenza diretta. Ricostruiamone gli
aspetti essenziali.
UN INCONTRO LETTERARIO
L’incontro diretto tra i due, quasi coetanei, avvenne invece a Bologna, tramite l’erudito, storico e antiquario romano Giuseppe Melchiorri, cugino di
Giacomo e amico di Orioli, che invitò
Giacomo a incontrare e a salutare
LE RICERCHE DI ORIOLI NELL’ISPIRAZIONE LETTERARIA DI
LEOPARDI: PARAGRANDINI E
MESMERISMO
L’incontro segnato dai comuni interessi filologici e letterari lascerà spazio
anche allo scambio di notizie e riflessioni relative agli altri interessi scientifici di Orioli, testimoniato dalla presenza nella Biblioteca Leopardi dell’opuscolo De’ paragrandini metallici
del 1826 e degli «Opuscoli scientifici».
Ben incisivi furono a mio avviso gli
apporti teorici e gli spunti poetici che
Leopardi desunse dalle ricerche di
Orioli. Mi soffermerò su due aspetti
che conducono dalla cultura scientifica a quella letteraria.
Le ricerche di Orioli sui paragrandini
metallici, con ogni probabilità conosciute prima dell’incontro diretto con
Orioli (e della conseguente lettura dell’opuscolo del 1826), colpiscono la
fantasia di Leopardi che richiama i paragrandini in una delle prime Operette, nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (22-25 febbraio 1824). Riporto il delicato passaggio ironico della Proposta: «[…] nella
coniare una serie di strumenti immaginari che potrebbero salvare da ben
più pesanti offese morali.
Un’altra felice ispirazione letteraria
Leopardi la trae dagli studi di Orioli
sul mesmerismo, culminati in un volume pubblicato a Corfù nel 18425. Si
tratta di un riferimento che è finora
passato inosservato.
Nella seconda lettera sul mesmerismo6 è presente una riflessione sulla
«virtù operatrice» dello spirito sul
corpo, che renderebbe conto dell’esistenza di un magnetismo animale. La
considerazione è connessa al tema del
collegamento tra la follia e il desiderio
e prosegue individuando le possibili
costruzioni fantasmatiche di oggetti e
visioni: «Se arriva il desiderio a dipinger sugli occhi il fantasma d’un oggetto che non è presente, e a farne udire
ciocchè in realtà non ascoltiamo, e a
farne gustare il sapor di cibi immaginarj, e l’odore d’aromi che non sono, e
a farne infine palpare e trovar solidi
gl’idoli che mentre sono interiori vengono da noi trasportati all’esterno (7);
non sarà egli immensamente più facile che dalla stessa fonte si producano
Orioli per parte sua; esso è databile tra
l’ottobre e il dicembre del 1825 (la lettera di Melchiorri è scritta il 18 ottobre, la risposta di Leopardi che conferma l’incontro è del 19 dicembre)4.
Inutile sottolineare come questo periodo bolognese sarà per Leopardi
molto denso di letture e di frequentazioni intellettuali, favorite soprattutto
dalla contessa Pepoli e dal fratello
Carlo, immortalato nella celebre epistola in versi Al conte Carlo Pepoli.
Orioli faceva parte dell’élite culturale
bolognese e la conoscenza di Leopardi
si aggiunse alle numerose altre sue
frequentazioni, mentre per Giacomo
costituì una delle poche aperture sull’odiosamato mondo letterario. Nell’Epistolario i rapporti tra Leopardi e
Orioli non sono testimoniati da missive dirette, ma lo studioso viterbese risulta citato indirettamente ben ventiquattro volte.
guisa che per virtù di esse macchine
siamo liberi e sicuri dalle offese dei
fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in
mano si abbiano a ritrovare, per modo
di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia,
qualche paracalunnie o paraperfidia o
parafrodi, qualche filo di salute o altro
ingegno che ci scampi dall’egoismo,
dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’
ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’
costumati e de’ magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi, i quali da parecchi
secoli in qua sono meno possibili a distornare che già non furono gli effetti
dei fulmini e delle grandini».
Leopardi, che mostra di aver colto bene il ruolo pratico e il sostrato teorico
dei paragrandini, usa ironicamente la
nuova scoperta come espediente per
quelle meno distinte mozioni di nervi
che si chiamano crisi magnetiche, o
quel ritorno di sensazione di ben essere in che consiste tanta parte della salute, e che sempre n’è il prodotto?» (p.
124). La nota 7 riporta l’esempio di
Tasso, tratto dalla Vita di Manso: «(7)
[…] E Torquato Tasso non ancora impazzato (del tutto), persuaso d’aver
visite frequenti di un buono spirito
che secolui scendeva ad altissimi colloquj, lo mostrava del dito a Giam Battista Manso, ed argomentava contro le
ragioni di lui, e lo pregava ad udirne i
discorsi (Muratori = Forze della fantasia = pag. 107. e segu.)» (p. 124). La
lettera si conclude con l’affermazione
dell’esistenza di una «forza medicatrice della natura nello spirito umano»:
«Il che se io sostenessi [l’esistenza di
una forza medicatrice della natura
nello spirito umano], troverei consenziente la maggior parte de’ medici
animisti, da cui due modi della volontà o almeno dell’attività dello spirito è mestieri che s’ammettano, cioè oltre il comun modo, anche un secondo,
il quale più occultamente opera senzachè il più delle volte ne siamo accorti. Perché lo spirito informante il corpo lo ama e desidera la conservazione
di lui per un desiderio costante ed ingenito, il quale anche quando non vi
riflettiamo vive in noi, e se vive agisce» (p. 129).
Gli scritti sul mesmerismo di Orioli, e
in particolare la seconda lettera sul
mesmerismo possono illuminare sul
titolo e sul motivo ispiratore del Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio
familiare (Recanati, 1-10 luglio 1824),
operetta tra le più riuscite, nella quale
Leopardi appose al titolo la seguente
nota: «Ebbe Torquato Tasso, nel tempo
dell’infermità della sua mente, un’opinione simile a quel famosa di Socrate;
cioè credette vedere di tratto in tratto
uno spirito buono ed amico, e avere
con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Così leggiamo nella vita del
Tasso descritta dal Manso: il quale si
trovò presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo
chiamare». Secondo i commentatori7
la citazione rinvierebbe a una fonte secondaria, il trattato Della forza della
fantasia umana di Ludovico Antonio
Muratori, edito a Venezia, Presso
Giambatista Pasquali nel 1745, e posseduto nella Biblioteca Leopardi nell’edizione uscita a Bologna presso Masi nel 1830. Ma l’operetta è stata scritta nel giugno 1824 a Recanati, ben sei
anni prima della pubblicazione dell’edizione bolognese posseduta da Leopardi: non è quindi possibile che Giacomo abbia attinto a quella fonte. La
presenza degli «Opuscoli scientifici»
in Casa Leopardi e l’assenza del trattato di Muratori al momento della
composizione del dialogo sono dati di
fatto. A essi si aggiunge la conoscenza
diretta tra Orioli e Leopardi, collocata
– si è detto – alla fine del 1825, quindi
successivamente alla stesura dell’operetta, in occasione del quale lo stesso
Orioli può aver consigliato l’acquisto
del trattato Della forza della fantasia
umana di Muratori. La nota della seconda lettera sul mesmerismo di Orioli sembra essere, in definitiva, la fonte
sottaciuta dalla quale Leopardi trae
insieme l’informazione sulle visioni
del Tasso e l’ispirazione per un dialogo tra Tasso e il suo “genio familiare”.
A questi dati va aggiunto l’interesse di
Leopardi per le tematiche studiate da
Orioli nelle sue Lettere e in particolare
per il mesmerismo. Sul mesmerismo
Leopardi si sofferma nel pensiero zibaldonico del 26 luglio 1826: «Nominiamo francamente tutto giorno le
leggi della natura (anche per rigettare
come impossibile questo o quel fatto)
quasi che noi conoscessimo della na-
sta filologia, pratica le lettere italiane non come la moltitudine, ma come i pochissimi; ed è
in età cotanto fresca da potersi sperare che i
suoi studj verranno un giorno a bella maturità.
Ora egli ci ha dato un saggio di quel che vale il
suo giovanile ingegno per questo libricino di
canzoni, seguitate da dottissimi comenti. E i
comenti sono tali che stringono in poche carte
molto tesoro di cognizioni pellegrine, e fanno
chiara parere la sapienza non pedantesca dell’Autor loro. E le canzoni spirano amore di patria, tutte forti, e severe, e maschie: attissime
insomma ad insegnare ad altrui quello a che la
poesia dee sempre intendere, se vuol essere
venerata come buona Dea.
Ma le lodi scompagnate dalle ragionevoli censure non fanno pro che agli sciocchi; ed il sig.
Conte Leopardi ci permetterà di dirgli francamente che noi speriamo assai più dal suo
grande intelletto, che non è questo poco offer-
to a’ lettori in sì piccolo libro.
Intervengono in alcuna delle sue canzoni certe ridondanze non rade, o vogliam dire certe
ripetizioni degli stessi concetti sott’altra forma, che l’A. lascerà volentieri per lo avvenire a
poeti più sterili ch’egli non è. Ugualmente lascerà quel suo favellare sempre per incisi, e
per sentenze smozzicate, il quale se talvolta è
bello, e dà forza, più spesso è cosa di poco diletto, che stanca i lettori e gli ascoltanti. D’altre
minuzie non parleremo, perché sono minuzie.
E niente ancora diremo delle prose frammiste
a’ versi, se non ch’elle hanno bellezza tutta soda e virile, e si raccomandano a chi legge per
purità di modi, più ancora efficaci che gentili,
comecchè gentilissimi. Raccomanderemo per
ultimo a’ filologi le belle note; e per dare al sig.
Conte maggiore testimonio delle molta attenzione che abbiamo posto in leggerle tratti dal
piacere ce ci han fatto, chiuderemo questo ar-
ticolo con alcune nostre considerazioni intorno alquante delle medesime.
Nella prima ci prova con autorità che ingombrare può italianamente dirsi per impedire; e
certo si può, stando anco al significato della
voce, la quale ci viene dalla bassa latinità. Perocchè nell’evo infimo e medio, si disse in latino ingombrare, come il Du-Cange insegna
tratto a gombris, ch’erano alberi abbattuti nella selva, con che si faceva riparo a’ nemici nella strada: e di là venne la significazione metaforica di fare impedimento, ancora quando
la voce si mantenne latina. Ma gl’italiani
quando la tolsero al parlare barbaro pare che
ingannati dalla simiglianza del suono la tenesser nata da ombra, e la reputassero sinonimo
di adombrare, e come dire impedir con ombra
vera o metaforica, cioè di tenebre o d’acciecamento d’animo o simile. Infatti negli esempli
addotti dalla Crusca, ed in quelli dell’A. sem-
pre questo verbo è tolto nel sentimento notato
in ultimo.
La seconda è intesa a chiarire, che si può affigere il pronome esso a persona o cosa non nominata innanzi; e così non male fu scritto dall’A., benché non avesse parlato di Tiranno….. e
correr fra primieri Pallido e scapigliato esso tiranno.
Forse era bene notare che il modo è però da
usarsi con parsimonia; e che viene dalla proprietà della parola latina ipse, della quale questo esso è traduzione. Però negli esempli recati, ed ancora ne’ mentovati versi, tanto è dir esso, quanto lo stesso, che vale come talvolta nel
greco l’articolo a denotar la persona o la cosa
con maggior forza.
Nella terza nota si fa studio per farci intendere che infuso denota asperso o bagnato. E questo ancora è latinismo d’alquanti autori, frequente soprattutto ne’ secoli del ferro ,e del ra-
Note
1 Le note di Orioli e di Leopardi compaiono
sulle «Effemeridi letterarie di Roma», IX, 1822,
ottobre-dicembre; rispettivamente alle pp.
312-332 e 333-340 il fascicolo è letto e registrato da Leopardi nel II Elenco di Letture (databile alla prima metà del 1823), dove compare al
n. 8 «Effemeridi Romane».
2 Cfr. M. Andria, Le tracce della lettura. Un
elenco inedito di carte napoletane, in AA.VV.,
I Libri di Leopardi, I quaderni della biblioteca
Nazionale di Napoli, serie IX, 2, Napoli, Elio de
Rosa, 2000, pp. 9-23 ((«l’inedita lista non può
essere assegnata a data anteriore al 1827», p.
23).
3 È opportuno riportare il testo della recensione per intero: «La valentia del Conte Leopardi
è cosa nota. Buon grecista, buon latinante,
buono e profondo conoscitore della più ripo-
22
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
FRANCESCO ORIOLI
tura altro che fatti, e pochi fatti. Le
pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. –
Oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così
accade p.e. nel Mesmerismo, che tempo addietro, ogni filosofo avrebbe rigettato come assurdo, senz’altro esame, come contrario alle leggi della na-
E LA SCIENZA
tura. Oggi ssa abbastanza generalmente che le leggi della natura non si
sanno. Tanto è vero che il progresso
dello spirito umano consiste, o certo
ha consistito finora, non nell’imparare
ma nel disimparare principalmente,
nel conoscere sempre più di non conoscere, nell’avvedersi di saper sempre
meno, nel diminuire il numero delle
cognizioni, ristringere l’ampiezza della scienza umana. Questo è veramente
lo spirito e la sostanza principale dei
nostri progressi dal 1700 in qua, benchè non tutti, anzi non molti, se ne avveggano. (Bologna. 28. Luglio. 1826.)»
(Zibaldone 4189-4190).
Leopardi ha qui l’atteggiamento compiaciuto di chi vede nascere una diversa prospettiva di conoscenza della
natura, strutturalmente alternativa a
quella meccanicistica e segno del fallimento di quest’ultima.
Il mesmerismo, prima rigettato «come
contrario alle leggi della natura» oggi
viene guardato con attenzione e conduce «i veri filosofi» a sospendere il
giudizio. Leopardi ne trae un insegnamento estendibile allo sviluppo della
conoscenza e della scienza moderna,
che è consistito proprio nel sottoporre
ad analisi critica le presunte conoscenze, «nel conoscere sempre più di non
conoscere» e di conseguenza – contro
l’opinione più superficiale e diffusa –
«nel ristringere l’ampiezza della
scienza umana».
Vi sono sufficienti elementi per attribuire a Orioli oltre ai suoi meriti scientifici e umanistici quello di aver fornito non marginali motivi di ispirazione
a uno tra i maggiori poeti e scrittori
italiani.
iterando al sig. Leopardi le nostre congratulazioni», Anonimo (ma F. Orioli), Canzoni del
Conte Giacomo Leopardi (Originale), «Bollettino universale di scienze lettere ed arti», vol.
I, 1825, pp. 85-87.
Giuseppe Melchiorri, Bologna 19 Dicembre
1825) («Orioli ti saluta.»), in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, 2 voll.,
Bollati Boringhieri, Torino 1998, vol. I, nn. 749 e
800, pp. 966 e 1030.
5 Si tratta di A. Cogevina, F. Orioli, Fatti relativi a mesmerismo e cure mesmeriche, con una
Prefazione storico-critica del Dottore Angelo
Cogevina, Tipografia del Governo, Corfù 1842,
considerata «la prima opera di magnetismo
uscita in lingua italiana» (C. Gallini, La son-
nambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Feltrinelli, Milano
1983, p. 13), che rappresenta un punto di riferimento nella bibliografia italiana relativa al
movimento di Franz A. Mesmer, che teorizzò –
come è noto – a partire dal 1766 l’esistenza di
un fluido magnetico proprio di alcuni organi
umani e che ritenne di poter guarire alcune
malattie tramite forme di ipnosi magnetica.
6 Lettera II. Mesmerismo nella sua maggior
semplicità. Definizione del medesimo. Forza
del desiderio, della volontà, della speranza,
della fiducia, del timore, dell’attezione nel
produrre o nel togliere i morbi e generalmente nel perturbare il corpo. Riflessioni generali
e particolari, «Opuscoli Scientifici», 1817, pp.
117-140.
7 A partire da G. Leopardi, Operette morali
con Proemio e note di G. Gentile, terza ed. riveduta, Zanichelli, Bologna 1940 p. 103.
Gaspare Polizzi
Note
me; e forse rilevava l’avvisarlo.
In altra appresso è favellato del vocabolo evviva. Noi lo crediamo nato o per giuntura delle
due parole e’ viva, o meglio perché gridandosi
il viva più volte di seguito, solevano in antico
le repliche unirsi colla particella copulativa e,
la quale alla lunga formò colla voce seguente
un solo vocabolo kaq’ufhn, raddoppiata secondo l’uso la consonante.
Ma ci accorgiamo che il discorso trascorre alla
pedanteria. Perciò lo tralasciamo volentieri,
4 Cfr la lettera Di Giuseppe Melchiorri (Roma
18 novembre 1825): «Quando sarà in Bologna
di ritorno il mio amico Prof. Orioli, ti prego di
conoscerlo, e salutarlo da mia parte». Leopardi risponderà telegraficamente con la lettera A
Dell’intelligenza o dell’anima degli animali
C
on la mia firma e con l’argomento che tratto in
questo articolo non vorrei
accrescere l’inflazione,
già notevole in questa rivista, del cognome Orioli. Rivista e
titolo della stessa che, d’altronde, non sono stati creati o scelti da me.
L’idea di scrivere due righe
sull’intelligenza
degli
animali mi è venuta rileggendo per la terza volta,
e sempre con grande piacere, quel piccolo capolavoro che è Viaggio in Corsica di James Boswell (1740-1795):
opera breve ma scintillante di intelligenza, di humour, di originalità. Doti
che, peraltro, appartenevano al suo
autore.
Primo tra i Lord inglesi ad allargare il
solito “Grand Tour”,
spingendosi fino in
Corsica, in quel
tempo (1765) ignorata dal turismo degli aristocratici, ma
al centro dell’attenzione politica delle grandi
Pasquale Paoli
potenze europee perché, sottomessa
per secoli a varie dominazioni straniere e soprattutto a quella genovese particolarmente dura, si era finalmente
resa autonoma, anche se per breve
tempo, sotto il governatorato di Pasquale Paoli.
E proprio per conoscere questo personaggio, unico nel suo genere, Boswell,
munito di una lettera di presentazione
di Rousseau, intraprese questo viaggio che lo entusiasmò, nonostante le
difficoltà incontrate: sentieri impervi,
fame, freddo, alloggi spesso di fortuna e una malattia finale dovuta ai disagi patiti.
In Corsica ritrovò l’Eden e in Pasquale Paoli un modello di
perfezione umana:
attraente e interessante d’aspetto,
colto, ricco di
virtù antiche, autoritario e umano
nello stesso tempo.
Alla fine del resoconto del viaggio Boswell lo
definisce con queste parole: «È uno di
quegli uomini che si trovano ormai
solo nelle Vite di Plutarco».
Nelle ore lasciate libere dalla sua attività politica, militare, giuridica e amministrativa, Paoli si abbandonava
volentieri a lunghe conversazioni con
il suo ospite scozzese. Conversazioni
che trattavano gli argomenti più vari.
«Il suo spirito è portato sia a speculazioni filosofiche che agli affari di Stato», dice Boswell che lo ascoltava volentieri, discuteva con lui e ne annotava le parole. Parlarono così della melanconia (dai cui assalti improvvisi
Boswell era spesso colpito), dei sogni,
delle premonizioni, infine dell’intelligenza degli animali. Tutti argomenti
su cui cominciavano a indagare gli
scienziati dell’epoca. Pasquale Paoli
era interessato particolarmente a quest’ultimo argomento e aveva osservato che le bestie, in qualche maniera,
comunicavano tra loro, che esisteva
un loro linguaggio segreto, soprattutto degli uccelli.
«Forse tra mille anni i nostri discen-
denti saranno istruiti su questo argomento come noi oggi lo siamo su altri e la conoscenza del linguaggio degli animali allargherebbe la sfera delle comunicazioni sociali», diceva.
Ora questo argomento aveva interessato anche Francesco Orioli, figlio
tardivo del secolo dei lumi (17831856), che nel 1844/45 pubblicò a
Corfù, dove era esule politico, Spighe e Paglie, un’opera periodica in 4
volumi in cui dedicò alcuni capitoli
allo studio del comportamento degli
animali. – Ma a questo punto l’argomento diventerebbe troppo difficile
e complicato da trattare, per me, essendo i testi in larga parte scientifici
(se si escludono parecchi aneddoti
divertenti e strani riguardanti animali soprattutto del passato) ed
espressi in una lingua che non è
quella attuale. Cedo quindi il campo,
o meglio la penna, a Massimo Biondi
che, da medico e giornalista, lo tratterà egregiamente.
Maria Orioli
Quel che non hanno gli animali
Francesco Orioli
H
anno gli animali un’anima? si chiedeva nei primi anni Quaranta dell’Ottocento Francesco
Orioli durante l’esilio
comminatogli per aver partecipato,
una dozzina d’anni prima, alla rivolta di Bologna contro il potere ecclesiastico. E se l’hanno, come è possibile dimostrarla? Se invece non l’hanno, come si spiegano gli atti e i comportamenti in apparenza “intelligenti” che talvolta esprimono? Comportamenti come il lasciarsi morir d’inedia dei cani alla morte dei loro padroni, o l’intervenire a difesa di un
essere umano vedendolo in pericolo.
E azioni complesse, come gli
scherzi e i dispetti compiuti
dalle scimmie, o l’abilità di
certi uccelli domestici di ricantare con esattezza i motivi
musicali appena ascoltati.
Tempo per riflettere su simili
questioni Orioli ne aveva parecchio, a Corfù, dove s’era stabilito portandosi appresso libri, riviste e i fasci di carte nei quali per decenni aveva riversato riflessioni e osservazioni scientifiche. Tutti materiali che si sarebbero rivelati preziosi,
aiutandolo a dare risposta a questi –
e ai molti altri – interrogativi che
contrappuntavano le sue giornate e
le pubblicazioni che dall’inizio del
secolo andava inanellando su
un’infinità di materie e di argomenti.
Una ventina d’anni prima assieme a un collega, successivamente da solo, Orioli aveva
compiuto esperienze su rane,
uccelli e tartarughe, scoprendo
che anche privati di gran parte del cervello quegli animali
producevano un’ampia gamma di azioni, come mangiare,
girare su se stessi, chiudere gli
occhi di fronte a luci molto intense e così via. Azioni meccaniche,
certo; istintive; semplici reazioni
agli stimoli. Dimostrazione evi-
dente, però, che i centri nervosi “inferiori” possono funzionare e dirigere i
movimenti del corpo indipendentemente dal cervello.
Erano osservazioni interessanti,
ma non in grado di giungere al
cuore del problema, confermando o smentendo la presenza
dell’anima negli animali. Tanto
più che fenomeni dello stesso
genere accadono talvolta anche
tra gli uomini, i quali – sottolineava Orioli – un’anima ovviamente ce
l’hanno. Negli umani, quando la mente è distratta o assorbita nei pensieri, e
il cervello è rivolto “altrove”, il corpo
agisce in maniera intelligente per conto suo, ad esempio camminando tra la
gente senza urtarla, mangiando senza
avvertire i sapori, grattandosi una
guancia senza la consapevolezza
del prurito.
Ben altro è ciò che nell’uomo denuncia la presenza dell’anima:
la sua coscienza, innanzi tutto, che è coscienza di sé e coscienza di esistere; ma anche il linguaggio, tramite il
quale quella coscienza si
manifesta all’esterno e si
rende nota al mondo.
Ebbene i “bruti”, cioè
gli animali, proprio di
questa funzione spirituale, superiore, son
privi. E ne son privi sempre, che abbiano o non abbiano al loro posto il
cervello, e che questo funzioni o sia
fuori uso.
Ma se mancano d’anima, e dunque
di intelligenza e di intenzionalità, di
libero arbitrio e di consapevolezza,
come si spiega che si comportano talora in maniera intelligente e intenzionale, autonoma e cosciente? È una
semplice illusione, rispose Orioli su
Spighe e Paglie, dovuta al fatto che
se «tra l’uomo e tutto il regno de’
bruti, io trovo frapposto un abisso»,
pure con alcuni di loro può instaurarsi un’attrazione “magnetica”,
ipnotica, una speciale forma di affetto, che in certi momenti può spingere gli animali domestici ad azioni
“sensate” in difesa e a favore dell’uomo. Era un modo, in definitiva, per
recuperare con compassione e sentimento quel che il ragionamento logico e l’osservazione scientifica sembravano negare escludendo l’anima,
ovvero il rispetto e la considerazione
per altre forme di vita del creato.
Una posizione di cui forse Orioli non
si rese conto fino in fondo, ma che
certamente intuì, anticipando anche
qui, e di molto, l’evoluzione della
sensibilità moderna.
Massimo Biondi
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
23
STORIA
Il Patrimonio di San Pietro in Tuscia
negli anni dell’ultimo “papa re”
U
no degli aspetti del pontificato di Pio IX che ne
fanno uno dei personaggi
di maggior rilievo dell’Ottocento sono i quasi
trentadue anni della sua durata, che tenendo conto del fatto che la tiara papale è una conquista dell’età matura trovano un riscontro solo nei sessantotto anni di regno di Francesco Giuseppe d’Austria e nei settantaquattro
di Vittoria d’Inghilterra. Questo lungo
periodo fu caratterizzato da eventi di
grande importanza sul piano religioso, come la proclamazione del dogma
dell’Immacolata Concezione e lo svolgimento del XX Concilio Ecumenico
(il Vaticano Primo), ma registrò anche
il crollo della sovranità temporale della Chiesa, residuo anacronistico di
una realtà sociale e politica appartenente ormai al passato: una realtà nel
cui contesto si era collocata, alcuni anni prima, la pubblicazione del Sillabo.
Proprio dalla molteplicità degli avvenimenti che si susseguirono in quei
decenni scaturiscono le diverse valutazioni dell’azione svolta da Pio IX
nella sua duplice veste di pontefice e
di capo di Stato. E’ soprattutto in questa seconda funzione che si collocano i
rapporti con la città di Viterbo e con la
provincia del Patrimonio di San Pietro
in Tuscia, di cui la città era il capoluogo. Appunto l’analisi di questi rapporti costituisce il tema della presente
trattazione.
Il discorso si limiterà a due momenti
particolari del pontificato di Pio IX.
Verranno, dapprima esaminate le diverse reazioni dell’opinione pubblica
viterbese alla notizia della sua elezione ed alle vicende che caratterizzarono i suoi primi anni di regno, fino alla
crisi politica che portò alla sua fuga a
Gaeta ed alla conseguente instaurazione della Repubblica Romana. Si
passerà, poi, a parlare della visita alla
città da lui compiuta nel settembre del
1857, al termine di un lungo giro nelle province orientali dello Stato.
Prendiamo, quindi, le mosse dal giugno del 1846, quando il Conclave, riunito dopo la morte di Gregorio XVI
per eleggerne il successore, innalzò al
pontificato il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assunse il nome di Pio IX. Tale scelta fu vista dagli
ambienti liberali con una simpatia
giustificata da alcuni atteggiamenti da
lui assunti nel 1831, quando era vescovo di Spoleto e, dopo il fallimento dei
moti rivoluzionari, aveva favorito il
ritorno alle loro case degli uomini della colonna Sercognani, che avevano
invano tentato di marciare verso Roma. La simpatia era stata resa ancora
più viva dall’invocazione: “Dio, benedici l’Italia!” pronunciata dal neopontefice all’indomani della sua elezione.
E’ significativa, in proposito, la lettera
in cui il viterbese Francesco Mencarini, scrivendo da Roma alla sorella Teresa, esprime le impressioni suscitate
in lui dalla prima apparizione di Pio
IX al popolo: un rapido ritratto, da cui
trapela chiaramente la simpatia del
giovane per il personaggio, che descrive scherzosamente come “un papa
che Dio ce lo conservi, grasso e grosso
che vi farebbe invidia a vederlo!”. Poi,
passando ad un tono più serio, aggiunge “che esso è il più buono, il più
ottimo ed il più degno uomo di questa
terra, e che giustamente siede sopra
l’universo”. E’ un elogio tanto più importante in quanto proviene da un uomo decisamente aperto alle idee liberali: una posizione, questa, che possiamo riscontrare senza possibilità di
equivoci due anni dopo, allorché egli
figura tra i volontari del contingente
24
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
inviato dallo Stato Pontificio sulla linea del Po nella fase iniziale della prima guerra d’indipendenza; inoltre,
dopo la conclusione catastrofica del
conflitto, lo vediamo accorrere alla difesa delle città venete insorte e della
Repubblica Romana.
Tuttavia, già negli ultimi mesi del
1848 l’entusiasmo dimostrato nei confronti del nuovo pontefice dagli abitanti della provincia del Patrimonio di
San Pietro in Tuscia venne in parte
smorzato da una delusione. Tra le varie idee innovatrici attribuitegli c’era
anche il superamento dell’avversione
dimostrata da Gregorio XVI e dal suo
Segretario di Stato, cardinale Lambruschini, nei confronti della ferrovia,
considerata un pericoloso mezzo di
diffusione delle idee rivoluzionarie.
Perciò il Consiglio della Comunità di
Viterbo considerò giunto il momento
di sollecitare la realizzazione di un
una linea ferroviaria che favorisse lo
sviluppo economico e sociale della
provincia. Il Consiglio, quindi, nella
sua seduta del 3 agosto 1846 nominò
una deputazione, di cui entrarono a
far parte il conte Oreste Macchi, il conte Cesare Pocci, il dr. Bernardino Mencarini e Filippo Saveri, attribuendole
“l’impegno di tener dietro con la parola, con lo scritto e con la persona a
quanto si sente vociferare e progettare, iniziare da vicino e da lontano su
questo argomento per accorrere prontamente a far valere i nostri diritti”.
La deputazione dette inizio ai suoi lavori affidando all’ing. Pietro Bocci
l’incarico di redigere il piano di una linea che da Roma, passando per Civitavecchia, Viterbo ed Orvieto, raggiungesse il confine toscano presso
Città della Pieve. Al progetto fu dato
dal suo estensore il nome di Ferrovia
Pia Cassia, affiancando così il nome
del pontefice regnante a quello della
via consolare romana che costituiva la
più importante arteria di collegamento fra i territori interessati. Nell’opinione degli organismi governativi
prevalse, invece, la scelta di un itinerario considerato d’importanza maggiore e di primaria urgenza. Pertanto,
la notificazione emanata il 7 novembre dalla Segreteria di Stato indicava
come tracciato della costruenda ferrovia la direttrice Foligno - Perugia Città di Castello, spostandola lungo la
Valle del Tevere ed escludendo così
del tutto Viterbo ed il suo territorio.
I viterbesi, tuttavia, non disarmarono.
Lo testimonia chiaramente un opuscolo pubblicato a Montepulciano alla fine del 1846 (1), nel quale le argomentazioni a sostegno del tracciata della
Pia Cassia sono seguite da una serie di
suppliche inviate al papa dai rappresentanti delle popolazioni della Tuscia
e di parte della provincia di Perugia.
Nel discorso iniziale si afferma che,
qualora venisse realizzato il tracciato
esposto nell’art. 4 della Notificazione,
“esse Provincie e loro Abitanti si vedrebbero ridotti all’estremo dei mali”,
e si sostiene che quello previsto dalla
Pia Cassia, oltre a consentire un collegamento più rettilineo e più breve tra
Firenze e Roma, sarebbe risultato di
meno costosa realizzazione ed anche
di più sicura percorrenza, per il minor
numero di ostacoli naturali presenti
sul percorso. Inoltre, viene precisato
che esso avrebbe meglio favorito i
rapporti con il nord dell’Italia e con
l’Europa occidentale e, collegandosi
alle più importanti vie di traffico internazionale, anche quelli con l’Africa,
l’America e l’Oriente, scongiurando
inoltre il pericolo di concorrenza rappresentato da un eventuale collega-
mento diretto di Genova e Livorno
con Ancona, che avrebbe escluso dal
giro le province dello Stato della Chiesa, con loro grave danno economico.
La costruzione della linea ferroviaria
venne, però, rinviata sine die. Analoga sorte toccò al tentativo operato nel
1862 da due imprenditori viterbesi,
Giacomo e Paolo Marzetti, che, rifacendosi al progetto della Pia Cassia,
ripresero l’idea di collegare Viterbo
con il litorale tirrenico e con la Toscana. Solo nel 1869, dopo sette anni d’infruttuosi tentativi, essi riuscirono ad
ottenere un finanziamento dal Consiglio Provinciale per realizzare il tracciato ferroviario Viterbo - Orte; ma la
caduta dello Stato Pontificio ne fece
naufragare la realizzazione.
Anche a Viterbo giungono, dopo il 15
marzo 1848, gli echi dell’entusiasmo
suscitato dalla concessione della costituzione da parte di Pio IX, vista come
premessa dell’auspicata partecipazione dello Stato della Chiesa al movimento di liberazione dell’Italia dallo
straniero. Ne è una testimonianza la
lettera indirizzata da Roma al padre, il
23 marzo, dal ventunenne Angelo
Mangani, un giovane aperto alle idee
liberali e destinato a divenire, nel dicembre del 1870, il primo sindaco di
Viterbo italiana. E’ una narrazione vivace dell’entusiastica dimostrazione
popolare seguita alla notizia dell’imminente entrata in guerra del Piemonte contro l’Austria, alla quale sembrava ormai certa la partecipazione degli
altri principi italiani. Nella lettera si
racconta degli stemmi imperiali gettati a terra e bruciati in Piazza del Popolo, dopo essere stati trascinati per il
Corso attaccati alla coda di asini, e del
senso di umorismo di un dimostrante,
che aveva attaccato sul muro della sede dei Gesuiti un cartello con la scritta “Est Locanda”. Come molti altri
abitanti della provincia, Mangani si
arruolò nei reparti di volontari in partenza per la linea del Po (2).
L’atteggiamento favorevole al nuovo
pontefice trova, in seguito, una particolare eco nelle parole dei viterbesi
che avevano vissuto più direttamente
gli avvenimenti di quei giorni. E’ il caso dello scienziato e uomo politico
Francesco Orioli, allora docente nell’ateneo bolognese. Era stato fra i promotori dei moti del ’31 nelle province
settentrionali dello Stato della Chiesa.
Entrato a far parte del governo rivoluzionario come Ministro dell’Istruzione Pubblica, aveva poi trascorso sedici anni in esilio tra Parigi e Corfù, fino
a quando l’amnistia promulgata da
Pio IX gli aveva riaperto la via del ritorno in patria. Già nella ”Lettera al
Marchese Massimo D’Azeglio”, del 19
marzo 1847, egli sosteneva la validità
delle norme sulla libertà di stampa
contenute nell’editto emanato quattro
giorni prima dalla Consulta, sorta in
applicazione di una norma della Costituzione. Eletto successivamente dai
viterbesi come membro di questo organismo, con votazione quasi plebiscitaria (244 suffragi su 278 votanti),
egli tuttavia stentò a riconoscersi nella
posizioni ideologiche dei nuovi patrioti, e quindi si trovò ben presto in
disaccordo sia con i membri del governo e molti deputati, sia con una
consistente parte del suo stesso elettorato, attestatasi su posizioni progressiste. Fu, tuttavia, rieletto a novembre,
ma i disordini culminati, proprio in
quei giorni, nell’uccisione del ministro Pellegrino Rossi lo convinsero a
non accettare la nomina (3).
Questo rifiuto dei metodi violenti con
cui si volevano cambiare le cose lo
convincerà a rimanere estraneo all’esperienza rivoluzionaria della Repubblica Romana e gli detterà, negli anni
successivi, alcune pagine degli “Opuscoli Politici”, visti da molti come un
ripiegamento su posizioni conservatrici, in contrasto col suo passato. Tra i
passi di quest’opera che hanno fornito
maggiori spunti polemici si colloca la
difesa dell’istituto del fedecommesso,
considerato un mezzo necessario alla
sopravvivenza dell’aristocrazia: una
classe sociale che, secondo l’autore,
consentiva di “trovare ad ogni necessità i veri patres patriae, preparati a
tutti i bisogni” (4). Ancora più discussa la sua affermazione che non sempre
nell’intenzione del loro promotore costituivano solo un punto di arrivo e si
configuravano come una serie di concessioni che, nello spirito con cui venivano elargite, sembravano piuttosto
ricollegarsi idealmente a taluni aspetti del “dispotismo illuminato” settecentesco.
Tuttavia, il testo dell’allocuzione non
segnò, all’atto della sua pubblicazione, una svolta in senso negativo dell’opinione pubblica nei confronti del
pontefice e della sua politica, come a
distanza di oltre un secolo e mezzo ci
potrebbe apparire. Lo possiamo dedurre attraverso la corrispondenza intercorsa fra due dei volontari viterbe-
Angelo Mangani, primo Sindaco di Viterbo.
la ragione sta nella volontà e nell’opinione dei più, perché “il maggior numero è quello degli ignoranti”. In
realtà, Orioli rimase costantemente fedele all’ideale di una rivoluzione
compiuta da gentiluomini e da borghesi, come quella cui aveva attivamente partecipato molti anni prima,
ed il lungo periodo dell’esilio non gli
aveva consentito di seguire le mutazioni nel frattempo sopravvenute negli ambienti politici italiani. Del resto,
il fatto che egli continuasse a giudicare positivamente la figura di Pio IX è
anche da attribuire al ricordo della
moderazione di cui l’allora vescovo di
Spoleto aveva dato prova nei confronti degli sconfitti nei moti del ’31.
L’allocuzione del 29 aprile, accolta anche da molti viterbesi come un tradimento, segna in sostanza solo la fine
di un equivoco, fondato su un’errata
interpretazione del “liberalismo” di
Pio IX da parte di coloro che avevano
visto nel nuovo pontefice il simbolo
della riscossa dell’Italia. Per essi, infatti, la concessione delle riforme che
avevano caratterizzato l’inizio del suo
pontificato avrebbe dovuto segnare
l’inizio di un lungo cammino verso la
realizzazione dei loro ideali, mentre
si nel corpo di spedizione pontificio, i
cugini Francesco ed Albino Mencarini, ed i loro familiari (5).
La colonna, agli ordini dei generali
Durando e Ferrari, si era attestata sulla sponda del Po, con il preciso compito di limitarsi a difendere i confini dello stato da eventuali attacchi, senza
intervenire attivamente nella guerra
che si stava combattendo in Lombardia e nel Veneto. Nei suoi ranghi,
però, non erano pochi coloro che sostenevano la necessità di correre in
aiuto delle città venete insorte contro
gli austriaci, e questo atteggiamento
trovava appoggio, a Roma, presso alcuni membri del governo. Si spiega in
tal modo come il 1° maggio, due giorni dopo l’allocuzione, anziché obbedire alle disposizioni in essa contenute,
il generale Ferrari ordinò alla sua divisione di varcare il fiume e di raggiungere Treviso.
Era, questa, una decisione presa in
aperto contrasto con le disposizioni
emanate da Pio IX, ma a chi viveva
quegli avvenimenti in prima persona
non apparve subito tale. Ancora nelle
settimane successive, quando lo sfortunato scontro del 9 maggio presso
Cornuda aveva costretto i volontari di
Ferrari a ritirarsi entro le mura di Tre-
STORIA
viso, e poi a Mestre, ed aveva suscitato pesanti sospetti d’incapacità o, addirittura, di tradimento nei confronti
del generale, il pontefice continua ad
essere visto da questi giovani come il
loro legittimo sovrano spirituale e
temporale. Se molti di essi - circa novecento, tra cui vari viterbesi - in preda ad una crisi di sfiducia chiedono di
essere smobilitati e tornano alle loro
case, i due cugini Mencarini rimangono con gli irriducibili, che vanno a
combattere a Vicenza e successivamente a Venezia.
E veniamo ora alla corrispondenza di
cui s’è detto sopra. Il 1° giugno il dottor Bernardino Mencarini, scrivendo
al figlio Francesco allora a Vicenza,
smentisce la diceria secondo cui i generali di Carlo Alberto avrebbero scoperto una segreta intesa del sovrano
con l’Austria, e dice che si tratta di
una “voce sparsa ad arte degli Ultra
Liberali, dalla mala razza dei perfidi
Repubblicani, i quali vogliono abbattere tutti i troni”, ed aggiunge: “Vogliono sottrarci dai Tiranni del trono
per metterci sotto i tiranni del trivio,
che sono essi”. Fa poi una lista di que-
ha lasciato da alcuni giorni Roma per
il sicuro rifugio di Gaeta. Il giovane,
commentando il fatto, scrive da Venezia al fratello: “Chi vede nella fuga del
Papa la nostra risorsa, chi la nostra
salvezza. Però tutti lo detestano”. Un
giudizio che, sebbene implicitamente,
egli sembra condividere.
Gli avvenimenti stanno ormai precipitando. Nel febbraio troviamo i due cugini alla difesa di Roma, insieme ai
fratelli Caprini e ad altri viterbesi.
Coerente con i suoi principi, il vescovo di Viterbo, Gaspare Bernardo Pianetti, conferma pubblicamente la sua
fedeltà al papa, ma è costretto a lasciare la città.
Comunque, la partecipazione attiva
della provincia alla difesa della Repubblica Romana fu numericamente
limitata, ed anche le simpatie, più o
meno occulte, nei confronti del nuovo
ordine politico non sopravvissero a
lungo alla conclusione dell’esperienza
repubblicana. In complesso, questa
drammatica parentesi del pontificato
di Pio IX non sembrò avere scalfito
sensibilmente l’atteggiamento di ossequio nei suoi confronti dimostrato
rarlo il suo monumento più rappresentativo.
Tra i luoghi visitati da Pio IX nel pomeriggio del primo giorno figurano il
monastero di San Bernardino, dove
l’illustre ospite rese omaggio alla tomba di Santa Giacinta Marescotti, e l’Ospedale Grande degli Infermi, “ove fu
ricevuto dal Priore e dai Sigg. Deputati, i quali animati oggi più da vero spirito di carità, che da un vanto sistematico di mal’intesa economia, ricevono
le più affettuose benedizioni dai poveri infermi”. Una frase in cui l’avverbio
“oggi” rischia di dare un significato
ambiguo alla lode ingenuamente formulata sul conto degli amministratori
del pio istituto.
Era il 3 settembre, vigilia della festa
della patrona Santa Rosa, e sul far della sera il pontefice venne condotto al
Palazzo dei Priori per assistere, da
una delle sue finestre, al tradizionale
trasporto della “Macchina” eretta in
onore della Santa. In una delle sale del
palazzo gli fu presentato un suo busto, dono dello scultore Tenerani che,
nella relazione, viene definito il “Canova del XIX secolo”. Agli alti prelati
che costituivano il seguito del papa si
aggiunse quella sera il cardinale Pecci,
arcivescovo di Perugia, destinato a
succedergli con il nome di Leone XIII.
La suggestione del campanile luminoso che, nel buio della notte, passa ondeggiando per le vie suscita sempre
una profonda emozione in coloro che
vi assistono, particolarmente nei forestieri che lo vedono per la prima volta. A questa suggestione non si sottrasse Pio IX che, al termine, ammise
al bacio del piede il costruttore della
Macchina, Bordoni ed i portatori, o
facchini, “i quali furono ancora dalla
sua liberalità regalati in danaro”. La
sua venerazione per la patrona della
città si espresse, la mattina dopo, nella Messa da lui celebrata nella chiesa
di Santa Rosa, conclusa con l’omaggio
al corpo della Santa giovinetta e con la
visita alla sua casa natale. Nel resto
della giornata si succedono altre visite, tra cui viene particolarmente ricordata quella al Santuario della Madonna della Quercia, dove giunge accompagnato dal vescovo Pianetti e dal cardinale Pecci. Viene poi narrato, nella
relazione, un suo atto di liberalità nei
confronti dei cittadini che tanto calorosamente lo avevano accolto: seguendo l’esempio di Pio VI e di Gregorio XVI, ricordati in due lapidi collocate in una sala del Palazzo dei Priori, “… si degnò permettere che la nobilissima famiglia Mastai fosse ascritta al Patriziato Viterbese”.
Nella giornata del 4 prosegue incessante la serie degli incontri con le comunità religiose cittadine; e tali incontri offrono talora l’occasione per esternare lagnanze o esprimere desideri. E’
il caso della superiora della suore di
Santa Giacinta che, parlando dell’ospedale, rileva “che alla perfezione di
quel pio stabilimento mancherebbero
solo le Suore di Carità”; una carenza
che l’illustre ospite dice essergli già
nota, perché gli era stata rispettosamente segnalata, poco prima, dal
Gonfaloniere. Tra coloro che vengono
ammessi alla presenza del pontefice
figura anche un ingegnoso artigiano
viterbese, il meccanico Giovanni Augusto Mercati, che “offerse alla vista
del S. Padre una graziosa macchinetta
di S. Rosa, sulla quale egli ha lavorato
15 anni”. Si tratta di un modellino semovente (naturalmente, a molla), alto
63 centimetri, con i lati di base di 15
centimetri e mezzo; l’altezza dei facchini e di centimetri 5,7.
La mattina del 5, alla partenza per Roma del corteo papale, una grande folla si assiepò lungo le vie da esso percorse, e soprattutto sulle due piazze,
del Duomo e del Comune, “tuttoché
fosse nel primo mattino, ed il tempo
pioggia dirotta menasse”. Nell’incontro di congedo con il Delegato Apostolico, Pio IX esprime la sua gratitudine
per questa testimonianza d’affetto e di
devozione. Scrive in proposito il cronista: “Ed a conferma della soddisfazione di S. Santità, quando Sua Eccellenza Monsignor Delegato Roccaserra
si recava in Ronciglione per riceverla e
congedarsi, Essa si degnava incaricare
Monsignor Delegato a ringraziare
l’E.mo Pianetti e l’Ecc.mo Gonfaloniere e Magistratura dell’affettuoso ricevimento e delle grate accoglienze avute nella Città di Viterbo, della quale
serberebbe sempre una grata memoria”. E’ il momento conclusivo della
visita, i cui giorni - secondo l’anonima
relazione - saranno ricordati dalla
città di Viterbo “siccome i più solenni
ed avventurati per formarne una pagina gloriosissima della sua storia”.
Passiamo ora alla visita fatta dal pontefice a Viterbo nel settembre del 1857,
a conclusione di un giro nelle province orientali dello Stato. Fu l’ultimo
suo incontro con le popolazioni di
quei territori, destinati, di lì a pochi
anni, ad entrare a far parte del Regno
d’Italia.
Il capoluogo della Tuscia non era incluso nel progetto iniziale dell’itinerario. Per questo, alla notizia dell’imminente inizio del viaggio, la municipalità viterbese inviò a Roma mons. Carlo Cristofori ed il Gonfaloniere Oreste
Macchi, per chiedere al pontefice di
passare anche da Viterbo. Ai due,
però, fu risposto che non era possibile
ottenere il richiesto colloquio.
Tuttavia quando, nel mese di maggio,
Pio IX dette inizio al suo viaggio verso le province del versante adriatico,
ed a Civita Castellana, luogo della sua
prima tappa, si recarono ad ossequiarlo due Anziani della municipalità viterbese, l’avv. Antonio Calandrelli e
Francesco Marzetti, egli dette loro
buone speranze sulla possibilità di inserire nel suo programma una visita a
Viterbo. Parlando della città, il papa
espresse la propria ammirazione per
le sue risorse termali e per le sue bellezze artistiche, ma dimostrò anche di
non ignorare le difficoltà in cui si dibattevano le finanze comunali.
Il 13 agosto venne finalmente diramato l’annuncio ufficiale della visita, che
avrebbe avuto luogo dal 3 al 5 settembre. Quattro giorni dopo, un avviso
del Gonfaloniere portò la notizia a conoscenza della popolazione. Si provvide a sistemare adeguatamente il Palazzo dei Priori, nel quale la Comunità
intendeva alloggiare il pontefice durante la sua permanenza in città, ma
egli optò per il Palazzo Papale, residenza del vescovo Pianetti.
Anche se le cronache di quei giorni
non ne parlano, alla base della scelta
c’era un motivo preciso, che si ricollegava ad un episodio di molti anni prima: il contemporaneo conferimento
della dignità vescovile al futuro pontefice ed al Pianetti. Quest’ultimo, di
famiglia aristocratica e facoltosa, alla
richiesta del Mastai di unire le loro
forze per sostenere le spese dei festeggiamenti di rito, aveva risposto: “Chi
ha più polvere, spari!”. L’altro, evidentemente, non se n’era dimenticato
e, alla vigilia del suo arrivo, gli aveva
discretamente fatto sapere che era
giunto per lui il momento di … sparare la sua polvere.
Sarebbe troppo lungo fare la cronaca
dettagliata del soggiorno viterbese di
Pio IX, a partire dal suo arrivo, nel primo pomeriggio del 3 settembre, quando venne trionfalmente accolto in
Piazza della Rocca, dove erano stati
eretti due splendidi archi trionfali, sovraccarichi di ornamenti e di statue allegoriche.
Qui lo attendeva il Gonfaloniere, che
s’inginocchiò dinanzi a lui per porgergli il saluto ufficiale della cittadinanza. Una cronaca contemporanea, che
descrive con dovizia di particolari i
vari momenti del soggiorno, dice in
proposito che il conte Macchi “…Gli
indirizzava brevi parole dimostranti
l’ardentissimo desiderio della Città di
accoglierlo entro le sue mura, Gli rendeva grazie di tanto onore compartitole, Gli faceva protestazioni di amore, di fedeltà, di sudditanza, e di venerazione a nome della Città tutta, e finalmente le chiavi di essa ai piedi di
Lui umiliava” (7)
In realtà, il Gonfaloniere era talmente
confuso da non riuscire ad andare oltre le parole di esordio: “E’ tanta la
gioia, è tanta la gioia …”, ripetute più
volte, nel vano tentativo di ritrovare il
filo perduto del discorso. Allora il papa lo rialzò sorridendo e rispose: “Ho
capito, ho capito, vi risparmio di dire
altro, vi ringrazio e vi benedico”.
Continuiamo a scorrere la citata relazione, cercando in essa soprattutto i
dettagli che possono rendere più viva
la cronaca di quei giorni. Abbiamo visto il tentativo di risparmiare al capo
della municipalità il ricordo della sua
gaffe. Dobbiamo, ora, registrare un’affermazione decisamente discutibile.
Infatti, parlando della sistemazione
del Palazzo Papale per la circostanza,
il cronista scrive che il vescovo Pianetti “…aveva procurato in tutti i modi
di renderlo a ciò acconcio il più che si
potesse, tuttoché l’angustia del luogo
e l’antica rozza sua costruzione non
molto a ciò si prestassero”. Una valutazione che solo in parte può essere
giustificata dalle condizioni in cui si
trovava allora l’edificio di cui Viterbo
è oggi talmente orgogliosa da conside-
terbo, 1978, pag. 92.
(3) - BRUNO BARBINI – L’esilio e l’attività
politica negli ultimi anni - in La figura e l’opera di Francesco Orioli - Atti del terzo Convegno Interregionale di Storia del Risorgimento del Comitato di Viterbo - 13-16 ottobre
1983, pp. 49-71.
(4) - FRANCESCO ORIOLI - Opuscoli Politici,
I, “De’ fedecommessi e dell’aristocrazia”, rist.
Napoli, 1851, p. 61.
(5) - BRUNO BARBINI - Lettere di volontari
viterbesi nella prima guerra d’indipendenza
(inserto n. 8, allegato al n. 1-2, anno V, di Biblioteca e Società - 30 giugno 1983).
(6) - Il bolognese Alessandro Gavazzi (18091889), frate barnabita, tra il ’48 ed il ’49 si se-
gnalò per l’ardore con cui predicava la guerra
contro gli austriaci. Anche Angelo Mangani,
nella citata lettera al padre del 23 marzo ’46,
ricorda la sua appassionata arringa al popolo
pronunciata dinanzi al Colosseo. Partecipò
alla Repubblica Romana, fu compagno di
Ugo Bassi nella fuga sull’Appennino e trascorse dieci anni in esilio, tornando poi in Ita-
lia. In seguito abiurò al Cattolicesimo e divenne ministro evangelico, assumendo atteggiamenti polemici nei confronti delle gerarchie cattoliche.
(7) – Relazione della venuta e permanenza in
Viterbo del Sommo Pontefice Pio IX felicemente regnante - Viterbo - tipografia di Rocco
Monarchi - 1857.
Pio IX
sti “infami”, nella quale, dopo quello
di “un Mazzini genovese, che va percorrendo e facendo mene per l’Italia,
come una furia”, colloca altri nomi illustri, come quelli di Guerrazzi, Fabrizi, Manin, Tommaseo e del padre Gavazzi (6), il quale ultimo starebbe brigando per esautorare Durando e Ferrari e “mettere alla vostra testa altri
comandanti repubblicani, strapparvi
dal Papa e condurvi al servizio della
Repubblica veneta”. La lettera si conclude con un’ammonizione: “Non date ascolto a voci. Governi costituzionali con Sovrani legittimi. Mai repubbliche: è un vecchio, è un padre sperimentato che ve lo predica: sempre il
Papa, sempre Carlo Alberto, sempre
Leopoldo di Toscana, sempre Durando, sempre i vostri capi dati dal vostro
sovrano”.
Diverso è, invece, l’atteggiamento che
si riscontra in una lettera di Albino del
successivo 2 dicembre, quando Pio IX
dalla maggioranza della popolazione
del Patrimonio di San Pietro in Tuscia.
Al di là della retorica ufficiale affiorante dalle manifestazioni, ed anche dal
tono con cui il cronista conduce il suo
racconto, possiamo dire che, all’epoca
di questo viaggio, Pio IX godeva ancora a Viterbo e nella Tuscia di una grande popolarità, nella quale confluivano
la venerazione per il Vicario di Cristo
ed il rispetto per il capo dello Stato.
Le vicende politiche degli anni successivi modificheranno in parte questo
orientamento dell’opinione pubblica.
Non si potrebbe altrimenti spiegare
l’entusiasmo con cui molti cittadini
accolsero, nel settembre del 1860, l’arrivo in città dei garibaldini del colonnello Masi, provenienti dall’Umbria
attraverso Bagnorea (attuale Bagnoregio) e Montefiascone; una liberazione
effimera, perché l’11 ottobre, con il ritorno delle truppe francesi, venne ripristinato nella città e nella provincia
il governo pontificio. Sette anni dopo,
invece, solo gli irriducibili mazziniani
si dissociarono dall’ostilità con cui la
maggioranza degli abitanti accolse
l’arrivo dei volontari del generale
Acerbi, che fiancheggiavano l’ultimo
tentativo di Garibaldi di raggiungere
Roma, naufragato a Mentana; tuttavia, questo atteggiamento non segnò
il ritorno dei moderati viterbesi sulle
precedenti posizioni di sostegno del
potere temporale, ma solo il loro
orientarsi verso la monarchia di Vittorio Emanuele II.
Con l’annessione del Granducato di
Toscana e delle province umbre dello
Stato della Chiesa, i confini del nuovo
stato italiano avevano raggiunto già
da alcuni anni quelli della provincia
del Patrimonio di San Pietro in Tuscia.
Il potere temporale aveva ormai i
giorni contati, ed a questa realtà sono
sempre più strettamente legati i giudizi di molti viterbesi sulla persona e
sull’opera di Pio IX, in polemica con
coloro che appaiono ancora legati al
passato. Ne abbiamo un riscontro nelle opposte posizioni ideologiche assunte in quegli anni da due periodici
cittadini, La Gazzetta di Viterbo, liberale e laica, ed Il Padre di Famiglia,
clericale e conservatore.
Nel 1878 anche Viterbo e la Tuscia
commemorarono la scomparsa di Pio
IX. I commossi necrologi scritti in
quell’occasione esprimevano il dolore
per la morte di un uomo che, come
pontefice e come sovrano, si poteva indubbiamente annoverare tra le figure
più significative dell’Ottocento italiano ed europeo. Al di sotto delle parole
di circostanza, però, affiorava il sincero rimpianto di molti viterbesi per il
definitivo tramonto di un mondo al
quale si sentivano ancora profondamente e tradizionalmente legati.
Bruno Barbini
Note
(1) - Alla Santità di Nostro Signore Pio Papa IX
felicemente regnante - per gli abitanti delle
provincie del Patrimonio di San Pietro - e porzione dell’altra di Perugia - Montepulciano per i tipi di Angiolo Fumi – 1846.
(2) - BRUNO BARBINI - Il Risorgimento viterbese nel “Sommario” di Angelo Mangani - III
volume della Biblioteca di Studi Viterbesi - Vi-
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
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POESIA
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uRoma
Diario
di un addio
Per cogliere davvero il significato di questa raccolta
di poesie è necessario conoscere il percorso umano
dell’autrice, la quale ha scelto di ricordare la persona amata attraverso multiformi omaggi.
E
dith ha raccolto in Pagine
Sparse (Ibiskos Editrice) gli
articoli più significativi scritti dal marito dagli anni ’68 al
2000; Michele Dzieduszycki,
scomparso il 29 novembre 2005 in seguito ad una leucemia, è stato giornalista e testimone della vita politica e
culturale italiana. Nel corso della sua
carriera ha lavorato per La Fiera Letteraria di Manlio Cancogni, Il Mondo di
Arrigo Benedetti, Epoca, Tempo Illustrato, Critica Sociale, Lo Speciale, Panorama, Successo, Il Nuovo, Salve, Il
Giornale della Lombardia, Il Corriere
della Sera, Il Corriere Illustrato. Nel
1979 è approdato all’Europeo dove
continuerà a scrivere fino alla chiusura del giornale nel 1996, collaborando
successivamente a D di Repubblica.
“…E’ stato uno dei migliori giornalisti
culturali degli anni 80”… dice di lui
Giampiero Muggini e Vittorio Sermonti aggiunge: “Ha scritto straordinari articoli di cultura e di costume
che i giornali ospitavano come si ospita un principe in esilio, un principe di
suprema gentilezza e discrezione,
enigmatico, un po’ pigro e un po’ distratto”.
Al marito è dedicata anche la mostra
fotografica “Tu capiresti…”: si tratta
di una trentina di fotografie a colori,
ognuna delle quali evoca o illustra
una poesia, un pensiero, un momento
di dolore. La scelta è condivisa con lui:
“Tu capiresti, ti piacerebbero”.
“…Sua moglie Edith gli sopravvive
annaspando nella sua assenza e ruotando su di sé come una barca con un
remo solo. E nelle pagine di questo
26
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
Diario, tenta di sgranare la cronaca
della malattia, del trapasso, della veglia, di quello che avanza alla morte
della persona una che si è interamente amata : tenta di pronunciare l’im-
pronunciabile, di dare un ritmo al silenzio, meticolosamente, disperatamente.
C’è in questi testi l’accanimento desolato di chi continua a chiamare un Michele che non può più rispondere…”
(dall’introduzione di Vittorio Sermonti).
Diario di un addio (Passigli, 2007)
contiene circa 150 poesie, le prime
scritte nel momento della scoperta
della malattia di Michele, che fu curato con grande attenzione e umanità
nel reparto Leucemie del Centro Ematologico romano del Prof. Franco
Mandelli, (al quale sono destinati i
proventi del libro). Mano a mano si segue l’evoluzione, la morte, il distacco
e la solitudine. “ In quel Diario di un
Addio, quell’unicità perduta e che
non ha altro nome che il suo, Michele,
parla all’unicità di ciascun e di tutti. E
l’inconsolabilità si riconosce in un suo
sommesso, indelebile timbro fraterno” conclude Vittorio Sermonti.
Edith, di lingua madre francese, scrive
poesie da molto tempo. Da quando vive in Italia ha tradotto se stessa per
partecipare a concorsi e inserimenti in
varie antologie. Questo Diario invece
è stato scritto per la prima volta direttamente in italiano. L’autrice ha voluto generosamente offrire alcune poesie ai lettori dell’Orioli e la ringraziamo: con molto rispetto, “sono piaciute
anche a noi!”.
Ti ho conosciuta segreta nascosta
antica cortigiana dalla pelle grinzosa
trucco sbriciolato sotto l’offesa dei secoli
sbriciolata da armate di mani
spray graffiti scalpelli affilati
senza pietà frugata dentro le pieghe
ritorte delle tue ruvide piaghe.
Ti ho spiata braccata in cerca
del brandello e del segno nascosto
che in parure gioiello trasforma
la ferita oscena sontuosa e
l’accesso rigonfio in ambra oro perla.
Castelli appollaiati
templi chiese moschee
nuvole a caccia di torrenti
canali in corsa verso fiumi
giardini misteriosi foreste pietrificate
oceani schiumosi deserti assetati
arcobaleni arrotolati sulla scala dei giorni
caverne brulicanti d’esseri sconosciuti
bestiario all’infinito fremente e mitico
liocorni fuggenti draghi gnomi giganti
pronti ad arrendersi all’obbiettivo
raggiunto da quella strana armata.
Ti ho amata cercata
maga vestale strega
quando insudiciata ritrosa cenerentola
celavi il tuo volto alle folle incessanti
e rassegnata offrivi allo scempio il tuo corpo.
E poi un certo giorno alla fine del secolo
ti hanno spazzolata lavata e stirata
inerme giubilante
mascherata plastificata
sotto schermi d’allegra pubblicità.
Così ti ho perduta ed oramai contemplo
in grigia solitudine il bottino di caccia
ultimo mio tesoro immagini di te
rubate per amore.
volteggiano leggeri
prima delle cornacchie
che gracchianti a loro volta
svegliano nei loro nidi
le frecce rondini dalle grida acute
tutto questo schiamazzo
emerso dalla notte
a poco a poco sfilaccia
sul chiarore dell’alba
lasciando timido emergere
mano a mano deciso
il pigolio naif dei tondi passerotti
più tardi caffè cornetto
titoli prima pagina
s’avvicina ai tavoli squadriglia
corrosiva indiscreta
si posa mendicante
famelica s’impone
la truppa dei piccioni
pedoni claudicanti
minute vacche sacre
rivestite di piume.
Toccata e fuga
Stamattina immersa ancora un po’
la mente nella nebbia dei sogni
si è intrufolata in veloce crescendo
staccata dal rituale bozzolo che
fuse familiari motorizzato zoo
oramai nostri giorni
accompagna vincente
rumore sullo sfondo come
a nostr’insaputa sorbita digerita
infiltrata dicevo
un’ altra melodia a ritmo cadenzato
Quartiere
Per strada e per le scale
intorno al mio silenzio
s’intrecciano e stridono rumori disparati.
Branchi turistici schiamazzanti e vocianti
in cerca di pittoresco
besame muccio lagnosi
sciorinati la sera da stanchi violini
tango da quattro soldi su fisarmoniche
allarmi interminabili chi sa perché scattati
polemiche accese sui fatti del giorno
abbaiare di cani
gridare di scolari
partite riversate da TV invadenti
clamore ad ogni goal
canti ebraici la sera del venerdì
motorini ronzanti moderni destrieri
rullio di persiane e di saracinesche
alzate o abbassate la sera
per proteggere vite
dentro gusci segreti.
prima impercettibile
sempre poi più vicina
un richiamo lontano
del buon vecchio passato
che a volte ritorna
evocate stagioni di antichi racconti
quando trottavano speronate
ai fianchi giumente caracollanti
o nella notte blu sballottavano
fiacre d’amanti furtivi nidi
e come era comparso
a poco a poco s’è spento
galoppo singolare
nell’alba appena schiusa
il battito febbrile sincopato
degli zoccoli martellanti
il selciato ancora addormentato
fino a perdersi e
Cittavola
Gabbiani marini
clandestini oramai cittadini
immigrati sui nostri tetti
riempiono le notti d’estate
appena schiusa l’alba
con richiami stridenti
che aspetto occhi aperti
sul pallor delle cose
fluttuanti chiacchieroni
svenir indistinto nel mezzo
del rullio dei cavalli vapore
arroganti frementi
sputando senza pudore
nell’aria fetida
il loro alito avvelenato.
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POESIA
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Alla finestra
Rimango alla finestra
indecisa e guardo
dietro i vetri sporchi
di tante lacrime
come cade la pioggia
e corrono le nuvole
trasportate dal vento
Estate 2003
Ostinato cobalto
coperchio incandescente
sospeso
perforato d’ozono
come frecce di piombo
spuntano dardi acuminati
i raggi che nostre carcasse
fondono
pelle e membri sottomessi
grondano gocce
salate di sudore in pioggia
alla terra negata
Alda Merini
Una canzone quasi d’amore
Non starò più a cercare parole che non trovo
per dirti cose vecchie con il vestito nuovo,
per raccontarti il vuoto che, al solito, ho di dentro
e partorire il topo vivendo sui ricordi, giocando coi miei giorni, col tempo...
O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti
o che per le mie navi son quasi chiusi i porti;
io parlo sempre tanto, ma non ho ancora fedi,
non voglio menar vanto di me o della mia vita costretta come dita dei piedi...
Noia
Ho saputo
me l’hanno raccontato
che dintorno insistente
pure piagnucolosa
si aggira una bestia
grigia tetra laida
dallo sguardo incerto
dal pellame sbiadito
opaco spento
basse le orecchie
mosse rallentate
Queste cose le sai perchè siam tutti uguali
e moriamo ogni giorno dei medesimi mali,
perchè siam tutti soli ed è nostro destino
tentare goffi voli d' azione o di parola,
volando come vola il tacchino...
Non posso farci niente e tu puoi fare meno,
sono vecchio d' orgoglio, mi commuove il tuo seno
e di questa parola io quasi mi vergogno,
ma c'è una vita sola, non ne sprechiamo niente in tributi alla gente o al sogno...
Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa
e quasi non ti accorgi dell' energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato
vestendo abiti lisi, buoni ad ogni evenienza, inseguendo la scienza o il peccato...
dagli occhi dal muso
in abbondanza colano
tiepide bava e lacrime
che senza tregua formano
dietro il suo lento passo
una traccia lucente
dove s’impantana chi
in trappola inciampa
Tutto questo lo sai e sai dove comincia
la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia
perchè siam tutti uguali, siamo cattivi e buoni
e abbiam gli stessi mali, siamo vigliacchi e fieri,
saggi, falsi, sinceri... coglioni!
questo strano animale
porta per nome noia
mai però a quest’ora
sul mio lungo cammino
ne ho intravisto
la titubante ombra e
neppure incrociato a caso
lo sguardo avendo cura assai
fortuna sforzo astuzia
di sempre evitare la via
monotona del suo ipnotico richiamo.
screpolato
si spacca il suolo
e scoppia
esalando le nubi assetate
mezze tigri
mezze vampiri
di larve appena schiuse
tra sole e suolo
fratelli intermittenti
nemici complici
vaghiamo anneriti
in lotte dispari
estenuati umili
sotto le nebbie di
colpevoli fuochi
in seno ai campi appassiti
di altri soli spenti.
Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata?
Ti dono, se vorrai, questa noia già usata:
tienila in mia memoria, ma non è un capitale,
ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto, che la noia di un altro non vale...
D' altra parte, lo vedi, scrivo ancora canzoni
e pago la mia casa, pago le mie illusioni,
fingo d' aver capito che vivere è incontrarsi,
aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare,
bere, leggere, amare... grattarsi!
Francesco Guccini
Mai più
Quanti ancor
mai più
perle di vetro infilate
sopra corone mortuarie
mai più
alzati su rovine fumanti
mai più
branditi lungo neri cammini
persi all’orizzonte
ove si ammassano
in mucchi dilaganti
unica differenza
gruppo e fattore Rhesus
quanti mai più
Meditazione
Nel cuore di foreste e
di boschi feriti
aggrappati ai cordoni
d’una bruciante lotta
serpenti srotolati che lanciano
in getti salvatori
un’acqua tiepida benevola materna
ominidi coraggio affrontano il nemico
ardenti soldatini in divise di
cenere fuliggine sudore
sospirati strozzati schiacciati
sostituiti da altri cadenzati
irrompendo attraverso la porta
spalancata della nostra stupidità.
Edith Dzieduszycka
(quasi una poesia)
“I libri non resuscitano i morti, e non fanno di un idiota un uomo capace di ragionare, nè di uno stupido un individuo intelligente: aguzzano lo spirito, lo destano, lo affinano e appagano la sua sete di conoscenza. Quanto a chi vuole sapere tutto, è meglio che la famiglia lo faccia curare, perché un simile desiderio
non può che nascere da un turbamento dello spirito. Muto quando gli imponi il
silenzio, eloquente quando lo fai parlare.
Grazie al libro, puoi apprendere nello spazio di un mese quello che un’’eternità’
non ti consentirebbe di apprendere dalle labbra di un sapiente, e questo senza
farti contrarre debiti di sapere. Ti libera dall’imbarazzo, ti solleva dalla necessità
di frequentare persone odiose e di avere rapporti con individui stupidi e incapaci di comprendere. Ti obbedisce di giorno come di notte, tanto in viaggio quanto nei periodi in cui sei sedentario. Se cadi in disgrazia, non per questo il libro
rinuncia a servirti; se venti contrari soffiano contro di te, non ti si rivolta contro.
Accade talvolta che il libro sia superiore al suo autore...”
Fuochi
senza tregua ai vari orizzonti
tentano d’annientare
la bestia maledetta
lunghe braccia rossastre
lanciate contro il cielo
Io non ho bisogno
" Io non ho bisogno di denaro,
Ho bisogno di sentimenti ,
di.parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti...
Ho bisogno di poesia,
queta magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e da' colori nuovi."
piedi di brace ardente
che frenetica gira balla
e nel vento volteggia
trasportando il suo fuoco
ma segreta nasconde
in volute vorace
l’oscura vile faccia
del maestro di ballo
che la forza a danzare.
rimango alla finestra
in silenzio e sento
il rumore del mondo
che sale fino a me
indistinto brusio
somma di tante vite
perse su tante strade
quanto tempo ancora
d’uno schermo all’altro
chiaroscura finestra
prigioniera sarò
impotente divisa
occhi chiusi
per non vedere più
in flash sanguinari
le onde incessanti
a nostri piedi infrante.
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dal “Libro degli animali” di Jhab Giara
Un
ringraziamento
particolare
al nostro amico
Rino Mucci
per la sua
pazienza
e disponibilità
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N. 4 Giugno/Dicembre 2008
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A.C.E.F.O.
EDITORIALE
segue da pag. 1
tra l’ottobre e il dicembre del 1825. Tappa irrinunciabile e fondamentale del viaggio ideale,
delineato in apertura, è la Tuscia. I suoi segni
distintivi di accento storico, artistico, letterario, folcloristico, gastronomico, paesaggistico
la definiscono quale “luogo dell’anima” variegato, commovente, sorprendente, cosmopolita, eterno. Luogo, che palpita di mare, laghi, collina, montagna: che in chiese, castelli,
giardini, necropoli, musei conserva tracce
preziose della storia, dell’arte e del costume
nazionali e internazionali; che, nei parchi e
nelle riserve naturali, custodisce particolarità
uniche di flora e fauna. Qualche sosta di un
itinerario reale e fiabesco nel contempo: quartiere medievale di S. Pellegrino, Palazzo dei
Papi, “Campanile che cammina” del Capoluogo; Villa Lante a Bagnaia; Parco dei mostri
a Bomarzo; necropoli etrusca a Tarquinia; Palazzo Farnese a Caprarola; anfiteatro romano
a Ferento e a Sutri; Castello Ruspoli e Giardino rinascimentale a Vignanello; Santuario
della Madonna del Ruscello a Vallerano; Castello Orsini a Soriano nel Cimino e a Vasanello; chiese di S. Pietro e Santa Maria Maggiore, VIII sec., a Tuscania; borghi medievali
di Calcata e di Civita di Bagnoregio; Forte
Sangallo a Civita Castellana; Castello Di Vico
a Fabrica di Roma; Museo del territorio a Vetralla e a Bolsena; Museo delle Tradizioni popolari a Canepina, Museo di arte sacra ad Orte; Castello della Rovere a Ronciglione; Castello Farnese a Montalto: necropoli a Corchiano e a Blera; sito archeologico di Faleri;
Rocca di Montefiascone. Anche accennato, è
un panorama da togliere il respiro: eppure,
sono pochi flash soltanto del fascino intramontabile della Tuscia, nella quale ogni comunità offre testimonianze, uniche al mondo,
di creatività, operosità, accoglienza.
IL MOTIVO DI UN SOSTEGNO
Questo numero dell’Orioli coniuga
scienza ed arte, offre ampio spazio alla
natura e alle sue bellezze, non trascura
nemmeno la salute: quella mentale e
quella fisica. Siamo soddisfatti del risultato finale e siamo oltremodo contenti di
ricevere un sostegno ai nostri sforzi da
parte di Dolomia. Attraverso la sua linea cosmetica, Dolomia sviluppa molti
dei temi che hanno trovato posto in queste pagine: la scienza che, nonostante il
progredire della tecnologia, non può essere disgiunta dalla natura, la bellezza
che trova il suo apice nel benessere e nella salute del corpo e dell’ambiente. Non
di meno, la ricerca continua del bello ci
accomuna. Anche noi vogliamo, sottolineando i chiari/scuri dell’esistenza,
mettere in risalto le sfumature di ogni
nostro sguardo sul mondo. E se per ottenere un buon risultato serve un “leggero” trucco, siamo felici di ricorrere al
piumino della cipria, anche al rossetto e
perfino all’ombretto al fine di esaltare la
naturale bellezza che c’è in ognuno di
noi. Sfumature da non tralasciare!
l’ORIOLI
PERIODICO DI CULTURA, COSTUME E SOCIETÀ
Anno 6 - N. 4 Giugno/Dicembre 2008
Iscritto al tribunale di Viterbo al N. 513 del
Registro Stampa con decreto del 7-2-2003
Sede
01030 Vallerano (VT)
Sede amministrativa
“Francesco Orioli”
(associazione culturale europea) editing
Vallerano (VT) CF 90055020565
www.orioli.it - E-mail: [email protected]
Nicola Piermartini direttore responsabile
Progetto grafico e impaginazione
www.gramme.it
Hanno collaborato
Bruno Barbini, Maurizio Bianchini,
Massimo Biondi, Sandro Cappelletto,
Mimma De Leo, Giovanni De Maria, Edith
Dzieduszycka, Carla Ferraro, Piera Ferraro,
Massimo Fornicoli, Camilla Pacelli, Gaspare
Polizzi, Ernesto Gennari Santori, Stefania
Iurescia, Maria Orioli, Francesca Rossi,
M. Gabriella Santarelli, Stefania Zanni
28
N. 4 Giugno/Dicembre 2008
Andrea Ceccobelli:
un artista in sordina
I
ncontrare Andrea non è facile, ancor meno agevole entrarci in confidenza. “Dove le parole finiscono comincia la musica”
dovrei dire citando Heine. Per caso, richiamato dalle note di un brano di S.
Rachmaninov, l’ho scovato da solo, intento a suonare su un gran coda nella
sala Giusto Cappone, al Teatro dell’Unione . Ho aspettato a lungo in silenzio
per non disturbarlo pensando di proporgli un’intervista. Mi ha dato subito
l’idea classica dell’artista distratto per il
suo fare umorale , immerso nel pezzo
musicale che stava studiando, posato
re. Mi accorgo subito della sua straordinaria capacità, tipica del grande interprete, data da un connubio particolare,
dove la sensibilità unita alla tecnica
ben consolidata fa di lui un personaggio bizzarro che si diluisce nell’immediatezza della sua lettura veloce e corretta al tempo stesso.
Talento precoce il tuo: ti sei laureato in
tempi brevi con insegnanti di fama internazionale, e un po’ ereditato, considerando che un tuo bisnonno era un
musicista di rilievo.
Sono perennemente grato al maestro
Franco Medori che mi ha educato a
questa difficile arte, ho col tempo compreso che un esecutore non è mai seduto al pianoforte, è un tutt’uno con il suo
strumento; per una sorta di processo di
sul leggio del suo pianoforte.
L’ho trovato disponibile e diffidente al
tempo stesso, con una natura da investigatore provetto che si affaccia nei vivaci
occhi marrone scuro, dallo sguardo attentissimo ai particolari. Elegante, ricorda nel portamento un vecchio aristocratico di buone maniere. Mentre tento un
faticoso approccio per convincerlo a
parlare di sé glissa, non guardandomi e
si aggira curioso fra le note, come tra
paesaggi che le varie partiture evocano,
pretesti per esercizi di improvvisazione
tecnica; come in trance vi si abbandona
con la stessa prontezza con cui poi se ne
sbarazza. Questo suo modo di rappresentarsi equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di cromatismi tonali che rappresentano i momenti più disparati della sua intimità,
rivelando una rigorosa precisione esecutiva accanto alla versatilità e padronanza dello strumento. Un’esecuzione
non diventa mai l’occasione più adatta
per mettere in scena una parte di sé
che eviterebbe volentieri di mostrare;
non ama fare concerti, preferisce dedicarsi allo studio e all’insegnamento.
Come fa a sottrarsi a chi reclama un suo
concerto?
Cerco di scoraggiare, dicendo che non
ho tempo per studiare alla perfezione
vari pezzi. Non sono mai soddisfatto
del risultato che ottengo, quindi preferisco non esibire una mia manchevolezza dovuta in parte alla discontinuità.
Il talento artistico di Andrea non segue
propriamente un protocollo prestabilito, nel suo dipanarsi mostra un percorso invitante cui è difficile sottrarsi,
mentre corre sui tasti gravi o più acuti
del pianoforte, quasi abbandonato a un
febbrile automatismo. Ascoltandolo,
con una buona disposizione d’animo,
si può arrivare ovunque grazie ad un
passaggio, un accordo fra tanti nell’intricato dedalo tonale della tastiera.
Quale musicista in questo particolare momento fa vibrare le corde del suo cuore?
Potrei dire un nome ma preferisco non
entrare nel privato, mi limito ai testi
classici della musica, se devo proprio
fare una scelta direi F. Chopin per il suo
carattere melanconico che in parte condivido , e per la sonorità soave.
Gli chiedo allora di eseguirmi un brano, accenna alla Berceuse segue con lo
Studio noto come “ Vento invernale”
per mostrare l’altro lato del composito-
assimilazione fisiologica, si fa strumento in uno dei misteri più protetti della
imperscrutabilità della musica che
“non afferma nulla ma suggerisce tutto”. Malipiero sostiene che “una delle
ragioni per cui la musica è l’arte più
difficile da comprendere è data dal fatto che l’espressione dipende dall’attimo fuggente tra ciò che si ascolta e che
abbiamo ascoltato”.
Ti rispondo con un’affermazione di D.
Barenboim: “ l’impossibile mi ha sempre attratto più del difficile” questo è
uno dei motivi per il quale ho deciso di
studiare il pianoforte.
Siamo intanto come per incanto passati con M. Ravel a Ondine tratta da “Gaspard de la Nuit “ che evoca l’immagine della ninfa lacustre intenta a sedurre lo spettatore... Nel momento cruciale della sua esecuzione Andrea rivela il suo stile per successive coloriture
che risuonano mirabilmente, quasi disegnano con rapidità i vari momenti
del compositore eseguito; il suo tocco è
qui delicato, mostra una innata capacità di far zampillare un’idea, lo sforzo
sembra pressoché inesistente, mentre
segue e rimane aderente come un viatico prezioso.
Ma se potessi darne una definizione che cos’é per te suonare?
Suonare per me è comunicare con la forma che mi è più consona; sono un taciturno e spesso tendo all’essenziale, per
questo sono stato a volte frainteso e tacciato di ingenuità, ma accanto all’amore per quest’arte c’é quello per la nuda
verità. Sono restio agli abbellimenti gli
unici che accetto sono quelli musicali a
cui mi attengo con scrupolosità massima, ho bisogno di rendere visibile un
qualche fantasma intercettato tra le note
dello spartito.
Un giovane pianista afferma che “il pianoforte ti vuole tutto per sé…” Bisogna
quindi essere monaci per accedere al virtuosismo pianistico?
I monaci si dedicano in silenzio alla preghiera, al contrario il pianista comunica
con sonorità che mettono in relazione
con la parte più intima di se stessi e degli Altri . I suoni e le tonalità esprimono
le emozioni che la vita ci procura, in definitiva danno vita ai sentimenti , ossia
alla cosa più preziosa per cui valga vivere. Una verità che per nessuna ragione al mondo possiamo ignorare.
Intervista di Massimo Fornicoli
L’Azienda
Vitivinicola
“Carla Onofri”
sarà presente con
i suoi vini
a Salisburgo.
ASSOCIAZIONE CULTURALE EUROPEA
“FRANCESCO ORIOLI”
ORGANIZZAZIONE
SENZA FINI DI LUCRO
Comunicazione ai soci
Carissimi amiche, amici e sostenitori tutti,
siamo giunti orgogliosamente al quarto numero de l’Orioli. L’impegno
di noi che materialmente costruiamo il giornale trova riscontro nella partecipazione attiva di molti amici comuni e di alcune personalità di spicco, che ci hanno concesso di arricchire la rivista con i loro apprezzati (e
senza prezzo!) contributi. Siamo emozionati nel constatare che ognuno di
voi, associati o liberi estimatori, partecipi in qualche misura alla realizzazione degli obiettivi che l’Associazione Culturale Europea Francesco
Orioli si è prefissata per Statuto. Il contributo di tutti è fondamentale per
proseguire nel nostro cammino: le iniziative a cui prendiamo parte, le
mostre che organizziamo, le pubblicazioni che promuoviamo sono il frutto di un intenso lavoro che ha bisogno di ricevere il sostegno di coloro che
condividono i nostro ideali. Vi preghiamo, dunque, di offrirci degli spunti, di inviarci le vostre riflessioni scritte, di farci avere i vostri commenti e
di non dimenticare il versamento della quota associativa. Inoltre, ci auspichiamo di diventare sempre più numerosi e ringraziamo fin d’ora chi
si adopererà per diffondere il giornale, chi ci indicherà nuovi sostenitori
e chi vorrà aiutarci con contributi letterari e\o finanziari. Ci permettiamo
di ricordarvi i dati per il versamento di eventuali contributi: Associazione Culturale Europea “Francesco Orioli” Valleranno Carivit Spa agenzia
di Vallerano IBAN: IT65 Y060 6573 3200 001 0061 360.
Organigramma dell’Associazione Culturale Europea
“Francesco Orioli”, organizzazione senza fini di lucro
Presidente Onorario: Nora Orioli
Presidente Esecutivo: Ludovico Pacelli
Vice Presidente: Mario Mariani
Segretario: Sandro Piccioni
Comitato Direttivo:
Ludovico Pacelli, Mario Mariani,
Sandro Piccioni, Maria Orioli,
Nora Orioli, Ombretta Bracci,
Maria Candida Onori
Direzione Scientifica:
Carla Ferraro, Filippo Sallusto
Direzione Settore Arti Figurative:
Elio Rizzo, Stefania Iurescia,
Camilla Pacelli
L’
Associazione Culturale
Europea
“Francesco
Orioli” porta già nel nome la nostra ambizione,
profondamente sentita,
ad essere cittadini di un’Europa come
promessa di civiltà, come Entità dagli
orizzonti umani e culturali sempre più vasti.
Per questo motivo essa
persegue esclusivamente finalità e solidarietà
sociali nel campo della promozione culturale. La sua attività
spazia dalla realizzazione e gestione di
spettacoli all’istituzione di premi e concorsi e
all’organizzazione di manifestazioni, seminari, rassegne, mostre, festival e conferenze con personalità del mondo della cultura, nell’intento di propagandare e valorizzare ogni aspetto dell’arte. Speciale attenzione viene riservata alla tutela
e al recupero del patrimonio artistico
del territorio, come mezzo di salvaguardia delle tradizioni in un’ottica di
arricchimento individuale e di promo-
Responsabile Ricerche Storiche:
Maria Orioli, Massimo Biondi
Responsabile Relazioni Esterne e
Rapporti con l’Estero: Carla Ferraro
Bilancio Affari Legali:
Franco Lucidi, Orlando Reale,
Francesco Terzini
Ufficio Stampa: Nicola Piermartini,
Silvia Camicia, Camilla Pacelli
zione turistica. Costituitasi nell’anno
2000 come ONLUS, l’Associazione
Culturale Europea “Francesco Orioli”
ha recentemente cambiato questa sua
denominazione, pur restando assolutamente senza fini di lucro. Essa è dedicata a un illustre figlio della nostra terra, quel Francesco Orioli che, nato nel 1783 “dentro la cerchia
antica” – per dirla con padre Dante – di Vallerano, fu fisico, storico,
poeta, patriota, ministro, etruscologo e filantropo, e dunque
incarnazione dell’universalismo umanistico, interprete di una
cultura globale che nulla rifiuta di quanto eleva
l’uomo verso la scienza, la
creatività, la liberalità, la giustizia e la bellezza. Dato l’orizzonte europeo delle sue esperienze, il nome di
Francesco Orioli si raccomanda anche
nel segno dell’attualità interdisciplinare ed internazionale, come modello per
un sodalizio che nella cultura persegua
ad ampio raggio i valori che informarono la sua vita.
Per informazioni ed eventuali adesioni si prega si consultare
il sito www.orioli.it o contattarci tramite la nostra e-mail
[email protected] o il nostro telefono +39 392.0788796
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N.4 Settembre 2008 - Associazione Culturale Europea Francesco