Viterbo - Piazza Verdi, 2/a Tel. 0761 34.76.51 Viterbo - Tangenziale Ovest Centro Comm.le Tuscia Tel. 0761 39.00.13 Anno 6 - Numero 4 - Euro 2,00 l’ORIOLI Periodico di cultura, costume e società Diretto da Nicola Piermartini www.orioli.it Roma - Via Casilina, 1011 Centro Comm.le Casilino Tel. 06 23.260.306 Vallerano - Via Don G. Minzoni, 58 Tel. 0761 75.15.51 Giugno/Dicembre 2008 Il giornale è distribuito gratuitamente alle istituzioni pubbliche alle associazioni culturali EDITORIALE Cultura: galassia senza tempo e senza confini di Nicola Piermartini Florilegio suggestivo di indagini culturali anche questo numero de “l’Orioli”. Da Wolfgang Amadeus Mozart a Francesco Orioli, a Giacomo Leopardi; dai panorami eterogenei di diversi continenti alle “perle” artistiche della Tuscia. La cultura è galassia senza tempo, né confini. Interminabile, perciò, è il viaggio per esplorarla, per comprenderla, per respirarla. Concetto esemplificato in maniera limpida e coinvolgente nelle note di viaggio di Stefania Zanni. Sorretto da una prosa comunicativa e scorrevole, fluisce un fiume di immagini, di sensazioni, di emozioni, alimentato da esperienze interiorizzate in varie latitudini del mondo. Eloquenti i versi d’apertura di Kostantinos Kavafis: “Non sciuparla ( la vita) portandola in giro in balia del quotidiano/ gioco balordo degli incontri/ e degli inviti; / fino a farne una stucchevole estranea”. Legata a filo doppio alle riflessioni precedenti è l’analisi di Ludovico Pacelli, presidente dell’associazione culturale “Francesco Orioli”, del volume “Itinerari culturali del primo Novecento. Lettere e testi inediti dell’archivio di Alberto Cappelletti”, pubblicato dal prof. Filippo Sallusto. Nel libro sono documentati, con acutezza e ricchezza connotativa, le figure di san Francesco e di santa Caterina e il fiorire di studi, a loro connessi, con implicazioni anche turistiche. Il volume riporta, inoltre, corrispondenze e aneddoti della vita di Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Giuseppe Verdi, Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio. Di sicuro interesse i rapporti di quest’ultimo con la pianista Luisa Baccara, compagna-segretaria-maggiordomo dell’ “Immaginifico”. Un viaggio staccato dalle radici terrene ed oltre il presente è offerto dal testo del prof. Giovanni De Maria, ordinario di Chimica Fisica all’Università di Roma, ricercatore, che vanta collaborazioni con università e istituti italiani e stranieri. “Colonie lunari” è il titolo del brano, che ripropone le fasi scientifiche della conquista della Luna e le ricerche della N.A.S.A. mirate al ritorno sul nostro satellite nel 2018 per istallarvi basi abitate stabilmente dagli astronauti. Alla Luna è dedicata una riflessione del dott. Massimo Fornicoli, autore anche di una biografia circostanziata e psicologicamente approfondita di Mozart e di un’intervista, curata dal dott. Luca Poleggi, sul pregiato organo del Santuario valleranese della Madonna del Ruscello. Altro omaggio a Mozart, fresco di celebrazioni per il 250° anniversario della nascita (1756), è il saggio di Sandro Cappelletto, filosofo, scrittore e storico della musica. Saggio, che, attraverso le recensioni di critici di vaglia, le considerazioni di grandi direttori d’orchestra e le analisi di partiture immortali del genio austriaco, cerca di mettere in luce le caratteristiche formali, melodiche e armoniche, della perfezione compositiva mozartiana. “Orioli ispiratore di Leopardi: paragrandini e mesmerismo”: il saggio di Gaspare Polizzi discopre un orizzonte di suggestione immensa. Innanzitutto perché Francesco Orioli ( 1785 – 1856) nacque a Valleranno e poi perché Giacomo Leopardi è genio assoluto, irripetibile della letteratura di ogni epoca e nazione. Acclarare il fatto che l’ “usignolo di Recanati” è stato ispirato dalle ricerche dell’Orioli è scoperta di valenza altissima. Certo è che i due si incontrarono a Bologna continua a pagina 28 PASSATO FUTURO Maria di Scozia Salisburgo: musica e silenzi L’ entusiasmo con cui gli scozzesi hanno accolto la mostra fotografica “Fusti tu mai a Vinegia?” di Maria Orioli è paragonabile a quello riservato, un tempo, alla loro amata regina. Le suggestive immagini di Venezia hanno rapito dapprima i visitatori dell’Istituto Italiano di Cultura a Edimburgo e poi, per appassionata richiesta dell’Ordine degli Architetti Scozzesi, sono state esposte nella sala delle mostre dell’associazione. Un autentico successo per PRESENTE (PER Maria, per noi dell’Orioli e per coloro che hanno fortemente creduto nel valore di questa mirabile iniziativa: Massimo Troili, infaticabile direttore dell’Istituto di Cultura e Mary Wrenn, architetto e presidente dell’Ordine. Un piccolo gruppo ha seguito l’evento da vicino, trascorrendo quattro giorni nella meravigliosa capitale scozzese. A pagina 2 abbiamo scelto di pubblicare i commenti di tutti coloro che hanno potuto apprezzare l’esposizione di quelle, ormai memorabili, 23 immagini dense di suggestioni. S iamo lieti di anticipare ai nostri lettori la prossima mostra in programma. L’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli anche quest’anno potrà andare fiera del suo nome. Il 2 giugno, festa della Repubblica Italiana, saremo accolti dal Comitato di Salisburgo della Società Dante Alighieri. Questa occasione raccoglie in sé molti degli obiettivi che, con volontà e tenacia, abbiamo perseguito in questi anni: tutti assieme, perché siamo un’associazione, desideriamo rispettare la nostra vocazione culturale portando i valori in cui crediamo nei Paesi amici dell’Europa. Dopo l’Irlanda e la Scozia, arriveremo in Austria e più precisamente nella città di Mozart. Questo numero dell’Orioli sem- bra avere una funzione di ouverture dell’opera di Maria Orioli. La mostra dal titolo I silenzi italiani, presenterà una selezione di fotografie che l’artista ha scattato nel nostro Paese: un’antologia scelta per mettere in risalto l’armonia, o meglio, quella “musica silenziosa” che è il tratto distintivo dell’arte di Maria Orioli. Riflettendo sulla data in cui si inaugura la mostra, che resterà aperta per tutto il periodo dei Festspiele, ci è parso che la scelta del titolo potesse assumere una valenza più ampia della mera definizione stilistica e, onestamente, ci piace pensare che “i silenzi italiani” siano un monito per tutti noi: per chi parla troppo e per chi non dice niente. Speriamo che ci seguiate numerosi nei nostri viaggi, ideali o reali che siano! SEMPRE) Mozart Speciale È davvero speciale il modo in cui abbiamo trattato l’infinito universo mozartiano. Oltre all’onore di accogliere il denso articolo di uno dei più autorevoli musicologi italiani, Sandro Cappelletto, abbiamo il privilegio di pubblicare uno tra gli ultimi pezzi scritti dall’indimenticabile amico Franco Lanza. Il suo è un aneddoto su una C.G.Firmian, ritratto di Mozart al piano recita di Don Giovanni alla quale partecipò rocambolescamente a Salisburgo. Abbiamo voluto anche cercare una vicinanza maggiore con il grande musicista, sentirne la presenza: Vincenzo Ceniti ha ritrovato per noi le fonti che confermano il passaggio e la sosta di Mozart, accompagnato dal padre nel suo primo viaggio in Italia, in terra di Tuscia. Anche Maurizio Bianchini ci fa gustare il breve soggiorno del giovane musicista nel fantasioso racconto, offerto su uno di quei succulenti piatti INSERTO TUSCIA STATI D’ANIMO In cammino Dove abitano le emozioni... L È e pagine dell’inserto Tuscia, a cura del Centro di Ricerca sul Viaggio (CIRIV) dell’Università della Tuscia e dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo, sono dedicate alla Via Francigena, “strada” che rappresenta uno strumento straordinario di comunicazione, di scambio e di interazione culturale. Noi siamo fermamente convinti che la via dei pellegrini può essere utile a restituire al Paese e alla nostra Provincia una parte importante della sua storia, rivitalizzando un “turismo minore” ma significativo, e siamo altresì certi che può fungere da volano per favorire un cammino più celere e consapevole verso l’Europa dei popoli. L’Associazione Orioli, che ha scelto di definirsi fin dalla sua nascita “culturale europea”, ha sempre agito come laboratorio di esperienza di cittadinanza europea e si augura di continuare nel suo “cammino” a fianco di tutti coloro che condividono le stesse idee, forse non così “peregrine”! questo il titolo di un piccolo e fortunato libro uscito di recente dalla penna di Giuseppe Zois: una piacevole e istruttiva discussione dell’autore con Mario Botta e Giulio Crepet sull’architettura e sulle sue varie influenze, urbanistiche ma anche sociali ed umane. Già …, dove abitano le emozioni, dove risiedono le cose, le persone, i gesti, le parole e i luoghi che fanno variare il nostro stato d’animo? Dove abitano le emozioni che permettono talora di rendere felice la nostra esistenza quotidiana quando inconsapevolmente varchiamo la soglia della loro residenza ideale? A volte capita nell’incontro di una persona. Una persona che magari vediamo quotidianamente, eppure, solo in quel momento, e solo per quel momento, ci accorgiamo che la sua presenza, la sua voce, il suo sguardo, evocano sensazioni che, fino ad allora, la nostra disattenzione, ci portava a dare per scontate. E capita anche con tutto ciò che possiamo ordinariamente toccare, vedere, valutare, senza renderci conto che i rapporti umani sono fatti di storie e momenti intimamente condivisi, e per sempre entrati a far parte di noi. E allora, ecco che le persone care, i luoghi percorsi e vissuti , il paese amato e l’amata città, ci vengono incontro con il loro bagaglio di ricordi e di sensazioni piacevoli, emergendo, ad un tratto, da un muro che ritenevamo ormai invalicabile. Questo numero dell’Orioli è esso stesso una fonte di emozioni quanto mai varie, ma tutte egualmente coinvolgenti. Emozioni profonde come il ricordo del nostro amico Franco Lanza , sempre vicino alla nostra Associazione, a lui debitrice di molta della sua insperata autorevolezza. Emozioni della memoria per la mostra, a Edimburgo, delle foto di Maria Orioli su Venezia. Amata città! Contenitore di emozioni forti che ci turbano anche solo da spettatori attenti e che ci hanno ancor più travolto quando siamo stati, per un attimo, suoi protagonisti con la mostra a Palazzo Zorzi. E chi di noi immaginava di trovare a Venezia tanti amici e persone care che rimarranno sempre nei nostri ricordi? Una su tutte (colei che abbiamo coinvolto, o forse meglio, davvero “travolto” con le nostre iniziative) la carissima Carla Ferraro, ora responsabile delle nostre relazioni esterne e supervisore di questo numero. Più passa il tempo, più scopriamo la sua competenza e la sua modestia nel correggere le nostre imperfezioni e nel risolvere le nostre incertezze. Venezia si diceva. Città che va direttamente al cuore e alla mente parla, facilitando il distacco dalle miserie quotidiane, per innalzarci alla di- che solo lui sa preparare! Dall’aspetto giocoso si passa all’aspetto geniale di Mozart attraverso l’esauriente saggio di Massimo Fornicoli, il quale illumina con stimolante perizia il percorso formativo del sommo musicista accendendo in noi una scintilla di volontà. Ed ecco il prodigioso “Effetto Mozart”: se realmente vogliamo migliorare il nostro stato psichico e fisico, grazie al metodo Tomatis, presentato da Piera Rettenbacher, tutti possiamo raggiungere la nostra personale armonia. mensione del sogno dove tutto è possibile: anche quelle storie improbabili che, mentre le vivi ti lasciano delle preziosissime sensazioni di dolore, per ricordarti che è, sì, il tempo l’elemento che condiziona la vita con il suo trascorrere inesorabile, ma è la bellezza, o anche solo il suo ricordo, ad alimentare la speranza. Emozioni come la musica, cibo dell’anima, che in questo numero è per noi lo speciale su Mozart. Suggestive sono le note e le impressioni di viaggio di Stefania Zanni, girovaga della vita e del mondo nella continua ricerca di una tranquilla oasi dove far riposare la mente e forse anche il cuore; accompagnata dalle impressioni di Camilla Pacelli, con il suo entusiasmo giovanile forse ingenuo, ma carico di speranze e sfide contagiose ad affacciarsi sul mondo. Emozioni, infine, che abitano nello speciale sulla nostra terra amatissima della Tuscia, dove tante bellezze, ancora poco conosciute, sembrano rivolgere un accorato appello a preservarle, a prendersene cura contro l’usura dell’indifferenza. Tanta obbligata simpatia per quanti (e non sono più pochissimi) condividono i nostri intenti e le nostre emozioni. Ludovico Pacelli N. 4 Giugno/Dicembre 2008 1 MOSTRA DI FOTOGRAFIE Le fotografie di Maria Orioli ad Edimburgo L’ Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo ha recentemente ospitato la mostra di Maria Orioli “Fusti tu mai a Vinegia?”. Le foto non mostrano, come spesso accade, il fasto e la grandiosità dei palazzi nobiliari ma la vita di tutti i giorni che Maria Orioli ha saputo cogliere con indubbia sensibilità: sembra quasi di sentire il ciacolar in un silenzioso campo o il vociare a squarciagola dei ragazzi in uno squero, di vedere gli scaricatori di carbone o i raccoglitori di telline nella laguna o di essere avvolti dalla luce invernale che illumina capitelli, maschere e teste architettoniche. Ammirare le foto e desiderare di essere di nuovo a Venezia è come un tutt’uno: si viene subito presi dalla voglia di tornare ad ammirare l’acqua, il cielo e il marmo della città che, quando partimmo, ci disse “Veni etiam!”. All’apertura della mostra, oltre all’artista e a Ludovico Pacelli, Presidente dell’Associazione Culturale Europea Franceso Orioli, sono intervenuti il Console Generale del Giappone, i Consoli di Austria e Norvegia, Richard Calvocoressi, Direttore della Scottish National Gallery of Modern Art, Lord Clarke, Senator of the Court of Justice, Ian McIntosh della Royal Scottish Academy e Mary Wrenn, Chief Executive della Royal Incorporation of Scottish Architecs, dove le foto sono state in seguito esposte, nel quadro della collaborazione da tempo instaurata con questo Istituto. La mostra di Maria Orioli si inserisce tra le manifestazioni che l’Istituto organizza per offrire al pubblico scozzese una visione quanto più ampia e articolata della realtà culturale del nostro Paese nei suoi vari aspetti. In tale contesto si colloca, ad esempio,la nostra partecipazione ai Festival che si tengono a Edimburgo nel corso dell’estate: l’anno scorso è stata sponsorizzata per l’Edinburgh International Festival, l’esecuzione nella Greyfriars Kirk dei Madrigali di Monteverdi, a cura di Concerto Italiano diretto da Rinaldo Alessandrini. All’Edinburgh Book Festi- val Beppe Severgnini ha presentato l’edizione inglese del suo ultimo libro La bella figura. Negli anni scorsi vi hanno partecipato Dario Fo e Franca Rame, Simonetta Agnello Hornby, Gianrico Carofiglio e Gianni Riotta. In occasione del secondo centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, la compagnia di Mike Maran ha preso parte all’Edinburgh Fringe Festival, con un lavoro teatrale, Garibaldi!, estremamente originale incentrato sulla parteci- pazione di due soldati scozzesi che parteciparono alla spedizione dei Mille. Altre manifestazioni, tra cui un concerto, si sono svolte a Glasgow in collaborazione col comune di Barga, da dove tanti emigrarono in Scozia alla fine del XIX secolo. L’Istituto ha recentemente celebrato il 50º anniversario della firma dei Trattati di Roma con una tavola rotonda 50 Years in the European Union, cui hanno partecipato il Dr. Maurizio Carbone del- l’Università di Glasgow, il Dr. David Howarth e il Professor Charlie Jeffrey dell’Universita’ di Edimburgo. Nel campo dell’editoria, Canongate - la più importante casa editrice scozzese ha pubblicato, con il nostro contributo, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, Seta, Senza Sangue e L’Iliade di Alessandro Baricco, oltre a Non ho paura e Ti prendo e ti porto via di Niccolo’ Ammaniti e L’Angelo della storia di Bruno Arpaia, mentre per i tipi di Oneworldclassics è recentemente uscita una traduzione dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Nell’ambito della collaborazione con i musei scozzesi, sono state realizzate al National Museum of Scotland le mostre Treasures from Tuscany: The Etruscan Legacy e Aroundesigners: New Work by Giulio Iachetti e Matteo Ragni, ambedue inaugurate da S.E. Giancarlo Aragona, Ambasciatore d’Italia nel Regno Unito. Presso la Lighthouse di Glasgow, in collaborazione con la Società Dante Alighieri e il Comune di Glagow, è stata presentata la mostra Gran Sera - dalla Hollywood sul Tevere agli anni ottanta: una stupenda selezione di abiti di alta moda dei maggiori stilisti italiani, da Valentino a Giorgio Armani da Roberto Capucci a Gianni Versace da Renato Balestra a Emilio Pucci. La Scottish National Gallery of Modern Art e l’Edinburgh College of Art hanno ospitato rispettivamente una retrospettiva e una bellissima installazione di Iannis Kounellis, uno dei maggiori esponenti dell’Arte Povera. Tra i numerosi convegni organizzati, ricordiamo in particolare La donna nella società italiana dal 1946 al 1960 - in cui è intervenuta Natalia Aspesi - all’Università di Glasgow, Collecting Italian Old Master Paintings in Scotland in the XVIII and XIX cent. all’Università di St. Andrews, Scotland and Piedmont: Gastronomia e Cultura all’Università di Strathclyde, l’Historic Garden Seminar Gardens in Italy and U.K. al City Art Centre di Edimburgo, The Age of Titian: Venetian Renaissance Art from Scottish Collections alla National Gallery di Edimbur- go e il convegno internazionale su Carlo Emilio Gadda alla National Library of Scotland. L’Italian Film Festival presenta ogni anno non solo un’ampia selezione di film e documentari di recente produzione, ma anche retrospettive dei più importanti registi italiani. Alle ultime edizioni sono intervenuti Lina Wertmuller, Vincenzo Marra, Laura Muscardin, Giuseppe Piccioni e Paolo Sorrentino. Numerose le retrospettive programmate in occasione dell’Edinburgh International Film Festival alla Filmhouse di Edimburgo, tra cui quelle di Elio Petri, di Pierpaolo Pasolini, di Francesco Rosi, di Luchino Visconti, di Federico Fellini e di Valerio Zurlini, oltre alla rassegna Psycotronic Cinema. L’Istituto ha inoltre sponsorizzato una serie di concerti di musica contemporanea da Scelsi a Nono, Clementi e Berio; per la musica jazz, sono stati invitati Enrico Rava, Carlo Actis Dato, Gianluigi Trovesi , Gianni Coscia e il Giovanni Falzone Quartet. Una delle primarie attività dell’Istituto consiste nell’organizzazione di corsi di lingua e cultura italiana a tre livelli, secondo il Quadro Comune Europeo di Riferimento, che coinvolgono circa 130 studenti a trimestre. Mi fa piacere che la mostra di Maria Orioli si sia tenuta quasi alla fine del mio lungo soggiorno a Edimburgo, prolungatosi per ben sei anni e alla vigilia della mia imminente partenza per Beirut dove dirigerò quell’Istituto Italiano di Cultura: è stata questa di certo una delle esperienze più interessanti del mio lavoro all’estero, che aveva in precedenza toccato Cape Town, Londra, New York e Ankara. Lascio Edimburgo, città che amo e conosco da tanti anni, con profondo rimpianto, ma sono estremamente contento di raggiungere una sede indubbiamente di grande interesse e non solo sotto l’aspetto culturale. Ennio Troili Direttore dell’ Istituto Italiano di Cultura per la Scozia e l’Irlanda del Nord. Maria degli Scozzesi Comunicato stampa li io r O ia r a M i d a ic f a r Mostra fotog zia, Regional Bureau Ufficio UNESCO di Vene in Europe (UNESCOfor Science and Culture cere di ospitare presBRESCE) ha avuto il pia zo Zorzi, dal 5 al 13 so la propria sede di Palaz fotografica di Maria giugno 2006, la mostra egia?”. Orioli “Fusti tu mai a Vin ribuito alpalazzo del XV secolo att La sede della mostra, un e perfetnic ussi, si è rivelata una cor l’architetto Mauro Cond no sceivo scr bianco e nero che de ta per queste fotografie in da San ri, tie eziana nei suoi vari ses ne di vita quotidiana ven immae rar mi tori hanno potuto am Marco a Castello. I visita di ane ni rdi architettoniche, gia gini dettagliate di strutture esemad e rcazioni veneziane, com tiche e particolari imba pocom te tut , cora oggi nelle regate pio la “vipera” usata an società veneziana. nenti fondamentali della ativo senica e un particolare e cre Con la macchina fotograf are e fertur cat ria Orioli è riuscita a so della prospettiva, Ma tradiziodi x indimenticabili, un mi mare per sempre in foto . ni e patrimonio culturali pagnato e famosi che hanno accom i sof filo e eti po di Le frasi L’ 2 N. 4 Aprile/Settembre 2008 erate un o, possono essere consid sottolineato ciascuna fot noramiturale dei siti storici e pa omaggio alla rilevanza cul lezza della più affascinanti dalla bel ci di Venezia, resi ancor sua laguna. ione di cui e anche per l’Organizzaz Per l’UNESCO-BRESCE eccellenè rivelata uno strumento fa parte, questa mostra si oscere ere, ma anche per far con te non solo per promuov a. culturale della Serenissim l’importante patrimonio di comdi mo i ov nu o la strada a L’UNESCO ha preparat trimonio e rispettare il nostro pa prendere, salvaguardare dei valori tezione e valorizzazione culturale tramite la pro numenti e espressioni culturali, mo tangibili e intangibili di siti culturali. tribuito di Maria Orioli hanno con Le fotografie di Venezia overe la dell’UNESCO di promu all’importante obiettivo rito di liessa si esprima in uno spi creatività lasciando che viva e forurale, così da mantenere bertà e dialogo intercult te la propria vitalità. Rosanna Santesso I l giorno 29 marzo, alle ore 18, si inaugura a Edimburgo-Scozia (82, Nicolson Street), nella sede dell’Istituto Italiano di Cultura, la mostra fotografica “Fusti tu mai a Vinegia?”. Alla domanda di San Bernardino risponde compiutamente ogni singolo scatto della fotografa Maria Orioli: sì, lei a Venezia c’è stata per un lungo periodo e l’ha amata; ci torna spesso e continua ad osservarla con un affetto immutato. Accompagnate da raffinate citazioni letterarie che ne evocano la poesia, le 23 immagini in bianco e nero lasciano trasparire tutte le sfumature della passione dell’artista per la città, ma soprattutto per l’arte della fotografia. La mostra, che ha già riscosso grande successo a Roma e Venezia, è organizzata e promossa dalla Associazione Culturale Europea Francesco Orioli che sostiene prodigiosamente attività volte alla diffusione dei valori culturali espressi attraverso le diverse arti e discipline. Questa iniziativa ha raccolto attorno a sé grandi estimatori e molti sostenitori (si ringrazia a questo proposito in particolare Unifarco Dolomia) che hanno contribuito alla realizzazione degli obiettivi programmatici dell’Associazione, e cioè il suo essere Culturale ed Europea. Il prezioso catalogo, a cura dell’Associazione, regala all’artista il tributo che merita: le encomiastiche parole si inverano nello scorrere delle accurate riproduzioni. La mostra, che resterà aperta dal 30 marzo al 30 aprile, si avvale del contributo e della preziosa collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Edimburgo. Il direttore Ennio Troili ha colto immediatamente la “delicata bellezza di quelle fotografie” e ha voluto offrire ai visitatori di Edimburgo il suo stesso incanto, destare in loro il piacere di ammirare l’armonia racchiusa in ogni scatto e, attraverso le suggestive atmosfere colte dall’obiettivo di Maria Orioli, renderli sensibili al richiamo della città lagunare, che sembra sussurrare: “Veni etiam!”(Venezia). Vallerano li 13 Marzo 2007 MOSTRA DI FOTOGRAFIE Ritorno a Venezia L a mostra fotografica di Maria Orioli, apertasi a Venezia dal 5 al 13 giugno dello scorso anno, è stata una splendida occasione per tornare, dopo qualche anno di assenza, nella città mito. Nata su iniziativa della Consigliera della Società Dante Alighieri, signora Mirella Pasquinucci, ed organizzata dalla nostra Associazione insieme al Comitato di Venezia della Società Dante Alighieri, la mostra è stata ospitata nella sede veneziana della UNESCO, all’interno del prestigioso spazio di Palazzo Zorzi. Tornare a Venezia chiamati dall’importanza della manifestazione e in piacevole compagnia di un ristretto gruppo di amici dell’Associazione Francesco Orioli, ha offerto la possibilità di rinnovare l’incontro con la città in un modo diverso e di rivederla al di fuori dello scontato circuito di monumenti, chiese, palazzi, musei e altri suoi luoghi simbolo. E questo è stato possibile perché Venezia è la città dalle infinite immagini e dalle infinite interpretazioni. Sottratti quindi ai canoni della città-monumento, è stato bello percorrere tranquillamente le calli anguste, i campi e i campielli, le fondamenta lungo i rii e i canali, guardando con interesse anche quanto poteva essere giudicato insignificante: muri corrosi dalla salsedine, riflessi di luce sull’acqua, bambini che giocano nei campi. Entrare a Palazzo Zorzi all’apertura ufficiale della Mostra e poter vedere un interno di palazzo patrizio veneziano, non come freddo spazio museale ma come organismo vivente e vissuto nella sua attualità culturale operante, dà già un segno dell’eccezionalità dell’evento. Nei discorsi inaugurali della professoressa Rosella Mamoli Zorzi e di Ludovico Pacelli abbiamo potuto ascoltare una conferma delle sensazioni ricevute dalla visione delle fotografie: queste sono vere opere d’arte. Maria Orioli con la sua macchina fotografica ha fermato ciò che in passeggiata attraverso Venezia via via si mostra ai nostri occhi, scorre e rapidamente sfuma; e fissandolo ce ne restituisce il senso più nascosto. E così, fermandosi in contemplazione delle sue icone fotografiche nasce quasi la strana sensazione che esse siano non la riproduzione, ma loro, proprio loro, l’originale delle “cose” viste. Accolti poi gentilmente in casa Pasquinucci per una cena offerta a un folto gruppo di ospiti, si è data la felice occasione di poter vedere e vivere per alcune ore un “interno” di vita sociale veneziana. Questo insolito ultimo incontro con Venezia ha così suscitato nuove suggestive impressioni che si vanno ad aggiungere a quelle già da tempo consegnate alla memoria. Ernesto Gennari The Royal Incorporation of Architects in Scotland (RIAS) was delighted to host the exhibition “Fusti tu mai a Vinegia?” at our gallery in Rutland Square, Edinburgh from 2 May to 1 June 2007. The RIAS is the professional body for chartered architects in Scotland, with over 3000 members. We are delighted to have excellent connections with the Italian Cultural Institute. Maia Orioli’s delightful exhibition was the second exhibition we have hosted at Rutland Square, working in collaboration with the Institute’s Director, Ennio Troili and his team. When I first saw Maria Orioli’’s photographs at the Italian Institute in March, I was enchanted. I had made my first ever visit to Venice just four months earlier (it is shameful not to have visited before then!) and the atmospheric images transported me immediately back to the misty, beautiful charm of the city. On the day the photographs arrived in our own gallery, it was as if the collection had been created and planned to fit exactly into our space. The exhibition looked wonderful and we lost count of the visitors who said “Oh, I must go back to Venice soon!”. As Ennio Troili so eloquently says in the introduction to the exhibition catalogue, “Living in a city such as Edinburgh, where the light at times has its own glittering flashes, one appreciates even more the silent light, the quiet glow spreading over the lagoon, lighting up the Angel, the wisteria bloom, the marble lace, the capitals, defining the beauty of the architecture”. The architects of Edinburgh greatly appreciated this opportunity to admire the architecture of a truly beautiful city through the perceptive and sensitive eyes of Maria Orioli. La Royal Incorporation of Architects in Scotland (RIAS) è stata felice di ospitare, dal 2 maggio al 1 Giugno 2007, la mostra Fusti tu mai a Vinegia? nella galleria della propria sede in Rutland Square a Edimburgo. Il RIAS è l’associazione dell’albo degli architetti scozzesi e conta più di 3000 membri. Tra noi e l’Istituto Italiano di Cultura vi è una fattiva collaborazione e la mostra di Maria Orioli ha rappresentato la seconda esperienza in cui abbiamo condiviso le scelte del Direttore Ennio Troili. Appena ho visto le fotografie di Maria Orioli, in marzo all’Istituto di Cultura, sono rimasta incantata. Ero stata a Venezia solo quattro mesi prima, e con vergogna confesso per la prima volta, e le suggestive immagini mi hanno fatto ritornare nella misteriosa bellezza della città. Quando le foto sono arrivate nella nostra galleria mi è sembrato che la mostra fosse stata progettata per essere ospitata in quello spazio: l’allestimento era meraviglioso e abbiamo perso il conto dei numerosi visitatori che hanno espresso il loro apprezzamento dicendo: “oh, devo tornare a Venezia al più presto!” Come Ennio Troili ha eloquentemente scritto nella sua introduzione al catalogo “vivendo in una città come Edimburgo, dove la luce ha talora bagliori tutti suoi, si apprezza ancora di più quella silenziosa luce, quel chiarore che si spande sulla laguna, che illumina l’Angelo, i glicini in fiore, i pizzi di marmo, i capitelli, e che staglia la bellezza degli elementi architettonici”. Gli architetti di Edimburgo hanno apprezzato l’opportunità di vedere ed ammirare le architetture di una città straordinariamente bella attraverso la percezione e la sensibilità di Maria Orioli. Mary Wrenn Chief Executive of The Royal Incorporation of Architects in Scotland Intervento del Presidente all’inaugurazione della mostra a Edimburgo G entili signore, egregi signori buonasera. Nel piccolo paese di Vallerano, da cui io provengo, la casa in cui, nel 1782, nacque Francesco Orioli, è posta giusto all’incrocio di un quadrivio che, dalla quota più alta del paese, scende in basso ad attraversare tutto il suo centro storico. La sobria geometria del luogo lascia facilmente immaginare la possibilità che in passato era data, allo sguardo, di spaziare su tutto il territorio circostante. Ci piace per questo supporre che il verde intenso della Tuscia ( carico di suggestioni talora impenetrabili, qua e là interrotto, dalle rupi tufacee sulle quali si ergono, improvvisi, gran parte dei centri abitati) dovette non poco influire sulla ampiezza e sulla qualità degli interessi dell’insigne umanista e scienziato. E ci piace altrettanto constatare come le attività della nostra Associazione (talora per circostanze del tutto causali e sempre molto aldilà dei nostri meriti) si trovano spesso a sperimentare questa benevola istigazione alla massima apertura degli orizzonti culturali. La nostra presenza qui, ad Edimburgo, non può che rafforzare questa impressione, obbligandoci, naturalmente, ad una grande gratitudine per quanti l’hanno resa possibile. Grazie innanzitutto a Maria Orioli, per avere fornito con le sue foto di Venezia, la splendida occasione di questo incontro. Grazie al Direttore dell’Istituto di Cultura di Edimburgo Dott. Ennio Troili, alla Professoressa Zorzi Rosella e alla Dr.ssa Carla Ferraro del Comitato di Venezia della Societa’ Dante Alighieri che con la loro premurosa sollecitudine, hanno sostenuto i nostri passi, talora molto esitanti. Grazie, soprattutto, a tutti coloro che con la loro presenza qui, a questa Mostra, confermano che in piena era della virtualità, rimane insostituibile il valore di ogni incontro reale tra persone, ed esperienze di vita, abitualmente lontane. Grazie della vostra attenzione. Ludovico Pacelli N. 4 Giugno/Dicembre 2008 3 SCIENZA Colonie Lunari N el corso della storia nessuna altra epoca ha visto avanzamenti e sviluppi nel campo della scienza e della tecnologia così intensi e tumultuosi quali quelli sperimentati dalla nostra generazione. Agli inizi del ventesimo secolo si ebbe nella fisica una grande rivoluzione con l’avvento della meccanica quantistica e della teoria della relatività di Einstein. Le ricerche sulla radioattività dettero avvio all’era atomica che vide nel 1942 la realizzazione della prima pila atomica presso l’Università di Chicago ad opera di Enrico Fermi. Nel 1969 l’uomo per la prima volta metteva piede su un altro corpo celeste inaugurando una nuova era, l’era spaziale. Lo straordinario e rapido sviluppo dell’informatica che ne seguì ha inciso radicalmente nei rapporti della comunicazione a livello globale, mentre la scienza medica si avvaleva, come mai prima di allora, dello sviluppo delle conoscenze nel campo della biologia molecolare che partendo dalla soluzione della struttura del DNA, ha portato alla completa mappatura del genoma umano. Di tutte queste conquiste certamente lo sbarco sulla Luna ha rappresentato la realizzazione di un sogno perseguito da tempo dall’uomo di poter uscire fuori dal nostro pianeta e lanciarsi alla scoperta di nuovi mondi. La conquista della Luna fu preparata molto prima del 1969, anno dell’allunaggio, con l’invio tra il 1961 e il 1965 di ben nove sonde automatiche denominate Ranger, una sorta di sonde kamikaze, seguite da sonde del tipo Surveyor -predisposte per l’atterraggio non distruttivo e la posa in opera di stazioni di rilevazione dati- e da sonde di tipo Lunar Orbiter, destinate ad orbitare intorno alla Luna. Il successo di questi lanci aprì la strada alle missioni Apollo. Grazie ai cinque Lunar Orbiter messi in orbita tra il 1966 e il 1967 si riuscì a compilare una mappa ad alta definizione della superficie lunare allo scopo di aumentare la sicurezza degli atterraggi Apollo. Il progetto Apollo vide la partecipazione di circa 30.000 persone che lavorarono incessantemente in varie località degli Stati Uniti, dal Massachussets al Mississipi, Florida (Cape Canaveral) e Huston (Johnson Space Center). Prima dello sbarco sulla Luna degli astronauti dell’Apollo 11 vennero effettuate ben 10 missioni con varie finalità. L’Apollo 8 fu la prima missione a compiere il percorso Terra-LunaTerra effettuando 10 orbite intorno al nostro satellite. Con l’Apollo 9 si cominciò a provare il LEM e con l’Apollo 10 si tentò una discesa fino a 1500 metri dalla superficie. Queste missioni consentirono l’individuazione di un posto ideale per l’atterraggio che doveva obbedire a due vincoli: la sicurezza di tutta l’opera- zione e il ritorno scientifico. Il 19 Luglio 1969 l’Apollo 11 venne messo in orbita intorno alla Luna; le 28 ore che seguirono furono tutte impiegate per preparare il distacco dell’Aquila (il LEM) dal Columbia (il modulo di comando). Il distacco avvenne secondo i programmi ma, a circa 800 metri dal suolo, Armstrong fu costretto a disinserire il pilota automatico e pilotare a vista il modulo, cambiando così il punto di atterraggio programmato a causa di una riscontrata accidentalità del suolo. Come tutti sanno l’Apollo 11 si posò felicemente nel Mare della Tranquillità e dopo quattro ore di controllo dei sistemi di sicurezza avvenne lo sbarco. Gli astronauti lasciarono sulla superficie lunare diversi strumenti quali sismometri per la rivelazione di lunamoti o impatti meteorici ed uno specchio rivolto verso la Terra capace di riflettere i raggi laser inviati dal nostro pianeta al fine di misurare la distanza Terra-Luna; le misure effettuate successivamente hanno permesso di verificare che questa distanza va lenta- del comportamento dei campioni selenici alla vaporizzazione in condizioni di equilibrio termodinamico alle alte temperature. La ricerca da me eseguita era stata ispirata dalla possibilità di conoscere la composizione della nebulosa primordiale dalla quale -quattro miliardi di anni fa- vennero a formarsi in un processo di condensazione i corpi solidi del sistema solare. I reperti lunari, non avendo la luna né atmosfera né vegetazione, dovevano considerarsi rappresentativi di una situazione primordiale, sicché la possibilità di studiare la composizione molecolare della fase gassosa ottenuta in equilibrio termodinamico con la fase condensata delle rocce lunari avrebbe fornito preziose indicazioni sulla composizione molecolare della nebulosa primordiale (G. De Maria et al. “Mass spectrometric investigation of the vaporization process of Apollo 12 lunar samples” Proceedings of the Lunar Il Presidente della repubblica conferisce al Prof. Giovanni De Maria la medaglia d’oro e il diploma di “Benemerito della Scienza e della Cultura” (3 Aprile 2002). mente aumentando. All’Apollo 11 seguirono altre missioni tutte effettuate con successo ad eccezione dell’Apollo 13 che fu protagonista di una terribile avventura risoltasi fortunatamente con il rientro, sani e salvi, dei membri dell’equipaggio. Oltre a misurazioni scientifiche dirette sul suolo lunare queste missioni hanno consentito di portare sulla terra una dovizia di campioni prelevati in vari siti del nostro satellite che sono stati, e continuano ad esserlo, oggetto di numerosi studi da parte della comunità internazionale di scienziati. Nel lontano 1972 ebbi il privilegio di effettuare un vasto programma di ricerche su campioni dell’Apollo 12 e delle altre missioni che seguirono, mediante analisi massa-spettrometrica Science Conference, 1971, vol. 2, p.1367). Nel corso della ricerca, oltre ai risultati connessi al processo di formazione dei pianeti, intravidi la possibilità di produrre ossigeno gassoso estraendolo dai composti solidi. Queste ricerche appaiono oggi di particolare interesse in relazione al progetto della NASA di ritornare nuovamente nel 2018 sul nostro satellite per installarvi delle vere e proprie basi lunari abitate stabilmente dagli astronauti. Si aprono quindi nuove frontiere per la ricerca scientifica miranti alla soluzione di una vastissima gamma di problemi connessi con la colonizzazione del nostro satellite. Sarebbe tropo lungo enumerare la serie di problemi che si dovranno affrontare per rendere possibile una permanenza uma- na sulla Luna. Il nostro satellite è certamente uno dei corpi celesti più inospitali non avendo atmosfera né elementi chimici indispensabili alla vita quali carbonio, azoto e idrogeno. L’ossigeno potrebbe essere prodotto estraendolo dai minerali presenti oppure dalla decomposizione con energia solare dell’acqua la cui presenza sembra essere accertata nelle profondità dei crateri ai poli, ove, dopo l’impatto cometario di circa tre miliardi di anni fa, potrebbe essere rimasta in piena ombra siderale, coperta da strati di detriti e polvere. L’estrazione dell’ossigeno da alcuni minerali presenti sul suolo lunare potrebbe essere ottenuta utilizzando idrogeno e energia solare. Nel 2002 la NASA ha puntato sulla Luna il telescopio spaziale Hubble scoprendo diversi minerali atti a venire utilizzati per produrre ossigeno. In particolare è stata scoperta una presenza diffusa sulla superficie dell’ilmenite, un titanato di ferro con proprietà magnetiche che ne consentirebbe una facile estrazione dal resto della polvere lunare costituita in gran parte di plagioclasi, pirosseni e olivine. Le ricerche condotte dal mio gruppo negli anni passati hanno effettivamente dimostrato la fattibilità di estrazione dell’ossigeno da questo minerale utilizzando idrogeno e energia solare (De Maria et al. “High temperature interaction between H2, CH4, NH3 and ilmenite” AIP Conference Proceedings 2003, 654 STAIF 2003, 1142-1149). Come già detto sulla Luna non è presente l’idrogeno; questo gas dovrà essere portato dalla Terra e utilizzato per estrarre ossigeno dall’ilmenite producendo l’acqua che verrebbe decomposta elettroliticamente in idrogeno e ossigeno. Quest’ultimo composto verrebbe utilizzato sia per la respirazione dell’equipaggio che come combustibile delle navicelle spaziali per il rientro sulla Terra o per missioni su altri pianeti, mentre l’idrogeno ritornerebbe in ciclo. Le nostre ricerche inoltre hanno messo in evidenza la possibile utilizzazione del residuo quale catalizzato- re per la degradazione delle sostanze organiche. Non un solo atomo di carbonio, azoto e idrogeno, sostanze che dovranno essere portate dalla Terra, dovrà essere perduto, sicché ogni prodotto dovrà essere riciclato attraverso un processo di degradazione chimica. La reazione dell’idrogeno con ilmenite oltre a consentire l’estrazione dell’ossigeno produce un prezioso catalizzatore a base di ferro e biossido di titanio che si rivelerà certamente di grande utilità nella complessa organizzazione delle colonie lunari. Nella figura è riportata una struttura, rilevata tramite microscopia elettronica, di tale residuo, dove si può osservare una struttura di tipo lamellare (vein like structure) con numerosi filamenti e noduli di ferro alternati a lamelle di TiO2. E’ interessante rilevare che filamenti di biossido di titanio si formano facilmente in natura. Essi furono osservati e descritti già da Plinio nella Naturalis Historia che, colpito dalla loro bellezza, li denominò “capelli di Venere”. Mai Plinio, aggirandosi nella campagna romana alla ricerca di minerali, avrebbe immaginato che microscopici capelli di Venere si sarebbero formati estraendo ossigeno da un minerale lunare! Con il ritorno sulla Luna inizierà certamente una nuova era volta alla colonizzazione di altri pianeti. L’esperienza che l’uomo maturerà sul nostro satellite, imparando a vivere permanentemente su un sito inospitale come la Luna, sarà di fondamentale importanza per futuri progetti di missioni spaziali su altri pianeti,primo fra tutti Marte. Il pianeta rosso è il più simile alla Terra per cui sarà meno ardua la sopravvivenza dell’uomo e la creazione di colonie abitabili. L’esperienza che ci faremo vivendo sulla Luna sarà certamente fondamentale per affrontare nel futuro la creazione di basi su pianeti più lontani. Prof. Giovanni De Maria Curriculum Vitae di Giovanni de Maria Dottore in Chimica, libero docente in Chimica Fisica (1962), professore ordinario di Chimica Fisica nell’Università di Roma (1965), Direttore dell’Istituto di Chimica Fisica ed Elettrochimica, Università di Roma, 1966/70. Ha fatto parte di numerosi Consigli Direttivi, talora in veste di presidente, di diverse associazioni scientifiche e culturali nazionali ed internazionali: Unione Nazionale Chimici Italiani, Associazione Italiana di Chimica Fisica, Società Italiana per l’Energia Solare, Federazione Internazionale dei Chimici Europei, etc. E’ stato inoltre il primo studioso italiano ad essere incaricato dalla NASA a svolgere ricerche sui campioni lunari della Missione Apollo 11, sviluppando poi negli anni successivi ulteriori ricerche sui campioni delle missioni Apollo 12, Apollo 14, Apollo 15-16 e 17 ed è stato uno dei trenta studiosi a livello mondiale insigniti dalla NASA, nel decennale del primo volo umano sulla Luna, dello “Special NASA Award”. E’ autore di oltre 130 pubblicazioni scientifiche, la maggior parte apparse su riviste internazionali ed ha avuto numerosi allievi italiani e stranieri, che insegnano presso le Università degli Stati Uniti, Unione Sovietica, Brasile, Cecoslovacchia e presso l’Università di Roma e della Basilicata. Consulente di istituti stranieri operanti nel settore della tecnologia avanzata dei materiali nucleari e di impiego nel campo missilistico ed è da diversi anni consulente dell’Euratom. E’ stato inoltre direttore di un programma di ricerche nel settore delle energie alternative, con particolare riguardo all’energia solare. Tra i promotori della istituzione e dello sviluppo dell’Università di Basilicata dove ha ricoperto per diversi anni la carica di Presidente del Comitato Ordinatore della facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. Dal 1990 è membro della International Academy of Ceramics venendo eletto nello “Advisory Board for Science” per il triennio 199396. Nel 1994 è stato insignito della medaglia H. C. Kurhakov dell’Accademia delle Scienze della Russia. Nel 2001, unico italiano, è entrato a far parte della SCTC (Space Colonization Technical Commettee) della AIAA (American Institute of Aeronautics and Astronautics) un organo di consulenza della NASA per la programmazione di attività spaziali. Nello stesso anno gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica Italiana la medaglia d’oro di “Benemerito della Scienza e della Cultura”. Attualmente collabora con il Prof. C. Rubbia allo sviluppo del Project 242 dell’ASI per la realizzazione di un motore spaziale a propulsione nucleare basato sulla fissione dell’isotopo metastabile 242 dell’Americio. 4 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 R CIFLESSI OLONIE“L LUNARI UNARI” “Q uando il saggio indica la Luna, lo sciocco guarda il dito”. Così recita un antico adagio orientale. Noi sapienti occidentali abbiamo invece puntato direttamente alla Luna, in una corsa verso l´esterno, il lontano, verso i pianeti non ancora colonizzati: una corsa affannosa che dunque ci è propria. Non ci ha sfiorato minimamente l´idea di ridimensionare il nostro modo di vivere consumistico: in una sorta di folle gara, abbiamo investito enormi quantità di denaro nelle imprese spaziali, denaro che invece avrebbe potuto risolvere, qui ed ora, molti problemi strettamente legati alla sopravvivenza. Se è tipica del pensiero umano la progettualità, un guardare avanti al prossimo futuro, occorre che essa sia accompagnata da una altrettanto buona dose di riflessione su ciò che sta accadendo intorno a noi e non lasciare che quotidianamente il nostro pianeta Terra subisca attacchi di ogni sorta. Vandana Shiva, laureata in fisica e convertita all´ecologia, definisce questo modo di ragionare “monocultura della mente”, in linea con quanto nel 1855 il grande capo indiano della Tribù Pellerossa espresse in una lettera all´allora presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce; una lettera da cui prendo, poiché ancora attualissimi, degli stralci: “[...] continuate a contaminare il vostro letto e una notte sarete soffocati dai vostri stessi rifiuti [...] quando gli angoli segreti delle foreste saranno invasi dall´odore di molti uomini, e la vista delle colline sarà oscurata dai fili che parlano, allora l´uomo si chiederà: “dove sono gli alberi e i cespugli?” Scomparsi. “Dove è l´aquila?” Scomparsa. E cosa significa dire addio al rondone se non la fine della vita e l´inizio della sopravvivenza?” È indubbio che grazie alla scienza applicata ai progetti spaziali abbiamo potuto usufruire di tecnologie che hanno migliorato la nostra vita terrestre; ma spesso ci siamo trovati davanti ad una grande freddezza per i problemi umani da parte di scienziati che avremmo voluto più partecipi nella comprensione del mondo, della società, e degli stessi uomini meglio di altri cittadini. Questo anelito può forse essere spiegato dal complesso di Icaro, figlio di Dedalo che fuggì da Creta con ali attaccate con la cera, ma salì così in alto che il Sole sciolse la cera facendolo precipitare in mare, legato alle aspirazioni temerarie dove a dominare è un aspetto narcisistico del carattere, privo di quelle connotazioni altruistiche che dovrebbero caratterizzare la spinta che muove i pionieri di qualsiasi scoperta umanitaria. Mai dimenticare l´uomo, che è il fulcro di qualsiasi ragionevole sviluppo, e con esso la natura, senza la quale siamo monchi, privi di qualsiasi richiamo al bello. Il passaggio dalla volontà magico-religiosa di esorcizazzione della natura, all´impegno di conoscere le leggi della natura per adattarsi ad esse è indubbiamente un´esigenza scientifica. Non bisogna dimenticare, come fa notare Nietzsche, che “anche sulla scienza incombono pericoli interni ed esterni di assolutizzazione: per questa ragione ciò che importa è lo spirito scientifico da cui dovrà maturare nell´uomo quella virtù di prudente astensione, quella saggia moderazione, che sono più note nel campo della vita pratica che nel campo della vita teoretica” Egli stesso sente la necessità di confermare la distinzione tra albero della conoscenza e albero della vita, i frutti dei quali non possono essere scambiati. Masimo Fornicoli Verso la luna, per una strada desueta L e nuove generazioni di fronte ad una scelta per il proprio futuro appaiono disorientate. D’altra parte si parla così spesso di precarietà e di cambiamento occupazionale nel corso della vita che quelle sicurezze, che avevamo noi adulti e che ci permettevano di fare progetti, o almeno sogni, sembrano svanite. Se poi un ragazzo ha intenzione di affrontare gli studi classici, le reticenze si fanno maggiori, perché sembra più semplice intraprendere percorsi legati alla modernità. Un bravo insegnante di greco un giorno, parlando ad alunni e genitori, disse che molti, errando, equiparano classico a vecchio o addirittura ad antiquato, ma, se in un negozio viene loro proposto un abito classico, xx xxxxxxxx xxxxx xxxx u Sulla terra sono soddisfatti, perché ritengono che si tratti di un capo che non passerà rapidamente di moda. Gli studi classici possono essere equiparati a quel vestito, perché non essendo strettamente legati al presente, hanno in sé qualcosa di eterno ed universale, infatti sono cambiati i tempi, ma l’animo dell’uomo, per molti aspetti, è rimasto immutato e le domande che si ponevano gli antichi spesso sono le stesse che ci poniamo noi, così pure le emozioni. Osservando la meraviglia di una notte stellata ricordo i versi di Saffo: Gli astri d’intorno alla leggiadra luna Nascondono l’immagine lucente, quando piena più risplende, bianca sopra la terra. E paragono Giacomo Leopardi alla poetessa greca Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. Scopro così l’incanto dei miei studi liceali e sono felice di aver intrapreso una strada apparentemente desueta ed antiquata. Francesca Rossi Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-1830) Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e piú e piú s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu vòlto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale è la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio piú grato non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, perché da noi si dura? Intatta luna, tale è lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, che sí pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar, che sia; che sia questo morir, questo supremo scolorar del sembiante, e perir dalla terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi il perché delle cose, e vedi il frutto del mattin, della sera, del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera, a chi giovi l’ardore, e che procacci il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, che son celate al semplice pastore. spesso quand’io ti miro star cosí muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Cosí meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell’innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors’altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma piú perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra la mente, ed uno spron quasi mi punge sí che, sedendo, piú che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. se tu parlar sapessi, io chiederei: - Dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, piú felice sarei, dolce mia greggia, piú felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dí natale. Giacomo Leopardi h Alla Luna (l8l9) O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l’anno, sovra questo colle io venia pien d’angoscia a rimirarti: e tu pendevi allor su quella selva siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci il tuo volto apparia, che travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile, o mia diletta luna. E pur mi giova la ricordanza, e il noverar l’etate del mio dolore. Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso, il rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che l’affanno duri! Giacomo Leopardi xx xxxxxxxx xxxxxxxxx xxxxxxxx v xxxxxxxx N. 4 Giugno/Dicembre 2008 5 MOZART SPECIALE D i un artista, bisognerebbe scrivere una nuova biografia almeno una volta ogni cinquant’anni, diceva Hermann Abert parlando di Mozart. La storia della musica intesa e raccontata come storia, anche, della diffusione e della ricezione del lavoro di un autore, della formazione e delle metamorfosi del gusto e delle opinioni, non era ancora diventata una disciplina critica, ma l’intuizione del filologo e storico della musica tedesco appare netta; come accade negli esperimenti di laboratorio, il punto di vista dell’osservatore condiziona il risultato. Allora – era il 1919 – da tempo vacillava l’immagine del “Raffaello della musica” attribuita a Mozart dal suo primo biografo Franz Niemetschek, che scrive nel 1798, e ripresa dalla breve biografia che Stendhal, quasi ricalcando quel testo, redige nel 1814. Durante l’Ottocento, la ricezione della sua opera aveva conosciuto il successo e l’oblio, la devozione e la trascuratezza, nel frequente mutare dell’orizzonte di attesa del pubblico. “Mozart non è più alla moda, bisogna convenirne. Ora, di tutte le qualità che possono brillare in un’opera, in un quadro, in una statua, quella che ci rimette di più a non essere alla moda, è la grazia. Il sentimento comune degli uomini disprezza facilmente la grazia. Ciò che è energico e forte piace più a lungo, ed è proprio delle anime volgari stimare soltanto ciò che un po’ temono”, constata nel Journal de Paris del 1825 ancora Stendhal, con la sua diffusa autorevolezza di intellettuale e artista. Niemetschek aveva scritto il proprio racconto rivolgendosi “alle anime delicate e sensibili”, chiedendosi se mai possa esistere un “amante della più affascinante delle arti che, consacrandosi al puro e dolce godimento delle opere mozartiane, non abbia mai pensato con l’emozione più viva all’uomo cui siamo debitori di questa gioia celeste”; ma soltanto una generazione dopo la sua morte, il romanticismo esprime altre pulsioni, altri pesi sonori, altri tormenti: “la grâce” non lo entusiasma. Scrivendo nel 1956 – secondo centenario della nascita – Massimo Mila storicizzava con chiarezza: “Varie immagini di Mozart si sono succedute nel tempo. Ai contemporanei egli apparve come un inquietante romantico. Se ne ammirò l’efficacia fino ad allora inaudita, nel dipingere e muovere gli affetti; molte sue audacie lasciarono dubbiosi, quando non indignarono i pedanti. Fu giudicato un inquieto novatore, e non sfuggì all’accusa di aver sacrificato la voce, nell’opera, all’orchestra. Ma il romanticismo vero era alle porte; già fremeva ribelle nei drammi giovanili di Schiller e, per la musica, nell’opera di Beethoven, appassionata e tempestosa. Man mano che questa si veniva affermando, fu tolta a Mozart ogni traccia di romanticismo novatore, ed egli divenne simbolo di reazione, segno di raccolta agli aderenti dell’ ancien régime musicale, urtati dall’inaudita asprezza del verbo beethoveniano, ai melomani appassionati e nostalgici di un’età in cui l’arte era essenzialmente classica euritmia e ordinata decenza” (1). “Dimmi come vedi Mozart e ti dirò chi sei”, concludeva il nostro studioso declinando al musicale la riflessione dello storico e critico della letteratura Harold Bloom: “Quello che sei è l’unica cosa che puoi leggere”. Mozart apollineo che “dopo aver totalmente sottomesso ogni impurità e offuscamento evoca la perfetta bellezza” (Otto Jahn), o Mozart dissonante? Il genio bambino iscritto nella dimensione galante e rococò del tardo Settecento, amabile e lietamente inventivo, o il compositore troppo ricco di idee, “estremamente innaturale, se nella sua musica c’è dapprima allegria, poi all’improvviso tristezza e subito dopo di nuovo allegria” (così già nel 1782 il compositore e saggista berlinese Johann Friedrich Reichardt), incapace dunque di esprimere nei suoi lavori strumentali un carattere unitario, una costante e prevedibile drammaturgia 6 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 emotiva? In La fortuna di Mozart, lo storico della musica Gernot Gruber documenta con amplissima scelta di fonti due secoli di ricezione mozartiana e fotografa le contrastanti pulsioni del nostro tempo, privilegiando il punto di vista dell’interprete, colui che trasforma e traduce la nota scritta da segno grafico in fenomeno acustico, denso di significati formali, emotivi, intellettuali. Se da un lato è cresciuta l’attenzione filologica, il considerare “sacrosanto ogni minimo segno di una partitura mozartiana”, dall’altro non si può sottovalutare l’ “interesse legittimo di ogni interprete a portare alla ribalta il suo messaggio artistico. Persino quando si pone in termini inconsueti, esso non è né un illecito commento all’opera, né un’interpretazione funzionale o una mediazione. Esso diventa viceversa ‘arte su arte’” (2). Osservazione che vale per le opere strumentali e, ancor più, per i lavori di teatro musicale che, a partire dagli anni Trenta del Novecento, si fronteggiano ormai con l’autonomia dello sguardo dei registi d’opera. Lo studio della fortuna esecutiva e critica – che cosa scelgono i direttori artistici, ascolta il pubblico, approva la critica, promuove l’industria discografica, in quale modo suonano gli interpreti – genera il complesso insieme della fruizione, cioè del formarsi, diffondersi e stratificarsi del giudizio diffuso, del gu- afferrato dall’ascoltatore, e in che modo esso venga compreso, dipende sempre da abitudini di ascolto e convenzioni linguistiche, che sono vincolanti all’interno di una cultura e di un’epoca” (3) “Il livello di informazione” riguarda ovviamente anche gli interpreti: il trentenne direttore inglese Daniel Harding ha dichiarato, inaugurando la stagione 2005-2006 del Teatro alla Scala con Idomeneo, re di Creta, che è sua abitudine “aprire una partitura per me nuova con sguardo vergine, cercando di coglierne lo spirito senza passare attraverso la storia delle tante interpretazioni che ha avuto”. Ma, alla verifica esecutiva, l’attacco secco, corto, immediato, bruciante del suono, l’accurato evitare ogni effetto di vibrato, il ricorso, per attutire il suono degli strumenti ad arco, alle sordine di legno, rivela quanto la sua attitudine interpretativa sia del tutto informata riguardo alle tecniche e alle poetiche oggi dominanti nell’interpretazione del repertorio tardo-barocco e pre-classico. Modalità che si sono sedimentate attraverso studi, incisioni, proposte d’ascolto di tanti ensemble e solisti. Un Mozart, il suo, più attento all’incalzare del dramma che alla distensione del canto: “L’espansione delle linee vocali non deve bloccare lo sviluppo dell’azione”. Una frase che mai ascolteremo pronunciare a Riccardo Muti, così teso a restituire la calda rotondità di un suono ‘italiano’, le ampie volute del volume e rarefazione del suono e proietta sulla partitura uno sguardo affettuosamente illuminista, contenendo la solennità dei momenti rituali; la Mahler Chamber Orchestra non suona su strumenti originali, a differenza degli English Baroque Soloists diretti da John Eliot Gardiner nel 1995, ma in ogni caso la lettura del maestro italiano si può definire una “historically informed performance”, consapevole cioè di un percorso stilistico e delle opzioni che suggerisce. Limiti ignorati da Anne Sophie Mutter nella sua recente proposta dei cinque concerti per violino: la solista segue il proprio estro, consegnando un’interpretazione dove il ghiribizzo del suono, la liberissima volubilità diventa il criterio vincente, nell’ampio spazio dato all’enfasi, alle più estroverse risorse retoriche del suo talento, tra le quali non di rado spicca un volume sonoro decisamente forzato. Se gli esecutori restituiscono queste differenze, è perché esse convivono nelle partiture: “Mozart contiene tutta la pienezza della vita, dal dolore profondo alla gioia pura. Esprime i conflitti più duri, spesso senza offrire una soluzione”, ha detto Nikolaus Harnoncourt. La stessa struttura formale di un brano del periodo classico si presta a diventare un contenitore capace di accogliere, nell’alternanza dei movimenti, tutti gli “affetti”, però ordinandoli in una prevedibile successione; spesso Mozart, Mozart 2000 J.B.Delafosse. Leopold, Nannerl e Wolfgang a Parigi, nel1763. sto, di ciò che piace o non piace. Vicende biografiche, traiettorie culturali condizionano la relazione tra chi ascolta e l’oggetto sonoro che si sta ascoltando, e fanno dell’ascolto, per ognuno di noi e in modi diversi, un atto, una condizione, un’aspettativa, una memoria, un vissuto, una verità, non “ingenui”, non “immediati”. Aggiunge Helmut Rösing: “Qualunque sia il livello di informazione che viene canto: un Mozart nordico, innamorato delle nuove potenzialità sinfoniche conosciute durante il soggiorno a Mannheim, contrapposto a un Mozart ‘napoletano’, se – ancora per riportare una celebre opinione di Muti – “è lui il massimo compositore italiano del Settecento”. Nel Flauto magico eseguito nel 2005 Claudio Abbado tende a un misurato equilibrio tra tensione e distensione, tra con formidabile intuizione, ne scompagina la rigida sequenzialità, li confonde, smarrendoci e creando una musica giudicata allora certamente moderna, fluida e densa, riconoscibile eppure spiazzante, prevista e inattesa: ogni musicista che affronta questo universo creativo, ogni storico della musica, ogni appassionato, ne illuminerà una parte, ne svelerà una possibilità, una direzione, escludendone altre. Assieme alle opere, la lettura più formativa per conoscere lo sviluppo e le particolarità della personalità mozartiana è il suo epistolario: dalle prime righe, dai primi post-scritti in calce alle missive del padre inviate alla moglie e alla figlia rimaste a Salisburgo, alle lettere della maturità, che possiamo far datare al suo primo incontro con la morte, quella della madre, il 3 luglio 1778 a Parigi: Wolfgang è solo con lei e deve riferire (lo farà con disperato pudore) la tragedia al padre. Purtroppo, il lettore italiano non può godere di questa messe straordinaria di notizie e commenti: l’edizione critica integrale dell’epistolario, avviata dall’editore tedesco Bärenreiter già nel 1962, ripresa con iniziative degne della stessa affidabilità in Francia e Gran Bretagna, non ha ancora trovato una traduzione italiana, tante volte annunciata, sempre rinviata. Un’assenza pesante, malissimo compensata da pubblicazioni sempre troppo parziali, prive di un serio apparato critico, afflitte da voyeurismo verso alcuni aspetti riconducibili – in particolare per quanto riguarda l’erotismo anale e la pornolalia – all’infanzia del compositore. Ma è nelle lettere che possiamo apprezzarlo anche come scrittore (mai interessato al paesaggio, sempre alle persone, e alla musica) e comprendere il livello della consapevolezza di sé, la qualità, in particolare a partire dal 1781, anno dell’insediamento a Vienna, delle sue relazioni come delle sue letture: l’immagine del “divino fanciullo”, del genio inconsapevole affonda in un attimo. In Mozart rivoluzionario e massone, edito nel 2005, Lidia Bramani ricostruisce con efficace scrupolo ed esattezza questo percorso socio-culturale. L’anniversario del 2006 è caduto in un momento di riflessione autocritica sulle possibilità della critica, della musicologia, di comprendere la complessità, la specificità della lingua della musica. Come è limitante, forzatamente parziale, parlare di musica, usare un altro linguaggio per descrivere un linguaggio perfettamente definito che conosce, organizza e sviluppa proprie grammatica, sintassi, logica, estetica. Ma disponiamo di altro linguaggio? E possiamo pensare di arrivare ad approssimazioni analitiche sufficientemente chiare, esplicative? “Forse è più facile porre domande sul Padreterno, ce la caveremmo meglio, magari dicendo delle castronerie orrende! Nel caso di una realtà impalpabile come la musica, quando vogliamo costringerci a un rapporto con essa, le parole sembrano voler svanire. La musica di Mozart è affabile e anche effabile, esprime cioè la fede che il reale possa esprimersi: sembra voler comunicare questa possibilità”, ha scritto Andrea Zanzotto. “Si è obbligati a credere che la musica esprima qualcosa, e si è condannati a non sapere mai cosa”, annotava con lieta amarezza il critico austriaco Edward Hanslick (1825-1904). Come per colmare questa distanza, in particolare tra gli studiosi di area anglo-sassone, e in numerosi esecutori e didatti, si guarda con rinnovato interesse al rapporto tra le forme della retorica e quelle dell’organizzazione musicale. La relazione creativa tra retorica classica e articolazione del pensiero musicale è giudicata essenziale da John Irving, che riprende la teoria dei tropi: “Per Quintiliano (Institutio Oratoria, VVV.vi) il tropo più importante era la metafora, nella quale ‘un oggetto… è in verità sostituito dalla cosa che desideriamo descrivere’. Applicata ai movimenti con variazioni, ognuna delle variazioni del tema può essere osservata come una metafora di quel tema (un nuovo termine che lo ‘sostituisce’, esercitando una sorta di ‘commento’), mantenendo strettamente la sua fraseologia originale e, con occasionale eccezione, la sua struttura armonica… Per i compositori, come per gli oratori, i luoghi topici (topics) erano ‘fonti’ dalle quali attingere materiale d’uso; per gli ascoltatori, costituivano un punto di riferimento, una sorta di griglia attraverso la quale la musica si disponeva in modelli riconoscibili. I topics potevano essere considerati come un magazzino di utili modelli di musica, da applicare in determinate situazioni. Per i compositori dell’opera barocca, la cui guida principale era la dottrina dell’Affetto, una conoscenza pratica dei topics era essenziale per la rappresentazione di particolari azioni ed emozioni attraverso una musica adeguata (pastorale, festiva, militare, e così via). Simili caratteristiche ‘fonti di ispirazione’ erano ben note al giovane Mozart che, come riportato da Daines Barrington nel 1769, poteva improvvisare un’ ‘Aria di furore’ a piacere, utilizzando senza dubbio un particolare codice o un gruppo di codici associati, come il tremolo, le triadi minori, lo spostamento di registri, e così via” (4). Nel trittico delle più recenti discipline d’indagine applicate alla musica, accanto alla teoria della ricezione e all’uso dei paradigmi retorici, largo sviluppo, nel secondo Novecento, ha avuto la sociologia della musica, inaugurata di fatto da Theodor Adorno nel suo saggio del 1962, più attento però a episodi e dinamiche dell’Otto e Novecento. A Norbert Elias dobbiamo una radiografia credibile della condizione professionale, della “funzione sociale” di un musicista del tempo di Mozart: “La posizione del musicista in tale società era in sostanza quella di un artigiano a servizio o di un impiegato. Non era granché diversa da quella di un intagliatore, di un pittore, un cuoco o un gioielliere che, secondo gli ordini di nobili donne e di signori, dovevano confezionare oggetti di gusto, eleganti o, a seconda dei casi, sorprendenti per la loro elevazione e per il loro intrattenimento, per migliorare cioè la qualità della loro vita. Mozart sapeva senza dubbio che la sua arte, per come la concepiva, si sarebbe inaridita se avesse dovuto produrre musica unicamente per il piacere di MOZART SPECIALE persone sgradite, anzi odiate, e a loro comando, indipendentemente dalla propria opinione, dalla propria sintonia con quanto gli veniva ordinato. Malgrado la giovane età, percepiva chiaramente che le sue energie di compositore sarebbero state sprecate se si fossero dovute limitare ai compiti imposti nella ristrettezza della corte di Salisburgo... Per parte sua l’arcivescovo sapeva senza dubbio che il giovane Mozart aveva un insolito talento e che l’avere tra i suoi servitori un uomo simile avrebbe accresciuto la fama della sua corte” (5). Proprio riflettendo sulla ‘condizione sociale’ di Mozart, Pierre Boulez si è recentemente (2005, in occasione degli ottantanni del compositore, direttore, saggista francese) chiesto quale sia la “funzione sociale” del compositore contemporaneo di musica d’arte – col- ta, complessa, di tradizione classica: come mai definirla, oggi? Quali le sue aspettative, i riscontri, quale in sostanza la sua necessità? Continua Boulez: “Proprio l’esistenza di Mozart ci dimostra quanto sia variabile il parametro del successo. La sua vita è il più grande esempio della transitorietà del successo: lo ha ottenuto, lo ha perduto. I giovani compositori di oggi dovrebbero riflettere su questa vicenda, per imparare a seguire e rispettare soltanto le proprie inclinazioni, senza inseguire il successo”. La complessità e l’immediatezza, il significato profondo e la maschera che lo nasconde agli sguardi più superficiali: di questi differenti e simultanei livelli di ricezione Mozart era del tutto conscio se, come notò Franz Joseph Haydn, “aveva del gusto e inoltre la più grande scienza della composizione”. Un raro connubio. Se, come ha ammesso – proprio parlando di Mozart – Saul Bellow, “i fondamenti ci sfuggono”, capita allora di avventurarsi nella letteratura; esaurito tutto l’immaginifico possibile sulla vicenda della morte – alla quale per primo nella micro-tragedia Mozart e Salieri Puskin (1832) diede dignità letteraria – la recente editoria internazionale si è dedicata alle vite parallele della sorella Nannerl, del figlio musicista Franz Xaver (ribattezzato già in vita Wolfgang, come il padre), mentre non sono mancate disinvolte traiettorie che, complice Il flauto magico e le sue ritualità, tendono a ricondurre le radici di Mozart nell’Egitto immaginario caro alla massoneria. Ma alla fiction del 250° anniversario della nasci- ta è mancato il contributo dell’industria cinematografica, un nuovo Amadeus di Milos Forman, film amato, criticato, detestato, con almeno un indubbio merito: aver proposto il nome, la figura, una qualche reminiscenza di Wolfgang Amadé Mozart ad un pubblico esteso, in larga parte giovanile; proprio quello che oggi appare più difficile raggiungere, coinvolgere, far innamorare della sua musica. “La musica è un’arte sociale, ha bisogno di luoghi pubblici, di emozioni vissute dal vivo, durante i concerti, nel momento in cui l’interprete fa nascere il suono di fronte ad una platea. La musica di Mozart regala gioia, un profondo senso di benessere che è bello condividere. Non chiede isolamento, ma partecipazione”, ha detto Claudio Abbado. In questa direzione, am- plissimo è il cammino che si può ancora percorrere. Sandro Cappelletto Note 1) Massimo Mila, La fortuna e il significato di Mozart, in Città di Milano, LXXII, dicembre 1955; ora, in Mozart – Saggi 1941-1987, Einaudi 2006; p. 170 2) Gernot Gruber, La fortuna di Mozart, Residenz Verlag, Salzburg und Wien 1985; trad. it. di Mirella Torre, Einaudi 1987, p. 230 3) H. Rösing, in L’esperienza musicale, Teoria e storia della ricezione, a cura di Gianmario Borio e Michela Garda, EDT, 1989; p. 123 4) John Irving, Mozart: The Haydn Quartett, Cambridge University Press, 1998; pp. 61-72 5) Norbert Elias, Mozart, sociologia di un genio, a cura di M. Schröter, Framkfurt 1991, trad. it. di Rossella Martini, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 123 Curriculum Vitae di Sandro Cappelletto Scrittore e storico della musica, Sandro Cappelletto è nato a Venezia nella seconda metà del Novecento. Laureato in Filosofia, ha studiato armonia e composizione con il maestro Robert Mann. Tra le sue principali pubblicazioni, la prima biografia critica di Carlo Broschi Farinelli (“La voce perduta”, EDT, 1995), un’analisi della “Turandot” di Puccini (Gremese Editore, 1988), un saggio su Gaetano Guadagni (Nuova Rivista Musicale Italiana, 1993), un’inchiesta politica sugli enti lirici italiani (“Farò grande questo teatro!”, EDT 1996). Nel 2006 è uscito “Mozart – La notte delle Dissonanze” (EDT), libro dedicato al misterioso Adagio introduttivo del Quartetto per archi K 465. Per la “Storia del teatro moderno e contemporaneo” (Einaudi, 2001) ha scritto il saggio “Inventare la scena: regia e teatro d’opera”. Nel 2002, con Pietro Bria, dà alle stampe “Wagner o la musica degli affetti” (Franco Angeli), raccolta di riflessioni e interviste di Giuseppe Sinopoli, di cui nel 2006 cura, per Marsilio Editori, “Il mio Wagner – il racconto della Tetralogia”. Autore di programmi radiofonici e televisivi per le frequenze Rai (crea nel 2001 la trasmissione di Rai-Radio Tre “La scena invisibile”), ha scritto numerosi lavori teatrali (“Solo per archi’, “Quel delizioso orrore”, “Poiché l’avida sete”, “Vostro devotissimo Wolfgang Amadé”). I suoi testi per il teatro musicale sono nati dalla collaborazione con numerosi compositori italiani: Ambrosini, Corghi, D’Amico, Gentile, Lupone, Morricone, Pennisi, Piacentini. Accademico dell’Accademia Filarmonica Romana, ha diretto su invito di Giuseppe Sinopoli il settore drammaturgia e didattica del Teatro dell’Opera di Roma. Giornalista professionista, collabora al quotidiano “La Stampa”. E’ membro della commissione artistica della Scuola di Musica di Fiesole. Theophilus Mozart, come nasce un genio I l 27 gennaio 1756, mentre su Salisburgo cadeva lenta la neve, nella casa al numero 9 della Getreidegasse, giunte oramai le ore venti, Leopold Mozart impaziente aspettava il suo settimo figlio dalla moglie Anna Maria. Sarà un maschio che chiamerà Wolfgang Theophilus [tradotto poi in Amadeus] e che sarà un po’ il suo portafortuna. Proprio in quell’anno, infatti, Leopold diventa famoso per un metodo per lo studio del violino. Egli aveva scelto la musica, mentre altri membri della sua famiglia erano dei rilegatori di libri di Augusta. L’AMBIENTE Wolfgang già nella pancia della madre iniziava a sentire i suoni provenienti dalla sua casa, dove il padre ripeteva le opere dei concerti di corte e con i suoi amici erano intenti a mettere a posto un quartetto. Sua sorella Nannerl, di cinque anni più grande, produceva note al clavicembalo, esercitandosi parecchie ore al giorno. Così che a tre anni il piccolo inizia sulla tastiera a scoprire le terze armoniche, “le note che stanno bene insieme”. Il padre e la sorella gli insegnano le lettere che corrispondono alle note (C è do). Imparerà la musica prima di saper leggere. Qui si comprende come l’ambiente familiare (soprattutto il padre e la sorella, in questo caso) contribuiscano a far sbocciare o coltivare una dote. Un unico suono lo atterriva fino a dieci anni, quello della tromba, soprattutto se suonata da sola: il suo timbro squillante lo faceva addirittura impallidire; mentre gli era gradito il suono del violino, che definiva “di burro” per il suo timbro rotondo e dolce. A sei anni comincerà a comporre musica prima ancora di saper scrivere. L’EREDITARIETÀ Solo il nonno materno di Wolfgang era cantante e direttore di coro. Non sopravvaluterei troppo quindi l’ereditarietà musicale; sottolineerei piuttosto come sin dalla più tenera età egli fosse stato circondato da un ambiente musicalmente stimolante. Anche nel caso dei Bach, prima di Johan Sebastian non si annoverano ascendenze di musicisti. Wolfgang inoltre Olio attribuito a P.A.Lorenzoni. Mozart fanciullo in abito di gala. possedeva delle capacità mnesiche eccezionali, che gli erano solo proprie e che in qualche modo lo contraddistinguevano. All’età di quattordici anni studiava musica a partire dai quattro si reca con il padre nella basilica di San Pietro in Roma. E’ il mercoledì di Pasqua, ed egli ascolta per la prima volta il “Miserere” dell’Allegri: un pezzo della durata di 15 minuti, a nove voci per due cori, bassi e tenori, eseguito dai Cantori della Cappella Sistina. Ebbene, egli riuscì a trascriverlo interamente una volta a casa (tornò una seconda volta ad ascoltarlo per controllare di non avere commesso errori). Solo in parte era stato aiutato dal fatto di conoscere il testo latino del salmo 51, che l’Allegri ha musicato, per poter compiere più agevolmente le dovute associazioni. Rimane indubbiamente questo grande dono della capacità di memorizzare, ed anche del possesso dell’orecchio assoluto, spesso frutto della pratica precoce di uno strumento musicale. L’acquisizione della giustezza vocale avviene tra i tre e i sette anni per apprendimento a contatto delle persone del proprio ambiente. L’intelligenza musicale è una sorta di intelligenza specializzata, favorita specialmente in età precoce dall’educazione e dall’ambiente. LA CONSAPEVOLEZZA E LA DETERMINAZIONE Wolfgang, sebbene fosse cosciente e fiero del suo dono, non lo sopravvalutava: non smise mai di perfezionarsi, impegnandosi seriamente in composizione e cercando ottimi maestri. Volle conoscere tutta la musica scritta prima di lui. I suoi viaggi miravano sia a recare soddisfazione al padre, facendosi conoscere come allievo modello, che ad apprendere come, intellettualmente parlando, altri musicisti intendessero l’armonia ed il contrappunto. La sua determinazione fu davvero notevole; non riuscirono a destabilizzarlo neanche le vicissitudini familiari. Si pensi che in undici anni i Mozart cambiarono casa ben dieci volte; per non parlare dei numerosissimi luoghi attraversati durante i viaggi. All’inizio del 1762 è a Monaco; a settembre si imbarca con la famiglia sul Danubio, passa per Linz; a Ips Wolfgang sorprende i padri francescani suonando l’organo del convento; a ottobre si trova a Vienna e, sebbene abbia solo sei anni, critica ad alta voce l’arciduca che stona al violino. Wolfgang, se malato e costretto a casa, ne approfitta per perfezionare lo studio del violino. Nel 1763 Leopold viene nominato vice maestro di cappella di corte; in quell’anno inizia un viaggio che durerà quasi tre anni, fino al 1766, e che porterà per l´Europa la famiglia Mozart, così composta: padre, madre, un domestico, Nannerl e Wolfgang, di dodici e sette anni rispettivamente. Nel Settecento un musicista, se non stipendiato presso una cappella, o presso un sovrano doveva contare, esibendosi presso le varie corti e palazzi, sulla generosità dei principi che facevano soprattutto regali preziosi. Wolfgang riuscì nelle numerose esibizioni ad avere una collezione di orologi che, non facili da vendere, non garantivano un salario per vivere. Non mi meraviglio, come raccontano i biografi, che non stesse mai fermo. Già da piccolo amava trasportare i suoi giochi da una stanza all’altra. Era sempre in movimento, accennava passi di danza o stando fermo batteva i talloni e agitava le dita come se stesse suonando. Era esuberante, aveva sempre la risposta pronta e la battuta spesso mordace. I numerosi viaggi, per contrasto, indussero una “educazione alla mobilità”. In carrozza, sballottati su strade spesso sassose, sarebbe stato impossibile scrivere: da qui il ricorso all’immaginazione, sostenuta dal potenziamento della memoria. Egli componeva “a mente” senza strumento, improvvisava e trascriveva a memoria. L’ORECCHIO ASSOLUTO Durante l’ascolto di un brano musicale, Wolfgang coglieva la minima dissonanza e individuava immediatamente tra i numerosi strumenti quale l’avesse emessa, e quale nota avrebbe invece dovuto eseguire. Si irritava se vi erano dei rumori anche lievi: era concentrato sulla musica, e solo al termine dell’attività sembrava ritornare alla sua età da bambino. Egli aveva piena consapevolezza della propria identità e del proprio genio. A undici anni già era oberato dal peso dell’aureola dell’enfant prodige da esibizione; voleva dimostrare di essere un vero musicista. GLI INCONTRI Wolfgang a Bologna all’età di quattordici anni conobbe Padre Martini, il più grande contrappuntista dell’epoca, che nutrì per lui subito un trasporto filiale (avevano 50 anni di differenza) e al quale chiederà lezioni. Egli fece molto di più: corresse di nascosto il suo compito per essere ammesso all’Accademia Filarmonica, dove imparerà il contrappunto vocale “alla Palestrina”. L’altro incontro che ebbe una grande influenza su Wolfgang fu quello con Christian, il quarto figlio del grande Sebastian Bach ( già morto nel 1750 ), di ventun anni più vecchio, con cui ebbe una frequentazione assidua. Allievo di Padre Martini, aveva abbandonato lo stile contrappuntistico del padre Johan per uno fatto di melodie con accompagnamento. Tra i due nasce una solida amicizia, e Christian insegnerà a Wolfgang l’arte della sonata classica, di cui è uno degli inventori. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che fu un modello per Wolfgang venticinquenne, sul quale esercitava un grande fascino. Haendel fu un altro grande della musica, di cui egli si ricorderà sempre quando nelle sue opere dovrà inserire un evento drammatico o maestoso, lo stile fugato o una mescolanza di stile galante e severo. Nel settembre 1785 dedica i sei quartetti all’amico Franz Joseph Haydn di ventiquattro anni più vecchio. Tranne che con la sorella, di cinque anni più grande, Wolfgang ha frequentazioni con uomini più grandi, da cui poté apprendere molto grazie al suo carattere gioioso ed aperto, che gli faceva riscuotere ovunque simpatie. I GENITORI Il ruolo del padre Leopold è stato de- N. 4 Giugno/Dicembre 2008 7 MOZART SPECIALE terminante. Ottimo insegnante, ruolo che ricoprì anche con la figlia Nannerl, egli sapeva stimolare la curiosità dei figli: pare dosasse persuasione e affetto senza mai essere duro. Viene descritto come un uomo illuminato, intelligente e diplomatico, ed ottimo impresario. Per non perdere le varie occasioni di far esibire nelle diverse corti i suoi figli, durante la loro infanzia ed adolescenza se ne addossa l´istruzione completa, per gli studi umanistici, la matematica, le lingue e le arti; del resto, essendo sempre in viaggio, essi non avrebbero potuto frequentare nessuna scuola. Solo a ventidue anni Wolfgang farà il suo primo viaggio senza il padre, accompagnato solo dalla madre: fu trattato come “un prodotto di ser- ra”. Egli nutriva tenerezza verso il padre, sebbene con l’età questo fosse diventato un po’ brontolone e sempre più rigido. Wolfgang venne comunque sempre circondato di attenzioni e vezzeggiato. Si era creato attorno un contesto educativo e affettivo favorevole allo sviluppo della sua arte. Anna Maria era un’eccellente madre di famiglia; da essa aveva ereditato i tratti ingenui, gioiosi e talvolta puerili del carattere. Molte lettere attestano che entrambi i genitori si sentivano investiti di una missione divina: far sbocciare le doti straordinarie dei loro figli. LA STORIA Dentro di noi ci sono venticinquemila geni, centomila proteine, cento miliardi di neuroni, cento trilioni di connes- sioni: noi siamo la combinazione di tali dati, la cui organizzazione dipende, però, anche dal contesto in cui viviamo, cresciamo, e questo vale dal punto di vista culturale, sociale e tecnologico. Il substrato biologico esprime una potenza che l´interazione con l´ambiente mette in atto. Niente in biologia ha senso se non alla luce della Storia. RIFLESSIONE A questo punto ci si può chiedere chi sono allora veramente i geni. Piuttosto che dichiararli persone con doti ereditarie speciali, dovremmo dire che una serie di fattori concomitanti li hanno fatti germogliare. In loro la natura ha fatto leva su alcuni fattori/atteggiamenti comportamentali quali una for- Mozart. Turista per caso Nel primo viaggio in Italia da Salisburgo a Napoli (1769-1771), Wolfgang Amadeus accompagnato dal padre Leopold, transita per due volte nella Tuscia Viterbese. All’andata, scendendo a Roma, sosta a Centeno e Viterbo. Al ritorno, provenendo dalla capitale e diretto verso la costa Adriatica, si ferma a Civita Castellana. Tre stop tecnici, per cambiare i cavalli della carrozza e risposare, che vale la pena di ricordare. N ella Tuscia Viterbese c’è stato un insospettato fiorire di iniziative per ricordare il 250° anniversario della nascita di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791). Un po’ per moda, un po’ per convinzione, fatto sta che chiese, castelli e palazzi storici di ogni comune, anche il più piccolo, si sono aperti ad artisti e organici, pure di livello internazionale, per riproporre con l’enfasi della ricorrenza, le pagine immortali del genio salisburghese. E’un segnale di crescita da non sottovalutare. Con il viterbese, Mozart ha avuto, in verità, fugaci contatti “mordi e fuggi” del tutto superficiali che vale la pena, però, di ricordare con qualche curiosità. Parliamo del primo viaggio in Italia compreso tra il 13 dicembre 1769 e il 28 marzo 1771 e preparato meticolosamente dal padre Leopold sia per lucrare la notorietà del giovane figlioprodigio (appena quattordicenne) e sia per fargli conoscere il jet set di allora: Giambattista Martini a Bologna, Clemente XIV a Roma (che gli consegnerà lo “Sperone d’oro”, una sorta di premio Nobel di allora), Paisiello. Jommelli e Di Majo a Napoli. I Mozart (senior e junior) partirono dunque da Salisburgo il 13 dicembre 1769 per spingersi sino a Napoli, che raggiunsero dopo un faticoso viaggio il 28 maggio del 1770. Qui soggiornarono per più di un mese prendendo alloggio presso abitazioni private: tra le altre la casa di una certa signora Angi ed una di proprietà dei padri Agostiniani del convento di Giovanni a Carbonara. Per arrivare a Napoli scesero lungo la dorsale centrale: Milano, Bologna, Firenze, Siena, Roma. Obbligato, quindi, il transito per la consolare Cassia. L’8 aprile del 1770 sostarono a Centeno (nell’alta Tuscia) presso la locanda della Posta. Il giorno seguente giunsero ad Acquapendente e il 10 aprile a Viterbo. Il Capoluogo li accolse in una serata infernale di pioggia e tuoni. Dove dormirono? Non lo sappiamo. Probabilmente in una locanda-osteria situata tra via della Cava e il corso Italia (locanda dei Muli?). Sappiamo, però, che la mattina Stampa 1789, Mozart assiste ad una rappresentazione de Il ratto dal serraglio al teatro dell’Opera di Berlino. 8 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 seguente, prima di partire, il giovane Mozart venne accompagnato dal padre al santuario di Santa Rosa per ricevere in dono dalle clarisse del monastero una reliquia della santa, di cui Leopold aveva sentito parlare. Nel viaggio di ritorno i due sostarono a Civita Castellana dove giunsero verso le cinque del mattino dell’11 luglio 1770. Erano partiti da Roma intorno alle 18 della sera precedente. “Una tappa lunga ed estenuante senza chiudere occhio”, annoterà il padre nel diario di viaggio. Nelle ore notturne, malgrado la stagione estiva, faceva molto freddo, tanto che furono costretti ad indossare una pelliccia prudentemente riposta nel baule. A Civita si fermarono alcune ore presso la locanda della Posta dove si “buttarono sul letto” fino alle 10, dopo aver gustato una provvidenziale tazza di cioccolata calda. Si recarono, quindi, ad ascoltare la Messa nel Duomo di Santa Maria e qui il giovane Wolfgang ebbe l’opportunità di suonare l’organo. Va ricordato che la chiesa era stata completamente ristrutturata qualche decennio prima (tra il 1736 e il 1740) e che pertanto si presentava in tutto il suo splendore barocco. Dopo il pranzo di mezzogiorno, padre e figlio riposarono ancora un poco nella cittadina viterbese, per poi ripartire, nel pomeriggio, alla volta di Terni, che raggiunsero il giorno dopo, attraverso Borghetto, Otricoli, e Narni. Da qui avrebbero poi proseguito verso la riviera Adriatica. In una lettera inviata alla moglie da Bologna il 21 luglio 1770, Leopold scrive “…questo è stato uno dei viaggi più faticosi che io abbia fatto, in parte per via del sonno scarso e interrotto, in parte per la quantità innumerevole di pulci e di cimici che impediscono di dormire anche ad un corpo spossato dalla stanchezza; e in particolare, però, per via della mia gamba, dove, sebbene andasse abbastanza bene, non solo si è riaperta la ferita a causa dei continui scossoni del viaggio, ma si era anche a tal punto gonfiata che il polpaccio e la caviglia erano della stessa grossezza….Non me ne sarei mai andato via da Roma se non fosse stato necessario per il crescente pericolo del caldo e dell’aria malsana; e con tutto ciò meraviglia tutti il fatto che le mattine e le sere siano state non soltanto fresche, ma fredde, tanto che la notte che siamo partiti da Roma per Civita Castellana abbiamo indossato la pelliccia sopra il mantello per ripararci dal freddo…Tutta l’Italia si stupisce di questo tempo”. Vincenzo Ceniti te impermeabilità all’esterno, se non nella direzione del loro interesse primario, una capacità di concentrazione non comune per non lasciarsi distrarre o deviare, l’aver chiaro l’obiettivo a cui arrivare e l’essere altresì capaci di sostenere un grande sforzo mentale per ottenerlo, dimostrando una grande resistenza e una non meno grande tenacia. Nel caso di Amadeus, se si fosse esercitato tre ore al giorno già da piccolo a sei anni poteva vantare più di tremila ore! Il perseverare porta evidenti frutti soprattutto se è sostenuto da un buon coefficiente intellettivo. Il messaggio da trasmettere ai giovani è questo: cercate, sebbene faticoso all’inizio del vostro iter scolastico, di acquisire queste capacità di lavoro: sa- ranno i vostri arnesi per esprimere al meglio la vostra scintilla di genialità. Massimo Fornicoli Silhouette. “Contessa, perdono” Un Mozart per “dopolavoristi” Non senza emozione, accogliendo il monito del nostro Presidente, pubblichiamo questo breve e fantasmagorico racconto dell’indimenticato Franco Lanza. A noi, che abbiamo lavorato sul pezzo inviatoci dal Professore pochi giorni prima della sua scomparsa, resta qualcosa che vogliamo condividere. L’articolo ci è giunto in parte dattiloscritto, si trattava presumibilmente di una stesura precedente alla nostra richiesta di pubblicare un pezzo dedicato a Mozart, e in parte vergato a mano, con quella calligrafia un po’ incerta che suscita sempre una nostalgia affettuosa. Il titolo, scelto da Lanza stesso, diventa improvvisamente molto significativo: il “dopolavorista” ha voluto farci dono del suo tempo libero, che ora sappiamo essere stato molto breve, ma molto prezioso per noi. L’onore di ospitare in questa pagina le sue ultime parole aggiunge al nostro cordoglio uno sprone a proseguire sulla strada maestra che lui ci ha sempre indicato. Grazie Franco. E ra l’estate del 1959 ed io mi trovavo a villeggiare a San Cassiano in Val Badia. Nei miei programmi sarebbe stata un’estate senza ambizioni di gran turismo anche se in un angolo della mia mente progettuale non avevo rinunciato del tutto ad una serata mozartiana ai Festspiele di Salisburgo. Quando mi mossi per le Dolomiti una rapida telefonata agli uffici turistici chiarì che i posti per quella eccezionale “prima” di Von Karajan erano già esauriti da un mese. Perciò non misi nel bagaglio alcun abito elegante, ma certo non sarei mancato a quella serata, almeno per rendermi conto “dal di fuori” degli apparati scenici e delle voci in campo. Fu per questo motivo che presentandomi ai Festspiele, dopo una bella galoppata di un’ora e mezza, tra ospiti vestiti di tutto punto, chiacchierando con i bagarini mi resi conto che tutte le porte si aprono quando congiurano la buona volontà ed il denaro. Mettendo loro davanti, da buon provinciale, un gruppo di scellini, che era quasi il doppio del semplice ingresso alla barcaccia, mi trovai tra le mani l’agognato ingresso che non mi avrebbe poi permesso di vedere granché, in quanto l’abito di tela bianca che indossavo non sarebbe stato tollerato dai sorveglianti del teatro. Sbarrata dai vigilanti la strada che mi avrebbe portato agli ordini più alti, aggirai l’ostacolo ficcandomi fra le scale di corda dell’impianto scenico. Era questo regolato in modo da permettere l’uscita di qualunque personaggio, bastava aggrapparsi alla scala di corda che conduceva addirittura sotto i palchi. Ma quale fu la mia meraviglia quando, volendo ritornare allo sfogo del loggione, dopo aver risalito quella strada poco comoda, mi vidi sbarrare la via da un grosso inserviente che a forza di mandarfnicht (di qui non si passa), mi impedì il rientro più comodo imponendo di scapicollarmi per chissà quante altre scale e piccionaie. Infatti, il biglietto che io avevo mi consentiva sì il passaggio a quell’acrobatico loggione, ma non il libero ritorno dopo una libera andata. Insomma, era semplicemente un passepartout che mi apriva un passaggio in alto o in basso, ma non una libera circolazione. Io credo che ben pochi abbiano ascoltato arie come “Dalla sua pace la mia dipende”, stando a caval- cioni di un’asse portante del soffitto; che mai il catalogo della donne squadernato da Leporello sia stato ascoltato e seguito da uno spettatore come me, appeso ad una corda e sempre in procinto di capitolare. Tuttavia, quanto mi è rimasto di quella celebre serata mozartiana è un ricordo difficile da cancellare: chi vive e respira l’aria del palcoscenico è qualcosa di più di un semplice spettatore; sente per così dire palpitare la scena attraverso le proprie reazioni, si immedesima nel canto accompagnandolo con un suono più o meno gradevole, ma pur sempre suo. Così credo che succeda ai cori, quando non emettono forse neppure un suono ma si rivestono di una gestualità solenne, di una illusa partecipazione che può mescolare la propria voce raddoppiandola su quella della Schwarkopf. Anche le parti dialogate dal Da Ponte avevano un loro ritmo che faceva dimenticare l’equilibrio instabile fra il vizio e la gioia di vivere, in una corona di umanità in apparenza innocente, che è il grande fascino di un conflitto che tra generosità e condanna raggiunge l’incandescenza del tragico. Per tutta quella serata, tra raccolta e distesa, tra l’imminente giudizio del Convitato di Pietra e l’urgere della resa dei conti che precipiterà il protagonista tra le fiamme, lo svolgersi del dramma procedeva con un’urgenza drammatica che scandiva le battute simili a quella di una sentenza irrevocabile. A me rimase l’abito di tela bianca a causa del quale ero stato costretto a confrontarmi con il gran galà della platea. Ma penso che ben pochi portino di una prima di Von Karajan un ricordo così originale e così rischioso. In fondo la mia avventura era stata uno scherzo di loggione, simile a quelli che i nostri nonni raccontavano come lacerti di aneddotiche acrobazie a fini galanti. Ma l’avermi condotto così vicino a quegli eletti dell’Olimpo, tanto da sfiorare il loro profumo (delicato ed acuto quello di Graziella Sciutti, quando mi porse la mano per aiutarmi in un passo difficile!) mi dette l’illusione di una vita comune, di un noviziato di Wilhelm Meister trasportato dalla prosa al melodramma. Un canto ed un profumo che ancora mi avvolgono, come una stregoneria di qualcosa che sarebbe potuto accadere, e purtroppo non è accaduto. Franco Lanza MOZART SPECIALE Con piacere pubblichiamo questo “saporito”racconto inviatoci dall’amico Maurizio Bianchini, infaticabile promotore di attività culturali legate al territorio, autore di testi, titolare e illuminato chef del Ristorante Casa Tuscia di Nepi (VT). I cappellacci di Mozart I l piccolo corteo dei viaggiatori attraversò il grande ponte sospeso sulla forra, poi si inerpicò per una strada lastricata di basalto prima di giungere sulla grande piazza della cittadina, un rettangolo con una fontana in mezzo, chiuso da ogni lato dai palazzi, alcuni molto antichi e traforati di eleganti bifore di travertino. Le carrozze l’attraversarono uscendo dalla parte opposta, poi percorsero una stretta via che dava sul magnifico portale romanico di una chiesa antica e infine, dopo avere girato a sinistra si fermarono nel giardino interno traboccante di verde di uno splendido palazzo rococò bianco e celeste che al ragazzo ricordò casa sua, dall’altro lato delle Alpi. Sembrava lui, più che l’austero e segaligno padre, la persona di riguardo. Guidata dal padrone di casa, un conte, sia pur di recente nobiltà, una piccola schiera di domestici gli si fece intorno e dopo averlo aiutato a scendere si dispose sollecita ad aspettarne le richieste. - Scaricate i bagagli, suvvia, non restate lì imbambolati- li esortò il padrone di casa. - Fate attenzione agli strumenti, mi raccomando- aggiunse il padre del ragazzo, il cui accento ne tradiva le origini tedesche. Dopo essersi salutati con qualcosa che era più di una formalità, ma meno di un autentico calore, i due uomini si diressero all’interno seguiti dal ragazzo che però procedeva guardandosi intorno da ogni parte, l’attenzione continuamente attratta da nuove scoperte: una nicchia con un’immagine sacra a una parete, un vecchio portavasi in ceramica, un piccolo graffito. Finché l’eco di una musica allegra, una tarantella suonata con stru- menti di fortuna, non ne fermò il passo e rapì lo sguardo. - E’ il carnevale sapete, la gente indossa strane maschere e se ne va in giro per la città suonando, cantando e mangiando fino a notte fonda.- Il conte prevenne la domanda del padre del ragazzo, dopo essersi a sua volta arrestato a metà della strada. -Oh, papà, mi piacerebbe tanto vederlo…-Sì, sì, possiamo andare a vederlo, papà?- Anche la sorella del ragazzo, fino ad allora in silenzio, quasi invisibile dietro di lui, si unì alla richiesta. -Come può venirvi in mente una cosa del genere? Siete stanchi, dovete riposare. Domani ci attende una lunga giornata-. -Oh papà…- gemettero i due giovani all’unisono. -E’ una festa così bella, caro Leopold. Un’intera città annega per una notte tutti i suoi pensieri nella musica e nell’allegria.- Il conte fece una piccola pausa. Poi riprese in tono ancor più suadente. Potrebbero fare un giro per la città, tanto per vedere. Li farei accompagnare da mio figlio più grande. Alessandro è la più giovane Guardia D’Onore del Papa. Di lui ci si può fidare.-Malvolentieri, almeno all’apparenza, Leopold accondiscese alla proposta. Dopo essersi cambiati d’abito e riposati, sotto l’occhio vigile di quella sorta di fratello maggiore e la scorta occhiuta d’un paio di robusti domestici i due ragazzi uscirono infine incontro al Carnevale. Il giorno dopo, il giovane, che si chiamava Wolfgang Amadè Mozart, suonò per oltre un’ora il vecchio organo della cattedrale fra lo stupore dei musici, increduli che tanta grazia, tanta scienza, tanto pathos potessero alloggiare in quel piccolo essere i cui piedi a malapena arrivavano ai pedali. Nel pomeriggio, dopo una frugale colazione nel palazzo del conte, la carovana dei Mozart partì alla volta di Roma, do- ve la fama di quel genio bambino li aveva già preceduti creando un’attesa spasmodica per il suo arrivo. Ma nella cittadina in cui Wolfgang aveva fatto la conoscenza del Carnevale, tutti ricordavano il giovane salisburghese che aveva ballato con le ragazze di campagna vestite da streghe, mangiato con le mani i cappellacci col pecorino ed i ravioli di ricotta e persino suonato un violino fatto con una scatola di compensato… Ma davvero Mozart ha mangiato questo pietanza?- Chiese la donna elegante all’uomo che le aveva raccontato questa storia, seduta al tavolo di un ristorante dalle ampie volte bianche con vista sull’antico castello che qualche secolo prima aveva ospitato il dolore di Lucrezia Borgia dopo l’assassinio del marito Ferdinando. -Mi permetta di risponderle con un’altra domanda: vi avrebbe mai rinunciato se avesse avuto la possibilità di farlo?Sorrisero entrambi. E chi fosse stato presente in quel momento avrebbe potuto ascoltare in sottofondo, lontana ma chiara, una delle melodie del grande salisburghese. Maurizio Bianchini Titolare del Ristorante Casa Tuscia di Nepi (VT) Mozart: il suono che guarisce il corpo e l’anima Olio di J.Lange, cognato di Mozart. Ritratto incompiuto. “Resi forti dalla potenza del suono, camminiamo gioiosi attraverso l’oscura notte della morte.” Q uesta citazione da Il Flauto Magico ci fa supporre che Mozart fosse consapevole delle virtù taumaturgiche della musica, ma sicuramente non poteva immaginare per quali finalità oggi ascoltiamo la sua musica. E’ormai riconosciuto da tutti che la musica può influenzare l’organismo modificando lo stato emotivo e mentale, ma non tutti sanno che questo meraviglioso fenomeno è stato denominato proprio “Effetto Mozart” (Don Campbell, L’Effetto Mozart, Baldini e Castoldi 1999) Come hanno dimostrato alcuni studiosi dell’Università di Irvine in California, certa musica può apportare miglioramenti alla capacità del cervello di percepire il mondo fisico, formare immagini mentali e accorgersi dei cambiamenti negli oggetti. In altre parole, la musica può influire sul modo in cui percepiamo lo spazio intorno a noi. (Gordon Shaw, Keeping Mozart in Mind, University of California, Irvine, Academic Press, San Diego 2000). Ricercatori di varie discipline sono concordi nell’affermare che la musica di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) aiuta ad organizzare i circuiti neuronali di alimentazione nella corteccia cerebrale, soprattutto rafforzando i processi creativi dell’emisfero destro associati al ragionamento spazio-temporale. In particolare, le sinfonie mozartiane presentano particolari caratteristiche di timbro e di ritmo che risultano benefiche per l’organismo. Hanno un effetto di ricarica sul cervello, stimolano la creatività e l’energia positiva in chi le ascolta.Uno studio ha evidenziato che ascoltare Mozart per solo dieci minuti può far aumentare temporaneamente il quoziente di intelligenza (QI) di nove punti. Sono i suoni ad alta frequenza a dare energia al cervello, e l’energia cerebrale è direttamente collegata all’intelligenza. Ulteriori studi sui topi di laboratorio hanno dimostrato che le cavie a cui veniva fatta sentire la Sonata K.448 erano in grado di uscire più velocemente da un labirinto rispetto al gruppo di riferimento tenuto in silenzio o sottoposto all’ascolto di Per Elisa di Beethoven. La superiorità di questi topolini è rimasta intatta anche riducendo l’esposizione di musica del 58% e facendo trascorrere 24 ore di silenzio prima del test, come a significare che il benefico effetto non è transitorio, bensì durevole nel tempo. Inoltre è emerso che la musica di Mozart può aiutare a rallentare i sintomi di molti disturbi neurodegenerativi. Tra i malati di Alzheimer, grazie all’ascolto delle sonate, si sono ottenuti buoni risultati nei problemi di spazializzazione e di socializzazione. Si è anche sperimentato che la musica di Mozart, e non altra, calma l’attività elettrica associata alle crisi dei pazienti epilettici. Poche note ascoltate ogni giorno e gli attacchi epilettici si riducono drasticamente. Ad illustrare gli effetti terapeutici della musica del grande compositore è John Jenkins del Royal College of Physicians. Per concludere in maniera leggera il catalogo delle virtù miracolose, vogliamo ricordare che esiste anche un metodo di allenamento fisico, in cui gli esercizi sono scanditi sui ritmi mozartiani. Marco Brazzo, chinesiologo e osteopata, nel suo Mozart Fitness, guida all’igiene motoria con la musica di Wolfgang Amadeus Mozart (ed.Deme- tra) descrive tutti i possibili abbinamenti musicali ai vari esercizi ginnici e ne assicura l’efficacia. A questo punto ci chiediamo: perché proprio la musica di Mozart? Il Metodo Tomatis Tra le molteplici metodiche che si servono del grande musicista salisburghese in veste di “guaritore” vi è il metodo Tomatis. Nel suo libro Perché Mozart (Ibis, 1996), molti decenni prima delle recenti conferme venute dalle ricerche americane, Tomatis aveva scoperto le qualità terapeutiche ineguagliabili della musica del grande Amadeus. Il metodo Tomatis è una tecnica di stimolazione sonora e un intervento pedagogico col fine di migliorare il funzionamento dell’orecchio, la comunicazione verbale, il desiderio di comunicare e imparare, la consapevolezza dell’immagine corporea, il controllo audiovocale e quello motorio. Questo medico otorinolaringoiatra francese, Alfred Tomatis (1920-2001), ha messo in evidenza le relazioni esistenti fra l’orecchio e le varie funzioni dell’organismo, portando avanti le sue ricerche sull’audizione, sul linguaggio e la comunicazione per evidenziare la relazione esistente tra orecchio, linguaggio e psiche. Il suo metodo, basato sulla convinzione che la funzione primaria dell’orecchio non è l’udito ma l’ascolto, utilizza una macchina nota come “orecchio elettronico” per filtrare la musica di Mozart, apportando così all’orecchio le frequenze che vanno a “ricaricare” la corteccia cerebrale. L’orecchio, infatti, ha il compito di fornire energia al nostro cervello, come una dinamo che ricarica la batteria di un’auto. Tale apporto energetico è determinato quasi esclusivamente dalle frequenze acute di cui la musica mozartiana è ricchissima; tali frequenze si trasformano in stimoli nervosi, a livello delle cellule ciliate della coclea (cellule del Corti), e provocano una dinamizzazione dell’attività corticale, che si tramuta in coscienza, concentrazione, memoria e volontà. Coloro che si sottopongono al training di ascolto avvertono un risveglio della coscienza e della vitalità. La musica ha un effetto terapeutico sulla parte dell’orecchio interno, detta “organo di equilibrio” che tiene sotto controllo tutti i muscoli del corpo. Una sana “energizzazione” agisce sulla tensione corporale, su eventuali contrazioni o rilassamenti del tono muscolare e quindi sulla postura. Osservando il sistema nervoso parasimpatico, si comprendere il motivo per cui questa stimolazione può aiutare a risolvere disturbi di origine psicosomatica. Il nervo vago detto anche “nervo dell’angoscia”, si inserisce tramite il nervo auricolare sul timpano Le frequenze acute determinano la tensione di esso, assicurando un buon equilibrio neurovegetativo. Grazie al vago tutto si può organizzare armoniosamente o squilibrarsi. In quest’ultimo caso appaiono somatizzazioni varie. Con il metodo Tomatis non soltanto si curano problemi di concentrazione, di apprendimento, di iperattività, di equilibrio, ma anche, la dislessia, la balbuzie, l’autismo. Può essere di grande aiuto anche a persone con problemi d’integrazione sensoriale o con difficoltà psicomotorie. Tomatis è efficace per l’apprendimento delle lingue straniere, per il rilassamento e preparazione al parto, per una migliore capacità di comunicazione (utile ai manager) e, non ultimo, per il miglioramento delle proprie qualità fino e per trovare un’armonia con sé stessi . Permette di lottare contro la depressione, di essere più creativi e di migliorare l’ efficacia nel lavoro. Molti musicisti, cantanti e attori hanno utilizzato il metodo per affinare il loro talento. Chi si è sottoposto al ciclo di sedute ha notato il suo impatto psicologico, menzionando un’accresciuta fiducia in se stessi, un migliorato livello d’energia e di motivazione, così come una maggiore chiarezza di pensiero e un migliorato senso di benessere. A questo punto se Tomatis ha stimolato una certa curiosità possiamo consigliare la lettura della sua interessante e piacevole autobiografia, L’Orecchio e la Vita (Baldini e Castoldi, 1992). Per chi, invece, volesse approfondire l’aspetto scientifico può leggere L’Orecchio e la Voce (Baldini e Castaldi, 1993), monografia del maestro o optare per il saggio di un suo validissimo allievo, Concetto Campo, “Il metodo Tomatis”, Riza Scienze, Nov. 1993. IL TRAINING Per accedere allo “effetto Mozart” e alle inesauribili possibilità che esso offre, è necessario però sviluppare un ascolto corretto, ed è ciò che persegue il metodo Tomatis. La prima fase del training è rappresentata dal test di ascolto, il momento diagnostico, che viene effettuato attraverso un audiometro che invia al soggetto segnali sonori. In seguito ai dati ricevuti, vengono tracciate le curve dell’ascolto aereo e dell’ascolto osseo. In base al test e ad un colloquio, lo specialista personalizza il programma d’ascolto. Il test d’ascolto offre un’immagine dell’aspetto mentale e corporale del soggetto. Il training sonoro si prefigge lo scopo di far seguire al paziente una progressione di ascolto ideale, simile a quella che avrebbe dovuto sviluppare dal momento del suo concepimento; la qualità del suo ascolto e di conseguenza la comunicazione con l’ambiente sono la risultante di tutto ciò che non è “filato liscio” da quel momento in poi. Con l’ausilio di speciali cuffie il paziente ascolta complessivamente 50/60 ore di musica filtrata, con sedute di 2 ore ciascuna divise in 3 cicli: 10 giorni consecutivi a cui segue un riposo di almeno 6 settimane, un secondo ciclo più o meno breve secondo le necessità, una pausa e poi un terzo ciclo di 5 giorni. E’ possibile che, dopo il periodo iniziale durante il quale il soggetto ascolta passivamente, il terapeuta consigli delle sedute attive che permettono di autoascoltarsi e di padroneggiare il circuito orecchio/voce grazie a degli esercizi vocali fatti utilizzando un microfono collegato all’orecchio elettronico. In questo modo il soggetto è coinvolto pienamente nella rieducazione del proprio ascolto. Gli effetti benefici ottenuti durante il ciclo d’ascolto formeranno per sempre una ricchezza dalla quale attingere e, in caso di necessità, è possibile ricorrere al metodo Tomatis per brevi periodi, con un programma di ascolto mirato alla soluzione del problema specifico. Piera Ferraro- Rettenbacher Tomatis Center Tirol N. 4 Giugno/Dicembre 2008 9 RICORDO DI FRANCO LANZA RIPORTIAMO L’ARTICOLO A FIRMA DI PIETRO GIBELLINI TRATTO DA L’AVVENIRE DEL 27 MARZO 2007 La letteratura come entusiasmo: Roma dà l’addio a Franco Lanza P er l’autore del trattato Del sublime il germe essenziale della grande poesia è l’entusiasmo. Questa, dote, che trasforma il critico da compassato analista in fervido consigliere del lettore, apparteneva a Franco Lanza, scomparso venerdì a Roma a 81 anni per un crudele malattia e i cui funerali si sono svolti ieri. Proprio l’entusiasmo unificava le qualità dell’uomo e dello studioso: la cultura eclettica ed estesa, la curiositas per il nuovo accompagnata dall’equilibrio e dalla coerenza con un’estetica valoriale, la disponibilità ad ascoltare l’autore e a confrontarlo con i propri radicati convincimenti. Perciò, fra i discepoli di Mario Apollonio, Lanza era il più simile al maestro del quale fu assistente all’Università Cattolica di Milano dal 1951 al 1963. Dopo la libera docenza in Letteratura italiana, egli percorse, fino alla cattedra, i vari gradi della carriera accademica, che lo vide attivo negli atenei di Malta, Palermo, Salerno e Viterbo; ma la lunga serie di pubblicazioni scientifiche fa di questo professore anche uno studioso attivo e originale, attento da sempre ai momenti «inquieti» della storia letteraria, ai suoi intrecci con la ricerca conoscitiva ed esistenziale. È questo, mi pare, il denominatore che accomuna i diversi oggetti del suo lavoro critico, dall’Eden dantesco alle inquietudini barocche, dalla poetica vichiana all’affresco manzoniano, dal bizantinismo di D’Annunzio all’orfismo di Onofri, dalla meditazione di Serra all’introversione di Pavese, dal moralismo esistenziale di Alfieri e Leopardi alla spiritualità di Rebora. Ma la maschera dell’accademico è troppo grigia per il suo viso, che era quello luminoso di un innamorato della letteratura. Lo testimoniano la curatela di testi scolastici, in cui si manifestò la sua passione pedagogica, l’intensa attività di redattore delle riviste Otto-Novecento e Cenobio, l’impegno tenace che lo rese uno dei più vivaci collaboratori letterari dell’Osservatore Romano. Da qui provenivano molte pagine delle Scritture e anime di fine millennio (Morcelliana 2001), un libro che ci appare ora come un esame di coscienza collettivo e un personale testamento critico e spirituale. Vi brillano l’abitudine a poggiare il giudizio su equilibrate argomentazioni, senza chiusure preconcette né adesioni aprioristiche; la scrittura vivace, elegante, limpida; la consapevolezza di porsi al servizio dello scrittore, senza voler sovrapporsi a lui o scimmiottarne lo stile; soprattutto, il coraggio di chiedere alla letteratura e alla critica di mirare in alto, di offrirsi come strumento di conoscenza e come banco di prova dei valori. Come non ricordare, di fronte a questa concordia fra disponibilità all’ascolto dell’altro e coerenza con le ragioni della propria fede nella letteratura, oltre che nella Verità con la maiuscola, che Lanza pubblicò un volume su Paolo VI e gli scrittori? Rileggendo ora Scritture e anime di fine millennio, testimoniale e testamentario, vi troviamo affrontate questioni cruciali nel trapasso fra i millenni: lo sguardo alle metodologie, sospese fra utopia scientista e ansia conoscitiva; la considerazione dei diversi linguaggi come espressioni di una semiosi interdisciplinare, voci di un grande coro; l’attenzione per gli scrittori credenti o no ma accomunati da una tensione al bello intimamente religiosa. Ma, soprattutto, quel libro testimoniale divenuto testamentario ci insegna che per Lanza la letteratura fu qualcosa di ancora più alto del culto ascetico praticato da scrittori innamorati della bellezza: era una coinvolgente ricerca di humanitas, una partecipe attenzione ai segni del tempo che rinviano a una Verità che trascende il tempo. É trascorso più di un anno (23 marzo 2007) dalla scomparsa di Franco Lanza amico e direttore scientifico dell’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli e desidero pubblicare la lettera che scrissi appena appresa la notizia. ella Caro Franco, lezioni, tenute n li bi ca ti en im d o”. in ultime “parole e silenzi i d i st la in una delle tue ar p ci o, nn ratorio, a Vallera e, e Piazzetta dell’O e ti erano propri ch za n ga le l’e na n za, e co conclusione di u la al i st Con la padronan ce u d n co erevoli esempi, ci : attraverso innum ente cara, e cioè rm la co ti ar p a er verità che ti cede; à di ogni parola, lenzio che la pre si o os che la profondit er p l’o el d scritta) è il frutto irà. (non solo quella eroso che la segu op to n ta et tr al o mente silenzi rimere compiuta p es er ed è seme di un p a ol ar p izia mo avere la tua de della tua amic an gr o Oggi, noi, vorrem on d il er p e che ti dobbiamo assione che sepp p a n la riconoscenza u ; le ra u lt la tua passione cu e per quello del ro tutti, contagiare davve noi, di proprio, . anche chi, come erio di conoscere id es d e d an gr l’animo di n lo u per suscitare, nel a ol poteva mettere so ar p a tu la e colarmente aver re saputo Vorremmo parti mo che hai semp is m ti ot i d o la natura it frem e con realismo al ar d ar tutti noi, lo stesso gu a vi ta vi che quando ci in tti. comunicarci, an i e dei suoi misfa it lim oi su ei d con la i ndoc di poter supplire ò er dell’uomo, parla p o am ti n se ella tua parola . Alla mancanza d questo momento i d o cco; zi n le si el d ore di ogni dista ol d profondità el d te en m tarsi e parla evidente meno di confron a re È un silenzio ch fa ò u p on n un silenzio che ma è soprattutto , uella Fede che tu con la Luce di q ifestare. lazione, to paura di man diventa contemp ra ie non hai mai avu gh re p la E . tro ad ogni si fa preghiera o a scorgere, die at Allora il silenzio gn se in ai h ci l’Assoluto che, e attesa, di quel e. vera opera d’art Ludovico Pietro Gibellini RIPORTIAMO L'ARTICOLO TRATTO DAL CORRIERE DI VITERBO DEL 25 MARZO 2007 Il paese ricorda il professor Franco Lanza VALLERANO - “Una persona di simpatia e disponibilità squisite, di cultura vastissima, comunicatore efficace e coinvolgente. E poi, da anni, presenza familiare in paese”. Questo il commento unanime di chi lo ha conosciuto alla notizia della scomparsa del professor Franco Lanza, per anni ordinario di Letteratura moderna e contemporanea all’Università della Tuscia e dagli ultimi anni ‘80 legatissimo a Vallerano. Si è spento venerdì scorso a Roma all’età di 81 anni. I funerali sono fissati per domani nella chiesa della parrocchia del Flaminio, via Guido Reni. Colpito in maniera particolare dalla morte di Lanza Ludovico Pacelli, presidente dell’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli, per la cui rivista, l’Orioli, il professore scomparso rivestiva il ruolo di consulente scientifico. 10 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 Il rapporto del professor Lanza con Vallerano iniziò con la partecipazione alla rassegna culturale “Stanze con vista o prigione”, ideata da Pacelli, che dalla metà degli Anni ‘80 al 1994 ricoprì la carica di assessore alla Cultura del Comune. La rassegna, che si articolava in varie serate estive aveva acquistato, nel tempo, risonanza molto vasta ed era onorata dalla presenza di personalità di spicco: Michele Mirabella, Guido Barlozzetti, Rodolfo Baldini, Silvia Mauro, tra gli altri. E, immancabilmente, Franco Lanza. I suoi interventi su argomenti letterari e filosofici riecheggiano ancora negli amarcord degli spettatori per la profondità, la limpidezza e la capacità divulgativa delle analisi. Nicola Piermartini RECENSIONI Un tuffo nell’Italia di un secolo fa V iviamo in un mondo sempre più aspro, meccanizzato, astratto, in una società distinta da contrasti singolari: informatizzazione accanto a tutela delle tradizioni folkloriche, massificazione del (poco) tempo libero e sviluppo della creatività, scarsità di lettori presso fasce che potenzialmente dovrebbero dedicare tempo alla lettura e accostamento al testo scritto da categorie in precedenza aliene dalla cultura, numero globale di lettori basso in rapporto all’enorme quantità di gente che pubblica. I gusti dei lettori sono ovviamente varii; all’interno dei cultori della civiltà letteraria molti guardano al passato, un po’ per il fascino che offre il superamento dell’ “errore del tempo”,il transfert (CVO) in anni lontani in cui molti vivevano meglio, un po’ per la difficile recezione della produzione artistica contemporanea se ancora esiste un’arte nel senso comune del termine. Così, in un tempo in cui più che mai dominano le leggi economiche e le finalità utilitaristiche, si sviluppa tuttavia una letteratura di studio, di curiosità, di scoperta di angoli inesplorati nella biografia delle generazioni passate, che è letteratura di nicchia, ma vive protetta dalla considerazione delle istituzioni accademiche, della cultura d’élite, inerte dinanzi al becerume dei best sellers, e di lettori curiosi di figure e fatti di anni ormai lontani nel tempo, ma vicini nella memoria e nelle emozioni suscitate. In quest’ultimo tipo di produzione si colloca un volume da poco uscito, Itinerari culturali del primo Novecento. Lettere e testi inediti dell’archivio di Alberto Cappelletti (CVO), pubblicato da Filippo Sallusto presso l’editore Pellegrini (Cosenza 2006). L’autore, studioso e critico, che ha tenuto incontri culturali anche a Vallerano come studioso di Corrado Alvaro, ha avuto la buona idea di studiare e pubblicare un archivio inedito di un giornalista e pubblicista del primo Novecento, che per motivi di lavoro e di amicizia personale fu in corrispondenza con nomi grossi e minori della cultura italiana coeva. Cappelletti da giovanissimo visse l’esperienza del Modernismo; dai documenti pubblicati, non solo epistolari, il lettore si può fare un’idea dello spirito che vivificava le anime di una parte non insignificante della cultura degli anni ‘10, delle loro aspirazioni, dei legami culturali che vincolavano a nomi importanti come Murri, Sabatier e Fogazzaro letterati minori peraltro non caratterizzati all’adesione alla temperie religiosa nominata. L’interesse di Cappelletti per la figura di San Francesco e poi di Santa Caterina determina nel libro una certa attenzione alla vita religiosa e culturale umbra, alle prime iniziative turistiche, ma soprattutto al fiorire di studi francescani ad Assisi e cateriniani a Siena - amico di lunga data fu Piero Misciattelli, studioso per cui fu creata una cattedra di studi cateri- niani nel 1926. A prescindere dall’affinità inceramente sentita col santo umbro, Cappelletti poteva ricevere suggestioni letterarie dai suoi ontemporanei che si confrontarono con lo stile e le tematiche francescane, come d’Annunzio e alcuni crepuscolari: non per nulla ad Assisi nel 1982 a questo tema fu dedicato un convegno, S.Francesco e il francescanesimo collaborò con vari giornali e riviste, ma soprattutto col ‘Giorno’ di Matilde Serao. Ecco quindi una carrellata di personaggi illustri, da Di Giacomo a Russo alla Serao stessa. Rivivono non solo gli anni di allora, con le sfaccettature della cultura, delle amicizie, delle rivalità culturali, ma anche i magici anni della fine dell’Ottocento, narrati a Cappelletti da artistiche, scene di interni, intimità familiari. Terza componente importante di questo volume è d’Annunzio e i dannunziani. Cappelletti infatti trapassò gradualmente da un gusto francescano e crepuscolare all’estetismo dannunziano, pubblicando articoli interessanti sull’Immaginifico e giungendo a contattarlo personalmente: testimonianza del le- nella letteratura italiana del Novecento (CVO). Incontriamo poi altri personaggi famosi di allora: spicca una risposta di Papini ad una recensione di Il pilota cieco (CVO), opera molto tormentata, tipica di un uomo in piena crisi esistenziale e morale, risposta che lascia immaginare lo stato mentale di quel pover’uomo. Benedetto Croce mostra in una lettera la sua precisione e a sua disponibilità ad aiutare il prossimo in difficoltà, mentre compare anche una cartolina di una donna che fu sua convivente e che, dopo morta, quando il filosofo si sposò regolarmente e creò famiglia, rimase sempre nel ricordo affettuoso e tuttora vive in un ritratto appeso a Casa Croce. L’ambiente culturale napoletano campeggia nell’epistolario e in un album di artisti: Cappelletti visse molti anni a Napoli e testimoni oculari, e in particolare i soggiorni napoletani di Verdi, di Carducci e soprattutto di d’Annunzio; rivivono le denunzie per i primi scempi paesaggistici, il ricordo degli squarci che furono immortalati da pittori e poeti e conservati nell’immaginario mondiale a formare una tipicità che sfida i secoli e che rende a quelle contrade un’immagine degna, da sostituire al disfacimento attuale, segno del degrado e della sopraffazione pubblica della feccia sociale. L’acutezza e la permalosità di Di Giacomo, l’imperiosa eppur materna energia della Serao, la grazia e il distacco dal presente di Murolo e di De Leva, tutto questo emerge da lettere e biglietti che Sallusto ha pazientemente ordinato, trascritto, commentato, facendo rivivere momenti di vita culturale, germogliare di opere game che il poeta sentì per il più giovane scrittore sono due lettere, che suggellano l’attaccamento del poeta alle sue radici abruzzesi, le stesse del destinatario, nell’uso del dialetto in alcune frasi, e l’impegno di Cappelletti come divulgatore dannunziano. Un accenno di alto valore poetico riferito ad una lettera ad un’amica innomina- ta è stato studiato da Sallusto, che è riuscito a rintracciare, tra le tante corrispondenti femminili del Comandante, la destinataria e a confrontare espressioni simili presenti in altri scritti coevi. Ruolo importante ha l’ultima compagna stabile di d’Annunzio, la pianista Luisa Baccara. Conosciutolo a Venezia e rimastane folgorata, audace anch’essa tenne in non cale le norme della buona creanza borghese e se n’andò a Fiume a tenere alto il morale dei Legionari e i sensi del Comandante. Finita l’esperienza fiumana, dopo il ritorno a Venezia si trasferì al Vittoriale a fungere da moglie - la vera molti anni prima non aveva retto al comportamento del fantasioso marito; veniva ogni tanto a trovarlo, come buona amica. Fino alla morte di lui, Luisa rimase al Vittoriale, sopportando, allontanandosi quando occorreva, tornando quando il suo ruolo di segretaria - maggiordomo riemergeva. Le lettere di Luisa a Cappelletti testimoniano tutto questo, oltre a questioni d’arte - pianismo, la carriera della sorella minore, la violinista Jole - e infine di contrasti con studiosi dannunziani. Dopo la pubblicazione di un album di artisti napoletani, con qualche piccolo inedito e riproduzione di autografi di nomi conosciuti e di disegni di caricaturisti noti, l’ultima parte del volume è occupata da appendici di approfondimento, aggiornamento bibliografico e riproduzione di articoli con lettere inedite di Giuseppe Verdi. Nell’ultima appendice si riproduce materiale iconografico scoperto da Sallusto relativo ad un disegnatore di cui trattava un articolo postumo di un giovane studioso amico di Croce che fu pubblicato senza le illustrazioni e quindi come monco, ricomponendo l’unità di testo e disegno. Non meno interessante il primo documento dell’archivio, posseduto da Cappelletti ma non a lui diretto: un biglietto di Carducci ad una signorina non identificata, di argomento editoriale; l’autore ha compiuto una lunga ricerca nell’enorme archivio epistolare conservato a Casa Carducci a Bologna, trovando la lettera, ancora inedita, scritta da quella signorina al poeta e svelandone le generalità. Il volume è stato presentato a Roma alla Biblioteca Nazionale Centrale da studiosi del calibro di Annamaria Andreoli, direttrice del Vittoriale, e di Luigi Lombardi Satriani, antropologo ed operatore culturale di alto impegno. a cura della redazione. Curriculum Vitae di Filippo Sallusto Filippo Sallusto si è dedicato a studi e pubblicazioni di letteratura latina, da un’antologia a voci enciclopediche specialistiche sulle Enciclopedie Virgiliana ed Oraziana; si è poi dedicato a studi di letteratura italiana, con pubblicazioni e conferenze su Corrado Alvaro e sulla letteratura di fine ottocento – primo novecento. Ha collaborato con articoli anche all’Orioli. Duse: i luoghi del ritorno C on Silvio d’Amico che voleva legarla nel 1921 a un progetto di teatro stabile, Eleonora Duse reagì: “Stabile? Parola che non si pone nella vita dove nulla s’arresta”. Se non lo sapessimo dalle gazzette e dalle cronache teatrali, basterebbero le centinaia di lettere che Duse ha scritto dai quattro angoli del mondo a darci un’idea della sua vertiginosa mobilità. Cambiava i paesi come chi ha la febbre muta di continuo cuscino. Hugo von Hofmannsthal, che la vide per la prima volta a Vienna nel 1892, dopo le numerose tournées che avevano creato il suo carisma in Europa, la definì “la creatura più famosa e inquieta della terra”. I suoi viaggi erano cortei trionfali e assomigliavano a una fuga. Nella Duse privata, un analogo turbine di spostamenti: acque termali, bagni di mare, dalla Versilia a Biarritz; alta montagna, mezza montagna -Engadina, Vallombrosa, Boscolungo Pistoiese - colline umbre e toscane, lungolaghi svizzeri e di confine, piovosi, caliginosi dove la desiderata tranquillità si faceva inevitabilmente noia inducendo a scappare. Vi è un baricentro tuttavia in questa vita centrifuga, che incredibilmente si tiene, non deflagra: l’altrove dell’intimità, il luogo del ritorno. “Je rentre chez moi “, scrive spesso Duse a chiusura delle lettere. Chez moi o “il mio rifugio” indicò naturalmente case in luoghi diversi: Firenze, Asolo, Venezia, questa luogo a parte privilegiato, “lusso dell’anima” per le sue radici venete. Le scelte dei luoghi rivelano un coté internazionale di respiro: la comunità anglo-americana presente in tutti e tre i posti, l’austriaca e la tedesca di Venezia, quella francese a Firenze. Per le case Duse aveva autentici rapimenti, si innamorava a prima vista dei particolari, la luce del paesaggio o un dettaglio della costruzione: che talvolta abitò per poco tempo, talvolta sognò solo di abitare. La più nota è la Porziuncola, vicina alla Capponcina di d’Annunzio, che fu lei a portare sui colli di Settignano. La Porziuncola come casa Morrison ad Asolo, a due piani, vivevano nel contesto dell’antico paesaggio italiano, in cui alle case padronali o alle ville si affiancavano campi coltivati, filari di alberi, maggesi, rogge. Ogni finestra, uno scorcio di bellezza. Alla Porziuncola si accedeva da un giardino, in cui due file di rosai lungo il viale di accesso lasciavano intravedere l’orto allegramente accostato alle aiuole fiorite. Duse detestava i giardini “pettinati”, finti. Anche Asolo aveva aiuole, alberi e orto sul retro della casa verso i colli e lo sfondo del Grappa. Un altro giardino, interno, era nell’appartamento di via Robbia, sempre a Firenze, che Duse scelse vicino alla casa di Giulia Gordigiani, l’amica più amata, e abitò quasi dieci anni. Le case di Settignano, Asolo, via Robbia furono concepite per accogliere la figlia Enrichetta prima da sola poi con l’intera famiglia, che viveva abi- tualmente in Inghilterra. Per sé Duse preferiva uno studio d’artiste, come la soffitta di Palazzo Barbaro-Wolkoff, una casa aerea sul Canal Grande, il giardino Dario e la cupola della Salute, luogo ineguagliato del ritorno. “Parto per ritornare”: una frase-chiave, simbolica che Duse ripete. Perché il ritorno dà senso compiuto all’andare. Mimma De Leo Curriculum Vitae di Mimma De Leo Mimma De Leo scrive da anni di Storia delle donne. Ha pubblicato, tra gli altri, una biografia di Olympe de Gouges, Le Donne in Italia (2 voll.), sui diritti civili, politici, l’educazione e istruzione delle donne. Entro l’anno uscirà una sua biografia di Eleonora Duse. N. 4 Giugno/Dicembre 2008 11 L’ARCHITETTURA DEI GIARDINI Il giardino delle donne S e vi capita di fare una gita ed arrivare a Vignanello certamente non rimarrete delusi. Il paese sorge ad est dei Monti Cimini, a 18 km da Viterbo. Come tutti gli altri Paesi della Comunità montana dei Monti Cimini, Vignanello si distingue per la sua produzione agricola di prodotti tipici di queste bellissime zone del Viterbese, in particolare vanta un ottimo vino: la produzione migliora costantemente e ci offre la possibilità di acquistare un vino interamente prodotto con uve locali e lavorato sul luogo. Inoltre le nocciole sono un vanto di questo paese e poi le castagne ed altro ancora. Il paesaggio è verde, dai Monti Cimini lo sguardo si perde sulle colline verdi, sui vitigni con filari ordinati e curati da piccoli produttori locali che amano questa terra più di ogni altra cosa. L’amore per la campagna forse è il primo sentimento che si percepisce arrivando a Vignanello. Così almeno è stato per me, romana doc, che ha deciso, ormai più di 10 anni fa, di lasciare la sua amatissima Roma per queste colline. Ma Vignanello non è solo campagna. La piazza principale del paese è un teatro, dove il palcoscenico è dominato da un castello del XVI secolo, perfettamente conservato, con il suo ponte levatoio, i suoi quattro bastioni e la merlatura ghibellina che imprime alla dimora un carattere di fortezza. Lentamente, si scopre la storia del borgo e si rivive la cultura che qui è stata forte dai Farnese fino al diciottesimo secolo, facendo di questo borgo agricolo un centro importante, tanto da ospitare un Papa (Benedetto XIII) ed un giovane Haendel in viaggio in Italia (1707/1709) ospite del Marchese Francesco Maria Ruspoli. Non potete non rimanere affascinati quando, entrando dall’atrio del Castello Ruspoli di Vignanello lo sguardo si posa sul verde giardino che si apre sul lato est del castello. Lo si scopre lentamente. Man mano che vi av- vicinate all’altro ponte levatoio si intravede il verde e poi, uscendo, lo splendido parterre rinascimentale si offre alla vista del visitatore; un “ooh” di stupore è l’espressione più comune che ho sentito durante questi miei anni passati al castello accompagnando gruppi di visitatori che arrivano da tutto il mondo. E sì, perché il giardino del Castello Ruspoli è un giardino storico, all’italiana, perfettamente conservato come lo volle allora, nel 1610, la sua creatrice Ottavia Orsini, figlia di Giulia Farnese e di Vicino Orsini, cresciuta a Bomarzo, altro famoso giardino. Il parterre è formato da dodici aiuole miste di bosso, lauroceraso, viburno, timo e mirto che formano dei disegni sempre uguali nel tempo; le due aiuole centrali riportano il monogramma di Ottavia Orsini e quello dei suoi figli maschi (Sforza e Galeazzo) a cui questo magnifico giardino è dedicato. Ai quattro angoli di ogni aiuola i bellissimi limoni in vaso spezzano l’incantesimo monocromatico del verde Il pirotecnico Handel a Vignanello Il giovane Handel visse quasi due anni tra Roma e Vignanello, quale ospite del Marchese Francesco Maria Ruspoli che fu suo patrono e mecenate. I n uno straordinario articolo, pubblicato nel 1967 la Professoressa Ursula Kirkendale , che ha studiato a fondo il periodo italiano di Handel, ha potuto ricostruire con abbondanti documenti dell’Archivio Segreto Vaticano ogni dettaglio dell’attività del giovane musicista per il Marchese, poi Principe Francesco Maria Ruspoli, sia nel palazzo di Roma (oggi sede della Provincia) sia a Vignanello; attività attestata dalle fatture e dalle ricevute dei musici, dei copisti, dei cartolai, dello stampatore dei libretti, fino al letto noleggiato per il compositore e all’enorme quantità nonché alla qualità di cibi da lui consumati. In soli due mesi per esempio, fu spesa per questi una somma equivalente a quanto il contrabbassista guadagnò in quattro anni. A Vignanello, Ruspoli fece comporre da Handel mottetti festivi, che furono poi eseguiti alla presenza di Cardinali e Principi per il 475esimo anniversario della canonizzazione di 12 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 San Antonio da Padova. Che in Vignanello Handel abbia composto anche la sua “Armida Abbandonata” sicuramente non fu noto a J.S.Bach quando copiò di propria mano questa geniale opera giovanile. Fu nel palazzo romano che Handel non solo compose molte cantate, ma fece eseguire tra il 1707 e 1709, la metà delle sue circa 100 cantate italiane. Tra l’altro il “Gloria” per soprano due violini e basso continuo, fu commissionato dal Marchese nel 1707, e fu eseguito a Vignanello durante una celebrazione liturgica. Questo brano, straordinario per qualità musicale, si inserisce fra i migliori lavori sacri del giovane Handel. Nel 2002 il Festival Barocco di Viterbo ha già portato a Vignanello un concerto di musiche di Handel con spettacolo pirotecnico in stile barocco. In quell’occasione, per la prima volta, la famiglia Ruspoli ha aperto al pubblico il parco del Castello ed è stato un successo immediato con una presenza di pubblico ben maggiore di quella pre- vista. Nel 2007, per il tricentenario della presenza di Handel a Vignanello, il Festival Barocco di Viterbo ha presentato nel Parco del Castello Ruspoli, un concerto eseguito dalla “Accademia Bizantina” con musiche di Handel accompagnate da fuochi d’artificio. Quest’iniziativa ha permesso di avviare una serie di progetti a livello internazionale; la principessa Claudia Ruspoli ha contattato le fondazioni Handeliane negli Stati Uniti, Inghilterra e soprattutto ha stretto rapporti con il Festival Handeliano di Halle (città natale del musicista) in Germania dove, per festeggiare i trecento anni di Handel in Italia, è stata invitata come madrina per l’apertura del loro prestigioso festival. Queste collaborazioni portano sempre di più una nuova dimensione alla Provincia di Viterbo e tendono ad incoraggiare e ad attirare un turismo che desidera scoprire l’affascinante storia e bellezza della nostra meravigliosa Tuscia. con un tocco di giallo intenso. Da centinaia di anni è rimasto immutato e questo lo rende unico al mondo, le mode non lo hanno scalfito. Oggi è curato con amore e grande passione dal Signor Santino Garbuglia. Il Castello Ruspoli è interamente privato, appartiene a Donna Claudia e Giada Ruspoli. In realtà la sua storia ci dimostra che è sempre appartenuto alla stessa famiglia dal 1531, anno in cui fu costruito per volontà di Beatrice Farnese e di sua figlia Ortensia, nipote di Papa Paolo III, che a loro regalò il feudo di Vignanello. Con il matrimonio tra il figlio di Ottavia Orsini, Sforza Marescotti, e Vittoria Ruspoli di Siena, il nome del casato divenne in primo ramo Ruspoli e fino ad oggi la dimora appartiene alla stessa famiglia. Analizzando tutte le fasi storiche di questa dimora e del suo bellissimo giardino si delinea la forza e la volontà delle donne della famiglia a mantenere e migliorare sempre la proprietà. Progettato dal San Gallo ed ingentilito dal Vignola, il giardino fu un desiderio di Ottavia Orsini, il nome della famiglia Ruspoli fu dato da una donna, Vittoria, e oggi si può visitare questa dimora per volontà delle due proprietarie, che lo hanno aperto al pubblico. Bene se vi è venuta voglia di passare per Vignanello non esitate a fermarvi nel silenzio di questo magnifico giardino, ascoltate il fruscio dell’acqua della bellissima peschiera in peperino che si trova al centro del giardino, ammirate la fioritura di rose del giardino segreto, e visitate la storia… Vi aspetto Maria Gabriella Santarelli Il Castello è aperto tutte le domeniche e festivi da Aprile a Ottobre. Per prenotazioni o informazioni potete contattare il numero 0761755 338 oppure scrivere una mail a [email protected] Accenno Storico sul Giardino Rinascimentale “...il giardino poco conosciuto del castello Ruspoli a Vignanello possiede il piu’ bel parterre d’Italia…” (Georgina Masson, Italian Gardens) N ell’853, quando Vignanello era parte dello stato Pontificio, venne edificata la rocca dai frati Benedettini. La prima feudataria di Vignanello fu Beatrice Farnese nel 1531. Nel 1536 Papa Paolo III Farnese confermò, alla morte di Beatrice, la discendenza alla figlia Ortensia, sposata a Sforza Marescotti. Il castello subì una trasformazione secondo gli schemi architettonici ghibellini, su disegno del Sangallo. Il castello allo stato attuale e’ come lo volle nel 1610 Ottavia Orsini, moglie di Marc’Antonio Marescotti, figlia di Vicino Orsini creatore del suggestivo giardino di Bomarzo. Nel 1704 il castello prende il nome di Ruspoli, con l’obbligo di tramandare il nome. Questo giardino e’ da considerarsi uno dei piu’ bei parterre esistente in Italia. Seppur creato nel ‘600 ha mantenuto sino ad oggi la sua struttura originaria: lo spazio perfettamente rettangolare e’ attraversato da quattro viali, suddiviso in dodici parterre di bosso allineati, squadrati e compatti. Il giardino ha la nitidezza e perfezione di un disegno geometrico, al centro della piana si adagia una grande vasca recinta da quattro arcate di balaustre. Originariamente salvia e rosmarino creavano le linee geometriche: oggi e’ il bosso a scandire queste storiche geometrie. La castellana Ottavia ha lasciato una traccia indelebile del suo amore per questo giardino: l’incisione delle proprie iniziali e di quelle dei suoi figli Sforza e Galeazzo, permettendo così la datazione certa della nascita del giardino. L’eleganza e la sofisticata bellezza riflettono lo stile e la moda del periodo rinascimentale italiano. L’ARCHITETTURA DEI GIARDINI Il saluto del Presidente I n nome dell’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli mi corre l’obbligo di salutare tutti i convenuti: autorità, studiosi, esperti e tutti coloro che sono qui perché interessati a vario titolo. Come Associazione Orioli siamo orgogliosi di aver sostenuto questo Convegno di studi e ringrazio la dottoressa Sabine Frommel e il dottor Andrea Alessi, i quali mi hanno offerto questa possibilità che rientra nei compiti istituzionali della nostra Associazione. Dirò in breve quello che penso da semplice interessato al “Parco dei Mostri”: innanzitutto non sono d’accordo con chi lo ha definito, in modo moderno, “Jurassic Park”. Personalmente preferisco citarlo come “Bosco Sacro”, dove sacro sia inteso per ciò “che suscita sentimento di stupore”, che serve a stordire come un possibile stupefacente visivo. Questo parco assomiglia, a mio modesto parere, ad un percorso onirico, come intuì Salvator Dalì. Il bosco, così come è oggi, deve essere cresciuto pian piano nella mente dell’Orsini, che lo perfezionava osservandolo rimpicciolito, per la distanza, dalle finestre di questo castello. Era la proiezione di un sogno ad occhi aperti, una sua personale follia e una sua salutare evasione. Scusandomi per questa mia escursione nel “sacro” del bosco, prima di lasciare la parola alla dottoressa Sabine Frommel, vorrei narrarvi di un altro sogno, questa volta di legno intarsiato, sonoro, che fa da cassa acustica ad un organo monumentale. L’organo, che si trova in un altro luogo sacro, e cioè nella secentesca chiesa di Santa Maria del Ruscello a Vallerano, resta muto da decenni a causa di mancanza di fondi per il restauro. Questo divino strumento, secondo la maggiore studiosa di Handel, Ursula Kirkendale, è stato suonato dal Maestro durante il suo soggiorno presso i Ruspoli di Vignanello nel 1706. Forse ho abusato della vostra cortesia per parlare anche di questo piccolo sogno: riuscire a sentire di nuovo suonare questa preziosa opera d’arte. Chi, come noi, opera per la promozione culturale e per la tutela del nostro patrimonio storico, artistico e culturale, sa che niente deve essere lasciato intentato al fine di salvaguardare lo stesso patrimonio dal degrado e dall’abbandono. Grazie dell’attenzione Ludovico Pacelli Il sacro bosco di Bomarzo I l giardino di Bomarzo, studiato in un recente convegno internazionale di studi a cura di Sabine Frommel con la collaborazione di Andrea Alessi (settembre 2007) oggi ribattezzato “Parco dei Mostri”, era conosciuto nel 500 come il “boschetto”, benché in un’epigrafe nel giardino lo definisca “Sacro Bosco”. Il nome odierno gli deriva dalle numerose sculture mostruose che popolano il suo terreno collinoso, a cui si accostano architetture originali e sorprendenti. Il parco, con tutta la sua fantastica fauna lapidea, fu voluto e forse ideato da Pier Francesco Orsini (1523-1585), detto Vicino come il bisnonno; egli aveva ereditato il borgo di Bomarzo nel 1542, dopo una lunga controversia ereditaria risoltasi solo grazie all’intervento del card. Alessandro Farnese. Il giardino prese forma lentamente a partire da una data forse anteriore all’anno 1552 (testimoniato da un’epigrafe del parco), per terminare negli anni ’80 del ‘500 con la morte del committente; eppure non è certo se il giardino a quella data fosse concluso poiché l’Orsini, come emerge dal suo epistolario, apportò durante gli ultimi decenni della sua vita continue modifiche ed aggiunte, rendendolo così un vero e proprio work in progress. Egli si servì di maestranze toscane e di più artisti talentati, di cui però ci rimane solo un nome certo: lo scultore ed ar- chitetto Simone Moschino, la cui personalità attende ancora di essere approfondita. Il signore di Bomarzo si dedicò intensamente alla creazione del parco soprattutto dal 1560 (data della morte della moglie Giulia Farnese, alla cui memoria innalzò il Tempietto), trascorrendovi gran parte del proprio tempo nella speranza di allontanare con feste, banchetti, letture avvincenti e frequentazioni ora amorose, ora intellettuali - l’acuta depressione (“umor nero”) di cui soffriva. Vicino fu condottiero, poeta ed erudito; personaggio eclettico dall’intelletto vivace e dalla personalità eccentrica. In quanto uomo d’armi è probabile che lo stato d’animo malinconico gli derivasse dalle orribili esperienze di guerra (soprattutto la strage di Montefortino del ’57); in quanto uomo di lettere è quasi certo che sia stato proprio lui a concepire tanto le iscrizioni disseminate nel giardino, quanto le varie statue allegoriche. Le sculture e le epigrafi riflettono infatti la duplice natura del suo committente: da un lato vi è la celebrazione dei piaceri, della vita pastorale, dell’otium; dall’altro vi è la continua allusione alla morte, evocata da architetture funerarie (ad es. la falsa tomba etrusca e il Tempietto) e da mostruose figure simboliche appartiene all’Orsini, come si può rilevare soprattutto dalle lettere scritte al suo amico Giovanni Drouet. In tali epistole il pessimismo esistenziale e lo spirito autolesionistico del nobile si mescolano alla sua pungente vis comica, espressa sovente in battute licenziose e irriverenti; ciò trova un puntuale corrispettivo nel giardino stesso, dove si trovano figure e composizioni spesso triviali e sfrontate. Se nel ‘500 il “boschetto” di Bomarzo era piuttosto conosciuto, nei secoli successivi esso cadde quasi completamente nell’oblio; a parte qualche acquerello seicentesco del pittore Bartholomeus Breemberg (16201660), raffigurante vedute del borgo e del giardino, ed un fugace accenno al parco in un libercolo ottocentesco dello storico locale Luigi Vittori, il “Sacro Bosco” sembra essere stato dimenticato fino al XX secolo. Nella primo terzo del ‘900 vi furono altre rare menzioni del giardino in scritti critici o letterari, ma fu intorno agli anni ’40 del secolo che avvenne la “riscoperta” del giardino stesso ad opera di Salvador Dalì. Il celebre pittore, informato dell’esistenza del parco dallo scrittore Maurice Sandoz o forse da un amico del pittore russo Andrea Belobodoroff, fu subito conquistato dalla dimensione onirica di Bomarzo: non solo egli rappresentò elementi del giardino in alcune sue tele, ma divenne il principale divulgatore del “boschetto”, organizzando intorno ad esso un’efficace propaganda mediatica (vi girò anche un cortometraggio). Il giardino infatti nacque - come dimostrano iscrizioni e lettere private dell’Orsini - come creazione volutamente “ambigua” ed oscura, fondata sul principio del serio ludere (giocare seriamente, ossia nascondere dietro i velamenti del gioco e dello scherzo alcuni importanti messaggi filosofici); e se fu precisa volontà del committente mettere in difficoltà intellettuale i visitatori dell’epoca (è egli stesso a parlare di “balordi” che per ignoranza si meravigliano delle sue invenzioni senza comprenderle), è a maggior ragione ampiamente giustificata la difficoltà degli studiosi odierni a decifrare le criptiche simbologie del giardino. E’ quindi innegabile l’esistenza di un significato unificante, da legare non solo alle epigrafi del parco, ma sicuramente anche a quelle presenti nella terrazza di Palazzo Orsini rivolta al giardino stesso, non a caso realizzata proprio da Vicino. Sono altresì ormai evidenti i numerosi riferimenti alla cultura antica (si vedano le varie creature mitologiche di ispirazione classica) e alla letteratura rinascimentale. Sono state inoltre messe di volta in volta in evi- denza le probabili relazioni di Bomarzo con il linguaggio degli emblemi e dei geroglifici, con l’imagerie araldica e con quella delle grottesche, con il mondo delle favole e con la filosofia ermetica; nonché con l’arte etrusca (conosciuta dalle numerose tombe della zona e citata fedelmente nel falso sepolcro etrusco diroccato, a metà tra il divertissment ed il falso storico), con i resoconti di viaggi in terre esotiche (da cui si è da tempo supposta un’influenza orientale sulle creazioni scultoree) e con la tradizione delle feste e degli apparati effimeri. La quantità dei manufatti contenuti nel parco e la varietà dei nessi culturali sottilmente allusi ha spinto molti studiosi a paragonare il “Sacro Bosco” ad una sorta di raccolta museale, quasi una Wunderkammer all’aperto; e per gli stessi motivi questo fantastico giardino è stato spesso accostato a Villa Adriana a Tivoli, così come Vicino Orsini all’imperatore Adriano: infatti, co- me l’antica villa tiburtina era originariamente gremita di numerose e meravigliose opere, così il giardino bomarziano, nel suo piccolo, è decorato dalle sue sculture ed architetture che sembrano imitare con ingegno e fantasia una collezione d’arte che il signore di Bomarzo non poteva permettersi; ed allo stesso modo, come l’imperatore fu committente, proprietario e probabile ideatore della sua magnifica residenza, così lo fu altrettanto l’Orsini, visceralmente appassionato del suo “boschetto”. Purtroppo il giardino ha subito nel tempo non pochi danneggiamenti a causa dei secoli di abbandono e trascuratezza (alcune foto mostrano addirittura pastori locali che portavano le loro pecore lì a pascolare); a causa dell’esposizione alle intemperie e a calamità naturali come terremoti (si tenga conto che tutte le sculture e le architetture sono di friabile peperino) e a causa di probabili atti di vandalismo e trafugamenti (mancano tutte le statue della Fontana del Pegaso e chissà quali altre opere). L’acquisto del parco da parte di Bettini fu per lo più una benedizione poiché grazie ad una campagna di restauro finanziata dal nuovo proprietario, il giardino fu in gran parte salvato. Nel convegno sono state analizzate anche la semantica, l’iconografia, l’iconologia, che coadiuvate dal prezioso apporto di archeologi e antichisti sono stati messi in luce i riferimenti al mondo romano, etrusco e/o egizio di alcune creazioni artistiche del parco, nonché i precedenti classici della sua concezione generale. Ricerca e sublimazione E d ecco il giardino! La sua percezione è sentita già dall’interno della residenza. Spazio privato, che attraversando finestre e porte si spande al di fuori delle mura per diventare lo spazio del sogno, della meraviglia: il luogo dove l’uomo congiunge la terra al cielo. Il giardino diviene così, dimora filosofica. Due giardini contrapposti fin dalla loro ideazione, nati con un senso estetico diverso ma con lo stesso intendimento artistico, e soprattutto con lo stesso fine: stupire e impressionare l’animo del visitatore. Uno rigorosamente geometrico rispondente a tutti i classici dettami del giardino all’italiana rinascimen- tale: elegante e sofisticato, dove lo spazio rettangolare è suddiviso da 4 viali prospettici per individuare le 12 parterres con rigoroso disegno studiato sia nelle forme che nella scelta delle essenze. L’altro barocco, rappresentazione dello spazio infinito e delle sorprese, dove la voluta casualità dell’intreccio tra architettura e natura, dà vita ad una continua scoperta, lascia ampio spazio all’immaginazione e alla sorpresa. Il luogo dove la natura ritrova la sua forma primitiva, coniugandosi e a volte confondendosi con lo spazio costruito, con l’architettura. Natura cornice scenografica e suggestiva del costruito, il tutto per creare stupore e meraviglia, capace di evocare atmosfere da sogno, di suscitare pathos alla parte più sensibile e profonda dell’animo umano. I due giardini sono manifestazione dell’intima volontà dell’uomo di una continua ricerca del gioco, del mistero, dell’incredibile, condizione unica e indispensabile per attraversare la vita sulle ali del sogno, ché solo grazie ad esso l’essere umano si trasforma in divino. Antonietta Stefania Iurescia N. 4 Giugno/Dicembre 2008 13 INSERTO TUSCIA ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia W la Tuscia: Vignanello, Vallerano e... VIGNANELLO T uscia: brano d’Italia, nel quale storia, arte e tradizioni creano atmosfere incantate, misteriose, senza tempo. Pur se ad ogni angolo della nazione si attaglia la denominazione “Museo all’aria aperta”, poche realtà, come la Tuscia, conservano vestigia etrusche, romane, medievali, rinascimentali, barocche, neoclassiche, moderne. Tratti distinti, leggibili chiaramente; eppure amalgamati in un “unicum” di suggestione particolare. Metafisica. Connotazione, quest’ultima, non generalistica. Vignanello, Castello Ruspoli. Facciata principale, aggettante su piazza della Repubblica. Da sempre, in chi scrive, quella facciata ha ricondotto alla memoria un flash di fascino travolgente della storia dell’arte: il dipinto “Le Muse inquietanti” (1916) di Giorgio de Chirico. Nel quadro è il Castello Estense di Ferrara a fungere da quinta ad una rappresentazione onirica; nella luce soffusa del crepuscolo avanzato, il Castello Ruspoli, ammirato dalla piazza antistante, comunica il medesimo senso di sospensione della costruzione ferrarese. Sentimento rafforzato dalla fuga del settecentesco Palazzo con gli archi, a sinistra, e da quella, più dimessa, dell’antico Palazzo pretoriale seicentesco, sul lato opposto. Fantasia, sensa- zioni metafisiche, sogni. Il Castello Ruspoli, però, non fonda la peculiarità della sua presenza soltanto sull’aura di magia, che lo ammanta. La merlatura ghibellina, lo slancio vistuosistico dei bastioni angolari, il fossato, il celebrato Giardino di verdura ( o all’italiana, rinascimentale, storico), impreziosito da intagli armonici nelle siepi di mirto e di bosso e dalla peschiera del Vignola, il Giardino segreto, il respiro vegetale del Barchetto e del Barco; inoltre: la sontuosità degli appartamenti del piano nobile, le segrete e, non ultima di certo, la Cappella di Santa Giacinta Marescotti: tessere diverse di un mosaico stupefacente di bellezza, monumentalità, natura. E storia. La vita del castello inizia nel IX secolo: nell’853 un gruppo di monaci benedettini costruisce un convento-fortezza, trasformato in seguito, raso al suolo dai Viterbesi nel 1228. Nei secoli successivi famiglie importanti governano il paese, legando la propria presenza al castello: Nardini, Orsini, Borgia, Aldobrandini; quindi i Farnese, con Beatrice e Ortensia, che, forse su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, conferiscono al castello l’aspetto che conserva tuttora. Con i Marescotti e i Ruspoli il feudo di Vignanello e la sua costruzione emblematica entrano nella storia più recente. Foto di Maria Orioli Nicola Piermartini VALLERANO A ccarezzato dai raggi timidi del sole mattutino; affogato nella cascata di luce del meriggio; imperlato dalla penombra del crepuscolo; oppure baluginante di fiaccole tremule nella sera della ricorrenza del miracolo: il Santuario della Madonna del Ruscello, osservato dal piazzale antistante, comunica un medesimo senso di levità, di magia, di apparizione eterea. “ MDCV INCEPTUM – MDCIX ABSOLUTUM” : iniziato nel 1605, terminato nel 1609. Date impresse al di sopra dell’ingresso principale della chiesa, scaturita dallo slancio di fede popolare in seguito ad un miracolo. L’anno precedente l’inizio dei lavori di costruzione: 1604, mattinata del 5 luglio. Aveva necessità assoluta di restauro un dipinto, Madonna col Bambino, custodito in un’edicola situata nel luogo, dove poi è sorta la chiesa: luogo rinfrescato dalle acque cristalline di un ruscello. Avevano deturpato il dipinto in maniera preoccupante i fasci di legna, che le 14 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 donne, di ritorno dalla campagna, appoggiavano all’interno della cappelletta. Quel 5 luglio il pittore valleranese Stefano Menicucci si accingeva alla paziente opera di restauro: i graffi erano profondi. Incombenza preliminare: riempire quei solchi. Uno, evidente, attraversava le labbra della Vergine Maria. L’artista incominciò a depositarvi la cera con un bastoncino. Fu l’u- nico intervento di restauro: dalle labbra della Madonna sgorgò un rivolo di sangue. Fotogrammi delle vicende successive: il dipinto diventa meta di pellegrinaggi, frequenti e numerosi in misura sempre crescente; copiose giungono le offerte; il Pontefice concede l’indulgenza plenaria a chiunque farà visita all’immagine sacra nella seconda do- menica d’agosto; nel piazzale è istituita una fiera; le cascine ai lati del piazzale, fresche di ristrutturazione oggi, erano botteghe. Nel marzo 1605 iniziano i lavori di costruzione della chiesa. Miracolo anch’essa, edificata su progetto del Vignola. Miracolo di religiosità e arte. A cominciare dal portale ligneo, impreziosito da sculture riproducenti episodi della vita del- la Vergine e le figure di San Vittore e Sant’Andrea. La facciata, armonia di un barocco leggero, introduce in un trionfo di stucchi policromi, che incorniciano capolavori di varie arti. Qualche accenno soltanto, per non affievolire lo stupore della scoperta: opere pittoriche di Lanfranco, Pomarancio, Vandi; equilibrio di volumi, di linee e marmi dell’altare maggiore, che custodisce il dipinto miracoloso: ancora visibile perfettamente la traccia di sangue; organo e cantoria lignei, seicenteschi, traboccanti di sculture e intagli di maestria rara. Testimonianze vive di secoli andati, alle quali sono state accostati, di recente, due dipinti di Silvio Gregori, illustratore notissimo di Famiglia Cristiana. Nel marzo del 1993 la Madonna del Rusce3llo è stata nominata Patrona dei donatori di sangue del Lazio dalla Conferenza Episcopale Italiana. Suggestiva la cerimonia alla presenza del cardinale Camillo Ruini. Nicola Piermartini INSERTO TUSCIA ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia Antonio Canova e la Tuscia Quando arrivò per la prima volta a Roma, il 4 novembre 1779, Antonio Canova aveva 22 anni ed era uno scultore che aveva già dato prova di sicuro talento ma che era noto solo nell’ambiente di Venezia. Qui aveva avuto la protezione del nobile Giovanni Falier, che gli aveva affidato la scultura del gruppo di Dedalo ed Icaro, ora al Museo Correr di Venezia. Inoltre proprio Falier lo aveva introdotto a Roma raccomandandolo all’ambasciatore di Venezia Girolamo Zulian, che per tutto il tempo del soggiorno di Canova in città lo ospiterà nella sua residenza di Palazzo Venezia. Durante questo soggiorno romano Canova strinse quelle importanti relazioni artistiche, culturali e politiche, soprattutto nell’ambito della comunità veneta, che gli consentirono subito dopo di trasferirsi stabilmente a Roma. Tornato infatti a Venezia nel giugno del 1780, vi si trattenne solo i pochi Il Lazio, e con esso anche Viterbo e la Tuscia, ha assistito per interi secoli a un fenomeno singolare. Il Lazio infatti e stato ininterrottamente attraversato da un flusso sterminato di viaggiatori e pellegrini diretti a Roma o di ritorno dalla Città eterna; ma da essi è sempre stato poco visto, trascurato, considerato a volte come inesistente. Prima dell’avvento della ferrovia, per i viaggiatori provenienti da Nord l’itinerario verso Roma prevedeva sostanzialmente due strade. Si poteva percorrere la Via Cassia, lungo la direttrice Bologna, Firenze, Siena, Radicofani, Bolsena, Montefiascone, Viterbo, Ronciglione. O si poteva percorrere la costa adriatica, lungo la direttrice Bologna, Rimini, Pesaro, Foligno, Spoleto, Terni, Civita Castellana. Nella realtà i viaggiatori seguivano entrambi gli itinerari, scegliendone uno per l’andata ed uno per il ritorno. Entrambi, come si vede, passano per la Tuscia; il primo anzi la attraversa completamente. Dunque tutti i viaggiatori passano per il nostro territorio. Ma solo pochi di essi lo osservano e lo descrivono nei loro racconti di viaggio. E pochissimi davvero vi si fermano e lo visitano con una certa attenzione. Nelle 500 pagine del mio libro Viaggiatori ruolo delle opere letterarie che agiscono sul suo immaginario e quindi nelle sue aspettative e sulle sue curiosità (ruolo oggi forse molto meno forte che nel passato, ma degnamente sostituito dal cinema – quanto, durante un viaggio negli USA, i nostri occhi sono condizionali dai western nella visione dei paesaggi naturali, o dai film di Woody Allen in quella dei paesaggi metropolitani?). Questo stato di cose è efficacemente simboleggiato nel motivo del “deser- giardino di Armida, posta fra la desolazione del paesaggio dopo Radicofani e lo squallore e la solitudine della campagna romana: «Arrivato dopo tre ore di cammino di monte in monte, di roccia in roccia, alla cime scoscesa di Radicofani, ho trovato il caos, il deserto, il silenzio: era notte. Ma il giorno dopo, scendendo verso Ronciglione, ho trovato l’aurora, il canto dell’usignolo, il primo ramo di biancospino fiorito, le valli coperte di vegetazione, il famoso lago Trasimeno e passata la qualle arivassimo a San Lorenzo Nuovo, loco deliziosissimo fabricato nella somità d’una colina, in modo ottangolare, con una bellissima Piaza, nel mezo della qualle si scuopre il Lago di Bolsena. Sesimo la montagna e, dietro la sponda del lago, giunsimo a Bolsena, castello ove si siamo fermati a cena e dormire». Il giorno seguente Canova passa per Viterbo. Vi fa una breve sosta, giusto per il pranzo in qualcuna delle locande o delle stazioni di posta che scandivano il percorso dei viaggi anteriori all’età ferroviaria. E tuttavia trova il tempo per guardarsi introno, compiendo una rapidissima visita almeno di qualcuno dei luoghi canonici della città, indicati dalle guide come irrinunciabile: in primo luogo il corpo di santa Rosa e poi le fontane cittadine, che sono menzionate non solo nelle guide italiane ma anche in quelle inglesi scritte per quei giovani nobili e ricchi che completavano la loro formazione facendo il Grand Tour in Europa ed approdando infine in Italia e a Roma. Il corpo di santa Rosa lo colpisce particolarmente e gli fa fare un confronto con i resti intatti di un’altra santa che aveva avuto modo di vedere a Bologna, mesi necessari per mettere a posto le sue cose. Già nel 1781 si era stabilito definitivamente a Roma avviando quella straordinaria carriera artistica che gli darà fama internazionale e che farà della sua scultura la principale espressione del Neoclassicismo europeo. Legato agli ambienti artistici e culturali gravitanti intorno al nuovo classicismo di Pio VI, lasciò Roma nel 1797 per non dover giurare fedeltà ai francesi e vi tornò solo alla fine del 1799. Ho ricordato la prima venuta di Canova a Roma, perchè Viterbo gioca un ruolo di notevole interesse nel resoconto del viaggio scritto dallo scultore e lasciato inedito fra le sue carte. Ed è un ruolo che, proprio partendo da questi due rozzi quadernetti in cui il diario di Canova si è conservato, può aiutarci a riflettere su fenomeni dai quali la Tuscia viene investita oggi, a duecentotrenta anni di distanza. La creazione dell’aeroporto è una grande opportunità per il territorio, per la sua economia, per il turismo. Ma è un’opportunità che va potenziata anche nella sua dimensione culturale, nella capacità di rendere visibile la Tuscia agli occhi di viaggiatori “in transito”, necessariamente frettolosi e mossi da stimoli che hanno il loro centro fuori del nostro territorio. Il viaggiatore vede solo ciò che gli appare visibile e comprensibile, interessante, capace di suscitare stimoli intellettuali, curiosità ed emozioni. L’esempio del massimo esponente del Neoclassicismo, che in età giovanile riesce a cogliere la bellezza di manufatti medievali, va meditato. Altrimenti il transito attraverso il territorio avviene come ad occhi chiusi e il viaggiatore prosegue oltre. nel Lazio. Fonti italiane e nel catalogo di più di mille testi di viaggio nel Lazio del solo Ottocento lì raccolto, le opere dedicate a Viterbo e alla Tuscia sono in numero relativamente basso. Certamente, non tenendo conto del numero straboccante di scritti dedicati a Roma, la Tuscia e Viterbo occupano, quanto a numero di opere, il terzo posto, dopo i Castelli Romani e Tivoli, luoghi più vicini a Roma e perciò più appetibili dai viaggiatori. Insomma nel quadro disastroso delle scritture di viaggio riferite al Lazio, Viterbo non sta troppo male. Ma il quadro resta disastroso per il Lazio nel suo insieme come per la Tuscia. Le ragioni di questa disattenzione dei viaggiatori, durata per secoli e di cui ancora oggi il Lazio fa le spese, sono molte e complesse. La tensione emotiva verso Roma, la meta ultima del viaggio, da parte del viaggiatore italiano e straniero faceva affrettare il percorso verso questa città, riducendo la durata delle tappe intermedie necessarie nei viaggi in carrozza o in diligenza al semplice riposo notturno, al posto in locanda, al cambio di cavalli nella stazione di posta. C’era insomma poco tempo per guardarsi intorno e c’era poca curiosità di vedere luoghi e ambienti, persone e monumenti, che non avevano goduto di una particolare attenzione da parte delle guide turistiche. E, nel presente come nel passato, i “viaggiatori di scoperta”, che vanno alla ricerca di luoghi nuovi e di inusuali oggetti da vedere, sono sempre pochi. In generale il viaggiatore vede e osserva ciò che le guide turistiche, gli scritti di altri viaggiatori, il passa-parola, gli indicano o gli suggeriscono come degno di essere visto. A questo va inoltre aggiunto l’enorme to” che circonda Roma; motivo più o meno pesante nei testi di viaggio, ma pressoché onnipresente. Esso certo rinvia alla reale situazione della Campagna Romana, alla malaria che vi imperversa fino a dopo l’Unità, allo spopolamento, alla scarsità delle culture e delle abitazioni. E tuttavia il “deserto” indica anche il vuoto, l’assenza di richiami di interesse, la percezione che non ci sia niente davvero meritevole di essere visto. Il motivo è talmente diffuso ed insistente, da diventare oggetto di valutazione positiva, in un’ottica provvidenzialistica, da parte di scrittori-viaggiatori cattolici, dal francese Chateaubriand (che parla di “deserto d’Arabia che circonda Roma) fino allo scrittore romantico napoletano Cesare Malpica, vissuto a metà dell’ottocento e giustamente bistrattato come pessimo poeta dal grande Francesco De Sanctis. Certamente l’estensione di questo deserto laziale, proprio per il suo contare più come elemento dell’immaginario che non come elemento concreto del paesaggio, appare elastica e gli ambiti in cui si estende il deserto appaiono mutevoli nel tempo: il viaggiatore è colpito solo da quello che è disposto o sensibile ad osservare e gli capita di ampliare o restringere i confini del deserto. Vittorio Alfieri, nella Vita, parlando del suo viaggio a Roma nel dicembre del 1766, sembra fa la desolazione della campagna romana da Viterbo («benché l’orridezza e miseria del paese da Viterbo in poi mi avesse fortemente indisposto […]»). Invece a Charles Dupaty, che attraversa lo stesso territorio circa vent’anni dopo, nella primavera del 1785, nelle sue Lettres sur l’Italie, Viterbo sembra appartenere a un’isola verde e felice, il Viterbo tutto in fiore. Poi, all’improvviso, con un nuovo contrasto, come se si fossero attraversati i luoghi abitati da Armida, sotto il più bel cielo, niente è più vivo, non vegeta niente; e di lontano s’intravede Roma. Un momento dopo, non si vede più nulla» Rispetto ai molti che non vedono e scorgono solo il deserto, Canova, che aveva fatto lo stesso percorso di Dupaty sei anni prima (e 13 anni dopo Alfieri), a Viterbo guardava e si stupiva ammirato, pur avendo anche lui come gli altri pochissimo tempo da dedicare alla visita della città. Canova stava andando a Roma in compagnia del pittore francese Pierre Fontaine. E vi si recava per studiare l’arte classica, come egli risponde in questo diario alla domanda di un ammiratore olandese conosciuto in casa dell’ambasciatore di Venezia Zulian: «Io li risposi che ero venuto per vedere Roma e per istudiare; lui mi rispose che non debbo tralasciare di fare sempre opere d’invenzione guardando già le regole delle statue antiche». Il messaggio è chiaro; l’ideale classicistico non deve risolversi feticismo e in semplice imitazione dell’Antico. Canova scrive nel suo italiano molto zoppicante ed approssimativo (ma l’uso oscillante delle doppie era una caratteristica comune negli scriventi di area settentrionale, anche in quelli colti). E giustamente Stendhal ha scritto che lo scultore da giovane non conosceva l’ortografia; ma gli mancava anche altro nella conoscenza della lingua scritta. Annota dunque Canova nel suo diario: «A 2 novembre 1799. San Quirico. [...] Dopo il pranso si rimontò e doppo avere passatto varie montagne, giunsimo ad Aqua Pendente picola città, durante questo stesso viaggio. Si tratta del corpo di Santa Caterina Vigri, una clarissa vissuta nel Quattrocento, conservato nel Santuario del Corpus Domini. Importante è anche l’apprezzamento delle fontane di Viterbo. La loro menzione nelle guide turistiche può spiegare il fatto che esse vengono osservate e che la loro visione viene registrata in questi appunto. Ma l’apprezzamento per questi capolavori dell’arte medievale nasce dal carattere non esclusivo del classicismo di Canova, capace anche di cogliere la bellezza di ciò che non è classico. Ed è una capacità che è particolarmente evidente soprattutto negli anni della formazione del grande scultore. In genere i viaggiatori di rigida cultura classicistica non vedono le antichità medievali. Ed è stato anche questo una degli ostacoli alla presenza dei principali monumenti di Viterbo nei resoconti di viaggio, fino all’affermazione del gusto romantico per il Medioevo e per le rovine post-classiche. Dopo la visita di Viterbo, Canova si sposta a Ronciglione dove passa la notte. Ricordo che Ronciglione era una tappa obbligata per la stazione di posta e la locanda. Una antica stazione di posta era anche su un costone del lago di Vico; ma essa appariva solo come una rovina, venata di un’aura di arcana malinconia, già ai viaggiatori del primo ottocento. Scrive Canova: «A 3 novembre 1779. Bolsena. Si portassimo da Bolsena ad ore 10 e giunsimo al castello Montefiascone ove passassimo al di fuori, giunsimo poi a desinare a Viterbo, città bellina ove vidimo il corpo di Santa Rosa da Viterbo intatta. Le Madri Monache, Dedico questo testo a un carissimo amico e collega, il compianto Franco Lanza; modesto mio contributo a mantenerne vivo il ricordo Q N. 4 Giugno/Dicembre 2008 15 INSERTO TUSCIA ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia dopo aversela fatta vedere, si diedero a ciascheduno un cordone qual contiene la mesura del corpo di detta Santa, e ancora poi benedetto. Si dice anco che la santa fu morta di anni 18, e che il corpo è un pocco nero per cagione che si abbriziò la casa et anco la cassa dov’era riposta. Ma non ostante è meno nera di Santa Catterina di Bologna. Abbiamo veduto per la città varie Fontane bellissime. Rimontassimo in calese per due miglia, uniti anco con un Frate Filipino che si domandò di venire con noi sino a Roma. Dopo dunque li due miglia, io e Fontaine abbiamo caminato tutta una montagna e anco tutto il bordo d’un certo lago che vi era. Rimontassimo in calese e siamo arivati a Ronciglione città, si siamo misi a caminare per il luogo che non è cativo. Vi è anco una belissima fontana; cenassimo bene uniti al Filipino, degno religioso un poco orbo, e gobo, e picolo. A 4 novembre 1799. Ronciglione. Partissimo questa matina ad ore 9 e giunssimo a pranzo alla osteria storta. Si partissimo di là a ore 20 e giunsimo in Roma alle 22, ove abbisognò di portarsi alla dogana». Il fatto che queste annotazioni siano molto scarne e schematiche non deve trarre in inganno facendo pensare a uno scarso rilievo dato dal viaggiatore a ciò che ha visto. Anzi è vero esatta- mente il contrario. In tutti i diari di viaggio scritti durante il percorso, come è appunto questo di Canova, la scrittura è sempre quasi stenografica, fatta di velocissimi appunti che servivano al viaggiatore come promemoria. E spesso, come avviene appunto anche in questi due quadernetti in cui è steso il diario di Canova, la scrittura si accompagna a schizzi di disegni che sostituiscono una descrizione dei luoghi che avrebbe richiesto troppo tem- po e troppo spazio. Solo le cose ritenute davvero importanti da ricordare vengono perciò annotate in questo genere di testi. Le stesure ampie dei resoconti di viaggio dati alle stampe, la lunghe narrazioni, le descrizioni precise, sono operazioni che vengono compiute, sulla base appunto di questi materiali di altro tipo, solo quando il viaggio è terminato. Vincenzo De Caprio Curriculum Vitae di Vincenzo De Caprio Vincenzo De Caprio è professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università della Tuscia, dove è anche Presidente del Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio (CIRIV). Membro ordinario dell’istituto nazionale di Studi Romani, fa parte anche della sua Giunta direttiva. Fa parte del Comitato Nazionale per la celebrazioni di Vincenzo Monti, di quello per le celebrazioni di Lorenzo Valla, di quello per l’edizione delle opera del Valla. È Presidente del Comitato Scientifico del premio letterario Città di Cassino: conoscere la guerra per preparare la pace. Ha creato e dirige l’Archivio telematico dei Viaggiatori italiani nel Lazio (www.avirel.unitus.it). Dirige le collane: Effetto Roma (Edizioni Studi Romani); Il viaggio e la scrittura (Vecchiarelli Editore); Antica terra (Edizioni Sette Città). Ha fondato e dirige, insieme a Marco Mancini e a Pietro Trifone, la rivista «Carte di viaggio». Fa parte del comitato scientifico della rivista «Studi Romani», della rivista italo-croata «Adriatico / Jadran», di «Annali d’Italianistica» dell’University of North Carolina. Fra le sue ultime pubblicazioni: Progetto Letteratura (7 voll. Einaudi Scuola, ultima ristampa 2008); Viaggiatori nel Lazio: fonti italiane (Istituto Nazionale Studi Romani, 2007). La Via Francigena nella Tuscia L a città di Viterbo e tutto il territorio della Tuscia ebbero un ruolo storico importantissimo nel pellegrinaggio del passato. Di questo ruolo restano ancora grandi testimonianze costituite da memorie, edifici, chiese. Il tratto della Via Francigena che attraversa la Tuscia e che giunge sin quasi alle porte di Roma aveva una straordinaria importanza sul piano religioso, così come su quello organizzativo per l’accoglienza e l’assistenza dei pellegrini. Esso, con un percorso solo in parte coincidente con la Via Cassia vecchia, si snodava da Acquapendente a S. Lorenzo Vecchio (ora Nuovo), a Bolsena, a Montefiascone, all’antico Borgo di San Valentino (che venne distrutto proprio per indirizzare verso Viterbo la sosta dei pellegrini in transito sulla Francigena), a Viterbo, a Vetralla, a Querce d’Orlando, a Capranica, a Sutri, a Monterosi,fino a Settevene. Era dunque il tratto finale della grande fatica fisica e della grande tensione spirituale cui il pellegrino si sobbarcava per giungere alla meta a volte dopo lunghi mesi di cammino. Era un tratto quindi di intensa tensione spirituale, costellato di molti luoghi di culto significativamente accompagnati da luoghi d’accoglienza. Infatti era anche il tratto in cui fatica e malattie si erano accumulate e che perciò richiedeva una particolare attenzione all’assistenza fisica dei pellegrini. Di qui l’importanza di una ricognizione storica sui testi documentari e su quelli letterari, così come sulle emergenze ambientali di questo tratta conclusivo della Via Francigena. Di grande utilità appare la ricerca sull’organizzazione dell’accoglienza e dell’assistenza, soprattutto ad opera degli ordini cavallereschi (dai Templari ai Cavalieri di Gerusalemme). A questo proposito giova ricordare almeno Santa Maria di Forcassi, presso Vetralla, con i resti dell’ospizio e del lazzaretto dei Cavalieri dei Gerusalemme (XIII secolo). Questa frazione importantissima della Via Francigena, inoltre, ha lasciato una traccia di sé anche nelle testimonianze letterarie di quanti hanno compiuto nel passato il pellegrinaggio a Roma, soprattutto durante gli anni giubilari, quando più intenso era l’afflusso dei pellegrini e più numerosi si fanno i testi che narrano le diverse esperienze. Per ricostruire il quadro, la ricognizione delle fonti storiche deve interagire con una ricerca sui testi narrativi (racconti, itinerari, lettere, poesie, meditazioni) che hanno lasciato memoria delle esperienze biografiche e 16 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 religiose di quanti, dall’Italia o dall’esterno, da paesi più o meno lontani, intrapresero la faticosa e lunga via verso Roma. Ma questo non basta. Non si deve guardare solo al passato. L’obiettivo non può essere solo quello di una ricostruzione archeologica della Via Francigena nel suo remoto passato medievale. Bisogna anche, invece, mettere a fuoco il rapporto fra Cassia e Francigena oggi, come vie del viaggio e del pellegrinaggio da potenziare, facendo interagire i percorsi con le potenzialità culturali, paesaggistiche e turistiche del territorio. La Tuscia non deve rassegnarsi ad essere solo un territorio di transito, di distratto attraversamento da parte di chi va a Roma come turista o come pellegrino. Questa necessità è diventata ancora più vitale oggi e per il futuro immediato dopo la scelta di Viterbo come sede dell’aeroporto. La Via Francigena, anticamente chiamata Via Francesca o Romea e detta talvolta anche Franchigena, è il percosrso di un pellegrinaggio che da Canterbury portava a Roma e costituiva una delle più importanti vie di comunicazione europee in epoca medioevale. Il pellegrinaggio a Roma, in visita alla tomba dell’apostolo Pietro era nel Medioevo una delle tre peregrinationes maiores insieme alla Terra Santa e a Santiago de Compostela. “Peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori della sua patria; in modo stretto non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di Sa’ Jacopo o riede. È però da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamasi palmieri in quanto vanno oltremare, la onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepoltura di Sa’ Iacopo fue più lontana della sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei quanti vanno a Roma.” (Dante Alighieri, Vita Nuova). Per questo l’Italia era percorsa conti- nuamente da pellegrini di ogni parte d’Europa che nella maggior parte dei casi seguivano le strade consolari romane. I pellegrini provenienti soprattutto dalla Francia cominciarono ad entrare in Italia dal passo del Monginevro, dando così alla strada il nome di Francigena, cioè dei francesi. La via prese quindi a far parte di quella vasta rete di percorsi che segnava l’Europa di pellegrinaggio e che univa tutti i maggiori luoghi di spiritualità del tempo. La presenza di questi percorsi, con la grande quantità di persone provenienti da culture anche molto diverse tra loro, ha permesso un eccezionale passaggio di segni, emblemi, culture e linguaggi dell’Occidente Cristiano. Ancora oggi sono rintracciabili sul Cammino di Santiago di Compostela, una dignità nazionale. Come era successo per il cammino spagnolo, anche il percorso della Francigena giaceva quasi interamente sotto l’asfalto delle autostrade e delle statali che, col tempo, avevano ricalcato il tracciato di quelle che già erano state le strade principali del medioevo e dell’età romana. L’interesse, dapprima limitato agli studiosi, poi estesosi a molti che, dopo aver percorso il Cammino di Santiago, desideravano arrivare a Roma a piedi, ha fatto nascere una rete di amanti della Francigena che, con vernice e pennello, hanno cominciato a segnare sentieri e percorsi. Dove è stato possibile si è cercato di territorio le memorie di questo passaggio che ha strutturato profondamente le forme insediative e le tradizioni dei luoghi attraversati. Un passaggio continuo che ha permesso alle diverse culture europee di comunicare e di venire in contatto, forgiando la base culturale, artistica, economica e politica dell’Europa Moderna. È nota l’affermazione di Goethe secondo cui la coscienza d’Europa è nata sulle vie di pellegrinaggio. La relazione di viaggio più antica risale al 990 e vi si descrive, in 79 tappe, il viaggio di ritorno da Roma di Sigerico, arcivescovo di Canterbury. Le informazioni contenute in questa cronaca sono utili per risalire al tracciato originario della Francigena. Dopo la riscoperta avvenuta negli anni ’70, del Cammino di Santiago, ci si rese conto che anche in Italia esisteva un simile percorso di pellegrinaggio, la Via Francigena e a partire dal 1994 la Via Francigena è stata dichiarata “Itinerario Culturale dal Consiglio d’Europa” assumendo, alla pari del recuperare il tracciato originario; altre volte si è scelto di deviare il percorso storico in favore di sentieri e strade meno trafficate o, ahimè, di qualche bar o ristorante in cerca d’avventori. Grazie anche ad un serrato interesse mediatico e culturale di vario genere, cresciuto esponenzialmente con il Giubileo del 2000, è sempre maggiore il numero di persone che, per motivi religiosi o no, percorre zaino in spalla l’antico percorso. Di fatto la Francigena è oggi un tesoro dal punto di vista turistico e questo ha portato le amministrazioni pubbliche a prendere coscienza dell’importanza del fenome- no. In quest’ottica di recupero e riqualificazione del patrimonio storico-culturale-ambientale dell’antica Via di Pellegrinaggio e con il sostegno tecnico-finanziario dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo, nei giorni del 6-7 dicembre 2007 si è svolto nell’Aula Magna dell’Università della Tuscia il Convegno: Fra Via Francigena e Via Cassia: Pellegrini e Viaggiatori nella Tuscia. Il Convegno è stato organizzato in partenariato dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio (CIRIV), diretto dal Prof. Vincenzo De Caprio, dalla Regione Lazio e dall’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo. Alle due giornate di studio e riflessione sulla Via Francigena e i suoi viaggiatori hanno partecipato professori di varie università italiane, rappresentanti di associazioni che a vario titolo si occupano del recupero dell’antico itinerario (Association Internazionale Via Francigena, Confraternita dei Romei della Via Francigena, Serico gruppo Cresme). I lavori del Convegno si sono aperti con l’intervento di S. E. Lorenzo Chiarinelli che ci ha trasportato, con il suo eloquio ammaliante, dalla porta dell’Eden a quella dell’Apocalisse. Il Convegno si è proposto di rafforzare il senso di appartenenza del nostro territorio a questo itinerario di pellegrinaggio ed è stato il frutto del raccordo integrato tra più forze in campo: comunità scientifico-accademica, Provincia, Regione, enti locali e sistema delle imprese del turismo. Questo lavoro svolto in sinergia, sebbene nel rispetto delle competenze diversificate, nasce dalla convinzione che soltanto la cooperazione tra territorio e università, soggetti pubblici e scientifici, privati e religiosi, può portare al recupero duraturo, consapevole dell’antico tracciato di pellegrinaggio e delle conseguenti interrelazioni culturali. Solo così si può promuovere uno sviluppo turistico “etico” e “sostenibile” nel rispetto dell’ambiente, dell’uomo, della cultura, della fede per rendere pienamente protagonista la riscoperta e la valorizzazione della Via Francigena. Cinzia Capitoni Curriculum Vitae di Cinzia Capitoni Cinzia Capitoni insegna Letteratura del Viaggio presso la sede di Tarquinia dell’Università della Tuscia. Si è occupata di viaggiatori dell’Ottocento in Italia e in Egitto. Relativamente alla Tuscia ha pubblicato l’inedito diario di viaggio di uno scienziato dell’Ottocento: G. Brocchi, Viaggio nel Lazio. La Tuscia e l’Agro Pontino, a cura di C. Capitoni, Viterbo 2004. INSERTO TUSCIA ta cura dell’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo e del CIRIV dell’Università della Tuscia Musica in cammino: un concerto per la via Francigena el mese di dicembre, nei giorni 6 e 7, si è tenuto presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università della Tuscia, un interessante incontro di studi incentrato sul rapporto tra Via Francigena e Via Cassia, organizzato dal Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Viaggio N sulla storia della Francigena, attraverso documentazioni coeve, diari, relazioni e resoconti, ma anche sulle prospettive che questo percorso non più semplicemente sacro, ma rientrante a pieno diritto negli itinerari culturali europei, può avere se incentivato. Un aspetto particolare dell’incontro, in quanto di solito poco noto e poco di musica sacra. All’ensemble corale della Camerata Polifonica Viterbese al gran completo si è aggiunto il quartetto formato da Claire Duri (flauto), Lorella Boldrini (cembalo), Irene Maria Caraba (violoncello) e Maria Vittoria Bosco (percussioni), intento a contrappuntare la voce recitante di Fausta Moretti. rat, così denominato per il colore vermiglio della rilegatura, delle cui decina di canzoni sono state proposte, tra le altre, i brani Polorum Regina, Cuncti simus concanentes, Stella splendens, Los set goigs, prima opera conosciuta di polifonia in lingua volgare, e precisamente in catalano, e l’inno alla morte Ad mortem festinamus, unica testimonianza di danza Flecha (1481-1553). Dello spettacolo messo in scena dalla Camerata Polifonica con sapiente professionalità e grossa partecipazione emotiva, cui non si è potuto sottrarre il numeroso pubblico, resterà impressa nella memoria l’idea del canto come scansione metronomica del camminare, come inconscia necessità di segnare il ritmo (CIRVI) diretto dal Professor Vincenzo De Caprio, in collaborazione con l’Assessorato al Turismo della Provincia di Viterbo. E quale miglior modo per un territorio come quello viterbese, da sempre terra di transito per i viaggiatori diretti alla città eterna e perciò particolarmente incline e sensibile alle questioni del viaggiare, se non quello di dedicare alcune giornate di studio, confronto, analisi pluridirezionali e multiprospettiche alla più importante via di cammino attraverso la Tuscia? Gli interventi degli studiosi (professori universitari, ma anche tecnici, membri di confraternite, prelati) che si sono alternati durante le due giornate sono stati di natura diversa ma complementare al fine di offrire un quadro più ampio possibile dibattuto, è stato quello legato alla musica in cammino, ai rapporti cioè tra canti, suoni, danze e il viaggiare, spesso di natura sacra. Non solo il Maestro Piero Caraba ha offerto durante la mattinata della seconda giornata una splendida relazione sulle Danze Sacre, come invenzione dei pellegrini, esaltando la centralità della musica, e consequenzialmente delle danze rituali, nella pratica del viaggio come momento insieme di tributo e di tripudio che liberasse dalle fatiche della quotidianità del viandante. Nel pomeriggio, a conclusione dei lavori, il Maestro ha sapientemente diretto la Camerata Polifonica Viterbese in un concerto, tenutosi nell’accogliente spazio dell’Auditorium dell’Università, che si è rivelato – anche per i neofiti – un vero e proprio cammino lungo secoli Il programma prevedeva composizioni tratte dalle Cantigas de Sancta Maria (seconda metà del XIII secolo) e dal Llibre Vermell de Montserrat (fine XIV secolo), che insieme alle canzoni liturgiche e paraliturgiche tramandate dal Codex Calixtinus (metà XII secolo) per celebrare San Giacomo di Compostela formano le principali raccolte musicali sacre d’età medievale. Le Cantigas de Sancta Maria vennero redatte sotto il regno di Alfonso X El Sabio, re di Castiglia e Leòn, nella seconda metà del 1200 e rappresentano il codice musicale più importante della monodia cortese, cioè del canto a una voce del Medioevo europeo. Scritte in galiziano, lingua aristocratica, narrano prevalentemente i miracoli della Vergine, tratti da racconti diffusi nell’Europa del tempo. Del Llibre Vermeill de Montser- macabra del Medioevo, quasi a sottolineare il perenne rapporto tra vita e morte. A queste composizioni, struggenti o festanti a seconda dell’ambito di riferimento, si sono aggiunte una composizione dai Carmina Burana (Bache bene venies) che fungeva da apertura e la conclusiva Ande, pues, nuestro apellido del compositore e monaco carmelitano Mateo marcando la strada che si sta percorrendo, proprio come i nativi australiani, quegli aborigeni sdoganati alla cultura occidentale da un grande viaggiatore come Bruce Chatwin, cantavano le proprie vie dei canti ricreando ad ogni passo il mito della creazione. Stefano Pifferi Curriculum Vitae di Stefano Pifferi Stefano Pifferi, dottore di ricerca in Storia e cultura del viaggio presso l’Università della Tuscia, insegna letteratura del viaggio presso la stessa università. Ha pubblicato i volumi: Venti giorni a Roma. Impressioni di Cesare Malpica, Manziana 2005; La Città eterna vista da Napoli. La Roma di un viaggiatore romantico, Roma 2007. N. 4 Giugno/Dicembre 2008 17 MUSICA Handel: Alan Curtis e Il Complesso Barocco INTERVISTE DI CARLA FERRARO A bbiamo il privilegio di rivolgere alcune domande al Maestro Alan Curtis, che è stato uno degli artefici del successo del Festival Barocco di Viterbo, rassegna musicale internazionale che presenta i maggiori specialisti di questo repertorio. Vogliamo innanzitutto tracciare una stringata biografia de Il Complesso Barocco: fondato ad Amsterdam da Alan Curtis (nato in Michigan, U.S.A., ma ormai italiano d’adozione), questo ensemble, formato da solisti provenienti da ogni parte del mondo, ha cominciato la sua attività come orchestra internazionale barocca, con particolare interesse per la musica italiana. Dal 1992 risiede nel nostro Paese ed è considerata una delle più prestigiose orchestre europee con strumenti originali. Ospite nelle più importanti rassegne concertistiche e Festival in Europa e negli Stati Uniti, il Complesso Barocco si è rivolto anche verso la musica vocale, a partire dall’ultima fioritura del madrigale fino all’opera del XVIII secolo. La discografia è ricchissima: spazia dal madrigale (Michelangelo Rossi, Antonio Lotti, Claudio Monteverdi , Sigismondo d’India, Marenzio Carlo Gesualdo) all’orato- rio (Stradella Benedetto Ferrari, Pietro Andrea Ziani, Francesco Bartolomeo Conti) alla cantata italiana. Nell’imponente repertorio operistico, dedicato soprattutto a Handel, non mancano titoli vivaldiani come Motezuma, con il quale si è appena concluso un tour internazionale con allestimento scenico, il Tolomeo di Scarlatti, Gluck e molti CD che contengono le voci più belle del panorama “barocco” attuale. In questi mesi Il Complesso Barocco è in residenza al teatro di Poissy (Parigi). Prima dell’intervista ci siamo documentati e nel sito del Festival di Viterbo, a proposito dell’edizione del 2006, si legge: “Prosegue la serie delle opere di Handel con la ripresa del Tolomeo (Montefiascone, 17 settembre) che rappresenta, anche in questo caso, una prima esecuzione italiana di tutti i tempi in forma integrale: questo recupero, come sanno tutti coloro che seguono il Festival, fa parte di una serie intrapresa per iniziativa della Direzione artistica da vari anni ed affidata alla cura di Alan Curtis che, massimo specialista mondiale del repertorio handeliano, come ormai è consuetudine, in occasione della nostra produzione effettuerà la registrazione discografica con la Deutsche Grammophon”. Quali sono le opere di Handel che Lei ci ha restituito? Il mio lavoro con Il Complesso Barocco ha rivestito un ruolo fondamentale nella restituzione delle opere di George Frideric Handel con strumenti originali nell’ambito del revival che questo autore ha beneficiato dagli anni ’70 ad oggi. A partire da Admeto, prima opera a essere riproposta con prassi esecutiva filologica in tempi moderni e recentemente riedita in CD da Virgin, il catalogo delle nostre produzioni dedicate al grande compositore sassone, sempre documentate in registrazioni, si è arricchito di titoli noti e di altri meno eseguiti: Rodrigo, Arminio, Deidamia, Lotario, Rodelinda , Radamisto, Fernando re di Castiglia, Floridante, Tolomeo, e recentemente è uscito Ario- dante in DVD. Ci racconti della vostra esperienza nei luoghi handeliani? Gli anni che abbiamo trascorso nel Viterbese, durante il Festival, sono stati magnifici; ci hanno permesso di conoscere questa regione italiana così ricca di tesori artistici e culturali. La parte preponderante del nostro lavoro è dedicata alle opere e cantate di Handel e quindi è stato per noi un privilegio trovarci nel palazzo e nel giardino di Vignanello dove Handel trascorse estati felici scrivendo alcune delle sue migliori composizioni. Ci ha fatto piacere incontrare la Principessa Ruspoli, ci è piaciuto risiedere nella bellissima cittadina di Tuscania dove abbiamo avuto modo di apprezzare non solo le sue qualità artistiche ma anche i suoi tesori gastronomici. Tutti i musicisti che hanno lavorato con me provano ancora una forte nostalgia per quei luoghi. Dalle sue parole ci sembra di intuire che la Sua collaborazione con il Festival si sia conclusa? Sì, benché il pubblico del festival è stato ovunque attento e ci è sembrato apprezzare la musica presentata: un pubblico formato da appassionati locali ma anche da “turisti musicali” arrivati nella regione, anche da molto lontano, per ascoltare le opere di Handel. Siamo convinti che il fascino della Tuscia continuerà a richiamare nuovi ospiti da ogni parte, ma crediamo che il pubblico musicale internazionale non tornerà e, con grande dispiacere, nemmeno noi: siamo ancora in attesa di ricevere i compensi per i concerti tenuti quattro anni fa! Questo ci crea un certo imbarazzo e ci dispiace davvero che non si presenti di nuovo l’occasione di ascoltarvi qui nelle terre handeliane. Ci auguriamo che la questione si risolva al più presto e di potervi ospitare ancora. Speriamo, in quel caso sarete tutti invitati! Fazioli è il pianoforte A bbiamo colto al volo (anzi, in volo tra gli Stati Uniti e la Cina) l’ingegnere Paolo Fazioli “di passaggio” a Sacile, cittadina friulana, dove si trova la sua prestigiosa azienda che costruisce pianoforti. Sappiamo che le sue origini sono laziali e Le chiediamo quindi di offrirci una “nota” biografica. Sì, le famiglie dei miei genitori sono originarie di Canepina, paese della Tuscia a pochi chilometri da Vallerano. Di quella terra ho un ricordo fanciullesco, di vacanze spensierate in mezzo ai parenti e alla faggeta, ai boschi di castagni sulle pendici del Monte Cimino. Lei cita questi luoghi facendo riferimento agli alberi che li popolano. Non ci sembra un riferimento del tutto casuale. Certo mio nonno era un commerciante di legname e mio padre aveva una fabbrica di mobili. Il legno continua ad essere parte integrante della mia attività. E dunque ci racconti la storia della Fazioli Pianoforti. Mi sono diplomato in pianoforte e poi laureato in ingegneria: il mio desiderio è sempre stato quello di costruire un pianoforte che mi soddisfacesse. Dopo essermi distaccato dall’azienda di famiglia, nell’80 ho voluto cimentarmi nell’impresa e così, dopo aver formato una squadra di scienziati, tecnici, artisti e artigiani di altissimo valore, è cominciata la mia avventura. Mi pare sia stata un’ascesa molto rapida; in brevissimo tempo il modello 212 si è conquistato il titolo di migliore pianoforte del mondo. Perché in Italia molti non conoscono il nome Fazioli? Gli addetti ai lavori capiscono il valore del prodotto, ma il sistema commerciale italiano sembra essere contrario all’affermazione del nostro marchio. Credo di essere stato addirittura vittima di veri e propri sabotaggi. Nel nostro Paese manca l’amore per la qualità e il riconoscimento delle competenze artigianali: il pianoforte è un oggetto complesso costituito da 12 mila componenti, costruito interamente a mano. L’“albero della musica”, l’abete rosso, ha bisogno di molto tempo per trasformarsi in un gran coda: dai boschi della Val di Fiemme alle più famose sale da concerto del mondo servono almeno 4 anni di lavoro e dedizione. Siamo certi che la soddisfazione di ascoltare i grandi interpreti esibirsi con le sue “creature” la ripaghi però di tutto l’impegno e forse, in parte, anche dell’amarezza che Lei prova. Noi de L’Orioli cerchiamo di risvegliare un po’ di orgoglio nazionale e abbiamo voluto averLa tra noi per far conoscere la qualità di un prodotto di nicchia che fa grande l’Italia nel mondo. Grazie. A conclusione della breve ma amabilissima chiacchierata vogliamo aggiungere un’informazione che ci dà la misura della caparbietà illuminata del musicista-ingegnere, il quale si è voluto premiare costruendo uno scrigno in cui condividere, con chi sa o vuole imparare ad apprezzare, l’eccellenza della musica. Alla Fazioli Concert Hall, auditorium nel quale dal 2004 si tengono stagioni di concerti, interpreti di fama mondiale offrono al pubblico l’occasione di ascoltare la perfezione del suono dei pianoforti prodotti lì a fianco. Bravo Maestro! Vecchie immagini per antichi suoni S i chiama “Liber Valerani” l’ultimo lavoro di Massimo Fornicoli. Un libro raffinatissimo in cui delle memorabili foto d’epoca, raccontano secoli di storia e di arte, di volti e di scorci della sua amata Vallerano. Un’operazione culturale, che sarà presentata oggi pomeriggio, ma anche un disperato tentativo, l’estremo, di trovare i fondi necessari per il restauro dell’organo monumentale del santuario della Madonna del Ruscello. Splendido strumento ligneo in grado una volta, raccontano i nonni, di deliziare col suo suono anche coloro che passavano là dove oggi sorge il Comune. Alla fine, cioè, di una salita distante circa 300/400 metri dal portale della chiesa, anch’esso da non perdere. Una battaglia, quella di Fornicoli, che dura da anni. Lui, scelto come presidente del Comitato per il restauro dell’organo, da solo a combattere contro l’ottusità, spesso contro i biechi personalismi, della burocrazia e delle istituzioni. Fornicoli, una nuova provocazione, un nuovo tentativo di svegliare la sua comunità (ma non solo) dal torpore nel quale sembra caduta da troppo tempo? “E’ vero. In questi ultimi anni, sotto il profilo culturale abbiamo disatteso troppe domande rimaste inascoltate. Avremmo dovuto valorizzare meglio un territorio quale Vallerano che ha dato i natali a illustri musicisti proprio all´inizio della polifonia. Parlo di Giovanni Maria Nanino, allievo del Palestrina e direttore della Sistina nel 1604. Di suo fratello Giovanni Bernardino 18 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 Nanino, il primo esponente della Scuola romana ad adottare l´organo per accompagnare alcune composizioni polifoniche. E di Paolo Agostini (1592), maestro e organista nella Cappella locale, uno dei più famosi contrappuntisti del tempo, a far eseguire i suoi mottetti da cori a dodici voci dislocati in varie parti della chiesa di San Pietro”. L’organo, simbolicamente, può essere considerato il segno tangibile di tutta questa sapienza? “L’organo è un pregiatissimo strumento d’epoca, nel suo genere unico, come riporta Formentelli nella sua accuratissima relazione, con materiale fonico di grande valore storico, artistico e artigianale, ricco di varietà timbriche, di varie tipologie di registri ad ancia per un totale di 33, per sola tastiera di 54 tasti e pedaliera di 18. Le canne di legno di castagno hanno piedi di forma ottagonale e anime in noce, le canne di facciata in stagno sono realizzate con arte sopraffina in metallo trafilato, piallato internamente ed esternamente, brunito a mano, mentre le canne interne sono in lega”. Un’opera d’arte da mozzare il fiato. “E’ terribilmente costretta in un silenzio assordante. Non capisco come si possa continuare a non ascoltarlo, questo silenzio. Credo che dovrebbe essere una priorità assoluta per i valleranesi costruire intorno a questo strumento un luogo ideale di cultura musicale. Basti pensare elle enormi potenzialità, non solo in termini di concerti, messe a disposizione da questo meraviglioso og- getto e dall’eccezionale acustica della chiesa. A Vallerano, inoltre, esiste una scuola musicale con ben 150 iscritti nei vari strumenti, la cui tradizione si è perpetuata dalla famiglia Floridi al maestro Benedetti, conosciuto in tutta la provincia, fino a oggi con una sua Banda musicale. Molti valleranesi sono strumentisti nelle Bande della Guardia di finanza, dell’Esercito, dei Carabinieri. E poi: il maestro Lilio Narduzzi, altro valleranese doc, è stato fino a qualche anno fa insegnante di fagotto all’accademia di Santa Cecilia e, proprio un anno fa, ha regalato alla parrocchia un’opera sinfonica dedicata alla Madonna del Ruscello. Suo figlio, Nello Narduzzi, dirige la banda dei Vigili del fuoco di Roma. Credo quindi che sia fondamentale partire da questo restauro per agevolare la nascita di un luogo di cultura artistico musicale che veda confluire le varie manifestazioni provinciali, dal Festival Barocco alle serate a tema, in una cornice architettonica di tutto rispetto nel territorio dei Monti Cimini”. Cosa in definitiva si propone con questa pubblicazione? “Il libro è composto da quasi 60 foto di Vallerano, primo Novecento, con tanto di manifestazioni popolari e della chiesa del Ruscello, così come appariva all’inizio del secolo. Naturalmente, l’iniziativa vuole essere un appello rivolto a tutte le varie organizzazioni o ai comitati del posto, che vogliano valorizzare il proprio paese. Non credo che ce ne dovrebbe essere bisogno, ma siamo fermi col restauro da diversi anni per Video Foto Sprint mancanza dei fondi necessari. Il titolo di questo lavoro, “Liber Valerani”, vuole rappresentare un doveroso omaggio a monsignor Manfredo Manfredi, insigne latinista e rettore del santuario per lunghissimi anni. E’ stato lui ad avermi trasmesso l’amore per questo luogo del miracolo, come manifestazione della benevolenza della Madonna per Vallerano”. Intervista di Luca Poleggi IMPRESSIONI DI VIAGGIO Vicina alla Cina DI STEFANIA ZANNI D ifficile non aver mai fatto questo pensiero sulla vita. Difficile non aver mai fatto ammenda di fronte allo spietato specchio della propria anima, dovendo a volte mestamente ammettere di non aver voluto o non essere riusciti a mantenere fede ai nostri propositi. In effetti è un’impresa epica riuscire a trovare un momento di interiorità, shakerati come siamo tra lavoro & wellness, shopping tra scarpe di Gucci e panini del Mulino Bianco, organizzazione della casa che richiede un planning degno di una multinazionale, e pulizie sottotitolate in italiano da far comprendere alla nuova colf bielorussa sopravvissuta alla caduta del comunismo. Eppure le donne sono maghe e streghe nel riuscire ad incastrare doveri e piaceri, sminuzzando le ore e riducendo i minuti a scampoli di tempo utili per ogni cosa. La prima parola magica è organizzazione; la seconda è tregua. Tregua è quel lasso di tempo più o meno breve che ciascuno di noi si ritaglia nell’arco dei giorni, delle settimane e poi della vita per poter fare esattamente ciò che vuole. A ognuno la propria tregua: la mia è viaggiare. Per curiosità, o come disse qualcuno che di viaggi se ne intendeva, per sentire meglio i sassi appuntiti del terreno sotto le suole delle proprie scarpe, il granito del globo, per vedere cosa c’è al di là dell’orizzonte, per capire come vivono coloro che stanno a testa in giù, dall’altra parte della terra. Viaggiare è poter attaccare un’altra bandierina alla cartina del mondo appesa alla parete del muro, ma è anche e soprattutto comporre il puzzle delle proprie aspirazioni, non smettere di guardare, cercare, scrutare, leggere ed incuriosirsi di fronte alle situazioni e alle persone. Sempre. Ho iniziato a viaggiare con la mente da giovane, leggendo libri e decidendo che un giorno sarei andata a vedere dove avevano realmente vissuto uomini e donne come Anna Frank, Pessoa che si muoveva guardando il mondo dalla finestra del suo ufficio, delegando ai suoi immaginari personaggi altrettante immaginarie vite da vivere; Chatwin, inquieto viaggiatore che narra di storie praghesi e di canti aborigeni, Jay McInerney che racconta delle mille luci di New York, Kerouac con i capelli al vento su uno sfondatissimo pick-up americano, Hemingway nella sua villa di Key West, Joyce a Dublino, Ibsen tra i fiordi della Norvegia e perché no... B.B.King and the Cruseider sulle sponde del Mississipi. Un po’ alla volta i miei desideri sono diventati realtà e ora sono fortissime le emozioni e i ricordi legati a immagini, profumi e persone. Persone magari conosciute e frequentate per poco tempo; salutate e lasciate là alla loro vita di tutti i giorni, ma che a me hanno regalato un pezzo del loro mondo a volte povero di cose materiali ma ricco di sorrisi, consigli e pacche sulle spalle... Un cordoncino peruviano come portafortuna, un sasso regalatomi da un bambino nel deserto, una vecchia piccola e rinsecchita aringa sotto vuoto a ricordo della città più impronunciabile dell’Islanda del nord, un vecchio e lurido libretto rosso comprato su di un’altrettanto lurida bancarella fuori Pechino con sopra annotate frasi in cinese (prima o poi chiederò a qualcuno la traduzione per scoprire con immenso rammarico che è la lista della spesa), un dammusino in pietra lavica a ricordo di Pantelleria e il timbro di Rovaniemi con Babbo Natale, la renna e me! La quintessenza del kitch o più semplicemente piccoli pezzi di mondo che rallegrano una libreria testimoniando il passaggio attraverso quelle zone. “Lascia solo le orme, porta via solo i ricordi” dice un pensiero mongolo. In effetti viviamo in un’epoca in cui tutto è già stato scoperto, raccontato e visto, così a noi “giovani” visitatori del mondo, non rimane che spostarci e guardare attentamente cercando di carpire la vera essenza delle cose, perché nulla è più come prima, perché leggendo diversi libri di Terzani mi sono accorta quanto la “mia” Cina fosse diversa dalla “sua”, vissuta neanche tantissimo tempo fa. Perché i ghiacciai si sono già sciolti, perché l’uragano Cathrina si è scagliato come un bisturi impazzito, creando una ferita grande e profonda, su una città povera ma allegra come New Orleans, perché le “Twin Towers” non esistono più, perché Castro con la sua tuta in poliacetilene della Diadora (con su scritto FIDEL) barcolla con il bastone davanti alla TV di stato, perché oramai si può acquistare un pezzo di luna, perché a Kuta Beach dove strepitosi Australianboys andavano a fare surf c’è una lapide, perché i cinesi in previsione delle Olimpiadi del 2008 stanno distruggendo tutto ciò che è considerato vecchio, perché gli aborigeni parlano delle” vie dei canti” con una birra da due litri in mano, perché finalmente a Belfast non scoppiano più bombe? Dobbiamo accontentarci di ciò che è rimasto, perché anagraficamente parlando non ci è dato di vedere le cose come veramente erano, bensì di vivere la loro trasformazione, a volte in meglio, altre volte in peggio. Ma va bene così, l’importante è accorgersi quanto sia banale fermarsi davanti all’apparenza delle cose e delle persone, monto più maestoso della mia vita. Un assolo di chitarra e il cielo cambia sfumatura, mentre il colpo della batteria dà il tempo allo spostamento delle nuvole. Il buon Dio quella sera doveva essersi dimenticato apposta alcuni colori sulla sua tavolozza, perché sopra la mia testa nulla era giallo o rosso, ma tutto sfumava nel viola e nel bianco accecante delle nuvole cariche di luce riflessa; mentre la strada nell’ormai buio e silenzioso bush, si dipanava sotto le ruote della macchina come un tappeto srotolato dal venditore turco, sotto gli occhi dell’ingenuo turista. Polvere. Sabbia fine che il deserto vuole regalarti a tutti i costi, per dispetto, che mal sopporti perchè si infila in qualsiasi piega della pelle, graffiando e facendo male, che ti asciuga la salivazione e ti secca gli occhi, ma che poi, una volta a casa, viene raccolta come un souvenir. Sabbia e sale: il pensiero vola ad un lembo di terra messicana, patria di Don Diego de la Vega, che nulla ha a che fare con gli Inca, ma che regala le emozioni di un giro in barca tra le balene. Maestosi cetacei, enormi e silenziose flotte marine che con una dolcezza in- no, senza saperlo, stava viaggiando in un altro mondo, tra gli abissi di Moby Dick e le Centomila leghe sotto i mari, perché quello che vide quel giorno gli fece spalancare la bocca e gli occhi a tal punto che a me parve che tutto potessero contenere. Se vogliamo parlare di meraviglia e gioia vi posso assicurare che Pablito, quel pomeriggio, incarnò alla perfezione questi sentimenti e così come non dimenticherò facilmente la vista delle balene, altrettanto facilmente non posso che sorridere con nostalgia pensando a quel viso olivastro e rotondo, sul quale si leggeva come su di un foglio immacolato la parola: felicità. In Cina ho visto il paradosso. Chiunque abbia vissuto un’esperienza simile alla mia può scrivere molto meglio di me che la Cina è il paese delle contraddizioni in cui megalopoli come Shanghai distano due ore di aereo da villaggi poveri sporchi e desolati in cui la presenza di un medico è un lusso; o che a Pechino si distruggono i vecchi quartieri per fare spazio ai nuovi negozi e la gente corre a rubare i mattoni degli edifici abbattuti per costruire o rattoppare le proprie misere dimore. Ep- guardare senza ammirare, passare di sfuggita senza vedere o cogliere il profumo di un posto, i colori delle case, facendoci trasportare da una guida che ci obbliga a voltarci prima a destra e poi a sinistra. Siamo così abituati a camminare guardandoci i piedi, che il più delle volte dimentichiamo di alzare lo sguardo al cielo, anche in città, dove si stendono i panni ad asciugare o dove l’intonaco decrepito cade a pezzi e una finestra aperta lascia intravedere una tendina ritrosa che vorrebbe essere corteggiata dal vento. Credo che viaggiare sia anche questo. Il vero viaggio per me è come un uomo: si sceglie, e per questo motivo lascia un ricordo ogni volta diverso, forte, vibrante e carico di emozioni. Chiudo gli occhi mentre i Pink Floyd suonano “Shine on you crazy diamond” e mi ritrovo a Darwin, nel nord Australia, davanti alla baia, accecata da quello che i miei piccoli occhi ricordano ancora come il tra- spiegabile nuotano prendendo aria di fianco al loro piccolo, accudendolo, coccolandolo, insegnandogli a vivere tra i flutti. Ricordo lo strano silenzio della laguna, avvolta e circondata dalle saline, e dal nulla... l’acqua che si increspa, si alza maestosa ed immensa, dalla profondità compare lei...la balena dagli occhi tristi che riprende le forze prima di affrontare gli oceani e quasi ti saluta, con quel sibilo bagnato che inonda tutto ciò che si trova nel raggio di decine di metri. Un pescatore mi portò in giro, su una barchetta, facendomi salire con una famigliola messicana, composta da papà, mamma e un bambino di 6 anni che non taceva un attimo, infervorato, eccitato, sconvolto da quello che i suoi occhi stavano vedendo. Quanto urlò il piccolo Pablito! A nulla servirono i gesti che il barcaiolo gli faceva per ammutolirlo, a nulla servirono le mani della mamma sulla sua bocca perché Pablito, così picci- pure nonostante questo, nonostante il caos, lo smog che ti ammazza, lo tsunami di biciclette che ti investe quotidianamente, i semafori gracchianti, i torpedoni che sputano nuvole di fumo maleodorante, i motorini che caricano cinque persone alla volta e nonostante i cinesi che sbucano da ogni dove a qualsiasi ora del giorno e della notte, ho scoperto che anche e soprattutto lì, si vive ancora di piccole cose. Come dimenticare la scena di quella signora anziana che a cavallo di una ancora più anziana bicicletta trasportava dentro una cesta di vimini, legata al manubrio, una moltitudine di pulcini infervorati e probabilmente imbestialiti all’idea di finire al mercato. Non ci sarebbe stato nulla da ricordare se quella cesta non fosse rovinosamente volata per aria al crocevia di quattro strade ipertrafficate mentre centinaia di pulcini schizzavano tra le ruote e le gambe dei passanti come pelosissime palline da tennis sottoposte alla logica fisica del moto perpetuo. Povera nonnina cinese! Piegata come un giunco dal troppo lavoro nelle risaie, come potrò mai dimenticare le sue urla, le sue corse tra le auto e i suoi tentativi di radunare il gruppo impazzito che furbamente si sperdeva sull’asfalto esattamente come un fuoco d’artificio accende il cielo fino a che le sue scie luminose non si spengono in lontananza. Anche l’autista del mio pulmino si sentì in dovere di aiutare l’anziana signora, così mentre io da dentro tifavo per i pulcini, lui mollava il trabiccolo in mezzo alla strada, autoalimentando (è il caso di dirlo) l’ingorgo... Di questo immenso paese ho portato a casa impresse nella memoria migliaia di sensazioni e bellisimi ricordi, ma ciò che mi ha colpito molto sono stati gli anziani. Silenziosi, piccoli, sottili, il più delle volte curvi su loro stessi, ancora vestiti con quelle divise blu e quelle ciabatte cucite a mano, assolutamente incuranti di chiunque gli passi vicino, quasi come se gli obblighi delle Unità volute da Mao, fossero ancora vigenti. I giovani invece sono per lo più curiosi, hanno fame di tutto ciò che richiama l’Occidente, dal modo di vestire alla musica, dalla nostra scrittura al taglio di capelli! In mezzo a questo enorme divario ci sono i bambini. Bambini delle città e bambini delle campagne. Riguardo ad una cosa non c’è differenza: l’utilizzo del pannolino. Inesistente, ovunque ci si trovi. Non lo sapevo e devo ammettere che questa usanza mi ha lasciata perplessa ed incredula visto che in Cina si portano solo i pantaloncini tagliati fra le gambine così da non dover utilizzare né fasce né pampers di alcun colore, forma, misura, fluorescenza o profumo! Ogni babybisogno si esplica a cielo aperto, ovunque ci si trovi e se non si è all’aperto non ci si formalizza neanche dentro un treno... nel senso che nel treno non necessariamente si utilizzano le toilettes, anzi il più delle volte non ci si pone neanche il problema di dove siano. In effetti la carta in Cina è oro; se tutti i cinesi la usassero con la frequenza di noi occidentali, il pianeta verrebbe disboscato totalmente, così si dice! Mi sono divertita in Cina, mi sono entusiasmata e commossa camminando sulla Grande Muraglia con quei suoi gradini piccoli e scivolosi che portano direttamente in Mongolia, mi sono rilassata navigando tra le acque torbide del vecchio fiume LiYang, un serpente che silenzioso ha scavato il suo alveo intorno alle montagne totalmente ricoperte di vegetazione. Un fiume lento e sporco, dove gli unici rumori che si sentono sono quelli dei pescatori che ci vivono, sulle loro zattere, con la ciurma di cormorani al seguito. Ricordo le risaie, il fango e l’acqua; tanta acqua ovunque, dal cielo e dalla terra mentre alcuni contadini a piedi nudi, su questi minuscoli terrazzamenti, con mosse da trapezisti, riuscivano a direzionare l’aratro tirato dal cavallo con enorme maestria. Ricordo anche il tempo trascorso a guardare le persone occupate in lavori così duri e sfiancanti, o la curiosità che mi prendeva quando incontravo un venditore ambulante di cibarie, o ancora quello che riusciva a mantenere vive le braci per le frittelle azionando un phon a pedali... Quando si viaggia, con il corpo e con la mente, anche il tempo assume una valenza del tutto diversa da quella che gli attribuiamo nella quotidianità. Così ci si ritrova a trascorrere giornate intensissime che scivolano via come le gocce di pioggia sull’impermeabile, mentre le settimane volano vertiginosamente al ritmo di nuovi avvenimenti, nuovi paesaggi e compagni di viaggio che si susseguono. Alla fine siamo frastornati, magari stanchi e c’è bisogno di un attimo di decompressione per accorgersi da dove si torna e cosa si è visto; per riordinare i pensieri e i ricordi, per essere fieri di se stessi e pensare che sì, in fondo si è già pronti per una nuova avventura. Buon viaggio allora, a chiunque non smetta mai di sentirsi addosso il prurito della vita..... N. 4 Giugno/Dicembre 2008 19 IMPRESSIONI DI VIAGGIO Patagonia e Terra del fuoco L a fin del mundo si apriva finalmente davanti ad i miei occhi anche se in realtà mi chiedevo:”ma dove inizia la fine di qualcosa?”. Ho attraversato frontiere, zigzagato tra le Ande argentine e cilene, attraversato fiordi e pianure spalmate di nulla e piallate dal vento, ho mangiato polvere e camminato -quanto ho camminato in questo viaggio!- per scoprire che non esiste mai la fine di nulla se non qualche confine fisico che le terre emerse e le acque che le circondano, impongono al nostro occhio. Finisce una terra ma inizia un oceano, finisce un oceano inizia un’immensa piattaforma di ghiaccio dalla quale i pinguini scivolano da una parte, per risalire dall’altra e lasciare spazio a qualche abitante della Nuova Zelanda che scrutando l’orizzonte se la ride perché nessuno di loro vive a testa in giù, come credono gli europei! Andare in Patagonia significa intraprendere un viaggio nella natura e negli spazi sconfinati, nelle pianure rastrellate dal quel vento feroce capace di piegare alberi e fili d’erba, rom- pere i vetri delle finestre e far dondolare i minibus con i quali si attraversano queste lande deserte. Le strade sono carrettere che tagliano come un bisturi le pampas argentine, un bisturi che apre una ferita nella terra i cui aridi lembi si allontanano fra loro per formare una cicatrice dove l’uomo ha gettato sassi e polvere per permettere ad altri uomini di transitare laddove, in realtà, l’unica presenza concepibile sarebbe il vento. Ancora lui. Spiegarlo a parole senza averlo provato è difficile perché è costante, a volte fortissimo, è violento, incessante, pauroso, irriverente e sgradevole. Alza nuvole di polvere che ti avvolgono e ti lasciano i segni dei ciottoli sui polpacci nudi, piega foreste creando paesaggi talmente particolari che per poterli ammirare dritti, è necessario piegare il proprio campo visivo di 45° sulla linea dell’orizzonte! Rovi che rotolano come palle spinose impazzite, arbusti scheletrici che si dondolano, pinguini immobili ad occhi chiusi come statue di sale, pezzi di latta cigolanti sui tetti della case in lamiera, staccionate divelte e carcasse di vecchie navi arenate sullo stretto di Magellano che come scheletri abbandonati a ricordo di una loro antica magnificenza vengono tramutati in casse armoniche, dove il solito irriverente vento si diverte a creare rumori e suoni sibilando tra le costole del vecchio scafo. 20 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 Navigando sui laghi glaciali il vento diventa gelido e non potendo piegare ciò che la natura ha reso più resistente di lui, si limita a spostare intere isole di ghiaccio, i cosiddetti tempanos, enormi blocchi di neve congelata che navigano silenziosi nel freddo della Patagonia Centrale. Alcuni sembrano astronavi aliene, dipinte da mano esperta di un color blu che cambia tonalità a seconda del fascio di luce che li illumina. I tempanos hanno strane forme, strani buchi, sulle loro pareti si creano caverne e capitelli corinzi e a guardarli bene vi si potrebbero scorgere disegni ed immagini che con la fantasia danno vita a storie di ghiaccio che cambiano di giorno in giorno. Eppure, nonostante ciò, la Patagonia non è terra ostile, anche se la considerarono così i primi coloni che trasbordarono dall’altra parte del mondo delinquenti ed emarginati da rinchiudere nelle carceri della Terra illuminata dai tanti fuochi. C’era molto spazio da utilizzare, tutto qui! Non è una terra ostile perchè la gente è cordiale, perché i dolci che si mangiano in Patagonia sono tra i migliori che io abbia mai assaggiato in giro per il mondo! L’aria è veramente tersa e i co- lori sono veramente colori, e se ci si va durante il nostro periodo invernale le giornate durano 22 ore e si cena ad Ushuaia perdendo il senso del tempo. Il Perito Moreno visto da vicino è talmente bello da togliere il fiato, e le case di Puerto Natales, tutte in lamiera ondulata, hanno colori allegri e forme bizzarre. Poi ci sono i lupini che crescono nei giardini delle estancie o ai bordi dei laghi glaciali formando tappeti colorati di lilla, viola e rosa. Impossibile non perdersi per El Chalten, ai piedi del magnifico Fitz Roy, villaggio di frontiera degno di un vecchio film, pieno di polvere e gente che arrampica su qualsiasi cosa abbia pendenza e dove non si può non cedere ad una fredda cerveza in un locale pieno di gauchos per poi salire i 26 km di trekking, fino al lago glaciale che domina le pendici di quella imponente ed indimenticabile guglia. Camminare è d’obbligo in una regione del mondo in cui il trekking la fa da padrone, oltre alle scalate delle Ande da parte dei professionisti, e alla rincorsa dei guanachi nelle sterminate praterie da parte dei turisti. La piccola Alaska cilena, ovvero il parco naturale delle Torri del Paine è la palestra ideale per i trekker che arrivano da ogni parte del mondo con la unica voglia di camminare, camminare e ancora camminare. Zaino in spalla ci si arrampica ovunque, si attraversano fiumi su ponti di legno, su sassi malfermi e si affrontano impervi massi ai quali ci si attacca con la voglia di arrivare fin su, fino a dove il sentiero finalmente finisce per lasciare il posto a quel sipario naturale che è la vetta. E’ un’enorme soddisfazione arrivare alla fine, è una piccola scommessa con se stessi, una vittoria sulla sedentarietà ma soprattutto una gioia poter ammirare ciò che la natura così maestosa offre ai nostri occhi. Foreste incantate i cui alberi assumono le forme più bizzarre, torba color arancio, muschio verde e i frutti del calafate che sembrano i mirtilli delle nostre montagne lasciano il posto a distese maestose di ghiaccio, i cui pinnacoli sembrano tanti cappelli di fata, che finiscono così, all’improvviso, in pareti verticali dentro a laghi di un azzurro lattiginoso. Non sono ghiacciai degradanti, che lentamente e svogliatamente si lasciano scivolare nelle acque che loro stessi formano, non si immergono come sirene ammaliatrici i cui corpi rimangono visibili per la metà umana che maggiormente attira l’attenzione dei poveri marinai; sono ghiacciai violenti, decisi, muraglie di ghiaccio marmoreo che si tuffano con impeto, creando frastuono, boati, esplosioni e onde anomale. I seracchi si staccano dalla parete mano a mano che il ghiacciaio avanza in un ciclo continuo di scioglimento e precipitazioni nevose e poter assistere visivamente ed uditivamente alla caduta di uno di questi, è un’emozione forte che rimane impressa negli occhi e nel cuore. Ed infine, credereste mai che la Patagonia possa essere uno dei posti più kitch da me visitati ultimamente?! E’ il miscuglio di razze che si è creato al tempo della colonizzazione a renderla tale? E’ un melting-pot di gente dalla pelle ambrata e gli occhi azzurri, di culture, di abitudini culinarie e non, di origini di nomi e cognomi. A Gaiman, nel nord della Patagonia, paese ampiamente menzionato da Chatwin nel suo libro In Patagonia, sembra di vivere fuori dal mondo perché, nonostante possa essere diventata una pura trovata turistica, i gallesi che lo fondarono ancora vivono delle loro tradizioni, della loro lingua, dei loro ninnoli e dei loro dolci. Le Case da Tè sono un’istituzione, anzi forse sono semplicemente la normalità perché nulla è più normale di un inglese -pardon, gallese- che alle 5 del pomeriggio, anche nella pampa argentina, si dedichi al proprio tea-time. Il tempo si è fermato in questo angolo di mondo, dove la torta gallese è un ricordo sublime per il palato insieme a quella di limone, di ricotta, ai pasticcini e ogni altro ben di dio. In effetti i primi coloni si diedero da fare e lasciando le loro donne in cucina, riuscirono a realizzare un sistema di irrigazione tale da rendere fertile e verde un fazzoletto di terra altrimenti arido, ventoso ed inospitale. Più gli uomini irrigavano e più le donne sfornavano dolci, sferruzzavano centrini all’uncinetto e copri-teiera di lana, sistemavano il servizio blu, le bottiglie da seltz, e attaccavano alla parete le foto color seppia degli avi, della regina, e I negozi dei piccoli centri abitati racchiudono l’essenza della Patagonia. C’è bisogno di gratificarsi in un posto del genere e allora le vetrine si riempiono di ogni più incredibile inutile paccottiglia. Statuette di santi trafitti, orologi a forma di delfini in triplo salto carpiato, acquasantiere piccole medie e grandi, coltellini che accendono sigarette, palloni da spiaggia (del resto a gennaio è estate), portatovaglioli a forma di Ande, brocche a forma di pinguino, bambachas da ap- ultimamente anche di Lady D. Chissà da dove proviene questa loro mania di mostrare tutto ciò che posseggono, che proviene dalle loro famiglie di origine, questa mania di appendere tutto? Forse il bisogno di non dimenticare le proprie origini… A Puerto Natales ricordo di aver dormito in una specie di B&B le cui pareti all’ingresso sopportavano il peso di: n° 1 orologio rettangolare la cui immagine tridimensionale impressa era la Mecca che, a secondo di dove ci si spostava nella stanza, si riempiva o si svuotava di pellegrini (l’orologio logicamente non era funzionante); n°1 poster del primo ammaraggio sulla luna, fotografie ritagliate da chissà quale giornale di moda . C’erano diverse piante rampicati il cui vaso, inchiodato al soffitto, penzolava con i piccoli e poveri rametti tirati ed attorcigliati intorno a funi che creavano giochi di equilibrismo per atletici ragni patagonici; ninnoli in stile China, con pendenti pennacchi rossi e logicamente nessun lampadario. Quello stava per terra, forse nel tentativo di mascherarlo da finta abat-jour, di fianco ad una stufa ed a una serie di divani rossi finto-comodi sui quali, sedendosi, le ultime vertebre lombari e sacrali si incastrava- pendere, immagini sacre e profane che finiscono sulle credenze di ogni casa per bene della Patagonia e Terra del Fuoco. Ecco perché visitare la fin del mundo: regala forti emozioni, a volte civettuole come ad Ushuaia di fronte al cordone di auto anni ‘60 che passa la domenica pomeriggio per l’unica strada del centro; altre volte forti e penetranti come quando si sale sulle montagne incantate incastonate tra le Ande, o quando si attraversa il deserto a cui Darwin attribuì delle qualità negative irresistibili. In effetti il deserto non va immaginato in senso stretto, non è un deserto di dune e sabbia, ma una strada senza inizio e senza fine, un pomeriggio trascorso su di un pullman a guardare fuori tra rovi bassi e montagne che compaiono dal nulla come se uno scenografo avesse modificato velocemente il palcoscenico. E’ un lago pieno di fenicotteri rosa o una distesa immensa di pinguini che accudiscono i cuccioli e che attraversano la strada con quella loro andatura barcollante per arrivare a tuffarsi in mare. Il deserto non è mai un vuoto, è semmai un’assenza di caos, un posto dove c’è abbastanza tempo per pensare a tutto ciò che è no tra le molle, dando vita ad un gioco di morse da cui ci si liberava solo con mosse di contorsionismo degne del miglior teatro cinese. Anche la casa aveva una sua peculiarità, non certo il fatto che fosse costruita in lamiera giallo girasole, ma era stretta stretta e lunga lunga. Lunga come un treno e stretta come una barca a vela. La vita all’interno si svolgeva secondo l’asse nord-sud,ovvero ingresso-cucina. Le cucine, come in tutti i paesi freddi in cui il gelo la fa da padrone, risultano il fulcro della casa e più ci si allontana dall’equatore più le cucine diventano kitch. In Svezia sono essenziali perché c’è l’Ikea, ma a Punta Arenas anche il Natale diventa una scusa per tirare fuori dagli scatoloni estivi i Santa Claus e le renne che si illuminano nel giardino di casa o dentro le fioriere. importante e a tutto ciò che è superfluo; un posto dove il silenzio è a volte assordante e i rumori sono primordiali, dove gli animali sono quelli dell’”Enciclopedia dei piccoli” e gli odori sono forti perché non inquinati dal resto del mondo. “Il deserto scopre in se stesso una calma primitiva, nota anche al più ingenuo dei selvaggi, che è forse la stessa cosa della pace di Dio” , ecco cosa mi è rimasto di questo viaggio in Patagonia. La pusilanimidad no penetra en quien nace marino o viajero en tierras nuevas. Francisco Pascacio Moreno Bon viaje a todos... Stefania Zanni IMPRESSIONI DI VIAGGIO E’ tempo di New York DI CAMILLA PACELLI S ono seduta da Starbucks, regno del caffè take away americano, sorseggiando il mio cappuccino formato gigante, attorno a me un via vai continuo di persone che entrano per armarsi del loro bicchierone di cartone e rituffarsi nella city per eccellenza: New York, così americana ma allo stesso tempo così tremendamente diversa dal resto dell’America. La Grande Mela è il suo più famoso appellativo dopo una campagna pubblicitaria lanciata dalla New York Convention and Visitors Bureau all’inizio degli anni Settanta; l’origine dell’espressione risale al mondo del jazz degli anni Trenta e significa “vivere da gran signore”. Da quel momento in poi “Big Apple” è diventato il simbolo della città. New York, la grande madama, oggi è vestita di bianco a causa di una forte nevicata, fenomeno sempre più raro in inverno dati i recenti cambiamenti climatici del pianeta. Quando arrivi qui per la prima volta, magari di sera su un taxi giallo, e in lontanza ti appare il suo skyline luminoso, mentre ti immergi lentamente tra le sue protuberanze verticali, senti i tuoi sensi vibrare di fronte alla materializzazione visiva di ciò che ha sempre albergato nella tua mente. E già dall’ inizio sei immediatamente preso dalla febbre da atmosfera newyorchese. Febbre che respiri attraversando le streets e le avenues. Febbre che penetra dentro di te, che ti esalta e ti dà un vertiginoso desiderio di operare e di fare. Mi alzo e al primo incrocio vengo affiancata da persone in corsa che non si fermano neanche con il rosso. La vecchia New Amsterdam, questo fu il suo primo nome, ospita oggi circa 8 milioni di abitanti di lingua ed etnia diversa ed accoglie viaggiatori da ogni parte del mondo mostrando loro i suoi mille volti. La New York dell’arte con il Moma, il Metropolitan, il Guggenheim, contenitori preziosi dei piu’ grandi capolavori dell’estro creativo contemporaneo, moderno ed antico. La New York dell’architettura, mecca dello sviluppo verticale con i suoi Empire State Building, Rockefeller Center, Flatiron Building, delle realizzazioni stupefacenti come la struttura elicoidale concepita da Frank Lloyd Wright negli anni Cinquanta per la creazione H mostrati direttamente on the road. La New York per tutti i palati: dal sushi giapponese, al cinese, al coreano ai classici americani come la cheese cake, gli hamburgers, e gli hot dog di Central Park, fino alle grandi botteghe salutiste come il Whole Food di Union Square, dove volentieri mi perdo. La New York dei newyorchesi, nei quartieri fuori dai tour turistici dove la vita scorre normalmente. New York spacco di diversità, frenesia, azione e glamour. La New York a cui tutti vorrebbero appartenere… I love New York! Ovunque echeggia questa scritta, dalle magliette agli scontrini dei taxi, e io guardandola non posso fare altro che annuire. Plaza de la Revolucion, una spianata di cemento sotto un sole abbagliante e perforante, campeggia un enorme catafalco di pietra sul quale sono incise scene della memorabile battaglia, alcune frasi che hanno fatto la storia, ma soprattutto c’è lui: l’eroico guerrigliero Chè Guevara che imbraccia un fucile, ha lo sguardo assorto, il berretto con la stella a cinque punte e la divisa militare. Una statua bronzea, enorme, bella, fiera e maestosa. E’ un posto privo di rumori fastidiosi, in cui si sente il bisogno di ascoltare le musiche rivoluzionarie che un altoparlante socialista sciorina per l’etere come una doccia benefica sulle nostre teste incandescenti. E’ un luogo di culto, come il mausoleo di Mao a Pechino o quello di Stalin a Mosca, ma è sicuramente il più emozionante che io abbia visto. Così tra tanti bicchieri di monito, bevuti sulle scalinate della “Casa della Trova” di Trinidad, sotto un cielo soffocato dalle stelle e pieno zeppo di musica salsa che ti entra nelle vene e nelle gambe, in mezzo a gente di ogni parte del mondo che balla per le strade, sui balconi e canta nelle librerie, in riva al mare o nelle piazze; in mezzo a ciurme di bambini che giocano il baseball cubano, o pelota, anche negli angusti cortili delle scuole, tra le magnifiche donne che ti mostrano sfacciatamente la loro bellezza e tra uomini che paiono bronzi di Riace, camminando sul Malecon al tramonto o nel fango della Sierra, seguendo le orme del vecchio Hemingway e di Errol Flynn tra locali fumosi di sigari Cohiba e camere d’albergo, dormendo ovunque in compagnia di qualche “Ernesto” a quattro zampe, leggendo proclami rivoluzionari, sgranocchiando noccioline a pochissimi pesos annaffiate da strepitosi daiquiri ultra-dissetanti, si è conclusa la mia esperienza cubana. ¡Hasta la victoria, siempre! in fondo è una frase fatta, ma spinge ad essere ottimisti, a non mollare mai e a credere nelle proprie emozioni. Sono quelle che ho voluto raccontare. con una pazienza ed una calma per noi agitati e sbuffanti europei, il più delle volte, stoica. Le serpentine si snodano stanche e accaldate davanti alle banche, davanti ai negozi che attirano la clientela con grandi bouquet di mollette per stendere; nelle farmacie i cui scaffali depauperati da anni di embargo si ergono maestosi e fieri dei proclami rivoluzionari che contengo- magini oniriche. Viaggiare in pullman attraverso Cuba permette di perdersi in un ambiente sufficientemente grande a contenere diverse emozioni perché tutto è intriso di storia, di musica, di magia africana, di calore e colori, di grande povertà ma anche di dignità e cultura, oltre che di rum. Tutto scorre abbastanza lento, nonostante la frenesia del traffico delle mortalare il bello che c’era e che ora non c’è più? Significa portarsi a casa un pezzo di storia in evoluzione o il risultato di tanti begli ideali andati falliti? Questa non è solo pittoresca miseria, ma è anche squallore atroce. Ho dormito nelle “casas particulares” e mangiato, per quindici giorni, banane fresche o fritte, camarones e riso crollo. Ho scoperto che all’interno di un sistema ancora così fortemente comunista e totalitario c’è chi possiede un computer o un microonde e chi, invece, possiede una libreria fornitissima o un pianoforte sgangherato ma funzionante, una laurea in medicina e tossicologia e che per arrotondare lo no al loro interno, orgogliosi di aver servito la patria, Fidel e Chè Guevara, Cienfuegos e tutti gli altri Barbutos che hanno fatto la storia. Altra fila per ritirare i libri di scuola che lo stato non fa pagare, per comprare il pane e per rifarsi lo smalto alle unghie. Abbondano per le strade di Santiago de Cuba manicure ambulanti, parcheggiate come mazzi di fiori tra le macerie di una casa abitata che sembra crollata definitivamente due ore prima. Un tavolino di cartone bucherellato è il piano di lavoro sul quale come in un caleidoscopio gli smalti, infilati all’ingiù, danno forma ad im- grandi città, dove i torpedoni pubblici, stipati di carne umana e batteri, tossiscono nuvole di fumo incandescente e maleodorante, e le vecchie Buick o Chevrolet americane, oramai patrimonio nazionale, gracchiano sul Malecon come vecchie maliarde incartapecorite ancora capaci di attirare l’attenzione dei passanti. In certe zone dell’Avana tutto è un rudere, tutto è fatiscente, ma a noi turisti piace proprio per questo, per quell’aria decadente e musicale che si respira camminando a testa in su. Forse che fotografare questi ruderi dove la gente in realtà vive, significa im- stipendio ospita turisti cucinando loro… camarones e riso criollo! La dignità esiste e si respira, nonostante l’assalto che si subisce per le strade dei posti più turistici, dove crocchi di donne chiedono creme e smalti, penne e colori, magliette e se fosse possibile anche le scarpe che stai indossando. La loro dignità risiede anche nella loro religione intrisa di magia proveniente dalla lontana Africa e di santi cattolici, che non sono altro che la rappresentazione degli dei pagani. Nella loro storia, antica e moderna. Santa Clara è un posto strano, dove in Cuba … in coda! o sempre snobbato l’isola di Cuba, forse perché l’associavo alla caotica Varadero, nella quale un po’ tutti si è stati una volta nella vita, anche se non proprio lì, ma comunque in un posto simile, con un mare turchese, la sabbia fine fine che ti solletica la pianta dei piedi abituata agli stivali invernali, la palma come sfondo, il caldo e il villaggio “all inclusive” con le camere dove i letti non si sa perché hanno tutti dimensioni ciclopiche. Sono andata a Cuba con l’intenzione di vederla prima che il personaggio incontrastato della sua storia moderna passasse a miglior vita, per scoprire che probabilmente non cambierà molto anche senza Fidel, fin tanto che ci sarà al potere il fratello Raul. Il carisma non è lo stesso, ma il cognome sì. Ho evitato Varadero, ma ho ceduto volentieri al mare caraibico e all’ombra della palma, perché di isola si tratta e quando il caldo insistente e le casas particulares diventavano insopportabili, lo spazio e la pulizia che la natura può offrire, per corpo e mente, sono migliori di qualsiasi altra sistemazione. Vivere alla maniera cubana è per noi inconcepibile, perché inconcepibile è rimanere in fila q.u.a.r.a.n.t.a.c.i.n.q.u.e minuti per una cialda di gelato che scivola lentamente come una colata di lava da un marchingegno da arrotino. Mangiare il gelato a Cuba è un’impresa, in parte perché non esistono gelaterie, in parte perché quando esistono il gusto è uno, e solo uno, ed infine perché una volta che lo si ha in mano è assolutamente impossibile distrarsi in altre azioni, pena la liquefazione istantanea del proprio oggetto del desiderio. I cubani accettano le file come parte integrante della loro quotidianità, del Guggenheim Museum, ma anche dei progetti che hanno saputo sapientemente unire classicismo e modernità come la nuova struttura del Moma di Yosjio Taniguchi e la ristrutturazione della Morgan Library di Renzo Piano. La New York della nightlife con i club di Chelsea, dove mentre aspetto che il buttafuori decida le sorti della mia serata inganno il tempo guardando i graffiti del genio creativo inglese Bansky. La New York della Moda di Madison Avenue con gli shops più chic, della Fifth Avenue con i suoi negozi storici come Tiffany, di Soho con le sue botteghe vintage o di Chinatown, dove si comprano le imitazioni delle borse griffate scegliendole dai cataloghi Stefania Zanni N. 4 Giugno/Dicembre 2008 21 FRANCESCO ORIOLI E LA LETTERATURA Orioli ispiratore di Leopardi: paragrandini e mesmerismo GLI SCRITTI DI ORIOLI LETTI DA LEOPARDI La conoscenza indiretta tra Orioli e Leopardi ha una prima radice nella comune cultura umanistica: entrambi pubblicarono nel 1822 due note in latino sull’edizione di Angelo Mai del De Republica di Cicerone, nelle pagine immediatamente successive della stessa rivista, le «Effemeridi letterarie di Roma»1. Nella biblioteca di Casa Leopardi sono presenti anche due scritti di Orioli del 1825-1826 di argomento etruscologico: Spiegazione di una gemma etrusca del Museo R. di Parigi, e in occasione di essa breve Discorso intorno al sistema di numerazione presso gli antichi toscani (Bologna, Nobili 1825) e Dei sepolcrali edifizi dell’Etruria media e in generale dell’architettura tuscanica (Firenze, Tipografia fiesolana, 1826) Entrambi furono acquistati o ricevuti in dono e presumibilmente letti da Giacomo. Marcello Andria ha infatti ritrovato un elenco inedito di letture di Leopardi assegnabile al 1827 in cui figurano i due scritti2. Si trovano nella Biblioteca Leopardi anche un opuscolo sui paragrandini metallici del 1826 (De’ paragrandini metallici discorso quarto, letto alla società agraria di Bologna il giorno 26 Marzo dell’anno 1826 (Bologna, Marsigli, 1826), nonché l’intera collezione dei quattro tomi degli «Opuscoli scientifici» editi a Bologna nel 1817-1818, dei quali Orioli fu attivo redattore e contenenti vari suoi articoli, e le annate della «Biblioteca Italiana» del 1817, con altri due importanti articoli etruscologici di Orioli (Di Axia non ben conosciuto, castello etrusco nel territorio di Viterbo, e de’ cospicui suoi sepolcreti. Ragguaglio di Francesco Orioli e di Pio Semeria, Accademici di Viterbo e Squarcio di Lettera del sig. Francesco Orioli al Direttore della Biblioteca Italiana intorno ad alcune antichità etrusche de’ contorni di Viterbo). Con ogni probabilità sia i due scritti etruscologici che il discorso sui paragrandini sono arrivati in biblioteca dopo i tre soggiorni bolognesi di Leopardi (18-27 luglio 1825 e 29 settembre 1825 – 12 novembre 1826 e 26 aprile – 21 giugno 1827), forse donati dallo stesso autore, ed è possibile che il discorso fosse stato ascoltato direttamente da Leopardi a Bologna. Ai riscontri diretti va aggiunta anche la lettura altamente probabile dell’articolo di Orioli presente unitamente alla recensione alle Canzoni leopardiane del 1824 nel «Bullettino universale di scienze lettere ed arti» del 1825; si tratta di un breve testo (Scoperta graziosa ed interessante) che discute del modo di misurare le piccole correnti elettriche degli elettromotori. La recensione anonima, ma di Orioli, alle Canzoni del Conte Giacomo Leopardi discute l’edizione bolognese delle Canzoni del 1824, soffermandosi piuttosto sull’erudizione espressa dall’autore nelle note linguistiche, che non sull’efficacia poetica delle Canzoni. Nelle predilezioni poetiche di Orioli emerge l’elogio per l’erudizione dell’autore e per il patriottismo delle sue liriche, ma non mancano le riserve per lo stile ridondante e ripetitivo, oscuro e difficile. Leopardi viene inopportunamente assimilato ai nuovi poeti bolognesi e le Canzoni vengono ridimensionate a una prova di apprendistato poetico3. Le letture leopardiane degli scritti di Orioli e della sua recensione alle Canzoni, il soggiorno bolognese di Leopardi e le amicizie comuni contribuiranno alla reciproca conoscenza diretta. Ricostruiamone gli aspetti essenziali. UN INCONTRO LETTERARIO L’incontro diretto tra i due, quasi coetanei, avvenne invece a Bologna, tramite l’erudito, storico e antiquario romano Giuseppe Melchiorri, cugino di Giacomo e amico di Orioli, che invitò Giacomo a incontrare e a salutare LE RICERCHE DI ORIOLI NELL’ISPIRAZIONE LETTERARIA DI LEOPARDI: PARAGRANDINI E MESMERISMO L’incontro segnato dai comuni interessi filologici e letterari lascerà spazio anche allo scambio di notizie e riflessioni relative agli altri interessi scientifici di Orioli, testimoniato dalla presenza nella Biblioteca Leopardi dell’opuscolo De’ paragrandini metallici del 1826 e degli «Opuscoli scientifici». Ben incisivi furono a mio avviso gli apporti teorici e gli spunti poetici che Leopardi desunse dalle ricerche di Orioli. Mi soffermerò su due aspetti che conducono dalla cultura scientifica a quella letteraria. Le ricerche di Orioli sui paragrandini metallici, con ogni probabilità conosciute prima dell’incontro diretto con Orioli (e della conseguente lettura dell’opuscolo del 1826), colpiscono la fantasia di Leopardi che richiama i paragrandini in una delle prime Operette, nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (22-25 febbraio 1824). Riporto il delicato passaggio ironico della Proposta: «[…] nella coniare una serie di strumenti immaginari che potrebbero salvare da ben più pesanti offese morali. Un’altra felice ispirazione letteraria Leopardi la trae dagli studi di Orioli sul mesmerismo, culminati in un volume pubblicato a Corfù nel 18425. Si tratta di un riferimento che è finora passato inosservato. Nella seconda lettera sul mesmerismo6 è presente una riflessione sulla «virtù operatrice» dello spirito sul corpo, che renderebbe conto dell’esistenza di un magnetismo animale. La considerazione è connessa al tema del collegamento tra la follia e il desiderio e prosegue individuando le possibili costruzioni fantasmatiche di oggetti e visioni: «Se arriva il desiderio a dipinger sugli occhi il fantasma d’un oggetto che non è presente, e a farne udire ciocchè in realtà non ascoltiamo, e a farne gustare il sapor di cibi immaginarj, e l’odore d’aromi che non sono, e a farne infine palpare e trovar solidi gl’idoli che mentre sono interiori vengono da noi trasportati all’esterno (7); non sarà egli immensamente più facile che dalla stessa fonte si producano Orioli per parte sua; esso è databile tra l’ottobre e il dicembre del 1825 (la lettera di Melchiorri è scritta il 18 ottobre, la risposta di Leopardi che conferma l’incontro è del 19 dicembre)4. Inutile sottolineare come questo periodo bolognese sarà per Leopardi molto denso di letture e di frequentazioni intellettuali, favorite soprattutto dalla contessa Pepoli e dal fratello Carlo, immortalato nella celebre epistola in versi Al conte Carlo Pepoli. Orioli faceva parte dell’élite culturale bolognese e la conoscenza di Leopardi si aggiunse alle numerose altre sue frequentazioni, mentre per Giacomo costituì una delle poche aperture sull’odiosamato mondo letterario. Nell’Epistolario i rapporti tra Leopardi e Orioli non sono testimoniati da missive dirette, ma lo studioso viterbese risulta citato indirettamente ben ventiquattro volte. guisa che per virtù di esse macchine siamo liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’insensati, de’ ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi, i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a distornare che già non furono gli effetti dei fulmini e delle grandini». Leopardi, che mostra di aver colto bene il ruolo pratico e il sostrato teorico dei paragrandini, usa ironicamente la nuova scoperta come espediente per quelle meno distinte mozioni di nervi che si chiamano crisi magnetiche, o quel ritorno di sensazione di ben essere in che consiste tanta parte della salute, e che sempre n’è il prodotto?» (p. 124). La nota 7 riporta l’esempio di Tasso, tratto dalla Vita di Manso: «(7) […] E Torquato Tasso non ancora impazzato (del tutto), persuaso d’aver visite frequenti di un buono spirito che secolui scendeva ad altissimi colloquj, lo mostrava del dito a Giam Battista Manso, ed argomentava contro le ragioni di lui, e lo pregava ad udirne i discorsi (Muratori = Forze della fantasia = pag. 107. e segu.)» (p. 124). La lettera si conclude con l’affermazione dell’esistenza di una «forza medicatrice della natura nello spirito umano»: «Il che se io sostenessi [l’esistenza di una forza medicatrice della natura nello spirito umano], troverei consenziente la maggior parte de’ medici animisti, da cui due modi della volontà o almeno dell’attività dello spirito è mestieri che s’ammettano, cioè oltre il comun modo, anche un secondo, il quale più occultamente opera senzachè il più delle volte ne siamo accorti. Perché lo spirito informante il corpo lo ama e desidera la conservazione di lui per un desiderio costante ed ingenito, il quale anche quando non vi riflettiamo vive in noi, e se vive agisce» (p. 129). Gli scritti sul mesmerismo di Orioli, e in particolare la seconda lettera sul mesmerismo possono illuminare sul titolo e sul motivo ispiratore del Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (Recanati, 1-10 luglio 1824), operetta tra le più riuscite, nella quale Leopardi appose al titolo la seguente nota: «Ebbe Torquato Tasso, nel tempo dell’infermità della sua mente, un’opinione simile a quel famosa di Socrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buono ed amico, e avere con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Così leggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso: il quale si trovò presente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamo chiamare». Secondo i commentatori7 la citazione rinvierebbe a una fonte secondaria, il trattato Della forza della fantasia umana di Ludovico Antonio Muratori, edito a Venezia, Presso Giambatista Pasquali nel 1745, e posseduto nella Biblioteca Leopardi nell’edizione uscita a Bologna presso Masi nel 1830. Ma l’operetta è stata scritta nel giugno 1824 a Recanati, ben sei anni prima della pubblicazione dell’edizione bolognese posseduta da Leopardi: non è quindi possibile che Giacomo abbia attinto a quella fonte. La presenza degli «Opuscoli scientifici» in Casa Leopardi e l’assenza del trattato di Muratori al momento della composizione del dialogo sono dati di fatto. A essi si aggiunge la conoscenza diretta tra Orioli e Leopardi, collocata – si è detto – alla fine del 1825, quindi successivamente alla stesura dell’operetta, in occasione del quale lo stesso Orioli può aver consigliato l’acquisto del trattato Della forza della fantasia umana di Muratori. La nota della seconda lettera sul mesmerismo di Orioli sembra essere, in definitiva, la fonte sottaciuta dalla quale Leopardi trae insieme l’informazione sulle visioni del Tasso e l’ispirazione per un dialogo tra Tasso e il suo “genio familiare”. A questi dati va aggiunto l’interesse di Leopardi per le tematiche studiate da Orioli nelle sue Lettere e in particolare per il mesmerismo. Sul mesmerismo Leopardi si sofferma nel pensiero zibaldonico del 26 luglio 1826: «Nominiamo francamente tutto giorno le leggi della natura (anche per rigettare come impossibile questo o quel fatto) quasi che noi conoscessimo della na- sta filologia, pratica le lettere italiane non come la moltitudine, ma come i pochissimi; ed è in età cotanto fresca da potersi sperare che i suoi studj verranno un giorno a bella maturità. Ora egli ci ha dato un saggio di quel che vale il suo giovanile ingegno per questo libricino di canzoni, seguitate da dottissimi comenti. E i comenti sono tali che stringono in poche carte molto tesoro di cognizioni pellegrine, e fanno chiara parere la sapienza non pedantesca dell’Autor loro. E le canzoni spirano amore di patria, tutte forti, e severe, e maschie: attissime insomma ad insegnare ad altrui quello a che la poesia dee sempre intendere, se vuol essere venerata come buona Dea. Ma le lodi scompagnate dalle ragionevoli censure non fanno pro che agli sciocchi; ed il sig. Conte Leopardi ci permetterà di dirgli francamente che noi speriamo assai più dal suo grande intelletto, che non è questo poco offer- to a’ lettori in sì piccolo libro. Intervengono in alcuna delle sue canzoni certe ridondanze non rade, o vogliam dire certe ripetizioni degli stessi concetti sott’altra forma, che l’A. lascerà volentieri per lo avvenire a poeti più sterili ch’egli non è. Ugualmente lascerà quel suo favellare sempre per incisi, e per sentenze smozzicate, il quale se talvolta è bello, e dà forza, più spesso è cosa di poco diletto, che stanca i lettori e gli ascoltanti. D’altre minuzie non parleremo, perché sono minuzie. E niente ancora diremo delle prose frammiste a’ versi, se non ch’elle hanno bellezza tutta soda e virile, e si raccomandano a chi legge per purità di modi, più ancora efficaci che gentili, comecchè gentilissimi. Raccomanderemo per ultimo a’ filologi le belle note; e per dare al sig. Conte maggiore testimonio delle molta attenzione che abbiamo posto in leggerle tratti dal piacere ce ci han fatto, chiuderemo questo ar- ticolo con alcune nostre considerazioni intorno alquante delle medesime. Nella prima ci prova con autorità che ingombrare può italianamente dirsi per impedire; e certo si può, stando anco al significato della voce, la quale ci viene dalla bassa latinità. Perocchè nell’evo infimo e medio, si disse in latino ingombrare, come il Du-Cange insegna tratto a gombris, ch’erano alberi abbattuti nella selva, con che si faceva riparo a’ nemici nella strada: e di là venne la significazione metaforica di fare impedimento, ancora quando la voce si mantenne latina. Ma gl’italiani quando la tolsero al parlare barbaro pare che ingannati dalla simiglianza del suono la tenesser nata da ombra, e la reputassero sinonimo di adombrare, e come dire impedir con ombra vera o metaforica, cioè di tenebre o d’acciecamento d’animo o simile. Infatti negli esempli addotti dalla Crusca, ed in quelli dell’A. sem- pre questo verbo è tolto nel sentimento notato in ultimo. La seconda è intesa a chiarire, che si può affigere il pronome esso a persona o cosa non nominata innanzi; e così non male fu scritto dall’A., benché non avesse parlato di Tiranno….. e correr fra primieri Pallido e scapigliato esso tiranno. Forse era bene notare che il modo è però da usarsi con parsimonia; e che viene dalla proprietà della parola latina ipse, della quale questo esso è traduzione. Però negli esempli recati, ed ancora ne’ mentovati versi, tanto è dir esso, quanto lo stesso, che vale come talvolta nel greco l’articolo a denotar la persona o la cosa con maggior forza. Nella terza nota si fa studio per farci intendere che infuso denota asperso o bagnato. E questo ancora è latinismo d’alquanti autori, frequente soprattutto ne’ secoli del ferro ,e del ra- Note 1 Le note di Orioli e di Leopardi compaiono sulle «Effemeridi letterarie di Roma», IX, 1822, ottobre-dicembre; rispettivamente alle pp. 312-332 e 333-340 il fascicolo è letto e registrato da Leopardi nel II Elenco di Letture (databile alla prima metà del 1823), dove compare al n. 8 «Effemeridi Romane». 2 Cfr. M. Andria, Le tracce della lettura. Un elenco inedito di carte napoletane, in AA.VV., I Libri di Leopardi, I quaderni della biblioteca Nazionale di Napoli, serie IX, 2, Napoli, Elio de Rosa, 2000, pp. 9-23 ((«l’inedita lista non può essere assegnata a data anteriore al 1827», p. 23). 3 È opportuno riportare il testo della recensione per intero: «La valentia del Conte Leopardi è cosa nota. Buon grecista, buon latinante, buono e profondo conoscitore della più ripo- 22 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 FRANCESCO ORIOLI tura altro che fatti, e pochi fatti. Le pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. – Oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così accade p.e. nel Mesmerismo, che tempo addietro, ogni filosofo avrebbe rigettato come assurdo, senz’altro esame, come contrario alle leggi della na- E LA SCIENZA tura. Oggi ssa abbastanza generalmente che le leggi della natura non si sanno. Tanto è vero che il progresso dello spirito umano consiste, o certo ha consistito finora, non nell’imparare ma nel disimparare principalmente, nel conoscere sempre più di non conoscere, nell’avvedersi di saper sempre meno, nel diminuire il numero delle cognizioni, ristringere l’ampiezza della scienza umana. Questo è veramente lo spirito e la sostanza principale dei nostri progressi dal 1700 in qua, benchè non tutti, anzi non molti, se ne avveggano. (Bologna. 28. Luglio. 1826.)» (Zibaldone 4189-4190). Leopardi ha qui l’atteggiamento compiaciuto di chi vede nascere una diversa prospettiva di conoscenza della natura, strutturalmente alternativa a quella meccanicistica e segno del fallimento di quest’ultima. Il mesmerismo, prima rigettato «come contrario alle leggi della natura» oggi viene guardato con attenzione e conduce «i veri filosofi» a sospendere il giudizio. Leopardi ne trae un insegnamento estendibile allo sviluppo della conoscenza e della scienza moderna, che è consistito proprio nel sottoporre ad analisi critica le presunte conoscenze, «nel conoscere sempre più di non conoscere» e di conseguenza – contro l’opinione più superficiale e diffusa – «nel ristringere l’ampiezza della scienza umana». Vi sono sufficienti elementi per attribuire a Orioli oltre ai suoi meriti scientifici e umanistici quello di aver fornito non marginali motivi di ispirazione a uno tra i maggiori poeti e scrittori italiani. iterando al sig. Leopardi le nostre congratulazioni», Anonimo (ma F. Orioli), Canzoni del Conte Giacomo Leopardi (Originale), «Bollettino universale di scienze lettere ed arti», vol. I, 1825, pp. 85-87. Giuseppe Melchiorri, Bologna 19 Dicembre 1825) («Orioli ti saluta.»), in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1998, vol. I, nn. 749 e 800, pp. 966 e 1030. 5 Si tratta di A. Cogevina, F. Orioli, Fatti relativi a mesmerismo e cure mesmeriche, con una Prefazione storico-critica del Dottore Angelo Cogevina, Tipografia del Governo, Corfù 1842, considerata «la prima opera di magnetismo uscita in lingua italiana» (C. Gallini, La son- nambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Feltrinelli, Milano 1983, p. 13), che rappresenta un punto di riferimento nella bibliografia italiana relativa al movimento di Franz A. Mesmer, che teorizzò – come è noto – a partire dal 1766 l’esistenza di un fluido magnetico proprio di alcuni organi umani e che ritenne di poter guarire alcune malattie tramite forme di ipnosi magnetica. 6 Lettera II. Mesmerismo nella sua maggior semplicità. Definizione del medesimo. Forza del desiderio, della volontà, della speranza, della fiducia, del timore, dell’attezione nel produrre o nel togliere i morbi e generalmente nel perturbare il corpo. Riflessioni generali e particolari, «Opuscoli Scientifici», 1817, pp. 117-140. 7 A partire da G. Leopardi, Operette morali con Proemio e note di G. Gentile, terza ed. riveduta, Zanichelli, Bologna 1940 p. 103. Gaspare Polizzi Note me; e forse rilevava l’avvisarlo. In altra appresso è favellato del vocabolo evviva. Noi lo crediamo nato o per giuntura delle due parole e’ viva, o meglio perché gridandosi il viva più volte di seguito, solevano in antico le repliche unirsi colla particella copulativa e, la quale alla lunga formò colla voce seguente un solo vocabolo kaq’ufhn, raddoppiata secondo l’uso la consonante. Ma ci accorgiamo che il discorso trascorre alla pedanteria. Perciò lo tralasciamo volentieri, 4 Cfr la lettera Di Giuseppe Melchiorri (Roma 18 novembre 1825): «Quando sarà in Bologna di ritorno il mio amico Prof. Orioli, ti prego di conoscerlo, e salutarlo da mia parte». Leopardi risponderà telegraficamente con la lettera A Dell’intelligenza o dell’anima degli animali C on la mia firma e con l’argomento che tratto in questo articolo non vorrei accrescere l’inflazione, già notevole in questa rivista, del cognome Orioli. Rivista e titolo della stessa che, d’altronde, non sono stati creati o scelti da me. L’idea di scrivere due righe sull’intelligenza degli animali mi è venuta rileggendo per la terza volta, e sempre con grande piacere, quel piccolo capolavoro che è Viaggio in Corsica di James Boswell (1740-1795): opera breve ma scintillante di intelligenza, di humour, di originalità. Doti che, peraltro, appartenevano al suo autore. Primo tra i Lord inglesi ad allargare il solito “Grand Tour”, spingendosi fino in Corsica, in quel tempo (1765) ignorata dal turismo degli aristocratici, ma al centro dell’attenzione politica delle grandi Pasquale Paoli potenze europee perché, sottomessa per secoli a varie dominazioni straniere e soprattutto a quella genovese particolarmente dura, si era finalmente resa autonoma, anche se per breve tempo, sotto il governatorato di Pasquale Paoli. E proprio per conoscere questo personaggio, unico nel suo genere, Boswell, munito di una lettera di presentazione di Rousseau, intraprese questo viaggio che lo entusiasmò, nonostante le difficoltà incontrate: sentieri impervi, fame, freddo, alloggi spesso di fortuna e una malattia finale dovuta ai disagi patiti. In Corsica ritrovò l’Eden e in Pasquale Paoli un modello di perfezione umana: attraente e interessante d’aspetto, colto, ricco di virtù antiche, autoritario e umano nello stesso tempo. Alla fine del resoconto del viaggio Boswell lo definisce con queste parole: «È uno di quegli uomini che si trovano ormai solo nelle Vite di Plutarco». Nelle ore lasciate libere dalla sua attività politica, militare, giuridica e amministrativa, Paoli si abbandonava volentieri a lunghe conversazioni con il suo ospite scozzese. Conversazioni che trattavano gli argomenti più vari. «Il suo spirito è portato sia a speculazioni filosofiche che agli affari di Stato», dice Boswell che lo ascoltava volentieri, discuteva con lui e ne annotava le parole. Parlarono così della melanconia (dai cui assalti improvvisi Boswell era spesso colpito), dei sogni, delle premonizioni, infine dell’intelligenza degli animali. Tutti argomenti su cui cominciavano a indagare gli scienziati dell’epoca. Pasquale Paoli era interessato particolarmente a quest’ultimo argomento e aveva osservato che le bestie, in qualche maniera, comunicavano tra loro, che esisteva un loro linguaggio segreto, soprattutto degli uccelli. «Forse tra mille anni i nostri discen- denti saranno istruiti su questo argomento come noi oggi lo siamo su altri e la conoscenza del linguaggio degli animali allargherebbe la sfera delle comunicazioni sociali», diceva. Ora questo argomento aveva interessato anche Francesco Orioli, figlio tardivo del secolo dei lumi (17831856), che nel 1844/45 pubblicò a Corfù, dove era esule politico, Spighe e Paglie, un’opera periodica in 4 volumi in cui dedicò alcuni capitoli allo studio del comportamento degli animali. – Ma a questo punto l’argomento diventerebbe troppo difficile e complicato da trattare, per me, essendo i testi in larga parte scientifici (se si escludono parecchi aneddoti divertenti e strani riguardanti animali soprattutto del passato) ed espressi in una lingua che non è quella attuale. Cedo quindi il campo, o meglio la penna, a Massimo Biondi che, da medico e giornalista, lo tratterà egregiamente. Maria Orioli Quel che non hanno gli animali Francesco Orioli H anno gli animali un’anima? si chiedeva nei primi anni Quaranta dell’Ottocento Francesco Orioli durante l’esilio comminatogli per aver partecipato, una dozzina d’anni prima, alla rivolta di Bologna contro il potere ecclesiastico. E se l’hanno, come è possibile dimostrarla? Se invece non l’hanno, come si spiegano gli atti e i comportamenti in apparenza “intelligenti” che talvolta esprimono? Comportamenti come il lasciarsi morir d’inedia dei cani alla morte dei loro padroni, o l’intervenire a difesa di un essere umano vedendolo in pericolo. E azioni complesse, come gli scherzi e i dispetti compiuti dalle scimmie, o l’abilità di certi uccelli domestici di ricantare con esattezza i motivi musicali appena ascoltati. Tempo per riflettere su simili questioni Orioli ne aveva parecchio, a Corfù, dove s’era stabilito portandosi appresso libri, riviste e i fasci di carte nei quali per decenni aveva riversato riflessioni e osservazioni scientifiche. Tutti materiali che si sarebbero rivelati preziosi, aiutandolo a dare risposta a questi – e ai molti altri – interrogativi che contrappuntavano le sue giornate e le pubblicazioni che dall’inizio del secolo andava inanellando su un’infinità di materie e di argomenti. Una ventina d’anni prima assieme a un collega, successivamente da solo, Orioli aveva compiuto esperienze su rane, uccelli e tartarughe, scoprendo che anche privati di gran parte del cervello quegli animali producevano un’ampia gamma di azioni, come mangiare, girare su se stessi, chiudere gli occhi di fronte a luci molto intense e così via. Azioni meccaniche, certo; istintive; semplici reazioni agli stimoli. Dimostrazione evi- dente, però, che i centri nervosi “inferiori” possono funzionare e dirigere i movimenti del corpo indipendentemente dal cervello. Erano osservazioni interessanti, ma non in grado di giungere al cuore del problema, confermando o smentendo la presenza dell’anima negli animali. Tanto più che fenomeni dello stesso genere accadono talvolta anche tra gli uomini, i quali – sottolineava Orioli – un’anima ovviamente ce l’hanno. Negli umani, quando la mente è distratta o assorbita nei pensieri, e il cervello è rivolto “altrove”, il corpo agisce in maniera intelligente per conto suo, ad esempio camminando tra la gente senza urtarla, mangiando senza avvertire i sapori, grattandosi una guancia senza la consapevolezza del prurito. Ben altro è ciò che nell’uomo denuncia la presenza dell’anima: la sua coscienza, innanzi tutto, che è coscienza di sé e coscienza di esistere; ma anche il linguaggio, tramite il quale quella coscienza si manifesta all’esterno e si rende nota al mondo. Ebbene i “bruti”, cioè gli animali, proprio di questa funzione spirituale, superiore, son privi. E ne son privi sempre, che abbiano o non abbiano al loro posto il cervello, e che questo funzioni o sia fuori uso. Ma se mancano d’anima, e dunque di intelligenza e di intenzionalità, di libero arbitrio e di consapevolezza, come si spiega che si comportano talora in maniera intelligente e intenzionale, autonoma e cosciente? È una semplice illusione, rispose Orioli su Spighe e Paglie, dovuta al fatto che se «tra l’uomo e tutto il regno de’ bruti, io trovo frapposto un abisso», pure con alcuni di loro può instaurarsi un’attrazione “magnetica”, ipnotica, una speciale forma di affetto, che in certi momenti può spingere gli animali domestici ad azioni “sensate” in difesa e a favore dell’uomo. Era un modo, in definitiva, per recuperare con compassione e sentimento quel che il ragionamento logico e l’osservazione scientifica sembravano negare escludendo l’anima, ovvero il rispetto e la considerazione per altre forme di vita del creato. Una posizione di cui forse Orioli non si rese conto fino in fondo, ma che certamente intuì, anticipando anche qui, e di molto, l’evoluzione della sensibilità moderna. Massimo Biondi N. 4 Giugno/Dicembre 2008 23 STORIA Il Patrimonio di San Pietro in Tuscia negli anni dell’ultimo “papa re” U no degli aspetti del pontificato di Pio IX che ne fanno uno dei personaggi di maggior rilievo dell’Ottocento sono i quasi trentadue anni della sua durata, che tenendo conto del fatto che la tiara papale è una conquista dell’età matura trovano un riscontro solo nei sessantotto anni di regno di Francesco Giuseppe d’Austria e nei settantaquattro di Vittoria d’Inghilterra. Questo lungo periodo fu caratterizzato da eventi di grande importanza sul piano religioso, come la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione e lo svolgimento del XX Concilio Ecumenico (il Vaticano Primo), ma registrò anche il crollo della sovranità temporale della Chiesa, residuo anacronistico di una realtà sociale e politica appartenente ormai al passato: una realtà nel cui contesto si era collocata, alcuni anni prima, la pubblicazione del Sillabo. Proprio dalla molteplicità degli avvenimenti che si susseguirono in quei decenni scaturiscono le diverse valutazioni dell’azione svolta da Pio IX nella sua duplice veste di pontefice e di capo di Stato. E’ soprattutto in questa seconda funzione che si collocano i rapporti con la città di Viterbo e con la provincia del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, di cui la città era il capoluogo. Appunto l’analisi di questi rapporti costituisce il tema della presente trattazione. Il discorso si limiterà a due momenti particolari del pontificato di Pio IX. Verranno, dapprima esaminate le diverse reazioni dell’opinione pubblica viterbese alla notizia della sua elezione ed alle vicende che caratterizzarono i suoi primi anni di regno, fino alla crisi politica che portò alla sua fuga a Gaeta ed alla conseguente instaurazione della Repubblica Romana. Si passerà, poi, a parlare della visita alla città da lui compiuta nel settembre del 1857, al termine di un lungo giro nelle province orientali dello Stato. Prendiamo, quindi, le mosse dal giugno del 1846, quando il Conclave, riunito dopo la morte di Gregorio XVI per eleggerne il successore, innalzò al pontificato il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assunse il nome di Pio IX. Tale scelta fu vista dagli ambienti liberali con una simpatia giustificata da alcuni atteggiamenti da lui assunti nel 1831, quando era vescovo di Spoleto e, dopo il fallimento dei moti rivoluzionari, aveva favorito il ritorno alle loro case degli uomini della colonna Sercognani, che avevano invano tentato di marciare verso Roma. La simpatia era stata resa ancora più viva dall’invocazione: “Dio, benedici l’Italia!” pronunciata dal neopontefice all’indomani della sua elezione. E’ significativa, in proposito, la lettera in cui il viterbese Francesco Mencarini, scrivendo da Roma alla sorella Teresa, esprime le impressioni suscitate in lui dalla prima apparizione di Pio IX al popolo: un rapido ritratto, da cui trapela chiaramente la simpatia del giovane per il personaggio, che descrive scherzosamente come “un papa che Dio ce lo conservi, grasso e grosso che vi farebbe invidia a vederlo!”. Poi, passando ad un tono più serio, aggiunge “che esso è il più buono, il più ottimo ed il più degno uomo di questa terra, e che giustamente siede sopra l’universo”. E’ un elogio tanto più importante in quanto proviene da un uomo decisamente aperto alle idee liberali: una posizione, questa, che possiamo riscontrare senza possibilità di equivoci due anni dopo, allorché egli figura tra i volontari del contingente 24 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 inviato dallo Stato Pontificio sulla linea del Po nella fase iniziale della prima guerra d’indipendenza; inoltre, dopo la conclusione catastrofica del conflitto, lo vediamo accorrere alla difesa delle città venete insorte e della Repubblica Romana. Tuttavia, già negli ultimi mesi del 1848 l’entusiasmo dimostrato nei confronti del nuovo pontefice dagli abitanti della provincia del Patrimonio di San Pietro in Tuscia venne in parte smorzato da una delusione. Tra le varie idee innovatrici attribuitegli c’era anche il superamento dell’avversione dimostrata da Gregorio XVI e dal suo Segretario di Stato, cardinale Lambruschini, nei confronti della ferrovia, considerata un pericoloso mezzo di diffusione delle idee rivoluzionarie. Perciò il Consiglio della Comunità di Viterbo considerò giunto il momento di sollecitare la realizzazione di un una linea ferroviaria che favorisse lo sviluppo economico e sociale della provincia. Il Consiglio, quindi, nella sua seduta del 3 agosto 1846 nominò una deputazione, di cui entrarono a far parte il conte Oreste Macchi, il conte Cesare Pocci, il dr. Bernardino Mencarini e Filippo Saveri, attribuendole “l’impegno di tener dietro con la parola, con lo scritto e con la persona a quanto si sente vociferare e progettare, iniziare da vicino e da lontano su questo argomento per accorrere prontamente a far valere i nostri diritti”. La deputazione dette inizio ai suoi lavori affidando all’ing. Pietro Bocci l’incarico di redigere il piano di una linea che da Roma, passando per Civitavecchia, Viterbo ed Orvieto, raggiungesse il confine toscano presso Città della Pieve. Al progetto fu dato dal suo estensore il nome di Ferrovia Pia Cassia, affiancando così il nome del pontefice regnante a quello della via consolare romana che costituiva la più importante arteria di collegamento fra i territori interessati. Nell’opinione degli organismi governativi prevalse, invece, la scelta di un itinerario considerato d’importanza maggiore e di primaria urgenza. Pertanto, la notificazione emanata il 7 novembre dalla Segreteria di Stato indicava come tracciato della costruenda ferrovia la direttrice Foligno - Perugia Città di Castello, spostandola lungo la Valle del Tevere ed escludendo così del tutto Viterbo ed il suo territorio. I viterbesi, tuttavia, non disarmarono. Lo testimonia chiaramente un opuscolo pubblicato a Montepulciano alla fine del 1846 (1), nel quale le argomentazioni a sostegno del tracciata della Pia Cassia sono seguite da una serie di suppliche inviate al papa dai rappresentanti delle popolazioni della Tuscia e di parte della provincia di Perugia. Nel discorso iniziale si afferma che, qualora venisse realizzato il tracciato esposto nell’art. 4 della Notificazione, “esse Provincie e loro Abitanti si vedrebbero ridotti all’estremo dei mali”, e si sostiene che quello previsto dalla Pia Cassia, oltre a consentire un collegamento più rettilineo e più breve tra Firenze e Roma, sarebbe risultato di meno costosa realizzazione ed anche di più sicura percorrenza, per il minor numero di ostacoli naturali presenti sul percorso. Inoltre, viene precisato che esso avrebbe meglio favorito i rapporti con il nord dell’Italia e con l’Europa occidentale e, collegandosi alle più importanti vie di traffico internazionale, anche quelli con l’Africa, l’America e l’Oriente, scongiurando inoltre il pericolo di concorrenza rappresentato da un eventuale collega- mento diretto di Genova e Livorno con Ancona, che avrebbe escluso dal giro le province dello Stato della Chiesa, con loro grave danno economico. La costruzione della linea ferroviaria venne, però, rinviata sine die. Analoga sorte toccò al tentativo operato nel 1862 da due imprenditori viterbesi, Giacomo e Paolo Marzetti, che, rifacendosi al progetto della Pia Cassia, ripresero l’idea di collegare Viterbo con il litorale tirrenico e con la Toscana. Solo nel 1869, dopo sette anni d’infruttuosi tentativi, essi riuscirono ad ottenere un finanziamento dal Consiglio Provinciale per realizzare il tracciato ferroviario Viterbo - Orte; ma la caduta dello Stato Pontificio ne fece naufragare la realizzazione. Anche a Viterbo giungono, dopo il 15 marzo 1848, gli echi dell’entusiasmo suscitato dalla concessione della costituzione da parte di Pio IX, vista come premessa dell’auspicata partecipazione dello Stato della Chiesa al movimento di liberazione dell’Italia dallo straniero. Ne è una testimonianza la lettera indirizzata da Roma al padre, il 23 marzo, dal ventunenne Angelo Mangani, un giovane aperto alle idee liberali e destinato a divenire, nel dicembre del 1870, il primo sindaco di Viterbo italiana. E’ una narrazione vivace dell’entusiastica dimostrazione popolare seguita alla notizia dell’imminente entrata in guerra del Piemonte contro l’Austria, alla quale sembrava ormai certa la partecipazione degli altri principi italiani. Nella lettera si racconta degli stemmi imperiali gettati a terra e bruciati in Piazza del Popolo, dopo essere stati trascinati per il Corso attaccati alla coda di asini, e del senso di umorismo di un dimostrante, che aveva attaccato sul muro della sede dei Gesuiti un cartello con la scritta “Est Locanda”. Come molti altri abitanti della provincia, Mangani si arruolò nei reparti di volontari in partenza per la linea del Po (2). L’atteggiamento favorevole al nuovo pontefice trova, in seguito, una particolare eco nelle parole dei viterbesi che avevano vissuto più direttamente gli avvenimenti di quei giorni. E’ il caso dello scienziato e uomo politico Francesco Orioli, allora docente nell’ateneo bolognese. Era stato fra i promotori dei moti del ’31 nelle province settentrionali dello Stato della Chiesa. Entrato a far parte del governo rivoluzionario come Ministro dell’Istruzione Pubblica, aveva poi trascorso sedici anni in esilio tra Parigi e Corfù, fino a quando l’amnistia promulgata da Pio IX gli aveva riaperto la via del ritorno in patria. Già nella ”Lettera al Marchese Massimo D’Azeglio”, del 19 marzo 1847, egli sosteneva la validità delle norme sulla libertà di stampa contenute nell’editto emanato quattro giorni prima dalla Consulta, sorta in applicazione di una norma della Costituzione. Eletto successivamente dai viterbesi come membro di questo organismo, con votazione quasi plebiscitaria (244 suffragi su 278 votanti), egli tuttavia stentò a riconoscersi nella posizioni ideologiche dei nuovi patrioti, e quindi si trovò ben presto in disaccordo sia con i membri del governo e molti deputati, sia con una consistente parte del suo stesso elettorato, attestatasi su posizioni progressiste. Fu, tuttavia, rieletto a novembre, ma i disordini culminati, proprio in quei giorni, nell’uccisione del ministro Pellegrino Rossi lo convinsero a non accettare la nomina (3). Questo rifiuto dei metodi violenti con cui si volevano cambiare le cose lo convincerà a rimanere estraneo all’esperienza rivoluzionaria della Repubblica Romana e gli detterà, negli anni successivi, alcune pagine degli “Opuscoli Politici”, visti da molti come un ripiegamento su posizioni conservatrici, in contrasto col suo passato. Tra i passi di quest’opera che hanno fornito maggiori spunti polemici si colloca la difesa dell’istituto del fedecommesso, considerato un mezzo necessario alla sopravvivenza dell’aristocrazia: una classe sociale che, secondo l’autore, consentiva di “trovare ad ogni necessità i veri patres patriae, preparati a tutti i bisogni” (4). Ancora più discussa la sua affermazione che non sempre nell’intenzione del loro promotore costituivano solo un punto di arrivo e si configuravano come una serie di concessioni che, nello spirito con cui venivano elargite, sembravano piuttosto ricollegarsi idealmente a taluni aspetti del “dispotismo illuminato” settecentesco. Tuttavia, il testo dell’allocuzione non segnò, all’atto della sua pubblicazione, una svolta in senso negativo dell’opinione pubblica nei confronti del pontefice e della sua politica, come a distanza di oltre un secolo e mezzo ci potrebbe apparire. Lo possiamo dedurre attraverso la corrispondenza intercorsa fra due dei volontari viterbe- Angelo Mangani, primo Sindaco di Viterbo. la ragione sta nella volontà e nell’opinione dei più, perché “il maggior numero è quello degli ignoranti”. In realtà, Orioli rimase costantemente fedele all’ideale di una rivoluzione compiuta da gentiluomini e da borghesi, come quella cui aveva attivamente partecipato molti anni prima, ed il lungo periodo dell’esilio non gli aveva consentito di seguire le mutazioni nel frattempo sopravvenute negli ambienti politici italiani. Del resto, il fatto che egli continuasse a giudicare positivamente la figura di Pio IX è anche da attribuire al ricordo della moderazione di cui l’allora vescovo di Spoleto aveva dato prova nei confronti degli sconfitti nei moti del ’31. L’allocuzione del 29 aprile, accolta anche da molti viterbesi come un tradimento, segna in sostanza solo la fine di un equivoco, fondato su un’errata interpretazione del “liberalismo” di Pio IX da parte di coloro che avevano visto nel nuovo pontefice il simbolo della riscossa dell’Italia. Per essi, infatti, la concessione delle riforme che avevano caratterizzato l’inizio del suo pontificato avrebbe dovuto segnare l’inizio di un lungo cammino verso la realizzazione dei loro ideali, mentre si nel corpo di spedizione pontificio, i cugini Francesco ed Albino Mencarini, ed i loro familiari (5). La colonna, agli ordini dei generali Durando e Ferrari, si era attestata sulla sponda del Po, con il preciso compito di limitarsi a difendere i confini dello stato da eventuali attacchi, senza intervenire attivamente nella guerra che si stava combattendo in Lombardia e nel Veneto. Nei suoi ranghi, però, non erano pochi coloro che sostenevano la necessità di correre in aiuto delle città venete insorte contro gli austriaci, e questo atteggiamento trovava appoggio, a Roma, presso alcuni membri del governo. Si spiega in tal modo come il 1° maggio, due giorni dopo l’allocuzione, anziché obbedire alle disposizioni in essa contenute, il generale Ferrari ordinò alla sua divisione di varcare il fiume e di raggiungere Treviso. Era, questa, una decisione presa in aperto contrasto con le disposizioni emanate da Pio IX, ma a chi viveva quegli avvenimenti in prima persona non apparve subito tale. Ancora nelle settimane successive, quando lo sfortunato scontro del 9 maggio presso Cornuda aveva costretto i volontari di Ferrari a ritirarsi entro le mura di Tre- STORIA viso, e poi a Mestre, ed aveva suscitato pesanti sospetti d’incapacità o, addirittura, di tradimento nei confronti del generale, il pontefice continua ad essere visto da questi giovani come il loro legittimo sovrano spirituale e temporale. Se molti di essi - circa novecento, tra cui vari viterbesi - in preda ad una crisi di sfiducia chiedono di essere smobilitati e tornano alle loro case, i due cugini Mencarini rimangono con gli irriducibili, che vanno a combattere a Vicenza e successivamente a Venezia. E veniamo ora alla corrispondenza di cui s’è detto sopra. Il 1° giugno il dottor Bernardino Mencarini, scrivendo al figlio Francesco allora a Vicenza, smentisce la diceria secondo cui i generali di Carlo Alberto avrebbero scoperto una segreta intesa del sovrano con l’Austria, e dice che si tratta di una “voce sparsa ad arte degli Ultra Liberali, dalla mala razza dei perfidi Repubblicani, i quali vogliono abbattere tutti i troni”, ed aggiunge: “Vogliono sottrarci dai Tiranni del trono per metterci sotto i tiranni del trivio, che sono essi”. Fa poi una lista di que- ha lasciato da alcuni giorni Roma per il sicuro rifugio di Gaeta. Il giovane, commentando il fatto, scrive da Venezia al fratello: “Chi vede nella fuga del Papa la nostra risorsa, chi la nostra salvezza. Però tutti lo detestano”. Un giudizio che, sebbene implicitamente, egli sembra condividere. Gli avvenimenti stanno ormai precipitando. Nel febbraio troviamo i due cugini alla difesa di Roma, insieme ai fratelli Caprini e ad altri viterbesi. Coerente con i suoi principi, il vescovo di Viterbo, Gaspare Bernardo Pianetti, conferma pubblicamente la sua fedeltà al papa, ma è costretto a lasciare la città. Comunque, la partecipazione attiva della provincia alla difesa della Repubblica Romana fu numericamente limitata, ed anche le simpatie, più o meno occulte, nei confronti del nuovo ordine politico non sopravvissero a lungo alla conclusione dell’esperienza repubblicana. In complesso, questa drammatica parentesi del pontificato di Pio IX non sembrò avere scalfito sensibilmente l’atteggiamento di ossequio nei suoi confronti dimostrato rarlo il suo monumento più rappresentativo. Tra i luoghi visitati da Pio IX nel pomeriggio del primo giorno figurano il monastero di San Bernardino, dove l’illustre ospite rese omaggio alla tomba di Santa Giacinta Marescotti, e l’Ospedale Grande degli Infermi, “ove fu ricevuto dal Priore e dai Sigg. Deputati, i quali animati oggi più da vero spirito di carità, che da un vanto sistematico di mal’intesa economia, ricevono le più affettuose benedizioni dai poveri infermi”. Una frase in cui l’avverbio “oggi” rischia di dare un significato ambiguo alla lode ingenuamente formulata sul conto degli amministratori del pio istituto. Era il 3 settembre, vigilia della festa della patrona Santa Rosa, e sul far della sera il pontefice venne condotto al Palazzo dei Priori per assistere, da una delle sue finestre, al tradizionale trasporto della “Macchina” eretta in onore della Santa. In una delle sale del palazzo gli fu presentato un suo busto, dono dello scultore Tenerani che, nella relazione, viene definito il “Canova del XIX secolo”. Agli alti prelati che costituivano il seguito del papa si aggiunse quella sera il cardinale Pecci, arcivescovo di Perugia, destinato a succedergli con il nome di Leone XIII. La suggestione del campanile luminoso che, nel buio della notte, passa ondeggiando per le vie suscita sempre una profonda emozione in coloro che vi assistono, particolarmente nei forestieri che lo vedono per la prima volta. A questa suggestione non si sottrasse Pio IX che, al termine, ammise al bacio del piede il costruttore della Macchina, Bordoni ed i portatori, o facchini, “i quali furono ancora dalla sua liberalità regalati in danaro”. La sua venerazione per la patrona della città si espresse, la mattina dopo, nella Messa da lui celebrata nella chiesa di Santa Rosa, conclusa con l’omaggio al corpo della Santa giovinetta e con la visita alla sua casa natale. Nel resto della giornata si succedono altre visite, tra cui viene particolarmente ricordata quella al Santuario della Madonna della Quercia, dove giunge accompagnato dal vescovo Pianetti e dal cardinale Pecci. Viene poi narrato, nella relazione, un suo atto di liberalità nei confronti dei cittadini che tanto calorosamente lo avevano accolto: seguendo l’esempio di Pio VI e di Gregorio XVI, ricordati in due lapidi collocate in una sala del Palazzo dei Priori, “… si degnò permettere che la nobilissima famiglia Mastai fosse ascritta al Patriziato Viterbese”. Nella giornata del 4 prosegue incessante la serie degli incontri con le comunità religiose cittadine; e tali incontri offrono talora l’occasione per esternare lagnanze o esprimere desideri. E’ il caso della superiora della suore di Santa Giacinta che, parlando dell’ospedale, rileva “che alla perfezione di quel pio stabilimento mancherebbero solo le Suore di Carità”; una carenza che l’illustre ospite dice essergli già nota, perché gli era stata rispettosamente segnalata, poco prima, dal Gonfaloniere. Tra coloro che vengono ammessi alla presenza del pontefice figura anche un ingegnoso artigiano viterbese, il meccanico Giovanni Augusto Mercati, che “offerse alla vista del S. Padre una graziosa macchinetta di S. Rosa, sulla quale egli ha lavorato 15 anni”. Si tratta di un modellino semovente (naturalmente, a molla), alto 63 centimetri, con i lati di base di 15 centimetri e mezzo; l’altezza dei facchini e di centimetri 5,7. La mattina del 5, alla partenza per Roma del corteo papale, una grande folla si assiepò lungo le vie da esso percorse, e soprattutto sulle due piazze, del Duomo e del Comune, “tuttoché fosse nel primo mattino, ed il tempo pioggia dirotta menasse”. Nell’incontro di congedo con il Delegato Apostolico, Pio IX esprime la sua gratitudine per questa testimonianza d’affetto e di devozione. Scrive in proposito il cronista: “Ed a conferma della soddisfazione di S. Santità, quando Sua Eccellenza Monsignor Delegato Roccaserra si recava in Ronciglione per riceverla e congedarsi, Essa si degnava incaricare Monsignor Delegato a ringraziare l’E.mo Pianetti e l’Ecc.mo Gonfaloniere e Magistratura dell’affettuoso ricevimento e delle grate accoglienze avute nella Città di Viterbo, della quale serberebbe sempre una grata memoria”. E’ il momento conclusivo della visita, i cui giorni - secondo l’anonima relazione - saranno ricordati dalla città di Viterbo “siccome i più solenni ed avventurati per formarne una pagina gloriosissima della sua storia”. Passiamo ora alla visita fatta dal pontefice a Viterbo nel settembre del 1857, a conclusione di un giro nelle province orientali dello Stato. Fu l’ultimo suo incontro con le popolazioni di quei territori, destinati, di lì a pochi anni, ad entrare a far parte del Regno d’Italia. Il capoluogo della Tuscia non era incluso nel progetto iniziale dell’itinerario. Per questo, alla notizia dell’imminente inizio del viaggio, la municipalità viterbese inviò a Roma mons. Carlo Cristofori ed il Gonfaloniere Oreste Macchi, per chiedere al pontefice di passare anche da Viterbo. Ai due, però, fu risposto che non era possibile ottenere il richiesto colloquio. Tuttavia quando, nel mese di maggio, Pio IX dette inizio al suo viaggio verso le province del versante adriatico, ed a Civita Castellana, luogo della sua prima tappa, si recarono ad ossequiarlo due Anziani della municipalità viterbese, l’avv. Antonio Calandrelli e Francesco Marzetti, egli dette loro buone speranze sulla possibilità di inserire nel suo programma una visita a Viterbo. Parlando della città, il papa espresse la propria ammirazione per le sue risorse termali e per le sue bellezze artistiche, ma dimostrò anche di non ignorare le difficoltà in cui si dibattevano le finanze comunali. Il 13 agosto venne finalmente diramato l’annuncio ufficiale della visita, che avrebbe avuto luogo dal 3 al 5 settembre. Quattro giorni dopo, un avviso del Gonfaloniere portò la notizia a conoscenza della popolazione. Si provvide a sistemare adeguatamente il Palazzo dei Priori, nel quale la Comunità intendeva alloggiare il pontefice durante la sua permanenza in città, ma egli optò per il Palazzo Papale, residenza del vescovo Pianetti. Anche se le cronache di quei giorni non ne parlano, alla base della scelta c’era un motivo preciso, che si ricollegava ad un episodio di molti anni prima: il contemporaneo conferimento della dignità vescovile al futuro pontefice ed al Pianetti. Quest’ultimo, di famiglia aristocratica e facoltosa, alla richiesta del Mastai di unire le loro forze per sostenere le spese dei festeggiamenti di rito, aveva risposto: “Chi ha più polvere, spari!”. L’altro, evidentemente, non se n’era dimenticato e, alla vigilia del suo arrivo, gli aveva discretamente fatto sapere che era giunto per lui il momento di … sparare la sua polvere. Sarebbe troppo lungo fare la cronaca dettagliata del soggiorno viterbese di Pio IX, a partire dal suo arrivo, nel primo pomeriggio del 3 settembre, quando venne trionfalmente accolto in Piazza della Rocca, dove erano stati eretti due splendidi archi trionfali, sovraccarichi di ornamenti e di statue allegoriche. Qui lo attendeva il Gonfaloniere, che s’inginocchiò dinanzi a lui per porgergli il saluto ufficiale della cittadinanza. Una cronaca contemporanea, che descrive con dovizia di particolari i vari momenti del soggiorno, dice in proposito che il conte Macchi “…Gli indirizzava brevi parole dimostranti l’ardentissimo desiderio della Città di accoglierlo entro le sue mura, Gli rendeva grazie di tanto onore compartitole, Gli faceva protestazioni di amore, di fedeltà, di sudditanza, e di venerazione a nome della Città tutta, e finalmente le chiavi di essa ai piedi di Lui umiliava” (7) In realtà, il Gonfaloniere era talmente confuso da non riuscire ad andare oltre le parole di esordio: “E’ tanta la gioia, è tanta la gioia …”, ripetute più volte, nel vano tentativo di ritrovare il filo perduto del discorso. Allora il papa lo rialzò sorridendo e rispose: “Ho capito, ho capito, vi risparmio di dire altro, vi ringrazio e vi benedico”. Continuiamo a scorrere la citata relazione, cercando in essa soprattutto i dettagli che possono rendere più viva la cronaca di quei giorni. Abbiamo visto il tentativo di risparmiare al capo della municipalità il ricordo della sua gaffe. Dobbiamo, ora, registrare un’affermazione decisamente discutibile. Infatti, parlando della sistemazione del Palazzo Papale per la circostanza, il cronista scrive che il vescovo Pianetti “…aveva procurato in tutti i modi di renderlo a ciò acconcio il più che si potesse, tuttoché l’angustia del luogo e l’antica rozza sua costruzione non molto a ciò si prestassero”. Una valutazione che solo in parte può essere giustificata dalle condizioni in cui si trovava allora l’edificio di cui Viterbo è oggi talmente orgogliosa da conside- terbo, 1978, pag. 92. (3) - BRUNO BARBINI – L’esilio e l’attività politica negli ultimi anni - in La figura e l’opera di Francesco Orioli - Atti del terzo Convegno Interregionale di Storia del Risorgimento del Comitato di Viterbo - 13-16 ottobre 1983, pp. 49-71. (4) - FRANCESCO ORIOLI - Opuscoli Politici, I, “De’ fedecommessi e dell’aristocrazia”, rist. Napoli, 1851, p. 61. (5) - BRUNO BARBINI - Lettere di volontari viterbesi nella prima guerra d’indipendenza (inserto n. 8, allegato al n. 1-2, anno V, di Biblioteca e Società - 30 giugno 1983). (6) - Il bolognese Alessandro Gavazzi (18091889), frate barnabita, tra il ’48 ed il ’49 si se- gnalò per l’ardore con cui predicava la guerra contro gli austriaci. Anche Angelo Mangani, nella citata lettera al padre del 23 marzo ’46, ricorda la sua appassionata arringa al popolo pronunciata dinanzi al Colosseo. Partecipò alla Repubblica Romana, fu compagno di Ugo Bassi nella fuga sull’Appennino e trascorse dieci anni in esilio, tornando poi in Ita- lia. In seguito abiurò al Cattolicesimo e divenne ministro evangelico, assumendo atteggiamenti polemici nei confronti delle gerarchie cattoliche. (7) – Relazione della venuta e permanenza in Viterbo del Sommo Pontefice Pio IX felicemente regnante - Viterbo - tipografia di Rocco Monarchi - 1857. Pio IX sti “infami”, nella quale, dopo quello di “un Mazzini genovese, che va percorrendo e facendo mene per l’Italia, come una furia”, colloca altri nomi illustri, come quelli di Guerrazzi, Fabrizi, Manin, Tommaseo e del padre Gavazzi (6), il quale ultimo starebbe brigando per esautorare Durando e Ferrari e “mettere alla vostra testa altri comandanti repubblicani, strapparvi dal Papa e condurvi al servizio della Repubblica veneta”. La lettera si conclude con un’ammonizione: “Non date ascolto a voci. Governi costituzionali con Sovrani legittimi. Mai repubbliche: è un vecchio, è un padre sperimentato che ve lo predica: sempre il Papa, sempre Carlo Alberto, sempre Leopoldo di Toscana, sempre Durando, sempre i vostri capi dati dal vostro sovrano”. Diverso è, invece, l’atteggiamento che si riscontra in una lettera di Albino del successivo 2 dicembre, quando Pio IX dalla maggioranza della popolazione del Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Al di là della retorica ufficiale affiorante dalle manifestazioni, ed anche dal tono con cui il cronista conduce il suo racconto, possiamo dire che, all’epoca di questo viaggio, Pio IX godeva ancora a Viterbo e nella Tuscia di una grande popolarità, nella quale confluivano la venerazione per il Vicario di Cristo ed il rispetto per il capo dello Stato. Le vicende politiche degli anni successivi modificheranno in parte questo orientamento dell’opinione pubblica. Non si potrebbe altrimenti spiegare l’entusiasmo con cui molti cittadini accolsero, nel settembre del 1860, l’arrivo in città dei garibaldini del colonnello Masi, provenienti dall’Umbria attraverso Bagnorea (attuale Bagnoregio) e Montefiascone; una liberazione effimera, perché l’11 ottobre, con il ritorno delle truppe francesi, venne ripristinato nella città e nella provincia il governo pontificio. Sette anni dopo, invece, solo gli irriducibili mazziniani si dissociarono dall’ostilità con cui la maggioranza degli abitanti accolse l’arrivo dei volontari del generale Acerbi, che fiancheggiavano l’ultimo tentativo di Garibaldi di raggiungere Roma, naufragato a Mentana; tuttavia, questo atteggiamento non segnò il ritorno dei moderati viterbesi sulle precedenti posizioni di sostegno del potere temporale, ma solo il loro orientarsi verso la monarchia di Vittorio Emanuele II. Con l’annessione del Granducato di Toscana e delle province umbre dello Stato della Chiesa, i confini del nuovo stato italiano avevano raggiunto già da alcuni anni quelli della provincia del Patrimonio di San Pietro in Tuscia. Il potere temporale aveva ormai i giorni contati, ed a questa realtà sono sempre più strettamente legati i giudizi di molti viterbesi sulla persona e sull’opera di Pio IX, in polemica con coloro che appaiono ancora legati al passato. Ne abbiamo un riscontro nelle opposte posizioni ideologiche assunte in quegli anni da due periodici cittadini, La Gazzetta di Viterbo, liberale e laica, ed Il Padre di Famiglia, clericale e conservatore. Nel 1878 anche Viterbo e la Tuscia commemorarono la scomparsa di Pio IX. I commossi necrologi scritti in quell’occasione esprimevano il dolore per la morte di un uomo che, come pontefice e come sovrano, si poteva indubbiamente annoverare tra le figure più significative dell’Ottocento italiano ed europeo. Al di sotto delle parole di circostanza, però, affiorava il sincero rimpianto di molti viterbesi per il definitivo tramonto di un mondo al quale si sentivano ancora profondamente e tradizionalmente legati. Bruno Barbini Note (1) - Alla Santità di Nostro Signore Pio Papa IX felicemente regnante - per gli abitanti delle provincie del Patrimonio di San Pietro - e porzione dell’altra di Perugia - Montepulciano per i tipi di Angiolo Fumi – 1846. (2) - BRUNO BARBINI - Il Risorgimento viterbese nel “Sommario” di Angelo Mangani - III volume della Biblioteca di Studi Viterbesi - Vi- N. 4 Giugno/Dicembre 2008 25 POESIA xx xxxxxxxx xxxxx xxxx uRoma Diario di un addio Per cogliere davvero il significato di questa raccolta di poesie è necessario conoscere il percorso umano dell’autrice, la quale ha scelto di ricordare la persona amata attraverso multiformi omaggi. E dith ha raccolto in Pagine Sparse (Ibiskos Editrice) gli articoli più significativi scritti dal marito dagli anni ’68 al 2000; Michele Dzieduszycki, scomparso il 29 novembre 2005 in seguito ad una leucemia, è stato giornalista e testimone della vita politica e culturale italiana. Nel corso della sua carriera ha lavorato per La Fiera Letteraria di Manlio Cancogni, Il Mondo di Arrigo Benedetti, Epoca, Tempo Illustrato, Critica Sociale, Lo Speciale, Panorama, Successo, Il Nuovo, Salve, Il Giornale della Lombardia, Il Corriere della Sera, Il Corriere Illustrato. Nel 1979 è approdato all’Europeo dove continuerà a scrivere fino alla chiusura del giornale nel 1996, collaborando successivamente a D di Repubblica. “…E’ stato uno dei migliori giornalisti culturali degli anni 80”… dice di lui Giampiero Muggini e Vittorio Sermonti aggiunge: “Ha scritto straordinari articoli di cultura e di costume che i giornali ospitavano come si ospita un principe in esilio, un principe di suprema gentilezza e discrezione, enigmatico, un po’ pigro e un po’ distratto”. Al marito è dedicata anche la mostra fotografica “Tu capiresti…”: si tratta di una trentina di fotografie a colori, ognuna delle quali evoca o illustra una poesia, un pensiero, un momento di dolore. La scelta è condivisa con lui: “Tu capiresti, ti piacerebbero”. “…Sua moglie Edith gli sopravvive annaspando nella sua assenza e ruotando su di sé come una barca con un remo solo. E nelle pagine di questo 26 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 Diario, tenta di sgranare la cronaca della malattia, del trapasso, della veglia, di quello che avanza alla morte della persona una che si è interamente amata : tenta di pronunciare l’im- pronunciabile, di dare un ritmo al silenzio, meticolosamente, disperatamente. C’è in questi testi l’accanimento desolato di chi continua a chiamare un Michele che non può più rispondere…” (dall’introduzione di Vittorio Sermonti). Diario di un addio (Passigli, 2007) contiene circa 150 poesie, le prime scritte nel momento della scoperta della malattia di Michele, che fu curato con grande attenzione e umanità nel reparto Leucemie del Centro Ematologico romano del Prof. Franco Mandelli, (al quale sono destinati i proventi del libro). Mano a mano si segue l’evoluzione, la morte, il distacco e la solitudine. “ In quel Diario di un Addio, quell’unicità perduta e che non ha altro nome che il suo, Michele, parla all’unicità di ciascun e di tutti. E l’inconsolabilità si riconosce in un suo sommesso, indelebile timbro fraterno” conclude Vittorio Sermonti. Edith, di lingua madre francese, scrive poesie da molto tempo. Da quando vive in Italia ha tradotto se stessa per partecipare a concorsi e inserimenti in varie antologie. Questo Diario invece è stato scritto per la prima volta direttamente in italiano. L’autrice ha voluto generosamente offrire alcune poesie ai lettori dell’Orioli e la ringraziamo: con molto rispetto, “sono piaciute anche a noi!”. Ti ho conosciuta segreta nascosta antica cortigiana dalla pelle grinzosa trucco sbriciolato sotto l’offesa dei secoli sbriciolata da armate di mani spray graffiti scalpelli affilati senza pietà frugata dentro le pieghe ritorte delle tue ruvide piaghe. Ti ho spiata braccata in cerca del brandello e del segno nascosto che in parure gioiello trasforma la ferita oscena sontuosa e l’accesso rigonfio in ambra oro perla. Castelli appollaiati templi chiese moschee nuvole a caccia di torrenti canali in corsa verso fiumi giardini misteriosi foreste pietrificate oceani schiumosi deserti assetati arcobaleni arrotolati sulla scala dei giorni caverne brulicanti d’esseri sconosciuti bestiario all’infinito fremente e mitico liocorni fuggenti draghi gnomi giganti pronti ad arrendersi all’obbiettivo raggiunto da quella strana armata. Ti ho amata cercata maga vestale strega quando insudiciata ritrosa cenerentola celavi il tuo volto alle folle incessanti e rassegnata offrivi allo scempio il tuo corpo. E poi un certo giorno alla fine del secolo ti hanno spazzolata lavata e stirata inerme giubilante mascherata plastificata sotto schermi d’allegra pubblicità. Così ti ho perduta ed oramai contemplo in grigia solitudine il bottino di caccia ultimo mio tesoro immagini di te rubate per amore. volteggiano leggeri prima delle cornacchie che gracchianti a loro volta svegliano nei loro nidi le frecce rondini dalle grida acute tutto questo schiamazzo emerso dalla notte a poco a poco sfilaccia sul chiarore dell’alba lasciando timido emergere mano a mano deciso il pigolio naif dei tondi passerotti più tardi caffè cornetto titoli prima pagina s’avvicina ai tavoli squadriglia corrosiva indiscreta si posa mendicante famelica s’impone la truppa dei piccioni pedoni claudicanti minute vacche sacre rivestite di piume. Toccata e fuga Stamattina immersa ancora un po’ la mente nella nebbia dei sogni si è intrufolata in veloce crescendo staccata dal rituale bozzolo che fuse familiari motorizzato zoo oramai nostri giorni accompagna vincente rumore sullo sfondo come a nostr’insaputa sorbita digerita infiltrata dicevo un’ altra melodia a ritmo cadenzato Quartiere Per strada e per le scale intorno al mio silenzio s’intrecciano e stridono rumori disparati. Branchi turistici schiamazzanti e vocianti in cerca di pittoresco besame muccio lagnosi sciorinati la sera da stanchi violini tango da quattro soldi su fisarmoniche allarmi interminabili chi sa perché scattati polemiche accese sui fatti del giorno abbaiare di cani gridare di scolari partite riversate da TV invadenti clamore ad ogni goal canti ebraici la sera del venerdì motorini ronzanti moderni destrieri rullio di persiane e di saracinesche alzate o abbassate la sera per proteggere vite dentro gusci segreti. prima impercettibile sempre poi più vicina un richiamo lontano del buon vecchio passato che a volte ritorna evocate stagioni di antichi racconti quando trottavano speronate ai fianchi giumente caracollanti o nella notte blu sballottavano fiacre d’amanti furtivi nidi e come era comparso a poco a poco s’è spento galoppo singolare nell’alba appena schiusa il battito febbrile sincopato degli zoccoli martellanti il selciato ancora addormentato fino a perdersi e Cittavola Gabbiani marini clandestini oramai cittadini immigrati sui nostri tetti riempiono le notti d’estate appena schiusa l’alba con richiami stridenti che aspetto occhi aperti sul pallor delle cose fluttuanti chiacchieroni svenir indistinto nel mezzo del rullio dei cavalli vapore arroganti frementi sputando senza pudore nell’aria fetida il loro alito avvelenato. xx xxxxxxxx xxxxxxxxx xxxxxxxx v xxxxxxxx POESIA xx xxxxxxxx xxxxx xxxx u Alla finestra Rimango alla finestra indecisa e guardo dietro i vetri sporchi di tante lacrime come cade la pioggia e corrono le nuvole trasportate dal vento Estate 2003 Ostinato cobalto coperchio incandescente sospeso perforato d’ozono come frecce di piombo spuntano dardi acuminati i raggi che nostre carcasse fondono pelle e membri sottomessi grondano gocce salate di sudore in pioggia alla terra negata Alda Merini Una canzone quasi d’amore Non starò più a cercare parole che non trovo per dirti cose vecchie con il vestito nuovo, per raccontarti il vuoto che, al solito, ho di dentro e partorire il topo vivendo sui ricordi, giocando coi miei giorni, col tempo... O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti o che per le mie navi son quasi chiusi i porti; io parlo sempre tanto, ma non ho ancora fedi, non voglio menar vanto di me o della mia vita costretta come dita dei piedi... Noia Ho saputo me l’hanno raccontato che dintorno insistente pure piagnucolosa si aggira una bestia grigia tetra laida dallo sguardo incerto dal pellame sbiadito opaco spento basse le orecchie mosse rallentate Queste cose le sai perchè siam tutti uguali e moriamo ogni giorno dei medesimi mali, perchè siam tutti soli ed è nostro destino tentare goffi voli d' azione o di parola, volando come vola il tacchino... Non posso farci niente e tu puoi fare meno, sono vecchio d' orgoglio, mi commuove il tuo seno e di questa parola io quasi mi vergogno, ma c'è una vita sola, non ne sprechiamo niente in tributi alla gente o al sogno... Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa e quasi non ti accorgi dell' energia dispersa a ricercare i visi che ti han dimenticato vestendo abiti lisi, buoni ad ogni evenienza, inseguendo la scienza o il peccato... dagli occhi dal muso in abbondanza colano tiepide bava e lacrime che senza tregua formano dietro il suo lento passo una traccia lucente dove s’impantana chi in trappola inciampa Tutto questo lo sai e sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia perchè siam tutti uguali, siamo cattivi e buoni e abbiam gli stessi mali, siamo vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri... coglioni! questo strano animale porta per nome noia mai però a quest’ora sul mio lungo cammino ne ho intravisto la titubante ombra e neppure incrociato a caso lo sguardo avendo cura assai fortuna sforzo astuzia di sempre evitare la via monotona del suo ipnotico richiamo. screpolato si spacca il suolo e scoppia esalando le nubi assetate mezze tigri mezze vampiri di larve appena schiuse tra sole e suolo fratelli intermittenti nemici complici vaghiamo anneriti in lotte dispari estenuati umili sotto le nebbie di colpevoli fuochi in seno ai campi appassiti di altri soli spenti. Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata? Ti dono, se vorrai, questa noia già usata: tienila in mia memoria, ma non è un capitale, ti accorgerai da sola, nemmeno dopo tanto, che la noia di un altro non vale... D' altra parte, lo vedi, scrivo ancora canzoni e pago la mia casa, pago le mie illusioni, fingo d' aver capito che vivere è incontrarsi, aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare... grattarsi! Francesco Guccini Mai più Quanti ancor mai più perle di vetro infilate sopra corone mortuarie mai più alzati su rovine fumanti mai più branditi lungo neri cammini persi all’orizzonte ove si ammassano in mucchi dilaganti unica differenza gruppo e fattore Rhesus quanti mai più Meditazione Nel cuore di foreste e di boschi feriti aggrappati ai cordoni d’una bruciante lotta serpenti srotolati che lanciano in getti salvatori un’acqua tiepida benevola materna ominidi coraggio affrontano il nemico ardenti soldatini in divise di cenere fuliggine sudore sospirati strozzati schiacciati sostituiti da altri cadenzati irrompendo attraverso la porta spalancata della nostra stupidità. Edith Dzieduszycka (quasi una poesia) “I libri non resuscitano i morti, e non fanno di un idiota un uomo capace di ragionare, nè di uno stupido un individuo intelligente: aguzzano lo spirito, lo destano, lo affinano e appagano la sua sete di conoscenza. Quanto a chi vuole sapere tutto, è meglio che la famiglia lo faccia curare, perché un simile desiderio non può che nascere da un turbamento dello spirito. Muto quando gli imponi il silenzio, eloquente quando lo fai parlare. Grazie al libro, puoi apprendere nello spazio di un mese quello che un’’eternità’ non ti consentirebbe di apprendere dalle labbra di un sapiente, e questo senza farti contrarre debiti di sapere. Ti libera dall’imbarazzo, ti solleva dalla necessità di frequentare persone odiose e di avere rapporti con individui stupidi e incapaci di comprendere. Ti obbedisce di giorno come di notte, tanto in viaggio quanto nei periodi in cui sei sedentario. Se cadi in disgrazia, non per questo il libro rinuncia a servirti; se venti contrari soffiano contro di te, non ti si rivolta contro. Accade talvolta che il libro sia superiore al suo autore...” Fuochi senza tregua ai vari orizzonti tentano d’annientare la bestia maledetta lunghe braccia rossastre lanciate contro il cielo Io non ho bisogno " Io non ho bisogno di denaro, Ho bisogno di sentimenti , di.parole, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri, di rose dette presenze,di sogni che abitino gli alberi, di canzoni che facciano danzare le statue, di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti... Ho bisogno di poesia, queta magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e da' colori nuovi." piedi di brace ardente che frenetica gira balla e nel vento volteggia trasportando il suo fuoco ma segreta nasconde in volute vorace l’oscura vile faccia del maestro di ballo che la forza a danzare. rimango alla finestra in silenzio e sento il rumore del mondo che sale fino a me indistinto brusio somma di tante vite perse su tante strade quanto tempo ancora d’uno schermo all’altro chiaroscura finestra prigioniera sarò impotente divisa occhi chiusi per non vedere più in flash sanguinari le onde incessanti a nostri piedi infrante. xx xxxxxxxx xxxxxxxxx xxxxxxxx dal “Libro degli animali” di Jhab Giara Un ringraziamento particolare al nostro amico Rino Mucci per la sua pazienza e disponibilità v xxxxxxxx N. 4 Giugno/Dicembre 2008 27 A.C.E.F.O. EDITORIALE segue da pag. 1 tra l’ottobre e il dicembre del 1825. Tappa irrinunciabile e fondamentale del viaggio ideale, delineato in apertura, è la Tuscia. I suoi segni distintivi di accento storico, artistico, letterario, folcloristico, gastronomico, paesaggistico la definiscono quale “luogo dell’anima” variegato, commovente, sorprendente, cosmopolita, eterno. Luogo, che palpita di mare, laghi, collina, montagna: che in chiese, castelli, giardini, necropoli, musei conserva tracce preziose della storia, dell’arte e del costume nazionali e internazionali; che, nei parchi e nelle riserve naturali, custodisce particolarità uniche di flora e fauna. Qualche sosta di un itinerario reale e fiabesco nel contempo: quartiere medievale di S. Pellegrino, Palazzo dei Papi, “Campanile che cammina” del Capoluogo; Villa Lante a Bagnaia; Parco dei mostri a Bomarzo; necropoli etrusca a Tarquinia; Palazzo Farnese a Caprarola; anfiteatro romano a Ferento e a Sutri; Castello Ruspoli e Giardino rinascimentale a Vignanello; Santuario della Madonna del Ruscello a Vallerano; Castello Orsini a Soriano nel Cimino e a Vasanello; chiese di S. Pietro e Santa Maria Maggiore, VIII sec., a Tuscania; borghi medievali di Calcata e di Civita di Bagnoregio; Forte Sangallo a Civita Castellana; Castello Di Vico a Fabrica di Roma; Museo del territorio a Vetralla e a Bolsena; Museo delle Tradizioni popolari a Canepina, Museo di arte sacra ad Orte; Castello della Rovere a Ronciglione; Castello Farnese a Montalto: necropoli a Corchiano e a Blera; sito archeologico di Faleri; Rocca di Montefiascone. Anche accennato, è un panorama da togliere il respiro: eppure, sono pochi flash soltanto del fascino intramontabile della Tuscia, nella quale ogni comunità offre testimonianze, uniche al mondo, di creatività, operosità, accoglienza. IL MOTIVO DI UN SOSTEGNO Questo numero dell’Orioli coniuga scienza ed arte, offre ampio spazio alla natura e alle sue bellezze, non trascura nemmeno la salute: quella mentale e quella fisica. Siamo soddisfatti del risultato finale e siamo oltremodo contenti di ricevere un sostegno ai nostri sforzi da parte di Dolomia. Attraverso la sua linea cosmetica, Dolomia sviluppa molti dei temi che hanno trovato posto in queste pagine: la scienza che, nonostante il progredire della tecnologia, non può essere disgiunta dalla natura, la bellezza che trova il suo apice nel benessere e nella salute del corpo e dell’ambiente. Non di meno, la ricerca continua del bello ci accomuna. Anche noi vogliamo, sottolineando i chiari/scuri dell’esistenza, mettere in risalto le sfumature di ogni nostro sguardo sul mondo. E se per ottenere un buon risultato serve un “leggero” trucco, siamo felici di ricorrere al piumino della cipria, anche al rossetto e perfino all’ombretto al fine di esaltare la naturale bellezza che c’è in ognuno di noi. Sfumature da non tralasciare! l’ORIOLI PERIODICO DI CULTURA, COSTUME E SOCIETÀ Anno 6 - N. 4 Giugno/Dicembre 2008 Iscritto al tribunale di Viterbo al N. 513 del Registro Stampa con decreto del 7-2-2003 Sede 01030 Vallerano (VT) Sede amministrativa “Francesco Orioli” (associazione culturale europea) editing Vallerano (VT) CF 90055020565 www.orioli.it - E-mail: [email protected] Nicola Piermartini direttore responsabile Progetto grafico e impaginazione www.gramme.it Hanno collaborato Bruno Barbini, Maurizio Bianchini, Massimo Biondi, Sandro Cappelletto, Mimma De Leo, Giovanni De Maria, Edith Dzieduszycka, Carla Ferraro, Piera Ferraro, Massimo Fornicoli, Camilla Pacelli, Gaspare Polizzi, Ernesto Gennari Santori, Stefania Iurescia, Maria Orioli, Francesca Rossi, M. Gabriella Santarelli, Stefania Zanni 28 N. 4 Giugno/Dicembre 2008 Andrea Ceccobelli: un artista in sordina I ncontrare Andrea non è facile, ancor meno agevole entrarci in confidenza. “Dove le parole finiscono comincia la musica” dovrei dire citando Heine. Per caso, richiamato dalle note di un brano di S. Rachmaninov, l’ho scovato da solo, intento a suonare su un gran coda nella sala Giusto Cappone, al Teatro dell’Unione . Ho aspettato a lungo in silenzio per non disturbarlo pensando di proporgli un’intervista. Mi ha dato subito l’idea classica dell’artista distratto per il suo fare umorale , immerso nel pezzo musicale che stava studiando, posato re. Mi accorgo subito della sua straordinaria capacità, tipica del grande interprete, data da un connubio particolare, dove la sensibilità unita alla tecnica ben consolidata fa di lui un personaggio bizzarro che si diluisce nell’immediatezza della sua lettura veloce e corretta al tempo stesso. Talento precoce il tuo: ti sei laureato in tempi brevi con insegnanti di fama internazionale, e un po’ ereditato, considerando che un tuo bisnonno era un musicista di rilievo. Sono perennemente grato al maestro Franco Medori che mi ha educato a questa difficile arte, ho col tempo compreso che un esecutore non è mai seduto al pianoforte, è un tutt’uno con il suo strumento; per una sorta di processo di sul leggio del suo pianoforte. L’ho trovato disponibile e diffidente al tempo stesso, con una natura da investigatore provetto che si affaccia nei vivaci occhi marrone scuro, dallo sguardo attentissimo ai particolari. Elegante, ricorda nel portamento un vecchio aristocratico di buone maniere. Mentre tento un faticoso approccio per convincerlo a parlare di sé glissa, non guardandomi e si aggira curioso fra le note, come tra paesaggi che le varie partiture evocano, pretesti per esercizi di improvvisazione tecnica; come in trance vi si abbandona con la stessa prontezza con cui poi se ne sbarazza. Questo suo modo di rappresentarsi equivale a lasciarsi scorrere davanti agli occhi una sequenza di cromatismi tonali che rappresentano i momenti più disparati della sua intimità, rivelando una rigorosa precisione esecutiva accanto alla versatilità e padronanza dello strumento. Un’esecuzione non diventa mai l’occasione più adatta per mettere in scena una parte di sé che eviterebbe volentieri di mostrare; non ama fare concerti, preferisce dedicarsi allo studio e all’insegnamento. Come fa a sottrarsi a chi reclama un suo concerto? Cerco di scoraggiare, dicendo che non ho tempo per studiare alla perfezione vari pezzi. Non sono mai soddisfatto del risultato che ottengo, quindi preferisco non esibire una mia manchevolezza dovuta in parte alla discontinuità. Il talento artistico di Andrea non segue propriamente un protocollo prestabilito, nel suo dipanarsi mostra un percorso invitante cui è difficile sottrarsi, mentre corre sui tasti gravi o più acuti del pianoforte, quasi abbandonato a un febbrile automatismo. Ascoltandolo, con una buona disposizione d’animo, si può arrivare ovunque grazie ad un passaggio, un accordo fra tanti nell’intricato dedalo tonale della tastiera. Quale musicista in questo particolare momento fa vibrare le corde del suo cuore? Potrei dire un nome ma preferisco non entrare nel privato, mi limito ai testi classici della musica, se devo proprio fare una scelta direi F. Chopin per il suo carattere melanconico che in parte condivido , e per la sonorità soave. Gli chiedo allora di eseguirmi un brano, accenna alla Berceuse segue con lo Studio noto come “ Vento invernale” per mostrare l’altro lato del composito- assimilazione fisiologica, si fa strumento in uno dei misteri più protetti della imperscrutabilità della musica che “non afferma nulla ma suggerisce tutto”. Malipiero sostiene che “una delle ragioni per cui la musica è l’arte più difficile da comprendere è data dal fatto che l’espressione dipende dall’attimo fuggente tra ciò che si ascolta e che abbiamo ascoltato”. Ti rispondo con un’affermazione di D. Barenboim: “ l’impossibile mi ha sempre attratto più del difficile” questo è uno dei motivi per il quale ho deciso di studiare il pianoforte. Siamo intanto come per incanto passati con M. Ravel a Ondine tratta da “Gaspard de la Nuit “ che evoca l’immagine della ninfa lacustre intenta a sedurre lo spettatore... Nel momento cruciale della sua esecuzione Andrea rivela il suo stile per successive coloriture che risuonano mirabilmente, quasi disegnano con rapidità i vari momenti del compositore eseguito; il suo tocco è qui delicato, mostra una innata capacità di far zampillare un’idea, lo sforzo sembra pressoché inesistente, mentre segue e rimane aderente come un viatico prezioso. Ma se potessi darne una definizione che cos’é per te suonare? Suonare per me è comunicare con la forma che mi è più consona; sono un taciturno e spesso tendo all’essenziale, per questo sono stato a volte frainteso e tacciato di ingenuità, ma accanto all’amore per quest’arte c’é quello per la nuda verità. Sono restio agli abbellimenti gli unici che accetto sono quelli musicali a cui mi attengo con scrupolosità massima, ho bisogno di rendere visibile un qualche fantasma intercettato tra le note dello spartito. Un giovane pianista afferma che “il pianoforte ti vuole tutto per sé…” Bisogna quindi essere monaci per accedere al virtuosismo pianistico? I monaci si dedicano in silenzio alla preghiera, al contrario il pianista comunica con sonorità che mettono in relazione con la parte più intima di se stessi e degli Altri . I suoni e le tonalità esprimono le emozioni che la vita ci procura, in definitiva danno vita ai sentimenti , ossia alla cosa più preziosa per cui valga vivere. Una verità che per nessuna ragione al mondo possiamo ignorare. Intervista di Massimo Fornicoli L’Azienda Vitivinicola “Carla Onofri” sarà presente con i suoi vini a Salisburgo. ASSOCIAZIONE CULTURALE EUROPEA “FRANCESCO ORIOLI” ORGANIZZAZIONE SENZA FINI DI LUCRO Comunicazione ai soci Carissimi amiche, amici e sostenitori tutti, siamo giunti orgogliosamente al quarto numero de l’Orioli. L’impegno di noi che materialmente costruiamo il giornale trova riscontro nella partecipazione attiva di molti amici comuni e di alcune personalità di spicco, che ci hanno concesso di arricchire la rivista con i loro apprezzati (e senza prezzo!) contributi. Siamo emozionati nel constatare che ognuno di voi, associati o liberi estimatori, partecipi in qualche misura alla realizzazione degli obiettivi che l’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli si è prefissata per Statuto. Il contributo di tutti è fondamentale per proseguire nel nostro cammino: le iniziative a cui prendiamo parte, le mostre che organizziamo, le pubblicazioni che promuoviamo sono il frutto di un intenso lavoro che ha bisogno di ricevere il sostegno di coloro che condividono i nostro ideali. Vi preghiamo, dunque, di offrirci degli spunti, di inviarci le vostre riflessioni scritte, di farci avere i vostri commenti e di non dimenticare il versamento della quota associativa. Inoltre, ci auspichiamo di diventare sempre più numerosi e ringraziamo fin d’ora chi si adopererà per diffondere il giornale, chi ci indicherà nuovi sostenitori e chi vorrà aiutarci con contributi letterari e\o finanziari. Ci permettiamo di ricordarvi i dati per il versamento di eventuali contributi: Associazione Culturale Europea “Francesco Orioli” Valleranno Carivit Spa agenzia di Vallerano IBAN: IT65 Y060 6573 3200 001 0061 360. Organigramma dell’Associazione Culturale Europea “Francesco Orioli”, organizzazione senza fini di lucro Presidente Onorario: Nora Orioli Presidente Esecutivo: Ludovico Pacelli Vice Presidente: Mario Mariani Segretario: Sandro Piccioni Comitato Direttivo: Ludovico Pacelli, Mario Mariani, Sandro Piccioni, Maria Orioli, Nora Orioli, Ombretta Bracci, Maria Candida Onori Direzione Scientifica: Carla Ferraro, Filippo Sallusto Direzione Settore Arti Figurative: Elio Rizzo, Stefania Iurescia, Camilla Pacelli L’ Associazione Culturale Europea “Francesco Orioli” porta già nel nome la nostra ambizione, profondamente sentita, ad essere cittadini di un’Europa come promessa di civiltà, come Entità dagli orizzonti umani e culturali sempre più vasti. Per questo motivo essa persegue esclusivamente finalità e solidarietà sociali nel campo della promozione culturale. La sua attività spazia dalla realizzazione e gestione di spettacoli all’istituzione di premi e concorsi e all’organizzazione di manifestazioni, seminari, rassegne, mostre, festival e conferenze con personalità del mondo della cultura, nell’intento di propagandare e valorizzare ogni aspetto dell’arte. Speciale attenzione viene riservata alla tutela e al recupero del patrimonio artistico del territorio, come mezzo di salvaguardia delle tradizioni in un’ottica di arricchimento individuale e di promo- Responsabile Ricerche Storiche: Maria Orioli, Massimo Biondi Responsabile Relazioni Esterne e Rapporti con l’Estero: Carla Ferraro Bilancio Affari Legali: Franco Lucidi, Orlando Reale, Francesco Terzini Ufficio Stampa: Nicola Piermartini, Silvia Camicia, Camilla Pacelli zione turistica. Costituitasi nell’anno 2000 come ONLUS, l’Associazione Culturale Europea “Francesco Orioli” ha recentemente cambiato questa sua denominazione, pur restando assolutamente senza fini di lucro. Essa è dedicata a un illustre figlio della nostra terra, quel Francesco Orioli che, nato nel 1783 “dentro la cerchia antica” – per dirla con padre Dante – di Vallerano, fu fisico, storico, poeta, patriota, ministro, etruscologo e filantropo, e dunque incarnazione dell’universalismo umanistico, interprete di una cultura globale che nulla rifiuta di quanto eleva l’uomo verso la scienza, la creatività, la liberalità, la giustizia e la bellezza. Dato l’orizzonte europeo delle sue esperienze, il nome di Francesco Orioli si raccomanda anche nel segno dell’attualità interdisciplinare ed internazionale, come modello per un sodalizio che nella cultura persegua ad ampio raggio i valori che informarono la sua vita. Per informazioni ed eventuali adesioni si prega si consultare il sito www.orioli.it o contattarci tramite la nostra e-mail [email protected] o il nostro telefono +39 392.0788796