FACOLTÀ TEOLOGICA DELL’EMILIA ROMAGNA
ANNO ACCADEMICO 2006-2007
I° SEMESTRE
LICENZA IN TEOLOGIA SISTEMATICA
Prof. ANTONIO OLMI
SEMINARIO:
La teologia come scienza ecclesiale della fede nel mistero di Dio
TITOLO DELLA RELAZIONE:
La scienza di Dio
Studente:
ANTONINO POSTORINO
SOMMARIO
1.
ASSUNTO E PREFIGURAZIONE DEL PERCORSO
2.
LA TEOLOGIA COME SCIENZA DI DIO
3.
LA TEOLOGIA COME SCIENZA DELLA FEDE IN DIO
4.
LA TEOLOGIA COME SCIENZA ECCLESIALE DELLA FEDE IN DIO
5.
LA TEOLOGIA COME SCIENZA ECCLESIALE DELLA FEDE NEL MISTERO DI DIO
6.
RETROSPETTIVA
2
1. ASSUNTO E PREFIGURAZIONE DEL PERCORSO
Si assume la seguente definizione: “La teologia è scienza ecclesiale della fede nel mistero di
Dio”1. Etimologicamente, la teologia è “scienza di Dio”, e così la troviamo definita nel primo
libro della Metafisica di Aristotele2; restando a questa definizione, il contenuto di questa
scienza resta determinato dal significato che la parola yeÒw assume nel quadro di una
tradizione filosofica ormai robusta e consolidata, che ha fatto di questo concetto, mutuato
dall’ambito religioso, una determinazione essenzialmente ontologica, vale a dire il concetto
dell’essere eterno e immutabile3.
Prescindendo da quei tratti appunto ontologici del Dio aristotelico che saranno positivamente
acquisibili alla teologia cristiana4, ciò che qui si intende considerare è il fatto che, nella
definizione assunta, tra il concetto di “scienza” e il concetto di “Dio” vengono a interporsi tre
elementi: chiesa, fede, mistero. Tali elementi indicano lo sviluppo del concetto di “teologia”
nell’ambito cristiano. Il compito che questo breve lavoro si assume è mostrare come questo
sviluppo non neghi l’originario nucleo filosofico greco, ma lo elabori secondo la sua stessa
natura valendosi dell’apporto di una divina rivelazione che da un lato si dà come fattualità
assoluta e indeducibile consegnata alla fede, dall’altro si mostra, pur mantenendo il proprio
carattere di fattualità preventivamente creduta, coordinabile agli sviluppi autonomi che quel
nucleo filosofico subisce restando nell’ambito della ragione naturale. Ciò che ne risulta è la
scientificità in senso filosofico della teologia definita come “scienza ecclesiale della fede nel
mistero di Dio”, dunque la scientificità in senso pieno della teologia cattolica in quanto essa
fecondi il nucleo greco con la divina rivelazione, traendone frutti che sono bensì secondo la
natura del seme, ma che la ragione naturale da sé non avrebbe potuto trarre. Si tratta quindi di
capire come i termini “chiesa”, “fede”, “mistero”, che rispetto alla definizione greca si
interpongono fra “scienza” e “Dio”, non sono elementi estranei, ma il prodotto di quella
1
E’ il titolo del seminario tenuto dal Prof. Antonio Olmi OP, nell’AA 2006-2007 per il Corso di Licenza in
Teologia Sistematica, Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna.
2
Cfr. Aristotele, Metafisica I, 2, 983 a: “Né bisogna credere che esista un’altra scienza più rispettabile di essa,
giacché essa è la più divina e veneranda [yeitãth k‹ timivtãth]; ed essa sola può avere tali prerogative per
due aspetti: infatti una scienza è divina [ye¤ t«n §pisthm«n §st¤] sia perché un dio la possiede al massimo
grado [mãlist’ín ı yeÒw ¶xi], sia perché essa stessa si occupa delle cose divine [kín e‡ tiw t«n ye¤vn e‡h].
Ma essa sola possiede entrambe queste prerogative [mÒnh d’Ïth tÊtvn émfvt°rvn tetÊxhken], giacché
da una parte tutti credono che dio è una delle cause ed è un principio [yeÚw ... t«n fit¤vn ... e‰ni k‹ érxÆ
tiw], dall’altra dio solamente, o almeno in sommo grado, può possedere una siffatta scienza [k‹
tØn tiÊthn µ mÒnw µ mãlist'ín ¶xi ı yeÒw]. Tutte le altre, pertanto, sono materialmente più necessarie
di essa, ma nessuna è migliore [éngkiÒteri m¢n Ôn pçsi Èt∞w, éme¤nvn d'Èdem¤]”. Per questa e
per tutte le altre successive citazioni di passi aristotelici, il testo di riferimento è: Aristotele, Opere, 4 voll.,
Laterza, Bari 1973; il testo dell’interpolazione greca è da Aristotelis Opera Omnia Graece et Latinae, Parisiis,
Editore Ambrosio Firmin-Didot, 1868.
3
Ivi, VI, 1, 1026a: “Se, d’altra parte, esiste qualcosa di eterno e di immobile e di separabile dalla materia
[efi d° t¤ §stin é˝din k‹ ék¤nhtn k‹ xvristÒn], è evidente che la conoscenza di ciò è pertinenza di una
scienza teoretica, ma non certo della fisica, né della matematica, ma di un’altra scienza che ha la precedenza su
entrambe. Infatti la fisica si occupa di enti che esistono separatamente ma non sono immobili, e dal canto suo la
matematica si occupa di enti che sono, sì, immobili, ma che forse non esistono separatamente e sono come
presenti in una materia, invece la ‘scienza prima’ [≤ d¢ pr≈th] si occupa di cose che esistono separatamente e
che sono immobili [per‹ xvristå k‹ ék¤nht].
4
Per esempio: Dio come Motore Immobile, come Atto Puro, come Pensiero di Pensiero. Cfr. Metafisica XII, 7,
1072a: “Ma poiché ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio [tÚ kinÊmenn k‹ kinËn
k‹ m°sn], c’è, tuttavia, un qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso [¶sti ti d'È kinÊmenn
kine›], un qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza ed atto [é˝din k‹ Ès¤ k‹ §n°rgei Ôs].”; ivi, XII,
9, 1074b: “Quindi l’Intelletto pensa se stesso [ÍtÚn êr ne›], se è vero che esso è il bene supremo
[tÚ krãtistn], e il suo pensiero è pensiero di pensiero [nÒhsiw nÆsevw]”.
3
fecondazione dall’alto che trae dal seme della “teologia” virtualità potenziali altrimenti
inattualizzabili, dunque porta alla coscienza tratti dell’essenza divina altrimenti inconoscibili.
2. LA TEOLOGIA COME SCIENZA DI DIO
La yelg¤ è il culmine della pr«th filsf¤, vale a dire della metafisica5. La
metafisica è la prima delle scienze “teoretiche”, e queste hanno come fine la contemplazione e
come oggetto il necessario6. In quanto scienza, dunque, la teologia deve avere carattere di
necessità. Ora “necessario” è ciò il cui contrario è contraddittorio, dunque impensabile,
dunque impossibile: la certezza della scienza sta in questa garanzia di incontrovertibilità.
La scienza è d’altronde sempre risposta a una domanda, e, se una volta formulata la domanda
la risposta risulta necessaria, resta vero che nessuna domanda è per sé necessaria (a meno che,
s’intende, non venga correlata ad una precedente affermazione contraddittoria, che rende
necessaria la domanda del come essa possa giustificarsi; ma in questo caso la domanda non è
necessaria per sé, ma per altro). Se per esempio mi chiedo qual è l’origine di tutte le cose, una
prima risposta necessaria è che tale origine dev’essere unica: interrogarsi sull’origine di tutte
le cose è infatti interrogarsi sulla differenza esistente, e, qualora la risposta contenesse ancora
una pluralità, la domanda sarebbe inevasa, poiché sussisterebbe ancora il problema
dell’origine di quella pluralità. La domanda però non è per sé necessaria, in quanto io potrei
continuare a interrogarmi poniamo sull’origine di tutti i fenomeni particolari, senza mai
elevare il mio pensiero al concetto della totalità: continuerei cioè a muovere la mia
intelligenza sotto la spinta dell’idea di causa, ricostruendo catene causali più o meno lunghe e
complesse sul teatro della mia esperienza del mondo, senza arrivare ad applicare l’idea di
causa all’oggetto che occupa l’intero teatro e all’esistenza del teatro stesso. In questo senso, la
risposta scientifica è necessitata – e non può essere che così, dato che la scienza adegua il
pensiero all’oggetto e quindi ne subisce la forma quale essa è in sé –, mentre la domanda è
libera – e ancora non può che essere così, dato che la necessità è ciò che appare al pensiero in
risposta alla sua domanda (il che non esclude che la stessa domanda sia in sé necessitata, ma,
se lo è, lo è in un modo che non appare alla coscienza, e che quindi non può mai essere
oggetto di scienza).
La libertà della domanda, quindi la libera posizione delle coordinate entro cui l’essere è
chiamato a rispondere della propria struttura, con una certa generalizzazione che consente
l’adattamento può essere riportata a ciò che nella filosofia più recente, movendo dalle analisi
di Heidegger e dagli sviluppi che esse prendono nell’opera di Gadamer, si chiama
precomprensione (Vorverständnis)7. L’illusione del “punto zero” assolutamente “neutrale” da
5
Cfr. Metafisica VI, 1, 1026 a: “[…] ma se esiste una certa sostanza immobile [efi d'¶sti tiw Ès¤ ék¤nhtw],
la scienza che si occupa di questa deve avere la precedenza e deve essere filosofia prima [filsf¤ pr≈th],
e la sua universalità risiede appunto nel fatto che essa è prima [k‹ kyÒl Ïtvw ˜ti prÆth]; e sarà
compito di questa scienza contemplare l’essere in quanto essere [per‹ tË ˆntw √ ¯n ... yevr∞si], cioè
l’essenza e le proprietà che l’essere possiede in quanto essere [k‹ t¤ §sti k‹ tå Ípãrxnt √ ˆn]”.
6
Ibid.: “E se tutte le cause sono necessariamente eterne [énãgkh d¢ pãnt m¢n tå ‡ti é˝di e‰ni], a
maggior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, giacché esse sono cause di quelle cose divine che
si manifestano ai nostri sensi [‡ti t›w fner›w t«n ye¤vn]. Quindi ci saranno tre specie di filosofie
teoretiche [tre›w ín e‰en filsf¤i yevrhtik¤], cioè la matematica, la fisica e la teologia [myhmtikÆ,
fsikÆ, yelgikÆ].
7
Mette conto riportare l’intero passo di Gadamer: “Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto.
Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto.
E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La
comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare,
che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo. […]
Questa descrizione è beninteso uno schema estremamente sommario: bisogna infatti tener conto che ogni
4
cui la riflessione filosofica prenderebbe avvio si è rivelata infatti, ad una più attenta
considerazione “un’utopia scientifica”8: non fosse altro che per il fatto che ci muoviamo
nell’orizzonte di una lingua madre storicamente e geograficamente situata, noi abbiamo fin
dall’inizio di qualunque riflessione determinati pregiudizi o preconcetti di cui non possiamo
liberarci in maniera previa. Tutto ciò che possiamo fare – e che la filosofia fa spontaneamente
da sempre, in maniera metodologicamente esplicita e attrezzata dopo la svolta ermeneutica – è
far entrare questa “precomprensione”, quale che sia, in un circolo che la pone a confronto con
l’evidenza logica e con quella fenomenologica, facendola tornare continuamente su se stessa
modificata, e così base di un successivo circolo. E’ appunto il costante incremento di
esperienza, ossia l’apporto di una alterità rispetto all’orizzonte del pensiero, a fare in modo
che il circolo fondativo, pur muovendo da una già presente e inavvertita fondazione fattuale e
spontanea per tornare su di essa, non vi torni come un circolo vizioso9.
La consapevolezza ermeneutica consente di porre in una maniera del tutto nuova il problema
del rapporto tra fede e ragione nella scienza teologica, dissolvendo o comunque superando
criticamente numerose precedenti antitesi. Ad una filosofia “pura” che obiettasse alla teologia
un suo esplicito riferimento extra-razionale, la teologia potrebbe facilmente ritorcere la critica,
mostrando come la “purezza” della filosofia sia solo apparente, non potendo essa non
muovere da una qualche precomprensione che funziona a tutti gli effetti come una “fede”
primigenia e inconsapevole. Certo, il gioco delle reciproche ritorsioni è di corto respiro, e
finisce per non rendere ragione né alla filosofia né alla teologia. La prima infatti, cui viene
imputato di condividere con la teologia il limite che essa alla teologia imputa, e cioè
l’accettazione preconcetta di una qualche verità positivamente affermata, potrebbe difendersi
affermando, a ragione, che in ogni caso, nel gioco della circolarità ermeneutica, niente viene
pregiudizialmente salvaguardato, e il contenuto di questa inconsapevole fede originaria,
inevitabile per iniziare un qualsivoglia percorso, può essere, nel progressivo confronto con
l’esperienza, interamente superato e lasciato dietro le spalle, col trionfo di quell’autonomia di
cui la filosofia si pregia come del suo più cospicuo elemento di identità. La teologia dal canto
suo, che era sembrata pareggiare la propria posizione epistemologica, riguardo all’autonomia
razionale, con la filosofia, dovrebbe non solo riconoscere, ma addirittura rivendicare un
diverso statuto, poiché è nei suoi assunti il dipendere da una divina rivelazione che nessun
circolo ermeneutico potrà revocare in dubbio, pena lo snaturare completamente il carattere
della scienza teologica. Quando infatti la scienza teologica usasse in questo modo la forza
revisione del progetto iniziale comporta la possibilità di abbozzare un nuovo progetto di senso; che progetti
contrastanti possono intrecciarsi in una elaborazione che alla fine porta a una più chiara visione dell’unità del
significato; che la interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più
adeguati. […] Chi cerca di comprendere, è esposto agli errori derivati da pre-supposizioni che non trovano
conferma nell’oggetto. Compito permanente della comprensione è l’elaborazione e l’articolazione dei progetti
corretti, adeguati, i quali come progetti sono anticipazioni che possono convalidarsi solo in rapporto all’oggetto.
L’unica obiettività qui è la conferma che una pre-supposizione può ricevere attraverso l’elaborazione”
(H.G.Gadamer, Verità e metodo, trad. it. di G.Vattimo, Fabbri, Milano 1972; in: G.Reale-D.Antiseri-M.Baldini,
Antologia filosofica, La Scuola, Brescia 1990, vol. III, pp.401-402).
8
L’espressione si trova in K.Demmer, Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo 1989; il passo completo e alle pp.32-33.
9
Cfr. M.Heidegger, Sein und Zeit, trad. it. Essere e tempo, a cura di P.Chiodi, Longanesi, Milano 1976 (in
F.Ciuffi-F.Gallo-G.Luppi-A.Vigorelli-E.Zanette, Il testo filosofico, B.Mondatori, Milano 1991, 3/2, p.181): “Il
chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell’interpretazione richiede, in primo luogo, che non
si disconosca in partenza l’interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L’importante
non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non
è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria
dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente
ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata
in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole ed ultimo è quello di
non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma
di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema”.
5
critica originante dalla nuova consapevolezza ermeneutica sbaglierebbe completamente
strada, quasi mostrandosi emula dell’autonomia filosofica. La vera differenza tra le due
scienze, infatti, non sta nell’essere l’una libera dalla fede e l’altra vincolata ad essa, ma
dell’essere l’una esito necessario di una fede casuale, non vincolante e perciò indefinitamente
mutevole, l’altra esito necessario di una fede consapevolmente assunta, vincolante e perciò
mutevole solo sul piano del contenuto ermeneutico, ma non su quello della forma
epistemologica. Questa differenza fa sì che nella prima il momento della fede possa restare
non posto, e comunque, data la sua mutevolezza, esser considerato irrilevante, così che
l’oggetto di cui ci si occupa possa essere semplicemente presentato come la realtà oggettiva.
Invece nella seconda, che non perde mai la consapevolezza dell’assunto di fede fondante e il
principio metodologico della sua vincolatività formale, la determinazione del soggetto di cui
ci si occupa avviene all’insegna di questa consapevolezza, e la teologia si dà come scienza
della fede in un certo contenuto. Il carattere di scientificità, dunque, è garantito con pari diritto
in entrambi i casi: si tratta infatti della determinazione necessaria di una certa configurazione
della verità a partire da una determinata precomprensione che entra in circolo con
l’esperienza. A voler essere partigiani della teologia, poi, si potrebbe sostenere che, a rigore,
essa ha un tenore di rigore scientifico persino maggiore di quello della filosofia, dato che la
presenza di un elemento di fede fondante c’è in entrambi i casi, ma nella filosofia esso è per
così dire dimenticato, e si parla senza altri problemi di scienza della realtà oggettiva, mentre
nella teologia è tenuto costantemente in primo piano, nella piena luce della consapevolezza
epistemologica, e si parla, con un rigore appunto maggiore, di scienza della fede in una certa
configurazione della realtà oggettiva. Questa configurazione è il mondo strutturato dalla fides
quae creditur, quella consapevolezza è l’intenzionalità epistemologica immedesimata nella
fides qua creditur10.
3. LA TEOLOGIA COME SCIENZA DELLA FEDE IN DIO
Come scienza della fede, la teologia è al riparo da qualunque critica “naturalistica” (critica
che d’altronde si è già visto essere tutt’altro che indenne dal “difetto” della fede pregiudiziale
mediatrice), e può guardare a se stessa come luogo in cui appare la verità. In questo senso la
fede esplicitamente assunta è, più che un ostacolo, come il senso comune tende a credere,
piuttosto una garanzia epistemologica di rigore scientifico.
10
Riprendendo quanto detto nel testo e generalizzando per analogia, possiamo dire che anche la filosofia muove
sempre da un’inconsapevole fides qua – quella che, raccogliendo in sé tutti i condizionamenti storici, le fa porre
certe domande piuttosto che certe altre –, la quale peraltro non può mai trasformarsi in una fides quae, vale a dire
in un contenuto positivamente creduto in maniera preliminare, poiché questo snaturerebbe del tutto la scienza
filosofica. La filosofia cerca invece di liberarsi dall’originaria fides qua attraverso la dialettica interna del
superamento ermeneutico, e lo stesso sorgere del sospetto dell’azione originaria di un qualche presupposto è
sufficiente a scatenare la sua azione autocritica e autocorrettiva (si pensi a Ricoeur e al suo designare Marx,
Freud e Nietzsche come gli autori della cosiddetta “scuola del sospetto”, essendo il sospetto quello di
condizionamenti rispettivamente ideologici, psicologici, esistenziali). La teologia invece muove proprio da una
consaputa fides qua e tende a costituirla sistematicamente come fides quae, vale a dire a definire col massimo
scrupolo e con la massima trasparenza il contenuto positivamente creduto e ritenuto inalienabile. E’ questa
inalienabilità il vero bersaglio polemico per cui la teologia subisce gli attacchi di molta parte del pensiero
filosofico e più generalmente laico. Bisogna però osservare due cose, di cui si è già parlato nel testo. Prima di
tutto che il contenuto della fides qua, ridotto al nucleo davvero essenziale, coincide in pratica col positivo
accadimento di una divina rivelazione consegnata a una tradizione che ha al suo centro testi ispirati, mentre la
massiccia e continua interpretazione di questi testi – attività nella quale la stessa teologia consiste – rende la fides
quae non un semplice insieme chiuso di articoli dogmatici, ma un organismo sistematico in costante evoluzione,
nel confronto dialettico con l’intera cultura. La seconda cosa è che, come si è visto, è proprio questo esplicito
riferimento al contenuto di una fede, e non a un’utopica verità neutra libera da precomprensioni, a garantire il
rigore scientifico della teologia come adaequatio del pensiero alla cosa stessa, vale a dire alla fides quae.
6
Volendo trovare un paradigma storico di tutti questi nessi, risulta particolarmente indicativa la
vicenda della gnosi. Subendo il fascino anche esoterico della rivelazione cristiana11 sullo
sfondo della magia, della teurgia e dell’ermetismo, l’intelligenza greca si metteva in
movimento e produceva sistemi complessi e variegati all’interno dei quali la simbologia
vetero- e neo-testamentaria trasfigurava in schemi e strutture anche molto lontani dalla fede
della comunità apostolica12. L’aspetto più interessante di questo fenomeno è la pluralità di
forme risultante da un’intelligenza filosofica che procede a briglia sciolta sotto l’impulso
dell’idea di una divina rivelazione salvifica. Si è colpiti, nel leggere alcuni testi gnostici, dalla
potenza e talora dallo splendore delle figurazioni di emanazioni e gerarchie angeliche e
demoniche, alla base delle quali è chiaramente una scatenata fantasia che è mitopoietica per
essenza, filosofica per procedere necessario, sicuramente politeistica quanto a
precomprensione religiosa13. Ora il fatto più significativo è che quando Clemente
Alessandrino, impegnato nella definizione di una gnosi cristiana da contrapporre a quella
pagana, deve indicare il punto-cardine di questa alternativa, non ha esitazioni a individuarlo
nella fede14. Il fatto è significativo, cioè, non tanto per l’appello alla fede, del tutto scontato in
un autore cristiano, quanto per l’identificazione tra p¤stiw e gn«siw, ossia per l’idea che
nella fede si trasmetta un contenuto teoretico, analogo a quello gnostico e di uguale “fascino”,
ma ancorato alla verità in un modo impossibile per la gnosi pagana.. Ciò che Clemente
intuisce, cioè, è che l’intelligenza filosofica può subire la deriva di suggestioni extra- o prefilosofiche, procedendo sì con necessità, ma a partire da ciò che noi chiameremmo
modernamente una certa precomprensione, dunque da un inosservato orientamento previo, di
per sé nient’affatto necessario. Contro questa deriva e i suoi esiti fantastici, Clemente
ancorava l’intelligenza filosofica alla rivelazione cristiana, ossia ancora ad una
11
La gnosi è solo il primo degli effetti storicamente documentabili di questo fascino. Questo filo rosso potrebbe
agevolmente essere seguito nei grandi movimenti ereticali dell’età medioevale, nelle organizzazioni settarie del
periodo post-rinascimentale, come per esempio quella rosacrociana, fino alla massoneria e alle fratellanze
anarchiche di fine Ottocento, che usavano a piene mani la simbologia della chiesa cristiana primitiva.
12
Si allude qui agli autori della cosiddetta “gnosi cristiana”, considerati peraltro eretici dai Padri della Chiesa:
Simeone, Marcione, Ermogene, Valentino, Basilide, Tolomeo ecc.
13
Quanto qui si dice della gnosi vale prima di tutto per la tradizione medioplatonica che ne è componente
filosofica di prim’ordine, e che andava elaborando al suo interno quella triadicità ipostatica che troviamo
perfettamente rifinita nel neoplatonismo. Dei “tre Dei” emananti l’uno dall’altro, il più basso è infatti quello
stoico, ed è all’interno dello stoicismo che si operava quel recupero razionale del politeismo pagano per il quale
le molte divinità non sono che espressioni parziali dell’unico lÒgw-pneËm sostanziale in cui consiste
materialmente il mondo. Grazie a questo recupero i pagani colti del mondo tardo-antico trovavano un modello di
religiosità comparabile col cristianesimo in crescente affermazione, e si spiega così l’ultimo grande tentativo di
restaurazione pagana tentata dall’imperatore Giuliano l’Apostata.
14
Cfr. Clemente Alessandrino, Stromata VII, 10,55: “La gnosi è, in una parola, una sorta di perfezionamento
dell’uomo in quanto uomo; essa si completa mediante la scienza delle cose divine [diå t∞w t«n ye¤vn
§pistÆmhw], nelle abitudini di vita e nella parola, concorde e coerente con se stessa e con il Logos divino
[sÊmfvnw k‹ ılÒlgw •tª te k‹ t“ ye¤ƒ lÒgƒ]. Per la gnosi diventa perfetta la fede [diå tÊthw
går teleiËti ≤ p¤stiw], perché il fedele diventa perfetto soltanto con essa. La fede è un bene interiore
[p¤stiw m¢n Ôn §ndiãyetn t¤ §stin égyÒn], che confessa l’esistenza di Dio anche senza cercarlo e lo
glorifica come esistente. Da questa base di fede bisogna dunque elevarsi [˜yen xrÆ, épÚ tÊthw
éngÒmenn t∞w p¤stevw] per ricevere, crescendo in essa e per grazia di Dio, la gnosi intorno a lui, nella
misura del possibile. Noi affermiamo poi che la gnosi differisce dalla sapienza che si ottiene per insegnamento,
poiché in quanto qualcosa è gnosi, in tanto è assolutamente anche sapienza, ma in quanto qualcosa è sapienza,
non assolutamente è gnosi. Infatti ci si può rappresentare il termine “sapienza” nel(l’ambito del) solo discorso
espressamente manifestato. Del resto il non dubitare di Dio, ma credere è fondamento della gnosi
[tÚ mØ distãsi per‹ yeË, pisteËsi d¢ yem°liw gn≈sevw]. Ora il Cristo è ambedue le cose, cioè il
fondamento e la costruzione postavi sopra [êmfv d¢ ı XristÒw, ˜ te yem°liw ¥ te §pikdmÆ]: perciò Egli
è il principio e la fine [di’F k‹ ≤ érxØ k‹ tå t°lh]” (il testo italiano è in G.Reale-D.Antiseri-M.Baldini,
Antologia filosofica, cit., vol. I, pp.342-343; il testo greco interpolato è dal Thesaurus Linguae Graecae).
7
precomprensione, ma coscientemente assunta a garanzia epistemologica della scientificità
della gnosi.
Tale scientificità, poi, è concretamente autoreferenziale, come non può non essere una scienza
della fede: è cioè una persuasione di fede che l’autore di quella rivelazione che la fede stessa
assume come veritativa sia il LÒgw incarnato, vale a dire che sia la stessa Sapienza che
presiede alla creazione15, la quale, rivelatasi sempre parzialmente per segni alla ragione
filosofica greca16, si rivela infine compiutamente all’uomo incarnandosi e scendendo a
dimorare accanto a lui17. E’ questa la dottrina dei “semi” del lÒgw, che compare già in
Giustino18 e che suggerisce alla patristica greca la tesi caratteristica, che il cristianesimo sia
l’ultima e definitiva filosofia e che Cristo, come si sarebbe detto più tardi in ambiente latino,
sia il summus philosophus. L’autoreferenzialità non significa quindi un difetto che indebolisca
il carattere di scientificità della teologia, ma al contrario il pregio dell’assunzione consapevole
della chiave interpretativa in virtù della quale i prodotti del circolo ermeneutico saranno
epistemologicamente garantiti, e nessuna scienza naturale che presuma se stessa non
autoreferenziale in virtù dell’apertura all’esperienza può evitare l’autoreferenzialità intrinseca
al fatto che tale apertura resta comunque inclusa in un circolo ermeneutico, e nessun circolo
ermeneutico può prendere avvio senza una precomprensione.
Ora è da vedere come, all’interno di questa lecita e inevitabile autoreferenzialità, la teologia
fondi non soltanto il proprio essere in generale e a pieno titolo scienza (ciò che si è fin qui già
mostrato), ma il proprio essere scienza di Dio, ossia appunto teo-logia secondo il proprio
concetto. Anche quando stabilito, infatti, che un certo sapere conservi il carattere di scienza
anche quando includa strutturalmente in sé un elemento di fede, a condizione di riconoscerlo
come precomprensione aperta all’esperienza in una relazione ermeneutica (anzi, stabilito, più
15
Pr 8, 23-30: “Dall’eternità sono stata costituita, / fin dal principio, dagli inizi della terra. / Quando non
esistevano gli abissi, io fui generata; / quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; / prima che
fossero fissate le basi dei monti, / prima delle colline, io sono stata generata. / Quando ancora non aveva fatta la
terra e i campi, / né le prime zolle del mondo; / quando egli fissava i cieli, io ero là; / quando tracciava un cerchio
sull’abisso; quando condensava le nubi in alto, / quando fissava le sorgenti dell’abisso; / quando stabiliva al mare
i suoi limiti, / sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia; / quando disponeva le fondamenta della terra, /
allora io ero con lui come architetto / ed ero la sua delizia ogni giorno, / dilettandomi davanti a lui in ogni istante;
/ dilettandomi sul globo terrestre, / ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo” (Questa e tutte le successive
citazioni bibliche da La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 8a edizione, 1988 (testo biblico di
La Sacra Bibbia della CEI, “editio princeps” 1971, note e commenti di La Bible de Jérusalem, edizioni 1973,
1984; Imprimatur: Mons. Marco Cè, vic. generale, Bologna, 21 maggio 1974) .
16
Cfr. il frammento di Eraclito: “Il signore [ı ênj], il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde [Îte
l°gei Îte krÊptei], ma indica [ éllå shm¤nei]” (in: H.Diels-W.Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker,
trad.it. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 22 B 93, Laterza, Roma-Bari 1975)
17
Gv 1,2-3: “Egli era in principio presso Dio [Ftw ∑n §n érxª prÚw tÚn YeÒn]: / tutto è stato fatto per
mezzo di lui [pãnt di'ÈtË §g°net], / e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste [k‹ xvr‹w
ÈtË §g°net Èd¢ ©n ˘ g°nnen]”; Gv 1,14: “E il Verbo si fece carne [k‹ ı LÒgw sãrj §g°net] / e
venne ad abitare in mezzo a noi [k‹ §skÆnvsen §n ≤m›n]” (il testo delle interpolazioni greche, in questa e nelle
successive citazioni bibliche, è da Novum Testamentum Graece et Latine, curato da A.Merk S.J., Editio decima –
Editio prima, anno 1933 – Romae, Sumptibus Pontificii Instituti Biblici, 1984; Imprimatur: R.P.Maurice Gilbert,
S.J., Rector Pontificii Instituti Biblici, Romae, die 12 febr. 1984).
18
Cfr. Giustino, Seconda apologia, 13: “Ognuno espresse qual tanto di verità che riuscì a comprendere dai semi
del Verbo sparsi tra gli uomini di ogni tempo [ßkstw gãr tiw épÚ m°rw tË spermtikË ye¤ lÒg
tÚ sggen¢w r«n kl«w §fy°gjt]. Ma quanti di loro annunciarono principi tra loro opposti su temi di
vitale importanza, dimostrano di non avere una scienza molto elevata né una conoscenza inconfutabile. Quanto
di nobile è stato detto da altri appartiene a noi cristiani. Noi infatti adoriamo e amiamo il Verbo, che viene subito
dopo il Padre non creato e ineffabile: egli s’è fatto uomo per noi: per guarire i nostri mali, divenendone egli
stesso partecipe. Tutti gli scrittori, alla luce innata del seme del Verbo [diå t∞w §nÊshw §mfÊt
tË lÒg sprçw], hanno potuto intravedere parzialmente tale realtà. ma una cosa è il seme e l’imitazione
entro certi limiti, e altra cosa è la realtà completa di ciò che è concesso di imitare” (in G.Reale-D.AntiseriM.Baldini, Antologia filosofica, cit., vol. I, p.339).
8
esattamente, che nessuna scienza può fare a meno di questo statuto, e che quindi risulta più
rigorosa una sua assunzione consapevole), il particolare oggetto della teologia crea un
ulteriore problema: come può una scienza auto-affermarsi come scienza di Dio, quando di un
tale oggetto sembra, in prima istanza, non esservi esperienza, e quindi la precomprensione di
fede sembra, sempre in prima istanza, non potersi misurare in un circolo ermeneutico,
restando una semplice affermazione arbitraria? Per rispondere a questa domanda occorre
precisare in che senso si dia esperienza di Dio, e dunque in che senso la teologia possa
costituirsi, sempre secondo la definizione già data, come fondata scienza di Dio.
Escludiamo qui per principio l’esperienza mistica, non per un atteggiamento
pregiudizialmente negativo verso di essa, ma per il fatto che, in quanto essa si dia come
esperienza immediata, e quindi in certa misura incomunicabile, la sua riconduzione alla forma
di scienza costituisce un problema specifico. Tale problema è sicuramente un problema
teologico, ma non è vero, all’opposto, che il problema della scienza teologica debba
necessariamente passare per quello dell’esperienza mistica intesa come esperienza immediata.
Vi deve invece necessariamente passare in quanto l’esperienza mistica si faccia momento di
una più complessa mediazione, ma a questo, come ora vedremo, si deve arrivare, quindi non
si può partire da lì. Vediamo invece in quale modo, nel circolo auto-fondativo della fede, la
teologia possa dire se stessa scienza di Dio. Il segreto è tutto in quel genitivo oggettivo, ossia
nel fatto che il suo carattere scientifico deve necessariamente fondarsi su un genitivo
soggettivo: la scienza che noi abbiamo di Dio, diversamente dalla mistica intesa come
immediatezza, può fondarsi come scienza solo presentandosi come momento della scienza
che Dio ha di se stesso19. Ora Dio, nella fede cristiana ma prima ancora in quella
veterotestamentaria, è un Dio che parla20, così che prioritaria è la Parola, consegnata alla
Scrittura. La fede dice dunque che l’autore del libro biblico divinamente ispirato è Dio stesso,
così che si può ben dire che in quel libro Dio rivela, ossia dice, se stesso. Ora la teologia è la
scienza costruita dal teologo, e il teologo, per essere davvero tale, non procede per via
puramente speculativa partendo dal concetto filosofico di Dio, bensì muove sempre dalla
Scrittura, ossia da ciò che la sua fede gli assicura essere il dirsi di Dio. Il significato contenuto
in questo dirsi, tuttavia, è quello in esso immesso dalla divina ispirazione, e non può essere
colto da chiunque, ma solo da colui che in qualche modo partecipa di quello Spirito che spira
nella divina “ispirazione”, e di questo Spirito si può partecipare solo vivendo in Dio, in
comunione con il suo Spirito mediante la comunione con Cristo. Il teologo non può mai
essere un semplice descrittore della fides quae creditur, o piuttosto: un tale descrittore non
necessariamente è teologo, e, se lo è, non lo è in quanto conduca semplicemente questa
descrizione. Il teologo dev’essere in pari tempo mosso nella sua indagine dalla fides qua
creditur, o, com’è stato detto, il teo-logo non giunge mai ad essere tale se non è prima di tutto
teo-foro, ossia se non è portatore della parola di Dio in quanto partecipe della sua
incarnazione in Cristo. Quando questa condizione si realizza, il dire Dio del teologo è un dire
Dio nello Spirito di Dio, quindi è un dire Dio nel dirsi di Dio21. E’ così che la stessa
19
Questa doppia valenza del genitivo è già presente con grande nettezza nella definizione aristotelica: cfr. il
passo da Metafisica I, 2, 983a riportato alla nota 2, che qui riprendiamo: “infatti una scienza è divina
[ye¤ t«n §pisthm«n §st¤] sia perché un dio la possiede al massimo grado [mãlist’ín ı yeÒw ¶xi], sia
perché essa stessa si occupa delle cose divine [kín e‡ tiw t«n ye¤vn e‡h]”
20
E’ una delle definizioni che si trovano in A.Marangon, Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline,
Cinisello Balsamo 1988, voce “Dio”, pp.397-415: al punto 3, “La ‘personalità’ di Dio, troviamo: a. Il Dio
vivente, b. il Dio che parla, c. il Dio presente e provvidente, d. il Dio giudice e senso della storia, e. Dio Trinità.
21
Cfr. G.Sgubbi, “Dire Dio nel dirsi di Dio. Riflessioni sull’analogia”, in: M.Malaguti (ed.), Prismi di verità,
Città Nuova, Roma 1997, pp.308-331. Scrive Sgubbi: “Qualsiasi pensiero di Dio che voglia effettivamente
salvaguardarne la trascendenza, non potrà mai essere una decisione su Dio o nei confronti di Dio: in questo
bisogna pienamente concordare con Barth. Se pertanto si assegnerà alla forma analogica il compito di esprimere
Dio, occorrerà prima di tutto cogliere il rimando alla trascendenza non come un eventuale rimando prospettico,
come un punto ‘di fuga’ verso un’interpretazione liberamente stabilita da una decisione interpretativa
9
esperienza mistica trova il suo posto in una mediazione che passa per la Parola, e supera la
sua ineffabilità in quanto parla con parole non sue, costituendosi insieme come scienza
rigorosa: la stessa scienza che Dio ha di se stesso, e che si comunica al teologo per
quell’esigua parte che risulta possibile alla sua intelligenza finita22.
4. LA TEOLOGIA COME SCIENZA ECCLESIALE DELLA FEDE IN DIO
Abbiamo dunque visto che la teologia, come scienza della fede in Dio, è scienza della fede nel
Dio che si rivela, e che il suo carattere di scienza dipende dal sapersi configurare a questa
auto-comunicazione di Dio. D’altronde abbiamo visto che questa capacità di configurazione
dipende dalla capacità di cogliere l’autentico significato del dirsi di Dio, e che questo
autentico significato può apparire solo quando il costruttore della scienza sia in comunione
con lo Spirito nel quale Dio dice se stesso e permette a noi di dirlo nel suo dirsi. La questione
è allora: qual è il luogo in cui questa comunione si realizza? La risposta, che è ancora un
articulum fidei, è che questo luogo è la Chiesa, così che la scienza della fede in Dio è scienza
ecclesiale, e l’ecclesialità è un tratto sostanziale e non accidentale di questa scienza.
Tornando al “dire Dio nel dirsi di Dio”23, la questione è tutta nel poter sviluppare la “scienza
di Dio” dal genitivo soggettivo all’oggettivo, il che implica la comunione con lo Spirito di
Dio che si dice, e nel dirsi comunica la scienza che ha di se stesso. Ora la Chiesa è il luogo
della comunione perché la Chiesa è il Corpo di Cristo abitato dallo Spirito24, ed è per questo
che nel suo depositum fidei si custodisce il significato autentico della Rivelazione25. Questo
dell’interpretante, ma come quella oggettiva necessità che caratterizza l’unità dell’esperienza. Deve, in altre
parole, esprimere «l’ingresso di Dio in me come soggetto filosofante e di me in Dio come verità oggettiva» (la
citazione è da P.Florensky, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi, Milano 1974, p-115).
22
Così prega Anselmo, nel primo libro del suo Proslogion: “O Signore, tu sei il mio Dio e il mio Signore, e io
non ti ho mai visto [numquam te vidi]. Tu mi hai creato e ricreato [tu me fecisti et refecisti], e mi hai dato tutto
quello che ho di bene [et omnia mea bona tu mihi contulisti], e io non ti conosco ancora [et nondum novi te].
Infine, sono stato creato per conoscerti, e non ho ancora fatto ciò per cui sono stato creato [ad te videndum factus
sum, et nondum feci propter quod factus sum]. […] Mi sia permesso di guardare verso la tua luce [liceat mihi
suspicere lucem tuam], almeno da lontano, almeno dal profondo [vel de longe, vel de profundo]. Insegnami a
cercarti, e mostrati a me che ti cerco [doce me quaerere te, et ostende te quaerenti]; poiché non posso cercarti se
tu non me lo insegni [quia nec quaerere te possum nisi tu doceas], né trovarti se tu non ti mostri [nec invenire
nisi te ostendas]. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti [quaeram te desiderando, desiderem
quaerendo]. Ti trovi amandoti e ti ami trovandoti [inveniam amando, amem inveniendo]. […] Non tento, o
Signore, di penetrare la tua profondità [non tento, domine, penetrare altitudinem tuam], perché in nessun modo
le paragono il mio intelletto [quia nullatenus comparo illi intellectum meum]; ma desidero comprendere in
qualche modo la tua verità [sed desidero aliquatenus intelligere veritatem tuam], che il mio cuore crede e ama
[quam credit et amat cor meum]. Non cerco, infatti, di comprendere per credere, ma credo per comprendere
[neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam]” (in: Anselmo d’Aosta, Proslogion, a cura di
G.Zuanazzi, La Scuola, Brescia 1993).
23
Cfr. nota 21.
24
Cfr. Rm 12,4-5: “Poiché, come in un solo corpo [§n •n‹ s≈mti] abbiamo molte membra [pllå m°lh] e
queste non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo
[©n s«mã §smen §n Xrist“] e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri [tÚ d¢ ky'eÂw
éllÆlvn m°lh]”; Ef 4,4-6: “Un solo corpo [ßn s«m], un solo spirito [ßn pneËm], come una sola è la
speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo
battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti [§p‹ pãntvn], agisce per mezzo di tutti
[diå pãntvn] ed è presente in tutti [§n pçsin]”
25
Si legge, al n.20 dell’ esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, di Giovanni Paolo II, del 30
ottobre 1988: “La comunione ecclesiale si configura, più precisamente, come una comunione ‘organica’, analoga
a quella di un corpo vivo e operante […]. La comunione ecclesiale è, dunque, un dono, un grande dono dello
Spirito Santo, che i fedeli laici sono chiamati ad accogliere con gratitudine e, nello stesso tempo, a vivere con
profondo senso di responsabilità”. Che in tale comunione che si accolga e si custodisca il significato autentico
della Rivelazione è detto dalla Costituzione Dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione (Concilio Vaticano
10
significato autentico, però, è qualcosa che per un verso trascende largamente la dimensione
teoretica della scienza, dall’altro ne costituisce il fondamento primo, astraendo dal quale la
stessa scienza non è che morta scoria26. Che la teologia sia scienza ecclesiale, cioè, non
significa semplicemente che essa sia una scienza che deve fare riferimento al quadro
epistemologico elaborato nell’ambiente ecclesiastico, ma, in maniera assai più profonda, che
essa deve costituire il momento autoriflessivo di una vita vissuta nella densità del valore
promanante dallo Spirito, reso accessibile dalla fede e reso esistente da quel comportamento
che continuamente traduce la fede in atti. Che la teologia sia scienza ecclesiale significa che
essa è la scienza di sé di quello spirito che vive nello Spirito, e vivendo nello Spirito è prima
di tutto figura dell’incarnazione, ossia vita naturale portatrice di vita divina prima e al di qua
dell’essere portatrice di scienza divina, la quale ultima mai potrebbe sorgere se non da quella
vita, e, sorta che sia, riconosce entro di sé la priorità di quella vita di cui essa è riflesso. E’
d’altronde quanto già si è detto (vedi § 3) dicendo che il teo-logo dev’essere prima di tutto
teo-foro. Un modo particolarmente efficace di dire questa relazione è quello di considerare la
Chiesa come l’habitat e l’attività scientifica della teologia come l’habitus27. Radice comune a
entrambi i termini è l’habere, ossia lo stabile possesso di un adattamento vitale originario, del
quale la teologia è espansione razionale, nel senso che la scienza che Dio ha in sé si espande
in me attraverso la comunione di vita divina che io riesco a intrattenere con Lui con la
mediazione dell’habitat ecclesiale. Se, nelle parole di Tommaso, la teologia o sacra doctrina
è quaedam impressio divinae scientiae28, questo atto impressivo esterno diviene infatti
impressione interna, così che la scienza di sé del teologo si costituisce come immagine
congruente con la scienza di sé di Dio, solo in virtù dell’adattamento che dall’habitat produce
l’habitus. Che però l’adattamento vitale si realizzi e l’habitat ecclesiale possa produrre
l’habitus teologico non è un’implicazione meccanica come lo è ogni processo adattativo
naturale, ma richiede la grazia della fede: fare teologia è quindi il portato di un’azione di
grazia che permette l’adattamento, e quindi il sorgere dell’habitus dalla relazione vitale
all’habitat. E, poiché quest’azione di grazia è prima di tutto dono della fede, e la fede
ecclesiale è fonte di scienza teologica, alla radice di ogni fare teologia c’è la fede teologale,
ossia il solido possesso dell’adattamento originario.
Tutto questo, poi, ha anche conseguenze capitali sullo statuto contenutistico della teologia29.
L’itinerario teologico è infatti concettuale e progressivo, ma il suo fine ultimo, ossia la sua
II, 18 novembre 1965): “Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra
Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo, La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene
sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti
per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16; 2 Pt 1,19-21; 3,15-16), hanno Dio per autore e
come tali sono stati consegnati alla Chiesa” (n.11). Più avanti: “Però, dovendo la sacra Scrittura esser letta e
interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei
sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito
conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede. E’ compito degli esegeti contribuire,
seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché
mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui
detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale
adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio” (n.12).
26
Questa stessa dimensione più oscura e profonda può d’altronde essere presentata come “scienza di Dio” nel
senso del genitivo soggettivo, ma solo intendendo per “scienza” quella “sapienza della croce” che è follia e
scandalo per la ragione (cfr. 1 Cor 1,17-25), e che non può passare a genitivo oggettivo che per la via della
razionalità analogica, dove però, secondo la regola dell’analogia teologica, la differenza eccede sempre la
somiglianza (la formulazione del IV Conclio Lateranense, riportata in G.Sgubbi, op.cit., p.334, è la seguente:
“Inter creatorem et creaturam non potest tanta similitudo notari, quin inter eos major sit dissimilitudo notanda”).
27
Cfr. G.Barzaghi OP, Habitat ecclesiale e habitus teologico, in “Divus Thomas” n.40, Gennaio-Aprile 1/2005,
Anno 108°. Quanto segue, nel capoverso, è sulla falsariga dell’articolo di padre Barzaghi
28
S.Tommaso, Summa.Theologiae I, I, q.1, art.3.
29
Seguiamo anche qui G.Barzaghi, op.cit., e, per l’implicazione in direzione della teologia anagogica, facciamo
inoltre riferimento a G.Barzaghi, Lo sguardo di Dio, Edizioni Cantagalli, Siena 2003.
11
chiusa ideale, è la percezione dell’originario divino, vale a dire la visione beatifica, nella
quale la dinamica temporale e linguistica cade dietro le spalle, e la verità si dispiega
nell’intemporalità trans-concettuale dell’eterno, tale quale appare allo sguardo stesso di Dio.
La vocazione della teologia è dunque contemplativa, ed è perennemente alimentata da una
fede che è desiderio e aspettativa della visione. Ma, se la visione è la scientia Dei nel senso
del genitivo soggettivo, il teologo sa che quel genitivo per lui può diventare oggettivo solo
lungo la faticosa via della mediazione concettuale e linguistica, e che la sua resta una scientia
subalterna, ossia una scienza che dipende direttamente da quella scienza superiore, cui
analogicamente si appressa aspirando all’identità infinita della visione beatifica, ma vivendo
l’inquietudine dell’incompiutezza30 nella finitezza perennemente superante se stessa nella
razionalità discorsiva. Dunque, come abbiamo anche detto più sopra (vedi § 3), la dimensione
della mistica è essenzialmente implicata in quella della teologia, ma, come ora si vede, non
come punto di partenza immediato ed esperienza indicibile, ma piuttosto come punto di arrivo
di un itinerario molteplicemente strutturato nella mediazione che attraversa la dimensione
della parola e in tale dimensione si impegna come un dire Dio nel dirsi di Dio, inerenza resa
possibile dal vivere in Dio la vita stessa di Dio. In questa complessa dimensione mediazionale
sta l’indifferibile ecclesialità della scienza teologica.
5. LA TEOLOGIA COME SCIENZA ECCLESIALE DELLA FEDE NEL MISTERO DI DIO
Questa scarto sistematico fra aspirazione alla visione beatifica e contemplazione di un finito
che cresce su se stesso in virtù della trascendenza cui il finito necessariamente rinvia,
permette di comprendere l’ultimo tratto della nostra definizione, ossia il mistero.
La teologia è scienza ecclesiale della fede in Dio, ma il Dio in cui la scienza ecclesiale ha fede
è un Dio che si rivela dicendo se stesso e permettendoci di dirlo nel suo dirsi. Ora il nostro
dirlo può essere scienza solo in quanto, come scienza subalterna, mutui la propria evidenza
dall’interna evidenza della superiore scientia Dei, che la fede ci assicura essere da noi
partecipata. Quello che resta da capire è che questa evidenza partecipata non potrebbe mai
apparire a se stessa come tale, ossia come evidenza, senza l’esperienza della necessità, dal che
la difficoltà che la scienza subalterna sembra imporre alla scienza dominante una regola, che
quella neanche volendo potrebbe trasgredire: sembra, cioè, che la mediazione in virtù della
quale la scientia Dei risulta dicibile finisca per togliere a Dio la libertà del suo dire e a
subordinarlo a una razionalità che sembra capovolgere dialetticamente i rapporti gerarchici e
fare della scientia Dei la vera scienza subalternata a una scienza dell’Assoluto dalla quale
ogni libertà, e perciò ogni trascendenza, è ormai dileguata31. E’ la preoccupazione per un tale
possibile esito della razionalità in campo teologico che, al tempo del grande dibattito tra
“dialettici” e “anti-dialettici”, determinava la posizione di san Pier Damiani in garanzia della
libertà di Dio dalle stesse leggi della logica32 e, a riprova della rilevanza indifferibile del
30
Cfr. Teologia sapienziale in Tommaso d’Aquino, relazione di I.Biffi al Convegno “I modi della ragione
nell’ambiente divino. Chiesa, teologia e divinizzazione”, Sala della Traslazione del Convento di san Domenico,
Bologna, 15 novembre 2006.
31
Sembra questo l’esito estremo della razionalità moderna, solitamente identificato in modo piuttosto sbrigativo
con la filosofia hegeliana. Noi crediamo si possa mostrare rigorosamente che la dialettica, concretamente intesa,
mantiene il livello della speculazione costantemente al di sopra di questo monismo astratto, in virtù del
necessario superamento della contraddizione che ogni astrazione porta con sé. Non è d’altronde questa la sede
per affrontare una tale problematica, ma si può indicare, per sua posizione in campo teologico, W. Pannenberg,
Teologia e filosofia, Queriniana, Brescia 1999, in particolare le pp.229-260.
32
Cfr. san Pier Damiani, De divina omnipotentia, Vallecchi, Firenze 1943. “Orbene, siffatte deduzioni dei
dialettici o retori non vanno applicate con leggerezza al mistero della divina potenza, e le regole che si son
trovate per formare dei sillogismi e trar conclusioni dai nostri giudizi, si guardin bene costoro dal farle valere
pertinacemente contro le leggi divine e dall’opporre alla divina virtù la necessità dei loro ragionamenti”
12
problema, determinava ancora la posizione di Barth, che ha costituito per la teologia del XX
secolo un’alternativa radicale ad ogni teologia della partecipazione analogica. Si può però
mostrare33 che, quando l’analogia dell’essere sia concretamente assunta come legge
metafisica che esprime una dinamica ontologica, l’istanza barthiana sia rigorosamente
rispettata34, e l’esperienza della necessità, indispensabile al concetto della scienza, non
contraddica affatto la libertà di Dio, e dunque non precluda affatto, anzi implichi, ancora con
necessità, la dimensione della differenza35, che è quanto dire l’eccedenza del mistero.
Il Dio in cui la scienza ecclesiale ha fede è un Dio che si rivela, ossia che dice se stesso, e nel
cui dirsi sta ogni possibile scientificità del nostro dirlo. Ora Dio dice se stesso prima di tutto
nella creazione36, e pone noi stessi come esistenti a fronte dell’esistente: la prima e suprema
evidenza è che qualcosa esista37. Nell’esistente poi, di cui noi siamo parte, si imprime la
figura della necessità, che connota ogni successiva evidenza come ciò il cui contrario è
contraddittorio, dunque impensabile, dunque impossibile. Ora l’esperienza che segue
immediatamente è quella della contraddittorietà del divenire, la quale costringe il pensiero a
risalire sempre più in alto nella catena causale, fino a giungere a percepire la necessità della
trascendenza, ossia alla nozione della differenza tra l’essere e gli enti38. Una volta raggiunta,
questa nozione, se ben compresa, è tale da fugare qualsiasi sospetto di “ontoteologismo”39,
poiché, assunto Dio come l’ipsum ens subsistens perennemente al di là di ogni tentativo di
entificazione, risulterà che la necessità che conduce dall’esistente a Lui non è poi tale da
consentire di procedere da Lui all’esistente. Questa necessità, cioè, sussiste lungo la direttrice
33
Cfr. ancora G.Sgubbi, Dire Dio nel dirsi di Dio, cit., al quale ci appoggiamo per argomentare quest’ultimo lato
della definizione assunta.
34
Cfr. G.Sgubbi, op.cit., pp.316-317: “Le riflessioni che seguiranno muovono da una considerazione attenta e
riverente delle istanze barthiane, anche se non ne condivideranno i timori e, talvolta, anche i pregiudizi, non privi
tuttavia di una certa giustificazione. Cercheremo soprattutto di mostrare come l’istanza barthiana di rifuggire da
un pensiero autofondativo come base per un discorso su Dio, trovi proprio nella dottrina dell’analogia la più
potente alleata, e come sia proprio l’analogia a garantire la ‘divinità’ di un Dio che, conosciuto sulla via
dell’essere, non per questo cessa di essere quel ‘Tu’ che ‘non diventa mai un io’, ma, anzi, si garantisce in questo
come definitivamente custodito nella propria alterità e differenza”.
35
Cfr. la seconda parte del passo citato alla precedente nota 34, e ancora, alla nota 26, la radicale “dissimilitudo”
tra Creatore e creatura stabilita dal Concilio Lateranense IV.
36
Il creato è dabar Yhwh dell’intuizione biblica, è il lÒgw prfrikÒw della dottrina filoniana, e da ultimo è il
dirsi di quel LÒgw che è da sempre accanto al Padre e insieme è da sempre il Padre (cfr. Gv 1,1), e senza il
quale nessuna delle cose che esistono esisterebbe (cfr. Gv 1,2-3).
37
Questa affermazione non contraddice, come potrebbe sembrare, la fondazione della filosofia moderna, ma
piuttosto la de-ideologizza lasciando peraltro sussistere tutta la virtualità eventualmente feconda della sua
interpretazione unilaterale. Che la prima e fondamentale evidenza sia l’esistenza del cogito è frutto di una
pregressa interpretazione, secondo la quale il pensiero è il luogo della rappresentazione della realtà, così che,
venendo meno la possibilità di conoscere direttamente la realtà rappresentata a causa del nostro essere schermati
dalle nostre stesse rappresentazioni, finiamo per concludere che l’unica certezza assoluta è l’esistenza del
pensiero rappresentante. Ora, senza farla troppo lunga, il pensiero rappresentante, ossia il cogito, è qualcosa, e
dicendo che l’evidenza primaria è l’esistenza di qualcosa non neghiamo, ma piuttosto superiamo l’unilateralità
di una proposizione soggettivistica, senza escludere che questo qualcosa esistente che costituisce l’evidenza
primaria possa essere interpretata come cogito.
38
Si allarga qui una problematica filosofica vastissima, il cui esame implicherebbe il muovere dalla Metafisica
aristotelica, il vedere la forma che essa assume nel pensiero tomistico complicandosi delle valenze
dell’opposizione fra necessario / contingente, e l’osservare infine come in Tommaso fosse già presente la
posizione di quella relazione fra essere / ente che costituirà molto più tardi, vale a dire nella nostra epoca, uno
dei crocevia più rilevanti del pensiero contemporaneo, ossia il tema heideggeriano della cosiddetta differenza
ontologica. Diamo qui per scontata quest’intera problematica evidentemente sottesa all’articolo di Sgubbi,
essendo anche un semplice elenco delle fonti del tutto eccedente le proporzioni del presente lavoro.
39
Cfr. G.Sgubbi, op.cit., pp.326-327: “In quest’ottica, la ‘necessità’ con cui l’esistente coinvolge Dio appare
come un più originario volersi dire di Dio, capace di far convivere unità e diversità, comunicazione e
trascendenza, vicinanza e lontananza; essa non è, come Heidegger e molti altri ingiustificatamente temono, una
‘cattura ontoteologica del divino’ e del Sacro nelle maglie dell’immanenza ontica fino a nagarne la trascendenza,
ma, al contrario, l’esaltazione simbolica del finito nel suo potere di rimando all’Infinito”.
13
ascendente, mentre quella discendente, la cui fonte risulta inaccessibile, ha proprio per questo
un inizio indeducibile40. Derivano da ciò due conseguenze capitali, talmente correlate da
essere l’una il rovescio della medaglia dell’altra. La prima è che Dio mantiene integra la
propria libertà assoluta (neutralizzando una lunga teoria di sospetti a carico della razionalità,
da Tertulliano a Pier Damiani a Barth). La seconda è che la necessità che ci guida a Dio, e che
ci fa parlare di Lui nel suo parlare di Sé, non è affatto una “nostra” imposizione a Dio, ma,
viceversa, è il segno della presenza di un’alterità radicale che limita il nostro arbitrio, che fa
dell’esistenza un luogo teofanico e che costituisce la nostra intelligenza di Dio come
“intelligenza obbedienziale”41.
Dal punto di vista della compiutezza della nostra scienza teologica, quest’esito è, come si può
vedere, ultimativo: quanto diciamo di Dio lo diciamo con certezza apodittica fondata sullo
sviluppo della fede ecclesiale secondo l’ordine metafisico che la ragione naturale apprende
con necessità a partire dalla creazione. Ma, poiché il creato è l’esistente o la totalità degli enti,
mentre il Creatore è l’Essere mai entificabile che liberamente lo pone in essere, la
conseguenza inevitabile è che ciò che di Dio non sappiamo supera di una misura infinita ciò
che di Lui progressivamente riusciamo a sapere. E’ questa la dimensione del mistero,
assolutamente complementare alla metafisica dell’analogia. Tale dimensione non va
interpretata come una zona oscura e proibita, il tentativo della cui chiarificazione suoni
immediatamente come sacrilego42, e quindi nemmeno può essere usata per stornare la ragione
dal proprio compito indirizzando la riflessione verso l’incerta sfera del sentimento, o
addirittura intesa come pozzo senza fondo nel quale occultare le difficoltà evitando di tentarne
la soluzione43. Il mistero è il luogo dell’eccedenza necessaria della scientia Dei intesa come
genitivo soggettivo rispetto al suo correlato oggettivo: tale eccedenza è una determinazione
ontologica, quindi ci deve essere e resta insuperabile, ma in nessun modo è consentito
anticipare quali contenuti debbano restare confinati in essa. La teologia è fides quaerens
intellectum44, e nulla può essere posto quale limite preventivo della domanda: tale limite sarà
40
Si può ricordare, a questo proposito, il luogo barthiano riportato in Sgubbi (op.cit., p.314) del “cominciare con
l’inizio” (mit dem Anfang anfangen) piuttosto che “cominciare dall’inizio”: così formulata, la proposizione
esprime la più radicale istanza di indeducibilità, poiché non ammette, per così dire, un sostrato comune tra
l’inizio e ciò che da esso inizia, ma considera lo stesso inizio come una novità sempre assoluta.
41
Cfr. G.Sgubbi, op.cit., p.330: “L’analogia diventa così non un’attribuzione esercitata dall’uomo sull’essere, ma
la suprema obbedienza all’essere, per cui analogia entis non è un genitivo né soggettivo né oggettivo, ma
esplicativo e autodichiarativo: chi nomina l’essere nomina l’atto con cui l’Essere stesso ha permesso e permette
di dirlo. Ad una comprensione dell’analogia come sapere ‘trasgressivo’, preferiamo la concezione di essa come
intelligenza obbedienziale che, spinta a nominare Dio, non si sente né profanatrice né arrogante, ma pienamente
adulta e responsabile nei confronti del carattere ‘teofanico’ dell’essere”.
42
Cfr. ancora G.Sgubbi, il passo immediatamente precedente quello riportato sopra alla nota 41: “Se però
‘analogia’, secondo il senso etimologico, significa risalire alla Causa Originaria sulla strada da lei stessa
inaugurata nel libero atto creativo, il timore della profanazione deve cedere alla gioia dell’obbedienza: conoscere
il Mistero Sacro è corrispondere al Mistero stesso. Si può applicare anche qui quanto Aristotele già affermava
attingendo da Platone, dicendo che «agli Dei non conviene l’invidia: Iddio non proibisce affatto all’uomo di
conoscerlo, come hanno folleggiato i poeti i quali spesso mentiscono, ma è proprio questo che Dio vuole
dall’uomo (Metafisica I, 2, 283a 2)» (G.Sgubbi, loc.cit.).
43
Per questo significato equivoco del “mistero”, cfr. W.Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia
19894, p.359: “Sulla scorta di tale concetto teologico è possibile differenziare il mistero dall’ ‘enigma’ e dal
‘problema’: sia l’uni che l’altro, in linea di principio, possono venir successivamente chiariti, mentre invece il
mistero permane. Non lo si può differenziare, con sufficiente chiarezza, dall’uso che mistero-segreto ormai
conosce nel linguaggio quotidiano, con le note e poco piacevoli associazioni che ad esso si legano […]. Ma è
soprattutto nel linguaggio religioso che esso si rende sospetto. Sembra che qui si voglia abbandonare la chiarezza
del pensiero per entrare nella penombra dei sentimenti, o giustificare in chiave religiosa una stanchezza, se non
addirittura una disonestà intellettuale. Dati questi presupposti, è chiaro il motivo per cui l’illuminismo ha
attaccato il cristianesimo specialmente nel suo concetto di mistero”.
44
Cfr. Anselmo, Proslogion, Proemio, ed. cit., pp.68-69: “Stimando quindi che quello che mi rallegravo d’aver
trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a qualche lettore [scil.: l’argomento ontologico], subito scrissi il
presente opuscolo su quel tema e su altri ancora, immedesimandomi in uno che si sforza di elevare la mente alla
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stabilito soltanto, di volta in volta e in maniera mai sicuramente definitiva, dall’attuale
mancanza di risposta. Il mistero è, per così dire, una presenza necessaria in quanto ci si
riferisca al mistero ut sic, ma sempre possibilmente superabile in quando ci si riferisca al
mistero secundum quid. In questo senso se ne può parlare come di un concetto negativo, la cui
negatività assoluta è irremovibile, mentre non lo è la sua negatività relativa e storicamente
determinata. Propriamente solo Dio sa quanto potremo mai conoscere del suo mistero e
quanto ci resterà necessariamente e quindi fatalmente precluso45.
3. RETROSPETTIVA
Cerchiamo di vedere tutto insieme, da un punto di vista strutturale, l’itinerario percorso. I
concetti in gioco, richiamati secondo la terminologia tradizionale, sono:
yelg¤
theologia
teologia
§pistÆmh
scientia
scienza
YeÒw
Deus
Dio
p¤stiw
fides
fede
§kklhs¤
ecclesia
chiesa
mstÆrin
mysterium
mistero
Naturalmente questi concetti, semplicemente enunciati, potrebbero suscitare, in una
ermeneutica indefinitamente aperta alla precomprensione, una marea di interpretazioni in
prima istanza non necessariamente coerenti e componibili. Si può anche facilmente presumere
un numero indeterminatamente grande di connessioni totali o parziali riconoscibili invece
come coerenti, ma portatrici di significati diversi da quelli che noi siamo andati determinando.
Il nostro lavoro è consistito nello scomporre il primo concetto nel secondo e nel terzo, e nel
mostrare che, nel passaggio dal concetto puramente greco-filosofico di “teologia” a quello
cristiano, i tre concetti restanti vanno a interporsi fra gli estremi scissi costituendo con essi
un’unità sistematica compatta e internamente coerente. Naturalmente per compiere
quest’operazione abbiamo dovuto progressivamente semantizzare i termini impiegati per
farne risultare la predetta unità sistematica, dunque l’intera operazione ha il significato
ermeneutico di precisare in maniera peculiare ciascuno dei concetti, sottraendolo ad altre
possibili interpretazioni. Confidiamo che questa unità sistematica risultante costituisca una
soddisfacente realizzazione della definizione di “teologia” inizialmente assunta.
contemplazione di Dio e cerca di comprendere ciò che crede, E poiché giudicavo che ne questo opuscolo né
l’altro che ho ricordato sopra [scil.: il Proslogion e il Monologion] fossero degni del nome di libro […] e
nondimeno pensavo che non si dovessero diffondere senza un titolo […], chiamai il primo: “Esempio di
meditazione sulle ragioni della fede” [Exemplum meditandi de ratione fidei], e il secondo “La fede che cerca
l’intelligenza” [Fides quaerens intellectum].
45
Cfr. ancora Anselmo, II, ed. cit., p.77: “Dunque, o Signore, tu che dai l’intelligenza della fede [ergo, domine,
qui das intellectus fidei], concedimi di capire – per quanto sai che mi possa giovare [da mihi ut quantum scis
expedire intelligam] – che tu esisti come crediamo [quia es sicut credimus] e sei quello che crediamo [et hoc es
quod credimus]”. E’ il “da mihi ut quantum scis expedire intelligam” che dà dunque la misura del rivelabile.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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