Nicolao Merker, ad memoriam Ripubblichiamo del grande storico della filosofia, scomparso domenica scorsa all'età di 84 anni, i due testi che aveva pubblicato per la nostra rivista, il primo nel 2001 sull'idea di nazione e il secondo nel 2005, sulla figura di Galvano Della Volpe. È con molta tristezza che diamo notizia della scomparsa, avvenuta domenica scorsa nella sua casa romana all'età di 84 anni, di uno dei più rilevanti storici della filosofia del secondo dopoguerra, Nicolao Merker. In ciascuno degli ambiti di studio nei quali ha profuso le sue energie, Merker ha lasciato tracce profonde e durature e ha ottenuto ampi e convinti riconoscimenti. I suoi studi sulle origini della logica hegeliana e sull’illuminismo tedesco hanno, infatti, ottenuto un'attenta ricezione nel pubblico scientifico internazionale e trovato il loro posto negli scaffali di tutte le principali biblioteche. Sono, in particolare, tre gli ambiti di studio entro i quali Nicolao Merker ha proficuamente lavorato: la storia della cultura tedesca moderna, con particolare attenzione alla storia dell’illuminismo e dell’idealismo tedeschi; Marx e la storia del marxismo; la ricostruzione della storia dell’idea di “nazione”. Entro il primo ambito, oltre al già menzionato e voluminoso studio del 1961 sulle Origini della logica hegeliana, uno dei primi in Italia a valorizzare seriamente la Logica e metafisica di Jena del 1804-1805, ci piace ricordare il notevole L’illuminismo tedesco. Età di Lessing, apparso nel 1968, con la sua importante rivalutazione delle acquisizioni maturate sul terreno gnoseologico ed estetico dall’illuminismo tedesco a matrice empiristica, sensistica e materialistica, e in particolare da Lessing, del quale Merker è stato in Italia uno dei più grandi e appassionati studiosi del dopoguerra. Ma, sempre entro questo contesto scientifico, ragguardevoli sono stati anche i suoi studi sulla storia della cultura tedesca, specificamente con il suo libro La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, sul giacobinismo tedesco, sul criticismo kantiano, su Herder, la sue emerite traduzioni della Estetica e del Rapporto dello scetticismo con la filosofia di Hegel, della Missione del dotto di Fichte, della Metafisica dei costumi di Kant. In tutto questo confronto pluridecennale con il punto più alto della cultura tedesca Merker ha potuto far valere la sua sensibilità filosofica maturata alla scuola di Galvano della Volpe, del quale è stato uno degli allievi più ricettivi. La concezione dellavolpiana della collaborazione e distinzione funzionale fra l’unità dell’intelletto e la molteplicità della sensibilità è così stata da Merker utilizzata come discrimine per valutare i risultati ottenuti dalla cultura tedesca sette-ottocentesca. Ne è conseguita una aspra e argomentata critica dell’illusione neoplatonica dell’idealismo hegeliano e un giudizio favorevole verso tutte quelle concezioni a forte direzione materialistica e dotate di un solido rapporto con il mondo della prassi sociale degli uomini. Di Della Volpe Merker ha anche proseguito e arricchito l’interesse per Marx e la storia del marxismo. Al primo ha dedicato numerosi saggi e, in particolare, la monografia Karl Marx 1818-1883. Della storia del marxismo, invece, ha scelto di sottoporre a precisa e puntuale analisi la corrente austromarxista, sulla quale ha pubblicato nel 1996 un libro dal quale non è più possibile prescindere, Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti. Recentemente, era ancora intervenuto sul tema in uno dei suoi due splendidi saggi (l'altro essendo sulla socialdemocrazia tedesca a cavallo fra '800 e '900) contenuti nella Storia del marxismo curata per Carocci da Stefano Petrucciani. Peraltro, l’indagine compiuta sull’austromarxismo rappresenta il trait-d’union con la terza area di interesse che ci è parso di poter enucleare come significativa e meritevole di apprezzamento nell’opera di Merker, e cioè con la ricostruzione della storia dell’idea di “nazione”. All’esame della questione nazionale nell’austromarxista Bauer Merker ha, infatti, fatto seguire Il sangue e la terra: due secoli di idee sulla nazione. Ma l’attività di Merker è stata infaticabile: è del 2006 la sua bella analisi dell’idea della missione civilizzatrice dell’Europa in Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà. In una carriera intellettuale costellata da così tanti e vivi interessi non si possono dimenticare, infine, il suo costante impegno didattico, svolto per lo più all'Università la Sapienza di Roma, e quello per una storiografia filosofica che sia aperta alle giovani generazioni e a un più esteso pubblico di lettori. La sua Storia della filosofia, l’Atlante storico della filosofia e la sua cura di una Storia della filosofia moderna e contemporanea testimoniano della grande competenza e dell’assoluto rigore con cui ha compiuto questa impresa. Giorgio Cesarale INDIVIDUI O NAZIONI? Dalla Rivoluzione francese all’unificazione tedesca, dall’Austria plurinazionale pre-1914 alla ‘Grande Serbia’: un viaggio alle radici della nostra idea di nazione, un appello a mantenere la memoria storica perché la civiltà non si laceri fino agli orrori delle pulizie etniche. NICOLAO MERKER – DA MICROMEGA 2/2001 1. Oltre vent’anni fa un saggio del politologo americano Walker Connor recava un titolo emblematico: «Una nazione è una nazione, è uno Stato, è un gruppo etnico, è...» (W. Connor, 1994 [1978], pp. 36-46). Era emblematico perché sottolineava la complessità polisensa della parola «nazione», dunque la difficoltà di definirla. L’appello di Connor a un lavoro di definizione, indispensabile per liberarsi dai grandi e fatali equivoci che accompagnano da due secoli l’idea moderna di nazione, è non solo condivisibile, ma anche da ampliare ben oltre una semplice analisi dei concetti. Se ci si chiede che cosa sia una nazione, allora il primissimo quesito da sbrogliare, e che s’incontra da duecent’anni, è infatti se essa sia una comunità tenuta insieme da vincoli di sangue, o l’appartenervi venga invece mediato da legami culturali. E nell’ipotesi che operino entrambi i fattori, bisognerebbe subito chiedersi in che modo interagiscano tra di loro e quale dei due, eventualmente, sia quello predominante. E se non sono connotati biologici ma valori culturali a segnare l’appartenenza a una nazione, è poi vero che si tratta sempre e soltanto dei valori specifici di questa o quella nazione determinata, tali dunque da escludere radicalmente gli appartenenti ad altri gruppi? Insomma, il connotato di fondo è davvero il monoculturalismo? Oppure esistono valori di civilizzazione generale, che sono sovraordinati ai singoli monoculturalismi, sì da permettere che culture storicamente nazionali coesistano (e si integrino: ma c’è da capire in quale misura) dentro un quadro multiculturale? E quando si parla di monoculturalismo, si intende una qualità permanente, costretta a un’eterna riproduzione di se stessa fuori da ogni mutare di tempi e luoghi, o si tratta di una configurazione storica, nata per rispondere a sollecitazioni determinate, e destinata a cambiare con il cambiamento di queste? E infine, se il fenomeno «nazione» è un modo di essere della società civile, quali rapporti vi sono con la sfera della politica, e che cosa si intende con il concetto di Stato «nazionale»? È difficile che queste domande ricevano una risposta funzionale, cognitivamente valida e dunque utile anche per la prassi, se non soccorre la memoria storica. Se cioè non si va a interpellare, per un tema di così enorme peso nell’età moderna come quello della nazione, la trama degli antecedenti insieme storici e logici che in esso si sono via via depositati. La trama presenta alcuni snodi emblematici. Occorre dedicarvi molta attenzione perché da essi sono scaturite conseguenze, spesso drammatiche, fino all’oggi nostro. 2. Il primo snodo, certo, è la Rivoluzione francese del 1789. Per due motivi. Perché quell’evento ha conferito all’idea di nazione un’accezione del tutto nuova, e perché il modo in cui il 1789 e i suoi principî sono entrati in altri paesi europei ha dato luogo a mescolamenti, spesso indigesti, con concezioni più primitive e più arcaiche. La novità francese fu l’idea della nazione come un ambito di universali diritti umani di cittadinanza. Dagli eventi postrivoluzionari nacque invece, soprattutto in Germania, la riduzione della «nazione» alla più ristretta delle sfere immaginabili, cioè all’elemento etnico come connotato decisivo. Credo che bisogni considerare attentamente ciò che intorno al tema della nazione accadde nella Germania dell’Ottocento. Il motivo sta nelle cose: è infatti lì, come in una sorta di laboratorio nazional-politico al centro dell’Europa, che la componente etnica del principio di nazionalità si è maggiormente scontrata con quella universalistica, producendo nello scontro esiti funesti. Il principio di nazionalità proclamato nell’Ottocento europeo («ogni nazione uno Stato, ogni Stato una sola nazione») identificava sostanzialmente la nazione con la stirpe e con il territorio che questa abitava. L’assioma della nazione etnicamente omogenea, già di per sé gravido di discriminazioni verso grandi numeri di persone, si potenziò con la dottrina dell’omogeneità biologico-razziale di essa, con l’imperativo che la discendenza di sangue dovesse essere pura. Nazionalismo etnico e razzismo divennero compagni di strada. Gli orrori delle pulizie etniche, di cui è pieno il Novecento, ne saranno il corollario. Le due linee – quella francese e quella tedesca, per indicarle schematicamente – hanno una radice comune, cioè la moderna politicizzazione del concetto di nazione, il suo collegamento con lo Stato come apparato giuridico-territoriale. Ma salta agli occhi la differenza che c’è tra un concetto della nazione-territorio il quale ritiene che appartenere a una nazione significhi appartenere a una società civile, insediata sì in un determinato territorio, epperò con godimento di diritti universali da parte di tutte le componenti di essa senza distinzione di stirpe; e la concezione per cui la nazione-territorio e la titolarità dei diritti devono avere contrassegni etnici, esser riservate a una determinata etnia, razza, discendenza. Quest’ultima dottrina ha trovato la sua sintesi nel binomio «Blut und Boden», «il sangue e la terra», enfatizzato, come si sa, dall’ideologia nazista. In Germania (ma pure altrove) quel binomio aveva però avuto lontane avvisaglie già alla fine del Settecento, e anche lì, non a caso, in contrapposizione alle idee liberal-democratiche del 1789. Sono convinto che quanto più si faccia attenzione a come questi due filoni dell’idea moderna di nazione sono nati e cresciuti (e hanno tra loro interagito), tanto più si arriverà a capire in quale modo ci si debba comportare di fronte al concetto di nazione oggi, che cosa si possa (debba) fare o non fare con esso oggi. 3. Nell’Europa dopo la Rivoluzione francese il processo di nation-building moderno, cioè la costruzione della nazione-Stato («ogni nazione uno Stato») e dello Stato-nazione («ogni Stato una sola nazione»), avvenne nella maniera più appariscente (e perciò più istruttiva) nei due grandi paesi, la Germania e l’Italia, che all’epoca della Rivoluzione del 1789 si trovavano ancora frazionati in svariate compagini statuali. Già nell’Ottocento vi fu chi per la Germania e l’Italia tracciò una sorta di storia parallela verso l’unità nazionale. In entrambi i paesi l’unità venne creata dall’alto, cioè con una particolare politica di potenza svolta in modo costante da uno dei singoli Stati, rispettivamente la Prussia e il Piemonte. In realtà solo in Germania il processo verso l’unità nazionale si svolse in modo per così dire puro, senza influenze traumatiche esterne. In Italia esso si trovò mischiato con la questione della liberazione dal dominio straniero, dunque con guerre d’indipendenza che impressero all’intera questione nazionale connotati del tutto peculiari. Infatti ogni qualvolta la strada dell’unità nazionale ha avuto a sua precondizione il raggiungimento dell’indipendenza (il che nell’Ottocento è successo ad esempio anche alla Grecia e ad altri paesi balcanici che dovettero liberarsi dai turchi, e dopo il 1945 ai paesi del Terzo Mondo che dovevano uscire dalla dominazione coloniale), al processo di nation-building vero e proprio è stata rivolta un’attenzione teorica fatalmente inadeguata, sono state considerate di meno tutte le sue complessità e implicazioni, perché non esso, bensì l’indipendenza costituiva il vero punto decisivo. 4. È il motivo per cui in Germania, immune da presenze straniere dal 1813, dalla fine del dominio napoleonico, fu la questione nazionale allo stato puro a diventare, da allora, un tema di primo piano nella pubblicistica. La quale sviscerò con molte voci – dai linguisti agli storici, dai letterati ai filosofi – i connotati che nel secolo del principio di nazionalità erano ritenuti essenziali alla nazione. A un connotato in particolare quella pubblicistica diede un fortissimo rilievo, cioè all’omogeneità etnica. Nacquero qui, come dottrina e teorizzazione, i paradigmi della nazione etnica, dello Stato etnico e del territorio etnico, poi i corollari della nazione-razza e dello Stato razziale, infine le persecuzioni, espulsioni ed eventualmente soppressioni di stirpi diverse da quella privilegiata che considerava lo Stato e il territorio un suo proprio patrimonio. Quei paradigmi servirono da ottimo supporto a politiche nazionalistiche e poi imperialistiche di potenza, di solito ammantate da dichiarazioni sulla missione universale che alla nazione eletta spettava di compiere. I celebratori della nazione eletta s’ispiravano all’idea del Volkstum, un termine coniato dall’organizzatore di associazioni ginnastiche Friedrich Jahn nel suo libro Deutsches Volkstum del 1810, un titolo traducibile, molto in generale, con «Etnicità di popolo tedesca». Ma con qualche necessaria spiegazione. Il termine indicava caratteristiche «nazionali» sì, ma fortemente agganciate all’etnia di stirpe, concepita come una comunità primeva che inocula coesione al «popolo», al Volk. Vi risuonava la nozione di popolo in accezione romantica, cioè come un’immediata e mistica «unità naturale, meta-individuale, fornita di qualità personali e di una propria personale esistenza» (W. Dieckmann, 1964, p. 97). In chiave politica un tale concetto di popolo ha sempre avuto applicazioni conservatrici. È governato da idee organicistico-corporative, comunque antimoderne e d’impronta irrazionalistica. Il loro itinerario – con vari recuperi di veterogermanicità mistificata e strumentalizzata – si svolse da Justus Möser nel Settecento e da Adam Müller e Jahn degli inizi dell’Ottocento sino alle grandi ideologie ottocentesche del «Blut und Boden», e poi al nazismo. L’endiadi «sangue e terra» aveva fatto le sue prime prove pratiche con il nazionalismo etnopopulista tedesco degli inizi dell’Ottocento, si era irrobustita più in là con il connubio tra i dottrinari della razza e i teorici dello Stato di potenza, venne infine ribadita dal nazismo intento a celebrare, ad esempio con le parole del suo geopolitico Haushofer, il «compenetrarsi delle forze del sangue e della terra, onde ne nasca un destino di popoli che vegli sul crescere delle stirpi» (in H.-A. Jacobsen, 1979, p. XI). Via via il termine Volkstum e i suoi derivati (ad esempio gli aggettivi völkisch, volklich, volksmässig eccetera che indicano l’appartenenza al «popolo» nell’accezione suddetta), nonché in generale il prefisso Volk, acquistarono insomma connotati culturali crescentemente regressivi, e applicazioni politiche sempre più reazionarie. Se infatti la nazione deve identificarsi con i valori della stirpe, allora diventano imperative sia l’esclusione dell’«etnicamente diverso», sia l’invenzione di ideologismi per rendere coesa la comunità etnonazionale. Poiché va difesa dagli estranei, è necessario governarla come un campo militare sul quale incombono infinite minacce. Perciò occorreva un capo carismatico autoritario, un Führer che guidasse la nazione etnica alla stregua di un capo dei primevi aggregati tribali. Capire il funzionamento di questi meccanismi concettuali è importante. Il modulo «del sangue e della terra» ha infatti avuto sì la sua maggiore elaborazione sistematica nell’area tedesca, ma pure altrove è stato abbondantemente applicato e sviluppato. Basterebbe ricordare l’inglese Burke, il mentore degli avversari della Rivoluzione francese, che spiegava la nazione come «un patto non solo tra chi è in vita oggi, ma tra i vivi, i morti e i non ancora nati», insomma un patto metafisico che mediante «inviolabile giuramento» di tipo mistico «connette il mondo visibile e quello invisibile» (E. Burke, 1910 [1790], pp. 93-94). O lo scrittore Maurice Barrès che, sul giornale Cocarde, nel 1894, chiamò a raccolta i nazionalisti francesi con la parola d’ordine: «La Terre et les Morts». Anche qui – con una retorica che non avrebbe stonato nei romantici tedeschi inventori del «Blut und Boden», ossia del binomio-chiave di ogni etnonazionalismo perché saldatura di stirpe e territorio – la catena dei morti, degli antenati e dunque delle tradizioni diventava il vincolo mistico che sacralizza il territorio dove godono di pieni diritti solo i discendenti dell’etnia originaria. Indispensabile è in ogni caso appellarsi alle «origini», e celebrare le glorie del passato affinché queste, grazie al legame di sangue delle generazioni, si proiettino misticamente sul presente. Nelle ideologie della «Grande Croazia» e della «Grande Serbia» il glorioso futuro nazionale è stato, ad esempio, regolarmente dedotto vuoi dalla potenza navale dei re croati medievali, vuoi dal numero dei caduti serbi sul Campo dei merli del 1389 contro i turchi. Né va dimenticato che quando, in tutti i contesti di nazionalismo etnico, gli autori parlano di «popolo» per dire quanto essi ne condividano aspirazioni e volontà, non si tratta affatto del popolo nell’accezione democratica del 1789, ma sempre del popolo-stirpe in endiadi con il territorio etnico predestinatogli (e con tutti i cesarismi autoritari e misticismi pseudoreligiosi connessi a una simile concezione). 5. Nell’Ottocento l’area mitteleuropea, in una sua larga parte, aveva potuto sperimentare per la verità anche configurazioni nazionali di altro genere, assai diverse dallo Stato-nazione. L’impero asburgico, formato da una dozzina di nazionalità, rappresentò per la cultura politica una sorta di laboratorio dove tentare, forse, una mediazione tra l’universalità dei diritti di cittadinanza e la specificità delle etnie, cioè le due sfere altrove considerate inconciliabili. Nel «laboratorio danubiano» i molti ingredienti che nell’Ottocento vennero a costituire il concetto moderno di nazione (cioè stirpe, territorio, lingua, religione e costumi, affinità culturali, istituzioni politiche, omogeneità socio-economica, collocazione geografica, storia comune) si trovarono sottoposti a una verifica pratica che ne ridimensionò parecchi. Fu del resto la realtà di quell’Austria a suggerire le riformulazioni della questione nazionale tentate all’inizio del Novecento dall’austromarxismo. Esso appartiene a quel gruppo di teorie che, con vari esiti, guardarono al processo di nation-building in chiave di prospettiva storica, ovvero concepivano la nazione, di contro alle dottrine sia mistico-metafisiche che biologicovitalistiche, come il prodotto di volta in volta sincronico, epperò via via variabile, di una serie di dinamiche diacroniche (culturali, ambientali, socio-economiche, politiche). Ripassarne in rassegna i parametri non è male, oggi, di fronte al riesplodere di nazionalismi sciovinistici, regionalismi equivoci, localismi velleitari, xenofobie primitivistiche e pulizie etniche. Tra l’altro ci si accorgerà quanto poco originali siano le ideologie che accompagnano tali fenomeni. E che lo strumentario per appurarne i sintomi e le cause, e combatterle, esiste da un pezzo. 6. In particolare alcune teorie elaborate nell’Austria plurinazionale di prima del 1914 contengono probabilmente ancora qualche suggerimento valido persino per un’aggiornata politica di integrazione-distinzione delle nazionalità nell’Unione europea di oggi. E certamente il pluralismo etnico-culturale, che connota ovunque la realtà odierna, è un dato di fatto che non si può sopprimere ma che, come tutti i fatti, va compreso e «governato». Più di un secolo fa Moritz Lazarus, cofondatore dell’interessantissimo indirizzo scientifico della Völkerpsychologie e intellettuale tedesco ebreo, dunque membro di una minoranza etnica, voleva una nazione la quale potesse reggersi «senza rinnegare nulla dei patrimoni della stirpe e senza rinnegare nulla dei principî umani universali» (M. Lazarus, 18802, p. 37). Il riferimento, chiarissimo, era ai principî del 1789 e alla necessità che il patrimonio delle stirpi, cioè il particolare, trovasse collocazione dentro quei principî, si iscrivesse cioè dentro valori più generali. E ciò per una ragione semplicissima. I patrimoni etnici con la loro storia e tradizione sono una realtà robustamente esistente, composita e sfaccettata, sopprimibile con le «pulizie etniche» solo illusoriamente, come insegnano i fatti. Che l’identità etnica sia sussunta sotto una dimensione più universale, cioè sotto l’identità politica generale dei diritti democratici di cittadinanza, conviene in primo luogo proprio all’identità etnica, la quale solamente così può venir garantita. È un’istanza ripetuta oggi, più di cent’anni dopo Lazarus, da Jürgen Habermas. Affinché la società civile non si laceri fino agli orrori delle pulizie etniche, occorre arrivare all’«unità della cultura politica nella molteplicità delle subculture» (J. Habermas, 1998 [1996], p. 130) o culture particolari. Ovvero: proprio per salvare le stesse culture particolari e dunque i valori etnici che in esse si manifestano, occorre che la «nazione reale dei cittadini» abbia la priorità nei confronti della «nazione immaginaria», quella favoleggiata da chi vede nel «popolo» soltanto un collettivo etnico (ivi, p. 133). Con ciò però siamo ritornati all’imperativo di fondo, politico-istituzionale, il quale vieta che le differenze etnoculturali si traducano in disuguaglianze sociali e politiche, vieta il debordare politico delle idee etnicistiche. Questa tracimazione avviene ogni qualvolta la constatazione delle fattuali diversità etniche (di lingua, razza, cultura, tradizioni eccetera) trapassa nella dottrina che tra i gruppi portatori di queste differenze si debbano instaurare separazioni rigide e istituzionali. Gli studi anglosassoni e tedeschi al riguardo sono un mare. Negli autori che contestano l’etnicismo come dottrina di fondazione della nazione c’è però l’altrettanto diffuso avvertimento che la coltivazione moderna di vecchie tradizioni etnonazionali è solo in parte un feticcio mentale gratuito, perché viene fatta fungere anche nella costruzione di orizzonti seclusi con cui difendersi (illusoriamente sì, ma come esigenza psicologica reale) da forme di globalizzazione le quali disorientano perché appaiono troppo complesse e incontrollabili. Da noi l’attenzione per tutti questi temi è finora minore, e oscilla tra informazioni sul concetto di «nazione» prevalentemente descrittive (F. Tuccari, 2000), e saggi che denunciano vivacemente i guasti dell’ideologia etnopopulista (B. Luverà, 1999). Al di là di ciò è utile cominciare un’esplorazione che faccia emergere in modo sistematico e criticamente analitico le strutture argomentative, i moduli logico-storici, i livelli di validità teoretica, insomma il funzionamento concettuale dei discorsi sulla nazione che via via, in collegamento con gli eventi storici, si sono succeduti nell’epoca moderna. Ci si accorgerà che il filo d’Arianna per orientarsi nel presente c’è, ed è molto visibile. Esso soprattutto indica le strade da non prendere, quelle che storicamente hanno portato verso grandi disastri. Acquistarne consapevolezza è un’operazione necessaria, ma richiede molti apporti, multiformi e diversificati, per diventare un patrimonio di senso comune. Al quale ultimo ho cercato di dare un contributo (N. Merker, 2001) sollecitando il ripristino della memoria storica perch’essa è uno strumento formidabile. OPERE CITATE E. BURKE, (1910), «Reflections on the Revolution in France and on the Proceedings in Certain Societies in London Relative to that Event in a Letter intended to have been sent to a Gentleman in Paris» (London 1790: Dodsley), in ID., Reflections on the French Revolution and other Essays, London: Dent & Sons. W. CONNOR, (1994), «A Nation is a Nation, is a State, is an Ethnic Group, is a...» (1978), in J. HUTCHINSON-A.D. SMITH (a cura di), Nationalism, Oxford-New York: Oxford University Press. W. DIECKMANN, (1964), Information oder Überredung. Zum Wortgebrauch der politischen Werbung in Deutschland seit der Französischen Revolution, Marburg: Elwert. J. HABERMAS, (1998), L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt a.M. 1996: Suhrkamp), trad. it. L. CEPA, Milano: Feltrinelli. H.-A. JACOBSEN, (1979), Karl Haushofer. Leben und Werk, Boppard am Rhein: Boldt. M. LAZARUS, (18802), Was heisst national. Ein Vortrag (1879), Berlin: Dümmler. B. LUVERÀ, (1999), I confini dell’odio. Il nazionalismo etnico e la nuova destra europea, prefazione di Lucio Caracciolo, Roma: Editori Riuniti. N. MERKER, (2001), Il sangue e la terra. Due secoli di idee sulla nazione, Roma: Editori Riuniti. F. TUCCARI, (2000), La nazione, Roma-Bari: Laterza. DELLA VOLPE, UN FILOSOFO MATERIALISTA MODERNO Un excursus nel singolare cammino intellettuale del filosofo italiano, dall’addio all’idealismo al ‘galileismo morale’ del marxismo, dal rapporto tra storicità della scienza/scienza della storicità fino all’ufficio primario della filosofia dell’ultimo Della Volpe: fornire strumenti di conoscenza alla prassi. NICOLAO MERKER – DA MICROMEGA 5/2005 La formazione irrequieta in un ambiente culturale conformista Galvano Della Volpe, ma chi era costui, di quali cose filosofiche si occupava? Il nome, probabilmente, non dice nulla o quasi a chi oggi studia all’università e forse sta per laurearsi proprio in filosofia. A meno che non gli fosse capitato qualche docente le cui radici ed esperienze culturali personali risalissero magari a prima del più o meno mitico Sessantotto (mirabilis o horribilis a seconda delle ben note contrapposte vulgate), o il quale avesse conservato interessi per temi di politica e di ideologia (intesa qui come idee e convinzioni nate da un preciso humus storico) collegati, in quei tempi, al marxismo e alle sue vicende in Italia. Già, perché il filosofo Della Volpe, che morì nel 1968 e dalla cui nascita sono passati oggi esattamente centodieci anni, aveva nell’ultimo venticinquennio della sua vita aderito al Partito comunista italiano, si era dichiarato marxista, e nelle ricerche sul marxismo aveva conseguito esiti di notevole innovazione. Era stata, così suonavano sue parole di bilancio, «una ricerca intellettuale “di sinistra” durata più di un quarto di secolo» (1967, p. 303). Ma agli occhi dello studente di oggi, ventenne o venticinquenne, già il Sessantotto sta a una distanza enorme, e quel che precede può assomigliare al Giurassico. Non saranno allora vera e propria archeologia, inutili per la prassi e da mettere solamente in museo, anche i pensieri filosofici di quelle lontanissime epoche? Anzitutto dipende dai pensieri, taluni sì, altri no. Ma questo, spero, risulterà dopo. Intanto vale una premessa. Il Novecento – chiamato da Hobsbawm, si sa, il «secolo breve» – ha avuto una singolare peculiarità. Quella di indurre in qualche modo a una percezione alterata (appunto «abbreviata») del tempo storico. Ciascun settore di quel secolo è stato densissimo di eventi di enorme portata, ognuno con conseguenze misurabili quasi subito. Ognuna delle conseguenze ha innescato nuovi accadimenti in modo talmente rapido da far fermare l’attenzione più sul nesso causale immediato che sugli antecedenti più lontani. L’attenzione dimidiata è stata favorita pure dalla velocità del processo informativo, per cui ogni informazione nuova si è subito sostituita di peso a quelle precedenti e ha facilitato anche per questa via la dimenticanza del passato. La percezione del tempo storico ha rischiato e rischia di diventare quella di un tempo storico parcellizzato, a compartimenti stagni che poco o punto comunicano tra loro e dove dunque ciò che si perde è il continuum. Probabilmente – voglio qui anticipare, perché solo alla fine, mi auguro, le conclusioni di merito salteranno fuori – il lato di maggiore attualità che oggi si può indicare del pensiero di Della Volpe riguarda proprio le sue riflessioni sulla storia, sulle connessioni lunghe tra gli eventi e le generazioni. Con intenti abbastanza sistematici le svolse a partire dal 1950, l’anno della sua Logica come scienza positiva. Ebbe però a percorrere, prima, un cammino intellettuale assai singolare. Anche di sorprendente originalità a riguardarlo retrospettivamente, soprattutto pensando all’ambiente culturale italiano in cui l’imperante neoidealismo, di marca crociana o gentiliana, ostacolò di regola le aperture verso itinerari che non fossero ipostrade provinciali. All’inizio c’era stata in Della Volpe un’adesione alla variante gentiliana del neoidealismo, nel libro L’idealismo dell’atto e il problema delle categorie (1924). Ma nient’affatto pacifica. A immobilizzarsi «nella lettera dell’attualismo» (ivi, p. 38), osservava il filosofo inquieto, ovvero del sistema di Gentile imperniato sull’unità aprioristica dell’«atto» del pensiero, si sarebbero perse le «differenze empiriche» del «mondo della natura» e di quello «storico-sociale o morale» (ivi, pp. 18-19), con conseguente impossibilità di risolvere «il problema metafisico del molteplicarsi dell’uno» (ivi, p. 22). L’assioma filosofico dell’idealismo era – lo ricordo qui a chi ha perso memoria di quelle formule arcaiche – che da un’Unità originaria (chi la chiamava Pensiero, chi Idea, Spirito eccetera, ma si poteva anche teologicamente chiamarla Dio) tutto il resto (i molti, il mondo, le differenze) sarebbe disceso per automoltiplicazione («autoctìsi», atto di «autoproduzione», lo chiamava Gentile) di quell’Unità. Nei caratteri propriamente teologici che storicamente le dottrine sull’automoltiplicazioni dell’Uno assumono, Della Volpe s’imbatté poco dopo, durante ricerche sulla mistica medievale che lo portarono nel 1930 al libro Il misticismo speculativo di maestro Eckhart nei suoi rapporti storici. Fu accolto con notevole silenzio dal neoidealismo spiritualistico che nella cultura filosofica italiana stava celebrando i suoi fasti. Non piacque trovar squadernata nella filosofia mistica da Plotino in poi la linea dei propri antenati, e veder documentate le fonti teorico-storico remote, in ultima analisi teologiche, dell’emarginazione dei diritti del discreto o molteplice. Dai mistici, puntualizzava Della Volpe, Dio viene «calato nell’uomo non a gloria dell’uomo e del mondo specificamente umano, ma a gloria di Dio stesso, e i valori propriamente umani e terreni restano, infine, nell’ombra, o meglio sono negati» (1930, p. 527). E allora non era forse implicito che la stessa cosa avvenisse anche se a «Dio» si fosse sostituito «Pensiero», lo «Spirito», l’«Idea» eccetera? Tanto più che Della Volpe appena un anno prima, nel libro Hegel romantico e mistico (1793-1800), aveva ricostruito con una minuziosa analisi delle fonti la genesi e i primi sviluppi della dialettica hegeliana attraverso l’incontro nel giovane Hegel fra tardo illuminismo e protoromanticismo, sottolineando soprattutto i lati «misticizzanti» di quella dialettica. Anche quest’impostazione, della scoperta di una «mistica» nell’antenato diretto del neohegelismo italiano ufficiale, mal si accordava con i trionfi di quest’ultimo e, in particolare, con i suoi edifici speculativi refrattari alla lettura filologica diretta dei testi. L’addio all’idealismo Attraverso questi studi andò maturando in Della Volpe la convinzione che proprio nell’emarginazione dei diritti del discreto o molteplice risiedesse l’insostenibilità epistemica dell’idealismo. Per uscire dalle secche si sarebbe dovuto, così gli parve, metter nuovamente mano ai principî della logica per vedere se da essi fosse enucleabile una funzionalità diversa da quella usualmente consacrata dalla tradizione, se si potesse cioè adoperarli in vista di una positiva complementarità (da instaurare) tra la fungibilità generalizzata delle astrazioni da un lato, e dall’altro la loro capacità di mordere sulla realtà in guisa specifico-concreta. Un avvio di soluzione gli venne studiando Hume. Il suo libro La filosofia dell’esperienza di Davide Hume (1933-35) analizzò nel primo tomo i testi logico-gnoseologici di Hume, nel secondo le concezioni morali, politiche e religiose del filosofo. Hume lo aiuterà – in un contesto che ovviamente non era più quello humiano – non solo a definire la «positività del molteplice» (cioè del «senso o sentimento in genere») come coelemento materiale della sintesi gnoseologica razionale, ma anche a utilizzare il binomio di materiale-razionale come una chiave adatta sia a fare i conti con la metafisica dell’idealismo spiritualista, sia però anche a neutralizzare i pericoli di una metafisica dell’empirico la quale assolutizza il dato di fatto immediato. La bussola egli cominciò a intravederla nella metodologia delle scienze, anzitutto delle scienze della natura. La filosofia di Hume gli parve «il primo passo decisivo verso una coscienza speculativa della scienza moderna», e già una «conferma critica delle intuizioni metodologiche di Galileo e di Newton» (ivi, p. 163). A commento e parafrasi dei testi humiani, o come conclusioni tratte da essi, troviamo locuzioni significative. La premessa, mutuata da Hume e condivisa, era che «il ragionamento, da solo, non può mai far nascere un’idea nuova» (ivi, p. 133). Perciò Hume viene descritto come il protagonista di un’«apologia della scienza della natura umana ossia della filosofia della coscienza comune», una filosofia di principî i quali «si accordino con la vita e l’esperienza comune» (ivi, p. 218). «Hume ci ammonisce, insomma, ancor oggi, di stare ai fatti, ai dati della coscienza», la cui unità «dev’essere non presupposta astrattamente ma rintracciata solo (si badi) attraverso i nessi che offre la vita stessa dell’autocoscienza, colta in tutta la sua pienezza fenomenologica» (ivi, p. 438). Sicché «una pura descrittiva trascendentale – o analitica dell’autocoscienza» sembrò intanto, al Della Volpe riscopritore delle istanze dell’empirismo e patrocinatore dei dati di fatto come punto di partenza, un possibile ottimo «principio di orientamento», soprattutto per «evitare la sterilità» (conoscitiva, epistemica) che è punto d’approdo della «tendenza unitaria e semplificatrice con cui si annuncia entro di noi la sempre rinnovantesi minaccia del dogmatismo della ragione» (ibidem). Vale la pena di menzionare ancora due luoghi di queste conclusioni su Hume perché nella riflessione di Della Volpe essi ritorneranno con puntuale precisione molto più in là, quando ai suggerimenti avuti da Hume si aggiungeranno quelli ricevuti da una lettura assai specifica di Marx. La quale metterà in primo piano un Marx teorico della conoscenza ed epistemologo delle scienze umane. Il primo dei due luoghi sembra solo un fuggevole accenno: «Dai risultati si misurano i metodi, anche in filosofia» (ivi, p. 438), dice brevemente Della Volpe per significare che era stata in Hume la bontà del metodo (ovvero la bontà della descrizione analitica dei fatti) a rendere possibile il riconoscimento della «positività del molteplice». Vale insomma il criterio della prassi: è quest’ultima a comprovare la funzionalità di una filosofia. L’operazione fatta da Della Volpe negli anni Venti e Trenta come storico della filosofia era stata di analizzare i risultati a cui conducevano in filosofia il metodo spiritualistico da un lato (Gentile, e dietro di lui Hegel, e dietro Hegel il mistico medievale Eckhart) e il metodo empiristico dall’altro (Hume); e di saggiare attraverso quell’analisi la funzionalità, la tenuta di strada, di quei metodi. L’istanza di Della Volpe diventò insomma assai presto quella di individuare i difetti del procedimento speculativo attraverso l’incapacità a esso connaturata di spiegare i fatti concreti e molteplici (logici o storici che siano): risaliva cioè dalla negatività delle conseguenze (le contraddizioni che si manifestano nella mediazione «speculativa» dei fatti) alla negatività del procedimento. Vedremo con quale e quanta ampiezza questo criterio sperimentalista tornerà alla ribalta nel Della Volpe maturo. Il secondo luogo in questione, e che pure compariva nelle conclusioni su Hume, riguarda i connotati della ricerca causale identificata con la ricerca scientifica. Spicca tra essi il «processo induttivo indispensabile alla scienza»: il quale – come rilevò Della Volpe sulla scorta di riflessioni del matematico e filosofo inglese della scienza Alfred North Whitehead – «non è generalizzazione meccanica e passiva [...] ma bensì un processo in cui noi “diviniamo” alcune caratteristiche di un particolare futuro dalle caratteristiche conosciute di un particolare passato» (ivi, p. 436). Ma non vuol forse dire, questo, che dunque il nesso causale esplica il suo ruolo, sotto forma di eventi antecedenti (passato) e loro conseguenti (futuro), anche nel tempo storico, nel legame sia tra le epoche seriali della storia che tra i singoli settori di una singola epoca e in quello, infine, tra i saperi teorico-pratici storici costruiti e sperimentati dalle generazioni che via via si susseguono? Questo tema della storia rimase qui un accenno isolato, senza proseguimenti. Quindici anni dopo, nella Logica come scienza positiva del 1950 (ma erano sopraggiunti nel frattempo gli stimoli del marxismo), l’istanza di appurare le connessioni tra passato, presente e futuro sia logico-gnoseologiche (dunque a livello di teoria epistemica) che pratico-conoscitive nel campo del fare diventerà l’anima unificante delle tre linee d’indagine in cui poi si dispiegò il suo pensiero: ovvero la logica e gnoseologia, l’estetica e il terreno etico-politico. Dopo il bagno humiano, Della Volpe provò a sondare e interrogare sul tema della «positività del molteplice» (o anche del «senso» o del «sentimento») altri filoni filosofici. Ma solo uno di essi gli si rivelerà funzionale. Nel volumetto Crisi critica dell’estetica romantica (1941) apprezzerà talune affermazioni di Nietzsche e Heidegger che prima facie potevano sembrare una rivalutazione del mondo ontologico del finito concreto e individuale in un’ottica antidealistica. Senonché rileverà anche come Nietzsche dalla sua «concezione negativa dell’intelletto», costantemente svalutato al modo dei mistici, fosse stato sospinto «a una concezione romantica del senso come pura unità o infinità» (ivi, p. 91), dunque a una posizione misticheggiante non utilizzabile per un discorso serio sulla complementarità di senso e ragione. E poiché l’ontologia del finito di Heidegger è un’ontologia nettamente psicologistica, permane «l’incertezza ed oscurità in cui [egli] lascia avvolta la natura del sentimento» (ivi, p. 80); e dunque nemmeno qui riesce a emergere il problema vero, «ch’è il rapporto del molteplice o mondo con l’uno» (ivi, p. 104), insomma del mondo materiale dei fatti con le operazioni razionali del collegarli. L’unico patrimonio di storia delle idee che a Della Volpe parve effettivamente utilizzabile per risolvere quel problema, era – come ebbe a esplicitare, professore di fresca chiamata all’università di Messina, nella prolusione al suo corso di storia della filosofia del 1939 – una lignèe filosofica che da Aristotele arriva a Kant, dentro la quale si trova certamente Hume, e che ha come obiettivo la trasvalutazione dell’«esistenza», del molteplice puramente fattuale empirico, in un molteplice conosciuto, cioè immesso in rapporti categoriali. Il suo progetto mirò a una filosofia la quale «dovrebbe – attraverso principalmente un approfondimento critico del noema aristotelico ossia mediante una teoria fenomenologico-trascendentale del cosiddetto concetto empirico – pervenire a una deduzione simultanea del sensibile e del logico: e si rivelerebbe, insomma, al contempo, una logica (e una pratica)» (1939, pp. 421-422). L’enunciazione, buttata lì di getto, conteneva temi ai quali il filosofo avrebbe poi lavorato per anni: l’utilizzazione in chiave empirista di Aristotele (ma anche di Kant), la parità di diritti del «sensibile» e del «logico», infine la pratica, l’adoperabilità nella prassi, come criterio della bontà della logica. Una prima vendemmia fu, nel 1942, la Critica dei princìpi logici, un libro nato via via, dal 1940-41, attraverso le lezioni universitarie. I principî logici denunciati come sterili di sapere erano quelli del platonismo, antico e moderno. Ovvero la concezione che il sensibile, tradizionalmente bollato come «non essere», sarebbe conoscenza inferiore, di secondo grado, da abbandonare quanto più rapidamente possibile a favore dell’unica verità vera, quella dell’«autocoscienza». In difesa dei diritti del sensibile Della Volpe schierò sia i rilievi critici di Aristotele alla dialettica idealistica di Platone, sia gli spunti che pure in quest’ultimo, quando è «autocritico», provengono dall’avvertenza che il «non essere» non è il «nulla», bensì l’«altro dall’essere». Sicché allora il problema del discorso razionale fecondo di conoscenza (ovvero della logica al servizio della gnoseologia, e viceversa) è quello della «tauto-eterologia». Bisogna tener ferme, perché reciprocamente complementari, la funzione unificatrice della ragione (l’istanza del «medesimo», del to autón) non meno di quella della non-contraddittorietà, anzi indispensabilità del molteplice materiale (o istanza dell’«altro», del to éteron). Se Kant ancora lavorava alla complementarità, a una sintesi di eterogenei, questa invece sparì quando l’autocoscienza speculativa di Hegel semplicemente fagocitò l’empiria (magari poi risputandola fuori in veste alterata, deteriore, come rilevò il giovane Marx nella sua critica del metodo speculativo hegeliano: ma ciò è cosa in cui Della Volpe si imbatterà sì, ma dopo, da marxista). Né ai vicoli ciechi dell’«autocoscienza» rimediarono le logiche di Croce e Gentile. Nell’avvertenza al libro l’autore spiegava di voler «contestare agli idealisti la legittimità del concetto di verità come autocoscienza, e opporre all’esistenzialismo la validità dell’intelletto (criticamente inteso) come la soluzione più coerente dei suoi problemi». Un’offensiva su due fronti, insomma, come già gli scritti precedenti delineavano. Un ausilio, così Della Volpe, gli era venuto dal «ripensare per conto proprio la storia della filosofia», cioè la storia «degli antecedenti dei problemi posti» (1942, p. 137). Il rilievo è interessante, perché proprio la dialettica degli antecedenti e conseguenti collocata nella temporalità della storia, la loro correlazione mediante opzioni selettive funzionali, connoterà di lì a un decennio quella che continuo a ritenere la peculiarità maggiore di Della Volpe, cioè il suo esser stato, alla fine, un epistemologo della storia. Si ricorderà, poco sopra, l’accostamento della «logica» alla «pratica», da Della Volpe fatto esplicitamente nel 1939. Ebbene, esso ritorna, ma ormai molto precisato e ampliato, anche nelle ultime righe dell’avvertenza alla Critica dei princìpi logici. Il «concetto della verità o realtà come autocoscienza» – vi si legge – ha una valenza sociale nient’affatto asettica o neutrale ma negativa, di oppressione. In quel concetto s’incentra «il moderno umanismo teologico», in altre parole il fagocitamento degli uomini-individui da parte di aprioristiche Unità originarie, entità metafisiche (chiamate Pensiero, Idea, Spirito eccetera, ma anche teologicamente Dio). La sovranità di una tale autocratica autocoscienza si presta benissimo a una «disumana concezione dell’umano lavoro». Lo mostra, come esemplifica Della Volpe, «il richiamo di uno, a caso, dei corollari etici della filosofia dello spirito come autocoscienza»: ad esempio il convincimento di Gentile sui rapporti tra lavoro e cultura quando quel filosofo dell’autocoscienza traccia una separazione naturale ed eterna tra (parole di Gentile) il «lavoro umano» incrostato «quasi alla terra», l’uomo lavoratore «sempre in certo modo il servo della gleba», e «il pensiero [che] spazia sempre liberamente nel suo mondo infinito» (ivi, p.138). Gli intellettuali elitari da un lato, la massa plebea dall’altro. Rifiutare questo steccato era, da parte del neoprofessore a Messina, una manifestazione di impegno civile pubblico, di militanza sociale etico-pratica se vogliamo, nient’affatto trascurabile se si pensa ai tempi che correvano. Un anno dopo, nell’opuscolo Discorso sull’ineguaglianza (1943), la protesta contro quell’«umanismo teologico», ovvero contro il «concetto tradizionale, dogmatico-teologico o innatistico, della “persona” o “dignità” umana singola» (1943, p. 269), investì Rousseau e il giusnaturalismo borghese: inaugurando contro la nozione di «persona originaria» (in quanto, storicamente, camuffamento ideologico dei privilegi classisti), una resa dei conti che darà l’impronta a tutte le successive elaborazioni etico-politiche di Della Volpe. Un materialismo critico La crisi dell’idealismo, così ancora nell’avvertenza alla Critica, non sembrava affatto, all’autore, una passeggera crisi «all’interno del sistema, nel sistema», la quale dunque consentisse di muovere all’idealismo qualche marginale critica non invasiva, ma senza, per carità, «rinunciare al suo dogma fondamentale (la verità come autocoscienza)». Per lui invece si trattava, al contrario, «propriamente della crisi del sistema» (1942, p. 137), dell’idealismo in quanto tale, come una filosofia ormai non più riformabile perché non più in grado di fornire né conoscenza né orientamenti per la prassi. Ma allora su quale ingrediente nuovo, inedito fare leva? L’indicazione venne da fuori, da nulla che avesse a che fare con il vecchio «sistema». Cioè da testi di Marx che, intanto, diedero stimolo al professore per approfondire e sviluppare la critica dei pretesi valori «innati» della giusnaturalistica «persona originaria» e a essa contrapporre l’emancipazione sociale (La teoria marxista dell’emancipazione umana. Saggio sulla trasmutazione marxista dei valori, 1945; La libertà comunista. Saggio di una critica della ragione «pura» pratica, 1946). Seguì, poco dopo, la lettura di altri testi marxiani, quelli di logica e filosofia etico-politica del Marx giovane, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843 e i Manoscritti economico-filosofici del 1844. La traduzione fattane da Della Volpe, unita ai suoi commenti nel volume Per la teoria di un umanesimo positivo: Studi e documenti sulla dialettica materialistica (1948), aprì per la prima volta alla cultura italiana un’area del marxismo sino ad allora praticamente ignota. Sembrò a Della Volpe che la «consapevole realizzazione della dialettica nella scienza» fosse ormai, in filosofia, l’ineludibile «compito «teorico»», il «primo compito» (1948, p. 143). Ovvero che qualunque ricerca sulla dialettica, onde uscire dai vicoli ciechi della «dialettica mistificata», cioè quella idealistica in generale e hegeliana in ispecie, dovesse imparare dalla metodologia delle scienze, sia della natura che dell’uomo. Nel 1950 uscì un libro di logica di Della Volpe, dal titolo Logica come scienza positiva. Una seconda edizione, accresciuta, seguì nel 1956. Entrambe, oltre alle parti su Platone, Aristotele, Kant e Hegel già presenti nella Critica dei princìpi logici, contenevano due nuovi capitoli che trattavano, rispettivamente, il «passaggio dalla critica antica del platonismo alla critica moderna, materialistica, della ragion pura» (dove la critica di Aristotele a Platone trovava il suo parallelo in quella di Marx al metodo di Hegel) e «il principio di identità tauto-eterologica e la dialettica». L’aggettivo «positiva» del titolo significava, nel clima filosofico di allora, una logica non di pure astrazioni, racchiusa nelle regioni idealistiche del cosiddetto Spirito, bensì ancorata nella positiva esperienza umana delle cose, le quali, si sa, sono molteplici, concrete e materiali. Sarebbe stata una logica per capire meglio l’empirico e, se era il caso, anche per intervenire a modificarlo. Così la logica diventava consustanziale alla gnoseologia. Una dozzina di anni prima, nel 1938, l’americano John Dewey aveva scritto una Logica, teoria dell’indagine. Vi si esprimeva un’analoga istanza di una scienza basata sull’esperienza operativa, antidealistica; e Della Volpe apprezzava la cosa (il che, tra l’altro, è uno dei tanti indizi di come il suo pensiero era riuscito, anche prima dell’incontro con il marxismo, a sfuggire al provincialismo filosofico italiano). L’esperienza umana è caratterizzata dalla storicità. Noi sempre, inevitabilmente, costruiamo il nostro quadro del mondo dentro le condizioni, sempre mutevoli, in cui via via ci troviamo. Di volta in volta agisce questa o quella collocazione personale, questa o quella possibilità (individuale e sociale) di fruire del patrimonio di sapere accumulato dalle generazioni passate, questa o quella facilità o difficoltà, soggettiva e oggettiva insieme, di maneggiare gli strumenti conoscitivi e volitivi. Il modo del nostro riprodurre la realtà nella mente ha una dinamica sperimentale perché altre maniere di muoversi dentro l’esperienza non esistono. In particolare i risultati che via via raggiungiamo nella riproduzione concettuale del mondo, non possono mai valere una volta per tutte. Vi osta il fatto, lapalissiano, che né i soggetti né gli oggetti sono entità statiche. Entrambi cambiano e si trasformano nel tempo. Da ciò deriva al sapere il connotato di storicità. Sono, queste, le primissime considerazioni suggerite dal programma che Della Volpe enunciò nella prefazione alla Logica del 1950. Bisogna, egli diceva, tener fermo il concetto «della storicità-scientificità della stessa logica filosofica o gnoseologia» (1950, p. 283). La storia è dunque presente nei contenuti stessi della logica. Inoltre la logica è connaturata alla gnoseologia. E l’acquisizione del sapere – di ogni sapere, da quello delle scienze della natura a quello delle scienze dell’uomo – funziona come un procedimento di tipo sperimentale. Parecchi anni dopo, nel 1967, e dopo aver ormai diffusamente applicato il suo discorso del metodo ai campi delle ricerche etico-politiche e di estetica, Della Volpe spiegò che in una futura ristampa quel testo di logica avrebbe dovuto chiamarsi, in modo «più adeguato e definitivo, Logica come scienza storica» (1967, p. 303). Egli vedeva dunque se stesso come un epistemologo della storia. Facciamo un altro passo. Si può parlare di storicità della scienza perché una delle componenti del sapere scientifico è l’impronta a esso derivata dalla storicità delle esperienze umane. Ma queste, in quale specifico modo diventano un sapere o, in particolare, si traducono in scienza? Per Della Volpe il processo conoscitivo doveva svolgersi come un consapevole rapporto funzionale tra due elementi: da un lato il versante della molteplicità dei dati di fatto empirico-materiali, dall’altro la capacità della ragione di coniugarli dentro un quadro unitario di riferimento. L’ineliminabilità del dato materiale in tutti i campi di constatazione (nella cognizione della natura come in quella delle realtà dell’uomo) diventò in Della Volpe un’istanza di fondo. La materialità acquistò la dignità di un «principio critico della materia», come lo chiamava: nel senso ch’egli intese provarne la cogenza a contrariis, partendo cioè dalla descrizione dei guasti che inficiano il discorso della ragione quando esso ignora o dimentica (trascende) la presenza della datità materiale fattuale. Esistendo quest’impostazione della ricerca già nel Della Volpe premarxista, si possono capire i risultati filosoficamente fecondi del suo contatto, poi, con la critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto statuale. In questa critica del 1843 c’era stato un dettagliato ragionamento sui guasti a cui conduce lo svuotamento dell’empiria quando la si registra solo per trascenderla. Marx arrivò ivi alla denuncia dei difetti dell’idealismo e dello spiritualismo precisamente analizzando l’incapacità in generale della speculazione idealistica di mediare i fatti, cioè constatando ch’essi rimanevano e persistevano come «cattiva empiria» nonostante la speculazione avesse preteso di mediarli. Aveva mostrato con dovizia di esempi come «lo scambio dell’empiria in speculazione» (compiuto dall’idealista Hegel ogni qualvolta sottraeva valore al molteplice per assolutizzare l’apriori) subiva il contrappasso dello «scambio della speculazione in empiria», cioè del prendere poi lo spiritualista anche l’empiria più grezza come un’incarnazione di ipostatizzate idee aprioristiche, dell’inevitabile suo spacciare verità empiriche per verità filosofiche (nella fattispecie, da parte di Hegel, la monarchia prussiana del 1820 come l’essenza dello Stato in universale). Di contro ai processi di ipostatizzazione sterili di conoscenza, fu nel metodo sperimentale galileiano – grazie al circolo di osservazione, ipotesi ed esperimento che lo caratterizza – che Della Volpe vide invece l’applicazione di principî logico-gnoseologici i cui connotati antiaprioristici e antimetafisici garantivano una comprensione adeguata degli oggetti e dei fenomeni della natura. Gli nacque a questo punto un quesito innovativo. Non potrebbe cioè un’analoga impostazione di «sperimentalismo», un analogo criterio di funzionale antiapriorismo valere anche per la scienza dei fatti storici, per le scienze cosiddette morali? Della Volpe diceva di sì, chiamò quel criterio un «galileismo morale» (ad esempio 1950, pp. 403, 449, 469), e se ne occupò a lungo. Aver dato all’antiapriorismo nel campo delle scienze storiche non soltanto una formulazione generale di metodo, ma poi anche elaborazioni in dettaglio, si rivelò di forte modernità. Poiché il concetto della storicità della scienza gli si collegò coerentemente all’istanza complementare di tentare un abbozzo di scienza della storicità, egli nell’ultimo ventennio della sua vita fu effettivamente, per gran parte del suo pensiero, un epistemologo della storia. Stimoli essenziali gli vennero, si è già visto, dalla sua adesione al marxismo. In particolare da un’originale lettura delle istanze metodiche antiaprioristiche del marxismo, da lui utilizzate come indicazioni per analizzare sia lo strumentario logico-teoretico da seguire in campo di storia delle idee, sia i compiti operativi che ne sarebbero derivati allo storico. Storicità della scienza, scienza della storicità Il procedimento usato dallo scienziato della natura – cioè la scansione di osservazione, ipotesi ed esperimento – venne chiamato da Della Volpe anche «circolo di concreto-astratto-concreto». Il «concreto» come momento di partenza è ovviamente l’iniziale osservazione dei fatti. Il successivo momento «astratto» rappresenta la loro elaborazione nella provvisoria spiegazione razionale formulata come «ipotesi». Il finale ritorno al «concreto» designa la verifica sperimentale dell’ipotesi. C’è forse la possibilità che questi momenti di metodo agiscano – in una qualche maniera e morfologia (ma bisognerà allora capire quale) – anche nelle «scienze dell’uomo», dunque anche nel mestiere dello storico delle idee? Della Volpe ne era convinto, e non solo perché poteva trovare citazioni di Marx sull’unità sostanziale delle due scienze. Ad esempio nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 la previsione che «la scienza dell’uomo comprenderà un giorno la scienza naturale»: ovvero, commentava Della Volpe, ne «adotterà il metodo sperimentale» e sarà, nello specifico, «un metodo storico-sperimentale» (1950, p. 468, corsivo mio). Oppure, nella seconda delle Tesi su Feuerbach del 1845, il richiamo alla necessità che il pensiero umano sempre, quali che siano i campi in cui si esplica, debba «provare nella pratica» la sua «verità»: al quale proposito Della Volpe parlò di «galileismo morale marxiano nel suo aspetto positivo e costruttivo» (ivi, p. 449). Soprattutto un altro testo marxiano fornì a Della Volpe suggerimenti per il suo discorso sulla scienza della storicità. Era uno scritto di metodologia, ovvero l’introduzione di Marx del 1857 a Per la critica dell’economia politica. Della Volpe provò a estendere alla struttura concettuale di tutte le «scienze dell’uomo», in quanto scienze storiche, le analisi che Marx aveva fatto di una di esse, cioè dell’economia politica. I risultati di quella generalizzazione si potrebbero riassumere così. Anche lo storico, come lo scienziato della natura, deve partire dall’osservazione-descrizione dei fatti che ha scelto di indagare. La scelta, è chiaro, vuole esplicitare problemi, dare risposta a interrogativi che sorgono nel presente dell’indagatore. Richiede anzitutto un «contatto filologico non generico» con l’oggetto (ivi, p. 483), ovvero esattezza della descrizione e cautela nel non omettere dati che potrebbero rivelarsi significativi. Della Volpe chiamava questo momento «il dato problematico o istanza storico-materiale» (ivi, p. 479, corsivo mio). I fatti delle «scienze umane» hanno però una caratteristica peculiare. Hanno una storia in cui sono conglobate tutte quelle loro stratificazioni e modificazioni che precedono il momento in cui il ricercatore, nel suo proprio presente storico, a quei fatti si accosta. Di queste stratificazioni, modificazioni e soluzioni di problemi avvenute in tempi passati, alcune appartengono ormai definitivamente al passato. Rispetto al nostro oggi sono istanze, idee e soluzioni di efficacia esaurita, semplici precedenti cronologici. Altre hanno continuato a vivere anche oltre i tempi ai quali appartiene la loro genesi. Occorre dunque vedere se, rispetto al loro esser nate e aver agito nel passato, non contengano anche un «di più». Ovvero siano non soltanto meri precedenti cronologici, bensì «antecedenti istanze storico-razionali» (ivi, p. 451, corsivo mio). Ovvero «antecedenti logico-storici» (ivi, p. 464, corsivo mio) nel senso di essere ancora congruenti, sia pure alla lontana, con problemi che anche il nostro presente si trova a dover affrontare. Qual è la funzione conoscitiva di questi «antecedenti logico-storici» di un problema del presente? Essi ci consentono di tener davanti agli occhi a) gli elementi concettuali generali (o categorie generali) che hanno accompagnato quel problema attraverso le epoche, e insieme anche b) le forme concettuali specifiche – le cosiddette astrazioni determinate (un termine adoperato dal Marx dell’introduzione del 1857 e sul quale Della Volpe ha insistito molto) – che sono state utilizzate nel corso della storia per descrivere il problema con le caratteristiche specifiche di esso via via venute alla ribalta. A esse il presente storico di oggi aggiungerà altre e nuove astrazioni specifiche. Lo farà sia basandosi sugli elementi nuovi contenuti nelle esperienze storico-materiali attuali, sia riconsiderando tutta la gamma degli antecedenti alla luce dei bisogni dell’oggi. Logica e storia, ovvero ‘antecedenti’, ‘conseguenti’ e ‘medie’ Sono impliciti, in quel che precede, alcuni punti di rilievo. Intanto il forte accento sul presente storico come punto d’avvio delle indagini. Non è solo per l’ovvio motivo che da nessun altro contesto il ricercatore può muovere se non da quello a lui contemporaneo. Vi sono due motivi ulteriori, attinente l’uno alla composizione strutturale dei fenomeni storici, l’altro alla morfologia dei processi conoscitivi. In una serie temporale diacronica di fenomeni, quello temporalmente ultimo, di cui siamo spettatori e attori, è sempre il più ricco di determinazioni. Esso contiene e riepiloga, esplicite o implicite, visibili o nascoste, tutte le fasi della sua formazione. Che l’anatomia dell’uomo sia la chiave dell’anatomia della scimmia non è una battuta. Parallelamente, dal lato conoscitivo, il presente è quel luogo specifico in cui la ricerca, se fatta bene, squaderna davanti allo storico l’intera gamma di tutti gli antecedenti e di tutti i conseguenti esistiti prima dell’inizio della ricerca. Li ha davanti tutti. Ma non può assumerli indistintamente tutti, come se tutti gli antecedenti fossero i padri di tutti i conseguenti e avessero tutti lo stesso peso. Lo vieta la specificità dei problemi del presente. Essa, se l’indispensabile aggancio ad antecedenti del passato vuole contenere prospettive di funzionalità, impone che si trascelgano esattamente quegli antecedenti che con il presente abbiano ancora dei gradi di omogeneità. Compito dello storico sembrò a Della Volpe quello di costruire «ipotetiche medie di antecedenti e conseguenti» (ivi, p. 484), dove il termine «medie» equivaleva a dire «sintesi» o processo di collegamento: ma qui, appunto, non una sintesi generica era in gioco, bensì un’operazione di trasceglimento critico. Ovvero un saper individuare – partendo dai connotati analitico-specifici del presente e nel contempo utilizzando strumenti sintetico-razionali o di collegamento con il versante del passato – quali antecedenti offrissero una congruenza logica tale da poter aiutare nella soluzione di problemi attuali. Lasciando perdere gli antecedenti disomogenei che, non avendo affinità logica con il presente, sono di pura antecedenza cronologica. Con quali prospettive di successo, tutto ciò? Entra in campo il connotato saliente di queste «medie» o «sintesi», cioè il loro essere ipotetiche. La «media di antecedenti e conseguenti» con cui operano le «scienze morali» «non è una media categorica e assoluta», non ha pretese sovrastoriche. È, al contrario, «una media solo sperimentalmente vera» (ibidem, corsivo mio). Nel senso ch’essa funziona soltanto se possiede una «sua finale chiarificante congruenza con le istanze storico-materiali, o effettivamente problematiche, da cui è nata la ricerca e il concettoipotesi». È, concludeva Della Volpe, il «circolo solito: concreto-astratto-concreto» (ibidem). Si potrebbe descrivere la cosa anche così: il «conseguente», rapportandosi a una serie di «antecedenti» (non a tutti indistintamente, ma a quelli congruenti con il «concreto» da risolvere, e che di volta in volta è imposto dalle istanze problematiche o difficoltà proprie del tempo attuale), instaura un nesso funzionale di concreto-astratto-concreto. Dove i tre termini sono a) il concreto dell’esperienza presente da cui la ricerca muove, b) le più generali e ricorrenti istanze razionali del passato assunte però anch’esse come astrazioni non metastoriche bensì storiche determinate, e infine c) la convergenza di queste «medie concettuali» (cioè del lavoro di accoglimento, vaglio e utilizzazione critica del patrimonio ideologico-storico recepito) con gli interrogativi concreti e via via «presenti» della prassi umano-sociale. Il controllo attraverso la prassi rientra nel carattere di indagine sperimentale attribuito all’intero procedimento. Ma a che cosa serve? Vogliamo a questo punto tentare un bilancio? E chiederci anche a che cosa serva occuparsi ancora del Della Volpe epistemologo della storia? Una volta individuato nel metodo sperimentale delle scienze naturali un modello gnoseologico generalizzabile perché rispondente all’istanza di un’interazione positiva tra materia e ragione, la proposta di un metodo similarmente sperimentale per le «scienze morali» o storico-umane fu un’operazione del tutto coerente. Conforme d’altronde all’idea, che vi stava dietro, di una logica necessariamente unitaria che governasse i due campi. E la quale, proprio perché attenta allo specifico delle operazioni conoscitive, doveva anche badare che, pur nell’unità del criterio d’ispirazione, non si smarrissero però le diversificazioni tecniche dei percorsi. Dunque diversità di tecniche operative dentro un’unica valenza di metodo. È istruttivo al riguardo il Cenno sommario di un metodo del 1964 (ripubblicazione di uno Schema del mio materialismo, delineato da Della Volpe nel 1956). Può servire anche da riepilogo delle tre direzioni di ricerca del filosofo: la logica (con sviluppi che vanno sino alla Chiave della dialettica storica del 1964), l’etica sociale incentrata sulle quattro edizioni del Rousseau e Marx dal 1957 al 1964, e l’estetica culminata nella Critica del gusto del 1964. In quel Cenno sommario la teoria logico-storica occupa sei pagine, l’etica e l’estetica poco più di una pagina ciascuna. È evidente dunque l’insistenza sui criteri della logica sperimentalista come strumenti comuni a ogni ricerca. Gli strumenti devono esser quelli di una «logica non dogmatica», la quale prende l’avvio dalla «critica materialistica» (marxiana) della «dialettica aprioristica moderna (hegeliana)» (1964, p. 357) e intende svilupparsi a «dialettica come storia-scienza» ovvero a una logica che «applica alle stesse proprie categorie il criterio della messa-a-punto storica» (ivi, p. 362). In accordo con tale strumento, l’etica è perciò principalmente «una teoria della libertà fondata sulla storia» (ivi, p. 363, corsivo mio), essendo infatti una coalescenza appunto storica, lungo tutta l’epoca moderna, di libertà individuale, giustizia sociale e uguaglianza. Ma anche «l’impostazione dei problemi dell’estetica non può derivare [...] che da una valutazione storico-scientifica delle istanze antinomiche classiche» dell’estetica, cioè «della istanza del sentimento (o fantasia) e della istanza opposta della razionalità (o verosimiglianza)» (ivi, p. 364, corsivo mio). «Dalla legge fisica alla legge morale e a quella economica», insomma dalle scienze della natura a quelle storico-umane – aveva già avvertito Della Volpe nella Logica – «variano certo le tecniche che le costituiscono, quanto varia l’esperienza e la realtà; [...] ma non varia il metodo, la logica, il cui simbolo è il suddetto circolo concreto-astratto-concreto» (1950, p. 467). Punto di forza del metodo era che il sapere non fosse campato in aria ma verificabile, e che a dirne la «verità» fosse comunque la prassi. E ciò al di là del fatto che la specificità dei contenuti delle varie scienze imponesse a esse delle diversità tecniche nel procedere. Lo storico non può certo riprodurre in laboratorio le condizioni di accadimento della Rivoluzione francese o putacaso del colonialismo moderno, onde ricevere una conferma sperimentale della sua spiegazione-ipotesi di quegli eventi. Né può, al fine di introdurre controlli incrociati, ricreare in laboratorio una Rivoluzione francese o un colonialismo con dati diversi da quelli che questi fenomeni ebbero, per vedere come la sua teoria si comporterebbe di fronte a dati modificati. Ma possiede anche lui un mezzo, non meno cogente, per valutare se le sue «medie di antecedenti e conseguenti» siano adeguate o no alla «prassi», ovvero ai problemi del suo proprio presente storico. Il criterio della prassi va infatti preso in un’accezione gnoseologica larga. Esso è un momento gnoseologico di verifica o di falsificazione dell’ipotesi rispetto al quale le tecniche di attuazione della verifica sono un elemento subordinato. Se la prassi viene assunta nel senso largo di funzionalità operativa, allora alla verifica sperimentale dell’ipotesi presiede un principio ben preciso. Ovvero che l’ipotesi è valida finché spiega un numero di fatti maggiore di quello che si riesce a spiegare senza quell’ipotesi. Essa viene falsificata – o tutta o solo in parte (e, rispettivamente, è da cambiare interamente, oppure solo da correggere, rettificando il tiro) – quando compaiono i cosiddetti fatti contraddittori: vale a dire fatti che nell’ambito di quell’ipotesi non dovrebbero emergere mai, oppure fatti che addirittura vanno in direzione contraria all’ipotesi. Con quanta più completezza una teoria, astrazione, categoria riesce a dar conto della realtà dei fatti nell’ambito della loro estensione e della loro intensione, quanto minore è il numero dei fatti che restano «fuori», che la teoria non padroneggia, e quanto minore è il numero dei fatti che la contraddicono, tanto più questa teoria, astrazione, categoria è valida. Ciò avviene nelle scienze della natura come in quelle dell’uomo. In entrambi i campi le astrazioni logiche (infatti anche le «ipotesi» sono un modo di astrazione!) muovono dal concreto dei dati di fatto all’elaborazione razionale del protocollo dei dati. Procedono a un astratto (che però, per così dire, «poggia i piedi per terra» e non fa voli metafisici), per poi confrontare nuovamente le astrazioni con il concreto dei fatti onde vedere se esse funzionano. Il merito del Della Volpe epistemologo non sta soltanto nell’accento posto su quel comune fondamento di prassi, ma nell’averne esposto in dettaglio la dinamica. Credo perciò che la sua Logica continui a rendere buoni servigi. I cartelli ch’essa mostra rendono avvertiti di non cadere in trappole della teoria e in trappole della prassi. Entrambe vengono tese spesso e volentieri, perché farvi cadere la gente produce risultati profittevoli a chi ritiene che il ragionamento critico sia pericoloso. Le trappole della teoria spacciano come strada maestra le più disparate e mistificanti semplificazioni di quel che è invece assai complesso. Dunque patrocinano l’imbonimento retorico oppure affastellano filosofemi oscuri e complicati che ottundono, tra le altre bussole, anche quella del senso comune. Le trappole della prassi celebrano l’empiria grezza immediata, occultando i contesti e le correlazioni dentro cui il molteplice sempre si colloca. Entrambi i tipi di trappola disabituano alla ricerca. Inibiscono l’autonoma capacità del distinguere critico e dell’unificare distinguendo, la quale capacità, questa sì, è il genuino patrimonio umano da non alienare. Sono dunque di ostacolo anche a una prassi critica e consapevole perché di essa inibiscono gli strumenti. Fornire strumenti di conoscenza alla prassi sembrò all’ultimo Della Volpe l’ufficio primario della filosofia. In un’intervista sull’Espresso del 17 gennaio 1965, gli chiesero se la filosofia ancora esistesse. Rispose che «se intendiamo la filosofia come quando la studiavamo al liceo, possiamo ben dire che è morta. Oggi la filosofia è sociologia, è politica, è economia, è storia. Deve servire a capire la società. Non può fare altro». A meno di non ridursi, intendeva, a una cucina di aria fritta, all’esternazione di un mero flatus vocis. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Testi di Della Volpe: 1924: L’idealismo dell’atto e il problema delle categorie (Bologna, Zanichelli), in Opere, a cura di Ignazio Ambrogio, Roma: Editori Riuniti, 1972-73, vol. 1. 1930: Il misticismo speculativo di maestro Eckhart nei suoi rapporti storici (Bologna: Cappelli), in Opere, vol. 1. 1933-35: La filosofia dell’esperienza di David Hume (Firenze: Sansoni), 2 voll. (I, 1933; II, 1935), in Opere, vol. 2. 1939: Il problema dell’«esistenza» in Aristotele, Hume e Kant e il suo rapporto con quello estetico, Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina, Palermo: Ciuni, in Opere, vol. 3. 1941: Crisi critica dell’estetica romantica (Messina, D’Anna), assieme a una seconda edizione (dal titolo Crisi dell’estetica romantica, Roma: Samonà e Savelli, 1963), in Opere, vol. 3. 1942: Critica dei princìpi logici (Messina: D’Anna), in Opere, vol 3. 1948: Per la teoria di un umanismo positivo. Studi e documenti sulla dialettica mistificata (Bologna: Upeb/Zuffi), in Opere, vol. 4. 1950: Logica come scienza positiva (Messina: D’Anna), assieme alla seconda edizione (ivi, 1956), in Opere, vol. 4. 1964: Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica (Roma: Editori Riuniti, quarta ediz.), in Opere, vol. 5 1967: Critica dell’ideologia contemporanea. Saggi di teoria dialettica (Roma: Editori Riuniti), in Opere, vol. 6. Strumento bibliografico indispensabile per orientarsi negli scritti di Della Volpe (sono registrati 290 titoli, tra monografie, saggi, articoli, contributi a giornali, voci di enciclopedia eccetera) è: C. VIOLI, (1978), Galvano della Volpe. Testi e studi (1922-1977), con un’introduzione di N. Merker, Messina: La Libra.