Nicolao Merker, ad memoriam
Ripubblichiamo del grande storico della filosofia, scomparso domenica scorsa all'età di
84 anni, i due testi che aveva pubblicato per la nostra rivista, il primo nel 2001 sull'idea
di nazione e il secondo nel 2005, sulla figura di Galvano Della Volpe.
È con molta tristezza che diamo notizia della scomparsa, avvenuta domenica scorsa nella sua
casa romana all'età di 84 anni, di uno dei più rilevanti storici della filosofia del secondo
dopoguerra, Nicolao Merker. In ciascuno degli ambiti di studio nei quali ha profuso le sue
energie, Merker ha lasciato tracce profonde e durature e ha ottenuto ampi e convinti
riconoscimenti. I suoi studi sulle origini della logica hegeliana e sull’illuminismo tedesco
hanno, infatti, ottenuto un'attenta ricezione nel pubblico scientifico internazionale e trovato il
loro posto negli scaffali di tutte le principali biblioteche. Sono, in particolare, tre gli ambiti di
studio entro i quali Nicolao Merker ha proficuamente lavorato: la storia della cultura tedesca
moderna, con particolare attenzione alla storia dell’illuminismo e dell’idealismo tedeschi;
Marx e la storia del marxismo; la ricostruzione della storia dell’idea di “nazione”. Entro il
primo ambito, oltre al già menzionato e voluminoso studio del 1961 sulle Origini della logica
hegeliana, uno dei primi in Italia a valorizzare seriamente la Logica e metafisica di Jena del
1804-1805, ci piace ricordare il notevole L’illuminismo tedesco. Età di Lessing, apparso nel
1968, con la sua importante rivalutazione delle acquisizioni maturate sul terreno
gnoseologico ed estetico dall’illuminismo tedesco a matrice empiristica, sensistica e
materialistica, e in particolare da Lessing, del quale Merker è stato in Italia uno dei più grandi
e appassionati studiosi del dopoguerra. Ma, sempre entro questo contesto scientifico,
ragguardevoli sono stati anche i suoi studi sulla storia della cultura tedesca, specificamente
con il suo libro La Germania. Storia di una cultura da Lutero a Weimar, sul giacobinismo
tedesco, sul criticismo kantiano, su Herder, la sue emerite traduzioni della Estetica e del
Rapporto dello scetticismo con la filosofia di Hegel, della Missione del dotto di Fichte, della
Metafisica dei costumi di Kant. In tutto questo confronto pluridecennale con il punto più alto
della cultura tedesca Merker ha potuto far valere la sua sensibilità filosofica maturata alla
scuola di Galvano della Volpe, del quale è stato uno degli allievi più ricettivi. La concezione
dellavolpiana della collaborazione e distinzione funzionale fra l’unità dell’intelletto e la
molteplicità della sensibilità è così stata da Merker utilizzata come discrimine per valutare i
risultati ottenuti dalla cultura tedesca sette-ottocentesca. Ne è conseguita una aspra e
argomentata critica dell’illusione neoplatonica dell’idealismo hegeliano e un giudizio
favorevole verso tutte quelle concezioni a forte direzione materialistica e dotate di un solido
rapporto con il mondo della prassi sociale degli uomini. Di Della Volpe Merker ha anche
proseguito e arricchito l’interesse per Marx e la storia del marxismo. Al primo ha dedicato
numerosi saggi e, in particolare, la monografia Karl Marx 1818-1883. Della storia del
marxismo, invece, ha scelto di sottoporre a precisa e puntuale analisi la corrente
austromarxista, sulla quale ha pubblicato nel 1996 un libro dal quale non è più possibile
prescindere, Il socialismo vietato. Miraggi e delusioni da Kautsky agli austromarxisti.
Recentemente, era ancora intervenuto sul tema in uno dei suoi due splendidi saggi (l'altro
essendo sulla socialdemocrazia tedesca a cavallo fra '800 e '900) contenuti nella Storia del
marxismo curata per Carocci da Stefano Petrucciani. Peraltro, l’indagine compiuta
sull’austromarxismo rappresenta il trait-d’union con la terza area di interesse che ci è parso di
poter enucleare come significativa e meritevole di apprezzamento nell’opera di Merker, e cioè
con la ricostruzione della storia dell’idea di “nazione”. All’esame della questione nazionale
nell’austromarxista Bauer Merker ha, infatti, fatto seguire Il sangue e la terra: due secoli di idee
sulla nazione. Ma l’attività di Merker è stata infaticabile: è del 2006 la sua bella analisi dell’idea
della missione civilizzatrice dell’Europa in Europa oltre i mari. Il mito della missione di civiltà.
In una carriera intellettuale costellata da così tanti e vivi interessi non si possono dimenticare,
infine, il suo costante impegno didattico, svolto per lo più all'Università la Sapienza di Roma, e
quello per una storiografia filosofica che sia aperta alle giovani generazioni e a un più esteso
pubblico di lettori. La sua Storia della filosofia, l’Atlante storico della filosofia e la sua cura di
una Storia della filosofia moderna e contemporanea testimoniano della grande competenza e
dell’assoluto rigore con cui ha compiuto questa impresa.
Giorgio Cesarale
INDIVIDUI O NAZIONI?
Dalla Rivoluzione francese all’unificazione tedesca, dall’Austria plurinazionale pre-1914 alla
‘Grande Serbia’: un viaggio alle radici della nostra idea di nazione, un appello a mantenere la
memoria storica perché la civiltà non si laceri fino agli orrori delle pulizie etniche.
NICOLAO MERKER – DA MICROMEGA 2/2001
1. Oltre vent’anni fa un saggio del politologo americano Walker Connor recava un titolo
emblematico: «Una nazione è una nazione, è uno Stato, è un gruppo etnico, è...» (W. Connor,
1994 [1978], pp. 36-46). Era emblematico perché sottolineava la complessità polisensa della
parola «nazione», dunque la difficoltà di definirla. L’appello di Connor a un lavoro di definizione,
indispensabile per liberarsi dai grandi e fatali equivoci che accompagnano da due secoli l’idea
moderna di nazione, è non solo condivisibile, ma anche da ampliare ben oltre una semplice
analisi dei concetti.
Se ci si chiede che cosa sia una nazione, allora il primissimo quesito da sbrogliare, e che
s’incontra da duecent’anni, è infatti se essa sia una comunità tenuta insieme da vincoli di
sangue, o l’appartenervi venga invece mediato da legami culturali. E nell’ipotesi che operino
entrambi i fattori, bisognerebbe subito chiedersi in che modo interagiscano tra di loro e quale
dei due, eventualmente, sia quello predominante. E se non sono connotati biologici ma valori
culturali a segnare l’appartenenza a una nazione, è poi vero che si tratta sempre e soltanto dei
valori specifici di questa o quella nazione determinata, tali dunque da escludere radicalmente gli
appartenenti ad altri gruppi? Insomma, il connotato di fondo è davvero il monoculturalismo?
Oppure esistono valori di civilizzazione generale, che sono sovraordinati ai singoli
monoculturalismi, sì da permettere che culture storicamente nazionali coesistano (e si
integrino: ma c’è da capire in quale misura) dentro un quadro multiculturale? E quando si parla
di monoculturalismo, si intende una qualità permanente, costretta a un’eterna riproduzione di
se stessa fuori da ogni mutare di tempi e luoghi, o si tratta di una configurazione storica, nata
per rispondere a sollecitazioni determinate, e destinata a cambiare con il cambiamento di
queste? E infine, se il fenomeno «nazione» è un modo di essere della società civile, quali
rapporti vi sono con la sfera della politica, e che cosa si intende con il concetto di Stato
«nazionale»?
È difficile che queste domande ricevano una risposta funzionale, cognitivamente valida e
dunque utile anche per la prassi, se non soccorre la memoria storica. Se cioè non si va a
interpellare, per un tema di così enorme peso nell’età moderna come quello della nazione, la
trama degli antecedenti insieme storici e logici che in esso si sono via via depositati. La trama
presenta alcuni snodi emblematici. Occorre dedicarvi molta attenzione perché da essi sono
scaturite conseguenze, spesso drammatiche, fino all’oggi nostro.
2. Il primo snodo, certo, è la Rivoluzione francese del 1789. Per due motivi. Perché quell’evento
ha conferito all’idea di nazione un’accezione del tutto nuova, e perché il modo in cui il 1789 e i
suoi principî sono entrati in altri paesi europei ha dato luogo a mescolamenti, spesso indigesti,
con concezioni più primitive e più arcaiche. La novità francese fu l’idea della nazione come un
ambito di universali diritti umani di cittadinanza. Dagli eventi postrivoluzionari nacque invece,
soprattutto in Germania, la riduzione della «nazione» alla più ristretta delle sfere immaginabili,
cioè all’elemento etnico come connotato decisivo.
Credo che bisogni considerare attentamente ciò che intorno al tema della nazione accadde nella
Germania dell’Ottocento. Il motivo sta nelle cose: è infatti lì, come in una sorta di laboratorio
nazional-politico al centro dell’Europa, che la componente etnica del principio di nazionalità si è
maggiormente scontrata con quella universalistica, producendo nello scontro esiti funesti.
Il principio di nazionalità proclamato nell’Ottocento europeo («ogni nazione uno Stato, ogni
Stato una sola nazione») identificava sostanzialmente la nazione con la stirpe e con il territorio
che questa abitava. L’assioma della nazione etnicamente omogenea, già di per sé gravido di
discriminazioni verso grandi numeri di persone, si potenziò con la dottrina dell’omogeneità
biologico-razziale di essa, con l’imperativo che la discendenza di sangue dovesse essere pura.
Nazionalismo etnico e razzismo divennero compagni di strada. Gli orrori delle pulizie etniche, di
cui è pieno il Novecento, ne saranno il corollario.
Le due linee – quella francese e quella tedesca, per indicarle schematicamente – hanno una
radice comune, cioè la moderna politicizzazione del concetto di nazione, il suo collegamento
con lo Stato come apparato giuridico-territoriale. Ma salta agli occhi la differenza che c’è tra un
concetto della nazione-territorio il quale ritiene che appartenere a una nazione significhi
appartenere a una società civile, insediata sì in un determinato territorio, epperò con
godimento di diritti universali da parte di tutte le componenti di essa senza distinzione di
stirpe; e la concezione per cui la nazione-territorio e la titolarità dei diritti devono avere
contrassegni etnici, esser riservate a una determinata etnia, razza, discendenza. Quest’ultima
dottrina ha trovato la sua sintesi nel binomio «Blut und Boden», «il sangue e la terra»,
enfatizzato, come si sa, dall’ideologia nazista. In Germania (ma pure altrove) quel binomio aveva
però avuto lontane avvisaglie già alla fine del Settecento, e anche lì, non a caso, in
contrapposizione alle idee liberal-democratiche del 1789.
Sono convinto che quanto più si faccia attenzione a come questi due filoni dell’idea moderna di
nazione sono nati e cresciuti (e hanno tra loro interagito), tanto più si arriverà a capire in quale
modo ci si debba comportare di fronte al concetto di nazione oggi, che cosa si possa (debba)
fare o non fare con esso oggi.
3. Nell’Europa dopo la Rivoluzione francese il processo di nation-building moderno, cioè la
costruzione della nazione-Stato («ogni nazione uno Stato») e dello Stato-nazione («ogni Stato
una sola nazione»), avvenne nella maniera più appariscente (e perciò più istruttiva) nei due
grandi paesi, la Germania e l’Italia, che all’epoca della Rivoluzione del 1789 si trovavano ancora
frazionati in svariate compagini statuali. Già nell’Ottocento vi fu chi per la Germania e l’Italia
tracciò una sorta di storia parallela verso l’unità nazionale. In entrambi i paesi l’unità venne
creata dall’alto, cioè con una particolare politica di potenza svolta in modo costante da uno dei
singoli Stati, rispettivamente la Prussia e il Piemonte.
In realtà solo in Germania il processo verso l’unità nazionale si svolse in modo per così dire
puro, senza influenze traumatiche esterne. In Italia esso si trovò mischiato con la questione
della liberazione dal dominio straniero, dunque con guerre d’indipendenza che impressero
all’intera questione nazionale connotati del tutto peculiari. Infatti ogni qualvolta la strada
dell’unità nazionale ha avuto a sua precondizione il raggiungimento dell’indipendenza (il che
nell’Ottocento è successo ad esempio anche alla Grecia e ad altri paesi balcanici che dovettero
liberarsi dai turchi, e dopo il 1945 ai paesi del Terzo Mondo che dovevano uscire dalla
dominazione coloniale), al processo di nation-building vero e proprio è stata rivolta
un’attenzione teorica fatalmente inadeguata, sono state considerate di meno tutte le sue
complessità e implicazioni, perché non esso, bensì l’indipendenza costituiva il vero punto
decisivo.
4. È il motivo per cui in Germania, immune da presenze straniere dal 1813, dalla fine del
dominio napoleonico, fu la questione nazionale allo stato puro a diventare, da allora, un tema di
primo piano nella pubblicistica. La quale sviscerò con molte voci – dai linguisti agli storici, dai
letterati ai filosofi – i connotati che nel secolo del principio di nazionalità erano ritenuti
essenziali alla nazione. A un connotato in particolare quella pubblicistica diede un fortissimo
rilievo, cioè all’omogeneità etnica. Nacquero qui, come dottrina e teorizzazione, i paradigmi
della nazione etnica, dello Stato etnico e del territorio etnico, poi i corollari della nazione-razza e
dello Stato razziale, infine le persecuzioni, espulsioni ed eventualmente soppressioni di stirpi
diverse da quella privilegiata che considerava lo Stato e il territorio un suo proprio patrimonio.
Quei paradigmi servirono da ottimo supporto a politiche nazionalistiche e poi imperialistiche
di potenza, di solito ammantate da dichiarazioni sulla missione universale che alla nazione
eletta spettava di compiere.
I celebratori della nazione eletta s’ispiravano all’idea del Volkstum, un termine coniato
dall’organizzatore di associazioni ginnastiche Friedrich Jahn nel suo libro Deutsches Volkstum
del 1810, un titolo traducibile, molto in generale, con «Etnicità di popolo tedesca». Ma con
qualche necessaria spiegazione. Il termine indicava caratteristiche «nazionali» sì, ma
fortemente agganciate all’etnia di stirpe, concepita come una comunità primeva che inocula
coesione al «popolo», al Volk. Vi risuonava la nozione di popolo in accezione romantica, cioè
come un’immediata e mistica «unità naturale, meta-individuale, fornita di qualità personali e di
una propria personale esistenza» (W. Dieckmann, 1964, p. 97). In chiave politica un tale
concetto di popolo ha sempre avuto applicazioni conservatrici. È governato da idee
organicistico-corporative, comunque antimoderne e d’impronta irrazionalistica. Il loro
itinerario – con vari recuperi di veterogermanicità mistificata e strumentalizzata – si svolse da
Justus Möser nel Settecento e da Adam Müller e Jahn degli inizi dell’Ottocento sino alle grandi
ideologie ottocentesche del «Blut und Boden», e poi al nazismo. L’endiadi «sangue e terra» aveva
fatto le sue prime prove pratiche con il nazionalismo etnopopulista tedesco degli inizi
dell’Ottocento, si era irrobustita più in là con il connubio tra i dottrinari della razza e i teorici
dello Stato di potenza, venne infine ribadita dal nazismo intento a celebrare, ad esempio con le
parole del suo geopolitico Haushofer, il «compenetrarsi delle forze del sangue e della terra, onde
ne nasca un destino di popoli che vegli sul crescere delle stirpi» (in H.-A. Jacobsen, 1979, p. XI).
Via via il termine Volkstum e i suoi derivati (ad esempio gli aggettivi völkisch, volklich,
volksmässig eccetera che indicano l’appartenenza al «popolo» nell’accezione suddetta), nonché
in generale il prefisso Volk, acquistarono insomma connotati culturali crescentemente
regressivi, e applicazioni politiche sempre più reazionarie. Se infatti la nazione deve
identificarsi con i valori della stirpe, allora diventano imperative sia l’esclusione
dell’«etnicamente diverso», sia l’invenzione di ideologismi per rendere coesa la comunità
etnonazionale. Poiché va difesa dagli estranei, è necessario governarla come un campo militare
sul quale incombono infinite minacce. Perciò occorreva un capo carismatico autoritario, un
Führer che guidasse la nazione etnica alla stregua di un capo dei primevi aggregati tribali.
Capire il funzionamento di questi meccanismi concettuali è importante. Il modulo «del sangue e
della terra» ha infatti avuto sì la sua maggiore elaborazione sistematica nell’area tedesca, ma
pure altrove è stato abbondantemente applicato e sviluppato. Basterebbe ricordare l’inglese
Burke, il mentore degli avversari della Rivoluzione francese, che spiegava la nazione come «un
patto non solo tra chi è in vita oggi, ma tra i vivi, i morti e i non ancora nati», insomma un patto
metafisico che mediante «inviolabile giuramento» di tipo mistico «connette il mondo visibile e
quello invisibile» (E. Burke, 1910 [1790], pp. 93-94). O lo scrittore Maurice Barrès che, sul
giornale Cocarde, nel 1894, chiamò a raccolta i nazionalisti francesi con la parola d’ordine: «La
Terre et les Morts». Anche qui – con una retorica che non avrebbe stonato nei romantici
tedeschi inventori del «Blut und Boden», ossia del binomio-chiave di ogni etnonazionalismo
perché saldatura di stirpe e territorio – la catena dei morti, degli antenati e dunque delle
tradizioni diventava il vincolo mistico che sacralizza il territorio dove godono di pieni diritti solo
i discendenti dell’etnia originaria. Indispensabile è in ogni caso appellarsi alle «origini», e
celebrare le glorie del passato affinché queste, grazie al legame di sangue delle generazioni, si
proiettino misticamente sul presente. Nelle ideologie della «Grande Croazia» e della «Grande
Serbia» il glorioso futuro nazionale è stato, ad esempio, regolarmente dedotto vuoi dalla potenza
navale dei re croati medievali, vuoi dal numero dei caduti serbi sul Campo dei merli del 1389
contro i turchi. Né va dimenticato che quando, in tutti i contesti di nazionalismo etnico, gli
autori parlano di «popolo» per dire quanto essi ne condividano aspirazioni e volontà, non si
tratta affatto del popolo nell’accezione democratica del 1789, ma sempre del popolo-stirpe in
endiadi con il territorio etnico predestinatogli (e con tutti i cesarismi autoritari e misticismi
pseudoreligiosi connessi a una simile concezione).
5. Nell’Ottocento l’area mitteleuropea, in una sua larga parte, aveva potuto sperimentare per la
verità anche configurazioni nazionali di altro genere, assai diverse dallo Stato-nazione. L’impero
asburgico, formato da una dozzina di nazionalità, rappresentò per la cultura politica una sorta
di laboratorio dove tentare, forse, una mediazione tra l’universalità dei diritti di cittadinanza e la
specificità delle etnie, cioè le due sfere altrove considerate inconciliabili. Nel «laboratorio
danubiano» i molti ingredienti che nell’Ottocento vennero a costituire il concetto moderno di
nazione (cioè stirpe, territorio, lingua, religione e costumi, affinità culturali, istituzioni politiche,
omogeneità socio-economica, collocazione geografica, storia comune) si trovarono sottoposti a
una verifica pratica che ne ridimensionò parecchi.
Fu del resto la realtà di quell’Austria a suggerire le riformulazioni della questione nazionale
tentate all’inizio del Novecento dall’austromarxismo. Esso appartiene a quel gruppo di teorie
che, con vari esiti, guardarono al processo di nation-building in chiave di prospettiva storica,
ovvero concepivano la nazione, di contro alle dottrine sia mistico-metafisiche che biologicovitalistiche, come il prodotto di volta in volta sincronico, epperò via via variabile, di una serie di
dinamiche diacroniche (culturali, ambientali, socio-economiche, politiche). Ripassarne in
rassegna i parametri non è male, oggi, di fronte al riesplodere di nazionalismi sciovinistici,
regionalismi equivoci, localismi velleitari, xenofobie primitivistiche e pulizie etniche. Tra l’altro
ci si accorgerà quanto poco originali siano le ideologie che accompagnano tali fenomeni. E che
lo strumentario per appurarne i sintomi e le cause, e combatterle, esiste da un pezzo.
6. In particolare alcune teorie elaborate nell’Austria plurinazionale di prima del 1914
contengono probabilmente ancora qualche suggerimento valido persino per un’aggiornata
politica di integrazione-distinzione delle nazionalità nell’Unione europea di oggi. E certamente
il pluralismo etnico-culturale, che connota ovunque la realtà odierna, è un dato di fatto che non
si può sopprimere ma che, come tutti i fatti, va compreso e «governato». Più di un secolo fa
Moritz Lazarus, cofondatore dell’interessantissimo indirizzo scientifico della Völkerpsychologie
e intellettuale tedesco ebreo, dunque membro di una minoranza etnica, voleva una nazione la
quale potesse reggersi «senza rinnegare nulla dei patrimoni della stirpe e senza rinnegare nulla
dei principî umani universali» (M. Lazarus, 18802, p. 37). Il riferimento, chiarissimo, era ai
principî del 1789 e alla necessità che il patrimonio delle stirpi, cioè il particolare, trovasse
collocazione dentro quei principî, si iscrivesse cioè dentro valori più generali.
E ciò per una ragione semplicissima. I patrimoni etnici con la loro storia e tradizione sono una
realtà robustamente esistente, composita e sfaccettata, sopprimibile con le «pulizie etniche» solo
illusoriamente, come insegnano i fatti. Che l’identità etnica sia sussunta sotto una dimensione
più universale, cioè sotto l’identità politica generale dei diritti democratici di cittadinanza,
conviene in primo luogo proprio all’identità etnica, la quale solamente così può venir garantita.
È un’istanza ripetuta oggi, più di cent’anni dopo Lazarus, da Jürgen Habermas. Affinché la
società civile non si laceri fino agli orrori delle pulizie etniche, occorre arrivare all’«unità della
cultura politica nella molteplicità delle subculture» (J. Habermas, 1998 [1996], p. 130) o culture
particolari. Ovvero: proprio per salvare le stesse culture particolari e dunque i valori etnici che
in esse si manifestano, occorre che la «nazione reale dei cittadini» abbia la priorità nei confronti
della «nazione immaginaria», quella favoleggiata da chi vede nel «popolo» soltanto un collettivo
etnico (ivi, p. 133). Con ciò però siamo ritornati all’imperativo di fondo, politico-istituzionale, il
quale vieta che le differenze etnoculturali si traducano in disuguaglianze sociali e politiche, vieta
il debordare politico delle idee etnicistiche. Questa tracimazione avviene ogni qualvolta la
constatazione delle fattuali diversità etniche (di lingua, razza, cultura, tradizioni eccetera)
trapassa nella dottrina che tra i gruppi portatori di queste differenze si debbano instaurare
separazioni rigide e istituzionali.
Gli studi anglosassoni e tedeschi al riguardo sono un mare. Negli autori che contestano
l’etnicismo come dottrina di fondazione della nazione c’è però l’altrettanto diffuso avvertimento
che la coltivazione moderna di vecchie tradizioni etnonazionali è solo in parte un feticcio
mentale gratuito, perché viene fatta fungere anche nella costruzione di orizzonti seclusi con cui
difendersi (illusoriamente sì, ma come esigenza psicologica reale) da forme di globalizzazione le
quali disorientano perché appaiono troppo complesse e incontrollabili. Da noi l’attenzione per
tutti questi temi è finora minore, e oscilla tra informazioni sul concetto di «nazione»
prevalentemente descrittive (F. Tuccari, 2000), e saggi che denunciano vivacemente i guasti
dell’ideologia etnopopulista (B. Luverà, 1999). Al di là di ciò è utile cominciare un’esplorazione
che faccia emergere in modo sistematico e criticamente analitico le strutture argomentative, i
moduli logico-storici, i livelli di validità teoretica, insomma il funzionamento concettuale dei
discorsi sulla nazione che via via, in collegamento con gli eventi storici, si sono succeduti
nell’epoca moderna. Ci si accorgerà che il filo d’Arianna per orientarsi nel presente c’è, ed è
molto visibile. Esso soprattutto indica le strade da non prendere, quelle che storicamente hanno
portato verso grandi disastri. Acquistarne consapevolezza è un’operazione necessaria, ma
richiede molti apporti, multiformi e diversificati, per diventare un patrimonio di senso comune.
Al quale ultimo ho cercato di dare un contributo (N. Merker, 2001) sollecitando il ripristino della
memoria storica perch’essa è uno strumento formidabile.
OPERE CITATE
E. BURKE, (1910), «Reflections on the Revolution in France and on the Proceedings in Certain
Societies in London Relative to that Event in a Letter intended to have been sent to a Gentleman
in Paris» (London 1790: Dodsley), in ID., Reflections on the French Revolution and other Essays,
London: Dent & Sons.
W. CONNOR, (1994), «A Nation is a Nation, is a State, is an Ethnic Group, is a...» (1978), in J.
HUTCHINSON-A.D. SMITH (a cura di), Nationalism, Oxford-New York: Oxford University Press.
W. DIECKMANN, (1964), Information oder Überredung. Zum Wortgebrauch der politischen
Werbung in Deutschland seit der Französischen Revolution, Marburg: Elwert.
J. HABERMAS, (1998), L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (Die Einbeziehung des Anderen.
Studien zur politischen Theorie, Frankfurt a.M. 1996: Suhrkamp), trad. it. L. CEPA, Milano:
Feltrinelli.
H.-A. JACOBSEN, (1979), Karl Haushofer. Leben und Werk, Boppard am Rhein: Boldt.
M. LAZARUS, (18802), Was heisst national. Ein Vortrag (1879), Berlin: Dümmler.
B. LUVERÀ, (1999), I confini dell’odio. Il nazionalismo etnico e la nuova destra europea, prefazione
di Lucio Caracciolo, Roma: Editori Riuniti.
N. MERKER, (2001), Il sangue e la terra. Due secoli di idee sulla nazione, Roma: Editori Riuniti.
F. TUCCARI, (2000), La nazione, Roma-Bari: Laterza.
DELLA VOLPE, UN FILOSOFO MATERIALISTA MODERNO
Un excursus nel singolare cammino intellettuale del filosofo italiano, dall’addio
all’idealismo al ‘galileismo morale’ del marxismo, dal rapporto tra storicità della
scienza/scienza della storicità fino all’ufficio primario della filosofia dell’ultimo Della
Volpe: fornire strumenti di conoscenza alla prassi.
NICOLAO MERKER – DA MICROMEGA 5/2005
La formazione irrequieta
in un ambiente culturale conformista
Galvano Della Volpe, ma chi era costui, di quali cose filosofiche si occupava? Il nome,
probabilmente, non dice nulla o quasi a chi oggi studia all’università e forse sta per laurearsi
proprio in filosofia. A meno che non gli fosse capitato qualche docente le cui radici ed
esperienze culturali personali risalissero magari a prima del più o meno mitico Sessantotto
(mirabilis o horribilis a seconda delle ben note contrapposte vulgate), o il quale avesse
conservato interessi per temi di politica e di ideologia (intesa qui come idee e convinzioni nate
da un preciso humus storico) collegati, in quei tempi, al marxismo e alle sue vicende in Italia.
Già, perché il filosofo Della Volpe, che morì nel 1968 e dalla cui nascita sono passati oggi
esattamente centodieci anni, aveva nell’ultimo venticinquennio della sua vita aderito al Partito
comunista italiano, si era dichiarato marxista, e nelle ricerche sul marxismo aveva conseguito
esiti di notevole innovazione. Era stata, così suonavano sue parole di bilancio, «una ricerca
intellettuale “di sinistra” durata più di un quarto di secolo» (1967, p. 303).
Ma agli occhi dello studente di oggi, ventenne o venticinquenne, già il Sessantotto sta a una
distanza enorme, e quel che precede può assomigliare al Giurassico. Non saranno allora vera e
propria archeologia, inutili per la prassi e da mettere solamente in museo, anche i pensieri
filosofici di quelle lontanissime epoche? Anzitutto dipende dai pensieri, taluni sì, altri no. Ma
questo, spero, risulterà dopo.
Intanto vale una premessa. Il Novecento – chiamato da Hobsbawm, si sa, il «secolo breve» – ha
avuto una singolare peculiarità. Quella di indurre in qualche modo a una percezione alterata
(appunto «abbreviata») del tempo storico.
Ciascun settore di quel secolo è stato densissimo di eventi di enorme portata, ognuno con
conseguenze misurabili quasi subito. Ognuna delle conseguenze ha innescato nuovi
accadimenti in modo talmente rapido da far fermare l’attenzione più sul nesso causale
immediato che sugli antecedenti più lontani. L’attenzione dimidiata è stata favorita pure dalla
velocità del processo informativo, per cui ogni informazione nuova si è subito sostituita di peso
a quelle precedenti e ha facilitato anche per questa via la dimenticanza del passato. La
percezione del tempo storico ha rischiato e rischia di diventare quella di un tempo storico
parcellizzato, a compartimenti stagni che poco o punto comunicano tra loro e dove dunque ciò
che si perde è il continuum.
Probabilmente – voglio qui anticipare, perché solo alla fine, mi auguro, le conclusioni di merito
salteranno fuori – il lato di maggiore attualità che oggi si può indicare del pensiero di Della
Volpe riguarda proprio le sue riflessioni sulla storia, sulle connessioni lunghe tra gli eventi e le
generazioni. Con intenti abbastanza sistematici le svolse a partire dal 1950, l’anno della sua
Logica come scienza positiva.
Ebbe però a percorrere, prima, un cammino intellettuale assai singolare. Anche di sorprendente
originalità a riguardarlo retrospettivamente, soprattutto pensando all’ambiente culturale
italiano in cui l’imperante neoidealismo, di marca crociana o gentiliana, ostacolò di regola le
aperture verso itinerari che non fossero ipostrade provinciali.
All’inizio c’era stata in Della Volpe un’adesione alla variante gentiliana del neoidealismo, nel
libro L’idealismo dell’atto e il problema delle categorie (1924). Ma nient’affatto pacifica. A
immobilizzarsi «nella lettera dell’attualismo» (ivi, p. 38), osservava il filosofo inquieto, ovvero
del sistema di Gentile imperniato sull’unità aprioristica dell’«atto» del pensiero, si sarebbero
perse le «differenze empiriche» del «mondo della natura» e di quello «storico-sociale o morale»
(ivi, pp. 18-19), con conseguente impossibilità di risolvere «il problema metafisico del
molteplicarsi dell’uno» (ivi, p. 22). L’assioma filosofico dell’idealismo era – lo ricordo qui a chi ha
perso memoria di quelle formule arcaiche – che da un’Unità originaria (chi la chiamava
Pensiero, chi Idea, Spirito eccetera, ma si poteva anche teologicamente chiamarla Dio) tutto il
resto (i molti, il mondo, le differenze) sarebbe disceso per automoltiplicazione («autoctìsi», atto
di «autoproduzione», lo chiamava Gentile) di quell’Unità.
Nei caratteri propriamente teologici che storicamente le dottrine sull’automoltiplicazioni
dell’Uno assumono, Della Volpe s’imbatté poco dopo, durante ricerche sulla mistica medievale
che lo portarono nel 1930 al libro Il misticismo speculativo di maestro Eckhart nei suoi rapporti
storici. Fu accolto con notevole silenzio dal neoidealismo spiritualistico che nella cultura
filosofica italiana stava celebrando i suoi fasti. Non piacque trovar squadernata nella filosofia
mistica da Plotino in poi la linea dei propri antenati, e veder documentate le fonti teorico-storico
remote, in ultima analisi teologiche, dell’emarginazione dei diritti del discreto o molteplice. Dai
mistici, puntualizzava Della Volpe, Dio viene «calato nell’uomo non a gloria dell’uomo e del
mondo specificamente umano, ma a gloria di Dio stesso, e i valori propriamente umani e terreni
restano, infine, nell’ombra, o meglio sono negati» (1930, p. 527).
E allora non era forse implicito che la stessa cosa avvenisse anche se a «Dio» si fosse sostituito
«Pensiero», lo «Spirito», l’«Idea» eccetera? Tanto più che Della Volpe appena un anno prima, nel
libro Hegel romantico e mistico (1793-1800), aveva ricostruito con una minuziosa analisi delle
fonti la genesi e i primi sviluppi della dialettica hegeliana attraverso l’incontro nel giovane Hegel
fra tardo illuminismo e protoromanticismo, sottolineando soprattutto i lati «misticizzanti» di
quella dialettica. Anche quest’impostazione, della scoperta di una «mistica» nell’antenato diretto
del neohegelismo italiano ufficiale, mal si accordava con i trionfi di quest’ultimo e, in particolare,
con i suoi edifici speculativi refrattari alla lettura filologica diretta dei testi.
L’addio all’idealismo
Attraverso questi studi andò maturando in Della Volpe la convinzione che proprio
nell’emarginazione dei diritti del discreto o molteplice risiedesse l’insostenibilità epistemica
dell’idealismo. Per uscire dalle secche si sarebbe dovuto, così gli parve, metter nuovamente
mano ai principî della logica per vedere se da essi fosse enucleabile una funzionalità diversa da
quella usualmente consacrata dalla tradizione, se si potesse cioè adoperarli in vista di una
positiva complementarità (da instaurare) tra la fungibilità generalizzata delle astrazioni da un
lato, e dall’altro la loro capacità di mordere sulla realtà in guisa specifico-concreta.
Un avvio di soluzione gli venne studiando Hume. Il suo libro La filosofia dell’esperienza di Davide
Hume (1933-35) analizzò nel primo tomo i testi logico-gnoseologici di Hume, nel secondo le
concezioni morali, politiche e religiose del filosofo. Hume lo aiuterà – in un contesto che
ovviamente non era più quello humiano – non solo a definire la «positività del molteplice» (cioè
del «senso o sentimento in genere») come coelemento materiale della sintesi gnoseologica
razionale, ma anche a utilizzare il binomio di materiale-razionale come una chiave adatta sia a
fare i conti con la metafisica dell’idealismo spiritualista, sia però anche a neutralizzare i pericoli
di una metafisica dell’empirico la quale assolutizza il dato di fatto immediato. La bussola egli
cominciò a intravederla nella metodologia delle scienze, anzitutto delle scienze della natura. La
filosofia di Hume gli parve «il primo passo decisivo verso una coscienza speculativa della
scienza moderna», e già una «conferma critica delle intuizioni metodologiche di Galileo e di
Newton» (ivi, p. 163).
A commento e parafrasi dei testi humiani, o come conclusioni tratte da essi, troviamo locuzioni
significative. La premessa, mutuata da Hume e condivisa, era che «il ragionamento, da solo, non
può mai far nascere un’idea nuova» (ivi, p. 133). Perciò Hume viene descritto come il
protagonista di un’«apologia della scienza della natura umana ossia della filosofia della coscienza
comune», una filosofia di principî i quali «si accordino con la vita e l’esperienza comune» (ivi, p.
218). «Hume ci ammonisce, insomma, ancor oggi, di stare ai fatti, ai dati della coscienza», la cui
unità «dev’essere non presupposta astrattamente ma rintracciata solo (si badi) attraverso i nessi
che offre la vita stessa dell’autocoscienza, colta in tutta la sua pienezza fenomenologica» (ivi, p.
438). Sicché «una pura descrittiva trascendentale – o analitica dell’autocoscienza» sembrò
intanto, al Della Volpe riscopritore delle istanze dell’empirismo e patrocinatore dei dati di fatto
come punto di partenza, un possibile ottimo «principio di orientamento», soprattutto per
«evitare la sterilità» (conoscitiva, epistemica) che è punto d’approdo della «tendenza unitaria e
semplificatrice con cui si annuncia entro di noi la sempre rinnovantesi minaccia del
dogmatismo della ragione» (ibidem).
Vale la pena di menzionare ancora due luoghi di queste conclusioni su Hume perché nella
riflessione di Della Volpe essi ritorneranno con puntuale precisione molto più in là, quando ai
suggerimenti avuti da Hume si aggiungeranno quelli ricevuti da una lettura assai specifica di
Marx. La quale metterà in primo piano un Marx teorico della conoscenza ed epistemologo delle
scienze umane. Il primo dei due luoghi sembra solo un fuggevole accenno: «Dai risultati si
misurano i metodi, anche in filosofia» (ivi, p. 438), dice brevemente Della Volpe per significare
che era stata in Hume la bontà del metodo (ovvero la bontà della descrizione analitica dei fatti) a
rendere possibile il riconoscimento della «positività del molteplice». Vale insomma il criterio
della prassi: è quest’ultima a comprovare la funzionalità di una filosofia.
L’operazione fatta da Della Volpe negli anni Venti e Trenta come storico della filosofia era stata di
analizzare i risultati a cui conducevano in filosofia il metodo spiritualistico da un lato (Gentile, e
dietro di lui Hegel, e dietro Hegel il mistico medievale Eckhart) e il metodo empiristico dall’altro
(Hume); e di saggiare attraverso quell’analisi la funzionalità, la tenuta di strada, di quei metodi.
L’istanza di Della Volpe diventò insomma assai presto quella di individuare i difetti del
procedimento speculativo attraverso l’incapacità a esso connaturata di spiegare i fatti concreti e
molteplici (logici o storici che siano): risaliva cioè dalla negatività delle conseguenze (le
contraddizioni che si manifestano nella mediazione «speculativa» dei fatti) alla negatività del
procedimento. Vedremo con quale e quanta ampiezza questo criterio sperimentalista tornerà
alla ribalta nel Della Volpe maturo.
Il secondo luogo in questione, e che pure compariva nelle conclusioni su Hume, riguarda i
connotati della ricerca causale identificata con la ricerca scientifica. Spicca tra essi il «processo
induttivo indispensabile alla scienza»: il quale – come rilevò Della Volpe sulla scorta di riflessioni
del matematico e filosofo inglese della scienza Alfred North Whitehead – «non è
generalizzazione meccanica e passiva [...] ma bensì un processo in cui noi “diviniamo” alcune
caratteristiche di un particolare futuro dalle caratteristiche conosciute di un particolare
passato» (ivi, p. 436). Ma non vuol forse dire, questo, che dunque il nesso causale esplica il suo
ruolo, sotto forma di eventi antecedenti (passato) e loro conseguenti (futuro), anche nel tempo
storico, nel legame sia tra le epoche seriali della storia che tra i singoli settori di una singola
epoca e in quello, infine, tra i saperi teorico-pratici storici costruiti e sperimentati dalle
generazioni che via via si susseguono?
Questo tema della storia rimase qui un accenno isolato, senza proseguimenti. Quindici anni
dopo, nella Logica come scienza positiva del 1950 (ma erano sopraggiunti nel frattempo gli
stimoli del marxismo), l’istanza di appurare le connessioni tra passato, presente e futuro sia
logico-gnoseologiche (dunque a livello di teoria epistemica) che pratico-conoscitive nel campo
del fare diventerà l’anima unificante delle tre linee d’indagine in cui poi si dispiegò il suo
pensiero: ovvero la logica e gnoseologia, l’estetica e il terreno etico-politico.
Dopo il bagno humiano, Della Volpe provò a sondare e interrogare sul tema della «positività del
molteplice» (o anche del «senso» o del «sentimento») altri filoni filosofici. Ma solo uno di essi gli
si rivelerà funzionale.
Nel volumetto Crisi critica dell’estetica romantica (1941) apprezzerà talune affermazioni di
Nietzsche e Heidegger che prima facie potevano sembrare una rivalutazione del mondo
ontologico del finito concreto e individuale in un’ottica antidealistica. Senonché rileverà anche
come Nietzsche dalla sua «concezione negativa dell’intelletto», costantemente svalutato al modo
dei mistici, fosse stato sospinto «a una concezione romantica del senso come pura unità o
infinità» (ivi, p. 91), dunque a una posizione misticheggiante non utilizzabile per un discorso
serio sulla complementarità di senso e ragione. E poiché l’ontologia del finito di Heidegger è
un’ontologia nettamente psicologistica, permane «l’incertezza ed oscurità in cui [egli] lascia
avvolta la natura del sentimento» (ivi, p. 80); e dunque nemmeno qui riesce a emergere il
problema vero, «ch’è il rapporto del molteplice o mondo con l’uno» (ivi, p. 104), insomma del
mondo materiale dei fatti con le operazioni razionali del collegarli.
L’unico patrimonio di storia delle idee che a Della Volpe parve effettivamente utilizzabile per
risolvere quel problema, era – come ebbe a esplicitare, professore di fresca chiamata
all’università di Messina, nella prolusione al suo corso di storia della filosofia del 1939 – una
lignèe filosofica che da Aristotele arriva a Kant, dentro la quale si trova certamente Hume, e che
ha come obiettivo la trasvalutazione dell’«esistenza», del molteplice puramente fattuale
empirico, in un molteplice conosciuto, cioè immesso in rapporti categoriali. Il suo progetto
mirò a una filosofia la quale «dovrebbe – attraverso principalmente un approfondimento critico
del noema aristotelico ossia mediante una teoria fenomenologico-trascendentale del cosiddetto
concetto empirico – pervenire a una deduzione simultanea del sensibile e del logico: e si
rivelerebbe, insomma, al contempo, una logica (e una pratica)» (1939, pp. 421-422).
L’enunciazione, buttata lì di getto, conteneva temi ai quali il filosofo avrebbe poi lavorato per
anni: l’utilizzazione in chiave empirista di Aristotele (ma anche di Kant), la parità di diritti del
«sensibile» e del «logico», infine la pratica, l’adoperabilità nella prassi, come criterio della bontà
della logica. Una prima vendemmia fu, nel 1942, la Critica dei princìpi logici, un libro nato via via,
dal 1940-41, attraverso le lezioni universitarie. I principî logici denunciati come sterili di sapere
erano quelli del platonismo, antico e moderno. Ovvero la concezione che il sensibile,
tradizionalmente bollato come «non essere», sarebbe conoscenza inferiore, di secondo grado,
da abbandonare quanto più rapidamente possibile a favore dell’unica verità vera, quella
dell’«autocoscienza».
In difesa dei diritti del sensibile Della Volpe schierò sia i rilievi critici di Aristotele alla dialettica
idealistica di Platone, sia gli spunti che pure in quest’ultimo, quando è «autocritico»,
provengono dall’avvertenza che il «non essere» non è il «nulla», bensì l’«altro dall’essere».
Sicché allora il problema del discorso razionale fecondo di conoscenza (ovvero della logica al
servizio della gnoseologia, e viceversa) è quello della «tauto-eterologia». Bisogna tener ferme,
perché reciprocamente complementari, la funzione unificatrice della ragione (l’istanza del
«medesimo», del to autón) non meno di quella della non-contraddittorietà, anzi indispensabilità
del molteplice materiale (o istanza dell’«altro», del to éteron). Se Kant ancora lavorava alla
complementarità, a una sintesi di eterogenei, questa invece sparì quando l’autocoscienza
speculativa di Hegel semplicemente fagocitò l’empiria (magari poi risputandola fuori in veste
alterata, deteriore, come rilevò il giovane Marx nella sua critica del metodo speculativo
hegeliano: ma ciò è cosa in cui Della Volpe si imbatterà sì, ma dopo, da marxista). Né ai vicoli
ciechi dell’«autocoscienza» rimediarono le logiche di Croce e Gentile.
Nell’avvertenza al libro l’autore spiegava di voler «contestare agli idealisti la legittimità del
concetto di verità come autocoscienza, e opporre all’esistenzialismo la validità dell’intelletto
(criticamente inteso) come la soluzione più coerente dei suoi problemi». Un’offensiva su due
fronti, insomma, come già gli scritti precedenti delineavano. Un ausilio, così Della Volpe, gli era
venuto dal «ripensare per conto proprio la storia della filosofia», cioè la storia «degli antecedenti
dei problemi posti» (1942, p. 137). Il rilievo è interessante, perché proprio la dialettica degli
antecedenti e conseguenti collocata nella temporalità della storia, la loro correlazione mediante
opzioni selettive funzionali, connoterà di lì a un decennio quella che continuo a ritenere la
peculiarità maggiore di Della Volpe, cioè il suo esser stato, alla fine, un epistemologo della storia.
Si ricorderà, poco sopra, l’accostamento della «logica» alla «pratica», da Della Volpe fatto
esplicitamente nel 1939. Ebbene, esso ritorna, ma ormai molto precisato e ampliato, anche
nelle ultime righe dell’avvertenza alla Critica dei princìpi logici. Il «concetto della verità o realtà
come autocoscienza» – vi si legge – ha una valenza sociale nient’affatto asettica o neutrale ma
negativa, di oppressione. In quel concetto s’incentra «il moderno umanismo teologico», in altre
parole il fagocitamento degli uomini-individui da parte di aprioristiche Unità originarie, entità
metafisiche (chiamate Pensiero, Idea, Spirito eccetera, ma anche teologicamente Dio). La
sovranità di una tale autocratica autocoscienza si presta benissimo a una «disumana
concezione dell’umano lavoro». Lo mostra, come esemplifica Della Volpe, «il richiamo di uno, a
caso, dei corollari etici della filosofia dello spirito come autocoscienza»: ad esempio il
convincimento di Gentile sui rapporti tra lavoro e cultura quando quel filosofo
dell’autocoscienza traccia una separazione naturale ed eterna tra (parole di Gentile) il «lavoro
umano» incrostato «quasi alla terra», l’uomo lavoratore «sempre in certo modo il servo della
gleba», e «il pensiero [che] spazia sempre liberamente nel suo mondo infinito» (ivi, p.138). Gli
intellettuali elitari da un lato, la massa plebea dall’altro.
Rifiutare questo steccato era, da parte del neoprofessore a Messina, una manifestazione di
impegno civile pubblico, di militanza sociale etico-pratica se vogliamo, nient’affatto trascurabile
se si pensa ai tempi che correvano. Un anno dopo, nell’opuscolo Discorso sull’ineguaglianza
(1943), la protesta contro quell’«umanismo teologico», ovvero contro il «concetto tradizionale,
dogmatico-teologico o innatistico, della “persona” o “dignità” umana singola» (1943, p. 269),
investì Rousseau e il giusnaturalismo borghese: inaugurando contro la nozione di «persona
originaria» (in quanto, storicamente, camuffamento ideologico dei privilegi classisti), una resa
dei conti che darà l’impronta a tutte le successive elaborazioni etico-politiche di Della Volpe.
Un materialismo critico
La crisi dell’idealismo, così ancora nell’avvertenza alla Critica, non sembrava affatto, all’autore,
una passeggera crisi «all’interno del sistema, nel sistema», la quale dunque consentisse di
muovere all’idealismo qualche marginale critica non invasiva, ma senza, per carità, «rinunciare
al suo dogma fondamentale (la verità come autocoscienza)». Per lui invece si trattava, al
contrario, «propriamente della crisi del sistema» (1942, p. 137), dell’idealismo in quanto tale,
come una filosofia ormai non più riformabile perché non più in grado di fornire né conoscenza
né orientamenti per la prassi. Ma allora su quale ingrediente nuovo, inedito fare leva?
L’indicazione venne da fuori, da nulla che avesse a che fare con il vecchio «sistema». Cioè da
testi di Marx che, intanto, diedero stimolo al professore per approfondire e sviluppare la critica
dei pretesi valori «innati» della giusnaturalistica «persona originaria» e a essa contrapporre
l’emancipazione sociale (La teoria marxista dell’emancipazione umana. Saggio sulla
trasmutazione marxista dei valori, 1945; La libertà comunista. Saggio di una critica della ragione
«pura» pratica, 1946).
Seguì, poco dopo, la lettura di altri testi marxiani, quelli di logica e filosofia etico-politica del
Marx giovane, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843 e i Manoscritti
economico-filosofici del 1844. La traduzione fattane da Della Volpe, unita ai suoi commenti nel
volume Per la teoria di un umanesimo positivo: Studi e documenti sulla dialettica materialistica
(1948), aprì per la prima volta alla cultura italiana un’area del marxismo sino ad allora
praticamente ignota. Sembrò a Della Volpe che la «consapevole realizzazione della dialettica nella
scienza» fosse ormai, in filosofia, l’ineludibile «compito «teorico»», il «primo compito» (1948,
p. 143). Ovvero che qualunque ricerca sulla dialettica, onde uscire dai vicoli ciechi della
«dialettica mistificata», cioè quella idealistica in generale e hegeliana in ispecie, dovesse
imparare dalla metodologia delle scienze, sia della natura che dell’uomo.
Nel 1950 uscì un libro di logica di Della Volpe, dal titolo Logica come scienza positiva. Una
seconda edizione, accresciuta, seguì nel 1956. Entrambe, oltre alle parti su Platone, Aristotele,
Kant e Hegel già presenti nella Critica dei princìpi logici, contenevano due nuovi capitoli che
trattavano, rispettivamente, il «passaggio dalla critica antica del platonismo alla critica moderna,
materialistica, della ragion pura» (dove la critica di Aristotele a Platone trovava il suo parallelo in
quella di Marx al metodo di Hegel) e «il principio di identità tauto-eterologica e la dialettica».
L’aggettivo «positiva» del titolo significava, nel clima filosofico di allora, una logica non di pure
astrazioni, racchiusa nelle regioni idealistiche del cosiddetto Spirito, bensì ancorata nella
positiva esperienza umana delle cose, le quali, si sa, sono molteplici, concrete e materiali.
Sarebbe stata una logica per capire meglio l’empirico e, se era il caso, anche per intervenire a
modificarlo. Così la logica diventava consustanziale alla gnoseologia. Una dozzina di anni prima,
nel 1938, l’americano John Dewey aveva scritto una Logica, teoria dell’indagine. Vi si esprimeva
un’analoga istanza di una scienza basata sull’esperienza operativa, antidealistica; e Della Volpe
apprezzava la cosa (il che, tra l’altro, è uno dei tanti indizi di come il suo pensiero era riuscito,
anche prima dell’incontro con il marxismo, a sfuggire al provincialismo filosofico italiano).
L’esperienza umana è caratterizzata dalla storicità. Noi sempre, inevitabilmente, costruiamo il
nostro quadro del mondo dentro le condizioni, sempre mutevoli, in cui via via ci troviamo. Di
volta in volta agisce questa o quella collocazione personale, questa o quella possibilità
(individuale e sociale) di fruire del patrimonio di sapere accumulato dalle generazioni passate,
questa o quella facilità o difficoltà, soggettiva e oggettiva insieme, di maneggiare gli strumenti
conoscitivi e volitivi. Il modo del nostro riprodurre la realtà nella mente ha una dinamica
sperimentale perché altre maniere di muoversi dentro l’esperienza non esistono. In particolare i
risultati che via via raggiungiamo nella riproduzione concettuale del mondo, non possono mai
valere una volta per tutte. Vi osta il fatto, lapalissiano, che né i soggetti né gli oggetti sono entità
statiche. Entrambi cambiano e si trasformano nel tempo. Da ciò deriva al sapere il connotato di
storicità.
Sono, queste, le primissime considerazioni suggerite dal programma che Della Volpe enunciò
nella prefazione alla Logica del 1950. Bisogna, egli diceva, tener fermo il concetto «della
storicità-scientificità della stessa logica filosofica o gnoseologia» (1950, p. 283). La storia è
dunque presente nei contenuti stessi della logica. Inoltre la logica è connaturata alla gnoseologia.
E l’acquisizione del sapere – di ogni sapere, da quello delle scienze della natura a quello delle
scienze dell’uomo – funziona come un procedimento di tipo sperimentale. Parecchi anni dopo,
nel 1967, e dopo aver ormai diffusamente applicato il suo discorso del metodo ai campi delle
ricerche etico-politiche e di estetica, Della Volpe spiegò che in una futura ristampa quel testo di
logica avrebbe dovuto chiamarsi, in modo «più adeguato e definitivo, Logica come scienza
storica» (1967, p. 303). Egli vedeva dunque se stesso come un epistemologo della storia.
Facciamo un altro passo. Si può parlare di storicità della scienza perché una delle componenti del
sapere scientifico è l’impronta a esso derivata dalla storicità delle esperienze umane. Ma queste,
in quale specifico modo diventano un sapere o, in particolare, si traducono in scienza? Per Della
Volpe il processo conoscitivo doveva svolgersi come un consapevole rapporto funzionale tra due
elementi: da un lato il versante della molteplicità dei dati di fatto empirico-materiali, dall’altro la
capacità della ragione di coniugarli dentro un quadro unitario di riferimento. L’ineliminabilità
del dato materiale in tutti i campi di constatazione (nella cognizione della natura come in quella
delle realtà dell’uomo) diventò in Della Volpe un’istanza di fondo. La materialità acquistò la
dignità di un «principio critico della materia», come lo chiamava: nel senso ch’egli intese
provarne la cogenza a contrariis, partendo cioè dalla descrizione dei guasti che inficiano il
discorso della ragione quando esso ignora o dimentica (trascende) la presenza della datità
materiale fattuale.
Esistendo quest’impostazione della ricerca già nel Della Volpe premarxista, si possono capire i
risultati filosoficamente fecondi del suo contatto, poi, con la critica di Marx alla filosofia
hegeliana del diritto statuale. In questa critica del 1843 c’era stato un dettagliato ragionamento
sui guasti a cui conduce lo svuotamento dell’empiria quando la si registra solo per trascenderla.
Marx arrivò ivi alla denuncia dei difetti dell’idealismo e dello spiritualismo precisamente
analizzando l’incapacità in generale della speculazione idealistica di mediare i fatti, cioè
constatando ch’essi rimanevano e persistevano come «cattiva empiria» nonostante la
speculazione avesse preteso di mediarli. Aveva mostrato con dovizia di esempi come «lo
scambio dell’empiria in speculazione» (compiuto dall’idealista Hegel ogni qualvolta sottraeva
valore al molteplice per assolutizzare l’apriori) subiva il contrappasso dello «scambio della
speculazione in empiria», cioè del prendere poi lo spiritualista anche l’empiria più grezza come
un’incarnazione di ipostatizzate idee aprioristiche, dell’inevitabile suo spacciare verità
empiriche per verità filosofiche (nella fattispecie, da parte di Hegel, la monarchia prussiana del
1820 come l’essenza dello Stato in universale).
Di contro ai processi di ipostatizzazione sterili di conoscenza, fu nel metodo sperimentale
galileiano – grazie al circolo di osservazione, ipotesi ed esperimento che lo caratterizza – che
Della Volpe vide invece l’applicazione di principî logico-gnoseologici i cui connotati
antiaprioristici e antimetafisici garantivano una comprensione adeguata degli oggetti e dei
fenomeni della natura. Gli nacque a questo punto un quesito innovativo. Non potrebbe cioè
un’analoga impostazione di «sperimentalismo», un analogo criterio di funzionale
antiapriorismo valere anche per la scienza dei fatti storici, per le scienze cosiddette morali?
Della Volpe diceva di sì, chiamò quel criterio un «galileismo morale» (ad esempio 1950, pp. 403,
449, 469), e se ne occupò a lungo. Aver dato all’antiapriorismo nel campo delle scienze storiche
non soltanto una formulazione generale di metodo, ma poi anche elaborazioni in dettaglio, si
rivelò di forte modernità.
Poiché il concetto della storicità della scienza gli si collegò coerentemente all’istanza
complementare di tentare un abbozzo di scienza della storicità, egli nell’ultimo ventennio della
sua vita fu effettivamente, per gran parte del suo pensiero, un epistemologo della storia. Stimoli
essenziali gli vennero, si è già visto, dalla sua adesione al marxismo. In particolare da
un’originale lettura delle istanze metodiche antiaprioristiche del marxismo, da lui utilizzate
come indicazioni per analizzare sia lo strumentario logico-teoretico da seguire in campo di
storia delle idee, sia i compiti operativi che ne sarebbero derivati allo storico.
Storicità della scienza, scienza della storicità
Il procedimento usato dallo scienziato della natura – cioè la scansione di osservazione, ipotesi ed
esperimento – venne chiamato da Della Volpe anche «circolo di concreto-astratto-concreto». Il
«concreto» come momento di partenza è ovviamente l’iniziale osservazione dei fatti. Il
successivo momento «astratto» rappresenta la loro elaborazione nella provvisoria spiegazione
razionale formulata come «ipotesi». Il finale ritorno al «concreto» designa la verifica
sperimentale dell’ipotesi. C’è forse la possibilità che questi momenti di metodo agiscano – in
una qualche maniera e morfologia (ma bisognerà allora capire quale) – anche nelle «scienze
dell’uomo», dunque anche nel mestiere dello storico delle idee? Della Volpe ne era convinto, e
non solo perché poteva trovare citazioni di Marx sull’unità sostanziale delle due scienze. Ad
esempio nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 la previsione che «la scienza dell’uomo
comprenderà un giorno la scienza naturale»: ovvero, commentava Della Volpe, ne «adotterà il
metodo sperimentale» e sarà, nello specifico, «un metodo storico-sperimentale» (1950, p. 468,
corsivo mio). Oppure, nella seconda delle Tesi su Feuerbach del 1845, il richiamo alla necessità
che il pensiero umano sempre, quali che siano i campi in cui si esplica, debba «provare nella
pratica» la sua «verità»: al quale proposito Della Volpe parlò di «galileismo morale marxiano nel
suo aspetto positivo e costruttivo» (ivi, p. 449).
Soprattutto un altro testo marxiano fornì a Della Volpe suggerimenti per il suo discorso sulla
scienza della storicità. Era uno scritto di metodologia, ovvero l’introduzione di Marx del 1857 a
Per la critica dell’economia politica. Della Volpe provò a estendere alla struttura concettuale di
tutte le «scienze dell’uomo», in quanto scienze storiche, le analisi che Marx aveva fatto di una di
esse, cioè dell’economia politica. I risultati di quella generalizzazione si potrebbero riassumere
così.
Anche lo storico, come lo scienziato della natura, deve partire dall’osservazione-descrizione dei
fatti che ha scelto di indagare. La scelta, è chiaro, vuole esplicitare problemi, dare risposta a
interrogativi che sorgono nel presente dell’indagatore. Richiede anzitutto un «contatto filologico
non generico» con l’oggetto (ivi, p. 483), ovvero esattezza della descrizione e cautela nel non
omettere dati che potrebbero rivelarsi significativi. Della Volpe chiamava questo momento «il
dato problematico o istanza storico-materiale» (ivi, p. 479, corsivo mio).
I fatti delle «scienze umane» hanno però una caratteristica peculiare. Hanno una storia in cui
sono conglobate tutte quelle loro stratificazioni e modificazioni che precedono il momento in
cui il ricercatore, nel suo proprio presente storico, a quei fatti si accosta. Di queste
stratificazioni, modificazioni e soluzioni di problemi avvenute in tempi passati, alcune
appartengono ormai definitivamente al passato. Rispetto al nostro oggi sono istanze, idee e
soluzioni di efficacia esaurita, semplici precedenti cronologici. Altre hanno continuato a vivere
anche oltre i tempi ai quali appartiene la loro genesi. Occorre dunque vedere se, rispetto al loro
esser nate e aver agito nel passato, non contengano anche un «di più». Ovvero siano non
soltanto meri precedenti cronologici, bensì «antecedenti istanze storico-razionali» (ivi, p. 451,
corsivo mio). Ovvero «antecedenti logico-storici» (ivi, p. 464, corsivo mio) nel senso di essere
ancora congruenti, sia pure alla lontana, con problemi che anche il nostro presente si trova a
dover affrontare.
Qual è la funzione conoscitiva di questi «antecedenti logico-storici» di un problema del
presente? Essi ci consentono di tener davanti agli occhi a) gli elementi concettuali generali (o
categorie generali) che hanno accompagnato quel problema attraverso le epoche, e insieme
anche b) le forme concettuali specifiche – le cosiddette astrazioni determinate (un termine
adoperato dal Marx dell’introduzione del 1857 e sul quale Della Volpe ha insistito molto) – che
sono state utilizzate nel corso della storia per descrivere il problema con le caratteristiche
specifiche di esso via via venute alla ribalta. A esse il presente storico di oggi aggiungerà altre e
nuove astrazioni specifiche. Lo farà sia basandosi sugli elementi nuovi contenuti nelle
esperienze storico-materiali attuali, sia riconsiderando tutta la gamma degli antecedenti alla luce
dei bisogni dell’oggi.
Logica e storia, ovvero ‘antecedenti’, ‘conseguenti’ e ‘medie’
Sono impliciti, in quel che precede, alcuni punti di rilievo. Intanto il forte accento sul presente
storico come punto d’avvio delle indagini. Non è solo per l’ovvio motivo che da nessun altro
contesto il ricercatore può muovere se non da quello a lui contemporaneo.
Vi sono due motivi ulteriori, attinente l’uno alla composizione strutturale dei fenomeni storici,
l’altro alla morfologia dei processi conoscitivi.
In una serie temporale diacronica di fenomeni, quello temporalmente ultimo, di cui siamo
spettatori e attori, è sempre il più ricco di determinazioni. Esso contiene e riepiloga, esplicite o
implicite, visibili o nascoste, tutte le fasi della sua formazione. Che l’anatomia dell’uomo sia la
chiave dell’anatomia della scimmia non è una battuta.
Parallelamente, dal lato conoscitivo, il presente è quel luogo specifico in cui la ricerca, se fatta
bene, squaderna davanti allo storico l’intera gamma di tutti gli antecedenti e di tutti i
conseguenti esistiti prima dell’inizio della ricerca. Li ha davanti tutti. Ma non può assumerli
indistintamente tutti, come se tutti gli antecedenti fossero i padri di tutti i conseguenti e
avessero tutti lo stesso peso. Lo vieta la specificità dei problemi del presente. Essa, se
l’indispensabile aggancio ad antecedenti del passato vuole contenere prospettive di
funzionalità, impone che si trascelgano esattamente quegli antecedenti che con il presente
abbiano ancora dei gradi di omogeneità.
Compito dello storico sembrò a Della Volpe quello di costruire «ipotetiche medie di antecedenti e
conseguenti» (ivi, p. 484), dove il termine «medie» equivaleva a dire «sintesi» o processo di
collegamento: ma qui, appunto, non una sintesi generica era in gioco, bensì un’operazione di
trasceglimento critico. Ovvero un saper individuare – partendo dai connotati analitico-specifici
del presente e nel contempo utilizzando strumenti sintetico-razionali o di collegamento con il
versante del passato – quali antecedenti offrissero una congruenza logica tale da poter aiutare
nella soluzione di problemi attuali. Lasciando perdere gli antecedenti disomogenei che, non
avendo affinità logica con il presente, sono di pura antecedenza cronologica.
Con quali prospettive di successo, tutto ciò? Entra in campo il connotato saliente di queste
«medie» o «sintesi», cioè il loro essere ipotetiche. La «media di antecedenti e conseguenti» con
cui operano le «scienze morali» «non è una media categorica e assoluta», non ha pretese
sovrastoriche. È, al contrario, «una media solo sperimentalmente vera» (ibidem, corsivo mio).
Nel senso ch’essa funziona soltanto se possiede una «sua finale chiarificante congruenza con le
istanze storico-materiali, o effettivamente problematiche, da cui è nata la ricerca e il concettoipotesi». È, concludeva Della Volpe, il «circolo solito: concreto-astratto-concreto» (ibidem). Si
potrebbe descrivere la cosa anche così: il «conseguente», rapportandosi a una serie di
«antecedenti» (non a tutti indistintamente, ma a quelli congruenti con il «concreto» da
risolvere, e che di volta in volta è imposto dalle istanze problematiche o difficoltà proprie del
tempo attuale), instaura un nesso funzionale di concreto-astratto-concreto. Dove i tre termini
sono a) il concreto dell’esperienza presente da cui la ricerca muove, b) le più generali e
ricorrenti istanze razionali del passato assunte però anch’esse come astrazioni non
metastoriche bensì storiche determinate, e infine c) la convergenza di queste «medie
concettuali» (cioè del lavoro di accoglimento, vaglio e utilizzazione critica del patrimonio
ideologico-storico recepito) con gli interrogativi concreti e via via «presenti» della prassi
umano-sociale. Il controllo attraverso la prassi rientra nel carattere di indagine sperimentale
attribuito all’intero procedimento.
Ma a che cosa serve?
Vogliamo a questo punto tentare un bilancio? E chiederci anche a che cosa serva occuparsi
ancora del Della Volpe epistemologo della storia?
Una volta individuato nel metodo sperimentale delle scienze naturali un modello gnoseologico
generalizzabile perché rispondente all’istanza di un’interazione positiva tra materia e ragione,
la proposta di un metodo similarmente sperimentale per le «scienze morali» o storico-umane fu
un’operazione del tutto coerente. Conforme d’altronde all’idea, che vi stava dietro, di una logica
necessariamente unitaria che governasse i due campi. E la quale, proprio perché attenta allo
specifico delle operazioni conoscitive, doveva anche badare che, pur nell’unità del criterio
d’ispirazione, non si smarrissero però le diversificazioni tecniche dei percorsi. Dunque
diversità di tecniche operative dentro un’unica valenza di metodo.
È istruttivo al riguardo il Cenno sommario di un metodo del 1964 (ripubblicazione di uno
Schema del mio materialismo, delineato da Della Volpe nel 1956). Può servire anche da riepilogo
delle tre direzioni di ricerca del filosofo: la logica (con sviluppi che vanno sino alla Chiave della
dialettica storica del 1964), l’etica sociale incentrata sulle quattro edizioni del Rousseau e Marx
dal 1957 al 1964, e l’estetica culminata nella Critica del gusto del 1964. In quel Cenno sommario
la teoria logico-storica occupa sei pagine, l’etica e l’estetica poco più di una pagina ciascuna. È
evidente dunque l’insistenza sui criteri della logica sperimentalista come strumenti comuni a
ogni ricerca.
Gli strumenti devono esser quelli di una «logica non dogmatica», la quale prende l’avvio dalla
«critica materialistica» (marxiana) della «dialettica aprioristica moderna (hegeliana)» (1964, p.
357) e intende svilupparsi a «dialettica come storia-scienza» ovvero a una logica che «applica
alle stesse proprie categorie il criterio della messa-a-punto storica» (ivi, p. 362). In accordo con
tale strumento, l’etica è perciò principalmente «una teoria della libertà fondata sulla storia» (ivi,
p. 363, corsivo mio), essendo infatti una coalescenza appunto storica, lungo tutta l’epoca
moderna, di libertà individuale, giustizia sociale e uguaglianza. Ma anche «l’impostazione dei
problemi dell’estetica non può derivare [...] che da una valutazione storico-scientifica delle
istanze antinomiche classiche» dell’estetica, cioè «della istanza del sentimento (o fantasia) e
della istanza opposta della razionalità (o verosimiglianza)» (ivi, p. 364, corsivo mio).
«Dalla legge fisica alla legge morale e a quella economica», insomma dalle scienze della natura a
quelle storico-umane – aveva già avvertito Della Volpe nella Logica – «variano certo le tecniche
che le costituiscono, quanto varia l’esperienza e la realtà; [...] ma non varia il metodo, la logica, il
cui simbolo è il suddetto circolo concreto-astratto-concreto» (1950, p. 467). Punto di forza del
metodo era che il sapere non fosse campato in aria ma verificabile, e che a dirne la «verità»
fosse comunque la prassi. E ciò al di là del fatto che la specificità dei contenuti delle varie scienze
imponesse a esse delle diversità tecniche nel procedere.
Lo storico non può certo riprodurre in laboratorio le condizioni di accadimento della
Rivoluzione francese o putacaso del colonialismo moderno, onde ricevere una conferma
sperimentale della sua spiegazione-ipotesi di quegli eventi. Né può, al fine di introdurre
controlli incrociati, ricreare in laboratorio una Rivoluzione francese o un colonialismo con dati
diversi da quelli che questi fenomeni ebbero, per vedere come la sua teoria si comporterebbe di
fronte a dati modificati. Ma possiede anche lui un mezzo, non meno cogente, per valutare se le
sue «medie di antecedenti e conseguenti» siano adeguate o no alla «prassi», ovvero ai problemi
del suo proprio presente storico.
Il criterio della prassi va infatti preso in un’accezione gnoseologica larga. Esso è un momento
gnoseologico di verifica o di falsificazione dell’ipotesi rispetto al quale le tecniche di attuazione
della verifica sono un elemento subordinato. Se la prassi viene assunta nel senso largo di
funzionalità operativa, allora alla verifica sperimentale dell’ipotesi presiede un principio ben
preciso. Ovvero che l’ipotesi è valida finché spiega un numero di fatti maggiore di quello che si
riesce a spiegare senza quell’ipotesi. Essa viene falsificata – o tutta o solo in parte (e,
rispettivamente, è da cambiare interamente, oppure solo da correggere, rettificando il tiro) –
quando compaiono i cosiddetti fatti contraddittori: vale a dire fatti che nell’ambito di
quell’ipotesi non dovrebbero emergere mai, oppure fatti che addirittura vanno in direzione
contraria all’ipotesi.
Con quanta più completezza una teoria, astrazione, categoria riesce a dar conto della realtà dei
fatti nell’ambito della loro estensione e della loro intensione, quanto minore è il numero dei fatti
che restano «fuori», che la teoria non padroneggia, e quanto minore è il numero dei fatti che la
contraddicono, tanto più questa teoria, astrazione, categoria è valida. Ciò avviene nelle scienze
della natura come in quelle dell’uomo. In entrambi i campi le astrazioni logiche (infatti anche le
«ipotesi» sono un modo di astrazione!) muovono dal concreto dei dati di fatto all’elaborazione
razionale del protocollo dei dati. Procedono a un astratto (che però, per così dire, «poggia i piedi
per terra» e non fa voli metafisici), per poi confrontare nuovamente le astrazioni con il concreto
dei fatti onde vedere se esse funzionano. Il merito del Della Volpe epistemologo non sta soltanto
nell’accento posto su quel comune fondamento di prassi, ma nell’averne esposto in dettaglio la
dinamica.
Credo perciò che la sua Logica continui a rendere buoni servigi. I cartelli ch’essa mostra
rendono avvertiti di non cadere in trappole della teoria e in trappole della prassi. Entrambe
vengono tese spesso e volentieri, perché farvi cadere la gente produce risultati profittevoli a chi
ritiene che il ragionamento critico sia pericoloso. Le trappole della teoria spacciano come strada
maestra le più disparate e mistificanti semplificazioni di quel che è invece assai complesso.
Dunque patrocinano l’imbonimento retorico oppure affastellano filosofemi oscuri e complicati
che ottundono, tra le altre bussole, anche quella del senso comune. Le trappole della prassi
celebrano l’empiria grezza immediata, occultando i contesti e le correlazioni dentro cui il
molteplice sempre si colloca. Entrambi i tipi di trappola disabituano alla ricerca. Inibiscono
l’autonoma capacità del distinguere critico e dell’unificare distinguendo, la quale capacità,
questa sì, è il genuino patrimonio umano da non alienare. Sono dunque di ostacolo anche a una
prassi critica e consapevole perché di essa inibiscono gli strumenti.
Fornire strumenti di conoscenza alla prassi sembrò all’ultimo Della Volpe l’ufficio primario della
filosofia. In un’intervista sull’Espresso del 17 gennaio 1965, gli chiesero se la filosofia ancora
esistesse. Rispose che «se intendiamo la filosofia come quando la studiavamo al liceo, possiamo
ben dire che è morta. Oggi la filosofia è sociologia, è politica, è economia, è storia. Deve servire a
capire la società. Non può fare altro». A meno di non ridursi, intendeva, a una cucina di aria
fritta, all’esternazione di un mero flatus vocis.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Testi di Della Volpe:
1924: L’idealismo dell’atto e il problema delle categorie (Bologna, Zanichelli), in Opere, a cura di
Ignazio Ambrogio, Roma: Editori Riuniti, 1972-73, vol. 1.
1930: Il misticismo speculativo di maestro Eckhart nei suoi rapporti storici (Bologna: Cappelli),
in Opere, vol. 1.
1933-35: La filosofia dell’esperienza di David Hume (Firenze: Sansoni), 2 voll. (I, 1933; II, 1935),
in Opere, vol. 2.
1939: Il problema dell’«esistenza» in Aristotele, Hume e Kant e il suo rapporto con quello estetico,
Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina, Palermo: Ciuni, in Opere, vol. 3.
1941: Crisi critica dell’estetica romantica (Messina, D’Anna), assieme a una seconda edizione
(dal titolo Crisi dell’estetica romantica, Roma: Samonà e Savelli, 1963), in Opere, vol. 3.
1942: Critica dei princìpi logici (Messina: D’Anna), in Opere, vol 3.
1948: Per la teoria di un umanismo positivo. Studi e documenti sulla dialettica mistificata
(Bologna: Upeb/Zuffi), in Opere, vol. 4.
1950: Logica come scienza positiva (Messina: D’Anna), assieme alla seconda edizione (ivi,
1956), in Opere, vol. 4.
1964: Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica (Roma: Editori Riuniti, quarta
ediz.), in Opere, vol. 5
1967: Critica dell’ideologia contemporanea. Saggi di teoria dialettica (Roma: Editori Riuniti), in
Opere, vol. 6.
Strumento bibliografico indispensabile per orientarsi negli scritti di Della Volpe (sono registrati
290 titoli, tra monografie, saggi, articoli, contributi a giornali, voci di enciclopedia eccetera) è:
C. VIOLI, (1978), Galvano della Volpe. Testi e studi (1922-1977), con un’introduzione di N. Merker,
Messina: La Libra.
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Nicolao Merker, ad memoriam