MENSILE DELLA CARITAS ITALIANA - ANNO XXXVI • N. 3 MARZO 2003 • Spedizione in abbonamento postale articolo 2 •comma 20/C • legge 662/96 • filiale di Roma Italiac a r i t a s Immigrati, pratiche in ritardo Periferie, vivere “ai margini” Ciotti: «Torino non declina» SOMMARIO ITALIACARITAS Mensile della Caritas Italiana Organismo Pastorale della CEI Viale F. Baldelli 41 00146 Roma www.caritasitaliana.it Direttore Don Vittorio Nozza Direttore responsabile Ferruccio Ferrante In Redazione Danilo Angelelli, Paolo Beccegato, Paolo Brivio, Giuseppe Dardes, Marco lazzolino, Renato Marinaro, Francesco Marsico, Francesco Meloni, Giancarlo Perego, Roberto Rambaldi, Domenico Rosati Grafica, impaginazione e fotolito: Editrice Adel Grafica srl Vicolo dei Granari, 10a - 00186 Roma Stampa: Omnimedia Via del Policlinico, 131 - 00161 Roma Sede legale Viale F. 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Le offerte destinate ai Paesi in via di sviluppo sono deducibili ai sensi della Legge n. 49 del 26/2/1987. Non è necessario allegare alla dichiarazione dei redditi la ricevuta: basta conservarla per cinque anni. La Caritas Italiana, su autorizzazione della CEI, può trattenere fino al massimo del 5% sulle offerte per coprire i costi di organizzazione, funzionamento e sensibilizzazione. Le offerte possono essere inoltrate alla Caritas Italiana tramite: • Conto Corrente Postale n. 347013 • Banca Popolare Etica, Piazzetta Forzaté, 2 Padova C/C n. 11113 – Abi 5018 – Cab 12100 • Intesa Bci, Agenzia Rm P.le Gregorio VII C/C 100807/07 – Abi 03069 – Cab 05032 • Cartasì e Diners, telefonando al n. 06/541921, in orario d’ufficio. Anno XXXVI n. 3 – Marzo 2003 3 EDITORIALE 4 PAROLA E PAROLE Gesù, emergenza Prendiamoci sulle spalle l’inquietudine di Dio che illumina la nostra vita della pace 5 IL PUNTO SU Se il “buon samaritano” viene sottratto ai controlli 6 7 Un bisogno, un diritto: chi ha sete deve pagare? Regolarizzare l’inatteso, ora tuteliamo le persone 11 14 TERRITORIO E CARITAS POLITICHE SOCIALI Sulle strade di Scampia, l’ascolto va in frontiera Più facile scoprirsi Armi, attacco alla poveri, quale welfare legge: partita vogliamo? persa per la pace? 18 20 I media che dimenticano, tutta colpa del pubblico? Dal dibattito alle proposte, il Forum atteso a un bivio IL PUNTO SU GLOBALCONTINENTI DA ESCLUSI A CITTADINI 16 NON SOLO EMERGENZE OBIETTIVO EUROPA 21 23 OSSERVATORIO DI CONFINE A TU PER TU Lula vuol battere la fame, musica nuova in Brasile? «Un dignitoso declino? La crisi è un’opportunità» 26 28 Hanno collaborato: Oumar che cerca i vestiti e le spose del “Girabito” Vicini ai Rom nei Balcani e alle “famiglie solidali” UN VOLTO UNA STORIA IN FONDO AL MESE Alberto Bobbio Mariagrazia Bonollo Giancarlo Cursi Guido Miglietta Le Quyen Ngo Dình Patrizia Pasini Giovanni Salvini Tilde Silvestri editoriale Prendiamoci sulle spalle l’inquietudine della pace Vittorio Nozza L a domanda di pace che forte e corale si è levata, nelle scorse settimane, da ogni balcone e piazza del mondo è solo figlia della paura per le prevedibili e catastrofiche conseguenze di una nuova guerra? È venata di pregiudizio ideologico o si propone la difesa della vita e dei diritti umani ovunque e comunque? È frutto di una coscienza, sempre più diffusa, dell’interdipendenza che caratterizza il mondo d’oggi? È un’esigenza etica o anche una virtù ispirata dalla grazia? «La violenza si radica nella menzogna e ha bisogno della menzogna (…) La pace ha bisogno di sincerità e di verità: verità significa, anzitutto, chiamare con il loro nome gli atti di violenza, chiamare l’omicidio con il suo nome (…) chiamare con il loro nome i massacri di uomini e di donne, qualunque sia la loro appartenenza etnica, la loro età e la loro condizione (…) chiamare con il loro nome la tortura e (…) tutte le forme di oppressione e di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, dell’uomo da parte dello stato, di un popolo da parte di un altro popolo» (messaggio per la Giornata mondiale della pace, 1980). Oggi esistono conflitti armati che colpiscono soprattutto innocenti indifesi. Come in Medio Oriente, che potrebbe essere di nuovo in fiamme, quando queste righe verranno lette. Ma anche come in molti altri contesti che continuano a essere dimenticati: non solo dal cittadino indaffarato o distratto, ma anche dai mass media e, circostanza forse ancora più preoccupante, dalle istituzioni locali e mondiali. Che fare dunque, per spegnere i venti di guerra ed educare l’ansia di pace che percorre il mondo? Occorre informare, curando il delicato rapporto tra qualità e verità dell’informazione, sovente distorta, banalizzante, approssimativa, fonte di pregiudizi e stereotipi 3 negativi. Occorre formare alla conoscenza, al rispetto, alla responsabilità reciproca. È un compito che spetta a tutti, in primo luogo alla scuola. Occorre educare a percorsi di cittadinanza e mondialità. Mass media, scuola e cittadini responsabili: tutti diventano elementi indispensabili a raddrizzare tendenze preoccupanti. Occorre avviare nuove politiche: le istituzioni hanno la responsabilità di cambiare rotta. La comunità internazionale di fronte a situazioni di guerra o di grave conflitto deve privilegiare la mediazione preventiva e l’adozione di soluzioni nonviolente. Occorre lottare contro la povertà e le disuguaglianze: nessuno può negare che tra le principali cause dei conflitti vi sia la povertà economica. Circa il 90% dei conflitti armati successivi alla seconda guerra mondiale si sono svolti nel terzo mondo: il riequilibrio delle disuguaglianze sociali, unito alla lotta contro la proliferazione degli armamenti e alle lotte ambientali contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse naturali, diventa la base su cui fondare il processo di costruzione della pace. Occorre pregare: ma la preghiera non è un “caricare le spalle di Dio” delle nostre responsabilità; non si può pregare per la pace senza essere ogni giorno nei propri contesti di vita costruttori di ascolto e dialogo; non si può pregare per la fine dello sfruttamento e dell’ingiustizia senza assumere scelte di vita giuste, oneste, da cittadini responsabili e solidali; non si può pregare per le vittime di un disastro o di una calamità naturale senza mettere in atto gesti e opere di solidarietà. Diceva un monaco del deserto: «Se vuoi pregare per qualcuno, occorre che tu sia pronto e capace di prendere sulle tue spal■ le i pesi della sua situazione». Dal mondo si leva una fortissima domanda di pace. E il papa ci insegna che «la violenza si radica nella menzogna». Che fare contro i venti di guerra? Informare, formare, avviare nuove politiche. E pregare, senza scaricare su Dio le nostre responsabilità marzo 2003 parola e parole Gesù, emergenza di Dio che illumina la nostra vita Giovanni Salvini Come la creazione “viene fuori” da Dio, così il Figlio dal Padre. È un emergere faticoso, lento, drammatico, perché le nostre tenebre ne rifiutano la logica. Ma se ci lasciamo spiazzare dalla novità di Dio, ci scopriremo uomini nuovi marzo 2003 In principio era il Verbo… (Giovanni 1, 1-18) R ifacendosi all’emergere, al venir fuori della creazione dalle mani di Dio “in principio”, la Bibbia ci racconta come Gesù, Figlio di Dio e suo Verbo, “emerge” dal Padre e viene nella storia, per portare alla luce il Dio che nessuno ha mai visto. Il testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni descrive proprio questo avvenimento unico della storia della salvezza. Il movimento è semplice: un viaggio che parte dal profondo di Dio per raggiungere gli uomini, tutti e ciascuno. Il protagonista è chiamato “il Verbo”, “la Parola”, e come ogni parola nasce dal di dentro per manifestare al di fuori chi parla. Dio vuole dirsi per darsi. Gesù è proprio questo: la Parola con cui Dio rompe il silenzio che lo separa dall’uomo, colmando una distanza che l’uomo non avrebbe mai potuto colmare. Questa parola di amore emerge nella storia come un sole che sorge, come una luce che lentamente illumina chi vuole farsi illuminare: “la luce splende nelle tenebre” (Gv 1,5) lottando con esse per illuminarle, violando la loro impenetrabilità, trafiggendole di lame di splendore perché si arrendano alla logica del chiarore. È un’emergere faticoso, drammatico, lento e condizionato dalla capacità di accoglienza delle tenebre stesse, che per loro natura rifiutano, soffocano ogni luce. Pur venendo tra “i suoi”, la Parola che emerge da Dio vivrà l’esilio del rifiuto, quello più duro. Solo alcuni accoglieranno, ascolteranno, decifreranno la Parola, ricevendo in dono “il potere di diventare figli di Dio”, scoprendo così di non essere nati “da carne, né da volere di uomini, ma da Dio” (Gv 1,12-13). E si tratta dell’unico modo di conoscere Dio. Solo il Figlio Unigenito (l’unico “generato e non creato”) emerso dal seno del Padre può rivelare Dio, spiegarlo all’uomo, manifestarne la natura e la bellezza, comunicarne la grazia e la verità. Alla luce di queste parole dobbiamo aprirci a un’idea nuova, forte, decisiva per la nostra identità e per la nostra esistenza: Gesù è l’emergenza di Dio nella nostra vita e non c’è altro modo in cui Dio si manifesti se non in questo sorprendente e gratuito venir fuori dal buio. È proprio dal buio più oscuro della nostra esistenza che si fa strada il chiarore che ci illumina sul senso di ciò che siamo e sul volto di Colui da cui proveniamo e verso cui andiamo. Si tratta di un continuo nascere, un “venire alla luce”, in cui – in realtà – è la luce che viene a noi. La prima luce che colpisce l’occhio di ogni essere umano è quella che lo sorprende e lo ferisce quando esce dal grembo della madre, ignaro di tutto; così “la luce vera che illumina ogni uomo” irrompe di sua iniziativa nella nostra vita stravolgendola e scompaginandola, senza che noi possiamo prevederlo o deciderlo. Ogni manifestazione della verità è un’emergenza che ci coglie alla sprovvista e ci lascia nuovi, più consapevoli della Verità che ci precede e ci ama. Per noi è decisivo saper accogliere l’emergenza, lasciando lacerare le nostre tenebre dalla luce che ci esplode negli occhi. Forse il dono più grande che possiamo chiedere è proprio la capacità di lasciarci continuamente spiazzare dalla novità inconcepibile di Dio, rinunciando serenamente al comodo e accogliente buio che è stato il nostro primo ambiente vitale. Ma che ora deve cedere il passo alla luce che viene a dispiegare sotto i nostri occhi ■ lo splendore della vita vera. 4 il punto su Se il “buon samaritano” viene sottratto ai controlli a cura dell’Area nazionale L a commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato il 29 gennaio, in sede deliberante, il disegno di legge che disciplina la distribuzione dei prodotti alimentari a fini di beneficenza. La legge del “buon samaritano” – così è stata ribattezzata, in riferimento a un’analoga esperienza statunitense – va alla Camera per il via libera definitivo. Essa equipara ai consumatori le organizzazioni di volontariato, iscritte negli appositi registri regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano, quando effettuano a fini di beneficenza la distribuzione gratuita di generi alimentari. Di conseguenza luoghi, personale e mezzi utilizzati per lo stoccaggio e l’utilizzo degli alimenti non sono soggetti ad autorizzazioni e controlli sanitari: l’attività delle organizzazioni di volontariato diviene più agevole. Certamente con questa legge si intende – come è stato detto autorevolmente – “sburocratizzare l’attività di assistenza” di una vasta area del volontariato e agevolare l’invio di generi alimentari, altrimenti destinati al macero, alle tante mense per i poveri e alle famiglie che vivono una situazione di povertà. Nobili intenzioni, che già anni addietro avevano portato l’allora direttore della Caritas diocesana di Roma, don Luigi di Liegro, a sognare un modo per recuperare beni destinati ai rifiuti. Tuttavia non possiamo nascondere, sulla base anche dell’esperienza maturata dalle nostre Caritas diocesane, alcune preoccupazioni che nascono da un esame approfondito del breve decreto. La legge va infatti a tutelare i volontari, ma chi e come garantisce il destinatario dalla distribuzione di beni deteriorati? Una storia di battaglie di tutela del consumatore non può es- 5 sere dimenticata quando si tratta degli “ultimi”. Come distinguere, inoltre, i beni “di prima necessità” da altri che non fanno che alimentare il mercato e il consumismo? E in riferimento al recupero di beni da grande aziende e in grande quantità, soprattutto se si tratta di beni non di prima necessità, come valutare la possibilità offerta dalla legge di recuperare l’Iva sui beni invenduti e donati? Non c’erano forme più urgenti di giustizia fiscale o di partecipazione alla cooperazione allo sviluppo? Ancora, sul piano educativo: è giusto lanciare il messaggio che si è buoni (samaritani) quando si destinano gli avanzi ai poveri dopo una festa pantagruelica, e non quando si condivide una sofferenza in prima persona? Il messaggio del papa per la Quaresima 2003 ci ricorda la condizione in base alla quale, per i cristiani, un “dono” ha valore: “Privarsi non solo del superfluo, ma anche di qualcosa di più per distribuirlo a chi è nel bisogno, contribuisce a quel rinnegamento di sé senza il quale non c’è autentica pratica di vita cristiana”. Sul piano politico, l’impegno a facilitare il recupero di beni destinati al macero non può non accompagnarsi a un rinnovato impegno verso politiche sociali attente a tutte le fasce di povertà. E uno sguardo va sempre rivolto anche al triste spettacolo della perdurante miseria che colpisce tanta parte della popolazione mondiale, e che non può essere sradicata solo ricorrendo a donazioni di cibo. Il “buon samaritano” di oggi forse ha bisogno di crescere con queste attenzioni. E non solo di ottenere, dalla legge, agevola■ zioni operative e fiscali. Niente autorizzazioni per i volontari impegnati nella consegna ai poveri di cibo destinato al macero: il Senato dà via libera a una legge ispirata da nobili ideali e comprensibili esigenze di snellezza burocratica. Ma che solleva più di un dubbio marzo 2003 il punto su Un bisogno, un diritto: chi ha sete deve pagare? Alberto Bobbio L’Onu ha dichiarato il 2003 Anno internazionale dell’acqua. Ma l’accesso alle risorse idriche è sempre più problematico per miliardi di persone. E c’è chi vuole privatizzane la gestione. I governi si confrontano a Kyoto. Ma la società civile si riunisce in Forum alternativo a Firenze marzo 2003 C’ è chi dice che sia un diritto e chi invece sostiene che sia un bisogno. Oggi nel mondo un miliardo e mezzo di persone non ha accesso all’acqua potabile, due miliardi e mezzo non hanno il bagno, cinque milioni ogni anno muoiono per malattie legate alla scarsa qualità dell’acqua. E nei prossimi anni sarà peggio. L’Unep, l’Agenzia dell’Onu per l’ambiente, stima che nel 2025 saranno tre miliardi e mezzo le persone che avranno sete e rischieranno la morte. Per sopravvivere occorrono almeno cinque litri di acqua al giorno. Ma l’acqua costa. È un bisogno, e i bisogni si pagano. Il 2003 è stato proclamato dalle Nazioni Unite “Anno dell’acqua”. In Giappone a marzo si riuniranno in una conferenza intergovernativa quasi tutti i governi del mondo e apriranno di nuovo il libro dei sogni e dei buoni propositi. L’avevano già fatto nel 2000, quando l’Assemblea generale delle nazioni Unite aveva promesso che entro il 2015 sarebbero diminuite della metà le persone senz’acqua. Ma già si sa, in base alle tragiche previsioni delle stesse Nazioni Unite, che la sfida è persa. Nel 2000 l’Onu aveva fatto anche altre promesse, tra cui quelle strabilianti di dimezzare i morti per fame e di dare l’istruzione primaria a tutti i bambini del pianeta. Tutto ciò dovrebbe avvenire senza che nessun paese del mondo ricco cambi il suo modo di vivere e di intendere l’economia. Come si fa a dare l’acqua a tutti? Negli Stati Uniti un americano ha 425 litri di acqua disponibili al giorno. Un famiglia californiana con la piscina e il giardino consuma 4 mila litri di acqua al giorno. Una famiglia africana con otto figli, quando va bene, consuma 20 litri di acqua al giorno. Nel 1995 erano 29 i paesi con problemi di approvvigionamento idrico; nel 2005 saranno saliti a 49. L’acqua si spreca: il 40% di quella destinata all’irrigazione va perduta; non si usa quella piovana e quella che c’è diventa sempre più un grande affare. È giusto chiamarla “oro blu”. Per essa in Medioriente si combatte. In Israele un israeliano ha disposizione 270 litri al giorno, un palestinese 80 litri nel 1998 (ora molto meno). Nel mondo 19 mila grandi dighe hanno provocato 40 milioni di sfollati. E molti esperti hanno stabilito che le grandi dighe sono un flop dal punto di vista economico. Non è vero, inoltre, che se la gestione dell’acqua passasse nelle mani dei privati la situazione migliorerebbe. I privati hanno interessi a servire i ricchi californiani, non certamente i cittadini della Sierra Leone, che non hanno denaro per pagare. Ecco perché l’acqua dev’essere considerata un diritto e la sua distribuzione dev’essere pubblica. In Giappone deve passare questo concetto, ma le resistenze del mondo ricco e delle multinazionali sono enormi. Anche per questo a Firenze la campagna per il Contratto mondiale sull’acqua, promossa da una rete di realtà non governative italiane e proiettata (da Porto Alegre) su scenari internazionali, intende celebrare, il 21 marzo, la Giornata internazionale dell’acqua con un Forum mondiale alternativo. Qualcuno fa osservare che tra i Paesi assetati ci sono le monarchie petrolifere del Golfo e alcuni Paesi europei ad alto reddito, tra cui l’Olanda. È vero. Ma la differenza, in questo caso, sta nel portafoglio. Che è sempre pieno. E i diritti fondamentali vanno garantiti anche a chi non può permettersi di ■ pagarli. 6 da esclusi a cittadini Regolarizzare l’inatteso, ora tuteliamo le persone Giancarlo Perego L’ FOTO ARCHIVIO RESEGONE 11 luglio 2002 il Senato approvava definitivamente il disegno di legge in tema di immigrazione e asilo, che andava a modificare sostanzialmente la legge e il testo unico sull’immigrazione vigente dal 1998. Al disegno di legge è stato aggiunto anche un ordine del giorno che impegnava il governo ad adottare, contestualmente all’entrata in vigore della legge, un provvedimento di regolarizzazione dei lavoratori (subordinati, oppure colf e badanti) irregolarmente presenti sul territorio nazionale. Oltre a ciò, il governo s’impegnava a inserire nello stesso provvedimento la non punibilità delle violazioni delle norme relative al soggiorno, al lavoro e di carattere finanziario in relazione alla occupazione degli immigrati, e a non adottare decreti di allontanamento dal territorio nazionale per i lavoratori in attesa della legalizzazione. La nuova legge sull’immigrazione – la 189 approvata il 30 luglio e pubblicata dalla Gazzetta ufficiale il 26 agosto – apriva così la strada a quella che si sarebbe rivelata la più massiccia regolarizzazione di immigrati che il nostro paese ha vissuto dall’inizio del fenomeno immigratorio. 700 mila domande di regolarizzazione Il dato aggiornato, fornito dalle Poste italiane, e riferito alle assicurate inviate alle prefetture e agli uffici territoriali del governo, fissa il numero delle richieste di regolarizzazione per i lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno a un totale di 702.156. Le domande presentate per sanare la posizione irregolare o clandestina di colf e badanti sono state 341.121 e risultano di poco inferiori a quelle presentate per regolarizzare gli altri lavoratori dipendenti (361.035). Lombardia e Lazio (come mostra la tabella) sono le Città totale ROMA 107.476 MILANO 87.165 NAPOLI 36.572 BRESCIA 24.520 FIRENZE 17.218 CASERTA 14.688 BERGAMO 13.932 BOLOGNA 13.075 GENOVA 10.951 7 Le domande avanzate da immigrati irregolari e clandestini sono state 702 mila: molte più del previsto. Tre ragioni alla base di questo “boom”. L’esame delle pratiche è cominciato lentissimo. E durante l’attesa non si devono limitare libertà cruciali domestico subordinato 66.949 35.922 24.285 7.473 7.239 7.102 4.858 6.365 6.631 40.527 51.243 12.287 17.047 9.979 7.586 9.074 6.710 4.320 marzo 2003 regioni che guidano la graduatoria delle regolarizzazioni. Se le richieste hanno superato le 700 mila, il dato delle persone immigrate potrebbe essere stimabile attorno alle 650 mila unità, perché una stessa persona immigrata potrebbe avere più datori di lavoro e quindi aver presentato più domande, soprattutto nel caso del lavoro domestico. Il numero delle domande di regolarizzazione è risultato una sorpresa per Caritas Italiana, che all’inizio del 2002 aveva ipotizzato la presenza in Italia di un numero minore di persone clandestine (da un minimo di 265 mila a un massimo di 385 mila) e di 100 mila irregolari, mentre a settembre 2002 aveva parlato di 500 mila persone regolarizzabili. Il nostro atteggiamento prudente nasceva da diverse ragioni. Anzitutto dal fatto che in occasione delle quattro regolarizzazioni precedenti (1986, 1990, 1995 e 1998) il numero inizialmente ipotizzato è risultato sempre esagerato rispetto al dato acquisito al termine della regolarizzazione o sanatoria. In secondo luogo, i risultati delle indagini ispettive del nucleo dei Carabinieri presso il ministero del lavoro avevano stabilito una percentuale di clandestini e irregolari tra il 22 e il 27%, negli anni 2000-2001, rispetto al totale degli immigrati presenti in Italia (1.200.000-1.300.000 persone). In terzo luogo, una stima elaborata dall’Ismu di Milano su un territorio specifico (quello lombardo), aveva stimato che l’a- RITARDI E VUOTI NORMATIVI, COSÌ LE PRATICHE SI RIVELANO UNA TRAPPOLA PER GLI IMMIGRATI I termini per presentare le domande di regolarizzazione si sono chiusi l’11 novembre 2002. Nei mesi da allora trascorsi si sono riscontrati problemi di diversa natura, generati in parte dal procrastinarsi dei tempi di attesa per lo smaltimento delle pratiche, in parte da vuoti normativi. Varie Caritas diocesane impegnate nel settore hanno segnalato ritardi nell’apertura degli sportelli decentrati delle prefetture – uffici territoriali del governo, specialmente nelle città metropolitane (Roma e Milano). Tuttavia un’ordinanza del presidente del consiglio, emanata il 31 gennaio 2003, ha autorizzato i ministeri dell’interno e del lavoro ad assumere rispettivamente 900 e 350 lavoratori interinali (tramite trattativa privata con imprese che forniscono lavoro temporaneo) da impiegare per la trattazione delle pratiche. Per far fronte ai costi del personale saranno utilizzati fondi Inps. Altri problemi riguardano la condizione giuridica in cui versano i lavoratori stranieri che hanno presentato domanda di regolarizzazione. In sintesi, ecco i più rilevanti: • Divieto di lasciare l’Italia. Una nota di Cgil, Cisl e Uil del 10 dicembre 2002, pubblicata in seguito a un incontro tra i segretari generali e il sottosegretario Mantovano, indicava la possibilità per gli stranieri di uscire dall’Italia per gravi e comprovati motivi umanitari. All’incontro non era ancora seguita, sino a metà febbraio, una marzo 2003 circolare del ministero dell’interno; pertanto le questure non rilasciavano alcuna autorizzazione all’espatrio. • Impossibilità di iscrivere i figli minori sul permesso di soggiorno del genitore. Numerosi figli di genitori regolarizzandi stanno per compiere 18 anni e diventeranno passibili di espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera. • Iscrizione dei figli minori al Servizio sanitario nazionale. L’impossibilità di iscriverli sul permesso di soggiorno dei genitori regolarizzati ha come conseguenza la mancata assistenza sanitaria per i figli minori. • Iscrizione dei lavoratori regolarizzandi al Servizio sanitario nazionale. Si registrano prassi differenti da regione a regione. Soltanto in alcune si è provveduto all’iscrizione temporanea al Servizio sanitario nazionale, sulla base di circolari emesse in occasione di precedenti regolarizzazioni. • Incertezza della condizione giuridica in caso di dimissioni per giusta causa del lavoratore straniero regolarizzando. Non è chiaro se ai lavoratori stranieri regolarizzandi che si sono dimessi per giusta causa o per aver trovato altra occupazione, successivamente alla presentazione della domanda, verrà rilasciato un permesso di soggiorno. Si auspica che in questi casi possa trovare applicazione il principio di parità di trattamento dei lavoratori non comunitari con i 8 lavoratori italiani, sancito dalla Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro. • Subentro di un nuovo datore di lavoro. Non si consente che un nuovo datore di lavoro subentri ad altro che aveva inizialmente proceduto a regolarizzare il lavoratore straniero, salvo poi licenziarlo. La possibilità di consentire il subentro immediato da parte di un nuovo datore di lavoro eviterebbe che il lavoratore straniero ricada nel lavoro irregolare. Le prassi tra le diverse prefetture appaiono disomogenee. • Rilascio del codice fiscale. Il codice fiscale sarà rilasciato al lavoratore straniero regolarizzato soltanto dopo la firma del contratto di soggiorno. I lunghi tempi di attesa per la convocazione alla prefettura – ufficio territoriale del governo e la mancanza del codice fiscale procurano disagi riguardo all’apertura di conti correnti postali, al rinnovo del contratto di locazione, all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale. • Lavoratori stranieri regolarizzandi vittime di truffa. Numerosi lavoratori stranieri regolarizzandi, dopo aver corrisposto al presunto datore di lavoro gli importi necessari a sanare la loro posizione contributiva, si sono scoperti in possesso di una copia contraffatta della ricevuta del versamento dei contributi. A queste persone non è consentito portare a termine l’iter di regolarizzazione. Nel caso sia stata presentata una denuncia per truffa, sarebbe auspicabile consentire la riapertura dell’iter per la regolarizzazione. Le Quyen Ngo Dình 9 FOTO ARCHIVIO RESEGONE rea della clandestinità si estendesse tra il 22,7% e il 33,3% degli immigrati soggiornanti. Da dove nasce, dunque, un numero tanto elevato e inaspettato (che oltretutto esclude i lavoratori autonomi e stagionali, ipotizzabili attorno alle 100 mila unità)? All’origine ci sono almeno tre motivi. In primo luogo, la regolarizzazione è stata annunciata molto tempo prima della sua realizzazione, favorendo un ingresso clandestino di molte persone in Italia. In secondo luogo, la politica dei flussi condotta nel 2002, fortemente ritardata e restrittiva, ha favorito l’ingresso nell’illegalità di molti immigrati. In terzo luogo, gli impressionanti ritardi della burocrazia hanno prodotto l’allungamento dei tempi di rinnovo dei permessi di soggiorno, favorendo l’ulteriore scivolamento nell’irregolarità di molti soggetti. Regolarizzazione da preparare meglio La regolarizzazione 2002 ha avuto una grande capacità – grazie all’utilizzo, per la prima volta, degli oltre 14 mila sportelli postali sparsi nell’intero paese – di raccogliere le domande dei datori di lavoro. Ma già esaminando le modalità di regolarizzazione, prima che questa fosse avviata, Caritas Italiana aveva rivolto al ministero dell’interno una serie di quesiti (riguardanti l’abitazione, la tutela infortunistica e sanitaria, il tempo tra la domanda e l’accoglimento della stessa, la morte del datore di lavoro, il ritorno in patria, ecc.), che se affrontati potevano consentire di accompagnare meglio la regolarizzazione stessa. Purtroppo solo alcune delle questioni sollevate sono state prese in considerazione, mentre durante la campagna si sono aggiunte altre circolari dei ministeri dell’interno e del lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Tra gli aspetti più problematici evidenziatisi in questi mesi, che hanno innescato gravi problemi di tutela dei diritti delle persone immigrate, va segnalato il fatto che, per la prima volta, solo il datore di lavoro poteva presentare domanda di regolarizzazione. Inoltre l’esame delle pratiche nei primi due mesi si è attestato, secondo sondaggi Caritas, attorno al 5% marzo 2003 JUAN ASPETTA IL PERMESSO DI SOGGIORNO PERÒ NEL FRATTEMPO LAVORA GRATIS Storie di precarietà e vessazioni, in attesa della regolarizzazione. Il Servizio accoglienza immigrati, avviato da Caritas Ambrosiana a Milano proprio nella scorsa estate, ne ha raccolte a decine. E le ha sintetizzate in un profilo medio. Quello del signor J. Di nome fa Juan. O forse Jovan. Perché non conta da dove viene. Conta che, dopo un anno e mezzo dal suo arrivo in città, alla cooperativa per cui lavora domanda – è l’autunno 2002 – di essere regolarizzato. Gli dicono che si può fare, ma gli chiedono 2 mila euro, molto più dei 700 che l’impresa deve versare per metterlo in regola. Estorsione? Se lo è, non rimane la sola. Perché si sa che gli oneri previdenziali sono zavorra nei conti di un’azienda: tanto vale, allora, farli pagare a Juan (o forse Jovan), che se quando lavorava in nero aveva un reddito di 700-1.000 euro, ora se ne vede detratti 300-500 al mese. Non dalla busta paga, evidente, ché altrimenti qualcuno avvertirebbe puzza di bruciato. Va a finire che l’uomo si ritrova – tra una tantum per la regolarizzazione e contributi da pagare in proprio – a lavorare gratis per alcuni mesi. Ma aspetta paziente, e soprattutto silente, perché non gli conviene denunciare. E d’altronde chi darebbe credito a un clandestino, senza lo straccio di una prova a supporto delle sue denunce? Però a Jovan (o forse Juan) può persino andare peggio. Perché può essere isolato dal gruppo nazionale cui appartiene, non possedere le cognizioni elementari che servirebbero a far valere i suoi diritti («ma davvero i contributi per la pensione li dovrebbe pagare il padrone?»), essere succube temendo di essere denunciato (quanto meno non regolarizzato). Solitudine, disinformazione, sudditanza: al precariato lavorativo si sommano inevitabilmente quello abitativo e una cronica debolezza economica, che presto si traducono in fragilità psicologica. Se tra qualche mese una lenta e complicata catena burocratica gli offrirà un appiglio – il riconoscimento della sua domanda di regolarizzazione –, Juan o forse Jovan sarà tra i salvati. Altrimenti, rimarrà confinato tra i sommersi. Un’esistenza di espedienti e soprusi. Da autentico invisibile. Sulla strada. Fino alla prossima sanatoria. delle domande inoltrate, ovvero poco più di 35 mila: ciò fa pensare che la macchina organizzativa dei nuovi uffici di governo (integrata da commissioni con funzionari delle questure, dell’Inps e del ministero del tesoro) non fosse in grado di affrontare una tale mole di lavoro. Per alcune grandi città, non meno che nelle piccole, si ipotizzano di conseguenza tempi di esame che potrebbero arrivare a due anni. Ma due anni di attesa sono un’eternità, per un immigrato che nel frattempo deve sottostare a limiti di circolazione, di ricongiungimento familiare, di cambiamento del rapporto di lavoro. Una lesione dei diritti fondamentali delle persone, che nessuna esigenza normativa, burocratica e organiz■ zativa può giustificare. marzo 2003 10 territorio caritas Sulle strade di Scampia l’ascolto va in frontiera Danilo Angelelli C ome scenario hanno il carcere di parrocchia. Il cammino che compiamo Secondigliano. Che decisamente deve diventare educativo per le varie coincombe. E tutt’intorno enormi munità, perché purtroppo la Caritas non edifici, autentici moloch di edilizia popoè ancora intesa come occasione di crescilare che arrivano ad ospitare anche 600 ta, ma solo come centro di distribuzione. famiglie. Sono gli 80 mila abitanti di Ci sono giorni in cui arriviamo a dare anScampia, quartiere periferico a nord di che 200-250 pacchi, che non solo non coNapoli, sorto negli anni ’60 e popolato in stituiscono la soluzione, ma a volte tammaniera caotica dopo il terremoto ponano quello che non è il problema più dell’80. In questo gioco di cifre ne spungrave. Vanno in questo senso anche le vitano altre due più modeste: 4 parrocchie site nelle case: si conosce la famiglia e dodi frontiera po alcuni ine una rettocontri le perria, che rapsone si apropresentano no e si scol’unica occapre il dramsione per i ma, come ragazzi della quello di fazona di evamiglie senza dere dalla papà, che è strada. Per in carcere, e non morire hanno versulla strada. gogna a dirCome Salvalo. Noi abtore, il tredibiamo il cenne uccicompito di so da un conoscere le giovane po- Le Vele di Scampia, monumento al degrado forme di poliziotto in vertà e di biborghese il 4 gennaio scorso, nel corso di sogno presenti sul territorio, e scoprire le un episodio da chiarire, forse il furto di risorse, che ci sono, anche in una zona un motorino. dove i problemi spesso sono soffocanti». Tra il carcere e le parrocchie fa la spola suor Ornella Baratelli, dedita a ricucire Illusi dagli enti pubblici dialoghi spezzati tra i detenuti e le famiDa questo gruppo interparrocchiale sono glie che vivono a qualche centinaio di nati volontari che si impegnano in strutmetri. E che qualche volta riesce a fare inture per anziani e persone con disagio contrare anche fuori, per Natale o per la mentale, e in un centro di ascolto, operaprima Comunione dei bambini. Suor Orsegno anche per le istituzioni, che il grupnella è la referente del coordinamento inpo stimola e sollecita affinché non diventerparrocchiale Caritas. «Lavoriamo insieti, il centro, una sostituzione delle ammime per tutto il territorio – spiega –, ma nistrazioni. E c’è dell’animosità nei conpoi ciascuno è impegnato nella propria fronti dei politici locali, che hanno co- 11 Vivere (e morire ragazzi) in periferia. A nord di Napoli un quartiere difficile. Pressato dal carcere e gonfiato dal terremoto. La Caritas prova a seminare la solidarietà e la speranza. «Ma le istituzioni ci hanno abbandonato. E senza lavoro…» marzo 2003 FARE CARITAS “AI MARGINI”: PRESENZA CHE INSEGNA UNO SGUARDO DIVERSO Le periferie delle città, e soprattutto quelle delle metropoli, costituiscono un evidente e spesso disarmante quadro di disagio strutturale ed esistenziale, davanti al quale anche le più moderne logiche di pianificazione urbanistica, sociale e culturale sembrano segnare il passo. O, in alcuni casi, battere in ritirata. Queste realtà sono tramate di vissuti familiari, personali e aggregativi molto duri, ad alto rischio di riproduzione del disagio. Ma proprio per questo meritano di essere frequentate. È così che molte Caritas diocesane, come pure diverse espressioni di spiritualità e di vita ecclesiale, hanno scelto di non limitarsi a parlare delle periferie, o a progettare una diversa qualità di vita di chi vi abita. Da alcuni anni, in alcune diocesi da circa un ventennio, le Caritas consolidano una presenza stabile nella quotidianità spesso travagliata, ma anche ricca di speranza e di positive intraprendenze, dei quartieri di periferia. Servizi promozionali; interventi sulle molteplici condizioni di disagio personale, familiare o collettivo; esperienze di animazione sociale e culturale (rivolte soprattutto a contesti giovanili, scolastici e femminili): l’azione si fonda sulla capacità di leggere l’ambiente marginalizzato e cerca di coinvolgere le comunità parrocchiali, per sgretolare stereotipi sempre più forti, invasivi, manipolatori. E in molti casi pacificanti. Ma lo stare in periferia invita anche a mobilitare la solidarietà locale. Attraverso gli operatori pastorali delle parrocchie, grazie a comunità laiche e religiose che scelgono di insediarsi “fra” e “con” la gente di periferia, le Caritas diocesane puntano a valorizzare persone e gruppi appartenenti alla realtà locale, suscitando preziosi animatori della solidarietà, più capaci di cogliere i vissuti, i bisogni, i processi di emarginazione palesi o latenti. Anche il tema della collaborazione e dell’interconnessione tra risorse e servizi (attivati da enti locali, soggetti del terzo settore o della comunità cristiana) trova nelle periferie un terreno privilegiato di sviluppo e consolidamento. Per struito un mega-quartiere dormitorio senza preoccuparsi del necessario sistema di servizi che avrebbe dovuto costituire la trama del tessuto sociale. A questo si aggiungono la mancanza di strutture produttive, un livello di istruzione e disoccupazione al di sotto del dato riferito a Napoli, la diffusione di microcriminalità. «Lungo le scale di parecchi palazzi, come le Vele, non si è liberi neppure di rientrare in casa perché bisogna passare per il controllo di spacciatori di droga – denuncia senza rassegnazione padre Vittorio Siciliani, parroco, da 34 anni a Scampia –. Alcuni enti pubblici ci hanno illuso con la promessa di parchi e università, poi si sono tirati indietro dicendo che sarebbero venuti qui solo se avessero trovato il quartiere riqualificato. Assurdo! Erano quelle le occasioni per avviare la riqualificazione di Scampia». Riqualificazione che deve passare anche attraverso i due campi rom del quartiere: uno “attrezzato”, l’altro abusivo, fatto di baracche. Ospitano complessivamente 1.500 persone. Ne sa di più Giancamillo Trani, responsabile dell’ufficio immigra- marzo 2003 12 molti il lavorare insieme, in contesti di margine, ha rappresentato una vera scuola di promozione sociale e culturale. Non è raro assistere alla fioritura di nuclei promettenti di una civiltà solidale, nell’incerto perimetro di grandi aree depresse e deprivate, spesso a ridosso di lussuose zone residenziali protette (o segregate?) da sistemi elettronici di sorveglianza. E stare in periferia, infine, significa anche acquisire l’attitudine a guardare “dalla periferia”: in senso profetico, capaci di uno sguardo diverso sul mondo, paradossalmente aperti a un’autentica educazione alla mondialità, che voglia scoprire e fondare una “etica del genere umano”. Chi sta “ai margini” sperimenta ogni giorno la tangibile concretezza di nuovi pensieri e nuove prassi relativi alla pace, al consumo critico, all’economia alternativa, all’integrazione delle diversità culturali e sociali, al rispetto ambientale. Sfide per tutti, che tutti dobbiamo affrontare. E che un operatore o un centro Caritas non possono non avvertire come prioritarie. Giancarlo Cursi (con la collaborazione di Tilde Silvestri) zione della Caritas di Napoli, che lavora ai programmi integrati di assistenza ai rom con il comune di Napoli: «L’improvviso popolamento post-terremoto del quartiere ha dato luogo ad uno sviluppo abbastanza selvaggio. Se i rom prima vivevano a Scampia perché era ai margini della città, adesso c’è una coabitazione forzata con la popolazione locale, che ha dato luogo a svariati problemi, anche di ordine pubblico. E persino a veri e propri episodi di guerriglia urbana, spesso guidata da forze esterne». Il lavoro, richiesta pressante Nei loro incontri hanno parlato dei rom – e anche di Salvatore, il ragazzo ucciso – i giovani seguiti da suor Ornella e Luciano Criscuolo, medico che dedica buona parte delle sue giornate a scommettere sul futuro degli adolescenti di Scampia. «Ci ritroviamo più volte a settimana – racconta –, organizziamo uscite, piccoli recital, coinvolgiamo sempre qualche genitore nelle nostre iniziative. Ricordiamo loro che non devono essere massa, ma lievito; che devono pensare sempre cosa è bene per 13 essi stessi e per le persone che incontrano sulla strada. E che spesso rappresentano una “tentazione”». Luciano è anche inserito, come insegnante, in un progetto di obbligo formativo per ragazzi che hanno lasciato la scuola media. Preparare il futuro costruendo un lavoro, imparando ad assistere anziani e disabili. Già, il lavoro. È la richiesta più pressante da parte di chi bussa alle porte del centro Caritas: «Non è il nostro specifico – ammette suor Ornella –. Anche perché molti degli stessi operatori Caritas non hanno un lavoro… Ma cerchiamo di dare una mano lo stesso, proponendoci come punto di riferimento per chi cerca personale. Molti abitanti di Scampia non hanno mai avuto la possibilità di fare qualcosa. Ma subito dopo aver svolto i primi lavori, scatta in loro una molla. Così continuano la ricerca e si adoperano più di prima per non restare disoccupati». Forse non basta. Ma aiuta a immaginare un futuro non prigioniero del degrado. E ■ delle minacce della strada. L’ANALISI DEL SOCIOLOGO: «PERIFERIE SENZA MEMORIA» «Hai parlato anche con padre Pizzuti?». È il leitmotiv di parroci e operatori Caritas. E allora il viaggio nella periferia nord di Napoli si conclude con padre Domenico Pizzuti, professore emerito di sociologia alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale nella città partenopea. «Sono lodevoli la generosità degli operatori Caritas, la loro gratuità, il loro inseguire le persone e prendersene cura. Anche se sarebbe bello che questa azione, con i centri di ascolto e i coordinamenti, fosse espressione dell’intera comunità, e non solo il “pallino” di alcuni. È difficile, lo so, anche perché Scampia non ha un’identità, non c’è una memoria collettiva. Le visite dell’allora presidente Cossiga e del papa avrebbero potuto essere occasioni per riconoscersi in una storia comune e acquisire la consapevolezza di essere comunità, ma ciò non è accaduto. Così come la statua della Madonna della Speranza, che si trova attualmente nella chiesa retta dai gesuiti, ma a mio avviso dovrebbe essere posta all’inizio del quartiere». Prosegue, padre Pizzuti, e prova a delineare soluzioni che durino nel tempo. «Il problema delle periferie non deve riguardare solo la comunità civile, ma anche la comunità ecclesiale. A Scampia si fa una pastorale delle persone con modalità religiose innovative, conciliari, di una sacramentalità tutt’altro che “barocca”, come invece si pensa dei napoletani. Si è formato anche un certo laicato, sono avviati i gruppi biblici nelle case. Ma quello che serve è un’organica pastorale del territorio. E per ora non c’è». marzo 2003 politiche sociali Più facile scoprirsi poveri quale welfare vogliamo? Domenico Rosati Un convegno a sinistra. Il “libro bianco” del ministero. Un rapporto Eurispes. E la nuova provocazione di De Rita. Riprende il confronto sullo stato sociale. In una società civile frammentata. Mentre aumentano le probabilità di impoverimento marzo 2003 L’ inverno ha portato con sé un’improvvisa ventata “sociale”. Difficile misurarne gli esiti. Ma conviene registrarne la notizia, con qualche prima sommaria nota. I fatti sono tre: un convegno dei Democratici di sinistra, dal titolo “Dalla disuguaglianza alla cittadinanza”; la pubblicazione, lungamente attesa, del “Libro bianco sul welfare” dell’omonimo ministero; le valutazioni sulla povertà del “Rapporto Italia 2003” dell’istituito di ricerca Eurispes. E in più un libro di Giuseppe de Rita denso di inquietudini e di provocazioni culturali e politiche. Con ordine. Il convegno dei Ds ha rilanciato con vigore, a gennaio, un’idea organica di tutela sociale, imperniata su un concetto di “uguaglianza”, che anche a sinistra era stata sostituita con altri termini non sempre equivalenti, ad esempio “equità”. Il punto di partenza è la constatazione del permanere e del manifestarsi in forme nuove della povertà. Il punto d’arrivo è l’esigenza di evitare che il sistema di welfare di tutto si occupi, meno che dei poveri veri. E dunque si materializza la proposta di un sistema che per un ver- so rilanci il “reddito minimo d’inserimento”, per un altro rafforzi il filo della solidarietà nel contesto dell’incipiente federalismo, e per un altro ancora si faccia carico delle cause che provocano lo slittamento delle figure sociali e delle famiglie dall’area protetta a quella esclusa dai diritti di cittadinanza. È evidente che la cornice di riferimento di questa impostazione è rappresentata dalla legge 328/2000 che ha riformato l’assistenza, nei suoi caratteri di universalità selettiva, a partire da livelli essenziali garantiti a tutti. Tali garanzie devono valere anche nel contesto federalistico stabilito dalle ultime riforme costituzionali. Se ne dovrà riparlare. Il welfare chiamato a competere Il “Libro bianco” presentato a inizio febbraio dal ministro Roberto Maroni ha l’intento di offrire risposte alla “domanda sociale” come è percepita dall’osservatorio del governo. Nelle sue pagine sono contenuti molti accenni di risposta, a partire dall’enfasi posta sulla famiglia anche come agenzia privilegiata del welfare. È interessante però soffermarsi sulla “dottrina” che fa da premessa alle indicazioni pratiche e ne costituisce la chiave interpretativa. “Una politica sociale realmente moderna – si legge nella prefazione – non può più essere quella di un’offerta indifferenziata di prestazioni e servizi (uguali per tutti, su tutto il territorio nazionale). Universalismo e selettività non sono più termini contrapposti. Occorrono misure flessibili, ritagliate sulle esigenze delle comunità territoriali e gestite con efficienza a livello locale”. Il criterio dell’universalismo se- 14 lettivo, in verità, era già sancito nella legtas Italiana e dalla fondazione Zancan, ge 328, che peraltro si dichiara oggi di vonei mesi scorsi, grazie al volume Cittadini ler superare. Si sostiene infatti che le poliinvisibili. “La probabilità di impoverimentiche di protezione sociale non possono to delle classi medio-basse – afferma Euripiù essere definite dai poteri centrali staspes – si è fatta ancora più marcata negli tali, mentre “livelli di coesione sociale e ultimi anni” e quindi “la linea di demardi standard accettabili possono scontare cazione tra poveri e non poveri si è fatta significative differenze tra comunità terrisempre più indistinta”. Il fragile equilitoriali”. brio finanziario di una consistente quota Il “libro” ritiene che il vero cambiamento di famiglie è compromesso quando c’è stia ne fatto che “la concorrenza rende una sottrazione di lavoro o sopraggiunge obsoleta qualunque politica sociale e salauna malattia grave. Allora si oltrepassa il riale di tipo egalitaristico”, che trasferiva confine. Con un corollario realistico: oggi ricchezza dalle aree più produttive a quelè facile entrare nel gorgo delle povertà, le meno produttive, ciò che oggi non è ma è assai difficile uscirne. E ciò anche più possibile per il semplice motivo che i per la minore incidenza delle tutele di settori più dotati “hanno bisogno di reinwelfare. vestire il loro surplus economico o quanRicerca sociale e impegno politico sono tomeno di conservarora chiamati a valulo per il futuro”. In tare e scegliere. Ed è mancanza di organiaugurabile che il che politiche redistririnnovato interesse Giuseppe De Rita butive “le differenti per il welfare possa IL REGNO INERME. SOCIETÀ E CRISI DELLE ISTITUZIONI collettività cercano aprire un confronto Einaudi 2003 di difendere i rispetnon di facciata e tivi modelli di solidache prevalga in ogni Ministero del lavoro e delle politiche sociali rietà attraverso perforcaso la logica del be(redatto da un gruppo di lavoro coordinato da mance di sistema”. ne comune. Si può Grazia Sestini, Guido Bolaffi, Giovanni Daverio) Tradotto: risparmiadubitare che ciò LIBRO BIANCO SUL WELFARE. no e, dove non basta, possa avvenire alPROPOSTE PER UNA SOCIETÀ DINAMICA E SOLIDALE tagliano. Una conl’interno di quel “refebbraio 2003 clusione più che logigno inerme” di cui ca, se “il sistema delparla l’ultimo Giule politiche sociali è una componente esseppe De Rita, mettendo il dito nella piasenziale per lo sviluppo sostenibile e la ga di una società civile italiana per nulla competitività della società”. robusta – come viceversa sovente la si deCome influirà questa visione sulla deterscrive e la si decanta –, ma piuttosto fragiminazione dei Livelli essenziali di assile nella sua frammentazione particolaristenza, tuttora in fase di elaborazione? Fastica e nella sua incapacità di trovare forre previsioni non è agevole. Il “libro” lame conclusive di organizzazione e di iniscia intendere che i Livelli essenziali di asziativa. Proprio quei “corpi intermedi” di sistenza non saranno moduli uniformi, cui tanto s’è parlato negli ultimi anni, coma andranno correlati alle situazioni lome di risorse fresche su cui fare affidacali sulla base di obbiettivi di efficienzamento per rigenerare il tessuto sociale e la equità da stabilire, in modo che anche le vita pubblica, sarebbero entrati in una fasituazioni regionali più arretrate procedase di liquefazione. Non sarebbero più in no “verso le posizioni dei migliori”. Una grado di creare “istituzioni” innovative formula che sembra indicare, simultanea(per esempio nuovi partiti e nuovi progetmente, la soluzione auspicata e la persiti) e si accingerebbero a funzionare come stenza del problema della solidarietà geparti della grande platea che applaude o nerale. fischia di fronte alle scenografie e alle esibizioni mediatiche. E tuttavia l’urgenza Ai piani bassi del “regno inerme” delle cose impone di non cedere alla rasIl rapporto Eurispes descrive invece un segnazione e di impedire che la partecipaquadro delle dinamiche di povertà che zione civile si riduca a una conta degli apnon differisce da quello esposto da Cari■ plausi. PER SAPERNE DI PIÙ 15 marzo 2003 non solo emergenze Armi, attacco alla legge: partita persa per la pace? Suor Patrizia Pasini* marzo 2003 M FOTO ROBERTO CAVALIERI La 185 regola dal 1990 il commercio italiano di armamenti. Una normativa severa, che consente i controlli. Messa in pericolo dal modo in cui il governo italiano recepisce un accordo europeo. Una battaglia cruciale, vista dal Sud del mondo ozambico, aprile 2002. Decido di fare una passeggiata fuori della missione di Maua. Incontro alcuni bambini che, rannicchiati in un piccolo cerchio, si passano un giocattolo. O almeno così sembra. Ogni bambino lo tiene in mano, lo contempla e poi religiosamente, in silenzio, lo passa ai vicini. La scena mi incuriosisce. Mi avvicino, guardo meglio: ma è una pistola, ed è vera! La prendo in mano con sospetto e mi accorgo che è una Beretta, vecchia, logora, fuori uso, ma certamente usata fino a cadere a pezzi. Ora è un simbolo, un trofeo, un mito per questi bambini. Noi missionari e missionarie che operiamo nel Sud del mondo, oggi come non mai, ci sentiamo impotenti, spesso sopraffatti dalle ingiustizie, dallo sfruttamento e dalle violenze inflitti alle popolazioni tra cui lavoriamo. Alcuni anni fa, avevamo l’illusione che l’aiuto umanitario, o la carità cristiana del mondo ricco avrebbero potuto alleviare e magari risolvere alcune delle grandi ingiustizie che affliggono i paesi poveri. Ma non è così. La cooperazione internazionale e gli aiuti molte volte – non sempre, naturalmente – hanno aperto spirali di povertà e di ingiustizia ancora più gravi. In Mozambico, poi ancora in Guinea Bissau, sono rimasta impressionata dalle montagne di vestiario usato venduto nei villaggi, nei mercati, nei negozi. Il mercato tessile interno e quello dei manufatti di vestiario sono crollati, riducendo alla fame piccoli artigiani e commercianti. Nell’Amazzonia brasiliana, in piccoli villaggi e nei supermercati della città di Boa Vista, ho visto imperanti e solitari i prodotti della Nestlè, della Coca Cola, della Parmalat. I prodotti locali non trovano più spazio perché non possono competere con i prezzi delle multinazionali, ma soprattutto a causa della propaganda commerciale che queste fanno, incantando la gente semplice. Tutto questo ci riempie di dolore e forse anche di rabbia. Ma non ci preoccupa quanto l’assistere alla vendita di armi – grandi e piccole, pesanti e leggere –, che entrano con tanta facilità nei paesi poveri e diventano un simbolo, un mito. Anche armi italiane, vendute dall’Italia: sia legalmente che illegalmente. Paesi che sono o sono stati in guerra come l’Angola, la Liberia, la Somalia, il Congo o la Costa d’Avorio riescono a comprare armi sofisticate e pericolosissime, che servono a seminare morte e spesso finiscono in mano a gente senza scrupoli o, cosa ancora più terribile, a bambini costretti a combattere da soldati. In nazioni ridotte alla fame come Eritrea, Etiopia o Guinea Bissau, dove si vive con meno di un dollaro al giorno, si comprano armi, mine, spesso attraverso contratti definiti di aiuto e di cooperazione: ti mando riso, ti scavo un pozzo, ti faccio una strada, ma tu devi comprare da me tecnologie, medicine, armi o altro… 16 FOTO STEFANO VERDECCHIA I missionari in difesa della 185 In nome di queste preoccupazioni, noi missionari e missionarie italiani abbiamo sempre difeso la legge 185/90 sul commercio e vendita delle armi, che pur non essendo perfetta ha il merito di porre restrizioni e stabilire controlli sulla vendita delle armi, specialmente quando si tratta di paesi del sud del mondo. Il nostro governo, volendo uniformarsi alle direttive europee, che favoriscono le cooperazioni industriali nel settore, rendendo più facile e spregiudicata la vendita delle armi, ora sostiene il disegno di legge 1547, di modifica alla legge 185/90, che chiaramente favorisce le lobby dei fabbricanti e commercianti di armi. Sarebbe bello che i nostri politici, invece di subire le direttive europee, prendessero in questo caso l’iniziativa, proponendo all’Europa di adottare norme conformi alla nostra 185, a parziale difesa degli indifesi. Grazie alla vigilanza di molti gruppi della società civile l’iniziativa del governo è stata posta sotto una lente d’ingrandimento. Ha così avuto avvio, oltre un anno fa, la campagna di informazione, pressione e proposta in difesa della legge 185. Raccolte di firme, lettere di sensibilizzazione, azioni di pressione sui politici, sit in davanti alle sedi parlamentari, consu- lenza per la stesura di emendamenti: nulla è stato risparmiato per informare l’opinione pubblica e condizionare l’azione parlamentare. Lavorare come missionari e missionarie nelle commissioni di giustizia, pace e integrità del creato delle nostre congregazioni è molto importante, perché fornisce la possibilità di stare in rete con organismi ecclesiali, della società civile, del mondo della cultura e della politica, portando il nostro contributo concreto, libero e disinteressato: un contributo di testimonianza sulle vere cause e conseguenze delle ingiustizie. Perché la causa della pace e dell’autentico sviluppo non sia sacrificata, una volta di più, sull’altare del profitto e della forza. * Commissione giustizia e pace Missionarie della Consolata INCERTEZZA AL SENATO PER LA SORTE DELLA 185 LA CAMPAGNA DIFENDE CONTROLLI E TRASPARENZA Nel luglio 2000 il governo italiano (di centro-sinistra) firmava, con altri cinque paesi, l’accordo di Farnborough «per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea per la difesa». Nel novembre 2001 il governo (di centro-destra) presentava un disegno di legge per ratificare quell’accordo internazionale, proponendo anche profonde modifiche alla legge 185 del 1990, che regolamenta l’import-export di armi nel nostro paese. Una legge che, a detta di molti, è considerata molto severa e rigida nel campo del commercio di armi, il che ha garantito un certo controllo da parte del parlamento (e, di conseguenza, della società civile). Molte associazioni e movimenti si sono mobilitati e hanno dato vita a una campagna in difesa di quella legge: sostengono infatti che proprio le attività di controllo sparirebbero, o verrebbero molto attenuate, se venisse 17 approvato il progetto governativo (che nel frattempo è stato ratificato dalla Camera nel giugno 2002, e che il Senato stava affrontando a metà febbraio). Ad esempio non sarà più possibile conoscere i dati sul valore delle esportazioni di armi effettuate, il certificato di uso finale dei materiali esportati (cioè la reale destinazione del pezzo o del sistema d’arma) e le informazioni sulle transazioni bancarie relative all’esportazione. Tutti dati, questi, contenuti nell’annuale relazione che il governo fornisce al parlamento e che, dunque, sarà molto più avara di informazioni, che sono alla base del controllo. Lo stesso presidente dei vescovi italiani, cardinale Camillo Ruini, l’anno scorso aveva sollecitato i legislatori affinché la ratifica dell’accordo internazionale «non comporti l’attenuarsi dei controlli sul commercio delle armi». marzo 2003 globalcontinenti I media che dimenticano, tutta colpa del pubblico? Paolo Beccegato Dibattito con gli operatori della informazione sulla ricerca dedicata da Caritas Italiana ai “Conflitti dimenticati”. Molti giornalisti si appellano ai vincoli di mercato. Ma restano i dubbi: dove va a finire la dignità professionale? marzo 2003 L’ esame di coscienza è riuscito faticoso. E piuttosto riluttanti le ammissioni di colpa. Il sistema dell’informazione italiana, chiamato a riflettere, a metà febbraio, sulla ricerca “I conflitti dimenticati”, ha mostrato una certa tendenza a schivare le responsabilità, che pure emergono evidenti dai risultati dell’indagine condotta da Caritas Italiana, e divenuta ora una pubblicazione di Feltrinelli (collana Nuova Serie). Organizzata insieme a Famiglia Cristiana e Il Regno (partner nella conduzione della ricerca sul grado di dimenticanza – da parte dell’opinione pubblica – di alcune guerre “lontane” e “minori”), la giornata di dibattito e approfondimento svoltasi a Roma il 14 febbraio ha messo attorno a un tavolo operatori del giornalismo radiotelevisivo, della carta stampata e delle agenzie di stampa: gli strateghi e i manovali di un’informazione che, in materia di conflitti, il 47% degli italiani ritiene insufficiente e il 9% del tutto insufficiente, ovvero i (cor)responsabili del fatto che il 26% degli intervistati non ricorda alcun nome di paese toccato dalla guerra nei cinque anni precedenti al 2002. Caritas Italiana non aveva organizzato la giornata di studio per mettere il sistema dell’informazione sul banco degli imputati. Piuttosto per tentare di capire, perché fenomeni per loro natura costellati di “fatti” nuovi, drammatici e importanti trovino spazi risibili nell’agenda dei media o addirittura vengano passati sotto silenzio. Perché, ci si chiedeva, alcune guerre non sono ritenute “notiziabili” e altre invece lo sono più che abbondantemente? Perché a proposito di conflitti vengono date notizie infrequenti, sparse e slegate, e non ci si sforza di costruire (con la continuità e l’approfondimento) cornici interpretative in grado di dar senso ai singoli eventi? Clamoroso, nevica ad Aosta Nella tavola rotonda della mattina, direttori di telegiornali e radiogiornali, responsabili di piattaforme televisive e inviati di guerra hanno provato a spiegare perché un telegiornale nazionale debba comunicare in prima serata, il 25 gennaio, che “nevica a Sondrio e Aosta”, mentre trascura fosse comuni in Costa d’Avorio o trattative di pace per il Congo. «Noi cerchiamo di fare un tg non soffocato dalla cronaca nera e dal gossip, più aperto ai temi internazionali – si è difeso Carmine Fotia, vicedirettore del telegiornale di La 7 –. Ma in Italia la tradizione giornalistica, in questo settore, è debole». Franco Di Mare, inviato per i tg Rai in Pakistan e Afghanistan, ai tempi della recente guerra, ha puntato il dito contro le redazioni centrali «che chiedono a chi sta sul campo di fare news analysis, cioè di raccontare in 90 secondi il panorama politico di una giornata e magari vicende accadute a centinaia di chilometri di distanza, impedendogli di esprimere il valore aggiunto che è proprio dell’inviato: testimoniare fatti puntuali, raccontare storie, dare voce alle persone comuni, piuttosto che alle can- 18 cellerie». Una nota di ottimismo è risuonata grazie a Michele Mezza, vicedirettore di Rai Tecnologie, che ha invitato i cittadini fruitori di notizie «ad abbeverarsi alle innumerevoli fonti non ufficiali che ormai internet consente di avere disponibili, in tempo reale, da ogni parte del mondo». Solo così, ha affermato, sarà possibile sottrarsi ai condizionamenti di un mercato globale che «in ogni istante della giornata vede all’opera 1.500 troupe televisive pronte a servire le emittenti di tutto il pianeta: 1.385 di esse, però, hanno un unico proprietario, l’agenzia Reuter». Ma è toccato a Enrico Mentana, direttore del Tg 5, sostenere che «l’Auditel è usato come alibi da chi non vuole o non sa trattare certi temi. In realtà, non si può chiedere un ruolo pedagogico o didattico a un tg, pretendendo che stia al di sopra del suo pubblico tramite la trattazione di certi temi. Il tg non può sostituirsi a tutti gli altri strumenti, cui l’opinione pubblica può accedere per comprendere fenomeni complessi e conflitti irrisolti». Utenti cattivi, diplomatici distratti Il tema del “pubblico cattivo”, a cui viene dato in pasto ciò che in fondo vuole, è echeggiato anche nel pomeriggio. L’ha evocato Giulio Pecora, redattore dell’agenzia Ansa, secondo cui è illusorio pensare che «l’informazione possa sottrarsi a certe tendenze del mercato e della domanda», tanto più che «aprire un ufficio di corrispondenza in America Latina ha costi molto superiori» alla produzione di notizie sul delitto di Cogne o sul festival di Sanremo. Ai costi economici, ma anche a quelli umani («la nostra agenzia ha avuto, nella sua storia, numerosi inviati uccisi in aree di conflitto»), si è appellato pure Dennis Redmont, direttore dell’Associated Press Italia. Mentre Domenico Delle Foglie, vicedirettore di Avvenire, ha invitato i cattolici a «valorizzare e utilizzare i propri media», costretti a muoversi «sullo scosceso crinale tra profezia e realismo, ovvero tra l’aspirazione di gettare sguardi inediti su realtà lontane e altrimenti ignorate, e la necessità di tenere d’occhio i costi di produzione e le aspettative della platea dei lettori». Infine Guido Rampol- 19 di, inviato di Repubblica, ha azzardato un’interpretazione differente, ma non stravagante: «Certi conflitti – ha tagliato corto – non entrano nell’agenda dei media e dell’opinione pubblica, fondamentalmente perché non interessano alle nostre diplomazie e alla nostra politica». Resta il dubbio che invocare le ferree leggi del mercato per spiegare le dimenticanze del media system sia una giustificazione quantomeno debole. Padre Giulio Albanese, direttore di Misna, l’innovativa agenzia on line sul Sud del mondo, ha ricordato che alcune imprese giornalistiche dedicate a temi apparentemente perdenti («ma affrontati con professionalità e in velocità») riescono a perforare il muro dell’indifferenza. Rimangono aperte due questioni: può un servizio radiotelevisivo che continua definirsi pubblico (e che viene robustamente sostenuto con il canone dal contribuente) continuare a dimenticare e a sacrificare la qualità all’audience, con la scusa del mercato? E l’etica professionale dell’operatore dell’informazione – ancorché rotella di un meccanismo imprenditoriale – dev’essere sempre e comunque subordinata ai sacri vincoli di bilancio? «Dobbiamo fare animazione e assistenza ai giornalisti che stanno al desk – ha concluso Albanese –, fornendo loro stimoli intellettuali e notizie da sviscerare, tratti dai nostri campi d’esperienza e d’azione. Ci sono professionisti recettivi, che si appassionano ai nostri temi». Un’esortazione intelligente, che vale anche per i conflitti dimenticati. E che Caritas ■ Italiana proverà a non lasciar cadere. Nelle due foto, relatori e pubblico al convegno “Conflitti dimenticati o informazione globale?” marzo 2003 obiettivo europa Dal dibattito alle proposte il Forum atteso a un bivio a cura della redazione A Porto Alegre, per la rete Caritas, c’era il presidente di Caritas Europa, Denis Viénot. «Per elaborare strategie alternative in tema di giustizia globale saranno sempre più importanti i Forum regionali e tematici». Le Conferenze episcopali europee a Davos marzo 2003 L a terza edizione del Forum sociale mondiale di Porto Alegre è andata in archivio con un bilancio in chiaroscuro. In molti hanno lodato lo spirito di confronto e conoscenza che continua ad animare il Forum, oltre che la ricchezza dei temi che propone. Ma anche in Italia non sono mancate le voci di chi intravede alcuni rischi: anzitutto l’autoreferenzialità e la scarsa capacità di sintesi e concretizzazione dei temi affrontati. Il network internazionale Caritas era rappresentato a Porto Alegre da tre membri del Comitato esecutivo, l’organo di governo di Caritas Internationalis. Tra loro c’era Denis Viénot, presidente di Caritas Europa, che ha partecipato agli incontri organizzati tra gli altri da Caritas Francia - Secours catholique e Cafod (la Caritas inglese) sui temi della pace, del dialogo internazionale, del debito estero, delle questioni alimentari, dei diritti sociali ed economici. «A Porto Alegre – ha dichiarato Viénot al Sir, l’agenzia di stampa della Cei – abbiamo vissuto opportunità di incontro e di dialogo orizzontale sui temi vari, con una presenza delle organizzazioni cattoliche europee molto attiva. Sul piano del metodo, c’è stato un grande dibattito sulla necessità di passare dalle idee alle proposte. Io penso che in materia di giustizia globale l’elaborazione di strategie alternative dipenda in buona parte dalle responsabilità e dalle azioni dei singoli attori presenti a Porto Alegre, ognuno nel proprio paese e nella propria organizzazione». Per tramutare i dibattiti in proposte politiche e di sensibilizzazione, secondo Viénot «molto importanti sono, e sempre più lo saranno, i Forum regionali o tematici (ad esempio il Social forum europeo svoltosi a Firenze nel 2002, ndr), perché permettono di approfondire temi più specifici». Il raduno di Porto Alegre, ha infine affermato il presidente di Caritas Europa, «nato tre anni fa come anti-Davos, oggi è cresciuto ed è autonomo: è giusto, per il futuro, non far coincidere le due date» (cosa che accadrà sin dal 2004, quando il Forum verrà celebrato in India). Al vertice economico mondiale che ogni anno riunisce a Davos, in Svizzera, i massimi esponenti dell’economia, della finanza e della politica internazionali, ha invece partecipato monsignor Amédée Grab, presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee) e vescovo di Coira (sempre in Svizzera). Nel suo intervento ha affermato che «i credenti in Gesù Cristo guardano con fraterna gratitudine coloro che si assumono pubblicamente responsabilità politiche, economiche, scientifiche e che operano per accrescere le opportunità a disposizione degli uomini e delle donne». Ma ha altresì ricordato che «la ricerca del bene comune e le scelte implicate comportano tanti rischi, che a volte hanno dato luogo a decisioni compromettenti la dignità di milioni di vite umane, la qualità civile della convivenza, parti importanti dell’ambiente naturale. Tali rischi non debbono scoraggiare ma responsabilizzare. La memoria di errori e di colpe non va rimossa, ma assunta e convertita in impegno più umile e più intenso». Il presidente della Ccee ha chiesto «un grande sforzo di responsabilità e di dialogo, di apertura e di ferma resistenza ai soprusi, perché si allarghi quanto più possibile l’area in cui vigono le condizioni giuridiche e sociali utili a una convivenza civile tra le persone e tra le nazio■ ni». 20 osservatorio di confine Lula vuol battere la fame, musica nuova in Brasile? Guido Miglietta «L a missione della mia vita sarà compiuta se, alla fine del mio mandato, ogni brasiliano potrà fare colazione, pranzare e cenare ogni giorno». Luiz Inácio Lula da Silva ha sigillato con una promessa allo stesso tempo semplice e solenne, lo scorso 1° gennaio, il suo discorso di insediamento alla presidenza della repubblica del Brasile. Sarà il 39° presidente del colosso latino-americano e resterà in carica sino al 2007. L’elezione di Lula (57 anni, nordestino di famiglia povera, ex metalmeccanico, sindacalista e leader del Partito dei Lavoratori) ha avuto contorni nettissimi, segno che l’uomo incarna le attese di gran parte della popolazione, in un Brasile dove 54 milioni di abitanti (su 175) vivono sotto la soglia della povertà. «Tutti sperano che con un direttore e un’orchestra nuovi, cambi anche la musica», ha affermato Renzo Giacomelli, giornalista e noto commentatore di cose latinoamericane. Nel discorso di investitura davanti al con- Luis Inácio Lula da Silva, neo-presidente brasiliano 21 gresso, a Brasilia, Lula ha riaffermato il suo impegno a lottare contro la fame e altre emergenze sociali e si è detto “ossessionato” dalla necessità di creare posti di lavoro, democratizzare le relazioni internazionali ed “eliminare gli scandalosi sussidi” che sostengono le agricolture dei paesi sviluppati, a discapito dei paesi poveri. Il nuovo governo brasiliano (nella cui compagine è presente, con la carica di sottosegretario per l’“economia solidale”, l’economista Paulo Singer, che ha sempre seguito e appoggiato l’esperienza di Caritas Brasile) ha comunque rassicurato gli ambienti economici e finanziari, interni e internazionali, circa il fatto che manterrà un severo controllo dell’inflazione e della spesa pubblica, mentre agirà per generare crescita e ridurre gli interessi. I primi effetti si sono avuti con il taglio generalizzato della spesa pubblica (reso inevitabile dai guasti delle politiche economiche del decennio precedente), che ha colpito anche i dicasteri del lavoro, della previdenza e della sanità, ma in percentuali inferiori agli altri settori. Dice di avere un’ossessione: lottare contro la povertà e le emergenze sociali. Vuole assicurare ai suoi compatrioti tre pasti al giorno. Ai potenti di Davos ha chiesto un “nuovo ordine economico”. Ritratto di un presidente che ha acceso molte speranze nel paese Bombardieri bloccati, sussidi ai poveri Tra le prime decisioni di Lula che più hanno impressionato l’opinione pubblica, vi è stata la scelta di ritardare di un anno l’ammodernamento della flotta aerea militare brasiliana, sospendendo l’acquisto di 12 Mirage: i fondi corrispondenti – 760 milioni di dollari – sono stati destinati al program- marzo 2003 LA CHIESA E IL PRESIDENTE: «SPERANZA, NON ILLUSIONI» La Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) subito dopo l’elezione di Lula ha pubblicato un documento in cui afferma che «la vittoria di un nuovo presidente rappresenta l’incontro con i sogni dei tempi nuovi. Ma non possiamo alimentare illusioni», dicono i vescovi, a causa dei numerosi problemi e ritardi, di natura interna ed esterna, che travagliano la società e l’economia brasiliane. I vescovi affermano altresì che «il Partito dei Lavoratori raccoglie, in ragione delle sue origini, la presenza e l’azione anche di gruppi cristiani delle nostre chiese locali. I valori del Regno di Dio offriranno certamente sostegno alla costruzione di una società giusta e solidale». In una lettera ufficiale, Dom Jacyr Francisco Braido, vescovo incaricato dalla Cnbb per la Pastorale sociale, ha a sua volta assicurato a Lula sostegno «nella grande missione che Le è stata affidata» e nelle difficoltà, rappresentate «dalla grande concentrazione della ricchezza, della terra e dei redditi e dagli interessi degli Stati Uniti d’America nel voler stabilire l’Area di libero commercio americano (Alca), che minaccia la sovranità nazionale». Il presule garantisce la volontà di corresponsabilità e collaborazione «nel processo di trasformazione del sistema che, da 500 anni, mantiene la maggioranza della popolazione sfruttata e senza reali opportunità di una vita degna e di partecipazione alle decisioni politiche». Infine monsignor Demetrio Valentini, fino al 1999 responsabile della Pastorale sociale della Cnbb e presidente nazionale Caritas, ha scritto che «Lula ha proposto come priorità assoluta e come marchio del suo governo la lotta alla fame. La fame e la sete sono i segni più evidenti, più autentici e più urgenti delle necessità umane di base, a servizio delle quali ogni governo trova senso». Ma il presidente della Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani, monsignor Jaime Chemello, avvisa: «Non possiamo continuare con un’economia che ci impedisca di crescere. Certo bisogna avere pazienza. Non sono neppure due mesi che Lula è presidente e non possiamo di certo ancora puntargli il coltello alla gola. Ma vogliamo avvisarlo che la nostra pazienza ha un limite». ma di lotta contro la fame. Poi Lula si è recato sia al Forum sociale mondiale di Porto Alegre che al Forum economico mondiale di Davos, dove il 27 gennaio ha sollevato l’esigenza di un «nuovo ordine economico per combattere la fame e la povertà e favorire la pace», sostenendo l’idea di un «libero commercio mondiale, però libero nel senso che si caratterizzi per la reciprocità», senza protezionismi. Per ottenere questi obiettivi, ha proposto la creazione di un Fondo internazionale integrato «costituito dai paesi del G-7 e favorito dai grandi investitori internazio- marzo 2003 nali». Ha chiesto anche la cooperazione internazionale per ostacolare l’evasione dei capitali verso i paradisi fiscali. Ha infine assicurato che il Brasile rispetterà i suoi obblighi finanziari, ma ha insistito sulla necessità di rompere il circolo vizioso in virtù del quale il suo paese deve continuamente chiedere denaro a credito per fare fronte ai debiti. Alla fine di gennaio il presidente ha infine messo in moto un’offensiva per sradicare gli alti livelli di povertà che colpiscono il 30% della popolazione. Con un investimento iniziale di 514 milioni di dollari ha lanciato le prime misure del piano “Fame Zero”, da attuarsi soprattutto nella regione del semiarido del Nordest brasiliano, dove si concentra la metà della popolazione povera del paese e i cui indicatori sociali si avvicinano a quelli di alcuni paesi dell’Africa subsahariana. Il programma prevede, come prima misura, la distribuzione dell’equivalente di circa 14 dollari al mese per famiglia per l’acquisto di alimenti. La sfida dunque è lanciata. Molti, compresi ampi settori ecclesiali, si aspettano risultati significativi dalla nuova stagione politica. L’orchestra è alle prime note: il tempo dirà se la musica è davvero cam■ biata. Una favela brasiliana: Lula ha promesso di legalizzare la proprietà di terreni e baracche 22 a tu per tu «Un dignitoso declino? La crisi è un’opportunità» Paolo Brivio N on crede a una città mestamente incamminata sul viale del tramonto, insieme alla sua azienda simbolo. Don Luigi Ciotti conosce bene Torino. E la conosce dal basso e dai margini. Da decenni vi traccia, giorno dopo giorno, coraggiosi percorsi di solidarietà. Che incrociano la povertà e il disagio ben prima di quanto riesca agli apparati istituzionali. «Ma il mondo – osserva – viene oggi rappresentato dai media in modo così convincente da permettere un’oggettiva confusione tra piano del reale e comunicazione pubblica. Se chi osserva non è critico con il suo sguardo, l’immagine rende possibile il tradimento. Elementi di crisi oggettiva ci sono. Ma Torino non è riducibile alle rappresentazioni che se ne danno di questi tempi». Eppure, don Luigi, la città sta attraversando mesi molto difficili. Molti dicono stia vivendo un cambiamento epocale. Concorda? Torino ha un patrimonio di cultura, di storia, di solidarietà, di santi sociali o di accoglienza e di sperimentazione che l’hanno resa, in tempi lontani e recenti, un vero laboratorio sociale, in grado di esprimere una vivacità non comune. Oggi un’espressione ricorrente parla di “dignitosissimo declino” e i cambiamenti configurano una città un po’ ridimensionata, a partire dalla popolazione (1 milione 200 mila abitanti negli anni ’70, circa 890 mila oggi). Però è importante evidenziare che, al di là della vicenda Fiat, Torino sta scommettendo sul suo futuro in termini propositivi, nel settore dell’informatica e in altri settori, in grado di rompere una cultura del lavoro mono-tematica. La crisi della grande industria 23 produce nuove povertà e nuove forme di esclusione? Dal “basso” si coglie certamente la fatica del momento, ma anche una serie di segnali che generano speranza e che rendono possibile un cauto ottimismo, che per nessuna ragione dev’essere spento o soffocato. Povertà vecchie e nuove abitano nella nostra città e in alcuni casi sono rese più acute dal momento attuale. Chi si ritrova con una lettera che annuncia la cassa integrazione o, peggio ancora, il licenziamento è certamente in condizione di grosso svantaggio. Se a questi si aggiunge chi vive una forma di povertà psicologica, dettata dalla paura e dall’ansia del perdere un lavoro che ancora si possiede (con gli immaginabili riflessi sulla qualità della vita personale e familiare), non è difficile capire di cosa si parla per strada, in autobus, in casa o al bar. Resta il fatto che, pur in presenza di tali fatiche, Torino sa inventare e organizzare percorsi di speranza e di solidarietà che non restano assistenza o sola elemosina, ma si dirigono verso i territori della giustizia e della coesione sociale. In tempi di ristrutturazione delle funzioni produttive e dei profili professionali, anche le relazioni sociali e umane, e magari le espressioni culturali, vengono modificate? Torino esprime una serie di iniziative culturali (salone del libro, della musica, del gusto, museo del cinema) che affiancano la grande industria, esprimendo un’identità cittadina decisamente più completa. Nei prossimi anni arriveranno Olimpiadi e Universiadi: una preziosa opportunità per fare della città un centro internazionale, e non una periferia italiana. E il vo- La Fiat in panne, la morte di Agnelli: Torino sta affrontando una stagione di grandi difficoltà. Intervista a don Luigi Ciotti: «Il momento attuale acutizza la povertà, anche psicologica. Ma la città sa organizzare la speranza. E deve continuare a “camminare insieme”» marzo 2003 lontariato che Torino esprime (il 10% coinvolto in attività di cooperazione internazionale) rappresenta realmente un fermento di impegno sociale, che spinge i confini della nostra città oltre quelli geografici. La crisi della grande industria va gestita e governata, per aiutare la città ad assumere fino in fondo una nuova dimensione culturale, da città cosmopolita, sempre più luogo e punto di incontro tra culture diverse. Traguardo ambizioso… È curioso, ma Torino sa esprimere molto bene la sua dimensione “locale” (a volte consegnando l’immagine di sé come quasi provinciale) e, al tempo stesso, proporsi come crocevia che permette a ciascuno di avvertirla come la “sua” città. Gli oltre 500 mila immigrati dal Sud Italia (o da altre regioni italiane: il sottoscritto proviene dal Veneto) che ormai da quasi due generazioni vivono nel capoluogo piemontese, avvertendosi “anche” torinesi, sono la conferma della capacità di accogliere e costruire integrazione. Si tratta ora di far crescere altri poli di riferimento, verso quella “convivialità delle differenze” che rende possibile e civile ogni “abitare”. l’accezione della difesa dei forti da quanti sono più deboli e meno garantiti. Si tratta di non far venire meno quel “fame e sete di giustizia” che rappresenta, da sempre, il solo e valido fondamento di ogni solidarietà. La fabbrica ha rappresentato (e rappresenta ancora) un luogo e un’opportunità per formarsi a questa robusta solidarietà, ma non è l’unico spazio possibile per un simile percorso. La formazione alla solidarietà deve iniziare prima del tempo del lavoro; deve appartenere alla famiglia, alla scuola, alle agenzie del tempo libero, alle comunità cristiane, alla catechesi, a quanti operano nei media… La nostra Costituzione definisce la solidarietà un dovere inderogabile di ogni cittadino, non un optional per chi vuole sentirsi più buono degli altri. Ma nel mondo del lavoro e nella società attuali non rischiano di andare in crisi, con la fabbrica, anche l’idea e la prassi di una solidarietà collettiva? Anche la fabbrica – come il mondo del lavoro nel senso più ampio – rispecchia il clima sociale in cui è immersa. Se l’essere clienti è prioritario sull’essere cittadini, tutto diventa mercato e il bisogno, prima di essere esaudito dalla cultura dei diritti, viene interpretato come merce da acqui- La grande fabbrica era luogo di conflitti, ma anche recinto di formazione di una cer ta cultura della solidarietà. Torino rischia di essere meno solidale? Le forme di organizzazione della solidarietà sono certamente mutate, così come è forte la tentazione di riportare il valore della solidarietà negli ambiti dell’assistenza o dell’elemosina, per sganciarla dalle istanze della giustizia. La stessa nozione di sicurezza – sacrosanta e doverosa, se declinata in termini sociali – assume non poche volte Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera marzo 2003 24 stare o favore da supplicare. Diventa urgente rompere questi meccanismi, per rifondare lavoro e convivere sociale su un essere cittadini che afferma i diritti per prepararsi ai doveri, e al dovere di solidarietà verso chi è meno protetto. Solo sulla piattaforma della giustizia e della legalità potremo costruire la solidarietà che resta, per ogni città, tensione e pungolo per un convivere più umano. Nelle fabbriche come in ogni altro ambiente di vita. Centomila persone al Lingotto, per l’estremo saluto a Gianni Agnelli. Come interpreta l’omaggio di Torino all’Avvocato? Il cordoglio commosso che la città di Torino ha espresso in occasione della morte di Giovanni Agnelli è il risultato di tanti sentimenti e di diversi stati d’animo. Agnelli era ed è presenza significativa e punto di riferimento impegnativo, tanto che non è possibile separare la sua persona dalla storia di Torino e d’Italia. Tale storia ha visto la città e l’Avvocato, nei momenti positivi come nelle tensioni, crescere e “camminare insieme”. L’espressione richiama la lettera pastorale che padre Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, indirizzò alla nostra chiesa nel dicembre 1971. Erano gli anni dell’immigrazione, dell’espansione della Fiat e delle lotte sindacali. Quel “camminare insieme” rappresentò un punto di incontro – il più alto possibile – per avvicinare posizioni apparentemente inconciliabili e tracciò un metodo di lavoro ancora valido. Non fu facile per nessuno, ma quel rendersi compagni di viaggio nella ricerca di verità e giustizia fu proposta che obbligò tutti a incontrare l’altro come persona da rispettare e da ascoltare, senza mai ridurlo a “nemico”. Gianni Agnelli si lasciò coinvolgere in questo procedere e si mise in cammino con la “sua” città alla ricerca di mete condivise. In occasione della sua morte Torino ha avvertito di aver perso un compagno di viaggio. Ognuno ha vissuto l’evento con i riferimenti e le motivazioni che gli sono propri. Ma per tutti c’è stata la consapevolezza di una perdita. Come continuare quel “camminare insieme”, è la ricerca da cui non dobbiamo uscire. 25 NUOVI POVERI E “IN CADUTA”, TRA LORO ANCHE I DISOCCUPATI È stata presentata il 18 febbraio una ricerca condotta sul territorio provinciale di Torino, condotta dalla cooperativa sociale Solaris con il contributo dell’assessorato provinciale alla solidarietà sociale, sul tema “Povertà nuove, estreme, conclamate”. Ne emerge che «i nuovi poveri – afferma il curatore, Roberto Cardaci – sono i nuclei familiari monoreddito quando viene a mancare o si riduce notevolmente l’unica entrata, donne separate o divorziate con coniuge a sua volta povero o che ricevono un assegno insufficiente, adulti disoccupati e senza una rete di sostegno familiare, anziani soli con una pensione bassa, genitori anziani con figli grandi a carico o figli in età avanzata con a carico genitori ultranovantenni». Accanto a queste situazioni, emergono poi tipologie di povertà estrema, di cui i classici clochard rappresentano solo una piccola quota: sono soggetti “in caduta” (ovvero la cui condizione è in progressivo peggioramento), come immigrati clandestini, ex carcerati e anziani soli in località isolate (fonte: Redattore sociale). Oggi si parla tanto di aziende socialmente responsabili. La Fiat lo è stata nei confronti del territorio e della società circostanti? La Fiat ha indubbiamente aiutato Torino a crescere, così come Torino ha aiutato la Fiat ad assumersi una serie di responsabilità anche sociali che un tempo si pensava poco attinenti al mondo dell’industria. Fare del lavoratore il soggetto di ogni prestazione lavorativa, secondo la felice espressione di Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, è il punto di arrivo (o di tensione, perché questo obiettivo prima o poi possa essere raggiunto) che il mondo degli industriali non può realizzare senza l’aiuto dei lavoratori, delle loro famiglie e della città in cui questi abitano e vivono. È un obiettivo che esige fedeltà alla giustizia da parte di tutti i soggetti coinvolti, le cui forze solo se spese insieme possono generare una ricchezza decisamente più completa del semplice utile economico. Torino ha rappresentato un vero laboratorio sociale, perché ha tentato – con determinazione, passione e senso della legalità – questa non facile collaborazione. Un procedere da completare e migliorare. Che però ha già generato frutti sociali. Non solo per la città, ma per l’intero ■ mondo del lavoro. marzo 2003 un volto una storia Oumar che cerca i vestiti e le spose del “Girabito” Mariagrazia Bonollo O umar viene al negozio di tanto in tanto. Una volta in cerca di un paio di calzoni, un’altra di un maglione. «Sono operaio in una ditta meccanica qui a Vicenza – racconta mentre passa in rassegna i cappotti in cerca di uno della sua misura –, faccio i turni, lavoro duro ma tutto sommato non sono pagato male. Solo che l’affitto dell’appartamento in cui vivo con mio fratello costa proprio caro, e anche fare la spesa… Alla fine non mi resta molto in cassa, se voglio mandare qualcosa a casa. Così quando ho bisogno di vestirmi vengo qui, dove riesco a spendere poco, anche 50 centesimi di euro per una maglietta o 10-15 per un giaccone. Quello che risparmio si aggiunge ai soldi che ogni mese spedisco in Marocco, ai miei genitori, a mia moglie e ai miei FOTO MARIAGRAZIA BONOLLO Dai cassonetti gialli ai banchi di un negozio. Gli indumenti raccolti nelle campane Caritas diventano opportunità di risparmio per gli immigrati e di lavoro per persone in difficoltà. E poi si può battere la cultura dello spreco: anche nel giorno più bello della propria vita… Nelle foto, la vetrina e un interno di “Girabito” marzo 2003 due figli». Il negozio, in effetti, è diverso da tutti gli altri. “Girabito” è gestito a Vicenza, grazie alla disponibilità della Caritas diocesana e del consorzio di cooperative sociali Prisma, dalla cooperativa Insieme. Al “Girabito”, a prezzi veramente a buon mercato, è possibile comprare abbigliamento usato di tutti i tipi: da cerimonia, classico e sportivo, per donna uomo o bambino. E ancora tessuti e biancheria per la casa, tappeti e accessori, borse, scarpe e cinture. «Le commesse – racconta Oumar – mi hanno spiegato che il loro obiettivo non è vendere, ma dare opportunità di lavoro a persone in difficoltà. Mi hanno detto che questo abbigliamento usato viene dai cassonetti gialli Caritas, che vedo andando al lavoro. Loro prendono il contenuto dei cassonetti, lo smistano e se è in buono stato lo espongono. E mi hanno pure spiegato che i soldi che incassano servo- 26 FOTO MARIAGRAZIA BONOLLO no per aiutare la Caritas nei suoi progetti di solidarietà. Così siamo contenti tutti: loro che aiutano le persone, io che spendo poco per vestirmi…». Fra novembre e dicembre e prima delle vacanze estive sono molti gli immigrati dei paesi dell’est, del Mediterraneo, ma anche dell’India e del Banglasdesh, che passano a Girabito. «Veniamo qui – conferma divertito Oumar – a fare le scorte di abiti che portiamo alle nostre donne e ai nostri bambini. Loro attendono con ansia il nostro arrivo, si aspettano dei regali. Grazie a Girabito ce li possiamo permettere…». Il negozio, però, fa anche di più. Si propone come opportunità per far crescere la cultura della solidarietà, della sobrietà, della tutela dell’ambiente. Anche perché si pone in posizione critica rispetto all’ottica consumistica dell’usa e getta. Gli introiti vengono utilizzati, detratte le spese per la gestione e gli stipendi, per finanziare le iniziative Caritas, come quelle in favore delle vittime della prostituzione coatta, o il ricovero notturno d’emergenza per i mesi invernali. Nel 2001 sono state ben 1.393 le tonnellate di vestiario raccolte nelle classiche campane gialle (un cubo con un lato di 25 metri!): un’attività, realizzata da 4 cooperative sociali, che ha dato lavoro a 16 persone, di cui 8 svantaggiate. «Qui incontro anche tanti italiani, signore di una certa età ci stanno per ore – commenta Oumar –. È divertente vederle esplorare con pazienza i cestoni, alla ricerca di un oggetto particolare. Con alcune ho fatto amicizia, mi hanno detto che per loro questo è il negozio delle sorprese. Mi raccontano che alla domenica si divertono andando in giro per mercatini – come li chiamate? – delle pulci. Che strani voi italiani: siete incuriositi dalle cose vecchie, mentre io, se potessi, comprerei tutto nuovo! È che per me costa troppo…». 27 Ma Girabito dà il meglio, in fatto di fantasia, al piano superiore, dove è stato allestito un vero e proprio “angolo della sposa”: vestiti più accessori. «Ho una sorella giovane, che spero si sposi presto – sospira Oumar –. Chissà, se un giorno andrò in Marocco per il suo matrimonio, le porterò qualcosa che ho preso qui…». Il reparto “fiori d’arancio” non è una trovata eccentrica. Viene incontro alle future spose con qualche problema di cassa, ma anche a tutte coloro – vicentine comprese – che ci tengono a non trasformare la loro cerimonia nuziale in un festival degli sprechi, inutile e offensivo. Il meccanismo di vendita funziona come un piccolo manuale di convivialità e solidarietà. Dopo il matrimonio, le novelle spose possono portare al Girabito, lasciandolo in conto vendita, il proprio vestito nuziale: uno modo per far felice un’altra donna, e per finanziare pratiche di solidarietà. Quando il vestito viene venduto, il 40 per cento del prezzo viene incassato dalla cooperativa e il 60 per cento dalla proprietaria. Il giorno più bello della propria vita, in fondo, lo si può condividere ben oltre la cerchia degli invitati. Con chi deve ancora vivere il proprio. E con chi si ■ trova nel bisogno. MARINA E LA DEPRESSIONE, LA CURA SI VIVE IN NEGOZIO Marina è giovane e lavora cinque mattine alla settimana al Girabito. «Sto uscendo da un periodo difficile: una depressione, la difficoltà a tenermi il lavoro di prima, l’incapacità di gestire qualsiasi relazione umana. Un periodo buio. Ho perso il lavoro e le giornate “vuote” sono diventate un incubo. Passavo dal letto alla poltrona alla sedia, mia madre non sapeva più cosa fare per aiutarmi. Ero già seguita dai servizi sociali per difficoltà di altro tipo. E così mi è stato proposto l’impiego per un po’ di mesi in cooperativa, a Girabito. Qui l’ambiente è informale; la semplicità delle persone e la possibilità di sentirmi utile e di rapportarmi con la gente mi hanno aiutato molto». Piano piano Marina sta risalendo la china. «Non è facile, certe giornate proprio non gira. So che non potrò stare qui per sempre e questo mi intimorisce, ma mi sento un’altra persona rispetto a un po’ di mesi fa… Ho scoperto che adoro stare in mezzo alla gente, se sto bene. Cercherò un lavoro simile, magari, così mi sentirò più viva. Qui c’è gente di tutti i tipi e di tutte le età. Girabito mi fa conoscere un’umanità così varia!». Info: Girabito, via Pecori Giraldi, 56 - 36100 Vicenza tel. 0444.56.10.54 marzo 2003 progetti Vicini ai Rom nei Balcani e alle “famiglie solidali” in fondo al mese NEL MONDO Progetto Serbia e Montenegro Basso livello di educazione, elevata disoccupazione, abitazioni insalubri costruite su terreni abusivi. Ma soprattutto un atteggiamento discriminante da parte di istituzioni e popolazioni circostanti. Anche nei Balcani le minoranze Rom devono affrontare durissime condizioni di vita. Già dal 2000 Caritas Italiana conduce progetti (preparazione all’inserimento scolastico, segretariato sociale e centro d’ascolto) in favore dei Rom di Topana, un quartiere Rom della capitale macedone, che degli adulti. Nel paese centiSkopje. Ma anche il Programma naia di associazioni Rom svolgono paese Serbia e Montenegro sta invarie attività in questo settore, ma tensificando il suo impegno a favoanche in altri ambiti di promoziore di queste (e altre) minoranze. A ne sociale. Le loro attività stanno cominciare dall’attenzione al tema assumendo una forma più organidella scolarizzazione. «Un terzo dei ca e riconosciuta, in virtù di una bambini Rom della Serbia non va legge sulle minoranze emanata a mai a scuola. La maggior parte defebbraio 2002. Caritas Italiana, in gli allievi, circa l’80%, vengono collaborazione con alcune Caritas diocesane mandati nelle “classi speciali” anche se non diitaliane, sostiene svariati interventi a favore delmostrano i disturbi mentali – spiega Vera Mraola minoranza Rom e di altre minoranze, alcuni vic, operatrice di Caritas Italiana –. I bambini già in corso, altri in fase di decollo: non conoscono la lingua serba, non hanno abbigliamento adatto • supporto al progetto di doposcuola dell’asper presentarsi a scuosociazione Zvezdano la, vivono in campi nebo (Cielo stellato), siposti a grandi distanPer sostenere i Progetti e gli interventi tuata alla periferia di ze dalle aree urbane. segnalati (specificando sempre la causale) si Belgrado, che incoragpossono inviare offerte alla Caritas Italiana Inoltre i genitori (in gia i ragazzi a portare a tramite: gran parte analfabeti) termine la scuola elenon possono dare una • c/c postale n. 347013 mentare; mano ai figli e gli in• Banca Popolare Etica, Piazzetta Forzatè, 2 segnanti dedicano po• supporto alla scuola Padova - c/c n. 11113 - ABI 5018 – Cab materna dell’associaca attenzione agli al12100 zione Rom di Lazarelievi Rom». • Banca Intesa Bci – p.le Gregorio VII, Roma vac, che accoglie venti Nonostante ciò, molti - c/c n. 100807/07 - ABI 03069 – CAB bambini per facilitarne Rom sono convinti 05032 inserimento nella che bisogna insistere • Cartasì e Diners telefonando al numero scuola elementare; sull’istruzione sia dei 06/541921, in orario d’ufficio. bambini (nelle foto) • appoggio al progetto marzo 2003 28 AVVISO AI LETTORI IN ITALIA Progetto solidarietà familiare di educazione dei bambini Rom di Kotor (Montenegro), che coinvolgerà 296 bambini in età prescolare e scolare, cui sarà insegnata la lingua locale e che saranno sostenuti nell’attività didattica; • definizione di un progetto a Novi Becej (nord Vojvodina) per la promozione del ruolo della donna nella famiglia, per un miglior approccio all’igiene e alla salute, per la responsabilizzazione all’interno della comunità; • sostegno all’associazione Armenka di Belgrado, che assiste donne e bambini provenienti dall’Armenia, vittime di abusi e di violenza; • appoggio al progetto “Donne per una vita senza violenza” svolto dal Centro Autonomo Donne e attivo da una decina d’anni per le famiglie Rom nell’area di Belgrado; • esame di un progetto di Caritas Kotor per dare lavoro a 20 Rom, profughi dal Kosovo, impiegandoli nel risanamento delle antiche mura della cittadella veneziana, in collaborazione con la municipalità. Per contribuire ai progetti, causale Fed. Jugoslava 29 Già annunciato da Italiacaritas, il progetto ora è entrato nella fase di attuazione. Messo a punto da Caritas Italiana, in collegamento con le Caritas diocesane e gli Uffici diocesani e nazionale di pastorale per la famiglia della Cei, punta a sviluppare esperienze di solidarietà familiare nella vita quotidiana. Il progetto intende rendere le famiglie, nella loro condizione ordinaria, capaci di solidarietà nel quotidiano, integrando gli altri interventi di servizio verso la povertà e la sofferenza presenti nei contesti familiari in difficoltà. Sarà concretizzato a partire da una formazione specifica, mediante reti familiari, attenzione alle famiglie più gravate da situazioni di disagio e attenzione alle famiglie di nuovo insediamento; inoltre prevede forme di educazione delle famiglie a stili di vita, di gestione economica e di impegno civile ispirati a una solidarietà universale. Partecipano al progetto l’arcidiocesi di Palermo e le diocesi di Reggio Calabria, Lecce, San Benedetto del Tronto, Pistoia, Cuneo e Como. Sabato 15 e domenica 16 febbraio il Gruppo nazionale di supporto ha incontrato a Roma tutti i gruppi diocesani e le prime famiglie coinvolte. Da marzo a settembre si avvieranno esperienze di servizio a persone e famiglie in condizione di grave emarginazione, in collaborazione con le parrocchie. Ogni sostegno al progetto di solidarietà familiare aiuterà ad allargare la rete di famiglie solidali, preziose risorse per rispondere a forme gravi di disagio e povertà che vedono al centro la famiglia. Per contribuire ai progetti, causale Solidarietà familiare ■ Nel presentarvi il mensile Italiacaritas in una veste rinnovata e suscettibile di ulteriori modifiche in corso d’opera, esprimiamo le nostre scuse per eventuali inconvenienti. Per problemi in fase di riorganizzazione del sistema di gestione informatica delle offerte è possibile che molti offerenti non abbiano ricevuto né una lettera di ringraziamento, né alcune copie della rivista. Così pure è possibile che non siano state eseguite tempestivamente molte richieste di cancellazione o di modifica di indirizzi e di destinatari. Siamo veramente dispiaciuti per questi disagi, in via di superamento. Vi invitiamo, comunque, a segnalarci eventuali ulteriori disguidi (email: molimpieri@caritasitalia na.it - tel. 0654192202). Vi ringraziamo per il tratto di strada percorso con noi sul difficile sentiero della solidarietà e per il contributo finora dato alle nostre azioni in favore e dei meno tutelati. Ci auguriamo di poter contare anche in futuro sul Vostro sostegno ai nostri progetti. marzo 2003 SUSSIDI Quaresima tra dare e ricevere per coltivare i frutti dello spirito: «Chi ci guadagna di più?» U na Quaresima capace di contrastare i venti di guerra e la spasmodica ricerca di profitto e di benessere personale che contraddistingue il nostro tempo, coltivando i “frutti dello spirito”. Amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé: l’elenco sviluppato da san Paolo nella lettera ai Galati (5,22) fa da guida ai momenti di riflessione e preghiera proposti dai sussidi Caritas per la Quaresima 2003. Questi frutti appaiono, entro certi limiti, inattuali. Eppure convertirsi e cambiare vita, sviluppando la ricerca di questi valori, può condurre l’uomo contemporaneo a un guadagno reale, non solo perché questi frutti annunciano la Resurrezione, ma perché molto verrà restituito già nel tempo presente, all’uomo che si fa guidare dallo Spirito, in rapporti, relazioni, amicizia, serenità e gioia. “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” è infatti la frase proposta dal papa nel suo messaggio per la Quaresima, che i sussidi Caritas riprendono come filo conduttore. L’opuscolo (nella foto, la copertina) rivolto alle famiglie propone un itinerario per vivere la Quaresima e la Pasqua 2003 secondo lo schema già noto: ci si lascia provocare dalla Parola di Dio delle liturgie domenicali, riflettendo inoltre – grazie a una testimonianza – sull’esperienza concreta di chi ha sperimentato nella propria vita il guadagno che si realizza donando, nonostante la fatica. La novità, quest’anno, consiste nel fatto che l’opuscolo propone anche l’ascolto di altre esperienze religiose, come il papa stesso ci invita a fare, in vista di una migliore conoscenza reciproca. Quotidianamente si potrà pregare con le parole delle comunità che, nell’anno appena concluso, sono state provate da cala- marzo 2003 mità naturali che hanno stravolto la loro vita. Il poster/gioco allegato all’opuscolo, ma utilizzabile anche a parte, è un’attività volutamente molto semplice da proporre ai bambini, in famiglia o nei gruppi da essi frequentati. In sei tappe, corrispondenti alle cinque domeniche di Quaresima e al giorno di Pasqua, i bambini sono invitati a ripensare ad alcuni valori per loro molto importanti. Ci si guadagna molto nel ricevere, ma anche nel dare: è questa, per il bambino, la vera novità. Anche il salvadanaio, per raccogliere risparmi da destinare a persone e comunità in situazione di difficoltà, riprende la grafica e i disegni del poster-gioco. Il poster (nella foto) diffuso alle Caritas diocesane e parrocchiali, da appendere nelle chiese e negli ambienti pastorali, ha un titolo ispirato al messaggio papale (“Chi ci guadagna di più?”) e ha come sfondo una foto di condivisione: una giovane volontaria, chinata accanto a un’anziana in carrozzella. In basso c’è la consueta scritta “Caritas diocesana”, su un fondo bianco che può essere personalizzato. Il poster è disponibile in due formati (64x88 e 50x70 ■ centimetri). LIBRI La libertà religiosa nel mondo analizza paese per paese. Nel ricordo di “padre Lardo” Interessi e doni, questione di solidarietà C “L urato da Attilio Tamburini e inserito nella collana “Quaderni dell’Associazione Chiesa che Soffre” (Acs), è disponibile il Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel mondo (423 pagine), una panoramica esaustiva su un tema complesso, analizzato per aree territoriali e culturali, per continenti, infine paese per paese; di grande efficacia è la cartina allegata. Entro maggio è atteso il Rapporto 2003. Sempre a cura dell’Acs, si segnala anche la videocassetta Il battello di Dio, un progetto ecumenico a sostegno della pastorale della chiesa ortodossa russa, con immagini dei battelli-cappella che navigano lungo il Volga con equipaggi di sacerdoti, diaconi e seminaristi ortodossi in visita alle comunità locali. Nel segnalare questi strumenti, non si può non ricordare la figura del fondatore dell’Acs, padre Werenfried van Straaten (nella foto), più conosciuto come Padre Lardo, scomparso a fine gennaio 2003, dopo aver trascorso più di 90 anni al servizio dei poveri e dei deboli nei più remoti angoli del pianeta. Lo avevano definito “bulldozer della carità” e “mendicante dei poveri”. Il suo nome di battesimo era Filippo e solo quando vestì l’abito religioso gli venne imposto il nome di Werenfried, “colui che difende la pace”. Dai perseguitati del socialismo reale ai boat people vietnamiti, dagli sfollati del dopoguerra ai profughi extracomunitari dei giorni nostri, dai poveri delle favela sudamericane agli esclusi dal neoliberismo selvaggio, dai missionari bisognosi di un mezzo di trasporto alle monache in monasteri fatiscenti: grazie all’Acs, dal lui fondata nel 1947, moltissime invocazioni di aiuto non sono rimaste senza risposta. Per oltre mezzo secolo, padre Werenfried ha chiesto aiuto e solidarietà a nome dei poveri di Dio. E per questo è stato definito “il più grande mendicante del Novecento”. La morte lo ha colto nel pieno di un’ardita missione ecumenica. Proprio lui che aveva soccorso la chiesa cattolica vittima del comunismo e che aveva in passato stigmatizzato l’arrendevolezza delle gerarchie ortodosse in alcuni paesi dell’Est, ha ideato un’iniziativa profetica: aiutare la chiesa ortodossa russa in modo disinteressato, senza fini di proselitismo. La sintesi del suo pensiero e della sua azione la si può forse rintracciare in questa riflessione: «Restaurare l’amore in un mondo dilaniato dall’odio, a favore della riconciliazione. Porre la misericordia al di sopra del diritto, elemosinare amore per il nemico sconfitto, difendere gli inermi, i prigionieri, gli espulsi dalle loro case e dalle loro terre, i perseguitati, i poveri e gli oppressi. Asciugare le lacrime di Dio, dovunque Egli piange (…) perché egli piange in tutti gli oppressi e sofferenti del nostro tempo». (Francesco Meloni) 31 ’idea della solidarietà è centrale anche per quelle etiche che non contengono riferimenti religiosi, ma partono dall’idea che esistano legami affettivi fra tutti gli uomini”: è questa la traiettoria di riflessione di Kurt Bayertz coautore, insieme a Michael Baurmann, di L’interesse e il dono – questioni di solidarietà (Edizioni di Comunità, pagine 120, Torino 2002). Curato da Pier Paolo Portinaro con una puntuale e articolata introduzione, il libro raccoglie due saggi (“L’interesse e il dono” di Bayertz e “Solidarietà come norma sociale e come norma costituzionale” di Baurmann) che aiutano a riflettere sulle molteplici accezioni del concetto di “solidarietà”, dal punto di vista filosofico e sociologico, personale e comunitario, indagandone sia il versante più propriamente altruistico (il dono), sia il versante legato a chi agisce in modo solidale nelle dinamiche della società civile (privato, pubblico e terzo settore). Interessanti le osservazioni, le distinzioni concettuali e pratiche tra solidarietà, equità e giustizia; tra solidarietà, carità e beneficenza, dono e fratellanza; tra interessi e finalità private e pubbliche. Le riflessioni evidenziano che la solidarietà possiede una dimensione etica ineluttabile, riecheggiando la Sollicitudo Rei Socialis, secondo cui essa «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento, ma determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti». (Francesco Meloni) marzo 2003 NO alla guerra! «La guerra non è mai un fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l’esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell’uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi. Dico questo pensando a coloro che ripongono ancora la loro fiducia nell’arma nucleare e ai troppi conflitti che tengono ancora in ostaggio nostri fratelli in umanità». Giovanni Paolo II udienza al corpo diplomatico in Vaticano – 13 gennaio 2003 I lettori, utilizzando il c.c.p. allegato e specificandolo nella causale, possono contribuire ai costi di realizzazione, stampa e spedizione di Italiacaritas, come pure a progetti e interventi di solidarietà, con offerte da far pervenire a: Caritas Italiana – c.c.p. 347013 – viale F. Baldelli, 41 - 00146 Roma – sito internet: www.caritasitaliana.it