MENSILE DELLA CARITAS ITALIANA - ANNO XXXVI • N. 3 MARZO 2003 • Spedizione in abbonamento postale articolo 2 •comma 20/C • legge 662/96 • filiale di Roma
Italiac a r i t a s
Immigrati, pratiche in ritardo
Periferie, vivere “ai margini”
Ciotti: «Torino non declina»
SOMMARIO
ITALIACARITAS
Mensile della Caritas Italiana
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orario d’ufficio.
Anno XXXVI n. 3 – Marzo 2003
3
EDITORIALE
4
PAROLA E PAROLE
Gesù, emergenza
Prendiamoci sulle
spalle l’inquietudine di Dio che illumina
la nostra vita
della pace
5
IL PUNTO SU
Se il “buon
samaritano” viene
sottratto ai controlli
6
7
Un bisogno,
un diritto: chi ha
sete deve pagare?
Regolarizzare
l’inatteso, ora
tuteliamo le persone
11
14
TERRITORIO E CARITAS
POLITICHE SOCIALI
Sulle strade di
Scampia, l’ascolto
va in frontiera
Più facile scoprirsi
Armi, attacco alla
poveri, quale welfare legge: partita
vogliamo?
persa per la pace?
18
20
I media che
dimenticano, tutta
colpa del pubblico?
Dal dibattito alle
proposte, il Forum
atteso a un bivio
IL PUNTO SU
GLOBALCONTINENTI
DA ESCLUSI A CITTADINI
16
NON SOLO EMERGENZE
OBIETTIVO EUROPA
21
23
OSSERVATORIO DI CONFINE
A TU PER TU
Lula vuol battere
la fame, musica
nuova in Brasile?
«Un dignitoso
declino? La crisi
è un’opportunità»
26
28
Hanno collaborato:
Oumar che cerca
i vestiti e le spose
del “Girabito”
Vicini ai Rom
nei Balcani e alle
“famiglie solidali”
UN VOLTO UNA STORIA
IN FONDO AL MESE
Alberto Bobbio
Mariagrazia Bonollo
Giancarlo Cursi
Guido Miglietta
Le Quyen Ngo Dình
Patrizia Pasini
Giovanni Salvini
Tilde Silvestri
editoriale
Prendiamoci sulle spalle
l’inquietudine della pace
Vittorio Nozza
L
a domanda di pace che forte e corale
si è levata, nelle scorse settimane, da
ogni balcone e piazza del mondo è
solo figlia della paura per le prevedibili e
catastrofiche conseguenze di una nuova
guerra? È venata di pregiudizio ideologico
o si propone la difesa della vita e dei diritti
umani ovunque e comunque? È frutto di
una coscienza, sempre più diffusa, dell’interdipendenza che caratterizza il mondo
d’oggi? È un’esigenza etica o anche una
virtù ispirata dalla grazia?
«La violenza si radica nella menzogna e ha
bisogno della menzogna (…) La pace ha bisogno di sincerità e di verità: verità significa,
anzitutto, chiamare con il loro nome gli atti
di violenza, chiamare l’omicidio con il suo nome (…) chiamare con il loro nome i massacri
di uomini e di donne, qualunque sia la loro
appartenenza etnica, la loro età e la loro condizione (…) chiamare con il loro nome la tortura e (…) tutte le forme di oppressione e di
sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo,
dell’uomo da parte dello stato, di un popolo
da parte di un altro popolo» (messaggio per
la Giornata mondiale della pace, 1980).
Oggi esistono conflitti armati che colpiscono soprattutto innocenti indifesi. Come in Medio Oriente, che potrebbe essere
di nuovo in fiamme, quando queste righe
verranno lette. Ma anche come in molti
altri contesti che continuano a essere dimenticati: non solo dal cittadino indaffarato o distratto, ma anche dai mass media
e, circostanza forse ancora più preoccupante, dalle istituzioni locali e mondiali.
Che fare dunque, per spegnere i venti di
guerra ed educare l’ansia di pace che percorre il mondo?
Occorre informare, curando il delicato rapporto tra qualità e verità dell’informazione, sovente distorta, banalizzante, approssimativa, fonte di pregiudizi e stereotipi
3
negativi.
Occorre formare alla conoscenza, al rispetto,
alla responsabilità reciproca. È un compito
che spetta a tutti, in primo luogo alla
scuola. Occorre educare a percorsi di cittadinanza e mondialità. Mass media, scuola
e cittadini responsabili: tutti diventano
elementi indispensabili a raddrizzare tendenze preoccupanti.
Occorre avviare nuove politiche: le istituzioni
hanno la responsabilità di cambiare rotta.
La comunità internazionale di fronte a situazioni di guerra o di grave conflitto deve
privilegiare la mediazione preventiva e l’adozione di soluzioni nonviolente.
Occorre lottare contro la povertà e le disuguaglianze: nessuno può negare che tra le
principali cause dei conflitti vi sia la povertà economica. Circa il 90% dei conflitti
armati successivi alla seconda guerra mondiale si sono svolti nel terzo mondo: il riequilibrio delle disuguaglianze sociali, unito alla lotta contro la proliferazione degli
armamenti e alle lotte ambientali contro
l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse naturali, diventa la base su cui fondare
il processo di costruzione della pace.
Occorre pregare: ma la preghiera non è un
“caricare le spalle di Dio” delle nostre responsabilità; non si può pregare per la pace senza essere ogni giorno nei propri contesti di vita costruttori di ascolto e dialogo;
non si può pregare per la fine dello sfruttamento e dell’ingiustizia senza assumere
scelte di vita giuste, oneste, da cittadini responsabili e solidali; non si può pregare
per le vittime di un disastro o di una calamità naturale senza mettere in atto gesti e
opere di solidarietà.
Diceva un monaco del deserto: «Se vuoi
pregare per qualcuno, occorre che tu sia
pronto e capace di prendere sulle tue spal■
le i pesi della sua situazione».
Dal mondo
si leva una
fortissima
domanda
di pace.
E il papa
ci insegna
che «la
violenza
si radica
nella
menzogna».
Che fare
contro i venti
di guerra?
Informare,
formare,
avviare nuove
politiche.
E pregare,
senza
scaricare su
Dio le nostre
responsabilità
marzo 2003
parola e parole
Gesù, emergenza di Dio
che illumina la nostra vita
Giovanni Salvini
Come la
creazione
“viene fuori”
da Dio,
così il Figlio
dal Padre.
È un
emergere
faticoso,
lento,
drammatico,
perché
le nostre
tenebre
ne rifiutano
la logica.
Ma se
ci lasciamo
spiazzare
dalla novità
di Dio,
ci scopriremo
uomini
nuovi
marzo 2003
In principio era il Verbo…
(Giovanni 1, 1-18)
R
ifacendosi all’emergere, al venir fuori
della creazione dalle mani di Dio “in
principio”, la Bibbia ci racconta come
Gesù, Figlio di Dio e suo Verbo, “emerge”
dal Padre e viene nella storia, per portare
alla luce il Dio che nessuno ha mai visto.
Il testo del Prologo del Vangelo secondo
Giovanni descrive proprio questo
avvenimento unico della storia della
salvezza. Il movimento è semplice: un
viaggio che parte dal profondo di Dio per
raggiungere gli uomini, tutti e ciascuno. Il
protagonista è chiamato “il Verbo”, “la
Parola”, e come ogni parola nasce dal di
dentro per manifestare al di fuori chi parla.
Dio vuole dirsi per darsi. Gesù è proprio
questo: la Parola con cui Dio rompe il
silenzio che lo separa dall’uomo, colmando
una distanza che l’uomo non avrebbe mai
potuto colmare.
Questa parola di amore emerge nella storia
come un sole che sorge, come una luce che
lentamente illumina chi vuole farsi
illuminare: “la luce splende nelle tenebre”
(Gv 1,5) lottando con esse per illuminarle,
violando la loro impenetrabilità,
trafiggendole di lame di splendore perché si
arrendano alla logica del chiarore. È
un’emergere faticoso, drammatico, lento e
condizionato dalla capacità di accoglienza
delle tenebre stesse, che per loro natura
rifiutano, soffocano ogni luce. Pur venendo
tra “i suoi”, la Parola che emerge da Dio
vivrà l’esilio del rifiuto, quello più duro.
Solo alcuni accoglieranno, ascolteranno,
decifreranno la Parola, ricevendo in dono
“il potere di diventare figli di Dio”,
scoprendo così di non essere nati “da carne,
né da volere di uomini, ma da Dio” (Gv
1,12-13). E si tratta dell’unico modo di
conoscere Dio. Solo il Figlio Unigenito
(l’unico “generato e non creato”) emerso
dal seno del Padre può rivelare Dio,
spiegarlo all’uomo, manifestarne la natura
e la bellezza, comunicarne la grazia e la
verità.
Alla luce di queste parole dobbiamo aprirci
a un’idea nuova, forte, decisiva per la
nostra identità e per la nostra esistenza:
Gesù è l’emergenza di Dio nella nostra vita
e non c’è altro modo in cui Dio si
manifesti se non in questo sorprendente e
gratuito venir fuori dal buio. È proprio dal
buio più oscuro della nostra esistenza che
si fa strada il chiarore che ci illumina sul
senso di ciò che siamo e sul volto di Colui
da cui proveniamo e verso cui andiamo. Si
tratta di un continuo nascere, un “venire
alla luce”, in cui – in realtà – è la luce che
viene a noi. La prima luce che colpisce
l’occhio di ogni essere umano è quella che
lo sorprende e lo ferisce quando esce dal
grembo della madre, ignaro di tutto; così
“la luce vera che illumina ogni uomo”
irrompe di sua iniziativa nella nostra vita
stravolgendola e scompaginandola, senza
che noi possiamo prevederlo o deciderlo.
Ogni manifestazione della verità è
un’emergenza che ci coglie alla sprovvista
e ci lascia nuovi, più consapevoli della
Verità che ci precede e ci ama.
Per noi è decisivo saper accogliere
l’emergenza, lasciando lacerare le nostre
tenebre dalla luce che ci esplode negli
occhi. Forse il dono più grande che
possiamo chiedere è proprio la capacità di
lasciarci continuamente spiazzare dalla
novità inconcepibile di Dio, rinunciando
serenamente al comodo e accogliente buio
che è stato il nostro primo ambiente vitale.
Ma che ora deve cedere il passo alla luce
che viene a dispiegare sotto i nostri occhi
■
lo splendore della vita vera.
4
il punto su
Se il “buon samaritano”
viene sottratto ai controlli
a cura dell’Area nazionale
L
a commissione Affari costituzionali
del Senato ha approvato il 29 gennaio, in sede deliberante, il disegno
di legge che disciplina la distribuzione dei
prodotti alimentari a fini di beneficenza.
La legge del “buon samaritano” – così è
stata ribattezzata, in riferimento a un’analoga esperienza statunitense – va alla Camera per il via libera definitivo. Essa equipara ai consumatori le organizzazioni di
volontariato, iscritte negli appositi registri regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano,
quando effettuano a fini di beneficenza la distribuzione gratuita
di generi alimentari. Di conseguenza luoghi, personale e mezzi
utilizzati per lo stoccaggio e l’utilizzo degli alimenti non sono
soggetti ad autorizzazioni e controlli sanitari: l’attività delle organizzazioni
di volontariato diviene più agevole.
Certamente con questa legge si intende –
come è stato detto autorevolmente – “sburocratizzare l’attività di assistenza” di una
vasta area del volontariato e agevolare l’invio di generi alimentari, altrimenti destinati al macero, alle tante mense per i poveri e
alle famiglie che vivono una situazione di
povertà. Nobili intenzioni, che già anni addietro avevano portato l’allora direttore
della Caritas diocesana di Roma, don Luigi
di Liegro, a sognare un modo per recuperare beni destinati ai rifiuti.
Tuttavia non possiamo nascondere, sulla
base anche dell’esperienza maturata dalle
nostre Caritas diocesane, alcune preoccupazioni che nascono da un esame approfondito del breve decreto. La legge va
infatti a tutelare i volontari, ma chi e come
garantisce il destinatario dalla distribuzione di beni deteriorati? Una storia di battaglie di tutela del consumatore non può es-
5
sere dimenticata quando si tratta degli “ultimi”.
Come distinguere, inoltre, i beni “di prima
necessità” da altri che non fanno che alimentare il mercato e il consumismo? E in
riferimento al recupero di beni da grande
aziende e in grande quantità, soprattutto
se si tratta di beni non di prima necessità,
come valutare la possibilità offerta dalla
legge di recuperare l’Iva sui beni invenduti
e donati? Non c’erano forme più
urgenti di giustizia fiscale o di
partecipazione alla cooperazione
allo sviluppo?
Ancora, sul piano educativo: è
giusto lanciare il messaggio che si
è buoni (samaritani) quando si
destinano gli avanzi ai poveri dopo una festa pantagruelica, e non
quando si condivide una sofferenza in prima persona? Il messaggio del
papa per la Quaresima 2003 ci ricorda la
condizione in base alla quale, per i cristiani, un “dono” ha valore: “Privarsi non solo
del superfluo, ma anche di qualcosa di più
per distribuirlo a chi è nel bisogno, contribuisce a quel rinnegamento di sé senza il
quale non c’è autentica pratica di vita cristiana”.
Sul piano politico, l’impegno a facilitare il
recupero di beni destinati al macero non
può non accompagnarsi a un rinnovato
impegno verso politiche sociali attente a
tutte le fasce di povertà. E uno sguardo va
sempre rivolto anche al triste spettacolo
della perdurante miseria che colpisce tanta
parte della popolazione mondiale, e che
non può essere sradicata solo ricorrendo a
donazioni di cibo.
Il “buon samaritano” di oggi forse ha bisogno di crescere con queste attenzioni. E
non solo di ottenere, dalla legge, agevola■
zioni operative e fiscali.
Niente
autorizzazioni
per i volontari
impegnati
nella consegna
ai poveri
di cibo
destinato
al macero:
il Senato dà
via libera
a una legge
ispirata da
nobili ideali e
comprensibili
esigenze
di snellezza
burocratica.
Ma che solleva
più di
un dubbio
marzo 2003
il punto su
Un bisogno, un diritto:
chi ha sete deve pagare?
Alberto Bobbio
L’Onu ha
dichiarato
il 2003 Anno
internazionale
dell’acqua.
Ma l’accesso
alle risorse
idriche è
sempre più
problematico
per miliardi
di persone.
E c’è chi vuole
privatizzane
la gestione.
I governi
si confrontano
a Kyoto. Ma la
società civile
si riunisce
in Forum
alternativo
a Firenze
marzo 2003
C’
è chi dice che sia un diritto e chi
invece sostiene che sia un bisogno. Oggi nel mondo un miliardo e mezzo di persone non ha accesso all’acqua potabile, due miliardi e mezzo non
hanno il bagno, cinque milioni ogni anno
muoiono per malattie legate alla scarsa
qualità dell’acqua. E nei prossimi anni sarà
peggio. L’Unep, l’Agenzia dell’Onu per
l’ambiente, stima che nel 2025 saranno tre
miliardi e mezzo le persone che
avranno sete e rischieranno la
morte. Per sopravvivere occorrono
almeno cinque litri di acqua al
giorno. Ma l’acqua costa. È un bisogno, e i bisogni si pagano.
Il 2003 è stato proclamato dalle
Nazioni Unite “Anno dell’acqua”.
In Giappone a marzo si riuniranno
in una conferenza intergovernativa quasi tutti i governi del mondo e apriranno di nuovo il libro dei sogni e dei
buoni propositi. L’avevano già fatto nel
2000, quando l’Assemblea generale delle
nazioni Unite aveva promesso che entro il
2015 sarebbero diminuite della metà le
persone senz’acqua. Ma già si sa, in base
alle tragiche previsioni delle stesse Nazioni
Unite, che la sfida è persa. Nel 2000 l’Onu
aveva fatto anche altre promesse, tra cui
quelle strabilianti di dimezzare i morti per
fame e di dare l’istruzione primaria a tutti
i bambini del pianeta. Tutto ciò dovrebbe
avvenire senza che nessun paese del mondo ricco cambi il suo modo di vivere e di
intendere l’economia. Come si fa a dare
l’acqua a tutti?
Negli Stati Uniti un americano ha 425 litri
di acqua disponibili al giorno. Un famiglia
californiana con la piscina e il giardino
consuma 4 mila litri di acqua al giorno.
Una famiglia africana con otto figli, quando va bene, consuma 20 litri di acqua al
giorno. Nel 1995 erano 29 i paesi con problemi di approvvigionamento idrico; nel
2005 saranno saliti a 49. L’acqua si spreca:
il 40% di quella destinata all’irrigazione va
perduta; non si usa quella piovana e quella
che c’è diventa sempre più un grande affare. È giusto chiamarla “oro blu”. Per essa
in Medioriente si combatte. In Israele un
israeliano ha disposizione 270 litri al giorno, un palestinese 80 litri nel 1998 (ora
molto meno). Nel mondo 19 mila
grandi dighe hanno provocato 40
milioni di sfollati. E molti esperti
hanno stabilito che le grandi dighe
sono un flop dal punto di vista
economico. Non è vero, inoltre,
che se la gestione dell’acqua passasse nelle mani dei privati la situazione migliorerebbe. I privati
hanno interessi a servire i ricchi
californiani, non certamente i cittadini
della Sierra Leone, che non hanno denaro
per pagare. Ecco perché l’acqua dev’essere
considerata un diritto e la sua distribuzione dev’essere pubblica.
In Giappone deve passare questo concetto,
ma le resistenze del mondo ricco e delle
multinazionali sono enormi. Anche per
questo a Firenze la campagna per il Contratto mondiale sull’acqua, promossa da
una rete di realtà non governative italiane
e proiettata (da Porto Alegre) su scenari internazionali, intende celebrare, il 21 marzo, la Giornata internazionale dell’acqua
con un Forum mondiale alternativo. Qualcuno fa osservare che tra i Paesi assetati ci
sono le monarchie petrolifere del Golfo e
alcuni Paesi europei ad alto reddito, tra cui
l’Olanda. È vero. Ma la differenza, in questo caso, sta nel portafoglio. Che è sempre
pieno. E i diritti fondamentali vanno garantiti anche a chi non può permettersi di
■
pagarli.
6
da esclusi a cittadini
Regolarizzare l’inatteso,
ora tuteliamo le persone
Giancarlo Perego
L’
FOTO ARCHIVIO RESEGONE
11 luglio 2002 il Senato approvava definitivamente il disegno di
legge in tema di immigrazione e
asilo, che andava a modificare sostanzialmente la legge e il testo unico sull’immigrazione vigente dal 1998. Al disegno di
legge è stato aggiunto anche un ordine
del giorno che impegnava il governo ad
adottare, contestualmente all’entrata in
vigore della legge, un provvedimento di
regolarizzazione dei lavoratori (subordinati, oppure colf e badanti) irregolarmente presenti sul territorio nazionale. Oltre a
ciò, il governo s’impegnava a inserire nello stesso provvedimento la non punibilità
delle violazioni delle norme relative al
soggiorno, al lavoro e di carattere finanziario in relazione alla occupazione degli
immigrati, e a non adottare decreti di allontanamento dal territorio nazionale per
i lavoratori in attesa della legalizzazione.
La nuova legge sull’immigrazione – la 189
approvata il 30 luglio e pubblicata dalla
Gazzetta ufficiale il 26 agosto – apriva così la strada a quella che si sarebbe rivelata
la più massiccia regolarizzazione di immigrati che il nostro paese ha vissuto dall’inizio del fenomeno immigratorio.
700 mila domande di regolarizzazione
Il dato aggiornato, fornito dalle Poste italiane, e riferito alle assicurate inviate alle
prefetture e agli uffici territoriali del governo, fissa il numero delle richieste di regolarizzazione per i lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno a un
totale di 702.156. Le domande presentate
per sanare la posizione irregolare o clandestina di colf e badanti sono state
341.121 e risultano di poco inferiori a
quelle presentate per regolarizzare gli altri
lavoratori dipendenti (361.035). Lombardia e Lazio (come mostra la tabella) sono le
Città
totale
ROMA
107.476
MILANO
87.165
NAPOLI
36.572
BRESCIA
24.520
FIRENZE
17.218
CASERTA
14.688
BERGAMO 13.932
BOLOGNA 13.075
GENOVA
10.951
7
Le domande
avanzate
da immigrati
irregolari
e clandestini
sono state
702 mila:
molte più del
previsto.
Tre ragioni
alla base
di questo
“boom”.
L’esame delle
pratiche
è cominciato
lentissimo.
E durante
l’attesa non
si devono
limitare
libertà
cruciali
domestico subordinato
66.949
35.922
24.285
7.473
7.239
7.102
4.858
6.365
6.631
40.527
51.243
12.287
17.047
9.979
7.586
9.074
6.710
4.320
marzo 2003
regioni che guidano la graduatoria delle
regolarizzazioni.
Se le richieste hanno superato le 700 mila, il dato delle persone immigrate potrebbe essere stimabile attorno alle 650 mila
unità, perché una stessa persona immigrata potrebbe avere più datori di lavoro e
quindi aver presentato più domande, soprattutto nel caso del lavoro domestico.
Il numero delle domande di regolarizzazione è risultato una sorpresa per Caritas
Italiana, che all’inizio del 2002 aveva ipotizzato la presenza in Italia di un numero
minore di persone clandestine (da un minimo di 265 mila a un massimo di 385
mila) e di 100 mila irregolari, mentre a
settembre 2002 aveva parlato di 500 mila
persone regolarizzabili.
Il nostro atteggiamento prudente nasceva
da diverse ragioni. Anzitutto dal fatto che
in occasione delle quattro regolarizzazioni precedenti (1986, 1990, 1995 e 1998) il
numero inizialmente ipotizzato è risultato sempre esagerato rispetto al dato acquisito al termine della regolarizzazione o
sanatoria.
In secondo luogo, i risultati delle indagini
ispettive del nucleo dei Carabinieri presso
il ministero del lavoro avevano stabilito
una percentuale di clandestini e irregolari
tra il 22 e il 27%, negli anni 2000-2001,
rispetto al totale degli immigrati presenti
in Italia (1.200.000-1.300.000 persone).
In terzo luogo, una stima elaborata dall’Ismu di Milano su un territorio specifico
(quello lombardo), aveva stimato che l’a-
RITARDI E VUOTI NORMATIVI, COSÌ LE PRATICHE
SI RIVELANO UNA TRAPPOLA PER GLI IMMIGRATI
I termini per presentare le domande di
regolarizzazione si sono chiusi l’11 novembre
2002. Nei mesi da allora trascorsi si sono
riscontrati problemi di diversa natura, generati in
parte dal procrastinarsi dei tempi di attesa per lo
smaltimento delle pratiche, in parte da vuoti
normativi.
Varie Caritas diocesane impegnate nel settore
hanno segnalato ritardi nell’apertura degli
sportelli decentrati delle prefetture – uffici
territoriali del governo, specialmente nelle città
metropolitane (Roma e Milano). Tuttavia
un’ordinanza del presidente del consiglio,
emanata il 31 gennaio 2003, ha autorizzato i
ministeri dell’interno e del lavoro ad assumere
rispettivamente 900 e 350 lavoratori interinali
(tramite trattativa privata con imprese che
forniscono lavoro temporaneo) da impiegare per
la trattazione delle pratiche. Per far fronte ai costi
del personale saranno utilizzati fondi Inps.
Altri problemi riguardano la condizione giuridica
in cui versano i lavoratori stranieri che hanno
presentato domanda di regolarizzazione. In
sintesi, ecco i più rilevanti:
• Divieto di lasciare l’Italia. Una nota di Cgil, Cisl
e Uil del 10 dicembre 2002, pubblicata in seguito
a un incontro tra i segretari generali e il
sottosegretario Mantovano, indicava la possibilità
per gli stranieri di uscire dall’Italia per gravi e
comprovati motivi umanitari. All’incontro non era
ancora seguita, sino a metà febbraio, una
marzo 2003
circolare del ministero dell’interno; pertanto le
questure non rilasciavano alcuna autorizzazione
all’espatrio.
• Impossibilità di iscrivere i figli minori sul
permesso di soggiorno del genitore. Numerosi
figli di genitori regolarizzandi stanno per compiere
18 anni e diventeranno passibili di espulsione con
accompagnamento immediato alla frontiera.
• Iscrizione dei figli minori al Servizio sanitario
nazionale. L’impossibilità di iscriverli sul
permesso di soggiorno dei genitori regolarizzati
ha come conseguenza la mancata assistenza
sanitaria per i figli minori.
• Iscrizione dei lavoratori regolarizzandi al
Servizio sanitario nazionale. Si registrano prassi
differenti da regione a regione. Soltanto in alcune
si è provveduto all’iscrizione temporanea al
Servizio sanitario nazionale, sulla base di
circolari emesse in occasione di precedenti
regolarizzazioni.
• Incertezza della condizione giuridica in caso di
dimissioni per giusta causa del lavoratore
straniero regolarizzando. Non è chiaro se ai
lavoratori stranieri regolarizzandi che si sono
dimessi per giusta causa o per aver trovato altra
occupazione, successivamente alla presentazione
della domanda, verrà rilasciato un permesso di
soggiorno. Si auspica che in questi casi possa
trovare applicazione il principio di parità di
trattamento dei lavoratori non comunitari con i
8
lavoratori italiani, sancito dalla Convenzione
dell’Organizzazione internazionale del lavoro.
• Subentro di un nuovo datore di lavoro. Non si
consente che un nuovo datore di lavoro subentri
ad altro che aveva inizialmente proceduto a
regolarizzare il lavoratore straniero, salvo poi
licenziarlo. La possibilità di consentire il
subentro immediato da parte di un nuovo datore
di lavoro eviterebbe che il lavoratore straniero
ricada nel lavoro irregolare. Le prassi tra le
diverse prefetture appaiono disomogenee.
• Rilascio del codice fiscale. Il codice fiscale
sarà rilasciato al lavoratore straniero
regolarizzato soltanto dopo la firma del
contratto di soggiorno. I lunghi tempi di attesa
per la convocazione alla prefettura – ufficio
territoriale del governo e la mancanza del
codice fiscale procurano disagi riguardo
all’apertura di conti correnti postali, al rinnovo
del contratto di locazione, all’iscrizione al
Servizio sanitario nazionale.
• Lavoratori stranieri regolarizzandi vittime di
truffa. Numerosi lavoratori stranieri
regolarizzandi, dopo aver corrisposto al
presunto datore di lavoro gli importi necessari
a sanare la loro posizione contributiva, si sono
scoperti in possesso di una copia contraffatta
della ricevuta del versamento dei contributi. A
queste persone non è consentito portare a
termine l’iter di regolarizzazione. Nel caso sia
stata presentata una denuncia per truffa,
sarebbe auspicabile consentire la riapertura
dell’iter per la regolarizzazione.
Le Quyen Ngo Dình
9
FOTO ARCHIVIO RESEGONE
rea della clandestinità si estendesse tra il
22,7% e il 33,3% degli immigrati soggiornanti.
Da dove nasce, dunque, un numero tanto
elevato e inaspettato (che oltretutto esclude i lavoratori autonomi e stagionali, ipotizzabili attorno alle 100 mila unità)? All’origine ci sono almeno tre motivi. In
primo luogo, la regolarizzazione è stata
annunciata molto tempo prima della sua
realizzazione, favorendo un ingresso clandestino di molte persone in Italia. In secondo luogo, la politica dei flussi condotta nel 2002, fortemente ritardata e restrittiva, ha favorito l’ingresso nell’illegalità
di molti immigrati. In terzo luogo, gli impressionanti ritardi della burocrazia hanno prodotto l’allungamento dei tempi di
rinnovo dei permessi di soggiorno, favorendo l’ulteriore scivolamento nell’irregolarità di molti soggetti.
Regolarizzazione da preparare meglio
La regolarizzazione 2002 ha avuto una
grande capacità – grazie all’utilizzo, per la
prima volta, degli oltre 14 mila sportelli
postali sparsi nell’intero paese – di raccogliere le domande dei datori di lavoro. Ma
già esaminando le modalità di regolarizzazione, prima che questa fosse avviata,
Caritas Italiana aveva rivolto al ministero
dell’interno una serie di quesiti (riguardanti l’abitazione, la tutela infortunistica
e sanitaria, il tempo tra la domanda e
l’accoglimento della stessa, la morte del
datore di lavoro, il ritorno in patria, ecc.),
che se affrontati potevano consentire di
accompagnare meglio la regolarizzazione
stessa. Purtroppo solo alcune delle questioni sollevate sono state prese in considerazione, mentre durante la campagna si
sono aggiunte altre circolari dei ministeri
dell’interno e del lavoro, dell’Inps e dell’Inail.
Tra gli aspetti più problematici evidenziatisi in questi mesi, che hanno innescato
gravi problemi di tutela dei diritti delle
persone immigrate, va segnalato il fatto
che, per la prima volta, solo il datore di
lavoro poteva presentare domanda di regolarizzazione. Inoltre l’esame delle pratiche nei primi due mesi si è attestato, secondo sondaggi Caritas, attorno al 5%
marzo 2003
JUAN ASPETTA IL PERMESSO DI SOGGIORNO
PERÒ NEL FRATTEMPO LAVORA GRATIS
Storie di precarietà e vessazioni, in attesa
della regolarizzazione. Il Servizio accoglienza
immigrati, avviato da Caritas Ambrosiana a
Milano proprio nella scorsa estate, ne ha
raccolte a decine. E le ha sintetizzate in un
profilo medio. Quello del signor J.
Di nome fa Juan. O forse Jovan. Perché non
conta da dove viene. Conta che, dopo un anno
e mezzo dal suo arrivo in città, alla
cooperativa per cui lavora domanda – è
l’autunno 2002 – di essere regolarizzato. Gli
dicono che si può fare, ma gli chiedono 2 mila
euro, molto più dei 700 che l’impresa deve
versare per metterlo in regola. Estorsione? Se
lo è, non rimane la sola. Perché si sa che gli
oneri previdenziali sono zavorra nei conti di
un’azienda: tanto vale, allora, farli pagare a
Juan (o forse Jovan), che se quando lavorava
in nero aveva un reddito di 700-1.000 euro,
ora se ne vede detratti 300-500 al mese. Non
dalla busta paga, evidente, ché altrimenti
qualcuno avvertirebbe puzza di bruciato. Va a
finire che l’uomo si ritrova – tra una tantum
per la regolarizzazione e contributi da pagare
in proprio – a lavorare gratis per alcuni mesi.
Ma aspetta paziente, e soprattutto silente,
perché non gli conviene denunciare. E
d’altronde chi darebbe credito a un
clandestino, senza lo straccio di una prova a
supporto delle sue denunce?
Però a Jovan (o forse Juan) può persino
andare peggio. Perché può essere isolato dal
gruppo nazionale cui appartiene, non
possedere le cognizioni elementari che
servirebbero a far valere i suoi diritti («ma
davvero i contributi per la pensione li dovrebbe
pagare il padrone?»), essere succube temendo
di essere denunciato (quanto meno non
regolarizzato). Solitudine, disinformazione,
sudditanza: al precariato lavorativo si
sommano inevitabilmente quello abitativo e
una cronica debolezza economica, che presto
si traducono in fragilità psicologica. Se tra
qualche mese una lenta e complicata catena
burocratica gli offrirà un appiglio – il
riconoscimento della sua domanda di
regolarizzazione –, Juan o forse Jovan sarà tra
i salvati. Altrimenti, rimarrà confinato tra i
sommersi. Un’esistenza di espedienti e
soprusi. Da autentico invisibile. Sulla strada.
Fino alla prossima sanatoria.
delle domande inoltrate, ovvero
poco più di 35 mila: ciò fa pensare che la macchina organizzativa
dei nuovi uffici di governo (integrata da commissioni con funzionari delle questure, dell’Inps e
del ministero del tesoro) non fosse in grado di affrontare una tale
mole di lavoro. Per alcune grandi
città, non meno che nelle piccole, si ipotizzano di conseguenza
tempi di esame che potrebbero
arrivare a due anni.
Ma due anni di attesa sono un’eternità, per un immigrato che nel
frattempo deve sottostare a limiti
di circolazione, di ricongiungimento familiare, di cambiamento
del rapporto di lavoro. Una lesione dei diritti fondamentali delle
persone, che nessuna esigenza
normativa, burocratica e organiz■
zativa può giustificare.
marzo 2003
10
territorio caritas
Sulle strade di Scampia
l’ascolto va in frontiera
Danilo Angelelli
C
ome scenario hanno il carcere di
parrocchia. Il cammino che compiamo
Secondigliano. Che decisamente
deve diventare educativo per le varie coincombe. E tutt’intorno enormi
munità, perché purtroppo la Caritas non
edifici, autentici moloch di edilizia popoè ancora intesa come occasione di crescilare che arrivano ad ospitare anche 600
ta, ma solo come centro di distribuzione.
famiglie. Sono gli 80 mila abitanti di
Ci sono giorni in cui arriviamo a dare anScampia, quartiere periferico a nord di
che 200-250 pacchi, che non solo non coNapoli, sorto negli anni ’60 e popolato in
stituiscono la soluzione, ma a volte tammaniera caotica dopo il terremoto
ponano quello che non è il problema più
dell’80. In questo gioco di cifre ne spungrave. Vanno in questo senso anche le vitano altre due più modeste: 4 parrocchie
site nelle case: si conosce la famiglia e dodi frontiera
po alcuni ine una rettocontri le perria, che rapsone si apropresentano
no e si scol’unica occapre il dramsione per i
ma, come
ragazzi della
quello di fazona di evamiglie senza
dere dalla
papà, che è
strada. Per
in carcere, e
non morire
hanno versulla strada.
gogna a dirCome Salvalo. Noi abtore, il tredibiamo
il
cenne uccicompito di
so da un
conoscere le
giovane po- Le Vele di Scampia, monumento al degrado
forme di poliziotto in
vertà e di biborghese il 4 gennaio scorso, nel corso di
sogno presenti sul territorio, e scoprire le
un episodio da chiarire, forse il furto di
risorse, che ci sono, anche in una zona
un motorino.
dove i problemi spesso sono soffocanti».
Tra il carcere e le parrocchie fa la spola
suor Ornella Baratelli, dedita a ricucire
Illusi dagli enti pubblici
dialoghi spezzati tra i detenuti e le famiDa questo gruppo interparrocchiale sono
glie che vivono a qualche centinaio di
nati volontari che si impegnano in strutmetri. E che qualche volta riesce a fare inture per anziani e persone con disagio
contrare anche fuori, per Natale o per la
mentale, e in un centro di ascolto, operaprima Comunione dei bambini. Suor Orsegno anche per le istituzioni, che il grupnella è la referente del coordinamento inpo stimola e sollecita affinché non diventerparrocchiale Caritas. «Lavoriamo insieti, il centro, una sostituzione delle ammime per tutto il territorio – spiega –, ma
nistrazioni. E c’è dell’animosità nei conpoi ciascuno è impegnato nella propria
fronti dei politici locali, che hanno co-
11
Vivere
(e morire
ragazzi)
in periferia.
A nord
di Napoli
un quartiere
difficile.
Pressato
dal carcere
e gonfiato
dal terremoto.
La Caritas
prova a
seminare
la solidarietà
e la speranza.
«Ma le
istituzioni
ci hanno
abbandonato.
E senza
lavoro…»
marzo 2003
FARE CARITAS “AI MARGINI”: PRESENZA
CHE INSEGNA UNO SGUARDO DIVERSO
Le periferie delle città, e soprattutto quelle delle
metropoli, costituiscono un evidente e spesso
disarmante quadro di disagio strutturale ed
esistenziale, davanti al quale anche le più
moderne logiche di pianificazione urbanistica,
sociale e culturale sembrano segnare il passo. O,
in alcuni casi, battere in ritirata.
Queste realtà sono tramate di vissuti familiari,
personali e aggregativi molto duri, ad alto rischio
di riproduzione del disagio. Ma proprio per questo
meritano di essere frequentate. È così che molte
Caritas diocesane, come pure diverse espressioni
di spiritualità e di vita ecclesiale, hanno scelto di
non limitarsi a parlare delle periferie, o a
progettare una diversa qualità di vita di chi vi
abita. Da alcuni anni, in alcune diocesi da circa un
ventennio, le Caritas consolidano una presenza
stabile nella quotidianità spesso travagliata, ma
anche ricca di speranza e di positive
intraprendenze, dei quartieri di periferia.
Servizi promozionali; interventi sulle molteplici
condizioni di disagio personale, familiare o
collettivo; esperienze di animazione sociale e
culturale (rivolte soprattutto a contesti giovanili,
scolastici e femminili): l’azione si fonda sulla
capacità di leggere l’ambiente marginalizzato e
cerca di coinvolgere le comunità parrocchiali, per
sgretolare stereotipi sempre più forti, invasivi,
manipolatori. E in molti casi pacificanti.
Ma lo stare in periferia invita anche a mobilitare la
solidarietà locale. Attraverso gli operatori
pastorali delle parrocchie, grazie a comunità
laiche e religiose che scelgono di insediarsi “fra”
e “con” la gente di periferia, le Caritas diocesane
puntano a valorizzare persone e gruppi
appartenenti alla realtà locale, suscitando preziosi
animatori della solidarietà, più capaci di cogliere i
vissuti, i bisogni, i processi di emarginazione
palesi o latenti.
Anche il tema della collaborazione e
dell’interconnessione tra risorse e servizi (attivati
da enti locali, soggetti del terzo settore o della
comunità cristiana) trova nelle periferie un terreno
privilegiato di sviluppo e consolidamento. Per
struito un mega-quartiere dormitorio senza preoccuparsi del necessario sistema di
servizi che avrebbe dovuto costituire la
trama del tessuto sociale. A questo si aggiungono la mancanza di strutture produttive, un livello di istruzione e disoccupazione al di sotto del dato riferito a Napoli, la diffusione di microcriminalità.
«Lungo le scale di parecchi palazzi, come
le Vele, non si è liberi neppure di rientrare in casa perché bisogna passare per il
controllo di spacciatori di droga – denuncia senza rassegnazione padre Vittorio Siciliani, parroco, da 34 anni a Scampia –.
Alcuni enti pubblici ci hanno illuso con
la promessa di parchi e università, poi si
sono tirati indietro dicendo che sarebbero
venuti qui solo se avessero trovato il
quartiere riqualificato. Assurdo! Erano
quelle le occasioni per avviare la riqualificazione di Scampia».
Riqualificazione che deve passare anche
attraverso i due campi rom del quartiere:
uno “attrezzato”, l’altro abusivo, fatto di
baracche. Ospitano complessivamente
1.500 persone. Ne sa di più Giancamillo
Trani, responsabile dell’ufficio immigra-
marzo 2003
12
molti il lavorare insieme, in contesti di margine,
ha rappresentato una vera scuola di promozione
sociale e culturale. Non è raro assistere alla
fioritura di nuclei promettenti di una civiltà
solidale, nell’incerto perimetro di grandi aree
depresse e deprivate, spesso a ridosso di
lussuose zone residenziali protette (o
segregate?) da sistemi elettronici di
sorveglianza.
E stare in periferia, infine, significa anche
acquisire l’attitudine a guardare “dalla
periferia”: in senso profetico, capaci di uno
sguardo diverso sul mondo, paradossalmente
aperti a un’autentica educazione alla
mondialità, che voglia scoprire e fondare una
“etica del genere umano”. Chi sta “ai margini”
sperimenta ogni giorno la tangibile concretezza
di nuovi pensieri e nuove prassi relativi alla
pace, al consumo critico, all’economia
alternativa, all’integrazione delle diversità
culturali e sociali, al rispetto ambientale. Sfide
per tutti, che tutti dobbiamo affrontare. E che un
operatore o un centro Caritas non possono non
avvertire come prioritarie.
Giancarlo Cursi
(con la collaborazione di Tilde Silvestri)
zione della Caritas di Napoli, che lavora
ai programmi integrati di assistenza ai
rom con il comune di Napoli: «L’improvviso popolamento post-terremoto del
quartiere ha dato luogo ad uno sviluppo
abbastanza selvaggio. Se i rom prima vivevano a Scampia perché era ai margini
della città, adesso c’è una coabitazione
forzata con la popolazione locale, che ha
dato luogo a svariati problemi, anche di
ordine pubblico. E persino a veri e propri
episodi di guerriglia urbana, spesso guidata da forze esterne».
Il lavoro, richiesta pressante
Nei loro incontri hanno parlato dei rom –
e anche di Salvatore, il ragazzo ucciso – i
giovani seguiti da suor Ornella e Luciano
Criscuolo, medico che dedica buona parte
delle sue giornate a scommettere sul futuro degli adolescenti di Scampia. «Ci ritroviamo più volte a settimana – racconta –,
organizziamo uscite, piccoli recital, coinvolgiamo sempre qualche genitore nelle
nostre iniziative. Ricordiamo loro che
non devono essere massa, ma lievito; che
devono pensare sempre cosa è bene per
13
essi stessi e per le persone che incontrano
sulla strada. E che spesso rappresentano
una “tentazione”».
Luciano è anche inserito, come insegnante, in un progetto di obbligo formativo
per ragazzi che hanno lasciato la scuola
media. Preparare il futuro costruendo un
lavoro, imparando ad assistere anziani e
disabili. Già, il lavoro. È la richiesta più
pressante da parte di chi bussa alle porte
del centro Caritas: «Non è il nostro specifico – ammette suor Ornella –. Anche perché molti degli stessi operatori Caritas
non hanno un lavoro… Ma cerchiamo di
dare una mano lo stesso, proponendoci
come punto di riferimento per chi cerca
personale. Molti abitanti di Scampia non
hanno mai avuto la possibilità di fare
qualcosa. Ma subito dopo aver svolto i
primi lavori, scatta in loro una molla. Così continuano la ricerca e si adoperano
più di prima per non restare disoccupati».
Forse non basta. Ma aiuta a immaginare
un futuro non prigioniero del degrado. E
■
delle minacce della strada.
L’ANALISI DEL SOCIOLOGO:
«PERIFERIE SENZA MEMORIA»
«Hai parlato anche con padre Pizzuti?». È il leitmotiv di parroci e
operatori Caritas. E allora il viaggio nella periferia nord di Napoli
si conclude con padre Domenico Pizzuti, professore emerito di
sociologia alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale nella città
partenopea. «Sono lodevoli la generosità degli operatori Caritas,
la loro gratuità, il loro inseguire le persone e prendersene cura.
Anche se sarebbe bello che questa azione, con i centri di ascolto e
i coordinamenti, fosse espressione dell’intera comunità, e non solo
il “pallino” di alcuni. È difficile, lo so, anche perché Scampia non
ha un’identità, non c’è una memoria collettiva. Le visite dell’allora
presidente Cossiga e del papa avrebbero potuto essere occasioni
per riconoscersi in una storia comune e acquisire la
consapevolezza di essere comunità, ma ciò non è accaduto. Così
come la statua della Madonna della Speranza, che si trova
attualmente nella chiesa retta dai gesuiti, ma a mio avviso
dovrebbe essere posta all’inizio del quartiere».
Prosegue, padre Pizzuti, e prova a delineare soluzioni che durino
nel tempo. «Il problema delle periferie non deve riguardare solo la
comunità civile, ma anche la comunità ecclesiale. A Scampia si fa
una pastorale delle persone con modalità religiose innovative,
conciliari, di una sacramentalità tutt’altro che “barocca”, come
invece si pensa dei napoletani. Si è formato anche un certo laicato,
sono avviati i gruppi biblici nelle case. Ma quello che serve è
un’organica pastorale del territorio. E per ora non c’è».
marzo 2003
politiche sociali
Più facile scoprirsi poveri
quale welfare vogliamo?
Domenico Rosati
Un convegno
a sinistra.
Il “libro
bianco” del
ministero.
Un rapporto
Eurispes.
E la nuova
provocazione
di De Rita.
Riprende il
confronto sullo
stato sociale.
In una società
civile
frammentata.
Mentre
aumentano le
probabilità di
impoverimento
marzo 2003
L’
inverno ha portato con sé un’improvvisa ventata “sociale”. Difficile misurarne gli esiti. Ma conviene
registrarne la notizia, con qualche prima
sommaria nota. I fatti sono tre: un convegno dei Democratici di sinistra, dal titolo
“Dalla disuguaglianza alla cittadinanza”;
la pubblicazione, lungamente attesa, del
“Libro bianco sul welfare” dell’omonimo
ministero; le valutazioni sulla povertà del
“Rapporto Italia 2003” dell’istituito di ricerca Eurispes. E in più un libro di Giuseppe de Rita denso di inquietudini e di
provocazioni culturali e politiche.
Con ordine. Il convegno dei Ds ha rilanciato con vigore, a gennaio, un’idea organica di tutela sociale, imperniata su un
concetto di “uguaglianza”, che anche a sinistra era stata sostituita con altri termini
non sempre equivalenti, ad esempio
“equità”. Il punto di partenza è la constatazione del permanere e del manifestarsi
in forme nuove della povertà. Il punto
d’arrivo è l’esigenza di evitare che il sistema di welfare di tutto si occupi, meno che
dei poveri veri. E dunque si materializza
la proposta di un sistema che per un ver-
so rilanci il “reddito minimo d’inserimento”, per un altro rafforzi il filo della solidarietà nel contesto dell’incipiente federalismo, e per un altro ancora si faccia carico delle cause che provocano lo slittamento delle figure sociali e delle famiglie
dall’area protetta a quella esclusa dai diritti di cittadinanza.
È evidente che la cornice di riferimento di
questa impostazione è rappresentata dalla legge 328/2000 che ha riformato l’assistenza, nei suoi caratteri di universalità
selettiva, a partire da livelli essenziali garantiti a tutti. Tali garanzie devono valere
anche nel contesto federalistico stabilito
dalle ultime riforme costituzionali. Se ne
dovrà riparlare.
Il welfare chiamato a competere
Il “Libro bianco” presentato a inizio febbraio dal ministro Roberto Maroni ha
l’intento di offrire risposte alla “domanda
sociale” come è percepita dall’osservatorio del governo. Nelle sue pagine sono
contenuti molti accenni di risposta, a partire dall’enfasi posta sulla famiglia anche
come agenzia privilegiata del welfare. È
interessante però soffermarsi
sulla “dottrina” che fa da premessa alle indicazioni pratiche
e ne costituisce la chiave interpretativa. “Una politica sociale
realmente moderna – si legge
nella prefazione – non può più
essere quella di un’offerta indifferenziata di prestazioni e
servizi (uguali per tutti, su tutto il territorio nazionale). Universalismo e selettività non sono più termini contrapposti.
Occorrono misure flessibili, ritagliate sulle esigenze delle comunità territoriali e gestite con
efficienza a livello locale”.
Il criterio dell’universalismo se-
14
lettivo, in verità, era già sancito nella legtas Italiana e dalla fondazione Zancan,
ge 328, che peraltro si dichiara oggi di vonei mesi scorsi, grazie al volume Cittadini
ler superare. Si sostiene infatti che le poliinvisibili. “La probabilità di impoverimentiche di protezione sociale non possono
to delle classi medio-basse – afferma Euripiù essere definite dai poteri centrali staspes – si è fatta ancora più marcata negli
tali, mentre “livelli di coesione sociale e
ultimi anni” e quindi “la linea di demardi standard accettabili possono scontare
cazione tra poveri e non poveri si è fatta
significative differenze tra comunità terrisempre più indistinta”. Il fragile equilitoriali”.
brio finanziario di una consistente quota
Il “libro” ritiene che il vero cambiamento
di famiglie è compromesso quando c’è
stia ne fatto che “la concorrenza rende
una sottrazione di lavoro o sopraggiunge
obsoleta qualunque politica sociale e salauna malattia grave. Allora si oltrepassa il
riale di tipo egalitaristico”, che trasferiva
confine. Con un corollario realistico: oggi
ricchezza dalle aree più produttive a quelè facile entrare nel gorgo delle povertà,
le meno produttive, ciò che oggi non è
ma è assai difficile uscirne. E ciò anche
più possibile per il semplice motivo che i
per la minore incidenza delle tutele di
settori più dotati “hanno bisogno di reinwelfare.
vestire il loro surplus economico o quanRicerca sociale e impegno politico sono
tomeno di conservarora chiamati a valulo per il futuro”. In
tare e scegliere. Ed è
mancanza di organiaugurabile che il
che politiche redistririnnovato interesse
Giuseppe De Rita
butive “le differenti
per il welfare possa
IL REGNO INERME. SOCIETÀ E CRISI DELLE ISTITUZIONI
collettività cercano
aprire un confronto
Einaudi 2003
di difendere i rispetnon di facciata e
tivi modelli di solidache prevalga in ogni
Ministero del lavoro e delle politiche sociali
rietà attraverso perforcaso la logica del be(redatto da un gruppo di lavoro coordinato da
mance di sistema”.
ne comune. Si può
Grazia Sestini, Guido Bolaffi, Giovanni Daverio)
Tradotto: risparmiadubitare che ciò
LIBRO BIANCO SUL WELFARE.
no e, dove non basta,
possa avvenire alPROPOSTE PER UNA SOCIETÀ DINAMICA E SOLIDALE
tagliano. Una conl’interno di quel “refebbraio 2003
clusione più che logigno inerme” di cui
ca, se “il sistema delparla l’ultimo Giule politiche sociali è una componente esseppe De Rita, mettendo il dito nella piasenziale per lo sviluppo sostenibile e la
ga di una società civile italiana per nulla
competitività della società”.
robusta – come viceversa sovente la si deCome influirà questa visione sulla deterscrive e la si decanta –, ma piuttosto fragiminazione dei Livelli essenziali di assile nella sua frammentazione particolaristenza, tuttora in fase di elaborazione? Fastica e nella sua incapacità di trovare forre previsioni non è agevole. Il “libro” lame conclusive di organizzazione e di iniscia intendere che i Livelli essenziali di asziativa. Proprio quei “corpi intermedi” di
sistenza non saranno moduli uniformi,
cui tanto s’è parlato negli ultimi anni, coma andranno correlati alle situazioni lome di risorse fresche su cui fare affidacali sulla base di obbiettivi di efficienzamento per rigenerare il tessuto sociale e la
equità da stabilire, in modo che anche le
vita pubblica, sarebbero entrati in una fasituazioni regionali più arretrate procedase di liquefazione. Non sarebbero più in
no “verso le posizioni dei migliori”. Una
grado di creare “istituzioni” innovative
formula che sembra indicare, simultanea(per esempio nuovi partiti e nuovi progetmente, la soluzione auspicata e la persiti) e si accingerebbero a funzionare come
stenza del problema della solidarietà geparti della grande platea che applaude o
nerale.
fischia di fronte alle scenografie e alle esibizioni mediatiche. E tuttavia l’urgenza
Ai piani bassi del “regno inerme”
delle cose impone di non cedere alla rasIl rapporto Eurispes descrive invece un
segnazione e di impedire che la partecipaquadro delle dinamiche di povertà che
zione civile si riduca a una conta degli apnon differisce da quello esposto da Cari■
plausi.
PER SAPERNE DI PIÙ
15
marzo 2003
non solo emergenze
Armi, attacco alla legge:
partita persa per la pace?
Suor Patrizia Pasini*
marzo 2003
M
FOTO ROBERTO CAVALIERI
La 185
regola dal
1990
il commercio
italiano di
armamenti.
Una
normativa
severa, che
consente
i controlli.
Messa in
pericolo dal
modo in cui
il governo
italiano
recepisce
un accordo
europeo.
Una
battaglia
cruciale,
vista
dal Sud
del mondo
ozambico, aprile 2002. Decido
di fare una passeggiata fuori della missione di Maua. Incontro
alcuni bambini che, rannicchiati in un
piccolo cerchio, si passano un giocattolo.
O almeno così sembra. Ogni bambino lo
tiene in mano, lo contempla e poi religiosamente, in silenzio, lo passa ai vicini. La
scena mi incuriosisce. Mi avvicino, guardo meglio: ma è
una pistola, ed è vera! La prendo in
mano con sospetto
e mi accorgo che è
una Beretta, vecchia, logora, fuori
uso, ma certamente
usata fino a cadere a
pezzi. Ora è un simbolo, un trofeo, un
mito per questi
bambini.
Noi missionari e
missionarie che operiamo nel Sud del
mondo, oggi come non mai, ci sentiamo
impotenti, spesso sopraffatti dalle ingiustizie, dallo sfruttamento e dalle violenze
inflitti alle popolazioni tra cui lavoriamo.
Alcuni anni fa, avevamo l’illusione che
l’aiuto umanitario, o la carità cristiana del
mondo ricco avrebbero potuto alleviare e
magari risolvere alcune delle grandi ingiustizie che affliggono i paesi poveri. Ma
non è così. La cooperazione internazionale e gli aiuti molte volte – non sempre,
naturalmente – hanno aperto spirali di
povertà e di ingiustizia ancora più gravi.
In Mozambico, poi ancora in Guinea Bissau, sono rimasta impressionata dalle
montagne di vestiario usato venduto nei
villaggi, nei mercati, nei negozi. Il mercato tessile interno e quello dei manufatti
di vestiario sono crollati, riducendo alla
fame piccoli artigiani e commercianti.
Nell’Amazzonia brasiliana, in piccoli villaggi e nei supermercati della città di Boa
Vista, ho visto imperanti e solitari i prodotti della Nestlè, della Coca Cola, della
Parmalat. I prodotti locali non trovano
più spazio perché non possono competere con i prezzi delle multinazionali, ma
soprattutto a causa della propaganda
commerciale che
queste fanno, incantando la gente semplice.
Tutto questo ci
riempie di dolore e
forse anche di rabbia. Ma non ci
preoccupa quanto
l’assistere alla vendita di armi – grandi e
piccole, pesanti e
leggere –, che entrano con tanta facilità
nei paesi poveri e diventano un simbolo,
un mito. Anche armi italiane, vendute
dall’Italia: sia legalmente che illegalmente.
Paesi che sono o sono stati in guerra come l’Angola, la Liberia, la Somalia, il
Congo o la Costa d’Avorio riescono a
comprare armi sofisticate e pericolosissime, che servono a seminare morte e spesso finiscono in mano a gente senza scrupoli o, cosa ancora più terribile, a bambini costretti a combattere da soldati. In nazioni ridotte alla fame come Eritrea, Etiopia o Guinea Bissau, dove si vive con meno di un dollaro al giorno, si comprano
armi, mine, spesso attraverso contratti definiti di aiuto e di cooperazione: ti mando
riso, ti scavo un pozzo, ti faccio una strada, ma tu devi comprare da me tecnologie, medicine, armi o altro…
16
FOTO STEFANO VERDECCHIA
I missionari in difesa della 185
In nome di queste preoccupazioni, noi
missionari e missionarie italiani abbiamo
sempre difeso la legge 185/90 sul commercio e vendita delle armi, che pur non
essendo perfetta ha il merito di porre restrizioni e stabilire controlli sulla vendita
delle armi, specialmente quando si tratta
di paesi del sud del mondo. Il nostro governo, volendo uniformarsi alle direttive
europee, che favoriscono le cooperazioni
industriali nel settore, rendendo più facile
e spregiudicata la vendita delle armi, ora
sostiene il disegno di legge 1547, di modifica alla legge 185/90, che chiaramente favorisce le lobby dei fabbricanti e commercianti di armi. Sarebbe bello che i nostri
politici, invece di subire le direttive europee, prendessero in questo caso l’iniziativa, proponendo all’Europa di adottare
norme conformi alla nostra 185, a parziale difesa degli indifesi.
Grazie alla vigilanza di molti gruppi della
società civile l’iniziativa del governo è
stata posta sotto una lente d’ingrandimento. Ha così avuto avvio, oltre un anno fa, la campagna di informazione, pressione e proposta in difesa della legge 185.
Raccolte di firme, lettere di sensibilizzazione, azioni di pressione sui politici, sit
in davanti alle sedi parlamentari, consu-
lenza per la stesura di emendamenti: nulla è stato risparmiato per informare l’opinione pubblica e condizionare l’azione
parlamentare.
Lavorare come missionari e missionarie
nelle commissioni di giustizia, pace e integrità del creato delle nostre congregazioni è molto importante, perché fornisce
la possibilità di stare in rete con organismi ecclesiali, della società civile, del
mondo della cultura e della politica, portando il nostro contributo concreto, libero e disinteressato: un contributo di testimonianza sulle vere cause e conseguenze
delle ingiustizie. Perché la causa della pace e dell’autentico sviluppo non sia sacrificata, una volta di più, sull’altare del profitto e della forza.
* Commissione giustizia e pace
Missionarie della Consolata
INCERTEZZA AL SENATO PER LA SORTE DELLA 185
LA CAMPAGNA DIFENDE CONTROLLI E TRASPARENZA
Nel luglio 2000 il governo italiano (di centro-sinistra)
firmava, con altri cinque paesi, l’accordo di Farnborough
«per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria
europea per la difesa». Nel novembre 2001 il governo (di
centro-destra) presentava un disegno di legge per
ratificare quell’accordo internazionale, proponendo anche
profonde modifiche alla legge 185 del 1990, che
regolamenta l’import-export di armi nel nostro paese. Una
legge che, a detta di molti, è considerata molto severa e
rigida nel campo del commercio di armi, il che ha
garantito un certo controllo da parte del
parlamento (e, di conseguenza, della
società civile). Molte associazioni e
movimenti si sono mobilitati e hanno dato
vita a una campagna in difesa di quella
legge: sostengono infatti che proprio le
attività di controllo sparirebbero, o
verrebbero molto attenuate, se venisse
17
approvato il progetto governativo (che nel frattempo è
stato ratificato dalla Camera nel giugno 2002, e che il
Senato stava affrontando a metà febbraio).
Ad esempio non sarà più possibile conoscere i dati sul
valore delle esportazioni di armi effettuate, il certificato di
uso finale dei materiali esportati (cioè la reale
destinazione del pezzo o del sistema d’arma) e le
informazioni sulle transazioni bancarie relative
all’esportazione. Tutti dati, questi, contenuti nell’annuale
relazione che il governo fornisce al parlamento e che,
dunque, sarà molto più avara di informazioni,
che sono alla base del controllo.
Lo stesso presidente dei vescovi italiani,
cardinale Camillo Ruini, l’anno scorso aveva
sollecitato i legislatori affinché la ratifica
dell’accordo internazionale «non comporti
l’attenuarsi dei controlli sul commercio delle
armi».
marzo 2003
globalcontinenti
I media che dimenticano,
tutta colpa del pubblico?
Paolo Beccegato
Dibattito con
gli operatori
della
informazione
sulla ricerca
dedicata da
Caritas
Italiana
ai “Conflitti
dimenticati”.
Molti
giornalisti
si appellano
ai vincoli
di mercato.
Ma restano
i dubbi: dove
va a finire
la dignità
professionale?
marzo 2003
L’
esame di coscienza è riuscito faticoso. E piuttosto riluttanti le ammissioni di colpa. Il sistema dell’informazione italiana, chiamato a riflettere, a metà febbraio, sulla ricerca “I conflitti dimenticati”, ha mostrato una certa
tendenza a schivare le responsabilità, che
pure emergono evidenti dai risultati dell’indagine condotta da Caritas Italiana, e
divenuta ora una pubblicazione di Feltrinelli (collana Nuova Serie).
Organizzata insieme a Famiglia Cristiana e
Il Regno (partner nella conduzione della
ricerca sul grado di dimenticanza – da
parte dell’opinione pubblica – di alcune
guerre “lontane” e
“minori”), la giornata di dibattito e
approfondimento
svoltasi a Roma il
14 febbraio ha
messo attorno a un
tavolo operatori del
giornalismo radiotelevisivo, della
carta stampata e
delle agenzie di stampa: gli strateghi e i
manovali di un’informazione che, in materia di conflitti, il 47% degli italiani ritiene insufficiente e il 9% del tutto insufficiente, ovvero i (cor)responsabili del fatto
che il 26% degli intervistati non ricorda
alcun nome di paese toccato dalla guerra
nei cinque anni precedenti al 2002.
Caritas Italiana non aveva organizzato la
giornata di studio per mettere il sistema
dell’informazione sul banco degli imputati. Piuttosto per tentare di capire, perché
fenomeni per loro natura costellati di
“fatti” nuovi, drammatici e importanti
trovino spazi risibili nell’agenda dei media
o addirittura vengano passati sotto silenzio. Perché, ci si chiedeva, alcune guerre
non sono ritenute “notiziabili” e altre invece lo sono più che abbondantemente?
Perché a proposito di conflitti vengono
date notizie infrequenti, sparse e slegate,
e non ci si sforza di costruire (con la continuità e l’approfondimento) cornici interpretative in grado di dar senso ai singoli eventi?
Clamoroso, nevica ad Aosta
Nella tavola rotonda della mattina, direttori di telegiornali e radiogiornali, responsabili di piattaforme televisive e inviati di
guerra hanno provato a spiegare perché
un telegiornale nazionale debba comunicare in prima serata, il 25 gennaio,
che “nevica a Sondrio e Aosta”, mentre trascura fosse
comuni in Costa
d’Avorio o trattative di pace per il
Congo. «Noi cerchiamo di fare un
tg non soffocato
dalla cronaca nera e dal gossip, più aperto
ai temi internazionali – si è difeso Carmine Fotia, vicedirettore del telegiornale di
La 7 –. Ma in Italia la tradizione giornalistica, in questo settore, è debole». Franco
Di Mare, inviato per i tg Rai in Pakistan e
Afghanistan, ai tempi della recente guerra, ha puntato il dito contro le redazioni
centrali «che chiedono a chi sta sul campo di fare news analysis, cioè di raccontare
in 90 secondi il panorama politico di una
giornata e magari vicende accadute a centinaia di chilometri di distanza, impedendogli di esprimere il valore aggiunto che è
proprio dell’inviato: testimoniare fatti
puntuali, raccontare storie, dare voce alle
persone comuni, piuttosto che alle can-
18
cellerie».
Una nota di ottimismo è risuonata grazie
a Michele Mezza, vicedirettore di Rai Tecnologie, che ha invitato i cittadini fruitori
di notizie «ad abbeverarsi alle innumerevoli fonti non ufficiali che ormai internet
consente di avere disponibili, in tempo
reale, da ogni parte del mondo». Solo così, ha affermato, sarà possibile sottrarsi ai
condizionamenti di un mercato globale
che «in ogni istante della giornata vede
all’opera 1.500 troupe televisive pronte a
servire le emittenti di tutto il pianeta:
1.385 di esse, però, hanno un unico proprietario, l’agenzia Reuter». Ma è toccato
a Enrico Mentana, direttore del Tg 5, sostenere che «l’Auditel è usato come alibi
da chi non vuole o non sa trattare certi
temi. In realtà, non si può chiedere un
ruolo pedagogico o didattico a un tg, pretendendo che stia al di sopra del suo pubblico tramite la trattazione di certi temi. Il
tg non può sostituirsi a tutti gli altri strumenti, cui l’opinione pubblica può accedere per comprendere fenomeni complessi e conflitti irrisolti».
Utenti cattivi, diplomatici distratti
Il tema del “pubblico cattivo”, a cui viene
dato in pasto ciò che in fondo vuole, è
echeggiato anche nel pomeriggio. L’ha
evocato Giulio Pecora, redattore dell’agenzia Ansa, secondo cui è illusorio pensare che «l’informazione possa sottrarsi a
certe tendenze del mercato e della domanda», tanto più che «aprire un ufficio
di corrispondenza in America Latina ha
costi molto superiori» alla produzione di
notizie sul delitto di Cogne o sul festival
di Sanremo. Ai costi economici, ma anche a quelli umani («la nostra agenzia ha
avuto, nella sua storia, numerosi inviati
uccisi in aree di conflitto»), si è appellato
pure Dennis Redmont, direttore dell’Associated Press Italia. Mentre Domenico Delle Foglie, vicedirettore di Avvenire, ha invitato i cattolici a «valorizzare e utilizzare
i propri media», costretti a muoversi «sullo scosceso crinale tra profezia e realismo,
ovvero tra l’aspirazione di gettare sguardi
inediti su realtà lontane e altrimenti ignorate, e la necessità di tenere d’occhio i costi di produzione e le aspettative della
platea dei lettori». Infine Guido Rampol-
19
di, inviato di Repubblica, ha azzardato
un’interpretazione differente, ma non
stravagante: «Certi conflitti – ha tagliato
corto – non entrano nell’agenda dei media e dell’opinione pubblica, fondamentalmente perché non interessano alle nostre diplomazie e alla nostra politica».
Resta il dubbio che invocare le ferree leggi
del mercato per spiegare le dimenticanze
del media system sia una giustificazione
quantomeno debole. Padre Giulio Albanese, direttore di Misna, l’innovativa
agenzia on line sul Sud del mondo, ha ricordato che alcune imprese giornalistiche
dedicate a temi apparentemente perdenti
(«ma affrontati con professionalità e in
velocità») riescono a perforare il muro
dell’indifferenza. Rimangono aperte due
questioni: può un servizio radiotelevisivo
che continua definirsi pubblico (e che
viene robustamente sostenuto con il canone dal contribuente) continuare a dimenticare e a sacrificare la qualità all’audience, con la scusa del mercato? E l’etica
professionale dell’operatore dell’informazione – ancorché rotella di un meccanismo imprenditoriale – dev’essere sempre
e comunque subordinata ai sacri vincoli
di bilancio? «Dobbiamo fare animazione
e assistenza ai giornalisti che stanno al desk – ha concluso Albanese –, fornendo loro stimoli intellettuali e notizie da sviscerare, tratti dai nostri campi d’esperienza e
d’azione. Ci sono professionisti recettivi,
che si appassionano ai nostri temi». Un’esortazione intelligente, che vale anche
per i conflitti dimenticati. E che Caritas
■
Italiana proverà a non lasciar cadere.
Nelle due foto,
relatori e
pubblico al
convegno
“Conflitti
dimenticati o
informazione
globale?”
marzo 2003
obiettivo europa
Dal dibattito alle proposte
il Forum atteso a un bivio
a cura della redazione
A Porto
Alegre, per
la rete
Caritas, c’era
il presidente
di Caritas
Europa,
Denis Viénot.
«Per
elaborare
strategie
alternative
in tema
di giustizia
globale
saranno
sempre più
importanti
i Forum
regionali
e tematici».
Le Conferenze
episcopali
europee a
Davos
marzo 2003
L
a terza edizione del Forum sociale
mondiale di Porto Alegre è andata
in archivio con un bilancio in chiaroscuro. In molti hanno lodato lo spirito
di confronto e conoscenza che continua
ad animare il Forum, oltre che la ricchezza dei temi che propone. Ma anche in
Italia non sono mancate le voci di chi
intravede alcuni rischi: anzitutto l’autoreferenzialità e la scarsa capacità di sintesi e concretizzazione dei temi affrontati.
Il network internazionale Caritas era rappresentato a Porto Alegre da tre membri
del Comitato esecutivo, l’organo di governo di Caritas Internationalis. Tra loro
c’era Denis Viénot, presidente di Caritas
Europa, che ha partecipato agli incontri
organizzati tra gli altri da Caritas Francia
- Secours catholique e Cafod (la Caritas inglese) sui temi della pace, del dialogo internazionale, del debito estero, delle questioni alimentari, dei diritti sociali ed
economici. «A Porto Alegre – ha dichiarato Viénot al Sir, l’agenzia di stampa
della Cei – abbiamo vissuto opportunità
di incontro e di dialogo orizzontale sui
temi vari, con una presenza delle organizzazioni cattoliche europee molto attiva. Sul piano del metodo, c’è stato un
grande dibattito sulla necessità di passare
dalle idee alle proposte. Io penso che in
materia di giustizia globale l’elaborazione di strategie alternative dipenda in
buona parte dalle responsabilità e dalle
azioni dei singoli attori presenti a Porto
Alegre, ognuno nel proprio paese e nella
propria organizzazione».
Per tramutare i dibattiti in proposte politiche e di sensibilizzazione, secondo Viénot «molto importanti sono, e sempre
più lo saranno, i Forum regionali o tematici (ad esempio il Social forum europeo
svoltosi a Firenze nel 2002, ndr), perché
permettono di approfondire temi più
specifici». Il raduno di Porto Alegre, ha
infine affermato il presidente di Caritas
Europa, «nato tre anni fa come anti-Davos, oggi è cresciuto ed è autonomo: è
giusto, per il futuro, non far coincidere
le due date» (cosa che accadrà sin dal
2004, quando il Forum verrà celebrato in
India).
Al vertice economico mondiale che ogni
anno riunisce a Davos, in Svizzera, i massimi esponenti dell’economia, della finanza e della politica internazionali, ha
invece partecipato monsignor Amédée
Grab, presidente del Consiglio delle
Conferenze episcopali d’Europa (Ccee) e
vescovo di Coira (sempre in Svizzera).
Nel suo intervento ha affermato che «i
credenti in Gesù Cristo guardano con fraterna gratitudine coloro che si assumono
pubblicamente responsabilità politiche,
economiche, scientifiche e che operano
per accrescere le opportunità a disposizione degli uomini e delle donne». Ma ha
altresì ricordato che «la ricerca del bene
comune e le scelte implicate comportano
tanti rischi, che a volte hanno dato luogo
a decisioni compromettenti la dignità di
milioni di vite umane, la qualità civile
della convivenza, parti importanti dell’ambiente naturale. Tali rischi non debbono scoraggiare ma responsabilizzare.
La memoria di errori e di colpe non va rimossa, ma assunta e convertita in impegno più umile e più intenso».
Il presidente della Ccee ha chiesto «un
grande sforzo di responsabilità e di dialogo, di apertura e di ferma resistenza ai
soprusi, perché si allarghi quanto più
possibile l’area in cui vigono le condizioni giuridiche e sociali utili a una convivenza civile tra le persone e tra le nazio■
ni».
20
osservatorio di confine
Lula vuol battere la fame,
musica nuova in Brasile?
Guido Miglietta
«L
a missione della mia vita sarà
compiuta se, alla fine del mio
mandato, ogni brasiliano potrà
fare colazione, pranzare e cenare ogni
giorno». Luiz Inácio Lula da Silva ha sigillato con una promessa allo stesso tempo
semplice e solenne, lo scorso 1° gennaio,
il suo discorso di insediamento alla presidenza della repubblica del Brasile. Sarà il
39° presidente del colosso latino-americano e resterà in carica sino al 2007.
L’elezione di Lula (57 anni, nordestino di
famiglia povera, ex metalmeccanico, sindacalista e leader del Partito dei Lavoratori) ha avuto contorni nettissimi, segno
che l’uomo incarna le attese di gran parte
della popolazione, in un Brasile dove 54
milioni di abitanti (su 175) vivono sotto
la soglia della povertà. «Tutti sperano che
con un direttore e un’orchestra nuovi,
cambi anche la musica», ha affermato
Renzo Giacomelli, giornalista e noto
commentatore di cose latinoamericane.
Nel discorso di investitura davanti al con-
Luis Inácio Lula da Silva, neo-presidente brasiliano
21
gresso, a Brasilia, Lula ha riaffermato il
suo impegno a lottare contro la fame e altre emergenze sociali e si è detto “ossessionato” dalla necessità di creare posti di
lavoro, democratizzare le relazioni internazionali ed “eliminare gli scandalosi sussidi” che sostengono le agricolture dei
paesi sviluppati, a discapito dei paesi poveri.
Il nuovo governo brasiliano (nella cui
compagine è presente, con la carica di
sottosegretario per l’“economia solidale”,
l’economista Paulo Singer, che ha sempre
seguito e appoggiato l’esperienza di Caritas Brasile) ha comunque rassicurato gli
ambienti economici e finanziari, interni e
internazionali, circa il fatto che manterrà
un severo controllo dell’inflazione e della
spesa pubblica, mentre agirà per generare
crescita e ridurre gli interessi. I primi effetti si sono avuti con il taglio generalizzato della spesa pubblica (reso inevitabile
dai guasti delle politiche economiche del
decennio precedente), che ha colpito anche i dicasteri del lavoro,
della previdenza e della sanità, ma in percentuali inferiori agli altri settori.
Dice di avere
un’ossessione:
lottare contro
la povertà e
le emergenze
sociali. Vuole
assicurare
ai suoi
compatrioti
tre pasti
al giorno.
Ai potenti
di Davos
ha chiesto
un “nuovo
ordine
economico”.
Ritratto di
un presidente
che ha acceso
molte
speranze
nel paese
Bombardieri bloccati,
sussidi ai poveri
Tra le prime decisioni di
Lula che più hanno impressionato l’opinione
pubblica, vi è stata la scelta
di ritardare di un anno
l’ammodernamento della
flotta aerea militare brasiliana, sospendendo l’acquisto di 12 Mirage: i fondi corrispondenti – 760
milioni di dollari – sono
stati destinati al program-
marzo 2003
LA CHIESA E IL PRESIDENTE:
«SPERANZA, NON ILLUSIONI»
La Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) subito dopo
l’elezione di Lula ha pubblicato un documento in cui afferma che
«la vittoria di un nuovo presidente rappresenta l’incontro con i
sogni dei tempi nuovi. Ma non possiamo alimentare illusioni»,
dicono i vescovi, a causa dei numerosi problemi e ritardi, di
natura interna ed esterna, che travagliano la società e l’economia
brasiliane. I vescovi affermano altresì che «il Partito dei
Lavoratori raccoglie, in ragione delle sue origini, la presenza e
l’azione anche di gruppi cristiani delle nostre chiese locali. I
valori del Regno di Dio offriranno certamente sostegno alla
costruzione di una società giusta e solidale».
In una lettera ufficiale, Dom Jacyr Francisco Braido, vescovo
incaricato dalla Cnbb per la Pastorale sociale, ha a sua volta
assicurato a Lula sostegno «nella grande missione che Le è stata
affidata» e nelle difficoltà, rappresentate «dalla grande
concentrazione della ricchezza, della terra e dei redditi e dagli
interessi degli Stati Uniti d’America nel voler stabilire l’Area di
libero commercio americano (Alca), che minaccia la sovranità
nazionale». Il presule garantisce la volontà di corresponsabilità e
collaborazione «nel processo di trasformazione del sistema che,
da 500 anni, mantiene la maggioranza della popolazione sfruttata
e senza reali opportunità di una vita degna e di partecipazione
alle decisioni politiche».
Infine monsignor Demetrio Valentini, fino al 1999 responsabile
della Pastorale sociale della Cnbb e presidente nazionale Caritas,
ha scritto che «Lula ha proposto come priorità assoluta e come
marchio del suo governo la lotta alla fame. La fame e la sete
sono i segni più evidenti, più autentici e più urgenti delle
necessità umane di base, a servizio delle quali ogni governo
trova senso». Ma il presidente della Conferenza nazionale dei
vescovi brasiliani, monsignor Jaime Chemello, avvisa: «Non
possiamo continuare con un’economia che ci impedisca di
crescere. Certo bisogna avere pazienza. Non sono neppure due
mesi che Lula è presidente e non possiamo di certo ancora
puntargli il coltello alla gola. Ma vogliamo avvisarlo che la nostra
pazienza ha un limite».
ma di lotta contro la fame. Poi Lula si è
recato sia al Forum sociale mondiale di
Porto Alegre che al Forum economico
mondiale di Davos, dove il 27 gennaio ha
sollevato l’esigenza di un «nuovo ordine
economico per combattere la fame e la
povertà e favorire la pace», sostenendo l’idea di un «libero commercio mondiale,
però libero nel senso che si caratterizzi
per la reciprocità», senza protezionismi.
Per ottenere questi obiettivi, ha proposto
la creazione di un Fondo internazionale
integrato «costituito dai paesi del G-7 e
favorito dai grandi investitori internazio-
marzo 2003
nali». Ha chiesto anche la cooperazione
internazionale per ostacolare l’evasione
dei capitali verso i paradisi fiscali. Ha infine assicurato che il Brasile rispetterà i
suoi obblighi finanziari, ma ha insistito
sulla necessità di rompere il circolo vizioso in virtù del quale il suo paese deve
continuamente chiedere denaro a credito
per fare fronte ai debiti.
Alla fine di gennaio il presidente ha infine messo in moto un’offensiva per sradicare gli alti livelli di povertà che colpiscono il 30% della popolazione. Con un investimento iniziale di 514 milioni di dollari ha lanciato le prime misure del piano
“Fame Zero”, da attuarsi soprattutto nella
regione del semiarido del Nordest brasiliano, dove si concentra la metà della popolazione povera del paese e i cui indicatori sociali si avvicinano a quelli di alcuni
paesi dell’Africa subsahariana. Il programma prevede, come prima misura, la distribuzione dell’equivalente di circa 14 dollari al mese per famiglia per l’acquisto di
alimenti.
La sfida dunque è lanciata. Molti, compresi ampi settori ecclesiali, si aspettano
risultati significativi dalla nuova stagione
politica. L’orchestra è alle prime note: il
tempo dirà se la musica è davvero cam■
biata.
Una favela brasiliana: Lula ha promesso di legalizzare la
proprietà di terreni e baracche
22
a tu per tu
«Un dignitoso declino?
La crisi è un’opportunità»
Paolo Brivio
N
on crede a una città mestamente
incamminata sul viale del tramonto, insieme alla sua azienda simbolo. Don Luigi Ciotti conosce bene Torino. E la conosce dal basso e dai margini.
Da decenni vi traccia, giorno dopo giorno, coraggiosi percorsi di solidarietà. Che
incrociano la povertà e il disagio ben prima di quanto riesca agli apparati istituzionali. «Ma il mondo – osserva – viene
oggi rappresentato dai media in modo così convincente da permettere un’oggettiva confusione tra piano del reale e comunicazione pubblica. Se chi osserva non è
critico con il suo sguardo, l’immagine
rende possibile il tradimento. Elementi di
crisi oggettiva ci sono. Ma Torino non è
riducibile alle rappresentazioni che se ne
danno di questi tempi».
Eppure, don Luigi, la città sta attraversando mesi molto difficili.
Molti dicono stia vivendo un
cambiamento epocale. Concorda?
Torino ha un patrimonio di cultura, di
storia, di solidarietà, di santi sociali o di
accoglienza e di sperimentazione che
l’hanno resa, in tempi lontani e recenti,
un vero laboratorio sociale, in grado di
esprimere una vivacità non comune. Oggi
un’espressione ricorrente parla di “dignitosissimo declino” e i cambiamenti configurano una città un po’ ridimensionata, a
partire dalla popolazione (1 milione 200
mila abitanti negli anni ’70, circa 890 mila oggi). Però è importante evidenziare
che, al di là della vicenda Fiat, Torino sta
scommettendo sul suo futuro in termini
propositivi, nel settore dell’informatica e
in altri settori, in grado di rompere una
cultura del lavoro mono-tematica.
La crisi della grande industria
23
produce nuove povertà e nuove
forme di esclusione?
Dal “basso” si coglie certamente la fatica
del momento, ma anche una serie di segnali che generano speranza e che rendono possibile un cauto ottimismo, che per
nessuna ragione dev’essere spento o
soffocato. Povertà vecchie e nuove abitano nella nostra città e in alcuni casi sono
rese più acute dal momento attuale. Chi
si ritrova con una lettera che annuncia la
cassa integrazione o, peggio ancora, il licenziamento è certamente in condizione
di grosso svantaggio. Se a questi si aggiunge chi vive una forma di povertà psicologica, dettata dalla paura e dall’ansia
del perdere un lavoro che ancora si possiede (con gli immaginabili riflessi sulla
qualità della vita personale e familiare),
non è difficile capire di cosa si parla per
strada, in autobus, in casa o al bar. Resta
il fatto che, pur in presenza di tali fatiche,
Torino sa inventare e organizzare percorsi
di speranza e di solidarietà che non restano assistenza o sola elemosina, ma si dirigono verso i territori della giustizia e della
coesione sociale.
In tempi di ristrutturazione delle
funzioni produttive e dei profili
professionali, anche le relazioni
sociali e umane, e magari le
espressioni culturali, vengono
modificate?
Torino esprime una serie di iniziative culturali (salone del libro, della musica, del
gusto, museo del cinema) che affiancano
la grande industria, esprimendo un’identità cittadina decisamente più completa.
Nei prossimi anni arriveranno Olimpiadi
e Universiadi: una preziosa opportunità
per fare della città un centro internazionale, e non una periferia italiana. E il vo-
La Fiat
in panne,
la morte
di Agnelli:
Torino sta
affrontando
una stagione
di grandi
difficoltà.
Intervista
a don Luigi
Ciotti:
«Il momento
attuale
acutizza
la povertà,
anche
psicologica.
Ma la città
sa
organizzare
la speranza.
E deve
continuare a
“camminare
insieme”»
marzo 2003
lontariato che Torino esprime (il 10%
coinvolto in attività di cooperazione internazionale) rappresenta realmente un
fermento di impegno sociale, che spinge i
confini della nostra città oltre quelli geografici. La crisi della grande industria va
gestita e governata, per aiutare la città ad
assumere fino in fondo una nuova dimensione culturale, da città cosmopolita,
sempre più luogo e punto di incontro tra
culture diverse.
Traguardo ambizioso…
È curioso, ma Torino sa esprimere molto
bene la sua dimensione “locale” (a volte
consegnando l’immagine di sé come quasi provinciale) e, al tempo stesso, proporsi
come crocevia che permette a ciascuno di
avvertirla come la “sua” città. Gli oltre
500 mila immigrati dal Sud Italia (o da altre regioni italiane: il sottoscritto proviene dal Veneto) che ormai da quasi due generazioni vivono nel capoluogo piemontese, avvertendosi “anche” torinesi, sono
la conferma della capacità di accogliere e
costruire integrazione. Si tratta ora di far
crescere altri poli di riferimento, verso
quella “convivialità delle differenze” che
rende possibile e civile ogni “abitare”.
l’accezione della difesa dei forti da quanti
sono più deboli e meno garantiti. Si tratta
di non far venire meno quel “fame e sete
di giustizia” che rappresenta, da sempre,
il solo e valido fondamento di ogni solidarietà. La fabbrica ha rappresentato (e
rappresenta ancora) un luogo e un’opportunità per formarsi a questa robusta solidarietà, ma non è l’unico spazio possibile
per un simile percorso. La formazione alla
solidarietà deve iniziare prima del tempo
del lavoro; deve appartenere alla famiglia,
alla scuola, alle agenzie del tempo libero,
alle comunità cristiane, alla catechesi, a
quanti operano nei media… La nostra
Costituzione definisce la solidarietà un
dovere inderogabile di ogni cittadino,
non un optional per chi vuole sentirsi più
buono degli altri.
Ma nel mondo del lavoro e nella
società attuali non rischiano di
andare in crisi, con la fabbrica,
anche l’idea e la prassi di una solidarietà collettiva?
Anche la fabbrica – come il mondo del lavoro nel senso più ampio – rispecchia il
clima sociale in cui è immersa. Se l’essere
clienti è prioritario sull’essere cittadini,
tutto diventa mercato e il bisogno, prima
di essere esaudito dalla cultura dei diritti,
viene interpretato come merce da acqui-
La grande fabbrica era luogo di
conflitti, ma anche recinto di formazione di una
cer ta cultura
della solidarietà.
Torino rischia di
essere meno solidale?
Le forme di organizzazione della solidarietà sono certamente
mutate, così come è
forte la tentazione di
riportare il valore della solidarietà negli
ambiti dell’assistenza
o dell’elemosina, per
sganciarla dalle istanze della giustizia. La
stessa nozione di sicurezza – sacrosanta e
doverosa, se declinata
in termini sociali – assume non poche volte Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera
marzo 2003
24
stare o favore da supplicare. Diventa urgente rompere questi meccanismi, per rifondare lavoro e convivere sociale su un
essere cittadini che afferma i diritti per
prepararsi ai doveri, e al dovere di solidarietà verso chi è meno protetto. Solo sulla
piattaforma della giustizia e della legalità
potremo costruire la solidarietà che resta,
per ogni città, tensione e pungolo per un
convivere più umano. Nelle fabbriche come in ogni altro ambiente di vita.
Centomila persone al Lingotto,
per l’estremo saluto a Gianni
Agnelli. Come interpreta l’omaggio di Torino all’Avvocato?
Il cordoglio commosso che la città di Torino ha espresso in occasione della morte
di Giovanni Agnelli è il risultato di tanti
sentimenti e di diversi stati d’animo.
Agnelli era ed è presenza significativa e
punto di riferimento impegnativo, tanto
che non è possibile separare la sua persona dalla storia di Torino e d’Italia. Tale
storia ha visto la città e l’Avvocato, nei
momenti positivi come nelle tensioni,
crescere e “camminare insieme”. L’espressione richiama la lettera pastorale che padre Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino, indirizzò alla nostra chiesa nel dicembre 1971. Erano gli anni dell’immigrazione, dell’espansione della Fiat e delle
lotte sindacali. Quel “camminare insieme” rappresentò un punto di incontro –
il più alto possibile – per avvicinare posizioni apparentemente inconciliabili e
tracciò un metodo di lavoro ancora valido. Non fu facile per nessuno, ma quel
rendersi compagni di viaggio nella ricerca
di verità e giustizia fu proposta che obbligò tutti a incontrare l’altro come persona da rispettare e da ascoltare, senza mai
ridurlo a “nemico”. Gianni Agnelli si lasciò coinvolgere in questo procedere e si
mise in cammino con la “sua” città alla
ricerca di mete condivise. In occasione
della sua morte Torino ha avvertito di
aver perso un compagno di viaggio.
Ognuno ha vissuto l’evento con i riferimenti e le motivazioni che gli sono propri. Ma per tutti c’è stata la consapevolezza di una perdita. Come continuare quel
“camminare insieme”, è la ricerca da cui
non dobbiamo uscire.
25
NUOVI POVERI E “IN CADUTA”,
TRA LORO ANCHE I DISOCCUPATI
È stata presentata il 18 febbraio una ricerca condotta sul
territorio provinciale di Torino, condotta dalla cooperativa
sociale Solaris con il contributo dell’assessorato provinciale alla
solidarietà sociale, sul tema “Povertà nuove, estreme,
conclamate”. Ne emerge che «i nuovi poveri – afferma il
curatore, Roberto Cardaci – sono i nuclei familiari monoreddito
quando viene a mancare o si riduce notevolmente l’unica
entrata, donne separate o divorziate con coniuge a sua volta
povero o che ricevono un assegno insufficiente, adulti
disoccupati e senza una rete di sostegno familiare, anziani soli
con una pensione bassa, genitori anziani con figli grandi a
carico o figli in età avanzata con a carico genitori
ultranovantenni». Accanto a queste situazioni, emergono poi
tipologie di povertà estrema, di cui i classici clochard
rappresentano solo una piccola quota: sono soggetti “in caduta”
(ovvero la cui condizione è in progressivo peggioramento), come
immigrati clandestini, ex carcerati e anziani soli in località
isolate (fonte: Redattore sociale).
Oggi si parla tanto di aziende socialmente responsabili. La Fiat lo
è stata nei confronti del territorio e della società circostanti?
La Fiat ha indubbiamente aiutato Torino
a crescere, così come Torino ha aiutato la
Fiat ad assumersi una serie di responsabilità anche sociali che un tempo si pensava poco attinenti al mondo dell’industria.
Fare del lavoratore il soggetto di ogni prestazione lavorativa, secondo la felice
espressione di Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, è il punto di arrivo (o di
tensione, perché questo obiettivo prima o
poi possa essere raggiunto) che il mondo
degli industriali non può realizzare senza
l’aiuto dei lavoratori, delle loro famiglie e
della città in cui questi abitano e vivono.
È un obiettivo che esige fedeltà alla giustizia da parte di tutti i soggetti coinvolti, le
cui forze solo se spese insieme possono
generare una ricchezza decisamente più
completa del semplice utile economico.
Torino ha rappresentato un vero laboratorio sociale, perché ha tentato – con determinazione, passione e senso della legalità
– questa non facile collaborazione. Un
procedere da completare e migliorare.
Che però ha già generato frutti sociali.
Non solo per la città, ma per l’intero
■
mondo del lavoro.
marzo 2003
un volto una storia
Oumar che cerca i vestiti
e le spose del “Girabito”
Mariagrazia Bonollo
O
umar viene al negozio di tanto in
tanto. Una volta in cerca di un
paio di calzoni, un’altra di un maglione. «Sono operaio in una ditta meccanica qui a Vicenza – racconta mentre passa in rassegna i cappotti in cerca di uno
della sua misura –, faccio i turni, lavoro
duro ma tutto sommato non sono pagato
male. Solo che l’affitto dell’appartamento
in cui vivo con mio fratello costa proprio
caro, e anche fare la spesa… Alla fine non
mi resta molto in cassa, se voglio mandare qualcosa a casa. Così quando ho bisogno di vestirmi vengo qui, dove riesco a
spendere poco, anche 50 centesimi di euro per una maglietta o 10-15 per un giaccone. Quello che risparmio si aggiunge ai
soldi che ogni mese spedisco in Marocco,
ai miei genitori, a mia moglie e ai miei
FOTO MARIAGRAZIA BONOLLO
Dai
cassonetti
gialli
ai banchi
di un
negozio.
Gli
indumenti
raccolti
nelle
campane
Caritas
diventano
opportunità
di risparmio
per gli
immigrati e
di lavoro
per persone
in difficoltà.
E poi si può
battere
la cultura
dello spreco:
anche
nel giorno
più bello
della
propria
vita…
Nelle foto, la vetrina e un interno di “Girabito”
marzo 2003
due figli».
Il negozio, in effetti, è diverso da tutti gli
altri. “Girabito” è gestito a Vicenza, grazie
alla disponibilità della Caritas diocesana e
del consorzio di cooperative sociali Prisma, dalla cooperativa Insieme. Al “Girabito”, a prezzi veramente a buon mercato,
è possibile comprare abbigliamento usato
di tutti i tipi: da cerimonia, classico e
sportivo, per donna uomo o bambino. E
ancora tessuti e biancheria per la casa,
tappeti e accessori, borse, scarpe e cinture.
«Le commesse – racconta Oumar – mi
hanno spiegato che il loro obiettivo non
è vendere, ma dare opportunità di lavoro
a persone in difficoltà. Mi hanno detto
che questo abbigliamento usato viene dai
cassonetti gialli Caritas, che vedo andando al lavoro. Loro prendono il contenuto
dei cassonetti, lo smistano e se è in buono stato lo espongono. E mi hanno pure
spiegato che i soldi che incassano servo-
26
FOTO MARIAGRAZIA BONOLLO
no per aiutare la Caritas nei suoi progetti
di solidarietà. Così siamo contenti tutti:
loro che aiutano le persone, io che spendo poco per vestirmi…».
Fra novembre e dicembre e prima delle
vacanze estive sono molti gli immigrati
dei paesi dell’est, del Mediterraneo, ma
anche dell’India e del Banglasdesh, che
passano a Girabito. «Veniamo qui – conferma divertito Oumar – a fare le scorte di
abiti che portiamo alle nostre donne e ai nostri bambini. Loro attendono con
ansia il nostro arrivo, si
aspettano dei regali. Grazie
a Girabito ce li possiamo
permettere…».
Il negozio, però, fa anche di
più. Si propone come opportunità per far crescere la
cultura della solidarietà,
della sobrietà, della tutela
dell’ambiente. Anche perché si pone in posizione critica rispetto all’ottica consumistica dell’usa e getta.
Gli introiti vengono utilizzati, detratte le spese per la
gestione e gli stipendi, per
finanziare le iniziative Caritas, come quelle in favore
delle vittime della prostituzione coatta, o
il ricovero notturno d’emergenza per i
mesi invernali. Nel 2001 sono state ben
1.393 le tonnellate di vestiario raccolte
nelle classiche campane gialle (un cubo
con un lato di 25 metri!): un’attività, realizzata da 4 cooperative sociali, che ha dato lavoro a 16 persone, di cui 8 svantaggiate.
«Qui incontro anche tanti italiani, signore di una certa età ci stanno per ore –
commenta Oumar –. È divertente vederle
esplorare con pazienza i cestoni, alla ricerca di un oggetto particolare. Con alcune ho fatto amicizia, mi hanno detto che
per loro questo è il negozio delle sorprese.
Mi raccontano che alla domenica si divertono andando in giro per mercatini – come li chiamate? – delle pulci. Che strani
voi italiani: siete incuriositi dalle cose
vecchie, mentre io, se potessi, comprerei
tutto nuovo! È che per me costa troppo…».
27
Ma Girabito dà il meglio, in fatto di fantasia, al piano superiore, dove è stato allestito un vero e proprio “angolo della sposa”: vestiti più accessori. «Ho una sorella
giovane, che spero si sposi presto – sospira Oumar –. Chissà, se un giorno andrò in
Marocco per il suo matrimonio, le porterò qualcosa che ho preso qui…». Il reparto “fiori d’arancio” non è una trovata
eccentrica. Viene incontro alle future spose con qualche problema di cassa, ma anche a tutte coloro – vicentine comprese –
che ci tengono a non trasformare la loro
cerimonia nuziale in un festival degli
sprechi, inutile e offensivo. Il meccanismo di vendita funziona come un piccolo
manuale di convivialità e solidarietà. Dopo il matrimonio, le novelle spose possono portare al Girabito, lasciandolo in
conto vendita, il proprio vestito nuziale:
uno modo per far felice un’altra donna, e
per finanziare pratiche di solidarietà.
Quando il vestito viene venduto, il 40 per
cento del prezzo viene incassato dalla
cooperativa e il 60 per cento dalla proprietaria. Il giorno più bello della propria
vita, in fondo, lo si può condividere ben
oltre la cerchia degli invitati. Con chi deve ancora vivere il proprio. E con chi si
■
trova nel bisogno.
MARINA E LA DEPRESSIONE,
LA CURA SI VIVE IN NEGOZIO
Marina è giovane e lavora cinque mattine alla settimana al
Girabito. «Sto uscendo da un periodo difficile: una depressione, la
difficoltà a tenermi il lavoro di prima, l’incapacità di gestire
qualsiasi relazione umana. Un periodo buio. Ho perso il lavoro e le
giornate “vuote” sono diventate un incubo. Passavo dal letto alla
poltrona alla sedia, mia madre non sapeva più cosa fare per
aiutarmi. Ero già seguita dai servizi sociali per difficoltà di altro
tipo. E così mi è stato proposto l’impiego per un po’ di mesi in
cooperativa, a Girabito. Qui l’ambiente è informale; la semplicità
delle persone e la possibilità di sentirmi utile e di rapportarmi con
la gente mi hanno aiutato molto». Piano piano Marina sta risalendo
la china. «Non è facile, certe giornate proprio non gira. So che non
potrò stare qui per sempre e questo mi intimorisce, ma mi sento
un’altra persona rispetto a un po’ di mesi fa… Ho scoperto che
adoro stare in mezzo alla gente, se sto bene. Cercherò un lavoro
simile, magari, così mi sentirò più viva. Qui c’è gente di tutti i tipi
e di tutte le età. Girabito mi fa conoscere un’umanità così varia!».
Info: Girabito, via Pecori Giraldi, 56 - 36100 Vicenza
tel. 0444.56.10.54
marzo 2003
progetti
Vicini ai Rom nei Balcani
e alle “famiglie solidali”
in fondo al mese
NEL MONDO
Progetto Serbia
e Montenegro
Basso livello di educazione, elevata disoccupazione, abitazioni insalubri costruite su terreni
abusivi. Ma soprattutto un atteggiamento discriminante da parte di istituzioni e popolazioni circostanti. Anche nei Balcani le minoranze
Rom devono affrontare durissime condizioni di
vita.
Già dal 2000 Caritas Italiana conduce progetti (preparazione all’inserimento scolastico, segretariato
sociale e centro d’ascolto) in favore dei Rom di Topana, un quartiere
Rom della capitale macedone,
che degli adulti. Nel paese centiSkopje. Ma anche il Programma
naia di associazioni Rom svolgono
paese Serbia e Montenegro sta invarie attività in questo settore, ma
tensificando il suo impegno a favoanche in altri ambiti di promoziore di queste (e altre) minoranze. A
ne sociale. Le loro attività stanno
cominciare dall’attenzione al tema
assumendo una forma più organidella scolarizzazione. «Un terzo dei
ca e riconosciuta, in virtù di una
bambini Rom della Serbia non va
legge sulle minoranze emanata a
mai a scuola. La maggior parte defebbraio 2002. Caritas Italiana, in
gli allievi, circa l’80%, vengono
collaborazione con alcune Caritas diocesane
mandati nelle “classi speciali” anche se non diitaliane, sostiene svariati interventi a favore delmostrano i disturbi mentali – spiega Vera Mraola minoranza Rom e di altre minoranze, alcuni
vic, operatrice di Caritas Italiana –. I bambini
già in corso, altri in fase di decollo:
non conoscono la lingua serba, non hanno abbigliamento adatto
• supporto al progetto
di doposcuola dell’asper presentarsi a scuosociazione Zvezdano
la, vivono in campi
nebo (Cielo stellato), siposti a grandi distanPer sostenere i Progetti e gli interventi
tuata alla periferia di
ze dalle aree urbane.
segnalati (specificando sempre la causale) si
Belgrado, che incoragpossono inviare offerte alla Caritas Italiana
Inoltre i genitori (in
gia i ragazzi a portare a
tramite:
gran parte analfabeti)
termine la scuola elenon possono dare una
• c/c postale n. 347013
mentare;
mano ai figli e gli in• Banca Popolare Etica, Piazzetta Forzatè, 2 segnanti dedicano po• supporto alla scuola
Padova - c/c n. 11113 - ABI 5018 – Cab
materna dell’associaca attenzione agli al12100
zione Rom di Lazarelievi Rom».
• Banca Intesa Bci – p.le Gregorio VII, Roma
vac, che accoglie venti
Nonostante ciò, molti
- c/c n. 100807/07 - ABI 03069 – CAB
bambini per facilitarne
Rom sono convinti
05032
inserimento
nella
che bisogna insistere
• Cartasì e Diners telefonando al numero
scuola elementare;
sull’istruzione sia dei
06/541921, in orario d’ufficio.
bambini (nelle foto)
• appoggio al progetto
marzo 2003
28
AVVISO
AI LETTORI
IN ITALIA
Progetto solidarietà
familiare
di educazione dei bambini Rom di
Kotor (Montenegro), che coinvolgerà 296 bambini in età prescolare e
scolare, cui sarà insegnata la lingua
locale e che saranno sostenuti nell’attività didattica;
• definizione di un progetto a Novi
Becej (nord Vojvodina) per la promozione del ruolo della donna nella
famiglia, per un miglior approccio
all’igiene e alla salute, per la responsabilizzazione all’interno della comunità;
• sostegno all’associazione Armenka
di Belgrado, che assiste donne e
bambini provenienti dall’Armenia,
vittime di abusi e di violenza;
• appoggio al progetto “Donne per
una vita senza violenza” svolto dal
Centro Autonomo Donne e attivo
da una decina d’anni per le famiglie
Rom nell’area di Belgrado;
• esame di un progetto di Caritas
Kotor per dare lavoro a 20 Rom,
profughi dal Kosovo, impiegandoli
nel risanamento delle antiche mura
della cittadella veneziana, in collaborazione con la municipalità.
Per contribuire ai progetti, causale
Fed. Jugoslava
29
Già annunciato da Italiacaritas, il progetto ora è entrato nella fase di attuazione. Messo a punto da Caritas Italiana, in collegamento con le Caritas diocesane e gli Uffici diocesani e nazionale di pastorale per la famiglia della Cei,
punta a sviluppare esperienze di solidarietà familiare nella vita quotidiana.
Il progetto intende rendere le famiglie,
nella loro condizione ordinaria, capaci
di solidarietà nel quotidiano, integrando gli altri interventi di servizio verso
la povertà e la sofferenza presenti nei
contesti familiari in difficoltà.
Sarà concretizzato a partire da una formazione specifica, mediante reti familiari, attenzione alle famiglie più gravate da situazioni di disagio e attenzione alle famiglie di nuovo insediamento; inoltre prevede forme di educazione delle famiglie a stili di vita, di gestione economica e di impegno civile
ispirati a una solidarietà universale.
Partecipano al progetto l’arcidiocesi di
Palermo e le diocesi di Reggio Calabria, Lecce, San Benedetto del Tronto,
Pistoia, Cuneo e Como.
Sabato 15 e domenica 16 febbraio il
Gruppo nazionale di supporto ha incontrato a Roma tutti i gruppi diocesani e le prime famiglie coinvolte. Da
marzo a settembre si avvieranno esperienze di servizio a persone e famiglie
in condizione di grave emarginazione,
in collaborazione con le parrocchie.
Ogni sostegno al progetto di solidarietà familiare aiuterà ad allargare la
rete di famiglie solidali, preziose risorse per rispondere a forme gravi di disagio e povertà che vedono al centro la
famiglia.
Per contribuire ai progetti, causale Solidarietà familiare
■
Nel presentarvi il
mensile Italiacaritas in
una veste rinnovata e
suscettibile di ulteriori
modifiche in corso
d’opera, esprimiamo le
nostre scuse per
eventuali inconvenienti.
Per problemi in fase di
riorganizzazione del
sistema di gestione
informatica delle offerte
è possibile che molti
offerenti non abbiano
ricevuto né una lettera
di ringraziamento, né
alcune copie della
rivista. Così pure è
possibile che non siano
state eseguite
tempestivamente molte
richieste di
cancellazione o di
modifica di indirizzi e di
destinatari. Siamo
veramente dispiaciuti
per questi disagi, in via
di superamento.
Vi invitiamo, comunque,
a segnalarci eventuali
ulteriori disguidi (email:
molimpieri@caritasitalia
na.it - tel. 0654192202).
Vi ringraziamo per il
tratto di strada percorso
con noi sul difficile
sentiero della
solidarietà e per il
contributo finora dato
alle nostre azioni in
favore e dei meno
tutelati. Ci auguriamo di
poter
contare
anche in
futuro sul
Vostro
sostegno
ai nostri
progetti.
marzo 2003
SUSSIDI
Quaresima tra dare e ricevere
per coltivare i frutti dello spirito:
«Chi ci guadagna di più?»
U
na Quaresima capace di contrastare i venti di guerra e la spasmodica ricerca di profitto e di benessere personale che contraddistingue il nostro tempo, coltivando i “frutti
dello spirito”. Amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé: l’elenco sviluppato da san Paolo
nella lettera ai Galati (5,22) fa da guida ai
momenti di riflessione e preghiera proposti
dai sussidi Caritas per la Quaresima 2003.
Questi frutti appaiono, entro certi limiti,
inattuali. Eppure convertirsi e cambiare vita,
sviluppando la ricerca di questi valori, può
condurre l’uomo contemporaneo a un guadagno reale, non solo
perché questi frutti
annunciano la Resurrezione, ma perché
molto verrà restituito
già nel tempo presente, all’uomo che
si fa guidare dallo
Spirito, in rapporti,
relazioni, amicizia,
serenità e gioia.
“C’è più gioia nel dare che nel
ricevere” è infatti la frase proposta dal papa
nel suo messaggio per la Quaresima, che i
sussidi Caritas riprendono come filo conduttore. L’opuscolo (nella foto, la copertina) rivolto alle famiglie propone un itinerario per vivere la Quaresima e la Pasqua 2003 secondo
lo schema già noto: ci si lascia provocare dalla Parola di Dio delle liturgie domenicali, riflettendo inoltre – grazie a una testimonianza
– sull’esperienza concreta di chi ha sperimentato nella propria vita il guadagno che si realizza donando, nonostante la fatica. La novità, quest’anno, consiste nel fatto che l’opuscolo propone anche l’ascolto di altre esperienze religiose, come il papa stesso ci invita
a fare, in vista di una migliore conoscenza reciproca. Quotidianamente si potrà pregare
con le parole delle comunità che, nell’anno
appena concluso, sono state provate da cala-
marzo 2003
mità naturali che hanno stravolto la loro vita.
Il poster/gioco allegato all’opuscolo, ma utilizzabile anche a parte, è un’attività volutamente molto semplice da proporre ai bambini,
in famiglia o nei gruppi da essi frequentati. In
sei tappe, corrispondenti alle cinque domeniche di Quaresima e al giorno di Pasqua, i bambini sono invitati a ripensare ad alcuni valori
per loro molto importanti. Ci si guadagna
molto nel ricevere, ma anche nel dare: è questa, per il bambino, la vera novità.
Anche il salvadanaio, per raccogliere risparmi
da destinare a persone e comunità in situazione di difficoltà, riprende la grafica e i disegni
del poster-gioco.
Il poster (nella foto) diffuso alle Caritas diocesane e parrocchiali, da appendere nelle chiese
e negli ambienti pastorali, ha un titolo ispirato
al messaggio papale (“Chi ci guadagna di
più?”) e ha come sfondo una foto di condivisione: una giovane volontaria, chinata accanto
a un’anziana in carrozzella. In basso c’è la consueta scritta “Caritas diocesana”, su un fondo
bianco che può essere personalizzato. Il poster
è disponibile in due formati (64x88 e 50x70
■
centimetri).
LIBRI
La libertà religiosa nel mondo
analizza paese per paese.
Nel ricordo di “padre Lardo”
Interessi e doni,
questione
di solidarietà
C
“L
urato da Attilio Tamburini e inserito nella collana “Quaderni
dell’Associazione Chiesa che Soffre” (Acs), è disponibile il
Rapporto 2002 sulla libertà religiosa nel
mondo (423 pagine), una panoramica
esaustiva su un tema complesso, analizzato per aree territoriali e culturali, per continenti, infine paese per paese; di grande
efficacia è la cartina allegata. Entro maggio è atteso il Rapporto 2003. Sempre a
cura dell’Acs, si segnala anche la videocassetta Il battello di Dio, un progetto
ecumenico a sostegno della pastorale
della chiesa ortodossa russa, con immagini dei battelli-cappella che navigano
lungo il Volga con equipaggi di sacerdoti, diaconi e seminaristi ortodossi in
visita alle comunità locali.
Nel segnalare questi strumenti, non si può non ricordare
la figura del fondatore dell’Acs, padre Werenfried
van Straaten (nella foto), più conosciuto come Padre
Lardo, scomparso a fine gennaio 2003, dopo aver
trascorso più di 90 anni al servizio dei poveri e dei
deboli nei più remoti angoli del pianeta. Lo avevano
definito “bulldozer della carità” e “mendicante dei
poveri”. Il suo nome di battesimo era Filippo e solo
quando vestì l’abito religioso gli venne imposto il
nome di Werenfried, “colui che difende la pace”.
Dai perseguitati del socialismo reale ai boat people vietnamiti, dagli
sfollati del dopoguerra ai profughi extracomunitari dei giorni nostri, dai poveri delle favela sudamericane agli esclusi dal neoliberismo selvaggio, dai missionari bisognosi di un mezzo di trasporto
alle monache in monasteri fatiscenti: grazie all’Acs, dal lui fondata nel 1947, moltissime invocazioni di aiuto non sono rimaste
senza risposta. Per oltre mezzo secolo, padre Werenfried ha chiesto aiuto e solidarietà a nome dei poveri di Dio. E per questo è stato definito “il più grande mendicante del Novecento”.
La morte lo ha colto nel pieno di un’ardita missione ecumenica.
Proprio lui che aveva soccorso la chiesa cattolica vittima del comunismo e che aveva in passato stigmatizzato l’arrendevolezza
delle gerarchie ortodosse in alcuni paesi dell’Est, ha ideato un’iniziativa profetica: aiutare la chiesa ortodossa russa in modo disinteressato, senza fini di proselitismo. La sintesi del suo pensiero e
della sua azione la si può forse rintracciare in questa riflessione:
«Restaurare l’amore in un mondo dilaniato dall’odio, a favore della riconciliazione. Porre la misericordia al di sopra del diritto, elemosinare amore per il nemico sconfitto, difendere gli inermi, i
prigionieri, gli espulsi dalle loro case e dalle loro terre, i perseguitati, i poveri e gli oppressi. Asciugare le lacrime di Dio, dovunque
Egli piange (…) perché egli piange in tutti gli oppressi e sofferenti
del nostro tempo». (Francesco Meloni)
31
’idea della solidarietà è centrale
anche per quelle etiche che
non contengono riferimenti religiosi,
ma partono dall’idea che esistano legami affettivi fra tutti gli uomini”: è
questa la traiettoria di riflessione di
Kurt Bayertz coautore, insieme a Michael Baurmann, di L’interesse e il
dono – questioni di solidarietà (Edizioni di Comunità, pagine 120, Torino 2002). Curato da Pier Paolo Portinaro con una puntuale e articolata
introduzione, il libro raccoglie due
saggi (“L’interesse e il dono” di Bayertz
e “Solidarietà come norma sociale e come norma costituzionale” di Baurmann) che aiutano a riflettere sulle
molteplici accezioni del concetto di
“solidarietà”, dal punto di vista filosofico e sociologico, personale e comunitario, indagandone sia il versante più propriamente altruistico
(il dono), sia il
versante legato a
chi agisce in modo solidale nelle
dinamiche della
società civile
(privato, pubblico e terzo
settore). Interessanti le osservazioni, le distinzioni concettuali e pratiche tra solidarietà, equità e giustizia; tra solidarietà, carità e beneficenza, dono e fratellanza; tra interessi e finalità private e pubbliche. Le riflessioni evidenziano che la solidarietà possiede una
dimensione etica ineluttabile, riecheggiando la Sollicitudo Rei Socialis,
secondo cui essa «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento, ma determinazione ferma e perseverante di
impegnarsi per il bene comune: ossia
per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti». (Francesco Meloni)
marzo 2003
NO alla guerra!
«La guerra non è mai un
fatalità; essa è sempre una
sconfitta dell’umanità.
Il diritto internazionale, il
dialogo leale, la solidarietà
fra Stati, l’esercizio nobile
della diplomazia, sono mezzi
degni dell’uomo e delle
Nazioni per risolvere i loro
contenziosi. Dico questo
pensando a coloro che ripongono ancora la
loro fiducia nell’arma nucleare e ai troppi
conflitti che tengono ancora in ostaggio
nostri fratelli in umanità».
Giovanni Paolo II
udienza al corpo diplomatico in Vaticano – 13 gennaio 2003
I lettori, utilizzando il c.c.p. allegato e specificandolo nella causale, possono contribuire ai costi di realizzazione,
stampa e spedizione di Italiacaritas, come pure a progetti e interventi di solidarietà, con offerte da far pervenire a:
Caritas Italiana – c.c.p. 347013 – viale F. Baldelli, 41 - 00146 Roma – sito internet: www.caritasitaliana.it
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