INGEGNERI BERGAMO TRIMESTRALE DI INFORMAZIONE DELL’ORDINE DEGLI INGEGNERI DELLA PROVINCIA DI BERGAMO Anno XX - N° 203 - Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Bergamo “Il GIORNALE dell’INGEGNERE” ha riportato, tempo addietro, un’intervista al professor Giacomo Elias vertente su un suo lavoro, “Elogio dell’incompetenza”, scritto a quattro mani con il professor don Bruno Bordignon dell’Università Pontificia Salesiana. L’ho scovato in libreria per leggermelo, in quanto il titolo dato all’intervista, che dovrebbe riassumere il pensiero di questi due studiosi: “Metodi di approccio ai problemi, piuttosto che soluzioni specifiche, per il futuro ingegnere”, mi aveva lasciato qualche perplessità. Perplessità generata da quel “piuttosto”, che, se suona affascinante da un lato - diciamo su un piano filosofico, di indirizzo generale - sembra scontrarsi con una realtà in cui il decidere, l’agire, la soluzione specifica, è il compito più ricorrente a cui l’ingegnere viene chiamato. Perplessità che non viene dissipata del tutto dal contenuto dell’intervista, in cui il professor Elias, non del tutto propriamente, viene sollecitato dall’intervistatore a rispondere anche ad argomenti riconducibili con difficoltà al nocciolo centrale della questione, tipo l’Expo del 2015, dispersivi rispetto all’asse attorno a cui ruota il suo pensiero: “la teoria dei Sistemi Complessi Adattivi, quali sono, ad esempio, quelli socio-economici, si basa, tra l’altro, sull’impossibilità di prevedere l’evoluzione di un sistema del quale si conoscano le singole parti, differendo in questo dalla visione newtoniana, lineare, della realtà…. Se complessità significa imprevedibilità (tecnicamente impredicibiltà), la disponibilità di metodi per l’approccio ai problemi è di gran lunga preferibile alle soluzioni specifiche per risolverli”. Il libro non si presta ad essere sunteggiato, non fosse altro che per i continui riferimenti al pensiero di filosofi che hanno indagato, da Aristotele in poi, su esistenza, conoscenza e comunicazione, ma è in grado di stimolare riflessioni autonome, che possono - pur se espresse, come in queste poche righe, in un linguaggio non specialistico - aiutare a leggere la realtà in cui viviamo. Continua a pagina 2 Il corso organizzato dagli ordini professionali bergamaschi degli Ingegneri, dei Dottori Agronomi e Forestali e degli Architetti P.P. e C. e dall’Ordine Regionale dei Geologi si pone all’interno di un cammino d’aggiornamento avviato nel 2008 con il Corso di Orientamento al Progetto di Paesaggio. I temi trattati sono stati i seguenti: • quadro generale, potenzialità e limiti dell’ingegneria naturalistica, sua applicazione alla realtà lombarda; • territori montani e collinari, gli assetti idrogeologici: sistemazioni idraulico/forestali, instabilità e consolidamento dei versanti; • aspetti operativi: buone pratiche, strade silvopastorali, terre rinforzate; • ambiti fluviali: riqualificazione e regimazione dei corsi d’acqua; • reti irrigue: valorizzazione ambientale e fruizionale; • recuperi ambientali di cave e discariche; • gli ambiti urbani: microclima micropaesaggio e apparati verdi, le reti infrastrutturali, gestione sostenibile delle acque urbane; • applicazioni della I. N.: pianificazione e regole, Piano Territoriale Paesistico Regionale, PTC Provinciale, PGT comunali, Commissioni paesaggio, Comunità Montane, Parchi. L’approccio, coordinato tra le diverse discipline, coinvolge i diversi attori che con diversa formazione culturale e professionale e differenti ruoli si occupano della pianificazione, del progetto e dell’esecuzione di interventi sul territorio e incoraggia un mutamento in corso, ancora lontano dalla piena maturazione: la conciliazione fra tecnica e natura. Ci è sembrato utile strutturare il percorso avvalendoci della consulenza scientifica del Prof. Bischetti – docente di sistemazioni idraulico forestali e di idraulica agraria presso l’Università di Milano e dell’apporto culturale e dell’esperienza multidisciplinare dell’Ing. Di Fidio. Proprio quest’ultimo ha fornito un approccio storico - oggi abbastanza raro presso i tecnici – stimolando il dibattito circa l’identità, gli obiettivi e le prospettive dell’ingegneria naturalistica e delle discipline affini. Non si è trattato di mera opera d’erudizione, ma d’introdurre un criterio nuovo: dall’attenzione alla storia, al riconoscimento dei problemi attuali, all’utilizzo di tecniche che siano di nuovo strumenti al servizio delle politiche. Il termine Ingegneria Naturalistica è stato utilizzato in questo corso nella sua accezione più ampia e sono state sviluppate anche tematiche meno riconducibili alle metodiche dell’Ingegneria Naturalistica tradizionale SOMMARIO n°203 > > > > > > Editoriale: Elogio all’incompetenza Ingegneria Naturalistica Le radici italiane dell’ingegneria naturalistica L’uso dell’ingegneria naturalistica nei territori montani e collinari La riqualificazione dei corsi d’acqua secondo il principio della ricostruzione morfologica L’impiego dei geosintetici nelle opere di sostegno in terra rinforzata: criteri di progettazione e realizzazioni p. p. p. p. p. 1 1 3 5 6 p. 8 > > > > Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo Ordine degli Architetti Pianificatori Paessaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Bergamo Ordine Dei Geologi della Lombardia IL QUADRO GENERALE Relatore: Ing. Mario Di Fidio TERRITORI MONTANI E COLLINARI Relatori: Prof. Gian Battista Bischetti / Ing. Pierpaolo Fantini AMBITI FLUVIALI - RETI IRRIGUE - RECUPERI AMBIENTALI Relatori: Prof. Vincenzo D’Agostino / Arch. Fausto Cremascoli / Dott. Geol. Maurizio Facchin AMBITI URBANI E PERIURBANI DI TRASFORMAZIONE Relatori: Dott. Paolo Abram / Prof.ssa Laura Gatti / Ing. Mario Di Fidio INGEGNERIA NATURALISTICA NELLE ANALISI, NELLE PIANIFICAZIONI E NELLE PROGRAMMAZIONI TERRITORIALI Tavola rotonda con: Prof.ssa Gioia Gibelli / Prof. Renato Ferlinghetti / Dott. Fabio Palmeri / Ing. Claudio Merati VISITA in Val Cavallina gruppo informazione OAPPeC di Bergamo Elogio all’incompetenza “INGEGNERIA NATURALISTICA fattori strutturali e vegetazionali, ambientali e paesaggistici” grafica Appunti del Direttore Finito di stampare ottobre 2011 nel tentativo di sollecitare potenzialità professionali e – se vogliamo - creative, di acquisire maggiori conoscenze, utili nell’elaborazione tecnica dei progetti, e di suggerire ai committenti - in particolare agli enti locali - soluzioni realmente innovative. È un problema di metodo, nella formazione, nella ricerca e nelle applicazioni concrete sul territorio. In realtà ci troviamo di fronte non ad una sola, ma ad un insieme di discipline e di professioni in corso d’evoluzione, ciascuna delle quali ha la sua storia, un preciso assetto in ambito universitario e normativo, le sue potenzialità, che richiamano rapporti sinergici con le altre discipline affini, chiamate a collaborare per conciliare le costruzioni dell’uomo con la natura e il paesaggio (Ing. Di Fidio). In questo numero del Notiziario proponiamo alcuni articoli su questo tema specifico che forniscono un panorama, ancorché parziale, di queste tecniche, mirato soprattutto alla difesa del suolo e alla tutela dell’ambiente, ma inerente anche agli aspetti tecnico-amministrativi, occupazionali e di formazione professionale degli operatori nell’ingegneria naturalistica nella nostra Regione. Ing. M. Ratti Carrara - Ing. S. Sottocornola (Organizzatori del corso) Ing. E. Pessina Problematiche esecutive nell’utilizzo dell’arboricoltura Quale futuro per le discipline idrauliche presso i corsi di Laurea in Ingegneria? Bioingegneria “le attività della commissione” Prima riunione di coordinamento delle Commissioni Bioingegneria degli Ordini degli Ingegneri Italiani > La resistenza fisica e psicologica nella maratona e nell’ultramaratona” > I dieci anni del Dipartimento di Bioingegneria Istituto Mario Negri di Bergamo > Il Primo Forum Globale sui Dispositivi Medici organizzato dall’OMS p. 9 p. 10 p. 11 p. 11 p. 12 p. 14 p. 15 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO Segue da pag. 1 - Appunti del direttore La prima considerazione fatta è che ci troviamo di fronte un titolo chiaramente provocatorio: basta fare riferimento alla definizione di competenza accettata dagli autori: “la competenza è la capacità degli individui di combinare, in modo autonomo, tacitamente o esplicitamente e in un contesto particolare, i diversi elementi delle conoscenze e delle abilità che possiedono”. Se l’incompetenza è la negazione di competenza, sicuramente non può essere elogiata; vederla come un valore sarebbe come togliere ogni credibilità ad ogni mestiere o professione esercitata singolarmente. Non me l’immagino un malato che sceglie un medico perché incompetente! Se l’incompetenza è intesa come insoddisfazione, come tensione verso livelli superiori di competenza, un’ammissione del bisogno di accrescimento di conoscenza e di esperienza (abilità), allora sarebbe bene specificarlo subito in un sottotitolo, se non fosse altro, per non indurre a sorridere di autocompiacimento i tanti incompetenti a cui, sistemi socioeconomici mal gestiti o singoli clienti ignari, affidano compiti decisionali. Seconda considerazione: esistono sicuramente vari livelli di competenza, quella “metodologica” di individuare gli approcci corretti ai problemi, e quella “tecnologica” di dare soluzioni fattibili agli stessi. Per problemi attinenti, se vogliamo, a sistemi non complessi, la competenza si può trovare in una sola persona. Per affrontare i sistemi complessi, sono indispensabili “organizzazioni” complesse, che si evolvono e si adeguano con i sistemi stessi, caratterizzate, per un certo verso, dalla stessa impredicibilità. Si potranno o si dovranno gerarchizzare tali organizzazioni, ma se al loro interno sono indispensabili le competenze per individuare i “metodi di approccio” ai problemi posti dai sistemi complessi, lo sono altrettanto quelle capaci di progettare “le soluzioni specifiche” per risolverli. Infatti, è solo nel confronto con la realtà su cui si va ad incidere che si può verificare la bontà del metodo: nello scambio di informazioni è implicita la necessaria adattività dell’organizzazione. Scavando nella memoria, potrei dire che una delle prime organizzazioni adattive complesse ( o sistema adattivo complesso, se preferiamo) è stata la task-force voluta da Roosvelt, dopo Pearl Harbor, per combattere la guerra contro i giapponesi; task-force costituita da un “gruppo cibernetico”, cui facevano parte competenti nelle più svariate discipline - comprese quelle umanistiche - che suggeriva i “metodi di approccio”, e dall’ammiragliato al comando della flotta americana del Pacifico, cui spettavano le “soluzioni specifiche” da adottare volta per volta. Sistema adattivo complesso è sicuramente quello 2 della pianificazione della produzione di energia, con i sui due momenti: quello dei metodi di approccio e quello delle soluzioni specifiche. L’oggi ci insegna ancora una volta che le soluzioni specifiche (un sistema di raffreddamento a prova di eventi catastrofici, discontinuità in termini matematici) sono in grado di mettere in crisi, quindi di essere ri-adattate, le conclusioni tratte da metodi di approccio, che siamo costretti a credere siano stati corretti, almeno alla luce delle conoscenze e competenze possedute al momento. Sistema adattivo complesso è altrettanto sicuramente quello educativo, su cui in un prossimo numero varrà la pena di spendere qualche parola. Terza considerazione: torniamo al problema energetico e concentriamoci un momento sulla sua soluzione, affidata in Italia da 25 anni a questa parte e prevedibilmente per altrettanti anni futuri, all’esito di un referendum. In altre parole, una questione così delicata viene data in pasto all’estro del momento di quella che in una organizzazione adattiva complessa verrebbe classificata come la componente meno qualificata di tutto il sistema. Il popolo! Un popolo bombardato e frastornato da una massa incredibile di informazioni distorte e incomprensibili, tese a terrorizzarlo, adescato con miraggi di panacee miracolose; un popolo chiamato a decidere di adottare soluzione che gli sono state martellate in testa come potenzialmente molto pericolose per la sua salute! Come si può pensare che possa decidere serenamente, quand’anche lo volesse fare? Nel dubbio, si mette dalla parte del sicuro: e chi se la sente di dargli torto? Se il ricorso o meno all’energia atomica fosse veramente per l’Italia una improcrastinabile questione di vitale importanza, e non solo il timore (per gli economisti) di perdere ulteriori quote di competitività per il futuro - futuro, che al di là di tante parole, preoccupa molto poco - e, anno per anno, qualche grammo di benessere collettivo, ci sarebbe da mettere in dubbio la validità dell’impianto dell’istituto referendario, che si presta (la cosa è sotto gli occhi di tutti) a strumentazioni politiche che nulla hanno a che vedere con la questione su cui verte. Ma in questo sta la democrazia e, dato che sembra impossibile inventare qualcosa di meglio, ringraziamo di averla! Bell’Italia, amate sponde….! Quando il Fato, che regge il destino di tutto e di tutti, decise che era ora di dividere il mondo in nazioni e si mise al lavoro, si rese subito conto che non era poi così facile tracciare i loro confini.”Fossero tutte come quella bella penisola a forma di stivale che sembra inciampare in un grosso sasso, entrambi emergenti da un mare culla di antiche civiltà!” deve aver pensato. “una bella riga sui displuvi della maestosa catena di monti a nord e me la cavo in quattro e quattr’otto”. Qualche dubbio sulla Sardegna e sulla Corsica deve averlo avuto, poi prevalse il criterio una per uno non fa male a nessuno, ed il gioco fu fatto. Forse è solo per questa decisione presa dall’alto e comunicata, tramite aruspici, a un manipolo di eletti - fra cui non pochi nostri concittadini - che centocinquanta anni fa, nonostante gli italiani, nacque l’Italia. Circa centocinquanta anni dopo questo fausto evento, vi porto alle Scuderie del Quirinale, qualche giorno dopo l’apertura della mostra “1861- I pittori del Risorgimento”. Prima delusione: sale vuote, in assoluto contrasto con il normale affollamento, se non superaffollamento. Neppure una scolaresca guidata da quei professori che hanno scoperto tardivamente che è doveroso ricordare che l’Italia Unita è la nostra Patria, e non solo il nostro paese, per di più denigrato. Seconda delusione: l’inno pittorico alle gesta che hanno portato all’unità d’Italia non è assolutamente al livello dei forti ideali (di pochi o di tanti, ognuno ha le sue opinioni), e del sacrificio dei tanti che sono stati chiamati alle armi per realizzarla. Causa forse il gigantismo delle tele, che impedisce di cogliere il pregio di qualche dettaglio; tant’è vero che il secondo piano della mostra, dedicato ai quadri di dimensioni più ridotte, può sollevare un po’ il morale del visitatore. Terza delusione, la più cocente: nell’ultima sala sono esposti due quadri di Fattori, “Lo staffato”e “Lo scoppio del cassone”, davanti ai quali vale la pena di soffermarsi. Sono del 1880, quindi un poco tardivi rispetto al proclama dell’unità e alla fine della terza guerra d’indipendenza. Il modo di dipingere di Fattori è inconfondibile; la drammaticità delle due tele, specie dello staffato, l’articolazione, meglio la “disarticolazione” delle braccia intrappolate in una divisa da cui sporgono due mani sanguinanti che cercano di artigliare il terreno non è nel suo dna, specie se il riferimento sono ricordi di battaglie forse solo immaginate. Mi sono detto: Fattori è andato in Spagna ed è stato impressionato da Goya, e si è cimentato col suo stile; con ciò credendo di avere avuto un pensiero originale. Neanche questa piccola soddisfazione. Tornando a Bergamo, leggendo sull’aereo l’opuscolo che illustra la mostra, assieme alla descrizione dei bersaglieri che si precipitano al varco di Porta Pia con la baionetta “sguainata” - l’italiano non è ancora una lingua così conosciuta come potremmo credere, anche fra le classi colte - proprio in ultima pagina trovo: “due quadri (quelli di Fattori), la cui forza di denuncia è stata paragonata a quella delle incisioni di Goya dedicate ai “Disastri della Guerra”. Vale ancora la pena pensare, quando ti dicono già tutto? Gen Guala INGEGNERI BERGAMO ORDINE DEGLI INGEGNERI DELLA PROVINCIA DI BERGAMO Tel. 035 223234 - Fax 035 235238 www.ordineingegneri.bergamo.it [email protected] COMPOSIZIONE DEL CONSIGLIO DELL’ORDINE QUADRIENNIO 2009-2013 Consiglieri PRESIDENTE: Ing. Donatella GUZZONI VICE PRESIDENTE: Ing. Umberto NORIS VICE PRESIDENTE: Ing. Barbara RATTI CARRARA SEGRETARIO: Ing. Diego FINAZZI TESORIERE: Ing. Emilia RIVA CONSIGLIERI: Ing. Giuseppe BASSI Ing. Carlo BERIZZI Ing. Iunior Andrea BIZIOLI Ing. Sandro BRIGNOLI Ing. Michele CORTESI Ing. Cristina MARSETTI Ing. Sebastiano MOIOLI Ing. Enzo PREVITALI Ing. Massimiliano RIZZI Ing. Marco VERDINA INGEGNERI BERGAMO Anno XX - N° 203 Spedizione in abbonamento postale 70% Filiale di Bergamo Notiziario trimestrale d’informazione per gli iscritti all’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo Direttore responsabile GUALA GENNARO Comitato di redazione BRIGNOLI SANDRO CALDERONI GIANFRANCO CANEVA ZANINI ALESSANDRO (Coordinatore) MANZONI ANNA PESSINA EGIDIO PREVITALI ENZO TESTOLIN GIOVAN BATTISTA Segreteria di redazione SIMONA FOPPA ADRIANA MIGNANI ANTONELLA PESENTI ENRICA REGONESI Il notiziario è aperto alla collaborazione di tutti gli ingegneri iscritti all’albo. Gli articoli firmati esprimono il pensiero degli autori; la loro pubblicazione non implica approvazione dei giudizi espressi dagli autori e pertanto non impegna nè il Consiglio dell’Ordine, nè il Gruppo Redazionale. I testi degli articoli inviati per la pubblicazione non si restituiscono, anche se non pubblicati. Il notiziario accoglie e pubblica i notiziari delle associazioni e dei sindacati di categoria. Direzione e Amministrazione Passaggio Canonici Lateranensi, 1 24121 Bergamo Autorizzazione del Tribunale di Bergamo Dott. Ing. Gennaro Guala N° 10 del 31/07/1975 Impaginazione, stampa, postalizzazione e inserzioni pubblicitarie Tel. 035 681322 www.cpzgroup.com DIRETTORE INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO Le radici italiane dell’ingegneria naturalistica Una considerazione storica dell’ingegneria naturalistica, crescono sulle sponde. e trasformazioni colturali più rispettose della difesa che risalga ai secoli anteriori al Novecento, è ricca Egli, infatti, preferisce materiali più pregiati e costosi, che del suolo, riducendo campi e vigneti a favore d’uliveti d’insegnamenti: la conoscenza della storia è utile vengono da lontano, come le piante mature di castagno e praterie per l’allevamento del bestiame: una visione perché ci consente di comprendere meglio i problemi e quercia (all’epoca, rare!) e il sasso di cava; inoltre equilibrata e rispettosa delle esigenze dell’uomo e che stiamo vivendo e le possibili evoluzioni future, che usa gabbioni di vimini ripieni di sassi (gli antenati dei insieme della natura. dipendono anche dalle nostre scelte. In generale, oggi si gabbioni con filo di ferro), scogliere di massi naturali e Più di un secolo dopo, quando il veneto Francesco Mengotti riconosce l’antichità di queste esperienze, ma si tende cantoni di smalto (buzzoni in calcestruzzo, costruiti con scrive il suo trattato (Idraulica fisica e sperimentale, a sottovalutarne l’importanza, con due argomentazioni: sasso e calcina), inventati dall’amico Braccio Manetti. 1810), il dissesto idrogeologico si è notevolmente esteso i caratteri naturali e artigianali non erano una scelta, Queste forme moderne di sistemazione fluviale si ed interessa anche tutti i paesi dell’arco alpino. L’autore essendo determinati dall’economia, che in passato affiancano alle tradizionali steccate o passonate o descrive in termini efficaci le condizioni di devastazione poteva avvalersi di numerosa manodopera a buon palafitte di legname, che richiedono l’impiego di del territorio dal Piemonte alla Carnia, la miseria e mercato, ma era costretta ad utilizzare materiali poveri numerosa manodopera, difficile da controllare e istruire il continuo pericolo della popolazione, la necessità d’origine locale, come il legname e il pietrame; le finalità e della cui abilità Viviani si fida poco; dunque non esiste di avviare una politica integrata di sistemazione del erano strettamente tecniche e locali, mancando idee e una sola, ma più categorie d’opere per la difesa spondale, territorio, sviluppo economico e redenzione sociale. programmi per la difesa e la riqualificazione ambientale con o senza parti viventi, flessibili e rigide e ancora una In questo quadro organico, egli illustra le sue personali dell’intero territorio. volta la scelta è fatta secondo valutazioni complesse, che esperienze sulle tecniche di cespugliamento dei versanti, La tesi prevalente sostiene dunque la linearità della storia ai nostri occhi appaiono singolarmente attuali. mediante pali e siepi vive, che chiama Gradinate (v. e l’assoluta modernità dell’ingegneria naturalistica, legata Veniamo ora alle finalità delle sistemazioni. La tesi cap. XVII Del modo, col quale, imitando la natura, si al movimento ambientalista: essa da vincolo economico prevalente vuole che esse, nel passato, abbiano avuto possono ristabilire le selve sulle ignude e ripide coste diventa una scelta, da intervento puntuale si sviluppa in esclusivamente un significato tecnico locale, per assumere delle montagne), associate alle opere idrauliche (le Serre un programma complessivo. anche un valore territoriale e ambientale soltanto nel o Chiuse) consigliate da Viviani, di cui rileva i limiti In realtà la letteratura dei secoli scorsi ci presenta una secondo Novecento, collegato alla riqualificazione di tecnici ed i costi, sostenendo la necessità di un nuovo storia più complessa e ricca di sfumature, che non sembra vasti territori; anche questa tesi è smentita dalla storia. approccio di tipo estensivo alla sistemazione: In questo lineare ma circolare, essendo caratterizzata da corsi e Il testo di Viviani (oggi quasi dimenticato) è divenuto stato di cose cerchiamo di sostituire un altro piano, che ricorsi; naturalmente occorre guardarsi dal pericolo famoso fino all’Ottocento perché anticipa la politica di richieda una spesa moderata, che sia di facile esecuzione, dell’anacronismo. bonifica integrata dei bacini idrografici, associando la che convenga in tutt’i luoghi, che produca il contemplato Innanzi tutto, anche ammettendo, entro certi limiti, il montagna alla pianura, per rimediare a forme di dissesto effetto nel più breve tempo possibile, talché sentir ne peso dei fattori economici sopra accennati, non si può idrogeologico dovute all’uomo, nel Seicento già presenti possa il beneficio anche la generazione vivente. sottovalutare l’importanza, per la storia della tecnica, in Toscana, a causa della crisi economica, che aveva La scelta di modalità costruttive, che oggi chiamiamo di pratiche secolari, che hanno consentito di sviluppare ridotto le manifatture ed indotto investimenti agricoli d’ingegneria naturalistica, non è dunque un ripiego per empiricamente e con continuità fino ai giorni nostri errati sulle colline e le montagne. mancanza d’alternative, ma la valutazione razionale di (anche se in luoghi e con finalità diverse) le tecniche Con stupore si legge la descrizione particolareggiata, che misure, che consentono di ridurre le più costose opere dell’ingegneria naturalistica; ma c’è di più, perchè il Viviani ci ha lasciato d’opere moderne per la sistemazione geotecniche (briglie), comunque entro certi limiti contributo della vegetazione alla stabilità dei versanti e montana (come le Serre o Chiuse, coincidenti con le necessarie. delle ripe fluviali è riconosciuto con Nuovamente ritroviamo una lucidità e valutato criticamente nel dialettica tra diverse tipologie di contesto spaziale e temporale. sistemazione del territorio (che alla Ecco come si esprime il bolognese fine del secolo saranno associate nelle Domenico Guglielmini, nel suo “Sistemazioni idraulico – forestali”) e trattato Della natura de’ fiumi (1697), diverse categorie professionali, che a proposito dei ripari spondali, che ritroveremo più tardi nel confronto e resistono in modo flessibile all’azione nella collaborazione tra Genio Civile e corrosiva della corrente, contrapposti Corpo forestale e dobbiamo riconoscere ai ripari rigidi, ossia alle opere in che essa è sviluppata organicamente, muratura: Chi usa di fare i Ripari con nel quadro di una concezione generale, frasche d’arbori flessibili, che ponno nello stesso tempo sistemica, politica e radicarsi nel fondo, ha ragione di ideale, molto simile a quella moderna; praticar questo metodo, o in fiumi di potremmo dunque ricordare l’antico poco veloce corso, e torbidi; o in fiumi detto nihil sub sole novi. di corso molto veloce, che non tollerano Questo è il retroterra dell’epopea delle grandi ostacoli, ne’ quali la flessibilità sistemazioni montane, avviata su larga del resistente serve, a non dar pena scala in tutta Europa nella seconda al fondamento del riparo; e a poco a metà dell’Ottocento: una storia di poco può fare quello, che non farebbe successo, che anticipa il movimento un ostacolo più rigido, contro il quale ambientalista moderno e le nuove Lo scritto di Vincenzo Viviani operando gagliardamente la corrente, forme d’ingegneria naturalistica, con (1622- 1703), Sovrintendente alle acque del Granducato di Toscana, fonda le sistemazioni idraulico–forestali e la bonifica coordinata del territorio nell’ambito dei bacini idrografici (1688). facilmente lo svellerebbe: e in questo le quali oggi cerchiamo faticosamente Il trattato di Domenico Guglielmini (1655 – 1710), titolare della cattedra d’idrometria presso caso, quello, che si leva alla brevità di vincere (o meglio di non perdere l’Università di Bologna (la prima in Europa), fonda l’idraulica fluviale moderna, su principi del tempo, s’aggiunge alla sicurezza troppo rovinosamente!) la più difficile naturali (1697). dell’opera; ma si richiede maggiore, e battaglia dei dissesti, provocati dalla più lunga attenzione al mantenimento, società urbana ed industriale moderna. e protrazione del riparo. Esiste dunque un legame storico tra Da queste parole (e dall’insieme del testo, che fonda Briglie filtranti, e gli Scaricatoi, coincidenti con le Piazze l’ingegneria naturalistica e la tecnica e la scienza idraulica in modo magistrale l’idraulica fluviale moderna), è di deposito). italiane; emerge dal passato un rapporto assai stretto, che evidente che l’ingegnere idraulico del Seicento ha un Si potrebbe pensare che queste siano solo isolate col tempo diventa sempre più lasco, tra l’ingegnere e ampio spettro di conoscenze tecniche e scientifiche e sa applicazioni, ma pochi anni dopo Domenico Guglielmini architetto d’acque e la natura. scegliere tra diverse tipologie di ripari spondali, valutando (1697) scrive: Quindi è, che per impedire l’escavazioni E’ questa una vicenda che merita di essere approfondita, le caratteristiche del corso d’acqua, le esigenze più o superflue, e dannose, e i dirupamenti della terra ad perché investe l’identità di questa figura professionale, meno immediate di difesa del territorio, le modalità di esse succedenti, sono obbligati gli abitanti di fare, e che è molto cambiata nel corso dei secoli. costruzione e manutenzione: non esiste una sola categoria mantenere un’infinità di chiuse, che sono fabbriche, per Ci si deve chiedere perchè modalità costruttive, che oggi d’opere e la scelta non appare troppo condizionata dagli lo più, di legnami, o di sassi, le quali con la loro altezza sono chiamate d’ingegneria naturalistica, sono state col accennati fattori socio - economici. sostentano il fondo de’ torrenti alla necessaria altezza. tempo accantonate, per essere poi riscoperte nell’attualità, Lo scritto contemporaneo del toscano Vincenzo Viviani Da queste parole, sembra quindi che, alla fine del Seicento, grazie soprattutto ad una nuova sensibilità ambientale e (Discorso al Serenissimo Cosimo III Granduca di Toscana i manufatti per la sistemazione dei torrenti montani, che naturalistica, nata in un ambiente culturale diverso, e intorno al difendersi da’ riempimenti, e dalle corrosioni oggi chiamiamo Briglie, siano già molto diffusi in Italia. spesso in polemica con quello dell’ingegneria; ma ci de’fiumi, 1688) evidenzia un dibattito tra diverse scuole Ancor più ci stupisce la lucida preveggenza della strategia si deve anche chiedere se l’ingegneria è naturalistica di pensiero e l’emergere precoce di forme di sistemazione generale, illustrata dallo scienziato e ingegnere fiorentino soltanto, quando sa utilizzare in modo razionale le piante artificiale sorprendentemente moderne, accanto ad altre allievo di Galileo, che propone d’estendere la politica per lavori di consolidamento. più tradizionali. L’autore contesta i colleghi che scelgono, di bonifica dalla pianura (dove si era già affermata con Questa visione appare riduttiva sul piano culturale, se si per la difesa delle ripe dalla corrosione, i materiali più la tecnica della colmata) alla montagna, affrontando riflette che le sistemazioni idrauliche e idraulico - forestali, a buon mercato, ma dalle prestazioni mediocri, come il contemporaneamente complessi problemi economici e per avere successo, prima di tutto richiedono la conoscenza sasso d’Arno e le boscaglie di legno tenero di salice, che sociali. Viviani sostiene la necessità di rimboschimenti approfondita di processi morfologici complessi e potenti, Continua a pag. 4 3 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO Segue da pag. 3 - Le radici italiane dell’ingegneria naturalistica e rialzare i renai dove noi vorremo. Però è necessario primieramente ricordare i modi, co’ quali opera la natura per far somiglianti operazioni, e quali necessità la costringono a così operare. Basta un pignone (pennello) ben collocato perché col tempo un fiume diritto diventi serpeggiante (cosa veramente che ha del meraviglioso!). Si consideri che questo è il semplice rimedio oggi applicato per rinaturalizzare molti corsi d’acqua fortemente modificati dall’uomo, dopo i primi maldestri tentativi di ricostruire in modo artificiale forme naturali, mediante costosi e imperfetti progetti dettagliati, che avevano la presunzione di far meglio della natura. Si scopre dunque che questa era un’arte già nota nel Seicento, quando si utilizzava la stessa corrente, opportunamente indirizzata, durante le piene, per lo scavo di rialti e renai o viceversa il riempimento di luoghi bassi, o addirittura per lo scavo dei diversivi, come attuato da G.B. Barattieri con l’Adda, per difendere la fortezza di Pizzighettone. Si noti che, in alternativa, queste operazioni avrebbero dovuto essere realizzate a mano, da una moltitudine di braccianti e tale difficoltà aguzzava l’ingegno. Nel Seicento l’idraulica, scienza nata in Italia con la scuola di Galileo (Benedetto Castelli, 1628), era ancora poco sviluppata dal punto di vista fisico - matematico, ma aveva già raggiunto traguardi notevoli da quello naturalistico. Questa bipartizione della scienza idraulica in due rami (matematico e naturalistico) è lucidamente descritta da Giulio De Marchi, il quale, nella prefazione alla 1a edizione del suo trattato d’idraulica (1929), scrive: L’idraulica come studio del movimento dei liquidi rientra nel quadro della meccanica e in quello più vasto della fisica, nel quale, pur avendo basi essenzialmente sperimentali, tende ad assumere l’assetto deduttivo che caratterizza le scienze pure. Invece, i problemi attinenti al movimento delle acque naturali hanno in comune con le scienze naturali, specialmente con la geofisica, quella caratteristica di dipendenza da un numero molto grande di fattori, che ostacola ogni lavoro di sintesi e raramente consente le rappresentazioni analitiche. Accanto all’idraulica che si chiama matematica e che noi preferiamo chiamare S I S T E M I D I C O N S O L I D A M E N T O fisica, esiste così un’idraulica S T R E N G T H E N I N G S Y S T E M S naturale, che procede con metodi N A C H B E W E H R U N G S Y S T E M E propri, appoggiandosi quasi R E S TA U R AT I O N E T C O N S O L I D A T I O N esclusivamente all’osservazione R E F U E R Z O Y R E PA R A C I O N E S T R U C T U R A L e all’esperienza, e richiede, in chi se ne occupa, piuttosto le doti di intuito, proprie al naturalista o al medico che le attitudini deduttive, caratteristiche del matematico. In queste parole si sente il profondo legame con la tradizione idraulica italiana, soprattutto attraverso la lettura di Domenico Guglielmini, Tecnologie per il consolidamento di cui De Marchi scrive nel 1947 la biografia. Ricordando i principi fondamentali per la sistemazione dei corsi d’acqua, enunciati dal grande scienziato bolognese, nel suo magistrale trattato, soggiunge: poco ad essi hanno saputo aggiungere i due secoli e mezzo ormai trascorsi da quando il trattato vide la luce. Tornando all’evoluzione storica, si osserva che l’idraulica matematica, dalla fine del Settecento (con la scoperta della legge del moto uniforme) acquisisce un peso crescente, mentre l’idraulica naturale applicata ai corsi d’acqua, che si era già affermata nel Seicento, non progredisce con la stessa intensità, ed anzi è studiata da pochi. Appare dunque evidente che chi vuole progettare ed eseguire correttamente le opere d’ingegneria naturalistica nel settore dei corsi d’acqua, deve innanzi tutto conoscere l’idraulica naturale e quindi diventare un ingegnere naturalista in un senso più profondo e conforme alla tradizione dell’idraulica fluviale italiana. Si deve anche riflettere che la rinaturazione dei corsi d’acqua, promossa dalla Direttiva - quadro europea sulle acque (2000/60/CE), indica la maturazione di nuove S I S T E M I D I F I S S A G G I O applicazioni, le quali non rientrano nella definizione canonica dell’ingegneria naturalistica, c o n s o l i d a m e n t o A S S O C I A T O M E M B E R O F legata al consolidamento delle sponde e dei versanti e tuttavia sono intimamente coerenti con w w w . b o s s o n g . c o m la figura dell’ingegnere idraulico naturalista della tradizione BOSSONG S.p.A. Sistemi di fissaggio e consolidamento italiana. Zona Industriale 2 - Via E. Fermi, 51 - 24050 GRASSOBBIO (Bergamo) Italy - Tel +39 035 3846 011 - Fax +39 035 3846 012 - [email protected] che governano le trasformazioni del territorio. Basti pensare all’equilibrio dinamico tra le forze fisiche, che presiedono alle corrosioni ed alle deposizioni negli alvei dei corsi d’acqua, fenomeni naturali, che l’ingegnere idraulico ha imparato precocemente a studiare in modo razionale, nelle loro molteplici manifestazioni. Trattati come quelli di Giambattista Barattieri a Lodi (Architettura d’acque, 1656), Famiano Michelini a Firenze (Della direzione de’ fiumi, 1664) e Domenico Guglielmini a Bologna (Della natura de’ fiumi, 1697) sono stati scritti da ingegneri, che erano anche naturalisti, perché fondavano le sistemazioni proposte sull’attenta osservazione della natura; Guglielmini (che era matematico, idraulico, medico e chimico) afferma di voler anatomizzare i corsi d’acqua. In Italia, il valore attribuito all’esperienza sul territorio, da parte dell’ingegnere – architetto d’acque, era altissimo. In questi autori troviamo tesi stupefacenti. Afferma per esempio Michelini: Se noi avessimo modo di servirci delle stesse forze della natura, potremmo a nostro beneplacito spianare, strength&save ® Confindustria Unione Industriali European Consortium of Anchors Producers Associazione Italiana per il restauro architettonico, artistico, urbano Ing. Mario Di Fidio 4 INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO L’uso dell’ingegneria naturalistica nei territori montani e collinari Le caratteristiche Secondo von Kruedener (1951 cit. Schiechtl e Stern, 1992) l’Ingegneria Naturalistica è “una tecnica costruttiva che si avvale di conoscenze biologiche nell’eseguire costruzioni in terra ed idrauliche e nel consolidare versanti e sponde instabili. Per questo scopo è tipico l’impiego di piante e di parti di piante, messe a dimora in modo tale da raggiungere nel corso del loro sviluppo, sia da sole, come materiale da costruzione vivo, sia in unione con materiale da costruzione inerte, un consolidamento duraturo delle opere. L’ingegneria naturalistica non va intesa come alternativa, ma come complemento necessario e significativo ai modi di costruzione ingegneristici, puramente tecnici.” La maggior parte delle tecniche che sono oggi ricomprese nell’ambito dell’Ingegneria Naturalistica provengono dalla tradizione delle Sistemazioni Idraulico Forestali e molti tendono a far coincidere queste due locuzioni. Sebbene l’origine dell’Ingegneria Naturalistica non sia ancora del tutto chiarita è comunque sicuramente posteriore alla nascita delle Sistemazioni Idraulico Forestali. Quest’ultime, infatti, possono essere fatte risalire alla fi ne dell’800 (anche se ve ne sono tracce già alla fi ne del ‘600) quando si viene a formare un corpo di letteratura consistente e comune a tutto l’arco alpino. Ciò che Sistemazioni Idraulico Forestali e Ingegneria Naturalistica hanno in comune è l’impiego di materiali inerti rustici e prevalentemente di origine naturale, in abbinamento con la vegetazione. Le due discipline, tuttavia, non esauriscono con questa sovrapposizione i lori rispettivi contenuti. Le Sistemazioni Idraulico Forestali, infatti, utilizzano anche altri materiali e tecniche per contrastare i fenomeni di dissesto montano (ad esempio le briglie di consolidamento e le briglie selettive), mentre l’Ingegneria Naturalistica ha ambiti d’applicazione più estesi di quello strettamente montano che caratterizza le Sistemazioni Idraulico Forestali (ad esempio il consolidamento e la protezione delle scarpate connesse alle infrastrutture). Le caratteristiche peculiari dell’Ingegneria Naturalistica fanno riferimento alle molteplici funzioni che la vegetazione conferisce alle opere che la impiegano. In aggiunta alla funzione stabilizzante, che distingue l’Ingegneria Naturalistica da altri usi della vegetazione in opere tecniche (es. di verde tecnico o di progettazione del paesaggio), infatti, le opere di Ingegneria Naturalistica esplicano anche funzioni di tipo paesaggistico e di tipo naturalistico. basati sulla concentrazione ormonale che attiva cellule indifferenziate. Tali cellule, in linea di principio presenti in tutte le piante, quando si opera in pieno campo non possono essere attivate in egual misura in tutte le specie, ma solamente in alcune e segnatamente dalla maggior parte delle specie (ma non tutte) del genere Salix. Oltre alla specie, proprio per i citati meccanismi di tipo ormonale, risultano fondamentali per la radicazione avventizia i periodi di prelievo ed utilizzo (durante il riposo vegetativo) ed alcune piccole ma importanti avvertenze nella conservazione e messa a dimora del materiale stesso (evitare l’essiccamento, la marcescenza, i traumi meccanici, ecc.). Un approccio pragmatico alle tecniche Come si è accennato, la maggior parte delle tecniche oggi utilizzate dall’Ingegneria Naturalistica provengono dalla tradizione delle Sistemazioni Idraulico Forestali. Ciò che differenziava il loro impiego nell’uno e nell’altro campo è la fi nalità; nel caso dell’Ingegneria Naturalistica, la vegetazione ha un significato legato alla protezione della natura e dell’ambiente, mentre nelle Sistemazioni Idraulico Forestali esso traeva origine da motivazioni di carattere eminentemente economico (materiale a basso costo) e pratico (materiale facilmente reperibile in posto). Oggi le motivazioni di carattere ambientale e paesaggistico sono divenute preminenti anche nel campo sistematorio (si parla infatti di Sistemazioni Idraulico Forestali con tecniche di Ingegneria Naturalistica). In tale prospettiva occorre vedere le tecniche ereditate dalle Sistemazioni Idraulico Forestali in chiave pragmatica ed alla luce delle moderne conoscenze, dei nuovi materiali a disposizione e delle nuove capacità tecniche che consentono grandi movimentazioni di terreno e un’organizzazione di cantiere profondamente differente da quella tradizionale. Ecco che talune tecniche che avevano senso ed utilità oltre un secolo fa, lo perdono oggi ed è inutile se non controproducente riproporle oggi, come invece avviene in molta della manualistica in circolazione. La progettazione Si sente spesso dichiarare che le opere di Ingegneria Naturalistica non si possono progettare perché mancano adeguati schemi progettuali. Se ciò può essere considerato ancora vero per alcune opere (ad esempio la grata viva), così non è per la maggior parte di quelle opere che ha oggi senso realizzare. I limiti d’impiego La funzione stabilizzante delle opere realizzate secondo le tecniche dell’Ingegneria I più recenti risultati della ricerca scientifica, infatti, mettono a disposizione valori Naturalistica trova precisi limiti d’applicazione in relazione ai processi di degrado della coesione radicale aggiuntiva per numerose specie di piante arbustive ed arbofisico del territorio che stanno alla base delle instabilità che si vuole sanare, e che nei ree, e forniscono schemi di calcolo di opere che impiegano talee e piantine radicate territori montani e collinari sono spesso particolarmente severe. La corretta appli- quali le gradonate. Nel caso di palificate e palizzate poi, è sufficiente fare riferimento cazione di queste tecniche, quindi, richiede una preliminare ed attenta valutazione ai più elementari schemi della statica che permettono di dimensionare le opere a dei processi in atto, pena il fallimento totale o parziale dell’intervento realizzato. In gravità. Opere quali le terre rinforzate, infi ne, sono da tempo oggetto di sofisticate particolare, occorre tenere conto che la stabilità dei versanti e delle scarpate con- procedure di calcolo. ferita con opere che impiegano vegetazione, in special modo nel lungo termine, è In defi nitiva, per la maggior parte delle opere di Ingegneria Naturalistica è oggi spesso legata all’azione dell’apparato radicale che solitamente non riesce a superare possibile procedere ad una corretta progettazione, che diviene assolutamente indi1-2 m di profondità. Un corretto impiego delle tecniche di Ingegneria Naturalistica, spensabile (oltre che dovuta a termini di legge) per garantire il successo delle opere, di conseguenza, è limitato ai movimenti di massa di tipo superficiale e ai fenomeni specialmente nell’ambito collinare e montano dove le forze in gioco possono essere di erosione superficiale. Un ulteriore limite nell’applicazione delle tecniche che pre- considerevoli. vedono l’impiego di vegetazione si ha quando s’interviene sulla protezione spondale. A B Non bisogna mai dimenticare, infatti, che è la crescita della vegetazione inserita nelle opere esercita un’azione di rallentamento della corrente, con conseguente riduzione della portata che può transitare nella sezione data. La vegetazione spondale, infi ne, se lasciata crescere liberamente senza interventi di manutenzione può evolvere verso forme arboree che possono costituire un serio pericolo in occasione di eventi di piena eccezionali, quando rami e interi fusti possono essere spezzati dalla forza della corrente e ostruire l’alveo in corrispondenza degli attraversamenti. La scelta e l’utilizzo delle piante L’utilizzo delle piante come materiale da costruzione vivo consente, come detto, di avere opere in grado di esercitare molteplici funzioni. Al tempo stesso, tuttavia, l’impiego di elementi vivi presenta una serie di criticità cui prestare la dovuta attenzione pena il fallimento dell’intervento. Oltre ad un’accurata scelta delle specie da impiegare (che dovrebbe essere supportata da studi specialistici) occorre anche avere sempre presente i meccanismi con cui le piante inserite nelle opere si affermano e sviluppano. In particolare, la maggior parte delle opere impiega il materiale vegetale sotto forma di talee e talvolta di giovani piantine. Per il successo di entrambe queste forme vegetali risulta fondamentale la radicazione avventizia, che è regolata da meccanismi Figura a) gradonata dell’età di 20 anni circa, Figura b) schema di calcolo della gradonata (Bischetti et al, 2010) Gian Battista Bischetti Professore Associato di Idraulica agraria e Sistemazioni idraulico forestali presso l’Università degli Studi di Milano – [email protected] 5 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO La riqualificazione dei corsi d’acqua secondo il principio della ricostruzione morfologica La delimitazione della zona territoriale influenzata direttamente da un corso d’acqua è stata progressivamente oggetto di un processo di revisione critica che ha coinvolto, oltre che la comunità scientifica internazionale (Brookes e Shields, 1996), anche un aggiornamento normativo della realtà italiana. E’mutato in modo sostanziale l’approccio culturale e scientifico per la definizione, nel senso più esteso del termine, di alveo fluviale. Il Testo Unico sulle opere idrauliche (25 luglio 1904, n.523) definiva l’alveo di un fiume in modo piuttosto rigido parlando di sponde fisse o comunque di linee di delimitazione determinabili secondo la discrezione dei Prefetti. Successivamente, con l’acquisizione di una più consistente mole di dati da parte del Servizio Idrografico Nazionale, la definizione di alveo demaniale è stata fatta coincidere con la fascia territoriale del corso d’acqua interessata da 75 eventi di piena su 100 (alveo di piena ordinaria). In seguito (leggi 36 e 37 del 5 gennaio 1994) è stato affermato, almeno in linea di principio, un utilizzo delle acque superficiali e sotterranee “secondo criteri di solidarietà”, e senza pregiudicare “la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrologici”. Sono stati inoltre attribuiti al demanio dello Stato i tratti d’alveo ed i terreni golenali abbandonati, nonché le isole fluviali di neoformazione. Le iniziative legislative sopra menzionate si sono ripercosse nell’azione governativa con l’introduzione dei concetti di rinaturalizzazione e riqualificazione da eseguire per la salvaguardia dell’habitat fluviale. Nella comunità scientifica internazionale è oramai invalso l’uso del termine “river restoration” per indicare le misure che inducono il ritorno del corso d’acqua allo stato funzionale e strutturale antecedente all’intervento di disturbo dell’uomo. È stato anche introdotto il concetto di “ricostruzione morfologica” (D’Agostino, 1996; Lenzi et al., 2000), ad indicare come il punto obbligato per una ricreazione dell’ambiente fluviale sia proprio la lettura della morfologia che compete al tratto di corso d’acqua oggetto dell’intervento e la successiva ricostituzione di questo stato morfologico. La direttiva in materia di attività estrattive emanata dalla Autorità di Bacino del Po (n.16 del 18-07-1994) indica che gli “interventi di rinaturazione degli ambiti fluviali” devono essere “prioritariamente finalizzati alla riqualificazione e valorizzazione ambientale del corso d’acqua, con particolare attenzione al mantenimento ed ampliamento delle aree di esondazione” e “la riattivazione o la ricostruzione di ambienti umidi, il ripristino e l’ampliamento delle aree a vegetazione spontanea”. La direttiva 2000/60/CE de Parlamento Europeo, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque, individua, fra gli elementi qualitativi per la classificazione dello stato ecologico dei fiumi, i seguenti aspetti idromorfologici a sostegno degli elementi biologici: a) il regime idrologico, che comprende massa e dinamica del flusso idrico e connessione con il corpo idrico sotterraneo (scambi con la falda); b) la continuità fluviale, ovverosia il non interrompere la continuità longitudinale del corso d’acqua sia per quanto riguarda il deflusso sia per quanto riguarda il 6 naturale dinamismo biologico e vegetazionale; c) le condizioni morfologiche, che sono costituite principalmente da variazione della profondità e della larghezza del fiume, struttura morfologica e substrato dell’alveo, struttura della zona ripariale. Un piano di ricostruzione morfologica e di rinaturalizzazione deve essere preceduto dal riconoscimento delle fasce di influenza del corso d’acqua per una delimitazione delle aree di attuazione dell’intervento (sistemazione idraulica) e di salvaguardia ambientale (piano gestionale). Una proposta di definizione di tali fasce di pertinenza fluviale, denominate “river corridor” in letteratura anglosassone, è stato oggetto anche in Italia di alcune proposte metodologiche. Govi e Turrito (1994) individuano le fasce di pertinenza, oltre che nell’alveo inciso, in una particolare porzione di terreno limitrofo. Quest’ultimo è interessato da piene con una frequenza tale da mantenere dinamicamente inalterata la morfologia d’insieme e risultare comunque conservativa per le funzioni biologiche dell’ambiente ripariale. Interessante è anche l’approccio geomorfologico proposto da Dutto (1995) per l’approfondimento delle zone di competenza fluviale; esso si impernia su tre principali fasi di studio: 1) analisi dei sistemi fluviali o riconoscimento lungo il collettore degli alveo-tipi rappresentativi; 2) studio del comportamento degli alveo-tipi in condizioni di piena; 3) riconoscimento delle tendenze evolutive per almeno gli ultimi 100 anni. Una certa attenzione richiede l’applicazione del concetto di pertinenza fluviale ai corsi d’acqua montani a carattere torrentizio. La fascia di pertinenza dei torrenti montani, che presentano alvei con un certo grado di incisione, può infatti risultare troppo limitata, se il suo riconoscimento viene condotto senza tenere conto della forte dinamicità dei processi erosivi o deposizionali che possono attivarsi. La continuità morfologica di un corso d’acqua montano è anche condizionata da fattori esterni ricorrenti, quali i restringimenti della valle, gli affioramenti rocciosi, l’interazione con i versanti instabili, gli accumuli di frane, l’edificazione delle conoidi. La presenza di centri abitati limita molto spesso la zona di pertinenza del torrente ad una fascia ristretta nell’intorno del tracciato unicursale e rettilineo imposto dall’uomo. Sarebbe invece più corretto considerare, quali aree di pertinenza, anche i possibili percorsi lungo i quali il torrente può divagare durante le piene, specie in concomitanza delle alluvioni che si associano a fenomeni molto intensi di trasporto dei sedimenti (colate detritiche). In estrema sintesi, sia per i torrenti montani come per corsi d’acqua pedemontani e di pianura, il modo più corretto di operare ed interagire con il ‘sistema fiume’ si traduce sia in una corretta interpretazione dello ‘spazio’ occupato dalla sua natura morfologica, sia in un recupero graduale, ove questo risulti disturbato, dei suoi lineamenti morfologici caratteristici. L’articolata complessità delle forme fluviali che si osservano in natura rende difficoltoso abbracciare esaustivamente con un’unica classificazione la varietà delle configurazioni che i corsi d’acqua presentano. La prima distinzione che può operarsi è quella fra un corso d’acqua che scorre in roccia da uno di tipo alluvionale. Il primo, fatte salve le eccezioni che mettono in gioco substrati rocciosi piuttosto erodibili o discontinuità tettoniche, presenta dei processi di adattamento e modellamento della sua sezione e del suo profilo di fondo molto dilatati nel tempo e comunque spazialmente contenuti. Il secondo scorre sui sedimenti (le alluvioni) da esso stesso trasportati e può modificare la sua forma anche repentinamente a causa dei fenomeni di trasporto, erosione o deposito dei sedimenti. Nella tipologia alluvionale la dinamica d’alveo comprende anche la possibilità, assai frequente, che, ad una evoluzione morfologica anche molto rapida, si affianchino processi di modellamento più lenti ed indotti da un disequilibrio fra i parametri favorenti l’erosione, come la portata liquida e la pendenza longitudinale del fondo, e le variabili che a questa si oppongono (favorendo la deposizione dei sedimenti), quali la portata solida e le dimensioni granulometriche dei sedimenti superficiali e sottosuperficiali che costituiscono il letto. Un principio che regola indistintamente la dinamica di un fiume, a prescindere dalla morfologia che esso assume, è quello espresso da Lane (1955). L’Autore afferma che un tratto di fiume tende ad un’autoregolazione del suo equilibrio in modo che tasso di alimentazione solida da monte e dimensione media dei sedimenti del suo letto compensino la portata idrica - più precisamente la portata formativa cui si associa una frequenza annuale o poco più che annuale - e la pendenza del fondo (il prodotto di queste due ultime variabili esprime la perdita di energia potenziale per unità di lunghezza del canale e per unità di peso del fluido). In pratica il meccanismo di autoregolazione permette di prevedere quale sarà la risposta del sistema andando a modificare artificialmente con degli interventi antropici qualcuna di queste quattro grandezze; così, ad esempio, diminuendo l’apporto di sedimenti in ingresso, il tratto di fiume poco a valle si riequilibrerà riducendo la sua pendenza ovverosia erodendo il fondo. Una classificazione di base delle varie morfologie fluviali porta a riconoscere sostanzialmente i seguenti tipi di canale: rettilineo; a rami intrecciati (o “braided”), pseudo-meandriforme (o “wandering”), meandriforme; anastomizzato. Approcciando un intervento di riqualificazione fluviale, l’inquadramento dello ‘stile’ morfologico proprio del tratto di corso d’acqua in esame costituisce, in definitiva, il primo passo conoscitivo dal quale muovere per la formulazione di una proposta di intervento di ricostruzione morfologica. Esso può definirsi come l’insieme degli interventi di sistemazione idraulica che, utilizzando preferenzialmente materiali costruttivi che sono coinvolti nella dinamica d’alveo (ciottoli, massi, legname, vegetazione), tende a ripristinare la tipologia morfologica più pertinente. Nella proposta di un intervento di ricostruzione morfologica è necessario procedere ad un riconoscimento dell’alveo-tipo relativo al tratto in cui si interviene, cercando di cogliere al meglio lo ‘stile’ che lo caratterizzerebbe in assenza dell’azione di disturbo dell’uomo. In molte situazioni lo stato di fatto del corso d’acqua può risultare così distante dal modello fluviomorfologico ideale da rendere quasi impraticabile, o quanto meno assai dispendioso, un intervento di ricostruzione. Nelle parti alte dei bacini idrografici, ove il reticolo idrografico non è ancora così intensamente sistemato come nei tratti vallivi, la sistemazione fluviomorfologica è più facilmente percorribile, soprattutto in quelle situazioni di INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO elevato pregio dal punto di vista naturalistico e nelle quali l’intervento strutturale tradizionale apparirebbe come un elemento completamente estraneo al paesaggio. Vi è anche da ricordare che, in generale, i torrenti montani non sono così intensamente sistemati come i corsi d’acqua di pianura, cosicché l’intervento di ricostruzione morfologica, giovandosi anche della buona disponibilità del materiale costruttivo, può essere conseguito con una certa economicità rispetto ad una sistemazione idraulica realizzata con opere tradizionali in calcestruzzo. Operando invece su situazioni vallive fortemente irrigidite, l’intervento morfologico, pur essendo realizzabile, può rendere necessari molteplici provvedimenti preparatori, quali la riacquisizione dell’area di pertinenza fluviale, l’esproprio di terreni, la demolizione o riconversione di opere già esistenti e, infine, la ridefinizione del tracciato plano-altimetrico del canale. Nonostante queste difficoltà, sono già numerose nel mondo le esperienze relative sia ad interventi di ‘rimeandrizzazione’ dell’alveo, sia alla ricreazione di corpi sedimentari (barre centrali e laterali) e di sequenze a riffle e pool (raschi e pozze, Fig.1) (Brookes, 1996; Haltiner et. al., 1996; CIRF, 2001). In tutti gli interventi di ricostruzione morfologica si può riconoscere, quale denominatore comune, la necessità di ripristinare lungo il corso d’acqua la condizione di naturale e ritmica variazione della velocità media e della profondità della corrente. Questa variazione si traduce in un susseguirsi di stati accelerativi e decelerativi del flusso che si accompagnano alle lunghezze d’onda caratteristiche delle varie tipologie morfologiche. Le unità morfologiche più comuni sono i riffle pool (Fig. 1), dove i riffle si contraddistinguono per maggiori pendenze del fondo, velocità medie della corrente e diametri dei sedimenti più grossolani rispetto alle pool. I riffle pool sono presenti con maggior frequenza nei canali rettilinei con alveo ghiaioso o sabbioso e nei fiumi meandriformi, ma interessano, in qualche misura, tutte le tipologie fluviali. L’osservazione delle interdistanze fra riffle successivi (lunghezza d’onda Lr, Fig. 1) ha evidenziato che la larghezza del canale (B) in condizioni di piene rive (larghezza che si individua al passaggio della portata formativa) sembra essere il fattore di scala più rilevante. I riffle, nei corsi d’acqua rettilinei, presentano mediamente una lunghezza d’onda compresa fra 5 e 7 volte la larghezza di piene rive. Anche nei corsi d’acqua meandriformi ritroviamo questa lunghezza caratteristica: le pool si localizzano nel tratto di massima curvatura del meandro ed i riffle si posizionano lungo i tratti rettilinei che congiungono due meandri successivi. Nei torrenti montani a più forte pendenza e, in particolare, nei tratti che presentano unità a step pool (gradini e pozze), questa lunghezza d’onda (Ls, Fig. 2), che esprime ancora l’interdistanza fra sezioni del canale aventi velocità della corrente simili, tende invece ad essere compresa tra 0.5 e 2 volte la larghezza del canale (D’Agostino e Lenzi, 1998). Nel caso degli step pool il campo di moto è pero dominato dai ripetuti salti idraulici (Fig.2), cosicché, specie in condizione di piena, si sviluppano a valle degli step dei vortici che dipendono dalla profondità del flusso e dall’altezza degli step. Secondo questa ipotesi il fattore di scala più determinante è l’altezza degli step (H) che, in sostituzione della larghezza d’alveo, dovrebbe essere in grado di rappresentare la scala spaziale del fenomeno di alternanza cinetica. Questa ipotesi è confermata da misure di campo (D’Agostino e Lenzi, 1998) condotte su sequenze a step pool naturali per le quali mediamente la lunghezza Ls è risultata pari a 6 volte H e dove, a sua volta, H è risultata mediamente pari a 2-2.5 volte la granulometria più grossolana dell’alveo (novantesimo percentile della curva grunulometrica numerale). Il dislivello Z (Fig. 2) fra la testa di uno step e quella dello step successivo é in genere compreso tra 2/3 e 3/4 H (D’Agostino e Lenzi, 1998), determinando una contropendenza del fondo per il tratto d’alveo compreso fra il punto di massima erosione entro la pool e lo step a valle. Fig. 4 – Esempio di sistemazione di un tratto di torrente in conoide mediante sequenze di soglie in massi che emulano una rapida a gradini (torrente Ceggio, Servizio Bacini Montani, Provincia di Trento). Fig. 2 – Profilo schematico del fondo ed esempio di un tratto di torrente a step pool. Questi concetti generali sulle lunghezze caratteristiche possono essere utilizzati per ricostruire artificialmente meandri, riffle pool e step pool ma non vanno applicati in modo troppo rigido. In sede di progettazione morfologica le lunghezze d’onda devono essere caratterizzate da una certa irregolarità spaziale, non tralasciando di seguire come modello anche le eventuali lunghezze caratteristiche che possono osservarsi in un tratto d’alveo limitrofo a quello interessato dall’intervento. In figura 3 si riporta un esempio di ricostruzione morfologica che è stata realizzata nella valle del torrente Canali alle porte del Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino (Trento); si è condotta la riconversione di un intervento di consolidamento con briglie (Fig. 3-a) in una sequenza a step pool (Fig. 3-b). L'intervento può dirsi riuscito funzionalmente e paesaggisticamente: un occhio non esperto quasi non riconosce che il tratto è stato oggetto di sistemazione idraulica (Fig. 3-c). Un altro esempio interessante è la realizzazione della sistemazione del tratto terminale del torrente Ceggio (Valle del Brenta, Trento; Fig. 4). Qui la realizzazione di una sequenza di soglie in massi - morfologicamente inquadrabile come una lunga rapida a gradini - ha permesso di migliorare la capacità di smaltimento del trasporto solido lungo il tratto di attraversamento del conoide; vi era infatti una tendenza del tratto ad essere eccessivamente congestionato dai sedimenti a causa di briglie progettate con una pendenza di correzione un po' troppo contenuta. I due esempi sopra menzionati possono considerarsi una ricostruzione morfologica a sostituzione di vecchie opere, ma è bene ricordare che l'utilizzo dell’approccio morfologico è oramai pratica comune, intesa come strategia di sistemazione ‘ab initio’ per mettere in sicurezza il reticolo idrografico riqualificandolo (Servizio Bacini Montani della Provincia di Trento, Ufficio Ripartizione Opere Idrauliche di Bolzano, Servizi Forestali Regionali della Regione Veneto). A conclusione di questa breve nota, si possono enucleare tre concetti guida dai cui i professionisti potrebbero trarre spunto nell’intraprendere azioni di riqualificazione dei corsi d’acqua. 1) L’osservazione in campo e l’interpretazione delle forme fluviali mediante le quali un corso d’acqua alluvionale adatta la sua sezione trasversale e il suo percorso altimetrico alle portate liquide e alla dinamica e dei sedimenti dovrebbero essere il punto di avvio di ogni intervento di sistemazione idraulica. 2) Le opere fluviali a carattere più ingegneristico si pongono come principale obiettivo l’ottenimento di condizioni di sicurezza idraulica e il controllo dei fenomeni di instabilità soprattutto in occasione del passaggio di portate di piena con un tempo di ritorno elevato (in genere di 100-300 anni). Un approccio fluviomorfologico alle sistemazioni fluviali mira invece a ricreare un assetto dell’alveo che emuli la morfologia naturale, tendendo a favorire il ricostituirsi delle unità morfologiche che competono all’intero regime dei suoi deflussi liquidi e solidi. 3) Poiché molti corsi d’acqua sono il risultato di successivi e ripetuti interventi compiuti dall’uomo facendo prevalere l’irrigidimento delle sponde e del fondo e la riduzione dello spazio riservato al sistema fluviale, la strada più percorribile sembra quella di un’integrazione fra approccio ingegneristico e approccio fluviomorfologico. Questa integrazione si può tradurre: nell’abbandono di un’eccessiva ripetitività delle soluzioni adottate, nell’avvicinamento della progettazione idraulica ai concetti di alternanza e irregolarità del tracciato plano-altimetrico, nell’ammettere una certa modificabilità dell’intervento condotto, monitorandolo ed accompagnandolo nel tempo, nel favorire, infine, un’acquisizione sostenibile di aree territoriali da destinare alla divagazione e all’espansione del ‘sistema fiume’. Prof. Ing. Vincenzo D’Agostino, Dipartimento TeSAF, Università degli Studi di Padova Riferimenti bibliografici Brookes, A. (1996). River restoration experience in northern Europe, Perspective on river channel restoration, in A. Brookes e D. Shields jr (eds.), River channel restoration: Guiding Principles for Sustainable Projects, Wiley, Chichester, England. Brookes, A., Shields, F.D. jr (1996). Perspective on river channel restoration, in A. Brookes e D. Shields jr (eds.), River channel restoration: Guiding Principles for Sustainable Projects, Wiley, Chichester, England. CIRF (2001). Manuale di riqualificazione fluviale - Le esperienze pioniere della rinaturalizzazione in Europa, Mazzanti Editori, Venezia. D’Agostino, V. (1996). La rinaturalizzazione dei torrenti montani, Quaderni del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali, Dipartimento TeSAF, Università degli Studi di Padova, n. 33. D’Agostino, V., Lenzi, M.A. (1998). La massimizzazione della resistenza al flusso nei torrenti con morfologia a step pool, XXVI Convegno Nazionale di Idraulica e Costruzioni Idrauliche, Catania, Atti, I, CUECM, Catania. Dutto, F. (1995). Tendenza evolutiva dei corsi d’acqua e definizione delle fasce di pertinenza fluviale, in U. Maione e A. Brath (eds.), Moderni criteri di sistemazione degli alvei fluviali, Bios, Cosenza. Govi, M., Turrito, O. (1994). Problemi di riconoscimento delle fasce di pertinenza fluviale, IV Convegno Internazionale di Geoingegneria “Difesa e valorizzazione del suolo e degli acquiferi”, Torino. Haltiner, J.P., Kondolf, G.M., Williams, P.B. (1996). Restoration approach in California, in A. Brookes e D. Shields jr (eds.), River channel restoration: Guiding Principles for Sustainable Projects, Wiley, Chichester, England. Fig. 1 – Schema planimetrico di un tratto d’alveo a riffle pool. Fig. 3 – Esempio di riconversione di una sistemazione montana tradizionale (a) in una sequenza di step pool artificiali (b, c) (torrente Canali, Servizio Bacini Montani, Provincia di Trento). Lane, E.W. (1955). The importance of fluvial morphology in hydraulic engineeering, Proceedings of the American Society of Civil Engineers, 81. Lenzi, M.A., D’Agostino, V., Sonda, D. (2000). Ricostruzione morfologica e recupero ambientale dei torrenti, BIOS, Cosenza. 7 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO L’impiego dei geosintetici nelle opere di sostegno in terra rinforzata: criteri di progettazione e realizzazioni 1. I GEOSINTETICI DI RINFORZO I geosintetici di rinforzo impiegati nelle opere di ingegneria sono a tutti gli effetti vere e proprie armature che svolgono una funzione strutturale. Vengono utilizzati in numerose tipologie di intervento, tra cui: nelle terre rinforzate, nel rinforzo alla base di rilevati, come elemento di rinforzo sulla testa dei pali, nell’attraversamento di zone soggette alla formazione di cavità, nel rinforzo delle sovrastrutture stradali e dei conglomerati bituminosi e nella realizzazione di pali portanti in sabbia incapsulati con geotessili tubolari. Questi materiali, destinati a lavorare a trazione, possono essere sottoposti a sollecitazioni di vario tipo: permanenti e accidentali, statiche o dinamiche, ad attacchi chimici, ambientali, a danneggiamenti meccanici, ecc. Naturalmente queste sollecitazioni devono essere considerate nell’arco di tempo che inizia dal momento in cui il geosintetico viene posato e che finisce con la fine della vita utile prevista dell’opera stessa. Per questa ragione, la funzionalità e la sicurezza delle opere è direttamente legata alle prestazioni del rinforzo nelle condizioni di esercizio, sia a breve che a lungo termine. Risulta evidente, quindi, l’importanza che riveste la corretta valutazione in fase di calcolo delle tensioni e delle deformazioni ammissibili dei geosintetici da parte dei progettisti come pure la verifica di queste prestazioni da parte della Direzione Lavori. Proprio questi meccanismi di rottura, denominati “composti” o “compound mode”, rappresentano spesso la forma di rottura più probabile e pertanto forniscono il fattore di sicurezza minimo della struttura. Trascurare questi meccanismi porta ad un sottodimensionamento critico delle opere e quindi ad un rischio elevato di cedimento. Non sono infatti rare le situazioni in cui le verifiche di stabilità interna ed esterna diano come risultato un fattore di sicurezza al di sopra del minimo richiesto dalla normativa, mentre la verifica di stabilità composta porta ad un fattore di sicurezza molto più basso, inferiore al minimo consentito dalla normativa. Dal punto di vista estetico, i rilevati in terra rinforzata appaiono come stabili, indipendentemente dal fatto che abbiano un fattore di sicurezza globale di 1,30 o di 1,00. Nel secondo caso il margine di sicurezza è esiguo e ci si trova vicino alle condizioni di equilibrio limite. Ciò significa che, in caso di azioni aggiuntive anche di lieve entità (sovraccarichi, spinte idrauliche, ecc.) oppure se vengono meno alcune delle ipotesi effettuate in sede progettuale, possono verificarsi danni o addirittura il collasso della struttura. E’ opportuno pertanto sottolineare che nell’ambito di una seria progettazione devono essere considerate tutte le possibili superfici di scivolamento per determinare il meccanismo di rottura più sfavorevole; possono essere prese in considerazione sia superfici di scivolamento cilindriche che piane, logaritmiche o circolari o poligonali, purché si effettuino verifiche di stabilità interne, esterne e soprattutto composte. prastante. L’altezza della terra rinforzata è di 60 m e la lunghezza è di ca. 100 m. • Efficace sistema di drenaggio del corpo della frana per evitare incrementi delle pressioni neutre lungo la superficie di scorrimento del corpo di frana. • Sistema di monitoraggio con: 5 inclinometri, 6 piezometri a tubo aperto, 3 estensimetri, 2 assesti metri a magneti, 62 capisaldi di monitoraggio. La soluzione proposta prevedeva la realizzazione di terre rinforzate di altezza variabile fino ad un massimo 60 m, realizzate mediante rilevati sovrapposti di 5 m l’uno e berme di 3 m. All’interno di ogni singolo rilevato da 5 metri sono previste quattro strati di griglie di rinforzo “principali” Fortrac® 110/30-20, spaziate di 1,5 m, e sei griglie “secondarie” Fortrac® 45/20-20, spaziate di 0,5 m, aventi unicamente la funzione di rendere stabile il fronte della terra rinforzata. Per minimizzare l’entità dello scavo, garantendo nel contempo la stabilità dell’opera sia con verifiche tensio-deformative che secondo il metodo dell’equilibrio limite, le lunghezze previste delle griglie di rinforzo sono state scelte pari ad 8 metri nella parte basse del rilevato e pari a 16 m (o in alcune zone pari a 31 m) nella parte superiore del rilevato. Come terreno di riempimento è stato utilizzato il materiale grossolano e spigoloso presente in loco, mentre sul fronte della terra rinforzata è stato posato uno strato di 20-30 cm di terreno vegetale, in modo da facilitare l’attecchimento della vegetazione. Per impedire il dilavamento, la fuoriuscita del terreno e l’insorgere di fenomeni erosivi superficiali, sul fronte della terra rinforzata è stata posata una biorete antierosione in fibre di juta Bionet HJ/50, posizionata tra la geogriglia ed il cassero a perdere in rete elettrosaldata. 2. LE VERIFICHE DI STABILITÀ DELLE TERRE RINFORZATE Le verifiche di stabilità di strutture in terra rinforzata si effettuano secondo i metodi classici che si applicano alle verifiche di stabilità dei pendii (Bishop, Janbu, Spencer, ecc.), considerando in aggiunta l’azione delle forze resistenti delle geogriglie di rinforzo presenti. Spesso si effettua una distinzione rigorosa tra le verifiche di stabilità esterne e le verifiche di stabilità interne alla terra rinforzata: le verifiche di stabilità esterne considerano unicamente meccanismi di rottura che non intersecano la terra rinforzata, ma che si sviluppano all’esterno dell’armatura e del terreno di riempimento. Per la verifica di stabilità interna si considerano invece superfici di scivolamento che interessano unicamente la terra rinforzata. Una distinzione formale di questo tipo tra le verifiche di stabilità ha come conseguenza il fatto che spesso si esaminino meccanismi di rottura che si sviluppano in una zona molto ristretta (solo all’interno oppure solo all’esterno della terra rinforzata). L’analisi dei possibili meccanismi di rottura che si sviluppano parzialmente all’esterno e parzialmente all’interno delle strutture armate, in molti casi è trascurata. 8 3. ESEMPIO DI TERRE RINFORZATE CON GEOGRIGLIE FORTRAC®: LONA-LASES (TN), STABILIZZAZIONE DI UN VERSANTE IN FRANA Il versante del monte Gorsa, dopo numerosi anni di attività estrattiva del porfido, è stato interessato negli ultimi anni da un imponente fenomeno franoso nella zona sovrastante la strada provinciale SP71 ed il lago di Lases, con grave rischio per l’adiacente area abitata. Per la stabilizzazione del versante, la soluzione adottata dai progettisti è stata basata principalmente sui seguenti punti: • Ricostruzione morfologica del versante in frana mediante la rimozione del terreno in sommità del versante e trasporto al piede per ripristinare l’azione di contenimento e per riportare lo stato tensionale di compressione dell’ammasso roccioso alle condizioni precedenti l’attività estrattiva del porfido. • Esecuzione di una struttura in terra rinforzata con geogriglie Fortrac® al piede del versante con pendenza di 60° ed in grado di sopportare l’elevato carico so- 4. CONCLUSIONI Nel presente articolo è stato illustrato come le strutture in terra rinforzata associno l’elemento strutturale di rinforzo ad una copertura vegetativa frontale per evitare l’insorgere di fenomeni erosivi superficiali. Particolare attenzione deve essere riposta nella progettazione e nel dimensionamento dei rinforzi utilizzati in termini di tensione di progetto a lungo termine, di verifica della stabilità interna, esterna e composta e nella corretta interpretazione delle certificazioni di qualità dei materiali impiegati. Ing. Pierpaolo Fantini, Huesker S.r.l. Ing. Alberto Simini, Huesker S.r.l. INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO Problematiche esecutive nell’utilizzo dell’arboricoltura Nel corso degli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza della necessità di migliorare il quadro ambientale offerto dalla città come luogo costruito. E’ ormai frequente ragionare, nella pianificazione e nella gestione delle attività umane, in termini di costi ambientali, dato che è dimostrato da molti studi che i danni legati all’inquinamento ed alla perdita di suolo utile non sono da riferirsi esclusivamente all’ambiente in senso lato, ma anche al sistema economico. Gli spazi verdi urbani, ma anche i periurbani, diventano quindi oggetto di una attenzione particolare in quanto portatori di quella naturalità senza la quale la città costruita, per quanto la si progetti a misura umana, non Parigi, Parc Billancourt, 2010-2011 riuscirà mai a diventare uno spazio di qualità. Le declinazioni possibili di questa strategia di integrazione sono molteplici: alla scala territoriale, le reti infrastrutturali quali gli assi viari ed i sistemi di regimazione delle acque possono costituire il tessuto connettivo della città anche in termini naturalistici ed ecosistemici, mantenendo ed incrementando in tal modo la biodiversità degli ambienti antropizzati. Spostandosi dalla scala territoriale a quella urbana, i benefici indotti dalla presenza del verde in città si modulano e si amplificano ulteriormente: oltre al sistema del verde dei giardini urbani e delle strade alberate si va affermando sempre di più l’integrazione diretta fra verde e costruito (tetti verdi, pareti verdi), strategia ambientale che consente i maggiori benefici per la compensazione dei costi che l’habitat urbano impone all’ambiente stesso. Del resto, in diverse aree del pianeta le condizioni sono così alterate da aver convertito il cosiddetto skygreening da lusso ad effettiva necessità. Solo un’elevata qualità della progettazione e della gestione consente ad un sistema vivo ed in continua evoluzione di mantenere nel tempo le innumerevoli funzioni che è chiamato a svolgere. La pianificazione e la progettazione di dettaglio devono puntare, più che all’esercizio estetizzante che, oltre certi limiti, diventa autoreferenziale, ad una concretezza di obiettivi ed a una solidità di azioni che si raccolgono in poche, ma essenziali, norme di buona tecnica. L’attenzione ai suoli, l’impiego di materiali vegetali di qualità, un disegno del verde attento a minimizzare gli oneri gestionali si devono accompagnare alla sperimentazione di nuove forme di verde (ad esempio verde pensile intensivo, prati fioriti, rain gardens, e giardini naturali). Nell’esaminare il set di benefici apportabili dalla vegetazione in un contesto urbano, la componente arborea risulta sicuramente determinante rispetto a quella erbacea ed arbustiva. I Rain gardens consentono l’infiltrazione delle acque meteoriche riducendo la portata del deflusso in rete Questi vantaggi aumentano in misura più che proporzionale via via che l’albero cresce e matura. Per questo motivo risulta altamente strategico massimizzare l’impiego di alberi, ricercando le soluzioni tecniche che consentano loro di vivere, prosperare e al contempo massimizzare i molteplici benefici che essi possono apportare: nella difficile situazione dell’ambiente urbano, l’albero va considerato come elemento principale di un sistema integrato suolo / manufatto e servizio / vegetale che deve essere progettato e realizzato con lo scopo di ottenere per l’albero stesso un ambiente di vita favorevole. Il verde della città contemporanea necessita quindi di competenze specifiche: esperti per la ricostituzione dei suoli urbani, professionisti in grado di operare le scelte vegetazionali più corrette fra la miriade di possibili soluzioni, tecnici specializzati nella gestione dell’albero urbano, specialisti delle coperture erbacee sempre più frequentemente entrano nei team di progetto con il loro bagaglio di competenze di natura agronomica. È grazie a questo approccio interdisciplinare che risulta possibile, anche in tempi nei quali le risorse sono sempre più ridotte, ottenere e conservare un’elevata qualità delle realizzazioni a verde. Dott.ssa Laura Gatti Parigi, Parc Billancourt, 2010-2011 Londra, Thames Barrier Park 2011 : gestione differenziata delle coperture erbacee 9 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO Quale futuro per le discipline idrauliche presso i corsi di Laurea in Ingegneria? Intervista a Massimo Veltri, Presidente dell’Associazione Idrotecnica Italiana, pubblicata su “l’altracqua”. Su “l’altracqua” n. 6/2010, la newsletter del sito web dell’Associazione Idrotecnica Italiana (www. idrotecnicaitaliana.it), è stata di recente pubblicata un’intervista al Prof. Ing. Massimo Veltri, presidente dell’A.I.I. che, considerato il notevole interesse dell’argomento, si vuole qui di seguito riportare integralmente. E’ necessario anzitutto premettere alcune cose, riportate anche sulla citata edizione de “l’altracqua”: il giorno 1 ottobre 2010 si è svolta a Roma, presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza, la Conferenza dei Presidi di Ingegneria durante la quale si è assunta una decisa posizione nei confronti del Ddl n. 1905. La Conferenza ha voluto rendere evidenti al Paese le condizioni in cui opera l’università italiana e le prospettive derivanti da una riforma che presenta una sorta di ritorno al passato, ad una struttura universitaria abbandonata negli anni Settanta. All’interno di questo quadro, già di per sé particolarmente allarmante, ci si chiede quale sarà il futuro dei Corsi di laurea nelle discipline idrauliche che già registrano, ormai da qualche anno, un calo nelle iscrizioni. Si afferma, infatti, da più parti che il tempo di una golden age dell’idraulica italiana sia tramontato e che l’idraulica non possieda più quell’appeal in grado di attrarre nuove generazioni di studenti. Sembra paradossale il fatto che la formazione nel campo delle discipline idrauliche registri un forte calo di iscrizioni proprio ora che l’acqua è divenuta una risorsa scarsa. A ben vedere si necessita di figure in grado di intervenire con estrema professionalità nella cura delle opere di bonifica, nel complesso delle operazioni per la captazione, adduzione, distribuzione dell’acqua, nel campo dell’assetto del territorio, della difesa del suolo e delle fonti energetiche alternative. Alta formazione che richiede risorse, strumenti, ricerca e confronti con l’estero. In tale occasione sono state rivolte alcune domande sulla formazione nel campo dell’ingegneria idraulica all’Ing. Massimo Veltri, Professore ordinario di Idraulica della Facoltà di Ingegneria all’Università della Calabria, nonché Presidente dell’A.I.I. Si riporta qui di seguito il testo integrale dell’intervista. D.- Professor Veltri, negli anni più recenti si è assistito ad un forte calo nelle iscrizioni ai corsi di laurea nelle discipline idrauliche. A fronte del delicato momento in cui si apre il nuovo anno accademico, a causa delle agitazioni in corso dovute alla riforma universitaria, cosa possiamo dire agli studenti dei diversi corsi in ingegneria idraulica? R.- C’è stata, nel paese, una stagione in cui l’idraulica e le materie per così dire satelliti hanno ricevuto attenzione, stimolo, premialità. Relazione de Marchi, Progetto Finalizzato Conservazione del Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Gruppo Italiano Catastrofi Naturali, legge 36, legge 183, il proliferare di corsi e di corsi di laurea universitari. Una stagione che, dopo quella “eroica” delle bonifiche idrauliche, dei grandi invasi, dell’idroelettrico, dell’approvvigionamento idrico, delle politiche territoriali attente alle infrastrutturazioni, lasciava intravedere un utilizzo 10 di suolo e sottosuolo, un impiego di competenze e specializzazioni, razionale e sostenibile, di profilo alto e consapevole. Poi il meccanismo si è inceppato. L’attenzione per le politiche territoriali è fortemente scemato, la pianificazione è scomparsa in quanto strumento d’intervento, privilegiare politiche “veloci” e pragmatismo spinto è sembrato essere il verbo imperante. Così che, ovviamente, mentre i target sembravano spostarsi in tutt’altre direzioni, l’idraulica perdeva appeal e attrattività. I dati sono sotto gli occhi di tutti, e non sono confortanti. Per noi idraulici, e per il paese. Sono certo, nel contempo, che l’urgenza e l’attualità del problema acqua, già e in continuo, all’attenzione di media e istituzioni non potrà continuare a eludersi ancora per molto. Cambiamenti climatici, piene, siccità, energie rinnovabili, capitoli di un libro, di un’agenda, che fra poco si riaprirà, e con prepotenza. D.- Quali sono secondo lei gli elementi di attualità e di attrazione di questa disciplina? R. – L’attualità è data da una modellistica matematica e fisica di altissima qualità, duttilità, specializzazione, che vede il nostro paese, le università nostre, i centri di ricerca, competere a armi pari con quelli più avanzati. Al Convegno di Idraulica e Costruzioni Idrauliche di Palermo, inizi di settembre, il lotto dei partecipanti, il profilo dei relatori, la qualità delle conferenze e delle memorie discusse attestano uno stato di salute più che buono. Testimoniano uno stato dell’arte di una comunità scientifica che sempre più vuole e sa mettersi in sintonia con le esigenze professionali che richiedono risposte pronte e robuste a problemi sempre più complessi. E se è vero che lo stato di salute di un paese si misura principalmente dal suo know how diffuso, dall’approfondimento non solo fine a sé stesso, da un territorio e da un ambiente da utilizzare con rispetto, da risorse da gestire con oculatezza, alle discipline idrauliche occorre tornare, e pure con una certa urgenza. D.- L’offerta formativa proposta nei diversi corsi di laurea soddisfa secondo lei le richieste provenienti da un mercato in forte evoluzione? R. – Ma io direi proprio di sì. Con due osservazioni, però. Di segno opposto. La prima: è molto probabile che ci sia un eccesso di corsi e di materie che spezzettano eccessivamente il sapere rendendo non facile una lettura d’insieme dei fenomeni e dei processi, e perciò l’approccio efficace e risolutivo di tipo ingegneristico. La riforma universitaria così detta del “3+2” molto ha contribuito in tal senso, accanto a una non sempre opportuna rimodulazione dei curriculum (spesse volte apparsi staticamente coincidenti con quelli del vecchio ordinamento), oltre che a un “eccesso di autonomia” da parte di taluni atenei, di talune facoltà, nella proliferazione di indirizzi e approfondimenti. La seconda: come collegare con sempre maggiore efficacia l’excursus formativo con le ricadute di tipo occupazionale, con un mondo del lavoro che richiede sempre più figure duttili e improntate all’interdisciplinarità, e nel contempo sorrette da un bagaglio culturalmente adeguato non disgiunto però da un sano pragmatismo. Rapporti ravvicinati con ordini professionali, con le imprese, sono non solo auspicabili e da irrobustire, ma da premiare. D.- E’ possibile considerare l’insegnamento delle discipline idrauliche in Italia un centro d’eccellenza nel panorama della formazione europea? R. – Mi pare già ne abbia fatto cenno poco fa: assolutamente sì. Senza improbabili generalizzazioni, si può dire che c’è in Italia una scuola storica dalla quale sono scaturiti ricercatori e tecnici di altissimo profilo, e che continua a essere presente, con costante intensità e frequenza, nel contribuire alla crescita delle conoscenze idrauliche. Accanto a queste sedi, negli ultimi decenni sono sorti nuovi atenei, nuovi dipartimenti cui afferiscono discipline idrauliche che sulla scorta d’un sapere consolidato e illustre, ha proseguito e sta avanzando lungo percorsi tracciati, specializzandosi, trovando nuovi filoni di ricerca, promuovendo e curando rapporti d’interscambio internazionali. Le maggiori associazioni mondiali d’idraulica vedono rappresentanti italiani in postazioni prestigiose; le riviste scientifiche più diffuse e di più alto livello di qualità sono sede costante di memorie di autori italiani; nel campo della modellistica numerica e di laboratorio siamo per molti aspetti all’avanguardia. Cosa manca? Un’attenta, oculata, lungimirante politica dei saperi, della cultura… e mi fermo qui… D.- Un tema su cui si discute molto è quello della necessità di garantire la sicurezza idrica nell’immediato futuro, ed è indubbio che la formazione svolga un ruolo chiave nella preparazione di giovani in grado di lavorare in questo campo. Quale ruolo svolge l’AII in questo contesto? E in che modo essa si propone verso le nuove leve di ingegneri idraulici? R. – L’Associazione Idrotecnica Italiana da sempre, dalla sua nascita, per convinzione e identificazione genetica, lavora su più piani. La ricerca, la specializzazione, il servizio alle imprese, la formazione a vari livelli. E da oltre ottanta anni è presente con convegni, iniziative divulgative, seminari, workshop, corsi di formazione a far crescere con convinzione una consapevole cultura -aggiungo: e una prassi – dell’acqua. Non solo missionari dell’acqua, come dice il nostro presidente onorario Carlo Lotti, ma punta avanzata di una grande comunità che vuol offrire le proprie competenze per conseguire un equilibrio più giusto nel nostro paese. Per far sì che il momento delle decisioni sia sorretto dall’etica della conoscenza. Mi permetto in conclusione, a titolo di osservazione del tutto personale, di mettere in evidenza quest’ultima frase dell’intervista a Veltri. Infatti ritengo che oggi sia estremamente importante, soprattutto nel campo dell’idraulica e dell’idrogeologia, che le decisioni politicoamministrative debbano essere assolutamente improntate su aspetti di una più approfondita conoscenza dei problemi, dal punto di vista sia scientifico che tecnico. E ritengo che gli ingegneri debbano porsi in primo piano a strenua difesa di questa opinione! Ing. E. Pessina, Commissione Idraulica e Territorio INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO Bioingegneria Le attività della commissione La Bioingegneria è un settore dell’ingegneria che utilizza le metodologie e le tecnologie proprie dell’ingegneria al fi ne di comprendere, formalizzare e risolvere problemi di interesse medico, biologico, sanitario, sportivo. Il suo carattere fortemente multidisciplinare prevede una stretta collaborazione tra gli ingegneri e i professionisti del mondo delle scienze biologiche, mediche, sportive. Attraverso numerose iniziative, la Commissione Bioingegneria ha attuato i suoi obiettivi ed i suoi strumenti divulgativi nelle aree di interesse relative ai settori Ricerca, Sviluppo, Clinica, nonché al settore sportivo: • Partecipazione alla conferenza TAM 2010 (Technology and Management in the Hospital, Pavia, 20-21 giugno 2010). L’Ordine degli Ingegneri di Bergamo ha dato il proprio patrocinio per la manifestazione. • Partecipazione alla prima riunione di coordinamento delle Commissioni Bioingegneria degli Ordini degli Ingegneri Italiani (Milano, 29 settembre 2010) e inserimento nel Gruppo di Lavoro per la Formazione Professionale. (pubblicata di seguito) • Per l’edizione 2010 di BergamoScienza, organizzazione della conferenza “La Resistenza Fisica e Psicologica nella Maratona e nell’Ultramaratona” (Bergamo, 5 ottobre 2010). (pubblicata di seguito) • Partecipazione all’edizione 2010 della Settimana per l’Energia con la relazione “Gli effetti sulla salute dell’organismo umano dei prodotti di combustione” (Bergamo, 13 novembre 2010). (già pubblicata su n. 202) • Per i 10 anni del Dipartimento di Bioingegneria presso l’Istituto Mario Negri di Bergamo, partecipazione alla conferenza “Biomedical Engineering: from basic research to clinical application” (Bergamo, 30 novembre 2010).(pubblicata di seguito) Prima riunione di coordinamento delle Commissioni Bioingegneria degli Ordini degli Ingegneri Italiani Su invito rivolto dal Prof. Sergio Cerutti, Presidente della Commissione Bioingegneria dell’Ordine degli Ingegneri di Milano, ai Presidenti delle Commissioni Bioingegneria (o di denominazione similare) degli Ordini degli Ingegneri Italiani, si è svolta a Milano lo scorso 29 settembre 2010 la prima riunione di coordinamento delle attività. Sede dell’incontro l’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Milano, Sala Consiglio, in Corso Venezia 16. Erano presenti alla riunione oltre 20 rappresentanti delle Commissioni Bioingegneria (o di denominazione similare) degli Ordini degli Ingegneri delle seguenti Province italiane: Milano, Torino, Pavia, Bergamo, Brescia, Monza e Brianza, Genova, Bologna, Parma, Roma, Napoli, Catania. Per la Commissione Bioingegneria dell’Ordine degli Ingegneri di Bergamo erano presenti la Presidente Ing. Sarah Burgarella e l’Ing. Gianluca Viganò. Dopo i saluti dell’Ordine degli Ingegneri di Milano, rappresentato dal Segretario dell’OdI Ing. Franchi e dal Presidente della Commissione Bioingegneria Prof. Cerutti, i rappresentati delle Commissioni presenti si sono presentati illustrando la storia, le caratteristiche e le attività delle Commissioni rappresentate. Per la Commissione Bioingegneria dell’OdI di Bergamo, l’Ing. Sarah Burgarella ha inizialmente COMPAGNIA TELEFONICA ITALIANA Da sinistra: Ing. Ghedi (ODI di Brescia), Prof. Cerutti (ODI di Milano), Ing. Lago (ODI di Pavia), Ing. Bandini (ODI di Bologna), Ing. Merlo (ODI di Parma). illustrato i 3 ambiti della bioingegneria rappresentati dai membri iscritti alla Commissione: ambito di ricerca in Università e in centri di ricerca, ambito industriale e ambito clinico-ospedaliero rappresentato dal presente Ing. Gianluca Viganò. Sono state quindi illustrate le attività svolte dalla Commissione nei due anni trascorsi dalla sua OFFRI DI PIU'! ATTIVA UN'AREA DI CONNETTIVITA' INTERNET WI-FI NEL TUO LOCALE O NEL TUO COMUNE CON PUNTO PLANETEL La soluzione Hot Spot - WiFi di Planetel prevede la gestione completa del servizio senza complicazioni per l’Esercente o l’Ente Pubblico. Planetel realizza ed eroga il servizio “chiavi in mano” per il Vostro locale o nella Vostra piazza. Soluzioni personalizzate a partire da 50 euro al mese! 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È stata innanzitutto chiarita la sfumatura terminologica tra Bioingegneria, Ingegneria Biomedica e Ingegneria Clinica. “Bioingegneria” si riferisce alla disciplina più ampia, “Ingegneria Biomedica” è il corso di formazione universitaria in Bioingegneria, “Ingegneria Clinica” è una particolare figura professionale, una specializzazione dell’ingegnere biomedico che lavora nel servizio ospedaliero. Sono stati nominati rispettivamente Coordinatore e Segretario della Commissione di Coordinamento il Prof. Sergio Cerutti e l’Ing. Bianchi, promotori dell’iniziativa e appartenenti all’OdI di Milano. Sono stati defi niti all’interno della Commissione di Coordinamento i seguenti 3 gruppi di lavoro: GdL per il riconoscimento delle figure professionali in ambito ospedalierosanitario, GdL per la formazione professionale, GdL per i problemi etici legati alla professione. I membri della Commissione Bioingegneria dell’OdI di Bergamo hanno dato le seguenti adesioni ai Gruppi di Lavoro: l’Ing. Sarah Burgarella ha proposto la sua collaborazione nel GdL per la formazione professionale, viste le collaborazioni con diverse Università per lo svolgimento di tirocini e tesi di laurea in ingegneria biomedica nell’azienda dove lavora, STMicroelectronics, e viste le collaborazioni internazionali tramite l’Organizzazione Mondiale della Sanità con rappresentanti di diversi paesi in via di sviluppo che chiedono la possibilità di formare i propri studenti in ingegneria biomedica nelle strutture universitarie e ospedaliere dei paesi più sviluppati; l’Ing. Gianluca Viganò ha proposto la sua collaborazione nel GdL per la formazione professionale, viste le collaborazioni con diverse Università per lo svolgimento di tirocini e tesi di laurea in ingegneria clinica presso il Servizio di Ingegneria Clinica dell’Ospedale Niguarda di Milano. L’Ing. Paolo Lago, OdI di Pavia e responsabile del Servizio di Ingegneria Clinica presso l’Ospedale S. Matteo, è stato nominato coordinatore del GdL per la formazione professionale Ing. Sarah Burgarella Commissione Bioingegneria 11 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO “La resistenza fisica e psicologica nella maratona e nell’ultramaratona” Per l’edizione 2010 di BergamoScienza, la rassegna di conferenze aperte a tutti che si svolge ogni anno a Bergamo la prima metà di ottobre e che tratta svariati argomenti di interesse scientifico con scopo divulgativo, la Commissione Bioingegneria ha proposto alla Segreteria Scientifica della manifestazione un incontro dedicato alla corsa di endurance dal titolo “La resistenza fisica e psicologica nella maratona e nell’ultramaratona”. La conferenza è stata organizzata da Sarah Burgarella, presidente della Commissione Bioingegneria dell’Ordine degli Ingegneri di Bergamo, e si è svolta lo scorso 5 ottobre 2010, alle ore 21, presso l’Auditorium in Piazza della Libertà (Figura 1). Altri 150 runners hanno seguito l’evento in video conferenza dal gonfiabile allestito nella piazza antistante il teatro. Sarah Burgarella ha aperto la conferenza spiegando il significato dell’iniziativa per la Commissione Bioingegneria dell’Ordine degli Ingegneri di Bergamo: “La Bioingegneria è un settore dell’ingegneria che utilizza le metodologie e le tecnologie proprie dell’ingegneria al fine di comprendere, formalizzare e risolvere problemi di interesse medico, biologico, sanitario e sportivo. Il suo carattere risulta perciò fortemente multidisciplinare e prevede una stretta collaborazione tra gli ingegneri e i professionisti del mondo delle scienze della vita e dello sport. Attraverso le 3 relazioni in programma, la conferenza vuole affrontare gli aspetti legati alla biomeccanica, alla biochimica del metabolismo e agli aspetti psicologici e neurofisiologici della corsa, spiegati in modo divulgativo per il numeroso pubblico di podisti che ha aderito all’iniziativa e testimoniati dall’esperienza diretta di tre grandi atleti per le distanze di maratona e ultramaratona” (Figura 3, Figura 4). Figura 3: Gli aspetti scientifici della corsa sulle lunghe distanze: biomeccanica, biochimica e metabolismo, resistenza psicologica la fase di volo, la fase di ammortizzamento e la fase di spinta. Durante la fase di volo, il piede anteriore si trova in asse con il baricentro ed i muscoli sono in contrazione isometrica per favorire la stabilità del corpo. Se la tecnica di corsa è corretta, durante la fase di ammortizzamento il piede di appoggio è posizionato anteriormente rispetto al baricentro del corpo e l’avampiede, con la parte metatarsale esterna, prende contatto con il suolo in modo da assorbire l’impatto e sfruttare contemporaneamente l’elasticità dei muscoli estensori (polpaccio, quadricipite e gluteo). Durante la fase di spinta il piede è posizionato posteriormente al baricentro e i muscoli sfruttano la loro forza di tipo elastico e reattivo per proiettare in avanti il corpo: questa fase inizia con l’attivazione dei muscoli del bacino, più lenti ma potenti, continua poi con l’attivazione dei muscoli della gamba e termina con quella dei muscoli del piede. A basse velocità di corsa la durata del tempo di contatto è pari alla durata della fase aerea. Ad alte velocità di corsa il soggetto tende ad aumentare la lunghezza della falcata soprattutto la frequenza del passo: ciò determina l’a u m e n t o della durata della fase aerea e la d i m i nu z ione del tempo di contatto. Il rapporto tra ampiezza e frequenza è deter minato anche e soprattutto dalla posizione del baricentro (Figura 5): se il peso del corpo non cade nel punto giusto, l’azione di corsa non può essere ottimale e può diventare antieconomica e addirittura traumatica. Figura 4: Gli atleti delle discipline di maratona e ultramaratona ospiti della conferenza: Migidio Bourifa, Paola Sanna, Ivan Cudin Figura 5: La traiettoria del baricentro durante il cammino (da líAnalisi del movimento di Jacquelin Perry, 2005) Figura 1: BergamoScienza in Piazza della Libertà La conferenza ha voluto raccogliere le esperienze dei campioni italiani delle due specialità, maratona e ultramaratona, e gli studi dei maggiori esperti nazionali per queste discipline di resistenza. Presenti gli atleti bergamaschi di rilievo nel panorama nazionale: Migidio Bourifa, Campione Italiano di Maratona nel 2009 e nel 2010, e Paola Sanna, Campionessa Italiana della 100 km su strada nel 2009 e della 50 km su strada nel 2010. Special guest è stato Ivan Cudin: atleta udinese, ingegnere ricercatore al Sincrotrone di Trieste, bronzo e record italiano ai Campionati Mondiali della 24 ore nel 2010 e primo italiano ad aver vinto la Spartathlon, leggendaria corsa di 246 km da Atene a Sparta, proprio lo scorso settembre, nell’anniversario dei 2500 anni dell’impresa di Fidippide. I relatori erano Enrico Arcelli, medico esperto della fisiologia di allenamento per l’atletica leggera e in particolare per la maratona, Pietro Trabucchi, psicologo esperto di mental training per le discipline di resistenza, e Fulvio Massini, preparatore atletico e titolare di un servizio di training running al quale si appoggia un gran numero di amatori italiani. La conferenza ha voluto offrire al pubblico di appassionati runners una bella opportunità di incontro con i campioni nazionali per le due discipline e di approfondimento delle tematiche di resistenza fisica e psicologica nella maratona e ultramaratona. Il pubblico ha risposto molto positivamente e le prenotazioni per l’evento sono state esaurite in un paio di giorni dalla loro apertura: oltre 500 runners hanno partecipato alla conferenza (Figura 2), 350 dei quali hanno riempito ogni poltrona dell’Auditorium e ogni posto a sedere ricavato sui gradoni del teatro. La biomeccanica della corsa Figura 2: L’attesa del pubblico per l’ingresso alla conferenza su maratona e ultramaratona 12 La relazione del Prof. Massini ha analizzato le caratteristiche biomeccaniche del gesto della corsa, la cui economicità dipende da diversi fattori tra cui le caratteristiche anatomiche, la sensibilità tecnica, l’esperienza, la mobilità articolare, la forza muscolare, la rapidità, la posizione del baricentro e infi ne le calzature indossate. Ogni passo di corsa si articola in 3 momenti distinti: Se la tecnica di corsa è corretta, le catene cinetiche si attivano con maggior efficacia nella direzione del movimento, la respirazione è più profonda e il movimento delle braccia è sincronizzato con quello degli arti inferiori. Se la tecnica di corsa è scorretta, essa provoca un eccessivo consumo di energia ed in particolare di glicogeno, con conseguente aumento della sensazione di fatica e peggioramento dei risultati, fino all’impossibilità di portare a termine la gara o l’allenamento. Può inoltre aumentare il rischio di infortuni agli arti inferiori e alla schiena. INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO Il Prof. Massini ha quindi illustrato le posizioni corrette di baricentro, busto, arti inferiori e braccia nei differenti stili di corsa in pianura, in salita e in discesa, ed ha quindi indicato una serie di esercizi per aumentare la consapevolezza della propria postura e correggere i difetti della propria azione di corsa. L’ultima parte della relazione del Prof. Massini ha descritto l’influenza della struttura della scarpa da running sulla biomeccanica di corsa. È infatti in corso a livello internazionale un acceso dibattito tra i sostenitori delle calzature molto protettive, che favoriscono un appoggio di tallone molto ammortizzato dall’elevato spessore della suola in corrispondenza del retro piede, ed i sostenitori delle calzature minimaliste, che favoriscono un appoggio di avampiede, come è quello naturalmente assunto durante la corsa a piedi scalzi. Il mercato offre entrambe le soluzioni, ma non sono ancora disponibili studi scientifici che provino la riduzione degli infortuni ed il miglioramento dell’economia di corsa mediante l’utilizzo del primo o del secondo tipo di calzatura. Biochimica e metabolismo nella corsa sulle lunghe distanze La relazione del Prof. Arcelli ha analizzato il consumo metabolico della corsa sulle lunghe distanze, maratona e ultramaratona, e le conseguenti necessità alimentari. La maratona, corsa di 42 km e 195 m, è una delle discipline sportive che i fisiologi hanno cominciato a studiare da più tempo e hanno studiato più a fondo. Lo stesso non si può dire a proposito delle ultramaratone, ossia le gare di corsa più lunghe, fi no a 100 km e oltre, per le quali solo recentemente sono stati avviati studi scientifici. Il costo unitario della corsa, ossia la spesa energetica per compiere di corsa 1 km per ogni kg di peso corporeo, è pari a circa 1 kcal/kg km, equivalente ad un consumo di ossigeno di circa 200 mL/kg km. Nel 1985 Sjodin e Svedenhag hanno studiato 35 maratoneti e li hanno divisi in tre gruppi a seconda del primato personale: in media i migliori maratoneti hanno un costo unitario della corsa più basso e i peggiori più alto, ma c’è molta variabilità all’interno di ciascun gruppo. I risultati dello studio hanno evidenziato che i maratoneti d’elite hanno in media un consumo di ossigeno pari a 181 mL/kg km (da 165 a 197 mL/kg km), i buoni maratoneti hanno in media un consumo di ossigeno pari a 194,4 mL/kg km (da 174 a 206 mL/kg km), i maratoneti lenti hanno in media un consumo di ossigeno pari a 205 mL/ kg km (da 190 a 240 mL/kg km). È inoltre importante che nella parte fi nale della maratona il costo della corsa non salga: secondo uno studio di Morgan (1996), nei corridori delle lunghe distanze ben allenati non si ha alcun cambiamento né nel costo della corsa, né nel gesto meccanico. In quelli meno allenati, invece, l’uno e l’altro cambiano, soprattutto negli ultimi 10 km della maratona. Nei buoni maratoneti il consumo di ossigeno unitario è in media di 181 mL/kg km. Essendo la maratona una corsa di 42,195 km, essi consumano 7,6 litri di ossigeno per kg di peso corporeo, equivalenti ad una spesa energetica di 38,2 kcal/kg. Per correre la maratona, dunque, un individuo di 70 kg consuma 320 L di ossigeno e 2670 kcal. Circa i due terzi dell’energia necessaria per correre la maratona deriva dai carboidrati, mentre il rimanente terzo deriva dai grassi. In un maratoneta di 70 kg, quindi, il consumo è pari a 1760 kcal di carboidrati (440 g) e 910 kcal di lipidi (100 g). Nei buoni maratoneti (con un tempo attorno a 2 h 20 min) il consumo di grassi è di soli 100 g per 42,2 km. È molto importante, ad ogni modo, la capacità dei muscoli di consumare molti grassi nell’unità di tempo, ossia quella che può essere defi nita “potenza lipidica” (Arcelli e La Torre, 1994). Il consumo di 100 g di grassi durante una maratona corsa in 2 h 20 min (140 min) equivale ad una “potenza lipidica” media di 0,7 g/min. L’allenamento aumenta la potenza lipidica aumentano i lipidi trasportati dai depositi (gli adipociti) ai muscoli e aumentano i lipidi contenuti nelle fibre muscolari, laddove saranno usati. I depositi di carboidrati nell’organismo, ossia il glicogeno immagazzinato nei muscoli e nel fegato, hanno un contenuto limitato. L’ideale sarebbe poter assumere carboidrati in gara: quanto più si è veloci nella maratona, però, tanto meno carboidrati si assumono. I migliori atleti arrivano a poche decine di grammi assunti durante tutta la gara. Nella gara di corsa dei 100 km, la velocità è inferiore a quella della maratona ed è allora possibile assumere carboidrati. L’integrazione di carboidrati risulta inoltre assolutamente indispensabile: non si può, infatti, ottenere un tempo inferiore alle 9 h se in gara non si assumono carboidrati (Arcelli et al., 2009 – Figura 6). Figura 6: Potenza sviluppata dal consumo di glicogeno e di grassi in relazione al tempo richiesto per l’ultramaratona di 100 km Secondo uno studio di Jeukendrup del 2008, la miglior miscela di carboidrati da assumere durante la gara è costituita da maltodestrine (un polimero del glucosio) e fruttosio. Il loro tempo di permanenza nello stomaco è inferiore a quello del glucosio o del saccarosio e l’assorbimento intestinale è massimo. La resistenza psicologica La relazione del Prof. Trabucchi ha illustrato l’importanza della “resilienza”, o resistenza psicologica, nella pratica delle discipline sportive di resistenza come la corsa sulle distanze di maratona e ultramaratona. Il termine “resilienza” proviene dalla tecnologia metallurgica ed in campo psicologico è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino. Un aspetto fondamentale nelle discipline sportive di resistenza è il rapporto dell’atleta con la sensazione di fatica. Negli atleti, sia professionisti che amatori, ci sono forti differenze individuali nella percezione della fatica. Essa è sicuramente determinata dal livello di preparazione atletica e dal ritmo di corsa, ma anche dall’atteggiamento mentale, dalla motivazione, dalle esperienze vissute in precedenza. Per comprendere come ciò avvenga è necessario considerare il nostro concetto di fatica. La netta separazione tra la mente ed il corpo, di cui è permeata tutta la cultura occidentale, influenza anche il modo in cui sono considerate le prestazioni sportive e il fenomeno della fatica. Comunemente si considera la fatica come il prodotto di un insieme di sensazioni di origine puramente fisica, ossia qualcosa che si verifica esclusivamente a livello muscolare e che il cervello registra passivamente. In realtà la percezione della fatica è un fenomeno estremamente complesso nel quale i fattori fisiologici interagiscono continuamente con quelli mentali. Durante la corsa il cervello riceve costantemente una serie di segnali che segnali informano il sistema nervoso centrale riguardo a parametri come il livello di substrato energetico disponibile per i muscoli, la frequenza respiratoria, la temperatura interna, il livello di lattato presente nelle fibre muscolari, eccetera. Questi dati cominciano ad essere assemblati da alcune aree cerebrali dette sottocorticali, zone lontane dalla corteccia cerebrale, l’area più evoluta del cervello dove nasce il pensiero cosciente: si tratta perciò di processi di cui l’individuo non riesce ad avere alcuna consapevolezza. Il lavoro di assemblaggio delle informazioni è fi nalizzato a far confluire le stesse in una sensazione unitaria: è durante questa fase di costruzione che entrano in gioco le variabili psicologiche che sono in grado di modificare la sensazione finale che scaturirà. Esiste inoltre un fattore in gran parte mediato dalla cultura in cui viviamo: come nel caso della percezione del dolore, anche la percezione della fatica è influenzata dai modelli culturali. All’abitante di un paese occidentale industrializzato del terzo millennio può sembrare improponibile quello che poteva essere accettato come quotidianità qualche decennio prima. Questa “fuga dalla fatica” è un fenomeno sempre più diffuso, ma ha anche delle eccezioni: si osserva come lo sport attivo possa svolgere nella nostra società anche la funzione di riavvicinare le persone ad un rapporto positivo con la fatica. Il “boom” delle maratone e i fenomeni emergenti delle ultramaratone possono anche essere letti in questa chiave (Figura 7). Il fattore culturale si mescola poi alle caratteristiche personali e alle storie di vita di ciascuno. Figura 7: Il pubblico che assiste alla conferenza nell’Auditorium in Piazza della Libertà Il dibattito con gli atleti Terminate le presentazioni dei relatori, la serata ha visto un aperto dibattito con gli atleti sui temi esposti riguardo l’allenamento e la tecnica di corsa, il metabolismo e l’integrazione in gara e gli aspetti psicologici e motivazionali (Figura 8). Figura 8: Il dibattito con gli atleti. Da sinistra: la moderatrice Sarah Burgarella e gli atleti Migidio Bourifa, Paola Sanna e Ivan Cudin Migidio Bourifa ha trasmesso la sua preziosa esperienza sulla maratona, spiegando il tipo di allenamenti che svolge e la preparazione mentale in vista degli appuntamenti agonistici più importanti, che comprende anche immaginare se stesso nelle difficoltà del percorso e della fatica. Paola Sanna ha raccontato come cambia la preparazione, sia sul piano fisico (tecnica di corsa, tipo di allenamenti) che sul piano mentale nel passaggio dalla maratona all’ultramaratona, in particolare alla 100 km. Ivan Cudin ha spiegato l’importanza della resistenza psicologica nella sua ultima impresa, cominciata con una lunga preparazione alternata alla gestione di un infortunio e culminata con la sua vittoria sui 246 km di corsa che separano Atene da Sparta, anche in assenza di rifornimenti negli ultimi 30 km di gara. Il pubblico è intervenuto con molto interesse e numerose domande, sollevando punti di discussione tra gli atleti ed i relatori. La serata è stata un’interessante conferenza tecnica ed un sentito e partecipato incontro con i protagonisti nazionali della maratona e dell’ultramaratona. Sarah Burgarella ha espresso a nome della Commissione Bioingegneria tutta la sua soddisfazione per la riuscita della manifestazione, ringraziando i protagonisti di questo happening sportivo: l’Ordine degli Ingegneri che ne ha permesso la realizzazione, i relatori, gli atleti, il pubblico bergamasco che ha risposto all’iniziativa ed ha partecipato numeroso e contento per l’opportunità di conoscere gli studi scientifici che interessano la comune passione per la corsa. Ing. Sarah Burgarella Commissione Bioingegneria 13 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO I dieci anni del Dipartimento di Bioingegneria Istituto Mario Negri di Bergamo L’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri rappresenta una realtà particolare nel panorama della ricerca scientifica italiana, con una fondazione privata non-profit dedicata esclusivamente alla ricerca e alla formazione. A partire dalla fondazione dell’Istituto, negli anni ’60, l’attività di ricerca inizialmente avviata nell’ambito della farmacologia si è presto espansa a quasi tutti i settori della medicina, sia a livello sperimentale che clinico, con un costante aumento del numero di addetti che oggi sono più di 800 nelle varie sedi dell’Istituto. Con un approccio integrato tra laboratorio e pratica clinica, detto “traslazionale”, le attività di ricerca sono rivolte al trasferimento dei risultati ottenuti sperimentalmente alla pratica clinica e, al tempo stesso, partendo dalle esigenze della clinica vengono sviluppati progetti di ricerca sperimentale per approfondire i meccanismi responsabili delle malattie e le possibili cure. Con l’aumentare delle attività di ricerca già negli anni ’80 e ‘90 l’Istituto ha costituito due nuove sedi, oltre a quella centrale di Milano, una a Bergamo e una a Ranica, proprio per incrementare le interazioni tra la ricerca sperimentale e la pratica clinica. Più recentemente i gruppi di ricerca dell’Istituto sono stati organizzati in Dipartimenti, per affrontare in modo più efficiente le problematiche legate alle patologie oggetto di studio. Nell’anno 2000, le attività di ricerca svolte da alcuni ricercatori nel settore della bioingegneria sono state anch’esse riorganizzate, mediante la costituzione del Dipartimento di Bioingegneria. Il personale che appartiene a questo Dipartimento opera nelle due sedi di Bergamo, quella di nuova costruzione presso il parco scientifico del Kilometro Rosso, n quella di Ranica presso il Centro di Ricerche Cliniche di Villa Camozzi. La bioingegneria è sorta e si è sviluppata nel mondo a partire dagli anni ’80 con l’obiettivo di studiare, con tecniche proprie dell’ingegneria, le problematiche della biologia e della medicina in senso lato. Questo approccio interdisciplinare ha dato un grosso impulso alla ricerca scientifica biomedica e ha permesso di sviluppare nuove strategie terapeutiche, di identificare meccanismi responsabili dello sviluppo di alcune patologie e di mettere a punto organi artificiali e dispositivi biomedicali sempre più in uso nella pratica clinica. Nei maggiori atenei di quasi tutti i paesi più sviluppati si sono costituiti gruppi di ricerca operanti in questo settore e sono stati avviati numerosi programmi didattici orientati all’ingegneria biomedica. Anche all’interno dell’Istituto Mario Negri sono state attivate ricerche in questo settore con l’obiettivo di impiegare tecniche ingegneristiche per lo studio dei processi fisiopatologici responsabili dello sviluppo di malattie renali e cardiovascolari. A questo si sono affiancate ricerche per lo sviluppo di strategie terapeutiche innovative, sia di tipo farmacologico che basate sull’impiego di organi artificiali. In sintonia con lo sviluppo a livello internazionale della bioingegneria, le ricerche scientifiche svolte nel Dipartimento sono basate sullo sviluppo e l’utilizzo di modelli teorici, e sulla realizzazione di ricerche sperimentali. Le linee di ricerca sviluppate in questo decennio di attività e ancora attualmente attive hanno coinvolto diverse aree della medicina. La principale area di ricerca ha riguardato lo studio dei meccanismi responsabili della progressione delle malattie renali croniche. Il rene è un organo caratterizzato da processi di filtrazione e riassorbimento di sostanze che dipendono localizzazione e nella progressione del danno vascolare. Già dall’inizio delle attività nell’ambito della bioingegneria dell’Istituto Mario Negri era stato dimostrato che il moto del sangue sulla superficie interna dei vasi sanguigni influenza la biologia delle cellule che rivestono la parete vascolare, le cellule endoteliali. Particolari condizioni di moto del sangue nei pressi della parete, come vorticosità o flussi disturbati sembrano essere coinvolti nello sviluppo di danni vascolari come l’aterosclerosi. Sono state quindi attivati diversi studi per caratterizzare sia a livello sperimentale che teorico le condizioni di moto del sangue in alcuni distretti arteriosi come la biforcazione della carotide, l’arteria renale o gli aneurismi cerebrali. A partire da indagini strumentali di questi distretti vascolari mediante ecografia Doppler, tomografia assiale computerizzata (TAC) e risonanza magnetica, si possono generare serie di immagini digitali che vengono elaborate con sofisticate tecniche numeriche per la ricostruzione geometrica delle arterie e la simulazione al calcolatore del campo di moto del fluido. Figura 3 - Ricostruzione tridimensionale del tratto addominale dell’aorta a partire da immagini TAC. La geometria della parete dei vasi viene modellata a livello numerico mediante la generazione di una mesh di calcolo. Queste analisi permettono di simulare le condizioni emodinamiche locali e le sollecitazioni meccaniche agenti sulla parete. L’obiettivo di queste indagini è quello di fornire al medico strumenti più efficienti per l’identificazione di placche ateromasiche a rischio di progressione che possono provocare patologie importanti come l’infarto del miocardio o l’ictus. Figura 1 – Nuova realizzazione dei laboratori dell’Istituto Mario Negri a Bergamo all’interno del parco scientificotecnologico del kilometro rosso. Figura 2 – Laboratori di microscopia elettronica del Dipartimento di Bioingegneria nella nuova sede dell’Istituto Mario Negri di Bergamo. 14 dai fenomeni di trasporto che si instaurano e che sono mantenuti dalla circolazione del sangue e dalla filtrazione e riassorbimento del’acqua. Lo studio della funzione renale è quindi basato su misure quantitative di concentrazione di soluti, di flussi e pressioni, e sull’impiego di modelli teorici. L’utilizzo di questi modelli si basa anche su dati provenienti da indagini istologiche e ricostruzioni tridimensionali della struttura dell’organo a livello macro e microscopico. La combinazione dell’approccio sperimentale e della simulazione teorica ha permesso di approfondire lo studio dei meccanismi cellulari responsabili dello sviluppo e della progressione di queste patologie. L’obiettivo di questi studi è quello di rallentare o arrestare la progressione di alcune malattie renali per evitare il ricorso alla dialisi o il trapianto di rene. Un’altra area che ha caratterizzato in modo importante l’attività del Dipartimento è stata quella dello studio dell'effetto delle condizioni emodinamiche nella Figura 4 - Ricostruzione geometrica di uno shunt arterovenoso realizzato per l’accesso vascolare in pazienti sottoposti a trattamento emodialitico. Rappresentazione grafica dello sforzo di taglio agente su una biforcazione arteriosa per effetto del flusso ematico calcolato mediante soluzioni numerica del campo di moto del sangue. Le zone colorate in rosso e in blu sono soggette rispettivamente ad alti e bassi valori di sforzo di taglio. Lo sviluppo delle ricerche nel campo della biologia cellulare e molecolare degli ultimi decenni ha permesso di crescere in laboratorio cellule di diversi organi e tessuti e cellule progenitrici, fi no alla ormai ben note cellule staminali. Le tecniche di coltura e la crescita di queste in laboratorio è oggi alla base di una nuova disciplina denominata “ingegneria dei tessuti”. INGEGNERIINGEGNERI BERGAMO BERGAMO Con questo approccio si intende l’attività di isolamento e coltura di cellule su particolari strutture biodegradabili di supporto (scaffolds) per generare in laboratorio tessuti bioartificiali con i quali sostituire tessuti danneggiati da patologie o da traumi. Un esempio di queste applicazioni sono la pelle artificiale e la cartilagine artificiale. In generale l’obiettivo è quello di aiutare la rigenerazione di questi tessuti mediante forme opportune di terapia cellulare. Queste tecniche, per poter manipolare in laboratorio cellule e tessuti in modo adeguato devono essere basate sull’analisi dei fenomeni di trasporto delle sostanze che permettono e regolano la funzione cellulare, a partire per esempio dall’ossigenazione. Nell’ambito del Dipartimento è attivo un gruppo di ricerca che combina le tecniche sperimentali con gli studi teorici proprio per raggiungere l’obiettivo di rigenerare tessuti in laboratorio. Un esempio di queste ricerche è costituito dallo sviluppo di un pancreas bio-artificiale, basato sul trapianto cellulare mediante dispositivi artificiali di immunoisolamento, nel tentativo di ripristinare il controllo glicemico in pazienti affetti da diabete insulino-dipendente. Altri progetti di ricerca in questo settore comprendono l’ingegneria del tessuto vascolare con l’obiettivo di sviluppare protesi vascolari innovative di piccolo calibro, e la rigenerazione in laboratorio di un intero organo come il rene. A fianco degli studi teorici e sperimentali, il Dipartimento è impegnato anche nello sviluppo di sistemi computerizzati per gestione dei dati clinici, sia a livello clinico che di ricerca. Sono infatti attivi numerosi progetti basati sull’impiego di tecnologie informatiche per la raccolta e la gestione di dati prodotti durante l’esecuzione studi clinici controllati Figura 5 - Immagine al microscopio della struttura di un vaso arterioso bioartificiale. Si osserva la sezione di fibre di materiale riassorbibile (acido ialuronico esterificato) e del materiale cellulare intorno ad esse. e di quelli generati dalla pratica clinica. Recentemente sono state sviluppate tecniche per la raccolta dati online e l’esecuzione di studi clinici controllati completamente informatizzati. L’obiettivo di queste ricerche è duplice. Da un lato si sviluppano sistemi sempre più efficienti per uno scambio immediato delle informazioni cliniche al fine di migliorare la qualità della cura. Dall’altro si implementano e analizzano basi di dati che sono preziose per valutare i risultati della pratica clinica, identificare le aree critiche e implementare protocolli di cura sempre più efficaci e in grado di prevenire o curare le patologie. Durante questi dieci anni di attività il Dipartimento è stato coinvolto in diversi progetti di ricerca fi nanziati da organismi nazionali o internazionali, tra questi due progetti fi nanziati dalla Fondazione Cariplo, un progetto FIRB del MIUR e tre progetti di ricerca dell’Unione europea, due dell’FP6 e uno in corso dell’FP7 di cui viene svolto il ruolo di coordinamento. L’attività di ricerca del Dipartimento è stata svolta anche mediante collaborazioni con altri Dipartimenti dell’Istituto, con alcune Università, come il Politecnico di Milano e l’Università di Bergamo, e con ospedali, tra cui gli Ospedali Riuniti di Bergamo, l’Ospedale di Niguarda e l’Ospedale San Carlo. Sono state anche attivate collaborazioni con centri di ricerca a livello internazionale, tra cui l’MIT, l’Università di Toronto, l’Università di Eindhoven e quella di medicina di Maastricht. Le collaborazioni con le attività accademiche e i reparti degli ospedali hanno rivestito un ruolo strategico per accrescere il livello della ricerca, reclutare giovani motivati e raggiungere risultati importanti. Nei dieci anni di attività del Dipartimento sono state prodotte più di cento pubblicazioni apparse su riviste scientifiche internazionali e sono stati organizzati più di trenta convegni e seminari. Infi ne sono stati seguiti circa venti lavori di tesi di laurea magistrale in Ingegneria e in altri settori scientifici e sette studenti hanno conseguito il Dottorato di Ricerca in Bioingegneria e Biofisica. Ing. Andrea Remuzzi Responsabile Dipartimento di Bioingegneria Istituto Mario Negri Bergamo Il Primo Forum Globale sui Dispositivi Medici organizzato dall’OMS Sarah Burgarella, ingegnere biomedico bergamasco e presidente della Commissione Bioingegneria dell’Ordine degli Ingegneri di Bergamo, ha partecipato al Primo Forum Globale per i Dispositivi Medicali organizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità Il Primo Forum Globale per i Dispositivi Medicali si è svolto a Bangkok, Tailandia, dal 9 all’11 settembre. Figura 1: Il Primo Forum Globale sui Dispositivi Medici È stata invitata al forum per presentare un progetto al quale lavora con l’Università di Pavia per la realizzazione di un dispositivo medico a basso costo per la diagnosi della malaria e dell’AIDS nei paesi in via di sviluppo. Il progetto è stato riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità tra le 15 tecnologie innovative di ricerca per la salute globale: unica proposta italiana selezionata al concorso dagli esperti dell’OMS su un totale di 84 progetti provenienti da 29 nazioni. Figura 2: La presentazione delle 15 tecnologie innovative di ricerca per la salute globale Figura 3: La conferenza organizzata dall’OMS Più di 350 esperti del mondo biomedicale provenienti da 119 nazioni si sono riuniti per condividere le loro conoscenze e costruire reti di collaborazioni internazionali: erano presenti funzionari dei Ministeri della Salute e stakeholders tra cui rappresentanti di organizzazioni internazionali, agenzie di supporto finanziario, istituzioni accademiche e industrie attive nella produzione di dispositivi medicali. Obiettivo del forum, come dichiarato nel discorso di apertura dal Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Dott.ssa Margaret Chan, trovare soluzioni tecniche ed economiche affinché anche i paesi in via di sviluppo possano accedere alle tecnologie biomedicali per la diagnosi e la cura: uno studio dell’OMS, “Medical devices: managing the mismatch”, ha infatti evidenziato come troppo grande sia il divario che separa l’elevata disponibilità di apparecchiature biomedicali ad alto costo nei paesi ricchi e la mancanza dei più essenziali dispositivi medici nei paesi in via di sviluppo. Al termine del Forum di Bangkok, Sarah Burgarella ha proseguito verso Singapore dove ha visitato il Laboratorio di Biomeccanica Cellulare della National University di Singapore per concretizzare ulteriormente la costruzione di un network di collaborazioni internazionali per la ricerca sui dispositivi diagnostici innovativi, a basso costo, utilizzabili nei paesi in via di sviluppo. Ing. Sarah Burgarella Commissione Bioingegneria 15 INGEGNERI INGEGNERI BERGAMO BERGAMO 16