Filomeno Moscati ‘Nci steva ‘na vota Gennarino Romei © Riserva di tutti i diritti Vietata la riproduzione In qualsiasi forma effettuata Foto Giulio Renzulli 2 ‘Nci steva ‘na vota GENNARO ROMEI Presentazione Da che cosa è scaturito l’impulso a scrivere un libro su Gennarino Romei e le sue pubblicazioni librarie? Questa è la domanda ch’io mi son posto quando mi sono accinto a scrivere questa biografia. Mi è subito tornato alla mente che , all’inizio di questo millennio, quando mi apprestavo a scrivere la prima edizione della mia Storia di Serino, qualcosa mi aveva colpito nella lettura delle sue pobblicazioni, tanto da ritenerlo degno di essere incluso, e con un commento lusinghiero, in quel libro. Ecco cosa scrissi allora su Gennarino Romei: “Il 31 maggio 1997 ci fu un altro avvenimento legato alla storia di Serino. Il sindaco di Serino, Armando Ingino, consegnò all’insegnante in pensione, Gennaro Romei, una targa dorata con la seguente scritta: << Allo illustre concittadino prof. Gennaro Romei, l’Amministrazione Comunale di Serino con immenso affetto e gratitudine per aver tramandato ai posteri la storia del nostro paese.>> Mai targa , o medaglia, fu più meritata perché Gennaro Romei, uomo innamoratissimo della sua terra, fu, nelle sue numerosissime pubblicazioni, raccoglitore attento e preciso di fatti e notizie riguardanti le vicende di Serino. Ma il suo merito principale non è quello, pur notevole, di raccoglitore di notizie bensì quello di averci fatto conoscere opere che 3 Filomeno Moscati altrimenti sarebbero rimaste nascoste e ignorate, come i Ricordi del Dottor Salvatore Molinari, che abbracciano un cinquantennio di storia del Serinese, e, soprattutto, di averci tramandato le tradizioni, le fiabe, i canti, i proverbi popolari attraverso i quali riemerge la storia vera di un popolo, quella più umile, intima e familiare, una storia espressa spesso in vernacolo e, sempre, con uno stile semplice, incisivo, che si imprime nella mente e fa fremere il cuore. Ѐ soprattutto in queste opere che vive Gennarino Romei, ed è in esse che noi sentiamo pulsare il suo cuore, il cuore di un “Maestro” che amò d’immenso amore il suo paese. E queste sue opere non morranno!”1 In questo succinto commento all’opera di Gennarino Romei è chiaramente esplicitato il motivo per cui ho ritenuto opportuno, e anzi necessario, ritornare a parlare di lui e delle sue pubblicazioni in modo più ampio e approfondito; soprattutto di quelle scritte in dialetto serinese che riguardano le tradizioni, le fiabe, i canti, i proverbi, manifestazioni inconfutabili della cultura espressa dalla millenaria civiltà contadina del nostro paese. Le tradizioni, definite in tutti i dizionari della lingua italiana come “memorie dei tempi passati tramandate 1 Moscati Filomeno, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Lancusi (SA) 2002, p.414; 4 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI per via orale”, rivestono grandissima importanza, per la storia di un popolo e di un paese, perchè documentano fatti, usanze, riti, credenze e costumi antichi, e spesso scomparsi; usanze, riti e costumi, che, costituendo un patrimonio prezioso di fonti documentali, consentono la ricostruzione e l’interpretazione della cultura espressa da antiche civiltà; civiltà in via di estinzione e, talvolta, addirittura scomparse. La trasmissione di queste conoscenze, costituisce, perciò, un fatto di rilevante importanza, perché la cultura specifica di una stirpe è importante, sia dal punto di vista individuale che collettivo, per ogni popolo e per ogni paese. Nel caso delle tradizioni, intese come fonti documentali di cultura, non s’intende parlare del sapere inteso in senso convenzionale, cioé del complesso di nozioni individuali, che si apprendono con lo studio sui libri nei banchi delle scuole, ma della cultura cosiddetta popolare. Quest’ultima non si apprende sui libri, né nei banchi delle scuole, ma con la semplice appartenenza a una comunità, e, poiché si acquista con l’esistenza stessa nell’ambito di un gruppo sociale, a cominciare da quello familiare, essa non diventa patrimonio di un semplice individuo ma di tutti quelli che fanno parte di quel gruppo e in esso si riconoscono; ed è questa la ragione per cui viene definita popolare. 5 Filomeno Moscati A differenza della cultura individuale, che è erudita e settoriale, la cultura popolare, essendo frutto della esistenza stessa, abbraccia tutti gli aspetti della vita, e, di conseguenza, tutti gli aspetti della conoscenza e del sapere di una comunità e non può essere, perciò, limitata e settoriale. Ne deriva che i suoi libri sono costituiti da oggetti materiali, come gli edifici, gli attrezzi di lavoro, i manufatti, i cibi che costituiscono l’alimentazione del gruppo in epoche determinate (Cultura cosiddetta materiale); da riti religiosi e civili, usanze, lingua, proverbi, valori morali che regolano la vita e la morte della comunità in quelle stesse epoche (Cultura cosiddetta spirituale). Gennarino Romei ha avuto il grande merito di averci tramandato, nei suoi libri, la documentazione della cultura espressa dalla nobile civiltà contadina del nostro paese, e, merito ancora maggiore, di avercela trasmessa con verità, senza gli inutili orpelli di aggiunte o sovrapposizioni. Essa costituisce un prezioso materiale di studio per i filologi e per le generazioni future, perpetuando, così, il legame che unisce il presente al passato , la nascente civiltà industrialeinformatica con la morente civiltà contadina del nostro paese. Il lavoro di Gennarino Romei rischiava, però, di rimanere sottovalutato e incompreso, finendo per essere considerato come una semplice raccolta di fatti 6 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI e di curiosità legati a epoche e generazioni del passato. La spiegazione di tradizioni, consuetudini e riti del passato, derivante dagli studi sui riti e le consuetudini delle antiche civiltà compiuti da antropologi e etnologi di fama mondiale, consentendo ai lettori di comprenderne il significato recondito restituisce al lavoro di Gennarino pregio e valore. Foto, disegni, illustrazioni e grafica sono opera di Giulio Renzulli , che, con la sua arte, ha reso visibili e concrete le tradizioni e le immagini fiabesche evocate da Gennarino Romei. Filomeno Moscati 7 Filomeno Moscati 8 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI I “ I RICORDI” della mia vita Le notizie e le vicende salienti della vita di Gennaro Romei, comunemente conosciuto col nome Gennarino,2come egli stesso amava talvolta firmarsi,3possono, tutte, essere ricavate dalla fonte più autorevole che possa esistere, la sua autobiografia, cui egli ha dato l’emblematico titolo di “I RICORDI” della mia vita. È questo titolo a richiamare alla mente, per la sua evidente somiglianza e assonanza, l’autobiografia di un illustre personaggio della politica e della cultura dell’Ottocento italiano: “I miei ricordi” di Massimo D’Azeglio. Nel corso della lettura ci si accorge che la somiglianza non sta soltanto nel titolo, ma anche nel contenuto del libro, giacché Gennarino fa, in esso, “un ritratto psicologico e morale di sé,”utile“sia a coloro che si dedicano ad educare gli altri, sia a quelli che intendono educare se stessi… per migliorarsi attraverso l’esempio di personaggi non potenti, non 2 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s.r.l. Avellino 1993, pp. 3, 4, 165, 239; 2 Romei Gennaro, Amici e Sirinu virite ogni mese che vi rice,Poligrafica Ruggiero, Avellino 1997, p.3; 9 Filomeno Moscati famosi, ma d’eroi la più parte ignorati, tutti vittime e nessun carnefice,”cioè di “ quelli che sacrificano sé agli altri e non gli altri a sé”;4proprio quello che, con queste parole, il D’Azeglio dichiarava di voler fare nel proemio della sua autobiografia; proemio intitolato Origine e scopo dell’opera.5 Conciso, ma di grande impatto psicologico e sentimentale, è l’esordio dell’autobiografia di Gennarino Romei, che, in appena nove righe, riesce a darci un quadro preciso dell’ambiente materiale ed umano in cui nacque e in cui trascorse l’infanzia, in una casa modesta di onesti e religiosi agricoltori, in un casale industrioso, nel seno di un’ operosa famiglia patriarcale, tipica dell’antica civiltà contadina dell’ Alta Valle del Sabato: “ Nacqui a Serino, frazione Ferrari, il 31 ottobre 1914. Fui battezzato il giorno seguente, I° novembre, giorno di tutti i Santi e. perciò, il mio secondo nome è Santo. Fui allevato con mia sorella Marina, nata due anni prima di me, da mamma Sabatella in casa dei nonni materni, Carmine e Concetta, perché mio padre Giuseppe, richiamato alle armi nel Corpo dei Bersaglieri, da Verona fu mandato in Libia, ove risultò 4 D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, Letteratura Italiana Einaudi, Edizione di riferimento Barbera Firenze 1891, p.2; 5 D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, G. Barbera Editore, Firenze 1867, pp. 1-14 ; 10 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI disperso in un’azione di pattuglia contro gli Arabi il 15 giugno 1915. Non aveva che ventitré anni. Io avevo soltanto sette mesi.”6 Le pagine successive del capitolo I, sono tutte tese a illustrare l’ambiente umano in cui Gennarino trascorse l’infanzia, che egli definisce “non troppo lieta,”7sotto la guida della madre Sabatella; una donna dal carattere libero e fiero, che, “amareggiata per la prematura morte del marito”, costringeva se stessa e i figli a una vita spartana, in cui non esistevano né feste né regali. In questo clima austero assumono maggiore rilievo, nella mente e nel cuore di Gennarino, le cure e l’affetto di cui lo circondavano la bisnonna Scolastica e i nonni materni: Carmine, “che lo conduceva a tutte le feste patronali che d’estate si svolgevano nei vari villaggi di Serino”; e Concetta,“una santa donna sempre pronta ad accontentarlo e a sottrarlo alle minacce della mamma.”8 Vivido nella mente di Gennarino adulto è, perciò, il ricordo di quest’anziana signora, che, quand’egli le teneva il broncio, lo riaccostava a sé preparandogli “il pettolone”; una crespella di farina di grano, cosparsa in superficie di una leggera spolverata di zucchero, che costituiva il dolce casalingo, economico e di semplice e rapida 6 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero, s.r.l.,Avellino 1993, p.5; 7 Romei Gennaro, idem, p. 5; 8 Romei Gennaro, ibidem, p. 8; 11 Filomeno Moscati fattura, che si approntava per i bambini in tutte le famiglie di Serino sia nobili che popolane. È a questo punto che, d’improvviso, il ricordo di nonna Concetta rende palese, con l’inserimento del racconto favoloso de “ ’A papira cugghiuta, chill’animale scattigghiusu papira ra coppa e masculu ra sotta”,9 la nota più caratteristica della personalità di Gennaro Romei, il suo amore per il mondo surreale e i personaggi fantastici, come quelli di “Marialonga” e della “papira”, e la propensione per il vernacolo, che, oltre a costituire il supporto naturale delle narrazioni fiabesche, era la lingua in cui le aveva ascoltate, fanciullo, dalla bocca di nonna Concetta. ‘A papira cugghiuta 9 Romei Gennaro, ibidem, p.10; 12 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI La narrazione delle vicende della vita di Gennarino, nell’età della scuola elementare, è influenzata da una visione palesemente critica dei metodi di insegnamento, rigidi e spesso violenti, di una scuola antiquata; da essa tuttavia emergono, quasi per contrasto, altri due lati della sua personalità, l’amore per la vita libera in un ambiente naturale e l’avversione per la violenza e i soprusi da chiunque effettuati, sentimenti che lo accompagneranno per tutta la vita. 10 Gli anni dell’adolescenza furono quelli della sua formazione umana e professionale; anni in cui, fra birichinate, spensieratezza, dubbi e tentativi vocazionali tipici dell’età, egli, pur essendo profondamente religioso, prese coscienza di sé, e, seguendo la sua inclinazione naturale di uomo libero e di forte carattere che aveva ereditato dalla madre, pose termine, con una fuga, agli studi, che, dal 1928, aveva intrapreso presso i seminari di Salerno e di Nusco e scelse di diventare educatore. Rivelatrice, in proposito, è la descrizione che egli fa di questa decisione che avrebbe condizionato tutta la sua vita futura: “Tornato a casa non potevo non pensare al mio avvenire. Mi preparai da solo a sostenere gli esami di ammissione alla prima classe del Liceo Scientifico di Avellino, esami che superai con 10 Romei Gennaro, “ I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, pp.15-20; 13 Filomeno Moscati facilità. Decisi, però, di iscrivermi alla prima classe dell’Istituto Magistrale. Tale scelta fu dovuta al fatto che volevo esplicare la missione di maestro, in quanto ero attratto dai fanciulli con i quali spesso giocavo e ai quali raccontavo fiabe in dialetto.” 11 Essa ci rivela, infatti, che fin da allora egli vedeva la sua futura professione, di maestro nelle scuole elementari, non come semplice mezzo per assicurare una vita economicamente dignitosa a sé e alla sua famiglia, ma come una missione da compiere; una missione che si sentiva intimamente chiamato a esplicare e che, perciò, rendeva assai più alta e nobile la professione da lui scelta. E, di nuovo, in questa sua scelta decisiva, ricompare l’altra nota caratteristica della sua vita, la passione per il racconto di fiabe in vernacolo; una passione che avevamo istintivamente intuito quando ci aveva presentato, quasi come racchiusi nella cornice di un quadro immaginario, la figura di nonna Concetta (mammella) che raccontava fiabe seduta accanto al focolare nelle lunghe notti invernali, in una cucina fumosa a stento illuminata dalla fioca luce di un lume a petrolio (scistarulo), e i volti intenti dei bambini attratti da racconti fantastici di orchi e di fate. Conseguita finalmente la licenza magistrale, nell’anno 1936, Gennarino Romei 11 Romei Gennaro, idem, p. 39; 14 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI intraprese la sua professione di insegnante, nell’anno scolastico 1937-38, con un incarico annuale nelle scuole elementari della frazione Rivottoli di Serino. Ecco come egli descrive la gioia che trasse da questa sua prima esperienza di maestro elementare: “La direttrice mi affidò le prime due classi. Nei primi giorni trovai molte difficoltà soprattutto nell’insegnamento ai ragazzi di prima. Mancavo di esperienza e, quindi, di metodo. L’Istituto Magistrale ai miei tempi non preparava i maestri all’insegnamento. Con il passar dei giorni, però, le idee si presentavano più chiare alla mia mente. Ero contento. Gioivo nel trovarmi in mezzo a quei vivaci fanciulli a cui volevo molto bene.”12 La gioia che traeva dall’insegnare con i metodi tradizionali, comuni ai suoi tempi, non poteva appagarlo, e, nell’anno scolastico 1938-39, ricevuto l’incarico annuale di insegnante nelle scuole elementari di Santo Stefano del Sole, si lanciò in una impresa per quei tempi addirittura rivoluzionaria, l’insegnamento con il metodo globale. “Era allora in voga il metodo sillabico fonetico,” egli dice nella sua autobiografia,“faceva, però, capolino un nuovo metodo: quello naturale o globale. Ne fui 12 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 53; 15 Filomeno Moscati attratto. Fui l’unico maestro di tutto il Circolo ad attuarlo. Il risultato fu lusinghiero.13 Con l’adozione del metodo globale Gennarino Romei s’inserisce, a pieno titolo, nel movimento delle cosiddette scuole nuove. Il maggiore esponente di questo movimento fu Ovidio Decroly (1871-1932), un medico belga, che, avendo dedicato tutta la sua vita allo studio dello sviluppo sia fisico che mentale del bambino, era diventato un vero esperto di psicologia infantile. Egli fu anche il massimo sostenitore e divulgatore in tutte le sue opere, ma soprattutto in quella che ha per titolo “ La funzione della globalizzazione nell’insegnamento”, del metodo naturale globale. 14 Decroly, partendo da constatazioni sperimentali, sosteneva che non è il fanciullo che deve adattarsi alla scuola, ma la scuola al fanciullo e che è, perciò, “assurdo volerlo preparare alla vita di domani con metodi adatti alla società di ieri”. L’esperienza dimostra che al mondo tutto cambia, e, col cambiare dell’ambiente fisico e sociale, cambiano anche i bisogni e le condizioni di vita. Il fanciullo stesso è un soggetto “in continua evoluzione; le sue capacità di astrazione e di generalizzazione, di emotività e di 13 Romei Gennaro, idem, p. 53; Decroly Ovide, La function de globalisation et l’enseignement, Lamertin, Brussels 1929; 14 16 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI affetto, d’iniziativa e di energia, di resistenza e di forza di carattere si sviluppano e crescono in modo diseguale, ondulatorio, non parallelo, quasi come avviene per il suo sviluppo fisiologico. È la scuola, quindi, che deve adattarsi al fanciullo e non questi alla scuola e la sua prima preoccupazione dev’essere quella di osservarlo in tutte le età e in ogni momento”. In una scuola siffatta non può esistere il dogmatismo di un sapere precostituito inculcato dall’alto, e a forza, nella mente dei bambini; né vi può essere “un maestro che parla e alunni che ascoltano, ma una stretta collaborazione degli uni e degli altri durante la quale il fanciullo impara ad agire”. La nuova scuola dev’essere, di conseguenza , una scuola attiva; una scuola in cui l’alunno partecipa spontaneamente e attivamente all’ elaborazione delle nozioni che apprende. Questa partecipazione diventa possibile solo quando il processo di apprendimento avviene uniformandosi alle regole del naturale e fisiologico processo percettivo del fanciullo e quando l’argomento, trattato nello studio delle materie, stimola l’interesse dell’alunno. Stabilito questo principio fondamentale, ne consegue che il metodo d’insegnamento non può essere che globale, perché, dice Decroly:“ non è vero che l’elemento sia più facile dell’insieme, che occorra procedere dal semplice al complesso, dal particolare al 17 Filomeno Moscati generale”, ma, anzi, è vero il contrario, giacché il processo percettivo del fanciullo va dal generale e dal complesso al semplice e al particolare e, perciò, ”la percezione è sempre inizialmente globale”. È questo il motivo per cui, nel metodo globale del Decroly, per l’insegnamento della scrittura e della lettura bisogna partire dalle frasi e non dalla sillaba e dalla lettera. Al principio della globalità il Decroly unisce quello dell’interesse; e ciò che maggiormente stimola l’interesse del fanciullo è la soddisfazione dei suoi bisogni vitali (nutrirsi, coprirsi, difendersi dai pericoli, lavorare), che costituiscono dei centri d’interesse per l’insegnamento unitario delle varie materie.15 L’ottimo risultato ottenuto con l’applicazione del metodo globale, (con tutti i suoi alunni che a Natale sapevano leggere e scrivere, cosa addirittura strabiliante per quei tempi) non poteva, comunque, bastare al giovane maestro Gennarino Romei, che, avendo col tempo ideato un metodo del tutto personale, così commenta quest’esperienza: “Il risultato fu lusinghiero. Avevo ormai acquisito un metodo del tutto personale che col passare degli anni, fortificato dall’esperienza, destò, per i felici risultati, meraviglia nelle famiglie, nei colleghi e nei superiori. A 15 Agazzi Aldo, Panorama della PEDAGOGIA D’OGGI, “La Scuola” Editrice, Brescia 1948, pp. 112,113; 18 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Natale i miei alunni di prima leggevano e scrivevano correttamente”16 L’amore per l’insegnamento gli fa però capire che un metodo , anche se basato su solide premesse teoriche e scientifiche, può diventare efficace e fruttuoso solo quando scaturisce ed è sorretto da una solida preparazione culturale, relazionale e didattica dell’insegnante. Sostenuto da questa convinzione egli mette in atto nell’anno scolastico 1939-40, nella sua scuola di Santo Stefano del Sole, un metodo d’insegnamento tutto suo, un metodo che potremmo definire metodo d’insegnamento individualizzato, perché si adatta, inizialmente, alla capacità individuale di ogni alunno, e, successivamente, ai suoi personali progressi. Egli così descrive questa nuova fase esplicativa della sua missione di maestro: “L’amore immenso per i fanciulli mi spingeva a prepararmi accuratamente sul piano relazionale e didattico. Li educai all’autocontrollo, formai dei gruppi tenendo all’inizio presente la capacità e la tendenza di ciascun alunno. Di mano in mano avveniva il passaggio da un gruppo all’altro. Ognuno dava e quel che dava diventava patrimonio del gruppo e poi di tutti. Lodavo i 16 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.53; 19 Filomeno Moscati più forti ma, nel contempo, incoraggiavo i più deboli.”17 La parte iniziale di questa descrizione richiama immediatamente alla mente quello che, fatte le debite proporzioni, il nostro grande conterraneo Francesco De Sanctis scrisse, nella sua opera autobiografica intitolata“La giovinezza”, per esporre l’apertura della sua scuola personale al Vico Bisi: “Ciascuna lezione spremeva il miglior sugo del mio cervello. Io mi ci preparavo per bene, e tutto il dì non facevo che pensare alla lezione anche per istrada, gesticolando, movendo le labbra; e gli amici dicevano, canzonando: Che fa De Sanctis? Pensa alla lezione.”18 La seconda parte richiama, non so se consciamente o inconsciamente, la realizzazione di un nuovo tipo di scuola nuova, definita serena perché ispirata al rispetto della libertà e dell’individualità, di cui fu propugnatrice e divulgatrice Maria Boschetti Alberti.19 Il richiamo è giustificato dal fatto che anche nella scuola dell’Alberti il rispetto dell’individualità avveniva attraverso la formazione di “diversi gruppi”, in cui“talvolta un debolino cerca uno più forte di lui, ma quasi sempre si uniscono insieme secondo il grado di 17 Romei Gennaro, idem, p. 58; De Sanctis Francesco, La giovinezza, Universale Economica, Milano 1950, p. 101 19 Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società Editrice “La Scuoia”, Brescia 1955; 18 20 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI loro levatura intellettuale. I gruppi non sono stabili: si formano, si disfano secondo le diverse materie.”20 In questo tipo di scuola “la parte dei maestri è di rispettare le leggi supreme di libertà, di rispettare lo svolgersi delle individualità.”21 Nell’anno scolastico 1941-42, dopo una breve parentesi in divisa militare, Gennarino riprese ad esplicare la sua missione di maestro nella scuola rurale di Vigne Sant’Angelo di Candida; una scuola che per i locali in cui era collocata, l’ambiente naturale che la circondava e gli alunni che la frequentavano, tutti di estrazione contadina, era molto somigliante a quella di Agno. A quest’ambiente naturale e sociale adattò il suo metodo d’insegnamento , che egli così descrive: “Spesso quand’era bel tempo facevo lezione all’aperto. Quell’aria primaverile era salubre e si respirava a pieni polmoni. A me faceva piacere far lezione all’aperto anche perché i fanciulli, a contatto con la natura, si esprimevano con genialità. Lo studio dell’ambiente portava verso orizzonti più vasti. Fu un anno di un’esperienza eccezionale di cui serbo un ottimo ricordo.”22 Era un metodo ideato a misura di ambiente 20 Boschetti Alberti Maria, idem, pp.65,66; Boschetti Alberti Maria, idem, p.59; 22 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.70; 21 21 Filomeno Moscati umano e naturale; un metodo che, applicato, stimolava i sensi e vivificava lo spirito mettendo a nudo la genialità degli alunni, cosa che aveva già notato la Boschetti Alberti quando affermava che “ i ragazzi,… fuori, nel cortile, son naturali, son svelti, son vivi. Passata la porta della scuola, i visi si coprono d’una maschera; gli occhi perdono la loro viva luce, cessano di esprimere l’anima, son occhi di vetro. Anche il corpo diventa impacciato, ed ha in ogni movenza un che di falso, di finto di artefatto.”23 Il miracolo di una scuola viva, e perciò attiva, poteva verificarsi soltanto quando la scuola veniva vissuta dai ragazzi come un proseguimento della vita reale, come “una continuazione, meglio come una congiunzione tra la vita ristretta della casa e della famiglia e la vita estesa del mondo e della natura;”24e questo miracolo aveva compiuto Gennarino Romei nell’umile scuola rurale di Vigne Sant’Angelo del Comune di Candida. Le pagine successive de “ I RICORDI” sono dedicate alle vicende tragiche della sconfitta militare dell’ Italia e alla sua liberazione, dall’occupazione tedesca , da parte degli eserciti alleati. Esse costituiscono una descrizione, umana e partecipata, di tempi grami 23 Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società Editrice La Scuola, Brescia1955, p. 32; 24 Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società Editrice La Scuola, Brescia 1955, p. 62; 22 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI vissuti prima come militare, e, poi, come civile scampato ai pericoli della guerra e, miracolosamente (sogno o, meglio, apparizione della Madonna)25, ritornato in seno alla propria famiglia, anch’essa scampata incolume da ogni pericolo. La narrazione di queste vicende di carattere autobiografico, pur costituendo una testimonianza personale minuziosa di microstoria locale, rimane, a mio avviso, a livello di pura cronaca perché Gennarino, pur compiendo il suo dovere, non era portato per la vita militare e per le imprese eroiche e, pertanto, in esse manca quella forza narrativa e vivificatrice che si avverte nelle pagine in cui parla di quella che egli ritiene la sua unica vera missione nella vita, quella di insegnante. Questa forza vivificatrice la ritroviamo, intatta, quando Gennarino racconta come, superato il periodo critico della guerra, riprende ad insegnare, questa volta nel suo Comune nativo, e per di più nella frazione di Ferrari in cui era effettivamente nato e dove aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza: “I principi della mia azione didattico - educativa erano costituiti dall’autogoverno e dall’autoformazione nell’ambito dei valori religiosi, etici e di convenienza sociale e civile. Esigevo che gli alunni fossero assidui e puntuali alle lezioni e che curassero la tenuta dei libri e dei quaderni. 25 Romei Gennaro, “ I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l,, Avellino 1993, p. 78; 23 Filomeno Moscati Base di tutto era una disciplina rigorosa ma umana…..il criterio dell’unità di lavoro, nonostante l’articolazione delle materie, era alla base della mia attività didattica. Il programma restava legato allo studio dell’ambiente nel suo aspetto storico, geografico e scientifico. Da tale studio emergevano le varie materie che venivano legate le une alle altre da continui richiami. Gli alunni organizzandosi in comunità di classe ed imparando ad agire in forma democratica andavano ampliando via via l’orizzonte locale verso quello nazionale, europeo ed extra europeo….. Maturava inoltre in essi la coscienza in senso civico, etico, sociale e politico per una futura partecipazione responsabile e attiva al progressivo miglioramento della società.”26 È, come si vede, un completamento del suo metodo personale; un completamento di metodo, che, adeguandolo alle nuove esigenze di una nazione e di una società democratiche,permetteva lo svolgimento di un programma che consentiva agli alunni di attuare da una parte l’autogoverno, attraverso le attività pratiche, e, dall’altra, l’autoformazione di una coscienza etica e civica, attraverso l’acquisizione di una cultura che privilegiasse i valori civili, sociali e religiosi. 26 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l, Avellino 1993, pp. 92-93; 24 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI È esattamente quello che Massimo D’Azeglio intendeva fare, come egli stesso chiarisce nel proemio alla sua opera autobiografica, quando dice che fra gli intenti che l’avevano spinto a scriverla c’era anche quello di “formare gli italiani insegnando loro a rinnovarsi, a non rimanere gli italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio e, cioè, a fare il proprio dovere anche se, il più delle volte, fastidioso, volgare e ignorato.”27 È questa la ragione per cui Gennaro Romei, riaffermando la sua visione missionaria dello insegnamento, inizia, con veemente passione, il brano in cui illustra questa nuova evoluzione del suo metodo, dicendo: “ Lode a quel maestro che intende la sua carriera come missione e non come professione. Egli, infatti, non è un impiegato qualunque in quanto deve aver cura della mente e del cuore del fanciullo. Il suo compito è veramente arduo e difficile, perché si trova non solo di fronte al pluralismo culturale ma anche di fronte alla potenza illuminata della tecnica, che spesso trascina l’uomo nel materialismo, dando, così, luogo ad un appiattimento e ad una pigrizia collettiva.”28 27 D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, Letteratura Italiana Einaudi, Edizione di riferimento Barbera, Firenze 1891, p. 4; 28 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.92; 25 Filomeno Moscati Quest’appiattimento e questa pigrizia non potevano aver luogo nella scuola di Gennarino Romei, che, “contento di vivere nel suo paese”, o meglio nella frazione in cui era nato, “faceva ai suoi alunni da maestro e da padre;” una visione dei suoi doveri,di insegnante missionario, radicatasi nella sua coscienza con il riemergere del fortissimo sentimento religioso che l’aveva spinto, all’epoca della sua adolescenza, ad intraprendere gli studi ecclesiastici. Riaffiora , così, dalle nebbie del passato, un’altra delle qualità che contraddistinguono la personalità di Gennarino Romei, la religiosità; una religiosità così fortemente avvertita da fargli sentire il dovere, ancora una volta missionario, di comunicarci , quasi come un insegnamento ai suoi alunni nella scuola della vita, che egli era stato ed era “tuttora convinto che senza la fede non si è mai completi. La fede è un dono inestimabile che Dio concede all’uomo, il quale, però, deve saperlo apprezzare, conservare e fortificare. È la fede che ti aiuta nei momenti tristi della vita, negli abbattimenti, nei disagi, nelle malattie. È la fede che ti spinge ad essere onesto, equilibrato, giusto. È la fede, inoltre, che ti è di sprone a compiere il proprio dovere e ad amare il prossimo. L’uomo senza fede è il Caino che erra senza meta."29 29 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.92; 26 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI In virtù di questa sua religiosità, e del dono inestimabile della sua fede in Dio, Gennarino Romei, nel 1953 trasferito su sua richiesta alle scuole elementari annesse all’Istituto Magistrale di Avellino, e, nel 1958, alle Scuole Elementari di Piazza Garibaldi, aggiunge un altro tassello al metodo educativo personale, che, con tanta emotiva partecipazione, era andato costruendo attraverso gli anni: l’educazione preventiva secondo l’insegnamento di San Giovanni Bosco.30 Il Santo salesiano propugnava, e faceva attuare negli istituti da lui fondati, un metodo scolastico, che, aborrendo la repressione e i castighi, si basava sulla prevenzione degli errori attraverso la persuasione e il ragionamento. Don Bosco, avendo intuito che la nuova scuola doveva essere una scuola di popolo, abbandonata l’antiquata formula scolastica degli istituti del suo tempo,“apriva, nel cuore della vita popolare e del nascente industrialismo italiano, una nuova scuola di umanità e di lavoro per tutta la gioventù.”31 In questa scuola gli insegnanti dovevano essere per gli alunni “come padri amorosi,” che, “servendo di guida in ogni evento, diano consiglio e sorreggano con amore.” Basi del sistema educativo di Don Bosco sono, 30 Romei Gennaro, idem, p. 116; Agazzi Aldo, Panorama della PEDAGOGIA D’OGGI, La Scuola Editrice, Brescia 1948, p.183; 31 27 Filomeno Moscati perciò, la ragione, la religione e l’amorevolezza, con l’esclusione di ogni castigo, anche leggero.32È una pratica educativa che solo un credente può attuare con successo, perché solo se nella vita l’educatore pratica egli stesso la ragione, la religione e l’amorevolezza, può insegnarle ai suoi discepoli. L’azione educatrice di Gennaro Romei non si limitò, però, soltanto all’attuazione, in modo del tutto originale e personale, dei metodi d’insegnamento scientifici e d’avanguardia che avevano generato il movimento delle scuole nuove. Egli, infatti, s’ingegnò d’inventare e applicare nuove tecniche, che, da una parte, facilitassero l’apprendimento delle singole materie, con l’uso della fiaba ( Colombino ) e di meccanismi del tutto particolari da lui escogitati,33 e, dall’altra, conferissero la visione immediata ed evidente dell’unità dell’insegnamento, con 34 l’introduzione del quaderno unico. La sua religiosità e una fede ardente, mai celata e sempre apertamente manifestata, ispirarono anche la sua opera d’insegnante nelle scuole elementari tanto che i suoi alunni risultarono sempre i primi nei concorsi catechistici e in quello di “ Gesù Maestro”; e ciò gli 32 Bosco Sac. Giovanni, In che cosa consiste il Sistema Preventivo e perché debbasi preferire; 33 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 135; 34 Romei Gennaro, idem, p.134; 28 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI valse la nomina , da parte dell’Ordinario diocesano, a ricoprire la prestigiosa carica di Presidente dei maestri cattolici.35La sua fede, d’altronde, era così grande da fargli attribuire la felice soluzione, di alcuni gravi episodi della sua vita, all’intervento miracoloso della Madonna e di Padre Pio da Pietralcina.36 In virtù di questa fede, e dell’antica e mai sopita vocazione missionaria, egli,dopo essere stato collocato a riposo nell’anno 1976,continuò, per altri dieci anni, la sua opera di maestro nelle scuole elementari come insegnante di religione; ma dedicando, non pago, il restante tempo libero delle sue giornate alla narrazione della cronaca paesana, come corrispondente locale del giornale quotidiano Roma ; e al commento dei fatti di rilevanza amministrativa e politica accaduti a Serino durante la settimana, come radiocronista domenicale di Radio Serino “Punto Zero”.37 È proprio in questa sua attività radiofonica che riappare, prepotente, la passione mai sopita per le fiabe in dialetto serinese; fiabe che egli introduce, come elemento non secondario, nelle sue trasmissioni domenicali via etere. 35 Romei Gennaro, idem, p. 137; Romei Gennaro, idem, pp. 78, 206; 37 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 173; 36 29 Filomeno Moscati Questa passione è così forte e radicata da indurlo a includere, nella parte finale de “I RICORDI”, alcune fiabe in dialetto (Compa Piruocculu, ‘A prucissione r’o Cuorpusdomini, Rocciulammerda), così come aveva fatto all’inizio includendovi “ ‘A papira cugghiuta”. Oltre questo “ritratto psicologico e morale di sé”,c’è un’altra particolarità che avvicina il contenuto de “I RICORDI” di Gennaro Romei a “ I miei ricordi” di Massimo D’Azeglio: l’aver additato ad esempio la vita di alcuni “personaggi non potenti, non famosi, … d’eroi la più parte ignorati…che sacrificano sé agli altri e non gli altri a sé”. Fra i tanti sconosciuti eroi della vita quotidiana, che animano le pagine de “I RICORDI” di Gennarino Romei, abbiamo ritenuto opportuno, proprio per la loro esemplarità, citarne soltanto quattro. Don Orazio Crisci è, a mio avviso, Il primo degli sconosciuti eroi della vita quotidiana da additare ad esempio, fra quelli citati ne “I RICORDI” di Gennarino Romei. Don Orazio fu parroco di Ferrari di Serino “e per ben sessantasei anni resse la parrocchia con zelo, amore e abnegazione.... Intelligente, colto, un vero portento in lingua italiana e latina, insegnò lettere agli studenti del ginnasio e del liceo, che divennero ottimi professionisti… Le attività che Don Orazio curò in modo specifico per i suoi parrocchiani furono la confessione e la 30 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI predicazione… gran cura ebbe per la casa di Dio. Tutto ciò che di meraviglioso c’era in Chiesa, prima del terremoto del 23 novembre 1980, era opera sua. Realizzò, fra l’altro, a proprie spese, la casa canonica per i futuri parroci. Ma chi poteva non volere bene a questo santo sacerdote, umile generoso e pio? Ai suoi fedeli non fece mai mancare l’omelia. E la sua parola di verità non era mai in contrasto con l’esemplarità della sua vita.”38 È soprattutto quest’esemplarità di vita che lo rende degno di essere additato ad esempio per sé e per gli altri. Il secondo personaggio, di cui Gennarino Romei esalta la figura umana e civile, è Raffaele Rocco; “un sindaco che fu soprattutto modesto”; che “non sedeva in cattedra con aria autoritaria nella stanza del sindaco, ma preferiva stare in mezzo al popolo, in strada e nei caffè, dove firmava atti e certificati a tutti quelli che ne avevano urgenza”; e faceva quotidianamente pressione presso gli organi superiori per avere dei fondi con i quali istituiva dei cantieri per dare lavoro ai giovani disoccupati dai quali era sempre contornato. Istituì, fra l’altro, la refezione scolastica a 38 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, pp. 120,121; 31 Filomeno Moscati cui potevano partecipare i fanciulli delle famiglie povere”. Un sindaco, che, oltre ad avere una visione lungimirante della Serino futura, includendo nel suo programma amministrativo la costruzione della strada Serino - Giffoni e del ponte sul vallone Matruneto, due opere essenziali per il benessere economico e lo sviluppo turistico del paese, ne promuoveva anche il progresso culturale e civile inserendovi la costruzione dell’edificio scolastico e della rete fognaria.39 Basta, a Gennarino, soltanto un breve accenno per esaltare la personalità di Domenico Rocco e di Pietro detto “o profugo”. Domenico Rocco di Rivottoli era il padre di Raffaele. Egli, essendo di idee liberali, era antifascista e lo manifestava apertamente. “ Un giorno del mese di luglio del 1922….all’imbocco della Cupa Cirino, lungo la strada Sala – Fontanelle, fu fermato da alcuni fascisti della squadra di San Biagio, i quali gl’intimarono d’inneggiare a Mussolini. Al diniego del Rocco uno della banda gli sparò un colpo di rivoltella, ferendolo alla spalla sinistra. Domenico, col bastone alzato, inseguì gli aggressori, ma dopo pochi passi fu colpito da una manganellata alla testa. 39 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l.. Avellino 1993, pp. 102, 103; 32 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Gli amici… accompagnarono il Rocco a casa. Fu subito accompagnato all’ospedale di Napoli, ove venne operato. Guarì, quasi miracolosamente, dopo circa ottanta giorni di degenza. I colpevoli rimasero impuniti”40anche perché il Rocco, dopo la liberazione, benché richiesto e sollecitato a dire i nomi dei suoi assalitori, non volle mai rivelarli,41mostrando, con questo suo silenzio, una nobiltà d’animo tale da consentire ai suoi assalitori di rimanere, oltre che impuniti, anche sconosciuti. Pietro, era “soprannominato ’O Profugo”, perché… dopo la ritirata di Caporetto fuggi dalla sua terra e venne a Serino. Fu ospite a Ferrari della gentile famiglia Tecce, alla quale si affezionò talmente da rimanervi per tutta la vita…. Di idee liberali egli sparlava del Fascismo. Gli squadristi di Rivottoli, informati della cosa da quelli di Ferrari, nel mese di luglio del 1922 lo fermarono di pomeriggio sulla strada del “Limitaggio” che porta a Sala e gli intimarono di gridare “ Viva Mussolini”. La risposta fu repentina: “Abbasso Mussolini”. Gli squadristi, indispettiti, lo costrinsero con le minacce a seguirli. Giunti a Doganavecchia lo spinsero 40 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.19; 41 Romei Gennaro, Serino personaggi illustri, Poligrafica Ruggiero s. r. l,, Pianodardine (Av) 1991, p. 17; 33 Filomeno Moscati brutalmente all’interno della farmacia Centrale e con voce perentoria ordinarono al farmacista, dottor Giuseppe De Vivo, di somministrargli mezzo bicchiere di olio di ricino. Un bicchiere, per Dio!- esclamò Pietro- sono vent’anni che non mi purgo. E bevve tutto d’un fiato.42 A conclusione della lettura de “I RICORDI” di Gennaro Romei è doveroso, per il critico e per il lettore, chiedersi se essi possono essere considerati a pieno titolo un’autobiografia, secondo i concetti espressi sul genere autobiografico dalla critica moderna, e se, come tale, va ascritta al genere storico o a quello letterario. Storia, anche se storia di se stesso, considera l’autobiografia Benedetto Croce (un letterato), che, a tal proposito, dichiara di voler scrivere “la storia di me stesso, ossia la storia della mia vocazione e missione.”43 Silvio Accame (uno storico ) ritiene, invece, che l’autobiografia non può essere considerata come storia in quanto “chi scrive di sé o delle cose in stretto rapporto con la sua persona è così preso nella vita del 42 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 18; 43 Croce Benedetto, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Adelfi, Milano 1989, p. 13: 34 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI presente da non poterla vedere come passato”. Egli, inoltre, “ ha come oggetto e soggetto unicamente se stesso e nell’ autobiografia è insieme giudice e giudicato”.44 Se, dunque, non è storia, può l’autobiografia essere inclusa nel genere letterario? Di questo parere è Giulio Ferroni, il quale ritiene che l’autobiografia, ossia “ il racconto delle vicende personali, fatto dalla stessa persona che le ha vissute, è un <<genere>> narrativo legato in passato a funzioni ed esperienze diverse, religiose, intellettuali ed artistiche che, in epoca moderna, si è affermato come un vero e proprio genere.” Il Ferroni ritiene, inoltre, che lo sviluppo moderno dell’autobiografia è correlato a “ una nuova curiosità per la vita individuale in cui sembrano riflettersi più rapidamente e più intensamente di quanto poteva avvenire in passato gli eventi, i fatti e le situazioni di un mondo in celere movimento.”45 Letteratura, quindi, ma una letteratura che riveste importanza storica, sia per il lettore che per il critico, perché rivela non solo gli avvenimenti ma anche i pensieri, le passioni, le esaltazioni, le delusioni, le gioie e i dolori, che, si voglia o non si voglia, sempre 44 Accame Silvio, Perché la storia, La Scuola, Brescia 1979, p. 146; 45 Ferroni Giulio, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, Einaudi scuola, Milano 1995, Vol. II,Tav. 138, p. 481; 35 Filomeno Moscati accompagnano la vita degli uomini e ne determinano l’indirizzo e l’espressione. Letteratura, inoltre, perché essa stessa espressione dell’arte dell’autore in quanto, nella memoria di sé, si trasfondono e si evidenziano, al di là della conoscenza e della tecnica, le sue qualità naturali ed individuali, che, proprio perché tali, sono uniche e irripetibili. In contrasto con quanto sopra esposto c’è stato chi ha affermato che , per lungo tempo, l’autobiografia non è stata di competenza dei critici letterari e che il termine stesso di autobiografia debba essere rifiutato, almeno fino a quando i fatti inerenti la propria vita non siano stati raccontati con una responsabile consapevolezza.46Il Guisdorf sostiene, anzi, che il termine autobiografia non sarebbe che un neologismo in quanto, prima del Romanticismo, gli scritti autobiografici erano soltanto espressione di una coscienza religiosa che non conosce confini e nazioni, e, come tale, non può essere racchiusa né in generi letterari né in confini nazionali.47 Si spiega, perciò, perché, di fronte a pareri così diversi e contrastanti c’è stato chi ha affermato che l’autobiografia costituisce 46 Guisdorf G., De l’autobiographie initiatique a l’autobiographie genre letterarie, Review d’istorie letterarie de la France, 1975, p.963; 47 Guisdorf G., idem, p. 963;i 36 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI un continente oscuro.48 Una prima parola chiarificatrice , sull’argomento, può essere ritenuta quella del Guglielminetti il quale ha affermato che l’esistenza di un genere letterario“ è correlata alla esistenza di canoni stabili e riconosciuti alla luce dei quali il genere si sviluppa e si confronta.” Egli ritiene, anche se solo come ipotesi, che Le Confessioni di S. Agostino possono essere prese come capostipite della letteratura autobiografica, perché in esse è presente il canone dell’individualità.49 È l’individualità ciò che determinerà, con una presenza sempre più forte e crescente, l’affermarsi dell’autobiografia.50 L’individualità presuppone, inoltre, la presenza di un “io narrante”, e, in sua assenza, non si dovrebbe ascrivere un’opera al genere autobiografico.51 La presenza di un io narrante non basta però, da sola, a definire i parametri formali del genere autobiografico; esso presuppone che si realizzino alcune condizioni ideologico – culturali, quali 48 Shapiro B., The dark continent of literarure: autobiographiy, in Comparative Literature Studies, 1968; 49 Guglielminetti Marziano, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini. Prefazione X, Ed. Einaudi, Torino 1977; 50 Morris C., The discovery of individual, 1050-1200,cap. IV, The search for the self, New York –London 1972; 51 Zumthor P,, Autobiographie au Moyen Age? In Language, Texte, Enigme- Paris, Essai de poétique medieval- Paris, Seuil 1972.pp.68-69, 172-174; 37 Filomeno Moscati l’esperienza personale e l’offrire agli altri una relazione sincera, perché sono quest’ ultime a rendere legittima la presenza dell’io narrante. Il Lejeune è stato colui, che, in presenza di parametri così mal definiti e spesso addirittura contrastanti, ha tentato una teorizzazione – classificazione dell’autobiografia, che egli ha definito: “ racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della sua propria esistenza allorché essa pone l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità.”52 Egli precisa, inoltre, che :“ il testo dovrà essere principalmente un racconto, …… la prospettiva principalmente una retrospettiva, …… il soggetto principalmente la vita individuale, la storia della sua personalità.”53 In virtù di quanto sopra esposto non vi può essere dubbio, sia per il critico che per il lettore,che, almeno dal punto di vista puramente formale, “ I RICORDI” di Gennaro Romei debbano essere ascritti al genere autobiografico. In essi sono, infatti, pienamente rispettati i canoni dell’ individualità, mediante il racconto fatto in prima persona ( l’io narrante); quello del testo, che è fondamentalmente un racconto; quello 52 Ljeune P., Il patto autobiografico. Autobiografia e storia letteraria, Il Mulino, Bologna 1986, p.12; 53 Lejune P., idem, p.13; 38 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI della prospettiva, che è soprattutto una retrospettiva; quello del soggetto, che riguarda principalmente la sua vita individuale ; né può essere messo in dubbio che i fatti narrati sono frutto di un’esperienza personale e che egli ne offre agli altri una relazione sincera”. Dal punto di vista sostanziale, invece, non tutto il contenuto de “ I RICORDI” può essere classificato come autobiografico. Tali non sono i racconti fiabeschi in vernacolo, le poesie d’occasione, anch’esse in dialetto serinese, e i medaglioni illustranti i meriti degli sconosciuti eroi della vita quotidiana e di tanti altri personaggi , viventi e non; né possono essere considerati tali i tantissimi episodi e avvenimenti riguardanti la vita quotidiana, il matrimonio, le avventure e le disavventure legate ai molteplici riconoscimenti e alle tante onorificenze ottenute. Essi, pur costituendo parte essenziale della vita vissuta di Gennarino Romei, ne costituiscono soltanto la cronaca quotidiana, perché da essi non emerge, “ in particolare, la storia della sua personalità”.54 Questa personalità emerge invece, prepotente, quando egli si sofferma a ricordare le veglie intorno al focolare per ascoltare racconti fiabeschi d’orchi e di fate; o a illustrare la sua professione - missione di maestro; o a comunicarci la sua piena e ardente fede 54 Lejeune P. idem, p.12; 39 Filomeno Moscati religiosa, una fede che non è mai disgiunta da una profonda umanità. In questi momenti anche il suo stile, pur rimanendo semplice e chiaro, si trasforma e si esalta, acquistando, per la passione che lo anima, una straordinaria forza di espressione e di persuasione e “ I RICORDI”, lasciata in disparte la cronaca, diventano una vera autobiografia da cui emerge la personalità, a tutto tondo, di un uomo dotato di una fantasia capace di popolare i suoi sogni, e forse anche la sua vita, di miti e di leggende; di un Maestro (con la M maiuscola) e di un credente dotato di grande umanità. È questa la figura di Gennarino Romei che rimane impressa nella nostra mente, dopo la lettura de “I RICORDI”, ed è su di essa, che, in modo del tutto spontaneo e naturale, si concentrano il commento del critico e l’ attenzione e il ricordo del lettore. 40 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Bibliografia Accame Silvio, Perché la storia, La Scuola Editrice, Brescia 1979; Agazzi Aldo, Panorama della Pedagogia d’oggi, La ”Scuola“ Editrice, Brescia 1947; Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società EditriceLa Scuola, Brescia 1955; Bosco sac. Giovanni, In che cosa consiste il Sistema Preventivo e perché debbasi preferire; Croce Benedetto, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Adelphi Milano 1989; D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, G. Barbera Editore, Firenze 1867; Decroly Ovide, La function de globalisation et l’enseignement, Lamertin, Brussels 1929; De Sanctis Francesco, La giovinezza, Universale Economica, Milano 1950; Ferroni Giulio, Storia della Letteratura Italiana, Einaudi Scuola, Milano 1995; Guglielminetti Marziano, Memoria e scrittura. L’autobiografia da Dante a Cellini. Edizioni Einaudi, Torino 1977; Guisdorf G., De l’autobiographie initiatique a l’autobiographie genre litterarie, Review de storie litterarie de la France 1975; 41 Filomeno Moscati Ljeune P., Il patto autobiografico. Autobiografia e storia letteraria, Il Mulino, Bologna 1986; Morris C., The discovery of individual 10501200.Cap. IV, The search for the self.New York – London 1972; Moscati Filomeno, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano (SA) 2005; Romei Gennaro, I “RICORDI” della mia vita, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1993; Amici ‘e Sirinu virite ogni mese che vi rice, Polgrafica Ruggiero, Avellino 1997; Shapiro B., The dark continent of literature: the autobiographie, Comparative Literature Studies 1968; Zumtor P., Autobiographie au Moyen Age? in Language, Texte, Enigme, Pari, Essai de poétique medieval, Paris – Seuil 1972; 42 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI II Opere varie di Gennaro Romei Gennarino Romei, nel periodo posteriore al suo collocamento in pensione, o come si usa dire in quiescenza, non fu affatto quiescente, come abbiamo visto nel commentare “ I RICORDI”. Egli, infatti, oltre a continuare la sua missione di maestro, insegnando religione nelle scuole; a descrivere la cronaca paesana, come corrispondente del giornale quotidiano Roma; e a commentare la politica locale, come radiocronista domenicale di Radio Serino Punto Zero; dedicò il suo tempo a rendere nota la storia, la letteratura, la lingua, la religione e le bellezze del suo paese natale con diverse pubblicazioni a carattere prevalentemente divulgativo. Tutte queste pubblicazioni hanno in comune il titolo, che è sempre SERINO, seguito da una specificazione. Fra queste pubblicazioni hanno carattere storico quelle che hanno per titolo “SERINO e la sua storia” e “SERINO QUEL 23 NOVEMBRE 1980”. Il commento a “SERINO e la sua storia” può essere racchiuso in ciò che lo stesso Gennarino ha enunciato nella sua nota introduttiva. Questo libro è, soprattutto, 43 Filomeno Moscati “un atto d’amore verso la terra natale”, scritto “con l’intendimento di divulgare in un modo nuovo” le notizie ricavate “consultando, in particolare, i testi <<Serino nell’Età Antica>> del Masucci,<<Salerno Sacra>> di mons. Crisci e mons. Campagna, << I Santi del giorno>> del Bargellini e <<Il Santo del giorno>> di Sgarbossa e Giovannini”.55 Il lettore acuto e attento si accorgerà subito che il pregio di questo libro non sta nell’avere riportato, succintamente, le notizie storiche e le vite dei santi patroni dei vari casali di Serino, ma quelle che riguardano le loro chiese, i monasteri e alcune feste e tradizioni popolari. Gennarino ha intuito che i luoghi sacri hanno spesso rappresentato il fulcro intorno al quale si sono andati formando molti nuclei abitativi di Serino, di cui alcuni conservano, ancora tuttora, lo stesso nome della chiesa intorno alla quale sono nati. La storia di queste chiese e di queste cappelle si rivela, quasi sempre, la storia di interi casali, perché esse sono state, per secoli, non solo l’espressione della loro vita religiosa , ma anche della loro vita civile , che era, molto spesso, una diretta conseguenza di quella religiosa. Ѐ, in realtà, attorno alla chiesa e al suo parroco che, in epoca feudale,si svolgeva la vita quotidiana del 55 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, Nota introduttiva; 44 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI popolo. Ѐ la chiesa, assai più che il castello col suo signore feudale, a dare un’impronta alla vita rurale quotidiana e a unificare le comunità campestri, perché è in chiesa che i contadini si riunivano per partecipare alla messa domenicale e apprendere le notizie che li riguardavano da vicino; è in chiesa che essi si sentivano uniti nel culto di un santo protettore, che consideravano il loro patrono; ed è in chiesa che essi celebravano i loro matrimoni e festeggiavano, con il battesimo, la nascita dei loro figli, così come piangevano i loro morti, che, proprio in quella chiesa venivano sepolti. Sono essi, inoltre, che pagavano la decima per manutenerla e ripararla, e, che, sulla piazza ad essa antistante, organizzavano fiere e mercati. Ѐ, infine, nella chiesa che i poveri ricevevano un supplemento di cibo e pellegrini e forestieri un riparo; ed erano le campane della chiesa, che, contrassegnando con i loro rintocchi lo scoccare delle ore canoniche, scandivano i tempi del lavoro e del riposo , della veglia e del sonno .56 A dimostrazione di ciò sta il fatto che Gennarino Romei ha ritenuto opportuno, dopo circa un quindicennio, trattare più specificamente l’argomento, e in modo molto più ampio, in una 56 Delort Robert, La vita quotidiana nel Medioevo, Mondadori Printing S. p. A.,Cles (TN) p.133; 45 Filomeno Moscati pubblicazione che ha per titolo “SERINO SACRA CHIESE E SANTI”57 Il secondo pregio di “ SERINO e la sua storia” sta nel fatto che in esso sono riportate, anche qui succintamente, alcune usanze e tradizioni 58 popolari, spesso risalenti alla notte dei tempi, il cui ricordo senza questo richiamo sarebbe, verisimilmente, andato perso per sempre. Conservare la memoria di tradizioni e usanze costituisce un fatto di rilevante importanza per la storia di un popolo, perché esse sono la testimonianza di culture, legate ad antiche civiltà, spesso non più esistenti. Nel caso delle tradizioni non s’intende parlare della cultura aulica e curiale; quella, per intenderci, che si apprende sui libri e nei banchi di scuola e diventa patrimonio di una sola persona, per cui può, più esattamente, definirsi erudizione, ma di una cultura cosiddetta popolare. La cultura popolare non si acquisisce sui libri e nei banchi di scuola, ma scaturisce dall’esistenza stessa delle persone che vivono nell’ambito di una comunità, a cominciare dalla famiglia, e, essendo frutto della vita vissuta, non è patrimonio di una sola persona, ma di 57 Romei Gennaro, SERINO SACRA CHIESE E SANTI, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Pianodardine – Avellino 1994; 58 Romei Gennaro, Serino e la sua storia,cap. VIII Tradizioni e usanze,Serino 1979, pp. 22-31; 46 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI tutti coloro che fanno parte di una comunità e in essa si riconoscono, sia essa famiglia, stirpe o popolo. C’è, inoltre, un’altra particolarità che la differenzia dalla cultura erudita; una particolarità costituita dal fatto che la cultura popolare, scaturendo dalla vita stessa, non può essere limitata a una parte ristretta e definita del sapere ma si estende a tutti i suoi aspetti , sia materiali che spirituali. I suoi libri, pertanto, sono costituiti dagli edifici, dagli attrezzi di lavoro, dai manufatti e perfino dall’alimentazione, che ne costituiscono la cultura materiale; dai riti religiosi e civili, dalle usanze, dalla lingua, dai proverbi e dai valori morali che regolano la vita e la morte dei membri di una comunità in un’epoca determinata, che ne costituiscono la cultura spirituale.59 Gennaro Romei si limita a riportare, con esatta semplicità e veridicità, i riti e le usanze del suo paese; tradizioni tramandate oralmente di generazione in generazione, che egli ha appreso fin dall’infanzia e cui ha visivamente e personalmente partecipato, ma non ne spiega l’origine e il significato. Per far meglio comprendere l’importanza e il valore dell’opera di Gennarino, che altrimenti rimarrebbe al livello di semplice cronaca, cercheremo, per quanto possibile, di illustrarne origini e significato. 59 Cfr. Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010, pp. 5-6; 47 Filomeno Moscati La prima tradizionale festa popolare di cui s’interessa Gennaro Romei, nel capitolo intitolato Tradizioni e usanze, è il Carnevale, di cui egli, dopo un esiguo accenno alle sue origini, ( in cui si limita a dire che esse “ hanno uno stretto legame con le feste religiose antiche: i Kronia greci60e i Saturnali romani” ) descrive il funerale e una maschera caratteristica e particolarmente appariscente . Molte sono le opinioni espresse circa le origini del Carnevale, ma, generalmente, esse vengono situate nella più lontana antichità e legate a feste, miti e leggende che costituivano la cultura delle civiltà agricolo-pastorali. C’è stato chi ha ritenuto che l’origine del Carnevale debba essere fatta risalire addirittura alla civiltà babilonese o a quella dell’antico Egitto, ma, in mancanza di prove documentali e letterarie che assicurino, in modo certo, il collegamento del Carnevale a queste epoche, oggi la maggioranza degli studiosi ritiene che quest’origine possa essere situata al tempo delle antiche civiltà greca e romana per le evidenti connessioni con le Dionisie, feste dell’antica Grecia in onore di Dioniso (il Bacco dei Romani), e con i Saturnali, feste dell’antica Roma in onore di Saturno (il Kronos dei Greci). 60 N. d. A. Cronie erano denominate, in Grecia, le feste in onore di Cronos, il Saturno dei Romani; 48 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Dioniso ( Bacco ) è, fra gli dei dell’antico Olimpo, quello intorno a cui sono sorti più numerosi i miti, che, fra l’altro, attribuiscono a lui l’invenzione del vino, dell’aratro e della danza.61Al suo culto, diffuso al suo sorgere soltanto fra le popolazioni delle campagne, è collegata anche la nascita del teatro, poiché,“dice Aristotele: << La tragedia fu in origine un’improvvisazione dei corifei che guidavano i ditirambi … cerimonie religiose in onore del dio Dioniso, o Bacco, nelle feste campestri. >>62 In questo culto e in queste feste campestri, che si svolgevano con processioni invernali in onore della divinità, viene posta anche l’origine del Carnevale. Il ditirambo, infatti, altro non era che un coro di persone, che, mascherate e coronate, si esibivano cantando e danzando in cerchio durante le processioni in onore di Dioniso; processioni formate anch’esse da persone mascherate. Con il propagarsi del culto di Dioniso dalle campagne alle città, feste e processioni si celebrarono anche in quest’ultime, e, nel VI secolo a. C., Pisistrato , tiranno di Atene, per motivi politici e di ordine pubblico le 61 Cinti Decio, Dizionario mitologico, Sonzogno, Bergamo 1998, pp. 89,90; 62 Ghilardi Fernando, Storia del teatro, Casa Editrice del Dr. Francesco Vallardi, Appiano Gentile (Como) 1961, Vol. I, p. 20; 49 Filomeno Moscati istituzionalizzò, nell’anno 534 a. C.,63 e ad esse fa riferimento Tucidide nelle sue Storie (ΙΣΤΟΡΙΑΙ).64 Alle Grandi Dionisie, feste in onore di Dioniso che si celebravano in febbraio–marzo in Atene, al tempo di Pisistrato, vengono collegate sia le origini del Carnevale che del suo nome. I festeggiamenti delle Grandi Dionisie duravano tre giorni: l’evento centrale del primo giorno era l’apertura dei pìtoi ( da πίθοσ) botti o grossi vasi di terracotta pieni di vino nuovo; il secondo giorno era dedicato alla χοή(choé), gara di libagione col vino nuovo in onore dei morti (in realtà una grande bevuta) dopo la quale il popolo, in stato di ebbrezza, formava la processione mascherata al seguito del simulacro di Dioniso, che procedeva su di un carro a forma di nave; processione in cui si esibivano i ditirambi (anch’essi ebbri) cantando e ballando al suono della cetra, del flauto e dei tamburi; Il terzo giorno era dedicato alla consumazione delle πανςπερμία (panspermìa) mescolanze di ogni sorta di semi propiziatori di fecondità, che si dovevano consumare, prima che calasse la notte, in onore dei morti. 63 Ghilardi Fernando, idem, p. 20; Tucidide, Storie, II, 13, 4, V sec. A, C. ( καί όςα ίερά ςκεύη περί τετάσ πομπάσ = e ogni sacro utensile per le processioni); 64 50 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Questi tre giorni costituivano la festa denominata Άνθεςτήρια (antestéria)65 festa dei fiori in onore di Dioniso. L’Antesteria era, com’è facile arguire, una festa contadina dedicata alla vendemmia, alla morte e al risveglio della vegetazione dal letargo invernale. Di tutto questo Dioniso era il simbolo. Con il diffondersi della coltivazione della vite, e la contemporanea diffusione del suo culto, Dioniso divenne “il simbolo della potenza inebriante della natura e della linfa che gonfia i chicchi d’uva e che è la vita stessa della vegetazione.”66Come dio della vegetazione, che scompare in inverno per ricomparire a primavera, Dioniso, simboleggiando la nascita e la morte, era descritto nei suoi miti e nelle sue feste come un dio che continuamente scompariva e ricompariva. Una di queste epifanie (apparizioni)67lo mostrava appena riapparso dal mare a bordo di una barca, e così veniva rappresentato durante la processione delle antesterie. Da questa rappresentazione marinara del dio e dalla espressione latina carrus navalis sarebbe 65 Cinti Decio, Diziomario mitologico, Sonzogno Editore,Nuovo Istituto d’Arti Grafiche, Bergamo 1998, Vol I, pp. 29, 90; 66 Schmidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana, Cremese Editore s. r. l., Roma 1994, p. 72; 67 N.d.A., dal verbo greco έπιφαίνω (epifaino)= apparire, mostrarsi; 51 Filomeno Moscati derivata, secondo alcuni, la denominazione del Carnevale. Saturnalia erano, invece, chiamate le feste che venivano celebrate, nell’antica Roma, in onore di Saturno; un dio che “in origine fu una divinità essenzialmente agricola, alla quale si facevano risalire tutte le invenzioni dell’agricoltura” ed era, perciò, “considerato apportatore di benessere e prosperità.”68 Egli essendo “il dio della semina, delle granaglie e della vigna, veniva rappresentato con la falce del 69 seminatore e la roncola del vignaiolo.” I Saturnalia, feste in onore di Saturno, “cominciavano il 17 di dicembre e duravano parecchi giorni”; giorni nei quali in tutta Roma “regnava una grande allegria, mantenuta viva dai banchetti e da copiose bevute”.70 La festa, in origine soltanto agricola, assunse col tempo anche un significato sociale in quanto, a simiglianza dell’età di Saturno, o età dell’oro, in essa venivano temporaneamente abolite le differenze sociali e “padroni e schiavi si consideravano in condizioni d’uguaglianza e sedevano alla stessa 68 Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Bergamo 1998, Vol. II. P.267; 69 Schmidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana, Gremese Editore s. r. l., p. 184; 70 Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Bergamo 1998, Vol. II, p. 267; 52 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI mensa.”71Saturno inoltre era considerato, come dio della semina, una divinità degli inferi e della morte, e, come protettore dei raccolti, un dio della vita e della rinascita della vegetazione; un dio di cui bisognava ottenere la protezione con preghiere e processioni mascherate. I Saturnalia, attraverso le maschere, permettevano il capovolgimento delle gerarchie e in essi, anche se per pochi giorni, i padroni diventavano schiavi e gli schiavi padroni, assumendo, con ciò, un chiaro intento liberatorio . Con l’avvento del Cristianesimo le antiche feste pagane vennero, mano a mano, sostituite da culti e riti cristiani, che a quelle si sovrapposero conservando le stesse date, ma con motivazioni diverse. Ciò accadde per la domenica, la Pentecoste, la Pasqua, il Natale, la cui festività fu collocata da papa Liberio ( 352-366 d. C.) alla data del 25 dicembre; anche i Lupercali, festa latina della consacrazione di Roma alla lupa che aveva allattato Romolo e Remo, persero la loro impronta pagana per divenire la festa della Candelora. A queste feste vanno aggiunte quelle riguardanti più specificamente il cambiare delle stagioni. Una di esse, legata alla fine dell’inverno e al ritorno della primavera, è il Carnevale, festa di letizia in cui uomini e donne “ si scrollano di dosso la quotidianità per assumere vesti e atteggiamenti diversi,” che 71 Cinti Decio, idem, p. 267 53 Filomeno Moscati permettono loro di uscire per le strade danzando , cantando, e, con il viso mascherato, di fare scherzi insoliti e spesso volgari con lancio d’uova, di vino, d’acqua, ma anche di confetti e mandorle. Il Carnevale era, perciò, designato come Festum fatuorum (la festa degli sciocchi o sventati) e in esso veniva eletto un re della festa, designato in latino come rex stultorum, il re dei pazzi. 72 Il Cristianesimo, non riuscendo a sradicare l’ usanza popolare dei Saturnali con le loro feste mascherate, nell’intento di rendere queste ultime più consone ai suoi principi religiosi, le collegò a un successivo periodo di purificazione e penitenza: la Quaresima;73 un lungo periodo di astinenza in cui era vietata l’alimentazione carnea. L’ultimo giorno di Carnevale contrassegnava la data da cui iniziava l’obbligo di eliminare la carne, obbligo che s’indicava in latino con l’espressione carnem levare, o , carnem vale, carne addio, ed è questa, a nostro avviso, l’origine del nome Carnevale; ed è per questo che: “Quanno a mezzanotte Carnuale more,‘e genti, abballannu e sunannu, cantunu ‘ncoru <<Chiangiti cristiani, 72 Gatto Ludovico,Il Medioevo giorno per giorno, Mondadori Printing S. p. a., Cles (TN) 2003, p. 339; 73 Gatto Ludovico, idem, p. 339; 54 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI ca è muortu Carnuale, ‘nu poveromu scilliratu. Carnuale picché si muortu, si ‘a ‘nzalata ‘a tiniva a l’uortu? Pane e binu nun ti mancava, Carnuale pecché si muortu?>> E tutti si metteveno a scuccà ‘e manu.”74 Dettagliata è la descrizione del funerale di Carnevale fatta da Gennarino, che in proposito così si esprime: “ A Serino, ogni anno, in occasione del Carnevale, i muri delle abitazioni di tutte le frazioni vengono tappezzati di manifesti listati a lutto che annunziano la morte di Carnevale. Ricordiamo quanto scritto su uno di essi qualche anno fa: << Chiagniti, cristiani, ch’è muorto Carnuale, nu pover’homme scilliratu. Caresima, a puvirella, aspettava tanto l’attesa ca rivesteva a lutto stu paese. Ririmmo e pazziammo e Carnuale festeggiammo. Il corteo, partendo da Rivottoli, proseguirà per Fontanelle, Sala, S. Giacomo, Grimaldi, Piazza Municipio>>. Ѐ un’usanza questa che è in voga da molti anni; prima, invece, il Carnevale si festeggiava separatamente per ogni singola frazione…. A sera inoltrata, nell’ultimo giorno di Carnevale, 74 Romei Gennaro, Amici e Sirinu virite ogni mese che vi rice, pp. 7,8; 55 Filomeno Moscati giungeva il corteo che seguiva la bara. All’interno di essa un uomo (un povero diavolo che si prestava a fare il morto per qualche spicciolo) raffigurava Carnevale morente, vicino alla bara, circondata da una calca di persone, c’erano in abbondanza salsicce e vino. Aveva inizio, così, tra sospiri e pianti, il dialogo tra i portatori e Carnevale che, bevendo e mangiando a sazietà, si avviava all’agonia. A mezzanotte la morte tra un vociare assordante. L’usanza però non è del tutto scomparsa.”75 Il Carnevale, come si è visto, era in origine, sia in Grecia che a Roma, una festa contadina e campestre intimamente legata sia al ciclo delle stagioni che al ciclo della morte e della vita, entrambi confluenti nel culto di Dioniso, un dio che spariva per poi ricomparire, assurto a loro simbolo nella cultura popolare delle civiltà agricolo-pastorali. Ѐ chiara la funzione esorcistica assunta dai riti in suo onore; riti tesi a fugare la morte e favorire la vita sia nel regno vegetale che animale; una funzione importante specie nelle civiltà primitive in cui la sterilità, le malattie e la morte, si credeva fossero opera della magia di spiriti malefici, che, secondo i concetti della medicina apotropaica allora in auge, potevano essere 75 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia,Serino 1979, p. 22; 56 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI combattute e debellate soltanto con appositi rituali basati sul principio similia similibus curantur, cioè su una magia di forza ed effetto contrari.76 Mascherata di Carnevale Il rito del Carnevale, pur non potendosi escludere in modo assoluto sue relazioni anche con i riti di altre divinità legate alla fecondità della terra, come Demetra, Cibele e Mater Matuta, era un rito complesso, legato soprattutto ai cicli della vite e del vino, al ciclo della vegetazione e all’uso delle maschere, tutti strettamente correlati sia al culto di Dioniso che al mondo agricolo; un rito che, pur con le incrostazioni, le sovrapposizioni e le variazioni dovute 76 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina popolare, Recordati, Istituto d’arti grafiche di Bergamo1940, p.115; 57 Filomeno Moscati al trascorrere dei millenni, è giunto fino a noi perché fortemente radicato nella cultura della civiltà contadina, che è stata la cultura predominante di Serino almeno fino al terremoto del 23 novembre 1980. In questo rito grande importanza aveva l’uso delle maschere. Non bisogna, infatti, dimenticare che le antesterie, le feste in onore di Dioniso, avevano il loro culmine in un corteo mascherato, che, giunto all’ara di Dioniso, immolava un toro fra i canti dei coreuti; questi canti, in origine improvvisati e spontanei, si trasformarono in canti di un brano lirico composto in precedenza, il ditirambo, di cui è ritenuto inventore un personaggio leggendario, Arione, il quale, per primo, a Corinto, avrebbe sostituito i coreuti originari con Satiri del Peloponneso, cioè con uomini mascherati da capri. Col passar del tempo il coro originario fu sostituito da due semicori guidati da due corifei, che divennero i veri protagonisti del dialogo, fatto di domande e risposte. Gli interpreti del dialogo indossavano una tunica lunga, fornita di maniche, e, per aumentarne l’altezza, ossia l’importanza, calzavano uno stivaletto dotato di una suola molto alta , il coturno . In questo travestimento le maschere, fatte di tela, pelle o legno, coprivano l’intero volto dei corifei dialoganti e dei coreuti cantori e danzatori, e avevano un ruolo importantissimo, perché si credeva che esse possedessero un potere magico in virtù del 58 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI quale conferivano , a chi indossava la maschera di Dioniso, tutte le qualità del dio. Si riteneva, infatti, che la maschera , nascondendo il volto dell’uomo che la indossava, costringesse quest’ultimo a spogliarsi della sua personalità per assumere quella rappresentata dalla maschera . 77 Nella festa carnevalesca un ruolo importante assumevano la morte e il funerale di Carnevale, con un rituale pieno di significati simbolici che lo ricollegavano ai Saturnali romani, in cui, mediante l’uso delle maschere, si operava un sovvertimento delle gerarchie. Secondo gli antropologi, la morte e il funerale di Carnevale assumono nella civiltà contadina: in primo luogo, il significato simbolico di fine del periodo delle orge e delle pazzie e di ripristino dell’ordine costituito; in secondo luogo simboleggiano la fine (o morte) dell’anno trascorso e, con il rifiorire della vegetazione, l’inizio (o nascita) di un nuovo anno agrario; in terzo luogo essi assumono un significato di espiazione dei mali dell’anno vecchio, in particolare là dove il personaggio di Carnevale viene rappresentato 77 Ghilardi Fernando, Storia del teatro, Casa Editrice Dr. Francesco Vallardi, Appiano Gentile ( Como ) 1961, pp. 21, 22; 59 Filomeno Moscati da un fantoccio mascherato, che, assimilato a un capro espiatorio, viene incendiato alla fine del rito; in quarto luogo il funerale assurge a simbolo della fecondità della terra da cui il seme, sepolto in inverno, rinasce a primavera. Fra le tante maschere del Carnevale serinese Gennaro Romei ne cita una soltanto, che egli così descrive: “Fra tante maschere, più brutte che belle, c’era l’orso. La maschera dell’orso 60 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Un uomo, incappucciato da una maschera raffigurante la testa dell’animale, indossava una coperta che copriva un cuscino collocato sulla schiena. La coperta era legata al corpo da catene, alle quali erano appese tante campanelle di pecore o di mucche. Due campanacci il finto orso li portava in mano. Quando l’amico , che lo teneva al guinzaglio con una funicella, lo percuoteva sulla schiena con un bastone, l’orso saltellava scuotendo campanelli e campanacci che emettevano suoni paurosi e assordanti.”78 La maschera dell’orso, se ricordo bene, era sempre presente nelle mascherate di Carnevale della riva destra del Sabato. Gli antropologi hanno individuato nella maschera dell’orso presente nei riti folcloristici, e in particolare in quella che appare in alcune feste di Carnevale, diversi significati simbolici, tutti riconducibili alla cultura popolare delle civiltà agro-pastorali. C’è chi l’ha visto come un totem, cioè come un complesso di riti e di credenze con cui, nelle civiltà primitive, si rendeva manifesta la parentela della tribù, o clan, con un animale di origine divina o semidivina. La parentela scaturiva dal fatto che l’animale era considerato capostipite, fondatore e guida della tribù, che, per 78 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p.22; 61 Filomeno Moscati questa ragione, ne assumeva il nome.79 Ciò è accaduto per le tribù osco-sannite degli Irpini e degli Ursentini, che, nella loro migrazione rituale in cerca di nuove terre, denominata Ver Sacrum, si riteneva avessero avuto come guida gli Irpini un lupo e gli Ursentini un orso, animali da cui hanno derivato il nome che ancora portano.80 Il mondo rurale arcaico, nella cui cultura assumevano grande importanza la magia e gli esseri dotati di poteri magici, attribuiva questi poteri ad alcune erbe usate con effetti vistosamente positivi nella cura delle malattie. Influssi magici venivano attribuiti anche alla luna, capace di influenzare le maree e altri fenomeni naturali, le cui fasi erano associate sia al ciclo della vegetazione che a quello della vita e della morte; si attribuiva infatti il significato di germinazione primavera alla luna crescente; di gravidanza - estate alla luna piena; di declino della vegetazione - autunno alla luna calante; di morte - inverno all’assenza di luna. L’orso era considerato un animale lunare, perché abitatore dei boschi che erano il regno di 79 Frazer James George, Il ramo d’oro, Studio della magia e della religione, I, 53; Freud Sigmund, Totem and taboo. The horror of incest, Routlidge and Kegan Paul Ltd,1913 p.2; 80 Cfr. Moscati Filomeno, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 20; 62 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Diana, una divinità italica collegata nella civiltà agro pastorale alla luna, alla vita dei boschi e, quindi, ai fenomeni della germinazione e della gestazione.81 L’orso, inoltre, è un animale che cade in letargo in inverno per risvegliarsi a primavera. La sua ricomparsa nei boschi segnalava la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, e il suo riapparire assumeva perciò, nella cultura contadina, lo stesso significato di una data del calendario.82 Nel Carnevale di Serino la figura dell’orso (presente anche a Chiusano San Domenico e in tantissimi altri paesi) condotto al guinzaglio incatenato, coperto di campanacci e campanelle e saltellante sotto i colpi del suo guidatore e del pubblico che lo sbeffeggia, assume un ulteriore e più pregnante significato, quello del nemico da vincere e domare. L’orso era visto, infatti, nella cultura delle civiltà agro-pastorali, come un nemico diabolico che insidiava gli armenti e impediva al pastore e all’agricoltore di poter condurre liberamente al pascolo nella foresta, così importante nell’economia del Medioevo, maiali e altri animali domestici. La sua figura incatenata e percossa è quella di un nemico vinto e domato, e, sotto i colpi del 81 Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Bergamo 1998, Vol. I, p. 87; 82 Grimaldi Piercarlo, Il calendario rituale contadino, Franco Angeli, Milano 1993; 63 Filomeno Moscati bastone, i suoi passi simili a saltelli hanno lo stesso valore e significato delle antiche danze rituali delle civiltà primordiali, che attribuivano all’imitazione della preda un valore magico, propiziatorio di una caccia fruttuosa. I campanelli degli ovini e i campanacci dei bovini , scossi dalla maschera ad ogni saltello, avevano anch’essi funzione e poteri magico-apotropaici giacché si riteneva, nella cultura delle civiltà agropastorali, che il loro suono, o frastuono, fosse capace di fugare e tenere lontana non solo la magia degli spiriti del male (malocchio) ma anche tempeste e temporali. La campana stessa (con il batacchio elevato a simbolo dell’organo riproduttivo maschile, e la campana riproducente l’immagine figurata della vulva, entrambi uniti a simboleggiare la copula) si riteneva possedesse poteri magici che favorivano la fecondità. 83 L’unica spiegazione possibile, a mio avviso, della chiamata che si effettuava a Canale“ra coppa foresta” nell’ultimo giorno di Carnevale, dopo il funerale,84 degenerata in critiche e denigrazioni feroci di personaggi locali, assai spesso immotivate oltre che infondate, è che essa sia un retaggio atavico di quei 83 Cuniberti Paolo Ferruccio, La maschera dell’orso, Articolo su Alba Pompeia I semestre 2009; 84 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, pp. 22,23; 64 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Saturnali in cui si verificava, con effetto liberatorio, l’inversione delle gerarchie. Per quanto riguarda la Quaresima e i suoi rituali è opportuno precisare che se la stragrande maggioranza dei Serinesi osservava l’obbligo del carnem levare, ossia il divieto di mangiar carne, pochissimi erano quelli che si assoggettavano a un digiuno di quaranta giorni a pane e acqua, e si potevano contare sulle dita di una mano quelli che, nel corso di molti anni , avevano osservato il cosiddetto Trapasso, ossia il digiuno assoluto per tre giorni consecutivi riportato da Gennarino. Un’attenzione particolare merita quella che Gennarino descrive come “ un’abitudine simpatica, però scomparsa da alcuni anni,” costituita dalla “esposizione alla finestra di una magra bambola che impersonava la Quaresima. Era costruita in casa con pezzuole di stoffa. Indossava una veste di colore nero. Ai piedi era legata una patata, in cui erano conficcate sette penne di gallina, che corrispondono alle sette settimane che formano la Quaresima. Se ne toglieva una alla settimana. E quando il Sabato Santo le campane annunziavano la Resurrezione del Salvatore, si faceva scoppiare la bambola mediante un botto che era stato nascosto sotto la lunga gonna.”85 85 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p. 23 65 Filomeno Moscati L’abitudine simpatica, descritta da Gennarino nei minimi particolari, doveva essere molto antica e sicuramente connessa ai rituali magici di fattura e controfattura, cosi diffusi nelle antiche civiltà contadine. In essa sono infatti riscontrabili tutte le caratteristiche della cosiddetta fattura indiretta;86 La bambola (pupata) di Quaresima quella, per intenderci, che si riteneva agisse trasferendo il magico influsso malefico attraverso 86 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina popolare, Recordati, Istituto Italiano d’arti grafiche di Bergamo, p. 34 e seg., 66 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI materiale appartenente alla vittima del maleficio o attraverso una sua immagine simbolica. Nell’usanza tramandataci da Gennaro Romei si possono riscontrare, inoltre, tutti gli elementi ritenuti indispensabili per rendere efficace un maleficio: il materiale di transfert, costituito dalla bambola fatta di stracci appartenuti alla vittima (di cui costituiva l’immagine simbolica) e dalla patata, oggetto commestibile rotondeggiante (simbolo del cuore) custodito in casa, su cui conficcare oggetti puntuti; penne di gallina, oggetti appuntiti provenienti da animali custoditi nel pollaio di casa; la veste di colore nero (colore della morte e quindi ritenuto di malaugurio) anch’ essa proveniente dalla casa; l’infissione, che era il metodo più diffuso nella pratica dei malefici. L’esposizione fuori della finestra del materiale di transfert mostra inoltre, in modo esplicito, la volontà di tenere il maleficio fuori dell’abitazione. Dagli elementi suddetti si può chiaramente dedurre che la simpatica abitudine, riportata da Gennarino Romei, anche se mascherata dai rituali penitenziali connessi alla Quaresima cristiana, altro non era che una controfattura, un procedimento basato sugli stessi principi della fattura, ma opposto a 67 Filomeno Moscati essa e diretto a disfarne l’azione malefica;87 controfattura usata, in questo caso, per liberare la casa e i suoi abitanti da un’ eventuale fattura che fosse stata praticata contro di essi. La deduzione è avvalorata dalla progressiva liberazione del materiale di transfert (patata) dal materiale d’infissione (penne di gallina); liberazione che veniva completata con il botto finale, destinato ad eliminare ogni residuo di maleficio, al suono (ritenuto anch’esso capace di fugare gli spiriti maligni) delle campane (anch’esse dotate di poteri magici propiziatori di fecondità e benessere) annuncianti la resurrezione di Cristo Salvatore, ciò che aggiungeva un elemento mistico agli elementi magici. Legato alla Pasqua di Resurrezione era anche il rito della rosamarina, che Gennarino, molto succintamente così descrive: “ La Quaresima aveva termine con gli auguri pasquali che i giovani di alcuni villaggi del serinese, al suono delle nacchere e dei tamburelli, porgevano cantando solo ai maschi di ogni famiglia. E quando alla porta di ciascuna abitazione mettevano un ramoscello di rosmarino, dicevano ad alta voce: << Oi (seguiva il nome della persona che intendevano chiamare), teccuti la bona Pasqua e crai la bona 87 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina popolare, Recordati, Istituto italiano d’arti grafiche di Bergamo, 1940, p. 32; 68 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI matina, e teccuti stu pennacchio e rosmarino; e puozzi sta cuntento e forte per quanto duri Tromini e Monteforte. Quest’abitudine, in parte modificata, esiste tuttora in qualche frazione.88 Anche in questo caso siamo in presenza di un rituale A rosamarina antichissimo risalente al culto della dea Cibele, personificazione della Terra Madre, la cui festa si celebrava durante l’equinozio di primavera, fra canti di coribanti e suono di cembali, per celebrare il suo mito di dea della morte e della rinascita della vegetazione.89 88 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, pp. 23,24; 89 Cinti Decio, Dizionario Mitologico,Snzogno Editore, Milano 1972, Vol. I., p.72; Vedi anche Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010, pp. 12-13,42-50; 69 Filomeno Moscati In questa tradizione risulta, ancora una volta, evidente il collegamento con il culto latino dei numina una categoria di divinità minori personificanti la forza divina e misteriosa della natura, che guida ogni atto dell’uomo conferendogli forza ed efficacia; questa forza divina è presente in tutte le cose, siano esse minerali, vegetali o animali, ragione per cui il loro appoggio veniva molto ricercato.90 A questa religione di tipo feticista si ricollega il dono del pennacchio di rosmarino, ricco di foglie aguzze e puntute, offerto a ogni famiglia con il valore di un amuleto, che, con la sua intrinseca forza naturale e con le sue foglie aguzze, è capace di allontanare da quella famiglia ogni influsso malefico ( cosiddetto malocchio ) . Anche in questo caso il potere antimalefico dell’amuleto si basava sull’attuazione del principio fondamentale della medicina apotropaica, similia similibus curantur, in base al quale il malocchio, opera della magia del male, poteva essere contrastato e vinto solo attraverso l’opera di un’altra magia, la magia del bene. L’amuleto, costituito dal pennacchio di rosmarino, appeso davanti alla porta a protezione della casa, 90 Schimdt Joel, Dizionario della mitologia greca e romana, Cremese Editore, Roma 1994, p. 152; 70 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI attuava la sua opera benefica attraverso diversi tipi di magia del bene: la magia delle punte esercitata da tutti gli oggetti, animati o inanimati, terminanti a punta; la magia della conta, basata sulla credenza, molto diffusa fra i popoli primitivi, che streghe e fattucchiere, ritenute autrici dei malefici, non potessero oltrepassare oggetti appuntiti se non li avessero prima contati; la magia della parola, basata sulla ripetizione di formule ataviche bene auguranti,91che si concretizzava nel canto della chiamata. Nell’ambito delle tradizioni, che, con il loro perpetuarsi attraverso i secoli, documentano l’antica civiltà contadina di Serino, un particolare rilievo assume quella che Gennarino Romei così ci ha tramandato: “A Ferrari, il lunedì seguente alla tradizionale festa della Madonna del Carmine, che si celebra nella prima domenica di agosto, ha luogo sull’aia, vicino al Cretazzo, una festicciola tutta paesana, a cui danno vita tutti i ferraresi, dal più piccino al più anziano. 91 Pazzini Adalberto, Storia Tradizioni e Leggende nella Medicina Popolare, RECORDATI, Istituto Italiano d’Arti Grafiche , Bergamo 1940 pp.78-80; 115-120; Cfr. anche Moscati Filomeno, RICORDO del paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010, pp.12-13, 42-50; 71 Filomeno Moscati Anticamente, e fino a circa sessant’anni fa, quella festa aveva tutta l’aria di un baccanale, orgiastico e chiassoso. Aveva inizio al mattino con la battitura dei cosiddetti <<uilli>>92( una pertica lunga circa due metri, all’estremità della quale era appeso una specie di manganello) sui manipoli di grano sparsi sull’aia.Era quello il grano che i componenti la commissione della La festa sull’aia festa della Madonna del Carmine avevano questuato per la campagna del serinese. Di tanto in tanto i battitori, grondanti di sudore, ingurgitando vino, cantavano in coro: <<Bellu marignore vulimo ra na botta o carrafone aaah>>. A fine battitura, quando il grano veniva accumulato al centro dell’aia, aveva inizio la danza, accompagnata dal suono della <<banda piccola>>. Nel contempo si svolgevano giochi, tra cui ricordiamo quello del gallo con il corpo interrato e il 92 N. d. A. in italiano = coreggiato o correggiato. 72 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI capo all’infuori. Chi veniva bendato doveva colpirlo alla testa con un bastone per averlo in regalo. All’imbrunire il grano veniva insaccato. Si formava un corteo. Avanti la <<banda piccola>>. Seguiva l’affittuario dell’aia vestito con paramenti simili a quelli del vescovo. Reggeva in alto, con le mani, lo stelo di un carciofo fiorito, che di tanto in tanto veniva incensato col fumo emanato da vecchi stracci che bruciavano in un incensiere fatto di latta. Indietro venivano le donne che portavano in testa i sacchi pieni di grano, in ultimo il resto della popolazione che in coro cantava. Il corteo si scioglieva in piazza tra il chiarore dei fuochi artificiali e il vociare assordante dei ragazzi e anche degli adulti abbastanza brilli per il vino ingurgitato durante la giornata. Quel corteo, di origine pagana, ebbe termine soprattutto per insistenza del parroco Don Orazio Crisci nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Ora la festa, quasi del tutto modificata, continua a svolgersi sull’aia. Né corteo, né grano; giochi e danze restano immutati. Sempre pronta la << banda piccola>> a dare la carica. Detta festa è considerata come manifestazione di amicizia, anche perché su quell’aia avviene il gradito incontro fra tutti i ferraresi e gli amici e i parenti emigrati, che. per l’occasione, tornano al paese natio.93 93 Romei Gennaro, Serino e la sua storia, Serino 1979, p. 24,25; 73 Filomeno Moscati Non vi può essere dubbio sul fatto che la festa paesana, descritta da Gennaro Romei, fosse antica, ma, soprattutto, che in essa sopravvivessero tracce di rituali antichissimi; rituali che, nelle antiche civiltà contadine, venivano celebrati sia per festeggiare il raccolto già fatto sia per propiziarne uno futuro. Lo si deduce da diverse circostanze, la prima delle quali è che essa “aveva tutta l’aria di un baccanale, orgiastico e chiassoso” come afferma lo stesso Gennarino.Particolarmente importante dal punto di vista deduttivo è, poi, il fatto che scopo della festa era quello della trebbiatura del grano, con cui, nelle civiltà contadine, si rendeva concreto e visibile il principale raccolto di un’annata, e, ancora più importante, Cattedrale di Otranto: Battitura col villo 74 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI che essa era effettuata sull’aia con l’ancestrale tecnica della battitura con il “villo” ; una tecnica immortalata in tanti dipinti e mosaici di solito molto antichi, come, ad esempio, quelli della cattedrale di Otranto risalenti al 1163. Anche le danze si svolgevano nel pieno rispetto della tradizione contadina,perché eseguite conl’accompagnamento della banda piccola ( in genere formata da una ciaramella, da un organetto, da un tamburo e da una grancassa) al cui suono, per il netto prevalere del ritmo sulla melodia,si ballavano, in antico, le tarantelle; ma ciò che testimonia, in modo inequivocabile, il legame che unisce la festa sull’aia agli antichissimi rituali della mietitura del grano, è quello che Gennarino ricorda come un gioco, il gioco del gallo. Il gallo era ritenuto, nell’antichità, un animale sacro ad Apollo, dio del sole, perché con il suo canto era il primo ad annunciare ogni giorno il risorgere del sole, che, con la sua luce e il suo calore, è fonte di vita per l’umanità intera ed era, perciò, ritenuto anche il simbolo della virilità e della rinascita e perpetuazione della specie. Con il passare del tempo il gallo assunse un forte significato simbolico anche in rapporto alla mietitura, che, nelle civiltà agro-pastorali era ritenuta fondamentale per la vita e la sopravvivenza degli uomini. Essi, per questa ragione, associarono alla 75 Filomeno Moscati Il gioco del gallo attività della mietitura riti di ringraziamento e propiziatori. Anche questi riti venivano effettuati in osservanza del culto feticista dei numina, una sorta di divinità minori personificanti la forza divina e misteriosa della natura; una forza che è presente in tutte le cose animate e inanimate, animali o vegetali, nelle quali si ritenevainfondesse un soffio di vita e di volontà capace di influire sull’esistenza degli uomini, che cercavano, perciò, di ingraziarsene l’appoggio mediante feste e 76 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI sacrifici;94 uno di questi era costituito dal sacrificio dell’ultimo covone mietuto , che veniva bruciato e le sue ceneri disperse al vento, nei campi, perché propiziassero un nuovo abbondante raccolto. Al posto del covone sacrificale si usavano anche degli animali, perché ritenuti simboli dello spirito del grano; uno di questi animali era il gallo, usato anche come sostituto simbolico di un ancestrale sacrificio cruento dell’uomo che aveva mietuto l’ultimo covone. In Transilvania, in un’epoca non lontana, si sotterrava un gallo, nel campo delle messi appena mietute, così che ne rimanesse fuori soltanto la testa perché fosse tagliata, in un sol colpo, da un giovane munito di falce.95 L’identificazione del gallo con lo spirito del grano tende a fare notare il suo potere stimolante e fertilizzatore.96 L’equivalenza del gallo con il grano stesso viene invece evidenziata nel costume di seppellire l’uccello in terra e di tagliargli la testa con la falce, così come si fa con le spighe del grano.97Ma c’è un’altra circostanza che lega la festa sull’aia di Ferrari 94 Schmidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana, Gremese editore s. r. l., Roma 1994, pp.151,152: 95 Frazer James George, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione traduzione di Lauro De Bosis, Einaudi Editore, Torino 1950, pp.712-716 ; 96 Frazer James George, idem, p. 715; 97 Frazer James George, idem, p. 714; 77 Filomeno Moscati di Serino ai rituali della mietitura delle antiche civiltà contadine : la caratteristica processione che prelude alla conclusione della festa. J. Frazer ci fa infatti sapere che, in molti luoghi del Nord Europa, un gallo, o la sua immagine simbolica, veniva portato in giro nelle processioni della mietitura.98Non è difficile intuire che lo stelo di carciofo fiorito, sollevato in alto a due mani dal finto monsignore99 che guida la processione, non sia altro che una trasposizione simbolica del gallo, che, in tempi lontanissimi, guidava le processioni attaccato ad un palo; né può essere senza significato il fatto che il simbolo sia costituito dal carciofo, un vegetale, che, si sostiene fin dal Medioevo, ha poteri afrodisiaci, perché “ha virtù ...di stimolar Venere sia alle femine, che ne sono tanto desiderose, come à gli huomini, che sono del tutto in tal cosa tardissimi.”100 Il fiore del carciofo sul suo stelo viene inoltre usato, metaforicamente, per indicare il membro virile a causa della sua forma, ed è 98 Frazer James George, idem, p. 714; N. d. A., Ѐ assai probabile che il marignore cui si rivolgevano i battitori col villo, per ottenere il permesso di attaccarsi al carrafone, altro non sia che una storpiatura di monsignore, titolo che si da ai vescovi ; 100 Boldo Bartolomeo, Libro della natura e della virtù delle cose che nutriscono, in Venetia appresso Domenico e Gio. Battista Guerra fratelli MDLXXV p. 66; 99 78 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI considerato, perciò, un simbolo della virilità e della fecondità allo stesso modo del gallo. Gennaro Romei ricorda, fra i tanti giochi che si facevano sull’aia, soltanto quello del gallo. Ritengo opportuno, per le sue evidenti connessioni con la cultura dell’antica civiltà contadina di Serino celebrata sull’aia, ricordarne almeno un altro, che nella prima metà del secolo scorso (XX) ancora si praticava in San Michele di Serino101e tuttora si pratica, non più sull’aia ma in piazza, in Ferrari di Serino: il pizzicantò. Il pizzicantò più che un gioco è un’esibizione non priva di pericolo in cui i giovani scapoli del casale, montando uno sull’altro a formare una piramide quanto più alta è possibile, mettono in mostra davanti a tutti, e soprattutto davanti alle loro fidanzate o alle ragazze da essi corteggiate, le loro doti di forza, coraggio e abilità. Ѐ questa pericolosa esibizione a farne intuire la connessione con i rituali di iniziazione e di passaggio delle antiche civiltà, e, in particolare, con quello che contrassegnava il passaggio dalla pubertà alla virilità. Ѐ noto infatti che, nelle antiche civiltà, questo passaggio doveva essere consacrato con un rituale, in cui i giovani puberi erano sottoposti a delle prove non facili e che solo quando le 101 Vedi anche Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più; CITY PRINT Avellino 2010, pp.13,14; 79 Filomeno Moscati avessero superate, dando così una prova manifesta della loro Il pizzicantò virilità, potevano essere ammessi nel novero dei “viri”, cioè di coloro che erano ritenuti idonei al governo della comunità, al matrimonio e alla guerra. Il rituale di passaggio dalla pubertà alla virilità era caratterizzato da regole severissime, le quali imponevano che le prove dovessero essere superate in pubblico e davanti a tutti, e, cioè, in occasione di pubbliche solennità. A conclusione della sua descrizione della festa sull’aia, Gennarino afferma che essa ha perduto i suoi requisiti originari, che, come abbiamo visto, la 80 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI legavano, in modo evidente e indissolubile, all’antica civiltà contadina che ha caratterizzato la vita e le consuetudini di tutta Serino, almeno fino al terremoto del 23 novembre 1980, per divenire la festa dell’amicizia e il luogo d’incontro di tutti i “Ferraresi” dovunque dispersi. Riteniamo infine opportuno esplicitare, per quanto possibile, origini e significato di due altre usanze tramandateci da Gennarino Romei, sia perché scomparse sia per gli evidenti legami, in esse ravvisabili, con l’antica civiltà contadina di Serino: “ ‘o contruocchio” e i “cicci di Capodanno”. Ecco l’accurata descrizione , fatta da Gennarino, della pratica del <<contruocchio>>: “Per far scomparire del tutto un insopportabile mal di testa, che molti credevano fosse causato da << malocchio >> (un influsso malefico che, inconsapevolmente, qualcuno esercitava guardando una persona), si ricorreva, fino ad alcuni anni fa, ad una specie di scongiuro, detto <<controcchio>>. La persona, per lo più una donna, che praticava il controcchio, dopo aver acceso una candela ad olio, avvicinava l’orlo del piatto, in cui aveva versato della limpida acqua, alla fronte del sofferente. Poi si faceva per tre volte il segno della croce, segno che ripeteva anche tre volte sulla fronte del paziente e sul piatto con l’acqua. Infine immergeva il dito mignolo nell’olio della 81 Filomeno Moscati candela accesa e ne faceva cadere tre gocce sull’acqua contenuta nel piatto. Alla caduta di ogni goccia diceva: O contruocchiu <<Occhio e controcchio verticello all’occhio, crepa l’invidia e scatta il malocchio. S. Pietro che da Roma venisti, na scanta r’oro (un ramoscello d’oro ) manu purtasti, tre sdizzi (gocce) meno nda stu piatto, si è uocchio scattalo>>! Se le gocce formavano nell’acqua ampi cerchi, significava che il malocchio c’era; se, invece, i cerchi che si formavano erano piccoli, significava che il mal di 82 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI testa era di natura diversa. Il << controcchio>> poteva essere ripetuto tre, cinque o sette volte. Veniva ripetuto, se necessario, anche nei giorni seguenti, cioè fino alla scomparsa del dolore.” 102 Il concetto di malocchio è antichissimo, forse anche più antico di quello di fattura, e la parola stessa suggerisce l’idea di un aereo fluido magico, emanato dall’occhio dell’ uomo, capace di influire sfavorevolmente sulla vita di altre persone. Ciò che lo differenzia dalla fattura è il fatto che il fluido aereo può essere emanato non solo da streghe e fattucchiere (le sole capaci di praticare una fattura), ma da chiunque, e che la sua azione è diretta ed immediata, e, perciò, non ha bisogno di materiali di transfert né di rituali particolari. Il malocchio, anch’esso basato sulla religione feticista dei numina, aveva come conseguenza che esso poteva essere combattuto e vinto utilizzando la regola “similia similibus curantur”, che era il principio basilare della medicina apotropaica. Era questa la ragione per cui egiziani, greci e romani, per combattere il malocchio usavano dipingere un occhio sulla porta delle abitazioni, sulla prora delle navi e sul fondo di tazze e bicchieri.103 102 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p. 28; Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina popolare, RECORDATI, Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo 1940, pp. 51,52; 103 83 Filomeno Moscati Questa era anche la ragione per cui il fluido del malocchio veniva combattuto con un altro fluido, questa volta liquido, l’olio. L’olio, fin dalla più tarda antichità, è stato sempre ritenuto munito di un potere magico benefico, tanto che il popolo, ritenendolo capace di guarire ogni male, lo usava come una vera e propria panacea. Era credenza comune, inoltre, che la sua efficacia terapeutica aumentasse qualora l’olio adoperato fosse tratto da una fonte di luce, quali il lume o la lucerna, com’è immortalato in un antico proverbio contadino che dice: “uogliu ‘e lumu e uoglio ‘e lucerna ogni male sterna” (stermina). L’olio era inoltre ritenuto il mezzo più semplice, economico ed efficace, per diagnosticare non solo il malocchio ma anche le fatture, perché basato sull’esame delle figure che si formavano facendo cadere delle gocce d’olio in una bacinella d’acqua.104 Quest’usanza antichissima, conservatasi pressoché immodificata fino alla seconda metà del secolo scorso, aveva subìto soltanto l’aggiunta, per mascherarne l’origine e la natura pagana, di ripetuti segni di Croce e dell’invocazione a S. Pietro; ma è proprio quest’invocazione (San Pietru ca ra Roma vinisti, ‘na 104 Pazzini Adalberto, idem, pp. 53, 107. 84 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI scanta r’oru ‘n manu purtasti) a svelarne la natura e l’origine, poiché fa riferimento a un ramo d’oro. Ѐ lo stesso ramo d’oro, dotato di magici poteri,105 che Enea colse, nel bosco sacro a Diana,106 per poter Il ramo d’oro (il vischio) compiere il suo viaggio negli Inferi ; ramo d’oro che James George Frazer, seguendo Virgilio, ha ritenuto soltanto una metafora del ramo di vischio, sia perché quando questo viene staccato dall’albero assume il colore dell’oro, sia perché esso fa parte della simbologia orfico-pitagorica, conosciuta diffusamente fin dai tempi antichissimi. 107 105 Virgilio, Eneide, VI, vv.136-147; Virgilio, idem, VI, vv. 205-210; 107 Frazer James George, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione,Einaudi , Torino 1950, Cap. LXVIII, p.1063; 106 85 Filomeno Moscati C’è un’altra usanza, fino alla seconda metà del secolo XX diffusa con piccole variazioni in tutti i casali di Serino, che va commentata perché l’opera meritoria di Gennarino Romei non rimanga priva di significato; l’usanza è quella dei “cicci di Capodanno”. Gennaro Romei la ricorda così: “Ed ora parliamo di alcune consuetudini di fine d’anno, anch’esse scomparse. Al mattino dell’ ultimo giorno dell’ anno in ogni famiglia si cuocevano i chicchi di granturco, da tutti chiamati <<cicci>>. In alcune frazioni i bimbi che si recavano nelle case dei vicini dicevano: <<Cicci a me cupeto a te. E si chist’ anno nun me dai, l’anno che vene no puozzi viré>>; invece, i bimbi di altre frazioni, portando un pezzettino di legno avvolto in un fazzoletto, dicevano: <<Oi ( e chiamavano a nome la padrona di casa), ti manna chistu mamma; se è piccirillo to tieni, se è gruosso lo manni, dammi i cicci e Capuranno>>.108 Anche quest’usanza, ora completamente scomparsa, era legata alle tradizioni della civiltà contadina di Serino, ormai anch’essa sopravvivente come realtà puramente marginale. Era un’ usanza legata al significato bene augurante di prosperità e di ricchezza, attribuito fin dalla più lontana antichità ai chicchi del grano, a cui erano stati aggiunti anche i chicchi di mais, 108 Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p.25; 86 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI entrati, dopo il viaggio di Colombo, a far parte dell’ alimentazione e del benessere familiare con la stessa importanza del grano. Per meglio evidenziare questo significato riteniamo opportuno riportare il modo in cui quest’usanza si svolgeva nel casale di San Michele di Serino, ove il rituale aveva conservato, in modo assai più appariscente, il suo significato augurale: “Il sagrato assumeva un’importanza fondamentale sia dal punto di vista religioso che civile. In questa piazza, infatti, si riuniva il popolo per solennizzare le feste religiose, come il Natale, nella notte gelida e stellata; e il Capo d’Anno, con la veglia in attesa dell’anno nuovo e degli auguri di << bona fine e buon principio; semp’ a meglio!>> Era questo l’augurio portato a tutte le famiglie dal banditore del paese, che riceveva in cambio un dono in denaro o in derrate alimentari, e da un codazzo di bambini, che, dopo il grido di << e cicci ‘e creature>>, ricevevano in dono i chicchi bolliti di grano e di granone (cosiddetti “cicci”), che, conditi con sugo di pomodoro, o semplicemente con olio, costituivano un piatto presente su ogni tavola come augurio di abbondanza e prosperità per l’anno che iniziava”.109 “Della tradizione”, infatti, “faceva parte pure la cena dell’ ultimo dell’anno, 109 Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY PRINT,Avellino 2010, p pp. 11,12; 87 Filomeno Moscati comunemente denominata <<cenone di S. Silvestro>>; un cenone che si differenziava da quello della vigilia di Natale soltanto per la presenza in tavola del cotechino, circondato dai “cicci” del buon augurio, oggi sostituito dal piatto d’ importazione costituito dallo zampone con le lenticchie”.110 Una vera festa dell’amicizia, e di riunione dei Troianesi residenti e non, è quella che si celebra il 16 agosto in Troiani di Serino, da Gennarino riportata come “Festa ro travo”. Di essa non si ha notizia nel periodo antecedente alla seconda guerra mondiale, mentre la data di collocazione della trave che da nome alla festa, nel sito dove adesso si trova, deve essere posteriore al 1744, data a cui risale la costruzione del palazzo Velli e l’allargamento della strada davanti al palazzo, prima esistente come semplice scolo delle acque pluviali e alluvionali.111 La trave, comunque, gode di una cattiva fama a causa delle maldicenze espresse sui viandanti da coloro che l’occupano; viandanti che, consci di ciò, quando passano rivolgono al Signore la seguente invocazione liberatoria: “A trabeTroianorum libera nos, Domine. 110 Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010, p. 39; 111 Masucci Alfonso, Serino (ricerche storiche), Tipografia Giuseppe Rinaldi, Napoli 1923, vol. II, p. 224; 88 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI La scomparsa di tutte, o quasi tutte, le tradizioni e usanze, descritte con tanto amore da Gennaro Romei, è il chiaro segno che l’antica civiltà contadina di Serino, ancora fiorente nella prima metà del XX secolo, è, se non scomparsa, divenuta una realtà puramente marginale, soppiantata e travolta dall’ impetuosa avanzata della civiltà industriale con i suoi trattori al posto del bue e dell’asino; i suoi concimi chimici al posto di quelli naturali; i suoi anticrittogamici al posto della miscela bordolese; i recipienti di plastica al posto di botti, “catelle” di legno e “cuofani” di vimini; autocarri al posto di carrette e “traìni; fabbriche e industrie per la lavorazione di castagne e nocciole al posto di grate sospese al soffitto, in corrispondenza del focolare e di forni a legna; previsioni televisive del tempo al posto delle intuizioni, su base statistica, del calendario di Frate Indovino.112 Un’altra opera di carattere storico di Gennaro Romei è quella intitolata “SERINO quel 23 novembre 1980”. In realtà questa pubblicazione può essere definita un’opera miscellanea, giacché inizia con una poesia in vernacolo di carattere estemporaneo; prosegue con un elenco di centri abitati colpiti dal sisma e di nomi e foto dei deceduti a causa del terremoto; fa una 112 Cfr. Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, Cap. VI, Il tramonto della civiltà contadina,CITY PRINT, Avellino 2010, pp.80-89; 89 Filomeno Moscati cronaca minuziosa di beghe più che polemiche paesane; compila elenchi di chiese, opere d’ arte, edifici scolastici danneggiati e numero di prefabbricati assegnati; si dilunga su impressioni ed emozioni rese da vari personaggi, che hanno vissuto, con trepidazione e timore facilmente comprensibili, il momento tragico del terremoto; si sofferma sul terremoto come fenomeno, sui metodi di misurazione della violenza delle scosse telluriche, sul modo di comportarsi durante e dopo la scossa; fa l’elenco di tutti i terremoti del mondo, di tutti quelli dell’ Italia e dell’ Irpinia; termina con l’ elenco completo delle Amministrazioni dei tre Comuni di Serino, cui fa seguito una corposa documentazione fotografica. È difficile, dopo la lettura di questo libro, stabilire se esso debba essere classificato cronaca, inchiesta giornalistica, raccolta di notizie scientifiche e non, di dati statistici, di regole di comportamento e di varia umanità; ma c’è in esso un capitolo che gli imprime l’impronta di un libro di carattere storico: il secondo, intitolato “Bilanci e Polemiche”.113In questo capitolo è racchiusa la storia delle vicissitudini che travagliarono il Comune di Serino nel periodo in cui si decidevano le sorti della sua ricostruzione; vicissitudini che rivivono, con una passione e una partecipazione impensate, 113 Romei Gennaro, SERINO quel 23 novembre 1980, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1982, pp. 19-34; 90 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI attraverso i resoconti di sedute del Consiglio Comunale, di manifesti di partiti politici, di associazioni e di categorie professionali; di decisioni e prese di posizione, sempre dolorose e sofferte, di assessori, consiglieri e uomini di partito, cui fa da sfondo l’eco della voce, afflitta e dolente, del popolo dei terremotati senza casa. 114 Il terzo libro della serie “SERINO” è intitolato “SERINO. Personaggi illustri”. Il libro contiene trentasette brevi biografie di Serinesi,che, a giudizio di Gennarino, hanno dato lustro al paese natio con la loro vita e le loro opere; biografie strutturate per casali, fra i quali sono, giustamente, inclusi quelli di San Michele di Serino e Santa Lucia di Serino, oggi Comuni autonomi. Fra questi personaggi ve ne sono alcuni che sarebbe meglio definire famosi, come: Francesco Solimena, noto in tutto il mondo, per le sue opere pittoriche, e incluso in ogni libro di storia dell’arte; Giuseppe Moscati, medico e scienziato insigne, elevato alla gloria dell’altare per santità di vita e per umana carità, oltre che per certezza di miracoli; 114 R0mei Gennaro, SERINO quel 23 novembre 1980, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1982, pp.19-34; Cfr. anche Moscati Filomeno, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, pp. 441,442; 91 Filomeno Moscati Sabatino Rodia, un umile emigrante, oggi famoso per aver dato vita ai celebri “Giardini di Watts”, opera unica nel suo genere. Tra i letterati vanno annoverati: Cesare De Leonardis, “uomo dottissimo, poeta e scrittore ai suoi tempi molto apprezzato”, autore di drammi e opere teatrali di cui due, “Il finto incanto” e “ Il re superbo ovvero la superbia abbattuta”, sono state riportate alla luce e stampate per opera di un’altra illustre serinese , la professoressa Olimpia Pelosi, docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Albany, NY, U.S.A;115 Salvatore Floro Di Zenzo (Padre Floro), poeta, filologo e letterato di grandissimo valore, docente di Filologia romanza nell’Università di Salerno; Giuseppe Velli, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica all’università di Venezia e, poi, di Letteratura italiana all’Università di Milano; Alfredo Marranzini S.J., teologo e pubblicista, professore ordinario di Dogmatica alla Facoltà Teologica di Napoli, promotore della beatificazione del Prof. Giuseppe Moscati e del Sac. Eustachio Montemurro, scrittore e pubblicista. 115 C. De Leonardis, Il finto incanto. Testo critico, introduzione e note a cura di Olimpia Pelosi, Edizioni W M, Atripalda, 1984; C. De Leonardis, Il Re Superbo. Testo critico, introduzione e note a cura di Olimpia Pelosi, Le Pleiadi Editrice, , Pompei 1987; 92 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Nel gruppo dei giuristi vanno inclusi: Gabriele Pescatore, professore di Diritto della Navigazione all’Università di Roma, magistrato, Presidente della Cassa per il Mezzogiorno, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, Giudice Costituzionale; Sabatantonio Roberto, magistrato insigne, avvocato generale presso la Corte di Cassazione; Filippo Masucci, pensionato col titolo di Presidente della Corte di Cassazione, autore di un prezioso studio storico sul suo paese nativo: Serino nell’Età antica; Francesco Iannelli, dirigente dell’Ufficio giuridico costituzionale della presidenza della Repubblica durante la Presidenza di Giuseppe Saragat, Senatore della Repubblica, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. Nel numero dei giornalisti vanno inclusi: Biagio Agnes, ideatore di famose rubriche televisive a carattere divulgativo e, poi, Direttore Generale della R. A. I. - T. V.; Mario Agnes, Direttore dell’ Osservatore Romano, giornale a diffusione mondiale e organo ufficiale della Santa Sede; professore di Storia del Cristianesimo all’ Università di Roma. Dei medici fanno parte: Alfonso Masucci, maggiore medico della Marina, Direttore dell’Ospedale Civile di Avellino, studioso 93 Filomeno Moscati della malaria, scrisse un libro prezioso per la storia di Serino: Serino (ricerche storiche); Salvatore Molinari, medico condotto dei Comuni consorziati di Santa Lucia e San Michele d Serino, sindaco di Serino per dodici anni; Orazio Rutoli, tenente generale medico; Giuseppe Greco, specialista in neurologia e psichiatria, maggiore generale medico; Antonio Rutoli, libero docente di Semeiotica chirurgica, specialista in Chirurgia Generale e in Chirurgia Toracica, ammiraglio ispettore medico, scrittore. Nel novero degli avvocati vanno inclusi: Raffaele Perrottelli, eroe della prima guerra mondiale, medaglia d’oro al valor militare;116 Raffaele De Feo, grande benefattore del popolo serinese; Vincenzo Cotone, avvocato e uomo politico di non comune levatura, Presidente dell’Ordine degli avvocati e del Consiglio Provinciale di Avellino;117 Ugo Girone, laureato in legge, comunista del gruppo di Amedeo Bordiga, fu fra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, nel 1921, di cui fu segretario 116 Cfr. Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa dii S. Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, LUBIGRAF, Montoro Inferiore (Av) 2007, pp. 205,206; 117 Cfr. Moscati Filomeno, idem, pp. 203, 204; 94 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI interregionale per l’Italia meridionale, redattore dell’Unità, esule a causa delle sue opinioni politiche.118 Vanno inclusi fra i militari: Giovanni ed Enrico Rizzo, fratelli, entrambi generali dell’ Esercito italiano. Fra i sacerdoti vanno inseriti: Mariano Vigorita, parroco di San Michele di Serino e Primicerio di Solofra, sacerdote dalla vita esemplare; Orazio Crisci, parroco di Ferrari di Serino, uno di quegli eroi sconosciuti esaltati da Gennaro Romei; Generoso Raffaele Crisci, parroco di S. Maria delle Grazie di Salerno, Vicario generale della diocesi di Salerno; pubblicista e storico di grande valore scrisse, fra l’ altro, due opere monumentali: “Salerno Sacra” e “Il Cammino della chiesa salernitana nell’opera dei suoi vescovi”;119 Alessandro Tramaglia, sacerdote e insegnante, destituito dall’insegnamento perché settario; Ambrogio Cemino, sacerdote vicino ai poveri, ucciso per amore della verità; Carmine Mariconda, sacerdote, carbonaro, prigioniero politico; Giuseppe De Mattia, parroco di San Michele di Serino, pubblicista e teologo, fu ucciso da uno 118 Cfr. Moscati Filomeno, idem, pp. 207-209; Cfr. Moscati Filomeno, Generoso Crisci, ricercatore, storico, 2008; 119 95 parroco, Filomeno Moscati squilibrato, che, nella sua mente malata, aveva immaginato di essere da lui perseguitato.120 La categoria dei sindaci ha due rappresentanti: Sabato Perreca, sindaco di Serino, esiliato perché carbonaro e fondatore di vendite; Raffaele Rocco, il sindaco che amava stare in mezzo al popolo. Fra i musicisti va incluso: Antonio Sarno, clarinettista di talento fu compositore e concertista, direttore di una banda musicale, universalmente nota come “banda ‘e stucchione” a causa della forma del suo celebre clarinetto. 121 La Carboneria ebbe a Serino numerosi rappresentanti; fra di essi Gennaro Romei ha ritenuto illustri, oltre quelli già citati: Raffaele Anzuoni, giacobino e rivoluzionario nel 1899, esule, poi carbonaro e uno dei principali protagonisti dell’ insurrezione del 1820; Carmine Antonio Iannelli, carbonaro e esule, morto da detenuto nell’isola di Ponza; 120 Cfr, Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S. Micheke Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, LUBIGRAF, Montoro Inferiore (AV), pp. 203,204; 121 Cfr. Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S. Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri,a cura del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF, Montoro Inferiore (AV) 2007, pp. 204, 205. 96 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Donato Lanzillo, carbonaro ed esule; Tommaso De Filippis, settario e fondatore di vendite, fu tra i grandi protagonisti dell’insurrezione del 1820, accanto a Lorenzo De Concilij; Carlo De Filippis, settario dalla vita avventurosa; Carmine Mariconda, carbonaro, imprigionato dopo l’insurrezione del 1820. Dopo la nutrita lista di settari e carbonari, già esaltati da Gennarino per il loro coraggio rivoluzionario nel libro “1820 I rivoluzionaridi Serino”,122 mi è parsa strana l’assenza, in questo elenco, di Roberto Pasquale Marino,nato il 22-3-1888 e morto, indossando la camicia rossa, “nel combattimento del 26 dicembre 1914 a fianco di Bruno Garibaldi nelle Argonne e accanto a lui sepolto”; gesto che fu immortalato dal famoso poeta francese Edmund Rostand in una celebre poesia intitolata , per l’appunto, La camicia rossa.123 Ho rtenuto, inoltre, doveroso completare l’elenco, citando, succintamente, anche quei coraggiosi, che, nel corso della prima guerra mondiale, avendo onorato Serino con il loro valore, sono stati ritenuti degni di 122 Romei Gennaro, 1820 Irivoluzionari di Serino, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981; 123 Albo d’oro degli irpini caduti dispersi e decorati, Provincia di Avellino, 1928, p. 970; Cfr. anche Moscati Filomeno, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005, p.399,400; 97 Filomeno Moscati essere decorati con la medaglia d’argento al valor militare : De Vivo Paolo, n. 10 luglio 1888; Di Giacomantonio Giosuè, n. 3 luglio 1887; Melillo Liberato, n. 10 dicembre 1897; Tesco Enrico, n. 9 marzo 1897; Ziccardi Gennaro, n. 26 novembre 1895; 124 Tra gli uomini illustri, una menzione particolare dev’ essere riservata al medico Salvatore Molinari. La menzione è giustificata non tanto dalla circostanza che egli sia stato sindaco e protagonista della storia amministrativa e politica di Serino per dodici anni (1908- 1920) quanto dal fatto che egli ci ha lasciato (attraverso Gennaro Romei che l’ha pubblicata senza aggiunte o correzioni) una sua breve autobiografia che ha per titolo “I miei ricordi”.125Questa biografia costituisce un documento importante per la comprensione degli avvenimenti politico – amministrativi di Serino in quegli anni; una specie di diario in cui, egli dice: “Ho deciso di lasciare un ricordo scritto degli avvenimenti contemporanei, di cui sono stato testimone e spesso, attore,” e “di scrivere queste 124 idem, pp. 973,974,975; Romei Gennaro, “I MIEi RICORDI” Molinari,Poligrafica Ruggiero, Avellino 1993; 125 98 di Salvatore ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI pagine senza alcuna pretesa letteraria, ma pensando solo ad esprimere la verità”.126 Il diario, scritto da Salvatore Molinari, oltre a lasciarci uno spaccato del modo torbido e pieno d’intrighi e malversazioni, con cui si svolgevano le elezioni comunali e provinciali a quei tempi, descrive anche il progresso civile, lento e faticoso, compiuto da Serino con l’apertura di due uffici postali dislocati nelle frazioni periferiche più popolose, e l’iter amministrativo e legale, travagliato e pieno d’insidie, che il Molinari dovette compiere perché il progetto per l’acquedotto della Tornola fosse approvato. Non vi può essere, perciò, alcun dubbio sul fatto che il lavoro fondamentale (progettuale e legale ) per la costruzione dell’acquedotto sia merito esclusivo dell’ Amministrazione Molinari, anche se l’effettiva costruzione (ritardata dallo scoppio della prima guerra mondiale) e inaugurazione siano avvenute, per cause burocratiche e finanziarie,solo nel 1929, nell’epoca in cui il Comune fu retto da due commissari prefettizi, Petrocelli e Gattucci. 127 Il quarto libro della serie Serino si intitola: 126 Romei Gennaro, “I MIEI RICORDI” di Salvatore Molinari,Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.5; 127 Cfr. Moscati Filomeno, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 374; 99 Filomeno Moscati “ SERINO Storia e tradizioni, fiabe e canti”.128 Questo libro può essere classificato come una ristampa di molte pagine dei libri precedenti, con l’aggiunta degli elenchi dei parroci di tutte le parrocchie del serinese, ma, a leggerlo con attenzione, qualcosa d’interessante, o di non detto in precedenza, si può rinvenire anche in questo libro. Pur annotando la presenza di notizie sul Parco faunistico, sul Brigantaggio e su Laurenziello, 129le più interessanti novità contenute in questo libro sono , a mio giudizio, quelle legate alla cosiddetta cultura popolare e alle tradizioni e usanze della civiltà contadina precedentemente descritte, con un amore facilmente avvertibile, da Gennarino Romei. La prima è un completamento della descrizione del rito pasquale della rosamarina, così com’esso veniva effettuato nei casali di Ferrari e Ponte di Serino. Gennarino precisa, infatti, che: “A Ferrari i ramoscelli di rosmarino si appendevano alle porte delle case nel pomeriggio della Domenica in Albis. Ad appenderli erano i componenti la Commissione della festa della Madonna del Carmine. E mentre questi l’appendevano, 128 Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti,Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992; 129 Romei Gennaro,Serino. Storia e tradizioni fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992, pp.52, 57-60; 100 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI “Tommasu ‘o Sensu” di Ponte, al suono di nacchere e tamburelli così cantava: Nu iuorno che ghiucava li nucelle ‘na ronna ra là ‘ncoppa mi chiamavu. Lassai lu iuoco e mi ni ietti lane Ma li teneva li porte appannate. Rinto ‘nci steva ‘nu liettu apparatu cuscini r’oro e mantu ri villutu, e rintu ‘nci steva ‘na ronna curcata nun era ni spugghiata e ni bistuta. Iella mi risse: votati e stu latu. Mi ’nci vutai prontu e risulutu. Quannu fu ‘a matina mi ‘ncuntrai c’o frate. Sorita m’è chiamatu e iu aggiu trasutu. * Quant’è bellu esse ‘nzuratu, avere ‘na mugliere piccirella. Vene ‘nu iuornu e n’ai che li rane, l’accuordi cu ‘na vranca ri nucelle. La ronna è com’e ‘na nucella: si nu la rumpi , nu la puoi mangiane. Cusì è la ronna quann’è piccirella, si nu la stringi, nun ‘a puoi vasane. * Rumenica matinu facivu l’annu, 101 Filomeno Moscati sintietti nenna mia pubblicane. Steva rintu e mi n’ascietti fore, nun mi putietti mancu addinucchiane. Mi mittietti a lu cantone ri lu muru, l’uocchi chiangevano com’ a doie funtane; Curri uaggliotta cu su maccaturu, vienimi a nittà sti lacrime amare. * Vurria arriventà pere ri spina, miezz’e Firrari mi vogghiu piantane; quannu passa Ninnella mia, pi la unnella la vogghiu affirrane. Iella si vota e rice: Amore miu Viri sta spina si mi vo lassane. Tannu ti lassu, tannu ti lassu, quannu stu core tuio a me mi rai. * ‘Ngiulinella ri lu Paravisu, viatu a chi ti ra lu primu vasu. Cu si bell’uocchi e cu’ ’ stu bellu visu ra l’ariu fai calà quatt’ Angiulisti e li Santi ri lu cielo fanno festa. E chestu ti ricu, ‘Ngiulinella bella e chestu ti ricu, Francischiellu caru: 102 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI amativi tutti rui e chi resta resta. * Ronna, nun t’avantà ca m’ai lassatu, iu puru m’avantu e ‘nata cosa: rintu casita toia nci aggiu trasutu e m’aggiu mangiatu chellu c’aggiu vulutu. M’aggiu mangiatu pressiche granate secondo l’appititu ca tinevu; ‘nci aggiu rumastu roie pere ammusciate, ralle a su malattiere ch’è binutu.130 Questi stornelli costituiscono il completamento del rito della rosamarina , perché, al dono dell’amuleto vegetale con la chiamata augurale dei membri della famiglia, spesso venivano aggiunti stornelli, che, a seconda dell’estro e delle capacità estemporanee dei cantori, assumevano contenuti e significati vari, che andavano, in relazione ai luoghi e alle circostanze, dalle velate , e a volte manifeste espressioni d’amore, (com’è quella che termina dicendo:”Tanno ti lasso, tanno ti lasso, quannu stu core tuio a me mi rai”; o quella dell’innamorato deluso e abbandonato, che, nell’apprendere che il suo amore sposa un altro, versa lacrime amare) a quelle più esplicite e addirittura 130 Romei Gennaro, SERINO, Storia e tradizioni fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992, pp. 124,125: 103 Filomeno Moscati salaci,131come si evince dagli stornelli cantati da “Tommasu ‘o Sensu” e, in modo particolarmente significativo, dal primo e dall’ultimo di essi, pieni di allusioni e doppi sensi facilmente comprensibili. In essi è, inoltre, presente anche il tema della bella mugliere, paragonata in uno stornello a una nocciola (“Quant’è bellu… avere ‘ na mugliere piccerrella”, perché “La ronna è com’e ‘na nucella, si nu la rumpi nu la puoi mangiane”e “quannu è piccirella, si nu la stringi nun‘a puoi vasane”) e poi, in un altro stornello, con versi che richiamano la Cavalleria Rusticana di Mascagni, addirittura a un angelo disceso dal cielo. Il tema della mugliere bella ma povera, presente anch’esso nei canti della rosamarina, Gennarino lo inserisce, invece, nella terza parte del libro, fra i canti popolari serinesi, nel sonetto intitolato <<‘E ROIE CURRENTI>>,132 Ѐ proprio questa terza parte, intitolata FIABE E CANTI POPOLARI. PROVERBI, quella più interessante e valida del libro, perché costituita da fiabe, canti popolari e 131 F. Capriglione, G. De Feo, N. Farese, A. Feola, G: Iallonardo ,‘A ROSAMARINA, a cura del Centro Tre Tigli di Santo Stefano del Sole, Stampa Editoriale s. r. l., Avellino 2008, pp.15, 16 ; Vedi anche Moscati Filomeno, Ricordo di un paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010, p. 44; 132 Romei Gennaro, Serino. Storia e tradizioni fiabe e canti, ‘ E ROIE CURRENTI Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992, p. 301; Cfr. anche Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010, pp. 44, 45; 104 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI proverbi, in dialetto, che sono l’espressione più genuina e veritiera della cultura della civiltà contadina, che è stata la civiltà di Serino fino al terribile terremoto del 1980. Egli però, anche inconsciamente, deve essersi reso conto del tramonto di questa civiltà, perché la fa precedere da questo breve ma toccante SALUTO DI COMMIATO : Qui, o amici serinesi, ha termine il mio lavoro. Mi auguro che qualcuno dopo di me (ormai sono vecchio) continui a scrivere la storia di questa meravigliosa Valle che i forestieri ammirano e che i serinesi amano. Ed ora divertitevi a leggere le fiabe da me scritte in dialetto serinese con la traduzione in lingua italiana. E, poi, spegnete il televisore, non sempre benefico e raccontatele ai vostri bimbi, ai vostri nipotini che certamente si divertiranno come ci divertivamo noi, quando durante le sere invernali, accoccolati intorno al focolare, i nonni, dopo la recita del Rosario, ce le raccontavano. Altre sessantuno fiabe sono inserite nell’altro mio libro dal titolo “ ‘Nci steva ‘na vota…” E con le fiabe leggete anche i Canti, che sono belli e armoniosi. Sono canti popolari, canti antichi: gli stessi che le nonne cantavano spigolando o raccogliendo le castagne. Mi accommiato da voi, o amici serinesi, porgendovi un affettuoso saluto augurale, quello francescano: PACE E BENE. 105 Filomeno Moscati Ѐ questo toccante commiato a far pensare che egli debba essersi reso conto del tramonto di quell’antica civiltà ( di cui la sua personalità era intrisa e alla cui cultura era rimasto legato per una vita) tanto da fargli ritenere necessario dover tradurre in italiano, per gli adulti e non già per i bambini, quelle fiabe in dialetto, che avevano popolato i suoi sogni nell’infanzia e consolato il suo animo nella vecchiaia, facendogli sognare la rinascita di un mondo che mai più tornerà; un mondo in cui i bimbi credevano agli orchi e alle fate; un mondo magico capace di suscitare in un altro serinese, francescano e poeta, Salvatore Floro Di Zenzo, un’immagine di sogno che può rivivere solo nel ricordo dell’anima, poiché: <<il quadro s’è perduto in riva al sogno, nel ricordo è rimasta solo l’anima a cercare. Nel mio orto nasceva la luna, avevo paura dell’ombra accanto al letto. C’erano le fate attorno al campanile che suonavano l’ ore vuote della notte. Nel silenzio, come mare senza riva, trasalivano, tra i rami contorti del giardino, i demoni chiamati dalla mamma ai miei diurni capricci. Ѐ passato tanto tempo. Rimane ora nel paesaggio il filtro della luna, il fiume dal letto bianco. 106 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Ma le fate sono fuggite sul filo del quadrante. Mi richiama il tempo che fu solo una ciocca di capelli bianchi.133 Degni di considerazione sono alcuni dei canti popolari serinesi riportati da Gennarino Romei. Essi hanno una struttura poetica non perfettamente definibile, che può essere assimilata a quella di un sonetto incompleto, formato da due sole strofe di quattro versi a rima alternata (con schema AB-AB non sempre rigorosamente osservato, come si evince già dai canti di Tummasu ‘o Sensu); ma ciò che li rende degni di considerazione non è tanto la struttura formale, né la rima, quanto il sentimento schiettamente popolare che li anima, come accade in quello cui Gennarino ha dato per titolo “O IARBU”, ma che sarebbe stato meglio avesse intitolato L’Arberu, perché è l’albero intristito (metafora dell’ animo del cantore) , con le foglie che hanno perso i colori e i frutti il sapore da quando “Nenna mia è cagnatu amore”, a costituire il tema del canto, che dice: Quannu ti susi la matina a l’arba, fai asciugà l’acquazzu ‘ncoppa a l’ereva, quannu cammini cu si belli iarbi, li fai ammaturà li frutti acerbi. 133 Moscati Filomeno, Salvatore Floro Di Zenzo, francescano poeta e poeta francescano, EUROPRINT 2000 SRL, Sirignano (AV) 2008, pp. 28, 29; 107 Filomeno Moscati L’arberu ca iu teneva fu ‘o chiù caru, mi l’arraccuava cu li mii sururi; venne lu vientu e ni rumpivu li rami, li fronne tramutaru ri culuri. Li frutti roci arriventaru amari e li perdieru li loro sapuri. Picché nu’ bieni, morte, a dà riparu mò ca Nenna mia è cagnatu amore?134 Se questo componimento può essere incluso nella forma atipica di un sonetto di tre strofe, non vi è dubbio che quello intitolato “ZI MUNACELLA” è un sonetto da cantare come uno stornello, di quelli che si cantavano sotto la finestra dell’ innamorata, in quanto strutturato su due strofe a botta e risposta. Esso dice: Si monica ti fai, n’aggiu rilore. Rimmi a quale cummentu ti ni vai? Lettere ti n’aggia mannà una o roie, rimmi zi munacella comu stai? E comu vogghiu sta? Stau ‘npassione; aggiu perduto chi ‘e core m’amava. Statte, amore mio, statte cuntentu; chi t’è lassatu t’amirà pe’ sempe. 134 Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero s. r. l. , Avellino 1992, p. 298; 108 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Allo stesso filone possono essere ascritti altri due canti intitolati, il primo, l’ADDIU: Sera passai pe’ ‘nu vicu r’oro, viriette la mia bella ca cuseva; cuseva no picca rintu e ‘nu picca fore, sulu la ianca manu si vireva. Iu li ricietti: Addiu, culonna r’oru, comu ti fire ‘e stà senza ri me? Ella mi risse nun è tiempu ancora, ca quann’è tiempu. lassa fa a me; il secondo, intitolato A L’INFERNU: Ietti a l’Infernu e mi ricieru: Canta! Nun putietti cantà pi’ trimente. ‘Nc’era na ronna ca era bella tantu, ca cumbatteva cu lu fuocu ardente. Iu l’addummannai comu e quanu: Ronna picché li pati sti turmienti? Ella si vota cu n’amaru chiantu: Nun aggiu fattu l’amore e mò mi pentu. Una considerazione particolare va data anche a quelli che Gennarino ha intitolato Canti di ninna nonna, in cui ha riportato i versi di alcune melodie che inducevano i bambini al sonno; i canti erano, in realtà, delle filastrocche cantate, con voce dolce e bassa, seguendo un ritmo lento scandito o dal dondolare 109 Filomeno Moscati della culla, o da quello del corpo della madre che teneva in braccio il bambino. Le filastrocche più comuni erano in genere di due tipi: quelle che incominciavano con un’invocazione al sonno; un’invocazione caratteristica e sempre uguale, nonna nonnarella, cui seguiva la richiesta, al dio pagano Sonno o a suo figlio Morfeo, di indurre il bambino al sonno: Nonna, nonna nonnarella Adduormimmello a stu criaturu bellu. Adduormimmellu mò ca è piccirillo Ca quannu è gruossu s’addorme a pi’ illo; oppure quelle che non avevano nessuna connessione col sonno, salvo quella di emettere suoni ritmici, ripetitivi, capaci d’indurre al sonno con la loro monotonia, come la filastrocca della pecorella: Nonna nunnarella, ‘o lupu s’è mangiatu ‘a picurella. Picurella mia comu facisti, quannu ‘nmocca ‘o lupu ti viristi. Ho ritenuto opportuno menzionarle perché esse, attraverso il ricordo che ce ne ha tramandato Gennarino Romei, costituiscono una testimonianza importante e caratteristica di quella civiltà contadina che adesso esiste come realtà puramente marginale; una testimonianza dei tempi in cui per addormentare i bambini si usava deporli in una culla di legno, costruita 110 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI dal falegname, o, per quanto riguarda la gente più umile , in una zana costruita, dai cestellari di Ferrari di Serino, intrecciando fra loro sottili strisce di legno di ontano o di castagno; una cuna e una civiltà di cui Giovanni Pascoli ci ha lasciato questo bellissimo ricordo: Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. Senti una zana dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano.135 Il libro termina con una sezione dedicata ai proverbi, che sono anch’essi espressione, e fra le più alte, della saggezza e della cultura della civiltà contadina , che costituisce, come abbiamo visto, la parte più importante di questo libro. Ne riportiamo alcuni, fra i più espressivi, perché strettamente legati alla vita quotidiana del contadino: A acina a acina si fa ‘a macina; ‘A malereva cresce priestu; A lavà ‘a capo o ciucciu, ‘nci pierdi acqua e sapone; ‘A Canilora: stata rintu e biernu fore; A caulu sciurutu quantu chiù li fai, chiù è pirdutu; ‘A campana bona si sente ra luntanu; Campa cavallu ca l’eriva cresce; Chellu ca simmini, chellu raccuoggni; 135 Pascoli Giovanni, Poesie; Myricae, Orfano, Luigi Reverdito Editore, Varese 1995, pp. 38,39; 111 Filomeno Moscati Chi semmina vientu, raccognie timpesta; Cientu nienti accirieru ‘nu ciucciu; Co tiempu e c’a pagghia ammaturanu ‘e nespula; Cunzigghiu e vorpe, rammaggiu e ialline; E l’eriva moscia, si ni annettunu tutti ‘o culu; E Santi: ‘a neve pe’ campi; e Muorti: ‘a neve pi’ l’uortu; ‘O vinu buonu nun ave bisuognu e frasca; ‘ O sparagnu nun è mai guaragnu; ‘O supierchiu rompe ‘o cupierchiu; Primu e verè ‘o serpu, già chiama Santu Paulu; Quatt’ aprilante, iuorni quaranta; Quannu trona, chiove; quannu lampea, scampea; Ricivu ‘o pappice vicin’a noce: -Rammi tiempu ca ti spirtosu; Si marzu ‘ngrogna, ti fa caré l’ogna; Si viernu nu birnéa, stata nu statéa; Tu e parlà sulu quannu piscia ‘a iallina; Vole fa ‘o piritu chiù r’o culu; Viesti cippone, ca pare barone; Si nun’è chillu cane, è chillu pilu; Quannu nun‘nc’è ‘a iatta, ‘o sorice abballa.136 Nonostante il toccante commiato rivolto ai suoi compaesani serinesi, l’attività di pubblicista di Gennarino non si arrestò; essa continuò seppure in 136 Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero s.r. l., Avellino 1992, pp. 311-313; 112 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI maniera ridotta con la pubblicazione di alcuni opuscoli. Il primo di questi opuscoli è una breve biografia del Prof. Giuseppe Moscati, il medico santo di origini serinesi.137 Il secondo opuscolo, che ha per titolo Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice, è composto da dodici composizioni poetiche in dialetto serinese, in cui i mesi dell’anno, parlando in prima persona (Iu songu Innaru; io songo Frivaru e così via) fanno il proprio ritratto, cui segue un proverbio. Il libro, in cui l’autore si firma sia a stampa che a penna col nome di Gennarino,138 è stato scritto con lo scopo dichiarato “di trasmettere ai posteri il linguaggio dei nostri padri, che va purtroppo scomparendo.” A parte ciò, l’importanza di quest’opuscoletto sta nell’immagine del frontespizio, che riproduce il gonfalone comunale, e nell’appendice, che illustra il perché di quell’immagine; appendice che riportiamo per intero perché la riteniamo importante, oltre che veritiera e condivisibile: Serino dal doppio stemma. Lo Stemma di Serino era tradizionalmente rappresentato da una Sirena a “una sola coda”che reggeva con la mano sinistra un ramoscello d’olivo. 137 Romei Gennaro, Prof. Giuseppe Moscati, il medico santo, ottobre 1997; 138 Romei Gennaro, Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice, 1997, p.3; 113 Filomeno Moscati Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice Nota introduttiva Tale emblema trova riscontro nell’articolo 8 dello Statuto Comunale e sul sigillo originale ministeriale (timbro metallico) custodito nella Segreteria Comunale. Ma circa dieci anni fa, se non erro, allo Stemma fu apportata una modifica; la Sirena ad “una sola coda” venne trasformata in Sirena “ a due code”.Fu questo un errore veramente grave in quanto la Sirena “ a due code” non esiste in mitologia. Ed è sciocco chi 114 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI asserisce che la Sirena ad “un sola coda” vive nei mari e quella a “due code ”nei fiumi. La modifica fu dovuta probabilmente al fatto che sulla pietra centrale del portone d’ingresso dell’architrave del vecchio edificio comunale, abbattuto nel 1974, era scolpita la Sirena a “due code” senza, però, riflettere che tale bassorilievo, datato 1872, non era altro che il prodotto dell’arte dello scalpellino. L’ Amministrazione Comunale precedente all’attuale, accortasi dell’errore, verso la fine della legislazione fece sostituire il gonfalone con la Sirena a “due code” con quello ad “una sola coda”. La cosa, però, è rimasta ferma lì, in quanto ancora attualmente sui fogli intestati e sui pubblici manifesti si continua a stampare lo Stemma con la Sirena a due code, la quale spicca anche sulla targa bronzea della facciata del balcone municipale dove sventola il tricolore di cui parleremo in seguito. I Serinesi, signori Amministratori, non gradiscono il falso Stemma con la Sirena a “due code” o, come qualcuno ironicamente dice, lo Stemma con la Sirena dalle “cosce sguarrate”.139 La nostra speranza è che qualcuno dei potenti, dopo aver letto questa pagina, faccia riesumare il timbro originale ministeriale, che dovrebbe essere l’unico ad 139 Romei Gennaro, Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice, 1997, pp. 29,30; 115 Filomeno Moscati Copertina di Amici e Sirinu avere valore, e rimetta le cose a posto. Il terzo opuscoletto, che ha per titolo “IL CASTELLO FEUDALE e I SIGNORI DI SERINO”, pur riportando notizie già presenti nei precedenti libri di Gennarino, contiene anch’esso, come i precedenti, una novità di rilievo: una composizione in dialetto intitolata “Sirinu, terra mia”;una composizione che è, oltre che un’espressione d’amore, un vero e proprio inno al suopaese natale, e, 116 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI come tale è stato valutato e trasposto in musica dalla Professoressa Teresa Vigorita.140 Il quarto opuscoletto è un’agenda, l’Agenda dell’anno 2000, anno col quale si concludeva il secondo millennio. Del tutto insolito e assolutamente originale è l’esordio di “Agenda 2000”, che è questo: ‘St’Agenda ca vi rialu pi l’ ANNU GIUBILARE tinitivella cara, mai a nisciunu l’ita rà, si no corula mi faciti pigghià. Ciau, amici e Sirinu, tanti aurii ra Gennarino. Quest’agenda io la trovai, con mia grande sorpresa, nella buca delle lettere della mia abitazione, e , come vedi , caro Gennarino, io, dopo averla letta con gran gusto, l’ho gelosamente custodita. L’ opuscolo, dopo l’inno a Serino ( Sirinu, terra mia ) e altre ripetitive notizie sulla sua storia, presenta la faccia più interessante e più viva là dove “ i giorni richiamano gli usi e le tradizioni, i ricordi e i progetti: sì che, scorrendo il libro, affiora la vita, nei suoi 140 Romei Gennaro, IL CASTELLO FEUDALE e I SIGNORI DI SERINO,1998,pp. 10-13; 117 Filomeno Moscati multiformi aspetti, delle nostre comunità”,141come ha scritto l’illustre serinese Prof. Gabriele Pescatore nella sua Prefazione. Ѐ la vita quotidiana che si svolgeva a Serino, all’epoca in cui nei suoi casali era ancora radicata la civiltà contadina, la cui cultura spirituale riaffiora attraverso preghiere, fiabe, proverbi, canti, filastrocche e indovinelli; cose in parte già pubblicate da Gennarino nella sua precedente produzione libraria, ma di cui alcune assolutamente nuove. Di esse (ancora una volta tutte scritte in stretto dialetto serinese) le più originali, e soprattutto le più rappresentative dell’antica civiltà contadina del nostro paese, mi sono apparse quelle che hanno per soggetto un tema religioso, come “Le preghiere serali dei nonni” di cui riporto i passi più significativi: Verbu saccio e Verbu ricu, Verbu fu nostru Signore Ca pi’ li poviri piccaturi Fu puostu ‘ncroce. Croce mia quantu si bella, ‘nu vrazzu ‘ncielu e natu ‘nterra. La trumbetta sunarrà picculi e grandi a risuscità. ……………………………………. 141 Pescatore Gabriele, Prefazione, in Romei Gennaro, Agenda 2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999, p. 3; 118 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Chi sape lu Verbu ri Dio si lu rica: Chi nun lu saparrà, si l’abbia ra ‘mparà. ………………………………… Chi lu rice pi’ bia e pi’ campi, nun à paura e truoni e lampi ………………………………….. Padre nostro, fere a Diu, iu mi corcu ‘ndo liettu miu. …………………………… E tu Angiulu ri Diu, accumpagnimi ‘sta notte ca sacciu la curcata e nun sacciu la livata. Mi raccumannu a Diu e a la Vergine Maria.142 A leggerla con attenzione e sentimento questa preghiera serale, di cui ho riportato i passi salienti, per rendere meno slegata e più evidente e conseguente la successione dei pensieri e delle frasi, appare bellissima, soprattutto agli occhi di un cristiano che vive la propria fede in Dio con la stessa serena fiducia con cui la vivevano i nostri padri, che, considerandola una grazia del Signore, non sottoponevano la sua esistenza alla inutile prova dei filosofismi e dei sofismi del mondo moderno, perché questo Dio d’amore e di 142 romei Gennaro, Agenda 2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999, pp. 30,31; 119 Filomeno Moscati carità esisteva nei loro pensieri; cogito ergo est, Lo penso e dunque c’è . La preghiera inizia con i primi due versi del prologo del Vangelo di Giovanni, Verbu sacciu e Verbu ricu, Verbu fu nostru Signore, interpretandone correttamente il significato come Parola di Dio, nel primo verso, e come lo stesso Gesù nostro Signore che la predicò nel Vangelo, nel secondo verso; un Signore, che, per redimere l’umanità peccatrice, affrontò il terribile supplizio della croce, nella sua duplice natura di Dio (‘nu vrazzu ‘ncielu) fattosi uomo (e ‘n ‘atu ‘nterra), per la nostra salvezza nel momento in cui squillerà la tromba del Giudizio Universale. Chi conosce la parola di Dio la reciti, e chi non la conosce la impari, perché se la recita mentre viaggia, o mentre lavora, non teme fulmini e tempeste. Con la recita del Padre Nostro e con fede in Dio mi corico nel mio letto, pregando il Signore di inviare il suo Angelo a proteggermi durante la notte, perché la mia fragilità è così grande, che, pur essendo certo di essermi coricato in piena salute (Ca sacciu la curcata) non son certo se mi alzerò domani (ma nun sacciu la levata) e, perciò, mi raccomando a Dio e alla Vergine Maria. Le filastrocche avevano una parte importante nella cultura della civiltà contadina. Le mamme le usavano spesso, perché conciliavano il sonno sia con la monotonia del ritmo che con la ripetitività delle 120 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI parole, come abbiamo visto nel commentare le ninne nanne. Esse, inoltre, proprio con la ripetizione, facilitavano nei bambini l’acquisizione di nuovi vocaboli. Tra quelle funzionali a questo scopo c’era questa riportata da Gennarino Romei : ‘N’ora rorme ‘o iallu, roie ‘o cavallu, tre ‘o birrocciante, quatt’o mindicante, cincu ‘o surdatu, sei ‘o ‘nammuratu, sette ‘o sturente, ottu tutt’a gente, nove ‘a signurina, rieci ‘a pultruneria.143 Gennarino ritorna, in quest’Agenda 2000, anche sugli stornelli per soffermarsi su un tipo di stornello non trattato prima, quello a dispetto, come questo: - Nammurata mia, t’aggiu amatu ri core e sempe t’amu. - Statti cittu tu, iallu spinnatu, ra quale masunale si fuiutu? Tieni li cosce ca parunu vietti E cu ‘sti mustazzielli mi pare ‘na iatta, Si vuò parlà cu micu, parlici cittu, 143 Romei Gennaro, Agenda 2000,Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999, p. 47; 121 Filomeno Moscati si no ricu iu chellu ca mammeta è fattu. - E tu mancu a fai na bona fine! Purtavi pressa pi’ ti marità. Nun ieri pigna r’uva ‘nfracidata £ mancu ‘na otte e vinu ca ti pirdivi, - Statti cittu tu, ciucciu c’arragli, Ca si vengu locu ti mettu ‘a vriglia, roppa ‘a vriglia ti mettu ‘a sella, e ropp’a sella ti montu a cavallu.144 Gennarino Romei inserisce tra i canti popolari anche la Ciccuzzella. In realtà questa era una canzone satirica, anzi addirittura di sfottò, che, al tempo in cui era sindaco il dottor Salvatore Molinari, i vincitori delle elezioni cantavano ai vinti come una serenata. Il motivo musicale era quello del ritornello di una celebre canzone popolare napoletana allora in auge, “Ciccuzza”, quasi certamente di origine popolare anche se i versi sono stati attribuiti a Domenico Bolognese e la musica a Pietro Labriola. Il ritornello di questa canzone napoletana dice: Ah, brutta sbriffia! Sì chiù leggia d’una penna, Si bannera d’ogni antenna, Nun ne voglio sapé chiù! Nun fuie iu ma fuste tu; 144 Romei Gennaro, idem, p. 48; 122 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Restarraie comme a cucù!145 Il ritornello della “Ciccuzzella” riportata da Gennarino Romei dice invece: Ciccuzzella r’a mamma soia contami ‘o fattu comu fu, comu fu. Comu fu e comu nun fu, ‘a veste e seta l’avisti tu. Gennarino, per verità, ha ingentilito di molto l’ultimo verso del ritornello della Ciccuzzella, che, essendo in realtà assai più crudo, diceva così: Ciccuzzella ‘ra mamma soia rimmi ‘o fattu comu fu comu fu, comu fu. Comu fu e comu nun fu, ‘o ….. ’nculu l’avisti tu! L’avisti tu!! L’avisti tu!!! L’Agenda 2000 termina con la biografia di Pasqualino Romei, un personaggio da aggiungere a quegli sconosciuti eroi della vita quotidiana citati da Gennarino Romei ne “ I RICORDI” della mia vita. Pasqualino Romei, di professione orologiaio, ma competente anche in materia di oreficeria, era un personaggio emblematico di quella civiltà contadina di cui Gennarino aveva conservato la memoria nelle sue 145 La canzone napoletana, trascrizione di Vincenzo Di Meglio, De Agostini, Novara 1994, p.36/10: 123 Filomeno Moscati pubblicazioni attraverso la descrizione di tradizioni, riti e usanze. Emigrato con i genitori negli Stati Uniti d’America, tornò giovanissimo in Italia, dove esercitò la professione di orologiaio-orefice con grande competenza, ma, nel contempo, con altrettanto grande onestà e rettitudine, guadagnandosi la stima dei suoi compaesani, che, essendo consigliati sempre per il meglio, si affidavano a lui con incondizionata fiducia. Fu anche rinomato cacciatore di pilo ( ossia di selvaggina stanziale delle nostre contrade come la lepre, la volpe e il cinghiale) celebrato sia per la sua bravura individuale che per quella dei suoi cani (indispensabili in questo tipo di caccia) da lui allevati con amore e competenza. Erano queste le doti che facevano di lui una personalità eminente di quella civiltà contadina che teneva in gran conto, oltre le doti professionali, l’onestà, la rettitudine e anche le attività venatorie, ritenute indispensabili per proteggere campi coltivati e armenti dagli attacchi della selvaggina. Lo stesso Gennarino, che cacciatore non era, essendo pienamente integrato nella civiltà contadina in cui viveva, riteneva l’attività venatoria così importante da dedicare all’argomento una poesia in vernacolo in cui esaltava la bravura del suo amico Pasqualino: 124 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Minù! Nove corpi tu sparasti e nisciunu ni cugghisti, ma ‘o lepuru murivu pecché Pasqualinu l’accirivu. 125 Filomeno Moscati 126 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Bibliografia Albo d’oro degli irpini caduti, dispersi, feriti e decorati nella guerra 1915-1918, Provincia di Avellino,1928; Boldo Bartolomeo, Libro della natura e della virtù delle cose che nutriscono, in Venetia appresso Domenico e Gio. Battista Guerra fratelli, MDLXXV Capriglione F, De Feo G, Farese N, Feola A,Iallonardo G. A ROSAMARINA a cura del CentroTre Tigli di Santo Stefano del Sole, Stampa Editoriale s. r. l., Avellino, 2008; Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno, Bergamo 1998; Cuniberti Paolo Ferruccio, La maschera dell’orso, Alba Pompeia 2009; De Agostini, La canzone napoletana, De Agostini, Novara 1994; De Leonardis Cesare, Il finto incanto. Testo critico, introduzione e note a cura di Olimpia Pelosi, Edizioni W M Atripalda 1984; Il re superbo. Testo critico, introduzione e note a cura di Olimpia Pelosi, Le Pleiadi Editrice, Pompei 1987; Delort Robert, La vita quotidiana nel Medioevo, Mondadori Printing S. p. A., Cles (TN) 1993 ; 127 Filomeno Moscati Frazer James George, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, Einaudi Editore, Torino 1950; Freud Sigmund, Totem e tabù. L’orrore dell’incesto. 1913 Gatto Ludovico, Il Medioevo giorno per giorno, Mondadori Printing S p A, Cles (TN) 1993; Ghilardi Ferdinando, Storia del teatro, Casa Editrice del Dr Francesco Vallardi, Appiano Gentile (Co) 1961; Grimaldi Piercarlo, Il calendario rituale contadino, Franco Angeli, Milano 1993; Masucci Alfonso, Serino (ricerche storiche), Tipografia di Giuseppe Rinaldi, Napoli 1923; Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY PRINT, Avellino 2010; Storia di Serino, EdizioniGutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005; San Michele di Serino e la chiesa di S. Michele Arcangelo dalle origini ai Giorni nostri, LUBIGRAF, Montoro Inferiore (AV) 2007; Generoso Crisci, parroco, ricercatore, storico, Serino 2008; Salvatore Floro Di Zenzo, francescano poeta e poeta francescano, EUROPRINT 2000 SRL, Sirignano (AV) 2008; Pascoli Giovanni, Poesie. Myricae, Luigi Reverdito Editore, Varese, 1995; 128 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Pazzini Adalberto, Storia, tradizioni e leggende nella medicina popolare, Recordati, Istituto d’arti grafiche di Bergamo, 1940; Pescatore Gabriele, Prefazione, in Gennaro Romei ,Agenda 2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999; Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979; SERINO SACRA CHIESE E SANTI, Poligrafica Ruggiero s. r. l.,, Avellino 1994; Amici e Sirinnu viriti stu mese che vi rice, Poligrafica Ruggiero, 1997; SERINO quel 23 novembre 1980, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1982; “I miei ricordi” di Salvatore Molinari, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993; SERINO. Storia e tradizioni,fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992; PROF. GIUSEPPE MOSCATI. Il medico santo, stampato a cura dell’Associazione “San Giuseppe Moscati”, 1997; ILCASTELLO FEUDALE e I SIGNORI di SERINO 1998; Agenda 2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999; Schimidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana, Cremese Editore s. r. l., Roma 1994; Tucidide, Storie ; Virgilio, Eneide; 129 Filomeno Moscati 130 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI III ‘Nci steva ‘na vota La pubblicazione più importante di Gennarino Romei è, a nostro avviso, quella che ha per titolo “Nci steva na vota”. Ѐ una raccolta di 61 fiabe, tutte in stretto dialetto serinese con l’evidente impronta della variante del casale Ferrari, casale in cui Gennarino era nato e cresciuto. Anche questo libro ha un’appendice in cui sono riportati, così come accade nelle altre pubblicazioni di Gennaro Romei, canti popolari, canti sacri, preghiere serali, canti di ninna – nonna, barzellette, indovinelli, proverbi, e, infine, versi dell’autore; una miscellanea di cose in gran parte già incluse nelle altre pubblicazioni di Gennarino, ma in cui, come al solito, è possibile scoprire qualcosa di nuovo e di interessante. Nella parte finale di questa miscellanea, infatti, l’attenzione è subito attratta da una poesia dedicata a un suo amico poeta, RIO MA, probabile anagramma del nome di battesimo del serinese Mario Masucci, cancelliere presso il Tribunale di Avellino e poeta. L’attenzione è stimolata dal fatto che Gennarino Romei, nella chiusa di questa poesia, comunica all’amico poeta che gli avrebbe inviato, in ricambio di un libro di poesie ricevuto da RIO MA, un proprio libro 131 Filomeno Moscati di cui evidenzia titolo, linguaggio e contenuto, dicendo: Stu libru………………….. L’aggiu scrittu ‘ndialettu nuostu. “ ‘Nci steva ‘na vota…”, accussì è ‘ntitulatu. So chilli cunti ch’e vavuni nuoste ‘nci ricevanu vicin’o fucularu, e nui criaturi c’a vocca aperta e stiemmu a sente senza e ‘nci move.146 La veglia accanto al focolare 146 Romei Gennaro, “ ‘Nci steva ‘na vota…”, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p. 252; 132 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI La presentazione del libro, fatta direttamente dall’autore, lo qualifica immediatamente, e senza equivoci, come espressione della cultura, che abbiamo definito spirituale ( vedi a pagina 47), di quella civiltà contadina che è stata la civiltà di Serino fino alla seconda metà del secolo XX. Questa cultura si manifesta apertamente: nel linguaggio adoperato, che è il dialetto serinese; nei racconti fiabeschi (cunti) che fanno rivivere, sublimati nella narrazione e nella memoria, credenze magiche e modi di vita strettamente legati all’antica civiltà; nell’ambiente familiare, sia umano ( vavuni e criaturi = nonni e bambini) che materiale ( vicin’o fucularu), in cui le fiabe venivano narrate ed ascoltate con credula immobilità. A queste sessantuno fiabe Gennarino Romei ne aggiunse altre 22 in successive sue pubblicazioni, e, più precisamente, 18 in “ SERINO, tradizioni fiabe e canti” (del 1992) e 4 nei “Ricordi” (del 1993). Di queste ventidue fiabe alcune erano già state incluse in “ ‘Nci steva ‘na vota” (del 1981), come, ad esempio, “ ‘A papira cugghiuta”. La fiaba, da non confondere con la favola, che nell’accezione popolare viene spesso con essa identificata, ha origini antichissime che si perdono nella notte dei tempi. Tutti gli studiosi, che si sono 133 Filomeno Moscati interessati alle origini della fiaba, pongono queste origini in tempi lontanissimi e uno studioso dell’epoca vittoriana (sec. XIX) Max Muller , professore di filologia comparata dell’Università di Oxford, sostiene anzi che la fiaba è nata contemporaneamente alla nascita e allo sviluppo del linguaggio, perché, egli afferma, solo il linguaggio ha il potere di definire la natura e il mondo.147 Ancora prima di Muller il frate domenicano A. Pernety (sec. XVIII), parlando dei geroglifici dell’antico Egitto, dice che “gli autori di gran nome che hanno scritto sui geroglifici degli egiziani, e sulle fiabe alle quali questi hanno dato luogo, sono così in contrasto gli uni con gli altri che uno può , con ragione, credere che le loro opere costituiscano delle nuove favole….alcuni di essi credono di aver trovato storie reali di quei tempi mitici, e, malgrado ciò, essi li definiscono il tempo delle favole” 148 Ѐ questa la ragione per cui Lina Sacchetti, ritenendo la fiaba “un fiore iridescente dell’umana fantasia”, afferma che“fra tutte le creazioni dell’uomo essa è la 147 Muller Maximilian Friedrich, Sacred books of the East, (Libri sacri dell’Oriente) Oxford University Press, 1879-1910; 148 Dom. Antoine Joseph Pernety, Les Fables Egyptiennes et grecques, Discours preliminaire, Chez Delalain lainé, libraire, Paris rue Saint Jacques, n° 240, MDCCLXXVII, p. 9; 134 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI più antica”. 149 Un’idea che la Sacchetti aveva verosimilmente ricavato dalla lettura di Giambattista Vico, che, nella Scienza Nuova, Libro secondo, Della Sapienza Poetica, sostiene che nella seconda Età dell’uomo, quella degli eroi, “ i primi uomini,… come fanciulli del nascente genere umano,…dalla loro idea creavano le cose, ma…per la loro robusta ignoranza il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’ era corpolentissima, il facevano con una meravigliosa sublimità, tale e tanta che perturbava essi medesimi che fingendo le criavano, onde furon detti poeti”. Vico aggiunge che “ tre sono i lavori che deve fare la grande poesia: ritruovare favole sublimi confacenti allo intendimento popolaresco; che perturbi all’eccesso; conseguire il fine d’insegnare il volgo a virtuosamente operare.” 150 In prosieguo il Vico, per meglio esplicitare il concetto di fiaba come opera di poesia, afferma che: “ Tal generazione della poesia ci è confermata da questa sua eterna proprietà; che la di lei propria materia è l’impossibile credibile...; onde i poeti non 149 Sacchetti Lina, La letteratura per l’infanzia, Le Monnier, Firenze 1954, p. 1; 150 Vico Giambattista, Principi di Scienza Nuova, in Napoli, nella Stamperia Muziana MDCCXLIV, p.71; 135 Filomeno Moscati altrove maggiormente si esercitano che nel cantare le meraviglie fatte dalle maghe per opere 151 d’incantesimi. Questi e tantissimi altri illustri studiosi, che si sono interessati della fiaba come genere letterario, sono concordi nel ritenere che: essa ha origini antichissime; vi è un fortissimo legame fra linguaggio e fiaba; vi è un legame altrettanto forte tra poesia e fiaba, poiché una delle doti principali della poesia è quella di rendere credibili, attraverso voli di fantasia, le cose impossibili; una caratteristica, quest’ultima, tipica dei grandi poeti epici dell’antichità ( e non solo ) a cominciare da Omero(Iliade e Odissea), Esiodo( Teogonia ), Virgilio (Eneide), Dante ( Divina Commedia), Ariosto (Orlando furioso), Tasso (Gerusalemme liberata), per citarne solo alcuni dei più famosi. Nel novero degli studiosi, che si sono interessati delle fiabe e del loro significato, vanno inclusi i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, autori, nel secolo XIX, di una celebre raccolta di fiabe popolari della Germania dei loro tempi; fiabe che essi avevano trascritto così come le avevano apprese dalla viva voce del popolo tedesco. Essi, sulla base di uno studio di queste fiabe, 151 Vico Giambattista,idem, p.73; 136 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI hanno elaborato una loro teoria sulle origini e sull’importanza della fiaba nella storia di un popolo; una teoria che, pure essendo fortemente suggestiva, non può essere ritenuta priva di fondamento e di verità. I fratelli Grimm partono dall’intima convinzione che ogni popolo ha un’anima e che questa sua anima si esprime e diventa percettibile nella lingua, nella poesia, nei racconti e nei canti del popolo. I racconti popolari, pertanto, sono, per essi, l’espressione più veritiera dell’anima di un popolo e il linguaggio, con cui vengono oralmente trasmessi da padre in figlio, può essere soltanto quello del popolo, cioè il dialetto. Fiabe e dialetto costituiscono, perciò, le manifestazioni principali della cultura con cui si estrinseca l’anima di un popolo; una cultura che si è conservata integra solo nelle classi popolari, ma è andata perduta nelle classi sociali superiori.152 Una certa affinità con l’anima del popolo dei fratelli Grimm si può rinvenire anche nell’interpretazione della fiaba, fatta, in chiave psicoanalitica, da Carl Gustav Jung, che vede nelle storie e nei personaggi 152 Jacob e Wilhelm Grimm, Kinder und Hausmarchen (Bambini e fiabe casalinghe) 1812-1815 137 Filomeno Moscati delle fiabe il libero riaffiorare di archetipi (immagini primordiali) dell’ inconscio collettivo.153 Quella di Jung è un’interpretazione della fiaba, e dei suoi riposti significati, del tutto diversa da quella di Benedetto Croce, che, nell’illustrare l’opera di Giovan Battista Basile, essendo convinto che le fiabe debbano essere valutate soltanto dal punto di vista estetico, ritenne che quelle tramandate oralmente dal popolo venivano comunicate da padre in figlio quasi come una materia inerte (e quindi senz’anima); e tali rimanevano almeno fino a quando, nelle mani di un’artista dotato di qualità poetiche, la materia popolare inerte non fosse stata tramutata in poesia. 154 Una visione e un’interpretazione della fiaba del tutto diversa da quella di Vladimir Propp, che ha condotto i suoi studi sulla fiaba su basi scientifiche. Questo proposito, di procedere allo studio dei racconti fiabeschi con metodo eminentemente scientifico, Propp lo rende manifesto fin dall’ inizio del suo lavoro, quando afferma che, prima di cominciare una qualsiasi indagine sulla fiaba, bisogna delimitare il campo dell’indagine definendo con precisione cosa 153 Jung Carl Gustav,Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere Vol.IX, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1980; Granese Alberto. Il labirinto delle analisi infinite, EDISUD, Salerno 1991, p. 80; 154 Croce Benedetto, Storia dell’ età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura. Vita morale, Laterza, Bari 1925; 138 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI s’intende per fiaba.155 Ciò può essere fatto individuando le sue caratteristiche peculiari; caratteristiche che la contraddistinguono rendendola non confondibile con altri racconti similari, come ad esempio la favola , nei quali manca l’elemento magico che contraddistingue il racconto fiabesco. Solo dopo questa delimitazione si può procedere ad esaminare la fiaba nei suoi vari elementi costitutivi, così come si fa con i vari organi che compongono gli organismi viventi.156 Propp, dopo aver condotto la sua indagine partendo da questi presupposti, afferma che essa rivela che le fiabe di magia hanno tutte un’identica struttura, e, pertanto, nessun soggetto (o intreccio) può essere studiato avulso dagli altri. Egli afferma, inoltre, che l’analisi scientifica della fiaba dimostra che, mentre i personaggi della fiaba possono essere molti, diversi e variabili, le funzioni ( o azioni) da essi esplicate sono in numero limitato, e, essendo indispensabili al procedere della trama fiabesca, sono queste a costituirne gli elementi stabili e costanti. Dall’analisi della fiaba condotta da Propp, si deduce, perciò, che la struttura della fiaba è monotipica e che, in questa struttura, le funzioni ( o azioni), che sono 155 Propp Vladimir Jakovievic,Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966, p. 3; 156 Propp Vladimir Jakovievic, idem, p.9; 139 Filomeno Moscati appena trentuno, si succedono in un ordine sempre uguale. Le trentuno funzioni individuate da Propp, possono essere distinte in gruppi omogenei, differenziati dall’azione compiuta e dal momento in cui essa viene compiuta. Le funzioni individuate da Propp possono essere distinte in: A) Funzioni preparatorie: 1-allontanamento di un membro della famiglia; 2-proibizione impartita al protagonista (o eroe); 3-disubbidienza e violazione della proibizione; 4- il cattivo investiga; 5- il cattivo riceve delle informazioni; 6- il cattivo tenta di ingannare la vittima; 7- la vittima cade nel tranello; B) Funzioni di avvio dell’azione 8- il cattivo danneggia uno della famiglia; 9- si verifica una sciagura e il protagonista viene allontanato; 10- Il protagonista decide di reagire; 11-Il protagonista si allontana da casa; B) Funzioni di ricezione in dono del mezzo magico 12- l’eroe viene esaminato e aggredito dal futuro donatore; 13- l’eroe reagisce; 14- l’eroe riceve in dono l’oggetto magico; 140 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI D) Funzioni di massima attività 15- l’eroe raggiunge il luogo dell’azione; 16- l’eroe combatte con il cattivo; 17- l’eroe riceve un marchio sul corpo; 18- il cattivo è sconfitto; 19- l’eroe ripara il danno iniziale; 20- l’eroe si appresta al ritorno a casa; 21) l’eroe viene perseguitato; 22)-l’eroe scampa alla persecuzione; E) Funzioni legate a una ripresa dell’azione 23- l’eroe torna a casa ma non viene riconosciuto; 24)un falso eroe accampa delle pretese; 25-all’eroe vero viene ingiunto di portare a termine un’impresa molto difficile; 26- l’impresa viene compiuta dall’eroe; 27- l’eroe vero viene riconosciuto; 28-il falso eroe (o cattivo) viene smascherato; F ) Funzioni conclusive 29- l’eroe assume un nuovo aspetto; 30- il cattivo viene punito; 1- l’eroe si sposa e diventa re. Queste funzioni, nell’ordine in cui sono disposte, costituiscono lo schema di Propp; uno schema in cui dovrebbero essere inquadrate tutte le fiabe (o racconti di magia), comprese quelle serinesi raccolte da Gennarino Romei; ma, fin da un primo sommario esame di queste fiabe, si riscontra che non tutte le 31 141 Filomeno Moscati funzioni di Propp possono essere evidenziate nella maggioranza delle fiabe serinesi. La ragione per cui ciò accade è ravvisabile nel fatto che non tutti i racconti, riportati da Gennarino Romei nei suoi libri, possono essere classificati come fiabe. Alcuni di questi cunti serinesi, infatti, hanno la struttura della favola più che della fiaba, perché in essi manca l’elemento magico, che caratterizza il racconto fiabesco. In essi sono, invece, presenti altre caratteristiche tipiche della favola, quali i personaggi antropomorfi (animali che parlano e si comportano come uomini), la relativa brevità del racconto e l’intento moralistico, in alcune favole palesemente manifesto, in altre facilmente intuibile. I racconti serinesi che possono essere inclusi nel filone della favola, cosa che si può intuire già dal loro titolo, sono:‘A iatta ‘nammurara (p. 20); Comma crapa (p. 25); Compa ‘Allitiellu (p.27); ‘A summana santa(p. 29); Compa ciucciu e compa puorcu (p. 31); ‘A vorpe e ‘o lupu (p.37); ‘O cane, ‘a iatta, ‘o ciucciu e ‘o iallu (p. 51); Comma vorpe e compa lupu (p. 70); ‘A iallina e ‘a vorpe (p. 77). Ѐ chiaro che in queste favole, così come in un altro folto gruppo di racconti serinesi, anch’essi privi dell’elemento magico peculiare delle fiabe, lo schema di Propp o non può essere applicato o può esserlo solo in modo parziale. 142 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Nella maggior parte delle fiabe serinesi, infatti, sono presenti soltanto alcune delle funzioni dello schema di Propp. Ciò è facilmente dimostrabile fin dalla prima fiaba riportata nella raccolta“Nci steva ‘na vota”, fiaba il cui titolo è “Pienzu” (p.17),evidenziando tra parentesi il numero corrispondente alla funzione compiuta. La fiaba narra che: “ ‘Nci steva ‘na vota nu uagliunciello ca si chiamava Pienzu. Chistu crisceva senza iurizio. ‘Nu iuornu ‘a mamma, primu e i ‘o mircatu(1allontanamento di un membro della famiglia) li ricivu: Pié, ti raccumanno tre cose: sta’ accuortu ‘e pulicini e ralle a mangià; nu tuccà chillu paccotto e tuossicu ca sta ‘ndo stipu; nu move chillu saccu chinu e cennere ca sta arret’ a porta(2-proibizione ). Fa’ ‘o bravu ca quannu tornu ti portu ‘na bella cosa. Comu ‘a mamma ascivu, Pienzu purtavu subitu ‘na vranca e ranu e pulicini, ma chisti nu bulieru mangià. Pienzu allora s’arraggiavu e cu’ ‘na mannara li tagnavu ‘a capu. Roppu pignavu ‘nu pulicinu, ‘o spinnavu e ‘o mittivu arroste ‘ncopp’a ratigna( 3- disobbedienza). E mente ‘o pulicinu arrusteva, Pienzu c’a giarra ‘nmanu aprivu ‘a catarata e, p’o scalandrone abbasciu, scinnivu ‘nda cantina a pignà ‘o vinu. Quannu aprivu ‘a votte, sintivu ‘nu rimore ‘nda cucina: era ‘a iatta ca si steva arrubbanu ‘o pulicinu. 143 Filomeno Moscati Pienzu, allora, lassavu ‘a votte aperta, gnanavu ambressa ‘ncoppa e currivu appriesso a iatta, ma nu l’arrivavu. Quannu turnavu ‘nda cantina, truvavu ‘a votte sfrattata e ‘o vinu ittatu. Allora pignavu ‘a cennere(3- disobbedienza), ca steva rint’o saccu arret’a porta, e ‘a ittavu pe’ terra ‘ncopp’o vinu pe’ l’asciucà. Po’ sintivu passà ‘nu ramaru c’alluccava: Rama vecchia a cagna a nova. ( 6- il cattivo tenta d’ingannare la vittima?) Pienzu nun ’nci pinsavu roie vote: pignavu tutt’a rama ca steva appesa e ‘a rivu ‘o ramaru, ca li rialavu roie sartanie nove.(7- la vittima cade nel tranello?) Quannu ‘e mittivu appese, e roie sartanie si muvevanu, pecché sciusciava’o vientu, e parevanu ca ricevanu: Din ! Don! Dan! Mo ca vene mammeta l’o dicimu. Pienzu s’arraggiavu e cu’ ‘na mazza l’ammaccavu. Roppu nu picca e tiempu passavu ’n’omo c’accattava l’oru. Chistu alluccava: oru viecchiua cagna a rucati. (6?)Pienzu subitu pighiavu l’oro viecchiu r’a mamma, ca steva rint’a ‘nu scatulu, e ‘o binnivu sulu pi’ rui rucati, facennusi fa fessa ra chill’omo.(7- ?) A ‘nu certu mumentu, chi sa picché, chillu miezzu fessa capivu ca eva cumbinatu tanta uai e, pirciò, si vuleva abbilinà. Pignavu, allora, ‘o tuossicu, ca steva rint’o paccottu, (3-disubbidienza), e s’o mangiavu ma nun murivu, picché rint’o paccottu ‘nci steva ’o zuccuru. 144 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Quando la madre torna dal mercato Pienzu le riferisce tutti i guai che aveva combinato in sua assenza. Ѐ evidente che la confessione delle sue malefatte, fatta spontaneamente da Pienzu alla madre, non può essere classificata come un’investigazione fatta dal cattivo, e, perciò, le funzioni preparatorie all’azione n° 4- 5- 6- 7- 8non sono riscontrabili in questa fiaba se non con una evidente forzatura. La fiaba prosegue narrando che, dopo avere appreso le disubbidienze di Pienzu “ ‘a mamma, ‘a puverella, tutta afflitta e scunsulata, li ricivu: Mo ca m’è cumbinatu tutti ‘sti uai, mi voghiu propriu parte. E subitu si ni ivu. Ma roppu pochi passi, penzannu ca ‘o fighiu era senza iuriziu, si carmavu e o chiamavu: Pié, tiriti ’a porta appriesso e bieni puru tu cu’ micu( 9- in seguito a una sciagura il protagonista viene allontanato). Pienzu tiravu ‘a porta ra vicin ’a l’andone,s’a mittivu ‘ncuollu e ghivu appriessu ‘a mamma( 11- il protagonista si allontana da casa)…. Cammina, cammina, cammina, a nu certu puntu si stancaru e s’assettaru ‘ncopp’a ‘na preta, rintu ‘o voscu (15- il protagonista raggiunge il luogo drll’azione ). Ma pi’ paura e l’animali firuci gnanaru ‘ncopp’a ‘n’arberu autu autu. Pienzu ‘nci gnanavu puru ‘a porta(14- in questo caso la porta funge da sostituto dell’oggetto magico ). 145 Filomeno Moscati ‘Npuntu mezzanotte arrivaru puru ‘e brianti, ca s’assettaru sott ‘a l’arbiru pi’ si sparte e rucati, ca evenu arrubbati a nu riccu cristianu. Pienzu roppu ‘nu picca e tiempu ricivu: ué ‘ma, mi vene a piscià. A mamma rispunnivu: P’amore e Diu, nu piscià, si no e brianti ‘nci verenu e ‘nci accirinu. Ma Pienzu si mittivu a piscià (16- l’eroe combatte con il cattivo ?). E brianti ricieru: A chest’ora l’aucielli pisciunu ancora. Roppu n’atu mumentu Pienzu ricivu: Ué ‘ma, iu sentu cacà. ‘A mamma, rispirata, li rivu ‘nu pizzulu ‘nculu, e cittu cittu, li ricivu: Tu si pacciu, cerca e mantene natu picca. Ma Pienzu si mittivu a cacà(16- ?). E brianti ricieru: A chest’ora puru l’aucielli cacunu. Roppu nu picca e tiempu, mente e brianti si spartevenu ‘e rucati, Pienzu ricivu: Ué ‘ma, mo mi scappa ‘a porta. E mente accussì ricivu, li scappavu veramente ‘a porta, ca carivu ‘ncuollu e brianti, ca, pa paura, scapparu luntanu: chi ca lengua muzzata, chi cu’ ‘nu vrazzu ruttu e chi cu’ ‘nu pere zuoppu( 18- il cattivo viene sconfitto). 146 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Pienzu e ‘a mamma subito scinnieru, si pighiaru e rucati(19- l’eroe ripara il danno iniziale) e se ne turnaru a casa( 20- l’eroe torna a casa).157 Risulta evidente, dopo la lettura di questa fiaba, che in essa manca una componente essenziale della trama delle fiabe esaminate da Propp: l’elemento magico, costituito dall’incontro dell’eroe con un personaggio mitico (il vecchio) che gli fornisce il mezzo magico; un mezzo che, con la sua magia, gli consentirà di superare tutte le prove e di sconfiggere il cattivo. A causa di questa carenza fondamentale, trentuno delle fiabe riportate da Gennaro Romei, nel suo libro “Nci steva ‘na vota”, non rientrano a pieno titolo nelle fiabe di magia e, pertanto, in esse solo parzialmente risulta rispettato lo schema di Propp. Le trentuno fiabe mancanti dell’elemento magico non sono per questo meno importanti, perché in esse la magia viene sostituita da azioni, descrizioni e scene di vita contadina serinese ancora attuali nella prima metà del secolo XX. Esse possono, perciò, essere definite racconti (in dialetto cunti) della civiltà contadina e così saranno denominati in seguito. La definizione non è casuale, ma scaturisce dalla presenza, frequente in essi, di alcune parole chiave come mangià, piscià, cacà, culo, etc., molto usate nella 157 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, pp. 17-19: 147 Filomeno Moscati cultura contadina; una cultura in cui si dava grande importanza alle funzioni fisiologiche che queste parole evocano. Un’altra caratteristica viene evidenziata da un’attenta lettura dei racconti della civiltà contadina; ed è la costruzione di più fiabe intorno a un unico tema, a cominciare dalla prima di esse intitolata “Pienzu”. Il tema conduttore di questo racconto può essere definito come “ il tema del figlio scemo” o, come riporta Gennarino con espressione tipicamente serinese, “ miezzu fessa.158 Il gruppo di racconti imperniato sul filo conduttore del figlio miezzu fessa comprende, oltre a Pienzu, quelli intitolati Piruondu (p.39), Compa Piruocculu (p.72) e, in parte, quello intitolato Rocciulammerda (p.121). Il filo conduttore di questi cunti inizia con la indicazione del protagonista come senza iurizio (Pienzu), senza malizia(Piruondu), accussì fessa(Compa Piruocculu), senza malizia(Rocciulammerda); prosegue con le proibizioni impartite al protagonista; l’allontanarsi dell’autorità familiare che le ha impartite; la disubbidienza e i disastri da questa causati; il pentimento e la reazione del protagonista, che pone riparo alle sue malafatte, e, anzi, pur non brillando per intelligenza, capovolge la situazione iniziale 158 Romei Gennaro, Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p. 17 148 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI apportando ricchezza alla propria famiglia. Unica eccezione Compa Piruocculu, che, per essersi fatto castrare da un asino, che divora assieme al lappazzo anche gli attributi virili che ricopriva, subisce l’irosa vendetta della moglie, che lo abbrustolisce in forno proprio come un agnello castrato. Un commento particolare merita il racconto intitolato Rocciulammerda, perché in esso la prima parte può essere assimilata a un cuntu serinese mentre la seconda ha la struttura di una vera e propria fiaba, la cui natura viene evidenziata dalla presenza di tutti gli elementi, compreso quello magico, che caratterizzano, in modo specifico, i racconti fiabeschi scientificamente esaminati da Vladimir Propp. La parte iniziale di Rocciulammerda dice: “Nci steva ‘na vota nu patre e ‘na mamma ca tinevenu sulu ‘nu figghiu, ca si chiamava ‘Ntuniucciu. Chistu era ‘nu buonu uaglione, ma crisceva senza malizia. ‘Nu iuorno e ginituri, ca tinevenu ‘nu saccu e rucati, p’o fa spratichì, ‘o mannaru a fa spesa ‘o mircatu. (2- ordine, o proibizione, impartito al protagonista ) ‘Ntuniucciu, arrivatu o mircatu, virivu ‘nda n’angulu ra chiazza tanta pirsune ca rirevanu accussì forte, ca l’ascevanu e rienti ra vocca. S’abbicinavu e birivu ‘ncopp’a ‘nu tavulinu nu sorici ca sunava ‘o tammurru. Li piacivu assai, ma custava cientu rucati e nun 149 Filomeno Moscati l’accattavu. Si mittivu ‘ngiru, ma tuttu chellu ca birivu, nun li piacivu. Allora si vutavu arretu e gniv’ accattà ‘o sorice(3- disubidienza all’ordine, o alla proibizione) e, tuttu priatu, si ni turnavu a casa. ‘O patre e ‘a mamma, ca l’aspittavanu, subitu l’addummannaru ch’eva accattatu. ‘Ntuniucciu nun parlava. Aprivu ‘o scatulu. E ginituri uardaru cu’ l’uocchi spalancati, ma rumanieru male quannu viririeru chellu c’o fighiu eva purtatu. E subitu capieru ca nun era chiù cosa r’o mannà o mircatu. Ma ‘o iuornu appriessu pinzaru: nui tinimu tanta rucati, che ni l’avima fa? Mo ‘o mannamu ‘n ‘ata vota e birimu si mette iuriziu. Roppu pochi iuorni chiamaru ‘o fighiu, li rieru cientu rucati e ‘o mannaru ‘o mircatu. ‘Ntuniucciu uardavu ra cà e ra là, ma niente li piacivu. Allora ivu a biré addò eva accattatu ‘o sorice. Si facivu largu fra ruossi e pizzirilli e, quannu arrivavu ‘nante, virivu ‘ncppp’a ‘nu tavulinu ‘nu relle ca sunava ‘a chitarra. Custava puru cientu rucati. ‘Ntuniucciu ‘nci pinzavu ‘nu picca e po’ s’alluntanavu. Ma comu si unu l’esse tiratu, si vutavu arretu. Pavau cientu rucati e ‘o relle si pighiavu. Quannu turnavu a casa, ‘a mamma li facivu ‘na scinata, ma ‘o maritu l’acquietavu. ‘A sera , quannu si curcavu, ‘o maritu, ca era chiù biecchiu, ricivu vicinu ‘a mugghiere: Mannamulu ‘n’ ata vota, chi sa, s’accunzasse ‘nu picca. 150 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI ‘Ntuniucciu , ‘o iuornu appriessu, si pighiavu e cientu rucati e si ni ivu ‘o mircatu. A chillu stessu postu, addò eva accattatu ‘o sorice e ‘o relle, virivu ‘ncopp’o tavulinu ‘na rocciulammerda c’abballava. Nun‘nci pinzavu roi vote: rivu e cientu rucati e s’a pignavu. Quannu si ni turnavu a casa, o patre e ‘a mamma nun parlaru, picché capieru ca pi’ chillu fighiu nun ‘nci steva niente chiù ra fa. ‘Ntuniucciu, tuttu priatu, mittivu ‘ncopp’o tavulinu ‘o sorice, ‘o relle e ‘a rocciulammerda. Po’ pigghiiau ‘na bacchetta e accuminzavu a cummannà. Quannu cummannava ‘o sorice sunava ‘o tammurru, ‘o relle ‘a chitarra e ‘a rocciulammerda abballava. E cumpagni, ca ievanu a biré, s’sbbuttavanu e risate. ‘Nu iuornu ‘Ntuniucciu, mente si suseva, sintivu sunà ‘na trumbetta. S’affacciavu. Era ‘o bannitore ca riceva: Chi è capace e fa rire ‘a fighia r’o re s’a sposa. Ntuniucciu, senza rice niente e ginituri, si pighiavu l’animali e s’apprisintavu o Re (11—l’eroe si allontana da casa). Chistu ricivu: Facitulu trase; ma si nun fa rire ‘a fighia mia li fazzu taghià ‘a capu. ‘Ntuniucciu si facivu rà ‘nu tavulinu e ‘ncoppa ‘nci mittivu e tre animali. Po’ pighiavu ‘a bacchetta e accuminzavu a cummannà. Quannu ‘a Principessa virivu c’o sorice sunava ‘o tammurru, c’o relle sunava ‘a chitarra e c’a 151 Filomeno Moscati rocciulammerda abballava, si facivu ‘nu saccu e risate. Allora tutti facieru festa e ‘npiazza sunaru ‘e campane. A questo punto si può considerare terminata la parte iniziale di Rocciulammerda; parte che funge da introduzione al racconto fiabesco e in cui sono individuabili solo alcune delle funzioni identificate da Vladimir Propp. Essa costituisce, però, un vero cuntu della civiltà contadina di Serino, con la descrizione di un nucleo familiare contadino, tipico della prima metà del secolo XX, padre, madre e figli senza malizia; di un mercato in cui, accanto ai venditori di oggetti e arnesi utili per la vita e per il lavoro dei contadini, assumeva grande importanza la presenza di imbonitori, prestigiatori e giocolieri, che, con discorsi e giochetti di prestigio, catturavano l’attenzione di ascoltatori a cui vendere decotti, unguenti e unzioni, rimedi empirici per la cura di bronchiti e reumatismi, malattie assai frequenti fra i lavoratori dei campi. Dopo questo prologo, tutto contadino, ha inizio il racconto fiabesco vero e proprio, che dice: “Ma ‘Ntuniucciu, ca era ‘nu picca bruttu, nun piaceva ‘a Principessa, ca ricivu vicin’o patre: Iu nun mo sposu mai. ‘O patre rispunnivu: Figna mia iu aggiu ‘mpignatu ‘a parola e Re e nun ‘a pozzo arritirà. ‘A fighia ripricavu: Papà, falli supirà prima ‘na prova e po’ m’o sposu. 152 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI ‘O Re, p’accuntintà ‘a fighia, chiamavu ‘Ntuniucciu e li ricivu: Primu e ti spusà ‘a fighia mia ea supirà ‘na prova. Iu ti rau vinti liepiri ca stannu rnt’a ‘stu saccu. Tu e puorti ‘o voscu e là e mitti ‘nlibirtà ( 6- il cattivo tenta di ingannare la vittima).Musera po’ l’accuogni e li puorti cà. Si ni manca coccurunu ‘a capu ti fazzu taghià. ‘Ntuniucciu ivu o oscu e apriv ‘o saccu: tutt’e liepiri si ni fuieru. (7- la vittima cade nel tranello) Quannu steva pi’ scurà notte, l’accuminzavu a chiamà, ma nun s’apprisintaru. Allora pinzannu c’o Re li faceva muzzà ‘a capu, s’accuminzavu a disperà. Ma mente chiangeva, passavu ‘nu vicchiariellu, ca era S. Giuseppe, ca li ricivu: Giuvinò, picché chiangi?(12l’eroe viene esaminato dal futuro donatore) ‘Ntuniucciu li raccuntavu ‘o fattu.( 13-l’eroe reagisce e supera l’esame) ‘O vicchiariellu ‘o cunfurtavu e po’ li ricivu: Tecchiti ‘stu siscariellu,(14- l’eroe riceve in dono l’oggetto magico ) ‘sti vinti rivise e ‘sti vinti sciabule. Quannu tu sischi, tutt ’e liepiri corrunu attuornu a te. Tu e biesti ra surdati, li rai ‘a sciabula ‘nmanu e po’ e puorti a palazzu riale. Comu S. Giuseppe s’alluntanavu, ‘Ntuniucciu si mittivu a siscà. Tutt ‘e liepiri li currieru attuornu. ‘Ntuniucciu e vistivu ra surdati e cu’ ‘e sciabule sguainate e purtavu ‘nant ‘o Re. Chistu, comu e birivu, 153 Filomeno Moscati rumanivu ‘mpalatu e, quannu si ripignavu, li ricivu. Tu crai ea ripete ‘a prova ‘O iuornu appriessu, mente ‘Ntuniucciu steva rintu ‘o oscu, arrivavu ‘o Re, tuttu travistutu, pi’ nun si fa canosce, ca li ricivu: Ti vuò venne ‘nu lepuru? Sine, e pecché none? E quantu vuò? Vognu cientu rucati e t’aggia ra ‘na pirucculata rint ‘o spinu. ‘O Re accittavu. Quannu ‘Ntuniucciu li rivu ‘a pirucculata, ‘o Re sbattivu ‘nterra e si rumpivu ‘o nasu. Tuttu ‘nzanguinatu, s ‘aizavu chianu chianu, si pignavu ‘o lepure e si ni ivu. (16- l’eroe combatte con il cattivo) Comu s’alluntanavu, ‘Ntuniucciu pignavu ‘o siscariellu e si mittivu a siscà. ‘O lepure ca teneva ‘o Re, comu sintivu siscà, si mittivu a stripitià. Po’ li rivu ‘na rascagnata e li scappavu r‘a manu.E ‘o Re si ni ivu tuttu scunzulatu e c’o spinu ca li faceva male.(18 -il cattivo viene sconfitto) ‘A sera ‘Ntuniucciu s’arritiravu cu’ tutt’e liepiri chiusi rint’o saccu. Ma ‘o Re, ca steva sdignatu, li ricivu: Giuvinò, tu crai ea ripete ‘n’ata vota ‘a prova.(21l’eroe viene perseguitato) E ‘o iuornu appriessu, mente ‘Ntuniucciu steva rintu ’o oscu, arrivavu ‘a Rigina, travistuta ra cuntadina. Chesta li ricivu: Mi vuò venne ‘nu lepuru? 154 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Sine, E picché none? Quantu vuò? Cientu rucati e t’aggia ra ‘na pirucculata rint’o spinu. ‘A Rigina accittavu. ‘Ntuniucciu subitu li rivu ‘a pirucculata, ma l’a rivu chianu, tantu ca li facivu sulu ‘na mulignana. A Rigina pighiavu ‘o lepuru e si ni ivu. E pi’ paura ca li scappava, s’o mittivu ‘mpiettu annaccuatu. Ma comu ‘Ntuniucciu sunavu ‘o siscariellu, ‘o lepuru accumminzavu a stripitià. ‘A Rigina s’o stringivu e ‘o lepuru, c’o piettu li rascagnavu, ‘nterra zumbavu. ‘A Rigina, tutta scunsulata, cu’ ‘e menne ‘nzanguinate,si ni turnavu, chiangennu, a palazzu riale. ‘A sera ‘Ntuniucciu si ni turnavu filice e cuntentu cu’ tutt’e vinti liepiri, ca marciavanu l’unu arretu a l’atu. ‘O Re, tuttu smaniusu, c’o nasu ‘mbasciatu, ‘mpunivu ‘a ‘Ntuniucciu l’urtima prova. ‘O iuornu appriessu arrivavu rintu ’o oscu propiu ‘a Principessa, travistuta ra pacchiana. ‘Ntuniucciu a canuscivu, ma facivu a beré ca nun si n’accurgivu. ‘A Principessa subitu li ricivu: Ti vuò venne ‘nu lepuru? Sine e picché none? E quantu vuò? Cientu rucati, ma a te nun ti ravu ‘a pirucculata. 155 Filomeno Moscati ‘A Principessa li rivu e cientu rucati(19-l’eroe ripara il danno iniziale) e si pighiau ‘o lepuru. Comu chesta facivu pocu passi, ‘Ntuniucciu pighiavu ‘o siscariellu e si mittivu a siscà. ‘O lepuru si ni scappavu e ‘a Principessa, chiangennu, si ni turnavu a casa. ‘A sera ‘Ntuniucciu, cu’ tutt’ e liepiri rint’o saccu, si ni turnavu a palazzu. ‘O Re chiamavu ‘a Principessa e li ricivu: Fighia mia, nun aggiu chiù che fa. Mittiti l’anima ‘npace e spositi a ‘Ntuniucciu. ‘A Principessa ubbidivu, ma s’o spusavu a forza. Ma quannu appriessu s’accurgivu ca ‘Ntuniucciu era tantu buonu e affittuosu, ‘o vulivu bene pi’ tutta ‘a vita soia.( 31- l’eroe si sposa e diventa re) La seconda parte di Rocciulammerda (lo scarabeo stercorario) è una vera fiaba, in cui sono facilmente ravvisabili le principali funzioni incluse nello schema di Propp, compreso l’incontro col vecchio dotato di poteri magici (qui identificato come S. Giuseppe per renderlo più accettabile dal punto di vista religioso). La struttura della seconda parte, fiabesca, di Rocciulammerda, è ravvisabile in altri venticinque racconti di “Nci steva ‘na vota, che, perciò, risulta costituita da 36 cunti serinesi e da 25 fiabe (o racconti di magia) come delimitate da Vladimir Propp. Ai 36 cunti serinesi di “Nci steva ‘na vota” bisogna 156 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI aggiungerne altri 14, inclusi in “ SERINO- Storia e tradizioni, fiabe e canti”, per cui il totale dei cunti pubblicati da Gennaro Romei ammonta a 50. Intorno al tema dello sfaticato sono costruiti due Cunti. Il primo, intitolato Unculillu (p.21), aveva un lieto fine ed era molto richiesto dai bambini soprattutto per la reiterazione di una frase che molto colpiva la loro fantasia: Bre, bre, bre, vogl’i a fa uerra o Re!; il secondo, intitolato ‘O monucu circatore (p.74), si concludeva, invece, con la punizione dello sfaticato. Molto apprezzati erano anche i cunti costruiti sul tema del mariuolu finu, quali: E tre frati (‘Nci steva‘na vota p. 55); ‘Buccittinu (idem p.156); ‘O mariuolu finu (idem p.165); Criccu, Crocco e manichenginu ( quest’ultimo inserito in SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti, p.234).159 La fonte di quest’ultima fiaba deve essere stato Italo Calvino, che, avendola ritenuta fiaba tipica dell’Irpinia, l’aveva inserita, più di trent’anni prima, nella raccolta di fiabe italiane da lui pubblicata nel 1956.160 Una variazione del tema del mariuolu finu erano i cunti intitolati Fra’ Giuvannu (‘Ncisteva ‘na vota, p.68) e O mariuolu e l’arciprete ( idem, p. 147). In questi due racconti, basati su furti che i due protagonisti, Fra’ 159 Romei Gennaro, SERINO. Storia e tadizioni, fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1992, p. 234; 160 Calvino Italo, Fiabe italiane, favola 123 Cricco, Crocco e manico d’uncino. Einaudi, Torino 1956; 157 Filomeno Moscati Giuvannu e l’arciprete, subivano a causa della loro fede incondizionata negli angeli e nelle potenze celesti, la parte principale e più apprezzata era costituita da una specie di filastrocca, che dice: Susètti, fra’ Giuvannu, ca ‘ncielu ti vole Gesù, pigna ‘a roba e ’e sordi ca tieni e po’ ti ni gnani tu. Nei miei ricordi questa filastrocca era leggermente diversa da quella riportata da Gennarino, che parla di roba e soldi, e più aderente alla civiltà contadina di cui era espressione. Essa recitava così:, Giuvannu, fra’ Giuvannu, gnana ‘ncielu ca ti vole Giesù; sagni primu ‘o puorcu accisu e po’ ti ni gnani tu. Del tutto ignota mi era invece la filastrocca con cui Gennarino chiude il Fra’ Giuvannu, che dice: Si mi frigastivi tannu, mo’ nun mi frigate chiù; Ra cà iatevenne subitu E nun ‘nci vinite chiù.161 Un gruppo di racconti prendeva lo spunto dal tema della sterilità coniugale e si imperniava sulla promessa 161 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p.68; 158 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI di cedere, a sua richiesta, a un personaggio dotato di poteri magici, il figlio nato dalla coppia per opera delle sue arti; di esso fanno parte i racconti ‘A fata Culina (p. 81); Persemula (p. 86); Giuvanninu e ‘o magu Pulismagna (p. 160). Un tipo di cuntu che attirava l’attenzione di piccoli e grandi era quello imperniato sul tema dell’ombra. A esso sono ispirati:‘A papira cugghiuta ( Serino. Storia e tradizioni. Fiabe e canti, p.230); Litizia e l’ombra, (idem, p. 278); Giuvannu, ‘o spiritu e l’ombra, ( idem, p. 296). L’ombra, così come l’ha descritta Gennarino nella nota introduttiva di ‘Nce steva ‘na vota, era “una giovanetta evanescente vestita di bianco, che faceva scomparire all’improvviso, chissà perché, qualche fanciullo o fanciulla, che venivano, però, subito rintracciati.”162 L’Ombra costituiva un elemento importante nella cultura spirituale della civiltà contadina di Serino; una specie di fantasma la cui immagine veniva impressa nella mente dei bambini per tenerli lontano dai pericoli, come quello di sporgersi dal parapetto dei pozzi. Era, infatti, comunemente affermato che nei pozzi si nascondeva un’ombra, Marialonga, che afferrava, con le sue lunghe braccia, i bambini che si 162 Romei Gennaro, “Nci steva ‘na vota, Nota introduttiva, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981; 159 Filomeno Moscati sporgevano dal parapetto per tirarli nel pozzo.163 Molto simile a quella dell’ombra era la credulità negli spiriti dei defunti, confusi con i fuochi fatui, che, nelle calde notti d’estate, si scorgevano sulle fosse dei morti quando si passava davanti al cancello dei cimiteri; spiriti che venivano invocati in aiuto quando si era in qualche pericolo. Anche il tema religioso era molto sentito, soprattutto se connesso a quello degli spiriti dei defunti, e costituiva, perciò, argomento dei cunti intorno al focolare durante le lunghe serate invernali. Tali erano i cunti che avevano per tema le anime del Purgatorio come in“E rui ciucciari”, (‘Nci steva‘na vota, p.112); “L’anime r’o Priatoriu”(“SERINO.Storia e tradizioni, fiabe e canti”,p. 294). Dedicato a S. Antonio di Padova, patrono dei rivottolesi, era, invece, il Cuntu intitolato Sant’Antonio e ‘o fuocu ( ‘Nci steva ‘na vota, p. 240), un racconto che poteva avere come soggetto anche S. Antonio abate, un santo molto venerato nel serinese, e soprattutto nella frazione Ferrari, dove era tradizione accendere in piazza un gran falò in occasione della sua festività, che cade il 17 Gennaio. Sicuramente dedicati a S. Antonio di Padova erano, invece, i cunti intitolati: ‘E ficu e S. Antoniu, ( Serino. Storia e Tradizioni, fiabe e 163 Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti, Poligrafca Ruggiero, Avellino 1992, p. 232; 160 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI canti, p. 268);‘O ciucciu ‘ncopp’o campanaru, (idem, p. 268); S. Antoniu e ‘o Tavernaru, (idem, p. 290) . Per quanto riguarda questi tre cunti l’impressione, che il lettore colto ne trae, è che in essi più che l’impronta popolare ci sia l’impronta di Gennarino. Ciò è particolarmente appariscente per l’ultimo di essi, in cui sono evidenti le reminiscenze di un capolavoro della letteratura per l’infanzia, il Pinocchio di Collodi, in cui Pinocchio, come il tavernaro, viene trasformato in asino e attaccato al bindolo ( in dialetto= catosa) e poi ritrasformato in uomo. Una favola che Carlo Lorenzini (Collodi) aveva costruito ispirandosi all’Asino d’oro di Apuleio. 164 La costruzione del racconto intorno a un tema predefinito è evidenziabile anche nelle fiabe. Fra questi temi è facilmente individuabile quello che può essere definito come Il tema del patto filiale; un patto che viene stipulato fra una coppia senza figli e un mago, che, adoperando le sue arti magiche, consente loro di averne per poterli portare via con sé quando a lui piacerà farlo. Ciò risulta evidente nelle fiabe intitolate ‘A fata Culina ( ‘Nci steva ‘na vota, p.81); Giuvanninu e ‘o mago Pulismagna ( idem, p. 160); Persemula, ( idem, p.86). In quest’ultima fiaba il patto risulta leggermente modificato, ma sostanzialmente 164 Apuleio Lucio, Le Metamorfosi o L’asino d’oro, II secolo d.C.; 161 Filomeno Moscati identico, in quanto riguarda il settimo figlio che la madre non riusciva a sfamare. Le fiabe intitolate “‘A figna e ‘a figniasta”, ( ‘Nci steva ‘na vota, p. 151); “E sette micilli”, ( idem, p. 42); Buccittinu, (idem, p. 156), sono invece costruite intorno al tema della matrigna cattiva, o di Cenerentola. Una nota particolare va dedicata a Buccittinu, in cui la fiaba di Cenerentola prosegue e s’intreccia col mito del filo di Arianna e con la fiaba degli stivali delle sette leghe svelando, così, la triplice fonte del racconto fiabesco. Altri temi sono: quello del serpente, tema su cui si basano le fiabe “‘O serpente e ‘a principessa”(‘Nci steva ‘na vota, p.104) e“‘O serpente a sette capu”( idem, p. 208); quello del pesciolino d’oro, presente nelle fiabe “‘O pisciulinu d’oro”, ( idem, p.46) e “‘E lacreme re sirene”, (idem p. 174); quello di“‘O ciucciu cacarenari”, (SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti, p.220) e di “Catucciu” (‘Nci steva na vota, p.128); ll tema delle tre grazie su cui si fondano le trame di “L’usuraio”( idem, p.125) e di “Buon surdatu” (idem p. 169); la proibizione della tredicesima stanza di “Le tre zitelle e ‘o riavulu”(idem P. 190); 162 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI e, infine,quello del fratello cattivo e del fratello buono di “Triricena”(idem p. 185). Proprio sulla presenza di temi, adoperati come base di racconti fiabeschi, è stata costruita la classificazione delle fiabe secondo lo schema di Aarne. In questo schema le fiabe sono classificate non più sulla base delle funzioni, o azioni, compiute dall’eroe protagonista (schema di Propp), ma sulla base del tipo di racconto, o trama, espresso nella fiaba. Le trame tipo, ognuna contrassegnata da un numero, formano un vero e proprio elenco numerato. 165 Questo elenco fu ampliato e arricchito da uno studioso del folklore americano, Stith Thompson, in modo da formare un catalogo di 2500 tipi di trame fiabesche (schema di Aarne- Thompson).166 In realtà il catalogo di Aarne - Thompson non include soltanto le fiabe, ma comprende anche le favole ( storie di animali) classificate con numeri che vanno da 1 a 299; le fiabe, in cui vengono incluse oltre le fiabe vere e proprie (storie di magia) anche racconti a tema religioso, racconti romantici (novelle), racconti che hanno per protagonista l’orco stupido, tutti classificati con numeri che vanno da 300 a 1199; facezie e 165 Aarne Antti, Verzeichnis der Marchentypen, 1910; Aarne A., Thompson S.,The types of the folktale: A classification and bibliography, The Finnish Academy of Science and Letters, Helsinki 1961; 166 163 Filomeno Moscati aneddoti classificati con numeri da 1200 a 1999; storie basate su una formula con numeri da 2000 a 2399; infine un gruppo di racconti , definito come storie non classificate, compreso nei numeri che vanno da 2400 a 2499. Tutti i tipi di racconti, raccolti da Gennarino Romei, possono, perciò, essere inclusi in questo elenco al numero corrispettivo. La possibilità, per i racconti raccolti da Gennarino Romei, di essere classificati in modo che ognuno di essi corrisponda al numero di un catalogo predefinito, non ne spiega, però, l’origine, che, come abbiamo già detto prima, è antichissima . Non vi può essere dubbio, comunque, sul fatto che essi siano stati raccolti dalla viva voce del popolo contadino serinese del secolo XX, di cui rispecchiano sia la parlata che il sentimento; ed è proprio questa fedeltà al linguaggio contadino che li classifica come racconti popolari tradizionali , che, com’è notorio, sono ricchi, oltre che di avventure, di personaggi fantastici quali sono gli orchi, le fate, i maghi, gli animali parlanti, le ombre, gli spiriti dei defunti e perfino le anime del Purgatorio. Questi racconti tradizionali, una volta considerati oggetto di puro divertimento, sono stati valorizzati dalla filologia moderna, che, ritenendoli antichissimi, li considera documenti importanti sia per la costruzione 164 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI della storia (fratelli Grimm) che per la comprensione della psicologia dei popoli (Carl Gustav Jung) . Esaminati in quest’ottica risulta chiaro il valore dei cunti serinesi; un valore che viene accresciuto ancora di più dal fatto, evidente sia all’occhio del critico che del lettore sprovveduto, che la trascrizione dei cunti, fatta da Gennarino Romei, si mantiene, nella stragrande maggioranza, fedele alla narrazione orale, di cui ha conservato la schiettezza, spesso confermata dalla volgarità dell’eloquio. Ciò costituisce una testimonianza inconfutabile che essi sono conformi alla tradizione con cui il popolo ce li ha tramandati, trasmettendoli oralmente da padre in figlio. Non vi è, infine, alcun dubbio che in questi racconti, trasmessi oralmente per generazioni, riaffiorino, talvolta, tracce di racconti magici e di miti antichissimi, come accade: in S. Antonio e ‘o tavernaro, che, con il tavernaro fedifrago trasformato in asino e attaccato al bindolo, richiama alla mente L’asino d’oro di Apuleio (II sec. d. C.) e quello, ancora più antico, di Luciano di Samosata (II sec. d. C.. ); o in Buccittinu, in cui sono ravvisabili oltre alle tracce di antiche fiabe, quali sono quelle di Cenerentola e degli Stivali delle sette leghe, anche il mito antichissimo di Minosse, del Labirinto, di Teseo e del filo di Arianna. 165 Filomeno Moscati Viene, pertanto, spontaneo chiedersi se in questi racconti popolari serinesi sia possibile trovare traccia di altre fonti, mitologiche o letterarie, da cui essi siano stati ispirati e abbiano avuto origine. Per quanto riguarda le favole, i cui personaggi sono costituiti da animali antropomorfi, il legame (almeno per quanto riguarda questi personaggi) va cercato nell’antica favolistica greco romana, e in particolare nelle favole di Esopo, alle quali alcuni cunti sono molto simili nel titolo ( ‘A vorpe e ‘o lupu; Compa ciucciu e compa puorcu, ‘A iatta ‘nammurata;) anche se diversi nel contenuto. Una lettura più attenta, dei cunti serinesi di Gennarino Romei, mette in evidenza un legame, a volte sottile a volte più robusto e solido, anche con le trame fiabesche raccolte da Giovan Battista Basile ne Lo cunto de li cunti.167Questo legame è ravvisabile nella fiaba intitolata “Vardiello”,168 in cui è possibile individuare agevolmente sia la fonte della prima parte del cuntu serinese“Pienzu” 169che quella del cuntu serinese Piruondu.170 Allo stesso modo è facilmente 167 Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, Letteratura Italiana Einaudi; 168 Basile Giovan Battista, idem, Vardiello, I, 4, p. 39; 169 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p. 17; 170 Romei Gennaro, idem, p. 40; 166 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI individuabile nelle fiabe “La gatta Cenerentola”171 e “Le tre fate”172 (due versioni della fiaba di Cenerentola ) la fonte del cunto serinese “Figna e fignasta”;173 nella fiaba “ Lo scarafone lo sorece e lo grillo”174la fonte di “Rocciulammerda”;175 ne “Lo cunto de l’uorco”176e ne “La papara”177la fonte di “ ‘O ciucciu cacarinari 178e di “Catucciu”;179 in “Ninnillo e ninnella”180la fonte di“ E rui ainielli”181e di “Buccittinu”182, due fiabe che si ricollegano al mito antichissimo del filo di Arianna. 171 Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, I, 6, Letteratura Italiana Einaudi, p. 53; 172 Basile Giovan Battista, idem, III, 10, p. 284; 173 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p.151; 174 Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, III,5, Letteratura Italiana Einaudi , p. 246; 175 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p.121; 176 Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, I. 1, Letteratura Italiana Einaudi, p. 11; 177 Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, V,1,Letteratura Italiana Einaudi, p. 416; 178 Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1992, p.220; 179 Romei Gennaro, ‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p.128; 180 Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, V, 7, Letteratura Italiana Einaudi, p. 454; 181 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p. 135; 182 Romei Gennaro, idem, p. 157; 167 Filomeno Moscati Un’altra fonte dei cunti serinesi è ravvisabile nelle fiabe dei fratelli Grimm. Evidente, infatti, è il legame fra“Il pescatore e sua moglie”183e “ ‘O pisciulinu r’oru”;184 fra“Raperonzolo”185e“Persemula”;186 fra“Pollicino”187e“Pirucchiellu”;188per citarne solo alcuni. Ѐ opportuno, inoltre, evidenziare che forti rassomiglianze tra le fiabe dei fratelli Grimm e i cunti del Basile erano state già riscontrate nella prima edizione inglese di alcune fiabe dei fratelli Grimm. La prefazione di questa edizione, risalente al 1823, dopo aver rilevato le rassomiglianze che accomunano tra loro le fiabe di epoche e di paesi distanti e non comunicanti fra loro, così sottolinea le rassomiglianze che intercorrono tra le fiabe tedesche dei Grimm e quelle in dialetto napoletano del Basile: “ Ma è curioso osservare che questa connessione, fra le fiabe popolari di remote e non comunicanti regioni, è 183 Hausehold tales by the Brothers Grimm, The fisherman and his vife, George Bell and Sons, London 1884; 184 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p.46; 185 Hausehold tales by the Brothers Grimm,Rapunzel, George Bell and Sons, London 1884; 186 Romei Gennaro, idem, p.86; 187 Hausehold tales by fhe Brofhers Grimm,Thumbling, George Bell and Sons, London 1884; 188 Romei Gennaro, idem, p. 65; 168 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI egualmente rimarcabile nella più ricca raccolta di narrativa tradizionale di cui un paese possa vantarsi. Noi intendiamo riferirci al “ Pentamerone, overo Tratenimento de li Piccerilli”, pubblicato da Giov. Battista Basile molto tempo prima, nel XVII secolo, da vecchi racconti comuni fra i napoletani. Ѐ singolare che fiabe tedesche e napoletane ( sebbene queste ultime fossero quasi sicuramente sconosciute agli stranieri e mai tradotte in lingue diverse da quelle italiane) posseggano una fortissima e assai minuziosa rassomiglianza”189 Questa rassomiglianza, comunque, riveste un significato assai modesto se riferita alle fonti delle diverse raccolte fiabesche, mentre ne assume uno grandissimo se riferita alla determinazione dell’origine della fiaba, perché essa può essere rinvenuta nelle favole di tutte le epoche e di tutte le civiltà, comprese quelle primordiali. Ciò nonostante queste somiglianze hanno dato luogo a interpretazioni dissimili circa la fonte primaria della fiaba; interpretazioni, espresse da studiosi appartenenti a diverse scuole di pensiero, che, pur partendo dalla constatazione dell’esistenza di questi 189 German popular stories translated from the Kinder und HausMarchen collected by M. M. Grimm from oral tradition, Published by Baldwin, Newgate Street, London 1823, Preface IX; 169 Filomeno Moscati legami, hanno manifestato in materia opinioni contrastanti. Fra questi studiosi c’è chi ha visto l’origine delle fiabe nei miti della più remota antichità (fratelli Grimm, Max Muller); Gli antropologi, invece, partendo dal presupposto che tutti gli uomini hanno una identica struttura psicologica, ritengono che le fiabe siano nate e fiorite spontaneamente presso tutti i popoli e costituiscono, perciò, la manifestazione più genuina della cultura espressa dalla loro civiltà. Tra gli psicanalisti c’è chi ritiene che nelle fiabe, come nei sogni, riaffiorino e si rendano manifesti gli istinti, che, nello stato di coscienza, rimangono repressi nel subconscio di ogni singolo uomo (Freud);190 o che le fiabe non siano altro che un prodotto di pura fantasia, ossia un sogno ad occhi aperti, in cui si rende manifesto non già l’inconscio individuale, come riteneva Freud, ma l’inconscio collettivo, cioè gli archetipi ( idee o modelli primordiali) presenti nell’inconscio di ogni popolo (Jung), 191ed è questa la ragione per cui le fiabe presentano affinità evidenti presso tutti i popoli, compresi quelli che, ancora oggi, 190 Freud S., La presenza nei sogni di materiale derivante dalle favole, 1913; 191 Jung Carl Gustav, Gli archetipi dell’inconscio collettivo 1934; Psychologische typen 1921;, 170 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI vivono in uno stato di civiltà primitiva.192 Jung ritiene, inoltre, che anche i personaggi delle fiabe, come l’eroe protagonista, la fata, il vecchio dotato di poteri magici, etc., siano archetipi, frutto del riaffiorare di idee e immagini primordiali presenti nell’inconscio collettivo di tutti i popoli. L’ importanza delle fiabe, raccolte da Gennarino Romei in “Nci steva ‘na vota” , non sta, perciò, nel fatto, puramente sentimentale, che egli con queste fiabe ci riporta al tempo della nostra infanzia lontana, ma nella constatazione, reale e pratica, che egli, con questo libro, tramanda, a noi come ai posteri, la cultura dell’antica civiltà di Serino; la cultura della sua civiltà contadina espressa attraverso le fiabe. Le fiabe, infatti, a qualsiasi popolo, epoca, etnia e civiltà appartengano, pur presentando personaggi, situazioni e azioni se non identici almeno molto simili, assumono grande importanza perché sono rivelatrici di culture differenti. A un lettore attento balza subito evidente che, al di là delle palesi rassomiglianze delle trame , dei personaggi e delle azioni, le fiabe di paesi diversi manifestano la loro differenza di culture nelle descrizioni dell’ambiente, che è sempre simile a quello 192 Campbell Joseph, La mitologia creativa. La maschera di Dio, Mondadori 1992; Mitologia primitiva, Mondadori 1995; 171 Filomeno Moscati del paese d’origine della fiaba ( napoletano per quelle del Basile, germanico per quelle dei Grimm, la steppa per quelle russe, di Serino per quelle serinesi, etc.); ma, cosa assai più importante, esse descrivono abitudini, tradizioni, relazioni umane e sociali diverse a seconda dei popoli e dei luoghi in cui le fiabe si svolgono e di cui esse , perciò, attraverso queste descrizioni, fanno rivivere l’antica cultura e l’antica civiltà. La cultura popolare materiale (vedi p. 47) dell’antica civiltà di Serino riaffiora , in questo libro, nella descrizione dell’ambiente in cui il contadino serinese viveva: la casa con il pollaio nel cortile, il sacco di cenere per il bucato (‘a culata) conservato dietro la porta d’ingresso, la cantina, (o cellaro, p.91) scavata sotto l’abitazione e a cui si accedeva attraverso una botola ( cataratta);193 Il mandrillo per il maiale e la stalla per il cavallo; 194 la porta d’ingresso dell’abitazione, munita alla base di un pertugio che permetteva l’entrata e l’uscita dei polli;195 193 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Pienzu, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981, p. 17; ‘a culata, p. 40 ; ‘o conzapiatti, p. 55; 194 Romei Gennaro, idem,‘O monucu circacatore, p. 74; 195 Romei Gennaro, “idem, ‘A vorpe e ‘o lupu”, p. 37; 172 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI gli antichi mestieri come il “ramaro”, il compratore di oro vecchio, il “conzapiatti, lo“scarparo” (p.99), Il “barbiere”, il “sarto”, il “chianchiere” etc.; la descrizione di lavori come la battitura dei noci al momento della raccolta; l’aratura del terreno per la semina fatta con l’aratro a pertica tirato da un bue; il ciclo della produzione del mais dalla semina alla raccolta;196 gli arnesi e i recipienti di lavoro, come la zappa, la vanga, il barile, la botte, etc,; il gioco delle “stacce; e tanti altri aspetti della vita quotidiana del popolo contadino. Ancora più importante è il fatto che, in questo libro, non rivive soltanto l’antica cultura popolare materiale di Serino, ma anche quella spirituale (vedi p. 47); una cultura di cui le fiabe sono parte non secondaria perché in esse , oltre al riemergere di antiche tradizioni, viene immortalata la lingua, che di questa cultura è la massima espressione. La lingua, infatti, secondo molti etnologi, è lo specchio fedele della cultura di ogni gruppo sociale;197 196 Romei Gennaro, “idem, Comp’Allitiellu”, p. 27; la semina , p. 65; produzione del mais,p 70;. 197 Malinowski B., Una teoria scientifica della cultura, (saggio postumo) 1944; Durkheim E.; The division of Labour in Society, 1893; The rules of Social Methods, 1895; 173 Filomeno Moscati uno specchio, che, attraverso le parole, trasmette l’immagine riflessa dei fenomeni fondamentali che caratterizzano la vita del gruppo: l’alimentazione, l’organizzazione politica ed economica, le credenze e le tradizioni, cioè un “complesso di conoscenze, di credenze, di arte, di morale,di diritto, di costume e di ogni altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo nella sua qualità di membro di un gruppo sociale” .198 La conseguenza è che non si può conoscere un gruppo sociale senza passare per l’intermediario della lingua, e, anzi, c’è un nesso così forte tra struttura sociale e struttura linguistica che le variazioni delle strutture linguistiche possono essere considerate rivelatrici – e quindi testimonianza - delle variazioni intervenute nelle strutture sociali dei gruppi che parlano quelle lingue. Una precisazione, comunque, va fatta anche riguardo alle mutazioni che la lingua subisce, attraverso i secoli, col mutare delle strutture sociali; ed è che la lingua, pur variando attraverso i secoli, conserva in sé tracce riconoscibili della storia passata del popolo che la esprime; tracce risalenti perfino a epoche e civiltà lontanissime. Ciò è accaduto anche per la storia del Mauss M.; Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, 1896; Essai sur le don, 1924; de Saussurre F., Course de Linguistique Générale, Losanna 1916; 198 Tylor Edward Burnett, Primitive culture, John Murray, London 1920, p. 1; 174 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI popolo serinese nel cui dialetto (o, meglio, in quello parlato ai suoi tempi sulla riva destra del Sabato) Filippo Masucci ha individuato parole (ereva per erba; salevatico per selvatico; Salevatore per Salvatore199 goreva per curva), che, presentando l’aggiunta della vocale e fra due consonanti200, costituiscono la testimonianza, ancora viva in età contemporanea, dell’antica lingua osco- sannita una volta parlata dal popolo di Serino. L’anaptissi è presente, in modo diffuso, anche nelle fiabe riportate da Gennarino Romei, ma, in esse, la vocale aggiunta non è soltanto la e ma anche la u e la i (es. lepuru per lepre e lepiri per lepri) , ciò che evidenzia una differenza fra il dialetto parlato sulla riva sinistra del fiume Sabato e quello parlato sulla riva destra. Questa differenza era già stata rilevata dal più illustre letterato serinese, il prof. Salvatore Floro Di Zenzo O.F.M, che, da filologo cattedratico,201 così si esprime, sul dialetto del suo paese , proprio nella premessa al libro “ ‘Nci steva ‘na vota” di Gennarino Romei: 199 Masucci Filippo, Serino nell’Età Antica, (ricerche storiche),Tipografia Pergola, Avellino 1959 , p. 24; 200 N. d. A, l’anaptissi, cioé l’aggiunta della vocale fra due consonanti , e soprattutto quello della vocale e, era un fenomeno molto diffuso nella lingua osca. 201 Cfr. Moscati Filomeno, Salvatore Floro Di Zenzo, francescano poeta e poeta francescano, EUROPRINT 2000, Sirignano ( AV) 2008, pp. 55-89; 175 Filomeno Moscati <<ll pregio di questo bel libro ...è nell’aver saputo conservare la freschezza della parlata serinese, avendo egli riscritto “ e cunti” raccolti a viva voce così come la memoria di un popolo li ha sottratti e conservati all’usura del tempo e ai cambiamenti del costume e della civiltà.....Ma... noi vorremmo precisare che l’importanza di questa raccolta è nell’aver rispettato la primordialità orale del linguaggio. Il linguaggio che ha dominato nei secoli la valle del Serino è un miscuglio di osco–sannita, di latinolongobardo, di avanzi gallo-romanzi, non esclusi i continui prestiti, ora greci ora bizantini....La stessa frazionatura del paese al di qua e al di là del Sabato, ove Serino sembra demarcarsi etnicamente, geograficamente e anche politicamente, ci porta a costatare una biforcazione linguistica, per cui mentre nella lingua della frazione Rivottoli c’è una prevalenza di latino-longobardo e in quella di Ferrari una prevalenza di residui bizantini, nella frazione S. Biagio, invece, (tanto per citare le frazioni più antiche), una prevalenza linguistica di carattere più marcatamente gallo-romanza.>> Salvatore Floro Di Zenzo, dopo aver individuato le radici lontane e diverse del dialetto serinese, conclude l’analisi evidenziando che: <<La terminologia è quasi prevalentemente, se non esclusivamente, originata da un codice fisiologico, anzi alcune parole chiave, come la 176 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI parola“culu” del racconto “Unculillu”, denotano una società tipicamente agricola che svolgeva la sua vita fra il lavoro dei campi e il contatto quotidiano con la pastorizia>>, mentre <<la parola ”‘o cumpare”, circolante nel racconto ”’A malafemmina”, denota un comportamento sociale molte volte attuato fra tradimento e faida. Altro lessico ricorrente nei racconti è solo una variazione di significati primordiali che vanno dalla parola “merda” al sintagma pisciare, cacare, cugnuta, ecc. ecc.. Trattandosi di un racconto parlato, l’Autore è stato molto scrupoloso nel riportare tutte le apocope, le aferesi, i troncamenti, le elisioni, gli iati, ossia tutte quelle leggi fonetiche che costituiscono la bellezza di questo ricco e robusto linguaggio che è stato la lingua madre del nostro popolo e che oggi, purtroppo, va scomparendo, per l’osmosi a cui vanno soggetti i popoli per il fenomeno dell’emigrazione e dell’ immigrazione.>>202 Il regredire del dialetto , quale lingua del popolo serinese , iniziato con la commistione fra linguaggi diversi dovuta ai flussi migratori, si è andato progressivamente accentuando col diffondersi di potenti ed efficaci mezzi di comunicazione di massa, 202 Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Premessa di Salvatore Floro Di Zenzo, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981; 177 Filomeno Moscati come la televisione, e il progressivo affermarsi di una “letteratura industrializzata”.203 Questo fenomeno sociale era stato compreso da Gennarino Romei, che, intuendo il baratro che si andava spalancando tra il popolo serinese e la sua antica cultura contadina, nello struggente e appassionato Saluto di commiato ai suoi compaesani, (riportato alle pagine 98 e 99 di questo libro) li esorta a far sì che, attraverso la lettura delle fiabe da lui raccolte dalla viva voce del popolo, il legame con la lingua dell’antica civiltà contadina non vada perduto, e, per consentire che ciò avvenga, arricchisce il suo libro di fiabe con un dizionarietto del dialetto serinese. Gennarino Romei è stato un cronista attento, minuzioso e preciso dell’antica civiltà contadina del suo paese; un narratore che con le sue cronache, e radiocronache, ha trasmesso, a noi e ai posteri, una documentazione preziosa per la comprensione della cultura della nostra antica civiltà. Egli, di questa civiltà ormai al tramonto, in cui era perfettamente integrato, è stato anche l’ultimo, degno epigono, e, essendo perfettamente cosciente di essere diventato uno straniero nella propria terra, così si accommiata da essa: 203 Di Zenzo Salvatore F., Pelosi Pietro, Metodologia e tecniche letterarie, La Spirale, Guida Editori, Istituto Grafico Italiano S. p. A., Cercola (Napoli) 1976, p. 63; 178 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI <<Debbo, purtroppo, oggi constatare che a causa della cultura dominante, non più ispirata ai principi evangelici, il mondo va popolandosi di nuovi idoli (immoralità, piacere, successo, denaro, ladrocinio, tangentopoli, droga ecc. ecc.) e che a causa del benessere e del consumismo gli uomini sono in continua lotta per il possesso dei beni terreni. Quante comodità vengono oggi trasformate in necessità indispensabili! E i soldi non bastano mai. Si perde così ogni tranquillità interiore ed esteriore, mentre avanzano inesorabili gli esaurimenti nervosi che logorano di giorno in giorno la salute. Che brutta vita! Ma perché? Solo perché non si sa né si vuole più rinunciare a tali false necessità di cose materiali che ci schiavizzano. L’uomo, così agendo, vive lontano da Dio. Ed io , in questo mondo in cui Dio è assente, a volte mi sento come uno straniero. Sono contento, però, che, con il trascorrere degli anni, la mia fede in Dio non si è affievolita. Senza di Lui io non sono nessuno. Oramai sono vecchio, 80 anni, e sono stanco. Non credo, perciò, di poter dare qualcosa di più alla società, anche perché l’ora del tramonto si avvicina: Signò, Tu m’e chiamatu? Aggiu sintutu ‘na voce luntanu, ma, penzica, mi so sunnatu. 179 Filomeno Moscati Signò, mò t’o ricu: io nu bulesse murì, ma pi’ quantu ni sacciu, ‘nu iuornu e chissu ‘stu munnu lassu: oi, crai o pruscrai? O , penzica, chiù ni là? Io nun ‘o sacciu; ma Tu si c’o sai. Ma quannu ‘a morte Vène a tuzzulià vicinu ‘a porta, iu ruscu ruscu mi incamminu, ma Tu ‘nde brazza toie accuoglimi, o miu Signore.204 Gennarino Romei ritiene, però, necessario aggiungere, a quesra toccante preghiera in dialetto serinese, la sua traduzione in lingua italiana perché possa essere compresa anche dalle generazioni future; ciò che costituisce un’ulteriore conferma che egli si sente , ormai, uno straniero in patria, uno degli ultimi rappresentanti di una civiltà e di una cultura che si vanno, man mano, perdendo. Ecco perché anche noi, come Gennarino, riteniamo opportuno riportare 204 Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vità, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1993, pp. 236-238; 180 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI questa traduzione come retaggio per le generazioni future: Signore, Tu mi hai chiamato? Ho sentito una voce lontana, ma, forse, ho sognato. Signore, ora te lo dico: io non vorrei morire, ma per quanto ne so, un giorno di questi questo mondo lascio. Oggi, domani o dopodomani? O, forse, più in là? Io non lo so; ma Tu si che lo sai; ma quando la morte viene a bussare alla porta, io in silenzio m’incammino, ma Tu nelle tue braccia accoglimi, o mio Signore. 181 Filomeno Moscati 182 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Bibliografia Aarne Antti, Verzeichnis der Marchentipen, 1910; Aarne Antti., Thompson Stith,The types of the folktale. A classification and bibliography, The Finnish Academy of Science and Litters, Helsinki 1961; Apuleio Lucio, L’asino d’oro , II sec, d. C. Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, Letteratura Italiana Einaudi; Calvino Italo, Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956; Campbell Joseph, Mitologia creativa. La maschera di Dio, Mondadori 1951; Mitologia primitiva, Mondadori 1956; Croce Benedetto, Storia dell’età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura. Vita morale., Laterza, Bari 1925; de Saussure Ferdinand, Cours de Linguistique Gènèrale, Losanna 1916; Di Zenzo Salvatore F., Pelosi Pietro, Metodologia e tecniche letterarie, La Spirale Guida Editori, Istituto Grafico Italiano S. p. A., Cercola (Napoli) 1976; Durkheim Emile, The Division of the Labour in Society, 1893; The rules of Social Methods, 1895; German popular stories translated from the Kinder und Haus Marchen collected by M. M. 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Vico G. Grimm J e W. Virgilio Guisdorf G. P. Zumtor P. Guglielminetti M. Iallonardo G Jung C. G. Lejune P. Masucci A.. Masucci F. Mauss M. Morris C. Moscati F. Pascoli G.. Pazzini. A.J. Pelosi P. Pernety A. Pescatore G. Propp V. J. 187 Filomeno Moscati 188 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Bibliografia Aarne A., Verzeichnis der Marchentipen, 1910; Aarne A., Thompson S., The types of the folktale. A classification and bibliography, The Finnish Academy of science and Litters, Helsinki 1961; Accame S., Perché la storia, La Scuola Editrice, Brescia 1955; Agazzi A., Panorama della Pedagogia d’oggi, La Scuola Editrice, Brescia 1947; Albo d’oro dei caduti, dispersi, feriti e decorati nella guerra 1915-1918, Provincia di Avellino, 1928; Apuleio L., L’asino d’oro, II sec d. C.; Basile G. B., Lo cunto de li cunti, Letteratura Italiana Einaudi; Boldo B., Libro della natura e delle virtù delle cose che nutriscono, D. e G. B. Guerra, Venezia 1575; Boschetti Alberti M., La scuola serena di Agno, Società Editrice La Scuola, Brescia 1955; Bosco G., In che cosa consiste il sistema preventivo e perché debbasi preferire; Calvino I., Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956; Campbell J., Mitologia Creativa, La maschera di Dio, Mondadori 1951; Mitologia Primitiva, Mondadori 1956; Capriglione F., De Feo G., Farese N.,Feola A., Iallonardo G., A ROSAMARINA, Stampa Editoriale, Avellino 2008: 189 Filomeno Moscati Cinti D., Dizionario Mitologico, Sonzogno, Bergamo 2008; Croce B., Contributo alla critica di me stesso, Adelphi, Milano 1989; Cuniberti P. F., La maschera dell’orso, Alba Pompeia, 2008; D’Azeglio M., I miei ricordi, G. Barbera Editore, Firenze 1867; De Agostini, La canzone napoletana, De Agostini, Novara 1994; Decroly O., La function de globalisation et l’inseignement, Lamertin, Brussels 1929; De Leonardis C. Il finto incanto. Testo critico, introduzione e note a cura di Olimpia Pelosi, Edizioni W M, Atripada 1984; Il re superbo. Teso critico, introduzione e note a cura di Olompia Pelosi, Le Pleiadi Editrice, Pomperi 1987; Delort R., La vita quotidiana nel medioevo, Mondadori printing S, p. A., Cles (TN) 1993; De Sanctis F., La Giovinezza, Universale Economica, Milano 1950; de Saussure F., Cours de Linguistique Générale, Losanna 1916; Di Zenzo S. F., Pelosi P., Metodologia e tecniche letterarie, La Spirale, Guida Editori, Cercola (Napoli) 1976; Durkheim E., The division of Labour in Society, 1892; The rules of Social Methods, 1895; 190 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Ferroni G., Storia della Letteratura Italiana, Einaudi Scuola, Milano 1995; Frazer J. G., Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, Einaudi Editore, Torino 1950; Freud S., La presenza nei sogni di materiale derivante dalle favole, 1913; Gatto L., Il Medioevo giorno per giorno, Mondadori Printing S. p. 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Il medico santo, Associazione San Giuseppe Moscati, 1997; Il castello feudale e i signori di Serino, 1998; Agenda 2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999; Shapiro B., The dark continent of literature; the autobiographie, Comparative literature Studies 1968; Schimidt J., Dizionario di mitologia greca e romana, Cremese Editore, Roma 1994; Tucidide, Storie; Virgilio, Eneide; Zumtor P., Autobiographie au Moyen Age? Paris Seuil 1972; 193 Filomeno Moscati 194 ‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI Indice Presentazione............................ p. 3 I “I RICORDI” della mia vita.............p. 9 II Opere varie di Gennaro Romei p.. 43 III ‘Nci steva ‘na vota .....................p.131 Indice degli autori...................... p.187 Bibliografia..................................p.189 Indice..........................................p. 195 195 Filomeno Moscati Finito di stampare nel mese di maggio 2013 da TUTTOVOLUME Serino (AV) © Copyright Ѐ vietata la riproduzione anche parziale con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia non autorizzata Ѐ possibile consultare le altre pubblicazioni dell’autore su Internet digitando FILOMENO MOSCATI (bibliografia) 196