Filomeno Moscati
‘Nci steva ‘na vota
Gennarino Romei
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Foto Giulio Renzulli
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‘Nci steva ‘na vota GENNARO ROMEI
Presentazione
Da che cosa è scaturito l’impulso a scrivere un libro
su Gennarino Romei e le sue pubblicazioni librarie?
Questa è la domanda ch’io mi son posto quando mi
sono accinto a scrivere questa biografia. Mi è subito
tornato alla mente che , all’inizio di questo millennio,
quando mi apprestavo a scrivere la prima edizione
della mia Storia di Serino, qualcosa mi aveva colpito
nella lettura delle sue pobblicazioni, tanto da ritenerlo
degno di essere incluso, e con un commento
lusinghiero, in quel libro.
Ecco cosa scrissi allora su Gennarino Romei:
“Il 31 maggio 1997 ci fu un altro avvenimento legato
alla storia di Serino. Il sindaco di Serino, Armando
Ingino, consegnò all’insegnante in pensione, Gennaro
Romei, una targa dorata con la seguente scritta:
<< Allo illustre concittadino prof. Gennaro Romei,
l’Amministrazione Comunale di Serino con immenso
affetto e gratitudine per aver tramandato ai posteri la
storia del nostro paese.>>
Mai targa , o medaglia, fu più meritata perché
Gennaro Romei, uomo innamoratissimo della sua
terra, fu, nelle sue numerosissime pubblicazioni,
raccoglitore attento e preciso di fatti e notizie
riguardanti le vicende di Serino. Ma il suo merito
principale non è quello, pur notevole, di raccoglitore di
notizie bensì quello di averci fatto conoscere opere che
3
Filomeno Moscati
altrimenti sarebbero rimaste nascoste e ignorate,
come i Ricordi del Dottor Salvatore Molinari, che
abbracciano un cinquantennio di storia del Serinese, e,
soprattutto, di averci tramandato le tradizioni, le fiabe,
i canti, i proverbi popolari attraverso i quali riemerge la
storia vera di un popolo, quella più umile, intima e
familiare, una storia espressa spesso in vernacolo e,
sempre, con uno stile semplice, incisivo, che si imprime
nella mente e fa fremere il cuore.
Ѐ soprattutto in queste opere che vive Gennarino
Romei, ed è in esse che noi sentiamo pulsare il suo
cuore, il cuore di un “Maestro” che amò d’immenso
amore il suo paese. E queste sue opere non
morranno!”1
In questo
succinto commento all’opera di
Gennarino Romei è chiaramente esplicitato il motivo
per cui ho ritenuto opportuno, e anzi necessario,
ritornare a parlare di lui e delle sue pubblicazioni in
modo più ampio e approfondito; soprattutto di quelle
scritte in dialetto serinese che riguardano le tradizioni,
le fiabe, i canti, i proverbi, manifestazioni inconfutabili
della cultura espressa dalla millenaria civiltà contadina
del nostro paese.
Le tradizioni, definite in tutti i dizionari della lingua
italiana come “memorie dei tempi passati tramandate
1
Moscati Filomeno, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Lancusi
(SA) 2002, p.414;
4
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
per via orale”, rivestono grandissima importanza, per
la storia di un popolo e di un paese, perchè
documentano fatti, usanze, riti, credenze e costumi
antichi, e spesso scomparsi; usanze, riti e costumi, che,
costituendo
un patrimonio prezioso di fonti
documentali, consentono la ricostruzione e
l’interpretazione della cultura espressa da antiche
civiltà; civiltà in via di estinzione e, talvolta, addirittura
scomparse.
La trasmissione di queste conoscenze, costituisce,
perciò, un fatto di rilevante importanza, perché la
cultura specifica di una stirpe è importante, sia dal
punto di vista individuale che collettivo, per ogni popolo
e per ogni paese.
Nel caso delle tradizioni, intese come fonti
documentali di cultura, non s’intende parlare del sapere
inteso in senso convenzionale, cioé del complesso di
nozioni individuali, che si apprendono con lo studio sui
libri nei banchi delle scuole, ma della cultura cosiddetta
popolare. Quest’ultima non si apprende sui libri, né nei
banchi delle scuole, ma con la semplice appartenenza a
una comunità, e, poiché si acquista con l’esistenza
stessa nell’ambito di un gruppo sociale, a cominciare da
quello familiare, essa non diventa patrimonio di un
semplice individuo ma di tutti quelli che fanno parte di
quel gruppo e in esso si riconoscono; ed è questa la
ragione per cui viene definita popolare.
5
Filomeno Moscati
A differenza della cultura individuale, che è erudita
e settoriale, la cultura popolare, essendo frutto della
esistenza stessa, abbraccia tutti gli aspetti della vita, e,
di conseguenza, tutti gli aspetti della conoscenza e del
sapere di una comunità e non può essere, perciò,
limitata e settoriale. Ne deriva che i suoi libri sono
costituiti da oggetti materiali, come gli edifici, gli
attrezzi di lavoro, i manufatti, i cibi che costituiscono
l’alimentazione del gruppo in epoche determinate
(Cultura cosiddetta materiale); da riti religiosi e civili,
usanze, lingua, proverbi, valori morali che regolano la
vita e la morte della comunità in quelle stesse epoche
(Cultura cosiddetta spirituale).
Gennarino Romei ha avuto il grande merito di
averci tramandato, nei suoi libri, la documentazione
della cultura espressa dalla nobile civiltà contadina del
nostro paese, e, merito ancora maggiore, di avercela
trasmessa con verità, senza gli inutili orpelli di aggiunte
o sovrapposizioni. Essa costituisce
un prezioso
materiale di studio per i filologi e per le generazioni
future, perpetuando, così, il legame che unisce il
presente al passato , la nascente civiltà industrialeinformatica con la morente civiltà contadina del nostro
paese.
Il lavoro di Gennarino Romei rischiava, però, di
rimanere sottovalutato e incompreso, finendo per
essere considerato come una semplice raccolta di fatti
6
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
e di curiosità legati a epoche e generazioni del
passato. La spiegazione di tradizioni, consuetudini e
riti del passato, derivante dagli studi sui riti e le
consuetudini delle antiche civiltà
compiuti da
antropologi e etnologi di fama mondiale, consentendo
ai
lettori
di
comprenderne
il
significato
recondito restituisce al lavoro di Gennarino pregio e
valore.
Foto, disegni, illustrazioni e grafica sono opera di
Giulio Renzulli , che, con la sua arte, ha reso visibili e
concrete le tradizioni e le immagini fiabesche evocate
da Gennarino Romei.
Filomeno Moscati
7
Filomeno Moscati
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‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
I
“ I RICORDI”
della mia vita
Le notizie e le vicende salienti della vita di Gennaro
Romei, comunemente conosciuto col nome
Gennarino,2come egli stesso amava talvolta
firmarsi,3possono, tutte, essere ricavate dalla fonte più
autorevole che possa esistere, la sua autobiografia, cui
egli ha dato l’emblematico titolo di “I RICORDI” della
mia vita.
È questo titolo a richiamare alla mente, per la sua
evidente somiglianza e assonanza, l’autobiografia di un
illustre personaggio della politica e della cultura
dell’Ottocento italiano: “I miei ricordi” di Massimo
D’Azeglio. Nel corso della lettura ci si accorge che la
somiglianza non sta soltanto nel titolo, ma anche nel
contenuto del libro, giacché Gennarino fa, in esso,
“un ritratto psicologico e morale di sé,”utile“sia a
coloro che si dedicano ad educare gli altri, sia a quelli
che intendono educare se stessi… per migliorarsi
attraverso l’esempio di personaggi non potenti, non
2
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s.r.l. Avellino 1993, pp. 3, 4, 165, 239;
2
Romei Gennaro, Amici e Sirinu virite ogni mese che vi
rice,Poligrafica Ruggiero, Avellino 1997, p.3;
9
Filomeno Moscati
famosi, ma d’eroi la più parte ignorati, tutti vittime e
nessun carnefice,”cioè di “ quelli che sacrificano sé agli
altri e non gli altri a sé”;4proprio quello che, con
queste parole, il D’Azeglio dichiarava di voler fare nel
proemio della sua autobiografia; proemio intitolato
Origine e scopo dell’opera.5
Conciso, ma di grande impatto psicologico e
sentimentale, è l’esordio dell’autobiografia di
Gennarino Romei, che, in appena nove righe, riesce a
darci un quadro preciso dell’ambiente materiale ed
umano in cui nacque e in cui trascorse l’infanzia, in una
casa modesta di onesti e religiosi agricoltori, in un
casale industrioso, nel seno di un’ operosa famiglia
patriarcale, tipica dell’antica civiltà contadina dell’ Alta
Valle del Sabato:
“ Nacqui a Serino, frazione Ferrari, il 31 ottobre 1914.
Fui battezzato il giorno seguente, I° novembre, giorno
di tutti i Santi e. perciò, il mio secondo nome è Santo.
Fui allevato con mia sorella Marina, nata due anni
prima di me, da mamma Sabatella in casa dei nonni
materni, Carmine e Concetta, perché mio padre
Giuseppe, richiamato alle armi nel Corpo dei
Bersaglieri, da Verona fu mandato in Libia, ove risultò
4
D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, Letteratura Italiana Einaudi,
Edizione di riferimento Barbera Firenze 1891, p.2;
5
D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, G. Barbera Editore, Firenze
1867, pp. 1-14 ;
10
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
disperso in un’azione di pattuglia contro gli Arabi il 15
giugno 1915. Non aveva che ventitré anni.
Io avevo soltanto sette mesi.”6
Le pagine successive del capitolo I, sono tutte tese a
illustrare l’ambiente umano in cui Gennarino trascorse
l’infanzia, che egli definisce “non troppo lieta,”7sotto la
guida della madre Sabatella; una donna dal carattere
libero e fiero, che, “amareggiata per la prematura
morte del marito”, costringeva se stessa e i figli a una
vita spartana, in cui non esistevano né feste né regali.
In questo clima austero assumono maggiore rilievo,
nella mente e nel cuore di Gennarino, le cure e
l’affetto di cui lo circondavano la bisnonna Scolastica e
i nonni materni: Carmine, “che lo conduceva a tutte le
feste patronali che d’estate si svolgevano nei vari
villaggi di Serino”; e Concetta,“una santa donna
sempre pronta ad accontentarlo e a sottrarlo alle
minacce della mamma.”8 Vivido nella mente di
Gennarino adulto è, perciò, il ricordo di quest’anziana
signora, che, quand’egli le teneva il broncio, lo
riaccostava a sé preparandogli “il pettolone”; una
crespella di farina di grano, cosparsa in superficie di
una leggera spolverata di zucchero, che costituiva il
dolce casalingo, economico e di semplice e rapida
6
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero, s.r.l.,Avellino 1993, p.5;
7
Romei Gennaro, idem, p. 5;
8
Romei Gennaro, ibidem, p. 8;
11
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fattura, che si approntava per i bambini in tutte le
famiglie di Serino sia nobili che popolane.
È a questo punto che, d’improvviso, il ricordo di
nonna Concetta rende palese, con l’inserimento del
racconto favoloso de “ ’A papira cugghiuta,
chill’animale scattigghiusu papira ra coppa e masculu
ra sotta”,9 la nota più caratteristica della personalità di
Gennaro Romei, il suo amore per il mondo surreale e i
personaggi fantastici, come quelli di “Marialonga” e
della “papira”, e la propensione per il vernacolo, che,
oltre a costituire il supporto naturale delle narrazioni
fiabesche, era la lingua in cui le aveva ascoltate,
fanciullo, dalla bocca di nonna Concetta.
‘A papira cugghiuta
9
Romei Gennaro, ibidem, p.10;
12
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
La narrazione delle vicende della vita di Gennarino,
nell’età della scuola elementare, è influenzata da una
visione palesemente critica dei metodi di
insegnamento, rigidi e spesso violenti, di una scuola
antiquata; da essa tuttavia emergono, quasi per
contrasto, altri due lati della sua personalità, l’amore
per la vita libera in un ambiente naturale e l’avversione
per la violenza e i soprusi da chiunque effettuati,
sentimenti che lo accompagneranno per tutta la vita. 10
Gli anni dell’adolescenza furono quelli della sua
formazione umana e professionale; anni in cui, fra
birichinate, spensieratezza, dubbi e tentativi
vocazionali tipici dell’età, egli, pur essendo
profondamente religioso, prese coscienza di sé, e,
seguendo la sua inclinazione naturale di uomo libero e
di forte carattere che aveva ereditato dalla madre,
pose termine, con una fuga, agli studi, che, dal 1928,
aveva intrapreso presso i seminari di Salerno e di
Nusco e scelse di diventare educatore.
Rivelatrice, in proposito, è la descrizione che egli fa
di questa decisione che avrebbe condizionato tutta la
sua vita futura: “Tornato a casa non potevo non
pensare al mio avvenire. Mi preparai da solo a
sostenere gli esami di ammissione alla prima classe del
Liceo Scientifico di Avellino, esami che superai con
10
Romei Gennaro, “ I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, pp.15-20;
13
Filomeno Moscati
facilità. Decisi, però, di iscrivermi alla prima classe
dell’Istituto Magistrale. Tale scelta fu dovuta al fatto
che volevo esplicare la missione di maestro, in quanto
ero attratto dai fanciulli con i quali spesso giocavo e ai
quali raccontavo fiabe in dialetto.” 11
Essa ci rivela, infatti, che fin da allora egli vedeva la
sua futura professione, di maestro nelle scuole
elementari, non come semplice mezzo per assicurare
una vita economicamente dignitosa a sé e alla sua
famiglia, ma come una missione da compiere; una
missione che si sentiva intimamente chiamato a
esplicare e che, perciò, rendeva assai più alta e nobile
la professione da lui scelta. E, di nuovo, in questa sua
scelta decisiva, ricompare l’altra nota caratteristica
della sua vita, la passione per il racconto di fiabe in
vernacolo; una passione che avevamo istintivamente
intuito quando ci aveva presentato, quasi come
racchiusi nella cornice di un quadro immaginario, la
figura di nonna Concetta (mammella) che raccontava
fiabe seduta accanto al focolare nelle lunghe notti
invernali, in una cucina fumosa a stento illuminata
dalla fioca luce di un lume a petrolio (scistarulo), e i
volti intenti dei bambini attratti da racconti fantastici
di orchi e di fate. Conseguita finalmente la licenza
magistrale, nell’anno 1936, Gennarino Romei
11
Romei Gennaro, idem, p. 39;
14
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
intraprese la sua professione di insegnante, nell’anno
scolastico 1937-38, con un incarico annuale nelle
scuole elementari della frazione Rivottoli di Serino.
Ecco come egli descrive la gioia che trasse da questa
sua prima esperienza di maestro elementare: “La
direttrice mi affidò le prime due classi. Nei primi giorni
trovai molte difficoltà soprattutto nell’insegnamento ai
ragazzi di prima. Mancavo di esperienza e, quindi, di
metodo. L’Istituto Magistrale ai miei tempi non
preparava i maestri all’insegnamento.
Con il passar dei giorni, però, le idee si presentavano
più chiare alla mia mente. Ero contento. Gioivo nel
trovarmi in mezzo a quei vivaci fanciulli a cui volevo
molto bene.”12
La gioia che traeva dall’insegnare con i metodi
tradizionali, comuni ai suoi tempi, non poteva
appagarlo, e, nell’anno scolastico 1938-39, ricevuto
l’incarico annuale di insegnante nelle scuole
elementari di Santo Stefano del Sole, si lanciò in una
impresa per quei tempi addirittura rivoluzionaria,
l’insegnamento con il metodo globale.
“Era allora in voga il metodo sillabico fonetico,” egli
dice nella sua autobiografia,“faceva, però, capolino un
nuovo metodo: quello naturale o globale. Ne fui
12
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 53;
15
Filomeno Moscati
attratto. Fui l’unico maestro di tutto il Circolo ad
attuarlo. Il risultato fu lusinghiero.13
Con l’adozione del metodo globale Gennarino Romei
s’inserisce, a pieno titolo, nel movimento delle
cosiddette scuole nuove. Il maggiore esponente di
questo movimento fu Ovidio Decroly (1871-1932), un
medico belga, che, avendo dedicato tutta la sua vita
allo studio dello sviluppo sia fisico che mentale del
bambino, era diventato un vero esperto di psicologia
infantile. Egli fu anche il massimo sostenitore e
divulgatore in tutte le sue opere, ma soprattutto in
quella che ha per titolo “ La funzione della
globalizzazione nell’insegnamento”, del metodo
naturale globale. 14
Decroly, partendo da constatazioni sperimentali,
sosteneva che non è il fanciullo che deve adattarsi alla
scuola, ma la scuola al fanciullo e che è, perciò,
“assurdo volerlo preparare alla vita di domani con
metodi adatti alla società di ieri”.
L’esperienza dimostra che al mondo tutto cambia, e,
col cambiare dell’ambiente fisico e sociale, cambiano
anche i bisogni e le condizioni di vita. Il fanciullo stesso
è un soggetto “in continua evoluzione; le sue capacità
di astrazione e di generalizzazione, di emotività e di
13
Romei Gennaro, idem, p. 53;
Decroly Ovide, La function de globalisation et l’enseignement,
Lamertin, Brussels 1929;
14
16
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
affetto, d’iniziativa e di energia, di resistenza e di
forza di carattere si sviluppano e crescono in modo
diseguale, ondulatorio, non parallelo, quasi come
avviene per il suo sviluppo fisiologico. È la scuola,
quindi, che deve adattarsi al fanciullo e non questi alla
scuola e la sua prima preoccupazione dev’essere quella
di osservarlo in tutte le età e in ogni momento”.
In una scuola siffatta non può esistere il dogmatismo
di un sapere precostituito inculcato dall’alto, e a forza,
nella mente dei bambini; né
vi può essere “un
maestro che parla e alunni che ascoltano, ma una
stretta collaborazione degli uni e degli altri durante la
quale il fanciullo impara ad agire”.
La nuova scuola dev’essere, di conseguenza , una
scuola attiva; una scuola in cui l’alunno partecipa
spontaneamente e attivamente all’ elaborazione delle
nozioni che apprende. Questa partecipazione diventa
possibile solo quando il processo di apprendimento
avviene uniformandosi alle regole del naturale e
fisiologico processo percettivo del fanciullo e quando
l’argomento, trattato nello studio delle materie,
stimola l’interesse dell’alunno.
Stabilito questo principio fondamentale, ne consegue
che il metodo d’insegnamento non può essere che
globale, perché, dice Decroly:“ non è vero che
l’elemento sia più facile dell’insieme, che occorra
procedere dal semplice al complesso, dal particolare al
17
Filomeno Moscati
generale”, ma, anzi, è vero il contrario, giacché il
processo percettivo del fanciullo va dal generale e dal
complesso al semplice e al particolare e, perciò, ”la
percezione è sempre inizialmente globale”. È questo il
motivo per cui, nel metodo globale del Decroly, per
l’insegnamento della scrittura e della lettura bisogna
partire dalle frasi e non dalla sillaba e dalla lettera.
Al principio della globalità il Decroly unisce quello
dell’interesse; e ciò che maggiormente stimola
l’interesse del fanciullo è la soddisfazione dei suoi
bisogni vitali (nutrirsi, coprirsi, difendersi dai pericoli,
lavorare), che costituiscono dei centri d’interesse per
l’insegnamento unitario delle varie materie.15
L’ottimo risultato ottenuto con l’applicazione del
metodo globale, (con tutti i suoi alunni che a Natale
sapevano leggere e scrivere, cosa addirittura
strabiliante per quei tempi) non poteva, comunque,
bastare al giovane maestro Gennarino Romei, che,
avendo col tempo ideato un metodo del tutto
personale,
così commenta quest’esperienza: “Il
risultato fu lusinghiero. Avevo ormai acquisito un
metodo del tutto personale che col passare degli anni,
fortificato dall’esperienza, destò, per i felici risultati,
meraviglia nelle famiglie, nei colleghi e nei superiori. A
15
Agazzi Aldo, Panorama della PEDAGOGIA D’OGGI, “La
Scuola” Editrice, Brescia 1948, pp. 112,113;
18
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Natale i miei alunni di prima leggevano e scrivevano
correttamente”16
L’amore per l’insegnamento gli fa però capire che un
metodo , anche se basato su solide premesse teoriche
e scientifiche, può diventare efficace e fruttuoso solo
quando scaturisce ed è sorretto da una solida
preparazione culturale, relazionale e didattica
dell’insegnante. Sostenuto da questa convinzione egli
mette in atto nell’anno scolastico 1939-40, nella sua
scuola di Santo Stefano del Sole, un metodo
d’insegnamento tutto suo, un metodo che potremmo
definire metodo d’insegnamento individualizzato,
perché si adatta, inizialmente, alla capacità individuale
di ogni alunno, e, successivamente, ai suoi personali
progressi. Egli così descrive questa nuova fase
esplicativa della sua missione di maestro: “L’amore
immenso per i fanciulli mi spingeva a prepararmi
accuratamente sul piano relazionale e didattico. Li
educai all’autocontrollo, formai dei gruppi tenendo
all’inizio presente la capacità e la tendenza di ciascun
alunno. Di mano in mano avveniva il passaggio da un
gruppo all’altro. Ognuno dava e quel che dava
diventava patrimonio del gruppo e poi di tutti. Lodavo i
16
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.53;
19
Filomeno Moscati
più forti ma, nel contempo, incoraggiavo i più
deboli.”17
La parte iniziale di questa descrizione richiama
immediatamente alla mente quello che, fatte le debite
proporzioni, il nostro grande conterraneo Francesco
De Sanctis scrisse, nella sua opera autobiografica
intitolata“La giovinezza”, per esporre l’apertura della
sua scuola personale al Vico Bisi: “Ciascuna lezione
spremeva il miglior sugo del mio cervello. Io mi ci
preparavo per bene, e tutto il dì non facevo che
pensare alla lezione anche per istrada, gesticolando,
movendo le labbra; e gli amici dicevano, canzonando:
Che fa De Sanctis? Pensa alla lezione.”18
La seconda parte richiama, non so se consciamente o
inconsciamente, la realizzazione di un nuovo tipo di
scuola nuova, definita serena perché ispirata al
rispetto della libertà e dell’individualità, di cui fu
propugnatrice e divulgatrice Maria Boschetti Alberti.19
Il richiamo è giustificato dal fatto che anche nella
scuola dell’Alberti il rispetto dell’individualità avveniva
attraverso la formazione di “diversi gruppi”, in
cui“talvolta un debolino cerca uno più forte di lui, ma
quasi sempre si uniscono insieme secondo il grado di
17
Romei Gennaro, idem, p. 58;
De Sanctis Francesco, La giovinezza, Universale Economica,
Milano 1950, p. 101
19
Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società
Editrice “La Scuoia”, Brescia 1955;
18
20
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
loro levatura intellettuale. I gruppi non sono stabili: si
formano, si disfano secondo le diverse materie.”20
In questo tipo di scuola “la parte dei maestri è di
rispettare le leggi supreme di libertà, di rispettare lo
svolgersi delle individualità.”21
Nell’anno scolastico 1941-42, dopo una breve
parentesi in divisa militare, Gennarino riprese ad
esplicare la sua missione di maestro nella scuola rurale
di Vigne Sant’Angelo di Candida; una scuola che per i
locali in cui era collocata, l’ambiente naturale che la
circondava e gli alunni che la frequentavano, tutti di
estrazione contadina, era molto somigliante a quella
di Agno.
A quest’ambiente naturale e sociale adattò il suo
metodo d’insegnamento , che egli così descrive:
“Spesso quand’era bel tempo facevo lezione all’aperto.
Quell’aria primaverile era salubre e si respirava a pieni
polmoni. A me faceva piacere far lezione all’aperto
anche perché i fanciulli, a contatto con la natura, si
esprimevano con genialità. Lo studio dell’ambiente
portava verso orizzonti più vasti. Fu un anno di
un’esperienza eccezionale di cui serbo un ottimo
ricordo.”22 Era un metodo ideato a misura di ambiente
20
Boschetti Alberti Maria, idem, pp.65,66;
Boschetti Alberti Maria, idem, p.59;
22
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.70;
21
21
Filomeno Moscati
umano e naturale; un metodo che, applicato,
stimolava i sensi e vivificava lo spirito mettendo a nudo
la genialità degli alunni, cosa che aveva già notato la
Boschetti Alberti quando affermava che “ i ragazzi,…
fuori, nel cortile, son naturali, son svelti, son vivi.
Passata la porta della scuola, i visi si coprono d’una
maschera; gli occhi perdono la loro viva luce, cessano
di esprimere l’anima, son occhi di vetro. Anche il corpo
diventa impacciato, ed ha in ogni movenza un che di
falso, di finto di artefatto.”23
Il miracolo di una scuola viva, e perciò attiva, poteva
verificarsi soltanto quando la scuola veniva vissuta dai
ragazzi come un proseguimento della vita reale, come
“una continuazione, meglio come una congiunzione tra
la vita ristretta della casa e della famiglia e la vita
estesa del mondo e della natura;”24e questo miracolo
aveva compiuto Gennarino Romei nell’umile scuola
rurale di Vigne Sant’Angelo del Comune di Candida.
Le pagine successive de “ I RICORDI” sono dedicate
alle vicende tragiche della sconfitta militare dell’ Italia
e alla sua liberazione, dall’occupazione tedesca , da
parte degli eserciti alleati. Esse costituiscono una
descrizione, umana e partecipata, di tempi grami
23
Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società
Editrice La Scuola, Brescia1955, p. 32;
24
Boschetti Alberti Maria, La scuola serena di Agno, Società
Editrice La Scuola, Brescia 1955, p. 62;
22
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
vissuti prima come militare, e, poi, come civile
scampato ai pericoli della guerra e, miracolosamente
(sogno o, meglio, apparizione della Madonna)25,
ritornato in seno alla propria famiglia, anch’essa
scampata incolume da ogni pericolo. La narrazione di
queste vicende di carattere autobiografico, pur
costituendo una testimonianza personale minuziosa di
microstoria locale, rimane, a mio avviso, a livello di
pura cronaca perché Gennarino, pur compiendo il suo
dovere, non era portato per la vita militare e per le
imprese eroiche e, pertanto, in esse manca quella
forza narrativa e vivificatrice che si avverte nelle
pagine in cui parla di quella che egli ritiene la sua unica
vera missione nella vita, quella di insegnante. Questa
forza vivificatrice la ritroviamo, intatta, quando
Gennarino racconta come, superato il periodo critico
della guerra, riprende ad insegnare, questa volta nel
suo Comune nativo, e per di più nella frazione di
Ferrari in cui era effettivamente nato e dove aveva
trascorso l’infanzia e l’adolescenza: “I principi della mia
azione didattico - educativa erano costituiti
dall’autogoverno e dall’autoformazione nell’ambito dei
valori religiosi, etici e di convenienza sociale e civile.
Esigevo che gli alunni fossero assidui e puntuali alle
lezioni e che curassero la tenuta dei libri e dei quaderni.
25
Romei Gennaro, “ I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l,, Avellino 1993, p. 78;
23
Filomeno Moscati
Base di tutto era una disciplina rigorosa ma
umana…..il criterio dell’unità di lavoro, nonostante
l’articolazione delle materie, era alla base della mia
attività didattica.
Il programma restava legato allo studio
dell’ambiente nel suo aspetto storico, geografico e
scientifico. Da tale studio emergevano le varie materie
che venivano legate le une alle altre da continui
richiami.
Gli alunni organizzandosi in comunità di classe ed
imparando ad agire in forma democratica andavano
ampliando via via l’orizzonte locale verso quello
nazionale, europeo ed extra europeo….. Maturava
inoltre in essi la coscienza in senso civico, etico, sociale
e politico per una futura partecipazione responsabile e
attiva al progressivo miglioramento della società.”26
È, come si vede, un completamento del suo metodo
personale; un completamento di metodo, che,
adeguandolo alle nuove esigenze di una nazione e di
una società democratiche,permetteva lo svolgimento
di un programma che consentiva agli alunni di attuare
da una parte l’autogoverno, attraverso le attività
pratiche, e, dall’altra, l’autoformazione di una
coscienza etica e civica, attraverso l’acquisizione di una
cultura che privilegiasse i valori civili, sociali e religiosi.
26
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l, Avellino 1993, pp. 92-93;
24
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
È esattamente quello che Massimo D’Azeglio
intendeva fare, come egli stesso chiarisce nel proemio
alla sua opera autobiografica, quando dice che fra gli
intenti che l’avevano spinto a scriverla c’era anche
quello di “formare gli italiani insegnando loro a
rinnovarsi, a non rimanere gli italiani vecchi di prima,
colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab
antico il loro retaggio e, cioè, a fare il proprio dovere
anche se, il più delle volte, fastidioso, volgare e
ignorato.”27
È questa la ragione per cui Gennaro Romei,
riaffermando la sua visione missionaria dello
insegnamento, inizia, con veemente passione, il brano
in cui illustra questa nuova evoluzione del suo metodo,
dicendo: “ Lode a quel maestro che intende la sua
carriera come missione e non come professione. Egli,
infatti, non è un impiegato qualunque in quanto deve
aver cura della mente e del cuore del fanciullo. Il suo
compito è veramente arduo e difficile, perché si trova
non solo di fronte al pluralismo culturale ma anche di
fronte alla potenza illuminata della tecnica, che spesso
trascina l’uomo nel materialismo, dando, così, luogo ad
un appiattimento e ad una pigrizia collettiva.”28
27
D’Azeglio Massimo, I miei ricordi, Letteratura Italiana Einaudi,
Edizione di riferimento Barbera, Firenze 1891, p. 4;
28
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.92;
25
Filomeno Moscati
Quest’appiattimento e questa pigrizia non potevano
aver luogo nella scuola di Gennarino Romei, che,
“contento di vivere nel suo paese”, o meglio nella
frazione in cui era nato, “faceva ai suoi alunni da
maestro e da padre;” una visione dei suoi doveri,di
insegnante missionario, radicatasi nella sua coscienza
con il riemergere del fortissimo sentimento religioso
che l’aveva spinto, all’epoca della sua adolescenza, ad
intraprendere gli studi ecclesiastici.
Riaffiora , così, dalle nebbie del passato, un’altra
delle qualità che contraddistinguono la personalità di
Gennarino Romei, la religiosità; una religiosità così
fortemente avvertita da fargli sentire il dovere, ancora
una volta missionario, di comunicarci , quasi come un
insegnamento ai suoi alunni nella scuola della vita, che
egli era stato ed era “tuttora convinto che senza la fede
non si è mai completi. La fede è un dono inestimabile
che Dio concede all’uomo, il quale, però, deve saperlo
apprezzare, conservare e fortificare.
È la fede che ti aiuta nei momenti tristi della vita,
negli abbattimenti, nei disagi, nelle malattie. È la fede
che ti spinge ad essere onesto, equilibrato, giusto. È la
fede, inoltre, che ti è di sprone a compiere il proprio
dovere e ad amare il prossimo.
L’uomo senza fede è il Caino che erra senza meta."29
29
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.92;
26
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
In virtù di questa sua religiosità, e del dono
inestimabile della sua fede in Dio, Gennarino Romei,
nel 1953 trasferito su sua richiesta alle scuole
elementari annesse all’Istituto Magistrale di Avellino,
e, nel 1958, alle Scuole Elementari di Piazza Garibaldi,
aggiunge un altro tassello al metodo educativo
personale, che, con tanta emotiva partecipazione, era
andato costruendo attraverso gli anni: l’educazione
preventiva secondo l’insegnamento di San Giovanni
Bosco.30 Il Santo salesiano propugnava, e faceva
attuare negli istituti da lui fondati, un metodo
scolastico, che, aborrendo la repressione e i castighi, si
basava sulla prevenzione degli errori attraverso la
persuasione e il ragionamento. Don Bosco, avendo
intuito che la nuova scuola doveva essere una scuola di
popolo, abbandonata l’antiquata formula scolastica
degli istituti del suo tempo,“apriva, nel cuore della vita
popolare e del nascente industrialismo italiano, una
nuova scuola di umanità e di lavoro per tutta la
gioventù.”31
In questa scuola gli insegnanti dovevano essere per
gli alunni “come padri amorosi,” che, “servendo di
guida in ogni evento, diano consiglio e sorreggano con
amore.” Basi del sistema educativo di Don Bosco sono,
30
Romei Gennaro, idem, p. 116;
Agazzi Aldo, Panorama della PEDAGOGIA D’OGGI, La Scuola
Editrice, Brescia 1948, p.183;
31
27
Filomeno Moscati
perciò, la ragione, la religione e l’amorevolezza, con
l’esclusione di ogni castigo, anche leggero.32È una
pratica educativa che solo un credente può attuare
con successo, perché solo se nella vita l’educatore
pratica egli stesso la
ragione, la religione e
l’amorevolezza, può insegnarle ai suoi discepoli.
L’azione educatrice di Gennaro Romei non si limitò,
però, soltanto all’attuazione, in modo del tutto
originale e personale, dei metodi d’insegnamento
scientifici e d’avanguardia che avevano generato il
movimento delle scuole nuove. Egli, infatti, s’ingegnò
d’inventare e applicare nuove tecniche, che, da una
parte, facilitassero l’apprendimento delle singole
materie, con l’uso della fiaba ( Colombino ) e di
meccanismi del tutto particolari da lui escogitati,33 e,
dall’altra, conferissero la visione immediata ed
evidente
dell’unità
dell’insegnamento,
con
34
l’introduzione del quaderno unico.
La sua religiosità e una fede ardente, mai celata e
sempre apertamente manifestata, ispirarono anche la
sua opera d’insegnante nelle scuole elementari tanto
che i suoi alunni risultarono sempre i primi nei concorsi
catechistici e in quello di “ Gesù Maestro”; e ciò gli
32
Bosco Sac. Giovanni, In che cosa consiste il Sistema Preventivo
e perché debbasi preferire;
33
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 135;
34
Romei Gennaro, idem, p.134;
28
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
valse la nomina , da parte dell’Ordinario diocesano, a
ricoprire la prestigiosa carica di Presidente dei maestri
cattolici.35La sua fede, d’altronde, era così grande da
fargli attribuire la felice soluzione, di alcuni gravi
episodi della sua vita, all’intervento miracoloso della
Madonna e di Padre Pio da Pietralcina.36
In virtù di questa fede, e dell’antica e mai sopita
vocazione missionaria, egli,dopo essere stato collocato
a riposo nell’anno 1976,continuò, per altri dieci anni,
la sua opera di maestro nelle scuole elementari come
insegnante di religione; ma dedicando, non pago, il
restante tempo libero delle sue giornate alla
narrazione
della
cronaca
paesana,
come
corrispondente locale del giornale quotidiano Roma ;
e al commento dei fatti di rilevanza amministrativa e
politica accaduti a Serino durante la settimana, come
radiocronista domenicale di Radio Serino “Punto
Zero”.37
È proprio in questa sua attività radiofonica che
riappare, prepotente, la passione mai sopita per le
fiabe in dialetto serinese; fiabe che egli introduce,
come elemento non secondario, nelle sue trasmissioni
domenicali via etere.
35
Romei Gennaro, idem, p. 137;
Romei Gennaro, idem, pp. 78, 206;
37
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 173;
36
29
Filomeno Moscati
Questa passione è così forte e radicata da indurlo a
includere, nella parte finale de “I RICORDI”, alcune
fiabe in dialetto (Compa Piruocculu, ‘A prucissione r’o
Cuorpusdomini, Rocciulammerda), così come aveva
fatto all’inizio includendovi “ ‘A papira cugghiuta”.
Oltre questo “ritratto psicologico e morale di sé”,c’è
un’altra particolarità che avvicina il contenuto de “I
RICORDI” di Gennaro Romei a “ I miei ricordi” di
Massimo D’Azeglio: l’aver additato ad esempio la vita
di alcuni “personaggi non potenti, non famosi, … d’eroi
la più parte ignorati…che sacrificano sé agli altri e non
gli altri a sé”.
Fra i tanti sconosciuti eroi della vita quotidiana, che
animano le pagine de “I RICORDI” di Gennarino Romei,
abbiamo ritenuto opportuno, proprio per la loro
esemplarità, citarne soltanto quattro.
Don Orazio Crisci è, a mio avviso, Il primo degli
sconosciuti eroi della vita quotidiana da additare ad
esempio, fra quelli citati ne “I RICORDI” di Gennarino
Romei. Don Orazio fu parroco di Ferrari di Serino “e
per ben sessantasei anni resse la parrocchia con zelo,
amore e abnegazione.... Intelligente, colto, un vero
portento in lingua italiana e latina, insegnò lettere agli
studenti del ginnasio e del liceo, che divennero ottimi
professionisti…
Le attività che Don Orazio curò in modo specifico per i
suoi parrocchiani furono la confessione e la
30
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
predicazione… gran cura ebbe per la casa di Dio.
Tutto ciò che di meraviglioso c’era in Chiesa, prima del
terremoto del 23 novembre 1980, era opera sua.
Realizzò, fra l’altro, a proprie spese, la casa canonica
per i futuri parroci.
Ma chi poteva non volere bene a questo santo
sacerdote, umile generoso e pio?
Ai suoi fedeli non fece mai mancare l’omelia. E la sua
parola di verità non era mai in contrasto con
l’esemplarità della sua vita.”38
È soprattutto quest’esemplarità di vita che lo rende
degno di essere additato ad esempio per sé e per gli
altri.
Il secondo personaggio, di cui Gennarino Romei
esalta la figura umana e civile, è Raffaele Rocco; “un
sindaco che fu soprattutto modesto”; che “non sedeva
in cattedra con aria autoritaria nella stanza del
sindaco, ma preferiva stare in mezzo al popolo, in
strada e nei caffè, dove firmava atti e certificati a tutti
quelli che ne avevano urgenza”; e faceva
quotidianamente pressione presso gli organi superiori
per avere dei fondi con i quali istituiva dei cantieri per
dare lavoro ai giovani disoccupati dai quali era sempre
contornato. Istituì, fra l’altro, la refezione scolastica a
38
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, pp. 120,121;
31
Filomeno Moscati
cui potevano partecipare i fanciulli delle famiglie
povere”.
Un sindaco, che, oltre ad avere
una visione
lungimirante della Serino futura, includendo nel suo
programma amministrativo la costruzione della strada
Serino - Giffoni e del ponte sul vallone Matruneto,
due opere essenziali per il benessere economico e lo
sviluppo turistico del paese, ne promuoveva anche il
progresso culturale e civile inserendovi la costruzione
dell’edificio scolastico e della rete fognaria.39
Basta, a Gennarino, soltanto un breve accenno per
esaltare la personalità di Domenico Rocco e di Pietro
detto “o profugo”.
Domenico Rocco di Rivottoli era il padre di Raffaele.
Egli, essendo di idee liberali, era antifascista e lo
manifestava apertamente. “ Un giorno del mese di
luglio del 1922….all’imbocco della Cupa Cirino, lungo la
strada Sala – Fontanelle, fu fermato da alcuni fascisti
della squadra di San Biagio, i quali gl’intimarono
d’inneggiare a Mussolini. Al diniego del Rocco uno
della banda gli sparò un colpo di rivoltella, ferendolo
alla spalla sinistra. Domenico, col bastone alzato,
inseguì gli aggressori, ma dopo pochi passi fu colpito
da una manganellata alla testa.
39
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l.. Avellino 1993, pp. 102, 103;
32
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Gli amici… accompagnarono il Rocco a casa. Fu
subito accompagnato all’ospedale di Napoli, ove venne
operato. Guarì, quasi miracolosamente, dopo circa
ottanta giorni di degenza. I colpevoli rimasero
impuniti”40anche perché il Rocco, dopo la liberazione,
benché richiesto e sollecitato a dire i nomi dei suoi
assalitori, non volle mai rivelarli,41mostrando, con
questo suo silenzio, una nobiltà d’animo tale da
consentire ai suoi assalitori di rimanere, oltre che
impuniti, anche sconosciuti.
Pietro, era “soprannominato ’O Profugo”, perché…
dopo la ritirata di Caporetto fuggi dalla sua terra e
venne a Serino. Fu ospite a Ferrari della gentile
famiglia Tecce, alla quale si affezionò talmente da
rimanervi per tutta la vita….
Di idee liberali egli sparlava del Fascismo. Gli
squadristi di Rivottoli, informati della cosa da quelli di
Ferrari, nel mese di luglio del 1922 lo fermarono di
pomeriggio sulla strada del “Limitaggio” che porta a
Sala e gli intimarono di gridare “ Viva Mussolini”.
La risposta fu repentina: “Abbasso Mussolini”.
Gli squadristi, indispettiti, lo costrinsero con le
minacce a seguirli. Giunti a Doganavecchia lo spinsero
40
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.19;
41
Romei Gennaro, Serino personaggi illustri, Poligrafica
Ruggiero s. r. l,, Pianodardine (Av) 1991, p. 17;
33
Filomeno Moscati
brutalmente all’interno della farmacia Centrale e con
voce perentoria ordinarono al farmacista, dottor
Giuseppe De Vivo, di somministrargli mezzo bicchiere
di olio di ricino.
Un bicchiere, per Dio!- esclamò Pietro- sono vent’anni
che non mi purgo.
E bevve tutto d’un fiato.42
A conclusione della lettura de “I RICORDI” di Gennaro
Romei è doveroso, per il critico e per il lettore,
chiedersi se essi possono essere considerati a pieno
titolo un’autobiografia, secondo i concetti espressi
sul genere autobiografico dalla critica moderna, e se,
come tale, va ascritta al genere storico o a quello
letterario.
Storia, anche se storia di se stesso, considera
l’autobiografia Benedetto Croce (un letterato), che, a
tal proposito, dichiara di voler scrivere “la storia di me
stesso, ossia la storia della mia vocazione e
missione.”43
Silvio Accame (uno storico ) ritiene, invece, che
l’autobiografia non può essere considerata come storia
in quanto “chi scrive di sé o delle cose in stretto
rapporto con la sua persona è così preso nella vita del
42
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vita, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p. 18;
43
Croce Benedetto, Contributo alla critica di me stesso, a cura di
G. Galasso, Adelfi, Milano 1989, p. 13:
34
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
presente da non poterla vedere come passato”. Egli,
inoltre, “ ha come oggetto e soggetto unicamente se
stesso e nell’ autobiografia è insieme giudice e
giudicato”.44
Se, dunque, non è storia, può l’autobiografia essere
inclusa nel genere letterario?
Di questo parere è Giulio Ferroni, il quale ritiene che
l’autobiografia, ossia “ il racconto delle vicende
personali, fatto dalla stessa persona che le ha vissute, è
un <<genere>> narrativo legato in passato a funzioni
ed esperienze diverse, religiose, intellettuali ed
artistiche che, in epoca moderna, si è affermato come
un vero e proprio genere.”
Il Ferroni ritiene, inoltre, che lo sviluppo moderno
dell’autobiografia è correlato a “ una nuova curiosità
per la vita individuale in cui sembrano riflettersi più
rapidamente e più intensamente di quanto poteva
avvenire in passato gli eventi, i fatti e le situazioni di un
mondo in celere movimento.”45
Letteratura, quindi, ma una letteratura che riveste
importanza storica, sia per il lettore che per il critico,
perché rivela non solo gli avvenimenti ma anche i
pensieri, le passioni, le esaltazioni, le delusioni, le gioie
e i dolori, che, si voglia o non si voglia, sempre
44
Accame Silvio, Perché la storia, La Scuola, Brescia 1979, p.
146;
45
Ferroni Giulio, STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, Einaudi
scuola, Milano 1995, Vol. II,Tav. 138, p. 481;
35
Filomeno Moscati
accompagnano la vita degli uomini e ne determinano
l’indirizzo e l’espressione. Letteratura, inoltre, perché
essa stessa espressione dell’arte dell’autore in quanto,
nella memoria di sé, si trasfondono e si evidenziano, al
di là della conoscenza e della tecnica, le sue qualità
naturali ed individuali, che, proprio perché tali, sono
uniche e irripetibili.
In contrasto con quanto sopra esposto c’è stato chi
ha affermato che , per lungo tempo, l’autobiografia
non è stata di competenza dei critici letterari e che il
termine stesso di autobiografia debba essere rifiutato,
almeno fino a quando i fatti inerenti la propria vita non
siano stati raccontati con una responsabile
consapevolezza.46Il Guisdorf sostiene, anzi, che il
termine autobiografia non sarebbe che un neologismo
in quanto, prima del Romanticismo, gli scritti
autobiografici erano soltanto espressione di una
coscienza religiosa che non conosce confini e nazioni,
e, come tale, non può essere racchiusa né in generi
letterari né in confini nazionali.47 Si spiega, perciò,
perché, di fronte a pareri così diversi e contrastanti c’è
stato chi ha affermato che l’autobiografia costituisce
46
Guisdorf G., De l’autobiographie initiatique a l’autobiographie
genre letterarie, Review d’istorie letterarie de la France, 1975,
p.963;
47
Guisdorf G., idem, p. 963;i
36
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
un continente oscuro.48
Una prima parola chiarificatrice , sull’argomento,
può essere ritenuta quella del Guglielminetti il quale
ha affermato che l’esistenza di un genere letterario“ è
correlata alla esistenza di canoni stabili e riconosciuti
alla luce dei quali il genere si sviluppa e si confronta.”
Egli ritiene, anche se solo come ipotesi, che Le
Confessioni di S. Agostino possono essere prese come
capostipite della letteratura autobiografica, perché in
esse è presente il canone dell’individualità.49 È
l’individualità ciò che determinerà, con una presenza
sempre più forte e crescente, l’affermarsi
dell’autobiografia.50
L’individualità
presuppone,
inoltre, la presenza di un “io narrante”, e, in sua
assenza, non si dovrebbe ascrivere un’opera al genere
autobiografico.51
La presenza di un io narrante non basta però, da
sola, a definire i parametri formali del genere
autobiografico; esso presuppone che si realizzino
alcune condizioni ideologico – culturali, quali
48
Shapiro B., The dark continent of literarure: autobiographiy, in
Comparative Literature Studies, 1968;
49
Guglielminetti Marziano, Memoria e scrittura. L’autobiografia
da Dante a Cellini. Prefazione X, Ed. Einaudi, Torino 1977;
50
Morris C., The discovery of individual, 1050-1200,cap. IV, The
search for the self, New York –London 1972;
51
Zumthor P,, Autobiographie au Moyen Age? In Language,
Texte, Enigme- Paris, Essai de poétique medieval- Paris, Seuil
1972.pp.68-69, 172-174;
37
Filomeno Moscati
l’esperienza personale e l’offrire agli altri una relazione
sincera, perché sono quest’ ultime a rendere legittima
la presenza dell’io narrante.
Il Lejeune è stato colui, che, in presenza di
parametri così mal definiti e spesso addirittura
contrastanti, ha tentato una teorizzazione –
classificazione dell’autobiografia, che egli ha definito: “
racconto retrospettivo in prosa che una persona reale
fa della sua propria esistenza allorché essa pone
l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla
storia della sua personalità.”52
Egli precisa, inoltre, che :“ il testo dovrà essere
principalmente un racconto, …… la prospettiva
principalmente una retrospettiva, …… il soggetto
principalmente la vita individuale, la storia della sua
personalità.”53
In virtù di quanto sopra esposto non vi può essere
dubbio, sia per il critico che per il lettore,che, almeno
dal punto di vista puramente formale, “ I RICORDI” di
Gennaro Romei debbano essere ascritti al genere
autobiografico. In essi sono, infatti, pienamente
rispettati i canoni dell’ individualità, mediante il
racconto fatto in prima persona ( l’io narrante); quello
del testo, che è fondamentalmente un racconto; quello
52
Ljeune P., Il patto autobiografico. Autobiografia e storia
letteraria, Il Mulino, Bologna 1986, p.12;
53
Lejune P., idem, p.13;
38
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
della prospettiva, che è soprattutto una retrospettiva;
quello del soggetto, che riguarda principalmente la sua
vita individuale ; né può essere messo in dubbio che i
fatti narrati sono frutto di un’esperienza personale e
che egli ne offre agli altri una relazione sincera”.
Dal punto di vista sostanziale, invece, non tutto il
contenuto de “ I RICORDI” può essere classificato come
autobiografico. Tali non sono i racconti fiabeschi in
vernacolo, le poesie d’occasione, anch’esse in dialetto
serinese, e i medaglioni illustranti
i meriti degli
sconosciuti eroi della vita quotidiana e di tanti altri
personaggi , viventi e non; né possono essere
considerati tali i tantissimi episodi e avvenimenti
riguardanti la vita quotidiana, il matrimonio, le
avventure e le disavventure legate ai molteplici
riconoscimenti e alle tante onorificenze ottenute.
Essi, pur costituendo parte essenziale della vita
vissuta di Gennarino Romei, ne costituiscono soltanto
la cronaca quotidiana, perché da essi non emerge, “ in
particolare, la storia della sua personalità”.54
Questa personalità emerge invece, prepotente,
quando egli si sofferma a ricordare le veglie intorno al
focolare per ascoltare racconti fiabeschi d’orchi e di
fate; o a illustrare la sua professione - missione di
maestro; o a comunicarci la sua piena e ardente fede
54
Lejeune P. idem, p.12;
39
Filomeno Moscati
religiosa, una fede che non è mai disgiunta da una
profonda umanità.
In questi momenti anche il suo stile, pur rimanendo
semplice e chiaro,
si trasforma e si esalta,
acquistando, per la passione che lo anima, una
straordinaria forza di espressione e di persuasione e “
I RICORDI”, lasciata in disparte la cronaca, diventano
una vera autobiografia da cui emerge la personalità, a
tutto tondo, di un uomo dotato di una fantasia capace
di popolare i suoi sogni, e forse anche la sua vita, di
miti e di leggende; di un Maestro (con la M maiuscola)
e di un credente dotato di grande umanità.
È questa la figura di Gennarino Romei che rimane
impressa nella nostra mente, dopo la lettura de “I
RICORDI”, ed è su di essa, che, in modo del tutto
spontaneo e naturale, si concentrano il commento del
critico e l’ attenzione e il ricordo del lettore.
40
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
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Brescia 1979;
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”Scuola“ Editrice, Brescia 1947;
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Guisdorf G., De l’autobiographie initiatique a
l’autobiographie genre litterarie, Review de storie
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41
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Amici ‘e Sirinu virite ogni mese che vi rice, Polgrafica
Ruggiero, Avellino 1997;
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autobiographie, Comparative Literature Studies 1968;
Zumtor P., Autobiographie au Moyen Age? in
Language, Texte, Enigme, Pari, Essai de poétique
medieval, Paris – Seuil 1972;
42
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
II
Opere varie
di
Gennaro Romei
Gennarino Romei, nel periodo posteriore al suo
collocamento in pensione, o come si usa dire in
quiescenza, non fu affatto quiescente, come abbiamo
visto nel commentare “ I RICORDI”. Egli, infatti, oltre a
continuare la sua missione di maestro, insegnando
religione nelle scuole; a descrivere la cronaca paesana,
come corrispondente del giornale quotidiano Roma; e
a commentare la politica locale, come radiocronista
domenicale di Radio Serino Punto Zero; dedicò il suo
tempo a rendere nota la storia, la letteratura, la lingua,
la religione e le bellezze del suo paese natale con
diverse pubblicazioni a carattere prevalentemente
divulgativo.
Tutte queste pubblicazioni hanno in comune il titolo,
che è sempre SERINO, seguito da una specificazione.
Fra queste pubblicazioni hanno carattere storico
quelle che hanno per titolo “SERINO e la sua storia” e
“SERINO QUEL 23 NOVEMBRE 1980”.
Il commento a “SERINO e la sua storia” può essere
racchiuso in ciò che lo stesso Gennarino ha enunciato
nella sua nota introduttiva. Questo libro è, soprattutto,
43
Filomeno Moscati
“un atto d’amore verso la terra natale”, scritto “con
l’intendimento di divulgare in un modo nuovo” le
notizie ricavate “consultando, in particolare, i testi
<<Serino nell’Età Antica>> del Masucci,<<Salerno
Sacra>> di mons. Crisci e mons. Campagna, << I Santi
del giorno>> del Bargellini e <<Il Santo del giorno>> di
Sgarbossa e Giovannini”.55
Il lettore acuto e attento si accorgerà subito che il
pregio di questo libro non sta nell’avere riportato,
succintamente, le notizie storiche e le vite dei santi
patroni dei vari casali di Serino, ma
quelle che
riguardano le loro chiese, i monasteri e alcune feste e
tradizioni popolari. Gennarino ha intuito che i luoghi
sacri hanno spesso rappresentato il fulcro intorno al
quale si sono andati formando molti nuclei abitativi di
Serino, di cui alcuni conservano, ancora tuttora, lo
stesso nome della chiesa intorno alla quale sono nati.
La storia di queste chiese e di queste cappelle si
rivela, quasi sempre, la storia di interi casali, perché
esse sono state, per secoli, non solo l’espressione
della loro vita religiosa , ma anche della loro vita civile
, che era, molto spesso, una diretta conseguenza di
quella religiosa.
Ѐ, in realtà, attorno alla chiesa e al suo parroco che, in
epoca feudale,si svolgeva la vita quotidiana del
55
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, Nota
introduttiva;
44
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
popolo.
Ѐ la chiesa, assai più che il castello col suo signore
feudale, a dare un’impronta alla vita rurale quotidiana
e a unificare le comunità campestri, perché è in chiesa
che i contadini si riunivano per partecipare alla messa
domenicale e apprendere le notizie che li riguardavano
da vicino; è in chiesa che essi si sentivano uniti nel
culto di un santo protettore, che consideravano il loro
patrono; ed è in chiesa che essi celebravano i loro
matrimoni e festeggiavano, con il battesimo, la nascita
dei loro figli, così come piangevano i loro morti, che,
proprio in quella chiesa venivano sepolti. Sono essi,
inoltre, che pagavano la decima per manutenerla e
ripararla, e, che, sulla piazza ad essa antistante,
organizzavano fiere e mercati.
Ѐ, infine, nella chiesa che i poveri ricevevano un
supplemento di cibo e pellegrini e forestieri un riparo;
ed erano le campane della chiesa, che,
contrassegnando con i loro rintocchi lo scoccare delle
ore canoniche, scandivano i tempi del lavoro e del
riposo , della veglia e del sonno .56
A dimostrazione di ciò sta il fatto che Gennarino
Romei ha ritenuto opportuno, dopo circa un
quindicennio,
trattare
più
specificamente
l’argomento, e in modo molto più ampio, in una
56
Delort Robert, La vita quotidiana nel Medioevo, Mondadori
Printing S. p. A.,Cles (TN) p.133;
45
Filomeno Moscati
pubblicazione che ha per titolo “SERINO SACRA CHIESE
E SANTI”57
Il secondo pregio di “ SERINO e la sua storia” sta nel
fatto che in esso sono riportate, anche qui
succintamente,
alcune
usanze
e
tradizioni
58
popolari, spesso risalenti alla notte dei tempi, il cui
ricordo senza questo richiamo
sarebbe,
verisimilmente, andato perso per sempre.
Conservare la memoria di tradizioni e usanze
costituisce un fatto di rilevante importanza per la
storia di un popolo, perché esse sono la testimonianza
di culture, legate ad antiche civiltà, spesso non più
esistenti. Nel caso delle tradizioni non s’intende
parlare della cultura aulica e curiale; quella, per
intenderci, che si apprende sui libri e nei banchi di
scuola e diventa patrimonio di una sola persona, per
cui può, più esattamente, definirsi erudizione, ma di
una cultura cosiddetta popolare.
La cultura popolare non si acquisisce sui libri e nei
banchi di scuola, ma scaturisce dall’esistenza stessa
delle persone che vivono nell’ambito di una comunità,
a cominciare dalla famiglia, e, essendo frutto della vita
vissuta, non è patrimonio di una sola persona, ma di
57
Romei Gennaro, SERINO SACRA CHIESE E SANTI, Poligrafica
Ruggiero s. r. l., Pianodardine – Avellino 1994;
58
Romei Gennaro, Serino e la sua storia,cap. VIII Tradizioni e
usanze,Serino 1979, pp. 22-31;
46
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
tutti coloro che fanno parte di una comunità e in essa
si riconoscono, sia essa famiglia, stirpe o popolo. C’è,
inoltre, un’altra particolarità che la differenzia dalla
cultura erudita; una particolarità costituita dal fatto
che la cultura popolare, scaturendo dalla vita stessa,
non può essere limitata a una parte ristretta e definita
del sapere ma si estende a tutti i suoi aspetti , sia
materiali che spirituali. I suoi libri, pertanto, sono
costituiti dagli edifici, dagli attrezzi di lavoro, dai
manufatti e perfino dall’alimentazione, che ne
costituiscono la cultura materiale; dai riti religiosi e
civili, dalle usanze, dalla lingua, dai proverbi e dai valori
morali che regolano la vita e la morte dei membri di
una comunità in un’epoca determinata, che ne
costituiscono la cultura spirituale.59
Gennaro Romei si limita a riportare, con esatta
semplicità e veridicità, i riti e le usanze del suo paese;
tradizioni tramandate oralmente di generazione in
generazione, che egli ha appreso fin dall’infanzia e cui
ha visivamente e personalmente partecipato, ma non
ne spiega l’origine e il significato. Per far meglio
comprendere l’importanza e il valore dell’opera di
Gennarino, che altrimenti rimarrebbe al livello di
semplice cronaca, cercheremo, per quanto possibile, di
illustrarne origini e significato.
59
Cfr. Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più,
CITY PRINT, Avellino 2010, pp. 5-6;
47
Filomeno Moscati
La prima tradizionale festa popolare di cui s’interessa
Gennaro Romei, nel capitolo intitolato Tradizioni e
usanze, è il Carnevale, di cui egli, dopo un esiguo
accenno alle sue origini, ( in cui si limita a dire che esse
“ hanno uno stretto legame con le feste religiose
antiche: i Kronia greci60e i Saturnali romani” ) descrive
il funerale e una maschera caratteristica e
particolarmente appariscente .
Molte sono le opinioni espresse circa le origini del
Carnevale, ma, generalmente, esse vengono situate
nella più lontana antichità e legate a feste,
miti e
leggende che costituivano la cultura delle civiltà
agricolo-pastorali. C’è stato chi ha ritenuto che
l’origine del Carnevale debba essere fatta risalire
addirittura alla civiltà babilonese o a quella dell’antico
Egitto, ma, in mancanza di prove documentali e
letterarie che
assicurino,
in modo certo, il
collegamento del Carnevale a queste epoche, oggi la
maggioranza degli studiosi ritiene che quest’origine
possa essere situata al tempo delle antiche civiltà
greca e romana per le evidenti connessioni con le
Dionisie, feste dell’antica Grecia in onore di Dioniso (il
Bacco dei Romani), e con i Saturnali, feste dell’antica
Roma in onore di Saturno (il Kronos dei Greci).
60
N. d. A. Cronie erano denominate, in Grecia, le feste in onore
di Cronos, il Saturno dei Romani;
48
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Dioniso ( Bacco ) è, fra gli dei dell’antico Olimpo,
quello intorno a cui sono sorti più numerosi i miti,
che, fra l’altro, attribuiscono a lui l’invenzione del
vino, dell’aratro e della danza.61Al suo culto, diffuso
al suo sorgere soltanto fra le popolazioni delle
campagne, è collegata anche la nascita del teatro,
poiché,“dice Aristotele: << La tragedia fu in origine
un’improvvisazione dei corifei che guidavano i
ditirambi … cerimonie religiose in onore del dio
Dioniso, o Bacco, nelle feste campestri. >>62
In questo culto e in queste feste campestri, che si
svolgevano con processioni invernali in onore della
divinità, viene posta anche l’origine del Carnevale. Il
ditirambo, infatti, altro non era che un coro di
persone, che, mascherate e coronate, si esibivano
cantando e danzando in cerchio durante le
processioni in onore di Dioniso; processioni formate
anch’esse da persone mascherate.
Con il propagarsi del culto di Dioniso dalle campagne
alle città, feste e processioni si celebrarono anche in
quest’ultime, e, nel VI secolo a. C., Pisistrato , tiranno
di Atene, per motivi politici e di ordine pubblico le
61
Cinti Decio, Dizionario mitologico, Sonzogno, Bergamo 1998,
pp. 89,90;
62
Ghilardi Fernando, Storia del teatro, Casa Editrice del Dr.
Francesco Vallardi, Appiano Gentile (Como) 1961, Vol. I, p. 20;
49
Filomeno Moscati
istituzionalizzò, nell’anno 534 a. C.,63 e ad esse fa
riferimento Tucidide nelle sue Storie (ΙΣΤΟΡΙΑΙ).64
Alle Grandi Dionisie, feste in onore di Dioniso che si
celebravano in febbraio–marzo in Atene, al tempo di
Pisistrato, vengono collegate sia le origini del
Carnevale che del suo nome.
I festeggiamenti delle Grandi Dionisie duravano tre
giorni:
l’evento centrale del primo giorno era l’apertura dei
pìtoi ( da πίθοσ) botti o grossi vasi di terracotta pieni di
vino nuovo;
il secondo giorno era dedicato alla χοή(choé), gara di
libagione col vino nuovo in onore dei morti (in realtà
una grande bevuta) dopo la quale il popolo, in stato di
ebbrezza, formava la processione mascherata al
seguito del simulacro di Dioniso, che procedeva su di
un carro a forma di nave; processione in cui si
esibivano i ditirambi (anch’essi ebbri) cantando e
ballando al suono della cetra, del flauto e dei tamburi;
Il terzo giorno era dedicato alla consumazione delle
πανςπερμία (panspermìa) mescolanze di ogni sorta di
semi propiziatori di fecondità, che si dovevano
consumare, prima che calasse la notte, in onore dei
morti.
63
Ghilardi Fernando, idem, p. 20;
Tucidide, Storie, II, 13, 4, V sec. A, C. ( καί όςα ίερά ςκεύη
περί τετάσ πομπάσ = e ogni sacro utensile per le processioni);
64
50
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Questi tre giorni costituivano la festa denominata
Άνθεςτήρια (antestéria)65 festa dei fiori in onore di
Dioniso.
L’Antesteria era, com’è facile arguire, una festa
contadina dedicata alla vendemmia, alla morte e al
risveglio della vegetazione dal letargo invernale. Di
tutto questo Dioniso era il simbolo. Con il diffondersi
della coltivazione della vite, e la contemporanea
diffusione del suo culto, Dioniso divenne “il simbolo
della potenza inebriante della natura e della linfa che
gonfia i chicchi d’uva e che è la vita stessa della
vegetazione.”66Come dio della vegetazione, che
scompare in inverno per ricomparire a primavera,
Dioniso, simboleggiando la nascita e la morte, era
descritto nei suoi miti e nelle sue feste come un dio
che continuamente scompariva e ricompariva.
Una di queste epifanie (apparizioni)67lo mostrava
appena riapparso dal mare a bordo di una barca, e così
veniva rappresentato durante la processione delle
antesterie. Da questa rappresentazione marinara del
dio e dalla espressione latina carrus navalis sarebbe
65
Cinti Decio, Diziomario mitologico, Sonzogno Editore,Nuovo
Istituto d’Arti Grafiche, Bergamo 1998, Vol I, pp. 29, 90;
66
Schmidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana,
Cremese Editore s. r. l., Roma 1994, p. 72;
67
N.d.A., dal verbo greco έπιφαίνω (epifaino)= apparire,
mostrarsi;
51
Filomeno Moscati
derivata, secondo alcuni, la denominazione del
Carnevale.
Saturnalia erano, invece, chiamate le feste che
venivano celebrate, nell’antica Roma, in onore di
Saturno; un dio che “in origine fu una divinità
essenzialmente agricola, alla quale si facevano risalire
tutte le invenzioni dell’agricoltura” ed era, perciò,
“considerato apportatore di benessere e prosperità.”68
Egli essendo “il dio della semina, delle granaglie e della
vigna, veniva rappresentato con
la falce del
69
seminatore e la roncola del vignaiolo.”
I Saturnalia, feste in onore di Saturno, “cominciavano
il 17 di dicembre e duravano parecchi giorni”; giorni nei
quali in tutta Roma “regnava una grande allegria,
mantenuta viva dai banchetti e da copiose bevute”.70
La festa, in origine soltanto agricola, assunse col
tempo anche un significato sociale in quanto, a
simiglianza dell’età di Saturno, o età dell’oro, in essa
venivano temporaneamente abolite le differenze
sociali e “padroni e schiavi si consideravano in
condizioni d’uguaglianza e sedevano alla stessa
68
Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Bergamo
1998, Vol. II. P.267;
69
Schmidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana,
Gremese Editore s. r. l., p. 184;
70
Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Bergamo
1998, Vol. II, p. 267;
52
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
mensa.”71Saturno inoltre era considerato, come dio
della semina, una divinità degli inferi e della morte, e,
come protettore dei raccolti, un dio della vita e della
rinascita della vegetazione; un dio di cui bisognava
ottenere la protezione con preghiere e processioni
mascherate. I Saturnalia, attraverso le maschere,
permettevano il capovolgimento delle gerarchie e in
essi, anche se per pochi giorni, i padroni diventavano
schiavi e gli schiavi padroni, assumendo, con ciò, un
chiaro intento liberatorio .
Con l’avvento del Cristianesimo le antiche feste
pagane vennero, mano a mano, sostituite da culti e riti
cristiani, che a quelle si sovrapposero conservando le
stesse date, ma con motivazioni diverse. Ciò accadde
per la domenica, la Pentecoste, la Pasqua, il Natale, la
cui festività fu collocata da papa Liberio ( 352-366 d.
C.) alla data del 25 dicembre; anche i Lupercali, festa
latina della consacrazione di Roma alla lupa che aveva
allattato Romolo e Remo, persero la loro impronta
pagana per divenire la festa della Candelora. A queste
feste vanno aggiunte quelle riguardanti più
specificamente il cambiare delle stagioni. Una di esse,
legata alla fine dell’inverno e al ritorno della
primavera, è il Carnevale, festa di letizia in cui uomini e
donne “ si scrollano di dosso la quotidianità per
assumere vesti e atteggiamenti diversi,” che
71
Cinti Decio, idem, p. 267
53
Filomeno Moscati
permettono loro di uscire per le strade danzando ,
cantando, e, con il viso mascherato, di fare scherzi
insoliti e spesso volgari con lancio d’uova, di vino,
d’acqua, ma anche di confetti e mandorle. Il Carnevale
era, perciò, designato come Festum fatuorum (la festa
degli sciocchi o sventati) e in esso veniva eletto un re
della festa, designato in latino come rex stultorum, il re
dei pazzi. 72
Il Cristianesimo, non riuscendo a sradicare l’ usanza
popolare dei Saturnali con le loro feste mascherate,
nell’intento di rendere queste ultime più consone ai
suoi principi religiosi, le collegò a un successivo
periodo di purificazione e penitenza: la Quaresima;73
un lungo periodo di astinenza in cui era vietata
l’alimentazione carnea.
L’ultimo giorno di Carnevale contrassegnava la data
da cui iniziava l’obbligo di eliminare la carne, obbligo
che s’indicava in latino con l’espressione carnem
levare, o , carnem vale, carne addio, ed è questa, a
nostro avviso, l’origine del nome Carnevale; ed è per
questo che:
“Quanno a mezzanotte Carnuale more,‘e genti,
abballannu e sunannu, cantunu ‘ncoru
<<Chiangiti cristiani,
72
Gatto Ludovico,Il Medioevo giorno per giorno, Mondadori
Printing S. p. a., Cles (TN) 2003, p. 339;
73
Gatto Ludovico, idem, p. 339;
54
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
ca è muortu Carnuale,
‘nu poveromu scilliratu.
Carnuale picché si muortu,
si ‘a ‘nzalata ‘a tiniva a l’uortu?
Pane e binu nun ti mancava,
Carnuale pecché si muortu?>>
E tutti si metteveno a scuccà ‘e manu.”74
Dettagliata è la descrizione del funerale di Carnevale
fatta da Gennarino, che in proposito così si esprime:
“ A Serino, ogni anno, in occasione del Carnevale, i
muri delle abitazioni di tutte le frazioni vengono
tappezzati di manifesti listati a lutto che annunziano la
morte di Carnevale. Ricordiamo quanto scritto su uno
di essi qualche anno fa:
<< Chiagniti, cristiani, ch’è muorto Carnuale, nu
pover’homme scilliratu. Caresima, a puvirella,
aspettava tanto l’attesa ca rivesteva a lutto stu paese.
Ririmmo e pazziammo e Carnuale festeggiammo.
Il corteo, partendo da Rivottoli, proseguirà per
Fontanelle, Sala, S. Giacomo, Grimaldi, Piazza
Municipio>>.
Ѐ un’usanza questa che è in voga da molti anni;
prima, invece, il Carnevale si festeggiava
separatamente per ogni singola frazione….
A sera inoltrata, nell’ultimo giorno di Carnevale,
74
Romei Gennaro, Amici e Sirinu virite ogni mese che vi rice, pp.
7,8;
55
Filomeno Moscati
giungeva il corteo che seguiva la bara. All’interno di
essa un uomo (un povero diavolo che si prestava a fare
il morto per qualche spicciolo) raffigurava Carnevale
morente, vicino alla bara, circondata da una calca di
persone, c’erano in abbondanza salsicce e vino. Aveva
inizio, così, tra sospiri e pianti, il dialogo tra i portatori
e Carnevale che, bevendo e mangiando a sazietà, si
avviava all’agonia. A mezzanotte la morte tra un
vociare assordante. L’usanza però non è del tutto
scomparsa.”75
Il Carnevale, come si è visto, era in origine, sia in
Grecia che a Roma, una festa contadina e campestre
intimamente legata sia al ciclo delle stagioni che al
ciclo della morte e della vita, entrambi confluenti nel
culto di
Dioniso, un dio che spariva per poi
ricomparire, assurto a loro simbolo nella cultura
popolare delle civiltà agricolo-pastorali. Ѐ chiara la
funzione esorcistica assunta dai riti in suo onore; riti
tesi a fugare la morte e favorire la vita sia nel regno
vegetale che animale; una funzione importante specie
nelle civiltà primitive in cui la sterilità, le malattie e la
morte, si credeva fossero opera della magia di spiriti
malefici, che, secondo i concetti della medicina
apotropaica
allora in auge, potevano essere
75
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia,Serino 1979, p. 22;
56
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
combattute e debellate soltanto con appositi rituali
basati sul principio similia similibus curantur, cioè su
una magia di forza ed effetto contrari.76
Mascherata di Carnevale
Il rito del Carnevale, pur non potendosi escludere in
modo assoluto sue relazioni anche con i riti di altre
divinità legate alla fecondità della terra, come
Demetra, Cibele e Mater Matuta, era un rito
complesso, legato soprattutto ai cicli della vite e del
vino, al ciclo della vegetazione e all’uso delle
maschere, tutti strettamente correlati sia al culto di
Dioniso che al mondo agricolo; un rito che, pur con le
incrostazioni, le sovrapposizioni e le variazioni dovute
76
Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella
medicina popolare, Recordati, Istituto d’arti
grafiche di
Bergamo1940, p.115;
57
Filomeno Moscati
al trascorrere dei millenni, è giunto fino a noi perché
fortemente radicato nella cultura della civiltà
contadina, che è stata la cultura predominante di
Serino almeno fino al terremoto del 23 novembre
1980. In questo rito grande importanza aveva l’uso
delle maschere. Non bisogna, infatti, dimenticare che
le antesterie, le feste in onore di Dioniso, avevano il
loro culmine in un corteo mascherato, che, giunto
all’ara di Dioniso, immolava un toro fra i canti dei
coreuti; questi canti, in origine
improvvisati e
spontanei, si trasformarono in canti di un brano lirico
composto in precedenza, il ditirambo, di cui è ritenuto
inventore un personaggio leggendario, Arione, il quale,
per primo, a Corinto, avrebbe sostituito i coreuti
originari con Satiri del Peloponneso, cioè con uomini
mascherati da capri. Col passar del tempo il coro
originario fu sostituito da due semicori guidati da due
corifei, che divennero i veri protagonisti del dialogo,
fatto di domande e risposte. Gli interpreti del dialogo
indossavano una tunica lunga, fornita di maniche, e,
per aumentarne l’altezza, ossia l’importanza,
calzavano uno stivaletto dotato di una suola molto alta
, il coturno . In questo travestimento le maschere,
fatte di tela, pelle o legno, coprivano l’intero volto dei
corifei dialoganti e dei coreuti cantori e danzatori, e
avevano un ruolo importantissimo, perché si credeva
che esse possedessero un potere magico in virtù del
58
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
quale conferivano , a chi indossava la maschera di
Dioniso, tutte le qualità del dio. Si riteneva, infatti,
che la maschera , nascondendo il volto dell’uomo che
la indossava, costringesse quest’ultimo a spogliarsi
della sua personalità per assumere quella
rappresentata dalla maschera . 77
Nella festa carnevalesca un ruolo importante
assumevano la morte e il funerale di Carnevale, con
un rituale pieno di significati simbolici che lo
ricollegavano ai Saturnali romani, in cui, mediante
l’uso delle maschere, si operava un sovvertimento
delle gerarchie.
Secondo gli antropologi, la morte e il funerale di
Carnevale assumono nella civiltà contadina:
in primo luogo, il significato simbolico di fine del
periodo delle orge e delle pazzie e di ripristino
dell’ordine costituito;
in secondo luogo simboleggiano la fine (o morte)
dell’anno trascorso e, con il rifiorire della vegetazione,
l’inizio (o nascita) di un nuovo anno agrario;
in terzo luogo essi assumono un significato di
espiazione dei mali dell’anno vecchio, in particolare là
dove il personaggio di Carnevale viene rappresentato
77
Ghilardi Fernando, Storia del teatro, Casa Editrice Dr.
Francesco Vallardi, Appiano Gentile ( Como ) 1961, pp. 21,
22;
59
Filomeno Moscati
da un fantoccio mascherato, che, assimilato a un capro
espiatorio, viene incendiato alla fine del rito;
in quarto luogo il funerale assurge a simbolo della
fecondità della terra da cui il seme, sepolto in inverno,
rinasce a primavera.
Fra le tante maschere del Carnevale serinese
Gennaro Romei ne cita una soltanto, che egli così
descrive:
“Fra tante maschere, più brutte che belle, c’era l’orso.
La maschera dell’orso
60
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Un uomo, incappucciato da una maschera
raffigurante la testa dell’animale, indossava una
coperta che copriva un cuscino collocato sulla schiena.
La coperta era legata al corpo da catene, alle quali
erano appese tante campanelle di pecore o di mucche.
Due campanacci il finto orso li portava in mano.
Quando l’amico , che lo teneva al guinzaglio con una
funicella, lo percuoteva sulla schiena con un bastone,
l’orso saltellava scuotendo campanelli e campanacci
che emettevano suoni paurosi e assordanti.”78
La maschera dell’orso, se ricordo bene, era sempre
presente nelle mascherate di Carnevale della riva
destra del Sabato.
Gli antropologi hanno individuato nella maschera
dell’orso presente nei riti folcloristici, e in particolare
in quella che appare in alcune feste di Carnevale,
diversi significati simbolici, tutti riconducibili alla
cultura popolare delle civiltà agro-pastorali. C’è chi
l’ha visto come un totem, cioè come un complesso di
riti e di credenze con cui, nelle civiltà primitive, si
rendeva manifesta la parentela della tribù, o clan, con
un animale di origine divina o semidivina. La parentela
scaturiva dal fatto che l’animale era considerato
capostipite, fondatore e guida della tribù, che, per
78
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p.22;
61
Filomeno Moscati
questa ragione, ne assumeva il nome.79 Ciò è accaduto
per le tribù osco-sannite degli Irpini e degli Ursentini,
che, nella loro migrazione rituale in cerca di nuove
terre, denominata Ver Sacrum, si riteneva avessero
avuto come guida gli Irpini un lupo e gli Ursentini un
orso, animali da cui hanno derivato il nome che ancora
portano.80
Il mondo rurale arcaico, nella cui cultura assumevano
grande importanza la magia e gli esseri dotati di poteri
magici, attribuiva questi poteri ad alcune erbe usate
con effetti vistosamente positivi nella cura delle
malattie.
Influssi magici venivano attribuiti anche alla luna,
capace di influenzare le maree e altri fenomeni
naturali, le cui fasi erano associate sia al ciclo della
vegetazione che a quello della vita e della morte; si
attribuiva infatti il significato di germinazione primavera alla luna crescente; di gravidanza - estate
alla luna piena; di declino della vegetazione - autunno
alla luna calante; di morte - inverno all’assenza di
luna.
L’orso era considerato un animale lunare,
perché abitatore dei boschi che erano il regno di
79
Frazer James George, Il ramo d’oro, Studio della magia e
della religione, I, 53;
Freud Sigmund, Totem and taboo. The horror of incest,
Routlidge and Kegan Paul Ltd,1913 p.2;
80
Cfr. Moscati Filomeno, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg,
Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 20;
62
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Diana, una divinità italica collegata nella civiltà agro
pastorale alla luna, alla vita dei boschi e, quindi, ai
fenomeni della germinazione e della gestazione.81
L’orso, inoltre, è un animale che cade in letargo in
inverno per risvegliarsi a primavera. La sua
ricomparsa nei boschi segnalava la fine dell’inverno e
l’inizio della primavera, e il suo riapparire assumeva
perciò, nella cultura contadina, lo stesso significato di
una data del calendario.82
Nel Carnevale di Serino la figura dell’orso (presente
anche a Chiusano San Domenico e in tantissimi altri
paesi) condotto al guinzaglio incatenato, coperto di
campanacci e campanelle e saltellante sotto i colpi del
suo guidatore e del pubblico che lo sbeffeggia, assume
un ulteriore e più pregnante significato, quello del
nemico da vincere e domare. L’orso era visto, infatti,
nella cultura delle civiltà agro-pastorali, come un
nemico diabolico che insidiava gli armenti e impediva
al pastore e all’agricoltore di poter condurre
liberamente al pascolo nella foresta, così importante
nell’economia del Medioevo, maiali e altri animali
domestici. La sua figura incatenata e percossa è quella
di un nemico vinto e domato, e, sotto i colpi del
81
Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Bergamo
1998, Vol. I, p. 87;
82
Grimaldi Piercarlo, Il calendario rituale contadino, Franco
Angeli, Milano 1993;
63
Filomeno Moscati
bastone, i suoi passi simili a saltelli hanno lo stesso
valore e significato delle antiche danze rituali delle
civiltà primordiali, che attribuivano all’imitazione della
preda un valore magico, propiziatorio di una caccia
fruttuosa.
I campanelli degli ovini e i campanacci dei bovini ,
scossi dalla maschera ad ogni saltello, avevano
anch’essi funzione e poteri
magico-apotropaici
giacché si riteneva, nella cultura delle civiltà agropastorali, che il loro suono, o frastuono, fosse capace
di fugare e tenere lontana non solo la magia degli
spiriti del male (malocchio) ma anche tempeste e
temporali.
La campana stessa (con il batacchio
elevato a simbolo dell’organo riproduttivo maschile, e
la campana riproducente l’immagine figurata della
vulva, entrambi uniti a simboleggiare la copula) si
riteneva possedesse poteri magici che favorivano la
fecondità. 83
L’unica spiegazione possibile, a mio avviso, della
chiamata che si effettuava a Canale“ra coppa foresta”
nell’ultimo giorno di Carnevale, dopo il funerale,84
degenerata in critiche e denigrazioni feroci
di
personaggi locali, assai spesso immotivate oltre che
infondate, è che essa sia un retaggio atavico di quei
83
Cuniberti Paolo Ferruccio, La maschera dell’orso, Articolo su
Alba Pompeia I semestre 2009;
84
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, pp. 22,23;
64
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Saturnali in cui si verificava, con effetto liberatorio,
l’inversione delle gerarchie.
Per quanto riguarda la Quaresima e i suoi rituali è
opportuno precisare che se la stragrande maggioranza
dei Serinesi osservava l’obbligo del carnem levare,
ossia il divieto di mangiar carne, pochissimi erano
quelli che si assoggettavano a un digiuno di quaranta
giorni a pane e acqua, e si potevano contare sulle dita
di una mano quelli che, nel corso di molti anni ,
avevano osservato il cosiddetto Trapasso, ossia il
digiuno assoluto per tre giorni consecutivi riportato da
Gennarino.
Un’attenzione particolare
merita quella che
Gennarino descrive come “ un’abitudine simpatica,
però scomparsa da alcuni anni,” costituita dalla
“esposizione alla finestra di una magra bambola che
impersonava la Quaresima. Era costruita in casa con
pezzuole di stoffa. Indossava una veste di colore nero.
Ai piedi era legata una patata, in cui erano conficcate
sette penne di gallina, che corrispondono alle sette
settimane che formano la Quaresima. Se ne toglieva
una alla settimana. E quando il Sabato Santo le
campane annunziavano la Resurrezione del Salvatore,
si faceva scoppiare la bambola mediante un botto che
era stato nascosto sotto la lunga gonna.”85
85
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p. 23
65
Filomeno Moscati
L’abitudine simpatica, descritta da Gennarino nei
minimi particolari, doveva essere molto antica e
sicuramente connessa ai rituali magici di fattura e
controfattura, cosi diffusi nelle antiche civiltà
contadine. In essa sono infatti riscontrabili tutte le
caratteristiche della cosiddetta fattura indiretta;86
La bambola (pupata) di Quaresima
quella, per intenderci, che si riteneva agisse
trasferendo il magico influsso malefico attraverso
86
Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina
popolare, Recordati, Istituto Italiano d’arti grafiche di Bergamo,
p. 34 e seg.,
66
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
materiale appartenente alla vittima del maleficio o
attraverso una sua immagine simbolica.
Nell’usanza tramandataci da Gennaro Romei si
possono riscontrare, inoltre, tutti gli elementi ritenuti
indispensabili per rendere efficace un maleficio:
il materiale di transfert, costituito dalla bambola fatta
di stracci appartenuti alla vittima (di cui costituiva
l’immagine simbolica) e dalla patata, oggetto
commestibile rotondeggiante (simbolo del cuore)
custodito in casa, su cui conficcare oggetti puntuti;
penne di gallina, oggetti appuntiti provenienti da
animali custoditi nel pollaio di casa;
la veste di colore nero (colore della morte e quindi
ritenuto di malaugurio) anch’ essa proveniente dalla
casa;
l’infissione, che era il metodo più diffuso nella
pratica dei malefici.
L’esposizione fuori della finestra del materiale di
transfert mostra inoltre, in modo esplicito, la volontà
di tenere il maleficio fuori dell’abitazione.
Dagli elementi suddetti si può chiaramente
dedurre che la simpatica abitudine, riportata da
Gennarino Romei, anche se mascherata dai rituali
penitenziali connessi alla Quaresima cristiana, altro
non era che una controfattura, un procedimento
basato sugli stessi principi della fattura, ma opposto a
67
Filomeno Moscati
essa e diretto a disfarne l’azione malefica;87
controfattura usata, in questo caso, per liberare la
casa e i suoi abitanti da un’ eventuale fattura che
fosse stata praticata contro di essi. La deduzione è
avvalorata dalla progressiva liberazione del materiale
di transfert (patata) dal materiale d’infissione (penne
di gallina); liberazione che veniva completata con il
botto finale, destinato ad eliminare ogni residuo di
maleficio, al suono (ritenuto anch’esso capace di
fugare gli spiriti maligni) delle campane (anch’esse
dotate di poteri magici propiziatori di fecondità e
benessere) annuncianti la resurrezione di Cristo
Salvatore, ciò che aggiungeva un elemento mistico agli
elementi magici.
Legato alla Pasqua di Resurrezione era anche il rito
della rosamarina, che Gennarino, molto succintamente
così descrive: “ La Quaresima aveva termine con gli
auguri pasquali che i giovani di alcuni villaggi del
serinese, al suono delle nacchere e dei tamburelli,
porgevano cantando solo ai maschi di ogni famiglia. E
quando alla porta di ciascuna abitazione mettevano
un ramoscello di rosmarino, dicevano ad alta voce: <<
Oi (seguiva il nome della persona che intendevano
chiamare), teccuti la bona Pasqua e crai la bona
87
Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina
popolare, Recordati, Istituto italiano d’arti grafiche di Bergamo,
1940, p. 32;
68
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
matina, e teccuti stu pennacchio e rosmarino; e puozzi
sta cuntento e forte per quanto duri Tromini e
Monteforte. Quest’abitudine, in parte modificata,
esiste tuttora in qualche frazione.88
Anche in questo caso siamo in presenza di un rituale
A rosamarina
antichissimo risalente al culto della dea Cibele,
personificazione della Terra Madre, la cui festa si
celebrava durante l’equinozio di primavera, fra canti di
coribanti e suono di cembali, per celebrare il suo mito
di dea della morte e della rinascita della vegetazione.89
88
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, pp.
23,24;
89
Cinti Decio, Dizionario Mitologico,Snzogno Editore, Milano
1972, Vol. I., p.72;
Vedi anche Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è
più, CITY PRINT, Avellino 2010, pp. 12-13,42-50;
69
Filomeno Moscati
In questa tradizione risulta, ancora una volta,
evidente il collegamento con il culto latino dei numina
una categoria di divinità minori personificanti la forza
divina e misteriosa della natura, che guida ogni atto
dell’uomo conferendogli forza ed efficacia; questa
forza divina è presente in tutte le cose, siano esse
minerali, vegetali o animali, ragione per cui il loro
appoggio veniva molto ricercato.90
A questa religione di tipo feticista si ricollega il dono
del pennacchio di rosmarino, ricco di foglie aguzze e
puntute, offerto a ogni famiglia con il valore di un
amuleto, che, con la sua intrinseca forza naturale e con
le sue foglie aguzze, è capace di allontanare da quella
famiglia ogni influsso
malefico ( cosiddetto
malocchio ) .
Anche in questo caso il potere antimalefico
dell’amuleto si basava sull’attuazione del principio
fondamentale della medicina apotropaica, similia
similibus curantur, in base al quale il malocchio, opera
della magia del male, poteva essere contrastato e vinto
solo attraverso l’opera di un’altra magia, la magia del
bene.
L’amuleto, costituito dal pennacchio di rosmarino,
appeso davanti alla porta a protezione della casa,
90
Schimdt Joel, Dizionario della mitologia greca e romana,
Cremese Editore, Roma 1994, p. 152;
70
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
attuava la sua opera benefica attraverso diversi tipi di
magia del bene:
la magia delle punte esercitata da tutti gli oggetti,
animati o inanimati, terminanti a punta;
la magia della conta, basata sulla credenza, molto
diffusa fra i popoli primitivi, che streghe e fattucchiere,
ritenute autrici dei malefici, non potessero
oltrepassare oggetti appuntiti se non li avessero prima
contati;
la magia della parola, basata sulla ripetizione di
formule ataviche bene auguranti,91che si concretizzava
nel canto della chiamata.
Nell’ambito delle tradizioni, che, con il loro
perpetuarsi attraverso i secoli, documentano l’antica
civiltà contadina di Serino, un particolare rilievo
assume quella che Gennarino Romei così ci ha
tramandato:
“A Ferrari, il lunedì seguente alla tradizionale festa
della Madonna del Carmine, che si celebra nella prima
domenica di agosto, ha luogo sull’aia, vicino al
Cretazzo, una festicciola tutta paesana, a cui danno
vita tutti i ferraresi, dal più piccino al più anziano.
91
Pazzini Adalberto, Storia Tradizioni e Leggende nella Medicina
Popolare, RECORDATI, Istituto Italiano d’Arti Grafiche , Bergamo
1940 pp.78-80; 115-120;
Cfr. anche Moscati Filomeno, RICORDO del paese che non c’è più,
CITY PRINT, Avellino 2010, pp.12-13, 42-50;
71
Filomeno Moscati
Anticamente, e fino a circa sessant’anni fa, quella
festa aveva tutta l’aria di un baccanale, orgiastico e
chiassoso. Aveva inizio al mattino con la battitura dei
cosiddetti <<uilli>>92( una pertica lunga circa due
metri, all’estremità della quale era appeso una specie
di manganello) sui manipoli di grano sparsi sull’aia.Era
quello il grano che i componenti la commissione della
La festa sull’aia
festa della Madonna del Carmine avevano questuato
per la campagna del serinese. Di tanto in tanto i
battitori, grondanti di sudore, ingurgitando vino,
cantavano in coro: <<Bellu marignore vulimo ra na
botta o carrafone aaah>>. A fine battitura, quando il
grano veniva accumulato al centro dell’aia, aveva inizio
la danza, accompagnata dal suono della <<banda
piccola>>. Nel contempo si svolgevano giochi, tra cui
ricordiamo quello del gallo con il corpo interrato e il
92
N. d. A. in italiano = coreggiato o correggiato.
72
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
capo all’infuori. Chi veniva bendato doveva colpirlo alla
testa con un bastone per averlo in regalo. All’imbrunire
il grano veniva insaccato. Si formava un corteo. Avanti
la <<banda piccola>>. Seguiva l’affittuario dell’aia
vestito con paramenti simili a quelli del vescovo.
Reggeva in alto, con le mani, lo stelo di un carciofo
fiorito, che di tanto in tanto veniva incensato col fumo
emanato da vecchi stracci che bruciavano in un
incensiere fatto di latta. Indietro venivano le donne che
portavano in testa i sacchi pieni di grano, in ultimo il
resto della popolazione che in coro cantava. Il corteo si
scioglieva in piazza tra il chiarore dei fuochi artificiali e
il vociare assordante dei ragazzi e anche degli adulti
abbastanza brilli per il vino ingurgitato durante la
giornata.
Quel corteo, di origine pagana, ebbe termine
soprattutto per insistenza del parroco Don Orazio Crisci
nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Ora la festa, quasi del tutto modificata, continua a
svolgersi sull’aia. Né corteo, né grano; giochi e danze
restano immutati. Sempre pronta la << banda
piccola>> a dare la carica. Detta festa è considerata
come manifestazione di amicizia, anche perché su
quell’aia avviene il gradito incontro fra tutti i ferraresi
e gli amici e i parenti emigrati, che. per l’occasione,
tornano al paese natio.93
93
Romei Gennaro, Serino e la sua storia, Serino 1979, p. 24,25;
73
Filomeno Moscati
Non vi può essere dubbio sul fatto che la festa
paesana, descritta da Gennaro Romei, fosse antica,
ma, soprattutto, che in essa sopravvivessero tracce
di rituali antichissimi; rituali che, nelle antiche civiltà
contadine, venivano celebrati sia per festeggiare il
raccolto già fatto sia per propiziarne uno futuro.
Lo si deduce da diverse circostanze, la prima delle
quali è che essa “aveva tutta l’aria di un baccanale,
orgiastico e chiassoso” come afferma lo stesso
Gennarino.Particolarmente importante dal punto di
vista deduttivo è, poi, il fatto che scopo della festa
era quello della trebbiatura del grano, con cui, nelle
civiltà contadine, si rendeva concreto e visibile il
principale raccolto di un’annata, e, ancora più
importante,
Cattedrale di Otranto: Battitura col villo
74
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
che essa era effettuata sull’aia con l’ancestrale tecnica
della battitura con il “villo” ; una tecnica immortalata
in tanti dipinti e mosaici di solito molto antichi, come,
ad esempio, quelli della cattedrale di Otranto risalenti
al 1163. Anche le danze si svolgevano nel pieno
rispetto della tradizione contadina,perché eseguite
conl’accompagnamento della banda piccola ( in genere
formata da una ciaramella, da un organetto, da un
tamburo e da una grancassa) al cui suono, per il netto
prevalere del ritmo sulla melodia,si ballavano, in
antico, le tarantelle; ma ciò che testimonia, in modo
inequivocabile, il legame che unisce la festa sull’aia agli
antichissimi rituali della mietitura del grano, è quello
che Gennarino ricorda come un gioco, il gioco del
gallo.
Il gallo era ritenuto, nell’antichità, un animale sacro ad
Apollo, dio del sole, perché con il suo canto era il
primo ad annunciare ogni giorno il risorgere del sole,
che, con la sua luce e il suo calore, è fonte di vita per
l’umanità intera ed era, perciò, ritenuto anche il
simbolo della virilità e della rinascita e perpetuazione
della specie. Con il passare del tempo il gallo assunse
un forte significato simbolico anche in rapporto alla
mietitura, che, nelle civiltà agro-pastorali era ritenuta
fondamentale per la vita e la sopravvivenza degli
uomini. Essi, per questa ragione, associarono alla
75
Filomeno Moscati
Il gioco del gallo
attività della mietitura riti di ringraziamento e
propiziatori.
Anche questi riti venivano effettuati in osservanza del
culto feticista dei numina, una sorta di divinità minori
personificanti la forza divina e misteriosa della natura;
una forza che è presente in tutte le cose animate e
inanimate, animali o vegetali, nelle quali si
ritenevainfondesse un soffio di vita e di volontà capace
di influire sull’esistenza degli uomini, che cercavano,
perciò, di ingraziarsene l’appoggio mediante feste e
76
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
sacrifici;94 uno di questi era costituito dal sacrificio
dell’ultimo covone mietuto , che veniva bruciato e le
sue ceneri disperse al vento, nei campi, perché
propiziassero un nuovo abbondante raccolto.
Al posto del covone sacrificale si usavano anche
degli animali, perché ritenuti simboli dello spirito del
grano; uno di questi animali era il gallo, usato anche
come sostituto simbolico di un
ancestrale sacrificio
cruento dell’uomo che aveva mietuto l’ultimo covone.
In Transilvania, in un’epoca non lontana, si sotterrava
un gallo, nel campo delle messi appena mietute, così
che ne rimanesse fuori soltanto la testa perché fosse
tagliata, in un sol colpo, da un giovane munito di
falce.95
L’identificazione del gallo con lo spirito del grano
tende a fare notare il suo potere stimolante e
fertilizzatore.96 L’equivalenza del gallo con il grano
stesso viene invece evidenziata nel costume di
seppellire l’uccello in terra e di tagliargli la testa con la
falce, così come si fa con le spighe del grano.97Ma c’è
un’altra circostanza che lega la festa sull’aia di Ferrari
94
Schmidt Joel, Dizionario di mitologia greca e romana,
Gremese editore s. r. l., Roma 1994, pp.151,152:
95
Frazer James George, Il ramo d’oro. Studio della magia e della
religione traduzione di Lauro De Bosis, Einaudi Editore, Torino
1950, pp.712-716 ;
96
Frazer James George, idem, p. 715;
97
Frazer James George, idem, p. 714;
77
Filomeno Moscati
di Serino ai rituali della mietitura delle antiche civiltà
contadine : la caratteristica processione che prelude
alla conclusione della festa.
J. Frazer ci fa infatti sapere che, in molti luoghi del
Nord Europa, un gallo, o la sua immagine simbolica,
veniva portato in giro nelle processioni della
mietitura.98Non è difficile intuire che lo stelo di
carciofo fiorito, sollevato in alto a due mani dal finto
monsignore99 che guida la processione, non sia altro
che una trasposizione simbolica del gallo, che, in tempi
lontanissimi, guidava le processioni attaccato ad un
palo; né può essere senza significato il fatto che il
simbolo sia costituito dal carciofo, un vegetale, che, si
sostiene fin dal Medioevo, ha poteri afrodisiaci, perché
“ha virtù ...di stimolar Venere sia alle femine, che ne
sono tanto desiderose, come à gli huomini, che sono
del tutto in tal cosa tardissimi.”100 Il fiore del carciofo
sul suo stelo viene inoltre usato, metaforicamente, per
indicare il membro virile a causa della sua forma, ed è
98
Frazer James George, idem, p. 714;
N. d. A., Ѐ assai probabile che il marignore cui si rivolgevano
i battitori col villo, per ottenere il permesso di attaccarsi al
carrafone, altro non sia che una storpiatura di monsignore, titolo
che si da ai vescovi ;
100
Boldo Bartolomeo, Libro della natura e della virtù delle cose
che nutriscono, in Venetia appresso Domenico e Gio. Battista
Guerra fratelli MDLXXV p. 66;
99
78
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
considerato, perciò, un simbolo della virilità e della
fecondità allo stesso modo del gallo.
Gennaro Romei ricorda, fra i tanti giochi che si
facevano sull’aia, soltanto quello del gallo. Ritengo
opportuno, per le sue evidenti connessioni con la
cultura
dell’antica
civiltà contadina di Serino
celebrata sull’aia, ricordarne almeno un altro, che
nella prima metà del secolo scorso (XX) ancora si
praticava in San Michele di Serino101e tuttora si
pratica, non più sull’aia ma in piazza, in Ferrari di
Serino: il pizzicantò. Il pizzicantò più che un gioco è
un’esibizione non priva di pericolo in cui i giovani
scapoli del casale, montando uno sull’altro a formare
una piramide quanto più alta è possibile, mettono in
mostra davanti a tutti, e soprattutto davanti alle loro
fidanzate o alle ragazze da essi corteggiate, le loro doti
di forza, coraggio e abilità. Ѐ questa pericolosa
esibizione a farne intuire la connessione con i rituali
di iniziazione e di passaggio delle antiche civiltà, e, in
particolare, con quello che contrassegnava il passaggio
dalla pubertà alla virilità. Ѐ noto infatti che, nelle
antiche civiltà, questo passaggio doveva essere
consacrato con un rituale, in cui i giovani puberi erano
sottoposti a delle prove non facili e che solo quando le
101
Vedi anche Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che
non c’è più; CITY PRINT Avellino 2010, pp.13,14;
79
Filomeno Moscati
avessero superate, dando così una prova manifesta
della loro
Il pizzicantò
virilità, potevano essere ammessi nel novero dei “viri”,
cioè di coloro che erano ritenuti idonei al governo della
comunità, al matrimonio e alla guerra. Il rituale di
passaggio dalla pubertà alla virilità era caratterizzato
da regole severissime, le quali imponevano che le
prove dovessero essere superate in pubblico e davanti
a tutti, e, cioè, in occasione di pubbliche solennità.
A conclusione della sua descrizione della festa
sull’aia, Gennarino afferma che essa ha perduto i suoi
requisiti originari, che, come abbiamo visto,
la
80
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
legavano, in modo evidente e indissolubile, all’antica
civiltà contadina che ha caratterizzato la vita e le
consuetudini di tutta Serino, almeno fino al terremoto
del 23 novembre 1980, per divenire la festa
dell’amicizia e il luogo d’incontro di tutti i “Ferraresi”
dovunque dispersi.
Riteniamo infine opportuno esplicitare, per quanto
possibile, origini e significato di due altre usanze
tramandateci da Gennarino Romei, sia perché
scomparse sia per gli evidenti legami, in esse
ravvisabili, con l’antica civiltà contadina di Serino: “ ‘o
contruocchio” e i “cicci di Capodanno”.
Ecco l’accurata descrizione , fatta da Gennarino, della
pratica del <<contruocchio>>: “Per far scomparire del
tutto un insopportabile mal di testa, che molti
credevano fosse causato da << malocchio >>
(un
influsso malefico che, inconsapevolmente, qualcuno
esercitava guardando una persona), si ricorreva, fino
ad alcuni anni fa, ad una specie di scongiuro, detto
<<controcchio>>.
La persona, per lo più una donna, che praticava il
controcchio, dopo aver acceso una candela ad olio,
avvicinava l’orlo del piatto, in cui aveva versato della
limpida acqua, alla fronte del sofferente. Poi si faceva
per tre volte il segno della croce, segno che ripeteva
anche tre volte sulla fronte del paziente e sul piatto con
l’acqua. Infine immergeva il dito mignolo nell’olio della
81
Filomeno Moscati
candela accesa e ne faceva cadere tre gocce sull’acqua
contenuta nel piatto. Alla caduta di ogni goccia diceva:
O contruocchiu
<<Occhio e controcchio verticello all’occhio, crepa
l’invidia e scatta il malocchio. S. Pietro che da Roma
venisti, na scanta r’oro (un ramoscello d’oro ) manu
purtasti, tre sdizzi (gocce) meno nda stu piatto, si è
uocchio scattalo>>!
Se le gocce formavano nell’acqua ampi cerchi,
significava che il malocchio c’era; se, invece, i cerchi che si
formavano erano piccoli, significava che il mal di
82
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
testa era di natura diversa. Il << controcchio>>
poteva essere ripetuto tre, cinque o sette volte. Veniva
ripetuto, se necessario, anche nei giorni seguenti, cioè
fino alla scomparsa del dolore.” 102
Il concetto di malocchio è antichissimo, forse anche
più antico di quello di fattura, e la parola stessa
suggerisce l’idea di un aereo fluido magico, emanato
dall’occhio dell’ uomo, capace di influire
sfavorevolmente sulla vita di altre persone. Ciò che lo
differenzia dalla fattura è il fatto che il fluido aereo
può essere emanato non solo da streghe e fattucchiere
(le sole capaci di praticare una fattura), ma da
chiunque, e che la sua azione è diretta ed immediata,
e, perciò, non ha bisogno di materiali di transfert né di
rituali particolari.
Il malocchio, anch’esso basato sulla religione feticista
dei numina, aveva come conseguenza che esso poteva
essere combattuto e vinto utilizzando la regola
“similia similibus curantur”, che era il principio basilare
della medicina apotropaica. Era questa la ragione per
cui egiziani, greci e romani, per combattere il
malocchio usavano dipingere un occhio sulla porta
delle abitazioni, sulla prora delle navi e sul fondo di
tazze e bicchieri.103
102
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p. 28;
Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina
popolare, RECORDATI, Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo
1940, pp. 51,52;
103
83
Filomeno Moscati
Questa era anche la ragione per cui il fluido del
malocchio veniva combattuto con un altro fluido,
questa volta liquido, l’olio.
L’olio, fin dalla più tarda antichità, è stato sempre
ritenuto munito di un potere magico benefico, tanto
che il popolo, ritenendolo capace di guarire ogni male,
lo usava come una vera e propria panacea. Era
credenza comune, inoltre, che la sua efficacia
terapeutica aumentasse qualora l’olio adoperato fosse
tratto da una fonte di luce, quali il lume o la lucerna,
com’è immortalato in un antico proverbio contadino
che dice: “uogliu ‘e lumu e uoglio ‘e lucerna ogni male
sterna” (stermina). L’olio era inoltre ritenuto il mezzo
più semplice, economico ed efficace, per diagnosticare
non solo il malocchio ma anche le fatture, perché
basato sull’esame delle figure che si formavano
facendo cadere delle gocce d’olio in una bacinella
d’acqua.104
Quest’usanza antichissima, conservatasi pressoché
immodificata fino alla seconda metà del secolo scorso,
aveva subìto soltanto l’aggiunta, per mascherarne
l’origine e la natura pagana, di ripetuti segni di Croce
e dell’invocazione a S. Pietro; ma è proprio
quest’invocazione (San Pietru ca ra Roma vinisti, ‘na
104
Pazzini Adalberto, idem, pp. 53, 107.
84
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
scanta r’oru ‘n manu purtasti) a svelarne la natura e
l’origine, poiché fa riferimento a un ramo d’oro.
Ѐ lo stesso ramo d’oro, dotato di magici poteri,105
che Enea colse, nel bosco sacro a Diana,106 per poter
Il ramo d’oro (il vischio)
compiere il suo viaggio negli Inferi ; ramo d’oro che
James George Frazer, seguendo Virgilio, ha ritenuto
soltanto una metafora del ramo di vischio, sia perché
quando questo viene staccato dall’albero assume il
colore dell’oro, sia perché esso fa parte della
simbologia orfico-pitagorica, conosciuta diffusamente
fin dai tempi antichissimi. 107
105
Virgilio, Eneide, VI, vv.136-147;
Virgilio, idem, VI, vv. 205-210;
107
Frazer James George, Il ramo d’oro. Studio della magia e
della religione,Einaudi , Torino 1950, Cap. LXVIII, p.1063;
106
85
Filomeno Moscati
C’è un’altra usanza, fino alla seconda metà del
secolo XX diffusa con piccole variazioni in tutti i casali
di Serino, che va commentata perché l’opera meritoria
di Gennarino Romei non rimanga priva di significato;
l’usanza è quella dei “cicci di Capodanno”.
Gennaro Romei la ricorda così:
“Ed ora parliamo di alcune consuetudini di fine
d’anno, anch’esse scomparse. Al mattino dell’ ultimo
giorno dell’ anno in ogni famiglia si cuocevano i chicchi
di granturco, da tutti chiamati <<cicci>>. In alcune
frazioni i bimbi che si recavano nelle case dei vicini
dicevano: <<Cicci a me cupeto a te. E si chist’ anno nun
me dai, l’anno che vene no puozzi viré>>; invece, i
bimbi di altre frazioni, portando un pezzettino di legno
avvolto in un fazzoletto, dicevano: <<Oi ( e chiamavano
a nome la padrona di casa), ti manna chistu mamma;
se è piccirillo to tieni, se è gruosso lo manni, dammi i
cicci e Capuranno>>.108
Anche quest’usanza, ora completamente scomparsa,
era legata alle tradizioni della civiltà contadina di
Serino, ormai anch’essa sopravvivente come realtà
puramente marginale. Era un’ usanza legata al
significato bene augurante di prosperità e di ricchezza,
attribuito fin dalla più lontana antichità ai chicchi del
grano, a cui erano stati aggiunti anche i chicchi di mais,
108
Romei Gennaro, SERINO e la sua storia, Serino 1979, p.25;
86
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
entrati, dopo il viaggio di Colombo, a far parte dell’
alimentazione e del benessere familiare con la stessa
importanza del grano. Per meglio evidenziare questo
significato riteniamo opportuno riportare il modo in
cui quest’usanza si svolgeva nel casale di San Michele
di Serino, ove il rituale aveva conservato, in modo assai
più appariscente, il suo significato augurale:
“Il sagrato assumeva un’importanza fondamentale
sia dal punto di vista religioso che civile. In questa
piazza, infatti, si riuniva il popolo per solennizzare le
feste religiose, come il Natale, nella notte gelida e
stellata; e il Capo d’Anno, con la veglia in attesa
dell’anno nuovo e degli auguri di << bona fine e buon
principio; semp’ a meglio!>> Era questo l’augurio
portato a tutte le famiglie dal banditore del paese, che
riceveva in cambio un dono in denaro o in derrate
alimentari, e da un codazzo di bambini, che, dopo il
grido di << e cicci ‘e creature>>, ricevevano in dono i
chicchi bolliti di grano e di granone (cosiddetti “cicci”),
che, conditi con sugo di pomodoro, o semplicemente
con olio, costituivano un piatto presente su ogni tavola
come augurio di abbondanza e prosperità per l’anno
che iniziava”.109 “Della tradizione”, infatti, “faceva
parte pure la cena dell’ ultimo dell’anno,
109
Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY
PRINT,Avellino 2010, p pp. 11,12;
87
Filomeno Moscati
comunemente denominata <<cenone di S. Silvestro>>;
un cenone che si differenziava da quello della vigilia di
Natale soltanto per la presenza in tavola del cotechino,
circondato dai “cicci” del buon augurio, oggi sostituito
dal piatto d’ importazione costituito dallo zampone con
le lenticchie”.110
Una vera festa dell’amicizia, e di riunione dei
Troianesi residenti e non, è quella che si celebra il 16
agosto in Troiani di Serino, da Gennarino riportata
come “Festa ro travo”. Di essa non si ha notizia nel
periodo antecedente alla seconda guerra mondiale,
mentre la data di collocazione della trave che da nome
alla festa, nel sito dove adesso si trova, deve essere
posteriore al 1744, data a cui risale la costruzione del
palazzo Velli e l’allargamento della strada davanti al
palazzo, prima esistente come semplice scolo delle
acque pluviali e alluvionali.111
La trave, comunque, gode di una cattiva fama a
causa delle maldicenze espresse sui viandanti da
coloro che l’occupano; viandanti che, consci di ciò,
quando passano rivolgono al Signore la seguente
invocazione liberatoria: “A trabeTroianorum libera nos,
Domine.
110
Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più, CITY
PRINT, Avellino 2010, p. 39;
111
Masucci Alfonso, Serino (ricerche storiche), Tipografia Giuseppe
Rinaldi, Napoli 1923, vol. II, p. 224;
88
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
La scomparsa di tutte, o quasi tutte, le tradizioni e
usanze, descritte con tanto amore da Gennaro Romei,
è il chiaro segno che l’antica civiltà contadina di Serino,
ancora fiorente nella prima metà del XX secolo, è, se
non scomparsa, divenuta una realtà puramente
marginale, soppiantata e travolta dall’ impetuosa
avanzata della civiltà industriale con i suoi trattori al
posto del bue e dell’asino; i suoi concimi chimici al
posto di quelli naturali; i suoi anticrittogamici al posto
della miscela bordolese; i recipienti di plastica al posto
di botti, “catelle” di legno e “cuofani” di vimini;
autocarri al posto di carrette e “traìni; fabbriche e
industrie per la lavorazione di castagne e nocciole al
posto di grate sospese al soffitto, in corrispondenza del
focolare e di forni a legna; previsioni televisive del
tempo al posto delle intuizioni, su base statistica, del
calendario di Frate Indovino.112
Un’altra opera di carattere storico di Gennaro Romei
è quella intitolata “SERINO quel 23 novembre 1980”.
In realtà questa pubblicazione può essere definita
un’opera miscellanea, giacché inizia con una poesia in
vernacolo di carattere estemporaneo; prosegue con un
elenco di centri abitati colpiti dal sisma e di nomi e
foto dei deceduti a causa del terremoto; fa una
112
Cfr. Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è più,
Cap. VI, Il tramonto della civiltà contadina,CITY PRINT, Avellino
2010, pp.80-89;
89
Filomeno Moscati
cronaca minuziosa di beghe più che polemiche
paesane; compila elenchi di chiese, opere d’ arte,
edifici scolastici danneggiati e numero di prefabbricati
assegnati; si dilunga su impressioni ed emozioni rese
da vari personaggi, che hanno vissuto, con
trepidazione e timore facilmente comprensibili, il
momento tragico del terremoto; si sofferma sul
terremoto come fenomeno, sui metodi di misurazione
della violenza delle scosse telluriche, sul modo di
comportarsi durante e dopo la scossa; fa l’elenco di
tutti i terremoti del mondo, di tutti quelli dell’ Italia e
dell’ Irpinia; termina con l’ elenco completo delle
Amministrazioni dei tre Comuni di Serino, cui fa
seguito una corposa documentazione fotografica.
È difficile, dopo la lettura di questo libro, stabilire se
esso debba essere classificato cronaca, inchiesta
giornalistica, raccolta di notizie scientifiche e non, di
dati statistici, di regole di comportamento e di varia
umanità; ma c’è in esso un capitolo che gli imprime
l’impronta di un libro di carattere storico: il secondo,
intitolato “Bilanci e Polemiche”.113In questo capitolo è
racchiusa la storia delle vicissitudini che travagliarono
il Comune di Serino nel periodo in cui si decidevano le
sorti della sua ricostruzione; vicissitudini che rivivono,
con una passione e una partecipazione impensate,
113
Romei Gennaro, SERINO quel 23 novembre 1980, Poligrafica
Ruggiero, Avellino 1982, pp. 19-34;
90
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
attraverso i resoconti di sedute del Consiglio
Comunale, di manifesti di partiti politici, di associazioni
e di categorie professionali; di decisioni e prese di
posizione, sempre dolorose e sofferte, di assessori,
consiglieri e uomini di partito, cui fa da sfondo l’eco
della voce,
afflitta e dolente, del popolo dei
terremotati senza casa. 114
Il terzo libro della serie “SERINO” è intitolato
“SERINO. Personaggi illustri”. Il libro contiene
trentasette brevi biografie di Serinesi,che, a giudizio di
Gennarino, hanno dato lustro al paese natio con la loro
vita e le loro opere; biografie strutturate per casali, fra
i quali sono, giustamente, inclusi quelli di San Michele
di Serino e Santa Lucia di Serino, oggi Comuni
autonomi.
Fra questi personaggi ve ne sono alcuni che sarebbe
meglio definire famosi, come:
Francesco Solimena, noto in tutto il mondo, per le
sue opere pittoriche, e incluso in ogni libro di storia
dell’arte;
Giuseppe Moscati, medico e scienziato insigne,
elevato alla gloria dell’altare per santità di vita e per
umana carità, oltre che per certezza di miracoli;
114
R0mei Gennaro, SERINO quel 23 novembre 1980, Poligrafica
Ruggiero, Avellino 1982, pp.19-34; Cfr. anche Moscati Filomeno,
Storia di Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005,
pp. 441,442;
91
Filomeno Moscati
Sabatino Rodia, un umile emigrante, oggi famoso per
aver dato vita ai celebri “Giardini di Watts”, opera
unica nel suo genere.
Tra i letterati vanno annoverati:
Cesare De Leonardis, “uomo dottissimo, poeta e
scrittore ai suoi tempi molto apprezzato”, autore di
drammi e opere teatrali di cui due, “Il finto incanto” e “
Il re superbo ovvero la superbia abbattuta”, sono state
riportate alla luce e stampate per opera di un’altra
illustre serinese , la professoressa Olimpia Pelosi,
docente di lingua e letteratura italiana all’Università di
Albany, NY, U.S.A;115
Salvatore Floro Di Zenzo (Padre Floro), poeta,
filologo e letterato di grandissimo valore, docente di
Filologia romanza nell’Università di Salerno;
Giuseppe Velli, professore ordinario di Filologia
medioevale e umanistica all’università di Venezia e,
poi, di Letteratura italiana all’Università di Milano;
Alfredo Marranzini S.J., teologo e pubblicista,
professore ordinario di Dogmatica alla Facoltà
Teologica di Napoli, promotore della beatificazione del
Prof. Giuseppe Moscati e del Sac. Eustachio
Montemurro, scrittore e pubblicista.
115
C. De Leonardis, Il finto incanto. Testo critico, introduzione e
note a cura di Olimpia Pelosi, Edizioni W M, Atripalda, 1984;
C. De Leonardis, Il Re Superbo. Testo critico, introduzione e
note a cura di Olimpia Pelosi, Le Pleiadi Editrice, , Pompei 1987;
92
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Nel gruppo dei giuristi vanno inclusi:
Gabriele Pescatore, professore di Diritto della
Navigazione all’Università di
Roma, magistrato,
Presidente della Cassa per il Mezzogiorno, Presidente
di Sezione del Consiglio di Stato, Giudice
Costituzionale;
Sabatantonio Roberto, magistrato insigne, avvocato
generale presso la Corte di Cassazione;
Filippo Masucci, pensionato col titolo di Presidente
della Corte di Cassazione, autore di un prezioso studio
storico sul suo paese nativo: Serino nell’Età antica;
Francesco Iannelli, dirigente dell’Ufficio giuridico
costituzionale della presidenza della Repubblica
durante la Presidenza di Giuseppe Saragat, Senatore
della Repubblica, Presidente di Sezione del Consiglio di
Stato.
Nel numero dei giornalisti vanno inclusi:
Biagio Agnes, ideatore di famose rubriche televisive
a carattere divulgativo e, poi, Direttore Generale della
R. A. I. - T. V.;
Mario Agnes, Direttore dell’ Osservatore Romano,
giornale a diffusione mondiale e organo ufficiale della
Santa Sede; professore di Storia del Cristianesimo all’
Università di Roma.
Dei medici fanno parte:
Alfonso Masucci, maggiore medico della Marina,
Direttore dell’Ospedale Civile di Avellino, studioso
93
Filomeno Moscati
della malaria, scrisse un libro prezioso per la storia di
Serino: Serino (ricerche storiche);
Salvatore Molinari, medico condotto dei Comuni
consorziati di Santa Lucia e San Michele d Serino,
sindaco di Serino per dodici anni;
Orazio Rutoli, tenente generale medico;
Giuseppe Greco, specialista in neurologia e
psichiatria, maggiore generale medico;
Antonio Rutoli, libero docente di Semeiotica
chirurgica, specialista in Chirurgia Generale e in
Chirurgia Toracica, ammiraglio ispettore medico,
scrittore.
Nel novero degli avvocati vanno inclusi:
Raffaele Perrottelli, eroe della prima guerra
mondiale, medaglia d’oro al valor militare;116
Raffaele De Feo, grande benefattore del popolo
serinese;
Vincenzo Cotone, avvocato e uomo politico di non
comune levatura, Presidente dell’Ordine degli avvocati
e del Consiglio Provinciale di Avellino;117
Ugo Girone, laureato in legge, comunista del
gruppo di Amedeo Bordiga, fu fra i fondatori del
Partito Comunista d’Italia, nel 1921, di cui fu segretario
116
Cfr. Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa dii S.
Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, LUBIGRAF,
Montoro Inferiore (Av) 2007, pp. 205,206;
117
Cfr. Moscati Filomeno, idem, pp. 203, 204;
94
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
interregionale
per l’Italia meridionale, redattore
dell’Unità, esule a causa delle sue opinioni politiche.118
Vanno inclusi fra i militari:
Giovanni ed Enrico Rizzo, fratelli, entrambi generali
dell’ Esercito italiano.
Fra i sacerdoti vanno inseriti:
Mariano Vigorita, parroco di San Michele di Serino
e Primicerio di Solofra, sacerdote dalla vita esemplare;
Orazio Crisci, parroco di Ferrari di Serino, uno di
quegli eroi sconosciuti esaltati da Gennaro Romei;
Generoso Raffaele Crisci, parroco di S. Maria delle
Grazie di Salerno, Vicario generale della diocesi di
Salerno; pubblicista e storico di grande valore scrisse,
fra l’ altro, due opere monumentali: “Salerno Sacra” e
“Il Cammino della chiesa salernitana nell’opera dei suoi
vescovi”;119
Alessandro Tramaglia, sacerdote e insegnante,
destituito dall’insegnamento perché settario;
Ambrogio Cemino, sacerdote vicino ai poveri,
ucciso per amore della verità;
Carmine Mariconda, sacerdote, carbonaro,
prigioniero politico;
Giuseppe De Mattia, parroco di San Michele di
Serino, pubblicista e teologo, fu ucciso da uno
118
Cfr. Moscati Filomeno, idem, pp. 207-209;
Cfr. Moscati Filomeno, Generoso Crisci,
ricercatore, storico, 2008;
119
95
parroco,
Filomeno Moscati
squilibrato, che, nella sua mente malata, aveva
immaginato di essere da lui perseguitato.120
La categoria dei sindaci ha due rappresentanti:
Sabato Perreca, sindaco di Serino, esiliato perché
carbonaro e fondatore di vendite;
Raffaele Rocco, il sindaco che amava stare in mezzo
al popolo.
Fra i musicisti va incluso:
Antonio Sarno, clarinettista di talento fu
compositore e concertista, direttore di una banda
musicale, universalmente nota come “banda ‘e
stucchione” a causa della forma del suo celebre
clarinetto. 121
La Carboneria ebbe a Serino numerosi
rappresentanti; fra di essi Gennaro Romei ha ritenuto
illustri, oltre quelli già citati:
Raffaele Anzuoni, giacobino e rivoluzionario nel
1899, esule, poi carbonaro e uno dei principali
protagonisti dell’ insurrezione del 1820;
Carmine Antonio Iannelli, carbonaro e esule, morto
da detenuto nell’isola di Ponza;
120
Cfr, Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S.
Micheke Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, LUBIGRAF,
Montoro Inferiore (AV), pp. 203,204;
121
Cfr. Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S.
Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri,a cura del Comune
di San Michele di Serino, LUBIGRAF, Montoro Inferiore (AV) 2007,
pp. 204, 205.
96
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Donato Lanzillo, carbonaro ed esule;
Tommaso De Filippis, settario e fondatore di
vendite, fu tra i grandi protagonisti dell’insurrezione
del 1820, accanto a Lorenzo De Concilij;
Carlo De Filippis, settario dalla vita avventurosa;
Carmine Mariconda, carbonaro, imprigionato dopo
l’insurrezione del 1820.
Dopo la nutrita lista di settari e carbonari, già esaltati
da Gennarino per il loro coraggio rivoluzionario nel
libro “1820 I rivoluzionaridi Serino”,122 mi è parsa
strana l’assenza, in questo elenco, di Roberto Pasquale
Marino,nato il 22-3-1888 e morto, indossando la
camicia rossa, “nel combattimento del 26 dicembre
1914 a fianco di Bruno Garibaldi nelle Argonne e
accanto a lui sepolto”; gesto che fu immortalato dal
famoso poeta francese Edmund Rostand in una
celebre poesia intitolata , per l’appunto, La camicia
rossa.123
Ho rtenuto, inoltre, doveroso completare l’elenco,
citando, succintamente, anche quei coraggiosi, che, nel
corso della prima guerra mondiale, avendo onorato
Serino con il loro valore, sono stati ritenuti degni di
122
Romei Gennaro, 1820 Irivoluzionari di Serino, Poligrafica
Ruggiero, Avellino 1981;
123
Albo d’oro degli irpini caduti dispersi e decorati, Provincia di
Avellino, 1928, p. 970; Cfr. anche Moscati Filomeno, Storia di
Serino, Edizioni Gutenberg, Penta di Fisciano (SA) 2005,
p.399,400;
97
Filomeno Moscati
essere decorati con la medaglia d’argento al valor
militare :
De Vivo Paolo, n. 10 luglio 1888;
Di Giacomantonio Giosuè, n. 3 luglio 1887;
Melillo Liberato, n. 10 dicembre 1897;
Tesco Enrico, n. 9 marzo 1897;
Ziccardi Gennaro, n. 26 novembre 1895; 124
Tra gli uomini illustri, una menzione particolare
dev’ essere riservata al medico Salvatore Molinari. La
menzione è giustificata non tanto dalla circostanza che
egli sia stato sindaco e protagonista della storia
amministrativa e politica di Serino per dodici anni
(1908- 1920) quanto dal fatto che egli ci ha lasciato
(attraverso Gennaro Romei che l’ha pubblicata senza
aggiunte o correzioni) una sua breve autobiografia che
ha per titolo “I miei ricordi”.125Questa biografia
costituisce un documento importante per la
comprensione
degli
avvenimenti
politico
–
amministrativi di Serino in quegli anni; una specie di
diario in cui, egli dice: “Ho deciso di lasciare un ricordo
scritto degli avvenimenti contemporanei, di cui sono
stato testimone e spesso, attore,” e “di scrivere queste
124
idem, pp. 973,974,975;
Romei Gennaro, “I MIEi RICORDI”
Molinari,Poligrafica Ruggiero, Avellino 1993;
125
98
di
Salvatore
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
pagine senza alcuna pretesa letteraria, ma pensando
solo ad esprimere la verità”.126
Il diario, scritto da Salvatore Molinari, oltre a lasciarci
uno spaccato del modo torbido e pieno d’intrighi e
malversazioni, con cui si svolgevano le elezioni
comunali e provinciali a quei tempi, descrive anche il
progresso civile, lento e faticoso, compiuto da Serino
con l’apertura di due uffici postali dislocati nelle
frazioni periferiche più popolose, e l’iter
amministrativo e legale, travagliato e pieno d’insidie,
che il Molinari dovette compiere perché il progetto per
l’acquedotto della Tornola fosse approvato. Non vi può
essere, perciò, alcun dubbio sul fatto che il lavoro
fondamentale (progettuale e legale ) per la costruzione
dell’acquedotto
sia
merito
esclusivo
dell’
Amministrazione Molinari, anche se l’effettiva
costruzione (ritardata dallo scoppio della prima guerra
mondiale) e inaugurazione siano avvenute, per cause
burocratiche e finanziarie,solo nel 1929, nell’epoca in
cui il Comune fu retto da due commissari prefettizi,
Petrocelli e Gattucci. 127
Il quarto libro della serie Serino si intitola:
126
Romei Gennaro, “I MIEI RICORDI” di Salvatore
Molinari,Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1993, p.5;
127
Cfr. Moscati Filomeno, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni,
Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 374;
99
Filomeno Moscati
“ SERINO Storia e tradizioni, fiabe e canti”.128
Questo libro può essere classificato come una
ristampa di molte pagine dei libri precedenti, con
l’aggiunta degli elenchi dei parroci di tutte le
parrocchie del serinese, ma, a leggerlo con attenzione,
qualcosa d’interessante, o di non detto in precedenza,
si può rinvenire anche in questo libro. Pur annotando
la presenza di notizie sul Parco faunistico, sul
Brigantaggio e su Laurenziello, 129le più interessanti
novità contenute in questo libro sono , a mio giudizio,
quelle legate alla cosiddetta cultura popolare e alle
tradizioni e usanze della civiltà contadina
precedentemente descritte, con un amore facilmente
avvertibile, da Gennarino Romei.
La prima è un completamento della descrizione del
rito pasquale della rosamarina, così com’esso veniva
effettuato nei casali di Ferrari e Ponte di Serino.
Gennarino precisa, infatti, che: “A Ferrari i ramoscelli
di rosmarino si appendevano alle porte delle case nel
pomeriggio della Domenica in Albis. Ad appenderli
erano i componenti la Commissione della festa della
Madonna del Carmine. E mentre questi l’appendevano,
128
Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e
canti,Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992;
129
Romei Gennaro,Serino. Storia e tradizioni fiabe e canti,
Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992, pp.52, 57-60;
100
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
“Tommasu ‘o Sensu” di Ponte, al suono di nacchere e
tamburelli così cantava:
Nu iuorno che ghiucava li nucelle
‘na ronna ra là ‘ncoppa mi chiamavu.
Lassai lu iuoco e mi ni ietti lane
Ma li teneva li porte appannate.
Rinto ‘nci steva ‘nu liettu apparatu
cuscini r’oro e mantu ri villutu,
e rintu ‘nci steva ‘na ronna curcata
nun era ni spugghiata e ni bistuta.
Iella mi risse: votati e stu latu.
Mi ’nci vutai prontu e risulutu.
Quannu fu ‘a matina mi ‘ncuntrai c’o frate.
Sorita m’è chiamatu e iu aggiu trasutu.
*
Quant’è bellu esse ‘nzuratu,
avere ‘na mugliere piccirella.
Vene ‘nu iuornu e n’ai che li rane,
l’accuordi cu ‘na vranca ri nucelle.
La ronna è com’e ‘na nucella:
si nu la rumpi , nu la puoi mangiane.
Cusì è la ronna quann’è piccirella,
si nu la stringi, nun ‘a puoi vasane.
*
Rumenica matinu facivu l’annu,
101
Filomeno Moscati
sintietti nenna mia pubblicane.
Steva rintu e mi n’ascietti fore,
nun mi putietti mancu addinucchiane.
Mi mittietti a lu cantone ri lu muru,
l’uocchi chiangevano com’ a doie funtane;
Curri uaggliotta cu su maccaturu,
vienimi a nittà sti lacrime amare.
*
Vurria arriventà pere ri spina,
miezz’e Firrari mi vogghiu piantane;
quannu passa Ninnella mia,
pi la unnella la vogghiu affirrane.
Iella si vota e rice: Amore miu
Viri sta spina si mi vo lassane.
Tannu ti lassu, tannu ti lassu,
quannu stu core tuio a me mi rai.
*
‘Ngiulinella ri lu Paravisu,
viatu a chi ti ra lu primu vasu.
Cu si bell’uocchi e cu’ ’ stu bellu visu
ra l’ariu fai calà quatt’ Angiulisti
e li Santi ri lu cielo fanno festa.
E chestu ti ricu, ‘Ngiulinella bella
e chestu ti ricu, Francischiellu caru:
102
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
amativi tutti rui e chi resta resta.
*
Ronna, nun t’avantà ca m’ai lassatu,
iu puru m’avantu e ‘nata cosa:
rintu casita toia nci aggiu trasutu
e m’aggiu mangiatu chellu c’aggiu vulutu.
M’aggiu mangiatu pressiche granate
secondo l’appititu ca tinevu;
‘nci aggiu rumastu roie pere ammusciate,
ralle a su malattiere ch’è binutu.130
Questi stornelli costituiscono il completamento del
rito della rosamarina , perché, al dono dell’amuleto
vegetale con la chiamata augurale dei membri della
famiglia, spesso venivano aggiunti stornelli, che, a
seconda dell’estro e delle capacità estemporanee dei
cantori, assumevano contenuti e significati vari, che
andavano, in relazione ai luoghi e alle circostanze,
dalle velate , e a volte manifeste espressioni d’amore,
(com’è quella che termina dicendo:”Tanno ti lasso,
tanno ti lasso, quannu stu core tuio a me mi rai”; o
quella dell’innamorato deluso e abbandonato, che,
nell’apprendere che il suo amore sposa un altro, versa
lacrime amare) a quelle più esplicite e addirittura
130
Romei Gennaro, SERINO, Storia e tradizioni fiabe e canti,
Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992, pp. 124,125:
103
Filomeno Moscati
salaci,131come si evince dagli stornelli cantati da
“Tommasu ‘o Sensu” e, in modo particolarmente
significativo, dal primo e dall’ultimo di essi, pieni di
allusioni e doppi sensi facilmente comprensibili.
In essi è, inoltre, presente anche il tema della bella
mugliere, paragonata in uno stornello a una nocciola
(“Quant’è bellu… avere ‘ na mugliere piccerrella”,
perché “La ronna è com’e ‘na nucella, si nu la rumpi nu
la puoi mangiane”e “quannu è piccirella, si nu la stringi
nun‘a puoi vasane”) e poi, in un altro stornello, con
versi che richiamano la Cavalleria Rusticana di
Mascagni, addirittura a un angelo disceso dal cielo.
Il tema della mugliere bella ma povera, presente
anch’esso nei canti della rosamarina, Gennarino lo
inserisce, invece, nella terza parte del libro, fra i canti
popolari serinesi, nel sonetto intitolato <<‘E ROIE
CURRENTI>>,132
Ѐ proprio questa terza parte, intitolata FIABE E CANTI
POPOLARI. PROVERBI, quella più interessante e valida
del libro, perché costituita da fiabe, canti popolari e
131
F. Capriglione, G. De Feo, N. Farese, A. Feola, G: Iallonardo ,‘A
ROSAMARINA, a cura del Centro Tre Tigli di Santo Stefano del
Sole, Stampa Editoriale s. r. l., Avellino 2008, pp.15, 16 ;
Vedi anche Moscati Filomeno, Ricordo di un paese che non c’è
più, CITY PRINT, Avellino 2010, p. 44;
132
Romei Gennaro, Serino. Storia e tradizioni fiabe e canti, ‘ E
ROIE CURRENTI Poligrafica Ruggiero s. r. l., Avellino 1992, p. 301;
Cfr. anche Moscati Filomeno, RICORDO di un paese che non c’è
più, CITY PRINT, Avellino 2010, pp. 44, 45;
104
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
proverbi, in dialetto, che sono l’espressione più
genuina e veritiera della cultura della civiltà contadina,
che è stata la civiltà di Serino fino al terribile terremoto
del 1980.
Egli però, anche inconsciamente, deve essersi reso
conto del tramonto di questa civiltà, perché la fa
precedere da questo breve ma toccante
SALUTO DI COMMIATO :
Qui, o amici serinesi, ha termine il mio lavoro. Mi
auguro che qualcuno dopo di me (ormai sono vecchio)
continui a scrivere la storia di questa meravigliosa
Valle che i forestieri ammirano e che i serinesi amano.
Ed ora divertitevi a leggere le fiabe da me scritte in
dialetto serinese con la traduzione in lingua italiana. E,
poi, spegnete il televisore, non sempre benefico e
raccontatele ai vostri bimbi, ai vostri nipotini che
certamente si divertiranno come ci divertivamo noi,
quando durante le sere invernali, accoccolati intorno al
focolare, i nonni, dopo la recita del Rosario, ce le
raccontavano. Altre sessantuno fiabe sono inserite
nell’altro mio libro dal titolo “ ‘Nci steva ‘na vota…” E
con le fiabe leggete anche i Canti, che sono belli e
armoniosi. Sono canti popolari, canti antichi: gli stessi
che le nonne cantavano spigolando o raccogliendo le
castagne. Mi accommiato da voi, o amici serinesi,
porgendovi un affettuoso saluto augurale, quello
francescano: PACE E BENE.
105
Filomeno Moscati
Ѐ questo toccante commiato a far pensare che egli
debba essersi reso conto del tramonto di quell’antica
civiltà ( di cui la sua personalità era intrisa e alla cui
cultura era rimasto legato per una vita) tanto da fargli
ritenere necessario dover tradurre in italiano, per gli
adulti e non già per i bambini, quelle fiabe in dialetto,
che avevano popolato i suoi sogni nell’infanzia e
consolato il suo animo nella vecchiaia, facendogli
sognare la rinascita di un mondo che mai più tornerà;
un mondo in cui i bimbi credevano agli orchi e alle
fate; un mondo magico capace di suscitare in un altro
serinese, francescano e poeta, Salvatore Floro Di
Zenzo, un’immagine di sogno che può rivivere solo nel
ricordo dell’anima, poiché:
<<il quadro s’è perduto in riva al sogno,
nel ricordo è rimasta solo l’anima a cercare.
Nel mio orto nasceva la luna,
avevo paura dell’ombra accanto al letto.
C’erano le fate attorno al campanile
che suonavano l’ ore vuote della notte.
Nel silenzio, come mare senza riva,
trasalivano, tra i rami contorti del giardino,
i demoni chiamati dalla mamma
ai miei diurni capricci.
Ѐ passato tanto tempo.
Rimane ora nel paesaggio
il filtro della luna, il fiume dal letto bianco.
106
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Ma le fate sono fuggite sul filo del quadrante.
Mi richiama il tempo che fu
solo una ciocca di capelli bianchi.133
Degni di considerazione sono alcuni dei canti popolari
serinesi riportati da Gennarino Romei. Essi hanno una
struttura poetica non perfettamente definibile, che
può essere assimilata a quella di un sonetto
incompleto, formato da due sole strofe di quattro versi
a rima alternata (con schema AB-AB non sempre
rigorosamente osservato, come si evince già dai canti
di Tummasu ‘o Sensu); ma ciò che li rende degni di
considerazione non è tanto la struttura formale, né la
rima, quanto il sentimento schiettamente popolare
che li anima, come accade in quello cui Gennarino ha
dato per titolo “O IARBU”, ma che sarebbe stato
meglio avesse intitolato L’Arberu, perché è l’albero
intristito (metafora dell’ animo del cantore) , con le
foglie che hanno perso i colori e i frutti il sapore da
quando “Nenna mia è cagnatu amore”, a costituire il
tema del canto, che dice:
Quannu ti susi la matina a l’arba,
fai asciugà l’acquazzu ‘ncoppa a l’ereva,
quannu cammini cu si belli iarbi,
li fai ammaturà li frutti acerbi.
133
Moscati Filomeno, Salvatore Floro Di Zenzo, francescano
poeta e poeta francescano, EUROPRINT 2000 SRL, Sirignano (AV)
2008, pp. 28, 29;
107
Filomeno Moscati
L’arberu ca iu teneva fu ‘o chiù caru,
mi l’arraccuava cu li mii sururi;
venne lu vientu e ni rumpivu li rami,
li fronne tramutaru ri culuri.
Li frutti roci arriventaru amari
e li perdieru li loro sapuri.
Picché nu’ bieni, morte, a dà riparu
mò ca Nenna mia è cagnatu amore?134
Se questo componimento può essere incluso nella
forma atipica di un sonetto di tre strofe, non vi è
dubbio che quello intitolato “ZI MUNACELLA” è un
sonetto da cantare come uno stornello, di quelli che si
cantavano sotto la finestra dell’ innamorata, in quanto
strutturato su due strofe a botta e risposta.
Esso dice:
Si monica ti fai, n’aggiu rilore.
Rimmi a quale cummentu ti ni vai?
Lettere ti n’aggia mannà una o roie,
rimmi zi munacella comu stai?
E comu vogghiu sta? Stau ‘npassione;
aggiu perduto chi ‘e core m’amava.
Statte, amore mio, statte cuntentu;
chi t’è lassatu t’amirà pe’ sempe.
134
Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni fiabe e canti,
Poligrafica Ruggiero s. r. l. , Avellino 1992, p. 298;
108
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Allo stesso filone possono essere ascritti altri due
canti intitolati, il primo, l’ADDIU:
Sera passai pe’ ‘nu vicu r’oro,
viriette la mia bella ca cuseva;
cuseva no picca rintu e ‘nu picca fore,
sulu la ianca manu si vireva.
Iu li ricietti: Addiu, culonna r’oru,
comu ti fire ‘e stà senza ri me?
Ella mi risse nun è tiempu ancora,
ca quann’è tiempu. lassa fa a me;
il secondo, intitolato A L’INFERNU:
Ietti a l’Infernu e mi ricieru: Canta!
Nun putietti cantà pi’ trimente.
‘Nc’era na ronna ca era bella tantu,
ca cumbatteva cu lu fuocu ardente.
Iu l’addummannai comu e quanu:
Ronna picché li pati sti turmienti?
Ella si vota cu n’amaru chiantu:
Nun aggiu fattu l’amore e mò mi pentu.
Una considerazione particolare va data anche a
quelli che Gennarino ha intitolato Canti di ninna nonna, in cui ha riportato i versi di alcune melodie che
inducevano i bambini al sonno; i canti erano, in realtà,
delle filastrocche cantate, con voce dolce e bassa,
seguendo un ritmo lento scandito o dal dondolare
109
Filomeno Moscati
della culla, o da quello del corpo della madre che
teneva in braccio il bambino.
Le filastrocche più comuni erano in genere di due
tipi: quelle che incominciavano con un’invocazione al
sonno; un’invocazione caratteristica e sempre uguale,
nonna nonnarella, cui seguiva la richiesta, al dio
pagano Sonno o a suo figlio Morfeo, di indurre il
bambino al sonno:
Nonna, nonna nonnarella
Adduormimmello a stu criaturu bellu.
Adduormimmellu mò ca è piccirillo
Ca quannu è gruossu s’addorme a pi’ illo;
oppure quelle che non avevano nessuna connessione
col sonno, salvo quella di emettere suoni ritmici,
ripetitivi, capaci d’indurre al sonno con la loro
monotonia, come la filastrocca della pecorella:
Nonna nunnarella,
‘o lupu s’è mangiatu ‘a picurella.
Picurella mia comu facisti,
quannu ‘nmocca ‘o lupu ti viristi.
Ho ritenuto opportuno menzionarle perché esse,
attraverso il ricordo che ce ne ha tramandato
Gennarino Romei, costituiscono una testimonianza
importante e caratteristica di quella civiltà contadina
che adesso esiste come realtà puramente marginale;
una testimonianza dei tempi in cui per addormentare i
bambini si usava deporli in una culla di legno, costruita
110
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
dal falegname, o, per quanto riguarda la gente più
umile , in una zana costruita, dai cestellari di Ferrari
di Serino, intrecciando fra loro sottili strisce di legno di
ontano o di castagno; una cuna e una civiltà di cui
Giovanni Pascoli ci ha lasciato questo bellissimo
ricordo:
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti una zana dondola pian piano.
Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;
canta una vecchia, il mento sulla mano.135
Il libro termina con una sezione dedicata ai proverbi,
che sono anch’essi espressione, e fra le più alte, della
saggezza e della cultura della civiltà contadina , che
costituisce, come abbiamo visto, la parte più
importante di questo libro. Ne riportiamo alcuni, fra i
più espressivi, perché strettamente legati alla vita
quotidiana del contadino:
A acina a acina si fa ‘a macina;
‘A malereva cresce priestu;
A lavà ‘a capo o ciucciu, ‘nci pierdi acqua e sapone;
‘A Canilora: stata rintu e biernu fore;
A caulu sciurutu quantu chiù li fai, chiù è pirdutu;
‘A campana bona si sente ra luntanu;
Campa cavallu ca l’eriva cresce;
Chellu ca simmini, chellu raccuoggni;
135
Pascoli Giovanni, Poesie; Myricae, Orfano, Luigi Reverdito
Editore, Varese 1995, pp. 38,39;
111
Filomeno Moscati
Chi semmina vientu, raccognie timpesta;
Cientu nienti accirieru ‘nu ciucciu;
Co tiempu e c’a pagghia ammaturanu ‘e nespula;
Cunzigghiu e vorpe, rammaggiu e ialline;
E l’eriva moscia, si ni annettunu tutti ‘o culu;
E Santi: ‘a neve pe’ campi; e Muorti: ‘a neve pi’
l’uortu;
‘O vinu buonu nun ave bisuognu e frasca;
‘ O sparagnu nun è mai guaragnu;
‘O supierchiu rompe ‘o cupierchiu;
Primu e verè ‘o serpu, già chiama Santu Paulu;
Quatt’ aprilante, iuorni quaranta;
Quannu trona, chiove; quannu lampea, scampea;
Ricivu ‘o pappice vicin’a noce:
-Rammi tiempu ca ti spirtosu;
Si marzu ‘ngrogna, ti fa caré l’ogna;
Si viernu nu birnéa, stata nu statéa;
Tu e parlà sulu quannu piscia ‘a iallina;
Vole fa ‘o piritu chiù r’o culu;
Viesti cippone, ca pare barone;
Si nun’è chillu cane, è chillu pilu;
Quannu nun‘nc’è ‘a iatta, ‘o sorice abballa.136
Nonostante il toccante commiato rivolto ai suoi
compaesani serinesi, l’attività di pubblicista di
Gennarino non si arrestò; essa continuò seppure in
136
Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti,
Poligrafica Ruggiero s.r. l., Avellino 1992, pp. 311-313;
112
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
maniera ridotta con la pubblicazione di alcuni opuscoli.
Il primo di questi opuscoli è una breve biografia del
Prof. Giuseppe Moscati, il medico santo di origini
serinesi.137
Il secondo opuscolo, che ha per titolo Amici e Sirinu
viriti ogni mese che vi rice, è composto da dodici
composizioni poetiche in dialetto serinese, in cui i
mesi dell’anno, parlando in prima persona (Iu songu
Innaru; io songo Frivaru e così via) fanno il proprio
ritratto, cui segue un proverbio. Il libro, in cui l’autore
si firma sia a stampa che a penna col nome di
Gennarino,138 è stato scritto con lo scopo dichiarato
“di trasmettere ai posteri il linguaggio dei nostri
padri, che va purtroppo scomparendo.” A parte ciò,
l’importanza di quest’opuscoletto sta nell’immagine
del frontespizio, che riproduce il gonfalone
comunale, e nell’appendice, che illustra il perché di
quell’immagine; appendice che riportiamo per intero
perché la riteniamo importante, oltre che veritiera e
condivisibile: Serino dal doppio stemma.
Lo Stemma di Serino era tradizionalmente
rappresentato da una Sirena a “una sola coda”che
reggeva con la mano sinistra un ramoscello d’olivo.
137
Romei Gennaro, Prof. Giuseppe Moscati, il medico santo,
ottobre 1997;
138
Romei Gennaro, Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice,
1997, p.3;
113
Filomeno Moscati
Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice
Nota introduttiva
Tale emblema trova riscontro nell’articolo 8 dello
Statuto Comunale e sul sigillo originale ministeriale
(timbro metallico) custodito nella Segreteria
Comunale.
Ma circa dieci anni fa, se non erro, allo Stemma fu
apportata una modifica; la Sirena ad “una sola coda”
venne trasformata in Sirena “ a due code”.Fu questo
un errore veramente grave in quanto la Sirena “ a due
code” non esiste in mitologia. Ed è sciocco chi
114
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
asserisce che la Sirena ad “un sola coda” vive nei mari
e quella a “due code ”nei fiumi.
La modifica fu dovuta probabilmente al fatto che
sulla pietra centrale del portone d’ingresso
dell’architrave del vecchio edificio comunale, abbattuto
nel 1974, era scolpita la Sirena a “due code” senza,
però, riflettere che tale bassorilievo, datato 1872, non
era altro che il prodotto dell’arte dello scalpellino.
L’ Amministrazione Comunale precedente all’attuale,
accortasi dell’errore, verso la fine della legislazione
fece sostituire il gonfalone con la Sirena a “due code”
con quello ad “una sola coda”.
La cosa, però, è rimasta ferma lì, in quanto ancora
attualmente sui fogli intestati e sui pubblici manifesti si
continua a stampare lo Stemma con la Sirena a due
code, la quale spicca anche sulla targa bronzea della
facciata del balcone municipale dove sventola il
tricolore di cui parleremo in seguito.
I Serinesi, signori Amministratori, non gradiscono il
falso Stemma con la Sirena a “due code” o, come
qualcuno ironicamente dice, lo Stemma con la Sirena
dalle “cosce sguarrate”.139
La nostra speranza è che qualcuno dei potenti, dopo
aver letto questa pagina, faccia riesumare il timbro
originale ministeriale, che dovrebbe essere l’unico ad
139
Romei Gennaro, Amici e Sirinu viriti ogni mese che vi rice, 1997,
pp. 29,30;
115
Filomeno Moscati
Copertina di Amici e Sirinu
avere valore, e rimetta le cose a posto. Il terzo
opuscoletto, che ha per titolo “IL CASTELLO FEUDALE e
I SIGNORI DI SERINO”, pur riportando notizie già
presenti nei precedenti libri di Gennarino, contiene
anch’esso, come i precedenti, una novità di rilievo: una
composizione in dialetto intitolata “Sirinu, terra
mia”;una composizione che è, oltre che un’espressione
d’amore, un vero e proprio inno al suopaese natale, e,
116
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
come tale è stato valutato e trasposto in musica dalla
Professoressa Teresa Vigorita.140
Il quarto opuscoletto è un’agenda, l’Agenda
dell’anno 2000, anno col quale si concludeva il
secondo millennio.
Del tutto insolito e assolutamente originale è
l’esordio di “Agenda 2000”, che è questo:
‘St’Agenda ca vi rialu
pi l’ ANNU GIUBILARE
tinitivella cara,
mai a nisciunu l’ita rà,
si no corula mi faciti pigghià.
Ciau, amici e Sirinu,
tanti aurii ra Gennarino.
Quest’agenda io la trovai, con mia grande sorpresa,
nella buca delle lettere della mia abitazione, e , come
vedi , caro Gennarino, io, dopo averla letta con gran
gusto, l’ho gelosamente custodita.
L’ opuscolo, dopo l’inno a Serino ( Sirinu, terra mia ) e
altre ripetitive notizie sulla sua storia, presenta la faccia
più interessante e più viva là dove “ i giorni richiamano
gli usi e le tradizioni, i ricordi e i progetti: sì che,
scorrendo il libro, affiora la vita, nei suoi
140
Romei Gennaro, IL CASTELLO FEUDALE e I SIGNORI DI
SERINO,1998,pp. 10-13;
117
Filomeno Moscati
multiformi aspetti, delle nostre comunità”,141come ha
scritto l’illustre serinese Prof. Gabriele Pescatore nella
sua Prefazione.
Ѐ la vita quotidiana che si svolgeva a Serino,
all’epoca in cui nei suoi casali era ancora radicata la
civiltà contadina, la cui cultura spirituale riaffiora
attraverso preghiere, fiabe, proverbi, canti,
filastrocche e indovinelli; cose in parte già pubblicate
da Gennarino nella sua precedente produzione libraria,
ma di cui alcune assolutamente nuove. Di esse (ancora
una volta tutte scritte in stretto dialetto serinese) le
più originali, e soprattutto le più rappresentative
dell’antica civiltà contadina del nostro paese, mi sono
apparse quelle che hanno per soggetto un tema
religioso, come “Le preghiere serali dei nonni” di cui
riporto i passi più significativi:
Verbu saccio e Verbu ricu,
Verbu fu nostru Signore
Ca pi’ li poviri piccaturi
Fu puostu ‘ncroce.
Croce mia quantu si bella,
‘nu vrazzu ‘ncielu e natu ‘nterra.
La trumbetta sunarrà
picculi e grandi a risuscità.
…………………………………….
141
Pescatore Gabriele, Prefazione, in Romei Gennaro, Agenda
2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1999, p. 3;
118
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Chi sape lu Verbu ri Dio si lu rica:
Chi nun lu saparrà, si l’abbia ra ‘mparà.
…………………………………
Chi lu rice pi’ bia e pi’ campi,
nun à paura e truoni e lampi
…………………………………..
Padre nostro, fere a Diu,
iu mi corcu ‘ndo liettu miu.
……………………………
E tu Angiulu ri Diu,
accumpagnimi ‘sta notte
ca sacciu la curcata
e nun sacciu la livata.
Mi raccumannu a Diu
e a la Vergine Maria.142
A leggerla con attenzione e sentimento questa
preghiera serale, di cui ho riportato i passi salienti, per
rendere meno slegata e più evidente e conseguente la
successione dei pensieri e delle frasi, appare
bellissima, soprattutto agli occhi di un cristiano che
vive la propria fede in Dio con la stessa serena fiducia
con cui la vivevano i nostri padri, che, considerandola
una grazia del Signore, non sottoponevano la sua
esistenza alla inutile prova dei filosofismi e dei sofismi
del mondo moderno, perché questo Dio d’amore e di
142
romei Gennaro, Agenda 2000, Poligrafica Ruggiero, Avellino
1999, pp. 30,31;
119
Filomeno Moscati
carità esisteva nei loro pensieri; cogito ergo est, Lo
penso e dunque c’è .
La preghiera inizia con i primi due versi del prologo
del Vangelo di Giovanni, Verbu sacciu e Verbu ricu,
Verbu
fu
nostru
Signore,
interpretandone
correttamente il significato come Parola di Dio, nel
primo verso, e come lo stesso Gesù nostro Signore che
la predicò nel Vangelo, nel secondo verso; un Signore,
che, per redimere l’umanità peccatrice, affrontò il
terribile supplizio della croce, nella sua duplice natura
di Dio (‘nu vrazzu ‘ncielu) fattosi uomo (e ‘n ‘atu
‘nterra), per la nostra salvezza nel momento in cui
squillerà la tromba del Giudizio Universale. Chi
conosce la parola di Dio la reciti, e chi non la conosce
la impari, perché se la recita mentre viaggia, o mentre
lavora, non teme fulmini e tempeste. Con la recita del
Padre Nostro e con fede in Dio mi corico nel mio letto,
pregando il Signore di inviare il suo Angelo a
proteggermi durante la notte, perché la mia fragilità è
così grande, che, pur essendo certo di essermi
coricato in piena salute (Ca sacciu la curcata) non son
certo se mi alzerò domani (ma nun sacciu la levata) e,
perciò, mi raccomando a Dio e alla Vergine Maria.
Le filastrocche avevano una parte importante nella
cultura della civiltà contadina. Le mamme le usavano
spesso, perché conciliavano il sonno sia con la
monotonia del ritmo che con la ripetitività delle
120
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
parole, come abbiamo visto nel commentare le ninne
nanne. Esse, inoltre, proprio con la ripetizione,
facilitavano nei bambini l’acquisizione di nuovi
vocaboli. Tra quelle funzionali a questo scopo c’era
questa riportata da Gennarino Romei :
‘N’ora rorme ‘o iallu,
roie ‘o cavallu,
tre ‘o birrocciante,
quatt’o mindicante,
cincu ‘o surdatu,
sei ‘o ‘nammuratu,
sette ‘o sturente,
ottu tutt’a gente,
nove ‘a signurina,
rieci ‘a pultruneria.143
Gennarino ritorna, in quest’Agenda 2000, anche sugli
stornelli per soffermarsi su un tipo di stornello non
trattato prima, quello a dispetto, come questo:
- Nammurata mia,
t’aggiu amatu ri core e sempe t’amu.
- Statti cittu tu, iallu spinnatu,
ra quale masunale si fuiutu?
Tieni li cosce ca parunu vietti
E cu ‘sti mustazzielli mi pare ‘na iatta,
Si vuò parlà cu micu, parlici cittu,
143
Romei Gennaro, Agenda 2000,Poligrafica Ruggiero, Avellino
1999, p. 47;
121
Filomeno Moscati
si no ricu iu chellu ca mammeta è fattu.
- E tu mancu a fai na bona fine!
Purtavi pressa pi’ ti marità.
Nun ieri pigna r’uva ‘nfracidata
£ mancu ‘na otte e vinu ca ti pirdivi,
- Statti cittu tu, ciucciu c’arragli,
Ca si vengu locu ti mettu ‘a vriglia,
roppa ‘a vriglia ti mettu ‘a sella,
e ropp’a sella ti montu a cavallu.144
Gennarino Romei inserisce tra i canti popolari anche
la Ciccuzzella. In realtà questa era una canzone satirica,
anzi addirittura di sfottò, che, al tempo in cui era
sindaco il dottor Salvatore Molinari, i vincitori delle
elezioni cantavano ai vinti come una serenata. Il
motivo musicale era quello del ritornello di una
celebre canzone popolare napoletana allora in auge,
“Ciccuzza”, quasi certamente di origine popolare anche
se i versi sono stati attribuiti a Domenico Bolognese e
la musica a Pietro Labriola.
Il ritornello di questa canzone napoletana dice:
Ah, brutta sbriffia!
Sì chiù leggia d’una penna,
Si bannera d’ogni antenna,
Nun ne voglio sapé chiù!
Nun fuie iu ma fuste tu;
144
Romei Gennaro, idem, p. 48;
122
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Restarraie comme a cucù!145
Il ritornello della “Ciccuzzella” riportata da Gennarino
Romei dice invece:
Ciccuzzella r’a mamma soia
contami ‘o fattu comu fu,
comu fu.
Comu fu e comu nun fu,
‘a veste e seta l’avisti tu.
Gennarino, per verità, ha ingentilito di molto l’ultimo
verso del ritornello della Ciccuzzella, che, essendo in
realtà assai più crudo, diceva così:
Ciccuzzella ‘ra mamma soia
rimmi ‘o fattu comu fu
comu fu, comu fu.
Comu fu e comu nun fu,
‘o ….. ’nculu l’avisti tu!
L’avisti tu!! L’avisti tu!!!
L’Agenda 2000 termina con la biografia di Pasqualino
Romei, un personaggio da aggiungere a quegli
sconosciuti eroi della vita quotidiana
citati da
Gennarino Romei ne “ I RICORDI” della mia vita.
Pasqualino Romei, di professione orologiaio, ma
competente anche in materia di oreficeria, era un
personaggio emblematico di quella civiltà contadina di
cui Gennarino aveva conservato la memoria nelle sue
145
La canzone napoletana, trascrizione di Vincenzo Di Meglio, De
Agostini, Novara 1994, p.36/10:
123
Filomeno Moscati
pubblicazioni attraverso la descrizione di tradizioni, riti
e usanze.
Emigrato con i genitori negli Stati Uniti d’America,
tornò giovanissimo in Italia, dove esercitò la
professione di orologiaio-orefice con grande
competenza, ma, nel contempo, con altrettanto
grande onestà e rettitudine, guadagnandosi la stima
dei suoi compaesani, che, essendo consigliati sempre
per il meglio, si affidavano a lui con incondizionata
fiducia. Fu anche rinomato cacciatore di pilo ( ossia di
selvaggina stanziale delle nostre contrade come la
lepre, la volpe e il cinghiale) celebrato sia per la sua
bravura individuale che per quella dei suoi cani
(indispensabili in questo tipo di caccia) da lui allevati
con amore e competenza. Erano queste le doti che
facevano di lui una personalità eminente di quella
civiltà contadina che teneva in gran conto, oltre le doti
professionali, l’onestà, la rettitudine e anche le attività
venatorie, ritenute indispensabili per proteggere
campi coltivati e armenti dagli attacchi della
selvaggina. Lo stesso Gennarino, che cacciatore non
era, essendo pienamente integrato nella civiltà
contadina in cui viveva, riteneva l’attività venatoria
così importante da dedicare all’argomento una poesia
in vernacolo in cui esaltava la bravura del suo amico
Pasqualino:
124
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Minù!
Nove corpi tu sparasti
e nisciunu ni cugghisti,
ma ‘o lepuru murivu
pecché Pasqualinu l’accirivu.
125
Filomeno Moscati
126
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
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129
Filomeno Moscati
130
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
III
‘Nci steva ‘na vota
La pubblicazione più importante di Gennarino Romei è,
a nostro avviso, quella che ha per titolo “Nci steva na
vota”.
Ѐ una raccolta di 61 fiabe, tutte in stretto dialetto
serinese con l’evidente impronta della variante del
casale Ferrari, casale in cui Gennarino era nato e
cresciuto. Anche questo libro ha un’appendice in cui
sono riportati, così come accade nelle
altre
pubblicazioni di Gennaro Romei, canti popolari, canti
sacri, preghiere serali, canti di ninna – nonna,
barzellette, indovinelli, proverbi, e, infine, versi
dell’autore; una miscellanea di cose in gran parte già
incluse nelle altre pubblicazioni di Gennarino, ma in
cui, come al solito, è possibile scoprire qualcosa di
nuovo e di interessante.
Nella parte finale di questa miscellanea, infatti,
l’attenzione è subito attratta da una poesia dedicata a
un suo amico poeta, RIO MA, probabile anagramma
del nome di battesimo del serinese Mario Masucci,
cancelliere presso il Tribunale di Avellino e poeta.
L’attenzione è stimolata dal fatto che Gennarino
Romei, nella chiusa di questa poesia, comunica
all’amico poeta che gli avrebbe inviato, in ricambio di
un libro di poesie ricevuto da RIO MA, un proprio libro
131
Filomeno Moscati
di cui evidenzia titolo, linguaggio e contenuto,
dicendo:
Stu libru…………………..
L’aggiu scrittu ‘ndialettu nuostu.
“ ‘Nci steva ‘na vota…”, accussì è ‘ntitulatu.
So chilli cunti ch’e vavuni nuoste
‘nci ricevanu vicin’o fucularu,
e nui criaturi c’a vocca aperta
e stiemmu a sente senza e ‘nci move.146
La veglia accanto al focolare
146
Romei Gennaro, “ ‘Nci steva ‘na vota…”, Poligrafica
Ruggiero, Avellino 1981, p. 252;
132
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
La presentazione del libro, fatta direttamente
dall’autore, lo qualifica immediatamente, e senza
equivoci, come espressione della cultura, che abbiamo
definito spirituale ( vedi a pagina 47), di quella civiltà
contadina che è stata la civiltà di Serino fino alla
seconda metà del secolo XX.
Questa cultura si manifesta apertamente:
nel linguaggio adoperato, che è il dialetto serinese;
nei racconti fiabeschi (cunti) che fanno rivivere,
sublimati nella narrazione e nella memoria, credenze
magiche e modi di vita strettamente legati all’antica
civiltà;
nell’ambiente familiare, sia umano ( vavuni e criaturi =
nonni e bambini) che materiale ( vicin’o fucularu), in
cui le fiabe venivano narrate ed ascoltate con credula
immobilità.
A queste sessantuno fiabe Gennarino Romei ne
aggiunse altre 22 in successive sue pubblicazioni, e, più
precisamente, 18 in “ SERINO, tradizioni fiabe e canti”
(del 1992) e 4 nei “Ricordi” (del 1993). Di queste
ventidue fiabe alcune erano già state incluse in “ ‘Nci
steva ‘na vota” (del 1981), come, ad esempio, “ ‘A
papira cugghiuta”.
La fiaba, da non confondere con la favola, che
nell’accezione popolare viene spesso con essa
identificata, ha origini antichissime che si perdono
nella notte dei tempi. Tutti gli studiosi, che si sono
133
Filomeno Moscati
interessati alle origini della fiaba, pongono queste
origini in tempi lontanissimi e uno studioso dell’epoca
vittoriana (sec. XIX) Max Muller , professore di filologia
comparata dell’Università di Oxford, sostiene anzi che
la fiaba è nata contemporaneamente alla nascita e allo
sviluppo del linguaggio, perché, egli afferma, solo il
linguaggio ha il potere di definire la natura e il
mondo.147
Ancora prima di Muller il frate domenicano A.
Pernety (sec. XVIII), parlando dei geroglifici dell’antico
Egitto, dice che “gli autori di gran nome che hanno
scritto sui geroglifici degli egiziani, e sulle fiabe alle
quali questi hanno dato luogo, sono così in contrasto
gli uni con gli altri che uno può , con ragione, credere
che le loro opere costituiscano delle nuove
favole….alcuni di essi credono di aver trovato storie
reali di quei tempi mitici, e, malgrado ciò, essi li
definiscono il tempo delle favole” 148
Ѐ questa la ragione per cui Lina Sacchetti, ritenendo
la fiaba “un fiore iridescente dell’umana fantasia”,
afferma che“fra tutte le creazioni dell’uomo essa è la
147
Muller Maximilian Friedrich, Sacred books of the East, (Libri
sacri dell’Oriente) Oxford University Press, 1879-1910;
148
Dom. Antoine Joseph Pernety, Les Fables Egyptiennes et
grecques, Discours preliminaire, Chez Delalain lainé, libraire, Paris
rue Saint Jacques, n° 240, MDCCLXXVII, p. 9;
134
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
più antica”. 149 Un’idea che la Sacchetti aveva
verosimilmente ricavato dalla lettura di Giambattista
Vico, che, nella Scienza Nuova, Libro secondo, Della
Sapienza Poetica, sostiene che nella seconda Età
dell’uomo, quella degli eroi, “ i primi uomini,… come
fanciulli del nascente genere umano,…dalla loro idea
creavano le cose, ma…per la loro robusta ignoranza il
facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e,
perch’ era corpolentissima, il facevano con una
meravigliosa sublimità, tale e tanta che perturbava essi
medesimi che fingendo le criavano, onde furon detti
poeti”.
Vico aggiunge che “ tre sono i lavori che deve fare la
grande poesia:
ritruovare favole sublimi confacenti allo intendimento
popolaresco;
che perturbi all’eccesso;
conseguire il fine d’insegnare il volgo a virtuosamente
operare.” 150
In prosieguo il Vico, per meglio esplicitare il
concetto di fiaba come opera di poesia, afferma che:
“ Tal generazione della poesia ci è confermata da
questa sua eterna proprietà; che la di lei propria
materia è l’impossibile credibile...; onde i poeti non
149
Sacchetti Lina, La letteratura per l’infanzia, Le Monnier,
Firenze 1954, p. 1;
150
Vico Giambattista, Principi di Scienza Nuova, in Napoli, nella
Stamperia Muziana MDCCXLIV, p.71;
135
Filomeno Moscati
altrove maggiormente si esercitano che nel cantare le
meraviglie
fatte
dalle
maghe
per
opere
151
d’incantesimi.
Questi e tantissimi altri illustri studiosi, che si sono
interessati della fiaba come genere letterario, sono
concordi nel ritenere che:
essa ha origini antichissime;
vi è un fortissimo legame fra linguaggio e fiaba;
vi è un legame altrettanto forte tra poesia e fiaba,
poiché una delle doti principali della poesia è quella di
rendere credibili, attraverso voli di fantasia, le cose
impossibili; una caratteristica, quest’ultima, tipica dei
grandi poeti epici dell’antichità ( e non solo ) a
cominciare da Omero(Iliade e Odissea), Esiodo(
Teogonia ), Virgilio (Eneide), Dante ( Divina
Commedia), Ariosto (Orlando furioso), Tasso
(Gerusalemme liberata), per citarne solo alcuni dei più
famosi.
Nel novero degli studiosi, che si sono interessati
delle fiabe e del loro significato, vanno inclusi i fratelli
Jacob e Wilhelm Grimm, autori, nel secolo XIX, di una
celebre raccolta di fiabe popolari della Germania dei
loro tempi; fiabe che essi avevano trascritto così come
le avevano apprese
dalla viva voce del popolo
tedesco. Essi, sulla base di uno studio di queste fiabe,
151
Vico Giambattista,idem, p.73;
136
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
hanno elaborato una loro teoria sulle origini e
sull’importanza della fiaba nella storia di un popolo;
una teoria che, pure essendo fortemente suggestiva,
non può essere ritenuta priva di fondamento e di
verità.
I fratelli Grimm partono dall’intima convinzione che
ogni popolo ha un’anima e che questa sua anima si
esprime e diventa percettibile nella lingua, nella
poesia, nei racconti e nei canti del popolo. I racconti
popolari, pertanto, sono, per essi, l’espressione più
veritiera dell’anima di un popolo e il linguaggio, con
cui vengono oralmente trasmessi da padre in figlio,
può essere soltanto quello del popolo, cioè il dialetto.
Fiabe e dialetto costituiscono, perciò, le
manifestazioni principali della cultura con cui si
estrinseca l’anima di un popolo; una cultura che si è
conservata integra solo nelle classi popolari, ma è
andata perduta nelle classi sociali superiori.152
Una certa affinità con l’anima del popolo dei fratelli
Grimm si può rinvenire anche nell’interpretazione
della fiaba, fatta, in chiave psicoanalitica, da Carl
Gustav Jung, che vede nelle storie e nei personaggi
152
Jacob e Wilhelm Grimm, Kinder und Hausmarchen (Bambini e
fiabe casalinghe) 1812-1815
137
Filomeno Moscati
delle fiabe il libero riaffiorare di archetipi (immagini
primordiali) dell’ inconscio collettivo.153
Quella di Jung è un’interpretazione della fiaba, e dei
suoi riposti significati, del tutto diversa da quella di
Benedetto Croce, che, nell’illustrare l’opera di Giovan
Battista Basile, essendo convinto che le fiabe debbano
essere valutate soltanto dal punto di vista estetico,
ritenne che quelle tramandate oralmente dal popolo
venivano comunicate da padre in figlio quasi come una
materia inerte (e quindi senz’anima); e tali rimanevano
almeno fino a quando, nelle mani di un’artista dotato
di qualità poetiche, la materia popolare inerte non
fosse stata tramutata in poesia. 154
Una visione e un’interpretazione della fiaba del tutto
diversa da quella di Vladimir Propp, che ha condotto i
suoi studi sulla fiaba su basi scientifiche. Questo
proposito, di procedere allo studio dei racconti
fiabeschi con metodo eminentemente scientifico,
Propp lo rende manifesto fin dall’ inizio del suo lavoro,
quando afferma che, prima di cominciare una
qualsiasi indagine sulla fiaba, bisogna delimitare il
campo dell’indagine definendo con precisione cosa
153
Jung Carl Gustav,Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere
Vol.IX, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1980;
Granese Alberto. Il labirinto delle analisi infinite, EDISUD,
Salerno 1991, p. 80;
154
Croce Benedetto, Storia dell’ età barocca in Italia. Pensiero,
poesia e letteratura. Vita morale, Laterza, Bari 1925;
138
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
s’intende per fiaba.155 Ciò può essere fatto
individuando le sue caratteristiche peculiari;
caratteristiche che la contraddistinguono rendendola
non confondibile con altri racconti similari, come ad
esempio la favola , nei quali manca l’elemento magico
che contraddistingue il racconto fiabesco.
Solo dopo questa delimitazione si può procedere ad
esaminare la fiaba nei suoi vari elementi costitutivi,
così come si fa con i vari organi che compongono gli
organismi viventi.156
Propp,
dopo aver condotto la sua indagine
partendo da questi presupposti, afferma che essa
rivela che le fiabe di magia hanno tutte un’identica
struttura, e, pertanto, nessun soggetto (o intreccio)
può essere studiato avulso dagli altri. Egli afferma,
inoltre, che l’analisi scientifica della fiaba dimostra che,
mentre i personaggi della fiaba possono essere molti,
diversi e variabili, le funzioni ( o azioni) da essi
esplicate sono in numero limitato, e, essendo
indispensabili al procedere della trama fiabesca, sono
queste a costituirne gli elementi stabili e costanti.
Dall’analisi della fiaba condotta da Propp, si deduce,
perciò, che la struttura della fiaba è monotipica e che,
in questa struttura, le funzioni ( o azioni), che sono
155
Propp Vladimir Jakovievic,Morfologia della fiaba, Einaudi,
Torino 1966, p. 3;
156
Propp Vladimir Jakovievic, idem, p.9;
139
Filomeno Moscati
appena trentuno, si succedono in un ordine sempre
uguale.
Le trentuno funzioni individuate da Propp, possono
essere distinte in gruppi omogenei, differenziati
dall’azione compiuta e dal momento in cui essa viene
compiuta.
Le funzioni individuate da Propp possono essere
distinte in:
A) Funzioni preparatorie:
1-allontanamento di un membro della famiglia;
2-proibizione impartita al protagonista (o eroe);
3-disubbidienza e violazione della proibizione;
4- il cattivo investiga;
5- il cattivo riceve delle informazioni;
6- il cattivo tenta di ingannare la vittima;
7- la vittima cade nel tranello;
B) Funzioni di avvio dell’azione
8- il cattivo danneggia uno della famiglia;
9- si verifica una sciagura e il protagonista viene
allontanato;
10- Il protagonista decide di reagire;
11-Il protagonista si allontana da casa;
B) Funzioni di ricezione in dono del mezzo magico
12- l’eroe viene esaminato e aggredito dal futuro
donatore;
13- l’eroe reagisce;
14- l’eroe riceve in dono l’oggetto magico;
140
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
D)
Funzioni di massima attività
15- l’eroe raggiunge il luogo dell’azione;
16- l’eroe combatte con il cattivo;
17- l’eroe riceve un marchio sul corpo;
18- il cattivo è sconfitto;
19- l’eroe ripara il danno iniziale;
20- l’eroe si appresta al ritorno a casa;
21) l’eroe viene perseguitato;
22)-l’eroe scampa alla persecuzione;
E) Funzioni legate a una ripresa dell’azione
23- l’eroe torna a casa ma non viene riconosciuto;
24)un falso eroe accampa delle pretese;
25-all’eroe vero viene ingiunto di portare a termine
un’impresa molto difficile;
26- l’impresa viene compiuta dall’eroe;
27- l’eroe vero viene riconosciuto;
28-il falso eroe (o cattivo) viene smascherato;
F ) Funzioni conclusive
29- l’eroe assume un nuovo aspetto;
30- il cattivo viene punito;
1- l’eroe si sposa e diventa re.
Queste funzioni, nell’ordine in cui sono disposte,
costituiscono lo schema di Propp; uno schema in cui
dovrebbero essere inquadrate tutte le fiabe (o racconti
di magia), comprese quelle serinesi raccolte da
Gennarino Romei; ma, fin da un primo sommario
esame di queste fiabe, si riscontra che non tutte le 31
141
Filomeno Moscati
funzioni di Propp possono essere evidenziate nella
maggioranza delle fiabe serinesi.
La ragione per cui ciò accade è ravvisabile nel fatto
che non tutti i racconti, riportati da Gennarino Romei
nei suoi libri, possono essere classificati come fiabe.
Alcuni di questi cunti serinesi, infatti, hanno la
struttura della favola più che della fiaba, perché in essi
manca l’elemento magico, che caratterizza il racconto
fiabesco. In essi sono, invece, presenti altre
caratteristiche tipiche della favola, quali i personaggi
antropomorfi (animali che parlano e si comportano
come uomini), la relativa brevità del racconto e
l’intento moralistico, in alcune favole palesemente
manifesto, in altre facilmente intuibile.
I racconti serinesi che possono essere inclusi nel
filone della favola, cosa che si può intuire già dal loro
titolo, sono:‘A iatta ‘nammurara (p. 20); Comma crapa
(p. 25); Compa ‘Allitiellu (p.27); ‘A summana santa(p.
29); Compa ciucciu e compa puorcu (p. 31); ‘A vorpe e
‘o lupu (p.37); ‘O cane, ‘a iatta, ‘o ciucciu e ‘o iallu (p.
51); Comma vorpe e compa lupu (p. 70); ‘A iallina e ‘a
vorpe (p. 77).
Ѐ chiaro che in queste favole, così come in un altro
folto gruppo di racconti serinesi, anch’essi privi
dell’elemento magico peculiare delle fiabe, lo schema
di Propp o non può essere applicato o può esserlo solo
in modo parziale.
142
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Nella maggior parte delle fiabe serinesi, infatti, sono
presenti soltanto alcune delle funzioni dello schema di
Propp. Ciò è facilmente dimostrabile fin dalla prima
fiaba riportata nella raccolta“Nci steva ‘na vota”, fiaba
il cui titolo è “Pienzu” (p.17),evidenziando tra parentesi
il numero corrispondente alla funzione compiuta.
La fiaba narra che:
“ ‘Nci steva ‘na vota nu uagliunciello ca si chiamava
Pienzu. Chistu crisceva senza iurizio.
‘Nu iuornu ‘a mamma, primu e i ‘o mircatu(1allontanamento di un membro della famiglia) li ricivu:
Pié, ti raccumanno tre cose: sta’ accuortu ‘e pulicini e
ralle a mangià; nu tuccà chillu paccotto e tuossicu ca
sta ‘ndo stipu; nu move chillu saccu chinu e cennere ca
sta arret’ a porta(2-proibizione ). Fa’ ‘o bravu ca
quannu tornu ti portu ‘na bella cosa.
Comu ‘a mamma ascivu, Pienzu purtavu subitu ‘na
vranca e ranu e pulicini, ma chisti nu bulieru mangià.
Pienzu allora s’arraggiavu e cu’ ‘na mannara li tagnavu
‘a capu. Roppu pignavu ‘nu pulicinu, ‘o spinnavu e ‘o
mittivu arroste ‘ncopp’a ratigna( 3- disobbedienza). E
mente ‘o pulicinu arrusteva, Pienzu c’a giarra ‘nmanu
aprivu ‘a catarata e, p’o scalandrone abbasciu, scinnivu
‘nda cantina a pignà ‘o vinu.
Quannu aprivu ‘a votte, sintivu ‘nu rimore ‘nda
cucina: era ‘a iatta ca si steva arrubbanu ‘o pulicinu.
143
Filomeno Moscati
Pienzu, allora, lassavu ‘a votte aperta, gnanavu
ambressa ‘ncoppa e currivu appriesso a iatta, ma nu
l’arrivavu. Quannu turnavu ‘nda cantina, truvavu ‘a
votte sfrattata e ‘o vinu ittatu. Allora pignavu ‘a
cennere(3- disobbedienza), ca steva rint’o saccu arret’a
porta, e ‘a ittavu pe’ terra ‘ncopp’o vinu pe’ l’asciucà.
Po’ sintivu passà ‘nu ramaru c’alluccava: Rama vecchia
a cagna a nova. ( 6- il cattivo tenta d’ingannare la
vittima?)
Pienzu nun ’nci pinsavu roie vote: pignavu tutt’a
rama ca steva appesa e ‘a rivu ‘o ramaru, ca li rialavu
roie sartanie nove.(7- la vittima cade nel tranello?)
Quannu ‘e mittivu appese, e roie sartanie si muvevanu,
pecché sciusciava’o vientu, e parevanu ca ricevanu: Din
! Don! Dan! Mo ca vene mammeta l’o dicimu.
Pienzu s’arraggiavu e cu’ ‘na mazza l’ammaccavu.
Roppu nu picca e tiempu passavu ’n’omo c’accattava
l’oru. Chistu alluccava: oru viecchiua cagna a rucati. (6?)Pienzu subitu pighiavu l’oro viecchiu r’a mamma, ca
steva rint’a ‘nu scatulu, e ‘o binnivu sulu pi’ rui rucati,
facennusi fa fessa ra chill’omo.(7- ?)
A ‘nu certu mumentu, chi sa picché, chillu miezzu
fessa capivu ca eva cumbinatu tanta uai e, pirciò, si
vuleva abbilinà. Pignavu, allora, ‘o tuossicu, ca steva
rint’o paccottu, (3-disubbidienza), e s’o mangiavu ma
nun murivu, picché rint’o paccottu ‘nci steva ’o zuccuru.
144
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Quando la madre torna dal mercato Pienzu le riferisce
tutti i guai che aveva combinato in sua assenza.
Ѐ evidente che la confessione delle sue malefatte, fatta
spontaneamente da Pienzu alla madre, non può essere
classificata come un’investigazione fatta dal cattivo, e,
perciò, le funzioni preparatorie all’azione n° 4- 5- 6- 7- 8non sono riscontrabili in questa fiaba se non con una
evidente forzatura.
La fiaba prosegue narrando che, dopo avere appreso le
disubbidienze di Pienzu “ ‘a mamma, ‘a puverella, tutta
afflitta e scunsulata, li ricivu: Mo ca m’è cumbinatu tutti
‘sti uai, mi voghiu propriu parte.
E subitu si ni ivu. Ma roppu pochi passi, penzannu ca ‘o
fighiu era senza iuriziu, si carmavu e o chiamavu: Pié, tiriti
’a porta appriesso e bieni puru tu cu’ micu( 9- in seguito a
una sciagura il protagonista viene allontanato).
Pienzu tiravu ‘a porta ra vicin ’a l’andone,s’a mittivu
‘ncuollu e ghivu appriessu ‘a mamma( 11- il protagonista
si allontana da casa)…. Cammina, cammina, cammina, a
nu certu puntu si stancaru e s’assettaru ‘ncopp’a ‘na
preta, rintu ‘o voscu (15- il protagonista raggiunge il luogo
drll’azione ). Ma pi’ paura e l’animali firuci gnanaru
‘ncopp’a ‘n’arberu autu autu. Pienzu ‘nci gnanavu puru ‘a
porta(14- in questo caso la porta funge da sostituto
dell’oggetto magico ).
145
Filomeno Moscati
‘Npuntu mezzanotte arrivaru puru ‘e brianti, ca
s’assettaru sott ‘a l’arbiru pi’ si sparte e rucati, ca
evenu arrubbati a nu riccu cristianu.
Pienzu roppu ‘nu picca e tiempu ricivu: ué ‘ma, mi
vene a piscià.
A mamma rispunnivu: P’amore e Diu, nu piscià, si no
e brianti ‘nci verenu e ‘nci accirinu.
Ma Pienzu si mittivu a piscià (16- l’eroe combatte
con il cattivo ?).
E brianti ricieru: A chest’ora l’aucielli pisciunu ancora.
Roppu n’atu mumentu Pienzu ricivu: Ué ‘ma, iu sentu
cacà.
‘A mamma, rispirata, li rivu ‘nu pizzulu ‘nculu, e cittu
cittu, li ricivu: Tu si pacciu, cerca e mantene natu picca.
Ma Pienzu si mittivu a cacà(16- ?).
E brianti ricieru: A chest’ora puru l’aucielli cacunu.
Roppu nu picca e tiempu, mente e brianti si
spartevenu ‘e rucati, Pienzu ricivu: Ué ‘ma, mo mi
scappa ‘a porta.
E mente accussì ricivu, li scappavu veramente ‘a
porta, ca carivu ‘ncuollu e brianti, ca, pa paura,
scapparu luntanu: chi ca lengua muzzata, chi cu’ ‘nu
vrazzu ruttu e chi cu’ ‘nu pere zuoppu( 18- il cattivo
viene sconfitto).
146
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Pienzu e ‘a mamma subito scinnieru, si pighiaru e
rucati(19- l’eroe ripara il danno iniziale) e se ne turnaru
a casa( 20- l’eroe torna a casa).157
Risulta evidente, dopo la lettura di questa fiaba, che
in essa manca una componente essenziale della trama
delle fiabe esaminate da Propp: l’elemento magico,
costituito dall’incontro dell’eroe con un personaggio
mitico (il vecchio) che gli fornisce il mezzo magico; un
mezzo che, con la sua magia, gli consentirà di superare
tutte le prove e di sconfiggere il cattivo. A causa di
questa carenza fondamentale, trentuno delle fiabe
riportate da Gennaro Romei, nel suo libro “Nci steva
‘na vota”, non rientrano a pieno titolo nelle fiabe di
magia e, pertanto, in esse solo parzialmente risulta
rispettato lo schema di Propp.
Le trentuno fiabe mancanti dell’elemento magico
non sono per questo meno importanti, perché in esse
la magia viene sostituita da azioni, descrizioni e scene
di vita contadina serinese ancora attuali nella prima
metà del secolo XX. Esse possono, perciò, essere
definite racconti (in dialetto cunti) della civiltà
contadina e così saranno denominati in seguito. La
definizione non è casuale, ma scaturisce dalla
presenza, frequente in essi, di alcune parole chiave
come mangià, piscià, cacà, culo, etc., molto usate nella
157
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, pp. 17-19:
147
Filomeno Moscati
cultura contadina; una cultura in cui si dava grande
importanza alle funzioni fisiologiche che queste parole
evocano.
Un’altra caratteristica viene evidenziata da
un’attenta lettura dei racconti della civiltà contadina;
ed è la costruzione di più fiabe intorno a un unico
tema, a cominciare dalla prima di esse intitolata
“Pienzu”. Il tema conduttore di questo racconto può
essere definito come “ il tema del figlio scemo” o,
come riporta Gennarino con espressione tipicamente
serinese, “ miezzu fessa.158
Il gruppo di racconti imperniato sul filo conduttore
del figlio miezzu fessa comprende, oltre a Pienzu, quelli
intitolati Piruondu (p.39), Compa Piruocculu (p.72) e, in
parte, quello intitolato Rocciulammerda (p.121).
Il filo conduttore di questi cunti inizia con la
indicazione del protagonista come senza iurizio
(Pienzu), senza malizia(Piruondu), accussì fessa(Compa
Piruocculu), senza malizia(Rocciulammerda); prosegue
con le proibizioni impartite al protagonista;
l’allontanarsi dell’autorità familiare che le ha impartite;
la disubbidienza e i disastri da questa causati; il
pentimento e la reazione del protagonista, che pone
riparo alle sue malafatte, e, anzi, pur non brillando per
intelligenza, capovolge la situazione iniziale
158
Romei Gennaro, Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p. 17
148
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
apportando ricchezza alla propria famiglia. Unica
eccezione Compa Piruocculu, che, per essersi fatto
castrare da un asino, che divora assieme al lappazzo
anche gli attributi virili che ricopriva, subisce l’irosa
vendetta della moglie, che lo abbrustolisce in forno
proprio come un agnello castrato.
Un commento particolare merita il racconto
intitolato Rocciulammerda, perché in esso la prima
parte può essere assimilata a un cuntu serinese mentre
la seconda ha la struttura di una vera e propria fiaba, la
cui natura viene evidenziata dalla presenza di tutti gli
elementi, compreso quello magico, che caratterizzano,
in modo specifico, i racconti fiabeschi scientificamente
esaminati da Vladimir Propp.
La parte iniziale di Rocciulammerda dice:
“Nci steva ‘na vota nu patre e ‘na mamma ca
tinevenu sulu ‘nu figghiu, ca si chiamava ‘Ntuniucciu.
Chistu era ‘nu buonu uaglione, ma crisceva senza
malizia. ‘Nu iuorno e ginituri, ca tinevenu ‘nu saccu e
rucati, p’o fa spratichì, ‘o mannaru a fa spesa ‘o
mircatu. (2- ordine, o proibizione, impartito al
protagonista )
‘Ntuniucciu, arrivatu o mircatu, virivu ‘nda n’angulu
ra chiazza tanta pirsune ca rirevanu accussì forte, ca
l’ascevanu e rienti ra vocca. S’abbicinavu e birivu
‘ncopp’a ‘nu tavulinu nu sorici ca sunava ‘o tammurru.
Li piacivu assai, ma custava cientu rucati e nun
149
Filomeno Moscati
l’accattavu. Si mittivu ‘ngiru, ma tuttu chellu ca birivu,
nun li piacivu. Allora si vutavu arretu e gniv’ accattà ‘o
sorice(3- disubidienza all’ordine, o alla proibizione) e,
tuttu priatu, si ni turnavu a casa.
‘O patre e ‘a mamma, ca l’aspittavanu, subitu
l’addummannaru ch’eva accattatu. ‘Ntuniucciu nun
parlava. Aprivu ‘o scatulu. E ginituri uardaru cu’
l’uocchi spalancati, ma rumanieru male quannu
viririeru chellu c’o fighiu eva purtatu. E subitu capieru
ca nun era chiù cosa r’o mannà o mircatu. Ma ‘o iuornu
appriessu pinzaru: nui tinimu tanta rucati, che ni
l’avima fa? Mo ‘o mannamu ‘n ‘ata vota e birimu si
mette iuriziu.
Roppu pochi iuorni chiamaru ‘o fighiu, li rieru cientu
rucati e ‘o mannaru ‘o mircatu. ‘Ntuniucciu uardavu ra
cà e ra là, ma niente li piacivu. Allora ivu a biré addò
eva accattatu ‘o sorice. Si facivu largu fra ruossi e
pizzirilli e, quannu arrivavu ‘nante, virivu ‘ncppp’a ‘nu
tavulinu ‘nu relle ca sunava ‘a chitarra. Custava puru
cientu rucati. ‘Ntuniucciu ‘nci pinzavu ‘nu picca e po’
s’alluntanavu. Ma comu si unu l’esse tiratu, si vutavu
arretu. Pavau cientu rucati e ‘o relle si pighiavu.
Quannu turnavu a casa, ‘a mamma li facivu ‘na
scinata, ma ‘o maritu l’acquietavu.
‘A sera , quannu si curcavu, ‘o maritu, ca era chiù
biecchiu, ricivu vicinu ‘a mugghiere: Mannamulu ‘n’ ata
vota, chi sa, s’accunzasse ‘nu picca.
150
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
‘Ntuniucciu , ‘o iuornu appriessu, si pighiavu e cientu
rucati e si ni ivu ‘o mircatu. A chillu stessu postu, addò
eva accattatu ‘o sorice e ‘o relle, virivu ‘ncopp’o
tavulinu ‘na rocciulammerda c’abballava. Nun‘nci
pinzavu roi vote: rivu e cientu rucati e s’a pignavu.
Quannu si ni turnavu a casa, o patre e ‘a mamma nun
parlaru, picché capieru ca pi’ chillu fighiu nun ‘nci
steva niente chiù ra fa.
‘Ntuniucciu, tuttu priatu, mittivu ‘ncopp’o tavulinu
‘o sorice, ‘o relle e ‘a rocciulammerda. Po’ pigghiiau ‘na
bacchetta e accuminzavu a cummannà. Quannu
cummannava ‘o sorice sunava ‘o tammurru, ‘o relle ‘a
chitarra e ‘a rocciulammerda abballava. E cumpagni,
ca ievanu a biré, s’sbbuttavanu e risate.
‘Nu iuornu ‘Ntuniucciu, mente si suseva, sintivu sunà
‘na trumbetta. S’affacciavu. Era ‘o bannitore ca riceva:
Chi è capace e fa rire ‘a fighia r’o re s’a sposa.
Ntuniucciu, senza rice niente e ginituri, si pighiavu
l’animali e s’apprisintavu o Re (11—l’eroe si allontana
da casa). Chistu ricivu: Facitulu trase; ma si nun fa rire
‘a fighia mia li fazzu taghià ‘a capu.
‘Ntuniucciu si facivu rà ‘nu tavulinu e ‘ncoppa ‘nci
mittivu e tre animali. Po’ pighiavu ‘a bacchetta e
accuminzavu a cummannà.
Quannu ‘a Principessa virivu c’o sorice sunava ‘o
tammurru, c’o relle sunava ‘a chitarra e c’a
151
Filomeno Moscati
rocciulammerda abballava, si facivu ‘nu saccu e risate.
Allora tutti facieru festa e ‘npiazza sunaru ‘e campane.
A questo punto si può considerare terminata la
parte iniziale di Rocciulammerda; parte che funge da
introduzione al racconto fiabesco e in cui sono
individuabili solo alcune delle funzioni identificate da
Vladimir Propp. Essa costituisce, però, un vero cuntu
della civiltà contadina di Serino, con la descrizione di
un nucleo familiare contadino, tipico della prima metà
del secolo XX, padre, madre e figli senza malizia; di un
mercato in cui, accanto ai venditori di oggetti e arnesi
utili per la vita e per il lavoro dei contadini, assumeva
grande importanza la presenza di imbonitori,
prestigiatori e giocolieri, che, con discorsi e giochetti
di prestigio, catturavano l’attenzione di ascoltatori a
cui vendere decotti, unguenti e unzioni, rimedi
empirici per la cura di bronchiti e reumatismi, malattie
assai frequenti fra i lavoratori dei campi.
Dopo questo prologo, tutto contadino, ha inizio il
racconto fiabesco vero e proprio, che dice:
“Ma ‘Ntuniucciu, ca era ‘nu picca bruttu, nun
piaceva ‘a Principessa, ca ricivu vicin’o patre: Iu nun
mo sposu mai.
‘O patre rispunnivu: Figna mia iu aggiu ‘mpignatu ‘a
parola e Re e nun ‘a pozzo arritirà.
‘A fighia ripricavu: Papà, falli supirà prima ‘na
prova e po’ m’o sposu.
152
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
‘O Re, p’accuntintà ‘a fighia, chiamavu ‘Ntuniucciu
e li ricivu: Primu e ti spusà ‘a fighia mia ea supirà ‘na
prova. Iu ti rau vinti liepiri ca stannu rnt’a ‘stu saccu. Tu
e puorti ‘o voscu e là e mitti ‘nlibirtà ( 6- il cattivo tenta
di ingannare la vittima).Musera po’ l’accuogni e li
puorti cà. Si ni manca coccurunu ‘a capu ti fazzu
taghià.
‘Ntuniucciu ivu o oscu e apriv ‘o saccu: tutt’e liepiri
si ni fuieru. (7- la vittima cade nel tranello) Quannu
steva pi’ scurà notte, l’accuminzavu a chiamà, ma nun
s’apprisintaru. Allora pinzannu c’o Re li faceva muzzà
‘a capu, s’accuminzavu a disperà. Ma mente
chiangeva, passavu ‘nu vicchiariellu, ca era S.
Giuseppe, ca li ricivu: Giuvinò, picché chiangi?(12l’eroe viene esaminato dal futuro donatore)
‘Ntuniucciu li raccuntavu ‘o fattu.( 13-l’eroe
reagisce e supera l’esame)
‘O vicchiariellu ‘o cunfurtavu e po’ li ricivu: Tecchiti
‘stu siscariellu,(14- l’eroe riceve in dono l’oggetto
magico ) ‘sti vinti rivise e ‘sti vinti sciabule. Quannu tu
sischi, tutt ’e liepiri corrunu attuornu a te.
Tu e biesti ra surdati, li rai ‘a sciabula ‘nmanu e po’
e puorti a palazzu riale.
Comu S. Giuseppe s’alluntanavu, ‘Ntuniucciu si
mittivu a siscà. Tutt ‘e liepiri li currieru attuornu.
‘Ntuniucciu e vistivu ra surdati e cu’ ‘e sciabule
sguainate e purtavu ‘nant ‘o Re. Chistu, comu e birivu,
153
Filomeno Moscati
rumanivu ‘mpalatu e, quannu si ripignavu, li ricivu. Tu
crai ea ripete ‘a prova ‘O iuornu appriessu, mente
‘Ntuniucciu steva rintu ‘o oscu, arrivavu ‘o Re, tuttu
travistutu, pi’ nun si fa canosce, ca li ricivu: Ti vuò
venne ‘nu lepuru?
Sine, e pecché none?
E quantu vuò?
Vognu cientu rucati e t’aggia ra ‘na pirucculata rint
‘o spinu.
‘O Re accittavu.
Quannu ‘Ntuniucciu li rivu ‘a pirucculata, ‘o Re
sbattivu ‘nterra e si rumpivu ‘o nasu. Tuttu
‘nzanguinatu, s ‘aizavu chianu chianu, si pignavu ‘o
lepure e si ni ivu. (16- l’eroe combatte con il cattivo)
Comu s’alluntanavu, ‘Ntuniucciu pignavu ‘o
siscariellu e si mittivu a siscà. ‘O lepure ca teneva ‘o Re,
comu sintivu siscà, si mittivu a stripitià. Po’ li rivu ‘na
rascagnata e li scappavu r‘a manu.E ‘o Re si ni ivu tuttu
scunzulatu e c’o spinu ca li faceva male.(18 -il cattivo
viene sconfitto)
‘A sera ‘Ntuniucciu s’arritiravu cu’ tutt’e liepiri
chiusi rint’o saccu. Ma ‘o Re, ca steva sdignatu, li ricivu:
Giuvinò, tu crai ea ripete ‘n’ata vota ‘a prova.(21l’eroe viene perseguitato)
E ‘o iuornu appriessu, mente ‘Ntuniucciu steva rintu
’o oscu, arrivavu ‘a Rigina, travistuta ra cuntadina.
Chesta li ricivu: Mi vuò venne ‘nu lepuru?
154
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Sine, E picché none?
Quantu vuò?
Cientu rucati e t’aggia ra ‘na pirucculata rint’o
spinu.
‘A Rigina accittavu.
‘Ntuniucciu subitu li rivu ‘a pirucculata, ma l’a rivu
chianu, tantu ca li facivu sulu ‘na mulignana.
A Rigina pighiavu ‘o lepuru e si ni ivu. E pi’ paura ca li
scappava, s’o mittivu ‘mpiettu annaccuatu. Ma comu
‘Ntuniucciu sunavu ‘o siscariellu, ‘o lepuru
accumminzavu a stripitià. ‘A Rigina s’o stringivu e ‘o
lepuru, c’o piettu li rascagnavu, ‘nterra zumbavu. ‘A
Rigina, tutta scunsulata, cu’ ‘e menne ‘nzanguinate,si
ni turnavu, chiangennu, a palazzu riale.
‘A sera ‘Ntuniucciu si ni turnavu filice e cuntentu cu’
tutt’e vinti liepiri, ca marciavanu l’unu arretu a l’atu.
‘O Re, tuttu smaniusu, c’o nasu ‘mbasciatu, ‘mpunivu
‘a ‘Ntuniucciu l’urtima prova. ‘O iuornu appriessu
arrivavu rintu ’o oscu propiu ‘a Principessa, travistuta
ra pacchiana. ‘Ntuniucciu a canuscivu, ma facivu a beré
ca nun si n’accurgivu.
‘A Principessa subitu li ricivu: Ti vuò venne ‘nu
lepuru?
Sine e picché none?
E quantu vuò?
Cientu rucati, ma a te nun ti ravu ‘a pirucculata.
155
Filomeno Moscati
‘A Principessa li rivu e cientu rucati(19-l’eroe ripara il
danno iniziale) e si pighiau ‘o lepuru.
Comu chesta facivu pocu passi, ‘Ntuniucciu pighiavu
‘o siscariellu e si mittivu a siscà. ‘O lepuru si ni
scappavu e ‘a Principessa, chiangennu, si ni turnavu a
casa.
‘A sera ‘Ntuniucciu, cu’ tutt’ e liepiri rint’o saccu, si ni
turnavu a palazzu.
‘O Re chiamavu ‘a Principessa e li ricivu: Fighia mia,
nun aggiu chiù che fa. Mittiti l’anima ‘npace e spositi a
‘Ntuniucciu.
‘A Principessa ubbidivu, ma s’o spusavu a forza. Ma
quannu appriessu s’accurgivu ca ‘Ntuniucciu era tantu
buonu e affittuosu, ‘o vulivu bene pi’ tutta ‘a vita soia.(
31- l’eroe si sposa e diventa re)
La seconda parte di Rocciulammerda (lo scarabeo
stercorario) è una vera fiaba, in cui sono facilmente
ravvisabili le principali funzioni incluse nello schema di
Propp, compreso l’incontro col vecchio dotato di poteri
magici (qui identificato come S. Giuseppe per renderlo
più accettabile dal punto di vista religioso).
La struttura della seconda parte, fiabesca, di
Rocciulammerda, è ravvisabile in altri venticinque
racconti di “Nci steva ‘na vota, che, perciò, risulta
costituita da 36 cunti serinesi e da 25 fiabe (o racconti
di magia) come delimitate da Vladimir Propp. Ai 36
cunti serinesi di “Nci steva ‘na vota” bisogna
156
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
aggiungerne altri 14, inclusi in “ SERINO- Storia e
tradizioni, fiabe e canti”, per cui il totale dei cunti
pubblicati da Gennaro Romei ammonta a 50.
Intorno al tema dello sfaticato sono costruiti due
Cunti. Il primo, intitolato Unculillu (p.21), aveva un
lieto fine ed era molto richiesto dai bambini
soprattutto per la reiterazione di una frase che molto
colpiva la loro fantasia: Bre, bre, bre, vogl’i a fa uerra o
Re!; il secondo, intitolato ‘O monucu circatore (p.74), si
concludeva, invece, con la punizione dello sfaticato.
Molto apprezzati erano anche i cunti costruiti sul
tema del mariuolu finu, quali: E tre frati (‘Nci steva‘na
vota p. 55); ‘Buccittinu (idem p.156); ‘O mariuolu finu
(idem p.165); Criccu, Crocco e manichenginu (
quest’ultimo inserito in SERINO. Storia e tradizioni,
fiabe e canti, p.234).159 La fonte di quest’ultima fiaba
deve essere stato Italo Calvino, che, avendola ritenuta
fiaba tipica dell’Irpinia,
l’aveva inserita, più di
trent’anni prima, nella raccolta di fiabe italiane da lui
pubblicata nel 1956.160
Una variazione del tema del mariuolu finu erano i
cunti intitolati Fra’ Giuvannu (‘Ncisteva ‘na vota, p.68)
e O mariuolu e l’arciprete ( idem, p. 147). In questi due
racconti, basati su furti che i due protagonisti, Fra’
159
Romei Gennaro, SERINO. Storia e tadizioni, fiabe e canti,
Poligrafica Ruggiero, Avellino 1992, p. 234;
160
Calvino Italo, Fiabe italiane, favola 123 Cricco, Crocco e
manico d’uncino. Einaudi, Torino 1956;
157
Filomeno Moscati
Giuvannu e l’arciprete, subivano a causa della loro
fede incondizionata negli angeli e nelle potenze celesti,
la parte principale e più apprezzata era costituita da
una specie di filastrocca, che dice:
Susètti, fra’ Giuvannu,
ca ‘ncielu ti vole Gesù,
pigna ‘a roba e
’e sordi ca tieni
e po’ ti ni gnani tu.
Nei miei ricordi questa filastrocca era leggermente
diversa da quella riportata da Gennarino, che parla di
roba e soldi, e più aderente alla civiltà contadina di cui
era espressione. Essa recitava così:,
Giuvannu, fra’ Giuvannu,
gnana ‘ncielu ca ti vole Giesù;
sagni primu ‘o puorcu accisu
e po’ ti ni gnani tu.
Del tutto ignota mi era invece la filastrocca con cui
Gennarino chiude il Fra’ Giuvannu, che dice:
Si mi frigastivi tannu,
mo’ nun mi frigate chiù;
Ra cà iatevenne subitu
E nun ‘nci vinite chiù.161
Un gruppo di racconti prendeva lo spunto dal tema
della sterilità coniugale e si imperniava sulla promessa
161
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero, Avellino
1981, p.68;
158
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
di cedere, a sua richiesta, a un personaggio dotato di
poteri magici, il figlio nato dalla coppia per opera delle
sue arti; di esso fanno parte i racconti ‘A fata Culina (p.
81); Persemula (p. 86); Giuvanninu e ‘o magu
Pulismagna (p. 160).
Un tipo di cuntu che attirava l’attenzione di piccoli e
grandi era quello imperniato sul tema dell’ombra. A
esso sono ispirati:‘A papira cugghiuta ( Serino. Storia e
tradizioni. Fiabe e canti, p.230); Litizia e l’ombra,
(idem, p. 278); Giuvannu, ‘o spiritu e l’ombra, ( idem, p.
296).
L’ombra, così come l’ha descritta Gennarino nella
nota introduttiva di ‘Nce steva ‘na vota, era “una
giovanetta evanescente vestita di bianco, che faceva
scomparire all’improvviso, chissà perché, qualche
fanciullo o fanciulla, che venivano, però, subito
rintracciati.”162
L’Ombra costituiva un elemento importante nella
cultura spirituale della civiltà contadina di Serino; una
specie di fantasma la cui immagine veniva impressa
nella mente dei bambini per tenerli lontano dai
pericoli, come quello di sporgersi dal parapetto dei
pozzi. Era, infatti, comunemente affermato che nei
pozzi si nascondeva un’ombra, Marialonga, che
afferrava, con le sue lunghe braccia, i bambini che si
162
Romei Gennaro, “Nci steva ‘na vota, Nota introduttiva,
Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981;
159
Filomeno Moscati
sporgevano dal parapetto per tirarli nel pozzo.163
Molto simile a quella dell’ombra era la credulità negli
spiriti dei defunti, confusi con i fuochi fatui, che, nelle
calde notti d’estate, si scorgevano sulle fosse dei morti
quando si passava davanti al cancello dei cimiteri;
spiriti che venivano invocati in aiuto quando si era in
qualche pericolo.
Anche il tema religioso era molto sentito, soprattutto
se connesso a quello degli spiriti dei defunti, e
costituiva, perciò, argomento dei cunti intorno al
focolare durante le lunghe serate invernali. Tali erano i
cunti che avevano per tema le anime del Purgatorio
come in“E rui ciucciari”, (‘Nci steva‘na vota, p.112);
“L’anime r’o Priatoriu”(“SERINO.Storia e tradizioni,
fiabe e canti”,p. 294).
Dedicato a S. Antonio di Padova, patrono dei
rivottolesi, era, invece, il Cuntu intitolato Sant’Antonio
e ‘o fuocu ( ‘Nci steva ‘na vota, p. 240), un racconto
che poteva avere come soggetto anche S. Antonio
abate, un santo molto venerato nel serinese, e
soprattutto nella frazione Ferrari, dove era tradizione
accendere in piazza un gran falò in occasione della sua
festività, che cade il 17 Gennaio. Sicuramente dedicati
a S. Antonio di Padova erano, invece, i cunti intitolati:
‘E ficu e S. Antoniu, ( Serino. Storia e Tradizioni, fiabe e
163
Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e
canti, Poligrafca Ruggiero, Avellino 1992, p. 232;
160
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
canti, p. 268);‘O ciucciu ‘ncopp’o campanaru, (idem, p.
268); S. Antoniu e ‘o Tavernaru, (idem, p. 290) .
Per quanto riguarda questi tre cunti l’impressione,
che il lettore colto ne trae, è che in essi più che
l’impronta popolare ci sia l’impronta di Gennarino. Ciò
è particolarmente appariscente per l’ultimo di essi, in
cui sono evidenti le reminiscenze di un capolavoro
della letteratura per l’infanzia, il Pinocchio di Collodi,
in cui Pinocchio, come il tavernaro, viene trasformato
in asino e attaccato al bindolo ( in dialetto= catosa) e
poi ritrasformato in uomo. Una favola che Carlo
Lorenzini (Collodi) aveva costruito ispirandosi all’Asino
d’oro di Apuleio. 164
La costruzione del racconto intorno a un tema
predefinito è evidenziabile anche nelle fiabe. Fra
questi temi è facilmente individuabile quello che può
essere definito come Il tema del patto filiale; un patto
che viene stipulato fra una coppia senza figli e un
mago, che, adoperando le sue arti magiche, consente
loro di averne per poterli portare via con sé quando a
lui piacerà farlo. Ciò risulta evidente nelle fiabe
intitolate ‘A fata Culina ( ‘Nci steva ‘na vota, p.81);
Giuvanninu e ‘o mago Pulismagna ( idem, p. 160);
Persemula, ( idem, p.86). In quest’ultima fiaba il patto
risulta leggermente modificato, ma sostanzialmente
164
Apuleio Lucio, Le Metamorfosi o L’asino d’oro, II secolo d.C.;
161
Filomeno Moscati
identico, in quanto riguarda il settimo figlio che la
madre non riusciva a sfamare.
Le fiabe intitolate “‘A figna e ‘a figniasta”, ( ‘Nci steva
‘na vota, p. 151); “E sette micilli”, ( idem, p. 42);
Buccittinu, (idem, p. 156), sono invece costruite
intorno al tema della matrigna cattiva, o di
Cenerentola.
Una nota particolare va dedicata a
Buccittinu, in cui la fiaba di Cenerentola prosegue e
s’intreccia col mito del filo di Arianna e con la fiaba
degli stivali delle sette leghe svelando, così, la triplice
fonte del racconto fiabesco.
Altri temi sono:
quello del serpente, tema su cui si basano le fiabe “‘O
serpente e ‘a principessa”(‘Nci steva ‘na vota, p.104)
e“‘O serpente a sette capu”( idem, p. 208);
quello del pesciolino d’oro, presente nelle fiabe “‘O
pisciulinu d’oro”, ( idem, p.46) e “‘E lacreme re sirene”,
(idem p. 174);
quello di“‘O ciucciu cacarenari”, (SERINO. Storia e
tradizioni, fiabe e canti, p.220) e di “Catucciu” (‘Nci
steva na vota, p.128);
ll tema delle tre grazie su cui si fondano le trame di
“L’usuraio”( idem, p.125) e di “Buon surdatu” (idem p.
169);
la proibizione della tredicesima stanza di “Le tre
zitelle e ‘o riavulu”(idem P. 190);
162
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
e, infine,quello del fratello cattivo e del fratello buono
di “Triricena”(idem p. 185).
Proprio sulla presenza di temi, adoperati come base
di racconti fiabeschi, è stata costruita la classificazione
delle fiabe secondo lo schema di Aarne. In questo
schema le fiabe sono classificate non più sulla base
delle funzioni, o azioni, compiute dall’eroe protagonista (schema di Propp), ma sulla base del tipo
di racconto, o trama, espresso nella fiaba. Le trame
tipo, ognuna contrassegnata da un numero, formano
un vero e proprio elenco numerato. 165 Questo
elenco fu ampliato e arricchito da uno studioso del
folklore americano, Stith Thompson, in modo da
formare un catalogo di 2500 tipi di trame fiabesche
(schema di Aarne- Thompson).166
In realtà il catalogo di Aarne - Thompson non include
soltanto le fiabe, ma comprende anche le favole (
storie di animali) classificate con numeri che vanno da
1 a 299; le fiabe, in cui vengono incluse oltre le fiabe
vere e proprie (storie di magia) anche racconti a tema
religioso, racconti romantici (novelle), racconti che
hanno per protagonista l’orco stupido, tutti classificati
con numeri che vanno da 300 a 1199; facezie e
165
Aarne Antti, Verzeichnis der Marchentypen, 1910;
Aarne A., Thompson S.,The types of the folktale: A
classification and bibliography, The Finnish Academy of Science
and Letters, Helsinki 1961;
166
163
Filomeno Moscati
aneddoti classificati con numeri da 1200 a 1999;
storie basate su una formula con numeri da 2000 a
2399; infine un gruppo di racconti , definito come
storie non classificate, compreso nei numeri che
vanno da 2400 a 2499.
Tutti i tipi di racconti, raccolti da Gennarino Romei,
possono, perciò, essere inclusi in questo elenco al
numero corrispettivo.
La possibilità, per i racconti raccolti da Gennarino
Romei, di essere classificati in modo che ognuno di
essi corrisponda al numero di un catalogo predefinito,
non ne spiega, però, l’origine, che, come abbiamo già
detto prima, è antichissima .
Non vi può essere dubbio, comunque, sul fatto che
essi siano stati raccolti dalla viva voce del popolo
contadino serinese del secolo XX, di cui rispecchiano
sia la parlata che il sentimento; ed è proprio questa
fedeltà al linguaggio contadino che li classifica come
racconti popolari tradizionali , che, com’è notorio,
sono ricchi, oltre che di avventure, di personaggi
fantastici quali sono gli orchi, le fate, i maghi, gli
animali parlanti, le ombre, gli spiriti dei defunti e
perfino le anime del Purgatorio.
Questi racconti tradizionali, una volta considerati
oggetto di puro divertimento, sono stati valorizzati
dalla filologia moderna, che, ritenendoli antichissimi, li
considera documenti importanti sia per la costruzione
164
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
della storia (fratelli Grimm) che per la comprensione
della psicologia dei popoli (Carl Gustav Jung) .
Esaminati in quest’ottica risulta chiaro il valore dei
cunti serinesi; un valore che viene accresciuto ancora
di più dal fatto, evidente sia all’occhio del critico che
del lettore sprovveduto, che la trascrizione dei cunti,
fatta da Gennarino Romei,
si mantiene, nella
stragrande maggioranza, fedele alla narrazione orale,
di cui ha conservato la schiettezza, spesso confermata
dalla volgarità dell’eloquio. Ciò costituisce una
testimonianza inconfutabile che essi sono conformi
alla tradizione con cui il popolo ce li ha tramandati,
trasmettendoli oralmente da padre in figlio.
Non vi è, infine, alcun dubbio che in questi racconti,
trasmessi oralmente per generazioni, riaffiorino,
talvolta, tracce di racconti magici e di miti antichissimi,
come accade:
in S. Antonio e ‘o tavernaro, che, con il tavernaro
fedifrago trasformato in asino e attaccato al bindolo,
richiama alla mente L’asino d’oro di Apuleio (II sec. d.
C.) e quello, ancora più antico, di Luciano di Samosata
(II sec. d. C.. );
o in Buccittinu, in cui sono ravvisabili oltre alle tracce
di antiche fiabe, quali sono quelle di Cenerentola e
degli Stivali delle sette leghe, anche il mito
antichissimo di Minosse, del Labirinto, di Teseo e del
filo di Arianna.
165
Filomeno Moscati
Viene, pertanto, spontaneo chiedersi se in questi
racconti popolari serinesi sia possibile trovare traccia
di altre fonti, mitologiche o letterarie, da cui essi siano
stati ispirati e abbiano avuto origine.
Per quanto riguarda le favole, i cui personaggi sono
costituiti da animali antropomorfi, il legame (almeno
per quanto riguarda questi personaggi) va cercato
nell’antica favolistica greco romana, e in particolare
nelle favole di Esopo, alle quali alcuni cunti sono molto
simili nel titolo ( ‘A vorpe e ‘o lupu; Compa ciucciu e
compa puorcu, ‘A iatta ‘nammurata;) anche se diversi
nel contenuto.
Una lettura più attenta, dei cunti serinesi di
Gennarino Romei, mette in evidenza un legame, a
volte sottile a volte più robusto e solido, anche con le
trame fiabesche raccolte da Giovan Battista Basile ne
Lo cunto de li cunti.167Questo legame è ravvisabile
nella fiaba intitolata “Vardiello”,168 in cui è possibile
individuare agevolmente sia la fonte della prima parte
del cuntu serinese“Pienzu” 169che quella del cuntu
serinese Piruondu.170 Allo stesso modo è facilmente
167
Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, Letteratura
Italiana Einaudi;
168
Basile Giovan Battista, idem, Vardiello, I, 4, p. 39;
169
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p. 17;
170
Romei Gennaro, idem, p. 40;
166
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
individuabile nelle fiabe “La gatta Cenerentola”171 e
“Le tre fate”172 (due versioni della fiaba di Cenerentola
) la fonte del cunto serinese “Figna e fignasta”;173
nella fiaba “ Lo scarafone lo sorece e lo grillo”174la
fonte di “Rocciulammerda”;175
ne “Lo cunto de l’uorco”176e ne “La papara”177la
fonte di “ ‘O ciucciu cacarinari 178e di “Catucciu”;179
in “Ninnillo e ninnella”180la fonte di“ E rui ainielli”181e
di “Buccittinu”182, due fiabe che si ricollegano al mito
antichissimo del filo di Arianna.
171
Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, I, 6, Letteratura
Italiana Einaudi, p. 53;
172
Basile Giovan Battista, idem, III, 10, p. 284;
173
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p.151;
174
Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, III,5, Letteratura
Italiana Einaudi , p. 246;
175
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p.121;
176
Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, I. 1, Letteratura
Italiana Einaudi, p. 11;
177
Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, V,1,Letteratura
Italiana Einaudi, p. 416;
178
Romei Gennaro, SERINO. Storia e tradizioni, fiabe e canti,
Poligrafica Ruggiero, Avellino 1992, p.220;
179
Romei Gennaro, ‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p.128;
180
Basile Giovan Battista, Lo cunto de li cunti, V, 7, Letteratura
Italiana Einaudi, p. 454;
181
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p. 135;
182
Romei Gennaro, idem, p. 157;
167
Filomeno Moscati
Un’altra fonte dei cunti serinesi è ravvisabile nelle
fiabe dei fratelli Grimm.
Evidente, infatti, è il legame fra“Il pescatore e sua
moglie”183e “ ‘O pisciulinu r’oru”;184
fra“Raperonzolo”185e“Persemula”;186
fra“Pollicino”187e“Pirucchiellu”;188per citarne solo
alcuni.
Ѐ
opportuno, inoltre, evidenziare che forti
rassomiglianze tra le fiabe dei fratelli Grimm e i cunti
del Basile erano state già riscontrate nella prima
edizione inglese di alcune fiabe dei fratelli Grimm.
La prefazione di questa edizione, risalente al 1823,
dopo aver rilevato le rassomiglianze che accomunano
tra loro le fiabe di epoche e di paesi distanti e non
comunicanti fra loro, così sottolinea le rassomiglianze
che intercorrono tra le fiabe tedesche dei Grimm e
quelle in dialetto napoletano del Basile:
“ Ma è curioso osservare che questa connessione, fra
le fiabe popolari di remote e non comunicanti regioni, è
183
Hausehold tales by the Brothers Grimm, The fisherman and
his vife, George Bell and Sons, London 1884;
184
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Poligrafica Ruggiero,
Avellino 1981, p.46;
185
Hausehold tales by the Brothers Grimm,Rapunzel, George Bell
and Sons, London 1884;
186
Romei Gennaro, idem, p.86;
187
Hausehold tales by fhe Brofhers Grimm,Thumbling, George
Bell and Sons, London 1884;
188
Romei Gennaro, idem, p. 65;
168
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
egualmente rimarcabile nella più ricca raccolta di
narrativa tradizionale di cui un paese possa vantarsi.
Noi intendiamo riferirci al “ Pentamerone, overo
Tratenimento de li Piccerilli”, pubblicato da Giov.
Battista Basile molto tempo prima, nel XVII secolo, da
vecchi racconti comuni fra i napoletani. Ѐ singolare che
fiabe tedesche e napoletane ( sebbene queste ultime
fossero quasi sicuramente sconosciute agli stranieri e
mai tradotte in lingue diverse da quelle italiane)
posseggano una fortissima e assai minuziosa
rassomiglianza”189
Questa rassomiglianza, comunque, riveste un
significato assai modesto se riferita alle fonti delle
diverse raccolte fiabesche, mentre ne assume uno
grandissimo se riferita alla determinazione dell’origine
della fiaba, perché essa può essere rinvenuta nelle
favole di tutte le epoche e di tutte le civiltà, comprese
quelle primordiali.
Ciò nonostante queste somiglianze hanno dato luogo
a interpretazioni dissimili circa la fonte primaria della
fiaba;
interpretazioni,
espresse
da
studiosi
appartenenti a diverse scuole di pensiero, che, pur
partendo dalla constatazione dell’esistenza di questi
189
German popular stories translated from the Kinder und
HausMarchen collected by M. M. Grimm from oral tradition,
Published by Baldwin, Newgate Street, London 1823, Preface IX;
169
Filomeno Moscati
legami,
hanno manifestato in materia opinioni
contrastanti.
Fra questi studiosi c’è chi ha visto l’origine delle fiabe
nei miti della più remota antichità (fratelli Grimm, Max
Muller);
Gli antropologi, invece, partendo dal presupposto
che tutti gli uomini hanno una identica struttura
psicologica, ritengono che le fiabe siano nate e fiorite
spontaneamente presso tutti i popoli e costituiscono,
perciò, la manifestazione più genuina della cultura
espressa dalla loro civiltà.
Tra gli psicanalisti c’è chi ritiene che nelle fiabe,
come nei sogni, riaffiorino e si rendano manifesti gli
istinti, che, nello stato di coscienza, rimangono repressi
nel subconscio di ogni singolo uomo (Freud);190 o che
le fiabe non siano altro che un prodotto di pura
fantasia, ossia un sogno ad occhi aperti, in cui si rende
manifesto non già l’inconscio individuale, come
riteneva Freud, ma l’inconscio collettivo, cioè gli
archetipi ( idee o modelli primordiali) presenti
nell’inconscio di ogni popolo (Jung), 191ed è questa la
ragione per cui le fiabe presentano affinità evidenti
presso tutti i popoli, compresi quelli che, ancora oggi,
190
Freud S., La presenza nei sogni di materiale derivante dalle
favole, 1913;
191
Jung Carl Gustav, Gli archetipi dell’inconscio collettivo 1934;
Psychologische typen 1921;,
170
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
vivono in uno stato di civiltà primitiva.192 Jung ritiene,
inoltre, che anche i personaggi delle fiabe, come l’eroe
protagonista, la fata, il vecchio dotato di poteri magici,
etc., siano archetipi, frutto del riaffiorare di idee e
immagini
primordiali
presenti nell’inconscio
collettivo di tutti i popoli.
L’ importanza delle fiabe, raccolte da Gennarino
Romei in “Nci steva ‘na vota” , non sta, perciò, nel
fatto, puramente sentimentale, che egli con queste
fiabe ci riporta al tempo della nostra infanzia lontana,
ma nella constatazione, reale e pratica, che egli, con
questo libro, tramanda, a noi come ai posteri, la
cultura dell’antica civiltà di Serino; la cultura della sua
civiltà contadina espressa attraverso le fiabe.
Le fiabe, infatti, a qualsiasi popolo, epoca, etnia e
civiltà appartengano, pur presentando personaggi,
situazioni e azioni se non identici almeno molto simili,
assumono grande importanza perché sono rivelatrici di
culture differenti.
A un lettore attento balza subito evidente che, al di
là delle palesi rassomiglianze delle trame , dei
personaggi e delle azioni, le fiabe di paesi diversi
manifestano la loro differenza di culture
nelle
descrizioni dell’ambiente, che è sempre simile a quello
192
Campbell Joseph, La mitologia creativa. La maschera di Dio,
Mondadori 1992;
Mitologia primitiva, Mondadori 1995;
171
Filomeno Moscati
del paese d’origine della fiaba ( napoletano per quelle
del Basile, germanico per quelle dei Grimm, la steppa
per quelle russe, di Serino per quelle serinesi, etc.);
ma, cosa assai più importante, esse descrivono
abitudini, tradizioni, relazioni umane e sociali diverse
a seconda dei popoli e dei luoghi in cui le fiabe si
svolgono e di cui esse , perciò, attraverso queste
descrizioni, fanno rivivere l’antica cultura e l’antica
civiltà.
La cultura popolare materiale (vedi p. 47) dell’antica
civiltà di Serino riaffiora , in questo libro, nella
descrizione dell’ambiente in cui il contadino serinese
viveva:
la casa con il pollaio nel cortile, il sacco di cenere per
il bucato (‘a culata) conservato dietro la porta
d’ingresso, la cantina, (o cellaro, p.91) scavata sotto
l’abitazione e a cui si accedeva attraverso una botola (
cataratta);193
Il mandrillo per il maiale e la stalla per il cavallo; 194
la porta d’ingresso dell’abitazione, munita alla base di
un pertugio che permetteva l’entrata e l’uscita dei
polli;195
193
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Pienzu, Poligrafica
Ruggiero, Avellino 1981, p. 17; ‘a culata, p. 40 ; ‘o conzapiatti, p.
55;
194
Romei Gennaro, idem,‘O monucu circacatore, p. 74;
195
Romei Gennaro, “idem, ‘A vorpe e ‘o lupu”, p. 37;
172
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
gli antichi mestieri come il “ramaro”, il compratore
di oro vecchio, il “conzapiatti, lo“scarparo” (p.99), Il
“barbiere”, il “sarto”, il “chianchiere” etc.;
la descrizione di lavori come la battitura dei noci al
momento della raccolta;
l’aratura del terreno per la semina fatta con l’aratro a
pertica tirato da un bue;
il ciclo della produzione del mais dalla semina alla
raccolta;196
gli arnesi e i recipienti di lavoro, come la zappa, la
vanga, il barile, la botte, etc,;
il gioco delle “stacce; e tanti altri aspetti della vita
quotidiana del popolo contadino.
Ancora più importante è il fatto che, in questo libro,
non rivive soltanto l’antica cultura popolare materiale
di Serino, ma anche quella spirituale (vedi p. 47); una
cultura di cui le fiabe sono parte non secondaria
perché in esse , oltre al riemergere di antiche
tradizioni, viene immortalata la lingua, che di questa
cultura è la massima espressione.
La lingua, infatti, secondo molti etnologi, è lo
specchio fedele della cultura di ogni gruppo sociale;197
196
Romei Gennaro, “idem, Comp’Allitiellu”, p. 27; la semina , p.
65; produzione del mais,p 70;.
197
Malinowski B., Una teoria scientifica della cultura, (saggio
postumo) 1944;
Durkheim E.; The division of Labour in Society, 1893;
The rules of Social Methods, 1895;
173
Filomeno Moscati
uno specchio, che, attraverso le parole, trasmette
l’immagine riflessa dei fenomeni fondamentali che
caratterizzano la vita del gruppo: l’alimentazione,
l’organizzazione politica ed economica, le credenze e
le tradizioni, cioè un “complesso di conoscenze, di
credenze, di arte, di morale,di diritto, di costume e di
ogni altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo
nella sua qualità di membro di un gruppo sociale” .198
La conseguenza è che non si può conoscere un
gruppo sociale senza passare per l’intermediario della
lingua, e, anzi, c’è un nesso così forte tra struttura
sociale e struttura linguistica che le variazioni delle
strutture linguistiche possono essere considerate
rivelatrici – e quindi testimonianza - delle variazioni
intervenute nelle strutture sociali dei gruppi che
parlano quelle lingue.
Una precisazione, comunque, va fatta anche riguardo
alle mutazioni che la lingua subisce, attraverso i secoli,
col mutare delle strutture sociali; ed è che la lingua,
pur variando attraverso i secoli, conserva in sé tracce
riconoscibili della storia passata del popolo che la
esprime; tracce risalenti perfino a epoche e civiltà
lontanissime. Ciò è accaduto anche per la storia del
Mauss M.; Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, 1896;
Essai sur le don, 1924;
de Saussurre F., Course de Linguistique Générale, Losanna 1916;
198
Tylor Edward Burnett, Primitive culture, John Murray,
London 1920, p. 1;
174
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
popolo serinese nel cui dialetto (o, meglio, in quello
parlato ai suoi tempi sulla riva destra del Sabato)
Filippo Masucci ha individuato parole (ereva per erba;
salevatico per selvatico; Salevatore per Salvatore199
goreva per curva), che, presentando l’aggiunta della
vocale e fra due consonanti200, costituiscono la
testimonianza, ancora viva in età contemporanea,
dell’antica lingua osco- sannita una volta parlata dal
popolo di Serino.
L’anaptissi è presente, in modo diffuso, anche nelle
fiabe riportate da Gennarino Romei, ma, in esse, la
vocale aggiunta non è soltanto la e ma anche la u e la
i (es. lepuru per lepre e lepiri per lepri) , ciò che
evidenzia una differenza fra il dialetto parlato sulla riva
sinistra del fiume Sabato e quello parlato sulla riva
destra.
Questa differenza era già stata rilevata dal più illustre
letterato serinese, il prof. Salvatore Floro Di Zenzo
O.F.M, che, da filologo cattedratico,201 così si esprime,
sul dialetto del suo paese , proprio nella premessa al
libro “ ‘Nci steva ‘na vota” di Gennarino Romei:
199
Masucci Filippo, Serino nell’Età Antica, (ricerche
storiche),Tipografia Pergola, Avellino 1959 , p. 24;
200
N. d. A, l’anaptissi, cioé l’aggiunta della vocale fra due
consonanti , e soprattutto quello della vocale e, era un fenomeno
molto diffuso nella lingua osca.
201
Cfr. Moscati Filomeno, Salvatore Floro Di Zenzo, francescano
poeta e poeta francescano, EUROPRINT 2000, Sirignano ( AV)
2008, pp. 55-89;
175
Filomeno Moscati
<<ll pregio di questo bel libro ...è nell’aver saputo
conservare la freschezza della parlata serinese, avendo
egli riscritto “ e cunti” raccolti a viva voce così come la
memoria di un popolo li ha sottratti e conservati
all’usura del tempo e ai cambiamenti del costume e
della civiltà.....Ma... noi vorremmo precisare che
l’importanza di questa raccolta è nell’aver rispettato la
primordialità orale del linguaggio.
Il linguaggio che ha dominato nei secoli la valle del
Serino è un miscuglio di osco–sannita, di latinolongobardo, di avanzi gallo-romanzi, non esclusi i
continui prestiti, ora greci ora bizantini....La stessa
frazionatura del paese al di qua e al di là del Sabato,
ove Serino sembra demarcarsi etnicamente,
geograficamente e anche politicamente, ci porta a
costatare una biforcazione linguistica, per cui mentre
nella lingua della frazione Rivottoli c’è una prevalenza
di latino-longobardo e in quella di Ferrari una
prevalenza di residui bizantini, nella frazione S. Biagio,
invece, (tanto per citare le frazioni più antiche), una
prevalenza linguistica di carattere più marcatamente
gallo-romanza.>>
Salvatore Floro Di Zenzo, dopo aver individuato le
radici lontane e diverse del dialetto serinese, conclude
l’analisi evidenziando che: <<La terminologia è quasi
prevalentemente, se non esclusivamente, originata da
un codice fisiologico, anzi alcune parole chiave, come la
176
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
parola“culu” del racconto “Unculillu”, denotano una
società tipicamente agricola che svolgeva la sua vita
fra il lavoro dei campi e il contatto quotidiano con la
pastorizia>>, mentre <<la parola ”‘o cumpare”,
circolante nel racconto ”’A malafemmina”, denota un
comportamento sociale molte volte attuato fra
tradimento e faida. Altro lessico ricorrente nei racconti
è solo una variazione di significati primordiali che
vanno dalla parola “merda” al sintagma pisciare,
cacare, cugnuta, ecc. ecc.. Trattandosi di un racconto
parlato, l’Autore è stato molto scrupoloso nel riportare
tutte le apocope, le aferesi, i troncamenti, le elisioni, gli
iati, ossia tutte quelle leggi fonetiche che costituiscono
la bellezza di questo ricco e robusto linguaggio che è
stato la lingua madre del nostro popolo e che oggi,
purtroppo, va scomparendo, per l’osmosi a cui vanno
soggetti i popoli per il fenomeno dell’emigrazione e
dell’ immigrazione.>>202
Il regredire del dialetto , quale lingua del popolo
serinese , iniziato con la commistione fra linguaggi
diversi dovuta ai flussi migratori, si è andato
progressivamente accentuando col diffondersi di
potenti ed efficaci mezzi di comunicazione di massa,
202
Romei Gennaro,‘Nci steva ‘na vota, Premessa di Salvatore
Floro Di Zenzo, Poligrafica Ruggiero, Avellino 1981;
177
Filomeno Moscati
come la televisione, e il progressivo affermarsi di una
“letteratura industrializzata”.203
Questo fenomeno sociale era stato compreso da
Gennarino Romei, che, intuendo il baratro che si
andava spalancando tra il popolo serinese e la sua
antica cultura contadina, nello struggente e
appassionato Saluto di commiato ai suoi compaesani,
(riportato alle pagine 98 e 99 di questo libro) li esorta
a far sì che, attraverso la lettura delle fiabe da lui
raccolte dalla viva voce del popolo, il legame con la
lingua dell’antica civiltà contadina non vada perduto,
e, per consentire che ciò avvenga, arricchisce il suo
libro di fiabe con un dizionarietto del dialetto serinese.
Gennarino Romei è stato un cronista attento,
minuzioso e preciso dell’antica civiltà contadina del
suo paese; un narratore che con le sue cronache, e
radiocronache, ha trasmesso, a noi e ai posteri, una
documentazione preziosa per la comprensione della
cultura della nostra antica civiltà. Egli, di questa civiltà
ormai al tramonto, in cui era perfettamente integrato,
è stato anche l’ultimo, degno epigono, e, essendo
perfettamente cosciente di essere diventato uno
straniero nella propria terra, così si accommiata da
essa:
203
Di Zenzo Salvatore F., Pelosi Pietro, Metodologia e tecniche
letterarie, La Spirale, Guida Editori, Istituto Grafico Italiano S. p.
A., Cercola (Napoli) 1976, p. 63;
178
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
<<Debbo, purtroppo, oggi constatare che a causa
della cultura dominante, non più ispirata ai principi
evangelici, il mondo va popolandosi di nuovi idoli
(immoralità, piacere, successo, denaro, ladrocinio,
tangentopoli, droga ecc. ecc.) e che a causa del
benessere e del consumismo gli uomini sono in
continua lotta per il possesso dei beni terreni. Quante
comodità vengono oggi trasformate in necessità
indispensabili! E i soldi non bastano mai.
Si perde così ogni tranquillità interiore ed esteriore,
mentre avanzano inesorabili gli esaurimenti nervosi
che logorano di giorno in giorno la salute. Che brutta
vita! Ma perché? Solo perché non si sa né si vuole più
rinunciare a tali false necessità di cose materiali che ci
schiavizzano.
L’uomo, così agendo, vive lontano da Dio. Ed io , in
questo mondo in cui Dio è assente, a volte mi sento
come uno straniero.
Sono contento, però, che, con il trascorrere degli anni,
la mia fede in Dio non si è affievolita. Senza di Lui io
non sono nessuno.
Oramai sono vecchio, 80 anni, e sono stanco. Non
credo, perciò, di poter dare qualcosa di più alla società,
anche perché l’ora del tramonto si avvicina:
Signò, Tu m’e chiamatu?
Aggiu sintutu ‘na voce luntanu,
ma, penzica, mi so sunnatu.
179
Filomeno Moscati
Signò, mò t’o ricu:
io nu bulesse murì,
ma pi’ quantu ni sacciu,
‘nu iuornu e chissu
‘stu munnu lassu:
oi, crai o pruscrai?
O , penzica, chiù ni là?
Io nun ‘o sacciu;
ma Tu si c’o sai.
Ma quannu ‘a morte
Vène a tuzzulià
vicinu ‘a porta,
iu ruscu ruscu mi incamminu,
ma Tu ‘nde brazza toie
accuoglimi, o miu Signore.204
Gennarino Romei ritiene, però, necessario aggiungere,
a quesra toccante preghiera in dialetto serinese, la sua
traduzione in lingua italiana perché possa essere
compresa anche dalle generazioni future; ciò che
costituisce un’ulteriore conferma che egli si sente ,
ormai, uno straniero in patria, uno degli ultimi
rappresentanti di una civiltà e di una cultura che si
vanno, man mano, perdendo. Ecco perché anche noi,
come Gennarino, riteniamo opportuno riportare
204
Romei Gennaro, “I RICORDI” della mia vità, Poligrafica
Ruggiero, Avellino 1993, pp. 236-238;
180
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
questa traduzione come retaggio per le generazioni
future:
Signore, Tu mi hai chiamato?
Ho sentito una voce lontana,
ma, forse, ho sognato.
Signore, ora te lo dico:
io non vorrei morire,
ma per quanto ne so,
un giorno di questi
questo mondo lascio.
Oggi, domani o dopodomani?
O, forse, più in là?
Io non lo so; ma Tu si che lo sai;
ma quando la morte
viene a bussare alla porta,
io in silenzio m’incammino,
ma Tu nelle tue braccia
accoglimi, o mio Signore.
181
Filomeno Moscati
182
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Bibliografia
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185
Filomeno Moscati
Testo di Gennarino Romei – SIRINU… TERRA MIA
Musica di Teresa Vigorita
186
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Indice degli autori
Aarne A.
Accame S.
Agazzi A.
Apuleio L .
Basile G. B.
Boldo B.
Boschetti Alberti M.
Bosco G.
Calvino I.
Campbell J.
Capriglione F.
Cinti D.
Croce B. .
Cuniberti P.
D’Azeglio M
De Agostini
Decroly O.
De Feo G .
De Leonardis C.
Delort R.
De Sanctis F.
de Saussure F.
Di Zenzo S. F.
Durkheim E
Farese N.
Romei G.
Feola A.
Sacchetti L.
Ferroni G.
Shapiro B.
Freud S.
Taylor E. B.
Ghilardi F.
Thompson S.
Granese A
Tucitide
Grimaldi P.
Vico G.
Grimm J e W.
Virgilio
Guisdorf G. P.
Zumtor P.
Guglielminetti M.
Iallonardo G
Jung C. G.
Lejune P.
Masucci A..
Masucci F.
Mauss M.
Morris C.
Moscati F.
Pascoli G..
Pazzini. A.J.
Pelosi P.
Pernety A.
Pescatore G.
Propp V. J.
187
Filomeno Moscati
188
‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
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Albo d’oro dei caduti, dispersi, feriti e decorati nella
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Boschetti Alberti M., La scuola serena di Agno, Società
Editrice La Scuola, Brescia 1955;
Bosco G., In che cosa consiste il sistema preventivo e
perché debbasi preferire;
Calvino I., Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956;
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Mondadori 1951;
Mitologia
Primitiva,
Mondadori
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Capriglione F., De Feo G., Farese N.,Feola A., Iallonardo
G., A ROSAMARINA, Stampa Editoriale, Avellino 2008:
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Filomeno Moscati
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2008;
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Milano 1989;
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l’inseignement, Lamertin, Brussels 1929;
De Leonardis C. Il finto incanto. Testo critico,
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‘Nci steva ‘na vota GENNARINO ROMEI
Indice
Presentazione............................ p. 3
I “I RICORDI” della mia vita.............p. 9
II Opere varie di Gennaro Romei p.. 43
III ‘Nci steva ‘na vota .....................p.131
Indice degli autori...................... p.187
Bibliografia..................................p.189
Indice..........................................p. 195
195
Filomeno Moscati
Finito di stampare
nel mese di maggio 2013
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Ѐ vietata la riproduzione anche parziale
con qualsiasi mezzo effettuata
compresa la fotocopia non autorizzata
Ѐ possibile consultare le altre
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digitando FILOMENO MOSCATI
(bibliografia)
196
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