1 Paolo Cucchiarelli Piazza Fontana Chi è Stato? L’altra verità sulla madre di tutte le stragi A cura di Vincenzo Vasile Indice Una missione assai speciale Prefazione di Vincenzo Vasile Introduzione L’‘inutile’ inchiesta di Guido Salvini I dubbi e le certezze dei politici sulla strage Dove porta la ‘pista tedesca’ (mai battuta) Una missione assai speciale Prefazione di Vincenzo Vasile A quei tempi in Europa circolava un manuale, intitolato Missioni Speciali, anzi in francese: Missions spéciales. C’era scritto: “Il terrorismo spezza la resistenza della popolazione, ottiene la sua sottomissione, e provoca una frattura fra la popolazione e le autorità. Ci si impadronisce del potere sulla testa delle masse tramite la creazione di un clima di ansia, di insicurezza, pericolo; il terrorismo selettivo (…) distrugge l’apparato politico e amministrativo eliminandone i quadri; il terrorismo indiscriminato (…) distrugge la fiducia del popolo disorganizzando le masse, onde manipolarle in maniera più efficace”. Aveva compilato queste parole un ex-ufficiale dei servizi segreti francesi di cui non si sa bene quale fosse il nome anagrafico, e quale quello di battaglia, c’è chi pensa si chiamasse Yves Guillou, e chi - più probabilmente - Ralph Guérin Serac. L’uomo era specializzato in operazioni sporche. Aveva lavorato nell’intelligence francese in contatto con la Cia. Era passato all’Oas dopo l’indipendenza algerina. Poi s’era trasferito in Portogallo. Qui nel 1966, tre anni prima di Piazza Fontana, aveva fondato con i soldi dei regimi fascisti portoghese, spagnolo, greco, sudafricano, e l’aiuto statunitense, l’Aginter press, che era una centrale dedita a tali “missioni speciali” un po’ in tutto il mondo, attiva nelle ultime imprese neocoloniali, e specializzata in Europa soprattutto 1 2 nell’intossicare e infiltrare movimenti di sinistra, provocandoli a compiere sotto “bandiere di sinistra” quella progressione di atti terroristici di cui abbiamo letto schema e scopi nel manuale di Guérin Serac. Chi aveva vent’anni in quell’epoca e si batteva, invece, al fianco dei “dannati della terra” ripeteva spesso il malinconico motto di Frantz Fanon, ben altro scrittore francese, che ammoniva: guai a dire che quell’età fosse la migliore della vita. Opinabile valutazione, soprattutto allora che la gioventù di Europa stava vivendo uno dei periodi più effervescenti e insieme torbidi della storia: grandi movimenti di lotta e spinte eversive, contrapposti gli uni alle altre, ma a volte mischiati in uno stesso calderone, di cui non si conoscevano i cuochi-stregoni, che applicavano - per l’appunto - le ricette del manuale sulle missioni speciali di Guillou-Guérin Serac. Quel manuale a quei tempi noi non l’avevamo letto. C’era chi in Italia, invece, l’aveva studiato, ricopiato pari pari, e pubblicato. Uno di essi si chiamava Clemente Graziani, ed era il fondatore del movimento neonazista Ordine Nuovo di cui troverete ampie tracce in questo libro. Graziani aveva scritto: “Terrorismo indiscriminato implica ovviamente la possibilità di uccidere o far uccidere vecchi donne bambini. (…) Queste forme di intimidazione terroristica sono oggi non solo ritenute valide ma, a volte, assolutamente necessarie”. A volte. Una di quelle volte accadde un grigio venerdì invernale, il 12 dicembre 1969 nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Diciassette morti, un’ottantina di feriti. L’autore di questo libro, Paolo Cucchiarelli, è uno dei giornalisti italiani che più approfonditamente hanno studiato i colossali incartamenti giudiziari e di polizia accumulatisi su quella fase molto nebulosa e molto tragica della nostra storia. Il titolo di un suo precedente volume, dedicato anch’esso all’eccidio di piazza Fontana, ha una splendida connotazione generazionale: quella avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969, così è scritto in copertina, è “la strage dai capelli bianchi”. Ci sono stati undici - undici! - processi. La nostra definitiva canizie coincide tristemente con quella che - dal punto di vista giudiziario - è una specie di pietra tombale della verità sulla strage. Come leggerete, i componenti del gruppo di “Ordine nuovo”, ultimamente accusati e condannati in primo grado per avere collocato e fatto brillare la bomba, sono stati assolti in via definitiva dalla Corte di Cassazione. Eppure i giudici, divisi su quasi tutto, concordano nell’indicare ancora quella matrice, fascista dell’eccidio. E hanno svelato un lunghissimo elenco di deviazioni, depistaggi, imbrogli, bugie e silenzi da parte degli apparati e dei responsabili governativi dell’epoca e di quelle successive. Nella sua maniera tipica di smorzare anche l’apocalisse, Giulio Andreotti, ha detto di ricordare su Piazza Fontana “soltanto grane”. Insomma, una fortissima seccatura. Tra le cose che il senatore a vita non ricorda e di cui invece potrebbe menare vanto, c’è una sua meritevole rivelazione sulla qualità di agente segreto di un certo Guido Giannettini, un giornalista neofascista, che tra l’altro aveva scritto in quegli anni concetti molto simili a quelli di Guérin Serac, distinguendo tra le “bombe fatte esplodere in uffici o locali pubblici nella strada negli assembramenti o nell’abbattere a caso gente a colpi di armi da fuoco” e il terrorismo selettivo che (...) alimenta sempre più la tensione creando un fenomeno irreversibile che tende alla guerra civile”. Norberto Bobbio chiamava questo intruglio infernale il criptogoverno. Cioè “l’insieme delle azioni compiute da forze politiche eversive che agiscono nell’ombra in collegamento con i servizi segreti, con parte di essi, o per lo meno da questi non ostacolate”. E basterebbe una definizione così lucida e icastica per spazzare via lo sproloquio negazionista di certi analisti che vorrebbero cancellare persino la categoria interpretativa di “strategia della tensione”, che fu inaugurata proprio a partire dalla tragedia di piazza Fontana. Un’altra citazione è necessaria, dalla prosa apparentemente felpata e molto drammatica, lasciata nel “carcere del popolo” da Aldo Moro. La strategia della tensione esistette, e come. Moro scrive precisamente nel suo memoriale di una “cosiddetta strategia della tensione”, e sostiene che essa “ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della ‘normalità’ dopo le vicende del ’68 e del cosiddetto autunno caldo (…). Fautori ne erano in generale coloro che nella nostra storia si trovano periodicamente, e cioè ad ogni buona occasione che si presenti, dalla parte di chi respinge le novità scomode e vorrebbe tornare all’antico 2 3 (…). E così ora lamentavano l’insostenibilità economica dell’autunno caldo, la necessità di arretrare nella via delle riforme e magari di dare un giro di vite anche sul terreno politico (…). E’ doveroso alla fine rilevare che quello della strategia della tensione fu un peridoto di autentica e alta pericolosità, con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise…”. Autentica e alta pericolosità, dice Aldo Moro. Che con quel suo cosiddetta riferita alla strategia della tensione, forse vuol alludere alla composita presenza di diverse anime e frazioni eversive, oltranziste e moderate, movimentiste e d’apparato, che Moro aveva ben presenti anche individualmente e personalmente nella memoria e nell’esperienza. Non c’era, insomma, un unico regista, un Grande Vecchio, ma esistevano tanti più o meno piccoli e grandi attori di una trama corale. Cucchiarelli racconta anche di come - secondo certi documenti provenienti dai servizi britannici - lo stesso Moro si fosse prestato qualche anno prima a un compromesso che archiviò per lunghi anni la pista giudiziaria nera, in cambio del ritiro della minaccia (che sarebbe venuta dal Quirinale di Saragat) di uno spostamento a destra dell’asse politico di governo e di una fibrillazione istituzionale. E’ in ogni caso impressionante come in questi anni si siano accumulati negli archivi giornalistici e giudiziari una miriade di accenni, allusioni, ammissioni, rivelazioni sul “criptogoverno” di cui parlava Norberto Bobbio e sugli appoggi internazionali della trama che ha il suo culmine a piazza Fontana. Allusioni e rivelazioni che provengono da parte di protagonisti e comprimari di quelle vicende che le vissero dall’interno del sistema politico di governo. Questo libro scava con acribia e passione dentro questa miniera archivistica, che incredibilmente - pur dopo tanti anni - ci sembra praticamente intatta sul piano della riflessione storica e politica. Si pensi solo alle sconcertanti parole e all’analisi, che leggerete, o alcuni di voi - riteniamo pochi - rileggeranno, dell’ex ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, che non era un giornalista “pistarolo”. La responsabilità della strage? Di Ordine Nuovo, collegato con settori dei servizi italiani. Un colonnello del Sid depistò le indagini a sinistra. A un altro “colonnello” gli esecutori fascisti scapparono di mano, e quello che doveva essere un botto senza vittime divenne una strage. L’esplosivo? L’ha fornito “un agente nord americano”. Sembra un film dietrologico, e invece ha lasciato scritta questa sceneggiatura un importante e autorevole uomo di governo. Secondo Cucchiarelli, nello stesso quadro di un sistema politico paralizzato dalla Guerra Fredda e dall’esclusione del Pci dal governo, anche la sinistra avrebbe da farsi perdonare silenzi e omissioni sulla strage e il suo contesto, e questa affermazione farà sicuramente discutere. Molto c’è ancora da scandagliare. Un punto è certo: come ha scritto Nando Dalla Chiesa, questa vicenda è stata “il più grandioso laboratorio di impunità giudiziaria” mai concepito nella storia repubblicana. Archiviata disastrosamente la via giudiziaria alla verità, l’unica strada che rimanga praticabile per dar giustizia ai diciassette morti di piazza Fontana e alle vittime del fiume di sangue che ne è successivamente sgorgato è quella indicata da questo libro. Cioè una riflessione politica e una ricerca storica sgombre da pregiudizi, forse ancora attuabili con l’aiuto dei pochi testimoni che rimangono e attraverso la rilettura di archivi affastellati e lasciati lì a dormire in un disordine apparentemente casuale, come la “lettera” del racconto di Edgar Allan Poe, formidabile archetipo letterario di misteri, trame e depistaggi e di delitti senza colpevoli. Decisiva sarebbe la disponibilità degli archivi americani, ancora secretati e centellinati per quel che riguarda la “madre di tutte le stragi” italiane: la rete americana di supporto agli stragisti che era stata intuita dal giudice Salvini è esistita davvero? Chi la componeva? Che fine hanno fatto gli agenti Usa di cui si parla nell’inchiesta, quell’agente di cui parlava Taviani? Diciamo che si sa soltanto che alcuni loro successori - appartenenti alla sede Cia locale - trentacinque anni più tardi hanno sequestrato e torturato un uomo a Milano, e se ne sono tornati tranquilli a casa. Trentacinque anni dopo, ne sappiamo qualcosa di più. Sappiamo fondamentalmente che tutto si tiene: che non può essere un caso se, per esempio, il capo dei “corleonesi” Luciano Liggio venisse fatto scappare proprio a Milano alla vigilia della strage. Lui stesso dirà in pubblica udienza tanti anni dopo che “i generali” in quei mesi volevano ribaltare lo Stato, che si rivolsero anche a Cosa 3 4 Nostra, a lui personalmente, gli promisero “libertà”, e si vanterà con linguaggio tra l’oscuro e il plebeo di “avere salvato il culetto” alla democrazia. E che la sua latitanza dorata potesse avere molto a che fare con le trame e con le stragi l’aveva scritto proprio sull’Unità in quegli anni inascoltato - Pio la Torre. Trentacinque anni dopo, tuttavia, all’apparenza è cambiato tutto, ma se non si farà luce su quelle pagine del passato non è detto che non possa un giorno spuntare qualcuno che pretenda di tornare indietro, e abbia tenuto ancora inserito il proprio segnalibro nel capitolo dell’anno 1969, giorno 12 dicembre, ore 16,35. Anno, giorno, mese e ora, quando i capelli di molti di noi cominciarono a imbianchire. Piazza Fontana. Chi è Stato? di Paolo Cucchiarelli Introduzione L’hanno definito, con un’enfasi emotiva che appare datata ma non eccessiva, il “giorno dell’innocenza perduta’’: è il 12 dicembre 1969 quando a Milano una bomba semina morte tra la gente colpevole solo di essere entrata in una banca. E’ gente comune, semplice; per lo più contadini e fittavoli, molti commercianti di bestiame della provincia. Sono in banca per una tratta, un bonifico, una cambiale in scadenza. I cadaveri sono maciullati; brandelli anche consistenti di corpi saranno staccati dalle pareti della banca tanto devastante è stata l’esplosione. I primi accorsi avranno incubi per giorni dopo la vista di tante membra sparse sul tappeto bruciato di frammenti riarsi che circonda l’area centrale della banca dove, sotto un gran tavolo ottagonale, è stata collocata la bomba. Alla fine il bilancio sarà di 17 morti e circa 80 feriti1. L’ultima vittima ci sarà molti anni dopo per le conseguenze delle ferite e delle ustioni di quel giorno. Negli occhi di chi accorse in banca quel pomeriggio rimarrà netta l’immagine di una scena di guerra. Contro dei civili innocenti e inermi. Con quell’esplosione è spazzata via una certa idea della politica e dello scontro sociale. Immediata fu la percezione che qualcosa di molto rilevante era accaduto e – caso rarissimo in un paese come l’Italia – la consapevolezza dei contemporanei si consolidò subito con le certezze del giudizio storico. La strage era terribile, oltre che per l’orrore per quei morti bruciati e a brandelli, anche per il suo significato politico. Pur tra scontri durissimi, politici e sociali, fino al 12 dicembre 1969, il conflitto era stato fisiologico; le regole del gioco, per quanto aspre, violente, erano state rispettate, magari violate ma mai negate alla radice. La polizia aveva sparato su dimostranti disarmati ad Avola, il 2 dicembre 1968, e Battipaglia il 9 aprile dell’anno seguente. A Milano un agente di polizia era stato ucciso in piazza durante lo sciopero generale il 19 novembre; il tasso di violenza delle manifestazioni sindacali e politiche era elevato ma tutti avevano l’intima certezza che si era sempre “dentro” le regole: quelle morti non erano state intenzionali, premeditate. Pianificate a tavolino. Ricercate come ‘prezzo’ per un obiettivo politico immediato. 1 Le vittime furono: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Calatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Gerolamo Papetti, Mario Pasi, Carlo Luigi Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè, Vittorio Mocchi. 4 5 Nessuno prima del 12 dicembre 1969 poteva ipotizzare, mettere in conto, che ci fosse chi potesse assumere la violenza come terreno strategico per la sua affermazione politica. Dopo Piazza Fontana tutto questo cambiò di colpo. Fu “l’inizio di un’onda emergenziale che dura da più di una generazione ormai, un fatto inaudito, una dimensione arcana”, come ricorda Massimo Cacciari, allora giovane assistente di filosofia a Padova2. La strage non ebbe che ambigue controfigure dei veri colpevoli, dei mandanti, del livello superiore di responsabilità; un elemento che un politico della destra DC come Paolo Emilio Taviani ritenne per anni un fatto decisivo per capire quello che è accaduto dopo. “Quell’impunità ha distrutto la fiducia nello Stato di un’intera generazione di cittadini. Il resto è venuto di conseguenza. Quella strage non doveva essere una strage, forse fu un errore di chi pensava di fare soltanto un botto, però ci fu. E da quel momento è stata una gara per insabbiarla. E alla fine tutto è finito, finito in niente, a cominciare dalla verità.”3 Quello scoppio segnò la proclamazione – dicono oggi coloro che erano il 12 dicembre sulle diverse barricate – di una vera e propria guerra, a bassa intensità militare ma ad alta valenza politica, che segnerà almeno tutto il decennio successivo e che avrà fasi, coloriture politiche e protagonisti diversi. Francesco Cossiga ha spiegato, con la franchezza che gli anni gli ha per fortuna regalato, i termini di quel confronto, invisibile o ben poco percepibile all’epoca dalla maggior parte della popolazione: “Eravamo in guerra. E non si trattava di una guerra simulata. La guerra ideologica era in realtà una guerra civile di low intensity”4. Colpisce che Aldo Moro, quel giorno a Parigi per il Consiglio d’Europa che aveva espulso la Grecia dei colonnelli dal consesso, fatto non estraneo alla strage, si rivolga ai famigliari commentando: “Siamo in guerra”. Un’espressione ancor più efficace e rilevante se si considera che Moro era famoso per la costante logica indiretta dei suoi discorsi; per la loro fumosità e spesso incomprensibilità. Un parlar chiaro che segna anche per l’allora ministro degli Esteri uno ‘stacco’, un cambiamento. E’ l’inizio del terrorismo per tanti giovani di destra e di sinistra. Il 12 dicembre 1969, un freddo venerdì, è un giorno importante perché il destino di tante persone in quelle ore cambia, imbocca improvvisamente una via imprevista che condurrà un’intera generazione a ipotizzare – e in tanti a fare negli anni a seguire – la “scelta delle armi’’. Oggi quei ragazzi del 1969 indicano tutti la stessa data come inizio di quel drammatico percorso: il venerdì in cui alla banca dell’Agricoltura “scoppiò la guerra’’ che lo Stato, tramite i gruppi fascisti, aveva proclamato per rispondere alle richieste e alle proposte del ’68 e che si stavano concretando in Italia anche in campo sindacale ed economico. Quel cambiamento sociale poteva trascinare con sé anche un mutamento del panorama politico, dei suoi equilibri, temuto e contrastato da tanti con tutti i mezzi possibili. Ci fu allora chi, per la prima volta nella storia della giovane Repubblica, scelse di ‘congelare’ quell’ipotesi politica innescando bombe. Il mondo che si muove per contrastare il cambiamento mette assieme conservatori di varie estrazioni politiche e ampi pezzi dello Stato, uniti in un intreccio perverso di silenzio e potere per ostacolare con ogni mezzo anche il più piccolo progetto riformatore. La bomba spezza vite ma anche progetti politici e sociali. Innesca accelerazioni altrimenti incomprensibili. Il fumo che esce dalla banca, quel pomeriggio, è il segnale che l’omicidio terroristico è divenuto strumento di lotta politica. Neanche venti minuti dopo, alle 16,55, è la volta di Roma: nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, che collega la sede di via Veneto con quella di via di San Basilio, un’altra bomba provoca 13 feriti. Alle 17,27 e 17,30 ancora due attentati; uno innanzi all’Altare della Patria, l’altro all’entrata del Museo del Risorgimento, su un lato del monumento: quattro i feriti. Subito scatta il depistaggio: i responsabili possono essere solo gli anarchici. Il Prefetto di Milano, Libero Mazza, telegrafa al Presidente del Consiglio: “L’ipotesi attendibile che 2 “La generazione del 12 dicembre”, l’Unità, 8 luglio 2002 “Sì, c’era un complotto contro Cossiga”, La Stampa, 10 ottobre 1991 4 Paolo Barbieri - Paolo Cucchiarelli, La strage con i capelli bianchi. La sentenza per Piazza Fontana, Roma, Editori Riuniti, p.15. 3 5 6 deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi”. In poche ore sono arrestati una decina di anarchici ma si perquisisce anche l’abitazione di Giovanni Ventura, editore di destra padovano, legato a Franco Freda, oggi ritenuti tra i responsabili della strage ma non più imputabili perché assolti in passato per lo stesso reato e quindi non più processabili. Tra il gruppetto degli anarchici arrestati c’è Pietro Valpreda, 37 anni, ballerino disoccupato. Valpreda, milanese, è appena arrivato da Roma, ed è legato al circolo del ‘Ponte della Ghisolfa’. A Roma ha fondato il circolo “22 marzo’’, largamente infiltrato dai fascisti e da informatori della questura. E’ identificato da un testimone, Cornelio Rolandi, come l’uomo della “borsa nera’’ che sarebbe salito sul suo taxi per andare intorno alle 16 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Da lì comincia il suo calvario giudiziario: per anni sarà ‘il Mostro’ della banca. Alla fine sarà assolto per insufficienza di prove. A Milano tra gli anarchici c’è Giuseppe Pinelli, il ferroviere che, arrestato dopo la strage, cade da una finestra della Questura il 15 dicembre, senza un grido. I sospetti per quello che è subito bollato come un omicidio cadono sul commissario Luigi Calabresi. Il perché di quella morte cela, probabilmente, il mistero di Piazza Fontana. Cioè le modalità degli ultimi 100 metri della ‘operazione’ e l’identità di chi collocò la bomba che uccise. Nel 1975 il procedimento per la morte di Pinelli si chiude con l’esclusione dell’omicidio e, per spiegare l’accaduto, si ricorre ad una categoria unica nella storia della medicina legale: quella del ‘malore attivo’ che avrebbe spinto Pinelli a roteare sulla balaustra e lasciarsi cadere nel vuoto senza quei movimenti istintivi propri anche di un suicida. Nel 1972 Calabresi, dopo accuse feroci e inutili processi, è ucciso sotto casa mentre sta andando in Questura. Condannati per quell’omicidio sono stati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani , Ovidio Bompressi e Leonardo Marino. Una storia che prosegue ancora oggi e che nasce la sera del 12 dicembre 1969 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Franco Restivo, di fatto impone al capo della Polizia, Angelo Vicari, di seguire a tutti i costi la pista dell’estrema sinistra. Fu quindi il potere politico – diviso sul da farsi – a tirare la vicenda da una parte e dall’altra perché dopo la strage era prevista un’escalation di ulteriori attentati e prese di posizione da parte di politici e militari. Nel disorientamento di quelle ore ad imporsi è la linea che punta dritto sugli anarchici, l’anello più debole della nascente sinistra estraparlamentare. Quello che colpisce è il significato che, a tanti anni di distanza, attribuiscono alla strage i tanti che vissero quelle convulse ore con l’immediata coscienza che qualcosa d’irreparabile fosse accaduto; che si fosse rotto un tacito patto che avevano sottoscritto tutti i contendenti della durissima stagione politica della “guerra fredda’’. “Nel Collettivo, con sede in un vecchio teatro in disuso in via Curtatone, si cantava, si faceva teatro, si tenevano mostre di grafica. Era una continua esplosione di giocosità e invenzione. Con la strage il clima improvvisamente cambiò”5, racconta Renato Curcio nelle sue memorie ricordando il clima nel Collettivo politico metropolitano, la struttura politica che precede il passaggio alle Brigate Rosse di cui è stato tra i fondatori. Curcio il giorno della strage fu arrestato: gli puntarono un mitra addosso. Rilasciato durante la serata, si cominciò subito a valutare, nel Collettivo, la strada da imboccare. Alla fine del mese c’è il convegno di Chiavari dove compare, per la prima volta, l’ipotesi della lotta armata in un documento teorico. Le Br compiranno la loro prima “azione esemplare” incendiando l’auto di un capo reparto nel settembre 1970. Ancora prima, in gennaio Potere Operaio, nato nel novembre precedente, aveva, nel corso del primo convegno nazionale del movimento teorizzato la “distruzione violenta della macchina dello Stato” gettando le basi del “partito della violenza”. Nel luglio 1969, un mese importante come vedremo, Giangiacomo Feltrinelli aveva pubblicato l’opuscolo “Estate 1969 - La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di Stato all’Italiana”, in cui si sanciva il “definitivo tramonto non solo del revisionismo, ma anche dell’ipotesi che si possa compiere una rivoluzione socialista senza la critica delle armi”. 5 Renato Curcio, A viso aperto, intervista di Mario Scialoia, Mondadori, Milano, 1993, p.49 6 7 Dopo la strage, l’editore, principale obiettivo operativo della ‘operazione’ militar-politica, si difende con lettere ai giornali e dichiarazioni dalle critiche che in tanti gli rivolgono, anche da sinistra, per essersi sottratto al confronto con polizia e magistratura, affermando che Piazza Fontana “segna la fine delle illusioni e delle speranze che vanno sotto il nome di via italiana al socialismo”. Anche per lui la scelta è netta; irrevocabile. Feltrinelli assume l’identità d’Osvaldo Ivaldi, lo stesso nome di copertura utilizzato da Osvaldo Pesce, il capo dei Gap resistenziali. I Gap dell’editore però non attaccano formazioni tedesche o fasciste ma incendiano a Genova una sede dello Psu, il partito del Capo dello Stato, Giuseppe Saragat e la sede del consolato Usa. Sono le due prime azioni della “nuova resistenza”. Naturalmente la scelta degli obiettivi non è casuale ma indica i due pilastri di quel ‘partito trasversale’, nazionale ed internazionale, che aveva ipotizzato per l’Italia una soluzione politica istituzionale che l’allineasse al Portogallo, alla Spagna, alla Grecia in una sorta di “arco mediterraneo delle dittature”. Tutti regimi fascisti o militari. L’unica eccezione, in quest’arco mediterraneo era la Francia ma De Gaulle stava già pagando il conto della sua indipendenza con gli attentati dell’Oas e le infiltrazioni nel maggio francese. L’Italia era ritenuta in bilico: terra di frontiera. Fondamentale, come racconta l’ex capo della Cia William Colby.6 E’ molto difficile rendere comprensibile oggi, cercare di spiegare, quanto quell’evento, i morti, e quello che ne conseguì per molti anni, abbiano inciso sulla storia del nostro Paese. Senza quella strage, probabilmente, la storia dell’ultimo trentennio del secolo passato sarebbe stata molto diversa. Non ci sarebbe stata una “scelta delle armi” così ampia da parte di tanti giovani in tempi così rapidi; non la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che tanto influenzò tale scelta; non l’uccisione del commissario Luigi Calabresi indicato come il responsabile principale della morte dell'anarchico avvenuta alla Questura di Milano; non la clandestinità preventiva – fuggì pochi giorni prima della strage dopo aver denunciato i rischi di un colpo di Stato già dal 1968 - dell’editore “rosso” Giangiacomo Feltrinelli che cercò subito di coagulare la reazione politica alla strage indicata ben presto come “di Stato”, diventando in poco tempo punto di riferimento obbligato della galassia d’uomini e sigle che in pochi anni costituirà il “partito armato”; non le stesse Br che nascono anche sull’onda di quello che la strage significò per tanti giovani che oggi hanno i capelli bianchi. Una catena che nasce però proprio quel pomeriggio del 12 dicembre, inevitabilmente. “Con altri, segnatamente dopo le bombe di Piazza Fontana, ritenni che la prospettiva di uno scontro frontale con il sistema politico parlamentare e con le istituzioni statali, fosse ormai inevitabile’’, ha ricordato ancora Renato Curcio. Ciò perché, come sintetizzò con efficacia il sociologo Luigi Manconi in occasione del ventennale della strage, “col dicembre del 1969 cambia tutto. La strage di Piazza Fontana introduce nel conflitto in corso un’arma spaventosa e non prevista: non contemplata, si potrebbe dire, dagli accordi taciti, dai ‘protocolli bellici’, tra i due avversari (il movimento studentesco e operaio, da una parte, e gli apparati dello Stato, dall’altra)’’. Si passa dagli attentati ai simboli dello Stato (Tribunali, Senato, Banche, Fiere, Università, ecc.) alle persone, anzi alla folla, indistinta, indifferenziata. E’ la “guerra tra la folla’’ teorizzata e applicata dall’Oas in Francia durante la lunga crisi algerina e poi fatta propria e sviluppata da quella sorta di “scuola madre” del nuovo terrorismo di destra rappresentata dall’Aginter Press, che offre “moduli operativi” (l’infiltrazione a sinistra, la manipolazione, l’intossicazione, i depistaggi) alla svolta terroristica di destra impegnata nella battaglia contro il comunismo senza più frontiere o limiti. Buona parte di quanto è accaduto nella storia italiana da allora è stato, in qualche modo, plasmato, indotto, contaminato, deviato da quel 12 dicembre 1969. Quel giorno rappresenta uno “spartiacque” reale, concreto; un punto da cui partire per capire. Se ci volge indietro quello è un muro nell’orizzonte politico e culturale in questo Paese; ancora oggi. 6 “L’Italia è stato il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni organizzate dalla Cia si sono ispirate all’esperienza accumulata nel vostro Paese, e sono state utilizzate anche per l’intervento in Cile”, citato in Paolo Cucchiarelli- Aldo Giannuli, Lo Stato Parallelo, Roma , Gamberetti, 1997, p.348 dalla 7 8 Ecco perché è un fatto che va conosciuto, studiato, capito perché la vita di tanti uomini affonda le radici anche in quel grigio venerdì di tanti anni fa. Vi è una riprova diretta della importanza di quella strage che segna l’inizio della storia del terrorismo politico moderno in Italia: nessuna inchiesta giudiziaria ha subito nel nostro Paese le pressioni, le torsioni, le intromissioni, le deviazioni, le “cattiverie” che ha subito quella di Piazza Fontana sfociata in otto inutili processi prima che si sviluppasse in sede giudiziaria, nel gennaio del 1986, l’inchiesta del Pm milanese Guido Salvini, un magistrato spesso incompreso nella sua volontà di dare una risposta ad un dramma giudiziario e politico che ha segnato alcune generazioni. Anche quella di Guido Salvini che era stato per qualche tempo nei gruppi anarchici studenteschi milanesi dopo la strage. Il processo nato da quell’inchiesta, sviluppato da nuovi filoni investigativi e dal lavoro d’altri due magistrati come Grazia Pradella e Massimo Meroni, ha fatto alla fine naufragio in sede giudiziaria. Tante novità storiche, elementi rilevanti, analisi che spiegano quello che finora era incomprensibile, non sono riusciti a divenire un giudizio di responsabilità penale personale. Tre persone che erano state indicate come responsabili della strage, gli ordinovisti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e l’esponente del gruppo milanese de “La Fenice”, Giancarlo Rognoni, sono stati condannati in primo grado e assolti in appello. La Cassazione nel 2005 ha confermato quel giudizio che è quindi definitivo. La strage dopo 11 giudizi nelle aule dei tribunali italiani non ha responsabili. Sappiamo solo con certezza che lo Stato ha coperto i responsabili, ha depistato le indagini, spiato ed intimidito i magistrati, fatto fuggire all’estero gli indagati, pagato gli informatori del Sid che tenevano i contatti con i gruppi eversivi anche quando questi erano ricercati dalla magistratura. Un elenco lunghissimo di deviazioni e coperture che potrebbe andare avanti ancora per molte inutili righe. Per molti anni la strage di Piazza Fontana è stata nell’immaginario cultural- politico italiano quasi un sinonimo di mistero, di deviazione, di reticenza politico-istituzionale, di copertura di segreti non confessabili. Un incrocio oscuro tra la parte visibile dello Stato e quella invisibile. Da qui i processi inutili, le accuse infondate, le fughe dei protagonisti, l’impossibilità di arrivare ad un giudizio compiuto in sede giudiziaria. Quasi che lo Stato, le sue istituzioni, gli apparati non potessero o volessero saldare il conto di quella strage con i giovani del biennio rosso ’68-’69; come se non avessero mai più potuto riallacciare un rapporto equanime, uno “scambio eguale’’, tra i contendenti del “patto sociale’’ che, tra infinite difficoltà, si realizzò negli anni Settanta. Qualcosa d’orribile è rimasto dietro le quinte, probabilmente per sempre. Ciò soprattutto per una ragione che ha cercato di spiegare Guido Viale, tra i protagonisti del Movimento studentesco del 1969: “Non si capisce la storia della strategia della tensione le infiltrazioni, le campagne d’ordine, l’assiduo armeggiare dei servizi segreti che, dal 1969 al 1974, organizzano almeno una strage l’anno per attribuirne la responsabilità al Movimento (e che proprio nel ’68 si attrezzano per metterle in opera) se non si tiene presente il vero obiettivo dello Stato: che non poteva essere quello di battere sul campo la forza del Movimento, ma quello di minarne la credibilità” Era una lotta senza limiti, senza remore, senza regole. La ricerca dei responsabili di questa strage ha subito negli anni traversie incredibili: durante le inchieste, i processi, c’è sempre stata qualche autorità giudiziaria che, al momento opportuno ha interrotto, frenato, rimandato il corso della giustizia. Poi, improvvisamente, lo ha accelerato. A giudizi severi di primo grado nei processi, sono subentrati giudizi di secondo grado accomodanti che non hanno avuto nessuna voglia di approfondire quello che andava chiarito perché i nomi – questo è l’assurdo, il tragico, il grottesco della vicenda – sono sempre quelli, dal 1969 in poi. Sempre lo stesso il metodo per salvarsi, per non spiegare il perché di questa strage: la reticenza, l’elusione, il silenzio, la rimozione. Far finta di non capire, non vedere, non sapere. Piazza Fontana e l’omicidio di Aldo Moro, protagonista anche dei fatti del 12 dicembre, come vedremo, rappresentano i due pilastri principali dei cosiddetti “misteri italiani” vale a dire di quel 8 9 misto d’omertà, compromessi, ricatti, operazioni inconfessabili che si ‘solidificano’ in alcuni ‘segreti condivisi’ tra uomini politici, mandanti, esecutori e depistatori ed anche, probabilmente, uomini di sinistra all’epoca incatenati alla logica di Jalta e spesso ad un senso di responsabilità che ha origini nella ricerca di una legittimazione politica ed istituzionale propria del Pci del dopoguerra. “E’ una storia ormai lontana, quella iniziata in quell’inverno freddissimo che seguì e in qualche modo concluse il più caldo degli autunni. Ma appena qualcuno scava nei pressi, anche muovendo da storie e domande apparentemente distanti, ecco che insieme alle radici vien su un terriccio compatto, aggrovigliatissimo, dove tutto consiste, dove una pista e un nome che si credevano smarriti riaffiorano in altre storie, magari di ieri o d’oggi”7, come nel caso della vicenda di Adriano Sofri e della condanna per l’omicidio del commissario Calabresi, su cui si è divisa l’Italia. E anche questa spaccatura, insanabile ancora oggi, nasce a Piazza Fontana, nelle ore immediatamente successive alla strage. C’è voglia di dimenticare, di lasciar stare? Di lasciare il tutto ad un giudizio storico sostanziale, già acquisito, senza entrare in particolari, nello svolgimento della strage e dell’inghippo che lasciò sul terreno i soli gruppi anarchici - per di più marginali all’interno del loro stesso mondo - come capro espiatorio? Renato Curcio ha spiegato, a suo modo, quanto certi legami e fili leghino gli uomini dello Stato e coloro che l'hanno combattuto, ben oltre a ciò che si possa immaginare: “Perché ci sono tante storie in questo Paese che sono taciute e non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio: come Piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in certi modi e che per ventura della vita nessuno più può dire come sono realmente andate, sorta di complicità tra noi e i poteri, che impediscono a noi e ai poteri di dire cosa è veramente successo”. Ecco perché questa strage con i capelli ormai bianchi dall’età trascorsa va ricordata e compresa fino in fondo; non può andare in archivio perché l’oblio potrà cadere quando si sarà capito per intero chi la volle e con quali diretti o indiretti fini, chi coprì per anni gli esecutori, favorendo l’espatrio di tanti protagonisti, quali responsabilità ha la classe politica dell’epoca, quali furono i ruoli dei servizi italiani e stranieri coinvolti nell’operazione politico-militare perché quella bomba ha cambiato la vita di tanti italiani che ora stanno invecchiando senza aver ancora pienamente compreso cosa hanno vissuto in quelle settimane e grazie a chi e in che modo la vita di tanti imboccò una certa strada, assieme alla politica e alle scelte di un’intera classe dirigente. Piazza Fontana è sicuramente la ‘testa del serpente’ terroristico; il crogiolo ambiguo entro cui si temperano i terribili “anni di piombo”, una strage che, a parte i responsabili materiali, non ha trovato le risposte politiche adeguate ad indicarci quantomeno i protagonisti della complessa partita che fu giocata in quel dicembre del 1969. Alla fine tutto si scaricò sul ballerino anarchico Pietro Valpreda, vittima inadeguata a ‘reggere’ la trama di un accadimento complesso che coinvolgeva responsabilità di strutture d’intelligence italiane e straniere. Dopo la prima sentenza, quella che condannava i tre del gruppo ordininosta veneto, l’ex ballerino disse quel tanto che bastava per far intuire che in questa vicenda c’è ancora molto da conoscere compiutamente. Era un modo per alludere al “livello superiore” della vicenda, evocato anche da Pino Rauti, il leader storico del gruppo neonazista di Ordine Nuovo, quando ripete che “alcuni giovani di destra sono stati utilizzati come pedine. Ma loro giocavano a dama, gli altri a scacchi, perché erano dei professionisti. Li utilizzarono nella strategia degli opposti estremismi, per consolidare il regime”8. Ora tutti i quesiti inevasi di 11 giudizi rimangono aperti: chi e secondo quali modalità operative collocò la bomba nella Banca dell’Agricoltura; chi era in effetti l’uomo che salì sul taxi di Cornelio Rolandi con una borsa nera facendosi lasciare davanti alla Banca poco prima dell’esplosione per poi tornare senza la borsa a bordo dell’auto? Un sosia di Valpreda, dice l’inchiesta condotta a Milano dal giudice Guido Salvini e che ha portato all’ultimo processo concluso nel 2005. Ci sono le dichiarazioni, dirette ed indirette, di cinque neofascisti importanti. Un sosia che potrebbe avere un 7 8 Michelangelo Notarianni, “Una storia che non si può dimenticare”, Il Manifesto, 11 dicembre 1997 “Rauti l’irridicibile non ci sta. ‘Chi va a piazzale Loreto?’”, La Repubblica, 12 dicembre 1993 9 10 nome e un cognome e cioè Nino Sottosanti, l’uomo che pranzò con Pino Pinelli quel 12 dicembre chiedendogli insistentemente di venire in centro. Ancora una volta i magistrati non gliel’hanno fatta a penetrare nel mistero degli ultimi 100 metri e cioè chi abbia collocato in effetti la borsa con la bomba assassina, come se esistesse ancora un livello indicibile e non scandagliabile che cementa il silenzio di tutti attorno a quei metri e all’esplosione. Il sosia e il suo ruolo nella operazione militare trova un ulteriore riscontro da quello che emerge dall'archivio ‘dimenticato’ - più giusto sarebbe scrivere ‘occulto’ o quantomeno accantonato - di Via Appia dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale (di fatto il ‘cuore’ del controllo politico su polizia e, in molti casi, magistratura), rinvenuto dal consulente del giudice Salvini, Aldo Giannuli, grazie al quale sono divenute accessibili molte carte che i magistrati non avevano mai potuto vedere. Tra le altre quelle che indicano un ruolo operativo per Sottosanti, secondo la principale fonte che la polizia e il Viminale avevano tra gli anarchici e cioè Enrico Rovelli, la fonte “Anna Bolena”, successivamente importante manager musicale, ma all'epoca “orecchio” dello Stato tra gli anarchici. E’ da quelle carte scoperte da Giannuli che emerge anche l'attività di una vera e propria struttura 'parallela' del Viminale nelle principali questure italiane. Si trattava di squadre non ufficiali che filtravano in partenza e in arrivo le notizie verso magistrati e che rappresentavano il terminale politico del ministero nelle questure. Di fatto in tutti i capoluoghi di regione, in uffici privati, erano dislocate, tra il 1950 e il 1984, strutture miste di polizia da cui dipendevano civili, per lo più infiltrati, che operavano alla diretta dipendenza dell'ufficio sicurezza del ministero dell'Interno e da quello che ne rappresentava il ‘cervello’ e cioè l'ufficio Affari riservati. Queste strutture periferiche “parallele” raccoglievano notizie, infiltravano gruppi estremisti, operavano autonome indagini rispetto all'attività giudiziaria ufficiale: tutto era inviato al “centro” dove le notizie e i dati erano vagliati e ‘corretti’, se necessario. Successivamente i rapporti ritornavano in periferia o erano trasmessi, nella versione determinata dagli uffici del Viminale, alla magistratura. Fu per esempio una squadra di questa struttura parallela del Viminale (la 54), dopo l’immediata segnalazione di Rovelli, che indicò la pista anarchica e la responsabilità di Pietro Valpreda. Un sosia per attribuire la responsabilità a Valpreda, in particolare. Un primo ‘doppione’ di una storia con tante realtà parallele. Rimane però senza risposta la parte più complessa dell’operazione: cioè quale fosse il ‘gancio’ che doveva permettere di ‘arpionare’ gli anarchici e, tramite loro, arrivare a quello che era il vero obiettivo politico di tutta la vicenda di quel dicembre, Giangiacomo Feltrinelli. Il gruppo di Ordine Nuovo del Veneto, secondo le carte dell’ultima inchiesta, cercherà di riprendere l’operazione non riuscita il 12 dicembre almeno altre due volte nei mesi successivi: cercando di collocare alcuni dei timer residui del lotto omicida in una villa dell’editore per poi farli ritrovare e ipotizzando di rapirlo in Austria per consegnarlo, impacchettato e munito dei timer, in qualche parte oltre il confine italiano. Dall’archivio di Via Appia emerge anche la storia di un servizio segreto semi-clandestino, creato nel 1948 con uomini di Salò, generali badogliani, faccendieri, imprenditori, ecc.; una struttura che ha ucciso, controllato il traffico d’ armi, di petrolio, gestito affari e politiche economiche ‘paralelle’ e che era, non ufficialmente, alle dipendenze della Presidenza del Consiglio. E’ stato grazie all’inchiesta Salvini che il cosiddetto “noto servizio”, questa la definizione ‘di copertura’, ha assunto dei connotati rilevanti per capire passaggi importanti della recente storia: dalla fuga di Herbert Kappler, alla vicenda Moro, al sequestro dell’assessore dc Ciro Cirillo con relativo pagamento del riscatto alle Br, solo per citare alcuni dei fatti in cui certamente la struttura è coinvolta. Il nome effettivo della struttura era “l’Anello” – congiunzione tra i vecchi servizi e quelli che la Repubblica voleva costituire – e non è escluso che questo servizio ‘parallelo’ che ha attraversato i sotterranei della storia d’Italia abbia avuto un ruolo anche in Piazza Fontana. 10 11 Certamente entra nei depistaggi attuati per far ricadere le responsabilità sugli anarchici. “L’Anello” ha uomini coinvolti nella vicenda e basi in prossimità di Piazza Fontana. Ed era specializzato in omicidi mascherati da morte naturale e da finti incidenti stradali. Più in grande, si occupava dell’economia parallela del petrolio, che serviva a finanziare le forze politiche più “affidabili” e sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 “l’Anello” si dà da fare addirittura per far nascere una nuova Dc, in grado di contrastare l’apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la breve avventura del Nuovo Partito Popolare (Npp), che divenne poi l’oggetto principale, con riferimenti alle forniture militari alla Libia, di un famoso dossier segreto, chiamato “Mi.Fo.Biali”, oggetto di ricatti trasversali che coinvolsero anche il direttore di Op Mino Pecorelli e che è costato una dura condanna al capo del reparto ‘D’ del Sid, Gianadelio Maletti. “L’Anello”, nella sua lunga storia, ha avuto una diretta forma di dipendenza dalle istituzioni politiche, a cominciare dalla presidenza del Consiglio.9 I) L’ ‘inutile’ inchiesta di Guido Salvini La storia di questo complesso percorso verso una verità giudiziaria a lungo cercata ma alla fine inutile, disattesa, in sede processuale si è snodata dal gennaio 1986 al giugno del 2001, attraverso le due tranche dell’inchiesta del magistrato milanese Guido Salvini, condotte con il vecchio rito, e quella sviluppata con il nuovo rito da Grazia Pradella e da Massimo. Una storia intessuta di scontri molto duri, intuizioni, invidie, piccoli trucchi, grandi polemiche e vere e proprie intimidazioni. Fax degli investigatori intercettati dall’ambasciata Usa, progetti d’attentato verso gli stessi, polemiche artificiose sui giornali. Se si tiene conto dei soli risultati documentali e di analisi raggiunti - visto il vero e proprio ‘percorso di guerra’ attraversato per giungere al deposito delle due sentenze-ordinanze - la più rilevante novità delle inchieste condotte da Salvini sulla eversione di destra in Lombardia negli anni della strategia del golpe (1969-1974), è quella di averle concluse dopo oltre 10 anni di lavoro, aprendo la strada non a delle condanne penali ma certamente ad una visione più realistica, complessa e completa di quanto avvenne in quegli anni. Alla fine è stato assolto anche il gruppo di Ordine Nuovo accusato dai Pm di aver ‘pilotato’ il sedicente anarchico Gianfranco Bertoli, cioè colui che attentò nel 1973 a Mariano Rumor, Presidente del Consiglio nel dicembre del 1969, giusto un anno dopo l'uccisione del commissario Luigi Calabresi nel corso di una cerimonia commemorativa alla questura di Milano. On rimane l’esecutore della strage ma sono stati assolti i militanti indicati nell’inchiesta. I giudici affermano che “è ragionevole e corrispondente ad una valutazione logica dei dati di fatto accertati” ritenere “probabile” che la strage sia stata decisa e organizzata proprio “dal gruppo ordinovista facente capo a Maggi”.10 Come Piazza Fontana dove la matrice di On non è stata smentita dal giudizio della Cassazione. Bertoli, secondo l’accusa, doveva uccidere Mariano Rumor per vendicare il mancato appoggio politico, la non proclamazione dello stato di emergenza subito dopo il 12 dicembre, che avrebbe innescato la svolta autoritaria e per cementare in un patto di connivenza tutta un’ala della Dc, del Msi, del Psdi, gruppi industriali e dei servizi segreti che avevano promesso appoggi e coperture alla operazione politico-militare. Aver ribaltato quell’iniziale condanna, ha fatto venir meno la spiegazione logica del perché On odiasse la Dc veneta e soprattutto il suo maggior leader all’epoca, Mariano Rumor. L’assoluzione per chi ‘manipolò’ Bertoli - sul banco c’erano Carlo Maria Maggi, Francesco Neami e Giorgio Boffelli, del gruppo ordinovista veneto – dopo la strage del dicembre del 1969 rende ancor più monca, assolutamente inspiegabile, tutta la questione. Né si può sostenere che On odiasse Rumor per aver avallato la proposta di Paolo Emilio Taviani di sciogliere il gruppo 9 Sulla questione vedi in particolare l’inchiesta comparsa su Diario, “Aldo Moro e il signore dell’Anello”, di Paolo Cucchiarelli, 29 maggio 2003,n.20. 10 “Strage Questura: giudici, assolti ma matrice fascista”, Ansa del 9 maggio 2005. 11 12 extraparlamentare perché i primi tentativi di eliminare il Dc veneto risalgono a ben prima della sentenza di primo grado che permise a Taviani - Rumor e Moro contrari - di decretare l’applicazione della legge sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista (legge Scelba). Nonostante questo doppio giudizio d’assoluzione per i componenti del gruppo ordinovista l’inchiesta Salvini rappresenta ancora oggi una solida “costruzione” documentale e fattuale per avere uno spaccato dall’interno della presenza dei servizi Usa in Italia in quegli anni e anche per capire il “legame” che, in sede di attese politiche, legava On e alcuni politici. Salvini ha scoperto un importante elemento nel corso di queste due inchieste: la presenza di una rete informativa americana che infiltrava Ordine Nuovo e lo controllava passo passo. Una rete che si alimentava e connetteva con gli apparati militari di sicurezza che operano attorno alle basi Nato in Veneto. Di questa scoperta - che spiega le affermazioni di Giovanni Ventura, uno degli storici imputati del passato che si vantava di essere stato lasciato in pace, perché ritenuto in questura un “agente della Cia” - si è molto parlato facendo nascere due italianissime e classiche fazioni: quella guidata dal magistrato Gerardo D'Ambrosio (pista tutta italiana), che in passato ha indagato con Emilio Alessandrini sulla strage e sulla morte di Pinelli, e chi, come Salvini, si rimette a quello che emerge dall'inchiesta e cioè la presenza di una struttura info-operativa americana che attraversava e manovrava il gruppo neofascista che sceglie la via delle stragi in un contesto di interessi internazionali ben definiti. Dalle due ordinanze di Salvini risulta che in Italia era attivo nel dopoguerra un servizio segreto militare americano, il Cic (Counter Intelligence Corp, lo stesso servizio con cui entrò in contatto Licio Gelli subito dopo il conflitto), poi evoluto in altre sigle, che oltre a seguire e controllare gli estremisti di destra tramite persone che avevano un doppio ruolo (informatori degli americani e militanti di On) fornì loro un apporto tecnico al fine di far crescere le cellule che avrebbero dovuto compiere gli attentati; quindi c’è qualcosa di diretto, di concreto, nel senso che non solo questo servizio militare non informava le nostre autorità, i servizi italiani (strettamente dipendenti da Washington) o la magistratura di quanto venivano man mano a sapere, ma lasciava fare e in più sollecitava l’operatività della cellula con questo tipo di aiuti tecnici. Cioè armi, esplosivo, istruttori. Salvini è stato chiaro su questo: “La strage fu assistita, per non dire ispirata dalla Nato”. E ancora: “La posta in gioco era la difesa degli equilibri politici esistenti in Italia e il mantenimento del nostro paese nel campo occidentale ed atlantico, obiettivo strategico ampio e che univa un arco di forze ben più vasto dei vari gruppi fascisti. A tale obiettivo risale la fonte di quella strategia di controllo indiretto che è stata la ‘strategia della tensione’ e al raggiungimento della stessa (…) potevano essere offerti, come male minore o prezzo eventuale che il paese poteva pagare, anche lutti e sangue” Tra le carte dell’inchiesta vi sono diversi rapporti del Ros dei carabinieri che illustrano dettagliatamente l’attività svolta dai militari americani in contatto con diversi Ordinovisti di primo piano tra cui quel Carlo Digilio, “armiere” della cellula veneta , che con il suo pentimento ha spalancato la porta sulla struttura segreta di un gruppo fino a qualche anno fa ritenuto blindato e adeguatamente tutelato in Italia e all’estero. Digilio, come anche il padre, è un agente informativo americano e al contempo prepara, secondo l’ipotesi accusatoria poi smentita dal processo, l’esplosivo che è in dotazione al gruppo. Ecco cosa racconta a verbale: “Quando nel 1963 il generale Westmoreland emanò una direttiva secondo la quale il comunismo doveva essere fermato ad ogni costo, in Italia furono formate le Legioni dei Nuclei di Difesa dello Stato e la scelta fu di contattare ed avvicinare, per opera delle rete informativa americana, tutti gli elementi di destra che fossero in qualche modo disponibili a questa lotta e coordinarli’’. Analisi non distante da quella maturata da Carlo Mastelloni, il magistrato veneziano che a lungo si è interessato di terrorismo. “I servizi di sicurezza di Ftase (la Nato) solo in caso di emergenza, invasione, secondo i piani operativi ovviamente segreti degli Stati maggiori americani e nostri, della III Armata, avrebbero potuto utilizzare Ordine Nuovo nel Triveneto”. 12 13 Solo che “il momento dell’emergenza è stato anticipato utilitaristicamente. In questo modo è stato conferito a quei militanti un potere operativo che è degenerato nelle stragi”.11 Fu nella veste di tecnico delle armi e d’informatore che Digilio andò nel casolare di Paese, un piccolo centro vicino Treviso, a controllare l’arsenale del gruppo ordinovista. Aveva ricevuto un esplicito ordine dal suo caporete, Sergio Minetto. Dal 1967 al 1992 Digilio svolge questo doppio incarico: ordinovista e agente Usa. Il pentito nei verbali dell’inchiesta delinea un quadro del retroterra politico della strage del 12 dicembre; di quelli che potremmo definire “mandanti senza volto’’ giudiziario ma dal profilo politico identificabile: a gestire l’operazione, in chiave politica, sarebbero stati i socialdemocratici “fin dall’inizio”, una parte della Dc, il vertice e una parte del Msi. A questo progetto sarebbe stato dato un sostanziale assenso dalla rete americana che dipendeva dalle basi americane (e Nato) del Veneto e che “controllò’’ l’attività del gruppo di On. Digilio ha raccontato che gli esponenti di On in Veneto, erano “delusi” per la “ritirata” di Rumor che aveva impedito “un’immediata presa di posizione dei militari. Disse proprio ‘presa di posizione’ e non ‘presa di potere’, nel senso che sarebbe stato un primo intervento che avrebbe dato inizio ad un maggior controllo dei militari sulla vita del Paese, senza un vero e proprio colpo di Stato. Ciò avrebbe comunque permesso l’uscita allo scoperto dei ‘Nuclei di difesa dello Stato’, cioè le strutture miste militari-civili che avevano il compito di sostenere la svolta autoritaria’’. Inoltre aggiunge Digilio - un esponente del gruppo di On “in modo ironico, ma con sicurezza, mi spiegò che l’incriminazione degli anarchici era stata studiata dai servizi segreti nel momento in cui era stata concepita l’intera operazione”. Anche l’altro pentito dell’inchiesta Salvini, Martino Siciliano, che partecipò a tutta una serie di attentati che precedettero la strage per essere poi scartato nella fase finale perché giudicato inaffidabile dai leader del gruppo, ha fornito testimonianze utili a capire chi volle la strage e perché: “ (…) già prima dei fatti del dicembre vi erano stati contatti tra alti esponenti di On a Roma e ambienti istituzionali, soprattutto democristiani, per giungere ad una soluzione di quel tipo in caso di attentati gravi. Tale soluzione (il golpe istituzionale, NdA) sembrava sicura ma dopo gli attentati del 12 dicembre l’on. Rumor aveva disatteso queste nostre attese e non si era sentito di portare avanti questa scelta. Per questo l’on. Rumor, agli occhi degli alti dirigenti d’Ordine Nuovo, (…), era visto come un traditore e quindi andava prima o poi punito’’. L'inchiesta Salvini ha permesso di acquisire molte novità ma la principale – come si è scritto - è il 'controllo Usa' su On e l'opera di supporto e incoraggiamento svolto dai servizi segreti militari americani. Sorprende che tutti i protagonisti di questa inchiesta siano citati nelle vecchie carte processuali o addirittura nelle precedenti sentenze. Se i nomi degli indagati, oggi assolti definitivamente, non sono una novità, inedita è stata la disponibilità che ha potuto dare chi ha partecipato a questa battaglia politica (“ci sentivamo carabinieri senza stellette”) dopo la caduta del Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica e l'emergere della struttura di Gladio, vero e proprio modulo operativo statuale della “guerra non ortodossa” che ha il suo omologo politico segreto nella “guerra tra la folla” teorizzata e realizzata da Guerin Serac e dall' Aginter Press in Italia tramite On e An. Di ciò tratta dettagliatamente nei suoi libri e saggi Vincenzo Vinciguerra, il “soldato politico”, già militante On e An, che da anni denuncia, in una solitaria battaglia, le nefandezze (“Fosse per lo Stato e i suoi apparati, io sarei alle Bahamas. Se sono qui in carcere è perché l'ho voluto io”), le coperture, le responsabilità e i servigi offerti da strutture ufficiali e segrete dello Stato agli estremisti di destra indicando anche il “regista ultimo” di questa complessa macchina politicomilitare che ha segnato così duramente gli anni Sessanta e Settanta, quelli del centrosinistra e della distensione: “L'organizzazione camuffata da Aginter Press in Portogallo e Rosa dei Venti in Italia, quella che sparge terrore sotto la sigla Oas in Francia e che predica la distruzione del sistema come Ordine Nuovo in Italia, non è altro che l'Organizzazione per antonomasia, è l'organizzazione Nato”. 11 “Mastelloni: bombe sfuggite di mano ai servizi”, l’Unità , 11 dicembre 1999. 13 14 La documentazione indica che in questa realtà c’è il ruolo centrale di On, i servizi italiani e stranieri (non solo Nato e Usa), la copertura dei politici che sapevano o intuivano, l'impossibilità per tanti, ancora oggi, di raccontare una verità che anni fa era irriferibile. E il pensiero va al Pci che - basta leggere L'Unità dei primi mesi del 1970 - dà la sensazione di intuire, comprendere ciò che era accaduto a livello politico ma di non poter esplicitare, render pubblico, il perverso intreccio di responsabilità, interessi, casualità, tornaconti, compromessi politici che - come dice Renato Curcio fa sì che né lo Stato né chi l'ha combattuto possa oggi dire come sono andate effettivamente le cose. Questa osservazione nasce dagli elementi disponibili – e altri si potrebbero aggiungere - e non sottende un giudizio politico ma la semplice presa d’atto che l’epoca non permetteva a nessuno libertà di movimento; ne’ ai partiti di governo, ne’ a quelli di opposizione. E di questo si deve tener conto per capire le dinamiche reali di quelle settimane. La campagna contro la “bomba di Stato” vide i comunisti incerti all’inizio e poi costretti dalla logica, anche politica, che avevano preso le cose. Significativo il giudizio di Enrico Deaglio, ex Lotta Continua sulle ripercussioni politiche dalla strage. “Irrimediabili sono poi state le conseguenze della bomba per la sinistra. Il Pci, un partito allora del 30 per cento dei voti, si sentì direttamente attaccato; capì, con ogni probabilità da subito, da dove veniva la mano, ma scelse di non dirlo. Negò pervicacemente per anni che la strage fosse ‘di Stato’ e si spaventò moltissimo della spregiudicatezza dei ‘poteri occulti’”12. Il Pci “sapeva molto, ma in tantissimi casi ha preferito tacere”, scrive Aldo Giannuli in un saggio intitolato non a caso “Pci & stragi: la politica del silenzio”13. Questo dell’atteggiamento del Pci è un capitolo complesso, frutto diretto dell’intreccio di tanti elementi ancora da sviscerare, ma esposto al costante rischio di possibili e fin troppo superficiali strumentalizzazioni politiche e di giudizio più o meno storico. Ci sono fatti che non si possono eludere, pena la non comprensione di importanti ‘pieghe’ della vicenda politiche di quegli anni. E’ un caso che il Pci seppe in anticipo dell’imminente attentato a Rumor da parte di Bertoli ma scelse di tacere con i magistrati?14 Certamente il Pci non ha avuto all’epoca alcuna alternativa reale perché ogni tentativo di ‘rovesciare’ il tavolo, denunciando lo scontro, i soggetti in campo, e i loro reali obiettivi, avrebbe avuto come contropartita diretta e immediata l’accusa di essere un partito politico non democratico, lo scontro diretto, di piazza , e la conseguente repressione. Giusto quello che - e il Pci lo aveva ben capito- cercavano pervicacemente i gruppi neofascisti appoggiati da una larga fetta dello Stato, dai politici, i servizi segreti e i militari. Tutto questo ‘non detto’ ma ‘compreso’ e ‘saputo’ sui retroscena dello scontro nello Stato incise in maniera determinante sulla scelta della politica del compromesso storico da parte del Pci che, dopo il trauma cileno, matura proprio nell’autunno del 1973. L'inchiesta Salvini spicca il volo dall'interno di un’indagine sull’uccisione a sprangate del giovane missino Sergio Ramelli da parte di esponenti di Avanguardia Operaia. Salvini incrimina, tra attacchi feroci da sinistra, stimati professionisti (alcuni sono suoi conoscenti di quando militava nei gruppi anarchici studenteschi) poi condannati per quel terribile atto di violenza (Ramelli rimase 47 giorni in coma con la testa letteralmente sfondata dalla Hertz 37, la chiave inglese per camion che era un'arma 'classica' del gruppo). Tra gli altri c’è Giuseppe Ferrari Bravo, un medico al quale è intestato un abbaino di via Bligny 42, a Milano, dove erano ammassati detonatori, caricatori e un vero a proprio archivio che tra l'altro ricostruisce aspetti inediti della nascita milanese delle Br. 12 “La banca della memoria”, Enrico Deaglio, Diario,8 marzo 2000 Libertaria,n.1,1999 14 Ivo della Cosa, all’epoca segretario della federazione del Pci di Treviso ha messo a verbale durante l’inchiesta condotta dal magistrato Lombardi sulla strage alla Questura di Milano di esser stato contattato dal conte Pietro Loredan il 15 maggio del 1973 il quale l’avvisava che 2 giorni dopo ci sarebbe stato a Milano un attentato contro una un’alta personalità dello Stato. Dalla Costa informava telefonicamente la direzione nazionale del Pci , andava nella federazione milanese dove giungevano da Roma , con il primo aereo disponibile, Alberto Malagugini e Giancarlo Pajetta che , ascoltato il racconto, avrebbero subito informato il capo di gabinetto del questore Gustavo Palumbo che ,interrogato, negava recisamente di aver mai avuto una tale informazione dai due parlamentari che erano nel frattempo deceduti. 13 14 15 L'archivio fa capo a Mario Costa, poi accusato di essere tra coloro che attaccarono Ramelli, e raccoglie molte carte della struttura di controinformazione di Ao che faceva capo a Roberto Rossellini. Tra i tanti, un documento di cinque pagine che raccoglie le confessioni di un terrorista nero, presumibilmente ad un uomo dello Stato. Il fascista è Nico Azzi, responsabile della fallita strage al treno Torino-Roma del 7 aprile 1973, decisa per distogliere l'attenzione del grande pubblico dagli sviluppi in corso sulla responsabilità dei fascisti (Ventura e Freda) nella strage del 12 dicembre. Azzi si fece scoppiare la bomba , destinata ad avere un effetto distruttivo certamente maggiore rispetto a quella del 1969, mentre la innescava e si preparava a lasciare una copia di Lotta Continua e tessere di sindacati di sinistra. Cinque giorni dopo a Milano i gruppi della destra radicale e quelli oltranzisti del Msi inscenano una voluta gazzarra che sfocia in scontri: una bomba a mano da esercitazione sfonda il petto all'agente Antonio Marino. A lanciarla è Vittorio Loi, figlio del pugile Duilio Loi. Con lui finirono in carcere Maurizio Murelli e Nico Azzi. Quest'ultimo era accusato di aver fornito la bomba a mano da esercitazione che aveva ucciso l’agente. Il 17 maggio del 1973 Gianfranco Bertoli, lancia la bomba che nelle sue intenzione doveva colpire Mariano Rumor per vendicarsi del mancato appoggio dato dopo Piazza Fontana alla tanto agognata svolta autoritaria. Nel documento di via Bligny si parla dei rapporti tra ordinovisti veneti e Giancarlo Rognoni, il capo de “La Fenice” che aveva lavorato alla Commerciale di Milano, dove il 12 dicembre fu ritrovata la bomba inesplosa fatta poi misteriosamente saltare in aria, in serata, senza alcuna spiegazione se non quella di voler sottrarre alle indagini un elemento fondamentale come l’esplosivo utilizzato nella operazione. Rossellini ignora chi - simpatizzante, avvocato, giornalista o magistrato - possa avergli passato il documento che rivela che i timer inutilizzati del lotto della strage furono trattenuti da “La Fenice”. E' il 1987 e Salvini riapre l'inchiesta sull’eversione nera a Milano che era nata dallo stralcio “territoriale” del processo ad Ordine Nuovo che si era svolto a Roma. E' possibile che quella confessione sia stata fatta ad un uomo dei servizi e che quello ritrovato sia solo una copia di un originale fatto poi sparire, ma era in una “banca dati” della sinistra estraparlamentare. Tra l'altro si parlava di attentati la cui responsabilità doveva ricadere sulla sinistra e di un “grave attentato a Milano ad opera di un gruppo congiunto milanese-veneto e la commissione di un reciproco attentato a Trieste”. Non solo. Alle riunioni per la preparazione della tentata strage sul Torino-Roma (poteva fare centinaia di vittime) avrebbero partecipato anche uomini degli apparati dello Stato, dato che – si legge nel documento - “il Sid in accordo con il gruppo ‘La Fenice’, organizzò l'attentato sul treno Torino-Roma, nell'aprile del 1973 per depistare le indagini su Piazza Fontana, che avevano imboccato la pista della destra veneta”. Tutto ruotava sempre attorno alla strage del 12 dicembre. Salvini riprende la carte in mano e grazie al crollo dei regimi e della grave crisi che l'inchiesta di Mani pulite apre nella realtà politica italiana molti a destra parlano. L'indagine si amplia fino a ‘identificare’ la rete dei rapporti Stato-On-“La Fenice”-Piazza Fontana tra il 1969 (anche se le prime armi a Mestre compaiono nel 1966) e il 1973-1974. Con la prima inchiesta che si chiude nell'aprile del 1995, emergono alcuni elementi nuovi, rivisti, aggiornati o solo parzialmente svelati a suo tempo: i rapporti organici tra il Mar di Carlo Fumagalli, il “partigiano bianco” che animava i gruppi milanesi verso il golpe nei primi anni Settanta, e i carabinieri e uomini dell'esercito; il recupero di molte bobine occultate a suo tempo nella inchiesta sul golpe Borghese (8 dicembre 1970) , che rivelano il ruolo che doveva essere assegnato a Licio Gelli e cioé quello di controllare direttamente il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat durante l'attivazione golpista del dicembre 1970, molto più ampia e drammatica di quanto era stato fatto credere; l'emergere della struttura dei Nuclei di Difesa dello Stato o Legioni, nuclei di militari e civili - tutti di On dipendenti dallo Stato maggiore e attivabili per operazioni di contrasto interno e comunque propedeutiche al colpo di Stato; il traffico di armi ed esplosivo già avviato prima di Piazza Fontana da Avanguardia Nazionale che utilizzava addestratori che provenivano dall'Aginter Press; il ruolo dell'agenzia di Guerin Serac, svelato fin nei particolari da Vincenzo Vinciguerra che aveva lavorato per compiere attentati finalizzati ad essere utilizzati contro le sinistre e con Digilio e Siciliano le 15 16 prime rivelazioni sul controllo stretto svolto da strutture dei servizi militari Usa sul gruppo almeno dal 1967. Le dichiarazioni di Digilio aprono un varco che rende possibile leggere dall'interno, per la prima volta, quale sia stata l'attività di controllo da parte degli americani sulle dinamiche eversive negli anni Sessanta e Settanta nel nostro Paese e quanto profonda sia stata la commistione, soprattutto in Veneto, fra mondi finora ‘letti’ e valutati come separati e cioè On, i Nuclei di Difesa dello Stato, i servizi segreti italiani e quelli Usa, a cominciare da quelli militari. La sentenza-ordinanza è una sorta di summa dei depistaggi, delle omissioni, delle distruzioni d’atti e documenti che potevano indicare quale fosse la responsabilità politica ed operativa nella strage: un “manuale delle deviazioni” che diventa un terribile libro di storia contemporanea che fa risaltare solitarie figure di uomini capaci di fare il loro dovere - pagando spesso di persona - anche in un contesto così politicamente inquinato, corrotto e ‘piegato’ per esigenze di Stato. Due storie importanti tra le tante raccolte dal magistrato. Storie su cui torneremo più avanti. Il capitano Mario Santoni è “un onesto ufficiale - scrive il magistrato nella sentenza-ordinanza - in servizio presso il raggruppamento centri Cs di Roma”. Indagando su un traffico d’armi scoprì l'esistenza di un certo Filippo, “elemento importante dei servizi segreti”. Gli ci volle poco per capire che Filippo era Licio Gelli. Si spostò in Toscana per approfondire le indagini, contattò il piduista avvocato Degli Innocenti e raccolse altre preziose informazioni sull'allora (nel 1974) sconosciuto ‘Venerabile’. Presentato il rapporto su Filippo, il capo del reparto ‘D’ Gianadelio Maletti andò su tutte le furie, prima con il superiore di Santoni, poi con l'ufficiale dato che era stata toccata una “persona sacra e molto utile al servizio segreto. Mi minacciò di rimandarmi al servizio territoriale”, ricorda Santoni. Una spiegazione? Fu con l’imprimatur di Haig e Kissinger, rispettivamente vice e capo del Consiglio nazionale di sicurezza americano, che Licio Gelli reclutò, nell’ autunno del 1969, quattrocento alti ufficiali italiani e Nato nella sua Loggia. L'ufficiale aveva scoperto, tra l'altro, la “frequentazione di Gelli del centro Sid di Firenze e il suo libero ingresso al Quirinale sia sotto la presidenza Gronchi, sia sotto la presidenza Saragat”. Proprio a Gelli, nel dicembre 1970, era stato assegnato il compito di “catturare” Saragat nell'ambito del golpe Borghese. Un modo per “vendicarsi” del mancato risultato del tentativo messo in atto il 12 dicembre del 1969? Il maggiore Giuseppe Bottallo per tanti anni capo centro del Sid a Padova quando ha saputo da Salvini che la sua relazione sulle rivelazioni fatte dalla ‘fonte Turco’ era scomparsa è scoppiato a piangere. Con i suoi uomini aveva raccolto le rivelazione di Gianni Casalini – ‘fonte Turco’ per il servizio segreto - che denunciava la responsabilità del gruppo Freda nella strage. Dal centro di Roma era prima giunto l'ordine di “chiudere la fonte” e poi il rapporto era stato fatto sparire. Un lavoro utilissimo distrutto con calcolo perché rivelava lo scenario che bisognava tutelare come “scelta” di Stato. Casalini aveva partecipato tra l’altro alla serie d’ attentati sui treni dell’inizio di agosto del 1969 che era stata organizzata da Freda e Ventura. Casalini lo ritroveremo più avanti perché è un personaggio importante. La conclusione del magistrato, vista la mole di riscontri, ammissioni, elementi acquisiti e vere e proprie confessioni è obbligata: “Alla luce di quanto emerso in questa e nelle precedenti istruttorie in materia di stragi ed eversione di destra, appare francamente inaccettabile la tesi riduttiva secondo cui le attività definite impropriamente ‘devianti’ sarebbero riconducibili a singole ‘mele marce’ all'interno dei servizi segreti, mosse da affinità ideologiche con gli autori delle stragi e dei tentativi di golpe ed appoggiate da qualche uomo politico rimasto quasi sempre nell'ombra. Più probabilmente, la presenza di settori degli Apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di destra non può essere considerato ‘deviazione’, ma normale esercizio, per un lungo periodo, di una funzione istituzionale”. E ancora: “Tutti questi eventi non avrebbero potuto ripetersi se non fossero stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con tutta probabilità il mantenimento del nostro Paese nel campo dell'Alleanza Atlantica”. Per questa attività era pronto anche un “esercito segreto”, composto da militari e civili: mille uomini divisi in 36 Legioni localizzati nelle regioni settentrionali ma anche, ad esempio, in Puglia. Un commando organizzato dallo Stato Maggiore della Difesa. I “civili” dovevano trasportare armi: bastava avvertire i carabinieri ed esporre un 16 17 fazzoletto alla macchina in un modo convenzionale; nessuno avrebbe interrotto il trasporto. “La finalità della struttura era certamente quella di fare un 'colpo di Stato' - racconta il legionario Enzo Ferro che aveva inutilmente raccontato tutto ad un magistrato nel 1977 guadagnandosi solo un paterno invito di un ufficiale dei carabinieri a non insistere - all'interno di una situazione che prevedeva attentati dimostrativi preferibilmente senza vittime al fine di spingere la popolazione a richiedere o ad accettare un governo forte. Ovviamente in un attentato potevano esserci delle vittime casuali, ma questo, secondo chi dirigeva la struttura, era un prezzo che in uno scontro così grosso per il nostro Paese si poteva pagare”. Nell’aprile del 1995 il magistrato milanese Grazia Pradella diventava titolare del troncone di inchiesta riguardante piazza Fontana aperta con il nuovo rito, l’unico che poteva impedire di ritornare nella lontana sede di Catanzaro dove si era concluso l’ultimo processo. Nel luglio il giudice iscrive nel registro degli indagati, per strage, diverse persone tra cui Zorzi e Maggi. Nel giugno del 1997 i due Pm Pradella e Meroni, che nel frattempo ha affiancato la collega nella difficile inchiesta, chiedono l’arresto di Maggi e di Zorzi (che vive tuttora in Giappone). L’ordinanza di custodia del Gip Forleo sostiene che la strage della Banca dell’Agricoltura fu – e la definizione non può che rinviare ad un feroce scontro tra due cordate intente a raggiungere lo stesso obiettivo con strade e modalità diverse- “una strage di Stato contro lo Stato”, voluta ed appoggiata dai servizi segreti di allora, dal Sid e dall’ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno. Lo scopo era quello di favorire il progetto del golpe Borghese, il colpo di Stato che, progettato inizialmente per la fine del 1969, pochi giorni cioè dopo la strage di Piazza Fontana, venne organizzato e poi misteriosamente bloccato nella notte del 7 dicembre del 1970. Il fatto – scrive il Gip – “si venne ad inserire in un disegno terroristico e reazionario diretto, attraverso contestuali manovre di depistaggio, di infiltrazione e di provocazione, a riversare la responsabilità degli atti terroristici commessi su forze rivoluzionarie, a provocare altri atti terroristici da parte di dette forze, e quindi in ultima analisi a traumatizzare in modo sempre più grave l’opinione pubblica allo scopo di dare avvio ad una sorta di controrivoluzione ed alla conseguente granitica instaurazione di una forma di governo autoritario di tipo conservatore’’. Pochi mesi dopo inizia il processo che vede alla sbarra Maggi, Zorzi (contumace), Rognoni e Stefano Tringali per il solo reato di favoreggiamento ed anche Carlo Digilio. Nel febbraio del 1989 Salvini chiude la seconda tranche della sua inchiesta sulla eversione di destra in Lombardia. In 480 pagine il magistrato supera lo stesso concetto di “strage di Stato” per parlare di “sovranità limitata” da “direttive atlantiche”. Il magistrato inserisce Piazza Fontana in un quadro internazionale che vede nell’allora presidente del Consiglio, il defunto leader dc Mariano Rumor, “non l’organizzatore o il mandante, ma il terminale politico della strategia stragista”. “Il Presidente del Consiglio dell'epoca e una parte della Dc, ed anche e soprattutto il Psdi - scrive nella sentenza-ordinanza Salvini - erano visti come il terminale che doveva concretizzare con le sue decisioni i frutti di una strategia politico-eversiva che partendo da soggetti operativi (…) , attraverso mediazioni, probabilmente anche militari, che forse non saranno mai note, era in grado di indirizzare le scelte ai massimi vertici istituzionali”. I manovali del terrore pensavano ad un golpe imminente: decisiva è in questo contesto la già ricordata adunata missina del 14 dicembre 1969 a Roma, con la “piazza di destra” che insorgendo contro “le bombe degli anarchici” doveva fare da detonatore alla proclamazione dello “stato d’ emergenza”. Ma Rumor, atterrito dai morti e dalla prova di forza dispiegata dal Pci in occasione dei funerali con la forte presenza operaia in piazza del Duomo, si sarebbe allineato ad un compromesso sollecitato, tra gli altri, da Aldo Moro: bloccare il ‘golpe’ e, in cambio, dare via libera alla falsa pista Valpreda. Proprio per questa ‘ragione di Stato’ On decise di uccidere Rumor. Ecco perché tra le principali domande che le Br rivolgono a Moro nel “carcere del popolo” delle Br c’è proprio quella riguardante Piazza Fontana: Moro risponde come può e come sa. Cioè con allusioni e rinvii ai più incomprensibili. Parlando della strage il presidente della Dc in poche righe cita per quattro volte Rumor, accostandolo “pleonasticamente” a Gianfranco Bertoli. “Si ha la sensazione – afferma la sentenza– 17 18 ordinanza - che l’On. Moro abbia voluto inviare un messaggio criptico”. Un messaggio che va interpretato, come vedremo. Alla fine Salvini consegna un quadro convincente e incrociato delle ragioni del golpe e delle sue motivazioni. Rimangono dei “buchi” rilevanti ma non più i fitti misteri del passato. La strage ha un contesto, obiettivi, mani diverse che intervengono. Prima e dopo. Ma non basta, giustamente, per condannare definitivamente tre esponenti del gruppo ritenuto in ogni caso il responsabile. Ed ecco la condanna in primo grado e poi l’assoluzione in appello rispettando una “regola” aurea della giustizia italiana quando affronta certi temi. La Cassazione conferma. “E’ la decisione di una Corte di legittimità che ha agito secondo il diritto: ed è l’ultima parola su Piazza Fontana” ha detto nell’aula della Cassazione il Pg Enrico Delehaye. Sarà così “a meno che non emergano altre prove, cosa che mi pare difficile”, ha aggiunto subito dopo la sentenza, quasi a scusarsi per il valore storico della decisione di confermare le assoluzioni, legittime certamente, del gruppo ordinovista veneto. Perché a questo punto la domanda che circola da qualche decennio – senza risposta - torna con tutta la sua forza: Chi è stato? E ci sono tante ragioni per scrivere: “Chi è Stato?”. Anche l’ultimo treno giudiziario per la strage di Piazza Fontana non fermerà più. Non ci sono più stazioni. II) I dubbi e le certezze dei politici sulla strage “Non aver impedito la strage di Piazza Fontana è stato il cruccio della sua vita”. Partì all’improvviso, nel primo pomeriggio del 12 dicembre 1969 dall’aeroporto militare di Ciampino. Era un “rautiano di ferro”, antidemocristiano e “visceralmente anticomunista”. Era una missione sul filo dei minuti: impedire l’esplosione della bomba alla Banca dell’Agricoltura, a Milano. Una missione che poteva avergli affidato solo qualcuno del Sid, o quantomeno di una parte del Sid, visto che l’avvocato Matteo Fusco di Ravello, già aderente alla Rsi, era un agente del servizio segreto militare: l’uomo che non fece in tempo ad arrivare a Milano. Desistette quando apprese della strage. A rivelare di quell’estremo tentativo dello Stato di impedire quello che i magistrati milanesi hanno definito “ il golpe dello Stato contro lo Stato”, adombrando in questa definizione una dura lotta sotterranea tra più cordate impegnate nel raggiungimento di un obiettivo comune, il golpe, con mezzi e modalità anche drammaticamente concorrenziali, è stato Paolo Emilio Taviani, tra i fondatori di Gladio, esponente storico della destra Dc, l’uomo che mise fuori legge Ordine Nuovo, le ‘testa’ operativa della strategia politica che precede la strage nel 1969. Un uomo che ha sempre insistito su una tesi senza mai spiegarla fino in fondo, perché – ha sostenuto - “c’è un punto fondamentale per capire la strage di Milano ed è che la bomba, nell’intenzione degli attentatori, non avrebbe dovuto provocare alcun morto, avrebbe dovuto essere un atto intimidatorio come lo furono quelli contemporanei di Roma. Se non si accetta questa interpretazione, molto resta inintelligibile”15. Taviani aggiunge un elemento rilevante di questa lotta tra ‘fronti’ interni allo stesso mondo dell’eversione e dei servizi segreti: Fusco doveva recare a Milano “l’ordine di impedire attentati terroristici”. ‘Ordine’ è un termine militare che quindi deve far riflettere sull’esistenza di una vera e propria ‘catena di comando’ che qualcuno non rispetta. Lo Stato cercò di bloccare chi attentava allo Stato in nome di una divergenza di logiche, di strategie politico-militari, di scelte di tempi e modi. Taviani aggiunse un elemento rilevante della strategia post–strage messa in atto dallo Stato: “Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del Sid, il Tenente Colonnello Del Gaudio”16. La figlia di Fusco, morto nel 1985, ha confermato quella missione disperata per impedire la strage, i morti. Quel giorno lei era a Milano e prima di partire il padre le aveva chiesto se era proprio necessario quel viaggio, 15 Interrogatorio di Paolo Emilio Taviani, del 7 settembre 2000 da parte del Ros. Taviani disse di aver appreso la notizia da un religioso e che questa venne confermata nel 1973, all’atto di divenire ministro dell’Interno, dal questore Emilio Santillo e dal generale Vito Miceli 16 Ibidem 18 19 “obbligandomi poi ad andare nell’albergo ove di solito pernottava lui, che era ai limiti della mia diaria”.17 La ragazza era a Milano per conto della trasmissione “Per voi giovani” di Renzo Arbore. Dopo l’esplosione, degli amici di Anna legati ai gruppi anarchici, gli chiesero di andare in giro per Milano insieme con lei perché c’erano fitti controlli e perquisizioni nell’ambiente anarchico milanese. “Ho sempre avuto l’impressione che mio padre conoscesse alcuni esponenti dell’estremismo di destra”.18 Negli anni Taviani ha insistito, ciclicamente, sulla sua interpretazione : “E’ il punto chiave di un certo passaggio. C’è stata una non chiarezza e non sincerità di qualcuno in quel momento. Bisogna capire perché la prima sentenza di Catanzaro (quella che condannava i ‘neri’ di On, NdA), che corrisponde pienamente alle mie opinioni, è stata depistata e praticamente insabbiata. Quella sentenza mi soddisfa pianamente; bisogna andare a fondo su quella”. Taviani ha le idee chiare perché nell’arco degli anni e poi nelle sue memorie riconferma questa tesi con in più lo zampino di qualche servizio segreto straniero. Qualche anno fa in seduta segreta davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi era stato ancora più chiaro, come ricorda l’ex senatore dei Ds Giovanni Pellegrino, che ha guidato per due legislature l’organismo d’inchiesta. Taviani disse in quella sede la stessa cosa vale a dire che non si “ capirà mai niente della strage se non si partirà da un presupposto: che la bomba avrebbe dovuto scoppiare a banca chiusa. Perché non posso credere - aggiunse Taviani in quella circostanza – che un ipotetico colonnello, ma ‘ipotetico’ lo precisò successivamente, correggendo il verbale della seduta, abbia potuto dare l’ordine di uccidere tanti italiani”.19 Il verbale segreto di quell’ audizione offre una valutazione più ampia e complessa del ricordo di Pellegrino. Taviani disse, prima di correggere il verbale inserendo ‘un ipotetico’ che “Non è infatti possibile pensare che un colonnello dell’Arma dei carabinieri, persona seria e intelligente, pensi di ammazzare 16 italiani. Evidentemente la bomba doveva scoppiare come le bombe di Roma… Il problema è pertanto se c’è stato un depistaggio anche precedente…”. Da come si esprime, con un giudizio diretto sulla persona, Taviani dà la netta impressione di conoscere il colonnello ; di sapere chi fosse colui a cui ‘l’operazione’ sfuggì di mano. Quindi a Milano, per uno dei maggiori politici italiani, c’è stata quantomeno una responsabilità del servizio segreto militare, il Sid. Ma, aggiunse subito Taviani; “Tutto questo è indubbio, basta però che sia chiaro il tassello iniziale… Non doveva morire nessuno, e invece è successo quello che è successo”. E Taviani nei suoi Diari pubblicati postumi aggiunge un ulteriore frammento che combacia perfettamente con le conclusioni dell’inchiesta milanese condotta da Guido Salvini. “La responsabilità della strage è interamente dell’estrema destra e in particolare di Ordine Nuovo: uomini tecnicamente seri, collegati con settori deviati dei servizi segreti”. La Cia non c’entra nulla ma l’esplosivo è stato fornito a uomini di On da un “agente nordamericano” che proveniva dalla centrale tedesca – indicazione rilevante e ricca di sviluppi - e apparteneva al servizio segreto dell’esercito, struttura “assai più efficiente della Cia”. Nelle memorie Taviani allarga il suo giudizio verso altri settori delle istituzioni: non c’è solo il solitario colonnello dell’Arma che non controlla ‘l’operazione’. C’è altro. Qualcosa in più. Taviani deduce che la bomba non doveva causare morti dal fatto “che una volta verificato che nel crimine erano implicati alcuni uomini delle istituzioni, non è supponibile che essi cinicamente pensassero di uccidere tanti innocenti”. A meno che gli esecutori abbiano poi “disatteso gli ordini ricevuti”. Insomma la catena delle responsabilità si amplia, si allunga, si struttura. E non si capisce bene dove possa finire. A questa ricostruzione Rumor, Fanfani e Moro, dice Taviani, non vollero mai credere, almeno ufficialmente. Taviani invece come “atto politico” appena tornato al Viminale, nel 1973, sulla base della sentenza avuta dal Pm Occorsio e forzando la situazione nei termini giuridici, sciolse On. Al Viminale Taviani affronta subito il ‘nodo’ Piazza Fontana. “Chiesi a bruciapelo a Santillo: ‘Secondo lei Vicari (capo della Polizia al tempo della strage, NdA) è andato in pensione credendo 17 Interrogatorio di Anna Fusco di Ravello, 12 marzo 2001 da parte del Ros Ibidem 19 “Quel giorno gli esecutori andarono oltre il piano”, Corriere della sera , 5 maggio 2005 18 19 20 ancora che siano stati gli anarchici a portare la bomba di Piazza Fontana’? Santillo mi rispose secco: ‘non credo’(…) Santillo mi disse di essersi convinto che la matrice della bomba di Milano sarebbe stata un gruppo di estrema destra, emarginato dal Msi, proveniente dal Veneto. Questo gruppo sarebbe stato protetto da uomini del Sid. Aggiunse che tali notizie erano già note alla magistratura. Qualcosa del resto era già filtrata sui giornali’’. Taviani quindi propose, dopo la sentenza Occorsio, che era solo di primo grado, di sciogliere Ordine nuovo. Rumor era molto perplesso. Moro contrario perché temeva che “il provvedimento avesse l’effetto di aggravare la tensione”. “Si può veramente immaginare che politici di primo piano siano stati sponsorizzatori di stragi? Non ne sono capaci, non solo moralmente, ma neppure caratterialmente. Ipotesi di tal genere sono mera fantascienza’’, spiega Taviani alludendo, in controluce, proprio a Rumor.20 “ Che agenti della Cia si siano immischiati nella preparazione degli eventi di Piazza Fontana e successivi è possibile, anzi sembra ormai certo: erano di principio anti-aperturisti e anticentrosinistra. Che agenti della Cia fossero tra i fornitori di materiali e fra i depistatori sembra pure certo, che fossero organizzatori e primi autori, dubito che ne avessero la capacità. Ben diverso – e qui Taviani apre uno squarcio su una realtà mai affrontata – il discorso per il Mossad, un servizio perfettamente organizzato. Però il Mossad, a quanto almeno risulta a me, ha compiuto sempre azioni mirate. Non credo che sia stato presente nè a Piazza Fontana, né nelle stragi ai treni”. L’analisi di Taviani, a parte il colonnello dell’Arma che controlla poco e che si fa prendere in giro da quelli di On che vanno oltre i limiti fissati per ‘l’operazione’ e l’esplosivo che arriva dalla Germania, la si ritrova nei passi del memoriale che Moro dedica alla strategia della tensione e alla strage durante i 55 giorni del rapimento, quando le Br vogliono sapere tutto di Piazza Fontana. Taviani sostiene che l’invio di un uomo come Del Gaudio incaricato di depistare a sinistra l’inchiesta sulla strage e il tentativo di Fusco di Ravello “sono indizi se non prove, di atteggiamenti del tutto contrastanti all’interno dello stesso Sid. In alcuni settori del Sid e dell’Arma di Milano e di Padova, vi furono deviazioni. Fu l’Arma stessa, con la sua solida struttura, ad individuarle e correggerle”21. Due le città citate: Milano e Padova e l’Arma dei Carabinieri e il Sid. Da ricordare. Taviani condivise, il 1 luglio del 1997, la definizione di Piazza Fontana come “madre di tutte le stragi” affermando, in sostanza, che attorno a quella vicenda, si mosse una composita realtà d’intelligence al fine di mettere a segno un obiettivo politico comune ma che veniva interpretato in modi diversi e cioè il tentativo di bloccare la “strategia dell’attenzione” al Pci varata da Aldo Moro con la “strategia della tensione” che doveva innalzare il livello di scontro, paralizzare l’opinione pubblica, mettere il bavaglio a sinistra; spegnere, come aveva fatto De Gaulle in Francia, l’anno ‘rivoluzionario’ dell’Italia con una serie di azioni che miravano a ottenere una stabilizzazione politica attraverso la destabilizzazione sociale, la paura del golpe. Ma qualcuno, insiste Taviani, andò oltre. Le due linee che si possono individuare erano in parte concorrenziali politicamente, ma frammiste, incrociate, trasversali ai livelli operativi, e questo fece sì che l’operazione non andasse come era stato ipotizzato. Qualcuno si sentì autorizzato a ‘forzare la mano’, accelerare i tempi, stringere i politici all’angolo buttando sul piatto della bilancia i morti che dovevano costringere i ‘parolai’, i generali ‘cacasotto’, ad agire. Ma anche in questo caso qualcosa non andò come doveva andare. Se quanto programmato e ricercato non accadde è probabile che la causa non siano i morti ma il fatto che questi furono troppo pochi. Con 100 morti il golpe più o meno ‘istituzionale’ ci sarebbe stato. Oggi a tanti anni da quel venerdì freddo e cupo del 12 dicembre del 1969 lo Stato ha definitivamente abdicato davanti al ruolo giocato da quel colonnello dei carabinieri, che non essendo stato mai individuato non ha potuto dire quale fosse il suo compito; chi impartiva gli ordini eventualmente ricevuti, chi era il suo ‘superiore’ militare o il suo referente politico-istituzionale. 20 21 Dal documento letto da Taviani in sede di audizione davanti alla Commissione Stragi, 1 luglio 1997. Interrogatorio di Paolo Emilio Taviani , 7 settembre 2000 da parte dei Ros 20 21 Nel momento della verità umana e politica della “prigione del popolo” il Presidente della Dc Aldo Moro scrive a lungo della strage. Il ritrovamento delle carte frutto degli interrogatori a Moro nell’ottobre del 1990 nello stesso covo Br di via Monte Nevoso a Milano, dietro ad un pannello occultato sotto una finestra, riserverà qualche sorpresa anche su questo tema perché quelle lettere non furono poi così deludenti come diceva durante il processo Moro la Faranda. Moro afferma di non aver mai creduto alla pista “rossa” per Piazza Fontana e che dietro quegli attentati, che avevano l’obiettivo di normalizzare l’Italia del 1968, c’erano centrali straniere, così come sostiene Taviani. “Si può presumere che paesi associati a vario titolo alla nostra politica estera e quindi interessati ad un certo indirizzo fossero in qualche modo impegnati attraverso i servizi d’informazione. Su significative presenze della Grecia e della Spagna fascista non può esservi dubbio”. Per la più che felpata prosa di Moro è una vera e propria accusa: a chi associare all’epoca Italia, Spagna e Grecia se non gli Usa? Moro racconta come seppe della strage mentre era a Parigi (“Lo vidi invecchiare in un istante”, scrive Agnese, la figlia che era con lui nella capitale francese) e che si consultò con il Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Picella, “uomo molto posato… di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali d’ informazione propri. I suoi erano i canali dello Stato.” Una notazione apparentemente senza un senso preciso questa su Picella. Picella dice a Moro che la “qualifica politica” della realtà coinvolta nella strage era quella di “gente appartenente al mondo anarchico”. “Ci si trovava di fronte ad una costruzione giudiziaria elaborata, ma che nel complesso non appariva molto persuasiva”, nota Moro che però non ebbe “mai dubbi” e continuò a ritenere, a manifestare, “almeno come ipotesi”, che questi e altri attentati che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato “allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere”. E di questa sua convinzione Moro mise a parte “con reiterati interrogativi i suoi colleghi di governo” quando era presidente della commissione Esteri della Camera e in particolare Mariano Rumor che nel frattempo era stato fatto oggetto di un attentato da parte dell’ ‘anarchico’ Gianfranco Bertoli. Come detto in quattro righe Moro cita Rumor quattro volte ma sempre in riferimento all’attentato di Bertoli. Un messaggio. Salvini ha sostenuto che Moro volesse così ricordare, a chi poteva capire, lo scontro durissimo che si giocò a ridosso e subito dopo la strage tra due schieramenti politici che facevano capo a Moro, parte della Dc (e al Pci) e a un fronte composito che faceva riferimento a buona parte della Dc, Psdi, Msi, ambienti militari e dei servizi segreti. In maniera schematica, data l’eterogeneità delle forze che hanno una convergenza operativa su un obiettivo politico di tale rilevanza potremmo parlare di ‘partito americano’, cioè di una realtà politica che interpretava in maniera oltranzista, rigida, la collocazione occidentale dell’Italia e combatteva una battaglia a tutto campo e con tutte le armi disponibili nei confronti dello “scivolamento” a sinistra, dell’entrata dei comunisti nell’area di governo, del dialogo tra sinistra Dc, Psi e Pci. Rumor non proclamò, come chiesto da Saragat e da parte della Dc, lo ‘stato di emergenza’ facendo venir meno un passaggio fondamentale per tutti coloro che avevano scelto la strada di “andare oltre lo stabilito” facendo esplodere la bomba quando vi erano ancora molte persone nella banca. “ Si ha la sensazione che Moro abbia voluto inviare un messaggio criptico che imponeva lo stesso collegamento fra i due episodi emerso nell’inchiesta”, scrive Salvini. Cioè Piazza Fontana e l’attentato contro Rumor alla Questura di Milano. Infatti On, come hanno abbondantemente dimostrato l’inchiesta prima ma anche i processi finiti con le assoluzioni, intendeva colpire Rumor, anzi “spazzarlo via”, per vendicarsi della scelta fatta nel 1969. “Per quanto riguarda la strategia della tensione che per anni ha insanguinato l’Italia, pur senza conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si 21 22 collocano fuori dall’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Dc in alcuni suoi settori”, scrive tra l’altro Moro confermando lo schieramente in campo in quei giorni di dicembre. “Fino a questo momento (1978, NdA) non è stato compiutamente definito a Catanzaro il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci sia non c’è dubbio”, aggiunge il Presidente della Dc nel carcere delle Br. E subito dopo arriva un ulteriore richiamo alle responsabilità di una parte della Dc, allo scontro che si consumò in quelle ore tra due fronti che per tutto l’anno si erano minacciati, attaccati, studiati preparando le pedine per la battaglia che si riteneva decisiva: quella che si sarebbe giocato in autunno. “Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti mancò alla Dc di allora e ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico, sia sul piano amministrativo, un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto. Risulta invece, mi pare soprattutto dopo la strage di Brescia, un atteggiamento di folla fortemente critico e ostile proprio nei confronti di esponenti e personalità di questo orientamento politico, anche se non di essi soli”. Moro sta parlando, senza nominarlo, di Amintore Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della Dc. L’allora Presidente del Senato fu fischiato sonoramente durante i funerali delle vittime della strage di Brescia. E per togliere ogni equivoco Moro cita una confidenza fattagli dal collega di partito Salvi. “ Ricordo un episodio che mi colpì molto, anche se mi lasciò piuttosto incredulo. Uscendo dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico On. Salvi, antifascista militante e uomo di grande rettitudine (…) mi comunicò che in ambienti giudiziari di Brescia si parlava di connivenze ed indulgenze deprecabili della Dc e accennava al senatore Fanfani come promotore, sia pure da lontano, della strategia della tensione. Io ebbi francamente una reazione d’incredulità e il Salvi stesso aggiunse che la voce non era stata comprovata, né aveva avuto seguito”. Qualche ulteriore accenno a Fanfani nelle carte riguardanti la “strategia della tensione” c’è, e tutte sono nel segno della “incredula” indicazione che veniva dagli uffici giudiziari di Brescia. Siamo solo e sempre nel campo della politica. Delle scelte di campo, delle indicazioni strategiche, non certamente operative. Citiamo tre elementi. Il primo viene da Giangiacomo Feltrinelli, l’anello di collegamento tra gli anarchici e la sinistra ufficiale, il Pci. L’uomo che doveva fungere, se l’operazione fosse andata per il verso previsto dall’ala oltranzista, da capro espiatorio, da regista con addentellati internazionali capaci da mettere sotto accusa tutta la rete comunista internazionale, e ovviamente i suoi referenti italiani. Un obiettivo costruito nel tempo con un’ampia azione di sobillazione, pressione personale, controllo diretto e indiretto. Feltrinelli si rende irreperibile dalla sera del 6 dicembre, dopo un colloquio avuto con una serie di personaggi rilevanti in città, tra cui uomini del Pci, che lo mettono in guardia che per lui tira una brutta aria a Milano. Da quel momento Feltrinelli entra in una condizione di clandestinità sempre più accentuata e chiusa nella ricerca di un impossibile sogno rivoluzionario. Sul mensile che fonda dopo la strage e che esce nel settembre del 1970 compare un articolo senza firma che molto seccamente sostiene che la sera della strage “sta per scattare l’ordine di arrestare 10.000 persone e uomini politici italiani (Fanfani si vanterà nelle settimane seguenti di aver avuto un ruolo determinante nell’impedire questo vero e proprio colpo di Stato). La sera stessa, nelle settimane e nei mesi seguenti tutto l’apparato repressivo dello Stato è impegnato a dimostrare la tesi degli ‘attentati da sinistra’, la tesi della colpevolezza di Valpreda e c. per coprire i veri responsabili bisognava infatti trovare dei presunti responsabili. E si completa così l’anello fra gli ideatori, organizzatori ed esecutori degli attentati e i complici silenziosi ma indispensabili di un’operazione politica di largo raggio; si chiude l’anello fra le organizzazioni paramilitari di destra, i funzionari del Sid (ex Sifar) e certi ambienti della polizia e della magistratura che seguono più da vicino le indagini sugli attentati.”22 Quando il leader di An, Stefano Delle Chiaie, arriva in Italia dopo l’arresto, più volte impedito a servizi segreti e polizia da interventi di ‘aiuto’ o di vero e proprio blocco venuti dalla catena di comando politica, una delle prime ‘vetrine’ che gli è offerta è l’appena costituita Commissione monocamerale d’inchiesta sulle stragi che lavora per poche settimane prima dello scioglimento 22 “I problemi del nuovo governo”, Voce Comunista, 1 giugno 1970 22 23 delle Camere. In audizione segreta Delle Chiaie indica tra gli uomini politici più in sintonia politica con il suo movimento proprio Fanfani. Altro elemento che s’intreccia con il 1969 e Fanfani riguarda l’agosto, mese in cui secondo Angelo Vicari è messo in atto uno dei più gravi tentativi di golpe mai predisposti in Italia. Un golpe di cui sappiamo ben poco tranne che Giangiacomo Feltrinelli l’aveva pre annunciato, in giugno, con il suo opuscoletto intitolato proprio “Estate 1969”. Il Pci lo aspettava fin da maggio quando la struttura di sorveglianza interna fu messa in allarme da Armando Cossutta che allora la guidava. In luglio c’è la scissione socialista: i due fronti del socialismo accentuano, per necessità e logica politica, la loro identità. Il Psi guarda strettamente a sinistra, il Psdi cerca di scavalcare a destra la Dc e di divenire l’alfiere di una nuova crociata anticomunista e antifrontista attaccando principalmente la sinistra Dc. In crisi profonda è lo sbocco di un’intera fase del centrosinistra. La sconfitta del maggio ’68 alle politiche da parte dei socialisti, l’emarginazione di Moro, l’accentuarsi del distacco del Pci da Mosca dopo l’invasione della Cecoslovacchia e il congresso del Pci del febbraio del 1969 hanno creato tutte le condizione per uno scontro totale che è politico e ideologico. Si ipotizza che il Pci possa sostenere, dall’esterno, giunte locali con Dc e Psi. Dopo la scissione socialista la crisi esplode in tutta la sua virulenza. Panorama pronostica un prossimo golpe e la Dc impone un monocolore per far decantare la situazione ed anche per risolvere i conti interni. Lo definiscono gli stessi uomini della Dc un governo “allo sbaraglio”. Il primo di agosto L’Unità esce con il titolo a tutta pagina: “Monito del Pci a Rumor e alla Dc a non imboccare la strada del luglio 1960”, cioè del governo Tambroni appoggiato dall’Msi che cadde in conseguenza degli scontri di piazza di Genova. Rumor recepisce e il due c’è un mandato esplorativo al Presidente del Senato Fanfani. Fanfani passa la mano nuovamente a Rumor per un “governo d’attesa”. Mentre Rumor va alle Camere e illustra la sua proposta programmatica nella notte tra l’8 e il 9 agosto esplodono bombe su otto treni. E’ il gruppo Freda e Ventura che parte all’attacco e vuole spingere per approfittare della situazione che appare come unica, risolutiva, assolutamente da non perdere. Quell’autunno caldo, con lo scadere di decine e decine di contratti, che è stato evocato, esaltato e ‘costruito’ come una sorta di ‘ponte sul nulla’, appare come una rivoluzione sociale che può seriamente mettere in difficoltà lo Stato nel suo complesso secondo certi politici. Al ministero del Bilancio siede Giuseppe Caron, Dc veneto, amico di Ventura tanto da fargli da garante con le banche per i prestiti utili ad avviare la sua attività d’editore di sinistra che dialoga con gli extraparlamentari. Moro è agli Esteri, Donat Cattin al Lavoro, Restivo agli Interni e Gui alla Difesa. Il settimanale della sinistra Dc Politica rivela a metà agosto che gli scissionisti del Psdi hanno imposto a Washington il siluramento dell’ambasciatore Usa a Roma Gardener Ackley accusato di non aver creduto alla scissione socialdemocratica e di non averla adeguatamente sostenuta. La notizia del ‘cambio’ era del 5 agosto ma Politica rivela le motivazioni dopo il governo Rumor e le bombe sui treni. Ackley “vissuto nel nostro Paese con gli occhi aperti, sembra si fosse convinto che i problemi italiani sono abbastanza seri e profondi perché una scissione di socialdemocratici, superficiale, demagogica, grossolana, potesse bastare ad affrontarli e soprattutto a tranquillizzare certi ambienti del Dipartimento di Stato. Bisogna essere semplicisti come sanno esserlo certe volte gli americani, per credere che un pugno di socialdemocratici possano bastare a mettere l’Italia, una volta per tutte, al riparo da quella che alcuni funzionari del Dipartimento di Stato continuano a temere come la minaccia comunista”.23 All’inizio dell’estate Giuseppe Saragat, attraverso un suo uomo di fiducia fa sapere al numero due dell’ambasciata americana a Roma, Wells Stabler, che gradirebbe come ambasciatore a Roma, l’ex addetto alle questioni economiche Henry Tasca. Stabler fa capire che la casa Bianca non gradirebbe una tale intromissione e la cosa finisce lì ma Ackley lascia Roma il 27 agosto. Il 6 settembre arriva a Roma l’ex giornalista ed ex colonnello dell’esercito Graham A. Martin nettamente contrario al centrosinistra, come Kissinger24. Il Dipartimento di stato Usa è diviso tra gli uomini che seguono il 23 “L’ambasciatore Usa silurato per iniziativa degli scissionisti”, L’Unità, 19 agosto 1969 “Isolando i comunisti, l’apertura a sinistra fece del Pci l’unica forza d’ opposizione. E distruggendo i partiti democratici minori, l’esperimento privò il sistema politico italiano 24 23 24 Segretario di Stato, William Rogers, che ha in effetti un potere nominale, e la fronda oltranzista di Kissinger. Ackley aveva lavorato a lungo con Kennedy.. Martin vuole ora correggere gli errori dei Democratici. Per lui come per Nixon e Kissinger, “i socialisti italiani non hanno altro ruolo politico che quello di copertura ai comunisti” 25. Scriverà di lui Moro durante i 55 giorni: “Dei tre ambasciatori citati (Martin,Volpe e Gardner), quello con cui ho avuto rapporti semplicemente minimi è il primo, l’ambasciatore Martin, che ho incontrato, credo, una sola volta, benché fossi allora ministro degli Esteri”. Martin fa sapere al chief of station della Cia a Roma, Seymour Russel, di voler essere informato nei dettagli d’ogni operazione, più o meno clandestina, condotta dalla Cia a Roma. Il capo della stazione Cia parla italiano, è già stato in Italia durante la guerra come ufficiale del Cic, il controspionaggio dell’esercito americano che troveremo citato a piene mani nell’inchiesta Salvini come la struttura operativa di controllo e collegamento tra le basi Nato e i gruppi ordinovisti che ruotano attorno alla strage. “‘Più che un ambasciatore Martin aveva le caratteristiche del guerrigliero’ conferma un’altra fonte”26 Il 28 agosto il Psu riprende con vigore la sua richiesta delle elezioni anticipate. Il 29 il settimanale Abc esce con un servizio intitolato : “Saremo chiamati a votare sotto il ricatto degli attentati?”. Il Capo della Polizia Vicari rivolge l’inchiesta sulle bombe sia a destra, sia a sinistra, senza preconcetti e chiede che non vi siano interferenze politiche, “ma proprio questo atteggiamento corretto avrebbe già procurato a Vicari qualche noia”. “Il sospetto crescente è che le varie destre puntino ad elezioni anticipate in un clima di paura e di terrorismo”. “In una situazione d’ emergenza, sotto il ricatto degli attentati, anche il ricorso alle urne e il responso elettorale risulterebbero falsati”. All’inizio d’agosto si svolge a Padova una riunione. I nomi dei partecipanti sono in gran parte noti. Angelo Moscon, uno dei tanti presenti ricorda che ad un certo momento si cominciò a parlare con insistenza dell’autunno caldo e verso mezzanotte del superamento dello “sterile legalitarismo borghese” e di gesti dimostrativi. Un giovane del Sud, forse napoletano, disse che si doveva “mettere in atto una strategia globale per far affogare nel sangue il centrosinistra”, e che “se il fronte clerico marxista cerca i morti, li avrà”.27 Un quadro allarmante che ebbe poi qualche altra conferma. Nel 1974 i giornali parlano a lungo di Enzo Salcioli, imparentato con l’ex Capo dello Stato Giovanni Gronchi, indicato come un ex agente del Sid ufficialmente scomparso da 4 anni. Lo scossone di quell’anno, quando tante realtà finiscono e tanti conti si presentano, lo fa uscir fuori prima con un memoriale a Der Spiegel, e forse ha un senso la scelta di un settimanale tedesco, come vedremo, e poi con una serie di interviste in Italia. In pratica Salcioli, dice di sapere chi ha ‘gestito’ la strage di Piazza Fontana. “E’ un colonnello del Sid, il cui nome di codice nel 1969 era ‘Penna nera’. Lui faceva da collegamento fra la potenza occulta che ordinava l’azione e l’azione stessa. In tutta la preparazione e l’organizzazione dei fatti che portarono all’eccidio di Piazza Fontana s’incontra la presenza di quest’uomo: il colonello nero”. Salcioli mischia sapientemente elementi vari, più o meno credibili o veritieri (alcuni palesemente falsi), il “suicidio del colonnello Rocca” (il primo a entrare nella stanza per decidere cosa portare via fu l’avvocato Fusco di Ravello), “l’omicidio di Enrico Mattei”, e poi i contatti con il Mar del “partigiano bianco” Carlo Fumagalli. Perché l’elemento centrale di questa storia e che a livello operativo non ci si divide solo tra referenti politici, servizi militari e civili, appoggi stranieri o non, ma anche sulla logica fascista-antifascista. Ci sono cordate “bianche” che stanno cercando di soppiantare quelle “nere” supervisionate politicamente da Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della X Mas che ha contrattato con gli della necessaria flessibilità”, Henry Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo 1980,p.103 25 Gatti, Rimanga tra noi. L’America, l’Italia, la questione comunista: i segreti di 50 anni di storia, Leonardo Editore, Milano, 1991, p.82. 26 Ibidem,p.83 27 “Bollettino da Malta”, L’Espresso , 8 aprile 1973 24 25 americani la sua salvezza alla fine della guerra e che ha fornito gli uomini per la strage di Portella della Ginestra fatta per ammonire la Dc; per piegarla al ricatto, come hanno svelato recenti ricerche28. In Italia Salcioli parla genericamente di un incontro avuto nell’agosto del ‘69 con un politico italiano “assai potente”, presenti altri due ufficiali del Sid. “Gli spiegammo che era nell’aria un colpo di Stato, ma che gli artefici di esso avevano bisogno di un appoggio autorevole: dovevamo poter contare su un uomo che godesse di vasto prestigio presso numerosi schieramenti politici e che avesse la reputazione pulita almeno per quanto possibile. Il personaggio si mostrò assai scandalizzato, disse che era un reato gravissimo anche solo pensare a una sovversione dello Stato e che non poteva prestare ascolto a questi discorsi proprio lui che aveva dedicato l’intera vita alla democrazia. Alla fine però ammise che dovendo scegliere tra colpi di sinistra e di destra, avrebbe preferito la destra. Però ricordo che le sue parole testuali furono che in ogni caso non potevamo aspettarci da lui nessun aiuto, in quanto lui era l’uomo da chiamare solo quando la cosa era fatta”. “Io posso accettare da voi non la proposta di un colpo di Stato, ma solo esclusivamente l’Italia su un vassoio d’argento”.29 Un anno dopo in un’intervista ad un quotidiano svizzero, Salcioli rivelerà che quel “potente” era Amintore Fanfani al quale il gruppo d’ufficiali aveva offerto la Presidenza della Repubblica. A riscontro Salcioli cita il nome di un uomo del Sid presente al colloquio, Angelo Sormano. Salcioli appartiene, quando parla, ai “bianchi”, alla cordata di Fumagalli che sta muovendo i primi passi e accusa della “strategia della tensione” Andreotti, Taviani e Rumor. Una scelta dettata dalla necessità di contrastare le analoghe “operazioni sporche” che erano in atto dall’altra parte grazie all’opera di Borghese e del suo Fronte Nazionale costituito a fine ’68 e di On e An, legate a lui ben più di quanto non si sia raccontato e non appaia; il Fronte infatti altro non è che la ‘federazione’ dei due gruppi che cercano di ‘scantonare’ dalla presenza, politicamente ingombrante, di Borghese. Ma tutto può essere utile ad un uomo legato alla Dc, e Salcioli lo è, per attaccare gli avversari interni al partito. Fanfani smentì su tutto il fronte. Il servizio segreto italiano disse che Salcioli, che compare in alcune foto accanto all’ex capo dello Stato Giovanni Gronchi durante missioni all’estero, non era mai stato un ufficiale del Sid ma questi replicò citando l’aiuto avuto dal Consolato d’Italia a Barcellona quando era già ricercato per gli attentati commessi dal gruppo “bianco” di Fumagalli. Una vicenda che ricorda l’aiuto dato, all’estero, a Guido Giannettini dal Sid che lo continuò a pagare e tutelare anche quando il giornalista era ricercato dalla magistratura. All’epoca il sedicente agente del Sid Salcioli, disse che “come militare” aveva partecipato ad un’altra riunione importante dopo una convocazione urgente il 4 novembre. Si tratta di 25 tra alti ufficiali del Sid, colonnelli e generali. “Si parla della eventuale reazione ad un’azione decisa dalla sinistra. (…) Perciò in quella riunione venne decisa la mano forte: un ‘colpo duro’ se accadeva questo”. Le indagini del maggiore del Ros Massimo Giraudo hanno accertato che per il 4 novembre era pronta una strage terribile. In Veneto un ponte sarebbe dovuto saltare mentre passava un battaglione di soldati che stava partecipando alle celebrazioni della vittoria del 4 novembre 1918. All’ultimo momento la dimensione della strage prevista scoraggiò e dissuase gli attentatori. Quella strage rientra tra le tante ipotizzate e non realizzate perché i referenti, la catena di comando appariva formata da elementi incerti, titubanti, che non offrivano garanzie d’adeguata copertura a chi doveva operare. Tra il gioco politico e quello operativo si frapponeva una vasta realtà, composita e spesso inserita in più cordate, che cercava di arrivare all’obiettivo pagando comunque il prezzo personale minimo. Un altro momento decisivo doveva aversi con lo sciopero generale del 19 novembre. A Milano in via Larga ci furono disordini si disse fomentati, “riscaldati” da provocatori fascisti. Morì l’agente Antonio Annarumma e nelle caserme ci fu una rivolta rientrata con molta fatica. 28 Aldo Giannuli, “Portella della Ginestra: quella strage di Giuliano contro la Dc”, Libertaria, dicembre 2003 29 “Chi ha a messo le bombe di Piazza Fontana”, L’Espresso, 24 luglio 1974 25 26 Saragat invia un telegramma in cui afferma che “quest’odioso assassinio deve ammonire tutti ad isolare, a mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita e deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del governo, ma soprattutto nella coscienza dei cittadini la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà”. Quasi un incitamento alla rivolta per un episodio sulla cui dinamica reale rimangono molti dubbi30. Per quel giorno – rivela Salcioli - si attendeva in effetti “qualcosa in più” 31. Allora l’esercito sarebbe potuto intervenire occupando punti nevralgici, arrestando i prefetti, i politici, prendendo saldamente in mano il controllo del Paese. Quando accadde la morte di Annarumma “ il responsabile di Milano che avrebbe dovuto darci l’allarme, un generale del Sid, non ci avvisò. Noi lo sapemmo subito dopo per altri canali, ma ormai non era scattato il meccanismo idoneo a mettere in moto l’azione. O forse ci fu qualcuno di molto in alto che interruppe la catena degli ordini, sventando così tutto’’. Salcioli afferma che lui aveva predisposto le liste delle persone da arrestare in Toscana. Troppo compromesso nella questione alla fine Salcioli era stato scaricato avvicinandosi a Pacciardi e a Fumagalli, cioè alla parte “bianca”, resistenziale, della guerra per bande che si stava combattendo in Italia con l’unico scopo di contrastare il confronto aperto da Aldo Moro con il Pci dopo l’esaurirsi della esperienza del centrosinistra e la conseguente frattura nel campo socialista. In quei mesi si fa avanti Fanfani che si presenta come un Giano bifronte emulo di De Gaulle: l’uomo della pace e dell’indipendenza per la sinistra e come l’uomo della legge e dell’ordine per la destra. Durante una conversazione con Gianni Agnelli arriva ad annunciare una prossima grande svolta positiva in Europa con Pompidou all’Eliseo e Fanfani al Quirinale. Scrive Giorgio Galli in una bella biografia del “cavallo di razza” della Dc che la sua posizione e i contatti “in questo periodo sono ambigui e oscuri, come molti degli eventi italiani nell’anno d’avvio della ‘strategia della tensione’: il 1969”. 32 Nell’interregno tra la cacciata di Ackley e l’arrivo di Martin a farla da padrone nell’oltre mese e mezzo è Pier Francesco Talenti, presidente della sezione italiana del Partito repubblicano americano e considerato l’uomo di Nixon in Italia. Sarà lui a mantenere nel 1970 i rapporti con Junio Valerio Borghese alla vigilia del golpe del 7 dicembre. Dunque Martin, che ha pochi contatti con gli italiani, incontra Fanfani in autunno, come rivelerà il New York Times scrivendo della testimonianza dell’ex ambasciatore ad una commissione del Senato Usa prima di andare a Saigon come nuovo ambasciatore. Martin aveva incontrato il senatore Fanfani, che veniva presentato come capo dell’ala conservatrice della Dc, in un appartamento di proprietà della Rai Tv grazie anche all’intermediazione di Ettore Bernabei. Per contenere l’avanzata del Pci Fanfani chiese un milione di dollari, riprendendo così i finanziamenti alla Dc che erano stati interrotti nel 1967. Gli uomini della Cia storsero la bocca ma la cosa arrivò lo stesso sul tavolo del ‘Comitato 40’, che quindi era già attivo nel 1969, cioè la struttura messa in piedi da Kissinger per gestire le operazioni clandestine. Anche qui si disse no e sulla pratica, rivelò il giornale, Nixon appuntò di suo pugno una nota. “No. Vogliamo stare fuori da cose di questo genere”33. La Cia e gli americani non rimasero certamente fuori da cose di questo genere ma molto più semplicemente non si fidavano di Fanfani e del suo spostarsi continuo lungo assi del tutto personali di politica estera e interna alla ricerca di quel ruolo di “De Gaulle italiano” che in tanti gli attribuivano. I fanfaniani erano giudicati diversamente dal Dipartimento di Stato (conservatori ma di sinistra) e dalla Cia (di centro). Tanto bastò per non farsi coinvolgere in “cose di questo genere” che la Cia aveva sempre fatto e tornerà a fare negli anni successivi. E quali erano le ‘cose’ a cui allude Nixon? Possibile una tale reazione negativa, e così netta ,solo per finanziamenti che erano stati la normalità in passato? 30 Si parlò a lungo di una ripresa Tv , poi scomparsa, che dimostrava la natura non volontaria dell’incidente che portò alla morte di Annarumma. L’inchiesta venne archiviata anni dopo senza che venissero indicati dei colpevoli 31 ibidem 32 Giorgio Galli, Fanfani, Feltrinelli, Milano,1975,p.87 33 Giorgio Galli, op.cit.p.87 26 27 Fanfani nell’autunno del 1969 fece capire d’ essere disponibile ad interpretare il ruolo di restauratore della legge e garante dell’ordine in Italia? Galli nella sua biografia di Fanfani dà una risposta assolutamente positiva sulla base di un’ ampia analisi. “Corrisponde ai comportamenti precedenti di Fanfani, e anche ai suoi modelli specifici: De Gaulle, Pompidou, una politica estera autonoma e una politica interna da uomini forti. Naturalmente né De Gaulle, né Pompidou si sarebbero rivolti all’ambasciatore americano”.34 Sempre nella intervista al quotidiano svizzero Il Corriere del Ticino del 1975, un anno dopo la caduta di Nixon, Salcioli indica il nome del “colonnello nero”: sarebbe il comandante della legione carabinieri di Padova. Taviani aveva indicato Milano, Padova e il colonnello dell’Arma oltre al Sid. Un identikit quindi che potrebbe anche avere a che fare con quello dell’‘ipotetico’ colonnello dell’Arma, evocato da Taviani, a cui sfuggì di mano ‘l’operazione’ che non doveva fare morti ma solo preparare il terreno a quello che Moro definisce “il morso della paura”. Tutto si perde però nell’indistinto. Anche questa pista si dissolve tra le carte e del “colonnello nero”, mai ufficialmente identificato, rimane solo l’ombra che arriva da lontane dichiarazioni. Anche il ‘Comitato 40’ per molti studiosi rimane un organismo un po’ mitico, di cui è difficile dimostrare l’esistenza e l’operatività in Italia in quei mesi. Il ‘Comitato 40’ prende il nome dal Memorandum che porta quella numerazione che è del 17 febbraio 1970. Ma sappiamo che questa struttura che gestisce la parte occulta della politica estera e delle ‘operazioni sporche’ Usa agisce in Italia già dall’anno prima. Ne fanno parte 5 persone: il consigliere per la sicurezza nazionale Kissinger, che lo presiede, il vice segretario della Difesa, il sottosegretario di Stato per gli affari politici, il capo di Stato maggiore della Difesa e il direttore della Cia. Probabilmente nel 1970 si definisce quello che nei fatti si è già realizzato. Gran parte delle decisioni passano nelle mani di Kissinger che chiede il conforto di Nixon per le decisioni importanti. Gli altri sanno poco. Le riunioni erano ridotte al minimo. “Henry era l’arbitro supremo… e una delle tecniche da lui usate per minimizzare il ruolo del Comitato era quella di ridurre al minimo le riunioni. Preferiva sondare il parere dei membri del Comitato per telefono, con la scusa di risparmiare il loro preziosissimo tempo” ha scritto uno dei massimi studiosi d’operazioni coperte Usa, John Prados35. Ma un libro misconosciuto sul ruolo Usa in Italia, il bel “Rimanga tra noi” aggiunge un altro elemento rilevante citando la testimonianza di un suo componente nel 1970, il sottosegretario di Stato U.Alexis Johnson. “Il quel periodo il Comitato non fu sempre informato di quello che veniva deciso. Ed è certamente possibile che alcune operazioni siano state condotte senza che ne fossimo messi al corrente. Non mi sorprenderebbe se fosse successo ad esempio con l’Italia, perché dell’Italia Kissinger si occupava sempre in prima persona”. Una recente biografia critica di Kissinger36 chiarisce che il Comitato ha cambiato nome nel tempo, ancor prima di Nixon, seguendo l’indicazione del Memorandum che istituiva l’organismo segreto. “Tra il 1969 e il 1976, ogni volta che è stata intrapresa un’attività riservata di qualche rilievo, si può perlomeno ritenere che Henry Kissinger ne fosse direttamente a conoscenza, oltre che responsabile.”37 E’ possibile che con questa logica si siamo create due catene di comando Usa che rispondevano a indirizzi valutazioni e strategie operative diverse e che in questa duplicità si siano inseriti soggetti politici e non per avere quella “copertura” necessaria all’azione, come poi avvenne – sia pure sotto ‘controllo’- per il golpe Borghese. Salcioli parla di generali ma anche il padovano Giovanni Ventura, che oggi vive in Argentina da latitante garantito dai suoi segreti, vi accenna in uno dei più gravi momenti di difficoltà nel gennaio del 1975 quando dice che finché non sarà stato chiarito il ruolo del Sid nei fatti del 1969, “sarà 34 Giorgio Galli, op. cit.,p.88. Jhon Prados, President’s Secret Wars: Cia and Pentagon Covert Operations since Worl War II, New York,William Marrow and Co.,1986, p.323 36 Cheistofer Hitchens, Processo ad Henry Kissinger, Roma,Fazi, 2003,pp. 48-49 37 Ibidem,p.49. 35 27 28 impossibile fare un processo, accertare la verità. Sono importantissimi i generali e anche Guido Giannettini, Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie”38. La rete italo-americana che si mosse – e in questo le testimonianze dell’inchiesta sono tali e tante da essere prese in considerazione dagli storici che non hanno paura di affondare le mani nel ‘cuore oscuro’ dell’Italia - aveva un progetto ben chiaro in testa: lo ‘sbocco’ della stagione delle bombe doveva essere, secondo almeno una delle due cordate che agivano sul campo in quelle settimane, la proclamazione dello stato d’emergenza da parte del Presidente del Consiglio Rumor. L’altra mirava ad un vero e proprio intervento dei militari sulla base dell’esperienza maturata ad Atene con il golpe dei colonnelli del 1967. Nel primo caso si trattava di una sorta di “pressione” militare da esercitarsi grazie e sull’onda dello sdegno, provocata dalla strage (quindi non un vero e proprio golpe) che avrebbe portato allo scioglimento del Parlamento e magari a riforme di stampo gollista, come vedremo. Anche qui troviamo, se ben si valuta tutta la documentazione disponibile, due linee, due strategie, due obiettivi a vari livelli. E probabilmente anche diversi referenti politici. L’analisi di Salvini poggia su riscontri politici logici che trovano conferma anche in quelli che i politici hanno detto negli anni sulla strage. Come altrimenti spiegare l’insistenza di Moro nel suo memoriale su Rumor e Bertoli? “Ricordo una viva raccomandazione fatta al ministro dell’Interno onorevole Rumor (egli stesso fatto oggetto di un attentato) di lavorare per la pista nera”, scrive durante la sua prigionia Aldo Moro, Presidente della Dc. Le dichiarazioni di Digilio e Siciliano, i dubbi di Taviani, le indicazioni di Moro si sommano e trovano ‘riscontro logico’ con quanto dichiarato ormai oltre 10 anni fa da Vincenzo Vinciguerra che dal gruppo ordinovista mestrino ricevette per ben due volte l'invito ad uccidere Rumor come forma di “punizione” per essersi tirato indietro. E' accertato - compare negli atti di diverse inchieste e di processi - che per due volte il gruppo di On chiese a Vinciguerra di uccidere il presidente del Consiglio nel '71 - '72. Vinciguerra si rifiutò. Lo stesso gruppo arrivò a controllare i soggiorni di fine settimana di Rumor a Vicenza studiando la possibilità di colpirlo con un fucile in giardino, come Kennedy. La sentenza della Cassazione ha assolto definitivamente Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Virginio Rognoni dall’accusa di essere i responsabili diretti della strage ma non ha cancellato quanto si è documentalmente capito, grazie a quest’ultimo processo sulla strage, del ruolo delle strutture di intelligence Usa nella strategia della tensione. Il referente Usa Carrett spiegò a Digilio che nei giorni immediatamente successivi alla strage le navi sia americane, sia italiane avevano avuto l'ordine di uscire dai porti “perché, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più facilmente colpite”. A comandare la flotta Nato del Sud Europa è dal luglio del 1969 l’ammiraglio Giuseppe Rosselli-Lorenzini che era destinato a divenire il ministro della Difesa nei piani del golpe del 7 dicembre 1970, il ‘Golpe della Madonna’ che Borghese tentò di attuare con l’aiuto degli americani. Digilio riferisce di un colloquio, all’inizio dell' estate del ‘69, prima degli attentati ai treni dell’ agosto, con Carrett.“Mi disse che la loro struttura era stufa di tollerare o appoggiare azioni dei servizi segreti italiani, che avevano superato i limiti e scherzavano con il fuoco. Mi confermò che erano concepite azioni dimostrative in senso anticomunista, ma non massacri indiscriminati”. Politici, pentiti e agenti Usa sembrano raccontare tutti la medesima storia. Tra i molti episodi il pentito di On cita un colloquio con Ventura nell’estate del 1969: “Mi disse che la campagna non era finita e che altri gruppi di attentati sarebbero stati avviati nell’ intento di far fare una scelta al mondo militare e, a ruota di questo, anche a certi politici di Roma. Ventura ribadì che gli attentati non erano l’impresa di quattro pazzi, ma facevano parte di un piano ben preciso. Il progetto era partito con una riunione a Padova nella primavera, che aveva visto presenti i padovani, i veneziani, alcuni di Treviso, tra cui lui stesso e il capo di On, Pino Rauti. Non sono in grado di dire se tale riunione fosse la stessa di cui hanno poi parlato ampiamente i giornali”. Ecco come altri protagonisti dell’inchiesta milanese ricostruiscono la vicenda nei verbali. Edgardo Bonazzi, 38 “Ventura vuole Giannettini perché dica tutta la verità”, Il Tempo, 29 gennaio 1975 28 29 esponente storico dell’estremismo di destra, riferisce delle confidenze raccolte in carcere da Guido Giannettini. “Mi disse che la strage aveva di fatto paralizzato un progetto golpista poiché una serie di attentati dimostrativi avrebbe spinto verso una risposta d’ordine, mentre la strage, di fatto, aveva portato ad una risposta di solidarietà e di pacificazione”. Giannettini disse testualmente, racconta ancora Bonazzi, “che qualcuno aveva voluto spingere sull’acceleratore e questo aveva causato la rottura con Delle Chiaie secondo il quale la strage avrebbe inibito il golpe che avrebbe dovuto aver luogo il 12 dicembre. Giannettini mi disse che alcuni dirigenti nazionali del Msi conoscevano il progetto golpista del 1969”. L'elettricista padovano Tullio Fabris, inconsapevole consigliere di Freda e Ventura nella predisposizione dei timer, parla, nei verbali, di tre minacce ricevute nel tempo dagli esponenti di On Massimiliano Fachini e Pino Rauti. Nel marzo del 1970, Freda tenta di avvicinarlo nuovamente per convincerlo a divenire consulente stabile del gruppo. “La pagheremo bene e sarà protetto - racconta Fabris di quel colloquio - stia tranquillo che c'è una persona importante a livello governativo che ci darebbe una mano e che proteggerebbe anche lei”. Fabris riferisce anche che Franco Freda parlava di “colpo di Stato” e di “destabilizzazione” della situazione politica italiana già nel corso nei primi sei mesi del '69. Nicola Falde, generale dei servizi, oggi deceduto, nel '95 ha messo a verbale di aver ricevuto precise confidenze nell’ambito militare sulla strage. “Si tratta di notizie recepite in occasione di discorsi col generale Aloia, in un primo tempo e poi confermatemi dal colonnello Viola e dal generale Jucci. Tali notizie erano inerenti il coinvolgimento dell’ufficio Affari riservati nella fase di organizzazione della strage e il ruolo di copertura prestato dal Sid dopo l’operazione. Con l’ ufficio AaRr i miei interlocutori intendevano indicare il Prefetto Umberto Federico D'Amato e non la struttura nel suo insieme, così come quando si parlava del Sid intendevano riferirsi all'ammiraglio Henke e ai suoi fidati della direzione del Sid ed ai capi degli uffici”. Uno dei contributi più rilevanti a chiarire la dinamica politica della strage è quello di Vinciguerra. Gli attentati del 12 dicembre vanno inquadrati in una strategia golpista e per questi erano stati utilizzati sia uomini di On, sia di An. Questa strategia era arrivata in Italia, come in altre nazioni (la prima a sperimentarlo fu la Francia durante il maggio del 1968) grazie all’elaborazione teorica e all’ispirazione dell’Aginter Press di Guerin Serac, un ex ufficiale dell’Oas di formazione integralista cattolica che era la “mente” del modulo operativo utilizzato negli attentati e aveva addestrato a tal proposito gli uomini di Delle Chiaie. Fondamentale per capire cosa doveva succedere dopo la strage è la testimonianza di Vinciguerra sulla manifestazione convocata a Roma per il 14 dicembre dalla direzione del Msi, subito dopo il rientro di On nel partito. Obiettivo della manifestazione, che venne bloccata anche per le durissime ma non spiegate contestazioni che comparvero su L’Avanti! , era quello di innescare la richiesta da parte della “piazza di destra” di un “governo forte” con intervento dei militari. Questo l’obiettivo della cordata oltranzista. Vinciguerra parte da Udine la sera del 12 dicembre. Porta con sé una vistosa insegna di Ordine Nuovo nonostante il movimento sia entrato nel partito da alcune settimane. Il 13 restano a Roma in attesa di notizie dato che la manifestazione era in forse. “Sino a tarda notte – dice Vinciguerra- le notizie erano ancora incerte. La domenica mattina, il 14, si seppe che l’adunata era stata sospesa dal governo. Vinciguerra ebbe successivamente conferma di quanto già sapeva direttamente: quella manifestazione era strettamente collegata alla strage. Facevano parte di un’unica operazione politica. “Indico negli attentati del 12 dicembre 1969 non l’inizio della strategia della tensione, bensì il detonatore che, facendo esplodere una situazione, avrebbe consentito a determinate autorità politiche e militari la proclamazione dello stato d’ emergenza”. Anche Siciliano venne fermato in partenza per Roma. Vinciguerra fornisce la chiave per capire come si sarebbero costretti i militari ad intervenire; un’ulteriore strage che doveva colpire proprio “l’adunata” del 14 dicembre e che avrebbe portato impressa nell’obiettivo – i militanti di On e del Msi - il marchio dell’esecutore, cioè la sinistra. Quella manifestazione era destinata a “degenerare in gravi incidenti, così da fare da supporto e sostenere meglio la decisione del governo, legittima e certamente non disapprovata dalla 29 30 maggioranza degli italiani e sostenuta da tutti i settori dello Stato primo tra tutti le Forze Armate. Portare le insegne, l’ascia bipenne di On serviva sia a marcare il ruolo di questa struttura nella vicenda, sia a distinguere i settori dove si sarebbero collocati gli aderenti in quanto una manifestazione pacifica non sarebbe stata”39. Nell’inchiesta condotta a Padova dal giudice Stiz vi è la testimonianza di Angelo Comacchio che aveva messo a verbale una confidenza fattagli da Angelo Ventura, fratello di Giovanni, due giorni prima della strage: ci sarebbe stata presto “una marcia di fascisti a Roma e qualcosa di grosso nelle banche”. “Si può ritenere – chiarisce Salvini – che la manifestazione del 14 dicembre venga vietata proprio per il profilarsi dell’accordo tra le due fazioni politiche che si confrontarono duramente, dal momento che ormai era caduta l'ipotesi più estrema e, con l’affermarsi di una soluzione più di centro, questa grande prova di forza non era più necessaria: potrebbe quindi esserci un collegamento tra le due cose. I giornali in quei giorni danno un amplissimo risalto a quello che doveva essere ‘l'Appuntamento con la nazione’, e questo è indicativo del fatto che la manifestazione del 14 dicembre avrebbe dovuto essere un momento di forte pressione”. Vinciguerra aggiungerà dei tasselli alla vicenda quando in Spagna ebbe modo di conoscere Ralph, che altri non era che Yves Guerin Serac. La strategia dell’infiltrazione, della “contaminazione” e della manipolazione è stata sperimentata con successo per la prima volta in Francia (di fatto ricalca alcuni degli elementi essenziali maturati nell’esperienza dell’Oas). E forse bisognerebbe riflettere meglio sulla nascita anche del nostro ‘68 studentesco; sulla presenza a Valle Giulia, quando per la prima volta si arriva agli scontri tra studenti e polizia con tecniche da “guerriglia urbana” di tanti esponenti dei gruppi a destra dell’Msi. “Nel ‘68 – dice sicuro Vinciguerra - le mobilitazioni studentesche sono state accuratamente studiate, preparate e poste in atto. In Francia dall’Oas, in Germania e in Italia da elementi dei movimenti d’estrema destra tipo An e On. Non c’è stato alcun moto spontaneo nel 1968. Parte da un discorso che riguarda in primo luogo la Francia. Il 1968 riguarda in primo luogo la Francia. Il ‘68 deve mettere in ginocchio definitivamente il Gen. De Gaulle, deve obbligarlo a chiudere il discorso Oas. E poi si estende, si amplia. In Germania e in Italia dove viene monopolizzato da elementi di An e On”40. Nell’ottobre del 1969 su L’Italiano, il mensile diretto da Pino Romualdi, esponente di spicco anche culturale dell’Msi sul quale scrive Guido Giannettini, l’agente del Sid in contatto o che ‘manipolava’ il gruppo ordinovista di Freda e Ventura compare un editoriale molto chiaro nelle indicazioni finali. E’ ora di agire; basta con le parole. “A differenza della vendetta che è un piatto che si mangia freddo, le rivoluzioni sono un piatto che si mangia caldo. E anche i colpi di Stato, specie in un Paese della storia, della civiltà e delle proporzioni demografiche economiche e politiche del nostro, sono un piatto che si serve caldo. L’Italia non è né la Grecia, né la Libia; né ha un capo partigiano da spendere come De Gaulle”. 41 Indicazione chiara: non sono percorribili le strade della rivolta militare perché in Grecia bastò prendere Atene ai colonnelli per avere in mano il Paese mentre Gheddafi in Libia riuscì a chiudere la vicenda dinastica con un pugno di giovani ufficiali ma in Italia c’è il più grande partito comunista d’Europa. Decine di città “rosse”: sarebbe un bagno di sangue. Né c’è un uomo che in virtù del suo prestigio riconosciuto può piegare il sistema. Occorre un’altra strada. Il 1969 aveva alle spalle un anno memorabile che aveva seminato attese e cambiamenti che dovevano essere raccolti in Italia, sul piano economico sociale, nell’anno successivo. Si erano creati grandi movimenti di massa mentre con le elezioni della primavera è miseramente fallita l’unificazione dei partiti di ispirazione socialista (Psi e Psdi) ed è stato premiato il Pci, salito alla Camera dal 25,2% al 26,9%. C’e’ paura in Italia e all’estero. Cinque milioni di tute blu cercano di 39 Intervista dell’autore a Vincenzo Vinciguerra Ibidem 41 Editoriale, L’Italiano,ottobre 1969 40 30 31 dar corpo alle rivendicazioni dell’autunno caldo sindacale a Milano, Genova, e Torino. Compare quell’estremismo ideologico che farà da prologo all’esplodere del terrorismo, agli “anni di piombo’”. Questo è anche l’anno degli attentati diffusi: più di 100 fino all’autunno e poi il ‘botto’ del 12 dicembre quando alle 16,37 una bomba esplode nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, a Milano, a due passi da Piazza del Duomo. Un boato incredibile; una pioggia di vetri e detriti e un tappeto di sangue e membra umane. Non la strage più grave come bilancio umano ma quella maggiormente simbolica; riassuntiva del cambiamento politico e sociale in atto. Quella che raccoglie condensa e dà forma ai sogni golpisti che mirano a congelare la realtà economica e sociale, oltre che politica, che dà l’impronta agli anni della prima Repubblica e segna l’inizio di quella strategia della tensione che sarà scandita da attentati e delitti consumati all’ombra dei servizi segreti e con la copertura e complicità d’importanti realtà istituzionali. Una parte del Psdi, ad esempio, ha avuto un atteggiamento politicamente filo golpista prima della strage. E capo dello Stato era Giuseppe Saragat che si era incontrato a quattr’occhi con Nixon e Kissinger, nel febbraio del 1969, quando il neo presidente degli Usa era venuto a constatare direttamente la gravità della situazione italiana. Nelle sue memorie Kissinger ha punte di asprezza per l’Italia e Moro . Ecco il nucleo centrale del ‘mistero’ politico di Piazza Fontana. Poteva l’allora Presidente del Consiglio essere sospettato di complicità sia pur concorrenziale con l’allora Capo dello Stato Giuseppe Saragat per aver quantomeno non ostacolato il crearsi del “clima politico” utile ad una svolta autoritaria? E' ben difficile ipotizzarlo senza mettere in conto che potesse “saltare il banco” del sistema politico, allora ben più rigido per la logica di Jalta. La scuola revisionista che alligna nella nuova Italia di questi ultimi anni ha duramente attaccato l’inchiesta Salvini e la sua lettura della logica politica che gli fa da scenario, proprio per la visione drammatica che il magistrato dà dello scontro tra le due fazioni politiche in quei giorni (ignorando volutamente che di questo scontro si scrive apertamente anche su giornali che non sono di sinistra), ma c’é uno storico come Piero Craveri che dà rilevanza a questa interpretazione ora suffragata da decine di riscontri sulle ragioni dell'odio di On verso un’ala della Dc nel suo '”La Repubblica dal 1958 al 1992” dove si cita un introvabile libretto, “Il Segreto della Repubblica”, per spiegare la nascita di un quadripartito organico nuovamente guidato da Rumor dopo Piazza Fontana; un esecutivo nato dal compromesso Moro-Saragat, garantito dal cambio al dicastero della Difesa, da cui dipendevano i servizi segreti, tra Luigi Gui, stretto collaboratore di Moro e il socialdemocratico Mario Tanassi, legato a filo doppio a Saragat. “Il Segreto della Repubblica”42 è stato riedito nel 2005, con un significativo sottotitolo “La verità politica sulla strage di Piazza Fontana”, dopo la prima introvabile edizione del 1978. Il volume tenta di dare una spiegazione politica – dato che quella giudiziaria è ormai sterilizzata, probabilmente per sempre – al perché non si è potuto arrivare ai responsabili della strage, risalire la catena di comando – o le catene, probabilmente - fino ai livelli decisionali. Il libro svela con chiarezza “Il Segreto” cioè il sommarsi di diverse responsabilità politiche alla fine neutralizzate da un compromesso tra Aldo Moro e Giuseppe Saragat siglato alla vigilia di Natale del 1969. Una storia che vale la pena di raccontare in dettaglio perché può aiutarci a capire perché 11 processi non sono arrivati alla verità giudiziaria. I servizi inglesi erano sul chi vive già prima di Piazza Fontana e contattarono un giornalista italiano, Fulvio Bellini, anticipandogli lo scontro istituzionale che stava maturando. Bellini, già partigiano vicino alle formazioni inglesi, giornalista , ha alle spalle grandi scoop come il primo libro che propone la tesi dell’omicidio del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, e ha pubblicato nel 1978 il libro dedicato a Piazza Fontana che rivela i retroscena politici della strage, gli stessi che avrebbe accertato quasi un ventennio dopo, il Pm Guido Salvini ma sulla base delle rivelazioni dei ‘camerati’. 42 Fulvio Bellini- Gianfranco Bellini, Il Segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fontana, Milano, Selene Edizioni, 2005 31 32 La “verità” politica su Piazza Fontana Bellini l’ha saputa, sia pure per sommi capi, prima che tutto accadesse, già nel settembre del 1969, da un amico commilitone dei tempi del SOE , il servizio segreto militare inglese, le cui iniziali erano G.A che in effetti all’epoca era un agente dell'IRD (Information Research Department, di fatto una branca operativa dei servizi di Londra), che gli annunciò che ci sarebbe stato presto “qualcosa di grosso”. Immediatamente dopo la strage, l'amico inglese tratteggiò questo retroscena: vi era stato un grosso scontro istituzionale fra l’area che aveva a capo Saragat, definibile come ‘partito americano’, e l'area che aveva fatto capo a Moro; scontro che aveva avuto il suo epilogo a fine dicembre. Aveva vinto la seconda linea grazie alla possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini volute dal ministro Gui, tramite i carabinieri, che avevano evidenziato da subito la responsabilità di gruppi di destra. “Per questa ragione - spiega Bellini- non era stato decretato la Stato d’emergenza e non erano state sciolte le Camere, come soprattutto i settori del rinato Psu volevano, anche se l'accordo si era comunque concluso lasciando da parte i risultati delle prime indagini sulla destra e lasciando che si sviluppasse la cosiddetta ‘pista rossa’. Il ‘giornalista’ inglese mi disse che l'on. Rumor, che inizialmente faceva parte dell’area del ‘partito americano’, fortemente colpito dalla grande mobilitazione popolare che vi era stata ai funerali delle vittime della strage, era stato colto da dubbi e si era alleato con l'onorevole Moro non consentendo così che avvenisse una svolta autoritaria e soprattutto non consentendo che fossero sciolte le Camere” 43. Bellini nel suo libro attribuisce ad un altro politico, Giulio Andreotti, un ruolo rilevante; decisivo nell’impedire lo scioglimento del Parlamento. A sostenere Moro sono Forlani e Andreotti. Piccoli appoggia il titubante Rumor. I conti si tireranno nella direzione Dc post-strage. Nella relazione introduttiva Forlani si schiera nettamente contro lo scioglimento anticipato delle Camere. “Una crisi disarticolata, al buio, aperta nel totale dissenso e priva di indicazioni aprirebbe troppe gravose incognite”, dice il segretario della Dc.44 Dalla stampa inglese, subito dopo la strage di Milano, viene l'accusa di aver predisposto un ‘golpe strisciante’45, un’inusitata critica che è “una sorta di presa di posizione ufficiale ben comprensibile negli ambienti politico-diplomatici, che intendevano disapprovare la possibile destabilizzazione del nostro Paese a seguito di un eventuale scioglimento delle Camere”. Ciò era stato ben capito da Saragat che “stizzito aveva indotto il governo ad una presa di posizione diplomatica”. “Comunque è la tesi di Bellini - da tale messaggio l’ala che faceva capo a Moro e a una forte parte della Dc aveva capito che non era isolata”. “Il Segreto della Repubblica” uscì in libreria nell’ottobre del 1978, quando sui giornali si commentavano, tra mille polemiche, proprio le carte di Aldo Moro trovate a via Monte Nevoso, in una base delle Br. Inizialmente il magistrato ipotizzò, prima di interrogare Bellini che aveva scritto il suo volume sotto pseudonimo, che alcune di quelle notizie potessero essere frutto proprio di notizie raccolte dalle Br durante la prigionia. Ipotesi non del tutto peregrina se si riflette su che cosa volevano sapere dal Presidente della Dc le Brigate Rosse dopo averlo rapito e prima di ucciderlo. Tra le questioni centrali che le Br intendevano conoscere da colui che ai loro occhi rappresentava il “cuore dello Stato”, il vero e unico rappresentante, insieme ad Andreotti, del Potere-Stato della Dc, c’era proprio la “verità” sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a Milano. La “porta stretta” della storia di quegli anni dove tutto passa, volenti o nolenti. “A Moro era stato detto – affermò Patrizio Peci, il primo pentito delle Br nel verbale del 4 febbraio 1980 – che se avesse denunciato gli scandali del regime, come per esempio i retroscena della strage di Piazza Fontana, sicuramente sarebbe stato liberato”. Anche Adriana Faranda, la “postina” delle lettere di Moro, unitamente a Valerio Morucci, ha confermato questo obiettivo centrale degli interrogatori Br: “Moro non parlò, fu evasivo nelle risposte. Se avesse detto ‘come Dc siamo coinvolti nel golpe Borghese o nella strage di Piazza Fontana’ forse si sarebbe salvato. 43 Intervista all’autore a Fulvio Bellini Fulvio Bellini-Gianfranco Bellini,op. cit. ,p.117 45 Intervista dell’autore a Fulvio Bellini 44 32 33 Probabilmente le Br avrebbero finito per fare una scelta diversa, si sarebbe portato avanti il discorso su uno scambio di prigionieri”. La verità sulla strage valeva, dunque, per le Br, la libertà di Moro. Un prezzo altissimo perché quella strage è una data cardine, un vero e proprio spartiacque politico che nasconde ancora oggi almeno due segreti. Uno giudiziario: chi e come esegue la strage (e su questo lo Stato per 11 volte ha dimostrato la sua impotenza a pronunciarsi); e uno politico: perché il potere decide di coprire esecutori e mandanti. Il volume di Bellini propone, nel 1978, tutti gli elementi essenziali che costrinsero la classe politica italiana, Pci compreso – e solo per la parte di responsabilità che all’epoca esercitava nel sistema politico italiano e con i relativi pesanti limiti – a non andare fino in fondo nella ricerca della verità; a scaricare sulla magistratura l’impossibile accertamento di una verità giudiziaria dei fatti e dei “retroscena” – anche fattuali – che era volutamente monca del presupposto fondamentale: perché tutto questo? Con quale scopo? Poteva esserci la risposta giudiziaria giusta se mancava la domanda politica essenziale, fondante? Ci vorranno altri dodici anni per “ritrovare”, dietro un pannello murato nell’intercapedine accanto un termosifone nella stessa base Br milanese di via Monte Nevoso, un altro mazzo di carte di Moro. Era sempre l’ottobre, ma del 1990, e quelle lettere non furono poi così deludenti come dicevano i Br. Moro scrive di non aver mai creduto alla pista “rossa” per Piazza Fontana e che dietro quegli attentati, che avevano l’obiettivo di normalizzare l’Italia del 1968, c’erano centrali straniere. Moro svela anche che, nel 1971, quando al Quirinale venne eletto Giovanni Leone, la Dc bruciò la sua candidatura a Presidente della Repubblica, spiegando, nei verbali degli “interrogatori” ritrovati nel 1990, che quella carica era stata promessa a lui dai maggiorenti del partito. In un’assemblea Dc Moro parlò, avendo come garanzia una riservatezza assoluta che non ci fu, della grave crisi politica e dell’avanzare della destra che “è senza dubbio più potente di quello che risulta manifesta”. Tra l’altro Moro elogiò il Pci che “ha mostrato un notevole senso di responsabilità verso il Paese perché non ha giuocato un ruolo di rottura, non ha mirato a coprire e a riempire il vuoto prodottosi fra le forze sociali e le forze politiche con un’azione distruttiva”. E Moro nel discorso che doveva rimanere segreto allude più volte al “partito della strategia della tensione”: “Non servirebbe allo scopo – dice - investire con una nostra rigorosa e pubblica denuncia il partito e il governo. Una simile denuncia determinerebbe la caduta degli attuali vertici del partito e la crisi di governo”. E’ un esempio perfetto del modo di agire di Moro. Della sua prudenza, del suo cercare comunque e sempre il compromesso. Di coprire, sedare, tacere, rinviare quando non si può o è controproducente affrontare, denunciare, decidere. Una scelta che Moro ha fatto già altre volte e farà ancora tanto da divenire l’uomo degli omissis della Repubblica. E’ l’altra faccia di Moro; quella oscura che lo fa circondare di una ‘corte’ legata in gran parte allo scandalo dei petroli; che fa depositare in Svizzera i soldi della corrente per fronteggiare le conseguenze sul suo gruppo e sulla sua famiglia di un possibile golpe; che gli fa stringere inusitate alleanze con generali notoriamente di destra, ma a lui fedeli, magari in virtù di coperture offerte in momenti difficili per la loro carriera militare, come nel caso di Vito Miceli. Gli esempi sono tanti. Fu Moro a porre gli omissis sulla questione del luglio 1964; ancora lui a coprire Miceli che invocava il segreto “politico –militare” per quella che poteva essere la Gladio; lui a coprire con gli omissis la vicenda Sogno; ancora lui a legittimare e non denunciare l’utilizzo del “ segreto politico-militare” nell’inchiesta sulla strage. Nel “carcere del popolo” Moro si soffermerà a lungo su questo importante discorso del 1971. “Questo episodio mi valse ancora una volta (come già nel 1969) la qualifica di antipartito, una posizione registrata ed esemplificata tra i gruppi parlamentari che giocò il suo ruolo, come è naturale decisivo, ai fini della mia qualificazione personale per la carica di Presidente della Repubblica. Tanto poco dominavo il partito che in quel caso fui battuto da altro parlamentare”, cioè Giovanni Leone, eletto grazie ai voti del Msi. E Moro sarà battuto nella corsa al Quirinale anche nel 1978 e questa volta non dalla Dc, ma da un partito ben più ampio e oscuro, forte e trasversale, che ha potuto giovarsi anche del fuoco delle Br per fermare la sua ascesa alla massima carica della Repubblica. 33 34 Dal Quirinale Moro avrebbe potuto con maggior libertà chiudere le maglie ancora non serrate del compromesso storico con la presenza del Pci nel governo, e non più nella sola maggioranza (magari in cambio di un’ampia riforma in senso presidenziale della Repubblica). Anche nel 1969 Moro era considerato un “antipartito” perché, nel novembre 1968, a un Consiglio nazionale, dopo mesi e mesi d’isolamento prossimo all’ostracismo conseguenza della sconfitta socialista del 19 maggio che decreta la fine di una fase del centrosinistra, aveva pronunciato uno storico intervento che aveva messo in moto una reazione fortissima, sotterranea e oltre modo pericolosa che aveva ben interpretato il senso politico dell’improvvisa attenzione di Moro al sociale; ai sommovimenti che stavano attraversando tutta l’Europa. C’era da parte di Moro la volontà politica e il progetto di “aprire” al Pci, per intavolare una discussione con chi stava, in Italia, al di là del muro di Jalta. Specie dopo la dura condanna dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia da parte del Pci e un congresso del partito che aveva segnato una svolta reale per i comunisti italiani. Moro dice che “tempi nuovi si annunciano e avanzano come non mai”. Ecco perché lascia la corrente dorotea al fine di “rendere più vigorosa e feconda la dialettica con le opposizioni, sì da valorizzare ogni dato sociale che emerge in questo confronto e rafforzare, mediante un’intelligente apertura a tutte le realtà, la posizione della maggioranza.” 46 Nel novembre del 1977 – e nessuno sembra accorgersi di questo parallelismo con quanto era già avvenuto nel novembre del 1968 – il Pci vota una mozione alla Camera in cui si affermava che la Nato e la Cee sono i due assi fondamentali, non scindibili, della politica estera italiana: immediatamente si mette in moto un’altrettanto dura reazione di chi ha ben capito che il Pci stava ormai sulla porta del governo del Paese. Ed è una ‘forbice’ che ha certamente almeno due tagli: Usa e Urss. Anche i comunisti italiani sarebbero entrati a breve nella (vuota) “stanza dei bottoni”, evocata da Pietro Nenni per spiegare il fallimento della formula di centrosinistra organico. Nel 1969 c’è Piazza Fontana, nel 1978 il rapimento di Moro. L’inizio e la fine di un progetto politico; forse l’unico dopo l’esaurirsi del centrosinistra, capace di sanare le anomalie profonde della società e della politica italiana. C’è un precedente illuminante, fondante, rispetto a questo arco politico che si regge sui due tragici pilastri di Piazza Fontana e Via Caetani ed è quello del tentativo del 1964, sul quale sempre Moro fece calare il silenzio della ragion di Stato imponendo gli omissis sul Piano Solo, cioè la pianificazione antisommossa predisposta dal generale De Lorenzo. Era l’epoca in cui su autorevoli giornali della Capitale comparivano editoriali che invitavano praticamente a “far fuori” politicamente Moro e la sua scelta a sostegno del centrosinistra organico. Senza entrare nella ormai speciosa e inutile diatriba se i fatti del giugno-luglio di quell’anno rappresentino o meno un vero e proprio golpe47, vale la pena citare tra i molti documenti disponibili un memorandum dell’ambasciata Usa a Roma del 14 agosto 1964, alla vigilia, della riunione a casa Morlino dello stato maggiore Dc per valutare la situazione dell’ordine pubblico in caso di scioglimento delle Camere. Il documento, intitolato “ The July Rumors of an Italian Coup d’Etat” si sofferma su una soluzione gollista da dare alla crisi politica in atto prevedendo la possibilità di un governo del Presidente pronto a lavorare “per il bene della nazione”. Sganciato dai partiti il governo non avrebbe la fiducia delle Camere e allora il Presidente dovrebbe portarlo dalla sua parte “con un solenne e drammatico appello ai partiti; un appello al popolo per la salvezza del paese”. In effetti il memorandum citava un famoso articolo del settimanale Epoca e questa coincidenza si ripeterà nel 1969, alla vigilia della strage48. Il 17 luglio la crisi è superata con la nascita del secondo governo Moro. La Dc era stata per alcuni drammatici giorni immobile ad un bivio: esecutivo Moro-Nenni o governo appoggiato dalle destre 46 Tutte le citazioni sono tratte da Felice La Rocca, L’eredità perduta. Aldo Moro e la crisi italiana, Rubbettino, Palermo,2001 e Aldo Moro, Una politica per i tempi nuovi, Agenzia “Progetto”,Roma, s.d. 47 Paolo Cucchiarelli- Aldo Giannuli, op. cit., p.229 48 vedi in particolare, Claudio Accogli, Kennedy e il centro-sinistra.Nenni, i missili e il mistero di Dallas, Nuova Editrice MondOperaio, Milano, 2003, pp.148-149 34 35 (o del Presidente). Alla fine tra mille contrattazioni la scelta che prevale è quella di “annacquare” il programma politico ma non abbandonare la formula di centrosinistra resistendo alle forti pressioni di Antonio Segni che in agosto, dopo un drammatico confronto con Giuseppe Saragat e Aldo Moro al Quirinale, sarà colpito da una trombosi invalidante che in dicembre lo costringerà alle dimissioni. Il Presidente della Repubblica aveva minacciato elezioni anticipate- e temuto fortemente reazioni di piazza - per affossare il centrosinistra di Moro e Nenni e alla fine di fatto è l’ictus che colpisce Antonio Segni a chiudere lo scontro politico in atto nell’estate del 1964. Uno dei pochi libri che parlano delle vicende degli “uomini del Quirinale” dà una lettura incrociata di due drammatici colloqui avvenuti nelle stanze del Colle più alto nel 1964 e nel 1969. “Accadde per Antonio Segni accusato da Giuseppe Saragat (presente Aldo Moro: l’uno era ministro degli Esteri e l’altro Capo del Governo) d’atti tanto corposi da ‘meritare l’Alta Corte di Giustizia’. Ma quali atti? Possibile, come venne detto, soltanto d’ingerenze in un rimescolamento d’ambasciatori? Si raccontò d’un valletto quirinalesco, o di qualcuno in veste di valletto, che aveva potuto ascoltare il riferimento all’Alta Corte di Giustizia urlato da Saragat. Poi più niente. Nemmeno una prova e bocca cucita da parte dei protagonisti. Uno dei quali per sempre: Antonio Segni colpito in quel frangente da ictus cerebrale. Accadde per il suo successore. Per Giuseppe Saragat accusato da Aldo Moro di aver preso misteriosi accordi politici a quattr’occhi con il presidente americano Richard Nixon. E si disse che Aldo Moro, a quel tempo ministro degli Esteri, fosse stato informato da uomini dei servizi segreti americani ‘vicini’ al Partito Democratico (Nixon era repubblicano). Poi più niente. Nemmeno una prova e ancora bocche cucite da parte dei protagonisti. Uscì però un pamphlet (Il Golpe) scritto da un saggista della sinistra Dc e dedicato scopertamente al Presidente e alle strutture sia militari, sia civili del Quirinale. Fece scalpore nei palazzi romani, se lo passarono di mano in mano magistrati della Procura generale, ma non venne portato in tribunale come forse sperava l’autore, Giovanni Di Capua”.49 La possibile continuità di situazione e uomini, tra il 1964 e il 1969, è certamente forte e in qualche misura suggestiva. Un passaggio drammatico che, in situazioni simili, è bissato ma a ruoli invertiti tra i due politici. Si potrebbe spiegare così anche lo schierarsi di Saragat con la linea della trattativa durante i 55 giorni e quelle sue drammatiche ma veritiere parole dopo l’omicidio quando affermò che con il cadavere di Moro scendeva nella terra anche la Prima Repubblica. “Moro era l’artefice dell’incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. Del resto basta guardare gli anni delle bombe. Quando Moro si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano”, dice Giovanni, il figlio del Presidente della Dc che definisce, giustamente, il rapimento di suo padre come “un’operazione di chirurgia sulla politica italiana per fermare il suo progetto”. Anche qui le similitudini esistenti tra i tre passaggi -1964, 1969, 1978- suggeriscono percorsi di analisi così densi di elementi, richiami, soggetti nazionali e non e motivazioni nazionali e internazionali, da sgomentare. Nel novembre 1968, Moro teme veramente, come tanti in quei mesi, che la Repubblica scivoli verso Weimar e, soprattutto, che l’irruenza operaia e studentesca possa innescare contraccolpi drammatici a destra anche perché, dice nel gennaio del 1969, le contestazioni nei confronti delle forze politiche non sono portate solo da “gruppi di intellettuali conservatori o da qualunquisti incorreggibili” ma trovano alimento “anche in ambienti democratici”. Durante la prigionia in mano alle Br, rievocando come seppe della strage del 12 dicembre, mentre era a Parigi insieme alla figlia per i lavori del Consiglio d’Europa, quello che colpisce ancora oggi è il senso di sgomento umano e politico di Moro allorché affiora netta la sensazione che “qualcosa d’ imprevedibile e di oscuro si fosse messo in moto”. “Siamo in guerra” aggiunge poco dopo parlando con i familiari al telefono. “Si sta preparando per un pranzo ufficiale. E’ allegro. Poi qualcuno gli porta la notizia della strage di Piazza Fontana a Milano. Lo vedo invecchiare in un istante”, racconta la figlia Agnese di quei momenti.50 49 50 AaVv.Gli uomini del Quirinale, Laterza, 1984,p.156 Agnese Moro,Un uomo così, Rizzoli, Milano, 2003,p.60 35 36 A Moro fu consigliato caldamente dal Pci, tramite Tullio Ancora, di avere qualche accorgimento sull’ora della partenza, sul percorso e sul trasferimento di ritorno. “Io ritenni […] di adottare le consigliate precauzioni e rientrai a Roma non privo di apprensione”. Insomma Moro e il Pci temevano, quantomeno, una sterzata autoritaria, un golpe istituzionale che forzasse le regole dettate dalla Costituzione. Nel novembre del 1968 Moro afferma che quella che si sta manifestando “nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto inarrestabile della storia”. Moro non è un rivoluzionario, ma il più serio, rigoroso e realista dei Dc. “Il meno implicato di tutti”, come disse Pasolini ma al contempo il più addentro, con Andreotti, in segreti e tutele necessarie, imposte dalla situazione nazionale e internazionale. Il più pronto a coprire anche storture gravi ma per cercare di costruire. Un uomo che non chiude gli occhi e condanna, ma che cerca di capire, di colmare il solco immenso che si apre in quei mesi tra chi sfila nelle strade e chi guida la politica. “No, abbiamo capito. Non abbiamo saputo dare ai giovani la sensazione di un nostro impegno per cambiare”. In quel riferimento alla “sensazione” c’è tutto Moro con la sua forza e i limiti. Al Consiglio nazionale del 17 gennaio 1969 Moro lancia per la prima volta la sua formula che condensa la ‘svolta’ politica e programmatica: è la “strategia dell’attenzione” al Pci a cui si risponderà presto nelle piazze e nelle banche. “La situazione che si era creata avrebbe dovuto portare a un colpo di Stato” dice oggi Gerardo D’Ambrosio, il magistrato che di più, insieme a Emilio Alessandrini, indagò sul significato di un reato, la strage di Piazza Fontana, che per sua stessa natura, mancando la “firma” degli autori, ha in sé tutte le spiegazioni del suo scopo politico. Anni prima Giovanni Ventura aveva spiegato con chiarezza a D’Ambrosio la logica e il retroterra dell’azione politico-militare attuata nell’ultima parte del 1969 da vari gruppi della destra estraparlamentare che agitavano lo spauracchio di una uscita dell’Italia dalla Nato come conseguenza del confronto in atto tra Moro e parte della Dc e il Psi e il Pci. “Nonostante io sollecitassi Freda egli non volle darmi ulteriori precisazioni sugli autori e sui finanziatori del piano. Comunque mi fece capire che c’era tutto un retroterra politico-parlamentare che avallava questa strategia, o meglio, che traeva profitto avvantaggiandosene da questa strategia, che non le era sconosciuta. Successivamente, da cartelle informative passatemi da persona di cui non ho voluto fare il nome (in effetti Guido Giannettini, informatore del Sid, NdA), ebbi conferma che gli attentati dell’agosto non erano che il prodromo di altri più grossi attentati, attentati che si erano poi concretizzati in quelli del 12 dicembre 1969; e che così come aveva detto il Freda si inquadravano in una strategia di progressione sul territorio. In altri termini Freda, in occasione degli attentati dell’agosto mi aveva detto che la situazione politica avrebbe potuto trovare uno sbocco nel quadro di una prospettiva di restaurazione, intensificando il programma d’attività terroristica, accompagnato da iniziative dirette a riunire tutti i gruppi aventi per intenzione l’abbattimento delle istituzioni e dell’ordinamento democratico”. La strage è, se la si vuol leggere fino in fondo, un biglietto da visita. Poco più di due mesi dopo la strage, nel febbraio del 1970 il settimanale Panorama, imbeccato da una “fonte autorevolissima” fa una rivelazione: lo Stato sa tutto sulla strage ma non può parlare. Gruppi neofascisti hanno avuto una parte negli attentati di Roma e Milano. Le autorità inquirenti conoscerebbero i nomi e i ruoli avuti negli atti terroristici. Per ora, però, non se ne parla, visto il delicato momento politico e le trattative in corso per la non facile formazione del governo del dopo strage. “Lunedì 16 (febbraio) prendendo la parola sul programma di governo esposto da Rumor, un rappresentante della corrente Dc della Base, l’On. De Poli, disse testualmente: ‘Il governo di centro sinistra che nasce sulle bombe di Milano, che sono bombe di destra, dovrà stabilire nuovi rapporti tra maggioranza e opposizione, soprattutto a salvaguardia del sistema democratico del Paese, esposto a pericoli d’involuzione autoritaria’. Il Presidente del Consiglio non batté ciglio e ugualmente impassibili rimasero alcuni presenti che erano tutti al corrente di voci che circolavano 36 37 insistentemente a proposito di una prossima clamorosa svolta nelle indagini sulle bombe. […] Secondo queste voci, raccolte da fonte autorevolissima anche dai redattori di Panorama, negli attentati avrebbero avuto un ruolo anche individui o piccoli gruppi d’estrema destra (ma non collegati al Msi). Sempre secondo queste indiscrezioni le autorità inquirenti già conoscono i nomi e la parte giocata da ciascuno di essi. Ma l’opportunità di non turbare in questo momento delicato, date le trattative di governo, l’opinione pubblica, avrebbe consigliato di tenere per il momento riservate queste notizie, pur prendendo tutti i provvedimenti pratici necessari ad assicurare alla giustizia i presunti colpevoli”. De Poli altro non è che il legale, veneto, di Guido Lorenzon, l’amico Dc di Giovanni Ventura, l’editore di destra legato a Franco Freda e tramite, grazie alla sua immagine d’editore di sinistra, con i gruppi anarchici e della sinistra estraparlamentare. Lorenzon è colpito da rimorso subito dopo la strage per quanto gli racconta il suo stretto conoscente, Ventura, che fa rivelazioni sulla cellula veneta di Ordine nuovo e sulla scelta strategica delle bombe come arma per costringere il sistema a “forzarsi”, a piegarsi a una superiore esigenza di sicurezza nazionale contro la marea montante – in verità ormai scemata a dicembre – dell’autunno caldo, pericolo evocato, temuto ma anche atteso, per varare l’operazione. L’articolo del settimanale chiama in causa direttamente Presidenza del Consiglio (Rumor) e Viminale (Restivo). De Poli, nel 1972, rivelò che quando prese la parola “volle rammentare a Mariano Rumor, allora Presidente del Consiglio incaricato, che le forze democratiche, nerbo della Resistenza, e i sindacati avrebbero fatto una barriera insormontabile contro ogni tentativo reazionario. Rumor non rispose”. I servizi segreti stilarono una nota, in anticipo sull’uscita del pezzo, a proposito della tesi del settimanale e la Procura di Roma esaminò l’opportunità di denunciare Panorama per “diffusione di notizie false, tendenziose e atte a turbare l’ordine pubblico.” I passaggi,drammatici, di quella lunga crisi di governo successiva alla strage furono ancora molti. Rumor rinunciò all’incarico datogli da Saragat di formare un nuovo governo, così come Moro, dopo una vera e propria congiura in casa Dc giocata sul “segreto della Repubblica’’, un segreto che non è tale, almeno politicamente. L’Unità scrisse il 22 marzo 1970: “All’Italia che esce dall’esperienza dell’autunno caldo, si è cercato di rispondere con un quadripartito, con le minacce di soffocamento anticipato della legislatura, con le proposte di ‘direttorii’ ambigui e velleitari e con una serie di documenti meschini (‘preamboli’, ‘pacchetti’, eccetera)”. Uno scontro senza precedenti di cui si coglie in superficie solo l’allarmatissima preoccupazione del Pci. Quali erano e da chi avrebbero dovuto esser composti i “direttori ambigui” di cui parla il giornale del Pci? Più avanti troveremo un’ipotesi che potrebbe avere un suo fondamento. Alla fine, Rumor ricostituirà uno striminzito e traballante governo, frutto di una serie d’ aspri ricatti, sostanzialmente pubblici, come dimostrano i giornali di quelle settimane. E una affermazione fatta da Armando Cossutta nel novembre del 1998 può aiutare a capire il “sommerso” di quelle drammaticissime settimane quando i giornali di sinistra invitavano al “controllo democratico” visti i rischi che correva la democrazia. Cossutta dà una versione tutta in positivo di un incontro riservato con Saragat, impossibile in quel contesto politico, che induce a ‘leggerla’ in ben altro modo. In quelle settimane il Pci era pronto, con documenti falsi, imbarcazioni e travestimenti a mettere in salvo Saragat nel caso di tentativi eversivi. Cossutta era all’epoca coordinatore della segreteria del Pci e andò da Saragat per esporgli i timori del partito per lo “sferragliar di sciabole dei militari” che potevano portare ad un colpo di Stato. “Se gli avvenimenti prenderanno una piega irreparabile siamo pronti a metterti in salvo – gli dissi – e Saragat allora mi abbracciò”. Così nel nome della democrazia da salvare quell’abbraccio superò “anni di dura polemica che contrapponevano comunisti a socialdemocratici”. Cossutta ha spiegato che è probabile che quel colloquio si sia svolto tra il 3 e il 12 marzo a cavallo del pre-incarico dato a Moro da Saragat. “La data non la ricordo. Era comunque durante una crisi di governo….Potrebbe essere”. L’esponente dell’ex Pci ha aggiunto che il riferimento alle sciabole “fu usato pochi mesi dopo, quando si venne a conoscenza del Piano Solo e del tentativo del golpe Borghese”51. In effetti nel 1970 del ‘Piano Solo’ già si sapeva dato 51 “Cossutta rivela, nel ’70 il Pci pronto a mettere in salvo Saragat”, Ansa del 12 novembre 1998 37 38 che Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi erano stati condannati per diffamazione nei confronti del generale De Lorenzo, già nel marzo del 1967. Questo episodio ha quindi due possibili letture: o Cossutta volge al bene un colloquio ben più drammatico e diretto, visto quello che scriveva L’Unità in quei giorni, e quindi il giudizio di oggi è ‘velato’ da un rovesciamento di senso, oppure il Pci sapeva che l’altra cordata della trama eversiva, quella che prevedeva l’arresto di Saragat da parte di Licio Gelli e del manipolo che doveva occupare il Quirinale nel dicembre del 1970, si stava dispiegando con il sostegno di un’ala della Dc, come ha accertato l’inchiesta Salvini. Altra variante possibile è che gruppi o realtà politiche facessero pressioni pesanti sul Presidente della Repubblica (basta rileggere i giornali di quei giorni per verificarlo) per impedire la nascita di un gabinetto Moro, magari minacciando rivelazioni su presunte suggestioni o ipotizzate disponibilità. L’episodio comunque è interessante perché è francamente inspiegato e inspiegabile che il maggior partito di opposizione, in quel contesto, si offrisse di garantire l’incolumità del Capo dello Stato. Minacciata da chi? L’ipotesi più drammatica vede il Pci dare la sua disponibilità a ‘salvare’ un Saragat sotto ricatto da parte di strutture, uomini, gruppi che si sentivano minacciati dal traballante ma comunque attivo avanzare delle inchieste e quindi , in caso di reazione della “piazza di destra” o della ‘cordata’ politico-istituzionale che si sentiva minacciata, il Pci avrebbe offerto con il suo apparato una via di fuga concreta al Capo dello Stato. Prima della strage, il Psdi, evocando i poteri di scioglimento delle Camere di Saragat, aveva posto una serie di rinnovati ultimatum contro la rinascita del centrosinistra organico, proponendo il ritorno al centrismo, cioè un governo con dentro i liberali che avrebbero sostituito i socialisti accusati di aver scelto l’intesa strategica con il Pci, proprio nel momento in cui il sistema economico e le contrattazioni sindacali, che si stavano chiudendo, davano segnali confortanti di aver retto alla tanto temuta vampata rivoluzionaria dell’autunno caldo. Una sterzata politica programmata in vista della verifica che si trascinava da ottobre-novembre, quando il Presidente del Psu, Mario Tanassi, con un’intervista a Epoca aveva posto il problema se la Dc volesse o no il Pci nell’area di governo, chiedendo che sulla questione i cittadini si esprimessero. La Dc era in subbuglio. La sinistra interna aveva posizioni di dichiarata apertura al confronto con il Pci. Botteghe Oscure stava alla finestra in attesa dello sbocco della crisi. Psdi e liberali invocavano le elezioni con il Pri che, più debolmente, condivideva la linea d’intransigenza. Il tutto, dopo i rinnovi contrattuali che si stavano positivamente chiudendo in quei giorni, era rimandato a metà dicembre. La strage arriva quando si deve decidere che strada imboccare e Rumor, poche ore dopo la bomba, quando a Milano la sinistra schiera migliaia d’operai per impedire quella che lo stesso Presidente del Consiglio definirà in un’intervista di qualche giorno dopo una “folle avventura”, chiede subito un incontro con tutti i segretari del centrosinistra per far rinascere l’intesa. In tutta la vicenda, quindi, sembra di intravedere due linee di sviluppo operative: una di vecchio stampo, repressiva e legata direttamente agli apparati fascisti, sopravvissuti alla Resistenza, e l’altra legata a uomini della Resistenza “bianca”, a logiche di una gestione meno traumatica e più politica della “strategia della tensione”. Uno scontro di ‘cordate’ che ruota anche attorno alla gestione delle commesse militari in scadenza; all’emergere di gruppi come il Mar, dell’ex “partigiano bianco” Carlo Fumagalli, o del comandante Junio Valerio Borghese che probabilmente vede fallire il ‘suo’ golpe già in gestazione nel dicembre del 1969 proprio perché non ci si fida, politicamente, di un uomo troppo ingombrante visto il suo passato e le dichiarate aspirazioni politiche “in proprio”. Due linee incarnate, va precisato e chiarito, in chiave strettamente politica, anche dai due uomini al vertice dello Stato: Giuseppe Saragat e Mariano Rumor, stretti in un “gioco politico” che ai vari livelli operativi sottostanti veniva visto, desiderato e interpretato in maniera concretamente diversa. Linee politiche quindi distinte ai vertici, e che alla fine, dopo la strage, si separano lungo elementi di differenziazione ancora mai evidenziati per intero, ma che avevano molti punti di contatto a livello operativo: di uomini, di strutture dispiegate sul territorio, di contatti nei gangli dello Stato, di referenti nei gruppi impegnati nell’innalzamento del livello di infiltrazione e scontro. Obiettivo 38 39 massimo sarebbe stata la reazione del Pci nelle strade e lo scontro aperto che avrebbe imposto, senza tentennamenti da parte di nessuno, l’uso dei militari. Quello, cioè, che si era realizzato ad Atene dopo una sapiente preparazione di bombe ‘pilotate’ e di ‘sobillazione’ frutto di manipolazione e infiltrazione. Quell’operazione venne gestita e organizzata direttamente da agenti del Kyp, il servizio segreto greco e dei servizi americani, sia militari sia della Cia. Insomma si trattava di “aiutare la realtà” a dare i frutti politici desiderati e ricercati, costruiti con un sapiente gioco di specchi tra false veline dei servizi che ipotizzavano intese tra Dc e Pci e conseguenti reazioni di destra e i gruppi della destra radicale che, con in mano queste veline passategli dai servizi, prendono contatti, si attivano, agiscono avendo l’idea di essere parti di un progetto tutelato, ‘coperto’. Al centro, Aldo Moro, inviso a tutti e due i fronti per il suo voler vedere fino in fondo le richieste che vengono dalla tumultuosa realtà italiana. Alla vigilia della strage, Il Secolo d’Italia tira fuori un rapporto sulle terre di Berlinguer in Sardegna con intrighi edilizi e speculazioni per centinaia di milioni. Un attacco diretto che però ha una curiosa origine: quelle carte vengono dalla rete di Mosca, incaricata di screditare il giovane vice segretario del Pci. Le ritroveremo, pari pari, nel rapporto Impedian di Vassily Mitrokhin, a conferma che Mosca ostacolò in tutti i passaggi fondamentali l’evoluzione del Pci e il suo allontanarsi dalla ‘Casa Madre’, specie quando c’era la prospettiva, grazie a Moro, dell’apertura di una fase pericolosamente nuova per la politica dei blocchi. Lo stesso era accaduto già nel 1964, come abbiamo visto, quando l’obiettivo politico di fondo era ancora Moro e la sua interpretazione aperta del centrosinistra. Come poteva piacere a Washington e a Mosca un uomo che, subito dopo la strage, al Consiglio d’Europa che aveva espulso, in concomitanza con le bombe, la Grecia dei colonnelli, chiedeva il superamento dei blocchi? Il Pci temeva il golpe, o quantomeno una levata di scudi: a partire dal marzo del 1969 impartì direttive interne per rafforzare i controlli e revisionare gli archivi, distruggendo materiale di un certo rilievo. Il Pci si preparava comunque a quello che, bastava leggere i giornali, si veniva costruendo giorno per giorno: una cornice entro cui muoversi per ‘forzare’ il sistema, le sinistre messe all’angolo e, sulla scia di uno scontro modello 1948, ricominciare da capo visto che il ciclo politico della Repubblica nata dalla Resistenza (in quei giorni il Corriere della sera pubblicava un’inchiesta titolata: “Siamo nel 1922?”) si pensava irrimediabilmente esaurito. Occorre un altro passo indietro per capire ulteriormente la motivazione politica della strage. A Roma, nel febbraio 1969, arriva il neoeletto presidente americano Richard Nixon, accompagnato da Henry Kissinger. “Il Segreto della Repubblica” spiega in dettaglio l’importanza di questo viaggio. Sulla base dei documenti scritti da Kissinger dopo l’incontro Saragat-Nixon, fattigli avere dai servizi inglesi prima della strage, Bellini afferma che Nixon si era impegnato a “tenere sotto costante controllo l’evolversi della situazione italiana e a usare tutti i mezzi a disposizione del governo americano per contrastare le manovre dei fautori dell’apertura ai comunisti: con discrezione, ma anche in termini e provvedimenti efficaci”.52 “Saragat ha espresso la sua forte preoccupazione per la crescita inarrestabile dell’influenza comunista, e ciò nonostante la presenza di un sicuro amico dell’America, Rumor, al vertice del governo. Alle spalle di Rumor, ma molto più influente, si sta preparando ad agire, indirettamente e quasi impercettibilmente, Aldo Moro, in vista di quei cambiamenti che dovrebbero portare il Partito comunista a un passo dalle leve del potere”, scrive Kissinger nel documento che riescono ad avere i servizi inglesi dopo l’incontro.53 L’incoraggiamento che viene da Nixon alla linea dura rappresentata da Saragat, come rivelano ora anche i documenti americani declassificati54, è decisivo. Incontrando Nixon, in via riservata, Saragat 52 Fulvio e Gianfranco Bellini, op.cit., Milano, Selene Edizioni, 2005, p.31 Ibidem,p.31 54 Tutte le citazioni dei documenti Usa fanno riferimento agli articoli pubblicati da Ennio Caretto nel marzo-aprile del 2004 sul Corriere della sera 53 39 40 si lascia andare a un’analisi particolarmente preoccupata della situazione politica italiana. Il generale Vernon Walters, futuro direttore della Cia, alla fine, ottiene direttamente (o tramite il traduttore presente all’incontro) la trascrizione delle parole pronunciate del Presidente della Repubblica: “Agli occhi degli italiani, il Pci si fa passare per un partito socialista attivista e rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino; il suo capo, Luigi Longo, è a tutti gli effetti un funzionario sovietico. I comunisti hanno condannato l’invasione della Cecoslovacchia e la nostra stampa, e quella internazionale, vi hanno visto un distacco dall’Urss. È un errore, lo hanno fatto perché gli italiani sono indignati, e per essere liberi di denunciare la Nato: la vogliono distruggere, rendere prima l’Italia neutrale e poi allinearla con Mosca”. Saragat si propone, implicitamente, come alternativa politica, quantomeno accanto alla Dc, dato che questo partito è “forte perché ha l’appoggio del Vaticano, e lo merita perché è il pilastro della libertà e della democrazia in Italia. Ma il Papa Paolo VI – una persona per bene – non ne capisce molto di politica, bisognerebbe dirgli che se il comunismo vincesse finirebbe in esilio o diverrebbe come il metropolita Alexei in Urss”. Il Presidente della Repubblica italiana continua dicendo tra l’altro: “Il Psi ha una frangia estremista di sinistra, come pure la Dc, anche se con un peso maggiore: grazie alla complicità di questi due gruppi antiatlantici, il Pci è in grado di causare grossi guai”. La nuova amministrazione Usa prese tanto sul serio il discorso fatto “con il massimo candore” da Saragat da affidare al Consiglio di sicurezza della Casa Bianca, diretto da Kissinger, un’inchiesta sul comunismo italiano che, alla fine, portò all’invio a Roma di un nuovo ambasciatore, il “falco” Graham Martin, poi destinato a Saigon, che aveva carta bianca per spingere verso una svolta a destra del governo. Strategia non condivisa dalle “colombe’’ di Washington, tra cui vi era il Segretario di Stato William Rogers, favorevole al centrosinistra ma con poco potere reale nelle sue mani. Nel luglio 1969 cade il primo governo Rumor. Poco dopo nasce il nuovo governo Rumor, un monocolore con Moro agli Esteri al posto di Nenni. Un rapporto della Cia di quei giorni ipotizza che il governo potrebbe cadere “a causa dei torbidi movimenti operai e studenteschi”. In ottobre le “convulsioni italiani” secondo gli Usa sono tali da spingere il ministro dei Trasporti Usa, John Volpe, che poi sarà ambasciatore a Roma, a recarsi da Saragat che è sempre più allarmato. Il Capo dello Stato avverte l’inviato americano che Nixon ora deve mantenere gli impegni e proteggere non solo l’Italia “ma tutta l’Europa, altrimenti l’Urss tenterà di fagocitarla come Praga”, e arriva a dare agli Usa lo stesso ruolo che ebbe l’impero romano, “arbitro dell’equilibrio e della pace mondiali”. Saragat incontrando Nixon aveva indicato solo una strada di salvezza per l’Italia; un ritorno agli equilibri politici antecedenti la “catastrofica linea politica” del centrosinistra voluta da Moro. Volpe chiede a Nixon di invitare Rumor e Saragat a Washington per un chiarimento. Le due linee sono evidenti anche agli analisti Usa. Bisogna mettersi d’accordo, chiarire la logica e i ruoli. Il Segretario di Stato William Rogers e il Consigliere della sicurezza nazionale della Casa Bianca non si trovano d’accordo sull’invito. Rogers vuole che la situazione si chiarisca subito. Poco dopo, lo stesso Rogers fa sapere a Kissinger di aver ricevuto una lettera “dell’avvocato Paolo Pisano, che dice di rappresentare l’editore Vittorio Vaccari e Rumor, secondo cui se non interverranno, a Roma andrà al governo un Fronte popolare con i comunisti”. Secondo Pisano, “Moro è pronto all’intesa con il Pci, facilitata dall’abbandono da parte del Vaticano della sua politica anticomunista”. Kissinger tergiversa e chiede un’inchiesta dei servizi segreti americani sull’Italia e il Vaticano. Alla fine propone il gennaio 1970 per la visita di Rumor (che poi non avverrà proprio per le bombe del 12 dicembre), e il luglio dello stesso anno per quella di Saragat. Kissinger sollecita Nixon a formare una commissione d’inchiesta “sulle implicazioni per gli Usa di un ingresso comunista al governo di Roma. [...] C’è il pericolo che in due o tre anni il Pci salga al potere, sarebbe prudente esaminare l’emergenza, non possiamo farci cogliere impreparati”, scrive. Il capo della commissione è un nome che ritroviamo nel libro di Fulvio Bellini, Elliot Richardson, un uomo di Nixon55. Il rapporto finale dell’inchiesta però è ancora oggi segreto. 55 E per Richardson che Kissinger stese il rapporto sull’incontro Saragat- Nixon che poi, tramite i servizi inglesi, arriva a Bellini. 40 41 In tutto questo fitto scenario internazionale bisogna inserire un elemento molto rilevante: il congresso comunista del febbraio 1969 che segna una svolta reale rispetto al passato. Ecco come qualche mese dopo, in novembre, Mario Tanassi, presidente di quel Psu nato in estate dalla scissione socialista, rievoca quell’importante passaggio che spinse Saragat a chiedere il supporto e l’aiuto americano: “Il congresso fu preceduto da un tambureggiamento propagandistico d’eccezione. Sembrava che per i comunisti fosse arrivato il momento della palingenesi democratica. Che il Pci sarebbe uscito dal congresso completamente trasformato e pronto a condividere le responsabilità del potere. [...] I tre obiettivi fondamentali (del Congresso, N.d.A.) erano: isolare e distruggere le forze socialdemocratiche; creare alleanze sempre più nuove e numerose in comuni province e regioni, in attesa dell’alleanza col centrosinistra sul piano nazionale; provocare un cambiamento nella maggioranza all’interno della Dc e del Psi. [...] “In aprile, in maggio, era molto diffuso uno stato d’animo di rassegnazione: l’ingresso dei comunisti nella maggioranza era visto come un fatto imminente e ineluttabile. Molti uomini politici si preparavano a saltare sulla diligenza del nuovo regime. A destra c’era chi pensava, per reazione, ai colonnelli. Insomma, si era perduta la prospettiva democratica e si credeva che in un modo o nell’altro la Repubblica che conosciamo, quella nata dalla Costituzione, stesse per morire”. L’alternativa che il Psu temeva maggiormente era quella di un governo Dc-Psi sostenuto “da tutte le forze sinceramente democratiche” cioè con l’appoggio esterno del Pci. Moro “apre” e tutto si mette in gioco rapidamente; alla sua “strategia dell’attenzione” verso il Pci si risponde con la “strategia della tensione’’ verso il Paese, per impaurirlo e condizionarlo. Con uno schema che si ripeterà nel ’77-’78 dopo essere stato già sperimentato nel ’64, come abbiamo già visto. E’ in quelle settimane di febbraio-marzo che si gettano le basi di quella solida inimicizia tra Kissinger e Moro di cui si è a lungo parlato e che si è manifestata sempre nei momenti cruciali: 1975-76, 1977-78. Il “conforto” dato dagli americani a Saragat è evidente ma è chiaro che il Presidente prende a modello più De Gaulle che i colonnelli greci. Ma qualcuno che a lui si ispira, in chiave non strettamente politica, non la pensa così. “Roma fu la sola capitale dove Nixon venne accolto da manifestazioni antiamericane di qualche rilievo…Gli incontri ebbero luogo in modo un po’ casuale. Il Presidente Giuseppe Saragat volle ricevere Nixon senza la presenza dei ministri italiani perché aveva paura, alla loro presenza, di esprimere i suoi cattivi presentimenti sull’avanzata comunista…”56. Curioso perché in quel governo non vi erano altro che ministri Dc. Quando Nixon arriva a Roma Il Secolo d’Italia riporta in ultima pagina un manifesto bilingue: “Signor Presidente c’è chi vuole far uscire l’Italia dalla Nato”. E’ l’inizio dell’operazione. Il via, con forti infiltrazioni della destra estrema negli scontri di quei giorni di visita a Roma del Presidente Usa, ricordati con grande drammaticità da Mariano Rumor nelle sue memorie, 57 avviene in quelle ore. Bisogna dimostrare che l’Italia è in mano ai “rossi”. Ingovernabile, alla deriva. Pronta a ‘scivolar via’ dalla Nato. Peter Tompkins è stato agente americano a Roma, in clandestinità, durante l’ultima parte della guerra. Trovò rifugio a Palazzo Caeteani, in una stanza segreta ,ed è ben addentro alle vicende dei servizi segreti Usa in Italia. Autore di un volume di memorie, “Partigiano a Roma”, l’ex agente segreto ha raccolto le sue idee sulle attività dei servizi in un volume dedicato alla Strategy of terror58 che , nel caso italiano, ha radici istituzionali che Tompkins individua nel ministero dell’Interno e in Umberto Federico D’Amato, reclutato dagli Usa con il nome in codice “Delilah.”59 E’ lui per Tompkins il regista principale dell’operazione Piazza Fontana che poi subisce diversi “strattoni” da più mani. L’ex 56 Henry Kissinger op.cit., p. 94 Mariano Rumor, Memorie (!943-1970),Neri Pozza Editore,Vicenza,1991,p.401 58 Manoscritto inedito di Peter Tompkins, 1991 59 La prova del “reclutamento” Usa di D’Amato è stata rintracciata negli archivi americani da un professore dell’Università di Yale, Timothy J. Naftali, docente di Storia dell’Italia contemporanea che per primo ha potuto consultare i documenti desecretati dal Dipartimento di Stato Usa relativi ai rapporti tra i servizi segreti di Italia e Usa dal 1945 ai primi anni Sessanta. Vedi in particolare, “Servizi segreti: Rivelazioni - D’Amato 007 ‘reclutato’ da Usa”, Adnkronos , 6 febbraio 1999. 57 41 42 agente Usa fa sua pienamente la lettura che della vicenda dà fin dal 1978 “Il Segreto della Repubblica”: muovendo verso destra in piena solidarietà ed armonia con la crescente avversione popolare alla “strategia del terrore” che si stava sviluppando in quei mesi, e che l’opinione pubblica credeva opera della sinistra, “Saragat sperava di raccogliere 3 milioni di voti. Ma non poteva anticipare la data delle elezioni senza una maggioranza nelle Camere avendo soltanto il sostegno che aveva ricevuto da Nixon, la Cia e l’industria italiana”. Il grande spauracchio era appunto un governo Dc-Psi con appoggio del Pci e del Psiup: una coalizione che avrebbe rappresentato circa il 70% delle forze presenti in Parlamento. “Per sconfiggere, annientare una tale coalizione, gli Usa potevano soltanto sperare di creare un’emergenza più grande che avrebbe isolato Moro e la sinistra Dc”, scrive Tompkins che cita proprio il libro di Walter Rubini, cioè Fulvio Bellini, a riscontro. “L’ambasciatore Usa a Roma, Martin aveva scelto di andare all’attacco”. Il suo canale in ambasciata con i vertici di Avanguardia Nazionale era rappresentato da Peter Bridges, Primo segretario all’ambasciata di Via Veneto. “All’organizzazione terrorista di Delle Chiaie fu dato disco verde ma Bridge disse che la responsabilità doveva cadere sulla sinistra”, scrive Tompkins. La Confindustria – scrive sempre Tompkins nel dattiloscritto – “chiedeva intanto al governo di eliminare gli scioperi ‘politici’ e, con un rapporto top secret, a Saragat un governo forte, senza i socialisti, che potesse controllare gli operai nel Nord d’Italia, proibire i ‘picchetti’ operai, e mettere fuori legge la ‘propaganda sovversiva’ e le ‘assemblee sediziose’”. In quelle settimane, a cavallo di giugno-luglio, Panorama riportava le parole di un anonimo funzionario del Viminale: “Basterebbe che un poliziotto fosse ucciso in una manifestazione, colpito dai dimostranti con armi da fuoco. Sarebbe quello che è utile per iniziare. Il Capo dello Stato e il governo potrebbero dichiarare lo stato d’emergenza”. Più avanti ritroveremo il giovane diplomatico Peter Bridges, che parlava fluentemente l’italiano, nei contatti che a fine 1969 l’ambasciata Usa intraprende, indirettamente, con il Pci. Anche nel ‘70-’71, come abbiamo visto, l’altro problema centrale dello scacchiere politico italiano è chi andrà al Quirinale dopo Saragat: Moro o Fanfani. I documenti americani danno conto di quella che definiscono quasi una “ossessione” della politica italiana e tra i due contendenti gli analisti americani indicano un outsider che farà strada, Sandro Pertini. Si sa che se Moro scalerà il Colle si potrà realizzare quella “Repubblica Conciliare’’ che tanto spaventa giornali come Il Borghese e Candido. Nel 1969 si parla di “nuovo patto costituzionale” (De Mita) e di “centrosinistra senza preclusioni” (De Martino). Nel 1978 di “compromesso storico”, ma il problema è lo stesso, e questo lega indissolubilmente la strage di Piazza Fontana a via Fani. Anzi la strada che porta in via Caetani, alle spalle di Botteghe Oscure, inizia proprio quel 12 dicembre del 1969 ed ecco perché la strage del dicembre e l’omicidio di Aldo Moro rappresentano gli architravi del terrorismo italiano. Subito dopo la strage, Kissinger non esclude che le bombe siano di destra: “La polizia italiana sta arrestando anche i neofascisti con trascorsi terroristici”. Tra gennaio e febbraio né Rumor, né Moro, né Fanfani riescono a formare un governo: l’Italia sembra lì lì per naufragare. A marzo, tra mille dubbi, come già ricordato, ci riesce nuovamente Rumor. Veneto, noto per la sua mitezza, era citatissimo nelle strade dai giovani di destra grazie allo slogan “Le bombe fanno Rumor”. Dopo la strage, ricorda un suo stretto collaboratore di allora, Piervincenzo Porcacchia, andò in Galleria a Milano per far vedere che tutto era sotto controllo e che bisognava stare tranquilli. Però, Porcacchia ricorda anche che “in quei mesi arrivavano i giornalisti stranieri che facevano sempre la stessa domanda: ‘Che cosa ne sapete di un imminente colpo di Stato?’”. Paolo Emilio Taviani ha escluso con decisione che Rumor potesse essere il terminale della strategia stragista e quindi indotto a proclamare lo stato di emergenza all’indomani della bomba di Piazza Fontana. “È falso perché Rumor caratterialmente era incapace non solo di farlo ma anche di pensarlo”. È un fatto che Ordine Nuovo tentò più volte di uccidere Rumor per vendicarsi di qualcosa. Tentarono con Vincenzo Vinciguerra, nel 1971, (“doveva pagare perché ha tradito. Non ha approfittato della situazione, si è tirato indietro”, come gli disse Delfo Zorzi proponendogli 42 43 l’omicidio) e poi con l’ambiguo attentato di Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico, ma ricattato dal gruppo ordinovista veneto, secondo l’inchiesta Salvini. Guido Salvini afferma che Rumor si defilò non avallando le richieste che venivano dal Quirinale fin dalla stessa sera del 12 dicembre. Vedremo che c’è qualche traccia di tutto questo tra le carte. Il problema, come affermano i “pentiti” dell’inchiesta Salvini, era che Ordine Nuovo (e non solo lui) “si aspettava” la proclamazione dello stato d’emergenza nazionale con relative sospensioni di alcune garanzie costituzionali. Ma in politica le aspettative sono tante quante le delusioni. Due linee strategiche si intersecano e si ricompongono: anzi, cerchi concentrici che si ignorano ma si sostengono l’uno con l’altro, creando un accadimento, un fatto, una strage, con la forza dei singoli cerchi che puntano, richiudendosi politicamente ed operativamente, sempre più al centro; al punto zero. Una spiegazione che è stata avallata da uno dei più stretti collaboratori di Aldo Moro, Corrado Guerzoni, con le parole pronunciate, nel 1995, davanti alla Commissione stragi. Se si riflette su questa descrizione, a suo modo esemplare, tutto diventa politicamente intelligibile. “Al livello più alto si dice che il paese va alla deriva, che ha dei grossi problemi, che i comunisti finiranno per avere il potere anche a causa dei propri errori e che si deve fare qualcosa. Tra questo cerchio e il successivo apparentemente non c’è un collegamento, perché sono appunto cerchi concentrici, equidistanti l’uno dall’altro. Sappiamo però che c’è una forza sottostante, una sorta d’ onda lunga che li fa tenere in sintonia e li sprigiona. Al cerchio successivo si dice: ‘Guarda che sono preoccupati, che cosa possiamo fare?’. Nel nostro ambito dobbiamo fare questo, questo ancora, dobbiamo vedere di influire sulla stampa, eccetera’. Così si va avanti fino all’ultimo livello, quello che dice: ‘Ho capito’. E succede quello che deve succedere. È la costruzione sistematica di un clima che, così come per il potere e il comando, chi lavora è sempre all’ultimo livello, così anche in questo caso. Ognuno non ha mai la responsabilità. Se lei va a chiedere a questo ipotetico onorevole se lui è la causa di piazza Fontana, le risponderà di no, ammesso che sia in buona fede. In realtà è avvenuto questo ed è accaduto sempre più sistematicamente, perché la Dc era un partito sostanzialmente moderato”. Così, almeno uno dei cerchi si sente “coperto” e “autorizzato” a muoversi, magari autonomamente, anticipando tempi e modi di un percorso d’innalzamento dello scontro che era stato ipotizzato come più lungo e con passaggi non segnati dal sangue ancora per molto tempo. Ecco perché probabilmente senza il “cerchio” che faceva riferimento a Rumor non ci sarebbe stato quello che faceva riferimento a Saragat, e viceversa. Senza On non ci sarebbe stata An, senza il Sid non ci sarebbe stato l’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Il quotidiano inglese The Observer, il 6 dicembre, lo stesso giorno in cui diventa irreperibile a Milano Giangiacomo Feltrinelli, pubblica un articolo in cui si sostiene che la Grecia sta preparando un golpe in Italia. Nei giorni successivi, il giornale inglese attacca duramente Giuseppe Saragat denunciando la sua “strategia della tensione” che aveva indirettamente incoraggiato l’estrema destra a passare al terrorismo. Dopo la strage, Londra denuncia un piano “da paura”: “L’inaspettata moderazione dell’autunno caldo minacciava di liquidare la paura della rivoluzione sulla quale aveva puntato l’intero schieramento di destra, dai socialdemocratici ai neo-fascisti. Quelli che hanno fatto esplodere le bombe hanno riportato indietro quella paura”. Una spiegazione chiara e convincente. Il 14 dicembre il giornale inglese, “imbeccato” dai servizi di Londra, come vedremo, avanza una analisi della scissione socialista e dei suoi fini reali: Saragat “stava cercando più che influenzare i socialisti, di spostare la Dc verso la destra. Il calcolo era che il governo Rumor sarebbe caduto a causa delle agitazioni nel settore industriale, che elezioni di emergenza si sarebbero tenute nel nuovo anno e che la paura del comunismo avrebbe spazzato via alle elezioni la forte corrente di sinistra della Dc. Questo avrebbe eliminato la possibilità di una coalizione con i comunisti”. Gli attacchi da Londra si susseguono, tanto che si arriva a un passo ufficiale di protesta dell’ambasciatore italiano nella capitale inglese (non si capisce se effettivo o “mimato” per la stampa). Il 20 gennaio, l’Evening Standard scrive: “Al momento del panico, dopo la bomba, il Presidente italiano, sostenuto da potenti forze economiche, aveva progettato una strategia della 43 44 tensione, tra cui lo scioglimento del Parlamento. Questo era un segreto che tutti in Italia sapevano, ma di cui nessuno poteva scrivere”. Nel 1975 Lino Jannuzzi pubblica su L’Espresso un articolo nel quale afferma che se si vuole sapere perché la Cassazione bloccò l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, quando questi stava per interrogare l’ex capo dei servizi segreti Eugenio Henke, bisogna chiederlo a Saragat e Moro. Jannuzzi cita a lungo il capo dei servizi segreti Vito Miceli, uomo di Moro, che nell’articolo si difende così: “Io ho continuato a fare ciò che faceva il mio predecessore, l’ammiraglio Henke. E chi ha messo e mantenuto al Sid l’ammiraglio Henke se non Saragat e Moro? Chi ha indirizzato e coperto la gestione Henke, prima della mia gestione?”. Miceli accusa per difendersi, ma lega sistematicamente Saragat e Moro. Sta evocando un patto segreto? “Chiedete a Saragat, chiedete a Moro, domandategli di sciogliermi dal segreto militare, e io vi racconto che cosa ho ereditato da Henke, che cosa Henke ha fatto, come me, prima di me, più di me, sotto l’ombrello di Saragat al Quirinale e di Moro a Palazzo Chigi”. E Jannuzzi dà un altro affondo rivelando che Leslie Finer, l’autore dell’articolo sul The Observer, “non era soltanto un giornalista; era collegato ai servizi inglesi, all’Intelligence Service. Le accuse che in quello stesso periodo furono pubblicate a Londra dallo stesso giornale, e che indicavano nel Presidente Saragat lo stratega principale della tensione, non erano solo il frutto d’inchieste giornalistiche. Erano basate su informazioni riservate raccolte in Italia dai servizi greci e dai suoi agenti collegati con il Sid dell’ammiraglio Henke e con gli ‘amici’ che Henke vantava al palazzo del Quirinale”. Saragat rispose, via agenzia, nel giro di poche ore, dicendo, e non è un caso, che l’articolo comparso su The Observer “fu scritto nella libreria Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. E questo spiega tutto”. Spiega tutto, perché, come ha dimostrato l’inchiesta del Pm Salvini, l’obiettivo di una delle due cordate all’opera era certamente l’editore “rosso”, l’unico che potesse portare al Pci, attraverso anarchici e gruppi limitrofi, come Lotta Continua, dato che da tempo lavorava a una struttura militar-resistenziale – i Gap – che già all’epoca era quasi operativa. Ed ecco Valpreda, il ballerino anarchico, il “mostro”, che già il 27 del 1969 novembre temeva di essere ormai in mano alla Questura di Roma, prigioniero di un gioco molto più grande di lui, “l’Oswald italiano” secondo Epoca, un settimanale particolarmente informato in quelle settimane ma anche in altri periodi cruciali, come abbiamo visto. Scriveva il ballerino ai suoi avvocati milanesi Mariani e Boneschi, a proposito dei dubbi sulla presenza di una spia nel circolo 22 Marzo: “La situazione è brutta, abbiamo avuto notizia che ieri, anzi questa notte, si è tenuta a Roma una riunione segreta fra alcuni militari di carriera, forze di polizia e due cardinali, alcuni industriali e magistrati, per cercare di far applicare alla lettera il Codice Rocco”. Valpreda disse ai magistrati, dopo l’arresto, che la voce veniva da due paracadutisti che parlavano di un colpo di Stato: la sinistra extraparlamentare sa anche la data, il 12 dicembre. Il 9 dicembre (il 10 a Padova si comprano alcune delle valigie usate per la serie di attentati, e a Roma si decide che un gruppo composito di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo andrà a Milano “per buttare tutto all’aria”), Mauro Ferri, tra i massimi esponenti dei socialdemocratici, lancia l’idea di un ritorno al centrismo con Dc, Psu e Pli “nel caso si presenti la drammatica necessità di garantire la libertà come con la crisi del luglio 1960”, cioè come accadde con lo sciopero generale contro il governo Tambroni appoggiato dalle destre. E quindi il cerchio si chiude: tutto il vortice messo in moto da Aldo Moro nel novembre 1968 sprigiona tutta la sua forza. Il “Segreto della Repubblica” è il golpe caldeggiato, solleticato, stuzzicato da forze istituzionali che avevano perso la forza e la capacità di risolvere la crisi per via interne al sistema politico: una bomba che puntava a “innescare” il golpe militare, scelta alla fine venuta meno per il “tirarsi indietro” di alcuni settori della Dc. E sarebbe interessante sapere che ruolo abbiano avuto in questa scelta Paolo VI e la Chiesa . Lo smilzo pamphlet del 1978, nato dalle interpretazioni e dalle notizie in mano dei servizi inglesi, ha rivelato con il tempo tutta la sua forza di analisi. Tanto da indurre un giudice a chiedere all’autore quali fossero le fonti di una così chiara ricostruzione, che vedeva nello scontro tra Saragat 44 45 e Moro, risolto alla fine con la sostituzione del saragattiano Mario Tanassi al posto del moroteo Luigi Gui (lo stesso che il 22 dicembre, prima che Moro incontri il Presidente della Repubblica al Quirinale, gli fa avere il rapporto del colonnello Pio Alferano dove si indica con chiarezza la regia fascista della strage) nel fondamentale dicastero della Difesa (cioè alla guida politica dei servizi segreti) e la contemporanea “sterilizzazione” dell’indagine sulla pista neofascista, della crisi politico-istituzionale (e probabilmente militare) del dicembre 1969. Il tutto si risolve il 23 dicembre del 1969. Ora tocca a Moro affrontare Saragat. In quell’occasione viene stipulato un vero e proprio accordo politico che prevede, da parte del Psdi, l’abbandono della pregiudiziale anti-Psi e il proposito di sciogliere anticipatamente le Camere con connesse eventuali “folli avventure”, mentre Moro s’impegna a non trasmettere o utilizzare il rapporto Alferano; il che significa accantonare, al di là della volontà della magistratura, la “pista nera”. Ma qual era l’obiettivo politico di Saragat? A cosa puntava il Presidente della Repubblica? A svelarlo, quando Saragat è ancora vivo, è l’ex direttore de La Nazione e notista politico de Il Tempo Enrico Mattei, un giornalista di destra noto per la sua correttezza e la grande professionalità che all’epoca aveva più che altro un ruolo importante e riconosciuto di ‘alto consigliere’ dei politici. “La teoria della ‘strategia della tensione’ non risparmiava il Quirinale – scrive – anzi lo considerava il centro promotore, con l’accusa che veniva riecheggiata persino da autorevoli giornali inglesi di seria tradizione. […] Chi fu vicino a Saragat in quei momenti non poté non ammirare la fermezza con cui fece fronte alla più grave tempesta politica e istituzionale che abbia investito la Repubblica italiana. Fu in questa congiuntura politica procellosa che una mattina venni chiamato al telefono a Firenze: il Presidente della Repubblica avrebbe gradito fare colazione con me. L’indomani ero a tavola con lui nella palazzina Einaudi a Castel Porziano. Eravamo in tre, c’era anche il figlio di Saragat, Giovanni, giovane diplomatico temporaneamente occupato alla Presidenza della Repubblica. Dopo il caffè Giovanni tuttavia si alzò, salutò e si ritirò. Mi disse allora il Presidente che egli considerava con accresciuta angoscia la crisi della Repubblica democratica, a suo parere avviata alla paralisi funzionale. ‘La generazione della Costituente, la generazione di De Gasperi non ha eredi – mi disse –. C’è un’ondata di anarchia spesso violenta che assale da ogni lato. Manca una classe politica che la sappia fronteggiare. Ogni giorno lo Stato è costretto alla capitolazione. In queste condizioni mi sono più volte chiesto se non sarebbe toccato a me il compito di prendere qualche iniziativa per la salvezza della Repubblica. Ora vorrei sentire il suo parere. Non dovrei dimettermi da questa carica subito dopo aver sciolto il Parlamento, e assumere io la guida di una campagna elettorale di riscossa democratica, del tipo di quella che procurò la grande, decisiva vittoria del 18 aprile 1948?’ La mia risposta fu molto semplice. Osservai che le deformazioni che la Repubblica italiana aveva subito non erano piovute dal cielo, erano il frutto della gramigna partitocratica insinuatasi in tutte le strutture costituzionali. Un appello al popolo non ci avrebbe dato che un Parlamento simile se non peggiore di quelli degli ultimi anni. Se De Gaulle era riuscito a ‘rifare’ la Repubblica in Francia, consunta dai nostri stessi mali, era stato perché aveva potuto fare approvare al Paese un progetto di riforma che estirpava le radici della partitocrazia. Ma per realizzare questo disegno c’era voluto il colpo di Stato di Ajaccio e di Parigi. C’era voluto il colonnello Massu, c’erano voluti i paracadutisti di Algeri e della Francia metropolitana. ‘Ma lei, signor Presidente, se la sente di mettersi su questa strada? E dove li trova i colonnelli Massu? E che cosa succederebbe in Italia se lei annunciasse con un suo proclama la sospensione quadrimestrale della Costituzione, affidando alle cinque più alte cariche dello Stato una riforma costituzionale risanatrice, da mettere in votazione con un referendum? Se anche prendesse l’impegno di costituirsi all’Alta Corte di Giustizia, nel caso che il referendum le fosse contrario, l’operazione sarebbe possibile?’ Saragat apparve contrariato dal mio discorso, facendomi capire che non avrei dovuto permettermi di avanzare una simile ipotesi alla sua presenza. ‘Comunque – mi disse – quello che si è fatto in Francia non sarebbe possibile in Italia. Sono stato ambasciatore a Parigi (oltreché esule) e conosco bene quel Paese. Ma io avevo desiderato conoscere il suo parere su ben altro disegno, 45 46 concepito nel quadro di una assoluta ortodossia costituzionale. I colpi di Stato non mi interessano, anche se sono convinto ammiratore di ciò che ha potuto fare De Gaulle in Francia”. È facilmente deducibile che la proposta fatta da Mattei del quadrumvirato (il “direttorio” di cui parlava L’Unità?) o era stato proposto nella conversazione da Saragat, oppure era a diretta conoscenza di Mattei. Certamente il direttore non avrebbe potuto citare un tale dettagliato piano di “forzate riforme” nella sua replica al Presidente, se non gli fosse stato quantomeno esposto dal Presidente o da lui confermato. Il magistrato Gerardo D’Ambrosio, dopo la sentenza della Cassazione che ha chiuso definitivamente la vicenda giudiziaria sulla strage, ha affermato che per sapere qualcosa in più ci si dovrebbe rivolgere al leader di Ordine Nuovo, Pino Rauti (era lui che teneva i contatti con ambienti Dc?), e a Giulio Andreotti che svelò la natura di informatore di Guido Giannettini, anello di collegamento tra il Sid e la cellula ordinovista veneta di Freda e Ventura. D’Ambrosio aveva scoperto che Giannettini era stato assunto dal Sid dall’allora capo di Stato maggiore, e che l’ammiraglio Henke continuava a pagarlo con i soldi dei servizi segreti anche durante la latitanza. La domenica successiva la Cassazione tolse l’inchiesta a D’Ambrosio e la spedì a Catanzaro. Interrogato durante il processo a Catanzaro Giulio Andreotti escluse che tra i motivi che lo indussero a rilasciare l’intervista che svelava il ruolo d’ informatore svolta da Giannettini vi fosse una lettera di D’Ambrosio al capo dello Stato Giuseppe Saragat. Henke aveva certamente nascosto alla magistratura la notizia su Giannettini “per motivi superiori”. Per dare il senso concreto dell’incomprensione tra Saragat e Moro in quei mesi citiamo sempre dalla stessa inchiesta di Mattei. “Ricordo quanto Saragat poco stimasse gli uomini politici italiani che assumevano posizioni ambigue sul problema del comunismo. Una volta mi confidò il fastidio che gli procurava Moro, che regolarmente evitava di ricordare che l’Italia era nel patto Atlantico, preferendo ricorrere a circonlocuzioni come ‘la collocazione internazionale dell’Italia’, o altre simili. ‘Questo comportamento - mi disse Saragat - mi ricorda quello delle monache di un tempo che per non nominare certe parti del corpo le chiamavano pudende’”60. Certamente quello fu un periodo particolare che inizia nel 1967, come ricorda il generale Gianadelio Maletti, dell’Ufficio ‘D’ del Sid in anni successivi e accusato di aver fatto fuggire alcuni dei neofascisti coinvolti nelle inchieste. Quando deve spiegare quelle sue azioni il generale dice di aver “ereditato” una certa situazione che si era determinata proprio in quegli anni, con la presenza di neofascisti con funzioni informative, e non solo, nei servizi segreti. Una “infiltrazione” frutto della paura del ‘nuovo’ che stava covando ma anche dell’affermarsi di teorie, prassi, manualistica e ‘logica d’ intervento’ legate ad una visione di contrasto attivo del ‘fronte interno’, cioè dei partiti e movimenti di sinistra. La ‘guerra’ era in casa anche se a ‘bassa intensità’ militare e ad ‘alta intensità’ sociale e politica e tutte le armi potevano e dovevano essere utilizzate. Una situazione politica poteva e doveva essere ‘costruita’, se necessario, e la strage, i suoi presupposti, lo furono con un sapiente, complesso e articolato gioco di specchi tra politici, servizi e neofascisti che infiltrarono e in alcuni casi condizionarono molti gruppi della nascente sinistra estraparlamentare. Ma anche nella Dc come accadrà con On a Mestre, come svelò un processo promosso da Lotta Continua, in settori del Psi, e in altri gruppi e partiti a livello locale. Vincenzo Vinciguerra intervistato nel carcere dove sconta la condanna per l’attentato di Peteano dà la sua interpretazione del 12 dicembre 1969. Una lettura interessante perché introduce un’ulteriore variante nel gioco a specchi tra politici e gruppi dell’estrema destra. “Il 12 dicembre non è un colpo di Stato che rovescia, che muta il regime, assolutamente no; è la proclamazione dello stato d’emergenza che rafforza il regime, elimina le opposizioni che sono da eliminare, a mio avviso anche le destre”. “Il 12 dicembre ha rappresentato il massimo momento di consenso, sul piano politico, di tutte le forze anticomuniste”, che subito dopo però litigano sulla strategia da sviluppare e soprattutto sulla ‘gestione’ della strage e delle sue conseguenze quando non accade quello che ci si attendeva. Ben diverso sarebbe stata la situazione se invece che 17 morti colpevoli solo di essere 60 Enrico Mattei, “Saragat all’alba degli anni di piombo”, Il Giornale, 20 giugno 1985. 46 47 nel posto sbagliato di morti ce ne fossero stati 100. Le cose in quel caso sarebbero andate, probabilmente, in maniera diversa da come si sono sviluppate. Ma i ‘se’ poco aiutano a capire quello che in effetti accadde. Il ruolo di Rumor? “Direi che ha alzato gli elementi veneti, e non soltanto veneti, lui e Flaminio Piccoli che ha pesantissime responsabilità politiche mai evidenziate da alcuno, in tutta questa strategia chiamata della tensione” E Vinciguerra spiega la catena di ricatti che si sviluppò in Ordine Nuovo durante le indagini, con Franco Freda che “detta” a Marco Pozzan le parole che serviranno a motivare l’arresto del leader di On accusato di aver partecipato alla riunione del 18 aprile 1968 a Padova che diede il via alla strategia delle bombe. “E’ un avvertimento preciso, come un avvertimento ad un’intera classe politica e militare doveva essere l’eliminazione di Rumor. Nel momento in cui c’è il massimo di consenso da parte di tutte le forze anticomuniste, qualcosa o qualcuno impediscono di proclamare lo stato di emergenza. Quindi tutto quello che si è fatto diventa praticamente inutile. Non è da escludere che fra le persone che non se la siano sentita di arrivare alla proclamazione dello stato di emergenza, ci sia Rumor. Ma la rappresaglia contro di lui non scatta per questa decisione che probabilmente è influenzata dagli Usa, da eventi, da pressioni internazionali. Scatta dopo, quando per la prima volta (aprile del 1971 , NdA) Freda e Ventura vengono arrestati.” Allora nascono anche i dubbi sull’effettivo ruolo di Pino Rauti e “non a caso gli avvertimenti giungono uno a lui, con l’arresto, uno a Rumor con il tentativo di eliminazione, di omicidio”. Infatti nel settembre del 1971 da Vinciguerra si presentano Maggi e Zorzi “chiedendo di eliminare Rumor”. Proposta rilanciata nel marzo del 1972:. “Io avrei fatto più che volentieri questo tipo d’operazione, un atto di giustizia politica, ma l’errore che compiono è quello di dirmi che non avrei avuto problemi perché c’era l’accordo con la scorta. A questo punto mi fermo”. - Ma perché uccidere Rumor? “Le motivazioni vere non me le dicono, affermano che è stato programmato un piano per eliminare alcune personalità politiche e fanno anche il nome di Moro, fanno il nome anche di altre persone. Alla fine non se ne fa nulla e c’è, nel maggio del 1973, la bomba alla questura di Milano, che doveva essere contro Rumor, di Gianfranco Bertoli. - Rumor è l’unico Dc oggetto di un attentato ad un politico, perché? “Chi agisce, ha agito sul piano operativo, compiendo un atto come quello di Piazza Fontana, non intende essere chiamato a risponderne di fronte alla magistratura di un paese che è guidata, asservita al potere politico, che è poi quello che ha determinato la strage di Piazza Fontana. Che prove possono portare? Chi potrebbe credere alle parole di una persona accusata di strage che chiama in causa il Presidente del Consiglio? Nessuno”. “La caratteristica della strage – dice ancora l’ex componente di On e An - è quella di colpire nella massa; ed è ciò che diceva Guerin Serac ed è quello che dicono i manuali dei servizi segreti francesi poiché l’Oas è una espressione di una parte dei servizi segreti francesi.(…) Il coinvolgimento dell’Aginter Press nelle vicende italiane comincia nel 1967-1968 nella ispirazione e nella direzione per l’esperienza che proveniva agli ufficiali francesi che avevano fatto parte dell’Oas di quelle che sono le tattiche di infiltrazione e sovversione; sono loro che addestrano principalmente gli italiani a fare poi quello che hanno fatto, sono loro che mandano i manuali. I francesi hanno addestrato gli italiani. Jean Denis era uno di questi, l’ho conosciuto personalmente. Addestrarono noi di Avanguardia Nazionale; c’insegnarono le tecniche.” 61 Vedremo che accanto ai francesi dell’Oas ci sono anche i tedeschi della rete dell’ex nazista Reinhard Ghelen, capo per molti anni del servizio segreto della Germania dell’Ovest. Quando esplode la bomba di Piazza Fontana, Moro è a Parigi dove presiede la riunione del Consiglio d’Europa che ha appena espulso la Grecia dei colonnelli – e questo pesa nella scelta del giorno della strage - Rumor è a letto, come molti altri milioni d’ italiani con l’influenza e Forlani, Segretario della Dc chiama il responsabile milanese del partito, Camillo Ferrari chiedendo di essere 61 Intervista dell’autore a Vincenzo Vinciguerra 47 48 informato di tutto ogni mezz’ora. “L’impressione di Ferrari è che a Roma, in Piazza del Gesù, si tema il peggio e ci si prepari al peggio”62. Nelle sue memorie Mariano Rumor annota commentando l’immediato dopo-strage: “Era un segno di un attacco allo Stato? Era l’inizio di una rivolta terroristica contro i cittadini per colpire le istituzioni?”. Rumor decide di rivolgersi direttamente alla nazione dal tg delle 20. Non sembra avvertire nessuno di questa sua iniziativa. Subito dopo è previsto un Consiglio dei ministri notturno “per dare al paese la certezza che tutto il governo era consapevole della gravità della situazione e deciso a contrastare ogni tentativo d’intimidazione, di sovversione e di violenza”. A folle corsa su una macchina con pochi amici, senza scorta, Rumor va verso via Teulada, sede degli studi dei Tg.“I tempi stringevano e bisognava correre ogni rischio per non perdere la possibilità di parlare al primo tg della sera, dando un segno di immediatezza della reazione del governo all’evento tragico che aveva sconvolto la coscienza nazionale”. L’appello fu improntato a una dura condanna e al richiamo ai valori della Costituzione. “Occorre, cittadini, che ognuno di noi si riconosca nella legge, si senta parte di una comunità che può perdere se stessa se non si unisce alla legge che la garantisce e la difende”.63 Andò bene. L’appello stemperò lo sbandamento: “C’era un Governo che aveva precisa la dimensione drammatica e rischiosa degli eventi ed era deciso a fronteggiare ogni attacco alla pace e alla serenità degli italiani e alla sicurezza dello Stato”.64 Subito dopo il Consiglio dei ministri notturno che fu “più un fatto politico che operativo”65, Rumor s’incontra con Piccoli e Forlani e si decide di riproporre subito la formula di centrosinistra. Poi Milano, i funerali, con Nenni che piange in Duomo e l’invito a Rumor di uscire da una porta laterale per evitare problemi. “E’ un ricordo che non mi si cancellerà mai dalla mente. Una folla pressoché tutta di lavoratori gremiva la piazza del Duomo e gli accessi circostanti; senza vessilli, senza bandiere: era il popolo di Milano…”. “Nella mia vita politica non ricordo di aver partecipato ad un momento di tanta compostezza, di tanta austerità, di tanto rispetto: per i morti e per quelli che li avevano perduti”. Rumor sottolinea: “La partecipazione al funerale di Milano mi aveva infuso una strana fiducia di poter superare le tremende difficoltà che mi si paravano davanti”66. Il 23 mentre si svolge al Quirinale l’incontro Moro-Saragat Rumor vola a Milano per incontrare nuovamente i feriti. Per capire fino in fondo come si sia arrivati a tanto si deve ritornare nuovamente al fondamentale novembre 1968. Dopo il maggio francese, l’emarginazione di Moro, il suo “rientro” su posizioni nuove. “Era molto cambiato. Aveva avuto un periodo di calma e di riflessione e poi era tornato alla vita politica, ma in maniera nuova. E’ da quella pausa che emerge la sua elaborazione sul grande cambiamento in atto nella società (‘tempi nuovi si annunciano’) 67. Nascono i ‘morotei’ e poche settimane dopo, a Battipaglia, la polizia spara su braccianti agricoli in lotta da 10 giorni per ottenere la parità retributiva: 2 morti e 50 feriti. Il 19 gennaio il Consiglio Nazionale elegge Piccoli segretario della Dc con 85 voti a favore, 87 bianche e 5 nulle. 19 “franchi tiratori” votano con la sinistra che annovera morotei, Forze Nuove e Base. Moro attacca duramente il suo partito. Il Secolo d’Italia scrive a commento: “Se un uomo della prudenza e dell’attendismo dell’ex Presidente del Consiglio si è deciso ad un passo che lo pone al di sopra di tutti, perché lo pone contro tutti, significa che veramente la casa democristiana brucia; significa, cioè che nella Dc la situazione è insostenibile anche per il più consumato e calcolatore dei suoi personaggi”. A fine febbraio la visita di Nixon e forse le richieste Usa si sommarono alle suggestioni del Presidente della Repubblica e di quello del Consiglio. Nixon è accompagnato a Roma dal generale Walker che incontra riservatamente i generali Aloja e De Lorenzo. Il Secolo d’Italia esce a tutta pagina con il titolo “Il governo commissiona al Pci le manifestazioni contro Nixon” criticando duramente la politica di “scivolamento” fuori dalla Nato attuata da Nenni alla Farnesina. Stefano Delle Chiaie e i suoi picchiatori partecipano alla manifestazione contro la visita di Nixon con dei braccialetti rossi e 62 AaVv, Le bombe di Milano, Guanda Editore, Milano, 1970,p.77 Tutte le citazioni sono tratte da, Mariano Rumor, op.cit. 64 Ibidem 65 Ibidem 66 Ibidem 67 Agnese Moro, op.cit.,p.51 63 48 49 distintivi comunisti. Alcune delle molotov lanciate contro uffici di società Usa a Roma sono scagliate dai gruppi infiltrati. Roma è tappezzata di manifesti che riportano questo slogan: “Attenzione Nixon! L’Italia si prepara a tradire gli impegni Atlantici sottoscritti con gli Stati Uniti e a portare i comunisti al potere”. Il Pci affronta il nodo dei rapporti con l’Urss dopo l’invasione della Cecoslovacchia al congresso di Bologna che nomina Berlinguer vicesegretario del partito. Una settimana dopo alla Direzione Dc Moro rilancia la sua “strategia dell’attenzione” verso i comunisti italiani. A marzo il dialogo avviato da Moro fa esplodere le contraddizioni nel Partito socialista unificato: “De Martino vanta la vittoria della sua politica che ha portato all’inserimento dei comunisti nella maggioranza e al superamento degli accordi programmatici”, scrive Il Secolo d’Italia. De Martino, vicepresidente del Consiglio, non aveva preso parte agli incontri con Nixon. Rumor attribuisce la causa ad un disguido del cerimoniale. Nenni, Ministro degli Esteri, sostiene l’oppositore del regime dei colonnelli, Papandreu, anche ‘operativamente’ attraverso la corrente che fa capo a Giacomo Mancini. Il Ministro degli Esteri lo incontra a Roma. Passo diplomatico di Atene e la destra parla subito di “sabotaggio alla Nato”. A Verona una bomba esplode il 22 aprile nell’atrio del palazzo della Coldiretti. L’inchiesta Salvini indica questo episodio come l’inizio della “strategia delle bombe” da parte del gruppo ordinovista veneto. Intanto cinque milioni di operai ed impiegati si preparano al rinnovo di 32 contratti di lavoro. Tra di loro 1 milione e 270 mila metalmeccanici, 350.000 chimici, 800.000 edili, 1 milione e mezzo di braccianti. Confindustria e partiti moderati si chiedono se dopo il maggio francese ci sarà un ottobre italiano. “Come un arazzo – scrive Le Monde- gli episodi della vita italiana si sommano per dare l’impressione globale di una crisi profonda che potrebbe sboccare in una catastrofe”. Quasi con le stesse parole del quotidiano francese Nenni ha più volte, in quelle settimane, avvertito i suoi che il pericolo di un fallimento del centrosinistra non è l’apertura al comunismo, “la Repubblica conciliare”, ma una svolta se non proprio autoritaria, almeno di tipo moderato. Il 25 aprile bombe (fasciste) alla Fiera di Milano e al padiglione della Fiat. Due bombe anche alla Stazione centrale del capoluogo lombardo. L’indomani L’Unità scrive di “gravissime provocazioni”. “ Chi si trova dietro questi attentati. A chi servono? Le indagini della polizia non danno nessuna risposta, e intanto la stampa borghese mescola nel notiziario le esplosioni verificatesi in questi giorni alle provocazioni fasciste consumate nell’anniversario della Liberazione ad episodi di tipo completamente diverso, con lo scopo di alimentare la campagna di chi vuole accreditare la tesi dell’esistenza di una ‘spirale della violenza’ per imporre soluzioni scelbiane e autoritarie ai problemi dell’ordine pubblico” Ci sono degli arrestati ma sono anarchici e il 27 aprile sempre L’Unità esce con questo titolo: “Che cosa c’è dietro lo strano comportamento della polizia? Campagna eversiva e aperte provocazioni di destra. Il settimanale inglese The Economist denuncia il grave pericolo di un ‘regime autoritario’ in Italia”. Quindi gli inglesi seguivano attentamente la situazione già da allora ed erano ben informati sul significato reale di quello che accadeva in Italia, così come il Vaticano, che dopo la bomba del 2 aprile al Palazzo di Giustizia aveva commentato attraverso le colonne del suo quotidiano, L’Osservatore romano: “ Il commercio degli esplosivi non è come il commercio degli ortaggi. E poiché la polizia non sta certo inattiva e non manca di collegamenti e controlli, si deve concludere che le iniziative sciagurate contano su una immancabile complicità o connivenza od omertà”. Il settimanale Tempo annuncia che il Viminale sta studiando i “colori politici” delle bombe. Non tutte sarebbero rosse, anzi le più pericolose “sarebbero fasciste”. “Le prove giudiziarie ci sarebbero: ora si tratta di compiere un’azione di setacciamento nelle sedi dei groupuscules d’estrema destra per ottenere le controprove e procedere. Potrebbe darsi che l’operazione abbia a scattare tra non molto, anche in virtù di specifiche richieste parlamentari”. A Giovanni Ventura arriva il rapporto dei servizi segreti, stilato da Giannettini, che parla di contatti “segreti tra Dc e Pci per un accordo di governo”. Nel rapporto si aggiunge che gli Usa, venuti a conoscenza di queste trattative, hanno posto il loro veto e contemporaneamente, per evitare sorprese, “hanno disposto un massiccio 49 50 finanziamento delle organizzazioni di destra”. Il settimanale Abc pubblica un articolo, a firma di Gregory Hunt, che si qualifica giornalista inglese, in cui si parla di un prossimo colpo di Stato in Italia, “ parecchi già si sono messi a studiare il greco, lo Stato organizza pellegrinaggi a Samo, la Nato ha preparato un programma per l’intercambiabilità dei quadri superiori, fra Roma e Atene, e non sto a dirti il resto”. Hunt scrive di 700 uomini liberi che alla fine saranno posti “tutti in galera”. In giugno sempre Abc denuncia l’esistenza di un “Piano T” che potrebbe scattare in agosto. Un piano Nato coperto dal segreto militare. In luglio la scissione socialista . Nel partito le due ali sono convinte che per salvare la patria dai comunisti (Tanassi-Ferri) o dai colonnelli (De Martino) si debba comunque spaccare il Psi, dividerlo inevitabilmente. Alla vigilia della scissione Andreotti prende nella notte un aereo militare e vola in Usa. I settimanali scrivono, in sostanza, che l’Italia rischia di slittare a sinistra, verso il Pci, e ogni mezzo è lecito per impedirlo: “Questa convinzione si era fatta strada nell’entourage di Nixon, fin dal viaggio del presidente in Italia il 23 febbraio, e poi con le visite private, in America, del repubblicano La Malfa, del socialdemocratico Lupis, del democristiano Andreotti”.68 Domenica 7 settembre c’è la rivelazione di un allarme Nato in Italia durato poco meno di due mesi. C’è stata la mobilitazione delle basi militari, di reparti speciali dell’esercito e dell’Arma. Dovevano essere occupate e presidiate le sedi della Rai Tv, dei ministeri, dei partiti e dei giornali. In giugno Giangiacomo Feltrinelli ha pubblicato l’opuscolo, più volte citato, sul rischio golpe in estate.69 Durante il processo per il golpe Borghese il Prefetto Angelo Vicari, capo della Polizia dal 1960 al 1973, dichiara in aula che la “Questura conduceva indagini sul Fronte nazionale (l’organizzazione di Borghese, NdA), per una serie di tentativi di colpi di Stato messi in atto prima e dopo la famosa notte di ‘Tora Tora’. Di questi episodi, ripeto, se ne sono verificati più d’uno, quello che destò maggior allarme avvenne nel luglio del 1969”. L’autunno arriva; travolge ma non annienta. A novembre il ministro dell’Interno Restivo afferma che lo Stato “dispone di una forza tale da dissipare in poche ore qualsiasi tentativo eversivo. So quello che affermo e racconto meno di quello che so”. E quando si debbono far “ingoiare ai sindacati gli accordi più controversi il ministro del Lavoro offre come alternativa secca il “rischio dei colonnelli”. E il 19, nel corso degli scontri durante lo sciopero generale, muore il poliziotto Antonio Annarumma. Saragat invia un telegramma di fuoco. Durante i funerali, a Milano, c’è la caccia al “rosso”. Il 24 altro sciopero generale. Due manifestazioni dei metalmeccanici, il 28 e il 4 dicembre conclusero le trattative per i contratti di lavoro: la ‘fiammata’ attesa non aveva acceso il ‘fuoco’ che si desiderava. Bisognava aiutarlo. Obiettivo principale della contrattazione è l’abolizione delle “gabbie salariali” che consentono un trattamento economico per lo stesso lavoro diverso da regione a regione e soprattutto si vuole la rottura del legame tra aumento salariale e aumento della produttività. Il 2 dicembre Il Secolo d’Italia annuncia che il Msi mobilita la Nazione contro la violenza “rossa”. Quanto è accaduto “ricorda altri tempi e nel ricordo dei tempi richiama ad imperiosi doveri che qualcuno deve pur adempiere. Di qui l’alternativa rigida: lo Stato funziona e ricaccia i sovversivi nelle fogne, o qualcuno deve pur assolvere a tale funzione… di qui la funzione insostituibile del Msi”. Il 7 e il 9 il Psdi torna alla carica con la richiesta di elezioni anticipate . Durante il primo confronto con i segretari del centrosinistra, subito dopo la strage, Rumor dice: “Non voglio essere Facta”, rievocando la figura dell’ultimo Presidente del Consiglio di un governo liberale prima del fascismo. Il 15 il segretario del Msi, Giorgio Almirante, annuncia la confluenza di On nel Msi, maturata già, pur tra contrasti interni, a novembre. Il Corriere della sera dal 18 dicembre si schiera nettamente per la ricostituzione del centrosinistra organico. Il 21 Epoca, che era uscita con una copertina tricolore in concomitanza con la strage, come nel luglio del 1964, invocando ordine, scrive che “c’è ancora in Italia una larghissima maggioranza anticomunista. Basta chiamarla a raccolta con parole semplici e convincenti”. Il 22 Giorgio Almirante: “L’autunno caldo è finito, ora occorre l’unità dell’Msi per far fronte all’unità del sistema.” 68 Abc, 25 luglio 1969. Giangiacomo Feltrinelli, Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria di destra, di un colpo di Stato all’italiana., opuscolo. 69 50 51 Come dire che l’occasione politica è svanita, ora si deve essere uniti per i contraccolpi inevitabili. Dopo la strage Saragat invia un telegramma che suona incitamento all’azione diretta: “Tocca ai cittadini assecondare l’opera della giustizia e delle forze dell’ordine democratico nella difesa della vita contro la violenza omicida”. Saragat convoca un vertice al Quirinale proprio mentre Rumor corre a folle corsa verso via Teulada per inviare il suo appello alla nazione. Al Quirinale arrivano il ministro degli Interni, Restivo, il comandante dell’Arma, Luigi Forlenza e diversi esponenti dei “corpi separati”. “All’ordine del giorno c’è la proposta di proclamare lo ‘stato di pericolo pubblico’ in base agli articoli 214 e seguenti del testo unico delle leggi di Ps. Si tratta di un provvedimento di estrema gravità che non è mai stato adottato in oltre vent’anni di vita repubblicana. Nel dibattere la proposta presidenziale, il ministro degli Interni fa presente al Capo dello Stato l’opportunità di ottenere il consenso del Presidente del Consiglio prima di proclamare lo ‘stato di pericolo’. Saragat si vede perciò costretto ad aggiornare la riunione in attesa che la mobilitazione delle forze moderate e di destra, già in corso in tutto il Paese, dia i suoi frutti” 70. Rumor dirà un ‘no’ che peserà enormemente su quello che poteva accadere il 14 dicembre a Roma e il 15 nel corso dei funerali delle vittime che dovevano bissare la caccia al “rosso” dei funerali di Annarumma. Gli operai milanesi, sollecitati dal Pci e dall’intero fronte antifascista, impediscono quell’ulteriore salto nell’escalation del terrore. Restivo, su esplicita richiesta di Nenni, vieta la manifestazione del 14 che doveva rappresentare la “parata per la vittoria”, con annessi incidenti che avrebbero dato l’occasione definitiva per la stretta antidemocratica. Lo ‘stato di pericolo’ avrebbe autorizzato a ‘direttori’ o soluzioni golliste. Tutto quindi si gioca tra il 13 e il 22 dicembre quando il colonnello dei carabinieri Pio Alferano consegna a Gui, che lo passa subito a Moro, un rapporto che ha sfruttato le indicazioni stilate dal Sid nella famosa velina del 17 dicembre nella quale si parla di Delle Chiaie e di Guerin Serac, sia pur in veste di improbabile anarchico. Un documento che arriverà ai magistrati solo qualche anno dopo e manomesso in più punti. Non si riuscirà mai a capire quale ne fosse il nucleo originario dato che la fonte, il fascista-informatore del Sid Stefano Serpieri, ne disconoscerà la presunta paternità né gli uomini del Sid chiariranno durante i processi la logica delle ripetute manomissioni. Nelle ore dopo la strage a svolgere le indagini è il capitano Francesco Valentini. Con questo rapporto nella cartella Moro va da Saragat il 23 dicembre del 1969. Si arriva ad un accordo politico che avrà ripercussioni sulle indagini e sugli 11 processi per la strage di Piazza Fontana. L’intesa prevede da parte di Saragat l’abbandono di velleità di scioglimento anticipato della legislatura con relativo abbandono della pregiudiziale anti-Psi, da parte di Moro la rinuncia ad utilizzare l’indagine parallela condotta dal colonnello Alferano, il che significa “accantonare” la “pista nera” costruita sull’ambigua informativa del Sid. L’indomani Tanassi, considerato il portavoce di Saragat nel partito, critica apertamente il “famigerato diktat (quadripartito ‘pulito’ o elezioni anticipate) su cui si era basata la propaganda Psdi fin a quel momento. Anche Piccoli si adegua alla politica sostenuta dal trio Moro-Forlani-Andreotti. Poche settimane dopo Delle Chiaie viene “invitato a fare due passi” mentre attende di essere interrogato al Tribunale di Roma. E’ il colonnello Antonio Varisco a dargli il “consiglio” 71. E sarà sempre Piero Zullino, che interviene su Epoca, vicino a Italo De Feo, legato a filo doppio con i socialdemocratici, a dare una ulteriore indicazione rilevante e piena ancora oggi di elementi che non sono stati sviluppati, probabilmente per qualche altro ‘patto’ contratto in quei giorni. Una indicazione che Pietro Valpreda sembra avallare, indirettamente, quando nel luglio del 2001 arriva la condanna in primo grado per il gruppo ordinovista veneto che sarà poi ribaltata in appello e confermata definitivamente, nel 2005, dalla Cassazione. La sentenza di condanna rappresenta – dice Valpreda - “il raggiungimento di una mezza verità, forse di un decimo di verità, ma un punto di partenza per dire che le responsabilità stanno negli ambienti fascisti. Risalire a mandanti, a chi ha coperto e depistato, individuare i tanti attentati fatti in quel periodo e mai scoperti, sarebbe utile. 70 71 Fulvio Bellini- Gianfranco Bellini, op. cit. , pp.102-105 Intervista all’autore ad Antonio La Bruna 51 52 Chi lo farà più, ormai? Meglio un archeologo di un giudice….”. Anche da destra, su Epoca, viene nel gennaio del 1970 un’indicazione che suggerisce la complessità e forse un’ambiguità operativa della strage. Parla un ufficiale a riposo del vecchio Sifar: “Tanto più grave è l’episodio, tanto più vasto è il suo retroscena. Questa è una regola che non teme smentite. Posso solo dirvi che, se c’entrano i servizi segreti, allora Valpreda è l’Oswald della situazione, un povero scemo che si è fatto incastrare, un capro espiatorio. La polizia lo arresta e fa bene. Eppure non lo si riesce a vedere nei panni di un freddo organizzatore di un macello. Se è stato lui a deporre la bomba, gli hanno messo nelle mani un ordigno di potenza superiore al previsto, o regolato per esplodere prima della chiusura della banca anziché dopo, come forse Valpreda pensava. L’hanno incastrato. Perché i servizi segreti agiscono con leggi di ferro: ciascuno conosce solo il suo vicino. Il vicino del vicino, mai. Sei l’anello di una lunga catena che non sai dove comincia. Chi era il vicino di Valpreda?” III) Dove porta la ‘pista tedesca’ (mai battuta) Con due condanne sulle spalle, a 14 e 15 anni, Gianadelio Maletti 72, oltre 80 anni, è uno dei pochi tra gli uomini dei servizi segreti italiani che ebbero un ruolo durante le inchieste su Piazza Fontana ad aver pagato un prezzo. Probabilmente troppo alto rispetto alle sue dirette responsabilità. Il generale è stato condannato per spionaggio (il dossier Mi. Fo. Biali, di fatto la vicenda dei petroli e la relativa azione del super servizio segreto de “L’Anello”) e per i depistaggi per la strage alla Questura di Milano. Rifugiatosi in Sudafrica è tornato in Italia per due giorni grazie ad un salvacondotto, in occasione dell’ultimo processo. In quella occasione il generale ha per qualche attimo aperto una botola sull’abisso che contiene la verità sulla strage. Per poche ore, però. Poi nulla. “La Cia voleva creare, attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, On in particolare, l’arresto dello scivolamento verso la sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione”, ha detto. Il servizio segreto italiano utilizzò On con i suoi infiltrati e i suoi collaboratori “in varie città italiane e in alcune basi della Nato: Aviano, Napoli…la Cia aveva funzioni di collegamento tra i diversi gruppi di estrema destra italiani e tedeschi e dettava le regole di comportamento, fornendo anche materiale”. Coordinamento tra i gruppi d’estrema destra italiani e tedeschi: un compito – dice Maletti - affidato alla Cia. Alla domanda se questo materiale comprendesse anche armi ed esplosivi, Maletti dà una risposta che non lascia dubbi: “Numerosi carichi di esplosivo arrivarono dalla Germania via Gottardo direttamente in Friuli e in Veneto”. Nel ’72 Maletti gira la notizia ai livelli più alti ma non accade nulla: “scoprimmo e segnalammo anche che l’esplosivo usato a Piazza Fontana veniva da uno di questi carichi”. Una notizia fondamentale. Che dovrebbe far sobbalzare perché non si tratterebbe quindi delle gelignite che sarebbe stata utilizzata dal gruppo di On per la strage secondo le testimonianze dei pentiti Digilio e Siciliano. Una notizia che dopo l’assoluzione dei tre di On e quindi anche la messa in discussione dell’ipotesi di utilizzo della sola gelignite del gruppo per la strage, cambia sostanzialmente la vicenda. Servizi segreti Usa dietro la strage? “Non ci sono le prove, ma è così”: cioè come ha sostenuto la pubblica accusa nell’ultimo processo che ha svelato il ruolo di controllo dei servizi segreti militari americani sui gruppi di On, dice l’ex responsabile dell’Ufficio ‘D’, di fatto quello che gestiva l’infiltrazione nei gruppi eversivi di destra e sinistra . Maletti, nella sua testimonianza al processo, non fa che ripetere quanto detto negli anni da Paolo Emilio Taviani, il Dc che più, oltre Moro, ha cercato di raccontare la “verità” dello Stato sulla strage. Per Taviani la Cia non c’entra nulla nella strage ma l’esplosivo venne fornito a uomini di On 72 Maletti è stato addetto militare in Grecia dal 1963 al 1967. Il 15 giugno del 1971 è nominato capo dell’ufficio ‘D’ (Affari riservati) del Sid. Nell’ottobre del 1975 è destituito e trasferito al comando di divisione dei granatieri. 52 53 da un “agente nordamericano” che proveniva dalla centrale tedesca e apparteneva al servizio segreto dell’esercito (il Cic che abbiamo più volte incontrato? NdA), che è “ struttura “assai più efficiente della Cia”. Taviani quando entra in possesso di questa informazione? Colui che indicò a Maletti il traffico di esplosivo ed armi dalla Germania è la ‘Fonte Turco’, cioè Gianni Casalini, un informatore del Sid infiltrato in On che aveva fornito al centro Cs di Padova notizie importanti sul gruppo che non erano mai state trasmesse ai magistrati, come abbiamo già visto. Casalini era fortemente turbato da quello che era successo e cercò il contatto. Fornisce riscontri, indicazioni concrete, nomi. Gianni Casalini è legato al gruppo Freda e partecipa ad alcune delle azioni che precedono la strage. Dopo la fuga in Sudafrica, dove ancora vive, nella casa romana del generale Maletti fu trovato un fascicolo dal titolo “Caso Padova” nel quale era descritto il progetto, poi divenuto realtà di “chiudere” la fonte Gianni Casalini affinché non rivelasse particolari sulla responsabilità del gruppo di On negli attentati del 1969. L’estremista aveva partecipato con Freda alla collocazione degli ordigni alla Fiera di Milano nell’aprile del 1969 e poi entrò a far parte del gruppo che attuò la campagna d’attentati ai treni nell’agosto dello stesso anno.73 “L’impressione che ho avuto – dice Maletti - è che dietro la strage ci fosse una matrice d’Oltralpe. Quando dico questo non intendo la Germania. In Germania c’erano truppe di presidio”. Per essere chiaro che il riferimento fosse agli Usa. Il generale ha aggiunto qualcosa di più indicativo e diretto nell’aula del Tribunale di Milano, il 20 marzo 2001, “D’altra parte negli Usa gruppi neonazisti ci sono anche oggi”. “Quell’esplosivo credo provenisse da una delle forze d’occupazione in Germania”. Maletti ha confermato, per conoscenza diretta, che le basi degli agenti Cia coinvolti nell’infiltrazione tra i gruppi della destra estrema erano nelle sedi della Ftase e Setaf di Verona e Vicenza. “Io so che le cose stanno così anche perché ho fatto un corso di 2 anni negli Usa. Lo so per esperienza, lo so perché sapere quelle cose era il mio mestiere”. Quell’esplosivo era quindi di tipo militare e non polvere da mina. Arrivò nascosto in alcuni Tir e consegnato nei pressi di Padova a un “esponente dell’estremismo nero di Mestre. All’autorità giudiziaria però non lo dicemmo”, ha aggiunto Maletti. Perché? Solo per coprire il gruppo di On che all’epoca, nel 1971-’72 era già stato chiamato pesantemente in causa? Già nel ‘71-’72 On chiede a Vinciguerra di far fuori Rumor . Quell’esplosivo può essere importante anche per altre ragioni contingenti, successive alla strage? L’indicazione di Maletti si lega ad altri elementi, come ad esempio il coinvolgimento di molti uomini della destra estrema nel traffico di armi ed anche alle vicende che precedono la morte del Commissario Luigi Calabresi che nelle ultime settimane della sua vita indagava proprio su un traffico di armi ed esplosivi verso Veneto e Friuli che proveniva dalla Germania e aveva come terminale i gruppi di destra che preparavano il golpe. Dunque Maletti sa dell’esplosivo sul finire del 1971. Nel 1972 gira la notizia ai “livelli più alti” ma non accade nulla. Taviani arriva nel 1973 al Viminale e scioglie On, divenuto dal 21 dicembre 1969 Movimento politico Ordine nuovo (MpOn). Calabresi è ucciso il 17 maggio del 1972. Probabilmente Taviani e Maletti condividono la stessa informazione che per loro è divenuta nel tempo una certezza personale. Tanto da sciogliere l’uno On, e da spingere l’altro – autore di gran parte dei favoreggiamenti attuati dal Sid nei confronti dei singoli componenti del gruppo di On e della cellula veneta su input politico - a “chiudere” la fonte dell’informazione e poi a fuggire in Sudafrica, dove oggi vive. La presenza tedesca è una costante anche dopo Piazza Fontana. Carlo Fumagalli, il capo del Mar, il Movimento di Azione Rivoluzionaria che si attiva già prima della strage riferì a Giorgio Zicari, giornalista del Corriere della sera dei suoi incontri in Germania. Zicari a verbale disse in proposito: “Mi indicò anche, con nomi e cognomi dei suoi accompagnatori, le date dei viaggi fatti in Germania, a Monaco, per incontrarsi con esponenti della destra bavarese di Strauss. A suo dire, in qualunque momento erano pronti a venire in Italia per compiere azioni terroristiche e portare materiale (…). In un’altra occasione mi disse che doveva incontrarsi a Roma 73 Camillo Arcuri, Colpo di Stato. Storia vera di una inchiesta censurata. Il racconto del golpe Borghese, il caso Mattei e la morte di De Mauro,Milano, Bur,2004, p.118 53 54 con un grande personaggio tedesco il quale, con la scusa di andare in vacanza a Rimini, doveva incontrarsi con esponenti del movimento di Valerio Borghese. Nel corso dell’incontro, cui lo stesso Fumagalli doveva partecipare, avrebbero elaborato un piano operativo per i mesi successivi”.74 Nessuna responsabilità per i tre, assolti dalla Cassazione, ma queste testimonianze in sede “storica” aiutano a capire il ruolo e le attività di On, così come quest’importante affermazione di Maletti75. E il generale, che era addetto militare in Grecia durante il golpe dei colonnelli nel ’67, si associa ai tanti che dallo Stato (e anche a destra) sostengono che quella bomba non doveva fare i morti. Accadde qualcosa che modificò il corso delle cose: “I morti ci furono per caso: non furono voluti o cercati”, dice il generale. In concomitanza con la strage di Piazza Fontana ci sono attentati lievi anche in Germania e a Parigi. Delle bombe erano state pre annunciate dalla Tribune de Genève in concomitanza con l’espulsione della Grecia dal Consiglio d’Europa. Tra i presidenti di quell’assemblea c’era proprio Aldo Moro. Quando gli inglesi attaccano duramente Saragat sulla stampa del loro Paese, il Pci, con Paolo Bufalini raccoglie una voce autorevole che viene da un senatore socialista a cui è stato detto che “l’attacco dell’ Observer a Saragat verrebbe proprio da Wilson (Premier inglese, NdA). Il dato sarebbe la preoccupazione di Brandt e Wilson che il Pentagono si intrometta brutalmente nella situazione italiana”. In effetti, sottolinea Aldo Giannuli, l’attacco “quasi contemporaneo viene sia da giornali inglesi (d’orientamento socialdemocratico) che da organi di stampa tedeschi (parimenti orientati in senso filo socialdemocratico). Peraltro, le accuse a Saragat trovavano orecchie molto attente nel gruppo dirigente comunista di cui cogliamo segni anche nel verbale della prima direzione dopo la strage, negli interventi di Longo che sospettava nel Presidente il punto di raccordo delle forze impegnate per una svolta autoritaria e di Tortorella che sosteneva che una parte della polizia non obbediva al Ministro dell’Interno perché aveva trovato – forse proprio nel Presidente della Repubblica – un referente alternativo”. Ma perché oltre all’Inghilterra – schierata contro la svolta militare in Italia per ragioni geopolitiche e di prestigio - la Germania era così interessata, e coinvolta, in quello che stava accadendo in Italia nel 1969? Nel 1967 i servizi segreti tedeschi varano l’operazione “Alarico”: vale a dire la calata in forze degli 007 tedeschi per controllare i contatti avviati tra socialdemocratici tedeschi e comunisti italiani cui è stato chiesto di fare, in sostanza, da intermediari con Mosca per aprire una nuova fase della politica tedesca. Si sta preparando la Ostpolitik. A guidare i servizi di Bonn è il generale Ghelen, ex nazista che temeva immensamente che Brandt riallacciasse i rapporti con Mosca mettendo in crisi la Dc tedesca. Un po’ come Moro con il Pci nel novembre del 1968. Da metà del 1967 è un via vai di uomini di Brandt a Roma e di comunisti italiani a Bonn. Il 28 novembre arriva una delegazione; l’incontro riservato avviene all’albergo Cavalieri Hilton. Per il Pci ci sono Berlinguer, Galluzzi e Segre. Si parla delle due Germanie e del rapporto Bonn-Mosca. Il 2 dicembre pranzo all’Eur, presente Luigi Longo. Brandt confida intanto a Pietro Nenni che sta gettando le basi per trattare con Mosca, tramite il Pci. Nel 1968 il giornale dell’ultrà bavarese della Cdu Franz Josef Strauss, amico di Ghelen, denuncia le trattative segrete in atto. Un deputato della Dc tedesca denuncia che Brandt ha accompagnato a Roma in febbraio il Cancelliere Kiesinger. L’incontro tra Longo e Brandt è avvenuto nella residenza di un deputato socialista. Alla fine la mediazione del Pci va a buon fine. Brandt lancia l’Ostpolitik. “Il nuovo corso della politica tedesca è nato a Roma”, racconta nelle sue memorie il Cancelliere che si gettò in ginocchio nel ghetto di Varsavia. I servizi segreti tedeschi non riescono a far fallire le trattative in corso a Roma ma s’intromettono pesantemente nelle vicende italiane con la creazione di una sorta di “partito tedesco” nel Sid. A metà del ’68 intanto Ghelen si è ritirato a vita privata avendo capito che ormai c’è poco da fare dopo il cambio di linea nella politica tedesca. E’ allora che accade qualcosa di rilevante per la nostra vicenda: Brandt decide una vasta “pulizia” nel Bnd che ha assorbito ‘l’organizzazione Ghelen’ e i 74 75 Interrogatorio di Giorgio Zicari , in Paolo Cucchiarelli- Aldo Giannuli,op. cit, p 322 “Maletti, la spia latitante. ‘La Cia dietro quelle bombe’”, La Repubblica, 4 agosto 2000 54 55 ‘disperati’ della struttura, gli emarginati cercano di rientrare nel ‘gioco’ puntando sulla creazione di uno stato permanente di agitazione in Europa, a cominciare dall’Italia e dalla Francia. E’ un gioco pesante ma si vanno a toccare assetti che resistono dall’immediato dopoguerra, interessi economici consolidati, traffici immensi (armi, soprattutto) che alimentano la politica. Le preoccupazioni per l’apertura ad Est in Germania, frontiera dell’Occidente, si sommano con i grandi timori che si hanno per l’Italia , vero e proprio “fianco molle della Nato, se la linea di Moro, omologa alle iniziative di Brandt a Bonn, si dovesse pienamente affermare a Roma. E’ una situazione incandescente. Che rischia di travolgere i due Paesi “cerniera’’ della Nato. Inoltre bisogna capire il ruolo del Pci in questa trattativa Germania Ovest-Urss. Vediamo i riscontri. Un documento dei servizi spagnoli indica Freda e Ventura, che si è rifugiato in Argentina, terminale storico degli ex nazisti, come agenti tedeschi. Guido Giannettini, la spia del Sid che teneva i collegamenti con il gruppo Ordinovista va nell’autunno del 1969 in viaggio in Germania dove visita le fabbriche dei carri armati tedeschi. L’appoggio ricercato dai ‘disperati della ex Ghelen’ passa per la Paladin, potente organizzazione neonazista e per l’Aginter Press, di fatto la legione straniera del neonazismo internazionale che ricalca moduli, operatività e obiettivi dell’Oas. L’uomo che più si spinge in avanti nell’analisi della pista tedesca in Italia (traffici di armi ed esplosivo che servono anche sia per finanziare sia per alimentare i gruppi eversivi a fini di destabilizzazione) è Luigi Calabresi. Guido Giannettini arriverà a sostenere che a uccidere (o concorrere) all’uccisione del commissario sono stati gli ex uomini dei servizi segreti tedeschi che intendevano reagire all’era Brandt come l’Oas aveva reagito all’era De Gaulle. A fine 1969 sarà l’ambasciata Usa a Roma, tramite Peter Bridges, a intavolare contatti informali con il Pci attraverso Giuseppe Boffa per cercare di avere informazioni di prima mano. Ma torniamo alla Germania. E’ un fatto che alcune delle persone chiamate in causa subito dopo la strage si rifugiano in Germania. Nel momento del suo “crollo” nel 1973, quando è lì lì per confessare, Giovanni Ventura dice a verbale di aver saputo che la strage era stata eseguita da cinque persone provenienti dai campi di addestramento della Nato della Germania occidentale. Sono ampi i contatti della destra con la Germania e con le molte strutture e organizzazioni che fanno capo a Monaco di Baviera durante gli anni della guerra fredda: lì c’è Radio Free Europa, la Lega internazionale degli anticomunisti, la “National Zeitung”, il giornale neofascista che stampa oltre 100.000 copie, le organizzazioni politiche e terroristiche degli esiliati dai Paesi socialisti (a cominciare dagli Ucraini di Jaroslaw Stetzko), c’è la Csu di Franz Josef Strauss, c’è il Bnd, il servizio segreto oltre a gran parte delle industrie delle armi pesanti. Si è parlato più volte di finanziamenti della Csu a Guido Giannettini e dei legami di tanti estremisti di destra con la Germania dell’Ovest. Le indagini condotte dagli investigatori che hanno lavorato con il Pm Salvini, così come le analisi dei periti che hanno esaminato le carte che emergevano dagli archivi legali e illegali o “dimenticati”, hanno evidenziato che se Yves Guerin Serac, che vive libero nelle Azzorre, era un ex ufficiale francese aderente all’Oas, la struttura operativa dell’Aginter Press non era niente altro che una “mutazione” genetica della ex rete Ghelen e del Bnd, il servizio segreto tedesco guidato da Ghelen. L’Aginter Press nacque dalle ceneri della organizzaione Ghelen, utilizzando come interfaccia tra le due strutture operative Robert Henry Leroy, cioè la mente politica della struttura mentre Guerin Serac ne rappresentava il vertice operativo-militare. Molti uomini della destra estrema, anche impegnati in un fecondo traffico di armi, lavoravano in Italia per la ‘rete’ tedesca. Nel 1968 a Ghelen, allontanatosi per i contrasti con i socialdemocratici tedeschi che “aprono” a Mosca e entrano nel governo, subentra il suo braccio destra Gerhard Wessel, anch’egli ex nazista. La continuità è assicurata . E’ facile identificare con l’Aginter Press e con parte della sua rete gli “sbandati” della ex rete Ghelen, spiazzati e preoccupati di perdere il controllo dei ricchi traffici di armi ed esplosivi che hanno sviluppato proprio nei Paesi oggetto dei grandi mutamenti politici in atto e cioè Francia (al centro delle attenzioni dell’Aginter già nel 1968), l’Italia del 1969 e la Germania della Ostpolitik. E 55 56 c’è un’ulteriore intreccio rilevante che spiega perché tante inchieste vennero fermate a Padova, ultima la fonte Casalini che aveva indicato la provenienza dalla Germania dell’esplosivo utilizzato per la strage di Piazza Fontana. Nel giugno del 1969 Saverio Molino, ex carabiniere, un duro che ha fatto la sua carriera nelle squadre politiche di due Questure, Trento e Padova, riceve l’ordine di perquisire l’abitazione di un noto fascista locale, Eugenio Rizzato. Una decisione maturata dopo tutta una serie di attentati in città, in gran parte messi in atto, come quello allo studio del rettore dell’Università, Opocher, dal gruppo Freda. A casa di Rizzato si trova una pistola, foto di Mussolini e un dossier con un elenco che contiene 400 indirizzi di uomini di sinistra, anche di “rango” elevato, che debbono essere colpiti, appunti operativi per un colpo di Stato, con elenchi di caserme e comandi militari da occupare. In quelle settimane in Senato Pietro Nenni aveva ripetutamente denunciato le manovre in atto per un’azione di forza e l’Italia viveva la psicosi dei colonnelli. Rizzato tace con la Questura del rapporto sul golpe e segnala il tutto all’Ufficio Affari riservati del Viminale, all’epoca guidato da Elvio Catenacci. Questa struttura operava con quella che è stata definita “la Gladio parallela”, cioè uffici distinti dalle normali questure che bypassavano i colleghi e i magistrati raccogliendo notizie in proprio. Era una vera e propria rete parallela che agiva in maniera centralizzata e autonoma dai normali uffici politici della questura. Molino fotocopiò tutto l’incartamento e lo “seppellì” nell’archivio della Questura di Padova. Nel 1973 a La Spezia si scoprono a casa di un medico della mutua, Giampaolo Porta Casucci, gli stessi piani trovati a Padova. “Questi piani vengono da Padova, me li diede un nostro capo, Rizzato”, dice Porta Casucci. Il secondo dossier è però ben più articolato. Tra l’altro contiene un elenco di 1617 personalità da eliminare al momento del “golpe”. Nell’archivio si ritrova la pratica iniziale del 1969: è sostanzialmente identica. Molino è lo stesso che ha definito “non interessanti” i nastri delle intercettazioni fatte sui telefoni di Freda e Ventura tra il 15 e il 19 aprile 1969, durante il vertice che diede il via, di fatto, alla stagione delle bombe. Nel settembre del 1969 nuova richiesta di intercettazione da parte del Procuratore Capo di Padova, Aldo Fais. La risposta fu identica, nulla. Quei nastri provavano invece che Freda stava acquistando i timer, congegni a tempo. La bomba di Piazza Fontana aveva un temporizzatore. Questi nastri, riascoltati nel 1972, divennero uno degli elementi principali dell’accusa a Freda e Ventura. Molino era lo stesso poliziotto che aveva “archiviato” la denuncia fatta dallo studente Giorgio Caniglia che aveva portato negli uffici della polizia di Padova una borsa simile a quella non esplosa e ritrovata nel pomeriggio del 12 dicembre alla Banca Commerciale di Milano. Convocata quattro giorni dopo la commessa della valigeria “Al Duomo” di Padova, questa dirà di averne vendute 4 uguali il 10 dicembre. “A comprarle è stato un giovane alto, con i capelli neri”. L’avvocato di Ventura disse chiaro e tondo che “Molino conosceva bene Freda e l’aveva anche avvertito dei controlli telefonici. E’ il mio assistito che lo sostiene e lo ha detto ai giudici”. Freda, pochi lo ricordano, ha fatto il suo esordio operativo in Alto Adige, a contatto con la vicenda del terrorismo altoatesino che tanto interessava la Germania. I piani trovati a Padova altro non erano che quelli della “Rosa dei Venti”, un nome che non può che evocare il simbolo della Nato. Tra i referenti principali di quella organizzazione c’erano gli “Elmi di acciaio”, la più agguerrita organizzazione nazista operante in Germania. Tra gli aderenti anche Nobert Burger, ex professore all’Università di Innsbruck, ben conosciuto per le sue azioni terroristiche in Alto Adige. Della stessa organizzazione faceva parte anche un ex ministro Dc, Hans Krueger. Dagli “Elmi” proviene Von Thadden, fondatore nel 1964 del partito neo nazista Npd. In Austria a fondare l’Npd è Norbert Burger. Porta Casucci è una aderente agli “Elmi d’acciaio” e spesso va a Monaco. Freda fu sospettato a lungo di essere l’autore di un attentato ad un treno che arrivava a Trento da Monaco di Baviera. Due poliziotti intervengono e portano la bomba giù dal treno. Muoiono mentre cercano d’aprirla. Nell’agosto del 1969 Livio Jaculano, un detenuto per fatti criminali, dice ai magistrati che “l’avvocato Fredda” di Padova è il mandante dell’attentato. Un verbale importante che finisce su un binario morto, è il caso di dire. A Padova tra gli uomini di Molino c’è un commissario vecchio stampo, Pasquale Juliano. Contano i fatti. E solo quelli. Nell’aprile 1969 indagando sulle bombe Juliano, grazie a balordi e confidenti, 56 57 stila un rapporto nel quale accusa in maniera circostanziata Freda e Ventura. Juliano aveva ritrovato un ordigno nella soffitta dell’abitazione di Massimiliano Fachini, consigliere missino, figlio del questore di Verona durante la repubblica di Salò. Juliano venne accusato di aver costruito le prove nei confronti di Fachini, Freda e Ventura. Il suo informatore è messo nella stessa cella con dei fascisti e ritratta tutto. Un testimone a suo favore, Alberto Muraro, è trovato morto nella tromba del condominio dove faceva il custode dopo un volo di alcuni piani di scale. Dopo la morte il corpo di Muraro era stato fotografato da un operatore dilettante. Quelle foto non combaciavano con quelle “ufficiali”. Il corpo era in posizione diversa, una scopa accanto era scomparsa. Sulla base di quelle foto e di altri elementi si ipotizzò, senza sbocco giudiziario finale, che nella morte ci fosse la presenza della cellula di On. Molino fece carriera, Juliano venne allontanato dalla polizia, sospeso dallo stipendio. “Non mi ci volle molto ad agganciare uno dei componenti della cellula neofascista. Da quel momento in poi ho scoperto praticamente tutto quello che c’era da scoprire. Erano a mia disposizione addirittura i disegni degli ordigni. Avevo già localizzato i depositi di armi, conoscevo l’organigramma di questo gruppo nei minimi dettagli. Altri venti giorni e li avrei assicurati tutti alla giustizia”. Juliano aveva una convinzione: “…di essere stato il classico granello di sabbia che ha rischiato di inceppare un meccanismo più grande di tutti i protagonisti della vicenda padovana, la cui mente probabilmente non era neppure italiana”. Il 23 luglio arriva un ispettore del Viminale che si rivolge in maniera dura a Juliano: “ Non le assicuro che lei non verrà arrestato, a meno che non si dimetta”, gli dice. Il giorno dopo è incriminato, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Dal ’69 al ’71 vive dalla suocera con la moglie e due bambini. Nel 1971 riammesso in servizio ma bloccato nel grado in cui era stato sospeso. Gli “consigliarono” di non tornare a Padova per la sua sicurezza. Ci vorranno 10 anni e 5 processi per veder riconosciuta pienamente la correttezza e la fondatezza della sua inchiesta.. “Quello che dovevo dire l’ho detto, quello che dovevo fare l’ho fatto”. Molino si è difeso affermando di aver sempre informato i suoi veri referenti, cioè gli Affari Riservati. Non solo Molino spedì tutte le carte a Milano, al Dottor Allegra, capo della “politica”, al responsabile romano, Provenza, oltre che al responsabile nazionale Catenacci. Ovverosia le stesse persone che sono state perseguite per aver tenuto nel cassetto la segnalazione delle borse acquistate a Padova il 10 di dicembre del 1969. Ventura, durante i suoi interrogatori, tanto per sbandierare le protezione di cui “doveva” godere disse una volta che il suo gruppo “era saldamente protetto da catene e Catenacci”. Cosa rendeva così pericolosa l’inchiesta di Juliano, che poi tornerà d’attualità negli sviluppi delle indagini del golpe Borghese? L’aver individuato una località dove c’era la santabarbara del gruppo, lì dove erano cassette di armi con su stampigliato scritte in inglese e la dicitura di appartenenza: Nato. Il 14 agosto l’ informatore della polizia di Padova Jaculano prende il coraggio a quattro mani e chiede di parlare al magistrato anche di questo: il mandante degli attentati ai treni all’inizio del mese è sempre “Giorgio Fredda”. Non basta ancora. “Sono venuto a conoscenza dalle stesse fonti della presenza in una località di campagna compresa tra Treviso e Vittorio Veneto (ho qualche sospetto che tale località possa individuarsi nella cittadina di Paese) di un deposito di materiale che viene utilizzato per la preparazione degli esplosivi”, dice a verbale l’informatore che ha avuto modo di contattare le stesse fonti di Juliano. L’inchiesta Salvini, e quelle successivi di Meroni e della Pradella, hanno esattamente individuato dove sorgesse quel casolare e cosa vi fosse custodito. Ecco perché Juliano andava comunque fermato. Altro aspetto che colpisce è l’intreccio con la vicenda Borghese, perché il terminale politico di tutto un mondo è proprio il “principe nero”. Porta Casucci spiegò che la preparazione delle ‘reclute’ più promettenti avveniva in Baviera. Il tutto emerge nel 1973 quando per il 7 aprile era prevista l’ennesima strage sul treno Torino-Roma. Doveva essere attribuita a Lotta Continua ma Nico Azzi si fa esplodere la bomba tra le gambe mentre la prepara nel bagno del treno in corsa. Nonostante ciò il 12 del mese ci sono i duri scontri di Milano dopo che la questura, all’ultimo momento, ha vietato il corteo. I fascisti lasciano sul terreno, oltre all’agente Marino ucciso da una bomba Scrm, anche tessere della Cgil e del Pci. Afferma Vincenzo Vinciguerra a proposito di questi incidenti che “il piano predisposto nella 57 58 primavera del 1973 per giungere alla proclamazione dello stato di emergenza era la mera, identica, testuale ripetizione di quello attuato il 12 dicembre 1969. La strage, prima, gli incidenti sanguinosi di piazza, dopo”76. Azzi è un collega di Giancarlo Rognoni, assolto definitivamente da qualsiasi accusa nel 2005. Perché l’elemento disatteso da magistratura e storici è il profondo intreccio tra il 1969 e il tentativo di Borghese del dicembre 1970 e quelli successivi: lo schema si ripete e si cerca anche per almeno altre due volte di arrivare al ‘colpo grosso’, cioè incastrare quello che già nel 1969 è il vero obiettivo operativo della strage e cioè Giangiacomo Feltrinelli e la sua rete che avrebbe potuto, nella mente degli uomini della destra arrivare fino a qualificati esponenti del Pci e uomini rilevanti della base del partito. Nel 1971 si tenta di rapirlo nella villa in un’amica in Carinzia, nel 1973 ci si prova a mettere una parte dei timer rimanenti dello stock utilizzato per la strage nel giardino di una sua villa con l’intento di precostituire un ‘colpo’ da attuare subito dopo l’ennesimo golpe. Uno schema anche questo già collaudato, anche se non realizzato, nel 1969. Maletti in una intervista a L’Espresso del 15 marzo 1981 affermò che c’erano stati in Italia almeno cinque importanti tentativi di golpe. Quello di Borghese, quello della Rosa dei Venti (1973), quello “bianco” di Sogno, quello dell’agosto 1974 e l’ultimo nel settembre del 1974 “ad opera degli ultimi eredi del golpe Borghese”. Ma il golpe del dicembre 1970 non è che la ripetizione di quello del 12 dicembre, non riuscito perché la strage ne congela gli sviluppi politici. Sergio Calore, pentito ordinovista dichiara a Salvini: “Mi fu riferito un discorso relativo al significato degli attentati del 1969 in relazione ai progetti di golpe. Mi fu detto che secondo il programma il golpe Borghese, che fu tentato nel dicembre del 1970, doveva in realtà avvenire un anno prima, e che la collocazione delle bombe, nel dicembre del 1969, aveva proprio la finalità di far accelerare questo progetto comportando nel Paese una più diffusa richiesta d’ordine e il discredito delle forze di sinistra in genera che sarebbero state additate come responsabili e corresponsabili dei fatti”. Niente di più di quanto prevedeva Guerin Serac nei suoi manuali. Nel 1965 si costituisce, in concomitanza con l’irruzione degli estremisti di destra tra gli informatori del Sifar-Sid e con il convegno sulla “Guerra rivoluzionaria” che ne rappresenta il momento dottrinario e palese, il “Comitato italiano per l’Occidente”. Dentro ci sono tutti: Msi, On, An. E’ una svolta. Va in cantina il nazionalismo. Subito dopo Avanguardia nazionale si scioglie. Borghese amico di Umberto Federico D’Amato, che lo portò in salvo, e del suo referente Usa, James Jesus Angleton, con il quale il principe trattò la sua resa alla fine della guerra, comincia a coordinare tutto il vasto mondo della destra radicale. Delle Chiaie ricostituisce, selezionando i componenti, Avanguardia Nazionale Giovanile e nel frattempo alcuni uomini sono addestrati all’uso delle armi e degli esplosivi da un ex ufficiale francese della legione straniera, aderente all’Aginter Press. Nel 1966 On non rientra nell’Msi solo perché la richiesta non è pubblica. Nel 1968 nasce il Fronte Nazionale, guidato da un Borghese che fa ancora parte dell’Msi. Nel direttivo ci sono uomini notoriamente legati ad On. Il legame tra Fn e On si interromperà solo nell’autunno del 1970 ma per una questione di soldi. Nel 1969 il rapporto tra Borghese e Rauti era strutturato, solido, profondo. Scrive Vinciguerra analizzando l’apparente disunità della destra radicale che va invece vista come una galassia se non unita almeno unitaria nella strategia politica sviluppata: “Nell’autunno del 1969, a destra esistono solo due grandi gruppi politici: una formazione parlamentare rappresentata dal Msi di Almirante, ed una formazione extraparlamentare diretta dal missino Junio Valerio Borghese, il Fronte nazionale. Il dualismo è perfetto: la struttura legale e quella clandestina”. E cosa è il Fn di Borghese? Una nota del Sid del 9 agosto 1970 lo ‘fotografa’ in maniera essenziale ma chiara. “Il Fn è stato più volte segnalato come organizzazione per attuare un colpo di Stato; ha delegati provinciali in diverse città; è collegato con Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale; è ritenuto il sodalizio più idoneo per influenzare in proprio favore le forze armate e di polizia”. Il 19 marzo 1969 si è svolta la prima manifestazione pubblica del Fronte. Il 12 aprile incontro riservato con gli armatori genovesi: Borghese annuncia la costituzione di Gruppi di salute pubblica per contrastare, “anche con l’uso delle armi, l’ascesa al potere del Pci”. L’ora X per il golpe è fissata tra giugno e settembre, in 76 Vincenzo Vinciguerra, Silenzio di tomba, manoscritto consultabile nel sito della Fondazione Luigi Cipriani 58 59 concomitanza con l’allarme Nato poi scattato in quel periodo. Ad appoggiare il progetto anche la mafia. Mauro De Mauro, che scopre la connection, pagherà con la morte questo suo scoop.77 Poco prima della strage di Piazza Fontana Luciano Liggio scappa con incredibile facilità dalla clinica romana dove è ricoverato. Ma su questo torneremo. Il 30 settembre Prospero Colonna dice, come riferisce una nota del Sid che riporta le confidenze raccolte da un ufficiale, che Borghese ha studiato un piano di “provocazione”, con una “serie di grossi attentati dinamitardi” per fare in modo che l’intervento armato di destra possa verificarsi in un clima di riprovazione generale nei confronti dei criminali ‘rossi’ e che “le vittime innocenti in certi casi sono purtroppo necessarie”. Il 23 novembre tiene un discorso a Fiesole. “Il sistema si sta demolendo da solo e presto potremo tutti intonare il de profundis. Tuttavia se occorrerà dare una piccola spinta perché il sistema crolli, noi gliela daremo. Agli industriali – tra i finanziatori, secondo Guido Giannettini, diversi armatori genovesi, il petroliere Monti, ed Eugenio Cefis dell’Eni Borghese aveva chiesto soldi per poter insorgere “con un colpo di Stato onde poter instaurare un regime nazionalista di tipo gollista”. Anni dopo durante l’inchiesta su Borghese Maurizio Degli Innocenti, responsabile del Fronte per la Toscana e contatto di Tonino La Bruna, che raccolse la documentazione per il Sid sul golpe poi data nella versione non purgata e completa al giudice Salvini e Meroni e Pradella, ha parlato di un incontro avuto a giugno del 1969 con Mario Merlino già anarchico convertito. Prese botte per i suoi incitamenti ai gruppi marxisti leninisti e si andò a rifugiare a casa di Degli Innocenti, a Pistoia. In quel caso gli parlò di bombe in arrivo e di progetti clamorosi. Il 14 dicembre Borghese è a Lucca dove propone di costruire “una forza apartitica, in grado di affiancare le forze dell’ordine e della giustizia nell’eventualità che ci siano gravi perturbamenti dell’ordine pubblico”. Forse Borghese, dopo l’annullamento della manifestazione del 14 a Roma aspettava gli eventuali scontri che la presenza operaia massiccia ai funerali delle vittime della strage impedì. Il 25 dicembre scompare Armando Calzolari, cassiere del Fronte. Lo ritroveranno a fine gennaio annegato in mezzo metro d’acqua. Mille gli elementi che collegano questa morte a Piazza Fontana ma i magistrati non si spingeranno mai ad aprire per intero questo “cassetto” della strage. Nel 1982 Paolo Aleandri, pentito ordinovista, rivela che tra i coautori del piano del golpe Borghese del 7 dicembre 1970 c’è Guido Giannettini. Tra le acquisizioni fatte dal Sid di Maletti sul golpe Borghese c’è la relazione stesa dall’allora dirigente di An Guido Paglia che fu consegnata ad Antonio La Bruna. “Per decisione di Delle Chiaie i rapporti tra i due ambienti si fecero sempre più stretti, tanto che spesso era l’Avanguardia a camuffarsi da ‘Fronte’ per svolgere azioni di una certa importanza. Borghese poté comunque contare sempre anche sulla disponibilità dell’apparato”. Avanguardia nazionale rinasce nel gennaio 1970 mentre On muore nel dicembre del 1969 per rinascere subito come Movimento Politico Ordine Nuovo. Ma il 7 novembre c’è a Viareggio una riunione importante. Nello studio dell’avvocato Giuseppe Gattai si riuniscono Adamo Degli Occhi, poi presidente della “maggioranza silenziosa” a Milano, l’ex partigiano “bianco” Carlo Fumagalli, il Presidente del Tribunale di Monza Giovanni Sabalich, il poeta Raffaele Bertoli. Degli Occhi metterà a verbale con il giudice istruttore di Brescia Giovanni Simoni, alcuni anni più tardi, che la riunione è patrocinata politicamente da Amintore Fanfani e Randolfo Pacciardi. Così nasce “Italia Unita” che non è che il cartello di “centro” del Fronte nazionale di Borghese. Il 7 novembre del 1969, mentre si sta giocando la partita tra “il cavallo di razza” e l’ambasciatore Usa a Roma si costituisce a Viareggio col patrocinio “ più o meno scoperto di Randolfo Pacciardi e di Amintore Fanfani” la “Lega Italiana Unita”. Il programma è la formazione di un fronte anticomunista unitario per la Repubblica presidenziale78. Il 9 novembre al vertice della Dc va il fanfaniano Arnaldo Forlani . Tra i presenti alla riunione di Viareggio anche il contrammiraglio in pensione Giuseppe Biagi. Un rapporto del Sid sul personaggio dice che “si è detto amico personale di Nicola Picella, della Presidenza della Repubblica e ha comunicato di aver 77 78 Camillo Arcuri, op.cit. Atti dell’inchiesta del giudice istruttore di Brescia Giovanni Simoni. 59 60 inviato a Saragat un telegramma informandolo dell’iniziativa di ‘Italia Unita’ e sollecitando un’udienza”.79 Quando nasce il Fronte nazionale di Valerio Borghese tra i tanti vi è anche Filippo De Jorio, ben introdotto negli ambienti reazionari Dc. L’avvocato è tra i più stretti consiglieri di Mariano Rumor. Ecco come rievocherà, con notazioni molto calzanti, quel periodo della sua vita quando frequentava Rumor: “A quel tempo ero deputato regionale per la Dc nel Lazio, ero consigliere politico dell’On. Rumor, allora presidente del Consiglio. Godevo della stima e della fiducia della classe dirigente del mio partito e partecipavo a riunioni del massimo livello. Possono attestarlo, fra i tanti, gli onorevoli Rumor, Piccoli e Giulio Orlando. A 37 anni, tanti ne avevo, ero in una posizione di rilevante prestigio, sia in ambienti governativi, sia nell’organizzazione del partito. Oggi si afferma che cospiravo e addirittura organizzavo un’insurrezione armata. Cospirazione e insurrezione contro chi? Contro il potere di cui facevo parte?”80 Picella, abbiamo visto, era l’uomo a cui Moro si rivolge per avere lumi sulla strage quando si trova a Parigi. Ecco divenire parzialmente palesi le due linee di cui abbiamo più volte parlato in questa inchiesta. Due linee che puntavano l’una a dilazionare gli attentati con una logica più politica e l’altra a forzare la mano ai referenti politici con una ‘disobbedienza’ che imponesse quello di cui si parlava tanto senza però che l’azione eclatante venisse mai in effetti realizzata. Uno stop ad go che qualcuno alla fine interrompe forzando la mano con una sofisticata operazione che probabilmente ha spiazzato anche alcuni degli uomini della destra coinvolti. Ma chi è che ha ‘fregato’ la cordata avversaria: il Sid o gli Affari Riservati, la cordata filo-Usa o quella degli italiani? Sono cordate e logiche che si mischiano, raccordano, spesso si sommano, si compongono e scompongono seguendo vie spesso indecifrabili. Ma che qualcuno sia andato oltre o che si sia predisposta una trappola in cui sono caduti anche esponenti della destra, magari per avviare un “ripulisti” di tipo gollista senza remora alcuna né a destra, né a sinistra, il risultato è stato lo stesso. La strage arrivò, puntuale come un temporale di pomeriggio in montagna. Saragat disse di non aver mai saputo prima delle rivelazioni ufficiali dei preparativi del golpe Borghese. Disse questo difendendosi dalle accuse reiterate da Londra di un suo ‘patronage’ politico al ‘partito americano’ anche se, come abbiamo visto il Presidente della Repubblica pensava più a un modello gollista, caro anche a una larga fetta della Dc dell’epoca, a cominciare da Fanfani, che però alla vigilia della strage si sposta a sinistra, cercando una maggiore vicinanza con Moro, così come fece del dicembre del 1977 quando appoggiò l’apertura al Pci che Moro stava attuando tra mille resistenze interne ed internazionali. Saragat seppe molto prima che arrivasse il 7 dicembre quello che bolliva in pentola. Lo seppe anche Mario Tanassi che aveva preso la poltrona che era stata del moroteo Luigi Gui, alla Difesa, proprio grazia all’intesa Moro-Saragat.. Nel maggio del 1970, quando ormai la pista nera è delineata e soprattutto lo scontro politico sulla sua gestione è emerso, Franco Freda trasferirà il proprio domicilio a Regensburg, Kaiserwilhelmstrasse 69, presso Adolf von Thadden, che è il capo del neonazista Partito Nazionaldemocratico (Npd). La presenza di certi gruppi e referenti politici dietro i gruppi autonomisti che rivendicano l’indipendenza dell’Alto Adige – una delle prime ipotesi per la bomba del 12 dicembre – è grande. Sullo sfondo la figura di Franz Josef Strauss. Taviani diede ordine ad Angelo Vicari, ad esempio, di recarsi a Monaco di Baviera per proporre all’ex colonnello delle Ss Eugen Dollman di intervenire presso Strauss per arginare il clima “particolarmente aggressivo” che si era venuto a determinare in Alto Adige. In un congresso della Csu bavarese viene approvata una risoluzione che chiede l’autodeterminazione dell’Alto Adige e l’intervento “ per obblighi umani e germanici” del governo di Bonn presso quello di Roma. Nel ‘laboratorio’ dell’Alto Adige hanno fatto il loro esordio quasi tutti i protagonisti della nostra vicenda a cominciare da Franco Freda . 79 80 ibidem Il Secolo d’Italia, 29 agosto 1975 60 61 Ancora Germania e Monaco, come dicono Maletti e Taviani. Questo è un capitolo tuttora inesplorato in rapporto a Piazza Fontana anche se i fili, come abbiamo visto, sono tanti. Tutti interessanti. Digilio tra i tanti elementi citati riporta un colloquio con uno dei tre ordinovisti scagionati da qualsiasi accusa per la strage: “Lui mi rispose che non dovevo fare critiche né morali né di tipo strategico in quanto i fatti del 12 dicembre erano la conclusione della nostra strategia e che c’era una mente organizzativa sopra la nostra che l’aveva voluta e diretta, anche da Roma”. Fin da subito dopo l’esplosione il generale Maletti sa “benissimo che la matrice era di destra”. “Chi ha portato avanti questo progetto che ha ucciso tanti italiani è italiano. E lo ha fatto, aderendo ad un progetto portato avanti da un servizio straniero per ottenere un proprio vantaggio. Di potere.”, dice “La vera responsabilità politica nella strategia della tensione è che nessuno ha mai preso delle decisioni, mai nessun uomo politico ha parlato e agito in termini politici”, accusa l’ex generale81 . Maletti dimentica però di spiegare che una delle accuse nei suoi confronti nell’ultimo processo riguarda l’ipotesi che lui, unitamente ad alcuni ufficiali Usa, dovesse sequestrare il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Un fatto che potrebbe spiegare il colloquio con Cossutta al Quirinale, di cui abbiamo parlato, quando il Pci si offre di mettere in salvo il Presidente in caso di pericolo mentre si dispiegava la trama del ‘golpe Borghese’ che si concretizzerà nella notte della Madonna del dicembre 1970. Nel novembre del 1969, il 19, giorno della presunta sollevazione di cui parla Salcioli, viene lasciato fuggire a Milano il mafioso Luciano Liggio. Andrà a coordinare i ‘picciotti’ che saranno impiegati solo l’8 dicembre 1970. In aula nel 1986 dirà di voler parlare di “affari di Stato”. Nel 1970 – dice – i politici volevano portare il Paese sull’orlo dell’irreparabile. Avevano chiesto alla mafia uomini in armi e la garanzia che Liggio desse la sua approvazione. “Gli risposero che io ci stavo e mi promisero la libertà”. Sembra quasi che Liggio parli di quest’incontro avvenuto in condizioni di sua segregazione (“la libertà”) ma all’epoca il boss era già libero, latitante. Quindi quella libertà gli è stata promessa – e probabilmente data - prima di Piazza Fontana. Gli intrecci – anche in riferimento alle coperture politiche offerte o pesantemente ricercate – che si dipanano tra le due cordate sono fili ben lunghi nella nostra storia sulla strage. Anche l’affare delle tangenti Lookheed, concluso con la condanna di due‘referenti’ come Luigi Gui (Moro) e Mario Tanassi (Saragat) rientra probabilmente in questa sorte di duello, in questo caso finito alla pari. Quando il generale Miceli si troverà in difficoltà rievocherà i suoi iniziali rapporti con Saragat. “Dopo aver assunto il comando del Sid ebbi un primo colloquio col presidente, parlammo dei problemi della sicurezza dello Stato”. Saragat reagirà con la consueta smentita affermando – in maniera curiosamente paradossale – di non aver mai conosciuto il responsabile del Sid. Eppure nel luglio 1970 saranno proprio i socialdemocratici, con la collaborazione di Miceli, a bocciare la candidatura di Giulio Andreotti alla Presidenza del Consiglio, assegnata poi a Colombo. Per farlo utilizzeranno il mancato gradimento di Miceli che non diede il Nos, cioè le garanzie di segretezza e rispetto dei patti Nato che ogni governante occidentale doveva avere obbligatoriamente. Una vendetta per il ruolo svolto da Andreotti nell’immediato dopo-strage, quando fu determinante ad impedire la svolta autoritaria? Saragat darà indiretta conferma a questa ipotesi nel 1975 in una intervista al settimanale Tempo. “Per silurare Andreotti non avevo bisogno delle sollecitudini dei servizi segreti né del generale Miceli, del resto non ancora capo del Sid, che io dichiaro di non aver mai conosciuto. Bastò la mia personale avversione”. Avversione a che? Sentimento contraccambiato da Andreotti che, in vita e in morte, ha più volte polemizzato con Miceli, ma anche con Saragat. Alla fine per capire Piazza Fontana bisogna tornare al novembre del 1968, quando gli americani, dopo un’estate drammatica segnata dalla invasione sovietica di Praga e dall’avanzare visibile delle truppe dell’Armata Rossa, valutano una dato politico che acquista una valenza rilevante in quel contesto: in Italia la somma dei voti ottenuta dai socialisti e comunisti nelle politiche di maggio 81 Tutte le citazioni sono tratte dalla intervista a La Repubblica del 4 agosto 2004 61 62 superava quelli della Dc. L’alleanza tra i due partiti avrebbe permesso, per via democratica, una politica quantomeno di differenziazione da parte dell’Italia. Lo ‘scivolar fuori’ dalla Nato dell’Italia non era più una ipotesi di scuola agli occhi di almeno alcuni analisti americani. L’attivazione dell’Aginter Press, struttura a cui faceva capo l’Oaci, Organisation Armèe contre le Communisme International, vero e proprio esercito clandestino anticomunisma, è quindi obbligata. Nel novembre 1969 un documento dell’Aginter, “La nostra attività politica”, codifica che elemento essenziale della strategia da attuare era che i comunisti dovessero essere incolpati delle violenze perpetrate e che tracce e indizi dovessero essere predisposti a questo finei. Ma il campo di battaglia dell’Aginter, oltre le colonie portoghesi, si estendeva a Germania, Francia e Belgio. Le carte dell’Aginter sono in gran parte sparite e quelle disponibili sono gravate del segreto Nato che non le rende accessibili. Quando nel 1974 il regime portoghese cadde i giornalisti italiani accorsi poterono vedere alcuni dei fascicoli tra cui quello intestato alla mafia e quello ai “sostenitori finanziari tedeschi”. E si torna verso Monaco, dove nell’ex caserma di addestramento delle Waffen SS Reinhard Ghelenii ha strutturato la sua organizzazione dopo essere stato reclutato dal Cic, lo stesso controspionaggio militare che arruolò Kalus Barbie, inviandolo in Argentina, dove oggi vive clandestino Giovanni Ventura. Quando Ghelen cade, nel 1968, non paga solo il cambio di vertice politico con l’entrata della Spd nel governo, come per tanto tempo si è scritto. Un’ inchiesta segreta e ancora oggi riservata nelle conclusioni lo costringe ad andarsene. Il Rapporto Mercker stila conclusioni sul Bnd che sono “devastanti”.iii La Spd e Brandt, non appena leggono il rapporto, non inviato a Ghelen in visone, decidono per il licenziamento mascherando il tutto con un ritiro dopo oltre 20 anni di guida dei servizi segreti tedeschi dell’ormai anziano generale. Ma la rete degli “sbandati” ha continuato ad agire, si è vendicata, ha tutelato traffici e interessi che non potevano essere troncati dall’oggi al domani? Ghelen nelle sue memorie si difende dicendo che tutto era nelle mani degli americani, sulla falsariga di quello che racconta il generale Gianadelio Maletti. E quello che non era riuscito nel 1969, venne bissato nel 1970. Scrive William Colby, ex direttore della Cia, che in quell’anno l’Agenzia “tentò un golpe militare, direttamente agli ordini del Presidente Nixon”. Il coinvolgimento del Presidente Usa fu confermato da Remo Orlandini al capitano del Sid Antonio La Bruna nelle bobine segrete dell’inchiesta sul golpe Borghese occultate per decenni ed entrate nell’inchiesta Salvini . Gli appoggi “esterni?”. “La Nato e la Germania. A livello militare, perché dei civili non ci fidiamo”, spiega. La Bruna gli chiede dei nomi. “Guardi, per l’America c’è Nixon, oltre al suo entourage”. E Maletti durante la sua lunga e importante deposizione durante l’ultimo processo su Piazza Fontana ha aggiunto un giudizio sull’ex Presidente Usa che, espresso da un uomo che sa, non può che far riflettere: “Non dimenticate che (quando c’é Piazza Fontana, NdA) era in carica il Presidente Nixon e Nixon era un uomo molto strano, un politico molto intelligente, ma anche un uomo dalle iniziative non molto ortodosse”.iv Alla pagina del 12 dicembre ’69 dei Diari di Andreotti sono riportate - ha detto il sette volte Presidente del Consiglio – molte riflessioni “sul senso di quell’attentato e sulle sue conseguenze”. Una storia che dura e che occulta ancora tanto sia per quel che riguarda la dinamica dell’ operazione e le modalità della strage, sia per la lunga scia di ricatti incrociati – politici e non - che da allora si è sviluppata. All’ultimo rimane solo il senso di sgomento per questa storia infinita, una sorta di ‘guerra’ combattuta dai due fronti prima con l’esplosivo e poi nel nascondere perché esso era stato usato, da chi e con quale scopo e quali coperture, politiche e non. Una ‘guerra’ che ha avuto i suoi morti sul campo ‘militare’ e su quelli giudiziari, politici o di semplice valutazione nel giudizio dell’opinione pubblica italiana. Norberto Bobbio ha dato una spiegazione del fatto che solo l’Italia ha avuto in Europa il fenomeno dello stragismo, cioè della politica condotta – per ricatto – con le bombe: “Tutti i misteri italiani si spiegano col fatto che nel nostro paese c’è stato il partito comunista più forte d’Europa”. E allora per provare a sciogliere questi misteri bisogna, come dice Tiresia ne “L’Antigone nelle città” fare i 62 63 nomi “…sempre più in alto, fino a nomi impronunciabili”, perché “così i vostri morti avranno sepoltura e la terra fresca della verità coprirà finalmente i loro corpi. Poi si leverà il vento e il contagio della menzogna sparirà”. Ma perché questo accada altre cose si dovranno strappare alla ‘botola’ ancora oscura del 12 dicembre 1969, venerdì, ore 16,37. Alla strage con i capelli sempre più bianchi. [email protected] 63 i Daniele Ganser, Gli eserciti segreti della Nato .Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale , Roma, Fazi Editore, 2005,p.142 ii Ghelen fece la sua fortuna passando agli Usa l’immenso archivio raccolto sull’Urss durante la costituzione degli Eserciti Esteri d’Oriente messi su dai nazisti con il compito di combattere l’Urss, una sorta di Gladio dell’Est. Ganser, op.cit.,p.225 iii Ganser, op.cit.,p.236 iv Ganser, op.cit. p.144