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Paolo Cucchiarelli
Piazza Fontana
Chi è Stato?
L’altra verità sulla madre di tutte le stragi
A cura di Vincenzo Vasile
Indice
Una missione assai speciale
Prefazione di Vincenzo Vasile
Introduzione
L’‘inutile’ inchiesta di Guido Salvini
I dubbi e le certezze dei politici sulla strage
Dove porta la ‘pista tedesca’ (mai battuta)
Una missione assai speciale
Prefazione
di Vincenzo Vasile
A quei tempi in Europa circolava un manuale, intitolato Missioni Speciali, anzi in francese:
Missions spéciales. C’era scritto: “Il terrorismo spezza la resistenza della popolazione, ottiene la sua
sottomissione, e provoca una frattura fra la popolazione e le autorità. Ci si impadronisce del potere
sulla testa delle masse tramite la creazione di un clima di ansia, di insicurezza, pericolo; il
terrorismo selettivo (…) distrugge l’apparato politico e amministrativo eliminandone i quadri; il
terrorismo indiscriminato (…) distrugge la fiducia del popolo disorganizzando le masse, onde
manipolarle in maniera più efficace”.
Aveva compilato queste parole un ex-ufficiale dei servizi segreti francesi di cui non si sa bene quale
fosse il nome anagrafico, e quale quello di battaglia, c’è chi pensa si chiamasse Yves Guillou, e chi
- più probabilmente - Ralph Guérin Serac. L’uomo era specializzato in operazioni sporche. Aveva
lavorato nell’intelligence francese in contatto con la Cia. Era passato all’Oas dopo l’indipendenza
algerina. Poi s’era trasferito in Portogallo. Qui nel 1966, tre anni prima di Piazza Fontana, aveva
fondato con i soldi dei regimi fascisti portoghese, spagnolo, greco, sudafricano, e l’aiuto
statunitense, l’Aginter press, che era una centrale dedita a tali “missioni speciali” un po’ in tutto il
mondo, attiva nelle ultime imprese neocoloniali, e specializzata in Europa soprattutto
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nell’intossicare e infiltrare movimenti di sinistra, provocandoli a compiere sotto “bandiere di
sinistra” quella progressione di atti terroristici di cui abbiamo letto schema e scopi nel manuale di
Guérin Serac. Chi aveva vent’anni in quell’epoca e si batteva, invece, al fianco dei “dannati della
terra” ripeteva spesso il malinconico motto di Frantz Fanon, ben altro scrittore francese, che
ammoniva: guai a dire che quell’età fosse la migliore della vita. Opinabile valutazione, soprattutto
allora che la gioventù di Europa stava vivendo uno dei periodi più effervescenti e insieme torbidi
della storia: grandi movimenti di lotta e spinte eversive, contrapposti gli uni alle altre, ma a volte
mischiati in uno stesso calderone, di cui non si conoscevano i cuochi-stregoni, che applicavano - per
l’appunto - le ricette del manuale sulle missioni speciali di Guillou-Guérin Serac.
Quel manuale a quei tempi noi non l’avevamo letto. C’era chi in Italia, invece, l’aveva studiato,
ricopiato pari pari, e pubblicato. Uno di essi si chiamava Clemente Graziani, ed era il fondatore del
movimento neonazista Ordine Nuovo di cui troverete ampie tracce in questo libro. Graziani aveva
scritto: “Terrorismo indiscriminato implica ovviamente la possibilità di uccidere o far uccidere
vecchi donne bambini. (…) Queste forme di intimidazione terroristica sono oggi non solo ritenute
valide ma, a volte, assolutamente necessarie”. A volte. Una di quelle volte accadde un grigio
venerdì invernale, il 12 dicembre 1969 nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Diciassette morti, un’ottantina di feriti.
L’autore di questo libro, Paolo Cucchiarelli, è uno dei giornalisti italiani che più approfonditamente
hanno studiato i colossali incartamenti giudiziari e di polizia accumulatisi su quella fase molto
nebulosa e molto tragica della nostra storia. Il titolo di un suo precedente volume, dedicato
anch’esso all’eccidio di piazza Fontana, ha una splendida connotazione generazionale: quella
avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969, così è scritto in copertina, è “la strage dai capelli bianchi”.
Ci sono stati undici - undici! - processi. La nostra definitiva canizie coincide tristemente con quella
che - dal punto di vista giudiziario - è una specie di pietra tombale della verità sulla strage. Come
leggerete, i componenti del gruppo di “Ordine nuovo”, ultimamente accusati e condannati in primo
grado per avere collocato e fatto brillare la bomba, sono stati assolti in via definitiva dalla Corte di
Cassazione.
Eppure i giudici, divisi su quasi tutto, concordano nell’indicare ancora quella matrice, fascista
dell’eccidio. E hanno svelato un lunghissimo elenco di deviazioni, depistaggi, imbrogli, bugie e
silenzi da parte degli apparati e dei responsabili governativi dell’epoca e di quelle successive.
Nella sua maniera tipica di smorzare anche l’apocalisse, Giulio Andreotti, ha detto di ricordare su
Piazza Fontana “soltanto grane”. Insomma, una fortissima seccatura. Tra le cose che il senatore a
vita non ricorda e di cui invece potrebbe menare vanto, c’è una sua meritevole rivelazione sulla
qualità di agente segreto di un certo Guido Giannettini, un giornalista neofascista, che tra l’altro
aveva scritto in quegli anni concetti molto simili a quelli di Guérin Serac, distinguendo tra le
“bombe fatte esplodere in uffici o locali pubblici nella strada negli assembramenti o nell’abbattere a
caso gente a colpi di armi da fuoco” e il terrorismo selettivo che (...) alimenta sempre più la
tensione creando un fenomeno irreversibile che tende alla guerra civile”.
Norberto Bobbio chiamava questo intruglio infernale il criptogoverno. Cioè “l’insieme delle azioni
compiute da forze politiche eversive che agiscono nell’ombra in collegamento con i servizi segreti,
con parte di essi, o per lo meno da questi non ostacolate”. E basterebbe una definizione così lucida e
icastica per spazzare via lo sproloquio negazionista di certi analisti che vorrebbero cancellare
persino la categoria interpretativa di “strategia della tensione”, che fu inaugurata proprio a partire
dalla tragedia di piazza Fontana.
Un’altra citazione è necessaria, dalla prosa apparentemente felpata e molto drammatica, lasciata nel
“carcere del popolo” da Aldo Moro. La strategia della tensione esistette, e come. Moro scrive
precisamente nel suo memoriale di una “cosiddetta strategia della tensione”, e sostiene che essa
“ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei
binari della ‘normalità’ dopo le vicende del ’68 e del cosiddetto autunno caldo (…). Fautori ne
erano in generale coloro che nella nostra storia si trovano periodicamente, e cioè ad ogni buona
occasione che si presenti, dalla parte di chi respinge le novità scomode e vorrebbe tornare all’antico
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(…). E così ora lamentavano l’insostenibilità economica dell’autunno caldo, la necessità di arretrare
nella via delle riforme e magari di dare un giro di vite anche sul terreno politico (…). E’ doveroso
alla fine rilevare che quello della strategia della tensione fu un peridoto di autentica e alta
pericolosità, con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari
fortunatamente non permise…”.
Autentica e alta pericolosità, dice Aldo Moro. Che con quel suo cosiddetta riferita alla strategia
della tensione, forse vuol alludere alla composita presenza di diverse anime e frazioni eversive,
oltranziste e moderate, movimentiste e d’apparato, che Moro aveva ben presenti anche
individualmente e personalmente nella memoria e nell’esperienza. Non c’era, insomma, un unico
regista, un Grande Vecchio, ma esistevano tanti più o meno piccoli e grandi attori di una trama
corale. Cucchiarelli racconta anche di come - secondo certi documenti provenienti dai servizi
britannici - lo stesso Moro si fosse prestato qualche anno prima a un compromesso che archiviò per
lunghi anni la pista giudiziaria nera, in cambio del ritiro della minaccia (che sarebbe venuta dal
Quirinale di Saragat) di uno spostamento a destra dell’asse politico di governo e di una fibrillazione
istituzionale.
E’ in ogni caso impressionante come in questi anni si siano accumulati negli archivi giornalistici e
giudiziari una miriade di accenni, allusioni, ammissioni, rivelazioni sul “criptogoverno” di cui
parlava Norberto Bobbio e sugli appoggi internazionali della trama che ha il suo culmine a piazza
Fontana. Allusioni e rivelazioni che provengono da parte di protagonisti e comprimari di quelle
vicende che le vissero dall’interno del sistema politico di governo. Questo libro scava con acribia e
passione dentro questa miniera archivistica, che incredibilmente - pur dopo tanti anni - ci sembra
praticamente intatta sul piano della riflessione storica e politica. Si pensi solo alle sconcertanti
parole e all’analisi, che leggerete, o alcuni di voi - riteniamo pochi - rileggeranno, dell’ex ministro
dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, che non era un giornalista “pistarolo”. La responsabilità della
strage? Di Ordine Nuovo, collegato con settori dei servizi italiani. Un colonnello del Sid depistò le
indagini a sinistra. A un altro “colonnello” gli esecutori fascisti scapparono di mano, e quello che
doveva essere un botto senza vittime divenne una strage. L’esplosivo? L’ha fornito “un agente nord
americano”. Sembra un film dietrologico, e invece ha lasciato scritta questa sceneggiatura un
importante e autorevole uomo di governo.
Secondo Cucchiarelli, nello stesso quadro di un sistema politico paralizzato dalla Guerra Fredda e
dall’esclusione del Pci dal governo, anche la sinistra avrebbe da farsi perdonare silenzi e omissioni
sulla strage e il suo contesto, e questa affermazione farà sicuramente discutere. Molto c’è ancora da
scandagliare. Un punto è certo: come ha scritto Nando Dalla Chiesa, questa vicenda è stata “il più
grandioso laboratorio di impunità giudiziaria” mai concepito nella storia repubblicana. Archiviata
disastrosamente la via giudiziaria alla verità, l’unica strada che rimanga praticabile per dar giustizia
ai diciassette morti di piazza Fontana e alle vittime del fiume di sangue che ne è successivamente
sgorgato è quella indicata da questo libro. Cioè una riflessione politica e una ricerca storica sgombre
da pregiudizi, forse ancora attuabili con l’aiuto dei pochi testimoni che rimangono e attraverso la
rilettura di archivi affastellati e lasciati lì a dormire in un disordine apparentemente casuale, come la
“lettera” del racconto di Edgar Allan Poe, formidabile archetipo letterario di misteri, trame e
depistaggi e di delitti senza colpevoli.
Decisiva sarebbe la disponibilità degli archivi americani, ancora secretati e centellinati per quel che
riguarda la “madre di tutte le stragi” italiane: la rete americana di supporto agli stragisti che era stata
intuita dal giudice Salvini è esistita davvero? Chi la componeva? Che fine hanno fatto gli agenti Usa
di cui si parla nell’inchiesta, quell’agente di cui parlava Taviani? Diciamo che si sa soltanto che
alcuni loro successori - appartenenti alla sede Cia locale - trentacinque anni più tardi hanno
sequestrato e torturato un uomo a Milano, e se ne sono tornati tranquilli a casa.
Trentacinque anni dopo, ne sappiamo qualcosa di più. Sappiamo fondamentalmente che tutto si
tiene: che non può essere un caso se, per esempio, il capo dei “corleonesi” Luciano Liggio venisse
fatto scappare proprio a Milano alla vigilia della strage. Lui stesso dirà in pubblica udienza tanti
anni dopo che “i generali” in quei mesi volevano ribaltare lo Stato, che si rivolsero anche a Cosa
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Nostra, a lui personalmente, gli promisero “libertà”, e si vanterà con linguaggio tra l’oscuro e il
plebeo di “avere salvato il culetto” alla democrazia. E che la sua latitanza dorata potesse avere
molto a che fare con le trame e con le stragi l’aveva scritto proprio sull’Unità in quegli anni inascoltato - Pio la Torre. Trentacinque anni dopo, tuttavia, all’apparenza è cambiato tutto, ma se
non si farà luce su quelle pagine del passato non è detto che non possa un giorno spuntare qualcuno
che pretenda di tornare indietro, e abbia tenuto ancora inserito il proprio segnalibro nel capitolo
dell’anno 1969, giorno 12 dicembre, ore 16,35. Anno, giorno, mese e ora, quando i capelli di molti
di noi cominciarono a imbianchire.
Piazza Fontana. Chi è Stato?
di Paolo Cucchiarelli
Introduzione
L’hanno definito, con un’enfasi emotiva che appare datata ma non eccessiva, il “giorno
dell’innocenza perduta’’: è il 12 dicembre 1969 quando a Milano una bomba semina morte tra la
gente colpevole solo di essere entrata in una banca.
E’ gente comune, semplice; per lo più contadini e fittavoli, molti commercianti di bestiame della
provincia. Sono in banca per una tratta, un bonifico, una cambiale in scadenza.
I cadaveri sono maciullati; brandelli anche consistenti di corpi saranno staccati dalle pareti della
banca tanto devastante è stata l’esplosione. I primi accorsi avranno incubi per giorni dopo la vista di
tante membra sparse sul tappeto bruciato di frammenti riarsi che circonda l’area centrale della banca
dove, sotto un gran tavolo ottagonale, è stata collocata la bomba.
Alla fine il bilancio sarà di 17 morti e circa 80 feriti1.
L’ultima vittima ci sarà molti anni dopo per le conseguenze delle ferite e delle ustioni di quel
giorno. Negli occhi di chi accorse in banca quel pomeriggio rimarrà netta l’immagine di una scena
di guerra. Contro dei civili innocenti e inermi.
Con quell’esplosione è spazzata via una certa idea della politica e dello scontro sociale. Immediata
fu la percezione che qualcosa di molto rilevante era accaduto e – caso rarissimo in un paese come
l’Italia – la consapevolezza dei contemporanei si consolidò subito con le certezze del giudizio
storico.
La strage era terribile, oltre che per l’orrore per quei morti bruciati e a brandelli, anche per il suo
significato politico.
Pur tra scontri durissimi, politici e sociali, fino al 12 dicembre 1969, il conflitto era stato
fisiologico; le regole del gioco, per quanto aspre, violente, erano state rispettate, magari violate ma
mai negate alla radice. La polizia aveva sparato su dimostranti disarmati ad Avola, il 2 dicembre
1968, e Battipaglia il 9 aprile dell’anno seguente. A Milano un agente di polizia era stato ucciso in
piazza durante lo sciopero generale il 19 novembre; il tasso di violenza delle manifestazioni
sindacali e politiche era elevato ma tutti avevano l’intima certezza che si era sempre “dentro” le
regole: quelle morti non erano state intenzionali, premeditate. Pianificate a tavolino. Ricercate come
‘prezzo’ per un obiettivo politico immediato.
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Le vittime furono: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani,
Calogero Calatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Gerolamo Papetti, Mario Pasi,
Carlo Luigi Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silva, Attilio Valè, Vittorio Mocchi.
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Nessuno prima del 12 dicembre 1969 poteva ipotizzare, mettere in conto, che ci fosse chi potesse
assumere la violenza come terreno strategico per la sua affermazione politica. Dopo Piazza Fontana
tutto questo cambiò di colpo. Fu “l’inizio di un’onda emergenziale che dura da più di una
generazione ormai, un fatto inaudito, una dimensione arcana”, come ricorda Massimo Cacciari,
allora giovane assistente di filosofia a Padova2. La strage non ebbe che ambigue controfigure dei
veri colpevoli, dei mandanti, del livello superiore di responsabilità; un elemento che un politico
della destra DC come Paolo Emilio Taviani ritenne per anni un fatto decisivo per capire quello che
è accaduto dopo. “Quell’impunità ha distrutto la fiducia nello Stato di un’intera generazione di
cittadini. Il resto è venuto di conseguenza. Quella strage non doveva essere una strage, forse fu un
errore di chi pensava di fare soltanto un botto, però ci fu. E da quel momento è stata una gara per
insabbiarla. E alla fine tutto è finito, finito in niente, a cominciare dalla verità.”3
Quello scoppio segnò la proclamazione – dicono oggi coloro che erano il 12 dicembre sulle diverse
barricate – di una vera e propria guerra, a bassa intensità militare ma ad alta valenza politica, che
segnerà almeno tutto il decennio successivo e che avrà fasi, coloriture politiche e protagonisti
diversi. Francesco Cossiga ha spiegato, con la franchezza che gli anni gli ha per fortuna regalato, i
termini di quel confronto, invisibile o ben poco percepibile all’epoca dalla maggior parte della
popolazione: “Eravamo in guerra. E non si trattava di una guerra simulata. La guerra ideologica era
in realtà una guerra civile di low intensity”4.
Colpisce che Aldo Moro, quel giorno a Parigi per il Consiglio d’Europa che aveva espulso la Grecia
dei colonnelli dal consesso, fatto non estraneo alla strage, si rivolga ai famigliari commentando:
“Siamo in guerra”. Un’espressione ancor più efficace e rilevante se si considera che Moro era
famoso per la costante logica indiretta dei suoi discorsi; per la loro fumosità e spesso
incomprensibilità. Un parlar chiaro che segna anche per l’allora ministro degli Esteri uno ‘stacco’,
un cambiamento.
E’ l’inizio del terrorismo per tanti giovani di destra e di sinistra.
Il 12 dicembre 1969, un freddo venerdì, è un giorno importante perché il destino di tante persone in
quelle ore cambia, imbocca improvvisamente una via imprevista che condurrà un’intera
generazione a ipotizzare – e in tanti a fare negli anni a seguire – la “scelta delle armi’’.
Oggi quei ragazzi del 1969 indicano tutti la stessa data come inizio di quel drammatico percorso: il
venerdì in cui alla banca dell’Agricoltura “scoppiò la guerra’’ che lo Stato, tramite i gruppi fascisti,
aveva proclamato per rispondere alle richieste e alle proposte del ’68 e che si stavano concretando
in Italia anche in campo sindacale ed economico. Quel cambiamento sociale poteva trascinare con
sé anche un mutamento del panorama politico, dei suoi equilibri, temuto e contrastato da tanti con
tutti i mezzi possibili. Ci fu allora chi, per la prima volta nella storia della giovane Repubblica,
scelse di ‘congelare’ quell’ipotesi politica innescando bombe.
Il mondo che si muove per contrastare il cambiamento mette assieme conservatori di varie
estrazioni politiche e ampi pezzi dello Stato, uniti in un intreccio perverso di silenzio e potere per
ostacolare con ogni mezzo anche il più piccolo progetto riformatore.
La bomba spezza vite ma anche progetti politici e sociali. Innesca accelerazioni altrimenti
incomprensibili.
Il fumo che esce dalla banca, quel pomeriggio, è il segnale che l’omicidio terroristico è divenuto
strumento di lotta politica. Neanche venti minuti dopo, alle 16,55, è la volta di Roma: nel passaggio
sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro, che collega la sede di via Veneto con quella di via di
San Basilio, un’altra bomba provoca 13 feriti. Alle 17,27 e 17,30 ancora due attentati; uno innanzi
all’Altare della Patria, l’altro all’entrata del Museo del Risorgimento, su un lato del monumento:
quattro i feriti. Subito scatta il depistaggio: i responsabili possono essere solo gli anarchici. Il
Prefetto di Milano, Libero Mazza, telegrafa al Presidente del Consiglio: “L’ipotesi attendibile che
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“La generazione del 12 dicembre”, l’Unità, 8 luglio 2002
“Sì, c’era un complotto contro Cossiga”, La Stampa, 10 ottobre 1991
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Paolo Barbieri - Paolo Cucchiarelli, La strage con i capelli bianchi. La sentenza per Piazza Fontana,
Roma, Editori Riuniti, p.15.
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deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi”. In poche ore sono arrestati una decina
di anarchici ma si perquisisce anche l’abitazione di Giovanni Ventura, editore di destra padovano,
legato a Franco Freda, oggi ritenuti tra i responsabili della strage ma non più imputabili perché
assolti in passato per lo stesso reato e quindi non più processabili.
Tra il gruppetto degli anarchici arrestati c’è Pietro Valpreda, 37 anni, ballerino disoccupato.
Valpreda, milanese, è appena arrivato da Roma, ed è legato al circolo del ‘Ponte della Ghisolfa’. A
Roma ha fondato il circolo “22 marzo’’, largamente infiltrato dai fascisti e da informatori della
questura. E’ identificato da un testimone, Cornelio Rolandi, come l’uomo della “borsa nera’’ che
sarebbe salito sul suo taxi per andare intorno alle 16 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Da lì
comincia il suo calvario giudiziario: per anni sarà ‘il Mostro’ della banca. Alla fine sarà assolto per
insufficienza di prove.
A Milano tra gli anarchici c’è Giuseppe Pinelli, il ferroviere che, arrestato dopo la strage, cade da
una finestra della Questura il 15 dicembre, senza un grido. I sospetti per quello che è subito bollato
come un omicidio cadono sul commissario Luigi Calabresi. Il perché di quella morte cela,
probabilmente, il mistero di Piazza Fontana. Cioè le modalità degli ultimi 100 metri della
‘operazione’ e l’identità di chi collocò la bomba che uccise.
Nel 1975 il procedimento per la morte di Pinelli si chiude con l’esclusione dell’omicidio e, per
spiegare l’accaduto, si ricorre ad una categoria unica nella storia della medicina legale: quella del
‘malore attivo’ che avrebbe spinto Pinelli a roteare sulla balaustra e lasciarsi cadere nel vuoto senza
quei movimenti istintivi propri anche di un suicida. Nel 1972 Calabresi, dopo accuse feroci e inutili
processi, è ucciso sotto casa mentre sta andando in Questura. Condannati per quell’omicidio sono
stati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani , Ovidio Bompressi e Leonardo Marino.
Una storia che prosegue ancora oggi e che nasce la sera del 12 dicembre 1969 quando il ministro
dell’Interno dell’epoca, Franco Restivo, di fatto impone al capo della Polizia, Angelo Vicari, di
seguire a tutti i costi la pista dell’estrema sinistra. Fu quindi il potere politico – diviso sul da farsi –
a tirare la vicenda da una parte e dall’altra perché dopo la strage era prevista un’escalation di
ulteriori attentati e prese di posizione da parte di politici e militari. Nel disorientamento di quelle
ore ad imporsi è la linea che punta dritto sugli anarchici, l’anello più debole della nascente sinistra
estraparlamentare.
Quello che colpisce è il significato che, a tanti anni di distanza, attribuiscono alla strage i tanti che
vissero quelle convulse ore con l’immediata coscienza che qualcosa d’irreparabile fosse accaduto;
che si fosse rotto un tacito patto che avevano sottoscritto tutti i contendenti della durissima stagione
politica della “guerra fredda’’.
“Nel Collettivo, con sede in un vecchio teatro in disuso in via Curtatone, si cantava, si faceva teatro,
si tenevano mostre di grafica. Era una continua esplosione di giocosità e invenzione. Con la strage il
clima improvvisamente cambiò”5, racconta Renato Curcio nelle sue memorie ricordando il clima
nel Collettivo politico metropolitano, la struttura politica che precede il passaggio alle Brigate
Rosse di cui è stato tra i fondatori.
Curcio il giorno della strage fu arrestato: gli puntarono un mitra addosso. Rilasciato durante la
serata, si cominciò subito a valutare, nel Collettivo, la strada da imboccare. Alla fine del mese c’è il
convegno di Chiavari dove compare, per la prima volta, l’ipotesi della lotta armata in un documento
teorico. Le Br compiranno la loro prima “azione esemplare” incendiando l’auto di un capo reparto
nel settembre 1970. Ancora prima, in gennaio Potere Operaio, nato nel novembre precedente,
aveva, nel corso del primo convegno nazionale del movimento teorizzato la “distruzione violenta
della macchina dello Stato” gettando le basi del “partito della violenza”.
Nel luglio 1969, un mese importante come vedremo, Giangiacomo Feltrinelli aveva pubblicato
l’opuscolo “Estate 1969 - La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un
colpo di Stato all’Italiana”, in cui si sanciva il “definitivo tramonto non solo del revisionismo, ma
anche dell’ipotesi che si possa compiere una rivoluzione socialista senza la critica delle armi”.
5
Renato Curcio, A viso aperto, intervista di Mario Scialoia, Mondadori, Milano, 1993, p.49
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Dopo la strage, l’editore, principale obiettivo operativo della ‘operazione’ militar-politica, si
difende con lettere ai giornali e dichiarazioni dalle critiche che in tanti gli rivolgono, anche da
sinistra, per essersi sottratto al confronto con polizia e magistratura, affermando che Piazza Fontana
“segna la fine delle illusioni e delle speranze che vanno sotto il nome di via italiana al socialismo”.
Anche per lui la scelta è netta; irrevocabile.
Feltrinelli assume l’identità d’Osvaldo Ivaldi, lo stesso nome di copertura utilizzato da Osvaldo
Pesce, il capo dei Gap resistenziali. I Gap dell’editore però non attaccano formazioni tedesche o
fasciste ma incendiano a Genova una sede dello Psu, il partito del Capo dello Stato, Giuseppe
Saragat e la sede del consolato Usa. Sono le due prime azioni della “nuova resistenza”.
Naturalmente la scelta degli obiettivi non è casuale ma indica i due pilastri di quel ‘partito
trasversale’, nazionale ed internazionale, che aveva ipotizzato per l’Italia una soluzione politica
istituzionale che l’allineasse al Portogallo, alla Spagna, alla Grecia in una sorta di “arco
mediterraneo delle dittature”. Tutti regimi fascisti o militari. L’unica eccezione, in quest’arco
mediterraneo era la Francia ma De Gaulle stava già pagando il conto della sua indipendenza con gli
attentati dell’Oas e le infiltrazioni nel maggio francese. L’Italia era ritenuta in bilico: terra di
frontiera. Fondamentale, come racconta l’ex capo della Cia William Colby.6
E’ molto difficile rendere comprensibile oggi, cercare di spiegare, quanto quell’evento, i morti, e
quello che ne conseguì per molti anni, abbiano inciso sulla storia del nostro Paese. Senza quella
strage, probabilmente, la storia dell’ultimo trentennio del secolo passato sarebbe stata molto
diversa. Non ci sarebbe stata una “scelta delle armi” così ampia da parte di tanti giovani in tempi
così rapidi; non la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che tanto influenzò tale scelta; non
l’uccisione del commissario Luigi Calabresi indicato come il responsabile principale della morte
dell'anarchico avvenuta alla Questura di Milano; non la clandestinità preventiva – fuggì pochi giorni
prima della strage dopo aver denunciato i rischi di un colpo di Stato già dal 1968 - dell’editore
“rosso” Giangiacomo Feltrinelli che cercò subito di coagulare la reazione politica alla strage
indicata ben presto come “di Stato”, diventando in poco tempo punto di riferimento obbligato della
galassia d’uomini e sigle che in pochi anni costituirà il “partito armato”; non le stesse Br che
nascono anche sull’onda di quello che la strage significò per tanti giovani che oggi hanno i capelli
bianchi. Una catena che nasce però proprio quel pomeriggio del 12 dicembre, inevitabilmente.
“Con altri, segnatamente dopo le bombe di Piazza Fontana, ritenni che la prospettiva di uno scontro
frontale con il sistema politico parlamentare e con le istituzioni statali, fosse ormai inevitabile’’, ha
ricordato ancora Renato Curcio.
Ciò perché, come sintetizzò con efficacia il sociologo Luigi Manconi in occasione del ventennale
della strage, “col dicembre del 1969 cambia tutto. La strage di Piazza Fontana introduce nel
conflitto in corso un’arma spaventosa e non prevista: non contemplata, si potrebbe dire, dagli
accordi taciti, dai ‘protocolli bellici’, tra i due avversari (il movimento studentesco e operaio, da
una parte, e gli apparati dello Stato, dall’altra)’’. Si passa dagli attentati ai simboli dello Stato
(Tribunali, Senato, Banche, Fiere, Università, ecc.) alle persone, anzi alla folla, indistinta,
indifferenziata. E’ la “guerra tra la folla’’ teorizzata e applicata dall’Oas in Francia durante la lunga
crisi algerina e poi fatta propria e sviluppata da quella sorta di “scuola madre” del nuovo terrorismo
di destra rappresentata dall’Aginter Press, che offre “moduli operativi” (l’infiltrazione a sinistra, la
manipolazione, l’intossicazione, i depistaggi) alla svolta terroristica di destra impegnata nella
battaglia contro il comunismo senza più frontiere o limiti.
Buona parte di quanto è accaduto nella storia italiana da allora è stato, in qualche modo, plasmato,
indotto, contaminato, deviato da quel 12 dicembre 1969. Quel giorno rappresenta uno “spartiacque”
reale, concreto; un punto da cui partire per capire. Se ci volge indietro quello è un muro
nell’orizzonte politico e culturale in questo Paese; ancora oggi.
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“L’Italia è stato il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni
organizzate dalla Cia si sono ispirate all’esperienza accumulata nel vostro Paese, e sono state utilizzate
anche per l’intervento in Cile”, citato in Paolo Cucchiarelli- Aldo Giannuli, Lo Stato Parallelo, Roma ,
Gamberetti, 1997, p.348
dalla
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Ecco perché è un fatto che va conosciuto, studiato, capito perché la vita di tanti uomini affonda le
radici anche in quel grigio venerdì di tanti anni fa. Vi è una riprova diretta della importanza di
quella strage che segna l’inizio della storia del terrorismo politico moderno in Italia: nessuna
inchiesta giudiziaria ha subito nel nostro Paese le pressioni, le torsioni, le intromissioni, le
deviazioni, le “cattiverie” che ha subito quella di Piazza Fontana sfociata in otto inutili processi
prima che si sviluppasse in sede giudiziaria, nel gennaio del 1986, l’inchiesta del Pm milanese
Guido Salvini, un magistrato spesso incompreso nella sua volontà di dare una risposta ad un
dramma giudiziario e politico che ha segnato alcune generazioni.
Anche quella di Guido Salvini che era stato per qualche tempo nei gruppi anarchici studenteschi
milanesi dopo la strage.
Il processo nato da quell’inchiesta, sviluppato da nuovi filoni investigativi e dal lavoro d’altri due
magistrati come Grazia Pradella e Massimo Meroni, ha fatto alla fine naufragio in sede giudiziaria.
Tante novità storiche, elementi rilevanti, analisi che spiegano quello che finora era incomprensibile,
non sono riusciti a divenire un giudizio di responsabilità penale personale. Tre persone che erano
state indicate come responsabili della strage, gli ordinovisti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e
l’esponente del gruppo milanese de “La Fenice”, Giancarlo Rognoni, sono stati condannati in primo
grado e assolti in appello. La Cassazione nel 2005 ha confermato quel giudizio che è quindi
definitivo. La strage dopo 11 giudizi nelle aule dei tribunali italiani non ha responsabili.
Sappiamo solo con certezza che lo Stato ha coperto i responsabili, ha depistato le indagini, spiato
ed intimidito i magistrati, fatto fuggire all’estero gli indagati, pagato gli informatori del Sid che
tenevano i contatti con i gruppi eversivi anche quando questi erano ricercati dalla magistratura. Un
elenco lunghissimo di deviazioni e coperture che potrebbe andare avanti ancora per molte inutili
righe.
Per molti anni la strage di Piazza Fontana è stata nell’immaginario cultural- politico italiano quasi
un sinonimo di mistero, di deviazione, di reticenza politico-istituzionale, di copertura di segreti non
confessabili. Un incrocio oscuro tra la parte visibile dello Stato e quella invisibile. Da qui i processi
inutili, le accuse infondate, le fughe dei protagonisti, l’impossibilità di arrivare ad un giudizio
compiuto in sede giudiziaria.
Quasi che lo Stato, le sue istituzioni, gli apparati non potessero o volessero saldare il conto di quella
strage con i giovani del biennio rosso ’68-’69; come se non avessero mai più potuto riallacciare un
rapporto equanime, uno “scambio eguale’’, tra i contendenti del “patto sociale’’ che, tra infinite
difficoltà, si realizzò negli anni Settanta. Qualcosa d’orribile è rimasto dietro le quinte,
probabilmente per sempre.
Ciò soprattutto per una ragione che ha cercato di spiegare Guido Viale, tra i protagonisti del
Movimento studentesco del 1969: “Non si capisce la storia della strategia della tensione le
infiltrazioni, le campagne d’ordine, l’assiduo armeggiare dei servizi segreti che, dal 1969 al 1974,
organizzano almeno una strage l’anno per attribuirne la responsabilità al Movimento (e che proprio
nel ’68 si attrezzano per metterle in opera) se non si tiene presente il vero obiettivo dello Stato: che
non poteva essere quello di battere sul campo la forza del Movimento, ma quello di minarne la
credibilità”
Era una lotta senza limiti, senza remore, senza regole.
La ricerca dei responsabili di questa strage ha subito negli anni traversie incredibili: durante le
inchieste, i processi, c’è sempre stata qualche autorità giudiziaria che, al momento opportuno ha
interrotto, frenato, rimandato il corso della giustizia. Poi, improvvisamente, lo ha accelerato. A
giudizi severi di primo grado nei processi, sono subentrati giudizi di secondo grado accomodanti
che non hanno avuto nessuna voglia di approfondire quello che andava chiarito perché i nomi –
questo è l’assurdo, il tragico, il grottesco della vicenda – sono sempre quelli, dal 1969 in poi.
Sempre lo stesso il metodo per salvarsi, per non spiegare il perché di questa strage: la reticenza,
l’elusione, il silenzio, la rimozione. Far finta di non capire, non vedere, non sapere.
Piazza Fontana e l’omicidio di Aldo Moro, protagonista anche dei fatti del 12 dicembre, come
vedremo, rappresentano i due pilastri principali dei cosiddetti “misteri italiani” vale a dire di quel
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9
misto d’omertà, compromessi, ricatti, operazioni inconfessabili che si ‘solidificano’ in alcuni
‘segreti condivisi’ tra uomini politici, mandanti, esecutori e depistatori ed anche, probabilmente,
uomini di sinistra all’epoca incatenati alla logica di Jalta e spesso ad un senso di responsabilità che
ha origini nella ricerca di una legittimazione politica ed istituzionale propria del Pci del dopoguerra.
“E’ una storia ormai lontana, quella iniziata in quell’inverno freddissimo che seguì e in qualche
modo concluse il più caldo degli autunni. Ma appena qualcuno scava nei pressi, anche muovendo da
storie e domande apparentemente distanti, ecco che insieme alle radici vien su un terriccio
compatto, aggrovigliatissimo, dove tutto consiste, dove una pista e un nome che si credevano
smarriti riaffiorano in altre storie, magari di ieri o d’oggi”7, come nel caso della vicenda di Adriano
Sofri e della condanna per l’omicidio del commissario Calabresi, su cui si è divisa l’Italia. E anche
questa spaccatura, insanabile ancora oggi, nasce a Piazza Fontana, nelle ore immediatamente
successive alla strage.
C’è voglia di dimenticare, di lasciar stare? Di lasciare il tutto ad un giudizio storico sostanziale, già
acquisito, senza entrare in particolari, nello svolgimento della strage e dell’inghippo che lasciò sul
terreno i soli gruppi anarchici - per di più marginali all’interno del loro stesso mondo - come capro
espiatorio?
Renato Curcio ha spiegato, a suo modo, quanto certi legami e fili leghino gli uomini dello Stato e
coloro che l'hanno combattuto, ben oltre a ciò che si possa immaginare: “Perché ci sono tante storie
in questo Paese che sono taciute e non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio: come
Piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in certi modi e che per ventura della vita nessuno
più può dire come sono realmente andate, sorta di complicità tra noi e i poteri, che impediscono a
noi e ai poteri di dire cosa è veramente successo”. Ecco perché questa strage con i capelli ormai
bianchi dall’età trascorsa va ricordata e compresa fino in fondo; non può andare in archivio perché
l’oblio potrà cadere quando si sarà capito per intero chi la volle e con quali diretti o indiretti fini, chi
coprì per anni gli esecutori, favorendo l’espatrio di tanti protagonisti, quali responsabilità ha la
classe politica dell’epoca, quali furono i ruoli dei servizi italiani e stranieri coinvolti nell’operazione
politico-militare perché quella bomba ha cambiato la vita di tanti italiani che ora stanno
invecchiando senza aver ancora pienamente compreso cosa hanno vissuto in quelle settimane e
grazie a chi e in che modo la vita di tanti imboccò una certa strada, assieme alla politica e alle scelte
di un’intera classe dirigente.
Piazza Fontana è sicuramente la ‘testa del serpente’ terroristico; il crogiolo ambiguo entro cui si
temperano i terribili “anni di piombo”, una strage che, a parte i responsabili materiali, non ha
trovato le risposte politiche adeguate ad indicarci quantomeno i protagonisti della complessa partita
che fu giocata in quel dicembre del 1969. Alla fine tutto si scaricò sul ballerino anarchico Pietro
Valpreda, vittima inadeguata a ‘reggere’ la trama di un accadimento complesso che coinvolgeva
responsabilità di strutture d’intelligence italiane e straniere.
Dopo la prima sentenza, quella che condannava i tre del gruppo ordininosta veneto, l’ex ballerino
disse quel tanto che bastava per far intuire che in questa vicenda c’è ancora molto da conoscere
compiutamente.
Era un modo per alludere al “livello superiore” della vicenda, evocato anche da Pino Rauti, il leader
storico del gruppo neonazista di Ordine Nuovo, quando ripete che “alcuni giovani di destra sono
stati utilizzati come pedine. Ma loro giocavano a dama, gli altri a scacchi, perché erano dei
professionisti. Li utilizzarono nella strategia degli opposti estremismi, per consolidare il regime”8.
Ora tutti i quesiti inevasi di 11 giudizi rimangono aperti: chi e secondo quali modalità operative
collocò la bomba nella Banca dell’Agricoltura; chi era in effetti l’uomo che salì sul taxi di Cornelio
Rolandi con una borsa nera facendosi lasciare davanti alla Banca poco prima dell’esplosione per
poi tornare senza la borsa a bordo dell’auto? Un sosia di Valpreda, dice l’inchiesta condotta a
Milano dal giudice Guido Salvini e che ha portato all’ultimo processo concluso nel 2005. Ci sono le
dichiarazioni, dirette ed indirette, di cinque neofascisti importanti. Un sosia che potrebbe avere un
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Michelangelo Notarianni, “Una storia che non si può dimenticare”, Il Manifesto, 11 dicembre 1997
“Rauti l’irridicibile non ci sta. ‘Chi va a piazzale Loreto?’”, La Repubblica, 12 dicembre 1993
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nome e un cognome e cioè Nino Sottosanti, l’uomo che pranzò con Pino Pinelli quel 12 dicembre
chiedendogli insistentemente di venire in centro. Ancora una volta i magistrati non gliel’hanno fatta
a penetrare nel mistero degli ultimi 100 metri e cioè chi abbia collocato in effetti la borsa con la
bomba assassina, come se esistesse ancora un livello indicibile e non scandagliabile che cementa il
silenzio di tutti attorno a quei metri e all’esplosione.
Il sosia e il suo ruolo nella operazione militare trova un ulteriore riscontro da quello che emerge
dall'archivio ‘dimenticato’ - più giusto sarebbe scrivere ‘occulto’ o quantomeno accantonato - di
Via Appia dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale (di fatto il ‘cuore’ del controllo politico su
polizia e, in molti casi, magistratura), rinvenuto dal consulente del giudice Salvini, Aldo Giannuli,
grazie al quale sono divenute accessibili molte carte che i magistrati non avevano mai potuto
vedere. Tra le altre quelle che indicano un ruolo operativo per Sottosanti, secondo la principale
fonte che la polizia e il Viminale avevano tra gli anarchici e cioè Enrico Rovelli, la fonte “Anna
Bolena”, successivamente importante manager musicale, ma all'epoca “orecchio” dello Stato tra gli
anarchici.
E’ da quelle carte scoperte da Giannuli che emerge anche l'attività di una vera e propria struttura
'parallela' del Viminale nelle principali questure italiane. Si trattava di squadre non ufficiali che
filtravano in partenza e in arrivo le notizie verso magistrati e che rappresentavano il terminale
politico del ministero nelle questure.
Di fatto in tutti i capoluoghi di regione, in uffici privati, erano dislocate, tra il 1950 e il 1984,
strutture miste di polizia da cui dipendevano civili, per lo più infiltrati, che operavano alla diretta
dipendenza dell'ufficio sicurezza del ministero dell'Interno e da quello che ne rappresentava il
‘cervello’ e cioè l'ufficio Affari riservati. Queste strutture periferiche “parallele” raccoglievano
notizie, infiltravano gruppi estremisti, operavano autonome indagini rispetto all'attività giudiziaria
ufficiale: tutto era inviato al “centro” dove le notizie e i dati erano vagliati e ‘corretti’, se necessario.
Successivamente i rapporti ritornavano in periferia o erano trasmessi, nella versione determinata
dagli uffici del Viminale, alla magistratura.
Fu per esempio una squadra di questa struttura parallela del Viminale (la 54), dopo l’immediata
segnalazione di Rovelli, che indicò la pista anarchica e la responsabilità di Pietro Valpreda.
Un sosia per attribuire la responsabilità a Valpreda, in particolare. Un primo ‘doppione’ di una
storia con tante realtà parallele.
Rimane però senza risposta la parte più complessa dell’operazione: cioè quale fosse il ‘gancio’ che
doveva permettere di ‘arpionare’ gli anarchici e, tramite loro, arrivare a quello che era il vero
obiettivo politico di tutta la vicenda di quel dicembre, Giangiacomo Feltrinelli. Il gruppo di Ordine
Nuovo del Veneto, secondo le carte dell’ultima inchiesta, cercherà di riprendere l’operazione non
riuscita il 12 dicembre almeno altre due volte nei mesi successivi: cercando di collocare alcuni dei
timer residui del lotto omicida in una villa dell’editore per poi farli ritrovare e ipotizzando di rapirlo
in Austria per consegnarlo, impacchettato e munito dei timer, in qualche parte oltre il confine
italiano.
Dall’archivio di Via Appia emerge anche la storia di un servizio segreto semi-clandestino, creato
nel 1948 con uomini di Salò, generali badogliani, faccendieri, imprenditori, ecc.; una struttura che
ha ucciso, controllato il traffico d’ armi, di petrolio, gestito affari e politiche economiche ‘paralelle’
e che era, non ufficialmente, alle dipendenze della Presidenza del Consiglio. E’ stato grazie
all’inchiesta Salvini che il cosiddetto “noto servizio”, questa la definizione ‘di copertura’, ha
assunto dei connotati rilevanti per capire passaggi importanti della recente storia: dalla fuga di
Herbert Kappler, alla vicenda Moro, al sequestro dell’assessore dc Ciro Cirillo con relativo
pagamento del riscatto alle Br, solo per citare alcuni dei fatti in cui certamente la struttura è
coinvolta. Il nome effettivo della struttura era “l’Anello” – congiunzione tra i vecchi servizi e quelli
che la Repubblica voleva costituire – e non è escluso che questo servizio ‘parallelo’ che ha
attraversato i sotterranei della storia d’Italia abbia avuto un ruolo anche in Piazza Fontana.
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Certamente entra nei depistaggi attuati per far ricadere le responsabilità sugli anarchici. “L’Anello”
ha uomini coinvolti nella vicenda e basi in prossimità di Piazza Fontana. Ed era specializzato in
omicidi mascherati da morte naturale e da finti incidenti stradali. Più in grande, si occupava
dell’economia parallela del petrolio, che serviva a finanziare le forze politiche più “affidabili” e
sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 “l’Anello” si dà da fare addirittura per far nascere
una nuova Dc, in grado di contrastare l’apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la breve
avventura del Nuovo Partito Popolare (Npp), che divenne poi l’oggetto principale, con riferimenti
alle forniture militari alla Libia, di un famoso dossier segreto, chiamato “Mi.Fo.Biali”, oggetto di
ricatti trasversali che coinvolsero anche il direttore di Op Mino Pecorelli e che è costato una dura
condanna al capo del reparto ‘D’ del Sid, Gianadelio Maletti. “L’Anello”, nella sua lunga storia, ha
avuto una diretta forma di dipendenza dalle istituzioni politiche, a cominciare dalla presidenza del
Consiglio.9
I) L’ ‘inutile’ inchiesta di Guido Salvini
La storia di questo complesso percorso verso una verità giudiziaria a lungo cercata ma alla fine
inutile, disattesa, in sede processuale si è snodata dal gennaio 1986 al giugno del 2001, attraverso le
due tranche dell’inchiesta del magistrato milanese Guido Salvini, condotte con il vecchio rito, e
quella sviluppata con il nuovo rito da Grazia Pradella e da Massimo.
Una storia intessuta di scontri molto duri, intuizioni, invidie, piccoli trucchi, grandi polemiche e
vere e proprie intimidazioni. Fax degli investigatori intercettati dall’ambasciata Usa, progetti
d’attentato verso gli stessi, polemiche artificiose sui giornali.
Se si tiene conto dei soli risultati documentali e di analisi raggiunti - visto il vero e proprio
‘percorso di guerra’ attraversato per giungere al deposito delle due sentenze-ordinanze - la più
rilevante novità delle inchieste condotte da Salvini sulla eversione di destra in Lombardia negli
anni della strategia del golpe (1969-1974), è quella di averle concluse dopo oltre 10 anni di lavoro,
aprendo la strada non a delle condanne penali ma certamente ad una visione più realistica,
complessa e completa di quanto avvenne in quegli anni.
Alla fine è stato assolto anche il gruppo di Ordine Nuovo accusato dai Pm di aver ‘pilotato’ il
sedicente anarchico Gianfranco Bertoli, cioè colui che attentò nel 1973 a Mariano Rumor,
Presidente del Consiglio nel dicembre del 1969, giusto un anno dopo l'uccisione del commissario
Luigi Calabresi nel corso di una cerimonia commemorativa alla questura di Milano. On rimane
l’esecutore della strage ma sono stati assolti i militanti indicati nell’inchiesta. I giudici affermano
che “è ragionevole e corrispondente ad una valutazione logica dei dati di fatto accertati” ritenere
“probabile” che la strage sia stata decisa e organizzata proprio “dal gruppo ordinovista facente capo
a Maggi”.10 Come Piazza Fontana dove la matrice di On non è stata smentita dal giudizio della
Cassazione.
Bertoli, secondo l’accusa, doveva uccidere Mariano Rumor per vendicare il mancato appoggio
politico, la non proclamazione dello stato di emergenza subito dopo il 12 dicembre, che avrebbe
innescato la svolta autoritaria e per cementare in un patto di connivenza tutta un’ala della Dc, del
Msi, del Psdi, gruppi industriali e dei servizi segreti che avevano promesso appoggi e coperture alla
operazione politico-militare. Aver ribaltato quell’iniziale condanna, ha fatto venir meno la
spiegazione logica del perché On odiasse la Dc veneta e soprattutto il suo maggior leader all’epoca,
Mariano Rumor. L’assoluzione per chi ‘manipolò’ Bertoli - sul banco c’erano Carlo Maria Maggi,
Francesco Neami e Giorgio Boffelli, del gruppo ordinovista veneto – dopo la strage del dicembre
del 1969 rende ancor più monca, assolutamente inspiegabile, tutta la questione. Né si può sostenere
che On odiasse Rumor per aver avallato la proposta di Paolo Emilio Taviani di sciogliere il gruppo
9
Sulla questione vedi in particolare l’inchiesta comparsa su Diario, “Aldo Moro e il signore dell’Anello”, di Paolo
Cucchiarelli, 29 maggio 2003,n.20.
10
“Strage Questura: giudici, assolti ma matrice fascista”, Ansa del 9 maggio 2005.
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extraparlamentare perché i primi tentativi di eliminare il Dc veneto risalgono a ben prima della
sentenza di primo grado che permise a Taviani - Rumor e Moro contrari - di decretare
l’applicazione della legge sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista (legge Scelba).
Nonostante questo doppio giudizio d’assoluzione per i componenti del gruppo ordinovista
l’inchiesta Salvini rappresenta ancora oggi una solida “costruzione” documentale e fattuale per
avere uno spaccato dall’interno della presenza dei servizi Usa in Italia in quegli anni e anche per
capire il “legame” che, in sede di attese politiche, legava On e alcuni politici.
Salvini ha scoperto un importante elemento nel corso di queste due inchieste: la presenza di una rete
informativa americana che infiltrava Ordine Nuovo e lo controllava passo passo. Una rete che si
alimentava e connetteva con gli apparati militari di sicurezza che operano attorno alle basi Nato in
Veneto. Di questa scoperta - che spiega le affermazioni di Giovanni Ventura, uno degli storici
imputati del passato che si vantava di essere stato lasciato in pace, perché ritenuto in questura un
“agente della Cia” - si è molto parlato facendo nascere due italianissime e classiche fazioni: quella
guidata dal magistrato Gerardo D'Ambrosio (pista tutta italiana), che in passato ha indagato con
Emilio Alessandrini sulla strage e sulla morte di Pinelli, e chi, come Salvini, si rimette a quello che
emerge dall'inchiesta e cioè la presenza di una struttura info-operativa americana che attraversava e
manovrava il gruppo neofascista che sceglie la via delle stragi in un contesto di interessi
internazionali ben definiti.
Dalle due ordinanze di Salvini risulta che in Italia era attivo nel dopoguerra un servizio segreto
militare americano, il Cic (Counter Intelligence Corp, lo stesso servizio con cui entrò in contatto
Licio Gelli subito dopo il conflitto), poi evoluto in altre sigle, che oltre a seguire e controllare gli
estremisti di destra tramite persone che avevano un doppio ruolo (informatori degli americani e
militanti di On) fornì loro un apporto tecnico al fine di far crescere le cellule che avrebbero dovuto
compiere gli attentati; quindi c’è qualcosa di diretto, di concreto, nel senso che non solo questo
servizio militare non informava le nostre autorità, i servizi italiani (strettamente dipendenti da
Washington) o la magistratura di quanto venivano man mano a sapere, ma lasciava fare e in più
sollecitava l’operatività della cellula con questo tipo di aiuti tecnici. Cioè armi, esplosivo,
istruttori.
Salvini è stato chiaro su questo: “La strage fu assistita, per non dire ispirata dalla Nato”. E ancora:
“La posta in gioco era la difesa degli equilibri politici esistenti in Italia e il mantenimento del nostro
paese nel campo occidentale ed atlantico, obiettivo strategico ampio e che univa un arco di forze
ben più vasto dei vari gruppi fascisti. A tale obiettivo risale la fonte di quella strategia di controllo
indiretto che è stata la ‘strategia della tensione’ e al raggiungimento della stessa (…) potevano
essere offerti, come male minore o prezzo eventuale che il paese poteva pagare, anche lutti e
sangue”
Tra le carte dell’inchiesta vi sono diversi rapporti del Ros dei carabinieri che illustrano
dettagliatamente l’attività svolta dai militari americani in contatto con diversi Ordinovisti di primo
piano tra cui quel Carlo Digilio, “armiere” della cellula veneta , che con il suo pentimento ha
spalancato la porta sulla struttura segreta di un gruppo fino a qualche anno fa ritenuto blindato e
adeguatamente tutelato in Italia e all’estero. Digilio, come anche il padre, è un agente informativo
americano e al contempo prepara, secondo l’ipotesi accusatoria poi smentita dal processo,
l’esplosivo che è in dotazione al gruppo. Ecco cosa racconta a verbale: “Quando nel 1963 il
generale Westmoreland emanò una direttiva secondo la quale il comunismo doveva essere fermato
ad ogni costo, in Italia furono formate le Legioni dei Nuclei di Difesa dello Stato e la scelta fu di
contattare ed avvicinare, per opera delle rete informativa americana, tutti gli elementi di destra che
fossero in qualche modo disponibili a questa lotta e coordinarli’’.
Analisi non distante da quella maturata da Carlo Mastelloni, il magistrato veneziano che a lungo si è
interessato di terrorismo. “I servizi di sicurezza di Ftase (la Nato) solo in caso di emergenza,
invasione, secondo i piani operativi ovviamente segreti degli Stati maggiori americani e nostri, della
III Armata, avrebbero potuto utilizzare Ordine Nuovo nel Triveneto”.
12
13
Solo che “il momento dell’emergenza è stato anticipato utilitaristicamente. In questo modo è stato
conferito a quei militanti un potere operativo che è degenerato nelle stragi”.11
Fu nella veste di tecnico delle armi e d’informatore che Digilio andò nel casolare di Paese, un
piccolo centro vicino Treviso, a controllare l’arsenale del gruppo ordinovista. Aveva ricevuto un
esplicito ordine dal suo caporete, Sergio Minetto. Dal 1967 al 1992 Digilio svolge questo doppio
incarico: ordinovista e agente Usa.
Il pentito nei verbali dell’inchiesta delinea un quadro del retroterra politico della strage del 12
dicembre; di quelli che potremmo definire “mandanti senza volto’’ giudiziario ma dal profilo
politico identificabile: a gestire l’operazione, in chiave politica, sarebbero stati i socialdemocratici
“fin dall’inizio”, una parte della Dc, il vertice e una parte del Msi. A questo progetto sarebbe stato
dato un sostanziale assenso dalla rete americana che dipendeva dalle basi americane (e Nato) del
Veneto e che “controllò’’ l’attività del gruppo di On.
Digilio ha raccontato che gli esponenti di On in Veneto, erano “delusi” per la “ritirata” di Rumor
che aveva impedito “un’immediata presa di posizione dei militari. Disse proprio ‘presa di
posizione’ e non ‘presa di potere’, nel senso che sarebbe stato un primo intervento che avrebbe dato
inizio ad un maggior controllo dei militari sulla vita del Paese, senza un vero e proprio colpo di
Stato. Ciò avrebbe comunque permesso l’uscita allo scoperto dei ‘Nuclei di difesa dello Stato’, cioè
le strutture miste militari-civili che avevano il compito di sostenere la svolta autoritaria’’. Inoltre aggiunge Digilio - un esponente del gruppo di On “in modo ironico, ma con sicurezza, mi spiegò
che l’incriminazione degli anarchici era stata studiata dai servizi segreti nel momento in cui era
stata concepita l’intera operazione”.
Anche l’altro pentito dell’inchiesta Salvini, Martino Siciliano, che partecipò a tutta una serie di
attentati che precedettero la strage per essere poi scartato nella fase finale perché giudicato
inaffidabile dai leader del gruppo, ha fornito testimonianze utili a capire chi volle la strage e
perché: “ (…) già prima dei fatti del dicembre vi erano stati contatti tra alti esponenti di On a Roma
e ambienti istituzionali, soprattutto democristiani, per giungere ad una soluzione di quel tipo in caso
di attentati gravi. Tale soluzione (il golpe istituzionale, NdA) sembrava sicura ma dopo gli attentati
del 12 dicembre l’on. Rumor aveva disatteso queste nostre attese e non si era sentito di portare
avanti questa scelta. Per questo l’on. Rumor, agli occhi degli alti dirigenti d’Ordine Nuovo, (…), era
visto come un traditore e quindi andava prima o poi punito’’.
L'inchiesta Salvini ha permesso di acquisire molte novità ma la principale – come si è scritto - è il
'controllo Usa' su On e l'opera di supporto e incoraggiamento svolto dai servizi segreti militari
americani. Sorprende che tutti i protagonisti di questa inchiesta siano citati nelle vecchie carte
processuali o addirittura nelle precedenti sentenze. Se i nomi degli indagati, oggi assolti
definitivamente, non sono una novità, inedita è stata la disponibilità che ha potuto dare chi ha
partecipato a questa battaglia politica (“ci sentivamo carabinieri senza stellette”) dopo la caduta del
Muro di Berlino, la fine della prima Repubblica e l'emergere della struttura di Gladio, vero e
proprio modulo operativo statuale della “guerra non ortodossa” che ha il suo omologo politico
segreto nella “guerra tra la folla” teorizzata e realizzata da Guerin Serac e dall' Aginter Press in
Italia tramite On e An.
Di ciò tratta dettagliatamente nei suoi libri e saggi Vincenzo Vinciguerra, il “soldato politico”, già
militante On e An, che da anni denuncia, in una solitaria battaglia, le nefandezze (“Fosse per lo
Stato e i suoi apparati, io sarei alle Bahamas. Se sono qui in carcere è perché l'ho voluto io”), le
coperture, le responsabilità e i servigi offerti da strutture ufficiali e segrete dello Stato agli
estremisti di destra indicando anche il “regista ultimo” di questa complessa macchina politicomilitare che ha segnato così duramente gli anni Sessanta e Settanta, quelli del centrosinistra e della
distensione: “L'organizzazione camuffata da Aginter Press in Portogallo e Rosa dei Venti in Italia,
quella che sparge terrore sotto la sigla Oas in Francia e che predica la distruzione del sistema come
Ordine Nuovo in Italia, non è altro che l'Organizzazione per antonomasia, è l'organizzazione Nato”.
11
“Mastelloni: bombe sfuggite di mano ai servizi”, l’Unità , 11 dicembre 1999.
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La documentazione indica che in questa realtà c’è il ruolo centrale di On, i servizi italiani e stranieri
(non solo Nato e Usa), la copertura dei politici che sapevano o intuivano, l'impossibilità per tanti,
ancora oggi, di raccontare una verità che anni fa era irriferibile. E il pensiero va al Pci che - basta
leggere L'Unità dei primi mesi del 1970 - dà la sensazione di intuire, comprendere ciò che era
accaduto a livello politico ma di non poter esplicitare, render pubblico, il perverso intreccio di
responsabilità, interessi, casualità, tornaconti, compromessi politici che - come dice Renato Curcio fa sì che né lo Stato né chi l'ha combattuto possa oggi dire come sono andate effettivamente le cose.
Questa osservazione nasce dagli elementi disponibili – e altri si potrebbero aggiungere - e non
sottende un giudizio politico ma la semplice presa d’atto che l’epoca non permetteva a nessuno
libertà di movimento; ne’ ai partiti di governo, ne’ a quelli di opposizione. E di questo si deve tener
conto per capire le dinamiche reali di quelle settimane.
La campagna contro la “bomba di Stato” vide i comunisti incerti all’inizio e poi costretti dalla
logica, anche politica, che avevano preso le cose. Significativo il giudizio di Enrico Deaglio, ex
Lotta Continua sulle ripercussioni politiche dalla strage. “Irrimediabili sono poi state le
conseguenze della bomba per la sinistra. Il Pci, un partito allora del 30 per cento dei voti, si sentì
direttamente attaccato; capì, con ogni probabilità da subito, da dove veniva la mano, ma scelse di
non dirlo. Negò pervicacemente per anni che la strage fosse ‘di Stato’ e si spaventò moltissimo
della spregiudicatezza dei ‘poteri occulti’”12.
Il Pci “sapeva molto, ma in tantissimi casi ha preferito tacere”, scrive Aldo Giannuli in un saggio
intitolato non a caso “Pci & stragi: la politica del silenzio”13.
Questo dell’atteggiamento del Pci è un capitolo complesso, frutto diretto dell’intreccio di tanti
elementi ancora da sviscerare, ma esposto al costante rischio di possibili e fin troppo superficiali
strumentalizzazioni politiche e di giudizio più o meno storico.
Ci sono fatti che non si possono eludere, pena la non comprensione di importanti ‘pieghe’ della
vicenda politiche di quegli anni. E’ un caso che il Pci seppe in anticipo dell’imminente attentato a
Rumor da parte di Bertoli ma scelse di tacere con i magistrati?14 Certamente il Pci non ha avuto
all’epoca alcuna alternativa reale perché ogni tentativo di ‘rovesciare’ il tavolo, denunciando lo
scontro, i soggetti in campo, e i loro reali obiettivi, avrebbe avuto come contropartita diretta e
immediata l’accusa di essere un partito politico non democratico, lo scontro diretto, di piazza , e la
conseguente repressione. Giusto quello che - e il Pci lo aveva ben capito- cercavano pervicacemente
i gruppi neofascisti appoggiati da una larga fetta dello Stato, dai politici, i servizi segreti e i
militari. Tutto questo ‘non detto’ ma ‘compreso’ e ‘saputo’ sui retroscena dello scontro nello Stato
incise in maniera determinante sulla scelta della politica del compromesso storico da parte del Pci
che, dopo il trauma cileno, matura proprio nell’autunno del 1973.
L'inchiesta Salvini spicca il volo dall'interno di un’indagine sull’uccisione a sprangate del giovane
missino Sergio Ramelli da parte di esponenti di Avanguardia Operaia. Salvini incrimina, tra attacchi
feroci da sinistra, stimati professionisti (alcuni sono suoi conoscenti di quando militava nei gruppi
anarchici studenteschi) poi condannati per quel terribile atto di violenza (Ramelli rimase 47 giorni
in coma con la testa letteralmente sfondata dalla Hertz 37, la chiave inglese per camion che era
un'arma 'classica' del gruppo). Tra gli altri c’è Giuseppe Ferrari Bravo, un medico al quale è
intestato un abbaino di via Bligny 42, a Milano, dove erano ammassati detonatori, caricatori e un
vero a proprio archivio che tra l'altro ricostruisce aspetti inediti della nascita milanese delle Br.
12
“La banca della memoria”, Enrico Deaglio, Diario,8 marzo 2000
Libertaria,n.1,1999
14
Ivo della Cosa, all’epoca segretario della federazione del Pci di Treviso ha messo a verbale durante l’inchiesta
condotta dal magistrato Lombardi sulla strage alla Questura di Milano di esser stato contattato dal conte Pietro
Loredan il 15 maggio del 1973 il quale l’avvisava che 2 giorni dopo ci sarebbe stato a Milano un attentato contro una
un’alta personalità dello Stato. Dalla Costa informava telefonicamente la direzione nazionale del Pci , andava nella
federazione milanese dove giungevano da Roma , con il primo aereo disponibile, Alberto Malagugini e Giancarlo
Pajetta che , ascoltato il racconto, avrebbero subito informato il capo di gabinetto del questore Gustavo Palumbo che
,interrogato, negava recisamente di aver mai avuto una tale informazione dai due parlamentari che erano nel frattempo
deceduti.
13
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L'archivio fa capo a Mario Costa, poi accusato di essere tra coloro che attaccarono Ramelli, e
raccoglie molte carte della struttura di controinformazione di Ao che faceva capo a Roberto
Rossellini. Tra i tanti, un documento di cinque pagine che raccoglie le confessioni di un terrorista
nero, presumibilmente ad un uomo dello Stato. Il fascista è Nico Azzi, responsabile della fallita
strage al treno Torino-Roma del 7 aprile 1973, decisa per distogliere l'attenzione del grande
pubblico dagli sviluppi in corso sulla responsabilità dei fascisti (Ventura e Freda) nella strage del 12
dicembre. Azzi si fece scoppiare la bomba , destinata ad avere un effetto distruttivo certamente
maggiore rispetto a quella del 1969, mentre la innescava e si preparava a lasciare una copia di
Lotta Continua e tessere di sindacati di sinistra.
Cinque giorni dopo a Milano i gruppi della destra radicale e quelli oltranzisti del Msi inscenano
una voluta gazzarra che sfocia in scontri: una bomba a mano da esercitazione sfonda il petto
all'agente Antonio Marino. A lanciarla è Vittorio Loi, figlio del pugile Duilio Loi. Con lui finirono
in carcere Maurizio Murelli e Nico Azzi. Quest'ultimo era accusato di aver fornito la bomba a mano
da esercitazione che aveva ucciso l’agente. Il 17 maggio del 1973 Gianfranco Bertoli, lancia la
bomba che nelle sue intenzione doveva colpire Mariano Rumor per vendicarsi del mancato
appoggio dato dopo Piazza Fontana alla tanto agognata svolta autoritaria.
Nel documento di via Bligny si parla dei rapporti tra ordinovisti veneti e Giancarlo Rognoni, il capo
de “La Fenice” che aveva lavorato alla Commerciale di Milano, dove il 12 dicembre fu ritrovata la
bomba inesplosa fatta poi misteriosamente saltare in aria, in serata, senza alcuna spiegazione se non
quella di voler sottrarre alle indagini un elemento fondamentale come l’esplosivo utilizzato nella
operazione. Rossellini ignora chi - simpatizzante, avvocato, giornalista o magistrato - possa avergli
passato il documento che rivela che i timer inutilizzati del lotto della strage furono trattenuti da “La
Fenice”.
E' il 1987 e Salvini riapre l'inchiesta sull’eversione nera a Milano che era nata dallo stralcio
“territoriale” del processo ad Ordine Nuovo che si era svolto a Roma. E' possibile che quella
confessione sia stata fatta ad un uomo dei servizi e che quello ritrovato sia solo una copia di un
originale fatto poi sparire, ma era in una “banca dati” della sinistra estraparlamentare. Tra l'altro si
parlava di attentati la cui responsabilità doveva ricadere sulla sinistra e di un “grave attentato a
Milano ad opera di un gruppo congiunto milanese-veneto e la commissione di un reciproco attentato
a Trieste”. Non solo. Alle riunioni per la preparazione della tentata strage sul Torino-Roma (poteva
fare centinaia di vittime) avrebbero partecipato anche uomini degli apparati dello Stato, dato che –
si legge nel documento - “il Sid in accordo con il gruppo ‘La Fenice’, organizzò l'attentato sul treno
Torino-Roma, nell'aprile del 1973 per depistare le indagini su Piazza Fontana, che avevano
imboccato la pista della destra veneta”. Tutto ruotava sempre attorno alla strage del 12 dicembre.
Salvini riprende la carte in mano e grazie al crollo dei regimi e della grave crisi che l'inchiesta di
Mani pulite apre nella realtà politica italiana molti a destra parlano. L'indagine si amplia fino a
‘identificare’ la rete dei rapporti Stato-On-“La Fenice”-Piazza Fontana tra il 1969 (anche se le
prime armi a Mestre compaiono nel 1966) e il 1973-1974. Con la prima inchiesta che si chiude
nell'aprile del 1995, emergono alcuni elementi nuovi, rivisti, aggiornati o solo parzialmente svelati a
suo tempo: i rapporti organici tra il Mar di Carlo Fumagalli, il “partigiano bianco” che animava i
gruppi milanesi verso il golpe nei primi anni Settanta, e i carabinieri e uomini dell'esercito; il
recupero di molte bobine occultate a suo tempo nella inchiesta sul golpe Borghese (8 dicembre
1970) , che rivelano il ruolo che doveva essere assegnato a Licio Gelli e cioé quello di controllare
direttamente il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat durante l'attivazione golpista del
dicembre 1970, molto più ampia e drammatica di quanto era stato fatto credere; l'emergere della
struttura dei Nuclei di Difesa dello Stato o Legioni, nuclei di militari e civili - tutti di On dipendenti dallo Stato maggiore e attivabili per operazioni di contrasto interno e comunque
propedeutiche al colpo di Stato; il traffico di armi ed esplosivo già avviato prima di Piazza Fontana
da Avanguardia Nazionale che utilizzava addestratori che provenivano dall'Aginter Press; il ruolo
dell'agenzia di Guerin Serac, svelato fin nei particolari da Vincenzo Vinciguerra che aveva lavorato
per compiere attentati finalizzati ad essere utilizzati contro le sinistre e con Digilio e Siciliano le
15
16
prime rivelazioni sul controllo stretto svolto da strutture dei servizi militari Usa sul gruppo almeno
dal 1967. Le dichiarazioni di Digilio aprono un varco che rende possibile leggere dall'interno, per la
prima volta, quale sia stata l'attività di controllo da parte degli americani sulle dinamiche eversive
negli anni Sessanta e Settanta nel nostro Paese e quanto profonda sia stata la commistione,
soprattutto in Veneto, fra mondi finora ‘letti’ e valutati come separati e cioè On, i Nuclei di Difesa
dello Stato, i servizi segreti italiani e quelli Usa, a cominciare da quelli militari.
La sentenza-ordinanza è una sorta di summa dei depistaggi, delle omissioni, delle distruzioni d’atti
e documenti che potevano indicare quale fosse la responsabilità politica ed operativa nella strage:
un “manuale delle deviazioni” che diventa un terribile libro di storia contemporanea che fa risaltare
solitarie figure di uomini capaci di fare il loro dovere - pagando spesso di persona - anche in un
contesto così politicamente inquinato, corrotto e ‘piegato’ per esigenze di Stato. Due storie
importanti tra le tante raccolte dal magistrato. Storie su cui torneremo più avanti.
Il capitano Mario Santoni è “un onesto ufficiale - scrive il magistrato nella sentenza-ordinanza - in
servizio presso il raggruppamento centri Cs di Roma”. Indagando su un traffico d’armi scoprì
l'esistenza di un certo Filippo, “elemento importante dei servizi segreti”. Gli ci volle poco per capire
che Filippo era Licio Gelli. Si spostò in Toscana per approfondire le indagini, contattò il piduista
avvocato Degli Innocenti e raccolse altre preziose informazioni sull'allora (nel 1974) sconosciuto
‘Venerabile’. Presentato il rapporto su Filippo, il capo del reparto ‘D’ Gianadelio Maletti andò su
tutte le furie, prima con il superiore di Santoni, poi con l'ufficiale dato che era stata toccata una
“persona sacra e molto utile al servizio segreto. Mi minacciò di rimandarmi al servizio territoriale”,
ricorda Santoni. Una spiegazione? Fu con l’imprimatur di Haig e Kissinger, rispettivamente vice e
capo del Consiglio nazionale di sicurezza americano, che Licio Gelli reclutò, nell’ autunno del
1969, quattrocento alti ufficiali italiani e Nato nella sua Loggia.
L'ufficiale aveva scoperto, tra l'altro, la “frequentazione di Gelli del centro Sid di Firenze e il suo
libero ingresso al Quirinale sia sotto la presidenza Gronchi, sia sotto la presidenza Saragat”. Proprio
a Gelli, nel dicembre 1970, era stato assegnato il compito di “catturare” Saragat nell'ambito del
golpe Borghese. Un modo per “vendicarsi” del mancato risultato del tentativo messo in atto il 12
dicembre del 1969?
Il maggiore Giuseppe Bottallo per tanti anni capo centro del Sid a Padova quando ha saputo da
Salvini che la sua relazione sulle rivelazioni fatte dalla ‘fonte Turco’ era scomparsa è scoppiato a
piangere. Con i suoi uomini aveva raccolto le rivelazione di Gianni Casalini – ‘fonte Turco’ per il
servizio segreto - che denunciava la responsabilità del gruppo Freda nella strage. Dal centro di
Roma era prima giunto l'ordine di “chiudere la fonte” e poi il rapporto era stato fatto sparire. Un
lavoro utilissimo distrutto con calcolo perché rivelava lo scenario che bisognava tutelare come
“scelta” di Stato. Casalini aveva partecipato tra l’altro alla serie d’ attentati sui treni dell’inizio di
agosto del 1969 che era stata organizzata da Freda e Ventura. Casalini lo ritroveremo più avanti
perché è un personaggio importante.
La conclusione del magistrato, vista la mole di riscontri, ammissioni, elementi acquisiti e vere e
proprie confessioni è obbligata: “Alla luce di quanto emerso in questa e nelle precedenti istruttorie
in materia di stragi ed eversione di destra, appare francamente inaccettabile la tesi riduttiva secondo
cui le attività definite impropriamente ‘devianti’ sarebbero riconducibili a singole ‘mele marce’
all'interno dei servizi segreti, mosse da affinità ideologiche con gli autori delle stragi e dei tentativi
di golpe ed appoggiate da qualche uomo politico rimasto quasi sempre nell'ombra. Più
probabilmente, la presenza di settori degli Apparati dello Stato nello sviluppo del terrorismo di
destra non può essere considerato ‘deviazione’, ma normale esercizio, per un lungo periodo, di una
funzione istituzionale”. E ancora: “Tutti questi eventi non avrebbero potuto ripetersi se non fossero
stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con tutta probabilità il mantenimento del
nostro Paese nel campo dell'Alleanza Atlantica”. Per questa attività era pronto anche un “esercito
segreto”, composto da militari e civili: mille uomini divisi in 36 Legioni localizzati nelle regioni
settentrionali ma anche, ad esempio, in Puglia. Un commando organizzato dallo Stato Maggiore
della Difesa. I “civili” dovevano trasportare armi: bastava avvertire i carabinieri ed esporre un
16
17
fazzoletto alla macchina in un modo convenzionale; nessuno avrebbe interrotto il trasporto. “La
finalità della struttura era certamente quella di fare un 'colpo di Stato' - racconta il legionario Enzo
Ferro che aveva inutilmente raccontato tutto ad un magistrato nel 1977 guadagnandosi solo un
paterno invito di un ufficiale dei carabinieri a non insistere - all'interno di una situazione che
prevedeva attentati dimostrativi preferibilmente senza vittime al fine di spingere la popolazione a
richiedere o ad accettare un governo forte. Ovviamente in un attentato potevano esserci delle
vittime casuali, ma questo, secondo chi dirigeva la struttura, era un prezzo che in uno scontro così
grosso per il nostro Paese si poteva pagare”.
Nell’aprile del 1995 il magistrato milanese Grazia Pradella diventava titolare del troncone di
inchiesta riguardante piazza Fontana aperta con il nuovo rito, l’unico che poteva impedire di
ritornare nella lontana sede di Catanzaro dove si era concluso l’ultimo processo. Nel luglio il
giudice iscrive nel registro degli indagati, per strage, diverse persone tra cui Zorzi e Maggi. Nel
giugno del 1997 i due Pm Pradella e Meroni, che nel frattempo ha affiancato la collega nella
difficile inchiesta, chiedono l’arresto di Maggi e di Zorzi (che vive tuttora in Giappone).
L’ordinanza di custodia del Gip Forleo sostiene che la strage della Banca dell’Agricoltura fu – e la
definizione non può che rinviare ad un feroce scontro tra due cordate intente a raggiungere lo stesso
obiettivo con strade e modalità diverse- “una strage di Stato contro lo Stato”, voluta ed appoggiata
dai servizi segreti di allora, dal Sid e dall’ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno. Lo
scopo era quello di favorire il progetto del golpe Borghese, il colpo di Stato che, progettato
inizialmente per la fine del 1969, pochi giorni cioè dopo la strage di Piazza Fontana, venne
organizzato e poi misteriosamente bloccato nella notte del 7 dicembre del 1970. Il fatto – scrive il
Gip – “si venne ad inserire in un disegno terroristico e reazionario diretto, attraverso contestuali
manovre di depistaggio, di infiltrazione e di provocazione, a riversare la responsabilità degli atti
terroristici commessi su forze rivoluzionarie, a provocare altri atti terroristici da parte di dette forze,
e quindi in ultima analisi a traumatizzare in modo sempre più grave l’opinione pubblica allo scopo
di dare avvio ad una sorta di controrivoluzione ed alla conseguente granitica instaurazione di una
forma di governo autoritario di tipo conservatore’’. Pochi mesi dopo inizia il processo che vede alla
sbarra Maggi, Zorzi (contumace), Rognoni e Stefano Tringali per il solo reato di favoreggiamento
ed anche Carlo Digilio. Nel febbraio del 1989 Salvini chiude la seconda tranche della sua inchiesta
sulla eversione di destra in Lombardia. In 480 pagine il magistrato supera lo stesso concetto di
“strage di Stato” per parlare di “sovranità limitata” da “direttive atlantiche”.
Il magistrato inserisce Piazza Fontana in un quadro internazionale che vede nell’allora presidente
del Consiglio, il defunto leader dc Mariano Rumor, “non l’organizzatore o il mandante, ma il
terminale politico della strategia stragista”. “Il Presidente del Consiglio dell'epoca e una parte della
Dc, ed anche e soprattutto il Psdi - scrive nella sentenza-ordinanza Salvini - erano visti come il
terminale che doveva concretizzare con le sue decisioni i frutti di una strategia politico-eversiva che
partendo da soggetti operativi (…) , attraverso mediazioni, probabilmente anche militari, che forse
non saranno mai note, era in grado di indirizzare le scelte ai massimi vertici istituzionali”.
I manovali del terrore pensavano ad un golpe imminente: decisiva è in questo contesto la già
ricordata adunata missina del 14 dicembre 1969 a Roma, con la “piazza di destra” che insorgendo
contro “le bombe degli anarchici” doveva fare da detonatore alla proclamazione dello “stato d’
emergenza”. Ma Rumor, atterrito dai morti e dalla prova di forza dispiegata dal Pci in occasione dei
funerali con la forte presenza operaia in piazza del Duomo, si sarebbe allineato ad un compromesso
sollecitato, tra gli altri, da Aldo Moro: bloccare il ‘golpe’ e, in cambio, dare via libera alla falsa
pista Valpreda. Proprio per questa ‘ragione di Stato’ On decise di uccidere Rumor. Ecco perché tra
le principali domande che le Br rivolgono a Moro nel “carcere del popolo” delle Br c’è proprio
quella riguardante Piazza Fontana: Moro risponde come può e come sa. Cioè con allusioni e rinvii
ai più incomprensibili.
Parlando della strage il presidente della Dc in poche righe cita per quattro volte Rumor,
accostandolo “pleonasticamente” a Gianfranco Bertoli. “Si ha la sensazione – afferma la sentenza–
17
18
ordinanza - che l’On. Moro abbia voluto inviare un messaggio criptico”. Un messaggio che va
interpretato, come vedremo.
Alla fine Salvini consegna un quadro convincente e incrociato delle ragioni del golpe e delle sue
motivazioni. Rimangono dei “buchi” rilevanti ma non più i fitti misteri del passato. La strage ha un
contesto, obiettivi, mani diverse che intervengono. Prima e dopo. Ma non basta, giustamente, per
condannare definitivamente tre esponenti del gruppo ritenuto in ogni caso il responsabile.
Ed ecco la condanna in primo grado e poi l’assoluzione in appello rispettando una “regola” aurea
della giustizia italiana quando affronta certi temi. La Cassazione conferma. “E’ la decisione di una
Corte di legittimità che ha agito secondo il diritto: ed è l’ultima parola su Piazza Fontana” ha detto
nell’aula della Cassazione il Pg Enrico Delehaye. Sarà così “a meno che non emergano altre prove,
cosa che mi pare difficile”, ha aggiunto subito dopo la sentenza, quasi a scusarsi per il valore storico
della decisione di confermare le assoluzioni, legittime certamente, del gruppo ordinovista veneto.
Perché a questo punto la domanda che circola da qualche decennio – senza risposta - torna con tutta
la sua forza: Chi è stato? E ci sono tante ragioni per scrivere: “Chi è Stato?”.
Anche l’ultimo treno giudiziario per la strage di Piazza Fontana non fermerà più. Non ci sono più
stazioni.
II) I dubbi e le certezze dei politici sulla strage
“Non aver impedito la strage di Piazza Fontana è stato il cruccio della sua vita”. Partì
all’improvviso, nel primo pomeriggio del 12 dicembre 1969 dall’aeroporto militare di Ciampino.
Era un “rautiano di ferro”, antidemocristiano e “visceralmente anticomunista”. Era una missione
sul filo dei minuti: impedire l’esplosione della bomba alla Banca dell’Agricoltura, a Milano. Una
missione che poteva avergli affidato solo qualcuno del Sid, o quantomeno di una parte del Sid, visto
che l’avvocato Matteo Fusco di Ravello, già aderente alla Rsi, era un agente del servizio segreto
militare: l’uomo che non fece in tempo ad arrivare a Milano. Desistette quando apprese della strage.
A rivelare di quell’estremo tentativo dello Stato di impedire quello che i magistrati milanesi hanno
definito “ il golpe dello Stato contro lo Stato”, adombrando in questa definizione una dura lotta
sotterranea tra più cordate impegnate nel raggiungimento di un obiettivo comune, il golpe, con
mezzi e modalità anche drammaticamente concorrenziali, è stato Paolo Emilio Taviani, tra i
fondatori di Gladio, esponente storico della destra Dc, l’uomo che mise fuori legge Ordine Nuovo,
le ‘testa’ operativa della strategia politica che precede la strage nel 1969. Un uomo che ha sempre
insistito su una tesi senza mai spiegarla fino in fondo, perché – ha sostenuto - “c’è un punto
fondamentale per capire la strage di Milano ed è che la bomba, nell’intenzione degli attentatori, non
avrebbe dovuto provocare alcun morto, avrebbe dovuto essere un atto intimidatorio come lo furono
quelli contemporanei di Roma. Se non si accetta questa interpretazione, molto resta
inintelligibile”15. Taviani aggiunge un elemento rilevante di questa lotta tra ‘fronti’ interni allo
stesso mondo dell’eversione e dei servizi segreti: Fusco doveva recare a Milano “l’ordine di
impedire attentati terroristici”. ‘Ordine’ è un termine militare che quindi deve far riflettere
sull’esistenza di una vera e propria ‘catena di comando’ che qualcuno non rispetta.
Lo Stato cercò di bloccare chi attentava allo Stato in nome di una divergenza di logiche, di strategie
politico-militari, di scelte di tempi e modi. Taviani aggiunse un elemento rilevante della strategia
post–strage messa in atto dallo Stato: “Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la
sinistra, un ufficiale del Sid, il Tenente Colonnello Del Gaudio”16. La figlia di Fusco, morto nel
1985, ha confermato quella missione disperata per impedire la strage, i morti. Quel giorno lei era a
Milano e prima di partire il padre le aveva chiesto se era proprio necessario quel viaggio,
15
Interrogatorio di Paolo Emilio Taviani, del 7 settembre 2000 da parte del Ros. Taviani disse di aver
appreso la notizia da un religioso e che questa venne confermata nel 1973, all’atto di divenire ministro
dell’Interno, dal questore Emilio Santillo e dal generale Vito Miceli
16
Ibidem
18
19
“obbligandomi poi ad andare nell’albergo ove di solito pernottava lui, che era ai limiti della mia
diaria”.17 La ragazza era a Milano per conto della trasmissione “Per voi giovani” di Renzo Arbore.
Dopo l’esplosione, degli amici di Anna legati ai gruppi anarchici, gli chiesero di andare in giro per
Milano insieme con lei perché c’erano fitti controlli e perquisizioni nell’ambiente anarchico
milanese. “Ho sempre avuto l’impressione che mio padre conoscesse alcuni esponenti
dell’estremismo di destra”.18
Negli anni Taviani ha insistito, ciclicamente, sulla sua interpretazione : “E’ il punto chiave di un
certo passaggio. C’è stata una non chiarezza e non sincerità di qualcuno in quel momento. Bisogna
capire perché la prima sentenza di Catanzaro (quella che condannava i ‘neri’ di On, NdA), che
corrisponde pienamente alle mie opinioni, è stata depistata e praticamente insabbiata. Quella
sentenza mi soddisfa pianamente; bisogna andare a fondo su quella”.
Taviani ha le idee chiare perché nell’arco degli anni e poi nelle sue memorie riconferma questa tesi
con in più lo zampino di qualche servizio segreto straniero.
Qualche anno fa in seduta segreta davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi
era stato ancora più chiaro, come ricorda l’ex senatore dei Ds Giovanni Pellegrino, che ha guidato
per due legislature l’organismo d’inchiesta. Taviani disse in quella sede la stessa cosa vale a dire
che non si “ capirà mai niente della strage se non si partirà da un presupposto: che la bomba avrebbe
dovuto scoppiare a banca chiusa. Perché non posso credere - aggiunse Taviani in quella circostanza
– che un ipotetico colonnello, ma ‘ipotetico’ lo precisò successivamente, correggendo il verbale
della seduta, abbia potuto dare l’ordine di uccidere tanti italiani”.19
Il verbale segreto di quell’ audizione offre una valutazione più ampia e complessa del ricordo di
Pellegrino. Taviani disse, prima di correggere il verbale inserendo ‘un ipotetico’ che “Non è infatti
possibile pensare che un colonnello dell’Arma dei carabinieri, persona seria e intelligente, pensi di
ammazzare 16 italiani. Evidentemente la bomba doveva scoppiare come le bombe di Roma… Il
problema è pertanto se c’è stato un depistaggio anche precedente…”. Da come si esprime, con un
giudizio diretto sulla persona, Taviani dà la netta impressione di conoscere il colonnello ; di sapere
chi fosse colui a cui ‘l’operazione’ sfuggì di mano.
Quindi a Milano, per uno dei maggiori politici italiani, c’è stata quantomeno una responsabilità del
servizio segreto militare, il Sid. Ma, aggiunse subito Taviani; “Tutto questo è indubbio, basta però
che sia chiaro il tassello iniziale… Non doveva morire nessuno, e invece è successo quello che è
successo”. E Taviani nei suoi Diari pubblicati postumi aggiunge un ulteriore frammento che
combacia perfettamente con le conclusioni dell’inchiesta milanese condotta da Guido Salvini.
“La responsabilità della strage è interamente dell’estrema destra e in particolare di Ordine Nuovo:
uomini tecnicamente seri, collegati con settori deviati dei servizi segreti”. La Cia non c’entra nulla
ma l’esplosivo è stato fornito a uomini di On da un “agente nordamericano” che proveniva dalla
centrale tedesca – indicazione rilevante e ricca di sviluppi - e apparteneva al servizio segreto
dell’esercito, struttura “assai più efficiente della Cia”. Nelle memorie Taviani allarga il suo giudizio
verso altri settori delle istituzioni: non c’è solo il solitario colonnello dell’Arma che non controlla
‘l’operazione’. C’è altro. Qualcosa in più. Taviani deduce che la bomba non doveva causare morti
dal fatto “che una volta verificato che nel crimine erano implicati alcuni uomini delle istituzioni,
non è supponibile che essi cinicamente pensassero di uccidere tanti innocenti”. A meno che gli
esecutori abbiano poi “disatteso gli ordini ricevuti”. Insomma la catena delle responsabilità si
amplia, si allunga, si struttura. E non si capisce bene dove possa finire. A questa ricostruzione
Rumor, Fanfani e Moro, dice Taviani, non vollero mai credere, almeno ufficialmente. Taviani
invece come “atto politico” appena tornato al Viminale, nel 1973, sulla base della sentenza avuta
dal Pm Occorsio e forzando la situazione nei termini giuridici, sciolse On.
Al Viminale Taviani affronta subito il ‘nodo’ Piazza Fontana. “Chiesi a bruciapelo a Santillo:
‘Secondo lei Vicari (capo della Polizia al tempo della strage, NdA) è andato in pensione credendo
17
Interrogatorio di Anna Fusco di Ravello, 12 marzo 2001 da parte del Ros
Ibidem
19
“Quel giorno gli esecutori andarono oltre il piano”, Corriere della sera , 5 maggio 2005
18
19
20
ancora che siano stati gli anarchici a portare la bomba di Piazza Fontana’? Santillo mi rispose
secco: ‘non credo’(…) Santillo mi disse di essersi convinto che la matrice della bomba di Milano
sarebbe stata un gruppo di estrema destra, emarginato dal Msi, proveniente dal Veneto. Questo
gruppo sarebbe stato protetto da uomini del Sid. Aggiunse che tali notizie erano già note alla
magistratura. Qualcosa del resto era già filtrata sui giornali’’.
Taviani quindi propose, dopo la sentenza Occorsio, che era solo di primo grado, di sciogliere
Ordine nuovo. Rumor era molto perplesso. Moro contrario perché temeva che “il provvedimento
avesse l’effetto di aggravare la tensione”. “Si può veramente immaginare che politici di primo piano
siano stati sponsorizzatori di stragi? Non ne sono capaci, non solo moralmente, ma neppure
caratterialmente. Ipotesi di tal genere sono mera fantascienza’’, spiega Taviani alludendo, in
controluce, proprio a Rumor.20
“ Che agenti della Cia si siano immischiati nella preparazione degli eventi di Piazza Fontana e
successivi è possibile, anzi sembra ormai certo: erano di principio anti-aperturisti e anticentrosinistra. Che agenti della Cia fossero tra i fornitori di materiali e fra i depistatori sembra pure
certo, che fossero organizzatori e primi autori, dubito che ne avessero la capacità. Ben diverso – e
qui Taviani apre uno squarcio su una realtà mai affrontata – il discorso per il Mossad, un servizio
perfettamente organizzato. Però il Mossad, a quanto almeno risulta a me, ha compiuto sempre
azioni mirate. Non credo che sia stato presente nè a Piazza Fontana, né nelle stragi ai treni”.
L’analisi di Taviani, a parte il colonnello dell’Arma che controlla poco e che si fa prendere in giro
da quelli di On che vanno oltre i limiti fissati per ‘l’operazione’ e l’esplosivo che arriva dalla
Germania, la si ritrova nei passi del memoriale che Moro dedica alla strategia della tensione e alla
strage durante i 55 giorni del rapimento, quando le Br vogliono sapere tutto di Piazza Fontana.
Taviani sostiene che l’invio di un uomo come Del Gaudio incaricato di depistare a sinistra
l’inchiesta sulla strage e il tentativo di Fusco di Ravello “sono indizi se non prove, di atteggiamenti
del tutto contrastanti all’interno dello stesso Sid. In alcuni settori del Sid e dell’Arma di Milano e di
Padova, vi furono deviazioni. Fu l’Arma stessa, con la sua solida struttura, ad individuarle e
correggerle”21. Due le città citate: Milano e Padova e l’Arma dei Carabinieri e il Sid. Da ricordare.
Taviani condivise, il 1 luglio del 1997, la definizione di Piazza Fontana come “madre di tutte le
stragi” affermando, in sostanza, che attorno a quella vicenda,
si mosse una composita realtà d’intelligence al fine di mettere a segno un obiettivo politico
comune ma che veniva interpretato in modi diversi e cioè il tentativo di bloccare la “strategia
dell’attenzione” al Pci varata da Aldo Moro con la “strategia della tensione” che doveva innalzare il
livello di scontro, paralizzare l’opinione pubblica, mettere il bavaglio a sinistra; spegnere, come
aveva fatto De Gaulle in Francia, l’anno ‘rivoluzionario’ dell’Italia con una serie di azioni che
miravano a ottenere una stabilizzazione politica attraverso la destabilizzazione sociale, la paura del
golpe. Ma qualcuno, insiste Taviani, andò oltre. Le due linee che si possono individuare erano in
parte concorrenziali politicamente, ma frammiste, incrociate, trasversali ai livelli operativi, e questo
fece sì che l’operazione non andasse come era stato ipotizzato. Qualcuno si sentì autorizzato a
‘forzare la mano’, accelerare i tempi, stringere i politici all’angolo buttando sul piatto della bilancia
i morti che dovevano costringere i ‘parolai’, i generali ‘cacasotto’, ad agire. Ma anche in questo
caso qualcosa non andò come doveva andare. Se quanto programmato e ricercato non accadde è
probabile che la causa non siano i morti ma il fatto che questi furono troppo pochi. Con 100 morti il
golpe più o meno ‘istituzionale’ ci sarebbe stato.
Oggi a tanti anni da quel venerdì freddo e cupo del 12 dicembre del 1969 lo Stato ha
definitivamente abdicato davanti al ruolo giocato da quel colonnello dei carabinieri, che non
essendo stato mai individuato non ha potuto dire quale fosse il suo compito; chi impartiva gli ordini
eventualmente ricevuti, chi era il suo ‘superiore’ militare o il suo referente politico-istituzionale.
20
21
Dal documento letto da Taviani in sede di audizione davanti alla Commissione Stragi, 1 luglio 1997.
Interrogatorio di Paolo Emilio Taviani , 7 settembre 2000 da parte dei Ros
20
21
Nel momento della verità umana e politica della “prigione del popolo” il Presidente della Dc Aldo
Moro scrive a lungo della strage. Il ritrovamento delle carte frutto degli interrogatori a Moro
nell’ottobre del 1990 nello stesso covo Br di via Monte Nevoso a Milano, dietro ad un pannello
occultato sotto una finestra, riserverà qualche sorpresa anche su questo tema perché quelle lettere
non furono poi così deludenti come diceva durante il processo Moro la Faranda.
Moro afferma di non aver mai creduto alla pista “rossa” per Piazza Fontana e che dietro quegli
attentati, che avevano l’obiettivo di normalizzare l’Italia del 1968, c’erano centrali straniere, così
come sostiene Taviani. “Si può presumere che paesi associati a vario titolo alla nostra politica
estera e quindi interessati ad un certo indirizzo fossero in qualche modo impegnati attraverso i
servizi d’informazione. Su significative presenze della Grecia e della Spagna fascista non può
esservi dubbio”. Per la più che felpata prosa di Moro è una vera e propria accusa: a chi associare
all’epoca Italia, Spagna e Grecia se non gli Usa?
Moro racconta come seppe della strage mentre era a Parigi (“Lo vidi invecchiare in un istante”,
scrive Agnese, la figlia che era con lui nella capitale francese) e
che si consultò con il Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Picella, “uomo molto
posato… di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali d’
informazione propri. I suoi erano i canali dello Stato.” Una notazione apparentemente senza un
senso preciso questa su Picella.
Picella dice a Moro che la “qualifica politica” della realtà coinvolta nella strage era quella di “gente
appartenente al mondo anarchico”.
“Ci si trovava di fronte ad una costruzione giudiziaria elaborata, ma che nel complesso non appariva
molto persuasiva”, nota Moro che però non ebbe “mai dubbi” e continuò a ritenere, a manifestare,
“almeno come ipotesi”, che questi e altri attentati che si andavano sgranando fossero di chiara
matrice di destra ed avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato “allo
scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di
ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere”. E di questa
sua convinzione Moro mise a parte “con reiterati interrogativi i suoi colleghi di governo” quando
era presidente della commissione Esteri della Camera e in particolare Mariano Rumor che nel
frattempo era stato fatto oggetto di un attentato da parte dell’ ‘anarchico’ Gianfranco Bertoli.
Come detto in quattro righe Moro cita Rumor quattro volte ma sempre in riferimento all’attentato
di Bertoli. Un messaggio. Salvini ha sostenuto che Moro volesse così ricordare, a chi poteva capire,
lo scontro durissimo che si giocò a ridosso e subito dopo la strage tra due schieramenti politici che
facevano capo a Moro, parte della Dc (e al Pci) e a un fronte composito che faceva riferimento a
buona parte della Dc, Psdi, Msi, ambienti militari e dei servizi segreti. In maniera schematica, data
l’eterogeneità delle forze che hanno una convergenza operativa su un obiettivo politico di tale
rilevanza potremmo parlare di ‘partito americano’, cioè di una realtà politica che interpretava in
maniera oltranzista, rigida, la collocazione occidentale dell’Italia e combatteva una battaglia a tutto
campo e con tutte le armi disponibili nei confronti dello “scivolamento” a sinistra, dell’entrata dei
comunisti nell’area di governo, del dialogo tra sinistra Dc, Psi e Pci.
Rumor non proclamò, come chiesto da Saragat e da parte della Dc, lo ‘stato di emergenza’ facendo
venir meno un passaggio fondamentale per tutti coloro che avevano scelto la strada di “andare oltre
lo stabilito” facendo esplodere la bomba quando vi erano ancora molte persone nella banca. “ Si ha
la sensazione che Moro abbia voluto inviare un messaggio criptico che imponeva lo stesso
collegamento fra i due episodi emerso nell’inchiesta”, scrive Salvini. Cioè Piazza Fontana e
l’attentato contro Rumor alla Questura di Milano.
Infatti On, come hanno abbondantemente dimostrato l’inchiesta prima ma anche i processi finiti
con le assoluzioni, intendeva colpire Rumor, anzi “spazzarlo via”, per vendicarsi della scelta fatta
nel 1969.
“Per quanto riguarda la strategia della tensione che per anni ha insanguinato l’Italia, pur senza
conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si
21
22
collocano fuori dall’Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della Dc in alcuni suoi
settori”, scrive tra l’altro Moro confermando lo schieramente in campo in quei giorni di dicembre.
“Fino a questo momento (1978, NdA) non è stato compiutamente definito a Catanzaro il ruolo
(preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci
sia non c’è dubbio”, aggiunge il Presidente della Dc nel carcere delle Br.
E subito dopo arriva un ulteriore richiamo alle responsabilità di una parte della Dc, allo scontro che
si consumò in quelle ore tra due fronti che per tutto l’anno si erano minacciati, attaccati, studiati
preparando le pedine per la battaglia che si riteneva decisiva: quella che si sarebbe giocato in
autunno. “Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti mancò alla Dc di allora e ai
suoi uomini più responsabili sia sul piano politico, sia sul piano amministrativo, un atteggiamento
talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto.
Risulta invece, mi pare soprattutto dopo la strage di Brescia, un atteggiamento di folla fortemente
critico e ostile proprio nei confronti di esponenti e personalità di questo orientamento politico,
anche se non di essi soli”. Moro sta parlando, senza nominarlo, di Amintore Fanfani, l’altro
“cavallo di razza” della Dc. L’allora Presidente del Senato fu fischiato sonoramente durante i
funerali delle vittime della strage di Brescia. E per togliere ogni equivoco Moro cita una confidenza
fattagli dal collega di partito Salvi. “ Ricordo un episodio che mi colpì molto, anche se mi lasciò
piuttosto incredulo. Uscendo dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico On. Salvi,
antifascista militante e uomo di grande rettitudine (…) mi comunicò che in ambienti giudiziari di
Brescia si parlava di connivenze ed indulgenze deprecabili della Dc e accennava al senatore Fanfani
come promotore, sia pure da lontano, della strategia della tensione. Io ebbi francamente una
reazione d’incredulità e il Salvi stesso aggiunse che la voce non era stata comprovata, né aveva
avuto seguito”. Qualche ulteriore accenno a Fanfani nelle carte riguardanti la “strategia della
tensione” c’è, e tutte sono nel segno della “incredula” indicazione che veniva dagli uffici giudiziari
di Brescia. Siamo solo e sempre nel campo della politica. Delle scelte di campo, delle indicazioni
strategiche, non certamente operative. Citiamo tre elementi. Il primo viene da Giangiacomo
Feltrinelli, l’anello di collegamento tra gli anarchici e la sinistra ufficiale, il Pci. L’uomo che doveva
fungere, se l’operazione fosse andata per il verso previsto dall’ala oltranzista, da capro espiatorio,
da regista con addentellati internazionali capaci da mettere sotto accusa tutta la rete comunista
internazionale, e ovviamente i suoi referenti italiani. Un obiettivo costruito nel tempo con un’ampia
azione di sobillazione, pressione personale, controllo diretto e indiretto. Feltrinelli si rende
irreperibile dalla sera del 6 dicembre, dopo un colloquio avuto con una serie di personaggi rilevanti
in città, tra cui uomini del Pci, che lo mettono in guardia che per lui tira una brutta aria a Milano. Da
quel momento Feltrinelli entra in una condizione di clandestinità sempre più accentuata e chiusa
nella ricerca di un impossibile sogno rivoluzionario. Sul mensile che fonda dopo la strage e che esce
nel settembre del 1970 compare un articolo senza firma che molto seccamente sostiene che la sera
della strage “sta per scattare l’ordine di arrestare 10.000 persone e uomini politici italiani (Fanfani si
vanterà nelle settimane seguenti di aver avuto un ruolo determinante nell’impedire questo vero e
proprio colpo di Stato). La sera stessa, nelle settimane e nei mesi seguenti tutto l’apparato
repressivo dello Stato è impegnato a dimostrare la tesi degli ‘attentati da sinistra’, la tesi della
colpevolezza di Valpreda e c. per coprire i veri responsabili bisognava infatti trovare dei presunti
responsabili. E si completa così l’anello fra gli ideatori, organizzatori ed esecutori degli attentati e i
complici silenziosi ma indispensabili di un’operazione politica di largo raggio; si chiude l’anello fra
le organizzazioni paramilitari di destra, i funzionari del Sid (ex Sifar) e certi ambienti della polizia e
della magistratura che seguono più da vicino le indagini sugli attentati.”22
Quando il leader di An, Stefano Delle Chiaie, arriva in Italia dopo l’arresto, più volte impedito a
servizi segreti e polizia da interventi di ‘aiuto’ o di vero e proprio blocco venuti dalla catena di
comando politica, una delle prime ‘vetrine’ che gli è offerta è l’appena costituita Commissione
monocamerale d’inchiesta sulle stragi che lavora per poche settimane prima dello scioglimento
22
“I problemi del nuovo governo”, Voce Comunista, 1 giugno 1970
22
23
delle Camere. In audizione segreta Delle Chiaie indica tra gli uomini politici più in sintonia politica
con il suo movimento proprio Fanfani.
Altro elemento che s’intreccia con il 1969 e Fanfani riguarda l’agosto, mese in cui secondo Angelo
Vicari è messo in atto uno dei più gravi tentativi di golpe mai predisposti in Italia. Un golpe di cui
sappiamo ben poco tranne che Giangiacomo Feltrinelli l’aveva pre annunciato, in giugno, con il suo
opuscoletto intitolato proprio “Estate 1969”. Il Pci lo aspettava fin da maggio quando la struttura di
sorveglianza interna fu messa in allarme da Armando Cossutta che allora la guidava. In luglio c’è la
scissione socialista: i due fronti del socialismo accentuano, per necessità e logica politica, la loro
identità. Il Psi guarda strettamente a sinistra, il Psdi cerca di scavalcare a destra la Dc e di divenire
l’alfiere di una nuova crociata anticomunista e antifrontista attaccando principalmente la sinistra
Dc. In crisi profonda è lo sbocco di un’intera fase del centrosinistra. La sconfitta del maggio ’68
alle politiche da parte dei socialisti, l’emarginazione di Moro, l’accentuarsi del distacco del Pci da
Mosca dopo l’invasione della Cecoslovacchia e il congresso del Pci del febbraio del 1969 hanno
creato tutte le condizione per uno scontro totale che è politico e ideologico. Si ipotizza che il Pci
possa sostenere, dall’esterno, giunte locali con Dc e Psi. Dopo la scissione socialista la crisi
esplode in tutta la sua virulenza. Panorama pronostica un prossimo golpe e la Dc impone un
monocolore per far decantare la situazione ed anche per risolvere i conti interni. Lo definiscono gli
stessi uomini della Dc un governo “allo sbaraglio”. Il primo di agosto L’Unità esce con il titolo a
tutta pagina: “Monito del Pci a Rumor e alla Dc a non imboccare la strada del luglio 1960”, cioè del
governo Tambroni appoggiato dall’Msi che cadde in conseguenza degli scontri di piazza di Genova.
Rumor recepisce e il due c’è un mandato esplorativo al Presidente del Senato Fanfani. Fanfani passa
la mano nuovamente a Rumor per un “governo d’attesa”. Mentre Rumor va alle Camere e illustra la
sua proposta programmatica nella notte tra l’8 e il 9 agosto esplodono bombe su otto treni. E’ il
gruppo Freda e Ventura che parte all’attacco e vuole spingere per approfittare della situazione che
appare come unica, risolutiva, assolutamente da non perdere. Quell’autunno caldo, con lo scadere di
decine e decine di contratti, che è stato evocato, esaltato e ‘costruito’ come una sorta di ‘ponte sul
nulla’, appare come una rivoluzione sociale che può seriamente mettere in difficoltà lo Stato nel suo
complesso secondo certi politici.
Al ministero del Bilancio siede Giuseppe Caron, Dc veneto, amico di Ventura tanto da fargli da
garante con le banche per i prestiti utili ad avviare la sua attività d’editore di sinistra che dialoga con
gli extraparlamentari. Moro è agli Esteri, Donat Cattin al Lavoro, Restivo agli Interni e Gui alla
Difesa. Il settimanale della sinistra Dc Politica rivela a metà agosto che gli scissionisti del Psdi
hanno imposto a Washington il siluramento dell’ambasciatore Usa a Roma Gardener Ackley
accusato di non aver creduto alla scissione socialdemocratica e di non averla adeguatamente
sostenuta. La notizia del ‘cambio’ era del 5 agosto ma Politica rivela le motivazioni dopo il governo
Rumor e le bombe sui treni. Ackley “vissuto nel nostro Paese con gli occhi aperti, sembra si fosse
convinto che i problemi italiani sono abbastanza seri e profondi perché una scissione di
socialdemocratici, superficiale, demagogica, grossolana, potesse bastare ad affrontarli e soprattutto
a tranquillizzare certi ambienti del Dipartimento di Stato. Bisogna essere semplicisti come sanno
esserlo certe volte gli americani, per credere che un pugno di socialdemocratici possano bastare a
mettere l’Italia, una volta per tutte, al riparo da quella che alcuni funzionari del Dipartimento di
Stato continuano a temere come la minaccia comunista”.23
All’inizio dell’estate Giuseppe Saragat, attraverso un suo uomo di fiducia fa sapere al numero due
dell’ambasciata americana a Roma, Wells Stabler, che gradirebbe come ambasciatore a Roma, l’ex
addetto alle questioni economiche Henry Tasca. Stabler fa capire che la casa Bianca non gradirebbe
una tale intromissione e la cosa finisce lì ma Ackley lascia Roma il 27 agosto. Il 6 settembre arriva
a Roma l’ex giornalista ed ex colonnello dell’esercito Graham A. Martin nettamente contrario al
centrosinistra, come Kissinger24. Il Dipartimento di stato Usa è diviso tra gli uomini che seguono il
23
“L’ambasciatore Usa silurato per iniziativa degli scissionisti”, L’Unità, 19 agosto 1969
“Isolando i comunisti, l’apertura a sinistra fece del Pci l’unica forza d’ opposizione.
E distruggendo i partiti democratici minori, l’esperimento privò il sistema politico italiano
24
23
24
Segretario di Stato, William Rogers, che ha in effetti un potere nominale, e la fronda oltranzista di
Kissinger.
Ackley aveva lavorato a lungo con Kennedy..
Martin vuole ora correggere gli errori dei Democratici. Per lui come per Nixon e Kissinger, “i
socialisti italiani non hanno altro ruolo politico che quello di copertura ai comunisti” 25. Scriverà di
lui Moro durante i 55 giorni: “Dei tre ambasciatori citati (Martin,Volpe e Gardner), quello con cui
ho avuto rapporti semplicemente minimi è il primo, l’ambasciatore Martin, che ho incontrato,
credo, una sola volta, benché fossi allora ministro degli Esteri”.
Martin fa sapere al chief of station della Cia a Roma, Seymour Russel, di voler essere informato nei
dettagli d’ogni operazione, più o meno clandestina, condotta dalla Cia a Roma. Il capo della
stazione Cia parla italiano, è già stato in Italia durante la guerra come ufficiale del Cic, il
controspionaggio dell’esercito americano che troveremo citato a piene mani nell’inchiesta Salvini
come la struttura operativa di controllo e collegamento tra le basi Nato e i gruppi ordinovisti che
ruotano attorno alla strage.
“‘Più che un ambasciatore Martin aveva le caratteristiche del guerrigliero’ conferma un’altra
fonte”26
Il 28 agosto il Psu riprende con vigore la sua richiesta delle elezioni anticipate. Il 29 il settimanale
Abc esce con un servizio intitolato : “Saremo chiamati a votare sotto il ricatto degli attentati?”. Il
Capo della Polizia Vicari rivolge l’inchiesta sulle bombe sia a destra, sia a sinistra, senza
preconcetti e chiede che non vi siano interferenze politiche, “ma proprio questo atteggiamento
corretto avrebbe già procurato a Vicari qualche noia”. “Il sospetto crescente è che le varie destre
puntino ad elezioni anticipate in un clima di paura e di terrorismo”. “In una situazione d’
emergenza, sotto il ricatto degli attentati, anche il ricorso alle urne e il responso elettorale
risulterebbero falsati”. All’inizio d’agosto si svolge a Padova una riunione. I nomi dei partecipanti
sono in gran parte noti. Angelo Moscon, uno dei tanti presenti ricorda che ad un certo momento si
cominciò a parlare con insistenza dell’autunno caldo e verso mezzanotte del superamento dello
“sterile legalitarismo borghese” e di gesti dimostrativi. Un giovane del Sud, forse napoletano, disse
che si doveva “mettere in atto una strategia globale per far affogare nel sangue il centrosinistra”, e
che “se il fronte clerico marxista cerca i morti, li avrà”.27 Un quadro allarmante che ebbe poi
qualche altra conferma.
Nel 1974 i giornali parlano a lungo di Enzo Salcioli, imparentato con l’ex Capo dello Stato
Giovanni Gronchi, indicato come un ex agente del Sid ufficialmente scomparso da 4 anni. Lo
scossone di quell’anno, quando tante realtà finiscono e tanti conti si presentano, lo fa uscir fuori
prima con un memoriale a Der Spiegel, e forse ha un senso la scelta di un settimanale tedesco, come
vedremo, e poi con una serie di interviste in Italia. In pratica Salcioli, dice di sapere chi ha ‘gestito’
la strage di Piazza Fontana. “E’ un colonnello del Sid, il cui nome di codice nel 1969 era ‘Penna
nera’. Lui faceva da collegamento fra la potenza occulta che ordinava l’azione e l’azione stessa. In
tutta la preparazione e l’organizzazione dei fatti che portarono all’eccidio di Piazza Fontana
s’incontra la presenza di quest’uomo: il colonello nero”. Salcioli mischia sapientemente elementi
vari, più o meno credibili o veritieri (alcuni palesemente falsi), il “suicidio del colonnello Rocca” (il
primo a entrare nella stanza per decidere cosa portare via fu l’avvocato Fusco di Ravello),
“l’omicidio di Enrico Mattei”, e poi i contatti con il Mar del “partigiano bianco” Carlo Fumagalli.
Perché l’elemento centrale di questa storia e che a livello operativo non ci si divide solo tra referenti
politici, servizi militari e civili, appoggi stranieri o non, ma anche sulla logica fascista-antifascista.
Ci sono cordate “bianche” che stanno cercando di soppiantare quelle “nere” supervisionate
politicamente da Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della X Mas che ha contrattato con gli
della necessaria flessibilità”, Henry Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo
1980,p.103
25
Gatti, Rimanga tra noi. L’America, l’Italia, la questione comunista: i segreti di 50 anni
di storia, Leonardo Editore, Milano, 1991, p.82.
26
Ibidem,p.83
27
“Bollettino da Malta”, L’Espresso , 8 aprile 1973
24
25
americani la sua salvezza alla fine della guerra e che ha fornito gli uomini per la strage di Portella
della Ginestra fatta per ammonire la Dc; per piegarla al ricatto, come hanno svelato recenti
ricerche28.
In Italia Salcioli parla genericamente di un incontro avuto nell’agosto del ‘69 con un politico
italiano “assai potente”, presenti altri due ufficiali del Sid.
“Gli spiegammo che era nell’aria un colpo di Stato, ma che gli artefici di esso avevano bisogno di
un appoggio autorevole: dovevamo poter contare su un uomo che godesse di vasto prestigio presso
numerosi schieramenti politici e che avesse la reputazione pulita almeno per quanto possibile. Il
personaggio si mostrò assai scandalizzato, disse che era un reato gravissimo anche solo pensare a
una sovversione dello Stato e che non poteva prestare ascolto a questi discorsi proprio lui che aveva
dedicato l’intera vita alla democrazia. Alla fine però ammise che dovendo scegliere tra colpi di
sinistra e di destra, avrebbe preferito la destra. Però ricordo che le sue parole testuali furono che in
ogni caso non potevamo aspettarci da lui nessun aiuto, in quanto lui era l’uomo da chiamare solo
quando la cosa era fatta”. “Io posso accettare da voi non la proposta di un colpo di Stato, ma solo
esclusivamente l’Italia su un vassoio d’argento”.29
Un anno dopo in un’intervista ad un quotidiano svizzero, Salcioli rivelerà che quel “potente” era
Amintore Fanfani al quale il gruppo d’ufficiali aveva offerto la Presidenza della Repubblica. A
riscontro Salcioli cita il nome di un uomo del Sid presente al colloquio, Angelo Sormano.
Salcioli appartiene, quando parla, ai “bianchi”, alla cordata di Fumagalli che sta muovendo i primi
passi e accusa della “strategia della tensione” Andreotti, Taviani e Rumor. Una scelta dettata dalla
necessità di contrastare le analoghe “operazioni sporche” che erano in atto dall’altra parte grazie
all’opera di Borghese e del suo Fronte Nazionale costituito a fine ’68 e di On e An, legate a lui ben
più di quanto non si sia raccontato e non appaia; il Fronte infatti altro non è che la ‘federazione’ dei
due gruppi che cercano di ‘scantonare’ dalla presenza, politicamente ingombrante, di Borghese. Ma
tutto può essere utile ad un uomo legato alla Dc, e Salcioli lo è, per attaccare gli avversari interni al
partito. Fanfani smentì su tutto il fronte. Il servizio segreto italiano disse che Salcioli, che compare
in alcune foto accanto all’ex capo dello Stato Giovanni Gronchi durante missioni all’estero, non era
mai stato un ufficiale del Sid ma questi replicò citando l’aiuto avuto dal Consolato d’Italia a
Barcellona quando era già ricercato per gli attentati commessi dal gruppo “bianco” di Fumagalli.
Una vicenda che ricorda l’aiuto dato, all’estero, a Guido Giannettini dal Sid che lo continuò a
pagare e tutelare anche quando il giornalista era ricercato dalla magistratura.
All’epoca il sedicente agente del Sid Salcioli, disse che “come militare” aveva partecipato ad
un’altra riunione importante dopo una convocazione urgente il 4 novembre. Si tratta di 25 tra alti
ufficiali del Sid, colonnelli e generali. “Si parla della eventuale reazione ad un’azione decisa dalla
sinistra. (…) Perciò in quella riunione venne decisa la mano forte: un ‘colpo duro’ se accadeva
questo”. Le indagini del maggiore del Ros Massimo Giraudo hanno accertato che per il 4 novembre
era pronta una strage terribile. In Veneto un ponte sarebbe dovuto saltare mentre passava un
battaglione di soldati che stava partecipando alle celebrazioni della vittoria del 4 novembre 1918.
All’ultimo momento la dimensione della strage prevista scoraggiò e dissuase gli attentatori. Quella
strage rientra tra le tante ipotizzate e non realizzate perché i referenti, la catena di comando appariva
formata da elementi incerti, titubanti, che non offrivano garanzie d’adeguata copertura a chi doveva
operare.
Tra il gioco politico e quello operativo si frapponeva una vasta realtà, composita e spesso inserita in
più cordate, che cercava di arrivare all’obiettivo pagando comunque il prezzo personale minimo.
Un altro momento decisivo doveva aversi con lo sciopero generale del 19 novembre. A Milano in
via Larga ci furono disordini si disse fomentati, “riscaldati” da provocatori fascisti. Morì l’agente
Antonio Annarumma e nelle caserme ci fu una rivolta rientrata con molta fatica.
28
Aldo Giannuli, “Portella della Ginestra: quella strage di Giuliano contro la Dc”, Libertaria,
dicembre 2003
29
“Chi ha a messo le bombe di Piazza Fontana”, L’Espresso, 24 luglio 1974
25
26
Saragat invia un telegramma in cui afferma che “quest’odioso assassinio deve ammonire tutti ad
isolare, a mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita e
deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del governo, ma soprattutto nella coscienza dei
cittadini la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà”. Quasi un incitamento
alla rivolta per un episodio sulla cui dinamica reale rimangono molti dubbi30.
Per quel giorno – rivela Salcioli - si attendeva in effetti “qualcosa in più” 31. Allora l’esercito
sarebbe potuto intervenire occupando punti nevralgici, arrestando i prefetti, i politici, prendendo
saldamente in mano il controllo del Paese. Quando accadde la morte di Annarumma “ il
responsabile di Milano che avrebbe dovuto darci l’allarme, un generale del Sid, non ci avvisò. Noi
lo sapemmo subito dopo per altri canali, ma ormai non era scattato il meccanismo idoneo a mettere
in moto l’azione. O forse ci fu qualcuno di molto in alto che interruppe la catena degli ordini,
sventando così tutto’’. Salcioli afferma che lui aveva predisposto le liste delle persone da arrestare
in Toscana. Troppo compromesso nella questione alla fine Salcioli era stato scaricato avvicinandosi
a Pacciardi e a Fumagalli, cioè alla parte “bianca”, resistenziale, della guerra per bande che si stava
combattendo in Italia con l’unico scopo di contrastare il confronto aperto da Aldo Moro con il Pci
dopo l’esaurirsi della esperienza del centrosinistra e la conseguente frattura nel campo socialista.
In quei mesi si fa avanti Fanfani che si presenta come un Giano bifronte emulo di De Gaulle:
l’uomo della pace e dell’indipendenza per la sinistra e come l’uomo della legge e dell’ordine per la
destra. Durante una conversazione con Gianni Agnelli arriva ad annunciare una prossima grande
svolta positiva in Europa con Pompidou all’Eliseo e Fanfani al Quirinale. Scrive Giorgio Galli in
una bella biografia del “cavallo di razza” della Dc che la sua posizione e i contatti “in questo
periodo sono ambigui e oscuri, come molti degli eventi italiani nell’anno d’avvio della ‘strategia
della tensione’: il 1969”. 32
Nell’interregno tra la cacciata di Ackley e l’arrivo di Martin a farla da padrone nell’oltre mese e
mezzo è Pier Francesco Talenti, presidente della sezione italiana del Partito repubblicano
americano e considerato l’uomo di Nixon in Italia. Sarà lui a mantenere nel 1970 i rapporti con
Junio Valerio Borghese alla vigilia del golpe del 7 dicembre.
Dunque Martin, che ha pochi contatti con gli italiani, incontra Fanfani in autunno, come rivelerà il
New York Times scrivendo della testimonianza dell’ex ambasciatore ad una commissione del Senato
Usa prima di andare a Saigon come nuovo ambasciatore. Martin aveva incontrato il senatore
Fanfani, che veniva presentato come capo dell’ala conservatrice della Dc, in un appartamento di
proprietà della Rai Tv grazie anche all’intermediazione di Ettore Bernabei. Per contenere
l’avanzata del Pci Fanfani chiese un milione di dollari, riprendendo così i finanziamenti alla Dc che
erano stati interrotti nel 1967. Gli uomini della Cia storsero la bocca ma la cosa arrivò lo stesso sul
tavolo del ‘Comitato 40’, che quindi era già attivo nel 1969, cioè la struttura messa in piedi da
Kissinger per gestire le operazioni clandestine. Anche qui si disse no e sulla pratica, rivelò il
giornale, Nixon appuntò di suo pugno una nota. “No. Vogliamo stare fuori da cose di questo
genere”33. La Cia e gli americani non rimasero certamente fuori da cose di questo genere ma molto
più semplicemente non si fidavano di Fanfani e del suo spostarsi continuo lungo assi del tutto
personali di politica estera e interna alla ricerca di quel ruolo di “De Gaulle italiano” che in tanti gli
attribuivano. I fanfaniani erano giudicati diversamente dal Dipartimento di Stato (conservatori ma
di sinistra) e dalla Cia (di centro). Tanto bastò per non farsi coinvolgere in “cose di questo genere”
che la Cia aveva sempre fatto e tornerà a fare negli anni successivi.
E quali erano le ‘cose’ a cui allude Nixon? Possibile una tale reazione negativa, e così netta ,solo
per finanziamenti che erano stati la normalità in passato?
30
Si parlò a lungo di una ripresa Tv , poi scomparsa, che dimostrava la natura non volontaria
dell’incidente che portò alla morte di Annarumma. L’inchiesta venne archiviata anni dopo senza
che venissero indicati dei colpevoli
31
ibidem
32
Giorgio Galli, Fanfani, Feltrinelli, Milano,1975,p.87
33
Giorgio Galli, op.cit.p.87
26
27
Fanfani nell’autunno del 1969 fece capire d’ essere disponibile ad interpretare il ruolo di
restauratore della legge e garante dell’ordine in Italia? Galli nella sua biografia di Fanfani dà una
risposta assolutamente positiva sulla base di un’ ampia analisi.
“Corrisponde ai comportamenti precedenti di Fanfani, e anche ai suoi modelli specifici: De Gaulle,
Pompidou, una politica estera autonoma e una politica interna da uomini forti. Naturalmente né De
Gaulle, né Pompidou si sarebbero rivolti all’ambasciatore americano”.34
Sempre nella intervista al quotidiano svizzero Il Corriere del Ticino del 1975, un anno dopo la
caduta di Nixon, Salcioli indica il nome del “colonnello nero”: sarebbe il comandante della legione
carabinieri di Padova. Taviani aveva indicato Milano, Padova e il colonnello dell’Arma oltre al Sid.
Un identikit quindi che potrebbe anche avere a che fare con quello dell’‘ipotetico’ colonnello
dell’Arma, evocato da Taviani, a cui sfuggì di mano ‘l’operazione’ che non doveva fare morti ma
solo preparare il terreno a quello che Moro definisce “il morso della paura”. Tutto si perde però
nell’indistinto. Anche questa pista si dissolve tra le carte e del “colonnello nero”, mai ufficialmente
identificato, rimane solo l’ombra che arriva da lontane dichiarazioni.
Anche il ‘Comitato 40’ per molti studiosi rimane un organismo un po’ mitico, di cui è difficile
dimostrare l’esistenza e l’operatività in Italia in quei mesi.
Il ‘Comitato 40’ prende il nome dal Memorandum che porta quella numerazione che è del 17
febbraio 1970. Ma sappiamo che questa struttura che gestisce la parte occulta della politica estera e
delle ‘operazioni sporche’ Usa agisce in Italia già dall’anno prima. Ne fanno parte 5 persone: il
consigliere per la sicurezza nazionale Kissinger, che lo presiede, il vice segretario della Difesa, il
sottosegretario di Stato per gli affari politici, il capo di Stato maggiore della Difesa e il direttore
della Cia. Probabilmente nel 1970 si definisce quello che nei fatti si è già realizzato. Gran parte
delle decisioni passano nelle mani di Kissinger che chiede il conforto di Nixon per le decisioni
importanti. Gli altri sanno poco. Le riunioni erano ridotte al minimo. “Henry era l’arbitro
supremo… e una delle tecniche da lui usate per minimizzare il ruolo del Comitato era quella di
ridurre al minimo le riunioni. Preferiva sondare il parere dei membri del Comitato per telefono, con
la scusa di risparmiare il loro preziosissimo tempo” ha scritto uno dei massimi studiosi d’operazioni
coperte Usa, John Prados35.
Ma un libro misconosciuto sul ruolo Usa in Italia, il bel “Rimanga tra noi” aggiunge un altro
elemento rilevante citando la testimonianza di un suo componente nel 1970, il sottosegretario di
Stato U.Alexis Johnson.
“Il quel periodo il Comitato non fu sempre informato di quello che veniva deciso. Ed è certamente
possibile che alcune operazioni siano state condotte senza che ne fossimo messi al corrente. Non mi
sorprenderebbe se fosse successo ad esempio con l’Italia, perché dell’Italia Kissinger si occupava
sempre in prima persona”.
Una recente biografia critica di Kissinger36 chiarisce che il Comitato ha cambiato nome nel tempo,
ancor prima di Nixon, seguendo l’indicazione del Memorandum che istituiva l’organismo segreto.
“Tra il 1969 e il 1976, ogni volta che è stata intrapresa un’attività riservata di qualche rilievo, si può
perlomeno ritenere che Henry Kissinger ne fosse direttamente a conoscenza, oltre che
responsabile.”37
E’ possibile che con questa logica si siamo create due catene di comando Usa che rispondevano a
indirizzi valutazioni e strategie operative diverse e che in questa duplicità si siano inseriti soggetti
politici e non per avere quella “copertura” necessaria all’azione, come poi avvenne – sia pure sotto
‘controllo’- per il golpe Borghese.
Salcioli parla di generali ma anche il padovano Giovanni Ventura, che oggi vive in Argentina da
latitante garantito dai suoi segreti, vi accenna in uno dei più gravi momenti di difficoltà nel gennaio
del 1975 quando dice che finché non sarà stato chiarito il ruolo del Sid nei fatti del 1969, “sarà
34
Giorgio Galli, op. cit.,p.88.
Jhon Prados, President’s Secret Wars: Cia and Pentagon Covert Operations since Worl War II,
New York,William Marrow and Co.,1986, p.323
36
Cheistofer Hitchens, Processo ad Henry Kissinger, Roma,Fazi, 2003,pp. 48-49
37
Ibidem,p.49.
35
27
28
impossibile fare un processo, accertare la verità. Sono importantissimi i generali e anche Guido
Giannettini, Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie”38.
La rete italo-americana che si mosse – e in questo le testimonianze dell’inchiesta sono tali e tante da
essere prese in considerazione dagli storici che non hanno paura di affondare le mani nel ‘cuore
oscuro’ dell’Italia - aveva un progetto ben chiaro in testa: lo ‘sbocco’ della stagione delle bombe
doveva essere, secondo almeno una delle due cordate che agivano sul campo in quelle settimane,
la proclamazione dello stato d’emergenza da parte del Presidente del Consiglio Rumor. L’altra
mirava ad un vero e proprio intervento dei militari sulla base dell’esperienza maturata ad Atene con
il golpe dei colonnelli del 1967. Nel primo caso si trattava di una sorta di “pressione” militare da
esercitarsi grazie e sull’onda dello sdegno, provocata dalla strage (quindi non un vero e proprio
golpe) che avrebbe portato allo scioglimento del Parlamento e magari a riforme di stampo gollista,
come vedremo. Anche qui troviamo, se ben si valuta tutta la documentazione disponibile, due linee,
due strategie, due obiettivi a vari livelli. E probabilmente anche diversi referenti politici.
L’analisi di Salvini poggia su riscontri politici logici che trovano conferma anche in quelli che i
politici hanno detto negli anni sulla strage. Come altrimenti spiegare l’insistenza di Moro nel suo
memoriale su Rumor e Bertoli? “Ricordo una viva raccomandazione fatta al ministro dell’Interno
onorevole Rumor (egli stesso fatto oggetto di un attentato) di lavorare per la pista nera”, scrive
durante la sua prigionia Aldo Moro, Presidente della Dc. Le dichiarazioni di Digilio e Siciliano, i
dubbi di Taviani, le indicazioni di Moro si sommano e trovano ‘riscontro logico’ con quanto
dichiarato ormai oltre 10 anni fa da Vincenzo Vinciguerra che dal gruppo ordinovista mestrino
ricevette per ben due volte l'invito ad uccidere Rumor come forma di “punizione” per essersi tirato
indietro. E' accertato - compare negli atti di diverse inchieste e di processi - che per due volte il
gruppo di On chiese a Vinciguerra di uccidere il presidente del Consiglio nel '71 - '72. Vinciguerra
si rifiutò. Lo stesso gruppo arrivò a controllare i soggiorni di fine settimana di Rumor a Vicenza
studiando la possibilità di colpirlo con un fucile in giardino, come Kennedy.
La sentenza della Cassazione ha assolto definitivamente Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Virginio
Rognoni dall’accusa di essere i responsabili diretti della strage ma non ha cancellato quanto si è
documentalmente capito, grazie a quest’ultimo processo sulla strage, del ruolo delle strutture di
intelligence Usa nella strategia della tensione. Il referente Usa Carrett spiegò a Digilio che nei
giorni immediatamente successivi alla strage le navi sia americane, sia italiane avevano avuto
l'ordine di uscire dai porti “perché, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti
potevano essere più facilmente colpite”. A comandare la flotta Nato del Sud Europa è dal luglio del
1969 l’ammiraglio Giuseppe Rosselli-Lorenzini che era destinato a divenire il ministro della Difesa
nei piani del golpe del 7 dicembre 1970, il ‘Golpe della Madonna’ che Borghese tentò di attuare con
l’aiuto degli americani. Digilio riferisce di un colloquio, all’inizio dell' estate del ‘69, prima degli
attentati ai treni dell’ agosto, con Carrett.“Mi disse che la loro struttura era stufa di tollerare o
appoggiare azioni dei servizi segreti italiani, che avevano superato i limiti e scherzavano con il
fuoco. Mi confermò che erano concepite azioni dimostrative in senso anticomunista, ma non
massacri indiscriminati”.
Politici, pentiti e agenti Usa sembrano raccontare tutti la medesima storia. Tra i molti episodi il
pentito di On cita un colloquio con Ventura nell’estate del 1969: “Mi disse che la campagna non era
finita e che altri gruppi di attentati sarebbero stati avviati nell’ intento di far fare una scelta al
mondo militare e, a ruota di questo, anche a certi politici di Roma. Ventura ribadì che gli attentati
non erano l’impresa di quattro pazzi, ma facevano parte di un piano ben preciso. Il progetto era
partito con una riunione a Padova nella primavera, che aveva visto presenti i padovani, i veneziani,
alcuni di Treviso, tra cui lui stesso e il capo di On, Pino Rauti. Non sono in grado di dire se tale
riunione fosse la stessa di cui hanno poi parlato ampiamente i giornali”. Ecco come altri
protagonisti dell’inchiesta milanese ricostruiscono la vicenda nei verbali. Edgardo Bonazzi,
38
“Ventura vuole Giannettini perché dica tutta la verità”, Il Tempo, 29 gennaio 1975
28
29
esponente storico dell’estremismo di destra, riferisce delle confidenze raccolte in carcere da Guido
Giannettini. “Mi disse che la strage aveva di fatto paralizzato un progetto golpista poiché una serie
di attentati dimostrativi avrebbe spinto verso una risposta d’ordine, mentre la strage, di fatto, aveva
portato ad una risposta di solidarietà e di pacificazione”. Giannettini disse testualmente, racconta
ancora Bonazzi, “che qualcuno aveva voluto spingere sull’acceleratore e questo aveva causato la
rottura con Delle Chiaie secondo il quale la strage avrebbe inibito il golpe che avrebbe dovuto aver
luogo il 12 dicembre. Giannettini mi disse che alcuni dirigenti nazionali del Msi conoscevano il
progetto golpista del 1969”. L'elettricista padovano Tullio Fabris, inconsapevole consigliere di
Freda e Ventura nella predisposizione dei timer, parla, nei verbali, di tre minacce ricevute nel tempo
dagli esponenti di On Massimiliano Fachini e Pino Rauti. Nel marzo del 1970, Freda tenta di
avvicinarlo nuovamente per convincerlo a divenire consulente stabile del gruppo. “La pagheremo
bene e sarà protetto - racconta Fabris di quel colloquio - stia tranquillo che c'è una persona
importante a livello governativo che ci darebbe una mano e che proteggerebbe anche lei”. Fabris
riferisce anche che Franco Freda parlava di “colpo di Stato” e di “destabilizzazione” della
situazione politica italiana già nel corso nei primi sei mesi del '69.
Nicola Falde, generale dei servizi, oggi deceduto, nel '95 ha messo a verbale di aver ricevuto precise
confidenze nell’ambito militare sulla strage. “Si tratta di notizie recepite in occasione di discorsi col
generale Aloia, in un primo tempo e poi confermatemi dal colonnello Viola e dal generale Jucci.
Tali notizie erano inerenti il coinvolgimento dell’ufficio Affari riservati nella fase di organizzazione
della strage e il ruolo di copertura prestato dal Sid dopo l’operazione. Con l’ ufficio AaRr i miei
interlocutori intendevano indicare il Prefetto Umberto Federico D'Amato e non la struttura nel suo
insieme, così come quando si parlava del Sid intendevano riferirsi all'ammiraglio Henke e ai suoi
fidati della direzione del Sid ed ai capi degli uffici”.
Uno dei contributi più rilevanti a chiarire la dinamica politica della strage è quello di Vinciguerra.
Gli attentati del 12 dicembre vanno inquadrati in una strategia golpista e per questi erano stati
utilizzati sia uomini di On, sia di An. Questa strategia era arrivata in Italia, come in altre nazioni (la
prima a sperimentarlo fu la Francia durante il maggio del 1968) grazie all’elaborazione teorica e
all’ispirazione dell’Aginter Press di Guerin Serac, un ex ufficiale dell’Oas di formazione
integralista cattolica che era la “mente” del modulo operativo utilizzato negli attentati e aveva
addestrato a tal proposito gli uomini di Delle Chiaie. Fondamentale per capire cosa doveva
succedere dopo la strage è la testimonianza di Vinciguerra sulla manifestazione convocata a Roma
per il 14 dicembre dalla direzione del Msi, subito dopo il rientro di On nel partito. Obiettivo della
manifestazione, che venne bloccata anche per le durissime ma non spiegate contestazioni che
comparvero su L’Avanti! , era quello di innescare la richiesta da parte della “piazza di destra” di un
“governo forte” con intervento dei militari. Questo l’obiettivo della cordata oltranzista.
Vinciguerra parte da Udine la sera del 12 dicembre. Porta con sé una vistosa insegna di Ordine
Nuovo nonostante il movimento sia entrato nel partito da alcune settimane. Il 13 restano a Roma in
attesa di notizie dato che la manifestazione era in forse. “Sino a tarda notte – dice Vinciguerra- le
notizie erano ancora incerte. La domenica mattina, il 14, si seppe che l’adunata era stata sospesa dal
governo. Vinciguerra ebbe successivamente conferma di quanto già sapeva direttamente: quella
manifestazione era strettamente collegata alla strage. Facevano parte di un’unica operazione
politica. “Indico negli attentati del 12 dicembre 1969 non l’inizio della strategia della tensione,
bensì il detonatore che, facendo esplodere una situazione, avrebbe consentito a determinate autorità
politiche e militari la proclamazione dello stato d’ emergenza”. Anche Siciliano venne fermato in
partenza per Roma. Vinciguerra fornisce la chiave per capire come si sarebbero costretti i militari
ad intervenire; un’ulteriore strage che doveva colpire proprio “l’adunata” del 14 dicembre e che
avrebbe portato impressa nell’obiettivo – i militanti di On e del Msi - il marchio dell’esecutore, cioè
la sinistra. Quella manifestazione era destinata a “degenerare in gravi incidenti, così da fare da
supporto e sostenere meglio la decisione del governo, legittima e certamente non disapprovata dalla
29
30
maggioranza degli italiani e sostenuta da tutti i settori dello Stato primo tra tutti le Forze Armate.
Portare le insegne, l’ascia bipenne di On serviva sia a marcare il ruolo di questa struttura nella
vicenda, sia a distinguere i settori dove si sarebbero collocati gli aderenti in quanto una
manifestazione pacifica non sarebbe stata”39.
Nell’inchiesta condotta a Padova dal giudice Stiz vi è la testimonianza di Angelo Comacchio che
aveva messo a verbale una confidenza fattagli da Angelo Ventura, fratello di Giovanni, due giorni
prima della strage: ci sarebbe stata presto “una marcia di fascisti a Roma e qualcosa di grosso nelle
banche”.
“Si può ritenere – chiarisce Salvini – che la manifestazione del 14 dicembre venga vietata proprio
per il profilarsi dell’accordo tra le due fazioni politiche che si confrontarono duramente, dal
momento che ormai era caduta l'ipotesi più estrema e, con l’affermarsi di una soluzione più di
centro, questa grande prova di forza non era più necessaria: potrebbe quindi esserci un
collegamento tra le due cose. I giornali in quei giorni danno un amplissimo risalto a quello che
doveva essere ‘l'Appuntamento con la nazione’, e questo è indicativo del fatto che la manifestazione
del 14 dicembre avrebbe dovuto essere un momento di forte pressione”.
Vinciguerra aggiungerà dei tasselli alla vicenda quando in Spagna ebbe modo di conoscere Ralph,
che altri non era che Yves Guerin Serac. La strategia dell’infiltrazione, della “contaminazione” e
della manipolazione è stata sperimentata con successo per la prima volta in Francia (di fatto ricalca
alcuni degli elementi essenziali maturati nell’esperienza dell’Oas). E forse bisognerebbe riflettere
meglio sulla nascita anche del nostro ‘68 studentesco; sulla presenza a Valle Giulia, quando per la
prima volta si arriva agli scontri tra studenti e polizia con tecniche da “guerriglia urbana” di tanti
esponenti dei gruppi a destra dell’Msi. “Nel ‘68 – dice sicuro Vinciguerra - le mobilitazioni
studentesche sono state accuratamente studiate, preparate e poste in atto. In Francia dall’Oas, in
Germania e in Italia da elementi dei movimenti d’estrema destra tipo An e On. Non c’è stato alcun
moto spontaneo nel 1968. Parte da un discorso che riguarda in primo luogo la Francia. Il 1968
riguarda in primo luogo la Francia. Il ‘68 deve mettere in ginocchio definitivamente il Gen. De
Gaulle, deve obbligarlo a chiudere il discorso Oas. E poi si estende, si amplia. In Germania e in
Italia dove viene monopolizzato da elementi di An e On”40.
Nell’ottobre del 1969 su L’Italiano, il mensile diretto da Pino Romualdi, esponente di spicco anche
culturale dell’Msi sul quale scrive Guido Giannettini, l’agente del Sid in contatto o che
‘manipolava’ il gruppo ordinovista di Freda e Ventura compare un editoriale molto chiaro nelle
indicazioni finali. E’ ora di agire; basta con le parole. “A differenza della vendetta che è un piatto
che si mangia freddo, le rivoluzioni sono un piatto che si mangia caldo. E anche i colpi di Stato,
specie in un Paese della storia, della civiltà e delle proporzioni demografiche economiche e
politiche del nostro, sono un piatto che si serve caldo. L’Italia non è né la Grecia, né la Libia; né ha
un capo partigiano da spendere come De Gaulle”. 41 Indicazione chiara: non sono percorribili le
strade della rivolta militare perché in Grecia bastò prendere Atene ai colonnelli per avere in mano il
Paese mentre Gheddafi in Libia riuscì a chiudere la vicenda dinastica con un pugno di giovani
ufficiali ma in Italia c’è il più grande partito comunista d’Europa. Decine di città “rosse”: sarebbe
un bagno di sangue. Né c’è un uomo che in virtù del suo prestigio riconosciuto può piegare il
sistema. Occorre un’altra strada.
Il 1969 aveva alle spalle un anno memorabile che aveva seminato attese e cambiamenti che
dovevano essere raccolti in Italia, sul piano economico sociale, nell’anno successivo. Si erano creati
grandi movimenti di massa mentre con le elezioni della primavera è miseramente fallita
l’unificazione dei partiti di ispirazione socialista (Psi e Psdi) ed è stato premiato il Pci, salito alla
Camera dal 25,2% al 26,9%. C’e’ paura in Italia e all’estero. Cinque milioni di tute blu cercano di
39
Intervista dell’autore a Vincenzo Vinciguerra
Ibidem
41
Editoriale, L’Italiano,ottobre 1969
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30
31
dar corpo alle rivendicazioni dell’autunno caldo sindacale a Milano, Genova, e Torino. Compare
quell’estremismo ideologico che farà da prologo all’esplodere del terrorismo, agli “anni di
piombo’”. Questo è anche l’anno degli attentati diffusi: più di 100 fino all’autunno e poi il ‘botto’
del 12 dicembre quando alle 16,37 una bomba esplode nel salone centrale della Banca Nazionale
dell’Agricoltura, a Milano, a due passi da Piazza del Duomo. Un boato incredibile; una pioggia di
vetri e detriti e un tappeto di sangue e membra umane. Non la strage più grave come bilancio
umano ma quella maggiormente simbolica; riassuntiva del cambiamento politico e sociale in atto.
Quella che raccoglie condensa e dà forma ai sogni golpisti che mirano a congelare la realtà
economica e sociale, oltre che politica, che dà l’impronta agli anni della prima Repubblica e segna
l’inizio di quella strategia della tensione che sarà scandita da attentati e delitti consumati all’ombra
dei servizi segreti e con la copertura e complicità d’importanti realtà istituzionali. Una parte del
Psdi, ad esempio, ha avuto un atteggiamento politicamente filo golpista prima della strage. E capo
dello Stato era Giuseppe Saragat che si era incontrato a quattr’occhi con Nixon e Kissinger, nel
febbraio del 1969, quando il neo presidente degli Usa era venuto a constatare direttamente la gravità
della situazione italiana. Nelle sue memorie Kissinger ha punte di asprezza per l’Italia e Moro .
Ecco il nucleo centrale del ‘mistero’ politico di Piazza Fontana. Poteva l’allora Presidente del
Consiglio essere sospettato di complicità sia pur concorrenziale con l’allora Capo dello Stato
Giuseppe Saragat per aver quantomeno non ostacolato il crearsi del “clima politico” utile ad una
svolta autoritaria? E' ben difficile ipotizzarlo senza mettere in conto che potesse “saltare il banco”
del sistema politico, allora ben più rigido per la logica di Jalta.
La scuola revisionista che alligna nella nuova Italia di questi ultimi anni ha duramente attaccato
l’inchiesta Salvini e la sua lettura della logica politica che gli fa da scenario, proprio per la visione
drammatica che il magistrato dà dello scontro tra le due fazioni politiche in quei giorni (ignorando
volutamente che di questo scontro si scrive apertamente anche su giornali che non sono di sinistra),
ma c’é uno storico come Piero Craveri che dà rilevanza a questa interpretazione ora suffragata da
decine di riscontri sulle ragioni dell'odio di On verso un’ala della Dc nel suo '”La Repubblica dal
1958 al 1992” dove si cita un introvabile libretto, “Il Segreto della Repubblica”, per spiegare la
nascita di un quadripartito organico nuovamente guidato da Rumor dopo Piazza Fontana; un
esecutivo nato dal compromesso Moro-Saragat, garantito dal cambio al dicastero della Difesa, da
cui dipendevano i servizi segreti, tra Luigi Gui, stretto collaboratore di Moro e il socialdemocratico
Mario Tanassi, legato a filo doppio a Saragat.
“Il Segreto della Repubblica”42 è stato riedito nel 2005, con un significativo sottotitolo “La verità
politica sulla strage di Piazza Fontana”, dopo la prima introvabile edizione del 1978.
Il volume tenta di dare una spiegazione politica – dato che quella giudiziaria è ormai sterilizzata,
probabilmente per sempre – al perché non si è potuto arrivare ai responsabili della strage, risalire la
catena di comando – o le catene, probabilmente - fino ai livelli decisionali.
Il libro svela con chiarezza “Il Segreto” cioè il sommarsi di diverse responsabilità politiche alla fine
neutralizzate da un compromesso tra Aldo Moro e Giuseppe Saragat siglato alla vigilia di Natale del
1969. Una storia che vale la pena di raccontare in dettaglio perché può aiutarci a capire perché 11
processi non sono arrivati alla verità giudiziaria.
I servizi inglesi erano sul chi vive già prima di Piazza Fontana e contattarono un giornalista italiano,
Fulvio Bellini, anticipandogli lo scontro istituzionale che stava maturando. Bellini, già partigiano
vicino alle formazioni inglesi, giornalista , ha alle spalle grandi scoop come il primo libro che
propone la tesi dell’omicidio del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, e ha pubblicato nel 1978 il libro
dedicato a Piazza Fontana che rivela i retroscena politici della strage, gli stessi che avrebbe
accertato quasi un ventennio dopo, il Pm Guido Salvini ma sulla base delle rivelazioni dei
‘camerati’.
42
Fulvio Bellini- Gianfranco Bellini, Il Segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di
Piazza Fontana, Milano, Selene Edizioni, 2005
31
32
La “verità” politica su Piazza Fontana Bellini l’ha saputa, sia pure per sommi capi, prima che tutto
accadesse, già nel settembre del 1969, da un amico commilitone dei tempi del SOE , il servizio
segreto militare inglese, le cui iniziali erano G.A che in effetti all’epoca era un agente dell'IRD
(Information Research Department, di fatto una branca operativa dei servizi di Londra), che gli
annunciò che ci sarebbe stato presto “qualcosa di grosso”.
Immediatamente dopo la strage, l'amico inglese tratteggiò questo retroscena: vi era stato un grosso
scontro istituzionale fra l’area che aveva a capo Saragat, definibile come ‘partito americano’, e
l'area che aveva fatto capo a Moro; scontro che aveva avuto il suo epilogo a fine dicembre. Aveva
vinto la seconda linea grazie alla possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini
volute dal ministro Gui, tramite i carabinieri, che avevano evidenziato da subito la responsabilità di
gruppi di destra. “Per questa ragione - spiega Bellini- non era stato decretato la Stato d’emergenza e
non erano state sciolte le Camere, come soprattutto i settori del rinato Psu volevano, anche se
l'accordo si era comunque concluso lasciando da parte i risultati delle prime indagini sulla destra e
lasciando che si sviluppasse la cosiddetta ‘pista rossa’. Il ‘giornalista’ inglese mi disse che l'on.
Rumor, che inizialmente faceva parte dell’area del ‘partito americano’, fortemente colpito dalla
grande mobilitazione popolare che vi era stata ai funerali delle vittime della strage, era stato colto
da dubbi e si era alleato con l'onorevole Moro non consentendo così che avvenisse una svolta
autoritaria e soprattutto non consentendo che fossero sciolte le Camere” 43. Bellini nel suo libro
attribuisce ad un altro politico, Giulio Andreotti, un ruolo rilevante; decisivo nell’impedire lo
scioglimento del Parlamento. A sostenere Moro sono Forlani e Andreotti. Piccoli appoggia il
titubante Rumor. I conti si tireranno nella direzione Dc post-strage. Nella relazione introduttiva
Forlani si schiera nettamente contro lo scioglimento anticipato delle Camere. “Una crisi
disarticolata, al buio, aperta nel totale dissenso e priva di indicazioni aprirebbe troppe gravose
incognite”, dice il segretario della Dc.44
Dalla stampa inglese, subito dopo la strage di Milano, viene l'accusa di aver predisposto un ‘golpe
strisciante’45, un’inusitata critica che è “una sorta di presa di posizione ufficiale ben comprensibile
negli ambienti politico-diplomatici, che intendevano disapprovare la possibile destabilizzazione del
nostro Paese a seguito di un eventuale scioglimento delle Camere”. Ciò era stato ben capito da
Saragat che “stizzito aveva indotto il governo ad una presa di posizione diplomatica”. “Comunque è la tesi di Bellini - da tale messaggio l’ala che faceva capo a Moro e a una forte parte della Dc
aveva capito che non era isolata”.
“Il Segreto della Repubblica” uscì in libreria nell’ottobre del 1978, quando sui giornali si
commentavano, tra mille polemiche, proprio le carte di Aldo Moro trovate a via Monte Nevoso, in
una base delle Br.
Inizialmente il magistrato ipotizzò, prima di interrogare Bellini che aveva scritto il suo volume sotto
pseudonimo, che alcune di quelle notizie potessero essere frutto proprio di notizie raccolte dalle Br
durante la prigionia. Ipotesi non del tutto peregrina se si riflette su che cosa volevano sapere dal
Presidente della Dc le Brigate Rosse dopo averlo rapito e prima di ucciderlo.
Tra le questioni centrali che le Br intendevano conoscere da colui che ai loro occhi rappresentava il
“cuore dello Stato”, il vero e unico rappresentante, insieme ad Andreotti, del Potere-Stato della Dc,
c’era proprio la “verità” sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a Milano.
La “porta stretta” della storia di quegli anni dove tutto passa, volenti o nolenti.
“A Moro era stato detto – affermò Patrizio Peci, il primo pentito delle Br nel verbale del 4 febbraio
1980 – che se avesse denunciato gli scandali del regime, come per esempio i retroscena della strage
di Piazza Fontana, sicuramente sarebbe stato liberato”. Anche Adriana Faranda, la “postina” delle
lettere di Moro, unitamente a Valerio Morucci, ha confermato questo obiettivo centrale degli
interrogatori Br: “Moro non parlò, fu evasivo nelle risposte. Se avesse detto ‘come Dc siamo
coinvolti nel golpe Borghese o nella strage di Piazza Fontana’ forse si sarebbe salvato.
43
Intervista all’autore a Fulvio Bellini
Fulvio Bellini-Gianfranco Bellini,op. cit. ,p.117
45
Intervista dell’autore a Fulvio Bellini
44
32
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Probabilmente le Br avrebbero finito per fare una scelta diversa, si sarebbe portato avanti il discorso
su uno scambio di prigionieri”. La verità sulla strage valeva, dunque, per le Br, la libertà di Moro.
Un prezzo altissimo perché quella strage è una data cardine, un vero e proprio spartiacque politico
che nasconde ancora oggi almeno due segreti. Uno giudiziario: chi e come esegue la strage (e su
questo lo Stato per 11 volte ha dimostrato la sua impotenza a pronunciarsi); e uno politico: perché il
potere decide di coprire esecutori e mandanti. Il volume di Bellini propone, nel 1978, tutti gli
elementi essenziali che costrinsero la classe politica italiana, Pci compreso – e solo per la parte di
responsabilità che all’epoca esercitava nel sistema politico italiano e con i relativi pesanti limiti – a
non andare fino in fondo nella ricerca della verità; a scaricare sulla magistratura l’impossibile
accertamento di una verità giudiziaria dei fatti e dei “retroscena” – anche fattuali – che era
volutamente monca del presupposto fondamentale: perché tutto questo?
Con quale scopo? Poteva esserci la risposta giudiziaria giusta se mancava la domanda politica
essenziale, fondante?
Ci vorranno altri dodici anni per “ritrovare”, dietro un pannello murato nell’intercapedine accanto
un termosifone nella stessa base Br milanese di via Monte Nevoso, un altro mazzo di carte di Moro.
Era sempre l’ottobre, ma del 1990, e quelle lettere non furono poi così deludenti come dicevano i
Br.
Moro scrive di non aver mai creduto alla pista “rossa” per Piazza Fontana e che dietro quegli
attentati, che avevano l’obiettivo di normalizzare l’Italia del 1968, c’erano centrali straniere. Moro
svela anche che, nel 1971, quando al Quirinale venne eletto Giovanni Leone, la Dc bruciò la sua
candidatura a Presidente della Repubblica, spiegando, nei verbali degli “interrogatori” ritrovati nel
1990, che quella carica era stata promessa a lui dai maggiorenti del partito. In un’assemblea Dc
Moro parlò, avendo come garanzia una riservatezza assoluta che non ci fu, della grave crisi politica
e dell’avanzare della destra che “è senza dubbio più potente di quello che risulta manifesta”. Tra
l’altro Moro elogiò il Pci che “ha mostrato un notevole senso di responsabilità verso il Paese perché
non ha giuocato un ruolo di rottura, non ha mirato a coprire e a riempire il vuoto prodottosi fra le
forze sociali e le forze politiche con un’azione distruttiva”. E Moro nel discorso che doveva
rimanere segreto allude più volte al “partito della strategia della tensione”: “Non servirebbe allo
scopo – dice - investire con una nostra rigorosa e pubblica denuncia il partito e il governo. Una
simile denuncia determinerebbe la caduta degli attuali vertici del partito e la crisi di governo”. E’ un
esempio perfetto del modo di agire di Moro. Della sua prudenza, del suo cercare comunque e
sempre il compromesso. Di coprire, sedare, tacere, rinviare quando non si può o è controproducente
affrontare, denunciare, decidere. Una scelta che Moro ha fatto già altre volte e farà ancora tanto da
divenire l’uomo degli omissis della Repubblica. E’ l’altra faccia di Moro; quella oscura che lo fa
circondare di una ‘corte’ legata in gran parte allo scandalo dei petroli; che fa depositare in Svizzera
i soldi della corrente per fronteggiare le conseguenze sul suo gruppo e sulla sua famiglia di un
possibile golpe; che gli fa stringere inusitate alleanze con generali notoriamente di destra, ma a lui
fedeli, magari in virtù di coperture offerte in momenti difficili per la loro carriera militare, come nel
caso di Vito Miceli. Gli esempi sono tanti. Fu Moro a porre gli omissis sulla questione del luglio
1964; ancora lui a coprire Miceli che invocava il segreto “politico –militare” per quella che poteva
essere la Gladio; lui a coprire con gli omissis la vicenda Sogno; ancora lui a legittimare e non
denunciare l’utilizzo del “ segreto politico-militare” nell’inchiesta sulla strage.
Nel “carcere del popolo” Moro si soffermerà a lungo su questo importante discorso del 1971.
“Questo episodio mi valse ancora una volta (come già nel 1969) la qualifica di antipartito, una
posizione registrata ed esemplificata tra i gruppi parlamentari che giocò il suo ruolo, come è
naturale decisivo, ai fini della mia qualificazione personale per la carica di Presidente della
Repubblica. Tanto poco dominavo il partito che in quel caso fui battuto da altro parlamentare”, cioè
Giovanni Leone, eletto grazie ai voti del Msi. E Moro sarà battuto nella corsa al Quirinale anche nel
1978 e questa volta non dalla Dc, ma da un partito ben più ampio e oscuro, forte e trasversale, che
ha potuto giovarsi anche del fuoco delle Br per fermare la sua ascesa alla massima carica della
Repubblica.
33
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Dal Quirinale Moro avrebbe potuto con maggior libertà chiudere le maglie ancora non serrate del
compromesso storico con la presenza del Pci nel governo, e non più nella sola maggioranza (magari
in cambio di un’ampia riforma in senso presidenziale della Repubblica).
Anche nel 1969 Moro era considerato un “antipartito” perché, nel novembre 1968, a un Consiglio
nazionale, dopo mesi e mesi d’isolamento prossimo all’ostracismo conseguenza della sconfitta
socialista del 19 maggio che decreta la fine di una fase del centrosinistra, aveva pronunciato uno
storico intervento che aveva messo in moto una reazione fortissima, sotterranea e oltre modo
pericolosa che aveva ben interpretato il senso politico dell’improvvisa attenzione di Moro al
sociale; ai sommovimenti che stavano attraversando tutta l’Europa.
C’era da parte di Moro la volontà politica e il progetto di “aprire” al Pci, per intavolare una
discussione con chi stava, in Italia, al di là del muro di Jalta. Specie dopo la dura condanna
dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia da parte del Pci e un congresso del partito che aveva
segnato una svolta reale per i comunisti italiani. Moro dice che “tempi nuovi si annunciano e
avanzano come non mai”. Ecco perché lascia la corrente dorotea al fine di “rendere più vigorosa e
feconda la dialettica con le opposizioni, sì da valorizzare ogni dato sociale che emerge in questo
confronto e rafforzare, mediante un’intelligente apertura a tutte le realtà, la posizione della
maggioranza.” 46
Nel novembre del 1977 – e nessuno sembra accorgersi di questo parallelismo con quanto era già
avvenuto nel novembre del 1968 – il Pci vota una mozione alla Camera in cui si affermava che la
Nato e la Cee sono i due assi fondamentali, non scindibili, della politica estera italiana:
immediatamente si mette in moto un’altrettanto dura reazione di chi ha ben capito che il Pci stava
ormai sulla porta del governo del Paese. Ed è una ‘forbice’ che ha certamente almeno due tagli: Usa
e Urss. Anche i comunisti italiani sarebbero entrati a breve nella (vuota) “stanza dei bottoni”,
evocata da Pietro Nenni per spiegare il fallimento della formula di centrosinistra organico. Nel 1969
c’è Piazza Fontana, nel 1978 il rapimento di Moro. L’inizio e la fine di un progetto politico; forse
l’unico dopo l’esaurirsi del centrosinistra, capace di sanare le anomalie profonde della società e
della politica italiana.
C’è un precedente illuminante, fondante, rispetto a questo arco politico che si regge sui due tragici
pilastri di Piazza Fontana e Via Caetani ed è quello del tentativo del 1964, sul quale sempre Moro
fece calare il silenzio della ragion di Stato imponendo gli omissis sul Piano Solo, cioè la
pianificazione antisommossa predisposta dal generale De Lorenzo. Era l’epoca in cui su autorevoli
giornali della Capitale comparivano editoriali che invitavano praticamente a “far fuori”
politicamente Moro e la sua scelta a sostegno del centrosinistra organico.
Senza entrare nella ormai speciosa e inutile diatriba se i fatti del giugno-luglio di quell’anno
rappresentino o meno un vero e proprio golpe47, vale la pena citare tra i molti documenti disponibili
un memorandum dell’ambasciata Usa a Roma del 14 agosto 1964, alla vigilia, della riunione a casa
Morlino dello stato maggiore Dc per valutare la situazione dell’ordine pubblico in caso di
scioglimento delle Camere. Il documento, intitolato “ The July Rumors of an Italian Coup d’Etat” si
sofferma su una soluzione gollista da dare alla crisi politica in atto prevedendo la possibilità di un
governo del Presidente pronto a lavorare “per il bene della nazione”. Sganciato dai partiti il
governo non avrebbe la fiducia delle Camere e allora il Presidente dovrebbe portarlo dalla sua parte
“con un solenne e drammatico appello ai partiti; un appello al popolo per la salvezza del paese”. In
effetti il memorandum citava un famoso articolo del settimanale Epoca e questa coincidenza si
ripeterà nel 1969, alla vigilia della strage48.
Il 17 luglio la crisi è superata con la nascita del secondo governo Moro. La Dc era stata per alcuni
drammatici giorni immobile ad un bivio: esecutivo Moro-Nenni o governo appoggiato dalle destre
46
Tutte le citazioni sono tratte da Felice La Rocca, L’eredità perduta. Aldo Moro e la crisi
italiana, Rubbettino, Palermo,2001 e Aldo Moro, Una politica per i tempi nuovi, Agenzia “Progetto”,Roma,
s.d.
47
Paolo Cucchiarelli- Aldo Giannuli, op. cit., p.229
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vedi in particolare, Claudio Accogli, Kennedy e il centro-sinistra.Nenni, i missili e il mistero
di Dallas, Nuova Editrice MondOperaio, Milano, 2003, pp.148-149
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(o del Presidente). Alla fine tra mille contrattazioni la scelta che prevale è quella di “annacquare” il
programma politico ma non abbandonare la formula di centrosinistra resistendo alle forti pressioni
di Antonio Segni che in agosto, dopo un drammatico confronto con Giuseppe Saragat e Aldo Moro
al Quirinale, sarà colpito da una trombosi invalidante che in dicembre lo costringerà alle dimissioni.
Il Presidente della Repubblica aveva minacciato elezioni anticipate- e temuto fortemente reazioni di
piazza - per affossare il centrosinistra di Moro e Nenni e alla fine di fatto è l’ictus che colpisce
Antonio Segni a chiudere lo scontro politico in atto nell’estate del 1964.
Uno dei pochi libri che parlano delle vicende degli “uomini del Quirinale” dà una lettura incrociata
di due drammatici colloqui avvenuti nelle stanze del Colle più alto nel 1964 e nel 1969.
“Accadde per Antonio Segni accusato da Giuseppe Saragat (presente Aldo Moro: l’uno era ministro
degli Esteri e l’altro Capo del Governo) d’atti tanto corposi da ‘meritare l’Alta Corte di Giustizia’.
Ma quali atti? Possibile, come venne detto, soltanto d’ingerenze in un rimescolamento
d’ambasciatori? Si raccontò d’un valletto quirinalesco, o di qualcuno in veste di valletto, che aveva
potuto ascoltare il riferimento all’Alta Corte di Giustizia urlato da Saragat. Poi più niente.
Nemmeno una prova e bocca cucita da parte dei protagonisti. Uno dei quali per sempre: Antonio
Segni colpito in quel frangente da ictus cerebrale.
Accadde per il suo successore. Per Giuseppe Saragat accusato da Aldo Moro di aver preso
misteriosi accordi politici a quattr’occhi con il presidente americano Richard Nixon. E si disse che
Aldo Moro, a quel tempo ministro degli Esteri, fosse stato informato da uomini dei servizi segreti
americani ‘vicini’ al Partito Democratico (Nixon era repubblicano). Poi più niente. Nemmeno una
prova e ancora bocche cucite da parte dei protagonisti. Uscì però un pamphlet (Il Golpe) scritto da
un saggista della sinistra Dc e dedicato scopertamente al Presidente e alle strutture sia militari, sia
civili del Quirinale. Fece scalpore nei palazzi romani, se lo passarono di mano in mano magistrati
della Procura generale, ma non venne portato in tribunale come forse sperava l’autore, Giovanni Di
Capua”.49
La possibile continuità di situazione e uomini, tra il 1964 e il 1969, è certamente forte e in qualche
misura suggestiva. Un passaggio drammatico che, in situazioni simili, è bissato ma a ruoli invertiti
tra i due politici. Si potrebbe spiegare così anche lo schierarsi di Saragat con la linea della trattativa
durante i 55 giorni e quelle sue drammatiche ma veritiere parole dopo l’omicidio quando affermò
che con il cadavere di Moro scendeva nella terra anche la Prima Repubblica.
“Moro era l’artefice dell’incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. Del resto basta
guardare gli anni delle bombe. Quando Moro si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano”,
dice Giovanni, il figlio del Presidente della Dc che definisce, giustamente, il rapimento di suo padre
come “un’operazione di chirurgia sulla politica italiana per fermare il suo progetto”. Anche qui le
similitudini esistenti tra i tre passaggi -1964, 1969, 1978- suggeriscono percorsi di analisi così densi
di elementi, richiami, soggetti nazionali e non e motivazioni nazionali e internazionali, da
sgomentare.
Nel novembre 1968, Moro teme veramente, come tanti in quei mesi, che la Repubblica scivoli verso
Weimar e, soprattutto, che l’irruenza operaia e studentesca possa innescare contraccolpi drammatici
a destra anche perché, dice nel gennaio del 1969, le contestazioni nei confronti delle forze politiche
non sono portate solo da “gruppi di intellettuali conservatori o da qualunquisti incorreggibili” ma
trovano alimento “anche in ambienti democratici”.
Durante la prigionia in mano alle Br, rievocando come seppe della strage del 12 dicembre, mentre
era a Parigi insieme alla figlia per i lavori del Consiglio d’Europa, quello che colpisce ancora oggi è
il senso di sgomento umano e politico di Moro allorché affiora netta la sensazione che “qualcosa d’
imprevedibile e di oscuro si fosse messo in moto”. “Siamo in guerra” aggiunge poco dopo parlando
con i familiari al telefono. “Si sta preparando per un pranzo ufficiale. E’ allegro. Poi qualcuno gli
porta la notizia della strage di Piazza Fontana a Milano. Lo vedo invecchiare in un istante”, racconta
la figlia Agnese di quei momenti.50
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AaVv.Gli uomini del Quirinale, Laterza, 1984,p.156
Agnese Moro,Un uomo così, Rizzoli, Milano, 2003,p.60
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A Moro fu consigliato caldamente dal Pci, tramite Tullio Ancora, di avere qualche accorgimento
sull’ora della partenza, sul percorso e sul trasferimento di ritorno. “Io ritenni […] di adottare le
consigliate precauzioni e rientrai a Roma non privo di apprensione”. Insomma Moro e il Pci
temevano, quantomeno, una sterzata autoritaria, un golpe istituzionale che forzasse le regole dettate
dalla Costituzione.
Nel novembre del 1968 Moro afferma che quella che si sta manifestando “nel profondo è una nuova
umanità che vuole farsi, è il moto inarrestabile della storia”. Moro non è un rivoluzionario, ma il più
serio, rigoroso e realista dei Dc.
“Il meno implicato di tutti”, come disse Pasolini ma al contempo il più addentro, con Andreotti, in
segreti e tutele necessarie, imposte dalla situazione nazionale e internazionale. Il più pronto a
coprire anche storture gravi ma per cercare di costruire. Un uomo che non chiude gli occhi e
condanna, ma che cerca di capire, di colmare il solco immenso che si apre in quei mesi tra chi sfila
nelle strade e chi guida la politica. “No, abbiamo capito. Non abbiamo saputo dare ai giovani la
sensazione di un nostro impegno per cambiare”. In quel riferimento alla “sensazione” c’è tutto
Moro con la sua forza e i limiti.
Al Consiglio nazionale del 17 gennaio 1969 Moro lancia per la prima volta la sua formula che
condensa la ‘svolta’ politica e programmatica: è la “strategia dell’attenzione” al Pci a cui si
risponderà presto nelle piazze e nelle banche.
“La situazione che si era creata avrebbe dovuto portare a un colpo di Stato” dice oggi Gerardo
D’Ambrosio, il magistrato che di più, insieme a Emilio Alessandrini, indagò sul significato di un
reato, la strage di Piazza Fontana, che per sua stessa natura, mancando la “firma” degli autori, ha in
sé tutte le spiegazioni del suo scopo politico. Anni prima Giovanni Ventura aveva spiegato con
chiarezza a D’Ambrosio la logica e il retroterra dell’azione politico-militare attuata nell’ultima parte
del 1969 da vari gruppi della destra estraparlamentare che agitavano lo spauracchio di una uscita
dell’Italia dalla Nato come conseguenza del confronto in atto tra Moro e parte della Dc e il Psi e il
Pci. “Nonostante io sollecitassi Freda egli non volle darmi ulteriori precisazioni sugli autori e sui
finanziatori del piano. Comunque mi fece capire che c’era tutto un retroterra politico-parlamentare
che avallava questa strategia, o meglio, che traeva profitto avvantaggiandosene da questa strategia,
che non le era sconosciuta. Successivamente, da cartelle informative passatemi da persona di cui
non ho voluto fare il nome (in effetti Guido Giannettini, informatore del Sid, NdA), ebbi conferma
che gli attentati dell’agosto non erano che il prodromo di altri più grossi attentati, attentati che si
erano poi concretizzati in quelli del 12 dicembre 1969; e che così come aveva detto il Freda si
inquadravano in una strategia di progressione sul territorio. In altri termini Freda, in occasione degli
attentati dell’agosto mi aveva detto che la situazione politica avrebbe potuto trovare uno sbocco nel
quadro di una prospettiva di restaurazione, intensificando il programma d’attività terroristica,
accompagnato da iniziative dirette a riunire tutti i gruppi aventi per intenzione l’abbattimento delle
istituzioni e dell’ordinamento democratico”.
La strage è, se la si vuol leggere fino in fondo, un biglietto da visita.
Poco più di due mesi dopo la strage, nel febbraio del 1970 il settimanale Panorama, imbeccato da
una “fonte autorevolissima” fa una rivelazione: lo Stato sa tutto sulla strage ma non può parlare.
Gruppi neofascisti hanno avuto una parte negli attentati di Roma e Milano. Le autorità inquirenti
conoscerebbero i nomi e i ruoli avuti negli atti terroristici. Per ora, però, non se ne parla, visto il
delicato momento politico e le trattative in corso per la non facile formazione del governo del dopo
strage.
“Lunedì 16 (febbraio) prendendo la parola sul programma di governo esposto da Rumor, un
rappresentante della corrente Dc della Base, l’On. De Poli, disse testualmente: ‘Il governo di centro
sinistra che nasce sulle bombe di Milano, che sono bombe di destra, dovrà stabilire nuovi rapporti
tra maggioranza e opposizione, soprattutto a salvaguardia del sistema democratico del Paese,
esposto a pericoli d’involuzione autoritaria’. Il Presidente del Consiglio non batté ciglio e
ugualmente impassibili rimasero alcuni presenti che erano tutti al corrente di voci che circolavano
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insistentemente a proposito di una prossima clamorosa svolta nelle indagini sulle bombe. […]
Secondo queste voci, raccolte da fonte autorevolissima anche dai redattori di Panorama, negli
attentati avrebbero avuto un ruolo anche individui o piccoli gruppi d’estrema destra (ma non
collegati al Msi). Sempre secondo queste indiscrezioni le autorità inquirenti già conoscono i nomi e
la parte giocata da ciascuno di essi. Ma l’opportunità di non turbare in questo momento delicato,
date le trattative di governo, l’opinione pubblica, avrebbe consigliato di tenere per il momento
riservate queste notizie, pur prendendo tutti i provvedimenti pratici necessari ad assicurare alla
giustizia i presunti colpevoli”.
De Poli altro non è che il legale, veneto, di Guido Lorenzon, l’amico Dc di Giovanni Ventura,
l’editore di destra legato a Franco Freda e tramite, grazie alla sua immagine d’editore di sinistra,
con i gruppi anarchici e della sinistra estraparlamentare. Lorenzon è colpito da rimorso subito dopo
la strage per quanto gli racconta il suo stretto conoscente, Ventura, che fa rivelazioni sulla cellula
veneta di Ordine nuovo e sulla scelta strategica delle bombe come arma per costringere il sistema a
“forzarsi”, a piegarsi a una superiore esigenza di sicurezza nazionale contro la marea montante – in
verità ormai scemata a dicembre – dell’autunno caldo, pericolo evocato, temuto ma anche atteso,
per varare l’operazione. L’articolo del settimanale chiama in causa direttamente Presidenza del
Consiglio (Rumor) e Viminale (Restivo).
De Poli, nel 1972, rivelò che quando prese la parola “volle rammentare a Mariano Rumor, allora
Presidente del Consiglio incaricato, che le forze democratiche, nerbo della Resistenza, e i sindacati
avrebbero fatto una barriera insormontabile contro ogni tentativo reazionario. Rumor non rispose”.
I servizi segreti stilarono una nota, in anticipo sull’uscita del pezzo, a proposito della tesi del
settimanale e la Procura di Roma esaminò l’opportunità di denunciare Panorama per “diffusione di
notizie false, tendenziose e atte a turbare l’ordine pubblico.”
I passaggi,drammatici, di quella lunga crisi di governo successiva alla strage furono ancora molti.
Rumor rinunciò all’incarico datogli da Saragat di formare un nuovo governo, così come Moro, dopo
una vera e propria congiura in casa Dc giocata sul “segreto della Repubblica’’, un segreto che non è
tale, almeno politicamente. L’Unità scrisse il 22 marzo 1970: “All’Italia che esce dall’esperienza
dell’autunno caldo, si è cercato di rispondere con un quadripartito, con le minacce di soffocamento
anticipato della legislatura, con le proposte di ‘direttorii’ ambigui e velleitari e con una serie di
documenti meschini (‘preamboli’, ‘pacchetti’, eccetera)”. Uno scontro senza precedenti di cui si
coglie in superficie solo l’allarmatissima preoccupazione del Pci. Quali erano e da chi avrebbero
dovuto esser composti i “direttori ambigui” di cui parla il giornale del Pci? Più avanti troveremo
un’ipotesi che potrebbe avere un suo fondamento.
Alla fine, Rumor ricostituirà uno striminzito e traballante governo, frutto di una serie d’ aspri ricatti,
sostanzialmente pubblici, come dimostrano i giornali di quelle settimane. E una affermazione fatta
da Armando Cossutta nel novembre del 1998 può aiutare a capire il “sommerso” di quelle
drammaticissime settimane quando i giornali di sinistra invitavano al “controllo democratico” visti i
rischi che correva la democrazia. Cossutta dà una versione tutta in positivo di un incontro riservato
con Saragat, impossibile in quel contesto politico, che induce a ‘leggerla’ in ben altro modo. In
quelle settimane il Pci era pronto, con documenti falsi, imbarcazioni e travestimenti a mettere in
salvo Saragat nel caso di tentativi eversivi. Cossutta era all’epoca coordinatore della segreteria del
Pci e andò da Saragat per esporgli i timori del partito per lo “sferragliar di sciabole dei militari” che
potevano portare ad un colpo di Stato. “Se gli avvenimenti prenderanno una piega irreparabile
siamo pronti a metterti in salvo – gli dissi – e Saragat allora mi abbracciò”. Così nel nome della
democrazia da salvare quell’abbraccio superò “anni di dura polemica che contrapponevano
comunisti a socialdemocratici”. Cossutta ha spiegato che è probabile che quel colloquio si sia svolto
tra il 3 e il 12 marzo a cavallo del pre-incarico dato a Moro da Saragat. “La data non la ricordo. Era
comunque durante una crisi di governo….Potrebbe essere”. L’esponente dell’ex Pci ha aggiunto
che il riferimento alle sciabole “fu usato pochi mesi dopo, quando si venne a conoscenza del Piano
Solo e del tentativo del golpe Borghese”51. In effetti nel 1970 del ‘Piano Solo’ già si sapeva dato
51
“Cossutta rivela, nel ’70 il Pci pronto a mettere in salvo Saragat”, Ansa del 12 novembre 1998
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che Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi erano stati condannati per diffamazione nei confronti del
generale De Lorenzo, già nel marzo del 1967. Questo episodio ha quindi due possibili letture: o
Cossutta volge al bene un colloquio ben più drammatico e diretto, visto quello che scriveva L’Unità
in quei giorni, e quindi il giudizio di oggi è ‘velato’ da un rovesciamento di senso, oppure il Pci
sapeva che l’altra cordata della trama eversiva, quella che prevedeva l’arresto di Saragat da parte di
Licio Gelli e del manipolo che doveva occupare il Quirinale nel dicembre del 1970, si stava
dispiegando con il sostegno di un’ala della Dc, come ha accertato l’inchiesta Salvini.
Altra variante possibile è che gruppi o realtà politiche facessero pressioni pesanti sul Presidente
della Repubblica (basta rileggere i giornali di quei giorni per verificarlo) per impedire la nascita di
un gabinetto Moro, magari minacciando rivelazioni su presunte suggestioni o ipotizzate
disponibilità. L’episodio comunque è interessante perché è francamente inspiegato e inspiegabile
che il maggior partito di opposizione, in quel contesto, si offrisse di garantire l’incolumità del Capo
dello Stato. Minacciata da chi?
L’ipotesi più drammatica vede il Pci dare la sua disponibilità a ‘salvare’ un Saragat sotto ricatto da
parte di strutture, uomini, gruppi che si sentivano minacciati dal traballante ma comunque attivo
avanzare delle inchieste e quindi , in caso di reazione della “piazza di destra” o della ‘cordata’
politico-istituzionale che si sentiva minacciata, il Pci avrebbe offerto con il suo apparato una via di
fuga concreta al Capo dello Stato.
Prima della strage, il Psdi, evocando i poteri di scioglimento delle Camere di Saragat, aveva posto
una serie di rinnovati ultimatum contro la rinascita del centrosinistra organico, proponendo il ritorno
al centrismo, cioè un governo con dentro i liberali che avrebbero sostituito i socialisti accusati di
aver scelto l’intesa strategica con il Pci, proprio nel momento in cui il sistema economico e le
contrattazioni sindacali, che si stavano chiudendo, davano segnali confortanti di aver retto alla tanto
temuta vampata rivoluzionaria dell’autunno caldo.
Una sterzata politica programmata in vista della verifica che si trascinava da ottobre-novembre,
quando il Presidente del Psu, Mario Tanassi, con un’intervista a Epoca aveva posto il problema se
la Dc volesse o no il Pci nell’area di governo, chiedendo che sulla questione i cittadini si
esprimessero. La Dc era in subbuglio. La sinistra interna aveva posizioni di dichiarata apertura al
confronto con il Pci. Botteghe Oscure stava alla finestra in attesa dello sbocco della crisi. Psdi e
liberali invocavano le elezioni con il Pri che, più debolmente, condivideva la linea d’intransigenza.
Il tutto, dopo i rinnovi contrattuali che si stavano positivamente chiudendo in quei giorni, era
rimandato a metà dicembre.
La strage arriva quando si deve decidere che strada imboccare e Rumor, poche ore dopo la bomba,
quando a Milano la sinistra schiera migliaia d’operai per impedire quella che lo stesso Presidente
del Consiglio definirà in un’intervista di qualche giorno dopo una “folle avventura”, chiede subito
un incontro con tutti i segretari del centrosinistra per far rinascere l’intesa.
In tutta la vicenda, quindi, sembra di intravedere due linee di sviluppo operative: una di vecchio
stampo, repressiva e legata direttamente agli apparati fascisti, sopravvissuti alla Resistenza, e l’altra
legata a uomini della Resistenza “bianca”, a logiche di una gestione meno traumatica e più politica
della “strategia della tensione”. Uno scontro di ‘cordate’ che ruota anche attorno alla gestione delle
commesse militari in scadenza; all’emergere di gruppi come il Mar, dell’ex “partigiano bianco”
Carlo Fumagalli, o del comandante Junio Valerio Borghese che probabilmente vede fallire il ‘suo’
golpe già in gestazione nel dicembre del 1969 proprio perché non ci si fida, politicamente, di un
uomo troppo ingombrante visto il suo passato e le dichiarate aspirazioni politiche “in proprio”.
Due linee incarnate, va precisato e chiarito, in chiave strettamente politica, anche dai due uomini al
vertice dello Stato: Giuseppe Saragat e Mariano Rumor, stretti in un “gioco politico” che ai vari
livelli operativi sottostanti veniva visto, desiderato e interpretato in maniera concretamente diversa.
Linee politiche quindi distinte ai vertici, e che alla fine, dopo la strage, si separano lungo elementi
di differenziazione ancora mai evidenziati per intero, ma che avevano molti punti di contatto a
livello operativo: di uomini, di strutture dispiegate sul territorio, di contatti nei gangli dello Stato, di
referenti nei gruppi impegnati nell’innalzamento del livello di infiltrazione e scontro. Obiettivo
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massimo sarebbe stata la reazione del Pci nelle strade e lo scontro aperto che avrebbe imposto,
senza tentennamenti da parte di nessuno, l’uso dei militari. Quello, cioè, che si era realizzato ad
Atene dopo una sapiente preparazione di bombe ‘pilotate’ e di ‘sobillazione’ frutto di
manipolazione e infiltrazione. Quell’operazione venne gestita e organizzata direttamente da agenti
del Kyp, il servizio segreto greco e dei servizi americani, sia militari sia della Cia.
Insomma si trattava di “aiutare la realtà” a dare i frutti politici desiderati e ricercati, costruiti con un
sapiente gioco di specchi tra false veline dei servizi che ipotizzavano intese tra Dc e Pci e
conseguenti reazioni di destra e i gruppi della destra radicale che, con in mano queste veline
passategli dai servizi, prendono contatti, si attivano, agiscono avendo l’idea di essere parti di un
progetto tutelato, ‘coperto’.
Al centro, Aldo Moro, inviso a tutti e due i fronti per il suo voler vedere fino in fondo le richieste
che vengono dalla tumultuosa realtà italiana. Alla vigilia della strage, Il Secolo d’Italia tira fuori un
rapporto sulle terre di Berlinguer in Sardegna con intrighi edilizi e speculazioni per centinaia di
milioni. Un attacco diretto che però ha una curiosa origine: quelle carte vengono dalla rete di
Mosca, incaricata di screditare il giovane vice segretario del Pci. Le ritroveremo, pari pari, nel
rapporto Impedian di Vassily Mitrokhin, a conferma che Mosca ostacolò in tutti i passaggi
fondamentali l’evoluzione del Pci e il suo allontanarsi dalla ‘Casa Madre’, specie quando c’era la
prospettiva, grazie a Moro, dell’apertura di una fase pericolosamente nuova per la politica dei
blocchi. Lo stesso era accaduto già nel 1964, come abbiamo visto, quando l’obiettivo politico di
fondo era ancora Moro e la sua interpretazione aperta del centrosinistra. Come poteva piacere a
Washington e a Mosca un uomo che, subito dopo la strage, al Consiglio d’Europa che aveva
espulso, in concomitanza con le bombe, la Grecia dei colonnelli, chiedeva il superamento dei
blocchi?
Il Pci temeva il golpe, o quantomeno una levata di scudi: a partire dal marzo del 1969 impartì
direttive interne per rafforzare i controlli e revisionare gli archivi, distruggendo materiale di un
certo rilievo.
Il Pci si preparava comunque a quello che, bastava leggere i giornali, si veniva costruendo giorno
per giorno: una cornice entro cui muoversi per ‘forzare’ il sistema, le sinistre messe all’angolo e,
sulla scia di uno scontro modello 1948, ricominciare da capo visto che il ciclo politico della
Repubblica nata dalla Resistenza (in quei giorni il Corriere della sera pubblicava un’inchiesta
titolata: “Siamo nel 1922?”) si pensava irrimediabilmente esaurito.
Occorre un altro passo indietro per capire ulteriormente la motivazione politica della strage. A
Roma, nel febbraio 1969, arriva il neoeletto presidente americano Richard Nixon, accompagnato da
Henry Kissinger. “Il Segreto della Repubblica” spiega in dettaglio l’importanza di questo viaggio.
Sulla base dei documenti scritti da Kissinger dopo l’incontro Saragat-Nixon, fattigli avere dai
servizi inglesi prima della strage, Bellini afferma che Nixon si era impegnato a “tenere sotto
costante controllo l’evolversi della situazione italiana e a usare tutti i mezzi a disposizione del
governo americano per contrastare le manovre dei fautori dell’apertura ai comunisti: con
discrezione, ma anche in termini e provvedimenti efficaci”.52 “Saragat ha espresso la sua forte
preoccupazione per la crescita inarrestabile dell’influenza comunista, e ciò nonostante la presenza
di un sicuro amico dell’America, Rumor, al vertice del governo. Alle spalle di Rumor, ma molto più
influente, si sta preparando ad agire, indirettamente e quasi impercettibilmente, Aldo Moro, in vista
di quei cambiamenti che dovrebbero portare il Partito comunista a un passo dalle leve del potere”,
scrive Kissinger nel documento che riescono ad avere i servizi inglesi dopo l’incontro.53
L’incoraggiamento che viene da Nixon alla linea dura rappresentata da Saragat, come rivelano ora
anche i documenti americani declassificati54, è decisivo. Incontrando Nixon, in via riservata, Saragat
52
Fulvio e Gianfranco Bellini, op.cit., Milano, Selene Edizioni, 2005, p.31
Ibidem,p.31
54
Tutte le citazioni dei documenti Usa fanno riferimento agli articoli pubblicati da Ennio Caretto
nel marzo-aprile del 2004 sul Corriere della sera
53
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si lascia andare a un’analisi particolarmente preoccupata della situazione politica italiana. Il
generale Vernon Walters, futuro direttore della Cia, alla fine, ottiene direttamente (o tramite il
traduttore presente all’incontro) la trascrizione delle parole pronunciate del Presidente della
Repubblica: “Agli occhi degli italiani, il Pci si fa passare per un partito socialista attivista e
rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino; il suo capo, Luigi Longo, è a tutti gli effetti un
funzionario sovietico. I comunisti hanno condannato l’invasione della Cecoslovacchia e la nostra
stampa, e quella internazionale, vi hanno visto un distacco dall’Urss. È un errore, lo hanno fatto
perché gli italiani sono indignati, e per essere liberi di denunciare la Nato: la vogliono distruggere,
rendere prima l’Italia neutrale e poi allinearla con Mosca”. Saragat si propone, implicitamente,
come alternativa politica, quantomeno accanto alla Dc, dato che questo partito è “forte perché ha
l’appoggio del Vaticano, e lo merita perché è il pilastro della libertà e della democrazia in Italia. Ma
il Papa Paolo VI – una persona per bene – non ne capisce molto di politica, bisognerebbe dirgli che
se il comunismo vincesse finirebbe in esilio o diverrebbe come il metropolita Alexei in Urss”. Il
Presidente della Repubblica italiana continua dicendo tra l’altro: “Il Psi ha una frangia estremista di
sinistra, come pure la Dc, anche se con un peso maggiore: grazie alla complicità di questi due
gruppi antiatlantici, il Pci è in grado di causare grossi guai”. La nuova amministrazione Usa prese
tanto sul serio il discorso fatto “con il massimo candore” da Saragat da affidare al Consiglio di
sicurezza della Casa Bianca, diretto da Kissinger, un’inchiesta sul comunismo italiano che, alla fine,
portò all’invio a Roma di un nuovo ambasciatore, il “falco” Graham Martin, poi destinato a Saigon,
che aveva carta bianca per spingere verso una svolta a destra del governo. Strategia non condivisa
dalle “colombe’’ di Washington, tra cui vi era il Segretario di Stato William Rogers, favorevole al
centrosinistra ma con poco potere reale nelle sue mani. Nel luglio 1969 cade il primo governo
Rumor. Poco dopo nasce il nuovo governo Rumor, un monocolore con Moro agli Esteri al posto di
Nenni. Un rapporto della Cia di quei giorni ipotizza che il governo potrebbe cadere “a causa dei
torbidi movimenti operai e studenteschi”. In ottobre le “convulsioni italiani” secondo gli Usa sono
tali da spingere il ministro dei Trasporti Usa, John Volpe, che poi sarà ambasciatore a Roma, a
recarsi da Saragat che è sempre più allarmato. Il Capo dello Stato avverte l’inviato americano che
Nixon ora deve mantenere gli impegni e proteggere non solo l’Italia “ma tutta l’Europa, altrimenti
l’Urss tenterà di fagocitarla come Praga”, e arriva a dare agli Usa lo stesso ruolo che ebbe l’impero
romano, “arbitro dell’equilibrio e della pace mondiali”.
Saragat incontrando Nixon aveva indicato solo una strada di salvezza per l’Italia; un ritorno agli
equilibri politici antecedenti la “catastrofica linea politica” del centrosinistra voluta da Moro.
Volpe chiede a Nixon di invitare Rumor e Saragat a Washington per un chiarimento. Le due linee
sono evidenti anche agli analisti Usa. Bisogna mettersi d’accordo, chiarire la logica e i ruoli. Il
Segretario di Stato William Rogers e il Consigliere della sicurezza nazionale della Casa Bianca non
si trovano d’accordo sull’invito. Rogers vuole che la situazione si chiarisca subito. Poco dopo, lo
stesso Rogers fa sapere a Kissinger di aver ricevuto una lettera “dell’avvocato Paolo Pisano, che
dice di rappresentare l’editore Vittorio Vaccari e Rumor, secondo cui se non interverranno, a Roma
andrà al governo un Fronte popolare con i comunisti”. Secondo Pisano, “Moro è pronto all’intesa
con il Pci, facilitata dall’abbandono da parte del Vaticano della sua politica anticomunista”.
Kissinger tergiversa e chiede un’inchiesta dei servizi segreti americani sull’Italia e il Vaticano. Alla
fine propone il gennaio 1970 per la visita di Rumor (che poi non avverrà proprio per le bombe del
12 dicembre), e il luglio dello stesso anno per quella di Saragat. Kissinger sollecita Nixon a formare
una commissione d’inchiesta “sulle implicazioni per gli Usa di un ingresso comunista al governo di
Roma. [...] C’è il pericolo che in due o tre anni il Pci salga al potere, sarebbe prudente esaminare
l’emergenza, non possiamo farci cogliere impreparati”, scrive. Il capo della commissione è un nome
che ritroviamo nel libro di Fulvio Bellini, Elliot Richardson, un uomo di Nixon55. Il rapporto finale
dell’inchiesta però è ancora oggi segreto.
55
E per Richardson che Kissinger stese il rapporto sull’incontro Saragat- Nixon che poi,
tramite i servizi inglesi, arriva a Bellini.
40
41
In tutto questo fitto scenario internazionale bisogna inserire un elemento molto rilevante: il
congresso comunista del febbraio 1969 che segna una svolta reale rispetto al passato. Ecco come
qualche mese dopo, in novembre, Mario Tanassi, presidente di quel Psu nato in estate dalla
scissione socialista, rievoca quell’importante passaggio che spinse Saragat a chiedere il supporto e
l’aiuto americano: “Il congresso fu preceduto da un tambureggiamento propagandistico
d’eccezione. Sembrava che per i comunisti fosse arrivato il momento della palingenesi democratica.
Che il Pci sarebbe uscito dal congresso completamente trasformato e pronto a condividere le
responsabilità del potere. [...] I tre obiettivi fondamentali (del Congresso, N.d.A.) erano: isolare e
distruggere le forze socialdemocratiche; creare alleanze sempre più nuove e numerose in comuni
province e regioni, in attesa dell’alleanza col centrosinistra sul piano nazionale; provocare un
cambiamento nella maggioranza all’interno della Dc e del Psi. [...]
“In aprile, in maggio, era molto diffuso uno stato d’animo di rassegnazione: l’ingresso dei
comunisti nella maggioranza era visto come un fatto imminente e ineluttabile. Molti uomini politici
si preparavano a saltare sulla diligenza del nuovo regime. A destra c’era chi pensava, per reazione,
ai colonnelli. Insomma, si era perduta la prospettiva democratica e si credeva che in un modo o
nell’altro la Repubblica che conosciamo, quella nata dalla Costituzione, stesse per morire”.
L’alternativa che il Psu temeva maggiormente era quella di un governo Dc-Psi sostenuto “da tutte le
forze sinceramente democratiche” cioè con l’appoggio esterno del Pci. Moro “apre” e tutto si mette
in gioco rapidamente; alla sua “strategia dell’attenzione” verso il Pci si risponde con la “strategia
della tensione’’ verso il Paese, per impaurirlo e condizionarlo. Con uno schema che si ripeterà nel
’77-’78 dopo essere stato già sperimentato nel ’64, come abbiamo già visto.
E’ in quelle settimane di febbraio-marzo che si gettano le basi di quella solida inimicizia tra
Kissinger e Moro di cui si è a lungo parlato e che si è manifestata sempre nei momenti cruciali:
1975-76, 1977-78. Il “conforto” dato dagli americani a Saragat è evidente ma è chiaro che il
Presidente prende a modello più De Gaulle che i colonnelli greci. Ma qualcuno che a lui si ispira, in
chiave non strettamente politica, non la pensa così. “Roma fu la sola capitale dove Nixon venne
accolto da manifestazioni antiamericane di qualche rilievo…Gli incontri ebbero luogo in modo un
po’ casuale. Il Presidente Giuseppe Saragat volle ricevere Nixon senza la presenza dei ministri
italiani perché aveva paura, alla loro presenza, di esprimere i suoi cattivi presentimenti
sull’avanzata comunista…”56. Curioso perché in quel governo non vi erano altro che ministri Dc.
Quando Nixon arriva a Roma Il Secolo d’Italia riporta in ultima pagina un manifesto bilingue:
“Signor Presidente c’è chi vuole far uscire l’Italia dalla Nato”. E’ l’inizio dell’operazione. Il via,
con forti infiltrazioni della destra estrema negli scontri di quei giorni di visita a Roma del Presidente
Usa, ricordati con grande drammaticità da Mariano Rumor nelle sue memorie, 57 avviene in quelle
ore. Bisogna dimostrare che l’Italia è in mano ai “rossi”. Ingovernabile, alla deriva. Pronta a
‘scivolar via’ dalla Nato.
Peter Tompkins è stato agente americano a Roma, in clandestinità, durante l’ultima parte della
guerra. Trovò rifugio a Palazzo Caeteani, in una stanza segreta ,ed è ben addentro alle vicende dei
servizi segreti Usa in Italia.
Autore di un volume di memorie, “Partigiano a Roma”, l’ex agente segreto ha raccolto le sue idee
sulle attività dei servizi in un volume dedicato alla Strategy of terror58 che , nel caso italiano, ha
radici istituzionali che Tompkins individua nel ministero dell’Interno e in Umberto Federico
D’Amato, reclutato dagli Usa con il nome in codice “Delilah.”59 E’ lui per Tompkins il regista
principale dell’operazione Piazza Fontana che poi subisce diversi “strattoni” da più mani. L’ex
56
Henry Kissinger op.cit., p. 94
Mariano Rumor, Memorie (!943-1970),Neri Pozza Editore,Vicenza,1991,p.401
58
Manoscritto inedito di Peter Tompkins, 1991
59
La prova del “reclutamento” Usa di D’Amato è stata rintracciata negli archivi americani da un
professore dell’Università di Yale, Timothy J. Naftali, docente di Storia dell’Italia contemporanea
che per primo ha potuto consultare i documenti desecretati dal Dipartimento di Stato Usa relativi ai
rapporti tra i servizi segreti di Italia e Usa dal 1945 ai primi anni Sessanta. Vedi in particolare, “Servizi segreti:
Rivelazioni - D’Amato 007 ‘reclutato’ da Usa”, Adnkronos , 6 febbraio 1999.
57
41
42
agente Usa fa sua pienamente la lettura che della vicenda dà fin dal 1978 “Il Segreto della
Repubblica”: muovendo verso destra in piena solidarietà ed armonia con la crescente avversione
popolare alla “strategia del terrore” che si stava sviluppando in quei mesi, e che l’opinione pubblica
credeva opera della sinistra, “Saragat sperava di raccogliere 3 milioni di voti. Ma non poteva
anticipare la data delle elezioni senza una maggioranza nelle Camere avendo soltanto il sostegno
che aveva ricevuto da Nixon, la Cia e l’industria italiana”. Il grande spauracchio era appunto un
governo Dc-Psi con appoggio del Pci e del Psiup: una coalizione che avrebbe rappresentato circa il
70% delle forze presenti in Parlamento. “Per sconfiggere, annientare una tale coalizione, gli Usa
potevano soltanto sperare di creare un’emergenza più grande che avrebbe isolato Moro e la sinistra
Dc”, scrive Tompkins che cita proprio il libro di Walter Rubini, cioè Fulvio Bellini, a riscontro.
“L’ambasciatore Usa a Roma, Martin aveva scelto di andare all’attacco”. Il suo canale in
ambasciata con i vertici di Avanguardia Nazionale era rappresentato da Peter Bridges, Primo
segretario all’ambasciata di Via Veneto. “All’organizzazione terrorista di Delle Chiaie fu dato disco
verde ma Bridge disse che la responsabilità doveva cadere sulla sinistra”, scrive Tompkins. La
Confindustria – scrive sempre Tompkins nel dattiloscritto – “chiedeva intanto al governo di
eliminare gli scioperi ‘politici’ e, con un rapporto top secret, a Saragat un governo forte, senza i
socialisti, che potesse controllare gli operai nel Nord d’Italia, proibire i ‘picchetti’ operai, e mettere
fuori legge la ‘propaganda sovversiva’ e le ‘assemblee sediziose’”. In quelle settimane, a cavallo di
giugno-luglio, Panorama riportava le parole di un anonimo funzionario del Viminale: “Basterebbe
che un poliziotto fosse ucciso in una manifestazione, colpito dai dimostranti con armi da fuoco.
Sarebbe quello che è utile per iniziare. Il Capo dello Stato e il governo potrebbero dichiarare lo stato
d’emergenza”. Più avanti ritroveremo il giovane diplomatico Peter Bridges, che parlava
fluentemente l’italiano, nei contatti che a fine 1969 l’ambasciata Usa intraprende, indirettamente,
con il Pci.
Anche nel ‘70-’71, come abbiamo visto, l’altro problema centrale dello scacchiere politico italiano
è chi andrà al Quirinale dopo Saragat: Moro o Fanfani. I documenti americani danno conto di quella
che definiscono quasi una “ossessione” della politica italiana e tra i due contendenti gli analisti
americani indicano un outsider che farà strada, Sandro Pertini.
Si sa che se Moro scalerà il Colle si potrà realizzare quella “Repubblica Conciliare’’ che tanto
spaventa giornali come Il Borghese e Candido. Nel 1969 si parla di “nuovo patto costituzionale”
(De Mita) e di “centrosinistra senza preclusioni” (De Martino). Nel 1978 di “compromesso storico”,
ma il problema è lo stesso, e questo lega indissolubilmente la strage di Piazza Fontana a via Fani.
Anzi la strada che porta in via Caetani, alle spalle di Botteghe Oscure, inizia proprio quel 12
dicembre del 1969 ed ecco perché la strage del dicembre e l’omicidio di Aldo Moro rappresentano
gli architravi del terrorismo italiano.
Subito dopo la strage, Kissinger non esclude che le bombe siano di destra: “La polizia italiana sta
arrestando anche i neofascisti con trascorsi terroristici”. Tra gennaio e febbraio né Rumor, né Moro,
né Fanfani riescono a formare un governo: l’Italia sembra lì lì per naufragare. A marzo, tra mille
dubbi, come già ricordato, ci riesce nuovamente Rumor.
Veneto, noto per la sua mitezza, era citatissimo nelle strade dai giovani di destra grazie allo slogan
“Le bombe fanno Rumor”. Dopo la strage, ricorda un suo stretto collaboratore di allora,
Piervincenzo Porcacchia, andò in Galleria a Milano per far vedere che tutto era sotto controllo e che
bisognava stare tranquilli. Però, Porcacchia ricorda anche che “in quei mesi arrivavano i giornalisti
stranieri che facevano sempre la stessa domanda: ‘Che cosa ne sapete di un imminente colpo di
Stato?’”.
Paolo Emilio Taviani ha escluso con decisione che Rumor potesse essere il terminale della strategia
stragista e quindi indotto a proclamare lo stato di emergenza all’indomani della bomba di Piazza
Fontana. “È falso perché Rumor caratterialmente era incapace non solo di farlo ma anche di
pensarlo”. È un fatto che Ordine Nuovo tentò più volte di uccidere Rumor per vendicarsi di
qualcosa. Tentarono con Vincenzo Vinciguerra, nel 1971, (“doveva pagare perché ha tradito. Non
ha approfittato della situazione, si è tirato indietro”, come gli disse Delfo Zorzi proponendogli
42
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l’omicidio) e poi con l’ambiguo attentato di Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico, ma ricattato
dal gruppo ordinovista veneto, secondo l’inchiesta Salvini.
Guido Salvini afferma che Rumor si defilò non avallando le richieste che venivano dal Quirinale fin
dalla stessa sera del 12 dicembre.
Vedremo che c’è qualche traccia di tutto questo tra le carte.
Il problema, come affermano i “pentiti” dell’inchiesta Salvini, era che Ordine Nuovo (e non solo
lui) “si aspettava” la proclamazione dello stato d’emergenza nazionale con relative sospensioni di
alcune garanzie costituzionali. Ma in politica le aspettative sono tante quante le delusioni.
Due linee strategiche si intersecano e si ricompongono: anzi, cerchi concentrici che si ignorano ma
si sostengono l’uno con l’altro, creando un accadimento, un fatto, una strage, con la forza dei
singoli cerchi che puntano, richiudendosi politicamente ed operativamente, sempre più al centro; al
punto zero. Una spiegazione che è stata avallata da uno dei più stretti collaboratori di Aldo Moro,
Corrado Guerzoni, con le parole pronunciate, nel 1995, davanti alla Commissione stragi. Se si
riflette su questa descrizione, a suo modo esemplare, tutto diventa politicamente intelligibile. “Al
livello più alto si dice che il paese va alla deriva, che ha dei grossi problemi, che i comunisti
finiranno per avere il potere anche a causa dei propri errori e che si deve fare qualcosa. Tra questo
cerchio e il successivo apparentemente non c’è un collegamento, perché sono appunto cerchi
concentrici, equidistanti l’uno dall’altro. Sappiamo però che c’è una forza sottostante, una sorta d’
onda lunga che li fa tenere in sintonia e li sprigiona. Al cerchio successivo si dice: ‘Guarda che sono
preoccupati, che cosa possiamo fare?’. Nel nostro ambito dobbiamo fare questo, questo ancora,
dobbiamo vedere di influire sulla stampa, eccetera’. Così si va avanti fino all’ultimo livello, quello
che dice: ‘Ho capito’. E succede quello che deve succedere. È la costruzione sistematica di un clima
che, così come per il potere e il comando, chi lavora è sempre all’ultimo livello, così anche in
questo caso. Ognuno non ha mai la responsabilità. Se lei va a chiedere a questo ipotetico onorevole
se lui è la causa di piazza Fontana, le risponderà di no, ammesso che sia in buona fede. In realtà è
avvenuto questo ed è accaduto sempre più sistematicamente, perché la Dc era un partito
sostanzialmente moderato”. Così, almeno uno dei cerchi si sente “coperto” e “autorizzato” a
muoversi, magari autonomamente, anticipando tempi e modi di un percorso d’innalzamento dello
scontro che era stato ipotizzato come più lungo e con passaggi non segnati dal sangue ancora per
molto tempo. Ecco perché probabilmente senza il “cerchio” che faceva riferimento a Rumor non ci
sarebbe stato quello che faceva riferimento a Saragat, e viceversa. Senza On non ci sarebbe stata
An, senza il Sid non ci sarebbe stato l’Ufficio Affari Riservati del Viminale.
Il quotidiano inglese The Observer, il 6 dicembre, lo stesso giorno in cui diventa irreperibile a
Milano Giangiacomo Feltrinelli, pubblica un articolo in cui si sostiene che la Grecia sta preparando
un golpe in Italia. Nei giorni successivi, il giornale inglese attacca duramente Giuseppe Saragat
denunciando la sua “strategia della tensione” che aveva indirettamente incoraggiato l’estrema destra
a passare al terrorismo. Dopo la strage, Londra denuncia un piano “da paura”: “L’inaspettata
moderazione dell’autunno caldo minacciava di liquidare la paura della rivoluzione sulla quale aveva
puntato l’intero schieramento di destra, dai socialdemocratici ai neo-fascisti. Quelli che hanno fatto
esplodere le bombe hanno riportato indietro quella paura”. Una spiegazione chiara e convincente.
Il 14 dicembre il giornale inglese, “imbeccato” dai servizi di Londra, come vedremo, avanza una
analisi della scissione socialista e dei suoi fini reali: Saragat “stava cercando più che influenzare i
socialisti, di spostare la Dc verso la destra. Il calcolo era che il governo Rumor sarebbe caduto a
causa delle agitazioni nel settore industriale, che elezioni di emergenza si sarebbero tenute nel
nuovo anno e che la paura del comunismo avrebbe spazzato via alle elezioni la forte corrente di
sinistra della Dc. Questo avrebbe eliminato la possibilità di una coalizione con i comunisti”.
Gli attacchi da Londra si susseguono, tanto che si arriva a un passo ufficiale di protesta
dell’ambasciatore italiano nella capitale inglese (non si capisce se effettivo o “mimato” per la
stampa). Il 20 gennaio, l’Evening Standard scrive: “Al momento del panico, dopo la bomba, il
Presidente italiano, sostenuto da potenti forze economiche, aveva progettato una strategia della
43
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tensione, tra cui lo scioglimento del Parlamento. Questo era un segreto che tutti in Italia sapevano,
ma di cui nessuno poteva scrivere”.
Nel 1975 Lino Jannuzzi pubblica su L’Espresso un articolo nel quale afferma che se si vuole sapere
perché la Cassazione bloccò l’inchiesta del giudice D’Ambrosio, quando questi stava per
interrogare l’ex capo dei servizi segreti Eugenio Henke, bisogna chiederlo a Saragat e Moro.
Jannuzzi cita a lungo il capo dei servizi segreti Vito Miceli, uomo di Moro, che nell’articolo si
difende così: “Io ho continuato a fare ciò che faceva il mio predecessore, l’ammiraglio Henke. E chi
ha messo e mantenuto al Sid l’ammiraglio Henke se non Saragat e Moro? Chi ha indirizzato e
coperto la gestione Henke, prima della mia gestione?”. Miceli accusa per difendersi, ma lega
sistematicamente Saragat e Moro. Sta evocando un patto segreto? “Chiedete a Saragat, chiedete a
Moro, domandategli di sciogliermi dal segreto militare, e io vi racconto che cosa ho ereditato da
Henke, che cosa Henke ha fatto, come me, prima di me, più di me, sotto l’ombrello di Saragat al
Quirinale e di Moro a Palazzo Chigi”. E Jannuzzi dà un altro affondo rivelando che Leslie Finer,
l’autore dell’articolo sul The Observer, “non era soltanto un giornalista; era collegato ai servizi
inglesi, all’Intelligence Service. Le accuse che in quello stesso periodo furono pubblicate a Londra
dallo stesso giornale, e che indicavano nel Presidente Saragat lo stratega principale della tensione,
non erano solo il frutto d’inchieste giornalistiche. Erano basate su informazioni riservate raccolte in
Italia dai servizi greci e dai suoi agenti collegati con il Sid dell’ammiraglio Henke e con gli ‘amici’
che Henke vantava al palazzo del Quirinale”. Saragat rispose, via agenzia, nel giro di poche ore,
dicendo, e non è un caso, che l’articolo comparso su The Observer “fu scritto nella libreria
Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. E questo spiega tutto”. Spiega tutto, perché, come ha
dimostrato l’inchiesta del Pm Salvini, l’obiettivo di una delle due cordate all’opera era certamente
l’editore “rosso”, l’unico che potesse portare al Pci, attraverso anarchici e gruppi limitrofi, come
Lotta Continua, dato che da tempo lavorava a una struttura militar-resistenziale – i Gap – che già
all’epoca era quasi operativa.
Ed ecco Valpreda, il ballerino anarchico, il “mostro”, che già il 27 del 1969 novembre temeva di
essere ormai in mano alla Questura di Roma, prigioniero di un gioco molto più grande di lui,
“l’Oswald italiano” secondo Epoca, un settimanale particolarmente informato in quelle settimane
ma anche in altri periodi cruciali, come abbiamo visto. Scriveva il ballerino ai suoi avvocati
milanesi Mariani e Boneschi, a proposito dei dubbi sulla presenza di una spia nel circolo 22 Marzo:
“La situazione è brutta, abbiamo avuto notizia che ieri, anzi questa notte, si è tenuta a Roma una
riunione segreta fra alcuni militari di carriera, forze di polizia e due cardinali, alcuni industriali e
magistrati, per cercare di far applicare alla lettera il Codice Rocco”. Valpreda disse ai magistrati,
dopo l’arresto, che la voce veniva da due paracadutisti che parlavano di un colpo di Stato: la sinistra
extraparlamentare sa anche la data, il 12 dicembre.
Il 9 dicembre (il 10 a Padova si comprano alcune delle valigie usate per la serie di attentati, e a
Roma si decide che un gruppo composito di Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo andrà a
Milano “per buttare tutto all’aria”), Mauro Ferri, tra i massimi esponenti dei socialdemocratici,
lancia l’idea di un ritorno al centrismo con Dc, Psu e Pli “nel caso si presenti la drammatica
necessità di garantire la libertà come con la crisi del luglio 1960”, cioè come accadde con lo
sciopero generale contro il governo Tambroni appoggiato dalle destre.
E quindi il cerchio si chiude: tutto il vortice messo in moto da Aldo Moro nel novembre 1968
sprigiona tutta la sua forza. Il “Segreto della Repubblica” è il golpe caldeggiato, solleticato,
stuzzicato da forze istituzionali che avevano perso la forza e la capacità di risolvere la crisi per via
interne al sistema politico: una bomba che puntava a “innescare” il golpe militare, scelta alla fine
venuta meno per il “tirarsi indietro” di alcuni settori della Dc. E sarebbe interessante sapere che
ruolo abbiano avuto in questa scelta Paolo VI e la Chiesa .
Lo smilzo pamphlet del 1978, nato dalle interpretazioni e dalle notizie in mano dei servizi inglesi,
ha rivelato con il tempo tutta la sua forza di analisi. Tanto da indurre un giudice a chiedere
all’autore quali fossero le fonti di una così chiara ricostruzione, che vedeva nello scontro tra Saragat
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e Moro, risolto alla fine con la sostituzione del saragattiano Mario Tanassi al posto del moroteo
Luigi Gui (lo stesso che il 22 dicembre, prima che Moro incontri il Presidente della Repubblica al
Quirinale, gli fa avere il rapporto del colonnello Pio Alferano dove si indica con chiarezza la regia
fascista della strage) nel fondamentale dicastero della Difesa (cioè alla guida politica dei servizi
segreti) e la contemporanea “sterilizzazione” dell’indagine sulla pista neofascista, della crisi
politico-istituzionale (e probabilmente militare) del dicembre 1969.
Il tutto si risolve il 23 dicembre del 1969.
Ora tocca a Moro affrontare Saragat. In quell’occasione viene stipulato un vero e proprio accordo
politico che prevede, da parte del Psdi, l’abbandono della pregiudiziale anti-Psi e il proposito di
sciogliere anticipatamente le Camere con connesse eventuali “folli avventure”, mentre Moro
s’impegna a non trasmettere o utilizzare il rapporto Alferano; il che significa accantonare, al di là
della volontà della magistratura, la “pista nera”.
Ma qual era l’obiettivo politico di Saragat? A cosa puntava il Presidente della Repubblica? A
svelarlo, quando Saragat è ancora vivo, è l’ex direttore de La Nazione e notista politico de Il Tempo
Enrico Mattei, un giornalista di destra noto per la sua correttezza e la grande professionalità che
all’epoca aveva più che altro un ruolo importante e riconosciuto di ‘alto consigliere’ dei politici.
“La teoria della ‘strategia della tensione’ non risparmiava il Quirinale – scrive – anzi lo considerava
il centro promotore, con l’accusa che veniva riecheggiata persino da autorevoli giornali inglesi di
seria tradizione. […] Chi fu vicino a Saragat in quei momenti non poté non ammirare la fermezza
con cui fece fronte alla più grave tempesta politica e istituzionale che abbia investito la Repubblica
italiana. Fu in questa congiuntura politica procellosa che una mattina venni chiamato al telefono a
Firenze: il Presidente della Repubblica avrebbe gradito fare colazione con me. L’indomani ero a
tavola con lui nella palazzina Einaudi a Castel Porziano. Eravamo in tre, c’era anche il figlio di
Saragat, Giovanni, giovane diplomatico temporaneamente occupato alla Presidenza della
Repubblica. Dopo il caffè Giovanni tuttavia si alzò, salutò e si ritirò. Mi disse allora il Presidente
che egli considerava con accresciuta angoscia la crisi della Repubblica democratica, a suo parere
avviata alla paralisi funzionale. ‘La generazione della Costituente, la generazione di De Gasperi non
ha eredi – mi disse –. C’è un’ondata di anarchia spesso violenta che assale da ogni lato. Manca una
classe politica che la sappia fronteggiare. Ogni giorno lo Stato è costretto alla capitolazione. In
queste condizioni mi sono più volte chiesto se non sarebbe toccato a me il compito di prendere
qualche iniziativa per la salvezza della Repubblica. Ora vorrei sentire il suo parere. Non dovrei
dimettermi da questa carica subito dopo aver sciolto il Parlamento, e assumere io la guida di una
campagna elettorale di riscossa democratica, del tipo di quella che procurò la grande, decisiva
vittoria del 18 aprile 1948?’ La mia risposta fu molto semplice. Osservai che le deformazioni che la
Repubblica italiana aveva subito non erano piovute dal cielo, erano il frutto della gramigna
partitocratica insinuatasi in tutte le strutture costituzionali. Un appello al popolo non ci avrebbe dato
che un Parlamento simile se non peggiore di quelli degli ultimi anni. Se De Gaulle era riuscito a
‘rifare’ la Repubblica in Francia, consunta dai nostri stessi mali, era stato perché aveva potuto fare
approvare al Paese un progetto di riforma che estirpava le radici della partitocrazia. Ma per
realizzare questo disegno c’era voluto il colpo di Stato di Ajaccio e di Parigi. C’era voluto il
colonnello Massu, c’erano voluti i paracadutisti di Algeri e della Francia metropolitana. ‘Ma lei,
signor Presidente, se la sente di mettersi su questa strada? E dove li trova i colonnelli Massu? E che
cosa succederebbe in Italia se lei annunciasse con un suo proclama la sospensione quadrimestrale
della Costituzione, affidando alle cinque più alte cariche dello Stato una riforma costituzionale
risanatrice, da mettere in votazione con un referendum? Se anche prendesse l’impegno di costituirsi
all’Alta Corte di Giustizia, nel caso che il referendum le fosse contrario, l’operazione sarebbe
possibile?’ Saragat apparve contrariato dal mio discorso, facendomi capire che non avrei dovuto
permettermi di avanzare una simile ipotesi alla sua presenza. ‘Comunque – mi disse – quello che si
è fatto in Francia non sarebbe possibile in Italia. Sono stato ambasciatore a Parigi (oltreché esule) e
conosco bene quel Paese. Ma io avevo desiderato conoscere il suo parere su ben altro disegno,
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concepito nel quadro di una assoluta ortodossia costituzionale. I colpi di Stato non mi interessano,
anche se sono convinto ammiratore di ciò che ha potuto fare De Gaulle in Francia”.
È facilmente deducibile che la proposta fatta da Mattei del quadrumvirato (il “direttorio” di cui
parlava L’Unità?) o era stato proposto nella conversazione da Saragat, oppure era a diretta
conoscenza di Mattei. Certamente il direttore non avrebbe potuto citare un tale dettagliato piano di
“forzate riforme” nella sua replica al Presidente, se non gli fosse stato quantomeno esposto dal
Presidente o da lui confermato.
Il magistrato Gerardo D’Ambrosio, dopo la sentenza della Cassazione che ha chiuso
definitivamente la vicenda giudiziaria sulla strage, ha affermato che per sapere qualcosa in più ci si
dovrebbe rivolgere al leader di Ordine Nuovo, Pino Rauti (era lui che teneva i contatti con ambienti
Dc?), e a Giulio Andreotti che svelò la natura di informatore di Guido Giannettini, anello di
collegamento tra il Sid e la cellula ordinovista veneta di Freda e Ventura. D’Ambrosio aveva
scoperto che Giannettini era stato assunto dal Sid dall’allora capo di Stato maggiore, e che
l’ammiraglio Henke continuava a pagarlo con i soldi dei servizi segreti anche durante la latitanza.
La domenica successiva la Cassazione tolse l’inchiesta a D’Ambrosio e la spedì a Catanzaro.
Interrogato durante il processo a Catanzaro Giulio Andreotti escluse che tra i motivi che lo
indussero a rilasciare l’intervista che svelava il ruolo d’ informatore svolta da Giannettini vi fosse
una lettera di D’Ambrosio al capo dello Stato Giuseppe Saragat. Henke aveva certamente nascosto
alla magistratura la notizia su Giannettini “per motivi superiori”.
Per dare il senso concreto dell’incomprensione tra Saragat e Moro in quei mesi citiamo sempre
dalla stessa inchiesta di Mattei. “Ricordo quanto Saragat poco stimasse gli uomini politici italiani
che assumevano posizioni ambigue sul problema del comunismo. Una volta mi confidò il fastidio
che gli procurava Moro, che regolarmente evitava di ricordare che l’Italia era nel patto Atlantico,
preferendo ricorrere a circonlocuzioni come ‘la collocazione internazionale dell’Italia’, o altre
simili. ‘Questo comportamento - mi disse Saragat - mi ricorda quello delle monache di un tempo
che per non nominare certe parti del corpo le chiamavano pudende’”60.
Certamente quello fu un periodo particolare che inizia nel 1967, come ricorda il generale
Gianadelio Maletti, dell’Ufficio ‘D’ del Sid in anni successivi e accusato di aver fatto fuggire
alcuni dei neofascisti coinvolti nelle inchieste. Quando deve spiegare quelle sue azioni il generale
dice di aver “ereditato” una certa situazione che si era determinata proprio in quegli anni, con la
presenza di neofascisti con funzioni informative, e non solo, nei servizi segreti. Una “infiltrazione”
frutto della paura del ‘nuovo’ che stava covando ma anche dell’affermarsi di teorie, prassi,
manualistica e ‘logica d’ intervento’ legate ad una visione di contrasto attivo del ‘fronte interno’,
cioè dei partiti e movimenti di sinistra. La ‘guerra’ era in casa anche se a ‘bassa intensità’ militare e
ad ‘alta intensità’ sociale e politica e tutte le armi potevano e dovevano essere utilizzate.
Una situazione politica poteva e doveva essere ‘costruita’, se necessario, e la strage, i suoi
presupposti, lo furono con un sapiente, complesso e articolato gioco di specchi tra politici, servizi e
neofascisti che infiltrarono e in alcuni casi condizionarono molti gruppi della nascente sinistra
estraparlamentare. Ma anche nella Dc come accadrà con On a Mestre, come svelò un processo
promosso da Lotta Continua, in settori del Psi, e in altri gruppi e partiti a livello locale.
Vincenzo Vinciguerra intervistato nel carcere dove sconta la condanna per l’attentato di Peteano dà
la sua interpretazione del 12 dicembre 1969. Una lettura interessante perché introduce un’ulteriore
variante nel gioco a specchi tra politici e gruppi dell’estrema destra. “Il 12 dicembre non è un colpo
di Stato che rovescia, che muta il regime, assolutamente no; è la proclamazione dello stato
d’emergenza che rafforza il regime, elimina le opposizioni che sono da eliminare, a mio avviso
anche le destre”. “Il 12 dicembre ha rappresentato il massimo momento di consenso, sul piano
politico, di tutte le forze anticomuniste”, che subito dopo però litigano sulla strategia da sviluppare
e soprattutto sulla ‘gestione’ della strage e delle sue conseguenze quando non accade quello che ci
si attendeva. Ben diverso sarebbe stata la situazione se invece che 17 morti colpevoli solo di essere
60
Enrico Mattei, “Saragat all’alba degli anni di piombo”, Il Giornale, 20 giugno 1985.
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nel posto sbagliato di morti ce ne fossero stati 100. Le cose in quel caso sarebbero andate,
probabilmente, in maniera diversa da come si sono sviluppate. Ma i ‘se’ poco aiutano a capire
quello che in effetti accadde.
Il ruolo di Rumor? “Direi che ha alzato gli elementi veneti, e non soltanto veneti, lui e Flaminio
Piccoli che ha pesantissime responsabilità politiche mai evidenziate da alcuno, in tutta questa
strategia chiamata della tensione”
E Vinciguerra spiega la catena di ricatti che si sviluppò in Ordine Nuovo durante le indagini, con
Franco Freda che “detta” a Marco Pozzan le parole che serviranno a motivare l’arresto del leader di
On accusato di aver partecipato alla riunione del 18 aprile 1968 a Padova che diede il via alla
strategia delle bombe. “E’ un avvertimento preciso, come un avvertimento ad un’intera classe
politica e militare doveva essere l’eliminazione di Rumor. Nel momento in cui c’è il massimo di
consenso da parte di tutte le forze anticomuniste, qualcosa o qualcuno impediscono di proclamare lo
stato di emergenza. Quindi tutto quello che si è fatto diventa praticamente inutile. Non è da
escludere che fra le persone che non se la siano sentita di arrivare alla proclamazione dello stato di
emergenza, ci sia Rumor. Ma la rappresaglia contro di lui non scatta per questa decisione che
probabilmente è influenzata dagli Usa, da eventi, da pressioni internazionali. Scatta dopo, quando
per la prima volta (aprile del 1971 , NdA) Freda e Ventura vengono arrestati.” Allora nascono anche
i dubbi sull’effettivo ruolo di Pino Rauti e “non a caso gli avvertimenti giungono uno a lui, con
l’arresto, uno a Rumor con il tentativo di eliminazione, di omicidio”. Infatti nel settembre del 1971
da Vinciguerra si presentano Maggi e Zorzi “chiedendo di eliminare Rumor”. Proposta rilanciata
nel marzo del 1972:. “Io avrei fatto più che volentieri questo tipo d’operazione, un atto di giustizia
politica, ma l’errore che compiono è quello di dirmi che non avrei avuto problemi perché c’era
l’accordo con la scorta. A questo punto mi fermo”.
- Ma perché uccidere Rumor?
“Le motivazioni vere non me le dicono, affermano che è stato programmato un piano per eliminare
alcune personalità politiche e fanno anche il nome di Moro, fanno il nome anche di altre persone.
Alla fine non se ne fa nulla e c’è, nel maggio del 1973, la bomba alla questura di Milano, che
doveva essere contro Rumor, di Gianfranco Bertoli.
- Rumor è l’unico Dc oggetto di un attentato ad un politico, perché?
“Chi agisce, ha agito sul piano operativo, compiendo un atto come quello di Piazza Fontana, non
intende essere chiamato a risponderne di fronte alla magistratura di un paese che è guidata, asservita
al potere politico, che è poi quello che ha determinato la strage di Piazza Fontana. Che prove
possono portare? Chi potrebbe credere alle parole di una persona accusata di strage che chiama in
causa il Presidente del Consiglio? Nessuno”.
“La caratteristica della strage – dice ancora l’ex componente di On e An - è quella di colpire nella
massa; ed è ciò che diceva Guerin Serac ed è quello che dicono i manuali dei servizi segreti
francesi poiché l’Oas è una espressione di una parte dei servizi segreti francesi.(…) Il
coinvolgimento dell’Aginter Press nelle vicende italiane comincia nel 1967-1968 nella ispirazione e
nella direzione per l’esperienza che proveniva agli ufficiali francesi che avevano fatto parte
dell’Oas di quelle che sono le tattiche di infiltrazione e sovversione; sono loro che addestrano
principalmente gli italiani a fare poi quello che hanno fatto, sono loro che mandano i manuali. I
francesi hanno addestrato gli italiani. Jean Denis era uno di questi, l’ho conosciuto personalmente.
Addestrarono noi di Avanguardia Nazionale; c’insegnarono le tecniche.” 61 Vedremo che accanto ai
francesi dell’Oas ci sono anche i tedeschi della rete dell’ex nazista Reinhard Ghelen, capo per molti
anni del servizio segreto della Germania dell’Ovest.
Quando esplode la bomba di Piazza Fontana, Moro è a Parigi dove presiede la riunione del
Consiglio d’Europa che ha appena espulso la Grecia dei colonnelli – e questo pesa nella scelta del
giorno della strage - Rumor è a letto, come molti altri milioni d’ italiani con l’influenza e Forlani,
Segretario della Dc chiama il responsabile milanese del partito, Camillo Ferrari chiedendo di essere
61
Intervista dell’autore a Vincenzo Vinciguerra
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informato di tutto ogni mezz’ora. “L’impressione di Ferrari è che a Roma, in Piazza del Gesù, si
tema il peggio e ci si prepari al peggio”62. Nelle sue memorie Mariano Rumor annota commentando
l’immediato dopo-strage: “Era un segno di un attacco allo Stato? Era l’inizio di una rivolta
terroristica contro i cittadini per colpire le istituzioni?”. Rumor decide di rivolgersi direttamente alla
nazione dal tg delle 20. Non sembra avvertire nessuno di questa sua iniziativa. Subito dopo è
previsto un Consiglio dei ministri notturno “per dare al paese la certezza che tutto il governo era
consapevole della gravità della situazione e deciso a contrastare ogni tentativo d’intimidazione, di
sovversione e di violenza”. A folle corsa su una macchina con pochi amici, senza scorta, Rumor va
verso via Teulada, sede degli studi dei Tg.“I tempi stringevano e bisognava correre ogni rischio per
non perdere la possibilità di parlare al primo tg della sera, dando un segno di immediatezza della
reazione del governo all’evento tragico che aveva sconvolto la coscienza nazionale”. L’appello fu
improntato a una dura condanna e al richiamo ai valori della Costituzione. “Occorre, cittadini, che
ognuno di noi si riconosca nella legge, si senta parte di una comunità che può perdere se stessa se
non si unisce alla legge che la garantisce e la difende”.63 Andò bene. L’appello stemperò lo
sbandamento: “C’era un Governo che aveva precisa la dimensione drammatica e rischiosa degli
eventi ed era deciso a fronteggiare ogni attacco alla pace e alla serenità degli italiani e alla sicurezza
dello Stato”.64 Subito dopo il Consiglio dei ministri notturno che fu “più un fatto politico che
operativo”65, Rumor s’incontra con Piccoli e Forlani e si decide di riproporre subito la formula di
centrosinistra. Poi Milano, i funerali, con Nenni che piange in Duomo e l’invito a Rumor di uscire
da una porta laterale per evitare problemi. “E’ un ricordo che non mi si cancellerà mai dalla mente.
Una folla pressoché tutta di lavoratori gremiva la piazza del Duomo e gli accessi circostanti; senza
vessilli, senza bandiere: era il popolo di Milano…”. “Nella mia vita politica non ricordo di aver
partecipato ad un momento di tanta compostezza, di tanta austerità, di tanto rispetto: per i morti e
per quelli che li avevano perduti”. Rumor sottolinea: “La partecipazione al funerale di Milano mi
aveva infuso una strana fiducia di poter superare le tremende difficoltà che mi si paravano
davanti”66. Il 23 mentre si svolge al Quirinale l’incontro Moro-Saragat Rumor vola a Milano per
incontrare nuovamente i feriti.
Per capire fino in fondo come si sia arrivati a tanto si deve ritornare nuovamente al fondamentale
novembre 1968. Dopo il maggio francese, l’emarginazione di Moro, il suo “rientro” su posizioni
nuove. “Era molto cambiato. Aveva avuto un periodo di calma e di riflessione e poi era tornato alla
vita politica, ma in maniera nuova. E’ da quella pausa che emerge la sua elaborazione sul grande
cambiamento in atto nella società (‘tempi nuovi si annunciano’) 67. Nascono i ‘morotei’ e poche
settimane dopo, a Battipaglia, la polizia spara su braccianti agricoli in lotta da 10 giorni per ottenere
la parità retributiva: 2 morti e 50 feriti. Il 19 gennaio il Consiglio Nazionale elegge Piccoli
segretario della Dc con 85 voti a favore, 87 bianche e 5 nulle. 19 “franchi tiratori” votano con la
sinistra che annovera morotei, Forze Nuove e Base. Moro attacca duramente il suo partito. Il
Secolo d’Italia scrive a commento: “Se un uomo della prudenza e dell’attendismo dell’ex
Presidente del Consiglio si è deciso ad un passo che lo pone al di sopra di tutti, perché lo pone
contro tutti, significa che veramente la casa democristiana brucia; significa, cioè che nella Dc la
situazione è insostenibile anche per il più consumato e calcolatore dei suoi personaggi”. A fine
febbraio la visita di Nixon e forse le richieste Usa si sommarono alle suggestioni del Presidente
della Repubblica e di quello del Consiglio. Nixon è accompagnato a Roma dal generale Walker che
incontra riservatamente i generali Aloja e De Lorenzo. Il Secolo d’Italia esce a tutta pagina con il
titolo “Il governo commissiona al Pci le manifestazioni contro Nixon” criticando duramente la
politica di “scivolamento” fuori dalla Nato attuata da Nenni alla Farnesina. Stefano Delle Chiaie e i
suoi picchiatori partecipano alla manifestazione contro la visita di Nixon con dei braccialetti rossi e
62
AaVv, Le bombe di Milano, Guanda Editore, Milano, 1970,p.77
Tutte le citazioni sono tratte da, Mariano Rumor, op.cit.
64
Ibidem
65
Ibidem
66
Ibidem
67
Agnese Moro, op.cit.,p.51
63
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49
distintivi comunisti. Alcune delle molotov lanciate contro uffici di società Usa a Roma sono
scagliate dai gruppi infiltrati. Roma è tappezzata di manifesti che riportano questo slogan:
“Attenzione Nixon! L’Italia si prepara a tradire gli impegni Atlantici sottoscritti con gli Stati Uniti e
a portare i comunisti al potere”.
Il Pci affronta il nodo dei rapporti con l’Urss dopo l’invasione della Cecoslovacchia al congresso di
Bologna che nomina Berlinguer vicesegretario del partito. Una settimana dopo alla Direzione Dc
Moro rilancia la sua “strategia dell’attenzione” verso i comunisti italiani.
A marzo il dialogo avviato da Moro fa esplodere le contraddizioni nel Partito socialista unificato:
“De Martino vanta la vittoria della sua politica che ha portato all’inserimento dei comunisti nella
maggioranza e al superamento degli accordi programmatici”, scrive Il Secolo d’Italia. De Martino,
vicepresidente del Consiglio, non aveva preso parte agli incontri con Nixon. Rumor attribuisce la
causa ad un disguido del cerimoniale. Nenni, Ministro degli Esteri, sostiene l’oppositore del regime
dei colonnelli, Papandreu, anche ‘operativamente’ attraverso la corrente che fa capo a Giacomo
Mancini. Il Ministro degli Esteri lo incontra a Roma. Passo diplomatico di Atene e la destra parla
subito di “sabotaggio alla Nato”. A Verona una bomba esplode il 22 aprile nell’atrio del palazzo
della Coldiretti. L’inchiesta Salvini indica questo episodio come l’inizio della “strategia delle
bombe” da parte del gruppo ordinovista veneto. Intanto cinque milioni di operai ed impiegati si
preparano al rinnovo di 32 contratti di lavoro. Tra di loro 1 milione e 270 mila metalmeccanici,
350.000 chimici, 800.000 edili, 1 milione e mezzo di braccianti. Confindustria e partiti moderati si
chiedono se dopo il maggio francese ci sarà un ottobre italiano.
“Come un arazzo – scrive Le Monde- gli episodi della vita italiana si sommano per dare
l’impressione globale di una crisi profonda che potrebbe sboccare in una catastrofe”. Quasi con le
stesse parole del quotidiano francese Nenni ha più volte, in quelle settimane, avvertito i suoi che il
pericolo di un fallimento del centrosinistra non è l’apertura al comunismo, “la Repubblica
conciliare”, ma una svolta se non proprio autoritaria, almeno di tipo moderato. Il 25 aprile bombe
(fasciste) alla Fiera di Milano e al padiglione della Fiat. Due bombe anche alla Stazione centrale del
capoluogo lombardo. L’indomani L’Unità scrive di “gravissime provocazioni”. “ Chi si trova dietro
questi attentati. A chi servono? Le indagini della polizia non danno nessuna risposta, e intanto la
stampa borghese mescola nel notiziario le esplosioni verificatesi in questi giorni alle provocazioni
fasciste consumate nell’anniversario della Liberazione ad episodi di tipo completamente diverso,
con lo scopo di alimentare la campagna di chi vuole accreditare la tesi dell’esistenza di una ‘spirale
della violenza’ per imporre soluzioni scelbiane e autoritarie ai problemi dell’ordine pubblico” Ci
sono degli arrestati ma sono anarchici e il 27 aprile sempre L’Unità esce con questo titolo: “Che
cosa c’è dietro lo strano comportamento della polizia? Campagna eversiva e aperte provocazioni di
destra. Il settimanale inglese The Economist denuncia il grave pericolo di un ‘regime autoritario’ in
Italia”.
Quindi gli inglesi seguivano attentamente la situazione già da allora ed erano ben informati sul
significato reale di quello che accadeva in Italia, così come il Vaticano, che dopo la bomba del 2
aprile al Palazzo di Giustizia aveva commentato attraverso le colonne del suo quotidiano,
L’Osservatore romano: “ Il commercio degli esplosivi non è come il commercio degli ortaggi. E
poiché la polizia non sta certo inattiva e non manca di collegamenti e controlli, si deve concludere
che le iniziative sciagurate contano su una immancabile complicità o connivenza od omertà”. Il
settimanale Tempo annuncia che il Viminale sta studiando i “colori politici” delle bombe. Non tutte
sarebbero rosse, anzi le più pericolose “sarebbero fasciste”. “Le prove giudiziarie ci sarebbero: ora
si tratta di compiere un’azione di setacciamento nelle sedi dei groupuscules d’estrema destra per
ottenere le controprove e procedere. Potrebbe darsi che l’operazione abbia a scattare tra non molto,
anche in virtù di specifiche richieste parlamentari”. A Giovanni Ventura arriva il rapporto dei
servizi segreti, stilato da Giannettini, che parla di contatti “segreti tra Dc e Pci per un accordo di
governo”. Nel rapporto si aggiunge che gli Usa, venuti a conoscenza di queste trattative, hanno
posto il loro veto e contemporaneamente, per evitare sorprese, “hanno disposto un massiccio
49
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finanziamento delle organizzazioni di destra”. Il settimanale Abc pubblica un articolo, a firma di
Gregory Hunt, che si qualifica giornalista inglese, in cui si parla di un prossimo colpo di Stato in
Italia, “ parecchi già si sono messi a studiare il greco, lo Stato organizza pellegrinaggi a Samo, la
Nato ha preparato un programma per l’intercambiabilità dei quadri superiori, fra Roma e Atene, e
non sto a dirti il resto”. Hunt scrive di 700 uomini liberi che alla fine saranno posti “tutti in galera”.
In giugno sempre Abc denuncia l’esistenza di un “Piano T” che potrebbe scattare in agosto. Un
piano Nato coperto dal segreto militare. In luglio la scissione socialista . Nel partito le due ali sono
convinte che per salvare la patria dai comunisti (Tanassi-Ferri) o dai colonnelli (De Martino) si
debba comunque spaccare il Psi, dividerlo inevitabilmente. Alla vigilia della scissione Andreotti
prende nella notte un aereo militare e vola in Usa. I settimanali scrivono, in sostanza, che l’Italia
rischia di slittare a sinistra, verso il Pci, e ogni mezzo è lecito per impedirlo: “Questa convinzione si
era fatta strada nell’entourage di Nixon, fin dal viaggio del presidente in Italia il 23 febbraio, e poi
con le visite private, in America, del repubblicano La Malfa, del socialdemocratico Lupis, del
democristiano Andreotti”.68 Domenica 7 settembre c’è la rivelazione di un allarme Nato in Italia
durato poco meno di due mesi. C’è stata la mobilitazione delle basi militari, di reparti speciali
dell’esercito e dell’Arma. Dovevano essere occupate e presidiate le sedi della Rai Tv, dei ministeri,
dei partiti e dei giornali. In giugno Giangiacomo Feltrinelli ha pubblicato l’opuscolo, più volte
citato, sul rischio golpe in estate.69 Durante il processo per il golpe Borghese il Prefetto Angelo
Vicari, capo della Polizia dal 1960 al 1973, dichiara in aula che la “Questura conduceva indagini sul
Fronte nazionale (l’organizzazione di Borghese, NdA), per una serie di tentativi di colpi di Stato
messi in atto prima e dopo la famosa notte di ‘Tora Tora’. Di questi episodi, ripeto, se ne sono
verificati più d’uno, quello che destò maggior allarme avvenne nel luglio del 1969”. L’autunno
arriva; travolge ma non annienta. A novembre il ministro dell’Interno Restivo afferma che lo Stato
“dispone di una forza tale da dissipare in poche ore qualsiasi tentativo eversivo. So quello che
affermo e racconto meno di quello che so”. E quando si debbono far “ingoiare ai sindacati gli
accordi più controversi il ministro del Lavoro offre come alternativa secca il “rischio dei
colonnelli”. E il 19, nel corso degli scontri durante lo sciopero generale, muore il poliziotto Antonio
Annarumma. Saragat invia un telegramma di fuoco. Durante i funerali, a Milano, c’è la caccia al
“rosso”. Il 24 altro sciopero generale. Due manifestazioni dei metalmeccanici, il 28 e il 4 dicembre
conclusero le trattative per i contratti di lavoro: la ‘fiammata’ attesa non aveva acceso il ‘fuoco’ che
si desiderava. Bisognava aiutarlo.
Obiettivo principale della contrattazione è l’abolizione delle “gabbie salariali” che consentono un
trattamento economico per lo stesso lavoro diverso da regione a regione e soprattutto si vuole la
rottura del legame tra aumento salariale e aumento della produttività. Il 2 dicembre Il Secolo
d’Italia annuncia che il Msi mobilita la Nazione contro la violenza “rossa”. Quanto è accaduto
“ricorda altri tempi e nel ricordo dei tempi richiama ad imperiosi doveri che qualcuno deve pur
adempiere. Di qui l’alternativa rigida: lo Stato funziona e ricaccia i sovversivi nelle fogne, o
qualcuno deve pur assolvere a tale funzione… di qui la funzione insostituibile del Msi”. Il 7 e il 9 il
Psdi torna alla carica con la richiesta di elezioni anticipate . Durante il primo confronto con i
segretari del centrosinistra, subito dopo la strage, Rumor dice: “Non voglio essere Facta”,
rievocando la figura dell’ultimo Presidente del Consiglio di un governo liberale prima del fascismo.
Il 15 il segretario del Msi, Giorgio Almirante, annuncia la confluenza di On nel Msi, maturata già,
pur tra contrasti interni, a novembre. Il Corriere della sera dal 18 dicembre si schiera nettamente
per la ricostituzione del centrosinistra organico. Il 21 Epoca, che era uscita con una copertina
tricolore in concomitanza con la strage, come nel luglio del 1964, invocando ordine, scrive che “c’è
ancora in Italia una larghissima maggioranza anticomunista. Basta chiamarla a raccolta con parole
semplici e convincenti”. Il 22 Giorgio Almirante: “L’autunno caldo è finito, ora occorre l’unità
dell’Msi per far fronte all’unità del sistema.”
68
Abc, 25 luglio 1969.
Giangiacomo Feltrinelli, Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria
di destra, di un colpo di Stato all’italiana., opuscolo.
69
50
51
Come dire che l’occasione politica è svanita, ora si deve essere uniti per i contraccolpi inevitabili.
Dopo la strage Saragat invia un telegramma che suona incitamento all’azione diretta: “Tocca ai
cittadini assecondare l’opera della giustizia e delle forze dell’ordine democratico nella difesa della
vita contro la violenza omicida”. Saragat convoca un vertice al Quirinale proprio mentre Rumor
corre a folle corsa verso via Teulada per inviare il suo appello alla nazione. Al Quirinale arrivano il
ministro degli Interni, Restivo, il comandante dell’Arma, Luigi Forlenza e diversi esponenti dei
“corpi separati”. “All’ordine del giorno c’è la proposta di proclamare lo ‘stato di pericolo pubblico’
in base agli articoli 214 e seguenti del testo unico delle leggi di Ps. Si tratta di un provvedimento di
estrema gravità che non è mai stato adottato in oltre vent’anni di vita repubblicana. Nel dibattere la
proposta presidenziale, il ministro degli Interni fa presente al Capo dello Stato l’opportunità di
ottenere il consenso del Presidente del Consiglio prima di proclamare lo ‘stato di pericolo’. Saragat
si vede perciò costretto ad aggiornare la riunione in attesa che la mobilitazione delle forze moderate
e di destra, già in corso in tutto il Paese, dia i suoi frutti” 70. Rumor dirà un ‘no’ che peserà
enormemente su quello che poteva accadere il 14 dicembre a Roma e il 15 nel corso dei funerali
delle vittime che dovevano bissare la caccia al “rosso” dei funerali di Annarumma. Gli operai
milanesi, sollecitati dal Pci e dall’intero fronte antifascista, impediscono quell’ulteriore salto
nell’escalation del terrore. Restivo, su esplicita richiesta di Nenni, vieta la manifestazione del 14
che doveva rappresentare la “parata per la vittoria”, con annessi incidenti che avrebbero dato
l’occasione definitiva per la stretta antidemocratica. Lo ‘stato di pericolo’ avrebbe autorizzato a
‘direttori’ o soluzioni golliste. Tutto quindi si gioca tra il 13 e il 22 dicembre quando il colonnello
dei carabinieri Pio Alferano consegna a Gui, che lo passa subito a Moro, un rapporto che ha
sfruttato le indicazioni stilate dal Sid nella famosa velina del 17 dicembre nella quale si parla di
Delle Chiaie e di Guerin Serac, sia pur in veste di improbabile anarchico. Un documento che
arriverà ai magistrati solo qualche anno dopo e manomesso in più punti. Non si riuscirà mai a capire
quale ne fosse il nucleo originario dato che la fonte, il fascista-informatore del Sid Stefano Serpieri,
ne disconoscerà la presunta paternità né gli uomini del Sid chiariranno durante i processi la logica
delle ripetute manomissioni.
Nelle ore dopo la strage a svolgere le indagini è il capitano Francesco Valentini. Con questo
rapporto nella cartella Moro va da Saragat il 23 dicembre del 1969. Si arriva ad un accordo politico
che avrà ripercussioni sulle indagini e sugli 11 processi per la strage di Piazza Fontana. L’intesa
prevede da parte di Saragat l’abbandono di velleità di scioglimento anticipato della legislatura con
relativo abbandono della pregiudiziale anti-Psi, da parte di Moro la rinuncia ad utilizzare l’indagine
parallela condotta dal colonnello Alferano, il che significa “accantonare” la “pista nera” costruita
sull’ambigua informativa del Sid. L’indomani Tanassi, considerato il portavoce di Saragat nel
partito, critica apertamente il “famigerato diktat (quadripartito ‘pulito’ o elezioni anticipate) su cui
si era basata la propaganda Psdi fin a quel momento.
Anche Piccoli si adegua alla politica sostenuta dal trio Moro-Forlani-Andreotti.
Poche settimane dopo Delle Chiaie viene “invitato a fare due passi” mentre attende di essere
interrogato al Tribunale di Roma. E’ il colonnello Antonio Varisco a dargli il “consiglio” 71. E sarà
sempre Piero Zullino, che interviene su Epoca, vicino a Italo De Feo, legato a filo doppio con i
socialdemocratici, a dare una ulteriore indicazione rilevante e piena ancora oggi di elementi che non
sono stati sviluppati, probabilmente per qualche altro ‘patto’ contratto in quei giorni. Una
indicazione che Pietro Valpreda sembra avallare, indirettamente, quando nel luglio del 2001 arriva
la condanna in primo grado per il gruppo ordinovista veneto che sarà poi ribaltata in appello e
confermata definitivamente, nel 2005, dalla Cassazione. La sentenza di condanna rappresenta – dice
Valpreda - “il raggiungimento di una mezza verità, forse di un decimo di verità, ma un punto di
partenza per dire che le responsabilità stanno negli ambienti fascisti. Risalire a mandanti, a chi ha
coperto e depistato, individuare i tanti attentati fatti in quel periodo e mai scoperti, sarebbe utile.
70
71
Fulvio Bellini- Gianfranco Bellini, op. cit. , pp.102-105
Intervista all’autore ad Antonio La Bruna
51
52
Chi lo farà più, ormai? Meglio un archeologo di un giudice….”. Anche da destra, su Epoca, viene
nel gennaio del 1970 un’indicazione che suggerisce la complessità e forse un’ambiguità operativa
della strage. Parla un ufficiale a riposo del vecchio Sifar: “Tanto più grave è l’episodio, tanto più
vasto è il suo retroscena. Questa è una regola che non teme smentite. Posso solo dirvi che, se
c’entrano i servizi segreti, allora Valpreda è l’Oswald della situazione, un povero scemo che si è
fatto incastrare, un capro espiatorio. La polizia lo arresta e fa bene. Eppure non lo si riesce a vedere
nei panni di un freddo organizzatore di un macello. Se è stato lui a deporre la bomba, gli hanno
messo nelle mani un ordigno di potenza superiore al previsto, o regolato per esplodere prima della
chiusura della banca anziché dopo, come forse Valpreda pensava. L’hanno incastrato. Perché i
servizi segreti agiscono con leggi di ferro: ciascuno conosce solo il suo vicino. Il vicino del vicino,
mai. Sei l’anello di una lunga catena che non sai dove comincia. Chi era il vicino di Valpreda?”
III) Dove porta la ‘pista tedesca’ (mai battuta)
Con due condanne sulle spalle, a 14 e 15 anni, Gianadelio Maletti 72, oltre 80 anni, è uno dei pochi
tra gli uomini dei servizi segreti italiani che ebbero un ruolo durante le inchieste su Piazza Fontana
ad aver pagato un prezzo. Probabilmente troppo alto rispetto alle sue dirette responsabilità.
Il generale è stato condannato per spionaggio (il dossier Mi. Fo. Biali, di fatto la vicenda dei petroli
e la relativa azione del super servizio segreto de “L’Anello”) e per i depistaggi per la strage alla
Questura di Milano. Rifugiatosi in Sudafrica è tornato in Italia per due giorni grazie ad un
salvacondotto, in occasione dell’ultimo processo. In quella occasione il generale ha per qualche
attimo aperto una botola sull’abisso che contiene la verità sulla strage.
Per poche ore, però. Poi nulla.
“La Cia voleva creare, attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo
dell’estrema destra, On in particolare, l’arresto dello scivolamento verso la sinistra. Questo è il
presupposto di base della strategia della tensione”, ha detto. Il servizio segreto italiano utilizzò On
con i suoi infiltrati e i suoi collaboratori “in varie città italiane e in alcune basi della Nato: Aviano,
Napoli…la Cia aveva funzioni di collegamento tra i diversi gruppi di estrema destra italiani e
tedeschi e dettava le regole di comportamento, fornendo anche materiale”. Coordinamento tra i
gruppi d’estrema destra italiani e tedeschi: un compito – dice Maletti - affidato alla Cia.
Alla domanda se questo materiale comprendesse anche armi ed esplosivi, Maletti dà una risposta
che non lascia dubbi: “Numerosi carichi di esplosivo arrivarono dalla Germania via Gottardo
direttamente in Friuli e in Veneto”. Nel ’72 Maletti gira la notizia ai livelli più alti ma non accade
nulla: “scoprimmo e segnalammo anche che l’esplosivo usato a Piazza Fontana veniva da uno di
questi carichi”. Una notizia fondamentale.
Che dovrebbe far sobbalzare perché non si tratterebbe quindi delle gelignite che sarebbe stata
utilizzata dal gruppo di On per la strage secondo le testimonianze dei pentiti Digilio e Siciliano.
Una notizia che dopo l’assoluzione dei tre di On e quindi anche la messa in discussione dell’ipotesi
di utilizzo della sola gelignite del gruppo per la strage, cambia sostanzialmente la vicenda.
Servizi segreti Usa dietro la strage? “Non ci sono le prove, ma è così”: cioè come ha sostenuto la
pubblica accusa nell’ultimo processo che ha svelato il ruolo di controllo dei servizi segreti militari
americani sui gruppi di On, dice l’ex responsabile dell’Ufficio ‘D’, di fatto quello che gestiva
l’infiltrazione nei gruppi eversivi di destra e sinistra .
Maletti, nella sua testimonianza al processo, non fa che ripetere quanto detto negli anni da Paolo
Emilio Taviani, il Dc che più, oltre Moro, ha cercato di raccontare la “verità” dello Stato sulla
strage. Per Taviani la Cia non c’entra nulla nella strage ma l’esplosivo venne fornito a uomini di On
72
Maletti è stato addetto militare in Grecia dal 1963 al 1967. Il 15 giugno del 1971 è nominato
capo dell’ufficio ‘D’ (Affari riservati) del Sid. Nell’ottobre del 1975 è destituito e trasferito al
comando di divisione dei granatieri.
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da un “agente nordamericano” che proveniva dalla centrale tedesca e apparteneva al servizio
segreto dell’esercito (il Cic che abbiamo più volte incontrato? NdA), che è “ struttura “assai più
efficiente della Cia”. Taviani quando entra in possesso di questa informazione?
Colui che indicò a Maletti il traffico di esplosivo ed armi dalla Germania è la ‘Fonte Turco’, cioè
Gianni Casalini, un informatore del Sid infiltrato in On che aveva fornito al centro Cs di Padova
notizie importanti sul gruppo che non erano mai state trasmesse ai magistrati, come abbiamo già
visto. Casalini era fortemente turbato da quello che era successo e cercò il contatto. Fornisce
riscontri, indicazioni concrete, nomi. Gianni Casalini è legato al gruppo Freda e partecipa ad alcune
delle azioni che precedono la strage.
Dopo la fuga in Sudafrica, dove ancora vive, nella casa romana del generale Maletti fu trovato un
fascicolo dal titolo “Caso Padova” nel quale era descritto il progetto, poi divenuto realtà di
“chiudere” la fonte Gianni Casalini affinché non rivelasse particolari sulla responsabilità del gruppo
di On negli attentati del 1969. L’estremista aveva partecipato con Freda alla collocazione degli
ordigni alla Fiera di Milano nell’aprile del 1969 e poi entrò a far parte del gruppo che attuò la
campagna d’attentati ai treni nell’agosto dello stesso anno.73
“L’impressione che ho avuto – dice Maletti - è che dietro la strage ci fosse una matrice d’Oltralpe.
Quando dico questo non intendo la Germania. In Germania c’erano truppe di presidio”. Per essere
chiaro che il riferimento fosse agli Usa. Il generale ha aggiunto qualcosa di più indicativo e diretto
nell’aula del Tribunale di Milano, il 20 marzo 2001, “D’altra parte negli Usa gruppi neonazisti ci
sono anche oggi”. “Quell’esplosivo credo provenisse da una delle forze d’occupazione in
Germania”. Maletti ha confermato, per conoscenza diretta, che le basi degli agenti Cia coinvolti
nell’infiltrazione tra i gruppi della destra estrema erano nelle sedi della Ftase e Setaf di Verona e
Vicenza. “Io so che le cose stanno così anche perché ho fatto un corso di 2 anni negli Usa. Lo so per
esperienza, lo so perché sapere quelle cose era il mio mestiere”. Quell’esplosivo era quindi di tipo
militare e non polvere da mina. Arrivò nascosto in alcuni Tir e consegnato nei pressi di Padova a un
“esponente dell’estremismo nero di Mestre. All’autorità giudiziaria però non lo dicemmo”, ha
aggiunto Maletti. Perché? Solo per coprire il gruppo di On che all’epoca, nel 1971-’72 era già stato
chiamato pesantemente in causa? Già nel ‘71-’72 On chiede a Vinciguerra di far fuori Rumor .
Quell’esplosivo può essere importante anche per altre ragioni contingenti, successive alla strage?
L’indicazione di Maletti si lega ad altri elementi, come ad esempio il coinvolgimento di molti
uomini della destra estrema nel traffico di armi ed anche alle vicende che precedono la morte del
Commissario Luigi Calabresi che nelle ultime settimane della sua vita indagava proprio su un
traffico di armi ed esplosivi verso Veneto e Friuli che proveniva dalla Germania e aveva come
terminale i gruppi di destra che preparavano il golpe.
Dunque Maletti sa dell’esplosivo sul finire del 1971. Nel 1972 gira la notizia ai “livelli più alti” ma
non accade nulla. Taviani arriva nel 1973 al Viminale e scioglie On, divenuto dal 21 dicembre 1969
Movimento politico Ordine nuovo (MpOn). Calabresi è ucciso il 17 maggio del 1972.
Probabilmente Taviani e Maletti condividono la stessa informazione che per loro è divenuta nel
tempo una certezza personale. Tanto da sciogliere l’uno On, e da spingere l’altro – autore di gran
parte dei favoreggiamenti attuati dal Sid nei confronti dei singoli componenti del gruppo di On e
della cellula veneta su input politico - a “chiudere” la fonte dell’informazione e poi a fuggire in
Sudafrica, dove oggi vive.
La presenza tedesca è una costante anche dopo Piazza Fontana. Carlo Fumagalli, il capo del Mar, il
Movimento di Azione Rivoluzionaria che si attiva già prima della strage riferì a Giorgio Zicari,
giornalista del Corriere della sera dei suoi incontri in Germania.
Zicari a verbale disse in proposito: “Mi indicò anche, con nomi e cognomi dei suoi accompagnatori,
le date dei viaggi fatti in Germania, a Monaco, per incontrarsi con esponenti della destra bavarese di
Strauss. A suo dire, in qualunque momento erano pronti a venire in Italia per compiere azioni
terroristiche e portare materiale (…). In un’altra occasione mi disse che doveva incontrarsi a Roma
73
Camillo Arcuri, Colpo di Stato. Storia vera di una inchiesta censurata. Il racconto del golpe Borghese,
il caso Mattei e la morte di De Mauro,Milano, Bur,2004, p.118
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con un grande personaggio tedesco il quale, con la scusa di andare in vacanza a Rimini, doveva
incontrarsi con esponenti del movimento di Valerio Borghese. Nel corso dell’incontro, cui lo stesso
Fumagalli doveva partecipare, avrebbero elaborato un piano operativo per i mesi successivi”.74
Nessuna responsabilità per i tre, assolti dalla Cassazione, ma queste testimonianze in sede “storica”
aiutano a capire il ruolo e le attività di On, così come quest’importante affermazione di Maletti75. E
il generale, che era addetto militare in Grecia durante il golpe dei colonnelli nel ’67, si associa ai
tanti che dallo Stato (e anche a destra) sostengono che quella bomba non doveva fare i morti.
Accadde qualcosa che modificò il corso delle cose: “I morti ci furono per caso: non furono voluti o
cercati”, dice il generale.
In concomitanza con la strage di Piazza Fontana ci sono attentati lievi anche in Germania e a Parigi.
Delle bombe erano state pre annunciate dalla Tribune de Genève in concomitanza con l’espulsione
della Grecia dal Consiglio d’Europa. Tra i presidenti di quell’assemblea c’era proprio Aldo Moro.
Quando gli inglesi attaccano duramente Saragat sulla stampa del loro Paese, il Pci, con Paolo
Bufalini raccoglie una voce autorevole che viene da un senatore socialista a cui è stato detto che
“l’attacco dell’ Observer a Saragat verrebbe proprio da Wilson (Premier inglese, NdA). Il dato
sarebbe la preoccupazione di Brandt e Wilson che il Pentagono si intrometta brutalmente nella
situazione italiana”. In effetti, sottolinea Aldo Giannuli, l’attacco “quasi contemporaneo viene sia
da giornali inglesi (d’orientamento socialdemocratico) che da organi di stampa tedeschi (parimenti
orientati in senso filo socialdemocratico). Peraltro, le accuse a Saragat trovavano orecchie molto
attente nel gruppo dirigente comunista di cui cogliamo segni anche nel verbale della prima
direzione dopo la strage, negli interventi di Longo che sospettava nel Presidente il punto di raccordo
delle forze impegnate per una svolta autoritaria e di Tortorella che sosteneva che una parte della
polizia non obbediva al Ministro dell’Interno perché aveva trovato – forse proprio nel Presidente
della Repubblica – un referente alternativo”.
Ma perché oltre all’Inghilterra – schierata contro la svolta militare in Italia per ragioni geopolitiche
e di prestigio - la Germania era così interessata, e coinvolta, in quello che stava accadendo in Italia
nel 1969?
Nel 1967 i servizi segreti tedeschi varano l’operazione “Alarico”: vale a dire la calata in forze degli
007 tedeschi per controllare i contatti avviati tra socialdemocratici tedeschi e comunisti italiani cui è
stato chiesto di fare, in sostanza, da intermediari con Mosca per aprire una nuova fase della politica
tedesca. Si sta preparando la Ostpolitik. A guidare i servizi di Bonn è il generale Ghelen, ex nazista
che temeva immensamente che Brandt riallacciasse i rapporti con Mosca mettendo in crisi la Dc
tedesca. Un po’ come Moro con il Pci nel novembre del 1968. Da metà del 1967 è un via vai di
uomini di Brandt a Roma e di comunisti italiani a Bonn. Il 28 novembre arriva una delegazione;
l’incontro riservato avviene all’albergo Cavalieri Hilton. Per il Pci ci sono Berlinguer, Galluzzi e
Segre. Si parla delle due Germanie e del rapporto Bonn-Mosca. Il 2 dicembre pranzo all’Eur,
presente Luigi Longo. Brandt confida intanto a Pietro Nenni che sta gettando le basi per trattare con
Mosca, tramite il Pci. Nel 1968 il giornale dell’ultrà bavarese della Cdu Franz Josef Strauss, amico
di Ghelen, denuncia le trattative segrete in atto. Un deputato della Dc tedesca denuncia che Brandt
ha accompagnato a Roma in febbraio il Cancelliere Kiesinger. L’incontro tra Longo e Brandt è
avvenuto nella residenza di un deputato socialista. Alla fine la mediazione del Pci va a buon fine.
Brandt lancia l’Ostpolitik.
“Il nuovo corso della politica tedesca è nato a Roma”, racconta nelle sue memorie il Cancelliere che
si gettò in ginocchio nel ghetto di Varsavia.
I servizi segreti tedeschi non riescono a far fallire le trattative in corso a Roma ma s’intromettono
pesantemente nelle vicende italiane con la creazione di una sorta di “partito tedesco” nel Sid. A
metà del ’68 intanto Ghelen si è ritirato a vita privata avendo capito che ormai c’è poco da fare
dopo il cambio di linea nella politica tedesca. E’ allora che accade qualcosa di rilevante per la nostra
vicenda: Brandt decide una vasta “pulizia” nel Bnd che ha assorbito ‘l’organizzazione Ghelen’ e i
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Interrogatorio di Giorgio Zicari , in Paolo Cucchiarelli- Aldo Giannuli,op. cit, p 322
“Maletti, la spia latitante. ‘La Cia dietro quelle bombe’”, La Repubblica, 4 agosto 2000
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‘disperati’ della struttura, gli emarginati cercano di rientrare nel ‘gioco’ puntando sulla creazione di
uno stato permanente di agitazione in Europa, a cominciare dall’Italia e dalla Francia. E’ un gioco
pesante ma si vanno a toccare assetti che resistono dall’immediato dopoguerra, interessi economici
consolidati, traffici immensi (armi, soprattutto) che alimentano la politica.
Le preoccupazioni per l’apertura ad Est in Germania, frontiera dell’Occidente, si sommano con i
grandi timori che si hanno per l’Italia , vero e proprio “fianco molle della Nato, se la linea di Moro,
omologa alle iniziative di Brandt a Bonn, si dovesse pienamente affermare a Roma.
E’ una situazione incandescente. Che rischia di travolgere i due Paesi “cerniera’’ della Nato.
Inoltre bisogna capire il ruolo del Pci in questa trattativa Germania Ovest-Urss.
Vediamo i riscontri. Un documento dei servizi spagnoli indica Freda e Ventura, che si è rifugiato in
Argentina, terminale storico degli ex nazisti, come agenti tedeschi. Guido Giannettini, la spia del
Sid che teneva i collegamenti con il gruppo Ordinovista va nell’autunno del 1969 in viaggio in
Germania dove visita le fabbriche dei carri armati tedeschi. L’appoggio ricercato dai ‘disperati della
ex Ghelen’ passa per la Paladin, potente organizzazione neonazista e per l’Aginter Press, di fatto la
legione straniera del neonazismo internazionale che ricalca moduli, operatività e obiettivi dell’Oas.
L’uomo che più si spinge in avanti nell’analisi della pista tedesca in Italia (traffici di armi ed
esplosivo che servono anche sia per finanziare sia per alimentare i gruppi eversivi a fini di
destabilizzazione) è Luigi Calabresi. Guido Giannettini arriverà a sostenere che a uccidere (o
concorrere) all’uccisione del commissario sono stati gli ex uomini dei servizi segreti tedeschi che
intendevano reagire all’era Brandt come l’Oas aveva reagito all’era De Gaulle. A fine 1969 sarà
l’ambasciata Usa a Roma, tramite Peter Bridges, a intavolare contatti informali con il Pci attraverso
Giuseppe Boffa per cercare di avere informazioni di prima mano.
Ma torniamo alla Germania. E’ un fatto che alcune delle persone chiamate in causa subito dopo la
strage si rifugiano in Germania. Nel momento del suo “crollo” nel 1973, quando è lì lì per
confessare, Giovanni Ventura dice a verbale di aver saputo che la strage era stata eseguita da cinque
persone provenienti dai campi di addestramento della Nato della Germania occidentale. Sono ampi i
contatti della destra con la Germania e con le molte strutture e organizzazioni che fanno capo a
Monaco di Baviera durante gli anni della guerra fredda: lì c’è Radio Free Europa, la Lega
internazionale degli anticomunisti, la “National Zeitung”, il giornale neofascista che stampa oltre
100.000 copie, le organizzazioni politiche e terroristiche degli esiliati dai Paesi socialisti (a
cominciare dagli Ucraini di Jaroslaw Stetzko), c’è la Csu di Franz Josef Strauss, c’è il Bnd, il
servizio segreto oltre a gran parte delle industrie delle armi pesanti. Si è parlato più volte di
finanziamenti della Csu a Guido Giannettini e dei legami di tanti estremisti di destra con la
Germania dell’Ovest.
Le indagini condotte dagli investigatori che hanno lavorato con il Pm Salvini, così come le analisi
dei periti che hanno esaminato le carte che emergevano dagli archivi legali e illegali o
“dimenticati”, hanno evidenziato che se Yves Guerin Serac, che vive libero nelle Azzorre, era un ex
ufficiale francese aderente all’Oas, la struttura operativa dell’Aginter Press non era niente altro che
una “mutazione” genetica della ex rete Ghelen e del Bnd, il servizio segreto tedesco guidato da
Ghelen.
L’Aginter Press nacque dalle ceneri della organizzaione Ghelen, utilizzando come interfaccia tra le
due strutture operative Robert Henry Leroy, cioè la mente politica della struttura mentre Guerin
Serac ne rappresentava il vertice operativo-militare. Molti uomini della destra estrema, anche
impegnati in un fecondo traffico di armi, lavoravano in Italia per la ‘rete’ tedesca.
Nel 1968 a Ghelen, allontanatosi per i contrasti con i socialdemocratici tedeschi che “aprono” a
Mosca e entrano nel governo, subentra il suo braccio destra Gerhard Wessel, anch’egli ex nazista.
La continuità è assicurata .
E’ facile identificare con l’Aginter Press e con parte della sua rete gli “sbandati” della ex rete
Ghelen, spiazzati e preoccupati di perdere il controllo dei ricchi traffici di armi ed esplosivi che
hanno sviluppato proprio nei Paesi oggetto dei grandi mutamenti politici in atto e cioè Francia (al
centro delle attenzioni dell’Aginter già nel 1968), l’Italia del 1969 e la Germania della Ostpolitik. E
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c’è un’ulteriore intreccio rilevante che spiega perché tante inchieste vennero fermate a Padova,
ultima la fonte Casalini che aveva indicato la provenienza dalla Germania dell’esplosivo utilizzato
per la strage di Piazza Fontana.
Nel giugno del 1969 Saverio Molino, ex carabiniere, un duro che ha fatto la sua carriera nelle
squadre politiche di due Questure, Trento e Padova, riceve l’ordine di perquisire l’abitazione di un
noto fascista locale, Eugenio Rizzato. Una decisione maturata dopo tutta una serie di attentati in
città, in gran parte messi in atto, come quello allo studio del rettore dell’Università, Opocher, dal
gruppo Freda. A casa di Rizzato si trova una pistola, foto di Mussolini e un dossier con un elenco
che contiene 400 indirizzi di uomini di sinistra, anche di “rango” elevato, che debbono essere
colpiti, appunti operativi per un colpo di Stato, con elenchi di caserme e comandi militari da
occupare. In quelle settimane in Senato Pietro Nenni aveva ripetutamente denunciato le manovre in
atto per un’azione di forza e l’Italia viveva la psicosi dei colonnelli. Rizzato tace con la Questura
del rapporto sul golpe e segnala il tutto all’Ufficio Affari riservati del Viminale, all’epoca guidato
da Elvio Catenacci.
Questa struttura operava con quella che è stata definita “la Gladio parallela”, cioè uffici distinti
dalle normali questure che bypassavano i colleghi e i magistrati raccogliendo notizie in proprio. Era
una vera e propria rete parallela che agiva in maniera centralizzata e autonoma dai normali uffici
politici della questura. Molino fotocopiò tutto l’incartamento e lo “seppellì” nell’archivio della
Questura di Padova. Nel 1973 a La Spezia si scoprono a casa di un medico della mutua, Giampaolo
Porta Casucci, gli stessi piani trovati a Padova. “Questi piani vengono da Padova, me li diede un
nostro capo, Rizzato”, dice Porta Casucci. Il secondo dossier è però ben più articolato. Tra l’altro
contiene un elenco di 1617 personalità da eliminare al momento del “golpe”.
Nell’archivio si ritrova la pratica iniziale del 1969: è sostanzialmente identica. Molino è lo stesso
che ha definito “non interessanti” i nastri delle intercettazioni fatte sui telefoni di Freda e Ventura
tra il 15 e il 19 aprile 1969, durante il vertice che diede il via, di fatto, alla stagione delle bombe.
Nel settembre del 1969 nuova richiesta di intercettazione da parte del Procuratore Capo di Padova,
Aldo Fais. La risposta fu identica, nulla. Quei nastri provavano invece che Freda stava acquistando i
timer, congegni a tempo. La bomba di Piazza Fontana aveva un temporizzatore. Questi nastri,
riascoltati nel 1972, divennero uno degli elementi principali dell’accusa a Freda e Ventura. Molino
era lo stesso poliziotto che aveva “archiviato” la denuncia fatta dallo studente Giorgio Caniglia che
aveva portato negli uffici della polizia di Padova una borsa simile a quella non esplosa e ritrovata
nel pomeriggio del 12 dicembre alla Banca Commerciale di Milano. Convocata quattro giorni dopo
la commessa della valigeria “Al Duomo” di Padova, questa dirà di averne vendute 4 uguali il 10
dicembre. “A comprarle è stato un giovane alto, con i capelli neri”. L’avvocato di Ventura disse
chiaro e tondo che “Molino conosceva bene Freda e l’aveva anche avvertito dei controlli telefonici.
E’ il mio assistito che lo sostiene e lo ha detto ai giudici”. Freda, pochi lo ricordano, ha fatto il suo
esordio operativo in Alto Adige, a contatto con la vicenda del terrorismo altoatesino che tanto
interessava la Germania. I piani trovati a Padova altro non erano che quelli della “Rosa dei Venti”,
un nome che non può che evocare il simbolo della Nato. Tra i referenti principali di quella
organizzazione c’erano gli “Elmi di acciaio”, la più agguerrita organizzazione nazista operante in
Germania. Tra gli aderenti anche Nobert Burger, ex professore all’Università di Innsbruck, ben
conosciuto per le sue azioni terroristiche in Alto Adige. Della stessa organizzazione faceva parte
anche un ex ministro Dc, Hans Krueger. Dagli “Elmi” proviene Von Thadden, fondatore nel 1964
del partito neo nazista Npd. In Austria a fondare l’Npd è Norbert Burger. Porta Casucci è una
aderente agli “Elmi d’acciaio” e spesso va a Monaco. Freda fu sospettato a lungo di essere l’autore
di un attentato ad un treno che arrivava a Trento da Monaco di Baviera. Due poliziotti intervengono
e portano la bomba giù dal treno. Muoiono mentre cercano d’aprirla. Nell’agosto del 1969 Livio
Jaculano, un detenuto per fatti criminali, dice ai magistrati che “l’avvocato Fredda” di Padova è il
mandante dell’attentato. Un verbale importante che finisce su un binario morto, è il caso di dire.
A Padova tra gli uomini di Molino c’è un commissario vecchio stampo, Pasquale Juliano. Contano
i fatti. E solo quelli. Nell’aprile 1969 indagando sulle bombe Juliano, grazie a balordi e confidenti,
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stila un rapporto nel quale accusa in maniera circostanziata Freda e Ventura. Juliano aveva ritrovato
un ordigno nella soffitta dell’abitazione di Massimiliano Fachini, consigliere missino, figlio del
questore di Verona durante la repubblica di Salò. Juliano venne accusato di aver costruito le prove
nei confronti di Fachini, Freda e Ventura. Il suo informatore è messo nella stessa cella con dei
fascisti e ritratta tutto. Un testimone a suo favore, Alberto Muraro, è trovato morto nella tromba del
condominio dove faceva il custode dopo un volo di alcuni piani di scale. Dopo la morte il corpo di
Muraro era stato fotografato da un operatore dilettante. Quelle foto non combaciavano con quelle
“ufficiali”. Il corpo era in posizione diversa, una scopa accanto era scomparsa. Sulla base di quelle
foto e di altri elementi si ipotizzò, senza sbocco giudiziario finale, che nella morte ci fosse la
presenza della cellula di On. Molino fece carriera, Juliano venne allontanato dalla polizia, sospeso
dallo stipendio. “Non mi ci volle molto ad agganciare uno dei componenti della cellula neofascista.
Da quel momento in poi ho scoperto praticamente tutto quello che c’era da scoprire. Erano a mia
disposizione addirittura i disegni degli ordigni. Avevo già localizzato i depositi di armi, conoscevo
l’organigramma di questo gruppo nei minimi dettagli. Altri venti giorni e li avrei assicurati tutti alla
giustizia”. Juliano aveva una convinzione: “…di essere stato il classico granello di sabbia che ha
rischiato di inceppare un meccanismo più grande di tutti i protagonisti della vicenda padovana, la
cui mente probabilmente non era neppure italiana”. Il 23 luglio arriva un ispettore del Viminale che
si rivolge in maniera dura a Juliano: “ Non le assicuro che lei non verrà arrestato, a meno che non si
dimetta”, gli dice. Il giorno dopo è incriminato, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Dal ’69 al
’71 vive dalla suocera con la moglie e due bambini. Nel 1971 riammesso in servizio ma bloccato
nel grado in cui era stato sospeso. Gli “consigliarono” di non tornare a Padova per la sua sicurezza.
Ci vorranno 10 anni e 5 processi per veder riconosciuta pienamente la correttezza e la fondatezza
della sua inchiesta.. “Quello che dovevo dire l’ho detto, quello che dovevo fare l’ho fatto”. Molino
si è difeso affermando di aver sempre informato i suoi veri referenti, cioè gli Affari Riservati. Non
solo Molino spedì tutte le carte a Milano, al Dottor Allegra, capo della “politica”, al responsabile
romano, Provenza, oltre che al responsabile nazionale Catenacci. Ovverosia le stesse persone che
sono state perseguite per aver tenuto nel cassetto la segnalazione delle borse acquistate a Padova il
10 di dicembre del 1969.
Ventura, durante i suoi interrogatori, tanto per sbandierare le protezione di cui “doveva” godere
disse una volta che il suo gruppo “era saldamente protetto da catene e Catenacci”.
Cosa rendeva così pericolosa l’inchiesta di Juliano, che poi tornerà d’attualità negli sviluppi delle
indagini del golpe Borghese? L’aver individuato una località dove c’era la santabarbara del gruppo,
lì dove erano cassette di armi con su stampigliato scritte in inglese e la dicitura di appartenenza:
Nato. Il 14 agosto l’ informatore della polizia di Padova Jaculano prende il coraggio a quattro mani
e chiede di parlare al magistrato anche di questo: il mandante degli attentati ai treni all’inizio del
mese è sempre “Giorgio Fredda”. Non basta ancora.
“Sono venuto a conoscenza dalle stesse fonti della presenza in una località di campagna compresa
tra Treviso e Vittorio Veneto (ho qualche sospetto che tale località possa individuarsi nella cittadina
di Paese) di un deposito di materiale che viene utilizzato per la preparazione degli esplosivi”, dice a
verbale l’informatore che ha avuto modo di contattare le stesse fonti di Juliano. L’inchiesta Salvini,
e quelle successivi di Meroni e della Pradella, hanno esattamente individuato dove sorgesse quel
casolare e cosa vi fosse custodito. Ecco perché Juliano andava comunque fermato.
Altro aspetto che colpisce è l’intreccio con la vicenda Borghese, perché il terminale politico di tutto
un mondo è proprio il “principe nero”.
Porta Casucci spiegò che la preparazione delle ‘reclute’ più promettenti avveniva in Baviera. Il tutto
emerge nel 1973 quando per il 7 aprile era prevista l’ennesima strage sul treno Torino-Roma.
Doveva essere attribuita a Lotta Continua ma Nico Azzi si fa esplodere la bomba tra le gambe
mentre la prepara nel bagno del treno in corsa. Nonostante ciò il 12 del mese ci sono i duri scontri
di Milano dopo che la questura, all’ultimo momento, ha vietato il corteo. I fascisti lasciano sul
terreno, oltre all’agente Marino ucciso da una bomba Scrm, anche tessere della Cgil e del Pci.
Afferma Vincenzo Vinciguerra a proposito di questi incidenti che “il piano predisposto nella
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primavera del 1973 per giungere alla proclamazione dello stato di emergenza era la mera, identica,
testuale ripetizione di quello attuato il 12 dicembre 1969. La strage, prima, gli incidenti sanguinosi
di piazza, dopo”76. Azzi è un collega di Giancarlo Rognoni, assolto definitivamente da qualsiasi
accusa nel 2005. Perché l’elemento disatteso da magistratura e storici è il profondo intreccio tra il
1969 e il tentativo di Borghese del dicembre 1970 e quelli successivi: lo schema si ripete e si cerca
anche per almeno altre due volte di arrivare al ‘colpo grosso’, cioè incastrare quello che già nel
1969 è il vero obiettivo operativo della strage e cioè Giangiacomo Feltrinelli e la sua rete che
avrebbe potuto, nella mente degli uomini della destra arrivare fino a qualificati esponenti del Pci e
uomini rilevanti della base del partito. Nel 1971 si tenta di rapirlo nella villa in un’amica in
Carinzia, nel 1973 ci si prova a mettere una parte dei timer rimanenti dello stock utilizzato per la
strage nel giardino di una sua villa con l’intento di precostituire un ‘colpo’ da attuare subito dopo
l’ennesimo golpe. Uno schema anche questo già collaudato, anche se non realizzato, nel 1969.
Maletti in una intervista a L’Espresso del 15 marzo 1981 affermò che c’erano stati in Italia almeno
cinque importanti tentativi di golpe. Quello di Borghese, quello della Rosa dei Venti (1973), quello
“bianco” di Sogno, quello dell’agosto 1974 e l’ultimo nel settembre del 1974 “ad opera degli ultimi
eredi del golpe Borghese”. Ma il golpe del dicembre 1970 non è che la ripetizione di quello del 12
dicembre, non riuscito perché la strage ne congela gli sviluppi politici. Sergio Calore, pentito
ordinovista dichiara a Salvini: “Mi fu riferito un discorso relativo al significato degli attentati del
1969 in relazione ai progetti di golpe. Mi fu detto che secondo il programma il golpe Borghese, che
fu tentato nel dicembre del 1970, doveva in realtà avvenire un anno prima, e che la collocazione
delle bombe, nel dicembre del 1969, aveva proprio la finalità di far accelerare questo progetto
comportando nel Paese una più diffusa richiesta d’ordine e il discredito delle forze di sinistra in
genera che sarebbero state additate come responsabili e corresponsabili dei fatti”. Niente di più di
quanto prevedeva Guerin Serac nei suoi manuali.
Nel 1965 si costituisce, in concomitanza con l’irruzione degli estremisti di destra tra gli informatori
del Sifar-Sid e con il convegno sulla “Guerra rivoluzionaria” che ne rappresenta il momento
dottrinario e palese, il “Comitato italiano per l’Occidente”. Dentro ci sono tutti: Msi, On, An. E’
una svolta. Va in cantina il nazionalismo. Subito dopo Avanguardia nazionale si scioglie. Borghese
amico di Umberto Federico D’Amato, che lo portò in salvo, e del suo referente Usa, James Jesus
Angleton, con il quale il principe trattò la sua resa alla fine della guerra, comincia a coordinare tutto
il vasto mondo della destra radicale. Delle Chiaie ricostituisce, selezionando i componenti,
Avanguardia Nazionale Giovanile e nel frattempo alcuni uomini sono addestrati all’uso delle armi e
degli esplosivi da un ex ufficiale francese della legione straniera, aderente all’Aginter Press. Nel
1966 On non rientra nell’Msi solo perché la richiesta non è pubblica. Nel 1968 nasce il Fronte
Nazionale, guidato da un Borghese che fa ancora parte dell’Msi. Nel direttivo ci sono uomini
notoriamente legati ad On. Il legame tra Fn e On si interromperà solo nell’autunno del 1970 ma per
una questione di soldi. Nel 1969 il rapporto tra Borghese e Rauti era strutturato, solido, profondo.
Scrive Vinciguerra analizzando l’apparente disunità della destra radicale che va invece vista come
una galassia se non unita almeno unitaria nella strategia politica sviluppata: “Nell’autunno del 1969,
a destra esistono solo due grandi gruppi politici: una formazione parlamentare rappresentata dal Msi
di Almirante, ed una formazione extraparlamentare diretta dal missino Junio Valerio Borghese, il
Fronte nazionale. Il dualismo è perfetto: la struttura legale e quella clandestina”. E cosa è il Fn di
Borghese? Una nota del Sid del 9 agosto 1970 lo ‘fotografa’ in maniera essenziale ma chiara. “Il Fn
è stato più volte segnalato come organizzazione per attuare un colpo di Stato; ha delegati provinciali
in diverse città; è collegato con Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale; è ritenuto il sodalizio più
idoneo per influenzare in proprio favore le forze armate e di polizia”. Il 19 marzo 1969 si è svolta la
prima manifestazione pubblica del Fronte. Il 12 aprile incontro riservato con gli armatori genovesi:
Borghese annuncia la costituzione di Gruppi di salute pubblica per contrastare, “anche con l’uso
delle armi, l’ascesa al potere del Pci”. L’ora X per il golpe è fissata tra giugno e settembre, in
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Vincenzo Vinciguerra, Silenzio di tomba, manoscritto consultabile nel sito della
Fondazione Luigi Cipriani
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concomitanza con l’allarme Nato poi scattato in quel periodo. Ad appoggiare il progetto anche la
mafia. Mauro De Mauro, che scopre la connection, pagherà con la morte questo suo scoop.77 Poco
prima della strage di Piazza Fontana Luciano Liggio scappa con incredibile facilità dalla clinica
romana dove è ricoverato. Ma su questo torneremo.
Il 30 settembre Prospero Colonna dice, come riferisce una nota del Sid che riporta le confidenze
raccolte da un ufficiale, che Borghese ha studiato un piano di “provocazione”, con una “serie di
grossi attentati dinamitardi” per fare in modo che l’intervento armato di destra possa verificarsi in
un clima di riprovazione generale nei confronti dei criminali ‘rossi’ e che “le vittime innocenti in
certi casi sono purtroppo necessarie”. Il 23 novembre tiene un discorso a Fiesole. “Il sistema si sta
demolendo da solo e presto potremo tutti intonare il de profundis. Tuttavia se occorrerà dare una
piccola spinta perché il sistema crolli, noi gliela daremo. Agli industriali – tra i finanziatori, secondo
Guido Giannettini, diversi armatori genovesi, il petroliere Monti, ed Eugenio Cefis dell’Eni Borghese aveva chiesto soldi per poter insorgere “con un colpo di Stato onde poter instaurare un
regime nazionalista di tipo gollista”. Anni dopo durante l’inchiesta su Borghese Maurizio Degli
Innocenti, responsabile del Fronte per la Toscana e contatto di Tonino La Bruna, che raccolse la
documentazione per il Sid sul golpe poi data nella versione non purgata e completa al giudice
Salvini e Meroni e Pradella, ha parlato di un incontro avuto a giugno del 1969 con Mario Merlino
già anarchico convertito. Prese botte per i suoi incitamenti ai gruppi marxisti leninisti e si andò a
rifugiare a casa di Degli Innocenti, a Pistoia. In quel caso gli parlò di bombe in arrivo e di progetti
clamorosi. Il 14 dicembre Borghese è a Lucca dove propone di costruire “una forza apartitica, in
grado di affiancare le forze dell’ordine e della giustizia nell’eventualità che ci siano gravi
perturbamenti dell’ordine pubblico”. Forse Borghese, dopo l’annullamento della manifestazione del
14 a Roma aspettava gli eventuali scontri che la presenza operaia massiccia ai funerali delle vittime
della strage impedì. Il 25 dicembre scompare Armando Calzolari, cassiere del Fronte. Lo
ritroveranno a fine gennaio annegato in mezzo metro d’acqua. Mille gli elementi che collegano
questa morte a Piazza Fontana ma i magistrati non si spingeranno mai ad aprire per intero questo
“cassetto” della strage. Nel 1982 Paolo Aleandri, pentito ordinovista, rivela che tra i coautori del
piano del golpe Borghese del 7 dicembre 1970 c’è Guido Giannettini. Tra le acquisizioni fatte dal
Sid di Maletti sul golpe Borghese c’è la relazione stesa dall’allora dirigente di An Guido Paglia che
fu consegnata ad Antonio La Bruna. “Per decisione di Delle Chiaie i rapporti tra i due ambienti si
fecero sempre più stretti, tanto che spesso era l’Avanguardia a camuffarsi da ‘Fronte’ per svolgere
azioni di una certa importanza. Borghese poté comunque contare sempre anche sulla disponibilità
dell’apparato”.
Avanguardia nazionale rinasce nel gennaio 1970 mentre On muore nel dicembre del 1969 per
rinascere subito come Movimento Politico Ordine Nuovo.
Ma il 7 novembre c’è a Viareggio una riunione importante. Nello studio dell’avvocato Giuseppe
Gattai si riuniscono Adamo Degli Occhi, poi presidente della “maggioranza silenziosa” a Milano,
l’ex partigiano “bianco” Carlo Fumagalli, il Presidente del Tribunale di Monza Giovanni Sabalich,
il poeta Raffaele Bertoli. Degli Occhi metterà a verbale con il giudice istruttore di Brescia Giovanni
Simoni, alcuni anni più tardi, che la riunione è patrocinata politicamente da Amintore Fanfani e
Randolfo Pacciardi. Così nasce “Italia Unita” che non è che il cartello di “centro” del Fronte
nazionale di Borghese. Il 7 novembre del 1969, mentre si sta giocando la partita tra “il cavallo di
razza” e l’ambasciatore Usa a Roma si costituisce a Viareggio col patrocinio “ più o meno scoperto
di Randolfo Pacciardi e di Amintore Fanfani” la “Lega Italiana Unita”. Il programma è la
formazione di un fronte anticomunista unitario per la Repubblica presidenziale78. Il 9 novembre al
vertice della Dc va il fanfaniano Arnaldo Forlani . Tra i presenti alla riunione di Viareggio anche il
contrammiraglio in pensione Giuseppe Biagi. Un rapporto del Sid sul personaggio dice che “si è
detto amico personale di Nicola Picella, della Presidenza della Repubblica e ha comunicato di aver
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Camillo Arcuri, op.cit.
Atti dell’inchiesta del giudice istruttore di Brescia Giovanni Simoni.
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inviato a Saragat un telegramma informandolo dell’iniziativa di ‘Italia Unita’ e sollecitando
un’udienza”.79 Quando nasce il Fronte nazionale di Valerio Borghese tra i tanti vi è anche Filippo
De Jorio, ben introdotto negli ambienti reazionari Dc. L’avvocato è tra i più stretti consiglieri di
Mariano Rumor. Ecco come rievocherà, con notazioni molto calzanti, quel periodo della sua vita
quando frequentava Rumor: “A quel tempo ero deputato regionale per la Dc nel Lazio, ero
consigliere politico dell’On. Rumor, allora presidente del Consiglio. Godevo della stima e della
fiducia della classe dirigente del mio partito e partecipavo a riunioni del massimo livello. Possono
attestarlo, fra i tanti, gli onorevoli Rumor, Piccoli e Giulio Orlando. A 37 anni, tanti ne avevo, ero in
una posizione di rilevante prestigio, sia in ambienti governativi, sia nell’organizzazione del partito.
Oggi si afferma che cospiravo e addirittura organizzavo un’insurrezione armata. Cospirazione e
insurrezione contro chi? Contro il potere di cui facevo parte?”80
Picella, abbiamo visto, era l’uomo a cui Moro si rivolge per avere lumi sulla strage quando si trova
a Parigi.
Ecco divenire parzialmente palesi le due linee di cui abbiamo più volte parlato in questa inchiesta.
Due linee che puntavano l’una a dilazionare gli attentati con una logica più politica e l’altra a
forzare la mano ai referenti politici con una ‘disobbedienza’ che imponesse quello di cui si parlava
tanto senza però che l’azione eclatante venisse mai in effetti realizzata. Uno stop ad go che
qualcuno alla fine interrompe forzando la mano con una sofisticata operazione che probabilmente
ha spiazzato anche alcuni degli uomini della destra coinvolti. Ma chi è che ha ‘fregato’ la cordata
avversaria: il Sid o gli Affari Riservati, la cordata filo-Usa o quella degli italiani? Sono cordate e
logiche che si mischiano, raccordano, spesso si sommano, si compongono e scompongono
seguendo vie spesso indecifrabili. Ma che qualcuno sia andato oltre o che si sia predisposta una
trappola in cui sono caduti anche esponenti della destra, magari per avviare un “ripulisti” di tipo
gollista senza remora alcuna né a destra, né a sinistra, il risultato è stato lo stesso. La strage arrivò,
puntuale come un temporale di pomeriggio in montagna. Saragat disse di non aver mai saputo prima
delle rivelazioni ufficiali dei preparativi del golpe Borghese. Disse questo difendendosi dalle accuse
reiterate da Londra di un suo ‘patronage’ politico al ‘partito americano’ anche se, come abbiamo
visto il Presidente della Repubblica pensava più a un modello gollista, caro anche a una larga fetta
della Dc dell’epoca, a cominciare da Fanfani, che però alla vigilia della strage si sposta a sinistra,
cercando una maggiore vicinanza con Moro, così come fece del dicembre del 1977 quando
appoggiò l’apertura al Pci che Moro stava attuando tra mille resistenze interne ed internazionali.
Saragat seppe molto prima che arrivasse il 7 dicembre quello che bolliva in pentola. Lo seppe anche
Mario Tanassi che aveva preso la poltrona che era stata del moroteo Luigi Gui, alla Difesa, proprio
grazia all’intesa Moro-Saragat..
Nel maggio del 1970, quando ormai la pista nera è delineata e soprattutto lo scontro politico sulla
sua gestione è emerso, Franco Freda trasferirà il proprio domicilio a Regensburg,
Kaiserwilhelmstrasse 69, presso Adolf von Thadden, che è il capo del neonazista Partito
Nazionaldemocratico (Npd). La presenza di certi gruppi e referenti politici dietro i gruppi
autonomisti che rivendicano l’indipendenza dell’Alto Adige – una delle prime ipotesi per la bomba
del 12 dicembre – è grande. Sullo sfondo la figura di Franz Josef Strauss. Taviani diede ordine ad
Angelo Vicari, ad esempio, di recarsi a Monaco di Baviera per proporre all’ex colonnello delle Ss
Eugen Dollman di intervenire presso Strauss per arginare il clima “particolarmente aggressivo” che
si era venuto a determinare in Alto Adige. In un congresso della Csu bavarese viene approvata una
risoluzione che chiede l’autodeterminazione dell’Alto Adige e l’intervento “ per obblighi umani e
germanici” del governo di Bonn presso quello di Roma. Nel ‘laboratorio’ dell’Alto Adige hanno
fatto il loro esordio quasi tutti i protagonisti della nostra vicenda a cominciare da Franco Freda .
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80
ibidem
Il Secolo d’Italia, 29 agosto 1975
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Ancora Germania e Monaco, come dicono Maletti e Taviani. Questo è un capitolo tuttora
inesplorato in rapporto a Piazza Fontana anche se i fili, come abbiamo visto, sono tanti. Tutti
interessanti.
Digilio tra i tanti elementi citati riporta un colloquio con uno dei tre ordinovisti scagionati da
qualsiasi accusa per la strage: “Lui mi rispose che non dovevo fare critiche né morali né di tipo
strategico in quanto i fatti del 12 dicembre erano la conclusione della nostra strategia e che c’era
una mente organizzativa sopra la nostra che l’aveva voluta e diretta, anche da Roma”.
Fin da subito dopo l’esplosione il generale Maletti sa “benissimo che la matrice era di destra”. “Chi
ha portato avanti questo progetto che ha ucciso tanti italiani è italiano. E lo ha fatto, aderendo ad un
progetto portato avanti da un servizio straniero per ottenere un proprio vantaggio. Di potere.”, dice
“La vera responsabilità politica nella strategia della tensione è che nessuno ha mai preso delle
decisioni, mai nessun uomo politico ha parlato e agito in termini politici”, accusa l’ex generale81 .
Maletti dimentica però di spiegare che una delle accuse nei suoi confronti nell’ultimo processo
riguarda l’ipotesi che lui, unitamente ad alcuni ufficiali Usa, dovesse sequestrare il Presidente della
Repubblica Giuseppe Saragat. Un fatto che potrebbe spiegare il colloquio con Cossutta al Quirinale,
di cui abbiamo parlato, quando il Pci si offre di mettere in salvo il Presidente in caso di pericolo
mentre si dispiegava la trama del ‘golpe Borghese’ che si concretizzerà nella notte della Madonna
del dicembre 1970.
Nel novembre del 1969, il 19, giorno della presunta sollevazione di cui parla Salcioli, viene lasciato
fuggire a Milano il mafioso Luciano Liggio. Andrà a coordinare i ‘picciotti’ che saranno impiegati
solo l’8 dicembre 1970. In aula nel 1986 dirà di voler parlare di “affari di Stato”. Nel 1970 – dice –
i politici volevano portare il Paese sull’orlo dell’irreparabile. Avevano chiesto alla mafia uomini in
armi e la garanzia che Liggio desse la sua approvazione. “Gli risposero che io ci stavo e mi
promisero la libertà”. Sembra quasi che Liggio parli di quest’incontro avvenuto in condizioni di sua
segregazione (“la libertà”) ma all’epoca il boss era già libero, latitante. Quindi quella libertà gli è
stata promessa – e probabilmente data - prima di Piazza Fontana. Gli intrecci – anche in riferimento
alle coperture politiche offerte o pesantemente ricercate – che si dipanano tra le due cordate sono
fili ben lunghi nella nostra storia sulla strage. Anche l’affare delle tangenti Lookheed, concluso con
la condanna di due‘referenti’ come Luigi Gui (Moro) e Mario Tanassi (Saragat) rientra
probabilmente in questa sorte di duello, in questo caso finito alla pari.
Quando il generale Miceli si troverà in difficoltà rievocherà i suoi iniziali rapporti con Saragat.
“Dopo aver assunto il comando del Sid ebbi un primo colloquio col presidente, parlammo dei
problemi della sicurezza dello Stato”. Saragat reagirà con la consueta smentita affermando – in
maniera curiosamente paradossale – di non aver mai conosciuto il responsabile del Sid. Eppure nel
luglio 1970 saranno proprio i socialdemocratici, con la collaborazione di Miceli, a bocciare la
candidatura di Giulio Andreotti alla Presidenza del Consiglio, assegnata poi a Colombo. Per farlo
utilizzeranno il mancato gradimento di Miceli che non diede il Nos, cioè le garanzie di segretezza e
rispetto dei patti Nato che ogni governante occidentale doveva avere obbligatoriamente. Una
vendetta per il ruolo svolto da Andreotti nell’immediato dopo-strage, quando fu determinante ad
impedire la svolta autoritaria? Saragat darà indiretta conferma a questa ipotesi nel 1975 in una
intervista al settimanale Tempo.
“Per silurare Andreotti non avevo bisogno delle sollecitudini dei servizi segreti né del generale
Miceli, del resto non ancora capo del Sid, che io dichiaro di non aver mai conosciuto. Bastò la mia
personale avversione”. Avversione a che?
Sentimento contraccambiato da Andreotti che, in vita e in morte, ha più volte polemizzato con
Miceli, ma anche con Saragat.
Alla fine per capire Piazza Fontana bisogna tornare al novembre del 1968, quando gli americani,
dopo un’estate drammatica segnata dalla invasione sovietica di Praga e dall’avanzare visibile delle
truppe dell’Armata Rossa, valutano una dato politico che acquista una valenza rilevante in quel
contesto: in Italia la somma dei voti ottenuta dai socialisti e comunisti nelle politiche di maggio
81
Tutte le citazioni sono tratte dalla intervista a La Repubblica del 4 agosto 2004
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superava quelli della Dc. L’alleanza tra i due partiti avrebbe permesso, per via democratica, una
politica quantomeno di differenziazione da parte dell’Italia. Lo ‘scivolar fuori’ dalla Nato dell’Italia
non era più una ipotesi di scuola agli occhi di almeno alcuni analisti americani. L’attivazione
dell’Aginter Press, struttura a cui faceva capo l’Oaci, Organisation Armèe contre le Communisme
International, vero e proprio esercito clandestino anticomunisma, è quindi obbligata. Nel
novembre 1969 un documento dell’Aginter, “La nostra attività politica”, codifica che elemento
essenziale della strategia da attuare era che i comunisti dovessero essere incolpati delle violenze
perpetrate e che tracce e indizi dovessero essere predisposti a questo finei. Ma il campo di battaglia
dell’Aginter, oltre le colonie portoghesi, si estendeva a Germania, Francia e Belgio.
Le carte dell’Aginter sono in gran parte sparite e quelle disponibili sono gravate del segreto Nato
che non le rende accessibili. Quando nel 1974 il regime portoghese cadde i giornalisti italiani
accorsi poterono vedere alcuni dei fascicoli tra cui quello intestato alla mafia e quello ai “sostenitori
finanziari tedeschi”. E si torna verso Monaco, dove nell’ex caserma di addestramento delle Waffen
SS Reinhard Ghelenii ha strutturato la sua organizzazione dopo essere stato reclutato dal Cic, lo
stesso controspionaggio militare che arruolò Kalus Barbie, inviandolo in Argentina, dove oggi vive
clandestino Giovanni Ventura.
Quando Ghelen cade, nel 1968, non paga solo il cambio di vertice politico con l’entrata della Spd
nel governo, come per tanto tempo si è scritto. Un’ inchiesta segreta e ancora oggi riservata nelle
conclusioni lo costringe ad andarsene. Il Rapporto Mercker stila conclusioni sul Bnd che sono
“devastanti”.iii
La Spd e Brandt, non appena leggono il rapporto, non inviato a Ghelen in visone, decidono per il
licenziamento mascherando il tutto con un ritiro dopo oltre 20 anni di guida dei servizi segreti
tedeschi dell’ormai anziano generale. Ma la rete degli “sbandati” ha continuato ad agire, si è
vendicata, ha tutelato traffici e interessi che non potevano essere troncati dall’oggi al domani?
Ghelen nelle sue memorie si difende dicendo che tutto era nelle mani degli americani, sulla
falsariga di quello che racconta il generale Gianadelio Maletti.
E quello che non era riuscito nel 1969, venne bissato nel 1970. Scrive William Colby, ex direttore
della Cia, che in quell’anno l’Agenzia “tentò un golpe militare, direttamente agli ordini del
Presidente Nixon”. Il coinvolgimento del Presidente Usa fu confermato da Remo Orlandini al
capitano del Sid Antonio La Bruna nelle bobine segrete dell’inchiesta sul golpe Borghese occultate
per decenni ed entrate nell’inchiesta Salvini . Gli appoggi “esterni?”. “La Nato e la Germania. A
livello militare, perché dei civili non ci fidiamo”, spiega. La Bruna gli chiede dei nomi. “Guardi, per
l’America c’è Nixon, oltre al suo entourage”.
E Maletti durante la sua lunga e importante deposizione durante l’ultimo processo su Piazza
Fontana ha aggiunto un giudizio sull’ex Presidente Usa che, espresso da un uomo che sa, non può
che far riflettere: “Non dimenticate che (quando c’é Piazza Fontana, NdA) era in carica il Presidente
Nixon e Nixon era un uomo molto strano, un politico molto intelligente, ma anche un uomo dalle
iniziative non molto ortodosse”.iv
Alla pagina del 12 dicembre ’69 dei Diari di Andreotti sono riportate - ha detto il sette volte
Presidente del Consiglio – molte riflessioni “sul senso di quell’attentato e sulle sue conseguenze”.
Una storia che dura e che occulta ancora tanto sia per quel che riguarda la dinamica dell’ operazione
e le modalità della strage, sia per la lunga scia di ricatti incrociati – politici e non - che da allora si è
sviluppata. All’ultimo rimane solo il senso di sgomento per questa storia infinita, una sorta di
‘guerra’ combattuta dai due fronti prima con l’esplosivo e poi nel nascondere perché esso era stato
usato, da chi e con quale scopo e quali coperture, politiche e non. Una ‘guerra’ che ha avuto i suoi
morti sul campo ‘militare’ e su quelli giudiziari, politici o di semplice valutazione nel giudizio
dell’opinione pubblica italiana.
Norberto Bobbio ha dato una spiegazione del fatto che solo l’Italia ha avuto in Europa il fenomeno
dello stragismo, cioè della politica condotta – per ricatto – con le bombe: “Tutti i misteri italiani si
spiegano col fatto che nel nostro paese c’è stato il partito comunista più forte d’Europa”. E allora
per provare a sciogliere questi misteri bisogna, come dice Tiresia ne “L’Antigone nelle città” fare i
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nomi “…sempre più in alto, fino a nomi impronunciabili”, perché “così i vostri morti avranno
sepoltura e la terra fresca della verità coprirà finalmente i loro corpi. Poi si leverà il vento e il
contagio della menzogna sparirà”. Ma perché questo accada altre cose si dovranno strappare alla
‘botola’ ancora oscura del 12 dicembre 1969, venerdì, ore 16,37. Alla strage con i capelli sempre
più bianchi.
[email protected]
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i
Daniele Ganser, Gli eserciti segreti della Nato .Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale , Roma, Fazi
Editore, 2005,p.142
ii
Ghelen fece la sua fortuna passando agli Usa l’immenso archivio raccolto sull’Urss durante la costituzione degli
Eserciti Esteri d’Oriente messi su dai nazisti con il compito di combattere l’Urss, una sorta di Gladio dell’Est.
Ganser, op.cit.,p.225
iii
Ganser, op.cit.,p.236
iv
Ganser, op.cit. p.144
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Paolo Cucchiarelli