Livio Maitan
VERIFICA DEL LENINISMO IN ITALIA
(1968-1972)
La fase di lotta politica che si è aperta dopo il 7 maggio 1972 costringe i militanti rivoluzionari a un bilancio degli avvenimenti degli ultimi anni e a una riflessione critica
sui risultati conseguiti.
I problemi che si pongono possono essere sintetizzati in tre constatazioni, che implicano tre scottanti interrogativi:
l) dopo quattro anni di una crisi che ha investito la società italiana in tutte le sue stratificazioni e in tutte le sue strutture, la Democrazia cristiana, espressione della classe dominante da oltre venticinque anni, ha mantenuto la propria egemonia su larghissimi strati piccolo-borghesi, urbani e rurali, e su settori non trascurabili di popolazione lavoratrice, rivelando per di più una considerevole forza di attrazione verso gli elettori delle più
giovani generazioni;
2) il Partito comunista, benché la sua natura riformista e la sua incapacità di esprimere una strategia alternativa siano emerse, in un periodo di tensioni sociali e politiche
estremamente acute, agli occhi di vasti settori di operai, di studenti, di intellettuali e di
piccolo-borghesi radicalizzati, è apparso come una forza intatta, se non in espansione,
che conserva la propria egemonia sulla maggioranza della classe operaia, su consistenti
masse contadine e su strati non trascurabili di piccola borghesia;
3) nonostante il ruolo assunto, specie in determinati momenti, negli anni scorsi e la
diffusa influenza, l'estrema sinistra è apparsa, alla luce di successive verifiche, come un
fenomeno tuttora circoscritto e, quel che più conta, incapace di indicare e di rappresentare effettivamente un'alternativa globale alle organizzazioni riformiste. Non solo
non è nato il nuovo partito rivoluzionario, ma neppure sono stati fatti passi sostanziali in
tale direzione.
Rispondere a questi interrogativi – tra cui esiste ovviamente un rapporto di interdipendenza – è compito primario. Un'analisi puntuale è indispensabile per andare avanti,
per stabilire gli obiettivi e gli orientamenti senza empirismi e impressionismi, con una
visione di respiro sufficiente a cogliere le tendenze e i problemi principali.
La nostra valutazione è che, negli ultimi anni, sono esistite condizioni oggettive largamente favorevoli perché i rapporti di forza cristallizzatisi, nelle linee generali, nell'immediato dopoguerra, subissero radicali mutamenti e perché si progredisse considerevolmente sulla via della costruzione del partito rivoluzionario. Quindi è soprattutto sulla
carenza dei fattori soggettivi che l'analisi critica deve essere diretta. È mancata la lucidità teorica e politica necessaria, è mancata la tempestività dell'impostazione e dell'iniziativa nei momenti decisivi, ha fatto difetto la capacità di resistere a pressioni congiunturali, interne e internazionali, di non cedere a suggestioni che dovevano inevitabilmente
essere pagate a caro prezzo.
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Detto in termini più espliciti, il tentativo della formazione di un partito di tipo leninista non è neppure stato fatto con il minimo indispensabile di coerenza e di consistenza.
Non solo il leninismo è stato spesso – direttamente od obliquamente – messo in discussione nei suoi fondamenti, ma anche quando è stato accettato, ha subito grottesche adulterazioni, deformazioni eclettiche o centristiche.
Come è accaduto in altre epoche di ripensamento, anche nella fase attuale emergeranno assai probabilmente «nuove» teorizzazioni antileniniste, che pretenderanno di basarsi su un verdetto negativo della esperienza (segnatamente per i paesi capitalisti sviluppati). La verità elementare è che una verifica dell'eventuale inadeguatezza di partiti
di tipo leninista alla soluzione dei problemi della lotta rivoluzionaria dell'Europa occidentale non è ancora stata fatta. In vari paesi, lo stadio dei partiti leninisti con un minimo di base di massa non è mai stato raggiunto.
In altri, i partiti comunisti, nati con la III Internazionale, peraltro il più delle volte
con la confluenza di forze scarsamente omogenee e niente affatto educate al marxismo
rivoluzionario, subivano rapidamente un'involuzione burocratica parallela alla burocratizzazione dell'URSS, abbandonando già dalla seconda metà degli anni '20 le concezioni
e i metodi del leninismo. Né, ripetiamolo, un tentativo consistente di ricostruzione leninista ha avuto luogo in questi anni. Sarebbe, quindi, arbitrario ogni sforzo di addebitare
a presunti limiti del leninismo, in particolare della concezione leninista del partito, l'impasse del movimento e dei gruppi rivoluzionari emersi o vivificati dall'ascesa del 1968.
Certo è che, in assenza di un partito rivoluzionarlo quale era stato concepito da Lenin e
dall'Internazionale comunista alla sua origine, nessuna crisi rivoluzionaria e nessun movimento di massa, per quanto impetuoso e caratterizzato da una dinamica oggettivamente anticapitalistica, hanno avuto lo sbocco della rottura del sistema e dell'avvento al potere del proletariato.
UNA SITUAZIONE PRE-RIVOLUZIONARIA
La fase apertasi agli inizi del '68, che ha avuto il punto più alto nell'autunno del '69, è
stata caratterizzata da una crisi sociale e politica estremamente acuta, che ha assunto i
tratti di una situazione prerivoluzionaria.
Ci sembra tanto più necessario ritornare su tale caratterizzazione, in quanto qualcuno
potrebbe avere ora la tendenza a sottovalutare la profondità e la vastità del movimento
di questi anni. E non sarà inutile richiamare alcuni criteri basilari.
Lenin ha sintetizzato come segue «i sintomi principali» di una situazione rivoluzionaria: «1. l'impossibilità per le classi dominanti di conservare il loro dominio senza modificarne la forma; una qualche crisi negli «strati superiori», una crisi nella politica della
classe dominante, che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l'indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che «gli strati inferiori non vogliano, ma occorre anche che «gli strati superiori non
possano» vivere come per il passato; 2. un aggravamento, maggiore del solito dell'angustia e della miseria delle classi oppresse; 3. in forza delle cause suddette, un rilevante
aumento dell'attività delle masse, le quali, in un periodo «pacifico», si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l'insieme della crisi,
che dagli stessi «strati superiori», ad un'azione storica indipendente,1
Criteri analoghi vengono indicati da Trotskij nella Storia della rivoluzione russa (v.
il capitolo «L'arte dell'insurrezione») e in uno scritto sulla crisi tedesca degli anni '30. In
quest'ultimo scritto assume particolare importanza la seguente annotazione: «La situazione rivoluzionaria che pone al proletariato il problema della conquista del potere è costituita da elementi oggettivi e soggettivi legati l'uno all'altro e in larga misura interdipendenti. Ma questa interdipendenza è relativa. La legge dello sviluppo diseguale si applica, in genere, anche ai fattori della situazione rivoluzionaria. Uno sviluppo sufficiente
di uno di questi fattori può far sì che la situazione generalmente rivoluzionaria, non
giungendo all'esplosione, si disperda, oppure che, giungendo all'esplosione, sfoci in una
disfatta della classe rivoluzionaria».2 Una interpretazione meccanica dell'interdipendenza, che Lenin aveva sottolineato in termini corretti, potrebbe portare alla
conclusione – erronea – che senza partito rivoluzionario non può prodursi neppure una
situazione rivoluzionaria, con la conseguente tendenza a sottovalutare la portata esplosiva di certe crisi e a trarre da una eventuale sottovalutazione di questo tipo implicazioni politiche e tattiche sbagliate. Senza contare che, a voler essere astrattamente conseguenti, si rischierebbe di prospettare un circolo vizioso: il partito rivoluzionario raggiungerebbe la sua maturazione solo in una fase rivoluzionaria, ma senza l'azione del
partito non potrebbe prodursi una crisi rivoluzionaria.
Prerivoluzionaria può essere definita una situazione in cui non siano ancora emersi
nella loro pienezza tutti gli elementi di una situazione rivoluzionaria, in cui, soprattutto,
questi elementi si presentino con una minore concentrazione nel tempo, in cui la crisi
non sfoci al suo culmine in un movimento che ponga oggettivamente – in termini di immediatezza – il problema del potere nella sua globalità.3
Non è il caso di richiamare qui i limiti, le contraddizioni e il complessivo fallimento
dell'operazione sviluppata dalla borghesia italiana con il centro-sinistra.4 Il disegno di
razionalizzazione e di riforma aveva un respiro corto e, lungi dal riuscire ad assicurare
un equilibrio più stabile del sistema e una integrazione della classe operaia, finiva con
l'acutizzare le contraddizioni del sistema stesso, facendole emergere alla superficie e
rendendole esplosive in senso diretto e immediato. Se il fine era stato ammortizzare i
contrasti sociali e politici, il risultato era il determinarsi di una situazione in cui differenziazioni e contrapposizioni tra le classi si sviluppavano in forma così acuta e su scala
così vasta quali mai si erano registrate dalla fine della guerra.
Durante il periodo del boom e dello sviluppo industriale la classe operaia aveva acquisito un peso sociale sempre maggiore. Contemporaneamente aveva subito una profonda ristrutturazione non solo in seguito agli imponenti fenomeni migratori, ma anche
all'interno della fabbrica con l'estinguersi delle vecchie professioni e specializzazioni e
con l'emergere massiccio di strati operai omogenei, che contribuivano ad accrescere la
compattezza della classe nel suo complesso. D'altro canto, l'introduzione di tecniche più
1 V. I. LENIN, Il fallimento della II Internazionale, in Opere, Editori Riuniti, Roma, vo1.21, p. 191)
2 La svolta dell'Internazionale comunista e la situazione in Germania, in I problemi della rivoluzione cinese, Einaudi, Torino, 1970.
3 Nel maggio '68 in Francia si è determinata una crisi rivoluzionaria nella misura in cui la enorme mobilitazione degli operai, degli studenti e di vasti strati piccolo-borghesi e la crisi delle classi dominanti sono
sfociati in una vacanza e in una paralisi di potere, che ponevano oggettivamente il problema di un potere
alternativo. In Italia ciò non si è verificato in forma così diretta e concentrata. Per una polemica su questa
caratterizzazione della situazione francese, rimandiamo al nostro libro PCI 1945-1969: stalinismo e opportunismo, Samonà e Savelli, Roma, 1969, p. 323.
4 A questo proposito rinviamo, oltre che al saggio conclusivo del libro citato nella nota precedente, al nostro Il movimento operaio italiano in una fase critica, Samonà e Savelli, Roma, 1966.
3
«moderne» e la «razionalizzazione» incessante dell'organizzazione del lavoro comportavano una intensificazione dello sfruttamento tale da provocare un’usura psico-fisica
sempre più insopportabile. In senso più direttamente politico, l'accrescersi delle tensioni
era determinato dalla contraddizione tra l'elevamento del grado medio di istruzione e di
cultura, da una parte, e l'accentuarsi, dall'altra, della parcellizzazione e dell'alienazione
del lavoro, cui non era lasciato più alcun residuo di partecipazione attiva. Infine, la classe operaia si era trasformata nella sua composizione dal punto di vista generazionale.
Coloro che avevano preso parte alle lotte dell'immediato dopoguerra e avevano sofferto
delle sconfitte degli anni '50, erano stati via via sostituiti da forze nuove, da militanti
delle giovani generazioni, scevri dalle usure e dalle frustrazioni del passato, e quindi suscettibili di lanciarsi nella mischia con energie intatte, senza eccessivi tatticismi, senza
complessi di inferiorità nei confronti dell'avversario. Le mobilitazioni contro Tambroni
nel '60 e le lotte del '62 avevano fornito una significativa anticipazione delle tendenze
nuove, che dovevano rafforzarsi negli anni successivi per esplodere alla fine nelle vicende del '68-69.5
Queste – schematicamente – le premesse di una ascesa che, in diverse forme e con
diversi ritmi, doveva prolungarsi per circa quattro anni, investendo praticamente tutta la
classe operaia della penisola, dagli strati occupati nelle industrie a più alto livello tecnologico agli strati delle industrie piccole e medie delle regioni o province più arretrate.
Gli obiettivi delle lotte si fondavano sulla gamma più svariata di bisogni e di esigenze,
andando da rivendicazioni che miravano a eliminare differenze connesse a distinzioni
geografiche ormai del tutto prive di fondamento, a rivendicazioni che colpivano gangli
vitali dell'attuale organizzazione capitalistica del lavoro. Per la stessa dimensione il movimento contestava – oggettivamente – il sistema come tale, acquistava una carica anticapitalistica sempre più esplicita ed era caratterizzato da vigorose tendenze egualitarie
che sconvolgevano schemi tradizionalmente accettati e teorizzati dalle organizzazioni
burocratiche. La globalità dell'attacco al sistema e ai suoi valori e l'adozione di metodi
che privilegiavano l'azione diretta e la mobilitazione militante rispetto allo sciopero di
routine conferivano ancor più precisamente al movimento una carica antiburocratica,
per cui venivano rimessi in discussione strumenti e strutture cristallizzatisi nei venticinque anni precedenti. Per riprendere l'espressione leniniana, «gli strati inferiori»non erano più disposti a vivere come prima ed erano decisi a lottare per mutare radicalmente le
loro condizioni, cominciando a creare nuovi rapporti di forza e mettendo in discussione
praticamente tutte le forme dello sfruttamento cui li sottopone la società capitalistica.
Inutile insistere sull'elemento nuovo rappresentato dal movimento studentesco, che
ha assunto in Italia dimensioni particolarmente imponenti, con mobilitazioni ricorrenti
per oltre tre anni. Prodotto, da un lato, dei mutamenti intervenuti nella tecnologia e nella
organizzazione del lavoro, dall'altro dello scoppio delle contraddizioni cosiddette periferiche, questo movimento ha avuto, verso la fine del '67 e nei primi mesi del '68, un ruolo
fondamentale per sconvolgere gli equilibri politici preesistenti. È stato l'espressione più
clamorosa della crisi della classe dominante ed è stato uno dei canali attraverso cui si è
espressa la crisi della piccola borghesia (il che non implica in nessun modo una riduzione del movimento studentesco a movimento piccolo-borghese). È riuscito a realizzare larghe convergenze con la classe operaia in lotta ed è intervenuto come fattore politico rilevante non solo nelle prime manifestazioni del '67-68, ma anche successivamen5 Non ci soffermiamo qui sui fattori internazionali – come la rivoluzione cubana e i movimenti rivoluzionari in America Latina, la guerra nel Vietnam, i conflitti nel movimento comunista mondiale, ecc. – che
pure hanno avuto, come tutti sanno, una parte rilevante.
te, dopo che era entrato massicciamente in scena il proletariato (in particolare agli inizi
del '70).
Il periodo '68-71 ha segnato anche una radicalizzazione di vasti strati di piccola borghesia. Lo sviluppo economico, con tutte le trasformazioni intervenute, i processi di
concentrazione industriale, di espansione e di concentrazione del terziario, l'esodo rurale
(che, oltre ai braccianti di certe zone tradizionali, ha investito vasti settori di contadini
poveri), le tensioni determinate dal contrasto tra il maggiore accesso all'istruzione e la
relativa contrazione degli sbocchi, la crisi delle ideologie ufficiali: tutto questo provocava profondi sconvolgimenti anche negli strati intermedi. Da un lato la piccola borghesia
tradizionale subiva un processo di disgregazione e di parziale declassamento; dall'altro,
la piccola borghesia più legata alla produzione o inserita nei servizi e nell'amministrazione era spinta ad approfittare della situazione di crisi generale per imporre le proprie
rivendicazioni con mobilitazioni vigorose. Inoltre, in un contesto in cui crollavano i valori tradizionali, anche strati di intellettuali si radicalizzavano, riflettevano a loro modo
le aspirazioni tormentate e gli smarrimenti delle classi medie e finivano col fornire una
cassa di risonanza alle ideologie «contestatrici». La stessa crisi dei cattolici esprimeva le
lacerazioni della piccola borghesia, assai più che effettivi mutamenti in strati operai.
Nonostante l'esodo verso le città e l'immigrazione, anche zone rurali erano scosse da
tensioni rinnovate. Non solo, nel quadro delle mobilitazioni proletarie, scendevano impetuosamente in lotta – con risultati talora tutt' altro che trascurabili – braccianti e salariati agricoli, ma la radicalizzazione coinvolgeva addirittura strati di contadini poveri e
medi che per venticinque anni avevano subito passivamente l'egemonia conservatrice
(da fenomeni di «contestazione» non è rimasto indenne lo stesso feudo anticomunista
bonomiano). È significativo che neppure mentre scriviamo, cioè in un periodo di accentuata controffensiva della classe dominante, sia stata possibile – salvo in casi circoscritti
– una utilizzazione di strati rurali in funzione antioperaia e antidemocratica.
Infine, per riprendere il testo di una risoluzione della sezione italiana della IV Internazionale, «tratto essenziale del periodo apertosi nella primavera del 1968 è stata la crisi
di autorità e di egemonia politica che ha investito profondamente le stesse classi dominanti. La manifestazione più macroscopica è stata che, mancando un disegno d'insieme
e una direzione politica capace di imporsi come la mediatrice generalizzante di interessi
settoriali, i vari strati, i vari settori e i vari gruppi, nello sforzo di difendere i loro interessi particolari, hanno stimolato costantemente tendenze centrifughe, di cui è apparsa
sempre più difficile la stessa convergenza oggettiva. Questa tendenziale decomposizione si è rivelata ai vari livelli dell'apparato delle classi dominanti. In questo fenomeno
sono rientrate contemporaneamente, semplificando all'estremo, la cristallizzazione di
una burocrazia e di una tecnocrazia statale che sfuggono a ogni tentativo di riforma
come a ogni conato di controllo da parte delle camere e dello stesso governo, le iniziative «indipendenti» della polizia che in varie occasioni ha costretto il governo a darle una
copertura a posteriori, la crisi sempre più palese della magistratura, divisa ancor più di
quanto non appaia ed esposta a pressioni politiche contrapposte». 6 In altri termini, «gli
strati superiori» non potevano più vivere come per il passato.
La crisi sociale e politica si traduceva in mutamenti rilevanti dei rapporti di forza tra
le classi. Ed era nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, che siffatti mutamenti acquistavano l'espressione più significativa, con la demolizione dell'autorità padronale e con l'emergere di strumenti nuovi di democrazia operaia (delegati, consigli dei delegati, ecc.).
6 Si tratta della risoluzione dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari del novembre 1971, riprodotta nel n.4
della rivista «IV Internazionale».
5
Nel momento più alto della marea si imponevano forme embrionali di dualismo di poteri, l'indicazione più eloquente della profondità di una crisi che, per questo aspetto, era
andata oltre la crisi rivoluzionaria francese del '68.
Per tutte queste ragioni, la situazione italiana tra il '68 e il '71 può essere legittimamente caratterizzata come una situazione prerivoluzionaria. La conclusione da ricavarne
è che le condizioni oggettive erano favorevoli alla costruzione del partito rivoluzionario:
perché forze sociali decisive si erano mobilitate e, in larga misura, con una dinamica anticapitalistica, perché il movimento si scontrava era del tutto improponibile nel contesto
dato. La situazione internazionale approfondiva le contraddizioni oggettive del sistema
e favoriva grandemente la presa di coscienza soggettiva.
A ciò va aggiunto che già all'inizio dell'ascesa era presente una intellighentsia anticonformista, che aveva riflettuto criticamente sulle esperienze del movimento operaio
internazionale ed era divenuta un veicolo della problematica rivoluzionaria. In secondo
luogo, dal movimento studentesco emergevano migliaia di quadri politici, maturati in un
ambiente che stimolava tentativi di generalizzazione in connessione con esperienze militanti. Il peso di questi quadri è stato notevole durante tutto il periodo, in quanto essi
hanno potuto fungere in un certo senso da rivoluzionari professionali, polivalenti nell'intervento, controbilanciando così, almeno parzialmente, il vantaggio che derivava alle
burocrazie dalla utilizzazione del loro apparato permanente. Infine – e non si tratta certo
del fattore meno importante – emergevano, soprattutto nella fase culminante del '69, nuclei consistenti di operai di ispirazioni e convinzioni rivoluzionarie, culturalmente superiori a coloro che avevano avuto una funzione analoga in occasioni storiche precedenti,
non logorati dagli insuccessi e dalla routine e capaci di intervenire come stimolo e come
guida nelle lotte.
OSTACOLI OGGETTIVI E CARENZE SOGGETTIVE
Passando ad analizzare le difficoltà, potremmo dire un po' paradossalmente che il primo ostacolo consisteva nella stessa grandiosità del movimento. Una crisi pre-rivoluzionaria di tali dimensioni poneva – e a scadenze molto rapide – alle avanguardie compiti
sproporzionati rispetto all'accumulazione precedente e ai ritmi di crescita della nuova
fase. Di qui, sia detto di passata, la tendenza troppo marcata alla ricerca quasi spasmodica dell'iniziativa più suscettibile di risonanza, alle forzature volontaristiche, ai continui
raggiustamenti di tiro, agli spostamenti repentini da un settore all'altro. Il che rendeva
più difficile ogni azione sistematica in profondità, con conseguenze inevitabilmente negative sulle possibilità di stabilire legami non episodici o saltuari non solo con le masse,
ma con le stesse avanguardie operaie.
Le forme e i ritmi della crisi italiana hanno stimolato meno perentoriamente che nella
crisi francese la comprensione della necessità del partito rivoluzionario leninista, lasciando spazi ben più ampi e duraturi allo spontaneismo, al mao-spontaneismo e al localismo. In Francia, ai primi focolai di conflitti operai di tipo nuovo e allo scoppio del movimento studentesco seguiva rapidamente una crisi generalizzata, concentrata all'estremo in poche settimane. Così, avanguardie relativamente larghe toccavano con mano l'esigenza imprescindibile del partito per affrontare il problema del potere che era sul tappeto, in contrapposizione da un lato all'apparato statale della borghesia, dall'altro agli
apparati centralizzati della burocrazia. Traspariva subito l'inconsistenza delle ipotesi
spontaneistiche, mentre le organizzazioni maoiste, pur giunte al maggio con una certa
consistenza, mettevano a nudo irrimediabilmente tutta la loro sterilità. I margini dello
spontaneismo e del localismo operaio – che in Italia hanno avuto una notevole incidenza
e tuttora non sono esauriti – erano ulteriormente compressi dalla maggiore solidità e articolazione sui posti di lavoro delle strutture della CGT e dello stesso PCF.7
Ma questi ostacoli oggettivi hanno pesato, in ultima analisi, in relazione a radicali carenze soggettive.
Quando la crisi ha inizio, le forze rivoluzionarie raccolte all'interno delle organizzazioni tradizionali sono esigue, mentre la sinistra del PCI è completamente disorganica,
in ripiegamento rispetto al periodo precedente, priva di un reale mordente politico. In altri termini, nel momento in cui si inaugura una fase nuova dei rapporti tra le classi e comincia a svilupparsi una dinamica di lotta anticapitalistica, i nuclei rivoluzionari esistenti non sono assolutamente in grado, per le loro stesse dimensioni, di esercitare una funzione di direzione alternativa, neppure parzialmente o embrionalmente, né di fornire le
indicazioni necessarie alle forze che si liberano. Oggettivamente, si determina una soluzione della continuità storica del movimento rivoluzionario, con la impossibilità quasi
totale per i quadri nuovi di valorizzare adeguatamente e tempestivamente il patrimonio
teorico e politico accumulato nel passato. Da questo punto di vista, va registrato il fallimento della politica cosiddetta entrista, cioè di inserimento e di differenziazione critica
– per tutta una fase – nell'ambito delle organizzazioni operaie tradizionali.8
Questo rilievo non inficia i fondamenti dell'entrismo in quanto tale. Al contrario, la
validità dell'orientamento che i marxisti rivoluzionari hanno seguito, in Italia e in altri
paesi, per molti anni, risulta confermata a negativo e, per un aspetto almeno, anche a
positivo. A negativo, perché la rottura della continuità e la mancata tempestiva accumulazione dei quadri necessari sono state pagate a caro prezzo, in ultima analisi (con l'esaurimento del movimento più grandioso verificatosi dopo la fine della guerra). A positivo, perché l'ipotesi dell'enuclearsi dei quadri rivoluzionari dalle file delle organizzazioni tradizionali è stata confermata dalla provenienza dei quadri principali dei vari gruppi
di estrema sinistra che, per periodi più o meno lunghi, hanno tutti militato nel PCI e, in
misura minore, nel PSlUP.
Sennonché, il fatto che il numero di questi quadri fosse del tutto insufficiente, che
essi mancassero della necessaria omogeneità e coesione, che non avessero legami stabili
con strati operai, prima ancora che confrontarli con compiti assolutamente sproporzionati alle loro forze, li rendeva vulnerabili alle pressioni più disparate, scarsamente capaci di agire organicamente come quadri leninisti, immunizzati da tentazioni centriste o
avventuriste. Così, molti di questi quadri, lungi dallo svolgere una funzione di avanguardia complessiva facilitando la maturazione del movimento e delle avanguardie nuove, finivano col diluirsi nel movimento stesso, col subirne la spontaneità e le contraddizioni e addirittura con il teorizzarle in una approssimativa ideologia spontaneista. Non
dissimile l'atteggiamento assunto verso il maoismo e la rivoluzione culturale, interpretati alla luce di esigenze congiunturali e con moduli idealizzanti assai più che analizzati
nella sostanza, e quindi inseriti nella ideologia del movimento, soprattutto per garantirle
una dimensione internazionale (di qui il fenomeno del cosiddetto mao-spontaneismo,
7 Non va dimenticato, inoltre, che nel processo italiano c'è stata una certa sfasatura tra il punto culminante di mobilitazione delle varie forze. Il movimento studentesco universitario ha assunto la massima ampiezza nella prima metà del '68, mentre il movimento medio iniziava appena verso la fine dello stesso
anno. Il culmine della mobilitazione operaia è stato raggiunto ovviamente nell'autunno del '69.
8 Per la conoscenza dei presupposti dell'entrismo, v. La costruzione del Partito rivoluzionario, Roma,
1967.
7
dai contorni meglio definiti in Francia, ma diffuso in Italia su scala più massiccia e con
influenza meno effimera). L'atteggiamento più paradossale e irrazionale – dal punto di
vista soggettivo – era quello di coloro che verso spontaneismo e maoismo avevano avuto in precedenza un atteggiamento critico corretto, ma poi «dimenticavano» come per
improvvisa folgorazione quanto avevano assimilato (o mostrato di avere assimilato).
È significativo che il gruppo del Manifesto, protagonista della sola rottura dal PCI di
una certa consistenza, nella prima fase di esistenza indipendente abbia percorso – con
due anni di ritardo – la medesima parabola, adattandosi al movimento nella speranza di
aprirsi dei varchi più rapidamente, civettando con gruppi ritenuti in grado di esercitare
un certo ruolo e facendo concessioni all'ideologia spontaneistica e neo-spontaneistica.9
Tutto ciò non si sarebbe verificato – o si sarebbe verificato in misura molto più ridotta – se, prima dell'aprirsi della nuova fase o ai suoi inizi, si fosse enucleata dalle organizzazioni tradizionali una tendenza di sinistra consistente, dotata di chiarezza teoricopolitica e di legami solidi, anche se parziali, con la classe operaia e le sue avanguardie.
Nella individuazione delle responsabilità soggettive per la mancata valorizzazione delle
condizioni oggettivamente favorevoli, la denuncia dell'impressionismo, dell'avventurismo e dei cedimenti dei quadri legati già nel '67-68 a gruppi rivoluzionari non può andare disgiunta dalla denuncia delle responsabilità di coloro che sono rimasti imprigionati
nella routine delle organizzazioni burocratiche in un momento in cui l'iniziativa audace
di forze propulsive esterne era una esigenza primaria ai fini della costruzione del partito
rivoluzionario e quindi dello sbocco positivo del movimento che cominciava a delinearsi.
Espressione di una istintiva rivolta contro apparati sterilizzanti, privi di prospettive
reali e svuotati di ogni credibile carica ideale, prima forma di presa di coscienza rivoluzionaria, favorito dall'assenza di nuclei leninisti consistenti, lo spontaneismo assumeva
di fatto una parte di primo piano. Del resto, per circa un anno e mezzo – dalla fine del
'67 alla tarda primavera del '69 – il movimento studentesco – il terreno più fecondo per
lo spontaneismo – è stata la componente maggiore dell'ascesa. Già nella primavera del
'68 erano scoppiate lotte operaie significative, ma per tutta una fase si era trattato in larga misura di conflitti settoriali o aziendali, e quindi larghi spazi per la «spontaneità» e
per il localismo si erano aperti anche in questa direzione.
Lo spontaneismo dilagante si manifestava esplicitamente come tale o era racchiuso in
formule più sofisticate. Ma il comune denominatore consisteva nella concezione secondo cui il partito e la direzione rivoluzionaria sarebbero usciti dal movimento stesso, che
ne avrebbe determinato metodi e concezioni, nella convinzione che i gruppi rivoluzionari preesistenti erano, o sarebbero stati, superati dal movimento (allora, non dimentichiamolo, prevalentemente studentesco), e nella affermazione della convergenza su obiettivi
di lotta e sui modi di intervento come base sufficiente di aggregazione. Come si è detto
il maoismo, interpretato in chiave spontaneistica, forniva il supporto internazionale e,
secondo taluni, l'elemento di una sintesi presentata come originale e tradotta nella formula «Lenin+Mao».
D'altronde, proprio per l'impatto delle posizioni dei dirigenti del PC cinese e della rivoluzione culturale, i tentativi di cristallizzazioni organizzative in direzione del partito –
compiuti in contrapposizione alla epidemia spontaneistica – si svolgevano prevalentemente attorno a gruppi che si richiamavano a una rigorosa ortodossia maoista (PCd'I li9 È singolare che gli autori della piattaforma del giugno '72 parlino di «suggestione della rivoluzione culturale» senza rendersi conto – a quanto sembra – che nel concetto di suggestione è implicita una nota negativa, almeno per chi accetti la metodologia critica materialistica.
nea rossa prima e poi UCI; nel secondo caso, con una combinazione di settarismo maoista e di elementi populistici, non privi di matrici spontaneistiche). Le suggestioni del
maoismo agivano peraltro, più in generale, nella piccola borghesia e nell'intellighentsia
in via di radicalizzazione. Qui va individuata una delle radici delle fortune del1'UCI durante un breve periodo e successivamente, su basi diverse, di Lotta continua.
COME L'ESTREMA SINISTRA È MANCATA ALLA PROVA
Riprendendo quanto già detto, la prima fase della crisi, sino all'apertura delle lotte
contrattuali del '69, è stata caratterizzata da un movimento ascendente, che racchiudeva
una enorme carica di combattività e tendeva a svilupparsi con una dinamica anticapitalistica e antiburocratica, ma si esprimeva settorialmente, senza una effettiva unificazione
e senza obiettivi politici d'insieme. In tale contesto, i nuclei che si erano venuti raccogliendo al di fuori delle organizzazioni tradizionali rinunciavano sostanzialmente a una
precisa definizione teorico-politica, sulla base del presupposto – esplicito o implicito –
che il «movimento era tutto» e avrebbe saputo produrre da sé la teoria e la direzione di
cui aveva bisogno. Quanto ai quadri operai d'avanguardia, esprimevano spesso efficacemente la combattività e lo spirito di «ribellione» presenti in larghi strati delle masse ma,
privi di formazione e di esperienza, non riuscivano ad acquisire una visione complessiva
né a comprendere la stessa dinamica del movimento di cui erano parte. Benché. provenienti quasi sempre dagli strati decisivi della classe, non erano in grado di agire come
suoi quadri organici.
Come ricorda lucidamente Ernest Mandel nello scritto che compare in questo stesso
volume, il formarsi del partito rivoluzionario e l'assolvimento della sua funzione dipèndono dall'esistenza o meno di un rapporto organico fra i tre elementi necessari costituiti
dai nuclei rivoluzionari che hanno assimilato la teoria marxista e colto le linee strategiche e tattiche corrispondenti alle esigenze della lotta, dagli operai di avanguardia organicamente inseriti nella classe e dalle masse che, via via che si sviluppa l'azione, individuano gli obiettivi essenziali da perseguire, acquistando consapevolezza dell'esigenza di
infrangere le barriere del sistema. Per il periodo cui ci riferiamo, non si sarebbe, comunque, trattato di un'azione mirante a porre in termini immediati il problema del potere.
Ma non c'è stato neppure uno sforzo sistematico per l'elaborazione di una strategia rivoluzionaria, né si sono registrati passi avanti per la costruzione del partito. Ciò è dipeso
dalla immaturità dei fattori soggettivi, in particolare di quei nuclei rivoluzionari che, nel
contesto dato, grazie all'interdipendenza dialettica, avrebbero potuto assolvere una funzione primordiale, agendo positivamente sulla maturazione degli operai di avanguardia
che le lotte mettevano rapidamente in luce.
Ciò sarebbe stato obiettivamente possibile. Di fatto, specie alla conclusione di questa
fase, all'immediata vigilia della battaglia contrattuale, i gruppi dell'estrema sinistra riuscivano a far pesare efficacemente la loro iniziativa (si pensi, per esempio a certe vicende torinesi del giugno-luglio), riportando alla fine un successo incontestabile con l'adozione, dopo aspra resistenza, da parte delle direzioni sindacali di elementi caratterizzanti
della piattaforma rivendicativa.10 In quel momento essi erano il veicolo di esigenze av10 Ciò vale, in particolare, per la rivendicazione centrale degli aumenti eguali per tutti. contrastata con
decisione dai burocrati, per esempio durante tutto il dibattito che ha preceduto il VII congresso della
CGIL (metà giugno 1969).
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vertite da larghe masse e assolvevano in questo senso una funzione organica nel movimento complessivo.
Una precisazione importante ai fini dell'analisi di tutto il periodo. Nel periodo cruciale che precede la fase culminante dell'ascesa, i gruppi che avrebbero guadagnato successivamente un'influenza più larga o non si erano costituiti, o non erano in grado di avere
una parte di primo piano. La stessa Lotta continua nasceva nell'estate del '69 (tuttavia,
aveva il vantaggio di rappresentare in un certo senso la continuità della tendenza spontaneista), Il Manifesto non operava ancora come raggruppamento autonomo e Avanguardia Operaia non aveva una dimensione nazionale e nella stessa Milano non era riuscita
ad apparire come una forza consistente.
I mesi di giugno e luglio del '69 assumevano una importanza decisiva, non solo perché la pressione dal basso costringeva i sindacati a una svolta brusca sulla piattaforma
per i contratti, ma ancor di più perché sorgeva a Mirafiori, per poi allargarsi a macchia
d'olio, l'iniziativa della creazione dei delegati di reparto, eletti da un gruppo operaio
omogeneo, indipendentemente dalla affiliazione politica e sindacale e revocabili in
qualsiasi momento. Era un'iniziativa che rompeva con la prassi consuetudinaria delle organizzazioni sindacali, contrastando i disegni burocratici (anche se i burocrati erano abbastanza rapidamente costretti a far buon viso a cattivo gioco). In realtà, l'emergere dei
delegati e dei consigli era come lo sbocco di un movimento «spontaneo» dalla dinamica
anticapitalistica e antiburocratica e, dal punto di vista delle strutture, segnava il punto
più alto del movimento in generale. Rappresentava oggettivamente un tentativo di tradurre in forme concrete i nuovi rapporti di forza che si erano venuti stabilendo e di mobilitare la classe operaia su un piano che trascendeva gli obiettivi economico-rivendicativi. Nei suoi distaccamenti più combattivi e più maturi la classe operaia si presentava
alla ribalta come una classe che ha una funzione preminente nel processo produttivo e
comincia a proporsi come direzione alternativa. In nuce, i delegati e i consigli dei delegati racchiudevano elementi di dualismo di poteri, sia pure limitatamente al microcosmo
della fabbrica.
Proprio in questa occasione, di fronte a un problema decisivo per gli sviluppi successivi, nella quasi totalità i gruppi dell'estrema sinistra davano prova di una incomprensione politica piramidale e di uno sterilizzante settarismo. In parte, la sottovalutazione – se
non il rifiuto aperto – del fenomeno dei delegati era una conseguenza della ubriacatura
spontaneistica. Una coerenza astratta spingeva a rifiutare le deleghe di qualsiasi tipo,
come se i pericoli di degenerazione dipendessero dalle forme e non dai contenuti. Il grido che veniva lanciato – «siamo tutti delegati!» – e che Lotta continua avrebbe fatto
proprio riprendendolo anche più tardi, non poteva essere più eloquente, in quanto metteva a nudo la componente utopistica di tendenze largamente presenti in questi anni. Non
di rado però l'opposizione a ogni «istituzionalizzazione» mascherava una deformazione
più prosaica, un miscuglio di miopia e meschinità settaria. Nella misura in cui delegati e
consigli dei delegati si fossero affermati come organismi nuovi di democrazia operaia,
gli organismi sorti empiricamente in precedenza (in certi casi assolvendo temporaneamente una funzione positiva) si sarebbero trovati inevitabilmente in difficoltà. Di qui,
nei promotori e nei sostenitori di comitati di base di vario tipo, un riflesso – più o meno
consapevole – di autoconservazione che si accompagnava al timore di una nuova operazione trasformistica delle organizzazioni burocratiche.
Così la grande maggioranza dei militanti della sinistra rivoluzionaria, incapaci di cogliere le potenzialità dell'incipiente esperienza dei delegati e la sua dinamica possibile –
possibile a certe condizioni che si trattava appunto di contribuire a creare – lungi dal-
l'impegnarsi a fondo per la sua generalizzazione, la sua strutturazione organizzativa e la
difesa del suo carattere più genuino, opponevano resistenze, si abbandonavano a paradossali teorizzazioni negative o, quanto meno, restavano passivi, arroccandosi nella difesa di qualche posizione conquistata – o che si affermava di avere conquistato.
Con ciò stesso – tanto più che un movimento di quelle dimensioni non poteva rimanere allo stato fluido vagheggiato dagli spontaneisti – si lasciava campo libero alla controffensiva dei burocrati che, di fronte alla realtà di un movimento che non avevano voluto ma non potevano annullare, non avevano altra scelta che tentare di canalizzarlo, di
farlo rientrare entro certi argini, di svuotarlo progressivamente di contenuto, subordinandolo al loro disegno riformista e al loro progetto di unificazione sindacale.11
L'inizio, nel settembre '69, della battaglia per i contratti avrebbe comunque creato
problemi seri a organizzazioni rivoluzionarie ancora esigue e quindi in grado di influire
su lotte settoriali e aziendali o in fasi preparatorie assai più che in una grandiosa mobilitazione nazionale delle più vaste categorie del proletariato. Non per nulla, del resto, dinnanzi ai pericoli di scavalcamenti e di esplosioni spontanee, i dirigenti sindacali procedevano alla denuncia anticipata dei contratti.
A maggior ragione, quindi, lo smarrimento di molti di fronte all'audacia manovriera
dei sindacati e alla disinvoltura di certi leaders che posavano a sinistri (tra costoro va inclusa una parte non trascurabile dello stato maggiore metalmeccanico), l'incapacità di
sfruttare tatticamente la svolta e, ancor più, l'incomprensione del movimento dei delegati annullavano le possibilità della sinistra rivoluzionaria di apparire, sia pure tendenzialmente o embrionalmente, come un polo alternativo, come una forza capace di esprimere
una strategia e una direzione alternative. 12 Proprio nei momenti cruciali della crisi l'inconsistenza di fondo dell'estrema sinistra si manifestava irrimediabilmente e la fase di
maggiore mobilitazione complessiva delle masse segnava – significativamente – una
sconfitta di coloro che, in teoria, più avrebbero dovuto approfittare del precisarsi di una
situazione prerivoluzionaria. Una occasione senza precedenti, se non per rovesciare
completamente, almeno per mutare sensibilmente i rapporti di forza, per cominciare a
esercitare una parziale egemonia e guadagnare alla strategia e all'iniziativa rivoluzionaria quadri proletari di avanguardia – elemento decisivo per la costruzione del partito e
per la traduzione in pratica di una strategia rivoluzionaria – era perduta. I gruppi uscivano dalla lotta senza aver conquistato un numero consistente di quadri operai organici e
registrando addirittura un regresso nei collegamenti con le masse.
Dopo la conclusione della battaglia per i contratti, le direzioni burocratiche rilancia11 La riscossa dei burocrati – nei luoghi in cui costoro non avevano potuto prendere l'iniziativa imponendo sin dall'inizio limiti deformanti all'esperienza – è stata facilitata grandemente dal carattere amorfo del
corpo dei delegati. La mancanza di una strutturazione organizzativa adeguata – e perché questa carenza si
perpetuasse si adoperavano stolidamente i mistici della «autonomia» e della «non-delega» – provocava
uno stato di fluidità nel funzionamento più elementare del consiglio (in primis, a Mirafiori) che finiva con
l'assicurare l'iniziativa agli apparati esistenti, cioè alla burocrazia sindacale che, per questa via, si rimetteva progressivamente in sella. Una significativa indicazione dell'atteggiamento di sottovalutazione delle
potenzialità dei consigli dei delegati diffuso nell'estrema sinistra: i documenti dei CUB del periodo della
lotta contrattuale del 1969, pubblicati da «Avanguardia Operaia», che pure affrontano tutta la tematica di
allora, non parlano affatto dei consigli: come se non fossero neppure sorti! (v. il quaderno n.4 di «Avanguardia operaia», pp. 287-360).
12 Nella primavera del '69 era opinione diffusa tra gruppi e comitati di base che le 40 ore [lavorative settimanali] e cospicui aumenti salariali non avrebbero potuto essere digeriti dal sistema e che proprio per
questo neppure i sindacati li avrebbero rivendicati. Si comprende che il corso degli eventi turbasse non
poco gli assertori di simili ingenue stupidaggini.
11
vano la tematica delle riforme. L'elemento parzialmente nuovo era che i sindacati – data
la loro capacità di mobilitazione incontestabilmente superiore a quella dei partiti e dato
il rafforzamento registrato nel periodo precedente – si assumevano direttamente l'iniziativa della campagna, prospettando mobilitazioni generali della classe operaia e di altri
strati della popolazione lavoratrice.13 Come si sa, la campagna è stata fiacca nelle sue
applicazioni pratiche, a causa dell'indeterminatezza dell'impostazione e, prima ancora,
della contraddittorietà di una strategia per le riforme in un contesto sociale scosso da
tensioni rivoluzionarie. Non va, tuttavia, dimenticata la funzione che l'iniziativa dei riformisti intendeva assolvere. Proprio la profondità e la forza del movimento della seconda metà del '69 imponeva la sua trascrescenza sul piano politico generale. La campagna si prefiggeva di soddisfare questa esigenza politica, naturalmente nel quadro di una
strategia che non poteva essere diversa da quella che i partiti riformisti avevano prospettato, con una serie di varianti, in tutto il dopoguerra.
I gruppi dell'estrema sinistra non erano in grado di confrontarsi seriamente neppure
su questo terreno. La critica al riformismo era un motivo ricorrente, ma era condotta in
forme quasi esclusivamente ideologico-propagandistiche (per esempio, una parola d'ordine centrale era «lo Stato borghese si abbatte e non si cambia», in astratto inconfutabile, ma avanzata senza connessioni concrete con la tematica e gli obiettivi delle mobilitazioni in corso). Per di più, un'analisi diffusa continuava a porre l'accento sulla prospettiva dell'attuazione di un disegno riformista che avrebbe coinvolto direttamente lo stesso
Partito comunista con il suo inserimento a livello di sistema di potere. Si trattava – non
abbiamo atteso il '72 per affermarlo – di una prospettiva fondamentalmente errata, che
da un lato sopravvalutava i margini oggettivi per un rilancio riformista, dall'altro partiva
da una concezione unilaterale della natura delle organizzazioni burocratiche. È mancata
una puntuale contrapposizione alla campagna dei riformisti con una campagna per
obiettivi di natura transitoria, in grado di offrire una prospettiva mobilitante, partendo
dai livelli di coscienza raggiunti, alle spinte anticapitalistiche largamente presenti nel
movimento. Risultato di questa carenza; la sinistra rivoluzionaria non riusciva, neppure
questa volta, ad apparire come portatrice di una globale linea alternativa, come polo
credibile di coagulazione delle forze antagoniste al sistema.
La campagna per le riforme finiva in un vicolo chiuso e perdeva presto ogni vigore
sullo stesso piano propagandistico. Il movimento restava, quindi, privo di obiettivi generalizzanti e non poteva che segnare il passo, indebolendosi come movimento complessivo. Senonché la carica conflittuale non era affatto esaurita. Nonostante la frammentazione, gli studenti erano ributtati periodicamente alla lotta dai problemi non risolti, soprattutto nella loro componente liceale. Quel che è più importante, la classe operaia, cosciente del suo accresciuto peso specifico sociale e dell'evoluzione favorevole dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro, non intendeva essere privata in alcun modo delle conquiste del '69, passava di nuovo all'attacco per gli accordi integrativi e contro l'attuale
organizzazione capitalistica del lavoro.
In una situazione del genere si aprono nuovi spazi per la sinistra rivoluzionaria, nella
misura in cui, come si è detto, sussistono tensioni sociali acute, nella classe operaia continua a essere presente una carica antiburocratica e le lotte hanno, in prevalenza, un carattere settoriale. La combinazione di mobilitazioni generali di ampiezza talora considerevole (di cui il movimento studentesco costituisce di gran lunga il maggior supporto)
e di interventi in lotte operaie significative consentono all'estrema sinistra di esercitare
una influenza e di cristallizzare attorno a sé forze già presenti nel '68-69, ma che solo
13 Ciò si accompagnava al precisarsi di tendenze «pansindacaliste» in particolare nella FIM.
ora ricercano una collaborazione organizzativa, ed elementi che hanno riflettuto criticamente sull'impasse della grande ondata e sulla sterilità della prospettiva di riforme offerta dalle organizzazioni tradizionali. Non a caso proprio nel '70 si è sviluppato come raggruppamento autonomo di una certa consistenza Il Manifesto, Lotta continua ha allargato la propria sfera di influenza e Avanguardia Operaia ha avuto una crescente incidenza
in mobilitazioni milanesi, estendendosi anche su scala nazionale. Il '70 è stato anche
l'anno in cui la sezione italiana della IV Internazionale è riuscita a superare la crisi in
cui era precipitata dalla metà del '68 e a conquistare gran parte dei quadri e dei militanti
di cui ora dispone.
Certe manifestazioni milanesi dei primi mesi dell'anno meritano di essere ricordate in
quanto rivelatrici delle persistenti potenzialità del movimento e delle possibilità che la
sinistra rivoluzionaria aveva di cominciare ad apparire come un'alternativa a livello di
massa. Particolarmente importante la manifestazione del 31 gennaio, che è stata una risposta di massa al rilancio della repressione, ha messo in luce il potenziale del movimento studentesco come movimento di massa ed è stata contraddistinta da una partecipazione consistente di giovani operai. In sostanza, si è trattato di una mobilitazione di
fronte unico, cui le organizzazioni tradizionali hanno dovuto dare il loro apporto, contribuendo al successo, senza tuttavia poter imporre la loro egemonia. Se il contrattacco
borghese abbozzato dopo la morte di Annarumma e la strage di Milano è stato procrastinato, ciò è dipeso anche dalla verifica dei rapporti di forza che l'avversario ha dovuto
fare in occasioni come queste (non si dimentichino i commenti accorati del «Corriere
della Sera» all'indomani del 31 gennaio e l'automatica ridicolizzazione della successiva
manifestazione milanese dei fascisti).
Tuttavia, la valorizzazione delle potenzialità che sussistono e lo sfruttamento dei successi riportati con certe mobilitazioni (imponenti a Milano, ma tutt'altro che trascurabili
anche altrove), con interventi di fabbrica settoriali, con campagne come quella sulla
strage di Stato, continuavano a essere seriamente ostacolati dal persistere delle carenze
che avevano avuto conseguenze deleterie già nelle fasi precedenti. Le stesse grosse manifestazioni erano il risultato più di convergenze congiunturali e tatticistiche che non il
frutto di un disegno organico, adeguatamente maturato nei metodi e negli obiettivi.
Il movimento della Statale – che ha avuto un peso preminente a Milano nella prima
metà del '70 – era inficiato, da un lato, dall'ideologia maoista e da un ottuso settarismo
di ispirazione confessatamente staliniana nei confronti di altre organizzazioni dell'estrema sinistra, dall'altro da una concezione errata della natura del movimento studentesco,
con conseguente atteggiamento opportunistico nei confronti delle organizzazioni tradizionali. Proprio queste contraddizioni ne provocavano abbastanza rapidamente la crisi e
il drastico ridimensionamento.14 Più in generale, del resto, mobilitazioni importanti su
problemi nazionali o internazionali erano convocate in funzione più della lotta tra i
gruppi che delle esigenze obiettive del momento e senza la ricerca di un comune denominatore anche quando ne esistevano i presupposti. Il più delle volte le manifestazioni si
svolgevano con la stessa ispirazione e con lo stesso rituale: i partecipanti sembravano
quasi dimenticare l'oggetto specifico della manifestazione, si preoccupavano di caratterizzarsi quasi esclusivamente sul piano ideologico-propagandistico, rivaleggiando sterilmente nell'ambito di uno stesso corteo. Metodi siffatti potevano avere come effetto immediato una galvanizzazione dei militanti e un rinsaldamento dei vincoli ideologici, ma
14 Per un'analisi del movimento della statale, v. il volume Marxismo e movimento studentesco, Samonà e
Savelli, Roma, 1970, e l'articolo “I cedimenti opportunistici e la crisi del gruppo Capanna”, in «Bandiera
Rossa», n.15 gennaio 15 febbraio 1971.
13
compromettevano la possibilità di esercitare un'attrazione all'esterno dell'area già occupata dall'estrema sinistra, segnatamente verso le masse sotto l'influenza delle organizzazioni riformiste. Si pensi, a questo proposito, alle conseguenze deleterie – oggi agevolmente misurabili – dello sfruttamento, per esempio, di manifestazioni per il Vietnam
come occasione per attacchi settari al PCI e ai sindacati, mentre con un atteggiamento
diverso il fatto stesso che i gruppi rivoluzionari organizzassero azioni combattive su un
tema su cui larghe masse erano sensibilizzate, avrebbe contribuito a stimolare la riflessione critica di molti militanti.
Conseguenze deleterie il settarismo ha avuto anche nel movimento studentesco. La
lotta serrata e spesso meschina tra gruppi – talvolta addirittura tra cricche – l'imposizione o i tentativi di imposizione di metodi che più che a rendere possibile il confronto politico e a facilitare le mobilitazioni tendevano a difendere, con le unghie e con i denti,
zone di influenza – o presunte tali – il ricorso persino alla violenza fisica, il rifiuto sistematico di una polemica puntuale con il PCI avevano come risultato di accelerare la disgregazione del movimento universitario in quasi tutte le sedi, di frammentare lo stesso
movimento medio, di creare un distacco tra militanti e masse studentesche e, in ultima
analisi, di favorire un consistente ritorno della FGCI.
Sul fronte operaio è stato pagato il prezzo di atteggiamenti sbagliati o equivoci nei
confronti dei sindacati. Vari gruppi, tra i più importanti, avevano abbandonato le posizioni di ripudio sistematico, ma senza tuttavia definire esplicitamente e precisamente la
scelta di militare nelle organizzazioni sindacali e di battersi anche nel loro seno per una
linea rivoluzionaria. Sintomatiche in proposito le ambiguità del Manifesto e di Avanguardia operaia, derivanti nel primo caso da una nebulosa teorizzazione su una pretesa
tendenza al deperimento della distinzione tra sindacato e partito «nel capitalismo avanzato», nel secondo da una impronta settaria non senza affinità con l'estremismo comunista degli anni '20, oggetto della nota critica leniniana.15
Anche nei confronti dei consigli l'atteggiamento prevalente era difensivo o strumentale. Non si ignorava che il recupero sindacale lasciava margini da sfruttare a contraddizioni e differenziazioni interne, ma si continuava a sottovalutare l'importanza dell'esperienza in quanto tale, a non afferrarne la originaria potenzialità. Anche il Manifesto,
che pure ha respinto le posizioni erronee di altri gruppi, per un certo periodo ha ceduto
alle pressioni di coloro che mettevano una croce sui consigli perché contaminati dall'ingerenza sindacale. Queste incomprensioni e queste oscillazioni sono state particolarmente pregiudizievoli all'allargamento dell'influenza dell'estrema sinistra in strati
operai e tra quadri proletari d'avanguardia che, pur essendo critici verso le concezioni e i
metodi riformisti, non intendevano affatto volgere le spalle ai sindacati o considerare
l'azione nei consigli semplicemente come un espediente tatticistico.16
La fase tuttora in corso è cominciata con l'aperto contrattacco della classe dominante,
a partire dalla primavera del '71. La classe operaia era costretta complessivamente sulla
difensiva e la sinistra rivoluzionaria era esposta in prima linea agli attacchi dell'avversario, subendo la pressione crescente di un contesto oggettivo che diventava più difficile.
Uno degli assi della politica dei rivoluzionari doveva essere, nella nuova situazione,
il fronte unico proletario. Questo in funzione della necessità di una risposta efficace alla
15 V. a questo proposito: Risposta alle tesi del Manifesto, Edizioni Bandiera Rossa, Roma casella postale
6158.
16 Va osservato che una parte dei militanti operai dei gruppi, in frequente contatto con l'ambiente studentesco, tendono a «studentizzarsi», il che si riflette anche nel loro linguaggio e nei loro comportamenti. Per
questo, nonostante la maturità politico-culturale a volte acquisita, hanno difficoltà a stabilire legami organici con consistenti strati della classe.
borghesia e al suo comitato d'affari e, contemporaneamente, in funzione dei rapporti da
stabilire o da consolidare con settori di massa sotto l'influenza dei partiti tradizionali e
con i quadri organici emersi in questi settori.
Questa esigenza non è stata compresa dalla quasi totalità della estrema sinistra, anzi è
stata il più delle volte esplicitamente negata. Non solo non è stato fatto alcuno sforzo
per realizzare convergenze unitarie del movimento operaio in generale, ma neppure è
stata sistematicamente perseguita una politica di fronte unico della sinistra rivoluzionaria. Spesso, l'analisi stessa della situazione è stata falsata con fughe in avanti, con il rifiuto di individuare le tendenze involutive e con una vacua quanto irresponsabile proclamazione di un maturare di sbocchi rivoluzionari a breve termine (da cui gruppi astrattamente più coerenti – come Potere operaio – traevano conseguenze operative, con il risultato di creare un diaframma ancora più spesso tra l'estrema sinistra e le masse e di finire inevitabilmente nell'avventurismo).
Il combinarsi di accresciute difficoltà oggettive con l'assenza di un disegno politico
complessivo e con il persistente settarismo è alla base del declino dell'influenza dell'estrema sinistra, della sua diminuita capacità di mobilitazione. La manifestazione del 12
dicembre a Milano, con la rottura verificatasi durante la manifestazione stessa ad opera
del Manifesto e con l'autoaccantonamento aprioristico di Avanguardia operaia mentre
una mobilitazione massiccia era di vitale importanza, è stata una prima, vistosa indicazione della crisi: in particolare, quel giorno sono emerse crudamente l'assenza di una visione politica ad ampio respiro, l'incomprensione delle esigenze perentorie del momento, la tendenza a far prevalere le finalità specifiche sull'interesse comune. Il fallimento
del comitato Valpreda – dopo che uno sforzo unitario, frutto della meditazione sugli effetti negativi del 12 dicembre, aveva dato risultati largamente positivi come la manifestazione del 23 febbraio a Roma e quella militante dell'11 marzo a Milano – è stato
un'altra tappa di una parabola discendente, di cui nessuna manipolazione propagan-distica può nascondere la gravità. La riprova del terreno perduto è venuta il 23 giugno, con
l'insuccesso della manifestazione contro l'attacco alla Statale. Insuccesso tanto più grave
in quanto, per la prima volta dopo il 31 gennaio del '70, si era realizzata di fatto una
convergenza tra estrema sinistra e sinistra tradizionale. Ma proprio questa esperienza faceva toccare con mano che una politica di fronte unico non si improvvisa e non può dare
risultati quando sia il risultato di circostanze eccezionali, registrate a malincuore, e non
di scelte deliberate. Questa considerazione vale per l'estrema sinistra, del tutto impreparata a una simile prospettiva, con la conseguenza che la manifestazione comune è apparsa a troppi militanti come una capitolazione di fronte al revisionismo; e vale per la sinistra tradizionale, assai più preoccupata di prendere le distanze dai «gruppetti» che animata dalla volontà di fare effettivamente blocco contro la repressione.
Come hanno indicato anche le elezioni del 7 maggio, conseguenza di tutti questi sviluppi è stato un riflusso verso il PCI e una parziale ortodossia sindacale di militanti e di
quadri rivoluzionari o potenzialmente tali, emersi nella grande ascesa. Così la sinistra rivoluzionaria non solo deve subire le ripercussioni pesanti dell'involuzione politica, ma
perde egualmente sul piano in fondo decisivo, cioè quello dell'accumulazione dei quadri
che sono passati attraverso esperienze eccezionali e avrebbero dovuto essere messi nelle
condizioni di fare un bilancio definitivo del fallimento del riformismo. Se non si perde
di vista l'importanza capitale di questa accumulazione di quadri proletari organici prima
di una nuova crisi e di una nuova ascesa del movimento delle masse, si misura in tutta la
sua gravità la portata dell'insuccesso.
(Scriviamo queste pagine mentre è iniziata la battaglia per i contratti. Nella maggior
15
parte dei gruppi sembra essersi prodotto, per il momento, un mutamento abbastanza profondo. Si possono constatare una larga accettazione delle piattaforme proposte dai dirigenti sindacali, o quanto meno la tendenza a collocarsi all'interno della dialettica fittizia
che le burocrazie sollecitano – per esempio, con il dibattito sull'inquadramento unico – e
un accodamento a stati d'animo di settori di massa che cominciano a subire il condizionamento della nuova situazione. Un'altra prova – con diverso segno – dell'inconsistenza
di molti gruppi, delle loro propensioni centriste, della loro tendenza a cedere alle pressioni del movimento).
AUTOCRITICA NECESSARIA
La critica della sinistra rivoluzionaria deve comprendere un capitolo riservato ai
Gruppi comunisti rivoluzionari, la sezione italiana della IV Internazionale. Una pesante
responsabilità ci incombe nella misura in cui, avendo lavorato per un ventennio per costruire il partito rivoluzionario ed essendo riusciti in certi periodi, soprattutto tra il '65 e
il '67, ad avere una parte di primo piano tra le forze critiche di sinistra, siamo giunti alle
fasi cruciali della grande ascesa in una situazione di crisi molto grave e nella pratica impossibilità di incidere realmente sul movimento. Fare chiarezza sugli errori che abbiamo
commesso è indispensabile non solo ai fini di un bilancio organico, ma anche e soprattutto per trarne i necessari insegnamenti.
Sgomberiamo preliminarmente il terreno da alcune critiche che ci sono state rivolte,
a nostro avviso a torto. In primo luogo, respingiamo l'idea che il nostro errore di fondo
sia consistito nell'adozione della politica entrista. Non è qui il luogo per l'esame critico
di questa o quella ipotesi specifica avanzata a conforto della scelta entrista (certe ragioni
di natura internazionale addotte nel '51-'53 corrispondevano a un'analisi che scontava
erroneamente una corsa a ritmo rapido verso una nuova guerra mondiale, né si è realizzata l'ipotesi di una formazione centrista o centrista di sinistra, benché vari fenomeni,
dalla nascita del PSIUP nel '64 a certi tratti del gruppo del Manifesto, stiano a dimostrare che non si trattava di un'ipotesi campata in aria). Il punto centrale resta che il movimento operaio, per un lungo periodo, si è espresso pressoché esclusivamente tramite le
organizzazioni tradizionali ed era, quindi, giusto concentrare nel loro ambito il lavoro
preparatorio per la costruzione del partito rivoluzionario (contrariamente a quanto pretendono deformazioni persistenti delle nostre concezioni, mai abbiamo ritenuto che l'azione nostra dovesse tendere a una «rigenerazione» delle organizzazioni burocratiche e
sempre ci siamo mossi con la prospettiva di una inevitabile rottura). L'ipotesi che le prime differenziazioni critiche e una prima maturazione di quadri rivoluzionari sarebbero
avvenute nelle organizzazioni riformiste e sagnatamente nel PCI, è stata peraltro confermata, come già abbiamo accennato, dal fatto che la quasi totalità di coloro che hanno
avuto una parte di rilievo nell'estrema sinistra hanno percorso esattamente questa parabola.
Né può esserci addebitato come un errore il rifiuto – casomai non sempre espresso
con tutto il vigore necessario – della tesi di coloro che nel '68 teorizzavano il «superamento» dei gruppi nel movimento studentesco. Non abbiamo mai peccato di settarismo
nei confronti di questo movimento e sin dall'inizio ne abbiamo sottolineato energicamente le potenzialità come movimento politico di massa. Ma non abbiamo mai accettato
che si facesse confusione tra il movimento e le avanguardie politiche complessive. Il bilancio odierno dice chiaramente che quello che si è frammentato ed estenuato è stato il
movimento, mentre i gruppi non solo si sono mantenuti e hanno accresciuto – rispetto al
'68 – le loro dimensioni, ma hanno addirittura assicurato al movimento una relativa continuità, stimolandone i rilanci successivi. I gruppi di maggiore incidenza hanno, in realtà, esercitato una funzione anche a livello di massa, in larghissima misura grazie ai rapporti con il movimento studentesco, cui hanno fornito quadri dirigenti e tra cui hanno
guadagnato centinaia e migliaia di quadri intermedi, che sono stati il principale veicolo
della loro influenza e il principale strumento di mobilitazione.
Infine – e ci riallacciamo qui a una polemica interna del '68, ma che riveste un interesse più generale, dato che alcuni dei protagonisti hanno avuto poi una parte in varie
formazioni. da Avanguardia operaia al Manifesto – i fatti non hanno dato certamente ragione a coloro che sostenevano che il trotskismo si era ormai affermato sul piano teorico
e politico generale in un ambito assai più vasto di quello coperto dalla nostra organizzazione, che si poneva il compito di raggruppare tutte queste forze, di collegarle con altre
affini, e che lo scioglimento dei Gruppi comunisti rivoluzionari come specifica organizzazione trotskista era la via da battere per progredire più rapidamente verso la costruzione di un partito ispirato alle concezioni basilari del marxismo rivoluzionario.17
Il fatto stesso che i sostenitori di questa tesi siano finiti nelle direzioni più disparate –
da Lotta continua al Manifesto – e che la maggioranza di essi abbia ceduto rapidamente
alle suggestioni del maoismo prova il carattere cervellotico dell'ipotesi, che in realtà nascondeva un cedimento alla pressione di tendenze che la nostra organizzazione non era
in grado in quel momento di contrastare. Lungi dal battersi effettivamente per costruire
un'organizzazione marxista rivoluzionaria, trotskista, più consistente della nostra, tutti
costoro hanno abbandonato le concezioni di fondo del trotskismo, dimostrando che la
polemica contro forme organizzative, che eravamo accusati di erigere a feticcio, aveva
ben più sostanziali bersagli teorici e politici.
Il grave colpo che ci è stato inferto con una diaspora di una parte cospicua di nostri
quadri – un colpo che avrebbe irrimediabilmente spazzato via qualsiasi organizzazione
che non avesse una giustificazione storica e una dimensione internazionale – ci ha impedito di esercitare una funzione come forza nazionale nel '68-'69, con tutte le conseguenze facilmente immaginabili.18 Ma neppure coloro che hanno fatto una diversa scelta,
sono riusciti a registrare progressi decisivi sulla strada della costruzione del partito rivoluzionario, anche se alcuni hanno collaborato alla formazione di organizzazioni temporaneamente più consistenti della nostra.
Al di là degli ostacoli oggettivi su cui già ci siamo soffermati, alla radice della nostra
crisi del '68 ci sono stati errori molto seri. In primo luogo, la svolta che ha posto fine all'entrismo è stata compiuta con ritardo, per una sottovalutazione delle forze che già operavano fuori della logica delle organizzazioni burocratiche. L'essere rimasti troppo a
lungo invischiati in queste organizzazioni – che erano l'unico tramite di contatto con le
forze sociali – ha ostacolato la nostra comprensione tempestiva di quanto di nuovo stava
maturando e ci ha impedito di trarre al momento giusto la conclusione che l'azione indi17 Opinioni simili sono emerse, per esempio, nel dibattito della Conferenza nazionale della primavera
1968 (v. «Bandiera Rossa», 15 aprile 1968).
18 Ciò non significa che nei limiti delle nostre forze non siamo stati presenti in movimenti reali a partire
dalla metà del '69. E non crediamo, d'altra parte, che i limiti della nostra prassi ci abbiano impedito di cogliere le tendenze di fondo del movimento, di elaborare una linea adeguata, di sottoporre a un pertinente
esame critico gli interventi e le concezioni dell'estrema sinistra. Da uno studio comparato del materiale
prodotto durante questi anni da tutti i gruppi della sinistra rivoluzionaria non abbiamo niente da temere.
17
pendente era una imprescindibile necessità non solo per valorizzare i fermenti nuovi, ma
anche per far maturare le forze ancora sotto l'egida delle burocrazie.
Questa sottovalutazione aveva del resto comportato: a) una tolleranza verso forme di
applicazione dell’entrismo che non corrispondevano allo spirito e neppure alla lettera
delle risoluzioni congressuali, ma avevano rilevanza nella misura in cui una prassi del
genere contraddistingueva quadri noti come trotskisti e determinava agli occhi di molti
militanti critici un fraintendimento delle nostre reali concezioni; b) un ritardo nell'analisi
del movimento studentesco e della sua dinamica; c) un'incomprensione dell'esigenza e
delle effettive possibilità della costituzione di un'organizzazione giovanile tipo JCR,19 in
un momento in cui ampi strati di giovani, studenti in primo luogo, subivano la forza di
attrazione delle posizioni rivoluzionarie, abbandonando le organizzazioni giovanili tradizionali.20
Inoltre, non avevamo compreso allora i limiti delle adesioni abbastanza larghe su cui
avevamo contato in un determinato periodo. Per molti l'adesione alla IV Internazionale
non era un'adesione dovuta all'assimilazione delle tesi e della metodologia del marxismo
rivoluzionario, bensì un consenso alla critica della burocrazie tradizionali, formulata da
militanti che partecipavano alla vita delle organizzazioni senza remore settarie, sapevano fornire una risposta a molti interrogativi teorici e politici e apparivano come parte integrante di un'organizzazione internazionale. L'errore grave è stato di aver ignorato o di
aver completamente sottovalutato questo problema, trascurando, tra l'altro, l'indispensabile lavoro di formazione dei militanti (per lunghi anni non ha avuto luogo nessuna
scuola di quadri nazionale e solo del tutto saltuariamente si sono svolte scuole locali).
Contemporaneamente, il processo di assimilazione e di selezione era ostacolato da
una struttura troppo “liberale” dell'organizzazione che, se traeva origine dalla preoccupazione, di per sé giusta, di evitare la cristallizzazione settaria con tutte le inevitabili deformazioni, finiva però col favorire le tendenze centrifughe, il dilettantismo organizzativo e lo stesso inquinamento dell'organizzazione con elementi che non possedevano i requisiti del militante leninista.
BILANCIO E RESPONSABILITÀ DEI RIFORMISTI
L'analisi che abbiamo abbozzato fornisce – a nostro avviso – una risposta all'interrogativo posto all'inizio sull'insuccesso nella costruzione del partito rivoluzionario in un
contesto per molti aspetti favorevole. In seguito a questo insuccesso, le organizzazioni
tradizionali, e in primo luogo il PCI, hanno potuto uscire da un periodo in cui sono state
messe seriamente in difficoltà assai più che in qualsiasi altro periodo precedente, mantenendo sostanzialmente la loro egemonia sulla classe operaia e su larghi strati delle masse lavoratrici in generale.
Forti di questa affermazione – di cui hanno apprezzato soprattutto la trascrizione
elettorale, cioè i nove milioni di voti del 7 maggio – i burocrati sono passati baldanzosa19 Jeunesse Communiste Révolutionnaire, l'organizzazione giovanile di orientamento trotskista che ha
avuto una parte di rilievo nel maggio francese e che, unendosi con la sezione ufficiale della IV Internazionale, ha dato poi vita alla Ligue Communiste, attuale sezione della IV Internazionale.
20 Per la precisione, questi errori sono stati commessi sia da coloro che sono rimasti nell'organizzazione,
sia da coloro che l'hanno lasciata nel '68-69.
mente al contrattacco, celebrando la sconfitta dei «gruppetti» e denunciandone la irrimediabile sterilità. Visto che non abbiamo posto la sordina alla critica delle carenze e delle
contraddizioni dell'estrema sinistra, non corriamo il rischio di fraintendimenti se affermiamo che responsabilità ben più schiaccianti incombono sulle organizzazioni riformiste che l'egemonia sulla classe operaia, con la conseguente possibilità di incidere profondamente sugli avvenimenti, detengono da oltre venticinque anni. È senz'altro motivo
di riflessione critica per i rivoluzionari che una fase ricca di straordinarie potenzialità, di
eccezionali mobilitazioni della classe operaia, di fermenti critici estremamente ricchi, si
sia chiusa con un governo di restaurazione centrista, con un rilancio minaccioso della
destra fascista, con il fallimento persino di un'unificazione sindacale moderata, con attacchi pesanti ai livelli di occupazione e un logoramento crescente delle stesse conquiste
salariali del '69. Ma questo bilancio dovrebbe pesare assai di più su grandi organizzazioni che non sono riuscite a sfruttare la situazione favorevole neppure ai fini del loro disegno riformista. Le polemiche contro i «gruppetti» e le grida di gioia per l'insuccesso
elettorale del Manifesto – riflesso del timore nutrito di vedersi colpiti sul terreno considerato decisivo – non valgono a mascherare questa realtà, né a nascondere la grave impasse di una strategia che, pur nel variare delle formule e della nomenclatura, resta la
strategia democratico-riformista enunciata dal '44 con la cosiddetta «democrazia progressiva» di togliattiana e – non dispiaccia a pseudorivoluzionari nostalgici – staliniana
memoria.
D'altro lato, i decantati nove milioni di voti, l'onnipotenza degli apparati delle centrali sindacali e il parziale rilancio della FGCI, anche sul terreno minato del movimento
studentesco, non cancellano alcune elementari verità. Se fosse dipeso dalla FGCI e dal
PCI, gli studenti italiani starebbero ancora baloccandosi con l'UNURI e con l'UGI e un
fenomeno politico imponente che ha contribuito in misura notevole a spezzare gli equilibri preesistenti e ad acutizzare la dialettica politica di quattro anni critici semplicemente non si sarebbe prodotto.21 Analogamente, se fosse dipeso dalle burocrazie sindacali, la lotta contrattuale del '69 non si sarebbe differenziata da quelle che l'avevano
preceduta e le rivendicazioni più caratterizzanti non sarebbero mai state avanzate; né sarebbero sorti i delegati operai e i consigli dei delegati, espressione della democrazia
operaia risorta durante l'alta marea. Più in generale, non si sarebbero prodotti i fermenti
rivoluzionari in tutti i campi che hanno caratterizzato un periodo di scontri serrati tra le
classi e di severe verifiche ideologiche. Lungi dall'assolvere quel ruolo di avanguardia
che reclamano in virtù della loro storia e, soprattutto, della loro forza, le organizzazioni
tradizionali hanno costituito oggettivamente e soggettivamente un pesante ostacolo per
il movimento, si sono collocate alla coda e non alla testa, hanno raccattato briciole di altrui banchetti nel tentativo di compensare la loro indigenza politica e ideale, hanno manovrato e fatto concessioni per mantenersi a galla. L'aver portato a termine quest'ultima
operazione è, in fondo, l'unico successo di cui possano vantarsi.
Non possono vantarsi certo di avere approfittato della congiuntura eccezionalmente
favorevole per far evolvere sensibilmente i rapporti di forza rispetto ai partiti borghesi e
di aver progredito effettivamente nella conquista delle alleanze tanto agognate. Non
sono riusciti a intaccare il sistema di egemonia realizzato attorno alla DC, strappando
alla sua influenza strati intermedi urbani e rurali e settori di masse popolari. La crisi profonda della piccola borghesia, che si è visto, è stata uno dei fenomeni più rilevati dello
21 È un segno di restaurazione che abbia ricominciato a pontificare quel Petruccioli che nel '67-68 è stato
come il simbolo di una disperata battaglia di retroguardia per arginare la marea che travolgeva le vecchie
strutture studentesche (si ricordi il suo intervento repressivo contro i militanti della sinistra dell'UGI).
19
sconvolgimento sociale di questi anni, si è sviluppata senza che il PCI vi influisse seriamente o potesse sfruttarla a suo vantaggio. E oggi esiste il pericolo – non solo per il
PCI, ma per il movimento operaio nel suo complesso – che l'ondata di riflusso di questi
ceti rafforzi seriamente la conservazione restauratrice, offrendo una base all'estrema destra democristiana e ai fascisti della cosiddetta destra nazionale.
I retori del «nuovo» devono assistere a una vecchia storia che si ripete. Durante le
crisi che scuotono la società capitalistica, le sue strutture e le sue ideologie, larghi strati
di ceti intermedi vengono coinvolti nel turbine, operando quindi come un moltiplicatore
della crisi. Sono questi i momenti in cui gli abiti e i pregiudizi conservatori subiscono
una rapida e profonda usura e i piccolo-borghesi sono aperti a soluzioni radicali. Dipende dalla capacità del movimento operaio di indicare con chiarezza un'alternativa anticapitalistica, di agire effettivamente come nuova forza egemone, che questi ceti siano guadagnati alla battaglia per il socialismo, per il rovesciamento del sistema. Se il movimento operaio non è in grado di assolvere questo compito, se i suoi partiti neppure si prefiggono di operare come un'alternativa di potere, l'esplosione piccolo-borghese si indirizza
in altre direzioni, alimentando gli «estremismi». E nella misura in cui la crisi si prolunga
senza sbocco e le classi medie rischiano di fare le spese di ripetute prove di forza non risolutive tra le classi fondamentali, matura l'ondata di ritorno, che può condurre al ricomporsi, con le varianti necessarie, degli equilibri che si erano spezzati o, nell'ipotesi più
negativa, all'instaurarsi di regimi dittatoriali o autoritari, imposti sfruttando la rabbia e la
frustrazione piccolo-borghese.
È semplicemente ridicolo indicare nei «gruppetti», nelle loro azioni (anche in quelle
effettivamente avventuristiche), in certa loro propaganda a volte stoltamente minacciosa, la causa della riscossa della DC in veste neo-centrista e dei successi della «destra nazionale». I veri responsabili della restaurazione che si sta tentando e dei varchi aperti ai
fascisti sono i partiti operai tradizionali, che sono mancati ancora una volta a una prova
decisiva, rinunciando esplicitamente a ogni prospettiva rivoluzionaria per un insipido
gradualismo riformistico, in un periodo caratterizzato da tensioni. sociali e politiche
drammatiche.
Resta da richiamare un punto di importanza fondamentale, e cioè quali siano le basi
materiali del persistere dell'egemonia delle organizzazioni burocratiche (fenomeno,
come tutti sanno, di portata internazionale). Le radici della burocratizzazione del movimento operaio sono state individuate volta a volta nella stratificazione interna della classe operaia stessa, nell'esistenza della cosiddetta aristocrazia operaia e, per quanto riguarda i partiti comunisti, nell'influenza esercitata dalla burocrazia sovietica. Tutti questi fattori hanno avuto indubbiamente un peso determinante e tuttora non si sono esauriti. Ma
sono, tuttavia, intervenuti mutamenti rilevanti. Così, la classe operaia è venuta cambiando la sua composizione, con il declino progressivo dei vecchi mestieri e delle vecchie
specializzazioni e con una sostanziale omogeneizzazione in rapporto alle trasformazioni
introdotte nella tecnologia e nella organizzazione del lavoro. Così, il concetto di aristocrazia operaia, partecipe dei sovrapprofitti coloniali, quale era stato definito da Lenin
nel saggio sull'imperialismo, richiederebbe, quanto meno, qualche correzione (la condizione privilegiata, più che essere propria di strati circoscritti della classe operaia dei
paesi industrializzati, esiste per questa classe operaia nel suo complesso, nei confronti
delle masse dei paesi coloniali o neocoloniali; l'esperienza ha ripetutamente dimostrato
– sino al maggio francese e al '69 italiano – che alla testa di movimenti impetuosi, tendenzialmente anticapitalistici, si collocano strati operai di industrie di punta, che godono
di retribuzioni più alte e di più favorevoli condizioni normative). Così, l'appoggio politi-
co e materiale dell'URSS non ha più la portata che ha avuto tra gli anni ’20 e l'inizio degli anni '50, non fosse altro che per la caduta del prestigio della direzione sovietica, che
ben pochi sono ormai disposti a considerare come fautrice di un'alternativa rivoluzionaria.
La spiegazione della persistenza dell'egemonia delle organizzazioni tradizionali – oltre che dall'individuazione puntuale degli errori e delle carenze dei rivoluzionari, soprattutto in momenti cruciali per il mutamento dei rapporti di forza – può venire solo dalla
comprensione della dialettica delle conquiste parziali. L'esistenza di organizzazioni sindacali e politiche di massa, nonostante le loro involuzioni, ha avuto una portata storica
effettiva per i proletari che, grazie a queste organizzazioni, hanno registrato sensibili miglioramenti del proprio livello di vita e conquistato tutta una serie di diritti come salariati e come cittadini. In altri termini, a partire da un certo momento, gli operai non si trovano più, a rigore, nella condizione descritta da Marx nel Manifesto comunista, cioè di
non aver altro da perdere che le loro catene. Di qui il delinearsi di una tendenza a non
compromettere quello che già è stato conseguito (in primo luogo, le organizzazioni stesse) e, quindi, a subordinare, più o meno consapevolmente, alla difesa delle conquiste
parziali la lotta rivoluzionaria per il rovesciamento del capitalismo. «Questa dialettica
delle conquiste parziali –nota Ernest Mandel – deve essere intesa come una dialettica
reale: non si tratta di una falsa contraddizione risolvibile con una formula, è una vera
contraddizione dialettica basata su problemi reali. Se il conservatorismo burocratico è
evidentemente un atteggiamento nocivo agli interessi del proletariato e del socialismo,
con il suo rifiuto della lotta rivoluzionaria nei paesi capitalisti e con il suo rifiuto di
estendere a livello internazionale la rivoluzione col pretesto che metterebbero in pericolo le conquiste esistenti, il punto di partenza di questo atteggiamento, la necessità di difendere l'acquisito, è un problema reale: "chi non sa difendere le conquiste esistenti non
ne farà mai di nuove" (Trotskij)».22
Chi non abbia chiaro questo, chi non comprenda perché le masse hanno in una certa
misura interesse all'esistenza di organizzazioni anche burocratiche e riformiste, non riesce a dare una spiegazione adeguata della forza di cui queste organizzazioni ancora dispongono, delle loro enormi possibilità di recupero, né ad avere coscienza della complessità del processo di rottura dei legami tra le masse e le direzioni da esse tradizionalmente riconosciute. Non aiuta certo a superare la difficoltà l'impiego indiscriminato della formula secondo cui il riformismo e il revisionismo sarebbero il canale di penetrazione degli interessi e della ideologia della borghesia nelle file del proletariato. Si tratta di
una verità elementare, che Lenin non si è stancato di ripetere. Ma una cosa è dire che le
organizzazioni riformiste, per le loro concezioni e la loro prassi, oggettivamente costituiscono un elemento di stabilizzazione del sistema e, in una crisi rivoluzionaria, l'ostacolo principale con cui si scontra il proletariato nella sua lotta per il rovesciamento del
sistema, un'altra è considerarle strumenti diretti della borghesia, caratterizzare la burocrazia come un'ala della borghesia. L'identificazione semplicistica porta a non cogliere
le radici oggettive della tenace influenza riformista, a nutrire illusioni sulle possibilità di
un suo rapido superamento non appena si delinei una situazione critica, ad adottare atteggiamenti settari, che ostacolano la realizzazione del fine che ci si prefigge. E, in fondo, implica una sottovalutazione del grado di coscienza di classe raggiunto dal proletariato: perché, se effettivamente i partiti socialdemocratici e i partiti comunisti fossero
formazioni borghesi, ne conseguirebbe che, dopo oltre un secolo di lotte, la classe operaia sarebbe sotto l'egemonia della classe avversa, non avrebbe raggiunto il livello più
22 ERNEST MANDEL, La burocrazia, Samonà e Savelli, Roma, 1969.
21
elementare di autonomia di classe. In questo caso sarebbe legittimo il dubbio «marcusiano» sulla sua reale potenzialità rivoluzionaria.23
PER LA COSTRUZIONE DEL PARTITO RIVOLUZIONARIO
L'esperienza del '68-'70 ha confermato che anche il movimento più impetuoso e più
profondo, più ricco di una carica anticapitalistica e antiburocratica, giunge inevitabilmente a un vicolo cieco senza un partito rivoluzionario che elabori una strategia e una
tattica e assicuri la guida necessaria. Senza un tale partito non c'è possibilità di rovesciamento del regime capitalista: e, in determinate condizioni, la sua assenza può addirittura
ostacolare la maturazione di una situazione rivoluzionaria vera e propria, in cui si ponga
perentoriamente il problema del potere.
L'esperienza ha confermato anche che la teoria rivoluzionaria non può nascere dal
movimento e che se questa teoria manca, se manca la capacità di generalizzazione corretta e tempestiva, ciò viene pagato, prima o poi, a caro prezzo, con errori politici e tattici che compromettono i successi necessari nei momenti decisivi. Neppure nel periodo
che abbiamo analizzato sono nate «spontaneamente» idee originali e illuminanti. Nella
migliore delle ipotesi, sono emersi frammenti di idee o intuizioni unilaterali e, nella misura in cui se ne sono avute, le generalizzazioni sono state, di fatto, riesumazioni o riverniciature di concezioni che il movimento operaio aveva già conosciuto in altre fasi
(basti pensare a certe tendenze neo-anarchiche, alle tendenze anarco-sindacaliste o pansindacaliste, alla tematica estremistica sulla negazione dei sindacati, ai germi di neoborghesismo, alle aberrazioni da terzo periodo ecc.). In un certo senso, ciò era in larga
misura inevitabile. Infatti, lo stalinismo aveva compiuto per decenni un'opera devastatrice e le forze che emergevano dalla sua crisi cercavano la loro strada muovendosi a tentoni, sperimentando di nuovo quello che già era stato sperimentato, ma senza che l'esperienza fosse adeguatamente tramandata, per la rottura quasi completa del filo prezioso
della tradizione. Quanto ai gruppi che più si sono sforzati di formulare una concezione
d'insieme, si sono richiamati al patrimonio del leninismo, pagando però al movimento –
meglio alle sue suggestioni – il prezzo di adulterazioni maoiste, spontaneiste o estremiste.
La riaffermazione della necessità del partito rivoluzionario e quella della natura leninista di tale partito costituiscono la premessa imprescindibile per il superamento dell'attuale impasse. A coloro che continuano a discettare sul preteso fallimento della concezione leninista nell'Europa occidentale, abbiamo già dato la sola risposta pertinente: la
verifica della validità di questa concezione semplicemente non c'è stata. Tutti i fallimen23 Vale la pena di richiamare qui che la definizione della natura di classe di un'organizzazione va fatta
sulla base di tre criteri fondamentali, da applicare non l'uno separato dall'altro, ma nella loro interdipendenza. Questi criteri sono: la composizione sociale, l'ideologia e la collocazione oggettiva nel contesto sociale e politico dato. Richiamiamo pure che nella caratterizzazione leniniana di organizzazioni come i
menscevichi e i social-rivoluzionari si intrecciavano tre motivi: 1) la valutazione come componenti del
movimento operaio e contadino (questo è il senso di tutte le polemiche di molti anni con i menscevichi e,
nello stesso 1917, della pressione per indurli a costituire un governo senza ministri capitalisti); 2) la valutazione che costituivano l'ultimo baluardo di difesa del vecchio sistema, nella misura in cui la gestione del
potere era stata affidata a loro come ultimo ricorso; 3) la caratterizzazione come «democrazia piccoloborghese» (per l'ideologia espressa e per la risultante a lungo termine dell'azione compiuta).
ti della socialdemocrazia tradizionali, dei partiti comunisti neoriformisti, delle innumerevoli quanto effimere formazioni centriste vanno messi nel conto di concezioni e di una
prassi politica che sono state o la negazione aperta o la negazione di fatto del leninismo.
E a coloro che continuano a proclamare la necessità di scoprire «nuove» vie, rispondiamo che non per caso o per singolare angustia intellettuale da oltre cinquant'anni i fautori
del «nuovo» non sono andati oltre le enunciazioni velleitarie, non hanno saputo precisare nessun'altra concezione o, tutt'al più, hanno compiuto qualche goffo tentativo eclettico, magari dietro lo schermo di Rosa Luxemburg, ingenerosamente strumentalizzata.24
Bastino due esempi a illustrare il carattere approssimativo e impressionistico di certe
teorizzazioni «originali». Un motivo ricorrente, già ricordato, è stato quello dell'integrazione maoista di Lenin (Lenin + Mao). Questa teorizzazione, da un lato, ricostruiva arbitrariamente e idealisticamente la rivoluzione culturale, dall’altro commetteva una flagrante ingiustizia ai danni di Lenin. Come se il partito bolscevico, nel momento della
maggior forza e vitalità, non avesse realizzato nella maniera più organica il legame con
le masse, sia direttamente come partito, sia con una partecipazione attiva a organismi
democratico-rivoluzionari per eccellenza come i soviet! Come se Lenin non avesse capito che il partito-avanguardia, il partito dei rivoluzionari di professione, non sarebbe
servito a nulla isterilendosi irrimediabilmente, senza un rapporto vivo con i quadri organici della classe, indispensabili trait-d'union tra partito e masse! Il secondo esempio si
riferisce a un episodio modesto, ma di per sé rivelatore. Il gruppo del Manifesto ha sempre espresso riserve verso la concezione leninista del partito e in particolare verso il centralismo democratico. Ora, quando ha dovuto decidere sulla partecipazione alle elezioni,
si è pubblicamente autocongratulato della novità della prassi seguita sviluppando prima
un libero dibattito e successivamente applicando la disciplina nell'azione. Ma proprio
questa era la prassi normale e non episodica del partito bolscevico, animato da una dialettica interna molto viva (anche alle scadenze decisive) e poi rigorosamente disciplinato nell'azione. A quanto pare, al Manifesto è accaduto di riscoprire empiricamente il leninismo, pur senza trarre le logiche conclusioni di questa «riscoperta».25
Alla chiarezza sulla concezione del partito e alla assimilazione della concezione leninista nei suoi termini reali si deve accompagnare altrettanta chiarezza sulla natura delle
organizzazioni riformiste, sulle cause del persistere della loro egemonia. Non ritorniamo
su quanto abbiamo detto a questo proposito. Basti aggiungere che dal riconoscimento
del dato di fatto del prolungarsi dell'influenza riformista discende l'esigenza di una politica rivolta ai militanti che tuttora la subiscono. Ogni sottovalutazione di questo compito
costringerebbe la sinistra rivoluzionaria, specie nel contesto attuale, in un paralizzante
vicolo chiuso.
Una riflessione critica approfondita dovrà essere compiuta, anche alla luce delle
esperienze fatte tra il '68 e il '71, sulle forme della lotta rivoluzionaria per il potere in un
paese capitalista sviluppato come l'Italia. A questo proposito l'estrema sinistra ha dimostrato un'incapacità di analisi e di elaborazioni pressoché completa. Da un lato, gruppi
24 In passato. in polemiche svoltesi anche all'interno del PCI, sono state utilizzate allo stesso scopo di revisione del leninismo le concezioni di Gramsci. Per una messa a punto, in particolare nei confronti di Lucio Magri, v. il saggio già citato, Il movimento operaio italiano in una fase critica, pp. 176 sgg.
25 Su questo aspetto centrale della prassi del partito leniniano sorvolano pour cause gli apologeti del
maoismo, anche i meno ortodossi. Va, del resto, notato che la vita interna della maggioranza dei gruppi
non è affatto regolata da norme effettivamente centraliste-democratiche. Con il pretesto di non scimmiottare le organizzazioni tradizionali e per concessione allo spontaneismo, si è seguita il più delle volte una
prassi informe e disinvolta, che permette la più ampia manipolazione da parte di nuclei o di cricche egemoni.
23
avventuristi hanno cominciato a porsi il problema del potere e della lotta armata quando
il movimento aveva cominciato a declinare sotto il peso del contrattacco dell'avversario
(tipico esempio di fuga in avanti operata già sul piano analitico). Contemporaneamente,
gli stessi gruppi hanno presentato come paradigmatici metodi di lotta armata adottati dai
rivoluzionari di paesi ben diversi dall'Italia non solo per il contesto economico-sociale,
ma anche per la situazione politica congiunturale (ci riferiamo, per esempio, ad articoli
sull' Argentina comparsi su «Potere Operaio» e su «Lotta continua» e a certe difese
astratte del terrorismo). Dall'altro, un gruppo come il Manifesto, con un metodo cui sovente indulge, ha avvolto in una spessa cortina di nebbia anche questo problema, abbozzando una concezione in un certo modo gradualistica del processo rivoluzionario, o cercando di trarsi d'impaccio con l'abusato espediente della negazione di ipotesi di comodo
astrattamente contrapposte.26
Sarebbe ozioso cercar di precisare le ipotesi concrete per uno sbocco rivoluzionario
in un momento in cui le condizioni oggettive non consentono di mettere all'ordine del
giorno il problema del potere. Tuttavia, alcuni punti basilari vanno ribaditi:
l) contrariamente all'ipotesi gradualistica del PCI e ai vari farfugliamenti eclettici,
l'avvento al potere della classe operaia comporterà necessariamente la rottura delle strutture dello Stato borghese, espressione politica di una società basata sullo sfruttamento e
organizzato in modo da assicurare comunque l'egemonia delle attuali classi dominanti.
In quali forme peculiari ciò avverrà non può essere determinato a priori: la violenza cui
le classi sfruttate dovranno far ricorso dipenderà da fattori molteplici, tra cui i modi di
dominazione politica e di repressione di cui si servirà nel momento dato la classe dominante, l'eventuale intervento dell'imperialismo internazionale, i tratti specifici della crisi
del capitalismo nell'Europa occidentale, ecc.;
26 Per una critica alle Tesi del '70 si veda la già citata Risposta alle tesi del Manifesto. Quanto al metodo
della polemica artificiosa – diremmo quasi diretta contro ignoti – ci riferiamo, per esempio, al ripudio del
«colpo di mano insurrezionale di una minoranza», contenuta nel documento pubblicato il 14 marzo 1972.
Avanguardia operaia, per parte sua, non ha affrontato, se non del tutto parzialmente questa tematica. Questa carenza va connessa alla caratterizzazione della crisi del 1968-69, ben diversa dalla nostra come da
quella di altri gruppi della sinistra rivoluzionaria. Secondo Avanguardia operaia, si era infatti prodotta
«una profonda crisi» che poteva essere definita «come l'agonia del regime politico succeduto al
fascismo», ma tale crisi era, in ultima analisi, la gestazione di un nuovo tipo di regime borghese, in cui si
sarebbe sviluppato un riformismo più organico del centro-sinistra con l'inserimento del PCI nell'area governativa (definito letteralmente «la linea di tendenza predominante» nel numero unico, novembre-dicembre 1969, mentre il numero 4-5 del marzo-aprile 1970 affermava: «La tendenza vincente a livello politico,
già stravincente a livello economico, è quella riformista-neocapitalista»). L'analisi di A. O. non si differenziava a questo riguardo da quella del PCI (pur ovviamente divergendo radicalmente nel giudizio di valore sulla politica delle riforme), non riuscendo a cogliere il dato obiettivo essenziale dell'impossibilità di
un'organica politica riformista nel contesto che abbiamo definito, per parte nostra, come pre-rivoluzionario. A. O. peraltro respinge esplicitamente siffatta caratterizzazione. «La fase delle lotte contrattuali – si
legge nel già citato n. 4-5 – non si è affatto caratterizzata come fase pre-rivoluzionaria: il controllo dei
sindacati e del revisionismo sul proletariato ha potuto vacillare in singoli momenti e situazioni, ma si è essenzialmente conservato e, alla fine, è pure risultato rafforzato, sebbene non ovunque. Il conflitto all'interno della borghesia, non è giunto a superare quella soglia oltre la quale il potere di questa classe entra in
una crisi che prelude al suo disfacimento sotto i colpi del proletariato o alla reazione fascista». I criteri
usati per definire una situazione pre-rivoluzionaria appaiono o errati (per la mancata distinzione tra ruolo
oggettivo che la classe operaia può svolgere, per una certa fase, nonostante la persistente forza delle organizzazioni riformiste), o quanto meno imprecisi (l'ipotesi avanzata corrisponderebbe a una situazione non
pre-rivoluzionaria, bensì rivoluzionaria tout court). Ma alla radice dell'errore è soprattutto l’incomprensione della natura del PCI e del fondamento materiale dei suoi persistenti rapporti con le masse (la tesi di
A. O. è che si tratta di un partito borghese, quindi potenzialmente del tutto integrabile in una strategia
neocapitalistica).
2) la maturazione di condizioni oggettive di una lotta per il potere comporterà il delinearsi di situazioni di dualismo di poteri, quali che siano le forme particolari che potranno assumere. Uno dei cardini di una strategia rivoluzionaria dovrà quindi consistere nella costituzione di organismi in cui il dualismo di poteri si concretizzi e che siano organismi di genuina democrazia rivoluzionaria. Da questo punto di vista, va sottolineato ancora una volta l'enorme significato della formazione nel 1969 dei delegati operai e dei
consigli dei delegati – specie nelle esperienze meno inficiate da elementi spuri – che, in
ultima analisi, hanno espresso una tendenza a imporre, sia pure embrionalmente e settorialmente, situazioni di dualismo di poteri. Disastrosamente miope si è rivelato l'atteggiamento assunto dalla quasi totalità delle organizzazioni rivoluzionarie nella fase decisiva, quando lo svuotamento successivo e il ricupero da parte della burocrazia sindacale
non erano affatto lo sbocco ineluttabile (ineluttabile l'involuzione è stata dal momento
che i rivoluzionari o supposti tali hanno rinunciato a una lotta conseguente per valorizzare le potenzialità esistenti);
3) in nessun caso – neppure in una fase pre-rivoluzionaria – i marxisti rivoluzionari
devono assumere atteggiamenti di sottovalutazione delle rivendicazioni immediate, parziali, economiche o politiche. Rivendicazioni parziali, indipendentemente dalla loro portata intrinseca, possono costituire un punto di partenza di movimenti dalla dinamica più
ampia e più profonda. D'altra parte, trascurare rivendicazioni del genere significherebbe
lasciare via libera ai riformisti proprio su quel terreno che costituisce la base oggettiva
dei loro persistenti rapporti con le masse.
Tuttavia, in particolare in un periodo di crisi sociale acuta, è essenziale saper individuare parole d'ordine di transizione, suscettibili cioè di gettare un ponte tra rivendicazioni immediate e lotta per il potere, di stimolare una dinamica anticapitalistica dei movimenti in corso, di far sì che, sulla base della diretta esperienza, le masse comprendano la
necessità di infrangere la cornice del sistema e di imporre in questo modo soluzioni generali, storicamente nuove, dei problemi che le affliggono.27 Questa tematica fondamentale del leninismo (ripresa da Trotskij e dalla IV Internazionale) è esplicitamente o implicitamente negata dalle concezioni semplicistiche dell'estremismo, condannato in pratica a oscillare tra l'agitazione – a seconda delle circostanze, massimalistica o codista –
per rivendicazioni immediate e la propaganda astratta sulla necessità del rovesciamento
del capitalismo e dell'instaurazione della dittatura proletaria. Per parte loro, i burocrati
riformisti snaturano gli obiettivi transitori leniniani in obiettivi intermedi, concepiti
come pilastri della loro strategia gradualistica di passaggio al socialismo (che, nonostante tutte le proclamazioni in contrario, si riallaccia strettamente alle concezioni del riformismo classico);
4) la costruzione del partito rivoluzionario non può non avere una dimensione internazionale. Le forze sociali contrapposte si scontrano in ogni angolo del globo più che
mai in virtù di una stessa logica e nel quadro della stessa battaglia complessiva, e le
stesse direzioni degli Stati operai burocratizzati, nonostante le laceranti contraddizioni
interne, cercano di delineare e di imporre una comune strategia di insieme. L'internazionalismo marxista e leninista – che sarebbe ridicolo ridurre a una aspirazione ideale o a
una finalità storica remota – è una esigenza perentoria per il movimento rivoluzionario e
27 Per la concezione degli obiettivi di transizione, rinviamo, tra l'altro, all'opuscolo Programma transitorio e rivoluzione socialista, pubblicato dai Gruppi comunisti rivoluzionari nel 1962, al nostro Il Movimento operaio italiano in una fase critica (capitolo terzo), all'articolo di A. Moscato sul numero 2 di IV
Internazionale, oltre al Programma di transizione, redatto da L.Trotskij per il Congresso di fondazione
della IV Internazionale (recentemente pubblicato in italiano dalle Edizioni Bandiera Rossa, casella 6158,
Roma).
25
deve tradursi in uno strumento organizzativo, in una Internazionale con influenza di
massa, in grado di contrapporre ai disegni e alle iniziative mondiali dell'imperialismo
una strategia rivoluzionaria organica, anche se necessariamente articolata e duttile. La
IV Internazionale, che si ricollega alle migliori tradizioni della I e della III Internazionale, in cui svolsero la loro attività rispettivamente Marx e Lenin, è l'unica organizzazione
che lavori sistematicamente con questa prospettiva ed ha già conseguito, sia per il notevole sviluppo di varie sue sezioni, sia per il rafforzamento del suo centro politico e organizzativo, successi incontestabili.28
Compito importante per i rivoluzionari è la caratterizzazione della nuova fase in cui
siamo entrati. La lotta per la costruzione del partito avrà evidentemente sviluppi e ritmi
diversi, a seconda che ci sia una restaurazione conservatrice o “gollista” di molti anni,
che si affermi una dittatura fascista o militare, che l'attuale involuzione si dimostri un
brevissimo interludio o, nonostante le tendenze involutive e i punti segnati a suo favore
dall'avversario, non si realizzi, comunque, una ristabilizzazione vera e propria. Non intendiamo dare qui una precisa risposta a questi interrogativi. Tuttavia, tenendo conto anche del contesto internazionale, la prospettiva più probabile appare che non si verificherà una ristabilizzazione relativamente duratura, che i tentativi di restaurazione della borghesia si svolgeranno sullo sfondo di una società che non potrà ricuperare i ritmi di sviluppo economico e gli equilibri politici, pur relativi, che ha conosciuto negli anni '50 e
all'inizio del decennio successivo, in un contesto cioè in cui non saranno possibili operazioni riformiste ad ampio respiro e tenderanno di continuo a riprodursi duri scontri tra le
classi contrapposte e tra i vari strati delle stesse classi dominanti. Il rilancio del funzionamento del sistema a un livello anche modesto di efficienza potrà, infatti, avvenire solo
a condizione che qualcuno ne faccia duramente le spese. Di qui l'ineluttabilità di nuove
lotte e di nuove esplosioni parziali, prima ancora che si riapra – a una scadenza che sarebbe ozioso cercare di prevedere sin da ora – una nuova crisi acuta, con un rilancio impetuoso del movimento delle masse.29
Quanto alle linee di azione per stimolare il raggruppamento e la omogeneizzazione di
quadri e militanti rivoluzionari, l'accento in questa fase deve essere posto più che mai
sul lavoro nei sindacati e sulla corretta applicazione di una politica di fronte unico.
Il lavoro nei sindacati non deve solo assicurare la presenza dei militanti in strumenti
necessari della classe,30 ma deve tendere più precisamente a sfruttare le differenziazioni
28 Il gruppo dirigente cinese si è dichiarato contrario alla costituzione di un'organizzazione internazionale, rimanendo in sostanza fermo alle concezioni staliniane enunciate al momento del formale scioglimento
della III Internazionale. In pratica, ha assicurato il proprio appoggio a partiti o gruppi che riteneva dessero
maggiori garanzie di rigorosa ortodossia verso la politica di Pechino nelle sue varie oscillazioni. Comunque sia, i tentativi fatti ormai da oltre un decennio di creare partiti comunisti filocinesi e in condizioni per
vari aspetti favorevoli, hanno registrato complessivamente un clamoroso fallimento. Quanto ai tentativi di
collegamenti internazionali di gruppi non maoisti – o non maoisti ortodossi – sono stati compiuti per lo
più su una base eclettica, senza che esistesse una reale convergenza di concezioni e di metodi, e non sono
andati al di là della generica solidarietà o, peggio, della strumentalizzazione propagandistica.
29 L'analisi puntuale della fase attuale e la determinazione delle prospettive delle lotte operaie a più lungo
termine sono tanto più necessarie in quanto non è escluso che la conclusione senza uno sbocco positivo
dal punto di vista della lotta per il potere della grande ondata del '68-69 alimenti ritorni di fiamma «marcusiani» circa la capacità della classe operaia ad assolvere la propria funzione di forza motrice rivoluzionaria.
30 A questo proposito, v. Marxismo e sindacato, Samonà e Savelli, Roma 1970, dove si legge tra l'altro:
«Nessun principio impone di creare comunque nuovi sindacati da contrapporre ai sindacati riformisti o
neoriformisti, come nessun principio impedisce di farlo. Tutto dipende dalla valutazione che si dà di una
determinata situazione, delle potenzialità esistenti, delle effettive possibilità di realizzazione. E criterio
orientativo irrinunciabile deve essere la convinzione che un'organizzazione sindacale non ha senso se non
interne ai fini di una battaglia per obiettivi e metodi classisti di contro alle impostazioni
conservatrici, vecchie e «nuove», degli apparati burocratici. Ciò significa esigere la più
ampia democrazia nei sindacati e il diritto per tutti gli iscritti di unirsi in raggruppamenti
o tendenze, e quindi per i rivoluzionari il diritto di costituire raggruppamenti o tendenze
per far prevalere orientamenti e metodi classisti.
La politica di fronte unico corrisponde ad una imprescindibile necessità, in un momento in cui la classe dominante è all'attacco su vari fronti e non esita ad avvalersi dei
metodi di repressione e di intimidazione più svariati, dalle iniziative reazionarie di settori della magistratura, decisi a servirsi dei codici di Mussolini, all'azione criminale delle
bande neofasciste. Solo nella misura in cui saprà rintuzzare con successo questi attacchi,
in cui uscirà vittoriosa da una fase in cui è costretta – complessivamente – sulla difensiva, la classe operaia potrà prospettarsi un rilancio offensivo, porre le premesse di una
nuova ascesa. Convergenze e azioni unitarie sono, in un contesto del genere, possibili e
necessarie. Compito dei rivoluzionari è lottare contemporaneamente contro il settarismo
di chi non vuole capire che le stesse organizzazioni tradizionali sono già, e ancor più
possono divenire, oggetto di attacchi e di repressioni, e contro il pavido opportunismo –
in ultima analisi, niente affatto meno settario – dei burocrati riformisti, sempre tentati di
prendere le distanze dall'estrema sinistra nella speranza stolida di mettersi al riparo dai
colpi dell'avversario, dando garanzie di moderazione.
D'altra parte, proprio nella misura in cui avranno una parte effettiva nelle lotte comuni che si stanno svolgendo e che si preparano, i militanti rivoluzionari potranno stabilire
quei legami solidi con le masse, o con strati consistenti delle masse, senza i quali sono
condannati a restare relegati nel limbo del lavoro preparatorio. La partecipazione attiva
alle battaglie sindacali e una ricerca sistematica del fronte unico possono costituire gli
strumenti più efficaci per raggiungere questo scopo nell'attuale fase.
E così si potrà cominciare ad affrontare con successo il problema fondamentale che
resta da risolvere, cioè quello della conquista durevole a posizioni rivoluzionarie di operai di avanguardia, quadri organici della classe. Non si tratta di fare concessioni a uno
schematico operaismo, né di dimenticare l'importanza che hanno avuto e potranno avere
in futuro il movimento studentesco e l'azione di militanti e quadri provenienti da questo
movimento nel processo di maturazione critica di settori operai. Ma è una verità elementare che un passo decisivo nella costruzione del partito rivoluzionario sarà fatto solo
nella misura in cui le avanguardie rivoluzionarie politiche, i nuclei rivoluzionari complessivi, che hanno fatta propria la teoria rivoluzionaria, sapranno assimilare politicamente e organizzativamente un numero consistente di quadri organici della classe, in
grado di assicurare l'indispensabile tessuto connettivo tra partito rivoluzionario e movimento delle masse. Qui sta il punto decisivo. Sinché questo obiettivo non sarà realizzato le basi dell'organizzazione rivoluzionaria rimarranno precarie e ci sarà il rischio di
costruire sulla sabbia.
Si sono indicati negli operai di linea e, più in particolare, negli operai impegnati nei
punti più vulnerabili del processo produttivo, i quadri-chiave da guadagnare alla battaglia rivoluzionaria. Abbiamo già accennato all'inizio alle trasformazioni intervenute nella composizione della classe operaia, sottolineando come sia entrato in irrimediabile declino il tipo di operaio dotato di una professionalità o di una qualificazione tali da rafha una base di massa, se si riduce a mettere insieme gruppi limitati di lavoratori, non sfuggendo al dilemma, dai corni egualmente negativi, del particolarismo o del puro propagandismo. Essenziale per i rivoluzionari è essere presenti nei reali movimenti di massa proprio per poter combattere la burocrazia in tutte
quelle sedi in cui si svolge la lotta per l'influenza sulla classe operaia» (p.16).
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forzare oggettivamente la sua posizione e da consentirgli un più alto livello culturale,
operaio che aveva avuto una funzione primaria nella organizzazione dei sindacati e dei
partiti tradizionali all'interno della fabbrica. Non abbiamo ignorato che l'omogeneizzazione crescente del proletariato ha costituito un fattore importante della grande ascesa,
né che operai collocati in posizioni-chiave hanno avuto una parte decisiva nel lancio di
significative lotte. Respingiamo, tuttavia, ogni interpretazione angustamente sociologica.
Al di là dello specifico inserimento nel tessuto della classe e dello stesso generico livello culturale (oggi senz'altro più elevato per la generalità degli operai, rispetto non
solo a cento o cinquanta ma anche a venticinque anni fa), l'elemento in ultima analisi
decisivo resta l'esperienza politica maturata nella lotta. Non bisogna, tra l'altro, confondere operai animati da sentimenti di rivolta e in prima linea in certi scioperi o in certi
scontri, ma politicamente poco formati, proclivi a fughe in avanti o a precipitosi ripiegamenti e quindi passibili di rapide demoralizzazioni, e operai rivoluzionari che hanno
maturato una coscienza complessiva e sono in grado di sviluppare un lavoro sistematico
indipendentemente dalle vicende congiunturali. Né sarebbe corretto identificare il quadro operaio da guadagnare con l'operaio medio. Senza la mobilitazione dello operaio
medio non è possibile organizzare con successo uno sciopero e non sarà possibile una
vittoria rivoluzionaria. Ma il quadro operaio indispensabile per la costruzione del partito
deve essere un proletario d'avanguardia, a un livello di comprensione teorica e politica
inevitabilmente superiore a quella del grosso della classe, che nella società capitalistica
continua a pagare duramente il prezzo delle condizioni alienanti di lavoro e di esistenza.
La persistente egemonia riformista e l'influenza deleteria degli spontaneisti e dei
mao-spontaneisti hanno reso e rendono difficile l'emergere di questi quadri organici della classe. Ma non si tratta affatto di figure mitiche, la cui comparsa sia relegata a un remotissimo futuro. Quadri che hanno ricavato le lezioni delle ubriacature spontaneistiche
e degli infantilismi estremistici esistono concretamente in molte fabbriche importanti.
Esistono egualmente quadri che, mobilitati per la prima volta o rivitalizzati nel 1968-'69
tramite i sindacati e lo stesso Partito comunista, hanno riflettuto e riflettono sul fallimento della strategia delle riforme e sull'impasse delle direzioni sindacali, travagliate
dalle loro intrinseche contraddizioni e frustrate per l'insuccesso della tanto celebrata unificazione. Gli uni e gli altri stanno comprendendo sempre più a fondo che le posizioni di
negazione degli strumenti elementari della classe sono irrimediabilmente sterilizzanti ai
fini di una strategia di lotta complessiva, ma al tempo stesso la strategia complessiva necessaria – una strategia rivoluzionaria – non può essere espressa da quelle direzioni burocratiche che nella fase di grandi lotte degli ultimi anni hanno dato una nuova, eloquente dimostrazione della loro natura opportunista, della sostanziale paralisi cui sono
condannate, nonostante la persistente influenza quantitativa.
Una organizzazione rivoluzionaria che – evitando le sommarie etichettature, le falsificazioni e le volgarità polemiche e il linguaggio da iniziati – sappia procedere a un bilancio esaurientemente argomentato e prospettare chiari orientamenti per la prosecuzione della lotta che non implichino negazioni o minimizzazioni della funzione dei sindacati, o una irresponsabile incomprensione della necessità di convergenze nell'azione e,
contemporaneamente, non facciano la benché minima concessione ai burocrati e alla
loro politica, potrà trovare una larga rispondenza e fare dei passi in avanti che trascenderanno la entità numerica del reclutamento. Sarebbe catastrofico che i quadri critici
della classe emersi in questi anni andassero dispersi o fossero riassorbiti nella routine
degli apparati. Ciò limiterebbe inevitabilmente la portata delle stesse lotte di questa fase
e, più ancora, comprometterebbe quella accumulazione di quadri che è condizione necessaria perché siano sfruttate con successo, grazie a mutati rapporti di forza all'interno
del movimento operaio, nuove ascese, quali ne siano le scadenze. A sperperare le potenzialità esistenti si contribuisce, peraltro, non solo con il pertinace settarismo o con estremistiche fughe in avanti, ma anche con tentativi, più o meno maldestri, di rettificare il
tiro mettendo la sordina alla critica, rinunciando alla differenziazione su punti essenziali, accodandosi agli apparati, subendo la pressione di settori della classe in ripiegamento.
In questo nostro scritto abbiamo posto l'accento sulle contraddizioni e sulla inconsistenza delle organizzazioni dei gruppi della estrema sinistra e abbiamo cercato di mettere in risalto come nella dura battaglia per la costruzione del partito rivoluzionario non
sia possibile prescindere dai militanti e dai quadri tuttora sotto l'influenza delle organizzazioni tradizionali. Non dovremmo, quindi, correre il rischio di essere fraintesi se, prima di concludere, ritorniamo ancora una volta sulla funzione che hanno avuto e dovranno avere le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria.
Ogni tendenza a sottovalutare le forze che sono emerse e hanno lottato negli ultimi
quattro anni sarebbe una concessione ai burocrati che credono giunto il momento di
sputare i rospi ingoiati nel 68-'69 e deve essere respinta con decisione. Indipendentemente dalle teorizzazioni e dalle specifiche prese di posizione, le organizzazioni dell'estrema sinistra sono state un'espressione della grande crisi, un riflesso dell'enorme carica combattiva e dello straordinario fermento critico che hanno pervaso non solo
la classe operaia ma anche vasti strati della popolazione lavoratrice in generale e della
piccola borghesia. Come abbiamo già detto, in fasi importanti dell'ascesa – all'inizio del
'68 con il movimento studentesco, nella tarda primavera del '69 con le iniziative verso le
fabbriche, nei primi mesi del '70 con le manifestazioni milanesi – l'estrema sinistra ha
inciso realmente sulla situazione e in senso largamente positivo. La costruzione del partito rivoluzionario non potrà in nessun modo prescindere da queste forze, il cui agglutinarsi attorno a piattaforme omogenee sarà una delle tappe del processo.
Non si tratta di fare concessioni a un unitarismo astratto, né di sposare tesi federative
– di cui del tutto fraudolentemente siamo stati in passato accusati di essere fautori. Si
tratta di rendersi conto che, se saranno prese tempestivamente le necessarie iniziative,
forze di diversa provenienza, in situazioni oggettive favorevoli e dopo la verifica dell'esperienza, potranno giungere progressivamente a comuni – e corretti – approdi. Del resto – oltre all'importanza vitale che una convergenza tra varie componenti del movimento rivoluzionario avrebbe ai fini della realizzazione di un fronte unico proletario complessivo – il confronto tra queste componenti è stato sempre considerato dai leninisti
come uno dei modi di costruzione del partito. Che questo confronto avvenga effettivamente, nella maggiore chiarezza possibile, con un esame e una critica delle posizioni
reali e non con arbitrarie deformazioni polemiche o, peggio, con le diffamazioni di
stampo staliniano, è nell'interesse di tutti coloro che lottano per questo obiettivo. La
questione del metodo non è formale. Lottare per l'egemonia è legittimo per ogni tendenza od organizzazione che sia convinta della validità delle proprie concezioni. Ma lottare
con i procedimenti polemici tipici dei settari, degli staliniani o dei neostaliniani, o con
stolida presunzione intellettuale, significa ostacolare – più o meno coscientemente – la
chiarificazione necessaria e, in ultima analisi, rendere più difficile il compito di stabilire
solidi rapporti con la classe operaia e le sue avanguardie.
Né ci sembra ci sia contraddizione tra l'affermazione della necessità del confronto e
della lotta per l'egemonia nella sinistra rivoluzionaria e l'affermazione della necessità
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dei rapporti con la base delle organizzazioni tradizionali. Non si tratta di una dicotomia,
ma di due aspetti inseparabili. Solo con un'azione consistente della sinistra rivoluzionaria è possibile incidere sui rapporti di forza con la sinistra tradizionale; e nella misura in
cui ciò si verifica, crescono la maturità della sinistra rivoluzionaria stessa, la sua capacità di azione effettiva.
La battaglia per la costruzione del partito rivoluzionario sarà ancora lunga e dura.
Ogni speranza di procedere speditamente cercando scorciatoie non è che un'illusione.
Ma è una realtà che le condizioni maturate in questi anni sono senza paragone più favorevoli che in passato e che progressi consistenti potranno essere registrati, anche a scadenza non lontana, da coloro che avranno saputo meditare criticamente sulle esperienze
fatte.
La nostra organizzazione ha tutti i requisiti teorici e politici per essere in prima linea
nella nuova fase di una battaglia di portata storica, stimolata e aiutata dalle esperienze e
dai successi registrati da altre sezioni della IV Internazionale nella stessa Europa occidentale.
25 luglio 1972
Questo testo è la seconda parte del libro: E. Mandel – L. Maitan, Il partito
leninista, Quaderni di Bandiera rossa, Roma, 1972. La prima parte è già sul
sito, col titolo Mandel – Teoria leninista. Non è stata ripresa qui l’Appendice,
che ricostruiva le vicende del 1969 a Torino con due articoli di Renzo Gambino apparsi su “Bandiera rossa”.
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Maitan-Verifica del leninismo