1. Biografia di Antonin Artaud1 1896 Antoine Marie Joseph Artaud nasce a Marsiglia il 4 settembre. È il primo di nove fratelli. 1901 Si ammala gravemente di meningite. D’ora in poi soffrirà di emicrania, disturbi nervosi, esaurimento a balbuzie. 1905 Nei frequenti soggiorni a Smirne presso la nonna materna, Artaud studia il greco e l’italiano. 1906 La morte di Germaine, la sorellina di sette mesi, lo addolora profondamente. 1910 Artaud inizia a scrivere poesie, firmandosi con lo pseudonimo di Louis des Attides, e pubblica insieme con i compagni di classe una rivista di poesia. 1914/15 Artaud soffre sempre più intensamente di depressione, brucia le proprie poesie e abbandona la scuola prima degli esami di maturità. È ricoverato nella casa di cura La Rouguière, nei dintorni di Marsiglia. 1916 A settembre è chiamato a compiere il servizio militare ed è destinato a Digne. 1917 A gennaio è congedato dal servizio militare per problemi di salute. Si sottopone a varie terapie. A causa della sifilide che gli viene diagnosticata, assume massicce dosi di arsenico, mercurio a bismuto. 1918/19 È trasferito in una casa di cura a Neuchâtel. Gli prescrivono il laudano, che innesca la dipendenza dagli stupefacenti che segnerà tutta la sua vita. Inizia a dipingere e a disegnare. 1920 Artaud si trasferisce a Parigi a si affida alle cure del dottor Edouard Toulouse. 1921 A febbraio intraprende la carriera di attore con Lugné-Poë al Théâtre de l’Oeuvre, che però abbandona a maggio. Scrive anche per la rivista di Lugné-Poë «Le Bulletin de l’Oeuvre». A settembre lavora al Théâtre de l’Atelier dl Charles Dullin, per il quale non solo recita, ma progetta anche i costumi a le scenografie. Lì conosce, in autunno, l’attrice rumena Génica Athanasiou, con la quale inizia una relazione che durerà, con qualche interruzione, fino al 1927. 1922 Tramite André Masson, Artaud conosce Joan Miró, Armand Salacrou, Jean Dubuffet e Roger Vitrac, tra gli altri. 1923 Ad aprile passa dal teatro di Dullin alla Comédie des Champs-Elysées, la compagnia di Georges e Ludmilla Pitoëff. 1924 Primo ruolo cinematografico in Fait divers di Claude Autant-Lara. Pubblicazione del suo primo testo teorico sul teatro, L’Evolution du décor. A giugno lascia la Comédie des Champs-Elysées. Lavora nel film Surcouf roi des corsaires di Luitz-Morat. A settembre muore il padre. Su invito di André Breton, in autunno Artaud si unisce ai surrealisti. 1925 Dirige il numero 3 di «La Révolution surréaliste». Impersona Marat nel film Napoléon di Abel Gance e recita nel film Graziella di Marcel Vandal. Dirige il Bureau Central de Recherches Surréalistes, che cessa l’attività ad aprile. A maggio, rappresentazione di Au pied du mur di Louis Aragon al Théâtre 1 Da Antonin Artaud. Volti / Labirinti / Film / Disegni e documenti, a cura di Jean Jacques Lebel, 5 Continents, Parigi 2005, pp. 42-44. du Vieux-Colombier. A luglio, la «Nouvelle Revue Française» pubblica L’Ombilic des Limbes di Artaud. 1926 Ad agosto Artaud recita in Le Juif errant di Luitz-Morat. Pubblicazione del manifesto Le Théâtre Alfred Jarry. A novembre, a causa di divergenze di opinioni, è estromesso dal gruppo surrealista. Lavora nel dramma Matusalemme di Iwan Goll. 1927 Periodo di astinenza dalle droghe a Marsiglia. Scrive la sceneggiatura per La Coquille et le clergyman. Carl Theodor Dreyer sceglie Artaud per il ruolo del monaco Massieu nella Passione di Giovanna d’Arco. A ottobre iniziano le riprese di Verdun, visions d’histoire di Léon Poirier. 1928 Prima proiezione di La Coquille et le clergyman, che Germaine Dulac ha adattato allo schermo. Artaud protesta per la riduzione cinematografica. Lavora nel film L’Argent di Marcel L’Herbier. A dicembre, prima rappresentazione teatrale di Victor ou les enfants au pouvoir di Roger Vitrac, con la regia di Artaud. 1929/30 Artaud recita in diversi film: Tarakanova di Raymond Bernard, La Femme d’une nuit di Marcel L’Herbier e Die Dreigroschenoper di G.W Pabst. Provino per La Fin du monde di Eugène Deslaw. 1931 Lavora in due film di Raymond Bernard, Faubourg Montmartre e Les Croix de bois. Ruolo secondario nella versione in musica di Mater dolorosa di Abel Gance. Si interessa al teatro Balinese. 1932 Riprese di Coup de feu à l’aube con la regia di Serge de Poligny. A ottobre esce Le Théâtre de la Cruauté (primo manifesto) di Artaud. Recita in L’Enfant de ma soeur di Henry Wulschleger. Tentativo di disintossicazione, a dicembre, presso l’Hôpital Henri-Rousselle. 1933 Pubblicazione del secondo manifesto di Le Théâtre de la Cruauté. Artaud conosce Anaïs Nin. Nuovo periodo di astinenza dalle droghe in Costa Azzurra. Lavora per il film di Fritz Lang La leggenda di Liliom. Esce Sidonie Panache di Wulschleger. 1934 Ad aprile Artaud pubblica Eliogabalo o l’anarchico incoronato. All’inizio di maggio, scrive la prefazione al catalogo delta mostra di Balthus alla Galerie Pierre. A ottobre inizia a scrivere I Cenci. Tragedia in quattro atti e dieci quadri da Shelley e Stendhal. Disintossicazione in una clinica privata di Parigi. 1935 Il 7 maggio, prima rappresentazione dei Cenci al Théâtre des Folies-Wagram, con scenografie a costumi ideati da Balthus. Nuovo tentativo di disintossicazione all’Hôpital Henri-Rousselle. Recita i suoi ultimi ruoli cinematografici in Cesare e Lucrezia Borgia di Abel Gance e Koenigsmark di Maurice Tourneur. A ottobre conosce la giovane artista belga Cécile Schramme. 1936 Da gennaio a ottobre soggiorna in Messico: incontra Diego Rivera e vive con la tribu indiana dei Tarahumara, partecipando al rito del peyotl. 1937 Nuovo tentativo di disintossicazione nella clinica del dottor Bonhomme a Sceaux, nei dintorni di Parigi. S’interrompe la relazione con Cécile Schramme. Artaud riceve un bastone che a suo avviso possiede poteri magici ed era appartenuto a san Patrizio. Ad agosto si reca in Irlanda per restituire il bastone al popolo irlandese a approfondire la conoscenza dei riti celtici. Invia i cosiddetti “sortilegi” a Lise Deharme e Jacqueline Breton, tra gli altri. A settembre è incarcerato a Dublino per oltraggio al pudore e infine è rimpatriato. Il 30 settembre è ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Le Havre e il 16 ottobre è trasferito all’istituto Quatre-Mares di Sotteville-les-Rouen. 1938 Il I° aprile è trasferito alla clinica Sainte Anne di Parigi. Ad Artaud è diagnosticata una malattia mentale incurabile. 1939 A febbraio è ricoverato all’istituto di cura di Ville-Evrard, vicino a Parigi. Invia “sortilegi” a Sonia Mossé, Roger Blin e Adolf Hitler, tra gli altri. 1941 D’ora in poi, Artaud si firma Antonin Nalpas. 1943 Dall’istituto Chezal-Benoit, Artaud viene trasferito alla casa di cura di Rodez. A giugno, il dottor Gaston Ferdière to sottopone alla prima seduta di elettroshock, che gli provocherà lesioni alla spina dorsale. Artaud è incoraggiato a disegnare, scrivere e leggere. A ottobre subisce un nuovo trattamento di elettroshock con dodici scariche. 1944 Artaud ricomincia a disegnare e scrivere. A maggio è sottoposto a una terza serie di elettroshock, ne seguiranno una quarta a settembre e una quinta a dicembre, ciascuna di dodici scariche. Nel complesso, Artaud subisce cinquantuno elettroshock nell’arco di diciannove mesi. La sua spina dorsale riporta lesioni permanenti. A questo proposito scrive: «Mi hanno [...] sottoposto a una cura che non smette di indignarmi. Questa cura si chiama elettroshock; consiste nell’immergere il paziente in un flusso di corrente, al fine di annientarlo». 1946 Sulla base di una garanzia finanziaria da parte dei suoi amici, Artaud viene dimesso a maggio. L’8 giugno tiene la conferenza Les malades et les médecins, trasmessa il giorno seguente dall’emittente radiofonica RDF. Ad agosto inizia una serie di ritratti di personaggi, tra i quali figurano Jacques Prevel, Roger Blin, Sima Feder, Mania Oïfer e Jean Dubuffet. 1947 Il 13 gennaio Artaud si esibisce per tre ore nella rappresentazione Tête à tête, par Antonin Artaud al Théâtre du Vieux-Colombier, con letture di prose a poesie. A febbraio scrive Van Gogh, il suicidato della società e in primavera realizza altri ritratti e autoritratti. Alla Galerie Pierre si apre a luglio una mostra di ritratti e disegni di Artaud. Scrive Succubi a supplizi e, a novembre, Per farla finita col giudizio di dio. Le condizioni psichiche di Artaud peggiorano sensibilmente. 1948 Per il 2 febbraio, l’emittente RDF disdice la trasmissione del dramma radiofonico Per farla finita col giudizio di dio, che viene soppresso all’ultimo minuto per blasfemia e oscenità. Numerosi intellettuali solidarizzano con Artaud a chiedono invano la trasmissione del dramma. Artaud muore di cancro il 4 marzo a Ivry. 2. Evelyne Grossman Antonin Artaud, un insurgé du corps [A.A., un insorto del corpo] Gallimard, Parigi 2006, pp. 28-43. «Frantumare il linguaggio per raggiungere la vita, significa fare o rifare il teatro […]. Bisogna credere ad un senso della vita rinnovata dal teatro, in cui l’uomo impavidamente si fa padrone di ciò che ancora non esiste, e lo fa nascere. E tutto ciò che non è nato può ancora nascere a patto che non ci accontentiamo di rimanere semplici organi di registrazione.» Le théâtre et la culture, 1935 Capitolo 2 VERSO UN TEATRO DELLA CRUDELTA’ Dal Teatro Alfred Jarry (a sinistra, Artaud fotografato da Elie Lotar per i fotogrammi dell’opuscolo Le Théâtre Alfred Jarry et l’hostilité publique [Il Teatro Alfred Jarry e l’ostilità pubblica]) al Teatro della Crudeltà (qui a fianco, un bozzetto di Balthus per il costume del Conte Cenci). «Io uso, scriverà Antonin Artaud nel 1935, la parola crudeltà nel senso di fame di vita.» Il Teatro Alfred Jarry L’alternanza regolare di periodi di straripante creatività seguiti da episodi di depressione e di sofferenza acuta caratterizza la quotidianità della vita di Artaud. Gli anni 1926-1927, in questo senso, non sfuggono alla regola. Da un lato scrive e pubblica molto (Fragments d’un Journal d’Infer [Frammenti di un giornale d’Inferno], L’Art et la Mort [L’arte e la morte]), getta le basi del Teatro Alfred Jarry, continua a lavorare nel cinema (Le Juif errant [L’ebreo errante] di Luitz-Morat, La passione di Giovanna D’Arco di Carl Dreyer, Verdun, visions d’histoire [Verdun, visioni di storia] di Léon Poirier), pubblica la sceneggiatura di La Coquille et le Clergyman [La conchiglia e il prete]; dall’altro, abbandona dopo una decina di sedute la psicanalisi, confessa di «Vi ho detto che le sedute di psicanalisi alle quali avevo finito per prestarmi hanno lasciato in me un’impronta indelebile. Conoscete bene la ripugnanza soprattutto istintiva e nervosa che manifestavo per questo tipo di trattamento quando vi ho conosciuto. [...] ho potuto constatare i benefici che ne ho tratto [...] ma dal profondo del mio essere continuo a rifuggire la psicanalisi, e la rifuggirò sempre, così come rifuggirò ogni tentativo di rinchiudere la mia coscienza in precetti o formule, o in una qualsiasi organizzazione verbale.» Lettera al dottor Allendy, 1927. essere «ricaduto pesantemente nel laud[ano]», si lamenta di nuovo di una astenia vitale di fondo, di un’assoluta vacuità che lo tormenta. «Vorrei superare questo punto di assenza, d’inanità», scrive nel 1927. «Questa situazione di stallo che mi rende infermo, inferiore a tutti e a tutto. Non ho vita, non ho vita!!! La mia effervescenza interiore è morta.» Nell’autunno del 1926, poco prima della sua esclusione dal gruppo surrealista, fonda con Roger Vitrac e Robert Aron il Teatro Alfred Jarry il cui finanziamento è largamente sostenuto da Yvonne e René Allendy, il celebre psicanalista che aveva fondato il gruppo di studi filosofici e scientifici della Sorbona. L’amicizia e l’entusiasmo di questa coppia avrebbero a lungo sostenuto i progetti di Artaud sia a teatro che al cinema. Il Teatro Alfred Jarry, il cui nome è un omaggio al maestro della patafisica, inventore del personaggio di Ubu Re e grande ispiratore del teatro Dada, s’inscrive nella linea del primo surrealismo. La sua ambizione è affermata in modo chiaro: farla finita con l’illusione e l’artificio, fare in modo che ogni pièce sia «una sorta di operazione magica» inscrivendo la realtà direttamente sulla scena — tutti principi che annunciano il futuro Teatro della Crudeltà. Paragonando uno spettacolo riuscito alle evoluzioni quasi coregrafiche di una retata di polizia (paragone che Breton gli avrebbe a lungo rimproverato), Artaud terminava nel 1926 il ____________________________________________ «Manifeste pour un théâtre avorté [Manifesto René e Yvonne Allendy (in alto). Lei farà parte delle per un teatro abortito]» affermando la propria «filles de coeur à naître [le figlie di cuore che devono volontà di raggiungere il pubblico «nel modo ancora nascere]» di Artaud. più pericoloso possibile»: ____________________________________________ «In Les Enfants au «Lo spettatore che viene da pouvoir [I bambini al noi saprà che viene a sottoporsi a una vera e propria operazione, in cui non potere], la pentola è in piena ebollizione. Già solamente il suo spirito, ma i suoi sensi e la sua carne sono coinvolti. D’ora il titolo indica in avanti andrà a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. [...] Deve essere un’irriverenza radicale ben convinto che noi siamo in grado di farlo urlare.» per i valori costituiti. In gesti insieme In poco più di due anni di breve esistenza, in mezzo roventi e pietrificati, questo lavoro traduce a innumerevoli difficoltà tecniche e finanziarie, a la disgregazione del numerosi scandali e gazzarre surrealiste — quel che pensiero moderno e la sua sostituzione con... Artaud chiamerà più tardi con un po’ di che cosa? Ecco in ogni magniloquenza «l’ostilità pubblica» —, il Teatro modo il problema cui a Alfred Jarry riuscì tuttavia a presentare quattro grandi linee il lavoro dà risposta: Con che spettacoli, fra cui Il sogno di Strindberg (il 2 e il 9 cosa pensare? E che giugno 1928) e Victor, ou les Enfants au pouvoir cosa rimane?» Théâtre Alfred Jarry. [Victor, o i bambini al potere], di Roger Vitrac (in Programma della dicembre 1928 e gennaio 1929). Le testimonianze stagione 1928. che ci rimangono, così come certe fotografie d’epoca, consentono di immaginare la forza e l’inventività delle messe in scena di Artaud. Come i quattro «giacenti» collocati su delle barelle nella messa in scena del Sogno: dei manichini che raffiguravano dei malati. Redige ancora due progetti di messa in scena, uno per la Sonata degli spettri di Strindberg, l’altro per Le Coup de Trafalgar [Il colpo di Trafalgar] di Roger Vitrac, ma, a causa dei finanziamenti insufficienti, decide di porre fine all’esperienza del Teatro Alfred Jarry. Fallimento o successo? Il Teatro Alfred Jarry fu senz’altro, come sottolinea il critico Henri Béhar, «uno dei più rivoluzionari della prima metà del secolo». E fu in ogni caso una delle prime tappe che avrebbero portato Artaud ai grandi testi teorici degli anni trenta e alla sua definizione di un nuovo «Teatro della Crudeltà». In un articolo comparso il 5 giugno 1928 su «Paris Midi», Paul Achard fa la cronaca della gazzarra surrealista del 2 giugno 1928, in occasione della prima rappresentazione del Sogno, terzo spettacolo del Théâtre Alfred Jarry: «Alcuni incidenti hanno segnato la rappresentazione del Sogno di Strindberg data sabato scorso al Théâtre Alfred Jarry, nella messa in scena di Artaud. La tempesta era nell’aria? Si è trattato di una provocazione orchestrata? La messa in scena non ha creato sconcerto con una scenografia ridotta al minimo e le luci al massimo [...]? Certamente ci furono numerose interruzioni [...]. Il regista Artaud a un certo punto si è fatto largo in scena fra gli attori interdetti e ha detto press’a poco queste parole: “Strindberg è un ribelle, proprio come Jarry, come Lautréamont, come Breton, come me. Noi rappresentiamo questo lavoro come se vomitassimo contro la sua patria, contro tutte le patrie, contro la società!” Il 9 giugno 1928, la seconda rappresentazione del Sogno è stata interrotta da una zuffa con i surrealisti, venuti di nuovo a disturbare lo spettacolo [pagina a sinistra]. André Breton, Pierre Unik e Georges Sadoul sono stati arrestati dalla polizia e rilasciati il giorno dopo.» La Coquille et le Clergyman Le sue riflessioni su teatro e cinema sono contemporanee e strettamente legate. Esse partecipano della stessa volontà di ripensare completamente la questione dello spettacolo e della rappresentazione. Il suo scopo? Impedire col gesto vivo, con la forza in atto, la propensione di ogni figura a prendere forma, a solidificarsi — in altre parole, a diventare cadavere. Ora, nessuna arte meglio del cinema può secondo lui far sorgere le forze invisibili della psiche, dar loro corpo. Lo schermo cinematografico è come un tessuto tattile in cui si proiettano i nostri sogni: «La pelle umana delle cose, il derma della realtà, ecco cos’è il cinema prima di tutto», scrive. In un articolo del 1927 intitolato simbolicamente «Stregoneria e cinema», evoca «quella specie di eccitazione fisica che viene comunicata direttamente al cervello dalla rotazione delle immagini»: il cinema emana «un’atmosfera di trance». In breve, conclude, «l’epoca d’oggi è bella per gli stregoni e per i santi, più bella di quanto non sia mai stata. Una sostanza impalpabile prende corpo, cerca di raggiungere la luce. Il cinema ci avvicina a questa sostanza». Questi fotomontaggi illustravano il volumetto Le Théâtre Alfred Jarry et l’hostilité publique [Il Teatro Alfred Jarry e l’ostilità pubblica] redatto tra la fine del 1929 e l’inizio del 1930 da Roger Vitrac con la collaborazione di Antonin Artaud. Il libretto, di 48 pagine, ricordava i quattro spettacoli già dati e presentava un montaggio di lettere e articoli che offrivano una sfaccettata rassegna stampa delle opinioni della critica teatrale dell’epoca sui diversi spettacoli rappresentati. Si apriva con la seguente dichiarazione: «Il Théâtre Alfred Jarry, consapevole della sconfitta del teatro di fronte allo sviluppo dilagante della tecnica internazionale del cinema, si propone con mezzi specificamente teatrali di contribuire alla distruzione del teatro quale attualmente esiste in Francia, coinvolgendo in tale distruzione tutte le idee letterarie o artistiche [...], tutti gli artifici plastici su cui questo teatro è fondato [...]». Qui a fianco, in alto, tre foto di Artaud scattate da Élie Lotar per il fotomontaggio. Ma — e qui sta l’inconciliabile paradosso — se i sogni sono semplicemente riprodotti sulla pellicola, realizzati (in tutti i sensi del termine) sullo schermo, dov’è la stregoneria? La magia dell’invisibile scompare se la tecnica, supplendo all’irrappresentabile, permette di dar forma alla forza dei sogni. Nel 1928, in occasione della prima proiezione pubblica de La Coquille et le Clergyman, film realizzato da Germaine Dulac a partire dalla sua sceneggiatura, i surrealisti organizzano una memorabile gazzarra in sostegno ad Artaud che si considera tradito. Come sottolineava recentemente il cineasta André S. Labarthe, non si può non riconoscere la fedeltà di Germaine Dulac, una cineasta d’altronde affermata, ad Antonin Artaud, ma è proprio questo tipo di sapere che Artaud rifiuta. Le immagini girate riproducevano la sua sceneggiatura ma non avevano saputo coglierne l’energia originaria. Una volta realizzato, calibrato, il film non era altro che un film morto. La stessa constatazione si ripeterà, vent’anni più tardi, con la trasmissione Pour en finir avec le _______________________________________ Artaud fotografato da Armand Salacrou verso il 1927. jugement de dieu [Per farla finita col giudizio di dio], che apparirà ai suoi occhi come un fallimento. «Dove è la macchina, scriverà allora, là c’è l’abisso e il niente». Ecco allora la questione fondamentale che sarà esplorata da tutta la sua opera: come bucare l’occhio dello spettatore perché finalmente egli veda e perché vedere ridiventi un atto di tutto il corpo, uno «scalpiccio d’ossa, di membra e di sillabe». Anche se continuerà ancora per qualche tempo a elaborare diversi progetti cinematografici (in particolare la creazione di una società per la produzione di cortometraggi), a cercare dei finanziatori con l’aiuto di Yvonne Allendy, a recitare in numerosi film spesso per ragioni alimentari, la magia del cinema per lui è scomparsa per sempre. L’avvento del cinema “parlante” non farà che accentuare il suo rifiuto di questa «macchina dall’occhio implacabile» alla quale opporrà da quel momento «un teatro di sangue, un teatro che a ogni rappresentazione avrà fatto acquistare corporalmente qualcosa». Nel 1933, in un articolo intitolato «La vecchiaia precoce del cinema», ne scrive l’elogio funebre: «Il mondo del cinema è un mondo morto, illusorio e smembrato. [...] Non ricrea la vita. Delle onde vive, inscritte in un numero di vibrazioni fissate per sempre, sono onde ormai morte. Il mondo del cinema è un mondo chiuso, senza relazione con l’esistenza.» Reciterà un’ultima volta durante l’estate 1935 in Lucrezia Borgia di Abel Gance poi in Kœnigsmark di Maurice Tourneur. Saranno i suoi ultimi ruoli al cinema. «Ho cercato [...] di realizzare un’idea di cinema visivo in cui la psicologia stessa viene fagocitata dalle azioni. [...] I sogni hanno qualcosa di più di una logica tutta loro. Hanno una loro vita, in cui si manifesta una verità intelligente e oscura. Questa sceneggiatura cerca di raggiungere l’oscura verità dello spirito, in immagini che si generano da sé, e che non traggono il loro significato dalla situazione in cui si sviluppano ma da una sorta di necessità interiore che sia in grado di proiettarle nella luce di un’evidenza senza rimedio.» La Coquille et le Clergyman. La prima del film La Coquille et le Clergyman ebbe luogo il 9 febbraio 1928 allo Studio des Ursulines [cinema d’essai in rue des Ursulines]. Durante i pochi mesi delle riprese, Artaud subissò Germaine Dulac di domande, consigli, suggerimenti. Così, a proposito della scenografia della sala da ballo [qui sopra la scena in cui il prete penetra nella casa], approva la pavimentazione, ma rifiuta le pareti, aiutandosi con uno schizzo esplicativo: «forse queste pareti a zig-zag mi danno un po’ fastidio. Se il muro è proprio necessario lo preferirei su uno o due piani [...]». Il teatro e il suo doppio La raccolta di testi intitolata Le Théâtre et son Double [Il teatro e il suo «Gli attori con i loro costumi compongono dei doppio] comparirà nel febbraio del 1938. Qualche mese prima, al suo veri e propri geroglifici ritorno da un viaggio in Irlanda, Antonin Artaud era stato costretto al che vivono e si muovono. [...] Sono come grandi ricovero nell’ospedale psichiatrico dei Quatre-Mares di Sotteville-lèsinsetti...». Rouen; poté vedere il libro solo parecchio tempo dopo la pubblicazione. «Sul teatro balinese», Gli articoli e le lettere che compongono il volume vanno dal 1931 al 1931 [Les danses de Bali à l’exposition coloniale 1935. Se aveva effettivamente deciso nel 1930 di mettere fine de Vincennnes, 1931, all’esperienza del Teatro Alfred Jarry non aveva tuttavia abbandonato il «L’Illustration».] progetto di rivoluzionare l’idea stessa di teatro. Durante quei cinque anni, a partire dalle prime note redatte sotto la grande impressione suscitata dalla scoperta dei danzatori balinesi all’Esposizione coloniale del 1931 a Parigi, fino al fallimento della rappresentazione dei Cenci e alla sua partenza per il Messico all’inizio del 1936, egli elabora in effetti il nucleo essenziale delle sue teorie teatrali, quelle che costituiscono ciò che è stato chiamato da qualcuno il primo Teatro della Crudeltà. Quello che Artaud definisce «teatro», bisogna sottolinearlo, è allo stesso tempo molto di più e qualcosa di molto diverso da quello che si intende di solito con questo nome. Da qui i malintesi che talvolta accompagnano la ricezione delle sue teorie in Europa e negli Stati Uniti. Per lui ogni parola supera i propri limiti, va oltre un significato specifico, e la parola «teatro» non sfugge alla regola: ciò che egli intende effettivamente inventare sotto il vecchio nome di teatro, è proprio un’altra scena in cui la parola «ossificata», «le parole [...] gelate» del In una lettera a Jean teatro occidentale potranno riprendere alito e vita, in cui sarà ritrovata la Paulhan, Artaud rivela «vecchia efficacia magica» di un linguaggio in atto. Di cosa si tratta? il titolo del libro che raccoglierà i suoi Addirittura di «rimettere in discussione l’uomo sotto il profilo organico». scritti sul teatro. Fra Che cos’è il questi, un testo del 1931 in cui analizza un Doppio per quadro esposto al Artaud? Il Louvre, Le figlie di Loth (qui sopra), per rovescio parlare de «La messa invisibile della in scena e la metafisica»: «Il suo realtà, una forza pathos [...] è vitale transpercepibile anche da personale che lontano, colpisce lo sprito con una sorta di esiste prima di folgorante armonia incarnarsi nelle visuale, la cui acutezza, voglio dire, singole forme agisce di prepotenza e corporee. È là, in si scarica in una sola occhiata. Prima ancora questo spettro di aver visto di che si senza tratta, s’intuisce di aver individualità né davanti qualcosa di grande, e l’orecchio ne limiti che è scosso quasi quanto l’attore ricaverà l’occhio. [...] Affermo in ogni modo che la propria forza: «bisogna considerare l’essere umano come un doppio, come questo dipinto è ciò il kha delle mummie egiziane, come uno spettro perpetuo dal quale si che dovrebbe essere il teatro, se solo sapesse irradiano le forze dell’affettività. Uno spettro plastico e mai totalmente parlare il linguaggio realizzato, di cui il vero attore imita le forme, imponendogli le forme e che gli è proprio.» l’immagine della propria sensibilità». L’intero luogo teatrale, lo spazio indistinto della scene e della sala, della scena e della vita, è quel luogo virtualmente infinito in cui si articola per Artaud un corpo senza limiti. «Come ogni cultura magica espressa da appropriati geroglifici, anche il vero teatro ha le sue ombre; e fra tutti i linguaggi e tutte le arti è il solo le cui ombre abbiano travolto i loro limiti. [...] Il che significa rifiutare le limitazioni abituali dell’uomo e delle sue facoltà, e allargare all’infinito le frontiere di ciò che chiamiamo la realtà» (Prefazione a Il teatro e il suo doppio). Il Doppio è dunque una massa indistinta e amorfa, un «intreccio fibroso» di materia che costituisce la «base organica» del teatro. È proprio sulla scena allora che si inventa un nuovo linguaggio nello spazio, «a metà strada fra il gesto e il pensiero», che si avvale della forza di proiezione delle sillabe, dei gesti sonori proferiti nell’aria: incantamenti, ripetizioni ritmiche, vibrazioni. La crudeltà? Un’azione articolata che anima il corpo-geroglifico dell’attore, fra unione e separazione, geometria di linee, «gioco di giunture». Niente a che vedere, sottolinea Artaud, o almeno non solo, col sadismo e il sangue, si tratta di una «crudeltà pura, senza strazio della carne». Solo allora il teatro può tornare a essere un atto vivo e magico. I Cenci «Balthus ha ritratto Iya Abdy [qui sotto] come un primitivo avrebbe dipinto un angelo; con un mestiere così sicuro, con una analoga comprensione degli spazi, delle linee, dei vuoti, delle luci che definiscono lo spazio; e nel ritratto di Balthus Iya Abdy è viva: grida come una figura in rilievo di un racconto di Achim d’Arnim. [...] E quello stesso Bathus, che fa di Iya Abdy un fantasma che si è incarnato come per miracolo, ha creato per lo spettacolo dei Cenci una scenografia da fantasmi, grandiosa come le rovine che si vedono nei sogni [...]». Les Cenci [I Cenci], 1935. È questo il linguaggio teatrale nuovo che Artaud intende mostrare e far sentire nella messa in scena del 1935 di una pièce di cui è lui stesso autore, I Cenci, tragedia in quattro atti da Shelley e Stendhal. Sarà il primo e ultimo spettacolo del Teatro della Crudeltà. Al centro dell’opera il motivo dell’incesto, tema feticcio di Artaud, metaforaschermo, come si dice di certi sogni, di quella perdita dei limiti individuali, di quella porosità dei confini fra vita e morte, fra noi e gli altri, che rende indefiniti i suoi personaggi. Personaggi che si dissolvono continuamente, i cui contorni si sciolgono come si liquefà dentro un vaso la testa del prete nella sua sceneggiatura. Il conte Cenci è dunque un personaggio luciferino che, per sfidare l’ordine del mondo, raggiunge il fondo dei propri desideri: fa uccidere i suoi due figli e stupra la figlia Beatrice. Al di là del rovesciamento dei valori morali, del caos che rappresenta, Cenci incarna la rottura dei limiti fra i membri di una famiglia, che si divorano a vicenda e si scambiano i ruoli in un massacro programmato in cui non si sa più chi sia il carnefice e chi la vittima. Per Les Cenci, Balthus ha concepito una scenografia (qui a fianco) «costruita come un rudere, con impalcature e teli drappeggiati al posto dei fregi». Sulla parte destra della scena si ergeva un arco di trionfo sormontato da un elmo gigantesco ispirato a Piranesi. Dietro il palazzo, un tempio romano con il suo frontone, sormontato da un’impalcatura di travi tenute insieme da corde. Pagina precedente, I atto, scena 3 dei Cenci, nella scenografia realizzata. L’ossessione del padre incestuoso incarnato qui da Artaud, interprete del personaggio del conte Cenci, tornerà di nuovo nei suoi testi del 1945 dal manicomio di Rodez, sotto i tratti mitici delle sue «filles de coeur à naître [figlie di cuore che devono ancora nascere]» (le sue due nonne, sua sorella Germaine, e altre donne, morte o vive, che ha amato): esse tornano a ossessionare il suo corpo per esserne rimesse al mondo, «egli resuscita la loro anima per dar loro un corpo penetrandole dopo che loro lo hanno contenuto». La messa in scena che Artaud concepisce per I Cenci è ampiamente descritta nelle lettere e nei testi redatti all’epoca; egli elenca il «movimento gravitazionale» che anima i personaggi, le vibrazioni delle onde Martenot che pongono lo spettatore «al centro di una rete di vibrazioni sonore», «quell’andirivieni matematico degli attori gli uni attorno agli altri, che disegna nell’aria della scena una vera e propria geometria», i manichini, le scene di Balthus. Con poche eccezioni la critica non fu buona. Colette tuttavia scrisse: «L’attore peggiore, Antonin Artaud, non è il meno interessante. Rauco, nero, angoloso, agitato, fa a pezzi il testo come peggio non si potrebbe, è insopportabile, eppure lo sopportiamo. Perché la sua è la luce della fede.» A causa di problemi finanziari, le recite si interrompono dopo diciassette rappresentazioni. In alcune note personali, a proposito di quel mese di dicembre del 1935, Artaud concluderà: «Mese maledetto di un anno maledetto, l’anno delle delusioni e della Sconfitta. Successo in senso Assoluto dei Cenci.» Ha cominciato a prendere contatti in vista del suo viaggio in Messico, alla ricerca di quelle che egli considera le sorgenti vive della cultura, la sopravvivenza «di un naturalismo imbevuto di magia, [...] nel sottosuolo della terra e nelle strade dove ancora l’aria si muove». «I Cenci [...] non sono ancora il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano», afferma Artaud nel 1935. «Nello scrivere i Cenci ho imposto alla mia tragedia il movimento della natura, quella specie di gravitazione che muove le piante, e gli esseri come le piante, e che si ritrova nel sommovimento vulcanico della terra.» Qui sotto e in alto a sinistra, il copione di regia annotato da Roger Blin, in cui sono tracciate le traiettorie di quelle «grandi forze» che sono i personaggi. A sinistra, in basso, la fotografia della scena in questione: atto IV, scena 1, Beatrice Cenci [Lady Abdy] e gli assassini [Roger Blin e Henri Chauvet]. 3. Guillaume Fau L’atelier de la cruauté [Il laboratorio della crudeltà] in Antonin Artaud, a cura di Guillaume Fau, Bibliothèque National de France-Gallimard, Paris 2006, pp. 96-98. Nel febbraio del 1948, quando la trasmissione Pour en finir avec le jugement de dieu [Per farla finita col giudizio di dio] è stata appena censurata, Artaud scrive: «[...] ecco perché non mi avvicinerò più alla Radio, e mi consacrerò ormai in modo esclusivo al teatro così come lo concepisco, un teatro di sangue, un teatro che a ogni rappresentazione avrà fatto acquistare “corporalmente” qualcosa sia a chi recita che a chi viene a veder recitare, d’altra parte non si recita, si agisce. Il teatro è in realtà la genesi della creazione».2 Abbandonato dopo l’insuccesso pubblico dei Cenci nel 1935, reso impossibile dai numerosi ricoveri seguiti al ritorno dall’Irlanda nel 1937, il teatro è qui evocato da Artaud, pochi giorni prima della sua morte, in termini che si ricollegano all’universo concettuale elaborato negli anni trenta: centralità del motivo della crudeltà, partecipazione dello spettatore e dell’attore a un rituale della scena che dovrebbe “compensare” la mancanza di vita, definizione di un linguaggio specificamente teatrale fondato sul corpo e l’azione piuttosto che sul testo e la psicologia, integrazione, infine, di tutti questi elementi con una metafisica. Persistenza notevole di un pensiero la cui genesi va ricercata nell’esperienza teatrale e cinematografica degli anni venti, che Le Théâtre et son Double [Il teatro e il suo doppio] riunirà in raccolta nel 1938. Recitare «Gli attori in Francia sanno solo parlare.»3 È come attore che Artaud fa i suoi primi passi a teatro, all’inizio degli anni venti: prima con Lugné-Poe, al Théâtre de l’Oeuvre, poi, a partire dal 1921, nella compagnia di Charles Dullin. Lì entra in contatto con l’avanguardia teatrale del dopoguerra (Baty, Pitoeff e Jouvet, che incontra a quell’epoca, saranno con Dullin i fondatori del Cartel nel 1927), osserva le loro messe in scena, qualche volta prende parte anche alle produzioni realizzando alcune scenografie. Molto presto, pubblica diversi resoconti di spettacoli: Elektra, di Hoffmansthal (Théâtre de l’Oeuvre, 1920), La Nuit des Rois [La notte dei re], da Shakespeare, con la regia di Jacques Copeau (Vieux-Colombier, 1921) e Sei personaggi in cerca d’autore, di Pirandello, nella messa in scena di Pitoeff (Comédie des Champs-Élysées, 1923) attirano la sua attenzione, ma i pochi articoli che consacra al théâtre de l’Atelier testimoniano della nascita di un pensiero sul teatro, e più precsamente, sull’attore. Installatosi a place Dancourt dal 1922, Dullin vi organizza dei corsi d’arte drammatica ed è proprio il suo lavoro sulla recitazione dell’attore che affascina dapprima Artaud. Ne L’Atelier de Charles Dullin [Il laboratorio di C.D.] («Action», anno 2°, fine 1921-inizio 1922), egli descrive l’ideale ascetico di attore che Dullin intende imporre sulla scena: «Una perfetta pulizia morale e di fede presiede agli sviluppi di questa interessante falange e già cominciano a emergere incontestabili personalità di attrici e di attori».4 Di colpo, Artaud pone dunque al centro della sua riflessione la questione etica della compagnia e la sua capacità di rivelare il talento dell’attore. Egli assimila già questo ideale a quello dell’attore giapponese: «Si tratta di attori che danno come un’immagine ideale di ciò che potrebbe essere l’attore completo nella nostra epoca e si avvicinano al tipo eterno dell’attore giapponese che ha sviluppato in sé fino al parossismo l’accrescimento di tutte le sue potenzialità fisiche e psichiche».5 Qualche mese più tardi, Le Théâtre de l’Atelier («La Criée», n. 17, ottobre 1922) mette l’accento sugli esercizi d’improvvisazione diretti da Dullin e sottolinea i vantaggi che ne derivano all’espressività: «Gli 2 Lettera a Paul Thévenin, 24 febbraio 1948, in Oeuvres [Opere], p. 1676; Oe. C. [Opere complete], t. XIII, p. 147. 3 Oeuvres, p. 589; Oe. C., t. IV, p 132. 4 Oe. C., t. II, p. 134. 5 Ibid. artisti dell’Atelier si sono già esercitati in vere e proprie sedute di improvvisazione davanti a gruppi di spettatori estremamente ristretti. Si sono rivelati inaspettatamente abili a rappresentare, con poche parole, pochi atteggiamenti, poche espressioni del volto, caratteri, tic, personaggi della nostra umanità, o anche sentimenti astratti, elementi come il vento, il fuoco, vegetali o pure creazioni dello spirito, sogni, deformazioni, e tutto questo all’impronta, senza testo, senza indicazioni, senza preparazione.»6 Nel 1938, Le Théâtre et son Double [Il teatro e il suo doppio] effettuerà un lavoro di messa a punto e di ulteriore teorizzazione in rapporto a questi primi testi: in effetti quella raccolta fa il punto rispetto alle esperienze giovanili, prende le distanze da certe posizioni adottate negli anni venti e ne sviluppa altre in modo considerevole. Nella Deuxième lettre sur le langage [Seconda lettera sul linguaggio] (28 settembre 1932), Artaud rifiuta anche il metodo dell’improvvisazione, di cui aveva sottolineato i vantaggi nel 1922: «I miei spettacoli non avranno niente a che vedere con le improvvisazioni di Copeau. Per quanto siano profondamente radicati nel concreto, all’esterno, benché si sviluppino in piena natura e non nelle stanze chiuse del cervello, non per questo sono lasciati al capriccio dell’ispirazione incolta e irriflessiva dell’attore.»7 Più avanti, Artaud spiega la sua posizione: nell’improvvisazione, è la sottomissione dell’attore al linguaggio a inficiare una tecnica di cui, qualche anno prima, lodava i vantaggi: «Si tratta di sostituire al linguaggio articolato un linguaggio di natura diversa, che avrà le stesse possibilità espressive del linguaggio verbale, ma la cui fonte sarà rintracciata in un punto ancora più nascosto e remoto del pensiero.»8 Ormai, il teatro che auspica è un teatro di segni. Tutto si svolge come se l’attore dovesse ormai recitare non più a partire dai «rapporti inclusi e fissati nelle stratificazioni della sillaba umana, che essa stessa ha ucciso richiudendosi» ma affidandosi alle risorse del solo spazio scenico: «Questo linguaggio mira dunque a inglobare e a utilizzare l’estensione, cioè lo spazio, e nell’utilizzarlo, farlo parlare: io prendo gli oggetti, le cose che si trovano nello spazio come delle immagini, come delle parole, e le metto assieme e faccio in modo che si rispondano a vicenda seguendo le leggi del simbolismo e delle analogie viventi.»9 All’improvvisazione si sostituisce allora un tipo di recitazione basata sul gesto, il corpo e l’investimento fisico, quell’«atletica affettiva» dell’attore che un altro testo del Théâtre et son Double prova a definire al di là della parola e del tipo di rappresentazione che essa determina: «Per sfruttare la propria affettività come un lottatore si serve dei muscoli, bisogna considerare l’essere umano come un Doppio [...] come uno spettro perpetuo dal quale si irradiano le forze dell’affettività. Uno spettro plastico e mai totalmente realizzato, di cui il vero attore imita le forme, imponendogli le forme e l’immagine della propria sensibilità.»10 Nel frattempo, Artaud è stato molto colpito dalla scoperta del Teatro Balinese, prima all’esposizione coloniale di Marsiglia del 1922, poi a quella di Parigi del 1931.11 Questa esperienza, che accompagna la genesi e l’evoluzione delle sue teorie sulla recitazione fin dall’inizio degli anni venti, è una delle chiavi che permettono di comprendere il ruolo che l’urlo e la trance saranno chiamati a giocare nel Teatro della Crudeltà: «Non c’è più nessuno che sia capace di gridare in Europa, e specialmente gli attori in trance non sanno più emettere il proprio grido. Non sanno più fare altro che parlare, in teatro, hanno dimenticato di avere un corpo; e allo stesso modo hanno dimenticato come far funzionare la propria gola.»12 Artaud continuerà la sperimentazione sonora attraverso il dispositivo musicale dei Cenci, messo a punto con Roger Désormière, poi, negli ultimi anni della sua vita, in modo indiretto con le glossalalie e con la trasmissione radiofonica Pour en finir avec le jugement de dieu. [...] 6 Ibid. Oeuvres, p. 571; Oe. C., t. IV, p. 106. 8 Ibid,, p. 572; p. 106. 9 Ibid., p. 572; p. 107. 10 Oeuvres, p. 585; Oe. C., t. IV, p. 126. 11 Una registrazione d’epoca, realizzata durante l’Esposizione coloniale del 1931, quella visitata da Artaud, è stata ritrovata. Vedi cat. 106. 12 Oeuvres, p. 589; Oe. C., t. IV, p. 132. 7 4. Antonin Artaud, Un’atletica affettiva13 Bisogna ammettere nell’attore l’esistenza di una sorta di muscolatura affettiva corrispondente alla localizzazione fisica dei sentimenti. L’attore è simile a un vero a proprio atleta fisico, ma con questo sorprendente correttivo: all’organismo atletico corrisponde in lui un organismo affettivo, parallelo all’altro, quasi il suo doppio benché non operante sullo stesso piano. L’attore è un atleta del cuore. Anche per lui vale la divisione dell’uomo totale in tre mondi; e all’attore compete la sfera affettiva. Gli compete organicamente. I movimenti muscolari dello sforzo fisico sono come l’immagine di un altro sforzo, doppio del primo, e nei movimenti dell’azione drammatica si localizzano nei medesimi punti. Là dove l’atleta s’appoggia per correre, l’attore si appoggia per urlare una spasmodica imprecazione, ma la sua corsa è proiettata verso l’interno. Tutti i mezzi della lotta, del pugilato, dei cento metri a del salto in alto trovano analogie organiche nell’esercizio delle passioni; hanno gli stessi punti fisici di sostegno. Però con quest’altro correttivo: qui il movimento è rovesciato e, per quanto si riferisce ad esempio al problema della respirazione, mentre il corpo dell’attore è sostenuto dal respiro, il respiro del lottatore o dell’atleta si sostiene sul corpo. Il problema del respiro è, di fatto, fondamentale; ed è inversamente proporzionale all’importanza dell’azione esterna. Più la recitazione è sobria e contenuta, più il respiro è ampio e denso, sostanziale, sovraccarico di riflessi. Viceversa, a una recitazione impetuosa, gonfia, esteriorizzata, corrisponde una respirazione ad ansiti brevi e schiacciati. È certo che a ogni sentimento, a ogni movimento dello spirito, a ogni sussulto dell’affettività umana, corrisponde un respiro che gli è proprio. Ora i tempi della respirazione hanno un nome che la Cabala ci insegna; sono loro a conferire una forma al cuore umano e un sesso ai movimenti delle passioni. L’attore è soltanto un empirico grossolano, un praticone guidato da un vago istinto. Eppure, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si tratta di insegnargli a sragionare. Si tratta di farla finita con quella specie di selvaggia ignoranza in mezzo alla quale procede come in una nebbia tutto il teatro contemporaneo, incespicando continuamente. L’attore dotato trova nel proprio istinto di che captare e irradiare certe forze; ma si meraviglierebbe assai se gli si rivelasse che queste forze — che percorrono una traiettoria materiale attraverso gli organi a negli organi — esistono, in quanto non ha mai lontanamente pensato che potessero davvero esistere. Per sfruttare la propria affettività — come un lottatore si serve del suoi muscoli, bisogna considerare l’essere umano come un Doppio, come il Ka delle Mummie egiziane, come uno spettro perpetuo dal quale s’irradiano le forze dell’affettività. Uno spettro plastico e mai totalmente realizzato, di cui il vero attore imita le forme, imponendogli le forme e l’immagine della propria sensibilità. Su questo doppio il teatro esercita la sua influenza, modellando questa effige spettrale; e come tutti gli spettri questo doppio ha la memoria lunga. La memoria del cuore è duratura, ed è certo col cuore che l’attore pensa; ma qui il cuore è preponderante. Questo significa che in teatro, più che in qualunque altro luogo, l’attore deve prender coscienza del mondo affettivo, attribuendo però a questo mondo virtù che non sono quelle di un’immagine, ma comportano un significato materiale. Sia o no esatta questa ipotesi, l’importante è che sia verificabile. Si può ridurre fisiologicamente l’anima a una matassa di vibrazioni. 13 Da Antonin Artaud, Il Teatro e il suo Doppio, Einaudi, Torino 1968, pp. 242-49. Si può vedere questo spettro d’anima intossicato dalle sue stesse grida, altrimenti a che cosa corrisponderebbero i mantra indù, queste consonanze, queste accentuazioni misteriose, dove le nascoste forze materiali dell’anima, braccate sin nelle loro tane, vengono a svelare alla luce i loro segreti. Credere a una fluida materialità dell’anima è indispensabile nel mestiere dell’attore. Sapere che una passione è materia, che è soggetta alle fluttuazioni plastiche della materia, garantisce un dominio sulle passioni che allarga la nostra sovranità. Raggiungere le passioni attraverso le loro forze, anziché considerarle astrazioni pure, conferisce all’attore una maestria che lo eguaglia a un autentico guaritore. Sapere che l’anima ha uno sbocco corporeo permette di raggiungere l’anima in senso inverso; e di ritrovarne l’essenza grazie ad analogie di tipo matematico. Conoscere il segreto del ritmo delle passioni, di questa sorta di tempo musicale che ne regola il battito armonico, ecco un aspetto del teatro cui da tempo il nostro moderno teatro psicologico ha sicuramente cessato di pensare. Questo tempo può essere scoperto per analogia; e lo si ritrova nei sei modi di ripartire il respiro e di conservarlo come un elemento prezioso. Il respiro ha sempre tre tempi, come tre sono i principi alla base di ogni creazione, che nel respiro stesso possono trovare il loro simbolo corrispondente. La Cabala suddivide il respiro umano in sei arcani principali, il primo dei quali, il cosiddetto Grande Arcano, è quello della creazione: ANDROGINO EQUILIBRATO NEUTRO MASCHIO ESPANSIVO POSITIVO FEMMINA ATTRATTIVO NEGATIVO Ho pensato dunque di applicare la conoscenza dei diversi tipi di respiro non soltanto al lavoro dell’attore, ma anche alla sua preparazione tecnica. Se infatti la conoscenza della respirazione illumina il colore dell’anima, a maggior ragione può provocarla, facilitarne l’effusione. È certo che, se il respiro accompagna lo sforzo, la produzione meccanica del respiro svilupperà nell’organismo al lavoro uno sforzo di analoga qualità. Tale sforzo avrà il colore e il ritmo del respiro artificialmente prodotto. Lo sforzo accompagna per simpatia il respiro, e in base alla qualità dello sforzo da produrre, un’emissione preparatoria di respiro renderà questo sforzo facile e spontaneo. Insisto sul termine spontaneo, perché il respiro riaccende la vita, l’infiamma nella sua sostanza. Ciò che il respiro volontario provoca è una riapparizione spontanea della vita. Come una voce nei colori infiniti, ai cui margini dormano dei guerrieri. La campana del mattino o la buccina della guerra suonano per gettarli regolarmente nella mischia. Ma basta che un bambino gridi «al lupo!» ed ecco che gli stessi guerrieri si svegliano. Si svegliano nel cuore della notte. Falso allarme: i soldati s’apprestano a rientrare. Ma no: si imbattono in gruppi ostili, sono caduti in un’autentica imboscata. Il bambino ha gridato in sogno. Il suo inconscio, più sensibile, è incappato fluttuando in un branco di nemici. Nello stesso modo, con mezzi indiretti, la menzogna prodotta dal teatro ricade su una realtà più temibile dell’altra, che la vita non poteva sospettare. Nello stesso modo, con la sensibilità affinata del respiro, l’attore scava la propria personalità. Il respiro che nutre la vita permette infatti di ripercorrerne le fasi gradino per gradino. E un attore può ritrovare attraverso il respiro un sentimento che gli manca, a patto di combinarne giudiziosamente gli effetti, e di non sbagliarsi di sesso. Il respiro infatti è maschio o femmina: meno di frequente è androgino. Ma può trovarsi anche a dover rappresentare qualche preziosa condizione interiore. Il respiro accompagna il sentimento, e si può penetrare nel sentimento attraverso il respiro, purché si sia riusciti a scegliere fra i respiri quello che meglio conviene a un dato sentimento. Esistono, come abbiamo detto, sei combinazioni principali di respiri. NEUTRO NEUTRO MASCHILE FEMMINILE MASCHILE FEMMINILE NEUTRO NEUTRO FEMMINILE MASCHILE FEMMINILE MASCHILE MASCHILE FEMMINILE FEMMINILE MASCHILE NEUTRO NEUTRO Un settimo stato, al di sopra del respiro, lo stato di Sattwa, attraverso la porta della Guna superiore, congiunge ciò che è manifestato a ciò che non è manifestato. Se qualcuno poi dovesse dirci che l’attore, non essendo per sua essenza un metafisico, non deve preoccuparsi di questo settimo stato, risponderemo che secondo noi, poiché il teatro è il simbolo perfetto e più completo della manifestazione universale, l’attore porta in sé il principio di questo stato, di questo percorso di sangue attraverso il quale penetra in tutti gli altri, ogni volta che i suoi organi virtuali si destano dal loro sonno. Certo, nella maggior parte dei casi, è l’istinto che supplisce alla mancanza di una nozione che non si riesce a definire; e non è affatto necessario cadere da tali altezze per riemergere fra le passioni medie che abbondano nel teatro contemporaneo. Ma il sistema della respirazione non è fatto per le passioni medie. E non sarà certo una dichiarazione d’amore adultero, a esigere il reiterato esercizio del respiro, secondo un procedimento già più volte sperimentato. È a una qualità sottile del grido, a disperate rivendicazioni dell’anima che può predisporci un’emissione sette o dodici volte ripetuta. E questo respiro va localizzato, va suddiviso in stadi che combinano contrazione a decontrazione. Ci serviamo del nostro corpo come di un crivello attraverso il quale passano la volontà e il rilassamento della volontà. Il tempo di pensare a volere, e noi proiettiamo con forza un ritmo maschio, seguito senza soluzione di continuità troppo sensibile da un prolungato ritmo femminile. Il tempo di pensare a non volere, o anche di non pensare, ed ecco che uno stanco respiro femminile ci fa aspirare una stagnazione da cantina, il fiato madido di una foresta; e su questo stesso ritmo prolungato emettiamo un’espirazione pesante; intanto i muscoli del nostro intero corpo, vibranti per zone muscolari, non hanno cessato di lavorare. La cosa importante è prender coscienza delle localizzazioni del pensiero affettivo. Un mezzo di riconoscimento è lo sforzo, ed i punti su cui poggia lo sforzo fisico sono i medesimi sui quali poggia l’emanazione del pensiero affettivo. Gli stessi servono da trampolino all’emanazione di un sentimento. Bisogna notare che tutto ciò che è femminile, ciò che è abbandono, angoscia, richiamo, invocazione, ciò che tende verso qualcosa in un gesto di supplica, s’appoggia anch’esso sui punti di sforzo, ma come un tuffatore che prenda slancio dal fondo marino per risalire alla superficie: c’e come una proiezione di vuoto, là dove c’era la tensione. Ma in tal caso il maschile torna a incombere sulla sede del femminile come un’ombra; mentre quando lo stato affettivo è maschio, il corpo interno compone una sorta di geometria inversa, un’immagine dello stato capovolto. Prender coscienza dell’ossessione fisica, dei muscoli sfiorati dall’affettività, equivale, come nel gioco dei respiri, a scatenare l’affettivita potenziale, a darle una portata sorda ma profonda e di inconsueta violenza. Risulta così che qualunque attore, anche il meno dotato, può accrescere attraverso questa conoscenza fisica la densità interiore e il volume del suo sentimento, e a questa presa di possesso organica fa seguito una corposa trasposizione. È utile a tal fine conoscere certi punti di localizzazione. L’uomo che solleva pesi, li solleva con le reni, e con una contorsione delle reni sostiene la forza moltiplicata delle braccia; è abbastanza curioso constatare come inversamente ogni sentimento femminile, ogni sentimento che scava — il singhiozzo, la desolazione, l’ansimare spasmodico, la trance — realizzi il suo vuoto all’altezza delle reni, proprio nel punto in cui l’agopuntura cinese libera le congestioni del rene. La medicina cinese procede infatti essenzialmente sul vuoto e sul pieno. Convesso a concavo. Teso rilassato. Yin a Yang. Maschile femminile. Altro punto d’irradiazione: il punto della collera, dell’aggressione, del morso — è il centro del plesso solare. Qui si puntella la testa per lanciare moralmente il proprio veleno. Il punto dell’eroismo e del sublime è quello stesso del senso di colpa. Quello dove ci si batte il petto. Il luogo dove ribolle l’ira, che s’arrovella e non si fa avanti. Ma dove la collera si fa avanti, indietreggia il rimorso: è il segreto del vuoto e del pieno. Una collera acuta e dilacerata comincia con uno strappo neutro e si localizza sul plesso con un vuoto rapido e femminile; poi, bloccata sulle due scapole, si rivolta come un boomerang e sprizza faville maschie che si consumano senza procedere oltre. Per perdere il loro accento mordente conservano la correlazione del respiro maschile: espirano con accanimento. Ho inteso indicare soltanto qualche esempio dei fecondi principi che costituiscono la materia di questa trattazione tecnica. Altri, se ne hanno il tempo, tracceranno l’anatomia completa del sistema. Ci sono nell’agopuntura cinese 380 punti, 73 dei quali, i principali, servono alla terapeutica abituale. Assai meno numerosi sono gli sbocchi rudimentali della nostra umana affettività. E assai meno numerosi i punti d’appoggio che è possibile indicare come base di un’atletica dell’anima. Il segreto consiste nell’esacerbare questi punto d’appoggio, come una muscolatura da mettere a nudo. Il resto finisce in grida. * Per ricostituire la catena, la catena di un tempo in cui lo spettatore cercava nello spettacolo la propria realtà, bisogna permettere a questo spettatore di identificarsi nello spettacolo, in ogni suo respiro e in ogni suo ritmo. Non è sufficiente che lo avvinca la magia dello spettacolo; non lo avvincerà se non si saprà dove prenderlo. Non è più il tempo di una magia aleatoria, di una poesia che non è sostenuta dalla scienza. In teatro poesia a scienza devono ormai identificarsi. Ogni emozione ha basi organiche. E coltivando l’emozione nel proprio corpo l’attore ne ricarica il voltaggio. Sapere in anticipo quali punti del corpo bisogna toccare significa gettare lo spettatore in trances magiche. A questa scienza preziosa la poesia teatrale si è da tempo disabituata. Conoscere le localizzazioni del corpo significa dunque ricostituire la catena magica. E io posso col geroglifico di un respiro ritrovare un’idea di teatro sacro. NB. Non c’e più nessuno che sia capace di gridare, in Europa, e specialmente gli attori in trance non sanno più emettere il proprio grido. Non sanno più fare altro che parlare, in teatro, hanno dimenticato di avere un corpo; e allo stesso modo hanno dimenticato come far funzionare la propria gola. Ridotti a gole anormali : neppure un organo, un’astrazione mostruosa che parla. Perché gli attori in Francia non sanno fare altro che parlare.