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Numero 6 del 12-10-2010
LA FEBBRE DELL'ORO
Gli uomini più ricchi del
mondo, un pugno di miliardari,
alcuni dei quali innominati,
stanno comprando tonnellate
di oro in lingotti. Lo annuncia
l'Agenzia Reuters, riportando
le parole di Josef Stadler, topmanager della UBS, la più
grande banca svizzera. I lingotti
sono talmente tanti, che
un'altra banca la J.P.Morgan,
ha deciso di riaprire i suoi caveau
rimasti chiusi e vuoti dai lontani anni '90.
Cosa significa questa corsa all'oro da parte
dei miliardari di tutto il mondo uniti? Per
rispondere
correttamente
a
questo
interrogativo si debbono individuare le cause
e gli effetti del fenomeno. Fra le cause, come
ci spiega lo stesso banchiere Josef Stadler,
prevale il timore che a breve si scateni la
seconda ondata della crisi economicofinanziaria in corso. Perciò i paperoni dei
paperoni si rifugiano nel metallo giallo,
l'ultimo bene di investimento non ancora a
rischio di "bolla".
Quanto agli effetti, quello più deleterio, a
nostro parere, è che in questo
modo i paperoni congelano nei
lingotti d'oro e rinchiudono nei
forzieri impenetrabili di alcune
banche (le loro) immense
risorse finanziarie, rendendole
inutilizzabili per il superamento
della grande crisi. Crisi che essi
stessi hanno provocato con le
loro forsennate speculazioni
nell'economia virtuale, ovvero
nel mercato volatile della moneta
(soprattutto quella degli U$A).
In sostanza la cupola dei miliardari ha deciso
che il processo economico-produttivo
capitalistico debba svolgersi non più secondo
la formula DMD (denaro-merce-denaro),
bensì secondo quest'altra formula: DOD
(denaro-oro-denaro... e poi ancora denarooro-denaro). Insomma l'odierno sistema
capitalistico
dominato
dagli
odierni
miliardari, coll'intramontabile cilindro sulla
testa e i denti di squalo, si preparerebbe a
sostituire gran parte della produzione di
merci (beni materiali fruibili) con la
produzione di oro, tant' è che stanno aumentando
di giorno in giorno le quotazioni in borsa
delle compagnie minerarie.
Perché una simile aberrazione in una fase di
depressione planetaria, quando occorrerebbe
impiegare nell'economia reale tutte le risorse
finaziarie disponibili? Perché i miliardaripadroni avvertono che la loro moneta di
riferimento, il $, sta diventando carta straccia
dopo le loro "geniali" trovate speculative.
Ricordiamo a questi signori che il re Mida
dovette pregare Dioniso di togliergli la "virtù"
di tramutare in oro tutto ciò che toccava
altrimenti sarebbe morto dalla fame. I novelli
re Mida, se vogliono, si immolino pure al Dio
Oro, ma non si possono permettere di
affamare centinaia di milioni di esseri umani.
A noi sembra che essi temano sì la seconda
ondata della grande crisi, ma nel contempo
stiano anche premeditando la catastrofe.
Essi sperano, forse, alla fine di questa
catastrofe, in un mondo di macerie e dopo
sterminii per guerre o per fame, di potersi
ripresentare sulla scena della storia per
rimettere in moto con il loro oro
insanguinato le "sorti progressive" del
capitalismo.
In piena prima guerra mondiale, nel
settembre 1917, il rivoluzionario Lenin
scrisse un opuscolo intitolato "La catastrofe
imminente e come lottare contro di essa",
dove esponeva un programma di intervento
con al primo posto la nazionalizzazione delle
banche. Tre anni dopo, resosi conto che
questo non bastava, presentò il Piano statale
di elettrificazione della Russia come base di
uno sviluppo reale inattaccabile dai virus
della moneta, dei tassi di cambio e della legge
del profitto, strumenti da sempre nelle mani
dei miliardari di turno e delle loro banche. Il
Piano stabiliva che il valore dei prodotti doveva
corrispondere alla quantità di energia occorsa
alla loro realizzazione, che il costo della
energia doveva ridursi grazie all'elettrificazione
e al progresso tecnico e di conseguenza
dovevano abbassarsi gradualmente i prezzi
di tutti i beni, strumentali e di consumo.
Di nazionalizzazione delle banche e di
economia reale si è parlato molto in questo
periodo, anche in Italia, ma non si è fatto
niente. Infatti, come ha ha dichiarato il
ministroTremonti, mostrando un ghigno
sottile, "le banche sono tornate". Va bene, ma
noi vogliamo sapere chi in questo nostro
paese, in parlamento, nel governo, nelle
istituzioni imprenditoriali, nell'apparato
giudiziario e nei sindacati, favorisce il
comportamento
criminale
del
Gotha
miliardario. Questo comportamento mette in
pericolo la sopravvivenza non solo dei
proletari occupati e disoccupati, dei govani e
delle donne, ma anche di tanti imprenditori
piccoli e medi, di agricoltori e commercianti.
Vogliamo sapere, ripeto, chi favorisce o non
fa nulla per contrastare un simile scempio.
Qualcuno dice: tutti! Se così fosse, e non me
lo auguro, a che vale parlare e straparlare di
elezioni vicine (marzo 2011) e lontane
(2013).
Bisognerebbe
semplicemente
domandarsi: chi andrà a votare per una
democrazia rappresentativa che non rappresenta
nessuno?
Stefano Trocini
P.S. Avevamo appena licenziato questo
numero del nostro giornale quando abbiamo
trovato in fondo alla pagina diciassettesima
di "Repubblica" del 12/10/2010 un trafiletto
pressoché INVISIBILE, di cui riportiamo di
seguito il testo integrale:
"Il Papa: "I capitali anonimi una
minaccia per l'uomo".
Città del Vaticano – I capitali anonimi, "una
delle grandi potenze della nostra storia" sono
una delle forme di schiavitù contemporanea,
un "potere distruttore che minaccia il
mondo" è quanto ha detto Benedetto XVI in
apertura del Sinodo per il Medio Oriente che
si sta tenendo in Vaticano. Il Papa ha così
denunciato i rischi provenienti da un
capitalismo finanziario senza freni e
controlli."
Nel
nostro
editoriale
ci
chiedevamo chi fosse a favore e chi invece si
opponesse al comportamento diabolico dei
miliardari di tutto il mondo (possessori dei
"capitali anonimi"). Papa Benedetto XVI è
evedentemente
CONTRARIO
a
tale
comportamento,
"la
Repubblica"
evidentemente NO.
S. T.
Un'architettura senza dei
Nella città di New York, soprattutto nel
distretto di Manhattan, un edificio,
spettacolare per la sua altezza, forma e
trasparenza, non potrà mai essere un corpo
estraneo al tessuto urbano. Anzi ne definisce
la grandiosità e opulenza, si fa segno
inconfondibile
dell'identità
economica
americana.
Famosi
architetti
hanno
contribuito a rendere tale la Grande Mela.
Essi si sono sfidati, esibiti in una gara di
bravura
con
costruzioni
esemplari,
integrandole nel naturale sviluppo dinamico
della città, anche grazie allo zelo di
amministrazioni comunali responsabili.
Sotto questo aspetto New York con la sua
Manhattan è l'archetipo per eccellenza
dell'architettura moderna. Una quasi perfetta
razionalità
urbana.
Nuovi
grattacieli
svetteranno a Ground Zero in memoria delle
Twin Towers. Ma il distretto di Manhattan è
un paradigma con il quale pochi quartieri al
mondo, possono competere quanto a genius
architettonicus. Altri potrebbero farlo solo in
virtù di un pari sviluppo e un'autentica
innovazione urbana. Ma si è guardato
soprattutto al terziario avanzato: grandi
uffici, grandi centri commerciali,musei, sedi
per la cultura, lo spettacolo, lo sport: non si è
guardato alla città nel suo insieme. Una città
realmente moderna non deve relegare la
modernità a una sola parte di essa e per il
resto essere un agglomerato di edifici senza
ordine, né equilibrio architettonico. Così
abbiamo una netta dicotomia tra giusto
senso e degrado e l'architetto si dimostra
autoreferenziale, scevro da responsabilità
sociale e spesso non all'altezza di compiti
impegnativi. Ma quanto più egli è capace,
tanto più la città ne beneficia. Quanto più
interviene positivamente nella dialettica
abitativa e sul piano urbanistico, tanto più ha
senso il costruito. Un senso che risente
fortemente della speculazione di imprenditori
-conquistatori su vaste aree per una
edificabilità nient'affatto intelligente e priva
di dignità urbana. Sotto quest'assenza di
scrupolo sono state seppellite ogni virtù
professionale e ogni progettualità innovativa.
E che dire dell'abusivismo per omessa
vigilanza degli addetti al controllo,
evidentemente interessati a chiudere un
occhio, se non tutti e due? A causa di ciò una
città rimarrà sempre soggetta ad un
incompiuto sviluppo. Allora mi pongo la
domanda:
qual'é
oggi
lo
stato
dell'architettura di cui potremmo andare
fieri nella nostra città: Roma, "Caput
Mundi"?. Risponderei: sconfortante. Potrei
dire paradossalmente che esiste l'architetto e
non l'architettura, l'urbanista e non
l'urbanizzazione. No! Non faccio un'affermazione
provocatoria, ma oggettiva. Fate una
fotografia d'insieme della città, togliete tutto
ciò che è storico e poi traete le conclusioni:
drammatiche per degrado, bruttezza e senza
ordine.
Gli ultimi recenti progetti conclusi e in via di
conclusione affidati dall'amministrazione
capitolina, in cerca di gloria, ad alcuni grandi
architetti, vorrebbe dimostrare che la città sta
evolvendo al pari di capitali europee meglio
risolte nei loro piani urbanistici come: Parigi,
Berlino, Londra, Barcellona. Tuttavia
l'argomento dell'innovazione e dello sviluppo
nella nostra città rimane secondario. Mentre
è prioritaria la scelta dei soggetti protagonisti
voluti per soddisfare precise ambizioni. Ma
non sempre un progetto è valido nella sua
ideazione.
Spesso
avviene
che
la
particolarità,
spettacolarità
e
unicità
rimangono come elemento monumentale,
estraneo, come oggetto alieno che non si lega
con il linguaggio architettonico circostante.
Si parla di diverso evoluto e lo sarà di sicuro
se pensiamo a progetti conclusi e in corso
d'opera come: la Nuvola di Massimiliano
Fuxsas, l'Ara Pacis di Meier , il MAXXI di
Zaha Adid, l'Auditorium di Renzo Piano. La
pubblicistica di settore chiama questi autori
Archi-star. Costoro hanno saputo unire la
professione alla politica, la politica al
successo,il successo al business. Infatti,
dominano la scena da primi attori senza
chiedersi se il loro repertorio interessi il
pubblico fruitore, per esempio, quello dei
quartieri suburbani degradati, nei quali si
sprigionano tensioni e disagio sociale che
bisognerebbe risolvere, prima di pensare alle
grandi opere, con appropriati e radicali
interventi di buona architettura e logicità
urbanistica. Ma le Archistar prediligono tutto
ciò che può assegnargli l'aureola del primato
attraverso importanti incarichi per grandi
lavori. Non ci sarebbe nulla di male, se ciò
fosse preceduto da uno schietto confronto
con le pubbliche amministrazioni, poco
inclini ad intervenire con giudizio sul tessuto
urbano, e con i comitati cittadini. Una
migliore città non si forma indipendentemente
da una logica costruttiva di sviluppo oltre che
dalla qualità architettonica. Abbiamo invece
la personalizzazione, dell'opera architettonica,
fine a se stessa, disarticolata e disaggregata
dal contesto: la particolarità esprime solo
spettacolarità, la spettacolarità esula dalla
collettività. Gli appellativi non debbono
suggestionare. Le loro audaci forme
architettoniche non possono sublimare
carenze di ordine ed equilibrio. Invadere
un'area con dimensioni fuori scala, quando si
sarebbe richiesto un più razionale rapporto
di volumi, significa aderire alla nuova
retorica della monumentalità dove tutto
deve'essere clamoroso. Una esaltazione della
personale creatività. Sono le soluzioni
d'insieme che definiscono il tutto e non la
singola opera architettonica. Da sole
l'originalità e importanza architettonica non
risolvono il degrado leggibile nell'orrendo
scenario delle periferie urbane e suburbane,
testimonianza di un fallimento urbanistico
senza appello.. Ma cosa si sarebbe dovuto
fare per la nostra città ? Evitare certi progetti
ambiziosi? No! Ma avremmo dovuto prima
abbattere gradualmente l'orrendo costruito e
poi
introdurre
ordine
ed
equilibri
architettonici per una migliore vivibilità
urbana. Occorre una nuova pedagogia
dell'abitare. Allora avremmo di sicuro reso
migliori la città, che noi stessi. Gli architetti
dovrebbero capirlo più dei politici che
contribuire a risolvere le grandi sfide per la
vivibilità delle città è un dovere. A cosa mi
serve un bell'edificio per la cultura, se poi il
mio quartiere è degradato, la strada ingolfata,
i marciapiedi stretti, il verde divorato, l'aria
irrespirabile. A cosa mi serve stupirmi delle
grandi opere architettoniche, se ciò che mi
circonda è degrado che mi degrada.? Ma per
le Archi-star paiono più importanti il
successo e la gloria, attraverso gli assolo, che
la soluzione d'insieme. Roma non è New
York, le sue periferie non sono il distretto di
Manhattan. Ma queste periferie potrebbero
prenderlo come esempio per darsi dignità e
modernità. Se così avverrà avremo sconfitto
l'enfasi, la retorica e la deità delle Archi-star
e ottenuto un libero confronto di idee e
progetti per il futuro della città.
Renato Baruffi
Broadway
L'asfalto è vetro.
Cammino e tintinno.
Alberi e fili d'erba
ben rasati.
Da sud
a nord
vanno le avenues
da est a ovest
le streets.
E in mezzo (dove il costruttore le ha portate) le case
di impossibile lunghezza.
Alcune
lunghe fino alla luna,
altre
fino alle stelle.
Gli yankee
sono pigri
a far andare le suole:
è più semplice
e rapido l'ascensore.
Alle sette
è il flusso umano
alle diciassette
il riflusso.
Stridono i congegni,
un rumore infernale,
e nel chiasso la gente
non dice una parola,
ma più lenta
mastica il suo chewing gum
solo per lanciare
un make money.
Una mamma
dà il seno
al bambino.
Il bambino,
col naso che cola,
al serio
business
è tutto intento:
non un seno,
ma un dollaro
pare che succhi.
È finito il lavoro.
Avvolgi il corpo
nell'incessante
vento elettrico.
Se vuoi andare sotterra
prendi il subway,
per il cielo
c'è l'elevated
I vagoni
viaggiano
alti come fumo,
si sfregano
ai calcagni
delle case,
cacciano
la coda
sul ponte di Brooklyn
e la nascondono
negli antri
sotto l'Hudson.
Sei assonnato,
abbagliato.
E
dalla tenebra
come un tamburo,
ti batte sulle tempie:
"Coffee Maxwell
good
to the last drop".
E quando le luci
commciano
a scavare la notte,
beh, non esagero,
è tutto un bagliore!
Guardi a sinistra:
mammina mia!
A destra:
madre mia, mammina!
Che spettacolo per gli amici di Mosca.
A vederne la fine
un giorno non basta.
Questa è New York.
Questa è Broadway.
How do you do!
Della città di New York
sono entusiasta,
ma non mi strappo
il berretto dalla testà.
I sovietici hanno
di che essere fieri:
noi i borghesi
li guardiamo dall'alto.
Datata 6 agosto 1925, New York.
Trad. F.Lepre
(da AMERICA di V. Majakovskij, Voland,
2004, progetto di F.Lepre e S.Trocini)
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