Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 6 - numero 2 (50) - Febbraio 2009
IN QUESTO
NUMERO:
Grandi Temi
Anno Paolino
Benedetto XVI:
- Una premura mondiale
- Disubbidienza e povertà.
- L’ecologia umana e
l’autodemolizione
Concilio Vaticano II:
- Lumen Gentium 31:
natura e missione dei
laici
-Speciale Convegno
- Vocabolario Paolino 6:
- L’intervento di
Koinonia
Vocazioni
mons. Bregantini.
- I Compagni di Paolo:
- Il convegno occasione
Tichico e gli Efesini
- I giovani nel cuore di un
per riflettere sul modo
- Lettera di San Paolo agli
grande profeta.
di essere comunità
Efesini
- Il dono della povertà:
- I luoghi paolini, 7 Efeso - Trasmissione della
sostenere e fortificare
- Una luce sopra Damasco: fede e servizio
l’obbedienza
della carità
la converzione di Saulo
Educare oggi
- San Paolo Apostolo per - Rilettura di un evento
- Prime conclusioni
- L’educazione interculturale vocazione
SPECIALE 50° NUMERO DI ECCLESIA IN C@MMINO
Febbraio
2009
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A proposito del Convegno Diocesano:
“La condizione previa indispensabile per poter trasmettere la
fede è quella di sentirci noi per primi coinvolti nella
ricerca delle vie di Dio”
? Vincenzo Apicella, vescovo
Il Convegno diocesano ha offerto senza dubbio a quanti vi hanno partecipato numerosi spunti di riflessione, oltre che un prezioso
momento di comunione e di confronto.
A me sembra anzitutto doveroso ringraziare il mio
amico vescovo Giancarlo Bregantini, che, nella
prima serata, ha saputo riscaldare i cuori e illuminare le menti con la sua testimonianza.
Sì, perché quello di p. Giancarlo non è stato un
discorso accademico, né una pia esortazione,
ma la condivisione di quanto è maturato in lui
lungo l’esperienza di tutta una vita, passata attraverso tante fasi e ambienti diversi.
“Pecorai si nasce e pastori si diventa”: è stato
il suo esordio e si potrebbe aggiungere, rovesciando la prospettiva, che il grande nostro rischio
è di far scadere la “pastorale” nella “pastorizia”.
La sfida è sempre quella di non ripiegarci su noi stessi, di non accontentarci dell’ordinaria amministrazione, ma di saper guardare
innanzi e in profondità, di lasciarci prendere per
mano e guidare dallo Spirito del Risorto, che ci
istruisce costantemente, anche attraverso i fatti della nostra storia, siano essi felici o tristi, buoni o cattivi.
La condizione previa indispensabile per poter trasmettere la fede è, infatti, quella di sentirci noi
per primi coinvolti nella ricerca delle vie di Dio,
che sembrano sempre tanto diverse e lontane
dalle nostre.
Solo così gli altri potranno accettare la
nostra compagnia e ascoltare le nostre parole,
che devono venire dal cuore, perché “solo il cuore parla ai cuori”, secondo l’espressione di S. Francesco
di Sales, che p. Giancarlo ci ha ricordato.
Da queste premesse si è mosso l’itinerario, attraverso cu siamo stati guidati a riscoprire gli elementi essenziali che debbono caratterizzare ogni
tentativo di trasmissione della fede.
Anzitutto l’aver gustato, noi per primi,
la dolcezza di Cristo, la sua tenerezza e la sua
misericordia, con cui siamo stati accolti per quello che siamo, con tutti i nostri limiti e perfino col
nostro peccato, perché in questo si dimostra l’amore di Dio: “perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Rom.5,8).
Se siamo consapevoli di essere amati e sostenuti in ogni situazione da Cristo,, poiché Egli ci ha fatto spazio nel suo cuore e ha
sposato la nostra causa, possiamo a nostra volta accogliere l’altro e fargli spazio nella nostra
vita; non a caso d. Lorenzo Milani aveva posta
come motto della sua scuola di Barbiana. “I care”,
cioè “mi prendo cura”, “mi interessa”, “mi sta a
cuore”, insomma il contrario del menefreghismo.
In questo Cristo ci precede sempre, Egli
è la luce che illumina ogni uomo, nascosta nel
segreto di ogni coscienza, che attende di essere scoperta e alimenta la nostra ricerca e i nostri
sogni. Il nostro compito è di far emergere, con
umiltà e dolcezza, questa presenza che non giudica e non condanna, ma svela il nostro vero volto e l’immagine che portiamo indelebilmente impressa in noi, al di l di tutte le incrostazioni e deformazioni.
Altra condizione perché l’annuncio possa essere efficace è che provenga da un’esperienza di unità e di comunione: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete
amore gli uni per gli altri” (Gv.13,35), aveva detto Gesù nell’ultimo colloquio con i discepoli prima della sua Passione.
Non ci possiamo attendere che la proposta della fede sia accolta se andiamo in ordine sparso e, magari, in concorrenza reciproca;
potremmo essere i più esperti e i più coinvolgenti,
ma il nostro massimo risultato sarebbe quello di
aver fondato una nuova setta. Inoltre ci è stato
ricordato l’esigenza della chiarezza, di fare alcune scelte indispensabili di povertà, di semplicità, e quindi di libertà, che portino ad un coinvolgimento
reale nelle situazioni.
Qui p. Giancarlo ha parlato, senza dubbio, a partire da ciò che in prima persona ha vissuto in terra di Calabria, dove il rischio è di sembrare equidistanti, di non schierarsi e, quindi di
essere, in qualche ,modo, compromessi con un
sistema di prepotenza e di ingiustizia.
Ma in ogni situazione resta l’esigenza
di testimoniare chiaramente le scelte del Vangelo,
che sono espresse nella forma più piena e più
semplice da Maria nel canto del Magnificat: “Ha
disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha
rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandati i ricchi a mani vuote” (Lc.1, 51b-53).
Infine, come vertice e coronamento di tutto, è necessario il riferimento costante a quanto il cristiano
vive nell’Eucarestia, in cui Cristo continua a consegnare se stesso senza condizioni e senza riserve, anche a coloro che lo consegnano alla Croce.
Alla massima ingiustizia e violenza Egli
risponde col massimo dell’amore, poiché solo in
questo modo si apre la via ad un mondo diverso, al Regno della giustizia e della pace, alla vittoria finale della Resurrezione e della Vita sulle
tenebre della morte.
In questo modo si può sfuggire alla logica che
ci impone di scegliere tra contrapposizione e sudditanza , per diventare annunciatori di una proposta alternativa ai criteri di questo mondo.
Chi può rendere possibile tutto questo
non è la nostra bontà o la nostra intelligenza; come
dimostra l’episodio dell’incontro tra il diacono Filippo e l’eunuco (At.8,26-40), il vero protagonista della trasmissione della fede è lo
Spirito del Risorto, che agisce costantemente
nella Chiesa e che il Padre buono concede
senza misura a tutti coloro che glielo chiedono (Lc.8,13).
Ecclesia in cammino
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
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Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Gaetano Campanile
Proprietà
Diocesi di Velletri-Segni
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23.04.2004
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Redazione
C.so della Repubblica 343
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A questo numero hanno collaborato
inoltre: S.E. mons. Vincenzo Apicella, S.E. mons. Andrea
Maria Erba, mon. Luigi Vari, Costantino Coros, don Dario
Vitali, mons. Franco Risi, Carotas Diocesana, Maria Pietroni,
mons. Franco Fagiolo, don Fabrizio Marchetti, don Marco
Nemesi, Dorina e Nicolino Tartaglione, Antonio Galati, ,
Mara Della Vecchia, Pier Giorgio Liverani, Antonio
Venditti, Emanuela Ciarla, Valentina Fioramonti, Daniele
Pietrosanti,Graziano Comandini, Sara Gilotta, don Gianni
Castignoli, Sara Calì, Angelo Bottaro, Fernanda Spigone,
Vari-Colaiacomo; Monastero di Clausura, Michele
Siconolfi, Fausto Ercolani.
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Febbraio
2009
N
Stanislao Fioramonti
ella tradizionale udienza di inizio
anno ai 177 rappresentati diplomatici accreditati presso la S. Sede (in pratica, tutte le nazioni del mondo tranne 7), svoltasi l’8 gennaio 2009, papa Benedetto
XVI ha “meditato” in termini molto chiari sugli “avvenimenti che segnano il corso della storia”, analizzando tutte le aree di crisi del pianeta e proponendo per ognuna soluzioni praticabili. Il suo
primo pensiero “affettuoso” è per le popolazioni
che hanno sofferto per gravi catastrofi naturali (Vietnam, Birmania, Cina, Filippine, America Centrale
e Caraibi, Colombia, Brasile), oppure per sanguinosi
conflitti nazionali o regionali o per attentati terroristici (Afghanistan, India, Pakistan, Algeria).
L’invito è a raddoppiare gli sforzi per promuovere la sicurezza e lo sviluppo, ad esempio firmando
(come ha fatto la S Sede tra i primi) la “convenzione sulle munizioni a grappolo”. “Non siamo in
grado di costruire la pace, ripete il papa, quando la spesa militare sottrae enormi risorse umane e materiali per i progetti di sviluppo, specialmente dei popoli più poveri”.
Rivolgendo quindi la sua attenzione ai “troppo numerosi poveri del nostro pianeta”, egli ricorda il suo
messaggio per la Giornata mondiale della pace
(“Combattere la povertà, costruire la pace”) e l’enciclica di Paolo VI “Populorum progressio” (n.6)
e aggiunge che per costruire la pace occorre ridare speranza ai poveri. Pensando alle persone colpite dall’attuale crisi economica e finanziaria mondiale, dalla crisi alimentare e dal riscaldamento
climatico, che aggravano ulteriormente la carenza di cibo e di acqua nelle regioni più povere, invita “ad adottare strategie efficaci per combattere
la fame e facilitare lo sviluppo agricolo locale”, anche
perché aumenta il numero dei poveri nei paesi
ricchi.
Per rendere l’economia sana, prosegue il papa,
è necessario costruire una nuova fiducia, attuando un’etica basata sull’innata dignità della persona umana. Un compito impegnativo, ma non
una utopia! Se si vuole lottare cotro la povertà,
bisogna investire soprattutto nei giovani, educandoli
a un ideale di vera fraternità; inoltre una sana laicità della società non ignora la dimensione spirituale e i suoi valori, perché la religione non è
un ostacolo, ma un fondamento per costruire una
società più giusta e libera.
Ripensando alle discriminazioni e attacchi subiti nel 2008 da migliaia di cristiani, specie in
India e Iraq, papa Ratzinger riflette che non giova alla pace non solo la povertà materiale, ma
nemmeno quella morale; è nella povertà morale infatti che si fondano quegli abusi. Ai diplomatici
del mondo egli ribadisce che “il cristianesimo è
una religione di libertà e di pace ed è al servizio
del vero bene dell’umanità”; rinnova il suo affetto per le vittime dell’intolleranza anticristiana e il
suo invito alle autorità civili e politiche di quei pae-
si di porre fine alle violenze, di riparare i danni e
di avere il giusto rispetto per tutte le religioni. L’odio
e le sofferenze delle popolazioni civili ancora ostacolano una soluzione al conflitto tra israeliani
e palestinesi; ma l’opzione militare non è mai una
soluzione e la violenza va sempre condannata:
il papa perciò auspica una conferma della tregua
nella striscia di Gaza e un rilancio dei negoziati
di pace rinunciando all’odio, alle provocazioni e
all’uso delle armi. Ed essendo prossime in quell’area importanti scadenze elettorali, si augura che
da esse emergano dirigenti capaci di guidare i loro
popoli verso la riconciliazione, mediante un approccio globale ai problemi di quei Paesi.
Sempre per il Medio Oriente, oltre alla soluzione del conflitto suddetto si invita al sostegno del
dialogo tra Israele e Siria, al consolidamento delle istituzioni nel Libano, a un futuro senza discriminazioni
per l’Iraq, a negoziare con l’Iran una soluzione
sul suo programma nucleare che soddisfi le esigenze sia del Paese che della comunità internazionale.
Riguardo al grande continente asiatico, il papa
constata il perdurare di violenze e di tensione politica in certi Paesi (la soluzione al conflitto nello
Sri Lanka può essere solo politica), ma anche progressi che danno fiducia, come i negoziati di pace
a Mindanao (Filippine) e le migliorate relazioni tra
Pechino e Taipei (Formosa).
Al processo globale di pace nel continente vogliono contribuire le piccole ma vive comunità cristiane
in esso presenti; la beatificazione dei 188 martiri giapponesi conferma che la Chiesa non chiede privilegi, ma solo libertà religiosa.
Ricordando il suo prossimo viaggio in Africa (Angola
e Camerun), Benedetto XVI prega che i fratelli
africani siano disponibili ad accogliere e vivere il
Vangelo e a costruire la pace lottando contro la
povertà morale e materiale. I bambini africani soffrono ancora in molte parti del continente
(Somalia, Darfur, Rep. Democratica del Congo),
sono rifugiati e profughi, privati dei loro diritti e
della loro dignità. La S. Sede, che segue con attenzione speciale il continente africano, chiede ai respon-
sabili politici nazionali e internazionali di adottare ogni misura per risolvere i conflitti e le ingiustizie in Africa (Somalia, Zimbabwe, Burundi). Anche
in America Latina si desidera la pace, il superamento della povertà, l’esercizio dei diritti fondamentali. I legislatori devono assicurare ai migranti facilitazioni (ad esempio i ricongiungimenti familiari) e rispetto delle persone; devono lottare contro il traffico di stupefacenti e la corruzione. Il papa
si rallegra per il monumento a Giovanni Paolo II
voluto da Cile e Argentina come riconoscimento
della mediazione pontificia sulla vertenza per le
loro terre australi; e per il recente accordo della
S. Sede con il Brasile, che faciliterà l’evangelizzazione e la promozione umana in quel grande
e difficile Paese: illuminare le coscienze e formare
i laici perché servano il bene comune sarà il compito di quei pastori.
Guardando infine alle comunità più vicine, il pontefice saluta i cristiani di Turchia e considera che
in questo Anno Paolino molti pellegrini visiteranno la loro terra, dove il Cristianesimo ha avuto
origine. Si augura una felice conclusione dei negoziati di Cipro per risolvere equamente la divisione dell’isola. Invita a non risolvere con le armi le
questioni del Caucaso e a onorare appieno il cessate il fuoco in Georgia, onde gli sfollati possano tornare al più presto nelle loro case. Costante
è l’impegno della S. Sede per la stabilizzazione
del Sud-est europeo e per la riconciliazione tra
Serbia e Kosovo, anche per difendere il prezioso patrimonio artistico e culturale cristiano presente in quell’area, e per il rispetto delle minoranze. La conclusione del discorso papale torna al messaggio per la Giornata mondiale della
pace (1° gennaio 2009), ribadisce che i più poveri tra gli esseri umani sono i bambini non ancora nati e pensa agli altri poveri: malati, anziani soli,
famiglie irrimediabilmente divise. La povertà si combatte se l’umanità è unita da valori e ideali condivisi; la solidarietà fra gli uomini – ce lo insegna
Gesù che nasce – è la via maestra per combattere la povertà e per costruire la pace.
Febbraio
2009
4
O
Sara Gilotta
rmai da molti mesi il Papa si riferisce
alle gravi ingiustizie sociali, che sembrano essere divenute il carattere fondamentale del nostro secolo, con parole commosse e forti, sulle quali, secondo me, è
necessario riflettere non solo da parte dei potenti che governano il mondo, ma, prima ancora,da
parte di ogni individuo, ogni famiglia, ogni comunità.
Ma, per cercare di comprendere meglio la situazione, nella quale tutti i paesi del globo sembrane essere precipitati,è necessario ricordare che
la storia tutta, da sempre ha conosciuto ogni tipo
di disuguaglianza, a cominciare dalla povertà ,
senza nemmeno essersi posta la “questione”, per
il semplice fatto che la stessa idea di un diritto
basato sull’etica , che fosse capace e volesse regolare i diversi problemi che da sempre si pongono, riguardo alle diverse dimensioni della vita pratica, era estranea al mondo antico.
Intanto perché allora come oggi il tentativo di distinguere l’etica dall’economia è sempre risultato difficile, se non impossibile, per il fatto assai semplice per cui l’economia tocca interessi privati e
pubblici,mentre l’etica comprende l’universo dei
valori, che interessa inevitabilmente quelli che
si possono definire i problemi derivanti dai conflitti sociali su cui, appunto, dovrebbe vertere l’e-
tica per offrire le norme necessarie a regolarli.
. Ora è chiaro che lì dove,invece, come oggi accade, la regola fondamentale del vivere sociale si
basi sull’egoismo e sul più totale edonismo, incompatibili completamente con qualsivoglia atteggiamento
etico, allora qualunque discorso, per quanto autorevole possa essere, diviene incomprensibile e
irrealizzabile .
Ed è questa, secondo me, la situazione, cui si riferisce il Pontefice, che naturalmente non poteva
non guardare soprattutto al realtà sempre più estesa dei poveri e dei diseredati.
Povertà che nasce per molti aspetti dal seno stesso della società postindustriale, la cui organizzazione
del lavoro e la cui visione del lavoratore è mutata profondamente, acuendo irrimediabilmente i conflitti sociali già esistenti, che la società industrializzata non aveva potuto o voluto risolvere.
E le cause sono chiare e semplici da comprendere: se infatti il mito della produzione ad ogni
costo è andato trasformandosi nel mito altrettanto
forte del consumismo e del divertimento obbligato
, che, pur tuttavia, sono divenuti l’ unica possibilità di produrre, creare e progredire, è chiaro che
i problemi emersi con maggiore forza non potevano che riguardare la povertà e i poveri vecchi
e nuovi. Così le indagini demoscopiche rivelano
e confermano quanto ormai è ben noto e cioè che
le aree di povertà stanno divenendo in Italia e nel
mondo sempre più estese, quasi che proprio le
società occidentali siano divenute capaci per loro
stessa natura di secernere il fenomeno della povertà. Povertà che si deve considerare ormai la prima causa di emarginazione dalla vita sociale, proprio per il fatto che chi è povero viene automaticamente estromesso dalla comunità nella quale vive o, forse meglio cerca di sopravvivere.
E di fronte a tale gravissimo fenomeno nessuno
può assolversi, tanto meno le classi dirigenti, che
invece di tentare di migliorare la situazione, ne
hanno fatto il luogo per dominare più facilmente
le masse, facendone non il fine di un progresso
utile per tutti, ma il mezzo per l’utile di pochi privilegiati, che neanche si avvedono, né d’altra parte interesserebbe loro, di quanta povertà è carico il mondo.
Dei poveri che si trovano inevitabilmente fuori “del
cerchio” di chi stabilisce gli standard richiesti dai
meccanismi del sistema.
Ci si può allora ancora chiedere il perché in realtà anche tra loro assai diverse e lontane si verifichino le medesime illusioni e frustrazioni, che
nessun provvedimento di legge, per lo più inattuato riesce a lenire?
No. Anzi il tutto è aggravato dall’egoismo dei singoli, che sono indotti a rifiutare coloro che considerano semplicisticamente diversi, acuendo in
tal modo gli effetti disastrosi di una situazione già
assai grave. Per tutto questo, secondo me, è ormai
tempo che nessuno deleghi a nessuno quel che
è necessario fare per migliorare la situazione ,
che ciascuno senta la sua personale responsabilità di azione e di scelta, che ciascuno, torni ad
operare tenendo presenti i valori umani fondamentali, quelli insegnati dalla natura stessa, che
pretende il rispetto per l’ altro, come del resto è
confermato nel Vangelo di Cristo, che, come nessuno mai prima, ha predicato l’uguaglianza tra gli
uomini, figli di Dio e fratelli di Cristo.
Insomma voglio dire che non bastano più le dichiarazioni di buona volontà, non è più sufficiente sperare in un futuro migliore costruito da chi ci governa, ma è necessario per tutti cercare di dar vita
ad un nuovo mondo, in cui finalmente venga meno
il principio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, giacché esso di per sé può migliorare la situazione e suscitare la capacità di rapportarsi con
l’altro secondo un rapporto davvero paritario, capace di far sì che le sperequazioni, almeno quelle
più gravi vengano affrontate con spirito nuovo, nella volontà di “rimediare” davvero con i fatti ai problemi che il cosiddetto mondo civile non può più
far finta di ignorare.
Diversamente ci attende un futuro di violenze e
ribellioni , che , provenienti dagli oppressi e dagli
emarginati,( né i prodromi mancano) che finirà
per coinvolgere inevitabilmente tutti, distruggendo anche le forme più semplici di diritto e precipitando il mondo nel caos totale, nella guerra di
tutti contro tutti.
5
Febbraio
2009
Pier Giorgio Liverani
H
a suscitato scalpore la rivelazione, fatta sull’Osservatore Romano dal presidente della Federazione internazionale
delle associazioni dei medici cattolici, prof. José Maria Simón Castellví, che la pillola contraccettiva inquina non soltanto le donne che l’assumono, ma anche l’ambiente e, con
molta probabilità, è tra le cause della fortemente
diminuita fertilità maschile.
Questa notizia ha tanto colpito l’opinione pubblica, oggi assai sensibile agli aspetti dell’inquinamento,
che, non avendo elementi scientifici per contestarla, il fronte laicista e in special modo quello che si riconosce nella sinistra politica, ha fatto ricorso all’ironia. I due quotidiani della cosiddetta “Sinistra radicale”, hanno scritto, infatti –
chiedo scusa ai lettori della citazione – che «questa Chiesa ha paura anche della pipì delle donne».
Invece il prof. Castellví parlava molto seriamente
e serenamente di un «documento lungo cento
pagine e molto tecnico e con 300 citazioni bibliografiche» della sua Federazione, pubblicato nel
40° anniversario dell’enciclica di Paolo VI
Humanæ Vitæ. Il documento contiene gli esiti
degli studi della FIAMC e, tra questi, descrive
anche «gli effetti ecologici devastanti delle tonnellate di ormoni per anni rilasciati nell’ambiente.
Abbiamo dati a sufficienza per affermare che uno
dei motivi per nulla disprezzabile dell’infertilità
maschile in occidente (con sempre meno spermatozoi nell’uomo) è l’inquinamento ambientale provocato da prodotti della “pillola”.
Siamo qui di fronte a un effetto anti-ecologico
chiaro, che esige ulteriori spiegazioni da parte
dei fabbricanti.
Sono noti a tutti gli altri effetti secondari delle
combinazioni fra estrogeni e progestinici.
La stessa Agenzia Internazionale di Ricerca del
Cancro, con sede a Lione, dipendente
dall’Organizzazione mondiale della sanità, nel
suo comunicato stampa del 29 luglio 2005, aveva già costatato la carcinogenicità dei preparati
orali di combinati estrogeno-progestinici», di cui
sono fatte le pillole (il carcinoma è una delle peggiori forme di cancro).
Com’è evidente c’è poco fa fare ironia. Meglio
riflettere come tutti i ritrovati tecnici e farmacologici che mirano a impedire il concepimento e
a procurare l’aborto, come pure quelli inventati per i maschi e le tecniche di fecondazione artificiale, mettano in evidenza, per contrasto, l’importanza di quella “ecologia umana”, su cui Paolo
VI fondò la sua Humanæ Vitæ, e cui si riferì Giovanni
Paolo II nella Centesimus Annus, riaffermando
che «la prima e fondamentale struttura dell’ecologia umana è la famiglia, nella quale l’uomo
riceve la prima formazione di idee riguardanti
la verità e la bontà, e impara che cosa signifi-
ca amare ed
essere amati e
quindi che cosa
significa essere
persona».
Questo concetto fu, infine, formalmente presentato all’opinione pubblica
mondiale dalla
Santa Sede al
Vertice Mondiale
per lo Sviluppo
Sostenibile tenutosi
a
Johannesburg
nel giugno del
2002, con un
documento in
cui si ribadiva
che «il fondamento per lo
sviluppo sostenibile» è il riconoscimento della dignità umana, a sua volta
fondato principalmente sul
«rispetto e sulla salvaguardia
delle condizioni
morali nell’operato dell’uomo».
Bastano questi
pochi accenni
a comprendere
quanto l’ironia
sulla rivelazione
dell’Osservatore Romano sia fuor di luogo e, invece, quanto il discorso sul rispetto della dignità
dell’uomo – platealmente violata da ogni forma
di intervento estraneo nei più intimi e ricchi momenti della vita degli esseri umani – non sia soltanto
di natura religiosa, ma appartenga a un’etica assai
più diffusa dello stesso cristianesimo: quella del
rispetto della natura.
Ne parlava anche Papa Benedetto XVI, il 22 dicembre dello scorso anno, alla Curia romana.
Dopo aver ricordato che la Chiesa non può e
non deve limitarsi a trasmettere ai propri fedeli soltanto il messaggio della salvezza, ma che
«essa ha una responsabilità per il creato e deve
far valere questa responsabilità anche in pubblico», il Papa ha aggiunto che nel Creato, oggi
sottoposto a grandi pericoli di distruzione e da
difendere come un bene appartenente a tutti,
non esistono soltanto l’atmosfera, i ghiacci polari e quelli delle nostre montagne, il mare e le foreste tropicali, ma rientra anche l’uomo.
È compito primario della Chiesa «proteggere l’uomo contro la distruzione di se stesso».
In altre parole (e come più volte questo concetto
è stato presentato su queste pagine), l’arroganza
con cui oggi una parte notevole della cultura proclama l’autodeterminazione, cioè la libertà di
fronte alle “vecchie” morali e la pretesa di essere padroni della propria nascita e della propria
morte – l’“uomo autopoietico” ovvero l’“uomoche-si-fa-da-sé” –, non può che portare alla distruzione. dell’uomo
Se è lecito concludere con una battuta un discorso serio come questo, confesserò che una
scritta che s’incontra frequentemente sui cartelloni
nelle periferie urbane – “Autodemolizione” – pare
a me che indichi ben altro che un cantiere di “sfasciacarrozze” e costituisce un involontario
severo monito contro l’autodistruzione dell’uomo.
Febbraio
2009
6
Il dieci gennaio scorso una donna disabile e costretta sulla sedia a rotelle all’uscita dell’ufficio postale è stata aggredita e derubata della esigua pensione appena prelevata. I due rapinatori con il volto coperto da un casco integrale erano armati di
pistola e hanno picchiato brutalmente la vittima
che tentava di opporsi alla vile aggressione In conseguenza del forte trauma la donna di nome Felicia
è morta d’infarto. La vittima da anni era impegnata
attivamente a difendere i diritti dei disabili e ad aiutare e a consigliare le persone nelle sue stesse
eseguita dalla parte lesa , di solito un familiare della vittima. Ad esempio per l’omicidio la pena era
la morte e se la vittima era figlio di un altro uomo
all’omicida veniva ucciso un figlio. Se la vittima era
uno schiavo la pena era costituita da una ammenda equivalente al prezzo di acquisto dello schiavo ucciso.
Sebbene la legge del taglione sia quasi sempre
riferita alla Bibbia in realtà essa è molto più antica poichè era sancita già dal codice Hammurabi
, re babilonese che regnò dal 1792 al 1750 avanti Cristo. La regola occhio per occhio,dente per dente , tuttavia,alla lunga si rivelò non idonea a garantire stabilità e pace sociale perché fomentava e
estendeva a macchia d’olio ulteriore rancore e
odio inestinguibile tra le famiglie delle vittime e le
condizioni. Questo fatto di cronaca mi ha colpito
in modo particolare perché in esso , nonostante
i “mala tempora” che corrono e nonostante il “bollettino di guerra” giornaliero, ho riscontrato una malvagità gratuita ed efferata che supera abbondantemente la soglia di “normale” tollerabilità.
Mi sono chiesto quale potrebbe essere la punizione più adeguata laddove i due malviventi, come
spero ardentemente , fossero individuati e processati
: sarebbe indispensabile una lunga e dura pena
detentiva o si dovrebbe tentare un percorso rieducativo , tendente a porre gli autori del crimine di
fronte alla loro responsabilità , a cercare di porre riparo in modo attivo e concreto al male commesso e quindi a cambiare vita una volta per sempre? La questione non è nuova , anzi è sempre
esistita , ma ancora oggi è ben lungi dall’essere
risolta. Ogni comunità , a partire da quelle primitive , per reggersi e per progredire ha necessità
di regole e di leggi.
Nelle società antiche la vendetta era l’atto legittimo attraverso il quale veniva resa giustizia alla
vittima in quanto era finalizzato a ristabilire l’equilibrio sociale che l’atto criminale aveva rotto e
mirava a garantire la convivenza sociale. La pena
per le varie fattispecie di reato spesso era identica al torto subito o al danno provocato e veniva
famiglie dei colpevoli. A tale riguardo può essere
esemplificativa , senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, la situazione venutasi a creare
tra palestinesi e israeliani con tutte le tragiche conseguenze e sofferenze , al momento senza alcuna prospettiva di attenuazione e di superamento. Per evitare di innescare una escalation di violenza e di odio nella evoluzione storica e sociale l’esercizio della vendetta fu avocato a sè dalla
comunità e , quindi, sottratto alle vittime e ai loro
familiari. La formulazione , la applicazione e la
esecuzione delle leggi da parte di rappresentanti e garanti della comunità costituì un passo fondamentale nella lunga e travagliata evoluzione
storica della giustizia , ma il cammino ancora oggi
è ben lungi dall’essere concluso.
Il tema della giustizia , infatti, è spinosamente attuale ,perchè continua a creare delusioni, lacerazioni e contrapposizioni. Al centro della questione della sicurezza del cittadino e della giustizia resta irrisolto il nodo se la strada da perseguire sia quella della repressione e della vendetta o quella della riabilitazione e del perdono. Ogni volta che viene commesso un crimine l’opinione pubblica continua a dividersi in due correnti separate e distinte : una parte prevalente , che vorrebbe comminare al colpevole “quello che si merita”, una punizione severa ed esemplare e una parte più incli-
“Non c’è pace senza giustizia ,
ma non c’è giustizia senza perdono”
Angelo Bottaro
ne al recupero e al perdono . In altri termini alla
giustizia cosiddetta retributiva continua a contrapporsi
una giustizia cosiddetta riabilitativa : sembra di
essere di fronte ad un aut aut senza altra possibile alternativa , ad un braccio di ferro senza vinti e senza vincitori. Secondo coloro che intendono far pagare fino in fondo il male commesso
la punizione deve essere la più dura possibile e
proporzionata alla sofferenza provocata dal criminale , che a sua volta deve soffrire almeno quanto ha fatto soffrire la sua vittima. In questo caso ,
nel nostro ordinamento penale, la pena che risponde alla finalità indicata è il carcere , luogo dove
l’autore del reato è innanzi tutto privato della libertà , con tutte le conseguenze che conseguono a
tale condizione.
Nulla importa , pertanto, che il criminale di fatto
resti a marcire in carcere per tutta la durata della condanna , con la prospettiva quasi certa che
una volta scontata la pena tornerà a delinquere.
Coloro che vorrebbero fare giustizia in direzione
della riabilitazione e della riconciliazione per principio mirano , invece , ad un percorso di ricostruzione
della personalità relazionale , cioè ad un percorso di rieducazione e di recupero dell’autore del
reato. Questa soluzione , peraltro , non comporta necessariamente la detenzione in un carcere ,
ma prevede , quando ne ricorrano le motivazioni
e le condizioni , le cosiddette misure alternative.
Tale posizione è ritenuta dai più inaccettabile perchè non renderebbe giustizia alle vittime , anzi
le umilierebbe.
Oltre tutto cambiare l’indole, il carattere , il modo
di agire di una persona abituata a delinquere ,
anche se scientificamente e ragionevolmente possibile , è di certo difficile e oltretutto comporta tempi lunghi e la disponibilità ed il supporto di ingenti risorse umane, professionali,economiche, strutturali. Rieducare e recuperare un delinquente sarebbe , perciò, una utopia , un obiettivo nei fatti irrealizzabile.
Ma come ha più volte affermato anche Giovanni
Paolo II “non c’è pace senza giustizia, ma non c’è
giustizia senza perdono”: perdono e giustizia infatti non sono due termini antitetici che fanno a pugni
tra di loro, ma possono e devono essere due elementi che si integrano e si completano a vicenda.
E’ falsa la contrapposizione tra una giustizia fredda e disumana ed un perdono ricco di calore e di
umanità : essi sono invece due facce della stessa medaglia , perché non si può fondare la pace
sociale solo sulla repressione , ma neppure sul
perdonismo e sul buonismo a buon mercato.
L’innesto nella civiltà umana del perdono cristiano non può essere stravolto e ridotto ad un fatto banale , esteriore, formale , svuotato del suo
più genuino significato.
Il perdono è un punto sostanziale del messaggio
evangelico , un aspetto fondamentale della nostra
fede e del nostro vivere , ma assume profondo e
concreto valore solo quando aiuta e stimola il colpevole ad assumere la responsabilità del proprio
gesto, attraverso un reale e sincero pentimento e
comunque attraverso una forma di espiazione e
di riparazione che sia idonea a ristabilire il rapporto con la vittima e l’equilibrio sociale turbato.
7
Febbraio
2009
Marta Pietroni
Il 21 gennaio 2008, in una lettera indirizzata alla
Diocesi di Roma sul compito educativo, Papa Benedetto
XVI ha scritto “Non temete!” . In riferimento alle
innumerevoli difficoltà che si moltiplicano nel problema educativo il Santo Padre ci dice che esse
non sono altro che il rovescio della medaglia di
quel dono grande e prezioso che è rappresentato dalla nostra libertà e dalla responsabilità che
ne consegue, responsabilità che diventa decisiva nel fenomeno dell’educare. Questa libertà, dice
Benedetto XVI, è sempre nuova e proprio per questo ciascuna persona e ciascuna generazione deve
prendere di nuovo le proprie decisioni. <<Anche
i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e
rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta
personale. Quando però sono scosse le fondamenta e vengono a mancare le certezze essenziali, il bisogno di quei valori torna a farsi sentire
in modo impellente>>2. Alla radice della crisi del-
l’educazione o, come più volte detto dallo stesso Benedetto XVI, dell’emergenza educativa c’è
infatti una crisi di fiducia della vita, laddove il relativismo è divenuto una sorta di dogma; in questo
clima si è diffusa l’idea che sia “pericoloso” parlare di verità. Per affrontare l’attuale crisi mondiale
è necessaria una “formazione ai valori”3. La stessa crisi economica, continua il Papa, è strettamente
connessa a quella strutturale, culturale e di valori. Esiste infatti un’emergenza educativa e solo la
pienezza della verità può aprire ad un giovane l’avventura della vita4. L’odierno nichilismo, che riduce l’uomo ad oggetto, a esperimento e che tenta da più parti di farsi strada toccando soprattutto le questioni bioetiche, contrasta con il “vero”
educare che mira ad un progetto di maggiore umanità, nel quale bisogna ispirarsi al criterio della centralità della persona umana, colmando un pericoloso
vuoto di valori che si accompagna all’esaltazione del tecnicismo e che sfida l’umanesimo cristiano.
Il rivoluzionario concetto di persona, la dignità del
corpo, il riconoscimento della dignità del bambino, della donna, del malato, del disabile sono gli
elementi che stravolsero la mondo occidentale grazie alla rivoluzione culturale del cristianesimo.
L’antropologia e l’educazione sono stati fattori fondamentali per l’origine della cultura occidentale.
L’educare – dal
latino educere
ovvero portare
in luce, intenzionare, dare
e promuovere,
formare soprattutto ai valori –
non può essere scisso dalla
ricerca di valore e di senso,
dallo sviluppo
del senso morale, dall’educare alle virtù.
Per questo la
questione educativa si occupa dell’uomo
in tutto l’arco della sua vita e nella totalità della
sua persona.
Se riconosciamo nelle finalità della bioetica il tentativo di identificare valori e
norme che guidano l’agire umano nella stretta relazione tra scienza, tecnologia ed etica ci rendiamo conto di come essa, la bioetica, si ponga anche
come importante sfida educativa e come “educatrice”
di coscienza critica in una civiltà come la nostra.
La sfida più grande emerge indubbiamente ed in
primis in ambito scolastico. Educare i ragazzi alla
bioetica vorrebbe dire infatti educare al confronto, al dialogo, rappresenterebbe il luogo di riflessione sulla vita, sulla sofferenza, sulla morte, sui
concetti di dignità, di qualità della vita. Nella consapevolezza della portata educativa e culturale
della bioetica, il 6 ottobre 1999 è stato redatto un
protocollo d’intesa tra il Ministero della pubblica
istruzione ed il Comitato Nazionale di Bioetica nel
quale si sottolinea l’importanza dello sviluppo di
iniziative a favore delle scuole, volte alla conoscenza
dei problemi che scaturiscono dai progressi della scienza e dall’uso delle biotecnologie. Le questioni in ballo sono talmente importanti che trascurare la sfera educativa corrisponderebbe ad
una grave irresponsabilità con ripercussioni sulla sfera individuale di ciascuno e su quella col-
lettiva. La stessa Chiesa, che da anni concentra i suoi sforzi sulla “missione” dell’educazione,
sente su di sé questa grande responsabilità perché ad essere compromessa è oggi la stessa visione della natura dell’uomo, dell’identità umana, la
stessa idea di persona e di corporeità. Abbiamo
il dovere di educare i giovani anche sui temi della sessualità, della procreazione, dell’aborto. La
visione della vita e dell’uomo che “avrà la
meglio” sarà determinante per il futuro dell’uomo,
per le stesse scelte pratiche che si realizzeranno anche in campo biomedico e sperimentale.
<<Educare è costringere la natura primitiva a produrre l’uomo, che la supera e la realizza, e che
lasciata a sé non avrebbe prodotto…superare la
propria selvaggia istintualità senza negarla, ma
controllandola, regolandola secondo la propria spiritualità, significa costruire la personalità di
uomo>> (Maritain)
1 Papa Benedetto XVI.
2 Benedetto XVI nella lettere alla Diocesi di Roma sul compito
educativo, 21 gennaio 2008.
3 Benedetto XVI durante l’udienza concessa ai membri
dell’Amministrazione della Regione Lazio, della città e della
provincia di Roma il 12 gennaio 2009.
4 Idem.
segue dalla pagina precedente
Alla vittima o ai suoi familiari deve essere offerta una condivisione solidale del dolore che consenta loro , nei tempi e nei modi necessari , di elaborarlo , di accettarlo e di superarlo fino a trasformarlo
in un gesto d’amore, reso possibile solo e soltanto
con il perdono. Senza il presupposto di una effettiva assunzione di responsabilità , di pentimento
, di espiazione , di richiesta sincera di perdono da
parte del colpevole da un lato e senza il presupposto della elaborazione del dolore , della accettazione della richiesta di perdono da parte della
vittima , reso più forte e autentico dalla parteci-
pazione e dalla condivisione solidale della comunità dall’altro lato, il perdono non potrà mai assurgere ad un atto di vera riconciliazione. Non potrà
mai esserlo se non si manifesterà nella sua piena autenticità , fino a divenire un atto di giustizia
per tutte le parti in causa,colpevole,vittima,comunità sociale.
Unicamente in questa prospettiva il perdono non
consiste nel buonismo o nel perdonismo controproducente e dannoso , ma nella convinzione ,
nella volontà e nell’impegno di rendere vera giustizia. Perdonare è tutto altro che facile , perché
è un gesto autentico e proficuo solo se è il risultato di un cammino faticoso e doloroso di costruzione di una realtà umana più aperta alle fragilità e ai bisogni e soprattutto disponibile all’amore , l’amore convergente delle vittime , dei colpevoli , della intera collettività. Offrire una via d’uscita , la possibilità di un concreto cambiamento
è al tempo stesso un atto di amore e una gesto
lungimirante : lo spirito di riconciliazione è quasi
sempre destinato a produrre , nel tempo necessario , frutti positivi , rispettando pienamente il senso e la domanda di giustizia.
Febbraio
2009
8
Don Dario Vitali*
Tema difficile quello dei laici, che rischia enfatizzazioni a non finire per l’evidenza che ha conosciuto al Vaticano II, senza per questo sfuggire dalla tentazione di ripetere schemi di pensiero che
nascondono un rapporto asimmetrico con il ministero ordinato.
La posizione di superiorità della gerarchia inculcata per secoli, la concezione piramidale della Chiesa,
dove i laici occupano sempre l’ultimo posto, è dura
a scomparire, essendo diventata, di fatto, u riflesso condizionato nella mentalità più profonda del
popolo cristiano.
D’altronde, se per secoli si è definito il fedele laico in negativo, per esclusione, in ragione di
quello che non è, il passaggio a una descrizione
positiva presenta dei problemi, quasi mancasse
uno strumentario concettuale e linguistico adeguato.
Al rischio non è sfuggito nemmeno il concilio. Quando infatti descrive la natura e la missione dei laici, LG 31 afferma che «con il nome di
laici si intendono qui tutti i fedeli eccetto (praeter)
i membri dell’ordine sacro e dello stato religioso
riconosciuto nella Chiesa, i fedeli cioè che, dopo
essere stati incorporati a Cristo con il battesimo
ed essere stati costituiti Popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi della funzione sacerdotale,
profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il Popolo cristiano».
Molti Padri avevano chiesto una descrizione
più ampia, che prendesse in considerazione l’indole secolare, ma la sottocommissione ribadì il testo,
per evitare discussioni di scuola circa lo statuto
dei membri di istituti religiosi o secolari che non
fossero chierici. In altre parole, la sottocommissione
proponeva una descrizione tipologica più che ontologica, scegliendo di indicare la ragione più generica e positiva della condizione propria dei fedeli, vale a dire il battesimo e la conseguente partecipazione ai tria munera – sacerdotale, profetico e regale – di Cristo.
Sicuramente il testo poteva essere meglio armonizzato con il cap. II sul Popolo di Dio, dove si affermava la condizione di dignità e di libertà dei figli
di Dio (cfr LG 9): in quel contesto, infatti, si descriveva la condizione dell’uomo rigenerato in Cristo,
qui una funzione: quella di compiere, «nella loro
misura, la missione propria di tutto il popolo cristiano».
Come a dire che tale missione della Chiesa,
compiuta da tutti e da ciascuno dei battezzati secondo la propria vocazione e il proprio stato di vita,
trova una forma originale di attuazione anche nei
fedeli laici.
Il testo apre in certo qual modo la strada a
una considerazione della condizione laicale come
«stato di vita», in analogia a quanto si dice dello
stato clericale e di quello religioso, dai quali si distingue e con i quali entra in un rapporto di complementarietà. Il secondo capoverso spiega poi la natura della condizione/missione dei laici: «è propria
e peculiare dei laici l’indole secolare». Con questo è indicato il campo primo e fondamentale dell’azione dei laici cristiani: il mondo. Non la
Chiesa, dunque, come tante – troppe – volte si è
insistito nel post-concilio, offrendo ai laici uno spazio e domandando loro un impegno diretto dentro la Chiesa, inversamente proporzionale alla diminuzione dei ministri ordinati.
Uno spazio di supplenza, di rincalzo, con il
rischio della clericalizzazione dei laici. Per quanto il testo non sfugga al contrappunto con gli altri
stati di vita, quasi che l’impegno dei laici nel mondo dipendesse dal fatto che chierici e religiosi hanno lasciato libero il campo, perché i primi devono
dedicarsi al ministero e i secondi alla vita di perfezione, tuttavia il compito di presenza e di azione dei laici nel mondo è ben configurato. «Infatti
– spiega il testo – i membri dell’ordine sacro, sebbene possano dedicarsi talvolta ad attività secolari, anche esercitando una professione secolare,
tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al ministero sacro,
mentre i religiosi con il loro stato danno la luminosa e magnifica testimonianza che il mondo non
può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo
spirito delle beatitudini».
Come si riconosce una specifica vocazione
ai ministri ordinati, uno stato proprio ai religiosi,
così si parla – finalmente! – di vocazione propria
dei laici: «Appartiene ai laici, per vocazione loro
propria, cercare il Regno di Dio trattando e ordinando le cose temporali secondo Dio».
Il rischio, come facevano notare alcuni Padri
conciliari, era di ripartire troppo schematicamente delle funzioni e dei campi di azione a seconda
delle diverse vocazioni; Per contro, la sottocommissione ha strenuamente difeso questa formulazione, nella convinzione che in questo modo i
laici venivano veramente riconosciuti come sog-
getti attivi e responsabili nella vita della Chiesa.
Cosa poi significhi trattare e ordinare le cose temporali secondo Dio, il testo lo spiega immediatamente: i laici «vivono nel secolo, cioè in tutti e singoli i doveri e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui
la loro esistenza è come intessuta.
Ivi sono chiamati da Dio a contribuire come
un fermento alla santificazione del mondo quasi
dall’interno, adempiendo i compiti loro propri guidati da spirito evangelico e così, luminosi per fede,
speranza e carità, manifestare Cristo agli altri prima di tutto con la testimonianza della propria vita».
Si tratta davvero di una missione, fondata sulla vita un Cristo (come dimostra il richiamo a fede,
speranza e carità, principi della vita teologale) che
abilita ogni cristiano a una testimonianza del Vangelo
fatta nelle e delle cose ordinarie della vita.
È dentro i vari ambienti in cui si svolge la vita
che i credenti sono chiamati a essere fermento di
vita nuova; e sono chiamati ad esserlo non attraverso azioni straordinarie, ma attraverso la straordinarietà della vita ordinaria.
Prima di ogni altra azione che dipenda dalle
competenze e dalle responsabilità che i cristiani
rivestono nel mondo, conta la testimonianza di vita:
è questo il primo modo di contribuire alla santificazione del mondo.
Ma l’uomo è un tutt’uno: non può esistere spirito evangelico che ispiri la testimonianza cristiana e non plasmi al contempo ogni aspetto della
vita, nei diversi momenti e situazioni dell’esistenza.
Il testo non sviluppa ulteriormente le implicazioni
di questa testimonianza, chiarendo magari come
essa renda presente il Regno di Dio nel mondo,
o, correlativamente, come porti il mondo a Dio.
Ma si avverte il dischiudersi di tutto un orizzonte incredibile, dove i laici sono chiamati a essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio
e dell’unità del genere umano» (LG 1), in cammino
verso il Regno.
«A loro spetta in modo particolare di illuminare e ordinare tutte le realtà temporali, alle quali essi sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano in lode del Creatore e Redentore».
*Teologo e Dir del CDFP
Febbraio
2009
“Esprimo preoccupazione per l’aumento di forme di lavoro precario, e faccio appello affinché le condizioni lavorative siano sempre dignitose per tutti”. Questo è stato l’auspicio che il Santo
Padre ha rivolto a tutti gli uomini durante l’Angelus
pronunciato in occasione della Festa della Santa
Famiglia di Nazaret. “Le parole di Benedetto XVI
sono un invito per il Movimento Lavoratori di Azione
Cattolica a continuare la strada intrapresa già da
alcuni anni nell’analisi delle dinamiche sociali e nella tutela di tutte le fasce dei lavoratori anche quelle culturalmente più deboli”. Ha detto Cristiano Nervegna,
segretario nazionale del Movimento. “Ci aspetta
un 2009 – ha sottolineato il segretario del MLAC
- pieno d’incognite, determinate dagli effetti della
crisi economica internazionale, le cui conseguenze,
in termini di riduzione delle commesse alle imprese e conseguente diminuzione dei posti di lavoro, si iniziano a sentire anche in Italia”. Per questi motivi le parole del Santo Padre sono più che
mai attuali e servono da stimolo per non abbassare la guardia perché in questa fase accade sempre più spesso che le persone si trovano a lavorare in contesti caratterizzati da forti elementi di
flessibilità che sino ad ora hanno avvantaggiato
soprattutto le imprese. “Per affrontare senza troppi danni la crisi servono - secondo il segretario del
MLAC - nuovi percorsi di solidarietà, attuati anche
SIR Italia di mercoledì 28 gennaio 2009
Num.6 (1711)
Storie di giovani e futuro
Mlac: tre progetti per vincere
lo scoraggiamento
“I cento passi”, “Happy hour del lavoro” e
“Frequenza lavoro - sintonizzati per il giusto lavoro” sono i titoli dei tre progetti che hanno vinto l’edizione 2009 del concorso di idee “Lavoro e pastorale” promosso dall’Azione Cattolica attraverso il
Movimento lavoratori (Mlac) e il settore giovani,
ottenendo ciascuno una somma pari a tremila euro.
“La scelta è stata molto difficile - ha detto Cristiano
Nervegna, segretario nazionale del Mlac, al momento della premiazione dei vincitori avvenuta il 25
gennaio a Roma - perché ogni progetto è stato
organizzato con molta cura. L’auspicio, al di là di
quelli finanziati è che tutti possano essere realizzati”.
Franco Miano, presidente nazionale di Ac, ha messo in evidenza che il tratto unificante di tutti i progetti è stata la creatività e il dinamismo. Il SIR ha
chiesto ai tre vincitori di presentare i loro progetti e ha raccolto anche la storia del vincitore della
scorsa edizione, scoprendo che i progetti non hanno necessariamente un inizio e una fine ma possono continuare a vivere grazie alla creazione di
reti sul territorio.
Educare alla legalità. “I Cento Passi”, racconta
Carmine Vasciaveo, animatore senior del progetto
Policoro della diocesi di Cerignola-Ascoli Satriano,
è un progetto “nato dopo un corso promosso dall’associazione Libera” e “dato che nella città di Cerignola
c’è una presenza di microcriminalità da non sottovalutare, abbiamo pensato di organizzare una
iniziativa che contribuisca a diffondere la cultura
9
attraverso una flessibilità governata e sostenibile, accompagnata da politiche per il lavoro a medio
e lungo termine che possano contare su solidi strumenti di welfare. Inoltre, per rendere i lavoratori
più attrezzati ad affrontare i terremoti dell’economia mondiale si rende necessario programmare
e realizzare strategie di formazione professionale, sempre più in regime di bilateralità tra aziende e lavoratori”. Il MLAC si è fatto parte attiva presentando al Ministero del Welfare un documento
contenente delle proposte relativamente alla consultazione pubblica sul “Libro Verde sul futuro del
modello sociale”. Alla luce degli eventi più recenti l’Azione Cattolica italiana si sta impegnando per
dare l’opportunità ai giovani che entrano nel mondo del lavoro a trovare degli spazi dove esprimere le loro speranze e maturare le loro scelte alla
luce del Vangelo. E’ in questa direzione che vanno i venticinque progetti che il MLAC ha ricevuto
per il concorso legato alla “progettazione sociale” e che saranno presentati a Roma presso la Domus
Pacis, in occasione della “Terza giornata della
Progettazione Sociale” il 24 e 25 gennaio prossimi. Detti progetti sono un passo importante, cui
deve seguire il sostegno dell’AC, soprattutto verso chi sembra aver perduto molte certezze e magari guarda con distacco anche i segnali positivi.
a cura di Costantino Coros
della legalità”. In concreto l’idea si articolerà in alcuni cineforum sul tema della legalità che saranno
realizzati nei tre centri sociali e nelle scuole superiori della città. Ci sarà poi un evento conclusivo
organizzato presso una struttura confiscata alla
mafia.
provare a mettere insieme attraverso la radio chi
si occupa di temi del lavoro, informando la gente su bandi, leggi, novità, auto imprenditorialità e
molto altro”. Le puntate, della durata di 30 minuti ciascuna, inizieranno a marzo e finiranno a giugno, per un totale di 16 trasmissioni.
Parlare nei pub. Mirella Amaturo è un animatrice di comunità del progetto Policoro della Diocesi
di Cerreto Sannita - Telese - Sant’Agata de’ Goti
in provincia di Benevento e spiega che il progetto realizzato insieme al settore giovani e a tutta
l’Ac della diocesi e al quale hanno dato nome di
“Happy hour del lavoro” si propone di incontrare
e di ascoltare i giovani sul tema del lavoro nei loro
luoghi di ritrovo. “Andremo nei pub, nei caffè letterari - spiega Amaturo - e attraverso l’organizzazione
di apertivi solidali, che consisteranno nell’offrire
prodotti tipici del luogo, parleremo di lavoro, informandoli sui servizi esistenti per la ricerca di un
impiego, oppure spiegando loro come si compila un curriculum, ovviamente - prosegue l’animatrice
- ci saranno anche degli esperti, come operatori
dei centri per l’impiego”. Ma non finisce qui, nelle intenzioni dei promotori le serate saranno allietate da concerti di gruppi musicali emergenti a patto che affrontino il tema del lavoro. Ogni evento
sarà annunciato anche attraverso Facebook.
Lavoro e radio. “Frequenza lavoro-sintonizzati per
il giusto lavoro” è titolo del progetto realizzato dal
Mlac e dal progetto Policoro della diocesi di Potenza.
“L’idea - spiega Raffaella De Nicola, del Mlac è nata dal fatto che, osservando la realtà, ci siamo resi conto che oltre al problema della mancanza di lavoro c’è un forte sentimento di scoraggiamento. Quindi, ecco l’intuizione, perché non
I progetti hanno un futuro. “Io ci sarò” è il bando che ha vinto la passata edizione del concorso di idee “Lavoro e pastorale”. Oggi, il progetto
non è finito, anzi grazie al successo ottenuto si
replicherà. “La nostra idea consisteva nel fare animazione presso gli istituti di formazione professionale a ragazzi con storie difficili alle spalle, come
tossicodipenza o agli arresti
domiciliari”. Racconta Antonio Petraroli, incaricato del Mlac Puglia e segretario nella diocesi di
Brindisi-Ostuni. “I ragazzi che abbiamo incontrato si sentivano già adulti a 14-15 anni, in realtà
avevano bisogno di un aiuto per crescere. La chiave di volta per rompere il ghiaccio è stato il gioco e il divertimento. Superato questo ostacolo si
è creato un buon rapporto e abbiamo fatto il campo estivo insieme”. Dopo l’estate, i giovani di Ac
hanno avuto una piacevole sorpresa, il direttore
del centro di formazione professionale Enaip di
Brindisi, si è rivolto di nuovo a loro, perché i ragazzi del centro volevano ripetere l’esperienza,
aggiungendo che si sarebbe dato da fare per trovare nuovi finanziamenti. In tutto ciò si è aggregato anche il presidente regionale delle Acli. “Durante
la nostra esperienza - dice Petraroli - ci hanno accompagnato un assistente sociale e un sacerdote. I
ragazzi, pur non parlando di religione hanno iniziato a farsi degli interrogativi su Dio”.
a cura di Costantino Coros
Febbraio
2009
10
L’INTERVENTO D I
MONS. B REGANTINI
AL C ONVEGNO
DIOCESANO
Stanislao Fioramonti
Il convegno diocesano annuale della diocesi di VelletriSegni si è aperto, il pomeriggio di venerdì 23 gennaio, con l’intervento di mons. Giancarlo Maria Bregantini,
già vescovo di Locri-Gerace in Calabria ed attuale arcivescovo di Campobasso-Boiano, in Basilicata.
Un uomo del Sud, mons. Bregantini, perché anche
se è nato in provincia di Trento il 28 settembre 1948,
ha trascorso buona parte del suo ministero sacerdotale ed episcopale in Calabria: infatti, dopo lo
studentato a Verona e l’Università Gregoriana di
Roma (dove si è “licenziato” in Storia della Chiesa),
è stato ordinato sacerdote a Crotone nel 1978 e
vi è rimasto fino al 1987; è quindi passato nell’arcidiocesi di Bari-Bitonto, in Puglia, prima di essere eletto vescovo di Locri-Gerace nel 1994.
Appartenente alla Congregazione dei Padri
Stimmatini, fondata a Verona nel 1816 da san Gaspare
Bertoni, cresciuto quindi con la devozione particolare
alle Stimmate e alla Passione di Gesù propria della sua famiglia religiosa, padre Giancarlo ha fatto come sacerdote una molteplicità di esperienze
(professore in seminario, insegnante di religione
nelle scuole statali, delegato diocesano per la Pastorale
del Lavoro, cappellano del carcere e dell’ospedale...) che - ha rivelato durante il suo intervento- gli hanno permesso di stare accanto alla
gente e di conoscerne a fondo problemi e ricchezze.
Nel fare una sintesi delle
sue parole, bisogna dire
come premessa necessaria
che riferire quanto lui dice
fa “perdere” molto dell’ interesse che invece si prova
nell’ascoltarlo, un
interesse legato alla sua figura mite, al suo passato di contraddittore pacifico della malavita calabrese e al suo ruolo – che riveste dal maggio 2000
– di Presidente della Commissione CEI per i Problemi
Sociali e del Lavoro, Giustizia e Pace e Salvaguardia
del Creato. L’intervento di mons. Bregantini è stato strettamente aderente al tema di fondo del Convegno
Diocesano, che era quello della Tradizione e Trasmissione
della Fede. E’ iniziato con un paragone: comunicare la fede è come usare, in un discorso, molti
aggettivi e meno verbi oppure, in una casa, come
colorare i muri con tanti colori. Poi, richiamando
la sua esperienza sia della Locride che della Lucania,
ha ricordato che “pecorai si nasce, pastori si diventa” e che è diverso trasmettere col cuore dell’uno
o dell’altro; il pastore si preoccupa di cosa trasmettere,
di come trasmettere la forza del Vangelo, perché
è preso dal cuore di Paolo che, dice san Giovani
Crisostomo, è il cuore di Dio. Ricordando poi le
parole-chiave della Chiesa in questo decennio
(“Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”),
padre Giancarlo ha ribadito che il Vangelo va comunicato, annunciato con la vita; e ricordando che si
era alla vigilia della festa di S. Francesco di Sales,
Patrono dei giornalisti e comunicatore della fede
in un ambiente ostile (calvinista), tanto da non poter
mai occupare la sua sede episcopale di Ginevra,
ha aggiunto che lo stile con cui si deve trasmettere la fede è quello del cuore, proprio come diceva S. Francesco di Sales: “Cor ad cor loquitur”.
Per lui la tradizione è trasmettere vitalmente quanto uno ha vissuto, è spandere il dono ricevuto come
un profumo: bisogna solo aprire il contenitore, poi
la fragranza si sparge da sé; proprio come Maria,
piena di grazia, la cui grazia trabocca come una
brocca alla fonte trabocca d’acqua; Maria è l’icona di chi riversa una fede debordante, tanto da incarnare Cristo; proprio come una cisterna nel deserto è la speranza dell’acqua che salva.
Mons. Bregantini non vuole dare indicazioni sulle modalità di trasmissione della fede, ma sullo stile di essa, e per chiarire il suo pensiero prende
in prestito cinque immagini, che hanno molto di
autobiografico in quanto riguardano alcuni momenti della sua esperienza pastorale.
La prima
Il Convegno pastorale:
occasione per
riflettere sul modo
di essere comunità
Mons. Luigi Vari*
Nei giorni 23-25 gennaio si è celebrato il convegno della diocesi di Velletri-Segni sul tema
della Tradizione. I tre giorni sono stati particolarmente intensi, a cominciare dal primo,
quando mons. Giancarlo Bregantini, invitato ad intervenire sul tema della trasmissione della fede, ha immediatamente creato il
clima che si auspicavano gli organizzatori.
Nel lavoro preparatorio le parrocchie erano
state invitate a riflettere sulla loro esperienza nella trasmissione della fede; fra le altre
domande ve ne era una che invitava a riflettere sul modo di essere comunità.
Si chiedeva se la fede in Cristo risorto fosse percepibile nella vita delle parrocchie, se
essa si traduceva in stili particolari, se produceva scelte precise.
Proprio sullo stile dell’evangelizzazione il relatore ha dato un forte contributo, mostrando
come la scelta dello stile non è assolutamente
formale, ma la conseguenza del modo di essere e di sentire.
Una parola può sintetizzare la proposta del
primo giorno del convegno ed è creatività.
Realmente il passaggio dalle analisi alle proposte risulterà un utile cammino di evangelizzazione.
La mattina del Sabato è stata dedicata proprio a percorrere la strada delle proposte.
Ai convegnisti era stato chiesto di non fermarsi troppo sulla situazione delle loro parrocchie di provenienza quanto di indicare le
scelte fatte, le iniziative proposte, con l’intento di aiutare il Vescovo a raccogliere tutti i suggerimenti per proporre delle scelte comuni diocesane per l’impegno della trasmissione
della fede.
Si è compreso
bene che fare un
cammino comune non equivale
a fare tutti le
stesse cose;
ma a cercare
di fare comunione, essa
proprio è il
primo modo
dell’avangelizzazione.
Pensare
insieme,
esplorare
Febbraio
2009
sentieri insieme è molto di più che ricercare
una sorta di uniformità, appare invece come
un’azione entusiasmante e coinvolgente.
I convegnisti, divisi in gruppi hanno suggerito
dal punto di vista della Catechesi di sviluppare
una maggiore attenzione ai destinatari, di
dare spazio maggiore alla testimonianza.
È stato suggerito uno stile più accogliente. Si è notato come uno degli ostacoli alla
trasmissione della fede è quello della delusione che nasce da cammini intrapresi e
non compiuti,da cose lasciate a metà.
Soprattutto è stato sottolineato il desiderio
di uscire da logiche di contrapposizione.
La cura delle relazioni, della formazione e
soprattutto della preghiera sono i suggerimenti che sintetizzano le proposte che riguardano l’impegno della trasmissione della fede
nelle nostre comunità.
La liturgia delle nostre parrocchie deve esprimere queste scelte e questi orientamenti.
Per quanto riguarda la Carità si è osservato che la Carità è lo stile della comunità cristiana.
Anche qui alcune proposte sono risuonate spesso, quali quella di non giudicare, di
essere attenti ad incoraggiare e di fidarsi
di più delle persone.
La carità trasmette la fede con la vita quotidiana, essa non è riducibile ad una attività della Parrocchia , ma è opera di evangelizzazione, è un linguaggio che trasmette
la fede.
Anche qui si è insistito molto sulla preghiera.
Molti altri sono stati gli interventi e molte
sono state anche le testimonianze che si
sono riallacciate alle parole del Vescovo
Bregantini.
La domenica i convegnisti si sono raccolti per un pomeriggio segnato dalla riflessione
sull’apostolo Paolo, il maestro dell’evangelizzazione.
Alle ore 16,00 uno spettacolo di una compagnia teatrale ha dato a tutti la possibilità di incontrarsi con la figura dell’apostolo
delle genti, sigillando le riflessioni sulla trasmissione della fede con la dimensione che
è necessaria per la realizzazione di questo compito: la santità.
La celebrazione eucaristica proprio nel giorno della Conversione di san Paolo, ha concluso un incontro di tre giorni nei quali molti si sono sentiti confortati, incoraggiati e soprattutto non soli nel compito che rende entusiasmante la vita dei cristiani, quello di essere coinvolti nel Vangelo, annunciandolo e
diventando essi stessi per la società una
buona notizia.
*vicario ep.le per la pastorale
immagine è quella di una preghiera che usava recitare da giovane chierico, “Jesu dulcis memoria”;
ebbene, non si può annunciare Gesù se prima non
l’hai gustato, se non ne hai sperimentato l’aiuto
che sa dare nelle amarezze e nelle stanchezze
della vita. E come riferimento biblico cita il
Vangelo di Giovanni (3,27-30), l’immagine dell’amico dello sposo che esulta alla voce dello sposo, la necessità che la Parola (Cristo) sia collegata alla nostra opera, al bisogno che in chi trasmette la fede coesistano allo stesso modo qualità e umiltà, pienezza e dolcezza. La seconda immagine è quella dei preti operai, dell’ambiente di lavoro: tra i lavoratori Gesù
è già arrivato, ma il prete che lavora con
essi lo deve scoprire: come parlare di Cristo
in quell’ambiente? Qual’è il sogno degli operai? A quei sogni devono corrispondere segni
coerenti, uno stile che, specie nei momenti di crisi come quello attuale, deve essere di sobrietà e di povertà, per dimostrare
condivisione e vicinanza. Dio ci precede sempre e noi non dobbiamo mai anticiparlo, ma
seguirlo. La terza immagine è quella della vita comunitaria (che padre Giancarlo ha
scelto come religioso Stimmatino): la sua
forza sta nell’armonia delle iniziative proposte, nel riunire la tipicità di ognuno in una
unica forza. E siccome non c’è progresso senza
perdono, educare al perdono è esigente ma evangelico; dice di aver imparato negli ambienti difficili dove è vissuto (dove non mancarono omicidi,
violenze e vendette) che bisogna agire tenendo
presenti cinque “passi”: riflettere sulle cose vissute;
pregare molto davanti alla croce; proporre una buona confessione; utilizzare l’intermediazione comunitaria; diventare ministro di riconciliazione, trasformare
le stimmate in feritoie di grazia. La quarta immagine è quella della passione e calore del sud, dove
il nostro vescovo vive da 35 anni; in quella terra,
dice, non c’è via di mezzo, niente colori grigi, ma
sempre una tinta precisa, bianco o nero. Non si
può restare al di sopra delle parti; occorre schierarsi, dire con chi stai, per sentire con lui. Occorre
predisposizione, che non è tattica, ma attesa di
una voce di un popolo: in questo senso sono fondamentali le donne, per quello che sanno dire con
il cuore. Allora il canto più bello diventa il
Magnificat. La quinta immagine è l’Eucaristia: l’Eucaristia
è la risposta più alta al momento più basso dell’umanità, Cristo che nella notte in cui veniva tradito (è stata qui ricordata la catechesi della tradizione tenuta da Benedetto XVI a Colonia) dona
sé stesso per chi lo tradiva; non c’è evangelizzazione senza Eucaristia, è la conclusione di padre
Giancarlo, il quale richiama qui l’episodio degli Atti
(cap. 8) dell’Eunuco accompagnato al battesimo
dal diacono Filippo, episodio che è stato scelto come
riferimento scritturale dallo stesso nostro Convegno
Diocesano. In quell’episodio l’attore protagonista,
dice mons. Bregantini, è lo Spirito Santo: l’eunuco è lontano, rassegnato, quasi come i discepoli
11
di Emmaus; Filippo invece è spinto dall’angelo a
parlare nel deserto, cioè in una situazione difficile, ostile, a correre avanti al carro, dove correre
significa amare. Filippo chiede all’eunuco se capsce quello che legge, glielo spiega, i due dialogano,
l’uno chiede all’altro che gli apra la strada alla parola di Gesù; e Filippo, cioè il catechista, spiega un
Cristo che è gioia, ricevuta dall’eunuco col battesimo e con la ripresa fiduciosa del cammino. In
definitiva trasmettere la fede è mettere Cristo nelle persone che si incontrano, sedendo accanto a
loro; è annunciare con forza, denunciare con coraggio e rinunciare con coerenza. Altri spunti di interesse sono poi venuti dalle risposte del vescovo
alle domande dell’assemblea. Piuttosto sinteticamente ricorderemo soprattutto il consiglio per affrontare la vita sociale e civile: in politica, nel lavoro,
contro la malavita, ha detto Bregantini, i cristiani
non devono essere né succubi né contrapposti, devono essere alternativi (come i Magi, di fronte al dilemma della stella e di Erode). La proposta è difficile, ma tanto più valida quanto più è sviluppata insieme a tutta una comunità; in questa logica l’avversario (il politico, il mafioso...) ti obbliga ad essere
coerente. Deve tornare di moda la povertà, e anche
il nostro cattolicesimo deve scegliere tra il “meno
male” e il “purtroppo”; come affermava Rosmini,
quanto più la Chiesa è povera, tanto più è libera
e solo così può dare prova della fede che propone. Altro imput: per annunciare e trasmettere, in
un ambiente difficile come quello del Sud ma anche
in qualsiasi altro ambiente, occorre essere presenti;
esserci è la prima evangelizzazione: stando vicini alle persone, condividendo le loro esperienze,
si può proporre loro anche le cose più eroiche. Ultimo
spunto: Anche in rapporto al conflitto fede-ragione, non più vincere ma convincere, non più imporre ma proporre, non più giudicare ma analizzare. La
libertà è
un mezzo,
la verità
il fine da
raggiungere.
Febbraio
2009
12
“Alzati
e va’ ...
sulla strada” (At 8,5-4
40)
Trasmissione della Fede e
servizio della carità
Il convegno ecclesiale di gennaio ha previsto
nella mattinata di sabato 24 un momento di
incontro tra i partecipanti divisi per ambiti
di impegno che realizzano nelle parrocchie.
Uno dei due ambiti è stato quello del <servizio della Carità>. Ad esso hanno partecipato tutti coloro che si impegnano nella caritas parrocchiale della nostra Diocesi e nelle altre forme di volontariato (circa 45 persone). A questo gruppo di lavoro si sono aggiunti i responsabili della pastorale sociale e del
lavoro. Ci è sembrato utili riportare in questa pagina l’introduzione, preparata dall’equipe della Caritas diocesana, e alcune riflessioni emerse nel lavoro della mattinata.
Il testo biblico che ha fatto da sfondo all’incontro è il racconto dell’evangelizzazione operata dal diacono Filippo riportato nel libro
degli Atti degli Apostoli.
1. Atti 8, 5ss: lettura e qualche riflessione.
Abbiamo a che fare con Filippo che è un personaggio minore (vedete non stiamo parlando
di Paolo o Pietro, ecc) e come spesso accade questi personaggi svolgono un ruolo determinante nella trasmissione della fede, dunque siamo in buona compagnia!!
Si va oltre Gerusalemme, siamo in Samaria:
c’è una comunità matura alle spalle di Filippo.
Questa è la premessa all’azione di Filippo.
Questo è un racconto esemplificativo per la
crescita dell’evangelizzazione, noi lo guardiamo con attenzione, ci specchiamo in esso
perché ci sono passaggi, stili, scelte, modalità che ci fanno pensare e ci illuminano nel
trasmettere oggi il Vangelo.
Abbiamo a che fare con due quadri:
I quadro vv 5-25 direzione nord verso, verso i samaritani;
II quadro vv 26-40 direzione sud verso Gaza
poi di nuovo a nord (Cesarea). Nord-Sud-Nord.
Questo è un personaggio divertente e commovente.
In questi due quadri ci sono due situazioni
pastorali diverse e distinte, ma complementari:
I quadro: il Vangelo entra in città; II quadro: il Vangelo nella persona. Quando si ha
a che fare con la città non ci si deve dimenticare della persona e al contrario quando si
ha a che fare con la singola persona non ci
si deve dimenticare della città. Altra cosa da
fissare è la gioia che fa da cornice a questi
quadri (Atti 8, 8.39), fa da collante al tutto.
I QUADRO vv 5-25: ci fu grande gioia in
quella città. La presenza di Filippo ha provocato la comparsa in pubblico di una situazione di marginalità (disagio, sofferenza, disabilità, violenza, ecc) che la città degli uomini tende a coprire ad emarginare, a far sembrare tutto normale, tende ad abituarsi al tutto, fino ad arrivare a forme di disordine istituzionalizzato. Nella città di Caino tutto funziona bene (più o meno): servizi ad hoc, tecnologia, ecc e organizzandosi a tal punto che
si arriva ad istituzionalizzare il non-riconoscere il fratello. Tutto ciò che è <malato> deve
stare distante e molto meglio se ci sono i professionisti: non è compito mio…pago e qualcuno fa il servizio!! L’altro non lo incontro.
Filippo incontra la città degli uomini: a questo punto il Vangelo provoca l’epifania, la
manifestazione dei disagi, le ingiustizie represse, nascoste, indemoniate. La città dei dolori diventa la città della gioia (libro del noto
giornalista su Calcutta). E questa non è una
gioia effimera, superficiale, banale ecc no qui
tutti i dolori sono illuminati
perché sono accolti nel mistero di Dio (che
è un mistero di Amore) in riferimento alla
novità del Figlio (Pasqua).
v. 9: la città è il luogo della magia, della meraviglia, dell’imbroglio. È tutto ciò che attira,
cattura interessi, fa spostare la gente (e i capitali!!), essa si regge su una organizzazione
di poteri: il, culto del potere (non il servizio).
Simone dentro questa città è il mago che si
dà da fare, è un manager promette soluzioni magiche e tutti in qualche modo si aspettano questo, è il potere da adorare per garantirsi la salute, la pace, la prosperità, la vita
…ma quando mai?; ma dove si è mai visto?
Ma queste luci sono sempre attraenti è una
tentazione continua.
In città arriva Filippo (cioè il Vangelo) e si
presenta come colui che
è capace di accogliere il dolore nella gratuità dell’amore. Il
mago Simone si converte: lui che aveva fatto il master sotto
Caino e poi nessuno
gli aveva più raccontato cose diverse, certo non immaginava che
ci fosse la gratuità, non
gli sfiorava nemmeno
lontanamente l’idea
di una vicinanza al male,
al dolore, alla sofferenza
dettata dalla gratuità
e dalla carità.
v. 13: Filippo sparisce
(come il profeta Elia
nell’AT), se ne va’.
v. 14: arrivano Pietro
e Giovanni: si muove
la Chiesa. Filippo ha
fatto il suo servizio e
INSEGNAMENTO DELLA
RELIGIONE CATTOLICA A
SCUOLA E TRASMISSIONE
DELLA FEDE
Michele Siconolfi IRC
L’insegnamento della religione cattolica (I.R.C.)
in Italia si presenta come un’esperienza di “frontiera” sia per gli operatori (insegnanti, scuola, organizzatori), sia per gli utenti (alunni, famiglie).
La particolarità di questa esperienza (la frontiera) è data dal fatto che una realtà confessionale, come la religione cattolica, è ospitata in una
istituzione statale, come la scuola pubblica.
Al di là degli aspetti normativi come l’intesa del
1985, tra la Santa Sede e lo Stato italiano, che
seguiva il nuovo Concordato del 1984, è importante chiarire, in maniera univoca, le dinamiche
che intercorrono tra questi due mondi, distinti e
autonomi: la fede e la cultura. La ‘fede’ scaturisce da una libera scelta, da un incontro tra Persone,
dalla risposta personale ad una proposta divina
ed è finalizzata alla salvezza personale e comunitaria. Essa, appunto come ‘scelta’, è trasmessa da i genitori ed educatori e si fonda sull’esempio
di una proposta di vita reale. La ‘cultura’ viene
imposta per il solo fatto che si nasce in un ambiente o in un altro.
La lingua parlata, le usanze, le tradizioni, alcuni
valori non sono scelti liberamente, ma trasmessi dalla famiglia, dalla società, dalla scuola.
L’I.R.C, come proposta culturale, è presente quindi nella scuola, giustificata dal fatto che << La Repubblica
italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popo-
13
Febbraio
2009
lo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado.>>; dunque il cattolicesimo fa parte integrante del patrimonio culturale italiano ed è
legittimo il suo insegnamento nelle scuole. La
differenza tra gli I.R.C. e la trasmissione della fede (catechesi), quindi, non è sul piano dei
contenuti confessionali, perfettamente uguali nei due ambiti, ma sul piano delle finalità:
per l’I.R.C. la finalità è la conoscenza, l’approfondimento culturale, la presa di coscienza da parte dell’alunno di una appartenenza
sociale e storica. Per la catechesi la finalità
è la fede, autonomamente scelta, proiettata
alla salvezza propria e comunitaria. I contenuti dell’I.R.C. e della catechesi sono, come
abbiamo detto, identici e quindi i libri di testo
devono ricevere l’imprimatur di una curia vescovile, gli insegnanti devono avere l’idoneità
dell’Ordinario e l’esistenza di questa disciplina dipende da un regime patrizio tra lo Stato
italiano e la Santa Sede. Solo nel rispetto delle finalità proprie di una disciplina scolastica,
l’insegnante di Religione viene accettato come
professionista, rispettato come esperto, ammirato come testimone. Ogni contaminazione tra
i due piani, nella scuola, non giova né alla presunta trasmissione della fede, né alla serietà della disciplina scolastica. Gli alunni devono avere la percezione chiara che la scuola
è il luogo della ‘conoscenza’, dell’approfondimento culturale; la parrocchia è il luogo dell’approfondimento della fede. Infine, sempre
per la chiarezza delle dinamiche tra I.R.C. e
trasmissione della fede, nulla impedisce che
un corretto ed efficace insegnamento della Religione
Cattolica a scuola, nel
rispetto delle finalità
proprie, possa rappresentare per gli alunni una
buona base per un cammino personale di fede,
un seme gettato nel
terreno delle loro conoscenze riflesse che, alimentato dalla testimonianza di vita dell’insegnante, dalla sua preparazione e onestà culturale, possa germogliare in un assenso di
fede, matura e consapevole.
Questa è la intima speranza di ogni docente di
Religione Cattolica, nel
suo quotidiano lavoro di
‘frontiera’.
poi è sparito, ora arrivano in due. Confermano
l’opera di Filippo al servizio del Vangelo e del
Signore Gesù per ritornare alla pienezza di vita.
L’incontro tra la città e il Vangelo è sempre ambiguo, è rischioso perché c’è il rischio di assuefarsi, di innaffiare la novità del Vangelo alle
logiche strutturali della città di Caino e questo accade nei seguenti.
vv 18-19: è la città che si è strutturata nella
logica del mercato, si vende tutto anche la vita
umana e questo lo fa anche Simone che ha imparato ad attrezzarsi, anche finanziariamente, per
trarne profitto, e di questo lui né è convinto:
Ma gli dice male perché dall’altra parte sono
convinti anche Pietro e Giovanni: il dono di
Dio non si compra e non si vende!! Il Vangelo
ci fa rendere conto di quale tipo di città è la
nostra , alla fine Simone si arrende. Tutto si
fa anche per una sola persona, una sola persona basta per il Vangelo.
II QUADRO vv 26-40: che cosa ci sta a fare
Filippo a mezzogiorno in una strada deserta?
(questo è un aspetto un pò comico!) A Filippo
non gli viene detto:<senti vai sulla strada li ci
sono dei cristiani e dovete dire Messa!!).
Filippo è un uomo sta sulla strada, e per questo ogni viandante è un interlocutore che Filippo
deve prendere in considerazione anche se non
lo conosce, anche se non si sa se è più o meno
interessato, non sa chi è, che storia porta con
sé , che cosa pensa se è un bambino, un uomo
o una donna, se è il vicino di casa. Nella città le persone non si conoscono. Arriva il carro e passa veloce: quel carro è un fulmine, fa
polvere e non si accorge della presenza di Filippo.
L’etiope ha i suoi pensieri, legge, fa le sue cose
e poi Filippo è a piedi (anche questa è una scena un po’ comica), ma lui corre e lo riprende.
Ma come avrà fatto a fargli rendere conto della sua presenza? Comunque lo
raggiunge e intuisce che quell’uomo sta leggendo il profeta Isaia e gli dice: <ma tu capisci quello che leggi?>.
Quante cose si fanno nella comunità ecclesiale
(attività, incontri, rifiuti, momenti di stanchezza,
ascolti e dialoghi lunghi, accompagnamenti, denaro, pacchi, ecc) per raggiungere una persona,
perché il Vangelo della vita e della liberazione arrivi ad incontrare la vita di una sola persona. L’aggancio è avvenuto. (Vedete è il primo passo è la strada: questo credo che sia un
compito specifico della Caritas….).
Il II passo è il momento in cui Filippo sale sul
carro: è il tempo della parola ( quanto dura?
chissa!!).
v. 35: Filippo gli evangelizzò Gesù: partendo
da quel passo gli racconta la storia della salvezza.
Il III passo dell’evangelizzazione è il sacramento, occorre l’acqua. Questa storia ci ha fatto incontrare un itinerario pastorale applicato
ad una persona (una sola!!). Il Vangelo arriva
ad altri attraverso la vita di Filippo.
v. 39: il Signore rapì Filippo (come Elia). È
un piccolo Filippo, piccolo gruppetto di persone, un piccolo prete, un povero cristiano…ma
pieno di gioia, va a Nord (Cesarea) di perso-
na in persona, di città in città. Qui dentro c’è
anche la nostra storia, la nostra vita di cristiani
capaci di convertirci per portare il Vangelo in
città e ad una persona.
2. Il servizio della Carità fa e può fare molto perché il vangelo incontri la persona ed
entri nelle nostre città. Qui c’è la nostra testimonianza e il nostro stile di vita cristiana personale e comunitario.
Ci sembra di poter dire, guardando la vita della nostra Chiesa, che la carità ancora faccia fatica a stare al centro della sua vita. Spesso appare ancora un settore periferico, <delegato> ad
alcuni (e non in tutte le parrocchie ci sono).
Uno dei passi più urgenti per la crescita di fede
delle persone e per una matura testimonianza
della fede è quello di riportare il servizio della carità dalla periferia al centro (es. luoghi,
persone, energie, ecc), da un fatto che interessa
quei cinque o sei ad un impegno fondamentale che riguarda tutti anche se con responsabilità diverse. Il passaggio è vitale per la vita
di fede: senza la vita di Carità (qui non stiamo parlando solo del gruppo Caritas) non si
può essere cristiani, non c’è la Chiesa.
**Qual è l’immagine di Chiesa che viene fuori dalla vita delle nostre parrocchie e diocesi
(proviamo ad individuare tre elementi di non
testimonianza e tre di testimonianza e di ricchezza che ci sono nelle nostre comunità);
**l’esperienza ecclesiale (e del servizio della
Carità) che hai fatto fino ad ora ti ha fatto crescere nella fede? Facendo questo servizio come
pensi di aiutare altri a conoscere Gesù Cristo?
Prova a raccontare un’esperienza personale o
comunitaria.
**per incontrare l’altro occorre saper fare un
bel tratto di strada (cfr. Filippo sul carro) per
arrivare a qualche <risultato>: quali sono le fatiche che vengono fuori? Colui che incontro certamente è diverso da me/noi: per la sua storia, il suo vissuto, ecc come ci rapportiamo con
questa diversità? So vedere in lui/lei anche un
fratello in cui Dio già è all’opera?
3. Uno dei segni della maturità di fede della comunità è il far venire fuori i disagi, le marginalità, le sofferenze, ecc ad un primo sguardo sembra che le povertà non ci siano (spesso si sente dire : “qui da noi questo problema
non c’è! E tutto procede bene”). La nostra comunità sa cogliere le situazioni problematiche? Come
ci si rapporta? Chi lo fa? Come viene percepito il povero? C’è coinvolgimento verso di lui?
Tutto per una sola persona tutto si fa per uno
solo. Il Vangelo passa attraverso le persone.
4. Conclusione: fate massimo quattro proposte concrete per aiutare le nostre comunità
ad essere più credibili nel trasmettere la fede
vivendo la Carità.
a cura dell’equipe
Caritas
diocesana
Febbraio
2009
14
CONVEGNO
Rilettura d i u n e vento
Don Dario Vitali*
Sono in molti ad interrogarsi se abbia ancora
senso un convegno diocesano. Più di qualcuno, a margine dei lavori, commentava. “Siamo
sempre gli stessi”; “si ripetono da anni le stesse cose”. Se si accompagna questo sentimento diffuso con l’inflazione di convegni, congres-
si, incontri che affligge la Chiesa, un po’ a tutti
i livelli, con il rischio di affogare la vita ecclesiale
in un fiume di parole, pare giunto il tempo di riflettere sul senso e la validità di questi eventi, o almeno sulla modalità della loro celebrazione. Ma la
riflessione non può consistere in un giudizio sommario sulla moda dei convegni nella Chiesa. Se
un convegno rimanda al “convenire”, e come tale
viene vissuto, può configurarsi come un atto ecclesiale di grande portata: dipende da chi lo fa e
dalle intenzioni che lo spingono a organizzarlo. Ora, si dà il caso che il convegno sulla trasmissione della fede, celebrato il 23-25 gennaio
u.s. sia manifestazione della Chiesa di VelletriSegni: povera magari, ma sempre una Chiesa
che, per camminare nella storia, si interroga su
come testimoniare il Vangelo. Si tratta di un evento che, prima ancora dei temi trattati, delle modalità di organizzazione e di quant’altro va a strutturare un convegno, dice la nostra identità e misura la nostra coscienza di Chiesa. Certo, sembra una Chiesa un po’ ferma: la galleria dei volti che sfilano al convegno è, da molti anni, la stessa. Né basta, a parziale giustificazione, il fatto
che gli incontri fossero riservati ai delegati delle parrocchie, in particolare ai membri dei Consigli
pastorali. La ripetizione è un nemico sottile, che
svuota di significato anche gli eventi più significativi. Dopo anni e anni di convegni, il rischio
è quello di
u n a
celebrazione fine
a se stessa, vissuta – o forse subita – dagli addetti ai lavori, che tendono a muoversi per inerzia,
ricalcando all’infinito lo stesso cliché: qualche
voce critica ha notato che il tema era già stato
trattato in altri convegni, e che alcuni partecipanti hanno ripetuto un’altra volta le stesse cose
di sempre. Se poi il contributo si riduce al racconto dell’esperienza, peraltro ormai cristallizzata negli anni, ben pochi frutti ci si dovrebbe
attendere dall’evento in questione. L’esito non
può che essere un clima di stanchezza, di disillusione, di fretta: meglio tornare alle cose di sempre, ai veri problemi da affrontare e risolvere.
Questa potrebbe essere una scelta coraggiosa, se non fosse palmare che il convegno non
ha sottratto tempo ed energie a realtà vive e profetiche: a trascinarsi stancamente non è stato
il convegno, è la Chiesa. Sembra, questo, un
clima diffuso, che tocca un po’ tutto e tutti e che
assume forme e registri molteplici nei diversi contesti in cui la Chiesa vive: quasi si fosse in riserva o, come si usa dire oggi, in stand-by. O, detto altrimenti, come se la Chiesa avesse in gran
parte smarrito la capacità di sognare, di immaginare il futuro. Davvero non sembra questo il
tempo vagheggiato da Gioele: «I vostri figli e le
vostre figlie avranno visioni, i vostri vecchi faranno sogni» (Gl 4,1-4). Le parole degli esperti poi,
se si limitano all’analisi senza almeno suggerire aperture, possibilità, sfide, aumentano il senso di impotenza e di disarmo, spingendo ciascuno
a rinchiudersi nel proprio orticello. Ma proprio
questa lettura, spazzando l’esperienza che abbiamo vissuto da ogni fronzolo, lascia emergere alcuni elementi di grande interesse da cui ripartire.
Anzitutto, l’ASCOLTO: il primo giorno la Chiesa
di Velletri-Segni ha fatto esperienza della parola dolce e tagliente di un testimone della fede.
Si potrà obiettare che si era in pochi, che si poteva renderlo un momento di maggior risonanza
e partecipazione; ma al Teatro Aurora c’erano
Prime conclusioni:
Trasmissione della Fede
e servizio della Carità
1.
Premessa:
il clima che
si è respirato
nel gruppo
di lavoro è stato buono, costruttivo, non
ci si è soffermati sugli aspetti di divisione, alle contrapposizioni, a gettare responsabilità ad altri, ma nei partecipanti si è avvertito un senso maturo di appartenenza alla
Chiesa, di fare un servizio per conto e a
nome di una comunità (e ci sembra di notare che è cresciuto in questi ultimi anni, ricordando ad es. tante discussioni di convegni
precedenti). C’è stata una buona capacità
di ascolto.
2. Entrando nel tema.
Una convinzione ha attraversato i diversi
interventi: la Chiesa trasmette la fede in
Gesù Cristo quando è capace di stare vicino alla persone che sono nel dolore, nella sofferenza, nella malattia, nella fragilità. Questo vicinanza permette di fare le proposte di vita cristiana. E fa questo senza
giudicare (è una parola che è risuonata molto: dice un atteggiamento no del tutto presente nella nostra vita, nel nostro impegno
da cui ci si vuole liberare ma dice anche
tutte le fragilità e le povertà presenti nella comunità e nei componenti di essa ) e
lo fa nella gratuità (è uno atteggiamento
che richiama lo stile di Gesù e dei suoi disce-
15
Febbraio
2009
poli nei Vangeli, per tirarlo fuori ci vuole coraggio e fiducia negli altri). Un’altra
caratteristica che è stata richiamata per la
vita personale e comunitaria è quella dell’umiltà. Il problema di fondo è di educare ad uno stile di vita.
Molte persone che fanno l’esperienza del
volontariato hanno sottolineato una cosa
molto bella e edificante: il servizio al prossimo rafforza la fede, la rende più matura, più consapevole, permette di coglierne tutta la sua originalità e freschezza. È
il linguaggio dei fatti, di gesti concreti: così
parla la carità. Solo una comunità armonica sarà capace di far maturare questi testimoni: qui dobbiamo mettere tante energie, dare il tempo, occorre preoccuparsi
delle divisioni, delle rivalità, delle tante
autorefenzialità. Non preoccupati dei
numeri, del successo di quello che si fa,
delle svariate attività, ma prima di tutto
avere a cuore l’armonia tra i membri, l’unità dell’intenzioni, la capacità di cogliere con sapienza i fatti della vita cioè di leggerli alla luce della presenza di Dio. Alcuni
convegnisti hanno detto che qui c’è uno
dei compiti che il presbitero non può delegare ad altri: quello di stimolare la comunità intera all’unità anche nella vita
pastorale.
Questa unità è la condizione della corresponsabilità.
L’unità passa attraverso la preghiera: al parroco è richiesto di favorire momenti di spiritualità per tutti e non solo per gruppi particolari, come si fa spesso oggi (gruppo
dei catechisti, movimenti, a.c.r., ecc).
Questo è uno dei cambi di rotta che sono
stati richiesti. A livello di pastorale diocesana ci si è trovati concordi nel favorire un lavoro di più concreta sintonia tra i
diversi
uffici
pastorali.
L’equipe
Caritas
diocesana
quanti erano stati convocati: per cui quell’incontro
e tutto il convegno è stato un evento di Chiesa,
nella quale lo Spirito di Cristo era presente ed
efficace. Come digitarlo, d’altronde, di fronte alla
parola dimessa eppure forte, dolce eppure grave di mons. Brigantini, che ha permesso il ripetersi della dinamica biblica dell’ascolto? I passaggi attraverso cui ci ha condotto: l’invito a maturare uno stile di annuncio attraverso la testimonianza,
la sollecitazione a calarsi nella storia degli uomini incarnando il Vangelo attraverso la vicinanza e la condivisione, nella povertà e nella libertà, la sfida del perdono che
egli stesso ha vissuto nella
difficile situazione di Locri, sono
stati un itinerario di conversione rivolto non tanto e non
solo ai singoli, quanto a una
Chiesa convocata per ascoltare ciò che lo Spirito le voleva dire (cfr Ap 2,7 e passim).
Ma qual è stata la RISPOSTA
al messaggio di mons.
Bregantini? Di fronte a questo testimone l’assemblea, posta
nella possibilità di confrontarsi con un messaggio
forte, è apparsa impacciata, esitante, senza domande che non fossero di pura curiosità, o legate
alle situazioni contingenti dei singoli e delle comunità, quasi frenata a interrogare un testimone d’eccezione, che poteva indicare strade alternative,
e che di fatto le ha indicate a partire dalla sua
esperienza. Di che cosa è segno questo atteggiamento piuttosto passivo? Le letture possono essere diverse, ma certamente la disparità
tra proposta e risposta è stato evidente.
Soprattutto, era evidente l’estemporaneità del
dialogo, che lasciava emergere la frammentarietà dell’uditorio, forse impreparato a un impatto così forte e a un messaggio così alto. Né si
trattava che qualcuno facesse qualche doman-
da più acuta e interessante: di persone che potessero rivolgere domande intelligenti al teatro Aurora
ce n’erano a iosa. È mancata invece l’espressione di una identità ecclesiale: mons. Brigantini
parlava a una Chiesa chiamata a interrogarsi come
trasmettere la fede, e la Chiesa non c’era; o meglio,
chi c’era sembrava non avere coscienza di essere Chiesa – la Chiesa di Dio che è in VelletriSegni – ma esprimeva una presenza personale o di gruppo che faceva dell’assemblea la somma di realtà diverse, presenti in quel luogo a titolo più personale che in ragione di una precisa
identità ecclesiale.
La medesima impressione
di COSCIENZA ECCLESIALE debole si è avvertita nei gruppi di studio.
Nel gruppo in cui mi trovavo il confronto è stato bello e vivace, alcune delle idee espresse
veramente interessanti,
a dimostrazione che
esistono in diocesi realtà capaci di sperimentare e di proporre percorsi di evangelizzazione
e formazione cristiana di tutto rispetto. Ma quanti partecipavano al dialogo non componevano i
pezzi di una realtà “una”, ma si confrontavano
a partire dalla propria realtà, distinta dalle altre,
affermando se non difendendo la bontà dell’esperienza propria o della comunità di appartenenza a fronte di altre esperienze, esse pure degne
di ascolto e di attenzione.Ma il convegno il suo
piccolo miracolo l’ha fatto: mettere tante persone
a parlare con educazione e rispetto delle diversità, senza irrigidimenti e paure, consapevoli che
solo attraverso la conoscenza reciproca si ricevono i doni degli altri e si donano i propri, arricchendosi dei primi senza perdere i propri! È solo
un balbettamento, o un vagito di discorso ecclesiale. Ma è nella direzione del convenire, motivato dalla docilità allo Spirito
e dall’apertura all’altro, che si potranno scoprire le tante forme di trasmissione
della fede attuate nella nostra diocesi, ma anche maturare uno stile
di Chiesa, fatto di quella comunione fraterna che costituisce la forma
più alta di testimonianza cristiana.
Crescere in questo stile, che alimenta
la nostra identità e coscienza di Chiesa
significa più capacità di ascolto, più
capacità di risposta, più capacità di
comunione. Significa essere la
Chiesa di Velletri-Segni che è in Dio
Padre e nel Signore Gesù Cristo quanto è riunita a convegno e quando è
impegnata nei diversi luoghi della sua
presenza e del suo servizio.
*Teologo e Dir del CDFP
D
Febbraio
2009
16
...Oltre al Convegno
Il Convegno Diocesano
è stato preceduto da due giorni di aggiornamento per il clero
sullo stesso tema della trasmissione della fede.
Riuniti presso il Centro S. Maria
dell’Acero, sacerdoti e diaconi hanno ascoltato i contributi assai interessanti del prof. Dotolo docente di teologia fondamentale
presso la Pontificia Università
Urbaniana, e del prog. Tonelli
anch’egli docente presso la
Pontificia Università Salesiana.
Prima della conclusione dei
giorni del Convegno, in m olti tra
i delegati, ma non solo, hanno
assistito ad un misical del
Gruppo Jobel sulla figura di Paolo
di Tarso, messo in scena presso il Teatro diocesano “Aurora”.
Come si è detto sopra il
Convegno si è poi concluso in
cattedrale con una solenne e partecipata concelebrazione presieduta
dal vescovo, con la quale si è
dato inizio anche all’Anno Paolino
diocesano.
A questo proposito Mons.
Vincenzo Apicella ha consegnato
ai rappresentanti delle comunità parrocchiali un “mattoncino”
in marmo scolpito che ricorda il
bimillenario della nascita
dell’Apostolo Paolo, una frase dei
scuoi scritti e la memoria che ne
fa la diocesi. Una consegna simbolica che vuole essere anche
un invito a mantenere vivo il desiderio di una conoscenza più profonda della teologia paolina per
una maggiorte adesione a Cristo.
Nella sua omelia mons. vescovo ha ricordato come nello
stesso giorno cadeva anche l’anniversario dell’annuncio dell’apertura
del Concilio Vaticano II da parte di Papa Giovanni XXIII,
auspicando per ogni fedele e per
la comunità diocesana tutta
l’accoglienza piena e matura le
istanze che in quella assise sono
emerse per una Chiesa evangelizzante sull’esempio del suo
Fondatore.
Foto in altro
a dx:
- aggiornamento del clero;
- due momenti del musical su
Paolo di Tarso;
- in basso il momento della consegna del “mattoncino commemorativo”
a sx: il mattoncino
17
Febbraio
2009
Don Gianni Castignoli*
Le preoccupazioni degli studiosi, in campo pedagogico, oggi sono sempre più protese a dare
sicurezze ai genitori che devono riempire i vuoti creati nell’ambito familiare. A questo riguardo si arriva a pensare che un quadro di contenuti teorici e iniziative pratiche, potrebbero
compensare alcune carenze e allagare gli orizzonti per un progetto educativo.
In questo ambito, si inventano nuovi ruoli, si
impiantano nuove strategie e dinamismi ma…
ahimè, nulla di tutto questo può colmare certi vuoti pedagogici e affettivi. Il progetto della
natura umana ha previsto un equilibrio intrinseco e profondo che richiede figure precise,
percorsi obbligati, metodi pertinenti e appropriati ad ogni persona.
Don Orione col suo grande cuore di padre e
con discernimento profetico imposta il grande
progetto della sua opera lavorando tenacemente
nel campo giovanile. Alla fine dell’ottocento i
tempi erano diversi, ma il mondo dei giovani
era la categoria più abbandonata e in balia di
forze corrotte.
La via della carità che ha scelto di percorrere per dare un risvolto costruttivo alla società, lo avvicina a tanti ragazzi e giovani che cercano un punto di riferimento e un cuore che li
ami davvero.
Con grande passione trova in sé tutte le energie per esprimere e avviare quel metodo cristiano
paterno che guiderà sempre la sua opera “ Questo
è il nostro spirito, o miei cari figli in Gesù Cristo!
Con ogni pia e santa e fraterna industria, dobbiamo avvicinare il cuore dei giovani e farci come
ragazzi con essi e, raccomandandoci a Dio, prendere in mano, con grande riverenza, l’anima dei
giovanetti a noi affidati, come farebbe un buon
fratello maggiore con i fratelli più piccoli…
Avviciniamo i giovani come piccoli fratelli nostri,
unendo al dolce, alla mitezza e bontà anche quel
contegno dignitoso -ma non abitualmente severo- che valga a conciliarci la loro benevolenza.
In tutto facciamo loro comprendere che vogliamo il loro verace bene, e che li vogliamo morali, cristiani, educati, civili e formati tali da essere di onore a sé, alla famiglia, alla loro città e
alla Patria; - giovani educati, onesti, laboriosi e
professionalmente capaci di essere un giorno
bravi operai, capaci di farsi largo nel mondo, perché sapranno guadagnarsi onorevolmente la vita
e potranno aiutare le loro famiglie. (L I 240)
Il progetto di don Orione non è sostenuto da tante parole o desideri ma nasce direttamente da
quella grande ispirazione che sostiene la sua
vita: la paternità di un Dio che nutre tenerezza
verso le sue creature, specie verso quelle più
piccole e indifese.
L’oratorio, un ambiente di forte aggregazione,
diventa una fucina dove lui può lavorare, con
pazienza e professionalità evangelica, il cuore
di tanti piccoli. Il suo obiettivo è sempre quello di organizzare ambienti familiari nei quali si
possa comunicare e condividere la gioia dei ragazzi ma anche per aiutarli a crescere e a formarsi ad un forte progetto di vita nel quale sono contemplati quei valori e quegli ideali che danno vero
orizzonte al loro futuro. Di fronte ai vuoti familiari, don Orione si prende cura dei problemi, delle difficoltà che affliggono la vita dei giovani e
lascia ad ognuno segni di grande tenerezza e
paternità.
Anche oggi i ragazzi sono sempre più soli e “orfani” di fronte ad una mancanza dei genitori a volte forzata, altre volte giustificabile da numerosi pretesti o motivi.
La figura del padre e della madre concepite da
sempre nell’unità per essere educative e illuminanti,
fanno sempre più parte
di un piano
che li esige
autonomi, indipendenti. Tra
le mura domestiche si fa
sentire tra i
coniugi la
carenza di
progettualità
e di affiatamento di fronte alle difficoltà
e ai momen-
ti critici della vita. I
ragazzi più che l’umanità delle persone che
li fa sentire al centro di
un mondo affettivo, hanno tutto ciò che serve e
che gratifica la loro persona. Possiedono molti mezzi ma poca formazione. Il contesto
educativo si aggrava
quando, tra le persone,
s’innesca una certa
strategia della tensione
che ha effetti devastanti sulla personalità
fragile dei ragazzi.
Penso che sia giunto il
tempo nel quale alcune
persone responsabili
nel campo civile ed
ecclesiale, siano chiamate ad un ruolo profetico più incisivo e
determinante.
Don Orione sarebbe in
prima linea ! Non si
darebbe pace di fronte
a certi problemi!
Chiederebbe anzitutto ai
suoi figli di costituire comunità più fraterne per
aiutare le famiglie a vivere la comunione ed essere “ambienti educativi e formativi”. Potenzierebbe,
con ogni mezzo, gli oratori e altri ambienti capaci di accogliere e formare il cuore e la vita dei
ragazzi .
Darebbe forte incentivo alla pastorale giovanile pensando che “i giovani sono sempre di chi
li illumina e li ama davvero”.
* Maestro, Noviziato Don Orione Velletri
Febbraio
2009
18
A
nche questa è una delle quattro lettere dalla prigionia. Dove era prigioniero
san Paolo, e quindi a quali anni può
risalire il suo scritto?
Gli Atti degli Apostoli, come sappiamo, ricordano almeno tre prigionie di Paolo: a Filippi, una
sola notte, nel corso del secondo viaggio (4950); a Cesarea Marittima, per due anni (58-60);
e infine a Roma, nell’attesa del giudizio imperiale, nel 61-63. Non si può escludere che oltre
a queste Paolo abbia subito altre prigionie; san
Clemente parla di sette prigionie; gli studiosi tendono ad ammettere anche una cattività ad Efeso.
Tutte queste città, ad eccezione di Filippi, possono essere state il luogo di origine delle quattro lettere. Anticamente si credeva di più a Roma,
ultimamente si pensa molto ad Efeso.
Probabilmente il concetto di lettere della prigionia
fa riferimento più ad una condizione dell’apostolo,
che a un luogo preciso da dove abbia scritto.
La lettere agli Efesini è molto affine a quella ai
Colossesi, ed anche qui lo stato d’animo dello
scrittore appare preoccupato; oltre a questi aspetti stilistici, esistono anche affinità di contenuti.
Un problema delle lettere della prigionia è quello del’autenticità; problema sollevato nel XVIII
secolo e molto vivo fino all’inizio del XX. Oggi
la lettera ai Colossesi è da tutti ritenuta paolina, mentre si discute ancora su quella agli Efesini.
Il cap. 1 si apre con un inno che espone il
piano divino della salvezza e la predestinazione degli eletti mediante l’azione dello Spirito
Santo. Vuoi darcene il valore teologico?
L’inno che apre la lettera è uno dei brani più complessi e stilisticamente “complicati” della letteratura paolina. Lo stile è quello di una benedizione, un tipo di preghiera che nasce dalla constatazione di ciò che Dio ha fatto nei confronti
di chi si sente benedetto. Ci sono tanti temi che
rendono complessa la lettura di questo brano.
Per citarne qualcuno, c’è il tema dell’elezione
prima della creazione del mondo, che richiama
un secondo tema, quello della predestinazione;
un tema importante è quello della redenzione,
che è già compiuta per ognuno, ed è un dono
della ricchezza della misericordia di Dio; c’è il
tema della pienezza dei tempi e infine quello che
più di ogni altro fa discutere, il tema del mistero, la storia vista come un disegno di Dio che
si realizza nel tempo.
Nel cap. 2 si affronta il tema della grazia che
salva e della gratuità della salvezza in Cristo mediante la
fede, che non viene dalle opere ma è dono di Dio. San Paolo
è un “luterano”?
Lutero ha sottolineato molto che
la salvezza, la giustificazione di
un cristiano, è un dono di Dio
e che pertanto un uomo vi può
accedere mediante la fede. In
verità le lettere più utilizzate da
Lutero
per sostenere queste sue
tesi sono
quelle ai
Romani e
ai Galati.
Un cattolico non
sostiene niente di diverso, e certamente non vi
è diversità nell’interpretazione di questo brano,
nel quale la vita del cristiano è pensata come
una risposta alla condizione di persona salvata, condizione creata in lui da Dio per mezzo di
Gesù Cristo. In ogni caso è noto che tra cattolici e protestanti è stato firmato tempo fa un documento sulla giustificazione, nel quale si fa giustizia di tutti gli equivoci e malintesi del passato.
Paolo dice che noi siamo già salvi per dono di
Dio e non tanto per le nostre opere, e di conseguenza dobbiamo comportarci come persone salvate, abbandonando ogni inimicizia e divisione. Il cristiano è l’uomo nuovo che deve vivere secondo questa novità. Tutto ciò è molto confortante perché il cristiano compie delle opere
anche notevoli non per sua forza, ma esercitando
la sua natura di nuova creatura.
Nel cap. 3 Paolo si dichiara “prigioniero di
Cristo per voi Gentili”, dice che il ministero a lui affidato è un ministero della grazia
di Dio, e che il mistero cui accennava prima
gli è stato fatto conoscere per rivelazione.
Per questo gli è stato concesso di predicare il vangelo ai Gentili. Cosa vuol dire esattamente l’Apostolo? E cosa vuol dire anche
nella preghiera di 3,14 ss.?
Uno dei motivi di maggiore difficoltà dell’apostolato
di Paolo era quello di far accettare il passaggio
del popolo di Israele nel nuovo popolo che è la
Chiesa. San Paolo dice – ed è questo il mistero – che il disegno nascosto nei secoli, il senso stesso della storia, è proprio questo nuovo
popolo, è proprio la Chiesa. Ed egli attribuisce
questa sua consapevolezza non ad un suo ragionamento, ma ad una rivelazione. Si comprende così come egli si senta spinto a predicare a
tutti, senza distinzione di popolo, nazione, religione o razza.
Nella preghiera Paolo ringrazia Dio e chiede che
tra gli Efesini si prenda coscienza di questo grande disegno di amore, che trascende ogni conoscenza.
I capitoli 4-5 sono una parenesi: a che cosa
vuole esortare Paolo facendo appello all’unità, e come descrive la vita nuova in Cristo?
La parenesi è un’esortazione morale che inizia
(cap. 4) proprio richiamando gli Efesini a quello che sono e a quello che sono chiamati a realizzare; quindi l’apostolo li invita a scoprire il dono
che ognuno di loro ha per far crescere la comunità, anzi l’universo intero, verso Cristo. Converrà
ricordare che nell’inno tutta l’azione di Dio era
espressa con la famosa frase: “ricapitolare tutto in Cristo”. Ciò significa che Cristo deve diventare il capo di tutta la creazione, il senso di tutte le cose create. Paolo dunque spiega (dal v.
4,17) che cosa significa avere Cristo come capo,
e dà delle regole precise ai cristiani.
In 5,22 parla di morale domestica. L’apostolo
era davvero così misogino come da alcuni
è stato bollato?
Il brano del capitolo 5 sulla relazione tra coniugi è un buon esempio di come la Bibbia debba
essere letta con sapienza ed intelligenza.
Paolo ripete le norme del diritto romano sul matrimonio; dice cioè che il matrimonio è regolato in
ef 4, 25-32
25Perciò,
bando alla menzogna: dite ciascuno
la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri.
26Nell`ira, non peccate; non tramonti il sole sopra
la vostra ira, 27 e non date occasione al diavolo.
28 Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si
dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. 29 Nessuna parola cattiva esca più dalla
vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che
possano servire per la necessaria edificazione,
giovando a quelli che ascoltano. 30 E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione.
31 Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira,
clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. 32 Siate invece benevoli gli uni verso gli
altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda
come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
questa maniera. Egli però, dopo aver ricordato
la legge vigente, si mette a parlare del matrimonio
di due cristiani, ponendo come punto di riferimento non più il diritto romano, ma la relazione fra Cristo e la Chiesa, dove non c’è più sottomissione ma dono fino all’estremo e desiderio della “bellezza” e santità dell’altro/a. Inoltre
San Paolo pone una unità tra l’uomo e la donna, dicendo che è la stessa unità che si stabilisce tra Cristo e la Chiesa. Ogni forma di sudditanza, di arbitrio, di violenza, che poteva essere immaginata in un legame fondato sul diritto,
non troverà più giustificazione se il rapporto è
vissuto fra due cristiani veri. Accade che uno dei
brani più rivoluzionari di Paolo venga distorto ad
uso di schemi culturali discutibili.
Rivestitevi dell’armatura di Dio, egli dice (6,11
ss): da quali parti è composta?
La risposta nel testo originale
ef 6,11-17
7 Rivestitevi dell`armatura di Dio, per poter resi-
stere alle insidie del diavolo. 12 La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà,
contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. 13 Prendete perciò l`armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. 14 State dunque ben fermi,
cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, 15 e avendo come calzatura
ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. 16 Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; 17 prendete anche l`elmo
della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la
parola di Dio.
19
Febbraio
2009
A
Stanislao Fioramonti
bbiamo visto nella puntata precedente i
motivi del viaggio di Saulo a Damasco,
su mandato del sommo sacerdote di
Gerusalemme, verso l’anno 35 o 36 dopo
Cristo: doveva compiere un’operazione
di polizia, arrestando e conducendo con sé in Giudea
“uomini e donne (ebrei), seguaci della dottrina di
Cristo, che avesse trovati” (At 9,2). Damasco, antica città degli Aramei e moderna capitale della Siria,
con quasi 2 milioni di abitanti (6,5 con l’area metropolitana), è a 250 chilometri circa a nord di Gerusalemme,
una distanza che duemila anni fa si copriva in circa otto giorni di cammino.
Al tempo di Paolo ospitava una grossa colonia ebrea,
con quartiere a parte e leggi e magistrati ebrei; per
questo i sommi sacerdoti di Gerusalemme avevano autrità civile e religiosa sui conazionali.
Damasco, dove si erano rifugiati anche molti
dei primi cristiani perseguitati (v At 8,1), politicamente era soggetta ad Areta IV Filometore
(9 a.C. - 40 d.C.), re dell’Arabia Nabatea, che
dal 34 o 37 d.C. controllava tutto il territorio desertico da Petra alla città. La folgorazione di Paolo presso la città e la sua conversione a Cristo avvenne due o tre anni prima della morte del re Areta, avvenuta nel
40: è Paolo stesso ad accennarlo (v. 2Cor
11,32). E gli Atti degli Apostoli, scritti da San
Luca, raccontano per ben tre volte quell’episodio (9, 3-9; 22, 6,16; 26, 12-18), segno
della sua fondamentale importanza per la vita
della Chiesa nascente, oltre che dell’apostolo.
Il quale a sua volta spesso nelle Lettere (1Cor
9,1 e 15,8; Gal 1,12-16; Fil 3,7) ricorda il misterioso incontro con Gesù. Mettendo insieme
i dati forniti da queste fonti possiamo capire meglio che cosa avvenne quel giorno dalle parole stesse del protagonista. “Mentre ero
in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, con
autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi all’improvviso sulla strada una gran luce, più splendente del sole, (che) rifulse attorno a me e
avvolse me e i miei compagni di viaggio.
Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una
voce che mi diceva in ebraico: ‘Saulo, Saulo,
perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo’. E io dissi: ‘Chi sei,
Signore?’. E il Signore rispose: ‘Io sono Gesù
il Nazareno, che tu perseguiti’. Quelli che erano con me si erano fermati ammutoliti, (perché) videro la luce ma non udirono colui che mi parlava. “Io
dissi allora: ‘Che devo fare, Signore?’. E il Signore
mi disse: ‘Su, alzati e rimettiti in piedi, prosegui verso Damasco ed entra nella città; lì sarai informato di tutto ciò che è stato stabilito che tu faccia. Ti
sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per
cui ti apparirò ancora.
Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino
dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio
e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in
mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede
in me”.Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi,
non vedeva nulla: “E poiché non ci vedevo più, a
causa del fulgore di quella luce, guidato per mano
dai miei compagni, giunsi a Damasco”. Ospitato nella casa di un certo Giuda, che abitava sulla via Diritta
(la più importante della città), Saulo restò tre gior-
ni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda. Ora, proseguono gli Atti, c’era a Damasco un
discepolo di nome Anania, “un devoto osservante
della Legge e in buona reputazione presso tutti i
Giudei colà residenti, e il Signore in una visione gli
disse: ‘Và sulla strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso;
ecco sta pregando e ha visto in visione un uomo,
di nome Anania, venire a imporgli le mani perché
recuperi la vista’. Rispose Anania: ‘Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che
ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha
l’autorizzazione dei sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome’. Ma il Signore
disse: ‘Và, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re
e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà
soffrire per il mio nome’. Allora Anania andò, entrò
nella casa, gli impose le mani e disse: ‘Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che
ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu
riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo’.
E improvvisamente gli caddero dagli occhi come
delle squame e recuperò la vista”. Anania soggiunse:
‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere
la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare
una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai
testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che
hai visto e udito. E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando
il suo nome”. Paolo fu subito battezzato, poi prese cibo e le forze gli ritornarono. Il luogo della folgorazione di Paolo è identificato dalla tradizione circa 500 passi fuori della porta orientale di Damasco,
nell’odierno quartiere Tabbaleh, dove una chiesa
moderna (inaugurata nel 2008) ha ristrutturato la
cappella costruita nel 1971 per volere di papa Paolo
VI. Dalla casa di Anania, nel cuore della città vecchia, è stata ricavata una chiesa cattolico-latina a
due piani dedicata al battesimo di San Paolo. Paolo
restò alcuni giorni con i discepoli di Damasco, iniziando subito a predicare nelle sinagoghe della città che Gesù è il Figlio di Dio, meravigliando non
poco i suoi ascoltatori che ricordavano quanto egli
avesse infierito contro i credenti di Gerusalemme
e come fosse venuto a Damasco proprio per catturarli e condurli di fronte ai sommi sacerdoti per
essere giudicati e puniti. Ma Saulo si rinfrancava
sempre di più e confondeva i Giudei Damasceni
dimostrando che Gesù è il Cristo. Così, dopo parecchi giorni, i Giudei ordirono un complotto per ucciderlo (il primo di una lunga serie di attentati subiti
da Paolo nei 20 anni del suo apostolato, n.d.R.).
Paolo lo venne a sapere ma gli era difficile fuggire perché, racconterà, il governatore del re Areta
aveva posto le guardie giorno e notte alle sette porte della città per catturarlo. Allora i suoi compagni,
nottetempo, lo calarono da una finestra giù dalle mura dentro una cesta, presso la
porta di Bab Kissa, e così poté salvarsi. Nella lettera ai Galati (1,152,14), tracciando un rapido racconto
della sua vita dopo la conversione,
Paolo dice che dopo quella fuga si
recò in Arabia per tre anni, e poi tornò
a Damasco “subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme
da coloro che erano apostoli prima di
me”. La tradizione vuole che l’”Arabia”
cui si riferisce l’apostolo sia una
regione desertica posta tra la capitale della Siria e quella dell’odierna Giordania
(Amman, l’antica Filadelfia); il luogo
dove egli si rifugiò è più precisamente
localizzato nel “Monte degli Arabi”, 50
chilometri a sud-est di Damasco: lì probabilmente trovò la quiete necessaria
per riflettere su quanto gli era successo e per approfondire la conoscenza
del messaggio di Gesù. Solo dopo il
ritorno a Damasco partì per
Gerusalemme “per consultare Cefa
(Pietro), con il quale restò per quindici giorni, e incontrando degli apostoli
solo Giacomo “il fratello del Signore”;
ma ero sconosciuto personalmente alle
Chiese della Giudea che sono in Cristo;
soltanto avevano sentito dire: Colui che
una volta ci perseguitava, ora va annunziando la fede che un tempo voleva distruggere.
E glorificavano Dio a causa mia”. Proseguono gli
Atti (9,26) che a Gerusalemme Paolo cercava di
unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui,
non credendo ancora che fosse un discepolo. Fu
Barnaba a toglierlo d’impaccio, presentandolo agli
apostoli e raccontando come avesse visto il
Signore e come coraggiosamente avesse predicato
la sua parola a Damasco. Così Paolo poté stare
con loro andando e venendo a Gerusalemme, parlando apertamente del Cristo e discutendo soprattutto con i Giudei di lingua greca (ellenisti), i quali però tentarono di ucciderlo. Allora i fratelli lo accompagnarono a Cesarea e lo fecero partire per Tarso, sua città natale
(“andai nelle regioni della Siria e della Cilicia”, scrive Paolo ai Galati). Qui
lo preleverà tre o quattro anni più
tardi ancora Barnaba, per condurlo con sé ad Antiochia di Siria a predicare per un anno intero; con Barnaba
poi Paolo inizierà i suoi grandi viaggi missionari che serviranno a portare il vangelo di Cristo in Europa.
Febbraio
2009
20
T
Stanislao Fioramonti
ICHICO: asiatico, cioè efesino, accompagnò Paolo nel 3° viaggio (At 20,4),
probabimente da Efeso alla Macedonia,
poi a Gerusalemme e forse anche a Roma.
Lavora al fianco di Onèsimo come corriere per le
chiese dell’Asia; scrive ad esempio Paolo agli Efesini
(6,21): “Di tutto vi informerà Tìchico, fratello carissimo e fedele ministro nel Signore. Ve lo mando
proprio allo scopo di farvi conoscere mie notizie e
per confortare i nostri cuori”. Ai Colossesi (4,7) invece dice: “Tutto quanto mi riguarda ve lo riferirà Tìchico,
il caro fratello e ministro fedele, mio compagno nel
servizio del Signore, che io mando a voi, perché
conosciate le nostre condizioni e perché rechi conforto ai vostri cuori”. Infine scrive a Timòteo: “Ho
inviato Tìchico ad Efeso” (2Tm 4,12). Dalla seconda lettera a Tito (3,12) risulta che Tìchico fu con
Paolo a Nicopoli, da dove partì in cerca di Tito: “Quando
ti avrò mandato Artema o Tìchico, cerca di venire
subito da me a Nicopoli, perché ho deciso di passare l’inverno colà”. La Chiesa ricorda san Tìchico
il 29 aprile.
San Paolo,
“Apostolo per vocazione”
Sr. Monastero di Clausura Velletri
Così dice la Sacra Scrittura: “Rendete a
Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”1,
per questo è giusto lodare e glorificare Dio per l’opera compiuta in San Paolo, che da giudeo osservante della legge, per la grazia di Dio, si trasforma in zelante apostolo del Signore Gesù Cristo. Dopo
la conversione l’Apostolo capisce il valore insostituibile della fede e il Signore Gesù diviene per lui
la ragione d’essere, anzi, certamente il motivo più
profondo di tutto il suo apostolato. Paolo manifesta
con la sua vita la centralità del Maestro; di questo
le sue lettere sono un specchio, che ci fa intravedere la radicalità della sua donazione generosa e
sono per noi un grande esempio
da imitare. Il Santo Padre Benedetto
XVI, parlando di San Paolo, dice
“che brilla come stella di prima grandezza nella storia della Chiesa, e
non solo di quella delle origini”. Dante
Alighieri nella “Divina Commedia” lo
definisce semplicemente “Vaso di elezione”(Inf. 2,28), che significa: strumento prescelto da Dio”.2 L’Apostolo
TROFIMO: Pagano convertito di Efeso, è accanto a Paolo negli ultimi anni di apostolato. Cn Tìchico
lo accompagna nel 3° viaggio, da Corinto alla Siria;
a Mileto si ammala, perciò non poté seguirlo fino
a Roma (v. 2Tm 4,20). Fu il pretesto per i Giudei
di Gerusalemme, che dissero di averlo visto con
Paolo in città e dedussero che l’apostolo lo avesse introdotto nel tempio, per l’assalto a Paolo e per
la sua cattura da parte dei soldati romani (At 21,29).
Morto nel II secolo, san Tròfimo è ricordato dalla
Chiesa il 29 dicembre.
ONESIFORO: discepolo originario dell’Asia, ha un
ruolo importante nella presunta prigionia ad Efeso
di Paolo, che scrive a Timoteo: “Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo, perché
egli mi ha più volte confortato e non si è vergognato
delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura finché non mi ha trovato. Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso Dio
in quel giorno. E quanti servizi egli ha reso in Efeso,
lo sai meglio di me” (2Tm 1, 16-18). Dunque anche
poco prima del martirio è accanto all’apostolo, che
nella stessa lettera manda saluti anche a Prisca e
Aquila e alla famiglia di Onesìforo (2Tm 4,19). Nella
letteratura apòcrifa egli diventa amico di Tito e mari-
stesso esprime questo cambiamento profondo, cioè
la sua conversione, quando nel suo messaggio si
autodefinisce esplicitamente come: “apostolo per vocazione..”3 e anche “apostolo per volontà di Dio”4, sottolineando che la sua conversione era frutto d’un intervento divino e non di pensieri o di riflessioni umane. Considera tutto come “perdita e spazzatura per
guadagnare Cristo”5, e anche desidera di farsi tutto a tutti6, e ancora di più mosso dallo Spirito Santo
dice: “l’amore di Dio ci spinge al pensiero che uno
è morto e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per
tutti, perché quelli che vivono non vivano più per
se stessi, ma per Colui che è morto e resuscitato
per loro”.7 San Paolo è un gigante nella fede, nella
carità e un ardente apostolo, ma ci ha anche lasciato una dottrina teologica straordinariamente profonda.
Nei suoi scritti definisce la Chiesa come “Corpo di
Cristo”. Il fatto di chiamare così la Chiesa é una specificazione del tutto originale; per questo il papa Benedetto
XVI afferma che non troviamo questa espressione
in altri autori cristiani del primo secolo.8Certamente
l’Apostolo fa riferimento al Sacramento del Corpo di
Cristo che è il fondamento di tutta la nostra vita spirituale: “poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un solo corpo..” .9 Inoltre ci fa riflettere
sulla terza Persona della Ssma. Trinità, “lo Spirito
Santo che abita in noi”10, per il quale gridiamo a Dio
“Abbà”, Padre. Infatti dice: “voi non avete ricevuto
uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma
to di Lectra, aprendo la sua casa alla comunità cristiana, fondando cioè una chiesa domestica. San
Onesìforo è ricordato il 6 settembre.Erano probabilmente efesini anche EPENETO, salutato da Paolo
come “mio caro” e “primizia dell’Asia per Cristo” (Rm
16,5); e TIRANNO, il rètore titolare della scuola in
cui Paolo discusse per tre anni ad Efeso, dopo tre
mesi di predicazione nella sinagoga: anche in quel
caso egli decise di distaccare sé stesso e i discepoli dagli ebrei increduli (At 19,9) e di rivolgersi ai
pagani. Alcuni asiatici delusero fortemente san Paolo,
distaccandosi da lui quando era prigioniero per la
seconda volta a Roma, al tempo della persecuzione
dei cristiani voluta dall’imperatore Nerone. Le lettere a Timoteo ricordano almeno quattro di questi
primi cristiani “apòstati”: FIGELO, ERMEGENE, IMENEO e ALESSANDRO. “Tu sai che quelli dell’Asia,
tra i quali Fìgelo ed Ermègene, mi hanno abbandonato” (2Tm 1,15). “Alcuni che l’hanno ripudiata
(la buona coscienza, n.d.R.) hanno fatto naufragio
nella fede; tra essi Imeneo e Alessandro, che
ho consegnato a satana perché imparino a non
più bestemmiare” (1Tm 1,20). La delusione prodotta da Alessandro dovette essere molto cocente per Paolo: “Alessandro, il ramaio, mi ha
procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guàrdatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione”
(2Tm 4,14). Non è possibile sapere se
questo Alessandro sia il giudeo che ad
Efeso, durante la rivolta degli orefici,
tentò nel teatro cittadino di tenere un
discorso di difesa di Paolo, ma fu zittito dalle urla dei dimostranti (At
19,33).
avete ricevuto uno Spirito di figli di Dio
adottivi.”11. Questo ci mostra la dignità alla quale siamo stati chiamati, dignità alla quale dobbiamo
corrispondere, dando frutti di santità, ad immagine
del “Figlio più bello dell’ uomo”, Nostro Signore Gesù
Cristo. 12 Quest’ anno il Santo Padre Benedetto
XVI ha voluto benedire in modo speciale un evento grande per la Chiesa, come è la celebrazione del
bimillenario dalla nascita dell’Apostolo, dando a questo anniversario una dimensione ecumenica, affinché sia richiamata in modo speciale l’unità dei cristiani. E’ vero che questa unità necessita dei nostri
sforzi e di molta comprensione, ma, ancora di più,
è infinitamente superiore alle forze umane: è un dono
di Dio. San Paolo ci esorta a pregare continuamente
e a confidare nella grazia di Dio. Lui stesso soffre
per i conflitti e le tensioni che non mancano fra le
comunità, sentendo così il dovere di aiutarle a camminare nell’unità e nella pace.In questo Anno Paolino
dobbiamo scoprire nella chiarezza e nella profondità del messaggio la carità e il fervore, per conoscere e amare di più Colui che è l’Autore della conversione dell’Apostolo dei gentili. Guidati da Maria
Ss.maa e dalla preghiera giungeremo a farlo.
1 Mc 12,17
4 2 Cor. 1,1
2 Udienza Grle. 25-10-06
5 Fil. 3,7-10
7 2 Cor. 5,14-15 81 Cor.12,27
10 1 Cor. 3,16
11 Rom. 8,2-15
3 Rom. 1,1
6 1 Cor. 9,22
9 1 Cor. 10,17
12 Sal. 44,3
21
Febbraio
2009
C
Stanislao Fioramonti
apitale della provincia romana di Asia
(la parte centro-occidentale dell’odierna Turchia), Efeso occupa la più bella
valle delle coste ioniche, la “prateria d’Asia”
cantata da Omero. Il fiume Caìstro vi svolge i suoi
meandri e si allarga qua e là in paludi popolate da
cigni bianchi. A oriente, l’arcipelago delle Cìcladi.
Tutt’intorno le montagne lontane in un cielo luminoso. Nella
piana si estende la città commerciale e il porto, uno
dei più grandi dell’Asia; vi si trovano, in una struttura urbanistica a tuttoggi intatta, i principali luoghi
di riunione: l’agorà, il circo, le terme, vie colonna-
K
+ Andrea Maria Erba*
oinonia è un termine greco che
significa "comunione" e San Paolo lo
usa per indicare la comunione con Dio e con i
fratelli. Esso ha innanzitutto un significato teologico e spirituale. Nella prima Lettera ai
Corinti l'Apostolo afferma "Degno di fede è io,
dal quale siete stati chiamati alla comunione con
il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!" (1 Cor
1, 9). Più avanti, parlando dell'Eucaristia, precisa che non sono compatibili la comunione con
il Signore mediante la mensa eucaristica, e la
comunione con i demoni che si ha nei sacrifici pagani: "il calice della benedizione non è forse la comunione con il sangue di Cristo?" (1Cor
10,16). Spesso nel saluto finale delle sue lettere augura che la "comunione dello Spirito Santo
sia con tutti voi" (2 Cor 13,13).
te e le case del pendio con affreschi e
mosaici, la biblioteca
di Celso e il maestoso teatro da 25 mila
spettatori, scavato a gradoni sul fianco della
montagna, uno dei
più grandi costruiti dai Greci. Nel I secolo Efeso gioca un ruolo commerciale, politico e religioso di primo piano. Nel porto attraccano navi giunte da tutti i punti del Mediterraneo per commerciare con i
carovanieri d’Oriente. I magazzini sono stracolmi
di merci e il mercato efesino è uno dei più importanti dell’epoca. Le stive delle navi rovesciano grano, farina e bestiame importato dalle sponde dell’Africa
o dell’Occidente e si riempiono di ogni sorta di prodotti preziosi dell’Oriente: oro, argento, pietre rare
e perle, porpora, lino, seta, legname pregiato o profumato, mobili e utensili in avorio,
rame, ferro, marmo, e poi la cannella,
il pepe, i profumi, gli aromi... Le navi in
partenza imbarcano anche i prodotti dell’industria locale, soprattutto le tende, così
pregiate che Alcibiade non ritenne completo il suo arredamento finché non ne
possedette una. E poi i famosi tempietti
di Artemide, ex-voto di argento, marmo
o terracotta esportati in tutto il mondo (Le
Mouel, p. 20-30); per essi Demetrio scatenò la rivolta degli orefici che mise in
pericolo Paolo, nel circo cittadino. Ma Efeso
deve la sua celebrità soprattutto al tempio di Artemide Polimaste (Diana
Multimamilla), meta di pellegrinaggio da
tutta l’Asia e considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Posto
fuori città ai piedi di una collina, è uno
splendido monumento che tutta l’Asia ha
contribuito a costruire, abbellire, arricchire; occupa una superficie quattro volte più grande del Partenone
di Atene; ha un colonnato con 127 colonne, ognuna dono di un re; le porte sono di cipresso massiccio e il loro architrave è così imponente che solo
la dea, di afferma, ha potuto collocarlo al suo posto.
La sorgente
della koinonìa
è dunque Dio
stesso, il quale è comunione di tre
Persone in
un'unica natura, che si donano reciprocamente e si comunicano in modo tale da formare una
perfetta unità. Dio è in comunione con se stesso e, creando, estende il suo rapporto di amore nell'uomo che è una creatura fatta per vivere in comunione. Su questa vita divina si fonda la legge della solidarietà e dell'amore
vicendevole.
Koinonìa, da questo punto di vista, indica ciò
a cui sono chiamati i credenti: la comunione con
Cristo e con lo Spirito, facendo parte del corpo mistico, e richiama anche il concetto di ugua-
Per il sontuoso edificio hanno scolpito gruppi o bassorilievi Policleto, Fidia e Prassitele, e Apelle vi ha
dipinto il suo capolavoro, Alessandro con il fulmine in mano. Artemide, figlia di Zeus e sorella di Apollo,
è la dea della fecondità (deve aver sostituito in questo ruolo la Madre Terra, Demetra per i Greci, Cerere
dei Latini). La sua statua è collocata in fondo a un
piccolo edificio, abitualmente coperta da un velo di
porpora; la parte inferiore della scultura, fino alla
vita, è una specie di guaina ricoperta da iscrizioni
magiche; il busto è pieno di mammelle, il capo è
cinto da una corona di torri. E’ chiamata “Artemide
caduta dal cielo” ed è uno dei feticci più comuni nei
santuari d’Asia; richiama le divinità orientali della
riproduzione e della fecondità e al suo culto sono
legati riti orgiastici e magici. La dea ha i suoi sacerdoti, i Megabizi, e uno stuolo di sacerdotesse; tutti sono consacrati al tempio e vivono delle sue ricchezze. Tutti gli anni, in aprile, si celebra con solennità il culto della grande dea. I Megabizi e le vergini del tempio portano la statua lungo le strade e
i bacini del porto, preceduti da araldi sacri, suonatori
di flauto e cavalieri. Tra fumi d’incenso sfilano in
processione i “portatori del tempio”, una confraternita
locale, mostrando alla folla i loro ex-voto... (Id, p.
30-33).Paolo trascorse ad Efeso tre anni (54-57)
nel corso del suo terzo viaggio missionario, aiutato da Aquila e Priscilla; predicò prima nella sinagoga, poi nella scuola del rètore Tiranno; vi scrisse le lettere ai Corinti e ai Galati. Vi soffrì molto,
ma fondò in città e nell’Asia molte comunità di credenti in Cristo, finché dovette partire in seguito al
tumulto degli argentieri.Oltre ai monumenti legati
alla figura di Paolo, Efeso custodisce anche due
basiliche care alla tradizione cristiana: la basilica
di S. Giovanni, edificata dall’imperatore Giustiniano
sullla tomba dell’apostolo ed evangelista, che secondo la tradizione nella città visse l’ultima parte della sua vita insieme a Maria madre di Gesù, scrivendovi il suo Vangelo, le sue tre lettere e il libro
dell’Apocalisse; e la basilica del Concilio, prima chiesa dedicata alla Madre di Dio nel mondo, dove si
celebrarono i concili ecumenici del 431 e del 449
e dove pregò papa Paolo VI il 26 luglio 1962.
glianza nella Chiesa, attraverso la virtù della carità.Nell'Antico Testamento il bisogno di comunione
si manifestava per mezzo dell'Alleanza tra Dio
e l'uomo; nel Nuovo Testamento,
e specialmente in San Paolo, la
comunione si estende ai fratelli
di fede mediante l'Eucaristia e i
Sacramenti, anzi è aperta a tutti gli uomini. Possiamo dire che
la comunione ha un aspetto verticale e orizzontale, riguarda Dio
e i figli di Dio.
*Vescovo emerito di Velletri-Segni
22
Fausto Ercolani
Nato in Ratisbona, città della Baviera, probabilmente
agli inizi del sec. XI ed entrato giovanissimo nel
celebre Monastero di Cluny, in Francia, vi veste
l’abito monastico distinguendosi tanto da divenirne Primo Priore.
La sua pietà, la prudenza, la dottrina gli aprono
la strada alle maggiori Dignità. Alessandro II, nel
1072, mosso dalla fama delle insigni doti del monaco di Cluny, lo nomina vescovo cardinale di Ostia
e lo invia quale Legato apostolico in Francia. Geraldo
indice un Concilio in Borgogna, a Chalon ( oggi:
Chalon-sur-Saone) per deporre Lancellino, vescovo simoniaco, e sostituirlo con Ugone, camerlengo della Chiesa di Lione. Ildebrando di Soana ,
divenuto papa con il nome di Gregorio VII gli affida il compito di riportare i monaci di Cluny all’obbedienza verso il loro Abate Ugone Candido che,
avendo avversato Alessandro II, era incorso nelle sanzioni ecclesiastiche, ma si era sottomesso
a Gregorio ottenendone il perdono. Gregorio VII
gli affida anche il vescovato di Velletri e Geraldo
riunisce in sè le due cattedre ostiense e veliterna
così come era accaduto per Pier Damiano. Nel 1074
viene inviato dall’imperatore Arrigo col compito di
dissuaderlo dal continuare a vendere vescovati e
dignità abbaziali; il nostro Vescovo è il principale
artefice del successo della legazione. Geraldo è
presente allo storico evento della sottomissione
di Arrigo al papa avvenuta nel Castello di
Canossa. E’ il 1077 e papa Gregorio VII, dopo l’assoluzione data all’imperatore ed essersi riappacificato con lui, invia Anselmo d’Aosta e Geraldo di
Velletri a Milano per riportare all’obbedienza della Sede Apostolica quelle città che avevano parNel numero di dicembre 2008 abbiamo pubblicato alle
pagg. 20 e 21 un articolo di mons. Luciano Lepore, parroco a Colleferro e docente di Sacra Scrittura, sui metodi di interpretazione della Sacra Scrittura. Quell’articolo
suscitò una reazione di un altro studioso di Sacra Scrittura
il rev.do P. Aldo La Neve, il quale ha fatto pervenire alla
nostra redazione una mail di contestazione circa l’impostazione dell’articolo. Di seguito vi riportiamo il contenuto di quella mail e la risposta di mons. Lepore. (ndr)
Rev. Mons. Luciano Lepore,
Le scrivo in merito al Suo ultimo articolo pubblicato su Ecclesia in cammino nel numero di Dicembre 2008. Sono rimasto stupito nel leggere - cito a memoria perché non ho più il giornale con me - che la lettura medievale del testo
biblico secondo la formulazione dei quattro sensi sia da cestinare del tutto, se ho ben compreso
le Sue parole. Senza dubbio l’esegesi storico critica e la critica letteraria applicata al testo biblico rappresentano un contributo importantissimo
Febbraio
2009
teggiato per l’imperatore. Durante
il viaggio i due vescovi vengono fermati da soldati che, mentre non osano toccare Anselmo, originario di
quelle terre e di nobili natali,
imprigionano il vescovo Geraldo che
rimane loro prigioniero fino al settembre dello stesso anno, quando
il papa riesce ad ottenere la sua
liberazione. Tornato nella sua
sede vescovile Geraldo muore il 6
dicembre 1077. Viene sepolto
nella Cattedrale veliterna , ma con
il passare dei secoli si perde la memoria della sua sepoltura. Il crollo del
campanile nel 1656, se distrugge
la chiesa riporta però alla luce il grande sarcofago di pietra nel quale riposava il vescovo Geraldo con grande commozione e gioia dei veliterni che tornano a venerare il
santo vescovo mentre la Magistratura Cittadina lo
annovera tra i Santi Patroni di Velletri in ricordo
della vittoria sui Brettoni. La tradizione assegnava al santo Vescovo molti fatti prodigiosi tra i quali oltre l’improvvisa grandine di ghiande di piombo che mise in fuga i Brettoni al soldo del duca di
Calabria che, marciando contro Roma, avevano
tentato di assalire la nostra città, vi era quello della guarigione di un congiunto del vescovo veliterno Alberico avvenuto nel 1140. Fatta la ricognizione
del corpo, viene celebrato il processo sulla fama
di santità, sulle virtù e sul culto immemorabile del
Santo.Terminata la costruzione della maestosa Cappella
a spese del popolo e della Magistratura veliterna,
le reliquie vi vengono solennemente traslate. Il canonico Fabrizio Borgia, in seguito eletto Vescovo di
Ferentino, descrive minuziosamente l’invenzione,
la ricognizione e la traslazione del corpo del Santo
Vescovo avvenuta il 26 novembre del 1698 dopo
che nella Cattedrale si era concluso il Sinodo veliterno voluto dal card. Cybo e presieduto dal fratello Patriarca di Costantinopoli. La processione
in onore di San Geraldo era aperta da uno dei vessilli comunali con le immagini dei Santi protettori
portato da un nobile veliterno preceduto da quattro tamburini e quattro trombetti; lo stendardo era
seguito dai componenti la magistratura cittadina
e da nove delle dieci compagnie (confraternite) secolari allora esistenti: nell’ordine quella della
Misericordia, del Suffragio, delle Stimmate, di Santa
Maria del Sangue, della Carità ossia della Morte,
di Sant’Antonio di Padova, della Pietà dei
Carcerati, del Gonfalone alla quale era stato riservato il posto più importante: confratelli portavano
più di 350 torce. Seguivano le Confraternite gli Ordini
Religiosi : i Padri Cappuccini, quelli di San Giovanni
di Dio, il Terz’Ordine di San Francesco, i
Carmelitani, i Minori Conventuali e i Minori
Osservanti e gli Agostiniani di Lombardia, i quali, per essere la loro chiesa filiale della Cattedrale
incedono dietro la Croce del Clero secolare. Ai religiosi seguivano i nobili della Città tra i quali vollero essere presenti anche il Governatore delle Armi
della Provincia Filippo Adami e i nobili romani Alessandro
Righini e Paolo del Cinque, tutti in abiti da cerimonia e con le torce. La Croce accompagnata da
due accoliti e preceduta dai trombetti del Magistrato
era seguita, come detto, dagli Agostiniani di Lombardia
e da tutto il Clero secolare della città e Diocesi; i
canonici e le dignità del Capitolo parati con pianete bianche chiudevano la processione del Clero.
Il Patriarca di Costantinopoli Odoardo Cybo, vestito pontificalmente, coll’assistenza di due canonici, uno in abito da diacono e l’altro da suddiacono, precedeva il Sacro Corpo disteso su di una
macchina a guisa del letto che si usa per i funerali dei cardinali. La macchina in apparenza era
portata dai quattro Vescovi di Terracina, di Sora,
di Anagni e di Eliopoli vestiti tutti con piviali bianchi e mitria d’oro, ma in realtà era sorretta da uomini nascosti sotto di essa. Il baldacchino di broccato bianco portato dai Signori del Magistrato tra
i quali Giovanni Giacomo Leni allora Vice
Governatore della Città, copriva la macchina processionale che era seguita dagli Ufficiali e dai soldatie dal popolo assai numeroso. I molteplici lumi
e la grande quantità di torce rendevano più imponente e suggestiva la cerimonia. La processione
uscita dalla porta principale della Cattedrale, attraverso il chiostro del Palazzo Vescovile si diresse
verso Piazza san Giacomo per proseguire per la
Piazza del Piano per giungere sino alla strada Graziosa
per dirigersi alla chiesa della Santissima Trinità e
per la strada dritta che porta alla piazza di Metabo
ritornò in Cattedrale entrando dalla porta laterale
delle canoniche. Cantato il Te Deum, il corpo di
San Geraldo fu deposto nella preziosa urna marmorea posta sull’altare della Cappella. La Festa
per la traslazione fu veramente memorabile e rimase a lungo nella memoria della città. La festa liturgica di San Geraldo, inizialmente collocata al 7 dicembre, venne spostata per decreto del Vescovo Cardinale
Duca di York al 6 febbraio.
dell’esegesi contemporanea, ma questo non
significa che altri approcci alla pagina biblica siano da escludere e da sradicare, né che l’esegesi
dei secoli precedenti sia acritica e priva di significato anche per noi oggi. Dovremmo ricordare
che già la comunità giudeo cristiana che ha prodotto il Nuovo Testamento interpretava i testi della prima Alleanza secondo la lettura allegorica
codificata molto tempo dopo nel distico medievale “littera gesta docet, quid credas allegoria...etc”:
lo stesso Benedetto XVI ha citato questo distico
dei quattro sensi in un intervento recente nel suo
viaggio a Lourdes:”La lettera mostra i fatti; ciò
che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica...”.
Personalmente ricordo bene di aver ascoltato da
Luis Alonso Schoeckel e da altri Docenti presso
il Pontificio Istituto Biblico ben altri apprezzamenti
relativi all’esegesi medievale e all’ermeneutica biblica.
Oltre a questo, anche le allusioni relative alla
Chiesa preconciliare contenute nel Suo articolo
nelle prime righe lasciano trasparire una valutazione negativa, a mio avviso non del tutto
rispettosa della storia: il Concilio non si è prodotto da sè, il rinnovamento biblico e liturgico
precede di parecchi anni il Concilio stesso ed è
il risultato della vitalità di questa Chiesa preconciliare!
Non mi dilungo oltre e La ringrazio dell’attenzione,
fr. Aldo La Neve ofm - Frascati
Carissimo P. Aldo,
sono contento di iniziare un dialogo con uno
studioso dei Sacri Testi, nella speranza che il dibattito possa essere condiviso e partecipato dai lettori della nostra rivista diocesana. Riconosco di essermi comportato, come Lei ha scritto in una e-mail precedente,
“come un elefante in una cristalleria” , ma delle volte
bisogna usare dei generi letterari un po’ paradossali lei mi intende ! - per essere ascoltati. Non nego che i
23
Febbraio
2009
a ricchezza di cui il Signore era in possesso e che ha lasciato per noi non era
assolutamente di carattere materiale, ma
era la sua uguaglianza con Dio, come
ci dice Paolo nella sua lettera ai
1
Filippesi . E se Lui ha fatto questo, chi è chiamato
a partecipare del suo sacerdozio è chiamato anche
a fare le altre cose che Lui ha fatto, perché Egli
ha dato l’esempio2. Certo, ricalcare le orme di Cristo
non è fare esattamente tutte le cose che Lui ha
fatto e nello stesso modo in cui le ha fatte, ma è,
sicuramente e come condizione minimale per partecipare del suo sacerdozio, avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù»3, perché sono
questi sentimenti che hanno mosso il Verbo di Dio
ad assumere la condizione umana per la nostra
salvezza4 e che possono muovere coloro che sono
chiamati al presbiterato ad assumere quell’atteggiamento di condivisione dello stesso stato di coloro a cui si rivolge il loro servizio, per il miglioramento della condizione umana e per l’accrescimento
del Regno di Dio su questa terra.
Affinché colui che è chiamato al presbiterato possa portare avanti un compito così importante e,
al tempo stesso, impegnativo, la provvidenza divina gli offre il dono della povertà, che è definita dai
Padri sinodali come: «sottomissione di tutti i beni
al Bene supremo di Dio e del suo Regno», definizione che è stata ripresa da Giovanni Paolo II
nella sua esortazione post-sinodale Pastores dabo
vobis5. Il papa, poi, spiega cosa significa l’espressione
dei Padri sinodali e afferma che la povertà «non
è certamente disprezzo e rifiuto dei beni materiali,
ma è uso grato e cordiale di questi beni ed insieme lieta rinuncia ad essi con grande libertà inte-
riore, ossia in ordine a Dio e
ai suoi disegni»6. Per prima cosa
il papa fa notare che povertà
non ha come sinonimo disprezzo
dei beni materiali, anche perché essi sono presenti nel mondo come mezzi per la sussistenza dell’uomo e quindi
sono parte di quei frutti che il
creato dona all’uomo per la sua
vita7 e che l’uomo, dopo il peccato originale, deve guadagnarsi
con il sudore della sua fronte8.
Chiarito questo, il significato positivo di povertà è l’uso di questi beni, cioè essi devono essere uno strumento per la vita dignitosa dell’uomo e non il suo obiettivo primario. Solo se vengono intesi in questo modo, i beni
materiali possono essere facilmente sacrificati in vista di un
bene maggiore: il bene della
persona che si trova accanto
a colui che è chiamato a partecipare degli stessi
sentimenti di Gesù.
Essere pronti a lasciare i propri beni materiali per
il servizio all’uomo non vuol dire solo risparmiare
ricchezze per donarle a coloro che si trovano in
ristrettezze economiche ma significa, principalmente
per il presbitero, non tenere niente per sé stesso,
abbandonandosi completamente alla volontà divina assicurando una totale docilità «ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente,
anche con sacrificio personale»9. In questo modo
il dono della povertà va a rinforzare quell’altro dono,
o consiglio evangelico, che orienta il sacerdote al
servizio dei fratelli, almeno nel suo carattere pastorale: l’obbedienza10. Ma essendo questa caratteristica dell’obbedienza inscindibile con le altre due
peculiarità dello stesso consiglio evangelico, si può
affermare che il dono della povertà sostiene e for-
metodi di lettura classici abbiano esercitato un servizio importante in funzione dello studio della Parola per
la crescita della fede, ritengo però che oggi alcuni metodi siano poco utili al rinnovamento della pastorale, poiché non incidono più sulle coscienze delle nuove generazioni. Ritengo, infatti, che ai nostri giorni gli studi biblici richiedano un confronto con la Parola che passi attraverso la ragione, senza la quale si richia di fare un monologo o, se vuole, un dialogo tra sordi. Utilizzare la ragione nel campo della ricerca biblica significa nel nostro
caso mettere al primo piano la lettura critico-storica che
suppone uno studio serio archeologico ed epigrafico
(cfr. M. LIVERANI, Oltre la Bibbia, Roma-Bari 2004).
Dopo questo primo approccio credo siano possibili tutti gli altri tipi di letture. La prego, a tal proposito, di visitare il sito WWW.BIBLERESEARCH-ROME.ORG, CONTRIBUTI 2008,
nel quale ho depositato negli anni diversi lavori, ovviamente non pubblicati su carta. Nel sito potrà trovare
citati anche una ventina di articoli da me pubblicati su
riviste qualificate, quali “Rivista Biblica, Rassegna di
Teologia, Bibbia e Oriente”. In modo particolare mi permetto di suggerirLe la lettura dell’ultimo lavoro dal titolo: “lineamenti per una storia della letteratura biblica”.
In questo lavoro ho cercato di ricostruire dal punto di
vista critico-storico la formazione della Bibbia dagli inizi al tempo di Alessandro Magno. Supposta l’analisi storica (metodo diacronico), ritengo che in seguito si possa discutere anche sui quattro criteri di lettura del Medioevo
o sui metodi formali, oggi di moda tra gli studiosi, quali lianalisi di tipo strutturale, narrativo, semeiotico, retorico, ecc. (metodo sincronico). Dei due criteri ritengo
primario quello diacronico, perché permette di far dialogare fede e ragione a partire dallo studio della formazione della tradizione biblica secondo l’evoluzionismo culturale. La lettura formale o sincronica, che parte dal T(esto) M(asoretico) così come ci è stato trasmesso
e come l’abbiamo ricevuto (textus receptus), mi sembra, mi si perdoni la presunzione, piuttosto riduttivo rispetto al compito formativo delle nuove generazioni. Questo
tipo di approccio permette di formulare tante teologie,
quante sono le Chiese, senza rispondere alle aspettative della ragione e all’impegno ecumenico che, come
punto di partenza, credo esiga un’esegesi tendenzialmente univoca. Applicando, inoltre, lo studio biblico alla
pastorale, ritengo che si debba partire dalla situazione esistenziale dello scrittore sacro per capire la risposta che egli ha inteso dare ai problemi del suo tempo,
risposta che non ha perso di attualità sia per la fede,
sia per la ragione. E’ chiaro che non intendo affatto escludere l’apporto spirituale, morale ed escatologico della
teologia patristica e medioevale, come non intendo escludere la possibilità di letture formali o canoniche che sono
utili a perfezionare lo studio biblico strorico-letterario.
In conclusione, penso si debba dare la precedenza alla
lettura diacronica che, secondo me, risponde meglio
alla domanda di razionalità dei nostri giorni. L’analisi
di Antonio Galati
«Conoscete infatti la grazia del Signore
nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si
è fatto povero per voi» (2Cor 8, 9).
L
tifica il dono dell’obbedienza.
Concludiamo sottolineando ancora che il dono della povertà è finalizzato ad acquisire quella libertà totale per mettere in pratica fino in fondo l’obbedienza a Dio Padre che si concretizza con la
stessa carità che ha mosso il Figlio di Dio che «umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce»11
.
1 Cfr. Fil 2, 6.
2 Cfr. Gv 13,15.
3 Fil 2, 5.
4 Cfr. Fil 2, 6-8.
5 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, 30.
6 GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, 30.
7 Cfr. Gn 1, 29; 2, 15-16.
8 Cfr. Gn 3, 3, 17b-19.
9 GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, 30.
10 «L’obbedienza sacerdotale ha un particolare carattere di “pastoralità”. È vissuta, cioè, in un clima di costante disponibilità a lasciarsi afferrare, quasi “mangiare”, dalle necessità e dalle esigenze del gregge»
(GIOVANNI PAOLO II, Pastores dabo vobis, 28).
11 Fil
spirituale e formale, infatti, non aiuta a formulare una
teologia che supponga il momento logico (logos), cioè
scientifico e razionale. La teologia deve partire dal dato
razionale e, una volta stabiliti i motivi ragionevoli della fede, deve lasciar spazio alle altre letture possono
elevare l’animo umano verso la trascendenza. Lo studio critico-storico, tra l’altro - e Lei lo sa bene - è molto più complesso deagli altri e suppone un bagaglio di
strumenti di lavoro molto più ricco. Confermo, quindi,
che gli studi biblici del passato hanno esercitato una
funzione storica indiscutibilmente importante, ma non
per questo adempiono alla funzione di mediazione culturale richiesta dall’uomo moderno e, non è casuale,
dall’Enciclica “Fides et Ratio”.La ringrazio per avermi
dato la possibilità di precisare meglio il mio pensiero
e, anche se posso essere apparso troppo sicuro delle mie opinioni, non mi ritenga per questo presuntuoso o ingenuo. Mi auguro semplicemente di suggerire
un metodo di ricerca utile agli studi biblici e alla pastorale, favorendo un tipo di ricerca che, a parer mio, dovrebbe far apprezzare a persone acculturate la Bibbia come
libro che non ha perso di attualità. Nella speranza che
il dialogo appena iniziato possa continuare e possa
coinvolgere molte persone, spronandole alla ricerca biblica, La saluto con stima e cordialità.
D. Luciano Lepore
Febbraio
2009
24
La “Christifideles Laici” insegna che per raggiungere la formazione integrale della persone umana è necessaria la visione non solo antropologica ma soprattutto teologica del processo educativo: “Tra tutte le creature terrene solo l’uomo è
«persona» soggetto cosciente e libero, e, proprio
per questo, è «centro e vertice» di tutto quanto esiste sulla terra. La dignità personale è il bene più
prezioso che l’uomo possiede, grazie al quale egli
trascende in valore tutto il mondo materiale: La parola di Gesù: “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc. 8,36)
implica una luminosa e stimolante affermazione
antropologica: l’uomo vale non per quello che «ha»possedesse pure il mondo intero- quanto per quello che «è». Contano no tanto i beni del mondo,
quanto il bene della persona, il bene che è la persona stessa” (Ch.L.37). lo studio dell’uomo è il processo educativo che lo accompagna nella sua crescita richiedendo, dunque, una sincronia tra l’antropologia e la teologia1.In questa prospettiva intendo motivare la formazione integrale per l’unità di
vita della condizione laicale riferendomi sempre
all’Esortazione Apostolica che insegna: “La formazione
dei fedeli laici ha come obiettivo fondamentale la
scoperta sempre più chiara della propria vocazione
e la disponibilità più grande a viverla nel compimento della propria missione” (Ch.L.53). Dire vocazione significa non solo accogliere il mistero di ogni
persona,ma anche ricercare lo specifico che caratterizza la singola persona. E’, questa, la prima attenzione da esigere nell’educare, nel formare, nell’autoeducarsi e cos realizzare l’unità di vita della condizione laicale. Allora è necessario orientarsi
gradatamente verso un progetto vocazionale
educativo della vita umana, per mettere l’uomo nella giusta dimensione di ricomporre nell’unità il suo
essere persona. Si esige, quindi, di orientarsi verso un autentico sviluppo, che deve avere come
caratteristica l’integralità. In altre parole deve tendere alla promozione globale della vita dell’uomo,
di ogni uomo e di tutto l’uomo. E’ necessario quindi far crescere la creatività di ogni singola persona e la sua capacità di rispondere alla propria vocazione. Per cogliere il significato di questa totalità
della persona, occorre ricollegare innanzitutto al
senso originale dell’esistenza. L’Esortazione
Apostolica sul laico è guidata da un punto fermo come l’educazione permanente, di ogni
uomo e di tutto l’uomo. E’ necessario far emergere che l’educazione permanente mette
il laico fedele nelle condizioni idonee per
vivere in responsabilità e libertà; si presenta al laico come principio unificatore
del processo formativo e ideale riferimento
in ogni cammino educativo. E’ quindi importante che si faccia riferimento all’educazione permanente in quanto essa è insita
nel processo educativo, che dura tutta la vita
nella totalità delle sue dimensioni. Proprio
per questo è in grado di aiutare il laico e capire che la maturità umana e cristiana si può
raggiungere e realizzare con più facilità soltanto mediante il processo educativo proiettato nel futuro della propria esistenza in un
continuo divenire. Il laico fedele è consapevole che solo inserito in questo cammi-
no educativo può scalare la vetta della maturità
umana, intesa come espressione della persona matura, caratterizzata dall’armonia di tutti i suoi elementi
e dall’integrazione di tutti i suoi valori, avente lo
scopo di perseguire l’insieme unitario della sua personalità nella sua propria e specifica individualità. A questa maturità umana contemporaneamente
il laico deve saper unire, in piena armonia, la maturità cristiana, iniziata col Battesimo che ci rende
creature nuove (Rom 6,4). Il cammino verso la maturità cristiana è realizzare il progetto di Dio in modo
tale che l’umanità, e in essa ogni singolo uomo o
donna, raggiunga la piena maturità del Corpo di
Cristo che è la Chiesa (Ef. 4,11-18). Per questo
il Concilio è stato molto esplicito nel dare un giudizio positivo sull’impegno dei fedeli laici nella quotidianità della loro vita e nel presentare le motivazioni
fondamentali necessarie al laico perché possa realizzare la sua formazione integrale di vita nella sua
specifica condizione. Il Concilio “esorta i cristiani,
che sono cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo
[…]. Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi impegni verso il prossimo,
anzi verso Dio stesso, mette in pericolo la propria
salvezza eterna. Siano contenti piuttosto i cristiani,
seguendo l’esempio di Cristo che fu un artigiano,
di poter esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali,
scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale. Insieme
con i loro beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio” (Gs
43). Il testo conciliare prosegue: “I laici che hanno responsabilità attive dentro tutta la vita della
Chiesa, non solo sono tenuti a procurare l’animazione
del mondo con lo spirito cristiano, ma sono chiamati anche ad essere testimoni di Cristo in mezzo a tutti, e cioè pure in mezzo alla società umana” (Gs 43). Questo impegno laicale, afferma il testo
conciliare, per essere coerente esige nei laici cristiani una impostazione unitaria di vita tra l’essere uomo e l’essere cristiano, tra l’essere cittadino
dell’una e dell’altra città. Cosi l’essere e l’agire nel
mondo sono per i fedeli laici una realtà non solo
antropologica e sociale, ma anche specificatamente
teologica ed ecclesiale. Secondo il Concilio la dissociazione tra la fede da una parte e l’impegno
storico dall’altra è un orrore poiché implica e presuppone una concezione della fede non conforme alla tradizione della Chiesa, e una visione dell’uomo non unitaria ne completa. Si tratta, secondo l’insegnamento conciliare, di ribadire ancora una
volta l’identità del laico cristiano per contribuire e
dare un apporto specifico alla costruzione di una
società conforme alla giustizia e alla verità, che
rispetti la realtà della persona umana in tutta la
sua realtà. In questa prospettiva conciliare si innesta tutto l’insegnamento sulla formazione integrale
della persona nella “Christifideles Laici”, che riporta un testo da dove emerge la necessità dell’unità della formazione umana e cristiana nella persona: “Nell’esistenza (dei fedeli laici) non possono esserci due vite parallele […]. Il tralcio radicato nella vite che è Cristo, porta i suoi frutti in ogni
settore dell’attività e dell’esistenza” (Ch.L. 59). A
queste affermazioni fa da sfondo l’indole secola-
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2009
Ci occuperemo in questo articolo della trattazione
dei casi per i quali si richiede un’autorizzazione previa dell’ordinario in vista della lecita contrazione del vincolo coniugale. Parlare di liceità implica il fatto che l’eventuale celebrazione
posta in essere prescindendo dalla riferita autorizzazione non ingenererebbe di per sé nullità
di vincolo: in tali casi l’autorizzazione dell’ordinario interverrebbe, infatti, come forma di
sostegno pastorale alla maggiore conformazione
possibile del consenso, che i nubenti intendono prestare, con lo spirito comunionale che anima l’intero ordinamento ecclesiale in genere e
la disciplina dell’istituto coniugale in particolare. É evidente, però, che pur non esistendo ostacoli ontologici di diritto divino, o positivi (posti
dal legislatore) tali da impedire l’instaurazione
e l’efficacia potenziale del vincolo, sorgerebbe,
nei casi in cui la prescritta licenza venisse omessa, la necessità, data la soggezione canonica
dei contraenti, di un intervento di controllo posteriore che verificasse l’effettiva conformità del consenso prestato alle prestabilite esigenze istituzionali. In tale prospettiva, i casi disciplinati dal
can. 1071 del CIC rappresentano, dunque, le
circostanze in cui meglio emerge l’indole ecclesiale di aiuto che i pastori d’anime sono chiamati ad offrire al corretto inquadramento dello
stato di vita coniugale come condizione di proiezione escatologica della coppia verso la santità. Il legislatore, oltre ai requisiti stabiliti dai canoni già analizzati, contempla qui tutte le circostanze
che, in forza della loro tipicità, diventano oggetto di uno speciale accompagnamento giuridicopastorale da parte dell’ordinario; accompagnamento che avrà come esito l’emissione di una
licenza da intendersi nel senso di speciale legittimazione del matrimonio da parte dell’autorità
competente in ragione della peculiarità e delicatezza dei casi sottoposti al suo giudizio, per
i quali potrebbero verificarsi scandali e abusi.
Tale tipo di licenza non andrà, quindi, confusa
con la delega di assistenza alle nozze, prescritta
ai sensi del can. 1108, senza la quale il matrimonio celebrato sarebbe, addirittura, invalido.
Il can. 1071 è una norma prudenziale che, se
da una parte limita la facoltà del parroco di assistere ai matrimoni che rientrano nelle fattispecie previste, dall’altra sollecita l’intervento dell’ordinario di fronte ai problemi che quelle situazioni potrebbero far sorgere. La disposizione interessa il parroco che ha la responsabilità della
celebrazione o l’assistente delegato; non ha valore invalidante, e non urge nel caso di necessità che, secondo le circostanze, non si identifica qui con il pericolo di morte, ma comprende
situazioni più ampie nelle quali, ad esempio, potrebbe presentarsi difficile il ricorso all’ordinario in
un tempo ragionevole. Spetta sempre al parroco
o a colui che assiste al matrimonio determinare o meno se ci si trovi di fronte ad un caso di
necessità che esima dall’obbligo della concessione della licenza, pure in presenza delle fattispecie previste dal canone che stiamo analizzando
e di cui ora riportiamo per esteso il testo:
Can. 1071: «Tranne che in caso di necessità,
nessuno assista senza licenza dell’ordinario del
luogo:
al matrimonio dei girovaghi;
al matrimonio che non può essere riconosciuto o celebrato a norma della legge civile;
al matrimonio di chi è vincolato da obblighi naturali derivati da una precedente unione verso un’altra parte o i figli;
al matrimonio di chi ha abbandonato
notoriamente la fede cattolica;
al matrimonio di chi è irretito da censura;
al matrimonio di un figlio minorenne,
se sono ignari o ragionevolmente
contrari i genitori;
al matrimonio da celebrarsi mediante
procuratore, di cui al can. 1105.
L’ordinario del luogo non conceda la licenza di
assistere al matrimonio di chi notoriamente abbandonato la fede cattolica, se non dopo che siano state osservate, con opportuno riferimento,
le norme di cui al can. 1125».
Segue al prossimo numero
continua dalla pagina precedente
re del fedele laico nella sua dimensione teologica e non solo sociologica: “la condizione ecclesiale dei fedeli laici viene radicalmente definita
dalla loro novità cristiana e caratterizzata dalla
loro indole secolare (Ch.L. 15). Da qui scaturisce, nella formazione permanente del laico cristiano, l’esigenza di una educazione alla responsabilità sociale. Il laico deve sempre sapersi rapportare con la storia e con l’impegno concreto
nella realtà civile ed ecclesiale. Tutta la storia umana appare allora come un immenso piano di salvezza che incomincia con la creazione del mondo e con l’elevazione dell’uomo alla partecipazione della vita divina. Una personalità matura
si impegnerà dunque ad entrare sempre in rapporto personale con Dio vivendo il mistero
dell’Incarnazione come evento teologale-salvi-
fico per se e per l’umanità intera. L’umanità di
Gesù e ciò che Dio ha voluto diventare per incontrare e salvare l’uomo. L’incarnazione, oltre ad
essere la dimensione costitutiva della comprensibilità
storica del mistero di Dio, è anche la rivelazione più piena dell’uomo. Solo nell’incontro con il
Redentore incarnato, l’uomo può abbattere il diaframma che gli impedisce di afferrare il senso
vero del mondo in cui vive e raggiungere mediante la formazione permanente la perfezione della propria spiritualità.
1 Cf. Mariani T., Formazione integrale per l’unità di
vita nella condizione laicale, in “Presenza Pastorale”
12 (1991), p.38
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21 febbraio festa di S. Pier Damiani
Tonino Parmeggiani
Trascorso l’Anno Giubilare Damianeo, indetto in occasione del millenario della nascita di S. Pier
Damiani (1007-2007), vogliamo continuare (la premessa è stata pubblicata nel numero di marzo 2008,
n. 40 e non 41, come erroneamente stampato) ad
esaminare alcuni aspetti sulla permanenza del culto, della memoria del Santo, nella diocesi veliterna, che lo ebbe come Visitatore ed Amministratore.
L’evento è stata una ovvia occasione per la produzione di nuove ricerche e pubblicazioni: tra tutte vogliamo segnalare, per il rigore nella disamina dei documenti e delle opere in bibliografia, la
biografia «R. Benericetti, L’EREMO E LA CATTEDRA, Ancora Editrice, 2007, pp.272, € 15,00», su
cui ci baseremo per l’inquadramento storico. La
figura di Pier Damiani, creato cardinale vescovo
di Ostia, da papa Stefano IX sulla fine dell’anno
1057, è legata alla storia sopratutto per aver combattuto, con le sue indiscusse qualità morali, l’austerità della vita e la fedeltà al magistero romano,
il conflitto scismatico che si era originato (ed altri
ancora in seguito) nella chiesa con l’elezione - irregolare, più militare che canonica, come antipapa,
di Benedetto X - in precedenza Giovanni, Vescovo
di Velletri e, con la sua autorevolezza, aver riempito il comprensibile vuoto che si era creato localmente nella gestione della diocesi, a seguito della vicenda di quest’ultimo. Gli storici locali, nel tempo, hanno dibattuto se la sua presenza nella diocesi di Velletri sia stata solo quella di Visitatore e
Amministratore, diremmo oggi straordinario a
fronte dell’accaduto, oppure di Vescovo: gli schieramenti sull’una e l’altra ipotesi possono trovare
un punto di accordo nell’interpretazione che si, per
tutti i provvedimenti pastorali e di riforma attuati,
non poteva non essere Vescovo anche
se forse, per non accentuare i contrasti
con il suo predecessore antipapa, ovvero lo schieramento politico, militare e scismatico, il titolo non venne mai ufficializzato.
Inoltre Pier Damiani mantenne questo
doppio incarico fino alla morte (21 febbraio 1072) anche se, dall’anno 1060
incirca, aveva nominato come suo
vicario per Ostia (e poi sembra anche
per Velletri, Benericetti cit., p. 123) il Vescovo
Alberto, in quanto pressato dagli impegni anche internazionali nel governo
della chiesa, oltrechè sempre propenso
a ritornare alla vita solitaria nel suo Eremo
di Fonte Avellana.
La Diocesi di Ostia, fiorente nei primi secoli del
cristianesimo, in quei tempi era pressochè spopolata (ancora nei secoli XVI, XVII, aveva una
popolazione di un centinaio di abitanti in estate ed alcune centinaia in inverno) per cui, la nomina di un solo Cardinale Vescovo, era anche funzionale alla sua amministrazione, assieme a quella veliterna: da Pier Damiani in poi (il suo successore
sarà nientemeno che S. Geraldo!) seguiranno altri
nove vescovi che saranno nominati del titolo di entrambe le
diocesi, fino all’anno 1150, quando si avrà la piena unione delle
due diocesi. Dell’anno 1065 è poi
conservato, presso l’Archivio diocesano (pergamena n. 9), un decreto di papa Alessandro
II concedente, su testimonianza proprio di Pier Damiani,
alcuni privilegi al clero veliterno.
A questo punto la nostra storia subisce un salto di
sei, sette secoli, prima di ritrovare qualche traccia
documentale in loco, sulla devozione verso Pier
Damiani, anche se è da avvertire che, malgrado
la grande diffusione del suo culto, popolare almeno in determinate regioni, verrà canonizzato santo, ed anche Dottore della Chiesa, solo nell’anno
1823: potrebbe essere questa una plausibile spiegazione del fatto che a lui non gli fu dedicato nemmeno un altare (anche per questo, comunque, bisognerà attendere ancora altri 140 anni, fino al 1962).
Anche per finire sui libri, il Nostro dovrà aspettare oltre quattro secoli: è infatti dell’anno 1606 l’edizione del primo dei quattro volumi, pubblicati da
C. Caetani (B. Petri Damiani Monachi Ordinis S.
Benedicti, S.R.E. Cardinalis Episcopi Ostiensis…),
sulla sua vasta opera letteraria ed autobiografica,
fino ad allora racchiusa nei codici manoscritti.
Forse dalla diffusione di quest’opera, si cominciarono
a conoscere i rapporti tra il Santo e la diocesi veliterna in quanto, in una lettera attribuita all’anno 1060
(Caetani, cit., libro III, epistola 10 che è la stessa
dell’opuscolo 34), afferma di aver riformato i canonici della chiesa veliterna: «Ti scrivo dei nostri Canonici
della santa Chiesa Veliterna, poiché essi che sembravano incorregibili, in seguito alle nostre molte
fatiche e sudori, ormai si sono ravveduti e camminano secondo la Canonicale Regola non già costretti ma lieti…» (il testo e la traduzione in italiano in
E. Trocchi, S. Pier Damiano e la Diocesi di Velletri,
Bollettino Diocesano, 1962, nn. 5 e 6; il testo lati-
no in: www.documentacatholicaomnia.eu/02m/10071072,_Petrus_Damianus,_Opusculum_34._De_Variis_Mir
aculosis_Narrationibus,_MLT.pdf).
La prima biografia del Santo comparirà ancora dopo,
autore G. Laderchi, Vitae S. Petri Damiani..., 1702.
Qualche anno dopo, nel 1718, il Capitolo della Cattedrale
di S. Clemente, memore dell’azione riformatrice del
Santo, intraprese due richieste alla Congregazione
de Riti, la prima delle quali era inerente alla celebrazione della festa in diocesi con lo stesso ufficio dell’Ordine Benedettino Camaldolese.
Nel registro delle Risoluzioni Capitolari, in data 1
agosto 1718 (Archivio Capitolare, Sez. I, Tit. I), è
riportato il testo della richiesta precedentemente
inoltrata:
«Die prima mensis Augusti MDCCXVIII
Post horam nonam coadunatum fuit Capitulum de
Illmo Dni Can. Fabricij dè Borgia Cameraris pridiè
intimatum per Felicem Mancinum publicum huius
Civitatis Mandatarium, in Aula Capitulari ad sonum campanellae praevia Spiritus Sanctus invocatione,
… interfuerunt infrascripti videlicet
Fabrizio Borgia Camerarius… Lectam fuit per me
huic annexum Decretum Sacrae Congregationis Riti
ad Canonico Carolo Columnesio Sacrista Ma.ri mihi
traditum.
Copia Memorialis porrecti Sac. Rit. Congregationi
prò parte Rmi Capli, et Cleri Ostiensis, et Velitern.
talis qualis est videlicet:
Emi, e Rmi Sig.ri
Il Capitolo, e Cleri delle Città d’Ostia, e Velletri, Oratori
umilissimi delle E.E.. V.V., con divoto ossequio le
supplicano à degnarsi concedergli la medesima facoltà, che godono li Monaci dell’ordine dè Camandoli,
di far l’Officio, e Messa di S. Pietro Damiano, che
già fù Vescovo di Ostia, e Velletri, ò come vogliono (cancellato, ndA) alcuni Autori asseriscono, Vescovo
di Ostia, e Visitatore, et Amministratore del
Vescovato di Velletri, nella longa mancanza del proprio Vescovo siccome frà gl’altri riferisce il Laderchi
nella vita del medesimo Santo Tomo primo foglio
341 e sicome afferma il santo stesso nelli suoi opuscoli. opuscolo 34 dis 2.2. tomo 3. Che…
Alla sagra Congregatione de Riti
Il Capitolo, e Cleri delle Città di Ostia, e Velletri».
Di seguito è riportato il testo del positivo riscontro
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da parte della Congregazione:
«Favorabile rescriptum Sac. Rit. Cong.nis Ostien.
et Veliternen.
Non minùs enixè Emo, et Rmo Dno Cardle Episcopo
Ostien, et Veliternen, quàm humillimè Capitulo, e
Clero praefatarum Civitatum ad magis augendam
venerationem erga Sanctum Petrum Damianum uti
Episcopum Ostien, ac Ecclesiae Veliternen
Visitatorem, prò extentione illius Officij proprij, et
Missae ad Clerum praedictarum Civitatum, ijsdem
modo, et forma, quibus Monachis Camaldulensibus
concessum fuit, Sac. Rituum Congregationi supplicantibus, Sac. eadem Rituum Congregatio. attentis circumstantijs in supplici libello expressijs, huiusmodi dictae Instantiae iuxta petita annuendum esse
censuit. Die 9a Julij 1718
Cardinalis Dè Abdua Praefectus (Ferdinando d’Adda,
morto a Roma il 27 gennaio 1719 a 68 anni, Prefetto
della Congregazione dei Riti)
(sul retro)
Registratum in Cancelleria Episcopali in lib.
Pronunc. et Bullarii sub die 6 Augusti 1718».
Lo stesso decreto si ritrova nel fondo della “Curia
Civile e Criminale” (Archivio Diocesano Velletri, Sez.
IV, Tit. II, n. 233, f. 266) ed anche nell’Archivio Storico
Comunale (MS VII 25/9), non senza alcune difformità
nella trascrizione.
Da quest’ultimo manoscritto
veniamo fortunatamente a conoscere la seconda istanza, dell’anno 1725, volta a chiedere l’inserimemto, nell’Ufficio
divino (la Liturgia delle Ore),
della frase “Canonicos suos
Veliternenses ad sanctioris atque
austerioris vitae rationem
feliciter traduxit”, a perenne
memoria della riforma attuata da Pier Damiani (mancano i riscontri nell’Archivio
Diocesano; in E. Trocchi, cit.,
questa seconda circostanza
viene invece sempre riferita alla prima del 1718).
Anche in questo caso la risposta della Congregazione
fu favorevole:
«Ostien, et Veliternen
Cum ex parte Emi, et Rmi Dni Cardinalis Tanarij
Episcopi Ostien et Veliternen Sac. Rituum
Congregationi non minus XXXXX supplicatum fuerit, ut in officio S. Petri Damiani iam à Sac. Congregatione
die 9. Julij 1718. eisdem Civitatibus, et respective
Diocesibus concesso, Lectiones propriae praedicti
Sancti pro Monachis Camaldulensibus die 28. Januarij
1719. approbatae, eadem ad usum Breviarij
Romani redigendo, recitari, nec non
in XXXX ipsarum sequentia verba
“Canonicos suos Veliternenses
ad sanctioris atque austerioris
vitae rationem feliciter traduxit” apponi possint; Sac. eadem Rituum
Congregatio huius modi Instantiae
iuxta petita annuendum esse censuit. Die 9 Augusti 1725.
F. Cardinalis Paulutius Praefector
N. M. Tedeschi Episcopus Lipari Sac.
Rit. Cong. Secretarius».
Nel manoscritto sono allegate
quattro pagine dell’ Ufficio proprio
dei Camaldolesi, parte invernale,
al giorno 23 febbraio “Lectiones sub Ritu duplici
in Festo S. Petri Damiani Cardinalis Hostiensis Episcopi”,
stampate ad hoc, avendone la Congregazione dei
Monaci Camaldolesi richiesta l’approvazione, concessa nel gennaio 1719, da parte della Congregazione
dei Riti,; alla lectio vij del II notturno è inserita a
penna la frase su riportata.In un ‘Breviarium Romanum’
(l’attuale ‘Liturgia delle Ore’), edito nel 1838, cioè
quindici anni dopo l’inserimento del Santo nel Martirologio
Romano troviamo però, nella lectio vj, la frase variata, «Canonicos Veliternos ad sanctioris vitae leges
composuit.».
Apertura
del Centro di
Formazione
Teologica
“Ss. Clemente
e Bruno”
seminario. La scuola si era trasformata in Istituto
di Scienze Religiose sotto la guida di Mons. Giuseppe
Centra quando si era profilata la necessità, dopo
la revisione del Concordato, di formare i docenti per
l’insegnamento della Religione Cattolica. I risultati conseguiti e l’alto livello raggiunto dall’Istituto, che
conferiva il grado di Magistero in Scienze Religiose,
ha reso ancor più dolorosa la chiusura dell’Istituto,
nel 2002. Nonostante questo, la diocesi ha mantenuto la volontà di offrire momenti di formazione,
in particolare un corso-base di buona qualità, che
tuttavia, a causa della sua brevità, sembrava avere carattere episodico. L’apertura del Centro di Formazione
Teologica vorrebbe colmare questa lacuna, offrendo un percorso più articolato a chi vorrà scommettere
sulla formazione come momento fondamentale del
cammino ecclesiale. Il Centro offrirà nei prossimo
mesi due iniziative, che riporto per comodità, affinché ciascuno possa prendere nota dei programmi,
dei luoghi e degli orari:
17, 24 febbraio, 3, 10, 17, 24 marzo
COLLEFERRO, Pie Operaie
MERCOLEDI, ore 18.30
18, 25 febbraio, 4,
11, 18, 25 marzo
Don Dario Vitali*
Venerdì 30 gennaio
u.s., nei locali del seminario di Velletri, erano in
molti ad ascoltare la prolusione del p. Donath Hercsik,
S.J., decano della Facoltà di Teologia della Facoltà
di Teologia della Pontificia Università Gregoriana.
L’intervento ha segnato l’apertura – forse sarebbe
meglio dire, la riapertura – del Centro di Formazione
Teologica “SS. Clemente e Bruno”. La sua relazione
ha sviluppata un tema suggestivo – «L’uomo alla
ricerca di Dio, Dio alla ricerca dell’uomo» - che il
p. Hercsik ha sviluppato da par suo, tratteggiando
prima la ricerca dell’uomo, espressa in modo mirabile nel grido di Agostino: «Il mio cuore è inquieto
finché non riposi in te», poi l’iniziativa di Dio nella
sua Rivelazione descritta come ricerca dell’uomo
da parte di Dio, che ha nell’evento-Cristo il suo punto di piena manifestazione. L’argomento esprime
bene le ragioni che hanno spinto il vescovo ad aprire la scuola di teologia. Va riconosciuto che, fin dal
suo arrivo a Velletri, Mons. Apicella aveva subito
insistito sulla necessità di una formazione non episodica. D’altronde, la sua idea si innestava in una
lunga stagione di progetti nel campo della formazione teologica, iniziati dai lontani anni ’70, quando mons. Bernini aveva incaricato p. Giulio Martelli
di organizzare la Scuola di Teologia nei locali del
CORSO-BASE: «PERCHÉ LA TEOLOGIA?»
Credente, ovvero “teologo”: la conoscenza come
dimensione necessaria della fede
«Dio ha parlato agli uomini come ad amici» (DV 2):
la Rivelazione come contenuto della teologia
«La Sacra Scrittura, anima della teologia» (OT 15):
fonti e strumenti della teologia
«Lo Spirito Santo vi condurrà alla verità tutta intera»: sensus fidei, teologia e magistero della
Chiesa
«Itinerarium mentis in Deum»: la teologia come cammino di conoscenza dentro il mistero di Dio e dell’uomo
«Rendete ragione della speranza che è in voi»: teologia e vita cristiana.
VELLETRI, Chiesa del Crocifisso,
MARTEDI, ore 18.30
CATTEDRA “PINO VIRGILIO” IN DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
«Giustizia voglio, non sacrifici»: la giustizia come
esigenza fondamentale della fede biblica
«Qui non c’è più schiavo o libero»: diritti umani e
Vangelo
«Ma Dio non farà giustizia ai suoi eletti?»: il Dio giusto e la giustizia degli uomini
«Cieli nuovi e terra nuova il Signore darà»: la sfida ambientale e della equa distribuzione delle ricchezze
«Non c’è più schiavo né libero»: la sfida delle nuove schiavitù nel mercato globale
«Ero forestiero e mi avete ospitato»: la sfida della
cittadinanza di fronte al fenomeno migratorio
«Chi non vuol lavorare neppure mangi»: la sfida del
lavoro di fronte alla crisi economica mondiale
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia»: l’impegno cristiano per il Regno di Dio
Calendario:
VELLETRI, Chiesa del Crocifisso
VENERDI, ore 20.30: 6, 13, 20, 27 febbraio,
6, 13, 20, 27 marzo
La speranza è che queste iniziative contribuiscano
alla formazione di tanti fratelli e sorelle – non solo
operatori pastorali nelle varie aree dell’azione della Chiesa, ma tutti coloro che sono interessati ad
approfondire le ragioni della propria fede – e alla
crescita della nostra Chiesa di Velletri-Segni.
*Teologo e Dir. del CDFP
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“Segni, 7 marzo 1944,
ore 14,22:
rombo di aerei …
crepitare di mitraglie…
esplosione di bombe…
strage inaudita …
disastro spaventoso …
132 morti…”
Come ogni anno verrà celebrata nella Concattedrale
Santa Maria Assunta a Segni una messa in suffragio delle vittime del funesto bombardamento e verrà deposta una corona di alloro al monumento ai caduti, alla presenza di autorità religiose, civili e militari.
È un giorno che Segni non può dimenticare; le
scuole in particolare sono impegnate non solo
a far conoscere quel triste evento ma soprattutto a formar nei ragazzi una cultura di accoglienza di pace.
Nell’ambito del percorso didattico “Ambienti da
scoprire, storie da ricordare” la Scuola secondaria di I grado “Don Cesare Ionta” di Segni mette in atto una serie di significative attività tese
a rafforzare l’identità di un territorio, il senso di
appartenenza ad esso, l’incontro fra tradizione
orale e scritta, la capacità di inserire avvenimenti
della storia locale in quadri di più ampio riferimento.
Quest’anno il percorso tende a ricordare, in modo
particolare, il tragico avvenimento del 7 marzo
1944 allorchè, quasi al termine della seconda
guerra mondiale, il piccolo paese lepino subì il
bombardamento da parte delle truppe angloamericane.
Dopo alcuni incontri propedeutici con anziani,
diretti testimoni del fatto, i giovani studenti rielaboreranno l’evento del bombardamento attraverso
racconti e poesie e realizzando un testo che
vedrà la luce in occasione del 65° anniversario di esso.
Naturalmente la rievocazione del passato, dissepolto attraverso la narrazione degli anziani testimoni, non sarà esente da un critico confronto
e dalle giuste considerazioni che i ragazzi potran-
Intensa collaborazione
culturale
tra scuola e territorio
Da alcuni anni il Comune di Segni, La Biblioteca Comunale e l’I.T.C.G.
“Pier Luigi Nervi” lavorano insieme per creare un rapporto sempre più
stretto tra scuola e territorio, scuola e istituzioni. Insieme hanno organizzato attività culturali, quali incontri con diversi autori, la Giornata della Memoria il 27 gennaio, la commemorazione del 7 Marzo ed altri momenti.
Il nostro Istituto da diversi anni vede i ragazzi impegnati nello studio della storia locale e nel recupero della memoria, attraverso fonti scritte e
orali. Il fine è quello di creare nelle giovani generazioni un rapporto sempre più stretto con il territorio attraverso il ricordo e la valorizzazione delle vicende che hanno contribuito alla formazione del patrimonio culturale, sociale e civile della nostra comunità, e di renderli, nel contempo,
soggetti attenti e partecipi alle dinamiche complesse che portano alla
costruzione della storia.
Il 7 marzo è per i segnini il giorno della “loro memoria”, del ricordo delle 132 vittime del bombardamento del 1944 i cui nomi sono scritti in una
lapide posta in via della Torre in occasione del 60° anniversario e nel-
no trarre intorno alle vicende attuali che, tristemente, ancora affliggono la famiglia umana.
Il tema del 7 marzo è un tema molto sentito dalla popolazione di Segni, quei tanti morti, più di
cento, che lasciarono la vita durante un’incipiente
primavera, quando nulla faceva presagire niente di simile, sono cari ai segnini e non passa anno
che essi non li ricordino… siamo convinti che
ciò avverrà anche “dopo”, quando gli ultimi testimoni se ne saranno andati perché il significato del 7 marzo va oltre l’indelebile ricordo dei
nostri cari: esso è uno dei pochi strumenti che
abbiamo per sconfessare, per dire no ai tanti 7
marzo attuali!!
La Scuola ha sempre raccolto quest’attesa del
paese e, ogni anno, ha ricordato il 7 marzo con
mostre grafico-pittoriche, rappresentazioni teatrali, recitazioni di poesie, oggi vuol lasciare un
libro raccontato dalle vecchie generazioni ma scritto dalle nuove, a testimonianza di quanto essa
si senta elemento vivo e partecipe del tessuto
storico-sociale del proprio territorio.
Fernanda Spigone – Istituto Comprensivo Segni
la Cappella dei Caduti del Cimitero. La scuola vuole trasmettere alle giovani generazioni di oggi e di domani il ricordo di un “tempo lontano, ma
sempre presente” e richiamare i giovani ad una cultura di pace e solidarietà perché, come dice Primo Levi, “è già successo e può succedere ancora”. Incisivo il pensiero della scrittrice Fernanda Spigone che nel
saggio ”Il 7 marzo nella storia di Segni e nella coscienza di oggi” scrive “facciamo in modo che tale avvenimento si inscriva nella dimensione temporale, nella memoria, nell’immaginazione futura del popolo segnino come un monito che permei di sé le coscienze”.
Molti sono gli scrittori e i poeti segnino che hanno affidato alla penna il
ricordo di quel giorno tremendo.
Fonte preziosa è il libro del compianto Mons. Bruno Navarra Segni: dall’Armistizio
alla Liberazione, pubblicato in occasione del 50° della ricorrenza, che
offre un’ampia panoramica degli eventi dall’8 settembre al 2 giugno 1944.
L’incontro del 7 marzo 2009 vedrà i nostri studenti impegnati nello studio dell’opera la chiesa di Santa Lucia a Segni prima della distruzione
provocata dal bombardamento del 7 marzo 1944 di Valeriano Valenzi,
testimone delle vicende di quel triste giorno.
Colaiacomo, Vari – Istituto “Nervi”
29
Febbraio
2009
di Sara Calì
Nel 1890 Scipio Sighele definì gli abitanti
di Artena “un popolo di delinquenti nati” e aggiunse che nel 1873 si accolse con un certo sollievo
il cambio della toponomastica da Montefortino ad
Artena, come augurio di rinnovamento. A fare da
contraltare a questa presunta “delinquenza congenita” intervengono figure luminose che con la
loro fede e la loro dottrina contrastano questo desolante scenario. Una di queste è rappresentata da
Padre Girolamo da Montefortino, nato ad Artena
il 4 novembre 1662, con il nome di battesimo di
Angelo Bucci. In quegli anni il paese era molto povero e del Barocco, dell’Illuminismo incipiente e dei
grandi movimenti letterari non arrivava che una timida eco, stemperata dagli stenti di un popolo che
viveva di agricoltura e di pascolo. Negli atti comunali del 1680 si parla del malcontento degli abitanti vessati dalla tassa sul macinato e dalle molte contese con i paesi limitrofi. Nel 1689 la povertà era tale che il medico condotto, non pagato, abbandonò Artena lasciandola priva di assistenza e ancora nel 1702 una rovinosa grandinata distrusse tutti i raccolti. In quest’ambito si muove il giovane Angelo
Bucci che, incline agli studi fin da ragazzo, manifesta subito il desiderio di seguire la vita di S. Francesco
ma i genitori, tutt’altro che accondiscendenti, cercano in tutti i modi di dissuaderlo strappandolo anche
al convento in cui inizialmente è stato accolto. Dopo
un momento di sbandamento in cui il ragazzo è
dedito ai divertimenti e alle cattive compagnie, la
fede prende di nuovo il sopravvento per non abbandonarlo mai più e nel 1681 entra nel noviziato per
intraprendere un cammino rigoroso alla luce di una
sapienza e di una dottrina stimate ovunque. Divenuto
sacerdote è inviato a Palestrina come Lector artium
e membro della commissione degli esaminatori in
S. Pietro in Montorio, poi è professore di teologia
al Convento di S. Pietro Apostolo a Carpineto, poi
Definitore nel Capitolo Provinciale e membro della commisione ad compellendos incorregibiles, infine, Ministro Provinciale nel Capitolo di Frascati.
Sotto di lui la provincia vive un rigoglio di studi promossi dalla sua attenzione alla formazione culturale degli studenti, si interessa molto del Convento
di Artena, di recente istituzione, dotandolo di una
ricca biblioteca perché divenisse un centro di studi e di attività. L’importanza attribuita allo studio
emerge anche dai suoi scritti, curati e strutturati
in funzione pedagogica: In primum sententiarum
scripta, un’opera di natura teologica, è nata come
dispense per i giovani, di pari intento è la raccolta di sentenze di personaggi illustri dell’antichità,
le Sententiae classicae, disposte, per praticità di
consultazione, in ordine alfabetico. Eccetto l’Oratio
panegirica pro Philippo V, che è un’opera squisitamente encomiastica, volta ad esaltare la benignità del cattolico re di Spagna, le sue opere maggiori si preoccupano di rendere più comprensibili testi fondamentali per la formazione religiosa. Nella
Metaphysica Avicennae, la sua grande erudizione, la sua conoscenza di Aristotele, Platone Democrito,
Boezio, lo aiutano ad evidenziare il legame tra la
metafisica di Scoto e quella di Avicenna, mentre
la monumentale Joannis Duns Scoti Summa theologica, organizzata secondo la struttura della Summa
di S. Tommaso, cerca di rendere chiaro e sistematico il pensiero di Scoto, elevandolo all’altezza degli altri dottori della Chiesa. Padre Girolamo
ha cercato di chiarire il pensiero del Dottore Sottile
in merito a questioni centrali come l’<<univocità
ti in cui si legge: <<Fu alto di statura e guardava
storto. Morì in età di anni 77 e di religione 56>>.
Tuttavia, commenta il Marinotti, che a Girolamo
da Montefortino ha dedicato un accurato studio,
egli si sarebbe servito dell’edizione del Wadding
che includeva nel Corpus scotiano anche opere poi ritenute non autentiche, e, talvolta, interviene a precisare il senso senza riportare il testo
ad litteram, ma, pur nei limiti della scientificità
del tempo, merita di essere annoverato tra i più
validi commentatori di Scoto.
sto ad essere i polmoni attraverso
cui il Paese può ossigenarsi.Il
documento che i lavoratori di Azione
Cattolica hanno inviato al ministro
del Welfare, Maurizio Sacconi, contiene proposte concrete in riferimento
al potenziamento della ricerca, al miglioramento della tutela della salute e
della sicurezza sul lavoro, e per una
maggiore attenzione alle famiglie.Ciò che il MLAC auspica con questo suo contributo e la costruzione
di un nuovo Welfare visto dal basso, dove sussidiarietà e garanzie sociali trovino certezze ed equilibrio. Un
nuovo Welfare da costruire riconoscendo la centralità della formazione culturale e professionale. Un nuovo Welfare che ha bisogno di una concreta azione riformatrice del sistema scolastico ed universitario.
Il Movimento Lavoratori di
AC al ministro del Welfare,
Maurizio Sacconi
Le nostre proposte in merito al “Libro
Verde sul futuro del modello sociale”
L’Italia appare sempre più come il Paese
delle rigidità e dei corporativismi che limitano le capacità di crescita e di sviluppo,
non garantendo il ruolo di garanzia e controllo che lo Stato deve esercitare.
Paradossalmente i più garantiti sembrano essere proprio coloro i quali avrebbero meno bisogno di aiuto, lasciando nell’incertezza e nella precarietà i giovani e
i poveri. Tale risultato è frutto spesso dell’azione di lobbies autoreferenziali sempre meno interessate al bene del Paese.
Il Movimento Lavoratori di Azione Cattolica
(MLAC), nell’offrire questo suo contributo di idee in merito al “Libro Verde sul futuro del modello sociale” - che ha l’intenzione di traccia le linee guida per le future politiche sociali e del lavoro -, invita il Governo
ad uscire da tali dinamiche e ad operare per
dell’ente>>, la conoscibilità di Dio, il concetto di << reale>> e <<logico>>. Si sofferma, inoltre, sulla disputa tra scotisti
e tomisti sulla definizione della <<proposizione per sé nota>> e sulla dimostrazione dell’esistenza di Dio. A questa importante
opera attese fino alla morte che avvenne il 12 aprile 1738, attestata ne Il registro dei religiosi defun-
riequilibrare i sistemi di tutele e di libertà,
affinché l’orizzonte del bene comune diventi quanto meno visibile e si possa sperare
che giustizia ed efficienza torneranno pre-
Fonte: Ufficio Stampa AC Nazionale
Questa è in sintesi l’oggetto dell’incontro tenutosi a Colleferro il
1° febbraio dedicato al Lavoro in un mondo che cambia. Il
testo completo del contributo del MLAC al Libro Verde si trova
nella sez. Lavoratori del sito azionecattolica.it
Febbraio
2009
30
Don Angelo Mancini*
Con fatica ma anche con un pizzico di orgoglio e
soddisfazione possiamo dire di aver raggiunto un
bel traguardo: quello dei cinquanta numeri pubblicati del nostro mensile diocesano. Fedele all’impegno per cui è nato nel 2004 e al titolo di testata: Ecclesia in c@mmino, grazie alla preziosa collaborazione di quasi duecento inserzionisti a vario
titolo e per incarichi diversi in diocesi, la pubblicazione ha iniziato e in seguito migliorato la sua
funzione di segnalare il passo del cammino della Chiesa locale. Dirsi in cammino significa conoscere il punto di partenza, avere presente quello
di arrivo nella consapevolezza delle difficoltà che
il cammino stesso comporta. Di piccole e di più
grandi ne conosce anche il nostro mensile, che
inevitabilmente è divenuto uno dei punti privile-
Indice degli autori
dei primi 50 numeri di Ecclesìa
a cura di Tonino Parmeggiani
Cognome Nome
Articoli (numero/pagina)
Amendola Angelo
7/5-21/10-35/29-36/25-37/28Apicella Mons. Vincenzo, Vescovo
17/3-19/2.6-20/1-21/1-22/2.623/15.24-24/1-25/3-26/1 -27/1.1128/1-29/1-30/1-31/1-32/1-33/134/1-35/3.7.19-36/1-37/2-38/239/2-40/2-41/2.34-42/2-43/244/2-45/2-46/2-47/2.2-48/2-49/2-50/2
Arinze S.E. Francis, Cardinale Tit.
10/5-27/8-28/8-32/14-34/26-35/22Ass. Cult. Il Cerchio 23/20Associazione AMU 14/16Az. Cattolica Dioc. 48/23Basile Guido
8/10.17-9/5.18-10/12.13-11/8.1212/8.22-13/4-14/12.22-15/916/4-17/6.17.22-18/16.17-18/2220/20Beccia Teodoro
37/30-41/16.26-42/23Bianchini Sara
1/9-2/13-3/10.10.11-4/14-6/512/8-13/12-14/10-15/1.10-19/1423/5.10-25/4.6-28/10-32/11-34/3035/34-37/22-39/7-40/6-41/2042/10.11-44/10-46/12Blanca M. Virgen
25/9Bonazzi Laura
3/12-4/18-11/16Bongianni Guglielmo 24/20-36/35-37/25Bottaro Angelo
28/22-33/11-40/8-43/13-47/3850/6
Calenne Luca
6/15Calì Sara
49/27-50/29
Canali Francesco
14/20Cappucci Don Giorgio 2/9-4/9.10-6/8-7/6-11/4-12/5-
giati di osservazione
della nostra Chiesa diocesana. Sfogliando il
mensile, pur tralasciando per scelta il racconto della cronaca, si scoprono tante realtà, novità, iniziative che mostrano la vitalità della diocesi
e anche le ombre. Ma la
sua funzione non è quella di vetrina bensì di anticipare gli eventi per permettere una maggiore e
più ampia partecipazione dei fedeli. Ecclesia, grazie a validi esperti che generosamente offrono il
loro lavoro, si propone inoltre di allargare la conoscenza e la comprensione per una maggiore condivisione non solo della dottrina su temi specifici
come la bioetica, il sociale, della riflessione biblica, dell’azione caritativa, degli ambiti della pastorale ma anche dell’attualizzazione del messaggio
evangelico attraverso l’insegnamento magisteriale
e la vita della Chiesa. La vita ordinaria nei suoi
diversi aspetti, i temi dell’educazione e le varie espressioni di arte compongono alla fine una rivista che
a dire di alcuni è piacevole da consultare. In tutti questi ambiti non sempre il mensile è riuscito a
dare il meglio e ad essere puntuale. Soprattutto
manca della corrispondenza di alcune città della
Diocesi, di alcuni ambiti della pastorale e anche
della possibilità di poter interloquire con i lettori.
Non tutte queste lacune sono attribuibili ad Ecclesìa,
ai compiti già sopra elencati si aggiunge allora quello di essere pungolo verso i responsabili di comunità, aggregazioni, uffici e organismi diocesani per
una maggiore partecipazione a beneficio della chiesa locale tutta. Ricordare quindi il traguardo dei
50 numeri significa attingere a quanto è stato fatto per guardare al futuro con sano realismo ma
anche con rinnovato impegno. Sento il dovere di
ringraziare il vescovo Mons. Erba che ha voluto
la rivista e mons. Apicella che la sostiene attualmente. Un grazie particolare ai collaboratori in redazione, a quanti mantengono con grande impegno
le diverse rubriche, e a quanti inviano materiale
di volta in volta. Grazie a chi offre suggerimenti
e critiche al fine di migliorarne la qualità. Un modo
per ringraziare tutti lo ha trovato per Ecclesìa, Tonino
Parmeggiani elencando tutti gli articoli per autore, numero e pagina. Da ultimo un ringraziamento sincero e particolare va ai nostri lettori che con
senso critico e simpatia seguono numero per numero il cammino della Diocesi dalle pagine di Ecclesìa.
Alcune cifre sui 50 numeri di Ecclesìa
que presbiteri più prolifici hanno prodotto da soli
191 articoli, cioè il 48% di tutta la classe considerata. I 138 laici, invece, hanno scritto 875 pezzi ma, anche qui, si evidenzia una distribuzione
non uniforme, con i cinque più attivi che ne hanno scritti 316, quindi il 36,1 % di questa seconda
classe; ancora i primi dieci, con 474, oltrepassano la metà, il 54,2%. Nel redigere l’indice generale di tutti i collaboratori, si è voluto comunque
ricordarli tutti; a fianco del nome dell’autore si sono
riportati gli estremi di ogni suo articolo. Non si è
tenuto conto dei brevi comunicati e/o articoli di redazione. Di molti articoli mancanti del nome dell’autore
(per lo più quando portavoce di un’associazione)
si è cercato, nel possibile di rintracciarlo, per questo ci scusiamo fin d’ora, confidando nella benevoleza di tutti, per eventuali errori ed omissioni.
Nell’indicazione di ogni articolo si è seguito il criterio XX/YY.ZZ., di indicare cioè dapprima il n.
della rivista (XX), seguito dal numero di pagina dello stesso /YY., intervallato da un punto se c’è un
altro articolo del medesimo autore nello stesso numero, a volte anche nella identica pagina. Tra due
numeri della rivista si è interposto un segno di trattino a separazione (-).
Tonino Parmeggiani
Giunti al cinquantesimo numero di Ecclesia, ho cercato di tirare fuori qualche considerazione quantutativa che possa essere di ausilio, ad ognuno,
per interpretare il cammino fatto fin qui. Nell’insieme
(la rilevazione è stata fatta per i primi 49 nn.) gli
autori censiti sono stati 177, per un ammontare
di ben 1.361 articoli pubblicati, considerando tutti alla stessa stregua, sia per differente lunghezza, un terzo di pagina o per due pagine, sia per
la difficoltà nell’estensione, compilativo o di ricerca…, insomma l’importante è di essere riusciti, con
questo strumento mediatico (oltre chè nella versione cartacea è consultabile e scaricabile anche
on-line, dal sito web della diocesi, http://www.diocesi.velletri-segni.it) a contribuire alla crescita della nostra comunità ecclesiale diocesana -almeno
lo speriamo!-, e prima ancora ad assolvere al suo
scopo primario d’informazione ufficiale.Tornando
ai numeri, dei 177 autori, ben 99 (il 56%) hanno
avuto una collaborazione sporadica (83 di costoro hanno scritto un solo articolo, 16 sono arrivati a due…); riguardo poi ad una ripartizione territoriale ancor peggio, in quanto alcune comunità forse non sono mai apparse, malgrado i ripetuti appelli di collaborazione, neanche con una semplice notizia della festa del santo titolare o altro
evento.Nel complesso, comunque, i presbiteri (comprendendo anche i diaconi) sono stati 39, con 486
pezzi, pari al 35,7% del totale, mentre i laici (a volte anche rappresentanti di associazioni ecclesiali, comunità…) sono stati 138, con 875 articoli redatti, che rappresentano il 64,3%. Esaminiamo
adesso le due classi separatamente. Ponendo pari
a 100 i 486 articoli dei presbiteri, di questi 88 (il
18,1%) hanno per autori i vescovi e 398 (l’81,9
%) i 34 presbiteri; và sottolineato però che i cin-
*direttore di Ecclesìa
Nota:
Mentre la numerazione fino al n. 36, Novembre
2007, è regolare, dal numero successivo si sono
verificati degli errori nella stessa, per cui riportiamo di seguito quella esatta in grassetto, adottata nella redazione dell’indice generale degli autori, tra parentesi quella errata: n. 37, dic 07 (35,
nov 07); 38, gen 2008 (39, gen 08); 39, feb 08
(40, feb 08); 40, mar 08 (41, mar 08); 41, apr 08
(42, apr 08); 42, mag 08 (43, mag 08); 43, giu 08
(44, giu 08); 44, lug-ago 08 (45, lug-ago 08); 45,
set 08 (46, set 08); 46, ott 08 (47, ott 08); 47, nov
08 (48, nov 08); dal n 48, dic 08, torna regolare.
31
Febbraio
2009
MONS. FRANCO FAGIOLO*
Cantare è prima di tutto un’espressione dell’essere
umano. L’uomo non è solo un individuo che pensa e che parla, è un individuo che canta! E questo è determinato dalla sua conformazione fisica
e psichica. Come è predisposto per la parola, così
è predisposto per il canto. L’addome, i polmoni,
le corde vocali, la bocca e i muscoli facciali non
servono solo per parlare, sono fatti anche per cantare. E tutti possono cantare, tutti hanno gli organi necessari e si deve fare tutto il possibile per insegnare a cantare. Dal momento che nella Liturgia
si entra con tutta la persona e con tutte le doti e
le capacità espressive legate alla corporeità, chi
celebra non può non celebrare anche cantando.
Il canto è un’espressione impareggiabile, non sostituibile con altre. Cantare è molto più impegnativo che parlare! Per cantare bisogna dare di più
di sé, cantando si dona sempre qualcosa di più,
ci si avvicina sempre di più agli altri. Per questo,
cantare è la via privilegiata per accostarsi a Dio.
Allora, è proprio vero che chi canta bene prega
due volte! Niente fa pregare meglio del canto! È
importante cantare non solo perché è un’espressione dell’essere umano, ma è anche necessario
perché siamo cristiani, con la fede nel Cristo risorto! I cristiani cantano perché Cristo è risorto e vive
in loro. Cantano anche con le lacrime agli occhi,
perché il loro dolore è pieno di speranza e la loro
attesa è piena di consolazione. I cristiani cantano perché Cristo risorto li salva. Il canto dei cristiani non è il canto dei bontemponi o degli spensierati: è il canto dei liberati, come quello degli ebrei
sulle rive del Mar Rosso. È il canto dei redenti, come
quello degli esiliati che ritornano a Gerusalemme.
E senza queste ragioni di fede sarà veramente difficile far cantare le nostre assemblee.
Inoltre, nella Liturgia si canta perché è necessa-
La struttura si propone come punto
di riferimento per i problemi di
coppia e quelli dei figli con corsi di
gruppo o individuali e con supporto psicologico
Inaugurato
“L’Incontro”, progetto
della cooperativa Alké
per la famiglia
Fabio Ciarla
Ha aperto i battenti domenica 18 gennaio il centro “L’Incontro”, un “Centro polifunzionale per la famiglia” inaugurato e benedetto dal Vescovo di
Velletri-Segni Mons. Vincenzo Apicella. Realizzato
in una accogliente villetta in via Ceppeta Inferiore
62 (poco fuori dal centro di Velletri lungo la via Ariana)
dalla Cooperativa Alké impegnata a sviluppare fin
dalla sua fondazione, tre anni fa, una rete di solidarietà interfamiliare nell’ambito della Diocesi. Il progetto “L’Incontro” è l’espressione principale degli
rio sotto il profilo rituale, lo richiede la stessa struttura delle celebrazioni. Ci sono
alcuni riti o gesti che
sono canti, richiedono
la musica e devono essere cantati da
tutta l’assemblea.
Significa che il rito
da compiere è cantare! Il Gloria, è un
inno, pertanto non
può non essere
c a n t a t o !
Immaginiamo 80.000
persone all’Olimpico
prima della partita
della Nazionale: tutti insieme ….. recitano Fratelli d’Italia! Addirittura,
“l’Alleuia e il versetto prima del Vangelo si possono
tralasciare se non si cantano” (IGMR 39), perché
è fatto per essere cantato. Il Salmo responsoriale: se i Salmi sono nati per essere cantati, perché
alla messa ci accontentiamo di leggerlo? Almeno
il ritornello, vogliamo sforzarci di cantarlo? Il Santo,
è sempre preceduto dall’invito “.. uniti al coro degli
Angeli e dei Santi cantiamo…” e tutti insieme …..
lo recitano……… Le acclamazioni, il canto dopo
la comunione: come si fa a non cantarli? Da qui
si capisce che i canti non servono soltanto ad abbellire una celebrazione, a renderla più vivace…. I
canti servono a lodare, a supplicare, ad acclamare,
a meditare, ad adorare ecc. ecc. Allora, non si canta… tanto pè cantà! Nella Liturgia, il canto serve
“ad attuare l’opera della redenzione, rivelando la
gloria di Dio e trasformando i credenti per farne
un tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio
nello Spirito, fino a raggiungere la pienezza di Cristo”
obiettivi della cooperativa e vedrà come responsabile la psicologa Clara Camerino affiancata dalla collega Francesca Bizzoni e da Brunella Libutti,
insegnante e specializzata in Supporto nelle relazioni d’aiuto. I servizi che offre il centro sono ripartiti da una parte in grandi aree come il “Supporto
ai legami di coppia ed alla genitorialità”, il
“Supporto extrascolastico”, il “Supporto psicologico” ma vanno poi nello specifico di consulenze specializzate, come quella della logopedista Marina Selvaggini
che sarà presente in sede tre volte a settimana,
anche a livello legale e medico secondo le esigenze.
Fulcro de “L’Incontro” saranno comunque anche
le attività dello “Spazio Hobby” con giochi vari, già
pronto il torneo di Burraco, e iniziative di diverso
tipo da portare avanti soprattutto nel fine settimana per creare un riferimento certo e stabile per tutti, famiglie e non. Per entrare in contatto con il centro si possono chiamare i numeri 069632175 o
3663447559 o visitare il sito internet della cooperativa all’indirizzo www.alke-velletri.it o scrivere una
mail all’indirizzo [email protected].
“Quando parliamo di famiglia – ha spiegato la responsabile del centro Clara Camerino – intendiamo sia
(cfr. Sacrosanctum Concilium n° 2). In conclusione:
nella Messa non si canta solo perché a qualcuno
piace cantare. Cantare serve a portare a compimento l’opera di Dio che si sta celebrando e che
è la comunione delle persone in Cristo e tra di loro.
Cantare è un’azione unificante. Nasce dall’unità
psicosomatica delle persone e produce unità tra
le persone che cantano insieme, perché esige ed
offre più dono di sé e dove c’è più dono di sé c’è
anche più unità e comunione. “La musica e il canto appaiono, a loro modo, come degli elementi costitutivi di questa comunione del popolo credente perché uniscono i cuori, aumentando pure la Chiesacomunione. La musica e il canto esprimono l’identità
dei credenti riuniti”. (Conferenza Episcopale
Canadese, La musica e il canto nella liturgia, 1988).
PARROCCHIA S. MARIA ASSUNTA – SEGNI
RESPONSABILE DIOCESANO DEL CANTO PER LA LITURGIA
Tel. e Fax: 06 9768074 - Cell.: 3472218242
[email protected]
il nucleo familiare in senso stretto sia quello allargato della comunità. Allo stesso modo ‘Incontro’ è
per noi sia quello con l’altro che quello con noi stessi”. Un campo vasto di possibile intervento per chi
vorrà avvicinarsi ai corsi, di gruppo o individuali in
base alle esigenze e alle prospettive di intervento. Il primo a partire è proprio legato al supporto
alla coppia, in futuro si punta molto anche sull’aiuto
alla genitorialità attraverso incontri con professionisti e attraverso esperienze condivise di altre coppie. Numerosi gli intervenuti all’inaugurazione di domenica 18 gennaio, momenti di riflessione e di convivialità anche grazie al supporto di Ecco La Festa
(www.eccolafesta.it) , primo ‘sponsor’ del centro al
quale si spera se ne aggiungano altri con la voglia
di condividere i progetti e gli scopi de “L’Incontro”.
A breve saranno resi noti nello specifico i corsi in
preparazione e le attività alle quali ci si potrà iscrivere (sostegno didattico e motivazionale per gli studenti, spazio di ascolto di gruppo o individuale per
supporto psicologico anche in lingua inglese ecc)
per una struttura che si apre al territorio e che vuole lavorare per far crescere bene il territorio stesso.
Febbraio
2009
32
14/7-15/7-37/3211/1645/3749/3418/9-19/16-20/14.15-21/1322/13.19-26/15-28/11-40/743/22-45/11-47/12-48/12.13-50/12,14
Carluccio Lorena
23/11-28/22-29/11Carnevale A. Paola 21/12Castignoli Don Gianni 47/14-48/19-50/17
Cellucci Fabricio
42/37-44/9-45/3-46/14Centi Giovanna
16/21-49/27Centro Aiuto Vita
6/4Cesaroni Bruno
19/6Chialastri Don Cesare 1/7-2/4-7/10-9/9-11/7-15/10-18/824/10-28/10-30/10-38/12-39/842/1045/10Chialastri Lorenzo 10/9-27/10Ciarla Emanuela
18/14-19/17-20/5.17-21/22-22/1723/19-24/19-25/19-26/21-27/2128/25-29/26-30/25-31/27-32/3033/29-34/37-35/39-36/33-37/3843/30-44/38-45/36-46/37-47/3448/38-49/30.37-50/37
Ciarla Fabio
6/2.17-9/3-11/10-13/5-16/1-19/5.2323/1-26/12-29/20-30/28-34/3.22.2548/11-50/31
Ciccotti Annalisa
37/32Cipollini Francesco 27/7-28/6-29/14-34/18-44/12-49/28Cipriani Mario
35/18
Cipri Katiuscia
36/24-47/13Climati Carlo
8/12Colizzi Patrizia
48/22Colabucci M. Ant.
42/28Colaiacomo Alberto 17/10Colaiacomo Claudia 22/12Colaiacomo Federica 46/22Comandini Graziano 33/28-36/35-48/29Comp. Ponte Magico 42/12Com. Miss. Villaregia 21/16Coros Costantino
41/18-44/6-45/18.19-46/10.1147/3-48/5-49/5.17-50/9,9,29
Cossalter Nicoletta 16/13Crespi Goffredo
9/7D’Alatri Alberto
46/16D’Ascenzo Mons. Leonardo 1/8-2/7-3/9-4/16-5/16-6/13-7/118/16-12/18-14/5-17/14-18/7-20/728/18-29/8-30/8-31/24-34/36-35/26De Mei Mons. Fernando
44/24Del Giudice Franc. 47/18Della Vecchia Mara 12/19-13/8-14/18-15/15-16/14-17/418/17-19/18-21/14-22/11-23/18
24/20-25/7-26/9-27/17-28/21-29/27-30/9-31/13-32/29-33/3034/34-35/37-36/39-37/37-38/36-39/31-40/30-41/24-42/2643/28-44/37-45/37-46/37-47/39-48/22-49/39-50/36
Delle Chiaie Giusi 31/12Di Leonardo Carmelo 22/15Di Luzio Dario
14/2Diamante Don Franco 1/7-2/12.13-4/13.13-8/6-11/6-12/613/3.6-15/11-22/16-24/17-25/13Di Tondo Alessandra 49/31
Equipe ACR
21/15-43/36-46/23-47/2049/10Erba Mons. Andrea M. Vescovo 1/1.3- 2/1-3/1.3-4/1-5/1-6/17/1.11-8/1-9/copertina.1-10/1-11/1912/1.2-13/1.19-14/1-15/5
17/118/3.13-19/4.12-31/10-32/836/32-41/12-44/18-45/23-46/2647/26-48/25-49/22-50/21
Ercolani Fausto
1/10.10-8/14-10/13-3/13-8/14-20/321/12.20-24/7-29/15-31/3-50/22
34/6.10.13.39-35/17-36/2637/33.35-42/18-43/35-50/22.32
Caprara Angelo
Capretti Claudio
Carbonaro Davide
Caritas Diocesana
Fausto Ercolani
La dott.ssa Tiziana Biganti, direttrice della
Galleria Nazionale dell’Umbria, ha presentato durante una conferenza tenutasi nella
Sala Paoloni Angelucci, presso il Museo Diocesani
di Velletri, venerdì 30 gennaio, il libro biografico su Lello da Velletri preparato per la
Mostra che vedrà esposto nello stesso
Museo Diocesano, nel prossimo mese di maggio, il polittico detto di Sant’Agata, conservato nella Galleria da lei diretta e che è l’unica opera certa del nostro grande Maestro,
al quale mons. Ruggero Tredici volle attribuire per amor di patria anche la tavola della Madonna delle Grazie che si venera nella Cattedrale veliterna.
Il polittico realizzato nel 1427 è diretta derivazione della Madonna dipinta da Gentile nel
1425 per il Duomo di Orvieto; quasi un omaggio dell’allievo al Maestro.
Il Rotare Club Velletri, distretto 2080, in collaborazione con l’Associazione Culturale “Arte
e Storia” che cura il Museo Diocesano, hanno organizzato questo evento il primo per raccogliere fondi per finanziare il progetto
R o t a r e
Internazionale
sulla lotta alla
poliomielite,
la seconda
per cercare
di dare nuovo
e più consistente impulso alla conoscenza del
nostro piccolo ma impor-
tante Museo.
Il polittico di lello sarà esposto nella Sala che
ospita l’opera della maturità di Gentile da
Fabriano, quella “Madonna con Bambino e
Angeli” che ogni museo vorrebbe avere nella sua collezione.
Alla conferenza di presentazione, presenti il
Vescovo Mons. Vincenzo Apicella e il
Sindaco Fausto Servadio, hanno illustrato
il progetto il presidente del Rotare Club Velletri
prof. Vincenzo Sciamè, la dott.ssa Stefania
Severi, critico d’arte, l’avv. Renato Mammucari
e il prof. Marco Nocca dell’Accademia delle Belle Arti di Roma. Il prof. Sciamè ha colto l’occasione per presentare anche due pregiate stampe litografiche sul tema di Lello.
Augurandoci che questa mostra abbia il successo che merita, speriamo caldamente che
sia l’inizio di quella serie di eventi importanti
che potrebbero inserire il nostro museo in un
circuito di alto livello.
33
Febbraio
2009
Antonio Venditti
L’educazione, per sua intrinseca natura, deve abbattere barriere e costruire ponti di comunicazione
e di collaborazione tra culture, tradizioni, modalità di vita diverse; deve permettere di superare ciò che divide, per far risaltare il senso di umanità ed il fulcro essenziale di valori, presenti in
ogni autentica concezione culturale; deve instaurare dialogo, là dove c’è diffidenza ed aprioristica
chiusura, per tracciare percorsi di confronto sereno nella ricerca comune della verità, come base
di convivenza nella concordia e
nel rispetto reciproco.
Anche quando
suonano le trombe di guerra e soffiano i venti perversi del terrore,
quando la politica
e la stessa economia cavalcano
le tigri della violenta
contrapposizione,
l’educazione resta un’alternativa possibile, come
un faro luminoso nella sconvolgente bufera.
Tale convinzione risulta tanto più vera nella situazione internazionale, caratterizzata da un inestricabile
groviglio di problemi, sempre più acuiti da più o
meno occulte volontà di potenza e di rivalsa di
singoli e di gruppi, anche capaci di movimentare, condizionare e sottomettere stati ed intere aree
del mondo.
L’educazione può innanzitutto arginare le infauste “guerre di religione” che sono anacronisticamente
ricomparse nello scenario mondiale, con tanto
di distruzioni e morti di innocenti, nefaste riedizioni delle persecuzioni dei cristiani, che attualmente in più parti del mondo seguitano ad essere rifiutati e privati dell’elementare diritto di vivere in pace professando liberamente il loro credo religioso.Proprio sul rispetto reciproco della
religione deve porsi il primo dei fondamenti dell’educazione interculturale in ogni parte del mondo. Se ciò è generalmente garantito nei paesi
di matrice cristiana, lo stesso non può dirsi nella maggior parte di paesi di altra matrice religiosa,
dove non solo non esiste il diritto di culto, ma
esistono forme di ostilità e di oppressione fino
agli estremi della sistematica persecuzione.
La reciprocità, dunque, deve essere rivendicata da tutti e dovrebbe essere richiesta e garantita proprio da chi riesce a costruire luoghi di culto e professa liberamente la propria religione in
un paese diverso, in cui giustamente ottiene tutte le possibili garanzie.
L’educazione interculturale in Italia, in Europa e
nell’Occidente in generale è una necessità imposta dall’imponente fenomeno della migrazione
incessante di milioni e milioni di persone dalle
parti più povere del mondo, per poter soddisfare bisogni minimi di sopravvivenza, sfuggendo
alla fame, alla sete, alle epidemie o alle guerre
ed alle persecuzioni.
Senza entrare nel discorso delle complesse regolamentazioni dei flussi, che un singolo stato non
può operare da solo perché necessita un nuovo ordine mondiale che garantisca condizioni umane di vita proprio nei paesi più sfortunati e poveri del mondo, in balia delle prevaricazioni e del-
le forme più viete di oppressione, s’impone ugualmente l’esigenza di una educazione mirata all’integrazione progressiva di ogni persona di ogni
età, ed in particolare nell’età evolutiva, propriamente scolastica.
L’educazione è evidentemente interculturale, perché il “dialogo” può stabilirsi solo nella conoscenza
e nell’accettazione reciproca dei diversi contesti di cultura, superando però inevitabilmente ogni
contraddizione.
Se da parte del paese ricevente ci deve essere uno spirito sincero di “accoglienza” con la disponibilità all’aiuto per superare le difficoltà di inserimento in condizioni civili, da parte di chi chiede di essere accolto si deve essere la volontà
di “accettazione” di un nuovo sistema democratico
di vita, con leggi e regolamenti che si devono
conoscere e rispettare, con l’assunzione di diritti e doveri.
Non si possono reclamare gli uni, senza accettare gli altri; non si può chiedere il rispetto per
la propria cultura, senza rispettare la cultura del
paese ospitante. Anche per gli adulti si rende indispensabile un’educazione, non solo per le indispensabili conoscenze linguistiche, ma per
apprendere anche i caratteri della cultura e della storia e delle tradizioni del paese in cui si è
scelto di vivere, anche per facilitare l’integrazione
di quanti si sono inseriti da molti anni nel tessuto produttivo del paese, rendendosi spesso indispensabili, e quindi hanno diritto, se lo desiderano, a diventare cittadini del paese e comunque devono essere ospitati nelle migliori condizioni possibili.
Per i figli degli immigrati non dovrebbero ormai
più esistere rilevanti problemi, perché ormai da
decenni sono inseriti in ogni ordine e grado di
scuola che, in Italia, si è attrezzata ad affrontare le inevitabili “difficoltà” soprattutto linguistiche
iniziali e, una volta superate, facilmente si stabiliscono livelli di normalità.
Sorprende, quindi, la nuova sortita “politica” con
la proposta di istituire classi da riservare ad alunni/e, figli di immigrati, per permettere loro l’acquisizione della lingua italiana, ed ancor più sorprende la motivazione, in risposta alle critiche,
di voler evitare
la “discriminazione”.
Si spera che non
sia già pronto un
altro “decreto”
per continuare
la veloce “riforma” .
Le classi “differenziali” , che
esistevano per
soggetti in difficoltà di apprendimento, in Italia furono soppresse negli anni
settanta, per le giuste reazioni dei genitori che
constatavano la situazione discriminante per i loro
figli. Fu quindi applicata la scelta, più pedagogica, dell’inserimento all’interno di un normale
gruppo classe, con l’obbligo di interventi individualizzati e mirati al superamento del divario.
Sistema questo poi seguito, con iniziali forti perplessità, per l’inserimento di alunni/e in situazioni
di handicap anche gravi, e si è dimostrato quanto tale soluzione sia stata positiva, dal punto di
vista umano ed educativo per tutti. Se l’inserimento di alunni/e figli di immigrati avviene a livello di scuola dell’infanzia, c’è tutto il tempo e non
mancano le tecniche per acquisire gradatamente
le conoscenze linguistiche prima del passaggio
alla scuola primaria; il discorso continua a valere anche per l’inizio del percorso d’istruzione, mettendo in atto opportuni sostegni. Negli anni successivi, spetta ai docenti verificare il grado di competenza linguistica di alunni/e da inserire e stabilire le modalità di eventuale recupero.
Anche a livello di scuola media, senza il ricorso a classi “differenziali”, è possibile affrontare
con successo tale problema.
Nella mia esperienza, ricordo due casi di positivo inserimento di ragazzi che non conoscevano una parola d’italiano : una ragazza egiziana
ed un ragazzo fuggito dal Kossovo in guerra.
Per entrambi il Collegio dei docenti approntò un
programma di alfabetizzazione, praticato con entusiasmo e perizia dalle insegnanti di lettere che
riuscirono a coinvolgere nel progetto gli altri docenti e tutti gli alunni delle rispettive classi, diventate davvero “interculturali.
Febbraio
2009
34
Facchini Massimo
2/9-3/5-4/2.8-5/17.17-6/3-7/28/2-9/9-39/33
Fagiolo Mons. Franco 16/18-18/23-20/9-21/11-22/1523/14.15-27/12-28/14-36/31-37/1838/25-39/16-40/16-41/17-42/3243/14-44/29-45/16-49/15-50/31
Fagnani Don Augusto1/6-2/6-39/18Fanfoni Don Corrado 24/14Fanfoni Patrizio
12/12Favale Rossana
43/37Felici Pacifico
6/13Filippi Alessandro
36/16Fioramonti Franc.
36/37-37/31-38/35Fioramonti Stanislao 1/12-2/3.14-3/4.11-4/4.6-5/6.156/12.16-7/15.17-8/5-9/2.11.1610/7.12.17-11/5.17-12/15-13/11.17-14/21-15/4.6.16-16/1.17.2217/11.21-18/21-9.20.21-20/18.21-21/21-22/5-23/3.15.21-24/4.2125/21.22-27/3.4.13.18-28/4.5.27-29/3.5.12.21- 30/3.12-31/14.2232/3.16-33/3.6.16.25-34/16-35/6.25.31-36/3.5-37/3.34-38/8.21.26.2739/5.22-40/3.26.28-41/4.7-42/3.14.-43/3.10.16.1944/3.19.20.22.24-45/21.23.24.24.30-46/4.18.25..26.27.2947/4.25.26.27.28 48/4.24.25.26.26.26.28- 49/12.20.21.22.2350/3,10,18,19,20,21
Fioramonti Valentina 2/7-17/5.6.21-28/26-29/30-30/20.2731/16.29-32/31-33/30-36/38-37/3938/38-39/37-40/38-41/39-42/3843/38-44/39-45/38-46/38.39-47/3948.39-49/38-50/38
Florio Giuseppe
35/32Fontana Antonella 43/25Fortuna Cristina
49/16
Frasca Francesca 13/15-14/14-20/6Frasca Roberta
32/12Galante Silvia
32/7Galati Antonio
25/17-27/16-33/13-35/27-36/1339/25-40/20-41/16-43/7-46/1547/15-48/14-49/25-50/23
Gallé Antonio
26/19Gasbarri Mons. Primo (+)43/9-44/23-45/20-46/24-47/24Gattuso Giovanni
9/8Gentili Alessandro 2/6-3/14.14-4/18-5/18-6/18-7/18.188/18-10/18.18-11/18.18-12/22
13/18.18-14/22-15/18.18-16/20-17/22-18/22-19/22-20/5.2221/23-22/19.23-23/11.20-24/13.22-25/12.14.22-26/9-29/2930/26-31/28-32/27-33/27-34/35-36/27-37/36-38/4.34-39/17.2840/21.30-41/21.35.37-42/33.37-43/33.36-44/25-45/26Gessi Claudio
19/7-21/5-23/7-24/9-30/17-34/3337/11.12.15-39/20-41/33-43/19Ghibaudo Mons. Giovanni
23/12Gilotta Sara
2/2-3/5-4/2-5/2-6/3-7/2-8/2-9/6-10/211/2-12/10-13/2-14/2-15/2-16/8-17/218/2-19/7-20/2-21/2-22/14-24/12-25/11-27/20-38/5-39/26-40/2541/30-42/4-44/33-45/15-46/5-47/5-48/5-49/8-50/4
Gnavi Marco
41/31Gruppo Caritas Landi 26/14Gr. Giovani Collegiata Valmontone
45/14Gr.Giovani Conc.Segni
12/13Gr. Giovani Gavignano
12/11Iannucci Marta
42/20-43/20-47/19Langella Rigel
26/20-29/24-30/21-38/14.15-49/4Latini Pietro
9/14-13/13-14/3-15/14-16/13-17/17-18/1619/19-20/16-22/10-23/8-24/16-25/1626/6-27/14-28/16-29/22-30/11-31/2033/9-35/29-36/21-39/29-41/13-42/3544/8-45/27-48/16Leandri Irene
16/19-17/20-18/19-21/4Legge Vincenzo
43/24Leoni Alessandro
38/24Leoni Luca
3/inserto-40/31.35Leotta Tommaso
3/2-5/2-16/2Lepore Luciano
21/4-30/17-36/19-37/11-38/1848/20Libutti Brunella
25/4Liverani Pier Giorgio 3/6-4/5-5/10-6/4-7/4-8/11-9/13-
TONINO PARMEGGIANI
Da pochi giorni è uscita dalle stampe una nuova pubblicazione, «SANTA MARIA ASSUNTA»,
del Dr. Stanislao Fioramonti, indefesso collaboratore
del nostro giornale, avente come sottotitolo “Guida
della Collegiata di Valmontone” che, invero, sta
un po’ stretto al lavoro che avrebbe meritato anche
“Storia della…” in quanto non si limita ad una
descrizione dell’esistente ma ricostruisce l’origine, il contesto storico di provenienza, di ogni
aspetto trattato: probabilmente ciò è dovuto al
fatto che è stato considerato un aggiornamento di una precedente guida, realizzata dallo stesso autore venti anni orsono.
Il volume, che consta di 110 pagine, è stato edito dall’Associazione Culturale “Il Campanone”,
con contributo del Comune di Valmontone, e si
è quasi reso necessario per rendere conto di tutta la serie dei lavori succedutisi in questo intervallo di tempo, come la tinteggiatura esterna ed
interna delle grandi superfici del complesso chiesistico, il restauro di molti dei quadri ivi contenuti, del coro ligneo mentre è già stato finanziato
il restauro della grande cantoria
settecentesca, nonché per recepire anche tutte le notizie storicodocumentali emerse dalla ricerca d’archivio.
La Chiesa Collegiata attuale si presenta veramente imponente,
accanto all’altrettanto Palazzo
Pamphili (imparentata con Papa
Innocenzo X) la famiglia feudataria che, sulla fine del secolo XVII,
finanziò la ricostruzione della
chiesa (coeva a quella del loro palazzo): il grande volume della cupola (rivestita all’estradosso con lastre
di piombo) a base ellittica (misura all’incirca metri 30 di lunghezza per venti di larghezza), marcato altresì da due grandi torri campanarie, è facilmente identificabile
anche da molto lontano. L’architetto
fu Mattia De Rossi, di evidente scuola berniniana, ed il nuovo edificio
sacro venne consacrato nell’anno 1703, andando a sostituire la
preesistente chiesa gotica che, a
sua volta, aveva ereditato quella romanica del primo millennio;
una permanenza, nel corso dei secoli, non solo materiale, ma che si
esplica anche nel culto, nella devozione dei valmontonesi, testimoniata ancora dal
titolo stesso di Collegiata, documentato fin dal
sec. XIII, e la dedicazione della stessa
all’Assunzione in cielo di Maria Santissima, proposizione diffusa sin dai primi secoli del cristianesimo - già nel V secolo da Efrem il Siro, come
rileva l’autore - benchè il relativo dogma di fede
sarà approvata dal Magistero solo nel 1950 con
S.S. Pio XII.
Precedono il volume un saluto dell’attuale parroco Mons. Luigi Vari ed uno di Mons. Luciano
Lepore; l’opera è arricchita da molte foto a colori delle opere d’arte esistenti, di alcune foto d’epoca, da un elenco dei parroci degli ultimi tre
secoli e mezzo, da una bibliografia ed in ultimo
- cosa lodevole - dalle foto di tre opere d’arte
rubate nel tempo (tra cui un quadro del Conca)
e che non bisogna assolutamente rimuovere dalla memoria collettiva.
Anche Papa Benedetto XVI, l’allora Cardinale
Joseph Ratzinger, negli anni 1995 e 2000, visitò la Chiesa.
L’illustrazione storico-artistica per chi vuole conoscere di più questo splendido esempio del barocco, conduce il lettore-visitatore in un itinerario
che, iniziando dalla storia di tutto il complesso
chiesistico, ne approfondisce poi la ricostruzione fine seicentesca, soffermandosi infine in ognuna delle numerose cappelle e degli altri elementi
architettonici che l’arricchiscono.
STANISLAO FIORAMONTI, SANTA MARIA
ASSUNTA - Guida della Collegiata di
Valmontone, Edizioni “Il Campanone”,
2009, pp.110.
35
Febbraio
2009
Invalidità civile: indennità
d’accompagnamento
Avv. Daniele Pietrosanti
Dopo la breve pausa del mese scorso, necessaria
al fine di affrontare un argomento di particolare
utilità ed attualità come quello relativo alla social
card e al bonus famiglia, torniamo ad occuparci
dell’invalidità civile.
Nei numeri precedenti abbiamo avuto modo di capire che cosa si debba intendere per invalidità civile e quali siano le procedure necessarie per il conseguimento del suddetto status ed abbiamo infine analizzato alcune tipologie di prestazioni previdenziali quali l’assegno di invalidità e la pensione
di inabilità; nel numero attuale affronteremo più
da vicino la figura della cosiddetta indennità d’accompagnamento. L’indennità di accompagnamento
è stata istituita dalla legge dell’11.2.1980 n. 18.
Si tratta di una provvidenza in favore degli invalidi civili totalmente inabili a causa di minorazioni fisiche o psichiche: in particolare essa spetta
a chiunque sia impossibilitato a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore e
a chi necessita di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita.
A seguito di un articolato percorso giurisprudenziale sono state superate vecchie ingiustizie poiché è stato stabilito che, ai fini della valutazione
dello stato di inabilità totale che garantisce il diritto all’indennità di accompagnamento, debba essere considerata anche la cecità parziale (coesistente
con altre malattie generiche) e che l’indennità di
accompagnamento possa essere concessa
anche in favore di bambini in tenera età, in quanto anche per gli infanti, che pure, per il solo fatto di essere tali, hanno bisogno comunque di assistenza, può verificarsi una situazione determinata
dall’inabilità, la quale comporti che l’assistenza,
per le condizioni patologiche in cui versa la persona, assuma forma e tempi di esplicazione ben
diversi da quelli di cui necessita un bambino sano.
Le condizioni previste dalla legge per l’erogazione
dell’indennità d’accompagnamento sono:
-La cittadinanza Italiana. Precedentemente era
stabilito che solo i cittadini italiani avevano diritto alla suddetta provvidenza economica mentre
per gli stranieri era previsto l’obbligo della titolarità della carta di soggiorno. Recentemente la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23.12.2000
n. 388 e dell’art. 9, comma 1, del decreto legis-
lativo 25.7.1998 n. 286, nella parte in cui escludono che l’indennità d’accompagnamento possa
essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso della carta di soggiorno. Allo stato attuale pertanto chiunque, purchè in possesso dei necessari
requisiti sanitari, può
essere titolare di indennità d’accompagnamento;
-I necessari requisiti sanitari. In particolare è necessario che il soggetto che ne faccia richiesta sia stato riconosciuto
invalido totale in
quanto non in
grado di deambulare autonomamente o senza l’aiuto di un accompagnatore o comunque non in grado di svolgere
autonomamente gli atti quotidiani della vita;
-Mancato ricovero. Per poter usufruire dell’indennità
d’accompagnamento è necessario che il richiedente non sia ricoverato presso istituti con retta
a carico dello stato (quindi possono usufruirne coloro che sono ricoverato presso istituti privati) e che
non sia titolare di indennità analoghe all’accompagno quali le indennità percepite per motivi di
lavoro, di guerra o di servizio;
-Irrilevanza del
reddito. A differenza dell’assegno di
invalidità e della pensione di
inabilità per cui
sono previsti
specifici limiti
reddituali (come
abbiamo visto
nei precedenti numeri), l’indennità d’accompagnamento spetta a
chiunque sia
in possesso dei prescritti requisiti sanitari, indipendentemente dal reddito. Va infine ricordato che
l’indennità di accompagnamento non è incompatibile
con lo svolgimento di attività lavorativa dipendente
o autonoma e che coloro che ricevono l’indennità di accompagnamento, devono presentare, entro
il 31 marzo di ogni anno, una dichiarazione di responsabilità ai sensi delle leggi n. 15/68 e n. 45/86 sulla permanenza o meno del requisito del non ricovero in istituti a titolo gratuito. La dichiarazione
deve essere presentata su modulo prestampato
che viene inviato a casa dell’interessato, che deve
compilarlo e spedirlo all’INPS, al Comune o all’A.S.L.
di residenza.
Le domande di invalidità costituiscono una
delle attività principali svolte dai Patronati. A tal
proposito chiunque fosse interessato ad avere informazioni in merito o ad inoltrare la suddetta domanda potrà rivolgersi liberamente al Patronato ACLI,
istituito dalla nostra diocesi a servizio dei bisogni del cittadino ed avente sede in Velletri, Via
Privata Jori 17, oppure telefonando al numero
0696142532.
Febbraio
2009
36
10/10-11/15-12/20-13/9-14/17-5/1316/6-17/7-18/5-19/11- 20/11-21/6-22/8-24/15-25/15-26/1127/15-28/19-29/13-30/13-31/15-32/6-34/31-35/28-36/1137/19-38/10-39/9-40/4-41/6-42/5-43/6-44/4-45/5-46/6-47/648/6-49/6-50/5
Lopes Mons. Angelo 5/4-8/15-10/16Loppa Mons. Lorenzo vescovo 29/7Lungarini Fabrizio 2/8-4/8-25/5-26/7Mancini Mons. Angelo1/2.5-3/4-5/1.14-9/4-11/2.427/19-29/6.31-31/6-32/18.2334/4-36/14-43/18-45/12- 47/5.23.29-48/15.35.37-50/16.30
Manzini Alberto
48/15Marchetti Fabrizio 33/15-37/16-38/22-39/3240/24-41/8-42/13-43/17-46/31-47/31-48/31-49/2450/25
Mariani Mons. Roberto1/13-12/17-39/10-40/10-47/1048/10Massotti Alberto
31/19-32/15-33/12-36/36Mastrone Massimil. 8/9Mattoccia Enrico
9/15-10/14-11/14-14/9.1915/14.17-16/9-17/18-18/23-19/18-20/19-22/23-30/733/26-38/32.33-40/23-41/32-48/32Mazzer Don Silvestro 22/20.21Mentuccia Paola
19/13-20/4Mestre Pie Venerini 29/18Mezzina Maria
23/13-24/6-38/7Mignogna Luca
6/11Missionarie
S. Paola Frassinetti 21/14Molinari Marta
21/4Molinaro P.Vincenzo 5/13-6/6-47/37Monastero Clausura
S Maria Grazie
2/11-3/7-5/8-6/11-26/5-29/2231/8-32/13-40/9-41/9-42/31-43/32-47/12-48/16-50/20
Montellanico Franco
Morelli Carmela
Movimento Focolari
Movimento Vita
Nanni Emanuela
10/1644/306/10-40/26-46/1638/1116/10-33/10-36/25-43/2249/16Navarra Mons. Bruno 3/8-18/12-22/4Nemesi Don Marco 26/24-27/22-28/24-29/2830/24-31/26-32/32-33/3137/40-38.39-39/38-40/39-41/39-43/39-44/39-45/3846/39-48/39-49/39-50/39
Noviziato Don Orione 7/16-32/7Pacchiarotti Andrea 16/9-30/16-31/18-32/20-33/1434/33-40/15-44/7-47/11Panici Diego
16/11Parmeggiani Tonino 3/8-7/12-12/21-13/14-14/815/18-20/12.17.22-21/1722/18.22-23/16-24/18-28/12-29/19.21-30/18.1931/4.21-32/24-33/13.22-34/8.9.12-35/20.21
38/16.28.31-40/36-41/24.25-42/27.27.30-43/2144/17.26-45/19.34.35-46/36-47/9.16.16.23-48/27.3649/36-50/26.30.30.34
Past. Giov. Dioc.
16/5-17/16-18/10-20/13-35/3836/34-43/39-44/36-49/35Picca Mons. Paolo 5/7-6/14-12/17-13/16-14/1242/39Pietroni Marta
45/6-46/7-47/7-48/7-49/7-50/7
Pietrosanti Daniele 45/18-47/29-48/34-49/32-50/35
Pizzuti Gianni
37/23Pompili Domenico 42/26Pontecorvi Fabio
42/24-43/15-44/32-45/3246/32-47/32Quattrocchi Alberto 41/26-46/35Risi Mons. Franco 4/17-7/9-8/13-9/14-14/6-15/831/11-32/22-33/8-35/30-36/2037/14-38/23-39/30-40/18-41/10-42/16-43/12-44/2845/28-46/30-47/30-48/30-49/26-50/24
Mara Della Vecchia
Tra le opere del teatro musicale del XX secolo
emerge per originalità e espressività espressiva emerge il Mosè e Aronne di Arnold
Schoemberg.
L’opera, il cui testo fu scritto dal compositore stesso ispirandosi liberamente alla Bibbia, prende
inizio dalla scena del roveto ardente, dove Mosè
riceve da Dio la sua missione e continua con l’esodo del popolo d’Israele dall’Egitto e la costruzione del vitello d’oro, durante l’ascesa del profeta sul monte Sinai.
Nell’opera Schoenberg supera, tuttavia, ogni azione propriamente detta, per dare rilievo alla contrapposizione tra Mosè e Aronne, l’uno custode e difensore della concezione di Dio come unico, invisibile e onnipresente, l’altro che vuole e
deve rendere comprensibile e accettabile al popolo un’idea così assoluta e infinita di Dio.
Mentre Mosè è sul monte per ricevere le tavole della legge, Aronne è costretto a cedere alle
richieste del popolo sgomento e smarrito e consente l’adorazione dell’idolo d’oro.
Al ritorno Mosè, dopo aver distrutto il vitello, si
scontra violentemente con Aronne, ma comunque la certezza di poter portare a compimento
la propria missione, appare vacillante e al finire del secondo atto Mosè esclama: “mi sono fatta dunque un’immagine falsa come solo un’immagine può essere! Dunque sono vinto!
Ed era tutto follia ciò che ho pensato e non può
né deve essere detto! O parola, parola che mi
manca!”.
La composizione musicale di Schoenberg si ferma qui, al termine del secondo atto, anche se
egli scrisse il testo del terzo atto, nel quale descrive la morte di Aronne, non lo mise in musica,
al contrario, la composizione dei primi due atti
venne completata piuttosto velocemente, nel volgere di due anni: dal 1930 al 1932.
Anche se la vicenda sembra non essere completata nello spazio temporale, quello che conta e che raggiunge la compiutezza nell’opera,
è la contrapposizione tra i due protagonisti che
crea una tensione non risolvibile e anzi accentuata dall’intervento del popolo, il coro che sembra estremizzare la diversità tra i due fratelli, diversi anche nella caratterizzazione vocale: Aronne
si esprime con un registro tenorile con ampie frasi melodiche, Mosè non si distacca dallo
Sprechgesang (un canto parlato, utilizzato
diverse volte dall’autore), forse a evidenziare la
purezza del pensiero di Mosè che non può o non
riesce ad esprimere ineffabilità del suo Dio.
Nella scena iniziale del roveto in fiamme il compositore utilizza contemporaneamente il canto
e lo Sprechgesang per la voce di Dio che parla a Mosè: sono presenti sei voci soliste che cantano in orchestra accanto allo strumento che le
raddoppia e un gruppo di quattro e poi sei voci
che si esprime con lo sprechgesang, posto dietro la scena.
Si crea in questo modo, un effetto di spazio infinito, la fonte sonora della voce divina non può
essere individuata, permeando di mistero tutta
la scena.
Un’altra parte dell’opera molto interessante, è
quella del vitello d’oro che risulta più vicina alle
forme tradizionalmente operistiche, si tratta di
una sinfonia in cinque movimenti, Solenne, Adagio,
Allegro alla marcia, Scherzo, Finale. In ogni scena Schoenberg non ha mancato di indicare dettagliatamente l’azione, tuttavia la messa in scena di Mosè e Aronne rimane di difficile realizzazione.
37
Febbraio
2009
Emanuela Ciarla
La festa del carnevale ha
origini antichissime, riconducibili a prima del
Cristianesimo e precisamente ai saturnalia
romani, però celebrata
come noi la intendiamo
oggi è riferibile al Medioevo.
Il nome viene citato per
la prima volta in un atto
scritto a Subiaco nel
965 in riferimento al
pagamento dei censi ad
una abbazia e quindi si
parlava di carnelevare,
oppure di carnisprivium
e carnislevamen, in relazione alla privazione della carne da attuare in quel
periodo. Tornando al primo termine, carnelevare,
con esso si andava ad
indicare i giorni che precedevano la quaresima, che rappresentava il periodo di penitenza per eccellenza, sia dal punto di
vista alimentare che sessuale, fissato dal
calendario liturgico già dal IV secolo. Il carnevale precedeva la quaresima e durava da pochi
giorni a qualche settimana, fra gennaio e marzo e per questo, prima delle grandi privazioni
si tendeva all’abbondanza alimentare e ad ignorare alcuni divieti. A proposito dei comportamenti
da tenere in quaresima Bernardino da Siena, in
un suo scritto del 1425, ricordava che il digiuno doveva essere osservato dai fanciulli dall’età
dei sedici anni e dalle fanciulle dai tredici, mentre gli anziani e gli ammalati, impossibilitati a seguirlo, avevano bisogno della licenza scritta del confessore. In un famoso quadro di Pieter Brueghel
il Vecchio viene rappresentato il “Combattimento
tra Carnevale e Quaresima”: nella tela vediamo
come in una grande e popolosa piazza di un paese fiammingo si rappresenta in modo allegorico il Carnevale, un florido personaggio armato di spiedo infilza un maialino da cuocere,
stando seduto su una grossa botte dietro cui vanno in
processione musicanti forniti di griglie e bicchieri. Il suo
avversario, la Quaresima, è
una figura emaciata, armata
di una pala da forno su cui
trasporta due miseri pesci. Il
carnevale era caratterizzato
da feste e banchetti a base
di carne secondo una tradizione pagana secondo la quale si celebrava il cambiamento
della stagione e la ripresa ciclica della vita dopo l’inverno, il tutto con finalità
propiziatorie. Naturalmente con la rinascita del
secolo XI il carnevale acquista grande importanza, si celebrano rituali di combattimento tra
giovani di diverse contrade cittadine, legati forse anche alla necessità di avere soldati pronti
alla difesa, ma anche cerimonie iniziatiche per
la vita dei giovani stessi, che in alcune città della Francia avevano un vero e proprio disciplinare con maestri, regole e con un re del Carnevale
già dal XIII secolo. Comparirono i primi nomi
allegorici, tra cui citiamo i più casti che andavano dai Balordi di Amiens, agli Orridi di Cambrai.
Questi gruppi potevano mascherarsi, bere, corteggiare le ragazze, prendersi gioco della gente su carri allegorici: in sostanza si criticava il
modo di vivere normale. Anche l’uso
della maschera risale alla notte dei
tempi ed è anch’esso un residuo di un
rituale primitivo dotato di importanti significati antropologici, ma spesso venne osteggiato dalla Chiesa perché le
maschere stesse
erano viste come
simbolo del demonio, in quanto si riteneva che snaturassero la somiglianza tra l’uomo e
Dio, il suo creatore.
In origine erano
sicuramente simboli della forza della natura o del mondo dei morti e comunque erano sempre usate per rituali propiziatori. La maschera fonde colui che la indossa con il soggetto che
ritrae e questo spaventa, tanto che anche le autorità civili tendevano a limitarne l’uso, perché rendevano difficilmente identificabili gli autori dei più
vari crimini. Dal XIV secolo il carnevale subì delle trasformazioni e da fenomeno popolare diventò d’élite, in quanto era il signore a dettare le
regole e le feste erano circoscritte alla corte, con
giostre, tornei e celebrazioni di matrimoni. Si diffondono i cortei mascherati e i carri allegorici anche
se la chiesa riformata tentava sempre di eliminarlo.
La chiesa naturalmente accusava tale festa di
paganesimo ma quest’ultima era talmente radicata e piena di simboli, che ha resistito agli attacchi: ancora oggi il carnevale muore e rinasce,
come l’inverno che con la luna del martedì grasso lascia spazio alla primavera.
Febbraio
2009
38
Rolando Ciarla
35/17Romaggioli Primo
47/37Ronzani Alvaro
36/18Rubini Antonello
40/33Sacchi Pietro
26/12Safina Giorgio
12/16Sammartino Don Claudio 29/16-46/9-47/9-48/9-49/4Segù Barbara
8/15Seminaristi Diocesi 26/17-28/16-29/18-30/22-32/12Serangeli Alfredo
1/11-2/10-4/15-9/17-21/1823/15-25/20-29/23-33/20-46/21Serangeli Ambra
3/12Siconolfi Michele IRC 50/12
Siniscalchi Gianfr. 39/35-42/25Solci Adriano
9/18-10/18Spigone Fernanda 32/28-41/28.28.29-42/22.2243/20-44/14.16-45/17-47/18-48/18.19.20-50/28
Spigone Ilaria
10/15-44/15Suor Nevia
6/11SuorCarla Cism’
18/18Suore Ap.ne Acero 1/13-32/21-41/14-44/11-48/23Sr M. Pie Venerini 8/17Tartaglione D. e N. 6/14-8/8-9/12-10/8-12/9-14/1315/12-16/12-17/9-18/6-20/1021/9-22/9-23/6-24/8-25/18-26/8-27/14-28/20-29/12-30/932/24-33/24-34/30-35/38-37/25.26.29-38/6-39/16-40/17.2241/23-42/9.17-43/34-46/17-47/17.35-48/17-49/14Tomasi Paolo
48/3Trani Francesco
6/10Uff. Lit. Diocesano 48/28Uff. Miss. Diocesano 28/17Valentina AC
26/18Valenzi Don Daniele 1/8-2/5-13/20-16/16-25/2022/6-24/8-33/18-44/13-47/22.29Valenzi Valeriano
42/21-48/19Valli Aldo Maria
13/7-33/4Vari Mons. Luigi
1/3-2/3-3/3-4/3-5/3-6/7-7/3-8/3-11/912/3-18/11-23/4-28/3-29/4-30/6.1436/30-37/6-38/3-39/3.4-44/19-45/21-46/25-47/25-48/2449/9.20-50/10,18
Venditti Antonio
7/14-8/13-9/15-14/15-16/15-17/1518/15-19/10-21/7-26/16-28/2329/25-30/23-31/25-32/25.26-33/7-34/32-35/8-36/22.23-37/2739/34-40/27-41/36-42/34-43/31-44/31-45/33-46/33-47/3348/33-49/33-50/33
Vigo Gian Paolo
43/27-44/33Vitale Marco
42/8Vitali Don Dario
2/4.5-3/7-4/7-5/9-6/6-7/8-8/4-9/1010/6-11/3-12/10.14-13/10-13/4-15/316/4-17/8-18/4-19/8- 20/8-21/3.8-22/1.3.7-24/3-25/8.1026/3.4.10-27/5.6-28/5.7-29/9-30/5-31/9-32/5-33/21-34/2835/5.24.36-36/12.39-37/4.9.10-38/4.9-39/6.24-40/16-41/2242/19-43/5-44/5-45/7.9-46/8.20-47/8-48/8-49/9.18-50/8,14,27
Zuccaro Damiano
15/17-
di Valentina Fioramonti
Milk, Un film di Gus Van Sant, con Sean Penn,
James Franco, Emile Hirsch, Josh Brolin, Victor
Garber, Diego Luna. Biografico, durata 128
min. - USA 2008
Un biopic diretto da Gus Van Sant sulla vita di
Harvey Milk, primo gay dichiarato ad essere eletto ad una carica politica negli Stati Uniti. È da
almeno una decina d’anni che il regista di Paranoid
Park tenta di raccontare la storia di questo personaggio, quasi sconosciuto in Italia, simbolo negli
USA della lotta per i diritti dei gay. Tutto sembrava pronto a metà anni 90: Tom Cruise avrebbe interpretato l’assassino di Harvey, mentre Sean
Penn, già allora, sarebbe stato Milk. Ma il produttore, Oliver Stone, voleva una pellicola politica, mentre Van Sant ambiva a costruire la parabola esistenziale di un personaggio poliedrico,
non solo un attivista politico. Riesce nel suo intento oggi, in modo egregio, senza santificazioni,
grazie soprattutto alla bravura di Sean Penn, che
ha interpretato il personaggio di Harvey con il
suo solito talento. Tanto che si è già portato a
casa un Golden Globe ed è in corsa per l’Oscar
come Miglior Attore Protagonista. La pellicola indipendente è costata poco più di 25 milioni di dol-
lari ed è diventata subito un caso mediatico,
pur essendo uscita con
un numero di copie limitato. Il film è uscito inizialmente nelle sale
americane il 26 novembre 2008, in occasione
dell’anniversario dell’assassinio di Milk e
Moscone, mentre da
noi è arrivato solo il
23 gennaio scorso.
Harvey Milk è un
quarantenne laureato in matematica che
lavora presso una
Società di Investimenti
a Wall Street. Vive la
sua omosessualità
in una clandestinità
volontaria, finchè un
giorno, in metropolitana, incontra Scott
Smith, un giovane
omosessuale che
diventerà suo compagno di vita. Per vivere liberamente la sua
storia con Scott,
Harvey si trasferisce
a San Francisco nel
quartiere Castro, conosciuto per l’alta concentrazione di omosessuali che qui vivono ghettizzati ed emarginati dal resto
del mondo. Nel negozio di fotografia aperto da
Harvey e Scott, Castro Camera, si raccoglierà
presto un gruppo di giovani attivisti omosessuali,
allontanati dalla società e dalle famiglie ma con
la speranza di veder riconosciuti quanto prima
i loro diritti civili. L’incontro con questi ragazzi,
che quotidianamente pagano il prezzo della loro
natura con percosse e violenze pur di vivere alla
luce del sole, porta Harvey ad impegnarsi in prima persona nella lotta per i diritti dei gay, lotta
che ben presto assume i toni di una crociata per
il riconoscimento universale dei diritti di qualsiasi
essere umano. Harvey si candida alla carica di
consigliere comunale di San Francisco e, dopo
innumerevoli sconfitte, riesce finalmente a farsi eleggere. Promotore della storica ordinanza
sui diritti dei gay e trionfatore contro la
Proposition 6, che nel ’78 voleva bandire gli omosessuali dall’insegnamento nelle scuole pubbliche della California, Harvey Milk verrà assassinato il 27 novembre del ’78 insieme al sindaco Moscone dall’ex consigliere conservatore Dan
White, interpretato da Josh Brolin, ruolo per il
quale l’attore ha ottenuto la nomination all’Oscar
come Miglior Attore Non Protagonista. Il personaggio di Dan White è fondamentale e Brolin lo
39
Febbraio
2009
interpreta magistralmente: è il carattere più complesso del film, esprime le insoddisfazioni di un’intera middle class divisa tra conformismo e compromessi, tra slancio alla comprensione e rifiuto. Scrittore e pittore, oltre che regista, Gus ha
scelto i protagonisti della pellicola tra i migliori
attori delle ultime generazioni, rendendo la biografia un racconto corale, non un assolo. “Al pari
di Sean, che si è prestato ad una trasformazione
fisica e psicologica per Milk” ha dichiarato in un’intervista, “tutti (Diego Luna nel ruolo del suo ultimo compagno; Emile Hirsch nella parte di Cleve
Jones, il ragazzo che imparò a essere un attivista al fianco di Milk; Alison Pill, la giovane Anne
Kronenberg che si unì al gruppo di Castro Street;
Victor Garber, nel ruolo del sindaco George Moscone)
hanno contribuito a un affresco che volevo, al
tempo stesso, iconografico e vivo”. James Franco,
spesso comprimario illustre in blockbuster
come Spiderman e Nella valle di Elah, forma con
Penn una coppia poetica che rievoca quella “da
marciapiede” di River Phoenix e Keanu Reeves.
Con Milk, Gus Van Sant approda all’età adulta
dopo aver scandagliato la giovinezza con altri
due film, Will Hunting e Scoprendo Forrester.
abbandona la singolarità dell’esistenza per aprirsi ad un tema di respiro sociale in un film dal
sapore convenzionale e raffinato. Il film ci porta negli anni ‘70, ma sembra girato oggi. In particolare, ci sono due parole che appartenevano alla quotidianità di Harvey che sembrano prese da un discorso di Barack Obama: hope and
change, speranza e cambiamento. Il legame tra
i due personaggi è stato più volte sottolineato
dalla critica, che ha voluto interpretare il successo
del film come uno dei primi risvolti dell’avvento
alla Casa Bianca del primo presidente di colore. Con la morte di Harvey Milk si interruppe quel
movimento politico e culturale intorno a cui si
erano radunati molti protagonisti della controcultura americana, emarginati, militanti per i diritti civili, intellettuali anti-razzismo e liberali. Con
il film di Gus Van Sant si è riaperto il dibattito.
Perché il film, uscito in Usa il giorno dopo l’elezione Obama e dopo la ratifica del voto contrario all’emendamento della Proposition 8, che
aveva garantito il matrimonio tra i gay, è diventato la bandiera per nuove rivendicazioni.
Perché Milk, come Obama, ha parlato a tutti, non
solo alla minoranza alla quale apparteneva.
Théodore Géricault
studi preparatori, che si trovano al Louvre. Egli s’incontrò con due superstiti, Corréard e Savigny, dai
quali apprese i particolari del naufragio, e che gli
fecero da modelli insieme al giovane Delacroix; inoltre, approfondì lo studio sul corpo umano esaminando i cadaveri all’obitorio. Alla fine scelse di rappresentare il momento cruciale in cui l’ingegner Corréard
indica al medico Savigny, appoggiato all’albero, l’avvicinarsi del brigantino Argus, che li porterà in salvo. Nei primi studi, preliminari alla realizzazione
finale dell’opera, Géricault mise una nave all’orizzonte
nella direzione in cui guarda l’uomo che agita il
panno, ma la presenza dell’imbarcazione dava in
realtà la sensazione del lieto fine, la percezione
che oramai, per i sopravvissuti, la brutta avventura stava per volgere all’epilogo. Ciò comportava lo scioglimento della tensione psicologica, ma
nella stesura definitiva la nave all’orizzonte scompare, proprio per aumentare il senso del phatos.
Chi guarda non ha la consapevolezza di come la
vicenda andrà a finire e quindi deve cogliere il dramma di chi ancora non sa, se sarà salvato o meno,
anche perché l’osservatore vede lo stesso orizzonte
che guarda l’uomo che agita il panno. Se la com-
posizione fosse stata ruotata di 180 gradi, e l’uomo guardava verso l’astante, avrebbe idealmente chiesto a lui aiuto. In questo caso si sarebbe
aumentato il senso di pietà da parte dello spettatore nei confronti di chi, dal quadro, gli chiedeva
aiuto, invece, vedendo l’uomo di spalle, è costretto a compenetrarsi nel suo punto di vista. E all’orizzonte di quel punto di vista lo spettatore non vede,
e non potrebbe vedere, nulla. Così, in questo modo,
deve vivere totalmente il dubbio dell’uomo che non
conosce quale sarà il finale, la morte o la salvezza, che lo aspetta. Formalmente l’opera è costruita secondo il classico sviluppo piramidale. Le piramidi sono in realtà due ed esprimono due direzioni
che s’incrociano tra loro opponendosi. La prima
parte dall’uomo morto in basso a sinistra ed ha il
vertice nell’uomo che, di spalle, sta agitando un
panno, è la direzione umana cha va dalla disperazione, di coloro che sono morti, alla speranza
di chi ha ancora la forza di agitarsi con la fiducia
di essere visto da qualcuno che vada a salvarli.
La seconda parte dalle onde del mare per giungere all’albero che sorregge la vela.
La scena è scissa in due gruppi ben distinti: in bas-
La zattera della Medusa
olio su tela, 1818, Parigi, Louvre
don Marco Nemesi
La grande tela di Théodore Géricault (491×716 cm),
“la zattera della Medusa”, prende spunto, nel suo
soggetto, da un fatto di cronaca: nel 1816 la nave
francese Medusa salpa con la missione di riconquistare il Senegal, caduto in mano agli inglesi,
ma a largo della costa africana naufraga. Gli sfortunati occupanti di quella zattera vissero un’esperienza
terribile che condusse alla morte gran parte di loro.
Solo una quindicina di uomini, su centoquarantanove, furono tratti in salvo da una nave di passaggio,
dopo che su quella zattera era avvenuto di tutto,
anche fenomeni di cannibalismo.
L’episodio colpì molto l’immaginazione di Géricault
che, immediatamente, si mise al lavoro per la realizzazione di questa tela che sarà ricordata come
il suo capolavoro. L’artista impiegò più di un anno
per documentarsi prima di eseguire la versione finale del suo quadro, e ciò è attestato dai numerosi
so a destra c’è un cadavere riverso, coperto da
un drappo che richiama alla mente un lenzuolo funebre; a sinistra c’è il corpo, quasi del tutto nudo, di
un giovane morto che è sorretto, a guisa di eroe
antico, dal padre con il manto rosso e il volto nobile e pensoso. Questi brevi tratti denotano la capacità dell’artista nel rappresentare la morte e attraverso l’evidenza del loro essere in quella situazione,
noi siamo coscienti della tragedia umana che si
sta compiendo. Quello più in alto invece, culmi-
a Michelangelo. Le figure in basso a sinistra, del
ragazzo morto e del padre che lo sorregge pensoso, sembrano due statue greche. Da notare il
particolare del ragazzo che, benché nudo, abbia
le calze arrotolate ai piedi. Questo particolare, di
crudo realismo, sgombera il campo da qualsiasi
lettura mitologica o idealizzata. Quelle calze, così
comuni e banali, danno il senso tragico dell’umanità violata, ossia della morte vera che spegne le
persone vere in carne ed ossa. È interessante para-
di uomini quasi arrivino a rappresentare il difficile viaggio all’interno di quel terribile aspetto delle
situazioni catastrofiche, dove i piatti della bilancia
sembrano continuamente oscillare tra speranza per
la salvezza e paura per la morte incombente. Si
tratta di un dipinto che ci ricorda l’impotenza dell’uomo di fronte alla grandiosità e alla forza della
natura: cosa può fare l’uomo in queste circostanze se non sperare e pregare? Non può controllare gli eventi e questo senso d’incertezza è uno dei
nante nel giovane che sventola degli stracci, rappresenta la salvezza. Che Géricault abbia posto
alla sommità di questa ideale piramide umana assetata di vita un giovane mulatto è un gesto d’indicibile audacia per la società francese apertamente
razzista e che aveva appena reintrodotto lo schiavismo e la tratta dei neri. In quest’opera, di altissima tensione drammatica, Géricault usa molti riferimenti alla storia dell’arte. L’atmosfera e i contrasti
luministici rimandano inevitabilmente a Caravaggio.
Anche il braccio abbandonato nell’acqua, dell’uomo
morto in basso a sinistra, è copiato da Caravaggio.
Lo stesso braccio che copiò David nella “Morte di
Marat”. Le figure hanno una tensione muscolare,
e una torsione, che rimandano immediatamente
gonare questa forma di rappresentazione della sofferenza umana, determinata da una catastrofe, con
l’immediatezza delle immagini televisive che siamo sempre più abituati a vedere su questi scenari. In questi anni, tra gommoni albanesi e carrette del mare al largo delle coste meridionali d’Italia,
abbiamo costruito una sorta di assuefazione ai drammi del mare che sembrano non contenere più sofferenza, nella loro ripetitiva rappresentazione medianica. L’opera di Géricault, ci fornisce una visione
e un’elaborazione della sofferenza che sembra funzionare su registri più profondi e fissa l’emozione
a un livello al quale non ci si può assuefare, come
accade con le immagini televisive. Nella tela l’attenzione è posta sulla sofferenza di quel gruppo
più grandi sentimenti che la natura umana non riesce
a tollerare, soprattutto in situazioni di emergenza.
Considerando che ogni opera acquista il suo significato nella situazione storica e culturale nella quale è ideata, occorre ricordare che Géricault dipinge “La zattera della Medusa” pochi anni dopo il
tramonto dell’impero napoleonico. Nel 1816 il Congresso
di Vienna, ripristinando la situazione geo-politica
antecedente, sembra cancellare tutto quel misto
di speranze e delusioni nate dalla Rivoluzione francese. Géricault, dunque, usa un episodio di cronaca quotidiana per esprimere un contenuto sociale preciso: la vita umana in bilico tra speranza e
disperazione.
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