UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA Dipartimento di Scienze della formazione, dei Beni culturali e del Turismo CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN Theory, technology and history of education CICLO XXV I contadini a scuola. La scuola rurale in Italia dall’età giolittiana alla caduta del fascismo TUTOR Chiar.ma Prof.ssa Anna Ascenzi DOTTORANDO Dott. Luca Montecchi COORDINATORE Chiar.mo Prof. Roberto Sani ANNO 2012-2013 2 Indice Introduzione 5 Ringraziamenti 10 Elenco dei fondi e delle abbreviazioni 11 Parte prima Scuola e campagne nell’Italia tra Otto e Novecento Capitolo primo Le origini della scuola rurale (1859-1898) 1. I primi provvedimenti previsti dalla Legge Casati 2. «La redenzione delle plebi agricole». L’azione svolta dalle associazioni private per l’istruzione popolare e rurale nell’Italia post-unitaria 3. Tra avocazione allo Stato e rinnovamento della didattica: la scuola rurale nell’età del positivismo 14 17 21 Capitolo secondo «Educhiamo il popolo!»: il dibattito politico e pedagogico sulla scuola rurale dalla crisi di fine secolo all’età giolittiana (1898-1921) 1. «Torniamo ai campi!»: il ministro Baccelli e il rilancio dell’istruzione popolare e agraria 2. I filantropi entrano in azione: la stagione del riformismo liberale 3. Lo Stato e le riforme dell’istruzione rurale in età giolittiana 4. Il dibattito sulla scuola rurale nel primo dopoguerra 5. Una scuola per i contadini: le vicende dell’Ente contro l’analfabetismo degli adulti 6. Il ministro Corbino e l’Opera contro l’analfabetismo 25 34 35 38 46 51 Capitolo terzo La scuola rurale in camicia nera. L’istruzione nelle campagne durante il fascismo (1922-1943) 1. Gentile e il Comitato contro l’analfabetismo 2. Il fascismo all’assalto della scuola rurale: da Fedele a Ercole 3. «Libro, moschetto e vanga»: la scuola rurale passa all’Opera Balilla 4. La scuola rurale nello Stato corporativo: l’istruzione nelle campagne durante il ministero Bottai 60 65 81 97 3 Parte seconda «Dalle stalle alle stelle»: come la scuola rurale diventa un mito pedagogico Capitolo primo Tra realtà e mito: una premessa 1. Lombardo Radice e la riscoperta della scuola rurale 105 Capitolo secondo Alla ricerca della «scuola serena»: Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica italiana del primo novecento di fronte al mito della scuola della Montesca 1. Premessa 2. L’incontro di Lombardo Radice con la Montesca 3. La Montesca ed i programmi del 1923 4. Polemiche e plausi al modello educativo della Montesca 5. Marcucci, Bettini, Predome, Padellaro: favorevoli e contrari al «Calendario della Montesca» 108 110 119 120 126 Capitolo terzo Il «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali»: Felice Socciarelli e la scuola di Mezzaselva 1. Premessa 2. L’incontro con Lombardo Radice e la scoperta dell’idealismo pedagogico 3. Socciarelli negli anni Venti: un maestro ammirato e osteggiato 4. Il tentativo di creare un’apposita didattica per le scuole rurali 5. L’apertura al realismo pedagogico degli anni Trenta 6. «Ritornare a Lombardo Radice». L’auspicio di Socciarelli per rifondare la scuola dell’Italia democratica 7. Conclusioni 133 134 139 148 152 155 157 Capitolo quarto «Un’esperienza di istruzione rurale integrale»: David Levi Morenos e le Colonie dei Giovani Lavoratori 1. La Grande Guerra, i bambini profughi, gli orfani e le colonie agricole: aspetti per una storia dell’educazione 2. David Levi Morenos: naturalista ed educatore 3. Le scuole per gli orfani dei marinai della laguna veneziana 4. I profughi, gli orfani e la guerra: nascono le tre Colonie 5. «La scuola integrale unitaria» 6. L’interesse pedagogico suscitato dalle Colonie Capitolo quinto 159 112 161 163 165 170 174 4 Una scuola tra mito e realtà: spontaneismo, metodo didattico e propaganda pedagogica a San Gersolè 1. Premessa 2. Alle origini di San Gersolè 3. Il mito della spontaneità: plausi e polemiche 4. San Gersolè: la costruzione del mito pedagogico 5. Una maestra «scomoda»: il fascismo e Maria Maltoni Conclusioni 178 179 187 191 201 210 5 Introduzione Era il 1952 quando Roberto Mazzetti pubblicava il «Manifesto per la scuola rurale», un programma di intervento con cui il pedagogista bolognese avrebbe voluto apportare i necessari miglioramenti alla scuola elementare allora diffusa nelle campagne italiane1. Al di là del contenuto di tale manifesto e delle singole proposte in esso contenute, quel documento non può che balzare all’attenzione degli storici a dimostrazione di quanto, nell’Italia che prendeva la via della modernizzazione e dell’industrializzazione e in cui a maggior ragione la «scuola rurale» nemmeno esisteva più a livello giuridico da qualche anno, fosse tutt’altro che archiviato il problema di come fornire un’adeguata istruzione elementare ai bambini delle famiglie che vivevano in piccoli o talvolta piccolissimi centri abitati, lontani dalle città e dai servizi che queste offrivano, in uno stato di subalternità assai rilevante. Se dunque nel 1952 la dizione di «scuola rurale» poteva suonare obsoleta e richiamare il passato, di certo era attuale la questione di come rispondere agli accresciuti bisogni educativi delle popolazioni di campagna in un’Italia che viaggiava a due marce, attraversata da profonde differenze che separavano il mondo rurale da quello urbano, riproducendo a sua volta all’interno di essi ulteriori contraddizioni di ordine sociale. Certo, alcuni miglioramenti si erano registrati rispetto ad un decennio prima: scuole elementari erano state aperte anche nelle frazioni e nelle borgate di campagna, di collina e di montagna; il corso elementare aveva visto diffondersi pressoché ovunque la quinta classe, che fino ad un decennio prima era un privilegio per pochi. Tuttavia la portata del cambiamento era stata assai limitata e non tale da giustificare un vero ottimismo. Rimaneva aperto innanzitutto quello che era stato da sempre il problema intrinseco alle scuole rurali, vale a dire quello di riunire bambini di diverse classi in un’unica aula e con un unico insegnante, pregiudicando in tal modo la qualità della didattica. Al problema delle «pluriclassi», come da allora cominciarono ad essere chiamate, si aggiungeva un altro di natura sociale e politica che si trascinava dal passato. Si trattava del cosiddetto «pregiudizio anticontadino» che, come ha raccontato nelle sue memorie Raffaele Rossi, maestro comunista nelle scuole della campagna perugina e dell’Appennino umbro negli anni dell’immediato dopoguerra, era così diffuso tra i maestri ed i direttori didattici da far apparire loro quel mondo come un’alterità da guardare con distacco, diffidenza e talvolta ostilità: un sentimento che si manifestava in vario modo e che spesso era causa del facile ricorso alle bocciature dei ragazzini «difficili», il più delle volte figli di braccianti e contadini costretti a lavorare dopo le ore di scuola o con gravi problemi di natura familiare; o che creava situazioni discriminatorie come quella vissuta nel 1947 da Rossi nella scuola pluriclasse di Ramazzano, un borgo nella campagna di Perugia, frequentata da figli di mezzadri, di qualche bracciante e di alcuni medi possidenti, quando si accorse che situato vicino alla cattedra c’era un piccolo banco a un solo posto che era riservato alla figlia della contessa del paese, proprietaria di molti poderi e di un tabacchificio2. Erano questi i sintomi di un clima sociale difficile dovuto all’asprezza nei rapporti tra proprietari e mezzadri che caratterizzò l’immediato dopoguerra, in continuità con il passato che troppo semplicisticamente si pensava sepolto con la caduta del fascismo e che invece 1 R. Mazzetti, Manifesto per la scuola rurale: guida per far meglio, Firenze, Marzocco, 1952. R. Rossi, Volevamo scalare il cielo. Il Novecento dai luoghi della memoria, Perugia, Era Nuova, 1999, pp. 105-106. 2 6 era più presente che mai a dimostrazione di «come nella scuola fosse forte la resistenza al rinnovamento democratico»3. Tali considerazioni hanno costituito una sorta di filo conduttore lungo il quale è stata imbastita la ricerca che in queste pagine viene presentata al lettore. Ricostruire la storia delle scuole rurali nell’Italia tra Otto e Novecento, infatti, non significa solo contribuire allo studio di un segmento della storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, ma anche leggere le trasformazioni di ordine sociale, politico ed economico che hanno investito le campagne italiane negli ultimi cento anni attraverso un osservatorio particolare e fortunato quale è stata la scuola rurale. Una sorta di «Cenerentola» dell’istruzione elementare, per usare il linguaggio delle riviste magistrali del tempo che più volte si fecero interpreti di battaglie in favore del miglioramento delle condizioni in cui si trovavano le scuole di campagna, le più dimenticate dallo Stato e dai Comuni, le meno ricercate dai maestri per i bassi stipendi e per la solitudine dei luoghi in cui sorgevano. Destinatarie di poche attenzioni quando erano in vita, esse lo sono state di meno quando hanno cessato la loro funzione da parte della storiografia che ha preferito concentrare maggiormente il suo sguardo, a partire dagli anni Cinquanta, sul tema della «istruzione popolare», categoria omnicomprensiva sotto la quale è confluita indistintamente la scuola per i ceti popolari della campagna e della città. Emblematico da questo punto di vista è stato il libro di Dina Bertoni Jovine apparso nel 1953 con il titolo Storia della scuola popolare in Italia che, oltre a costituire un punto di riferimento per gli studi di storia dell’educazione dei decenni successivi, ha decretato le fortune della categoria storiografica dell’istruzione popolare, categoria destinata ad essere ripresa da un numero considerevole di altri studiosi ma di cui spesso non ne è stata sottolineata in modo opportuno la complessità implicita4. 3 Ivi, p. 104. D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1953. Si citano, a titolo di esempio, i seguenti lavori: G. Cives, Cento anni di vita scolastica in Italia: ispezioni e inchieste da Gino Capponi a Giuseppe Lombardo-Radice, Roma, Armando, 1960; Id., Cento anni di vita scolastica in Italia: ispezioni e inchieste dall’idealismo a oggi negli scritti di G. Lombardo Radice, G. Isnardi, G. Giovanazzi, F. Bettini, A. Marcucci, L. Volpicelli, L. Borghi, A. Visalberghi, Roma, Armando, 1967; R. Fantini, L’istruzione popolare a Bologna fino al 1860, Bologna, Zanichelli, 1971; T. Tomasi, Scuola e società nel socialismo riformista (1891-1926): Battaglie per l’istruzione popolare e dibattito sulla “questione femminile”, Firenze, Sansoni, 1982; A. Semeraro, L’istruzione popolare in Terra d’Otranto nelle relazioni degli ispettori centrali e periferici e degli amministratori locali, Galatina, Congedo, 1983; E. Catarsi, L’educazione del popolo: momenti e figure dell'istruzione popolare nell’Italia liberale, Bergamo, Juvenilia, 1985; S. Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare nella Romagna d'inizio novecento, Rimini, Maggioli, 1985; S. Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare nell'Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 1986; E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996; M. Cattaneo, L. Pazzaglia (a cura di), Maestri, istruzione popolare e società in «Scuola Italiana Moderna» (1893-1993), Brescia, La Scuola, 1997; M.C. Morandini, Scuola e nazione: maestri e istruzione popolare nella costruzione dello Stato unitario (1848-1861), Milano, V&P, 2003; P. Causarano, Combinare l'istruzione coll’educazione: municipio, istituzioni civile ed educazione popolare a Firenze dopo l’Unità (1859-1878), Milano, Unicopli, 2005; F. Pruneri, Oltre l'alfabeto: l’istruzione popolare dall’unità d’Italia all’età giolittiana: il caso di Brescia, Milano, V&P, 2006; G. Chiosso, Carità educatrice e istruzione in Piemonte: aristocratici, filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ‘800, Torino, SEI, 2007; G. Inzerillo, V. Bonazza, La scuola con le grucce. L’istruzione elementare nel Basso ferrarese in età liberale, Roma, Carocci, 2007. Per un bilancio storiografico sul tema dell’istruzione popolare si rinvia alla sintesi di R. Sani, Scuola e istruzione elementare in Italia dall’Unità al primo dopoguerra: itinerari storiografici e di ricerca, in R. 4 7 Se si prescinde dallo studio di Giacomo Cives sull’Ente nazionale di cultura apparso nel lontano 19675, solo nell’ultimo decennio si è assistito al fiorire di un inedito interesse verso il tema dell’istruzione rurale che ha prodotto ricerche su taluni personaggi o singole esperienze aventi per oggetto l’educazione dei giovani contadini. Si può, ad esempio, citare la monografia di Giovanna Alatri dedicata alla figura di Alessandro Marcucci, animatore delle scuole rurali dell’Agro romano insieme ad altri intellettuali come Sibilla Aleramo e Giovanni Cena: un lavoro che ha attinto ad una ricca documentazione archivistica che ha offerto interessanti spunti in relazione alla comprensione del fenomeno dell’istruzione rurale durante il regime fascista6. Nella stessa direzione si è mossa anche la ricerca di Maria Maddalena Rossi dedicata all’opera del Gruppo d’azione per le scuole del popolo, l’associazione milanese sorta per fornire assistenza morale e materiale agli insegnanti della scuole più disagiate e successivamente delegata dallo Stato a gestire le scuole rurali uniche della Lombardia; anche in questa circostanza, l’autrice ha potuto ricostruire l’operato del sodalizio ricorrendo a fonti archivistiche inedite, che hanno permesso di comprendere meglio alcuni passaggi della storia della scuola rurale in Italia, soprattutto in riferimento al periodo fascista7. Recentemente la storia di un’altra associazione benemerita dell’istruzione popolare in generale e di quella rurale in particolare, l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, è stata ripercorsa da Brunella Serpe e da Francesco Mattei in distinti lavori che ne hanno ripercorso le vicende storiche e studiato l’aspetto didattico8. Si segnala, infine, un altro lavoro che ha fatto luce su un fenomeno che presentava dei punti comuni con quello trattato in questo studio, ma non sempre coincidenti: si tratta della ricerca di Elisa Gori sulle scuole a sgravio, vale a dire su quelle scuole che tramite la sottoscrizione di una convenzione venivano affidate ad enti o corporazioni dai Comuni prima e dallo Stato poi, facendo in modo che questi ultimi fossero sgravati dall’onere di provvedere all’obbligo scolastico9. Istituto giuridico previsto dalla metà dell’Ottocento, lo sgravio non va confuso con la delega alle associazioni culturali che dal 1921 gestirono nelle campagne italiane le scuole rurali per conto dello Stato. Le scuole a sgravio, infatti, costituirono una forma residuale di insegnamento elementare (il loro numero non superò le poche centinaia10), diffuso in prevalenza nelle città e non nelle campagne e animato in modo particolare da personale insegnante religioso. Riconosciute dallo Stato secondo tale denominazione fino al 1935, le scuole a sgravio variarono da allora il nome in «scuole parificate». Sani, A. Tedde (a cura di), Maestri e istruzione popolare in Italia tra Otto e Novecento: interpretazioni, prospettive di ricerca, esperienze in Sardegna, Milano, V&P, 2003 , pp. 3-17. 5 G. Cives, L’attività dell’Ente di Cultura, in Ernesto Codignola in 50 anni di battaglie educative, Firenze, La Nuova Italia, 1967. 6 G. Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968), Milano, Unicopli, 2006. 7 M.M. Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano (1914-1941), Brescia, La Scuola, 2004. 8 B. Serpe, La Calabria e l’opera dell’Animi. Per una storia dell’educazione nel Mezzogiorno, Cosenza, Jonia editrice, 2004; F. Mattei, Animi: il contributo dell’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia alla storia dell’educazione (1910-45), Roma, Anicia, 2012. 9 E. Gori, L’istruzione in appalto. La scuola elementare a sgravio dall’Unità al fascismo, Milano, Franco Angeli, 2007. 10 Nel 1929-30 le scuole a sgravio presenti in Italia erano 812, di cui 89 maschili, 550 femminili e 173 miste. Il dato è tratto da G. Chiaromonte, Le scuole a sgravio e i dati statistici del 1929-30, «Annali dell’istruzione elementare», n. 2, marzo-aprile 1932, p. 24. 8 Pur tuttavia, se si prescinde da tali ricerche concentrate su singoli aspetti del problema, molte questioni sono rimaste inevase dalla storiografia dell’educazione. Ci riferiamo alla ricostruzione del dibattito su quale tipo di istruzione conferire ai giovani contadini e, dunque, sull’idea di scuola rurale, la cui definizione è soggetta a mutare nel passaggio dall’Unità all’età liberale fino al fascismo. Strettamente legato a ciò si pone il problema della formazione del maestro rurale, che a periodi intermittenti è visto come una figura non assimilabile al maestro di città e per questo bisognoso di essere adeguatamente preparato con strumenti appositi come i numerosi corsi per l’istruzione agraria tenuti ai maestri elementari a partire dalla fine dell’Ottocento o addirittura con scuole speciali, come viene ipotizzato nei primi decenni del Novecento. Altri aspetti che meritano di essere meglio indagati sono l’attività svolta dagli enti culturali che nei primi anni Venti vennero delegati dallo Stato a gestire le scuole rurali e l’opera svolta da taluni proprietari terrieri e filantropi che autonomamente fondarono scuole nei primi anni del Novecento soccombendo alle gravi lacune dello Stato e talvolta creando delle esperienze modello destinate ad imporsi all’attenzione del mondo scientifico ed accademico per le innovazioni di tipo pedagogiche apportate. Ma ciò che è mancato, in particolare, è uno studio complessivo ed organico del tema dell’istruzione rurale, che ne seguisse lo sviluppo nel lungo periodo e in tutto il territorio nazionale e che tenesse in debita considerazione l’influenza esercitata su di esso dal clima politico, economico, culturale e pedagogico. A questa lacuna si è cercato di dare una risposta con il presente studio, per la cui realizzazione si è tenuto in debito conto la bibliografia prodotta negli ultimi anni e una mole considerevole di documenti conservati in svariati archivi pubblici e privati, di persone e di istituzioni culturali. La seconda parte della ricerca è dedicata, invece, all’illustrazione di quattro esperienze di istruzione rurale che, in virtù degli originali metodi didattici seguiti, si distinsero nel quadro della pedagogia italiana della prima metà del secolo, tanto da assumere i contorni di vere e proprie scuole modello o di “miti pedagogici”. In particolare dopo un capitolo introduttivo, singoli capitoli sono dedicati alla scuola della Montesca fondata dai baroni Franchetti, alle Colonie dei Giovani Lavoratori create da David Levi Morenos, alla scuola di Mezzaselva del maestro Felice Socciarelli e alla scuola di San Gersolè della maestra Maria Maltoni: tutte scuole rurali che riuscirono ad attirare l’attenzione di importanti pedagogisti italiani e stranieri facendo parlare di sé per i metodi attivistici che vi si insegnavano e che lo scrivente ha già avuto modo in parte di studiare e descrivere11. Nel concludere queste brevi considerazioni ci appare opportuno precisare bene l’oggetto di questa ricerca, definendo con chiarezza cosa si deve intendere per istruzione rurale, al fine di non confonderla, come talvolta si fa, con l’istruzione agraria. Allo scopo di chiarire questo punto e di sciogliere l’equivoco, è opportuno precisare che l’istruzione agraria è l’insieme di saperi e di istituzioni culturali aventi per oggetto la formazione dal punto di vista professionale dei contadini, 11 Tre capitoli della parte seconda di questo lavoro sono stati già pubblicati a cura di chi scrive nella rivista «History of Education & Children’s Literature» e vengono qui riproposti senza particolari modifiche: Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della Montesca, «History of Education & Children’s Literature», IV, 2 (2009), pp. 307-337; Una scuola tra mito e realtà. Spontaneismo, metodo didattico e propaganda pedagogica nella scuola di San Gersolè, «History of Education & Children’s Literature», VI, 1 (2011), pp. 343-381; «Un’esperienza di istruzione rurale integrale». David Levi Morenos e le Colonie dei Giovani Lavoratori, «History of Education & Children’s Literature», VI, 2 (2011), pp. 115-139. 9 dei tecnici e dei proprietari terrieri ai quali fornire un corredo di nozioni teoriche e pratiche con lo scopo di «sostenere lo sviluppo dell’agricoltura come parte del più ampio processo di trasformazione economica del Paese»12. L’istruzione rurale, invece, è una forma di istruzione primaria e rientra, dunque, a pieno diritto nel campo della scuola elementare; in linea generale essa è finalizzata, cioè, all’alfabetizzazione e alla prima socializzazione dei figli delle popolazioni rurali. Il modo e la misura in cui si dovesse conseguire questo obiettivo è stato poi oggetto di varie interpretazioni, in funzione della stagione politica e culturale. Si può, infine, aggiungere che l’istruzione agraria si è storicamente articolata in numerose forme ed è stata indirizzata a destinatari di diverso livello culturale e di differente età: le scuole tecniche agrarie, ad esempio, rientravano nel cosiddetto insegnamento medio ed i suoi studenti provenivano in gran parte dalle famiglie della piccola borghesia; gli istituti superiori di agraria e le facoltà di Agraria facevano parte dell’insegnamento superiore e universitario ed avevano come frequentanti giovani delle famiglie dell’alta borghesia e raramente della nobiltà. Bisogna altresì rilevare che rientrano a pieno titolo nel campo dell’istruzione agraria altre forme di insegnamento che nulla avevano a che fare con la scuola intesa nel senso classico del termine: ci riferiamo, ad esempio, alle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, sorte nella seconda metà dell’Ottocento per iniziativa di privati e di enti locali, che organizzavano lezioni per i coloni nelle proprie sedi o corsi itineranti nei comuni rurali, rivolti a giovani e adulti; ai corsi di agraria organizzati dai Consorzi provinciali per l’istruzione tecnica, organismi istituti con legge nel 1929, allo scopo di promuovere lo sviluppo ed il perfezionamento dell’istruzione tecnica; agli Ispettorati provinciali dell’agricoltura, istituiti con legge nel 1935 in sostituzione delle Cattedre ambulanti al fine di provvedere all’istruzione tecnica, all’assistenza agli agricoltori, alla sperimentazione di nuove tecniche di produzione agricola e, più in generale, a tutte quelle iniziative atte a promuovere e ad incoraggiare il progresso della zootecnia e delle industrie agrarie. Fatta questa debita premessa e sottolineate le differenze tra i due tipi di insegnamenti, si deve riconoscere come nell’arco dell’ultimo ventennio l’istruzione agraria sia stata oggetto di una seria rivalutazione da parte degli storici, in particolare degli storici dell’economia e dell’agricoltura, che ne hanno ricostruito le istituzioni, le forme di insegnamento e le figure di coloro che si adoperarono per la sua promozione. Testimonianza di ciò è stata la pubblicazione di una serie di pregevoli lavori nei quali i loro autori hanno cercato di individuare le relazioni tra la diffusione del sapere agronomico ed i processi di sviluppo economico. Altrettanta attenzione al mondo delle campagne non è stato invece riservato dagli storici dell’educazione ed è per tale ragione che il presente studio ha l’ambizione di colmare il divario rispetto a quanto fatto dagli storici dell’economia, affrontando in modo organico e complessivo il tema dell’istruzione rurale nell’Italia tra Otto e Novecento, con una particolare curvatura sul periodo compreso tra l’età giolittiana e quella fascista. 12 R. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura: istruzione, cultura, economia nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 9. 10 Ringraziamenti Al termine del Dottorato di Ricerca in «Theory, technology and history of Education», svolto nel triennio 2010-2012 presso l’Università degli Studi di Macerata, desidero ringraziare quanti mi hanno accompagnato nel mio percorso di studi, fornendo consigli e indicazioni che si sono rivelati preziosi. Un sincero ringraziamento va, in primo luogo, ai professori Roberto Sani e Anna Ascenzi che mi hanno seguito aiutandomi, con i loro suggerimenti, a definire l’impostazione di fondo del lavoro. Ho un particolare debito di riconoscenza nei confronti del professor Juri Meda, infaticabile dispensatore di consigli, il cui confronto ed i cui stimoli mi hanno accompagnato in questo percorso di crescita professionale ed umana. Ringrazio anche gli altri ricercatori di Storia dell’Educazione dell’Ateneo maceratese – Marta Brunelli, Dorena Caroli ed Elisabetta Patrizi – per il clima positivo e costruttivo che ho trovato lavorando al loro fianco. Sono inoltre grato al personale di Biblioteche ed Archivi, pubblici e privati, presso i quali ho svolto i miei studi. In particolare ringrazio la dott.ssa Barbara Salotti, responsabile dell’Archivio della Scuola di San Gersolè e dell’Archivio di Maria Maltoni, conservati presso la Biblioteca Comunale di Impruneta (Firenze); il dott. Mirco Bianchi, collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana (Firenze); il dott. Paolo Straffi, responsabile della Biblioteca della Fondazione «Romolo Murri» di Gualdo (Macerata); la dott.ssa Claudia Pierangeli e la dott.ssa Lara Rotili, rispettivamente responsabile e bibliotecaria della Biblioteca della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Macerata; la dott.ssa Diana Rueesch conservatrice dell’Archivio Prezzolini conservato presso la Biblioteca Cantonale di Lugano; la dott. Francesca Gagliardo per l’archivio «Giuseppe Lombardo Radice» conservato presso il Museo Storico della Didattica dell’Università degli Studi di Roma Tre; la dott.ssa Pamela Giorgi per l’archivio «Giuseppe Lombardo Radice» conservato presso l’Archivio Storico dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica-ex Indire di Firenze; la dott.ssa Cecilia Castellani, responsabile del fondo archivistico della Fondazione «Giovanni Gentile per gli studi filosofici»; il dott. Carlo Urbani responsabile dei fondi archivistici dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia; il personale delle Biblioteca «Giustino Fortunato» di Roma; il personale della Biblioteca del Senato della Repubblica «Giovanni Spadolini»; il personale della Biblioteca della Camera dei Deputati; il personale della Biblioteca Comunale «Augusta» di Perugia; il personale dell’Archivio unico di deposito della Regione dell’Umbria di Solomeo di Corciano (Perugia); il signor Gianfelice Gabrielli di Roma per aver messo a disposizione le carte del nonno, Felice Socciarelli. Dedico, infine, questo lavoro alla mia famiglia e a Valentina che nel corso di questi anni non mi hanno fatto mai mancare il loro affetto e il loro sostegno. 11 Elenco dei fondi e delle abbreviazioni AANIMI Archivio «Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia» (Roma) AMM Archivio «Maria Maltoni» ACS Archivio Centrale dello Stato (Roma) AEC Archivio «Ernesto Codignola» (Firenze) AFG Archivio Fondazione «Giovanni Gentile» (Roma) AFS Archivio «Felice Socciarelli» (Roma) AGLRF Archivio «Giuseppe Lombardo Radice» di Firenze (presso l’Archivio Storico dell’Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica-ex Indire) AGLRR Archivio «Giuseppe Lombardo Radice» di Roma (presso il «Museo Storico della Didattica» dell’Università degli Studi di Roma Tre) AIJJR Archivio dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau (presso l’Università di Ginevra) AOPRMFF Archivio «Opera Pia Regina Margherita - Fondazione Franchetti» ARU Archivio unico di deposito della Regione Umbria (Solomeo di Corciano) ASCL Archivio Storico del Comune di Lari ASF Archivio di Stato di Firenze ASU Archivio «Società Umanitaria» (Milano) ASUB Archivio Storico dell’Università di Bologna (Bologna) BCI Biblioteca Comunale di Impruneta DBI Dizionario Biografico degli Italiani FIAG Fondazione Istituto «Antonio Gramsci» (Roma) ISRT Istituto Storico della Resistenza in Toscana (Firenze) IVSLA Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (Venezia) SPD Segreteria particolare del Duce b. busta c. carta fasc. fascicolo n. numero p. pagina sez. sezione s.l. senza luogo s.n. senza nome s.fasc. sotto fascicolo 12 vol. volume D.L. Decreto Legge D.M. Decreto Ministeriale 13 Parte prima Scuola e campagne nell’Italia tra Otto e Novecento 14 Capitolo primo Le origini della scuola rurale (1861-1898) 1. I primi provvedimenti previsti dalla Legge Casati (1859) Alla vigilia dell’Unità d’Italia la dizione di «scuola rurale» era una entità pressoché sconosciuta ai più e rara a trovarsi perfino nel vocabolario di coloro che si occupavano di questioni scolastiche e pedagogiche. Lo spoglio della pubblicistica del tempo segnala, ad esempio, un raro caso in cui questa espressione viene utilizzata, per di più in riferimento a realtà educative sorte in altre zone dell’Europa: nel 1836, infatti, la «Guida dell’educatore», la rivista diretta da Raffaello Lambruschini, descrivendo le scuole modello di Hofwyl, presso Berna, si soffermava sulla «scuola rurale» per «poveri fanciulli», descrivendone brevemente le caratteristiche13. D’altro canto, essendo relegati nel livello più basso della scala sociale, i contadini ed i mezzadri che popolavano le campagne italiane, non destavano certo le preoccupazioni educative nei ceti dirigenti degli Stati pre-unitari in cui era allora divisa la penisola. Scuola e contadini erano due universi lontanissimi. Qualche scuola tutt’al più poteva essere aperta in taluni paese a vocazione agricola se il Comune era sufficientemente benestante da disporre delle risorse economiche per pagare il maestro, il più delle volte il prete giacché l’assegno messo a disposizione era così basso che non avrebbe garantito la sussistenza di nessuno altro, al di fuori di un religioso, ma quasi sempre a frequentarla non erano i figli dei contadini, ma i figli di quelle famiglie che formavano la piccola borghesia rurale (piccoli proprietari terrieri, farmacisti, medici, artigiani). Indicativo da questo punto di vista fu il Rapporto della Commissione permanente incaricata di compilare una statistica della pubblica istruzione degli Stati italiani, letto da Pasquale Stanislao Mancini, futuro ministro della pubblica istruzione nel primo governo Rattazzi, in occasione dell’ottavo Congresso scientifico d’Italia, celebrato a Genova nel 1846. Se da un lato questo documento era l’espressione della presa di coscienza da parte del ceto dirigente e intellettuale italiano dell’ineludibilità del problema dell’istruzione popolare, questione di primaria importanza ai fini del progresso dei singoli Stati ma visto anche in chiava unitaria in funzione del progetto risorgimentale, dall’altro lato esso non faceva nessun cenno al tema dell’istruzione dei contadini, né alla scuola rurale14. L’attenzione era, infatti, rivolta alle scuole di metodo, alle scuole tecniche, alle scuole femminili, al mutuo insegnamento, al rapporto tra scuole pubbliche e scuole private. Bisognerà attendere la Legge Casati, vale a dire il D.L. 13 novembre 1859, n. 3725, per vedere la dizione «scuola rurale» fissarsi nel linguaggio giuridico, oltreché in quello scolastico e pedagogico, inizialmente nel Regno di Sardegna e poi nel resto delle provincie italiane annesse alla monarchia sabauda. La nuova legge, infatti, distingueva la scuola elementare tra «urbana» e «rurale» e ciascuna di queste categorie in tre classi in base al numero della popolazione residente, 13 E. Meyer, Frammenti d’un viaggio pedagogico. N° 1. Giacomo Wehrli, «La guida dell’educatore», I, 1836, pp. 337-358. 14 Rapporto della Commissione permanente incaricata di compilare una statistica della istruzione popolare degli Stati italiani all’VIII Congresso scientifico d’Italia in Genova: relatore Pasquale Stanislao Mancini, Genova, 1846. 15 a cui corrispondevano salari diversificati da assegnare ai maestri. Erano rurali di prima, seconda e terza classe quelle istituite in località con popolazione che rispettivamente eccedeva i 3.000, 2.000 e 500 abitanti. Erano urbane di prima, seconda e terza classe quelle istituite in località la cui popolazione era superiore a 40.000, 15.000 e 4.000 abitanti15. L’istruzione elementare era di due gradi (grado inferiore e superiore, entrambi di durata biennale) ma solo quello inferiore era obbligatorio in ogni Comune e anche in ogni borgata o frazione aventi almeno 50 bambini atti a frequentarlo. Il secondo grado era obbligatorio solo nei Comuni con oltre 4.000 abitanti. Pur tuttavia nel giro di poco tempo apparve chiaro che la definizione di «scuola rurale» era ambigua e soggetta a diverse interpretazioni, essendo il frutto di una volontà omologante che non teneva conto delle differenze topografiche, geografiche, sociali ed economiche che connotavano l’Italia. A porre all’attenzione degli addetti ai lavori questo problema fu nei primi anni Settanta del secolo Vincenzo Garelli, noto cultore di studi filosofici e pedagogici nonché professore di metodo in alcune scuole del Piemonte e poi Provveditore a Genova e Torino. Non a caso l’incipit di un suo libello dedicato a tale questione era una frase ad effetto – «Che cosa è una scuola di campagna?» – che bene esprimeva l’ambiguità della definizione di scuola rurale16. Lo studioso piemontese prendeva le mosse dalla costatazione della sua inutilità a causa del modo in cui era stata fino ad allora intesa e della sua inadeguatezza a risolvere in modo serio il problema del miglioramento delle condizioni materiali e morali del popolo. Osservava il Garelli, infatti, che tale qualifica, lungi dall’essere applicata in considerazione del tipo di scolaresca che avrebbe dovuto accogliere (i figli dei contadini), era affibbiata semplicemente in funzione al numero di abitanti del Comune in cui essa sorgeva, trascurando, quindi, fattori di grande importanza, come l’indole, le abitudini e i bisogni del popolo che la doveva frequentare. Conseguenza di ciò era la creazione di una scuola aliena dal contesto socio-economico in cui si trovava, che talvolta si fregiava del titolo di «rurale» pur trovandosi in località che avevano a che fare poco con la campagna. Scriveva a questo proposito lo studioso piemontese: Le nostre leggi ci danno della Scuole rurale un’idea così incompleta, che non possono non nascerne perniciosissimi errori pratici. E per fermo quale è la definizione ufficiale delle Scuole rurali? Quelle, rispondono le nostre leggi, che sono stabilite ne’ comuni ne’ quali la popolazione è inferiore ai tre mila abitanti, niun conto fatto dell’indole, della vita, delle abitudini, de’ bisogni, delle occupazioni del popolo che le deve frequentare. Di cotal guisa le scuole di Camogli sono identiche a quelle di Varese Ligure, e quelle di Savona sono come quelle di Sassari; le une di Porto Maurizio non si differenziano da quelle di Albenga, e così va dicendo; epperò gli stessi programmi, presso a poco gli stessi libri, i medesimi orari ed eguali gli ordinamenti disciplinari17. Dopo aver messo in luce tale ambiguità, Garelli indicava quella che doveva essere, a suo giudizio, la vera scuola rurale: quella «fatta pei figliuoli degli agricoltori, i quali secondo tutte le probabilità eserciteranno, fatti adulti, l’industria agricola, cioè lavoreranno i campi». Procedeva, quindi, all’esposizione del principio di «differenziazione», secondo il quale era necessario prevedere almeno tre tipi differenti di scuola rurale, tanti quanti erano gli ambienti nei quali sarebbero sorte: un modello di scuola per le regioni alpine, uno per l’Italia settentrionale ed un 15 Cfr. G. Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia. Da Casati a Gentile, Roma, Riuniti, 1974, p. 83. 16 V. Garelli, La scuola di campagna: proposta di un nuovo ordinamento che assicuri d’aver buoni maestri ed una istruzione utile al progresso de’campagnuoli: fatta da un disertore del contado il quale desidera di farvi ritorno, Torino, Collegio degli Artigianelli, 1873, p. 5. 17 Ivi, p. 6. 16 altro per quella meridionale. Non doveva essere trascurato, infine, l’elemento rappresentato dal maestro rurale: possibilmente questi doveva essere nato e cresciuto in campagna, avervi risieduto in modo stabile ed essere agricoltore lui stesso, in modo da costituire un esempio sul piano morale per i giovani contadini. A questo proposito veniva proposta la creazione di «scuole normali agrarie», la cui natura teorico-pratica era la migliore garanzia per la formazione dei futuri maestri rurali, definiti «istitutori buoni, modesti e laboriosi». Le indicazioni di Garelli vengono qui riportate perché indicative di come iniziavano a levarsi, a distanza di un quindicennio dal suo varo, isolate voci critiche nei confronti della Legge Casati in materia di istruzione per i contadini, volte a chiedere una scuola che fosse realmente aderente alla vita dei fanciulli di campagna18. Tale auspicio riguardava i più disparati aspetti: dall’ordinamento ai programmi didattici, dai libri al materiale scolastico in uso. Si tratta, in altre parole, di un documento che attesta come si stesse lentamente organizzando un movimento di opinione all’interno del mondo pedagogico, che si sarebbe esteso anche ai ceti produttivi agrari più illuminati, favorevole alla diffusione della scuola nelle campagne e alla sua connotazione in senso agrario e che alla fine del secolo riuscirà ad imporsi come dimostrerà il successo riscosso dallo slogan fatto proprio e rilanciato dal Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli: «Ritorniamo alla terra!». Si trattò, in verità, di un percorso non lineare, costellato da numerosi ostacoli, da tentativi di accelerazione e, di contro, da frettolosi passi indietro. Motivazioni pedagogiche si intrecciarono a quelle di ordine sociale ed economico e, non ultime, a quelle politiche nel dibattito che poneva al centro della discussione la volontà di non alienare l’interesse dei ceti rurali dalla scuola primaria, creando un percorso formativo rispettoso della vita dei giovani contadini e che tenesse conto delle reali esigenze del mondo del lavoro. Di certo questo sentimento non dominò nei primi anni post-unitari. Il modesto corso elementare inferiore creato dalla Legge Casati, infatti, stentò esso stesso a diffondersi nei Comuni rurali e montani e laddove venne istituito non forniva certo un’alfabetizzazione sufficiente. Più che creare una scuola rurale orientata in senso agrario si cercò nei primi decenni successivi all’Unità di potenziare l’istruzione primaria nelle campagne con la creazione di scuole festive per i fanciulli e di scuole per gli adulti. Sebbene queste fossero previste già dalla legge del 1859, tuttavia non offrirono nella maggioranza dei casi un vero rimedio al problema dell’analfabetismo diffuso in ambito rurale. A rendere meno incisiva la loro opera fu la stessa legge Casati che nel prevedere la loro esistenza, stabiliva al contempo che il personale insegnante doveva lavorare in forma gratuita e che esso era dispensato dalla verifica dell’idoneità professionale19. La penuria di maestri e di risorse economiche furono due delle principali cause di tale legislazione che venne confermata nelle sue linee generali dal regolamento del 15 settembre 1860: esso dava la facoltà ai Comuni, ai privati e alle private associazioni di aprire scuole elementari per adulti e corsi speciali per artigiani alla sola condizione che «ne rendessero consapevole l’ispettore del circondario». Né era richiesto un titolo di studio per insegnare in queste scuole: l’art. 164 stabiliva che «gl’insegnanti di queste scuole sono dispensati dal produrre titoli d’idoneità». Tuttavia vigeva il principio della vigilanza sulle loro attività da parte delle 18 In assenza di uno studio organico e approfondito sugli Asili rurali si rinvia a L. Pazzaglia, Asili, Chiesa e mondo cattolico nell’Italia dell’800, in Sani, Pazzaglia (a cura di), Scuola e società, cit., p 82; G. Calò, Ottavio Gigli e i suoi corrispondenti toscani, in Pedagogia del Risorgimento, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 616-630. 19 Ministero della Pubblica Istruzione, L’istruzione elementare nell’anno scolastico 1897-98. Relazione a S.E. il Ministro, Roma, Tip. Ludovico Cecchini, 1900, p. CCXLVII. 17 autorità scolastiche, le quali potevano anche chiuderle seguendo la stessa procedura stabilita dal regolamento per gli istituti privati. Le stesse norme furono confermate quasi integralmente nel Regolamento Generale per l’Istruzione Elementare del 9 ottobre 189520. Ma già un ventennio prima, la Legge Coppino del 1877 aveva dichiarato l’intenzione di combattere l’analfabetismo ricorrendo anche all’ausilio di scuole serali o festive. In particolare era previsto che i fanciulli, dopo aver compiuto il corso elementare inferiore, dovessero frequentare per un anno le scuole serali nei Comuni dove queste erano in funzione o le scuole festive per le femmine. Erano chiamate anche scuole complementari o di completamento, il cui fine era quello, come affermava l’art. 9 del Regolamento del 19 ottobre 1877, di «continuare e di ampliare l’insegnamento delle materie prescritte come obbligatorie dall’art. 2» della Legge Coppino. Agli insegnanti delle scuole serali e festive il ministero si impegnava ad assicurare dei sussidi in base al numero degli scolari riuniti, delle lezioni impartite e del risultato ottenuto. Nonostante questi intendimenti, le norme del 1877 in tale materia si rivelarono «ben presto insufficienti», né ad un esito positivo portò il nuovo Regolamento Speciale per le scuole serali e festive, varato il 18 novembre 1880, dal momento in cui non fu attuato21. Si giunse così al 1888 quando veniva approvato, il 16 febbraio di quell’anno, il Regolamento unico per l’istruzione elementare. Esso dedicava un intero capo (il V, dall’art. 64 al 70) alle scuole serali e festive di completamento, di cui si dettavano norme in ordine alla durata, al finanziamento, all’ammissione degli alunni. In particolare si stabiliva che la scuola serale aveva una durata non inferiore a sei mesi, la festiva non inferiore a dieci mesi. Era fornita la possibilità di trasformarle in scuole diurne di otto mesi qualora si fosse fatta lezione due giorni alla settimana per non meno di due ore e mezza al giorno. Per essere ammessi gli alunni dovevano presentare il certificato di proscioglimento dall’obbligo della scuola diurna. Particolarmente importante era l’art. 70 secondo il quale le scuole di completamento dovevano essere «col concorso del Governo» istituite e mantenute nei Comuni che, essendo privi del corso elementare superiore, «dichiarassero di provvedere a spese proprie agli oggetti di manutenzione delle scuole stesse ed assegnassero anche, dal canto loro, un qualche compenso agli insegnanti delle medesime»22. Nonostante ciò, allo scadere del secolo le reali condizioni delle scuole serali e festive per i giovani, così come per gli adulti, erano assai critiche, al punto che esse non erano riuscite ad imporsi sul piano scolastico, facendo valere la propria importanza, come ammettevano candidamente nelle loro relazioni le stesse autorità ministeriali23. 2. «La redenzione delle plebi agricole». L’azione svolta dalle associazioni private per l’istruzione popolare e rurale nell’Italia post-unitaria A distanza di pochi anni dall’Unità una crescente sensibilità verso il tema della diffusione dell’istruzione popolare andò diffondendosi presso alcune personalità della classe dirigente italiana di idee liberali e di matrice laica. Testimonianza di questa nuova temperie culturale fu l’esplodere di un fenomeno nuovo per l’Italia post-unitaria che si concretizzò nella nascita di numerose iniziative volte all’alfabetizzazione dei ceti popolari e all’elevazione morale e culturale di 20 Ivi, p. CCXLVIII. Ivi, p. CCXLIX. 22 Ivi, p. CCXLIX. 23 Ivi, p. CCL. 21 18 artigiani, operai e contadini di cui furono protagoniste associazioni e sodalizi fondati da privati cittadini. A costoro, infatti, il miglioramento delle condizioni morali e culturali delle popolazioni rurali che vegetavano in condizioni di estrema arretratezza sembrava una questione ineludibile per i destini della Nuova Italia almeno per tre ragioni: in primo luogo perché la «redenzione delle plebi agricole» era un atto di filantropia imposto alle coscienze degli uomini; in seconda istanza per ragioni più prosaiche volte a evitare sconvolgimenti sociali e perturbamenti dello status quo provocati da plebi contadine cresciute nell’ignoranza ma sempre più esposte alla nascente propaganda socialista; infine, perché la presenza di una così vasta manodopera non qualificata minava lo sviluppo economico del paese ed i processi di industrializzazione. Espressione di tali sentimenti fu, ad esempio, la Società Promotrice delle Biblioteche Popolari, sorta nel 1867 a Milano, e promossa da Giuseppe Sacchi, Luigi Cremona, Carlo Baravalle, Amato Amati ed Enrico Fano. Grazie all’azione di un Comitato nato a Firenze due anni dopo con lo scopo di favorire la diffusione delle biblioteche popolari e la stampa di un «Annuario», alla metà degli anni Ottanta ormai le biblioteche erano circa un migliaio. Oltre al prestito dei libri, tali sodalizi, che erano animati dai principali esponenti delle classi dirigenti cittadine che si ispiravano alla filantropia, affiancarono altre attività come conferenze su disparati argomenti. All’interno della stessa cornice si deve inserire la nascita della Società di educazione ed istruzione popolare fondata a Pisa nel 1866, ma che a differenze dalla Società delle Biblioteche popolari, presentava un più marcato interesse verso le questioni scolastiche. Essa traeva origine dalla libera iniziativa di un sodalizio di cittadini convinti che uno dei principali problemi del tempo fosse «l’educazione e il miglioramento delle plebi», questione di grande attualità che richiamava l’attenzione «di tutti i pubblicisti, di tutti gli uomini di stato, di tutti i filantropi» che non si accontentavano dei risultati conseguiti dalle leggi. Non è difficile intravedere dietro queste parole l’opera di coloro che sostenevano il principio della libertà d’insegnamento ed erano stati critici contro l’estensione dell’ordinamento casatiano alle nuove province del Regno, circostanza che aveva visto proprio la Toscana in prima fila contro l’omologazione del proprio sistema scolastico a quello subalpino. Il tema della valorizzazione dell’iniziativa privata è, infatti, ben sviluppato nel programma con cui la Società si presentava: È comune andazzo fra noi il chiedere e lo aspettar tutto dal governo, dimenticando che ogni istituzione non può produrre buone e lodevoli effetti se non occupandosi dei fini, pei quali essa è stata creata, dimenticando che la sorgente della iniziativa non può né dee cercarsi altrove che negli individui: è comune andazzo il parlare della civiltà, della mitezza, del raro buon senso del nostro popolo, il dirlo capace di tutti i diritti e dell’esercizio di tutte le libertà; è comune andazzo il credere che con una legge, coll’attuazione di un sistema, col cambiare di una forma di governo debbansi altresì cambiare ad un tratto le condizioni nostre e che dalla servitù e dall’abbrutimento dobbiamo come per incanto sollevarci alla libertà ed alla civiltà24. Scopo dichiarato dell’associazione pisana, di cui divenne presidente Carlo Minati, professore di medicina all’ateneo cittadino, era quello di favorire la creazione di scuole elementari, asili infantili, scuole serali e domenicali. Un’altra istituzione che sorse nello stesso periodo e con i medesimi obiettivi era il Comitato ligure per l’educazione del popolo, istituito nel gennaio 1867 a Genova ed eretto in ente 24 Programma e statuto della Società di educazione ed istruzione popolare in Pisa, Pisa, tip. Pieraccini, 1866, p. 3. 19 morale con decreto del 25 maggio 187625. Esso aveva per scopo quello di promuovere e sussidiare oltre che l’istituzione di asili, giardini d’infanzia, patronati per fanciulli e biblioteche popolari circolanti, anche di scuole elementari e professionali e scuole serali e festive per gli adulti nelle borgate e nei Comuni minori della Liguria. Si deve tuttavia notare che quello che accomunava le esperienze appena descritte era la loro spiccata connotazione urbana: esse, cioè, nascevano per rispondere alle esigenze educative e formative dei ceti popolari cittadini, formati in prevalenza da negozianti, artigiani e operai. Le campagne restavano ancora un mondo lontano ed i contadini gli esclusi dai benefici portati da queste associazioni. Qualcosa sarebbe cambiato con la nascita di un’istituzione destinata a incidere maggiormente nelle dinamiche scolastiche italiane e a riaccendere il dibattito su quale forma dovesse assumere l’istruzione per i fanciulli delle campagne dopo l’introduzione della Legge Casati: ci riferiamo all’Associazione nazionale per la fondazione degli asili rurali per l’infanzia. Sorta nel 1867, essa aveva tra i suoi fondatori due ex ministri della pubblica istruzione, come Carlo Matteucci e Terenzio Mamiani, intellettuali o uomini politici con interessi pedagogici, come Gino Capponi, Ottavio Gigli e Bettino Ricasoli. Il progetto dell’Associazione era così ambizioso perché essa non aveva in animo semplicemente di sussidiare asili da istituire nei paesi e nelle borgate ma perché proponeva una soluzione educativa per i figli dei contadini che era alternativa a quella proposta dall’ordinamento casatiano del 185926. Il sodalizio chiedeva, infatti, di trasformare le scuole rurali inferiori, diffuse nei paesi con meno di 500 abitanti e quindi nelle campagne, in asili rurali che accogliessero bambini di ambo i sessi da tre o quattro anni fino a otto o nove anni nella convinzione che tali istituzioni educative avrebbero meglio corrisposto alle reali esigenze dei genitori e della prima alfabetizzazione dei fanciulli. L’asilo, infatti, avrebbe insegnato «con metodi più sani e sicuri le medesime materie» e avrebbe reso possibile «lo svolgersi ordinato delle forze fisiche e intellettuali del fanciullo» meglio di quanto fatto nelle scuole rurali, dove l’insegnamento «non educò (che doveva essere il suo principale scopo), non istruì che poco e male e senza uniformità di metodo e d’insegnamento»27. In particolare lo statuto dell’associazione prevedeva si sarebbe potuto aprire asili rurali «nei casali, nei borghi, nelle borgate e nei villaggi» dove era possibile riunire almeno trenta bambini. Era previsto l’insegnamento della lettura, della scrittura, dell’aritmetica e delle prime nozioni di geografia, storia sacra, storia nazionale, storia naturale e agronomia. Un altro vantaggio offerto da questa soluzione educativa era, secondo i suoi promotori, quello di favorire la frequenza degli alunni, in prevalenza contadini, grazie all’abbassamento dell’età scolare: se il bambino che entrava nella scuola rurale a sei anni era già in grado di svolgere alcuni lavori nei campi, come la sorveglianza degli animali, e pertanto era soggetto a disertare la scuola, lo stesso non sarebbe potuto accadere per un fanciullo di tre anni. Sul piano giuridico gli asili rurali furono istituiti in base a quanto previsto dall’articolo 14 del Regolamento scolastico del 15 settembre 1860 con il quale lo Stato riconosceva la possibilità 25 Cfr. lo D.L. 6 giugno 1901 che approva lo statuto organico dell’associazione, pubblicato nella Raccolta Ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d’Italia. Parte supplementare, 1901. 26 Sull’esperienza degli asili rurali manca ancora oggi uno studio organico ed approfondito. Per il momento si possono trovare alcune informazioni in L. Pazzaglia, Asili, Chiesa e mondo cattolico nell’Italia dell’800, in Sani, Pazzaglia (a cura di), Scuola e società, cit., p 82; G. Calò, Ottavio Gigli e i suoi corrispondenti toscani, in Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, pp. 616-630; Gli asili rurali per l’infanzia, «Rivista contemporanea nazionale italiana», voll. 50-51, 1867, pp. 269-280. 27 O. Gigli, Il progresso dell’Associazione Nazionale degli asili rurali per l’infanzia nel suo primo quinquennio, Firenze, Stabilimento di G. Pellas, 1873, p. 33. 20 ad associazioni private, a corporazioni ed a privati cittadini di gestire scuole a sgravio «totale o parziale degli obblighi del Comune sempreché fossero mantenute in conformità alla Legge». Questo aspetto è di particolare importanza poiché l’operato dell’associazione fu circondato subito da una cortina di diffidenza e di ostilità da parte di taluni soggetti – maestri che temevano la perdita del posto di lavoro in favore delle colleghe giudicate più adatte nell’insegnamento infantile, ispettori scolastici che paventavano critiche nei loro confronti in ordine agli scarsi risultati ottenuti nelle zone di propria competenza, una parte del clero sospettosa verso l’azione di un’associazione di stampo liberale che voleva prendere il controllo dell’educazione dell’infanzia – che cercarono di mettere in discussione il fondamento legale in base al quale erano stati aperti gli asili rurali e di sottolineare la natura eversiva di quedta soluzione educativa rispetto alla Legge Casati. Tali critiche, riportate all’attenzione dell’opinione pubblicata da un giornale, indussero il presidente dell’associazione, Mamiani, a reagire inviando un memoriale al ministro della pubblica istruzione in cui si mettevano in evidenza i benefici portati dai 300 asili rurali fino ad allora fondati: venire incontro alle famiglie contadine, per le quali la cura dei bambini era un peso che impediva lo svolgimento dei lavori nei campi, ed educare i fanciulli, in modo tale che uscendo dall’asilo non avessero avuto più bisogno di altre proseguire gli studi in altre scuole28. Mamiani si diceva pertanto amareggiato per il fatto che lui e gli altri dirigenti dell’associazione erano stati «fraintesi e talvolta dichiarati poco amici» della legge, tanto che polemicamente lasciava balenare l’ipotesi del disimpegno da parte del sodalizio se il governo non avesse fornito rassicurazioni adeguate. Al memoriale rispose il 19 novembre 1869 il ministero, il quale negò il bisogno di ottenere chiarimenti dall’associazione, «resultando esse chiarissimamente dai soli nomi delle persone delle quali la Direzione era composta». Tuttavia a un mese, il 14 dicembre, lo stesso ministero, per mezzo del suo segretario generale Pasquale Villari, inviava alla direzione dell’associazione una nota in cui indicava con precisione i luoghi in cui essa poteva esercitare la sua opera: i Comuni con popolazione inferiore a 500 persone e che in ragione della loro povertà riconosciuta dal consiglio scolastico e dalla Deputazione Provinciale non avessero potuto sostenere le spese delle scuole ai termini di legge, ed i Comuni con popolazione superiore a 500 persone e con scuole elementari già attive secondo la Legge Casati, al cui interno però vi fossero state «parecchie […] borgate di popolazione inferiore a 500 abitanti», per le quali esso non era assolutamente in grado di aprire scuole rurali29. Tali prescrizioni apparvero ai dirigenti dell’associazione una vera e propria limitazione e per questo il 18 dicembre 1869 Mamiani scrisse al ministero una puntigliosa lettera in cui rivendicava il diritto di operare secondo l’articolo 14 del Regolamento del 1860, nel quale veniva affermato che per determinare la natura e l’estensione dell’obbligo che i Comuni avevano di provvedere all’istruzione elementare, si doveva tener conto delle loro rendite, delle spese obbligatorie, «dell’imposta comunitativa» e delle altre condizioni economiche. Una definizione di certo ambigua che non precisava in modo chiaro se tutti i Comuni fossero obbligati ad aprire almeno una scuola elementare nel proprio territorio e che, quindi, si prestava a interpretazioni diverse. Facendo gioco su questa ambiguità, Mamiani confermò l’intenzione dell’associazione di proseguire sulla sua strada30. Si stava così profilando uno vero e proprio scontro con il ministero che infatti non tardò a rispondere riaffermando il principio secondo il quale solo allo Stato spettasse il potere di assumere decisioni in materia scolastica. Con una lettera del 20 gennaio 28 Ivi, pp. 49-51. Ivi, pp. 53-54. 30 Ivi, pp. 54-55. 29 21 1870, infatti, il nuovo ministro Cesare Correnti chiedeva che venissero sottoposte al suo esame tutte «le proposte a beneficio di ciascun Asilo», al fine di valutare caso per caso l’istituzione di ogni singolo asilo rurale, di dare per ciascuno di esso delle speciali istruzioni al consiglio scolastico nonché di ordinare delle ispezioni31. La decisione del ministro, come ha ricordato successivamente uno dei dirigenti dell’associazione, Ottavio Gigli, mirava in prospettiva a trasformare la natura degli asili rurali in semplici «scuole infantili», sottraendoli al ramo dell’insegnamento elementare, e in definitiva a ribadire la centralità e la validità del sistema casatiano del 185932. Un progetto che il sodalizio cercò ancora una volta di contrastare, ma senza risultati concreti e duraturi: all’inizio del 1870, infatti, l’associazione, dichiarando di stare dalla parte della legge e volendo rincuorare «i timidi che indietreggiavano innanzi alla voce che il Ministero della pubblica istruzione ci osteggiasse», inviò ai propri Comitati filiali l’elenco dei Comuni con meno di 500 abitanti per iniziare presso questi le pratiche necessarie all’istituzione dei propri asili rurali; venuto a conoscenza di questa operazione, il ministero reagì emettendo una circolare in data 5 marzo 1870 diretta ai prefetti ed ai presidenti dei consigli provinciali scolastici con cui ordinava loro di non erogare agli asili rurali i fondi già stanziati per le scuole elementari, invitandoli così a non farsi trarre «in inganno dall’ultima Circolare dell’Associazione per gli Asili medesimi»33. All’altolà emesso ai prefetti e ai presidenti dei consigli provinciali scolastici, Correnti fece seguire l’invio al Consiglio superiore della pubblica istruzione di alcuni quesiti concernenti la compatibilità degli asili rurali con l’ordinamento casatiano. Nella seduta del 4 giugno questo organismo metteva la parola fine sull’esperienza degli asili rurali per come erano stati concepiti dai loro animatori: veniva, infatti, stabilito che «l’Asilo-scuola non ha tutti i caratteri della scuola elementare» e che con «esso asilo i Comuni non soddisfano l’obbligo»; era altresì detto che lo sgravio dall’obbligo, già previsto dalla legge, non poteva intendersi con la sostituzione di un’altra scuola non regolare, come gli asili rurali34. Ridimensionata così nelle ambizioni e confinata ad agire nel campo delle opere educative per l’infanzia, l’associazione continuò a sopravvivere ancora per qualche tempo, per poi cessare definitivamente la sua attività. 3. Tra avocazione allo Stato e rinnovamento della didattica: la scuola rurale nell’età del positivismo La questione della scuole rurale assunse un certo rilievo nel dibattito pubblico in occasione del tragico caso di Italia Donati, la sfortunata maestra di campagna che nel 1886 si suicidò per non sottostare ai soprusi e alle angherie di cui era vittima per mano degli amministratori del Comune35. Fu allora che sulla stampa magistrale si tornò a rivolgere una certa attenzione alla scuola rurale, invocando da talune parti la sua avocazione allo Stato al fine di fornire maggiori cure al ramo più debole dell’istruzione elementare. Di questa proposta si fece interprete Guido 31 Ivi, pp. 56-57. Ivi, p. 57. 33 Ivi, pp. 56-57. 34 Ivi, pp. 62-65. 35 La vicenda è ricostruita in E. Catarsi, Il suicidio della maestra Italia Donati, «Studi di Storia dell’Educazione», n. 3, 1981, pp. 28-55. Per un quadro più generale sulla condizione magistrale femminile si rinvia a S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi (a cura di), Fare gli italiani: scuola e cultura nell’Italia contemporanea, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1993, vol. I, pp. 67-130. 32 22 Marcati dalle colonne de «Il Risveglio educativo», la rivista di cui era direttore. Conscio degli ostacoli che avrebbero incontrato gli «avocazionisti», egli prudentemente chiese di restringere il campo delle scuole da passare allo Stato solo a quelle rurali, poiché affermò era «qui il marcio, [era] qui soprattutto che l’influenza dissolvitrice del Comune, si fa[ceva] sentire maggiormente»36. Rivolgendosi ad Aristide Gabelli, da poco eletto deputato al Parlamento, Marcati lo esortò a presentare lui stesso un disegno di legge di iniziativa parlamentare su questo argomento. Il pedagogista con grande realismo rispose con una lettera pubblicata sul giornale dichiarando in primo luogo i suoi dubbi sull’avocazione di tutte le scuole allo Stato per due motivi: la resistenza che sarebbe stata opposta dai Comuni delle grandi città che «vi spesero in tanti anni molte cure e molti milioni» e l’insostenibilità del sistema burocratico del nuovo Stato di poter assumere sulle proprie spalle l’onere di gestire «l’esercito dei maestri elementari», circa 42 mila maestri, tanti quanti approssimativamente c’erano allora in Italia, se si considerava che il ministero già mostrava non poche difficoltà nella gestione amministrativa del personale delle università e delle scuole secondarie37. Occorreva quindi procedere con cautela sulla strada dell’avocazione ma tale atteggiamento improntato alla prudenza non gli impedì di dichiararsi favorevole, intanto per cominciare, al passaggio allo Stato delle scuole rurali. Questo poteva essere a suo giudizio il primo passo che si poteva compiere, poiché tale progetto gli appariva «fattibile» e «utile» dal punto di vista tecnico. Anche sotto il profilo pedagogico questa decisione sarebbe stata saggia nel momento in cui si sarebbero finalmente riconosciute le differenze culturali e ambientali delle scuole elementari italiane, così diverse da regione a regione, da zona a zona. Non bisognava però illudersi, ammonì il pedagogista, che in tal modo si sarebbero risolti i problemi che spinsero al suicidio la maestra Donati, poiché quello che veramente serviva era una riforma morale dei costumi del popolo e la rimessa in discussione delle sue consuetudine e delle sue tradizioni che talvolta erano il frutto di superstizione e di arretratezza. Lo spirito positivista che animava Gabelli emerge chiaramente in queste parole: La riforma vera, grande, utile, sarebbe questa, di dare un po’ di chiarezza alle teste e di rettitudine agli animi, di avvezzare la gente a un po’ di esame e di critica, di diminuirle il bisogno di credere alle meraviglie, di renderla meno fantastica, meno esaltata, meno maligna e più seria, più savia, più temperata, più giusta. Non è uno spavento a pensare, che colle istituzioni che abbiamo, la grandissima maggioranza del paese crede che i suoi simili possano mettersi in diretta corrispondenza col demonio e mercè di questo attirar cogli occhi delle disgrazie a quelli cui vogliono male? Ma chi può diradar la nebbia dai cervelli e mettere un po’ di bontà nei cuori?38 Forte dell’adesione alla sua campagna giornalistica di un così importante pedagogista, Marcati chiamò a raccolta i maestri italiani incitandoli a sostenere la causa dell’avocazione, battaglia che però, come è noto, non portò alcun frutto concreto nell’immediato. Si deve aggiungere che negli stessi giorni in cui venne pubblicata la presa di posizione di Gabelli, anche «Rivista pedagogica italiana», il periodico di orientamento laico e democratico di matrice selfhelpista diretto da Francesco Veniali, diede voce al problema delle scuole rurali. A trattare l’argomento e a fornire un’idea per il loro riordinamento fu Giuseppe Neri, un giovane maestro che, dopo aver conseguito la licenza magistrale, aveva studiato pedagogia all’Università di 36 Le scuole rurali allo Stato, «Il Risveglio educativo», n. 42, 30 luglio 1886, p. 317. Ivi, p. 318. 38 Ivi, p. 319. L’intervento del pedagogista si trova pubblicato anche in A. Gabelli, Educazione positiva e riforma della società. Antologia degli scritti educativi, a cura di R. Tisato, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 175-180. 37 23 Bologna sotto il professore Pietro Siciliani, e che in quel momento insegnava nella scuola elementare di Poggio Renatico, nel Ferrarese39. Richiamandosi al pensiero positivista che allora dominava in campo pedagogico e, in particolare, agli studi del De Dominicis sulle differenze di ordine fisiologico e psicologico presenti nei bambini, egli sostenne la necessità di abolire le scuole rurali uniche che riunivano in una sola aula i fanciulli dalla prima alla terza classe. Conscio altresì dell’impossibilità di creare tre sezioni, suggeriva di riunire i bambini della seconda e della terza classe e di lasciare quelli della prima in un’altra sezione40. Altra riforma necessaria era quella dell’orario al fine di permettere agli alunni di recarsi a scuola e, al contempo, di poter svolgere i lavori agricoli. Citava a questo proposito il consueto impiego dei bambini nel pascolo mattutino degli animali o la pratica diffusa nei paesi di montagna di utilizzare i fanciulli nella ricerca dei funghi, attività che fruttava «10 o 15 soldi», garantendo alla famiglia contadina il sostentamento per uno o due giorni41. Quanto alle finalità della scuola rurale, Neri sosteneva citando Gabelli e Siciliani, che essa forniva un’istruzione poco educativa poiché «la parola del maestro arriva al cervello come nozione, ma raramente penetra nel cuore». Pertanto di grande importanza era l’insegnamento morale che si sarebbe dovuto ispirare non alla religione ma alla scienza ed ai bisogni moderni della società nella quale «circola indubbiamente un nuovo elemento di vita, voglio dire la scienza nuova, la scienza positiva, la scienza sperimentale, non dogmatica, non metafisica»42. La scuola rurale doveva essere, quindi, il luogo di affrancazione del popolo che era vissuto fino ad allora nell’errore: una posizione quella di Neri che si ispirava ai principi della democrazia e del socialismo ma da intendere, per usare le sue stesse parole, come un «socialismo scientifico», cioè riferito all’ordine morale, e non un socialismo nel senso classico del termine, riferito cioè all’ordine concreto e reale43. Nonostante la mobilitazione di riviste e di uomini pubblici, la scuola per i contadini rimase in fondo alle preoccupazioni della classe dirigente italiana e gli ambiziosi progetti avocazionisti non trovarono ascolto. L’unico concreto, ancorché timido, segnale in direzione del miglioramento dell’istruzione rurale era contenuto nella legge 11 aprile 1886, n. 3798, varata dal ministro Coppino nel settimo governo Depretis, con cui si aumentava di un decimo gli stipendi dei maestri delle scuole rurali (art. 2 della legge)44. Prima ancora che rispondere ad una legittima 39 G. Neri, Ordinamento delle scuole rurali uniche, «Rivista pedagogica italiana», n. 9, 15 giugno 1886, pp. 516-527; Id., Ordinamento delle scuole rurali uniche, «Rivista pedagogica italiana», n. 10, 15 luglio 1886, pp. 594-611. 40 Ivi, p. 598. 41 Ivi, p. 599. 42 Ivi, p. 600. 43 Richiamando Siciliani, così scrisse Neri: «In seno alla pedagogia non ha posto quel socialismo che vuol guarire l’umanità cogli espedienti del ferro e del fuoco e ribattezzarlo in un’onda calda di sangue fraterno, sì bene si svolge e concreta l’essenza del socialismo scientifico che vuole la trasformazione pacifica della società, e tende, come sosteneva coll’ardore d’un apostolo il Siciliani, a mettere le diverse classi sociali non già nelle stesse condizioni reali, ciò che forma la grande utopia del demagogismo, bensì nelle stesse disposizioni essenziali d’ordine morale, intellettuale e materiale» (G. Neri, Ordinamento delle scuole rurali uniche, «Rivista pedagogica italiana», n. 9, 15 giugno 1886, p. 521). 44 In base a tale legge gli stipendi dei maestri nelle scuole rurali inferiori erano di 800 lire (scuole di prima classe), di 750 lire (scuole di seconda classe), di 700 lire (scuole di terza classe); nelle scuole rurali superiori di 900 lire (scuole di prima classe), di 850 lire (scuole di seconda classe), di 800 lire (scuole di terza classe). Gli stipendi delle maestre nelle scuole rurali inferiori erano di 640 24 richiesta economica – gli stipendi erano fermi dalla Legge Casati del 1859 –, questo provvedimento era una parziale risposta alla richiesta di conferire una maggiore dignità alla figura del maestro di campagna, il più delle volte squalificato a livello sociale, come dimostrava efficacemente la sagace commedia scritta nel 1883 da Edoardo Conti dal titolo emblematico: Le miserie del maestro rurale. lire (scuole di prima classe), di 600 lire (scuole di seconda classe), di 560 lire (scuole di terza classe); nelle scuole rurali superiori di 720 lire (scuole di prima classe), di 680 lire (scuole di seconda classe), di 640 lire (scuole di terza classe). 25 Capitolo secondo «Educhiamo il popolo!»: il dibattito politico e pedagogico sulla scuola rurale dalla crisi di fine secolo all’età giolittiana (1898-1921) 1. «Torniamo ai campi!»: il ministro Baccelli e il rilancio dell’istruzione popolare e agraria La fase che si aprì negli anni Novanta dell’Ottocento fu per la scuola rurale ricca di fermenti. Prima ancora che da riflessioni pedagogiche, l’attenzione verso la scuola dei contadini nasceva però da considerazioni di ordine politico. Sotto gli occhi di un’impaurita classe dirigente c’erano, infatti, i disordini causati dalla crisi economica di fine secolo che rischiavano di perturbare un ordine sociale che fino ad allora si era creduto eterno. L’emblema che meglio di ogni altro interpretava questa mutata sensibilità fu l’approvazione dei nuovi programmi per le scuole elementari, avvenuta con decreto il 29 novembre 1894 sotto il ministero della pubblica istruzione di Guido Baccelli. Frutto del clima di involuzione politica e culturale che caratterizzò l’ultimo quindicennio del secolo, dominato dalle spinte nazionalistiche e dall’esplodere di tensioni sociali lungamente sopite45, i programmi del ’94 si ispiravano, come è noto, alla volontà di fornire alle nuove generazioni poche e basilari nozioni utili a farle integrare nel mondo del lavoro e nella comunità civile e politica, secondo la formula «istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può». In tale ottica acquisiva un significato specifico l’introduzione nelle scuole elementari dell’insegnamento della cosiddetta «cultura materiale», ritenuta necessaria per poter assecondare lo sviluppo del paese e favorire la modernizzazione economica dell’agricoltura46. Ciò si tradusse sul piano didattico nell’ingresso nelle scuole elementari, da una parte, del lavoro manuale educativo e, dall’altra, dell’insegnamento agrario, sull’onda di una convinzione che trovò sempre più credito negli anni Ottanta e Novanta secondo la quale, come scrisse il pedagogista Pietro Pasquali, la scuola aveva «ecceduto nell’occupazione intellettuale a danno delle facoltà che sono d’uso quotidiano nella vita»47. Ai fini della nostra ricerca va rilevato come nei programmi del ’94 Baccelli manifestava già la speranza che ai maestri fosse concesso un campicello, posto 45 Sulla crisi di fine secolo la bibliografia è ampia. Ci si limita a segnalare: G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna., 11 voll., Milano, Feltrinelli, 1974, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana; U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo e l’età giolittiana, Torino, UTET, 1982; F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2004. 46 Gaetano Bonetta, “Insegnare la cultura materiale”. Istruzione agraria e lavoro manuale nell’Italia del XIX secolo, in Lucia Romanello, Storia delle Istituzioni educative in Italia tra Otto e Novecento. Atti del Convegno, Alghero, 14-15 ottobre 1994. Quaderno n. 8 de «Il Risorgimento», pp. 153-163. 47 La citazione è riportata in Bonetta, “Insegnare la cultura materiale”, cit., p. 160. Sull’introduzione del lavoro manuale educativo e sull’opera svolta a questo proposito da Emidio Consorti nella scuola di Ripatransone si rinvia a G. Galeazzi, Emidio Consorti e il lavoro manuale educativo, «Pedagogia e vita», n. 6 (1981), pp. 611-622. Una raccolta degli scritti del maestro fautore del lavoro manuale pubblicata di recente si trova in E. Conforti, Il lavoro manuale educativo: il sistema pedagogico, le conferenze, a cura di E. Diletti, G. Galeazzi, W. Michelangeli, Ripatransone, Amministrazione comunale di Ripatransone, 1997. 26 possibilmente vicino alla scuola, da utilizzare a scopo didattico, nonché per trarre da esso i frutti del lavoro agricolo a loro personale vantaggio48. Fu però con la circolare del 20 luglio 1898 che si compì un salto di qualità, allorché Baccelli decise di introdurre, sia pure in forma facoltativa, l’insegnamento pratico delle prime nozioni di agricoltura nelle scuole rurali e di dare nuovo slancio al progetto per la creazione degli orticelli scolastici49. Con una circolare emanata pochi giorni dopo, il 12 agosto 1898, il ministro forniva indicazioni di ordine pratico sulla cessione dei terreni da parte dei privati all’amministrazione scolastica: il terreno doveva essere vicino alla scuola; doveva essere donato al municipio o, per lo meno, concesso per un periodo di sei anni; i prodotti della coltivazione spettavano al maestro; i lavori dovevano essere appropriati all’età e alle capacità fisiche dei bambini; i maestri erano tenuti a compilare un programma dell’insegnamento agrario che era loro intenzione svolgere nell’arco dell’anno e sottoporlo all’esame del consiglio scolastico provinciale. Sempre nel corso dello stesso anno Baccelli bandì anche un concorso per il miglior manuale o guida per l’insegnamento dell’agricoltura nelle scuole elementari che, secondo le indicazioni ministeriali, doveva essere diviso in tre parti, una dedicata all’Italia settentrionale, una a quella centrale ed una a quella meridionale50. L’ambiente in cui era costretto a muoversi il ministro non era tuttavia dei migliori giacché numerose erano ancora le resistenze e le incomprensioni che accompagnarono le sue decisioni. Tale problema venne rilevato da un suo stretto collaboratore, Vittorio Stringher, allorché affermò che Baccelli, impegnato a creare la «Scuola popolare rurale», trovò «forti opposizioni e critiche»51. 48 Un’esperienza che precorse quella del «campicello» baccelliano fu quella dell’ispettore Panizzi che in Sicilia dal 1888 propugnò l’idea che nelle scuole rurali si attuasse l’insegnamento agrario teorico-pratico, che egli chiamava slöjd agrario. Dopo aver ottenuto l’iniziale supporto di quattro Comuni, che misero a disposizione dei terreni per le esercitazioni pratiche, egli chiese l’aiuto del Ministero della Pubblica Istruzione che tuttavia valutò tale impronta data alla scuola non rispondente ai fini educativi che le erano propri. Per questo motivo l’ispettore venne invitato a rivolgersi al Ministero dell’Agricoltura e nel giro di poco tempo l’esperienza si esaurì (Cfr. Ministero della Pubblica Istruzione, L’istruzione elementare nell’anno scolastico 1897-98, cit., pp. CCVCCVI). 49 Su questo aspetto si vedano le interessanti riflessioni in E. Catarsi, Storia dei programmi della scuola elementare (1860-1985), Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 51-54. In quegli anni la pubblicistica dedicata agli orticelli, ai loro risultati e alle loro potenzialità, crebbe in modo significativo. Si vedano, per esempio, i seguenti titoli: G.B. Pitotti, Il campicello. Conferenza tenuta dal dr. G. B. Pitotti ai docenti elementari della provincia di Venezia, Venezia, Tip. Dell'Ancora, 1898; A. Accolti-Gil, Due anni di esperimenti nel mio campicello scolastico, Bari, Stab. Tip. Gius. Laterza e Figli, 1900; A. Scipioni, Il campicello delle scuole elementari di Tivoli, Tivoli, Tipografia Majella, 1900; A. Ferrari, L’agricoltura, la scuola e il maestro: Norme e schiarimenti per l’uso del campicello nella provincia di Milano, Milano, Stab. Tip. Di Antonio Vallardi Edit., 1901; E. Azimonti, Il campicello scolastico: impianto e coltivazione. Manuale di agricoltura pratica per i maestri, Milano, Hoepli, 1903; C. Chiapponi, L’istruzione agraria elementare e il campicello sperimentale, Veroli, Tip. Reali, 1903; A. D’Ercole, Il campicello agrario delle scuole elementari rurali: buoni esempi, Piacenza, Stab. Tip. V. Porta, 1905; L. Ciancaglini, Un campicello didattico nel comune di Panni, Casalbordino, De Arcangelis, 1909; A.F. Cossu, Il campicello scolastico: vantaggi educativi e didattici. Relazione presentata alla presidenza delle conferenze magistrali svoltesi a Sassari nel settembre del 1911, Tempio, Tip. ditta vedova Tortu, s.a. 50 La notizia è tratta dall’articolo La riforma dell’insegnamento elementare, «L’Unione Liberale. Corriere dell’Umbria», n. 199, 6 settembre 1898, p. 1. 51 V. Stringher, L’istruzione agraria in Italia, Roma, Tip. dell’Unione Cooperativa Editrice, 1900, p. 49. 27 Al fine di studiare dal punto di vista didattico e pedagogico la riforma della scuola primaria in senso agricolo fu insediata un’apposita commissione, formata dal già citato professor Stringher (in qualità di relatore) e dai colleghi Giuseppe Castelli e Giuseppe Cuboni 52. La relazione finale da essa elaborata venne presentata il 25 marzo 1899 e il successivo 10 aprile fu emanato un decreto con cui venivano varati i nuovi programmi didattici per l’insegnamento pratico delle prime nozioni di agricoltura nelle scuole elementari53. Si trattava di un punto di svolta di notevole importanza, anche se a giudizio di Stringher, il contenuto del decreto non fu del tutto corrispondente alle proposte della relazione. Non si trattava, infatti, d’imprimere un indirizzo professionale alla scuola elementare rurale, ma, bensì, di avviarla ai fini della vita campestre. L’agricoltura deve figurare nel programma della scuola primaria come uno strumento didattico e quale elemento educativo; le nozioni agrarie non devono impartirsi sotto forma di catechismo e come fine a sé stesse, per il solo intrinseco loro valore, ma di esse il maestro deve servirsi per sviluppare mediante un appropriato insegnamento oggettivo, coi mezzi offerti dal campicello, lo spirito d’osservazione, che è quanto dire schiudere nuovi orizzonti all’intelligenza dell’alunno, contribuire a formarne il carattere, a innamorarlo della vita campestre, a predisporre la sua mente ad accettare – una volta fatto adulto – quelle innovazioni nell’arte sua che la scienza e la pratica gli suggeriscono, per accrescere, migliorare e difendere i prodotti del suolo 54. L’uscita di scena di Baccelli dal ministero, avvenuta nel giugno 1900, finì per peggiorare le cose, accrescendo il disinteresse dello Stato nei confronti delle iniziative volte a potenziare l’insegnamento agrario nelle scuole rurali. Se nel 1899 i campicelli erano stati, secondo le cifre fornite dal ministero, 2.257 e le scuole elementari in cui fu impartito l’insegnamento delle prime nozioni di agricoltura circa 7.000, negli anni successivi il loro numero calò e se alcuni maestri e ispettori si dedicarono a far sopravvivere questa esperienza, incontrarono però numerosi ostacoli e una scarsa considerazione da parte dei nuovi successori di Baccelli. Indicative, a questo proposito, furono le critiche che si levarono dall’Accademia dei Georgofili, la prestigiosa istituzione agraria di Firenze che aveva salutato positivamente le innovazioni baccelliane. In un articolo apparso nel 1908 negli Atti della medesima Accademia si denunciava come il ministero non disponesse più di dati aggiornati sul numero dei campicelli presenti in Italia («Da allora le statistiche tacciono, né per quante ricerche abbia fatto mi è stato possibile trovare un elenco 52 Vittorio Stringer dal 1891 al 1908 fu direttore della biblioteca del Ministero dell’Agricoltura. Fu un grande patrocinatore dello sviluppo dell’istruzione agraria, pubblicando nel 1900 un importante studio dal titolo L’istruzione agraria in Italia che costituì una sorta di bilancio di quanto fino ad allora era stato realizzato ad opera di privati, di enti e dello Stato in tale materia; Giuseppe Castelli si interessò di questioni pedagogiche e scolastiche, pubblicando alcuni importanti studi sul lavoro manuale e l’insegnamento agrario negli anni in cui Baccelli occupò l’incarico di Ministro. Si segnalano, in particolare: Origine e svolgimento della scuola del lavoro in Italia, «Rivista pedagogica», anno V, vol. II, fasc. 7, luglio 1912, pp. 587-643; L’insegnamento agrario e il lavoro manuale nella scuola popolare: discorso pronunciato a Vercelli il 29 luglio 1902 in occasione del Congresso Magistrale, Tip. Coppo, Vercelli, 1903; Relazione a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione sull’ordinamento del lavoro educativo nelle scuole elementari. Parte 1., L'enunciazione del programma e i primi risultati e Parte 2., Sistemazione legale ed amministrativa del lavoro educativo, Roma, Tip. Ludovico Cecchini, 1899-1900. Giuseppe Cuboni, infine, fu un noto biologo e studioso di botanica. Insegnò alla Stazione di patologia vegetale di Roma e collaborò con il Ministero dell’Agricoltura. 53 Il testo delle istruzioni e dei programmi per l’insegnamento delle prime nozioni di agricoltura sono ripubblicati in Catarsi, Storia dei programmi, cit., pp. 240-246. 54 Stringher, L’istruzione agraria in Italia, cit., pp. 49-50. 28 completo del numero dei campicelli scolastici oggi esistenti») e si ironizzava sulla presa di posizione espressa nel 1908 alla Camera dei Deputati dal ministro della pubblica istruzione, Luigi Rava, nei confronti del riordino della scuola rurale («dichiarava di voler presentare un progetto di riforma della Scuola rurale, ma di non averlo ancora potuto fare per la mancanza di elementi di fatto sulla loro condizione e lamentava che si era venuto dimenticando tutto il materiale e tutta la funzione statistica del Ministero e che quindi mancavano le statistiche della Scuola!»)55. Un quadro desolante dell’insuccesso dei campicelli e dell’insegnamento agrario ci viene offerto anche da un’altra fonte, una relazione manoscritta conservata tra le carte del ministro Credaro56. Da essa apprendiamo che in provincia di Alessandria, ad esempio, l’insegnamento dell’agraria nelle scuole rurali era «ben lungi dal corrispondere ai fini pei quali fu istituito»; la maggior parte delle scuole erano prive del campicello e quei pochi che furono messi a disposizione dai privati, erano stati pochi anni dopo sottratti alle scuole. A Bergamo la situazione descritta era diversa da zona a zona: nel primo circondario quasi tutti i maestri insegnavano l’agraria, nel secondo erano solo in pochi a farlo, nel terzo quasi nessuno. In provincia di Bologna erano poche le scuole a disporre del campicello e se anche tutte ne avessero avuto uno a disposizione, gli insegnanti non sarebbero stati in grado di trarne il frutto desiderato: «pochi maestri sanno, pochi possono, pochissimi vogliono». A Brescia l’insegnamento agrario non aveva «avuto adeguato sviluppo, né l’efficacia» auspicata, così come a Lucca dove era praticato «in quasi tutte le scuole, ma non ragionevolmente, né con frutti soddisfacenti». Nella provincia di Cagliari la situazione era peggiore: nel circondario di Iglesias e di Cagliari l’agraria non veniva insegnata in nessuna scuola rurale, in quello di Lanusei solo in pochissime. Degli 11 campicelli di Campobasso, si legge nella relazione, «alcuni sono semplici concessioni decorative» poiché «sfumato l’entusiasmo, sopravvenne la più completa indifferenza». L’impreparazione dei maestri era una delle cause principali alle quali addebitare tale insuccesso: così si ricava la notizia che a Genova «non di rado è avvenuto che gli esperim[enti] del camp.[icello] sono abortiti con discredito e scapito del maestro e della scuola»; nella provincia di Macerata l’insegnamento non ebbe molta diffusione poiché «in genere si fa la parodia dell’insegnamento agrario». Nel distretto di Porto Maurizio, odierna Imperia, un certo fervore accolse l’istituzione di 18 campicelli nel 1900, ma già nell’anno scolastico 1901-1902 non rimaneva che uno solo, nel momento in cui si erano mostrati pochi utili e quindi erano decaduti «nell’opinione generale». Molto spesso l’insuccesso era da addebitarsi ai Comuni, ai quali la legge chiedeva di favorire l’insegnamento dell’agraria e l’istituzione dei campicelli. Era il caso denunciato nella provincia di Reggio Calabria dove i Comuni preferivano sovvenzionare la Cattedra Ambulante di Agricoltura. In chiusura di questa breve rassegna delle innovazioni sperimentate e non sempre con successo sul terreno delle scuole rurali, si deve sottolineare come nell’ultimo quarto dell’Ottocento si cercò di imprimere una svolta anche nel versante della specializzazione in senso agricolo degli insegnanti rurali, attraverso l’inserimento, prima facoltativo, poi obbligatorio, dell’insegnamento agrario tra le discipline di studio nelle scuole normali. Stando ai dati forniti da Vittorio Stringher nella sua importante indagine sull’istruzione agraria in Italia, fin dal 1866-67 l’agraria veniva introdotta nella scuola normale provinciale di Bologna, in quello successivo ciò 55 Le citazioni sono tratte da L. Neppi Modona, L’insegnamento delle nozioni elementari d’agricoltura nelle scuole rurali ed altri fattori di progresso agrario, «Atti della R. Accademia dei Georgofili», quinta serie, volume V, 1908, p. 533. 56 ACS, Archivio Credaro, b. 8, fasc. «Agraria», Relazione sull’insegnamento agrario e sui campicelli scolastici. 29 avveniva nelle scuole normali di Casale Monferrato, Forlì, Palermo, Perugia, Pisa, Reggio Emilia ed Urbino. Dal 1869-70 tale insegnamento entrava nella scuola normale de L’Aquila e dal 187374 in quella di Pinerolo. Negli anni successivi seguirono le scuole normali di Bari e Messina (1875-76), le femminili di Udine, Capua (1879-80) e Potenza (1880-81), la maschile di Campobasso (1880-81). In tal modo nell’anno scolastico 1890-91 l’agraria era impartita in 27 scuole normali maschili e in 10 femminili, distribuite in varie regioni d’Italia. A favorire l’introduzione dell’agraria nelle scuole normali fu dapprima il ministero dell’agricoltura che se ne occupò fino al 1893-94, anno in cui tale materia era impartita in 29 scuole normali maschili e 18 femminili. Dall’anno scolastico successivo subentrò nell’organizzazione il ministero della pubblica istruzione. Nel 1900 Stringher riferiva che lezioni di agraria si impartivano oramai in tutte le scuole normali femminili del Regno a motivo delle disposizioni previste della legge del 12 luglio 1896, con la quale l’agraria venne posta fra le materie obbligatorie delle scuole normali. Ma anche in questo caso i risultati concreti non dovevano essere così positivi come si era creduto. Questo dato emerge con chiarezza da una relazione del ministro Credaro in cui addebitava la principale ragione nel fatto che la maggioranza degli insegnanti elementari erano maestre e, come tali, poco interessate alle questioni agricole57. Né frutti migliori erano stati conseguiti con l’introduzione delle conferenze autunnali in cui si svolgevano lezioni di agraria ai maestri a motivo del loro disinteresse per l’agricoltura: le conferenze erano così diventate, a giudizio di Credaro, una sorta di periodo di vacanza per i maestri durante il quale si sottraevano alla «vita monotona […] del villaggio», imparavano a conoscersi, si interessavano di questioni sindacali e fondavano «qualche sezione dell’U.M.N.». Così descritte da Credaro le conferenze erano momenti vuoti e aridi: vi partecipava il «Prov.[vedito]re e talora anche il Prefetto che fanno un discorsetto d’occasione; e senza esame sono tutti proclamati maestri d’agraria e restituiti col rispettivo glorioso diploma al comunello»58. 2. I filantropi entrano in azione: la stagione del riformismo liberale Se l’ultimo scorcio dell’Ottocento aveva lasciato intravedere un iniziale interesse dello Stato, subito venuto meno, nei confronti dell’istruzione dei giovani contadini e della specializzazione dell’istruzione primaria in senso agrario, bisognerà attendere l’iniziativa svolta in questo campo dai privati per veder fiorire in Italia nuove esperienze di scuole rurali o di istituzioni educative rivolte ai bisogni della popolazione agraria. Tale sensibilità si diffonde all’incirca durante il ministero Baccelli, vale a dire nel corso degli anni Novanta dell’Ottocento, ad opera di taluni sodalizi di agrari o singoli proprietari terrieri e filantropi. In Friuli è degna di nota l’opera svolta dall’Associazione Agraria Friulana, con la Sezione di Magistero per l’insegnamento dell’agraria destinata agli insegnanti elementari. A testimonianza di tale interesse si può citare il breve studio apparso nel 1903 tra le pubblicazioni del sodalizio friulano degli agricoltori e dei cultori di studi agrari, e curato da Gabriele Luigi Pecile, uomo politico udinese noto in ambito pedagogico per la 57 58 Ivi, Archivio Credaro, b. 8, fasc. «Agraria», Relazione sull’insuccesso dell’insegnamento agrario. Ibid. 30 sua attività di promozione dell’insegnamento fisico-ginnico e dei giardini d’infanzia, a proposito dell’opera svolta dalle scuole inferiori di agraria in Germania59. Nel 1899 il barone di origine ebraica Leopoldo Franchetti aiutò don Brizio Casciola a ottenere dal Comune di Roma una vasta area alle porte della capitale, per aprirvi una colonia agricola, allo scopo di formarvi giovani bisognosi al mestiere di contadini. Due anni dopo il ricco proprietario terriero aprì nella sua tenuta posta nelle vicinanze di Città di Castello, in Umbria, la scuola rurale della Montesca, per accogliere i figli dei propri contadini che, non potendo accedere alle scuole del circondario per l’eccessiva distanza, crescevano nell’ignoranza60. L’anno successivo fu attivata una seconda scuola, posta sempre all’interno della tenuta, nella località di Rovigliano. Ad animare quell’esperienza fu, come è noto, la moglie di Franchetti, Alice Hallgarten, la quale riuscì, grazie alla capillare ed estesa rete di contatti creata con eminenti personalità della pedagogia e della cultura del tempo, come Maria Montessori, Lucy Latter e successivamente Giuseppe Lombardo Radice, a fare della Montesca un centro di formazione per i fanciulli contadini conosciuto in tutta Italia e anche al di fuori dei confini nazionali61. Risaliva ad un quindicennio prima, la fondazione di un’altra esperienza che mirava alla lotta all’analfabetismo e alla qualificazione professionale dei contadini: si trattava della «Società delle Scuole per adulti e piccole industrie nelle campagne». Fondata da una dinamica figura del movimento femminista lombardo, Rebecca Calderini Berettini, la Società iniziò ad operare nel 1893-94 creando corsi serali per i contadini che erano tenuti nei mesi invernali e intendevano stimolare, perfezionare e introdurre piccole lavorazioni rurali da svolgersi durante i periodi di sosta dai lavori agricoli62. Nel 1897-98 le scuole erano salite a 22, distribuite nelle province di 59 Altre pubblicazioni di Pecile su tale argomento sono: Le scuole inferiori di agraria nell’Impero Germanico, Udine, Tip. di Giuseppe Seitz, 1893; L’insegnamento agrario in Italia quale e, quale dovrebbe essere: con note sull’insegnamento agrario germanico, Torino, C. Clausen, 1894; L’insegnamento agrario in Germania con premessa sull’insegnamento agrario in Italia, Torino, C. Clausen, 1897; Notizie intorno alla sezione di Magistero per l’insegnamento dell’agraria, annessa alla R. Scuola normale femminile di Udine, Udine, Tip. di Giuseppe Seitz, 1899; fu anche autore della prefazione al volumetto di A. Gaidoni, Insegnamento agrario nelle scuole elementari, Udine, Stab. Tip. Friulano, 1914. Sulla sua figura cenni in Teseo ‘900: editori scolastico-educativi del primo Novecento, Milano, Bibliografica, 2008, p. LXXV. 60 Sulla Montesca si veda: S. Bucci, La scuola della Montesca. Un centro educativo internazionale, in P. Pezzino, A. Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp. 195-242. Sullo stesso argomento cfr. la voce «Montesca, scuola» curata da R. Titone, in Dizionario enciclopedico di pedagogia, 4 voll., Torino, Editrice S.A.I.E., 1964, vol. III, pp. 341-344; V.U. Bistoni, Grandezza e decadenza delle istituzioni Franchetti, Città di Castello, Edimond, 1997; E. Zangarelli, Leopoldo e Alice Franchetti: la scuola della Montesca, Città di Castello, Prhomos-nuove idee editoriali, 1984. 61 L’impegno diretto nel campo dell’educazione all’infanzia da parte della famiglia Franchetti iniziò un venticinquennio prima della creazione della scuola della Montesca. Nel 1876, infatti, il barone Raimondo Franchetti (1829-1905), cugino di Leopoldo, ricco proprietario terriero come lui, comunicava la sua decisione al sindaco di Roverbella, paese del Mantovano, di istituire dal primo novembre di quell’anno nella sua tenuta di Canedole un asilo infantile, completamente a sue spese. Ispirandosi al metodo froebeliano, l’asilo accoglieva i bambini dei contadini, di età compresa tra i 3 e i 6 anni. Sulla figura di Raimondo Franchetti cfr. G. Picchiotti, Per la morte del Barone Raimondo Franchetti: parole pronunciate in limite il 26 novembre 1905, Empoli, Tip. Guainai, 1906. 62 Sulla figura della Calderini Berettini (1847-1926) cfr. A. Gigli Marchetti, Donna lombarda (18601945), Milano, Franco Angeli, 1992, p. 31 e p. 134; R. Farina (a cura di), Dizionario biografico delle donne lombarde (568-1968), Milano, Baldini&Castoldi, 1995, pp. 138-140. Socia dell’Unione Femminile, la Calderini Berettini fondò a Milano nel 1895 anche le «Scuole preparatorie operaie», 31 Milano, Bergamo, Como e Cremona, con 1.558 alunni. Nell’anno scolastico 1905-06 si contavano 56 scuole, di cui 3 festive femminili, in 38 Comuni con un totale di 3.284 iscritti 63. La Società contava nel 1905 trenta soci permanenti ed era sussidiata dalla Società Umanitaria, dal ministero dell’Agricoltura e da altre istituzioni locali64. Il programma d’insegnamento prevedeva la lettura, la scrittura, l’aritmetica, l’igiene, l’agricoltura, la morale civile. Le scuole ricevevano l’approvazione dei Comuni, sotto la cui vigilanza si trovavano. L’insegnamento era impartito dai maestri elementari, posti alle dipendenze dell’autorità comunale. Pochi anni dopo sempre in Lombardia vedeva la luce un’altra interessante esperienza di istruzione agraria rivolta, però, esclusivamente alle giovani contadine. Si trattava della Scuola Pratica di Agricoltura Femminile, diretta da un’intellettuale fiorentina di origine ebraica, Aurelia Josz, e fondata a Niguarda, nella campagna milanese, grazie al supporto di un Comitato promotore dell’istruzione agraria creato a Milano nel marzo 190165. Non sorprende notare come la Josz condividesse con Alice Hallgarten non solo la comune origine ebraica, ma anche un’amicizia e una stima reciproca per l’impegno filantropico intrapreso da entrambe nel campo dell’educazione rurale. Eretta in ente morale nel 1921, la Scuola a partire da quell’anno attivò il primo corso magistrale di agraria, nell’intenzione di offrire alle maestre destinate alle scuole di campagna l’opportunità di specializzarsi attraverso l’attività pratica e di integrarsi in modo adeguato nel futuro ambiente lavorativo. Un’interessante esperienza a metà strada tra istruzione popolare e istruzione agraria vedeva la luce nel 1907 a Lari, presso Pisa: si trattava della «Scuola agraria comunale elementare». A farsene promotore fu un uomo politico, Emilio Bianchi, avvocato e deputato liberale, ma soprattutto socio dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, il prestigioso sodalizio intellettuale che riuniva la parte più illuminata dei proprietari terrieri e dei cultori di studi agrari. Tale fatto non era certo irrilevante e deve essere tenuto in considerazione per comprendere la genesi di quell’esperienza. Bianchi, infatti, dopo aver costatato la necessità di diffondere il sapere agrario tra i contadini e aver riscontrato l’impossibilità di fare affidamento sulle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, inviò il primo aprile 1905 al Comune di Lari la sua proposta volta alla creazione di una scuola agraria informandolo della volontà del ministero dell’Agricoltura di contribuire alla sua nascita. La proposta venne accolta dal consiglio comunale nella seduta del 25 maggio e nell’ottobre successivo venne approvato uno statuto66. In base ad esso la scuola era finanziata dal ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e dalla Cassa di Risparmio di Pisa, mentre il sorte per dare alle bambine dai nove ai quattordici anni un’istruzione di base e un addestramento professionale che le avviava al lavoro di cucitrici, modiste, magliaie e sarte. 63 I dati sono tratti da: Neppi Modona, L’insegnamento delle nozioni elementari d’agricoltura, cit., p. 554. 64 Sulla storia dell’Umanitaria si rinvia a: R. Bauer, La Società Umanitaria: Fondazione P. M. Loria Milano (1893/1963), Milano, Società Umanitaria, 1964; P. Mosetti, D. Tacchinardi, Le scuole professionali dell’«Umanitaria» (1902-1914). Parte 1, «Nuova Rivista Storica Anno», LXVII, (5-6) 1983, pp. 579-610; P. Mosetti, D. Tacchinardi, Le scuole professionali dell’«Umanitaria » (1902-1914). Parte 2, «Nuova Rivista Storica Anno», LXVIII, (1-2) 1984, pp. 109-138; Riccardo Bauer: atti delle Giornate di studio organizzate dalla Società Umanitaria - Milano 5-6 maggio 1984, a cura di M. Melino, Milano, Franco Angeli, 1985. 65 Sulla scuola di Niguarda cfr. P. D’Annunzio, Aurelia Josz (1869-1944): un’opera di pionerato a favore dell’istruzione agraria femminile, «Storia in Lombardia», A. XIX, 2 (1999), pp. 61-96; V. Vita Josz, Le origini della prima scuola agraria femminile italiana nel pensiero e nell’opera di Aurelia Josz, Nervi, Tip. Ongarelli, 1957. 66 ASCL, Delibere del consiglio comunale, cc. 348-349, Seduta del consiglio comunale del 25 maggio 1905. 32 Comune metteva a disposizione il locale scolastico e il materiale occorrente. Essa era diretta da una commissione formata da un presidente e due consiglieri, nominati dalla giunta municipale. L’insegnamento impartito si basava su nozioni di agronomia, igiene, nozioni basilari di contabilità, estimo rurale, meccanica applicata all’agricoltura e legislazione agraria. Le lezioni, da 36 a 40 per ciascun anno, erano ripartite in due distinte sezioni, una in primavera e l’altra in autunno, nei giorni di giovedì e domenica, al fine di sottrarre il minor tempo possibile i giovani dai lavori nei campi. La scuola poteva essere frequentata dagli agricoltori di Lari e del circondario che non avessero avuto più di 25 anni di età e che avessero ottenuto la licenza elementare, o che in caso contrario sapessero comprovare l’acquisizioni di conoscenze di base. Essa era gratuita per i contadini poveri, mentre per coloro che erano nelle condizioni di poter pagare, era previsto l’esborso annuo di 5 lire. L’insegnante che prestava la sua opera doveva essere un tecnico della locale Cattedra Ambulante di Agricoltura: per i primi tempi questa opera fu svolta da Giovanni Emilio Rasetti, professore di agricoltura e specializzato in chimica e botanica, nonché direttore della Cattedra Ambulante di Pisa67. La scuola iniziò a funzionare nel 1907 con 42 alunni iscritti; nel maggio dello stesso anno Bianchi presentò le caratteristiche di quanto sperimentato a Lari al pubblico dell’Accademia dei Georgofili con una relazione poi pubblicata negli Atti del sodalizio68. Presentava dei caratteri comuni con l’esperienza tentata dall’onorevole Bianchi a Lari quella, più ambiziosa e destinata a maggior successo, del senatore Eugenio Faina, proprietario di una vastissima tenuta di alta collina e bassa montagna posta tra Perugia e Orvieto. Di fronte alla crisi agraria di fine secolo Faina si era persuadendo della necessità di favorire un vasto programma di modernizzazione dell’agricoltura che contemplava, tra le altre cose, la formazione sia dei proprietari, che dei contadini69. Per i primi creò l’Istituto Superiore Agrario di Perugia, sorto nel 1896, mentre per i secondi fondò due anni dopo la Cattedra Ambulante di Agricoltura. Ma ben presto si rese conto del bisogno di creare un sistema formativo rivolto ai giovani contadini che fosse maggiormente rispondente alle esigenze del mondo rurale e che fornisse un corredo di nozioni scientifiche e culturali di base superiore a quello fornito dall’insegnamento agrario ambulante e dalla scuola elementare. Alla luce di tale costatazione il senatore iniziò nel 1906 una sperimentazione finalizzata alla creazione di una scuola rurale modello. Ricevuta la disponibilità del Comune di San Vito in Monte e una certa libertà d’azione dalle autorità scolastiche, egli provvedeva a chiudere la scuola «non classificata» della frazione montana di Palazzo Bovarino, frequentata da un numero esiguo di alunni, e ad aprirne un’altra con due sedi, poste una nel villaggio montano di Ospedaletto e l’altra presso la villa di Spante, sede di una sua fattoria. La retribuzione dell’insegnante sarebbe restata a carico del Comune, mentre il conte avrebbe messo a 67 Giovanni Emilio era il padre di Franco Rasetti, il noto fisico collaboratore di Enrico Fermi nel famoso istituto di via Panisperna a Roma. Le lezioni tenute nella scuola di Lari furono pubblicate in G.E. Rasetti, Sommario delle lezioni di agricoltura, Pisa, Tip. F. Simoncini, 1908. 68 E. Bianchi, Un nuovo tipo di scuole agrarie rurali, «Atti della Reale Accademia economica-agraria dei Georgofili di Firenze», quinta serie, volume quarto, pp. 173-188. 69 Sulla scuola creata dal senatore Faina si rinvia a L. Montecchi, Una scuola per i contadini: la Scuola Rurale Faina, «History of Education & Children’s Literature», IV, 1 (2009), pp. 179-197; Id., Dalla Cattedra Ambulante di Agricoltura alle Scuole Rurali: il contributo di Eugenio Faina alla formazione professionale dei contadini nell’Umbria mezzadrile, «Rivista di storia dell’agricoltura», LII, 1 (2012), pp. 101-116; Id., La Scuola Rurale Faina. Un’esperienza di istruzione popolare e agraria nell’Italia rurale del Novecento, Macerata, Eum, 2012. 33 disposizione gratuitamente l’abitazione per la maestra e le due aule scolastiche, oltre a 300 lire per integrare lo stipendio dell’insegnante70. Il progetto prevedeva che la maestra dovesse abitare ad Ospedaletto dove avrebbe tenuto la lezione in mattinata e che nel pomeriggio avrebbe ripetuto la stessa lezione nella villa di Spante. Innovativa era anche la disposizione delle aule che furono costruite secondo il cosiddetto modello olandese. Si trattava di una scuola con due aule divise da una parete a vetri in genere fissa ma con la possibilità di essere smontata a seconda delle esigenze. Una porta permetteva alla maestra di passare agevolmente da un’aula all’altra. Le classi erano suddivise la prima in un’aula, la seconda e terza in un’altra. La parete a vetri permetteva di non disturbare il lavoro degli allievi dell’altra aula e consentiva a una sola maestra di vigilare contemporaneamente gli altri allievi. La scuola, con corso elementare fino alla terza classe, fu aperta nel novembre 1906. I primi anni della sua vita furono caratterizzati da notevoli difficoltà rappresentate soprattutto dal disagio della montagna al quale non erano preparati gli insegnanti e dallo stipendio messo a loro disposizione, giudicato non sufficiente a ripagare le fatiche quotidiane. Solo nell’anno scolastico 1909-10 la scuola riuscì a funzionare a pieno regime grazie all’opera di una valente maestra e all’esame finale della terza elementare si ebbero nove prosciolti su tredici iscritti. Il primo obiettivo fu considerato raggiunto da Faina che a quel punto si occupò di far proseguire gli studi ai bambini che in terza elementare venivano prosciolti creando un adeguato sistema di istruzione post-elementare formato da un corso complementare e da uno professionale. Il corso complementare, di durata triennale, nasceva dall’esigenza di integrare il sapere degli alunni prosciolti dalla scuola elementare, perfezionando la lettura e la scrittura, «destando nell’allievo l’attitudine ad osservare e riflettere e fornirgli quelle elementari cognizioni scientifiche che hanno più diretta applicazione nella vita pratica». In particolare al primo anno erano impartite nozioni di storia naturale, fisiologia ed igiene; al secondo nozioni di fisica e chimica mentre al terzo nozioni di geografia, elementi di geometria e disegno e nozioni sull’ordinamento dello Stato. Il corso complementare creato da Faina cominciò a funzionare il 22 ottobre 1910, con nozioni di storia naturale su schemi compilati dal conte e dalla maestra quasi sempre per corrispondenza. In ogni conferenza, che si teneva con cadenza settimanale, la maestra presentava il materiale oggetto della lezione cercando di destare l’attenzione degli allievi. Procedeva poi a dimostrazioni o esperimenti e, infine, a riflessioni e conclusioni. Al termine della lezione dettava alcuni quesiti ai quali l’allievo doveva rispondere per iscritto presentando il lavoro all’insegnante nella successiva lezione. I compiti erano corretti e poi riconsegnati al ragazzo insieme ad una copia dello schema poligrafato della lezione corrispondente perché potesse conservare più facilmente memoria delle nozioni apprese71. L’ultimo tassello del percorso formativo ideato da Faina fu il corso professionale a cui assegnava il compito di provvedere alla formazione tecnica dei futuri agricoltori. Esso nasceva dalla convinzione che «scuola elementare e scuola complementare preparano l’allievo non lo formano». In altre parole, non era sufficiente per il giovane contadino un corredo di nozioni di cultura generale più vasto, ma egli abbisognava pure di un insegnamento pratico da cui poter trarre utili ed immediati vantaggi nella vita di tutti i giorni. Dato il carattere eminentemente professionale l’insegnamento non poteva essere affidato alla maestra elementare che, priva delle adeguate conoscenze agronomiche non avrebbe potuto svolgere al meglio il compito assegnato, ma agli assistenti della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Perugia. Il primo corso professionale 70 71 Ivi, pp. 12-13. Ivi, p. 15. 34 iniziò nell’ottobre 1913 nella scuola di Ospedaletto con una serie di conferenze settimanali72. Le lezioni concernevano nozioni di agraria, nel primo anno, e di zootecnia, nel secondo. Ricevuto il plauso del ministro Credaro e della Commissione Centrale per il Mezzogiorno, Faina riuscì ad aprire nel 1912 ben dodici corsi complementari nelle campagne umbre che crebbero dopo la guerra, tanto che nel 1922 si fece promotore della nascita dell’Ente Nazionale per la Scuola Rurale, fondato a Roma, che avrebbe dovuto estendere a tutte le scuole rurali con tre classi la sua scuola imperniata sul corso complementare (detto anche preparatorio) e su quello professionale. Nel 1904 prese avvio per opera di alcune personalità della cultura e filantropi, come Sibilla Aleramo, Giovanni Cena, Alessandro Marcucci, l’esperienza destinata a divenire famosa delle Scuole rurali dell’Agro Romano. Promossa in origine dalla sezione romana dell’Unione femminile nazionale, tale esperienza vedeva la luce nelle campagne dell’Agro, alle soglie di Roma, dove la povertà era assoluta e l’analfabetismo quasi totale. In un primo momento lo Stato iniziò un’azione di bonifica sanitaria per combattere la malaria assai diffusa, mentre il municipio di Roma fondò qualche scuola elementare. Ma queste rimanevano deserte essenzialmente perché lontane dai villaggi rurali e perché il giorno i giovani erano impegnati nei lavori agricoli. La soluzione fu la scuola festiva, itinerante o stabile, che accoglieva ragazzi e adulti. La prima scuola fu aperta a Lunghezza nel 1904, l’anno seguente ne furono aperte altre a Marcigliana e Pantano73. Nel giro di poco tempo l’associazione moltiplicò le sue attività, al punto che nell’anno scolastico 1913-14 nell’Agro romano, nelle paludi pontine e nelle vicine montagne funzionarono complessivamente 48 scuole serali, 7 festive, 4 diurne, 3 estive e un asilo d’infanzia. Si era anche avviato l’esperimento delle scuole ambulanti in Ciociaria in favore dei «guitti» che rientravano nei loro paesi d’origine al termine dei lavori stagionali svolti nelle campagne intorno a Roma74. Un’azione per certi versi analoga venne svolta nell’Italia meridionale dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi), sorta ad opera di Leopoldo Franchetti e Pasquale Villari all’indomani del terremoto che nel 1908 colpì le regioni meridionali. Nel campo dell’educazione la sua prima opera fu l’apertura di un asilo infantile a Villa San Giovanni, a cui ne fecero seguito molti altri75. Inoltre l’associazione promosse la creazione di biblioteche popolari e, grazie ai fondi ricevuti nel 1919-20 dalla Croce Rossa Americana e dalla Fondazione Nazionale Industriale per Orfani di Guerra, riuscì a mettere in piedi un alto numero di asili che nel 1925 raggiunsero il numero di 10776. 72 E. Faina, Scuole Popolari Rurali. Conferenza tenuta nella sede della Federazione delle Società Scientifiche e Tecniche, il 12 maggio 1912 per iniziativa del Consorzio Agrario di Milano, estratto da «La Coltura Popolare», Varese, 1912, p. 13. 73 D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 262-263. 74 Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968), cit., p. 67. 75 Sulla storia dell’Animi si vedano: U. Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno nei suoi primi cinquant’anni di vita, in L’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi cinquant’anni di vita, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1960, pp. 7-137; G. Alatri, Le scuole e l’azione cultura e sociale della Associazione Nazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia dalla fondazione alla caduta del Fascismo, «I problemi della pedagogia», novembredicembre 1990, pp. 561-582; Serpe, La Calabria e l’opera dell’Animi, cit. 76 E. Faina, Il manuale della scuola rurale, Firenze, Bemporad, 1927, p. 14. 35 3. Lo Stato e le riforme dell’istruzione rurale in età giolittiana Se una delle risposte alla crisi di fine secolo era stata in campo educativo l’interventismo di esigue ma dinamiche minoranze, formate da filantropi, proprietari terrieri e uomini politici, convinte della necessità di risollevare le condizioni morali e materiali dell’infanzia nelle campagne, nondimeno un’analoga risposta giungeva dal terreno della politica. La classe dirigente liberale, infatti, uscì dalla crisi fortemente scossa e, al contempo, consapevole che non fosse più rinviabile un’azione riformatrice che valesse, se non altro, a prevenire future agitazioni e sconvolgimenti sociali77. Il primo intervento legislativo da questo punto di vista fu il disegno di legge 30 gennaio 1904, n. 465 intitolato, Provvedimenti per la scuola e pei maestri elementari, che venne depositato in parlamento dal ministro della pubblica istruzione Vittorio Emanuele Orlando durante il secondo gabinetto Giolitti. La manifestazione da parte del governo della volontà di provvedere in modo più risoluto al miglioramento dell’istruzione primaria accese subito un certo dibattito nell’ambito del quale possiamo registrare l’intervento del senatore nonché direttore de «La nuova antologia», Maggiorino Ferraris. Dalle colonne di quella autorevole rivista egli forniva, pochi mesi dopo la presentazione del disegno di legge del ministro Orlando, una sua proposta che in ordine al tema rappresentato dall’istruzione rurale si ispirava all’applicazione di due principi fino ad allora criticati e rifiutati: la scuola mista per i due sessi e le classi alternate al mattino e al pomeriggio78. Facendo l’esempio di un Comune rurale di 1.200 abitanti con la scuola obbligatoria di sei anni e circa 140 ragazzi obbligati, metà maschi e metà femmine, se si continuava come in passato a non applicare quei due principi sarebbero occorse dodici classi, sei insegnanti ed una spesa annua minima per i soli stipendi di circa 12.000 lire, oltre a quella dell’edificio e del materiale scolastico. Il rapporto insegnante-alunni sarebbe stato di uno a dodici. Ma era evidente che le condizioni delle finanze pubbliche non avrebbero permesso una tale situazione. Applicando le sue proposte – scuola mista e classi alternate – i 140 alunni sarebbero stati ripartiti in sei classi miste di circa 23 alunni; adottando il sistema delle classi alternate, il maestro avrebbe insegnato nella mattina alle prime tre classi elementari, nel pomeriggio alle tre classi superiori; oppure ricorrendo al metodo delle classi riunite, ogni insegnante avrebbe tenuto contemporaneamente due classi nella stessa aula, divise in sezioni: mentre impartiva l’insegnamento ad una classe, assegnava all’altra un compito. Così facendo sarebbero bastati tre insegnanti per garantire l’insegnamento alle sei classi del corso elementare e la spesa minima per gli stipendi sarebbe scesa a 3.000 lire79. A distanza di sette mesi dalla presentazione in parlamento, si giunse all’approvazione della legge dell’8 luglio 1904, n. 407, che prese il nome del ministro Orlando. Essa estendeva a dodici anni la durata dell’istruzione obbligatoria con la creazione del corso popolare di durata biennale che si aggiungeva ai quattro anni del corso elementare inferiore e superiore, ma tale adeguamento era più formale che sostanziale, poiché era limitato alle classi elementari esistenti nel Comune di residenza degli alunni. I beneficiari erano soprattutto gli alunni delle scuole di città, dove talvolta esisteva il corso superiore, non certo nelle campagne dove il corso si limitava alle prime tre classi. Qualche effetto positivo giunse alle scuole rurali da una norma contenuta nella legge che prevedeva la possibilità di effettuare degli sdoppiamenti delle classi troppo numerose, che 77 Su questo punto cfr. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., pp. 199204. 78 M. Ferraris, Per la scuola popolare, «La nuova antologia», maggio-giugno 1904, pp. 205-206. 79 Ivi, p. 205. 36 potevano essere imposti anche in modo coattivo: in tal modo venivano assegnate ad un solo maestro due classi, in orari diversi, con un numero di ore di insegnamento ridotto. Si favorì, inoltre, l’incremento di scuole facoltative e di quelle serali e festive per adulti, ponendo a carico dello Stato, in tutto o in parte, gli stipendi dei loro insegnanti80. Ben più importante ai fini del nostro discorso fu però la legge 15 luglio 1906, n. 383 contenente Provvedimenti per le province meridionali, per la Sicilia e per la Sardegna 81. Essa, infatti, prevedeva la possibilità di istituire scuole elementari inferiori di terza classe rurale interamente a spese dello Stato nelle frazioni o borgate con almeno 40 obbligati, condizioni che era più frequente trovare nelle campagne e nelle zone di collina e di montagna. Si trattava di una vera rivoluzione, che anticipò l’avocazione delle scuole del 1911, in quanto per la prima volta si affermava il principio secondo il quale lo Stato interveniva direttamente e con propri mezzi a fondare scuole rurali laddove ve ne fosse maggiormente bisogno. La legge del 1906 prevedeva inoltre che anche le scuole elementari inferiori facoltative, mantenute dai Comuni, potevano essere classificate di terza rurale; in cambio lo Stato avrebbe sostenuto la spesa necessaria per l’aumento dello stipendio dell’insegnante. Veniva inoltre istituita presso il ministero una «Commissione Centrale per la diffusione dell’istruzione elementare nel Mezzogiorno e nelle isole», costituita da sette membri, di cui il presidente e due membri nominati con decreto dal ministro della pubblica istruzione, due membri eletti dalla Camera e altrettanti dal Senato fra i propri membri. Suo compito sarebbe stato quello di amministrare gli eventuali fondi residui derivanti dall’erogazione dei fondi stanziati per effetto di questa legge, di fornire pareri al ministro e di dichiarare, dietro la proposta del consiglio scolastico provinciale, se un comune avesse o meno contravvenuto ai suoi obblighi scolastici: in questo caso il provveditore poteva inviare in quel comune un direttore didattico per assumere la direzione dei servizi scolastici con i poteri di un commissario prefettizio. Altri provvedimenti contenuti nella legge del 1906 concernevano l’edilizia scolastica, attraverso la concessione di mutui di favore e il concorso dello Stato per un terzo della spesa, gli sdoppiamenti delle classi numerose, grazie all’incremento di un apposito fondo, l’istituzione di 2.000 nuove scuole serali e festive per adulti analfabeti. L’articolo 77 prevedeva, infine, che tali disposizioni avrebbero riguardato non solo le regioni meridionali e le isole, ma anche buona parte dell’Italia centrale: le province di Ancona, Ascoli Piceno, Macerata, Pesaro e Urbino, Perugia, Roma (eccetto il comune di Roma), l’isola d’Elba, l’isola di Capraia e l’isola del Giglio82. La legge del 1906 fu quella che segnò una vera svolta per la scuola rurale dopo cinquant’anni di sostanziale immobilismo che connaturò il periodo iniziato con l’emanazione della Legge Casati. Infatti durante l’anno 1907-1908 furono istituite 1.782 nuove scuole di terza classe rurale a intero carico dello Stato e 1.462 scuole grazie agli sdoppiamenti. Inoltre 333 scuole 80 Ivi, pp. 219-220. Il disegno di legge era stato presentato l’8 marzo 1906 quando ministro della pubblica istruzione era Paolo Boselli nel primo governo Sonnino. 82 La Commissione per il Mezzogiorno rimase attiva almeno fino al 1921 quando il senatore Del Giudice presentò un’interrogazione parlamentare al governo in cui si chiedeva se la nuova Opera contro l’analfabetismo, appena costituita, non l’avrebbe danneggiata, invadendo in parte il terreno in cui operava. Eventualità negata dal ministro Corbino in sede di discussione parlamentare: «Non tema il senatore Del Giudice – disse il ministro – che i due istituti che hanno per fine di combattere l’analfabetismo, abbiano ad intralciarsi: ambedue mirano ad uno scopo altissimo: quello del bene dell’Italia» (Cfr. L’Opera contro l’analfabetismo in Senato, «I diritti della scuola», n. 10, 18 dicembre 1921, pp. 144-145). 81 37 erano state trasformate da facoltative in classificate. Tirando un bilancio alla data del primo gennaio 1908 ben 3.577 scuole erano state istituite grazie alla legge del Mezzogiorno del 190683. Numeri che venivano sottolineati con forza dal Direttore generale dell’istruzione primaria e popolare, Camillo Corradini, nella sua famosa inchiesta sullo stato della scuola primaria nel Regno pubblicata nel 1910 e destinata a diventare oggetto di riflessione per una parte della classe dirigente sulle condizioni in cui versavano le scuole elementari. Per Corradini occorreva muoversi su questa strada e, ad esempio, finanziare ulteriormente il fondo statale per gli sdoppiamenti per fondare altre 4.000 scuole e per fornire i locali scolastici per le nuove classi84. L’inchiesta fotografava inoltre il fenomeno delle scuole rurali uniche presenti in Italia mettendolo in rapporto al numero complessivo di scuole elementari: esse assommavano a 16.166 ed equivalevano a più di un quarto del totale di scuole presenti nel Regno (63.618). Di esse ben 3.529 contenevano più di 70 alunni, 4.868 tra 70 e 50 alunni e 7.769 meno di 50 alunni85. Un altro punto di snodo nella storia delle scuole rurali è rappresentato dalla legge 4 giugno 1911, n. 417, detta anche Legge Daneo-Credaro, che costituì lo sforzo più poderoso fatto dall’Unità per diffondere l’istruzione elementare nel paese. Approntata dal ministro della pubblica istruzione Luigi Credaro, che introdusse alcuni emendamenti ad un progetto di legge presentato dal suo predecessore Edoardo Daneo, essa prevedeva l’avocazione della scuola elementare allo Stato, ad eccezione che per i Comuni capoluogo di provincia e di circondario. Per quanto riguardava le scuole rurali con classi riunite sotto un solo maestro con unico orario, istituite nei Comuni e nelle borgate, la legge disponeva il loro riordinamento nel seguente modo: nei Comuni e nelle borgate dove era istituita una sola di tali scuole, al maestro che vi era preposto era affidato l’insegnamento in orari diversi, a norma, per quanto riguardava l’orario, dell’articolo 6 della legge 8 luglio 1904, n. 407, della prima classe e della seconda e terza; nei Comuni e nelle borgate in cui esistevano due di tali scuole, sarebbero state istituite quattro classi miste, e l'insegnamento sarebbe stato affidato in orari diversi ed a norma del citato articolo 6, per quanto riguardava l’orario, a due insegnanti con norme da stabilirsi nel regolamento; nei Comuni e nelle borgate, nei quali tali scuole erano più di due, si sarebbe proceduto con le stesse norme al riordinamento, istituendo, ove sia possibile, la quarta classe. L’articolo 34 della nuova legge prevedeva inoltre che nei Comuni e nelle borgate, nei quali per effetto del riordinamento si fosse istituita la quarta classe, l’obbligo dell’istruzione, limitato per effetto dell'articolo 1 della legge Orlando del 1904, al solo corso inferiore, veniva esteso alla quarta classe elementare. Le classi quinta e sesta non sarebbero potute essere istituite se il Comune non avesse adempiuto agli obblighi di legge relativamente alle scuole nelle frazioni. Infine, veniva disposto che il riordinamento delle scuole rurali doveva essere attuato entro un triennio a cominciare dall’anno scolastico 1911-1912 in modo progressivo: nel primo anno toccava alle scuole nelle quali gli alunni iscritti superarono 83 C. Corradini, Relazione presentata a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione dal Direttore Generale per la Istruzione primaria e popolare, 4 voll. Roma, tip. Operaia Romana Cooperativa, 1910, vol. I, p. 40. Scomponendo i dati regione per regione si evince che il numero complessivo di scuole istituite, trasformate o sdoppiate in base alla legge del 1906 erano state 500 nelle Marche, 296 in Umbria, 145 nel Lazio, 497 in Abruzzo e Molise, 586 in Campania, 241 in Puglia, 70 in Basilicata, 482 in Calabria, 648 in Sicilia e 10 nelle isole di Capraia, Giglio ed Elba. 84 Ivi, p. 425 85 Ivi, p. 38. 38 nell’anno scolastico 1910-1911 il numero di 70; nel secondo anno quelle nelle quali superarono il numero di 50; nel terzo anno le rimanenti86. 4. Il dibattito sulla scuola rurale nel primo dopoguerra La questione di una riforma radicale della scuola rurale faceva irruzione nel dibattito pubblico e segnatamente in quello pedagogico e magistrale, con una forza inusitata nell’immediato primo dopoguerra. Mai prima di allora, infatti, si erano registrati in Italia un’attenzione e un interesse verso il tema dell’istruzione dei contadini, sia adulti che fanciulli, tali da produrre un ampio ventaglio di proposte, idee e progetti, destinati solo in parte a tradursi in pratica, ma che restano una testimonianza di una stagione culturale di grande vivacità e che costituiscono un’interessante pagina per la storia dell’educazione italiana del primo Novecento. Al di là delle inevitabili differenze politiche e sensibilità ideali, infatti, era largamente avvertita da tutti la necessità di ridisegnare l’intero sistema italiano dell’istruzione, cercando tra le altre cose di introdurre interventi di politica scolastica volti a ridurre l’analfabetismo dilagante. La tragica esperienza della guerra aveva mostrato, per riprendere le parole di un liberale nonché animatore di un’originale forma di scuole rurali come Eugenio Faina, che «un popolo vale per quanto sa» e che le debolezze mostrate dall’Italia durante il conflitto erano perciò addebitabili all’ignoranza delle masse popolari, in specie contadine, che sovente si trasformava in inettitudine. Tale sentimento era ormai condiviso non solo dagli ambienti liberali più aperti al cambiamento e da quelle personalità del mondo della cultura filosofica e pedagogica che auspicavano che la nuova scuola si ispirasse ad idealità nazionali e patriottiche, ma anche, sebbene con diverse finalità, dalle forze socialiste e dai cattolici, come avremo modo di vedere più in avanti87. Il primo settore in cui si pensò di intervenire fu, prima ancora quello della lotta all’analfabetismo dei bambini, quello del contrasto all’analfabetismo degli adulti. La ragione di questo spostamento di interesse si può rinvenire nell’analisi della situazione italiana compiuta dalle élite culturali e dalla classe dirigente: si credeva, o si sperava, che qualche risultato immediato fosse più facilmente conseguibile concentrandosi sugli adulti, piuttosto che sui bambini. Tra la fine del 1918 e gli inizi del 1919 fu Camillo Corradini, l’ex Direttore generale dell’istruzione primaria e popolare e l’autore della nota inchiesta sulla scuola elementare italiana realizzata un decennio prima, a prospettare l’idea di affrontare questa emergenza con un’opera altrettanto straordinaria, collocata al di fuori dell’organizzazione scolastica statale, capace di risolvere il problema «nel modo più pratico e più spiccio» o, come venne detto, allora «all’americana» o «alla garibaldina»88. La sua proposta verteva, infatti, sulla creazione di un apposito ente contro l’analfabetismo degli adulti autorizzato ad organizzare, di concerto con i Comuni, brevi corsi di alfabetizzazione a persone dai 15 ai 50 anni. L’idea di Corradini, presentata ai dirigenti dell’Unione Italiana dell’Educazione Popolare (Uiep), venne subito accettata e si formò un 86 Sul riordinamento si veda anche la circolare 30 novembre 1911, n. 63 «Riordinamento delle Scuole rurali». 87 Sui dibattiti di impianto filosofico e pedagogico relativi alla costruzione di un progetto educativo nazionale si rinvia al fondamentale lavoro di G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983. 88 Cfr. Una crociata contro l’analfabetismo degli adulti, «I diritti della scuola», n. 9, 10 gennaio 1919, pp. 140-141. 39 comitato di azione formato da un gruppo di onorevoli (Leonardo Bianchi, Angiolo Cabrini, Luigi Credaro, Giovanni Ciraolo, Alberto La Pegna, Antonio Fradeletto, Pietro Bertolini, Giovanni Maria Longinotti, Giovanni Raineri, Vincenzo Riccio, Luigi Rossi, Carlo Schanzer, Filippo Turati, Francesco Tedesco) e da esponenti del mondo magistrale e culturale come Pietro Faudella, Gennaro Mondaini, Francesco Orestano, Emidio Agostinone ed Annibale Tona. Aderirono al movimento anche la Confederazione del Lavoro e l’Unione generale degli insegnanti italiani. Corradini definì meglio la sua proposta in un progetto di legge in pochi articoli che sarebbe stato presentato al ministro della pubblica istruzione, a quello del tesoro e al presidente del consiglio89. Intanto il dibattito si articolava e si arricchiva di prese di posizione. Nel febbraio 1919 un acuto osservatore come Alessandro Marcucci volle contribuire fornendo delle idee che a suo giudizio sarebbe stato opportuno seguire nella costruzione del nuovo ente90. Libero dagli impedimenti burocratici che fino ad allora avevano impedito alle scuole serali e festive di dare i frutti sperati, il nuovo organismo avrebbe dovuto non solo gestire i corsi ma svolgere anche quella necessaria opera di vigilanza sulle attività svolte dagli insegnanti e sui risultati ottenuti dagli alunni, che in passato non era stata fatta a sufficienza. Era per tale ragione, sosteneva Marcucci, che le scuole serali e festive avevano vivacchiato senza conseguire risultati tangibili, prive come erano state di controlli sul piano didattico e amministrativo. Scrisse a tal proposito Marcucci: Se la funzione scolastica non è vigilata e munita dei debiti controlli di una qualsiasi energia centrale, che stabilisca altre altresì con un certo senso organico d’insieme il carattere e le regole delle scuole per gli adulti, il sistema proposto, abbandonato a sé stesso, può facilmente tralignare e arrivare perfettamente all’effetto opposto a quello per cui viene adottato […] Occorre creare l’ente dal quale le scuole emanino e dal quale ricevano impulso e regola; l’Ente che ne sia responsabile verso lo Stato che dovrà finanziare l’impresa, verso le popolazioni che ad esso si affidano per esser messe in grado di esercitare con piena coscienza ed onestà tutti i diritti del cittadino91. L’intervento di Marcucci era particolarmente interessante poiché non solo spiegava la causa dell’insuccesso delle scuole serali e festive fino ad allora in funzione, ma anche perché descriveva nelle sue linee generali il futuro Ente contro l’analfabetismo che sarebbe stato fondato pochi mesi dopo. Secondo lui, infatti, il nuovo organismo doveva svolgere una funzione di coordinamento, lasciando la gestione vera e propria delle scuole per gli adulti a «quante istituzioni sono in Italia che, in varie regioni, per vie diverse, con diversi metodi, hanno con disinteresse e serietà, senza settarismo e miraggio politico, compiuto opera di cultura e di redenzione sociale». A questo proposito proponeva di suddividere la penisola in tre grandi aree e di affidare ciascuna di essa ad un ente che individuava nella Società Umanitaria (nell’Italia settentrionale), nelle Scuole dell’Agro romano e delle pianure pontine (nell’Italia centrale) e nell’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (nell’Italia meridionale). La proposta di Marcucci riguardante l’ente per l’analfabetismo degli adulti, peraltro, non fu l’unica da lui formulata in quel periodo. In un altro articolo uscito su «La coltura popolare» due mesi prima, il direttore delle scuole dell’Agro romano affrontava la questione delle scuole rurali per i fanciulli e suggeriva taluni accorgimenti ritenuti utili al loro miglioramento. I punti qualificanti della proposta erano i seguenti: differenziazione didattica della scuola rurale con particolare valorizzazione della sua natura di scuola di campagna, pur prevedendo per gli alunni il conseguimento di risultati ritenuti minimi come per le scuole urbane; incremento delle scuole 89 Ibid. A. Marcucci, La scuola per gli adulti analfabeti, «La coltura popolare», n. 2, febbraio 1919, p. 91. 91 Ivi, p. 93. 90 40 rurali abbassando da 40 a 30 il numero di fanciulli dai 6 ai 12 anni necessario a istituire una scuola; prolungamento dell’orario, in genere di cinque ore nelle scuole uniche miste ma talvolta ridotto a tre, portandolo a sette ore e mezza, compresa un’ora e mezza per la refezione e il riposo; preferenza assegnata al potenziamento della didattica nelle prime tre classi del corso elementare, piuttosto che pensare all’istituzione della quarta classe, come richiesto da molti; istituire scuole normali rurali per la formazione del maestro di campagna o quanto meno prolungare il corso normale esistente di un biennio da svolgere in ambiente rurale, poiché le cosiddette classi di tirocinio già allora esistenti presso le scuole normali gli apparivano come qualcosa di artificioso: per questo proponeva la creazione di un tirocinio sotto la forma di un assistentato della durata di almeno tre anni a fianco di un insegnante titolare, che fosse retribuito e computabile nel servizio; istituzione di asili rurali a fianco delle scuole elementari. Con tali premesse si giungeva, così, al 9 e 10 marzo 1919 quando venne celebrato a Roma il convegno intitolato «Le più urgenti necessità per l’istruzione e l’educazione popolare», destinato a divenire senza ombra di dubbio il principale punto di coagulo del vasto movimento di riforma della scuola rurale92. Promosso da varie associazioni – l’Unione Italiana per l’Educazione Popolare, l’Unione Nazionale Magistrale, la Federazione degli insegnanti medi, la Federazione del personale delle scuole industriali e l’Unione nazionale delle educatrici d’infanzia – il convegno avrebbe dovuto indicare «i modi più efficaci per organizzare la propaganda a favore della Scuola in ogni regione d’Italia» sulla basa di una piattaforma di partenza contenente alcune richieste di carattere generale da rivolgere al governo, come la creazione di asili infantili in ogni centro o borgata e di istituti speciali per fanciulli abbandonati o indifesi, l’estensione della durata della scuola elementare e la creazione della scuola popolare, l’erogazione di borse di studio agli alunni bisognevoli e di un sufficiente finanziamento alle scuole normali, l’istituzione di corsi professionali, la lotta all’analfabetismo degli adulti, l’incremento di opere integrative della scuola come università popolari, biblioteche popolari, case di cultura. Si trattava di un ambizioso e per certi versi irrealizzabile programma, se si pensa alle difficili condizioni dell’Italia uscita dalla guerra, che tuttavia servì da base di partenza per la discussione alla quale furono invitati a partecipare rappresentanti di partiti politici e di associazioni di categoria, nell’auspicio di superare il ristretto perimetro in cui di solito si ritrovavano chiusi uomini di scuola ed educatori nei loro convegni e, quindi, di instaurare un felice rapporto di interlocuzione con soggetti chiamati a contribuire alla realizzazione concreta di quelle proposte. In effetti nonostante l’aspra lotta politica che connotò l’immediato dopoguerra italiano, sul terreno della scuola e dell’istruzione popolare si poteva registrare un’insolita convergenza e un’ottimistica comunione di intenti tra i principali partiti che non mancò, ad esempio, di attirare i sospetti e le critiche di certi ambienti della sinistra più estrema verso l’atteggiamento di collaborazione dimostrato da Filippo Turati nei confronti di personalità di cultura liberale e conservatrice. Accuse che il leader socialista, intervenendo in apertura del convegno, volle respingere con forza sostenendo la tesi secondo la quale era giunta l’ora di mettere da parte divisioni e contrasti quando in ballo vi erano questioni di fondamentale importanza come l’istruzione dei ceti popolari, problema che doveva interessare tutti indistintamente dalle divisioni politiche: 92 Il resoconto più dettagliato dei lavori del convegno fu pubblicato nel fascicolo de «La coltura popolare», n. 3-4, marzo-aprile 1919, pp. 178-285. 41 Lo dissi alla Camera e lo ripeto qui. Qualche giornale mi appioppò una interpretazione che … dicendo che io sarei rimasto al di qua delle barricate, dal lato dei partiti conservatori. Questa è una rinunzia che non ha importanza, non è di me che si tratta e non è l’atteggiamento di un uomo di 60 anni che importa nell’inizio del nuovo cammino. Ma queste barricate devono essere espugnate! Basta con la menzogna, durata 50 anni, delle idealizzazioni puramente teoriche dei problemi della scuola; basta con gli «amici della scuola», i quali con questo appellativo costituiscono un alibi alla propria indifferenza od ostilità; basta con tutti i progetti che essi architettano e non stanziano i quattrini per realizzare; basta con le lusinghe che fanno dei maestri apostoli e martiri, ma non educatori e ..sacerdoti.., basta insomma con tutta questa miserabile commedia durata per troppo tempo e che non si può più, senza imminente pericolo, perpetuare93. È pur vero che l’insolito interesse dei partiti politici verso le questioni scolastiche finì per apparire non del tutto disinteressato agli occhi di certe persone da lungo tempo impegnate nelle battaglie per l’educazione, considerando che qualche mese dopo si sarebbero svolte le elezioni politiche per il rinnovo della Camera, le prime dopo la fine della guerra. Ci fu chi, ad esempio, come Annibale Tona, direttore de «I diritti della scuola», giudicò l’attiva partecipazione di molti esponenti politici ai lavori del convegno una bella e buona «parata pre-elettorale», e pertanto si mostrò sfiduciato circa le loro reali intenzioni riformatrici: Vedemmo figure insolite, di gente che delle nostre questioni non s’era mai occupata, o se n’era occupata in sordina, sott’acqua, o da lontano col telescopio, dalle regioni sideree della filosofia. La rubizza faccia di sileno di padre Semeria, circondata da una piccola corte di giovincelli lungocriniti che battevano le mani in coro e aggredivano gentilmente gli avversari; e il grave aspetto dottorale dell’on. Chimienti, che venne a nome del neo-partito liberale riformatore a gettar l’esca della scuola libera ai suoi vicini del partito popolare; e la calva testa da santo bizantino del prof. Salvemini, destinato a essere sempre in contraddizione con sé stesso e con gli altri; e le barbe apostoliche dei deputati socialisti più equilibrati, i quali, con sopportazione dei compagni, han finito per riconoscere che bisogna mandare un po’ a scuola anche il sole dell’avvenire94. Sospetti politici a parte, il convegno affrontò la questione della scuola rurale propriamente detta il secondo giorno in una delle tre sezioni del convegno (le altre due erano la scuola per analfabeti e le opere integrative della scuola), in un’animata discussione in cui si palesarono due opposte visioni sul concetto stesso di scuola rurale e sulle caratteristiche che questa avrebbe dovuto assumere. La prima tesi, illustrata da Marcucci, riprendeva in buona sostanza le proposte da lui fatte nel già citato articolo pubblicato su «La coltura popolare» e presentate prima ancora, nel maggio 1918, alla Commissione presso il ministero dell’Agricoltura incaricata di studiare il varo di riforme agricole e sociali per il Lazio. Come si ricorderà, la sua proposta contemplava tra le altre cose l’istituzione dell’assistentato al fine di favorire la formazione del vero maestro rurale; la creazione di asili rurali; l’abbassamento della soglia a 30 bambini in età scolare necessaria alla fondazione di una scuola. La seconda proposta venne invece illustrata da Raffaele Resta in un alternativo ordine del giorno in cui condensò alcune proposte già emerse nella campagna di recente da lui intrapresa su «I diritti della scuola» in favore della riforma della scuola rurale, in seguito alla quale in un convegno dell’Umn e dell’Uiep era stata nominata un’altra commissione, composta dallo stesso Resta, da Marcucci, Guseo ed Esposito. Già in quella circostanza Resta, che aveva avuto l’incarico di compilare un progetto di riforma, si era scontrato con Marcucci e, dopo parecchie discussioni con lui, non aveva trovato l’accordo su un punto fondamentale, vale a dire sull’idea secondo la quale alle popolazioni rurali occorresse fornire una cultura specializzata per la formazione del lavoratore agricolo oppure se la scuola rurale dovesse avere solo un 93 94 Ivi, p. 180. Commento senza titolo di A. Tona in «I diritti della scuola», n. 16, 20 marzo 1919, pp. 266-267. 42 contenuto di preparazione generale ed umano. Sostenitore della prima ipotesi, Marcucci ruppe i rapporti con gli altri membri della commissione e fu per tale ragione che al convegno di Roma del marzo 1919 decise di ripresentare in blocco la sua proposta originaria. Non sorprende allora che nel suo ordine del giorno, presentato anche a nome dell’Umn, Resta auspicava che «l’indirizzo educativo della nuova scuola non debba ridursi a specializzare prematuramente nell’individuo il contadino» e rivendicava al «proletariato agricolo il diritto ad una educazione che incominci dalla prima infanzia, che abbia carattere formativo ed umano, e che sia perciò principalmente diretta allo sviluppo, alla elevazione e alla autonomia della persona umana nella armonica molteplicità delle sue attitudini»95. Per la precisione durante il suo intervento, Resta si addentrò in una critica dell’ordine del giorno di Marcucci individuando tre punti di distanza dal suo progetto: oltre alla specializzazione in senso rurale della scuola per i giovani contadini, anche la creazione di scuole normali rurali e l’idea di una scuola unica a più sezioni, retta da un maestro e da assistenti. Tre proposte che, a giudizio di Resta, erano espressione di una visione contraria al «diritto ad un’integrale educazione dell’uomo ed alla cultura generale senza coazione o premature specializzazioni di uffici e di condizioni sociali». In particolare Resta chiedeva l’effettiva estensione dell’obbligo scolastico nelle più piccole borgate, l’istituzione della quarta classe elementare, la progressiva soppressione della scuola rurale unica a tre sezioni mediante la modifica del calendario e dell’orario scolastico e una rigida disciplina del regime delle classi abbinate o alternate, l’istituzione obbligatorio dell’asilo rurale, la concessione di provvidenze atte a favorire il trasferimento in campagna dei maestri, la costruzione di edifici scolastici. Nel corso del dibattito che seguì cominciò a delinearsi una maggioranza favorevole all’ordine del giorno Resta. Dalla sua parte si schierò anche il pedagogista Giovanni Calò che rifiutò in modo netto la concezione di scuola rurale fortemente specializzata in senso agrario e quasi pre-professionale, sostenendo la tesi che la scuola dei contadini dovesse essere in primo luogo un luogo di formazione dell’uomo e dell’individuo. Affermò Calò: Ciò in cui sono affatto in disaccordo col prof. Marcucci, è il concetto stesso ch’egli si fa della scuola rurale. Egli vuole, in sostanza, che questa si inspiri o s’intoni a una finalità strettamente professionale, prepari, cioè, l’agricoltore, nel vero e proprio senso della parola, dia cioè la più larga parte alle conoscenze e alle applicazioni tecniche che riguardano l’agricoltura […] La scuola rurale, come scuola d’istruzione elementare, cioè generale, dev’essere umana, e non deve né può avere altro fine che quello di sviluppare quant’è possibile le attività dello spirito, dando loro il nutrimento d’una prima istruzione e una coscienza morale e civile; tanto più ch’essa non è ancora e generalmente non arriverà per un pezzo al grado ultimo – il corso popolare – nel quale è concepibile una certa differenziazione di contenuto e di forme, che l’avvicini in qualche modo, senza identificarla con essa, all’indole di una scuola professionale96. Calò dissentiva da Marcucci anche in riferimento alla proposta che contemplava l’istituzione di scuole normali rurali con corso di studio prolungato per garantire un’adeguata formazione del maestro secondo i ritmi della vita dei campi. Si trattava, a ben vedere, di una proposta che se da un lato avrebbe probabilmente favorito la crescita professionale degli insegnanti rurali, dall’altra avrebbe incoraggiato ancor di più la fuga dei maestri dalle scuole di campagna a vantaggio di quelle di città, poiché veniva richiesto loro un maggiore impegno nello studio senza nulla in cambio. Una preoccupazione concreta che si aggiungeva a quella inerente la 95 96 I lavori del convegno, «La coltura popolare», n. 3-4, marzo-aprile 1919, pp. 222-223. Ivi, p. 225. 43 difficile individuazione dei criteri di selezione tra aspiranti maestri di città e di campagna. Inoltre la proposta Marcucci avrebbe impresso una spinta in direzione dell’eccessiva specializzazione e differenziazione della scuola normale, spingendola «entro il mare magnum delle applicazioni tecniche, allonta[nandola] sempre di più da ogni ideale educativo e formativo, toglie[ndole] quel po’ d’anima che le resta, se pur gliene resta, per riempirla d’una mole eterogenea di nozioni varie e difformi, avvici[nandola] alla cattedra ambulante d’agricoltura», cancellandole «ogni carattere di vera e propria scuola di educatori». Altri interventi di rilievo che si registrarono durante i lavori del convegno furono quelli di padre Semeria e di Gaetano Salvemini. Il primo, dopo aver dichiarato di apprezzare il piano del Marcucci, affermò che gli appariva di difficile attuazione nell’immediato, e ben presto spostò la sua attenzione nel corso del suo intervento su un’altra questione che stava molto a cuore agli ambienti cattolici, quello del decentramento e della libertà d’insegnamento: «allo Stato – disse – è da richiedere aiuto e integrazione delle libere iniziative ma è nocivo agl’interessi delle popolazioni che, in tutto e sempre, l’iniziatore sia lo Stato»97. Sebbene mosso da altri obiettivi di quelli di padre Semeria, anche Salvemini (che interveniva in qualità di rappresentante dell’Animi) mise al centro del suo discorso la valorizzazione delle iniziative private nella costatazione della necessità di trovare in modo pragmatico e senza pregiudizi una valida soluzione al problema dell’analfabetismo. A questo proposito lanciò una proposta per certi versi provocatoria, tipica del personaggio, che suscitò nella platea, secondo il resoconto stenografico dei lavori del convegno, «approvazioni» e «commenti»: quella di avvalersi nella lotta all’analfabetismo anche dell’opera di persone prive della patente rilasciata dalle scuole normali. Egli fondava questa idea sulla scorta di uno studio da lui condotto anni indietro in Sicilia e Calabria grazie al quale venne a conoscenza del pullulare in quelle regioni di scuola private, talora condotte da personale anche poco qualificato, alle quali tuttavia accedevano un alto numero di contadini del posto. Se esteso su tutto il territorio nazionale questo sistema avrebbe potuto, secondo Salvemini, offrire concreti vantaggi e una risposta immediata alla risoluzione del problema98. Dopo molte ore di dibattito, allo scopo di trovare un compromesso tra le due opposte proposte, vennero incaricati Resta e Calò di compilare un ordine del giorno che tenesse conto di quelle idee esposte da Marcucci che l’assemblea aveva mostrato di apprezzare: alla fine venne approvato all’unanimità un documento in cui in buona sostanza i capisaldi della proposta originaria di Resta venivano confermati e a questi fu aggiunta la richiesta di istituire corsi periodici di conferenze non soltanto pedagogiche, ma anche di argomento letterario e scientifico e di prevedere periodici invii nelle campagne di «uomini veramente autorevoli per sapere e per amore della Scuola» con il compito di visitare i maestri rurali, rendersi conto dei loro bisogni e portar loro conforto materiale e morale; venne chiesto anche una maggiore autonomia dell’amministrazione provinciale e locale e una riforma dei sistemi di finanziamento stabiliti dalla Legge Daneo-Credaro in modo da assicurare ai bilanci provinciali la disponibilità dei mezzi necessari ai bisogni della scuola. Si deve aggiungere, infine, che altre proposte giunsero durante la sessione del convegno dedicata all’analfabetismo degli adulti. In tal senso si palesarono due diversi orientamenti sugli strumenti da adottare: da un lato Camillo Corradini sostenne la necessità di avvalersi anche di personale privo della patente rilasciata dalla scuola normale, dall’altro Pietro Caccialupi, esponente dell’Umn, insorse rivendicando ai maestri il compito di essere gli artefici della lotta 97 98 Ivi, p. 227. Ivi, pp. 229-230. 44 all’analfabetismo degli adulti e giudicando la proposta del funzionario ministeriale come irrispettosa verso la classe magistrale99. Alla fine del dibattito, in cui anche Marchetti e De Florentis si dichiararono contro l’ordine del giorno Corradini, venne approvata una terza proposta, illustrata da Giovanni Calò, che rappresentava una mediazione: veniva prospetta l’idea che lo Stato potesse avvalersi di associazioni da delegare per questo compito. Si anticipava, in questo modo, la nascita dell’Ente contro l’analfabetismo degli adulti che sarebbe stato creato pochi mesi dopo dal ministro Berenini100. Commentando i risultati del convegno sulle pagine de «Il Marzocco» a pochi giorni di distanza dalla sua fine, Giovanni Calò scrisse che era stato finalmente stretto un «patto d’azione rapida e tenace fra tutte le volontà e gl’intelletti che nella Scuola vedono il vero problema del dopo-guerra; patto tanto più saldo e tanto più indispensabile quanto più evidente è l’inettitudine del Governo a comprendere ciò che tutti i migliori cittadini comprendono». Un risultato che era stato raggiunto fra le diverse anime politiche che saggiamente avevano saputo mettere da parte le divisioni, come aveva fatto «il nuovo partito popolare cattolico e capitanato da due uomini di valore, padre Semeria e don Sturzo» che evitarono di affrontare una questione che si sarebbe rivelata fonte di scontro, come la libertà di insegnamento101. Calò non mancò di precisare nel suo articolo sulla rivista fiorentina i motivi di dissenso con Marcucci sul concetto di scuola rurale e a tal proposito scrisse: Vi era un punto sostanziale della concezione del Marcucci che era affatto inaccettabile e che io stesso dovetti combattere; ed era l’idea d’una scuola rurale specializzata per il contadino, con contenuto di applicazioni pratiche alla vita e al lavoro agricolo, con particolare preparazione dei suoi maestri in un tipo speciale di scuola normale, di durata molto maggiore di quella comune. Idea erronea e gravemente pericolosa; perché, se è pedagogicamente necessario e socialmente utile che la scuola rurale, come ogni scuola elementare, si differenzi per lo spontaneo adattamento, che ogni vero educatore deve cercare, all’ambiente naturale e spirituale della scuola, traendo da questo gli stimoli e i mezzi allo sviluppo degl’interessi infantili, delle sue idee, delle sue aspirazioni, non deve peraltro la scuola rurale perdere il suo carattere d’educazione elementare, e perciò ancora generale, armonica, umana, anticipando una scuola professionale agraria, che è anch’essa un bisogno nazionale, ma che ha un compito diverso da quello della scuola rurale. In queste obiezioni, in cui m’incontrai col prof. Resta, si trovò concorde il Congresso. L’ordine del giorno Resta-Calò, che fu votato all’unanimità, mentre riprendeva alcune proposte del Marcucci, rivendicava il carattere educativo generale della scuola che l’Italia deve al suo proletariato agricolo 102. Il resoconto del convegno fatto da Calò non lasciò indifferente Marcucci che, risentito dalle parole usate nei confronti del suo ordine del giorno, inviò al Marzocco una replica in cui negò che era sua intenzione creare una scuola rurale uguale ad una scuola agraria. Scrisse a questo proposito Marcucci: A parte che sarebbe stato puerile parlare di insegnamento professionale a fanciulli dai 6 ai 9 o 10 anni, io nel chiedere uno speciale ordinamento per la Scuola rurale, intendevo riferirmi a quella intonazione locale – nel caso nostro rurale o agricolo – a cui la scuola per figli di contadini o agricoltori, istituita in centri prettamente agricoli, financo in piccoli borghi o frazioni, non può a meno d’improntarsi, come a intonazione speciale s’informerebbe quella che si istituisse, poniamo, in un centro minerario. Questa intonazione, che non costituisce insegnamento professionale, è fatale e necessaria ed io chiedevo che l’insegnante vi fosse già pronto con una speciale preparazione in un corso biennale supplementare nelle Scuole Normali, dove l’insegnante venisse a maggior e miglior cognizione di alcune discipline, 99 Ivi, pp. 250-251. Ivi, p. 253. 101 G. Calò, Il Congresso per la cultura popolare, «Il Marzocco», n. 12, 23 marzo 1919, p. 2. 102 Ibid. 100 45 come la legislazione sociale, la botanica, la zoologia, l’igiene, l’agraria, ecc…. Tale preparazione doveva servire non tanto per l’uso e consumo quotidiano in classe, ai fini dello svolgimento del programma didattico, che è e deve essere unico nella cultura strumentale e formativa di tutti gli alunni delle prime classi elementari, quanto per la facilitazione dei quotidiani rapporti fra l’insegnante e le famiglie degli alunni, quanto per l’orientamento della funzione scolastica con la vita e l’ambiente del piccolo centro103. Rimarcato il senso della propria proposta originaria e precisato che la specializzazione della scuola rurale in senso agrario era da intendersi solo in riferimento agli ordinamenti e non alla sua finalità educativa, che doveva essere uguale a quella della scuola urbana, Marcucci non perse occasione per polemizzare con Calò e Resta: Il Calò e il Resta dicono che l’insegnante s’intona da sé all’ambiente, intona da sé la sua scuola all’ambiente; ebbene, è una faticosa autodidattica cotesta, che nel fatto stanca così l’insegnante, il quale è portato ad abbandonare il più presto possibile il piccolo centro rurale per essere ammesso ad insegnare nei centri maggiori urbani. È inutile ripetere paroloni e definizioni che vorrebbero contrastare il fatto, il fatto c’è e chiunque conosca da vicino le vicende di quella che oggi è la Scuola rurale, ha centinaia d’esempi da addurre. E se migliaia d’insegnanti restano tuttavia a reggere scuole in centri rurale di limitata popolazione, cambiano parecchie sedi anche di varie provincie, i primi anni della loro carriera sono per loro molto duri e faticosi e per tutta la vita trascorsa nella piccola scuola rurale essi ne riportano un senso di fastidio e di insoddisfazione che non può non nuocere all’efficacia della funzione scolastica 104. Al di là di qualche immancabile strascico polemico, il convegno di Roma costituì una pietra miliare per il rilancio di un serio progetto di lotta all’analfabetismo delle popolazioni rurali, costituendo uno spartiacque con il passato, come si sarebbe visto di lì a poco tempo. Una nuova e inedita convergenza politica e la presa di coscienza da parte delle classi dirigenti che il problema che l’analfabetismo fosse in prevalenza un problema delle campagne e solo in misura minore delle città, furono i due fatti più rilevanti che emersero dal convegno. Ciò apparve agli occhi dell’autore di un articolo pubblicato su «L’Unità», forse lo stesso Salvemini, in cui si leggeva: Il patto di alleanza, che i partiti politici e le organizzazioni professionali sono stati invitati a stringere nel convegno di Roma non deve essere un marché de dupes, in cui coloro, che s’interessano dei bisogni dell’Italia agricola e analfabeta, sieno chiamati a far baccano, affinché un bel giorno l’Italia industriale e colta ottenga nuovi provvedimenti scolastici a suo esclusivo uso e consumo. Dev’essere un accordo leale e democratico, per obbligare anzitutto lo Stato a mantenere i suoi impegni verso le zone più povere e più arretrate. Con questo nessuno di noi vuole impedire il progresso delle istituzioni scolastiche nelle zone più fortunate del nostro paese. No, davvero. Se, per esempio, l’«Umanitaria» di Milano, così benemerita della cultura popolare, vuole fondare biblioteche per chi ha fatto già la sesta elementare e asili d’infanzia per chi subito dopo troverà le scuole popolari per gli operai delle industrie, che hanno conquistato le otto ore e il sabato inglese, nessuno deve impedirle di chiedere i fondi necessari per queste istituzioni al Comune di Milano, e alla Provincia e alla Cassa postale (!) di Risparmio delle Provincie Lombarde, e alle organizzazioni padronali e operaie, mentre lo Stato deve lavorare, coi denari dell’intera nazione, a suscitare gli inizi del movimento di coltura nei comuni più ritardatari […] Questo era il significato dell’ordine del giorno votato al Convegno di Roma 105. Con tali premesse e con questo ricco carnet di proposte e di progetti, venivano poste le fondamenta per la fondazione di un apposito ente chiamato ad occuparsi della lotta contro l’analfabetismo degli adulti, che sarebbe stato creato di lì a pochi mesi dal convegno romano del marzo 1919. 103 A. Marcucci, A proposito di scuole rurali, «Il Marzocco», n. 13, 30 marzo 1919, p. 4. Ibid. 105 Il convegno per l’educazione popolare, «L’Unità», n. 12, 22 marzo 1919, pp. 69-70. 104 46 5. Una scuola per i contadini: le vicende dell’Ente contro l’analfabetismo degli adulti Il rinnovato interesse verso una più incisiva lotta contro l’analfabetismo dimostrato con i dibattiti del dopoguerra portarono il 2 settembre 1919, sotto il ministero di Agostino Berenini, al varo della legge che istituiva un apposito organismo, l’Ente Nazionale per l’istruzione degli adulti analfabeti, al quale lo Stato avrebbe delegato il compito di organizzare e coordinare su una vasta fascia del territorio nazionale scuole festive e serali, potendo disporre di quella agilità di intervento e di quella snellezza di cui difettava la burocrazia ministeriale. Ma a conferire tanta importanza al nuovo ente era il fatto che esso avrebbe dovuto occuparsi non solo dell’istruzione degli adulti ma anche del potenziamento dell’istruzione elementare per i fanciulli, aprendo interessanti scenari per il futuro. La legge prevedeva infatti che il nuovo organismo si sarebbe occupato anche «di coordinare, diffondere e sviluppare quelle opere integrative e complementari dell’istruzione elementare e popolare, che valgono a far progredire l’istruzione del popolo anche fuori della scuola ed a completare l’opera della scuola medesima». Per assolvere a questo fine l’ente si sarebbe avvalso sia di scuole proprie, sia dell’opera svolta da istituzioni già esistenti e giudicate idonee. Si deve aggiungere, a questo proposito, che l’ideazione e la fondazione dell’ente avveniva sotto le insegne di una forte volontà di collaborazione tra le forze politiche di opposti orientamenti che all’indomani della guerra volevano trovare un terreno comune di incontro nel rilancio della scuola e della lotta all’analfabetismo. Ne era una prova la composizione interna al consiglio che vedeva la presenza di liberali come l’onorevole Andrea Torre106, che assunse la presidenza, di socialisti come Filippo Turati (in rappresentanza dell’Unione Italiana dell’Educazione Popolare) e Giuseppe Bianchi (per la Confederazione Generale del Lavoro), di cattolici come l’onorevole Bazzoli (per l’Associazione dei Comuni), di uomini d’ordine come i professori Bandini e De Angelis (per l’Opera nazionale fra i Combattenti) e il capitano Cagiati (per l’Associazione Combattenti), di funzionari ministeriali come Bergamasco (per il ministero del Tesoro), Antenore Cancellieri e Camillo Corradini (per il ministero della Pubblica Istruzione), De Michelis (per il Commissariato dell’Emigrazione) e, in rappresentanza del mondo magistrale, del direttore Alighiero Micci (per l’Umn)107. Dal punto di vista organizzativo gli organismi dell’ente erano il presidente, il consiglio e la giunta. Era inoltre prevista la figura del delegato regionale, che poteva essere individuato anche tra le fila dei funzionari dell’amministrazione scolastica provinciale o dei maestri; essi erano incaricati di vigilare sull’attività delle singole scuole nelle aree di propria competenza, inviando una relazione mensile alla Direzione generale dell’ente e una relazione, entro il 15 marzo di ogni anno, in cui esporre il programma d’azione che essi intendevano svolgere nell’anno successivo108. Il nuovo organismo non avrebbe esercitato la sua azione su tutto il territorio nazionale ma soltanto nelle aree culturalmente e socialmente più depresse: nella seduta del 22 dicembre 1919, infatti, il consiglio decise di limitare la sua azione alle province in cui operava già la Commissione per il Mezzogiorno e le isole, prevedendo in particolare la presenza di tre delegati regionali in Sicilia, due in Sardegna, uno in Calabria, uno in Basilicata, uno nelle province di Bari e Lecce, uno 106 Andrea Torre, nato a Torchiara (Salerno) nel 1866. Insegnante, poi giornalista, entrò alla Camera nel 1909 e fu relatore del disegno di legge Daneo sull’avocazione della scuola elementare. Alle elezioni del novembre 1919 fu rieletto ed entrò a far parte del gruppo parlamentare della Democrazia liberale (La morte di Andrea Torre, «I diritti della scuola», n. 17, 10 aprile 1940, p. 266). 107 Ente autonomo contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 8, 7 dicembre 1919, p. 125. 108 All’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 12, 14 gennaio 1920, p. 186. 47 in quelle di Foggia e Campobasso, uno in quelle di Caserta e Benevento, uno in quelle di Salerno e Avellino, uno nella provincia di Napoli, uno in Abruzzo, uno in Umbria, uno nel Lazio ed uno nelle Marche109. Sebbene sorto grazie all’incontro di sensibilità politiche diverse ma unite dal comune desiderio di debellare il male dell’analfabetismo, tuttavia il nuovo ente avrebbe dovuto fare i conti con una serie di difficoltà che ne rallentarono prima l’avvio delle attività fino a decretarne poi la soppressione nel giro di pochi mesi. In primo luogo esso incontrò ostacoli in certi ambienti della burocrazia ministeriale che temevano la perdita di potere in favore del nuovo organismo, in ragione dell’elevato grado di autonomia amministrativa e finanziaria di cui godeva. Non a caso in quegli anni verso gli ambienti minervini si addensarono le critiche e i sospetti di personalità di vario orientamento culturale e politico, come gli idealisti, che vi vedevano un centro di potere in mano alla massoneria contraria ad ogni mutamento, ma anche uomini di tendenze democratiche e laiche come Annibale Tona ed Ettore Fabietti che alla fine si erano convinti della bontà del progetto della delega ad enti privati della lotta contro l’analfabetismo, di fronte all’immobilismo e alla passività del ministero110. Ma furono soprattutto problemi di ordine politico a paralizzare l’entrata in funzione dell’ente: bisogna tener presente, infatti, che poche settimane dopo la firma del decreto che istituiva il nuovo organismo si tennero le elezioni politiche per il rinnovo dalla Camera, le prime dopo la fine della guerra, circostanza che aveva gettato il paese in preda ad un fortissimo scontro tra i partiti. Non a caso in una seduta svolta sul finire dell’ottobre 1919 il consiglio dell’ente non poté fare altro che rinviare l’assunzione di ogni decisione a dopo la consultazione elettorale stabilita a novembre. Né il nuovo scenario politico delineatosi dopo le elezioni, che aveva visto l’affermazione del Partito popolare italiano come una forza indispensabile per la formazione di qualsiasi governo, consentì un felice inizio delle attività del neonato organismo, che poté solo riunire il suo consiglio il l4 dicembre 1919 ma senza deliberare alcunché111. Non si deve tuttavia pensare che questo immobilismo fosse fine a se stesso, come del resto si sarebbe capito poche settimane dopo. Il 29 gennaio 1920, infatti, il consiglio dei ministri, dietro pressione del Ppi sul presidente Nitti, discusse uno schema di decreto legge che modificava il precedente decreto istitutivo dell’ente, aumentando il numero dei membri del consiglio112. Il ministro Baccelli avallò questa decisione o, stando al giudizio di Turati, la subì permettendo che il numero dei membri del consiglio passasse da dodici a diciotto. Tanto bastò al gruppo parlamentare socialista e alla stampa magistrale laica a gridare allo scandalo e a mettere alla berlina il ministro, già aspramente criticato per il decreto che concedeva la sede di esami alle scuole private, atto giudicato come 109 All’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 15, 1 febbraio 1920, p. 234. In particolare Toma rinvenne uno dei limiti del nuovo ente nel fatto che esso aveva visto la luce in quella «fucina impenitente di macchinosi progetti che è la Direzione generale dell’istruzione elementare», ricalcandone «rigidità» e «pesantezza» (A. Tona, L’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 16, 8 febbraio 1920, p. 241). Dal canto suo Fabietti scrisse che una incisiva azione contro l’analfabetismo si doveva affidare «all’iniziativa privata» poiché egli non aveva più «la fede negli organismi statali (è inutile discuterne le ragioni, ma ormai è così)» (E. Fabietti, Contro l’analfabetismo. Una proposta risolutiva, «I diritti della scuola», n. 28, 9 maggio 1920, pp. 410-411). 111 Ente autonomo contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 8, 7 dicembre 1919, p. 125. 112 ACS, Verbali del Consiglio dei Ministri, seduta del 29 gennaio 1920. 110 48 un’altra capitolazione al Ppi113. In particolare nella seduta della Camera del 3 febbraio 1920 alcuni deputati del Psi presentarono un’interrogazione al ministro in cui si chiedevano le ragioni che lo avevano «indotto ad abusare ancora una volta dei pieni poteri, modificando per decreto legge la costituzione dell’Ente per gli adulti analfabeti», chiedendo di sospendere l’esecuzione del decreto stesso fino alla conversione in legge114. Il documento era firmato oltreché da Turati, anche da Giacomo Matteotti, Emidio Agostinone, Pio Donati, Ezio Riboldi, Ambrogio Belloni. Il giorno dopo la presentazione dell’interrogazione parlamentare, che ebbe l’effetto di denunciare il colpo di mano tentato dal governo, si riunì il consiglio dell’ente. Al termine di una «discussione burrascosa» alcuni suoi membri, tra cui lo stesso Turati, rassegnarono le proprie dimissioni. Troviamo un eco di questi fatti in una lettera inviata in quei giorni dal leader socialista ad Anna Kuliscioff in cui scrisse: Ti ho già accennato, credo, all’incidente dell’Ente per l’istruzione degli analfabeti adulti; al fattacio di Baccelli, che, per pressione di Nitti, vi fece l’infornata clericale, alle mie e nostre dimissioni, che mantenemmo malgrado le preghiere e quasi le scuse del ministro….. 115 Non meno tenero fu il giudizio di un articolo apparso su «I diritti della scuola» nel quale veniva illustrato bene in che modo era stata tentata di modificare la composizione interna al consiglio dell’ente, specificando quali altre associazioni, in prevalenza di ispirazione cattolica, sarebbero state premiate permettendo loro di far entrare un proprio rappresentante nel direttivo del nuovo organismo: Con un decreto preparato e lanciato di sorpresa, né ancora comunicato nella sua forma integrale, il ministro Baccelli ha portato da dodici a diciotto i consiglieri dell’Ente contro l’analfabetismo, assegnando i nuovi posti: uno alla Tommaseo; uno alla Confederazione italiana dei lavoratori (da non confondere con la Confederazione del lavoro) ligia al P.P.I.; uno al Consorzio nazionale di emigrazione e lavoro («Opere Bonomelliane»); uno alla Federazione nazionale dell’insegnamento privato. Organizzata così sagacemente una maggioranza nera, un quinto e un sesto posto sono stati assegnati rispettivamente alla Commissione per il Mezzogiorno e al Sindacato magistrale, trascurando invece l’Associazione dei direttori, l’Associazione degl’ispettori (che hanno già protestato), l’Unione italiana del lavoro, forte di trecentomila iscritti e altre organizzazioni non meno importanti 116. Altro motivo di preoccupazione era, secondo il giornale magistrale diretto da Annibale Tona, il conferimento al presidente dell’ente di «pieni poteri per la nomina, la destinazione, il trasferimento di tutti i funzionari amministrativi e tecnici, centrali e periferici, esclusi soltanto i delegati regionali». D’altra parte, annotò ancora Tona, il colpo di mano del governo aveva messo a nudo le vere ragioni che avevano ostacolato l’entrata in funzione dell’ente: a «tutte le nomine [era] stato messo il «fermo», - disse - perché il nuovo Consiglio, così intenzionalmente rinsanguato, po[tesse] esaminare di nuovo tutte le questioni». 113 Su questo punto cfr. G. Turi, Giovanni Gentile: una biografia, Firenze, Giunti, 1995, p. 291; A. Barausse, L’Unione magistrale nazionale: dalle origini al fascismo (1901-1925), Brescia, La Scuola, 2002, pp. 513-514. 114 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXV, Tornata del 3 febbraio 1920, p. 641. 115 F. Turati, Carteggio, 6 voll., Torino, Einaudi, 1977, vol. V, p. 202. 116 Un colpo di scena all’Ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 16, 8 febbraio 1920, p. 249. 49 In un altro articolo apparso su «I diritti della scuola», Tona tornò alla carica contro il ministro Baccelli e contro la sua eccessiva arrendevolezza alle richieste del Ppi. Scrisse a questo proposito: La propaganda del sillabario non dovrebbe dar ombra a nessuno. E infatti, nel consiglio dell’Ente, sedevano, gomito a gomito, socialisti come l’on. Turati, cattolici come l’on. Buzzoli, uomini d’ordine come l’onorevole Cancellieri, il comm. Bergamasco, il capitano Cagiati,. Ma il partito popolare italiano, imbaldanzito dalla vittoria elettorale, e dalla condizione di arbitro delle sorti ministeriali in cui si trova alla Camera, tra l’indifferenza e la cecità degli altri partiti, tende continui ricatti al Gabinetto Nitti per impadronirsi dei più delicati congegni della vita nazionale, mirando principalmente all’istruzione, per opera particolare degli onorevoli campioni della Tommaseo e con la connivenza di qualche alto funzionario della stessa Minerva. Il partito popolare vuol arrivare, notoriamente, a sottrarre la scuola a ogni ingerenza statale e, frattanto, tenta di paralizzarne tutte le iniziative e di ipotecarne tutti i servizi. Ieri era l’Opera di previdenza e coltura magistrale, nella quale bisogna riconoscere ch’ebbe buon gioco da alcune deficienze di preparazione e di presentazione della proposta; oggi è l’Ente autonomo contro l’analfabetismo, domani potrebb’essere la costituzione dei Consigli scolastici o la riforma dei programmi. Ogni audacia gli è permessa, poiché il Governo, sotto l’incubo della minaccia socialista, è disposto a tutte le transazioni, a tutte le viltà 117. Arenatosi nelle secche della politica parlamentare, l’ente assisteva alla suo declino al quale sembrò non porvi rimedio nemmeno il licenziamento di Baccelli e la nomina a nuovo ministro della pubblica istruzione proprio di Andrea Torre, scelto da Nitti nel quadro del suo secondo gabinetto varato nel maggio 1920. L’unica cosa che si riuscì a fare tra il maggio e il giugno di quell’anno fu la divisione territoriale dell’Italia in varie zone, ognuna delle quali affidata ad alcuni delegati regionali. Circostanza che, peraltro, scatenò una gara alla candidatura da parte di un pletorico numero di aspiranti delegati attratti più, secondo le accuse rivolte dalla stampa magistrale, dai compensi messi a disposizione che da una vera e sincera volontà di debellare il male dell’analfabetismo. Né aumenti salariali videro i maestri di quelle scuole festive e serali che in quell’anno scolastico 1919-20 funzionarono in modo autonomo perché dipendenti da altri enti e che, secondo il progetto iniziale, sarebbero state assorbite dal nuovo Ente contro l’analfabetismo degli adulti, con immediati benefici a vantaggio degli insegnanti, come appunto gli incrementi dei compensi. Un’impietosa analisi della situazione ci viene consegnata da un altro articolo apparso su «I diritti della scuola»: Quello che avrebbe dovuto essere un organismo agile, svelto, nelle mani di pochi uomini di fede e di energia, minaccia di diventare un complicato meccanismo burocratico, una specie di nuova direzione generale. Si parla di un segretario particolare, di cui nessuno vede la necessità, per il presidente, on. Torre. Si sono già assegnate, per spese di indennità e di ufficio, diecimila lire a ciascun delegato. Si sta provvedendo ancora senza risparmio all’impianto degli uffici […] Frattanto gl’insegnanti delle scuole serali e festive, continueranno a ricevere anche quest’anno il vecchio risibile compenso, che solo più tardi potrà venire integrato dall’Ente. Le ultime sedute del Consiglio sono state piuttosto movimentate. Probabilmente vi sono consiglieri che intendono resistere alla burocratizzazione dell’Ente e serbargli il suo carattere primitivo, che aveva incontrato la fiducia e il plauso di tutti. Speriamo che non si tratti di sforzi vani…118 Come già detto, la nomina di Torre a ministro della pubblica istruzione non offrì che un’effimera possibilità all’ente di tornare in funzione: infatti il 16 giugno, dopo nemmeno un mese, il secondo governo Nitti cadeva lasciando il posto al ritorno di Giolitti. Il nuovo titolare della Minerva, l’illustre filosofo Benedetto Croce, sia pure maggiormente attento verso altre 117 118 A. Tona, L’ente contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 16, 8 febbraio 1920, pp. 241-242. La lunga gestazione dell’Ente autonomo , «I diritti della scuola», n. 14, 25 gennaio 1920, p. 220. 50 questioni allora dibattute, come l’esame di stato, mostrò di aver compreso l’entità della crisi vissuta dall’ente facendo intendere che presto sarebbero stati adottati dei provvedimenti drastici. L’occasione per farlo fu l’intervento che egli svolse il 6 luglio 1920 alla Camera illustrando in sintesi le strade che avrebbe voluto percorrere come nuovo responsabile della pubblica istruzione. A proposito dell’agonia in cui versava l’ente affermò: Duole anche a me, come all’onorevole Agostinone, che l’Ente contro l’analfabetismo, istituito con decreto legge, sia rimasto incagliato; e anche a me è noto che il modo come era stato prima concepito faceva assorbire gran parte dei fondi disponibili da un nuovo e pesante macchinario burocratico. Per ora, dell’Ente non c’è altro che un appartamento preso in fitto, un direttore e alcuni avventizi; ed io intendo, mentre si studierà il da fare, di risparmiare subito questa spesa oziante119. Il filosofo concluse il suo intervento confermando l’intenzione di investire la somma già messa a bilancio per l’ente nel potenziamento dell’istruzione primaria con la seguente motivazione: «c’è rischio – affermò Croce – che quel denaro si disperda in mille rivoletti, senza produrre effetti benefici che stiano in alcun adeguato rapporto col sacrificio pecuniario»120. Pochi giorni dopo il ministro, convinto della necessità di affrontare la lotta contro l’analfabetismo in modo diverso da quanto finora fatto, decideva la soppressione dello sfortunato Ente, firmando il decreto 5 agosto 1920. Tale scelta non convinse peraltro l’opposizione socialista che la giudicò un tentennamento del governo che si muoveva ancora con ambiguità in questo terreno. L’intervento più importante, da questo punto di vista, fu quello di Giacomo Matteotti che, intervenendo alla Camera dei Deputati il 6 agosto 1920, il giorno dopo la firma del decreto che sopprimeva l’ente, affermò: Il ministro dell’istruzione senatore Croce, giustificando la sua abolizione dell’ente per l’analfabetismo, dice: noi aboliamo l’ente per l’analfabetismo, perché vogliamo risalire alle radici ed allargare la scuola elementare. Mi pare che in questo modo non si faccia né l’uno né l’altro […] Immaginate quanto tempo bisogna ancora aspettare prima che questi studi siano compiuti e si tratta di problemi urgentissimi che non importano altro che una spesa di 50 milioni all’anno. Io mi meraviglio come questa somma non si possa trovare quando si tratta dell’istruzione elementare, della cosa più elementare che ci sia; insegnare a leggere e scrivere al popolo anche per potere dare sfogo all’emigrazione per gli Stati Uniti, che si è detto che è l’unica valvola di sfogo per evitare disordini. In questo anno 1920 fa pietà domandare l’istituzione di scuole elementari, fa pietà affermare che vi sieno riuniti in alcune classi più di 150 alunni con un solo maestro121. In modo analogo in un articolo uscito nell’agosto 1920 «I diritti della scuola» commentavano con rammarico la soppressione dell’ente visto come «un’iniziativa che era stata concepita con geniale ardimento, ma che poi, al solito, si era snaturata per via, nelle mani di funzionari inetti e di speculatori della politica». Dal canto suo Croce fece intendere che alla base di questa scelta c’era un cambio di strategia: da allora in poi la lotta all’analfabetismo sarebbe stata condotta in primo luogo tra le giovani generazioni e in modo residuale tra gli adulti, privilegiando la scuola elementare. Una linea di indirizzo che egli confermò poche settimane dopo nel discorso d’inaugurazione della sessione autunnale del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione quando affermò di voler combattere 119 B. Croce, Discorsi parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 79. Ibid. 121 Discorsi parlamentari di Giacomo Matteotti pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, 3 voll., Roma, Stabilimenti tipografici Carlo Colombo, 1970, vol. I, pp. 200-201. 120 51 l’analfabetismo con l’istituzione di una prima tranche di duemila nuove scuole elementari, che si sarebbero aggiunte alle circa 78mila già esistenti con l’ambizioso obiettivo di giungere in futuro a 100mila, quelle ritenute necessarie in base al numero della popolazione secondo calcoli fatti dagli uffici del ministero. A questo proposito nell’agosto 1920 Croce aveva inviato una circolare ai provveditori ed ai prefetti avente per oggetto l’istituzione di nuove scuole, indicando due strade da percorrere per raggiungere tale obiettivo: nell’immediato invitava le autorità scolastiche locali alla razionalizzazione, riducendo l’orario scolastico nel corso superiore delle scuole con pochissimi alunni a vantaggio di quello inferiore e trasferendo, se necessario, la sede delle scuole in località ove sarebbe stato possibile raccogliere più fanciulli; nel medio periodo prospettava, soprattutto per i Comuni in cui risultasse la presenza di meno di un maestro ogni 500 abitanti, la creazione di nuovi posti di insegnante e di scuole da individuare sulla base di un «riesame analitico delle condizioni scolastiche dei singoli comuni»122. Si trattava tuttavia agli occhi Matteotti di un numero insufficiente a rispondere alle reali esigenze della scuola italiana, come dichiarò in una sua interpellanza ai ministri dell’istruzione e del tesoro discussa alla Camera il 22 novembre 1920. L’esponente socialista sostenne che «le duemila nuove scuole [erano] assolutamente insufficienti specialmente se si vo[lessero] in esse comprendere le scuole già istituite nel 1919 provvisoriamente dalle Amministrazioni provinciali con mezzi propri». Si trattava di preoccupazioni per certi versi condivisibili se si pensa che lo stesso Croce dovette poco dopo riesumare l’idea di affidare ad un apposito ente l’organizzazione di scuole per gli analfabeti, piuttosto che pensare ad un diretto e totale impegno dello Stato in questo versante. Il filosofo non farà in tempo a varare la nascita del nuovo organismo a causa della crisi del gabinetto Giolitti che porterà alla formazione del governo Bonomi, ma sarà il suo successore, Mario Orso Corbino, a concretizzare la creazione di un simile organismo, firmando il 28 agosto 1921 il decreto che istituiva l’Opera contro l’analfabetismo. 6. Il ministro Corbino e l’Opera contro l’analfabetismo Sorta dallo stesso mileau culturale che aveva originato l’infelice esperienza dell’Ente contro l’analfabetismo degli adulti, vale a dire dalla presa d’atto dell’incapacità dello Stato di garantire l’istruzione di base nelle campagne più disagiate e povere e dall’incontro fattivo e positivo di personalità di vario orientamento politico e intellettuale che avevano eletto la scuola a principale fattore di progresso, l’Opera contro l’Analfabetismo iniziava la sua attività giusto in tempo per l’avvio dell’anno scolastico 1921-22. Ma a differenza dell’esperimento tentato nel 1919, questa volta il nuovo organismo riusciva ad entrare in piena attività grazie alla convergenza politica venutasi a creare e alla comprensione del fatto che non fosse più possibile un ulteriore fallimento, anche a fronte di altre iniziative che, sorte in modo autonomo, avevano conseguito buoni risultati su questo terreno. Ci riferiamo in particolare ai corsi di alfabeto per adulti creati nel 1920 dal Commissariato generale dell’Emigrazione, organo del ministero degli Esteri, sotto l’incalzare dell’esigenza di porre rimedio al rimpatrio di un gran numero di emigranti italiani degli Stati Uniti 122 Si tratta della circolare n. 49 pubblicata nel «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», n. 35, 26 agosto 1920, p. 1514. 52 a causa del loro analfabetismo123. Si trattava di una soluzione d’emergenza escogitata dai funzionari del ministero degli Esteri di fronte all’immobilismo della politica e all’inerzia dell’ente creato da Berenini: erano così sorti in numerosi centri dell’Italia meridionale e centrale (in Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Abruzzo, Marche, Lazio meridionale e parte della Campania) scuole festive e serali per giovani d’ambo i sessi dai 12 anni in su in cui veniva svolto un corso di base che comprendeva la lettura, la scrittura, brevi nozioni di storia e geografia, esercitazioni di aritmetica. In ogni scuola furono impartite 120 lezioni, di due ore e mezza ciascuna, e la scolaresca venne divisa in analfabeti e in avviati. Agli insegnanti venne corrisposto un compenso per ogni lezione ed uno per ogni alunno promosso, mentre i Comuni fornirono gli elenchi degli alunni ed i locali124. Aperti alla fine di ottobre del 1920, tali corsi cessarono di funzionare nel maggio successivo ottenendo insperati risultati e costituendo una valida esperienza da emulare per chi avesse voluto far risorgere dalle ceneri un nuovo organismo a cui delegare il compito di combattere l’analfabetismo. E non a caso proprio all’esperienza dei corsi organizzati dal Commissariato generale dell’Emigrazione guardò con interesse Croce e soprattutto il suo successore Corbino. A premere perché si continuasse su questa strada fu nel corso dell’estate del 1921 lo stesso Turati il quale ebbe dei contatti con il nuovo titolare della pubblica istruzione già pochi giorni dopo il suo insediamento. Inoltre volle suggellare sul piano pubblico il tentativo di rilanciare la battaglia contro l’analfabetismo presentando alla Camera dei Deputati un apposito ordine del giorno in cui, preso atto che lo stanziamento di 4 milioni annui in precedenza messo in bilancio era ancora disponibile, invitava il governo a provvedere d’urgenza, anche con decreto legge, alla fondazione di un nuovo organismo che potesse entrare in funzione fin dal mese di novembre con il compito di creare scuole diurne per i bambini nonché scuole serali e festive per gli adulti sopra i 14 anni e di fondare biblioteche popolari125. Illustrando questo documento nella seduta della Camera del 29 luglio 1921 il leader socialista sostenne anche la necessità di fare tesoro degli errori del passato ricordando l’infelice sorte toccata dell’ente creato due anni prima: Si era creato un Ente contro l’analfabetismo, che doveva fare miracolo, ma che è stato organizzato così bestialmente (e con questo avverbio poco parlamentare riassumo e sostituisco tutto un discorso) che doveva fatalmente morire ancora in fasce; tuttavia per ricostruirlo più razionalmente, furono mantenuti o relativi quattro milioni annui in bilancio. Vi sono poi altre economie che si fanno e si faranno, in forza di leggi già votate, convertendo inutili scuole di ruolo in facoltative, e che potrebbero, in tutto o in parte, devolversi al medesimo fine. Nel corso del suo intervento Turati fece cenno ai contatti intercorsi con il ministro Corbino e alla sostanziale convergenza sul proposito di ricostruire un ente delegato del compito di gestire scuole nelle campagne più isolate e povere. A questo proposito affermò di essere stato autorizzato dallo stesso ministro, assente in aula poiché impegnato nei lavori del Senato, ad anticipare i contenuti del progetto che prevedevano il coinvolgimento di alcune associazioni già operanti in campo culturale e scolastico: 123 L’opera contro l’analfabetismo. R. D. L. 28 agosto 1921, n. 1371. Relazione del comitato direttivo a S. E. il ministro per la Pubblica Istruzione anno 1921-22, Roma, Tip. Delle scuole, 1923, p. 4. 124 Ibid. 125 Il testo dell’ordine del giorno è pubblicato in F. Turati, Discorsi parlamentari pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, 3 voll., Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, vol. III, pp. 1868-1869. 53 Ora alcuni uomini di diverso colore politico, ma pei quali l’alfabeto non ha colore, si misero d’accordo fra loro, col Commissariato generale dell’emigrazione – che per conto suo tentò nello scorso anno un consimile esperimento con risultati notevolissimi – e infine col Ministro della pubblica istruzione, che in questo momento è impegnato in Senato, ma mi ha autorizzato ad annunziare questa nostra preliminare intesa ufficiosa, affinché cotesto denaro, che starà tra i sei e gli otto milioni, venga assegnato a una federazione di quegli istituti liberi, giuridicamente riconosciuti, i quali già nelle diverse zone d’Italia, come la Società Umanitaria, le scuole dell’Agro romano e delle Paludi Pontine, la Società per gli interessi del Mezzogiorno, il Consorzio nazionale Emigrazione e Lavoro, ecc., diedero prova di saper fare sul serio in questa materia; e i quali, sotto la vigilanza del Governo, ma senza creare nuovi costosi organismi e senza inceppamenti burocratici, riprenderanno, con unità d’intenti e in parte con unità dei servizi, ma con divisione di zone e con libertà di adattamenti alle condizioni locali agricole e stagionali delle varie plaghe la campagna per la distruzione dell’analfabetismo, avendo anche di mira l’istruzione professionale e le necessità degli emigranti per quel poco, anzi pochissimo, che l’emigrazione potrà essere ripresa nelle presenti condizioni internazionali126. Turati aggiunse, infine, che il progetto nelle sue linee generali era stato «concordato col ministro dell’istruzione» ed attendeva l’approvazione di quello del tesoro da cui non si aspettava intralci e «bastoni nelle ruote» dal momento in cui non venivano richiesti altri fondi oltre quelli già stanziati, né sussistevano «possibili dissidi politici» che potevano rallentare la nascita del nuovo ente. Per questi motivi egli auspicava un intervento immediato del governo affinché l’ente potesse entrare in funzione nell’imminente anno scolastico, almeno nelle regioni dell’Italia centrale e meridionale. La risposta del ministro Corbino non tardò a giungere poiché nello stesso giorno, il 29 luglio, intervenne alla Camera. Dopo aver ringraziato Turati per il suo contributo, egli garantì l’intenzione del governo di intervenire in modo risoluto nella lotta contro l’analfabetismo, senza tuttavia esplicitare in modo chiaro, come aveva fatto l’esponente socialista, se si intendeva creare un apposito ente127. Anche sulla scelta del provvedimento legislativo più opportuno, Corbino dichiarava che non era intendimento del governo adottare un decreto legge su questa materia, ma che fosse preferibile un disegno di legge, fermo restando la necessità che il nuovo organismo dovesse entrare in funzione entro l’inizio dell’anno scolastico. Turati, costatato che era stata accettata la sostanza del suo ordine del giorno, non chiese che il suo documento venisse messo ai voti e ringraziò il ministro. Scartata in un primo momento, la via del ricorso al decreto legge venne ripresa poco tempo dopo dal governo: il 28 agosto 1921, infatti, Corbino firmava il decreto legge che istituiva l’Opera contro l’analfabetismo. Il meccanismo di funzionamento del nuovo ente consisteva nella sua natura ambivalente, a metà strada tra Stato e privati. Il primo si sgravava di un onere così pesante che non avrebbe potuto sopportare sulle sue spalle con l’istituzione di qualche migliaio di scuole statali per bambini e adulti; al contempo lo Stato nel cedere ad associazioni private il compito dell’effettiva gestione delle scuole, non rinunciava a svolgere un’azione di indirizzo e di coordinamento, né ricusava di svolgere la funzione educativa che era ritenuta da una platea ampia di soggetti – si pensi ai socialisti ma anche agli idealisti – una prerogativa di assoluta spettanza dello Stato. Le associazioni prescelte a questo proposito furono quattro, tutte già esistenti e operanti nel campo dell’istruzione popolare tramite la gestione di asili infantili, corsi per emigranti e scuole rurali. Si trattava delle Scuole per i Contadini dell’Agro Romano, dell’Associazione Nazionale per gli 126 Ivi, p. 1869. Disse Corbino: «La questione degli analfabeti, a cui l’onorevole Turati ha dedicato tanta parte dell’opera sua, sta grandemente a cuore al Governo, il quale è già venuto nel proposito di preparare una serie di provvedimenti, o un disegno unico, che consenta di dedicare a questo nobile fine i mezzi già esistenti in bilancio e che non hanno oggi un impiego molto proficuo» (Atti parlamentari, Camera dei Deputati, XXVI legislatura, tornata del 29 luglio 1921, p. 886). 127 54 Interessi del Mezzogiorno d’Italia, della Società Umanitaria e del Consorzio Nazionale Emigrazione e Lavoro. Si deve inoltre sottolineare, contrariamente a quanto mai fatto finora, che l’individuazione delle quattro associazioni fu fatta anche seguendo un eminente criterio politico, con l’obiettivo di coinvolgere in questo progetto quante più tendenze e orientamenti ideali possibili. Le prime due associazioni erano, infatti, espressione di alcuni settori del liberalismo, la terza degli ambienti socialisti riformisti milanesi che avevano in Turati il loro rappresentante, la quarta rispondeva al partito popolare128. A ben vedere si trattava di una vera e propria spartizione tra i principali partiti presenti in Parlamento che, tuttavia, sembrava allora necessaria per garantire all’ente l’avvio delle sue funzioni, eliminando ostacoli che avrebbe potuto trovare nel suo cammino considerando la difficile situazione politica e sociale del dopoguerra129. Una verità che fu ammessa in modo candido dallo stesso successore di Corbino alla Minerva, il popolare Antonino Anile, nel discorso pronunciato alla riunione dei direttori regionali dell’ente contro l’analfabetismo il 23 ottobre 1922: I quattro enti, delegati sinora a svolgere il loro compito nelle varie province d’Italia, hanno vario colore politico, ma ciò non ha impedito una grande concordia di propositi e una feconda operosità e una conquista sempre più larga contro l’ignoranza. Ciò ammonisce che la scuola può e dev’essere amata con eguale passione da tutti noi, pur se discordi nelle nostre concezioni politiche, e che un partito che ne sostenga il monopolio la offende130. Si deve a questo proposito aggiungere che se all’inizio la collaborazione tra i partiti politici era stata finalizzata a consentire esclusivamente il buon funzionamento dell’Opera contro l’analfabetismo, successivamente con l’aggravarsi del quadro politico nazionale – caratterizzato dall’ascesa dello squadrismo in vaste aree del paese e dal tentativo delle forze antifasciste di fronteggiare tale avanzata – taluni cercarono di vedere in essa il primo esempio di una 128 Il fatto che il Consorzio Emigrazione e Lavoro dipendesse in larga misura dal Ppi è provato dal fatto che una sua dirigente, la Novi Scanni, fosse membra del consiglio politico del partito, come ebbe tra l’altro modo di ricordare don Sturzo al congresso del Ppi di Venezia dell’ottobre 1921: «Altro provvedimento è stato emesso dal ministro Corbino, d’intesa con l’on. Anile, per l’Ente contro l’analfabetismo del Mezzogiorno, nel quale coopera con ogni attività e zelo dove è segretaria l’esimia signora Novi-Scanni, che fa parte del consiglio del partito, la cui opera è ispirata alle più pure idealità di bene» (Cfr. F. Malgeri (a cura di), Gli atti dei congressi del Partito popolare italiano, Brescia, Morcelliana, 1969, p. 240). 129 Questo aspetto emerge bene anche da una lettera di Marcucci del gennaio 1922 ad un dirigente dell’Umanitaria in cui, rendendogli conto di una sua recente visita in Puglia in qualità di Ispettore centrale per l’istruzione primaria e popolare, affermò di aver riscontrato che tale associazione aveva nominato tutti maestri socialisti e per questo esortava a tenere in considerazione insegnanti anche di altre idee politiche. Scrisse Marcucci: «La nomina dei Maestri ha dato luogo a qualche malumore per ragioni di partito, essendosi in qualche Comune nominati tutti Maestri socialisti. Era il mio presentimento. Ma il fenomeno è rimasto circoscritto e non avverrà più in avvenire. Bisogna dividere il pane in eque parti. Ho raccomandato tuttavia alla Sezione di Bari che in fatto di propaganda alle Camere del lavoro, alle leghe faccia nota la apoliticità dell’alfabeto e che mai più proibiscano ai loro iscritti di frequentare la scuola perché il Maestro veste l’abito talare e che insegnino ai loro iscritti a non fumare la sigaretta e tenere il cappello in testa per far dispetto al Maestro che non è socialista o è…fascista. In fondo poi chi paga questi atti di ineducazione è il popolo che per ciò non ha avuto la scuola in due importanti centri» (ASU, pratica 553, s.fasc. 4, anno 1921, Lettera di Marcucci ad un dirigente della Società Umanitaria, 24 gennaio 1922). 130 Il discorso di Anile venne pubblicato in «Conferenze e prolusioni. Periodico quindicinale», a. XV, 1922, p. 382. 55 collaborazione tra popolari e socialisti che poteva essere estesa ad altri settori al fine di costruire un’alleanza dei partiti di impronta popolare. Si possono allora inquadrare entro tale cornice le parole di Turati in un’intervista rilasciata nei primi mesi del 1922 in cui lasciava aperta la prospettiva ad una possibile collaborazione tra popolari e socialisti, rinvenendo uno dei possibili terreni di incontro proprio nei problemi della scuola. A questo proposito egli minimizzava le distanze che pur vi erano tra i due partiti sul tema della libertà d’insegnamento, e affermava che la convergenza non solo era possibile ma in taluni casi si era già realizzata, riferendosi esplicitamente all’Opera contro l’analfabetismo. Disse Turati: Or su questo terreno, dove si è cominciato – come, ad esempio, nell’Opera contro l’analfabetismo degli adulti – io vedo già popolari e socialisti adoperarsi di conserva efficacemente, senza scontrose rivalità, senza spirito inquisitorio reciproco, in una felice divisione ed emulazione di lavoro. E ciò essenzialmente perché entrambi – come partiti di masse – sentono egualmente (e son quasi i soli a sentirla) l’importanza decisiva e preminente della istruzione del popolo131. Come è noto, il tentativo di avvicinamento tra i partiti antifascisti era destinato a fallire. A conclamarlo fu il XIX congresso del Psi, tenutosi a Roma agli inizi dell’ottobre 1922, quando venne messa in minoranza l’ala riformista e si arrivò all’espulsione di autorevoli esponenti come Treves, Matteotti e dello stesso Turati che si erano dichiarati disposti a sostenere un governo borghese purché deciso a contrastare lo squadrismo132. Dal punto di vista dell’ordinamento il nuovo organismo, con sede a Roma, era diretto da un consiglio formato da otto membri, di cui quattro di nomina ministeriale in rappresentanza degli enti sovventori (due membri del ministero della pubblica istruzione, uno del ministero del Tesoro, uno del Commissariato Generale dell’Emigrazione dipendente dal ministero degli Esteri), e quattro in rappresentanza delle altrettante associazioni delegate133. I due rappresentanti del ministero dell’istruzione erano il Direttore generale per l’istruzione primaria, che assumeva su di sé la carica di presidente dell’Opera contro l’analfabetismo, e un funzionario superiore, che aveva il compito dell’attuazione dei deliberati del consiglio. Quest’ultimo organismo collegiale aveva i seguenti compiti: assegnare annualmente i fondi stabiliti per la lotta all’analfabetismo alle associazioni delegate; stabilire i criteri generali e le direttive amministrative dell’azione comune alle associazioni; compilare il bilancio dell’Opera da rimettere all’attenzione del ministero; esaminare ed approvare in sede preventiva e consuntiva il piano di lavoro e i bilanci di ogni associazione; proporre al ministero con il consenso di almeno il 75% dei membri del consiglio, l’ammissione al finanziamento di altri enti e all’azione contro l’analfabetismo di altre associazioni delegate. Secondo quanto stabilito dalla legge la sua opera si esplicava in tre direzioni: creazione 131 Popolari e socialisti di fronte alla scuola, «I diritti della scuola», n. 20, 12 marzo 1920, p. 300. Su questo aspetto cfr. G. Sabbatucci, Storia del socialismo italiano, 6 voll., Roma, Il poligono, vol. III, pp. 319-323. 133 Decreto 28 agosto 1921; il testo è riportato anche in «I diritti della scuola», n. 39, 30 settembre 1921, pp. 627-628. L’Umanitaria nella seduta del 20 settembre 1921 delegò a suo rappresentante nel consiglio dell’Opera il proprio presidente, il senatore Luigi Della Torre, in gioventù attivo militante socialista di Milano che aveva abbandonato la militanza a causa degli impegni finanziari che lo portarono a diventare uno dei principali banchieri d’Italia e di alcune polemiche per aver omaggiato il re, pur mantenendo legami con l’ala riformista del partito e con Turati in particolare (ASU, pratica 553, s.fasc. 4, anno 1921, Copia di lettera del direttore generale dell’Umanitaria, Osimo, al presidente dell’Opera contro l’analfabetismo, 9 novembre 1921; su Della Torre si veda il profilo biografico curato da F.M. Biscione in DBI). 132 56 di scuole diurne per figli di contadini, pastori, pescatori, minatori, braccianti, da istituirsi «nelle campagne e presso cantieri ed opifici» ove si potessero riunire almeno 20 alunni dai 6 ai 14 anni con orario di cinque ore giornaliere per un corso di 180 ore; creazione di scuole serali per lavoratori di età superiore ai 12 anni nei centri ove fosse possibile riunire almeno 15 allievi con orario di almeno due ore giornaliere per un corso di lezioni sufficienti allo svolgimento di un programma didattico che nella prima classe conducesse l’analfabeta a saper leggere e scrivere; creazione di scuole festive da istituirsi nei piccoli centri con corso elementare, specialmente femminile, con nozioni utili alla vita professionale (industriale ed agricola), con l’impiego di svariati mezzi come il cinematografo, le esperienze pratiche, le letture e le conferenze. Era altresì stabilito che il programma didattico per le scuole diurne e per quelle serali era lo stesso del corso elementare inferiore e che il profitto degli alunni doveva essere accertato con prove di esami. Per quanto riguardava invece la scelta del corpo docente, era previsto che gli insegnanti delle scuole sarebbero stati scelti dalle singole associazioni delegate e, se muniti del diploma di abilitazione, avrebbero visto riconosciuto valido agli effetti della carriera magistrale il loro servizio, circostanza questa che allarmò i sindacati poiché in tal modo la legge lasciava aperta la strada alla nomina di persone prive della patente rilasciata dalla scuola normale. In ordine alla messa a disposizione dei locali scolastici, dell’arredamento e del materiale didattico, era stabilito che tutto ciò era a carico delle associazioni che vi avrebbero provveduto con il concorso dei Comuni e dei proprietari terrieri, degli opifici e dei cantieri. Gli enti delegati vedevano riconosciuta la propria autonomia interna, tanto per i rapporti economici e disciplinari con tutti coloro che con essi collaboravano, quanto per gli atti amministrativi della gestione di ciascuno, in armonia con quanto disposto dall’Opera. Il compenso ai maestri sarebbe stato commisurato in base al numero di lezioni effettivamente tenute e al numero di alunni promossi al termine dell’anno scolastico. La vigilanza su tali scuole sarebbe spettata sia al consiglio dell’Opera contro l’analfabetismo, sia ai regi ispettori scolastici ed ai direttori didattici. Il finanziamento del nuovo organismo era basato sui quattro milioni annui già messi a bilancio con il decreto del 2 settembre 1919 che istituì il soppresso Ente contro l’analfabetismo degli adulti, a cui si aggiungeva un milione e 700 mila lire annui assegnati dallo stesso ministero alle scuole serali e festive ed una somma stanziata dal Commissariato generale per l’Emigrazione. Nei primi due anni di attività l’azione dell’Opera si rivolse in particolare verso l’istruzione per gli adulti, seguendo il solco aperto dal Commissariato per l’Emigrazione: infatti nel 1921-22 funzionarono 2.057 scuole serali e 319 scuole festive per adulti e 213 scuole diurne per fanciulli. Numeri destinati a crescere l’anno successivo quando furono attivate 3.187 tra scuole serali e festive e 403 scuole diurne, di cui però un centinaio già esistenti perché istituite per proprio conto dall’ente Scuole per i contadini dell’Agro romano. Un secondo tratto comune tra l’Opera e il Commissariato per l’Emigrazione era il fatto che entrambi rivolsero la propria attenzione alle regioni dell’Italia centro-meridionale, fino alle Marche, all’Umbria e ad una parte della Toscana (la Maremma, il Livornese, il Senese e l’Aretino). Solo nel 1922-23 l’Opera estese la sua attività anche al Veneto, cioè ad una delle zone più povere e rurali dell’Italia settentrionale. La gestione delle scuole in quest’ultima regione venne affidata in parte alla Società Umanitaria (nelle province di Belluno, Padova, Verona, Vicenza, Rovigo), in parte al Consorzio Emigrazione e Lavoro (nelle province di Treviso, Udine e Venezia)134. 134 L’Opera contro l’analfabetismo: R.D.L. 28 agosto 1921, n. 1371: relazione del Comitato direttivo a S.E. il ministro per la pubblica istruzione (anno 1922-23), Roma, Proja Luigi, 1924, p. 17. Le pratiche per garantire all’Umanitaria di estendere la sua azione alle regioni settentrionali iniziarono nel gennaio 57 All’interno delle singole associazioni non mancarono personalità dotate di grande sensibilità e di capacità operative, che fornirono la propria opera con vera passione educativa, attingendo, come è stato già sottolineato, a quel ricco «patrimonio di cultura e di pratica civile» maturato durante l’esperienza della mobilitazione nel periodo bellico135. Si pensi a questo proposito all’opera di Giuseppe Lombardo Radice svolta in Sicilia nella fondazione e nella direzione delle scuole dell’Animi. Già impiegato nel Servizio Propaganda dell’esercito italiano durante la Grande Guerra, Lombardo Radice scriveva l’11 dicembre 1921 all’amico Santino Caramella un messaggio tanto lapidario, quanto carico della sua tensione etica e morale per la causa dell’educazione: «Io ho organizzato in 3 mesi: 570 scuole serali; 36 diurne; 70 festive in Sicilia. Lavoro come un matto. Evviva!»136. Parole che testimoniano una sincera e disinteressata passione per la scuola unitamente alla consapevolezza, presente nel pedagogista siciliano e condivisa con altri intellettuali che si richiamavano all’idealismo, della necessità di rifondare spiritualmente una Nazione uscita sfiancata dalla prova bellica grazie all’educazione del popolo italiano. Non a caso Lombardo Radice chiamò intorno a sé persone che condividevano queste idee, giovani intellettuali idealisti del tutto estranei alle dinamiche dell’amministrazione scolastica statale, che meglio di altri avrebbero contribuito al buon funzionamento delle scuole dell’Animi: ci riferiamo, in particolare, a Giuseppe Isnardi ed Emilio La Rocca, professore il primo di ginnasio, insegnante di pedagogia nelle scuole normali il secondo, che egli aveva conosciuto anni prima grazie alle sue riviste, «Nuovi doveri» e «L’Educazione nazionale», in cui aveva predicato il rinnovamento della scuola e dello spirito nazionale137. Si pensi ancora all’azione propulsiva svolta da Umberto Zanotti Bianco e Gaetano Piacentini nell’organizzazione delle reti di scuole serali, festive e diurne nell’Italia meridionale o al lavoro svolto sul campo dallo stesso Isnardi, inviato in Calabria a dirigere le scuole dell’Animi. Tracce della loro passione civile e della loro dedizione alla causa della scuola si possono cogliere, ad esempio, nelle parole che Zanotti Bianco inviava il 20 ottobre 1921 a Ugo Ojetti, per chiedergli di scrivere un articolo sul «Corriere della Sera» che facesse un po’ di pubblicità all’Animi: 1922, quando Osimo e Della Torre, rispettivamente direttore e presidente del sodalizio milanese, chiesero al presidente dell’Opera contro l’analfabetismo di poter ricevere la delega anche in Veneto e in Lombardia. Un’altra lettera dell’aprile 1922 informa che nel frattempo anche l’Opera Bonomelli aveva chiesto di ottenere l’incarico per il Veneto (ASU, pratica 553, s.fasc. 8, anno 1921, Lettera di Osimo e Della Torre al presidente dell’Opera contro l’analfabetismo, 28 gennaio 1922; Ivi, pratica 553, s.fasc. 9 , anno 1921, Lettera di Bachi all’Umanitaria, 12 aprile 1922). Sulla storia dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa, poi denominata Opera Bonomelli, si rinvia a P.V. Cannistraro, G. Rosoli, Emigrazione, Chiesa e fascismo: lo scioglimento dell'Opera Bonomelli (1922-1928), Roma, Studium, 1979. 135 G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva, Brescia, La Scuola, 1990, p. 210. 136 Carteggio Giuseppe Lombardo Radice-Santino Caramella, a cura di Tina Caramella, Genova, Studio editoriale di cultura, 1983, p. 40. La lettera è stata già citata in A. Gaudio, Giuseppe Lombardo Radice, il Mezzogiorno e la lotta contro l’analfabetismo, «Pedagogia e Vita», n. 4, 2004, p. 65. 137 G. Isnardi, L’attività educativa scolastica dell’Associazione, in L’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, cit., pp. 211-212. In particolare a Isnardi venne affidata la direzione delle scuole in Calabria, a La Rocca le scuole della Basilicata, a Vitale Chialant le scuole della Sicilia orientale (Messina, Catania e Siracusa), ad Arcangelo Sciacca le scuole della Sicilia centrale (Caltanissetta e Agrigento), a Giuseppe Liotta le scuole della Sicilia occidentale (Palermo e Trapani), a Guglielmo Zanini le scuole della Sardegna. 58 Ti sarò assai grato – scrisse Zanotti Bianco – se vorrai scrivere la mezza colonna promessami sul Corriere, facendo rilevare che il decreto è stato firmato il 18 o il 19; l’altro ieri insomma e già siamo in grado di aprire tutte le scuole (circa 1100) per il 15 novembre: merito di Marcucci e Piacentini138. Né si possono dimenticare gli sforzi profusi da Alessandro Marcucci che, memore dell’opera educativa delle scuole dell’Agro Romano fondate insieme a Giovanni Cena con «spirito garibaldino» un decennio prima, fornì il suo contributo dispensando consigli, proposte e idee o impegnandosi perché la scelta dei collaboratori degli enti delegati ricadesse su persone di comprovato valore e perizia pedagogica: nel gennaio 1922, ad esempio, suggeriva ai dirigenti dell’Umanitaria il nome di Giovanni Modugno, professore di pedagogia di scuola normale, come nuovo direttore del settore Cultura della sezione barese dell’associazione, definendolo «il Lombardo Radice delle Puglie» che avrebbe potuto tradurre «in atto postulati scientifici di pedagogia e didattica, di sociologia e di economia ed amministrazione», occupandosi con profitto della direzione delle scuole serali, festive e diurne in quella regione139. Eppure, se si guarda con debita distanza ai risultati ottenuti, senza disconoscere il lavoro svolto da molti educatori, non si potrà fare a meno di notare come l’avvio delle attività dell’Opera era contrassegnato da una serie di criticità, a cominciare da quelle limitazioni finanziarie che misero in luce in breve tempo come la sordità diffusa in molti settori della classe dirigente verso i problemi della diffusione della cultura e del sapere tra i giovani contadini non era certo terminata. Il numero delle scuole diurne, infatti, era assolutamente insufficiente ai bisogni, se si pensa ad esempio che nelle popolose province di Bari, Lecce e Foggia esse furono appena 12 o che in quelle di Napoli, Avellino, Benevento, Salerno, Caserta e Campobasso ne furono aperte solo 59. Del resto già allora il problema dell’insufficienza del numero di scuole, in specie diurne per fanciulli, veniva rilevato e talvolta qualche critica apparve nella stampa magistrale: «I diritti della scuola» scrissero che «sarebbero occorse non 2500, ma 5000 scuole almeno» e segnalavano qualche caso paradossale, come ciò che avveniva a Sciacca, in Sicilia, dove a fronte delle 7 scuole serali attive in precedenza, l’Opera ne attivò solo 3140. In un altro polemico intervento veniva segnalato il caso del comune di San Gregorio d’Ippona, in provincia di Catanzaro, dove in precedenza c’erano tre scuole serali ed una festiva mentre ora il loro posto era preso da una sola scuola141. Insomma, in certi casi la nascita del nuovo ente non sembrava aver risolto il problema, soprattutto per la cronica insufficienza delle scuole diurne destinate all’alfabetizzazione dei bambini. La ragione di ciò era eminentemente economica e risiedeva nei maggiori costi che la loro gestione comportava rispetto alle scuole serali e festive per adulti: le scuole diurne, infatti, avevano un corso di studi più lungo, richiedevano una fornitura di materiale didattico più ricco, dovevano essere sottoposte a vigilanza scolastica e imponevano che le spese di iscrizione al Monte pensioni per gli insegnanti fosse a carico dell’Opera. Quanto finora detto a proposito dell’Opera contro l’analfabetismo non deve far dimenticare che essa operò nel biennio 1921-23 solo nei centri abitati dell’Italia centromeridionale dove il numero di obbligati era inferiore alla quaranta unità. Ciò significava che in 138 U. Zanotti-Bianco, Carteggio, a cura di V. Carinci e A. Jannazzo, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1989, vol. II, p. 182. 139 ASU, pratica 553, s.fasc. 4, anno 1921, Lettera di Marcucci ad un dirigente della Società Umanitaria, 24 gennaio 1922. 140 Opera contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 11, 25 dicembre 1921, p. 156; Opera contro l’analfabetismo, n. 6-7, «I diritti della scuola», 27 novembre 1921, p. 94. 141 Ma è una cosa seria?, «I diritti della scuola», n. 9, 11 dicembre 1921, p. 128. 59 tutte le campagne delle regioni settentrionali e in parte di quelle centro-meridionali rimase in vigore la precedente legislazione tale per cui le scuole rurali continuarono ad essere amministrate dal Consiglio scolastico provinciale. Nei loro confronti l’azione del ministro Corbino fu assai più circoscritta e limitata, ad esempio, all’emanazione di circolari, come la n. 54 del 28 ottobre 1921, in cui si deprecava l’uso invalso di attivare il corso elementare superiore, con l’istituzione della quarta classe con pochissimi iscritti, a scapito del corso inferiore, nel quale si riunivano talvolta «sotto un solo insegnante da ottanta a cento alunni». Corbino invitava, in altre parole, a privilegiare «le classi inferiori, che accolgono la enorme maggioranza degli obbligati, non già a istituire scuole e corsi, che, per ora, non possono esser frequentati se non da pochissimi alunni non obbligati per legge», ripetendo una sollecitazione già fatta peraltro l’anno precedente da Croce142. Se le parole di Corbino e del suo predecessore erano ispirate dalla volontà di ottimizzare le risorse finanziarie, evitando sprechi come la creazione di classi con pochi studenti e trovando da questo punto di vista una sponda nel gruppo idealista, agli occhi dell’opposizione socialista tutto ciò era troppo poco e confermava la volontà delle classi dirigenti del paese di non voler dedicarsi in modo convinto alla lotta dell’analfabetismo degli operai e dei contadini. Fu per tale ragione che durante la discussione del bilancio della pubblica istruzione svoltasi alla Camera nel giugno 1921 i deputati del Psi Matteotti e Bombacci avanzarono in modo quasi provocatorio la proposta di stanziare 60 milioni di lire per la creazione di circa 10 mila nuove scuole. Non accettata dal governo, tale richiesta venne riformulata sotto forma di disegno di legge, di iniziativa del ministro del Tesoro, Peano, che il 30 giugno 1922 veniva approvato alla Camera: esso prevedeva all’articolo 2 l’ambizioso progetto di istituire 6 mila nuove scuole a partire nell’imminente anno scolastico 1922-1923 nei Comuni sottoposti all’amministrazione scolastica provinciale143. Un progetto tanto importante quanto destinato ad essere disatteso: dopo essere stato approvato dalla Camera, infatti il disegno di legge passò in Senato dove, a causa della crisi politica e istituzionale in cui precipitò il paese, non fu discusso. Esso venne formalmente ritirato dal governo Mussolini nel novembre 1923 che pensò di affrontare la questione dell’analfabetismo con altri strumenti144. 142 Circolare 13 ottobre 1920. Istituzione di seimila nuove scuole, «I diritti della scuola», n. 37, 30 luglio 1922, p. 582. 144 L’articolo 2 fu discusso alla Camera il 22 giugno 1922; l’intero disegno di legge, «Maggiori e nuove assegnazioni nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’istruzione pubblica per l’esercizio finanziario 1920-1921» (stampato n. 339), fu votato dalla Camera il 30 giugno 1922. Al Senato risulta «ritirato con R.D. 9 novembre 1923 comunicato al Senato nella tornata del 12 successivo» (Senato del Regno, Legislatura XXVI, sessione 1921-1923, Resoconto dei lavori legislativi [Roma, 1923]; Camera dei deputati, Sessione 1921-1922 (1a della XXVI Legislatura), Atti del Parlamento italiano, vol. VII, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1922). 143 60 Capitolo terzof La scuola rurale in camicia nera. L’istruzione nelle campagne durante il fascismo (1922-1943) 1. Gentile e il Comitato contro l’analfabetismo Con l’avvento alla Minerva di Giovanni Gentile, a seguito della formazione del governo Mussolini, avvenuta il primo novembre 1922, si apriva una nuova fase nella storia dell’istruzione rurale. Il filosofo, intorno al quale si erano radunati numerosi discepoli che del maestro condividevano la visione neoidealistica, espresse molto presto il proprio apprezzamento verso quelle iniziative private sorte nel campo dell’istruzione popolare che avevano permesso allo Stato di sgravarsi di compiti così onerosi e di dedicarsi ad altre questioni ritenute di maggiore importanza, come la valorizzazione della scuola classica considerata la fucina per la formazione della nuova classe dirigente della Nazione. Gentile espose queste idee in una intervista a «La Tribuna» il 25 maggio 1923, lasciando intendere in modo chiaro che sarebbe stata sua intenzione quella di potenziare l’attività dell’Opera contro l’analfabetismo. In particolare il filosofo affermò che l’Opera era stata «una delle buone cose» creata dai suoi predecessori Corbino ed Anile, poiché «con ordinamento agile e rigoroso [aveva] ridato vita alle funzioni dell’insegnante, [aveva] riaccostato le popolazioni rurali alla scuola, [aveva] dato cospicui risultati didattici, che si traduc[evano] in risultati economici»145. Infatti quell’esperienza aveva mostrato anche agli scettici che era necessario «falcidiare quelle spese che da[vano] risultati irrisori» a livello scolastico, e aveva smentito coloro che in nome dell’istruzione popolare agitavano bandiere in modo ideologico e corporativo, chiedendo di «sfollare le classi» o invocando «genericamente la casa della scuola»146. Il ministro intendeva riferirsi a quelle che vennero chiamate le «scuole inefficienti», cioè quelle scuole rurali con pochi iscritti o mal distribuite sul territorio, tale per cui ad esempio si avevano due maestri in una scuola in cui uno insegnava a pochi alunni in prima e seconda classe, e l’altro ad altrettanti pochi allievi in terza e quarta; un altro caso che veniva sovente citato era quello di due scuole rurali aperte a poca distanza l’una dall’altra. Tutto ciò era causa, a giudizio degli idealisti, dello sperpero di denaro pubblico che se impiegato diversamente avrebbe fruttato risultati di certo migliori Era in questa cornice che si inseriva il proposito di Gentile e dei gentiliani di avvalersi più di quanto non si fosse fatto in precedenza dell’ausilio dell’Opera contro l’analfabetismo, indirizzando il suo operato in due direzioni: da una parte estendendone l’azione a tutto il territorio nazionale e non più solo all’Italia centro-meridionale, dall’altra affidandole la gestione disciplinare e didattica di tutte quelle scuole elementari a scarso rendimento di cui si lamentava il mal funzionamento. Si deve aggiungere a questo proposito che si trattava di un progetto politico condiviso non solo dai collaboratori di Gentile ma anche da un altro fondamentale partito di governo, il Ppi: questo, infatti, già nel consiglio nazionale del 20 dicembre 1923, riunitosi pochi giorni dopo la costituzione del governo Mussolini, aveva chiesto che «nel campo delle Scuole 145 Il testo dell’intervista è riportato in G. Gentile, La riforma della scuola in Italia, a cura di H.A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 84-88. 146 Ivi, p. 85. 61 elementari si associasse maggiormente le attività comunali e statali a quelle degli Enti e dei privati per combattere l’analfabetismo»147. Le intenzioni del ministro, e del suo principale collaboratore in questo campo Lombardo Radice, furono tradotte in pratica con il decreto n. 2410 del 31 ottobre 1923, uno dei provvedimenti legislativi con cui venne riformata la scuola elementare italiana. In base ad esso veniva eliminata la vecchia distinzione tra scuole di città e scuole di campagna, basata sul numero degli abitanti e sul gettito fiscale dei Comuni, suddividendo le scuole in due gruppi (scuole «classificate» e scuole «non classificate») in funzione del numero dei soggetti sottoposti all’obbligo. Le prime erano gestite dall’amministrazione scolastica e dai Comuni, venivano aperte nei capoluoghi di Comune e nelle frazioni che avessero oltre quaranta fanciulli sottoposti all’obbligo, e si caratterizzavano per la presenza del corso superiore e del corso inferiore. A loro volta le «non classificate» si suddividevano in «scuole provvisorie» e in «scuole sussidiate». Le prime erano gestite da enti o associazioni culturali delegati appositamente dallo Stato, venivano aperte in luoghi in cui vi era un numero di alunni non superiore a quaranta e non inferiore a quindici, ed avevano il solo corso inferiore. Le seconde, invece, potevano essere gestite da privati, dietro autorizzazione del Provveditore, ed erano parzialmente sussidiate dallo Stato. Accanto alla nuova classificazione delle scuole, il sopracitato decreto provvedeva a modificare parzialmente anche l’Opera contro l’analfabetismo, che cambiava il nome in quello di Comitato contro l’analfabetismo. Il nuovo organismo doveva essere snello, capace di muoversi con agilità e privo di quelle pesanti incrostature burocratiche contro le quali in passato si erano scagliati gli idealisti. In linea con tali premesse il nuovo consiglio del Comitato vedeva ridurre fortemente la presenza dei funzionari ministeriali, rispetto a quanto previsto dalla legge Corbino del 1921: essi passavano da quattro a uno soltanto, vale a dire un ispettore centrale che prestava la sua opera presso la Direzione Generale dell’istruzione elementare, e in quanto tale uomo di fiducia del ministro. Completavano il consiglio ben cinque membri espressione delle istituzioni culturali delegate, circostanza che determinava un’amplissima autonomia di azione alle associazioni delegate. Al ministro era riservata la scelta del presidente del Comitato tra uno dei suoi componenti (art. 19). I compiti del nuovo organismo erano quelli di determinare le norme tecniche disciplinari e amministrative per lo svolgimento del programma di azione delle associazioni delegate, stabilire i compensi da corrispondere ai maestri; vigilare sull’andamento delle scuole delegate; riferire annualmente al ministro. Veniva infine prevista la sopravvivenza di un altro tipo di scuole, quelle cosiddette «a sgravio»; esse erano tenute da istituzioni o corpi morali e funzionavano sulla base di una convenzione fra gli enti e il Provveditorato. Un altro aspetto legato alla nascita del Comitato contro l’analfabetismo era di tipo economico. Procedere infatti con le cosiddette «sclassificazioni», cioè nel conferimento dello status di scuole non classificate, significava un risparmio netto per lo Stato che i tecnici della Minerva stimavano in circa un terzo. Se infatti il costo medio di una scuola ordinaria era di circa 7.326 lire, quello di una scuola provvisoria era di 5.116 lire, con un’economia annua di 2.210 lire a scuola148. Ciò significava secondo i primi calcoli che cominciarono a girare sulla stampa magistrale che lo Stato avrebbe ceduto circa 1.400 scuole: di esse un migliaio sarebbero passate al nuovo Comitato contro l’analfabetismo sotto la forma di scuole provvisorie, mentre le restanti, con un numero di studenti ancora più inferiore, sarebbero diventate scuole sussidiate, sempre che 147 148 G. Petrocchi, Don Luigi Sturzo: note e ricordi, Roma, Apollon, 1945, p. 62. I dati sono estratti dalla tabella allegata al decreto. 62 avessero trovato un generoso finanziatore149. Il decreto prevedeva infatti che entro un triennio le scuole allora esistenti sarebbero state distinte in classificate, provvisorie e sussidiate, secondo la popolazione scolastica. Qualora non sarebbero potute essere trasformate in sussidiate, le scuole con pochi alunni sarebbe state soppresse. Ma oltre a ragioni di tipo finanziario, vennero addotte anche motivazioni più strettamente pedagogiche al fine di giustificare il prosieguo sulla via della delega delle scuole rurali alle associazioni culturali: veniva infatti osservato che nelle scuole gestite in precedenza dall’Opera contro l’analfabetismo la frequenza si attestava su livelli molto alti (in media ogni scuola era frequentata da 29 alunni su circa 36 iscritti) e che il profitto didattico era altrettanto elevato (in media 23 promossi per ogni scuola). Le innovazioni introdotte dalla legislazione gentiliana furono accompagnate da giudizi di diverso tenore. Il 25 ottobre 1923 «La nuova scuola italiana», giornale diretto da Codignola e quindi favorevole alla riforma, se la prendeva contro le lamentele diffuse tra gli insegnanti che temevano di veder peggiorare la propria condizione professionale a causa del passaggio delle scuole in cui avevano lavorato alle dipendenze di enti delegati. Timori non condivisi dal periodico secondo il quale, invece, si sarebbe posto fine all’abuso di denaro pubblico con il quale erano state tenute aperte scuole inefficienti e con pochissimi alunni: Lo Stato ha mantenuto per tanti anni, spendendo una media di 700 lire all’anno delle scuole con dieci, con sei e perfino con due alunni, che da facoltative col noto decreto Berenini vennero innalzate allo stesso livello delle pretoriche scolette del Veneto, della Romagna e della Lombardia! Dovrebbero ammettere anche gli oppositori di professione che occorreva un provvedimento energico 150. Al contrario «I diritti della scuola», rivista vicino all’Unione magistrale, in un acuto articolo definiva le nuove disposizioni un grave e pericoloso passo indietro rispetto a quanto il nuovo Stato unitario aveva fatto dal 1859 in poi, assumendo su di sé e sui Comuni il mandato di provvedere all’istruzione elementare. Un patrimonio che rischiava di andare perduto, con pesanti conseguenze non solo per gli insegnanti rurali che si sarebbero visti ridurre il proprio stipendio, ma per l’intero sistema scolastico nazionale151. Tale progetto era, secondo questo ragionamento, ben diverso dal proposito che aveva animato pochi anni prima i fondatori dell’Opera contro l’analfabetismo la quale era stata concepita come un ente transitorio, la cui nascita era stata giustificata da taluni esponenti del mondo magistrale laico e dell’opposizione socialista come un fatto eccezionale, dettato dall’urgenza di arginare il problema dell’analfabetismo prima possibile e anche ricorrendo all’ausilio dei privati. L’Opera era sorta, infatti, per «riparare alla meglio, con espedienti garibaldini, e in via transitoria, alla mancanza di alfabetismo» mentre ora si assisteva all’ingresso «nella legislazione scolastica del nostro paese [di] ben altre forme di collaborazione»152. 149 Scrivevano «I diritti della scuola»: «Da notare che le cifre riguardanti le scuole sussidiate sono...ipotetiche, poiché dette scuole sono bensì esistite, nella categoria comune, sino all’anno scorso, ma non è detto che rimarranno ancora in vita, essendo lasciata facoltà ai privati di assumerle o meno» (Le scuole cedute per scarso rendimento, «I diritti della scuola», n. 5, 11 novembre 1923, p. 84). 150 Scuole provvisorie e scuole sussidiate, «La nuova scuola italiana», n. 5, 25 ottobre 1923, p. 60. 151 «È una parziale liberazione che lo Stato compie, a suo favore e a favore dei comuni, dagli obblighi che la nuova Italia, dal 1859 in poi, era venuta assumendosi per l’istruzione del popolo» (P.F., La nuova classificazione della scuole, «I diritti della scuola», n. 9, 9 dicembre 1923, p. 153). 152 Ibid. 63 Concetti analoghi saranno espressi un anno dopo anche dal deputato socialista Agostinone in una serie di articoli pubblicati su «Critica Sociale» nei quali accusò il ministro di aver affrontato nei modi peggiori il problema delle scuole inefficienti, vale a dire cedendole sbrigativamente agli enti delegati o peggio ancora sopprimendole, invece di occuparsene con cura e amorevolezza. Scrisse a questo proposito Agostinone: Il Ministro Gentile incominciò col far compiere dei lodevolissimi rilievi statistici da cui risultava constatato, con esattezza aritmetica, ciò che già proprio noi avevamo denunziato alla Camera: l’esistenza cioè di molte scuole scarsamente utili. Ma, mentre dai nostri banchi si chiedevano edifizi adeguati, maestri incoraggiati economicamente a sostenere il disagio della permanenza nei luoghi ingrati, ed altre provvidenze che rendessero popolate le scuole e alacri gl’insegnanti, il Governo prese la via più spiccia. Costatato lo scarso rendimento, invece di ricercarne, luogo per luogo, le cause, invece di curare la manchevolezza, posto per posto, punì senz’altro le popolazioni, o sopprimendo addirittura le scuole o affidandole agli Enti privati. Delle 10.000 scuole considerate di scarso rendimento speriamo di sapere presto quante furono veramente soppresse e quante furono consegnate alle cure dell’Ente contro l’analfabetismo153. Se la scelta di conferire la gestione delle scuole rurali nelle aree più disagiate del paese a istituzioni culturali poteva essere giustificabile se concepita come una soluzione temporanea – tant’è che il deputato socialista rivendicava l’apporto decisivo del suo partito alla nascita dell’Ente contro l’analfabetismo nel 1919 – tale progetto non poteva essere più condiviso se si intendeva trasformare quell’organismo in un ente permanente, decisione che di fatto avrebbe aperto la strada ad una sorta di privatizzazione di un ramo dell’istruzione elementare: A proposito di quest’Ente ci occorre essere ben chiari. L’Ente contro l’analfabetismo, che oggi viene per la prima volta a sostituirsi allo Stato nel fondare e dirigere scuole rientranti nell’orbita della legge sull’istruzione, ha goduto sempre tutte le nostre simpatie. Anzi diremo di più: esso nacque in casa nostra. Fu l’on. Corradini che ne portò la prima idea nella sede della nostra Unione dell’Educazione popolare, dove fu tenuto poi a battesimo da uomini di tutte le fedi: da Turati a Bertolini, da Longinotti a Tedesco. E di lì incominciò quell’opera che fu seguita in tutte le fasi, col miglior fervore, fino alla completa effettuazione. Noi amammo quindi quella tenera creatura, ma destinandola ad uno scopo preciso: alla distruzione dell’analfabetismo degli adulti. Doveva perciò avere un campo limitato nel tempo e nello spazio; e perciò consentimmo che potesse utilizzare i maestri un po’ a cottimo e potesse delegare l’opera propria ad antiche istituzioni già provate nella organizzazione di opere di scuola e di coltura. Ma oggi, quando esso cambia fisionomia, accenna a diventare istituzione permanente, incomincia a sostituirsi agli enti pubblici nella funzione più gelosa, ammette all’esercizio della funzione stessa organizzazioni improvvisate come quelle create per la Toscana e per la Liguria, e minaccia di mutare la complessa funzione educativa della scuola nel semplice scodellamento dell’alfabeto col maestro cottimista – dobbiamo vivamente protestare ripudiandolo il nostro figlioccio154. Tornando alle disposizioni contenute nel decreto del 31 ottobre 1923 si deve aggiungere che l’estensione dell’opera del Comitato contro l’analfabetismo a tutto il territorio nazionale comportò il coinvolgimento di altri enti delegati, alcuni già esistenti e altri di nuova fondazione. Era il caso, ad esempio, del Comitato per le scuole del popolo, istituzione culturale sorta a Genova fin dal lontano 1867, artefice della creazione in Liguria di scuole elementari passate progressivamente allo Stato155; un’altra associazione che venne delegata fu il Gruppo d’azione per le Scuole del Popolo, fondato a Milano nel 1919 da maestri che avevano il loro referente culturale 153 E. Agostinone, La riforma scolastica fascista. IV. La scuola elementare, «Critica Sociale», n. 21, 1-15 novembre 1924, p. 334. 154 Ibid. 155 Raccolta Ufficiale di Decreti e Leggi, 1901, p. 305. 64 nell’idealismo militante di matrice gentiliana, critico nei confronti dell’associazionismo magistrale rappresentato dall’Unione Magistrale Nazionale e dalla «Nicolò Tommaseo» e deciso a battersi per il rinnovamento spirituale della scuola secondo i valori nazionali. Di nuova fondazione era invece l’Ente Nazionale di Cultura, con sede a Firenze, sorto per iniziativa di Ernesto Codignola e di cui divenne presidente Giovanni Marchi, già maestro elementare, interventista durante la Grande Guerra e poi eletto deputato nelle liste fasciste nel 1921156. Guardando complessivamente alla mappa dell’Italia, essa era così suddivisa tra i vari enti: nel Lazio, l’Umbria, l’Abruzzo, le Marche e la Romagna operavano le Scuole per i contadini dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine; in Toscana e in Emilia l’Ente Nazionale di Cultura; in Lombardia il Gruppo d’azione per le Scuole del popolo; in Liguria il Comitato per l’Educazione del popolo; in Veneto e in parte della Puglia (Bari e Lecce) la Società Umanitaria; in Campania, Molise e parte della Puglia (Foggia) il Consorzio Nazionale di Emigrazione e Lavoro; in Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia157. Per quanto riguardava, invece, il Piemonte, le valli alpine (Valle d’Aosta), la Venezia Giulia e la Venezia Tridentina (Trentino) il ministro si riservò di nominare successivamente altre associazioni158. Intanto il Comitato contro l’analfabetismo si riuniva per la prima volta nei primi giorni di dicembre del 1923, presso la Direzione generale dell’istruzione elementare. I cinque componenti scelti, come previsto dalla legge, dal ministro fra i rappresentanti delle associazioni delegate erano Gaetano Piacentini (Animi), Cesare Bachi (Società Umanitaria), Ernesto Codignola (Ente nazionale di cultura), Giuseppina Novi-Scanni (Consorzio Emigrazione e Lavoro), Francesco Acerbo (Scuole dei contadini dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine). Rappresentante del ministero presso il Comitato fu nominato Alessandro Marcucci. Su indicazione di Gentile venne prescelto come presidente del neonato Comitato, Gaetano Piacentini159. Nella seduta dell’11 febbraio 1924 il direttivo del Comitato decise, alla presenza di Lombardo Radice, di aumentare le diarie dei maestri portando da 18 a 23 lire per le scuole diurne e i premi di promozione da 20 a 25 lire per ogni alunno promosso. Si stabilì inoltre che ogni associazione avrebbe dovuto organizzare durante l’estate corsi di preparazione per i maestri per discipline come l’agraria, l’igiene infantile, il canto e il disegno, discipline non a caso rivalutate dai nuovi programmi elaborati da Lombardo Radice nel 1923160. Per quanto riguarda, infine, l’aspetto didattico è opportuno rilevare come la qualità dell’insegnamento nelle scuole provvisorie o sussidiate diffuse in campagna era molto più basso di quello delle scuole urbane. I due principali limiti erano costituiti dalla riunione sotto un solo insegnante, in un’unica sezione, di bambini della prima, della seconda e della terza elementare e dal fatto che l’orario era ridotto. Inoltre ad insegnare nelle scuole rurali erano di solito maestri alle 156 Giovanni Marchi era nato a Cetona (Siena) il 21 dicembre 1889. Ricoprì anche un incarico di governo come sottosegretario alle Colonie nel primo governo Mussolini (1922-1924). Morì a Santiago del Cile il 9 gennaio 1939. 157 Il Gruppo d’Azione per le Scuole del Popolo, eretto in ente morale con R.D. 6 gennaio 1924, n. 25, ottenne la delega con D.M. 19 febbraio 1924. Cfr. Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano, cit., p. 187. 158 Bisognerà attendere il decreto del 20 agosto 1926 per vedere assegnata la delega ad altri enti in queste regioni. 159 Il Comitato contro l’Analfabetismo, «La nuova scuola italiana», n. 11, 9 dicembre 1923, p. VI. 160 Una importante riunione del Comitato contro l’analfabetismo, «La nuova scola italiana», n. 22, 24 febbraio 1923, p. IV. 65 prime armi, appena usciti dall’istituto magistrale e privi di ogni esperienza professionale, spesso provenienti da centri urbani e quindi poco inclini alla vita di campagna. Fu così che a sancire anche sul piano didattico il differente status delle scuole rurali che, sotto Gentile, vennero approvati, con ordinanza ministeriale del 21 gennaio 1924, i programmi particolareggiati per questo tipo di scuole. In sostanza essi risultavano più snelli e alleggeriti rispetto a quelli delle scuole urbane: il programma dell’insegnamento della lingua, ad esempio, veniva ripartito tra la prima e la seconda classe, mentre in terza il maestro era autorizzato a tralasciare il componimento mensile e il diario della vita di scuola; lo spazio assegnato al disegno spontaneo veniva ridotto, così come il canto di cui si consigliava l’insegnamento negli intervalli tra una lezione e l’altra161. 2. Il fascismo all’assalto della scuola rurale: da Fedele a Ercole L’opera di conquista della scuola e la sua utilizzazione in chiave propagandistica al fine di consolidare e di estendere le basi del consenso al Regime, che il fascismo riuscì a porre in essere in particolar modo dopo l’uscita di scena di Gentile e il breve periodo del ministero affidato al liberale Alessandro Casati, non risparmiò la scuola rurale. Le campagne, infatti, per una serie di ragioni tra le quali il fatto di essere meno controllabili dal punto di vista politico e la presenza di un atteggiamento di freddezza verso il fascismo alimentato dagli ultimi residui dell’opposizione socialista, sembrarono le più bisognose di cure e di controllo da parte del nuovo regime. A ciò si aggiunga che nei suoi primi anni di governo Mussolini volle fondare buona parte della propria credibilità di uomo politico ispirando la sua azione nel rilancio dell’agricoltura nazionale, un progetto ambizioso che si concretizzò nella politica ruralista attraverso il lancio di grandi campagne di mobilitazione come la «Battaglia del grano», proclamata nel 1925. Attraverso incentivi economici e misure tecniche atte a rendere possibili miglioramenti produttivi si voleva altresì allargare le basi del consenso tra i contadini che, tornati ad essere fedeli collaboratori dei proprietari terrieri, dopo le agitazioni del «biennio rosso», potevano aspettarsi un miglioramento delle proprie condizioni di vita in cambio della propria adesione al fascismo in nome della riconciliazione nazionale nel supremo interesse della Patria. Se il processo di fascistizzazione della scuola elementare italiana stava dando i suoi frutti più evidenti nelle scuole urbane e in quelle rurali gestite direttamente dallo Stato, diversa era la situazione nelle scuole rurali (non classificate) gestite dagli enti delegati. Queste, infatti, subivano un minore controllo da parte di quelli che erano gli organi di vigilanza tradizionali (provveditori, ispettori scolastici, direttori didattici), sebbene gli enti che li gestissero avessero l’obbligo di presentare periodiche relazioni della propria attività alle autorità statali e il consiglio direttivo del Comitato contro l’analfabetismo fosse composto in gran numero da funzionari ministeriali. Ma nel giro di poco tempo le cose cominciarono a cambiare e l’oppressivo clima illiberale che caratterizzava la vita politica italiana cominciò così a farsi sentire anche all’interno del mondo degli enti delegati162. Agli inizi del 1924, ad esempio, il professor Cesare Bachi, esponente della 161 Un commento ai nuovi programmi in G. Gabrielli, I programmi per le scuole rurali, «I diritti della scuola», n. 24, 6 aprile 1924, pp. 369-371. 162 Lo stesso Gentile in una lettera a Codignola dell’ottobre 1924 usava parole dure verso l’Animi, considerata un covo di antifascisti: «Hai visto la gaffes di Lombardo Radice? M’ha fatto tanta rabbia, anche perché non ho potuto più sostenerlo pel Cons. Superiore. Ed è un pasticcio. E io 66 Società Umanitaria e persona di sentimenti democratici, decise di dimettersi dalla carica di membro del consiglio del Comitato contro l’analfabetismo e di dirigente dell’Ufficio dell’Umanitaria distaccato di Roma, approfittando del delinearsi di altre prospettive di lavoro163. Ma fu soprattutto con l’arrivo alla Minerva di Pietro Fedele, succeduto nel gennaio 1925 a Casati, che i controlli sulle attività degli enti e sulle persone che ne facevano parte, soprattutto quelli che non dimostravano simpatie per il fascismo, si intensificarono tanto da diventare insopportabili. Questo clima è ben testimoniato da una lettera riservata che Piacentini scrisse il 5 agosto 1925 a Gentile e nella quale raccontava le pressioni subite dai funzionari comandati presso l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno a iscriversi alle organizzazioni sindacali fasciste, intensificatesi dopo la presentazione della cosiddetta «legge sulla burocrazia». Scrisse Piacentini: Ai funzionari comandati presso di noi per il lavoro delle scuole riesce ormai difficile, dopo la presentazione della legge sulla burocrazia, resistere alle pressioni (qualche volta da loro interpretate forse a torto, come larvate minaccie) di Corporazioni e di Sindacati. A quelli che mi hanno domandato consiglio io ho risposto, senza fare alcun apprezzamento, che l’Associazione li lasciava perfettamente liberi e difatti alcuni hanno aderito; ma trovo molto grave, per l’esempio di dignità e di carattere che bisogna dare nelle opere educative, quando si aderisce – come purtroppo avviene – per paura di rappresaglie o vendette. E un imbarazzo verrebbe al nostro lavoro anche dal rifiuto dei funzionari a dare la richiesta adesione, perché potrebbe interpretarsi come un’ostilità politica che l’Associazione non deve assumere. Quindi in un caso e nell’altro l’Associazione verrebbe quasi a prendere una posizione di partito assolutamente contraria alla sua tradizione 164. Ma a costituire un ulteriore motivo di preoccupazione erano anche e soprattutto le modifiche che con decreto legge sarebbero state apportate al Comitato contro l’analfabetismo, le cui bozze cominciarono a circolare nell’estate del 1925 prevedendo, in particolare, l’incremento dei controlli del governo sul Comitato stesso e, al contempo, una minora libertà d’azione per le associazioni delegate. Si trattava di una prospettiva che generò allarme tra coloro che ritenevano indispensabile una certa autonomia organizzativa, finanziaria e culturale delle proprie associazioni, temendo l’invadenza dello Stato e del fascismo, che peraltro proprio in quel momento stava prendendo il controllo di numerosi enti, come la Società Umanitaria di Milano che vantava tradizioni socialiste. Una delle associazioni più sensibili al tema del mantenimento della propria autonomia fu l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno – anche per la presenza nel suo consiglio direttivo di personalità di chiaro orientamento antifascista come Umberto Zanotti Bianco, Tommaso Gallarati Scotti, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini e Giuseppe Lombardo Radice – e non era certo casuale che fu proprio questa a protestare più non intendo più tollerare queste anime belle antifasciste, che sono annidate nell’Assoc. pel mezzogiorno. Verremo presto ai ferri corti» (AEC, Corrispondenza, Lettera di Gentile a Codignola, 25 ottobre 1924). In realtà poco dopo Gentile entrerà a far parte del consiglio direttivo dell’associazione. 163 G. Petrillo, Il fascismo si impadronisce di un’istituzione riformista: l’Umanitaria, in M.L. Betri, A. De Bernardi, I. Granata, N. Torcellan (a cura di), Il fascismo in Lombardia: politica, economia e società, Milano, Franco Angeli, 1989, p. 427. Per le dimissioni di Bachi si veda il verbale delle deliberazioni del 7 marzo 1924 dell’Umanitaria in cui il Commissario Governativo dell’associazione prendeva atto della sua volontà di lasciare i due incarichi e delegava il ragioniere Biscogli, funzionario del Ministero dell’Interno, assistito dal ragioniere Salvatore Prosperi, a prendere in consegna l’Ufficio di Roma e a gestire, in attesa di una definitiva sistemazione, il servizio presso l’Opera contro l’analfabetismo (ASU, Verbali delle adunanze della Società Umanitaria, 6 marzo 1924). 164 AFGG, Carteggio, Lettera di Piacentini a Gentile, 5 agosto 1925. 67 energicamente contro quella proposta, prospettando come reazione l’ipotesi di rinunciare alla delega statale e quindi alla gestione delle scuole rurali nel successivo anno scolastico 1925-26. A farsi interprete di tale stato d’animo fu il presidente dell’Animi, Piacentini, che nella sopra citata lettera a Gentile aggiunse: La nuova legge dell’opera contro l’analfabetismo (la quale con l’inclusione di numerosi rappresentanti del Ministero della Pubblica Istruzione rende il Comitato quasi una Divisione del Ministero stesso) limita, nel lavoro delle scuole, quell’autonomia degli Enti delegati, che Ella aveva giustamente voluto anche per facilitare il controllo da parte dello Stato. Data questa situazione ho conferito con vari Consiglieri di diverse ed anche opposte tendenze e si è deciso di riunire il Consiglio proponendo la rinunzia alla delega per le scuole contro l’analfabetismo165. Liberatasi dal peso della gestione scuole rurali (e insieme a queste di quelle festive e serali), l’Animi sarebbe tornata secondo gli intendimenti di Piacentini al suo «primitivo programma di lavoro», vale a dire quello di occuparsi di «asili, colonie, ambulatori, edilizia scolastica, ecc.». Del resto tale decisione, affermò in modo malizioso il segretario dell’Animi, non sarebbe spiaciuta a chi avrebbe voluto mettere le mani sulle scuole rurali dell’Italia meridionale finora gestite dall’associazione: L’associazione lascia un’organizzazione perfetta che potrà facilmente essere continuata sia dal Ministero, se vorrà gestire direttamente le scuole provvisorie, sia da altri Enti che sono sicuro non mancheranno di aspirare alla successione e che anzi l’hanno forse già sollecitata 166. La lettera con la minaccia della rinuncia alla delega colse Gentile mentre questi si trovava a Forte dei Marmi in soggiorno. Allarmato per gli intendimenti manifestati da Piacentini, il filosofo gli rispondeva il 7 agosto pregandolo caldamente di non prendere decisioni azzardate e frettolose e dichiarandosi, in qualità di consigliere dell’Animi, fermamente contrario a quella proposta: Vi prego di riflettere bene – scrisse Gentile – prima di fare un passo come questo, che in sostanza avrà un carattere politico mentre vorrete difendere l’apoliticità dell’Ass.[ociazio]ne, e non gioverà assoluta[mente] né all’Ass.[ociazio]ne, né alla scuola167. Le sue parole arrivarono troppo tardi perché il 9 agosto il consiglio dell’Animi si riunì per discutere un ordine del giorno formulato dal senatore Fortunato e da Piacentini in cui si proponeva la cessione allo Stato della delega a causa di due ragioni che venivano chiaramente esplicitate: l’invadenza politica che non permetteva più all’associazione di garantire ai suoi funzionari il diritto di professare come cittadini le proprie opinioni «senza incorrere nell’accusa di ostilità politica» e la «riforma della legge sull’opera contro l’analfabetismo, che tende[va] a sopprimere l’autonomia degli enti delegati»168. Nel corso della seduta Piacentini fece cenno anche 165 Ibid. Ibid. 167 AFGG, Carteggio, Minuta di lettera di Gentile a Piacentini, 7 agosto 1925. La lettera effettivamente spedita si trova in AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Lettera di Gentile a Piacentini, 7 agosto 1925. 168 Questo il testo integrale dell’ordine del giorno discusso e approvato dal consiglio dell’Animi il 9 agosto 1925: «L’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, che aveva accettato nel 1921 la delega dell’opera contro l’analfabetismo in Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia, e che in questi anni di attività – nei quali furono aperte circa 1.800 scuole, integrate da biblioteche e da varii corsi magistrali – seppe mantenere all’opera il suo carattere altamente 166 68 ad altri motivi che rendevano necessario compiere quella scelta, come i continui ritardi da parte del ministero nei pagamenti dei maestri, circostanza che aveva creato danni non lievi all’associazione che si era vista costretta a «vendere i suoi buoni del tesoro perdendo notevoli interessi, per anticipare più di un milione ai maestri che giustamente reclamavano il loro dovuto». Il dibattito che seguì l’intervento di Piacentini vide profilarsi immediatamente una maggioranza a favore dell’ordine del giorno, rinforzata dall’adesione di tre consiglieri dell’associazione – Benedetto Croce, Gaetano Salvemini e la signora Cammarota – che non potendo partecipare alla seduta avevano fatto conoscere per iscritto le loro intenzioni favorevoli alla proposta di Fortunato. Salvemini, in particolare, aveva scritto un lapidario quanto incondizionato messaggio di appoggio all’ordine del giorno: «accetto questa formula o qualunque altra ne consideri la sostanza». Sulla stessa linea d’onda si attestò Gallarati Scotti, persona di cui erano noti i sentimenti ostili al Regime avendo aderito pochi mesi prima al manifesto degli intellettuali antifascisti lanciato da Croce. Non potendo partecipare alla seduta del consiglio l’esponente del cattolicesimo milanese inviò una lettera di pieno appoggio alla proposta di Fortunato e di Piacentini: Io sarei favorevole a subire qualche limitazione e sacrificio pur di non rinunciare al mandato che era una vera e propria missione contro l’analfabetismo e che l’Associazione ha adempiuto egregiamente, con beneficio morale e materiale degli interessi nazionali. Ma poiché ormai non ci si può illudere di poter continuare con lo stesso spirito di indipendenza da ogni partito politico, credo doveroso di ridare il mandato nel modo più esplicito e leale, con un atto che sia anche un esempio e un monito. È necessario si sappi quali intralci partigiani minacciano un’opera che essendo essenzialmente educativa non potrebbe continuare utilmente che in uno spirito di libertà e senza ingerenze perturbatrici e mortificatrici della coscienza e della sincerità dei maestri. Il sacrificio potrà essere doloroso, ma utile al prestigio dell’Associazione per l’azione che le rimane da compiere, al di sopra di ogni polemica politica. Perciò approvo incondizionatamente l’ordine del giorno del Senatore Fortunato 169. Più cauti, invece, erano apparsi i consiglieri nonché senatori Alberto Dallolio e Ferdinando Nunziante, nelle rispettive lettere scritte al presidente dell’associazione alla vigilia della riunione del consiglio. L’ex generale dell’esercito Dallolio, infatti, pur dichiarandosi a favore della rinuncia della delega espresse delle riserve tendenti a negare che tale gesto fosse causato da ragioni educativo, vietando ai propri maestri e ai propri funzionari di portare nell’ambito della scuola l’eco delle competizioni di parte, ma difendendone il diritto di professare come cittadini le opinioni politiche consentite dalle leggi, suggerite a ciascuno dalla propria coscienza; e che nel rigido adempimento del suo mandato aveva ottenuta da parte della classe dirigente, delle autorità governative e di tutti i ministri della Pubblica Istruzione, compreso l’attuale, ripetute manifestazioni di plauso e di gratitudine, considerato che oggi ai propri dipendenti – come ne fanno fede già molti esempi – riesce difficile, senza sacrificio della propria posizione, e senza incorrere nell’accusa di ostilità politica, sottrarsi alle continue pressioni di parte, esercitate dalle corporazioni, e che, nella situazione creata loro dalla presentazione della legge sulla burocrazia – aggravata dalla riforma della legge sull’opera contro l’analfabetismo, che tende a sopprimere l’autonomia degli enti delegati – viene in realtà negata quella libertà e dignità di coscienza che è l’elemento primo di ogni attività educativa rinunzia al mandato disimpegnato in quattro anni con fervida passione italiana, non potendo derogare da quella linea di condotta, che per l’Associazione rappresenta non solo un imperativo morale, ma la ragione stessa della sua esistenza» (L’associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia nei suoi primi cinquant’anni di vita, Roma, 1960, pp. 5153). 169 AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Lettera di Gallarati Scotti al presidente dell’Animi, agosto 1925. 69 politiche ma da motivi di tipo tecnico e amministrativo che avrebbero nociuto al buon funzionamento dell’ente. Dal canto suo il marchese Nunziante sostenne che la rinuncia sarebbe stata «assai dannosa» per l’associazione e che il problema politico avanzato da Fortunato era «forse eccessivo», poiché non era compito dell’Animi tutelare la libertà di coscienza dei funzionari comandati dal ministero170. Pur tuttavia riconosceva che «allo stato delle cose non si [potesse] fare altrimenti che accogliere» la proposta del presidente. Alla vigilia del consiglio del 9 agosto, dunque, si era profilata una vasta maggioranza a favore dell’ordine del giorno che chiedeva di interrompere la gestione delle scuole rurali. L’unica voce chiaramente discorde, oltre a quella di Gentile, fu quella di Alessandro Marcucci, all’epoca ispettore centrale presso il ministero della pubblica istruzione. Le ragioni del suo dissenso provò ad illustrarle in una lunghissima lettera a Piacentini scritta prima della seduta del 9 agosto. Dopo aver dichiarato di essere «oppresso da dubbi e contrasti», Marcucci mise in guardia dai rischi che sarebbero potuti giungere, sostenendo che la rinuncia alla delega avrebbe aperto una crisi più vasta nel movimento degli enti delegati, mettendo a rischio quanto da essi creato e in particolare quanto creato «con leggi ed ordinamenti» voluti da Lombardo Radice, la cui opera «non [doveva] andare distrutta o sovvertita»171. Avrebbero così vinto i nemici delle associazioni che Marcucci identificava in quegli «Ispettori, Massoni […] di ogni professione e grado, Editori e Cartolai e Maestri» da poco tempo votatisi al fascismo, magari passando per gentiliani. L’ispettore centrale si diceva certo che nessun altro ente sarebbe stato in grado di prendere il posto dell’Animi o delle Scuole per l’Agro Romano, ma era altresì sicuro che «in 24 ore ne sorgeranno con nessuna preparazione e capacità, ma con la mania di farsi avanti, di lucrare, di raggiungere il dissolvimento dell’Opera» poiché «omuncoli, più o meno del regime, sono già pronti»172. Il futuro prospettato da Marcucci era assai nero: sarebbero stati spazzati via «uffici, direzioni, organismi», mentre le vecchie associazioni, ridimensionate ad esercitare le funzioni per cui erano nate prima di ricevere l’incarico della gestione delle scuole rurali, non avrebbero potuto svolgere degnamente nemmeno questo compito «per mancanza di credito e di fondi» e per giunta malvisti dal regime, con il «marchio dei reprobi, dei fuoriusciti». Scriveva a questo proposito: Risultato: distruzione del nostro lavoro, inazione nostra, impronta di lotta al regime, impresso a quel pochissimo che le nostre Associazioni potranno fare, con questa gravissima conseguenza, che Associazioni, puramente culturali e lontane dalla ogni politica, per finalità statutarie e per volontà dei loro migliori banditori e dei loro fondatori, pel nome che presso il mondo esterno si sono procacciato, saranno fatalmente portate a fare, come che sia, opera politica, snaturano quindi sé stesse 173. Marcucci e Gentile non furono gli unici ad essere assenti al consiglio del 9 agosto. Mancarono, anche a causa del fatto di essere in piena estate, Gallarati Scotti, Croce, Salvemini, Poggi, Cammarota, Dallolio, Catenacci, Gosio e il presidente onorario Fortunato. Erano presenti, invece, il presidente effettivo dell’Animi, Enrico Rusconi, il vice Bonaldo Stringher, i consiglieri Giuliana Benzoni, Elsa Dallolio, Lombardo Radice, Zanotti Bianco, il consigliere segretario Piacentini, i sindaci Alessandro Aschieri e Giulio Rossi, oltre al segretario Nencini174. 170 Ivi, Lettera di Nunziante a Piacentini, 7 agosto 1925. Ivi, Lettera di Marcucci a Piacentini, 6 agosto 1925. 172 Ibid. 173 Ibid. 174 AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Verbale del consiglio dell’Animi della seduta del 9 agosto 1925. 171 70 Dopo l’illustrazione dell’ordine del giorno da parte di Piacentini si svolse un animato dibattito. In un lungo ed energico intervento Zanotti Bianco difese con forza l’autonomia dell’associazione e ricordò come i suoi fondatori la vollero «indipendente dai partiti politici e dalle clientele». Rammentò, inoltre, un episodio risalente a pochi anni prima che confermava questa linea di indirizzo vale a dire quando il marchese Nunziante, volendosi candidare alla Camera dei Deputati, si era dimesso da presidente dell’Animi per evitare ogni strumentalizzazione politica. Ma il passaggio più importante del discorso di Zanotti Bianco fu quello in cui negò che la rinuncia alla delega fosse causata solo da problemi di natura tecnica ed amministrativa, come avevano detto Dallolio e Nunziante, ma giustificata in primo luogo da ragioni di tipo politico e morali che richiamavano tutti a reagire con fermezza. Disse a questo proposito: Non sono soltanto i Commissari Regi a pretendere l’espulsione, dalle nostre scuole, di maestri diligenti, solo perché non iscritti al partito dominante, ma è il governo stesso attraverso le corporazioni e i suoi rappresentanti ad esercitare sui nostri maestri, e più ancora sui nostri ispettori, una pressione politica, considerando aperta ostilità il rifiuto di iscrizione alle corporazioni col conseguente tesseramento. Già più documenti possediamo di queste coercizioni di coscienza e relativo rassegnato ad amaro assoggettamento dei coartati per non pregiudicare l’avvenire proprio della propria famiglia. – Crisi individuali – ha detto un consigliere – che non devono interessare il Consiglio. – Perché preoccuparci delle nuove opinioni, ha soggiunto un altro, se non ci siamo preoccupati delle loro opinioni passate? No. L’Associazione a mio parere, oggi come ieri non si preoccupa affatto delle opinioni politiche onestamente professate dai suoi dipendenti: le ignora come lascia ignorare le proprie, tanto è vero che molti maestri ritengono di farci piacere declinando – in lettere ed in riunioni – la loro qualità di fascisti, mentre altri, per criticarci dei ritardati pagamenti, dovuti alla lentezza della Corte dei Corti, hanno creduto bene di rivolgersi ai giornali di opposizione. Ma quando una opinione, quella del partito dominante, viene imposta con una perentorietà ed intransigente violenza che mette il funzionario davanti al triste dilemma di aderire o di rovinarsi la carriera, noi ci domandiamo se le nostre preoccupazioni non siano, prima di essere politiche, pure nel senso più generico della parola, essenzialmente morali, e se non abbiamo il dovere di denunciarle, affrontando tutte le conseguenze di questo nostro atto di coscienza 175. Dopo l’infuocato intervento di Zanotti Bianco, più cauto fu il vicepresidente, Bonaldo Stringher, il quale disse «che la parte politica del problema non esiste[va] per l’Associazione», mentre sussistevano «problemi di ordine materiale» che non consentivano il buon funzionamento delle scuole. Parole che suscitarono allora l’intervento altrettanto fermo e deciso di Lombardo Radice, per nulla convinto che si fosse di fronte ad una questione di natura tecnica, ma ad una bella e buona limitazione della libertà dei maestri che non poteva essere giustificata. Disse il pedagogista siciliano: Le ragioni morali che hanno mosso molti Consiglieri a chiedere la rinuncia del mandato, hanno trovato valido appoggio nelle difficoltà tecniche e materiali, ma restano a [mio] parere esse ragioni morali sempre in primo piano ed hanno valore prevalente. Ogni sacrificio […] ed ogni limitazione poteva […] tollerarsi, se fosse stata garantita la libertà delle nostre scuole, se noi potessimo senza disagio nominare e allontanare i maestri, solo guardando alle loro benemerenze o malefatte scolastiche, al di fuori di altri titoli […]. Può ottenersi questo? Si può ancora fare? [Io] dubito di no176. 175 Il testo dell’intervento è riportato in Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), Roma, Associazione per il Mezzogiorno, 1980, p. 225. 176 AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 18, Verbale del consiglio dell’Animi della seduta del 9 agosto 1925. 71 Si deve a questo proposito aggiungere che le parole di Lombardo Radice acquistano un rilievo particolare perché per lui la libertà del maestro era, innanzitutto, uno dei capisaldi della sua visione pedagogica neoidealista, tale per cui l’educatore non doveva subire limitazioni che inibissero o mutilassero il suo spirito e la sua autonomia; se interventi coercitivi esterni non erano tollerabili a suo modo di vedere nemmeno sul piano didattico e pedagogico, a maggior ragione essi erano intollerabili se provenivano dalla politica. Su questo punto, è giusto ricordare, Lombardo Radice aveva fondato tutta la sua personale battaglia contro l’invadenza del fascismo nella scuola, dopo che, dimessosi polemicamente da Direttore generale dell’istruzione elementare all’indomani dell’omicidio Matteotti nel giugno 1924, aveva preso a pubblicare sulla sua rivista «L’Educazione Nazionale» alcuni articoli che denunciavano lo scivolamento della scuola sempre più sul terreno della lotta politica e la sua trasformazione in un organo al servizio di una sola parte: circostanza che lo faceva gridare allo scandalo poiché non si poteva inquadrare il fanciullo «nelle lotte di parte» se non svilendolo umanamente e rendendolo niente altro che «una caricatura di fanciullo»177. 177 G. L.[ombardo] R.[adice], Che succede?, «L’Educazione nazionale», ottobre 1925, pp. 39-40. In questo articolo scrisse: «Noi ricordiamo perfettamente una circolare del ministro Gentile colla quale si ricordava ai funzionari degli uffici scolastici il loro dovere di tenersi al di sopra delle competizioni dei varii gruppi magistrali e sindacali e si faceva loro strettissimo obbligo di astenersi da propaganda per un sindacato anziché per un altro, per serbarsi liberi e superiori al sospetto di partigianeria. Per un provveditore i maestri, i direttori e gli ispettori sono buoni o cattivi educatori. E si può trovare buono o cattivo un educatore senza guardargli la tessera. La tessere imposta (e accettata per imposizione o richiesta per paura di cadere in disgrazia, o…di non ottenere una promozione) è, se mai, testimonianza di viltà di chi la esibisce. L’insegnante o il funzionario che si maschera di nero, vale quanto e meno di quello che si mascherava di verde, quando il verde funzionava da colore protettivo. E infatti se ne sono viste di…conversioni degne di riso, e conversioni degne di schifo. Più numerose, certo, delle conversioni degne di pietà! Quella circolare Gentile, che ai suoi tempi suscitò le ire degli organi del nuovo sindacalismo (il sindacalismo coattivo) per quanto ci consta non è mai stata abrogata. Vero è che c’è un progetto di legge col quale si promette il licenziamento…per incompatibilità a coloro che manifestano sentimenti non conformisti. Ma questa, se mai, doveva essere una ragione di più per astenersi dalla propaganda fatta da autorità scolastiche in favore della corporazione per la scuola. Oggi, con quel progetto di legge quella propaganda autorevole equivale a una vera e propria sottintesa (quando è sottintesa) MINACCIA. – O vi iscrivete, o…c’è per voi la legge sulla burocrazia, già approvata dalla Camera e da approvare al Senato. Così, così si è rispettata la dignità del maestro e del funzionario della scuola! E c’è da giurare che il 90% delle iscrizioni sono nate dalla paura e sono state sollecitate facendo assegnamento sulla paura. Chi specula sulla viltà o sul bisogno di trepidi padri di famiglia che vogliono…assicurarsi la pace, è un diseducatore. Ricordo ancora che quando il segretario della corporazione fascista della scuola – erano tempi in cui tutti speravano e credevano nella normalizzazione – si -presentò con una commissione al direttore generale dell’istruzione primaria ebbe da questi un ammonimento: – Contentatevi di essere pochi! Voi dovete frenare la voglia di far numero. Dovete affermarvi soltanto per l’intrinseco valore del bene che saprete promuovere, in gara colle altre associazioni. Allora, dal ministero, auspice Gentile, venivano ugualmente incoraggiamenti a tutte le associazioni di educatori, così alla «Tommaseo» che all’Unione Magistrale (finché questa non prese l’abbrivio delle insolenze, coi suoi dirigenti), e alla Associazione dei direttori didattici. A tutte si davano parole chiare e cordiali, ora incoraggianti ora severe; con tutte si corrispondeva, considerandole forze da dirigere verso il bene della scuola […] Era quella la pratica liberale del ministro Gentile, che faceva onore al filosofo e anche al fascista, il quale non voleva disonorare il 72 Dopo questa animata discussione si giunse al voto: 10 consiglieri si erano dichiarati totalmente a favore all’ordine del giorno, 4 favorevoli ma con qualche riserva, 2 fermamente contrari. Fu proprio per una questione di cautela che nella stessa seduta alcuni consiglieri che avevano votato il documento pur manifestando qualche dubbio, proposero di modificarlo perché «non suonasse sfiducia al Ministero e quindi potesse assumere un carattere politico». A questo punto Zanotti Bianco chiese di non ritirare l’ordine del giorno ma di invitare il presidente onorario Fortunato a recarsi personalmente dal ministro per spiegargli a voce le loro ragioni. Così avvenne e una delegazione si recò da Fedele il quale però insistette perché l’Animi non riconsegnasse la delega; dal canto suo Gentile promise il suo interessamento affinché venissero introdotti alcuni correttivi alla legge. Ricevute tali rassicurazioni l’associazione fece un passo indietro dichiarandosi disposta a ritirare le proprie dimissioni, non prima però di aver inviato, il 20 agosto, un pro-memoria al ministro contenente alcune osservazioni critiche alla proposta di legge. Il 28 agosto Fedele ringraziava Gentile per essere riuscito a convincere i consiglieri dell’Animi; al contempo affermava che l’associazione non avrebbe potuto riconsegnare la delega, sottraendosi ad un obbligo di legge, e promise genericamente di voler studiare «il modo di accontentare, almeno in parte, i loro desideri»178. In realtà si doveva trattare di un impegno destinato ad essere disatteso visto che pochi giorni dopo veniva varato il decreto legge 4 settembre 1925, n. 1722, che sotto la dizione «concernente disposizioni per l’istruzione elementare» riservava alcuni articoli alla questione delle scuole provvisorie e del Comitato contro l’analfabetismo in cui non si faceva nessuna concessione alle richieste dell’Animi ma al contrario si proseguiva sulla strada dell’accentramento dei poteri in capo al governo. La nuova composizione del consiglio, infatti, risultava fortemente trasformato con l’immissione di cinque funzionari ministeriali (il Direttore generale dell’istruzione elementare che assumeva la funzione di presidente, un funzionario della stessa direzione nominato dal ministro, un ispettore centrale per l’istruzione elementare, un rappresentante del ministero del tesoro e uno del ministero delle finanze), a fronte dei cinque esponenti degli enti delegati, già previsti in precedenza. Inoltre il decreto precisava che se in una votazione si sarebbe verificato un caso di parità allora avrebbe prevalso il voto del presidente. Il risultato di tutto ciò era che il potere di controllo del governo ne risultava rafforzato e consolidato. A rendere ancora più stretta la morsa dei controlli sulle associazioni vi concorrevano altre due misure previste dalla nuova legge: in primo luogo veniva stabilito che l’ispettore centrale per l’istruzione elementare, oltre ad essere membro del consiglio, aveva «funzioni ispettive tecniche presso gli Enti delegati», circostanza che gli permetteva di verificare di sua iniziativa l’attività svolta dalle associazioni; in secondo luogo era previsto che i cinque rappresentanti degli enti delegati venissero scelti direttamente dal ministro della pubblica istruzione sulla base di due nomi proposti da ciascuna istituzione. In conclusione, le modifiche apportate nel 1925 appesantirono la struttura del Comitato e incrementarono i controlli sulle sue attività e su quella svolta dalle singole associazioni a tutto vantaggio del ministero della pubblica istruzione e, quindi, del governo. suo partito esercitando coazioni […] Questo e non altro, è lo spirito della riforma della scuola elementare. La riforma vuole la scuola dei fanciulli; fanciulli attivi in una scuola attiva. Il fanciullo inquadrato nelle lotte di parte, è una caricatura di fanciullo. Il maestro che non dimentica il suo partito facendo scuola ai fanciulli, è una caricatura di maestro. Il direttore e l’ispettore che guardano alla tessera e non all’anima del maestro capace di destare le forze spirituali ingenue e serene dei fanciulli, sono dei mestieranti ignobili, giudicati tali anche dai fascisti come Gentile». 178 AFGG, Carteggio, Lettera di Fedele a Gentile, 28 agosto [1925]. 73 A questo punto l’Animi, l’associazione che più di tutte si era opposta alle modifiche apportate da Fedele, decise di confermare la drastica decisione di interrompere la gestione delle scuole rurali. Il 27 novembre 1925, infatti, fu inviata al ministro una lettera in cui prendendo atto che non era stata data ancora alcuna risposta al pro-memoria inoltrato ad agosto, l’associazione confermava di volersi ritirare con lo scadere dell’anno scolastico 1925-26. Ma questa volta la risposta del ministro fu categorica: o l’associazione avrebbe mantenuto la delega o il suo consiglio sarebbe stato sciolto e commissariato. Sebbene messi in difficoltà i dirigenti dell’Animi confermarono tuttavia le loro volontà e per il 15 dicembre fu convocato un nuovo consiglio. Marcucci, che era stato sempre contrario alla cessione della delega, mandò le proprie dimissioni da consigliere proprio in quel giorno e quindi non partecipò alla seduta179. Più dubbioso apparve anche il marchese Nunziante che si era dichiarato a favore dell’ordine del giorno Fortunato ad agosto, pur tra qualche riserva; il 14 dicembre, in vista del consiglio, scrisse una lettera in cui si espresse chiaramente contro la rinuncia alla delega «sia perché in questo campo la nostra Associazione ha fatto opera altamente benefica del popolo del Mezzogiorno e sia perché sembrerebbe antipolitica»180. Riunitosi il consiglio, esso non poté fare altro che prendere atto delle volontà di riconsegnare la delega allo Stato. Fu in quella circostanza che Gentile riuscì a convincere tutti i presenti dell’opportunità di inviare in udienza presso il ministro della pubblica istruzione una delegazione dell’associazione, mantenendo intatta la rinuncia. Incaricati di svolgere questa missione furono il presidente insieme a Piacentini e allo stesso Gentile181. Finalmente in seguito a questo evento e all’energico intervento del filosofo, il ministro Fedele nominò tra la fine del 1925 e gli inizi del 1926 una commissione incaricata della revisione delle norme contenute nel decreto legge del settembre passato: sembrava, quindi, una parziale vittoria delle associazioni, e dell’Animi in particolare, che vedevano così accolte le proprie istanze. Non a caso la notizia che il governo si apprestava a rivedere quelle norme veniva salutata come una decisione saggia e opportuna in un articolo apparso su «La nuova scuola italiana», la rivista diretta da Codignola, uno dei principali animatori dell’entourage gentiliano e capo dell’Ente di Cultura che gestiva le scuole rurali della Toscana e della Romagna. Nel numero del 10 gennaio 1926, infatti, il periodico esprimeva soddisfazione poiché al nuovo Comitato era stato dato «un assetto più organico e completo […] inserendolo nell’Amministrazione Scolastica Statale», ma al contempo rivendicava agli enti delegati «una certa libertà di agire nelle zone assegnate senza il continuo ed assoluto intervento delle Autorità burocratiche», al fine di evitare «inutili impacci» e «lungaggini»182. Frattanto mentre si svolgevano le polemiche e le discussioni appena descritte, il Comitato contro l’analfabetismo era rimasto privo di organismi direttivi, poiché non si era dato corso all’applicazione delle norme del settembre 1925 relative alla composizione del consiglio. Per ovviare a questo problema veniva insediato, con decreto firmato il 17 gennaio 1926, il nuovo consiglio del Comitato, riformulato secondo quelle norme ora messe in discussione, vale a dire con cinque membri provenienti dai ministeri e cinque dalle associazioni delegate. Esso risultò formato da Gustavo Nardi in qualità di reggente la Direzione generale dell’istruzione elementare, 179 AANIMI, Ufficio di Roma, Pratiche e corrispondenze, fasc. 19, Lettera di Marcucci al presidente dell’Animi, 15 dicembre 1925. 180 Ivi, Lettera di Nunziante a Piacentini, 14 dicembre 1925. 181 Ivi, Verbale del consiglio dell’Animi della seduta del 15 dicembre 1925. 182 Un nuovo ordinamento del Comitato contro l’analfabetismo?, «La nuova scuola italiana», n. 14, 10 gennaio 1926, p. IV. 74 Alessandro Marcucci come ispettore centrale per le scuole elementari, Carlo Calcagni in qualità di capodivisione presso il ministero dell’istruzione, Corrado Marchi per il ministero dell’Economia nazionale, il dott. Bettoncini ispettore al ministero delle finanze, il senatore Montresor in rappresentanza dell’Umanitaria, Giuseppina Novi Scanni per il Consorzio Emigrazione e Lavoro, Gaetano Piacentini per l’Animi, Francesco Acerbi per Scuole dei contadini dell’Agro Romano e delle paludi pontine, Ernesto Codignola per l’Ente nazionale di cultura183. Intanto proseguivano i lavori della commissione incaricata di modificare la legge del settembre 1925. Formata dallo stesso Gentile, con funzioni di presidente, dal capo di gabinetto del ministro Fedele, Luigi Trivelli, dal direttore generale dell’istruzione elementare Gustavo Nardi, oltreché da Piacentini e da Marcucci, essa lavorò fino alla primavera184. Il 25 aprile 1926 la rivista codignolana dava la notizia che la commissione aveva concluso i suoi lavori e presentato al ministro un programma in 23 articoli che prevedeva due progetti in particolare: da una parte la trasformazione di circa 9.000 mila scuole finora gestite dallo Stato in scuole non classificate, da realizzare nell’arco di un decennio, dall’altra l’investimento delle economie realizzate attraverso le «sclassificazioni» in un programma di edilizia scolastica rurale e nello sdoppiamento di scuole con più di 60 alunni185. Nessuna traccia delle correzioni auspicate dai consiglieri dell’Animi c’erano però nel nuovo testo che venne tradotto pochi mesi dopo con il R.D. 20 agosto 1926 n. 1667, a cui si aggiunse l’ordinanza 15 dicembre 1926. Non solo non ci furono i miglioramenti auspicati, ma sulla base di questa nuova normativa veniva addirittura abolito il Comitato contro l’analfabetismo e ridotta l’autonomia gestionale e amministrativa degli enti delegati, che finirono sotto la vigilanza diretta del ministero: la battaglia intrapresa dai consiglieri dell’Animi si era conclusa nel peggiore dei modi. Si pensi, ad esempio, che era previsto che le autorità scolastiche ispettive e direttive incaricate delle visite nelle scuole gestite dalle associazioni, avrebbero dovuto riferire direttamente al Provveditore il quale, se necessario, avrebbe informato gli enti (art. 5); i Provveditori, inoltre, avrebbero dovuto riferire al ministero annualmente e ogni volta che lo avessero ritenuto opportuno, sull’operato delle associazioni, in base alle notizie e ai documenti da queste inviati e agli accertamenti compiuti (art. 6); entro il 15 luglio gli enti sarebbero stati obbligati a presentare al ministero il piano di lavoro per l’anno scolastico successivo (art. 7); il ministero avrebbe esercitato il controllo sull’azione delle associazioni, «esaminando registri e documenti negli Uffici degli Enti stessi» (art. 8); alle date del primo novembre, del primo gennaio e del primo marzo le associazioni avrebbero dovuto trasmettere al ministero o al Comune l’elenco nominativo delle scuole non classificate (art. 13). In conclusione, con la legge del 1926 le maglie del controllo ministeriale sull’operato degli enti delegati si fecero molto più strette. Né Fedele esitò a negare questo aspetto come appare da una sua relazione scritta contestualmente al varo del nuovo provvedimento: questo mirava, disse il ministro, al «controllo diretto tecnico ed amministrativo sull’azione culturale degli Enti delegati chiamati a più ampia collaborazione dallo Stato» e a questo fine concorreva anche l’abolizione del «Comitato contro l’analfabetismo, organo 183 Il nuovo Comitato contro l’analfabetismo, «La nuova scuola italiana», n. 16, 24 gennaio 1926, pp. IIIIV. 184 Riforma del Comitato contro l’Analfabetismo, «La nuova scuola italiana», n. 21, 28 febbraio 1926, p. IV. 185 Il nuovo ordinamento delle Associazioni culturali, «La nuova scuola italiana», n. 28, 25 aprile 1926, p. II. 75 tecnico e amministrativo intermedio fra gli Enti e il potere centrale che, utile nei primi tempi […] ora […] avrebbe potuto creare interferenze e dualismi»186. Ma si deve a questo proposito precisare che il decreto firmato da Fedele introduceva novità non solo riguardanti le associazioni, ma anche in ordine alla definizione di scuole rurali: la vecchia dizione di «scuole provvisorie», adottata dalla Riforma Gentile, venne sostituita da quella di «scuole non classificate». Esse comprendevano tutte quelle aperte laddove un solo insegnante poteva provvedere ai bisogni educativi della popolazione, distribuita in un territorio con un raggio di due chilometri, e con un numero di alunni frequentanti non inferiore ai quindici e non superiore ai sessanta. La gestione di tali scuole «non classificate», a cui si aggiungevano scuole serali e festive, venne affidata per delega dal ministero, e non più dall’abolito Comitato contro l’analfabetismo, a dieci enti, di cui sette che avevano fino ad allora gestito le scuole provvisorie: la Società Umanitaria per il Veneto e la Venezia Giulia; il Gruppo d’azione per le Scuole del popolo per la Lombardia; il Comitato ligure per l’educazione del popolo per la Liguria; l’Ente Nazionale di Cultura per la Toscana e l’Emilia; le Scuole per i contadini dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine per il Lazio, l’Umbria, l’Abruzzo, le Marche; il Consorzio Nazionale di Emigrazione e Lavoro per la Campania e il Molise; l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia per la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. Alle associazioni già esistenti se ne aggiunsero altre tre: l’Ente pugliese di cultura che, sebbene fosse sorto nel 1923 al fine di organizzare corsi serali per le maestranze nella provincia di Bari, riceveva ora anche la delega per la gestione delle scuole rurali, oltreché serali e festive, in Puglia dietro il volere del fascismo locale, sottraendo tale compito alla Società Umanitaria di Milano187; all’Opera Nazionale di Assistenza per l’Italia Redenta (Onair), associazione fondata nel 1919 sotto il patronato delle Duchessa d’Aosta per fornire assistenza morale e materiale alle popolazioni delle nuove province annesse al Regno dopo la prima guerra mondiale e che fino ad allora aveva gestito in prevalenza asili d’infanzia e offerto assistenza sanitaria, venne assegnata la delega in Venezia Giulia e in Trentino (Venezia Tridentina)188; il Gruppo d’azione per le Scuole rurali per il Piemonte, associazione ACS, Archivio Pietro Fedele, b. 6, Relazione di Fedele, s.d. ma 1926. Le manovre volte a creare una nuova associazione culturale, ma di chiara fede politica, che prendesse in gestione le scuole rurali della Puglia, erano in corso già l’anno precedente alla consegna della delega, come testimonia un articolo pubblicato da «I diritti della scuola» il 30 settembre 1925 in cui si diceva: «Un Ente di coltura, di carattere, crediamo, fascista, si è costituito anche nella Puglia, che fu affidata fino ad ora all’Umanitaria. La sostituzione del nuovo ente all’Amministrazione milanese non ha potuto aver luogo quest’anno perché la legge vigente prescrive che le associazioni delegate possono essere sostituire solamente alla fine del triennio, previa diffida data un anno prima» (Il Comitato contro l’analfabetismo, «I diritti della scuola», n. 40, 30 settembre 1925, p. 631). Notizie sull’attività dell’Ente in M. Viterbo, L’opera educativa dell’Ente pugliese di coltura in Puglia e Lucania, estratto da «Japigia. Rivista pugliese di archeologia, storia e arte», III, 4 (1932). 188 L’Onair andò ad operare nei territori dove durante la dominazione austriaca aveva svolto la sua attività la Lega Nazionale, alla quale andò progressivamente sostituendosi: alla data del gennaio 1926 l’Onair aveva già assorbito tutto il patrimonio della Lega Nazionale in Venezia Tridentina, mentre in Venezia Giulia la Lega continuava ancora ad funzionare. L’Onair nel 1919 gestiva due giardini d’infanzia che nel 1926-27 erano 23 nella Venezia Giulia e 47 nella Venezia Tridentina. Per effetto della delega nel 1926-27 l’Onair gestì complessivamente 64 scuole rurali che l’anno successivo salirono a 192; ad esse si aggiungevano scuole serali e scuole festive. L’Onair era stato eretto in ente morale con R.D. 23 ottobre 1924, n. 1803 (G. Scarascia, L’Opera Nazionale di Assistenza all’Italia redenta, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, gennaio-febbraio 1926, pp. 31186 187 76 fondata a Torino nel marzo 1923 per iniziativa di Giovanni Vidari con lo scopo di assistere nell’azione educativa i maestri delle scuole rurali del Piemonte e delle valli alpine «per incuorarli ed assisterli nell’azione educativa», di istituire una biblioteca circolare per i maestri, di aiutarli nel rifornimento di materiale scolastico, ricevette la delega per il Piemonte e per le valli alpine (odierna Valle d’Aosta)189. Frattanto il processo di «sclassificazione» delle scuole rurali, iniziato sotto Gentile, subì una forte accelerazione in virtù delle nuove disposizioni. Se nell’anno scolastico 1926-27 le scuole non classificate in tutta Italia assommavano a 3.479, nell’anno successivo ad esse si aggiunsero altre 1.264 scuole, di cui la gran parte, ben 1.164, erano state fino ad allora scuole classificate e solo una minima parte, 100, erano di nuova istituzione190. Tale processo non accennò a modificarsi nei tempi successivi: nell’anno 1930-31, infatti, le scuole rurali gestite dagli enti salirono a quota 5.676. Al contempo si cercò di intensificare l’opera per la costruzione di nuove scuole di campagna, investendo i risparmi ottenuti e stimabili in circa mille e 300 lire per ogni scuola trasformata in una non classificata, in ossequio a quanto stabilito dalla legge del 1926. A tali somme si poteva aggiungere un sussidio massimo dello Stato di 25.000 lire per ogni edificio costruito, a patto che si rispettassero certi requisiti: ogni scuola doveva avere un giardino o orticello, la proprietà sarebbe stata del Comune, il progetto doveva essere approvato dal ministero, l’edificio doveva rispettare precise disposizioni di tipo tecnico191. Secondo uno studio pubblicato nel 1929 da Alessandro Marcucci le economie realizzate nei primi quattro anni dall’introduzione di tale normativa erano state pari a circa 10 milioni e 752 mila lire ma solo quelle dell’anno 1926-27, pari a un milione e 387.200 lire erano state iscritte a bilancio e ripartite fra i vari enti192. Pur potendo disporre solo di questa prima parte di denaro, ai primi mesi del 1929 erano stati costruiti o erano in costruzione 55 edifici scolastici in tutto il territorio nazionale. Dopo aver riorganizzato nel modo appena descritto il ramo dell’istruzione rurale, il Regime portò avanti nella seconda metà degli anni Venti la sua opera di penetrazione all’interno degli enti delegati, indebolendone l’azione o allontanandone i dirigenti di idee non fasciste, oppure sostituendoli con altri organismi di chiara fiducia politica. 41; L’attività dell’Opera Nazionale di assistenza all’Italia redenta, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, febbraio 1929, pp. 97-101). 189 Notizie sull’attività dell’associazione in Gruppo d’azione per le scuole rurali del Piemonte. Relazione sull’opera compiuta negli anni 1923-24, 1924-25, Torino, Tipografia Roggero & Tortia. L’ente venne eretto in ente morale con R.D. 17 settembre 1925, n. 2382 («Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione », n. 6, 9 febbraio 1926, p. 238-241). 190 I dati sono tratti dalla tabella II pubblicata in G. Ruberti, Fondamento e caratteri della scuola elementare attraverso la più recente indagine statistica, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, gennaiofebbraio 1928, p. 43. 191 Ogni aula doveva misurare almeno 40 metri quadrati; le finestre che si aprono da un solo lato dovevano essere almeno due e abbastanza ampie, fin quasi a toccare il soffitto; l’altezza dell’aula doveva essere in relazione all’altimetria del luogo e all’ampiezza dell’aula stessa; il cesso doveva essere preceduto da un'altra stanza e avere l’accesso dal vestibolo; in mancanza di acqua corrente o di un pozzo si doveva provvedere ai servizi igienici con una cisterna; l’edificio doveva comprendere, oltre l’aula, il vestibolo, il cesso e l’anticesso, almeno una camera di abitazione con annessa cucina e cesso per l’insegnante. Cfr. La “Casa della Scuola” nelle campagne, «Annali dell’istruzione elementare», n. 3-4, agosto 1929, pp. 54-77. 192 I risparmi quantificati per l’anno 1926-27 erano di un milione e 387.200 lire, per l’anno 192728 di due milioni e 704.000 lire, per l’anno 1928-29 di tre milioni e 330.600 lire e per l’anno 192930 di 3 milioni e 330.600 lire (Ibid.). 77 Nel dicembre 1925, ad esempio, il pedagogista Giovanni Vidari che da due anni ricopriva la carica di presidente del Gruppo di Azione per le scuole rurali del Piemonte, veniva fatto oggetto di un attacco da ambienti fascisti torinesi in un articolo pubblicato sul giornale «Il Regno» nel quale si intimava alle autorità scolastiche di non consegnare le scuole provvisorie alle cure dell’ente da lui presieduto. Si deve a questo proposito dire che Vidari non era certo un antifascista e che godeva presso il ministro Fedele di una certa stima confermata dal fatto che questi nel gennaio 1925 lo aveva nominato presidente della Commissione centrale per l’esame dei libri di testo e che pochi mesi dopo aveva espresso un voto favorevole alla concessione della medaglia d’oro ai benemeriti alla Pubblica Istruzione nei suoi confronti193: già in questa circostanza «Il Regno» aveva criticato la scelta del ministro poiché Vidari veniva accusato di essere un «professore di cui è arcinota l’attività antifascista». Di fronte al secondo attacco mossogli dal giornale torinese e da alcuni ambienti del fascismo, Vidari fu costretto a dimettersi da presidente dell’associazione, dietro anche l’invito del provveditore agli studi del Piemonte194. Una vicenda che amareggiò Vidari, come ebbe modo di raccontare a Lombardo Radice in una lettera del 24 marzo 1926 in cui gli accennò brevemente della sua defenestrazione195. Accanto all’allontanamento di persone non gradite, iniziò una campagna di delegittimazione degli enti delegati ad opera dei settori più oltranzisti del fascismo, come l’Associazione Nazionale Insegnanti Fascisti (Anif), che non condividevano la scelta operata dal governo di affidare ad organismi privati la gestione di un’importante settore dell’istruzione elementare. Il 15 aprile 1927, ad esempio, su «La scuola fascista», organo dell’Anif, venne pubblicato un articolo in cui si criticava l’eccessivo potere consegnato agli enti delegati e veniva riaffermato il principio secondo il quale «lo Stato fascista non deve delegare ad alcuno, qualsiasi benemerenza abbia, quello che è il suo compito» poiché la «scuola elementare è il suo territorio privilegiato, senza diritto a condominio»196. Talvolta le critiche dell’Anif si appuntarono su altri aspetti, come le peggiori condizioni salariali dei maestri delle scuole non classificate, rispetto a quelle di cui godevano i loro colleghi delle scuole gestite direttamente dallo Stato. Era questo il senso, ad esempio, di un altro attacco portato da «La scuola fascista» nel numero del primo marzo 1928 in cui si leggeva: Vi sono in Italia ormai due categorie di maestri; quelli delle scuole amministrate dai comuni o dallo Stato, per i quali vigono norme giuridiche e trattamento economico normali; gli altri, dipendenti dalle Associazioni delegate, per i quali lo stato giuridico ed economico non esiste. Sono questi sotto l’imperio di norme interne a ciascuna Associazione, non hanno stabilità, non possono ricorrere ad alcuno per avere giustizia, debbono accettare un tozzo di pane che viene largito, debbono sottomettersi alla disciplina di funzionari irresponsabili, molto spesso improvvisati, che non dipendono dal Ministero; sono insomma dei reietti, una categoria di maestri in stato di minorità economica e morale197. 193 A. Ascenzi, R. Sani (a cura di), Il libro per la scuola tra idealismo e fascismo: l’opera della Commissione centrale per l’esame dei libri di testo da Giuseppe Lombardo Radice ad Alessandro Melchiori (1923-1928), Milano, V&P, 2005, pp. 21-22. 194 Il fatto è raccontato dallo stesso Vidari nel proprio diario pubblicato in G. Chiosso, Educazione e valori nell’epistolario di Giovanni Vidari, Brescia, La Scuola, 1984, pp. 218-220. 195 AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Vidari a Lombardo Radice, 24 marzo 1926. 196 Sclassificazione di scuole, «La scuola fascista», 15 aprile 1927, p. 6. 197 La crisi del maestro e le scuole sclassificate, «La scuola fascista», n. 43, 1 marzo 1928, p. 2. L’articolo era firmato con lo pseudonimo «Veritas». 78 Polemiche alle quali si incaricò di rispondere «La nuova scuola italiana», la rivista legata all’Ente nazionale di Cultura, rimasta l’ultima frontiera dal punto di vista giornalistico a difesa degli enti, insieme a «Il Gruppo d’Azione», il bollettino del Gruppo di Azione delle Scuole del Popolo di Milano. In una serie di articoli pubblicati nella primavera del 1928, infatti, la rivista codignolana ricordava come le associazioni nascessero dalla Riforma Gentile, che era stata definita da Mussolini «la più fascista delle riforme», circostanza che rendeva incomprensibili le critiche di chi agitava l’argomento secondo il quale esse non agissero dietro esplicita volontà dello Stato o, peggio, che manifestassero simpatie antifasciste: Va facendosi di moda – era scritto nell’articolo pubblicato il 18 marzo 1928 – dar addosso agli enti culturali delegati alla gestione delle scuole rurali uniche miste […] Si dice: scuole prese in appalto a cottimo chiuso; maestri trattati a mezza razione e cioè pagati a giornata come i braccianti delle campagne; azione scolastica antieducativa e antifascista198. Veniva, inoltre, negato che i maestri fossero «in balia di padroni dispotici» poiché sebbene essi non godessero delle garanzie giuridiche dei loro colleghi delle scuole classificate, tuttavia non erano sottoposti a conferma o trasferimento da una sede all’altra in modo arbitrario ma con «assoluta equità». Quanto al trattamento economico, si ammetteva che il compenso annuo – circa 5.600 lire per una classe di 25 alunni – era esiguo, ma uguale al salario dei maestri di prima nomina assunti per concorso nelle scuole classificate. Ad esso si aggiungeva, inoltre, l’alloggio gratuito o una indennità equivalente pari a un decimo dell’assegno annuo, e cioè di circa 500 lire199. Non meno facile fu la vita per l’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno. All’inizio del 1926 essa veniva suo malgrado coinvolta in un’aspra polemica tra Lombardo Radice e alcuni gentiliani schieratisi ormai saldamente su posizioni fasciste, a motivo dei ripetuti articoli critici verso l’Anif scritti dal pedagogista siciliano su «L’Educazione Nazionale». A rispondere a Lombardo Radice fu «L’Educazione politica», la rivista diretta dallo stesso Gentile, in un editoriale firmato «La redazione» in cui il pedagogista veniva accusato di «antifascismo accademico» e di essere un «campione del moralismo aventiniano». In chiusura dell’articolo veniva tirata in ballo l’Animi ed accusata di «insipido e ridicolo laicismo», circostanza che spinse Piacentini a chiedere spiegazioni allo stesso Gentile del perché di questa strana accusa, visto che nelle loro scuole l’insegnamento religioso era stato sempre praticato, che l’Animi aveva introdotto il crocifisso fin da quando assunse la delega dallo Stato e che furono inserite pagine di carattere religioso nel «suo primo libretto di testo per le letture che fu scritto (proprio da Lombardo Radice) avanti la riforma scolastica»200. Piacentini non lasciò di far notare a Gentile, infine, come 198 F. Corradini, La scuola rurale unica mista, «La nuova scuola italiana», n. 25, 18 marzo 1928, pp. 754-756. 199 Ivi, p. 755. La cifra di 5.600 lire era calcolata tenendo presente che l’insegnante riceveva 25,57 lire a lezione (diaria) e che le lezioni erano 180 all’anno; che al maestro spettavano 27, 47 lire per ogni bambino promosso (premio); e che all’importo totale si aggiungeva il Monte Pensione pari all’8% delle diarie. In conclusione, ipotizzando una classe di 25 alunni, l’importo per le diarie era pari a 4.548, 60 lire, per i premi 686,75 lire, per la quota del Monte Pensioni 363,88 lire: in totale 5.599,23 lire. 200 La redazione, Risposta all’ “Educazione Nazionale”, «L’Educazione politica», n. 1, gennaio 1926, pp. 56-58. 79 non era la prima volta che persone che passavano per suoi «allievi più devoti attaccano l’associazione»201. Nuovi problemi per l’Animi si ebbero sul finire del 1926 quando il ministro Fedele ordinò che Giuseppe Isnardi, direttore dell’ufficio regionale dell’associazione per la Calabria, venisse sollevato dall’incarico e trasferito in altra sede a causa del suo «atteggiamento di aperta ostilità al Partito ed al Regime» che gli era stato «segnalato dal Direttorio Nazionale del Partito Nazionale Fascista»202. Come ebbe modo di raccontare successivamente Zanotti Bianco, il professor Isnardi, «uomo completamente al di fuori della politica, laborioso, entusiasta della sua missione e ben voluto non solo dai maestri, e dal provveditore agli studi e dal prefetto», ricevette da un deputato di Catanzaro un telegramma con cui gli intimava in modo perentorio di lasciare la città entro 48 ore. Grazie all’intervento di Gentile e alle sue pressioni, alla fine, l’incidente fu sanato e Isnardi poté rimanere al suo posto ma senza più quella tranquillità d’animo dei primi tempi203. Anche in Sicilia l’Animi ebbe qualche problema. Zanotti Bianco ha raccontato un episodio in particolare: un maestro, segretario della sezione magistrale fascista e delegato dell’Opera Balilla nel comune di Tortorici, non voleva adempiere, forte della sua posizione politica, ad uno degli obblighi delle scuole dell’associazione, vale a dire l’obbligo della residenza nella località ove era stata aperta la scuola: per tale motivo gli era stato rivolto l’avvertimento disciplinare all’inizio dell’anno scolastico 1926-27. Più volte redarguito continuò a non osservare il regolamento e si rivolse anche ad un deputato fascista di Palermo per ottenere la dispensa dei suoi doveri, che però non gli venne concessa. Apparve allora sulla «Gazzetta di Messina» un violento articolo contro l’ente: «I bambini delle scuole rurali di Tortorici – era detto –, poveri bimbi diseredati, vivono fuori il tempo e lo spazio, non conoscono il saluto romano, non conoscono un inno, non conoscono nulla del Duce. Qui, dichiaran gli insegnanti, non è mai giunta una circolare da Palermo che parli del nuovo indirizzo fascista, del nuovo spirito che informa la scuola, qui in cinque anni di vita fascista, non è giunta mai una parola nuova»204. Un’altra circostanza raccontata da Zanotti Bianco riguardava la Sardegna, regione in cui fino a quel momento l’associazione aveva gestito la delega. A turbare l’opera dell’Animi sull’isola fu la fondazione, avvenuta nel marzo 1926 a Cagliari, dietro impulso di un attivo deputato fascista dell’isola, Antonio Putzolu, di un’associazione che entrava in aperta competizione con l’Animi stessa e che prese il nome di Ente di cultura e di educazione della Sardegna. Eretta in ente morale con decreto il 2 dicembre 1926, essa aveva per obiettivo quello di favorire l’istruzione popolare, fondando corsi di istruzione professionale e biblioteche popolari205. In realtà ben presto ella volle estendere la sua attività anche all’istruzione elementare, cercando di mettere le mani sulle scuole rurali non classificate. Putzolu, ha raccontato Zanoti Bianco, iniziò infatti ad accusare le scuole dell’Animi di disporre di cattivi locali, di arredamento insufficiente, di non ottemperare all’obbligo scolastico, di cattiva assistenza agli allievi, di scarsa 201 AFFG, Carteggio, Lettera di Piacentini a Gentile, 5 marzo 1926. Ivi, Carteggio, Lettera di Fedele a Gentile, 17 dicembre 1926. 203 Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, cit., pp. 56-57. 204 Ivi, pp. 57-58. 205 Notizie sull’attività svolta dall’ente sardo si possono trovare, insieme allo statuto dell’associazione e al testo del decreto che lo erigeva in ente morale, nel volume Una splendida realizzazione fascista: l’Ente di Cultura e di Educazione della Sardegna, Cagliari, Premiata Tipografia Giovanni Ledda, 1928. 202 80 serietà negli esami e di un inadeguato servizio di vigilanza206. Ma l’incidente più grave avvenne, nei ricordi di Zanotti Bianco, nel marzo 1928, allorché il ministro, inviando una lettera al presidente dell’Animi, comunicava di aver convocato a Roma tutti i funzionari comandati presso i vari enti, convocazione che secondo la legge avrebbe dovuto essere fatta tramite la presidenza degli enti delegati. Piacentini telegrafò subito ai nostri funzionari di non muoversi, protestando in una lettera al Ministro contro un sistema che ledeva la nostra dignità e che turbava il rapporto gerarchico fra enti e funzionari comandati, in contrasto con le responsabilità conferitaci dalla legge207. Come appresero poi da una circolare ministeriale, la riunione aveva uno scopo puramente politico: «la fascistizzazione delle scuole rurali non classificate e la formazione da attuare, dei Balilla e delle Giovani italiane» e chiedere agli enti «la loro fervida ed incondizionata opera per l’attuazione integrale delle direttive segnate al riguardo da S.E. il Ministro in obbedienza alla precisa volontà del Duce»208. Questa volta la rinuncia dell’Animi alla delega fu definitiva: liberatasi da un peso che non riusciva più a sostenere a quelle condizioni, l’associazione ora poteva dedicarsi ad altre questioni, in particolar modo alla cura degli asili d’infanzia209. Il regime non esitò ad approfittare di questa condizione per portare avanti quel processo di fascistizzazione della scuola rurale da sempre auspicato: con R.D. del 6 settembre 1928, n. 2176, infatti, fu stabilita l’avocazione delle scuole non classificate della Sicilia e della Calabria all’Opera Balilla e delle medesime scuole della Sardegna all’Ente di cultura e di educazione della Sardegna210. L’Onb si vide così consegnare nelle due regioni meridionali un complesso di 477 scuole che assunsero il nuovo nome di «Scuole rurali 206 Su questo aspetto si veda G. Pisu, Aspetti e momenti della presenza in Sardegna dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno (1919-1931): U. Zanotti-Bianco, G. Dolcetta e R. Ciasca, in Francia e Italia negli anni della Rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1994. 207 Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, cit., pp. 54-55. 208 Ibid. 209 In una lettera a Gentile, il presidente onorario dell’Animi, Fortunato, si diceva compiaciuto della rinuncia alla delega: «Ieri, nel pomeriggio, di passaggio per Napoli, è stato da me il Piacentini, e da lui ho saputo che se la nostra Associazione, - con molto piacer mio, - è fuori finalmente dal giogo delle Scuole, e ormai sicura, serenamente sicura di sé, tutto questo noi lo dobbiamo a Voi» (AFGG, Corrispondenza, Lettera di Fortunato a Gentile, 7 aprile 1928). Nonostante ciò durante gli anni Trenta la vita dell’associazione fu resa difficile dalla convivenza con il fascismo. Zanotti Bianco ha raccontato a questo proposito un altro episodio significativo: «All’inizio del 1939 il segretario del partito fascista Achille Starace, incontrato in non so quale cerimonia il marchese F. Nunziante nostro presidente, gli chiese con quel tono militaresco tipico dei gerarchi di allora: - Come mai esiste ancora una Associazione per gli interessi del Mezzogiorno? Il regime ha ormai risolto il problema meridionale…il nome stesso della vostra Associazione è una affermazione di critica e di sfiducia verso il duce ed il regime. Allibito da tanta sicumera, il presidente stava per rispondergli con alcune considerazioni sull’attualità del problema meridionale; ma Starace si era voltato a parlare con altre parole». L’esitazione che assalì i dirigenti dell’Animi li spinse a chiedere il patronato alla principessa di Piemonte che accettò di buon grado. Così dal maggio 1939 al gennaio 1945 l’associazione mutò il nome con quello di Opera Principessa di Piemonte (Zanotti Bianco, Storia dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, cit., pp. 99-101). 210 «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», n. 42, 16 ottobre 1928, pp. 33843385. 81 Opera Nazionale Balilla», oltre ad un alto numero di scuole serali211. L’anno successivo essa ricevette in gestione anche le scuole rurali della Sardegna, sottratte al locale Ente di cultura. L’avocazione all’Onb delle scuole rurali della Calabria, della Sicilia e della Sardegna produsse significative trasformazioni sia sul piano organizzativo-tecnico che su quello politico. Nuove direzioni didattiche su base provinciale presero il posto delle vecchie direzioni regionali dell’Animi, affiancate da una direzione centrale con sede a Roma, con l’obiettivo di disarticolare il sistema organizzativo in funzione fino ad allora212. Ma l’affidamento della gestione all’Onb fu una vera svolta soprattutto per ragioni politiche poiché tale esperienza costituì una sorta di laboratorio per la creazione della nuova scuola fascista, fucina di giovani devoti al Regime, amanti del lavoro nei campi e sprezzanti nel difendere la Patria. Da questo punto di vista le scuole dell’Onb offrivano continue occasioni per celebrare il Duce e le istituzioni del fascismo. Indicativo di ciò era, ad esempio, l’attribuzione a tutte le scuolette rurali del nome di un cosiddetto «martire fascista» in sostituzione del numero che fino ad allora distingueva ciascuna di esse. Andava nella stessa direzione la frequente consegna in forma gratuita ai propri alunni di uniformi delle organizzazioni giovanili, come avvenne in occasione della Pasqua del 1932 quando vennero regalate 1.600 divise di Balilla e di Piccola Italiana ad altrettanti «scolaretti malvestiti della Calabria, della Sicilia e della Sardegna» come «dono pasquale di S.E. Ricci»213. 3. «Libro, moschetto e vanga»: la scuola rurale passa all’Opera Balilla Con l’ascesa al ministero di Balbino Giuliano, avvenuta nel settembre del 1929, gli enti delegati sembravano trovare una protezione sotto la cui ala mettersi al riparo dagli attacchi di quei settori del fascismo più oltranzisti che chiedevano il passaggio di tutte le scuole rurali allo Stato o all’Opera Balilla. Il nuovo ministro, che si considerava un allievo di Gentile, aveva senz’altro a cuore la sorte degli enti considerando il fatto che dal giugno 1925 fino a quel momento aveva ricoperto la carica di presidente dell’Ente nazionale di cultura, l’associazione che gestiva le scuole rurali non classificate della Toscana e della Romagna214. Ciò tuttavia non deve far pensare che fosse contrario alla trasformazione della scuola italiana, e nel nostro caso di quella rurale, in uno strumento capace, prima ancora di provvedere all’alfabetizzazione dell’infanzia, di forgiare l’uomo 211 Le Scuole dell’Opera Nazionale Balilla nell’anno 1928-29, «Annali dell’istruzione elementare», n. 5, ottobre 1929, pp. 94-95. 212 Cfr. R. Marzolo, La scuola rurale dell’Opera Balilla, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, febbraio 1935, p. 18. Le quattro direzioni regionali, con sede a Catanzaro, Catania, Agrigento e Palermo, rimasero in funzione fino a tutto il mese di dicembre 1928, quando furono sostituite da direzioni provinciali. Nel suo primo anno di attività, il 1928-1929, l’Onb gestì 229 scuole rurali in Calabria (80 nella provincia di Catanzaro, 94 in quella di Cosenza e 55 in quella di Reggio Calabria) e 248 scuole rurali in Sicilia (13 ad Agrigento, 10 a Caltanissetta, 34 a Catania, 4 ad Enna, 95 a Messina, 23 a Palermo, 27 a Ragusa, 12 a Siracusa, 30 a Trapani). Su questo aspetto cfr. Le scuole rurali dell’Opera Nazionale Balilla: anno scolastico 1928-1929, Roma, Tipografia del Littorio, 1929, p. 15. 213 Nelle Scuole dell’Opera Balilla, «I diritti della scuola», n. 25, 3 aprile 1932, p. 383. 214 Cives, L’attività dell’Ente di Cultura, cit., p. 135. Sui rapporti tra Giuliano e Gentile si rinvia ad A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti: gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, Il Mulino, 2009, in particolare alle pp. 42-43. 82 nuovo fascista. Quali sarebbero state le intenzioni del nuovo ministro nei confronti delle associazioni lo si comprese nell’ottobre 1929 allorché egli ricevette i membri del Direttorio dell’Anif, l’associazione guidata da Sacconi che aveva appena finito di celebrare i lavori del suo congresso durante il quale, tra le altre cose, aveva chiesto ufficialmente di mettere un freno alle «sclassificazioni» per le scuole con più di 30 alunni e di procedere alla classificazione di quelle con più di 45 alunni215. Di fronte a queste richieste Giuliano sottolineò il valore del ricorso dello Stato alle associazioni private nella battaglia contro l’analfabetismo, affermando che «l’Opera dei vari Enti culturali [aveva] tutta la sua simpatia»216. Tuttavia, non potendo ignorare i malumori presenti in alcuni settori del mondo politico, a cominciare dalla stessa Anif, – che si concentravano sulle peggiori condizioni salariali degli insegnanti delle scuole degli enti e sulla loro scarsa impronta politica217 –, il ministro non chiuse in modo assoluto all’eventualità di apportare piccole modifiche: Perché l’azione di detti Enti sia veramente utile ed efficace è necessario che sia ben delimitato il loro compito e sia lasciata ad essi scioltezza di movimenti. Gli Enti culturali devono prevenire l’opera dello Stato, essi debbono esserne i pionieri, ma non sostituirsi allo Stato e tanto meno trasformarsi in tanti piccoli Provveditorati, come fatalmente avverrebbe se diventasse eccessivo il numero delle scuole da ciascuno amministrate 218. Si trattava di parole il cui primo scopo era quello di rassicurare e di tranquillizzare. Non a caso un giornale portavoce degli interessi magistrali come il «Corriere delle Maestre» espresse un plauso a Giuliano perché vedeva nelle sue parole una «giustificazione della campagna da noi condotta contro le eccessive e non sempre ponderate sclassificazioni», facendo riferimento ad una serie di articoli in cui il periodico aveva messo in rilievo come l’opera degli enti era svolta paradossalmente in maniera più incisiva nelle regioni dove la piaga dell’analfabetismo era meno grave219. Le parole del ministro, inoltre, volevano essere una risposta anche al malumore che serpeggiava negli ambienti della burocrazia ministeriale contro quello che veniva giudicato l’eccessivo potere degli enti, come puntualmente sottolineato dai Provveditori agli studi nelle loro relazioni annuali nelle quali veniva affermato che gli enti non dovevano costituire una struttura 215 Il direttorio dell’A.N.I.F. da S.E. il Ministro Giuliano, «Il Corriere delle Maestre», n. 6, 27 ottobre 1929, p. 44. 216 Ibid. 217 In uno scritto del 1935, a distanza di tempo dalle polemiche avocazioniste delle scuole rurali che lo avevano visto protagonista, Bascone affermò che l’idea delle scuole «non classificate», sorte con l’Ente contro l’analfabetismo nel 1919, fosse «nittiana», perché concepita durante il governo Nitti, vale a dire uno dei peggiori nemici del fascismo e di Mussolini (F. Bascone, Ordinamento didattico della scuola elementare, «I diritti della scuola», n. 27, 14 aprile 1935, pp. 430-431). 218 Il direttorio dell’A.N.I.F. da S.E. il Ministro Giuliano, «Il Corriere delle Maestre», n. 6, 27 ottobre 1929, pp. 44-45. 219 In effetti, la rivista diretta da Guido Fabiani aveva poco prima riservato alcuni rilievi critici nei confronti degli enti delegati. Si legge nel numero del 16 dicembre 1928 della rivista: L’Ente contro l’Analfabetismo combatte con maggior intensità l’analfabetismo proprio là dove questo male ha minor intensità e minor gravità. Veniva citato a questo proposito il caso di Calabria e Lazio, due regioni nelle quali il tasso di analfabetismo era rispettivamente del 48% e del 22% ma che disponevano di un numero di scuole «non classificate» non congruo, essendovi nella prima circa la metà di scuole della seconda. Questo ed altri esempi erano la dimostrazione, secondo tale tesi, delle contraddizioni presenti nell’opera svolta dalle associazioni delegate (La lotta contro l’analfabetismo. I risultati sorprendenti di una nostra inchiesta, «Il Corriere delle Maestre», n. 10, 16 dicembre 1928, pp. 285-286). 83 concorrenziale rispetto ai Provveditorati e venivano avanzati dubbi sulla loro reale efficacia nelle zone culturalmente avanzate e sul reale risparmio per le casse dello Stato220. Ma al di là delle rassicurazioni, Giuliano non aveva la minima intenzione di rimettere in discussione la delega statale alle associazioni culturali, come ebbe modo di dichiarare fin dall’ottobre 1929 e come ripeté successivamente. Un’altra circostanza per farlo fu la discussione del bilancio dell’Educazione nazionale alla Camera dei Deputati, avvenuta alla fine del marzo 1930, in occasione della quale affermò che grazie al «saggio riordinamento di scuole si [era] potuto fare qualche economia» e che gli enti avevano svolto bene il loro mandato, sebbene qualcuno di essi avesse «ampliato troppo la propria azione, [assumendo] persino scuole cittadine e [creato] duplicati delle amministrazioni regionali dello Stato». In ragione di ciò il ministro si dichiarava contrario al passaggio allo Stato «di tutte le scuole sclassificate e rurali», respingendo ogni tentativo di assalto alle associazioni e al loro operato221. Si trattava di una posizione chiara in difesa degli enti delegati contro i quali, in sede di discussione parlamentare, si espressero due deputati che chiesero il passaggio di tutte le scuole rurali all’Opera Ballila, uniformando al resto del territorio nazionale quanto finora fatto in Calabria, Sicilia e Sardegna 222. In particolare l’onorevole Ezio Maria Gray sostenne la necessità di riportare queste scuole nell’ambiente normale alle altre scuole, e non farne i parenti poveri, diseredati del mondo scolastico. È un bisogno che bisogna affrontare in tutta la sua interezza, anche perché queste scuole operano nell’interno rurale ove è più sensibile e necessaria l’avanzata dello spirito fascista223. Ma fu soprattutto il deputato Francesco Bascone, già maestro elementare e uno dei fondatori della Corporazione della Scuola, a dichiarare che lo Stato non poteva rinunciare alla formazione di una parte considerevole di giovani, dopo che esso aveva affermato il principio secondo il quale l’educazione fosse una funzione eminentemente statale: Non è nel momento in cui lo Stato reclama per sé intera funzione educativa della gioventù che si deve cedere un sì gran numero di scuole a enti che – per quanta garanzia possano dare di savia amministrazione e di educazione fascista – non sono organi statali224. Dal canto loro i dirigenti delle associazioni non assistevano passivi alle discussioni pubbliche e alle manovre di palazzo che si stavano compiendo sopra il loro destino. Nei loro carteggi emerge costantemente la preoccupazione perché la burocrazia ministeriale o alcune organizzazioni fasciste come l’Anif, potessero influire sul governo determinando scelte penalizzanti in ordine al rinnovo della delega, alla «sclassificazione» di altre scuole e all’elargizione dei trasferimenti statali. Ne è una testimonianza, ad esempio, la lettera che l’ispettore in servizio presso l’Ente di Cultura, Francesco Bettini, scrisse a Ernesto Codignola per informarlo dell’opera di discredito degli enti delegati svolta da un funzionario dell’Anif nella zona di Mantova: 220 Sulle riserve avanzate dai Provveditori cfr. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., pp. 420-421. 221 Il discorso del ministro Giuliano, «La nuova scuola italiana», n. 27, 6 aprile 1930, pp. V-VIII. 222 La scuola elementare nella discussione del Bilancio dell’Educazione Nazionale, «La nuova scuola italiana», n. 28, 13 aprile 1930, p. VII. 223 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXVIII, seduta del 28 marzo 1930, p. 2019. 224 Ivi, p. 2029. Notizie biografiche su Bascone in F.A. Cesario, In memoria di Francesco Bascone, «I diritti della scuola», n. 3, 15 novembre 1951, pp. 58-59. 84 Gli attacchi non mancano – scrisse Bettini – Qui a Suzzara il R. Direttore (T. Mariani) mi dice che il Segretario provinciale dell’Anif (Balbarini, che dal 1° febbraio è stato chiamato, per intercessione del Comm.[endato]r Sacconi, a dirigere le scuole di Spezia) nell’ultima riunione dei Direttori (della Prov. Di Mantova) disse che il Governo non sclassificherà altre scuole, perché a sclassificarle ci rimette. E i presenti cedettero e all’affermazione e alla giustificazione, che, naturalmente non hanno alcun fondamento. Il Balbarini era ed è uno dei beniamini del Comm.[endato]r Sacconi e dovette lasciar Mantova (dove godeva anche poche simpatie) dopo la caduta di Arrivabene e della tendenza (Farinacciana) che egli rappresentava 225. Un’altra testimonianza che bene illustra le manovre politiche e gli interessi di vario genere – tra cui quello degli editori che da anni facevano pressioni per far entrare nelle scuole rurali i propri sussidiari e non quelli autoprodotti, ad esempio, da alcune associazioni 226 – che si celavano dietro la gestione delle scuole non classificate è rappresentata da un’altra lettera di Bettini a Codignola, scritta nell’estate 1930: 225 AEC, Corrispondenza, Lettera di Bettini a Codignola, s.d. ma fine anni Venti o primissimi anni Trenta. 226 Questo punto è stato ben messo in rilievo da Monica Galfré studiando il mercato del libro scolastico in Italia durante il periodo fascista. Su questo aspetto cfr. M. Galfré, Il regime degli editori: libri, scuola e fascismo, Roma, Laterza, 2005, pp. 51-57. A ciò si aggiunga l’interessante lettera scritta da Marcucci nel maggio 1925 a Lombardo Radice in cui si lamentava del fatto che il Sillabario creato per le scuole dell’Agro romano era stato bocciato dalla Commissione Centrale d’esame dei libri di testo, decisione che ai suoi occhi era stata influenzata dagli editori che volevano mettere le mani su un segmento importante del libro scolastico. Scrisse Marcucci: «Caro Peppino, non ti avrei scritto, se tu già non avessi in modo così acuto trattato dell’argomento e se non si trattasse di combattere una vergognosa azione di…camorra. La commissione ha giudicato il nostro Sillabario inadatto per le scuole rurali, lasciandolo – bontà sua – per le scuole serali. Se quel libretto portasse il mio nome, non ardirei a parlartene; se mi portasse un centesimo di utile mi ripugnerebbe qualsiasi doglianza. Né vanità di didatta, né interesse di speculatore, dunque. Ma il libro in sé vale come strumento, vale come buona azione verso i 20 o 30 mila piccoli alunni delle nostre Scuole – tutti contadini – che possono averlo (cioè le Associazioni delegate per loro) a pochi centesimi. La lega degli usurai editori e dei farisei componenti la Commissione (segnatamente ispettori e direttori) in vergognoso patto, ha detto qui 30 mila lettori alunni devono passare sotto le nostre forche e lasciare nelle nostre mani le 50 o 60 mila lire e più che importano Sillabari editi dalla nostre Case! E il pericolo che il libro trovasse credito anche presso altre scuole, beneficiando molte e molte migliaia di contadinelli doveva essere scongiurato! Sai che su tanti libercoli del genere quegli sfruttatori mettono insieme dei patrimoni! Ora io mi ribellerò a questa sfacciata speculazione a questa palese ingiustizia che, ripeto, deve intendersi come offesa non a me – persona – ma alla Scuola rurale che amiamo sopra tutte le altre cose e che cerchiamo di beneficiare con libri fatti bene e di minimissimo costo. Se tu, con la tua competenza ed autorità, te ne volessi occupare obbiettivamente, illustrandolo, senza far mai il mio nome, te ne sarei grato. S’intende che io seguiterò a farlo adottare nelle scuole in diretta dipendenza di questa Associazione, anche contravvenendo alla legge, ma per l’interesse comune, per l’omaggio dovuto alla Scuola e alla Giustizia, vorrei essere confortato dalla parola di chi sa e primamente dalla tua. Ti dirò le motivazioni che, con industre malvagità hanno formulato in proposito. Per quello che finora ne so dicono: che è troppo esclusivo parlando troppo di contadini (-ma se è per loro!-), che c’è poco sentimento patrio (-cioè manca di rugiadosa retorica), che è troppo difficile (-cioè manca di insulsi bamboleggiamenti che il contadino non conosce). Il fatto è che un volume di questo genere (Sillabario e compimento) – in questa veste – non costa che £ 1.10. Le sole spese!» (AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Marcucci a Lombardo Radice, 31 maggio 1925). 85 Il Marcucci – col quale sono stato ieri in Casentino per un motivo intorno a cui Le riferisco a parte – mi ha detto che la Duchessa d’Aosta ha già ricevuto dal Gabinetto di S.E. il Ministro l’assicurazione che la delega verrà rinnovata. Ma bisognerebbe insistere perché il Decreto fosse fatto presto, perché il tempo corre e c’è chi ha interesse a mettere pali fra le ruote. Non si sa mai quel che può fare la burocrazia! Quercia e Giustini aspirano alla Direzione generale: ora se le scuole se le piglian tutte i Balilla, il posto salta fuori. O che importa a certa gente che cinquemila scuole vadano a rotoli, se possono aggiungere allo stipendio qualche migliaio di lire? 227 Le associazioni cercarono, dunque, di coordinare le proprie azioni contro le invadenze della politica e di chi era interessato a mettere le mani sulle scuole rurali: nell’estate del 1930, ad esempio, venne inviata al ministro Giuliano una richiesta firmata da tutti i presidenti degli enti contenente una proposta comune in vista del rinnovo della delega statale. Nel novembre 1931, quando il rinnovo della delega veniva data per certa, era Marcucci a chiedere a Codignola l’intervento di una personalità dotata di grande autorevolezza al fine di consentire ai dirigenti delle associazioni di partecipare all’elaborazione del decreto, evitando che fossero unicamente gli uffici del ministero a scriverlo: Occorre però – scrisse Marcucci – sul momento rivolgere ogni nostra attenzione al fatto del rinnovo della delega. Credo che si stia preparando il nuovo R. Decreto che dovrà, per legge, essere prima inviato al Consiglio di Stato. Credo che non sia rinnovato nella forma attuale ma che gli uffici vi apportino aggiunte, ritocchi, diminuzioni, etc. forse rimodellandolo sullo schema che già prepararono per il Ministro Belluzzo. Urge sapere tutto ciò; ed intervenire. Persona autorevole dovrebbe far sentire che in simile manipolazione la collaborazione degli Enti è indispensabile, dal momento che sono essi che debbono applicare la legge, che sono essi che avendola applicata fino ad ora possono suggerire i più opportuni emendamenti. Ella veda, Professore, l’urgenza di un intervento prima che il Decreto, messo assieme da uffici che non conoscono e non vivono la Scuola, ci sia presentato per farcelo accettare, senza possibilità di discussione e di suggerimenti228. Le proposte che Marcucci prospettava a Codignola erano, per la verità, di non piccola entità nel momento in cui auspicava che il nuovo decreto potesse, oltre che rinnovare la delega, favorire «l’istituzione della IV e V nei piccoli ma con più di 60 alunni centri prettamente rurali, dove la scuola ha assunto carattere speciale di differenziazione didattica o di indirizzo» e addirittura creare un Comitato centrale con funzioni di raccordo tra le associazioni dal punto di vista didattico, finanziario e amministrativo («che libererebbe gli Enti dallo snervante e trascurato fiscalismo degli uffici centrali e di quelli periferici»), con funzioni cioè simili a quelle vecchio Comitato contro l’analfabetismo abolito nel 1926. Nell’aprile 1931 uno dei dirigenti del Gruppo di Azione delle Scuole del popolo di Milano, Gian Cesare Pico, scriveva allarmato a Codignola a proposito dell’azione svolta da Guido Fabiani, direttore del «Corriere delle maestre», accusato di essere in combutta con altre persone, tra cui il deputato Bascone, nel voler dettare la linea politica al ministro e di sobillare i maestri contro gli enti delegati. Scrisse Pico: Non ti sarà sfuggito l’articolo di fondo del “Corriere delle Maestre”. Il Massone Fabiani continua a dar esca per favorire l’indisciplina delle maestre. E si erge a consigliere del Segretario del Partito e dello stesso Ministro. Certamente conta sull’adesione di altre mezze figure di educatori, e di interi massoni, quali Antonelli, Giovanazzi e 227 AEC, Corrispondenza, Lettera di Bettini a Codignola, 9 luglio 1930. La lettera è già stata pubblicata in Montecchi, La Scuola Rurale Faina, cit., pp. 36-37. I due personaggi cui si fa riferimento erano Camillo Quercia e Giuseppe Giustini. 228 AEC, Corrispondenza, Lettera di Marcucci a Codignola, 2 novembre 1930. 86 Bascone. Il presidente del Gruppo scriverà al Ministro perché intervenga e difenda la scuola da questi bolscevichi. Io ti posso documentare che una certa indisciplina qua e là si è già manifestata proprio per opera e di certa stampa e di certi esponenti dell’Anif di ieri e di oggi229. Eppure, se è vero che i dirigenti delle singole associazioni cercarono di unire le forze contro gli attacchi esterni, è pur vero che spesso una cortina di diffidenza e di gelosie sul piano personale e su quello professionale li divideva, finendo per indebolire l’intero movimento degli enti delegati. Alla metà degli anni Venti frequenti furono i momenti di attrito, ad esempio, tra Marcucci e Lombardo Radice, quando quest’ultimo dirigeva le scuole dell’Animi, a causa di differenti visioni pedagogiche in riferimento alle scuole rurali e al pensiero montessoriano. Così come è testimoniata una certa diffidenza nutrita da Marcucci nei confronti di Codignola e della qualità didattica delle sue scuole dell’Ente di cultura. Invidie e gelosie che sono ben provate da una lettera di Marcucci a Pico del 9 giugno 1926 nella quale scrisse: Non so che dire delle altre due importanti Associazioni: il Mezzogiorno e l’Ente di cultura. Queste – ti parlo con cruda verità – hanno a capo due accreditati pedagogisti, che lanciano scomuniche e investiture secondo i loro principi filosofici, le loro vedute personali, e che, nella loro pratica azione, sono dei trasandati o dei futuristi. Essi sono verbosi e sdegnano l’occuparsi di cose pratiche; essi forse combatteranno lo spirito montessoriano, per ragioni di supremazia, o chiesuola…pedagogica. Non vogliono legami o controlli e ciò produce risultati poco lusinghieri nell’azione tangibile della loro scuola, che però si affannano a dimostrare eccellente con lunghi discorsi e quadri statistici e incisioni più o meno suggestive, mentre l’azione vera richiede lavoro, paziente e silenzioso e disciplinato. Saranno le due Associazioni che potranno venire attaccate, ma che finiranno col modellarsi a noi, se vorranno vivere…230 È indubbio che le divisioni non giocarono a favore degli enti che tornarono ad essere bersaglio di nuove critiche e polemiche, nonostante che il ministro Giuliano all’inizio del 1931 avesse rinnovato per un altro quinquennio la delega alle associazioni con un apposito decreto231. In particolare l’onorevole Bascone tornò a condurre la sua battaglia contro le associazioni delegate ripetutamente nel 1931 e nel 1932 in occasione delle discussioni al bilancio dell’Educazione Nazionale. Nella seduta della Camera del 13 maggio 1931 egli contestò la presunta economicità della soluzione rappresentata dagli enti e avanzò la proposta di lasciare alle loro cure solo quelle scuole con pochissimi alunni che lo Stato non avrebbe avuto convenienza di gestire232. Ma fu in particolare nel dibattito che si svolse nell’aprile 1932 che la divergenza interna al fascismo tra favorevoli al ricorso alle associazioni private e contrari si palesò in maniera evidente e con strascichi polemici che continuarono nelle settimane successive sulla stampa. Se da una parte l’onorevole Lando Ferretti, relatore del bilancio dell’Educazione Nazionale, aveva difeso gli enti sostenendo che essi svolgevano «un’utile funzione, per quanto si attiene alle scuole rurali», dall’altra Bascone si disse persuaso che la delega agli enti privati nella gestione di scuole pubbliche mantenute dallo Stato era «inconciliabile con la dottrina fascista in materia di educazione della gioventù»233. Ai suoi occhi e a quelli del fascismo intransigente non poteva, infatti, esserci ragione di tipo «politica, pedagogica, didattica» che giustificasse una scelta di questo 229 AEC, Corrispondenza, Lettera di Pico a Codignola, 22 aprile 1931. La lettera di Marcucci a Pico del 9 giugno 1926 è stata pubblicata in Alatri, vita per educare, tra arte e socialità, cit., p. 138. 231 Si trattava del R.D. 19 febbraio 1931. 232 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, Seduta 13 maggio 1931, p. 4664-4669. 233 Il bilancio dell’Educazione nazionale alla Camera, «I diritti della scuola», n. 28, 24 aprile 1932, p. 437. 230 87 tipo, se non quella economica. Peraltro Bascone avanzava dei dubbi anche sull’effettivo risparmio di denaro pubblico e chiedeva spiegazioni del perché nel bilancio dell’anno precedente era prevista per le scuole non classificate una spesa di 10 milioni di lire mentre era «notorio – disse – che da molti anni tale spesa si aggira appunto attorno ai 40 milioni». Il deputato fascista accusava inoltre gli enti di non fare altro che spendere i contributi statali senza partecipare con risorse proprie alle spese per la gestione delle scuole; tanto valeva a questo punto che lo Stato intervenisse in prima persona avocando a sé la gestione di quelle scuole anche al fine di non avvalorare la tesi secondo la quale «un ente privato è migliore amministratore dello Stato stesso». Bascone, evidentemente conscio delle resistenze che avrebbe trovato, si limitò a proporre momentaneamente il passaggio allo Stato «dell’amministrazione delle scuole non classificate» e non della vera e propria gestione delle scuole rurali, che sarebbe rimasta agli enti delegati così come stabilito dalla Riforma Gentile del 1923. Quanto fosse diffusa tra le gerarchie l’idea che si dovesse quanto prima giungere alla fascistizzazione della scuola rurale, in ossequio al principio secondo il quale la scuola era una funzione esclusiva dello Stato, lo dimostra il fatto che Bascone volle tradurre la sua proposta in un ordine del giorno che fu sottoscritto da altri ventinove deputati234. Al fine di scongiurare che la divisione tra i fautori e i contrari al ricorso agli enti privati si manifestasse in modo plastico, il documento non venne messo ai voti ma ritirato dopo l’intervento del ministro Giuliano che promise che sarebbe stato suo intendimento fare di quella proposta un «argomento di studio». Si deve a questo proposito dire che se l’Opera Balilla non era ancora entrata in possesso della gestione diretta delle scuole non classificate sparse in tutto il territorio nazionale, essa era tuttavia riuscita ad allungare i suoi tentacoli ugualmente all’interno delle scuole di campagna (sia nelle scuole rurali gestite dallo Stato, che in quelle non classificate gestite dagli enti) attraverso altri tre strumenti: il tesseramento degli alunni a cui veniva concesso il titolo di Balilla e Piccole Italiane; l’educazione fisica affidata ad un istruttore dell’Onb 235; la politicizzazione 234 Questo il testo dell’ordine del giorno: «La Camera, ritenuto che la scuola è funzione esclusiva dello Stato e pertanto convinta che, mentre il funzionamento didattico di tutte le scuole pubbliche e private deve essere regolato con norme governative, l’amministrazione delle scuole pubbliche deve essere affidata agli organi diretti dello Stato, salvo casi eccezionalissimi, in cui si possa consentire, con evidente vantaggio della scuola, la partecipazione di enti pubblici, che col proprio contributo assicurino il migliore sviluppo delle istituzioni scolastiche e diano assoluta garanzia di osservanza delle leggi regolatrici dell’istruzione, anche per quanto riguarda i legittimi interessi materiali e morali degli insegnanti, fa voti che siano avocate alla diretta dipendenza e amministrazione dei competenti organi statali le scuole non classificate, che attualmente sono amministrate da enti privati col solo ed esclusivo contributo dello Stato». Il documento venne firmato dai deputati: Bascone, Preti, Calza Bini, Guglielmotti, D’Angelo, Monastra, Bigliardi, Oppo, Clavenzani, Pottino di Capuano, Ducrot, Maggio, Caldieri, Capri-Cruciani, Riolo, Gangitano, Bifani, Spinelli, Marelli, Arnoni, Ercole, Madia, Trapani-Lombardo, Peretti, Bibolini, Natoli, Landi, Di Giacomo, Crò e Locurcio (La Scuola alla Camera, «I diritti della scuola», n. 29, 1 maggio 1932, p. 445). 235 Con effetto dal 26 dicembre 1927 la formazione sportiva in tutti i tipi di scuola passò sotto la competenza dell’Onb. Dopo che la competenza era stata interpretata da parte di alcuni Comuni, che avevano conservato l’amministrazione scolastica autonoma, quale esonero dall’obbligo di organizzare e finanziare l’istruzione sportiva, nell’agosto 1929 Ricci corse ai ripari con un decreto che obbligava i Comuni a garantire l’insegnamento sportivo, controllato e coordinato dall’Onb. Cfr. J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime fascista (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 332. 88 dell’insegnamento con la celebrazione del Duce e del Regime. Il livello di fascistizzazione della scuola rurale, dunque, non doveva essere così diverso rispetto a quello che doveva caratterizzare il resto delle scuole elementari. Ma paradossalmente proprio questo aspetto finì per essere utilizzato dai dirigenti degli enti delegati come la riprova del fatto che le scuole da loro gestite seguivano in maniera rigorosa la linea politica del Regime e che il processo di politicizzazione della scuola si era realizzato nelle campagne italiane per merito delle associazioni che ora venivano messe sotto accusa. Si trattava di una strategia ampiamente adottata in particolare da Marcucci che più volte si prodigò per rassicurare i gerarchi del fascismo del fatto gli enti operavano in perfetta collaborazione con le istituzioni del Regime avendo improntato l’insegnamento allo spirito nuovo che si era affermato in Italia con la Rivoluzione fascista. Al contempo il fondatore delle Scuole dell’Agro Romano faceva insistenti raccomandazioni anche ai dirigenti delle altre associazioni delegate affinché collaborassero con le organizzazioni del Regime, catturandone la simpatia e la stima. Nel novembre 1930, ad esempio, scriveva a Codignola invitandolo a mandare alcune maestre dell’Ente Nazionale di Cultura a seguire i corsi della «Scuola femminile fascista di agraria» di Sant’Alessio, cioè dell’apposita scuola per la formazione delle maestre rurali, fondata nel 1927 sotto gli auspici del segretario del Pnf, Augusto Turati, al fine di creare una fucina di insegnanti di sicura fede politica destinati a diffondere nelle scuole di campagna italiane i sentimenti di italianità e di amore verso le istituzioni del regime. La nuova scuola, che sorgeva nell’Agro romano, era stata affidata alle cure proprio di Marcucci il quale si sforzò di dimostrare come le allieve-maestre vi ricevevano «una vera educazione fascista e rurale», come attestavano la visita a quell’istituto di Mussolini e l’apprezzamento espresso da alti gerarchi come Belluzzo, Federzoni, Fedele e Marescalchi236. Il fatto che la scuola di Sant’Alessio potesse diventare agli occhi di Marcucci un’occasione per valorizzare gli enti delegati e metterli al riparo dagli attacchi mostrando la loro specchiata condotta ligia ai desideri del regime, è testimoniato bene da un passo della sopracitata lettera a Codignola: Il nostro lavoro, si collega in certo modo, con quello della Scuola di S. Alessio e, per questo tramite, si accredita sempre più presso le alte sfere del Partito. Per ciò conviene che ogni Ente invii suoi insegnanti a quella Scuola, che, in tal modo si inquadra col movimento che stiamo svolgendo alla più lontana periferia per la Scuola rurale. Certamente anche l’Ente avrà inviato le sue due insegnanti, che sarebbe bene quest’anno fossero tre, comprendendosi due romagnole. Io quasi certamente, quest’anno non potrò occuparmi di S. Alessio, essendomi l’incarico della direzione, nelle attuali condizioni di fatto, troppo gravoso 237. Muovendosi sulla stessa linea d’onda, volta ad accreditare l’idea secondo la quale le associazioni delegate fossero perfettamente fedeli al Regime e artefici dell’opera di fascistizzazione della scuola rurale, Marcucci aveva pubblicato proprio in quei mesi del 1930 un lungo studio sugli «Annali dell’istruzione elementare» che rappresentò una risposta indiretta agli oppositori degli enti. Scrisse a questo proposito: 236 Il Pnf si avvalse in un primo momento anche della collaborazione di Aurelia Josz, guida e mente della scuola agraria di Niguarda attiva già da oltre un venticinquennio. Ma quando ella comprese che si volle dare alla scuola un carattere prettamente politico ed autocelebrativo del Regime si distanziò. Ebrea, subì le persecuzioni razziali dopo il 1938. Arrestata nel 1944 e condotta nel campo di Fossoli, morì in un campo di concentramento in Germania. Cfr. D’Annunzio, Aurelia Josz (1869-1944), cit., pp. 90-91. 237 AEC, Corrispondenza, Lettera di Marcucci a Codignola, 2 novembre 1930. 89 Tutti gli Enti che attualmente reggono le scuole non classificate, perfettamente devoti al Regime se ad esso preesistenti, nati nel seno del Regime se costituite appunto per dare applicazione alla legge del 1° Ottobre 1923, hanno subito improntato ogni insegnamento ai supremi principi morali e politici della Rivoluzione Fascista: l’amore di Patria, diffuso e cresciuto, alimentato con ogni più acconcio mezzo; la valorizzazione e quindi la devozione alle nuove istituzioni che la rinnovata vita nazionale, al lume della dottrina fascista, si veniva creando, pel bene supremo della Patria, oggettivando ogni sforzo, ogni successo, ogni idealità nella dominante persona del Duce238. A dimostrazione della sua tesi, egli ricordava il contributo delle «scuolette rurali gestite dagli Enti» alla buona riuscita delle iniziative del Regime, talvolta rese possibili nei paesi isolati e sperduti di campagna o di montagna solo grazie alla «forza d’animo e di volontà» del maestro, uno dei pochi capaci ad organizzare e mobilitare le persone. Citava, a questo proposito, la propaganda per il prestito per il dollaro, la partecipazione «cordiale e piena alle elezioni plebiscitarie», alle «cerimonie patriottiche» e la formazione di nuclei di Balilla e Piccole Italiane che era andata progressivamente estendendosi tanto che se alla data del febbraio 1927 gli alunni delle scuole rurali gestite dalle associazioni iscritti all’Onb erano poco più di 50.000, all’inizio del 1929 erano raddoppiati a 100.401, di cui 58.984 Balilla e 41.417 Piccole Italiane239. Né vere erano, secondo Marcucci, le accuse rivolte agli enti delegati secondo le quali nelle loro scuole non veniva impartita una vera educazione politica come dimostravano alcuni fatti: «squadre dei Balilla e delle Piccole Italiane delle scuole non classificate, non manca[va]no mai alle celebrazioni nazionali nei piccoli centri»; «ogni domenica, in moltissime scuole, essi ven[ivano] riuniti per assistere alla Messa e per brevi esercitazioni di squadra»; «in alcune province della Marche, del Veneto e del Lazio, hanno con l’assenso delle superiori autorità e dell’O.N.B. formato centurie e legioni rurali, meritando speciali encomi»240. Tali garanzie non erano però più sufficienti nei primi anni Trenta. L’assedio alla scuola rurale si fece più intenso, infatti, con la salita al potere nel luglio 1932 del nuovo ministro dell’Educazione Nazionale, Francesco Ercole. È bene ricordare che egli era stato uno dei firmatari dell’ordine del giorno presentato dal deputato Bascone pochi mesi prima alla Camera con cui era stata chiesta l’avocazione delle scuole non classificate allo Stato. La sua posizione, quindi, su questo argomento era nota da tempo e non occorrerà molto per vedere quali azioni avrebbe messo in campo. A partire dai primi mesi del 1933, infatti, gli enti delegati venivano per volere del ministro sottoposti ad una ispezione sotto il profilo contabile e amministrativo, presentata come un atto conoscitivo ma in realtà finalizzata ad indebolire gli enti e ad intimorirne i dirigenti241. Costoro, peraltro, non tardarono a intuire che dietro questa mossa ci fosse una precisa ostilità verso la loro opera come dimostrano le parole dall’ispettore Francesco Bettini scritte nell’aprile 1933 in una lettera a Gian Cesare Pico, uno dei principali animatori del Gruppo d’azione delle scuole del popolo di Milano: 238 A. Marcucci, Le scuole non classificate e l’opera degli enti delegati, «Annali dell’istruzione elementare», n. 4-5, ottobre 1932, p. 55. 239 Ivi, p. 57. 240 Ivi, p. 59. 241 Uno dei pochi commenti sull’ispezione ministeriale, se non l’unico, apparsi su un giornale favorevole agli enti delegati, fu quello pubblicato su «La nuova scuola italiana» il 12 febbraio 1933 in cui era scritto: «Pare che il Ministero abbia ritenuto opportuno diminuire il lavoro all’ispettore comm. dott. Senesi che aveva il compito di ispezionare tre associazioni (Consorzio Emigrazione e Lavoro, Ente Pugliese di cultura e Gruppo delle Scuole del Piemonte) affidando l’ispezione delle Scuole del Gruppo piemontese all’ispettore centrale comm. Francesco Lepore» (Ispezione ministeriale nelle Scuole non classificate, «La nuova scuola italiana», n. 20, 12 febbraio 1933, p. V). 90 Certa è anche una cosa: che egli [l’ispettore ministeriale] è per principio contrario agli Enti. A tutti; non a quelli che ha veduto in funzione. Peccato che non abbia avuto modo, o tempo, o incarico di vedere da vicino, nelle scuole, con agio e comodità, ciò che facciamo per gli ambienti, per gli insegnanti e, di riflesso, per tutte le scuole! E avesse anche potuto fare un confronto adeguato! Io spero non solo che l’indagine, anche così come è stata condotta, dia risultati favorevoli, ma giovi. Può essere l’inizio di uno sforzo per la utilizzazione di una attività preziosa242. Come ha avuto modo di ricordare successivamente Marcucci, l’inchiesta ministeriale fu accurata ma non diede i frutti attesi: L’ispezione sull’opera degli Enti delegati ordinata con ampio mandato dal ministro Ercole, fu lunga e minuziosa. Sei, fra Capi divisione ed Ispettori superiori, si divisero il lavoro; ispezionarono uffici, visitarono scuolette rurali, esaminarono archivi e bilanci contabili, interrogarono alunni, famiglie e autorità locali; estesero la loro indagine anche sull’andamento tecnico delle scuole, benché scarsamente competenti in questioni didattiche; ma dovevano cercare, e trovare, il pelo nell’uovo! Non lo trovarono; tutti gli Enti erano in regola… 243 Frattanto, mentre era in corso l’ispezione, si svolse nel marzo 1933 la discussione parlamentare sul bilancio dell’Educazione nazionale. Nel dibattito alla Camera l’onorevole Bascone poté dirsi finalmente soddisfatto dal nuovo ministro perché aveva preso in esame il problema delle scuole affidate agli enti delegati, disponendo un’ispezione generale che avrebbe valutato meglio i risultati dell’insegnamento da esse impartito che spesso erano «assai deficienti»244. Né era più tollerabile secondo Bascone che lo Stato continuasse a delegare ad associazioni private una parte del suo compito di formare i futuri cittadini fascisti, soprattutto alla luce del recente provvedimento con il quale era stata disposta l’avocazione allo Stato delle scuole ritenute dai grandi Comuni e del calo dell’analfabetismo tra i bambini 245. «È assurdo che anche alle porte di Roma vi siano scuole urbane amministrate dagli enti delegati», esclamò Bascone concludendo il suo intervento alla Camera sollevando commenti e interruzioni, come si legge dal resoconto stenografico246. Il dibattito si fece, infatti, animato perché si alzò a parlare il deputato Severini che in un lungo intervento difese ad oltranza gli enti delegati. Ricordò, in primo luogo, che essi erano stati «creati e voluti da due leggi fasciste», quella del 1923 e quella del 1926, e che pertanto erano prive di fondamento le critiche secondo le quali le associazioni non rispondevano alle volontà del Regime. Proponeva semmai di valutare in modo sereno l’intera esperienza degli enti delegati tirando un bilancio: se non avessero corrisposto ai fini previsti in quelle leggi sarebbe stato logico abolirli immediatamente, in caso contrario sarebbe stato doveroso un intervento del 242 La lettera di Bettini a Pico del 3 aprile 1933 è stata pubblicata in Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano, cit., p. 221. 243 A. Marcucci, La scuola di Giovanni Cena, p. 219. 244 La discussione parlamentare sul Bilancio del Ministero dell’E. N., «La nuova scuola italiana», n. 25, 19 marzo 1933, p. V. 245 Una norma contenuta nel Testo Unico del 14 settembre 1931, n. 1175, aveva disposto il passaggio allo Stato di tutte le scuole elementari rimaste ai grandi Comuni a partire dal primo gennaio 1932. A causa delle difficoltà insorte per rendere operativa questa norma furono concessi due anni di tempo. Il successivo R.D. 1 luglio 1933, n. 786 disponeva la soppressione della competenza sulla scuola degli ultimi Comuni autonomi a partire dal primo gennaio 1934 (Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 434-435). 246 La discussione parlamentare sul Bilancio del Ministero dell’E. N., «La nuova scuola italiana», n. 25, 19 marzo 1933, p. V. 91 governo contro gli «aspri attacchi» che venivamo mossi 247. In secondo luogo Severini negò che gli enti turbassero «il concetto totalitario della scuola di Stato» poiché erano essi stessi «nella cerchia statale»; inoltre a suo modo di vedere il concetto totalitario della scuola doveva «riferirsi al fine da raggiungere e non già ai mezzi da adoperare» e pertanto era giustificabile se in taluni ambienti difficili per condizioni economiche e topografiche si ricorreva all’ausilio di altri enti che concorressero all’obiettivo finale. In terzo luogo il deputato dimostrò l’infondatezza per la quale le scuole non classificate non fossero economiche, affermando che grazie ad esse il ministero risparmiava circa 12 milioni di lire all’anno. Né era vero a giudizio dell’onorevole Severini che gli enti sfuggissero al controllo dello Stato poiché essi potevano essere ispezionati dal ministero, così come le scuole potevano essere oggetto di controlli da parte dei provveditori. Il vero potere in capo alle associazioni e non allo Stato, riconosceva il deputato, era quello direttivo secondo il quale ognuna di esse aveva la responsabilità in fatto di gestione scolastica, ma tale diritto non era alienabile se non determinando la soppressione degli enti stessi248. Altre parole furono spese da Severini in difesa degli ispettori e dei direttori di zona in servizio presso le associazioni accusati di arricchimento personale, di svolgere un lavoro troppo leggero rispetto al compenso e di ricevere «favolosi» guadagni249. Che il clima per gli enti delegati fosse cambiato con l’arrivo di Ercole al ministero apparve chiaro non solo per l’avvio dell’ispezione di cui si è fatto cenno prima, ma anche per una pioggia di circolari che intensificano il controllo sulle associazioni e mostrarono chiaramente la volontà dello Stato di dettare loro la linea di intervento. Il 26 dicembre 1932, infatti, veniva inviato ai provveditori e ai presidenti degli enti delegati una circolare in cui si stigmatizzava il fatto che non tutte le associazioni avevano allegato i verbali di visita alle scuole ai consuetudinari rapporti informativi sui maestri delle scuole non classificate recapitati ai regi ispettori250. Con altra circolare emessa il 28 luglio 1933 il ministero prescriveva tassativamente che i corsi che gli enti avrebbero organizzato durante l’estate per la preparazione dei maestri comprendessero un «conveniente numero di lezioni» su materie di cui era evidente la finalità politica: cultura fascista, religione, educazione fisica, igiene e nozioni sanitarie, nozioni relative all’alta montagna251. In particolare la disciplina «Cultura fascista» doveva permettere ai maestri delle scuole non classificate di conoscere l’ordinamento politico stabilitosi in Italia dopo il 1922, affinché potessero «svolgere opera di volgarizzazione della dottrina fascista» mentre l’educazione fisica doveva essere impartita «secondo i programmi compilati dall’O.N.B. per le scuole elementari»252. Infine, nel settembre 1933 veniva firmata un’altra circolare in cui si comunicava l’intenzione di mettere fine al fenomeno della «sclassificazione» delle scuole, contro cui si erano scagliati in passato l’Anif e numerosi deputati, tra cui Bascone253. Si poteva derogare a tale norma solo inoltrando richiesta al ministero nei casi in cui si trattasse di scuole classificate non ubicate in capoluoghi di comuni, le 247 Il discorso dell’on. Severini. La mirabile opera degli Enti delegati e il giudizio degli stranieri, «La nuova scuola italiana», n. 26, 26 marzo 1933, pp. 774-776. 248 Ibid. 249 Il discorso dell’on. Severini, «La nuova scuola italiana», n. 27, 2 aprile 1933, p. 815. 250 I rapporti informativi dei maestri delle scuole non classificate, «La nuova scuola italiana», n. 13-14, 1 gennaio 1933, p. VIII. 251 Corsi di preparazione per i maestri delle scuole non classificate, «La nuova scuola italiana», n. 41, 15 agosto 1933, p. III. 252 Ibid. 253 Scuole non classificate per l’anno scolastico 1933-34, «La nuova scuola italiana», n. 2, 1 ottobre 1933, p. IV. 92 quali da un biennio avessero avuto un numero di frequentanti inferiore a trenta. Quanto alle scuole non classificate di nuova istituzione, il ministero diede la possibilità ai provveditorati di aprirne in numero assai limitato e comunque tenendo presente che esse non potevano essere attivate nei capoluoghi, ma solo nelle frazioni e borgate. L’anno scolastico 1933-34 iniziava, dunque, per gli enti delegati tra molte ombre, mentre si susseguivano le voci nei corridoi ministeriali su imminenti provvedimenti del governo. Si arrivò, quindi, alla metà di novembre quando la notizia che in molti si attendevano apparve sui giornali. Alla stampa era stata infatti diramato un «comunicato ufficioso» in cui si preannunciava che a partire dal successivo anno scolastico 1934-35 la gestione delle scuole rurali uniche funzionanti nel territorio dei provveditorati agli studi di Genova, Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli e Campobasso sarebbe stata tolta alle associazioni che fino ad allora la detenevano e affidata all’Opera Balilla, mentre le scuole rurali uniche sottoposte al provveditorato di Trieste sarebbero state consegnate all’Opera nazionale di assistenza all’Italia Redenta254. Degli enti attivi fino a quel momento sarebbero perciò rimasti in funzione, oltre all’Onair e all’Onb, solo l’Ente pugliese di cultura e le Scuole per i contadini dell’Agro romano. Commentando tale notizia «I diritti della scuola» dichiararono di ignorare se questo provvedimento era stato preso sulla scorta dei risultati dell’ispezione alle scuole degli enti poiché fino ad allora «il ministro non fece mai saper nulla» dell’inchiesta stessa255. La rivista magistrale affermava inoltre che da quello che si era appreso ufficiosamente non erano state trovate irregolarità e che le poche indicazioni fornite dagli ispettori al ministero vertevano sulla necessità di ridurre il numero delle associazioni a due soltanto: l’Onair e l’Onb256. All’apparenza distaccato ma in realtà gelido era il commento a quanto stava accadendo de «La nuova scuola italiana», la rivista codignolana legata all’Ente di Cultura, una delle associazioni colpite dal nuovo provvedimento che le avrebbe sottratte le scuole rurali della Toscana e dell’Emilia: Il provvedimento non giunge nuovo giacché era da tempo intenzione del Ministro di accentrare in pochi Enti il servizio delle scuole rurali non classificate, allo scopo di poter meglio dare uniformità di indirizzo e per poter effettuare meglio il necessario controllo257. La notizia in effetti non era nuova per gli addetti ai lavori, ma sorprese il fatto che essa fosse stata diffusa alla stampa per mezzo di un comunicato uscito in forma ufficiosa dagli ambienti ministeriali senza che nessun provvedimento legislativo fosse stato ancora adottato258. Tuttavia ai protagonisti della vicenda appariva chiaro che oramai i giochi erano stati già compiuti e non si sarebbe potuto più tornare indietro. Una consapevolezza che alimentò tanta amarezza nei dirigenti delle associazioni colpite da quella decisione e perfino qualche recriminazione, come 254 Il comunicato venne pubblicato sia da «I diritti della scuola», che da «La nuova scuola italiana». La prima rivista precisava che si trattava di un «comunicato ufficioso». Cfr. Nelle scuole rurali delle Associazioni delegate, «I diritti della scuola», n. 7, 19 novembre 1933, pp. 103-104; La gestione delle scuole uniche rurali, «La nuova scuola italiana», n. 9, 19 novembre 1933, p. VI. 255 Nelle scuole rurali delle Associazioni delegate, «I diritti della scuola», n. 7, 19 novembre 1933, pp. 103-104. 256 Ibid. 257 La gestione delle scuole uniche rurali,«La nuova scuola italiana», n. 9, 19 novembre 1933, p. VI. 258 Lo spoglio degli atti prodotti dal ministero dell’Educazione Nazionale in quel lasso di tempo ha confermato che non fu adottato nessun tipo di provvedimento legislativo prima dell’uscita del comunicato. 93 quella che Pico manifestò in una lettera a Lombardo Radice verso il presidente del Gruppo di Azione per le scuole del popolo, Gioacchino Volpe, accusato di non aver patrocinato in maniera adeguata la causa del proprio ente presso il governo. Scrisse a questo proposito Pico il 26 novembre 1933: Ora che le scolette passano all’O.N.B. mi sembra d’essere mutilato. Speriamo che sia compresa anche l’eredità spirituale, intellettuale che lasciamo, altrimenti sarebbe grande mortificazione. Questa per vero l’abbiamo già avuta con l’esclusione (dal passaggio all’O.N.B.) delle scuole del Marcucci e dell’Ente Pugliese specialmente. Certamente non siamo stati sostenuti dal nostro Presidente 259. Una certa acredine emergeva dalla lettera di Pico anche per il trattamento di favore riservato ai due enti delegati risparmiati dalla scure del ministero: l’Ente pugliese di cultura, salvato grazie alla protezione di Starace, e le Scuole dell’Agro Romano, premiate grazie al fatto che il loro presidente fosse l’ex ministro Fedele. Non destò particolari meraviglie, invece, il mancato ritiro della delega all’Opera nazionale di assistenza all’Italia Redenta poiché essa, come è noto, godeva del patronato della Duchessa d’Aosta. Sul finire del 1933 Marcucci, che pure aveva visto le sue scuole dell’Agro romano salve, si diceva in una lettera a Pico del 18 dicembre 1933 ugualmente disgustato per l’approvazione con cui taluni osservatori, tra cui il pedagogista Calò260, avevano salutato la liquidazione dell’esperienza degli enti delegati. Scrisse Marcucci: 259 Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano, cit., p. 223. Scrisse Calò: «Bisogna salutare con sincero compiacimento un recente decreto che, com’era dal resto da attendersi e come noi ci attendevamo da un pezzo, ristabilisce in pieno la coerenza e l’uniformità nelle direttive di Governo riguardo all’amministrazione delle scuole non classificate […] E il compiacimento con cui questa misura va salutata non deve suonare misconoscimento di quello che per molti anni molti volenterosi – dove più dove meno – hanno fatto, nei singoli Enti, sostituendo o integrando l’opera dello Stato, con operoso amore alla scuola rurale. Ma è un fatto che non poteva non costituire una stonatura, anzi addirittura una contraddizione – come altra volta avemmo occasione di rilevare –, il mantenere la quasi totalità delle scuole uniche rurali alla dipendenza di Enti delegati, cioè di Enti operanti e amministranti con larghissima, e quasi insindacabile, autonomia, quando si decretava il passaggio allo Stato delle Scuole dipendenti dai grandi Comuni. Se ragioni politiche, almeno ideali, vi erano – non discutiamone qui il grado di pratica necessità –, di rigorosa unità e di accentramento nelle mani dello Stato, per quest’ultimo provvedimento, non si vede, in via di pura coerenza, perché esse dovessero valere soltanto per i grandi Comuni, Enti autarchici ormai spiritualmente e giuridicamente fascistizzati, inseriti organicamente nell’amministrazione statale, e controllati dai pubblici poteri nei loro bilanci e nei loro atti amministrativi; quando poi i grandi Comuni avevano a loro favore una tradizione di larghe e feconde iniziative, un’attrezzatura, generalmente, di prim’ordine, un’organizzazione, d’uomini e d’istituzioni, fondata su un’esperienza di bisogni, su uno spirito di emulazione e di beninteso amor proprio, spesso su un prestigio di memorie e di glorie locali, che difficilmente potevano essere sostituiti […] Non sappiamo i motivi – certo apprezzabilissimi, e forse non difficilmente intuibili – che han fatto escludere dal provvedimento due Enti così benemeriti, nel territorio speciale loro affidato, cioè il Comitato per le scuole dei contadini dell’Agro romano e l’Ente Pugliese di Cultura […] Ma è chiaro che l’Opera Nazionale Balilla – pur se la decretata misura non costituisca una fase transitoria e preparatoria a una più netta e radicale e letterale statizzazione di tutte le cinquemila scuole classificate esistenti in Italia – è destinata a segnare, assumendosi essa la gestione delle scuole di quasi tutti gli Enti finora delegati, una sostanziale statizzazione o un’approssimazione verso l’assoluta statizzazione di tutte le scuole rurali che in gran parte d’Italia vivevano sin qui in uno stato giuridico e amministrativo speciale» (G. Calò, Scuole…fuori classe, «Vita scolastica», n. 8-9, ottobre-novembre 1933, pp. 1-7). 260 94 Scusa lo sfogo; io sono sempre nel dolore di quanto è avvenuto e trepido per quanto avverrà, e l’amaro all’anima mi viene subito alla bocca a ogni provocazione, ritenendo come tale quello scialbo scritto del “Corriere” e altri che mi arrivano? Hai letto quello di Calò sulla “Vita scolastica”? Chissà quali vecchi rancori costui cova verso gli Enti che pur molto onore fanno anche a lui alla Mostra di Firenze! Demagogia e di quella buona! Possibile che di tutto quello che si è fatto in 13 anni (e per me 27 anni) non conduca altro che a deplorare il trattamento degli insegnanti? Perché non si parla dei professori medi incaricati, pagati a 6 lire lorde l’ora, quando fanno scuola, di storia, di latino, di letteratura ecc.? Non conduca altro a insinuare che siamo negrieri impinguati come le zanzare di sangue altrui? Risultati didattici, scuole costruite, Fascismo vero, disciplina, costume morale e professionale, bellezza e ordine e pulizia dove prima era una stomachevole spettacolo, tutto ciò non lo vedono, questi signori, che solo in avvenire sperano di proclamare il trionfo della scuola rurale. Nelle nostre mani questa povera scuola non è stata che sfruttamento! Siamo in giro da 10-20 anni a fare esperienze d’agraria, d’igiene, di morale civile per sentirci buttare addosso a palate la terra della sepoltura mentre siamo ancora vivi 261. La notizia del ritiro della delega a gran parte delle associazioni anticipata nel novembre 1933 si tramutò in realtà con il D.M. 15 giugno 1934 che stabiliva, come già detto, il passaggio alle dipendenze dell’Opera Balilla a partire dal successivo anno scolastico fino al compimento del quinquennio (iniziato nel 1931-32 e destinato a terminare nel 1935-36) delle scuole rurali uniche della Lombardia, del Piemonte, del Veneto, della Liguria, dell’Emilia, della Toscana, della Campania e del Molise, gestite fino ad allora dall’Umanitaria, dal Gruppo di Azione per le scuole del popolo, del Gruppo di Azione per le scuole rurali del Piemonte, del Comitato ligure per l’educazione del popolo, dell’Ente nazionale di cultura, dal Consorzio Emigrazione e Lavoro262. Rimanevano in funzione le Scuole dell’Agro Romano nel Lazio, in Abruzzo, nelle Marche e in Umbria mentre l’Ente pugliese di cultura poteva continuare a operare in Puglia e Lucania; infine, l’Onair poté mantenere la delega nella Venezia Tridentina, a cui aggiunse la Venezia Giulia263. Intervenendo alla Camera nel gennaio 1934 per la consueta discussione del bilancio dell’Educazione Nazionale, il ministro Ercole ringraziò gli enti per la loro opera svolta fino ad allora, citando in particolare l’Ente di cultura nazionale e il Gruppo di Azione per le scuole del popolo di Milano, e al contempo difese la scelta di mantenere la delega a quattro associazioni (Obn, Onair, Ente pugliese di cultura e Scuole per i contadini dell’Agro Romano) per «ragioni locali o speciali di varia natura», rassicurando che su di loro sarebbe stata sempre «operosa e vigile la presenza del controllo statale»264. Il fatto che questa situazione non sarebbe durata a lungo e che prima o poi il Regime avrebbe messo le mani sulle scuole gestite dall’Ente pugliese di cultura e dalle Scuole per i contadini dell’Agro romano, era chiaro anche ai diretti interessati. Il primo a non farsi illusioni era lo stesso Marcucci, il quale nel marzo 1934 scriveva a Pico che i «due Enti superstiti [avrebbero seguito] a distanza di pochi mesi gli altri». Inoltre, quasi a volersi giustificare del fatto che la sua 261 La lettera di Marcucci a Pico del 18 dicembre 1933 è stata pubblicata in Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità, cit., pp. 163-164. 262 Cfr. R. Marzolo, La scuola rurale dell’Opera Balilla, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, febbraio 1935, p. 19. L’ente che cedeva il maggior numero di scuole era quello fiorentino, l’Ente nazionale di cultura (1.031 scuole rurali uniche), seguito dal Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano (715 scuole rurali uniche), dal Consorzio Emigrazione e Lavoro (504), dal Gruppo di Azione per le scuole rurali del Piemonte (411), dall’Umanitaria (329) e dal Comitato Ligure per l’educazione del popolo (193) (Ivi, p. 20). 263 «Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», n. 29, 17 luglio 1934, pp. 15061507. 264 Echi del Bilancio dell’Educazione nazionale, «I diritti della scuola», n. 14, 21 gennaio 1934, p. 224. 95 associazione era stata salvata dalla scure del ministero, ricordava a Pico gli errori compiuti in passato dall’Animi, dal Gruppo milanese e dall’Ente di cultura del Codignola che a suo modo di vedere erano stati la vera causa della scelta punitiva del governo. Scrisse Marcucci: Certo che ricordando la storia delle scuole rurali, che è poi la mia storia, trovo che di gaffes ne sono state commesse, mentre dal 1905 al 1927 tutto erasi svolto con ordinata progressione e sicuri interessi; ma in parte l’Ass. Mezzogiorno, in parte l’Ente toscano, in parte anche il Gruppo (scuole della Valtellina – contrasto Bascone etc.), passi falsi si son fatti e siamo arrivati alla liquidazione. Dico liquidazione di tutti, perché, non c’è da farsi illusioni, anche i due Enti superstiti seguiranno a distanza di pochi mesi gli alti 265. Come temuto il colpo di grazia giunse con il D.M. 25 febbraio 1935 con cui il nuovo ministro dell’Educazione Nazionale, Cesare De Vecchi Di Val Cismon, dispose per l’anno scolastico 1935-36 il passaggio all’Onb delle scuole non classificate presenti nel territorio dei provveditorati agli studi di Roma, L’Aquila, Ancona, Perugia, Bari e Potenza e di quelle presenti nel territorio del Governatorato di Roma. In altre parole veniva in questo modo ritirata la delega alle Scuole dell’Agro Romano e all’Ente pugliese di cultura266. Di certo dietro l’intervento di qualche personaggio politico di spicco, forse Fedele o l’ex ministro Baccelli267, quel provvedimento fu parzialmente corretto: con D.M. 2 maggio 1935 veniva riassegnato all’ente diretto da Marcucci un esiguo gruppo di scuole rurali formato da quelle più antiche e prestigiose, vale a dire quelle fondate da Giovanni Cena. Si trattava delle scuole non classificate funzionanti nel territorio del Governatorato di Roma, di Carchitti nel comune di Palestrina, di Colle di Fuori nel comune di Roccapriora, di Vivaro nel comune di Rocca di Papa e di Pantano Borghese nel comune di Montecompatri268. Anche dal punto di vista formale si volle sanzionare la nuova sistemazione giuridica data alle scuole non classificate: nel giugno 1935, sotto De Vecchi, esse assunsero il nome di «scuole rurali», dopo che già nel luglio 1933 Mussolini aveva chiesto ad Ercole se «la fantasia degli uffici» non fosse in grado di trovare «un termine meno umiliante e deplorevole» di quello di «scuole non classificate»269. 265 La lettera di Marcucci a Pico del 12 marzo 1934 è stata pubblicata in Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità, cit., p. 165. 266 «Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», n. 13, 26 marzo 1935, pp. 893894. 267 C’è da rilevare che l’ex ministro della pubblica istruzione, Alfredo Baccelli, era intervenuto al Senato nel gennaio 1934 come relatore del bilancio dell’Educazione Nazionale rivolgendo parole di lode agli enti delegati e in particolare alle Scuole per i contadini dell’Agro romano (Il Bilancio dell’E.N. in Parlamento, «I diritti della scuola», n. 13, 14 gennaio 1935, p. 207). 268 «Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», n. 31, 30 luglio 1935, pp. 21532154. 269 Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., p. 435. Il nome fu modificato in base al R.D. 20 giugno 1935, n. 1196. In particolare l’articolo 2 del decreto prevedeva quattro tipi di scuole elementari: scuole di Stato, scuole rurali, scuole parificate e scuole sussidiate. Precisava il decreto: «Scuole di Stato sono quelle direttamente amministrate dai Regi Provveditori agli studi; scuole rurali quelle gestite per delega da enti di cultura; scuole parificate quelle tenute da enti, corporazioni e associazioni e riconosciute a ogni effetto legale mediante apposita convenzione. Le scuole sussidiate sono quelle aperte da privati, da enti o associazioni con l’autorizzazione del Regio provveditore agli studi nelle forme e con le modalità stabilite dal testo unico 5 febbraio 1928, n. 577. Le norme in vigore che si riferiscono a scuole elementari classificate, non classificate e a sgravio, si intendono rispettivamente applicabili alle scuole di Stato, alle scuole rurali e alle scuole parificate». 96 Inquadrate le scuole secondo i desideri del Regime, De Vecchi abbandonò al loro destino gli enti a cui era stata tolta la delega. Il caso più emblematico fu quello del Gruppo di Azione per le Scuole di Milano che all’inizio del 1935 veniva fagocitato dal fascismo: con un colpo di mano venne infatti sciolto il consiglio dell’associazione e nominato suo unico dirigente Camillo De Amici, che ricopriva la carica di fiduciario provinciale dell’Associazione Fascista della Scuola (Afs)270. Nessun altra concessione, peraltro, il ministro fece alle due associazioni superstiti. All’ente guidato da Marcucci, ad esempio, che aveva chiesto di poter ampliare la propria azione istituendo la quarta e la quinta classe nelle scuole che le erano rimaste, De Vecchi oppose un fermo rifiuto271. Assorbita dall’Opera Balilla, la scuola rurale divenne il terreno privilegiato per la formazione del nuovo contadino fascista, le cui virtù dovevano essere la sobrietà, il coraggio e l’operosità. La campagna era il luogo in cui vivere con alto senso di dignità la propria vita semplice e frugale, in opposizione al lusso e alle comodità ostentate nelle città corruttrici dell’anima dell’agricoltore, secondo canoni tipici della politica ruralizzatrice del Regime. I giovani contadini potevano finalmente istruirsi in un ambiente sano, nel culto della Patria e nell’amore per la propria terra, cosicché al vecchio motto «Libro e moschetto» – che dava l’idea di un militante dedito a studio, esercizio fisico e uso delle armi per difendere la Rivoluzione –, se ne poteva sostituire a detta del senatore Nicola Pende, un altro molto più calzante ad indicare la «vera bonifica integrale della scuola fascista: Libro, moschetto e vanga»272. Le scuole rurali dell’Onb erano, insomma, la vera fucina del nuovo italiano in cui la formazione si compiva innanzitutto attraverso gli esercizi ginnici, le preghiere, il ricordo dei martiri fascisti, il lavoro nel campicello. Scrisse a tal proposito nel 1936 il funzionario del ministero dell’Educazione nazionale, Gustavo Sessa: 270 Questa vicenda è ben descritta in Rossi, Il Gruppo d’azione per le scuole del popolo di Milano, cit., p. 231. 271 Il fatto è raccontato da Marcucci a Fedele, al quale chiese nel novembre 1936 di patrocinare presso il nuovo ministro Bottai la causa dell’associazione. Scrisse Marcucci: «Siamo assillati da richiesta in proposito. Quasi dovunque si reclama l’istituzione di sezioni elementari per la IV e la V. Il Min.[istro] De Vecchi ce le ha negate, pur essendo la nostra richiesta perfettamente in regola con la Legge e con la Convenzione da lui stesso stabilita col nostro Ente, in quanto non si trattava di aprire scuole nuove, ma di ampliamento di quelle lasciateci, dovuto a cresciuta popolazione ed a nuovi bisogni culturali in essa salutarmente destatisi» (ACS, Archivio Pietro Fedele, b. 11, Lettera di Marcucci a Fedele, 13 novembre 1936). Sempre nel novembre 1936 un altro protagonista del movimento degli enti, Pico, proponeva a Codignola un improbabile programma di azione per la creazione delle classi quinte elementari nelle scuole rurali, delle scuole materne e di corsi di preparazione per le maestre, destinato a non essere realizzato: «Sì, il desiderio c’è e vivo di tenere i legami d’un tempo e ravvivarli. Occorre un campo di lavoro. E non vedo che l’educazione degli umili. Le scuole per i rurali erano avviate, ma secondo me non vi sono ancora: manca l’obbligo fino alla V, mancano le scuole materne (asili). Questo è campo che noi conosciamo e potremmo preparare un piano di azione fascista. Certo non bisogna far drizzare gli orecchi all’on. Ricci prima e all’on. Antonelli poi. Mi pare che si dovrebbe cominciare dalla preparazione delle maestre rurali (Ist. Magistrale, Corsi estivi ed annuali) all’arredo della scuola materna. E poi far parlare in tono quasi uniforme la stampa previo accordo fra i colleghi e il partito. È questa l’ora opportuna, ma preparare si deve, senza indugio» (La lettera di Pico a Codignola del 3 novembre 1936 è stata pubblicata in Cives, L’attività dell’Ente di Cultura, cit., p. 144). 272 Cfr. N. Pende, La scuola fascista nella sua fase corporativa, imperiale e biologica, «Rivista pedagogica», n. 3, maggio-giugno 1937, p. 256. 97 Cresciuto nell’atmosfera fascista della scuola rurale, ogni alunno sente in sé i principi dell’uomo nuovo, desiderato dal Duce; abituato fin dal primo giorno all’obbedienza, alla disciplina, alla gioia del rischio e dell’ardimento, alla cordialità e all’entusiasmo, ama il lavoro e disprezza il pericolo; il suo motto è «Vivere pericolosamente». Egli veste con orgoglio la divisa del Balilla; pronuncia con slancio ogni mattina il rituale «Presente» all’Eroe che dà il nome alla scuola; recita con fervore la preghiera a Dio per il Duce; canta con orgoglio le canzoni della Patria; lavora con gioia il campicello della scuola che gli darà gli ortaggi per la refezione scolastica; coltiva con passione i fiori per farne omaggio all’Eroe; calza con soddisfazione le scarpe nuove donate dall’Opera Balilla; accetta volentieri la visita del medico provinciale e si asside sorridente davanti al deschetto della refezione scolastica che la maestra ha preparato con il suo aiuto273. Il passaggio delle scuole rurali all’Opera Balilla era, infine, funzionale alla stessa organizzazione giovanile e al suo presidente Renato Ricci che vedevano in tal modo accrescere il loro prestigio. Le campagne, infatti, si erano mostrate più fredde nell’adesione all’Onb, essendo i giovani ed i giovanissimi occupati a tempo pieno nei lavori agricoli e sopravvivendo talvolta sentimenti antifascisti in talune famiglie contadine274. Ciò emergeva con chiarezza dal numero di iscritti all’Opera Balilla riferito all’anno scolastico 1928-29: la situazione peggiore si registrava nelle scuole gestite dall’Ente di Cultura Nazionale dove solo il 36% degli alunni era tesserato all’Onb, percentuale che saliva al 38% per le scuole dell’Onair; nelle Scuole per i contadini dell’Agro Romano il dato era del 45%, nel Gruppo di azione per le Scuole del popolo si arrivava al 50%275. Negli altri casi la percentuale si attestava sempre sotto il 70%, ad eccezione del Gruppo di azione per le scuole rurali del Piemonte che, stando a quanto è dato sapere, brillava per una cifra del 97%: infatti il Comitato Ligure si attestava al 68%, l’Umanitaria al 69%, l’Ente pugliese di cultura al 70%, l’Ente sardo di cultura al 70%. Era nelle scuole gestite direttamente dall’Onb che, come è anche facile immaginarsi, la percentuale di iscritti all’organizzazione giovanile era decisamente più alta, attestandosi all’80%. Un numero che era destinato a crescere grazie alla mobilitazione di maestri e dirigenti dell’Opera: nel 1931-32 la percentuale di tesserati all’Onb nelle scuole da essa gestite era salita al 96% e nel 1934-35 al 99%276. 4. La scuola rurale nello Stato corporativo: l’istruzione nelle campagne durante il ministero Bottai Con l’avvento al ministero di Giuseppe Bottai, avvenuto nel novembre 1936, il processo di fascistizzazione della scuola rurale italiana raggiungeva il suo punto più alto. Il nuovo titolare dell’Educazione Nazionale, infatti, proseguì sulla strada iniziata dai suoi predecessori volta ad intensificare il controllo sull’istruzione elementare nelle campagne e a conferire ad essa un più spiccato «orientamento rurale», inserendo questo ramo dell’insegnamento nella più complessa ed 273 Cfr. G. Sessa, L’attività scolastica dell’Opera Balilla. Scuole rurali – Corsi e scuole per adulti, «Annali dell’istruzione elementare», n. 2-3, luglio 1936, p. 106. 274 C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 143. 275 I dati sono tratti da A. Marcucci, Ordinamento delle Scuole rurali non classificate, «Annali dell’istruzione elementare», n. 1, febbraio 1930, p. 57. 276 Cfr. Sessa, L’attività scolastica dell’Opera Balilla, cit., p. 115. 98 articolata costruzione rappresentata dalla «Carta della Scuola» che avrebbe modificato l’intero edificio scolastico nazionale dopo la riforma Gentile277. L’atto più importante da questo punto di vista fu l’avocazione allo Stato di quasi tutte le scuole rurali d’Italia, stabilita con il R.D.L n. 1771 del 14 ottobre 1938. In base a questo provvedimento a partire dal primo gennaio 1939 le scuole in passato gestite dall’Opera Balilla, a cui si era sostituita nell’ottobre 1937 la sua naturale erede, la Gioventù Italiana del Littorio (Gil), passarono alle dirette dipendenze del ministero, ad eccezione temporanea delle poche scuole rimaste all’Ente Scuole per i contadini dell’Agro Romano, all’Onair ed agli enti di bonifica278. Anche la definizione di scuola rurale mutò: venivano adesso considerate tali le scuole elementari dei capoluoghi di Comuni, frazioni o borgate, con un numero di fanciulli obbligati all’istruzione non superiore a 250 e non inferiore a 20, quando si trattasse di località abitate da popolazione prevalentemente dedita all’agricoltura279. Per venire incontro ai desideri dei maestri, che da tempo lamentavano la disparità di trattamento con i colleghi delle scuole urbane, Bottai aprì la strada di una progressione di carriera che faceva loro intravedere migliori condizioni salariali. In particolare un maestro appena uscito dall’istituto magistrale dopo un triennio di prova diventava, salvo aver conseguito risultati negativi, «stabile». Dopo cinque anni di servizio in una scuola rurale, si poteva partecipare al concorso per il passaggio nei ruoli di quinta categoria: in base al primo concorso bandito nel 1939 furono assunti in ruolo con il nuovo anno scolastico 1.820 insegnanti, a cui si aggiunsero altri 771 l’anno successivo280. Poco dopo agli insegnanti fu assicurata anche la possibilità di passare nei 277 Sulla «Carta della Scuola» e sulla politica scolastica di Bottai la bibliografia è molto ampia. Ricordiamo i lavori principali: A.J. De Grand, Bottai e la cultura fascista, Roma-Bari, Laterza, 1978; T.M. Mazzatosta, Il regime fascista tra educazione e propaganda (1935-1943), Bologna, Cappelli, 1978; R. Gentili, Giuseppe Bottai e la riforma fascista della scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1979; M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 228-269; Charnitzky, Fascismo e scuola, cit., pp. 440-469; De Fort, La scuola elementare italiana dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., pp. 429-480. 278 Ministero della Educazione Nazionale, Scuole Rurali, Roma, 1940, p. 5. Un’interessante opera educativa svolta da un consorzio di bonifica fu quella animata dal marchese Antonio Origo e dalla sua consorte, Iris Cutting, in Val d’Orcia, in Toscana, a partire dal 1935. Fin dal 1924 i due coniugi avevano acquistato «La Foce», una fattoria di 1.400 ettari in una zona povera, caratterizzata dalla presenza di colline argillose e di torrenti inariditi. Era iniziata così l’opera di bonifica con la costruzione di sistemi idraulici, di strade e di case coloniche. Nel giro di poco tempo gli Origo si convinsero che non ci potesse essere un vero miglioramento morale e materiale delle condizioni dei contadini senza far sentir loro i benefici dell’istruzione e del sapere. Vennero così aperte due scuole nel centro della tenuta a «La Foce», a cui se ne aggiunsero successivamente altre due in località più isolate nella vallata, «San Pietro in Campo» e «Checche». Il consorzio di bonifica chiese al ministero dell’Educazione nazionale la parificazione delle scuole (il vecchio status giuridico delle scuole a sgravio), offrendosi in cambio di costruire gli edifici scolastici, di arredarli e di provvedere alla refezione scolastica in autunno e in inverno. Tra il 1939 e il 1940 esse furono visitate da Alessandro Marcucci che vi riconobbe alcune caratteristiche analoghe a quelle delle sue scuole sorte nell’Agro romano nei primi del secolo (A. Marcucci, Bonifica e scuola in Val d’Orcia, «Annali dell’ordine elementare», n. 1, ottobre 1940, pp. 20-26; riferimenti alle scuole anche in I. Origo, Guerra in Val d’Orcia: diario 1943-44, Montepulciano, Le Balze, 2000). 279 Ministero della Educazione Nazionale, Scuole Rurali, cit., p. 6. 280 Cfr. G. Santini, Le scuole rurali nel triennio 1938-41, «Annali dell’ordine elementare», n. 1, ottobre 1941, p. 19. 99 ruoli di categorie superiori, in seguito a concorsi per titoli dopo un periodo di 10 o 15 anni di servizio. Si provvide inoltre a migliorare la situazione economica dei maestri, sostituendo la diaria e il premio di cui godevano, con una retribuzione annua, commisurata al servizio effettivamente prestato, da una indennità commisurata alla qualità del servizio281. Dal punto di vista quantitativo le scuole rurali alla data del primo gennaio 1939 erano 7.170; nell’anno 1939-40 esse salirono a 7.529 e nel 1940-41 a 8.129. In quegli anni in molti casi si riuscì ad estendere il corso elementare, con l’istituzione della quarta e talvolta della quinta classe. Dal punto di vista amministrativo si deve inoltre dire che furono create in base a questa nuova normativa 169 direzioni didattiche rurali, ognuna delle quali comprendeva da 45 a 50 scuole, aumentate a 194 nell’anno scolastico 1940-41282. Frattanto con il nuovo riordinamento del sistema educativo italiano previsto dalla «Carta della Scuola», varata nel 1939 da Bottai, lo stesso concetto di scuola rurale compì un’evoluzione rispetto a quello elaborato dalla pedagogia idealistica e tradotto in pratica dalla riforma Gentile, e ancor prima a quello pensato da quella schiera di filantropi e benefattori che nei primi anni del Novecento animò l’esperienza delle scuole per i contadini. Nell’arco di un quarantennio, notava nel 1941 un alto funzionario del ministero, Carmelo Cottone, l’idea di scuola era venuta trasformandosi a seconda delle esigenze e della temperie culturale del momento: se all’inizio la scuola rurale era stata connotata in senso positivista, al punto che ad essere stato esaltato ne era «il contenuto illuministico», con la riforma gentiliana l’accento era posto non tanto sulla «tutela e la trasmissione delle verità e del sapere, quanto [su] un sapere che fosse strumento per altre conquiste»283. In altre parole, ad essere privilegiato era il come si doveva apprendere, non più il che cosa e così, «il problema della scuola rurale […] diveniva problema di particolari processi didattici». Un ulteriore stadio nell’evoluzione storica del concetto di prassi educativa e, conseguentemente, di scuola rurale, si ebbe, a giudizio di Cottone, con il fascismo. Esso, facendosi promotore dell’inserimento delle masse contadine nella «vita politica nazionale», determinò la necessità di una nuova ridefinizione dell’idea di scuola rurale, compito che la riforma bottaiana di quegli anni si era assunto di compiere. A questo proposito era possibile per Cottone una sintesi ereditando quanto di buono vi era nella riforma Gentile e nella cultura positivista, reinterpretata quest’ultima nel corso degli anni Venti e Trenta nella versione del «realismo 281 Nonostante i miglioramenti previsti per gli insegnanti, il nuovo provvedimento sulle scuole rurali provocò le critiche dei fiduciari provinciali dell’Associazione fascista della scuola (Afs) riunitisi in convegno a Roma. Le loro doglianze furono raccolte dal segretario del partito che inviò un pro-memoria al ministro Bottai. Quest’ultimo, stimando che non si potessero accogliere tali richieste, spiegò il suo punto di vista direttamente a Mussolini in una lettera del gennaio 1839 in cui scrisse: «L’A.F.S. avrebbe desiderato che le scuole rurali fossero integralmente incorporate nelle scuole a tipo comune e che tutti i maestri fossero inquadrati nei ruoli di 5^ categoria. Ma l’integrazione delle scuole rurali in quelle a tipo comune avrebbe importato l’annientamento, la distruzione completa della scuola rurale come speciale tipo di scuola per i figli dei contadini» (ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1937-39, 5.1.6598, Lettera di Bottai a Mussolini, 9 gennaio 1939). 282 Ivi, pp. 17-18. Il decreto del 1938 si interessava anche di altre questioni come i libri di testo, le forniture scolastiche e l’arredamento delle scuole. 283 C. Cottone, Tecnica agraria nelle scuole rurali, «Scuola italiana moderna», n. 22, 1 giugno 1941, p. 280. Cottone era nato a Nuoro nel 1903. Divenuto maestro elementare prima, direttore e ispettore poi, lavorò al Ministero negli anni in cui al vertice vi era Bottai (cfr. A. Calice, Ricordo di Carmelo Cottone, in Educazione moderna e scuola di base: studi in onore di Carmelo Cottone, Brescia, La Scuola, 1973, pp. 9-20). 100 pedagogico». A realizzarla sarebbe stata la Carta della Scuola, prendendo le distanze tanto dalle posizioni idealistiche («Ruralità non vuol dire arcadicheria di maniera e letteraria, né senso idilliaco e turistico della natura. La ruralità è stato d’animo che matura dalla coscienza della problematicità che nasce dalla vita dei campi») quanto dalla concezione empiristica e positivistica della formazione professionale per i contadini («la scuola rurale assumendo, come cultura, l’istanza della vita dei campi tende a rompere il limitato cerchio dell’empirismo atavico e fa capo alle ragioni tecniche dell’agricoltura»)284. Dall’altra parte la riforma bottaiana puntando ad introdurre in Italia la cosiddetta Scuola del lavoro – in base alla IX dichiarazione della Carta della Scuola che prevedeva di preparare al lavoro manuale i ragazzini dal nono all’undicesimo anno di età per mezzo di «esercitazioni pratiche, organicamente inserite nei programmi di studio» – spinse la scuola rurale a connotarsi in senso pratico essendo suo precipuo scopo quello di formare il bravo e operoso lavoratore dei campi. Ma la riforma doveva essere in primo luogo riforma spirituale, prima ancora che riguardare l’aspetto economico e produttivo. Essa doveva modificare innanzitutto la mentalità e la cultura al fine di costruire un sistema valoriale per i giovani contadini che ponesse al centro la campagna, il lavoro agricolo e la sua eticità. Ciò significava che il lavoro introdotto nelle scuole rurali non doveva essere produttivo nel senso classico del termine, ma finalizzato alla creazione di un’anima rurale e funzionale alla piena realizzazione dello Stato corporativo. I pedagogisti che lavorarono sotto il ministero di Bottai alla definizione teorica dei presupposti e dei principi educativi che dovevano informare la Carta della Scuola, come Luigi Volpicelli, Aldo Agazzi e Giorgio Gabrielli, si sforzarono di precisare i contorni di questo aspetto. Scrisse a questo proposito Gabrielli: Dobbiamo poi richiamare l’attenzione di quanti si occupano del lavoro nella scuola rurale, sul pericolo di intendere il termine produttivo, come un elemento esclusivamente economico. Su questo concetto ha scritto e riscritto da par suo Luigi Volpicelli, e non ripeteremo le sue luminose dimostrazioni, alle quali rimandiamo il lettore. Più modestamente, ma con eguale intendimento, ricordiamo che il lavoro rurale deve avere di mira specialmente una produttività di valori spirituali e culturali, tecnica e organizzativa. Se vi si aggiungeranno i valori economici tanto meglio, perché così il concetto di lavoro sarà completo nei molteplici aspetti, ma teniamo presente che il laboratorio della scuola, cioè il campicello scolastico, deve produrre la consapevolezza del lavoro, l’esperienza delle possibilità del lavoro rurale, la tecnica progredita del lavoro, l’umanità e la socialità del lavoro agricolo, e dare il concetto nella economia nazionale e locale della produzione rurale285. In altre parole, l’introduzione del lavoro e le sue capacità formative non si esaurivano nella semplice manualità del lavoro agricolo, ma era altresì importante la conoscenza dei problemi dell’agricoltura nazionale, dei provvedimenti assunti dal governo per risollevare le sorti del mondo rurale e per l’incremento della produttività agraria. Tali conoscenze avrebbero così favorito la nascita di un sentimento rurale. Scrisse a questo proposito Agazzi: L’agricoltura non è soltanto il vangare, l’arare, il rastrellare e il falciare, ma è anche, e soprattutto, - come coscienza rurale – battaglia del grano, bonifica, riduzione del latifondo, rimboschimento, selezione di sementi, concimazioni chimiche, arature meccaniche, seminagioni a macchina, trebbiatura a motore, lotta scientifica contro i parassiti, conservazione razionale dei prodotti, intelligente studio del proprio terreno per vedere quali colture meglio gli si 284 Cottone, Tecnica agraria nelle scuole rurali, cit., p. 280. Cfr. G. Gabrielli, Il lavoro nella scuola rurale, in Il lavoro nella scuola del lavoro, supplemento ad «Annali dell’ordine elementare», 1941, pp. 40-41. 285 101 addicano, con quali correttivi si possa migliorarlo, con quali mezzi se ne possono moltiplicare e migliorare i prodotti286. Si apriva in tal modo la strada al concetto di differenziazione didattica, in misura maggiore di quanto non fosse avvenuto in passato. Interessante da questo punto di vista fu il discorso di Bottai trasmesso alla radio il 13 gennaio 1940 in cui affermò che la scuola rurale grazie alla sua riforma avrebbe acquisito una maggiore «individualità didattica», assumendo tratti che l’avrebbero resa ancor più differente da quella urbana: l’insegnamento doveva attingere unicamente dalla campagna i motivi e le forme del suo essere e non doveva fornire agli alunni «una cultura disambientata» perché così li avrebbe distolti dal luogo in cui erano chiamati a vivere e lavorare, «senza peraltro sufficientemente orientarli alla vita di città»287. La pubblicazione del nuovo ordinamento bottaiano e le sue ricadute sull’insegnamento rurale accese nella pubblicistica coeva una vasta discussione, non inferiore a quella che interessava altri rami dell’insegnamento scolastico toccati dalla riforma. Il momento più alto di questo dibattito fu il convegno per la scuola rurale che si svolse a Palermo il 3 e 4 febbraio 1940, organizzato dal ministero dell’Educazione Nazionale, che finì per diventare l’occasione pubblica per celebrare le innovazioni scolastiche introdotte in questo settore da Bottai. Vi parteciparono alti funzionari ministeriali, provveditori e rappresentanti delle organizzazioni fasciste. Il convegno si concluse con la proclamazione da parte del ministro di una serie di proposizioni in cui si affermava la speciale cura del Regime verso l’insegnamento rurale che cessava di essere «il problema di una categoria sociale, ma il problema dell’intera Nazione». In nome «dell’unità del fatto pedagogico» la scuola rurale, secondo Bottai, non si giustificava più semplicemente «su distinzioni statistiche, demografiche, topografiche, economiche, amministrative, ma su una funzione immanente della cultura italiana», in quanto la ruralità era un dato costitutivo dell’identità stessa del popolo italiano. Si trattava, a ben vedere, di dichiarazioni di principio che poco avevano a che fare con la realtà, nel momento in cui con il decreto da lui emanato nel 1938 la definizione di scuola rurale era ancora legata al numero della popolazione in età scolare. È chiaro che le innovazioni bottaiane si muovevano, da questo punto di vista, in continuità con il passato, trovando un fondamento nella politica portata avanti dal Regime volta a frenare le spinte verso l’urbanesimo e a favorire la ruralizzazione della società, secondo una visione conservatrice che risaliva a ben prima della salita al potere del fascismo e che percorre la storia italiana dalla fine dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale. Si deve inoltre aggiungere che l’accento posto sulla differenziazione didattica indusse il Regime a prestare attenzione anche al tema rappresentato dalla preparazione del maestro rurale. Nel 1941 nacquero così, dietro iniziativa del ministero dell’Educazione Nazionale, due scuole appositamente pensate per la preparazione delle maestre rurali a Cimiano, presso Milano, e alle Cascine, presso Firenze288. Tale esperienza doveva costituire, secondo i loro promotori, l’avanguardia di quanto l’Italia fascista avrebbe dovuto fare per la formazione degli insegnanti delle campagne. Questo era il parere, ad esempio, dell’ispettore Cottone che, intervenendo su questa questione nel 1941, sosteneva come l’esigenza di differenziare «il contenuto e la 286 Il brano è citato in Gabrielli, Il lavoro nella scuola rurale, cit., p. 41. G. Bottai, L’insegna della scuola rurale, «I diritti della scuola», n. 11, 30 gennaio 1940, p. 163. 288 La scelta delle Cascine non era casuale poiché essa era sede di un prestigioso Istituto agrario, fondato nel 1859. L’anno successivo la scuola venne aggregata come «sezione agronomica» all’Istituto di studi pratici e di perfezionamento (Cfr. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura, cit., 2008, pp. 107-110). 287 102 preparazione professionale dei maestri» non si esauriva nella sola introduzione nel piano degli studi degli istituti magistrali dell’insegnamento agrario, ma che fosse necessario in futuro, reclutare i maestri rurali direttamente in campagna, istituendovi le scuole magistrali289. In realtà questi propositi non saranno mai tradotti in pratica e, analizzando i numeri assai ridotti delle maestre diplomate nelle scuole di Cimiano e delle Cascine – 52 nell’anno 1939-40 e altrettante nell’anno successivo – si capisce che il contributo da esse fornito fu assai limitato290. Un altro aspetto legato alla differenziazione didattica era costituito dalla coltivazione, presso ogni scuola rurale, di un campicello. Si andò così a riabilitare la vecchia idea del ministro Baccelli risalente alla fine del secolo che aveva inaugurato la stagione dei campicelli scolastici terminata, come si ricorderà, dopo pochissimi anni con un sostanziale insuccesso. Rivalutato alla luce delle finalità educative assegnate alla scuola rurale dalla riforma bottaiana, ora il campicello era giudicato altamente formativo e doveva costituire il luogo privilegiato per la creazione di un’anima rurale nel giovane contadinello291. Una circolare ministeriale del 1942, emanata dunque in pieno clima bellico, quando scottante era la questione rappresentata della penuria di cibo, precisava che esso non doveva corrispondere solo a «finalità didattiche», ma anche offrire «un contributo all’autarchia alimentare»292. Come già accennato, durante il ministero Bottai la pubblicistica registrò una crescente attenzione verso i problemi della scuola per i contadini che, talvolta, finì per confondersi con la sua esaltazione a modello perfetto di strumento educativo, celebrato come il prototipo di scuola per eccellenza. Ne erano un esempio le cronache che spesso apparivano nelle riviste magistrali e che informavano dei convegni organizzati in varie città italiane aventi per tema la scuola rurale e la sua funzione in relazione alla «Carta della Scuola», o che fornivano notizie circa l’apertura delle iscrizioni ai corsi di formazione per le maestre rurali o la pubblicazione di nuovi e più aggiornati libri scolastici appositamente pensati per le scuole di campagna293. 289 C. Cottone, Tecnica agraria nelle scuole rurali, «Scuola italiana moderna», n. 22, 1 giugno 1941, pp. 280-281. Le scuole di Cimiano e delle Cascine erano in particolare rivolte alle maestre che assumevano l’impegno di prestare servizio per un triennio nelle scuole rurali e in entrambe si impartivano insegnamenti teorici e pratici. 290 I dati sono tratti dall’articolo: La preparazione delle maestre rurali nelle scuole agrarie di Milano (Cimiano) e di Firenze (Cascine), «Annali dell’ordine elementare», n. 2, dicembre 1940, pp. 137-138. Il programma di insegnamento contemplava le seguenti materie: allevamenti, industrie agrarie, zootecnia, economia corporativa e contabilità agraria, cultura fascista e legislazione agraria fascista, igiene rurale e puericultura, economia domestica e bromatologia, lavori femminili, didattica della scuola rurale, didattica sperimentale. 291 Si vedano le interessanti considerazioni sul variegato tipo di campicelli scolastici o sulle differenti occupazioni agricole (giardino, padiglione verde, aiuole individuali degli alunni, appezzamento collettivo a grano, appezzamento collettivo a leguminose e foraggere, appezzamento collettivo ad orto, appezzamento collettivo con piante specializzate, appezzamento a spalliere o a prato-gelso, appezzamento a vivaio, pollaio, colombaia, apiario, conigliera) proposte da Marcucci nel suo articolo intitolato Il lavoro rurale nelle scuole per i contadini, in Il lavoro nella scuola del lavoro, supplemento ad «Annali dell’ordine elementare», 1941, pp. 40-41. 292 Cfr. l’allegato n. 1 alla circolare n. 390 del 10 agosto 1942 pubblicata in «Annali dell’ordine elementare», n. 1, ottobre 1942, pp. 58-63. 293 A titolo di esempio citiamo il convegno di direttori didattici di scuole rurali della Toscana, del Lazio e della Liguria tenutosi il 21 e 22 marzo 1941 a Siena, alla presenza di Giorgio Gabrielli dell’Ispettorato Centrale Ministeriale delle Scuole Rurali e il primo raduno provinciale di maestri rurali che si tenne nell’aprile 1941 a Torino, aperto dall’intervento del Provveditore che illustrò, secondo la cronaca di una rivista magistrale del tempo, «la modesta, silenziosa ma altissima 103 Dal punto di vista istituzionale si deve, infine, aggiungere che nella seconda metà degli anni Trenta a fianco all’Obn, poi diventata Gil, che gestiva la gran parte delle scuole rurali sparse in tutto il territorio nazionale, continuarono a svolgere la propria azione l’Onair e le Scuole per i contadini dell’Agro romano. La prima associazione poté continuare a gestire le scuole rurali uniche del Trentino e della Venezia Giulia, a cui si aggiunsero a partire dall’anno scolastico 194142 quelle del Carnaro e della Dalmazia, le due province jugoslave annesse all’Italia, la prima nel 1924 e la seconda nell’aprile del 1941. Alle Scuole per i contadini dell’Agro Romano, invece, rimasero le poche scuole lasciategli fin dal 1935: 74 scuole rurali uniche, a cui si aggiungevano 42 sezioni di asili d’infanzia dislocati nel Lazio e in Abruzzo294. In un’Italia ormai provata da tre lunghi anni di guerra, veniva finalmente stabilito con legge del 31 maggio 1943 che le scuole rurali ancora gestite dall’Onair e dalle Scuole per i contadini dell’Agro romano dovessero passare allo Stato entro il 30 settembre di quell’anno295. L’armistizio dell’8 settembre e l’acuirsi delle vicende belliche con l’occupazione tedesca dell’Italia, avrebbero finito per rendere superfluo ogni provvedimento legislativo che puntava alla consacrazione di uno dei principi più cari al fascismo: quello secondo il quale solo lo Stato etico si sarebbe dovuto occupare, anche delle campagne, dell’educazione dei suoi giovani al fine di forgiare l’uomo nuovo voluto da Mussolini. missione che il Governo Fascista affida alle maestre rurali» (Convegno dei direttori delle Scuole rurali, «Scuola italiana moderna», n. 18, 10 aprile 1941, pp. 232-233; Un raduno dei maestri rurali a Torino, «Scuola italiana moderna», n. 20, 30 aprile 1941, p. 260). 294 Il dato è tratto da Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità, cit., p. 171. 295 In base all’articolo 7 della legge 31 maggio 1943. 104 Parte seconda «Dalle stalle alle stelle»: come la scuola rurale diventa un mito pedagogico 105 Capitolo primo Tra realtà e mito: una premessa 1. Lombardo Radice e la riscoperta della scuola rurale Un’ampia letteratura e un alto numero di testimonianze ci hanno tramandato un’immagine assolutamente negativa della scuola rurale. A determinare tale giudizio erano le precarie condizioni in cui essa svolgeva le sue funzioni, in locali piccoli, umidi, freddi, privi del materiale scolastico necessario, con insegnanti demotivati e costretti a vivere con compensi irrisori, in luoghi di collina o montagna dove regnava la solitudine mal tollerata da maestri in prevalenza provenienti da centri urbani più o meno grandi. Del resto la stessa legislazione aveva sancito ufficialmente il declassamento dell’istruzione dei contadini rispetto all’istruzione elementare urbana. In altre parole la scuola rurale diventa una scuola dimenticata, disertata dai maestri, maltrattata dai Comuni, vilipesa dal senso comune, ignorata dai contadini. Eppure bisogna riconoscere come essa stranamente comincia a diventare a partire dagli anni Venti del Novecento un vero e propio topos nella riflessione pedagogica italiana: sempre più spesso, infatti, la dizione «scuola rurale» compare nelle riviste magistrali e pedagogiche, nei saggi e nei libri scritti da uomini di scuola. Su di essa cala una crescente attenzione che si concretizza in pubblicazioni ed in convegni. Sembra quasi un paradosso se si pensa a come l’istruzione dei contadini era stata vista fino a qualche anno prima. Come mai questo cambiamento di opinione? Cosa giustifica la rivalutazione della scuola rurale? A nostro giudizio il merito di questa operazione va ascritto all’idealismo pedagogico e, in particolare, alla versione offerta da Giuseppe Lombardo Radice. È infatti con Athena Fanciulla, il libro da lui pubblicato nel 1925, che le istanze rinnovatrici della scuola già dichiarate in Lezioni di didattica del 1913, trovano nella scuola rurale l’ambiente ideale per essere accolte e fatte maturare. Non a caso Athena Fanciulla illustra al grande pubblico in assoluta prevalenza alcune esperienze educative che si ispirano al movimento delle scuole nuove e che sorgono tutte in campagna: le scuole de La Montesca e di Rovigliano dei baroni Franchetti, le scuole ticinesi di Maria Boschetti Alberti, le scuole dell’Agro romano. Ciò avviene perché per Lombardo Radice la campagna diventa romanticamente un locus amoenus, il luogo di formazione per eccellenza dove i giovani crescono in serenità e armonia, dove sono più liberi e indipendenti: ciò permette al loro spirito di esplicarsi liberamente e a costoro di crescere umanamente, diventando uomini. Sulla scorta di tali premesse allora la scuola rurale non è più una questione che riguarda solo i contadini, ma che interessa tutti, indistintamente dal luogo in cui essi vivano. La scuola rurale è infatti capace di fornire indirizzi utili da seguire anche nell’insegnamento nelle scuole urbane. Del resto già nei programmi per la scuole elementare del 1923, da Lombardo Radice elaborati, fanno la loro comparsa esercizi o indicazioni pedagogiche che gli vengono da quelle scuole rurali modello che aveva conosciuto a partire dall’immediato dopoguerra: citiamo, ad esempio, il «Calendario della Montesca», le osservazioni metereologiche e il disegno spontaneo. Possiamo dunque dire che Lombardo Radice inaugura un percorso di riscoperta della scuola rurale che durerà fino al secondo dopoguerra e che, dunque, non si esaurisce con la sua 106 morte, avvenuta nel 1938. Nuovi soggetti infatti si affiancano a lui e nuove esperienze scolastiche cercano di farsi largo e di farsi conoscere attraverso un lavoro di «propaganda pedagogica» che usa in modo intelligente il ricorso alle riviste, che costruisce relazioni con importanti pedagogisti e che riesce a far emergere modelli di scuola rurale innovativi sotto il profilo didattico ed educativo. Si deve aggiungere inoltre che la rivalutazione dell’istruzione rurale, che ormai assume una certa consistenza nel corso degli anni Trenta, finisce per essere favorita non solo dalla riflessione di ordine pedagogico, ma anche da ragioni di tipo politico. Il regime fascista, infatti, perseguendo il suo obiettivo di mantenere intatta la struttura conservatrice della società italiana, esalta in modo strumentale il mondo rurale, vedendo di buon occhio tutto ciò che vada nella direzione di elogiare le virtù che regnano in campagna e di condannare i vizi che dilagano in città. I due piani, quello pedagogico e quello politico, finiscono così per incontrarsi, sebbene in Lombardo Radice e in altri suoi epigoni tale volontà sia assente. Ciò determina che in quegli anni la pubblicistica sulle scuole rurali raggiunga un livello mai toccato fino ad allora: nel 1936, ad esempio, l’ispettore scolastico Francesco Bettini, influenzato dall’idealismo lombardiano, manda in stampa un lavoro di fondamentale importanza da questo punto di vista, intitolato Vita di scuole rurali: piccolo mondo sereno, in cui passa in rassegna alcune delle esperienze più interessanti di istruzione rurale che aveva avuto modo di conoscere e di studiare e che descriveva sottolineandone uno dei tratti distintivi della visione pedagogica di Lombardo Radice, quello della serenità e della poeticità delle scuole di campagne e dei suoi piccoli alunni. Nello stesso periodo comincia a circolare il nome della scuola toscana di San Gersolè, destinata a divenire famosa nei primi anni Quaranta e nota ancora per tutto il corso degli anni Cinquanta, grazie all’opera divulgazione della sua concreta prassi educativa dovuta all’ispettore Bettini e alla maestra che vi insegnava, Maria Maltoni. Nel 1939 ad un’altra importante esperienza di istruzione rurale, la scuola di Muzzano nel Canton Ticino, veniva dedicata attenzione con la pubblicazione di una monografia intitolata Il diario di Muzzano, da parte della maestra che ne era l’anima, Maria Boschetti Alberti. Fatta conoscere negli anni Venti al grande pubblico da Lombardo Radice, quando ella insegnava nella vicina scuola di Agno, la Boschetti Alberti raccontò nel libro i modi in cui era riuscita a percorrere vie nuove nell’insegnamento ai giovani contadini ticinesi. Nel 1940 sarà la volta de La scuola di S. Gersolé, monografia dedicata da Bettini alla scuola della maestra Maltoni. Un’altra particolare esperienza didattica che era nata in campagna e che veniva fatta conoscere al vasto pubblico negli stessi anni da noi presi in considerazione da Luigi Volpicelli era quella di Mezzaselva, località del Comune di Carchitti, nell’Agro romano, dove dal 1919 il maestro Felice Socciarelli aveva svolto con ammirabile dedizione un’opera di educazione e alfabetizzazione dei giovani contadini che vivevano ancora nelle capanne, tanto da essere stato definito qualche anno prima da Lombardo Radice «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali». Nel 1939 apparve il volume Scuola e vita a Mezzaselva, una cui prima edizione era uscita nel 1928. Socciarelli proseguì in questa direzione pubblicando nel 1942 La scuola dei rurali, con la prefazione di Giorgio Gabrielli. Una breve rassegna delle pubblicazioni dedicate tra gli anni Trenta e i Quaranta sulla scuola rurale non può tralasciare il volumetto di Pasquale Ritucci dal titolo La scuola rurale nel clima fascista (1938), i due libri di Alberta Olivi intitolati Ricordi di una scuola rurale (uno dedicato a «Insegnamento della scrittura e della ortografia» e pubblicato nel 1937, l’altro a «Lingua, comporre, disegno» del 1942)296, il libro Piccole vanghe al sole: giardinaggio per le scuole 296 ASUB, Fascicoli degli studenti, fasc. 2233. Alberta Olivi nacque a Villa Cavazzoli, allora frazione di Reggio Emilia, il 2 febbraio 1894. Si laureò in pedagogia nel 1917 all’Università di Bologna 107 dell’ordine elementare di Bianca Maganzini (1940), il volume di Quirino Piccioni su La scuola rurale e l’opera del fascismo per la ruralizzazione (1941), il lavoro di Giulio Marchesoni intitolato Tra i banchi della scuola rurale (1941) e soprattutto il volume Vita e scuola rurale, promosso nel 1942 dal Comitato Nazionale della stampa e propaganda rurale, il cui carattere ufficiale era dato dal fatto di avere la prefazione del ministro Giuseppe Bottai e la premessa di un noto sostenitore nell’Italia del tempo dell’istruzione agraria come il proprietario terriero e senatore Arturo Marescalchi. Con questa breve premessa abbiamo voluto qui spiegare la ragione per la quale si può parlare a nostro giudizio di un processo di valorizzazione della scuola rurale che nella prima metà del Novecento si verifica in Italia grazie al pensiero e all’opera di Lombardo Radice. I capitoli che seguono illustrano in maniera organica e approfondita alcune delle più singolari esperienze di istruzione rurale che per la loro notorietà finirono per diventare una sorta di «mito pedagogico» e in quanto tale celebrato, osannato, criticato, combattuto. Scavando in profondità, al di là dell’alone del mito che rende meno nitide le cose e tende tutto a coprire, e ricorrendo talvolta a documentazione archivistica inedita, è stato possibile leggere con occhi diversi quelle esperienze educative, senza nulla togliere all’importanza che esse ebbero nella realtà. Si è voluto, in altre parole, adottare un metodo critico che, è nella speranza di chi scrive, possa contribuire ad arricchire la lettura che finora è stata data di questa pagina della storia dell’educazione. discutendo una tesi dal titolo «Il compito della scuola dopo la guerra Europea». Entrò in contatto con Lombardo Radice che scrisse la prefazione al suo libro uscito nel 1937. 108 Capitolo secondo Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della Montesca 1. Premessa Non ci fu visitatore della scuola autorizzato o no, che non si facesse un dovere di domandare, in primis, il Calendario. Diventò il polso della riforma. Se il Calendario andava bene tutto andava bene, lo spirito era salvo; ma se lasciava a desiderare, il demone della vecchia scuola non era stato ancora esorcizzato, e doveva certamente esser nascosto in qualche cantuccio dell’aula297. Queste parole, non prive di una sottile vena ironica, che Nazareno Padellaro scriveva nel 1927, a pochi anni dall’entrata in vigore della Riforma Gentile, testimoniano bene come il modello educativo della scuola della Montesca fosse diventato nel mondo scolastico e nel dibattito pedagogico nazionale, a partire dalla metà degli anni Venti, una sorta di emblema della scuola elementare italiana appena riformata. In effetti, la scuola rurale fondata nei primi anni del secolo da Alice Hallgarten e dal marito, il barone Leopoldo Franchetti, nella villa della Montesca, vicino a Città di Castello, che, come è noto, era stata una delle fonti di ispirazione che avevano guidato Giuseppe Lombardo Radice nella redazione dei nuovi programmi per la scuola elementare del 1923, era diventata un modello costante di riferimento all’interno di un dibattito a cui parteciparono pedagogisti, ispettori scolastici e maestri, al punto che uno dei suoi sussidi didattici, il cosiddetto «Calendario della Montesca», si era presto trasformato nel simbolo della riforma stessa. La testimonianza di Padellaro è a questo riguardo paradigmatica e ci permette di capire il ruolo di emblema assunto agli occhi degli osservatori più attenti dalla scuola di Città di Castello, e in specie dal Calendario monteschiano. Tale constatazione, che il commento del pedagogista ci permette di fare, è alla base del presente studio. Lungi dal voler scrivere una storia della scuola della Montesca, cui peraltro recentemente sono state dedicate alcune ricerche che hanno permesso di fissare dei paletti in ordine alla sua fondazione e al suo sviluppo, in questa sede si intende ricostruire attraverso quali forme e modalità la suddetta istituzione educativa si affermò nell’immaginario pedagogico italiano primo novecentesco298. Si tratta, cioè, di capire per quali itinerari, con quali mezzi e in quali tempi la scuola dei Franchetti divenne un modello studiato, celebrato, imitato e, talvolta, criticato dopo che Lombardo Radice la elesse – insieme ad altre scuole-modello come la Rinnovata di Milano e le scuole del Canton Ticino – ad emblema del rinnovamento scolastico. Da questo punto di vista gli studi recenti hanno dissodato il terreno, provando come la presenza alla Montesca di 297 N. Padellaro, Scuola fascista, Roma, Libreria del Littorio, 1927, pp. 175-176. Lo studio più recente e aggiornato sulla Montesca è quello di S. Bucci, La scuola della Montesca. Un centro educativo internazionale, in P. Pezzino e A. Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp. 195-242. Sullo stesso argomento si vedano anche: voce «Montesca, scuola» curata da R. Titone, in Dizionario enciclopedico di pedagogia, 4 voll., Torino, Editrice S.A.I.E., 1964, vol. III, pp. 341-344; V.U. Bistoni, Grandezza e decadenza delle istituzioni Franchetti, Città di Castello, Edimond, 1997; E. Zangarelli, Leopoldo e Alice Franchetti: la scuola della Montesca, Città di Castello, Prhomos-nuove idee editoriali, 1984. 298 109 pedagogisti, educatori e filantropi italiani e stranieri o più semplicemente i contatti con essi – resi possibili dalla dinamica opera di Alice Franchetti – fu determinante al fine di conferire alla scuola un suo preciso indirizzo culturale e di introdurre in essa strumenti didattici che poi la caratterizzeranno anche in seguito. Basti pensare ai rapporti con la studiosa inglese del Nature Study Lucy Latter, Maria Montessori, Aurelia Josz (fondatrice di una scuola professionale femminile a Niguarda), il filosofo e pedagogista tedesco Friedrich Wilhelm Foerster299. Ma ad assicurare quella notorietà senza confronti di cui la Montesca godette negli anni in cui si colloca la testimonianza di Nazareno Padellaro, fu senza dubbio l’opera di propaganda attuata da Giuseppe Lombardo Radice quando egli, giunto ai vertici del ministero della Pubblica Istruzione, fu chiamato a redigere i nuovi programmi per le scuole elementari300. Risulta evidente allora che, per evidenziare le ragioni che condussero alla ribalta la Montesca, si debba ricostruire il dibattito sorto intorno ad essa dopo che il pedagogista catanese ne illustrò le caratteristiche erigendola a modello di «scuola serena», prototipo di quella scuola da lui vagheggiata fin dal 1913 nelle Lezioni di Didattica, opera nella quale l’infanzia, vista secondo una prospettiva di tipo romantico come stagione di creatività e spontaneità, trovava le sue manifestazioni attraverso le forme espressive ed artistiche. Una delle due questioni che si intende, quindi, analizzare nel presente saggio è proprio questa: ricostruire l’opera di propaganda del modello educativo della Montesca attuata da Lombardo Radice, ben oltre il noto Athena Fanciulla, e di analizzare, contestualmente, la ricezione critica della proposta lombardiana da parte del mondo scolastico e pedagogico italiano del tempo. Si tratta, in altre parole, di ricostruire la rete di uomini di scuola che parteciparono a tale dibattito, analizzare le scelte e le prese di posizione da essi adottate e le relative argomentazioni addotte ogni qual volta essi affrontarono il tema rappresentato dalla Montesca. L’immagine che si ricava da questo tipo di analisi, oltre che essere sostanzialmente inedita e, quindi, fonte di arricchimento della lettura fin qui data della scuola umbra, è parimenti significativa anche in ordine allo studio della Riforma Gentile, in quanto aggiunge un tassello interessante alla ricostruzione dei dibattiti e, talora, delle polemiche che essa generò. Ma prima ancora di accingerci a compiere questo itinerario, ci si impone di ricostruire le tappe del rapporto che si instaurò tra Lombardo Radice e la Montesca, le relazioni che si crearono tra il pedagogista e Leopoldo Franchetti nonché le maestre, in particolare Maria Marchetti, lungo tutto il periodo che intercorre tra il primo viaggio nelle scuole umbre e la sua morte, avvenuta nel 1938. Si tratta di una questione poco nota, a causa – si crede – della scarsità di fonti archivistiche che avrebbero potuto permettere di ricostruire in modo puntuale forme e 299 La ricostruzione della trama dei contatti instaurati da Alice con educatori e filantropi italiani e stranieri si trova in: R. Fossati, Il lavoro culturale e la vita affettiva di Alice Hallgarten Franchetti, in Pezzino e Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, cit., pp. 157-194. 300 La bibliografia su Lombardo Radice è piuttosto vasta. Ci limitiamo a segnalare: I. Picco, Giuseppe Lombardo Radice, Firenze, La Nuova Italia, 1954; R. Mazzetti, Giuseppe Lombardo Radice tra l’idealismo pedagogico e Maria Montessori, Giuseppe Malipiero, Bologna, 1958; G. Cives, Giuseppe Lombardo Radice. Didattica e pedagogia della collaborazione, Firenze, La Nuova Italia, 1970; I. Picco (a cura di), Giuseppe Lombardo Radice. Atti del convegno internazionale di studi per il centenario della nascita (1879-1979), 28-29-30 settembre 1979, L’Aquila, Gallo Cedrone, 1980; G. Cives, Attivismo e antifascismo in Giuseppe Lombardo Radice. Critica didattica o Didattica critica?, Firenze, La Nuova Italia, 1983. 110 modi di quel legame301. Alla base di questa penuria sta la dispersione dell’archivio privato dei Franchetti, risalente agli anni successivi alla morte di Leopoldo, avvenuta nel 1917, e lamentata già nel 1938 dallo stesso Lombardo Radice che nell’aprile di quell’anno si era recato per l’ultima volta alla Montesca al fine di consultare alcuni libri della biblioteca dei baroni nonché le loro carte private, desiderio quest’ultimo rimasto inesaudito proprio a causa del mancato ritrovamento dei loro documenti personali302. Né giovano di più le carte prodotte dalle scuole Franchetti, che recuperate e rese consultabili di recente, rappresentano sì uno straordinario patrimonio documentario, riferito però quasi esclusivamente alla didattica e all’amministrazione delle scuole stesse e quindi poco utili alla ricostruzione dei legami che si vennero ad instaurare tra il pedagogista catanese ed i Franchetti303. Lo stesso dicasi per gli unici due carteggi conosciuti di Alice, quelli con lo storico del francescanesimo Paul Sabatier e con la maestra e poi direttrice delle scuole della Montesca e di Rovigliano Maria Pasqui Marchetti, che, pubblicati di recente, hanno fornito elementi che si sono rivelati di primaria importanza per la ricostruzione dei primi anni della vita delle due scuole, ma di minore utilità per la presente indagine304. Nonostante questa lacuna documentaria altri tipi di fonti, quali ad esempio le poche ma interessanti testimonianze conservate negli archivi di personalità che furono vicine a Lombardo Radice, permettono, se non di ricostruire minutamente i rapporti tra il pedagogista e la Montesca, per lo meno di fissare dei paletti e di mettere in sequenza alcuni elementi che nel complesso arricchiscono di dati la lettura che finora è stata data della scuola-modello umbra. 2. L’incontro di Lombardo Radice con la Montesca Alla vigilia della prima visita di Lombardo Radice alla Montesca, la scuola fondata dai baroni Franchetti non aveva conquistato nel panorama pedagogico italiano quella notorietà che la contraddistinse in seguito. Fin dall’apertura delle due scuole, risalente nel 1901-1902, la conoscenza dell’esperienza che andava svolgendosi alla Montesca e a Rovigliano rimase 301 In genere viene citato solo l’anno in cui Lombardo Radice arrivò alla Montesca, il 1915, com’è da egli stesso ricordato in G. Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, Torino, Paravia, 1922, p. 199. 302 Rammaricatosi del mancato ritrovamento alla Montesca dell’archivio privato dei Franchetti, Lombardo Radice così si espresse in una lettera a Francesco Salimei, presidente dell’Opera Pia Regina Margherita di Roma, ente che gestiva le scuole umbre a partire dal 1917: «Molto facile è che anche il carteggio sia a Roma, in custodia dell’Opera Pia. Chi sa quante cose importanti se ne potrebbero desumere per illuminare le iniziative benefiche della Baronessa nel campo dell’educazione infantile, femminile, magistrale. Le voglio essere utile, mi dedicherei volentieri alla ricerca in questo campo, presso l’Opera Pia» (ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti», Carteggio amministrativo, b. 55, Lettera di Giuseppe Lombardo Radice al Presidente dell’Opera Pia “Regina Margherita” Francesco Salimei, 10 aprile 1938). 303 Soprintendenza Archivistica per l’Umbria-Regione dell’Umbria, L’archivio e la biblioteca dell’Opera Pia Regina Margherita di Roma - Fondazione Franchetti di Città di Castello 1866-1982. Inventario e catalogo, a cura di D. Silvia Antonini, coordinamento scientifico di A.A. Fabiani e F. Tomassini, Città di Castello, Alfagrafica, 2005. 304 R. Fossati, Alice Hallgarten Franchetti e le sue iniziative alla Montesca, «Fonti e Documenti», 16-17 (1987-1988), Urbino, pp. 269-347; M.L. Buseghin (a cura di), Cara Marietta...: Lettere di Alice Hallgarten Franchetti (1901-1911), Città di Castello, Tela Umbra, 2002. 111 sostanzialmente circoscritta alla cerchia di amici ed estimatori dei coniugi Franchetti, a loro accomunati dalla condivisione degli ideali umanitari e filantropici, e a quella straordinaria rete di contatti con uomini di cultura, educatori e pedagogisti che Alice Hallgarten era riuscita a stendere intorno alle sue iniziative. Tra i nomi dei frequentatori della villa umbra e delle due scuole o, più semplicemente, di coloro i quali entrarono in contatto con la giovane moglie di Leopoldo Franchetti durante i suoi frequenti viaggi in giro per l’Europa e non solo, spiccano quelli di studiosi dai quali trasse suggerimenti, consigli e suggestioni utili ad attuare alla Montesca quel rinnovamento didattico promosso dalle cosiddette «scuole nuove». Se è vero che ciò permise alla scuola di Alice di divenire un centro educativo di livello internazionale, è altresì vero che quella esperienza rimase a lungo conosciuta da un numero esiguo di persone e pressoché ignota, almeno per un decennio, alla generalità dei maestri e soprattutto della scuola italiana. Infatti i primi passi compiuti da Alice e dalle sue maestre si collocavano al di fuori del perimetro della scuola «ufficiale» e per questo circondati inizialmente da un certo clima di diffidenza da parte delle istituzioni scolastiche305. Tale atteggiamento è ben documentato da una lettera del gennaio 1910 nella quale Alice costatando l’impossibilità ad esporre nella sezione «Pubblica Istruzione» i propri materiali scolastici alla Mostra didattica che si sarebbe tenuta poco dopo a Bruxelles, spronava Maria Marchetti a non curarsene ma a guardare piuttosto ai risultati da esse conseguiti e al loro valore intrinseco306. La presenza alla Montesca di Maria Montessori, che nell’agosto 1909 vi tenne il suo primo corso di Pedagogia Scientifica ad un gruppo di maestre riunitesi a Città di Castello, e l’applicazione del metodo montessoriano a partire dall’anno scolastico 1909-’10, se per un verso permetteva alla scuola di Alice Franchetti di continuare a muoversi nel solco della sperimentazione didattica in sintonia con le teorie attivistiche del tempo, per un altro verso la poteva esporre alle critiche derivanti dagli ambienti ufficiali scolastici. Si trattava di un timore tutt’altro che remoto, che del resto Alice ebbe presente fin da quando decise di applicare il metodo della Montessori nelle sue due scuole, tanto da consigliare prudentemente alle sue collaboratrici di mantenere buoni rapporti con l’Ispettore Scolastico di Perugia e di avvisarlo in anticipo dell’intenzione di attuare il nuovo metodo per evitare che da lui potesse venire «la guerra in avvenire per l’attuazione dei nuovi programmi»307. In realtà tali preoccupazioni furono superate come dimostrò la buona accoglienza che tanto l’Ispettore Scolastico quanto il Provveditore agli Studi di Perugia, Pasquale Papa, espressero in occasione delle conferenze alle maestre tenute dalla Montessori a Città di Castello in agosto, nonché in occasione del Corso di Psicologia Sperimentale applicato alla pedagogia, che il famoso 305 Le scuole della Montesca e di Rovigliano erano nate rispettivamente nel 1901 e nel 1902 come scuole private e dal 1907 furono dichiarate «a sgravio». I programmi delle scuole furono il risultato di una sorta di adattamento di quelli statali, sviluppando quegli elementi più rispondenti al carattere di scuola rurale, come lo studio delle piante e degli animali, dimostrando di godere fin da subito di un certo margine di autonomia didattica. 306 La lettera in questione, datata 20 gennaio 1910, è riprodotta in M.L. Buseghin, Cara Marietta…, cit. p. 381: «Carissima, non sorprenderti se non esporremo sotto la “Pubblica Istruzione”. Conosco troppo bene quel mondo ufficiale per avere a suo riguardo qualunque illusione. Loro cercano “i premi ecc”, noi la propagazione di una idea». 307 Si veda la lettera di Alice a Maria Marchetti del 14 aprile 1909 pubblicata in Buseghin, Cara Marietta…, cit., p. 346. 112 neuropsichiatra infantile Sante De Sanctis tenne nel settembre dello stesso anno a Perugia, alla presenza della stessa Montessori, di cui ella fu collaboratrice308. Le pubblicazioni del Corso di Pedagogia Scientifica, opuscolo che raccoglieva i testi delle conferenze tenute dalla pedagogista a Città di Castello, e del Metodo di pedagogia scientifica, contenente un deferente riconoscimento all’opera di mecenatismo dei coniugi Franchetti309, avvenute entrambe nel 1909, a cui si può aggiungere L’autoeducazione nelle scuole elementari del 1916 nella cui prefazione la Montessori ricordava l’azione di adattamento del metodo nelle scuole rurali da parte di Alice310, rappresentavano una prima forma di propaganda della Montesca presso il pubblico rappresentato da maestri e uomini di scuola, operazione che però non fu sufficiente da sola a far conoscere in modo approfondito la scuola umbra al di fuori dai confini delle relazioni che la Hallgarten era riuscita a creare311. In altre parole, la Montesca rimase una realtà sconosciuta oltre che alla generalità dei maestri italiani, anche a larga parte del mondo scolastico ufficiale che solo a partire dalla metà degli anni Dieci comincerà a farne conoscenza, dopo quindi la morte di Alice Franchetti, avvenuta nell’ottobre 1911. Una prima svolta, infatti, per quanto attiene l’opera di propaganda della Montesca si può collocare nel 1916 quando si verificarono più fatti. 308 Il secondo giorno delle conferenze, 2 agosto 1909, il Provveditore Papa lesse un discorso in cui lamentando come in Italia «la riverenza, la poesia, anzi la religione dell’infanzia» fosse stata poco sentita, salutava con favore un esempio che faceva eccezione come quello dei Franchetti (M. Montessori, Corso di Pedagogia Scientifica, Città di Castello, Società Tip. Editrice, 1909 cit., pp. 27-28). Il corso tenuto dal De Sanctis e organizzato dalla sezione perugina dell’Associazione nazionale per gli studi pedagogici, fu aperto il 12 settembre 1909 a Perugia. All’inaugurazione del ciclo di lezioni parteciparono, oltre alla Montessori, i baroni Leopoldo ed Alice Franchetti, il Provveditore Papa, nonché alcuni esponenti della borghesia e dell’aristocrazia umbra più sensibili al tema del miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, tra i quali il conte Eugenio Faina, fondatore di scuole rurali per i figli dei contadini (L’inaugurazione del Corso di psicologia sperimentale, «La Democrazia», n. 191, 13 settembre 1909, pp. 1-2). 309 Come è ampiamente noto l’edizione del 1909 del Metodo era dedicata ad Alice e Leopoldo; nell’edizione del 1913 fu trasformata in un semplice richiamo alla memoria di Alice e nella edizione del 1926 scomparve del tutto ogni richiamo ai Franchetti, provocando l’intervento polemico di Lombardo Radice dalle colonne de «L’Educazione nazionale». Cfr. R. Fossati, Alice Hallgarten Franchetti e le sue iniziative alla Montesca, cit., pp. 286-287. Si veda: M. Montessori, Il metodo della pedagogia scientifica applicato alla educazione infantile nelle Case dei Bambini, Città di Castello, Tipografia Lapi, 1909. 310 M. Montessori, L’autoeducazione nelle scuole elementari, Roma, Maglione e Strini, pp. XVII-XVIII. applicato alla educazione infantile nelle Case dei Bambini, Città di Castello, Tipografia Lapi, 1909. 311 In effetti il primo scritto avente per oggetto la Montesca fu un articolo apparso nel 1908 e quindi precedente alla pubblicazione del libro della Montessori. Questo articolo, insieme ed altri illustranti le opere di impegno sociale dei Franchetti, fu pubblicato in un periodico culturale locale, «Gioventù Nova», fondato da don Enrico Giovagnoli, dinamico sacerdote di Città di Castello, sostenitore delle correnti riformiste religiose e amico di Alice e Leopoldo. Tuttavia anche a causa della scarsa diffusione della rivista non si può considerare tale articolo come la prima forma di propaganda della scuola-modello della Montesca. Sui rapporti tra i Franchetti e il sacerdote si rinvia a: R. Grossi, Alice Hallgarten Franchetti ed Enrico Giovagnoli, in Pezzino e Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, cit., pp. 259-270. 113 In primo luogo, durante quell’anno il Direttore Generale dell’Istruzione Primaria, Antenore Cancellieri, visitava la Montesca, ottenendone una positiva impressione312. In secondo luogo, nell’estate dello stesso anno apparve su «I diritti della scuola», la più diffusa e prestigiosa rivista magistrale del tempo, quello che si può considerare a tutti gli effetti il primo studio organico dedicato alle scuole fondate dai Franchetti, anteriore quindi a quello redatto da Lombardo Radice313. Autrice di tale lavoro non era una pedagogista, ma una studiosa di igiene e di economia domestica. Si trattava di Angelica Devito Tommasi, poliedrica figura di studiosa, esponente di quel femminismo socialmente impegnato primo novecentesco, di sentimenti socialisti, autrice di testi scolastici per le scuole elementari di economia domestica e di igiene nonché collaboratrice per un periodo della rivista magistrale diretta da Annibale Tona. Pubblicato in tre fascicoli tra il luglio e il settembre 1916, il suo studio dedicato alla Montesca affrontava molti nodi quali le origini della scuola, il suo funzionamento e l’indirizzo pedagogico seguito314. Ma ciò che appare più interessante rilevare sono le sue osservazioni in relazione all’insegnamento, in merito al quale poté descrivere alcuni elementi che saranno qualche anno dopo diffusamente analizzati da Lombardo Radice. Ella descrisse con ammirazione il «diario meteorologico», il disegno quotidiano per mezzo del «Calendario della Montesca», il disegno del soggetto del mese, lo studio dell’evoluzione biologica dei semi in piante. Scriveva: Si impara a leggere, scrivere, far di conti e comporre come in qualsiasi altra scuola, ma con tale scienza e genialità di metodi che anche l’ispettore più ortodosso resta ammirato della agilità, della dizione, dell’accento, della esattezza ortografica, della tenuta dei quaderni, e del gusto letterario che, a poco a poco, la scuola forma 315. Oltre allo studio della «natura vivente» e alle osservazioni dal vero, che in effetti costituivano l’asse portante dell’insegnamento della Montesca, veniva messo in rilievo dalla Devito Tommasi altri due elementi che innervavano la scuola umbra: il ricorso al disegno e l’alta poeticità di alcuni componimenti, due punti sui quali si soffermerà in maniera approfondita il pedagogista catanese316. Dopo esserci soffermati sullo studio della Devito Tommasi che meritoriamente è degno di considerazione sia per il merito delle osservazioni fatte, sia perché esse furono le prime in ordine cronologico ad essere formulate, e tornando ad illustrare i tre accadimenti che nel 1916 si verificarono contribuendo alla divulgazione ad un pubblico più vasto del modello educativo della Montesca, non si può ignorare la partecipazione delle scuole dei Franchetti alla Mostra Didattica organizzata a Milano dall’Umanitaria tra il settembre e l’ottobre 1916. Il materiale didattico spedito nel capoluogo lombardo fu esposto nella sezione che la mostra dedicò alle scuole nuove, 312 A. Devito Tommasi, Le scuole della Montesca, «I diritti della scuola», n. 38, 15 settembre 1916, pp. 308-309. 313 Su «I diritti della scuola» si vedano le informazioni riportate in: G. Chiosso, La stampa scolastica e l’avvento del Fascismo, «History of Education & Children’s Literature», III, 1 (2008), pp. 257-282. 314 Lo studio fu pubblicato sui fascicoli de «I diritti della scuola» del 15 luglio, 15 agosto, 15 settembre 1916 con il titolo, Le scuole della Montesca. Nel corso del 1916 venne raccolto in un opuscolo stampato dalla Tipografia dell’Unione Editrice di Roma. 315 A. Devito Tommasi, Le scuole della Montesca, «I diritti della scuola», n. 36, 15 luglio 1916, pp. 293-294. 316 Scriveva la studiosa milanese nell’articolo appena citato: «Ed ecco a prova, un piccolo dettatocomponimento di prima classe dove non ho trovato un solo errore: “La sera i campi scintillano di lucciole. Sono belle e sembrano l’anima del grano che promette pane e tranquillità al contadino che riposa”…È un poema!...!». 114 accompagnato da un Catalogo ragionato degli oggetti esposti, fatto stampare appositamente dal barone Leopoldo317. Inoltre lo stesso Franchetti partecipò al Convegno dell’educazione popolare che si svolse dal 29 ottobre al 1° novembre, in margine alla Mostra, e al quale presero parte numerosi rappresentanti politici e uomini di scuola, tra i quali il ministro della Pubblica Istruzione Ruffini, l’ex Direttore dell’Istruzione primaria Camillo Corradini, il filosofo Giovanni Vidari. Parimente interessante è rilevare che il barone Franchetti intervenne nella seduta pomeridiana del secondo giorno del convegno, esponendo, secondo quanto riportava la cronaca de «I diritti della scuola», il «metodo sperimentale e il metodo Montessori»318. I tre eventi fin qui illustrati – la visita di Cancellieri, lo studio della Devito Tommasi, la partecipazione alla Mostra Didattica di Milano – stanno a dimostrare come, lentamente, il modello educativo della Montesca cominciasse a farsi strada nella scuola italiana, anche nei suoi ambienti più ufficiali, riuscendo a superare le diffidenze fino ad allora nutrite da ampi settori del mondo magistrale e pedagogico nei confronti delle «scuole nuove» e dei loro innovativi metodi d’insegnamento319. Si trattava di una presa di coscienza che del resto la cultura pedagogica e scolastica andava acquisendo non solo nei riguardi della Montesca ma anche delle altre esperienze innovative che erano fiorite in Italia e non solo. Ma di poco anteriore alla svolta del 1916, un accadimento che cambierà il destino della scuola dei Franchetti veniva a verificarsi. Si trattava della prima visita che Giuseppe Lombardo Radice compì alla Montesca, in presenza del barone Leopoldo, nell’ottobre 1915. Di grande interesse appaiono le modalità e le forme che portarono alla sua venuta a Città di Castello e che si inserivano in quel vivace e animato circolo culturale rappresentato dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi), di cui Franchetti era presidente e Lombardo Radice consigliere fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1910320. La frequentazione tra i due personaggi, quindi, non era nuova quando il pedagogista catanese arrivò alla Montesca. Non abbiamo, però, testimonianze che possano permettere di affermare che Lombardo Radice avesse avuto modo di conoscere Alice, che, come già ricordato, era morta nel 1911. Non sorprende, dunque, costatare che molti intellettuali meridionalisti che gravitavano nell’orbita dell’ANIMI frequentassero nei primi anni Dieci la villa della Montesca, ospiti del barone. Uno di essi, Umberto Zanotti Bianco, che tanta parte avrà nella diffusione degli asili d’infanzia in Calabria, soggiornò più volte nella villa umbra ospite di Franchetti. Assiduo frequentare della 317 Catalogo ragionato degli oggetti esposti dalle scuole rurali private della Montesca e di Rovigliano vicino a Città di Castello (Umbria) nella tenuta del senatore Leopoldo Franchetti, Città di Castello, Tip. Lapi, 1916. 318 Il convegno dell’educazione popolare in Milano, «I diritti della scuola», n. 4, 10 novembre 1916, pp. 46-49. 319 Appare significativo al riguardo un commento, non firmato, della Mostra Didattica milanese del 1916 pubblicato in «I diritti della Scuola» del 10 novembre 1916: «Tra le più interessanti, anche se tra le più discusse, è la sezione che riguarda i vari tentativi di rinnovazione della scuola in Italia e all’estero: accanto alle nostre scuole all’aperto, alla scuola agricola di Niguarda (Milano), alla scuola della Montesca (Firenze), alla Scuola rinnovata della Ghisolfa (Milano), alle scuole e alle “Case dei bambini” della Montessori […]». 320 Sull’Animi si veda Alatri, Le scuole e l’azione cultura e sociale della Associazione Nazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia dalla fondazione alla caduta del Fascismo, cit., pp. 561-582. Sull’opera svolta da Lombardo Radice in favore dell’istruzione dei ceti popolari meridionali si rinvia a A. Gaudio, Giuseppe Lombardo Radice, il Mezzogiorno e la lotta contro l’analfabetismo, «Pedagogia e Vita», 4 (2004), pp. 62-74. 115 stessa villa fu anche Gaetano Piacentini, segretario per molti anni dell’Animi e poi presidente dell’Opera contro l’analfabetismo321. Nel settembre 1915 anche Gaetano Salvemini visitava la residenza estiva e la scuola della Montesca. L’arrivo del più illustre rappresentante del meridionalismo fu di assoluta rilevanza ai fini del successivo incontro tra Lombardo Radice e la Montesca. Infatti, dopo essere rimasto folgorato dal sistema educativo che veniva applicato, Salvemini scrisse una lettera da Borgo San Sepolcro al pedagogista catanese in cui ne descriveva con entusiasmo le caratteristiche e nella quale lo invitava a recarsi di persona a visitare e studiare quella scuola modello. Scriveva Salvemini a Lombardo Radice: C’è a due passi di qui, a Città di Castello, alla Montesca, una scuola popolare straordinaria, organizzata da uno spirito che non ha nulla da invidiare a quello dei più geniali educatori dell’umanità. Raccogliere giorno per giorno l’opera di un alunno, pubblicarne con poche parole di commento i lavoretti, e questo dal momento in cui è entrato nella scuola a sei anni a quello in cui ne è uscito a dodici, sarebbe un programma e una guida d’insegnamento di prim’ordine. Tu dovresti fare questo lavoro, venendo qui per alcuni giorni e portandoti via i documenti. Se vieni subito, cioè prima del 10 ottobre, ci troverai il Franchetti, a cui appartiene la Montesca, Zanotti Bianco e me, che è quanto dire. E se la Gemma non è lungi di qui, dovrebbe venire anche lei. Ci troverebbe per sé anche la Signora Luchaire 322. Lombardo Radice accettò l’invito e qualche giorno dopo si recò in visita alla Montesca. In una cartolina inviata il 10 ottobre alla moglie Gemma, egli la informava in modo telegrafico di quella visita che avrebbe svolto di lì a poche ore: Ho dormito a S. Sepolcro. Pioggia a dirotto durante il viaggio e stamani Salvemini è in servizio; fra poco sarà libero e andremo alla Montesca. Domani visita alla scuola; poi ritorno. Baci alle bambine323. Venuto a conoscenza tramite Zanotti Bianco, che Salvemini era riuscito a convincere Lombardo Radice a recarsi in visita alla Montesca, il barone Franchetti scrisse lo stesso 10 ottobre una cartolina di ringraziamento al meridionalista, invitando lui e gli altri «a prendere il tè alla Montesca oggi nell’unita automobile, e il prof. Lombardo Radice di portar seco la propria valigia per trattenersi alla Montesca e di dedicare alle scuole la giornata di domani e, spero, alla Montesca le giornate successive»324. La visita durò due giorni durante i quali poté conoscere la scuola nelle due sedi della Montesca e di Rovigliano, apprezzarne le qualità e maturare l’idea di scrivere uno studio dedicato ad essa. In effetti, egli rimase colpito nell’aver trovato nella pratica applicati i suoi ideali educativi che ben aveva esposti pochi anni prima nelle Lezioni di didattica, opera pubblicata nel 1913 e nella 321 Lombardo Radice considerò Piacentini, nella dedica al suo libro Athena Fanciulla, il «continuatore, tenacissimo, in ogni campo dell’opera sociale di Leopoldo Franchetti» nonché un osservatore «sin dalle origini, [del]l’esperimento educativo, che fu anche un grande atto di umana carità, di Alice Franchetti». 322 La lettera del 3 ottobre 1915 a Lombardo Radice è stata pubblicata in G. Salvemini, Carteggio 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma, Laterza, 1984, p. 189. 323 AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Giuseppe Lombardo Radice a Gemma Harasim, 10 ottobre 1915. 324 Ivi, Carteggio generale, Cartolina di Leopoldo Franchetti a Salvemini, 10 ottobre 1915. La cartolina in questione non precisa il destinatario che viene indicato genericamente come «Caro amico». Pur trovandosi tra le carte di Lombardo Radice, essa non può essere stata inviata al pedagogista poiché egli viene citato come terza persona. Il destinatario deve essere Salvemini, che come provano agilmente altre fonti, fece da intermediario per rendere possibile la visita alla Montesca. 116 quale egli aveva affermato l’esigenza di una scuola che intendesse superare le distanze che solitamente erano poste tra la scuola stessa e la vita, per immaginarla in funzione dei bisogni e delle capacità dell’infanzia. Tutto ciò è provato dalla lettera entusiasta che Lombardo Radice scrisse all’amico Giovanni Gentile pochi giorni dopo il suo arrivo alla Montesca: Mi vi trattenni due giorni per studiare un po’ le scuole che rappresentano una fusione di quel che di meglio la signora aveva osservato nei suoi viaggi per tutti i paesi d’Europa. Ci tornerò e farò una relazione: è cosa di una importanza massima. La Franchetti era una educatrice geniale, e come donna una santa; una creatura d’eccezione come lei non deve aver lavorato solo per la Montesca, e voglio riparare del mio meglio al danno della sua perdita. Ho portato via un ricco materiale di appunti dell’estinta fornitomi dal Franchetti, e una raccolta di compiti di scolari del primo giorno di scuola alla sesta classe. È commovente per me vedere in tutto realizzato in una scuola quello che ho scritto nella mia Didattica, da una donna di alto animo che aveva saputo crearsi le collaboratrici e investirle del suo santo entusiasmo325. Lo studio della Montesca rimase un progetto destinato a non realizzarsi nell’immediato, anche a causa della guerra, durante la quale, come è noto, Lombardo Radice fu assai occupato nel servizio propaganda e assistenza dell’esercito italiano326. Ma fin dall’ottobre del 1915, all’epoca della visita umbra, egli mostrava di avere chiare le idee di cosa avrebbe dovuto fare non appena il conflitto bellico fosse terminato. Nella stessa lettera, infatti, progettava che «a guerra finita» avrebbe curato lo studio sulla Montesca e ripreso la pubblicazione dei «Nuovi doveri», «dedicandoli in gran parte alla formazione del maestro elementare». Inoltre non sottovalutava «il grosso problema delle scuole dei paesi conquistati e redenti da studiare e l’azione del governo dove da spronare dove da in vigilare». In effetti fin dall’inizio del 1919 Lombardo Radice si concentrò sullo studio relativo alla Montesca, come testimonia l’appunto che l’amico Giuseppe Prezzolini annotò nel suo diario al termine di un incontro che i due ebbero il 15 gennaio: Partito Lombardo dopo un’ora eccellente di compagnia in cui mi ha esposto il programma della “Scuola della Montesca” e l’azione per la scuola elementare in generale per il dopoguerra327. Poco dopo sollecitato ancora da Prezzolini ad illustrargli ciò che era sua intenzione realizzare da lì ai prossimi mesi, il pedagogista pur rispondendo di non avere «un programma definitivo», spiegava di essere animato dall’idea di promuovere una «educazione nazionale» e, soprattutto, di voler «realizzare» alcune sue idee sul piano concreto, dopo anni di discussioni e di polemiche. Intendeva, cioè, privilegiare l’azione pratica e a questo riguardo la sua attenzione si focalizzava su quelle esperienze scolastiche innovative che, sorte autonomamente negli anni precedenti la guerra, potevano costituire un esempio a cui guardare per edificare la nuova scuola popolare e primaria italiana. Scriveva a questo proposito: Farei sorgere un Ente autonomo per l’incoraggiamento alle iniziative libere in favore dell’educazione e sarei sicuro di riuscire a finanziarlo bene, perché possa operare 328. 325 AFGG, Carteggio, Lettera di Lombardo Radice a Gentile, 17 ottobre 1915. M. Simonetti, Il servizio «P» al fronte, «Riforma della Scuola», n. 8-9, agosto-settembre 1968, numero intitolato Nel trentesimo anno della morte di Giuseppe Lombardo Radice, pp. 24-34. 327 Cfr. G. Prezzolini, Diario (1900-1941), Milano, Rusconi, 1978, p. 280. 328 La lettera di Lombardo Radice a Prezzolini del 4 febbraio 1919 è stata pubblicata in Picco, Militanti dell’ideale, cit. pp. 180-181. 326 117 È chiaro che tale interesse era stimolato dalla conoscenza diretta della Montesca e dallo studio al quale proprio in quel momento si stava dedicando, come prova la stessa lettera del 4 febbraio 1919. Scriveva, infatti, a proposito delle pubblicazioni cui stava lavorando in quel momento: Un altro lavoro sulla scuola dei contadini illustra la riforma Franchetti attuata, da più di dieci anni, nella scuola della Montesca. Anche questo ha bisogno di un corredo di illustrazioni non indifferente, delle quali molte a colori. Sarebbe un volume di 150 pagine di testo e 50-60 di illustrazioni varie fuori testo, e sarebbe pronto fra cinque o sei mesi329. In realtà il libro a cui egli stava lavorando non vide la luce nei tempi previsti nella lettera a Prezzolini e bisognerà aspettare il 1925 per veder pubblicato Athena Fanciulla, in cui un’ampia parte sarà dedicata proprio alla Montesca. A qualche anno prima risaliva, invece, la prima citazione fatta da Lombardo Radice della scuola umbra all’interno di uno dei suoi scritti. Nel 1921, infatti, sul giornale ticinese di cultura italiana, «L’Adula», il pedagogista siciliano pubblicava un articolo, stampato l’anno successivo nei Nuovi saggi di propaganda pedagogica, che aveva per oggetto la Montessori e nel quale per la priva volta accennava alla Montesca, ricordando la visita compiuta nel 1915, riconoscendo il ruolo svolto dai Franchetti come primi sostenitori dell’opera montessoriana e affermando di aver ricevuto dal barone Leopoldo abbondante materiale per «scrivere un volumetto sulla nuova scuola rurale, che completerò presto tornando sul posto»330. Se è vero che bisognerà attendere il 1925 per veder pubblicata Athena Fanciulla, è altresì vero che Lombardo Radice non aveva mai interrotto i rapporti con la Montesca, neanche dopo la morte del barone Leopoldo, avvenuta nel 1917. All’indomani di questo tragico evento, infatti, egli scrisse un messaggio alla direttrice delle scuole, Maria Marchetti, la quale a sua volta rispose ringraziandolo per la sua lettera che recava «conforto e sollievo» e nella quale prometteva di continuare ad impegnarsi «con fede e amore» per portare avanti il lavoro iniziato da Alice331. Nel maggio 1918, quando Lombardo Radice era ancora occupato presso l’esercito e per la sua famiglia si era posto il problema di trovare un luogo adatto dove trascorrere le vacanze estive, il pedagogista suggerì alla moglie Gemma di scartare l’idea di un soggiorno a Marina di Pisa e di pensare ad altre località. Le consigliava tra le altre ipotesi, quella di «rinunciare al mare e portare le creature in campagna, a cura di sole e vita fisica intensa» e a questo proposito parlava della Montesca come luogo adatto alle loro esigenze considerando anche l’abbondanza di cibo che lì avrebbero reperito, trovandosi in un periodo caratterizzato dalle ristrettezze economiche e dal difficile approvvigionamento degli alimenti che era imposto dallo stato di guerra332. A distanza di quasi un mese il problema non si era risolto come testimonia il carteggio tra i due coniugi. Il 10 giugno, infatti, Lombardo Radice tornava a scriverle parlando degli ostacoli trovati nella ricerca di un alloggio a causa dell’esodo dei profughi benestanti che dalle zone occupate del Friuli e del Veneto avevano affittato molte case disponibili per trascorrervi l’estate. Nella stessa lettera 329 Ibid. Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, cit., p. 199. 331 AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Maria Marchetti a Lombardo Radice, 30 dicembre 1917. 332 Scriveva Lombardo Radice: “Ed avrei in questo caso pensato alla Montesca, unico luogo dove troveresti con abbondanza latte, uova e forse anche carne e dove troveresti fraterna accoglienza dalla buona e semplice Marchetti” (Ivi, Carteggio generale, Lettera di Giuseppe Lombardo Radice a Gemma Harasim, 19 maggio 1918). 330 118 tornava a suggerire alla moglie di provare a cercare una casa a Città di Castello, cosa che in effetti fece poco dopo333. Tuttavia la Marchetti le rispondeva il 14 giugno che dopo aver «girato e chiesto a tutto il paese» non le era stato possibile trovare un alloggio che potesse fare al caso loro poiché occupato dai profughi334. I rapporti di Lombardo Radice con la scuola della Montesca nella fase anteriore alla Riforma culminarono nell’estate 1920 con un lungo soggiorno che il pedagogista trascorse nella villa umbra tra il luglio e l’agosto di quell’anno, in compagnia della famiglia335. Fu durante tale periodo che egli venne coinvolto dall’Opera Pia Regina Margherita di Roma, ente cui spettava la gestione delle scuole dopo la morte del Franchetti, nella cerimonia di inaugurazione della «Casa delle Maestre», la nuova istituzione di beneficenza sorta grazie alle disposizioni testamentarie del barone e che consistenza nella realizzazione nella villa padronale di una residenza dove le maestre avrebbero potuto trascorrere periodi di riposo e di vacanze in un luogo così altamente simbolico. Nel discorso che egli tenne di fronte alle autorità e alle maestre e che fu dato alle stampe nel 1922 nei Nuovi saggi di propaganda pedagogica, Lombardo Radice per la prima volta si addentrava nell’illustrazione delle caratteristiche peculiari della Montesca, che facevano di essa un modello cui la scuola italiana doveva guardare: Il segreto della scuola, così vivamente sentito, è questo: l’espressione grafica elevata alla stessa dignità e importanza della espressione linguistica. Qui il disegno integra sempre la parola, anzi la previene. Occhi attenti e vigile mano al ritrarre: voi immaginate quale interiorità interiore serietà e compostezza richiedono, come e quanto elevano lo spirito infantile, lieto della continua creatività sua. […] Qui lo studio delle scienze assume un posto centrale. Ma non è studio di imparaticci o lettura di libri; è lettura diretta della natura; osservazione ottenuta dallo sviluppo delle piante e degli animali. Vera e propria scienza; cioè ingenua esplorazione e scoperta scientifica, in cui nulla è «insegnato», ma tutto è «trovato»336. Si ritrovano in questa riflessione molti aspetti propri della visione pedagogica di Lombardo Radice, che contemplava la creazione di una scuola in cui lo spirito infantile potesse liberamente manifestarsi e la creatività non fosse ostacolata né soffocata dagli adulti, secondo il mito della «scuola serena» teorizzato dal pedagogista siciliano, vale a dire un «modello particolare di scuola nuova o attiva in cui al centro si trovano l’attività del bambino e il ritmo stesso del suo svolgimento spirituale, ma si trova anche il maestro come sollecitatore dell’impegno del bambino a sviluppare la sua vita spirituale e a creare le condizioni di lavoro tranquillo, intenso, gratificante. Gratificante proprio perché rispecchia i bisogni profondi del bambino, oltre che le forme del suo apprendere, che sono bisogni estetici e sociali»337. 333 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Giuseppe Lombardo Radice a Gemma Harasim, 10 giugno 1918. 334 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Maria Marchetti a Gemma Harasim, 14 giugno 1918. Inoltre la Marchetti, venuta a conoscenza della candidatura di Lombardo Radice alle elezioni politiche del 1919, gli inviò una lettera augurandogli la sua elezione (Ivi, Carteggio generale, Lettera di Maria Marchetti a Lombardo Radice, 13 novembre 1919). 335 Il ricordo della felice vacanza trascorsa alla Montesca rimase caro al pedagogista come dimostra la lettera alla figlia Laura scritta in occasione della sua ultima visita nella villa dei Franchetti, nel 1938: «[…] Ho riveduto con commozione i nostri luoghi della villeggiatura 1920. Baci Papà» (Ivi, Carteggio generale, Cartolina di Giuseppe a Laura Lombardo Radice, 6 aprile 1938). 336 Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, cit., p. 218. 337 Cfr. la voce curata da F. Cambi, Lombardo-Radice Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 65, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, p. 541. Sulla scuola serena si veda anche: 119 3. La Montesca ed i programmi del 1923 Chiamato alla fine del 1922 da Giovanni Gentile a ricoprire la carica di Direttore Generale dell’Istruzione elementare, Lombardo Radice lavorò, come è noto, al rinnovamento della scuola primaria italiana redigendo, in particolare, i nuovi programmi per la scuola elementare che andavano a sostituire quelli emanati nel 1905338. Ispirati all’attualismo gentiliano, essi intendevano rappresentare un taglio netto con il precettiamo tardo-ottocentesco che ancora innervava la scuola italiana ed un superamento dei riti vuoti e pedanti che la caratterizzavano e contro i quali Lombardo Radice e gli altri idealisti avevano condotto la loro battaglia culturale nei primi due decenni del secolo. Alla base dei nuovi programma fu posto, accanto ad alcuni temi di fondo – come la libertà dell’insegnamento, la comunione spirituale tra insegnante ed alunno, la didattica come ricerca attiva, l’apertura a tutte le esperienze, la sfiducia nei metodi preconfezionati –, l’ideale della spontaneità infantile, da conseguire attraverso la valorizzazione degli insegnamenti artistici, in particolare il disegno e il canto, ma anche la scrittura e la lettura. Grazie all’arte, infatti, era possibile ottenere, secondo la prospettiva idealistica, la liberazione dello spirito del fanciullo e l’affermazione della propria soggettività339. Per quanto attiene al nostro caso, il riferimento alla Montesca era presente in tre passi dei nuovi programmi. Il primo era contenuto nella parte dedicata al disegno laddove un paragrafo prescriveva per tutte le classi superiori alla seconda il «Calendario della Montesca», sussidio didattico che nato nella scuola umbra veniva ora elevato a modello da imitare, «per stimolare la gara nel disegno, destando altresì un più vivo spirito di ricerca e di osservazione». Le indicazioni fornite dai programmi erano al riguardo piuttosto dettagliate: si precisava che dovesse essere «un grande foglio di carta ben consistente, diviso a matita, in molti grandi rettangoli» e nel quale «ogni giorno un alunno dei più destri nel disegno, col consenso dell’insegnante e per ordine di esso, staccherà il foglio e, appartandosi dai compagni, disegnerà dentro uno dei rettangoli, un oggettino di suo gusto, portato da lui a scuola, ovvero osservato nel venire a scuola». Il lavoro doveva essere datato e firmato dall’alunno e nel suo complesso esso doveva servire a testimoniare «il variare della natura circostante», e a tal fine venivano disegnati soggetti quali una bacca, un ramoscello, un fiore, un frutto, un rametto di gemme schiuse, ecc.340. Dalla scuola dei Franchetti Lombardo Radice prese in prestito anche un altro esercizio che rappresentò una delle novità dei programmi: si trattava del «soggetto del mese», che nei programmi fu chiamato «componimento illustrato», esercizio fondato sull’osservazione diretta della natura che sarebbe culminata con dei disegni rappresentati il mutare dell’ambiente naturale e E. Sordina, Il pensiero educativo di G. Lombardo Radice, Roma, La Goliardica Editrice, 1980, pp. 3747. 338 I programmi furono emanati con l’Ordinanza Ministeriale dell’11 novembre 1923 in applicazione al R.D. I° ottobre 1923, n. 2185, in «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», 1923, pp. 4590-4627. 339 Catarsi, Storia dei programmi, cit., p. 90-92. Sulla storia dei programmi per la scuola elementare si vedano: I. Picco, I programmi scolastici, Milano, Viola, 1950; D. Bertoni Jovine, I programmi della scuola primaria nella storia dell’educazione, «Riforma della Scuola», n. 12, 1964, pp. 7-13; F.V. Lombardi, I programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1975, Brescia, La Scuola, 1975; A. Santoni Rugiu, Ideologia e programmi nelle scuole elementari e magistrali dal 1859 al 1955, Firenze, Manzuoli, 1980. 340 Alcuni «Calendari della Montesca» provenienti dalle scuole elementari di Siena e redatti negli anni Venti sono reperibili tra le carte del pedagogista siciliano conservate in AGLRF, Scuole, b. 69. 120 in una didascalia o legenda scritta che illustrasse il soggetto della rappresentazione grafica. I nuovi programmi prescrivevano in terza la redazione del componimento illustrato mensile, in quarta del componimento illustrato annuale. Infine, un riferimento alla scuola umbra era presente tra le norme che disciplinavano «gli esperimenti di differenziazioni didattiche», laddove si accordava in taluni casi la possibilità di effettuare «esperimenti di riforma» rispetto ai programmi ufficiali, sulla stregua di quanto le scuole modello come la Montesca e la Rinnovata avevano fatto negli anni precedenti con le loro sperimentazioni didattiche. 4. Polemiche e plausi al modello educativo della Montesca Quale accoglienza trovò la proposta lombardiana del modello educativo della Montesca nel mondo scolastico italiano? A questa domanda credo che si possa ragionevolmente rispondere distinguendo due aspetti strettamente legati uno all’altro eppure distinti: da una parte si colloca il modello pedagogico della scuola della Montesca, sul quale generalmente fu unanime il giudizio positivo espresso da pedagogisti di ogni profilo culturale; dall’altro lato, si collocano due esercizi nati in quella scuola, il componimento mensile ed annuale illustrato e soprattutto il cosiddetto «Calendario della Montesca», che i nuovi programmi del ’23 introdussero nella scuola italiana suscitando dibattito in cui emersero giudizi positivi alternati a prese di posizioni apertamente polemiche. Quanto alla prima delle due questioni, la buona accoglienza che la Montesca trovò tra gli uomini di scuola ed i pedagogisti fu trasversale alle correnti di pensiero e destinata a perdurare nel tempo. Anche l’ex ministro Luigi Credaro, che si mantenne su posizioni anti-idealiste erigendosi a principale critico dei programmi del ’23, visitava nel maggio 1928 la scuola umbra ottenendone un’impressione positiva341. Ma fu soprattutto la dinamica cerchia degli studiosi idealisti ad accrescere la fama di questa scuola, attraverso una rete di relazioni messa in piedi dalle riviste magistrali da essi dirette o a loro vicine e dai numerosi contatti che essi riuscirono a stabilire con numerose personalità sparse su tutta la penisola. Su tutti spicca la figura di Francesco Bettini, che senza esagerazioni, fu lo studioso più attento della Montesca dopo Lombardo Radice, il quale sviluppò le sue osservazioni lungo un arco cronologico che si estendeva dai primi anni Venti, quando ricoprì l’incarico di ispettore scolastico a Perugia nel 1923-’24, e che giungeva sino alle soglie degli anni Cinquanta. Fortemente debitore del pensiero del pedagogista catanese, il Bettini è uno dei cosiddetti «lombardiani», annoverato cioè in quella singolare e variegata schiera di ispettori scolastici, direttori didattici o scrittori per l’infanzia, che rimasero fedeli all’insegnamento del maestro anche 341 Si veda la lettera che Credaro scrisse pochi giorni dopo la visita: «[…] Ci è grato testimoniarle la nostra ammirazione dinanzi agli esercizi mirabili eseguiti dai piccoli alunni della Montesca, esercizi altamente istruttivi per quanti intendono nella esperienza viva dai metodi ritrovare la verità degli asserti teorici espressi nelle aule universitarie» (ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti», Carteggio amministrativo, b. 55, Lettera di Credaro al Provveditore Salimei, maggio 1928). Si veda anche il resoconto della visita scritto dalla professoressa Benetti Brunelli che accompagnava Credaro: V. Benetti Brunelli, La R. Scuola di Pedagogia di Roma alla Montesca, «Rivista Pedagogica», giugno-luglio 1928. 121 dopo la sua morte342. Questa gli appariva, infatti, come un mirabile esempio di «scuola serena», in cui l’educazione estetica altro non era che «un mezzo atto a educare il fanciullo a esprimersi con chiarezza e precisione, con sicurezza e sincerità». In essa la creatività infantile aveva piena possibilità di esprimersi né veniva limitata dallo studio scientifico della natura che, lungi dall’essere condotto secondo i precetti del positivismo tardo-ottocentesco, di cui l’emblema era rappresentato dall’«esercitazione un po’ meccanica, un po’ parolaia, un po’ vuota e del tutto inconcludente che aduggiava la scuola del così detto metodo sperimentale», permetteva invece di ravvivare l’insegnamento oggettivo343. Mostrando di recepire la concezione educativa lombardiana, Bettini poteva concludere che la Montesca era una, serena palestra di serie e feconda e gioiosa attività, allietata dal sorriso della natura e da quello dell’arte. E non persegue le manifestazioni artistiche per far dell’arte per l’arte o per allevare un popolo di pittori, di cantori, di novellieri, di commedianti; ma perché tutto ciò che è attività spontanea dell’uomo è creazione e per ciò è arte nel senso alto e nobile della parola, anche quando fa scienza invece di poesia344. Un altro pedagogista, il pugliese Giovanni Modugno, recensendo Athena Fanciulla scriveva che «non senza commozione si leggono per esempio le pagine dedicate alla scuola della Montesca, la quale, già prima della riforma (non sarà mai ripetuto abbastanza per coloro che chiamano utopistici i nuovi programmi), ne aveva attuato vari punti importanti»345. La notorietà della Montesca crebbe anche in seguito alla Mostra Didattica Nazionale, che si tenne a Firenze nella primavera del 1925 ed in occasione della quale le «scuole nuove» riscossero un notevole successo. Il pedagogista Giuseppe Giovanazzi che poco dopo fece confluire le sue osservazioni sulla mostra in un volume dall’emblematico titolo Verso la scuola nuova, si soffermò sulla Montesca, scrivendo che «la celebre scuola umbra si distingueva sopra tutte le altre per l’importanza data allo studio dell’ambiente»346. Anche personaggi per così dire minori e poco noti, come alcuni ispettori scolastici o direttori didattici influenzati dall’attualismo gentiliano di cui condividevano i presupposti pedagogici, e che ruotavano nell’orbita del gruppo idealista o che più semplicemente ne condividevano le idee, lodarono lo spirito che informava la Montesca: tra questi Bruno Sestini, ispettore delle scuole rurali romagnole gestite dall’Ente di Cultura nonché legato personalmente ad Ernesto Codignola; Italo Ciaurro, prima maestro e dal 1916 direttore delle scuole comunali di Perugia, influenzato dall’attualismo gentiliano di cui fu un fervente sostenitore; l’ispettore scolastico Edoardo Predome, studioso del linguaggio grafico dei bambini a cui dedicò una Mostra 342 È significativa al riguardo la lettera che Bettini scrisse pochi giorni dopo la morte di Lombardo Radice a Codignola in cui mostra chiaramente la sua fedeltà ideale al pedagogista siciliano: «Lombardo Radice è morto; e il drappello esiguo che ancora lo sentiva maestro, incitatore e guida, calerà nel silenzio disperso e dimenticato. Io non muterò di una linea» (AEC, Corrispondenza, Lettera di Francesco Bettini a Ernesto Codignola, 3 settembre 1938). Interessanti informazioni sui «lombardiani» si possono trovare in: G. Chiosso, Il rinnovamento del libro scolastico nelle esperienze di Giuseppe Lombardo Radice e dei «lombardiani», «History of Education & Children’s Literature», I, 1 (2006), pp. 127-139. 343 F. Bettini, La Montesca, «I diritti della scuola», n. 31, 7 giugno 1925, pp. 485-487. 344 F. Bettini, Spirito e forme alla Montesca, «I diritti della scuola», n. 36, 26 luglio 1925, pp. 563-564. 345 G. Modugno, Per la riforma interiore della scuola elementare e per l’attuazione dei nuovi programmi, Venezia, La Nuova Italia, 1927. Il capitolo «Athena Fanciulla e gl’insegnamenti artistici» contenuto in tale libro, fu pubblicato nel fascicolo di agosto-settembre 1926 nel periodico «La Scuola di Puglia. Bollettino del R. Provveditorato agli studi di Bari». 346 G. Giovanazzi, Verso la nuova scuola italiana. Notizie e considerazioni sulla mostra didattica nazionale di Firenze, Firenze, Bemporad, 1926. 122 tenutasi nel 1924 a Casal Monferrato ed in contatto epistolare con Lombardo Radice347. La notorietà conquistata dalla Montesca si manifestò anche nelle numerose visite che studiosi italiani e non, gruppi di maestre o di studentesse di istituti magistrali, fecero nella scuola di Città di Castello. La seconda questione legata all’accoglienza nel mondo magistrale e pedagogico italiano della proposta lombardiana della Montesca, riguarda, come si diceva prima, il componimento mensile ed annuale illustrato ed, in specie, il «Calendario della Montesca». Quest’ultimo, infatti, se da un lato divenne l’emblema della nuova scuola elementare italiana, dall’altro lato non rappresentò sempre una novità ben accettata e adeguatamente recepita dalla generalità dei maestri. Infatti le indicazioni di Lombardo Radice riguardo i Calendari monteschiani suscitarono un dibattito di ampie proporzioni soprattutto nei primi anni della Riforma, a cui parteciparono personalità di provenienza culturale e percorsi professionali differenti. Si trattò di una discussione che alternò momenti di riflessione pacata e collaborativa a momenti di scontro polemico, in cui è possibile distinguere due diverse fasi: l’una, coincidente con i primi anni successivi alla Riforma, durante la quale furono molti gli studiosi, soprattutto di orientamento idealista, che si espressero in sostegno dell’utilità e del valore dei «Calendari della Montesca» e dei componimenti; l’altra fase, successiva alla fine degli anni Venti, in cui le voci favorevoli ai Calendari monteschiani rimasero poche e ristrette alla cerchia dei cosiddetti «lombardiani» di stretta fede, come il Bettini, mentre si fecero più rumorose le voci critiche da parte di uomini di scuola che pur avevano gravitato nell’orbita dell’idealismo ed erano stati influenzati dalla lezione di Lombardo Radice. Quest’opera di revisione critica trovava un suo sbocco finale con i nuovi programmi per la scuola elementare del 1934, con i quali veniva reso facoltativo, e non più obbligatorio, la pratica del «Calendario della Montesca»348. Per ricostruire questo dibattito, di cui si sono appena descritte le tappe, bisogna partire più in generale dall’impreparazione e dalla confusione con cui i maestri italiani applicarono le novità contenute nella Riforma Gentile. Se è vero che le polemiche innescate dalla riforma più forti riguardarono la scuola secondaria e l’università349, per quanto atteneva alla scuola primaria i rilievi mossi riguardavano soprattutto i nuovi programmi per la scuola elementare. Come è noto le polemiche verterono soprattutto sull’introduzione dell’insegnamento religioso ma quello che a noi interressa in questa sede sono le critiche che si appuntarono anche sulle nuove disposizioni relative gli insegnamenti artistici, in specie il disegno, per l’alto valore formativo che ora veniva riconosciuto ad esso. Tale rivalutazione provocò interventi critici da parte di chi, in buona sostanza, sosteneva la tesi secondo la quale si voleva impropriamente fare dei bambini dei piccoli «artisti», avanzando nei loro confronti pretese esagerate, e danneggiando peraltro gli altri insegnamenti, quali la scrittura e la lettura, che venivano considerati molto più importanti350. 347 Si vedano le lettere conservate in AGLRR. Va tuttavia osservato che anche Lombardo Radice si rese conto dei problemi emersi tra gli insegnanti ai quali veniva richiesta la redazione dei Calendari. Ma la causa di ciò era da lui attribuita alla scarsa attenzione con cui i maestri avevano letto i programmi e alla svogliatezza di molti di essi che non intendevano rinnovarsi. Di tale problema ne ebbe coscienza tanto da inviare il 20 febbraio 1925 una circolare ai maestri dell’Animi, di cui ormai si occupava dopo le dimissioni dal Ministero del giugno del ’24, contenente nuove indicazioni da seguire per la compilazione dei Calendari. La circolare è riprodotta in G. Lombardo Radice, La buona Messe, Roma, Animi, 1926, pp. 85-87. 349 De Fort, La scuola elementare italiana dall’Unità alla caduta del fascismo, cit., p. 377. 350 Catarsi, Storia dei programmi, cit., pp. 90-91. 348 123 Anche nei riguardi della scrittura, l’eliminazione dei componimenti di fantasia che le nuove norme avevano decretato, se da un lato venivano da taluni salutati positivamente in quanto ponevano fine ad esercizi ritenuti pedanti e retorici, dall’altro l’introduzione dei componimenti mensili ed annuali, presi in prestito dalla Montesca, diedero luogo a non pochi equivoci ed incomprensioni tra gli insegnanti. In questa cornice si inseriva il dibattito, per la verità assai poco noto, intorno al «Calendario della Montesca» e al componimento mensile e annuale351. Onde superare le difficoltà, che peraltro apparvero subito evidenti tra i maestri nel dover applicare le prescrizioni sui Calendari, veniva pubblicata nel 1924 un’agile guida alla loro compilazione. L’autore era Gaetano Piacentini, dinamico dirigente dell’Animi, amico di Lombardo Radice nonché ammiratore dell’opera educativa di Alice Franchetti 352. Piacentini pubblicò tale guida in due edizioni, la prima presso l’editore Vallecchi di Firenze, la seconda presso una tipografia di Tivoli. Consistente di sole 7 pagine e contenente 3 illustrazioni di Calendari, la guida di Piacentini aveva come principali destinatari i maestri ai quali venivano illustrate le modalità e le finalità del nuovo strumento didattico, del quale si salutava con soddisfazione l’introduzione nelle scuole italiane. Il dibattito sulla Montesca e sugli strumenti didattici che la Riforma aveva introdotto nella scuola italiana, trovava la sua articolazione più compiuta tra il 1924 e il 1925, quando Lombardo Radice, al fine di divulgare la conoscenza delle «scuole nuove», pubblicò alcuni articoli apparsi sulla rivista da lui diretta, «L’Educazione Nazionale», o su altri periodici scolastici italiani nonché i volumi Athena Fanciulla e il Linguaggio grafico dei fanciulli. Apparivano in quel momento i suoi studi sulle scuole ticinesi, pubblicati sulle pagine de «L’Educazione Nazionale», de «L’Adula» e de «L’Educatore di Lugano», le sue riflessioni sulla Scuola Rinnovata dalle colonne del «Corriere delle Maestre», le sue analisi sul componimento nelle scuole di Gorizia pubblicato nel periodico «La scuola al confine». Non si trattava soltanto di un’opera di divulgazione delle scuole-modello fine a sé stessa, ma essa era oltremodo funzionale a mostrare agli scettici e ai dubbiosi commentatori dei nuovi programmi che le novità introdotte potevano essere applicate da tutti gli insegnanti dal momento che questa già da anni era una realtà consolidata in quei particolari ambienti formativi353. Nello stesso periodo in cui apparvero gli articoli sulle altre realtà scolastiche innovative, Lombardo Radice pubblicava in diversi fascicoli su una delle principali riviste magistrali del tempo, il «Corriere delle maestre», lo studio intitolato Della Montesca, della scienza dei fanciulli, dei compiti, del disegnare e di altre cose, poi raccolto e pubblicato nel corso dello stesso anno nel ben noto 351 Per quanto mi risulta solo il Bettini, profondo conoscitore della Montesca, accennò brevemente a tali polemiche nel volume I programmi di studio per le scuole elementari dal 1860 al 1945, Brescia, La Scuola, 1953, pp. 154-157. 352 Cfr. nota n. 20. 353 A titolo di esempio si riportano i commenti polemici di Lombardo Radice nei confronti dei critici dei programmi. Chiamando in causa Annibale Tona che aveva affermato che i sostenitori della riforma andavano «spampanando e diluendo in amplificazioni sesquipedali i più modesti elementi della riforma e i più semplici prodotti della sua prima applicazione», il pedagogista scrisse che i suoi vari articoli illustranti le «scuole nuove» concernevano «esperienze didattiche anteriori alla riforma». E concludeva: «sulla attuazione della riforma abbiamo scritto pochissimo, facendo sempre le più ampie riserve; non abbiamo nulla amplificato né spampanato» (Lieve inesattezza da correggere, «L’Educazione nazionale», giugno-luglio 1925, p. 78). 124 Athena Fanciulla354. Nello stesso anno il pedagogista siciliano mandò in stampa un’altra sua fondamentale opera, Il linguaggio grafico dei fanciulli, studio dedicato al disegno infantile e alla sua importanza ai fini scolastici355. È notorio che i due volumi dedicavano ampio spazio alla scuola della Montesca: in particolare nel primo veniva descritta l’esperienza educativa di Alice e Leopoldo Franchetti, i loro contatti con i rappresentanti del movimento delle scuole nuove, le finalità e gli strumenti didattici della scuola; nella seconda opera, invece, veniva descritto il «Calendario della Montesca» ed illustrate le sue caratteristiche. L’ammirazione che Lombardo Radice manifestò nei riguardi della scuola fondata dai baroni Franchetti si concentrava soprattutto sul disegno, inteso ed applicato come mezzo atto allo studio e alla descrizione della natura circostante e delle sue modificazioni, secondo l’insegnamento di Lucy Latter a cui il pedagogista siciliano attribuiva l’introduzione nella scuola umbra del Calendario e dei soggetti del mese illustrati. L’interesse mostrato nei confronti del disegno così come era realizzato alla Montesca era tanto più grande, agli occhi di Lombardo Radice, poiché esso era concepito in funzione del linguaggio: in tal senso le brevissime didascalie poste sotto ai disegni, se in un primo momento potevano apparire sinonimo di aridità di espressioni e quindi destare dei dubbi, in realtà si dimostravano in linea con un’idea del disegno che eliminava la retorica che troppo spesso dominava negli scritti, secondo una concezione per cui «il disegno è il correttivo della retorica». Analizzando poi i quaderni di un’alunna dalla prima alla quinta classe, che Lombardo Radice aveva portato via con sé in occasione del suo primo viaggio alla Montesca nel 1915, passava a esaminare i componimenti che, aventi per tema l’osservazione della natura o gli aspetti pratici della vita del contadino, avevano un carattere scientifico-pratico che ben si confaceva ad una scuola rurale. In tutto ciò egli vedeva un valore positivo e allo stesso tempo un limite. L’aspetto che apprezzava era che alla Montesca erano stati quasi completamente banditi i componimenti di fantasia in uso fino ad allora nella generalità delle scuole italiane ed oggetto di una polemica condotta da Lombardo Radice che li considerava esercizi retorici e pedanti, inibitori delle libertà creativa dei fanciulli. Migliori gli apparivano gli esercizi che avevano per tema l’osservazione della natura o la pratica della corrispondenza. Il limite di questi esercizi, semmai, era dovuto alla predominanza dell’elemento pratico e logico. A questo proposito egli affermava che «il sentimento non è soffocato (tutt’altro)» ma tuttavia esso «non trova un posto negli scritti, se non quando vien da sé, ed è contenuto entro limiti, togliendo le parole inutili». Tale aspetto appariva però comprensibile agli occhi di Lombardo Radice se si pensava che la Montesca era una scuola rurale e che la «gran virtù del contadino è il parlar poco, quasi il rispetto della parola, come cosa che non è da sprecare». È per tale motivo che gli esercizi della Montesca non furono introdotti nei programmi del ’23 tali e quali venivano svolti nella scuola umbra, ma essi furono parzialmente modificati, come ebbe cura di precisare Lombardo Radice: 354 G. Lombardo Radice, Athena Fanciulla. Scienza e poesia della scuola serena, Firenze, Bemporad, 1925. Il giornale diretto da Guido Fabiani ospitò alcuni articoli sul Calendario monteschiano, su cui si espressero dei giudizi positivi, da parte dei collaboratori Angelo Bronzino e Francesco Bianchi. Si veda: F. Bianchi, Il disegno, «Il Corriere delle Maestre», 15 febbraio 1925. Bronzino pubblicò nel 1929 un volume in cui descriveva positivamente i Calendari ed i componimenti illustrati. Cfr. A. Bronzini, Nella vita di scuola. Alcuni momenti di scuola attiva, Milano, Vallardi, pp. 2333 e pp. 47-93. 355 La seconda edizione del libro, con il titolo La buona messe, apparve nel 1926. 125 I Nuovi programmi, del 1923, hanno eliminato il componimento retorico, più radicalmente forse della Montesca; il «soggetto del mese» che è alla Montesca limitato allo studio della natura, è diventato il componimento mensile, con amplissima libertà di scelta dei soggetti; il calendario è stato adottato tale e quale, consacrando ufficialmente il nome della Franchetti, ma offre più larga possibilità di sviluppi, perché il disegno-giuoco rivela, sin dalle prime classi, le menti infantilii; la cronaca, che alla Montesca era ed è quasi esclusivamente registrazione di appunti delle osservazioni sulla natura e degli «esperimenti» relativi, è diventata il diario della vita di scuola, che può raccogliere tutto oltre ciò che fa la Montesca356. Queste considerazioni si ritrovano in un altro passaggio di Athena Fanciulla, laddove si riscontrava che uno studio basato esclusivamente sulla natura poteva limitare il campo delle osservazioni dal vero, finendo per conferire ai lavori realizzati dai fanciulli un carattere «un po’ troppo regolato», tipico dello spirito «un po’ troppo anglo-sassone» della Franchetti e della Latter. Ciò faceva sì che il disegno della Montesca non diventasse «mai disegno-giuoco (scopritore della personalità del bambino)» ma che rimasse «sempre disegno-commento dello studio elementare della scienza, fatto sul vero»357. Si trattava di una costatazione critica che distingueva la Montesca da altre due esperienze educative studiate da Lombardo Radice e da lui richiamate, le scuole ticinesi di Muzzano e di Pila, dove invece i bambini gli apparivano «più artisti, senza esser meno sobri e «rurali» di questi». Tuttavia queste considerazioni non intendevano svalutare la scuola dei Franchetti, che rimaneva pur sempre, per usare le parole di Lombardo Radice, «un ideal tipo di scuola rurale» e dove l’azione di Alice rappresentava un mirabile esempio per «i pigri educatori che cercano degli alibi». La vena polemica con cui il pedagogista chiudeva la sua riflessione non era certo casuale ed era una prima risposta a quelle voci critiche che si erano affacciate avanzando dubbi e interrogativi sulle novità legate alla Montesca e, più in generale, alle novità introdotte con i programmi del 1923. Si pensi, per quanto attiene al nostro studio, all’intervento di Lombardo Radice in risposta alle critiche mosse in Senato e dalla stampa, non solo scolastica, alla riforma358. Dalle colonne della sua rivista egli affermò che grazie ai nuovi componimenti «il bimbo esplora il suo mondo» secondo quanto fatto nella «grande esperienza compiuta in venti anni nelle scuole create alla Montesca dal compianto Senatore Franchetti», e le cui basi poggiavano sui precedenti 356 Lombardo Radice, Athena Fanciulla, cit., p. 60. Ivi, p. 54. 358 A tal proposito si segnala la presa di posizione che Nicola Festa, grecista e latinista nonché candidato del Partito Popolare alle elezioni della primavera del 1924, assunse con una serie di articoli pubblicati ne «Il Popolo» sul tema della politica scolastica. In uno di essi, dopo aver criticato la proclamata libertà dell’insegnamento contenuta nei nuovi programmi, attaccava il Calendario della Montesca: «Le nuove prescrizioni arrivano a disciplinare e regolare anche la parte che per definizione dovrebbe essere lasciata assolutamente libera: la ricreazione dei piccoli alunni della scuola primaria. Inoltre il maestro deve raccogliere e custodire gelosamente i pupazzetti e gli scarabocchi degli scolari, tener d’occhio il loro «componimento annuale», e, se Dio vuole, badare al «Calendario della Montesca» (se qualcuno ignora questa geniale trovata legga l’istruzione nel citato Bollettino, pagina 4603). Nelle famiglie si sentono ogni giorno lamenti perché quest’anno i ragazzi tutto imparano fuorché a leggere e scrivere» (N. Festa, Scuola e politica, «Il Popolo», 27 marzo 1924). Il commento non passò inosservato a Lombardo Radice che irritato scrisse di Festa: «Schernisce, senza conoscerlo, il Calendario della Montesca, che ha una letteratura di insigne valore (LATTER, ad es., la più vigorosa prosecutrice di Froebel). L’esagerazione si spiega, non si giustifica, pensando che si tratta dell’articolo preelettorale di un candidato politico» (G. Lombardo Radice, Vita nuova della scuola del popolo. La Riforma della scuola elementare, Palermo, Sandron, 1925, p. 225). 357 126 esperimenti didattici americani, inglesi e tedeschi risalenti alla fine dell’Ottocento. Concetti analoghi si ritrovano in un articolo pubblicato ne «Il Rinnovamento scolastico» nel febbraio del ’25, laddove egli rispondendo ad un critico commentatore dei programmi da lui chiamato con il nomignolo «piccolo dottor Ciccì», scriveva che con l’introduzione del disegno nei piani di studio della scuola elementare, l’Italia recuperava un ritardo nei confronti degli altri paesi stranieri359. Nello stesso anno Lombardo Radice pubblicava in un volume illustrante le caratteristiche della riforma, una ricca bibliografia di libri ed articoli aventi per oggetto i nuovi programmi, ed in particolare, il disegno e il «Calendario della Montesca»360. 5. Marcucci, Bettini, Predome, Padellaro: favorevoli e contrari al «Calendario della Montesca» Uno degli esempi più emblematici ed interessanti del dibattito che si originò intorno alla proposta lombardiana della Montesca, ed in particolare del suo più appariscente derivato, vale a dire il «Calendario della Montesca», è la presa di posizione che Alessandro Marcucci assunse agli inizi del 1925. Si trattò di una polemica che non finì sulle colonne delle riviste magistrali ma che invece si svolse in forma epistolare361. Si trattava infatti di una lunghissima lettera nella quale il noto fondatore delle Scuole dell’Agro Romano, faceva conoscere all’amico «Peppino» tutte le sue riserve e i suoi dubbi a proposito delle indicazioni da lui date riguardo il disegno. Le riflessioni del Marcucci erano scaturite, come egli stesso affermava, dalla lettura del Linguaggio grafico dei fanciulli. Il tono polemico che percorre tutta la lettera è evidente fin dall’incipit: «Vedendo 100 e 100 e 100 Calendari della Montesca!». Dopo tale premessa, Marcucci passava subito al cuore della sua riflessione: egli accusava i maestri della mancata comprensione dello spirito che aveva informato la Riforma Gentile, i quali grossolanamente erano stati più attenti ad applicare la lettera delle disposizioni normative piuttosto che a coglierne lo spirito che vivificava quelle norme. Ciò era l’esatto contrario di quanto avveniva in quelle scuole che erano divenute modello per le moderne teorie attivistiche che da anni vi si sperimentavano e alle quali la Riforma intendeva ispirarsi. A questo proposito Marcucci scriveva che: I Maestri della Montesca, della Ghisolfa, delle Case dei Bambini, del Canton Ticino, comprendevano nello spirito e nella lettera il valore del disegno; vi erano stati cresciuti e vi sapevano e vi fanno crescere i loro alunni; cioè: sanno essi disegnare, o meglio: sanno intervenire consapevolmente (non da presuntuosi pseudo-artisti) a valutare, a guidare, a giudicare l’esercizio dei loro alunni; sanno inquadrare il disegno in tutta l’azione educativa della loro scuola, cioè sono dei veri tecnici; tecnici non nel senso artistico, ma nel senso didattico 362. 359 Scriveva il pedagogista: «Quel che ti è parso una speciosa trovata (il disegno, La Montesca, etc.) è roba vecchia, che ha i suoi bravi anni» (G. Lombardo Radice, Il disegno nei nuovi programmi, «Il Rinnovamento scolastico», 1 febbraio 1925). 360 Lombardo Radice, Vita nuova della scuola del popolo. La Riforma della scuola elementare, cit. 361 La lettera in questione, datata 9 febbraio 1925, è quasi interamente riprodotta in Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità. Alessandro Marcucci (1876-1968), cit., pp. 113-116. 362 Ibid. 127 Allo stesso tempo il fondatore delle Scuole dell’Agro romano giudicava positivamente la rivalutazione del disegno operata da Lombardo Radice nei programmi della scuola elementare. Il problema nasceva allora dall’incapacità degli insegnanti, i quali: inesperti ed ignavi (trascuriamo le eccezioni) si son dati a far copiare i modelli idioti e turbatori dei giornaletti scolastici o qualsiasi altro disegno o a far disegnare spontaneamente: unicamente spontaneamente i loro alunni, non sapendo intervenire a guidare, a far afferrare, a rivolgere ad un fine utile alla vita individuale e collettiva questa salutare tendenza del bambino a disegnare363. Dopo aver affermato che anch’egli andava meditando sulla Montesca «da 7 o 8 anni», Marcucci si scostava dall’interpretazione che Lombardo Radice avevano dato dei Calendari monteschiani, e finiva per fornire egli stesso una sua personale lettura di quei sussidi didattici sulla scorta di quanto aveva potuto vedere nelle due scuole umbre. La critica di Marcucci verteva in buona sostanza sulle prescrizioni date agli insegnanti con le quali si proibiva loro di intervenire sui fanciulli intenti a realizzare i propri disegni. Tale visione, che derivava dall’idealismo filosofico che informando i programmi del 1923 aveva negato ogni intervento del maestro sul bambino al fine di non soffocarne la spontaneità e l’originalità, era stata, secondo Marcucci, applicata con estremismo dai maestri, i quali si erano attenuti alla lettera dei programmi e avevano fatto sì che si assegnasse, il predominio al disegno spontaneo, generalmente interpretato come quello della fantasia e del ricordo, con scarsissimo ritorno alla osservazione per far meglio, in quanto senza la voce e il consiglio e la critica di chi vede più giusto (il Maestro), si dà al fanciullo che disegna la sensazione di aver fatto cosa perfetta 364. Per Marcucci, dunque, risultava fondamentale l’intervento del maestro che doveva essere «continuo e rivolto ad un fine», contrariamente a quanto invece avveniva nella prassi comune. Annotava con disappunto a questo riguardo che «nei disegni di tutti o quasi le scuole d’Italia (tanto Calendari che quaderni) il Maestro non apparisce mai. Lascia fare!!!». Tuttavia il fondatore delle scuole dell’Agro romano si guardava dal rischio che le indicazione da egli stesso auspicate avrebbero potuto svilire quella spontaneità infantile che era pur necessario stimolare, e per questo subito dopo precisava che l’intervento del maestro dovesse essere mirato e ben ponderato. Scriveva infatti che era necessario un intervento «avveduto, sapiente, graduale del Maestro». Su una posizione radicalmente diversa rispetto a quella di Marcucci si collocava il «lombardiano» Francesco Bettini. Dinamico ispettore scolastico, cofondatore della rivista «La nostra scuola» e prolifico pubblicista nei maggiori periodici scolastici del tempo nonché fortunato scrittore per l’infanzia, egli fu un convinto assertore dell’orientamento culturale e pedagogico dell’idealismo prima e dopo la Riforma Gentile, in particolare del pensiero educativo di Lombardo Radice. Bettini intervenne per la prima volta nel dibattito sul «Calendario della Montesca» dalle colonne de «I diritti della scuola», dove pubblicò tra il giugno ed l’agosto del 1925 ben sette articoli di approfondimento attinenti alla scuola umbra365. Lo studio prendeva spunto dalla recente Mostra Didattica Nazionale che si era tenuta a Firenze e nella quale la Montesca aveva esposto il proprio materiale nel padiglione dei Boboli, ottenendo il gran premio 363 Ibid. Ibid. 365 Gli articoli di Bettini apparvero in «I diritti della scuola», nei fascicoli del 7 giugno, 14 giugno, 21 giugno, 28 giugno, 12 luglio, 26 luglio, 15 agosto 1925. 364 128 per la qualità della propria didattica. Dopo aver descritto sommariamente le altre scuole-modello che erano presenti all’esposizione, come la scuola Rinnovata della Ghisolfa, il corso integrativo di Cotignola, le scuole rurali Faina, Bettini arriva a trattare della Montesca verso la quale mostrò una grandissima attenzione, analoga a quella che peraltro egli riscontrò in larga parte dei visitatori della mostra fiorentina tra i quali vi poté constatare un interesse ed una curiosità accresciuti dalla fama che stava conquistando la scuola dei Franchetti e che era dovuta al «fatto di essere isolata, di avere un catalogo ragionato degli oggetti esposti, di aver avuto l’onore di una particolare menzione nei nuovi programmi e la fortuna di essere stata illustrata da Giuseppe Lombardo Radice»366. Lo studio di Bettini non tralasciava nessun particolare degno di nota e descriveva le esperienze botaniche, gli orticelli, la biblioteca, il museo didattico, le escursioni, le osservazioni metereologiche, il componimento mensile ed annuale illustrato fino ad arrivare al Calendario. Egli sosteneva che il disegno applicato alla Montesca non aveva «scopi artistici, ma naturalistici o scientifici, e direi quasi, morali e religiosi, come lo studio della natura di cui fa parte; non serve per dar modo ai fanciulli di sostituire sgorbi e ideogrammi a parole, espressioni grafiche a pensieri più esplicitamente formulati; non è insomma il primo linguaggio scritto dell’infanzia, ma la prova di una osservazione»367. Una concezione ed una pratica del disegno del genere incarnavano fedelmente lo spirito della riforma. Scriveva ancora Bettini: La scuola resta anche col disegno fedele allo spirito che la informa; accosta l’anima del fanciullo agli esseri che la circondano; gliene fa ascoltare la voce; scoprire le leggi che ne governano i rapporti; ammirare la bellezze delle forme; intendere l’amore che ne disciplina le sorti, gustare la poesia della vita368. In questo quadro, i «Calendari della Montesca» costituivano un valido strumento didattico al fine del raggiungimento di quegli obiettivi e le critiche mosse nei loro confronti erano semmai il frutto di un fraintendimento che aveva finito per trasformare il Calendario in oggetto di esibizione fine a se stesso, come accadeva spesso quando le maestre per «appagare la piccola vanità decorativa» facevano di essi dei cartelloni, di tutte le forme (a quadro, a soffietto, a quaderno, a cartolina, su cartone, ecc.), «terribilmente colorati appesi alle pareti della scuola». Quasi in contemporanea con gli interventi apparsi sulla rivista di Annibale Tona, Bettini pubblicò un altro articolo avente per oggetto i Calendari monteschiani nel bollettino del Provveditorato della Toscana, dove era giunto nel 1924 come ispettore capo. Le incomprensioni e le errate interpretazioni che la generalità dei maestri avevano dato di tale strumento didattico erano le motivazioni dichiarate con cui egli presentava questo nuovo intervento in cui ribadiva che il fine del Calendario fosse quello di destare lo spirito di ricerca e di osservazione nei bambini: «la fatica grande è la ricerca di ciò che vi si deve disegnare»369. Un giudizio altamente positivo sul Calendario monteschiano giungeva nei primi mesi successivi alla Riforma anche dall’Ispettore scolastico di Casale Monferrato, Edoardo Predome. Si 366 Cfr. F. Bettini, Alcune scuole-tipo alla Mostra di Firenze, «I diritti della scuola», n. 30, 31 maggio 1925, p. 472. 367 Cfr. F. Bettini, La Montesca, «I diritti della scuola», n. 32, 14 giugno 1925, p. 501. 368 Ibid. 369 F. Bettini, Il Calendario della Montesca, «La Scuola Toscana. Bollettino del R. Provveditorato di Firenze», giugno 1925. Bettini ripubblicherà alcune sue osservazioni sulla Montesca in due volumi: Vita di scuole rurali. Piccolo mondo sereno, Brescia, La Scuola, 1936; Id., La scuola della Montesca, Brescia, La Scuola, 1953. 129 era egli distinto nel panorama educativo nazionale tanto da attirare l’attenzione di Lombardo Radice per il suo dinamismo e per l’acuto interesse dimostrato nei confronti del linguaggio grafico dei fanciulli, che lo aveva portato ad intraprendere uno studio sul disegno e ad organizzare una Mostra Didattica che si tenne nel 1924 nella città piemontese370. Una parte rilevante dell’esposizione fu dedicata ai Calendari, di cui ne furono esposti moltissimi esemplari (oltre 500), e intorno ad essi fu stimolata la «discussione tra Insegnanti, Direttori e Ispettori; sì che nella sua genesi la mostra dei ragazzi alimentò il fervore della discussione dei Maestri». In effetti, anche Predome sosteneva l’idea presente nel pensiero educativo lombardiano, che il Calendario potesse diventare uno strumento in grado di stimolare lo spirito infantile a manifestarsi, rivelando «i gusti, i caratteri, i tic personali, le liete bizzarrie degli spiriti fanciulleschi, che ci consentono una completa conoscenza degli scolari»371. Nell’orbita del gruppo idealista si collocava un altro intervento a favore del Calendario monteschiano, quello di Bruno Sestini. Ispettore scolastico alle dipendenze dell’Ente di Cultura e vicino alle posizioni di Codignola, Sestini dedicava nel 1926 un articolo al Calendario in cui non poteva fare a meno di costatare le errate applicazioni dei programmi da parte degli insegnanti, ai quali raccomandava di intendere tale esercizio come uno strumento di ricerca e, allo stesso tempo, come un mezzo capace di favorire la comunione con la natura. Le maestre, invece, il più delle volte non avevano compreso il significato dei Calendari, riducendoli a semplici esercizi di disegno in cui ad essere rappresentati erano oggetti che nulla o poco avevano a che fare con la natura. In realtà, sosteneva Sestini, ancor prima del disegno veniva un «antecedente spirituale» che era rappresentato dalla «ricerca della natura viva», grazie alla quale i «frammenti di vita» raccolti potevano entrare in classe ed essere, per così dire, interiorizzati dai bambini che solo così potevano sentire che «tutto è Vita, Vita nella Vita, la minore nella maggiore e tutto entro lo Spirito di Dio»372. Nonostante queste prese di posizioni in favore del Calendario monteschiano le critiche che si erano apparse fin dai primi tempi si fecero sempre più intense, anche da parte di chi pochi anni prima aveva approvato le novità della Riforma Gentile ed i programmi del ’23. Era il caso di Nazareno Padellaro il quale nel 1927 scagliò un veemente attacco al «Calendario della Montesca» che polemicamente chiamò il «Calendario della Menzogna»373. Il motivo di tale definizione era dovuta alla non sincerità con cui essi venivano realizzati dai maestri, i quali spesso intervenivano in prima persona per renderli esteticamente più belli. Inoltre Padellaro costatava polemicamente che il Calendario era finito per diventare l’emblema dei nuovi programmi a causa dell’eccessiva enfasi che con cui era stato giudicato. Scriveva a questo proposito: 370 Predome inviò all’inizio del 1925 al pedagogista siciliano i disegni proiettati durante la conferenza da egli tenuta in occasione delle mostra, nel settembre del ’24. Oltre ai disegni, spedì anche venti Calendari della Montesca (AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Edoardo Predome a Lombardo Radice, 6 febbraio 1925). 371 E. Predome, Quello che ha insegnato la mostra dei disegni dei nostri ragazzi (a proposito della Mostra didattica di Casal Monferrato), «Bollettino del R. Provveditorato agli studi di Torino», n. 1-2, ottobrenovembre 1924, pp. 800-803. 372 B. Sestini, Il “Calendario della Montesca”, «La nuova scuola italiana», n. 22, 7 marzo 1926, pp. 385-386. 373 Padellaro, Scuola fascista, cit., pp. 173- 186. 130 Tutti a richiederlo, ad esaminarlo; diagnosi, prognosi, cura: il maestro finì con il convincersi che il segreto della riforma stava in quel rettangolo (a proposito dev’essere un rettangolo o un quadrato?) di carta, che diventò definitorio come un’epigrafe 374. Oltre all’improprio intervento dei maestri che rendeva fallaci i Calendari, Padellaro criticava anche il fatto che a lungo essi erano stati considerati come esercizi attinenti al disegno, mentre a lui apparivano come più legati all’insegnamento delle scienze. Sulla stessa linea d’onda di Padellaro e per certi versi ancor più critico, si collocava l’ispettore scolastico nonché direttore delle pagine di Didattica de «I diritti della scuola», Giorgio Gabrielli. Nonostante che egli avesse difeso in modo pressoché incondizionato i nuovi programmi per la scuola elementare durante i primi anni della riforma e condiviso l’impostazione data da Lombardo Radice di cui si professò un profondo ammiratore, nel 1929 Gabrielli attaccava il Calendario monteschiano in modo piuttosto violento. Facendo propria l’espressione di Padellaro del «Calendario della Menzogna», egli sostenne che se questo dovesse essere «quella cosa ipocrita ed inutile che tutti conosciamo, allora cento volte meglio non farne nulla!»375. Dopo aver affermato di essere convinto «della sua relativa inutilità in nove casi su dieci», egli si lanciava polemicamente in un attacco virulento contro il sussidio didattico nato alla Montesca: quando la finiremo di svenire davanti a un disegno qualsiasi e di gridare al miracolo dinanzi a qualsiasi pupazzo, ci accorgeremo che il fumo che ci ha annebbiato la vista, e che di cinquanta alunni disegnatori, solo due o tre un giorno trarranno profitto di questo abilità. Il calendario della Montesca o si fa secondo lo spirito e il metodo della scuola fondata da Alice Franchetti, o è meglio non farlo; ed è per questo che io preferisco che non sia fatto: tempo perduto in meno, da dedicare a più proficue occupazioni. Mi sono spiegato? 376 I commenti di Padellaro e Gabrielli danno il senso della misura di come ormai il Calendario monteschiano, dopo una prima fase in cui era stato elevato a modello e difeso dalle iniziali critiche che si erano appuntate su di esso, subì una svalutazione sul piano del dibattito pedagogico, ma che forse era già stata preceduta nel campo della pratica didattica da un analogo trattamento da parte della generalità dei maestri italiani, che non avevano bene compreso il significato di questo strumento didattico e le modalità attraverso le quali realizzarlo. In tale quadro allora ben si giustificava la scelta compiuta dalla Commissione che nel 1934 revisionò i programmi per la scuola elementare e che per quanto atteneva l’insegnamento del disegno rese facoltativo, e non più obbligatorio, l’uso del Calendario limitandolo alla sola classe quinta377. Quello che era stato uno dei simboli più appariscenti dei programmi del 1923 cadeva, dopo un decennio durante il quale esso fu oggetto di attenzione, di celebrazione e di polemica. Nonostante ciò per Lombardo Radice non veniva meno quella linfa vitale che la scuola della Montesca riusciva ancora a produrre, nonostante le difficoltà in cui si trovava e la mancanza di una guida ideale come Alice. Questo pensò l’ormai anziano pedagogista quando nell’aprile 1938 tornò per l’ultima volta in Umbria. Il motivo della sua visita era quella di consultare i libri della biblioteca dei Franchetti e il carteggio privato dei baroni al fine di allestire una nuova ristampa di 374 Ivi, p. 176. Il direttore, Consulenza didattica, «I diritti della scuola», n. 11, 22 dicembre 1929, p. 176. 376 Ibid. 377 Tale decisione fu apprezzata anche da Giovanazzi che la giudicava «assai opportuna». Si noti la differente posizione che egli espresse nel 1926 sul Calendario, giudicato allora come un mezzo adatto ad interpretare lo spirito dei nuovi programmi del ’23. Cfr. Giovanazzi, Verso la scuola nuova, cit., pp. 21-23. 375 131 Athena Fanciulla, desiderio che rimase inesaudito a causa del sopraggiungere della morte che lo colpì il 15 agosto di quell’anno. Pur non reperendo l’archivio dei due coniugi, egli trovò «moltissimi dei libri cui la Baronessa Franchetti si era ispirata per realizzare la sua geniale iniziativa didattica» che gli avrebbero offerto un «ottimo spunto» per condurre a termine il lavoro che si era proposto di fare. In quell’occasione visitò di nuovo le scuole della Montesca e di Rovigliano traendo motivo di ritenere che esse portavano avanti degnamente il lavoro iniziato da Alice. Scriveva a questo proposito al Presidente dell’Opera Pia Regina Margherita, Francesco Salimei: mi è parso doveroso visitare una per una tutte le classi, così alla Montesca come a Rovigliano. Mi sono trattenuto a lungo e ho preferito far scuola per entrare nell’intimità dei fanciulli. Così ho capito di più come vivono queste scuole. Ti posso assicurare che la tradizione buona della Franchetti è sempre attiva e che le scuole dell’Opera Pia sono degne dell’ideale che tu persegui. Ottime. Ieri, poi, ho adunato le maestre e le ho intrattenute a lungo per indicare loro che cosa possono fare di nuovo; ho ascoltato i loro quesiti; ho risposto esaurientemente. Mi è parso che la conferenza sia stata utile378. Lo stesso giudizio Lombardo Radice lo esprimeva alla figlia Laura in una lettera inviata durante il soggiorno alla Montesca: Ieri ho visitato le antiche care scolette della Montesca. Sono sempre vive sebbene la riverenza per la tradizione potesse far pensare che agisse da “cristallizzatore” 379. Con la morte del pedagogista le scuole della Montesca e di Rovigliano ed, in particolare, la direttrice Maria Marchetti perdevano un punto di riferimento che per circa venti anni era stata una sorta di guida spirituale, dopo la scomparsa di Alice. Il «buon papà», come lo definì la Marchetti, era stato un faro che con le sue visite o le sue lettere aveva dato conforto nei momenti di sfiducia nonché consigli e suggerimenti pratici per la didattica380. La morte di Lombardo Radice, a cui seguì il sopraggiungere della guerra, decretarono il calo di attenzione che aveva interessato la Montesca. Come ricordava la Marchetti, a partire dal 1923 «fu un succedersi di visite di insegnanti italiani stranieri e la stampa scolastica di vari paesi si occupò di queste scuole che ebbero un periodo fiorente che proseguì […] fino al 1940-41»381. Una delle ultime visite, avvenuta nel 1942, fu quella del Ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, il quale arrivava alla Montesca dopo una nutria schiera di esponenti del Regime che nel corso del Ventennio si erano recati alla Montesca, non solo per rendere omaggio ad una scuola prestigiosa ma forse anche nell’ottica della valorizzazione di quelle scuole-modello rurali alle quali richiamarsi, in modo più o meno strumentale, al fine di creare la nuova scuola rurale italiana, secondo un progetto che il governo fascista portò avanti dalla fine degli anni Venti, contestualmente alla campagna per la ruralizzazione della società. Il dopoguerra vedeva la Montesca riprendere le sue attività scolastiche che sarebbero proseguite tra grandi difficoltà (problemi economici che colpivano gli stipendi delle maestre e 378 ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti», Carteggio amministrativo, b. 55, Cartolina di Lombardo Radice a Salimei, 8 aprile 1938. 379 AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Giuseppe Lombardo Radice alla figlia Laura, 6 aprile 1938. 380 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Maria Marchetti a Gemma Harasim, 13 aprile 1938. 381 Relazione di Maria Marchetti conservata in ARU, AOPRMFF, Subfondo «Scuole Franchetti», riprodotta in: Buseghin, Cara Marietta…, cit., p. 491. 132 drastico calo degli iscritti a seguito dell’esodo dalle campagne) fino ai primissimi anni Ottanta, ma ormai la situazione era profondamente cambiata: i programmi del 1945 eliminarono ogni riferimento alla scuola umbra, compreso il famoso Calendario. Se ancora per qualche anno la Montesca richiamò una certa attenzione tra gli insegnanti e il personale della scuola, questo era ormai l’effetto di un eco che andava progressivamente scemando. 133 Capitolo terzo Il «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali»: Felice Socciarelli e la scuola di Mezzaselva 1. Premessa Nella lunga ma ancor poco esplorata galleria di maestri ed educatori con cui Giuseppe Lombardo Radice venne in contatto durante la sua intensa vita ed i cui nomi ci sono noti solo in taluni casi grazie all’opera di divulgazione e di propaganda pedagogica da lui fattane, il nome del maestro Felice Socciarelli ha goduto di una pressoché totale disattenzione in sede storiografica382. Ben presto, infatti, altri nomi di educatori o di scuole modello da loro animate si sono facilmente imposti nell’immaginario comune: quello, ad esempio, di Maria Boschetti Alberti per l’opera di rinnovamento scolastico attuato in Canton Ticino, quelli di Alice e Leopoldo Franchetti per l’introduzione dei metodi attivistici nelle scuole de La Montesca e di Rovigliano da loro fondate, quello di Alessandro Marcucci e Giovanni Cena per la capillare rete delle scuole dell’Agro Romano, quelle dell’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, quello della scuola di Portomaggiore383. Eppure tra il pedagogista catanese e il maestro si creò un rapporto di stima professionale reciproca nonché un legame di amicizia personale che durò in maniera ininterrotta per circa venti anni e che fu consacrato sul piano pubblico dall’appellativo che Lombardo Radice volle conferirgli in un suo scritto: quello di «maestro dei maestri italiani delle scuole rurali». È per tale motivo che si impone a nostro giudizio l’esigenza di ricostruire la trama delle relazioni intercorse tra i due personaggi, non ancora pienamente illuminate, attingendo a documentazione di vario genere, tra cui alcune lettere in gran parte inedite. Ciò permetterebbe inoltre di comprendere come uno sconosciuto maestro, peraltro privo della canonica formazione destinata ad una persona che avesse voluto diventare insegnante elementare, sperduto nella remota campagna 382 Da un’indagine bibliografica risulta che l’unico titolo su Socciarelli è quello di O. Sagramola, L’apostolato educativo di Felice Socciarelli nella scuola italiana del primo Novecento, Viterbo, Sette Città, 2001. 383 Sull’esperienza della Boschetti Alberti si rinvia a: F.V. Lombardi, Maria Boschetti Alberti, Milano, Le Stelle, 1969; L. Arcangeli, voce «Boschetti Alberti Maria», in Enciclopedia pedagogica, diretta da M. Laeng, Brescia, La Scuola, 1989-2003, vol. I , pp. 1925-1929; M. Peretti, Maria Boschetti Alberti, Brescia, La Scuola, 1963; L. Saltini, La diffusione dell’attivismo pedagogico nel Canton Ticino, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», n. 6, 1999, pp. 247-278; Id., Maria Boschetti Alberti e il mondo culturale ticinese, «Quaderni del Bollettino Storico della Svizzera Italiana», 1, Salvioni, Bellinzona 2004; sulla Montesca approfondimenti in S. Bucci, La scuola della Montesca. Un centro educativo internazionale, in P. Pezzino, A. Tacchini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp. 195-242. Sullo stesso argomento si vedano anche: voce «Montesca, scuola» curata da R. Titone, in Dizionario enciclopedico di pedagogia, 4 voll., Torino, Editrice S.A.I.E., 1964, vol. III, pp. 341-344; V.U. Bistoni, Grandezza e decadenza delle istituzioni Franchetti, Città di Castello, Edimond, 1997; E. Zangarelli, Leopoldo e Alice Franchetti: la scuola della Montesca, Città di Castello, Prhomos-nuove idee editoriali, 1984; sulla scuola di Portomaggiore cfr. R. Nigrisoli, La mia scuola, a cura di F. Borruso, Milano, Unicopli, 2011; F. Borruso, La mia scuola. Il diario di una maestra all’Archivio Didattico Lombardo Radice, «History of Education & Children’s Literature», VII, 1 (2012), pp. 165-180. 134 dell’Agro romano, fosse riuscito nel giro di pochi anni a uscire dalla condizione di anonimato in cui si trovava, riuscendo a far apprezzare la propria prassi educativa e perfino a godere di una certa notorietà nel panorama della pedagogia italiana tra le due guerre. Da allora, infatti, il nome di Socciarelli e insieme al suo anche quello di Mezzaselva – il villaggio di pastori nei pressi di Palestrina dove avrebbe avuto luogo la sua carriera magistrale in una scuola ospitata nientemeno che in una capanna, dopo un breve periodo di insegnamento ai soldati della prima guerra mondiale in convalescenza – cominciarono ad essere conosciuti e studiati da quanti in quel periodo si posero il problema, sulla spinta delle nuove teorie attivistiche, di creare un ambiente scolastico che meglio aderisse alla realtà concreta della vita delle genti rurali. Nel ripercorrere questo filo non si potrà non tenere conto del mutare della temperie culturale che accompagna il percorso del maestro, dall’idealismo lombardiano, al realismo pedagogico degli anni Trenta fino all’auspicio del «ritorno a Lombardo Radice» espresso da Socciarelli nel secondo dopoguerra. Un itinerario nel quale Socciarelli senza ombra di dubbio sarà debitore del pensiero del pedagogista catanese, ma tuttavia capace, sulla scorta della propria esperienza a contatto con i contadini, di maturare una concezione della pedagogia e della didattica per la scuola rurale assai particolare, correggendo alcuni eccessi e deformazioni di quell’idealismo vuoto e astratto riproposto, dopo la riforma Gentile del 1923, in modo pedissequo e acritico da tanti ripetitori. 2. L’incontro con Lombardo Radice e la scoperta dell’idealismo pedagogico Il modo in cui Socciarelli entrò in relazione con Lombardo Radice resta ancora oggi sconosciuto. È certo che i primi contatti tra i due datano al periodo in cui il pedagogista siciliano si trovava ancora a Catania, dove insegnava nella scuola normale cittadina, sebbene il suo nome era oramai più che noto negli ambienti pedagogici, per la pubblicazione in particolare delle Lezioni di didattica (1913) e per il suo impegno militante in favore del rinnovamento su basi idealistiche della scuola propugnato prima sulla rivista «Nuovi doveri» e poi su «L’Educazione nazionale», fondata nel 1919. La prima testimonianza che ci è pervenuta a questo proposito è una lettera che Lombardo Radice scrisse dalla città siciliana all’allora sconosciuto maestro di Mezzaselva il 29 aprile 1920 e nella quale, usando l’inconfondibile stile che lo contraddistinguerà, esprimeva ammirazione a Socciarelli per la sua opera, incoraggiandolo a proseguire su questa strada. Quest’ultimo, infatti, gli aveva scritto una lettera, a noi non pervenuta, in cui vi aveva narrato la propria esperienza educativa che era iniziata pochi mesi prima, il 22 ottobre 1919, come maestro nella scuola di Mezzaselva, gestita dall’ente delle Scuole dell’Agro Romano guidato da Alessandro Marcucci. Si trattava di uno sperduto villaggio di capanne a pochi chilometri dalla capitale eppure lontanissimo dalla civiltà moderna, dove le persone vivevano in uno stato quasi primitivo, senza servizi, senza strade e senza ogni benché minimo conforto e dove lo sviluppo dei bambini era fortemente compromesso. Alla professione magistrale Socciarelli era arrivato, come è noto, in modo alquanto fortuito: nato in una famiglia di contadini della provincia di Viterbo, era cresciuto lavorando nei campi pur mostrando una sensibilità verso il sapere e la cultura a cui non aveva potuto accedere per ragioni economiche tanto che un suo coetaneo ha ricordato come i rari libri che gli capitavano per le mani venissero da lui letti di notte «al fumoso lume della lucerna ad olio, 135 di nascosto del padre»384. Fu così che a 18 anni Socciarelli era emigrato, come tanti altri italiani, nell’America meridionale in cerca di fortuna, ma da lì era ritornato poco dopo, finché venne richiamato sotto le armi dopo lo scoppio della guerra di Libia nel 1911. Come è noto, sul suolo libico si verificò quell’accadimento che cambiò la vita di quel giovane contadino: rimase, infatti, ferito ad un braccio dallo scoppio di un ordigno che gli causò la perdita della funzionalità dell’arto e che lo condusse in alcuni ospedali militari romani dove avrebbe conosciuto Elisa Ricci, una signora dell’alta borghesia che tra i feriti di guerra prestava la sua opera come Dama della Croce Rossa e che intuì la sensibilità e la voglia di apprendere di Socciarelli, unitamente alla sua intenzione di diventare maestro, rivolgendosi per questo ad una sua amica, nipote del senatore e uomo politico Luigi Luzzatti, affinché quel soldato potesse compiere gli studi necessari per esaudire quel desiderio. Lungi dal volersi dilungare su episodi già noti, vale la pena soffermarsi su due aspetti che non sono stati mai messi in evidenza finora. In primo luogo si deve ricordare che la signora Ricci, nata Guastalla e sposata al patriota veneziano Alberto Errera, si era risposata dopo essere rimasta vedova nel marzo 1900 con Corrado Ricci, archeologo e critico d’arte ma soprattutto autore di un pioneristico studio sul linguaggio grafico dei fanciulli nel panorama degli studi italiani: nel 1887, infatti, in pieno clima positivista, egli aveva stampato a puntate sul giornale «Il Caffaro» di Genova e integralmente presso l’editore Zanichelli, uno studio intitolato L’arte di bambini in cui veniva per la prima volta teorizzata la scoperta del «bambino artista», concetto destinato a grande fortuna a partire dal secondo decennio del Novecento per merito dell’idealismo pedagogico e, in specie, grazie all’opera di Lombardo Radice che tra l’altro lesse e apprezzò quel volume385. La signora Ricci, dunque, oltre ad essere una donna colta e brillante, come viene ricordata dai contemporanei, doveva possedere anche una spiccata sensibilità verso i problemi della cultura e dell’educazione quando decise di aiutare Socciarelli a diventare maestro. Prova di ciò è, tra le altre cose, una lettera del 1913 alla scrittrice Laura Orvieto in cui si comprende chiaramente come ella fosse una sostenitrice del metodo Montessori per i «meravigliosi risultati» che permetteva di ottenere386. 384 Socciarelli nacque a Tessennano, piccolo borgo nei pressi di Canino, il 10 settembre 1887. Rimasto orfano di madre all’età di cinque anni, si trasferì con il resto della famiglia a Canino nel 1892. La citazione è tratta dal ricordo di Socciarelli dovuto a Manlio Pompei pubblicato in «Il giornale d’Italia agricolo», 22 novembre 1953. 385 A proposito dello studio del Ricci, Lombardo Radice scrisse: «Questo volume è interessante come studio della scheletricità dei primi disegni infantili. Ma ora è da completare con le posteriori ricerche, ad es. del Kunzfeld, il quale lo discute molto bene» (G. Lombardo Radice, La riforma della scuola elementare: vita nuova della scuola del popolo, Palermo, Remo Sandron, 1925, p. 213). Lo stesso giudizio è riportato in Id., La buona messe, Roma, Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, 1926, p. 95. 386 Scrisse la Errera: «Appena si sarà concretato qualcosa intorno a un corso Montessori, italiano e internazionale, ti avvertirò. Intanto tu sei la prova che anche in Italia si potrebbero trovar proseliti e apostoli anche! Quando si spiegasse e divulgasse la cosa, non avvolgendola nei sette veli della filosofia, della politica, ecc. ecc. ma mostrando e raccontando semplicemente: meravigliosi risultati che si ottengono col Metodo Montessori. Domani intanto si inaugura un asilo comunale – uno di quelli che sono destinati a illustrare coll’esempio pratico, le spiegazioni teoriche dei corsi. E io spero che il corso si ripeterà ogni anno: durando quattro mesi o poco più. Tanto durò questo primo, accendendo di un indicibile entusiasmo tutte le straniere che lo seguirono». La lettera è stata pubblicata in C. Gori, Crisalidi: emancipazioniste liberali in età giolittiana, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 132. 136 In secondo luogo non si può sottacere l’origine ebraica della famiglia del primo marito di Elisa, gli Errera, origine condivisa non a caso con altre personalità dell’intellettualità italiana a cavallo tra i due secoli che molte energie profusero in favore dell’infanzia e della gioventù, fondando scuole, corsi professionali, colonie agricole e istituzioni benefiche di vario genere. Ci riferiamo, ad esempio, ad Alice e Leopoldo Franchetti, che nel 1901 e 1902 fondarono la scuola de La Montesca e di Rovigliano nei pressi di Città di Castello, ad Augusto Osimo creatore e anima pulsante per diversi anni della Società Umanitaria di Milano, al veneziano David Levi Morenos creatore della Nave Asilo «Scilla» e delle Colonie dei Giovani Lavoratori, ai coniugi Salomone e Laura Morpurgo che in modo più circoscritto fornirono aiuto materiale e vicinanza morale alla maestra Maria Maltoni nel corso degli anni Trenta in quella che diverrà la celebre scuola di San Gersolè, in Toscana. Ma è in particolare il nome di Levi Morenos quello che presenta maggiori analogie con il caso qui studiato: fu infatti grazie all’interessamento di una nobildonna romana, la contessa Anna Piccolomini Della Triana, mostrato fin dal 1919, di voler creare una scuola, che il filantropo veneziano fondò due anni più tardi alle porte della capitale la terza delle sue Colonie dei Giovani Lavoratori, ribattezzata «Orti di pace», destinata all’educazione e alla formazione professionale dei bambini orfani di guerra. L’interessamento di Elisa Ricci, dunque, va inquadrato in questo preciso contesto in cui la religione ebraica dovette giocare un ruolo nel favorire la sua spinta altruistica e filantropica387. Essersi soffermati sulla vicenda che portò Socciarelli a diventare maestro e sulla sua conoscenza con Elisa Ricci, abbandonando per un attimo la via principale da cui eravamo partiti, vale a dire quella dell’incontro tra lui e Lombardo Radice, non è stata una scelta casuale ma dettata dal fatto che essa ci può offrire un’ipotesi sulle modalità in cui avvenne l’avvicinamento tra loro: forse fu per mezzo della signora Ricci e della sua vasta rete di conoscenze che Socciarelli entrò in contatto con il pedagogista siciliano? In mancanza di documenti non si può che avanzare delle ipotesi anche se è certo che la colta e sensibile signora in più occasioni si interessò di Socciarelli: nel marzo 1919 perorò presso la duchessina di Terranova la causa del suo assistito, successivamente fece lo stesso presso il direttore dell’Istituto nazionale artistico industriale «San Michele» di Roma, poco dopo gli permise di trasferire la residenza nella sua abitazione romana in piazza Venezia al fine di poter svolgere gli esami nella scuola tecnica. In ogni modo è certo che nell’aprile 1920 Lombardo Radice scrisse a Socciarelli una lettera piena di ammirazione per l’opera educativa svolta dal maestro nel difficile ambiente di Mezzaselva, in cui intravedeva concretizzarsi i principi filosofici dell’idealismo pedagogico, lontano dal vuoto verbalismo non solo dei propugnatori della scuola tradizionale ma anche di quei poco originali ripetitori di formule idealistiche che però ignoravano i problemi pratici in cui un maestro si sarebbe potuto trovare, non comprendendo a fondo le sue aspettative, le sue ansie, il suo stato d’animo. Scrisse a questo proposito il pedagogista siciliano: 387 Ricordando quanto detto prima, vale a dire che Elisa Ricci si rivolse ad una nipote dello statista Luigi Luzzatti affinché a Socciarelli venisse permesso di compiere gli studi per diventare insegnante elementare, si deve far notare che anche Luzzatti era di origine ebraica e che molto si prodigò per favorire la nascita del mutualismo, della cooperazione, nonché fornì aiuto all’amico Levi Morenos per la nascita della Nave Asilo «Scilla» e per la creazione delle Colonie dei Giovani Lavoratori. 137 Mio Socciarelli, so che aspetti la mia risposta con ansia, perché nella semplicità del tuo animo pensi di ricevere luce da me. Ma sono io, mio buon amico, che ricevo luce da te, dalla tua semplice confessione, che mi rivela la profondità del tuo amore per la tua Scuola e l’ardore del meglio nella serenità di coscienza per il poco che riesci a fare. Poco non deve essere, mio Socciarelli. Poco sembra a te, che hai quella buona scontentezza del passato, da cui germina l’azione migliore dell’avvenire. Questa tua comunione totale coi tuoi contadini, attaccati alle cose, ma vergini di cuore (e perciò più capaci di idealità che i verbali idealisti delle città corrotte, dove l’ideale non è che una «eleganza spirituale»); questa tua paziente vigilanza sulla umanità in letargo che trovi nel piccolo mondo di Mezzaselva, è per me una grande lezione di vita. Vorrei poterti essere vicino e acquistare e darti piena coscienza della grandezza della tua opera, modesta e paga della sua oscurità388. La prima impressione che si ricava è che Lombardo Radice nel momento in cui scrisse questa lettera non avesse ancora conosciuto di persona Socciarelli e che le sue parole fossero ispirate da quello che il maestro egli aveva scritto nel presentargli la sua scuola e forse – se la nostra ipotesi si dimostrasse corretta – da quello che aveva sentito dire sul suo conto. In secondo luogo il pedagogista mostrò di aver intuito come Socciarelli stesse compiendo a Mezzaselva un’opera non comune, il cui merito principale non stava nella qualità della didattica da lui realizzata – che verosimilmente Lombardo Radice non poteva ancora conoscere – ma nell’approccio con cui da educatore aveva avviato la propria azione, tentando di realizzare l’unità tra maestro e scolaro, vale a dire di raggiungere quella comunione delle anime tra docente e discenti, che era uno dei capisaldi della visione pedagogica dell’idealismo lombardiano e che informerà uno dei principi del concetto di «scuola serena». Socciarelli aveva, infatti, ispirato la sua opera nel segno del più assoluto rispetto verso i giovani contadinelli, ponendosi al loro fianco, in un rapporto paritario e non gerarchico, nella convinzione che la personalità umana tendesse per sua natura ad esercitarsi e a svolgersi e che perciò essa avesse bisogno di essere non costretta, ma interpretata ed aiutata. Rimasto così positivamente colpito, Lombardo Radice suggerì a Socciarelli fin da quel momento di mettere per iscritto le sue impressioni giornaliere di educatore, intuendo che esse potessero fornire un interessante materiale di studio per i futuri maestri su cui basare la propria formazione, in linea con i dettati dell’idealismo secondo il quale essa doveva fondarsi non su polverosi e aridi trattati di pedagogia ma sull’esperienza viva della scuola, sul racconto della propria attività di insegnante fatto da altri colleghi: i futuri maestri avrebbero potuto così meditare e rielaborare in base alle proprie esigenze, alla propria cultura e al proprio spirito quelle esperienze, arricchendosi umanamente e professionalmente. Scrisse a questo proposito Lombardo Radice nella citata lettera dell’aprile 1920: Tu dovresti, mio buon amico, buttar giù sulla carta le tue osservazioni di ogni giorno; perché tu stesso o altri, più tardi, ne tragga utilità per educare altri maestri come te. E tu tienimi presente nel tuo lavoro. La distanza non può togliere la presenza spirituale, che non è una frase, ma è la più grande realtà della vita umana. Ti abbraccia il tuo G. L. Radice389. Socciarelli raccolse quell’invito anche se occorrerà del tempo prima di veder stampati alcuni suoi scritti. Il primo di cui abbiamo notizia è infatti un articolo che il maestro di Mezzaselva pubblicò nel 1923 grazie all’interessamento di Lombardo Radice sul «Giornale 388 389 AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 29 aprile 1920. Ibid. 138 dell’isola», un periodico stampato a Catania390. Quasi contemporaneamente, nel fascicolo di febbraio dello stesso anno de «L’Educazione Nazionale», il pedagogista ospitò un interessante articolo in cui questo ancora sconosciuto maestro affrontava il tema dell’alterità della sua scuola di Mezzaselva e, più in generale, delle scuole rurali rispetto alle scuole di città. L’occasione per farlo gli era offerta dall’analisi della reazione tutt’altro che positiva dei suoi scolaretti di fronte ad alcuni esemplari di periodici illustrati per l’infanzia, tra cui il famoso «Corriere dei Piccoli», che egli aveva mostrato durante la lezione391. Tali giornali erano colpevoli, secondo il suo giudizio, di offrire ai bambini una visione corrotta e degenerata dell’arte, danneggiandone «l’educazione del senso estetico». I primi ad avvertire questa sensazione, sosteneva Socciarelli, erano proprio i bambini di campagna il cui spirito incontaminato e genuino non riusciva a comprendere le «mostruose figure di quel periodico», fatte con linee rette e cerchi perfetti, e quindi, lontane da una rappresentazione fedele della realtà naturale. Allo spirito incorrotto e vergine della campagna e dei suoi abitatori – tipico di una visione romantica fatta propria dall’idealismo pedagogico – Socciarelli contrapponeva il clima oppressivo della città in cui «quelle mostruosità le vediamo apparire sui muri, negli avvisi commerciali, sui fogli di propaganda commerciale, sulle copertine dei libri», oltreché sui periodici per l’infanzia. Ciò che appare interessante è non solo l’accento posto sulla diversità tra scuola rurale e scuola urbana, ma il fatto che tale costatazione costituisca il preludio per la fondazione e la legittimazione di una apposita didattica per le scuole rurali, di cui Alessandro Marcucci e Duilio Cambellotti, i due massimi rappresentanti delle Scuole per l’Agro Romano in quegli anni, avevano dato un saggio pubblicando il primo il Sillabario ad uso di quelle scuole e il secondo illustrando «Il Piccolissimo», il giornale fondato da Cena durante la Grande Guerra e realizzato a cura dell’Unione Insegnanti del Lazio e rivolto agli alunni e alle loro famiglie, in particolare di quelle dell’Agro, due esempi che Socciarelli citava espressamente nel suo articolo392. Pur non interrompendosi mai, il legame con Lombardo Radice si fece, per ragioni comprensibili, meno intenso dopo la nomina di quest’ultimo a capo della Direzione Generale dell’Istruzione Elementare, avvenuta alla fine del 1922, al fianco di Gentile promosso a ministro della Pubblica Istruzione. Se la sua nomina da principio entusiasmò Socciarelli – che il 9 gennaio 1923 scrisse in una lettera a lui indirizzata «Finalmente l’Italia pensa alla sua Scuola» e lo invitò «una volta almeno col nostro Direttore Marcucci a vedere le graziose scuole di questo tratto di zona» – tuttavia essa causò un rarefazione dei loro contatti. Eppure proprio in quegli anni Socciarelli aveva cominciato a mostrarsi sempre più conscio dell’importanza dell’esperienza educativa che stava svolgendo a Mezzaselva e, al contempo, desideroso di far conoscere al pubblico formato dai maestri italiani la sua singolare storia di invalido di guerra divenuto insegnante elementare in una scuola così difficile dopo aver scoperto la missione della sua vita, quella di trasformarsi in un educatore del popolo. Una consapevolezza che maturò in Socciarelli respirando il vivace clima instauratosi in Italia dopo la Riforma Gentile del 1923 e che a sua volta alimentò l’ambizione di raccogliere in uno studio organico e approfondito i ricordi e le impressioni della sua esperienza: su queste basi nascerà il noto libro Scuola e vita a Mezzaselva, che lancerà il suo nome nel panorama degli studi pedagogici italiano tra le due guerre. 390 AGLRR, Lettera di Socciarelli a Lombardo Radice, 9 gennaio 1923. F. Socciarelli, E allora perché ce li fanno?, «L’Educazione nazionale», n. 2, febbraio 1923, pp. 1618. 392 N. Marchioni (a cura di), La grande guerra degli artisti: propaganda e iconografia bellica in Italia negli anni della prima guerra mondiale, Firenze, Pagliai Polistampa, 2005, p. 47. 391 139 3. Socciarelli negli anni Venti: un maestro ammirato e osteggiato Ripercorrere le tappe che portarono nel 1928 alla pubblicazione di Scuola e vita a Mezzaselva, equivale a comprendere il modo e i tempi in cui il maestro Socciarelli acquistò consapevolezza del valore della propria opera educativa e le forme attraverso le quali manifestò l’intenzione di dare di essa una sua rappresentazione. Si può ragionevolmente individuare un fatto che costituì il preludio alla nascita di quel libro: nel maggio 1925, infatti, Socciarelli riuscì in modo del tutto autonomo e senza passare attraverso la mediazione di Lombardo Radice, a pubblicare in un numero unico del Bollettino del Gruppo di Azione delle Scuole del Popolo di Milano un articolo in cui per la prima volta descrisse il modo in cui aveva iniziato l’avventura di maestro tra le langhe desolate dell’Agro Romano, parlando dello sconforto iniziale provato a seguito del contatto con i riottosi bambini che vivevano in uno stato quasi primitivo e della scoperta dell’inutilità delle formule e dei tecnicismi tratti dalle letture dei testi della pedagogia tradizione su cui aveva studiato393. Scritto con un piacevole stile narrativo, questo breve articolo anticipò nel contenuto e nella forma quello che sarà il ben più ricco e impegnativo Scuola e vita a Mezzaselva: rappresentava cioè la spia della volontà di raccontare e raccontarsi, oltreché essere un elemento rivelatore di una crescita sul piano professionale e magistrale di Socciarelli che, è bene ricordarlo, nel settembre 1923 si era sposato con Irene Bernasconi, anche lei donna di scuola essendo la maestra dell’asilo d’infanzia di Carchitti, con un curriculum di tutto rispetto: originaria di Chiasso, nel Canton Ticino, aveva seguito nell’estate 1917 a Ginevra un «cours de vacance» tenuto dai noti psicopedagogisti Édouard Claperède e Pierre Bovet presso l’Istituto Jean-Jacques Rousseau, il centro che stava diventando a livello europeo il punto di riferimento delle ricerche di psicologia evolutiva e delle esperienze educative attivistiche394; inoltre era una seguace del Metodo Montessori, che applicava nella sua scuola, e condivideva le istanze rinnovatrici della didattica espresse nel secondo decennio del secolo dalla rivista «La nostra scuola»395. Sentendosi probabilmente dimenticato da Lombardo Radice, che tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 1925 pubblicava il suo nuovo libro Athena Fanciulla, concepito come un punto di riflessione sul vasto movimento di riforma pedagogica sorto prima delle leggi del 1923, nel quale l’autore dedicava interi capitoli alla scuola de La Montesca di Alice Franchetti e all’esperienza delle scuole ticinesi di Maria Boschetti Alberti e di Bianca Sartori e nemmeno un cenno a Mezzaselva, Socciarelli tornava a farsi sentire presso il pedagogista inviandogli di sua iniziativa un suo scritto. Pur non conoscendone il contenuto, sappiamo che Lombardo Radice lo lesse con piacere e se ne complimentò con lui in una cartolina dell’ottobre 1925 in cui affermò: Il tuo scritto è felicissimo. Ne farò uso per Educazione Nazionale. Hai letto Athena Fanciulla? L’ha stampata, da poco, il Bemporad, è il mio testamento; le Lezioni di didattica mi paiono, ora, assai vecchie396. 393 F. Socciarelli, Garibaldini dell’alfabeto, «Il gruppo d’azione per le scuole del popolo», numero unico, maggio 1925, pp. 13-14. 394 AIJJR, Fondo Generale, Elenco dei partecipanti e programma a stampa del corso del luglio 1917. Il corso si svolse dal 16 al 31 luglio, articolandosi in più seminari, con lezioni tenute oltreché da Claparède e Bovet, anche da Bally, Sechehaye, Ronyat, Vittoz, Jung, Burnier e Briod. Ringrazio per la cortese collaborazione la dottoressa Elphège Gobet in servizio presso gli Archives Institut Jean-Jacques Rousseau. 395 A tal proposito si deve dire che la Bernasconi pubblicò un articolo dal titolo Dal diario di una casa di bambini sul numero del 15 maggio 1917 della rivista «La nostra scuola». 396 AFS, Cartolina di Lombardo Radice a Socciarelli, 16 ottobre 1925. 140 Si trattava molto verosimilmente dell’articolo che verrà pubblicato sul numero di gennaio del 1926 de «L’Educazione Nazionale» sul tema, allora fonte di un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori, dei libri di testo e di lettura per l’infanzia397. In esso con argomentazioni tipiche dell’idealismo lombardiano, Socciarelli sosteneva che il libro di lettura per la scuola non dovesse a tutti i costi possedere un «carattere insegnativo», contrariamente all’opinione di numerosi educatori e al giudizio, del tutto interessato, degli editori che da questo settore traevano lauti guadagni. Per il maestro di Mezzaselva non era il libro in quanto tale a vivificare la scuola, né il manualetto in cui si raccoglievano le briciole del sapere a renderla meno pedante e più vicina alla vita, ma il maestro che doveva attingere alla tradizione popolare e alla grande letteratura che aveva dato in ogni tempo mirabili opere di poesia e di scienza. Scriveva a questo proposito Socciarelli: Il carattere insegnativo deve averlo l’insegnante, il quale se è proprio maestro non può essere mai tanto vuoto e tanto povero di risorse spirituali da aver bisogno che il libro di lettura gli dia l’occasione e lo spunto per insegnare e spiegare una cosa, da non sentire le mille voci che la natura, l’arte e la storia ci fanno sorgere dall’anima; da non sapere, infine, come anche dalla più puerile cantilena, volendo, si potrebbe prendere lo spunto, non solo per dare una nozioncina, ma anche per risalire a tutto lo scibile umano398. Come doveva allora essere il libro di lettura? Poteva andar bene anche «un buon romanzetto, una bella biografia, un libro di racconti o anche un libro di lettere», ammoniva Socciarelli, l’importante era che fosse formativo, cioè «scritto bene, bello, ispirato». Secondo una visione romantica, solo scendendo al livello dei bambini, anzi facendosi bambino lui stesso, lo scrittore avrebbe potuto raggiungere questo obiettivo che non veniva colto dallo quello stuolo di scrittori per l’infanzia, più o meno improvvisati, che sfornavano libri su libri, adottavano uno stile inaccessibile ai fanciulli e non entravano spiritualmente a contatto con l’universo dei fanciulli. Scriveva a tal riguardo: Chi si dedica alla letteratura infantile dovrebbe avere l’anima fanciulla, possedere il linguaggio adatto a comunicare con i bambini per dilettarli facendosi capire, altrimenti essi saranno costretti troppo spesso a chiedere spiegazione del significato di una frase e troppo spesso privati di quel piacere, di quella soddisfazione di capire da sé che è una delle prime necessità dello spirito399. Contrariamente a quanto auspicato, egli non poteva che constatare come in Italia la produzione di libri di lettura e di testi scolastici era ad appannaggio di persone prive delle necessarie competenze: Sappiamo – scriveva – che quasi tutti gli autori di libri per la fanciullezza sono gente di cattedra, abituata a cavare giorno per giorno il sapere dai libri per portarlo a scuola; gente abituata a scrivere per giornali e riviste, a sfornare migliaia di «ismi» ogni giorno; filosofi, professori e ispettori. Dei quali, troppo pochi sogliono adattarsi a interrogare i fanciulli per sentire come questi si esprimono, come considerano le cose; si direbbe che molti di essi non abbiano 397 Su questo argomento si vedano le interessanti osservazioni in G. Chiosso, Il rinnovamento del libro scolastico nelle esperienze di Giuseppe Lombardo Radice e dei «lombardiani», «History of Education & Children’s Literature», I, 1 (2006), pp. 127-139. 398 F. Socciarelli, Dei libri per la fanciullezza, «L’Educazione nazionale», gennaio 1926, pp. 28-32. 399 Ivi, p. 29. 141 mai parlato con un bambino, che essi stessi non siano mai passati per quell’età, e che siano usciti dal grembo di madre natura già adulti con la loro cattedra, come Minerva uscì bella e armata dalla testa di Giove 400. Diversa era invece la sorte dei maestri elementari, quasi sempre poco valorizzati, se non dimenticati dagli ambienti della pedagogia ufficiale. Scriveva a questo proposito in modo esplicito: Molto raramente si vede un libro per ragazzi scritto dal maestro elementare, dall’umile maestro che, quando fa scuola, in cattedra (se l’ha) non ci sta mai e vive la poesia che sgorga dall’anima dei suoi scolaretti, anche quando si tratta (purtroppo!) di poesia poco poetica. Eresia! griderebbe il professor tale che ha già bell’e sfoderato il suo «Corso di letture» per le cinque classi elementari secondo i nuovi programmi. Gridi pure, professore, ma non s’inquieti: lei scriverà altri corsi di letture, i maestri li adotteranno anche, ma se la sua opera non ha senso d’arte, di poesia, se non è accessibile allo spirito dei fanciulli cui è destinata, lei può star sicuro che il bene della scuola, il bene dell’educazione non l’ha fatto. Perché non sempre basta che la Commissione abbia accettato il libro, che la grammatica vi sia impeccabile e che sia adottato perch’esso valga a destare la scintilla che muove i cuori e le anime. Ivi, pp. 29-30. Ci si è voluto soffermare su questi aspetti poiché tutto l’articolo di Socciarelli è a ben vedere un atto di accusa sì verso i cattivi compilatori di libri scolastici, ma anche e soprattutto un vibrante gesto polemico nei confronti del mondo pedagogico accademico e ministeriale (professori, ispettori, filosofi) che viene condotto in nome della rivendicazione del valore sociale e culturale del maestro elementare, categoria bistrattata alla quale egli apparteneva. Tale critica è quello che ci sembra essere particolarmente interessante perché rivela un malessere ed una insoddisfazione che Socciarelli doveva vivere, sentendosi immeritatamente non apprezzato per quello che era convito di essere come educatore e conoscitore del mondo infantile. Vi è, insomma, a nostro giudizio dietro tale atto d’accusa il maturare di una consapevolezza dell’importanza della propria opera pedagogica che il maestro di Mezzaselva stava compiendo e che si manifesterà meglio nel corso del 1926 quando gli giungeranno nuovi e autorevoli attestati di stima e ammirazione. Ci riferiamo in particolare a quelli di due pedagogisti di primo piano nel campo dell’attivismo scolastico, come lo svizzero Adolphe Ferrière e l’olandese J. H. Gunning che, il 25 aprile 1926, visitarono la scuola tenuta da Socciarelli e ne riportarono ottime impressioni che incoraggiarono il maestro a proseguire su quella strada, facendogli vincere i suoi dubbi che confidò al diario personale con queste parole: Ieri, 25 aprile 1926, furono a visitare la mia scuola M. Adolfo Ferrière, M. Gunning e le loro signore. Chi sa se avranno intuito l’atmosfera spirituale che anima la mia scuola? Chi sa se hanno capito che una certa autonomia didattica io me la sono creata, perché nessuno da fuori potrebbe dettar norme assolute per una scuola come questa? Credo che però qualcosa abbiano inteso401. 400 Ibid. Il passo citato è tratto da Amore di scuola, supplemento n. 5 di «Scuola italiana moderna», 1961, p. 16. L’opera del Gunning, così come del Lighart, cominciò ad essere conosciuta in Italia nel secondo decennio del Novecento. Si vedano a questo proposito i due articoli che ne illustravano le caratteristiche di E. Peeters, La pedagogia olandese, «Rivista di Psicologia», n. 11, 1915, pp. 384389; Id., Un Herbert Spencer olandese, «Rivista di Psicologia», n. 12, 1916, pp. 326-338. Qualche notizia sul Gunning in G. De Landsheere, Storia della pedagogia sperimentale: cento anni di ricerca educativa nel mondo, Roma, Armando, 1988, p. 157. 401 142 Come già anticipato, la reazione dei due studiosi fu assai positiva. In particolare Ferrière inserì il nome di Socciarelli tra i pionieri della scuola attiva in Italia in un noto articolo pubblicato pochi mesi dopo nella rivista «Pour l’ère nouvelle», scritto al termine del suo viaggio nella penisola alla scoperta delle esperienze educative che si ispiravano ai principi dell’attivismo. Accanto ai nomi di Maria Montessori, David Levi Morenos, Rina Nigrisoli e Giuseppina Pizzigoni, figurava ora anche quello di Socciarelli il cui incontro nella selvaggia campagna romana veniva così rievocato da Ferrière: En plein forêt – le village a nom Mezzaselva – voici une large tonnelle; au fond, une maisonette propre et gaie, deux baraquements à droite et à gauche de la tonnelle. Une foulle d’enfants venus librement, bien que ce fût dimanche: par ci, les grands, garçons et filles; par là, les tout petits, quarante à cinquante [….] Nous n3ous étions crus, a l’arrivée, parmi des primitifs de l’Afrique australe; ous nous découvrons dans un centre pédagogique avancé où les marmots manient les jeux Decroly comme s’ils n’avaient fait que cela de leur vie! 402 Nondimeno Gunning rimase colpito dal metodo adottato da Socciarelli e pochi giorni dopo gli inviò una copia del suo libro sul pedagogista olandese Jan Lighart con una dedica particolare: Souvenir ému de notre visite à Mezzaselva, le 25 avril 1926, et rémoignage de notre profonde admiration pour l’œuvre accomplie pour ces véritables missionaires langue, oeuvre modeste et presque ignorée, mais combien plus imperissable, par sa valeur spirituelle, que les monuments siculaires de la ville “éternelle”!403 A ulteriore dimostrazione del fatto che il maestro di Mezzaselva avesse ben compreso la validità della sua esperienza, è una lettera che egli inviò a Lombardo Radice il 4 dicembre 1926 in cui gli comunicava di non aver avuto il tempo di scrivere l’articolo richiestogli su Mezzaselva da inviare al Ferrière adducendo come causa il fatto di essere stato assai impegnato per gli esami che aveva dovuto sostenere per ottenere un diploma. Ma ciò che più interessa di tale lettera è che egli mostrava da un lato di essere documentato e aggiornato sulle altre forme di sperimentalismo pedagogico condotte in Italia in quegli anni: citava infatti la scuola di Portomaggiore, descritta in un supplemento de «L’Educazione Nazionale» stampato poco tempo prima, tentando dei paragoni tra questa esperienza educativa e la sua404; dall’altro lato non nascondeva il proposito di far conoscere in modo adeguato e organico la scuola di Mezzaselva, chiedendo al pedagogista catanese di potergli dedicare non un semplice articolo, per quanto fosse prestigiosa la rivista del Ferrière, ma uno studio organico e approfondito che potesse essere pubblicato in un intero supplemento de «L’Educazione Nazionale», così come avvenuto per Portomaggiore. Scrisse a questo proposito Socciarelli a Lombardo Radice: Sono ora dolente di doverle dire che l’articolo su la scuola di Mezzaselva, che avevo promesso di fare e che Ella voleva mandare al Ferrière, non l’ho scritto: dopo quegli esami ho dovuto pensare più alla mia salute che ad altro. Ora vado rimettendomi bene in forze, ma, avendo scuola diurna e serale (corso integrativo) da fare, mi manca il tempo per altre cose, specialmente in questi primi mesi. Debbo anche dirle che i sette anni che ho passato qui costituiscono un brano di vita la cui importanza (certo inferiore dal lato puramente didattico, a quella della scuola di Portomaggiore) risulta da tutto il complesso delle 402 A. Ferrière, Une visite aux pionniers de l’École Active en Italie, «Pour l’ère nouvelle», n. 23, novembre 1926, pp. 153. 403 AFS, Lettera di Gunning ai coniugi Socciarelli, maggio 1926, senza giorno. 404 Tale realtà scolastica era stata fatta conoscere proprio da Lombardo Radice in un apposito supplemento alla sua rivista: G. Lombardo Radice, I piccoli “Fabre” di Portomaggiore, Roma, Associazione per il Mezzogiorno, 1926. 143 attività svolte e dei fatti notati e mal si presta ad essere racchiuso nei termini di un articolo. Meglio sarebbe, com’Ella mi propose, farne uno dei supplementi a «L’Educazione Nazionale». Se Dio mi darà vita e salute, come spero, a primavera cercherò di approntarlo; appena ne avrò fatto una parte verrò da Lei: se Le piacerà, farò subito e con più lena il resto. Da un mio scritto sul – Numero unico – pubblicato nel Maggio 1925 dal Gruppo d’Azione di Milano, Ella potrebbe vedere che importanza può avere la mia scuola a Mezzaselva. Caso mai Ella avesse a portata di mano quel fascicolo, il mio scritto porta il titolo (messovi da quei buoni milanesi) “Garibaldini dell’alfabeto” 405. Sul finire del 1926, dunque, Socciarelli era ben conscio che la sua scuola aveva assunto una certa importanza e rivendicava, sia pure con garbo, i risultati ottenuti. Lombardo Radice dovette intuire questo sentimento che pervadeva l’animo del maestro di Mezzaselva e pochi giorni dopo aver ricevuto quella lettera, gli scrisse comunicandogli di accettare la proposta di dedicare alla sua scuola un supplemento di «70-80 pagine» per «L’Educazione Nazionale»406. Iniziava così il lavoro di stesura del testo, probabilmente condotto a partire da brani già scritti o abbozzati in precedenza. Con il passar del tempo anche il progetto editoriale sarebbe cambiato e lo studio anziché essere pubblicato per intero in un supplemento verrà stampato a puntate sulla rivista diretta da Lombardo Radice a partire dal novembre 1927. Ma prima di andare oltre, converrà ora spostare la nostra attenzione su un altro personaggio che in qualche modo ebbe parte nella vicenda editoriale di Scuola e Vita a Mezzaselva e, più in generale, nell’esperienza educativa di Socciarelli. Ci riferiamo ad Alessandro Marcucci, direttore dell’ente delle Scuole per l’Agro Romano e delle Paludi Pontine, nonché potente funzionario del ministero della Pubblica Istruzione. Infatti dopo una prima fase di reciproca stima e ammirazione, sopraggiunse un periodo, quello compreso tra il 1926 e il 1927, in cui emersero forti dissidi tra il maestro di Mezzaselva e il suo diretto superiore. Un contrasto mai descritto finora che, eppure, è possibile ricostruire grazie ad alcuni documenti, in gran parte inediti e alla cui origine vi era l’insofferenza di Marcucci verso un suo maestro che, diversamente da tanti altri, era riuscito a far conoscere la propria esperienza educativa e, nondimeno, a farsi conoscere: in altre parole alla base dello scontro vi era l’irritazione verso la libertà con cui Socciarelli gestiva le sue relazioni con pedagogisti e riviste magistrali e curava la crescente notorietà della scuola di Mezzaselva, una libertà giudicata irrispettosa dell’ente e della sua stessa persona. Tale sentimento era cresciuto quanto era aumentata la distanza tra Marcucci e Lombardo Radice dopo che, uscito di scena quest’ultimo dal ministero e approdato alla guida didattica delle scuole rurali dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, erano affiorati diffidenze reciproche di natura pedagogica che sfociarono in polemiche aperte tra i due: nel febbraio 1925 Marcucci aveva, infatti, espresso in una lettera a Lombardo Radice i suoi dubbi sulle indicazioni contenute nei programmi del 1923 sul disegno e, in particolare, sulla prescrizione data ai maestri di eseguire il cosiddetto «Calendario della Montesca»407; poco dopo, nell’aprile 1925, era stato Lombardo Radice a suscitare le ire di Marcucci a proposito di un articolo pubblicato nel «Bollettino del R. Provveditorato agli Studi di Roma» in cui aveva sostenuto, in buona sostanza, la mancanza di poesia nei bambini delle Scuole dell’Agro Romano, rimproverando una scarsa 405 MSDR, AGLR, Carteggio generale, Lettera di Socciarelli a Lombardo Radice, 4 dicembre 1926. AFS, Cartolina di Lombardo Radice a Socciarelli, 23 dicembre 1926. 407 Per la polemica sul «Calendario della Montesca» cfr. Montecchi, Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della Montesca, cit., pp. 307-337, in particolare alle pp. 329-337. 406 144 attenzione agli insegnamenti artistici su cui, invece, i programmi del 1923 aveva fortemente insistito408. Pur non avendo mai definitivamente rotto ogni rapporto, i due uomini di scuola non si sarebbero riappacificati in modo sincero nei tempi che seguirono tanto che ancora nell’agosto 1926 Lombardo Radice confessava a Socciarelli la distanza che lo separava da Marcucci con queste parole: Da Marcucci certo io mi sento ora un po’ lontano ma lo stimo sempre e ammiro e faccio apprezzare da quanti posso il suo lavoro, anche fuori l’Italia. Il mio dissenso non mi accieca, non temere. In quelle note io volevo colpire uno stile, cioè un genere, non una persona. Disgraziatamente lasciai fra virgolette le parole della circolare, invece di dare un cenno più generico. Da qui l’ira di Marcucci; già però caduta, in seguito ad uno scambio di lettere. Non siamo in rotta; questo è l’essenziale. E tu puoi volerci bene ambedue, malgrado l’incidente 409.44. Come si può ben notare, il deteriorarsi delle relazioni tra i due importanti uomini di scuola aveva finito per mettere in seria difficoltà Socciarelli che nutriva verso Lombardo Radice un enorme debito di riconoscenza e una profonda stima e che era, al contempo, tenuto ad osservare una certa deferenza nei confronti del direttore Marcucci e dell’istituzione alla quale apparteneva come insegnante. Tutto ciò era reso ancor più complicato da quella libertà di movimento che ormai Socciarelli esibiva nella gestione della notorietà nascente della scuola di Mezzaselva e nella cura dei rapporti con illustri pedagogisti e con le riviste magistrali e, non ultimo, nel progetto di una pubblicazione tutta incentrata sulla sua scuola. E fu proprio su questo punto, non a caso, che si consumò lo strappo tra il maestro Socciarelli e Marcucci, i cui strascichi continueranno negli anni successivi. Ce lo testimonia una stizzita lettera del direttore delle Scuole dell’Agro Romano a Lombardo Radice in cui esternò il suo sdegno verso il comportamento di Socciarelli non appena appresa la notizia dell’imminente uscita su «L’Educazione nazionale» dello studio a puntate su Mezzaselva, destinato poi a divenire un libro. Marcucci lamentò di essere stato tenuto all’oscuro di tutto e sostenne che il maestro gli aveva parlato di un semplice articolo su Mezzaselva che avrebbe voluto pubblicare su qualche rivista. Pur dichiarando di non voler impedire o limitare la libertà di azione dei propri maestri, Marcucci si mostrò ferito da una tale condotta, chiedendo che almeno nella pubblicazione non figurassero riferimenti espliciti alle Scuole dell’Agro Romano. È chiaro che egli si era sentito scippato da Lombardo Radice, con cui i rapporti, come si è detto, si erano guastati, di una esperienza educativa innovativa che era fiorita sotto le insegne delle scuole da lui dirette, e tradito da un suo maestro, come si evince in modo chiaro dalla citata lettera a Lombardo Radice in cui scrisse: 408 La lettera risentita di Marcucci è pubblicata in Alatri, Una vita per educare, tra arte e socialità: Alessandro Marcucci (1876-1968), cit., pp. 111-113. Nell’articolo incriminato Lombardo Radice scrisse: «Questi contadini della campagna romana sono di poche parole. La solitudine or solenne or desolata dell’Agro; il durissimo lavoro; la malaria che tormenta (quando il brivido percorre le ossa e la febbre fa vacillare corpo ed anima) oppure, mentre sostano le manifestazioni più penose, logora, estenua, intontisce […] tutto ciò ed altro, e peggio (la secolare mancanza di scuole e di letture) han creato il tipo morale di questo buon contadino della Campagna: contadino di poche parole […] Se al contadinello della scuola rurale del Lazio voi date i modellini di componimento, triti e retorici, esso ve li saprà ricalcare […] Ma se gli date i modellini, e i temi, voi vi metterete in condizioni di non conoscerlo, nella sua povertà di parola» (G. Lombardo-Radice, Impressioni sulle scuole rurali della Campagna Romana, «Bollettino del R. Provveditorato agli studi del Lazio e Sabina», 1925, pp. 33-40). 409 AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 25 agosto 1926. 145 Quanto mi dici mi sorprende un poco. Due giorni fa venne Socciarelli da me e mi disse che non sapeva ove collocare un suo Scritto sulle nostre Scuole. O ai Diritti o a La Scuola di Codignola. Io consigliai quest’ultima; invece l’aveva già dato a te! E bene sia. Io non ho modo alcuno e non voglio turbare la libera produzione dei miei Insegnanti. Sono soddisfatto tuttavia se me ne mettono al corrente per quella responsabilità che assumo, nel bene e nel male, della loro vita, come se fossero di famiglia, e che anche nelle pubblicazioni libere ha, sia pure per poco, la sua parte. Perciò che riguarda il modo della pubblicazione, a puntate e poi in volume, vi lascio liberi di fare come meglio credete, ma non pubblicazione con la Sigla delle Scuole, il che le darebbe un’impronta diremmo ufficiale, non è il caso, anche perché fra poco uscirà, a cura del nostro Comitato, la Relazione Generale su queste Scuole, relazione che ne sarà in qualche modo la Storia, del loro insieme e dei particolari di qualche scuola caratteristica come Mezzaselva, per cui, può darsi, che chieda al Socciarelli stesso qualche periodo. E allora si avrebbe, sotto la stessa =impresa=, come un duplicato. Però farete l’edizione a sé, e sarà indubbiamente originale 410. Dal canto suo Socciarelli fornì la sua verità rispondendo a Lombardo Radice che lo aveva interpellato su questa vicenda, dichiarando che alla base del malinteso c’era stato un equivoco ma riconoscendo anche di aver sbagliato nel non far conoscere a Marcucci la sua intenzione di pubblicare quello studio. Queste le parole che scrisse al pedagogista catanese: Il direttore Marcucci scrive anche a me chiedendomi un chiarimento. L’equivoco è nato dal fatto che io gli parlai anche di un articolo sulle “Scuole dell’Agro” che ho scritto nel Luglio scorso e che volevo dare ad un giornale quotidiano per cui sarebbe più adatto. Lo spedisco invece alla “Nuova Scuola Italiana” come d’accordo abbiamo deciso. I giornali quotidiani sono un po’ difficili nell’accettare cose di scuola e ciò è amaro a constatarsi. Del resto io ho provato ad uno solo. Ho spiegato l’equivoco al direttore Marcucci e spero che non ne verrà male perché non mi pare che ci sia sufficiente ragione di volermene. Se ho un torto, e glie’ l’ho confessato, è quello di non avergli fatto vedere il manoscritto. S’Ella credesse sia il caso di mandargliene copia dattilografata e se è ancora in tempo, io sono disposto a sostenere la spesa (o copia in bozze delle puntante?). Veda Lei. Io avrei caro, e glie’ l’ho scritto, che egli accettasse la proposta che Lei gli fa, ma, se non molla, non vedrei altro che farei. Gli farò vedere la parte conclusiva che chiude appunto con un capitolo su queste scuole e che è, mi pare, quello che più potrebbe interessarlo. Mi dispiacerebbe se rimanesse scontento e sdegnato, ma questo non lo credo e spero che non sia. Gli sono legato di lungo e doveroso affetto e credo, spero ch’egli mi abbia compreso411. È chiaro che oramai Marcucci non poteva più bloccare quel progetto editoriale tanto si era giunti avanti con il lavoro: pochi giorni dopo, infatti, nel fascicolo del mese di novembre del 1927 de «L’Educazione Nazionale» usciva la prima puntata dello studio Scuola e vita a Mezzaselva, a cui ne seguiranno altre cinque fino al giugno 1928412. Sembra quasi di poter scommettere che Marcucci dopo la pubblicazione della prima puntata tornò a protestare sentendosi derubato delle proprie idee: ci induce a pensarlo il fatto che nella seconda puntata edita nel fascicolo di dicembre, Socciarelli si premurò di precisare in una nota che molte delle osservazioni da lui fatte in precedenza in relazione al nesso tra arte e contadino erano state già esposte dal suo «maestro» Marcucci. Scrisse Socciarelli: Molte delle osservazioni che son venuto facendo sulla vita interiore del contadino son frutto, oltre che delle mie osservazioni personali, anche di conversazioni tenute col mio caro maestro e direttore Alessandro Marucci. Alcune, anzi, delle idee espresse nell’ultimo paragrafo del cap.[itolo] terzo, specialmente quelle intorno al modo in cui il 410 AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Marcucci a Lombardo Radice, 17 ottobre 1927. Ivi, Carteggio generale, Risposta di Socciarelli a Lombardo Radice scritta direttamente sulla lettera di Lombardo Radice a Socciarelli del 17 ottobre 1927. 412 Le puntate uscirono nei seguenti fascicoli: novembre 1927, pp. 619-623; dicembre 1927, pp. 669-689; marzo 1928, pp. 153-161; maggio 1928, pp. 260-268; giugno 1928, pp. 323-346. 411 146 contadino sente l’arte, furono esposte da lui in forma non molto diversa, ma assai migliore, in un discorso bellissimo tenuto due anni fa, in una riunione dei suoi insegnanti 413. Lungi dall’essere risolti, i dissidi con Marcucci proseguiranno negli anni successivi contestualmente alla crescente fama che stava acquisendo Socciarelli, anche sulla scorta del fatto che nel 1928 lo studio su Mezzaselva, uscito a puntate, veniva pubblicato per intero in un volume edito dall’Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. Positivi furono peraltro i commenti e le recensioni al volume, provenienti per la verità tutti da ambienti impegnati nel campo dell’attivismo pedagogico. Possiamo citare Angelo Colombo, uno dei fondatori nel 1913 della rivista di stampo neoidealistico «La nostra scuola» e animatore delle Scuole del popolo del Gruppo di Azione di Milano, che leggendo con interesse il libro, così scrisse nel settembre 1928 a Lombardo Radice: «Il libro del Socciarelli è cosa grande. M’impegno tutto. Questo è pane pane di vita. Vedrai vedrai: il buono non si perde»414. Nondimeno Anna Errera, scrittrice per l’infanzia e anche lei animatrice del Gruppo di Azione di Milano, fornì un giudizio positivo del libro recensendolo per la rivista «La coltura popolare» nel numero del gennaio 1929. L’opera di Socciarelli gli appariva chiaramente debitrice del pensiero di Lombardo Radice e ispirata ai principi dell’idealismo, in una versione depurata però da ogni astrattezza e vacuità. Il suo libro, insomma, era intessuto di «romanticismo», ma nel senso più nobile del termine, vale a dire come tensione ideale, ricerca continua, spinta verso nuove vette, secondo la visione lombardiana della «scuola serena» o della scuola attiva. Scrisse la Errera: Questo libro agreste e pedagogico del maestro Felice Socciarelli potrebbe dirsi un libro essenzialmente romantico, se romanticismo vuol dire, nel suo significato tradizionale, libertà, ricerca di vie nuove, fuor dai cancelli e dai binari della dottrina, dei modelli, e dell’autorità costituita. L’operetta del Socciarelli non sta del resto a sé; essa si riallaccia alla pedagogia odierna del Lombardo Radice, e accoglie le idee e gli indirizzi più vitali della Riforma della scuola elementare. Tale pedagogia, liberatasi dalle formule della filosofia idealistica, da cui aveva pur preso le mosse, fa spaziare il maestro, sciolto da impacci teorici, in un mondo vasto quant’è vasta la natura umana, e ficca le sue radici nel vivo dell’anima dell’allievo e dell’anima popolare, e della realtà entro cui opera. Pedagogia dunque «romantica»: e speriamo si guardi dalle deviazioni dell’altro romanticismo, e auguriamo non cada nel troppo vago ed anarchico 415. Tale giudizio non impediva, però, ad Anna Errera – che nel 1913 aveva partecipato alla fondazione della rivista di stampo neoidealistico «La nostra scuola», impegnata nel campo della critica militante alla scuola tradizionale appesantita di pedagogismo e di formalismo – di dimensionare in un certo qual modo la portata «innovatrice» del modo di concepire l’educazione da parte del maestro di Mezzaselva, poiché già prima di lui altri educatori avevano percorso quei sentieri; una critica che la Errera sintetizzò con queste parole: Tutte le creature giovani si sentono e si credono assolutamente nuove, e dimenticano che quanto esse sono, e le stesse loro facoltà di critica, derivano dalle pur lente costruzioni di pensiero di chi le ha precedute nella vita e nello studio416. 413 La citazione è tratta da F. Socciarelli, Scuola e vita a Mezzaselva. Seconda puntata, «L’Educazione nazionale», dicembre 1927, p. 672. 414 AGLRR, Carteggio generale, Cartolina di Colombo a Lombardo Radice, 15 settembre s.a. ma 1928. Si veda anche la breve recensione di Colombo al libro pubblicata con il titolo Spirito di famiglia pubblicato nella rivista «Il gruppo d’azione» nel 1928. 415 A. Errera, Un libro di “vita” scolastica: “A Mezza Selva” di Felice Socciarelli, «La Coltura Popolare», gennaio 1929, pp. 13-16. 416 Ibid. 147 Si ricordi, inoltre, che già nel 1927 un altro esponente del pionierismo attivistico, il pedagogista italo-americano Angelo Patri, aveva visitato con grande ammirazione Mezzaselva, seguito nel dicembre 1927 da un’altra studiosa, la francese Hélène Tuzet, docente nel «Lyceè de jeunes filles» nella cittadina di Niort, che dopo essere entrata in contatto con Lombardo Radice, aveva visitato alcune delle più innovative esperienze scolastiche presenti in Italia417. Forse anche incoraggiato dagli apprezzamenti al suo libro e alla sua azione educativa, Socciarelli decise allora di compiere una scelta radicale: nel 1931, infatti, abbandonò l’insegnamento nella scuola di Mezzaselva per sottrarsi al controllo dell’ente delle Scuole dell’Agro Romano, e passò ad insegnare in una scuola elementare statale 418. Frutto di una meditazione durata a lungo, tale idea era stata caldeggiata da Socciarelli già l’anno precedente come dimostra un passo del suo diario in cui, sotto la data del 3 marzo 1930, aveva scritto: Sono stato alla prova scritta per gli esami del Concorso Magistrale per il Lazio. Spero di uscire dalle Scuole dell’Agro Romano dove insegno da dieci anni e mezzo. Desidero uscire non per i disagi della vita a Mezzaselva che non pur molti, ma perché i miei superiori non mi vogliono più il bene che mi volevano nei primi anni. Disapprovano che io studii, non vogliono che io scriva. Nulla di più strano in gente che dice di amare la scuola e che si interessa dei maestri. Hanno disapprovato acerbamente il mio libro su Mezzaselva; criticano ogni articolo che io scrivo sulle riviste. Ma a che disperarsi per ciò? La mia coscienza di uomo, di maestro e di italiano non mi rimprovera nulla. Queste persone potranno riuscire a disconoscere quanto bene io ho fatto a Mezzaselva, ma non già a cancellarlo 419. Con questa sofferta decisione Socciarelli avrebbe acquistato quella piena libertà che aveva desiderato, riuscendo così a salvaguardare – come voleva – l’immagine e il valore dell’esperienza educativa di Mezzaselva. 417 La reazione positiva di Patri viene riferita in G. Lombardo Radice, Una visita di Angelo Patri: seguita da un saggio sui giornali redatti da scolari dal mio archivio didattico. Terzo supplemento de «L’Educazione Nazionale», Roma, Associazione per il Mezzogiorno, 1928, pp. 49-54. Per quanto riguarda la Tuzet tra le carte di Socciarelli si conservano tre lettere della studiosa francese del periodo 1928-1930. In quella del 10 ottobre 1928 dichiarò di essere venuta a conoscenza della sua scuola tramite il pedagogista siciliano e di averne apprezzato le qualità dopo aver letto il libro di Socciarelli, pubblicato poco dopo: «Forse Lei si ricorderà di me: sono venuta, in compagnia di una mia collega francese, a visitare la Sua scuola, nel dicembre scorso, per una giornata di neve. Ma eravamo accompagnate da due Suoi superiori, e quella visita fu molto troppo rapida per appagare il mio vivo desiderio di conoscere bene la Sua scuola e la Sua opera, delle quali mi aveva già parlato il Professore Lombardo-Radice, e per le quali il mio interesse è ancora cresciuto da quando ho potuto leggere il Suo bel libro: “Scuola e vita a Mezzaselva”». Allegata ad un’altra lettera, quella del 12 gennaio 1930, la Tuzet inviò un suo «piccolo studio su Mezzaselva [che era] stato stampato in un librettino», che tuttavia non è stato possibile reperire nell’archivio Socciarelli. 418 Si aggiunga che l’anno precedente a questa decisione così radicale un altro motivo di amarezza gli era giunto dalla mancata attribuzione della direzione didattica che, gli scriveva Lombardo Radice in una lettera del 23 marzo 1930, gli spettava, magari anche nell’ambito delle Scuole dell’Agro Romano: «La direzione didattica ti doveva e ti poteva essere data nell’ambito delle scuole dell’Agro. Forse tu non hai voluto chiederla? A ogni modo, il giorno del premio verrà per te e per la tua compagna elettissima. Verrà. Abbi fede in te» (AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 23 marzo 1930). 419 Da scritti inediti di Socciarelli citati in A. Festa, L’opera educativa di Felice Socciarelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Roma, Facoltà di Magistero, anno accademico 1970-71, relatore prof. Mauro Laeng. 148 4. Il tentativo di creare un’apposita didattica per le scuole rurali In quell’opera volta alla creazione di una didattica nuova che impegnò nei primi decenni del Novecento un cospicuo numero di educatori e pedagogisti, il tentativo del maestro Socciarelli si colloca ampiamente nel solco del pensiero di Lombardo Radice, dal quale si discosterà leggermente solo nel corso degli anni Trenta, per poi ritornare su i suoi passi. Tuttavia la sua formazione era avvenuta in un clima culturale dominato ancora dagli ultimi residui del positivismo, tanto che in un suo scritto del 1926 ricordò il periodo degli studi per la licenza magistrale come un periodo in cui ebbe il «cervello pieno di pedagogia positivistica»420. L’apertura verso le idee dell’idealismo pedagogico cominciò a manifestarsi dopo l’arrivo a Mezzaselva. Decisivi furono due fattori: da un lato, il misurare di persona l’inadeguatezza dei metodi didattici tradizionali appresi dai manuali di pedagogia e, dall’altra, il rinnovato clima culturale del primo dopoguerra con l’esplodere del problema della cosiddetta «educazione nazionale», a cui si interessarono non pochi uomini di scuola e letterati nella convinzione che occorresse un impegno militante e attivo per risollevare le sorti della scuola italiana e, con essa, i destini della Nazione, dopo la prova bellica che aveva mostrato tutte le criticità del paese421. Due furono, ammetterà tempo dopo lo stesso Socciarelli, le letture che accompagnarono la “conversione” al nuovo credo idealistico. Il primo fu il libro del grecista Giuseppe Fraccaroli intitolato L’educazione nazionale, apparso nel 1918. Nelle sue pagine erano prospettate le strade di un’educazione corrispondente allo spirito degli italiani, perché ciascun popolo doveva essere educato «nelle virtù della sua razza», e veniva elevato un atto di accusa contro l’utilitarismo e il positivismo che erano contrari alle cinque forme capitali della vita: la morale, la religione, la patria, l’arte e l’amore. Socciarelli raccontò di essere rimasto colpito da quella lettura che scardinava modi di concepire l’azione educativa consolidati nel tempo: Ricordo – scrisse il maestro di Mezzaselva – che mi colpì tremendamente un periodo dove dice che […] il maestro che insegna essere l’acqua composta di due atomi di idrogeno e una di ossigeno, davanti al maestro che insegna il «Pater» ci fa proprio una magra figura. Mi colpì, e ci volle del tempo a rendermene ragione! 422 Il secondo libro, decisamente più importante per il suo contenuto, fu Lezioni di didattica, opera assai nota di Lombardo Radice, pubblicata nel 1913 e destinata a diventare testo di studio e di formazione per molti maestri elementari e pertanto a godere di grande fortuna editoriale negli anni a seguire. L’influenza esercitata su di lui da quel testo venne così ricordata dal maestro: In quel tempo mi fu prestato il libro «Lezioni di Didattica e Ricordi di Esperienza magistrale» e lo lessi. Fu un nuovo mondo che mi si rilevò allo spirito, un nuovo concetto dell’educazione e della sua importanza. E dovetti, guidato anche dalla ricca bibliografia di quel libro, rifare la mia cultura e la mia mentalità, modificare la mia posizione, 423 corroborare il mio lavoro di ben altri presupposti . 420 Cfr. F. Socciarelli, Sui frutti dei nuovi programmi nel primo biennio di esperienza, «La nuova scuola italiana», n. 28, 25 aprile 1926, p. 507. 421 Su questo tema cfr. G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983. 422 Cfr. F. Socciarelli, Sui frutti dei nuovi programmi nel primo biennio di esperienza, «La nuova scuola italiana», n. 28, 25 aprile 1926, p. 507. 423 F. Socciarelli, Scuola e vita a Mezzaselva, «L’Educazione nazionale», maggio 1928, p. 260. 149 Da questo libro Socciarelli mutuò, in particolare, il concetto di «critica didattica» che applicò in primo luogo alla sua esperienza di educatore, sottoponendola ad una analisi e ad una messa in discussione dei suoi capisaldi. Del resto Socciarelli ebbe modo di verificare nella concreta prassi scolastica l’inconsistenza di presunte verità acquisite dai manuali di pedagogia e l’inutilità di preconfezionati metodi: si accorse, per esempio, nei primi giorni di insegnamento che i bambini di Mezzaselva erano del tutto passivi e indifferenti alle favole, comunemente ritenute un ottimo strumento didattico, così come trovò del tutto vano il tentativo di spiegare il significato di ogni nuova parola, a mo’ di dizionario. Capì, in altre parole, di essere partito da un principio errato, vale a dire quello di ritenere che vi fossero modelli prestabiliti di insegnamento, validi universalmente per ogni contesto, e si accorse che il suo animo era dominato un certo senso di diffidenza verso persone così selvagge tanto da ritenere che «il loro mondo non servisse a nulla» e che non meritasse altra considerazione che il disprezzo424. Con il passare del tempo Socciarelli comprese i suoi errori e intuì che la giusta strada era quello di un «avvaloramento spirituale delle cose del loro ambiente, da cui potesse sbocciare poi un interesse più largo, un bisogno di guardar fuori». L’ambiente esterno alla scuola, quindi, non poteva essere trascurato poiché era la vita stessa che doveva vivificare la scuola, renderla attiva e interessante ai bambini. Compito del maestro era quello di entrare in sintonia con i fanciulli, porsi al loro fianco per osservarli e intuire di volta in volta, in una ricerca continua, quale strada percorrere per accendere la curiosità degli alunni e non per trasmettere in modo meccanico delle semplici nozioni. Scrisse a questo proposito Socciarelli: Non una linea prestabilita, ma le piccole luci che si accendevano nel fervore del lavoro furono la mia didattica, il tormento e la gioia di tutti i giorni, tormento di ricerca mai soddisfatto appieno, gioia per le piccole scintille che talvolta riuscivo a sprigionare dal masso vivo ed informe. L’apertura verso il mondo esteriore, e quindi verso la vita quotidiana che si svolgeva tra le capanne di Mezzaselva, aveva come immediata conseguenza il delinearsi di un modello di scuola elementare fortemente radicata nella cultura popolare, nel folklore, nel dialetto e nelle manifestazioni artistiche ed espressive degli allievi. Non deve pertanto sorprendere come Scuola e vita a Mezzaselva, dopo aver dedicato le primissime pagine all’impatto avuto da Socciarelli con la nuova scuola, abbandoni quel tipo di narrazione e si soffermi in modo diffuso sulla descrizione della vita degli abitanti del villaggio prendendo per mano il lettore e facendogli compiere una passeggiata tra le capanne in cui scoprirà le persone che le abitano, le loro credenze, i loro valori: una galleria di persone come Zì Pasquale, considerato il teorico del patrimonio di credenze e superstizioni condivise da tutti, oppure Zì Filippo, che raccontava come anni prima lui e i suoi compagni si erano insediati in quelle langhe desolate alla ricerca di maggiore fortuna, Zì Maria la vecchia del villaggio, aiutata dagli altri per la sua infermità. In altre parole Socciarelli voleva dire che la scuola non poteva svolgere la sua funzione educativa se prima non aveva mostrato un interesse di tipo antropologico verso l’ambiente in cui era chiamata ad operare. Ma – è bene sottolinearlo – tale approccio antropologico non aveva nulla a che spartire con una prospettiva positivistica poiché il maestro non era uno scienziato che doveva indagare, e magari comparare in modo sperimentale, i comportamenti di quella umanità. Al contrario era suo compito rendersi conto dei modi di vivere di quelle persone per entrare in sintonia e, romanticamente, per entrare a 424 Id., Scuola e vita a Mezzaselva., «L’Educazione nazionale», marzo 1928, p. 157. 150 far parte lui stesso di quella comunità, ricca di folclore e di tradizioni. Scriveva Socciarelli in un articolo del 1926: Il popolo ha il suo mondo spirituale nelle sue tradizioni religiose, artistiche e patriottiche; la sua coscienza, la sua dignità, le sue aspirazioni sorgono da quelle come i nuovi polloni sbocciano dal ceppo e dal tronco della pianta. Estraniatelo da quel mondo e, per quanto gli imbottirete la testa di enciclopedia, egli sarà cieco e infelice 425. Dall’antipositivismo gentiliano, tradotto da Lombardo Radice in forme romantiche ed estetiche, deriva in Socciarelli anche il suo giudizio sulla religione e sul valore del suo insegnamento nella scuola rurale: egli riteneva a questo proposito che la religione svolgesse un’importante funzione educativa dell’anima dei bambini, in particolar modo in quelli di campagna, poiché essi mostravano una maggiore sensibilità verso la sfera mistica e spirituale: Quando invito i ragazzi ad alzarsi in piedi per la preghiera – scriveva Socciarelli nel 1926 – , si fanno silenziosi e attenti come se sentissero appieno (e sentono) la solennità di ciò che sono per fare. La brevità e il suo valore spirituale conferiscono a questo primo atto della lezione un’importanza sempre più viva e profonda che non si limita davvero all’atto stesso426. Così come il mondo rurale era diverso da quello urbano, e la scuola era un campo dove tale alterità si misurava in modo rilevante, anche la religiosità dei giovani contadini era diversa da quella dei bambini di città, connotandosi per le sue tinte immanentistiche, tali per cui Dio si manifestava anche in un modesto filo d’erba. Scriveva a questo proposito Socciarelli nel 1940: Il nostro campagnolo non è dunque privo di gentilezza; altrimenti, come si spiegherebbe quel senso di religiosità che investe la sua vita, la sua attività, il suo modo di pensare, i suoi rapporti coi simili? E quella sua religiosità, non è, come vedremo, sentimentale ma concreta come tutte le cose del contadino; concreta ma sempre soffusa, immersa, direi, in un’atmosfera di calda poesia. Egli sente Dio nelle cose del suo mondo: nel filo d’erba che spunta, cresce e si fa spiga, nell’ordine che regola i moti e le vicende del Creato, nelle misteriose leggi che guidano meravigliosamente l’istinto degli animali, nelle speranze del suo cuore427. Nondimeno la critica alla scuola tradizionale passava anche attraverso il rifiuto del programma didattico nelle forme e nei modi in cui era stato comunemente inteso dalla generalità dei maestri. Concetto ben espresso ne La scuola dei rurali, il secondo libro scritto da Socciarelli dopo Scuola e vita a Mezzaselva, e pubblicato nel 1942: Quello che ci preoccupa – scrisse con tono polemico – non è la sostanza, l’anima, il calore della scuola, bensì il programma. E il maestro misura in precedenza i passi, non importa se gli riescono più lunghi delle sue gambe, o più corti da rattrappirsi. «È stato svolto il programma?» «A che punto siete arrivato con lo svolgimento del programma?». Sono in genere queste le domande che il visitatore rivolge al maestro sedendosi alla cattedra […] pochi cercano di rendersi conto dell’atmosfera spirituale in cui il maestro è riuscito a far vivere la sua scolaresca; pochissimi si informano dei suoi studi con vivo interesse per lui e per la scuola. L’ideale supremo è il programma, il quale, tenuto in tanto concetto, diventa regola, limite428. 425 Id., Sui frutti dei nuovi programmi nel primo biennio di esperienza, «La nuova scuola italiana», n. 28, 25 aprile 1926, pp. 507-508. 426 Id., Scuola rurale, «I diritti della scuola», n. 18, 10 aprile 1941, p. 436. 427 Ibid. 428 F. Socciarelli, La scuola dei rurali, Brescia, La Scuola, 1942, p. 40. 151 Tale critica rivolta al modo di agire dei maestri non è l’unica che si trova nelle pagine del secondo volume di Socciarelli, dove il tema della preparazione e della cultura del maestro rurale è ben affrontato. A tal proposito egli suggerisce che il maestro non deve cedere all’idea piuttosto diffusa che in campagna gli sia del tutto impedito arricchire la propria cultura; anziché lasciarsi prendere dalla noia, si potrebbe dedicare allo studio della botanica o dell’entomologia, per meglio conoscere l’ambiente in cui è chiamato a svolgere la sua missione, oppure dedicarsi alla letteratura per nutrire la propria cultura che è essenzialmente «ricchezza spirituale». Non ha più ragione d’essere, prosegue Socciarelli, neppure la vecchia lamentela secondo la quale il maestro rurale sia condannato all’isolamento: grazie alla capillare diffusione della radio e ormai del cinematografo – ricordiamo che quando scrive è il 1942 – è possibile essere abbastanza aggiornati di quello che avviene altrove. Altre pagine del libro, infine, sono dedicate alla descrizione della ruralità come «stato d’animo» che l’abitante della campagna deve interiorizzare e far proprio. Nel quadro del discorso fin qui fatto, si deve aggiungere che Socciarelli ebbe modo di definire e diffondere alcune sue idee sulla didattica curando, a partire dall’anno scolastico 193132, la sezione dedicata alle scuole rurali della rubrica della didattica nella rivista «I diritti della scuola», il periodico magistrale più diffuso in Italia allora. A questo proposito appare interessante notare come la preoccupazione predominante nelle note che compose per tale circostanza era quella di invitare i maestri ad evitare un eccessivo e vuoto idealismo, a ricercare la poesia ignorando completamente la vita concreta dei giovani contadini, che era fatta anche di fatiche quotidiane e sudore, ad abbandonare una visione oleografica ma poco realistica della campagna. Così si legge nella rubrica del fascicolo del 14 febbraio 1932: Canto di uccelli, profumo di fiori, serena pace, semplicità di vita sono, diremo così, la parte poetico-idilliaca della vita rurale; quella che vedono solamente i letterati. Ma la parte che più deve stare a cuore ai maestri delle scuole di campagna è quella concreta, quella che realmente il contadino vive. Il quale, pur respirandola con l’aria, della poesia poco si accorge e l’idillio non ha sempre tempo di gustarlo. Educare i figliuoli dei contadini all’amore della terra, della sua bellezza e del suo valore è il primo dovere nostro. Però niente lattemiele, niente lirismo vuoto, ma coscienza e conoscenza della vita campestre sotto ogni riguardo. È bella, sì, la farfalla; ma semina bruchi devastatori nel campo. È dolce il canto degli uccelli; ma alcuni di essi sono dannosi. C’è il canto dei grilli; ma ci sono anche la filossera e le cavallette […] Vita che alla scuola non chiede davvero retorica, artificio e perditempo, ma concretezza, ma cose che rispondno alle sue vive necessità: comprensione […]. Bandire ogni forma di astrattismo; cercare nella vita tutta la materia per il lavoro scolastico429. A leggere con attenzione queste frasi sembra quasi di trovarsi di fronte ad una presa di distanza dall’idealismo lombardiano, dall’idea di «scuola serena» o di scuola attiva a cui più volte egli si era ispirato. In realtà Socciarelli, sulla scorta della sua esperienza di maestro svolta sul campo e non sui libri e sui manuali, richiamava l’attenzione degli insegnanti ad evitare astrazioni che ignorassero la realtà concreta, in nome dell’esigenza di «conciliare l’esigenza pratica con la bellezza»430. Ma c’è di più. L’interesse crescente verso l’elemento reale ai fini dell’educazione dei giovani contadini, di cui si è detto, non era un fatto casuale e isolato nel Socciarelli degli anni Trenta ma era l’espressione di una temperie culturale che di cui risentiva la pedagogia italiana del tempo e di cui converrà ora parlare. 429 Id., La necessità del popolo e la sua scuola, «I diritti della scuola», n. 19, 14 febbraio 1932, pp. 303304. 430 Cfr. F. Socciarelli, Criteri, «I diritti della scuola», n. 22, 6 marzo 1932, p. 352. 152 5. L’apertura al realismo pedagogico degli anni Trenta Il trasferimento a Vetralla, avvenuto il primo febbraio 1931, metteva finalmente in condizione Socciarelli di acquistare quella libertà di iniziativa e di movimento da sempre desiderata. Lombardo Radice, venuto a conoscenza di questa notizia, non poté che compiacersi con l’amico, già prevedendo una sua partecipazione più attiva alla vita della rivista da lui diretta, «L’Educazione Nazionale». Indicative erano le parole usate dal pedagogista nella cartolina spedita a Socciarelli per commentare l’evento: Sono proprio contento di saperti in porto. Ora sì che potrai scrivere per Educazione Nazionale, con quella ampiezza di sviluppi che desideri. Attendo molte e belle cose tue431. Frattanto lo scontro maturato con Marcucci aveva lasciato nel direttore delle Scuole dell’Agro Romano un duro segno alimentato dal risentimento che andava oltre i ristretti confini della querelle personale e investiva la sfera “pubblica” del dibattito e della polemica pedagogica e culturale. Marcucci, infatti, sentendosi defraudato di un pezzo delle proprie scuole e dell’originale indirizzo pedagogico che a loro aveva saputo imprimere, tornò a distanza di qualche mese a denunciare presso Lombardo Radice l’opera maldestra di «improvvisati dottori in materia» di scuole rurali, accusandoli di scrivere fiumi di inchiostro dove riversavano idee rubate ad altri. Non è difficile intravedere dietro questa parole un’accusa chiara ed evidente a Socciarelli, dato i recenti accadimenti e considerando che la lettera di Marcucci è datata al 5 maggio 1931, tre mesi dopo l’arrivo del maestro a Vetralla. Il direttore delle Scuole dell’Agro Romano, cogliendo l’occasione di rispondere ad una richiesta che Lombardo Radice nel frattempo gli aveva avanzato al fine di portare con sé venti studenti del Magistero di Roma in visita ad alcune scuole rurali gestite dall’ente, scrisse: […] Essendo in 20, meglio potrete osservare e più agevolmente tu potrai illustrare il buono e il manchevole di queste scuole ai tuoi discepoli anche per invogliarli ad accostarsi a questa scuola rurale, la cui formazione è più difficile di quanto si creda, da taluni, oggi improvvisatisi dottori in materia (piccoli ladruncoli di cose altrui) e parlano e parlano! E sputano sentenze e citano autori (molto meglio se stranieri) e spesso riescono a farsi far credito… 432 Giunti a questo punto, è bene dire che i dissidi insorti tra Socciarelli e Marcucci non costituivano un’eccezione nel campo dello sperimentalismo pedagogico e dell’applicazione delle moderne teorie attivistiche. Contrasti e gelosie si erano già manifestati oppure si stavano delineando, avendo per protagonisti maestri, ispettori e uomini di scuola. A parte il caso più noto della polemica tra Lombardo Radice e la Montessori intercorsa dopo un primo periodo in cui il pedagogista si era mostrato favorevole al metodo della Dottoressa, si possono citare i contrasti sullo spontaneismo e sul metodo didattico tra la maestra di San Gersolè, Maria Maltoni, sostenuta dall’ispettore Francesco Bettini, da una parte, e l’ispettore Edoardo Predome dall’altra; un’altra circostanza in cui si palesarono gelosie e contrasti tra esponenti di esperienze didattiche innovative ci viene testimoniata da una lettera infastidita di Maria Boschetti Alberti che il 12 giugno 1935 scriveva da Lugano a Lombardo Radice, affermando in modo sintomatico, di non essere gelosa della propaganda da lui fatta ad altre scuole di avanguardia433. 431 AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 12 febbraio 1931. AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Marcucci a Lombardo Radice, 5 maggio 1931. 433 Ivi, Carteggio generale, Lettera della Boschetti Alberti a Lombardo Radice, 12 giugno 1935. 432 153 Il pedagogista siciliano, infatti, non aveva cessato la sua opera di scoperta e di valorizzazione di esperienze didattiche innovative, né si era dimenticato di Socciarelli al quale dedicò un capitolo nel suo nuovo volume intitolato Pedagogia di apostoli e di operai, la cui prima edizione riporta la data del 1936, ma che doveva essere stato stampato sul finire dell’anno precedente. Il 28 novembre 1935, infatti, il maestro scriveva a Lombardo Radice ringraziandolo di avergli dedicato alcune pagine del suo nuovo libro, raccomandandosi di non dimenticarlo. Eppure si deve registrare come intorno alla metà degli anni Trenta Socciarelli si stava sempre più aprendo a quelle idee che si configuravano come critiche e alternative all’idealismo che aveva ispirato i programmi del 1923 e che trovarono una consacrazione sul piano politico con l’ascesa al ministero dell’Educazione Nazionale di Giuseppe Bottai. Questa stagione, che la storiografia ha chiamato del «realismo pedagogico», trovò uniti vecchi antagonisti dell’idealismo come Giovanni Calò e nuovi avversari di quella visione pedagogica, che pure avevano decantato fino a pochi anni prima, come Giorgio Gabrielli e Nazareno Padellaro434. Si trattava di una svolta sancita in nome del superamento dello iato che separava la scuola e la vita sociale e politica, le istituzioni educative e le esigenze del mondo economico e produttivo, obiettivo auspicato dal Regime per garantire una piena affermazione della forza imperiale dell’Italia fascista. In Socciarelli questo mutamento avvenne in modo più sobrio, senza mai dimenticare la lezione lombardiana, nella forma cioè di una mediazione tra idealismo e realismo che doveva coniugare arte e realtà, poesia e utilità. Ciò appare in modo evidente, ad esempio, nelle note di didattica scritte per «I diritti della scuola» nell’anno scolastico 1940-41. In una di esse così scrisse Socciarelli: Dobbiamo, insomma, innestare la scuola nella vita in modo che lo spirito pratico del contadino non abbia mai a domandarsi invano «A che serve ciò?». Né ci venga la preoccupazione che con questo criterio la nostra scuola finirebbe con l’essere arida, utilitaristica. Arida, la scuola di campagna non è mai […]; utilitaristica è bene che, un poco, lo sia. Arida no: il contadino sente la poesia delle cose, non quella delle parole […] Egli sa che uno scarso raccolto gli renderebbe brutta la vita, ingrata la campagna, triste l’aspetto dei figliuoli; e che nessuna siepe ammantata di fiori potrebbe dargli la gioia dell’animo quando il suo granaio fosse vuoto e asciutta la sua cantina. L’artificio non lo appaga435. Concetti analoghi li possiamo rintracciare in un’altra puntata che Socciarelli scrisse per la didattica de «I diritti della scuola» e nella quale affermò in modo lapidario che compito del maestro rurale fosse quello di «bandire ogni sentimentalismo» ed evitare ogni forma di «astrattismo»436. Contestualmente al maturare di questa svolta sul piano teorico, un’altra svolta – di cui è necessario dare conto per comprendere la prima – si stava delineando nell’ex maestro di Mezzaselva: quella di tipo politico. Se fino ad allora, infatti, gli scritti di Socciarelli erano stati esenti da quelle facili e retoriche frasi celebrative del Regime e del Duce – pur essendo egli iscritto al Partito nazionale fascista dal 1926437 – ora anche nei suoi lavori cominciavano a comparire riferimenti sempre più espliciti all’opera di Mussolini e del governo nazionale, in specie laddove venivano trattati temi di politica scolastica di stretta attualità, come l’introduzione della Carta della Scuola, l’apertura della scuola ad esperienze del mondo del lavoro o la funzione educativa che lo 434 Sul rapporto tra Calò e il realismo pedagogico si rinvia a G. Chiosso, Giovanni Calò e il realismo pedagogico tra gli anni Venti e Trenta (1923-1936), «Pedagogia e vita», n. 4, 1984-1985, pp. 411-434. 435 F. Socciarelli, Scuole rurali, «I diritti della scuola», n. 13, 20 febbraio 1941, p. 315. 436 Id., Scuole rurali, «I diritti della scuola», n. 12, 10 febbraio 1941, p. 292. 437 Socciarelli si iscrisse al Pnf il 20 aprile 1926 (ACS, MI, Divisione generale di pubblica sicurezza, Polizia Politica, Fascicoli personali, b. 1280). 154 Stato doveva esercitare nei confronti del cittadino438. Concetti espressi da Socciarelli, non a caso, su «Primato educativo», la rivista diretta da Padellaro e destinata a diventare una delle principali voci della pedagogia ufficiale del Regime. In modo emblematico in un articolo apparso nel 1935 egli mostrava di far propria la teoria dello Stato educatore, sostenendo la tesi della subordinazione della scuola allo Stato e segnando almeno da questo punto di vista in modo brusco un superamento della prospettiva lombardiana della «scuola serena», cioè di una scuola semmai subordinata alla vita, ai bisogni dei bambini, alla loro interiorità, non certo alle esigenze dello Stato o di qualsiasi altro agente esterno. Indicative a questo proposito erano le parole di Socciarelli: Una sicura preminenza nel campo dell’educazione è riservata a quello Stato che meglio riuscirà a subordinare la scuola alle esigenze della propria vita […] Ma basta: squillano le sirene, suonano le campane, rullano i tamburi per le vie: presa Addis Abeba; Roma trionfa col Littorio. Andiamo all’adunata, Mussolini ci farà una grande lezione di pedagogia, di quella pedagogia che ci vuole439. A ben guardare il percorso seguito dall’ex maestro di Mezzaselva – un graduale abbandono delle istanze liberatrici lombardiane che non significava una piena rinuncia all’attivismo, ma semmai una sua ridefinizione alla luce delle pratiche e concrete esigenze politiche e sociali della Nazione – coincideva con il sentiero percorso da altri uomini di scuola, come Giorgio Gabrielli. E non a caso sarà proprio Gabrielli, intelligente studioso delle teorie attivistiche sia durante il ventennio fascista che nel secondo dopoguerra, a firmare la prefazione del secondo libro di Socciarelli, La scuola dei rurali, del 1942. Nondimeno in questa fase egli si avvicinò ad un altro personaggio di primo piano della pedagogia italiana del periodo bottaiano, come Luigi Volpicelli, che decise di pubblicare nel 1939 nella collana «Problemi della scuola e della vita», da lui diretta presso l’editore Signorelli di Roma, la seconda edizione di Scuola e vita a Mezzaselva. Nella prefazione al volume scritta da Volpicelli sparivano in modo paradigmatico ogni benché minimo riferimento a Lombardo Radice e veniva fortemente ridimensionata la sfera di romanticismo e di idealismo che ammantava l’opera440. Anche un altro esponente di spicco del cosiddetto fronte anti-idealistico, come Calò, ebbe modo di esprimere nel 1940 un commento assai positivo alla seconda edizione del libro. In particolare egli vedeva nell’esperienza di educatore raccontata dal maestro di Mezzaselva un invito a non tenere separate pedagogia e psicologia: una lettura, questa di Calò, che forse conteneva una critica implicita all’idealismo che invece, come è noto, aveva ridefinito i fondamenti della pedagogia, negandone i nessi con la psicologia, oltreché con l’etica. Scriveva a questo proposito Calò nella sua recensione: Fallimento della pedagogia, come in qualche punto parrebbe credere il Socciarelli? Dei pregiudizi pedagogici con cui egli aveva ingenuamente iniziato l’opera sua (p. 13), e dei quali ben presto s’accorse, sì. Poiché era pregiudizio, appunto, credere all’esistenza di certe massime o norme che si potessero senz’altro applicare, sempre e dappertutto, raggiungendo risultati, senza considerazione di ambiente, di condizioni psicologiche ecc.; pregiudizio, insomma, credere a una pedagogia che non fosse anzitutto concreta e viva psicologia. Ma fallimento della pedagogia, no: perché il primo livellamento, in certo senso, che l’educazione richiede, è quello tra maestro e scolari, livellamento che è 438 Si vedano, ad esempio, i seguenti articoli: F. Socciarelli, La Scuola del lavoro, «I diritti della scuola», n. 19, 20 aprile 1940, pp. 274-275; Id., Il passaggio. Ammissione alla scuola media, «I diritti della scuola», n. 21, 10 maggio 1941, pp. 323-324. 439 F. Socciarelli, Problemi nuovi, «Primato educativo», n. 2, 23 maggio 1936, pp. 128-137. 440 Il testo della prefazione venne pubblicato anche in L. Volpicelli, Scuola e vita a Mezzaselva, «I diritti della scuola», n. 30, 8 giugno 1939, pp. 467-468. 155 simpatia, mutua comprensione, fiducia; ma, una volta raggiuntolo, non v’è arte, non calore, non tatto, non fascino di educatore che possa non applicare, più o meno consapevolmente, quasi fondendole e dissimulandole nell’immediatezza dell’azione sicura e del sentimento vivo, quelle norme che, rispondendo alla struttura e natura propria dello spirito e delle sue funzioni, garantiscono il raggiungimento dei fini nei quali si concreta lo sviluppo educativo dello spirito stesso. Ma qui le notazioni teoriche non contano. Conta la bellezza ch’è nell’ardore e nella sincerità di un maestro che sa spogliarsi dei suoi errori e accompagnare i suoi alunni a vedere, a scoprire, a creare, che 441 sa insomma destare energie e procurar loro la gioia della conquista . Si deve aggiungere che l’apertura verso il mondo reale e, in particolare il riconoscimento di talune esigenze politiche e sociali riconosciute come prioritarie ai fini della vita della Nazione, determinò in Socciarelli una crescente attenzione verso il tema della ruralizzazione e della lotta all’urbanesimo. Se all’inizio della sua esperienza di educatore la campagna era stata romanticamente intesa come un mondo quasi magico per i suoi tratti primitivi in cui era possibile fare la conoscenza con persone sì analfabete ma ricche di dignità e di cultura popolare, ora la contrapposizione con la città non era dettata solo da motivi filosofici e pedagogici ma da ragioni di tipo politico ed economico. Ciò avveniva in linea con le iniziative promosse a partire dalla seconda metà degli anni Venti dal Regime contro l’esodo dalle campagne e contestualmente al fiorire di una ricca pubblicistica che decantava le lodi della vita rurale e denunciava i mali e i vizi del vivere urbano. Le virtù della campagna e dei suoi abitanti erano allora, secondo Socciarelli, il culto del lavoro e l’amore della famiglia, due principi nobili da preservare contro la corruzione delle città, che si manifestava nei ritmi frenetici della vita quotidiana, nel rumore assordante delle macchine, nella violenza visiva dei manifesti pubblicitari che invadevano gli spazi pubblici442. 6. «Ritornare a Lombardo Radice». L’auspicio di Socciarelli per rifondare la scuola dell’Italia democratica Nel panorama della pedagogia italiana dell’immediato secondo dopoguerra, caratterizzato da un lato dall’apertura dimostrata dagli ambienti laici alle istanze attivistiche di John Deway provenienti da oltreoceano e, dall’altro, dall’interesse del mondo cattolico verso il personalismo di Stefanini e il pensiero di Maritain, il caso di Socciarelli è un esempio di come il cenacolo degli estimatori di Lombardo Radice non si fosse del tutto disperso, continuando il suo magistero a costituire un faro a cui ispirare la propria visione della scuola e dell’educazione ancora a distanza di qualche anno dalla sua morte443. In particolare alcuni temi – come il rapporto paritario tra bambino e maestro, l’abbattimento di ogni frontiera che li teneva separati, la valorizzazione dell’interiorità del fanciullo contro forme coercitive esterne – sembrarono di grande attualità nell’Italia che cercava di ricostruirsi dalle ceneri lasciate dal fascismo e dalla guerra. Emblematico 441 G. Calò, Mezzaselva, «I diritti della scuola», n. 15, 10 marzo 1940, pp. 226-227. Si vedano, ad esempio, i seguenti articoli: F. Socciarelli, Problemi nuovi, «Primato educativo», n. 2, 23 maggio 1936, pp. 128-137; Id., Per una letteratura rurale, «I diritti della scuola», n. 25, 11 aprile 1937, pp. 90-91. 443 Per un quadro sulla pedagogia italiana nel periodo post-bellico si rinvia a: G. Tassinari (a cura di), La pedagogia italiana nel secondo dopoguerra: atti del Convegno in onore di Lamberto Borghi; Università di Firenze, Facoltà di magistero, 8-9 ottobre 1986, Firenze, Le Monnier, 1987; R. Fornaca, La pedagogia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni, 1986; G. Chiosso, Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia (XIX e XX secolo), Brescia, La Scuola, 2001, pp. 167-236. 442 156 a questo proposito, perché espressione di un sentire che accomunò più uomini di scuola, fu l’articolo di un ispettore, Antonio Silveri, apparso il 15 novembre 1945 su «I diritti della scuola» e dal titolo Ricordando Lombardo Radice. Veniva così ricordato non solo per essere stato un «professore insigne per soda cultura e avvincente parola» e un «pedagogista di vasta risonanza non soltanto nazionale», ma anche per essere stato un «apostolo dell’educazione popolare» e, al contempo, per aver mostrato con la propria testimonianza di non piegare la scuola alla politica: «Nel suo profondo sentimento d’italianità – scrisse Silveri -, egli sognò una scuola e un’educazione nazionale, cioè nostra, aderente all’anima del nostro popolo, alle sue attitudini, alle sue tradizioni, alla sua religione e al suo genio. Nazionale, non nazionalista; tanto meno fascista». Del resto anche Socciarelli compì un percorso di distacco dal Regime, a cui aveva pur aderito ma di certo non ergendosi a cantore di esso come altri che pure continuarono a svolgere un ruolo di primo piano nelle vicende scolastiche italiane del dopoguerra. Il richiamo a Lombardo Radice, pertanto, assunse una duplice funzione: da un lato una forma di riconoscenza per il maestro verso cui si sentiva debitore e di rilancio di una visione pedagogica che non aveva esaurito la sua validità; dall’altro la celebrazione di un esempio di resistenza alle tendenze pervasive del fascismo nel campo dell’educazione. Socciarelli condensò questi pensieri in un lungo scritto in cui forniva un ritratto del pedagogista catanese, elaborato probabilmente per essere pubblicato, ipotesi a cui però non abbiamo trovato una conferma. In tale scritto, pervenutoci autografo, Socciarelli affermava: Gli educatori più sagaci ne compresero subito il significato e il valore. Non mancarono tuttavia chi ne tradì lo spirito e i politicanti che, non potendone penetrare l’intima essenza, si contentarono di fraintenderne tendenziosamente qualche minimo accessorio. Basterebbe ricordare, ad esempio, come fu interpretata l’introduzione degli esercizi sul dialetto: si disse (nientemeno!) che con ciò si volevano «-mantenere e accentuare le differenze regionali». Miseria di spirito: non si trattava che di un innocente mezzo didattico per tradurre nella lingua quella maggiore vivezza ed efficacia che i fanciulli (e non sempre soltanto i fanciulli) mettono nelle loro espressioni dialettali; si trattava, insomma, di un mezzo per conquistare meglio la lingua. Eppure, nonostante gli scogli contro i quali doveva urtare in quel tempo, quella riforma si resse; anzi si è retta sino ad oggi, sebbene, qua e là, mutilata, e contaminata di politica. Si è retta perché c’è dentro l’anima di un vero educatore. La quale riforma, naturalmente, per dare i suoi frutti, avrebbe avuto bisogno di un ambiente meno falso, di una vita meno superficiale; avrebbe voluto raccoglimento e serenità, perché voleva realizzare una scuola serena come l’animo dei fanciulli ai quali doveva servire. E non sarebbe davvero male riprenderla oggi nella sua forma originaria: l’esperienza che i maestri hanno fatto in quello spirito, libera ora dalle ingerenze politiche che ne hanno impedito la piena attuazione, potrebbe utilmente perfezionarsi e cavarne finalmente quei preziosi frutti che il riformatore pensava. Era gentiliano il Lombardo? Egli disse e scrisse che no. Era crociano? Forse più che gentiliano. L’indagine non sarebbe difficile, ma non importa. Come pedagogista, come educatore era lui; era Lombardo Radice, e la sua si potrebbe chiamare pedagogia del buon senso: corroborata di un sostanzioso substrato di pensiero, si poggia su solidamente, ma non vi si cristallizza. E la sua classica opera Lezioni di didattica e Ricordi Esperienza magistrale sarà sempre fondamentale per la formazione del maestro, quali che siano i presupposti teorici, politici e morali della sua scuola. È pedagogia viva, attiva, pratica; espressione di una grande anima; pedagogia che ha avuto ed ha risonanza e influenza non solo in Europa444. Com’è noto, l’auspicio di Socciarelli, condiviso da altri estimatori del pensiero di Lombardo Radice, era destinato a trovare una fredda accoglienza nel panorama degli studi pedagogici. Dal canto suo l’ex maestro di Mezzaselva continuerà ancora per qualche anno a 444 Il testo autografo di Socciarelli è conservato in AGLRF, sez. «Lucio Lombardo Radice», fasc. 1 «Cronache di una vita», I subfasc. «Materiale per “Cronache di una vita”», I7 «Cronache di una vita – L’antifascismo di Giuseppe Lombardo Radice». 157 lavorare in quel solco segnato dal maestro catanese. Ne saranno prove evidenti almeno due suoi libri usciti nel dopoguerra: nel 1947 veniva, infatti, pubblicato Ragazzi, la cui stesura era iniziata già nel 1931 con l’approvazione di Lombardo Radice che aveva letto una prima parte, opera che si configurava come un compendio di ritratti di alcuni suoi allievi di Mezzaselva445; nel 1950 usciva, infine, La famiglia Rosini, libro di lettura in cui dominava ancora una visione positiva della vita in campagna, attraverso le vicende della famiglia Rosini, che ambientava nella fattoria detta della «Giovacchina», in cui visse la sua infanzia. Del resto era un’Italia ancora agricola quella in cui scriveva Socciarelli, tanto che nelle riviste e nel dibattito scientifico del tempo troveranno ancora spazio discussioni sul nuovo ordinamento da dare alle scuole rurali, benché giuridicamente non più esistenti dopo la fine della guerra, e sul problema della scuole pluriclassi. Testimonianza ne era, ad esempio, il convegno sulla scuola unica pluriclasse organizzato a Parma tra l’agosto e il settembre 1948, al quale parteciparono il ministro della Pubblica Istruzione, Guido Gonella, e personalità tra le quali Francesco Bettini, Giorgio Gabrielli, Carmelo Cottone e Attilio Menapace: partecipò con una relazione sul problema delle pluriclassi nel Mezzogiorno e nelle isole anche Socciarelli e fu una delle sue ultime occasioni pubbliche: nel 1949 intervenne al convegno del Paedagogium di Assisi, l’anno successivo ottenne il primo «Premio al merito educativo» conferitogli dal medesimo cenacolo culturale. Il 24 novembre 1951 si spegneva a Roma, appena in tempo di vedere nel letto d’ospedale una copia della terza edizione di Scuola e vita a Mezzaselva. 7. Conclusioni Come si potrebbe valutare l’opera di educatore svolta da Socciarelli nell’arco della sua vita e il contributo da lui fornito al rinnovamento della didattica? Si deve innanzitutto dire che i giudizi sul suo operato espressi dopo la sua morte furono tutti largamente positivi. Anche Alessandro Marcucci, che, come abbiamo visto, aveva avuto forti dissidi con il maestro di Mezzaselva, fornì dell’estinto un ricordo positivo in un articolo uscito pochi giorni dopo la sua scomparsa, mettendone in luce la dedizione nell’ufficio di educatore svolto tra gli umili contadinelli dell’Agro Romano. Eppure Marcucci non tralasciò di mettere in evidenza la formazione sui generis di Socciarelli, l’essere stato un autodidatta e quindi la sua mancanza di una solida cultura filosofica e pedagogica senza la quale non era possibile, a suo giudizio, entrare a far parte di una sorta di Pantheon dei grandi educatori. Scrisse a questo proposito Marcucci: Ecco dunque il Socciarelli, auto-discepolo, fatto maestro; maestro irregolare, tutt’altro che ferrato nel possesso di sistemi filosofici e principii pedagogici accreditati, antichi e moderni, nostrani e ultramontani, senza del quale non si entra nella famiglia degli educatori ufficiali, ma armato di buona volontà, di senso di fraternità umana e fornito di quel tanto di cultura generica appresa da sé e bene assimilata, e di molto buon senso; ottimo viatico per conquiste future e risultati sicuri. È così che l’auto-discepolo diviene maestro di scuola come desiderava 446. 445 Lo si apprende da una lettera scrittagli dal pedagogista siciliano nel marzo 1931: «Questi profili di scolari saranno il tuo capolavoro […] Queste tue pagine nuove – non inorgoglire! – sono belle come le più belle pagine del Lighart. Dammene altre, molte. Rialzeremo le sorti di Educazione Nazionale e faremmo del bene, con esso» (AFS, Lettera di Lombardo Radice a Socciarelli, 6 marzo 1931). 446 A. Marcucci, In memoria di Felice Socciarelli, 8 gennaio 1952, n. 7, p. 136. 158 Un giudizio per certi versi tranciante, quello di Marcucci, alimentato di certo dalla querelle personale che lo aveva opposto al maestro di Mezzaselva, ma a ben vedere fondato, almeno in parte, su una base di verità. Ci riferiamo al fatto che egli ebbe una cultura pedagogica meno vasta rispetto ad altri uomini di scuola, ma bisogna tener presente che Socciarelli, al pari di Maria Maltoni o di Maria Boschetti Alberti, fu innanzitutto un maestro, più attento ai dati empirici dell’educazione, che alle teorie pedagogiche, pur recando nella propria opera la traccia del clima culturale del tempo. Questa era la lettura che dell’opera di Socciarelli venne data dopo la sua morte in modo meno polemico da altri suoi contemporanei che lo ricordarono come Gian Cesare Pico, Francesco Bettini, Gherardo Ugolini e Giuseppe Spanu447. Ed è questo, anche secondo noi, il giudizio più sereno che si potrebbe dare sull’opera di educatore e di uomo appassionato ai problemi della didattica e dell’elevazione morale dei giovani e, in particolare, dei contadini, di Felice Socciarelli. 447 G. Ugolini, Felice Socciarelli, «Scuola italiana moderna», n. 5, 15 dicembre 1951, p. 3; G.C. Pico, Un autodidatta, «Scuola italiana moderna», n. 8, 15 febbraio 1952, p. 6. 159 Capitolo quarto «Un’esperienza di istruzione rurale integrale»: David Levi Morenos e le Colonie dei Giovani Lavoratori 1. La Grande Guerra, i bambini profughi, gli orfani e le colonie agricole: aspetti per una storia dell’educazione Solo recentemente la storiografia ha posto al centro del proprio interesse lo studio delle conseguenze della disfatta di Caporetto sulla popolazione civile, in primo luogo degli abitanti delle zone invase dall’esercito austriaco e in secondo luogo degli italiani che a vario titolo si trovarono di fronte al problema degli sfollati. Il recente studio di Andrea Ceschin448 sui profughi veneti e friulani che si riversarono sulla penisola ha costituito un punto fermo in questo senso. Analizzato da vari punti di vista – forme e tempi dell’esodo, modalità dello sfollamento, ricerca e creazione di alloggi, ricerca di soluzioni ai problemi sanitari, alimentari, lavorativi e di convivenza, effetti della condizione di profugo sull’immaginario individuale – il problema dell’esodo conseguente alla rotta di Caporetto offre un’abbondante materia di studio per lo storico che può ricostruire gli effetti della guerra totale sulle condizioni di vita della popolazione e dei bambini, in un’ottica di storia sociale. Ma accanto a questioni di questo tipo, l’esodo dei bambini sfollati, a cui si aggiunge un’altra categoria di bambini colpiti dalla guerra, gli orfani, fornisce materiale di studio anche alla storia dell’educazione. Vi sono, infatti, problemi di fondo a cui finora si è guardato in una prospettiva di storia dell’assistenza all’infanzia nel quadro più ampio dell’assistenza fornita agli sfollati, ma che tuttavia attendono di essere opportunamente indagati in un’ottica storicoeducativa449. Si tratta, ad esempio, di ricostruire i dibattiti e gli sforzi che accompagnarono la nascita di istituzioni di assistenza ai fanciulli, di disegnare i profili biografici degli educatori che si prodigarono in questo senso, di indagare le esperienze scolastiche dei profughi, di studiare le caratteristiche delle istituzioni educative in questione individuando le continuità con le tradizionali strutture di assistenza all’infanzia derelitta e abbandonata e, di converso, i punti di innovazione a livello organizzativo e didattico, valutare il peso specifico occupato in ogni singolo caso dall’istruzione di base, dalla formazione professionale o dall’educazione nazionale. Parliamo, cioè, di terreni poco esplorati, come del resto poco conosciute erano fino a non troppo tempo fa le condizioni della popolazione civile durante la guerra e dopo Caporetto450. 448 D. Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2006. 449 Sull’opera di assistenza a bambini orfani e bambini profughi, cenni in A. Fava, Assistenza e propaganda nel regime di guerra (1915-1918), in M. Isnenghi (a cura di), Operai e contadini nella Grande Guerra, Bologna, Cappelli, 1982; D. Ceschin, Le condizioni delle donne e dei bambini dopo Caporetto, «Dep. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», 1, 2004. 450 Sono note le attività di assistenza svolte dall’Opera Bonomelli e dall’Umanitaria. Quest’ultima si incaricò di compiere delle ispezioni presso le colonie e i Comuni dove erano alloggiati la maggior parte dei profughi. 160 In quest’ottica, un posto di primo piano spetta alle colonie agricole. Nate nell’Ottocento con il precipuo scopo di fornire l’addestramento pratico ai contadini secondo le conoscenze agronomiche più avanzate, durante la Grande Guerra alle colonie agricole vengono affidati compiti diversi451. Non solo bisogna addestrare tecnicamente i giovani lavoratori della terra ma occorre anche educare i giovani e gli adolescenti agli ideali del patriottismo e dell’ubbidienza. Non c’è, dunque, soltanto la formazione professionale, ma anche l’educazione nazionale, a cui si accompagna l’istruzione elementare di base, tra gli obiettivi dichiarati per cui le colonie agricole nascono. Fin dai primi mesi dell’ingresso dell’Italia in guerra viene lanciato un progetto ambizioso che ha come obiettivo la fondazione di numerose colonie agricole per rispondere, in primo luogo, al problema della cura degli orfani dei contadini452. In un secondo momento, conseguente alla ritirata di Caporetto dell’ottobre 1917, le colonie, o almeno una parte di esse, si faranno carico di fornire assistenza ai fanciulli profughi del Friuli e del Veneto. Passata la fase emergenziale rappresentata da Caporetto, seguita dalla ripartenza verso le loro terre d’origine dei profughi bambini, le colonie tornano ad ospitare gli orfani di guerra. In questo vasto spazio di azione si incrociano varie finalità che vengono perseguite dai soggetti che si fanno promotori del sorgere di tali istituzioni: spinte filantropiche e altruistiche, controllo sociale delle masse contadine considerate le più bisognose di tutela, reinserimento nel contesto agricolo dei fanciulli per sottrarli al rischio dell’urbanesimo, educazione patriotticanazionale, specializzazione tecnica degli agricoltori, innovazione didattica e sperimentazione di nuovi indirizzi e metodi educativi. A promuovere il vasto progetto di costituzione delle colonie, a partire dalla fine del 1915, è l’Opera Nazionale per gli orfani dei contadini, con sede a Roma. Uno dei protagonisti di questa stagione di attivismo in favore della nascita delle colonie è Mario Casalini, che all’epoca ricopriva la carica di direttore dell’Istituto nazionale per la mutualità agricola. In un opuscolo in cui tratteggiava le caratteristiche che a suo avviso dovevano avere tali istituzioni – disponibilità di terreni per la pratica agricola, frequentazione delle scuole elementari urbane per non allontanare i bambini dai loro coetanei, istruzione professionale basata su un metodo oggettivo e dimostrativo – Casalini auspicava per gli orfani un futuro da piccoli proprietari. In quest’ottica la permanenza nelle colonie avrebbe «fatto dell’orfano quel piccolo proprietario che noi vogliamo per la fortuna dell’agricoltura nazionale: amante della sua casa e del suo lavoro, capace di ricavare dalla terra il 451 Sulle colonie agricole nell’Ottocento cfr. G. Fumi, Le università dei contadini: le “colonie agricole” in Italia tra metà Ottocento e i primi anni del Novecento, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», A. XXXI, settembre-dicembre 1996, pp. 334-396; A. Salini, Educare al lavoro: l’Istituto Artigianelli di Brescia e la Colonia agricola di Remedello Sopra tra ’800 e o ’900, Milano, Franco Angeli, 2005, in particolare le pp. 37-40; G. Farnedi, La Colonia agricola di San Pietro a Perugia (1862-1890), «Rivista di storia dell’agricoltura», LII, 1 (2012), pp. 55-74. 452 La prima Colonia agricola, diretta emanazione dell’Opera Nazionale per gli Orfani di Guerra, fu quella detta «del Foresto», sorta nella provincia di Mantova nel maggio 1916 ospitando i primi 10 orfani. Oltre ad un podere di 37 ettari, vi era una scuola elementare annessa che, secondo i dettami del Provveditore, svolgeva un programma intonato alla vita campestre, ed una modesta biblioteca. Cfr. A. Dall’Aglio, La Ia Colonia agricola in funzione, «Gli orfani dei contadini», 15 gennaio 1917, pp. 13-15. 161 massimo di reddito, illuminato dalla fede nella cooperazione e nella mutualità che danno alla piccola proprietà rurale il massimo di forza e di utile sociale»453. L’opera di Casalini portò anche nella creazione di una rivista, «Gli orfani dei contadini», di cui fu direttore, e che ebbe tra i suoi collaboratori personalità come Luigi Luzzatti e il deputato radicale tifernate Ugo Patrizi, due personaggi che ritroveremo impegnati, a vario titolo, nella fondazione della Colonia Agricola di Città di Castello, che sarà la prima Colonia dei Giovani Lavoratori creata da David Levi Morenos454. 2. David Levi Morenos: naturalista ed educatore Alla vigilia della rotta di Caporetto dell’ottobre 1917 e dell’esodo dei profughi dalle zone occupate, David Levi Morenos era già una personalità di un certo rilievo nel panorama educativo e culturale italiano, nonostante che la sua opera non traesse origine da studi di carattere pedagogico e che la sua azione non fosse nota al vasto pubblico rappresentato dai maestri elementari455. Nato a Venezia nel 1863, da una famiglia di origine ispano-ebraica dedita al commercio, egli aveva compiuto i suoi studi in campo scientifico, laureandosi in Scienze Naturali. Muovendo da tale retroterra culturale, che lo aveva portato a studiare i problemi del mare Adriatico e della fauna ittica, nel corso del tempo egli aveva esteso le sue analisi a tutto l’universo sociale della comunità della laguna veneta, arrivando ad inglobare nelle sue riflessioni questioni di carattere eminentemente sociale legate al mare, come il problema, assai diffuso tra i ceti popolari, dell’alcolismo e quello dell’istruzione popolare per gli orfani dei marinai. Fortemente impregnato di positivismo, Levi Morenos si era così posto, fin dalla fine del secolo, il problema di come educare l’infanzia derelitta e abbandonata presente nelle povere coste dell’alto Adriatico fornendo ad essa l’istruzione elementare, un corredo di nozioni pratiche al lavoro di marinaio e, soprattutto, volendo fare degli orfanelli degli «uomini buoni e liberi»456. Ad accrescere in lui questo orientamento filosofico, che del resto permeava fortemente la cultura e la pedagogia di fine Ottocento, era un forte senso umanitario, analogo a quello che generò alcune tra le più importanti esperienze filantropiche ed educative di inizio Novecento, come le scuole 453 M. Casalini, L’assistenza agli orfani dei contadini morti in guerra, Torino, Tip. Sociale, 1915. Lo stesso opuscolo presentava in allegato un modello di statuto per la fondazione di Colonie Agricole. 454 L’esperienza delle Colonie dei Giovani Lavoratori è pressoché sconosciuta se si eccettuano brevi cenni in: Ceschin, Le condizioni delle donne e dei bambini, cit.; A. Mencarelli, Inquadrati e fedeli: educazione e fascismo in Umbria nei documenti scolastici, Napoli, Esi, 1996, pp. 12-16. 455 La bibliografia su Levi Morenos è piuttosto scarna. Un breve profilo biografico, incentrato in gran parte sulla figura di studioso del mare, dei problemi della pesca e della formazione professionale dei marinai, è tracciato in un articolo apparso nel 1993 in occasione dell’anniversario della nascita: F. Ferrari, David Levi Morenos a 130 anni dalla nascita, «Laguna», III, 16 (1993), pp. 28-31. Una sommaria sintesi dell’operato del professore veneziano, non esente da intenti celebrativi, si trova in un libro pubblicato quando egli era ancora in vita: Tutta una vita: David Levi Morenos, il buon seminatore, Roma, Castaldi, 1923. Il libro fu ripubblicato in edizione accresciuta nel 1937, dopo la sua morte avvenuta nel 1933. 456 FIAG, Archivio Sibilla Aleramo (d’ora in avanti ASA), Corrispondenza, fasc. 313, n. 157, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 16 ottobre 1908. 162 dell’Agro Romano, sorte nella campagna romana per iniziativa di un gruppo di intellettuali, tra i quali Giovanni Cena, Anna Celli e Sibilla Aleramo, di cui peraltro fu amico457. Ciò lo aveva portato, fin dal 1894, a fondare a Venezia la Scuola Libera Popolare, con l’obiettivo dichiarato di fornire ai ceti popolari l’istruzione e di concorrere così alla crescita di uno spirito di fratellanza che superasse le barriere dei partiti politici e delle classi sociali, incarnando un sentire presente nei settori più illuminati e progressisti della borghesia veneziana, di cui Levi Morenos fu un’esponente di spicco. Compito della Scuola Libera Popolare era quello di promuovere la concordia tra le classi sociali attraverso conferenze periodiche su argomenti di cultura generale, gite e convegni458. Per meglio raggiungere un così ambizioso obiettivo, Levi Morenos fondò negli stessi anni a Venezia l’Unione Morale, un’associazione che si dotò anche di un giornale, intitolato «Cronache del rinascimento etico-sociale», e con la quale egli intendeva andare oltre i limiti delle tradizionali associazioni ottocentesche. Scriveva a questo proposito: tutte le altre associazioni riuniscono ed affratellano per la legittima tutela dei propri interessi morali e materiali una data classe di lavoratori, siano esse leghe di insegnanti o leghe di resistenza, sieno società di mutuo soccorso fra operai o società di negozianti. Ma la nostra Scuola Libera Popolare, essa sola per l’indole e per la finalità sua, non soltanto accoglie, ma cerca anzi di richiamare persone di ogni ceto per offrire loro un terreno sul quale trovarsi uniti, concordi, senza che vengano a turbare e dividere gli interessi di classe e le passioni di parte 459. Nemmeno la politica lo lasciò indifferente. Sebbene non prese mai parte attivamente a nessun partito politico, tuttavia i primi anni del secolo lo videro su posizioni democratico-liberali. In uno dei punti di snodo della storia italiana quale è stata la guerra di Libia del 1911-12, Levi Morenos ugualmente rimase su tali posizioni, come testimonia una lettera da lui scritta a Salvemini nel dicembre 1911, in cui esprimeva entusiasmo per aver letto il programma de «L’Unità», inviatogli da Giovanni Cena: Il vostro programma mi ha commosso poiché in esso veggo riaccendersi quella favilla che si era accesa pure nell’animo mio 18 anni or sono, quando nelle sublimi ingenuità d’una tarda giovinezza, lavoravo per promuovere in Italia delle manifestazioni concrete di quel principio che chiamai Unione Morale, che sentivo e sento nell’animo mio 457 È interessante notare come ad infoltire la schiera di filantropi, di impronta laica e riformista, che a cavallo dei due secoli si impegnarono in favore del miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne e segnatamente dell’istruzione dei giovani, fossero non poche personalità di origine ebraica che, grazie anche alle notevoli disponibilità economiche di cui potevano disporre, organizzarono e promossero la nascita e lo sviluppo di iniziative volte alla redenzione umana dei ceti popolari. Oltre a Levi Morenos, si potrebbero citare i casi di Prospero Moisè Loria, ebreo di origine mantovana che per disposizione testamentaria lasciò un vasto patrimonio al Comune di Milano che fu alla base della fondazione della Società Umanitaria, oppure ad Alice e Leopoldo Franchetti, fondatori nel 1901 e nel 1902 delle scuole rurali modello della Montesca e di Rovigliano a Città di Castello, in Umbria; da segnalare anche il cugino di Leopoldo Franchetti, il barone Raimondo che già nel 1876 aveva fondato a Roverbella, in provincia di Mantova, un asilo infantile gestito con sistema Fröbel. Sui Franchetti e la loro origine ebraica: M. Scardozzi, Itinerari dell’integrazione: una grande famiglia ebrea tra la fine del Settecento e il primo Novecento, in A. Tacchini, P. Pezzini (a cura di), Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, Città di Castello, Petruzzi, 2002, pp. 271-320. 458 Su questi aspetti si veda: D. Levi Morenos, La Scuola Libera Popolare nel suo ottavo anno di vita, Venezia, Tip. Callegari e Salvagno, 1902. 459 Ivi, p. 23. 163 come la più alta espressione d’una religione che non ha formule, né dogmi, non chiese, né sacerdoti, ma ha fedeli seguaci dispersi nel mondo in ogni classe e partito 460. Sopraggiunta la Grande Guerra si posizionò su una linea favorevole all’intervento armato italiano contro l’Austria. Inoltre guardò con particolare attenzione ai problemi culturali e politici creati dalla coesistenza tra italiani e jugoslavi nell’area dell’Adriatico, in particolare tra i marinai delle due nazioni. Su questo tema pubblicò nel 1918 un articolo apparso in un volume intitolato Italia e Jugoslavia, che riunì una serie di articoli di vari intellettuali tra i quali Gaetano Salvemini e Giuseppe Prezzolini, edito nella collana di volumi de «La Giovine Europa», curata da Umberto Zanotti Bianco. 3. Le scuole per gli orfani dei marinai della laguna veneziana I primi passi compiuti in campo educativo da Levi Morenos risalivano agli anni Novanta dell’Ottocento. Di pochi anni successivi alla Scuola Libera Popolare da lui fondata nel 1894 e la cui opera si inseriva nel quadro di un interventismo in favore delle classi popolari ancora non ben definito, si collocava l’esperienza della Nave Asilo «Scilla», che Levi Morenos fondò nel 1904 per accogliere gli orfani dei marinai della laguna veneta. È in tale cornice che il nome del professore cominciò ad affermarsi oltre i confini della città di Venezia e ad essere conosciuto in alcuni circuiti intellettuali italiani. Si tratta di una tappa di primaria importanza nella biografia di Levi Morenos, fondamentale anche per capire la fondazione delle future Colonie dei Giovani Lavoratori. Il progetto, che si ispirava al modello inglese delle training ship, vecchie navi trasformate in convitti per il risanamento dell’infanzia derelitta, e che in Italia aveva ispirato negli anni Ottanta del dell’Ottocento l’opera del ligure Nicolò Garaventa461, godeva della collaborazione dell’allora ministro Luigi Luzzatti, veneziano e suo personale amico, grazie al quale ottenne dallo Stato una vecchia nave dismessa, la «Scilla», che andò ad ospitare la prima Nave Asilo fondata da Levi Morenos. Furono questi anni di febbrile lavoro per il professore veneziano che ebbe al suo fianco una valida collaboratrice, la moglie Elvira. Sfruttando una rete di amicizie con intellettuali anche di primo ordine, tra i quali, la scrittrice Sibilla Aleramo, i poeti Giovanni Cena e Vincenzo Cardarelli, l’esperienza della Nave Asilo acquistò fin da subito notorietà. In una lettera in cui chiedeva la sua collaborazione alla Aleramo così scriveva Elvira: Poi apparecchiatevi a renderci, voi e Cena, un altro favore. […] Dovete parlare dell’asilo a tutte le celebrità artistiche, letterarie e bancarie che vi capitano alla portata. Dovete insomma fare della reclame all’Asilo e farne quanto più potete. Poi dovete – non ammettiamo rifiuto – dovete dunque assolutamente aiutarci per la compilazione di un “numero unico” I figli del mare che metteremo in vendita a favore dell’Asilo. Perciò aspettiamo da voi due brevi 460 ISRT, Archivio «Gaetano Salvemini», Corrispondenza, Lettera di David Levi Morenos a Gaetano Salvemini, 21 dicembre 1911. 461 Sulla Nave Scuola Garaventa si rinvia a: C. Peirano, E. Garaventa Cazzullo, La nave scuola Garaventa: una scuola di vita, Genova, De Ferrari, 2004. 164 scritti, un pensiero, un verso etc., quello insomma che a voi ed a Cena tornerà più comodo e che sia inserito in un numero unico che avrà molti collaboratori e poco spazio disponibile 462. Il prezioso carteggio di David e di Elvira con la Aleramo, che copre un arco cronologico che si estende dal 1904 fino al 1913, ci restituisce uno spaccato dei primi anni dell’opera di educatore di Levi Morenos. Ne viene fuori l’immagine di un uomo ispirato da forti motivazioni umanitarie, impegnato in molteplici occupazioni che lo costringono a continui viaggi tra Roma e Venezia, in certi casi inviso alla burocrazia ministeriale per le sue idee espresse con franchezza463. Dalle lettere emerge anche che il legame con la Aleramo e con il mondo intellettuale che aveva originato l’esperienza delle Scuole per contadini dell’Agro Romano, fu essenziale per Levi Morenos, come risulta da una sua lettera del dicembre 1908: Ebbi – con molto ritardo forse dopo due mesi dell’invio – la commovente relazione delle vostre scuole […] Avrei voluto e dovuto scrivervi subito e ringraziarvi e direi che la lettura delle parti della relazione mi commosse, e che più volte il mio pensiero vi seguì nella campagna romana e s’intusiasma nell’ammirare l’opera buona vostra e del Cena e dei bravi maestri che danno la parte migliore del loro animo a questa grande propaganda di Umanità, per gli umili abbandonati. Mi ripropongo di fare una lezioncina ai miei figliuoli della Scilla per fare loro conoscere i vostri studenti della Campagna Romana e suscitare un senso di fratellanza per gli sconosciuti fratelli. Poiché farete una conferenza a Milano sulla vita nella Campagna Romana (Non sarebbe il caso di farla anche a Venezia?) dovete avere delle fotografie illustranti le Scuole dell’Agro. Potreste farmene avere qualcuna464? I primi anni del secolo videro Levi Morenos perseguire un obiettivo educativo volto a fare dei bambini abbandonati e deviati degli «uomini buoni e liberi», ispirando in loro bontà e altruismo come avrebbe fatto un «padre spirituale» posto a capo di una famiglia allargata. Del resto, la medesima spinta umanitaria si ritrova nel soccorso ai bambini colpiti dal famoso terremoto di Messina del 1908, in occasione del quale anche il professore veneziano, prestò la sua opera nella ricerca di bambini bisognosi, alcuni dei quali furono da lui condotti a Venezia e ricoverati nella «Scilla»465. 462 FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 303, n. 17, Lettera di Elvira Levi Morenos a Sibilla Aleramo, s.d. [1904-1906]. 463 In una lettera alla Aleramo scriveva: «Vi sono delle difficoltà “finanziarie” per la mia venuta a Roma in dicembre. Il ministero dell’Agricoltura mi ha mandato via dalla Comm.[issio]ne Consultiva per la Pesca. La colpa è mia; ho stampato […] verità scottanti e ciò dispiacque all’alta burocrazia che mi diede il ben servito. Pace a loro; ma intanto io privo della famosa diaria, non potrò venire a Roma colla mia Elvira, anco se dovessi recarmi costà per altri incarichi» (IFG, ASA, Corrispondenza, fasc. 313, n. 157, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 16 ottobre 1908); In un’altra lettera del 1912 scriveva: «Da sei mesi sono al Ministero della Marina. La mia Elvira rimase sempre a Roma. Io tra Venezia, Roma e Napoli. Lavoro per la nuova NaveAsilo “Caracciolo”. Parto domani; la mia vita è quasi tutta in ferrovia. Rimarrò a Roma un paio di giorni per salutare la mia Elvira e poi andrò a Venezia» (FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 352, n. 225, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 9 settembre 1912). 464 FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 313, n. 157, Lettera di David Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 16 ottobre 1908. 465 L’episodio viene narrato in una lettera spedita alla Aleramo da Elvira: «Davide ritornò a Roma martedì scorso dopo dodici giorni di soggiorno a Reggio e Messina. Quando egli fu giunto a Reggio non vi trovò più gli orfani ch’egli era andato a prendere. Ad ogni modo egli riuscì a fare un po’ di bene laggiù e ciò lo ha ricompensato del disagio materiale sofferto. Oggi il Patronato deve farci la consegna ufficiale di 7 orfani attualmente ricoverati a Porto d’Anzio. Se tutto 165 A questa, poco dopo, nel 1912, si aggiunse una seconda Nave Asilo, la «Caracciolo» di Napoli, destinata ad accogliere l’infanzia derelitta dell’area napoletana. A fondarla fu di nuovo Levi Morenos, il quale però ne seguì l’attività solo nel biennio 1913-1914466. L’interesse del professore veneziano per i temi dell’istruzione e della lotta all’analfabetismo, sviluppato negli anni che precedono l’esperienza delle Colonie dei Giovani Lavoratori, è infine testimoniato da altre due circostanze: da un lato, la partecipazione di Levi Morenos al I° Convegno Magistrale per la lotta contro l’alcolismo, che si tenne nel settembre 1909 a Venezia467; dall’altro lato, la partecipazione del professore al Congresso per l’Educazione Popolare svoltosi nel dicembre 1912 a Roma e che vide l’approvazione di un ordine del giorno, concordato tra gli altri da Giovanni Cena, Angelo Cabrini, Alessandro Marcucci, Bernardo Attolico e dallo stesso Levi Morenos, con cui si prendeva atto dell’utilità delle scuole per i contadini dell’Agro Romano e si chiedeva al governo di favorire la diffusione di «scuole mobili a carattere temporaneo»468. 4. I profughi, gli orfani e la guerra: nascono le tre Colonie Il dramma dei profughi in fuga, che tanto colpì l’opinione pubblica italiana, non poteva passare inosservato ad una personalità come Levi Morenos. Ad accrescere in lui tale sensibilità era il fatto di assistere al dolore che aveva colpito tanti suoi corregionali costretti a vivere il disagio provocato dalla condizione del profugato. Ricordando a distanza di alcuni anni quei frangenti così drammatici, così il professore veneziano spiegava il senso dell’iniziativa che si apprestava a compiere: Molti fanciulli restarono nelle città. E il mio pensiero si fissò su di loro e sulle conseguenze che avrebbe potuto determinare questo improvviso inurbarsi di tanta infanzia rurale. Pensai: «Per gli adulti che hanno già una mentalità precostituita solidamente, l’improvviso mutamento non porterà effetti troppo sensibili. Ma per i fanciulli? La loro fibra fisica e morale è ancora troppo tenera, per non correre il grave rischio di ricevere dall’ambiente nuovo e pericoloso un’impronta e una forma che potranno decisivamente influire più tardi sul loro orientamento morale e professionale». E conclusi: «Non bisogna che i piccoli rurali restino nelle città. La vita negli ospizi, negli asili, nelle scuole cittadine, finirà per dare ad essi una mentalità urbana e non eviterà successivi sbandamenti e pericolose devianze»469. procede bene noi partiremo domani sera con la piccola carovana» (FIAG, ASA, Corrispondenza, fasc. 317, n. 53, Lettera di Elvira Levi Morenos a Sibilla Aleramo, 13 febbraio 1909). 466 Su questa realtà si veda A. Mussari, M.A. Selvaggio (a cura di), Da scugnizzi a marinaretti. L’esperienza della Nave Asilo “Caracciolo” (1913-1928). Mostra fotodocumentaria, Napoli, Edizioni Scientifiche e Artistiche, 2010. 467 La relazione tenuta da Levi Morenos fu pubblicata con il titolo, L’opera del maestro nella propaganda contro l'alcoolismo: relazione presentata al 1° convegno magistrale per la lotta contro l'alcolismo, Venezia, Off. grafiche Callegari, 1910. 468 B. Attolico, Per un nuovo tipo di scuola per gli adulti analfabeti, «I diritti della scuola», n. 28, 20 aprile 1913, pp. 205-206. 469 D. Levi Morenos, Per una esperienza nazionale di educazione rurale integrale, «Le Assicurazioni Sociali», III (1927), N. 4, pp. 17-18. 166 Si ponevano, in questo modo, le basi per la nascita delle colonie. Il 14 gennaio 1918 veniva fondata a Roma la Società Anonima «Colonie dei Giovani Lavoratori» che iniziava subito il suo lavoro contando sull’appoggio di svariati uomini politici, tra cui quello di Luigi Luzzatti, nominato poco prima Alto Commissario per i profughi, che tornava ad aiutare l’amico Levi Morenos a distanza di poco più di un decennio dalla fondazione della «Scilla»470. Venuto a conoscenza delle opportunità fornite dalla realtà umbra, il professore veneziano decise di concentrare i propri sforzi proprio in quella regione, in particolar modo a Città di Castello, dove, sin dal gennaio 1916, Mario Casalini aveva tentato di istituire una colonia agricola per gli orfani dei contadini presso l’ex Pellagrosario. In realtà la proposta aveva incontrato notevoli ostacoli, posti soprattutto da parte di alcuni proprietari terrieri, come il barone Leopoldo Franchetti, fondatore delle famose scuole della Montesca e di Rovigliano, e del senatore Zeffirino Faina, zio di Eugenio Faina, il fondatore di scuole rurali post-elementari per i contadini. Nel motivare la sua posizione, il barone Franchetti sostenne «come non fosse cosa utile né ai fini generali dell’educazione, né allo scopo precipuo della formazione di bravi agricoltori, il togliere gli orfani dalla famiglia e dal contatto immediato dei campi, il che avrebbe fatto di essi degli spostati, cioè né bravi contadini, né agenti di campagna sufficientemente istruiti»471. La rieducazione degli orfani, insomma, doveva essere fatta in primo luogo nelle famiglie, sostenuti da appositi «comitati di assistenza», e solo in ultima istanza da «Case-ricovero». Fu proprio questa posizione, in cui non è difficile intravedere le preoccupazioni di tipo economico-sociale dei grandi proprietari terrieri, timorosi della sottrazione di braccia al lavoro nei campi già colpito dall’assenza degli adulti partiti per la guerra, a frenare il progetto di costituire a Città di Castello la colonia agricola. Casalini cercò di superare gli ostacoli sostenendo come nelle colonie si dovessero accogliere solo orfani privi di famiglia; non fu irrilevante nemmeno il contributo del deputato radicale tifernate Ugo Patrizi, il quale, come presidente dell’ex Pellagrosario di Città di Castello, decise di mettere a disposizione i locali che si erano liberati grazie alla sostanziale sconfitta della malattia che tanto aveva dilagato nei primissimi anni del secolo nell’Alta Umbria. Ma nonostante questi sforzi a distanza di due anni la colonia agricola non aveva ancora visto la luce per altri motivi, di ordine politico, che si erano presentati. La situazione si sbloccò a seguito della rotta di Caporetto, quando l’esigenza impellente di trovare dei locali per ricoverare i profughi costrinse i soggetti coinvolti a mettere a disposizione l’ex Pellagrosario. In questa situazione si venne a trovare Levi Morenos, il quale prese in concessione per 9 anni l’edificio in questione, che era affiancato da un vasto terreno agricolo e che disponeva già dei letti e dell’arredamento sufficienti ad accogliere fino a cento bambini. Nel febbraio di quell’anno il professore era impegnato a visitare alcune città umbre per selezionare i bambini da accogliere nella nuova struttura. In un telegramma inviato da Foligno il 6 febbraio così informava Luzzatti: 470 Levi Morenos conobbe Luzzatti negli Ottanta dell’Ottocento, quando appena laureatosi gli presentò, «timoroso», il suo primo saggio sulla Flora Algologica. Si veda a questo proposito la lettera di Levi Morenos a Luzzatti in cui rammenta questo episodio, conservata in IVSLA, Archivio «Luigi Luzzatti», Corrispondenza, b. 49, Lettera di David Levi Morenos a Luigi Luzzatti, 9 ottobre 1925. 471 Per gli orfani dei contadini morti in guerra, «Il dovere: bollettino settimanale del comitato per l’organizzazione civile di Città di Castello», 23 aprile 1916. 167 Sto visitando Foligno, Nocera, Gubbio e Assisi per dare preferenza accoglimento colonia ai fanciulli in condizioni più miserande. Lunedì spero iniziare attività colonia con un primo gruppo minorenni profughi 472. In effetti la Colonia, che prese il nome di «Paterna Domus», iniziava le sue attività nel febbraio del 1918, accogliendo tre gruppi di bambini: gli orfani già accolti nella «Casa Paterna» della provincia di Venezia, che aveva sede a San Donà di Piave, e che era stata evacuata dopo l’invasione austriaca; alcuni orfani di contadini delle terre invase che erano stati trasferiti nel sud Italia; alcuni minorenni profughi delle province di Belluno e di Udine, che erano stati affidati alle cure dell’Umanitaria di Milano473. Tutti avevano un’età compresa fra i 9 ed i 14 anni474. Nella colonia veniva impartita l’istruzione elementare fino alla sesta classe, l’insegnamento professionale a tipo agricolo ed era previsto l’esercizio del lavoro manuale. Anche il personale necessario alle cure e all’istruzione dei bambini fu scelto tra i profughi: il direttore agricolo proveniva da una scuola pratica di agricoltura di San Donà di Piave e due maestri erano alle dipendenze del Comando Supremo nei territori che l’esercito aveva liberato dall’Austria475. Per ridurre al minimo l’impatto con una realtà completamente differente dalle terre d’origine anche l’alimentazione veniva adeguata e si basava soprattutto su polenta e fagioli476. Ispirandosi alla precedente esperienza di educatore delle classi popolari, Levi Morenos individuò come fini educativi da raggiungere quelli sintetizzati dal trinomio «disciplina-libertàresponsabilità». Così veniva da lui descritto: I minorenni devono essere educati ad una disciplina veridica, cioè intimamente sentita e non per una semplice costrizione esterna. La disciplina non deve atrofizzare la spontaneità individuale, né impedire all’allievo di sviluppare la sua personalità secondo le proprie naturali buone abitudini. La libertà individuale abbia a correlativa la responsabilità dell’azione: premi e punizioni adeguate devono far sentire le conseguenze individuali dell’operare bene o male477. 472 IVSLA, Archivio «Luigi Luzzatti», Corrispondenza, b. 49, Telegramma di David Levi Morenos a Luigi Luzzatti, 6 febbraio 1918. 473 Più in generale, sulla Società Umanitaria di Milano: Riccardo Bauer, La militanza politica, l’opera educativa e sociale, la difesa della pace e dei diritti umani: atti delle giornate di studio organizzate dalla Società Umanitaria (Milano, 5-6 maggio 1984), a cura di M. Melino, Milano, Franco Angeli, 1985; E. Decleva, Etica del lavoro, socialismo, cultura popolare: Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Milano, Franco Angeli, 1985; Ettore Fabietti e le biblioteche popolari: atti del Convegno di studi (Milano, 30 maggio 1994), a cura di P.M. Galimberti e W. Manfredini, Milano, Società Umanitaria, 1994; I. Granata, In difesa della terra: l’Ufficio agrario della Società Umanitaria (1905-1923), Milano, Franco Angeli, 2003; M. della Campa (a cura di), Il modello Umanitaria. Storia, immagini, prospettive, Società Umanitaria – Raccolto Edizioni, 2003; M. Della Campa, C.A. Colombo (a cura di), Spazio ai caratteri. L’Umanitaria e la Scuola del libro, a cura di, Milano, Società Umanitaria – Raccolto Edizioni – Silvana Editoriale, 2005; C.A. Colombo (a cura di), Quando l’Umanitaria era in via Solari. 1906: il primo quartiere operaio, Milano, Società Umanitaria – Raccolto Edizioni, 2006; C.A. Colombo (a cura di), Una casa per gli emigranti. 1907: Milano, l’Umanitaria e i servizi per l’emigrazione, Milano, Società Umanitaria – Raccolto Edizioni, 2007. 474 Cenni sulla «Paterna Domus» in A. Tacchini, L’Alta Valle del Tevere e la Grande Guerra, Città di Castello, Petruzzi Editore, 2008, p. 84. 475 D. Levi Morenos, Le colonie dei Giovani Lavoratori, «Bollettino del Comitato centrale di mobilitazione industriale», n. 11, maggio 1918, pp. 181-184. 476 Ibid. 477 Ibid. 168 In questa ottica si faceva un grande assegnamento sulla cura dello sviluppo fisico del bambino, da ottenere tramite una «equa alternativa di lavoro e di ricreazione», preparandolo ad una «vita semplice e frugale che non sottragga artificiosamente ai necessari sacrifizi, ma prepari al sacrificio ed al dolore, elementi fatali della esistenza umana». Le altre finalità educative erano quelle di «educare alla bontà», «instillare quel sentimento d’amor patrio», «porre il sentimento di simpatia per i propri simili»478. A tal fine si chiedeva agli insegnanti di esaltare la «santa gioia di vivere» nel profugo che aveva vissuto i traumi dell’esodo - attraverso i giochi (le bocce, le corse all’aperto, l’altalena), l’audizione del fonografo, il canto corale in classe o in marcia, il lavoro manuale -, e allo stesso tempo di educare il giovinetto «alla realtà della vita» attraverso varie riflessioni suscitate, ad esempio, dalla lettura delle lettere dei parenti o dalla visione di giornali illustrati con le gesta eroiche dei soldati. Pochi mesi dopo, nel settembre 1918 la Colonia vedeva accrescere il numero dei bambini ospiti, che salivano a 70. Intanto, nel corso del 1918, Levi Morenos prese contatti con le autorità comunali di Perugia per aprire una seconda colonia anche in quel comune. La scelta del luogo cadde sui locali dell’ «Ospedalone di San Francesco», posti nella frazione di Collestrada, di proprietà della Congregazione di Carità. Il luogo appariva importante anche da un punto di vista simbolico poiché nel Medioevo quei locali avevano ospitato un lebbrosario a cui la tradizione associava il nome di San Francesco. Grazie ad un sostanzioso contributo della Croce Rossa Americana, che si occupò del restauro e dell’ingrandimento degli edifici, del loro arredamento e del rifornimento di indumenti, biancheria e generi alimentari, la colonia iniziò a funzionare nel 1919 accogliendo 50 bambini479. Oltre a tre poderi, a Collestrada furono attivate le classi quinta e sesta elementare, in integrazione alla prima colonia, quella, cioè, di Città di Castello, dove l’insegnamento elementare fu ridotto alle prime quattro classi. In questa ottica i bambini, di età compresa tra i 7 ed i 12 anni, venivano accolti nell’ex Pellagrosario di Città di Castello, quindi trasferiti a Collestrada fino ai 14 anni, dove potevano proseguire il proprio percorso di «redenzione sociale ed umana». Al fine di accrescere nei ragazzi un senso di «autoeducazione», Levi Morenos creò a Collestrada nel 1919 la prima Famiglia Cooperativa Scolastica di Lavoro, ispirandosi alle cooperative di lavoro fra pescatori da lui stesso fondate, fin dal 1894, nella Venezia Euganea e nel Friuli. Si cercava, cioè, di stimolare i ragazzi a provvedere col proprio lavoro al mantenimento di uno o più allievi, al pagamento delle spese per gite e corsi di perfezionamento e di dare ai giovinetti, a titolo di premio, una partecipazione agli utili provenienti dalla vendita dei prodotti agricoli della colonia. La terza ed ultima Colonia dei Giovani Lavoratori fu aperta nel 1921 a Roma, nella zona del Gianicolo. Le vicende che portarono alla sua nascita risalivano a due anni prima quando una nobildonna di origine lombarda ma trasferitasi da anni a Roma, la contessa Anna Piccolomini della Triana, manifestò l’intenzione di fondare una «scuola elementare modello». La sua proposta, che giungeva in un momento storico in cui la parte più illuminata dell’élite culturale italiana si 478 Le colonie dei giovani lavoratori, estratto dagli «Annali della pubblica istruzione. Scuole elementari», n. 3, ottobre 1924, Milano, Mondadori, 1924, p. 5. 479 M. Calza, Le Colonie dei Giovani Lavoratori. Un esperimento di auto-governo scolastico agricolo, «La Nuova Antologia», 1 dicembre 1919, pp. 309-313. 169 stava interessando ai destini dell’istruzione popolare480, fu portata all’attenzione di Giuseppe Prezzolini, all’epoca direttore de «La Voce», al quale la ricca signora chiese il suo personale sostegno e un interessamento presso l’amico Giuseppe Lombardo Radice affinché volesse anche egli fornire idee e suggerimenti. L’idea originaria era quella di creare «una scuola pubblica scelta, se così si può chiamare dove elementi di diverse classi sociali fossero riuniti naturalmente, alcuni a pagamento ed altri gratuiti», e che seguisse come programma quello di fare «degli uomini o donne (naturalmente sarebbero miste), che sappiano volere, che possano decidere della loro vita»481. Dietro questo invito, Prezzolini scrisse a Lombardo Radice nel novembre 1919 per coinvolgerlo nel progetto: Una ricca e attiva signora non di qui, ma lombarda, la contessa Piccolomini, sta fondando un nuovo quartiere, nel quale deve sorgere una scuola elementare modello, per non molti alunni, per la quale vuol trovare insegnanti scelti e soprattutto un uomo che per energia, bontà d’animo, apertezza ai nuovi sistemi, dia garanzia di essere un vero educatore. Egli avrebbe tutti i mezzi necessari all’impresa. La scuola sorgerà in un ottima posizione, c’è spazio per un giardino ecc. Si tratta di un esperimento magnifico che va incoraggiato e che è bene non cada in mano di qualche intrigante o sciocco (del resto la Signora è intelligente e se ne accorgerebbe). Essa ha fiducia in te e vorrebbe tuoi consigli e indicazioni. Vuoi scrivermene?482 Il pedagogista siciliano gli rispose facendo i nomi di Ferretti e di Colombo, due personalità a lui legate. Tuttavia Prezzolini, in una successiva lettera, lo invitava a trovare altri nomi poiché quelli da lui forniti non si addicevano al caso: [La contessa] è una persona piena di energia e di vita - scriveva Prezzolini -, ma appunto per ciò ha i difetti di quelli che hanno una forte volontà. E, per es., non può soffrire la gente un po’ dubitosa, e che non dà l’idea di virilità, come è il buon Ferretti. Con i tolstoiani, insomma, non va d’accordo; e ha conosciuto Ferretti ma non ha fiducia in lui. Ci vorrebbe un uomo energico (giacché si tratta anche di fondare materialmente la scuola, e dopo di dirigerla, qui in Roma). Perciò neppure Colombo andrebbe. Credo che la cosa migliore sarebbe una tua visita qui, e vedrò di combinarla con la contessa. I nomi che mi hai fatto, come vedi, li avevo pronti anche io, ma non vanno. Per il personale secondario avevo pure pensato alla Montesca, o alle Scuole Montessori. Ci vogliono per ora, donne, e si trovano facilmente. Ciò che manca è il direttore, l’apostolo e l’inspiratore. Un tipo come Marchi andrebbe bene, ma la contessa lo conosce e sa pure che dal punto di vista coltura e direi così, prestigio sacerdotale, non andrebbe bene. Vedi dunque le difficoltà della cosa, che pure è assai bella idealmente e che non bisogna lasciare cadere 483. La stessa contessa Piccolomini scrisse il 29 novembre a Lombardo Radice affermando di non essere preoccupata dalla ricerca delle risorse economiche ma della persona giusta «che si renda conto della importanza della sua missione e che la prenda come un apostolato» 484. Dopo aver scartato i primi nomi che le erano stati avanzati, nel dicembre dello stesso anno la contessa 480 La contessa Piccolomini della Triana si interessò anche alle attività educative svolte dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi). Si veda a questo proposito il carteggio con Umberto Zanotti Bianco conservato presso l’Archivio dell’Animi. 481 AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Anna Piccolomini della Triana a Lombardo Radice, datata «Natale 1919». 482 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Prezzolini a Lombardo Radice, 26 novembre 1919. La missiva è stata pubblicata in I. Picco, Militanti dell’ideale. Il carteggio Giuseppe Lombardo Radice-Giuseppe Prezzolini, Locarno, Dadò Editoriale, 1991, p. 290. 483 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Prezzolini a Lombardo Radice, non datata. Pubblicata in Picco, Militanti dell’ideale, cit., p. 291. 484 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Anna Piccolomini della Triana a Lombardo Radice, 29 novembre 1919. 170 mostrò interesse a collaborare con Levi Morenos come dimostra una lettera spedita al pedagogista siciliano: Desidero molto vederla e parlarle, - scriveva la contessa - concretare qualcosa perché voglio [che] la scuola funzioni l’autunno prossimo e fremo vedendo passare del tempo prezioso. Con Levi Morenos si è combinato qualcosa che sarà utile alla nostra scuola 485. Superate le difficoltà iniziali e variato in parte il progetto originario della nobildonna, nel 1921 veniva aperta a Roma la terza Colonia, denominata «Orti di Pace». Si estendeva sul Gianicolo, non lontano da Porta San Pancrazio, sul terreno concesso dalla contessa a cui si aggiunse un podere donato dal principe Andrea Doria Pamphilj. In quest’ultima colonia, capace di accogliere altri 50 ospiti di età tra i 14 ed i 17 anni, si tendeva a fornire un’istruzione agraria più specializzata al fine di fare di loro degli orticoltori, frutticoltori o giardinieri486. 5. «La scuola integrale unitaria» Il pensiero educativo di Levi Morenos trovò una sua teorizzazione definitiva alla metà degli anni Venti. In particolare fu con la pubblicazione di un articolo dal titolo Per una esperienza nazionale di educazione rurale integrale, apparso nei primi mesi del 1927 che gli iniziali aneliti in favore dei ceti popolari che avevano contraddistinto la prima fase dell’opera di educatore di Levi Morenos, trovarono una elaborazione concettuale compiuta. Alla base di questa visione stava la formazione culturale del professore veneziano, fondata su una concezione scientifica-positivistica che immaginava la vita e l’organizzazione sociale al pari di un organismo vivente, composto dall’unione di più parti e dotato di funzioni diverse. Egli infatti vedeva l’uomo nei termini di una pianta-uomo487, bisognosa di cure nel suo processo di sviluppo al fine di indirizzarla verso il bene, cui poteva giungere, però, solo attraverso l’indispensabile contributo del fanciullo. Erano assai ricorrenti le immagini tratte dal mondo naturale che Levi Morenos utilizzò per esprimere queste idee nei suoi scritti, a cominciare da 485 Ivi, Carteggio generale, Lettera di Anna Piccolomini della Triana a Lombardo Radice, datata «Natale 1919». 486 Nel 1920 fu posto in essere il tentativo di aprire un’altra colonia, questa volta a Spoleto, ma dopo un iniziale interesse suscitato tra i promotori, il progetto non fu attuato. Nel settembre 1920 si era infatti tenuto nella città umbra un incontro al quale parteciparono David Levi Morenos e il direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura di Spoleto, Francesco Francolini, per illustrare ad un pubblico selezionato, formato da esponenti della classe dirigente cittadina, il progetto che prevedeva l’istituzione di una colonia presso il podere modello di Loreto, fino ad allora gestito dalla Cattedra. Francolini, secondo la cronaca di un giornale del tempo, sostenne «la necessità di dare un assetto economico definitivo al podere modello, che per le enormi spese di coltivazione sperimentale, non solo era remissivo, ma correva il rischio di dover interrompere addirittura la sua utile funzione nel seminario di Spoleto. Un concetto umanitario elevatissimo inoltre, per il quale egli si è proposto di combattere la piaga sociale dell’urbanesimo che strappa quotidianamente alla vita libera, salubre e morale dei campi, centinaia e centinaia di piccole esistenze per rinchiuderle nella sofferente e corrotta atmosfera di un misero tugurio cittadino» (Colonia di giovani lavoratori a Spoleto, «L’Idea Nazionale», n. 217, 10 settembre 1920, p. 3). 487 L’espressione è di Levi Morenos, in Una esperienza nazionale, cit., p. 20. 171 quelli che furono pubblicati nel bollettino di cui si dotarono le Colonie e che prese il nome di «Nostra Matre Terra»488. Su tale visione si innestavano istanze spiritualistiche provenienti da una visione eticoreligiosa dell’esistenza umana, influenzata dal pensiero francescano, in base alla quale la natura era il regno in cui l’uomo trovava armonia e serenità, il lavoro nei campi era la base da cui otteneva la «gioia nel cuore». Numerosissime erano a questo riguardo le immagini e le citazioni che Levi Morenos traeva dal Cantico delle Creature e dai Vangeli, e che riproponeva negli scritti e nelle lettere che inviava ai fanciulli delle colonie in occasione delle feste religiose o di altre ricorrenze. L’impostazione scientifica che presiedeva all’organizzazione delle tre colonie faceva sì che queste venissero da lui concepite come tre diversi livelli posti in ordine progressivo: dalla prima colonia si passa alla seconda, da questa alla terza, in base ad un criterio di selezione dei ragazzi, che teneva in considerazione il loro senso del dovere e della responsabilità di cui avevano dato prova. Veniva applicato, quindi, un parametro simile a quello della selezione naturale, attinente al mondo scientifico, come riconobbe lo stesso professore: Se volessi poi esaminare l’opera stessa con criteri scientifici, crederei di poter concludere ugualmente che la piccola organizzazione si ispira esattamente a quel principio della selezione che in botanica e in zoologia è largamente applicato489. È in questo senso che la scuola ideata da Levi Morenos doveva essere concepita come il frutto dell’integrazione di tre elementi per potersi fregiare del nome di «scuola integrale, cioè unitaria». I tre elementi che la componevano erano il fattore fisico, il fattore morale, il fattore professionale. Così descriveva ciascun elemento: l’educazione fisica, ottenuta in un ambiente sano, all’aria libera dei campi, con un regime di vita semplice e schietto, l’educazione morale, inspirata a sistemi che, mentre irrobustiscono la coscienza del fanciullo e la difendono contro i pericoli, non comprimono il libero sviluppo dell’individualità, l’educazione professionale, compiuta a mezzo di un’assidua armonizzazione della teoria con la pratica, costituiscono assieme un’unità inscindibile, pervase come sono da un unico spirito informatore, e rivolte ad una meta unica: la conformazione dei corpi, delle anime, delle menti alle necessità della vita e della professione rurale490. Fu nel mutato clima politico e culturale dell’Italia postbellica e soprattutto con la salita al potere del fascismo, che in Levi Morenos si compì una svolta nel suo pensiero. Gli ideali umanitari risalenti all’inizio del secolo che animarono in lui l’intenzione di fare degli orfani degli «uomini buoni e liberi» e che lo avevano accomunato alla schiera di intellettuali su posizioni politiche liberali e democratiche, se non erano tramontati, quanto meno risultavano sbiaditi. La svolta impressa dalla guerra in molti uomini di cultura fu rilevante anche nel professore veneziano che cominciò a sentirsi attratto dalle correnti nazionalistiche e dal convincimento che la Nazione potesse vivere solo con il concorso di tutte le sue parti. Tale visione organicistica della società - in cui egli aveva già dimostrato di credere negli anni precedenti convinto come era della necessità di favorire il mutualismo tra i lavoratori, forme di previdenza sociale, senso di fratellanza nell’interesse supremo della Patria - trovava uno spazio maggiore con la salita al potere del fascismo, cui Levi Morenos aderì, non senza dimostrare in ciò 488 Il bollettino «Nostra Matre Terra. Rivista mensile per l’educazione integrale rurale ed organo di propaganda pro “Colonie dei Giovani Lavoratori”» fu pubblicato tra il 1927 e il 1933. 489 Levi Morenos, Una esperienza nazionale, cit., p. 19. 490 Ibid. 172 una contraddizione con il pensiero della prima fase della sua vita. Come è stato già osservato 491, Levi Morenos, ormai vecchio e con gravi problemi alla vista che lo portarono alla cecità nella seconda metà degli anni Venti, non comprese fino in fondo le reali intenzioni del regime e le contraddizioni delle sue originarie aspirazioni alla pace, quasi di tipo francescano, con le preteste militariste del fascismo. Al contrario, egli vide nello Stato Corporativo una risposta ai problemi sociali che aveva cercato di affrontare nei decenni precedenti e valutò il grande investimento di energie messo in atto dal fascismo nel campo dell’infanzia come una soluzione alle questioni a lui care, in particolar modo la lotta contro l’urbanesimo dei fanciulli rurali e contro l’alcolismo diffuso tra i giovani, l’impegno in favore dell’educazione degli orfani492. In particolare il professore veneziano vedeva nella politica scolastica del regime una risposta che, in qualche modo, andava nella direzione di favorire il «risanamento» dell’infanzia. In questo senso egli apprezzò quelle iniziative finalizzate al rafforzamento dell’ «integrità fisica dei fanciulli», come l’istituzione dell’Opera Balilla e il conseguente il tentativo di inquadramento militare della gioventù in quanto strumento giudicato capace di favorire l’emulazione da parte dei giovani dei modelli tipici degli adulti, giocando su fattori emotivi particolarmente potenti negli adolescenti. Scriveva a questo proposito Levi Morenos nel 1928: Il nuovo indirizzo del Governo Nazionale Fascista ha dimostrato una profonda intuizione della psicologia infantile, ad esempio, dando all’organizzazione dei Balilla e degli Avanguardisti anche quell’attrezzatura esteriore che esercita sui fanciulli un fascino particolare precisamente perché, con le dovute proporzioni, e gli opportuni limiti, riproduce in miniatura il vasto quadro della Milizia e orienta lo spirito di imitazione del fanciullo verso un ideale che ancora non comprende in tutta la sua complessità, ma di cui già si compiace perché lo avvicina «a ciò che fanno i grandi» 493. La svolta ruralista impressa dal fascismo negli anni Venti trovava, come è facile capire, vasto consenso in Levi Morenos, che dell’antiurbanesimo aveva fatto uno dei tratti distintivi delle sue colonie fin dalla loro fondazione494. Non è un caso, quindi, che immagini di un certo tenore, tendenti a cantare la salubre e patriottica vita di campagna in contrapposizione alla corrotta e corruttrice vita di città, abbondino nella pubblicistica prodotta dalle colonie. Non è, altresì, una casualità che un personaggio come Arturo Marescalchi, senatore e proprietario terriero dell’Alessandrino, protagonista insieme ad altri colleghi della battaglia condotta in Senato contro l’urbanesimo prima della svolta ruralista del regime e autore di numerosi interventi in giornali e riviste su questa tematica, diventasse membro del consiglio di amministrazione delle Colonie dei Giovani Lavoratori, prodigandosi in tal veste nella ricerca presso il governo dei finanziamenti necessari alla vita dell’ente495. 491 Ferrari, David Levi Morenos, cit., p. 31. Levi Morenos pubblicò numerosi articoli su tali argomenti nella rivista «Echi e Commenti», diretta da Achille Loria, e in «Nostra Matre Terra». 493 D. Levi Morenos, Per l’integrità fisica delle nuove generazioni, «Nostra Matre Terra», n. 5, 15 maggio-15 giugno 1928, p. 2. 494 Sull’ideologia ruralista si rinvia a: P. G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 300-309. 495 Nel 1938 per far fronte al grave dissesto finanziario dell’ente, il cui bilancio fu chiuso con un disavanzo di 100 mila lire, Marescalchi chiese a Osvaldo Sebastiani, Capo della segretaria del Duce, di sottoporre la questione direttamente a Mussolini affinché il governo concedesse i contributi necessari a salvare l’ente dal fallimento. Si veda: ACS, SPD, Carteggio ordinario (19221943), fasc. 518360, Lettera di Arturo Marescalchi a Osvaldo Sebastiani, 11 gennaio 1938. Su 492 173 Durante il fascismo anche le Colonie dei Giovani Lavoratori subirono, al pari o forse anche in misura maggiore rispetto alle altre scuole italiane, l’impronta politica impressa dal regime. Infatti la natura stessa delle colonie - con la loro rigida organizzazione che prevedeva una suddivisione della giornata in momenti di lavoro, di studio, di esercizio fisico e di formazione professionale - offriva con maggiore facilità i mezzi necessari ad attuare questi propositi. Pur non disponendo degli elaborati scolastici realizzati dai ragazzi, che avrebbero permesso di condurre un’indagine più approfondita, tuttavia l’immagine che si ricava dall’analisi di altri tipi di fonti, permette di capire quanto l’elemento politico fosse presente nelle colonie. Lo studio della storia, ad esempio, era fortemente incentrato sul Risorgimento e sulle figure dei più importanti patrioti, di cui si narravano le gesta eroiche. Oltre alla partecipazione a cerimonie quali la consegna della bandiera o la festa della Vittoria, i ragazzi vestivano una divisa grigio-verde militare che li contraddistingueva, erano inquadrati nelle organizzazioni giovanili del regime, si pretendeva da loro che conoscessero a memoria il Bollettino della Vittoria. L’impronta politica veniva impressa ricorrendo anche alla mobilitazione dei ragazzi nel quadro della «Battaglia del Grano», nella coltivazione da loro effettuata di piante di rosa in onore della madre del Duce, Rosa Maltoni o nell’invio di lettere di auguri o di album fotografici direttamente a Mussolini. D’altro canto il fascismo, come è noto, non lesinò investimenti, anche di considerevole entità, in favore della creazione o del mantenimento di strutture volte all’assistenza dell’infanzia, ed in particolare degli orfani di guerra, poiché si riteneva quest’ultima categoria di ragazzi quella che meglio annoverava tra le sue fila i giovani più sensibili alla «causa della Rivoluzione»496. Questo indirizzo è testimoniato anche nel caso delle Colonie dei Giovani Lavoratori, che durante il Ventennio ricevettero ingenti contributi da parte dello Stato, attraverso i Ministeri delle Finanze, dell’Interno e delle Corporazioni497. Una testimonianza di quella che era la vita nelle colonie viene ben raccontata, sia pure con forti elementi di colore, da un visitatore della Colonia di Collestrada: Gli allievi - schierati sul vasto piazzale della scuola - stanno compiendo esercitazioni ginnastiche, al comando del capo coltivatore, che fu soldato. Belli nella loro maschia semplicità, austeri nell’uniforme grigio-verde, ci accolgono marzialmente sol saluto romano e poi rompono le file […] Guidato dal’ottimo direttore, visito la vastissima Casa anche ne’ suoi recessi più nascosti e ovunque sento il palpito delle anime forti e gentili che la popolano […] Assisto alla cena, cui presiedono appetito e giovialità, e più tardi ascolto canti religiosi e patriottici di vasto respiro melodico, che i giovani - adunati in un lungo corridoio - innalzano a Dio e ai loro padri, prima di andare a letto 498. Alla luce di ciò è evidente che le originarie aspirazioni alla pace e all’armonia francescana con la natura e con gli altri esseri umani, che connotava la prima fase dell’opera educativa di Levi Morenos, finirono per passare in secondo piano, a causa di un contesto profondamente cambiato. Si pensi, al riguardo, al suggestivo nome degli «Orti di Pace», luogo pensato per i bambini che dovevano ritrovare la smarrita armonia con sé stessi e con gli altri dopo i traumi provocati dalla guerra. Quel nome, così carico di attese e speranze in un futuro dominato dalla Marescalchi si rinvia a: D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase (1926-1929), «Storia e Futuro», 6, maggio 2005. 496 Su questo punto si veda: L. La Rovere, «Rifare gli italiani»: l’esperimento di creazione dell’uomo nuovo nel regime fascista, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», n. 9, 2002, p. 74. 497 Si veda la documentazione conservata nel fascicolo n. 518360 intestato alle «Colonie dei Giovani Lavoratori», conservato presso ACS, SPD, Carteggio ordinario (1922-1943). 498 F. Straniero, Alla Colonia scuola di Collestrada, «I diritti della scuola», n. 19, 6 marzo 1927, pp. 142-143. 174 pace, finì per diventare un guscio vuoto a causa della retorica bellicistica degli anni Trenta e Quaranta che investì anche le Colonie dei Giovani Lavoratori. Se ciò è vero sul piano delle intenzioni e dei propositi educativi dichiarati, questo appare altresì vero sul piano della realtà fattuale. Così, infatti, si può leggere un singolare e drammatico episodio che accadde durante la seconda guerra mondiale e che ebbe per protagonisti alcuni ragazzi della Colonia di Collestrada che furono coinvolti in un fatto catalogabile nel fenomeno più complesso rappresentato dal coinvolgimento dell’infanzia e della gioventù negli eventi della guerra totale del 1940-1945499. Nei concitati giorni del giugno 1944, quando la linea del fronte era attestata alle porte di Perugia, le truppe tedesche che controllavano l’area di Collestrada e il vicino aereoporto di Sant’Egidio, si avvalsero dell’aiuto di alcuni ragazzi ospiti della colonia, incaricandoli di sorvegliare le munizioni opportunamente nascoste in un bosco, offrendo in cambio del cibo. Alcuni di essi furono così solerti nello svolgimento del comando loro affidato da aprire il fuoco, ferendola, su di una donna ignara che era andata a raccogliere legna in quel bosco500. L’episodio appare rivelatore di come i sani principi educativi per gli orfani volti a fare di essi degli «uomini buoni e liberi», secondo la definizione data da Levi Morenos alla Aleramo nei primissimi anni del secolo, fossero stati, in buona sostanza, dimenticati dopo la svolta politica impressa dal fascismo e dal clima di guerra, che avevano enfatizzato, oltremisura, l’elemento dell’obbedienza e della disciplina dei giovani contadini. Nel secondo dopoguerra le Colonie dei Giovani Lavoratori finirono per diventare dei semplici istituti per orfani, al pari di tanti altri, cessando di essere un modello educativo come lo erano state nei primi anni della loro vita quando avevano attirato un notevole interesse dal mondo pedagogico. La colonia di Città di Castello fu chiusa nel 1952 mentre quella di Collestrada rimase in funzione, tra grosse difficoltà finanziarie, fino agli anni Settanta501. 6. L’interesse pedagogico suscitato dalle Colonie Uno degli elementi che contraddistinse l’esperienza delle Colonie dei Giovani Lavoratori, e che venne messo in rilievo fin dai primi anni della loro attività, fu il carattere innovativo con cui esse erano state pensate. Non si trattava, cioè, di ospizi o di orfanotrofi, nel significato tradizionale del termine, né di strutture create al solo scopo di fornire l’assistenza ai fanciulli 499 Piuttosto vasta è la bibliografia sul coinvolgimento dell’infanzia italiana nelle guerre del Novecento e nei processi di nazionalizzazione. Ci si limita a segnalare: A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005; M.C. Giuntella, I. Nardi (a cura di), Il bambino nella storia, Napoli, Esi, 1993; M.C. Giuntella, I. Nardi (a cura di), Le guerre dei bambini: da Sarajevo a Sarajevo, Napoli, Esi, 1998; J. Meda, È arrivata la bufera. L’infanzia italiana e l’esperienza della guerra totale (1940-1950), Macerata, Eum, 2007. 500 L’episodio è narrato in: C. Pagliacci, Collestrada: storia di un paese tra ospitalità ed esclusione, Perugia, Edizioni Parrocchia Collestrada, 1995, p. 120. 501 La cronaca locale de «Il Messaggero» del 21 dicembre 1952 riferisce che nell’ultima seduta del consiglio comunale di Città di Castello «il consigliere Angelini (ind.) porge il saluto alla «Colonia Giovani Lavoratori» che trasferisce la sua sede e abbandona il nostro Comune dopo 35 anni trascorsi tra noi» (I lavori al Comune di Città di Castello. In margine alla riunione consigliare, «Il Messaggero», 21 dicembre 1952, p. 5); Pagliacci, Collestrada, cit., pp. 132-133. 175 colpiti dalla guerra, ma soprattutto di un ambiente formativo in cui parte integrante ed essenziale era rappresentato dall’elemento educativo. Rilevava questo particolare nel 1925 dalle pagine de «I diritti della scuola» l’ispettore scolastico Giorgio Gabrielli, in seguito ad una sua visita a «Gli Orti di Pace»: Non è un’accolta di alunni, non è uno dei soliti convitti, nemmeno una famiglia riunita dal bisogno quotidiano […] qui non c’è la sola convivenza, qui la necessità inderogabile di allontanare dei giovanetti dalla famiglia è temperata da tutto un ordinamento educativo che mira a rimuovere molti degli inconvenienti ed a costruire le fonti di una nuova vita individuale, sana e cosciente dei suoi destini502. Lo spirito di innovazione didattica che le Colonie portarono nel panorama scolastico nazionale, giunse in un momento in cui gli uomini di scuola più avvertiti dimostrarono attenzione verso quelle esperienze scolastiche che erano fiorite nella penisola ad opera di privati o di enti culturali per contribuire alla lotta contro l’analfabetismo assai diffuso nelle campagne ed in un momento nel quale stava maturando un articolato dibattito che metteva al centro il tema dell’istruzione elementare, ed in particolare di quella rurale. La critica che si rivolgeva alla scuola rurale di Stato era, infatti, quella di non essere aderente all’ambiente in cui si trovava e di non rispondere alle esigenze della vita del contadino. In altre parole, veniva giudicata come una sorta di copia mal riuscita della scuola elementare urbana. Tale giudizio si ritrova sovente nel pensiero di uomini di scuola tra gli anni Venti e Trenta. Lo stesso ispettore Gabrielli notava che, mentre la scuola elementare di Stato vaga ancora, anche nelle zone prevalentemente rurali, in un generico ambiente culturale indeterminato, qui la cultura è fatta vita ed è tratta da una determinata forma di vita. Sin dai primi anni essa s’inserisce in una realtà fattiva che è la vita dell’orto, della vigna, del pollaio, ecc. 503. Come è facile immaginare, gli auspici per una scuola rurale più integrata culturalmente con l’ambiente in cui si trovava, già presenti nell’immediato dopoguerra, si moltiplicarono quando il regime fascista lanciò il programma di ruralizzazione della società e della scuola. In un articolo dall’emblematico titolo, Ruralizzazione e scuola, Giovanni Calò ricordava a questo proposito come «magnifici esempi, quasi isolati» da tener presenti, le scuole rurali fondate dal senatore Faina e le Colonie dei Giovani Lavoratori504. Elsa Bergamaschi, che nel 1931 visitò gli «Orti di Pace», mise in evidenza proprio questo aspetto dalle pagine della rivista «La Nuova Scuola Italiana»: Un tale esempio dovrebbe esercitare un’influenza benefica sulla scuola rurale, che troppo spesso non è tale che di nome per le condizioni estrinseche di località e d’ambiente; mentre non aderisce intimamente alla vita che le si svolge intorno, e non è penetrata dalla chiara coscienza delle esigenza della vita rurale 505. Tali aspetti vengono colti soprattutto in concomitanza del grande dibattito suscitato dalla riforma Gentile, in occasione del quale si additò l’esperienza delle Colonie come un modello a cui ispirarsi per creare la vera scuola popolare. Annibale Tona, direttore de «I diritti della scuola», sottolineava questo elemento nell’aprile del 1923, quando era in piena svolgimento l’attività riformatrice di Gentile: 502 G. Gabrielli, Gli “Orti di Pace”, «I diritti della scuola», n. 17, 15 febbraio 1925, pp. 129-130. Ibid. 504 G. Calò, Ruralizzazione e scuola, «I diritti della scuola», n. 31, 2 giugno 1929, pp. 1465-1466. 505 E. Bergamaschi, Le “Colonie dei giovani lavoratori”, «La nuova scuola italiana», n. 6, 1 novembre 1931, pp. 163-164. 503 176 Oggi che si viene imponendo come necessità una profonda riforma delle istituzioni educative che meglio prepari il cittadino ed il lavoratore di domani, sostituendo al tradizionale verbalismo cattedratico l’esercizio disciplinato delle varie attività del fanciullo, si può ben dire che le Colonie del Levi Morenos hanno fatto, con pochi altri analoghi istituti, opera precorritrice506. Tona vedeva nelle Colonie il risorgere «ma con ossatura e vitalità cento volte maggiori, il famoso «campicello» baccelliano; si ritrova in esse già compiuto quel disegno di nuova scuola popolare a fondo agricolo-industriale che il ministro Gentile sta concretando nella sua riforma dell’attuale scuola tecnica»507. L’interesse suscitato dalle Colonie, ed in particolare dagli «Orti di Pace», spinse nel 1923 un gruppo di volenterosi maestri della capitale a riunirsi in un «Comitato magistrale romano pro Colonie dei Giovani Lavoratori», con l’obiettivo dichiarato di «aiutarne lo sviluppo e diffonderne i principi»: ad esso aderirono, tra gli altri, lo stesso Tona, Muzio Mochen, Arnaldo Marcellini, Ines Caselli Facchini508. Ben oltre si spinse Francesco Bettini, ispettore scolastico di idee lombardiane e prolifico pubblicista nelle riviste magistrali, il quale apprezzò delle Colonie non solo le finalità educative ma anche l’innovazione didattica da esse prodotte. Citava a questo proposito «l’illustrazione di racconti o le esposizione di lezioni fatte dallo scolaro con la proiezione di figure da lui stesso disegnate e colorate su carta translucida» applicata alla storia, geografia e scienze naturali, aggiungendo che tale sperimentazione fu giudicata positivamente dai numerosi visitatori stranieri della Mostra degli istituti di assistenza per gli orfani di guerra, tenutasi a Roma nel 1924509. Bettini concludeva riconoscendo che, sebbene la sua opera «pass[asse] inosservata a gran parte dei maestri elementari», tuttavia Levi Morenos era da considerarsi «uno dei più nobili, efficaci ed esperti educatori che la Scuola italiana abbia dato in quest’ultimo trentennio di vita»510. Ma fu soprattutto Giuseppe Lombardo Radice a dare un degno riconoscimento all’opera di educatore svolta da Levi Morenos. Nel 1926 il pedagogista siciliano incaricò la signorina Guerrera di scrivere un libro sulle attività del professore, che però mai vide la luce511. Quando nel 1928 il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Belluzzo conferì al professore veneziano il diploma di benemerenza di primo grado, con facoltà di fregiarsi della medaglia d’oro, Lombardo Radice pubblicò la notizia su «L’Educazione Nazionale»512. Levi Morenos lo ringraziò in un messaggio in cui non nascose l’ammirazione che nutriva nei suoi confronti: 506 A. Tona, Agli “Orti di Pace”, «I diritti della scuola», n. 24, 22 aprile 1923, pp. 185-186. Ibid. 508 Ibid. 509 A questo proposito, Bettini descriveva, non senza umorismo e compiacimento, la scena a cui assistette mentre anche egli visitava la mostra romana: alcuni visitatori stranieri, inglesi e americani, sorpresi dalla tecnica delle illustrazioni delle immagini proposta dalle Colonie dei Giovani Lavoratori, esclamavano: «Buono, buono; questo noi non abbiamo; bisogna introdurre anche nelle nostre scuole […] Meno male, pensavano gli espositori, che non siamo sempre noi a copiare!». [F. Bettini], Disegno, proiezioni e insegnamento scientifico, «La scuola in Toscana. Bollettino del Provveditorato agli Studi della Toscana», n. 6, giugno 1925, pp. 309-316. 510 Ivi, p. 309. 511 AGLRF, Carteggio pubblico, b. 4, Lettera di Alberto Salvagnini a Lombardo Radice, 31 marzo 1926. 512 Onore a Levi-Morenos, «L’Educazione nazionale», ottobre 1928, p. 516. 507 177 Al vecchio collega della propaganda per l’educazione popolare, al pedagogista insigne di cui per la mia ignoranza in Pedagogia non posso dirmi allievo, ma dal quale posso però dire di aver molto imparato 513. Il riconoscimento più prestigioso all’opera di Levi Morenos conferito da Lombardo Radice fu, però, un articolo da lui pubblicato dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio 1933, su «L’Educazione nazionale» in cui gli attribuì il merito di aver anticipato, con le Navi Asilo e le Colonie dei Giovani Lavoratori, lo spirito della riforma Gentile, in relazione alle scuole del lavoro nelle quali «il lavoro stesso è formativo di umanità, sia per l’educazione del carattere che per l’orientamento spirituale e l’organizzazione della cultura». Per tale ragione, argomentava il pedagogista, il Levi Morenos è in ordine di tempo il primo realizzatore della «Scuola Attiva», è il primo vero riformatore dei programmi didattici ufficiali, se scuola attiva vuol dire scuola dove i libri contano perché tutta la vita, maturando l’intelligenza, li fa cercare, a completamento dell’esperienza, a confronto del proprio sentire; però i libri desiderati e cercati non sono mai quelli scolastici, cioè manualistici, astratti, posticci (per elementarizzazione che è schematismo e spolpamento della verità), ma quelli universali o almeno, sovra scolastici: libri di alta poesia, libri di vera e completa scienza, libri senza intenzione meschinamente didascalica. Nei campi dell’addestramento elementare dove questi non occorrono, gli altri non occorrono: basta il maestro 514. Il riconoscimento pubblico dato nel 1933 dall’autore dei programmi per la scuola elementare, faceva seguito alla considerazione di cui aveva goduto Levi Morenos nel vivace clima pedagogico degli anni Venti che, sebbene non gli avesse permesso di acquisire quella certa notorietà tra i maestri che avrebbe meritato, come ammetteva Bettini, tuttavia portò il nome del professore veneziano tra coloro che venivano considerati i pionieri della «scuola nuova». Oltre alle testimonianze di Lombardo Radice e di Bettini, vale la pena di ricordare il giudizio espresso in un articolo del 1926 da Adolphe Ferrière, nel quale riconosceva il merito di Levi Morenos di essere stato un precursore della «scuola attiva»515. Dallo stesso ambiente culturale di Ferrière proviene, infine, la testimonianza di Peter Engel, il quale dopo una visita alle tre colonie, dalle pagine della rivista «Pour l’ère nouvelle» riconobbe che, pur non aspirando a diventare un maestro di scuola, attraverso strade diverse Levi Morenos era giunto ai medesimi risultati conseguiti dai pionieri della «scuola nuova»516. 513 MSD, AGLR, Carteggio generale, Lettera di David Levi Morenos a Giuseppe Lombardo Radice, 18 ottobre 1928. 514 G. Lombardo Radice, Levi Morenos e la didattica nuova, «L’Educazione nazionale», 31 marzo 1933, pp. 163-169. 515 A. Ferrière, Une visite aux pionniers de l’École Active en Italie, «Pour l’ère nouvelle», n. 23, novembre 1926, pp. 150-156. 516 «Par des chemins différents, en amateur, il est arrivé aux mêmes résultats que les plus ardents pionniers de l’éducation nouvelle» (Cfr. Peter Engel, Les colonies des Jeunes Travailleurs, «Pour l’ère nouvelle», n. 23, novembre 1926, pp. 191-193). 178 Capitolo quinto Una scuola tra mito e realtà. Spontaneismo, metodo didattico e propaganda pedagogica nella scuola di San Gersolè 1. Premessa Quando alle soglie degli anni Cinquanta un giornalista coniò la fortunata e nostalgica espressione «l’ultimo asilo dei sogni»517, la notorietà della scuola di San Gersolè aveva abbondantemente superato i confini della pedagogia per proiettarsi in quello più vasto rappresentato dal dibattito e dalla riflessione culturale. A quella stagione, infatti, collocabile tra gli anni Cinquanta e Sessanta, risalivano i noti apprezzamenti alla scuola di San Gersolè espressi da illustri intellettuali, da Italo Calvino ad Emilio Cecchi, a Piero Calamandrei, che testimoniavano il fatto che la scuola-modello, che aveva fatto parlare di sé fin dagli anni Trenta, si stava trasformando, in un mito pedagogico che avrebbe destato la curiosità e la riflessione scolastica ancora per molti anni. Ma se questa è la fortunata immagine che ci è stata tramandata di San Gersolè, in realtà, come essa è stata costruita nel corso del tempo? In che modo, attraverso quali itinerari e in quali tempi ciò è avvenuto? Si può parlare di uno scarto tra la realtà e la sua rappresentazione? A questi interrogativi si intende fornire una risposta in questa sede nella convinzione di poter offrire ulteriori elementi alla lettura di quella straordinaria esperienza educativa518. Nello svolgere questo compito ci si avvarrà, in particolar modo, di fonti archivistiche inedite, come le carte del Comitato di Liberazione Nazionale di Impruneta e alcune lettere inviate ad Ernesto Codignola, dalla cui analisi si può trarre spunto per arricchire di dati l’interpretazione che finora è stata data della scuola di San Gersolè e della maestra Maria Maltoni, che della stessa è stata l’animatrice dal 1920 al 1956. Si deve parlare al plurale perché appaiono inseparabili le due storie, quella della maestra e quella della scuola, tanto la prima permeò della sua sensibilità e delle sue idee la seconda. 517 Ghil, San Gersolè fucina d’artisti, «Il Secolo XIX nuovo», n. 24, 28 gennaio 1949, p. 3. Su San Gersolè si veda: R. Laporta, L’opera di Maria Maltoni, «Scuola e città», n. 8, agosto 1970, pp. 351-357; A. Scattigno, “La leggenda dei tempi antichi”. I disegni e i diari di San Gersolè nella stampa italiana, dal 1940 alla prima metà degli anni Sessanta, in San Gersolè quaderni e disegni 1930-1950, Catalogo della mostra (Impruneta, 12 aprile-12 maggio 1985), Associazione intercomunale n. 10, Firenze, 1985, pp. 15-37; A. Santoni Rugiu, Tre esperienze pedagogiche innovative dopo la liberazione in P.L. Ballini, L. Lotti e M.G. Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1991, p. 901; E. Catarsi, Ideologia e pedagogia nel secondo dopoguerra in F. Cambi (a cura di), La Toscana e l’educazione: dal Settecento a oggi: tra identità regionale e laboratorio nazionale, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 431-447; B. Salotti (a cura di), La maestra e la vita: Maria Maltoni e la scuola di San Gersolè. Catalogo della mostra (Villa Corsini Mezzomonte, 11-22 ottobre 2006), Firenze, Noèdizioni, 2006; La maestra e la vita: Maria Maltoni e la scuola di San Gersolè, Dvd-rom realizzato a cura del Comune di Impruneta, Firenze 2007; B. Salotti, Il fondo «Maria Maltoni», in J. Meda, D. Montino, R. Sani (a cura di), School Exercise Books: A Complex Source for a History of the Approach to Schooling and Education in the 19th and 20th Centuries, 2 voll., Firenze, Polistampa, 2010, vol. I, pp. 73-88. 518 179 Emerge, così, il profilo di una maestra che, dopo aver attraversato un periodo di demotivazione professionale, diviene progressivamente consapevole degli importanti risultati che sta ottenendo. Da ciò deriva l’impegno che ella profonde in una faticosa opera di propaganda pedagogica della sua scuola e delle tecniche adottate, nel desiderio di mediare all’esterno un’immagine ben precisa dell’esperienza educativa condotta nel piccolo borgo toscano. Si evidenziano, allora, le ambizioni pedagogiche perseguite con una notevole determinazione da una maestra di una scuola rurale dell’Italia della prima metà del Novecento che, dopo tentativi non riusciti e ostacoli di varia natura incontrati sulla sua strada, riesce ad uscire dall’anonimato, trasformando la sua scuola in una scuola-modello, con un suo «metodo» specifico d’insegnamento che desidera che venga riconosciuto per il suo valore, benché ufficialmente si dichiari contraria ai «metodi» per ragioni pedagogiche. Si tenga presente, infine, che nel riannodare i fili di questo discorso si dovrà rileggere la vicenda umana della Maltoni e seguire lo sviluppo del suo progetto educativo tenendo sullo sfondo le vicende politiche dell’Italia, dall’età liberale al fascismo, fino alla Repubblica, nonché i cambiamenti culturali e pedagogici intervenuti, dall’idealismo lombardiano iniziale fino al confronto con le nuove esperienze educative fiorite nel secondo dopoguerra, come Scuola-Città Pestalozzi e il Movimento di Cooperazione Educativa. 2. Alle origini di San Gersolè Per comprendere le tappe di questo percorso si deve, anzi tutto, partire dalla figura di Maria Maltoni. Chi era, dunque, la Maltoni? Quali la sua personalità e la sua indole? Quali aspettative riponeva nell’impegno didattico? Una risposta soddisfacente può giungere da quanto ella, ormai anziana e prossima alla morte, scriverà di se stessa nel 1963: Ho desiderato tutto il tempo della scuola di trovare un giornale che mi concedesse un poco di spazio per esporvi le esperienze che mi parevano dovessero interessare la gente di scuola, idee che dalle esperienze nascevano e non ho trovato mai che lo spazio necessario per qualche briciola e oggi mi si aprono le porte a pubblicazioni che non posso far più, nei giornali pedagogici più qualificati come il giornale della Montessori, quello di Ada Gobetti, le riviste didattiche e via via519. In effetti, l’esistenza della Maltoni si caratterizza per la grande capacità di divulgare, attraverso vari strumenti di cui le riviste magistrali e pedagogiche costituiscono un asse portante, la sua idea di scuola e la concreta prassi educativa messa in atto a San Gersolè. All’origine di ciò si collocava una precisa volontà di far conoscere quanto da lei sperimentato ed attuato nella scuola alla quale consacrò tutte le sue energie a partire dagli anni Venti, dopo aver superato il senso di apatia e di demotivazione con cui aveva intrapreso la carriera magistrale nel primo decennio del secolo. A determinare quella svolta erano stati vari fattori tra i quali ella stessa riconosceva il fervente clima pedagogico seguito al varo della Riforma Gentile, la lettura dei libri di Lombardo Radice, la Mostra didattica nazionale di Firenze del 1925 e, soprattutto, l’incontro con il medico Laura Orioli, collocabile tra il 1917 e il 1918, con cui convisse per circa venti anni, fino alla sua morte 519 Biblioteca Comunale di Impruneta, Archivio Maria Maltoni, (d’ora in poi BCI, AMM), minuta di lettera della Maltoni a Luisa (senza cognome), 2 marzo 1964. 180 avvenuta nel novembre 1938520, condividendo con lei la passione e le preoccupazioni per l’assistenza materiale e l’educazione dei bambini delle famiglie contadine della campagna di Impruneta. Il primo fatto che testimonia della volontà della Maltoni di entrare in contatto con il mondo ufficiale della scuola e della pedagogia di cui abbiamo notizia si colloca in quella fase storica di cui abbiamo parlato. In particolare sappiamo che nel 1927 la maestra ha un fugace scambio di lettere con Giuseppe Lombardo Radice, con cui entra in contatto in circostanze singolari, vale a dire tramite le religiose del noto eremo francescano di Campello sul Clitunno, esperienza religiosa sorta pochi anni prima ed animato da suor Maria Pastorella. Sia la maestra che il pedagogista siciliano mostrano di conoscere, in particolare, una delle francescane ospitate, sorella Jacopa, al secolo Clelia Allegri, giovane non vedente che, prima di abbracciare la vita religiosa alla metà degli anni Venti, era stata animatrice di conferenze e iniziative volte a sensibilizzare la società a proposito della necessità di provvedere all’educazione dei ciechi521. Nell’ambito di tale impegno l’Allegri aveva curato la traduzione del libro di Helen Keller, Il racconto della mia vita, entrando in contatto con Dino Provenzal, che ne aveva scritto la prefazione alla seconda edizione522. In una lettera del dicembre ’27 la Maltoni ringraziava Lombardo Radice per i saluti inviati tramite sorella Jacopa e lo invitava a conoscere meglio la scuola di San Gersolè: La sua parola mandatami da Sorella Jacopa mi è stata di grande conforto. La maggior parte degli insegnanti avrebbe forse bisogno soltanto di sentirsi venire ogni tanto da una voce calda di amore l’incitamento a migliorare sempre più se stessi per trovare sempre meglio la buona via ad arrivare efficacemente alle piccole anime. Grazie di questo saluto. Saremo lieti s’Ella vorrà conoscerci più e meglio e ce lo dirà 523. A quanto pare il pedagogista siciliano non si recò nella scuola toscana, né continuò a mantenere uno scambio epistolare con la Maltoni. Non conosciamo la ragione di questo fatto che sembrerebbe dimostrare un certo disinteresse di Lombardo Radice nei confronti di San Gersolè, ipotesi che verrebbe accreditata anche dal fatto che egli, pure essendo assai impegnato, come è noto, nel versante della ricerca, dello studio e della divulgazione di esperienze di «educazione nuova» presenti in Italia e non solo, stranamente non citò mai nelle sue opere la scuola della Maltoni, che tuttavia conosceva fin dal 1927. Questo fatto, che potrebbe rappresentare una sorta di anomalia, costituisce il primo punto di cui dobbiamo tener conto ai fini del nostro discorso e ci induce a porci delle domande: forse i risultati ottenuti allora dalla Maltoni erano ritenuti dal pedagogista siciliano – tale dubbio era stato da più parti sollevato – poco «spontanei» e, quindi, di scarso valore sul piano didattico? Oppure, più semplicemente, Lombardo Radice preferì non scrivere su San Gersolè poiché questa particolare esperienza didattica era stata “scoperta” 520 Laura Orioli era nata a Milano il 16 novembre 1880. Risulta inscritta all’anagrafe di Impruneta nel 1923, città in cui morì il 28 febbraio 1938. 521 Di questo impegno sono testimonianza gli scritti: Tenebre e Luce: sulla necessità di educare e proteggere i ciechi, Empoli, Tip. Guainai, 1904; L’anima dei ciechi: conferenza tenuta in Torino all'Istituto dei ciechi, Torino, Tip. Palatina, G. Bonis, Rossi e C., 1911. Sull’Allegri si vedano i pochi cenni biografici in E. Chirilli, Contributo alla storia dell’eremo francescano di Campello sul Clitunno. Sorella Jacopa, Galatina, Editrice Salentina, 1973. 522 La prima edizione italiana apparve nel 1907, seguita da una del 1923 con la prefazione di Provenzal. 523 AGLRR, Carteggio generale, Lettera di Maria Maltoni a Lombardo Radice, 8 dicembre 1927. 181 dall’amico Bettini, a cui lo univano legami di stima e di affetto? In assenza di documenti che possano fugare ogni dubbio, per il momento non possiamo far altro che avanzare alcune ipotesi. Si tenga presente, inoltre, che tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la Maltoni attraversò un difficile periodo che la condusse ad avvicinarsi al cenobio spirituale di Campello sul Clitunno e ad attraversare una forte crisi religiosa, nonostante che ella fosse stata animata fin dalla gioventù da forti sentimenti anticlericali. Ce lo testimonia una lettera della sua amica Laura Orioli ad Ernesto Codignola risalente alla metà degli anni Trenta: Ella ne avrà forse già udito parlare. La Maltoni una volta agnostica o panteista, in compagnia di queste mistiche amiche, soprattutto subendo il fascino dell’alta spiritualità ed anche della nobiltà di cui sorella Maria dà prova sempre, prese una cotta per il misticismo arrischiando di divenire più realista del re. Si nutriva di Sacre Scritture, Vangelo, agiografie, Bibbia e nel contrasto con tendenze religiose meschine turbavasi anche pel concorso di delusioni per cose personali524. A rivoluzionare le sorti di questa scuola nella quale la Maltoni profondeva gran parte delle sue energie senza riuscire ad ottenere quelle soddisfazioni e quei riconoscimenti che riteneva giusti, fu l’incontro con l’ispettore scolastico Francesco Bettini. La grande amicizia che sorse con la Maltoni e che si dipanerà fino al declinare degli anni Cinquanta costituì un punto di riferimento di assoluta importanza per la maestra di San Gersolè, che poté trovare in lui un sincero estimatore della sua opera educativa e, in specie, un energico propagandista sul piano pedagogico della sua esperienza didattica. È con Bettini, infatti, che la Maltoni comincia a muovere i primi passi nel mondo scolastico «ufficiale», a scrivere sulle riviste magistrali, ad essere conosciuta da pedagogisti e dirigenti del ministero che si recano a visitare San Gersolè, ad essere oggetto di trattazione all’interno di libri da lui stesso scritti. In altre parole, è grazie a Bettini che viene soddisfatta quell’ambizione lungamente sopita di divulgare e far conoscere i risultati ottenuti nella scuola, talvolta non esitando a presentarli come l’esito dell’applicazione della propria particolare concezione pedagogica e di una personale prassi didattica, misconoscendo influenze culturali che, in realtà, ella dovette aver recepito525. Alla base dell’atteggiamento di Bettini si trova l’apprezzamento per la qualità dei componimenti e dei disegni dei bambini di cui, da «lombardiano» di stretta fede, apprezza la spontaneità e la freschezza, specchio rivelatore dell’anima del fanciullo, delle sue aspettative e della sua interiorità. Gli scritti dei bambini di San Gersolè gli appaiono sinceri in quanto espressione di bambini che vengono rispettati, poiché ad essi si offre la possibilità di raccontare ciò che essi vogliono e ciò che essi vedono nell’ambiente in cui vivono. Ritornano motivi cari all’idealismo pedagogico e a quanto Lombardo Radice aveva affermato nei programmi per la scuola elementare da lui redatti nel 1923 e ripetuto con costanza nei numerosi scritti dati alle stampe nei tempi successivi, vale a dire la necessità per l’educatore di ridurre lo spazio tra scuola e vita, di eliminare ogni pedanteria e di ridurre l’intervento del maestro al fine di non soffocare o 524 AEC, Corrispondenza, Lettera mutila della Orioli a Codignola, s.d., ma databile al 1935 circa. Ci riferiamo ad una lettera inviata a Bettini nel 1936 nella quale la Maltoni afferma di aver conosciuto i libri di Lombardo Radice solo recentemente, mentre è provato – come abbiamo visto – che ella conoscesse il pedagogista catanese e verosimilmente anche le sue pubblicazioni già nel 1927. In tale lettera a Bettini scrisse: «poi la lettura dei libri di Lombardo Radice (questo non lo conoscevo, l’ho trovato ora e mi ha data gioia di consensi che ho voluto comunicare ad altri)» (BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Bettini, 15 dicembre 1936). 525 182 svilire il moto spontaneo del fanciullo, che, libero di esprimersi, può diventare «poeta», secondo la definizione lombardiana. Il primo passo di questo itinerario che vede la Maltoni maturare e diventare un’abile divulgatrice della sua scuola, è l’invito che Bettini le rivolge nei primi mesi del 1935 di curare la parte dedicata alla prima classe nella rubrica, da lui diretta, della Didattica ospitata nella rivista magistrale «Nuova Scuola Italiana», andando a sostituire la maestra Luisa Nason che avrebbe interrotto la sua collaborazione. In una lettera in cui si scusava di non aver trovato ancora il tempo sufficiente per andare a trovarla a San Gersolè, in quanto oberato dal lavoro burocratico che lo costringeva ad occuparsi «più alle carte che alle istituzioni, alle quisquilie che alle persone, alle parole che ai fatti», Bettini rinnovava la sua promessa e avanzava la sua proposta: Però ho promesso di venire a vedere la Sua scuola, di conversare a lungo con Lei sul lavoro che fa e verrò. Intanto Le domando un grosso piacere: vuol fare Lei, settimanalmente, la didattica della 1 a classe in sostituzione della Signora Nason per la “Nostra Scuola”? Gliene sarei tanto tanto grato io; gliene sarebbe gratissimo il Professore Codignola; ne avrebbero utilità grande gli insegnanti, e proverebbe anche Lei, interesse e soddisfazione. Il ripensare settimanalmente il proprio lavoro conduce ad affinarlo, disciplinarlo, organizzarlo con più profonda consapevolezza. Non mi dica di no, Signorina, e avrò un motivo di più per esserle grato e per volerle bene. La Maltoni accettò l’invito iniziando a pubblicare i primi articoli a partire dal febbraio ’35526. Una nota del Bettini presentava ai lettori della rivista la nuova collaboratrice come una «anima gentile» che «assocerà la religione al lavoro e alla osservazione attenta e appassionata di ciò che vive in noi e intorno a noi, desideri e sentimenti, affetti e pensieri; contemplazione, aspirazioni, attività ordinaria o lavoro; le piante, gli animali, il cielo coi suoi mutamenti paurosi o rasserenatori; la vita che pare un lento morire e la morte che è una resurrezione. I bambini scopriranno lentamente, insensibilmente, ma sempre più profondamente e saldamente, che tutto vive, che in tutto Dio è presente e operante, e vedranno sempre Lui nelle sue creature, fortificando quel senso francescano della fede e della vita che è sopportazione e coraggio, bontà e carità». In effetti i primi articoli della Maltoni presentavano in maniera chiara i due elementi dichiarati da Bettini: l’osservazione diretta dell’ambiente e riferimenti alla morale evangelica e alle parabole. Al primo elemento – l’osservazione accurata e minuziosa della natura e degli uomini – che diverrà la cifra distintiva universalmente riconosciuta alla scuola di San Gersolè, faceva da controaltare l’insegnamento religioso che, pur permeando tutte le altre materie, secondo lo spirito dei programmi scolastici del ’23, tuttavia trovava nel caso specifico della Maltoni una ulteriore spiegazione nella recente crisi religiosa dalla quale la maestra si era ripresa all’incirca agli inizi degli anni Trenta. Lo possiamo affermare sulla scorta della testimonianza della Orioli che in una lettera a Codignola racconta di aver pagato, di nascosto dalla Maltoni, l’abbonamento a «Nuova Scuola Italiana» all’eremo di Campello, affinché quelle religiose potessero leggere quanto la loro amica attingesse alla loro spiritualità nel redigere quelle note. Scriveva a questo proposito la Orioli: Sorella Maria, da lontano si interessa sempre a questa compagna che le è cara: è per questo che vorrei leggesse la didattica che la Maltoni scrive e nella quale mette molto di quell’ardore di religiosità che la legava a Sorella Maria. 526 Il primo articolo della Maltoni uscì sul numero 20 della rivista, del 10 febbraio 1935. 183 Fin dai primi articoli l’ispettore Bettini rimase soddisfatto degli scritti settimanali della Maltoni, alla quale ricordava sovente, secondo la nota prospettiva dell’idealismo pedagogico, lo spirito che doveva informare la rubrica della didattica: l’obiettivo, infatti, era quello di offrire ai maestri non un elenco sterile di esercizi e di consigli pratici ma di raccontare la propria esperienza educativa che avrebbe poi costituto la base di riflessione per gli insegnanti, i quali avrebbero trovato autonomamente le vie personali per giungere ad ottimi risultati. Scriveva a questo proposito Bettini: Leggo sempre con attenzione e con piacere quanto scrive per i maestri nella Didattica della Rivista, e vedo come Ella cerca di conversare e di convincere. Va benissimo. Approvo ciò che Ella fa e l’indirizzo che segue, che è di non irrigidire la Sua opera in un formulario o in un seguito di ricette, che, oltre tutto, avrebbero anche il difetto di dover essere buone per tutti i mali e per tutti gli ammalati527. La grande stima di Bettini non deve far pensare, tuttavia, che egli si sottraesse dal dovere di segnalare alla Maltoni aspetti del suo insegnamento che gli parevano poco valorizzati, incoraggiandola a concentrare le proprie energie in quelle direzioni. In particolare dei tre elementi che a suo giudizio formavano «l’opera educativa» – l’attività espressiva, l’attività intuitiva e pratica, la formazione della coscienza morale – la Maltoni riusciva, secondo Bettini, «magistralmente» nella prima, nel campo cioè del disegno e dei componimenti, mentre la seconda necessitava di una «impostazione più meditata, coerente e completa». Infine, per quanto concerneva la formazione morale, egli sosteneva che non poteva «essere lasciata alle occasioni o alla frammentarietà del caso»528. In una lettera successiva l’ispettore precisava il significato di quello che intendeva dire. In particolare nei confronti del problema rappresentato dall’educazione morale egli riteneva sì necessari «l’esempio, il richiamo materno, la coerenza, l’esercizio continuo della lealtà, della sincerità, dell’onestà o della rettitudine», che la Maltoni indicava nei suoi scritti per la Didattica, ma non sufficienti a formare il carattere del fanciullo. La ragione risiedeva nel fatto che la maestra non poteva comportarsi analogamente alla mamma, ma doveva agire sulla scorta delle conoscenze educative e culturali acquisite. Scriveva a questo proposito Bettini: La scuola differisce dalla famiglia e la educatrice dalla mamma, per la maggiore consapevolezza che ha dei problemi, per la critica che ha su di essi esercitata, per le finalità che esplicitamente e chiaramente si propone di raggiungere e per l’adeguatezza dei mezzi di cui può e sa disporre e dispone al suo raggiungimento. Le qualità naturali ci vogliono e più sono naturali o native (come dicono i francesi) o meno artificiose, e meglio servono allo scopo; ma non bastano. Bisogna che la coscienza dell’educatore abbia sortito in sé, fino a farlo spontaneamente operativo, il piano, il programma di tutta la sua attività educativa e ne abbia una consapevolezza chiara e precisa. Non prediche, non morale appiccicata con lo spillo della untuosità beghinesca, vita. In circostanze analoghe, alla Maltoni che in un articolo aveva citato un passo tratto da uno scritto di Aristide Gabelli, Bettini scrive che, pur riconoscendo l’importanza del pensiero del pedagogista positivista, che ebbe il merito di aggiornare l’insegnamento stantio che veniva praticato al suo tempo, tuttavia le sue teorie non dovevano essere seguite pedissequamente per 527 528 BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 9 dicembre s.a., ma probabilmente 1935. Ivi, Lettera di Bettini alla Maltoni, 28 novembre s.a. 184 evitare il rischio di incorrere nella svalutazione o addirittura nella negazione del valore della cultura nella formazione del maestro elementare, in ossequio ad un empirismo assoluto 529. Se con i primi articoli sulla rivista magistrale fiorentina la Maltoni si era cominciata a far conoscere, saranno tuttavia gli scritti di Bettini a divulgare più approfonditamente quell’esperienza al vasto pubblico rappresentato dai maestri. Si consideri che l’ispettore fu negli anni Trenta assai impegnato nel versante della scoperta e dello studio di scuole rurali degne di attenzione e di riflessione pedagogica, scovandone molte nella sua attività istituzionale che lo portava a contatto con sperdute scuolette di campagna della Toscana e della Romagna. Frutto di questo lavoro era stato la pubblicazione nel 1936 del volume Vita di scuole rurali, nel quale venivano illustrate alcune esperienze didattiche di scuole rurali ormai celebri, come la Montesca530, ma anche di altre fino ad allora sconosciute come quella di Metato di Camaiore, di Sigliano, nell’Aretino, o di Pievina d’Asciano, nel Senese531. Continuando a percorrere questo itinerario, Bettini utilizzò parzialmente per la prima volta i diari dei bambini della scuola della Maltoni in alcuni articoli apparsi tra il 1937 e il 1939 nella rivista «Scuola italiana moderna» per poi giungere, nel febbraio 1940, a pubblicare una intera monografia dedicata a San Gersolè per i tipi «La Scuola» di Brescia, di cui parleremo più avanti. Nel 1937, intanto, la scuola di San Gersolè partecipò, inviando alcuni quaderni, alla Mostra delle colonie estive e dell’assistenza all’infanzia, tenutasi a Roma e organizzata dal regime per illustrare i risultati positivi prodotti dal governo fascista in campo scolastico e para-scolastico. Non sappiamo se, convinto dagli articoli del 1937-’38 di Bettini, che utilizzavano in parte i diari di San Gersolè o dall’aver visto in prima persona i quaderni inviati dalla Maltoni alla mostra romana di quell’anno, ma di fatto anche Lombardo Radice, che forse in un primo momento non aveva ben compreso la qualità e il valore dei risultati raggiunti dalla scuola toscana, dovette alla fine apprezzare il lavoro della Maltoni, tanto che ella gli inviò del materiale per il costituendo Museo Storico della Didattica che il pedagogista siciliano stava allora allestendo presso il Magistero di Roma e per la cui realizzazione aveva richiesto a ispettori scolastici e maestri 529 «L’empirismo del Gabelli è stato utilissimo, come reazione all’insegnamento parolaio de’ suoi tempi; ma non bisogna prenderlo alla lettera, per non rimanere all’empirismo grossolano e alla negazione del valore della cultura. Cultura per ciò che si fa o che si deve fare, s’intende, non estranea al proprio fare; non catalogazione di nozioni superficiali e non enciclopedismo, ma cultura. Le darò un esempio: il De Sanctis non seppe fare né un romanzo, né una poesia: ma fu un uomo inutile alle nostre lettere, o fu invece un maestro nel senso vero della parola? Con l’applicazione integrale o anche superficiale della teoria del Gabelli sarebbe da condannare. Si potrebbe condannare così: ma io cerco chi mi sappia fare poesie, non chi mi parli di poesia» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, s.d). 530 Sulla scuola della Montesca e sull’influenza da essa esercitata sul pensiero di Giuseppe Lombardo Radice cfr. Luca Montecchi, Alle origini della «scuola serena». Giuseppe Lombardo Radice e la cultura pedagogica italiana del primo Novecento di fronte al mito della scuola della Montesca, «History of Education & Children’s Literature», IV, 2 (2009), pp. 307-337. 531 Vita di scuole rurali ebbe una buona accoglienza nel panorama pedagogico italiano, ottenendo le lodi anche di Lombardo Radice che lo considerò un documento rivelatore di interessanti «personali esperienze» didattiche, nonché una seconda ristampa nel 1941, dato l’esaurimento delle copie. Si veda la minuta della lettera di Lombardo Radice a Bettini del 16 maggio 1936 conservata in AGLRR, Richieste materiali, fasc. «Bettini Francesco»: «[…] Ho presente in modo particolare il Suo bel volume “Vita di scuola rurale”, dal quale comprendo quanto e come interessante sia la Sua raccolta personale in rapporto alle personali iniziative». 185 documenti della loro attività didattica. In tal senso nel marzo 1938 Lombardo Radice ringraziava la maestra per aver ricevuto la simpatica collezioncina delle cartoline illustrate dai bambini della Sua scuola. Non posso ringraziare individualmente tutti i piccoli artisti che mi hanno offerto per Suo mezzo un saggio della loro bravura e della gentilezza del loro animo. La prego di farlo in mia vece. Dica ai bambini che l’attenta considerazione della meravigliosa varietà di forme e di vite del mondo naturale accresce in noi il sentimento della nostra pochezza e quello della nostra devozione di fronte al creato532. Dal canto suo la Maltoni rispondeva esprimendo la sua gratitudine per l’attenzione dimostrata e auspicava che i risultati ottenuti potessero essere giudicati e valutati in modo più approfondito. Scriveva la maestra a tal fine: Io sono sempre profondamente grata a Lei da cui è venuta alla scuola la possibilità di questo fecondo lavoro. Desidero dirLe che i Suoi libri mi hanno molto aiutata a comprendere ciò che la Riforma chiedeva e a sforzarmi di attuarla. E siccome la via che Ella ci ha indicato non è in nessun modo formale e non si può dire mai di essere giunti, io vorrei camminarvi sempre più e aver forze pari al compito che mi vedo davanti. In tutti questi anni mi pare, sia nel disegno, sia nell’espressione scritta, di aver ottenuto risultati di schiettezza non facili da ottenere ma mi mancano termini di paragone e non vorrei esagerarne a me stessa il valore. Non so, Illustre Professore, se Ella possa desiderare altri lavori dei miei bambini, ma Le manderò volentieri tutto ciò che Ella vorrà chiedermi 533. In realtà i contatti con Lombardo Radice non proseguirono nel tempo, ma questa volta la ragione di questo fatto può essere facilmente ravvisabile nell’improvvisa morte che colpì il pedagogista pochi mesi dopo, il 16 agosto 1938. Al di là di questo fatto, il «lancio» della scuola-modello di San Gersolè andava a cadere in un momento storico, quello compreso tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, in cui si stava sviluppando un dibattito nel campo degli studi pedagogici, articolato, in specie, sulle pagine delle riviste magistrali, che aveva per tema lo sviluppo in Italia delle nuove teorie dell’attivismo e la questione del metodo didattico534. Si trattò di un problema sul quale si confrontarono e scontrarono molti uomini di scuola, di orientamento e formazione differenti, divisi tra chi sosteneva la necessità di un insegnamento privo di un metodo, visto negativamente come una sorta di gabbia che avrebbe avvilito l’instaurazione di un rapporto diretto e di un’armonia tra il maestro e il fanciullo, e chi, al contrario, affermava l’indispensabilità di un metodo didattico, magari sottoposto a critica e rinnovato. In questa polemica la Maltoni non esitò ad entrare, cominciando a dare mostra di quel suo temperamento battagliero e non uso a facili compromessi, tanto nel difendere le proprie idee pedagogiche che nel sostenere la sua prassi educativa, tratto che la distinguerà negli anni successivi e che sarà motivo di scontri con i suoi superiori535. Il motivo venne offerto nel 1937 da 532 BCI, AMM, Cartolina di Lombardo Radice a Maria Maltoni, 16 marzo 1938. MSD, AGRL, Carteggio Generale, Lettera di Maria Maltoni a Lombardo Radice, 18 marzo 1938. 534 Per un quadro d’insieme sulla diffusione dell’attivismo in Italia si rinvia a G. Chiosso, Novecento pedagogico, Brescia, La Scuola, 1997, in particolare le pp. 107-117. 535 Non di rado la Maltoni nutrì diffidenza e ostilità verso alcuni direttori didattici e ispettori scolastici che, a rotazione, diventavano i suoi superiori. Ad esempio, nel 1937 in occasione della «Mostra delle Colonie Estive e dell’Assistenza all’infanzia» espresse il desiderio di inviare i quaderni per mezzo del fidato ispettore Bettini, anziché attraverso il suo direttore scolastico. In una lettera Bettini la consigliò di rispettare le gerarchie con queste parole: «Consegni pure al Suo 533 186 un articolo di Anna Alessandrini, nota insegnante specializzatasi nell’educazione dei bambini handicappati nonché autrice di testi di argomento pedagogico, nel quale affermava, dopo aver constatato «il rumore che si fa intorno alla Scuola attiva», la bontà del metodo consistente nel «coordinare secondo determinati criteri, i mezzi adatti per conseguire un fine: è dunque un ordine che si estende a tutte le forme di attività razionale», applicabile dunque anche all’educazione536. Dal canto suo Bettini fu colpito negativamente dall’intervento dell’Alessandrini e in una lettera alla Maltoni non le nascose i suoi sentimenti: Ha letto l’articolo dell’Alessandrini? L’ha con l’Olivi di cui le manderò il libretto che – salvo il metodo – è bellissimo537. E che dire che l’Al. l’accusa di non accettare i metodi degli altri! Perché la sostanza vera dell’articolo è proprio questa. E si capisce: l’Al. è una delle tante che hanno creato i metodi. E guai a toccarglieli. Se avrò tempo risponderò. Con garbo: perché è persona che lo merita proprio sul serio 538. Come promesso l’ispettore intervenne sulle pagine della rivista fiorentina, seguito da Margherita Fasolo e, quindi, dalla Maltoni. Quest’ultima sostenne di essere rimasta stupita da una «educatrice seria e consapevole come la signora Alessandrini che parla che si possa pensare al maestro della così detta scuola attiva, come a un neghittoso che incrocia le braccia e sta a vedere indifferente quanto avviene intorno a lui»539. Al contrario l’insegnante della scuola attiva, argomenta la Maltoni, è «vigile in ogni istante e attento al più lieve moto dello spirito dei suoi alunni, deve studiare costantemente se stesso, la vita e i libri per sapere come rispondere al bisogno intimo di ogni scolaro». A provare i risultati che una scuola del genere poteva produrre ella riportava l’esempio dei «contadinelli goffi e impacciati [che] piano piano si sgelano e diventano dei piccoli artisti». L’Alessandrini dopo alcuni mesi volle tornare sull’argomento e nel liquidare velocemente le osservazioni della Fasolo e della Maltoni, giudicata quest’ultima una lettrice poco attenta del suo articolo, ribadì che solo «i metodi sorti su un fondamento sicuro possono muovere ad un’azione proficua, non gli esercizi racimolati e organizzati con criteri personali, avulsi dall’idea pedagogica che li aveva germogliati e nudriti»540. Sembra facile intuire che dietro queste parole vi fossero quelle scuole che in nome dello spontaneismo o dell’attivismo e negando il valore assoluto di un metodo, si stavano facendo conoscere in quegli anni, e tra queste figurava proprio San Gersolè. La conferma la troviamo in un ulteriore articolo di Bettini che chiudeva la polemica. In esso l’ispettore affermò di condividere le opinioni dell’Alessandrini solo se questa intendesse per Direttore il materiale che ritiene di essere mostrato. A me ne mandi soltanto l’elenco. Gli lasci questa soddisfazione: è un galantuomo e la merita» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 15 marzo 1937). La battagliera maestra pubblicò su «Scuola Italiana Moderna» un articolo in cui non temendo ripercussioni affermava: «Il R. Direttore, che non so fino a qual punto mi sia amico, (certo non più a me che agli altri insegnanti), venendo pochi giorni or sono a visitar la scuola, mentre gli alunni di 3a scrivevano terminando il loro diario giornaliero […] restava ammirato dell’ordine, della nitidezza dei loro scritti» (La parola alla collega, «Scuola italiana moderna», n. 18, 10 aprile 1941, p. 315). 536 A. Alessandrini, «Sì, sì, no, no!», «La nuova scuola italiana», n. 24, 7 marzo 1937, pp. 177-180. 537 Si trattava del libro appena pubblicato di Alberta Olivi, Ricordi di una scuola rurale. 1., Insegnamento della scrittura e della ortografia, Brescia, La Scuola, 1937. 538 BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 15 marzo 1937. 539 M. Maltoni, Sì, sì, no, no, «La nuova scuola italiana», n. 26, 21 marzo 1937, pp. 198-199. 540 A. Alessandrini, Il problema del metodo didattico, «La nuova scuola italiana», n. 6, 14 novembre 1937, pp. 42-44. 187 metodo un «ordine stesso dello sviluppo», ovvero sia che «ci dovrebbero essere tanti metodi quante sono le persone», secondo un’idea per cui non esistono metodi prefabbricati ma solo metodi espressione diretta degli educatori che li creano e li attuano. In altre parole rientrava tra i compiti del maestro quello di trovare la sua personale strada nell’insegnamento, attraverso l’osservazione, lo studio e la meditazione. Scriveva a questo proposito: non è meno sciocco colui che rinuncia al proprio sforzo, al proprio travaglio interiore, al proprio studio e alla propria meditazione (onde si costituisce quel metodo personale e quella didattica originale di cui si è detto) per abbracciare il metodo scoperto, inventato, costruito, concluso e brevettato da un altro, e ne ripete pedissequamente gli amminicoli o ne usa meccanicamente gli strumenti coi quali esso si esteriorizza e si cristallizza 541. In queste parole tornava un motivo caro alla pedagogia di Bettini e al suo idealismo che lo avevano spinto a sostenere ed a difendere l’esperienza educativa della Maltoni, una scuola che gli appariva originale poiché non seguiva un metodo proprio ma si basava quasi esclusivamente sulla figura della maestra. Coerentemente egli dichiarava di mostrare scarsa considerazione verso i «fabbricatori» di metodi che imperarono allorché la vecchia pedagogia positivista ebbe il sopravvento alla fine del secolo quando «la scienza parve il toccasana di ogni male, nella scuola e nella vita, e si ebbero tanti metodi quante furono le materie che si dovevano insegnare». La critica dell’ispettore non si esauriva qui ma investiva anche l’affermato metodo Montessori che troppo si basava, a suo giudizio, su quelle «scatole e paletti che essa aveva inventato, disposti in serie, brevettati e affidati a un editore perché li vendesse con l’esclusiva e ad assai caro prezzo», vale a dire sullo strumentario creato dalla Montessori che Bettini paragonava a «fabbriche artificiali». 3. Il mito della spontaneità: plausi e polemiche Le polemiche e l’interesse destati da una scuola rurale che tendeva a presentarsi come scuolamodello e che dichiarava di ispirarsi al mito dello spontaneismo idealistico, negando l’adozione di un metodo, continuarono a caratterizzare gli anni Quaranta. A non far calare l’attenzione su San Gersolè fu la pubblicazione che Francesco Bettini riservò alla scuola toscana: si trattava di un’intera monografia, fitta di 500 pagine, che raccoglieva un saggio sulla lingua dei bambini, il diario dell’alunno Bruno Naldini, alcuni disegni nonché uno studio sull’arte di novellare dei fanciulli che l’ispettore aveva già pubblicato nel Supplemento Pedagogico di «Scuola italiana moderna» tra il 1937 e il 1938. Il volume intitolato La scuola di San Gersolè e pubblicato nel febbraio 1940 dalla casa editrice «La Scuola» di Brescia, rilanciò il modello educativo sperimentato dalla Maltoni, riscuotendo le lodi e gli apprezzamenti di numerosi uomini di scuola e di 541 F. Bettini, Il problema del metodo didattico, «La nuova scuola italiana», n. 9, 5 dicembre 1937, pp. 65-67. 188 pedagogisti come Mario Mazza, Maria Magnocavallo o di scrittori per l’infanzia come Gherardo Ugolini. In particolare Mazza recensì positivamente su «I diritti della scuola» il nuovo libro di Bettini mentre la Magnocavallo da quel momento instaurò un’amicizia e uno scambio di idee con la Maltoni che tra il 1941 e il 1942 si sviluppò sulle pagine della didattica della rivista «Scuola italiana moderna», nelle quali la storica collaboratrice del periodico bresciano ospitò a partire dal gennaio ’41 numerosi brani tratti dai diari dei bambini di San Gersolè, stimolando i maestri lettori ad intervenire per porre questioni e domande e offrendo alla Maltoni la possibilità di replicare. L’attenzione mostrata dalla Magnocavallo verso le sperimentazioni didattiche di San Gersolè si concentrò, in particolar modo, sul problema dei componimenti, che i fanciulli della scuola toscana risolvevano in maniera esemplare nei diari che divennero, dopo la pubblicazione di quello divenuto famoso di Bruno Naldini, assai ricercati e fonte di dibattito. La Magnocavallo riconosceva alla Maltoni, come aveva fatto del resto Bettini, il merito di far «mantenere allo scritto del ragazzo tutta la freschezza della spontaneità, ma guidarlo nello stesso tempo a usare il vocabolo proprio e la forma corretta». L’altra nota di merito riconosciuta dalla Magnocavallo alla maestra Maltoni era quella relativa all’insegnamento linguistico, che si fondava sul concetto della «libertà, lasciata al fanciullo di scrivere con quel linguaggio che gli viene abitualmente alle labbra e che risponde alla realtà da lui vissuta». Alle prevedibili obiezioni di chi avrebbe fatto notare l’uso improprio del dialetto da parte dei bambini lasciati liberi di scrivere quello che essi volessero, la Magnocavallo rispondeva che assai peggiore sarebbe stata «la immediata correzione che limita, direi meglio, uccide ogni spontaneità di pensiero nella faticosa ricerca della forma e della parola» e che l’acquisizione di forme grammaticalmente corrette e l’eliminazione di ogni espressione dialettale sarebbe stato l’esito finale di un percorso di avviamento alla scrittura che poteva principiare con i diari scritti in piena libertà, come faceva fare la Maltoni. In altre parole, il modo di procedere della maestra toscana permetteva di fornire una risposta alla domanda lungamente dibattuta nei libri di didattica sul problema del comporre e sulla presupposta necessità di «dover insegnare a comporre». In realtà, rilevava Maria Magnocavallo, nessuno aveva insegnato a comporre ai fanciulli di San Gersolè, ma essi «scrivevano come parlavano», vale a dire con piena spontaneità e autonomia. In modo analogo Gherardo Ugolini, maestro e soprattutto fortunato scrittore per l’infanzia, apprezzava la qualità dei diari di San Gersolè che «sbalordiscono con la nitidezza del racconto – ogni diario è un racconto di ciò che s’è visto e sentito – racconto che si apre e si chiude perfetto»542. La ragione di ciò risiedeva nel fatto che la Maltoni aveva intuito la strada per liberare la capacità espressiva dei ragazzi e ciò spiegava l’unicità dei suoi risultati: Le maestre che non sono come Maria Maltoni non fanno quello che fa Maria Maltoni, anche a Siena, anche a Firenze, non perché ella sia di molto migliore delle altre, ma perché ha capito quello che occorre per liberare la capacità espressiva dei ragazzi. In molte altre scuole essi non sono che scolari. I loro saggi di lingua non sono che saggi scolastici. Non c’è, in essi, la vita, tutta la vita. C’è soltanto la scuola, o, soprattutto, la scuola 543. Se il tema rappresentato dalla ricerca della spontaneità e della libera espressione infantile erano stati oggetto di molti apprezzamenti nel dibattito pedagogico, non bisogna, tuttavia, pensare che essi non incontrassero dei critici commenti tra quegli educatori e uomini di scuola 542 G. Ugolini, Il segreto della scuola di San Gersolè, «Scuola italiana moderna», n. 1, 1 ottobre 1941, pp. 8-9. 543 Ibid. 189 che intesero polemizzare contro la diffusione di quella «letteratura didattica» che indugiava, secondo costoro in maniera esagerata, sul problema del componimento, finendo per dare vita a raccolte di scritti di bambini di cui si voleva mettere in evidenza in modo artificioso la spontaneità e l’originalità. Ad animare la polemica fu l’ispettore scolastico Edoardo Predome, di cui si ricordano gli studi sul linguaggio grafico dei bambini a cui si era dedicato fin dai primi anni Venti. Dopo aver più volte attaccato le teorie attivistiche dalle pagine de «I diritti della scuola», il Predome in un polemico articolo dal titolo «Il didattismo» si scagliava contro quella che definiva «letteratura didattica», vale a dire una «letteratura che si nutre di se medesima anche quando pare che, frugando in mirabili scuole esemplari, trovi tante cose, non perché ci siano, ma perché per amore della tesi, crede di avercele trovate»544. Non era difficile scorgere dietro tali parole un attacco nei confronti di Bettini per l’opera di divulgazione delle esperienze scolastiche innovative da lui attuata, e soprattutto verso la scuola di San Gersolè, che rappresentava l’esempio più famoso di scuola-modello da lui fatta conoscere. A confermare che il bersaglio della polemica fosse Bettini è un ulteriore passo dell’articolo di Predome: Il didattismo combatte grandi battaglie sul problema del componimento. Il rumore che fin qui ha fatto sul comporre antiretorico è già in processo di degenerazione. Attualmente è in pieno sviluppo, e presto avremo una benefica crisi di disfacimento la tesi dello scrivere «spontaneo» e le dimostrazioni e le esemplificazioni delle possibilità letterarie dei contadinelli hanno raggiunto una voluminosità preoccupante 545. Pur non essendo stato chiamato in causa espressamente, tuttavia Bettini si sentì in dovere di rispondere alle critiche di Predome per difendere la propria visione pedagogica e per confutare la tesi secondo la quale si stava assistendo al tramonto della spontaneità nella scuola italiana. Per farlo egli scelse le pagine della rivista «La pedagogia italiana» di Salvatore Talia dove pubblicò un lungo articolo nel quale, dopo aver ricordato di «avere consumato un po’ del mio tempo a combattere contro quel male vero che è la didattica rivistaiola e contro i metodi che le fanno corona», affermava che dei due modi adottabili per l’avviamento dei bambini al comporre era largamente preferibile quello praticato dalle maestre che «si contentano di vivere insieme coi fanciulli affidati alle loro cure e che procurano o credono di migliorarli con l’esempio, abituandoli a osservare e a riflettere», mentre era sconsigliabile quello che si basava sul «suggerire parole e idee (e, in fondo, parole soltanto), a correggere ortograficamente quelle e a raddrizzare sintatticamente queste», che costituiva il metodo più praticato dalla generalità dei maestri italiani546. Dei due metodi, affermava l’ispettore, il primo era finalizzato a «educare», il secondo solo ad «insegnare». Dopo questa precisazione, Bettini rigettava con vigore l’accusa di aver trasformato la spontaneità in un «idolo o un feticcio davanti al quale siamo disposti a ogni reverente e incondizionata rinuncia», secondo l’accusa mossagli, e aggiungeva ancora una volta come i diari della scuola di San Gersolè potevano essere le prove che certificavano la bontà di un insegnamento imperniato sul principio della spontaneità. Il Predome non esitò a replicare all’intervento di Bettini e questa volta fu più esplicito nel bocciare senza appello le raccolte di scritti spontanei dei bambini, definite spregiativamente «cicalate», e delle quali i diari di San Gersolè costituivano gli esempi più noti: 544 E. Predome, Il didattismo, «I diritti della scuola», n. 16, 20 marzo 1941, pp. 243-244. Ibid. 546 F. Bettini, Il disfacimento della spontaneità, «La pedagogia italiana», n. 3-4, marzo-aprile 1941, pp. 74-92. 545 190 Del Bettini (che, per la verità, è formidabile e forse inimitabile raccoglitore di gusto) ho letto anch’io e con interesse, non soltanto le molte cose quasi vernacole di S. Gersolè ma anche quelle, raccolte in opuscoli, prese pari pari dalle cicalate di altri contadinelli toscani. Tutte cose, come ora si dice, carine, […] ma che mettono di malumore quando si pretende di esibirle come documento di un indirizzo didattico miracoloso e come dimostrazione di uno specioso metodo di educazione linguistico547. Con il suo giudizio tranciante Predome intendeva ridimensionare il valore di quelle raccolte di scritti di bambini ispirati al principio della spontaneità che sempre più spesso in quegli anni apparivano come uno dei frutti dell’applicazione delle moderne teorie attivistiche, poiché sosteneva che altri aspetti dovessero essere presi in considerazione nella prassi educativa: L’educazione linguistica – scriveva a questo proposito – non si esaurisce negli incoraggiamenti al cicalare, ma è anche e, direi, soprattutto, ginnastica del pensiero, elevazione del sentimento che, naturalmente, sono cose che giovano ai ragazzi conversanti con i loro maestri [….] La scuola quando è scuola, insegna a pensare e a più altamente sentire548. Quanto fatto con i racconti di San Gersolè, ma anche con i diari di bambini di altre scuole rurali fatte conoscere da Bettini, come quelli della scuola di Metato o di Sigliano, agli occhi di Predome appariva come il prodotto della degenerazione della didattica, che «non discussa e soltanto declamata», diventava «didattismo». La polemica non si arrestò alle prime battute e nelle settimane successive vide un nuovo botta e risposta tra i due ispettori scolastici condotto sempre più sul terreno dello scontro tra fautori dell’attivismo e detrattori di esso, tra chi elogiava la spontaneità infantile e chi denunciava «la posizione esagerata, e quindi falsa, del così detto «attivismo» campato in aria o a-storico» che tendeva a negare il metodo. Non si deve tuttavia pensare che San Gersolè fosse l’unica scuola al centro della diatriba tra sostenitori delle due parti, ma ci si confrontò anche su altre esperienze educative che in quegli anni andavano svolgendosi in altri luoghi del Paese. Nelle stesse settimane, infatti, apparve l’articolo sdegnato verso il Predome di un’altra maestra, Nerina Gaiba, insegnante nella scuola del Gianicolo, a Roma, che poco tempo prima aveva illustrato quell’esperienza didattica da lei diretta, insieme all’ispettore Giorgio Gabrielli, che si ispirava al concetto del «fare scuola senza metodo». Anche su di lei si erano concentrate le ironie e la vena polemica del Predome e perciò la Gaiba era intervenuta per spiegare, con argomentazioni peraltro analoghe a quelle della Maltoni, che ella, ha fatto così una scuola senza metodo, se per metodo vuole intendersi una costruzione teorica stabilita in precedenza e buona per tutti i maestri, ma non ha eliminato il suo metodo, se per metodo intendiamo un procedimento logico, coerente, che mira ad un fine preciso549. 547 E. Predome, Del didattismo. Finalmente si discute!, «I diritti della scuola», n. 25, 20 luglio 1941, p. 386. 548 Ibid. 549 R. Nerina Gaiba, Metodo e non metodo, «I diritti della scuola», n. 2, 16 ottobre 1941, p. 21. 191 4. San Gersolè: la costruzione del mito pedagogico Nei primi anni Quaranta la scuola della maestra Maltoni cominciò a godere della notorietà che poi la contraddistinse più ampiamente nel decennio successivo. I due libri di Bettini, la collaborazione con «La nuova scuola italiana», e se vogliamo, anche le polemiche sull’attivismo e lo spontaneismo, fecero sì che molti maestri cominciassero a familiarizzare con il nome di San Gersolè. Anche sul fronte istituzionale la scuola toscana divenne abbastanza nota allorché essa fu visitata da importanti ospiti, tra i quali, il Provveditore agli Studi di Firenze, seguito dal dirigente del ministero dell’Educazione Nazionale Francesco Lepore e dal Provveditore e filosofo idealista Carmelo Sgroi. Testimonianza dell’interesse destato da San Gersolè nel mondo culturale italiano più sensibile alle problematiche dell’educazione e della formazione può essere considerata la proposta che Franco Antonicelli formulò alla Maltoni nel giugno 1939 di dedicare alla sua scuola un libro pubblicando alcuni diari dei suoi bambini presso l’editore Einaudi di Torino. A fare da intermediario tra i due era stato il professore Salomone Morpurgo, già direttore della Biblioteca Nazionale di Firenze, che bene conosceva la Maltoni in quanto proprietario di una villa a Colle Secco, non lontano da San Gersolè. Scriveva a questo proposito Antonicelli alla maestra: del mio, del nostro progetto di un libro con i temi dei suoi alunni parlai con entusiasmo a molte persone e in sede particolare con l’editore Einaudi, il quale seguì con viva simpatia la mia proposta […] Occorre naturalmente che io abbia a disposizione quanti quaderni le è possibile mandarmi raccomandati550. La Maltoni dovette essere entusiasta di tale proposta se non esitò a fornire ad Antonicelli alcuni quaderni dei bambini, salvo poi doversi ritirare dal progetto dopo che sorsero delle incomprensioni e dei dissapori con l’ispettore Bettini, il quale stava lavorando proprio in quei frangenti alla stesura del suo libro, La Scuola di San Gersolè, che apparirà nel 1940. Se è vero che il progetto editoriale si arenò, tuttavia la maestra fu in un primo momento attratta dall’idea di una pubblicazione di così alto livello tanto che decise di incontrare il professore torinese. L’incontro con Antonicelli, avvenne nella villa dei Morpurgo il 4 luglio 1939 ed ebbe per oggetto la proposta di un libro che si presentasse, secondo quanto riferirà la maestra a Bettini, come «una curiosità letteraria», vale a dire «una specie di antologia che mostrasse come il popolo toscano sa scrivere naturalmente». Esso non avrebbe ospitato i disegni dei bambini né avuto finalità pedagogiche; tuttavia si sarebbe presentato, secondo le intenzioni di Antonicelli e dell’editore, come un omaggio «dedicato alla memoria di L. Radice», morto solo un anno prima. Pur di non veder svanita la possibilità di una pubblicazione così prestigiosa e allo stesso tempo di non tradire la lealtà che la legava a Bettini, la Maltoni avanzò ad Antonicelli due condizioni: che fosse trascorso almeno un anno tra la pubblicazione di Bettini e quella per l’Einaudi e che non recasse nel titolo il nome della scuola di San Gersolè. Evidentemente non potendo accettare queste due condizioni, il progetto del volume edito da Einaudi, almeno per il momento, si arenò. Nel frattempo l’opera di propaganda pedagogica attuata dalla maestra non cessava. Dopo la chiusura della rivista «La nuova scuola italiana» nel 1938, tra il 1940 e il 1941 ella pubblicò articoli in «La Pedagogia italiana» di Salvatore Talia e nella già ricordata «Scuola Italiana Moderna» dove la Magnocavallo le garantiva spazio nella rubrica della didattica. 550 BCI, AMM, Lettera di Antonicelli alla Maltoni, 18 giugno 1939. 192 Se per ancora alcuni anni la maestra fece continuare a parlare di sé e della sua scuola con alcuni articoli, è solamente nell’immediato secondo dopoguerra che si chiarificava in ella l’idea di promuovere un articolato progetto pedagogico che fosse saldamente legato al nome di San Gersolè. Si trattava di una suggestione e di un’ambizione che traevano origine dall’esempio di quanto nella vicina Firenze stava accadendo con Scuola-Città Pestalozzi, l’innovativa esperienza educativa sorta nel 1945 per iniziativa dei coniugi Codignola e ispirata alle teorie pedagogiche dell’americano John Dewey. Dopo una breve collaborazione tra il 1945 e il 1947 durante il quale la Maltoni si lasciò coinvolgere in quella esperienza, divenendo la scuola San Gersolè uno dei tre satelliti di ScuolaCittà insieme a quella di Scandicci e al villaggio artigiano di Signa, ella se ne distanziò apertamente compromettendo anche i rapporti di amicizia e di stima con Ernesto Codignola dopo che questi le manifestò la sua contrarietà verso l’eccessiva autonomia con la quale la maestra operava e gestiva i rapporti di San Gersolè con l’esterno. A ciò si aggiungevano problemi di natura metodologica, in quanto la Maltoni non condivideva la prassi educativa seguita a Scuola-Città, così lontana dal suo metodo basato sull’osservazione individuale. Scriveva a questo proposito la Maltoni a Bettini, anche egli critico dell’esperienza di Scuola-Città Pestalozzi551: Io sapevo di aver ragione perché i miei fedeli amici Pestalozzi e Lambruschini seriamente consultati non nei metodi, ma nello spirito mi davano ragione, ma il sentirmelo dire da lei, dopo serena costatazione, mi fa vivo piacere. Lo spirito dei fanciulli non venga mai concentrato e raccolto seriamente su un soggetto qualsiasi ma sempre distratto, frazionato e tenuto in uno stato di continua eccitazione che non permette di costruire nulla di stabile e di positivo […] Non c’è unità, non c’è direttiva, non c’è intendimento di ciò che voglia essere e sia formazione spirituale 552. In cosa consistesse il progetto elaborato dalla Maltoni è ella stesso ad illustrarlo all’amico Bettini, al quale chiese di diventarne la «guida spirituale»: Se Ella volesse aiutarci, noi tre insegnanti 553 intendiamo di iniziare ora qui un lavoro più vasto, senza danari e senza rumore di reclame, e cioè questo: le lezioni della mattina dovrebbero restare quello che sono perché non si può dare meno di tre ore all’importante preparazione culturale intesa nel primitivo significato della parola, cioè lavoro che coltiva lo spirito e lo aiuta a crescere e a fiorire. La sera vorrei che si iniziasse un lavoro più leggero, quasi direi ricreativo […] vale a dire di materie che sollevano lo spirito e soffiandovi dentro un alito di aria pura lo detergono e lo rendono atto a nuove creazioni-canto-ginnastica-recitazione-lettura amena-lavoro manuale. Io chiedo a Lei di essere il padre spirituale di questo nostro piccolo gruppo 554. All’origine di questo progetto che la Maltoni comunicò a Bettini nel novembre 1945 vi erano anche dissapori personali e gelosie maturate tra la maestra e le colleghe di Scuola-Città Pestalozzi 551 Si veda a questo proposito Santoni Rugiu, cit., p. 907-910. BCI, AMM, Minuta di lettera di Maltoni a Bettini, 4 novembre 1945. 553 Nel dopoguerra nella scuola di San Gersolè si affiancarono altre due insegnanti alla Maltoni. In una lettera del 1946 a Codignola, per esempio, la maestra indicava i nomi di due colleghe che proponeva come sue collaboratrici. «Illustre Professore, nella Scuola di San Gersolè, per l’anno scolastico venturo io chiamerei come insegnanti: 1. La maestra Adriana Parlini, 2. La maestra Fiaschi Luigina in sostituzione della Maestra Lucia Fornararo […]» (AEC, Corrispondenza, Lettera della Maltoni ad Ernesto Codignola, 9 settembre 1946). 554 BCI, AMM, Minuta di lettera di Maltoni a Bettini, 4 novembre 1945. 552 193 sull’efficacia e sulla bontà dell’indirizzo educativo da seguire, che faranno più volte dire alla Maltoni di essere perseguitata e ostacolata555. Nella stessa lettera ella scrisse: Alla scuola di San Gersolè si fa grande guerra, tanto più pericolosa in quanto subdola. Alle vecchie calunnie forse di nuove se ne sono aggiunte e io le sento rumoreggiare senza conoscerle intorno a me e la schiera dei denigratori è ingrossata e forse ingrosserà ancora, non me ne turbo perché non lavoro per vantaggi personali e ciò mi rende forte e sicura556. Appariva chiaro alla Maltoni che oramai, dopo anni di fatiche spesso disconosciute o perfino contrastate sul piano pedagogico e per altri versi anche su quello politico, come vedremo più avanti, diventava un’esigenza primaria quella di difendere e divulgare ancora più di quanto non fosse stato fatto in precedenza il nome di San Gersolè e il suo personale. Non nascose i suoi sentimenti nella sopracitata lettera a Bettini: Facendo ella i libri di testo o pubblicando comunque lavori nostri faccia resultare che sono della scuola di San Gersolè e dove possibile voglia associarmi al Suo nome quale collaboratrice. È necessario per me e forse anche per Lei poiché, che la lotta contro San Gersolè si spunti e fallisca, interessa al vivo anche Lei ormai557. Si tratta di un punto di svolta particolarmente significativo ai fini del nostro discorso che ha per obiettivo quello di comprendere le modalità attraverso le quali avvenne la costruzione del mito pedagogico della scuola toscana. Se fino ad allora la Maltoni non aveva mancato di cercare gli spazi necessari per far conoscere e apprezzare i risultati conseguiti nella propria opera di educatrice, ora intendeva quasi voler ella stessa aprirsi una strada nel mondo pedagogico italiano e presentare la sua scuola come una scuola-modello, degna di reggere il confronto con le scuole nuove che stavano spuntando un po’ ovunque nel dopoguerra, a cominciare da Scuola-Città Pestalozzi, di cui nonostante tutto San Gersolè faceva parte. Fu proprio in virtù della concessione da parte del ministero della Pubblica Istruzione del titolo di «Scuola di differenziazione didattica» a Scuola-Città che anche la scuola della Maltoni poté dal 1946 godere di maggiori spazi di autonomia gestionale e didattica558. Tuttavia durante questa esperienza la Maltoni non celò le sue perplessità verso l’indirizzo pedagogico seguito da Ernesto Codignola e dalla moglie Anna Maria a Scuola-Città, in particolare per lo scarso valore che essi conferivano allo studio individuale e per l’introduzione dall’estero di pratiche didattiche, come le elezioni e il tribunale dei bambini, che se dovevano far crescere uno spirito democratico nei fanciulli nelle intenzioni dei loro sostenitori erano però ritenute sostanzialmente inutili dalla maestra di San Gersolè. Pur facendo parte della rete di 555 Riferisce di questi fatti anche Santoni Rugiu, Tre esperienze pedagogiche, cit., p. 910. Ibid. 557 Ibid. 558 Si veda la lettera di Bettini del settembre 1946 in cui riconosceva alla Maltoni, dato lo status giuridico acquisito dalla scuola di San Gersolè, il diritto di poter indicare le colleghe che l’avrebbero affiancata. Scriveva Bettini: «Data la condizione della sua scuola, ritengo che la chiamata delle maestre spetti a Lei. Per atto di cortesia dovrebbe darne comunicazione al Prof. Codignola, chiedendo il suo benestare, e a me, che provvederò a informare la Direzione didattica (se provvede al pagamento degli stipendi) e il Provveditorato (se non lo farà il Prof. Codignola stesso). La signorina che mi ha mandato mi ha fatto una buona impressione: semplice, modesta, intelligente. Credo che, guidata da Lei, potrà diventare un’ottima maestra. Se a Lei garba, la chiami» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 6 settembre 1946). 556 194 Scuola-Città, la Maltoni non prese parte in modo entusiastico alla vita dell’esperienza fondata da Codignola, preferendo muoversi piuttosto in modo solitario, limitandosi a svolgere a Firenze alcune conferenze ai maestri e, sostanzialmente, dubitando della buona fede di alcune colleghe e dei Codignola giudicati invidiose dei risultati ottenuti a San Gersolè. Nel corso del 1947 i rapporti con i fondatori di Scuola-Città andarono degradando ancora di più. Nel marzo di quell’anno Ernesto stigmatizzò il comportamento della Maltoni a proposito dell’esonero di una maestra a lei sottoposta e lamentò il fatto che alcuni disegni della scuola di San Gersolè erano stati dalla Maltoni spediti ad una mostra autonomamente, senza passare attraverso il canale di Scuola-Città559. Era il segno che la collaborazione tra le due esperienze scolastiche stava finendo e che i rapporti erano ormai compromessi. Scriveva indignata la Maltoni a Bettini: Io non ho conto fino ad ora alcun segno di collaborazione da Scuola-Città se non richieste di dare e tentativi di prendere. Non posso lasciarmi carpire il frutto del mio lavoro nel modo che la Signora Codignola intenderebbe. In ultimo c’è l’accenno alla minaccia di farmi perdere l’autonomia. Credo che la scuola nelle mani della signora Codignola sarebbe molto meno autonoma di quello che siano le scuole alle dipendenze dello Stato. Il Provveditore mi disse partendo: Ella non ha altri superiori che me e il suo Ispettore che le vuol bene 560. Ad evidenziare la distanza esistente tra le due esperienze pedagogiche toscane fu il congresso per la «Settimana internazionale di studio per l’infanzia vittima della guerra» che si tenne pochi giorni dopo a Rimini, nel maggio 1947. Durante i lavori Anna Maria Codignola presentò un intervento assai polemico verso una classe magistrale pigra e non incline ad accettare gli stimoli e le novità didattiche provenienti dall’estero. Secondo la ricostruzione fatta dalla Maltoni l’intervento della moglie di Codignola fu veemente contro le manchevolezze dei maestri italiani, che definì addirittura «ignoranti, scimmie, presuntuosi» e creò un forte imbarazzo nell’uditorio composto da insegnanti e ispettori scolastici. Poco dopo seguì l’intervento della Maltoni che espose le Linee di programma secondo la scuola di San Gersolè, presentando la sua esperienza come un modello sostanzialmente alternativo a quello di Scuola-Città e in ragione di ciò i convegnisti si divisero in due gruppi, uno sostenitore dell’esperienza dei Codignola ed uno della scuola di San Gersolè. Raccontava la Maltoni: Fu dietro questo infelicissimo discorso che l’assemblea si divise. Erano presenti molti vecchi maestri, alcuni vecchi Ispettori, che pur fosse stato vero quanto la Signora Codignola affermava, e non era vero, era delicatezza trattare con rispetto […] Da quel punto la Signora Codignola fu per i più liquidata: solo gli stranieri, qualche giovane e un Direttore vennero a darle la mano perché aveva detto giusto. Volendo sintetizzare quanto successo a Rimini, la Maltoni scriveva, ostentando una raggiunta considerazione di sé, che il modello di San Gersolè era quello che aveva riscosso maggiore simpatia e interesse durante i giorni del convegno riminese. Infatti «tutta la scuola seria, anche barbosa, anche pedante, anche burocratica se vuole, ma che ha l’intuito e sa subito distinguere ciò che è buono da ciò che è cattivo, ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è genuino da ciò che 559 Scrisse Codignola: «Essi avrebbero dovuto recare per es.: oltre l’indicazione della scuola di S. Gersolè, anche l’indicazione di Scuola-Città, di cui S. Gersolè fa parte. La collaborazione deve essere piena e non limitata a pochi atti sporadici, altrimenti non avremo nessun diritto, al momento opportuno, di chiedere che il regime di Scuola-Città sia esteso anche ad altre scuole» (BCI, AMM, Lettera di Codignola alla Maltoni, 18 marzo 1947). 560 BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Bettini, 29 marzo 1947. 195 non lo è, […] è decisamente contro Scuola-Città, e, strano, in queste riunioni per opposizioni ad essa si è raggruppato intorno a S. Gersolè». Se tale interpretazione poteva essere nella realtà esagerata, tuttavia il convegno di Rimini permise alla Maltoni di instaurare contatti con alcuni ispettori della Romagna interessati a conoscere le tecniche adottate nel suo insegnamento. In tal senso la maestra fu invitata nel luglio ’47 a Ravenna dall’ispettore Foggi per illustrare ai colleghi gli orientamenti educativi seguiti a San Gersolè; inoltre, prese contatti con l’ispettore Luigi Arnaud, già funzionario dell’Ente di Cultura di Ernesto Codignola negli anni Trenta, e cercò di creare una rete di collaborazione con alcuni di essi al fine di diffondere, pur nella ristrettezza dei mezzi a sua disposizione, l’indirizzo educativo di San Gersolè. Ad una maestra nonché sua ex compagna al tempo della Scuola Normale, rivista al convegno di Rimini la Maltoni scrisse: Vidi mercoledì mattina il tuo ispettore; parlammo a lungo e in modo interessante; potrò influire attraverso lui e i suoi direttori sulle vostre scuole e lo farò cercando di raccogliere tutte le forze della mia esperienza. Una cosa è significativa e mi dà coraggio, nel timore che spesso mi prende (quando vedo il rumore che si fa intorno a ScuolaCittà di cui conosco gli errori) che si porti la scuola a smarrirsi[…] Essi istintivamente hanno intuito che fra le due scuole, Scuola-Città e la scuola di San Gersolè, pur legate da uno scopo unico, una è l’opposto dell’altra, una ucciderà forse l’altra e hanno scelto la scuola di San Gersolè561. Intanto anche sul fronte editoriale la Maltoni non aveva smesso di lavorare di buona lena. Nel 1945 ella aveva stilato la bozza di un sillabario da stamparsi per l’editore «La nuova Italia» di Firenze ma, dopo essere stato sottoposto al vaglio della Commissione Centrale per i libri di testo e rilevate alcune modifiche da apportare, il progetto si era arenato. Con lo stesso editore la Maltoni aveva nello stesso periodo progettato anche la realizzazione di «volumi di lettura amena scritti e illustrati direttamente dai bambini». L’editore Tristano Codignola, pur dicendosi «incerto circa l’effettiva possibilità di diffusione commerciale di opere di questo genere» aveva invitato la maestra a stendere le bozze di questo lavoro in attesa di ulteriori valutazioni. Non conosciamo la ragione del mancato sviluppo del progetto editoriale con «La Nuova Italia», su cui forse fu determinante l’avvenuta rottura dei rapporti con Ernesto Codignola, fatto sta che la Maltoni non si rassegnò e dopo quattro anni, nel 1949, pubblicherà con la casa editrice «Il Libro» di Firenze il suo primo lavoro, I diari di San Gersolè. Decisiva era stata la mostra con i disegni dei suoi bambini tenutasi nell’autunno 1948 alla Galleria «Vigna Nuova» di Firenze che le permise di conoscere Sergio Santi, proprietario della casa editrice «Il Libro», con cui nacquero ambiziosi progetti. Ricordava la Maltoni: Mi parlò di fare delle pubblicazioni; io aderii con entusiasmo, gli feci tutto un piano di lavoro ed egli pose mano all’opera. Il libro dei diari non è che il primo volume di tutto quello che abbiamo stabilito e che è già in preparazione. L’Editore che doveva impiegare parecchi milioni in quest’opera immaginando che altri editori mi sarebbero venuti a fare altre proposte mi chiese una garanzia, e ne aveva il diritto, e io gli firmai un impegno in cui mi legavo a non dare materiale da me ottenuto a nessuno e per nessuna ragione. A quella data la Maltoni ormai ostentava sicurezza nel trattare con gli editori, nel collaborare con gallerie d’arte per allestire quelle che saranno le numerose mostre dei disegni dei suoi bambini, di intervenire anche con piglio polemico per difendere la sua scuola. E con un certo orgoglio rispose a Bettini il quale dovette rimanere colpito dall’intraprendenza raggiunta dalla 561 BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni ad Anita (senza cognome), 16 maggio 1947. 196 Maltoni che da sola era riuscita a pubblicare un libro e che ora negava al suo amico ispettore di consegnargli altro materiale su San Gersolè, che egli aveva richiesto perché intenzionato a scrivere ancora sulla scuola toscana. Né la Maltoni si fermò qui. Tra il 1949 e il ’50 lavorò alla stesura, insieme all’ispettore scolastico di Firenze, Achille Guerra, di due libri di letture per la quarta e quinta classe, intitolati Vita. I due libri venivano editi nel 1950 da Marzocco-Bemporad e contenevano alcuni brani tratti dai diari dei suoi alunni, nonché alcuni disegni. L’accoglienza de I diari di San Gersolè, accompagnata da una lunga serie di mostre di disegni a Pisa, Torino, Milano, Genova, fu piuttosto favorevole e incontrò giudizi positivi in Ada Marchesini Gobetti, in Emilio Cecchi, in Franco Antonicelli, in Giorgio Gricolli, direttore della rivista per giovani «Junior», destando interesse perfino all’estero562. Lo stesso Bettini, che pur dispiaciuto dal diniego oppostogli alla sua richiesta di altro materiale di San Gersolè, scrisse una buona recensione del libro per «Scuola italiana moderna». L’unica voce fuori dal coro fu quella, peraltro nota, di Edoardo Predome, l’ispettore scolastico che aveva già stroncato nel 1940 il volume del Bettini sulla scuola della Maltoni. Con argomentazioni non dissimili da quelle usate allora, Predome affermò su «I diritti della scuola» che «la Maltoni forse non sa che dal 1924 in poi in molte scuole, anche cittadine, è venuto generalizzandosi l’uso del disegno come potente mezzo di ricognizione della vita circostante, come ginnastica dell’attenzione, come approfondimento del conoscere»563. Pur riconoscendo la qualità dei disegni, egli accusò la Maltoni di voler ricercare glorie personali nella sua attività didattica e di aver fondato, in buona sostanza, un metodo personale che ora ella intendeva propagandare ai maestri. Scriveva a tal proposito: Quello che ci persuade meno, delle cose di San Gersolè, è la condanna senz’appello delle comuni scuole, e i libri che vi si usano, secondo la Maltoni, non insegnano altro che banalità. Ora, francamente, tutti coloro che inventano o scoprono un metodo peccano quasi sempre di un tantino di esclusivismo, ed è ciò che sciupa le loro scoperte […] Sì, va bene, il disegno e i racconti briosamente vernacoli sono indicazioni preziose, ma non occorre dire che le comuni scuole (ossia le centocinquantamila scuole italiane) perdono il tempo insegnando soltanto…banalità, solo perché sono ancora fuori della regola di S. Gersolè564. La Maltoni non intese scendere in polemica con il Predome perché giudicò che fosse mosso dalla «malafede»565 e, orgogliosa dei giudizi positivi ottenuti, scrisse ad un suo corrispondente: Del resto è l’unica voce discorde, e quando una persona come Emilio Cecchi si è degnato di chiedere il libro da recensire e ha qualificati brani da antologia, tutti gli scritti che vi sono raccolti, che vuole che io prenda in considerazione la piccola voce di Edoardo Predome? Creda a me, il silenzio è quello che gli conviene; l’eco di quell’abbaiata si spengerà prima566. 562 L’editore Santi le comunicava di aver ricevuto dalla casa editrice americana «La Roy Publisher» la richiesta di una copia del volume ipotizzando un’edizione in inglese adattata specificatamente per gli Stati Uniti. BCI, AMM, Lettera di Santi alla Maltoni, 5 aprile 1949. Pochi mesi dopo venne pubblicato nella rivista «The Times Educational Supplement» del 24 marzo 1950 l’articolo dal titolo Experiment in Tuscany in cui si illustrava la scuola della Maltoni. 563 E. Predome, Commento a San Gersolè, «I diritti della scuola», n. 14, 2 maggio 1950, pp. 292-293. 564 Ibid. 565 BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a non meglio precisato destinatario. 566 Ibid. 197 Sebbene la Maltoni non avesse mai voluto fondare un metodo e, anzi, avesse aspramente criticato i metodi sia pubblicamente, sia nelle sue lettere con Bettini, affermando che il cuore dell’azione educativa risiedeva nel rapporto tra l’insegnante e le anime dei bambini, tuttavia era chiaro che lei intendeva difendere il suo sistema d’insegnamento e divulgarlo. Non a caso si veniva creando nei primi anni Cinquanta un piccolo seguito di ammiratori della Maltoni formato da maestri ed ispettori, che pur non presentando le caratteristiche che contraddistingueranno gli altri movimenti impegnati nel rinnovamento scolastico sorti in Italia in quel periodo, né potendo disporre di riviste e giornali propri, tuttavia si mantenne in contatto attraverso continui scambi epistolari con la maestra toscana. Il direttore didattico del secondo circolo di Imola, Lodovico Guerrini, per esempio, dopo aver letto I Diari e «la Sua prefazione, che vale un trattato di didattica», decise di consigliare ai suoi maestri di leggere quel libro perché «li usassero come validi mezzi d’inspirazioni didattiche» e alla fine dell’anno poté giudicare positivamente i risultati ottenuti. Poco dopo lo stesso Guerrini riconosceva il merito alla Maltoni di aver risolto: L’arduo problema del conflitto tra libertà e autorità che esiste nelle scuole fra alunni e maestri […] vedo bambini vivi a S. Gersolè e bambini ammaestrati a Scuola-Città; maggior autogoverno, senza «sindaco» e «assessori» nella scoletta di campagna, retta da una Maestra, che nell’artificiosa organizzazione di Firenze, ideata dal pedagogista 567. La Maltoni non cessò, peraltro, di difendere il suo metodo d’insegnamento di fronte al nascente successo che stava riscuotendo l’applicazione in Italia delle tecniche Freinet, introdotte negli anni Cinquanta dalla Francia, in specie, da giovani insegnanti che avevano dato vita al Movimento di cooperazione educativa e che si basavano sulle innovazioni didattiche concepite da Célestin Freinet568. Agli occhi della Maltoni quelle tecniche apparivano inutili e frutto del desiderio di voler a tutti i costi cercare del nuovo nel campo della didattica, mentre per ella la sua scuola, sia pure tacciata di «tradizionalismo», sembrava migliore in quanto prodotto di una continua analisi condotta dalla maestra intorno alla propria azione pedagogica. Non dissimili erano le valutazioni espresse alla Maltoni dal «lombardiano» Bettini che giudicava «il metodo Freinet uno dei tanti espedientacci che servono a far perdere un po’ di tempo ai maestri. Se si tratta di lavoro, io preferisco quello della terra, o del legno e del ferro»569. Della combattività della maestra è testimonianza la polemica che ella generò con i seguaci italiani del metodo Freinet, allorché nel 1957 decise di inviare una lettera al Movimento nella quale indicava quelli che a suo modo di vedere erano gli errori di fondo del loro metodo. Nella lettera, che fu pubblicata nel loro bollettino, scriveva la Maltoni: mi sono accorta che abbiamo gli stessi fini, non usando forse gli stessi mezzi e qualche volta anzi, andandovi con mezzi opposti. Ad esempio io credo soprattutto, nella concentrazione dell’alunno in se stesso, per meglio esaminarsi, per meglio esaminare gli ambienti e le cose, quindi nel lavoro compiuto in un sempre maggior ordine, in un sempre più raccolto silenzio. Se bene esaminiamo, la differenza fra i lavori che noi otteniamo mi dà ragione, io sento cioè, leggendo quello che i miei ragazzi mi esprimono di sé, un più virile accento, una maggior penetrazione di osservazione e di riflessione, una più minuta ed efficace espressione, che, intendiamoci, non ha valore che per la progressiva misura dell’uomo futuro che si va formando570. 567 BCI, AMM, Lettera di Guerrini alla Maltoni, 4 ottobre 1950. Sul Movimento di Cooperazione Educativa in Italia si rinvia a E. Catarsi, Fréinet e la “pedagogia popolare” in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1999. 569 BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 6 dicembre 1956. 570 Problemi e discussioni. Una lettera al MCE, «Cooperazione educativa», n. 3, 1957, p. 4. 568 198 Uno scambio vivace di opinioni seguì sulle pagine del bollettino e in una risposta alla Maltoni i seguaci di MCE respinsero la critica di non comprendere a fondo l’animo dei ragazzi con queste parole: Ma come potremmo noi del MCE avere comune con lei il fine altissimo di educare nel fanciullo l’uomo, nel senso nobile della parola, se non possedessimo che i frammenti superficiali dell’animo dei nostri ragazzi? Sarebbe ben misera cosa l’opera nostra se ci restassero ignote le vie che conducono là dove si annida il nostro io più profondo! La socialità, così come noi l’intendiamo non ostacola di certo il muto ed eterno dialogo fra anima in boccio ed anima matura, noi amiamo però ritrovare subito le diverse voci armoniosamente accordate, in un coro che le renda individualmente arricchite dal contributo comune. Si coglie nelle parole della Maltoni, a cui fanno eco quelle di Bettini, l’impressione che l’idea di scuola da essi stessi concepita e difesa per tanti anni di dure battaglie cominciasse ad apparire nel corso degli anni Cinquanta «tradizionale» nel confronto con le nuove esperienze di rinnovamento didattico che stavano sviluppandosi; eppure la maestra di San Gersolè continuò a sostenere la bontà e l’efficacia delle sue linee educative, convinta in ciò dai risultati ottenuti e riconosciuti anche dall’interesse dell’editoria571. Proprio nei primi anni Cinquanta giungeva, a questo proposito, come ulteriore riconoscimento la proposta dell’Einaudi di tornare a stabilire una collaborazione, dopo l’arenato progetto del 1939 di Antonicelli. I contatti con l’editore torinese furono ripresi nel 1952 per mezzo della mediazione di Aldo Andreotti, amico della maestra toscana572. Nell’ottobre di quell’anno Andreotti informava la Maltoni che l’editore torinese era «dispostissimo a fare una nuova edizione rinnovata nei disegni e nei diari usando del materiale» nuovo e le consigliava di prendere contatti con il suo ex compagno alla Scuola Normale di Pisa, Giulio Bollati, impiegato alla Einaudi573. In realtà, come è noto, occorrerà attendere il 1959 perché il libro a lungo caldeggiato potesse essere pubblicato con il titolo I quaderni di San Gersolè, dopo un lungo lavoro di revisione del materiale condotto dalla Maltoni e da Gigliola Venturi, con la prefazione di Italo Calvino574. Nel 1963 sarà la volta de Il libro della natura, edito sempre da 571 Luciana Bellatalla ha sostenuto, a questo proposito, che «con una posizione di rottura con l’MCE e l’attivismo, nel 1957, l’esperienza straordinaria e solitaria della Maltoni finisce per isolarsi ancora di più. Ciò non significa che le scelte del Movimento di cooperazione educativa o di Scuola-città Pestalozzi siano, in linea di principio, più valide rispetto a quelle della Maltoni. La maestra di San Gersolè ed i maestri cosiddetti “popolari” rappresentano momenti storici ed ambientali diversi […]. La Maltoni è, per così dire, la maestra “idealista” del mondo rurale […] Il Movimento di cooperazione educativa è invece figlio del Pragmatismo pedagogico, si lega maggiormente alla realtà cittadina» (L. Bellatalla, Riviste, centri culturali, editoria e scuole-pilota, in La Toscana e l’educazione dal Settecento a oggi, cit., p. 459). 572 Da una lettera della Maltoni del maggio 1953 si apprende che già da tempo l’editore Sergio Santi aveva cessato la sua attività. Per tale ragione la maestra dichiarava nella stessa missiva di ritenersi «sciolta da ogni preventivo impegno di pubblicazioni» e di apprestarsi a collaborare con Einaudi (BCI, AMM, Lettera della Maltoni a Santi, 14 maggio 1953). 573 BCI, AMM, Lettera di Andreotti alla Maltoni, 31 ottobre 1952. Allo stesso modo il direttore didattico di Sant’Arcangelo di Romagna, Paolo Api Frisoni, e il maestro Elio Scala di Arezzo si mantennero in contatto con la Maltoni, di cui apprezzavano l’indirizzo pedagogico. 574 Il progetto per la pubblicazione del volume presso Einaudi andò a rilento anche a motivo dei timori della casa editrice intervenuti a seguito del cambiamento dell’assetto societario, come lascia capire chiaramente una lettera inviata dalla Maltoni ad Emilio Cecchi del 1955 nella quale ella offrì allo studioso la possibilità di scrivere la presentazione al libro in modo da velocizzare il 199 Einaudi, con la collaborazione della Venturi, seguito da Esperienza ed espressione a San Gersolè, pubblicato da «La Scuola» di Brescia nel 1964, anno della sua morte. Se sul fronte editoriale il percorso compiuto dalla maestra di Dovadola si era concluso con i prestigiosi riconoscimenti tributati da due tra le più importanti case editrici italiane, tuttavia l’energica Maltoni negli ultimi anni della sua vita non aveva lesinato fatiche per «salvare» la sua scuola, una volta che ella avesse raggiunto l’età per il pensionamento. Nel timore che quell’avvenimento avrebbe compromesso definitivamente la sua scuola, qualora fosse finita in mani non esperte, ella lottò per scongiurare la messa a riposo imposta dalla legge, inviando richieste «per il salvataggio di San Gersolè» a personalità importanti come Giorgio Gabrielli all’epoca funzionario ministeriale, al fedele ispettore Bettini e allo storico animatore della rivista «Scuola italiana moderna», Vittorino Chizzolini. Se ne interessò, come è noto, anche Piero Calamandrei che nell’agosto 1956 dedicava su «Il Ponte» un articolo alla scuola e alla maestra che pochi giorni dopo sarebbe andata in pensione. Gabrielli le scrisse di ben comprendere quello che lei temeva «perché anche per il Gianicolo di Roma è accaduto quanto ora Lei mi denunzia per la storica scuola di S. Gersolè». Dal canto suo la Maltoni assisteva, impotente e avvilita, al venir meno della creatura a cui aveva consacrato tutta la propria esistenza. Scriveva a questo proposito: È, mi pare, come se, morto un artista si facesse man bassa di quadri, statue o altro di quanto egli avesse potuto creare, sì da cancellarne anche il ricordo o, peggio ancora, gettare il ridicolo sull’opera da lui compiuta 575. Il desiderio di poter continuare ad insegnare ancora per del tempo con a fianco una nuova insegnante che potesse comprendere «lo spirito e desiderasse continuare in quello, impegnandovi la propria personalità, non per copiare, ma per continuare, magari in forme nuove a lavorarvi», progetto editoriale. Scrisse la maestra: «L’editore Einaudi che da due anni mi promette la pubblicazione del materiale che gli ho già consegnato e mi fa lavorare alla raccolta di altro, oggi a mezzo del dott. Aldo Andreotti, dell’Università di Torino, mi fa scrivere così: “Ho veduto Bollati e da quel che ho capito risulta che la faccenda dei suoi libri va parecchio a rilento. Le ragioni del ritardo sono dovute al fatto che, dacché la casa editrice è diventata anonima, Einaudi è preoccupatissimo di far quadrare il bilancio e non è sicuro se quel libro sia un affare vantaggioso, tanto più che non rientra in nessuna collana e, in un paese arretrato come il nostro, la gente compra i libri più per le dimensioni del formato che per il contenuto, incredibile ma vero. L’unica soluzione che certamente spingerebbe Einaudi a decidersi subito, anche senza collana, sarebbe la possibilità di avere al volume una presentazione di Emilio Cecchi; ora ho parlato al Bollati anche di questo; lui la pensa la soluzione migliore; farà scrivere direttamente al Cecchi, mentre tu, da parte tua, potresti scrivergli anche. Naturalmente Cecchi avrebbe un regolare contratto con Einaudi”. Questa è la ragione per cui mi rivolgo a Lei. Sono sicura che se Ella potrà esaminare il materiale non lo troverà indegno della Sua penna. La mole del libro si può aumentare quanto si desidera poiché di materiale io ne ho grande abbondanza e tutto ugualmente vario e originale» (Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», Gabinetto G. P. Viesseux, Firenze, Fondo Emilio Cecchi, EC. I. 1190.3, Lettera della Maltoni a Cecchi, 6 novembre 1955). Cecchi non collaborò all’edizione del libro che diversamente uscì con la prefazione di Italo Calvino. Dal canto suo Cecchi non giudicò molto positivamente quel libro come si evince da una lettera della Maltoni del 1961: «Ma Lei, perché non volle aiutare Einaudi e me a compilare quell’opera che entrambi giudichiamo ora non bene riuscita? Credo che ne avremmo insieme fatta qualcosa di utile e originale» (Ivi, EC. I. 1190.9, Lettera della Maltoni a Cecchi, 7 gennaio 1961). Nel fondo «Emilio Cecchi» si conservano 10 lettere della Maltoni scritte tra il 1949 e il 1961. 575 Ivi, minuta della lettera della Maltoni a Gabrielli, 30 giugno 1956. 200 non fu esaudito e il 30 settembre scattò il pensionamento. Non si deve, tuttavia, pensare che la Maltoni abbandonasse per sempre la sua scuola e non rassegnandosi al destino riuscì, dopo aver superato le resistenze burocratiche incontrate, a far impiegare in essa due insegnanti, i coniugi Vittorio e Giuliana Poggi, che reputò degni di continuare la sua opera. Per i restanti otto anni della sua vita ella non mancò di tornare a visitare saltuariamente San Gersolè e, preoccupata che gli aridi provvedimenti ministeriali e le decisioni prese dall’alto potessero indebolire lo spirito della scuola, si convinse della necessità di dover fare qualcosa. Nel 1957 avanzò, quindi, ad Enzo Petrini, direttore del Centro Didattico Nazionale di Firenze, la proposta di far assumere la direzione di San Gersolè al Centro stesso, nella speranza di garantire una maggiore autonomia nelle nomine degli insegnanti e nello svolgimento della didattica576. La soluzione fu caldeggiata anche da Bettini che ipotizzò di fare della scuola toscana un esempio a livello nazionale da seguire per l’ordinamento delle migliaia di scuole pluriclassi ancora in funzione allora in Italia577. Sul piano istituzionale gli sforzi profusi nell’opera di propaganda pedagogica della scuola toscana riuscirono solo parzialmente: essa infatti venne definita nel 1960 «scuola sperimentale» ma ancora l’anno successivo il ministero comunicava la sua intenzione di non procedere «almeno per il momento, al formale riconoscimento della Scuola sperimentale con l’emanazione di apposito decreto»578. In ragione di quanto è stato fin qui detto si può, quindi, sostenere che la fase successiva al pensionamento costituì per la Maltoni il momento più fecondo per portare avanti quell’opera di divulgazione della sua esperienza didattica, potendo disporre di più tempo e, soprattutto, della possibilità di attingere alla gran mole di quaderni e disegni che conservava in casa. A questo proposito si tenga presente che nel 1959 uscivano i Quaderni di San Gersolè, presentati al pubblico «come un vero e proprio testo di lettura per le scuole elementari italiane»579 presso il quale riscossero un buon successo580, e l’anno successivo, mentre attendeva che andassero in porto altri lavori con Einaudi, ella già ipotizzava di dare vita con un editore minore ad una raccolta di «racconti più brevi dei libri per bambini piccini, genere di libro che manca assolutamente»581. Nel 1963, ad un anno dal sopraggiungere della morte e nonostante i problemi di salute sempre più frequenti, era immersa nel lavoro per le nuove pubblicazioni, tra cui un libro «che tratti del tema continuato di osservazione» che aveva proposto all’editrice «La Scuola» ed «uno o 576 Sulla storia del Centro Didattico Nazionale di Firenze si veda il recente lavoro di Pamela Giorgi (a cura di), Dal Museo Nazionale della Scuola all’Indire. Storia di un Istituto al servizio della Scuola italiana (1929-2009), Firenze, Giunti, 2010. 577 Scriveva Bettini: «Sono stato lunedì sera al Centro didattico nazionale di Firenze dove speravo di poterla rivedere e salutare. Ho parlato della necessità di assumere in proprio la Scuola di S. Gersolè – unica scuola rurale completa in Italia fuori del Trentino e della vicina prov. di Sondrio, che possa servire di esempio per l’ordinamento da dare alle 20 mila sedi scolastiche con scuola affidata a 1 e a 2 insegnanti» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 12 dicembre 1957). 578 Copia della lettera dell’Ispettrice Nozzoli, della seconda circoscrizione dell’Ispettorato Scolastico di Firenze, agli insegnanti Vittorio Poggi e Giuliana Giovannini Poggi, 10 luglio 1961. 579 Tale fu la definizione concordata dai curatori del libro, Bollati e Venturi. 580 Da una lettera della Venturi si apprende che la vendita del libro era «bene avviata: delle 5.000 copie del libro ne erano già state acquistate – al 31 dicembre ’59 – e cioè neppure un mese dopo la sua apparizione –circa la metà (BCI, AMM, Lettera della Venturi alla Maltoni, 8 aprile 1960). Il volume esaurì nel giro di poco tempo e nel 1963 fu stampata una nuova edizione con una tiratura di 5.000 copie. 581 Ivi, Minuta di lettera della Maltoni alla Venturi, 26 gennaio 1960. 201 due libri sull’insegnamento delle scienze studiate col disegno dal vero» da pubblicarsi con Einaudi. In un primo momento, infatti, due dovevano essere i volumi dedicati alle scienze, di cui uno sulle piante ed uno sugli animali ma alla fine l’editore torinese pubblicò soltanto Il libro della Natura, che riuniva disegni sia vegetali che animali582. La dinamica Maltoni chiudeva la sua avventura umana con la soddisfazione di sapere che alcuni disegni dei bambini di San Gersolè venivano esposti a New York nel corso del 1964 in una mostra itinerante all’interno dei musei scolastici, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura e dal Board of Education della città statunitense583, replicando un’analoga mostra di disegni dei suoi alunni che si era svolta nella medesima città nel 1946, e soprattutto lavorando al progetto, mai portato a termine, di un terzo volume con la casa editrice Einaudi che raccogliesse i disegni e le composizioni dalla prima alla terza classe elementare, e attendendo alla pubblicazione di Esperienza ed espressione a San Gersolè uscito nel 1964. 5. Una maestra «scomoda»: il fascismo e Maria Maltoni A conclusione di questo studio sull’opera pedagogica di Maria Maltoni non si può non tenere in debito conto le vicende politiche e sociali che fecero da sfondo al nascere e allo svilupparsi dell’esperienza scolastica di San Gersolè. Sapendo che la maestra cominciava a muovere i primi passi dell’itinerario che l’avrebbe resa famosa durante gli anni Venti e Trenta, ci si potrebbe allora chiedere quali furono i rapporti che si instaurarono tra la Maltoni e il fascismo, e verificare in quale misura la sua azione pedagogica dovette confrontarsi con il regime. Si deve, anzitutto, dire che la Maltoni dall’iniziale repubblicanesimo connotato di forte tinte anticlericali che aveva caratterizzato la sua gioventù, seguì un percorso che, passando attraverso la Grande Guerra, la fece approdare su posizioni interventiste. Sarà poi l’incontro con la dottoressa Orioli, di fede nazionalista, a spingere la Maltoni su posizioni analoghe. Si trattava, però, di un nazionalismo che poco aveva a che fare con i grandi proclami bellicisti e con la retorica parolaia. Esso era, piuttosto, il frutto di una amara constatazione che la Orioli maturò in se stessa dopo aver lavorato per tre anni all’Ospedale italiano di Buenos Aires. In quell’occasione aveva potuto toccare con mano le sofferenze dei connazionali emigrati, esperienza che fu per ella, come ebbe modo di dire, «una grande scuola di nazionalismo realistico». Si trattava, quindi, di un nazionalismo non ideologico e fine a se stesso, ma avente l’obiettivo di migliorare le reali condizioni di vita del popolo italiano e di metterlo al pari delle altre nazioni moderne. Dopo l’esperienza argentina per la Orioli era apparsa fondamentale «la necessità per il nostro paese di essere disciplinato, lavorar sodo, produrre, educarsi, fare di ogni italiano un uomo in grado di rappresentare onorevolmente il suo paese e sentivo il danno che gli veniva da quel ballo di S. Vito delle competizioni politiche in cui si esaurivano tutte le sue energie». Di certo gli orientamenti della dottoressa Orioli ebbero un’influenza determinante sulla coscienza politica di Maria Maltoni, 582 Si apprende della notizia delle due pubblicazioni sulle scienze da una lettera della Venturi alla Maltoni del 22 giugno 1959. 583 Negli Stati Uniti furono inviati «42 cartoni (cm. 50×70) contenenti complessivamente 110 disegni di allievi delle classi IV e V», mai restituiti. BCI, AMM, Copia di lettera di Gigliola Venturi al Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, 3 luglio 1964. 202 la quale, alla stessa stregua, guardò con favore alla nascita del movimento fascista, come alcune testimonianze attestano584. Fu nel corso degli anni Trenta che maturò nella Maltoni, e contemporaneamente nell’amica Orioli, una profonda disillusione verso il fascismo motivata dall’emergere con chiarezza di tutti i suoi limiti: il regime non riusciva o non voleva, in verità, migliorare concretamente le condizioni di vita dei contadini e, più in generale, favorire l’elevazione morale e culturale nelle campagne; sovente gli interpreti a livello locale del fascio erano persone incapaci e mosse solo da interessi personali, che si disinteressavano o, peggio, schernivano l’impegno profuso in favore dell’educazione dei bambini; talvolta i Comuni apparivano sordi alle richieste delle maestre e delle famiglie e non fornivano, come avrebbero dovuto, l’assistenza scolastica (mensa, libri, quaderni, ecc…) agli alunni bisognosi585. La combattiva maestra Maltoni, affiancata dall’energica Orioli, non si rassegnò e cominciò a indirizzare al Comune e al Direttore scolastico ripetute segnalazioni per risolvere i problemi che di volta in volta si presentavano. Di fronte al muro di ostilità e di resistenza incontrato nel Podestà di Impruneta e nelle autorità scolastiche – ad eccezione del fedele ispettore Bettini con cui la corrispondenza era continua – nel novembre 1935 la dottoressa Orioli decise di rompere gli indugi e di pubblicare, con il benestare di Ernesto Codignola, su «La nuova scuola italiana» un articolo dal polemico titolo «Istruzione elementare gratuita?»586. In esso, la Orioli, che firmava il pezzo con uno pseudonimo, rilevava criticamente come il principio della gratuità della scuola primaria sancito dalle leggi fosse, nella realtà dei fatti, non applicato a causa delle richieste di denaro che le autorità rivolgevano ai bambini per il pagamento della pagella di Stato, della tessera dell’O.N.B. e per iscrizioni ad altre associazioni (Croce Rossa Giovanile, Società Dante Alighieri, Piccolo Risparmio Scolastico, ecc.). Questo stato di cose era tanto più preoccupante perché andava a gravare sulle spalle delle numerose famiglie contadine che dovevano sopportare spese non indifferenti nel caso in cui avessero più di un bambino in età scolare. Scriveva nell’articolo a questo proposito la Orioli: Rarissimi sono i Comuni che fanno l’elenco degli obbligati e dove non c’è lo zelo illuminato di qualche insegnante che rastrella ogni anno i bambini che debbono frequentare la scuola, è ancora possibile lasciar crescere i 584 In una lettera del 1950 all’avvocato Coppini, già esponente fascista, ella stessa affermava: «Comprendo totalmente i sentimenti che l’ispirarono nel ’21 e ’22 perché li condivisi» (BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Coppini, 12 giugno 1950). 585 Si veda la lettera della Orioli a Codignola in cui emerge la disillusione verso il regime ma anche verso il liberalismo fiorentino che, alla stessa stregua, non aveva risolto i problemi dell’istruzione dei ceti popolari: «Per me lo Stato – quando è uno stato che sa mantenere l’ordine, è il minore dei mali. Sta alla virtù dei cittadini di farlo diventare qualche cosa che sia vicino al bene […] La virtù dei cittadini l’insegna la Scuola e l’esempio della dignità di vita che ogni cittadino, in ogni condizione può dare. I liberali fiorentini hanno il culto della iperintellettualità ma come cosa avulsa dalla vita collettiva. […] Il fascismo ha commesso molti gravissimi errori, ma ha anche le spalle grosse. Chi impediva alla Toscana liberissima di far osservare la legge sull’istruzione obbligatoria avanti la guerra? Chi ha impedito a Firenze a farsi le cloache, gli acquedotti che Roma si faceva ai mitici tempi dei Re? […] Il maggior errore del fascismo è stato questo di non curare come lui solo avrebbe potuto l’educazione del popolo italiano; in 14 anni potrebbe ora contare su forze nuove collaboratrici spontanee e coscienti di quanto il fascismo è vitale» (AEC, Corrispondenza, Lettera della Orioli a Codignola, 22 gennaio 1936). 586 Alcuni insegnanti, Istruzione elementare gratuita?, «La nuova scuola italiana», n. 5, 11 novembre 1935, pp. 193-194. 203 ragazzi analfabeti […] Maestri di buona volontà si danno attorno per alleviare il disagio delle famiglie procurando fra gli scolari il prestito scambievole dei libri di testo usati o contribuendo in parte a pagare la quota di sei lire quando sanno di casi nei quali non è possibile nemmeno a piccole rate ottenere che vengano pagate 587. L’articolo, pur trattando il problema in modo generale, conteneva espliciti riferimenti alla realtà locale e, segnatamente, ai Comuni di Bagno a Ripoli, Impruneta e Scandicci, i cui Podestà avevano emesso i manifesti per l’apertura delle scuole per l’anno 1935-’36, contenenti le precise richieste di denaro alle famiglie degli alunni. Assai più polemico era il corsivo posto in calce all’articolo della Orioli e firmato dalla redazione, e quindi riferibile verosimilmente a Codignola, in cui con piglio ironico si criticava, neanche troppo velatamente, l’O.N.B. e il ministro dell’Educazione Nazionale. Si leggeva nel corsivo: Ci permettiamo di richiamare la personale attenzione di S.E. il Ministro dell’Educazione Nazionale sul grave problema delle tasse e delle sottoscrizioni nelle scuole elementari, le quali per legge dovrebbero gratuitamente impartire l’istruzione e la educazione ai figli del popolo. È vecchia piaga che né circolari né leggi né proteste di uomini di scuola e di interessati sono valse a curare: riuscirà la ben nota energia del Quadriumviro a estirpare il male? Ne siamo sicuri. Fino a quando vi saranno direttori e ispettori che negheranno spietatamente la qualifica di valente o considereranno addirittura come tiepidi fascisti o cattivi italiani i maestri che non siano riusciti ad ottenere l’iscrizione totalitaria dei loro alunni all’O.N.B. o a smaltire quel certo numero di francobolli per la refezione scolastica che è loro assegnato con criterio spesso arbitrario ed illogico, non può meravigliare che si ricorra perfino all’espulsione per costringere a spremere dalle tasche paterne le molteplici prestazioni pecuniarie che le superiori autorità non si stancano giorno per giorno di richiedere… Ma alla…disinvolta audacia dei podestà di Bagno a Ripoli, Impruneta e Scandicci, con l’adesione aperta del direttore didattico, i quali con un pubblico manifesto impongono una tassa scolastica, che costituzionalmente solo una legge potrebbe stabilire, non si era ancora giunti 588. L’articolo della Orioli e il corsivo redazionale provocarono un vero terremoto all’interno della redazione della rivista fiorentina per le reazioni politiche che si scatenarono. Due settimane dopo il periodico fu costretto a pubblicare una rettifica589, e, stando a quanto scrisse successivamente Codignola, il Ministro in persona, Cesare De Vecchi di Val Cismon, lo destituì per punizione dall’incarico di direttore del Magistero di Firenze proprio a causa di quell’articolo, che era stato preceduto da altri di contenuto analogo. Ricordava Codignola: Il Ministro De Vecchi mi destituì da direttore del Magistero in seguito ad un articolo apparso sulla mia rivista didattica «La NSI» (11 novembre 1935), in cui un anonimo, che era la dott. Orioli, denunciava le malefatte di due membri dell’Opera Balilla. Il Ricci, che già due volte mi aveva chiamato a Roma, imponendomi in malo modo di non occuparmi più dell’Opera, chiese la mia testa a Mussolini e l’ottenne. Lo stesso giorno in cui io decadevo da 587 Ibid. Ibid. 589 Rettifica, «La nuova scuola italiana», n. 7, 1 dicembre 1935, p. 291. L’autore, che si siglava O.M., affermava di essere «incorso in buona fede in un errore che potrebbe dare adito a maligne supposizioni sull’efficienza della nostra Scuola Elementare e che desidero quindi rettificare. Il mezzo milioni di renitenti alla leva scolastica [citato nel proseguo dell’articolo, nda] mi è risultato sproporzionato e lontano dal quello effettivo, come del resto era già stato dimostrato con dati statistici precisi alla Camera dei Deputati da Sua Eccellenza il Ministro dell’Educazione Nazionale, nel mese di marzo scorso. 588 204 direttore del Magistero, con raffinata perfidia il segretario federale Ginnasi mi licenziava da presidente della Leonardo590. La reazione dei fascisti non risparmiò nemmeno la scuola della Maltoni. Su di essa, infatti, si concentrò il Direttore didattico che espresse la volontà di trasformare la scuola di San Gersolè in una «scuola unica» (con le sole prime tre classi) e di trasferirla alle dipendenze dell’Opera Balilla, progetto che lo stesso funzionario aveva già ipotizzato l’anno precedente ma che si era arenato grazie all’intervento dell’ispettore Bettini che difese la Maltoni e San Gersolè. In una lunga lettera in cui argomentava le ragioni dell’ostilità delle autorità politiche e scolastiche locali verso la Maltoni, così scriveva la Orioli a Codignola: More solito i colpiti dai fatti denunciati nell’articolo pubblicato da “Nuova Scuola Italiana” N. 5 “Scuola elementare gratuita” preparano le rappresaglie. Il direttore didattico della Maltoni le ha annunciato che farà il possibile per fare della scuola di S. Gersolè, dove la Maltoni insegna dal 1920-21 una scuola unica – cioè una scuola con le sole prime tre classi – per poi passarla all’O.N.B. La Maltoni avvicendando le classi con le colleghe della prossima scuola di Mezzomonte, distante circa un chilometro da S. Gersolè, conduce i suoi scolari dalla prima alla quinta; fa due classi per anno ogni classe ha sempre un buon numero di allievi: l’anno scorso erano 33 i ragazzi di I° e 16 quelli di V°. Quest’anno 30 sono i ragazzi di II° e 15 quelli di IV […] la quarta e la quinta di S. Gersolé raccolgono i ragazzi di una vasta zona lontana dalle scuole prossime. Quando la Maltoni venne qui eran rare le famiglie disposte a far frequentare queste classi ai loro ragazzi, già in età da rendersi utili nei lavori del campo, della bottega o della casa. Col suo assiduo lavoro di persuasione, col fare della Scuola un gradevole ambiente dove i ragazzi possono sempre mostrarsi quali sono, dove imparano quasi tutti con diletto, aiutati dalla genialità della maestra, dove nessuno è oppresso o compresso e anche gli asini son trattati con amore, ormai tutti fanno il corso elementare completo (sempre che le spese non sieno troppe). Fare di questa scuola una scuola unica vorrebbe dire fermare l’istruzione dei ragazzi di una vasta zona rurale alla terza elementare, che le famiglie delle case più lontane da Mezzomonte non vi manderebbero i figlioli591. Nessuna vera e sincera motivazione pedagogica si trovava, secondo la dottoressa Orioli, dietro il progetto prospettato dal direttore didattico. Al contrario, esso avrebbe aumentato la dispersione scolastica, vanificando il lavoro della Maltoni che aveva con difficoltà persuaso le famiglie contadine a mandare i bambini a scuola. Aggiungeva a questo proposito la Orioli: Già vediamo ora che tengono i bambini di sei anni a casa quando la prima non c’è nella scuola della Maltoni e aspettano a mandarli l’anno successivo. La prima vien fatta, salvo impedimenti, un anno sì, un anno no. I ragazzi delle altre quattro classi spesso ripetono volontariamente classi già fatte pur di non andare lontano. Non è dunque nell’interesse né dell’educazione dei ragazzi né del vantaggio delle famiglie che la scuola di S. Gersolé diventi scuola unica. Dal punto di vista dell’elevazione del livello dell’educazione rurale è un contrassenso [sic] tornare alla scuola unica, rudimento di scuola di scarso rendimento, tormentosa per scolari e maestri, giustificata solo dalle particolari condizioni di certe zone remote, disagiate, a popolazione scolare fluttuante. Il direttore didattico […] che l’anno scorso per mandare i ragazzi alle adunanze dei Balilla all’Impruneta li lasciava soli, sbandati percorrere i quattro cinque chilometri che li separano dalle loro case, senza curarsi delle ore dei pasti, delle famiglie che li aspettavano ansiosi, degli spiacevoli incidenti che succedevano sia perché fra una cinquantina di ragazzi ve ne son sempre alcuni di scarso giudizio, sia che raccogliessero provocazioni, questo direttore dunque giustifica il suo proposito di fare della scuola di S. Gersolè una scuola unica colla preoccupazione di mantenere a S. Gersolé ogni anno le prime tre classi onde impedire che i bambini abbiano a far tanta strada. In verità della scuola non glie ne importa nulla; egli cerca, d’accordo col Podestà dell’Impruneta e soprattutto col segretario comunale […], di togliere di mezzo la Maltoni che 590 Il ricordo di Codignola è tratto dal memoriale di difesa inoltrato alla Commissione per le sanzioni contro il fascismo, pubblicato in appendice al volume AA.VV., Ernesto Codignola in 50 anni di battaglie educative, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 187. 591 AEC, Corrispondenza, Lettera della Orioli a Codignola, 27 novembre 1935. 205 col suo zelo dà noia. Già l’anno scorso fu tentato questo passaggio della scuola di S. Gersolè all’O.N.B. Ne fu avvertito l’Ispettore Bettini, il Segretario Feder. Ginnasi che abbiamo conosciuto anni fa, e il Popolo d’Italia e non so chi sia riuscito a mandare a vuoto il tentativo. Il direttore […] ripete alla Maltoni a mo’ di scusa “Lei qui è sprecata”! Ma dato anche che la Maltoni possa trovare sede migliore, la popolazione riceverebbe danno da questa trasformazione di una scuola elementare completa in scuola unica. Se davvero al Comune dell’Impruneta stesse a cuore l’educazione del popolo, anziché far regredire la scuola di S. Gersolé alla condizione di scuola unica, approfitterebbe del terreno che la Maltoni colla sua passione di educatrice in questi anni ha preparato, per creare qui un focolare di istruzione post-elementare secondo lo spirito del Fascismo, o almeno di quel Fascismo che voleva essere rinnovamento di vita, bonifica di ogni energia nazionale, anche di quella delle classi umili. Che fare? Grata del consenso che trova in Lei chi difende la causa della scuola, la saluto 592. I rapporti della Maltoni con le autorità fasciste di Impruneta continuarono ad essere negli anni seguenti sempre caratterizzati dallo scontro aperto, sebbene – è giusto rilevare – nei suoi scritti, pubblicati tra il 1935 e il 1938, nella Didattica de «La nuova scuola italiana», ella non lesinasse alcuni elogi a Mussolini, alla riforma Gentile e al Ministro Bottai. Se essi fossero ispirati da sincera ammirazione verso il fascismo o, piuttosto, dall’esigenza di mettersi in qualche modo al riparo dalla persecuzione politica condotta dagli esponenti locali del fascio, non è possibile affermarlo con certezza. Sta di fatto che la Maltoni, ancora nel luglio 1935, non risultava iscritta al Pnf, per lo stupore di Bettini che in una lettera le chiedeva il perché 593. L’iscrizione al partito avvenne proprio dopo il 1935, come risulta dal fascicolo personale intestato alla maestra e conservato nell’archivio del Provveditorato agli Studi di Firenze594. Nel suo diario di memorie, redatto dopo il pensionamento, la Maltoni scriverà che la sua iscrizione avvenne contro la sua volontà e «fu escogitato» dal gruppo di avversari che aveva ad Impruneta. Secondo la ricostruzione della maestra, costoro avrebbero chiesto nel 1937 alla segretaria del Fascio femminile di Impruneta di indurre la Maltoni ad assumere l’incarico di direzione della sezione delle «Massaie rurali» nella frazione di Mezzomonte. Nell’offrirle quella carica, così scrisse la segretaria del Fascio femminile: Essendomi risultato che è un elemento veramente adatto per detta formazione, ma per far ciò bisogna che la Signorina sia iscritta a codesto Fascio Femminile, e sarei veramente felice di averla come mia fascista. Le accludo perciò la domanda per la sua iscrizione, più quella per le Massaie Rurali 595. Ripensando a quei fatti a distanza di anni, la Maltoni riconoscerà nel suo diario di aver compiuto un errore, ma sosterrà che altro non le era permesso di fare, se non rischiare l’accusa di antifascismo e la conseguente perdita del posto di lavoro. Scrisse a questo proposito nel diario: 592 Ibid. Scrisse Bettini a proposito di un concorso al quale la maestra voleva partecipare: «per poter concorrere è necessaria l’iscrizione attuale al Partito. La tessera che Ella ha del 1921 non è del Partito; e, pure denotando una attività lodevole, non Le potrebbe giovare. Ma perché non si è iscritta al Fascio?» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 3 luglio 1935). 594 Archivio di Stato di Firenze, Archivio del Provveditorato agli studi di Firenze, Fascicoli degli insegnanti, b. 83, fasc. «Maltoni Maria», c. 58. Per la verità nel fascicolo personale accanto alla data dell’iscrizione (1935) fu apposto un punto interrogativo. Nel suo diario la Maltoni dice di essersi iscritta tra il 1936 e il 1937. 595 La lettera fu trascritta dalla Maltoni nel suo diario (BCI, AMM, Diario A-3). 593 206 Certo, vista la cosa alla luce di oggi, io potevo rifiutarmi e rinunziare; ma allora..? Ah, debolezza, sì, e in me c’è ancora il rammarico di averla compiuta, ma come facevo? Il pane che si mirava a togliermi, chi me lo dava? Mandai la domanda firmata, accettai l’incarico col proposito di liberarmene alla prima occasione 596. In effetti la Maltoni si dimise poco dopo dall’incarico, come testimonia una lettera di Bettini che la consigliava di non persistere nelle sue intenzioni, ma di riprendere l’incarico597. I difficili rapporti con il Podesta di Impruneta e con altri dirigenti del fascio locale non erano iniziati, però, nel 1937. Già l’anno precedente la Maltoni ebbe un violento scontro con il giovane comandante dei Balilla del posto che pretese dalla maestra di San Gersolè, dietro l’autorizzazione del Podestà, di impartire la sospensione ai bambini che non si fossero recati alle adunate dell’O.N.B. La Maltoni confessò il suo sconcerto in una serie di lettere all’amico Bettini per quanto stava accadendo, nella speranza di trovare un rimedio e un sostegno. La scelta di sospendere gli alunni gli appariva inconcepibile dal momento in cui ella, dopo un lavoro iniziato nel 1920, allorché era giunta nel borgo toscano dove «non si aveva qui nessun concetto della scuola»598, era riuscita a fatica a persuadere le titubanti famiglie contadine dell’utilità e dei benefici portati dall’educazione ai loro figli. Questi risultati rischiavano, quindi, di essere vanificati dalla volontà di sospendere i bambini. Le appariva del tutto ingiustificabile pure il comportamento del Direttore didattico al quale sottopose il problema e dal quale si sentì rispondere, secondo quanto riferito dalla diretta interessata, una lapidaria e liquidatoria frase: «Non abbiamo altro mezzo perché bastonarli non dobbiamo…e l’Italia è fascista!»599. I problemi con l’Opera Balilla continuarono per tutto il 1936 quando la maestra doveva assistere alle continue interruzioni delle lezioni prodotte dall’ingresso in aula del comandante dell’ONB che accompagnava i bambini alle adunate e agli inutili sforzi fisici cui erano sottoposti in condizioni climatiche tutt’altro che favorevoli, sotto il sole, in orari centrali della giornata. Scriveva la Maltoni: I ragazzi venivano continuamente portati via dalla scuola appena iniziate le lezioni, dovevano fare continuamente la spola fra San Gersolè e Monte Oriolo, spessissimo venivano portati all’Impruneta, le lezioni erano continuamente interrotte, confusione e disordine, nessuno a capo, comandi da ogni parte, ordini e contrordini 600. Di fronte a questo stato di cose la maestra decise, durante la primavera del 1936, di non mandare i bambini alle adunate sostenendo che alcuni di essi fossero malati di tosse infettiva e chiese l’intervento di un medico che certificasse il loro stato di salute. Dopo aver incontrato ostacoli di varia natura, come la dichiarata indisponibilità di alcuni medici a svolgere le visite, la Maltoni decise di rompere gli indugi e di scrivere direttamente al Provveditore per esporre la sua versione dei fatti: Da una settimana si vanno moltiplicando nella mia scuola casi di fortissima tosse. I bambini hanno visi e occhi gonfi e durante l’accesso qualcuno ha sangue al naso. Martedì 8 c. denunziai al medico del Comune di 596 BCI, AMM, Diario A-3. Scrisse Bettini: «Credo, Signorina, che non faccia bene a rinunciare all’incarico avuto per le Massaie rurali, sottraendosi ad un dovere di patriottismo e di umanità. Faccia meglio che può, Lei, come sa farlo: che importa se altri che dovrebbe fare non fa o fa male [sic]?» (BCI, AMM, Lettera di Bettini alla Maltoni, 2 novembre 1937). 598 ISRT, Archivio «CLN di Impruneta», Copia della lettera della Maltoni a Bettini, s.d. ma 1936. 599 Ibid. 600 BCI, AMM, Diario A-3. 597 207 Impruneta i casi di tosse che erano 12, domandandogli come dovevo comportarmi […] I fanciulli anche quelli ammalati venivano raccolti alle 16,30 e, senza interruzioni, esercitati fino alle 19 o 19,30, sul sagrato della chiesa, o portati alle 11 per una strada completamente soleggiata e per buona parte in salita alla scuola di Monte, onde preparare […], esercizi coreografici, in aggiunta a quelli obbligatori 601. La Maltoni nella lettera al Provveditore raccontò che l’ufficiale sanitario aveva opposto il suo parere contrario alla visita con la seguente motivazione: «Io non li visito. Domenica c’è il saggio ginnico e in questi casi c’è sempre il pericolo di passare per antifascisti. Lei faccia fare il certificato […] al medico dell’O.N.B. e poi lo firmerò anch’io, così saremo in due a dividere le responsabilità»602. Secondo la ricostruzione della Maltoni l’indomani giunse in classe lo stesso ufficiale sanitario, in compagnia questa volta del comandante dell’Opera Balilla locale, e che in quella sede il medico mostrò tutt’altro atteggiamento, sostenendo che i bambini fossero sani. Ne nacque tra lui e la maestra un forte diverbio e quest’ultima decise allora di telefonare al medico provinciale «poiché avevo capito che – scrisse la Maltoni al Provveditore – l’intenzione del Podestà inviandomi il dottore a dichiarare […] che non vi erano fanciulli ammalati, era quello di farmi apparire ostile al saggio di domenica»603. La controversia si concluse con una visita medica, come voluto dalla maestra, che accertò in effetti la malattia di alcuni bambini, ma la Maltoni non la passò del tutto liscia. Le giunse, infatti, per tramite dell’ispettore scolastico Benedetti un provvedimento disciplinare preso a suo carico dal Provveditore con il quale si intimava alla maestra «una più scrupolosa osservanza dei suoi atti nei confronti dei Superiori Gerarchici, evitando per l’avvenire di prendere accordi diretti con autorità diverse da quelle scolastiche»604. La convivenza con le autorità fasciste imprunetine non fu facile nemmeno nei tempi successivi, né Bettini poteva più di tanto aiutarla605. La Maltoni e la Orioli, infatti, divennero un punto di riferimento per molte famiglie povere di San Gersolè e dei dintorni, alle quali procuravano, a seconda delle necessità, «quaderni (anche laddove il Comune non provvedeva), zoccoletti, grembiulini per la scuola, si lavoravan maglie di lana per l’inverno»606. Ricordava la Maltoni che qualche volta «andando in Comune a domandare cose che eran loro dovute, queste umili donne si siano sentite trattare come bestie e negare quello che chiedevano […]; in qualche altro caso s’è trattato di difendere veramente questa gente contro vere e proprie truffe; questa gente ricorreva a noi, Laura scriveva all’uno e all’altro e si otteneva giustizia, almeno in molti casi»607. La disillusione della Maltoni nei confronti del fascismo giunse al suo vertice nel corso del 1938, allorché venivano introdotte le leggi razziali in Italia. Per la Maltoni, che vantava da anni consolidate amicizie con alcuni ebrei fiorentini – tra i quali il professore Salomone Morpurgo e sua moglie Laura Franchetti, proprietari di una villa a Colle Secco, nelle vicinanze di Bagno a Ripoli, luogo nel quale la maestra di sovente trascorreva il pomeriggio in compagnia dei padroni 601 Ibid. Ibid. 603 Ibid. 604 Il provvedimento disciplinare è trascritto nel medesimo diario. 605 In una lettera del dicembre 1936 le scriveva Bettini: «Lavori per l’O.B., anche se trova che qualcuna de’ suoi zelatori non disinteressati non merita stima e considerazione. L’idea che regge la grande istituzione giovanile è ottima, e mai come oggi si vede la gioventù e la fanciullezza fatte segno a tante cure amorevoli» (BCI, AMM, Bettini alla Maltoni, 12 dicembre 1936). 606 BCI, AMM, Diario A-3. 607 Ibid. 602 208 di casa608 – fu l’ulteriore fatto che l’allontanò definitivamente dal regime, ammesso che nutrisse ancora qualche simpatia verso di esso. Si pensi, a questo proposito, che la biblioteca interna alla scuola di San Gersolè era intitolata a Giacomo Morpurgo, il figlio del professore Salomone, caduto durante la Grande Guerra, e che negli anni precedenti la famiglia Morpurgo aveva fatto dono alla stessa scuola di dischi per il grammofono, di una macchina per le proiezioni, di alcuni sgabelli e banchi. In dissenso con la politica antiebraica che aveva i suoi primi effetti sul versante scolastico con l’espulsione dei bambini ebrei dalle scuole italiane, la Maltoni volle come personale gesto di protesta dettare ai suoi alunni, il 3 settembre 1938, un componimento dedicato alla biblioteca che portava il nome dei Morpurgo che così si chiudeva: «Ben a ragione, dunque, la nostra biblioteca si onora del nome di Giacomo Morpurgo»609. La persecuzione contro la maestra di San Gersolè toccò il culmine dopo il 1938, quando fu oggetto di due denuncie. Secondo quanto riferito dalla stessa Maltoni, ella veniva accusata, in una lettera recante una firma di una persona inesistente, di «essere io amica di ebrei e quasi ebrea io stessa»610. La lettera fu inviata a Mussolini e quindi mandata alla Prefettura di Firenze che la inoltrò alla stazione dei carabinieri di Impruneta che tuttavia non poterono rilevare nulla a carico della Maltoni611. Ella stessa ricorderà nel suo diario di aver affrontato il maresciallo di Impruneta, dopo aver appreso per vie ufficiose di essere oggetto di una indagine. Secondo quanto scritto nelle sue memorie, il sottoufficiale le ammise candidamente che da un mese stava cercando, invano, prove sulla sua colpevolezza e riconobbe che dietro quella denuncia c’erano delle persone del posto mosse solo dalla volontà di discreditare la maestra612. Una seconda denuncia contro la Maltoni fu presentata dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Ricorderà la maestra in una lettera ad Ernesto Codignola: Il pretesto fu lo scoppio della guerra, per cui venni denunciata e accusata di anti-fascismo, di anglo-filia e di tedesco-fobia. […] Tutte le autorità locali erano legate contro di me e io non potevo contare sul favore di nessuno dei pezzi grossi del luogo, bensì potevo contare su quello del Popolo che mi conosceva; e il popolo fu unanime nel difendermi. Dietro tali accuse si sarebbero nascoste, secondo le ipotesi della Maltoni, alcune colleghe di scuole del circondario, nonché alcuni sacerdoti e fascisti di Impruneta. Scriverà la Maltoni al CLN: 608 La signora Fortunata Franchetti Treves di Firenze, nipote di Laura Morpurgo, conobbe Maria Maltoni nel 1942 quando la sua famiglia sfollò dalla città esposta ai bombardamenti nella campagna di San Gersolè, Pozzolatico e Grassina. In una memoria inviata allo scrivente nel maggio 2010, la signora ricorda le frequenti visite pomeridiane che la Maltoni era solita fare nella villa di Colle Secco. Scrive tra l’altro: «Mi pare che dicesse lei stessa che era dello stesso ceppo della madre di Mussolini, personaggio, Mussolini, che disprezzava apertamente senza paura di denunce». Nel dopoguerra, aggiunge la signora Franchetti Treves, «aveva già riconoscimenti, nonostante che affiorassero anche gelosie per i suoi straordinari risultati e discussioni circa il suo metodo anomalo d’insegnamento e circa il suo antifascismo». 609 BCI, AMM, Copia di un componimento dettato agli alunni il 3 settembre 1938. 610 La Maltoni lo afferma in una lettera ad Ernesto Codignola del 15 agosto 1945, conservata in AEC, Corrispondenza; ricorda di essere stata accusata di coltivare amicizie tra gli ebrei anche in altri documenti, come, ad esempio, nel diario personale. 611 Ibid. 612 BCI, AMM, Diario A-3. 209 Da loro partivano le accuse: Non insegnare io la storia dell’Impero; Fermarmi nell’insegnamento della storia alla grande guerra per non parlare della storia del fascismo; Non fare la così detta Cultura fascista 613. La caduta del fascismo nel 1944 rappresenterà per la Maltoni la fine di una lunga persecuzione, da cui rimase profondamente ferita. Lo spirito battagliero le permise, però, di reagire e di vivere in modo attivo e partecipe la nuova stagione democratica che si stava aprendo. Il fatto di avere fra i suoi amici ed estimatori alcuni tra i più importanti esponenti dell’azionismo fiorentino, tra cui Codignola e Ramat, e il suo mai sopito spirito repubblicano ed anticlericale, la spinsero ad entrare nel Partito d’Azione e a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale di Impruneta, in rappresentanza di quel partito. In questa nuova veste la maestra di San Gersolè volle, in qualche modo, far giustizia dei soprusi patiti durante il regime e presentò al CLN tre denuncie a carico di altrettante maestre che considerava le ispiratrici delle denuncie a suo carico, nonché pretese indagini sul conto dell’ex Podestà e dell’ex comandante dell’Opera Balilla614. Successivamente aderì, come molti suoi compagni, al Partito Socialista, non condividendo la linea politica del Partito d’Azione ritenuta dalla Maltoni troppo indulgente verso la Democrazia Cristiana. Ripercorrendo con la mente l’evoluzione politica italiana dal periodo liberale, al fascismo e alla Repubblica, ella scriverà nel 1950 che molte libertà, perdute durante il Ventennio, si stavano lentamente riacquistando, nonostante che al potere vi fosse «il governo dei preti», vale a dire la Democrazia Cristiana. Quello che difficilmente le appariva recuperabile era, però, l’armonia e il vivere civile fra persone anche di opposte idee politiche e di diversa estrazione sociale, che il fascismo aveva spazzato via. «Il fascismo ha ucciso questo mondo, e chi sa se sarà mai più possibile ricomporlo»615, scriverà amaramente nel 1950 una Maltoni che fino ad allora aveva voluto che il suo insegnamento si ispirasse, innanzitutto, all’amore e alla conciliazione delle anime, sostenendo, in definitiva, che il compito primario della scuola fosse proprio quello di educare all’amore. 613 ISRT, Archivio «CLN di Impruneta», Lettera della Maltoni al CLN, s.d. Si vedano le carte conservate nel fondo «CLN di Impruneta» in ISRT. 615 BCI, AMM, Minuta di lettera della Maltoni a Coppini, 4 giugno 1950. 614 210 Conclusioni Al termine di questo studio crediamo di aver rappresentato l’evoluzione storica dell’istruzione elementare nelle campagne italiane, nelle forme in cui essa è stata teoricamente concepita e materialmente organizzata nel periodo compreso tra Otto e Novecento, ed in particolar modo tra l’età giolittiana e la caduta del fascismo. Aver adottato una visione di lungo periodo ha permesso di cogliere elementi di continuità e di rottura che permettono di leggere con maggiore profondità un fenomeno complesso come le dinamiche legate alla nascita e allo sviluppo della scuola rurale che, a nostro giudizio, è fonte di ulteriori riflessioni che interessano più in generale non solo la storia dell’educazione ma anche la storia contemporanea. Il primo dato che emerge è la sostanziale ostilità che le classi dirigenti, che si sono alternate in questo arco cronologico, hanno mostrato verso il miglioramento delle condizioni morali e culturali delle popolazioni rurali, espressione di quel «pregiudizio anticontadino» che ha caratterizzato non poco l’immaginario e la mentalità delle élite al vertice della scala sociale. La scuola rurale pensata per i contadini in questo periodo è quindi un luogo di formazione di bassissimo livello, che pensa a conferire all’allievo quel corredo minimo di nozioni che gli servono a malapena a leggere, scrivere e far di conto. È esclusa da questa prospettiva ogni benché minima volontà di far crescere nell’alunno una coscienza di uomo e di cittadino, titolare di diritti e di doveri. Al giovanissimo contadino viene insegnato che la campagna è il luogo più bello in cui vivere, a stretto contatto con la natura e con i suoi ritmi, lontano dalla città corruttrice dei costumi e regno dei vizi. Egli deve amare intensamente la terra poiché uno degli obiettivi che la classe dirigente si pone è quello di «legare i contadini alla terra», di non disaffezionarli ad essa, di impedire loro di abbandonarla sotto la spinta di fenomeni sociali quali l’urbanesimo e la ricerca di migliori condizioni di vita nelle città. È questo un elemento di assoluta continuità che percorrere tutta la storia italiana dall’unificazione nazionale del 1861 fino alla seconda guerra mondiale. La scuola, da questo punto, di vista si rivela un ottimo osservatorio delle trasformazioni politiche ed economiche della società, in quanto permette di comprendere bene le finalità educative che la classe dirigente delega alle istituzioni scolastiche in generale e a quelle rivolte ai ceti popolari in particolare. Sarebbe interessante approfondire questo aspetto anche per il secondo dopoguerra, almeno fino agli anni Sessanta, quando sotto i colpi dell’esodo dalle campagne e dell’industrializzazione nascente, quel processo di abbandono della terra da parte dei mezzadri e dei contadini che il fascismo era riuscito in qualche modo a contenere, esplode in tutta la sua virulenza. Tuttavia alcuni indizi – come la testimonianza di Raffaele Rossi riportata nell’Introduzione – ci fanno ipotizzare che ancora negli anni Quaranta e Cinquanta le scuole di campagna vivono in modo riflesso le tensioni sociali che covano ed esplodono nella società rurale in rapida trasformazione. Ipotesi di grande suggestione che ci convince dell’opportunità di dedicarci in futuro allo studio di questo problema tentando anche percorsi innovativi in riferimento alle fonti e alla metodologia: crediamo, infatti, che lo studio di un campione significativo di diari scolastici compilati dagli insegnanti elementari e di elaborati scolastici degli alunni possa costituire un punto di osservazione nuovo sul tema dell’istruzione popolare e delle trasformazioni sociali e politiche vissute dalla comunità616. Per quanto riguardo lo studio dei quaderni di scuola come fonte per la storia dell’educazione non si potrà fare a meno delle indicazioni di tipo metodologico ed epistemologico emerse nel corso del Convegno internazionale di studi “Quaderni di scuola - Una fonte complessa per la storia delle culture scolastiche e dei costumi educativi tra 211 616 Un secondo dato che crediamo emerga dalla presente ricerca attiene più segnatamente all’aspetto pedagogico. È possibile distinguere diverse fasi durante le quali la riflessione pedagogica concepisce in modo differente la scuola rurale e le sue finalità educative? Oppure anche dal punto di vista della teoria pedagogica esiste un elemento di continuità che connota il periodo compreso tra l’Unità e la seconda guerra mondiale? A nostro giudizio crediamo che si possano individuare almeno tre modelli di scuola rurale che la pedagogia elabora. Il primo è quello creato dal positivismo alla fine dell’Ottocento, per il quale la scuola rurale è innanzitutto un faro che deve portare la luce nelle campagne dove regnano le oscurità, sinonimo della superstizione e dell’ignoranza create dalla religione. Un secondo modello di scuola rurale è quello elaborato dall’idealismo lombardiano negli anni Venti del Novecento. Per Lombardo Radice essa non è semplicemente la scuola dei contadini o la scuola per i contadini ma finisce per diventare il luogo di formazione per eccellenza al di là della provenienza sociale di chi la frequenta. Ciò avviene in ragione del rapporto privilegiato con la natura che è fonte di armonia e di serenità per i fanciulli. La natura, infatti, è intesa romanticamente come un locus amoenus per l’educazione dei giovani, un ambiente sano perché il proprio spirito possa dispiegarsi senza incontrare limiti e ostacoli e senza subire costrizioni esterne. Tutta un’altra storia rispetto a come fu concepita l’istruzione rurale dal fascismo, che costituisce, a nostro avviso, un terzo modello di scuola rurale. Anche per il regime mussoliniano la campagna era importante ma per fare in modo, più prosaicamente, che i contadini non l’abbandonassero sotto la spinta dell’urbanesimo e della ricerca di migliori condizioni di vita, condizioni di vita che non erano certo idilliache come talvolta il fascismo volle rappresentarle in modo artificioso e caricaturale, inventando feste e rituali che celebravano la sanità e la bellezza del mondo rurale: si pensi solo alla Festa dell’Uva o ad alcune organizzazioni come le Massaie rurali. Le considerazioni prima fatte in riferimento alla necessità di estendere in futuro la ricerca al periodo successivo alla seconda guerra mondiale fino agli anni Sessanta per comprendere le dinamiche tra istruzione popolare e trasformazioni socio-economiche, si deve estendere anche all’ambito più propriamente pedagogico. Ci si deve chiedere, cioè, come la teoria pedagogica ha affrontato il problema dell’istruzione dei contadini nell’Italia della Ricostruzione, quali dibattiti si sono articolati intorno a questo tema, quali esperienze concrete sono state create. Un terzo elemento che emerge, infine, è rappresentato dalla costruzione di quello che è stato chiamato il «mito pedagogico», vale a dire la celebrazione di talune scuole rurali modello che, in ragione dei metodi didattici innovativi adottati, si imposero nell’immaginario scolastico tanto da attirare l’attenzione di importanti pedagogisti italiani e stranieri. Più delle scuole urbane, quelle rurali sembrano essere maggiormente predisposte ad essere elevate a modelli pedagogici da imitare e ad essere additate come vie da seguire, a motivo del legame più intenso con la natura che le circonda. Si tratta di un dato acquisito che, crediamo, sia stato ampiamente illustrato nelle pagine precedenti. Possiamo allora concludere queste considerazioni ponendo una questione che rimane per il momento aperta: sarebbe interessante verificare il peso assegnato alla natura, alla serenità e alla poeticità della campagna, nella scuola elementare del secondo dopoguerra. In altre parole vedere in che misura il mito della campagna e della natura è sopravvissuto alla fine giuridica della scuola rurale, continuando a permanere nella teoria pedagogica e soprattutto nei costumi scolastici. Un compito che ci riserviamo di svolgere in un’altra sede. ottocento e novecento”, svoltosi a Macerata dal 26 al 29 settembre 2007, i cui atti sono pubblicati in Meda, Montino, Sani (a cura di), School Exercise Books, cit. 212