CARITAS DIOCESANA
Fano Fossombrone Cagli Pergola
SCUOLA DI PACE
Carlo Urbani
Nonviolenza
Giustizia
Salvaguardia del creato
Cittadinanza responsabile
SUSSIDI - PRE ATTI
1° anno di corso - 2004
SUSSIDIO AGLI INCONTRI
Sabato 10 gennaio 2004 ore 17:00
I cristiani, la nonviolenza, la pace:
percorso teologico, di storia della Chiesa, di impegno
odierno.
Luigi Bettazzi
Sabato 7 febbraio 2004 ore 17:00
I cristiani, la nonviolenza, la pace:
percorso biblico.
Giuseppe Barbaglio
L’OPZIONE NONVIOLENTA NEL CRISTIANO(ESIMO)
di Luciano Benini*
(il testo è contenuto nel libro “Convertirsi alla nonviolenza? Credenti e non credenti si interrogano
su laicità, religione, nonviolenza”, a cura di Matteo Soccio, Il segno dei Gabrielli editore. Il libro
raccoglie gli atti di un convegno sul tema tenuto a Perugia nel 2002.)
PREMESSA
Circa 25 anni fa Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, in Piemonte, stava
commentando il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto nel Vangelo di Luca, laddove emerge
con chiarezza che il potere, ogni potere, economico, politico, militare, religioso, è in mano al
maligno. Dunque il cristiano che gestisce un qualche potere deve sapere di avere in mano un tizzone
ardente: solamente se munito di “abiti virtuosi”, come diceva don Giuseppe Dossetti, è possibile per
il cristiano gestire il potere come servizio, che è poi l’unico modo che è dato al cristiano di stare in
mezzo agli uomini. Alla domanda “ma allora la Chiesa nel corso dei secoli non è stata fedele al
Vangelo perché ha gestito poteri di ogni tipo”, Enzo Bianchi rispose che in fondo l’unico compito
della Chiesa è quello di tenere alta la croce di Cristo annunciando che solamente in essa vi è
salvezza, e a questo dovere la Chiesa non è mai venuta meno.
Concordo sostanzialmente con questa risposta: se dunque la Chiesa non è venuta meno, nel corso
dei secoli, al suo compito essenziale, ciò nondimeno a me pare che su diversi temi la Chiesa e i
cristiani si siano allontanati dal messaggio evangelico, e sul tema che trattiamo oggi, pace e
nonviolenza, in maniera particolare.
Ciò è tanto più grave se è vero, come afferma di nuovo Enzo Bianchi, che “Gesù Cristo è la nostra
pace, se con la sua croce e la sua resurrezione dai morti Dio ha riconciliato con sè il mondo intero
che gli era nemico, allora il tema della pace è di ordine cristologico e rivelativo prima di essere
etico e morale. Noi siamo convinti che oggi più che mai la chiesa gioca la sua fedeltà al Signore e
misura la capacità di testimoniare l'Evangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia
degli uomini proprio sulla dottrina e sulla prassi della pace. Questo significa però che la pace è dono
di Dio e compito profetico dei cristiani nello stesso tempo. ... Gli atteggiamenti improntati a
realismo politico rischiano spesso di risolversi in considerazioni scettiche nei confronti di una reale
possibilità della pace. Il messaggio forte e netto della Parola di Dio viene così oscurato e sbiadito
per lasciar posto a discorsi di sapienza mondana misconoscendo la "parola stolta" e il "discorso
folle" della Croce che è l'unico criterio di giudizio su ogni atto e ogni parola della chiesa e del
cristiano. ... L'annuncio della pace è dunque annuncio del Vangelo, ... Chi annuncia il regno,
annuncia la pace, chi si pone sotto la signoria di Dio, si mostra anche servo e artefice di pace, chi
accoglie il regno di salvezza accoglie la pace. 1
Dividerò allora l’intervento in tre parti: una prima nella quale percorrerò a grandi tappe la
pedagogia di Dio nella Bibbia sul tema violenza-nonviolenza. Una seconda nella quale verranno
tratteggiate le principali fasi della storia della Chiesa sul medesimo tema. Una terza più di attualità e
di prospettive future.
LA PACE NELLA BIBBIA
ANTICO TESTAMENTO
Il problema della violenza viene affrontato nella Bibbia sin dai primi capitoli del libro della Genesi.
Già dopo la caduta di Adamo ed Eva, Dio dice alla donna: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma
egli ti dominerà." (Gen 3,16), con ciò significando un rapporto conflittuale fra l'uomo e la donna.
Una seconda riflessione sul tema del dominio e della violenza l'abbiamo con l'episodio di Caino e
Abele, dove la violenza questa volta è fra fratello e fratello. Il diffondersi della violenza è
esemplificato dallle parole di Lamech: "Ho ucciso un uomo per un mio graffio, un ragazzo per un
mio livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, io, Lamech, settanta sette." (Gen 4,23-24).
1
AA.VV, La pace dono e profezia, Edizioni Qiquajon, Magnano (BI).
Questo dilagare della violenza porta Dio ad una affermazione sconvolgente in Gen 6,6: “E il
Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo”. Dio constatata in Gen
6,11.13 che: "La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. … La terra, per causa degli
uomini, è piena di violenza". Dio però non accetta questa situazione di violenza e in Gen 9,5
afferma: "Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo fratello", con ciò
ribaltando quanto affermato da Caino in Gen 3,9: "Sono forse il custode di mio fratello?".
In questa situazione, il comandamento "Tu non ucciderai” di Es 20,13 e la legge del taglione di Es
21, 23-25 hanno il senso di arginare una violenza che altrimenti dilagherebbe in maniera
esponenziale. Questa pedagogia di Dio giunge già nell'Antico Testamento ad affermazioni chiare e
forti contro la violenza, come in Lv 26,3.6: "Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi
e li metterete in pratica ... io stabilirò la pace nel paese: nessuno vi incontrerà terrore ... e la spada
non passerà per il vostro paese" e ancora in Lv 26,14.25: "ma se non mi ascolterete e non metterete
in pratica tutti questi comandi ... manderò contro di voi la spada, vindice della mia alleanza".
E ancora nei profeti, Is 2,4: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo
non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra”.
NUOVO TESTAMENTO
I poveri del Vangelo, che sono la Chiesa autentica, dovranno amare i nemici, fare del bene a chi li
perseguita (Mt 5,44), perdonare fino a settanta volte sette (Mt 18,22) per coprire con una misura
abbondante ed inesauribile di perdono la misura di violenza e di vendetta presente in ogni
generazione umana. Sull'esempio di Gesù, i cristiani non ricorreranno alla spada (Mt 26,52:
“52Allora Gesù gli disse: "Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla
spada periranno di spada”.) non ricorreranno agli eserciti (Mt 26,53: “53Pensi forse che io non possa
pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?”, non si difenderanno
con la violenza. Sono infatti seguaci di un Signore che è Agnello sgozzato, ma ritto in piedi e
vincitore del male. Questo è il luogo in cui la Chiesa verifica la sua fedeltà al Signore, il luogo in
cui si vaglia la qualità di discepoli. Il modo per vincere la violenza non potrà mai essere quello di
difendersi usando violenza. Il cristiano dovrebbe avere un tale orrore delle armi da non dare mai il
suo contributo per la folle corsa agli armamenti o per spese militari di qualunque tipo. Di fronte alla
violenza subita il cristiano non può far altro che diventare ministro del perdono di Dio, vincendo il
male con il bene (Rm 12,14), rinunciando sempre ad adorare la bestia (Ap 20,4).
LA TRADIZIONE E IL MAGISTERO DELLA CHIESA DA COSTANTINO ALLA PACEM IN
TERRIS
Nei primi tre secoli la trazione e il magistero della Chiesa ha costantemente annunciato e vissuto
con coerenza il messaggio evangelico sulla nonviolenza Basterà qui citare alcuni autori. “Il
catecumeno o il fedele che vogliono dedicarsi alla vita militare siano mandati via perchè hanno
disprezzato Dio” (Ippolito di Roma, 215 dC). “Quando Dio interdice di uccidere, non interdice
solamente il brigantaggio, illecito anche per le leggi dello stato, ma ci invita a non fare ciò che gli
uomini ritengono lecito. È per questo che il giusto non può essere soldato, perchè il servizio militare
del giusto è la giustizia stessa” (Firminio Lattanzio, 300 dC).
La svolta avviene con l’editto di Costantino (313 dC) e l’editto di Milano di Teodosio (394 dC).
Con Costantino, e poi soprattutto con Teodosio, i cristiani cominciano ad accettare di fare il servizio
militare e la guerra perchè in cambio ottengono uno spazio separato per vivere l'esperienza di fede.
L'esenzione dal militare e dalla guerra resta per i sacerdoti.
Saranno Sant’Agostino prima (V secolo) e San Tommaso poi (XIV secolo) a dare sistematicità a
tale svolta formulando la teoria della cosiddetta “guerra giusta”:
•
Il danno causato dall'aggressore sia durevole, grave e certo.
•
•
•
Tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci.
Ci siano fondate condizioni di successo.
Il ricorso alle armi non provochi mali più gravi di quelli che vuole eliminare.
Per quanto formulata con lo scopo di “limitare” il ricorso alle guerre e la partecipazione ad esse dei
cristiani, la teoria della “guerra giusta” ha di fatto portato al nascondimento, per oltre sedici secoli,
del vangelo della nonviolenza. Non che in questo lunghissimo periodo non vi siano state figure
luminosissime che hanno ricordato alla Chiesa e ai cristiani che l’annuncio evangelico poneva ben
altri insegnamenti, ma di fatto la prassi cristiana è stata improntata ad un realismo e ad una
mondanità che ha tradito lo spirito del Vangelo. Sarebbe doveroso trattare ampiamente sia
l’esperienza e la prassi di S. Francesco, nonviolento fra i più profondi e convinti, che l’esperienza
storica di cristiani quali i Quaccheri (la società degli amici) che hanno sviluppato una particolare
sensibilità e attenzione ai temi della pace. Ma lo spazio a disposizione consente solo di farne un
accenno.
LA PACEM IN TERRIS, LA STAGIONE CONCILIARE E GLI ODIERNI PROFETI DELLA
PACE
La prima metà del XX° secolo vede lo scoppio di due guerre mondiali. Forse perché scossi da tali
immani tragedie, i cristiani sembrano svegliarsi da un torpore durato più di milleseicento anni e
avviano una riflessione diversa su guerra, violenza, pace, nonviolenza. Nel 1955 don Primo
Mazzolari, prete di Bozzolo nella bassa mantovana, scrive un libretto destinato a sconvolgere tale
secolare prassi.
“Non è forse una contraddizione che dopo venti secoli di cristianesimo … l’omicida comune sia al
bando come assassino mente chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?
… Che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugandogli in coscienza il
mestiere delle armi, che è il mestiere dell’uccidere, si rifiuta al dovere? … Il cristiano è contro ogni
male, non fino alla morte del malvagio ma fino alla propria morte, dato che non c’è amore più
grande che quello di mettere al propria vita a servizio del bene e del fratello perduto. Vince chi si
lascia uccidere, non chi uccide. La storia della nostra redenzione si apre con la strage degli
Innocenti e si chiude con il Calvario: una storia, se osservata ben, un po’ meno assurda della storia
delle guerre”. 2
Ma è il Concilio Vaticano II° ad avviare la svolta epocale. Durante il Concilio, verso la fine dei suoi
giorni terreni, Papa Giovanni scrive l’enciclica “Pacem in Terris” al cui punto 67 è detto “È alieno
dalla ragione pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di
giustizia”. È la fine della teoria della “guerra giusta”, anche se, purtroppo, sia negli scritti che nella
prassi tale ritorno alle fonti evangeliche sulla pace è tutt’altro che un percorso concluso.
Colui che più di ogni altro si è speso, al Concilio, senza riuscirvi, per una condanna chiara, totale e
definitiva della guerra e della sua preparazione è stato il Cardinale di Bologna Giacomo Lercaro.
Nel documento conciliare “Gaudium et Spes” del 1965 al n. 79 si legge “La guerra non è purtroppo
estirpata dalla umana condizione. E fintantochè esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà
un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità
di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto alla legittima difesa”.
Riprendendo l’ analisi sulla Gaudium et Spes ,in un articolo apparso nel 1967 sulla rivista
“Testimonianze”, affermava come "non soltanto la guerra totale, ma ogni genere di guerra, come si
pone di fatto oggi, richiede una revisione dell’ antica dottrina con cui si giudicava della sua
moralità" per sostenere infine "il trascendimento della falsa alternativa tra impiego della forza
bellica e inerzia pacifista, mediante invece l’ impiego dei mezzi attivi della cosiddetta nonviolenza".
2
PRIMO MAZZOLARI, Tu non uccidere, Edizioni La Locusta, Vicenza 1955.
Secondo il Cardinale la Chiesa deve farsi "facitrice di pace: per le vie non umane e tutte spirituali
che le sono proprie ... la pace è Cristo stesso" (idem).
Ma il momento pubblico più chiaro, e più gravido di conseguenze, della sua predicazione, direi
anche della sua profezia, di pace si era dato il 1 gennaio del 1968 in occasione della prima giornata
mondiale della pace quando aveva esortato gli Stati Uniti a "desistere dai bombardamenti aerei sul
Vietnam del Nord".
Sappiamo bene che in quella posizione va ricercata la causa ultima del suo allontanamento dalla
guida della diocesi di Bologna che, annunciatogli da un inviato romano il 27 gennaio, divenne
pubblico il 12 febbraio 1968.
La Chiesa, secondo il Cardinale, deve esprimere un ruolo attivo di operatrice di pace, sviluppando
la dimostrazione dell’ infondatezza evangelica della dottrina teologica della guerra giusta.
Frutto della stagione conciliare è senza dubbio lo straordinario prete Lorenzo Milani. In risposta ai
cappellani militari in congedo della Toscana, che sulla Nazione del 12 febbraio 1965 avevano
scritto di considerare “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta «obiezione di coscienza»
che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”, scrive un testo di
straordinaria bellezza fra cui ricordiamo un famoso passaggio: “Se voi però avete il diritto di
dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e
reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati ed oppressi da un lato, privilegiati ed oppressori
dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere
richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente
squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono
combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliori di voi: le armi che voi approvate
sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che
approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. 3
Messo sotto processo per una denuncia da parte di un gruppo di ex combattenti, Lorenzo scriverà,
assieme ai suoi ragazzi di Barbiana, quello che resta il più alto scritto di educazione morale e civile
per i giovani, la Lettera ai Giudici. Eccone un passaggio: “E quando è l'ora non c'è scuola più
grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza
che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. ... Avere il coraggio di dire ai giovani che essi
sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che
non credano di potersene far scudo nè davanti agli uomini nè davanti a Dio, che bisogna che si
sentano ognuno l'unico responsabile di tutto. ... Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e
maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse qualche generale troverà
ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l'umanità. Non è un motivo
per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci
salveremo almeno l'anima”. 4
Contraddittoria è una frase contenuta nell’Enciclica di Paolo VI Populorum Progressio del 1967
che al n. 31 afferma “E tuttavia lo sappiamo: l'insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una
tirannia evidente e prolungata che attentasse gravemente ai diritti fondamentali della persona e
muovesse in modo pericoloso al bene comune del paese - è fonte di nuove ingiustizie”. C’è in
questa posizione una apertura verso l’uso delle armi, e quindi la messa in ombra della forza della
nonviolenza evangelica, anche se poi nella prassi quei cristiani che hanno preso davvero le armi per
liberare i popoli dalle terribili tirannie latino-americane degli anni ‘60, ’70 e ’80 hanno subito la
condanna e l’isolamento da parte della Chiesa gerarchica.
Negli anni ’80, nel periodo di massima tensione Est-Ovest per la questione degli euromissili, sotto
la pressione di un impressionamene movimento per la pace attivo soprattutto in Europa e negli Stati
Uniti, gli episcopati di mezzo mondo hanno pubblicato lettere sulla pace. La lettura di tali
documenti esprime con chiarezza il travaglio e le oscillazioni della Chiesa fra guerra giusta ed
3
LORENZO MILANI, Risposta ai cappellani militari in L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze 1976.
4
LORENZO MILANI, Lettera ai giudici in L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze
1976.
evangelo della pace, travaglio che ha caratterizzato le posizioni dei cristiani sul finire del secolo
XX°.
Complesso ma molto significativo sul versante dell’impegno per il superamento della guerra giusta
è il pontificato di Giovanni Paolo II°. Ne diamo un breve cenno attraverso alcuni testi degli anni
’90.
“Sembrava che l'ordine europeo, uscito dalla seconda guerra mondiale, ... potesse essere scosso
soltanto da un'altra guerra. È stato, invece, superato dall'impegno non-violento di uomini che,
mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta
forme efficaci di rendere testimonianza alla verità” (Enciclica Centesimus Annus. 1991). In tale
passaggio è molto chiara la valorizzazione della nonviolenza nella lettura dei fatti dell’89,
diversamente da quasi tutti i commentatori politici che non hanno saputo cogliere la grande novità
di quella scelta.
“Mai più la guerra, spirale di lutto e di violenze; mai questa guerra nel Golfo Persico”. (discorso al
Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 16/1/1991)
In queste ore di grande pericolo vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo
adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti fra le nazioni: non lo è mai stato, non lo
sarà mai. (discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 18/1/1991).
In questi passaggi si coglie tutta la posizione di contrarietà alla guerra del Papa, in momenti in cui
gli Episcopati non prendevano posizione, i cristiani per la maggiorparte stavano a guardare e i
parlamentari che facevano riferimento ai valori cristiani votavano a favore della guerra.
“Sembra proprio che il dovere degli Stati sia di disarmare questo aggressore qualora tutti gli altri
mezzi si siano rivelati inefficaci” (discorso alla Curia Romana sulla guerra in Somalia e Bosnia,
1992)
Sintomatici di una certa oscillazione, e in parte di ritorni indietro rispetto alla valorizzazione della
nonviolenza, sono alcuni passaggi inseriti nel nuovo “Catechismo della Chiesa Universale” del
1992.
“Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al
suo aggressore un corpo mortale”. (2264)
“Essa può non essere soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di
altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile”. (2265)
Quantomai chiara sul valore della nonviolenza come scelta morale e pratica è il documento del
1993 “Il frutto della giustizia è seminato nella pace” dell’episcopato cattolico degli Stati Uniti. IN
esso leggiamo: “In situazioni di conflitto il nostro impegno costante dovrà essere, per quanto
possibile, quello di lottare per la giustizia con mezzi non-violenti.
La non-violenza non va interpretata semplicemente come scelta o vocazione personale, poichè la
storia recente insegna che in determinate circostanze può essere anche un'azione pubblica efficace.
Queste rivoluzioni non-violente ci provocano a trovare dei modi per mettere in piena luce il potere
della non-violenza organizzata e attiva.
I capi delle nazioni hanno l'obbligo morale di far si che le alternative non-violente siano prese
seriamente in considerazione di fronte ai conflitti.
Come nazione dovremmo promuovere una ricerca, un'educazione e una formazione sui metodi nonviolenti di resistenza la male. Le strategie non-violente richiedono una grande attenzione a livello
internazionale.
Nei conflitti futuri gli scioperi e la forza popolare potrebbero talora rivelarsi più efficaci di fucili e
pallottole”.
Si sente forte, in questo testo, il contributo di un grande teorico della nonviolenza, Gene Sharp, che
ha collaborato alla stesura di un testo fra i più espliciti sul valore della nonviolenza non solo come
scelta morale ma anche come efficacia pratica.
Ancora Giovanni Paolo II° nel 1995, nell’Enciclica “Evangelium Vitae”, trattando dei vari aspetti
della difesa della vita scrive: “E come non pensare alla violenza ... insita, prima ancora che nelle
guerre, in uno scandaloso commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti armati
che insanguinano il mondo?
Tra i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati dell’opinione pubblica, di una
nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i
popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma «non violenti» per bloccare
l’aggressore armato.
Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza
scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare? In realtà, la democrazia non può essere
mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità.
Fondamentalmente, essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine.
... la legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti
fondamentali ... Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una
violazione di quei diritti, è u atto contrastante con la loro stessa ragion d’essere e rimane per ciò
stesso destituito d’ogni valore giuridico.
Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell’ordine, e quindi in
contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza ...; in tal caso, anzi,
chiaramente l’autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso.
Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un
grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante l’obiezione di coscienza.
Infatti, da un punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale
cooperazione si verifica quando l’azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione
che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta a un atto
contro la vita umana innocente o come condivisione dell’intenzione immorale dell’agente
principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata nè invocando il rispetto della libertà
altrui, nè facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno
personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e
sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2,6; 14,12)”
“Quando la guerra, come in questi giorni in Iraq, minaccia le sorti dell'umanità, è ancora più
urgente proclamare, con voce forte e decisa, che solo la pace è la strada per costruire una società
più giusta e solidale. Mai le armi e la violenza possono risolvere i problemi degli uomini.
Il pensiero delle vittime, delle distruzioni e delle sofferenze provocate dai conflitti armati arreca
sempre profonda preoccupazione e grande dolore. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che la
guerra come strumento di risoluzione delle contese fra gli Stati è stata ripudiata, prima ancora che
dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla coscienza di gran parte dell'umanità. Il vasto movimento
contemporaneo a favore della pace traduce questa convinzione di uomini di ogni continente e di
ogni cultura.
A tutti viene ora chiesto l'impegno di lavorare e pregare affinché le guerre scompaiano
dall'orizzonte dell'umanità."
Ho vissuto la seconda guerra mondiale e sono sopravvissuto alla seconda guerra, per questo ho il
dovere di ricordare a tutti i più giovani, a tutti quelli che non hanno avuto questa esperienza, ho il
dovere di dire, ”mai più la guerra”.
Chi decide che sono esauriti tutti i mezzi pacifici che il Diritto Internazionale mette a disposizione,
si assume una grave responsabilità di fronte a Dio, alla sua coscienza e alla storia”. (Giovanni
Paolo II° sulla guerra in Iraq, marzo 2003).
Sul fronte italiano, dopo che negli anni ’80 l’Episcopato italiano era stato uno dei pochi a non
intervenire nel dibattito sulla pace, elabora nel 1995 il “Catechismo degli adulti della CEI”. In
questo testo, all'interno del capitolo 26 "Accoglienza e rispetto della vita" viene affrontato il tema
della violenza e della guerra. Al n. 1037 si afferma: "Si dovrebbe togliere ai singoli stati il diritto di
farsi giustizia da soli con la forza, come è già stato tolto ai privati cittadini e alle comunità
intermedie". E al punto 1038 si aggiunge: "Appare pertanto urgente promuovere nell'opinione
pubblica il ricorso a forme di difesa non violenta. Ugualmente meritano sostegno le proposte
tendenti a cambiare struttura e formazione dell'esercito per assimilarlo a un corpo di polizia
internazionale". Più avanti, al punto 1040 si dice: "In questo contesto risalta il significato educativo
che può avere la scelta degli obiettori di coscienza di testimoniare il valore della non violenza
sostituendo il servizio civile a quello militare, senza peraltro recare pregiudizio al valore e alla
dignità del servizio dei militari quando operano come servitori della sicurezza e della libertà dei
popoli".
Merita ancora la citazione di quello che è stato considerato il più grande teologo morale del XX°
secolo, Bernhard Häring. Sul finire della proprio vita, Häring sente l’esigenza di concentrarsi su
ciò che è veramente importante e urgente. In un testo del 1998 egli scrive: “Oggi la morale deve
essere concentrata sui problemi della pace e della nonviolenza. Per noi teologi morali è prioritario
l'obbligo di lavorare per salvare il seme dell'uomo sulla Terra”.
“Nei manuali tradizionali solitamente ci si limitava a trattare del diritto esclusivo dello Stato di
dichiarare la guerra e a illustrare le condizioni di una «guerra giusta». Questa opera è un segno
evidente che la missione dei cristiani a servizio della pace, della nonviolenza e della riconciliazione
sta al centro della vocazione cristiana. E non solo questo. Il cammino sulla via della pace e della
nonviolenza richiede il dialogo e la cooperazione fra tutte le religioni del mondo. L’invito di Papa
Giovanni Paolo II alla preghiera comune con i rappresentanti di tutte le religioni rimane ancora una
sfida per tutto il mondo”.
“Il legame tra i peccati contro la pace, quelli contro la nonviolenza e quelli contro l’equilibro
ecologico mette in gioco - solo un cieco non potrebbe vederlo - la sopravvivenza del genere umano
sul nostro pianeta. Si tratta ormai di «salvare il seme dell’uomo sulla terra”.
“Ci si domanda anche perché così pochi cristiani s’impegnano a fondo nei movimenti per la
nonviolenza. Nei nostri paesi si trovano specialisti competenti per ogni problema sociale,
economico, etc. Ma perché non li troviamo quando si tratta della missione per la pace e per la
giustizia che guarisce, per la nonviolenza attiva e creativa? Perché il nostro grido angosciato tocca
così pochi cuori tra i credenti?”.
E Gianni Zaccherini, poco prima di morire, scriveva: “La Chiesa è il grande porto di pace per tutti
gli uomini: non può guardare indietro, non può regredire ad una fase superata della storia della
salvezza. Facciano pure gli uomini le guerre, ma in queste guerre i cristiani non possono più avere
una parte attiva. Le guerre i cristiani possono ormai solo subirle e dare in esse la vita, vittime miti e
innocenti della violenza demoniaca. Questa è la grande testimonianza della Chiesa e dei cristiani: la
pace, sempre la pace, la pace ovunque. Solo così il suo annuncio della verità può diventare
credibile, in questo tempo finale che è l’ultimo giorno della storia del mondo, offerto dalla pazienza
di Dio alla conversione di tutte le genti”.
CONCLUSIONE
Se dobbiamo dire che la stagione della teologia della guerra giusta, avviata alla conclusione dalla
Pacem in Terris e dal Concilio, non è ancora purtroppo completamente tramontata, pur tuttavia una
nuova stagione si è aperta. Gli incontri delle religioni per la pace di Assisi 1986 e 2002, voluti da
Giovanni Paolo II, e i suoi pronunciamenti netti contro le guerre degli anni ’90 (Golfo, Kossovo,
Afghanistan) e più recenti (Iraq nel 2003), in contrasto coi poteri politici predominanti nel mondo,
sono segni importanti di tale cambiamento di prospettiva nella Chiesa, anche se gli episcopati e i
credenti sono ancora arretrati su tali temi. Ma la massiccia presenza dei cristiani nei movimenti
antiglobalizzazione, per la pace e la giustizia economica, in Italia soprattutto rappresentati nella
Rete di Lilliput, aprono ad una grande speranza.
*Luciano Benini, (per contatti: [email protected]), membro del MIR (Movimento Internazionale
della Riconciliazione) e del Movimento Nonviolento sin dagli anni '70, segretario nazionale del
MIR negli anni '80, è stato Presidente Nazionale del MIR alla fine degli anni '90.
Fisico sanitario ed ambientale, è stato attivo nelle lotte antinucleari a partire dagli anni '70,
coordinatore nazionale della campagna per l'opposizione dei missili a Comiso e della campagna
nazionale per l'obiezione alle spese militari. Nel 1986 ha curato l'opuscolo "Consumi e nuovo
modello di sviluppo". Ha ideato e promosso a Fano la "Scuola di pace".
Dal 1994 ha il ministero di Lettore nella Diocesi di Fano, Fossombrone, Cagli e Pergola.
Piccola Bibliografia
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AA.VV., La pace nella Bibbia, Supplemento al n. 50 di Sussidi Biblici, Edizioni San Lorenzo,
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VALENTINO SALVOLDI (A CURA DI), Mai più la guerra, Edizioni La Meridiana, Molfetta
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VALENTINO SALVOLDI, Beati i costruttori di pace, Edizioni Paoline, Milano 1994.
AA.VV., Incontro ecumenico europeo per la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato, Centro
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JEAN E HILDEGARDE GOSS-MAYR, La nonviolenza evangelica, Edizioni La Meridiana,
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LEONARDO BASILISSI, I cristiani e la pace, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia
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GIUSEPPE SOCCI, Chiesa della pace o chiesa delle stellette, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi
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MASSIMO TOSCHI, Pace e Vangelo. La tradizione cristiana di fronte al problema della guerra,
Queriniana, Brescia 1980.
SUSSIDIO ALL’INCONTRO
Sabato 17 gennaio 2004 ore 17:00
Scenari internazionali dopo la caduta del muro di Berlino,
fra guerre preventive e terrorismi: una lettura nonviolenta.
Raniero La Valle
LA STRATEGIA DELLA SICUREZZA NAZIONALE
DEGLI STATI UNITI D’AMERICA
di Raniero La Valle*
Il documento sulla “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, varato in America
nel settembre 2002, presenta caratteri di straordinaria novità.
Esso infatti enuncia politiche e dottrine che mai erano state formulate prima: per es. la teoria
della guerra preventiva; l’assunto che “la migliore difesa è una buona offesa”, la proposizione di
un unico modello di regime politico-economico-sociale per tutto il mondo; l’affermazione, come di
un fatto irreversibile, e dunque come una realtà da valere in via di principio, della superiorità
americana su ogni altra presente o futura potenza; l’affermazione sorprendente che il nostro tempo
sarebbe il migliore da tre o quattro secoli a questa parte, cioè dalla formazione dello Stato
moderno, e molte altre cose che dobbiamo appunto discutere in questa scuola.
Ma c’è un’altra novità, ancora più importante, nel documento e consiste nel fatto che esso,
in certo modo, consacra una discontinuità storica, nel senso che segna la novità del tempo dopo l’11
settembre. L’11 settembre si disse che nulla sarebbe stato come prima. In realtà tutto è rimasto
come prima: si continua a volare, si continuano a costruire grattacieli di 400 metri e addirittura
ponti sullo Stretto, si continua a far morire di fame, di malattie e di miseria mezzo mondo; i capitali
continuano a girare da un computer all’altro da una parte all’altra del pianeta; tutto ciò che in
qualche modo caratterizzava la realtà del mondo moderno, della globalizzazione, continua tale e
quale. Il terrorismo non è riuscito a cambiare nulla di tutto questo. Altro è ciò che è cambiato: è
cambiata la situazione geopolitica mondiale; è cambiata la figura dell’America ed il suo modo di
pensare il mondo; e quello che è cambiato, come trapasso da un tempo ad un altro, è tutto scritto in
questo documento, che stranamente non ha una data precisa, perché il 17 settembre 2002 è stato
trasmesso dalla Casa Bianca al Congresso ed il 20 settembre è stato pubblicato sui giornali, ma la
sua data non è una vera data ma piuttosto un anniversario, il primo anniversario dell’11 settembre
2001. Possiamo dire che questo è il documento di quell’anniversario e quella è la soglia del
cambiamento.
Si tratta dunque di prendere molto sul serio l’evento dell’11 settembre.
L’11 settembre come spartiacque
Lasciamo stare qui chi lo ha fatto, chi c’era dietro i kamikaze, se i Servizi Segreti lo
sapevano o meno, il mistero dell’aereo che non si è mai schiantato sul Pentagono, il quale è stato
attaccato in un altro modo; tutte queste cose fanno parte del “non detto” e non le possiamo sapere
perché negli Stati Uniti sono state bloccate o scoraggiate tutte le inchieste indipendenti su quanto è
avvenuto quel giorno.
Ciò che più conta dell’11 settembre, al di là del fatto in sé, è la storia degli effetti: l’evento
dell’11 settembre ha avuto un effetto sconvolgente e prima di tutto sugli americani stessi; lo choc è
stato tremendo ed è stato enormemente amplificato dai media. Gli Stati Uniti, che si credevano
invulnerabili, hanno sperimentato la loro vulnerabilità, la stessa idea fantasmagorica dello “scudo
spaziale” che avrebbe dovuto assicurare l’ultima e definitiva sicurezza all’America è caduta nel
ridicolo; e ciò che più ha traumatizzato gli americani è stata la sensazione forte di aver perduto la
loro innocenza: erano convinti di essere amati da tutti, di essere benvoluti, di rappresentare i
benefattori dell’umanità, al punto che durante la guerra del Vietnam il Card. Spellmann,
arcivescovo di New York, andava lì a parlare dell’America come del “buon samaritano delle
nazioni”; era questa l’immagine che l’America aveva di sé. Improvvisamente ci si trova di fronte ad
un evento così coinvolgente per tutti e ci si accorge che “qualcuno ci odia, qualcuno non ci ama”;
hanno iniziato alcuni vescovi a scrivere lettere, uno dei primi è stato mons. Robert Bowman,
vescovo di Melbourne Beach, in Florida, che poneva la domanda: “perché gli americani non sono
amati?” e tentava le prime risposte: “perché nella maggior parte del mondo, il nostro governo
difende la dittatura, la schiavitù e lo sfruttamento umano. Siamo bersaglio dei terroristi perché
siamo odiati. E siamo odiati perché il nostro governo ha fatto cose odiose”
Gli Americani questo non se lo immaginavano e quindi l’11 settembre rappresenta questa
grande rivelazione: l’America può non essere amata.
Lo choc è stato tremendo, e a ciò si è aggiunta l’idea che il male si poteva abbattere di
nuovo sull’America, idea suffragata da una martellante predicazione sugli attentati terroristici che si
sarebbero potuti ripetere ogni giorno in tutte le forme, in tutti i modi e in tutti i luoghi.
Per capire questa situazione, mi domando: “quale paragone si può fare storicamente? Quale
altro trauma nella storia degli effetti ha avuto un impatto che si può, in qualche modo per analogia,
paragonare a questo?”. Penso che il paragone che si possa fare, con tutte le debite proporzioni e
stabilite le cautele per la diversità delle due fattispecie, sia con il cambiamento che nel sionismo ha
prodotto la Shoah
Prima e dopo la Shoah
Fino alla Shoah la componente fondamentale dell’ebraismo, di cui abbiamo parlato in questa
sede varie volte, che è il messianismo, che aveva il suo grande punto di forza nella speranza del
ritorno a Sion, non era vissuta in modo tale da produrre politicamente il risultato del ritorno a
Gerusalemme. Anzi il messianismo ebraico, che pure continuamente enunciava questo desiderio e
questa speranza del ritorno a Sion visto come redenzione, era legato ad una passività politica, che
per secoli gli ebrei hanno vissuto nella diaspora. Ciò non è stato un fatto fortuito ma aveva una
ragione. Chi ha analizzato e cercato di chiarire questa situazione, come abbiamo visto altre volte, è
stato Gershom Scholem, studioso del messianismo sabatiano e della Kabala, il quale afferma che la
ragione sta nel fatto che il messianismo, col ritorno a Sion, è legato ad un’idea di catastrofe (il
messianismo secondo Scholem è una “teoria della catastrofe”); è chiaro allora che se questa
speranza, questo ideale deve realizzarsi attraverso una catastrofe, è meglio che non se ne affretti il
compimento
Deriva di qui un’idea della passività ebraica; non si doveva affrettare questo evento
redentivo e perciò il potere non era cercato come obiettivo storico; questo faceva dire allo stesso
Scholem che il prezzo del messianismo, di “questo dono che il popolo ebraico ha fatto al mondo”, è
stato quello di un rinvio, di una vita vissuta nel differimento, qualcosa che si attende ma che non
arriva, e quindi sostanzialmente una vita vissuta nell’irrealtà.
L’avvento del Messia era troppo pericoloso e perciò non andava affrettato; come dicono nel
Talmud tre maestri talmudici del III° e IV° sec.: “Che Egli venga, ma io non voglio vederlo”. Un
attivismo messianico che miri ad affrettare la realizzazione dell’idea messianica non farebbe, com’è
avvenuto ogni volta che lo si è fatto nel passato, che “spalancare abissi”, come dice Scholem, e
“precipitare nell’assurdo”. Ed è per questo che, ancora secondo Scholem, “alla grandezza ed alla
forza dell’idea messianica corrisponde l’infinita debolezza della storia giudaica”. Per secoli i
rabbini hanno difeso questa debolezza. Come dice il rabbino americano Arthur Hertzberg, che
insegna alla New York University in un articolo del 1996, “la principale spinta del giudaismo
rabbinico nel Talmud e dopo di esso, è stata nella direzione di una passività politica”. “Il Talmud
proibiva di cercare di fare congetture sulla data in cui il Messia avrebbe potuto apparire; decretava
che qualsiasi azione volta a forzare la sua venuta era una ribellione alla volontà divina”. La cosa
non cambia all’apparire del sionismo moderno, negli anni 1830. “Quando Theodor Herzl apparve
verso la fine degli anni 1890 - continua il rabbino Hertzberg - la maggioranza dei “fondamentalisti”
rimase contraria al Sionismo … In nome della religiosità essi sostenevano la dottrina della passività
politica”.
Questa linea subisce un drammatico rovesciamento con la Shoah. Questo rovesciamento
trovò una fortissima, icastica espressione nella frase di Menachem Begin, il futuro primo Ministro
di Israele, che, dice Herzberg, evocando “con insistenza ossessiva la memoria dell’Olocausto”,
gridava: “Mai più, mai più gli ebrei saranno deboli e senza potere”. Il problema che era stato posto
dalla modernità, dalla Shoà, era sì il problema della fede, “ma la questione veramente cruciale è
stato il problema della mancanza di potere”. Il potere dunque va ristabilito, e il potere si concretizza
nello Stato di Israele. Ed è questo che segna il carattere indelebile di questo Stato; per difendere
questo potere, considerato come la condizione della sicurezza, lo Stato di Israele si rende capace di
qualunque cosa e non si tira indietro da nessuna cosa. Per converso, la contrarietà allo Stato di
Israele ed alla sua politica diventa il nuovo nome dell’antisemitismo.
In un seminario del 1989, pubblicato ora in una raccolta di saggi edita da Tropea, Noam
Chomsky ha raccontato che durante la campagna elettorale di Bush padre risultò che uno dei
comitati che lo sosteneva, col compito di cercare voti tra le minoranze etniche, era diretto da neonazisti dell’Europa orientale, in particolare ucraini “antisemiti fino all’isterismo”. Quando si seppe
non ci fu nessuno scandalo e la cosa fu passata sotto silenzio anche dalle organizzazioni ebraiche a
cominciare dalla Lega contro la diffamazione. Chomsky si domanda perché, e risponde che ciò di
cui queste organizzazioni in definitiva si preoccupano non è l’antisemitismo; “ciò che soprattutto le
preoccupa è l’opposizione allo Stato di Israele, anzi alla idea che loro hanno della politica di
Israele”; queste organizzazioni ebraiche ”avevano capito che i nazisti implicati nella campagna
elettorale di Bush erano in sostanza filoisraeliani, ed allora perché preoccuparsene?” Su un giornale
a loro molto vicino, New Republic, scrissero che quei nazisti del Partito Repubblicano erano sì
antisemiti, negatori dell’Olocausto, ecc., ma si trattava di “un antisemitismo antiquato ed anemico”.
Il vero antisemitismo, semmai, era quello del Partito Democratico, nella cui Convenzione qualcuno
voleva proporre una risoluzione per chiedere l’autodeterminazione dei palestinesi. Mi sembra un
episodio illuminante per capire tante dinamiche di oggi.
E’ per questa identificazione tra lo Stato di Israele e la salvezza stessa, intesa ormai come
salvezza dalla Shoah, che un intellettuale ebreo come Jacob Taubes arriva a dire, in un discorso a
Gerusalemme del 1981, che l’istanza messianica evocata dalla Shoah aveva “permesso che una
sfrenata fantasia apocalittica prendesse il controllo della realtà politica dello Stato di Israele”,
rischiando di trasformare “il ‘paese della redenzione’ in una fiammeggiante apocalisse” (in
Scholem, “Il prezzo del messianismo”, pag. 44).
Il potere dopo l’11 settembre
Fatte le debite proporzioni, l’11 settembre ha prodotto nell’immaginario americano un
trauma in qualche modo paragonabile, e questo trauma è stato assunto come spartiacque, come
causa di tutte le politiche successive. Certo, anche prima dell’11 settembre non c’era alcuna
“passività politica” degli Stati Uniti - sono note le politiche di intervento fatte in tutti modi ed in
particolare attraverso la CIA in ogni parte del mondo - ma è pur vero che nella continuità della
tradizione americana storicamente è stata sempre presente una tendenza isolazionista, che affiorava
anche nell’atteggiamento del giovane Bush al suo ingresso alla Casa Bianca, di un Bush che non
voleva occuparsi dei problemi mondiali e della Palestina - aveva sbagliato Clinton a prendersela
tanto -, di un Bush che l’11 settembre ha colto in mansioni casalinghe, mentre spiegava in una
scuola elementare come si insegna l’inglese ai bambini. Dopo l’11 settembre il grido di Begin è
diventato quello di Bush, “mai più, mai più gli americani deboli e senza potere”. Solo che per gli
americani il potere non è il potere di un piccolo Stato gettato in Medio Oriente, è il potere di un
sovrano universale.
Questa, a mio parere, è la premessa, la chiave di lettura per capire il documento sulla nuova
strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che sono vissuti in realtà come il vero, nuovo
Israele. Ieri sera c’è stata una sgradevolissima discussione alla televisione, sulla “7”, tra Gad Lerner
ed Asor Rosa. Lerner ha accusato i critici dello Stato di Israele di demonizzare Israele assimilandolo
agli Stati Uniti; in realtà è avvenuto il contrario: sono gli Stati Uniti che dopo l’11 settembre hanno
preso a modello la politica dello Stato di Israele, di cui hanno fatto, per così dire, la gigantografia.
Questo per la verità è accaduto anche prima in altri Paesi; ricordo un episodio: quando
sequestrarono Moro ed in modo inopinato scattò in Italia la politica della fermezza, della
intransigenza, di fronte a questa inaspettata spietatezza, che aveva come effetto la morte di Moro,
ricordo un commento di Dossetti che disse: “ma questo è Israele, non è l’Italia”.
Il manifesto della Nuova Destra
Dunque, che documento è questo? In una riunione di un gruppo di persone vicine a Vasti
dove si è deciso di mettere questo documento a tema dei nostri seminari, si è detto che esso è
importante perché è un testo di teoria politica in cui si intrecciano tre piani: potere politico, potere
economico e potere militare. Esprime dunque una totalità; e in questa totalità esso può essere visto
come il manifesto della Nuova Destra, non solo americana, ma mondiale. E la sua novità starebbe
non tanto nella dottrina militare, quanto nel fatto che questa Nuova Destra, che qui Bush interpreta,
proclama e fonda un liberismo armato.
Detto che il documento rappresenta il manifesto della Nuova Destra a livello mondiale, è
importante però che lo si analizzi per ciò che riguarda specificamente l’America, perché c’è
qualcosa di più di un liberismo armato: il liberismo è di tutti, ma le armi sono le sue. Questo che
appare nel documento non è un progetto politico-militare di un soggetto plurale, così come era
ancora la NATO quando il 24 aprile del 1999, a Washington, proclamava la sua nuova identità, la
sua nuova natura, e si definiva come il nuovo sovrano collettivo che andava al di là dell’art. 5 del
Trattato, che non si occupava più solo della difesa ma andava a portare l’ordine e la sicurezza in
tutto il mondo; quello era ancora il documento di un soggetto plurale, dove erano rappresentati
molti contraenti, 19 Stati, 19 Capi di Governo. Questo, invece è l’editto di un solo, di un unico
soggetto e perciò si può considerare come il manifesto dell’Impero.
Vediamo allora di approfondirne la natura, e cominciamo col definirlo.
Un documento ideologico
Si tratta di un documento ideologico nel senso che è una filosofia della politica e nello
stesso tempo è un testo militante. E’ una dottrina politica, perché dice qual è il bene supremo della
comunità politica, quali i presupposti di teoria e di storia su cui viene fondato e quali le vie per la
sua realizzazione. Ma è anche un testo militante, perché definisce i mezzi politici, militari ed
economici per assicurare quel bene politico ai fedeli di quella dottrina, ai seguaci di tale ideologia.
In questo senso è un testo fondativo, perché contiene una teoria del potere e della guerra nel
XXI° secolo, e nello stesso tempo è immediatamente esecutivo nel senso che chi pone questa teoria
ha il potere (o crede di avere il potere) per realizzarla, e perciò ritiene, con quella “presunzione
infinita” che il Vaticano gli rimprovera (Marco Politi, Wojtyla tra la guerra e l’America, La
Repubblica, 13.01.2003), che basti decidere ciò che è voluto perché questo accada, non dipendendo
da altri che da lui stesso. Il soggetto che formula questa dottrina è, infatti, una Potenza, anzi la sola
Potenza nel senso politico e militare del termine, è una potenza cui manca solo la decisione per
tradursi in atto. A lei la storia è interamente disponibile, indipendentemente dalla volontà degli altri,
gli altri essendo concepiti come cooperanti e partecipi all’impresa o come ostacoli che saranno
rimossi.
Dobbiamo documentare queste affermazioni.
Anzitutto che si tratta di un testo ideologico: ciò è mostrato fin dal suo incipit, fin dalla
formulazione iniziale secondo cui l’unico modello valido per ogni nazione è riassumibile in tre
termini libertà, democrazia e libera impresa; dunque è un’idea della convivenza che abbraccia tre
mondi diversi, mettendo insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico
ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale, e questo composto è dichiarato
come normativo per tutti. Dunque non ci sono tanti possibili regimi politici, economici e sociali,
corrispondenti eventualmente a diverse teorie. Ce n’è uno solo che comporta un modello umano,
quello dell’individualismo liberale, un modello politico, quello della democrazia occidentale, ed un
modello economico, quello del capitalismo d’impresa. Altri modelli non sono ammessi e compito
degli Stati Uniti è di diffondere questo modello in tutto il mondo.
Gli Stati che non sono conformi a questo modello sono provvisoriamente accettati nella
misura in cui tendano a realizzarlo, ed è per questo che la Russia viene considerata sulla buona
strada e la Cina è sotto esame.
Una ideologia della sicurezza nazionale
In secondo luogo si tratta di una ideologia che estrapola dai beni da conseguire il bene che
considera prevalente e lo assolutizza. Questo bene, dopo l’11 settembre, come dice il titolo stesso
del documento, è la sicurezza nazionale. Si tratta perciò di una ideologia della sicurezza nazionale.
In questo senso non è nuova: una ideologia della sicurezza nazionale fu quella su cui furono fondati
i regimi militari ed autoritari dell’America Latina negli anni culminanti della guerra fredda. Ma a
differenza di quella, che si ispirava piuttosto al caudillismo europeo, questa sicurezza nazionale si
innesta sulla ideologia dell’ “American heritage” e dell’ “American way of life” e ne rappresenta lo
sviluppo: la sicurezza consiste nell’affermare quel retaggio americano e nel preservare quel modo di
vita.
In terzo luogo è una ideologia che immediatamente dichiara i mezzi della sua esecuzione,
organizzati in modo sistemico: si tratta infatti, come titola il documento, di una strategia della
sicurezza nazionale.
In quarto luogo si tratta di una ideologia della sicurezza nazionale che per definizione non è
universale, non riguarda tutte le nazioni, non può servire da modello a nessun’altra nazione, anzi è
dichiaratamente alternativa alla sicurezza delle altre nazioni al punto da assumere la guerra
preventiva come suo ingrediente essenziale; è, come titola il documento, la strategia della sicurezza
nazionale degli Stati Uniti. In questo senso essa è sovversiva rispetto all’ideologia della Nazioni
Unite. Essa segna un rovesciamento rispetto al principio fondatore che gli stessi Stati Uniti, di
Roosevelt e di Truman, vollero fosse posto a base della costituzione dell’ONU, e che era il principio
della indissolubilità tra pace e sicurezza, e della indivisibilità della pace e della sicurezza per tutte
le nazioni. Il principio che sta alla base dell’ONU afferma che la pace c’è per tutti o non c’è per
nessuno.
Ora tutto questo non nasce all’improvviso; ha una lunga incubazione nella storia del
nazionalismo americano, che ha pervaso ambedue i partiti, il repubblicano ed il democratico (vedi
“Alle radici del nazionalismo americano” in Le Monde Diplomatique, ottobre 2002). Tuttavia l’11
settembre rappresenta il detonatore di questa esplosione del nazionalismo americano.
Il rimedio a quel trauma è “mai più l’America debole e senza potere”. Ma il potere qui non
vuol dire il potere su una piccola terra del Medio Oriente, considerata come eredità biblica, ma vuol
dire il potere sul mondo, di cui, peraltro, non esiste alcuna Scrittura che ne assegni l’eredità
all’America. Il principio è che la sicurezza dell’America è il potere sul mondo. E Dio non sta
dall’altra parte; come ha detto Bush parlando tre giorni dopo l’11 settembre nella National
Cathedral di Washington: ” abbiamo la garanzia che nulla potrà separarci dall’amore di Dio”.
Dunque la sicurezza nazionale, che per l’America Latina era la sicurezza interna contro i comunisti,
per Israele è uno Stato Ebraico come strumento di salvezza contro i nuovi Gentili che sono i
palestinesi e gli arabi in generale, per l’America è l’Impero che estirpi il male, cioè tutto ciò che
può minacciare gli Stati Uniti dentro e fuori i loro confini, prima che questo male abbia la
possibilità di nuocere.
Se l’esito di questa sicurezza cercata dagli americani nell’Impero planetario dovesse essere
analogo all’esito della sicurezza cercata dallo Stato di Israele con la colonizzazione dei territori
occupati, la catastrofe, per l’America e per il mondo, sarebbe di dimensioni inaudite.
La fondazione di un Impero
In che modo, nel documento che stiamo studiando, l’ideologia della sicurezza nazionale
americana diventa Impero? A questo punto dobbiamo metterci d’accordo sulle parole; so bene che
non è di buona creanza parlare di Impero, è difficile usare questa parola perché siamo abituati a
pensare, da cinquant’anni, che l’età degli Imperi sia finita, si sia chiusa nel ’45 quando si è deciso di
passare dall’ordine degli Stati sovrani, con le loro colonie e i loro dominii, all’ordine delle Nazioni
Unite. Con la fine della guerra si è deciso di porre fine all’età degli Imperi. E’ questa in sostanza la
decisione del ’45, tanto è vero che prima è finito l’Impero britannico, poi quello francese, poi quello
portoghese e quello belga. Parlare quindi oggi di Impero significa parlare di qualcosa che non
appartiene alla tradizione ed alla cultura del cinquantennio che abbiamo alle spalle, anche se ci sono
stati degli imperialismi, si è parlato di un imperialismo americano o sovietico, di un imperialismo
della globalizzazione: ma imperialismo era usato qui in senso figurato, per denunciare politiche di
poteri o istituzioni che non erano imperi eppure dominavano (è il senso in cui ne parla Toni Negri).
Al contrario oggi si può parlare di Impero come struttura politica formale, come categoria politica
esplicitamente rivendicata, anche se non ancora con l’uso ufficiale della parola (che però usa il
portavoce europeo Solana, quando dice che “il mondo ha bisogno di una leadership americana ma
non di un Impero americano). Che dunque si abbia a che fare con un Impero è qualcosa che
dobbiamo percepire, di cui dobbiamo renderci conto prima ancora che riceva tutti i riconoscimenti
formali.
E qui abbiamo una spia che ci fa capire in che senso si possa effettivamente parlare di
Impero; e la possiamo trovare in quel punto del documento in cui si dice: “gli Stati Uniti godono di
una potenza militare senza eguali e di una grande influenza economica e politica”. Questa è la
premessa da cui tutto il resto discende. Gli Stati Uniti, si afferma, sono una potenza unica, una
unicità che dipende dalla loro potenza e dalla loro missione. Ma questa unicità, questo primato
militare assoluto dovrà essere mantenuto per sempre; questa unicità ormai è definitiva, deve essere
definitiva; il documento dice infatti: “ le nostre Forze (armate) saranno abbastanza forti per
dissuadere potenziali avversari dal perseguire un potenziamento militare nella speranza di
sorpassare od eguagliare il potere degli Stati Uniti”; questo potere deve quindi durare per sempre.
Nessuno potrà mai pensare non solo di poter superare, ma nemmeno eguagliare il potere
americano. E quindi anche la politica degli equilibri, che in qualche modo viene rimpianta ed era
presentata come uno strumento possibile di ordine del mondo per il futuro, viene rinnegata: deve
esserci una sola potenza, ed essa deve essere superiore alle altre. Mai più quindi una potenza come
l’URSS, ma anche mai una potenza come la Cina; nessuno, e dunque neppure l’Europa, può tentare
di eguagliare gli Stati Uniti.
E’ qui che, abbandonando ogni remora ed ogni cautela formale del linguaggio politicamente
corretto, gli Stati Uniti dichiarano la volontà di costituire un grande Impero mondiale.
E questa spia trova una contro-prova in un avanzamento della teoria della sovranità. Che
cos’era la sovranità? La sovranità viene formalizzata, cioè tradotta in una formula destinata a
diventare classica, alla fine del ’200 da Marino da Caramanico in una glossa al Liber
Constitutionum di Federico II. Essa dice: “ rex superiorem non recognoscens in regno suo est
imperator”, cioè “il re che non riconosce nessuno al di sopra di sé è l’imperatore”; è da questa
formula che nasce il concetto di sovranità (dal termine superior-superiore, viene sovrano, souverain,
sovranità; questa è la storia della parola ed anche della cosa). Sovranità significa quindi non
riconoscere nessuno superiore a sé: chiunque non riconosce nessuno superiore a sé è per ciò stesso
imperatore. Ma se di sovrani e di Imperi ce n’è più d’uno, è chiaro che mentre l’Imperatore non ha
alcuno al di sopra di sé, può avere altri eguali a sé, come appunto avviene nella comunità
internazionale; che è poi la ragione per cui il conflitto tra loro non aveva altra soluzione che la
guerra. Ma qui scatta la novità, qui c’è l’avanzamento; esso sta nel fatto che qui il sovrano,
diventato sovrano universale, non solo non riconosce nessuno come superiore a sé, ma neanche
come eguale a sé; perciò di Imperi non ce ne sono molti, ce n’è uno solo, uno per il mondo intero.
Questo è ciò che fa del sovrano dopo l’11 settembre un Imperator (o almeno lo dichiara ed esplicita
come tale), e per questo, formalmente quello che si vara è un Impero, un Impero che non ha né
superiori né eguali.
Questo Impero ha tuttavia una missione; pertanto, dice il documento, gli Stati Uniti non
useranno la loro forza per procacciarsi un “vantaggio unilaterale”. C’è infatti una missione che gli
Stati Uniti devono compiere per il mondo.
La guerra preventiva
Come sappiamo, e come ci ha ricordato Alessandro Portelli in questa sede, c’è un
messianismo americano. Suo strumento, almeno in questa fase nascente dell’Impero, è la guerra,
anzi la guerra preventiva. Tutte le teorie sulla guerra si basavano, bene o male, sul fatto di
considerare comunque la guerra una risposta, giusta o ingiusta che fosse, lecita o illecita,
ragionevole o sbagliata, a qualche cosa che era accaduto; secondo Francisco De Vitoria la guerra
era “il diritto del sovrano di vendicare sè ed i suoi e di perseguire le ingiurie” (“ius vindicandi se et
suos et persequendi iniurias”). La guerra era quindi una cosa seconda, non prima: c’era un’ingiuria,
una violazione dei diritti, un torto subito, ecc., ed il sovrano rispondeva facendosi giustizia con la
guerra . Ora invece, così come è teorizzata nel documento, la guerra precede qualsiasi motivazione
e ragione, essa è prima che i fatti avvengano, è il distruggere gli altri prima che possano distruggere,
uccidere prima che possano uccidere, abbattere i regimi disobbedienti prima che possano nuocere.
In questa idea della guerra che precede, soccombe anche la vecchia formula della deterrenza, che ha
retto l’equilibrio del mondo in tutto il periodo della guerra fredda. La deterrenza consisteva nel
dissuadere altri dall’attaccare con la minaccia della ritorsione. Nel documento si dice che la
deterrenza e la dissuasione non funzionano più; non si può usare la deterrenza al posto della guerra,
bisogna usare direttamente la guerra perché la deterrenza, bene o male, suppone che l’altro sia
uomo, sia ragionevole, pensi che in fondo sia un bene non morire tutti. La deterrenza, pur nella sua
violenza - e tutti l’abbiamo combattuta negli anni della guerra fredda - con l’equilibrio del terrore
era ancora una cosa umana, politica: materialmente non disarmava l’avversario, lo convinceva a
non attaccare e quindi passava attraverso la sua decisione, che era pur sempre una decisione
politica. Ora qui, invece, la sfiducia nel nemico e nell’avversario è talmente grande, il nemico è
considerato talmente inumano che non si può contare su un residuo di sua razionalità, così che
diventa assolutamente necessario strappargli di mano le armi prima che addirittura le possa avere. Il
nemico è considerato talmente malvagio che fisicamente bisogna impedirgli di nuocere, bisogna
ucciderlo. In fondo la guerra all’Iraq, a parte tutto il resto, è un regidio, perché la si fa per uccidere
Saddam Hussein.
Per questa ragione, l’unica prevenzione è attaccare prima; dice la nuova dottrina strategica
americana, abbandonando anche un linguaggio “politicamente corretto”: “la migliore difesa è una
buona offesa”.
Naturalmente il primo esperimento, la prima missione secondo questa dottrina è la guerra
contro l’Iraq, di cui abbiamo parlato e stiamo parlando. E questa guerra non è come le altre per tante
ragioni, ma soprattutto perché è la prima vera guerra dell’Impero, nel senso che un Impero che
voglia essere tale e che voglia estendere il controllo sul mondo di oggi, non può starsene chiuso
nell’isola americana, ma deve andare lì, in Medio Oriente, deve andare alla confluenza dei due
fiumi, dove passavano le rotte carovaniere che univano l’Europa, l’Africa e l’Asia, dove ci sono i
pozzi di petrolio.
Un’altra conseguenza di questo nuovo modo di pensare il mondo da parte degli Stati Uniti si
fa luce nelle innumerevoli volte in cui nel documento si dice che se tutto quello che gli Stati Uniti
vogliono fare lo potranno fare con gli altri – fare la guerra con gli altri, debellare i nemici in accordo
con gli altri, con l’accordo degli alleati e della comunità internazionale -, lo faranno insieme agli
altri, altrimenti agiranno da soli. C’è qui una rivendicazione della solitudine americana; la parola
“soli” ricorre più volte, l’America ci penserà “da sola”, alone. Se non ci sarà l’accordo sul fatto che
la migliore difesa è una buona offesa l’America agirà da sola. Ciò non riguarda solo l’Iraq, ma è una
dottrina che vale “erga omnes”, in qualsiasi circostanza. E quando il documento cita le alleanze, le
organizzazioni internazionali con le quali gli Stati Uniti intendono collaborare, cita l’ONU,
l’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’Organizzazione degli Stati Americani e la NATO, ma
la NATO non è più al primo posto, è un’alleanza tra tante. E in un altro punto del documento si
citano come distinti gli Stati Uniti e la comunità euro-atlantica.
L’America come altro dall’Occidente
Dunque la conseguenza è questa: gli Stati Uniti non sono più una potenza dell’Occidente,
non sono più l’Occidente. Noi eravamo abituati fino ad oggi a parlare degli Stati Uniti e
dell’Occidente come di una cosa sola, anzi a parlare degli Stati Uniti come dell’espressione stessa
dell’Occidente.
D’ora in poi non sarà più così: l’America si pone come altro dall’Occidente. Non sta più da
una parte del mondo contro l’altra, ma sta sopra il mondo come sovrano universale di una geografia
globale di cui lo stesso Occidente è solo una parte.
Che cosa permette agli Stati Uniti di immaginarsi in questo modo, di passare dalla parte alla
totalità? Ciò che permette questo è il nemico, la nuova figura del nemico; il nemico non sta più ad
Est, così da doverglisi opporre come Ovest, il nemico è dappertutto ed è l’identità del nemico che fa
la nuova identità dell’America.
Il nemico è il terrorismo. Ma il terrorismo, di cui tutti parlano ma nessuno dice cos’è, è
definito in questo documento della Casa Bianca nel modo più flessibile, proteiforme e maneggevole
possibile, così da poter essere impiegato per tutti gli usi; Il terrorismo è “una violenza premeditata,
motivata da ragioni politiche e perpetrata contro degli innocenti”.
E’ chiaro che in questa definizione non c’è alcun criterio di identificazione del terrorismo
che lo differenzi da altre violenze istituzionali o politiche: tutte le conquiste, a cominciare dalla
conquista dell’America, tutte le lotte d’indipendenza, a cominciare da quella di Israele, tutte le lotte
di liberazione, a cominciare da quella contro il nazifascismo, tutte le guerre sono state violenze
esercitate per ragioni politiche contro degli innocenti, sia che per innocenti si intendano civili, sia
che si intendano soldati costretti ad ubbidire.
Ma se nella indeterminazione del terrorismo si deve poi estrapolare la determinazione del
nemico, è chiaro che la vera operazione non è quella di identificare i terroristi come nemici, ma di
definire i nemici come terroristi.
Questo è il rovesciamento semantico: terroristi sono tutti quelli che gli Stati Uniti assumono
come nemici. Questa dottrina porta ad una grande libertà di scelta del nemico, fornisce la
giustificazione necessaria per combatterlo e fonda come insindacabile la guerra preventiva, poiché
la legittimazione della guerra è lo stesso nemico ed il nemico è quello che assumo come tale.
Di fronte a questo un personaggio che certo non è un neutralista di sinistra, ma è
l’ambasciatore Sergio Romano, si domanda: “ma può l’Europa accettare questo, può l’Europa
accettare che tutti i nemici degli Stati Uniti siano nemici anche nostri?”. No, è certo che non lo può
accettare.
Una visione apocalittica
La visione riassuntiva che emerge da questo manifesto dell’Impero è una visione
apocalittica, un’antropologia apocalittica. La divisione del mondo tra gli Stati Uniti e i loro nemici è
una divisione irrimediabile, è la divisione tra il mondo della luce e il mondo del terrore, tra l’ordine
e il caos; in questa visione il mondo della luce si deve salvare, il mondo del terrore deve essere
distrutto. E’ la versione secolarizzata della visione apocalittica del IV libro di Esdra, della visione
gnostica, della visione manichea. Ci sono due mondi, uno dei quali è sbagliato, contro cui l’altro
mondo deve giungere - sotto la mia guida, dice Bush - alla vittoria.
Al mondo che deve essere distrutto appartengono gli Stati cosiddetti “canaglia”. Anche qui
non c’è una definizione precisa di questi Stati canaglia: a volte sono definiti così quelli che hanno o
vogliono avere armi di distruzione di massa; ma allora Stati canaglia sarebbero anche gli Stati Uniti,
l’Inghilterra, la Francia, l’India, il Pakistan, la Russia, Israele e via proliferando. Altra volta sono
quelli che hanno o vogliono acquisire “pericolose tecnologie”; ma allora non sarebbero Stati
canaglia solo quelli che fossero rimasti all’età della pietra. Né altre accuse appaiono più precise;
dunque per sapere chi sono gli Stati canaglia bisogna aspettare che siano proclamati; alcuni si
conoscono già, sono Iraq, Iran, Corea del Nord, altri sono in pectore, saranno rivelati a suo tempo.
In ogni caso quello che conta è che questi Stati, e comunque i loro ordinamenti, devono
essere estirpati. E qui il termine usato ci fa capire tutto. Gli Stati canaglia nell’inglese del
documento americano sono detti “rogue States”. In botanica rogue è l’erba cattiva, la zizzania; to
rogue significa estirpare l’erba cattiva. Ma una visione salvifica del mondo che consiste nello
sradicare l’erba cattiva è una visione apocalittica, è il rovesciamento della parabola del grano e della
zizzania che devono vivere insieme; ritorna la prospettiva apocalittica precristiana di Giovanni
Battista che diceva: “la falce è posta alla radice dell’albero”. Gesù dice invece: il regno di Dio è che
la gramigna non sia tolta, che il male non sia estirpato prima della mietitura, cioè prima della fine
del mondo. Farsi giudici tra il grano e la zizzania, pretendere di liberare il mondo dal male, come
promette Bush, significa anticipare la fine, mettersi dentro un pensiero apocalittico.
Questa visione apocalittica traspare anche laddove il documento di Bush sostiene che oggi
l’umanità vive il suo momento migliore dal 1600, quando si formarono gli Stati moderni, perché per
la prima volta tutte le grandi Potenze stanno dalla stessa parte e non si combattono tra loro. Cioè si
sarebbe realizzata quella condizione per una Santa Alleanza che la diplomazia della restaurazione di
Metternich perseguiva nel 1815, e che la diplomazia di Kissinger insegue fin dagli anni ’70. Il
documento di Bush insiste nel dire che questo è un momento di magica opportunità, preannunzio di
decenni di felicità e di benessere.
Ma com’è possibile? E la fame? E la miseria? E la sete? E i 70 milioni di morti di AIDS nei
prossimi vent’anni? E i bambini che muoiono a milioni o sono fatti schiavi? E la fine delle risorse
energetiche, del petrolio, del carbone, del gas, la crisi ecologica, l’effetto serra, le acque che si
innalzano sopra la terra, i ghiacciai dei Poli che si sciolgono? Dove sono questi drammi, queste
crisi, nel migliore dei mondi possibili di cui parla Bush?
Sono nell’altro mondo, nel mondo a perdere, nel mondo dei poveri e degli scartati, dei
disarmati e dei senza diritti, dei kamikaze e dei terroristi, non nel mondo che si salva, che siamo noi.
Per noi, un quinto dell’umanità, per il Nord del mondo, ci saranno abbastanza risorse e per
abbastanza tempo, purché gli altri non ci importunino con le loro pretese di partecipare alla tavola
della vita.
Qui si rivela la scelta apocalittica: perché non è apocalittico l’annuncio della catastrofe, ma è
apocalittico non fare nulla per impedirla, e pretendere di scaricarla tutta sugli altri, sul mondo a
perdere. In effetti i Grandi hanno rinunziato a qualsiasi rimedio, e il mondo dei poveri è
abbandonato a se stesso. La prova di ciò sta nella ricetta di Bush, che sta scritta, come l’unica
valida, in questo documento: mentre il mondo va in pezzi, la sola ricetta è “free market, free trade”,
libero mercato e libero commercio. Il mercato è dunque il grande selettore, è lui che decide quelli
che vengono presi e quelli che vengono lasciati (e anche questo è apocalittico: quelli che non hanno
impresso sulla mano o sulla fronte il nome della bestia o il numero del suo nome non possono “né
comprare né vendere”).
Alla base pertanto c’è una antropologia della selezione e della cooptazione. L’Occidente ha
espresso una antropologia della perfezione, gli uomini hanno tutta la dignità e tutti i diritti. Ma non
si è uomini per natura o per nascita, c’è da passare un esame, uomini nel senso pieno
dell’umanesimo occidentale sono quelli che sono ammessi, che sono cooptati . Chi siano gli uomini
che godono dei diritti è un dato convenzionale, politico; l’antropologia non è filosofica, religiosa,
scientifica, è convenzionale, politica, selettiva. Ed è sulla base di questa antropologia che ora si è
rotto il mondo, e che la parte maggiore dell’umanità è lasciata fuori.
Ma ha un sapore apocalittico anche fare la guerra per gli ultimi pozzi di petrolio: mentre le
riserve di petrolio si stanno esaurendo, i pozzi iracheni, che hanno le riserve maggiori (forse
superiori a quelle dell’Arabia Saudita), saranno probabilmente gli ultimi che rimarranno in
produzione. E gli Stati Uniti sono naturalmente quelli che per ultimi li vogliono usare.
E apocalittica è stata anche la salita di Sharon, nel settembre 2000, sulla spianata del
Tempio, il luogo dove i pii ebrei non dovevano salire fino all’ultimo giorno, il giorno dell’arrivo del
Messia, il giorno della redenzione. Il giorno in cui, per reazione a quel gesto di Sharon, cominciò la
seconda Intifada.
La posizione da prendere nei confronti dell’Impero non è quindi solo un decidersi riguardo a
questa nuova e antica forma politica di dominio che formalmente riappare nel mondo, ma vuol dire
anche prendere posizione rispetto a questa “politica della fine”, che è propria di tale Impero.
*Raniero La Valle, direttore scuola di Vasti, giornalista e già parlamentare, autore di “Dalla parte
di Abele”; “Fuori dal campo”; “Marianella e i suoi fratelli”; “Pacem in terris. L'enciclica della
liberazione”, “Prima che l'amore finisca”.
SUSSIDIO AGLI INCONTRI
Sabato 14 febbraio 2004 ore 17:00
Le alternative alla guerra: ONU riformata, Corpi civili di
pace, Difesa nonviolenta.
Alberto L’Abate
Sabato 6 marzo 2004 ore 17:00
La nonviolenza: motivazioni ideali, esempi storici,
testimoni, metodi e azione.
Beppe Marasso
Sabato 13 marzo 2004 ore 17:00
L’educazione alla pace e alla nonviolenza. Il conflitto e la
sua risoluzione nonviolenta. L’obiezione di coscienza e il
servizio civile.
Angela Dogliotti Marasso
MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA O MOVIMENTO PER LA PACE?
di Nanni Salio*
La storia sembra ripetersi sempre la stessa: in prossimità di una guerra, annunciata o combattuta, si
creano comitati e movimenti spontanei che cercano di opporsi a una macchina ben oliata, che
funziona ventiquattr'ore su ventiquattro, alimentata da un trilione di euro all'anno, tre miliardi di
euro al giorno. L'esito è praticamente scontato: tranne in rari casi, molto particolari, la macchina
non si arresta. È quanto è successo, ancora una volta, con la guerra di aggressione degli Usa contro
l'Iraq, nonostante la straordinaria opposizione di un imponente movimento contro la guerra, forse il
più grande nell'intera storia umana.
Per quali ragioni questo movimento non è stato in grado di impedire la guerra?
In realtà, questa domanda potrebbe essere intesa in un senso più ampio. Non c'è solo la guerra
contro l'Iraq, ma molte altre più o meno dimenticate o trascurate, che il movimento per la pace non
è stato in grado, e non lo è tuttora, di impedire o di contrastare con sufficiente visibilità ed efficacia
(Colombia, Congo, Sri Lanka, Israele-Palestina, Cecenia, e tante altre).
Obiettivi generali
Si può tentare di rispondere a questo angosciante interrogativo individuando gli obiettivi generali
che un movimento per la pace dovrebbe proporsi di conseguire e le cause profonde che stanno alla
base del fenomeno guerra. Gli obiettivi generali essenziali sono tre, tutti quanti di grande portata e
relativi alla struttura del sistema socio-politico nel quale siamo inseriti: trasformare gli attori sociali
violenti, trasformare le strutture violente, trasformare le culture violente.
Oggi siamo in presenza di attori, strutture e culture violente in un circolo vizioso che si
autoalimenta e che occorre spezzare. A ciascuna di queste tre componenti (attori, strutture, culture)
corrisponde una o più forme di potere, inteso come dominazione. Gli attori sociali violenti
dispongono del potere politico, le strutture violente sono create e mantenute dal potere economico e
militare, le culture violente si manifestano attraverso il potere culturale (mediatico, religioso, della
tecnoscienza, dell'immaginario artistico, dei miti, dei traumi e della narrazione storica).
Una ipotesi di lavoro dalla quale partire è che a questi poteri dall'alto occorre contrapporre e/o
sostituire il "potere dal basso" fondato sulla nonviolenza. Ma questo potere, che ha una dimensione
sia personale, basata sulla "forza interiore", sia collettiva, dev'essere costruito pazientemente, non
può essere improvvisato.
Teorie e forme del potere
Mentre le quattro forme principale di potere dall'alto (politico, economico, militare e culturale) sono
alimentate costantemente, pianificate e sorrette giorno dopo giorno dal circolo vizioso attoristrutture-culture, nulla di tutto ciò esiste, se non in uno stato embrionale, per quanto riguarda il
"potere dal basso". Basti pensare alle dottrine e politiche militari, sorrette da una gigantesca spesa
militare, da un apparato burocratico costituito da decine di milioni di persone che operano a tempo
pieno e da un consenso ampiamente generalizzato. Quante sono le persone che operano a tempo
pieno nei movimenti per la pace, per esempio in Italia? A essere generosi si possono approssimare a
poche centinaia, realisticamente ancor meno. Con quali risorse? Pressochè nulle. È pensabile che in
questo modo si possano contrastare scelte e decisioni come quelle che hanno portato alla guerra
contro l'Iraq? No di certo. Questo non significa che ci siano facili ricette che si possono costruire a
tavolino, con risultati sicuri e immediati. Si può tuttavia pensare a un ragionevole insieme di
politiche e di iniziative che, in modo sistemico e complesso, possano avviare un processo di
inversione di tendenza che può portare nel corso degli anni a conseguire risultati apprezzabili.
Un punto centrale che paradossalmente è stato largamente trascurato è la critica radicale agli attuali
modelli di difesa e di sicurezza e, più in generale, la critica alle dottrine militari.
Quello che si attiva normalmente su larga scala è più un movimento contro la guerra (una specifica
guerra, uno specifico sistema d'armi, come quelle nucleari oppure le mine antiuomo) che un vero e
proprio movimento per la pace.
Molti di coloro che hanno manifestato contro la guerra di Bush all'Iraq erano al tempo stesso
favorevoli a mantenere gli eserciti, senza minimamente essere consapevoli delle dinamiche e
delle conseguenze che questa scelta comporta. È proprio questa ambiguità che impedisce di
uscire dal circolo vizioso della guerra. Con il nostro assenso a una difesa militare, peraltro
altamente aggressiva e offensiva, consentiamo che le elite che governano le grandi potenze
proseguano indisturbate nella loro logica di dominio e nella sfrenata corsa agli armamenti, in
corso da oltre mezzo secolo. E quando decidono di ignorare e stracciare anche quel poco di
accordi e di diritto internazionale che faticosamente si è riusciti a costruire, ci ritroviamo
totalmente impotenti. Ma non siamo innocenti: abbiamo consegnato il nostro potere nelle
mani criminali di chi ci governa.
L'alternativa alla difesa militare dev'essere pertanto chiara e netta, anche se nel breve periodo può
comportare una fase di transizione, di transarmo, un piccolo compromesso che vedrà convivere
elementi residuali di un modello di difesa difensiva, ma non offensiva, con il costruendo modello di
difesa popolare nonviolenta. Ma al momento questa ipotesi progettuale non è stata esplicitamente
recepita neppure dal movimento per la pace, che rischia di ripetere solo slogan retorici e inefficaci.
Tecniche e metodi di lotta della nonviolenza politica
Uno dei lavori di riferimento per chiunque voglia comprendere i fondamenti della nonviolenza
politica, superando schemi riduttivi e di banale contrapposizione tra i fautori del realismo e i
persuasi della nonviolenza, è quello di Gene Sharp, La politica dell'azione nonviolenta (tre volumi,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1997). I punti salienti del lavoro di Sharp sono i seguenti: la
nonviolenza politica si basa su una diversa teoria del potere, che ha avuto modo di dimostrare la sua
efficacia nel corso della storia in svariati e numerosi casi, in ogni latitudine e sotto ogni tipo di
governo, democratico e/o totalitario, compreso il nazifascismo; i casi di studio sono talmente
significativi che soltanto una pigrizia intellettuale, un permanere di concezioni teoriche errate, una
narrazione storica miope e un insieme di interessi contingenti e limitati hanno impedito sinora che
le tecniche e i metodi della nonviolenza si diffondessero più di quanto è già avvenuto.
Purtroppo, questa critica vale anche per il movimento per la pace, che sinora non ha saputo fare
propria la cultura della disobbedienza civile, del ju-jitsu politico, della noncollaborazione, del
boicottaggio e di quella molteplicità di tecniche (Sharp ne ha classificate ben 198, ma nei trent'anni
trascorsi da quando ha pubblicato il suo lavoro se ne sono aggiunte altre) indispensabili per rendere
efficace la lotta nonviolenta. La disobbedienza è "civile" e non "incivile" quando si accetta il prezzo
da pagare, anzi quando si fa leva su questo prezzo per scardinare un sistema basato su leggi
ingiuste.
"Riempire le carceri" è sempre stata l'indicazione politica dei maestri della nonviolenza, da Gandhi
a Mandela. Bloccare i treni che trasportano armi, non pagare le tasse che servono per finanziare la
guerra e l'apparato bellico, non accettare leggi ingiuste come la Bossi-Fini sull'immigrazione,
richiedono il coraggio e la determinazione della disobbedienza creativa, che può mettere in
difficoltà estrema anche il potere apparentemente più forte e monolitico e farlo cadere come un
fragile castello di carte. Ma la scansione delle azioni dev'essere organizzata, pianificata, gestita
politicamente secondo tempi e modalità che permettano di continuare la resistenza e la
disobbedienza su tempi lunghi.
Gli esempi storici delle lotte guidate da Gandhi e da Martin Luther King sono emblematici a tale
riguardo. Il movimento per la pace è stato capace sinora di agire solo sui primi livelli dell'azione,
quelli della sensibilizzazione, delle manifestazioni di massa, ma non è riuscito a passare alla fase
successiva della disobbedienza. Per far questo è necessario un impegno continuativo di formazione
all'azione diretta nonviolenta, come è avvenuto nei casi migliori della storia dei movimenti (1). Solo
così potremo sperare di avere gruppi di attivisti capaci, preparati e pronti a intervenire
tempestivamente e coerentemente secondo le tecniche della nonviolenza. Tutto ciò non si
improvvisa all'ultimo momento.
Per raggiungere questi obiettivi, ambiziosi e impegnativi ma tutt'altro che irrealistici, il movimento
deve affrontare anche due altri ordini di problemi interni:
1. la totale carenza delle strutture logistiche e organizzative, da consolidarsi mantenendo una
rigorosa indipendenza rispetto alle forze politiche partitiche, pur nella ricerca di un costante
dialogo aperto di confronto e di critica costruttiva;
2. democrazia interna, partecipazione, modalità decisionali consensuali, ruolo crescente della
componente femminile, autogestione.
Dal punto di vista organizzativo, la forma migliore è probabilmente quella di una struttura a rete,
decentrata ma stabile, che consenta al tempo stesso di valorizzare la grande ricchezza delle diversità
("uniti e diversi") e di condurre un'azione politica incisiva e attiva (anzi pro-attiva), non soltanto
spontaneista e reattiva, che superi le emergenze e duri nel tempo, capace di elaborare progetti,
realizzare esperienze, produrre cultura della nonviolenza e trasformare man mano la realtà. Occorre
radicarsi stabilmente nei luoghi, essere tenaci e determinati, progettuali e creativi. Moltissime
esperienze in corso permettono già di intravedere che cosa intendiamo per società nonviolenta e
quali sono le direzioni verso le quali dobbiamo procedere, ma non abbiamo ancora raggiunto una
massa critica sufficiente per conseguire risultati più stabili e visibili.
Paradossi e limiti della democrazia
Ci sentiamo sovente dire che la nonviolenza è possibile ed efficace solo nei contesti democratici.
Questo non solo non è vero, come dimostrano molteplici casi storici (resistenza civile al
nazifascismo, caduta di regimi dittatoriali nelle Filippine nel 1986 e nell'Europa dell'Est nel 1989),
ma siamo ormai in presenza di un evidente paradosso: è molto più difficile lottare dentro una
democrazia che non contro un potere dittatoriale (2). Intendiamoci, è vero che nella democrazia ci
sono spazi e margini di manovra che, in prima istanza, sembrano più facili da attivare. Ma i risultati
sono spesso modesti, quando non addirittura nulli. Proteste su larghissima scala come quelle del 15
febbraio 2003 che hanno coinvolto decine di milioni di cittadini/e non hanno impedito che il potere
politico si comportasse con la ben nota tecnica del "muro di gomma".
Analogamente, per i principali problemi che abbiamo di fronte (dalla povertà di massa agli squilibri
ambientali, dalla crescente disoccupazione e precarizzazione ai drammi dell'immigrazione) i poteri
dominanti presenti nelle democrazie si comportano seguendo strategie ben note, che di fatto stanno
svuotando la democrazia del suo più autentico significato.
Un 20% della popolazione è in grado di conseguire un risultato elettorale vincente, contro un altro
20% che vi si oppone e un 60% per lo più indifferente, terreno di caccia per gli indispensabili
margini di manovra. Come è stato brillantemente evidenziato da vari autori (3), le democrazie
occidentali stanno diventando sempre più delle oligarchie, capaci di rendere inefficace la protesta e
il dissenso, se questo si limita alle forme più tradizionali di azione e non sa compiere il passaggio
verso la disobbedienza civile. La trappola è ben congegnata: se l'oppositore ricorre alla violenza,
viene schiacciato e messo nell'angolo; se invece si limita alla protesta verbale, la sua azione risulta
inconcludente.
L'alternativa necessaria e possibile è la disobbedienza civile su larga scala, organizzata nella forma
della resistenza, dell'obiezione e del boicottaggio. A tutto ciò occorre aggiungere la capacità di
elaborazione di un programma costruttivo basato sul cambiamento delle strutture di potere militare,
passando dalla difesa armata a quella nonviolenta, e delle strutture economiche trasformando
l'attuale folle e distruttivo modello della crescita e dei consumi illimitati in un altro basato sulla
scelta della semplicità volontaria e sulla riscoperta di stili di vita che ci permettano di vivere in
maniera più ricca, intensa e armoniosa le nostre relazioni intra e inter-personali.
Sono cambiamenti parzialmente già in corso, che bisogna sostenere, rendere visibili, tradurre anche
in programmi politici.
Una modesta proposta: una politica del 5%
Quando si delineano scenari globali, si rischia di cadere in una sindrome di disperazione che è bene
contrastare osservando che il bicchiere non è mai tutto pieno o tutto vuoto, ma di solito mezzo pieno
e mezzo vuoto. Accanto alle denunce, è necessario vedere e far conoscere le molteplici esperienze
positive in corso in ogni angolo del mondo. Stanno crescendo la quantità di persone, i movimenti, le
iniziative, la cultura, la sensibilità di coloro che si rendono conto che un mutamento è possibile,
oltre che necessario. Ci sono tutte le premesse e forse stiamo già assistendo agli "ultimi giorni
dell'impero americano", come recita il titolo di un bel libro di Chalmers Johnson (Garzanti, Milano
2001, e ristampa aggiornata 2003). È una tesi condivisa da molti altri autorevoli studiosi, tra cui
Immanuel Wallerstein (4), Johan Galtung (5), Emmanuel Todd.
Perchè questa transizione avvenga, c'è bisogno che l'attuale struttura imploda e si dissolva, il meno
violentemente possibile, come è implosa l'altra superpotenza, dopo la straordinaria stagione di lotte
nonviolente del 1989. Non abbiamo bisogno di superpotenze, se non di quella disarmata e
nonviolenta del movimento per la pace transnazionale.
Un obiettivo minimo ma concreto di questo movimento può essere quello di una politica "del 5%":
proporre alle forze politiche, nelle prossime tornate elettorali, la riduzione delle spese militari del
5% all'anno per tutta la legislatura, con l'utilizzo di queste risorse per la costruzione di una
alternativa nonviolenta (corpi civili di pace, forze nonviolente, caschi bianchi) e in parallelo la
riduzione programmata annua del 5% dei consumi di energia fossile (in particolare il petrolio) con
la crescita, nella stessa misura, della produzione di energie rinnovabili.
In una sola legislatura otterremmo risultati concreti e straordinari, che ci avvicinerebbero a traguardi
ancora più ambiziosi. Ma troveremo una forza politica che abbia il coraggio di assumere un simile
programma? Sta al movimento per la pace attivarsi perchè tale proposta non rimanga nel cassetto
dei sogni.
(1) Si veda ad esempio il sito www.ruckus.org curato dalla Ruckus Society, uno dei gruppi
internazionali più specializzati in questo campo.
(2) Si vedano in proposito le riflessioni di Brian Martin, Nonviolence versus capitalism,
www.uow.edu.au/sts/bmartin/pubs/01nvc
(3) Si veda in particolare Emmanuel Todd, Dopo l'impero, Marco Tropea, Milano 2003.
(4) Il declino dell'impero americano, www.iai.it/pdf/Wallersteintrad5.PDF
(5) The fall of the empire, www.transcend.org
* Nanni Salio (per contatti: [email protected]), torinese, segretario dell'Ipri (Italian Peace Research
Institute), si occupa da diversi anni di ricerca, educazione e azione per la pace, ed è tra le voci più
autorevoli della nonviolenza in Italia. Opere di Giovanni Salio: Difesa armata o difesa popolare
nonviolenta?, Movimento Nonviolento, Perugia; Scienza e guerra (con Antonino Drago), Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1982; Ipri, Se vuoi la pace educa alla pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1983; Le centrali nucleari e la bomba, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; Ipri, I movimenti per la
pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1989; Progetto di educazione alla pace, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1985-1991; Le guerre del Golfo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1991; Il potere della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; Elementi di economia nonviolenta, Movimento
Nonviolento, Verona 2001. Per contatti: Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13,
10122 Torino, tel. 011532824, fax: 0115158000, e-mail: [email protected], sito: www.arpnet.it/regis].
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