Tribunale Civile e Penale di Milano
Ufficio Istruzione sez.20^
N.9/92A R.G.P.M.
N.2/92F R.G.G.I.
Procedimento penale nei confronti di ROGNONI Giancarlo ed altri.REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo italiano
Il Giudice Istruttore presso il Tribunale Civile e Penale di Milano, dr. Guido Salvini, ha
pronunziato la seguente
SENTENZA - ORDINANZA
nel procedimento nei confronti di:
1) ROGNONI Giancarlo, nato a Milano il 27.8.1945 ed ivi residente in Via Brusuglio
n°47;
(difeso di fiducia dall'avv. Benedetto Tusa, Corso Buenos Ayres n°10, Milano).
2) AZZI Nico, nato a Serravalle Po (MN) il 31.7.1951 e residente a Milano in Via
Fratelli Ruffini n°1;
(difeso di fiducia dall'avv. Patrizia D'Elia, Via Cesare Battisti n°1, Milano).
3) BATTISTON Pietro, nato a Milano il 29.5.1958
elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia, avv. Antonella Pastore, Viale
Caldara n°41, Milano.
4) DE MIN Francesco, nato a Milano il 31.3.1951 ed ivi residente in Via San Dionigi
n°30;
(difeso d'ufficio dall'avv. Roberto Peccianti, Via Corridoni n°6, Milano).
5) SICILIANO Martino, nato a Padova il 31.8.1946, domiciliato presso il Servizio
Centrale di Protezione.
(difeso d'ufficio dall'avv. Fausto Maniaci, Via Podgora n°12/b, Milano).
2
6) RICCI Mario, nato a San Sepolcro (AR) il 6.7.1949 e residente a Trento in Via
Enrico Conci n°6;
(difeso di fiducia dall'avv. Diego Senter e dall'avv. Stefano Pietro Galli, entrambi del
Foro di Trento ma domiciliati presso lo studio dell'avv. Carlo Rasini, Via Mameli n°10,
Milano.
7) GUILLOU Yves Felix Marie alias GUERIN Serac, nato a Ploubezre (Francia)
il 2.12.1926, I R R E P E R I B I L E;
(difeso d'ufficio dall'avv. Marino Vignali, Viale Regina Margherita n°30, Milano).
8) DELLE CHIAIE Stefano, nato a Caserta il 13.9.1936 e residente a Roma in Via
Marco Dino Rossi n°35, ma elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv.
Claudio Menicacci, Via Muzio Clementi n°18, Roma;
(difeso di fiducia dagli avv.ti Claudio Menicacci, Via Muzio Clementi n°18, Roma e
Giuseppe Pisauro, Via Ezio n°12, Roma)
9) VINCIGUERRA Vincenzo, nato a Catania il 3.1.1949, attualmente detenuto per
altra causa presso la Casa di Reclusione di Opera;
(difeso d'ufficio dall'avv. Franco Rossi Galante, Viale Montenero n°72, Milano).
10) SALBY Jay Simon alias CASTOR, nato a Philadelphia (Pennsylvania/U.S.A.) il
28.7.1937, I R R E P E R I B I L E;
(difeso d'ufficio dall'avv. Giovanni Beretta, Corso Venezia n°24, Milano).
11) CARMASSI Piero, nato a Massa Carrara il 23.4.1945 e residente a Roma in Via
Papiria n°68
(difeso d'ufficio dall'avv. Ludovico della Penna, Via P. Calvi n°19 Milano).
12) ZORZI Delfo, nato ad Arzignano (VI) il 3.7.1947,
I R R E P E R I B I L E, ma elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia,
avv. Gaetano Pecorella, Viale Majno n°9, Milano.
13) VENTURA Giovanni, nato a Piombino Dese il 2.11.1944 e residente a Buenos
Ayres, Juncal 1675.
(difeso d'ufficio dall'avv. Marino Vignali, Viale Regina Margherita n°30, Milano).
14) MAGGI Carlo Maria, nato a Villanova del Ghebbo (RO) il 29.12.1934
elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Luciano Merlini, Via Fiamma n°27,
Milano.
(difeso di fiducia dall'avv. Marcantonio Bezicheri del Foro di Bologna, domiciliato
presso lo studio dell'avv. Luciano Merlini, Via Fiamma n°27, Milano, e dall'avv. Mauro
Ronco, Corso Matteotti n°44, Torino).
15) DIGILIO Carlo, nato a Roma il 7.5.1937, domiciliato presso il Servizio Centrale di
Protezione
(difeso di fiducia dall'avv. Giorgio Barbesti, Viale Alcide De Gasperi n°60, Crema).
16) VIANELLO Giancarlo, nato a Venezia il 1°.6.1948
2
elettivamente domiciliato presso il difensore d'ufficio, Avv. Massimo Monaco, Viale
Piceno n°40, Milano.
17) FREDA Franco, nato a Padova l'11.2.1941 e domiciliato a
Brindisi in Via
Magaldi n°1.
(difeso di fiducia dall'avv. Clemente Manco, Via Saponea n°45, Brindisi).
18) POZZAN Marco, nato a Santorso il 23.4.1926 e residente a Limena (PD) in Via
De Gasperi n°45.
(difeso di fiducia dall'avv. Edmondo Zappacosta, Via Lisbona n°20, Roma).
19) NEAMI Francesco, nato a Trieste il 5.4.1946 ed ivi residente in Via della
Fornace n°8;
(difeso di fiducia dall'avv. Sergio Giacomelli, Via Filzi n°6, Triestee dall’avv. Roberto
Petringa Nicolosi, Corso di Porta Vittoria n°50, Milano).
20) PORTOLAN Manlio, nato a Trieste l'8.7.1942 ed ivi residente in Via Manzoni
11/1; (difeso di fiducia dall'avv. Marcantonio Bezicheri, Via Marconi n°7, Bologna).
21) ANDREATTA Piero, nato a Venezia l'8.1.1949 e domiciliato a Mestre in Via
Abruzzo n°12.
(difeso di fiducia dall'avv.prof. Marco Zanotti, Via d'Azeglio n°31, Bologna).
22) FREZZATO Giuseppe, nato a Udine il 26.2.1939, già residente a Preganziol
(TV) in Via Schiavonia n°181. I R R E P E R I B I L E
(difeso d'ufficio dall'avv. Roberto Peccianti, Via Corridoni n°6, Milano).
23) MONTAGNER Piercarlo, nato a Venezia il 6.12.1947 e residente a Spinea (VE)
in Via Abba n°15.
(difeso di fiducia dall'avv. Eugenio Vassallo, Via Carducci n°13, Mestre, e dall'avv.
Roberto Losengo, Via Podgora n°13, Milano).
24) MINETTO Sergio, nato a Verona il 4.5.1925 ed ivi residente in Via Campania
n°29. (difeso di fiducia dall'avv. Giuseppe Pezzotta, Corso Monforte n°20, Milano).
25) BANDOLI Giovanni, nato a Pray (VI) il 24.2.1931 e residente a Negrar (VR) in
Via dei Mandolri n°2.
(difeso di fiducia dall'avv. Giacomo Zanolini del Foro di Verona, domiciliato presso lo
studio dell'avv. Gianfranco Del Popolo Cristaldi, Via Stresa n°16, Milano)
26) JONES Robert Edward, nato a Worcester (Massachussets - U.S.A.) il 19.8.1832
e residente a Maniago (PN) in Via Umberto Saba n°9/e.
(difeso d'ufficio dall'avv. Marco Boretti, Via Castelmorrone n°1, Milano).
27) MALCANGI Ettore, nato a Milano il 18.8.1949 e residente a Montemaggiore sul
Metauro (PS) in Via Cave n°2.
(difeso d'ufficio dall'avv. Ettore Traini, Via Alessandro Volta n°17, Milano).
28) CARUSO Enrico, nato a Milano il 25.2.1956, attualmente detenuto per altro
presso la Casa di Reclusione di Opera
3
4
(difeso di fiducia dall'avv. Manuel Sarno, Via Durini n°4, Milano).
29) PRUDENTE Lorenzo, nato a Torino il 22.1.1956 ed elettivamente domiciliato
presso il difensore di fiducia, avv. Salvatore Stivala, Via Podgora 6, Milano.
30) CAVALLINI Gilberto, nato a Milano il 26.9.1952, attualmente detenuto per altro
presso la Casa di Reclusione di Opera.
(difeso di fiducia dall'avv. Luciano Merlini, Via Fiamma n°27, Milano).
31) BALLAN Marco, nato a Milano il 16.4.1944 ed ivi residente in Via Lattanzio n°9,
domiciliato a Sesto San Giovanni in Via Gramsci n°463
(difeso di fiducia dall'avv. Giuliano Artelli, Via Loderingo degli Andalò 3/2, Bologna).
32) COZZO Anna Maria, nata ad Ariano Irpino il 9.4.1946 e residente a Napoli in Via
Francesco Cilea n°45.
(difesa di fiducia dall'avv. Marcantonio Bezicheri, Via Marconi n°7, Bologna, e
dall'avv. Salvatore Maria Sergio, Via Salvator Rosa n°287, Napoli).
33) DEDEMO Marzio, nato a Venezia il 2.4.1946
domiciliato presso il Servizio Centrale di Protezione
(difeso di fiducia dall'avv. Giorgio Barbesti, Viale Alcide De Gasperi n°60, Crema).
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IMPUTAZIONI
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BANDA ARMATA E ASSOCIAZIONE SOVVERSIVA
ORDINE NUOVO / GRUPPO LA FENICE
BATTISTON
IMPUTATO
1) del reato di cui agli artt.110, 112 n.1, 270 I parte c.p. per avere, in concorso con
ROGNONI e AZZI (organizzatori), con DI LORENZO, MARZORATI e DE MIN
(semplici partecipanti) a Milano e con altre persone, fra cui SIGNORELLI Paolo,
FACHINI Massimiliano e MELI Mauro, già giudicate a Roma nell'ambito del
procedimento n.15/84 Reg.Gen. Corte d'Assise di Roma e tutte appartenenti alle
strutture locali di Ordine Nuovo, e quindi in numero superiore a cinque, promosso,
costituito ed organizzato un'associazione sovversiva volta a sovvertire violentemente
gli ordinamenti economici e sociali costituiti nello Stato, a sopprimere il sistema delle
rappresentanze parlamentari nonchè a compiere atti di violenza.
In particolare i medesimi contribuivano a creare una struttura interamente
clandestina, raccolta intorno alla rivista "La Fenice", che per il conseguimento dei fini
indicati acquisiva notevoli quantitativi di armi, bombe a mano e altri esplosivi di
provenienza militare, progettava e realizzava attentati di vario genere, predisponeva
idonei rifugi per militanti colpiti da provvedimenti restrittivi, procacciava documenti di
identità falsificati, addestrava i militanti all'uso delle armi, teneva i contatti con
analoghe strutture operanti in lazio, in Veneto e a Roma e diffondeva pubblicazioni
finalizzate alla denigrazione della democrazia ed alla propugnazione della sua
soppressione con il ritorno, con metodi violenti, dei regimi fascista e nazista.
A Milano e in altri luoghi dal 1971 sino all'aprile 1973 per AZZI Nico e sino al febbraio
1977, data del suo arresto in Spagna, per ROGNONI Giancarlo e sino all'inizio del
1977 per DI LORENZO Cinzia e BATTISTON Pietro
2) del reato di cui agli artt.110, 112 n.1, 306, I comma, c.p. per avere, in concorso
con le medesime persone di cui al capo A), e quindi in numero superiore a cinque, al
fine di commettere i reati di cui al medesimo capo, promosso, costituito ed
organizzato una banda armata costituente il livello armato di Ordine Nuovo mediante
l'acquisizione per gli associati, con forme e modalità diverse fra cui furti presso
depositi militari e consegna da parte di militari ad essi legati, di ingenti quantitativi di
armi, munizioni, esplosivi e bombe a mano.
A Milano e in altri luoghi dal 1971 sino all'aprile 1973 per AZZI Nico e sino al febbraio
1977, data del suo arresto in Spagna, per ROGNONI Giancarlo e sino all'inizio del
1977 per BATTISTON Pietro.
3) del reato di cui all'art.285 c.p. perchè, in concorso con gli altri dirigenti e attivisti del
Circolo "La Fenice", facente parte dell'area di "Ordine Nuovo", allo scopo di attentare
alla sicurezza dello Stato, preparava un congegno esplosivo a tempo utilizzando un
chilogrammo di tritolo, due detonatori, una pila e una sveglia; ordigno collocato
6
materialmente da Nico AZZI nel cestino metallico posto nella ritirata di un vagone del
treno direttissimo Torino-Roma gremito di persone; azione interrotta dal fatto che
l'AZZI, accovacciato nella predetta ritirata, mentre ultimava il collegamento dei fili
elettrici alla pila e metteva a punto l'orologio, provocava accidentalmente lo scoppio
di uno dei detonatori; condotta diretta a cagionare un disastro ferroviario ed al fine di
uccidere e tale da porre in pericolo la pubblica incolumità.
In Milano e Genova, il 7.4.1973 e nelle settimane immediatamente precedenti.
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8
DETENZIONE E PORTO DI ESPLOSIVI
APPARTENENTI ALLA DOTAZIONE LOGISTICA
DEL GRUPPO LA FENICE
ED OCCULTATI A CELLE LIGURE
(1972)
ROGNONI - AZZI - DE MIN
IMPUTATI
4) dei reati di cui agli artt.110 c.p., 2 e 4 Legge 2.10.1967 n.895 per avere detenuto e
portato in luogo pubblico detonatori al fulminato di mercurio e bombe a mano SRCM,
provenienti dalla caserma di Imperia ove Azzi svolgeva il servizio militare, nonchè
esplosivo tipo ANFO e munizioni varie, materiale appartenente alla dotazione
logistica del gruppo "La Fenice" ed attualmente occultato in località Sanda, nella
zona di Celle Ligure, non lontano dall'abitazione già appartenente a Rognoni e non
reperibile a causa della situazione del luogo.
A Milano e Celle Ligure, nel corso del 1972 sino a data imprecisata.
BALLAN - ROGNONI
IMPUTATI
5) del delitto di cui all'art.270 c.p. per avere, in concorso tra loro, con ESPOSTI
Giancarlo (deceduto) e con altri, costituito, promosso, organizzato e diretto
un'associazione volta a sovvertire violentemente gli ordinamenti sociali costituiti dallo
Stato attraverso un programma che prevedeva reiterati attentati a linee ferroviarie,
centrali elettriche, infrastrutture e persone e in particolare, e fra l'altro, almeno quattro
delitti di strage che nella prospettazione degli associati avrebbe dovuto determinare,
oltre agli esiti immediati di tali delitti, il panico diffuco fra la popolazione ed in tal
modo creare le condizioni politiche per il sovvertimento violento delle istituzioni.
Associazione operante in Milano, Ascoli Piceno, Silvi Marina, San Benedetto Val di
Sambro ed altre località dell'Italia centrale e settentrionale almeno sino al 4.8.1974.
6) del delitto di cui all'art.306 c.p. per avere promosso, costituito e organizzato una
banda armata finalizzata alla consumazione del delitto di cui al capo che precede
nonchè di almeno quattro delitti di strage previsti dall'art.285 c.p.
Associazione operante in Milano, Ascoli Piceno, Silvi Marina, San Benedetto Val di
Sambro ed altre località dell'Italia centrale e settentrionale almeno sino al 4.8.1974.
8
ed altresì
ROGNONI
INDIZIATO
7) del reato di cui agli artt.10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 e 3 e 23 Legge
18.4.1975 n.110 per avere detenuto una pistola Beretta cal.7,65 con canna filettata,
facente parte della dotazione logistica del gruppo, nonchè alcuni silenziatori per tale
arma provenienti dalla dotazione del gruppo di Mestre/Venezia di Ordine Nuovo e
fabbricati da Carlo DIGILIO.
A Milano e a Lecco dal 1970 sino a data imprecisata (ma comunque collocabile alla
metà degli anni '70).
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CESSIONE DI DOCUMENTI E DETENZIONE DI ARMI
DA PARTE DI MARZIO DEDEMO
DEDEMO
IMPUTATO
8) dei reati di cui agli artt.81, 648, 477 - 482 c.p. per avere ricevuto e portato in
Spagna circa 15 patenti di guida e 15 carte di identità italiane di provenienza furtiva
nonchè 7 passaporti italiani e timbri componobili per la falsificazione degli stessi,
documenti tutti portati da DEDEMO in Spagna su disposizione del dr. Carlo Maria
MAGGI e consegnati, in occasione di più viaggi, a Giancarlo ROGNONI unitamente
al passaporto e alla patente di guida dello stesso DEDEMO (di cui lo stesso aveva
falsamente denunciato il furto), utilizzati in seguito da questi ultimi per approntare
falsi documenti dell’ordinovista genovese Mauro MELI, anch’egli latitante a Madrid,
A Venezia, Milano e in Spagna tra l’ottobre 1975 e il 1977.
9) dei reati di cui agli artt.10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 per avere detenuto
varie armi (tra cui una pistola Browning bifilare e una pistola Franchi-Llama
mod.Phyton) consegnategli dal dr. Varlo Maria MAGGI in occasione di servizi di
“tutela” armata a Venezia in favore del MAGGI stesso e a Padova in favore di altri
due esponenti di destra (uno dei quali probabilmente Paolo SIGNORELLI), in due
diverse occasioni, in una delle quali unitamente a Martino SICILIANO.
A Venezia e Padova tra il 1972 e il 1973.
10
BANDA ARMATA
AGINTER-PRESS / ORDRE ET TRADITION / O.A.C.I.
GUILLOU alias GUERIN Serac - DELLE CHIAIE
IMPUTATI
10) del reato di cui all'art.306 I comma c.p. perchè, in concorso con Robert Leroy,
deceduto, ed altre persone nella veste di partecipanti fra cui Vincenzo
VINCIGUERRA, Mario RICCI e Piero CARMASSI, promuovevano ed organizzavano
una banda armata che agiva sotto la denominazione "AGINTER PRESS" (ed anche
sotto le sigle "ORDRE ET TRADITION" e "O.A.C.I."), con sede prima a Lisbona e
poi a Madrid, costituita per commettere i reati di cui agli artt.270 e 283 c.p. e con
specifiche finalità anti-comuniste e di mutamento, con mezzi non consentiti, degli
ordinamenti costituzionali degli Stati in cui operava.
Banda armata formata da cittadini francesi, già aderenti all'O.A.S., e da spagnoli,
portoghesi, italiani ed americani addestrati nelle tecniche di disinformazione,
infiltrazione, guerra psicologica e sabotaggio, nelle tecniche di pedinamento,
sequestro, interrogatorio e schedatura di avversari politici, all'approntamento di basi
in cui ospitare latitanti di varie nazionalità e all'approntamento di documenti falsi.
Addestrati altresì all'uso delle armi, fra cui mitragliette ricevute dai Servizi Speciali
spagnoli e al confezionamento, trasporto ed uso di esplosivi, fra cui esplosivi francesi
di provenienza militare.
Stefano DELLE CHIAIE organizzando altresì, con la partecipazione di RICCI,
CARMASSI, VINCIGUERRA, CICUTTINI ed altre persone, il sequestro e
l'interrogatorio di Gaetano Orlando a Madrid nel giugno 1974 ed organizzando
inoltre la presenza con armi di numerosi italiani (fra cui CAUCHI, CALZONA, RICCI,
CARMASSI, CICUTTINI ed altri), inquadrati militarmente, alla manifestazione di
Montejurra (Navarra) del 9.5.1976 e la partecipazione degli stessi alla sparatoria
conclusasi con l'omicidio di due militanti carlisti seguaci del Principe Carlos Hugo.
Banda armata operante in Spagna, nei confronti degli avversari politici, in Portogallo
(sotto il nome di E.L.P.), in America Centrale, nelle Azzorre, in Angola, in Italia, in
Francia, in Germania e in Gran Bretagna (con riferimento agli attentati contro
Ambasciate d'Algeria commessi nella primavera-estate del 1975) e con sede, dalla
metà degli anni '60, a Lisbona e, a partire dalla metà del 1974 quantomeno sino alla
prima metà del 1977, a Madrid.
ed altresì:
VINCIGUERRA - RICCI - CARMASSI
INDIZIATI
11) del medesimo reato di cui al capo 10) con il ruolo di semplici partecipanti alla
banda armata (art.306, II comma, c.p.).
11
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ATTENTATI ALLE AMBASCIATE D'ALGERIA
IN FRANCIA, GRAN BRETAGNA, GERMANIA FEDERALE, ITALIA
(estate 1975)
GUILLOU alias GUERIN SERAC - DELLE CHIAIE - VINCIGUERRA
SALBY - RICCI - CARMASSI
IMPUTATI
12) dei reati di cui agli artt.81 cpv., 110, 112 nn.1 e 2 c.p., 10, 12 e 13 Legge
14.10.1974 n.497 e art.635 c.p. in relazione alla commissione dei seguenti attentati:
- attentato in danno dell'Amicale des Algeriens en Europe, Rue Louis Le Grand,
Parigi in data 27.7.1975, commesso con la collocazione di un ordigno composto con
amatolo;
- attentato in danno dell'Ambasciata d'Algeria a Roma in data 18.8.1975, commesso
con la collocazione di un ordigno composto con polvere da mina;
- attentato in danno dell'Ambasciata d'Algeria a Bonn in data 18.8.1975, commesso
con la collocazione di un ordigno non esploso, costituito da un timer elettronico ed
esplosivo militare del tipo C4;
- attentato in danno dell'Ambasciata d'Algeria a Londra, Hyde Park Gate 6, in data
18.8.1975, commesso con la collocazione di un ordigno non esploso, costituito da un
detonatore elettrico di fabbricazione spagnola, da un orologio quale timer e da
esplosivo del tipo gelignite.
Campagna di attentati (tutti rivendicati con la sigla "S.O.A.- SOLDATI
dell'OPPOSIZIONE ALGERINA) promossa ed organizzata a Madrid da GUERIN
SERAC e da DELLE CHIAIE Stefano e da VINCIGUERRA Vincenzo a Parigi con
particolare riferimento all'attentato commesso a Bonn.
Attentati commessi, sotto il profilo dell'esecuzione materiale, a Londra da SALBY e a
Bonn da RICCI e CARMASSI in concorso con altri italiani nonchè a Parigi e a Roma
da militanti non identificati ma comunque appartenenti alla struttura eversiva, formata
da italiani e stranieri, con base a Madrid.
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BANDA ARMATA ORDINE NUOVO
CELLULA DI MESTRE-VENEZIA
(1968 - 1975 circa)
SICILIANO - MONTAGNER
IMPUTATI
13) del reato di cui agli artt.110 e 306, I comma, c.p. in relazione all'art.270 c.p. per
avere promosso ed organizzato, in concorso con MAGGI Carlo Maria e ZORZI Delfo
(separatamente giudicati), SICILIANO Martino ed altre persone, una banda armata
costituitasi a Mestre a partire dalla metà degli anni '60 ed operante in seguito sotto la
copertura del Circolo Ezra Pound con sede a Mestre in Via Mestrina.
Banda armata che agiva quale struttura occulta di Ordine Nuovo in raccordo con la
cellula padovana di FREDA e VENTURA, con la cellula veronese di SOFFIATI e
BESUTTI, con la cellula triestina di PORTOLAN e NEAMI nonchè, a partire dalla
metà del 1969, con il gruppo milanese "La Fenice", facente capo a ROGNONI
Giancarlo, ed altresì in raccordo con alti esponenti militari i quali intendevano
convogliare la struttura occulta di Ordine Nuovo, con funzioni di appoggio, in un
progetto di colpo di Stato che doveva realizzarsi entro il 1973 sotto la direzione di
strutture militari istruite alle tecniche della guerra non ortodossa.
Banda armata che, a partire dalla metà degli anni '60 e quantomeno sino al 1982,
aveva costituito una dotazione logistica di armi ed esplosivi custoditi in varie basi,
aveva istruito i suoi componenti all'utilizzo di tali materiali e alla preparazione di
inneschi per ordigni esplosivi ed era finalizzata, secondo una ben precisa
progressione criminosa, a compiere prima attentati dimostrativi e poi episodi di
strage (alcuni dei quali realizzati) destinati a facilitare il mutamento violento
dell'Ordinamento dello Stato.
In particolare MONTAGNER agendo in una prima fase, anche in ragione delle sue
cognizioni tecniche, all'interno del gruppo operativo e in seguito, e sino a data
recentissima, quale raccordo informativo finalizzato a tenere i contatti fra i
componenti del gruppo e a proteggerli da possibili iniziative giudiziarie.
Banda armata promossa verosimilmente a Roma ed operante a Venezia, padova,
Verona, Trieste, Milano, in Spagna ed altri luoghi dalla metà degli anni '60, con
l'assetto ora indicato, sino al 1977 (momento del definitivo arresto di ROGNONI
Giancarlo) e in seguito, sino a data imprecisata ma comunque collocabile almeno
sino al 1982 (data dell'arresto di BRESSAN Claudio di Verona) con il principale
apporto operativo del gruppo di Venezia, facente capo a MAGGI e DIGILIO, e del
gruppo veronese sino a quel momento non toccati dalle investigazioni dell'Autorità
Giudiziaria.
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14
FURTO DI ESPLOSIVO IN UNA CAVA DI MARMO
NEL VICENTINO
(1966)
ZORZI - SICILIANO - MONTAGNER - MAGGI
IMPUTATI
14) dei reati di cui agli artt. 110, 624, 625, nn.2, 5, e 7, c.p. e 1 e 2 Legge 2.10.1967
n.895 per avere sottratto, sfondando la porta di un casotto in una cava di marmo ad
Arzignano del Chiampo, 30/40 chilogrammi di esplosivo del tipo ammonal nonchè
detonatori e miccia sia detonante sia a lenta combustione.
Furto materialmente commesso da Zorzi, Siciliano e Montagner con il supporto di
Maggi che aveva fornito l'autovettura Fiat 500 usata per raggiungere Arzignano e
ritornare a Venezia con il materiale.
Materiale in seguito detenuto da Delfo Zorzi a Venezia in luogo ignoto e poi custodito
dallo stesso nel casolare di Paese (TV) di cui al capo che segue.
Ad Arzignano del Chiampo (VI) nella prima metà del 1966 e nel periodo successivo.
14
DEPOSITO DI ARMI ED ESPLOSIVI IN UN CASOLARE
DOTAZIONE LOGISTICA DELLA STRUTTURA
VENETA DI ORDINE NUOVO
(anni 1967/1969)
ZORZI - VENTURA - FREDA - POZZAN
IMPUTATI
15) dei reati di cui agli artt. 110 c.p., 1 e 2 Legge 2.10.1967 n.895 per avere
detenuto. in concorso fra loro e con altre persone appartenenti alla struttura veneta di
Ordine Nuovo, in un casolare di Paese (TV), una quarantina di armi lunghe
prevalentemente da guerra fra cui alcuni moschetti MAUSER, alcuni M.A.B., alcuni
STEN, una machine pistol SCHMEISSER MP40, un fucile THOMPSON 45, una
mitragliatrice MG42 e alcune cassette di munizioni per dette armi, una baionetta
nonchè numerosi
candelotti di tritolo custoditi in due cassette militari e circa 30
chilogrammi di esplosivo in scaglie non meglio identificato (comunque a base di
nitrato di ammonio) nonchè inneschi costituiti da fiammiferi antivento, detonatori e
circuiti elettrici atti ad attivare ordigni esplosivi, materiale tutto costituente parte della
dotazione logistica delle cellule di Ordine Nuovo del Veneto.
A Treviso e provincia, dal 1967 e negli anni successivi.
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DETENZIONE DI ARMI ED ESPLOSIVI
APPARTENENTI ALLA STRUTTURA LOGISTICA
DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO
DI VENEZIA E MESTRE
(1968 - 1975 circa)
MAGGI - ZORZI - SICILIANO - VIANELLO
IMPUTATI
16) dei reati di cui agli artt.110, 112 n.1 c.p., 2 e 4 Legge 2.10.1967 n.895 per avere
detenuto e portato in luogo pubblico numerose armi corte e lunghe, anche da guerra,
fra cui pistole cal.7,65 e cal.9 di fabbricazione italiana e tedesca, revolvers di
fabbricazione americana, fucili mitragliatori MAB e STEN, fucili mitragliatori di
fabbricazione tedesca originari della seconda guerra mondiale nonchè alcuni
silenziatori per pistole semiautomatiche e numerosi chilogrammi di esplosivo del tipo
gelignite con relativi detonatori, materiale costituente la dotazione logistica della
cellula di Ordine Nuovo di Mestre- Venezia.
A Venezia e a Mestre, dal 1968 circa sino alla metà degli anni '70.
16
DANNEGGIAMENTO E INCENDIO
DELLA SEDE DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO
DI CAMPALTO
(1968)
ZORZI - SICILIANO - MONTAGNER
IMPUTATI
17) dei reati di cui agli artt.110 - 635, I e II comma n.3 - 424 - 624-625, nn.1, 2 e 5, 292 c.p. perchè, in concorso con altre persone non potute identificare, ma comunque
appartenenti all'area di estrema destra di Mestre, si introducevano, forzandone la
porta, nella sezione del P.C.I. di Campalto danneggiando il mobilio, distruggendo il
materiale propagandistico ivi presente ed una bandiera italiana ed appiccando un
incendio dopo avere sparso della benzina sul pavimento.
Asportando altresì la bandiera del Partito custodita nella sezione.
A Campalto, nelle prime ore del 9.10.1968.
17
18
DETENZIONE DI CANDELOTTI DI GELIGNITE
FREZZATO
IMPUTATO
18) dei reati di cui agli artt.2 e 4 Legge 2.10.1967 n.895 perchè illegalmente
deteneva e portava in luogo pubblico almeno otto o nove candelotti di esplosivo del
tipo gelignite appartenenti alla struttura logistica di Ordine Nuovo di Mestre-Venezia.
A Mestre, nel 1968/1969.
18
ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE ITALO-JUGOSLAVO
IN LOCALITA' MONTESANTO DI GORIZIA
(4.10.1969)
ZORZI-SICILIANO-VIANELLO-NEAMI-PORTOLAN-MAGGI-COZZO
INDIZIATI
19) dei delitti di cui agli artt.110, 112, n.1, 56-635, I e II comma, c.p. 2, 4 e 6 Legge
2.10.1967 n.895 per avere, in concorso tra loro e con un'altra persona non
identificata, deposto sulla linea di confine italo-jugoslavo un ordigno costituito da sei
candelotti di gelignite, contenuti in una cassetta metallica portamunizioni e collegati
ad una sveglia, una batteria e un detonatore, ordigno finalizzato a protestare contro
la politica del governo italiano nei confronti della Jugoslavia e non esploso per ragioni
indipendenti dalla volontà degli attentatori (difetto nell'innesco).
In particolare Zorzi, Siciliano e Vianello deponendo materialmente l'ordigno nei pressi
del cippo e della rete metallica di confine, Neami e Portolan accompagnando i tre
veneziani sulla strada per Gorizia dopo il contemporaneo attentato in danno della
Scuola Slovena di Trieste e Maggi fornendo l'autovettura utilizzata per il viaggio a
Trieste e a Gorizia nella piena consapevolezza degli attentati che stavano per essere
compiuti.
A Venezia, Trieste e Gorizia, fra il 3 e il 4 ottobre 1969.
19
20
ATTENTATO IN DANNO DELLA
SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE
(3.10.1969)
ZORZI-SICILIANO-VIANELLO-NEAMI-PORTOLAN-MAGGI-COZZO
IMPUTATI
20) dei reati di cui agli artt.110, 112, n.1, 56-635, I e II comma, c.p. e 2, 4 e 6 Legge
2.10.1967 n.895 per avere, in concorso tra loro e con un'altra persona non
identificata, deposto un ordigno costituito da Kg.5,700 di gelignite, contenuti in una
cassetta metallica portamunizioni e collegati ad un orologio per l'innesco a tempo, su
un davanzale della Scuola elementare Slovena del rione San Giovanni di Trieste,
con l'intenzione di danneggiare gravemente l'edificio e di influire in tal modo
sull'orientamento politico del governo italiano nei rapporti con la Jugoslavia, non
riuscendo nell'intento per ragioni indipendenti dalla loro volontà e connesse al
mancato funzionamento dell'innesco.
In particolare Zorzi, Siciliano e Vianello portando da Venezia e deponendo
materialmente l'ordigno, Neami e Portolan fornendo appoggio logistico a Trieste per
l'approntamento definitivo dell'ordigno stesso e conducendo i veneziani sul luogo
dell'attentato e Maggi fornendo l'autovettura utilizzata per raggiungere Trieste nella
piena consapevolezza dell'attentato che stava per essere compiuto.
A Venezia e Trieste fra il 3 e il 4 ottobre 1969.
DIGILIO
IMPUTATO
21) dei reati di cui agli artt.2, 4 e 6 Legge 2.10.1967 n.895 per avere forniro al gruppo
di ZORZI Delfo i candelotti di gelignite utilizzati per gli attentati di Gorizia e di Trieste
di cui ai due capi che precedono e avere fornito allo stesso consulenze per la
preparazione dell'innesco del congegno esplosivo.
A Venezia, nell'autunno 1969.
20
ATTENTATO IN DANNO DEI MAGAZZINI
COIN DI MESTRE
(1970)
SICILIANO - ANDREATTA - ZORZI
INDIZIATI
22) dei reati di cui agli artt. 110 c.p. e 2, 4 e 6 Legge 2.10.1967 n.895 per avere fatto
esplodere, in concorso tra loro, un ordigno composto da circa 200 grammi di
gelignite, miccia a lenta combustione e una capsula detonante presso una vetrina dei
magazzini COIN di Mestre siti in Piazza Barche, in particolare ANDREATTA
deponendo materialmente l'ordigno e SICILIANO collaborando al suo
confezionamento nella sede di Ordine Nuovo di Via Mestrina.
A Mestre, il 27.3.1970.
21
22
CESSIONE DI UNA BOMBA DA MORTAIO
E DI UNA PISTOLA CAL.6,35
(1971)
FREZZATO
IMPUTATO
23) dei reati di cui agli artt.1, 2 e 7 Legge 2.10.1967 n.895 per avere detenuto a
ceduto a Siciliano Martino una bomba da mortaio da questi usata per commettere
l'attentato all'Università Cattolica di Milano del 15.10.1971 nonchè per avere
detenuto e ceduto allo stesso una pistola cal.6,35 sequestrata al Siciliano a Mestre in
data 27.10.1971.
A Venezia e a Milano, rispettivamente nei periodi immediatamente precedenti il
15.10.1971 e il 27.10.1971.
22
DETENZIONE DI MINE ANTICARRO
DA PARTE DELLA CELLULA DI ORDINE NUOVO
DI VENEZIA
(inizio anni '70)
MAGGI - DIGILIO
IMPUTATO
24) del reato di cui agli artt. 110 c.p., 1 e 2 Legge 2.10.1967 n.895, 9, 10 e 12 Legge
14.10.1974, n.497 per avere detenuto, MAGGI in concorso con MONTAVOCI
Giampietro, deceduto, e con altre persone appartenenti alla cellula veneziana di
Ordine Nuovo, due mine anticarro di provenienza bellica contenenti esplosivo T4;
per avere altresì il dr. MAGGI concorso a detenere , nella sua veste di responsabile
sul piano decisionale ed organizzativo della struttura occulta della cellula di
Mestre/Venezia di Ordine Nuovo, circa mezzo chilo di acido picrico e circa 12 chili di
tritolo, contenuti in una granata, e alcune mine anticarro di provenienza bellica,
autorizzando Carlo DIGILIO ad estrarre l’esplosivo dai contenitori metallici e a
suddividerlo in cilindretti e a riconsegnarlo a Roberto RAHO che doveva portarlo alla
struttura romana di Ordine Nuovo.
A Venezia e Mestre, a partire dal 1971 e quantomeno sino al 1979.
23
24
FAVOREGGIAMENTO NEI CONFRONTI
DI MILITANTI DEL GRUPPO "LA FENICE"
(1974)
MAGGI - DIGILIO
IMPUTATI
25) del reato di cui agli artt.110, 378 c.p. per avere, in concorso tra loro, aiutato
BATTISTON Piero e ZAFFONI Francesco a sottrarsi alle ricerche dell'Autorità
conoscendone la situazione di latitanti in relazione a provvedimenti restrittivi emessi
dall'Autorità Giudiziaria di Milano.
In particolare dando ospitalità presso l'abitazione di MAGGI alla Giudecca, presso
l'abitazione dei gestori della trattoria Lo Scalinetto, presso le abitazioni di Giampietro
Montavoci e Giorgio Boffelli, presso il Circolo "Il Quadrato", locale nella disponibilità
dell'avv. Giampietro Carlet, persone tutte legate al gruppo di Ordine Nuovo di
Venezia.
A Venezia, in relazione a ZAFFONI per circa dieci giorni nel gennaio 1974 e in
relazione a BATTISTON per circa sei mesi dal gennaio al giugno 1974, sino alla
partenza di questi per la Grecia.
24
GESTIONE DELLA DOTAZIONE LOGISTICA
DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI MESTRE/VENEZIA
(1965 - 1982)
DIGILIO - MAGGI
IMPUTATI
26) dei reati di cui agli artt.9, 10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 e art.23 Legge
18.4.1975 n.110 per avere DIGILIO nei confronti di MAGGI curato la manutenzione e
la modifica delle armi comuni e da guerra appartenenti alla dotazione logistica del
gruppo di Ordine Nuovo di Mestre/Venezia, con particolare riferimento alla modifica
delle canne e di altre parti di armi e alla fabbricazione di silenziatori.
Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito per finalità di
terrorismo.
Fatti avvenuti a Mestre, Venezia e altre città del Veneto dal 1965 quantomeno sino
alla fine del 1982.
25
26
RAPPORTI IN MATERIA DI ARMI
FRA IL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA
E GILBERTO CAVALLINI
(1978 - 1982)
MAGGI - DIGILIO - CAVALLINI
IMPUTATI
27) dei reati di cui agli artt.110 c.p., 9, 10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 e 23
Legge 18.4.1975 n.110 per avere, in concorso tra loro, detenuto e portato in luogo
pubblico armi comuni da sparo e da guerra, parte delle quali clandestine in quanto
silenziate e con matricole abrase o comunque alterate.
In particolare Carlo Maria MAGGI presentando inizialmente Gilberto CAVALLINI a
Carlo DIGILIO affinchè quest'ultimo verificasse il funzionamento delle armi portate da
Milano dal Cavallini all'interno dell'automobile nella sua disponibilità, ricevendo
MAGGI una somma dal CAVALLINI quale compenso per la consulenza prestata dal
gruppo di Ordine Nuovo di Venezia.
In tempi successivi, DIGILIO effettuando, nella sua abitazione di Venezia a
Sant'Elena, attività di manutenzione e di riparazione di armi portate dal CAVALLINI,
attività compiute grazie alle attrezzature di cui DIGILIO disponeva.
In tempi ancora successivi (fra il 1979 e il 1982) Carlo Maria MAGGI e Carlo DIGILIO
fornendo a Gilberto CAVALLINI numerose armi comuni da sparo e armi da guerra,
comprese armi lunghe, in parte originarie della seconda guerra mondiale e
provenienti dalla precedente dotazione di Delfo ZORZI e del gruppo di Mestre, in
parte acquistate illegalmente tramite l'armiere milanese Giovanni TORTA e fornendo
altresì a CAVALLINI alcuni silenziatori fabbricati da Carlo DIGILIO.
Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito per finalità di
terrorismo.
A Milano e Venezia dal 1978 quantomeno sino alla fine del 1982.
26
FAVOREGGIAMENTO
E CESSIONE DI MODULI PER CARTE DI IDENTITA'
NEI CONFRONTI DI CARLO DIGILIO
(1984)
MALCANGI - PRUDENTE
IMPUTATI
MALCANGI
28) del reato di cui agli artt.476, 479, 648 c.p. per avere fornito due libretti per
passaporto e un modulo per carta di identità, di provenienza furtiva, a Carlo DIGILIO
affinchè questi li utilizzasse per espatriare a Santo Domingo.
Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di
terrorismo.
In Milano e Villa d'Adda, nell'autunno del 1984.
PRUDENTE
29) del reato di cui agli artt.476, 479 c.p. per avere fornito a Carlo DIGILIO, in
procinto di partire per Santo Domingo, i dati di una persona coinvolta in un incidente,
la cui pratica era trattata dalla società di assicurazioni in cui egli operava, affinchè
DIGILIO li utilizzasse per approntare i documenti falsi di cui al capo che precede,
necessari per la fuga a Santo Domingo.
Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di
terrorismo.
In Milano e Villa d'Adda, nell'autunno del 1984.
30) del reato di cui all'art.378 c.p. per avere, nella sua qualità di persona componente
del gruppo di Gilberto CAVALLINI, aiutato Carlo DIGILIO a sottrarsi alle ricerche
dell'Autorità, conoscendone la situazione di persona latitante in relazione ad un
provvedimento restrittivo emesso dall'Autorità Giudiziaria di Venezia.
In particolare accompagnando DIGILIO, con la propria autovettura, sino al confine di
Chiasso e poi sino all'aereoporto di Zurigo affinchè questi si imbarcasse su un aereo
diretto a Santo Domingo.
Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di
terrorismo.
In Milano, Villa d'Adda e valico di Chiasso, nella primavera del 1985.
27
28
CESSIONE DI DOCUMENTI ARGENTINI
DA ETTORE MALCANGI A CARLO DIGILIO
E DA QUESTI A ENRICO CARUSO
(1985)
MALCANGI - DIGILIO - CARUSO
IMPUTATI
31) del reato di cui agli artt.476, 479, 648 c.p. per avere MALCANGI detenuto due
documenti argentini, già appartenenti ad oppositori politici del Governo esistente a
quell'epoca in tale Paese e provenienti dai servizi segreti uruguayani, e averli ceduti
a DIGILIO nell'imminenza della partenza di questi per Santo Domingo; DIGILIO per
averne invece ceduto uno a CARUSO dopo avervi applicato la fotografia di
quest'ultimo, ricevendolo in seguito in restituzione dallo stesso CARUSO a Santo
Domingo.
Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di
terrorismo.
A Villa d'Adda e Santo Domingo, nell'autunno del 1984 in relazione a MALCANGI e a
partire dal gennaio 1985 sino al 1986 in relazione a DIGILIO e CARUSO.
28
SPIONAGGIO POLITICO-MILITARE
IN FAVORE DI STRUTTURE STATUNITENSI
(1966/1985)
MINETTO - DIGILIO
IMPUTATI
32) del reato di cui agli artt.110, 112 n.1, 257 c.p. per avere svolto, in concorso fra
loro e unitamente a cittadini italiani e stranieri, in numero superiore a cinque, attività
di spionaggio facendo parte, con un ruolo intermedio fra i responsabili americani e gli
informatori, di una rete informativa dipendente dal Comando FTASE di Verona ed
operante in tutto il Veneto.
In particolare, acquisendo senza alcuna autorizzazione o accreditamento presso i
Servizi di sicurezza italiani, notizie riguardanti non solo la sicurezza e la protezione
delle basi e degli interessi statunitensi, ma anche eventi concernenti la sicurezza
interna del nostro Paese, notizie che come tali potevano essere raccolte solo a
seguito di specifiche intese o comunque riferite alle competenti strutture italiane non
appena acquisite.
In particolare, MINETTO inviando il suo informatore, Carlo DIGILIO, (al posto di
Marcello SOFFIATI, non idoneo alla missione poichè troppo conosciuto negli
ambienti di estrema destra) a Vittorio Veneto e a Treviso affinchè, con l'aiuto di un
altro dipendente della rete informativa, controllasse e seguisse personalmente le
attività eversive del gruppo facente capo a Franco FREDA, Giovanni VENTURA e
Delfo ZORZI e si recasse insieme a questi nel casolare di Paese (TV) di cui al capo
15) ove era custodito il deposito di armi ed esplosivo del gruppo e ove venivano
preparati gli inneschi per gli ordigni da utilizzarsi in attentati.
Attività svolta, secondo gli ordini ricevuti, dal Digilio e dall'altro informatore, Prof.
LINO FRANCO, che si erano presentati nella veste di consulenti ed esperti di armi ed
esplosivi e regolarmente riferita al MINETTO che aveva poi relazionato i suoi
superiori.
Attività, questa, che aveva messo in pericolo sia sotto il profilo commissivo
(consulenza in favore del gruppo FREDA/VENTURA) sia sotto il profilo omissivo
(mancata informazione delle nostre Autorità di sicurezza o di polizia giudiziaria) la
sicurezza e gli interessi politici del nostro Paese in quanto il gruppo eversivo oggetto
dell'azione di osservazione stava progettando attentati finalizzati a mutare con la
violenza gli assetti istituzionali dello Stato italiano.
Svolgendo altresì il MINETTO, negli anni successivi, analoghe azioni di controllo e di
osservazione nei confronti di addestramenti illegali con armi, svolti da nuclei misti di
civili e di militari in Veneto e in Alto Adige e nei confronti degli esponenti del Fronte
Nazionale che stavano preparando il tentativo di golpe noto come "golpe Borghese",
nonchè azioni di raccordo informativo e operativo fra la struttura informativa
statunitense e la struttura occulta di Ordine Nuovo.
Sergio MINETTO, inoltre, nei primi mesi del 1972, insieme a Carlo DIGILIO e allo
stesso SOFFIATI, all'interno dell'appartamento di Via Stella a Verona nella
disponibilità del Soffiati, sovrintendendo al "controllo" dell'avv. Gabriele FORZIATI, ivi
portato dal dr. Carlo Maria MAGGI e sorvegliato da Francesco NEAMI e da un altro
militante triestino di Ordine Nuovo, affinchè fosse convinto a non rivelare all'A.G. di
29
30
Milano, che lo aveva convocato, quanto a sua conoscenza in merito all'attentato alla
Scuola Slovena del 3/4 ottobre 1969 e affinchè fosse convinto ad allontanarsi
dall'Italia raggiungendo un rifugio sicuro prima in Grecia e poi in Spagna.
Sergio MINETTO, ancora, nei primi mesi del 1973, insieme a Carlo DIGILIO e a
Marcello SOFFIATI, nel medesimo appartamento di Via Stella, sovrintendendo alla
presenza di Gianfranco BERTOLI, ivi condotto dal dr. Carlo Maria MAGGI e
"sorvegliato" anche da Francesco NEAMI, affichè fosse definitivamente indotto a
compiere un attentato a Milano contro l'on. Mariano RUMOR e fosse rifornito del
denaro e della bomba a mano necessaria per l'esecuzione dell'attentato, poi
effettivamente commesso a Milano dinanzi alla Questura Centrale in Via
Fatenebefratelli il 17.5.1973.
Fatti commessi a Verona, Venezia e in altre città del Veneto e in altre Regioni del
Nord-Italia dal 1966 quantomeno fino al 1985.
ed altresì:
BANDOLI - JONES
INDIZIATI
33) del medesimo reato di cui al capo 32)
30
DETENZIONE DELLA DOTAZIONE
DI ARMI, BOMBE A MANO ED ESPLOSIVO
GIA' APPARTENUTA AL PROF.LINO FRANCO
(1969 - 1975)
MINETTO
IMPUTATO
34) dei reati di cui agli artt.110 c.p. e 9, 10, e 12 Legge 14.10.1974 n.497 per avere
detenuto e portato in luogo pubblico la dotazione logistica di LINO FRANCO, dopo la
morte di questi, costituita da armi da guerra fra cui bombe a mano e un fucile
mitragliatore MACHINENGEVERT 15 di fabbricazione tedesca, rilevando tale
dotazione dallo stesso LINO FRANCO, consegnandola in custodia a MARCELLO
SOFFIATI e facendola così entrare nel patrimonio della banda armata Ordine Nuovo.
In Vittorio Veneto, Verona e Colognola ai Colli, dall'estate 1969 sino a data
imprecisata, ma comunque collocabile quantomeno alla metà degli anni '70.
31
32
PARTE
PRIMA
LE LINEE GENERALI DELLA SECONDA ISTRUTTORIA
32
1
P R E M E S S A
Anche questa seconda parte dell’istruttoria e i risultati che ha conseguito sono
largamente dovuti al costante, mai venuto meno anche nei momenti più difficili,
impegno degli Ufficiali e del personale del Reparto Eversione del Raggruppamento
Operativo Speciale Carabinieri, che hanno effettuato buona parte dell’attività di
ricerca e di accertamento con esiti molto significativi, nonostante la lontananza nel
tempo dei fatti, e raccolto e analizzato il quadro delle testimonianze e degli altri
elementi raccolti in tre ampie annotazioni conclusive dedicate, le prime due, alle
attività di interferenza di strutture di intelligence straniere nella c.d. strategia della
tensione e, la terza, alle attività dell’AGINTER PRESS anche in relazione alla
situazione italiana.
Prezioso è stato anche il contributo della Direzione Centrale della Polizia di
Prevenzione che ha messo a disposizione il suo personale nell’attività di ricerca
affidata al perito nominato da questo Ufficio, attività che ha consentito il recupero di
molto materiale non protocollato e sinora mai esaminato dall’Autorità Giudiziaria,
fonte di molti spunti investigativi.
Un sincero ringraziamento deve essere rivolto all’Assistente Giudiziaria, Sig.ra
Gaetana Izzo, e al maresciallo capo della Guardia di Finanza, Antonio Russo, addetti
a questa XX Sezione dell’Ufficio Istruzione di Milano, che hanno partecipato al
compimento di centinaia di atti istruttori e hanno assolto per anni un lavoro
estremamente impegnativo, determinato anche dalla concomitanza dell’intero lavoro
riguardante, quale Sezione G.I.P., i procedimenti in corso con il rito vigente.
Un particolare ringraziamento va inoltre al conducente automezzi speciali, Antonio
Liguori, che ha sempre curato l’aspetto organizzativo e logistico dell’attività anche nel
corso delle numerose trasferte che si sono rese necessarie per compiere i più
importanti atti istruttori.
L’attività di indagine si è svolta anche grazie alla collaborazione con altri Colleghi
titolari di indagini in tema di reati di strage e di eversione con i quali continuo è stato il
confronto fra le rispettive linee di investigazione e lo scambio di atti e di informazioni.
Fra questi, in particolare, il dr. Francesco Piantoni e il dr. Roberto Di Martino, titolari
del procedimento, molto contiguo a questa istruttoria per soggetti e situazioni
toccate, relativo alla strage di Piazza della Loggia a Brescia, e il Giudice Istruttore dr.
Carlo Mastelloni, titolare del procedimento relativo alla caduta dell’aereo Argo 16, e il
dr. Enzo Calia della Procura di Pavia, titolare dell’inchiesta sulla morte di Enrico
Mattei.
Costante è stato anche il rapporto con la Commissiona parlamentare d’inchiesta
sulla mancata individuazione degli autori delle stragi e sul terrorismo, cui sono stati
man mano inviati, allorchè i progressi delle indagini lo consentivano, gli atti e gli
accertamenti istruttori più importanti per i suoi lavori e l’elaborazione della sua
relazione finale e che, in occasione di diverse audizioni di questo Giudice, ha
33
34
stimolato, tramite le domande poste dal Presidente e dai componenti della
Commissione, riflessioni e linee di interpretazione.
Purtroppo il lavoro di indagine è stato contrassegnato da ostacoli e incomprensioni
che ne hanno ostacolato per lunghi tratti lo svolgimento e in certi momenti messo
addirittura in pericolo la sua conclusione.
Scarsissimo è stato il sostegno dei dirigenti del Tribunale di Milano, nelle sue varie
articolazioni, in ordine agli sviluppi dell’indagine e alla necessità di garantire le
condizioni obiettive che ne consentissero la prosecuzione con i migliori risultati.
A fronte di decine di segnalazioni scritte di questo Ufficio vi è stato soltanto silenzio,
come se la presente istruttoria non esistesse e a questo Ufficio, che ha sempre
svolto in forma integrale anche l’attività come G.I.P., non dovesse essere affidato un
carico complessivo di lavoro che tenesse conto, almeno in parte, delle due funzioni
svolte contemporaneamente per anni e consentisse la prosecuzione di un’istruttoria
così importante, in sè e per le altre indagini collegate in corso, con il raggiungimento
dei massimi risultati.
Soprattutto, nella parte centrale e più delicata dell’istruttoria, una delle più imponenti
e articolate macchine di attacco che sia mossa, in questa materia, contro un singolo
magistrato e una singola indagine (riconducibile solo in minima parte all’ambiente
degli indiziati) ha lanciato una campagna di disinformazione e di discredito che ha
avuto solo l’obiettivo di ridurre i risultati potenzialmente ottenibili ed è stata
caratterizzata da iniziative, apparentemente legali o come tali camuffate, tali da
giungere sino ai limiti dell’aperta intimidazione.
Fortunatamente un ristretto numero di Colleghi, di esponenti del mondo istituzionale,
di studiosi e di appartenenti al mondo della Stampa, talvolta sfidando pressioni e
censure, non è caduto nel tranello ed ha costruito intorno a questa istruttoria un
argine di sostegno, solidarietà e onesta informazione che ne ha consentito, anche
nell’interesse di chi aveva inteso fermarla, la conclusione.
A tutti coloro che sono rimasti sul campo della verità e dell’onore va il mio più
profondo ringraziamento.
34
2
L’ I T E R
DELL’ISTRUTTORIA
La presente istruttoria trae origine dalla separazione, al momento del deposito degli
atti della prima istruttoria condotta da questo Ufficio in materia di eversione di destra,
di una serie di posizioni e atti relativi ad episodi specifici (concernenti in particolare
Piero Battiston ed altri aspetti relativi a “La Fenice” e l’attività in Italia e all’estero degli
elementi dell’Aginter Press) e dalla loro riunione ed inserimento, per motivi di
economia processuale, nel procedimento già rubricato come 2/92F, trasmesso
nell’autunno del 1992 dal Giudice Istruttore di Bologna per ragioni di incompetenza
territoriale e riguardante i reati di associazione sovversiva e banda armata a fini di
strage, ascritti ad alcuni esponenti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Si intendeva soprattutto con tale provvedimento salvaguardare la riservatezza delle
dichiarazioni in parte già rese all’epoca (inizio 1995) da Carlo DIGILIO e da Martino
SICILIANO, riguardanti molti reati specifici, ma in particolare la strage di Piazza
Fontana, e ciò in attesa che la Procura della Repubblica di Milano aprisse con il
nuovo rito un procedimento relativo agli attentati del 12.12.1969 iscrivendo nel
registro degli indagati inizialmente il dr. Carlo Maria MAGGI e Delfo ZORZI, indicati
dai collaboratori quali corresponsabili di tali attentati.
L’attività istruttoria relativa al procedimento 2/92F proseguiva quindi, fino all’estate
del 1997, approfondendo ed ampliando in modo notevolissimo le dichiarazioni di
Carlo DIGILIO e di Martino SICILIANO, contestando ai vari imputati gli episodi
specifici che man mano emergevano o che in precedenza non erano ancora stati
contestati e acquisendole testimonianze di tutte le persone citate dai collaboratori o
comunque facenti parte in passato dell’area di estrema destra che potessero fornire
utili elementi di riscontro.
Ovviamente venivano delegate alle strutture di p.g. operanti, in particolare il Reparto
Eversione del R.O.S. Carabinieri, ma anche le Digos di Milano, Verona, Trieste e
altre città e la D.C.P.P. presso il Ministero dell’Interno, tutti gli accertamenti necessari
sempre a fini di riscontro e proseguiva altresì, tramite ricerche “mirate” delegate al
personale del Servizio, l’acquisizione di elementi informativi presso il S.I.S.Mi.
L’indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Milano si sviluppava, invece,
soprattutto sino all’autunno del 1996, più che con l’audizione dei collaboratori, con
l’effettuazione di intercettazioni telefoniche ed ambientali riguardanti gli excomponenti dell’area mestrina di Ordine Nuovo, intercettazioni rivelatesi molto
efficaci, e con l’approfondimento degli spunti investigativi resi possibili anche dal
recupero, presso una caserma di Via Appia a Roma, di moltissimo materiale non
protocollato risalente prevalentemente agli anni ‘70.
Gli episodi specifici e le imputazioni elevate nella rubrica possono essere
sistematizzate in quattro filoni tutti strettamente connessi all’iniziale campo di
indagine e cioè le attività eversive di Ordine Nuovo e, in misura minore, di
Avanguardia Nazionale negli anni ‘70:
35
36
- La posizione di Pietro BATTISTON e alcuni nuovi episodi attribuibili al gruppo La
Fenice (capi 1-9 di imputazione).
- Le imputazioni associative e i singoli episodi attribuibili alla struttura occulta di
Mestre/Venezia di Ordine Nuovo, struttura in stretta connessione sia con gli elementi
milanesi sia, in alcuni casi, con gli elementi triestini (capi 13-28 di imputazione).
- Le imputazioni associative prospettabili nei confronti della struttura AGINTER
PRESS, dal momento del trasferimento del suo centro di attività da Lisbona a
Madrid, e gli episodi ad essa attribuibili in Italia e all’estero (capi 10-13 di
imputazione).
Di tale struttura, diretta da GUERIN SERAC, facevano parte molti italiani sia di
Ordine Nuovo sia di Avanguardia Nazionale e del resto, sin dalla fine degli anni ‘60,
l’AGINTER PRESS aveva studiato e ispirato il protocollo di azione delle più
importanti organizzazioni di estrema destra sia in Italia sia in altri Paesi europei.
- Le imputazioni di spionaggio politico e militare e le altre imputazioni in materia di
armi connesse all’attività di controllo e consulenza svolta da una struttura di
sicurezza americana, probabilmente di carattere militare ed erede del vecchio
COUNTER INTELLIGENCE CORPS, sulle attività di Ordine Nuovo in Veneto negli
anni della c.d. strategia della tensione (capi 33-35 di imputazione).
Si tratta delle imputazioni di maggior rilievo e novità, anche sul piano
dell’interpretazione dell’insieme degli avvenimenti, presenti nell’istruttoria in quanto,
in passato, mai erano emerse le prove di un così ampio coinvolgimento, confinato
come possibilità nel mondo delle mere ipotesi politiche.
A tali filoni maggiori si devono aggiungere le imputazioni di falso e favoreggiamento
connesse alla latitanza e alla fuga a Santo Domingo di Carlo DIGILIO (capi 29-32 di
imputazione).
Tali episodi, ascritti soprattutto ad alcuni elementi vicini a Gilberto CAVALLINI, erano
già stati in parte trattati nella prima sentenza-ordinanza conclusiva del procedimento
721/88F.
L’attività istruttoria si è inoltre arricchita con l’incarico affidato al dr. Aldo Giannuli,
esperto in materie storiche ed archivistiche e consulente della Commissione stragi, di
effettuare ricerche di materiale documentale, riguardante fra l’altro Ordine Nuovo,
Avanguardia Nazionale e l’Aginter Press, presso gli archivi di Enti e Strutture
istituzionali sino a quel momento non completamente esplorati (ad esempio gli
archivi del Ministero dell’Interno, del Ministero degli Affari Esteri, del Servizio “I” della
Guardia di Finanza, dei S.I.O.S. delle Forze Armate), inquadrando poi, anche alla
luce dell’ulteriore materiale rinvenuto, l’eventuale corrispondenza delle notizie
raccolte con quanto era già emerso dagli atti processuali e inquadrando altresì i fatti
oggetto del procedimento nel contesto nazionale e internazionale dell’epoca (cfr.
incarico affidato in data 22.1.1996 e successive integrazioni in data 10.12.1996 e
14.3.1997).
L’elaborato peritale depositato in data 13.3.1997, che consta di oltre 300 pagine e
moltissimi allegati tratti dalla documentazione rinvenuta, consente di mettere a fuoco
36
il contesto internazionale e la posizione dell’Italia negli anni cruciali della “strategia
della tensione” e di approfondire argomenti di rilievo quali il dibattito sulla guerra
rivoluzionaria sviluppatosi negli anni ‘60 e l’esportazione in tutto il mondo, a partire
dalle teorizzazioni del Pentagono, delle tecniche di guerra non ortodossa
(argomento, questo, strettamente connesso al ruolo dell’AGINTER PRESS e dei
NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO), la penetrazione di tali tecniche anche nel
nostro ambiente militare grazie, in particolare, all’impegno del generale Adriano
MAGI BRASCHI e gli stretti rapporti intrattenuti, sin dalla fine degli anni ‘60, fra
GUERIN SERAC e Pino RAUTI, propiziati e attivati non da un qualsiasi personaggio
dell’estrema destra, ma da Armando MORTILLA, giornalista romano principale fonte
informativa del Ministero dell’Interno, con il nome in codice ARISTO, per un
ventennio dal 1955 al 1975.
Proprio nel lavoro di ricerca del perito va inserita la nota vicenda del ritrovamento o,
meglio, recupero dallo stato di abbandono in cui si trovavano, dei fascicoli, non
protocollati e contenuti in scatoloni non catalogati, giacenti nell’Archivio di Deposito
della Via Appia (impropriamente definiti dalla stampa “archivio parallelo” o “archivio
occulto”), il cui ritorno alla luce è stato peraltro reso possibile, come sottolineato dallo
stesso perito, dall’impegno e dall’atteggiamento di collaborazione del personale
attualmente in servizio presso la D.C.P.P.
L’esame di tale materiale, risalente per la maggior parte agli anni ‘60/’70, ha
permesso di aprire nuovi spunti investigativi anche nelle istruttorie collegate, ed in
particolare nel procedimento avviato dalla Procura di Milano sulla strage di Piazza
Fontana.
Perdipiù, a titolo di esempio concreto di quella che era, all’epoca, la pratica delle
Strutture del Ministero dell’Interno, in uno dei faldoni recuperati in Via Appia è stato
addirittura rinvenuto il reperto (alcune parti del congegno ad orologeria e
dell’involucro che lo conteneva) relativo all’attentato dell’8.8.1969 al treno 771 in
sosta, al momento dell’esplosione, presso la stazione di Pescara, reperto trasmesso
dal locale compartimento di Polizia all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno
e da tale Ufficio mai trasmesso all’Autorità Giudiziaria per le necessarie verifiche
tecniche e comparative (cfr. vol.8, fasc.8).
Il reperto, riemerso dopo 27 anni, è quindi la prova concreta dello stile con cui
venivano condotte le indagini sugli attentati commessi dalla cellula veneta.
Sempre sul piano generale legato alla storia e allo sviluppo dell’istruttoria, si impone
in questa sede un’altra breve considerazione.
Ci riferiamo all’antinomia apparente fra “pista interna” e “pista esterna” nei fenomeni
di appoggio e di collusione con i presunti autori degli attentati e delle altre attività
eversive emerse nel procedimento, antinomia “costruita” in occasione di alcune sterili
polemiche extraprocessuali in occasione delle quali qualcuno ha voluto addirittura
prospettare che la presente istruttoria si sia occupata della c.d. pista internazionale
per tralasciare volutamente la c.d. pista interna.
In realtà, poichè Carlo DIGILIO, principale collaboratore ed interlocutore di questo
Ufficio nel corso dell’istruttoria, è stato a lungo un informatore di una struttura di
37
38
sicurezza americana ed ha accettato di descrivere con ampiezza di particolari come
tale struttura abbia operato in Veneto in quegli anni, è assolutamente ovvio, sul piano
dei risultati, che il maggior numero di novità sia stato acquisito in merito a tali
inquietanti attività.
Analogamente, gli spazi che si sono aperti sull’attività di GUERIN SERAC e
dell’Aginter Press, struttura “internazionale”, ma in grado di ispirare l’azione delle
organizzazioni di estrema destra italiane e formata, nell’ultima fase, anche da molti
cittadini italiani, sono dovuti alla scelta di testimonianza non “collaborativa”, ma
comunque “ricostruttiva” di Vincenzo VINCIGUERRA il quale era entrato in contatto,
durante la sua latitanza alla metà degli anni ‘70, con gli esponenti di tale
organizzazione trasferitisi da Lisbona a Madrid dopo la “rivoluzione dei garofani”.
Se spunti altrettanto ampi non si sono aperti in merito alle complicità di strutture
italiane, ciò è dovuto non certo alla volontà di seguire una direzione istruttoria, ma al
fatto che, dopo la testimonianza del capitano Antonio LABRUNA nel corso della
prima fase delle indagini, non sono stati acquisiti, in tale campo, altri testimoni di
rilievo eccettuate, forse, le sintetiche dichiarazioni del generale Nicola FALDE,
peraltro deceduto poco tempo dopo averle rese.
Alcuni elementi significativi sono comunque pervenuti da taluni spezzoni di
conoscenza di cui erano in possesso alcuni esponenti di Ordine Nuovo (si pensi al
“reclutamento” di ZORZI da parte dell’Ufficio Affari Riservati in occasione del suo
arresto nel 1968, testimoniato da VINCIGUERRA, ed alle protezioni, da parte dello
stesso Apparato, di cui il gruppo avrebbe goduto, emerse, secondo Martino
SICILIANO, durante le indagini sull’attentato alla Scuola Slovena di Trieste), mentre
un nuovo e promettente filone di indagine, lasciato per motivi di opportunità
processuale agli approfondimenti della Procura di Milano, si è aperto con il recupero
e l’esame del materiale della caserma di Via Appia, reso possibile soprattutto
dall’attività di ricerca del perito dr. Aldo Giannuli.
E’ chiaro, comunque, che i due profili, impropriamente definiti dalla stampa
“pista interna” e “pista esterna”, si pongono in rapporto non di antinomia, ma
di complementarità, poichè all’epoca nella medesima direzione era orientata la
strategia globale degli apparati istituzionali del nostro Paese e di quelli dei
Paesi alleati.
Sono del resto molto esplicite le osservazioni conclusive sintetizzate sul punto dal dr.
Giannuli al termine della sua ricerca:
“””Il cenno agli apparati di sicurezza italiani e stranieri ci induce ad affrontare
il tema del loro ruolo nella strategia della tensione.
Il primo dato evidente è la conferma, pur se talvolta indiretta e frammentaria,
del coinvolgimento della C.I.A. nella vicenda (e si pensi, quantomeno, ai
documenti sul rapporto fra il servizio americano e l’Aginter Press - allegati
102-115).
Questo, naturalmente, non esclude affatto responsabilità interne negli stessi
avvenimenti.
38
D’altro canto, è possibile cogliere anche intuitivamente la sterilità di una
contrapposizione fra cosiddetta “pista straniera” e “pista interna”: qualsiasi
intervento straniero - data la portata e la durata temporale delle operazioni
legate alla strategia della tensione - non avrebbe potuto realizzarsi senza il
supporto compiacente di ampi settori istituzionali italiani.
Così come - stante la particolare delicatezza dello scenario italiano,
sicuramente vigilato con la massima attenzione dagli ambienti atlantici ed
americani in particolare - non appare molto convincente l’ipotesi di una
vicenda tutta interna che sarebbe rimasta incompresa ed incontrollabile da
parte dei servizi di sicurezza alleati.
E, dunque, non vi è ragione di ritenere che le due piste non si completino a
vicenda.
L’esame della documentazione sembra confermare pienamente questa ipotesi di
indagine”””.
(dalla perizia del dr. Aldo Giannuli depositata in data 13.3.1997, pag.284, punto 15).
Al termine dell’attività istruttoria i Pubblici Ministeri hanno presentato, in data
14.7.1997, le richieste finali chiedendo il rinvio a giudizio di un gruppo di imputati e la
dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione (e quindi non nel
merito) in relazione alla maggior parte delle altre posizioni e comunque di verificare
in via principale la sussistenza degli elementi di connessione, ai sensi dell’art.45
c.p.p. abrogato, fra i reati specifici via via contestati e i reati base costituiti dalle
imputazioni associative che hanno originato l’istruttoria formale.
In proposito deve rilevarsi che anche in questa seconda parte dell’istruttoria è stata
rigorosamente seguita la linea interpretativa tracciata dal Giudice Istruttore di
Bologna, dr. Leonardo GRASSI, nella sentenza-ordinanza conclusiva dell’istruttoriabis sulle stragi dell’Italicus e alla Stazione di Bologna (cfr. capitolo 6 della prima
sentenza-ordinanza di questo Ufficio in data 18.3.1995) e cioè l’opportunità e la
necessità di contestare i reati che via via emergevano dalle varie dichiarazioni poichè
connessi a quelli originari e purchè avvenuti prima del 24.10.1989.
Tale corretto ampliamento delle indagini, insito in qualsiasi istruttoria formale
condotta in passato e relativa a strutture criminali di ampio respiro e proporzioni, ha
visto solo la contestazione di episodi e situazioni connessi funzionalmente alle
strutture organizzative originarie (Ordine Nuovo e, in misura minore, Avanguardia
Nazionale) ed in particolare gli episodi specifici espressione del programma
criminoso delle 2 bande armate, episodi altresì strettamente connessi sul piano
probatorio essendo venuti alla luce, nelle loro linee essenziali, dalle dichiarazioni dei
vari associati e cioè Carlo DIGILIO, Martino SICILIANO, Vincenzo VINCIGUERRA e
così via.
Non vi sono più, quindi, ipotesi di reato da trasmettere alla Procura della Repubblica
per l’avvio di indagini secondo il rito vigente, anche tenendo presente che molte
prospettazioni di reato sono già state trasmesse ad altre Procure, territorialmente
competenti, al termine della prima fase dell’istruttoria (ad esempio i reati prospettabili
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40
nei confronti dei responsabili dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, con
trasmissione alla Procura della Repubblica di Roma) e altri episodi che presentavano
minori elementi di connessione con le imputazioni originarie della presente istruttoria
(ad esempio l’episodio della cessione di due M.A.B. da Luigi FALICA a Massimiliano
FACHINI, trasmesso alla Procura di Bologna, l’attentato al Gazzettino di Venezia del
febbraio 1978 e la rapina in danno del laboratorio di preziosi Adularia di Milano,
avvenuta il 13.2.1986) sono già stati oggetto, nel corso delle indagini, di separati
provvedimenti di trasmissione ad altre Autorità Giudiziarie.
Del resto, le profonde connessioni che legano tutte le indagini partite sin dal 1987
con la scoperta del famoso “documento AZZI” sono state ribadite (seppure, nel caso
concreto, con conseguenze negative per l’accusa) dal Tribunale del Riesame di
Milano che nel luglio del 1987 ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa
dal G.I.P. di Milano per il reato di rifiuto di testimonianza al P.M. proprio nei confronti
di Nico AZZI.
Infatti il Tribunale del Riesame ha rilevato che il filone investigativo condotto condotto
dal Giudice Istruttore in merito all’evoluzione e all’operatività di Ordine Nuovo, e in
particolare del gruppo La Fenice, costituisce un continuum con i singoli episodi via
via emersi (dal possesso dei timers da parte del gruppo La Fenice, a fini di
depistaggio, citato nel “documento AZZI”, all’attentato al treno in occasione del quale
questi venne arrestato, sino ai contatti di Ordine Nuovo con i Servizi e alla strage di
Piazza Fontana), cosicchè la connessione strategica e probatoria fra ogni
circostanza ed episodio impediva che Nico AZZI (imputato in entrambi i filoni di
indagine condotti da questo Ufficio) potesse essere sentito come testimone, con i
doveri discendenti da tale veste, addirittura nel procedimento nuovo rito nato
dall’approfondimento delle dichiarazioni rese e dagli accertamenti svolti nell’istruttoria
formale.
Del resto anche la strage di Piazza Fontana e gli altri attentati del 12.12.1969
avrebbero potuto senza difficoltà, come gli altri episodi specifici espressione del
programma criminoso di Ordine Nuovo, rientrare nel novero dei reati connessi alle
originarie imputazioni associative e quindi restare interni all’istruttoria condotta con il
vecchio rito.
Si è ritenuto tuttavia opportuno, nella primavera del 1995, anche a seguito di missive
inviate da questo Ufficio alla Procura della Repubblica, sollecitare e segnalare
l’opportunità dell’apertura di un fascicolo di indagini preliminari con il nuovo rito per
una molteplicità di ragioni.
In quel momento, infatti, il termine massimo per la chiusura delle istruttorie formali
era prossimo a scadere (30.6.1995), era assolutamente incerto se il Parlamento
intendesse o meno approvare una nuova proroga ed era impensabile che le indagini
relative ad una strage potessero concludersi nel giro di 2 o 3 mesi.
Appariva inoltre opportuno disporre intercettazioni ambientali nei luoghi ove i
fiancheggiatori mestrini di Delfo ZORZI si incontravano per concordare le strategie
processuali (intercettazioni ambientali poi disposte dal P.M. con risultati molto
significativi) ed anche sotto questo profilo risultava necessario aprire un fascicolo
nuovo rito poichè, applicando il vecchio, rito era assai dubbio che si potesse
40
procedere ad un tal genere di intercettazioni, non espressamente vietate, ma
nemmeno previste dal codice del 1930.
Soprattutto appariva inopportuno che episodi così delicati, gravi e che tanta
risonanza avevano avuto nel Paese fossero oggetto di un giudizio in base alle regole
di un rito in via di estinzione e, sotto alcuni profili, anche a fronte di possibili critiche
da parte dei difensori, meno “pubblico” e meno “garantista”.
Concludendo in merito all’iter e alla fase finale della presente istruttoria, è necessario
sottolineare che la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura della
Repubblica di Milano nei confronti di Carlo DIGILIO e Sergio MINETTO per il reato di
spionaggio politico e militare, così come articolato nel capo 32 di imputazione,
costituisce una scelta importante perchè comporta una omogeneità di interpretazione
e di ricostruzione complessiva dell’intervento della struttura di sicurezza statunitense
che lega indissolubilmente e concretamente gli episodi e le indagini relative agli
attentati del 12.12.1969 alla strage di Via Fatebenefratelli a Milano e alla strage di
Piazza della Loggia a Brescia.
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3
LA COLLABORAZIONE DI
CARLO DIGILIO E MARTINO SICILIANO
Asse portante della presente istruttoria e delle indagini a questa collegate sono le
centinaia di pagine di dichiarazioni rese da Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO a
questo Ufficio, il primo a partire dalle sue prime limitatissime ammissioni nel giugno
1993 e il secondo a partire dall’ottobre 1994, data del suo primo rientro in Italia
grazie al successo dell’intervento del personale del S.I.S.Mi.
Diversa è la genesi di tali due collaborazioni, così come diverso è il ruolo ricoperto
dai due in Ordine Nuovo e diverso lo stesso profilo umano dei due personaggi.
E’ opportuno innanzitutto sottolineare che, come si evidenzierà quasi da ogni capitolo
di questa sentenza-ordinanza, le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO
rivestono un’importanza e una valenza elevatissima sia perchè rese dall’interno di un
mondo come quello dell’estrema destra, storicamente povero di collaboratori o di
dissociati, sia perchè rese in assoluta separatezza le une dalle altre sia perchè
corroborate da moltissimi altri testimoni che hanno vissuto parte di tali esperienze.
Sotto il primo profilo il muro del silenzio, reso particolarmente forte nel mondo
dell’estrema destra dall’importanza dei vincoli di “onore” e di fedeltà ai camerati, tipici
di tale ambiente, si è rotto per ragioni diverse e difficilmente ripetibili.
Carlo DIGILIO, espulso da Santo Domingo e trovatosi, al suo arrivo in Italia, dinanzi
ad una pena di oltre dieci anni da scontare, ha trattato progressivamente la propria
resa con le Autorità dello Stato, uniche a poter garantire a DIGILIO un futuro diverso
in ragione delle condizioni familiari, della sua età e del suo stato di salute.
Carlo DIGILIO in sostanza si è “arreso” in una condizione di assoluta necessità che,
come se egli fosse un prigioniero caduto in mano al nemico, non gli consentiva altra
scelta.
Diverse sono state le motivazioni e l’atteggiamento psicologico di Martino
SICILIANO.
Questi, raggiunto non da un provvedimento restrittivo, ma da una comunicazione
giudiziaria che comunque, una volta resa nota da un quotidiano di Venezia, gli aveva
fatto perdere immediatamente la sua attività lavorativa presso una ditta tedesca, ha
ritenuto inaccettabili le proposte di sistemazione in Russia o in Giappone avanzategli
da Delfo ZORZI ed ha soprattutto ritenuto inaccettabile rispondere, quantomeno
all’esterno, di colpe non sue (e cioè di essere uno dei materiali esecutori della
strage di Piazza Fontana) e di continuare a fungere da capro espiatorio per il gruppo
di Delfo ZORZI.
Dopo un lungo oscillare fra le blandizie degli ex-ordinovisti e le proposte di riscatto e
tutela che venivano dai funzionari dello Stato, Martino SICILIANO ha deciso di
rompere ogni rapporto con i suoi vecchi camerati, manifestando peraltro, sin dai suoi
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primi interrogatori, un atteggiamento di riflessione critica e di rimorso sincero per i
tragici avvenimenti che egli con la sua militanza e il suo impegno operativo sino a
pochi giorni prima dei fatti più tragici, aveva comunque contribuito in parte a rendere
possibili.
Anche per questa ragione la collaborazione di Martino SICILIANO, pur in possesso di
un minor bagaglio di conoscenza rispetto a Carlo DIGILIO, è stato sin dall’inizio più
semplice e lineare, privo delle remore o titubanze che hanno contraddistinto altre
testimonianze.
Sotto il secondo profilo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO sono
state rese in assoluta separatezza sia, ovviamente, sul piano processuale, in quanto
i due non sono mai entrati in contatto durante le indagini, sia su un piano storico.
Infatti Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO non si sono praticamente conosciuti
durante la loro militanza in quanto DIGILIO, quadro rigorosamente “coperto” della
cellula di Venezia, poteva entrare in contatto con i mestrini solo indirettamente
tramite incontri riservati con Delfo ZORZI.
E’ evidente che tale circostanza accresce di molto la credibilità delle rispettive
dichiarazioni, tenendo presente che DIGILIO e SICILIANO, pur storicamente e
processualmente separati, hanno reso, su episodi e circostanze anche secondarie,
testimonianze del tutto convergenti.
Sotto il terzo profilo va rilevato che le dichiarazioni dei due collaboratori non sono
rimaste quasi in nessun caso isolate, ma sono state confermate, in linea generale e
anche con riferimento a moltissimi episodi specifici, da quelle di un gran numero di
altri collaboratori “minori” o semplici testimoni.
Ci riferiamo alle dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA rese fra il 1991 e il 1993
in un’ottica di ricostruzione delle collusioni fra l’ambiente di estrema destra e gli
apparati dello Stato, a quelle di Tullio FABRIS in merito all’innesco di ordigni
mediante timer allo studio della cellula padovana, a quelle importantissime di
Edgardo BONAZZI in merito alle notizie apprese in carcere sulle attività del gruppo
milanese e del gruppo veneto, a quelle di Giancarlo VIANELLO sulle attività della
cellula mestrina, rese, si badi bene, in sintonia con quelle di Martino SICILIANO che
egli non vedeva da oltre 20 anni.
Ci riferiamo altresì alle importanti dichiarazioni , anche relative alla struttura
informativa statunitense, di Dario PERSIC, Benito ROSSI, Ettore MALCANGI e
Marzio DEDEMO e a quelle, più limitate ma utili per comprendere la dinamica
dell’ambiente mestrino, di Guido BUSETTO, Giuliano CAMPANER e, sino alla sua
assoluta chiusura processuale, di Piero ANDREATTA.
Con riferimento alla collaborazione di Carlo DIGILIO, egli è stato espulso da Santo
Domingo nell’ottobre 1992 e, come si è accennato, ha iniziato a rendere le prime e
timide dichiarazioni nel giugno 1993.
43
44
Nella primavera del 1994 egli è stato posto in regime di detenzione
extrapenitenziaria, in una struttura idonea, sotto il controllo della Digos di Venezia e,
a partire dall’inizio del 1995, con lo svilupparsi e il progredire delle sue dichiarazioni,
è stato sottoposto allo speciale Programma di Protezione previsto dalla normativa sui
collaboratori di giustizia.
La collaborazione di Carlo DIGILIO, benchè unica per importanza nel settore
dell’estrema destra e dei rapporti fra tali ambienti e strutture di sicurezza, è stata
travagliata e faticosa.
Egli infatti, sin dall’inizio, non ha mai accettato di descrivere un quadro organico e
cronologicamente scandito della sua militanza politico-eversiva e dei suoi rapporti
con la struttura statunitense, ma ha scelto di affrontare, interrogatorio per
interrogatorio, singoli argomenti, aprendo sportelli su episodi e circostanze spesso
distanti fra loro e procedendo per “accumulazione”, cioè aggiungendo a ciascun
episodio sempre nuovi dettagli non in contrasto con la descrizione precedente, ma
che comunque sino a quel momento aveva ritenuto di tenere per sè.
Carlo DIGILIO ha giustificato tale suo comportamento, improntato ad una sorta di
cautela anche se sempre in progressione, con due ordini di ragioni.
In primo luogo la lontananza dall’Italia sin dal 1985 non gli aveva consentito subito di
verificare se certi apparati statali, che erano stati attivi nel periodo della strategia
della tensione e con cui era stato in contatto o erano stati in contatto i suoi camerati,
fossero ancora attivi, o sin dove lo fossero, e in grado eventualmente di essere
presenti e condizionare anche le strutture preposte al suo controllo e alla sua tutela
quale collaboratore di giustizia.
In secondo luogo egli ha ben presto fatto presente che quanto era in grado di riferire,
unico fra i collaboratori di giustizia e i testimoni, o quantomeno unico con tale
ricchezza di particolari, in merito all’intervento di strutture di intelligence straniere
nelle stragi e in genere nella strategia della tensione era di tale gravità e novità da
imporgli un cammino progressivo nel raccontare verità che sino a quel momento
risultavano confinate nelle ricostruzione di parte e anche fantasiose delle
pubblicazioni e degli slogans della c.d. contro-informazione.
Perdipiù, nel maggio del 1995, in un momento cruciale della sua collaborazione (in
quegli stessi giorni era stato arrestato il suo “superiore” negli anni ‘70, Sergio
MINETTO, caporete di Verona), Carlo DIGILIO è stato improvvisamente colpito da
un grave ictus che ha imposto sino all’ottobre di quell’anno, momento della sua
ripresa, la sospensione degli interrogatori.
A partire da tale momento, comunque, anche grazie al passaggio della sua tutela a
persona del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri (la struttura periferica della
Digos di Venezia si era dimostrata ben presto non attrezzata a gestire un
personaggio di tale livello), la collaborazione di Carlo DIGILIO è ripresa in modo
sempre più completo e determinato, pur risentendo del fatto che per diverso tempo,
in ragione delle sue condizioni di salute, gli interrogatori non hanno potuto essere
molto lunghi e nemmeno continuativi essendo egli ricoverato in una località assai
distante dalla sede di questo Ufficio.
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Sempre su un piano di esame critico delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO, per tutta la
prima fase della sua collaborazione egli si è autorappresentato più come testimone
che come corresponsabile degli avvenimenti che stava descrivendo, negando inoltre
di essere soprannominato, all’interno della cerchia dei militanti, OTTO o ZIO OTTO
(cfr. int.10.10.1994, f.4).
Tale circostanza, non irrilevante o secondaria, e la sua valenza vanno spiegate al
fine di comprendere quali conseguenze implicasse il riconoscimento di tale
soprannome o meglio nome in codice.
Nell’ultima istruttoria sugli attentati del 12.12.1969, condotta a Catanzaro dal g.i. dr.
Emilio Le Donne nei confronti di Stefano DELLE CHIAIE e Massimiliano FACHINI (e
conclusasi con assoluzione dibattimentale nonostante molte intuizioni dell’inquirente
che solo oggi risultano confermate nella loro validità), Angelo IZZO e Sergio
CALORE avevano riferito di aver appreso in carcere da Franco FREDA che colui che
aveva fornito gli esplosivi utilizzati per gli attentati del 12.12.1969 era una persona
non giovane, veneta e soprannominata ZIO OTTO.
Tale affermazione non poteva non essere considerata sincera e credibile, tenendo
presente che i due collaboratori non conoscevano la persona che FREDA aveva
nominato e quindi la confidenza era stata riferita dai due così come era stata
ricevuta, senza la pretesa di accusare uno specifico soggetto.
Sulla base di un collegamento effettuato da Vincenzo VINCIGUERRA nella
medesima istruttoria, ZIO OTTO era stato individuato in Carlo DIGILIO, ma non
erano stati comunque possibili ulteriori sviluppi.
L’ammissione da parte di DIGILIO di essere ZIO OTTO avrebbe comunque
comportato, nella prima fase delle sue dichiarazioni, il riconoscimento, in un modo o
nell’altro, di responsabilità e di un coinvolgimento ben maggiore di quello che era
disposto a rivelare.
Dinanzi a tale negazione, che costituiva un punto di snodo dell’intera ricostruzione,
questo Ufficio ha ritenuto necessario disporre, soprattutto nella primavera/estate del
1995, una serie di audizioni a tappeto di tutti gli ex-militanti di Ordine Nuovo e dei
N.A.R. disposti in qualche modo a testimoniare, al fine di rendere più saldo e
inequivocabile il collegamento fra la persona di Carlo DIGILIO e il nome in codice
OTTO.
L’iniziativa istruttoria ha avuto pieno successo in quanto molti testimoni hanno
dichiarato di avere sentito parlare di OTTO (quadro comunque “coperto “ e
inaccessibile quasi a tutti, tanto da aver avuto rapporti diretti, alla fine degli anni ‘70,
solo con CAVALLINI e non con gli altri militanti dei N.A.R.), fornendo di tale
misterioso soggetto qualche dettaglio o particolare, tutti comunque concordanti per
un verso o per l’altro, con la persona di Carlo DIGILIO.
Ci riferiamo alle testimonianze, fra l’altro, degli ex-militanti dei N.A.R.: Valerio
FIORAVANTI (che aveva avuto modo di conoscere DIGILIO per qualche giorno in
45
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carcere, a Roma, dopo la sua espulsione da Santo Domingo, cfr. dep. 3.7.1995),
Francesca MAMBRO (dep. 12.7.1995), Walter SORDI (26.8.1995), Stefano
SODERINI (3.5.1994), Pasquale GUAGLIANONE (8.11.1995) nonchè di Enrico
CARUSO e Lorenzo PRUDENTE, che erano stati in contatto con DIGILIO durante la
sua latitanza (cfr. rispettivamente int. 23.8.1995 e 6.9.1995).
Ed ancora agli interrogatori di ex-ordinovisti quali Sergio CALORE (9.9.1995) e Paolo
ALEANDRI (9.9.1995) e alle deposizioni di esponenti minori del gruppo mestrino
(dep. CAMPANER, 27.4.1995, e Roberto MAGGIORI, 22.4.1995).
Dinanzi a tali testimonianze che portavano tutte ad individuare in DIGILIO
l’OTTO legato prima a MAGGI e ZORZI e poi a Gilberto CAVALLINI, Carlo
DIGILIO ha ammesso finalmente che questo era il suo soprannome (cfr. int.
4.1.1996, f.1) ed anche a partire da tale punto di svolta la sua collaborazione è
decollata consentendo di acquisire per la prima volta alle indagini un quadro
diretto e di grande spessore non solo sulla strage di Piazza Fontana e gli
attentati precedenti (fatti in relazione ai quali, se non era stato il “fornitore”
dell’esplosivo, DIGILIO ne aveva contribuito all’acquisto ed aveva poi svolto
attività di consulenza), ma anche sulla strage dinanzi alla Questura di Milano,
sulla strage di Brescia, sul ruolo della struttura informativa statunitense e in
una miriade di episodi minori.
Più movimentata nella sua gestazione e nascita, ma più semplice e lineare sin dal
momento dello svolgimento dei primi interrogatori rispetto a quella di Carlo DIGILIO,
è stata la collaborazione di Martino SICILIANO.
Martino SICILIANO, quasi dimenticato militante di Ordine Nuovo di Mestre da quasi
20 anni, residente all’estero salvo brevi rientri nella sua città ove tuttora vive la sua
famiglia, è entrato nell’istruttoria a seguito di alcune testimonianze rese da fonti e in
circostanze del tutto diverse tra loro nel 1991/1992.
Gianluigi RADICE, amico di SICILIANO negli anni ‘70 (cfr. dep. 9.5.1991), Marco
AFFATIGATO, l’ex-ordinovista toscano a lungo residente in Francia (dep. 29.4.1992)
e il giornalista Gianni CIPRIANI, studioso della c.d. strategia della tensione e autore
del volume “Sovranità Limitata” (dep. 7.11.1991) riferivano infatti con vari particolari
che l’ex ordinovista mestrino, residente da molti anni a Toulouse, nella Francia
meridionale, era molto probabilmente coinvolto nell’esecuzione degli attentati del
12.12.1969.
Identificato Martino SICILIANO ed effettuati i primi approfondimenti, egli veniva
raggiunto da una prima informazione di garanzia per l’attentato dell’ottobre 1971
all’Università Cattolica di Milano e successivamente, il 25.8.1993, da un’altra per
concorso in strage.
Nell’ottobre del 1993, il quotidiano La Nuova Venezia dava, con ampio risalto, la
notizia di questa seconda informazione di garanzia.
Martino SICILIANO, che sino a quel momento aveva evitato di farsi rintracciare
cercando di capire, attraverso contatti con gli ex camerati mestrini e soprattutto con
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Bobo LAGNA, cosa stesse accadendo, a seguito della pubblicazione dell’articolo
perdeva immediatamente il suo lavoro di rappresentante di una ditta tedesca.
In preda a gravi difficoltà e profondamente angosciato, Martino SICILIANO
cominciava a peregrinare per l’Europa e il Sud-America, incerto se accettare la
proposta del funzionario del S.I.S.Mi. (che aveva già attivato un contatto, non
riuscito, all’inizio del 1993) di scaricarsi la coscienza e collaborare con la Giustizia o
se accettare la proposta, da parte di Delfo ZORZI, di aiuto e di una remunerativa
attività lavorativa in ex Unione Sovietica o in Estremo Oriente, ovviamente quale
ricompensa del suo silenzio.
Nel luglio 1994, quando era già in procinto di rientrare in Italia grazie ai pazienti
contatti con lui riannodati dal funzionario del Servizio, proprio poche ore prima di
imbarcarsi sull’aereo diretto a Milano veniva telefonicamente raggiunto da Delfo
ZORZI a Toulouse e convinto a desistere dal presentarsi all’Autorità Giudiziaria e ad
instaurare qualsiasi forma di collaborazione.
Delfo ZORZI riusciva, nei giorni successivi a “dirottare” SICILIANO a San
Pietroburgo, pagandogli il biglietto e una prima somma di denaro, e qui SICILIANO
incontrava Rudi ZORZI ed un altro emissario del gruppo i quali rinnovavano le offerte
di aiuto economico e di una adeguata sistemazione lavorativa (sugli elementi di
riscontro al soggiorno di Martino SICILIANO e Rudi ZORZI a San Pietroburgo, vedi
nota S.I.S.Mi. in data 27.12.1994 trasmessa tramite nota R.O.S. in data 29.12.1994,
vol.6, fasc.4, ff.25 e ss.).
Martino SICILIANO, tuttavia, non convinto della scelta di affidarsi interamente a Delfo
ZORZI e temendo che il gruppo avesse in realtà preparato per lui qualche altra
soluzione più definitiva, rientrava precipitosamente in Francia e da Toulouse
riprendeva di sua iniziativa il contatto con il funzionario del S.I.S.Mi.
Infine, superate le ultime titubanze, il 18.10.1994 rientrava in Italia e rendeva a
questo Ufficio il primo interrogatorio.
E’ doveroso ancora una volta sottolineare che l’azione di contatto e di
convinzione svolta dal S.I.S.Mi. nei confronti di Martino SICILIANO è stata
un’operazione di intelligence da manuale, condotta con grande professionalità,
correttezza e umanità e il cui risultato ha superato addirittura le aspettative
iniziali in quanto, stante la storica difficoltà di ottenere atteggiamenti di
collaborazione nel mondo dell’estrema destra, il risultato inizialmente sperato
era, al più, di ottenere da SICILIANO qualche contributo informativo poi
autonomamente sviluppabile sul piano investigativo ed invece la completa
collaborazione processuale dell’ex-militante di Ordine Nuovo ha superato le
più ottimistiche aspettative.
La collaborazione processuale di Martino SICILIANO si è dispiegata prima con gli
interrogatori dell’ottobre 1994 in cui egli, nel giro di tre giorni, ha fornito i fondamentali
elementi di conoscenza in merito agli episodi da lui vissuti, poi, con altre due rapide
“puntate” in Italia dalla lontana località ove vive con la famiglia, per interrogatori di
precisazione (gennaio-marzo 1995) ed infine, dal marzo al dicembre 1996 e dal
giugno all’agosto 1997, quando egli è rientrato per cospicui periodi di tempo in Italia,
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rientri consentiti dall’adozione del programma di protezione nel nostro Paese pur
avendo egli mantenuto la residenza all’estero, con una serie continuativa ed
estremamente proficua di interrogatori di approfondimento e di messa a fuoco di altri
episodi che via via ritornavano alla memoria.
Si noti anche che le intercettazioni telefoniche, disposte da questo Ufficio sin
dall’autunno 1994 sulle utenze in uso alle persone indicate da SICILIANO come
referenti ancora attuali a Mestre di Delfo ZORZI, hanno evidenziato come i
componenti del gruppo, resisi conto della sparizione di SICILIANO da Toulouse e
quindi del suo probabile e paventato rientro in Italia per testimoniare, abbiano messo
in atto un tentativo disperato, contattando i parenti di SICILIANO e tutti i suoi possibili
collegamenti, di scoprire ove egli si trovasse e quindi di farlo desistere dal suo
atteggiamento di collaborazione (cfr. in particolare le telefonate fra il 28 ottobre e il 5
novembre 1994 intercorse tra Piercarlo MONTAGNER e Delfo ZORZI o persone
comunque legate a quest’ultimo, trascritte e allegate alla nota R.O.S. in data
10.11.1994, vol.46, fasc.1, ff.131 e ss.).
Tale tentativo non è riuscito in quanto nel giro di pochissimi giorni, in base ad un
programma ben coordinato, Martino SICILIANO aveva reso a Milano gli interrogatori
fondamentali ed era poi stato fatto rientrare non in Francia, ma nella lontanissima
località ove vive la sua nuova famiglia, difficilmente raggiungibile dagli emissari del
gruppo.
L’azione di aiuto e di tutela immediata prestata in quei giorni dalla Direzione del
S.I.S.Mi., con provvedimenti protocollati e verificabili (cfr. vol.45, fasc.1 e 3),
dovrebbe quindi, nel contesto dell’azione complessiva svolta, essere, anche
come momento di concreta rottura con scelte ben diverse verificatesi negli
anni ‘70 e ‘80, motivo di elogio e non delle critiche che sono state mosse.
Si ricordi, del resto, che anche dalla successive intercettazioni telefoniche ed
ambientali disposte dalla Procura di Milano emerge come il gruppo si sia gravemente
rammaricato di non aver agito, nell’occasione, più tempestivamente degli uomini
dello Stato, impedendo a qualsiasi prezzo la diserzione dell’ex-camerata.
Peraltro, nel medesimo contesto, uno dei fiancheggiatori di Delfo ZORZI si è
espresso affermando che, in alternativa ad un intervento di recupero che si era
dimostrato troppo lento ed inefficace, il “problema” Martino SICILIANO poteva
comunque essere risolto con un colpo di pistola calibro 9, affermazione questa
che rende a posteriori comprensibili le sensazioni per le quali, non a torto, Martino
SICILIANO aveva avuto paura di fidarsi del tutto delle proposte dei suoi ex-camerati.
La collaborazione di Martino SICILIANO, a differenza di quella di Carlo DIGILIO, non
ha creato particolari difficoltà in quanto egli non ha avuto remore o titubanze alcune a
riferire quanto a sua conoscenza e incorrendo, al più, in qualche errore di data
dovuto alla lontananza nel tempo dei fatti e riuscendo a mettere a fuoco alcuni
avvenimenti solo nei più continuativi e approfonditi interrogatori, svolti nel corso del
1996, durante la sua più lunga permanenza in Italia.
Solo Martino SICILIANO, militante di medio livello ma comunque presente in tutte le
situazione anche per i numerosi rapporti amicali che coltivava, è riuscito a fornire
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dall’interno un quadro organico e vivido del mondo di Ordine Nuovo, mettendo
sovente a fuoco i rapporti interpersonali fra i vari militanti e simpatizzanti in grado di
condizionarne le scelte operative.
Martino SICILIANO è stato escluso, dopo gli episodi di Trieste e di Gorizia, dalla fase
conclusiva della strategia degli attentati, forse perchè non abbastanza duro e
determinato, forse perchè la sua presenza sarebbe stata pericolosa essendo egli già
sotto osservazione da parte quantomeno del personale della Questura di Trieste che
lo aveva individuato quale uno dei probabili autori dell’attentato alla Scuola Slovena e
lo aveva sottoposto ad un interrogatorio a sorpresa pochi giorni dopo il fatto (cfr. int.
SICILIANO, 22.9.1996 ff.1-2 e allegato verbale di interrogatorio in data 6.10.1969
dinanzi a personale della Questura di Trieste).
Ciò, tuttavia, non gli ha impedito di comprendere, prima e dopo i fatti, come si vedrà
nel prosieguo di questa ordinanza, la dinamica di quanto si stava preparando
quantomeno a partire dall’estate 1969.
Martino SICILIANO, presente non solo agli episodi eversivi ma anche alle
manifestazioni di piazza, alle riunioni del circolo di Ordine Nuovo di Via Mestrina, agli
addestramenti nella palestra di arti marziali e agli incontri di carattere amicale, è stato
soprattutto il primo a scolpire il carattere e il carisma del pur giovanissimo Delfo
ZORZI, introverso, determinato, apparentemente privo di emozioni e capace di un
grande autocontrollo, appassionato di esoterismo ed insensibile alle conseguenze
della violenza tanto da sottoporre ad un duro pestaggio il più debole camerata, Guido
BUSETTO, per una piccola mancanza (cfr. int. SICILIANO, 20.10.1994, f.8 e, a
conferma, dep. BUSETTO, 11.11.1994 f.3 e 14.4.1995 f.3) e che coltivava interesse
solo per la parte meno “compassionevole” delle filosofie orientali.
Caratteristiche, queste, confermate poi da tutti gli altri testimoni dell’ambiente e che
non saranno disgiunte, in seguito, da un forte intuito per le attività commerciali, intuito
che ha consentito di costruire quel ragguardevole e diffuso patrimonio commerciale e
finanziario che non poco ha pesato sugli sviluppo di questa indagine e delle indagini
collegate.
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IL COLPO DI MAGLIO CONTRO LE INDAGINI:
L’ ”OPERAZIONE CECCHETTI”
Una fase estremamente delicata delle indagini, contestuale alla ripresa della
possibilità di interrogare Carlo DIGILIO e all’avvio da parte del personale del R.O.S.
di un programma di audizioni di numerosi e importanti testimoni relativi anche
all’attività delle strutture statunitensi, è stato purtroppo contrassegnato da una delle
più importanti operazioni di confusione e disinformazione, purtroppo non
adeguatamente contrastata dagli Uffici preposti, che abbiano toccato negli ultimi
decenni le indagini in materia di eversione di destra.
Il 28.10.1995, preceduto da una serie di allarmi e messaggi via via segnalati da
questo Ufficio alla Procura di Milano, usciva su “La Nuova Venezia” e altri quotidiani
veneti uno scoop esclusivo firmato da Giorgio CECCHETTI, cronista giudiziario di
Venezia, dal titolo con ampio risalto sulla prima pagina “PIAZZA FONTANA:
L’ULTIMO DEPISTAGGIO.
Lo scoop, prendendo spunto dal tardivo e generico esposto del dr. Carlo Maria
MAGGI e da alcuni accertamenti effettuati dal dr. Felice Casson in merito agli aspetti
formali della tutela garantita a Martino SICILIANO (non è chiaro in base a quale
competenza, trattandosi di situazioni non verificatesi a Venezia) ed acquisendo, non
si sa in quale modo, tali iniziali notizie (si pensi alla riservatezza che dovrebbe
contraddistinguere l’attività del Comitato di Controllo sui Servizi di Sicurezza
cui il dr. Casson aveva appena inviato una missiva), tentava, senza mezzi termini
e senza alcuna verifica dell’effettivo lavoro in corso presso questo Ufficio, di
screditare frontalmente e delegittimare i risultati in via di acquisizione nella presente
istruttoria.
Il giornalista “avvisava” con clamore l’intero ambiente veneto e nazionale che era in
corso ad opera del S.I.S.Mi. l’ “ultimo depistaggio” sulla strage di Piazza Fontana,
che sarebbe stato scoperto che Martino SICILIANO era stato aiutato e tutelato dal
S.I.S.Mi. (curiosa “scoperta”, posto che l’azione del S.I.S.Mi. era già documentata in
base alle comunicazioni trasmesse dalla Direzione del Servizio, momento per
momento, nei fascicoli dell’istruttoria condotta da questo Ufficio) al fine di “indirizzare
in una direzione invece che in un’altra le indagini”.
Tutto ciò sarebbe addirittura avvenuto per “impedire che fosse dato un nome e un
volto a chi ha organizzato il vile attentato di Piazza Fontana”.
Perdipiù, con un’autentica opera di disinformazione, l’articolo aggiungeva che i pentiti
sarebbero stati “l’uno contro l’altro”, in particolare Martino SICILIANO avrebbe
“scagionato tutti coloro che erano stati indicati come autori della strage da altri
“pentiti” neofascisti”, mentre DIGILIO avrebbe addirittura accusato SICILIANO di
avere confezionato la bomba scoppiata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Il giornalista concludeva affermando che era in corso un’azione in sostanza simile a
quella che negli anni ‘70, ad opera del S.I.D., aveva visto la fuga di Marco POZZAN e
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Guido GIANNETTINI e che a tale situazione stavano fortunatamente ponendo
rimedio altri Uffici Giudiziari, diversi ovviamente dall’Ufficio Istruzione di Milano sulle
cui indagini, così come sugli operanti del R.O.S., gravavano sospetti ed accuse.
Tale cumulo di falsità e distorsioni, pubblicate perdipiù senza che il giornalista
operasse alcuna verifica, provocavano un effetto devastante sulle indagini anche in
ragione del fatto che i quotidiani ove era apparso l’articolo sono pubblicati nell’area
veneta, ove risiede la maggior parte degli imputati e dei testimoni.
Veniva messa in pericolo la credibilità, la prosecuzione della collaborazione e
forse anche la sicurezza di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO (il primo,
all’epoca, ancora privo di un formale programma di protezione, il secondo
ripresosi proprio in quei giorni dal grave ictus che lo aveva colpito), veniva con
tale opera di delegittimazione resa impossibile o messa in grave difficoltà la
prosecuzione delle audizioni già in corso di alcuni testimoni e l’audizione di
testimoni sino a quel momento non sentiti in quanto costoro non sapevano
più, trovandosi di fronte a personale del R.O.S. Carabinieri, se stavano avendo
a che fare con onesti e impegnati investigatori o con pericolosi depistatori,
veniva frustrata la scelta e la disponibilità offerta, forse per la prima volta, dal
S.I.S.Mi. di dare un prezioso contributo informativo in tale tipo di indagini.
Ne usciva rafforzato e più compatto al proprio interno solo l’ambiente ex -ordinovista
che da tempo (cfr. quanto esposto al capitolo 19) stava meditando una mossa
azzardata, ma resa inevitabile dal progredire delle indagini, finalizzata a colpire
soprattutto il personale del R.O.S. che stava giungendo al cuore dell’attività delle
cellule eversive di Mestre, Venezia e Milano.
Gli ispiratori dell’articolo, diversi comunque dagli ex-ordinovisti e interni
probabilmente ad ambienti istituzionali, forse anche a quelli che a parole hanno
sempre sostenuto di volere la verità sulla strategia della tensione, ritenevano
probabilmente, con una simile azione di attacco e di discredito, di provocare, anche a
seguito delle inevitabili reazioni di questo Ufficio e degli operanti, una catena di
polemiche tali da distruggere in poche settimane le indagini.
Non si dimentichi, del resto, che solo la presente istruttoria, oltre a far venire alla luce
le modalità e i materiali esecutori di molti attentati, stava dirigendosi, con elementi di
prova sempre più consistenti, verso l’individuazione delle collusioni in tali attentati e
delle attività di “controllo” del nostro Paese, negli anni della strategia della tensione,
da parte delle strutture dell’Alleanza Atlantica, verità forse auspicata in anni lontani
quando, peraltro, non era possibile dimostrarla, ma ormai scomoda, per molteplici
ragioni storiche e politiche, al tempo presente.
Fortunatamente il tentativo di delegittimazione non raggiungeva il suo scopo e nel
giro di qualche mese, seppure con difficoltà e sacrifici inauditi, il fronte delle indagini
si ricostituiva permettendo via via l’acquisizione di nuovi e importanti elementi di
prova e di conoscenza.
La gravità e la strumentalità dell’operazione ora descritta è testimoniata pagina per
pagina dagli atti dell’istruttoria e da quanto esposto nella presente sentenzaordinanza.
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Appare tuttavia doveroso riportare integralmente in questa sede quanto Martino
SICILIANO ha voluto verbalizzare, in uno dei primi interrogatori resi dopo
l’operazione dell’ottobre 1995, in merito alla storia, anche personale, della sua
collaborazione in quanto tale racconto testimonia la linearità e la sincerità della sua
scelta processuale ed è la migliore risposta all’operazione che è stata tentata:
“””Nell'autunno del 1995, quando mi trovavo all'estero con mia moglie e mia
figlia, ebbi eco dall'Italia, ed in particolare da mio fratello, del fatto che sulla
stampa di Venezia e in televisione erano usciti servizi che mi riguardavano e mi
attaccavano pesantemente.
Rientrato in Italia circa due settimane or sono, ho potuto leggere con attenzione
gli articoli pubblicati nell'ottobre/novembre 1995, in particolare l'articolo a
firma Giorgio Cecchetti pubblicato su "La Nuova Venezia" il 28.10.1995.
Leggendo questo articolo ho provato molta amarezza sul piano personale in
quanto ciò ha ferito e danneggiato non solo me, ma anche la mia famiglia che
vive a Mestre e posso dire che il contenuto dell'articolo è veramente falso, vile e
disgustoso.
Del resto fu proprio il giornalista Giorgio Cecchetti, per primo, a colpirmi
pubblicando nell'ottobre del 1993 un articolo sul quotidiano "La Repubblica",
rendendo noto che ero stato indiziato per la strage di Piazza Fontana.
Tale articolo, ripreso dalla stampa nazionale e anche dalla televisione, ebbe
l'effetto, come ho già spiegato, di farmi perdere il posto di lavoro e di privarmi
di ogni forma di sostentamento.
All'epoca, infatti, io lavoravo come rappresentante e persona di fiducia della
società tedesca FRANKE & RUHRHANDEL, società di importazione in
Germania di articoli sportivi e da campeggio.
Io, per questa società, seguivo gli acquisti, i pagamenti, i carichi e quando
veniva in Italia personale direttivo della società, svolgevo anche l'attività di
interprete e di accompagnatore presso le ditte italiane.
Ovviamente, pochi giorni dopo le notizie di stampa fui convocato a
MECKENHEIM, vicino a Bonn, dalla sede centrale e mi fu detto che a causa
della pubblicità fatta sul mio nome non mi era più possibile lavorare per loro.
Riconsegnai quindi la vettura e rientrai in Francia.
Mi ritrovai quindi in una situazione di enorme difficoltà e come ho già
dichiarato nei miei primi interrogatori, contattai MONTAGNER lasciandogli il
mio numero di telefono francese, e chiedendogli di essere contattato da Delfo
ZORZI.
Questi mi chiamò dopo qualche giorno, lasciandomi anche un suo numero di
fax, ma non di telefono, e mi esortò a non presentarmi in Italia, a non cedere,
poichè egli avrebbe risolto tutti i miei problemi legali e di lavoro.
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Concordammo, come ho già detto, un appuntamento a Parigi nel maggio del
1994, dove rimanemmo insieme per qualche ora.
Dopo qualche giorno egli mi riconfermò il suo pieno appoggio purchè non
rientrassi in Italia o, al più, rendessi dichiarazioni del tutto reticenti accettando
eventualmente di essere sentito solo in Francia.
Dopo qualche settimana mi ricontattò e mi disse che una ditta a lui collegata mi
avrebbe mandato un invito per recarmi a San Pietroburgo, invito necessario
affinchè io potessi ottenere un visto d'ingresso dal Consolato dell'ex/URSS a
Marsiglia.
Mi fece avere, come ho già detto, sul conto di mia moglie una somma
equivalente a 600 o 700 dollari che mi permise di recarmi a Marsiglia per
ottenere visto e poi a Zurigo dove avrei trovato un biglietto aereo prepagato per
San Pietroburgo.
Il mio viaggio a San Pietroburgo subì comunque un ritardo perchè io ero
incerto se accettare o meno le offerte di ZORZI.
Faccio del resto presente che prima di incontrare ZORZI a Parigi io avevo
telefonato al dr. Madia (nota Ufficio: un funzionario del S.I.S.Mi.), che avevo
conosciuto a Mestre e che mi aveva fornito il numero del suo cellulare,
manifestandogli il mio disagio e chiedendogli quali sarebbero state
eventualmente le condizioni e gli esiti di una mia presentazione in Italia.
Ovviamente non gli dissi, in questa occasione, che ero già stato contattato da
ZORZI.
Infatti, già dalla primavera del 1994 io vivevo in uno stato di angoscia poichè
le proposte di ZORZI e le sue telefonate chilometriche e piene di allusioni non
mi convincevano affatto e dentro di me mi sentivo molto combattuto e molto
incerto sulla strada da scegliere.
Infatti, se da un lato ZORZI mi prometteva un avvenire sicuro sul piano
lavorativo e anche su quello legale, nello stesso tempo percepivo da parte di
quell'ambiente un senso di pericolo in quanto non sapevo che fine avrei fatto
una volta messomi nelle loro mani.
Infatti per loro ero l'anello debole della catena e percepivo nettamente questa
sensazione e non sapevo se mi avrebbero effettivamente aiutato o se si
sarebbero poi in qualche modo liberati di me.
Sapevo inoltre da mio fratello che a Mestre Bobo LAGNA e Piercarlo
MONTAGNER seguivano costantemente i miei movimenti, cercavano di
acquisire notizie ed esercitavano una forte di pressione parallela a quella che
mi proveniva da ZORZI.
Nonostante questi embrionali contatti che avevo spontaneamente riattivato con
il dr. Madia, andai lo stesso a San Pietroburgo dopo il primo spostamento della
prenotazione e mi incontrai appunto con Rodolfo ZORZI che era accompagnato
dal responsabile della ditta QUATZAR che io già conoscevo come ex cameriere
a Mestre.
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Questa persona aveva preso il posto di Bobo LAGNA che nel frattempo era
deceduto.
A San Pietroburgo mi furono rinnovate le offerte di lavoro, in quella zona, come
uomo di fiducia della catena commerciale, con uno stipendio non
eccessivamente elevato, ma con un tenore di vita molto più alto in quanto
l'albergo in cui avrei alloggiato costava circa 400 dollari al giorno solo per la
camera.
Mi ero reso conto, del resto, che ZORZI poteva mettere a posto chi voleva in
quanto il mestrino che accompagnava Rodolfo ZORZI a San Pietroburgo era
stato in passato semplicemente un cameriere in una pizzeria ed era ora
responsabile di una società commerciale.
Mi ero anche reso conto che a ZORZI faceva capo, in Russia, una grossa catena
commerciale poichè Rodolfo aveva portato per il punto vendita di San
Pietroburgo una somma liquida di 50 mila dollari e parecchie valige di occhiali
da sole "firmati", introvabili in quella città.
Avevano altri punti vendita a Kiev e a Mosca che dovevano essere contattati in
quei giorni da Rodolfo.
Tutta la situazione, comunque, non mi convinceva e avevo paura.
Fui colto da una crisi di paura, non diedi una risposta definitiva e dissi che per
il momento avrei dovuto comunque rientrare in Francia e così feci.
Quando a San Pietroburgo mi sentii male, ZORZI, contattato al telefono dal
mestrino che accompagnava Rodolfo, tentò di convincermi di rimanere in
Russia dove avrei potuto farmi curare a sue spese.
Io, utilizzando come scusa il fatto che mi sarei trovato più a mio agio presso
medici francesi, non accettai di rimanere.
Rientrato in Francia mi ricoverai in una clinica di Toulouse per tutto il mese di
agosto, anche se ZORZI mi aveva subito telefonato, appena ero giunto a casa,
per sapere cosa intendessi fare e io non gli risposi prendendo tempo.
All'inizio di settembre ZORZI mi richiamò e mi disse che se non mi andava bene
San Pietroburgo avrei potuto avere un'altra sistemazione in Giappone, dalle
parti di Osaka dove lui aveva un'attività commerciale.
A questo punto capii che ero al bivio e che dovevo scegliere.
ZORZI mi disse che lui non aveva problemi, ma che ero io, persona molto più
scoperta, ad averne e compresi che rimanendo in Francia ZORZI non mi
avrebbe mollato.
Dovevo quindi scegliere e telefonai al dr. Madia, verso la metà di settembre, e
gli dissi che ero disponibile a incontrarlo a Toulouse per discutere la mia
situazione e valutare il mio rientro in Italia affidandomi alle Autorità del mio
Paese.
Faccio presente che già prima di partire per San Pietroburgo avevo comprato il
biglietto per rientrare in Italia, e precisamente per l'aereoporto di Venezia dove
avrei dovuto incontrare il dr. Madia, ma proprio poche ore prima di
imbarcarmi, alle 4 del mattino ora di Toulouse, quando avevo già la valigia
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pronta, ZORZI mi telefonò dal Giappone e riuscì a convincermi a non partire
dicendomi che se mi fossi presentato in Italia sarei certamente stato arrestato,
nonostante le garanzie che mi erano state fornite e mi rammentò, con velate
minacce, che non avrei dovuto azzardarmi a testimoniare.
In settembre, invece, la mia decisione era sostanzialmente presa e accettai
l'incontro con il dr. Madia che si svolse a Toulouse alla fine di settembre.
Il dr. Madia, giungendo all'aereoporto, mi avvicinò da solo e molto
correttamente mi disse che viaggiava con un collega che io avrei potuto
decidere di incontrare o meno; io accettai di incontrare entrambi.
Il loro comportamento rafforzo la mia fiducia e accettai di spiegare loro,
ovviamente per sommi capi tutti gli episodi e le circostanze in cui ero stato
coinvolto negli anni '70 e mi resi quindi disponibile a rientrare in Italia nel giro
di pochissimo tempo.
Rientrai infatti in Italia nell'ottobre 1994, ma nelle ultime settimane della mia
permanenza a Toulouse ZORZI continuò a tempestarmi di telefonate e io
cercavo di rispondere evasivamente.
Egli mi telefonò addirittura la sera in cui ero appena partito per l'Italia e mia
moglie rispose che io ero partito e che non sapeva dove fossi.
Certamente ZORZI comprese che io avevo accettato di testimoniare e da quel
momento mise tutto l'ambiente sulle mie tracce.
In merito a quanto avvenne in questo periodo e alla mia vicenda personale
intendo fermamente sottolineare quanto segue. Io ero profondamente turbato
sia perchè avevo compreso che in qualche modo ero oggetto dell'istruttoria e
che su di me rischiava di pesare indefinitamente il sospetto di essere l'autore
materiale di un massacro di cui personalmente non ero invece responsabile, con
le conseguenze che ne derivavano anche su mio padre anziano e sul resto della
mia famiglia.
D'altronde sin dalla fine del 1969, come ho già avuto modo di dire
nell'interrogatorio in data 20.10.1994, ho provato rimorso e turbamento
essendomi reso conto di avere partecipato ad una progressione di attività
criminose e di attentati che, pur senza la mia successiva partecipazione, si era
conclusa con fatti gravissimi.
Mi sono sentito quindi, in qualche forma, moralmente responsabile e
umanamente coinvolto, nonostante il mio distacco da moltissimo tempo da
quell'ambiente.
Le pressioni di ZORZI e delle persone a lui legate mi facevano temere che io
non andassi incontro ad una sistemazione lavorativa, ma a qualcosa di ben
diverso.
Per questi motivi, nonostante molte titubanze e tentennamenti, nella primavera
del 1994 riaprii il contatto con il dr. Madia e alla fine decisi di rientrare.
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Il dr. Madia mi era parso subito come una persona estremamente positiva
anche sul piano umano, molto preparata ed ebbe con me un comportamento
sempre corretto e lineare.
Mi disse che se io avessi accettato di dare informazioni utili, e in prospettiva
anche di collaborare formalmente con l'Autorità Giudiziaria, avrei dovuto
dire esclusivamente la verità, dire tutto quanto a mia conoscenza per avervi
partecipato direttamente o per averlo nell'ambiente in un contesto di
affidabilità ed attenermi strettamente a questo tipo di comportamento.
Da parte mia risposi che se avessi scelto tale via mi sarei attenuto a tale
comportamento e infatti così ho fatto, raccontando tutto quanto a mia
conoscenza senza alcuna reticenza e nel contempo senza inventare o
aggiungere nulla.
Credo che le conferme che sono giunte, come ho appreso durante gli
interrogatori, da altri imputati o testimoni confermino ciò e d'altra parte alcune
imprecisioni soprattutto nei primi interrogatori, quando a distanza di tanto
tempo tante circostanze si affollavano nella mia memoria, ritengo che
testimonino la mia spontaneità e sincerità.
Ovviamente ho chiesto e ho avuto garanzia, qualora avessi scelto questa strada,
di un aiuto economico in quanto mi trovavo in una situazione disperata avendo
perso il lavoro e non avendo più un posto dove stare, dal momento che la mia
residenza francese era facilmente rintracciabile dagli elementi del mio vecchio
ambiente.
Faccio presente che una volta ottenuto tale aiuto economico, dall'ottobre 1994,
avendo fissato la mia residenza in un luogo molto lontano per motivi familiari e
di sicurezza, me la sono cavata da solo senza alcuna ulteriore misura di
protezione e tenendomi solo periodicamente in contatto con i due funzionari che
avevo conosciuto.
Non ho mai saputo, nè mi interessa saperlo, per quale struttura dello Stato
lavorassero il dr. Madia e il Capitano Giraudo.
Per me sono due funzionari dello Stato che hanno dimostrato correttezza,
notevole competenza, e profonde doti di umanità richiamandomi anche, e
sempre, ai valori morali della mia scelta.
Ciò è avvenuto anche nei momenti più difficili tenendo presente che, dopo la
pubblicazione dell'articolo su La Nuova Venezia, la mia situazione familiare nel
Paese in cui mi trovavo si era notevolmente aggravata e sono riuscito per molti
mesi a reggere l'impatto psicologico di questa situazione solo grazie ai contatti
telefonici rassicuranti a tranquillizzanti con il personale del R.O.S. carabinieri
di Roma.
Nonostante la rabbia ho accuratamente evitato di rilasciare interviste o
mettermi in contatto con giornalisti, in quanto non volevo mettere in difficoltà
lo sviluppo delle indagini e volevo mantenere, come sentivo mio dovere, un
comportamento lineare e sereno.
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L'articolo del giornalista Cecchetti è stato quindi veramente un episodio
vergognoso, punto conclusivo di un accanimento che questo giornalista ha
mostrato nei miei confronti e nei confronti della mia famiglia, anche con
articoli pubblicati in anni precedenti a questa istruttoria.
Oltre a colpire me, come mi sono reso conto tornando in Italia, questo articolo
ha colpito anche il lavoro della Giustizia in quanto essendo pubblicato su
giornali veneti ha certamente spaventato molti possibili testimoni che potevano
certamente aiutare le indagini ed ha invece fatto il gioco dei vecchi elementi di
Ordine Nuovo che hanno le maggiori responsabilità in queste vicende.
Ho trovato estremamente ingiusto che quanto scritto dal Cecchetti, la cui
amicizia di lunga data con il P.M. di Venezia che si occupa di questa materia
è a Mestre e Venezia di dominio pubblico, non sia stata smentita da tale
Autorità che pure aveva il dovere di farlo e la possibilità di informarsi delle
modalità della mia collaborazione, che certo non è stato un depistaggio, ma
un aiuto offerto alle Autorità inquirenti.
Ho provato anche delusione per il comportamento della Procura di Milano che,
da quanto si legge sull'articolo del Cecchetti, sembra anch'essa non avere
compreso la mia collaborazione nonostante gli interrogatori che ho reso anche
ad essa e che perdipiù, nel mese di ottobre 1995, nel corso di un interrogatorio
in presenza di un ufficiale dei Carabinieri, mi aveva garantito l'avvio di una
forma di protezione all'estero, cosa che non è mai avvenuta.
Dal canto mio sono invece rimasto sempre lealmente disponibile a rendere
all'Autorità Giudiziaria fra cui anche al Giudice Istruttore di Milano, dr.
Lombardi, tutti gli interrogatori che fossero ritenuti necessari, compresi i
confronti con altre persone del vecchio ambiente ordinovista”””.
(int .SICILIANO, 29.3.1996, ff.2-8).
Si noti che il racconto di Martino SICILIANO in merito alle sue peripezie dopo che la
sua incriminazione era divenuta di dominio pubblico, al tentativo del gruppo di Delfo
ZORZI di prevenire ogni sua possibile testimonianza e alla sua formale scelta di
collaborazione sono in perfetta sintonia con quanto documentato dal S.I.S.Mi. (che
ha evitato ogni attività di carattere solamente “informale” e quindi non controllabile)
momento per momento, contatto per contatto, telefonata per telefonata nelle note via
via trasmesse dal Funzionario operante alla Direzione del Servizio, dalla Direzione
del Servizio al Reparto Eversione del R.O.S. e da tale reparto a questo Ufficio (vedi
vol.45, fasc.1).
Tale doppio riscontro, testimoniale e documentale, testimonia la trasparenza
dell’azione svolta dal S.I.S.Mi., che costituisce in tale settore il migliore esempio di
azione di intelligence che sino a questo momento sia mai stato condotto dal nostro
Paese.
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58
I danni ai potenziali risultati delle indagini in corso fra il 1995 e il 1996 cagionati
dall’operazione Cecchetti e dai suoi ispiratori non potranno comunque essere mai
calcolati nè riparati e in questo senso il rinvio a giudizio del giornalista, richiesto e
ottenuto nella primavera del 1997 dalla Procura di Padova anche a seguito di querela
presentata dal Direttore del S.I.S.Mi. dell’epoca, generale Sergio Siracusa (caso,
questo, unico nella recente storia giudiziaria), per rispondere del reato di
diffamazione aggravata, risarcisce solo in parte e solo sul piano storico/morale
l’indagine dei danni subìti.
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PARTE
SECONDA
I NUOVI ELEMENTI EMERSI SUL GRUPPO “LA FENICE”
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5
LA POSIZIONE DI PIETRO BATTISTON
Pietro BATTISTON, componente storico del gruppo La Fenice e uomo di fiducia, al
pari di Nico AZZI, di Giancarlo ROGNONI, si era reso latitante quando, il 14.12.1973,
in un’autovettura custodita all’interno del garage Sanremo di Via Zecca Vecchia a
Milano, di proprietà del padre Pio e in cui egli stesso lavorava, era stato rinvenuto un
piccolo arsenale di armi ed esplosivo fra cui una saponetta di tritolo da 500 grammi
del tutto identica a quella utilizzata da Nico AZZI, nell’aprile 1973, per commettere il
fallito attentato sul treno Torino-Roma (cfr. vol.1, fasc.18, ff.1 e ss.).
Una volta revocato il mandato di cattura, a seguito della fortunosa assoluzione per
insufficienza di prove, Pietro BATTISTON era rientrato in Italia dalla Spagna, ove era
rimasto a lungo latitante a Madrid in stretto contatto con Giancarlo ROGNONI, aveva
svolto il servizio militare a Mestre (riallacciando fra l’altro, in quel periodo, i rapporti
con Carlo DIGILIO già conosciuto a Milano) e si era infine trasferito definitivamente in
Venezuela ove aveva impiantato, collaborando a lungo con Roberto RAHO,
un’attività commerciale nel campo delle carni surgelate.
Nel corso della prima fase dell’istruttoria era emerso che l’esplosivo rinvenuto nel
garage Sanremo apparteneva effettivamente a Pietro BATTISTON che lo custodiva
per conto del gruppo La Fenice dopo l’arresto di AZZI e la fuga di ROGNONI (cfr.
dep. Biagio PITARRESI, 10.11.1992, f.2 e capitolo 11 della sentenza-ordinanza
depositata in data 18.3.1995).
Nel corso di questo secondo troncone dell’istruttoria è emerso, per ammissione dello
stesso BATTISTON e a seguito delle conferme di Carlo DIGILIO, Francesco
ZAFFONI, Giuseppina GOBBI, titolare della trattoria Lo Scalinetto di Venezia, e altri
testimoni, che egli, a partire dall’inizio del 1974, era rimasto per molti mesi latitante a
Venezia, grazie all’aiuto del dr. MAGGI, pranzando alla trattoria Lo Scalinetto, punto
di riferimento del gruppo, e abitando nella sede dismessa del circolo Il Quadrato, già
sede di Ordine Nuovo di Venezia, messagli a disposizione dallo stesso MAGGI e da
Carlo DIGILIO (cfr. ampiamente capitolo 22 della presente sentenza-ordinanza).
Nel giugno 1974, Pietro BATTISTON era stato inviato, sempre dai camerati
veneziani, in Grecia, nei pressi di Atene, ove, in una villetta, avevano trovato rifugio
altri ordinovisti italiani, prevalentemente veronesi, e l’anno successivo egli aveva
raggiunto prima Barcellona e poi Madrid riunendosi così a Giancarlo ROGNONI,
Pierluigi PAGLIAI, Francesco ZAFFONI e agli altri italiani latitanti.
Nel corso delle indagini erano via via emersi altri, anche se frammentari, elementi
concernenti il ruolo svolto da Pietro BATTISTON sino all’inizio degli anni ‘80.
Sergio CALORE aveva ricordato che BATTISTON aveva reso possibile il contatto fra
Giancarlo ROGNONI, ormai latitante, e gli altri coimputati del gruppo La Fenice,
rimasti in Italia, raggiungendo ROGNONI nei luoghi in cui si trovava (cfr. int.
CALORE al G.I. di Bologna, 22.2.1994, f.2).
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Mauro MARZORATI, arrestato per l’attentato al treno del 7.4.1973, ha ricordato che
BATTISTON gli aveva confidato di essere stato fra i responsabili del fallito attentato
del marzo 1973 alla COOP di Bollate, citato nel “documento AZZI” e di cui si è
ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza (cfr. dep. MARZORATI,
31.3.1995, ff.2-3 e capitoli 10-11 dell’ordinanza conclusiva del proc. 721/88F).
Francesco DE MIN, altro componente minore del gruppo La Fenice, ha rievocato
un’altra circostanza e cioè che Nico AZZI, durante la comune detenzione, aveva
ritenuto che parte dell’esplosivo sequestrato nel garage di BATTISTON fosse stato
parte di quello occultato nel deposito di Celle Ligure ed eventualmente da questi
recuperato, confermando così che BATTISTON, all’interno del gruppo, era l’uomo
incaricato della custodia e della gestione degli esplosivi (cfr. int. DE MIN, 18.3.1995,
f.3).
Francesco DE MIN aveva del resto appreso, sempre all’interno del gruppo, che
BATTISTON aveva in precedenza fatto sparire dell’esplosivo e per tale ragione era
entrato in rotta di collisione con Nico AZZI (int. citato, f.3).
Gianni FERORELLI, altro militante della destra milanese, in contatto con il gruppo di
ROGNONI, aveva ricevuto da Pietro BATTISTON una pistola cal.7,65 e aveva
saputo che questi aveva detenuto per un certo periodo di tempo dell’esplosivo di
proprietà di Giancarlo ESPOSTI e Angelo ANGELI, e cioè in sostanza
dell’organizzazione S.A.M., contigua a quella di ROGNONI (dep. FERORELLI,
10.3.1995, f.3).
Marco CAGNONI, altro componente del gruppo La Fenice, “sopravvissuto” agli
arresti dell’aprile 1973, ha confermato che Pietro BATTISTON, entrato in latitanza,
era rimasto per diverso tempo a Venezia, dove lo stesso CAGNONI gli aveva fatto
visita, ed era stato poi avviato in Grecia dai camerati veneziani stabilendosi ad Atene
in una villetta già occupata anche da Elio MASSAGRANDE e altri latitanti italiani
(dep. 15.1.1996, f.2).
Ma soprattutto CAGNONI ha ricordato che nel periodo precedente, quando
ROGNONI era ancora latitante in Svizzera, egli si era recato nella zona del Passo
San Bernardino per incontrarlo e qui, oltre a ROGNONI, aveva trovato Pietro
BATTISTON, certamente incaricato di tenere in modo più stabile i contatti fra i vari
militanti del gruppo dispersi a causa degli arresti e delle indagini giudiziarie in corso
(cfr. dep. citata, f.3).
Carlo DIGILIO, forse consapevole che l’ammissione dei suoi contatti con il militante
milanese avrebbe necessariamente imposto un ulteriore ampliamento delle sue
rivelazioni, sino a quel momento contenute ad un numero limitato di episodi, ha
ammesso solo il 6.11.1995 di avere conosciuto BATTISTON e di averlo incontrato
sia a Milano sia a Venezia sia a Madrid ed infine a Caracas in Venezuela (int.
6.11.1995, f.2), di averlo ospitato in particolare per alcuni giorni nella sua casa di
S.Elena quando era latitante a Venezia e di essersi di rimando rivolto a lui per
cercare di rintracciare Elio MASSAGRANDE a sua volta latitante in Paraguay
(int.10.11.195, f.2).
61
62
Da BATTISTON e Roberto RAHO, Carlo DIGILIO era stato anche aiutato
economicamente durante il periodo della sua latitanza a Santo Domingo (int.7.8.1996
f.3 e 3.11.1996 f.2).
Sulla base di tali elementi questo Ufficio aveva emesso nei confronti di Pietro
BATTISTON due mandati di comparizione, uno per i reati di cui agli artt. 270 e 306
c.p. in relazione alla sua attività nel gruppo La Fenice e l’altro per il reato di cui
all’art.285 c.p. in relazione all’attentato al treno Torino-Roma (cfr. vol.1, fasc.18, ff.84
e ss. e 94 e ss.), provvedimenti rimasti tuttavia senza esito in quanto BATTISTON
risultava risiedere in Venezuela in una località sconosciuta.
La figura di BATTISTON, mai interrogato da alcuna Autorità Giudiziaria, rimaneva
quindi sfumata e sfuggente nonostante il ruolo non secondario avuto all’interno
dell’area di estrema destra.
La svolta avveniva nel settembre 1995, grazie ad una intercettazione ambientale
disposta dal P.M. di Venezia, dr. Casson, nell’abitazione di Roberto RAHO,
nell’ambito di un procedimento relativo ad un traffico di autovetture rubate che
vedeva coinvolti vari ex-ordinovisti.
BATTISTON e RAHO iniziavano, infatti, a discutere dell’evoluzione delle indagini in
corso presso l’A.G. di Milano dimostrando di essere a conoscenza, anche tramite
Lorenzo PRUDENTE, interrogato pochi giorni prima, di molti particolari sia relativi
agli sviluppi delle indagini sia direttamente concernenti i fatti che erano avvenuti negli
anni ‘70 compreso il ruolo di Carlo DIGILIO, da loro chiamato il “nonno”, incontrato
ed aiutato economicamente più volte in Venezuela durante la sua latitanza.
RAHO e BATTISTON si mostravano innanzitutto soddisfatti del fatto che Carlo
DIGILIO, pur avendo iniziato a collaborare, non avesse riferito tutto quanto a sua
conoscenza (circostanza, questa, certamente vera facendo riferimento all’autunno
1995), confermando comunque l’importanza del ruolo da lui ricoperto perchè “di cose
da dire non ne ha una, ne ha cento” (cfr. f.6 della trascrizione allegata
all’interrogatorio di BATTISTON dinanzi alla Procura di Brescia in data 6.10.1995,
vol.13, fasc.3, ff.42 e ss.).
I due, parlando liberamente degli episodi che avevano vissuto o di cui erano stati a
conoscenza, facevano quindi riferimento a vicende di minore o maggiore importanza
quali un viaggio effettuato alla trattoria Lo Scalinetto di Venezia insieme ad Angelo
ANGELI (f.3), alla fabbrica di armi impiantata da Eliodoro POMAR a Madrid (f.5), al
tentativo di rintracciare Elio MASSAGRANDE in Paraguay quando DIGILIO si
trovava in Venezuela (f.4) e soprattutto al fatto che Marcello SOFFIATI, il giorno
prima della strage di Brescia, sarebbe partito in direzione di tale città con una valigia
piena di esplosivo (f.4 della trascrizione), episodio che sarebbe stato in seguito
raccontato da Carlo DIGILIO, pur all’oscuro di tale intercettazione, negli
importantissimi interrogatori del 4 e 5 maggio 1996.
In sostanza, l’intercettazione di tale conversazione confermava che le indagini,
nel loro complesso, si stavano muovendo nella giusta direzione e che era
necessario insistere affinchè Carlo DIGILIO decidesse di raccontare anche gli
episodi più gravi di cui era stato protagonista.
62
Sentiti dal P.M. di Milano ed anche dal P.M. di Venezia nell’immediatezza
dell’intercettazione, RAHO e BATTISTON, posti di fronte al tenore inequivoco delle
loro conversazioni, rendevano dichiarazioni di grande importanza per lo sviluppo
delle indagini, dichiarazioni che tuttavia non preludevano ad una completa apertura
processuale in quanto nel giro di pochi giorni Pietro BATTISTON tornava in
Venezuela e non faceva più rientro in Italia, mentre Roberto RAHO assumeva in
seguito un atteggiamento di completa chiusura.
Sintetizzando gli argomenti toccati da Pietro BATTISTON (che saranno soprattutto
oggetto dell’indagine in corso presso la procura di Milano), questi, oltre a riferire in
merito alla propria latitanza a Venezia dal gennaio al giugno 1974 (cfr. capitolo 22
della presente ordinanza), rievocava moltissimi episodi di cui aveva appreso a
Venezia, soprattutto da Carlo DIGILIO, e che in seguito sarebbero stati confermati
dagli interrogatori che questi avrebbe ricominciato a rendere dopo la malattia che lo
aveva colpito.
Emergevano così circostanze importantissime e cioè che il gruppo di Venezia
disponeva di gelignite, di cui DIGILIO aveva cura al fine di evitarne il trasudamento
(int. al P.M. di Milano, 29.9.1995, ff.1-2), che altro esplosivo di origine bellica era
stato recuparato dalla Laguna, che il gruppo stava studiando il modo di far funzionare
al meglio i detonatori mediante una resistenza elettrica (int. citato, f.2).
Emergeva ancora che Carlo DIGILIO aveva adibito una stanza della sua abitazione
di S.Elena per la riparazione e modificazione di armi in favore del gruppo di Ordine
Nuovo e soprattutto che già durante gli incontri fra lo stesso BATTISTON, RAHO e
DIGILIO in Venezuela all’inizio degli anni ‘80, quest’ultimo aveva fatto chiari
riferimenti alla corresponsabilità del dr. Carlo Maria MAGGI nella strage di Piazza
Fontana (int. citato, f.2 e int. 3.10.1995, f.5).
Interrogato anche dai Pubblici Ministeri di Brescia titolari dell’indagine sulla
strage di Piazza della Loggia, Pietro BATTISTON confermava di avere appreso
da RAHO notizie in merito al trasporto di una borsa di esplosivo da parte di
Marcello SOFFIATI il giorno precedente la strage di Brescia ed ammetteva altre
circostanze importanti quali l’aiuto economico fornito a DIGILIO in Venezuela
durante la sua latitanza e la proprietà da parte del dr. MAGGI di una macchina
per scrivere (poi ceduta a DIGILIO) con la quale erano stati battuti i volantini
utilizzati per rivendicare falsamente con una sigla di sinistra qualche attentato
“minore” avvenuto nel Veneto, secondo una tecnica di “diversione” di cui si è
già ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio (cfr.
int. BATTISTON al P.M. di Brescia, 4.10.1995, ff.1, 2 e 4, vol.13, fasc.3).
Interrogato anche da questo Ufficio
in data 3.10.1995, Pietro BATTISTON
aggiungeva altri episodi, ammettendo di avere probabilmente ceduto una pistola
cal.7,65 a Gianni FERORELLI, di essersi recato tre volte in Svizzera con altri
camerati milanesi fra cui, in una occasione, Francesco ZAFFONI e Marco CAGNONI,
per contattare Giancarlo ROGNONI inizialmente latitante in quel Paese e di avere
incontrato Carlo DIGILIO a Madrid durante la visita di questi, nel 1975, dall’ing.
POMAR che si stava occupando della riproduzione della famosa mitraglietta (ff.4-5).
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BATTISTON ricordava anche di avere conosciuto Delfo ZORZI a Miano,
presentatogli proprio da Giancarlo ROGNONI (int. citato, f.3).
Anche Roberto RAHO, incalzato nell’immediatezza dell’intercettazione dal P.M. di
Milano, aveva reso dichiarazioni di notevole importanza, salvo poi rifiutare ogni
ulteriore rapporto con l’Autorità Giudiziaria.
In particolare RAHO aveva confermato di avere conosciuto Carlo DIGILIO tramite
Massimiliano FACHINI (personaggio in merito al quale DIGILIO ha mantenuto un
rigoroso silenzio), di avere appreso da DIGILIO le tecniche di falsificazione dei
documenti e ha confermato altresì la vicenda della macchina per scrivere,
originariamente di proprietà del dr. MAGGI, utilizzata per battere le finte
rivendicazioni di “sinistra” (cfr. int. al P.M. di Milano, 4.10.1995, ff.1-2).
Soprattutto ha confermato che il gruppo di Venezia disponeva da antica data di
notevoli quantità di gelignite e che DIGILIO, sin dai loro incontri in Venezuela,
aveva fatto riferimento alla responsabilità del dr. MAGGI in relazione alla strage
di Piazza Fontana (int. citato, f.3).
Roberto RAHO ha aggiunto di avere movimentato, sempre con l’aiuto di DIGILIO,
notevoli quantità di tritolo destinate ad entrare a far parte della dotazione della
struttura romana e ad essere utilizzate per i grandi attentati, della campagna del
1978/1979, al Campidoglio, al C.S.M. e a Regina Coeli e di avere portato a Roma
anche alcuni M.A.B. modificati, sempre da DIGILIO, tagliando parte della canna e
sostituendo il calcio originale con una impugnatura di metallo (int. citato, f.4).
In tutte queste attività era coinvolto Massimiliano FACHINI il quale, nonostante le
ripetute assoluzioni, è così rientrato ancora una volta nelle indagini relative alla
struttura occulta di Ordine Nuovo (int. citato, ff.4-5).
Tornando alla posizione di Pietro BATTISTON, non vi è dubbio che il ruolo centrale
da lui ricoperto all’interno del gruppo di Giancarlo ROGNONI quale custode del
materiale esplosivo e in seguito, sino alla fine degli anni ‘70 (e probabilmente oltre
tenendo presente i contatti tenuti con Carlo DIGILIO), il ruolo di raccordo svolto
consentendo il mantenimento dei collegamenti fra Giancarlo ROGNONI e gli altri
ordinovisti, imponga il rinvio a giudizio dell’imputato per rispondere dei reati di cui ai
capi 1 e 2 di rubrica.
Pietro BATTISTON deve invece essere prosciolto in questa sede in relazione alla
sua prospettata partecipazione all’attentato al treno Torino-Roma del 7.4.1973.
Infatti gli elementi indicati nel mandato di comparizione emesso nei suoi confronti
(l’identità dell’esplosivo rinvenuto nel dicembre 1973 nel garage Sanremo con quello
utilizzato da Nico AZZI, la presenza di BATTISTON tanto al convegno del Centro
Studi Europa a Genova nel marzo 1973 quanto alla riunione alla birreria Wienervald
di Milano il 6.4.1973 (momenti in cui il gruppo dei milanesi mise a punto i preparativi
dell’attentato), unitamente alla forte internità al gruppo di Pietro BATTISTON nel
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corso del 1973, fanno sospettare che egli sia il “quinto uomo” presente alle fasi
operative dell’episodio del 7.4.1973, di cui vi è cenno in qualche interrogatorio, quinto
uomo riuscito a sfuggire all’individuazione e alla cattura.
Si tratta tuttavia di elementi indiziari e incompleti e, in mancanza di dirette indicazioni
provenienti da collaboratori o testimoni, inidonei, vista anche la gravità del fatto, a
sostenere validamente un’accusa in giudizio.
Pietro BATTISTON deve quindi essere prosciolto in ordine al reato di cui al capo 3 di
rubrica con la formula non aver commesso il fatto.
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6
IL DEPOSITO DI ESPLOSIVI DEL GRUPPO “LA FENICE”
SOTTERRATO A CELLE LIGURE
Nico AZZI, dopo una serie di contatti con personale del R.O.S. Carabinieri, pur senza
divenire in alcuna forma un collaboratore e sottolineando sempre l’immutata fedeltà
ai propri principi ideologici, ha ritenuto giusto rivelare che un deposito di esplosivo
sotterrato del gruppo La Fenice esisteva ancora nell’entroterra ligure, nel territorio del
comune di Sanda, non lontano dalla villetta di proprietà di Giancarlo ROGNONI a
Celle Ligure.
Tale deposito (da cui provenivano sia i panetti di tritolo utilizzati per l’attentato al
treno del 7.4.1973 sia le bombe a mano SRCM lanciate durante la manifestazione in
cui fu ucciso l’agente Antonio Marino; int. AZZI, 10.2.1995, f.2), la cui esistenza era
nota solo a lui, ROGNONI e Francesco DE MIN e che con ogni probabilità non era
stato più toccato dopo l’arresto di AZZI nell’aprile 1973 e la fuga all’estero di
ROGNONI, consisteva in tre contenitori di plastica, occultati in una buca di scarsa
profondità con assi di legno poste nel fondo della stessa, contenenti detonatori al
fulminato di mercurio e bombe a mano SRCM, rubate dallo stesso AZZI presso la
Caserma di Imperia ove aveva prestato il servizio militare, alcune munizioni ed
esplosivo del tipo ANFO utilizzato nelle cave (int. AZZI, 10.2.1995 ff.3-4 e rapporto
del R.O.S. Carabinieri in data 15.10.1994, f.2).
Nico AZZI si era reso anche disponibile a tentare l’individuazione e il recupero di tale
deposito, ma il sopralluogo effettuato il 12.10.1994 da lui insieme a personale del
R.O.S. dava esito solo parzialmente positivo in quanto, pur essendo stato individuato
il casolare ove si trovava il deposito, non era stato più possibile localizzare il punto
esatto dell’interramento essendo venuti meno, a oltre vent’anni di distanza, per i
numerosi incendi che avevano toccato la zona e per la conseguente modifica della
vegetazione, i punti di riferimento ricordati da AZZI.
Si riteneva inoltre inutile proseguire le ricerche con mezzi tecnici sofisticati quali
metal-detector sia per la presenza nel terreno di minerali ferrosi, che avrebbero
comunque reso lunga e costosa la ricerca, sia perchè lo stato di abbandono della
zona esclude comunque che l’esistenza del deposito possa costituire un pericolo per
l’incolumità di qualcuno.
Francesco DE MIN, sentito in qualità di indiziato in data 18.3.1995, ha ammesso di
essere al corrente dell’esistenza del deposito di esplosivo, sostenendo tuttavia di
esserne venuto a conoscenza quando il suo allestimento era già avvenuto.
In particolare, nel marzo 1973 quando, poche settimane prima del fallito attentato al
treno Torino-Roma, tutto il gruppo aveva partecipato al convegno a Genova del
Centro Studi Europa, egli, con la sua autovettura, aveva accompagnato AZZI e
ROGNONI sino a Celle Ligure e poi a piedi i tre avevano raggiunto la località isolata
ove era stato sotterrato il materiale.
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Secondo DE MIN in tale occasione ROGNONI ed AZZI intendevano solo verificare lo
stato dei luoghi e controllare che non vi fossero pericoli di deterioramento, cosicchè il
gruppo si era limitato a guardare a livello superficiale senza scavare sin nel punto
ove si trovavano i contenitori (int. citato, f.2).
Anche Mauro MARZORATI, seppure con toni più sfumati, ha dichiarato di aver
appreso, durante un’esercitazione effettuata proprio nell’entroterra di Celle Ligure
con ROGNONI, AZZI, DE MIN e altri camerati, che in quella zona esisteva un
deposito di esplosivo o qualcosa del genere di pertinenza del gruppo (dep.
31.3.1995, f.2).
Inoltre Biagio PITARRESI ha riferito che, all’inizio degli anni ‘70, ROGNONI gli
aveva confidato che nell’entroterra di Celle Ligure era stato sotterrato dell’esplosivo,
fornendo a PITARRESI anche gli essenziali punti di riferimento.
Biagio PITARRESI, qualche tempo dopo, si era recato sul posto con un altro
camerata per allenarsi all’uso delle armi da fuoco e aveva cercato di individuare il
deposito, senza tuttavia riuscirci (dep. 9.9.1986, ff.2-3).
Giancarlo ROGNONI, come prevedibile, ha escluso di sapere alcunchè di tale
deposito di esplosivo (int. 22.12.1995, f.2), ma la circostanza più interessante in
proposito è comunque emersa da un interrogatorio di Martino SICILIANO:
“””Io sono stato ospite nella casa di ROGNONI a Celle Ligure per uno o due
giorni dopo il mio matrimonio con Ada Giannatiempo, nel 1971.
Nell'occasione ROGNONI mi confidò che, non distante dalla sua casa, verso
l'interno di Celle Ligure, in una zona impervia, avevano costituito un deposito
di armi ed esplosivi sottoterra.
Faccio presente che la casa di Rognoni a Celle Ligure si trovava alla periferia
del paese, verso l'interno, e subito alle sue spalle ci sono le montagne.
Parlai per caso con Bobo LAGNA di questa circostanza ed egli mi disse che non
solo non c'era più la casa di Celle Ligure, ma anche che il deposito di esplosivo
e munizioni, pur ancora esistente, non era più raggiungibile perchè l'assetto del
territorio era cambiato e non era più possibile orientarsi.
Bobo Lagna, a Mestre, era colui che si occupava di tenere i contatti con Anna
Cavagnoli quando Rognoni era detenuto e quindi anche delle iniziative di aiuto
in suo favore ed evidentemente in tale contesto egli aveva appreso del deposito.
Del resto Lagna aveva frequentato a Mestre Pietro BATTISTON che veniva a
Venezia con una certa frequenza”””.
(SICILIANO, int.18.3.1996, f.6).
La circostanza riferita da Martino SICILIANO è assai significativa in quanto, tenendo
presente che Bobo LAGNA (deceduto nel 1993) era uno degli uomini di fiducia di
Delfo ZORZI, la conoscenza da parte del gruppo mestrino del deposito di esplosivo
allestito da Giancarlo ROGNONI e dagli altri milanesi evidenzia ancora una volta la
sinergia operativa di antica data fra i due gruppi.
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Si aggiunga infine che durante il sopralluogo con il personale del R.O.S. finalizzato
ad individuare il punto ove era sepolto l’esplosivo, Nico AZZI aveva fatto agli operanti
varie affermazioni di rilievo fra cui il fatto che l’episodio del progettato deposito dei
timers nella proprietà di FELTRINELLI corrispondeva a verità (ed egli stesso avrebbe
dovuto avere una parte nell’operazione) e il fatto che negli ambienti di destra
qualificati fosse notorio che il trasferimento di Delfo ZORZI in Giappone si
ricollegasse ad una sua paura di essere coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza
Fontana (rapporto R.O.S. citato, 15.10.1994, f.3).
L’utilizzo processuale di tali affermazioni è tuttavia assai problematico in quanto nè
queste nè altre sono state formalizzate da Nico AZZI in sede di interrogatorio.
Analoga è la situazione in merito a quanto riferito in seguito da Nico AZZI circa
la materiale responsabilità di Delfo ZORZI nell’attentato all’Università Statale
di Milano, effettuato anche grazie ad un sopralluogo sull’obiettivo svolto con
l’aiuto e la presenza dello stesso AZZI (cfr. nota R.O.S. in data 8.2.1995, f.1).
L’attentato cui ha fatto cenno AZZI, avvenuto il 1°.2.1971, è un episodio di notevole
gravità in quanto un potente ordigno aveva devastato alcuni locali nella zona
biblioteca e nella zona parcheggio dell’Università, sul lato di Via Francesco Sforza
(vol.8, fasc.9).
L’arresto di Nico AZZI nel luglio 1997, nell’ambito dell’indagine nuovo rito, per il reato
di testimonianza reticente (arresto peraltro giudicato erroneo dal Tribunale del
Riesame in quanto AZZI non poteva rivestire la qualità di testimone, bensì quella di
imputato di reati connessi), non sembra certo avere facilitato la formalizzazione
processuale di tali elementi e l’unico dato utilizzabile in merito all’attentato
all’Università Statale resta, allo stato, la testimonianza di Biagio PITARRESI.
Questi, infatti, ha dichiarato di avere partecipato con altri camerati, pochi giorni dopo
il fatto, ad un presidio all’Università Cattolica in quanto si temevano azioni di
ritorsione da parte degli studenti di estrema sinistra dell’Università Statale e che
nell’occasione Nico AZZI aveva esplicitamente rivendicato a sè e al suo gruppo
l’attentato di pochi giorni prima (int. PITARRESI, 9.9.1996, f.3).
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7
LE DICHIARAZIONI DI EDGARDO BONAZZI
IN MERITO AL GRUPPO “LA FENICE”
E ALLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA
L’esposizione della vicenda connessa al deposito di esplosivi di Celle Ligure
consente di introdurre il tema delle dichiarazioni rese da Edgardo BONAZZI non solo
in merito a tale episodio e più in generale in merito alle attività del gruppo di
ROGNONI, ma soprattutto su alcune circostanze, di grandissimo rilievo, legate agli
attentati del 12.12.1969.
Tali dichiarazioni hanno infatti permesso di collegare in modo molto saldo l’attività di
Giancarlo ROGNONI con quella del gruppo veneto e costituiscono uno dei più
importanti pilastri di riscontro a quelle, più dirette e interne di Carlo DIGILIO e Martino
SICILIANO.
Edgardo BONAZZI, infatti, non è un ordinovista e non è mai stato coinvolto
personalmente negli episodi della c.d. strategia della tensione e nelle stragi.
Appartenente all’ala “dura” del M.S.I. di Parma, Edgardo BONAZZI si è reso
responsabile, nel 1972, insieme ad altri camerati, dell’omicidio di un giovane
aderente a Lotta Continua durante uno scontro fra elementi di opposte tendenze
politiche.
Arrestato e condannato ad una lunga pena detentiva, egli, fino alla metà degli anni
‘80, ha condiviso la carcerazione con soggetti dello spessore di FREDA,
CONCUTELLI, AZZI e GIANNETTINI in vari carceri speciali, apprendendo da essi, in
quanto considerato un camerata affidabile, una notevole mole di notizie su tutti i fatti
di strage e di eversione.
A partire dal 1994, Edgardo BONAZZI, prima con una serie di colloqui
investigativi con personale del R.O.S. Carabinieri e poi, in sede di formale
testimonianza dinanzi a questo Ufficio e ad altre Autorità Giudiziarie, ha deciso
con sempre maggiore determinazione di rivelare quanto a sua conoscenza
sulla base di una profonda revisione critica dell’esperienza politica del mondo
dell’estrema destra.
Egli ha infatti più volte sottolineato che il vincolo della “fedeltà” fra camerati non può e
non deve essere mantenuto ogniqualvolta le notizie apprese riguardino
responsabilità personali o di gruppo su fatti di strage, episodi come tali estranei a
qualsiasi forma di antagonismo politico anche deciso e caratterizzati, come lo stesso
BONAZZI aveva avuto modo di rendersi conto in carcere, da complicità del mondo
della destra con apparati istituzionali che erano in grado di manipolarne ed utilizzarne
i militanti.
Fatta questa premessa in merito al senso della riflessione di Edgardo BONAZZI, la
sua dissociazione si è concretizzata in una serie di deposizioni di cui devono essere
69
70
riportati i punti salienti, alcuni dei quali già in parte accennati nella prima sentenzaordinanza di questo Ufficio:
- aveva appreso da Nico AZZI che il gruppo La Fenice disponeva di un deposito di
esplosivi e bombe a mano sotterrato in una località impervia della Liguria, deposito
certamente da identificarsi in quello di Celle Ligure indicato da AZZI (cfr. dep.
7.10.1994, f.3; 4.2.1995, f.2).
- AZZI e il suo gruppo erano altresì responsabili di un attentato fallito in danno di una
cooperativa in occasione del quale i camion della stessa erano stati “minati” tutti
insieme tramite ordigni collegati da una miccia detonante (dep. 7.10.1994, f.3).
Il fallito attentato è certamente da identificarsi nell’episodio in danno della COOP di
Bollate del marzo 1973, episodio già indicato nel c.d. documento AZZI e ampiamente
trattato nella prima sentenza/ordinanza di questo Ufficio (capitolo 11);
- l’attentato in danno del treno Torino-Roma del 7.4.1973 non era l’unico progettato in
quel periodo dal gruppo La Fenice.
Era stato infatti progettato un attentato all’Università Cattolica che certamente
avrebbe avuto gravissime conseguenze e la cui responsabilità, come quella
dell’attentato sul treno, avrebbe dovuto ricadere sui gruppi di estrema sinistra.
Nico AZZI si era tuttavia opposto alla realizzazione di tale azione e il progetto era
stato quindi abbandonato (dep.4.2.1995, f.2);
- sempre da Nico AZZI, Edgardo BONAZZI aveva appreso in carcere che Pino
RAUTI, capo di Ordine Nuovo, era da molto tempo in contatto con i servizi di
sicurezza e di conseguenza l’attività di Ordine Nuovo era in qualche modo
eterodiretta (dep. 15.3.1994, f.2);
- corrispondeva a verità, secondo le confidenze di Nico AZZI e Guido GIANNETTINI,
il progetto di far ritrovare i timers in una villa di proprietà di Giangiacomo
FELTRINELLI.
Tale progetto, citato proprio nel famoso documento attribuito a Nico AZZI e
anch’esso trtattato ampiamente nella prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio
(capitolo 11), aveva la finalità di ricostituire, dopo l’arresto di FREDA e VENTURA,
una pista di sinistra per gli attentati del 12.12.1969.
Edgardo BONAZZI ha anche aggiunto un particolare di grande interesse e cioè
che tale provocazione era stata personalmente ispirata da Pino RAUTI,
anch’egli coinvolto nelle prime indagini sviluppatesi a Treviso e a Milano sulla
strage (dep.15.3.1994, f.3; 7.10.1994, f.2; 25.2.1995, f.3) e quindi obiettivamente
interessato ad azioni diversive che creassero difficoltà all’istruttoria in corso;
- tale progetto in danno dell’editore FELTRINELLI non era stato, in quel periodo,
l’unico.
Nico AZZI era stato infatti incaricato dai servizi di sicurezza di recarsi in Austria, ove
l’editore disponeva di una villa, per eliminarlo a colpi di pistola.
Il tentativo era fallito in quanto la vittima non era stata intercettata (dep. 7.10.1994,
f.2; 25.2.1995, f.3);
Tale tentativo, appreso direttamente da Nico AZZI, si colloca sull’identica linea
d’onda del tentativo operato, sempre in Austria, dal veneziano Marco FOSCARI e da
70
Martino SICILIANO e ampiamente descritto negli interrogatori di quest’ultimo (int.
19.10.1994, f.7; 20.10.1997, f.3);
- sempre con riferimento alla centrale questione dei timers usati per gli attentati del
12.12.1969, Edgardo BONAZZI aveva appreso da Pierluigi CONCUTELLI che
Franco FREDA, nel carcere di Trani, nel 1978, gli aveva chiesto se fosse stato
disponibile, nell’ambito del processo di Catanzaro, a farsi passare per il Capitano
HAMID e cioè colui al quale FREDA. secondo l’originaria versione difensiva, avrebbe
consegnato i 50 timers nel settembre 1969.
In tal modo, pur dovendo sostenere un non facile mutamento di versione, FREDA
avrebbe comunque allontanato da sè la pericolosissima disponibilità fisica dei timers
utilizzati nel dicembre 1969.
Pierluigi CONCUTELLI aveva però rifiutato la proposta, anche perchè avrebbe
screditato la sua figura di “combattente rivoluzionario” e non di “stragista” e da quel
momento si era peraltro convinto della colpevolezza di FREDA allentando i rapporti
con lui (dep. 15.3.1994, f.3);
- con riferimento all’esecuzione degli attentati del 12.12.1969, GIANNETTINI, nel
carcere di Nuoro, aveva confidato a BONAZZI che gli attentati erano collegati ad un
imminente progetto golpista, ma che gli esiti gravissimi della strage di Milano, non
previsti da chi l’aveva organizzata, avevano di fatto penalizzato il progetto in quanto
la risposta del Paese era stata troppo forte e di segno contrario rispetto a quello
atteso (dep. 15.3.1994, f.4);
- sempre durante la comune detenzione e pur con grande cautela, limitandosi a
cenni allusivi, in un primo momento nel 1975 FREDA e in seguito nel 1979/1980
AZZI e GIANNETTINI, avevano fatto capire a BONAZZI che il taxista ROLANDI era
stato un testimone soggettivamente in buona fede, ma che la persona da lui vista sul
taxi non era VALPREDA, bensì un militante di destra che gli assomigliava molto e
che era stato utilizzato per tale specifico compito (dep. 15.3.1994, f.4; 7.10.1994, f.2).
Si trattava, secondo gli accenni di AZZI poi confermati più precisamente da
CONCUTELLI nel 1981 nel carcere di Novara, di un ex-legionario di origine siciliana
frequentatore dell’ambiente milanese del M.S.I. e noto, anche per la comune origine
geografica, allo stesso CONCUTELLI (dep. 7.10.1994, f.2; 25.2.1995, ff.1-2);
- sempre da Nico AZZI, di cui BONAZZI ha più volte sottolineato la serietà e la
credibilità come militante, , aveva appreso che l’appoggio logistico a Milano
per coloro che erano giunti per eseguire gli attentati era stato fornito da
Giancarlo ROGNONI.
Ciò era stato facilitato dal fatto che ROGNONI aveva lavorato nella filiale della Banca
commerciale (ove era stata rinvenuta, in un sottopassaggio, la seconda bomba
inesplosa) e quindi aveva potuto fornire a chi stava per entrare in azione la
descrizione della struttura interna della filiale e le indicazioni utili a collocare l’ordigno
nel punto più adatto (dep. 7.10.1994, f.3; 4.2.1995, f.3; 25.2.1995, f.3).
Giancarlo ROGNONI, che secondo AZZI, dopo gli attentati, aveva subito temuto di
essere individuato e inquisito, ha effettivamente lavorato quale cassiere, per alcune
settimane, presso la filiale di Piazza della Scala della Banca Commerciale e nel
dicembre 1969 era ancora dipendente di un’altra filiale dello stesso istituto di credito
(cfr. nota della Digos di Milano in data 31.10.1994, vol.8, fasc.12).
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Poche settimane dopo gli attentati del 12.12.1969, Giancarlo ROGNONI, il 5.1.1970,
senza specificarne le ragioni, si era improvvisamente dimesso dal suo impiego
presso l’istituto;
- la rivelazione più importante e conclusiva contenuta nelle dichiarazioni di
Edgardo BONAZZI è tuttavia giunta con la deposizione resa in data 22.2.1996
dinanzi a personale del R.O.S. Carabinieri, nell’ambito della quale il testimone
ha fornito altri particolari a sua conoscenza in merito non solo agli attentati
del 12.12.1969, ma anche alle stragi successive sino a quella alla Stazione di
Bologna.
Dopo avere premesso che non gli era stato possibile dire in precedenza tutto quanto
a sua conoscenza per le “naturali remore” esistenti nei confronti di persone con cui
aveva condiviso difficili momenti di detenzione, remore che avevano comportato del
tempo per far maturare una completa deposizione (dep. citata, f.1), Edgardo
BONAZZI ha rivelato l’ultima e decisiva notizia appresa da Nico AZZI durante le
discussioni avvenute sul tema delle stragi, discussioni facilitate dal carisma che lo
stesso BONAZZI, nel corso degli anni, aveva acquisito all’interno dell’area dei
detenuti di estrema destra.
Nico AZZI gli aveva esplicitamente detto che Delfo ZORZI era stato l’autore
materiale della strage di Piazza Fontana, mentre gli attentati romani di quella
stessa giornata erano stati “curati da uomini di Stefano DELLE CHIAIE ”.
Quest’ultimo, tuttavia, aveva previsto solo attentati di valenza simbolica poichè eventi
più gravi e sanguinosi, come erano avvenuti per una variazione del programma
operativo, avrebbero reso più difficile la partenza del progetto golpista che avrebbe
dovuto scattare subito dopo gli attentati e che era stato in effetti abbandonato e
ripreso solo l’anno successivo con il tentativo del Principe Junio Valerio BORGHESE
(dep. citata, f.2).
Sempre secondo il racconto di AZZI, gli elementi veneti che avevano operato
avevano usufruito di una base a Milano per l’ultimo innesco dei timers e tali
notizie erano state confermate a BONAZZI anche da Guido GIANNETTINI,
unitamente all’indicazione del ruolo di Pino RAUTI quale coordinatore sia del
gruppo veneto sia del gruppo “La Fenice”.
Inoltre BONAZZI aveva appreso, nel 1975 da Franco FREDA, che questi conosceva
molto bene Delfo ZORZI e che era amareggiato poichè “riteneva l’allontanamento
dall’Italia di ZORZI una defezione” (dep. citata, f.3).
In proposito si ricordi, del resto, che Guido GIANNETTINI, pur mantenendo un
atteggiamento di sostanziale “chiusura” in relazione alle nuove emergenze
processuali, ha raccontato di essersi incontrato con Franco FREDA a Roma, nel
1968 o 1969, per ragioni connesse all’infiltrazione del gruppo di FREDA all’interno
dell’estrema sinistra e, in tale occasione, di averlo accompagnato in Via del Corso
ove FREDA si era incontrato con un giovane camerata veneto presentato a
GIANNETTINI con il nome di ZORZI (int. GIANNETTINI, 17.3.1995, f.2).
Franco FREDA, sentito da questo Ufficio in merito alle nuove emergenze processuali
e ai reati prospettabili nei suoi confronti in relazione all’arsenale custodito nel
casolare di Paese, ha cercato di spostare la data della sua conoscenza con Delfo
72
ZORZI al 1970, e cioè ad un momento successivo agli attentati (int.14.10.1994, f.3),
ma è stato ulteriormente smentito dall’esame di una delle sue agende sequestrate
nel corso della prima istruttoria e ancora allegata agli atti del processo di Catanzaro.
Infatti in tale agenda è appuntato l’indirizzo di Delfo ZORZI a Napoli, corrispondente
al luogo ove egli abitava nel 1968 appena giunto in tale città per seguire il corso di
Lingue Orientali , e altresì il numero di telefono di casa e d’ufficio del padre di ZORZI,
a Mestre, risalente ad un momento precedente il 1969, a conferma di quanto stretti e
assidui fossero i rapporti fra i due negli anni decisivi per i fatti oggetto delle indagini in
corso (cfr. vol.18, fasc.2, f.227).
Tornando alle dichiarazioni di Edgardo BONAZZI, successivamente alle deposizioni
ora esposte nei loro contenuti salienti, che collegano fermamente ROGNONI a
ZORZI e ZORZI a FREDA, il testimone, anche dinanzi alle altre Autorità Giudiziarie
competenti, ha reso ulteriori dichiarazioni di grandissima portata per le indagini
relative alla strage di Brescia e di notevole interesse per le indagini relative alla
strage di Bologna.
Non è certo questa la sede per analizzare tali ultime dichiarazioni, mentre sembra
opportuno spendere qualche parola sulla posizione assunta da Nico AZZI, fonte della
parte più rilevante delle notizie riferite da Edgardo BONAZZI.
Nico AZZI, sentito alcune volte da questo Ufficio e più a lungo e più
approfonditamente, anche in confronto con Edgardo BONAZZI, dalla Procura della
Repubblica nell’ambito della nuova indagine sulla strage di Piazza Fontana, ha
confermato. solo in parte e non nei loro profili salienti, le dichiarazioni del suo excompagno di detenzione.
Tuttavia, per quanto è possibile esporre in sintesi in questa sede, egli non ha, in linea
generale, smentito BONAZZI accusandolo di avere fatto dichiarazioni di fantasia o
non corrispondenti al vero, ma ha sostanzialmente e più volte ribadito di non poter o
voler offrire conferme in quanto ciò avrebbe comportato danneggiare la posizione di
camerati e di rompere il vincolo ideologico e di amicizia che tuttora unisce AZZI
all’ambiente dei camerati ex-ordinovisti, vincolo che non consente una
formalizzazione processuale delle proprie conoscenze dinanzi a qualsivoglia
Autorità Giudiziaria.
Certamente anche Nico AZZI è ben lontano dal condividere la scelta delle stragi e
degli attentati sanguinosi come metodo di lotta politica ed ha anch’egli operato sulla
storia dell’estrema destra personali riflessioni critiche, ma, almeno sino a questo
momento, sembra ritenere che il dibattito e la critica in merito a tali avvenimenti
debbano restare interni al mondo che, direttamente e indirettamete, ne è stato
protagonista.
E’ comunque evidente che la sostanziale “non smentita” da parte di Nico AZZI,
testimone di riferimento, delle affermazioni di Edgardo BONAZZI, rende queste
ultime pienamente utilizzabili sul piano processuale e affidabili, soprattutto nel
momento in cui , pur muovendosi da un diverso punto di vista e cioè quello
delle dinamiche carcerarie all’interno del ristretto mondo dei detenuti di
estrema destra, si integrano comunque perfettamente con la descrizione
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74
diretta degli avvenimenti offerta da Carlo DIGILIO, Martino SICILIANO e Tullio
FABRIS.
Vi è solo da rammaricarsi che la decisione di Edgardo BONAZZI di “dissociarsi” non
sia maturata prima e cioè quando erano ancora in corso i grandi processi relativi alle
stragi e all’eversione di destra.
Infatti, sia nel corso delle istruttorie e dei dibattimenti riguardanti la strage di Piazza
Fontana sia in altri procedimenti riguardanti altri gravi episodi di strage, alcuni
collaboratori, sovente e forse con troppo scetticismo non creduti, e soprattutto Sergio
CALORE e Angelo IZZO avevano indicato in Edgardo BONAZZI colui che avrebbe
potuto confermare molte delle loro più importanti affermazioni, ma il silenzio e
l’atteggiamento di negazione mantenuti all’epoca da BONAZZI non avevano
consentito di acquisire conferme forse decisive all’interno delle dinamiche
processuali.
Se la scelta di BONAZZI fosse intervenuta in tale fase, quando la partita
processuale era ancora aperta, forse l’esito di alcuni dibattimenti sarebbe stato
diverso.
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8
LA PRESENZA DI SILENZIATORI
NELL’ABITAZIONE DI GIANCARLO ROGNONI
Di notevole interesse è la presenza in casa di Giancarlo ROGNONI, a Milano, di
alcuni silenziatori provenienti da Venezia, notati da Martino SICILIANO durante uno
dei periodi in cui ROGNONI lo aveva ospitato:
“””...anch'io ho visto in casa di Giancarlo ROGNONI, a Brusuglio, alcuni
silenziatori, che provenivano certamente dalla nostra dotazione di
Mestre/Venezia, nonchè una pistola cal.7,65 adattata per il silenziatore.
A fine del 1970, inizio 1971, poco prima di sposarmi, sono stato come già ho
detto, a lungo ospite di Giancarlo ROGNONI.... Ricordo che in alcune
occasioni vidi, nel cassetto inferiore di un mobile/libreria, alcuni silenziatori,
direi due o tre, esattamente identici a quelli che avevo molte volte maneggiato a
Mestre.
Erano cioè i tubi di metallo brunito lunghi 18/20 centimetri con ad una
estremità l'apertura per la bocca da fuoco e dall'altro la vite cava che doveva
essere avvitata alla canna.
Erano esattamente identici appunto ai silenziatori che avevamo a Mestre,
quelli con all'interno dischi di feltro e molle che venivano fabbricati da
DIGILIO e passati a ZORZI perchè passassero nella dotazione del gruppo.
Erano artigianali, ma fatti bene e ZORZI più volte ci aveva spiegato che erano
più funzionali e più affidabili rispetto a quelli che si potevano comprare in
Svizzera dove erano in libera vendita poichè questi ultimi avevano all'interno
della lana di vetro che dopo una ventina di colpi si compattava all'interno
perdendo così l'effetto silenziante.
Non aveva portato io a ROGNONI i silenziatori che avevo visto a casa sua e
che quindi lui aveva avuto tramite qualcun altro del nostro gruppo, con ogni
probabilità dallo stesso Delfo ZORZI.
Nel medesimo periodo vidi anche una pistola Beretta cal.7,65, con la canna
filettata, che era specificamente di proprietà di ROGNONI.... Sempre parlando
in tema di silenziatori, Delfo ZORZI mi spiegò perchè ZIO OTTO, cioè
DIGILIO, per consentire l'utilizzo di tale strumento, doveva ridurre il calibro
dell'arma da 9 a 7,65.
Infatti la canna delle pistole Beretta non sporge dal carrello abbastanza per
poterci avvitare, una volta filettata, il silenziatore.
Allora DIGILIO sostituiva la canna cal.9 con una canna cal.7,65, più piccola,
in modo da ricavare tra canna e carrello lo spazio necessario tale da potervi
infilare, senza incastrarlo, e avvitare il silenziatore.
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76
Un paio di volte accompagnai Delfo ZORZI sino al palazzo dove abitata ZIO
OTTO, a Sant'Elena, in quanto ZORZI doveva incontrarlo appunto per
consegnargli o ritirare da lui armi.
Proprio per quanto motivo, del resto, avevamo fatto il tragitto a piedi da
Piazzale Roma a Sant'Elena in quanto trasportare armi sul vaporetto, che è
sempre affollato, non era consigliabile per ragioni di sicurezza.
In entrambe le occasioni, tuttavia, Delfo mi chiese di aspettare ad una certa
distanza dal palazzo e di aspettarlo.
Avevamo con noi delle borse per il trasporto delle armi....”””.
(SICILIANO, int. 18.7.1996).
Si noti che la presenza nell'abitazione di Giancarlo ROGNONI di alcuni
silenziatori provenienti dal gruppo di Mestre/Venezia è un dettaglio della
massima importanza.
Testimonia infatti che le due cellule, quella milanese e quella veneziana,
avevano, sin dal periodo in cui furono organizzati i più gravi attentati, una
comune operatività e si muovevano secondo una strategia comune.
Del resto Delfo ZORZI, come ricordato da Martino SICILIANO, nell'autunno 1969
era stato ospite di Giancarlo ROGNONI e in quei giorni si era con ogni
probabilità concretizzata la possibilità per il gruppo veneto di disporre di un
appoggio logistico e di poter operare con garanzia di sicurezza sul territorio
milanese.
Giancarlo ROGNONI, seguendo la sua consueta linea difensiva di negazione di
qualsiasi episodio compromettente in cui potesse essere stato coinvolto durante la
sua militanza, ha negato di avere ricevuto silenziatori da Venezia affermando che
non intendeva invece rispondere in merito “all’eventuale detenzione di arnesi di quel
genere in altre circostanze o ricevuti da altre persone” (int. 6.9.1996, f.2).
Ha ammesso di avere ospitato varie volte Martino SICILIANO nella sua casa di Via
Brusuglio e anche di avere conosciuto e ospitato Delfo ZORZI, spostando tuttavia di
qualche mese avanti nel tempo il suo rapporto con ZORZI al fine, probabile, di
collocare l’inizio di tale imbarazzante conoscenza nel 1970 e non nel cruciale 1969
(int. citato, f.2).
I suoi rapporti con il gruppo veneziano sin dall’estate 1969 sono peraltro testimoniati
non solo da Martino SICILIANO, che ha fra l’altro ricordato con chiarezza le
circostanze del probabile primo incontro a Milano, alla Stazione Centrale, fra
ROGNONI e ZORZI (cfr. int. 28.8.1996, f.5), ma anche da Giancarlo RADICE, ospite
nella villa di Marco FOSCARI, a Mira di Ricossa, nel luglio 1969 insieme a molti
veneziani, che ha anch’egli ricordato in modo vivido la presenza di Giancarlo
ROGNONI in quei giorni (e in particolare il 24.7.1969, giorno del primo sbarco sulla
Luna) nella villa (cfr. dep. RADICE 23.10.1994, ff.1-2 e 10.3.1996, f.3).
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9
LE DICHIARAZIONI DI MARZIO DEDEMO
IN MERITO AI RAPPORTI FRA MAGGI E ROGNONI
DURANTE LA LATITANZA DI QUEST’ULTIMO IN SPAGNA
Il ruolo, pur secondario, svolto da Marzio DEDEMO nelle vicende oggetto della
presente istruttoria costituisce un’altra testimonianza diretta della stabilità di contatti
intrattenuti fra il dr. MAGGI e Giancarlo ROGNONI e del permanere degli stessi
anche quando ROGNONI si era rifugiato in Spagna per sfuggire al mandato di
cattura emesso nei suoi confronti in relazione all’attentato al treno Torino-Roma del
7.4.1973.
Marzio DEDEMO è cognato di Carlo DIGILIO avendone sposato, nel 1975, la
sorella Rachele.
Anche sul piano delle semplici vicende anagrafiche, la sua persona rappresenta un
ponte fra l’ambiente veneziano e l’ambiente milanese.
Aveva infatti risieduto a Venezia sino al 1974 e a partire da tale data si era trasferito
a Milano lavorando anche, non a caso, nel garage Sanremo di proprietà della
famiglia BATTISTON.
Uomo di fiducia, per le sue capacità pratiche, del più rappresentativo cognato e un
po’ di tutto l’ambiente che intorno a MAGGI e DIGILIO gravitava, Marzio DEDEMO si
era reso disponibile, pur senza diventare un militante di Ordine Nuovo, ad una serie
di attività lecite e illecite di supporto, instaurando anche a Milano, nella seconda metà
degli anni ‘70, rapporti sia con i superstiti del gruppo ROGNONI sia con i militanti di
destra come Lorenzo PRUDENTE e Luca CERIZZA, che costituivano la rete di
appoggio alla latitanza di Gilberto CAVALLINI.
In particolare Marzio DEDEMO, alla fine degli anni ‘70, aveva collaborato con
DIGILIO nell’acquisto di notevoli quantità di armi cedute illegalmente dall’armiere
Giovanni TORTA e rivendute poi, dopo la punzonatura del numero di matricola, in
parte alla malavita comune e in parte, tramite l’intermediazione del dr. MAGGI, a
Gilberto CAVALLINI che doveva in quel periodo rafforzare la dotazione del suo
gruppo (cfr. ampiamente il capitolo 23 della presente sentenza-ordinanza).
Per tali reati, scoperti a seguito del casuale rinvenimento di alcune armi e della
successiva confessione di Giovanni TORTA, Marzio DEDEMO era stato condannato
dal Tribunale di Milano, il 25.2.1986, alla pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione (cfr.
sentenza acquisita agli atti, vol.19, fasc.1), anche se non era stato possibile,
all’epoca, provare con certezza che parte delle armi fossero state cedute, tramite il
dr. MAGGI, ai terroristi neri di Gilberto CAVALLINI e di conseguenza sul punto era
intervenuta una parziale assoluzione per insufficienza di prove.
Nell’ambito della presente istruttoria Marzio DEDEMO, uso a condividere, per
così dire, nel bene e nel male le scelte del suo più autorevole cognato, ha
confermato in una serie di dichiarazioni rese prima a personale del R.O.S.
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Carabinieri e poi a questo Ufficio, nei limiti delle sue conoscenze, alcune
circostanze riferite da DIGILIO, aggiungendo il racconto di alcuni episodi che
lo avevano visto, in genere per conto del dr. MAGGI, quale diretto protagonista.
In primo luogo Marzio DEDEMO ha ammesso di avere venduto a Gilberto
CAVALLINI, fra il 1978 e il 1981, una quindicina di armi nuove e di notevole potenza
utilizzando, quale canale di approvvigionamento, le cessioni fuori registro effettuate
dall’armiere Giovanni TORTA (dep. a personale R.O.S., 15.11.1995, ff.1-2; int. a
questo Ufficio, 10.4.1997, f.5).
Altri episodi di maggior interesse per la presente istruttoria riguardano limitate ma
significative attività operative o di comunicazione di informazioni per conto del dr.
Carlo Maria MAGGI:
- nell’estate del 1973 Anna CAVAGNOLI, moglie di Giancarlo ROGNONI, aveva
subìto una gravissima aggressione a colpi di chiave inglese, ad opera di estremisti di
sinistra, all’interno del suo negozio di camicie.
In quel momento Giancarlo ROGNONI era già latitante all’estero e, in tale situazione
di confusione, era prospettabile che dalle persone vicine a ROGNONI e ancora
operanti a Milano partissero pesanti azioni di ritorsione con esiti imprevedibili.
Il dr. MAGGI aveva allora immediatamente dato disposizione a DEDEMO di
raggiungere Milano portando il suo ordine personale ai camerati de “La Fenice” di
non compiere alcuna azione di rappresaglia.
Marzio DEDEMO era subito partito per Milano e aveva incontrato vari militanti fra cui
BATTISTON, ZAFFONI, Cesare FERRI e Cinzia DI LORENZO comunicando loro
l’ordine del dr. MAGGI che venne assolutamente rispettato (dep. 15.11.1995, f.3, e
int. 10.4.1997, ff.2-3).
L’episodio, pur secondario, testimonia la solidità del vincolo gerarchico esistente
all’interno di Ordine Nuovo e il ruolo di preminenza rivestito dal dr. MAGGI anche nei
confronti di ROGNONI e della struttura milanese;
- nel medesimo periodo DEDEMO era stato incaricato dal dr. MAGGI di fare da
scorta armata, in due occasioni, a importanti esponenti di destra, provenienti da altre
città, che dovevano recarsi a Padova nella zona dell’Università.
Per tali azioni di “tutela”, il dr. MAGGI aveva personalmente fornito a DEDEMO due
ottime armi, una Franchi-Llama modello PYTON e una Browning bifilare, restituite da
DEDEMO dopo l’esito positivo delle missioni organizzate con criteri altamente
professionali (dep. 22.1.1996, ff.3-4; int. 10.4.1997, f.4).
Dalle dichiarazioni di Martino SICILIANO è emerso che era proprio SICILIANO, pur
conosciuto solo di vista da DEDEMO, uno degli altri militanti che avevano partecipato
a tale servizio di “scorta” armata e che uno dei dirigenti scortati era molto
probabilmente il prof. Paolo SIGNORELLI (int. SICILIANO, 2.8.1996, ff.1-2);
- anche in favore del dr. MAGGI, a Venezia, DEDEMO aveva svolto il ruolo di
“guardaspalle” e due volte lo aveva inoltre accompagnato a Milano a bordo
dell’autovettura guidata dal dottore.
In entrambe le occasioni la ragione del viaggio erano incontri con ex-repubblichini in
una trattoria.
Marzio DEDEMO era rimasto all’esterno a guardia dell’autovettura e quindi non
aveva partecipato alle discussioni, ma aveva in seguito comunque saputo da Pio
78
BATTISTON, padre di Pietro BATTISTON, che era invece presente, quale fosse
stato il tenore dei discorsi del dr. MAGGI nell’occasione.
Il dottore aveva sostenuto che la strage era uno strumento di lotta politica e
propugnato la necessità di continuare nella strategia degli attentati, la cui
responsabilità doveva cadere sulle forse di sinistra, disgustando con tali
discorsi addirittura la maggior parte degli ex-repubblichini presenti (dep.
22.1.1996, f.2; 7.3.1996, f.1. In merito alla “linea politica” del dr. MAGGI, si vedano
anche le analoghe dichiarazioni di Martino SICILIANO, int. al P.M. di Milano,
7.10.1995, ff.6-7).
- nel 1975 Marzio DEDEMO, in occasione del proprio viaggio di nozze, si era recato
a Madrid rimanendo per alcuni giorni ospite di ROGNONI e incontrando anche altri
militanti fra i quali ZAFFONI e BATTISTON, quest’ultimo molto legato a DEDEMO
che si era adoperato, l’anno precedente, per rendergli possibili i contatti con la
famiglia quando era già latitante in Grecia.
In occasione del viaggio a Madrid, DEDEMO, su disposizione del dr. MAGGI,
aveva portato a ROGNONI molti documenti italiani di vario tipo, di provenienza
furtiva, e timbri componibili per la falsificazione degli stessi, nel quadro del sostegno
alla latitanza del gruppo di italiani che gravitavano intorno a Giancarlo ROGNONI.
Marzio DEDEMO aveva inoltre lasciato a ROGNONI tutti i propri documenti
personali, uno dei quali poi sequestrato nel 1977 ad un altro latitante, l’ordinovista
genovese Mauro MELI che vi aveva apposto la propria fotografia (dep. 15.11.1995,
f.4; 22.1.1996, f.4; int. 10.4.1997, f.4).
Secondo le regole vigenti nell’organizzazione, DEDEMO, se fosse stato controllato
dalla Polizia durante il trasporto, avrebbe dovuto assumersi l’intera responsabilità del
materiale e soprattutto non rivelare quale ne fosse la destinazione (dep. 22.1.1996,
f.4).
Si noti che Giancarlo ROGNONI, pur escludendo alcuna connessione con attività
illecite, ha ricordato di avere ospitato a Madrid Marzio DEDEMO e la moglie e di
avere incontrato sempre a Madrid, più o meno nel medesimo periodo, ma in una
diversa occasione, Carlo DIGILIO, impegnato evidentemente nella “missione” presso
l’ing. POMAR (int. ROGNONI, 6.9.1996, f.3).
In ordine ai reati spontaneamente ammessi da Marzio DEDEMO, in ragione del
tempo trascorso, deve essere emessa una dichiarazione di non doversi procedere
per intervenuta prescrizione.
Tuttavia tali episodi sono estremamente significativi all’interno del quadro
complessivo delineatosi, poichè confermano sotto molti profili il racconto di
Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO e soprattutto contribuiscono a mettere a
fuoco la preminenza, sia sul piano decisionale sia sul piano operativo, del dr.
MAGGI anche al di fuori dell’area veneta e la permanenza di saldi contatti con
Giancarlo ROGNONI ed i suoi uomini nel tempo e anche durante il periodo
della latitanza in Spagna.
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80
10
L’IMPUTAZIONE ASSOCIATIVA
NEI CONFRONTI DI GIANCARLO ROGNONI
TRASMESSA DALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA DI BOLOGNA
Le imputazioni associative trasmesse dal Giudice Istruttore di Bologna con sentenza
di incompetenza territoriale in data 24.9.1992, connesse al progetto delle quattro
stragi che dovevano essere attuate al Nord e in Centro-Italia fra il 1973 e il 1974,
riguardano Giancarlo ROGNONI e Marco BALLAN quali presunti ideatori e
organizzatori di tale strategia eversiva.
Gli elementi essenziali raccolti, soprattutto dal G.I. di Bologna, a sostegno di tale
prospettazione d’accusa saranno illustrati nel capitolo 29, dedicato alla posizione di
Marco BALLAN.
Per quanto concerne invece specificamente la posizione di ROGNONI (anche a
prescindere dalla parziale sovrapponibilità fra tale capo di imputazione e le
imputazioni associative per le quali ROGNONI, quale capo del gruppo La Fenice, è
stato rinviato a giudizio da questo Ufficio con la sentenza-ordinanza conclusiva del
procedimento 721/88F), deve rilevarsi che in questa fase, a seguito di recenti
acquisizioni, esistono i più netti e attuali elementi di connessione con le indagini in
corso da parte della Procura della Repubblica di Brescia in merito alla strage di
Piazza della Loggia del 28.5.1974.
Poichè la strage di Piazza della Loggia è una delle quattro che, secondo la
strutturazione del capo di imputazione formulato dall’A.G. di Bologna, sarebbero
state l’espressione del programma criminoso del gruppo milanese che si era
coagulato intorno a Giancarlo ROGNONI, appare opportuno, per ragioni di organicità
processuale, disporre la trasmissione alla Procura della Repubblica di Brescia delle
imputazioni mosse originariamente a ROGNONI dall’A.G. di Bologna e degli atti
relativi.
Ad integrazione di quanto emerso in relazione all’attività di Giancarlo ROGNONI e
del suo gruppo, può aggiungersi che, dopo la chiusura del primo filone dell’istruttoria,
è stato possibile acquisire le testimonianze di Francesco ZAFFONI, detto MENTA, un
componente minore de La Fenice, rientrato in Italia dalla Spagna dopo una
lunghissima latitanza avendo riportato all’inizio degli anni ‘70 una condanna, ormai
prescritta, per aver custodito una valigia con esplosivo affidatagli da Giancarlo
ESPOSTI.
Francesco ZAFFONI, ritenendo giusto fornire il suo contributo in merito all’attività
passata di chi ha “infangato l’azione politica della destra con lo strumento delle
stragi” (deposizione a personale R.O.S., 14.3.1996, f.1), pur non potendo, per la
sua posizione marginale, fornire elementi in merito agli avvenimenti più gravi, ha
ricordato dettagli e circostanze di notevole interesse che contribuiscono a completare
il quadro complessivo che si è delineato in anni di indagini.
80
Egli ha in primo luogo rievocato la sua fuga a Venezia nel 1974, nel momento in cui
la condanna a proprio carico stava per diventare definitiva, prima presso l’abitazione
dello stesso dr. MAGGI e poi presso il circolo Il Quadrato, punto di incontro degli
ordinovisti veneziani, nello stesso periodo in cui si era rifugiato a Venezia, per
diverse ragioni, anche Pietro BATTISTON (cfr. dep. 25.11.1995, f.2).
Da Venezia ZAFFONI aveva raggiunto la Spagna, abitando prima a Barcellona e poi
a Madrid, ospite dell’appartamento di Giancarlo ROGNONI così come altri camerati
milanesi fra cui Pierluigi PAGLIAI e Cinzia DI LORENZO (dep. citata, f.3).
A Madrid, Francesco ZAFFONI aveva nuovamente incontrato Carlo DIGILIO che era
presente per svolgere attività di “consulenza” in favore dell’ing. Eliodoro POMAR.
Quest’ultimo stava infatti attrezzando un’officina destinata alla produzione della
mitraglietta progettata dal colonnello SPIAZZI, attività che POMAR svolgeva in
sostanza con l’autorizzazione del Ministero dell’Interno spagnolo nell’ambito della
protezione fornita ai militanti di destra (dep. 22.11.1995, f.2).
Un elemento di grande interesse per la ricostruzione dei rapporti fra i milanesi e i
veneziani sono gli incontri a Milano, rievocati da ZAFFONI, con Delfo ZORZI e Carlo
Maria MAGGI, legato quest’ultimo da antichissima data a Giancarlo ROGNONI (dep.
29.11.1995 f.4, e 22.12.1995 f.1).
Nel 1970 inoltre, Francesco ZAFFONI, unitamente ad un camerata dell’O.A.S. di
nome MIGUEL, incontrato su indicazione di ROGNONI, aveva raggiunto S.Etienne e
poi Marsiglia, caricando nel doppiofondo di due autovetture una partita di fucili
trasportati poi in Algeria e destinati all’opposizione algerina, operazione questa a fini
certamente “destabilizzanti” in perfetta sintonia con quanto ampiamente raccontato in
merito nei verbali di Vincenzo VINCIGUERRA (dep. ZAFFONI a personale R.O.S.,
14.3.1996, f.4).
Infine Francesco ZAFFONI ha confermato i rapporti di contiguità, alla fine degli
anni ‘60, fra l’area di estrema destra milanese e i Comandi della Divisione
Carabinieri “Pastrengo”, ricordando di essersi più volte recato presso la
caserma di Via Lamarmora insieme a Giancarlo ESPOSTI, Pietro BATTISTON e
altri camerati e che in tali occasioni i militari di guardia, evidentemente
preavvisati, non effettuavano alcun controllo, consentendo così, in particolare
ad ESPOSTI, che gestiva personalmente i contatti, di entrare e di parlare
tranquillamente con alcuni ufficiali (cfr. dep. a personale R.O.S., 25.9.1996, f.3).
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82
PARTE
TERZA
LE ATTIVITA’ EVERSIVE
DELLA CELLULA DI MESTRE/VENEZIA DI ORDINE NUOVO
E I CONTATTI CON IL GRUPPO MILANESE
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11
LE IMPUTAZIONI ASSOCIATIVE NEI CONFRONTI
DI MARTINO SICILIANO E PIERCARLO MONTAGNER
E I SINGOLI EPISODI CRIMINOSI ATTRIBUITI
ALLA STRUTTURA OCCULTA DI ORDINE NUOVO
Esposte nel capitolo 3 le linee generali della collaborazione di Martino SICILIANO e
Carlo DIGILIO, è possibile passare ad esaminare anche i singoli episodi ascritti alla
cellula di Mestre/Venezia, in collegamento strategico e funzionale con le altre cellule
e in particolare quella milanese e secondo un programma criminoso che, nonostante
il minor numero di elementi processuali raccolti in proposito, doveva certamente
ubbidire alle direttive del Centro romano di RAUTI, SIGNORELLI e MACERATINI
meta di numerose visite e incontri da parte soprattutto del dr. MAGGI e di Delfo
ZORZI.
Gli episodi narrati nei verbali, soprattutto in quelli minuziosissimi di Martino
SICILIANO e più limitatamente in quelli di Giancarlo VIANELLO, vanno da
manifestazioni iniziali di squadrismo o violenza politica (quali il finto attentato
all’Istituto Pacinotti, il danneggiamento dell’insegna della sezione industriale del
P.C.I. di Mestre, il progetto di attentato alla sezione del P.C.I. di Piazza Ferretto
preparando il quale Giulio NOE’ rimase gravemente ferito; cfr. rispettivamente int.
SICILIANO, 14.10.1995, f.1; 9.10.1996, f.2; 22.8.1996, f.1; dep. Roberto MAGGIORI,
22.4.1995, ff.5-6) ad episodi ben più gravi di carattere marcatamente eversivo.
A partire dal 1966, infatti, in sintonia con le direttive del Convegno sulla guerra non
ortodossa dell’Istituto Pollio e dopo il Convegno alla White Room di Mestre in
occasione del quale, presente Pino RAUTI, fu riorganizzata la struttura di Ordine
Nuovo del Triveneto (int. SICILIANO, 10.10.1995, f.4), e soprattutto dal 1968,
quando Delfo ZORZI entrò più strettamente in contatto con la struttura centrale di
Roma, le cellule di Mestre e Venezia si attrezzarono per il salto di qualità
accumulando armi ed esplosivi in grande quantità ed iniziando a proporsi, con gli
attentati di Trieste e Gorizia, quali una delle realtà trainanti della strategia
terroristica.
Non è certo un caso che Pino RAUTI, in quegli anni, abbia scelto Mestre quale
una delle sue mete preferite durante i propri giri di propaganda e indottrinamento
politico (cfr. SICILIANO, int. 5.9.1996, f.3 e, fra gli altri, Guido BUSETTO, dep.
11.11.1996, f.3; Daniela SICILIANO, vedova di Leopoldo BERGANTIN, dep.
5.2.1997, ff.1-2; Nilo GOTTARDI, dep. 30.3.1996, f.3).
Sotto il profilo del reato associativo, certamente ravvisabile in quanto, già all’esito del
procedimento celebratosi dinanzi alla Corte d’Assise di Roma, la struttura occulta di
Ordine Nuovo è stata giuridicamente qualificata come banda armata, il dr. MAGGI e
Delfo ZORZI non sono più perseguibili.
Infatti il dr. MAGGI è stato condannato con sentenza della Corte d’Assise di Venezia
divenuta definitiva, mentre Delfo ZORZI, condannato in primo grado, è stato
fortunosamente assolto con formula dubitativa in appello soprattutto perchè all’epoca
83
84
esistevano a suo carico solo le dichiarazioni
di Vincenzo VINCIGUERRA,
appartenente alla cellula di Udine e quindi solo saltuariamente presente a Mestre e
Venezia.
L’imputazione associativa deve invece essere mossa a Martino SICILIANO e
Piercarlo MONTAGNER, secondo la formulazione di cui al capo 13 di
imputazione che qualifica la cellula di Mestre/Venezia quale componente di una
struttura armata unitaria, strategicamente e organicamente collegata alle altre
cellule di Milano, Verona, Padova e Trieste e dipendente dalla struttura
politico/organizzativa centrale di Roma.
Con riferimento alle singole posizioni, in parziale dissenso con la richiesta del
Pubblico Ministero contenuta nella requisitoria finale del 14.7.1997, Martino
SICILIANO deve essere considerato costitutore e organizzatore della banda armata
e non semplice partecipe della stessa in quanto egli è stato presente sin dal primo
momento in cui si è verificato il salto di qualità da semplice circolo politico/culturale
a struttura eversiva, promuovendo con il suo impegno la formazione della banda e
dando un contributo essenziale al progetto del dr. MAGGI e di Delfo ZORZI.
Egli deve quindi essere rinviato a giudizio per rispondere del reato di cui all’art.306, I
comma, c.p.
L’imputazione mossa nei confronti di Piercarlo MONTAGNER deve invece essere
derubricata in quella di cui all’art.306, II comma, c.p. (partecipazione semplice), in
quanto il suo contributo non è stato altrettanto continuativo ed essenziale.
Infatti egli è stato in un primo momento assai vicino a Delfo ZORZI, partecipando al
furto di esplosivo ad Arzignano e fornendo anche la sua collaborazione, grazie alla
sua qualifica di elettrotecnico, nel gravissimo episodio costituito dalla
sperimentazione, nella palestra di Via Verdi, dei circuiti elettrici destinati all’innesco di
congegni esplosivi (int. SICILIANO, 20.3.1996, ff.3-6).
Tuttavia, dopo non molto tempo , il suo apporto operativo al gruppo è cessato e,
rimanendo comunque fermi i suoi rapporti di amicizia e commerciali con Delfo
ZORZI, la figura di Piercarlo MONTAGNER è ricomparsa, questa volta in
funzione “informativa”, allorchè, fra il 1993 e il 1996, egli ha tentato di
controllare Martino SICILIANO e di scoprire dove si trovasse dopo la sua
“diserzione”, ha riattivato durante le indagini i contatti fra gli ex-camerati per
controllare gli sviluppi dell’istruttoria e acquisire notizie sulle varie testimonianze
svolgendo quindi un’intensa attività in favore del più compromesso Delfo ZORZI,
attività che gli è costata, nell’estate del 1996, l’arresto insieme a TRINGALI e
ANDREATTA con l’imputazione di favoreggiamento aggravato.
Tuttavia la prima fase della presenza di MONTAGNER all’interno del gruppo, per il
carattere non primario e determinante del suo apporto, non può che essere
considerato partecipazione semplice alla banda e di conseguenza, operata tale
derubricazione, l’imputazione di cui al capo 13 di rubrica deve essere dichiarata
estinta per intervenuta prescrizione.
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Nel corso degli interrogatori di Martino SICILIANO sono inoltre emersi numerosissimi
altri episodi, oltre a quelli di cui fra poco si dirà, che non hanno dato luogo a
specifiche imputazioni, ma che contribuiscono, spesso in modo molto vivido e diretto,
a tratteggiare il costante attivismo e i rapporti interni fra le persone che facevano
parte dell’area di Ordine Nuovo e soprattutto l’idea di fondo che, in parallelo con il
messaggio che derivava da apparati istituzionali o militari, si stesse arrivando,
tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, allo scontro finale determinato
dalla necessità di salvare il Paese dal comunismo.
Alcuni di tali episodi, che attengono ai rapporti operativi fra il gruppo milanese e
quello veneziano e ad azioni comuni di quest’ultimo con il gruppo triestino o
delineano la personalità carismatica e il ruolo propulsivo svolto all’interno della
struttura da Delfo ZORZI, meritano di essere accennati in via di sintesi.
Ci riferiamo a:
1. L’addestramento all’uso delle armi in un campo paramilitare allestito nel 1971
nella zona sopra Lecco, presenti, oltre a SICILIANO, quasi tutti i militanti o
simpatizzanti de La Fenice quali ROGNONI, AZZI, PAGLIAI e anche Giancarlo
ESPOSTI (int. 18.10.1994, ff.1-2; 8.11.1996, f.2).
2. L’assalto al Municipio di Padova, il 16.4.1969, giorno successivo all’attentato
contro lo studio del Rettore Opocher, attacco finalizzato a colpire il Consiglio
Comunale che intendeva denunciare fermamente l’episodio avvenuto all’Università
riportabile alla cellula di Padova.
In tale occasione, oltre a Martino SICILIANO, erano presenti Piero ANDREATTA,
Gianni MARIGA, Giuseppe FREZZATO e Marco FOSCARI, tutti facenti parte
dell’area radicale di Mestre/Venezia e coinvolti, con SICILIANO, in altri episodi (int.
16.3.1996, ff.1-3).
3. La spedizione a Trieste, nel novembre 1969, in supporto ai camerati di tale città
che intendevano punire alcuni avversari politici che avevano osato “avventurarsi”
nella zona centrale della città, controllata dai neri.
SICILIANO, VIANELLO e BUSETTO, convocati dal dr. MAGGI che aveva come
sempre messo a disposizione la sua autovettura, avevano rinforzato i ranghi dei
triestini, già muniti di caschi di plexiglas e mazze da baseball, e i giovani di sinistra
erano stati facilmente sopraffatti e colpiti (int.20.10.1994, f.7; 10.10.1995, f.3;
18.3.1996, f.4).
Si noti che sia Giancarlo VIANELLO (int.19.11.1994, f.10) sia Guido BUSETTO
(dep. 11.11.1994, f.2, e 26.1.1996, f.2) hanno ammesso l’episodio fornendo una
descrizione del tutto analoga e così anche Luciano BIASIOLO, militante missino di
Mestre rientrato da Trieste, dopo la “spedizione punitiva”, insieme ai camerati
ordinovisti (dep.16.12.1995, ff.2-3).
4. Le azioni di vandalismo, fra il 1967 e il 1969, contro chiesette nell’entroterra
mestrino e padovano, originate dall’odio di Delfo ZORZI contro la tradizione
giudaico/cristiana che, secondo la sua visione ideologica, indeboliva gli spiriti invece
di temprarli ed era in radicale antitesi ai modelli dell’uomo pagano, del combattente
legionario e del samurai, intrisi di etica guerriera (int. 18.7.1996, ff.1-2).
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5. Delfo ZORZI, nelle sue multiformi attività, affiancava allo studio dei testi teorici di
Julius EVOLA e dell’etica guerriera giapponese interessi più pratici quali soprattutto
la progettazione di ogni possibile tipo di innesco per ordigni esplosivi, dai
normali circuiti elettrici sperimentati nella palestra
di Via Verdi grazie
all’elettrotecnico MONTAGNER (int. SICILIANO 20.3.1996, ff.3-5) sino a particolari
tipi di innesco chimico a base di mercurio o funzionanti tramite un altimetro (int.
20.5.1996, f.2).
Disponeva anche di un libro in inglese, fuori commercio e certamente di
provenienza militare e forse di provenienza N.A.T.O., che riguardava in termini
assai pratici l’uso degli esplosivi e i vari sistemi di innesco (int. 25.4.1996, f.3;
9.8.1997, f.2).
6. Infine ZORZI e MOLIN, reduce quest’ultimo dalla partecipazione al Convegno del
Parco dei Principi a Roma sulla guerra non ortodossa, si erano occupati di distribuire
tra i militanti fidati, anche all’interno delle caserme, alcune decine di copie del
libretto “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE”, scritto da RAUTI e
GIANNETTINI sotto falso nome e finanziato da un settore del S.I.D. nell’ottica di
allertare e difendere l’Esercito dal pericolo di infiltrazione comunista e di ispirare la
formazione di uno “Stato Maggiore parallelo” formato da militari e civili.
La diffusione del volumetto semiclandestino all’interno di Ordine Nuovo (int.
SICILIANO 9.10.1995, f.3 e 25.5.1996, f.4; e anche dep. Giuliano CAMPANER
1°.4.1995, f.4) indica che la struttura di Delfo ZORZI non si riteneva un gruppo
eversivo in senso proprio, ma componente attiva di un più vasto progetto
comprendente, al di là dell’ideologia nazional/rivoluzionaria, l’alleanza con
strutture istituzionali.
Nell’esporre, nei capitoli che seguono, le risultanze relative ai singoli episodi
criminosi, al fine di evitare una inutile duplicazione di lavoro, sarà utilizzata, quale filo
conduttore, la motivazione del mandato di comparizione emesso da questo Ufficio in
data 13.6.1997 nei confronti del dr. Carlo Maria MAGGI, in contestualità con il suo
arresto per il concorso nella strage di Piazza Fontana e gli attentati collegati e la
strage di Via Fatebenefratelli.
Saranno aggiunte solo alcune necessarie integrazioni con riferimento ad alcuni
episodi e ad alcune posizioni personali non toccate direttamente da tale
provvedimento.
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12
IL FURTO DI ESPLOSIVO IN UNA CAVA DI MARMO NEL VICENTINO
E LA SUA COLLOCAZIONE NEL CASOLARE DI PAESE (TV)
OVE FURONO PREPARATI GLI ATTENTATI AI TRENI
Tale episodio costituisce, secondo il racconto di Martino SICILIANO, il momento
iniziale, avvenuto nel 1965 o più probabilmente nel 1966, della formazione della
dotazione militare della struttura occulta di Ordine Nuovo per quanto concerne la
cellula mestrino/veneziana e non a caso la data dell'episodio corrisponde ad un
momento di poco successivo al Convegno dell'Istituto Pollio, a Roma, durante il
quale fu deciso di costituire una struttura anticomunista a diversi livelli, anche
prettamente clandestini, e si colloca altresì contestualmente alla nascita, soprattutto
in Veneto, dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO costituiti da militari e da civili
prevalentemente ordinovisti.
Una prima descrizione sintetica dell'episodio è stata fornita da Martino SICILIANO in
uno dei suoi primissimi interrogatori, in data 20.10.1994, introducendo il discorso a
partire dallo stabile utilizzo da parte del gruppo dell'autovettura del dr. Carlo Maria
MAGGI:
“””....Voglio anche aggiungere che il dr. Maggi era il responsabile operativo
per il Triveneto e poi anche per la Lombardia quando si formò il gruppo
milanese, che aveva qualche presenza anche a Bergamo e a Brescia. .... Vorrei
anche precisare che la prima macchina del dr. Maggi da me guidata era una
Fiat 500, intorno al 1964/1965, sempre disponibile nel garage San Marco di
Piazzale Roma a Venezia.
Con tale macchina ci recammo io, Zorzi e Piercarlo Montagner sui monti del
Chiampo, nella provincia di Vicenza, per il prelievo di una quantità di
AMMONAL e di miccia a lenta e rapida combustione di cui ho già parlato.
Preciso che Delfo Zorzi, nativo di Arzignano che è un Paese vicino al Chiampo,
conosceva molto bene la zona.
Una parte di tale materiale fu da noi trasportata sulla 500 di Maggi, un'altra
parte invece, dopo essere stata nascosta in quella zona vicino allo stesso
casotto dove era stata prelevata, venne recuperata pochi giorni dopo da me e
da Zorzi e trasportata prima sulla corriera che dal Chiampo porta a Vicenza e
poi in treno fino a Marghera, ove restò a disposizione di Zorzi....”””.
(SICILIANO, int. 20.10.1994.
L'episodio è stato poi ripreso da Martino SICILIANO, con maggiori dettagli,
nell'interrogatorio in data 15.3.1995 allorchè egli, rientrato in Italia dopo la primissima
fase della sua collaborazione, ha ripercorso con maggiori approfondimenti tutti gli
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episodi e le circostanze già rapidamente descritte nei primi tre interrogatori
dell'ottobre 1994:
“””....Ci recammo sul posto con la FIAT 500 del dr. Maggi, accompagnati
ovviamente da Zorzi che conosceva i luoghi.
Ricordo che io avevo da poco preso la patente e guidavo la macchina.
Eravamo io, Montagner e Zorzi.
Maggi era al corrente che noi dovevamo prendere la macchina per questa
missione.
Rubammo da un casotto, sfondando la porta, l'esplosivo, erano 30 o 40
chilogrammi di ammonal diviso in sacchetti di plastica trasparente, nonchè
detonatori e miccia sia detonante sia a lenta combustione.
Poichè si trattava di un grosso quantitativo ne nascondemmo una parte in un
luogo non distante e portammo il resto a Venezia con la 500.
Dopo qualche giorno tornammo a Vicenza in treno, sempre noi tre, prendemmo
l'autobus per Arzignano e recuperammo l'altro l'esplosivo e la miccia
nascondendoceli addosso e rientrando così a Venezia.
Zorzi si occupò personalmente di custodire tutto l'esplosivo.
Non sono in grado di dire dove lo custodisse.
Poichè l'Ufficio mi chiede di descrivere questo esplosivo, posso dire che era
contenuto in sacchetti di plastica trasparente del peso di circa 1 o 2 chili
ciascuno ed era a scaglie di colore rosa perlaceo e biancastro.
Poichè l'Ufficio mi fa il nome della località Paese, posso dire che conosco
l'esistenza di questa località che è nei pressi di Treviso e dove se non sbaglio vi
è una base aerea.
Non la ricollego tuttavia, almeno per quanto a mia conoscenza, ad attività del
gruppo.
Posso essere più preciso in merito alla data del furto ad Arzignano.
Io avevo preso da poco la patente di guida, esattamente l'11.12.1964, come
posso rilevare dal documento che ho con me e quindi il fatto si colloca
sicuramente nella prima metà del 1965....”””
(SICILIANO, int.15.3.1995).
Anche per tale episodio, come per quasi tutti gli altri oggetto della presente
istruttoria e narrati da Martino SICILIANO e da Carlo DIGILIO, l'iniziale
confessione e chiamata in correità di una delle persone coinvolte non è
rimasta isolata, ma si sono aggiunte altre dichiarazioni che hanno consentito
di acquisire un riscontro incrociato e altamente rassicurante sulla verità degli
avvenimenti narrati.
Un primo elemento di riscontro, seppur generico, è giunto infatti dalle dichiarazioni di
Giancarlo VIANELLO, anch'egli militante della cellula mestrina e coinvolto negli
episodi di Trieste e Gorizia dell'ottobre 1969.
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Giancarlo VIANELLO il quale, nell'ambito di dichiarazioni piuttosto ricche e
dettagliate, ha confermato quasi tutte le circostanze riferite per primo da Martino
SICILIANO, ha anche ricordato un particolare in piena sintonia con l'episodio del
furto presso la cava di Arzignano.
Infatti VIANELLO ha ricordato che Delfo ZORZI, nel corso di riunioni tenute a Mestre
con gli altri militanti, aveva segnalato che uno dei modi migliori per approvvigionarsi
di esplosivo senza difficoltà era rubarlo presso le cave (int. 11.7.1995, f.2).
I reati connessi al furto dell'esplosivo presso la cava di Arzignano sono stati
contestati, oltre che a ZORZI il quale non si è mai presentato in Italia per rispondere,
anche ovviamente a Piercarlo MONTAGNER, fotografo tuttora residente a Mestre,
legato da rapporti ancora vivi ed attuali a Delfo ZORZI, sebbene questi risieda da
moltissimi anni in Giappone.
Si ricordi infatti che Piercarlo MONTAGNER, una delle primissime persone indicate
da Martino SICILIANO quale possibile contatto ancora operativo ed esistente fra
l'ambiente di Mestre e il Giappone, è stato uno dei tre soggetti colpiti da ordinanza di
custodia cautelare emessa su richiesta della Procura di Milano nell'estate del 1996 in
quanto, soprattutto a seguito di intercettazioni telefoniche ed ambientali, era emersa
una vivacissima attività di sostegno e di favoreggiamento nei confronti del capo
carismatico del gruppo di Mestre, impossibilitato a seguire direttamente in Italia lo
sviluppo delle indagini.
Piercarlo MONTAGNER, infatti, sentito anche alla presenza del Pubblico Ministero in
data 5.8.1996 quando egli insieme ad ANDREATTA e a TRINGALI era detenuto per
il reato di favoreggiamento aggravato dalla finalità di terrorismo, ha fatto parziali
ammissioni in merito all'episodio di Arzignano.
Egli ha infatti ammesso di essersi recato con altri componenti del gruppo ad
Arzignano, nella zona ove vi sono le cave, proprio per verificare i luoghi dove, senza
particolari protezioni di persone o di cani da guardia, lasciavano l'esplosivo
normalmente utilizzato per tale tipo di lavoro.
Il gruppo, sempre secondo il racconto di MONTAGNER, aveva potuto vedere
l'esplosivo, chiaro e di aspetto granulare, e quindi assolutamente corrispondente a
quello descritto da Martino SICILIANO.
MONTAGNER ha tuttavia negato di avere poi partecipato materialmente al furto
dell'esplosivo e ha sostenuto che i sopralluoghi cui egli aveva preso parte erano
avvenuti non con una FIAT 500 (tipo di vettura di cui allora disponeva il dr. MAGGI),
bensì con una GIULIA o una FIAT 1100.
Martino SICILIANO non ha avuto difficoltà, focalizzando ulteriormente i suoi ricordi in
merito a tale episodio, a smentire il tentativo pur parziale di MONTAGNER di ridurre
le proprie responsabilità e forse anche di escludere il dr. MAGGI dalla
corresponsabilità in questa prima azione del gruppo.
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Infatti, risentito in data 28.8.1996 dopo l'audizione di MONTAGNER, Martino
SICILIANO ha fornito ulteriori particolari che scolpiscono la presenza di
MONTAGNER al momento della materiale consumazione del furto:
“””....Quanto dice MONTAGNER è una verità parziale nel senso che egli ha
invece materialmente partecipato al furto dell'esplosivo.
Riprendendo quanto ho già dichiarato in data 15.3.1995, in relazione al furto di
Arzignano, posso infatti fornire ulteriori particolari che mi vengono in mente,
focalizzando specificamente tale episodio.
Partimmo un sabato alla volta di Arzignano io ZORZI e MONTAGNER, subito
dopo la fine dell'orario scolastico, in quanto eravamo ancora tutti studenti.
Avevamo la 500 di MAGGI, che andammo a prendere, come sempre, al garage
San Marco di piazzale Roma.
Prendemmo l'autostrada fino a Padova poi la statale fino a Vicenza e
raggiungemmo la cava che ZORZI già conosceva.
Attendemmo l'imbrunire e riuscimmo ad entrare nel casotto sfondando la porta
di ingresso.
Risalimmo in macchina tutti e tre riempiendo il portabagagli anteriore della
500 con il materiale rubato.
Sono assolutamente certo del fatto che avessimo la macchina di MAGGI per un
preciso fatto particolare.
Io ero, ovviamente, più abituato a guidare la 1100 di mio padre, che aveva il
cambio al volante e di cui conoscevo bene il funzionamento della retromarcia.
Avevo, invece, qualche problema con il cambio a cloche della 500 che
conoscevo poco e quando ci allontanammo, finimmo in un viottolo, che
terminava in un burrone, andando vicini a finirci dentro.
Non riuscii assolutamente ad ingranare la retromarcia e fummo costretti a
girare la 500, che per fortuna era abbastanza leggera, a mano, facendo forza
tutti e tre.
Lasciammo parte del materiale a non molta distanza dal casotto in una
boscaglia, e l'indomani solo io e ZORZI andammo sul posto in treno e in
autobus per recuperare quanto era rimasto lì.
Ricordo che faceva ancora abbastanza freddo, avevamo il cappotto e
nascondemmo sotto quell'indumento il materiale....”””
(SICILIANO, int.28.8.1996).
Anche Carlo DIGILIO ha riferito di avere appreso, seppur in tempi molto successivi
ai fatti, da Marcello SOFFIATI, che Delfo ZORZI e il suo gruppo avevano rubato
dell'esplosivo in una cava vicina proprio al paese natale di Delfo ZORZI e cioè
Arzignano nel vicentino (int.31.1.1996, f.4).
Il furto dell'esplosivo nella cava e la disponibilità da parte del gruppo già a partire
dalla metà degli anni '60 di almeno 30 chili di AMMONAL, pur concretizzandosi in
reati prescritti sul piano processuale, costituiscono un tassello molto importante della
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ricostruzione dell'attività del gruppo mestrino e della credibilità complessiva di quanto
narrato da SICILIANO, DIGILIO e dagli altri testimoni che hanno deciso di riferire,
magari parzialmente, quanto a loro conoscenza.
Infatti è proprio in relazione al furto dell'AMMONAL che le dichiarazioni di Martino
SICILIANO e Carlo DIGILIO (i quali non avevano mai operato congiuntamente e si
erano a stento conosciuti) si intersecano rafforzandosi reciprocamente e fornendo
l'uno all'altro un riscontro di cui ciascuno dei due non poteva nemmeno conoscere
l'esistenza.
L'esplosivo rubato ad Arzignano, di cui Martino SICILIANO ignorava il luogo
ove in seguito era stato custodito non avendo personalmente accesso ai
"depositi" gestiti da Delfo ZORZI, è infatti l'esplosivo visto e maneggiato
successivamente da Carlo DIGILIO in occasione dei suoi accessi al casolare di
Paese, nei pressi di Treviso, gestito da ZORZI insieme a Giovanni VENTURA e
Marco POZZAN, componenti della cellula padovana.
Carlo DIGILIO ha parlato delle consulenze da lui effettuate in tale casolare, ove
erano ammassate armi ed esplosivo e vi era una stampatrice di proprietà di
VENTURA, sin dai suoi primi interrogatori, ampliando man mano il tenore e la portata
delle sue dichiarazioni e mettendo sempre maggiormente a fuoco l'importanza di tale
base operativa e il ruolo da lui svolto non solo nella manutenzione delle armi
presenti, ma anche della fabbricazione degli ordigni esplosivi utilizzati per gli attentati
ai treni dell'8/9 agosto 1969.
Vediamo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO rese in data 19.2.1994, relative a tale
importantissima vicenda, raccontate dopo avere spiegato di avere svolto sin dalla
metà degli anni '60 l'attività di informatore, così come Marcello SOFFIATI, per una
struttura americana che aveva sede nella base FTASE di Verona:
“””....La persona a cui facevo riferimento all'interno di questa attività <<nota
Ufficio: l'attività informativa appena citata>> mi chiese di prendere contatto con un
professore di Vittorio Veneto che aveva bisogno di una persona come me
esperta in armi, ma non conosciuta politicamente in tale zona e non
contrassegnata da una precisa militanza politica.
Mi recai quindi a Vittorio Veneto ove conobbi il professore che si chiamava
Professor FRANCO....
Costui .... aveva combattuto per la Repubblica Sociale Italiana tanto da essere
appunto il responsabile della locale sezione degli ex combattenti della R.S.I.
Il professore mi disse che avrei dovuto controllare una certa situazione proprio
grazie alla mia esperienza in fatto di armi.
Avrei dovuto poi riferirgli ed egli stesso avrebbe poi riferito alla Struttura cui
facevamo riferimento.
Mi disse quindi di andare a Treviso in una libreria di cui non ricordo più il
nome, gestita da GIOVANNI VENTURA e di chiedere di costui.
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Così feci e conobbi VENTURA, in un primo momento un po' diffidente, ma poi
abbastanza presto affabile.
Mi espose il suo problema che consisteva nella catalogazione e risistemazione
di quella che lui chiamava una "collezione di armi".
Capii subito che VENTURA non capiva niente di armi.
Ci incontrammo quindi una seconda volta, di lì a pochi giorni, e mi
accompagnò con la sua macchina, una Mini Minor rossa, partendo da Treviso
sul posto che dovevamo raggiungere.
Si trattava di un casolare un po' isolato in provincia di Treviso che
all'occorrenza saprei indicare.
Ricordo che VENTURA con la sua macchinetta correva a rotta di collo.
Arrivammo quindi in una casetta modesta, isolata, in fondo ad un viottolo e vi
trovammo un'altra persona che mi riservo di indicare, persona che si fece
riconoscere e che io vedevo per la prima volta proprio in quella occasione.
All'interno di questo casolare, costituito da due stanze al piano terreno, c'era
nella prima stanza a destra qualcosa coperto da un telo ed era una stampatrice
che loro stessi indicarono come "la vecchia".
VENTURA disse proprio all'altro: "Stai facendo la guardia alla vecchia?".
Nella stanza a sinistra, lungo il muro del lato destro, sotto un telo c'era
ammassato un quantitativo di armi in una gran confusione, alcune intere,
alcune smontate e c'erano anche alcune cassette di munizioni e di caricatori.
Sembravano buttate lì di fretta per una ulteriore sistemazione.
Ricordo dei moschetti MAUSER, dei M.A.B., un fucile semiautomatico
tedesco di precisione, qualche STEN e una mitragliatrice MG 42 e cinque o
sei cassette di cartucce per questa mitragliatrice.
E poi c'erano altre cartucce di vario tipo.
C'erano vari tipi di armi e tanti tipi di cartucce. Ricordo che VENTURA si
preoccupava della intercambiabilità di queste cartucce.
Talune armi, come ho detto, erano smontate e attaccate con del nastro isolante.
Io mi misi a fare questo lavoro di catalogazione e sistemazione occupandomi
anche del rimontaggio, quando era possibile, della armi smontate.
C'era veramente di tutto, anche delle pistole dell'800 ad avancarica.
Il casolare era circondato da un muretto e ciò non consentiva a nessuno, anche
a chi fosse passato di lì per caso, di vedere cosa vi fosse all'interno.
Ad un certo punto, essendo ora di pranzo, VENTURA uscì con la macchina per
andare a prendere dei panini in un paese vicino e l'altro rimase fuori dal
casolare di guardia.
Mi avevano detto che i sacchi che si notavano sul lato sinistro della stanza dove
c'erano le armi, erano un paio di sacchi di juta e un paio di plastica,
contenevano del concime chimico e che mi dissero di lasciare perdere.
In effetti dall'aspetto poteva sembrare così, ma io sfruttai quei pochi minuti per
rendermi conto di cosa ci fosse realmente.
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Nei due sacchi di juta c'erano due cassette metalliche color verdastro, di tipo
militare, che io aprii rapidamente e dentro le quali c'erano dei candelotti di
tritolo di quelli in uso all'Esercito, ricoperti di carta con il vano cilindrico, da
un lato protetto da un velo di carta, per introdurvi il detonatore.
Ricordo che per controllare che non fossero di plastico ne ho preso in mano
qualcuno che ho battuto leggermente sullo spigolo della cassetta e davano il
suono secco dei candelotti di tritolo che avevo visto durante il servizio militare.
Sotto le cassette c'erano anche alcune mine anticarro ancora con la loro
custodia metallica e integre.
I sacchi di plastica, che stavano davanti a quelli di juta e che erano quelli che
potevano sembrare contenere il concime, contenevano invece in totale una
ventina di chili di una sostanza a scaglie di colore rosaceo che era un tipo di
esplosivo che non sarei in grado di definire.
Non mi azzardai a prenderne un campione poichè temevo di essere controllato
all’uscita, come in effetti poi avvenne.
Sfruttai quei pochi minuti anche per smontare il percussore della mitragliatrice
MG 42 che consideravo l'arma più pericolosa nelle loro mani e che ritenevo
necessario neutralizzare.
Nascosi il percussore, che è molto piccolo, in un calzino.
D'altro canto la mancanza del percussore non viene notata dall'esterno e quindi
ero tranquillo del fatto che non se ne sarebbero accorti.
A domanda dell'Ufficio, tra armi corte e lunghe saranno state una quarantina di
cui, a mio avviso, quasi la metà erano pero non utilizzabili.
I due ritornarono, dissi loro che avevo fatto un controllo sommario e comunque
non completo, e VENTURA mi disse che comunque aveva fretta e che si sarebbe
potuto completare l'inventario in seguito in data da stabilirsi.
All'uscita, effettivamente, la seconda persona, come io temevo, disse a
VENTURA che nonostante l'amicizia e la fiducia dovevo essere comunque
perquisito cosa che fece facendomi vuotare le tasche.
Io reagii manifestando il mio disappunto, ma non mi opposi.
Non trovarono quindi il percussore che avevo nascosto tra le dita dei piedi.
Con VENTURA tornai quindi in macchina Treviso e li ci lasciammo.
Relazionai accuratamente il professore, così come mi era stato richiesto, e gli
consegnai il percussore segnalandogli anche la pericolosità della situazione
che avevo notato grazie al mio esame dei sacchi che avevo fatto all'insaputa dei
due....”””
(DIGILIO, int. 19.2.1994).
Nel corso del successivo interrogatorio in data 5.3.1994, DIGILIO ha sciolto la riserva
in merito all'identità della persona che custodiva il casolare, indicandola in Delfo
ZORZI, uomo di fiducia del dr. MAGGI, ed ha ancora fatto cenno all'esplosivo in
scaglie:
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“””....Sciogliendo la riserva del precedente interrogatorio, posso dire che la
persona che si trovava nel casolare a fare la guardia era Delfo ZORZI.... In
relazione alle armi che ho visto, posso precisare, oltre a quelle che ho già
elencato nel precedente interrogatorio, che c'era una machinen pistol
SCHMEISSER MP40 nonchè un fucile cal.8 semiautomatico di precisione, di
fabbricazione tedesca del 1943, G43 MAUSER.... Per quanto concerne
l'esplosivo, la sostanza a scaglie di cui ho accennato era bianca con riflessi
rosacei....”””
(DIGILIO, int.5.3.1994).
A tale primo accesso al casolare da parte di DIGILIO ne era seguito un secondo, la
cui descrizione è utile riportare in questa sede non perchè vi siano ulteriori riferimenti
all'esplosivo proveniente dalla cava, ma perchè da tale seconda "visita" ben si
desume cosa si stesse preparando in quel luogo:
“””....La mia seconda visita al casolare avvenne dopo che VENTURA mi aveva
chiesto quelle delucidazioni sulle modalità di accensione dei congegni di cui ho
già parlato nei precedenti interrogatori e di cui io riferii al prof. FRANCO.
L'interesse di Ventura quindi risultava essersi spostato anche nel campo dei
congegni esplosivi e il prof. Franco volle andare a fondo di questa vicenda.
Il prof. Franco mi convocò per telefono, ci incontrammo a Treviso alla stazione
(io avevo raggiunto Treviso in treno) e Franco mi riferì che aveva sentito
Ventura il quale aveva dei problemi.... Ci recammo a Paese esattamente quello
stesso giorno con una macchina guidata da Franco, dopo avere raccolto a
Treviso Giovanni Ventura il quale stava aspettando nei pressi della stazione a
bordo della stessa Mini Minor rossa con la quale lo avevo già visto la volta
precedente.
Raggiunto il casolare vi trovammo Delfo Zorzi che era nella prima stanza,
entrando, dove c'era un tavolino.
La seconda stanza, a sinistra della prima, aveva la porta semiaperta e c'era
un'altra persona che non mi fu presentata e che rimase in quella stanza senza
partecipare ai nostri discorsi.... Ebbi la netta impressione che Franco e Delfo
Zorzi si conoscessero già.
Zorzi appariva più affabile della prima volta in cui l'avevo visto.
Franco gli chiese di vedere la pistola.
Zorzi recuperò nella stanza a sinistra la pistola che era effettivamente una
pistola non comune, una vecchia FROMMER ungherese piuttosto malconcia.
Io diedi un'occhiata all'arma, vidi che era piuttosto maltenuta e dissi che con
quella era certo meglio non spararci e non aveva neanche un gran valore come
arma da collezione.
Capii però che nei miei confronti la verifica su quell'arma era poco più che un
pretesto in quanto Zorzi insieme all'arma portò alcune componenti di un
congegno esplosivo.
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Si trattava in sostanza del meccanismo di accensione e cioè una pila, un
orologio da polso e dei fili nonchè della polvere nera da caccia e dei fiammiferi
di tipo comune.
ZORZI e VENTURA assemblarono insieme il tutto con una pinzetta e dissero
al prof. FRANCO che il problema che non avevano ancora deciso come
risolvere era quello di collegare il filo che faceva da resistenza o a polvere nera
o a un fiammifero.
In questo secondo caso la resistenza doveva essere avvolta attorno al
fiammifero.
FRANCO, vedendo quell'armeggiare e i dubbi che venivano esposti, sbottò
dicendo che il filo non era di quelli più idonei in quanto era troppo rigido e
infatti nella prova nelle mani di Zorzi e Ventura si ruppe e dovettero ripetere
l'operazione ed inoltre i fiammiferi erano troppo piccoli e potevano usare
invece fiammiferi con la testa più grossa, più lunghi, e cioè quelli antivento
normalmente in commercio.
Franco durante questa operazione accennò che per suoi ricordi di guerra il
congegno assomigliava a quello di cui si era tanto parlato in relazione
all'attentato di Via Rasella.
Disse che si ricordava bene questo particolare sia perchè era un vecchio
combattente sia perchè era un fumatore.
Franco nello scambio di battute disse ai due "state attenti che siano solo
petardi", alludendo chiaramente all'invito ad usarli solo per attentati
dimostrativi.
Io assistetti senza dire nulla e ebbi comunque la sensazione che Franco non
aveva voluto andare al casolare da solo.
Da quelle poche battute si comprendeva che Franco nei confronti dei suoi
interlocutori aveva un atteggiamento di richiamo alla moderazione e cioè di
ricordare loro che non dovevano essere commessi episodi con gravi
conseguenze.... Ovviamente commentai con Franco anche il senso di
quell'incontro.
Egli mi disse che aveva dato questi piccolo aiuto a Ventura per una ragione ben
precisa.
Si espresse così "se Ventura perde l'appalto, io non so più quale altra persona
lo sostituirebbe ricevendo il suo incarico".
Del resto il prof. Franco mi aveva specificamente fatto presente che
quell'attività di controllo era un'attività che egli svolgeva per incarico della
C.I.A. in un momento delicato e nella zona che era di sua competenza.
Tornammo a Treviso, mi ringraziò per la mia collaborazione e mi disse che
avrebbe continuato lui personalmente a seguire quella storia e io non sarei
stato più disturbato....”””
(DIGILIO, int. 10.10.1994).
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Nel corso dello stesso interrogatorio e dei successivi, Carlo DIGILIO ha indicato in
Marco POZZAN, persona da lui già conosciuta a Treviso e in seguito incontrata
nuovamente in Spagna in occasione di un'altra operazione in materia di armi affidata
a DIGILIO dalla struttura statunitense, il quinto soggetto presente quel giorno nel
casolare di Paese.
Tale presenza salda definitivamente la comune operatività del gruppo padovano e
del gruppo mestrino/veneziano nella fase immediatamente precedente la catena di
attentati della primavera/estate e del dicembre 1969.
Carlo DIGILIO, superate ulteriori titubanze, ha così narrato altri particolari relativi alla
seconda "visita" al casolare, in occasione della quale erano in corso di costruzione le
scatolette di legno che dovevano essere utilizzate per gli attentati ai treni dell'8/9
agosto 1969:
“””....Effettivamente ho visto come le scatolette di legno sono state costruite e
ciò è avvenuto proprio in occasione del secondo accesso al casolare.
Come avevo già riferito in un precedente interrogatorio, Giovanni VENTURA
mi aveva fatto cenno alla necessità di munirsi di scatole di legno, simili a quelle
per i sigari, per contenere un ordigno caratterizzato dall'innesco con fili di
nichel-cromo e fiammiferi antivento.... Giovanni VENTURA poi, come ho già
dichiarato, mi fece vedere nel suo ufficio delle scatole di legno per sigari che
per la loro fattura assomigliavano a quelle che avrebbero dovuto servire per
contenere gli ordigni.
Quando arrivai per la seconda volta al casolare di Paese, nella stanza più
piccola vidi Marco POZZAN e, durante la mia permanenza sul posto insieme a
Lino FRANCO, VENTURA e ZORZI, entrai in questa stanzetta dove POZZAN
stava lavorando.
Io in realtà già lo conoscevo perchè lo avevo visto in qualche occasione nella
libreria di VENTURA a Treviso ed era anche presente la prima volta in cui
andai al casolare, circostanza questa che non avevo riferito.
POZZAN era di piccola statura e aveva i capelli neri; all'epoca era piuttosto
magro ed emaciato e con i lineamenti del viso spigolosi.
Sul tavolo di questa stanzetta egli stava eseguendo l'assemblaggio di scatolette
di legno, parte delle quali erano già terminate e parte erano ancora in
costruzione.
Sul tavolo c'era un seghetto, listelle di legno già tagliate, un cacciavite, viti,
delle piccole cerniere e vari tubetti di colla il cui odore impregnava la stanza.
C'erano due tipi di legno, uno tipo pino, più chiaro, e uno più scuro.
Diverse scatolette erano già pronte, appoggiate una sull'altra.
Le scatolette non erano molto grandi, non più di 15/20 centimetri per lato.
Sul tavolo c'erano anche parecchie pile di tipo comune da 4,5 volt.
Con POZZAN, che stava lavorando, scambiai solo pochi convenevoli e
continuai la mia attività nell'altra stanza dove, con il prof. Lino FRANCO, si
stava lavorando intorno al meccanismo di accensione.
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Ricordo che ad un certo punto, ZORZI andò nella stanzetta dove era POZZAN
incitandolo a darsi da fare.... Quando sui giornali vidi pubblicate le fotografie
di uno degli ordigni non esplosi, rinvenuto su uno dei convogli ferroviari,
riconobbi immediatamente una delle scatolette di legno viste sul tavolo di
POZZAN, così come riconobbi immediatamente il meccanismo di innesco
contenuto nella scatola, che era quello che veniva preparato nell'altra stanza.
In sostanza, quando mi trovavo nel casolare mancava solo la presenza
dell'esplosivo per completare gli ordigni che poi sarebbero stati utilizzati per
gli attentati.
Quando Marcello SOFFIATI, nel settembre 1969, discusse con MAGGI in
merito alla scatola per sigari che MAGGI gli aveva fatto mettere, si riferiva
ovviamente a una di quelle scatole modellate come scatole per sigari che avevo
visto a Paese.
Come ho già accennato, SOFFIATI aggiunse, aprendo il discorso con
MAGGI, che la scatola era incartata, diventando così un pacchetto....”””
(DIGILIO, int. 20.9.1996).
Non è questa la sede per soffermarsi sulla figura del prof. Lino FRANCO di Vittorio
Veneto (da molto tempo deceduto) e cioè la persona presso la quale il superiore
di Carlo Digilio, Sergio MINETTO, aveva mandato il suo "agente" affinchè, per
conto della struttura informativa americana di cui tanto MINETTO quanto il
prof. FRANCO facevano parte con ruoli di rilievo, effettuasse le sue "visite" di
controllo e consulenza presso il casolare.
La figura del prof. Lino FRANCO, già volontario nei reparti tedeschi di contraerea
FLAK e animatore a Vittorio Veneto del gruppo SIGFRIED, è stata infatti ampiamente
analizzata nel rapporto del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri in data
8.5.1996, relativo al coinvolgimento di strutture di intelligence straniere nella c.d.
strategia della tensione (pagg. 31-38).
E' sufficiente, per quanto concerne la posizione del dr. MAGGI, ricordare che
anch'egli conosceva bene MINETTO e che dalle dichiarazioni di Martino SICILIANO
(pur personalmente estraneo alla struttura di intelligence) emergono stretti rapporti
politici fra il dr. MAGGI, ZORZI e Lino FRANCO sin dalla metà degli anni '60, avendo
lo stesso SICILIANO partecipato con gli altri ad alcune visite del gruppo presso
l'abitazione del prof. FRANCO a Vittorio Veneto (int. SICILIANO, 15.3.1995, f.8).
Appare invece utile, al fine di comprendere la gravità degli avvenimenti che si
stavano preparando nel casolare, vera base operativa della struttura occulta di
Ordine Nuovo, riportare la parte dell'interrogatorio reso a questo Ufficio in data
16.5.1997 da Carlo DIGILIO, nell'ambito del quale egli ha riconosciuto di avere
effettuato una terza "consulenza tecnica" presso il casolare, partecipando
direttamente alla preparazione e alla distribuzione degli ordigni che sarebbero
serviti, di lì a pochi giorni, per gli attentati dell'8/9 agosto 1969 sui 10 convogli
ferroviari:
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“””....io andai a Paese anche una terza volta in un momento vicinissimo agli
attentati ai treni dell'agosto 1969.
Mi convocò VENTURA per telefono utilizzando una frase in codice concordata
e cioè dicendomi che erano arrivati "altri libri nuovi e che bisognava
impacchettarli" con ciò riferendosi alle scatolette da preparare per gli attentati
e cioè quelle che io ho descritto nei miei precedenti interrogatori nell'estate del
1996.
Mi diede appuntamento alla stazione di Treviso e questa volta venne a
prendermi non con la MINI MINOR, ma con la macchina grossa di marca
tedesca con la stella sul cofano.
Raggiungemmo rapidamente Paese e lì trovammo già ZORZI e POZZAN.
Sul tavolo della prima stanza c'erano le scatolette ormai finite, parecchi fogli di
carta per impacchettarle, i pezzetti di tritolo tratti dall'esplosivo che avevo già
visto al casolare e cioè le mine anticarro pescate dai laghetti, le pile, gli orologi
con il perno già fissato sul quadrante e filo elettrico.
Io e ZORZI assemblammo rapidamente i vari componenti inserendoli nelle
cassette e ad un certo momento a ZORZI, che era molto nervoso, subentrò
VENTURA.
Nel frattempo POZZAN, nell'altra stanza, stava finendo di costruire le ultime
cassette.
Faccio presente che la quantità di esplosivo che sistemavamo nelle cassette era
abbastanza modesta e cioè tra i 50 e i 100 grammi perchè gli attentati dovevano
essere solo dimostrativi.
Lavorammo di buona lena per un paio d'ore, ricordo che era pomeriggio, e alla
fine avevamo approntato circa due dozzine di cassette.
Ciascuna venne poi impacchettata con la carta bloccata da uno scotch leggero
che consentisse di aprirle con una certa facilità.
Infatti ZORZI aveva preparato parecchi foglietti con uno schizzo illustrativo
destinato a ciascuno di coloro che avrebbero poi deposto l'ordigno che doveva
essere innescato.
C'era il disegno dell'interno della scatoletta e la spiegazione scritta delle
operazioni da compiere e in particolare: agganciare il filo al perno sul
quadrante e dare la carica all'orologio.
La lancetta era già posta a 45 minuti dal contatto.
Tale operazione, secondo il programma, andava fatta nella toilette del treno.
Verso sera, ZORZI mise in un borsone buona parte delle cassette, mentre
VENTURA ne prese qualcuna che mise nella sua borsa di vilpelle nera.
POZZAN rimase al casolare e VENTURA accompagnò me e ZORZI alla
stazione di Treviso.
Salimmo sul treno per Mestre e ZORZI aveva appunto questo borsone sportivo
con dentro le cassette.
Alla stazione di Mestre ci dividemmo: io presi la filovia per Piazzale Roma,
mentre ZORZI si avviò da solo in città.
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Sapevo che gli attentati sui treni sarebbero avvenuti da lì a pochissimi giorni.
Nel giro di uno o due giorni mi misi in contatto con MAGGI, gli relazionai su
quello che avevamo fatto ed egli, con il suo solito modo ironico, disse "se sono
rose fioriranno".
Comunque ZORZI mi aveva già detto che avrebbe contattato MAGGI per la
messa a disposizione di tutti gli uomini anche perchè MAGGI doveva
aggiungere alcuni elementi a quelli di cui ZORZI già disponeva....”””
Si noti che l'esistenza del casolare, pur da moltissimi anni demolito e non più
individuabile a causa delle modifiche urbanistiche intervenute nella zona, non può
certo essere ritenuta un parto della fantasia.
Infatti dell'esistenza di tale base operativa vi era traccia già nell'istruttoria
condotta agli inizi degli anni '70, anche se gli accenni fatti all'epoca da due
testimoni, in ragione della loro genericità e del carattere indiretto delle notizie
apprese dai componenti della cellula padovana, non avevano consentito o
giustificato, purtroppo, l'avvio di ricerche utili.
Ci riferiamo alla negletta deposizione di Livio JUCULANO, resa spontaneamente
all'A.G. di Padova nei giorni immediatamente successivi ai 10 attentati sui convogli
ferroviari dell'agosto 1969.
Livio JUCULANO, persona con precedenti penali di carattere comune, ma comunque
gravitante intorno all'ambiente della cellula padovana, nell'agosto del 1969 aveva
fornito molte notizie, purtroppo sottovalutate (e rese inutilizzabili anche dal
trasferimento punitivo del Commissario Iuliano che stava indagando sulla cellula
eversiva), sulle attività del gruppo di Franco FREDA e in particolare aveva riferito di
avere saputo che il gruppo disponeva di un deposito utilizzato per la preparazione
degli esplosivi.
Secondo JUCULANO tale deposito si trovava in una località di campagna nella
zona di Treviso, probabilmente proprio a Paese.
Anche Guido LORENZON, amico di infanzia di Giovanni VENTURA e poi principale
testimone d'accusa avendo raccolto in varie occasioni le imprudenti confidenze
dell'amico, aveva riferito quasi incidentalmente, in un deposizione resa al G.I. dr.
D'Ambrosio il 18.8.1972, di aver appreso da VENTURA che le armi del gruppo
erano state occultate in una cascina disabitata ubicata fra Paese e Istrana.
Tali due testimonianze, non sviluppate e rimaste all'epoca inutilizzate nelle pieghe
degli atti processuali, costituiscono una conferma anticipata e difficilmente discutibile
delle dichiarazioni rese, oltre vent'anni dopo, da Carlo DIGILIO.
Si ricordi inoltre che Guido LORENZON aveva avuto occasione di vedere per un
breve momento, nell'appartamento di VENTURA a Treviso, mostrategli dall'amico,
alcune delle armi del gruppo probabilmente in fase di trasferimento da un luogo ad
un altro.
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Fra queste aveva potuto notare un sacco di juta contenente alcune cassette
metalliche militari con scritte in inglese e cioè cassette portamunizioni assolutamente
identiche, anche in relazione al sacco che le conteneva, a quelle visionate da Carlo
DIGILIO nel casolare (deposizione LORENZON a questo Ufficio, 27.10.1994, f.2), ed
inoltre identiche a quelle utilizzate da ZORZI e dal suo gruppo per gli attentati di
Trieste e Gorizia dell'ottobre 1969.
In sostanza, dalle risultanze istruttorie pure esposte in questo provvedimento in via di
sintesi, emergono gravi indizi nei confronti del dr. MAGGI e degli altri componenti del
gruppo in relazione alle seguenti circostanze:
- l'esplosivo da cava rubato dal gruppo ad Arzignano è il medesimo esplosivo
visto in seguito da Carlo DIGILIO nel casolare di Paese.
- in tale casolare, oltre all'esplosivo da cava e al tritolo, erano presenti cassette
metalliche militari identiche a quelle utilizzate per gli attentati di Trieste e
Gorizia nonchè una notevole quantità di armi parte delle quali altro non erano
che quelle che sarebbero poi state casualmente rinvenute nel novembre 1971 a
Castelfranco Veneto nella disponibilità di persone vicine a VENTURA,
ritrovamento da cui sarebbero partite a Treviso le indagini note come "pista
nera".
Raffrontando infatti il verbale di sequestro delle armi di Castelfranco Veneto e
le armi da DIGILIO come presenti nel casolare è facile notare come vi
compaiano i medesimi "pezzi": in particolare SCHMEISSER MP40, mitra STEN
e cartucce per mitragliatrici.
- il casolare era gestito in comune dagli elementi più affidabili e spiccatamente
operativi del gruppo padovano facente capo a Franco FREDA e del gruppo
veneziano facente capo al dr. MAGGI e, nei momenti più delicati, l'attività di
consulenza tecnica era stata affidata all'esperto della struttura e cioè Carlo
DIGILIO.
- in tale casolare erano stati preparati e assemblati i congegni per gli attentati
ai treni dell'agosto 1969 e probabilmente tale luogo era stato utilizzato per altre
operazioni appartenenti alla medesima campagna terroristica.
- la struttura informativa statunitense facente riferimento alla base FTASE di
Verona era perfettamente al corrente, tramite Carlo DIGILIO, il prof. FRANCO e
il caporete Sergio MINETTO, di quanto si stava preparando in quel casolare.
Vi è infine da ricordare che, secondo recenti risultanze acquisite da questo
Ufficio ed entrate a far parte delle indagini in corso presso la Procura di Milano
che riguardano direttamente l'esecuzione degli attentati del 12.12.1969, è
probabile che l'esplosivo sottratto ad Arzignano sia stato parte di quello
utilizzato per tali attentati.
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LA DETENZIONE DI ARMI ED ESPLOSIVI
APPARTENENTI ALLA STRUTTURA LOGISTICA
DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA E MESTRE
Sin dalla seconda metà degli anni '60, poco dopo l'episodio di Arzignano, il gruppo di
Mestre, più attivo sul territorio anche per ragioni geografiche e cui la dirigenza
veneziana aveva affidato i compiti operativi, aveva iniziato a procurarsi una
dotazione di armi e di munizioni.
Tali armi non avevano nulla a che vedere con i depositi NASCO di GLADIO
(organizzazione con la quale non è emerso alcun elemento di collegamento),
ma comunque si trattava di una buona dotazione formata prevalentemente da
armi tedesche e americane di provenienza bellica la cui manutenzione e
miglioria, anche con riferimento all'approntamento di silenziatori, era attuata
da "ZIO OTTO" e cioè Carlo DIGILIO.
In tale contesto Delfo ZORZI rispondeva direttamente al dr. MAGGI che era il
responsabile operativo per il Triveneto e costituiva l'ultimo anello prima della
dirigenza romana di RAUTI, MACERATINI e SIGNORELLI (int. SICILIANO,
19.10.1994, f.4, e 20.10.1994, f.4).
Il dr. MAGGI risulta essere stato pienamente a conoscenza della presenza delle armi
che aveva avuto anche occasione di maneggiare nella sede del Circolo "Ezra Pound"
di Via Mestrina, tenendo talvolta per sè, per difesa personale, una pistola cal.7,65
della dotazione (int. SICILIANO, 15.3.1995, f.5).
Appare quindi opportuno riportare le dichiarazioni di
sull'argomento specifico delle armi raccolte dal gruppo:
Martino SICILIANO
“””....(l'armaiolo), a livello di O.N. del Triveneto, era lo "ZIO OTTO" cioè
Carlo DIGILIO, chiamato qualche volta anche "il Legionario", anche se non so
se lo sia stato veramente o fosse una sua vanteria oppure un nomignolo
scherzoso che gli era stato attribuito.
Non sono in grado di dire dove avesse appreso le sue conoscenze tecniche.
In merito ai silenziatori, posso precisare che io stesso ne ebbi in mano quattro o
cinque, insieme alle relative pistole automatiche Beretta cal.9 lungo con la
canna già filettata.
Quando ho detto che i silenziatori non erano di fattura artigianale, voglio dire
che erano molto ben fatti e cioè senza difetti o saldature visibili.
Contenevano dischetti di feltro separati da molle e Zorzi mi disse erano
migliori migliori di quelli con la lana di vetro in quanto duravano più a lungo e
potevano essere utilizzati per un buon numero di colpi. Anche per quanto
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concerne i silenziatori, Zorzi mi disse che li aveva fatti lo Zio Otto, compresa,
ovviamente, anche la filettatura.
Per quanto concerne le armi che ho visto o di cui ho avuto disponibilità nel
gruppo, posso citare, oltre alle Beretta cal.9, anche delle 7,65 sempre Beretta,
altre 7,65 di fabbricazione tedesca con le guance in legno e di provenienza
bellica, un paio di revolver americani cromati e vari fucili tedeschi sempre
della seconda guerra mondiale e qualche baionetta....”””
(SICILIANO, 20.10.1994).
Tanto nella sede di Via Mestrina quanto nella palestra FIAMMA YAMATO, gestita dal
gruppo, circolava il materiale della dotazione:
“””....Nella sede di Via Mestrina, quando vi abitava Zorzi, io vidi alcune
saponette di tritolo e detonatori sia elettrici sia al fulminato di mercurio, uno
dei quali io utilizzai per l'attentato all'Università Cattolica.
Era materiale nascosto senza troppe cautele dietro libri o sotto il letto.
Sempre in quella stanza vidi le armi della dotazione del gruppo, mentre nella
sede della palestra in Via Verdi non vidi mai esplosivo, ma solo qualche 7,65
con il silenziatore, cioè quei silenziatori che Zorzi mi disse erano stati fatti da
ZIO OTTO, cioè Carlo Digilio....”””
(SICILIANO, 15.3.1995).
Il gruppo disponeva tanto di detonatori comuni quanto di detonatori elettrici, questi
ultimi utilizzati per gli attentati di Trieste e Gorizia:
“””....I detonatori che sottraemmo ad Arzignano e di cui faccio cenno
nell'interrogatorio in data 15.3.1995 erano detonatori comuni al fulminato di
mercurio che necessitavano per l'ultimo tratto dell'innesco della miccia
detonante.
Ne asportammo almeno una trentina perchè nel casotto vi era parecchio
materiale.
Io ne utilizzai uno negli anni successivi per l'attentato all'Università Cattolica e
non gettai l'ordigno oltre il muro di cinta in quanto ero consapevole che quei
detonatori di vecchio tipo erano pericolosi in quanto possono esplodere da soli
come accadde in altre occasioni, credo anche a Nico Azzi.
Invece, come ho già accennato nell'interrogatorio in data 15.3.1995,
comparvero in seguito nella disponibilità del gruppo, portati da ZORZI, anche
i detonatori elettrici, cioè quelli che funzionano con la semplice chiusura di un
circuito e il conseguente surriscaldamento del filamento metallico interno. Io ne
vidi una decina proprio nelle mani di ZORZI nella sede di O.N. in Via Mestrina.
Erano alti circa 4 centimetri, più o meno come una cartuccia cal.22 lungo da
fucile e avevano i fili bicolori che ne fuoriuscivano.
102
ZORZI era molto contento perchè diceva che costituivano un progresso in
quanto erano molto più sicuri e maneggevoli.... Aggiungo che Delfo ZORZI mi
disse che i detonatori elettrici erano molto più sicuri perchè anche cadendo o a
seguito di urto non potevano esplodere perchè erano inerti....”””
(SICILIANO, 18.3.1996).
Le armi viaggiavano talvolta in una borsa della palestra FIAMMA YAMATO ove
ZORZI e gli altri si esercitavano nelle arti marziali:
“””....Produco all'Ufficio una borsa da palestra nera con scritte rosse e in
particolare con la scritta "S.S. FIAMMA YAMATO" che ho ritrovato in casa a
Venezia e che risale alla costituzione della palestra.
Il ritrovamento di questa borsa mi ha suscitato un ricordo e cioè che con la
stessa Delfo ZORZI portò da Napoli o Roma a Mestre due mitra di
fabbricazione italiana facendo il viaggio regolarmente in treno.
Era la fine del 1968 e cioè il primo periodo del suo allontanamento da Mestre
per iniziare gli studi universitari.
Mi affidò questa borsa che io tenni a casa mia per una sola notte e poi, a sua
richiesta, gli restituii in una borsa più lunga i due mitra.
Era una borsa un po' più lunga, di quelle per racchette da tennis, che era molto
più idonea a tale uso in quanto la borsa che ho prodotto all'Ufficio a stento
riusciva a contenere i due mitra....”””
(SICILIANO, 28.3.1996).
La dettagliata descrizione fornita da Martino SICILIANO della dotazione militare del
gruppo non è rimasta isolata, ma ha trovato piena conferma nelle dichiarazioni di
Giancarlo VIANELLO, un altro militante, all'epoca, del gruppo mestrino che ha reso
sul punto dichiarazioni confessorie quasi interamente sovrapponibili a quelle di
Martino SICILIANO.
Giancarlo VIANELLO, anch'egli all'epoca studente a Mestre e molto legato anche sul
piano amicale a ZORZI e SICILIANO, dopo essere stato coinvolto da dalla
personalità carismatica di ZORZI nell'esecuzione degli attentati di Trieste e Gorizia,
si era a fatica ma progressivamente e poi con sempre maggior decisione staccato
dal gruppo giungendo infine a rompere ogni passato legame con i suoi ex-camerati e
a simpatizzare addirittura per l'area politica opposta.
Nel 1972, consapevole del pericolo ancora che ancora rappresentava la struttura di
Ordine Nuovo in cui aveva militato, aveva rilasciato alcune interviste a giornali di
sinistra nell'intento di lanciare un allarme che potesse far comprendere anche
all'opinione pubblica tali pericoli.
Per ragioni umanamente comprensibili, legate sia al timore di rappresaglie sia alla
scelta di evitare gravi conseguenze giudiziarie e forse un arresto che avrebbe
troncato le sue nuove esperienze personali e lavorative, Giancarlo VIANELLO non
103
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aveva reso pubbliche in quei frangenti le sue corresponsabilità in merito ad alcuni
reati consumatisi all'interno del gruppo.
Giancarlo VIANELLO, convocato nell'autunno del 1994 dopo che la collaborazione
di Martino SICILIANO aveva reso palesi le sue responsabilità, non ha avuto
difficoltà, venute anche ormai meno le esigenze di autotutela ora accennate, a
ripercorrere interamente dinanzi a questo Ufficio la sua esperienza all'interno
di Ordine Nuovo, compresi i reati commessi, fornendo così una prova
determinante della credibilità del più ampio racconto di SICILIANO.
Ecco il racconto di Giancarlo VIANELLO sulla comparsa delle armi nel gruppo:
“””....Nel gruppo di Mestre, alcune armi comparvero per la prima volta solo
intorno al marzo del 1969 e cioè dopo l'iscrizione di Delfo all'Università di
Napoli e il salto di qualità che egli proponeva in occasione dei suoi rientri a
Mestre.
Quando tornava a Mestre, egli dormiva in una stanza della sede di Via
Mestrina in quanto mi sembra che la sua famiglia si fosse trasferita all'estero
per ragioni legate al lavoro del padre.
Le armi furono procurate da Zorzi e per la verità erano residuati di guerra non
in buone condizioni, anche se posso dire questo sino a quando io rimasi nel
gruppo e non in relazione ai tempi successivi.
Io ricordo un MAB, uno STEN e una MACHINE PISTOL tedesca.
Credo che vi fossero anche delle, pistole, anche se non le ricordo con
precisione, come invece ricordo bene le armi lunghe che ho menzionato.
Ricordo invece bene alcuni silenziatori, direi tre o quattro, che servivano
certamente per pistole.
In questo caso non si trattava di residuati o di prodotti militari, ma certamente
di strumenti di fabbricazione artigianale e lo posso dire con sicurezza in quanto
si vedeva benissimo che non avevano origine industriale.
Non sono però in grado di dire come fossero realizzati e quale materiale
interno contenessero.
Queste armi transitavano nel gruppo, ricordo che una volta le vidi in Via
Mestrina e un paio di volte Delfo Zorzi me le affidò contenute in una borsa
venendo poi a riprenderle nel giro di poco tempo.
Io, in queste occasioni, tenevo la borsa sotto il mio letto e per precauzione ho
sempre aperto la borsa e posso quindi dire con certezza che non conteneva
esplosivo, in quanto verificavo il contenuto appunto per evitare dei rischi di
esplosione accidentale.
Non posso dire con certezza quanti di noi abbiano visto o detenuto queste armi
in quanto il rapporto non era, per così dire, di gruppo, ma un rapporto di Delfo
con le singole persone che ho citato e quindi senza momenti di particolare
informazione reciproca su questi argomenti.... Quando vidi le armi vidi anche
dei proiettili e ricordo che notai che si trattava di proiettili di calibro non
104
corrispondente alle armi. Ricordo che questi proiettili erano contenuti in una
cassetta portamunizioni di tipo militare e del classico colore verde-oliva, del
tutto analoghe a quelle che avrei poi visto in occasione degli episodi di Trieste e
Gorizia.
Ricordo che insieme alle armi vidi una sola cassetta portamunizioni....”””
(VIANELLO, 19.11.1994, ff.4 e 5).
In un successivo interrogatorio, Giancarlo VIANELLO ha precisato che la Machinen
Pistol tedesca di cui il gruppo mestrino di Ordine Nuovo disponeva era esattamente il
fucile mitragliatore SCHMEISSER MG42 divenuto famoso durante la seconda guerra
mondiale e soprannominato "la sega di Hitler" per la sua potenzialità offensiva (interr.
11.7.1995, f.3).
Ed ha inoltre ricordato che erano disponibili anche molti nastri di munizioni per tale
arma (interr.10.12.1996, f.2; sul punto si veda anche la conferma di Martino
SICILIANO, interr.10.10.1995 f.2).
Tale precisazione è importante perchè lo SCHMEISSER MG42 era proprio una
delle armi visionate da Carlo DIGILIO durante la sua prima "consulenza" al
casolare di Paese e da tale arma DIGILIO aveva sottratto, all'insaputa di ZORZI
e VENTURA, il percussore al fine di mostrarlo al prof. Lino FRANCO quale
prova degli esiti della sua missione per la struttura informativa statunitense e
della potenzialità militare del gruppo che aveva la sua base nel casolare
(int.DIGILIO, 19.2.1994, ff.3 e 4).
Inoltre, in anni molto precedenti alle dichiarazioni rese nel corso della presente
istruttoria e cioè nel processo relativo all'attentato di Peteano, Vincenzo
VINCIGUERRA aveva dichiarato di avere incontrato Delfo ZORZI, a Venezia
all'inizio degli anni '70, mentre questi stava trasportando una valigia piena di
munizioni proprio per la mitragliatrice MG42 (int. VINCIGUERRA al G.I. di
Brescia, 2.7.1985, f.5).
Tale dichiarazione, resa in tempi non sospetti e costituente un vero riscontro
anticipato, evidenzia come la sorte processuale di Delfo ZORZI, imputato nel
processo di Peteano di costituzione di banda armata e altri reati strumentali e
fortunosamente assolto in appello, avrebbe potuto essere diversa se la voce di
VINCIGUERRA, benchè ancora isolata in assenza delle odierne dichiarazioni
degli altri ex-militanti di Ordine Nuovo, fosse stata ascoltata con maggiore
attenzione.
Altri due testimoni hanno fatto cenno alla dotazione militare della struttura di
Mestre/Venezia.
Piero ANDREATTA, gravitante all'epoca intorno al gruppo di Mestre ed una delle
persone arrestate nell'autunno del 1996 per favoreggiamento aggravato nei confronti
di Delfo ZORZI e del dr. MAGGI, nell'interrogatorio reso in data 26.5.1995 dinanzi a
questo Ufficio e al P.M., aveva ammesso di avere visto la gelignite avvolta in carta
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rossa utilizzata per l'attentato del marzo 1970 al COIN di Mestre (gelignite
proveniente certamente dal deposito di Delfo ZORZI) e aveva altresì ammesso di
avere rimesso personalmente in contatto, nel gennaio 1995, Delfo ZORZI con il dr.
MAGGI quando quest'ultimo, dinanzi all'incombere delle indagini del R.O.S.
Carabinieri, stava attraversando una grave crisi.
In data 31.5.1995 poi, dinanzi al solo P.M. di Milano, Piero ANDREATTA aveva
iniziato a parlare di un grosso carico di armi pervenuto a Mestre, intorno al 1967, al
gruppo di Ordine Nuovo e di cui si era occupato Leopoldo BERGANTIN, soggetto
molto legato a Delfo ZORZI e suicidatosi alcuni anni or sono.
Parte di tale ingente carico di armi era stato poi smistato al gruppo di Verona di
MASSAGRANDE e SOFFIATI (interr. ANDREATTA, 31.5.1995, f.3).
Dopo tali prime ammissioni, Piero ANDREATTA, risucchiato dal carisma
ideologico e probabilmente anche economico di Delfo ZORZI in grado di
rendersi presente anche dal lontano Giappone, ha interrotto qualsiasi forma di
collaborazione chiudendosi in una posizione assolutamente negativa anche nel
periodo del suo arresto nell'estate del 1996.
Giulio NOE', altro giovane gravitante all'inizio intorno al gruppo di Mestre e
staccatosi dallo stesso dopo uno sfortunato progetto di attentato alla sede del P.C.I.
di Piazza ferretto (il piccolo ordigno che stava confezionando era esploso
accidentalmente nella sua abitazione ferendolo gravemente ad una mano; cfr. interr.
SICILIANO, 22.8.1996 ff.1 e 2), ha parlato di un altro episodio significativo.
Una sera, a cavallo degli anni '70, un emissario del gruppo si era presentato a casa
di Piercarlo MONTAGNER (un altro dei fiancheggiatori di Delfo ZORZI arrestato
nell'estate del 1996) con una borsa di armi, ma questi, forse preso da timore, si era
rifiutato di custodire il materiale (deposizione NOE', 18.11.1995, f.3).
Tale episodio è del tutto in sintonia con quanto riferito da Martino SICILIANO sin dai
primi interrogatori in relazione alla figura di MONTAGNER che, dopo una prima fase
in cui si era reso disponibile ad una militanza operativa (sino a partecipare insieme a
ZORZI e SICILIANO alle prove di attivazione di un congegno innescante elettrico
nella palestra FIAMMA YAMATO (interr. SICILIANO, 20.3.1996, ff.3 e 4), aveva
abbandonato tale ruolo rimanendo comunque disponibile, sino a tempi recentissimi,
a svolgere funzioni di informatore in merito agli sviluppi delle indagini e di
favoreggiatore nei confronti di Delfo ZORZI.
Carlo DIGILIO, come meglio si dirà nel paragrafo relativo al capo 7) di imputazione,
ha confermato di avere svolto il ruolo di "armaiolo" del gruppo sfruttando le
conoscenze tecniche che gli derivavano dal suo impiego presso il Poligono di Tiro di
Venezia.
Ha fornito, in relazione alla circolazione dei silenziatori, una versione che appare un
po' riduttiva rispetto al racconto di Martino SICILIANO, ammettendo di averne
maneggiati un notevole numero, circa una trentina, passandoli al dr. MAGGI, a Delfo
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ZORZI e ad altri componenti del gruppo, ma che il suo compito non era mai stato
costruirli, bensì solamente verificarne la fattura e il funzionamento in quanto tali
silenziatori provenivano, già pronti, da ambienti croati/ustascia tramite Roberto
ROTELLI (interr. DIGILIO, 6.11.1995, f.3, e 4.1.1996, f.4).
A titolo di esempio dell'attività svolta da Carlo DIGILIO in favore del gruppo in materia
di armi, merita di essere riportato il passo dell'interrogatorio in data 30.8.1996 in cui
egli racconta le modalità di acquisizione da parte del gruppo di un buon quantitativo
di armi di proprietà del prof. Lino FRANCO, informatore della struttura statunitense
e animatore del gruppo SIGFRIED a Vittorio Veneto, il quale disponeva, nella zona
di Pian del Cansiglio,
di un autonomo deposito di armi provenienti
dall'armamento della X MAS e della Repubblica Sociale.
“””....Sempre in tema di bombe a mano, posso dire che la prima volta che io mi
recai dal prof.Lino FRANCO, poco tempo prima di andare al casolare di
Paese, egli mi mostrò in un cassetto di un mobile di casa sua, oltre ad una
baionetta, alcune bombe a mano tonde di fabbricazione italiana, modello Sipe
o SRCM.
Del resto, il prof. FRANCO disponeva di una buona dotazione logistica e il dr.
MAGGI ebbe cura di tenere buoni contatti con lui, proprio al fine di chiedergli
la cessione di parte della sua dotazione in cambio della garanzia della presenza
di elementi efficienti e sicuri all'interno del gruppo mestrino.
In questo modo a Mestre arrivò vario materiale, sia quando era ancora vivo il
prof. FRANCO sia dopo la sua morte, grazie a suo cognato, che del resto aveva
uno stabile riferimento lavorativo a Mestre nell'ambito del noleggio di
bigliardini a bar e locali pubblici vari.
Io non mi recai mai a Vittorio Veneto a prendere questo materiale, ma
comunque vidi parte di questo materiale a Mestre in quanto ero incaricato,
come sempre, di valutarlo e darne un giudizio tecnico.
Io vidi materiale nella macchina che credo appartenesse al fratello di Delfo
ZORZI, una macchina piccola, francese, di colore rosaceo, tipo Dyane, nonchè
nella 1100 di MAGGI.
Per valutare questo materiale, il punto di incontro per tre o quattro volte fu una
strada isolata che costeggia un canale che si raggiunge partendo da piazza
Barche in direzione laguna.
Io vidi una pistola MAUSER cal.9, di grande valore commerciale, con un
selettore che consentiva lo sparo a raffica, una Machine Pistole 44, sempre
tedesca, con impugnatura in legno, cal. 8 curz, parecchie bombe a mano di
fabbricazione italiana, una baionetta tedesca, qualche rotolo di miccia
proveniente dal Carso, cartucce per fucile tedesco Mauser ancora sui loro
nastri.
Questi incontri avvennero a distanza di tempo, tra la fine degli anni '60 e
comunque dopo gli incontri al casolare ed il 1970-1971 e cioè più o meno il
periodo in cui il dr. MAGGI mi mostrò le mine anticarro.
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Eravamo presenti appunto io, ZORZI e MAGGI, qualche volta Marcello
SOFFIATI, il quale aveva anche l'incarico di riferire a MINETTO l'andamento
di queste cessioni, ed una volta vidi anche il fratello di ZORZI, che era un
giovane biondo, alto, di corporatura atletica e di bell'aspetto.
Era presente anche perchè Delfo ZORZI non aveva la patente.
Era poi ZORZI a portare via il materiale dopo che io l'avevo esaminato.
Ricordo che una volta venne MINETTO a Mestre e ci avvisò del fatto che
alcune bombe a mano che avevamo ricevuto potevano essere pericolose perchè
avariate.
Avvisò separatamente sia me che MAGGI ed io confermai a MAGGI il pericolo
poichè MINETTO, giustamente, mi aveva fatto rilevare che c'erano problemi
collegati all'invecchiamento dell'innesco e bastava una scossa per far esplodere
tutto....”””
(DIGILIO, 30.8.1996, ff.2 e 3).
Per quanto concerne l'esplosivo presente nella dotazione del gruppo è sufficiente in
questa sede ricordare (posto che l'argomento sarà specificamente e direttamente
trattato, per la sua connessione con gli attentati del 12.12.1969, nell'indagine
collegata in corso presso la Procura di Milano e nei relativi provvedimenti) che Carlo
DIGILIO ha confessato di avere fatto da intermediario, in prossimità del periodo
in cui stavano maturando i più gravi attentati, nell'acquisto del contrabbandiere
Roberto ROTELLI di una grande quantità (fra i 150 e i 200 candelotti) di
gelignite avvolta in carta color rosso mattone e cioè la medesima gelignite
utilizzata per gli attentati di Trieste e Gorizia e molto probabilmente anche per i
tragici avvenimenti successivi.
Tali candelotti di gelignite, in merito alla conservazione dei quali DIGILIO aveva
fornito ancora una volta la propria consulenza tecnica spiegando come evitarne il
trasudamento e come custodirli senza pericolo, erano stati ritirati e occultati da Delfo
ZORZI venendo così a costituire la più micidiale dotazione del gruppo (interr.
DIGILIO, 5.1.1996, ff.2 e 3, e 13.1.1996, ff.2 e 3).
Si ricordi infine, a titolo di riscontro, che proprio nel periodo in cui, secondo i
collaboratori e i testimoni, il gruppo stava formando la sua dotazione e cioè nel
novembre 1968, prima Giampiero MARIGA (persona gravitante intorno al gruppo di
Mestre) e subito dopo Delfo ZORZI erano stati fermati e arrestati perchè trovati
in possesso di alcune armi e di una piccola quantità di esplosivo (cfr. rapporto
del Commissariato P.S. di Mestre in data 17.11.1968).
Era stato quello, e cioè i primi giorni dell'arresto di ZORZI, il momento cruciale
in cui, secondo il racconto di Vincenzo VINCIGUERRA, il giovane e determinato
militante mestrino era stato avvicinato da personale dell'Ufficio Affari Riservati
del Ministero dell'Interno e da questi convinto dell'opportunità di non
"combattere" in proprio con il rischio di essere, come in quel caso, arrestati,
ma di continuare la battaglia anticomunista alle dipendenze di un apparato
dello Stato che poteva dare migliori garanzie e, non troppo diversamente da
108
Ordine Nuovo, aveva ugualmente a cuore la difesa dei valori dell'Occidente
(interr. VINCIGUERRA, 3.3.1993, ff.2-3).
E' questo probabilmente il momento della nascita o del rinsaldarsi dei rapporti
fra alcuni elementi dell'estrema destra eversiva, non solo in Veneto ma anche e
soprattutto a Roma, e gli emissari dei servizi di sicurezza interni, alleanza che
sarebbe stata funzionale alla campagna di attentati che era prossima ad
iniziare e al successivo, ma preordinato indirizzo delle indagini verso aree
politiche di segno opposto ed estranee a tali avvenimenti.
Alla luce del racconto di VINCIGUERRA, non è forse un caso che Delfo ZORZI,
interrogato da personale della Polizia di Stato la notte del 17.11.1968, abbia avuto un
momento di cedimento ammettendo che un deposito di armi del gruppo esisteva e si
trovava probabilmente in provincia di Treviso.
La località di Paese, dove all'epoca vi era il casolare, si trova appunto alle porte di
Treviso, anche se l'accenno a quel deposito di armi non risulta sviluppato nelle
successive indagini dell'epoca e la sua esistenza sarebbe rimasta ignota per 25 anni
sino alla collaborazione di Carlo DIGILIO.
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14
LA DEVASTAZIONE DELLA SEDE DEL P.C.I. DI CAMPALTO
AVVENUTA IL 9.10.1968
L’azione contro la sede del P.C.I. di Campalto, nei pressi di Mestre, più legata ad una
pratica di violenza politica che ad un programma terroristico, ma comunque indicativa
della determinazione del gruppo di Delfo ZORZI, è stata così rievocata da Martino
SICILIANO:
“””....L'azione contro la sezione del P.C.I. di Campalto, di cui ho già fatto cenno
a pag.4 del mio memoriale, fu commessa nell'autunno del 1968 da ZORZI,
MARIGA, me stesso, e da una quarta persona che potrebbe essere Piercarlo
MONTAGNER, anche se non ne ho l'assoluta certezza.
Fu un'azione estemporanea legata allo scontro politico dell'epoca.
Eravamo con l'autovettura GIULIA di MARIGA e attendemmo nei pressi della
sezione sino alla chiusura di un bar vicino perchè in tal modo potevamo agire
indisturbati.
Erano quindi le prime ore del mattino, sfondammo la porta, danneggiammo i
mobili e il materiale propagandistico, svuotammo gli schedari e incendiammo
tale materiale e i mobili con della benzina che avevamo portato con noi.
Asportammo la bandiera del Partito Comunista e ci allontanammo.
Avevamo il volto coperto con calze da donna di nylon.
Sono convinto che la bandiera del Partito Comunista avvolgesse parte delle
armi ritrovate poco tempo dopo a MARIGA al casello di Mestre sulla sua stessa
GIULIA. Fu lo stesso MARIGA, pochi giorni dopo la sua scarcerazione, a
riferirmi tale circostanza, anche se è possibile che gli operanti non si fossero
accorti che nella vettura si trovasse la bandiera in parte rovinata.“””
(SICILIANO, int.6.10.1995, ff-2-3)
In un successivo interrogatorio, Martino SICILIANO ha precisato che l’obiettivo era
stato individuato da Giampietro MARIGA, che conosceva molto bene la zona, e che
la Sezione era stata messa a soqquadro anche per sottrarre l’elenco degli iscritti
poichè alcuni militanti stavano svolgendo opera di “controinformazione” sulle attività
di Ordine Nuovo (int. 9.8.1997, f.3).
La descrizione dell’episodio offerta da Martino SICILIANO corrisponde perfettamente
al contenuto degli atti redatti all’epoca dalla Polizia (cfr. nota della Digos di Venezia
in data 3.5.1995 e atti allegati, vol.8, fasc.3).
L’azione, come si desume dagli articoli di stampa acquisiti dalla Digos di Venezia,
aveva suscitato notevoli reazioni a livello locale sia per l’entità dei danni subìti dalla
Sezione (per circa 800.000 lire, all’epoca) sia per lo sfregio rappresentato
dall’asportazione della bandiera del Partito.
110
Anche in relazione a tale episodio le ammissioni di Martino SICILIANO non sono
rimaste un dato isolato e privo di riscontro.
In primo luogo Giancarlo VIANELLO ha ricordato di avere ricevuto da Martino
SICILIANO, già nell’immediatezza del fatto, la confidenza della sua partecipazione,
insieme a Delfo ZORZI, ad un’azione di danneggiamento contro una sede del P.C.I.
nei pressi di Mestre (int. 11.7.1995, f.2).
Anche Roberto MAGGIORI, uno dei componenti minori del gruppo di Mestre presto
allontanatosi dalla politica attiva, ha riferito di avere subito appreso nell’ambiente che
l’azione era stata compiuta da Delfo ZORZI e dalle persone a lui vicine (dep.
22.4.1995, f.5; 6.5.1995, f.4).
Inoltre Giuliano CAMPANER, che ha ammesso di avere partecipato con ZORZI e
ANDREATTA, il 25.4.1967, ad un’analoga anche se meno grave irruzione contro la
sede del P.C.I. in località Tessera, ha fornito così un indiretto elemento di riscontro
(dep. al G.I., 27.4.1995, f.3; al P.M., 9.6.1995, f.1) che merita di essere ricordato
quasi a titolo di curiosità solo perchè l’azione contro la sede di Tessera e,
nell’occasione, la distruzione di un ritratto di Togliatti sembra essere stata la sola
azione di violenza ammessa da Delfo ZORZI in occasione delle sue spontanee
dichiarazioni a Parigi nel dicembre 1995.
Si ricordi peraltro che pochi giorni dopo l’azione contro la sede di Campalto, il
16.11.1968, Delfo ZORZI e Giampietro MARIGA erano stati arrestati per la
detenzione illegale di alcune armi e di una piccola quantità di esplosivo (cfr.
rapporto del Commissariato di P.S. di Mestre in data 17.11.1968, vol19, fasc.2).
Interrogato nella notte da personale della Polizia, Delfo ZORZI aveva avuto un
momento di evidente confusione e cedimento, non solo accennando ad un
deposito di armi esistente nella provincia di Treviso (certamente il casolare di
Paese), ma anche accusando MARIGA di avere partecipato, mascherato con una
calza di nylon da donna, all’incendio alla Sezione di Campalto e fornendo altresì a
chi lo interrogava altre notizie compromettenti riguardanti il camerata di Mantova
Roberto BESUTTI.
Giampietro MARIGA era stato quindi incriminato per l’azione del 9.10.1968 contro la
sede di Campalto ed era stato poi prosciolto solo a seguito della ritrattazione di Delfo
ZORZI in sede processuale.
Alla luce di tali circostanze e della situazione di pressione psicologica in cui si
trovava ZORZI, non sembra un’affermazione azzardata quella di Vincenzo
VINCIGUERRA secondo cui proprio l’arresto del novembre 1968 sarebbe stato
l’inizio dell’avvicinamento di ZORZI da parte di funzionari dell’Ufficio Affari
Riservati che gli avrebbero proposto, ricevendo una risposta positiva, di non
continuare ad agire in proprio, rischiando arresti e denunce, ma di unirsi
invece ad un apparato istituzionale nella comune lotta contro il pericolo
comunista (int. VINCIGUERRA, 3.3.1993, f.2).
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Concludendo comunque sul punto, i reati di danneggiamento e incendio connessi
all’episodio di Campalto e contestati anche a Piercarlo MONTAGNER, che pure ha
negato ogni responsabilità, devono essere dichiarati estinti per intervenuta
prescrizione.
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15
L’ATTENTATO IN DANNO DELLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE
E
L’ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE ITALO-JUGOSLAVO
IN LOCALITA' MONTESANTO DI GORIZIA
L'attentato alla Scuola Slovena di Trieste era già stato oggetto di interesse nel corso
dell'istruttoria contro FREDA, VENTURA e gli altri componenti della cellula padovana
condotte dal G.I. dr. D'Ambrosio in quanto gli inquirenti avevano già sospettato un
collegamento fra tale grave episodio e gli attentati del 12.12.1969 ed in quanto uno
dei possibili testimoni, l'avv. Gabriele FORZIATI di Trieste, entrato in rotta di
collisione con i suoi ex-camerati di Ordine Nuovo e quindi soggetto passibile di un
cedimento dinanzi all'A.G., era stato per lungo tempo fatto sparire sottraendolo alle
convocazioni dei giudici.
Si era quindi avuta la netta sensazione (l'avv. FORZIATI era stato, fra l'altro, vittima
di un tentativo di estorsione da parte di Franco FREDA) che l'episodio di Trieste
fosse maturato nello stesso ambiente in cui erano stati ideati e organizzati gli altri
attentati della campagna terroristica della primavera-inverno 1969.
Sintetizzando quanto emerge dai rapporti giudiziari e dalle perizie tecniche relative ai
due attentati, è sufficente in questa sede ricordare che la mattina del 4.10.1969 (un
lunedì) il custode della scuola elementare di lingua slovena, sita in Via
Caravaggio 4 a Trieste, scoprì sul davanzale di una finestra una cassetta
portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato.
Quando i Carabinieri intervenuti sollevarono il coperchio, la cassetta risultò
contenere sei candelotti di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata
rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio
da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta
collegati ai detonatori (cfr. rapporto riassuntivo del Nucleo Investigativo Carabinieri di
Trieste in data 2.2.1970).
Ai piedi dell'edificio venivano inoltre rinvenuti otto foglietti di carta con scritte in
stampatello di carattere antislavo quali "NO AL VIAGGIO DI SARAGAT IN
JUGOSLAVIA", "NO ALLE FOIBE" e così via, firmati FRONTE ANTI SLAVO.
La perizia disposta dall'A.G. di Trieste evidenziò che la cassetta conteneva
complessivamente kg. 5,700 di gelignite e che l'ordigno non aveva funzionato per un
difetto tecnico connesso o al basso voltaggio della pila elettrica o a un cattivo
contatto fra i fili conduttori o fra la lancetta dell'orologio e la vite inserita nel
quadrante.
L'ordigno inesploso deposto vicino al cippo di confine italo-jugoslavo a Gorizia
veniva invece rinvenuto casualmente solo in data 6.11.1969, in occasione di
lavori di potatura di alcuni alberi eseguiti da operai italiani.
113
114
La cassetta rinvenuta presentava le medesime caratteristiche di quella deposta
dinanzi alla scuola di Trieste e risultava contenere un ordigno anch'esso del tutto
identico aquello di Trieste, composto da innesco a orologeria e candelotti di gelignite
per il peso complessivo di kg. 1,500 (cfr. rapporto riassuntivo del Nucleo Investigativo
Carabinieri di Gorizia in data 5.3.1970).
Anche in tale occasione venivano rinvenute nelle vicinanze della cassetta cinque
foglietti con slogans antislavi.
L'ordigno rinvenuto sulla linea di confine veniva quasi immediatamente fatto brillare
per ragioni di sicurezza dagli artificeri intervenuti sul posto e l'esplosione risultava di
tale potenza da far saltare i vetri di numerosi edifici nel raggio di un centinaio di metri
sia in territorio italiano sia in territorio jugoslavo e da danneggiare comunque
gravemente il muro di sostegno della rete di confine.
Del resto, per comprendere la potenzialità offensiva dei due ordigni deposti a
Trieste e a Gorizia, basti pensare che essi complessivamente contenevano una
quantità di esplosivo pari a oltre quattro volte quello contenuto nella cassetta
metallica lasciata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.
L'iter processuale delle istruttorie, che all'epoca avevano interessato il solo episodio
di Trieste toccando comunque, anche se con pochi elementi di prova, l'ambiente
politico/eversivo che alla luce delle nuove risultanze risulta effettivamente coinvolto
nei fatti, era stato alquanto accidentato.
In un primo momento, sulla base di pur vaghe dichiarazioni accusatorie di tale
SEVERI Antonio, appartenente all'area di estrema destra di Trieste, erano stati
indiziati gli ordinovisti triestini NEAMI, BRESSAN e FERRARO (i cui nomi ricorrono
nelle attuali dichiarazioni di SICILIANO e VIANELLO come effettivi basisti
dell'attentato) i quali si erano dati a precipitosa fuga rifugiandosi presso un
ordinovista di Torino.
I tre, in seguito, erano stati tuttavia prosciolti stante la labilità degli elementi a loro
carico.
In seguito, dopo il rientro dell'avv. FORZIATI dal suo "soggiorno" in Spagna, questi,
sentito dall'A.G. di Trieste e di Milano, aveva dichiarato di avere appreso da un
altro componente
del gruppo triestino, Manlio PORTOLAN, che autori
dell'attentato erano stati due ordinovisti di Mestre e cioè Delfo ZORZI e Martino
SICILIANO.
Anche tale seconda istruttoria si era tuttavia conclusa con un proscioglimento poichè
le indagini a Mestre erano state assai superficiali e non era stato possibile acquisire
elementi più consistenti. Anche alla luce delle successive dichiarazioni di Vincenzo
VINCIGUERRA, che aveva indicato quale profilo non sufficientemente esplorato
dalle indagini l'unità di azione, a partire dalla fine degli anni '60, del gruppo mestrino
e del gruppo triestino, era comunque sempre rimasto il fondato sospetto che le
indagini iniziali avessero imboccato, anche se non coltivato fino in fondo, la pista
giusta.
114
L'attentato di Trieste e quello contemporaneo di Gorizia sono stati i primi episodi di
cui Martino SICILIANO ha parlato al momento della sua scelta di collaborazione sia
per l'intrinseca gravità dei fatti sia per la netta percezione che egli aveva
immediatamente avuto che essi fossero collegati agli attentati del 12.12.1969.
Vi era infatti la presenza dei candelotti di gelignite, vi era l'utilizzo di cassette
metalliche (seppur portamunizioni e non portavalori e quindi diverse da quelle usate
per il fatti del 12.12.1969) che avrebbero dovuto aumentare la potenza della
deflagrazione; vi era la netta sensazione che la spedizione a Trieste e Gorizia
costituisse una prova di affidabilità e una sperimentazione degli uomini e dei
mezzi in vista di azioni ancora più gravi.
Non a caso Martino SICILIANO, forse giudicato non sufficientemente determinato o
forse troppo facilmente individuabile in caso di indagini abbastanza approfondite
(interr. SICILIANO, 12.9.1996, f.5), era stato escluso dopo gli attentati di ottobre dal
nucleo operativo.
Ecco il racconto in merito ai due attentati reso immediatamente da SICILIANO sin dai
primi interrogatori:
“””
ATTENTATO ALLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE - OTTOBRE 1969
Il 2 ottobre 1969 ZORZI mi parlò della necessità di effettuare un atto
dimostrativo al confine orientale in funzione di contestazione alla
preannunciata visita di Saragat a Tito.
La visita poi non si verificò comunque, ma per motivi che non attenevano al
nostro fallito attentato
Fui incaricato da lui di realizzare col pantografo dei volantini manoscritti antiTito da lasciare in loco.
Ne parlò solo a, me ma ci mettemmo d'accordo per partire il giorno dopo,
insieme a Giancarlo VIANELLO, con la macchina di MAGGI.
L'appuntamento era a Piazzale Roma, dove io, Zorzi e Vianello arrivammo in
autobus e presso il garage San Marco c'era la macchina di Maggi.
Nel baule della stessa vi erano due contenitori metallici del tipo per nastri da
mitragliatrice, di colore grigio/verde, riempiti di bastoni di gelignite con un
timer già approntato al quale mancava solamente di essere attaccata la
batteria.
Chiesi a Zorzi perchè vi erano due ordigni al posto di uno e mi risponde che
uno dovevamo deporlo a Trieste e l'altro a Gorizia.
Preciso che i soldi per la benzina, l'autostrada e il mangiare furono forniti da
Maggi.
Zorzi, poichè glielo chiesi, mi disse che gli ordigni erano stati preparati dallo
ZIO OTTO che ribadisco essere DIGILIO.... Poichè avevo paura di poter
saltare in aria innescando l'ordigno, espressi le mie preoccupazioni a ZORZI il
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quale mi tranquillizzo dicendomi che tutto era stato preparato dalla solita
persona.... Io non sapevo come effettuare il collegamento dei timers agli
ordigni, ma lo ZORZI mi spiegò come i due poli dovessero essere collegati alle
batterie.
Non sono in grado di spiegare perchè fossi stato prescelto.
Saliti in macchina andiamo a TRIESTE ove abbiamo appuntamento con dei
locali e cioè NEAMI e PORTOLAN, quest'ultimo ci portò a casa della nonna o
della zia, deceduta da poco per cui la casa era libera e dove fu effettuato il
collegamento del primo ordigno.
Dagli stessi siamo stati chiamati a questa scuola di lingue slovena ove l'ordigno
è stato collocato se non erro su una finestra. Non ricordò chi lo collocò, io ho
lasciato nelle adiacenze i volantini.
Prendo visione delle fotografie contenute nel fascicolo originale dei rilievi
tecnici del procedimento relativo all'attentato alla scuola slovena.
Riconosco i fogliettini con scritte che furono redatti da me con scritte antislave
ed abbandonati sul posto.
Io avevo iniziato a scrivere i foglietti con un pantografo, ma dopo poco mi
stufai e continuai a scriverli a mano a stampatello.... Riconosco altresì la
cassetta portamunizioni, i candelotti e il congegno di accensione, quest'ultimo
che ebbi occasione do osservare da vicino prima di effettuare personalmente il
collegamento dei fili.
L'orologio era stato munito di un perno per costituire il contatto.
Eravamo convinti, andando via, di sentire un boato che avrebbe dovuto
verificarsi quando noi uscendo da Trieste saremmo stati ormai sulla strada per
Gorizia.
Il tempo programmato non era molto, meno di un'ora, forse 40 o 45 minuti, ma
comunque non sentimmo nulla.
Prendo atto che il congegno non esplose in quanto la batteria era quasi del
tutto scarica e che ciò è stato accertato dalla perizia.
In merito non so cosa dire; io ero convinto che il congegno esplodesse tanto è
vero che ho avuto paura di saltare in aria innescandolo, ma evidentemente
qualcuno aveva programmato l'azione in modo diverso perchè mi sembra
difficile che possa avvenire un errore del genere.
Come è noto, io e Delfo Zorzi, sulla base delle dichiarazioni di Gabriele
FORZIATI, fummo indiziati in istruttoria di tale attentato doversi anni dopo lo
stesso.
Fummo prosciolti, ma Forziati in realtà aveva detto il vero.
Egli non aveva avuto alcun ruolo nella vicenda, ma evidentemente nell'ambiente
di Trieste, che era piccolo, aveva avuto delle confidenze esatte.
Subì anche una bastonatura per ritorsione che proveniva ovviamente
dall'ambiente di Ordine Nuovo di Trieste.
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Preciso che sui quotidiani locali apparve la notizia che la bomba avrebbe
dovuto esplodere intorno a mezzogiorno causando vittime fra i bambini che
frequentavano la scuola.
Ciò non è assolutamente esatto perchè l'ora prevista di scoppio non era certo
mezzogiorno, ma intorno a mezzanotte e cioè poco dopo che l'ordigno era stato
deposto e innescato.
D'altronde la posizione del perno non consente un periodo di attesa superiore
ad un'ora in quanto veniva usato un comune orologio da polso.
ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE CON LA JUGOSLAVIA A GORIZIA
Da Trieste Neami e Portolan ci accompagnarono alla strada per Gorizia ove
arrivammo con la luce e quindi ci intrattenemmo in un bar onde aspettare il
buio e innescare l'ordigno in macchina. Non avemmo appoggi locali.
Fu scelto il cippo situato di fronte alla vecchia stazione ferroviaria. Il luogo
era adatto anche perchè la strada era poco illuminata.
Nei pressi del cippo c'era la rete metallica che segnava il confine.
Non sono in grado di ricordare chi depose la cassetta, forse fui io stesso. Fui
invece certamente io a lasciare lì vicino dei volantini del tutto analoghi a quelli
lasciati a Trieste, anche questi da me manoscritti.
Il congegno deposto a Gorizia, per quanto ricordo, era del tutto identico a
quello deposto a Trieste.
Sapemmo che anche questo ordigno non esplose in quanto non apparve alcuna
notizia sui giornali e Neami e Portolan ci confermarono poi la notizia e a
distanza di qualche settimana comparve sui giornali la notizia del ritrovamento
dell'ordigno inesploso.
Io e Zorzi commentammo il fallimento dei due attentati attribuendolo ad un
errore nostro e cioè di manipolazione dell'ordigno al momento dell'innesco.
Non pensammo ad un difetto originario dell'ordigno....”””
(SICILIANO, 18.10.1994, ff.3-5).
Il dr. Carlo Maria MAGGI era perfettamente consapevole delle finalità della
spedizione e dei motivi per cui la sua autovettura veniva utilizzata:
“””....posso precisare che il dr. Maggi, prestandoci la vettura per andare a
Trieste e a Gorizia, era perfettamente a conoscenza degli attentati che dovevano
essere compiuti e dei loro obiettivi.
Preciso che quando arrivammo al Garage Sam Marco, Maggi non c'era e la
macchina era parcheggiata nel garage con le chiavi nel quadro in quanto era
obbligatorio lasciarvele....”””
(SICILIANO, 19.10.1994, f.8).
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In data 20.10.1994, Martino SICILIANO ha fornito ulteriori precisazioni in particolare
quelle importantissime relative al color rosso della carta che avvolgeva la gelignite:
“””....In merito agli attentati alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine
a Gorizia, faccio presente che Zorzi mi disse, nel corso del viaggio a Trieste,
che nel caso in cui l'effetto sperato sull'opinione pubblica non fosse stato
sufficiente, era già stato approntato un terzo ordigno per il sacrario di
Redipuglia, ove sono sepolti i caduti della prima guerra mondiale, attentato che
ovviamente avrebbe dovuto essere attribuito ai gruppi sloveni di sinistra.
Sempre in merito agli attentati di Trieste e Gorizia, posso precisare che le due
cassette metalliche contenenti l'esplosivo erano una un po' più grande dell'altra,
ma comunque molto simili e di colore e di chiusura uguali.
I candelotti di gelignite erano avvolti in carta color rosso di sfumatura intorno
al mattone/bordeaux.
Posso inoltre precisare che i detonatori erano del tipo elettrico al fulminato di
mercurio.
Voglio aggiungere che, in occasione dell'incriminazione per i fatti di Trieste e
Gorizia, io fornii al giudice istruttore un alibi falso affermando che quella sera
mi trovavo a Trieste con una entreneuse originaria di Bolzano e che a Trieste
aveva un bar-latteria. Io conoscevo effettivamente quella ragazza, che si
chiamava Ivana Deck, nota come Ivonne, ma ovviamente quella sera non ero
con lei....”””
(SICILIANO, 20.10.1994).
Durante e dopo la spedizione a Trieste e Gorizia, Delfo ZORZI aveva fatto a Martino
SICILIANO discorsi ancora più inquietanti: vi erano ancora molti candelotti di
gelignite e molte cassette metalliche utilizzabili per altre operazioni e ZIO OTTO
(cioè Carlo DIGILIO) aveva migliorato e reso più sicuro il sistema di timeraggio
cosicchè le nuove azioni in progettazione sarebbero state portate a termine in
condizioni di assoluta affidabilità (interr. SICILIANO, 20.10.1994, f.3).
Anche Giancarlo VIANELLO ha parlato sin dal primo interrogatorio degli attentati di
Trieste e Gorizia, i fatti più gravi in cui durante la sua militanza era stato coinvolto
sotto la spinta e la determinazione carismatica di Delfo ZORZI:
“””....I due episodi di Trieste e di Gorizia nacquero in concomitanza con una
visita del Presidente Saragat in Jugoslavia.
Secondo Zorzi il senso di questi attentati non era tanto antislavo, quanto di
creare tensione all'interno del nostro Paese con un ripetersi di episodi, magari
non gravi ma diffusi, che colpissero l'opinione pubblica e provocassero disagio
ed una richiesta comunque di maggior autorità e ordine.... L'organizzazione
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degli episodi era dovuto anche nei suoi particolari a Delfo Zorzi, ma pur senza
alcuna reticenza non riesco a ricordare se io ne avessi avuta qualche notizia in
anticipo o al momento stesso della partenza.
Comunque, il senso del mio coinvolgimento, e probabilmente di quello della
ragazza che era con noi, era comunque pormi in una situazione tale da non
potere più poi fare marcia indietro rispetto alla nostra militanza, essendo
compartecipe di fatti di una certa gravità
Martino Siciliano, invece, all'epoca non aveva mostrato segni di distacco dai
progetti e dalle proposte di Zorzi.
Ricordo comunque che partimmo in macchina da Venezia con una Fiat 1100 di
colore chiaro, credo beige, del dr. Maggi, vettura che già conoscevo essendo
stata usata in occasione di propaganda politica e attacchinaggi.
Martino Siciliano, unico di noi ad avere la patente, guidava e oltre a lui
c'eravamo Delfo, io e una ragazza della Campania in qualche modo collegata a
Delfo e che non ebbi più occasione di vedere in seguito.... Io vidi per la prima
volta le due cassette metalliche quando ci fermammo a Trieste per
l'approntamento definitivo degli ordigni.
Raggiungemmo infatti Trieste nel pomeriggio e ci aspettavano due triestini
che conoscevo e che erano noti attivisti di Ordine Nuovo di quella città.
Uno era sicuramente Francesco NEAMI e il secondo era un altro militante che
conoscevo, ma non riesco assolutamente a ricordare se si trattasse di BRESSAN
o di PORTOLAN.
In sostanza c'erano due dei militanti triestini più conosciuti.
Ricordo che ci incontrammo in un certo punto e li seguimmo in macchina fino
ad una abitazione che per quanto ricordo era la casa vuota di una nonna o di
una parente di uno dei due e quindi poteva essere utilizzata per approntare i
congegni con tranquillità. Era una casa in città a Trieste.
In questa casa Delfo Zorzi fece un primo collegamento dei congegni
probabilmente non completo perchè ancora un certo tratto di strada ci divideva
da Gorizia. Gli ordigni, per quanto ricordo, erano costituiti appunto da cassette
metalliche con all'interno dei candelotti e un congegno di innesco formato da
batteria e filo elettrico, detonatore e orologio o sveglia che fungeva da timer.
Ricordo, per affermazione di Zorzi, che i candelotti erano di gelignite, ma non
saprei descriverli in particolare perchè lividi al più per pochi attimi in quanto
Zorzi si era appartato in un'altra stanza per armeggiare con essi.
Ripartimmo da questo appartamento, che ricordo modesto, alla volta di Gorizia
dove arrivammo solo noi quattro intorno all'ora di cena.
C'era ancora movimento e ci recammo quindi a cena in una trattoria e poi al
cinema all'ultimo spettacolo, cioè quello che inizia intorno alle 22.00/22.30,
solo per tirare la mezzanotte e poterci muovere con più libertà.... Ricordo
ancora molto bene quale fosse il film che vedemmo quella sera.
Il cinema era a Gorizia-città e si trattava di un film e brevi episodi di carattere
realistico, ma con toni surreali, a colori, credo americano, nel corso del quale
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c'era ad esempio un episodio di questo genere: due innamorati, che si erano
lasciati, si erano dato un appuntamento per molto tempo dopo e in un'altra
città, e per la fretta di raggiungersi al momento convenuto si erano scontrati
con le rispettive vetture rimanendo uccisi.
Era un film con attori poco noti o che io non conoscevo.
Terminato lo spettacolo ci portammo in una zona fuori città e isolata e al buio,
all'interno della macchina e con la luce interna, Zorzi collegò l'ultimo contatto.
Prendemmo poi una strada sterrata ove, ricordo, ebbi molta paura in quanto la
macchina sobbalzava e con l'ordigno già innescato c'era il serio rischio di
saltare per aria.
Raggiungemmo il punto di confine con la Jugoslavia nei presso di una
stazione ferroviaria.
Zorzi scese e collocò personalmente, mostrando una notevole freddezza,
l'ordigno nei pressi del cippo di confine jugoslavo, superando quindi da solo il
cippo italiano e la cosiddetta zona di nessuno.... Ripartimmo rapidamente per
Trieste, che raggiungemmo quindi intorno all'una di notte.
Preciso che a Trieste, prima di raggiungere la casa della parente di uno dei due
triestini, costoro ci avevano mostrato dove era la Scuola Slovena e quindi, dopo
Gorizia, raggiungemmo il secondo obiettivo senza particolare difficoltà.
Credo, anche se non ho un ricordo preciso, che come per l'episodio precedente,
sia stato effettuato qualche minuto prima l'ultimo collegamento e poi Delfo
depose l'ordigno in qualche punto presso la struttura della scuola.
In questo caso ricordo che lasciammo un certo numero di bigliettini con scritte
antislave nei pressi della scuola. Io li vidi per la prima volta poco prima
dell'azione e ricordo che mi inquietai in quanto le iniziali del "Fronte Anti
Slavo" citato negli stessi, erano le stesse della sigla "F.A.S - Fronte di Azione
Studentesca" che avevamo usato per diffondere volantini di destra nelle scuole
di Mestre e Venezia e ciò avrebbe potuto condurre le indagini fino a noi....
Ricordo un altro particolare e cioè che insieme all'ordigno fu deposto un
contenitore con benzina che avrebbe dovuto, se fosse avvenuta l'esplosione,
creare un incendio.
Ripartimmo a rotta di collo per Venezia.... Posso ancora aggiungere che ebbi
la sensazione che l'utilizzo di questa sigla "F.A.S." che almeno in un certo
contesto era ben leggibile e l'utilizzo di una notevole quantità di esplosivo
fossero un messaggio a referenti di Zorzi per rafforzare il senso della sua
capacità operativa.
Ritengo peraltro che gli ordigni non siano esplosi per un casuale
malfunzionamento, ma che non dovevano esplodere per costituire proprio il
messaggio di cui ho appena parlato, oltre naturalmente a rafforzare il
coinvolgimento degli altri compartecipi....”””
(VIANELLO, 19.11.1994).
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Anche Giancarlo VIANELLO ha dichiarato di avere appreso da ZORZI che il
congegno di innesco era dovuto all'aiuto fornito da "OTTO" e che la gelignite era
custodita in un deposito segreto di Delfo ZORZI.
Giancarlo VIANELLO è stato in grado di ricordare sia come si presentava la gelignite
sia un altro importante particolare di riscontro e cioè la trama del film che il gruppo
aveva visto quella sera a Gorizia in attesa di passare all'azione:
“””....Mi sono ricordato, dopo il precedente interrogatorio, che i candelotti di
gelignite erano avvolti con carta oleata di colore rosso scuro tendente al
mattone o al bordeaux.
E' questo un ricordo visivo netto, anche se non sono in grado di dire a quale
momento della vicenda risalga e cioè a quale momento degli episodi, di cui ho
parlato, dell'ottobre 1969.
Comunque non avevo mai visto tali candelotti prima del viaggio a Trieste e
Gorizia.
Per quanto concerne la sosta a Gorizia in attesa del momento più opportuno
per agire, posso confermare che assistemmo in città ad una proiezione
cinematografica in un comune cinematografo che certamente non era una
cineteca o simili.
Ribadisco che il film era di produzione statunitense e che era un film ad episodi
di carattere fantastico che rappresentava vicende grottesche o surreali.
Mi sono ricordato di qualche frammento di un altro episodio che raccontava la
vicenda di un automobilista decapitato in autostrada da lamiere trasportate da
un camion. L'automobilista aveva proseguito la sua corsa senza testa
provocando incidenti dovuti alla sorpresa degli altri automobilisti....”””
(VIANELLO, 6.12.1994).
In sostanza i due racconti di SICILIANO e VIANELLO, resi separatamente da
parte di persone che avevano perso i contatti da oltre vent'anni, sono quasi
integralmente sovrapponibili e danno quindi garanzia di piena affidabilità.
L'unico lapsus di memoria, più che divergenza, consiste nel fatto che Martino
SICILIANO, nella concitazione del primo interrogatorio in cui egli ha dovuto mettere a
fuoco in poche ore i ricordi relativi a molti episodi lontanissimi nel tempo, ha collocato
l'episodio di Gorizia come successivo, pur nell'ambito della stessa serata, a quello di
Trieste.
Sentito peraltro sul punto in data 25.1.1995, Martino SICILIANO ha ricordato che
l'esatta scansione temporale dei fatti era quella descritta da Giancarlo VIANELLO.
I particolari forniti dai due ex-militanti di Ordine Nuovo in merito alle caratteristiche
dei due episodi coincidono inoltre perfettamente con quanto emerge dai rapporti
giudiziari redatti nell'immediatezza dei fatti.
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Perdipiù sia SICILIANO sia VIANELLO hanno riferito di avere assistito in un
cinema di Gorizia, attendendo la notte e quindi il momento di passare
all'azione, ad un film a carattere surreale e grottesco diviso in singoli episodi
(interr. SICILIANO, 25.1.1995, f.2, e 8.11.1996, f.2; VIANELLO, 19.11.1994, f.7, e
10.12.1996, f.2).
Tale film è certamente "La realtà romanzesca", un film ad episodi che era appunto
in programmazione in quei giorni presso il Cinema Verdi di Gorizia, come si desume
dai quotidiani locali dell'epoca, acquisiti da questo Ufficio tramite la Digos di Venezia.
Tale riscontro conferma in modo assolutamente indiscutibile la presenza del gruppo,
quella sera, a Gorizia.
Carlo DIGILIO, completando il già ricco quadro probatorio relativo ai due attentati
"preparatori", ha confermato che in quel periodo, in occasione di diversi incontri
avvenuti a Mestre, svolgeva attività di "consulenza" in favore di Delfo ZORZI in
merito alle tecniche più adeguate per l'innesco di ordigni esplosivi e che Delfo ZORZI
gli aveva confidato di avere organizzato e personalmente partecipato
all'attentato alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine di Gorizia
(interr. DIGILIO 12.11.1994 e memoriale allegato; 21.2.1997 f.3).
Tali azioni, sempre secondo ZORZI, anche se gli attentati materialmente erano falliti,
avevano avuto un effetto positivo per l'ambiente di destra del Veneto in termini di
prstigio e di operatività e soprattutto avevano contribuito a meglio selezionare e
coagulare il gruppo di militanti che ruotava intorno allo stesso ZORZI (interr. DIGILIO
13.1.1996 f.2).
In relazione all'attentato do Gorizia, Delfo ZORZI si era vantato con DIGILIO di
essersi portato personalmente sulla linea di confine e di avere deposto l'ordigno
sfidando il pericolo di essere sorpreso da qualche pattuglia di "graniciari" (le guardie
di confine jugoslave) che pattugliavano la zona (interr. DIGILIO 21.2.1997 f.2).
Tali particolari corrispondono alle effettive modalità dell'attentato, oltre che alla
assoluta determinazione di Delfo ZORZI quale emerge dagli atti, e corrispondono
altresì alla descrizione della materiale esecuzione dell'attentato fornita da Giancarlo
VIANELLO, il quale ha rievocato la "freddezza" dimostrata da ZORZI nell'avvicinarsi
da solo alla linea di confine (interr. VIANELLO 19.11.1994 f.7)
Infine, sul piano dei riscontri documentali, sono state acquisite al presente
procedimento alcune copie di lettere inviate via telefax da Stefano TRINGALI a
Delfo ZORZI, presso la sua residenza in Giappone, che erano state rinvenute
casualmente e sequestrate dal Nucleo Regionale polizia tributaria della Guardia di
Finanza di Firenze nell'abitazione di Roberto LAGNA (componente del gruppo di
Delfo ZORZI, deceduto nel 1993) durante un'operazione in materia di evasione
fiscale e di utilizzo di marchi falsi.
Il contenuto di tali lettere, che attestano la costante opera di informazione svolta da
TRINGALI in favore di ZORZI in merito a quasi tutte le indagini in materia di
122
eversione di destra in corso in Italia e in cui si fa cenno a molte cose "scottanti"
affidate in passato da ZORZI a TRINGALI, sono state contestate a quest'ultimo, che
si è avvalso della facoltà di non rispondere, nel corso degli interrogatori svolti in data
2.8.1996 e 16.10.1996 ai sensi dell'art.348 bis c.p.p. del 1930.
In una di queste lettere, risalente all'estate del 1986, si fa chiaro riferimento al
fatto che le indagini allora in corso potessero toccare gli elementi più "deboli" e cioè
Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO in quanto "si tratta di roba molto vecchia"
e gli inquirenti "cercano sempre un tuo (nota Ufficio: di Delfo ZORZI) parere nella
faccenda (GO)".
E' evidente la preoccupazione di TRINGALI che, a seguito di un possibile cedimento
di SICILIANO e VIANELLO potesse emergere la responsabilità (il "parere") di ZORZI
in relazione all'attentato di Gorizia.
Inoltre nella stessa lettera si fa chiaro riferimento alla soddisfazione legata al
successo per l'assoluzione di FREDA e VENTURA ai processi di Catanzaro e Bari,
ma nel contempo alla preoccupazione per la possibilità che gli inquirenti, indagando
sul gruppo mestrino, possano trovare "l'anello di congiunzione" tra "l'amico
FRITZ" (quasi certamente Franco FREDA) e il dr. Carlo Maria MAGGI e cioè
provare il collegamento che era mancato nelle prime istruttorie sugli attentati
del 12.12.1969.
Sono quindi espressi a chiare lettere da TRINGALI, sin dal 1988, i timori la cui
fondatezza sarà confermata, quasi 10 anni dopo, dalla collaborazione di Martino
SICILIANO e Carlo DIGILIO ed in questo senso il messaggio sequestrato costituisce
un pieno riscontro anticipato e documentale a quelle che saranno le acquisizioni
della presente istruttoria.
In conclusione, a carico del dr. MAGGI, così come a carico di Delfo ZORZI (cui la
contestazione è già stata effettuata con notifica al domicilio eletto presso il
difensore), sussistono gravi indizi della sua corresponsabilità sul piano decisionale
ed operativo nei due attentati dell'ottobre 1969.
Tale circostanza non è di poco conto in quanto, pur non apparendo corretto
contestare in relazione a tali episodi, come era avvenuto nelle prime istruttorie, il
reato di tentata strage (in quanto l'ordigno doveva esplodere quando la scuola era
chiusa), sono assai significativi gli indizi di continuità strategica e di progressione
operativa fra tali due attentati e quelli del 12.12.1969.
Ci riferiamo alle circostanze riferite da Martino SICILIANO ed esposte all'inizio di
questo paragrafo e in particolare alla presenza a Trieste e Gorizia di candelotti di
gelignite, contenenti binitrotoluene, esplosivo fortemente compatibile, in base alle
perizie effettuate all'epoca, con quello utilizzato per la strage di Piazza Fontana e i 4
attentati ad essa contemporanei.
Ci riferiamo altresì ad altri particolari che Martino SICILIANO non poteva
conoscere.
123
124
I frammenti degli ordigni esplosivi collocati il pomeriggio del 12.12.1969 a
Roma dinanzi all'Altare della Patria, sottoposti a perizia, hanno evidenziato
infatti che i candelotti utilizzati in tale occasione erano avvolti da carta rossa
paraffinata, e cioè dello stesso colore di quella che avvolgeva i candelotti
venduti da Roberto ROTELLI a Delfo ZORZI, visti e maneggiati da SICILIANO,
da VIANELLO e, successivamente, per l'attentato al COIN di Mestre, da Piero
ANDREATTA.
Inoltre anche i candelotti fatti rinvenire da Franco COMACCHIO dopo il
rinvenimento delle armi a Castelfranco Veneto nel novembre 1971, e a lui
consegnati da Giovanni VENTURA, erano in parte candelotti di gelignite avvolti
in carta rossa.
Perdipiù Ruggero PAN, commesso della libreria di Giovanni VENTURA, nel
corso della prima istruttoria ha riferito che questi, nell'agosto del 1969, dopo
gli attentati ai treni, aveva espresso il proposito di utilizzare, per l'avvenire,
delle cassette di ferro al fine di provocare danni maggiori, incaricando
l'elettricista Tullio FABRIS (che ha confermato la circostanza) di reperirle.
Poche settimane dopo, a Trieste e a Gorizia, sono comparse per la prima volta
le cassette metalliche, fortunatamente non esplose.
Gli elementi di collegamento sono quindi più di quanti lo stesso Martino
SICILIANO potesse immaginare.
124
16
LA FUGA DELL'AVV. GABRIELE FORZIATI DA TRIESTE
E IL SUO "SOGGIORNO"
NELL'APPARTAMENTO DI MARCELLO SOFFIATI IN VIA STELLA A VERONA
Quale diretta conseguenza dell'attentato alla Scuola Slovena di Trieste, si innesta la
vicenda della fuga da tale città, all'inizio del 1972, dell'avvocato Gabriele FORZIATI,
già reggente della cellula triestina di Ordine Nuovo e comunque contrario e
personalmente estraneo ad azioni criminose.
Come già si è accennato all'inizio di questo paragrafo, l'avvocato FORZIATI,
depositario dell'incauta rivelazione fatta da PORTOLAN in merito alla
responsabilità di ZORZI e SICILIANO per l'attentato, era stato fatto allontanare
con l'inganno dalla sua città da altri militanti, in particolare Francesco NEAMI e
Claudio BRESSAN i quali avevano agitato dinanzi a lui la notizia, falsa, di un suo
imminente arresto da parte dei Giudici di Treviso per il reato di ricostituzione del
disciolto partito fascista.
In tal modo si intendeva comunque sottrarre l'avvocato FORZIATI a probabili
convocazioni da parte dell'Autorità Giudiziaria dinanzi alla quale egli, in ragione
dei contrasti politici e personali che lo stavano in parte contrapponendo agli altri
ordinovisti triestini, avrebbe probabilmente riferito quanto confidatogli da
PORTOLAN.
Mentre già erano note le fasi iniziali e conclusive della sua fuga, terminata nel
gennaio 1973 e a cui fece seguito la testimonianza dinanzi al G.I. dr. D'Ambrosio
esattamente nei termini che i camerati avevano paventato, era rimasta alquanto
nebulosa la fase intermedia dei suoi spostamenti.
Infatti, come testimoniato dallo stesso Gabriele FORZIATI e come sostanzialmente
ammesso da Claudio BRESSAN anche nella presente istruttoria (dep. BRESSAN a
personale del ROS Carabinieri Reparto Eversione, 15.2.1996), l'avvocato triestino
era stato avviato prima a Venezia, dove era rimasto qualche giorno, sistemato poi
per circa due settimane, prima nell'abitazione del padre di Marcello SOFFIATI a
Colognola ai Colli e poi nell'appartamento di questi a Verona, e infine accompagnato
dallo stesso Marcello SOFFIATI in Spagna.
Se il soggiorno a Venezia era già chiaro nei suoi contorni sin dalle prime indagini
(FORZIATI, tramite l'immancabile MAGGI, era stato ospitato da un altro militante,
Giangastone ROMANI, che gestiva un albergo al Lido), non erano state invece
messe a fuoco le modalità e il significato della permanenza a Verona: cioè chi
lo avesse inviato in tale città, che ruolo nella struttura di Ordine Nuovo avesse
l'appartamento di SOFFIATI in Via Stella, chi in tale appartamento avesse
"custodito" con modi più o meno bruschi lo spaventato triestino.
A tali domande hanno dato una risposta, nel corso di questa istruttoria, quasi
contemporaneamente e pressochè negli stessi termini, Carlo DIGILIO e lo stesso
avvocato FORZIATI e gli elementi che si rilevano da tali racconti sono di importanza
125
126
tutt'altro che trascurabile al fine di ricollegare ruoli e avvenimenti nella storia
complessiva della struttura occulta e di coloro che lo "sorvegliavano".
E' infatti emerso che l'avvocato FORZIATI era stato accompagnato a Colognola ai
Colli, presso l'abitazione del padre di Marcello SOFFIATI, personalmente dal dr.
MAGGI e che, dopo una breve permanenza a Colognola, era stato custodito
nell'appartamento di Via Stella a Verona non solo da SOFFIATI, ma anche da
DIGILIO e da alcuni triestini sotto il controllo ancora del dr. MAGGI e la
"supervisione" di Sergio MINETTO.
Con riferimento alla presenza di quest'ultimo, infatti, Carlo DIGILIO ha raccontato che
l'appartamento di Via Stella non era un punto d'appoggio qualunque, ma al suo
interno o nelle sue immediate vicinanze Sergio MINETTO si incontrava con
SOFFIATI e lo stesso DIGILIO per riunioni riservate durante le quali i due subordinati
gli riferivano le informazioni che egli doveva poi passare ai suoi superiori statunitensi
(interr. DIGILIO 12.11.1994 f.4, 19.4.1996 f.3).
La presenza di MINETTO in Via Stella durante la permanenza dell'avvocato
FORZIATI era quindi collegata all'acquisizione di notizie e al controllo da parte
della struttura informativa anche di tale spezzone della vicenda iniziata con gli
attentati dell'estate e dell'ottobre 1969.
Ecco, sul "prelevamento" di FORZIATI, il racconto di Carlo DIGILIO, che nello
stesso appartamento sarebbe stato ospitato anche all'inizio della sua latitanza
nell'estate del 1982:
“””....FORZIATI era una persona di Trieste, laureato in giurisprudenza, un po'
curvo, mingherlino e malfermo in salute che fu oggetto del seguente episodio.
Vi era il timore che egli riferisse all'Autorità Giudiziaria quello che egli sapeva
sulla struttura in quanto era di Ordine Nuovo e, su ordine di MAGGI, fu quindi
prelevato a Trieste e portato a Colognola ai Colli a casa di Bruno SOFFIATI
per circa un mese e in seguito per un altro mese nell'appartamento di Marcello
SOFFIATI a Verona, in Via Stella.
FORZIATI era trattato molto bene, quasi come un ospite, ma comunque il fine
era di controllarlo e convincerlo a non parlare.
In Via Stella lo controllavano lo stesso Marcello SOFFIATI, Francesco NEAMI,
quello di Trieste con i capelli rossicci, ed un altro triestino di cui non so il nome
e che venne per qualche giorno.
Sergio MINETTO seppe di quello che stava accadendo da Marcello
SOFFIATI e mi incaricò di andare a controllare la situazione facendo in modo
comunque che a FORZIATI non succedesse nulla di male.
Io mi recai varie volte in Via Stella e tranquillizzai il FORZIATI che era una
persona mite, colta e di carattere gentile.
In Via Stella venne qualche volta anche il dr. MAGGI, ma io non sentii i
discorsi che faceva con FORZIATI.
126
Alla fine FORZIATI fu autorizzato a tornare a Trieste.
Mi sono anche ricordato che quando io stesso fui ospite in Via Stella durante la
mia latitanza, Marcello SOFFIATI, prima di sistemarmi lì, aveva chiesto
consiglio a SPIAZZI che aveva risposto: Possiamo metterlo dove avevamo
tenuto il "barone", riferendosi certamente a FORZIATI che vantava, appunto,
titoli nobiliari. Quindi capii che il colonnello SPIAZZI era al corrente di
quanto era avvenuto a FORZIATI.
Inoltre mi dispiacque che un nobile come SPIAZZI, che teneva in casa la
bandiera sabauda, non avesse avuto rispetto di un altro nobile.
A D.R.: Certamente FORZIATI poteva dire delle cose in particolare sul gruppo
triestino che era molto duro e facinoroso....”””
(DIGILIO 31.1.1996 ff.1 e 2).
Quindi non solo il dr. MAGGI e i due triestini (il secondo dei quali identificato in
Claudio FERRARO: int. DIGILIO 4.10.1996 f.3), ma anche Sergio MINETTO e il
col. Amos SPIAZZI, elemento di raccordo a Verona fra la struttura ordinovista e
i militari, seguivano con attenzione e con comprensibile preoccupazione
l'andamento della vicenda dell'avvocato FORZIATI o comunque ne erano al
corrente.
Sulle motivazioni, non certo umanitarie, per le quali il dr. MAGGI seguiva così da
vicino il comportamento dell'avvocato FORZIATI quando si trovava a Verona, Carlo
DIGILIO è stato assai esplicito in un successivo interrogatorio:
“””....Prendo atto che Gabriele FORZIATI, nel corso di una recente
testimonianza, ha dichiarato che durante la sua permanenza in Via Stella erano
state adottate cautele finalizzate ad evitare che si vedesse chi c'era
nell'appartamento, in particolare applicando della carta di colore blu ai vetri.
Non ricordo questo particolare, ma ricordo che effettivamente per garantire la
sicurezza di chi si trovava all'interno venivano utilizzati, durante la presenza
prima dell'avv. Forziati e poi di Bertoli, doppi battenti in legno, sia esterni che
interni, che venivano tenuti il più possibile chiusi.
C'era anche una tenda, che ricordo blu, che copriva interamente la finestra
della camera da letto che guardava sulla tromba delle scale.
In proposito ricordo anche che era quasi sempre NEAMI ad occuparsi di questi
aspetti pratici, operativi e di sicurezza; era cioè lui che apriva e chiudeva le
finestre, apriva la porta e così via.
Una volta, durante la permanenza di FORZIATI, vedendo il comportamento
duro di NEAMI nei suoi confronti, io lo invitai a mitigarlo un po' facendo
presente che l'avv. FORZIATI sembrava innocuo e proprio una brava persona.
NEAMI mi rispose che si comportava così perchè il dr. MAGGI gli aveva detto
che FORZIATI era a conoscenza di cose gravi relative all'attività del gruppo e
se fosse andato dai giudici a testimoniare vi era il rischio che andassimo tutti in
galera.
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Furono proprio queste le testuali parole di NEAMI.
Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia visto armi o materiale esplosivo in Via
Stella in quel periodo, rispondo di no anche perchè tenere materiale simile
durante la permanenza di persone come l'avv. Forziati o Bertoli sarebbe stato
contrario ed elementari regole di sicurezza.
Ricordo tuttavia, in relazione alla dotazione di cui certamente MARCELLO
disponeva, un incontro che avvenne in fondo a Via Stella nella piazzetta prima
di Piazza Bra fra SOFFIATI e il colonnello SPIAZZI, direi 4 o 5 mesi prima
dell'arrivo di FORZIATI a Verona.
Io ero appena uscito dall'appartamento e mi trovavo nei pressi del tabaccaio, al
crocevia, quando vidi SOFFIATI e SPIAZZI che stavano finendo di parlare
nella piazzetta e si stavano salutando. Si allontanarono frettolosamente.
SOFFIATI poi mi raggiunse e io gli chiesi di cosa stesse parlando con il
colonnello in un modo che mi era apparso concitato e lui rispose che SPIAZZI
gli aveva detto di stare molto attento a tenere armi in casa in quanto vi era il
pericolo che la Questura, in caso di rinvenimento anche di una sola arma,
potesse estendere le indagini e far venire alla luce la struttura della V Legione
dei NUCLEI di cui SPIAZZI era responsabile.
SOFFIATI mi disse che aveva rassicurato in tal senso il colonnello e che
avrebbe riportato tale segnalazione anche ad altri aderenti....”””
(DIGILIO 2.12.1996 f.2).
L'avvocato Gabriele FORZIATI, sentito nuovamente sulla vicenda che l'aveva visto
più vittima che protagonista, focalizzando meglio i propri ricordi o forse sciogliendo
qualche riserva e titubanza in merito ad una vicenda comunque per lui assai
traumatica, ha dichiarato di aver visto nell'appartamento (ove i movimenti delle
persone erano pressochè clandestini e le tapparelle venivano tenute abbassate) non
solo Marcello SOFFIATI, ma anche Carlo DIGILIO e Francesco NEAMI e, nei
pressi dell'appartamento, il dr. MAGGI (dep. FORZIATI 6.2.1996 e 27.11.1996 a
questo Ufficio).
Non ha ricordato la figura di Sergio MINETTO, il quale peraltro ha con ogni
probabilità avuto
l'accortezza di non farsi notare da FORZIATI durante la
permanenza di questi a Verona.
Comunque anche in questo caso l'indicazione fornita da Carlo DIGILIO non è rimasta
isolata poichè ad essa si è aggiunta la testimonianza di Dario PERSIC, un
frequentatore della trattoria di Colognola ai Colli, molto legato a Marcello SOFFIATI e
coinvolto con un ruolo più marginale nell'attività del gruppo.
Questi ha infatti dichiarato, nell'ambito di un'articolata e sincera testimonianza che ha
consentito di confermare numerosissimi particolari riferiti da Carlo DIGILIO, che
Sergio MINETTO era perfettamente al corrente della permanenza dell'avvocato
triestino (soprannominato "lo scheletro" per il suo aspetto fisico) prima a Colognola
ai Colli e poi in Via Stella, in quanto lo stesso PERSIC aveva assistito ad un
128
colloquio fra MINETTO e Bruno SOFFIATI, padre di Marcello, in merito alla
necessità di trasferire l'avvocato, certamente anche in ragione delle sue precarie
condizioni di salute, dalla rustica abitazione di Colognola all'appartamento di Via
Stella (deposiz. PERSIC a personale del ROS Carabinieri Reparto Eversione,
8.2.1995 f.3 e 9.2.1995 f.3).
A titolo di completamento degli avvenimenti riguardanti l'attentato di Trieste e il ruolo
dell'avvocato FORZIATI, deve ricordarsi che Martino SICILIANO ha riferito di avere
appreso che Delfo ZORZI e i camerati triestini avevano progettato un'azione di
duro pestaggio nei confronti dell'avvocato FORZIATI per punirlo del suo
"tradimento" costituito dalle dichiarazioni in danno di ZORZI e dello stesso
SICILIANO rese al dr. D'Ambrosio (interr. SICILIANO 15.3.1995 f.9).
L'azione di pestaggio contro l'avvocato FORZIATI era poi effettivamente avvenuta
nell'aprile 1973, materialmente ad opera, con ogni probabilità, degli stessi triestini
(deposiz. FORZIATI 25.2.1992 f.2 e 20.4.1995 f.5).
Il soggiorno forzato dell'avvocato triestino a Verona ha contribuito a mettere a
fuoco l'importanza ricoperta dall'appartamento di Via Stella, per molti anni,
probabilmente dopo l'abbandono del casolare di Paese, vera e propria base
operativa del gruppo, nelle vicende che ne hanno contrassegnato l'attività
eversiva.
In Via Stella infatti, o nelle immediate vicinanze, si incontrava con i suoi informatori,
SOFFIATI e DIGILIO, il caporete veronese Sergio MINETTO quando, lontano da
presenze indiscrete, era necessario raccogliere le notizie utili per la rete statunitense
o fornire le direttive utili per lo sviluppo dell'attività informativa, volta al "controllo
senza repressione" e più di una volta anche al supporto tecnico delle attività eversive
di Ordine Nuovo.
Nei pressi dell'appartamento, a pochi metri dallo stesso all'interno del quale si
trovava ancora DIGILIO, "ospite" fisso in via Stella, il colonello SPIAZZI aveva
avvertito Marcello SOFFIATI, alla fine del 1971, del pericolo che un'operazione della
Questura di Verona potesse portare al rinvenimento delle armi e le indagini
potessero estendersi sino a far venire alla luce la V Legione dei Nuclei di Difesa dello
Stato, di cui il colonello SPIAZZI era responsabile nella città, struttura che egli aveva
costituito affiancando ai militari a lui vicini, pronti al mutamento istituzionale, molti
elementi del gruppo di Ordine Nuovo di Verona (interr. DIGILIO 1°.12.1996 f.2).
Soprattutto, nell'appartamento di Via Stella, istruito e addestrato dalle
medesime persone (SOFFIATI, DIGILIO e il militante triestino Francesco
NEAMI), ancora sotto la direzione del dr. MAGGI e sotto la "supervisione" di
Sergio MINETTO quale responsabile della struttura informativa, all'inizio del
1973 era stato a lungo istruito psicologicamente e addestrato Gianfranco
BERTOLI, agganciato a Mestre dal gruppo affinchè, munito della bomba
ananas lui affidata, non avesse esitazioni a recarsi a Milano e ad attentare alla
vita dell'on. Mariano RUMOR dinanzi alla Questura di Milano (int. DIGILIO
12.10.1996 f.4-6 e 14.10.1996 f.1-3).
129
130
L'operazione, non facile vista l'instabilità di carattere di Gianfranco BERTOLI e la
necessità che egli fosse sorretto psicologicamente ed economicamente, aveva la
finalità, dopo il rifiuto opposto da Vincenzo VINCIGUERRA l'anno precedente ad
accettare tale compito, di colpire il "traditore" e il "vigliacco" Mariano RUMOR che,
nel dicembre 1969, quando era Presidente del Consiglio, dopo molte titubanze,
aveva rifiutato di decretare lo stato di pericolo pubblico, reso impossibile la prevista
presa di posizione dei militari e fatto fallire il disegno strategico/politico che stava
intorno agli attentati del 12.12.1969 (interr.DIGILIO 21.2.1997 f.1-3).
Ed ancora, l'anno successivo, nel maggio 1974, aveva fatto tappa
nell'appartamento di Via Stella, proveniente da Mestre, Marcello SOFFIATI,
portando con sè in una valigetta l'ordigno già quasi pronto consegnatogli dai
mestrini e che doveva essere affidato a Milano a coloro che avrebbero dovuto
deporlo di lì a pochi giorni in Piazza della Loggia a Brescia (interr. DIGILIO
4.5.1996 ff.2-4 e 5.5.1996 f.1).
Carlo DIGILIO, che era stato opportunamente incaricato di restare in attesa
nell'appartamento, aveva, mettendo ancora una volta a disposizione le sue capacità
tecniche, visionato e personalmente modificato il congegno e consentito che il
viaggio di Marcello SOFFIATI verso Milano proseguisse in condizioni di sicurezza.
In conclusione può dirsi che l'appartamento di Via Stella a Verona e coloro che lo
utilizzavano come base o controllavano cosa vi stesse avvenendo, costituisce il
punto di intersezione di quasi tutti gli episodi tragici che, a cavallo degli anni '70,
hanno scritto la storia della "strategia della tensione".
130
17
LA POSIZIONE DI ANNAMARIA COZZO,
FIDANZATA DI DELFO ZORZI,
IN RELAZIONE AGLI ATTENTATI DI TRIESTE E DI GORIZIA
Sin dai primi interrogatori resi dinanzi a questo Ufficio, Martino SICILIANO e
Giancarlo VIANELLO avevano parlato della presenza, a bordo dell’autovettura del dr.
MAGGI diretta a Trieste e Gorizia per l’esecuzione degli attentati, oltre a Delfo
ZORZI, di una ragazza all’epoca legata a ZORZI da un rapporto sentimentale.
Entrambi l’avevano descritta, in modo assolutamente concordante, come una
ragazza intorno ai venti anni, forse di nome ANNA MARIA, di aspetto gradevole, con
i capelli neri a caschetto, di origine napoletana, gravitante nell’area di Ordine Nuovo
di tale città, probabilmente compagna di studi di ZORZI presso la Facoltà di Lingue
Orientali e appassionata di arti marziali (int. SICILIANO, 18.10.1994, f.7; 25.1.1995,
f.2; int. VIANELLO, 19.11.1994, f.6).
Tale ragazza era venuta a Mestre con Delfo ZORZI solo in occasione
dell’esecuzione dei due attentati, anche se il legame che la univa a ZORZI, sia
personale sia politico, appariva stabile e non occasionale.
Il tentativo di identificare la ragazza, delegato da questo Ufficio in varie riprese, a
partire dall’autunno 1994, al R.O.S. Carabinieri, alla D.C.P.P. presso il Ministero
dell’Interno e alla Digos di Milano, nonostante il massimo impegno e le laboriose
ricerche effettuate, non dava l’esito sperato.
Infatti la difficoltà a reperire, visto il tempo trascorso, i cartellini di iscrizione
all’Università di Napoli, la mancanza di tracce documentali in ordine alla presenza
della coppia in alberghi o simili, il fatto che la ragazza non si fosse in seguito
probabilmente evidenziata in modo particolare sul piano dell’attivismo politico, non
avevano consentito una identificazione certa anche se, sommando i dati raccolti, si
era formata una rosa di quattro o cinque nomi, ciascuno però caratterizzato dalla
discordanza di qualche particolare con quelli forniti da SICILIANO e VIANELLO e dal
fatto che non era stato acquisito alcun elemento del rapporto di conoscenza di tali
donne con Delfo ZORZI (in ordine alle ricerche di ANNAMARIA cfr. le note della varie
Autorità di p.g. in vol.17, fasc.3).
L’esistenza di tale misteriosa fidanzata di Delfo ZORZI risultava comunque
assolutamente certa in base ai dati che venivano via via raccolti.
Guido BUSETTO, all’epoca componente della cellula di Mestre, aveva ricordato di
avere conosciuto al campo di addestramento di Tre Confini, in Abruzzo, svoltosi
nell’agosto del 1969 con la partecipazione di soli elementi di Ordine Nuovo, una
ragazza napoletana (forse l’unica ragazza presente al campo) assolutamente
coincidente con la descrizione della giovane presente pochi mesi dopo a Trieste (cfr.
dep. BUSETTO, 18.2.1995, f.1, e, in merito al campo di Tre Confini, vol.8, fasc.4) ed
anche un altro mestrino, Giuliano CAMPANER, ricordava di avere avuto notizia di
una fidanzata napoletana di Delfo ZORZI, probabilmente studentessa universitaria e
131
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forse di nome ANNAMARIA, che tuttavia Delfo ZORZI non gli aveva mai presentato
(dep. 27.4.1995, f.2).
Anche Nico AZZI aveva sentito parlare da Delfo ZORZI di tale ragazza di Napoli,
inserita in Ordine Nuovo, presente anche agli scontri di piazza di Valle Giulia, nel
1968 a Roma, e che in tale occasione si era dimostrata abile nell’uso della fionda
durante gli scontri (int. 6.6.1996, ff.1-2).
Il mistero in ordine all’identità della ragazza di Delfo ZORZI iniziava casualmente a
dissolversi riesaminando una fotocopia di una agenda di Franco FREDA
sequestrata durante le indagini dell’A.G. di Treviso ed allegata agli atti del processo
di Catanzaro.
In una pagina di tale agenda da tavolo appare infatti questa annotazione manoscritta:
“”Annamaria Cozzo, Via Gigante 204 - Napoli (contatto) (mi deve dire il
nome di chi si prende l’iniziativa di vendere libri a Napoli - vedi Delfo - anche
per le xilografie”” (cfr. fotocopia dell’agenda di FREDA, vol.18, fasc.1, f.23).
Era quindi possibile che in Annamaria COZZO potesse identificarsi la ragazza di
Delfo ZORZI, avendola perdipiù Franco FREDA interessata in quel periodo per la
diffusione delle pubblicazioni delle “Edizioni A.R.” a Napoli.
Acquisita quindi una fotografia di Annamaria COZZO che ne riproducesse
fedelmente le fattezze dell’epoca, ella veniva riconosciuta senza alcun dubbio da
Martino SICILIANO (int.14.3.1996, f.5, e 1°.6.1996, f.1) e da Giancarlo VIANELLO
(int.27.5.1996, f.4) come la ragazza presente alla spedizione di Trieste e Gorizia, da
Giampaolo STIMAMIGLIO e, seppur con qualche margine di incertezza visto il tempo
trascorso, da Guido BUSETTO come la ragazza presente al campo di
addestramento di Ordine Nuovo a Tre Confini (dep. STIMAMIGLIO a personale
R.O.S., 29.5.1996, f.2, e dep. BUSETTO, 14.1.1997, f.1).
La mancata identificazione in precedenza di Annamaria COZZO, nonostante le
complesse ricerche effettuate, era dovuta ad un marginale errore dei testimoni.
Ella infatti non era stata iscritta, con Delfo ZORZI alla Facoltà di Lingue Orientali di
Napoli, bensì ad altra Facoltà e la mancanza di tale elemento di collegamento aveva
fatto venire meno la messa a fuoco della sua persona e indotto la p.g. delegata a
seguire o a curare prevalentemente altre piste.
Peraltro, proprio nei giorni in cui era avvenuto il recupero dell’agenda di Franco
FREDA, quando ancora non vi era alcuna certezza in ordine alla identificazione nella
COZZO, fra le diverse donne possibili, della ragazza presente a Trieste, ella veniva
sentita in sede di sommarie informazioni testimoniali da personale del R.O.S.
Carabinieri.
In tale sede Annamaria COZZO, spiegando di avere militato per lungo tempo
nell’area di estrema destra, e in particolare nel FUAN di Napoli, e di avere
partecipato agli scontri del marzo 1968 all’Università di Roma, riconosceva, dopo
molte titubanze e reticenze, di avere conosciuto Delfo ZORZI, frequentatore come lei
132
di una palestra di arti marziali a Napoli, e di avere intrattenuto con lo stesso un
legame sentimentale (cfr. s.i.t. 18.1.1996, f.6).
Annamaria COZZO riferiva altresì, dopo altre esitazioni, di avere partecipato ad un
campo di addestramento “filosofico-ideologico” sugli Appennini, organizzato dal prof.
Paolo SIGNORELLI (si tratta certamente del campo di Tre Confini) e di ricordare
bene il nome, anche se non le fattezze, di Guido BUSETTO (s.i.t. citato, f.7).
Proseguiva ammettendo di essere stata coinvolta in due attentati dimostrativi,
collegati alla visita del Presidente Saragat in Jugoslavia ed avvenuti uno a
Trieste e il secondo in una zona di confine.
Ricordava che in tale spedizione era presente Delfo ZORZI e che per commettere
l’attentato di Trieste era stata deposta una cassetta vicino ad un muro di cinta ed
erano stati lasciati sul posto dei volantini (s.i.t. citato, f.8).
A seguito di tali sintetici ma inequivoci riferimenti agli attentati di Trieste e Gorizia,
questo Ufficio procedeva a indiziare formalmente la COZZO in ordine ai reati
connessi ai due episodi, con informazione di garanzia ed invito a comparire per il
giorno 9.3.1996.
Tuttavia Annamaria COZZO, che si era resa conto o era stata probabilmente, nel
frattempo, “invitata” a rendersi conto della gravità e dell’importanza per le
indagini delle dichiarazioni che ella stava per rendere, non si presentava
inviando inoltre all’Ufficio un fax con cui comunicava la scelta di avvalersi comunque
della facoltà di non rispondere.
Anche non volendo tenere conto, su un piano di correttezza processuale, dell’ultima
parte della deposizione di Annamaria COZZO in quanto contenente dichiarazioni
pregiudizievoli per se stessa, rese nella qualità di testimone, è certo che gli elementi
forniti sulla sua persona tolgono ogni dubbio in merito all’identificazione nella COZZO
della ragazza di Delfo ZORZI presente ai due attentati e che l’intera testimonianza,
utilizzabile comunque a riscontro delle altre dichiarazioni, contiene elementi del tutto
in sintonia con le acquisizioni processuali.
La presenza di Annamaria COZZO a Trieste e Gorizia non deve inoltre essere
considerata casuale ed occasionale alla luce di quanto riferito da Martino SICILIANO
in merito agli avvenimenti immediatamente precedenti.
Martino SICILIANO, infatti, era stato convocato qualche giorno prima da Delfo ZORZI
a Napoli, aveva raggiunto tale città in treno portando, sempre su richiesta di ZORZI,
un fucile tedesco della seconda guerra mondiale quasi certamente consegnatogli da
Paolo MOLIN e, alla stazione ferroviaria di Napoli, aveva incontrato Delfo ZORZI e la
ragazza.
Da qui erano partiti a bordo della FIAT 500 della COZZO in direzione di Bari e
sull’autostrada, all’altezza di Candela, si erano fermati e ZORZI e la ragazza si
erano allontanati per qualche minuto occultando il fucile in qualche
nascondiglio.
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Ripassando rapidamente per Napoli erano subito ripartiti alla volta di Mestre,
raggiungendola in un’unica tappa, e nel giro di un paio di giorni vi era stata
l’operazione di Trieste e Gorizia (int. SICILIANO, 18.10.1996, f.4; 14.3.1996, f.5).
Di tali strani spostamenti, Martino SICILIANO ha fornito una sua spiegazione che
appare del tutto condivisibile:
“””...ho sempre avuto sin dai primi giorni la netta sensazione che la
spedizione a Trieste e Gorizia fosse una messa alla prova dei mezzi e delle
persone e della loro affidabilità per le operazioni successive.
Anche il complesso tragitto iniziato con il trasporto del fucile a Napoli, il
viaggio a Candela insieme ad Anna Maria, il lungo viaggio con la Fiat 500 di
nuovo sino a Mestre, seguito nel giro di pochissimi giorni dalla spedizione a
Trieste e Gorizia, dava la netta idea di una verifica della disponibilità delle
persone.
Del resto non ho mai capito perchè mi fu chiesto di portare a Napoli un fucile
di non particolare pregio, anzi un residuato bellico, privo di munizioni, al solo
fine di occultarlo, dopo un altro viaggio, nei pressi di un'autostrada”””.
(SICILIANO, int.20.3.1996).
I singolari spostamenti di SICILIANO da Mestre a Napoli e del gruppetto prima in
direzione di Bari e poi, senza alcuna sosta, sino a Mestre costituiscono quindi
un’altra prova indiziaria del fatto che le attività di quei giorni e la spedizione a
Trieste e Gorizia non fossero altro che una prova, in termini di affidabilità dei
mezzi e delle persone, di operazioni ben più gravi che sarebbero state portate a
termine poco tempo dopo.
Si noti del resto che Delfo ZORZI deve avere valutato il pericolo che Annamaria
COZZO fosse identificata e che, in ragione del bagaglio di conoscenze di cui
certamente la donna dispone in merito alle attività dello stesso ZORZI nel 1968/1969,
potesse rendere dichiarazioni pregiudizievoli sia per la sua posizione sia per Ordine
Nuovo in generale.
Non è probabilmente un caso che Delfo ZORZI, in sede di spontanee
dichiarazioni rese a Parigi nel dicembre 1995 al P.M. di Milano, parlando dei
suoi legami sentimentali alla fine degli anni ‘60, abbia fatto riferimento a tale
Marina CUZZOLIN e ad una certa ANNA MARIA o ANNA CLAUDIA, ma non di
origine napoletana, bensì dalmata.
In proposito Martino SICILIANO ha fatto presente che Marina CUZZOLIN era
persona esistente, ma del tutto estranea all’attività politica del gruppo, mentre non
esisteva nell’ambito delle conoscenze di ZORZI alcuna ANNA MARIA o ANNA
CLAUDIA di origine dalmata, ragazza di cui certamente, in caso contrario,
SICILIANO avrebbe almeno sentito parlare in ragione del legame di amicizia che lo
legava a Delfo ZORZI (int. 17.4.1996, f.2).
In sostanza è molto probabile che in tale occasione ZORZI, mescolando, secondo
una tecnica sperimentata, notizie vere ma prive di qualsiasi interesse e notizie false,
134
abbia deliberatamente cercato di stornare l’attenzione degli inquirenti dalla
vera ANNAMARIA, persona che non doveva essere identificata e quindi nemmeno
nominata in quanto coinvolta negli attentati di Trieste e Gorizia.
In conclusione è opportuno sottolineare che una completa testimonianza di
Annamaria COZZO avrebbe molto probabilmente consentito di acquisire, in ragione
del suo rapporto confidenziale con Delfo ZORZI e della comune militanza politica
negli anni cruciali, elementi di grande importanza per le indagini.
Ciò non è stato reso possibile anche dalla sconsiderato comportamento di un
funzionario della Digos di Milano (non di tale Ufficio nel suo insieme) che, alla fine
del 1995, non ha ritenuto suo dovere fornire a questo Ufficio gli ulteriori dati in corso
di acquisizione in merito all’identificazione di ANNAMARIA (ma solo eventualmente
alla Procura di Milano che aveva attivato, senza alcun coordinamento e a dispetto
degli accordi assunti con questo Ufficio, ricerche parallele).
Tale possibilità è stata infatti frustrata anche dall’assoluto rifiuto della Procura della
Repubblica di coordinare le attività investigative e l’intervento processuale relativo ad
ANNAMARIA, riducendo così in modo sensibile le probabilità di un risultato positivo e
l’utilizzo al meglio dei dati raccolti.
Gli incresciosi strascichi cui ha dato luogo, non per responsabilità di questo Ufficio, la
ricerca di ANNAMARIA sono ampiamente esposti nella memoria inviata nella
primavera del 1996 al Consiglio Superiore della Magistratura, allegata agli atti della
presente istruttoria.
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136
18
LA POSIZIONE DEGLI ORDINOVISTI TRIESTINI
IN RELAZIONE ALL’ATTENTATO ALLA SCUOLA SLOVENA
Resta solo da esaminare, in relazione all’attentato alla Scuola Slovena, la posizione
degli elementi triestini, indicati da SICILIANO e VIANELLO, della cellula di Ordine
Nuovo, cellula molto attiva nella città anche per evidenti ragioni storico-culturali e
molto probabilmente responsabile anche di azioni di provocazione, negli anni ‘60,
oltre il confine jugoslavo che si erano concluse con sparatorie con le guardie di
confine (int. SICILIANO, 28.3.1996, f.2).
Fittissimi e di antica data sono i collegamenti che emergono, dalle
testimonianze e dagli altri atti istruttori, fra la cellula di Trieste e la cellula di
Mestre/Venezia e sembra superfluo citarli tutti.
Basti solo ricordare che, sin dalla metà degli anni ‘60, vi erano state riunioni comuni
di elementi di Mestre/Venezia, di Trieste e di altre città, ancora all’interno dell’ala più
radicale del M.S.I. e ancora prima dell’uscita di Ordine Nuovo dal partito (int.
SICILIANO, 17.4.1996, f.3) e che Francesco NEAMI era sovente ospite, a Venezia,
in casa MAGGI (int. DIGILIO, 25.6.1993, f.4; 12.10.1996, f.5), che a Trieste,
SICILIANO, VIANELLO e BUSETTO si erano recati per dare man forte ai camerati
nell’azione punitiva contro i giovani di estrema sinistra (int. SICILIANO, 20.10.1994,
f.7; int. VIANELLO, 19.11.1994, f.10; dep. BUSETTO, 11.11.1994, f.2) e che, del
resto, normalmente i militanti triestini erano presenti alle manifestazioni di Ordine
Nuovo a Mestre e viceversa i mestrini a quelle convocate a Trieste.
I triestini erano stati infatti presenti, con un ruolo molto attivo, agli scontri del 3.5.1970
in Piazza Ferretto, a Mestre, con giovani di opposta tendenza in occasione di un
comizio dell’on. ROMUALDI (int. SICILIANO, 28.3.1996, f.3; 5.4.1996, f.2; confronto
SICILIANO-Claudio BRESSAN, 22.3.1996, f.3, nel corso del quale il triestino
BRESSAN ha ammesso la sua presenza a Mestre), mentre i mestrini poco tempo
dopo, l’8.12.1970, avevano partecipato in massa, a Trieste, ad una manifestazione di
carattere antislavo che si era conclusa con l’assalto alla sede del P.S.I. e altre azioni
di violenza e con l’incriminazione e la condanna, fra gli altri, di Martino SICILIANO,
Giampietro MARIGA e Francesco NEAMI (int. SICILIANO, 25.10.1996, f.4 e
sentenza allegata alla nota della Digos di Trieste in data 10.10.1996, vol.25, fasc.5,
ff.23 e ss.).
I nomi di vari militanti triestini (fra cui ancora Francesco NEAMI) erano inoltre
presenti nell’agenda sequestrata a Franco FREDA all’inizio dell’istruttoria sulla c.d.
pista nera (int. SICILIANO, 21.3.1996, ff.1-2) e in particolare i rapporti fra Claudio
BRESSAN e Franco FREDA sono proseguiti quantomeno sino alla fine degli anni
‘70, quando FREDA si trovava in carcere (cfr. fascicolo della Digos di Trieste
intestato a Claudio BRESSAN, vol.17, fasc.2, ff.26 e 37-39) a testimonianza
dell’importanza rivestita dal gruppo triestino all’interno della geografia di Ordine
Nuovo.
136
Per quanto concerne l’attentato alla Scuola Slovena, risulta dalle concordi
dichiarazioni di Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO (di indiscutibile
valenza probatoria in quanto rese separatamente, a brevissima distanza di
tempo, da due persone che non si vedevano da oltre 20 anni) che l’apporto dei
militanti triestini fu duplice.
Essi infatti, dopo avere atteso e incontrato a Trieste il gruppo che proveniva da
Mestre a bordo della FIAT 1100, avevano mostrato ai camerati il punto esatto
dove si trovava la Scuola Slovena e quindi la migliore via di accesso e di fuga e
avevano messo a disposizione dei mestrini un appartamento, non distante
dalla Scuola Slovena, nella disponibilità di uno dei militanti del gruppo,
affinchè Delfo ZORZI e gli altri, con una breve sosta, potessero approntare e
collegare in condizioni di sicurezza gli inneschi degli ordigni contenuti in due
cassette militari che dovevano essere deposte, nella notte, prima a Gorizia sul
confine e poi a Trieste.
Pur essendo pacifica la presenza e il contributo dei camerati triestini, Martino
SICILIANO e Giancarlo VIANELLO hanno avuto difficoltà, in ragione del tempo
trascorso, a ricordare quali e quanti dei militanti della locale cellula fossero presenti e
quali li abbiano accompagnati nell’appartamento.
Martino SICILIANO, mettendo a fuoco progressivamente tali scene, ha ricordato che
all’appuntamento a Trieste erano presenti tutti e quattro i militanti più noti della cellula
triestina (PORTOLAN, NEAMI, BRESSAN e Claudio FERRARO), ma che solo due, e
cioè i più decisi e determinati NEAMI e PORTOLAN, avevano accompagnato il
gruppo dei mestrini nell’abitazione che era di proprietà di una parente deceduta di
PORTOLAN e che si trovava a non molta distanza dalla Scuola Slovena (int.
18.10.1994, f.4; 29.1.1995, f.2; 16.3.1996, f.4; confronto con Claudio BRESSAN,
citato, ff.4-5, e, in merito alla presenza di Claudio FERRARO, int.9.10.1996, ff.1-2).
Giancarlo VIANELLO ha ricordato la presenza solo di due triestini, uno dei quali
certamente Francesco NEAMI e il secondo anch’egli uno dei militanti più noti, non
riuscendo tuttavia a focalizzare se si trattasse di Manlio PORTOLAN o Claudio
BRESSAN (int.19.11.1994, f.6, e 6.12.1994, f.2).
L’appartamento in cui i mestrini erano stati condotti era modesto, non era abitato e
apparteneva ad un parente di uno dei due triestini (int. VIANELLO, 19.11.1994, f.7, e
27.5.1996, ff.5-6).
Tali incertezze, comprensibili a tanta distanza nel tempo dei fatti e comunque di per
sè indicative della sincerità dei due dichiaranti, non sminuiscono minimamente il
quadro di accusa anche tenendo presente che l’indispensabile apporto logistico
fornito dal gruppo triestino non solo è perfettamente logico, ma è del tutto in sintonia
con l’intervento del gruppo quando, tre anni dopo, sarebbe stato necessario far
allontanare da Trieste l’avv. Gabriele FORZIATI nel timore che egli rivelasse quanto,
seppur in modo indiretto, egli sapeva sulla responsabilità dei triestini nell’attuazione
degli attentati.
Infatti la fuga dell’avv. FORZIATI da Trieste a Venezia era stata ispirata e patrocinata
con un tranello da Claudio BRESSAN e in seguito Francesco NEAMI e
137
138
probabilmente Claudio FERRARO avevano sorvegliato lo spaventato avvocato
nell’appartamento di Via Stella, a Verona, prima che egli raggiungesse la Grecia (cfr.
capitolo 16 della presente sentenza-ordinanza).
Sul piano delle conclusioni istruttorie, non potendosi, alla luce di quanto esposto nei
capitoli precedenti, qualificarsi l’attentato alla Scuola Slovena come tentata strage e
non potendosi quindi riaprire l’istruttoria nei confronti di Francesco NEAMI (già
prosciolto in sede istruttoria dal G.I. di Trieste) in quanto i reati meno gravi
configurabili sono estinti per prescrizione, deve essere emessa nei suoi confronti
sentenza di non doversi procedere per inammissibilità di un secondo giudizio.
Nei confronti di Manlio PORTOLAN invece, molto probabilmente presente
all’appuntamento a Trieste e molto probabilmente colui che aveva messo a
disposizione l’appartamento ove fu operato l’innesco degli ordigni, condividendosi le
richieste del Pubblico Ministero, deve essere emessa sentenza di non doversi
procedere per gli stessi reati per intervenuta prescrizione.
Il contributo della cellula di Ordine Nuovo di Trieste all’attentato alla Scuola Slovena
dell’ottobre 1969 è, su un piano prospettico, tutt’altro che secondario in quanto tale
attentato si pone a metà strada fra gli altri attentati cui tale cellula, secondo i pur
incompleti dati emersi, avrebbe partecipato rafforzando l’ipotesi di una stabile
operatività organizzata e diretta in prima persona dal dr. MAGGI.
Vincenzo VINCIGUERRA, infatti, pur non rivelando la fonte delle sue conoscenze,
comunque certamente interne alla struttura di Ordine Nuovo e quindi attendibili, ha
dichiarato che Giovanni VENTURA, accennando al G.I. dr. D’Ambrosio alla
corresponsabilità della cellula di Udine negli attentati ai treni dell’agosto 1969,
(cellula ormai disintegrata dal disastroso esito del dirottamento di Ronchi dei
Legionari in cui aveva trovato la morte Ivano BOCCACCIO), aveva coscientemente
mentito e cercato di confondere gli investigatori in quanto all’esecuzione di tali
attentati, come ben noto allo stesso VENTURA, aveva partecipato invece la
cellula di Trieste ancora intatta e operativa (int. VINCIGUERRA, 2.12.1992, f.2;
21.12.1992, f.3).
Carlo DIGILIO ha poi confermato che i triestini, sempre a seguito di direttive del
dr. MAGGI, avevano partecipato agli attentati ai treni (int.30.8.1996, f.3) e
avevano poi dato il loro apporto per l’esecuzione degli attentati “minori” del
12.12.1969 che erano avvenuti a Roma (int.10.9.1996, f.4).
Un filo di continuità collega quindi l’importante cellula di Trieste a tutta la catena degli
attentati, dalle “prove” di agosto e di ottobre sino alla giornata del 12.12.1969.
A margine del coinvolgimento degli elementi triestini di Ordine Nuovo nell’attentato
alla Scuola Slovena si colloca la vicenda relativa all’attività informativa e di
collaborazione svolta dalla famiglia PORTOLAN con le strutture di sicurezza del
nostro Paese e della NATO.
Claudio BRESSAN infatti, sin dalla deposizione resa a personale del R.O.S. in data
11.1.1996, aveva fatto cenno alle confidenze ricevute da Manlio PORTOLAN in
merito al fatto che la madre, rimasta vedova, aveva affittato, alla fine degli anni ‘60,
138
una stanza dell’appartamento di Via Belpoggio, ove risiedeva con il figlio, ad agenti
dei servizi segreti, probabilmente del S.I.D. (dep. citata, f.2).
Tale disponibilità era ricollegabile al fatto che il padre di Manlio PORTOLAN,
sottufficiale della Guardia di Finanza, era stato in vita sempre legato al medesimo
ambiente e di conseguenza il punto di appoggio fornito dalla signora PORTOLAN ad
agenti dei servizi distaccati a Trieste era la naturale prosecuzione dell’attività svolta
dal marito (int. BRESSAN, 1°.3.1996, f.4).
In ragione della situazione che si era creata, anche al figlio Manlio era stata chiesta
una collaborazione con il Servizio che egli aveva effettivamente prestato passando
informazioni sull’ambiente di estrema sinistra locale (int. citato, f.4).
Tale circostanza aveva influito negativamente sull’amicizia fra Claudio BRESSAN e
Manlio PORTOLAN, tanto più che quest’ultimo, a dispetto delle teorie naziste e
antisemite coltivate all’interno di Ordine Nuovo, era stato assunto presso la ditta di
trasporti israeliana ZIM (dep. 11.1.1996, f.3).
Tali notizie apparivano immediatamente interessanti e attendibili anche perchè
Claudio BRESSAN, certamente non un pentito nè un collaboratore, aveva inteso
riferirle incidentalmente per spiegare i contrasti di natura personale e politica insorti ,
all’inizio degli anni ‘70, con Manlio PORTOLAN all’interno della cellula di Ordine
Nuovo di Trieste.
Veniva quindi deciso di affidare al S.I.S.Mi. la ricerca di tutti gli atti, risalenti al
periodo dall’immediato dopoguerra alla fine degli anni ‘60, che potessero confermare
quanto riferito da Claudio BRESSAN.
La ricerca dava esito positivo.
Infatti, dagli atti forniti dalla Direzione del S.I.S.Mi. risultava che il maresciallo della
Guardia di Finanza Filippo PORTOLAN, originario della Dalmazia e sottoposto sin
dal dicembre 1943 a procedimento di discriminazione per la sua attività fascista, nel
dopoguerra era stato distaccato presso il SIFAR con compiti controinformativi di
particolare delicatezza in relazione alla situazione jugoslava e aveva anche
collaborato con l’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore Esercito sino al momento
del suo posizionamento in congedo, nel 1959 (cfr. fascicolo relativo al mar. Filippo
PORTOLAN presso l’Ufficio Coordinamento Informativo e Sicurezza della Guardia di
Finanza, vol.20, fasc.4, ff.1 e ss.).
Soprattutto dal fascicolo intestato al maresciallo PORTOLAN fornito dal S.I.S.Mi.
(vol.20, fasc.4, ff.48 e ss.) e dall’allegata nota di analisi del Reparto Eversione del
R.O.S. Carabinieri in data 21.9.1996) emergeva che il maresciallo, anche dopo il suo
congedo e sino alla sua morte, aveva continuato a svolgere attività informativa per
il Centro C.S. di Trieste e per persone distaccate dell’Ufficio R del S.I.D. in merito
alla situazione jugoslava di cui era buon conoscitore avendo prestato servizio
militare, durante la guerra, lungo il litorale dalmata e parlando correntemente il
serbo/croato ed era stato anche in contatto, nel 1967, con ufficiali della NATO e
del Comando del Counter Intelligence Corps della base SETAF di Vicenza per
un’azione informativa da svolgere in territorio bulgaro.
139
140
L’eccessiva autonomia e disinvoltura mostrate dal maresciallo PORTOLAN (cui
erano stati assegnati i nomi in codice PIPPO e INES) nei rapporti con tali ultime
strutture gli erano costate, nel maggio 1967, una “reprimenda” da parte di un
elemento del Raggruppamento Centri C.S. di Roma giunto appositamente a Trieste
per verificarne l’attività (cfr. nota in data 22.5.1967 del Centro C.S. di Trieste, ff.117 e
ss.).
Pur non essendovi agli atti riferimenti ad una successiva, analoga attività del figlio
Manlio, è evidente che gli elementi acquisiti grazie a tali fascicolo rafforzano
notevolmente il racconto di Claudio BRESSAN in merito ai contatti con apparati
istituzionali dell’ex-Reggente della cellula di Ordine Nuovo di Trieste e come tale, e
fino alla sua sostituzione con Francesco NEAMI nel 1968/1969, diretto referente del
dr. MAGGI sul territorio.
Perdipiù il generale Guido GIULIANI, Capocentro S.I.D. a Trieste fra il 1965 e il 1968
e firmatario di alcuni atti contenuti nel fascicolo intestato al maresciallo Filippo
PORTOLAN, ha confermato non solo che quest’ultimo era uno stabile e importante
collaboratore del Centro, soprattutto nelle azioni informative relative alla Jugoslavia,
ma anche che il figlio Manlio, di cui il Centro C.S. di Trieste pure ben conosceva
l’attiva militanza ordinovista, era stato reclutato per fornire informazioni (dep.
generale GIULIANI al G.I. di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, e a questo Ufficio,
28.8.1997, ff.3-4).
E’ significativo ricordare che nel fascicolo intestato al maresciallo Filippo
PORTOLAN, appena citato, sono presenti due note del Centro C.S. di Trieste con le
quali si comunica al Reparto “D” della Direzione Centrale del Servizio l’esito del
processo celebrato nel giugno 1962 dal Tribunale di Trieste e che si era concluso
con la condanna di Manlio PORTOLAN a circa un anno di reclusione, di Claudio
BRESSAN e di altri 3 ordinovisti triestini per l’attentato in danno dell’abitazione
dell’antifascista prof. Carlo Schiffrer, avvenuto il precedente 1° aprile, e di Francesco
NEAMI per detenzione di armi ed esplosivi (cfr. note del Centro C.S. di Trieste,
26.4.1962 e 2.7.1962, vol.20, fasc.4, ff.89 e ss.).
E’ certamente singolare che il Centro C.S. di Trieste utilizzasse e abbia
continuato ad utilizzare quale collaboratore sul piano informativo il maresciallo
Filippo PORTOLAN e, a un livello più generico, il figlio Manlio negli stessi anni
in cui quest’ultimo si rendeva responsabile di attentati e di detenzione di
esplosivo ed era uno degli elementi portanti dell’agguerrito e pericoloso
gruppo di Ordine Nuovo di Trieste, la cui attività, vi è da concludersi, non
interessava più di tanto il Servizio.
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19
L’ATTENTATO AI MAGAZZINI COIN DI MESTRE
DEL 27 MARZO 1970
L’attentato dimostrativo ai magazzini COIN di Mestre, pur nella modestia
dell’accadimento, confinato per pochi giorni nella cronaca dei quotidiani locali,
costituisce uno dei nodi centrali di questa istruttoria e dell’istruttoria collegata, in
corso presso la Procura della Repubblica di Milano, in quanto esso segna la
ricomparsa della gelignite utilizzata a Trieste e Gorizia e probabilmente anche
per gli attentati più gravi, e le reazioni, altrimenti ingiustificate, di Piero
ANDREATTA e degli uomini vicini a Delfo ZORZI rimasti a Mestre, accese dalle
indagini allorchè hanno toccato tale episodio, dimostrano che da tale filo era
possibile, come è stato anche se solo in parte, risalire all’intera matassa.
Di tale episodio ha parlato sin dai primi interrogatori e più volte, anche per
progressive messe a fuoco sollecitate dal sempre maggiore interesse degli inquirenti,
Martino SICILIANO.
In sintesi:
- Piero ANDREATTA si era presentato nella sede di Via Mestrina con un ordigno
costituito da due o tre candelotti di gelignite e dal solito innesco costituito
dall’orologio da polso con il perno nel quadrante, la batteria e i fili elettrici, pregando
Martino SICILIANO di provvedere al collegamento dell’innesco (int. 18.10.1994, f.10).
- SICILIANO aveva aderito alla richiesta, ma, non essendo in gradi di ripetere
esattamente l’operazione come gli era stata insegnata prima degli attentati di Trieste
e Gorizia, aveva avvisato ANDREATTA che l’ordigno non era in condizioni di
sicurezza (int. 25.1.1995, f.3).
E’ quindi probabile che ANDREATTA abbia deciso di cambiare il programma
operativo, utilizzando una comune miccia come del resto risulta dal rapporto di
polizia giudiziaria relativo all’episodio.
- I candelotti che ANDREATTA aveva portato, gelignite avvolta in carta paraffinata
rossa, erano assolutamente identici a quelli visti da SICILIANO l’ottobre
precedente, durante la spedizione a Trieste e Gorizia (int.25.1.1995, f.3).
- Il movente dell’attentato dinamitardo era prevalentemente di carattere
personale, anche se venato di coloriture politiche, in quanto ANDREATTA
intendeva “vendicare” una ragazza a lui legata, dipendente del COIN, che aveva
avuto problemi all’interno dell’azienda (int. 18.10.1994, f.7).
Focalizzando meglio tale aspetto, una volta accertato che Giuseppe FREZZATO
conviveva all’epoca con Ivana PESCE, dipendente del COIN e sorella di Fiorenzo
PESCE, in stretti rapporti commerciali con ANDREATTA nell’ambito
dell’Associazione Italia-Benin, Martino SICILIANO ha ritenuto più probabile, per un
errore della sua memoria o per un’ambiguità della confidenza di ANDREATTA, che il
movente dell’episodio fosse riconducibile a FREZZATO (int. 28.3.1996, f.4).
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142
L’aiuto era stato chiesto a Martino SICILIANO personalmente da ANDREATTA solo
perchè i rapporti fra i due, all’epoca, erano già molto stretti, mentre la conoscenza di
FREZZATO da parte di SICILIANO era molto superficiale.
Si noti che Piero ANDREATTA svolgeva all’epoca attività commerciale in Africa non
solo per conto di Fiorenzo PESCE, ma anche di Stefano TRINGALI che era suo
socio e costoro facevano riferimento, sempre sul piano commerciale, a Delfo ZORZI
(int.28.3.1996, f.5).
- Inoltre pochi giorni prima dell’attentato, Delfo ZORZI aveva chiesto a SICILIANO di
fare un giro in motoretta intorno a Piazza Barche, con la Vespa di un giovane
presente in quel momento con loro nella piazza, e di calcolare il tempo che
consentiva di allontanarsi con tale mezzo dai magazzini COIN e porsi al riparo da
una situazione di allarme (int. 28.8.1996, f.2).
ZORZI aveva spiegato a SICILIANO che era in programma qualcosa contro i
magazzini COIN, in risposta ad uno sciopero in occasione del quale era stato
impedito un volantinaggio di destra.
SICILIANO aveva accettato di fare il controllo con la motoretta, facendo comunque
presente a ZORZI che non intendeva occuparsi di tale azione.
Delfo ZORZI, forse anche in ragione della sua diversa personalità, aveva quindi dato
a SICILIANO una spiegazione dell’azione in programma un po’ diversa da quella
fornita da ANDREATTA accentuandone il carattere più propriamente politico
(int.28.8.1996, f.2) e di risposta ad una iniziativa sindacale.
L’attentato ai magazzini COIN veniva individuato in quello avvenuto la notte fra
il 27 e il 28 marzo 1970, collocando un ordigno a miccia alla base di una
vetrata.
L’attentato era avvenuto il giorno precedente a quello in cui era già stato proclamato
uno sciopero dei dipendenti indetto dalle confederazioni sindacali e, nonostante le
indagini svolte, gli autori erano rimasti ignoti (cfr. nota della Digos di Venezia in data
17.12.1996 e atti allegati).
Non risultava nemmeno difficile mettere a fuoco, in base agli atti raccolti dalla Digos
di Venezia, le figure di Piero ANDREATTA e Giuseppe FREZZATO, entrambi
militanti di destra di Mestre, il primo iscritto al M.S.I. e il secondo alla CISNAL,
entrambi legati ad ambienti della piccola malavita comune e ANDREATTA comunque
vicino, anche per rapporti amicali, all’area di Ordine Nuovo (nota Digos Venezia
citata, ff.5-6 e 19-20; nota R.O.S. in data 16.5.1995 relativa a FREZZATO, vol.1,
fasc.19).
Si noti che dai successivi accertamenti risultava che non solo Ivana PESCE, ma
anche un’altra donna legata all’epoca a Giuseppe FREZZATO, e cioè Rita
TOSATTO (con la quale, in seguito, FREZZATO era emigrato in Argentina), era
dipendente dei magazzini COIN di Piazza barche, per cui il movente accennato da
Martino SICILIANO poteva riferirsi tanto all’una quanto all’altra donna essendo fra
l’altro entrambe simpatizzanti di destra (int. SICILIANO, 9.10.1996, f.3).
142
Lo sviluppo delle indagini relative a tale attentato, di grande interesse per i profili di
collegamento con l’esplosivo usato per gli attentati più gravi, e le reazioni suscitate
nell’ambiente di Mestre dalle attività degli inquirenti confermavano che con
l’attentato al COIN si era toccato quasi certamente un tasto delicatissimo e di
importanza centrale per comprendere la dinamica materiale dell’attività del gruppo
mestrino e i rapporti passati e presenti fra i vari soggetti.
Si ponga attenzione allo snodarsi degli avvenimenti in ordine cronologico:
- In data 6.1.1995 Piero ANDREATTA, rientrato momentaneamente dall’Africa
insieme alla moglie, originaria del Benin, viene sentito da questo Ufficio in qualità di
indiziato in relazione all’attentato al COIN di Mestre.
Nega ogni responsabilità, affermando addirittura di aver fatto parte della componente
“moderata” del M.S.I. (quella facente riferimento all’on. MICHELINI) e riparte per
l’estero qualche giorno più tardi.
- A seguito di decreto di intercettazione telefonica disposta da questo Ufficio, viene
intercettata, il 15.1.1995, una conversazione telefonica dal Giappone intercorsa fra
Delfo ZORZI e Piercarlo MONTAGNER.
I due discutono del comportamento di ANDREATTA (chiamato “l’Africano” o quello
che ha “sposato la negra”), commentano con soddisfazione il fatto che ANDREATTA
non avesse avuto una “crisi mistica” (cioè non stesse collaborando con gli inquirenti)
e che fosse ripartito per l’Estremo Oriente, ove ZORZI intendeva rintracciarlo e
controllarlo, e accennano alla necessità di offrire ad ANDREATTA, in precarie
condizioni finanziarie, una buona opportunità commerciale che doveva favorire,
evidentemente, il mantenimento di tale linea processuale (cfr. nota R.O.S. in data
25.1.1995 e allegata trascrizione della telefonata, vol.46. fasc.1, ff.104 e ss., e
anche, sul punto, int. SICILIANO, 25.1.1995, ff.4-5).
- In data 19.6.1995, il Pubblico Ministero, nell’ambito dell’indagine nuovo rito nel
frattempo aperta, procedeva all’audizione di Paola ROSSI, simpatizzante di destra di
Mestre e soprattutto amica di vecchia data di Piero ANDREATTA, Piercarlo
MONTAGNER e Stefano TRINGALI.
La testimone riferiva di aver incontrato ANDREATTA a Mestre, nel mese di gennaio,
pochi giorni dopo l’interrogatorio svolto da questo Ufficio, e che ANDREATTA le
aveva riferito di essere stato chiamato in causa da Martino SICILIANO per
l’attentato al COIN, attentato che egli aveva effettivamente commesso badando,
comunque, che l’ordigno non esplodesse mentre delle persone transitavano nei
pressi (dep. citata, ff.1-2).
Paola ROSSI aggiungeva che nello stesso mese di gennaio ANDREATTA le aveva
chiesto in prestito la propria vettura per recarsi all’aereoporto di Tessera e incontrarsi
con Rudi ZORZI, fratello di Delfo (f.2).
Con tale decisiva deposizione si chiudeva così il cerchio in merito alla responsabilità
di Piero ANDREATTA per l’attentato del marzo 1970.
- Qualche giorno prima comunque, il 26.5.1995, era stato nuovamente sentito
Piero ANDREATTA alla presenza sia del Giudice Istruttore sia del Pubblico
Ministero.
Nel corso dell’interrogatorio, a tratti drammatico, ANDREATTA inizialmente negava
ancora ogni responsabilità in merito all’episodio che gli veniva contestato e negava
143
144
anche di avere ancora intrattenuto, in quel periodo, contatti con Delfo ZORZI e le
persone a lui vicine, ad eccezione di qualche incontro con Piercarlo MONTAGNER
finalizzato peraltro a comprendere in quale direzione si stessero muovendo le
indagini milanesi (f.6).
Una volta mostrate ad ANDREATTA le fotografie scattate dal personale del R.O.S. in
data 26.1.1995, che lo ritraevano all’aereoporto Tessera insieme a Rudi ZORZI (cfr.
nota R.O.S. in data 31.1.1995, vol.46, fasc.2, f.2), egli aveva un momento di
cedimento iniziando a raccontare circostanze di grande interesse per le indagini e
soprattutto utili a comprendere cosa si stesse muovendo per cercare di controllarle e
di bloccarle.
Continuava infatti a negare di aver personalmente partecipato all’attentato, ma
dichiarava di aver visto, nel portabagagli dell’autovettura di Giuseppe
FREZZATO, otto o nove candelotti di gelignite che questi gli aveva detto essere
destinati all’attentato al COIN (f.7).
Presa visione di una fotografia facente parte dei rilievi tecnici relativi agli attentati di
Trieste e Gorizia, ANDREATTA dichiarava che i candelotti visti nell’autovettura di
FREZZATO erano esattamente di quel tipo, avvolti in carta di colore rosso
bordeaux (f.7).
Ammetteva di aver incontrato Rudi ZORZI all’aereoporto, tramite un appuntamento
procurato da MONTAGNER, di avergli riferito le proprie preoccupazioni per quanto
stava avvenendo e che aveva “bisogno di una mano” anche in quanto si era reso
conto di essere stato interrogato per una cosa piccola (l’attentato al COIN) che si
collegava tuttavia ad una molto più grande (evidentemente la strage di Piazza
Fontana).
ANDREATTA, partito per l’Estremo Oriente dopo aver avuto assicurazione che il
messaggio era stato trasmesso a Delfo ZORZI, era stato raggiunto
telefonicamente da questi in un albergo di Canton (f.9).
ZORZI lo aveva intrattenuto al telefono per quasi due ore facendosi dire tutto quanto
a sua conoscenza sull’andamento delle indagini dandogli consigli su come
comportarsi e facendogli, non a caso, presente di avere offerto a Martino SICILIANO
“un lavoro a Pietroburgo da 4 o 5 mila dollari al mese”, allusione indubbiamente
allettante per lo squattrinato ANDREATTA (f.10).
I contatti attivati da ANDREATTA dopo l’interrogatorio del gennaio 1995, a seguito
del quale egli si era probabilmente accorto che quanto a sua conoscenza in merito
all’attentato al COIN e ad altre circostanze era più importante di quanto potesse
immaginare e forse un utile mezzo di scambio, non si erano tuttavia fermati qui.
Aveva infatti incontrato il dr. MAGGI, sempre nel mese di gennaio, in casa dell’avv.
PARISI e anche con il dottore aveva parlato di quanto stava avvenendo sul piano
delle indagini.
Il dr. MAGGI gli aveva detto, con aria stanca e preoccupata, che in quei giorni i
Carabinieri lo stavano contattando per sondare la possibilità di una sua
collaborazione e che aveva pertanto bisogno di aiuto (f.11).
ANDREATTA gli aveva così procurato un contatto con Rudi ZORZI e i tre erano
si erano incontrati a Venezia, in Piazzale Roma, dove Rudi ZORZI e il dr.
MAGGI, parlando separatamente, si erano evidentemente accordati in merito
all’aiuto da prestare all’ex-Reggente di Ordine Nuovo del Triveneto in difficoltà
(f.11).
Piero ANDREATTA ha confermato tali circostanze anche in successivi interrogatori
dinanzi al P.M. di Milano (31.5.1995, 1°.6.1995 e 6.6.1995) in occasione dei quali egli
aveva cominciato a parlare anche dei traffici di armi che alla fine degli anni ‘60,
144
anche con l’aiuto di Leopoldo BERGANTIN, stavano avvenendo all’interno della
cellula di Ordine Nuovo di Mestre (cfr. int. al P.M., 1°.6.1995, f.3), ma anche in un
successivo confronto con Paola ROSSI, che pure ha confermato il tenore delle
confidenze ricevute da ANDREATTA (confronto dinanzi al P.M. in data 22.12.1995),
egli ha continuato a negare la sua responsabilità in ordine all’attentato al COIN
chiudendosi, a partire da tale momento, in un assoluto mutismo.
- Grazie ad un provvedimento, adottato da questo Ufficio, di controllo e di ritardata
consegna della corrispondenza del dr. Carlo Maria MAGGI, veniva acquisita copia di
una lettere inviata da questi al suo difensore, acquisizione del tutto legittima ai sensi
dell’art.341 c.p.p. del 1930 trattandosi di corrispondenza non ancora pervenuta al
difensore stesso.
In tale lettera il dr. MAGGI fa riferimento al fatto che Piero ANDREATTA aveva fatto
capire nell’ambiente di non collaborare, commentando con soddisfazione “ed è già
qualche cosa”, prova questa, anche a prescindere dagli equilibrismi di ANDREATTA
che pur qualcosa si era lasciato sfuggire, che il gruppo teneva moltissimo al fatto che
non fossero rivelate le circostanze, magari poche ma cruciali, che ANDREATTA
aveva vissuto di persona (cfr. lettera allegata alla nota R.O.S. in data 8.6.1995,
vol.46, fasc.4, ff.28 e ss.).
- Anche se può apparire incredibile, alla luce delle ammissioni di ANDREATTA
nell’interrogatorio reso in data 26.5.1995, questi ha continuato, per tutto l’anno
successivo, a frequentare assiduamente MONTAGNER e TRINGALI cioè coloro che,
per conto di Delfo ZORZI, stavano cercando di impedire, tentando in particolare di
screditare la testimonianza di Paola ROSSI, che nuove testimonianze peggiorassero
ulteriormente la situazione processuale di Delfo ZORZI e del suo gruppo.
Le intercettazioni telefoniche e ambientali, estremamente mirate ed efficaci, disposte
dalla Procura della Repubblica di Milano e riassunte nell’annotazione della Digos di
Venezia in data 24.5.1996 hanno infatti evidenziato, senza alcun margine di dubbio,
che l’attentato al COIN era avvenuto così come rievocato da Martino SICILIANO, per
ragioni connesse al maltrattamento di una donna di destra durante un picchetto
sindacale, e l’insistenza con cui gli uomini di Delfo ZORZI parlano di tale marginale
episodio ne testimonia invece l’importanza, quantomeno sotto il profilo dell’esplosivo
usato, e il suo collegamento con i fatti più gravi.
Infatti, da tali intercettazioni si desume con estrema chiarezza che Piero
ANDREATTA è stato aiutato economicamente da Delfo ZORZI per il suo
personale silenzio in merito a tale episodio e ha continuato a chiedere aiuti
economici sempre maggiori, tanto da infastidire MONTAGNER che lo considerava
una sorta di “pensionato” a vita del gruppo di ZORZI.
D’altronde Piero ANDREATTA, dinanzi ai suoi interlocutori, poteva rivendicare a sè
di essersi “sacrificato” in favore dell’ambiente, salvando con il suo silenzio (che gli
era costato il divieto di espatrio, gravissimo in relazione alle sue attività commerciali)
l’intera organizzazione.
Inequivoche in tal senso sono le frasi, riportate nell’annotazione, “se dovessi dire sì,
sono io il colpevole di COIN comincia tutto, questo è il punto....” e “Piero che sa
tutto..il Piero, se va a parlare....”
Inoltre Piero ANDREATTA poteva rivendicare a sè dinanzi ai camerati, come
emerge sempre dalle intercettazioni, il merito di avere messo di nuovo in
contatto, quasi casualmente, nel gennaio 1995, il dr. MAGGI con Delfo ZORZI,
impedendo così che il dottore, in piena crisi, decidesse di collaborare con i
145
146
Carabinieri e consentendo in suo favore da parte di ZORZI un intervento più
rapido ed efficace di quello che era stato attivato con Martino SICILIANO il
quale aveva comunque “disertato” e si era affidato ai rappresentanti dello Stato.
Tale recupero del dr. MAGGI, prossimo a cedere, da parte dell’organizzazione
era stato la precondizione che aveva portato, nell’agosto del 1995, alla
presentazione da parte del dottore dell’esposto contro i Carabinieri, contromossa
ispirata da Delfo ZORZI in un’ottica di inquinamento delle indagini (cfr.
annotazione Digos di Venezia citata, f.19).
- Le manovre di “ricatto” e di inquinamento in merito al pur modestissimo attentato al
COIN non sono tuttavia terminate qui e non sono nemmeno state interrotte
dall’arresto di ANDREATTA, MONTAGNER e TRINGALI, nell’estate del 1996, per il
reato di favoreggiamento aggravato.
Nel maggio del 1996, il Giudice Istruttore di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, nell’ambito
dell’istruttoria relativa all’abbattimento dell’aereo ARGO 16 avvenuto nel 1973, con
una coincidenza che testimonia comunque la circolarità delle indagini in questa
materia, disponeva una perquisizione nell’abitazione di Baden FREZZATO, padre di
Giuseppe e all’epoca dei fatti, nella sua veste di sottufficiale dell’Esercito, custode
dell’hangar ove normalmente sostava l’aereo poi abbattuto.
Nell’immediatezza della perquisizione Fiorella FREZZATO, sorella di Giuseppe,
molto scossa, riferiva al personale del R.O.S. di Padova incaricato della
perquisizione di avere ricevuto pochi giorni prima, l’8.5.1996, una visita di Ivana
PESCE, negli anni ‘70 sentimentalmente legata a suo fratello Giuseppe e che da
questi aveva avuto una figlia di nome Erika.
Ivana PESCE, facendo presente di essere in gravi difficoltà economiche anche in
quanto Giuseppe FREZZATO non aveva mai passato gli alimenti per la figlia Erika,
prospettava la necessità di ricevere dalla famiglia FREZZATO la somma di 10
milioni.
Solo in tal caso avrebbe evitato di testimoniare contro Giuseppe FREZZATO,
coinvolto, secondo lei, nella “vicenda relativa ad un attentato in danno del
COIN” (cfr. dep. Fiorella FREZZATO, 31.5.1996, f.7).
Nell’occasione Ivana PESCE aveva anche fatto il nome di Martino SICILIANO (f.8).
Fiorella FREZZATO ricordava di aver sentito parlare in casa, all’epoca dei fatti, di
tale attentato e che suo fratello e Ivana PESCE, discutendo dell’episodio, avevano
fatto riferimento a Piero ANDREATTA e alle conseguenze di quanto era avvenuto.
Giuseppe FREZZATO aveva esclamato “Hai visto? Non è successo niente. E’ solo
venuta giù una vetrina, ma l’hanno rimessa su e stanno tornando a lavorare come
prima” e Ivana PESCE aveva risposto “Giuseppe, stai attento perchè se no ti
denuncio” (dep Fiorella FREZZATO al G.I. di Venezia, 7.6.1996, f.2, e a questo
Ufficio, 13.6.1996, f.2).
Nonostante la chiarezza di questo insieme di circostanze e di questo scambio di
battute, soprattutto se lette alla luce del racconto di Martino SICILIANO, Ivana
PESCE, sentita da questo Ufficio in data 28.9.1996, pur ammettendo di essersi
recata da Fiorella FREZZATO e di avere chiesto del denaro in favore della figlia
Erika, ha negato di avere fatto alcun riferimento all’attentato ai magazzini COIN.
Si noti del resto che Ivana PESCE, già sentita in data 29.4.1995, aveva assunto
anche allora un comportamento estremamente reticente, ammettendo a malapena di
essere stata iscritta per qualche tempo, proprio su richiesta di FREZZATO, al
sindacato CISNAL del settore commercio (dep. citata, f.3).
146
Indipendentemente dall’eventuale rilevanza penale della vicenda narrata da Fiorella
FREZZATO e tenendo presente che la sua testimonianza appare assolutamente
spontanea e credibile, è estremamente significativo che un episodio in sè modesto e
privo di dirette conseguenze penali come l’attentato del 27.3.1970 possa essere
ancora ragione di ricatti e pressioni.
In realtà l’intera vicenda dell’attentato rievocata da Martino SICILIANO porta a due
significative conclusioni di grande rilevanza per il complesso delle indagini che
sono state svolte:
- le modalità con cui si era giunti all’esecuzione dell’attentato non dovevano
assolutamente essere rivelate poichè la gelignite utilizzata era appartenente allo
stesso lotto, entrato nella disponibilità della cellula di Mestre (e proveniente
certamente da Roberto ROTELLI), utilizzato per gli attentati dell’ottobre 1969 a
Trieste e Gorizia e con ogni probabilità entrato a far parte anche del materiale
esplosivo raccolto per gli attentati del 12.12.1969.
Piero ANDREATTA, soggetto instabile e processualmente pericoloso a differenza di
Giuseppe FREZZATO, irraggiungibile in Argentina, doveva essere blandito e
comprato da Delfo ZORZI e dal suo gruppo purchè non rivelasse in qual modo, per
tale episodio, era stato acquisito l’esplosivo e quindi dove fosse il deposito di pronto
uso di cui la cellula di Ordine Nuovo disponeva a Mestre, deposito più prossimo alla
base d’azione del gruppo rispetto a quello di Paese (int. SICILIANO, 5.8.1996, f.4).
Con ogni probabilità il deposito da cui provenivano tali candelotti di gelignite era lo
stesso casolare nei pressi di Mestre ove, nel 1974, Marcello SOFFIATI avrebbe in
seguito ritirato l’ordigno, composto anch’esso da candelotti di gelignite, trasportato
prima a Verona e poi a Milano per essere inviato a Brescia (int. DIGILIO, 4.5.1996,
ff.2-4).
Sempre in termini probabilistici può ritenersi che tale casolare sia quello ubicato fra
Mirano e Spinea di cui ZORZI e il suo gruppo, all’epoca, già disponevano, utilizzato
soprattutto per l’apposizione di marchi contraffatti sugli articoli di pelletteria destinati
ad essere esportati in Estremo Oriente (int. SICILIANO, 16.6.1996, ff.1-3; 2.8.1996,
f.3, e, in merito all’identificazione del casolare, nota R.O.S. in data 24.7.1996, vol.6,
fasc.4, ff.46 e ss.).
- Quasi casualmente le indagini sull’attentato al COIN e l’agitarsi di ANDREATTA
dopo il suo interrogatorio del 6.1.1995 hanno reso possibile il riannodarsi dei
contatti fra Delfo ZORZI e il dr. MAGGI e il “recupero” di quest’ultimo da parte
del gruppo proprio nei giorni in cui, grazie ai colloqui investigativi effettuati dal
personale del R.O.S., il dr. MAGGI sembrava prossimo
a convincersi
dell’opportunità
di
assumere
un
atteggiamento
quantomeno
di
“dissociazione”.
Non è un caso che il dr. MAGGI, anch’egli, come ANDREATTA, in precarie
condizioni economiche, in due lettere acquisite in copia e portanti le date 9.8.1995 e
1°.11.1995 accenni al suo difensore a sostanziosi contributi finanziari che sta per
ricevere da un “amico” (cfr. note R.O.S. in data 18.8.1995 e 8.11.1995 e lettere
allegate, vol.46, fasc.4, ff.83 e ss. e 88 e ss.).
Così come è avvenuto per ANDREATTA, il vacillante silenzio del dr. MAGGI è stato
certamente comprato dal camerata proprietario di un ingente impero commerciale e
finanziario.
147
148
E’ probabile che solo a “transazione” avvenuta il dr. MAGGI, nell’agosto del
1995, quando peraltro i colloqui investigativi erano cessati da sei mesi, abbia
deciso, in cambio, di presentare l’esposto contro il personale del R.O.S.
ispirato da ZORZI quale condizione vincente per frenare le indagini (cfr. nota
della Digos di Venezia in data 24.5.1996, f.19).
Purtroppo, come è noto, tale esposto è stato coltivato, con zelo degno di migliore
causa, dall’A.G. di Venezia ottenendo così parte del risultato che i suoi ispiratori si
erano prefissati.
A seguito della discovery degli atti seguita, nel giugno 1997, all’arresto del dr.
MAGGI e all’emissione di ordinanza di custodia cautelare anche nei confronti di Delfo
ZORZI, sono emerse comunque le prove del pagamento di una somma assai
sostenuta al dr. MAGGI, così come le prime emergenze contestuali all’interrogatorio
di ANDREATTA lasciavano già intuire.
Indipendentemente, quindi, dalla dichiarazione di prescrizione che deve essere
emessa nei confronti di SICILIANO, ZORZI, ANDREATTA e FREZZATO in relazione
ai reati connessi all’attentato al COIN di Mestre, è certo che tale episodio, per il quale
è stato speso tanto lavoro investigativo e, da parte dell’ambiente mestrino, tanti sforzi
per occultare la verità, costituisce sul piano logico/indiziario una delle parti centrali
della ricostruzione e del patrimonio complessivo delle indagini collegate.
148
20
GLI ALTRI EPISODI ASCRITTI A GIUSEPPE FREZZATO
Nella prima ordinanza si è ampiamente parlato (cfr. capitolo 16) dell’attentato
dimostrativo all’Università Cattolica di Milano del 15.10.1971, commesso da Martino
SICILIANO partendo dall’abitazione milanese di Marco FOSCARI e utilizzando quale
autista Giovanbattista CANNATA.
Si tratta , come si ricorderà, del primo episodio emerso nel 1992 a carico di Martino
SICILIANO a seguito delle dichiarazioni di Gianluigi RADICE e la notificazione della
comunicazione giudiziaria presso l’indirizzo francese di SICILIANO, subito riferita da
questi ai camerati rimasti a Mestre, aveva per la prima volta fatto entrare in
fibrillazione l’ambiente dei fiduciari di Delfo ZORZI.
Essi avevano infatti compreso benissimo che l’emergere di tale pur modesto
episodio costituiva il primo segno di sgretolamento del muro di omertà che
aveva sino ad allora protetto le attività della struttura di Mestre/Venezia e che le
conseguenze potevano essere incalcolabili.
Bobo LAGNA, dopo il primo allarme lanciato da SICILIANO, aveva consultato e
fatto consultare i registri dell’Ufficio Istruzione di Milano al fine di acquisire
notizie sullo stato delle indagini e di sapere chi fosse indiziato e se vi fossero
indiziati per la strage di Piazza Fontana, ma fortunatamente non aveva potuto
acquisire alcun dato in quanto il regime del vecchio rito è parzialmente diverso da
quello attuale e le annotazioni relative ai procedimenti formalizzati non vengono, o
meglio non venivano, aggiornate con i nomi dei nuovi indiziati, per ovvie ragioni di
riservatezza, sino alla conclusione dell’istruttoria (cfr. int. SICILIANO, 19.10.1994, f.9,
e 7.10.1995, f.4).
Tornando alla materiale esecuzione dell’attentato all’Università Cattolica, Martino
SICILIANO, sin dai suoi primi interrogatori, ha riferito che la bomba da mortaio
utilizzata nell’occasione gli era stata procurata da Giuseppe FREZZATO, detto “IL
CORVO” (int. 18.10.1994, f.7, e 19.10.1994, ff.1-2).
Tale circostanza è del tutto in sintonia con la figura di FREZZATO, legato sia
all’estrema destra sia ad ambienti malavitosi (int. SICILIANO, 8.11.1996, f.3), già
condannato per la detenzione di esplosivi e munizioni rinvenuti nella sua abitazione
(cfr. rapporto del Commissariato della P.S. di Mestre in data 9.4.1970) e indicato
anche da altri testimoni (dep. Giuliano CAMPANER, 1°.4.1995, f.2) quale persona
coinvolta nel traffico di simili residuati bellici.
Giuseppe FREZZATO aveva anche ceduto a Martino SICILIANO la pistola cal. 6,35
sequestrata allo stesso SICILIANO in occasione di una banale rissa avvenuta nel
1971 dinanzi alla pizzeria “Il Tronco” di Corso del Popolo a Mestre (int.SICILIANO,
18.10.1994, f.7, e 28.3.1996, f.5).
149
150
I reati ascritti a Giuseppe FREZZATO, emigrato alcuni anni or sono in Argentina per
ragioni peraltro non connesse alle indagini in corso, devono essere dichiarati estinti
per intervenuta prescrizione
Sempre con riferimento all’attentato all’Università Cattolica di Milano, merita di
essere ricordato un nuovo particolare, emerso nella fase finale dell’istruttoria, che
corrobora il racconto di Martino SICILIANO anche in relazione a tale attentato
minore.
Questo Ufficio non aveva potuto procedere all’audizione del Conte Marco FOSCARI
per le difficoltà connesse al fatto che questi, da molto tempo, risiede stabilmente a
Palma de Majorca.
Tuttavia il Conte FOSCARI, nell’ottobre 1997, è stato intervistato in tale località dal
giornalista veneziano Maurizio DIANESE durante il lavoro di ricerca e di redazione di
un libro, di prossima pubblicazione, dedicato alle vicende del gruppo mestrino e
veneziano di Ordine Nuovo.
L‘ampia intervista, con il consenso dell’interessato, è stata registrata e Maurizio
DIANESE ne ha prodotto a questo Ufficio la trascrizione (cfr. deposizione e verbale
di acquisizione in data 30.10.1997).
Nell’ambito dell’intervista il Conte FOSCARI, rievocando il suo rapporto di amicizia e
di comune militanza politica nell’ambiente di destra con Martino SICILIANO, ha
ricordato di averlo accompagnato con la sua autovettura da Mestre a Milano proprio
il giorno in cui SICILIANO portava con sè in una borsa la bomba da mortaio destinata
ad essere collocata, qualche giorno dopo, nei pressi del muro di cinta dell’Università
Cattolica (cfr. pagg. 17-18 della trascrizione).
Il Conte FOSCARI, pur personalmente estraneo alla progettazione e all’esecuzione
dell’attentato, ha anche ricordato che Martino SICILIANO era partito alla volta
dell’Università Cattolica dopo una cena fra amici svoltasi proprio nella casa di
FOSCARI a Milano e, essendo stato messo al corrente da SICILIANO delle sue
intenzioni, lo aveva esortato a deporre l’ordigno almeno in un punto isolato ove non
potesse cagionare danni a persone, esortazione che era stata accolta (cfr. pag.18
della trascrizione e int. SICILIANO, 18.10.1994, f.8; 14.10.1997, f.2).
Anche in relazione ai più modesti particolari, la narrazione di Martino SICILIANO ha
trovato, quindi, piena conferma.
150
21
LA DETENZIONE DI MINE ANTICARRO
DA PARTE DELLA CELLULA DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA
L'episodio, costituito dalla disponibilità da parte del dr. MAGGI di mine anticarro, è
uno dei primi di cui Carlo DIGILIO ha parlato nei suoi interrogatori in una fase di
collaborazione non ancora completa e caratterizzata da una disponibilità ancora
incerta, ma progressiva a fare chiarezza e dalla scelta di aggiungere e mettere man
mano a fuoco particolari in merito a ciascun fatto cui aveva partecipato o assistito.
La vicenda delle mine anticarro, appunto uno dei primi episodi progressivamente
messi a fuoco, è un episodio molto importante perchè Carlo DIGILIO, riferendolo sin
dall'autunno 1993, ha aperto con esso un primo spiraglio per far comprendere la
pericolosità e la potenzialità militare del gruppo mestrino/veneziano che sino a quel
momento nessuna indagine sull'eversione di destra aveva avuto la possibilità di
inquadrare nella sua vera portata.
Vediamo sul punto le dichiarazioni di Carlo DIGILIO in ordine cronologico:
“””....Nei primi anni '70, potrebbe essere il 1971 o 1972, il dottor MAGGI mi
chiese un favore a cui non potevo acconsentire e che comunque non ero in
grado di fargli.
Infatti egli mi disse che il suo gruppo aveva recuperato delle mine anticarro,
probabilmente residuati del periodo dell'ultima guerra, e che voleva avere un
aiuto tecnico per smontarle e cioè aprirne l'involucro di metallo e disinnescarle.
Io gli dissi che mi intendevo certamente di armi, ma che non mi intendevo di
esplosivi e non volevo comunque collaborare ad una operazione del genere.
MAGGI mi disse che avrebbe cercato altrove.
Qualche tempo dopo, penso proprio accompagnato dal MAGGI, ebbi occasione
di vedere a Mestre una di queste mine già smontata; l'involucro di metallo era
già stato tolto ed era rimasta la ciambella di esplosivo di colore giallino che
ritengo fosse T4.
Non sono assolutamente in grado di ricordare in quale luogo mi fu mostrata
questa forma di esplosivo.
Ho tuttavia il ricordo di un garage pertinente a qualche abitazione.
MAGGI mi disse che questo esplosivo era stato ripescato dall'acqua ove non si
deteriorava mai ed accennò al recupero anche di altre mine del genere in
"laghetti" e in parte in mare vicino a Venezia.
Mi accennò a subacquei che avevano effettuato tali recuperi....”””
(int. 9.10.1993).
“””....Riprendendo il discorso dell'esplosivo già estratto dal suo contenitore
metallico e che mi fu mostrato a Mestre, mi è venuto in mente che questa sorta
151
152
di corona circolare con un piccolo foro nel mezzo, come una grossa forma di
formaggio, si trovava nel portabagagli di un'autovettura, in un box, appunto a
Mestre.... La forma di esplosivo era alta una diecina di centimetri e del
diametro di circa quaranta ed era di colore giallino....”””
(int.30.10.1993).
Nel corso di un successivo interrogatorio (27.11.1993), Carlo DIGILIO ha precisato
che le mine anticarro residuate dalla seconda guerra mondiale provenivano, così
come alcune armi, da recuperi effettuati nei laghetti che circondano Mantova, nei
quali il materiale era stato gettato dalle truppe tedesche in ritirata sotto l'incalzare,
nella primavera del 1945, delle forse angloamericane.
Il recupero era stato effettuato da un subacqueo facente parte del gruppo
mantovano/veronese di Marcello SOFFIATI e Roberto BESUTTI.
La richiesta del dr. MAGGI a carlo DIGILIO non è rimasta comunque isolata, ma ad
essa si era aggiunta una richiesta analoga in tema di inneschi per esplosivi:
“””....Mi sono anche ricordato che qualche tempo dopo la richiesta di Maggi
da me rifiutata di aiutarlo nello smontaggio di mine anticarro, egli mi chiese se
conoscevo qualcuno che potesse aiutarlo in un'attività di smontaggio di bombe
a mano SRCM al fine di recuperare le capsule detonanti al fulminato di
mercurio che, riunite in un certo numero, potevano servire come secondo
detonatore da usarsi per esplosivi sordi....”””
(int. 27.11.1993).
In occasione di uno dei due incontri, insieme al dr. MAGGI era presente anche
Delfo ZORZI, elemento spiccatamente operativo del gruppo, anche se DIGILIO non
era in grado di ricordare se ZORZI fosse stato presente in occasione dell'esame
delle mine anticarro o del discorso in merito alle SRCM da smontare per usarne i
detonatori (interr. 16.4.1994).
Infine, DIGILIO ha ricordato la presenza di un altro militante allorchè aveva potuto
vedere una mina anticarro già smontata:
“””....Ritornando all'episodio delle mine anticarro mostratemi da MAGGI,
posso aggiungere che, accanto alla vettura all'interno della quale si trovavano
le mine già smontate, c'era proprio il MONTAVOCI e la vettura, come ora sono
riuscito a focalizzare, non di trovava in un garage ma in un sottoportico
semichiuso di una viuzza laterale di Corso del Popolo, a Mestre, non lontano da
Piazza Barche.
MONTAVOCI mi disse trionfante "hai visto che lavoro siamo riusciti a fare?",
accennando alle mine smontate da cui era stato tratto l'esplosivo giallino....”””
(interr.6.11.1995).
152
Giampiero MONTAVOCI era un giovane componente del gruppo veneziano di
Ordine Nuovo, molto legato a MAGGI cui faceva spesso da guardaspalle.
Si osservi che Carlo DIGILIO, in un successivo interrogatorio (5.5.1996), ha indicato
in Giampiero MONTAVOCI l'autore materiale dell'attentato avvenuto nel febbraio
1978 in danno della sede de Il Gazzettino di Venezia che si era concluso
tragicamente con la morte della guardia giurata Franco BATTAGLIARIN che
prestava servizio dinanzi al palazzo.
Non è stato possibile interrogare MONTAVOCI in merito a queste vicende in quanto
egli è deceduto nel 1982 in un incidente stradale.
La disponibilità delle mine anticarro da parte del dr. MAGGI è una circostanza
tutt'altro che secondaria nel quadro della ricostruzione della struttura operativa di
Ordine Nuovo e della continuità della stessa a partire dalla seconda metà degli anni
'60 quantomeno sino agli inizi degli anni '80.
Infatti mine anticarro del tutto identiche si trovavano nel casolare di Paese, base
clandestina e operativa del gruppo (interr. DIGILIO, 19.2.1994, f.3).
Inoltre altri particolari forniti da DIGILIO (in parte anche confermati da Martino
SICILIANO; int.7.10.1995 f.3) e cioè il recupero da "laghetti (individuati in quelli che
circondano Mantova) dell'esplosivo militare non soggetto ad alterazioni in acqua; la
disponibilità di esplosivo "sordo" e cioè non facile ad attivarsi come è appunto
sovente quello militare; la necessità quindi di recuperare le capsule detonanti delle
SRCM da utilizzarsi come detonatore secondario, costituiscono elementi di piena e
concreta continuità con quanto è emerso in altri procedimenti in relazione alla
dotazione della struttura occulta di Ordine Nuovo del Veneto e alla sua operatività
sino al 1979/1980.
Infatti sia l'ordinanza di rinvio a giudizio relativa al procedimento principale
concernente la strage di Bologna sia la requisitoria relativa all'istruttoria-bis
concernente la medesima strage, depositata nell'estate del 1994, dedicano ampio
spazio alle dichiarazioni di alcuni collaboratori già appartenenti all'area di Ordine
Nuovo (Sergio CALORE, Paolo ALEANDRI, Gianluigi NAPOLI e Presilio VETTORE),
secondo le quali la struttura veneta, facente capo fra gli altri a Massimiliano
FACHINI, disponeva appunto da sempre di esplosivo militare sordo, recuperato
da laghetti all'epoca non individuati e che aveva bisogno di un detonatore
secondario per poter esplodere in quanto offriva maggiore resistenza rispetto ad altri
esplosivi come quelli da cava per uso civile.
Tale esplosivo (prevalentemente tritolo), secondo le dichiarazioni di tali collaboratori
"storici", quantomeno sino alla fine degli anni '70 veniva acquisito dai militanti veneti
e poi passato ai componenti della struttura romana che allora operava sotto la sigla
"Costruiamo l'Azione" e altre sigle che avevano superato la dizione tradizionale
"Ordine Nuovo".
L'esplosivo proveniente dal Veneto era stato poi utilizzato a Roma per i grandi
attentati della campagna terroristica della primavera del 1979 (quelli contro il
153
154
Campidoglio, il carcere di Regina Coeli, il Consiglio Superiore della Magistratura e il
Ministero degli Affari Esteri), alcuni dei quali solo per fortunate coincidenze non
avevano provocato un gran numero di vittime.
Si aggiunga che nella fase conclusiva dell’istruttoria gli accertamenti effettuati dalla
Digos di Mantova e l’audizione di Davide BOTTURA, responsabile della CO.VE.SMI.,
ditta specializzata nel recupero e nella disattivazione di asplosivi, hanno consentito di
accertare che effettivamente nei laghetti, formati dal fiume Mincio, che
circondano la città si trovano e sono state anche recentemente recuperate
mine anticarro e altri residuati bellici, abbandonati dalle forze tedesche e
repubblichine alla fine del secondo conflitto mondiale (cfr. nota della Digos di
Mantova in data 25.6.1997 e dep. Davide BOTTURA, 21.6.1997, vol7, fasc.8).
Può quindi affermarsi che il racconto di Carlo DIGILIO, seppur giunto troppo tardi per
essere utilizzato nel procedimento relativo a tali gravissimi episodi, si salda
perfettamente con quanto, in forma più indiretta, era emerso dalle dichiarazioni
dei primi collaboratori di giustizia, confermando il ruolo del gruppo veneto quale
stabile centro di preparazione e di smistamento del materiale esplosivo.
Ed in effetti il racconto di Carlo DIGILIO, che coinvolge a livello operativo e direttivo il
dr. Carlo Maria MAGGI, non si è fermato all'episodio delle mine anticarro esaminate
agli inizi degli anni '70 a Mestre.
Nel corso dei successivi interrogatori, effettuati nel 1996 in una fase di collaborazione
ormai priva delle reticenze iniziali, Carlo DIGILIO ha infatti parlato di una serie
ripetuta di cessioni, autorizzate dal dr. MAGGI, di notevoli quantità di esplosivo
(prima acido picrico, molto simile al tritolo, e poi tritolo) a Roberto RAHO il quale
doveva poi convogliarlo, insieme ad alcuni M.A.B. e altre armi, alla struttura romana.
Appare opportuno riportare integralmente tali interrogatori:
“””.... Vi fu una.... cessione di esplosivo a Roberto RAHO che si colloca
intorno al 1978/1979.
In occasione di alcune miei escursioni a San Martino di Castrozza io avevo
recuperato, in un ghiaione, una granata a mano austriaca residuato della I
guerra mondiale.
Era una di quelle del tipo difensivo, con il corpo rotondo e con un manico
metallico piegato che serve appunto per lanciarle.
Il contenuto di tale granata era circa mezzo chilo di acido picrico, un esplosivo
di colore giallognolo che somiglia un po' al tritolo.
Io la svuotai e conservai in casa l'esplosivo, che aveva la forma cilindrica, dopo
averlo tagliato a cubetti.
Qualche mese dopo questo recupero, che avvenne un'estate che può essere del
1978 o del 1979, Roberto RAHO si presentò senza preavviso a casa mia e mi
chiese nuovamente se avevo dell'esplosivo.
Anche questa volta fu molto insistente e mi disse che doveva portarlo a Roma,
come aveva già fatto con i candelotti che gli avevo ceduto nel 1974.
154
Gli dissi che avevo solo quell'acido picrico ed egli mi rispose che andava
benissimo.
Anche questa volta, prima ancora che io glielo chiedessi, mi fece subito
presente che c'era l'autorizzazione del dr. MAGGI.
Consegnandogli l'esplosivo, segnalai a RAHO che doveva stare attento a non
avvicinarlo a fonti di calore.
Ricordo che in seguito il dr. MAGGI mi confermò di avere dato l'autorizzazione
e mi disse che ogniqualvolta venisse
qualcuno a suo nome, anche senza disturbarlo, avrei dovuto cercare di fare
quello che mi veniva richiesto....”””
(DIGILIO, 7.8.1996, f.3)
Tale episodio è stato solo il primo di una lunga serie:
“””....Oltre agli episodi di cui ho parlato nell'interrogatorio in data 7.8.1996,
ricordo un altro episodio di cessione di esplosivo a Roberto RAHO che si
colloca anch'esso nel 1978/1979 e cioè quando gli cedetti il mezzo chilo di
acido picrico.
SOFFIATI mi portò una mina anticarro tedesca, a forma di tubo, lunga circa
70 centimetri che conteneva un paio di chili di TNT cioè tritolo.
Si trattava di mine che venivano usate per far saltare i cingoli dei carri nemici e
ricordavano i bangaloore americani.
Venivano collocate a mano dai soldati tedeschi.
Io aprii questo involucro di metallo traendone l'esplosivo che era di colore
giallino e in gergo chiamavamo "formaggio".
Io lo divisi a cilindretti utilizzando un seghetto per il legno compensato. Venne
Roberto RAHO a casa mia a ritirarlo e mi disse che doveva mandarlo ai
camerati di Roma.
SOFFIATI mi disse che questa mina era stata recuperata dai laghetti di
Mantova tramite il gruppo di BESUTTI il quale non l'aveva recuperata
personalmente, ma aveva utilizzato un suo sommozzatore.
Si trattava degli stessi laghetti da cui, come ho già ricordato nei primi
interrogatori, era stato recuperato il moschetto tedesco.
Nel giro di poco tempo SOFFIATI mi portò, in diverse occasioni, altri quattro
o cinque di questi ordigni e li teneva in una vecchia borsa di vilpelle tipo quelle
dei rappresentanti.
Veniva a Venezia in treno come suo solito.
Io, per precauzione, li tenevo in acqua tiepida nella vasca da bagno.
Io toglievo i tappi, alcuni dei quali erano a volte corrosi e facili da togliere, e
poi spingevo fuori l'esplosivo utilizzando uno di quei tubi di cartone che si
usano per contenere i fogli da disegno.
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156
Questo materiale fu ritirato da RAHO il quale, come sempre, diceva che
doveva mandarlo a Roma.
RAHO veniva a casa mia tranquillamente abbigliato come un normale turista.
Come ho già accennato, MAGGI mi aveva dato l'autorizzazione a fare questo
lavoro e a consegnare tutto a RAHO....”””
(DIGILIO, 6.3.1997).
Roberto RAHO di Treviso, autorizzato dal dr. MAGGI a ricevere l'esplosivo da Carlo
DIGILIO una volta opportunamente sistemato e reso non pericoloso al trasporto, era
un componente della struttura veneta, molto legato a FACHINI e a CAVALLINI,
ed era fra i non molti militanti liberi di muoversi dopo gli arresti che avevano
falcidiato, all'inizio degli anni '70, le cellule milanese e padovana costringendo altri
militanti scampati all'arresto, come ROGNONI e POZZAN, alla latitanza in Spagna.
Proprio Roberto RAHO era stato indicato da Sergio CALORE e Paolo ALEANDRI,
nel procedimento svoltosi a Roma, come colui che aveva il compito di raccordare la
struttura veneta con la struttura romana e aveva materialmente consegnato al
gruppo di ALEANDRI una decina di chili di esplosivo fra il 1978 e il 1979.
Non a caso proprio nell'abitazione di Roberto RAHO, a Treviso, si è svolta nel
settembre 1995 la conversazione con Piero BATTISTON, appena giunto dal
Venezuela, intercettata dagli inquirenti veneziani e risultata di estrema utilità per
confermare e stimolare il racconto di Carlo DIGILIO in merito agli avvenimenti che
avevano coinvolto negli anni '70, a vario titolo, tutti i componenti del gruppo veneto e
del gruppo milanese.
Sentito in data 4.10.1995 dal P.M. di Milano nell'immediatezza di tale intercettazione
ambientale, Roberto RAHO ha avuto peraltro, nonostante i saldi vincoli che tuttora lo
legano a coloro con cui aveva condiviso la militanza politica, un momento di
"cedimento" incalzato dal P.M., ammettendo di avere trasportato a Roma vari
borsoni con armi, fra cui M.A.B., ed esplosivo a suo dire consegnatigli
direttamente da DIGILIO nell'appartamento di Sant'Elena e portati dallo stesso
RAHO a Roma per la consegna ad ALEANDRI.
L'aspetto dell'esplosivo era quello di cubetti giallini simili al formaggio grana e cioè
esattamente l'aspetto che ha il tritolo.
RAHO ha poi affermato di avere saputo, anche se successivamente ai fatti, che
tale esplosivo era stato usato per gli attentati dinanzi alla sala consiliare del
Campidoglio, dinanzi al carcere di Regina Coeli e dinanzi al palazzo del
Consiglio Superiore della Magistratura.
Roberto RAHO non ha voluto dire su indicazione di quale "superiore" e in
quale contesto associativo avesse effettuato tali operazioni di trasporto di
esplosivo, ma comunque il complessivo quadro probatorio formatosi,
omogeneo anche alle risultanze dei precedenti processi concernenti le attività
di Ordine Nuovo, consente di affermare l'esistenza a carico del dr. Carlo Maria
MAGGI di gravi indizi in merito alla direzione e supervisione da parte sua, nella
156
qualità di "Reggente" di Ordine Nuovo per il Triveneto, fra l'inizio degli anni '70
e quantomeno il 1979/1980 del traffico di esplosivo in dotazione alla struttura
occulta.
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IL FAVOREGGIAMENTO NEI CONFRONTI
DI MILITANTI DEL GRUPPO "LA FENICE"
Emergono dalle risultanze processuali anche gravi indizi di responsabilità nei
confronti del dr. Carlo Maria MAGGI in relazione all'attività di favoreggiamento
operata nel 1974 nei confronti di Piero BATTISTON e di Francesco ZAFFONI,
militanti del gruppo "La Fenice" di Milano.
In tale caso gli elementi a carico del MAGGI sono stati inizialmente e direttamente
forniti dalla viva voce degli stessi soggetti "favoriti".
Piero BATTISTON era, all'inizio degli anni '70, uno degli uomini di fiducia di
Giancarlo ROGNONI, pienamente inserito nella struttura del gruppo ordinovista di
Milano e più volte fermato o arrestato in occasione di episodi di violenza.
Di Piero BATTISTON, il cui nome compare moltissime volte nella presente istruttoria
ed è indiziato di costituzione di banda armata e di altri reati, si erano perse di fatto le
tracce da quasi vent'anni in quanto egli si era trasferito in Venezuela dove gestiva
varie attività commerciali anche insieme al camerata Roberto RAHO.
Carlo DIGILIO, infatti, durante la sua latitanza a Santo Domingo, si era recato alcune
volte in Venezuela, aveva incontrato entrambi e si era scambiato con loro alcune
informazioni ricevendo da essi anche un aiuto economico.
Piero BATTISTON era rientrato per un breve periodo in Italia nell'autunno del 1995,
incontrandosi a Treviso con Roberto RAHO il quale si era ristabilito da alcuni anni nel
nostro Paese.
In tale appartamento, tuttavia, in relazione a reati peraltro di carattere, era in corso
comune da parte della Procura della Repubblica di Venezia un'intercettazione
ambientale e così i commenti dei due sulle indagini in corso in Italia, e in particolare
sulla collaborazione di DIGILIO e gli accenni ai vecchi episodi avvenuti, erano stati
perfettamente registrati.
Sentito quindi nel settembre/ottobre 1995 sia dal P.M. di Milano sia dal P.M. di
Venezia sia da questo Ufficio, Piero BATTISTON, a fronte di alcune frasi
inequivocabili contenute nella registrazione, si era risolto a fare importanti
ammissioni in merito a quanto da lui appreso o direttamente vissuto negli anni della
militanza, confermando parecchie informazioni fornite da Carlo DIGILIO o addirittura
anticipando altre circostanze di cui in quel momento DIGILIO non aveva ancora
parlato, ma che erano note sia al BATTISTON sia al RAHO.
Tralasciando in questa sede le notizie di maggior rilevanza fornite dal BATTISTON e
di diretto interesse per le indagini collegate in corso presso la procura di Milano e la
Procura di Brescia, egli, con riferimento alla sua fuga dall'Italia, ha raccontato di
avere abbandonato in fretta e furia Milano appena nel dicembre 1973 era stata
rinvenuta nel garage di proprietà della sua famiglia una quantità di armi ed esplosivo
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fra cui panetti di tritolo identici a quelli utilizzati da ROGNONI e Nico AZZI per
l'attentato al treno Torino/Roma del 7.4.1973.
Si tratta del rinvenimento dell'esplosivo nel garage "Sanremo" (ove fra l'altro lavorava
Marzio DEDEMO, cognato di Carlo DIGILIO) già ampiamente esaminato nella
sentenza/ordinanza di questo Ufficio in data 18.3.1995 proprio per i collegamenti fra
tale rinvenimento e la tentata strage sul convoglio Torino/Roma.
Piero BATTISTON, sfuggendo all'esecuzione del mandato di cattura, aveva quindi
raggiunto Venezia ed era stato aiutato dal dr. MAGGI che già da tempo conosceva.
Il dr. MAGGI lo aveva ospitato per alcuni giorni in casa sua in zona Giudecca, poi gli
aveva procurato rifugio per alcuni giorni presso l'abitazione di Pina GOBBI e di suo
marito, persone legate al gruppo e gestori all'epoca della trattoria Lo Scalinetto, e
infine gli aveva reso possibile dormire per diversi mesi in un locale sito al
pianterreno di una vietta centrale di Venezia che aveva l'aria di una sede o di
un punto di incontro dismesso.
Carlo DIGILIO, che disponeva delle chiavi di quel locale, si era occupato di
BATTISTON in tutto quel periodo invitandolo anche più volte presso la sua
abitazione a Sant'Elena (deposizione al P.M. di Milano 1° e 3.10.1995, al P.M. di
Venezia 1°.10.1995, a questo Ufficio 3.10.1995).
Nel giugno 1974, Piero BATTISTON aveva lasciato Venezia avviandosi, sempre
tramite gli ordinovisti veneziani, in Grecia, dove già erano rifugiati diversi militanti
italiani soprattutto veronesi, e in tempi successivi aveva infine raggiunto la Spagna.
Si noti che BATTISTON, durante la permanenza a Venezia, aveva avuto modo di
notare in casa di DIGILIO attrezzatura per riparare o modificare armi e aveva da
questi appreso numerose notizie in merito alla costante movimentazione da parte del
gruppo di materiale esplosivo fra cui in particolare gelignite.
Molto simili sono le circostanze della fuga a Venezia di Francesco ZAFFONI,
soprannominato "Mentina", altro componente del gruppo "La Fenice" seppur con ruoli
più marginali rispetto a quelli di soggetti come AZZI e BATTISTON.
Più o meno nello stesso periodo, e cioè nel gennaio 1974, Francesco ZAFFONI si
era reso conto tramite i suoi legali che stava per divenire definitiva una sentenza a
suo carico relativa ad una partita di esplosivo che egli aveva detenuto negli anni
precedenti per conto di Giancarlo ESPOSTI.
Aveva quindi deciso di fuggire per
sottrarsi alla carcerazione e aveva anch'egli raggiunto Venezia dove già si trovava
BATTISTON e si era anch'egli appoggiato al dr. MAGGI che si era reso disponibile
ad aiutare anche lui.
Francesco ZAFFONI aveva quindi dormito nello stesso locale utilizzato da
BATTISTON dopo un'iniziale breve permanenza nell'appartamento di MAGGI.
Anch'egli si era appoggiato, per le esigenze di vita, alla trattoria Lo Scalinetto e
aveva conosciuto in tale frangente Carlo DIGILIO che avrebbe poi incontrato in
159
160
Spagna negli anni successivi (deposizione a questo Ufficio 25.11.1995 e
22.12.1995).
La permanenza di ZAFFONI a Venezia era durata un periodo minore rispetto a
quella di BATTISTON in quanto egli, dopo una decina di giorni, aveva raggiunto
Barcellona e in seguito Madrid.
A titolo di prima conferma del racconto dei due milanesi in merito alla loro latitanza a
Venezia, si noti che la loro presenza in quei mesi quantomeno allo Scalinetto in
compagnia di DIGILIO, è stata confermata da Pina GOBBI che all'epoca gestiva la
trattoria (deposizione a questo Ufficio, 25.10.1995) e da Gastone NOVELLA,
simpatizzante del gruppo e amico sia di MAGGI sia di DIGILIO (deposizione a questo
Ufficio, 9.12.1995, f.2, e 11.2.1996, f.3).
Le ricerche del locale ove MAGGI aveva ospitato i due latitanti, benchè laboriose
trattandosi di un punto di incontro non più esistente da molti anni, hanno avuto esito
positivo.
Infatti Martino SICILIANO, pur non più presente a Venezia al momento dell'arrivo dei
due milanesi, ha ricordato che esisteva un locale simile nella zona di Campo
Sant'Angelo in cui, alla fine degli anni '60, dove aveva sede il circolo "Il Quadrato" e
in cui si incontravano gli ordinovisti veneziani fra cui il dr. MAGGI e l'avv.
Giampiero CARLET che aveva nei pressi il proprio studio legale.
In seguito il circolo si era sciolto, ma per alcuni anni il dr. MAGGI aveva mantenuto la
disponibilità del locale (int. SICILIANO, 14.3.1996, f.3).
Più preciso sul punto ha potuto essere Carlo DIGILIO il quale ben conosceva il
locale avendo frequentato il circolo Il Quadrato a Venezia insieme ad altri aderenti o
simpatizzanti di Ordine Nuovo.
Egli ha infatti ricordato di avere visto a Venezia, nel 1974, Pietro BATTISTON e
Francesco ZAFFONI, di avere in particolare invitato BATTISTON a casa sua
(int.10.11.1995, f.2) e che entrambi avevano dormito nella sede del vecchio
circolo Il Quadrato, in zona Campo Sant'Angelo nel pieno centro di Venezia, locale
inizialmente affittato dall'avv. CARLET (ragione per cui, si osservi, BATTISTON
ricordava la presenza di vecchi libri giuridici) e di cui il dr. MAGGI aveva
continuato a disporre delle chiavi anche dopo che il circolo era stato sciolto
(int.19.4.1996, f.4, e 15.5.1996, f.1).
In base a tali elementi e a seguito degli accertamenti effettuati dal R.O.S. Carabinieri
di Padova, la vecchia sede del circolo Il Quadrato è stata individuata senza alcun
dubbio nel locale sito al piano terra di Calle del Traghetto Garzoni 3420/b, appunto in
zona Campo San'Angelo (cfr. nota R.O.S. Carabinieri di Padova in data 26.4.1996).
L'attività di favoreggiamento posta in essere nel 1974 dal dr. MAGGI, pur
essendo un episodio apparentemente minore, testimonia la stabilità e la
160
continuità dei rapporti fra il gruppo milanese e il gruppo veneziano e la
reciproca fiducia che da molto tempo esisteva fra i loro componenti.
Tali strettissimi rapporti fra i milanesi e i veneziani, che le indagini relative alla c.d.
pista nera non erano all'epoca riuscite a fare emergere, erano proseguiti e si erano
mantenuti sino alla metà degli anni '70 ed oltre quale continuazione dei rapporti
antichissimi instauratisi fra ROGNONI e MAGGI ed esposti nel racconto di Martino
SICILIANO, di Gianluigi RADICE, di Giancarlo VIANELLO e di molti altri testimoni.
Infatti, fin dalla metà del 1969, vi erano stati continui incontri sia nei pressi di
Venezia, in particolare a Villa Foscari, sia a Milano tanto che ZORZI, nell'autunno del
1969, era stato più volte ospitato nella casa di Giancarlo ROGNONI a Milano, in Via
Brusuglio, e MAGGI e ZORZI avevano effettuato insieme vari viaggi a Milano.
Tali continui contatti, mai messi a fuoco prima delle recenti indagini, erano
stati con ogni probabilità la base politico/operativa che aveva reso possibile
l'appoggio logistico sul territorio milanese fra gli attentati del 1969.
161
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23
LA GESTIONE DELLA DOTAZIONE LOGISTICA
DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI MESTRE/VENEZIA
E
I RAPPORTI IN MATERIA DI ARMI
FRA IL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA E GILBERTO CAVALLINI
Carlo DIGILIO, nel corso dei suoi interrogatori, ha ammesso di aver proseguito, dopo
il definitivo trasferimento di Delfo ZORZI in Giappone, su disposizione del dr. MAGGI,
l'attività di manutenzione e di modifica delle armi facenti parte della dotazione
logistica di Ordine Nuovo, il cui baricentro venendo meno a partire dalla metà degli
anni '70 l'apporto concreto di ZORZI, si era spostato progressivamente da Mestre a
Venezia.
Riveste particolare importanza in questa seconda fase, che in particolare dal
1977/1978 aveva visto la riorganizzazione del gruppo con l'inserimento di nuovi
elementi e la creazione di nuovi rapporti, il rapporto privilegiato costituito dai
veneziani, nel campo dell'appoggio logistico e della vendita di armi, con
Gilberto CAVALLINI inserito nel gruppo N.A.R.
Gilberto CAVALLINI, già latitante dalla metà degli anni '70, non proveniva dall'area di
Ordine Nuovo, bensì dalle frange più estremiste della gioventù missina di Milano e
infatti in tale contesto si era reso responsabile del primo grave reato partecipando
all'uccisione del giovane studente di sinistra Gaetano Amoroso.
Evaso e resosi latitante, CAVALLINI aveva stretto rapporti intorno al 1977/1978 con
l'area dei N.A.R. romani dei fratelli FIORAVANTI, di SODERINI, di Giorgio VALE ed
altri e nel medesimo torno di tempo, sopratutto per sfruttare più ampi appoggi logistici
era entrato in contatto con alcuni dei "vecchi" ordinovisti del veneto quali
Massimiliano FACHINI, Roberto RAHO, alcuni padovani e, come tra poco si vedrà, il
dr.Carlo Maria MAGGI.
I contatti di Gilberto CAVALLINI con gli ordinovisti veneti erano da questi in buona
parte gestiti separatamente e tenuti in forma personale e riservata in quanto le
posizioni ideologiche e le visioni operative e strategiche dell'area dei N.A.R. e degli
ordinovisti non erano né comuni né in molti aspetti sovrapponibili.
Peraltro, già nei processi celebrati alla fine degli anni '80 (fra cui il già citato processo
del "Poligono di tiro di Venezia" in cui erano imputati fra gli altri il dr. MAGGI, molti
veneziani e veronesi, il col. SPIAZZI e Giancarlo ROGNONI, Cinzia DI LORENZO e
altri milanesi) erano emersi vari indizi dei rapporti di scambio fra gli ordinovisti e
CAVALLINI, ma tali indizi non avevano potuto pienamente concretizzarsi. Infatti, nel
procedimento nato a lato di quello del Poligono e celebrato a Milano nei confronti di
Carlo DIGILIO, di suo cognato Marzio DEDEMO e di Giovanni TORTA (l'armiere
milanese che aveva fornito illegalmente moltissime armi a DIGILIO) le condanne
avevano sì investito il traffico di armi diretto ai veneziani e ad alcuni esponenti della
malavita comune, ma le specifiche imputazioni relative alla cessioni delle armi da
162
TORTA a CAVALLINI tramite DIGILIO erano sfociate in assoluzioni per insufficienza
di prove.
Nel corso della presente istruttoria, Carlo DIGILIO ha molto esitato prima di narrare i
rapporti illeciti instaurati insieme a MAGGI con CAVALLINI a partire dal 1978,
esitazioni le cui motivazioni dovranno ancora essere approfondite non essendo tra
l'altro escluso che alcuni soggetti coinvolti non siano ancora stati toccati.
Tuttavia questo Ufficio ha raccolto, soprattutto a partire dall'estate del 1995, una
serie ricchissima di dichiarazioni provenienti da diversi settori (ex ordinovisti come
Sergio CALORE, Paolo ALEANDRI, Piero BATTISTON, ex aderenti ai N.A.R. come
Stefano SODERINI, Walter SORDI, Valerio FIORAVANTI, Francesca MAMBRO e
persone a vario titolo già vicine a CAVALLINI o a DIGILIO come Enrico CARUSO,
Lorenzo PRUDENTE ed Ettore MALCANGI) in merito agli stabili rapporti in materia di
traffico di armi fra CAVALLINI e DIGILIO, dichiarazioni che non hanno reso possibile
l'ulteriore protrarsi del silenzio su quest'ultimo punto.
In tal modo, a partire dall'autunno del 1995, Carlo DIGILIO ha ammesso tali rapporti
fornendo un numero di elementi e di particolari sempre crescente e con sempre
minori reticenze in sintonia con lo sviluppo della sua collaborazione con questo
Ufficio.
I rapporti di MAGGI e DIGILIO con CAVALLINI in materia di armi si sono
sostanzialmente articolati in tre fasi.
In un primo momento Carlo DIGILIO aveva verificato il funzionamento delle
armi portate da Milano da CAVALLINI.
In tempi successivi DIGILIO aveva effettuato nella sua abitazione di Sant'Elena
a Venezia, grazie all'attrezzatura di cui disponeva, opera di manutenzione e di
modifica delle armi di CAVALLINI.
Infine, fra il 1979 e il 1982, MAGGI e DIGILIO avevano fornito a CAVALLINI,
dietro compenso, numerose armi comuni da sparo e da guerra, in parte armi
vecchie provenienti dalla precedente dotazione di Delfo ZORZI e in parte
nuove, acquistate illegalmente tramite l'armiere milanese Giovanni TORTA,
legato a DIGILIO.
Vediamo i passi più salienti, fra i molti che nei recenti interrogatori di Carlo DIGILIO
riguardano i rapporti con Gilberto CAVALLINI.
163
164
Tali rapporti erano iniziati con un'attività di consulenza e di valutazione delle armi di
cui Gilberto CAVALLINI disponeva ed erano proseguiti con la manutenzione di alcuni
armi lunghe di CAVALLINI e la fornitura di alcuni silenziatori:
“””....Un giorno, alla fine degli anni '70, e quindi verso il 1978/1979, il dr.
MAGGI mi chiamò per telefono e mi chiese di incontrare in Piazzale Roma un
giovane che aveva bisogno di far valutare una partita di armi.
Io non sapevo chi fosse e comunque mi incontrai con MAGGI e con quel
giovane che dalle fotografie pubblicate sui giornali poi mi resi conto essere
Gilberto CAVALLINI.
In seguito, dietro mia insistenza, lo stesso MAGGI fu costretto a confermarmi
che si trattava proprio di CAVALLINI.
Dopo il primo incontro a Piazzale Roma, ci vedemmo ancora probabilmente tre
volte io MAGGI e CAVALLINI in un parcheggio presso il Cavalcavia di San
Giuliano.
CAVALLINI veniva in macchina e in una valigia trasportava ogni volta un certo
numero di armi cioè pistole e fucili mitragliatori.
Io ogni volta valutavo tecnicamente queste armi e ne indicavo anche il valore di
mercato possibile.
CAVALLINI ci dava una somma corrispondente al 10% del valore che avevo
indicato.
La somma veniva incamerata dal MAGGI e veniva da lui usata per dare un
aiuto ai camerati di destra detenuti.
In seguito CAVALLINI venne anche a casa mia, a Sant'Elena, senza che io gli
avessi dato il mio indirizzo e senza alcun preavviso. Era stato MAGGI,
imprudentemente, a dargli il mio indirizzo. Si presentava a casa mia quando
aveva bisogno di aiuto per la riparazione e manutenzione delle armi....”””
(DIGILIO 21.12.95 f.2).
“””....Poichè l'Ufficio mi chiede quali fossero le armi, in particolare le armi
lunghe, che CAVALLINI mi chiese di controllargli e farne la manutenzione,
ricordo che c'erano dei Garand, dei M.A.B. 38, degli M12 e qualche vecchio
STEN.
Mi meravigliava in particolare del fatto che avesse degli M12 perchè sono
mitra in dotazione alle Forze di Polizia italiane.
Per tranquillizzarmi mi ricordo che mi mostrò uno o due tesserini in cui egli
appariva quale sottufficiale della Guardia di Finanza e c'era la regolare foto in
divisa.
Ricordo che erano tesserini color verde.
Ricordo che CAVALLINI venne anche una volta al Poligono di tiro e mi fece
delle pressioni per tornare a trovarmi lì, ma io glielo vietai perchè era troppo
pericoloso.
A CAVALLINI, intorno al 1980, ho fornito anche alcuni silenziatori....”””
164
(DIGILIO 4.1.1996, ff.2-3).
Carlo DIGILIO aveva poi modificato un primo M.A.B. di CAVALLINI rendendolo
meglio utilizzabile e punzonato la matricola di altri MAB e STEN con un sistema
sofisticato:
“””....CAVALLINI mi chiese di modificare un M.A.B. che mi aveva portato
sostituendone il calcio di legno con uno di metallo.
La cosa mi fu facile perchè avevo visto su una rivista storica un lavoro analogo
effettuato da partigiani su armi di cui si erano impossessati durante scontri di
guerra.
In sostanza bastava togliere il legno e piegare il metallo in un certo punto e
artigianalmente fissare il nuovo calcio con due viti.
Questa modifica rendeva l'arma più corta e occultabile....”””
(DIGILIO 13.1.1996 f.5).
“””....Ho punzonato nella mia abitazione alcuni vecchi STEN e alcuni vecchi
MAB che aveva portato Gilberto CAVALLINI.
Il sistema usato era quello cosiddetto ad "arco voltaico" che consiste nel
fondere dei fili di metallo, grazie all'energia elettrica, direttamente sui numeri
incisi sull'arma così da coprirli e quindi cancellarli, dopodichè si leviga la
parte con una mola abrasiva.
Feci questo lavoro con un attrezzo portato dallo stesso CAVALLINI.
Punzonai in questo modo anche il MAB cui avevo cambiato il calcio come ho
spiegato nell'interrogatorio in data 13.1.1996....”””
(DIGILIO 20.1.1996 ff.1-2).
Il dr. MAGGI aveva poi procurato a CAVALLINI alcuni giubbetti antiproiettile
provenienti dall'armiere Giovanni TORTA:
“””....Nel 1979/1980 comprai dall'armiere TORTA, che me li portò a Venezia,
sei giubbetti antiproiettile i quali erano fatti con un tessuto sovrapponibile
tenuto insieme da velcro per modellarlo sulla figura della persona.
Il prezzo che l'armiere TORTA mi fece era in realtà troppo alto e mi accorsi che
se li avessi comprati altrove li avrei pagati meno.
Tre di questi giubbetti li tenni per il Poligono, uno dei quali utilizzandolo
proprio io nella mia attività di istruttore.
Altri tre furono portati via da MAGGI dopo molte insistenze, il quale li fece
avere a Gilberto CAVALLINI....”””
(DIGILIO 12.6.1996 f.3).
165
166
Erano poi iniziate le forniture da parte dei veneziani di armi, alcune delle quali
provenienti dalla vecchia dotazione di Delfo ZORZI, a CAVALLINI con regolare
compenso:
“””....In quel periodo, poichè si è fatto appena cenno al periodo della mia
latitanza a Verona, riprendendo quanto ho già spiegato in data 20.1.1996,
faccio presente che proseguirono i rapporti fra MAGGI e CAVALLINI.
Era in corso la trattativa per la fornitura a CAVALLINI di armi per il valore di
circa 30 milioni di lire, trattativa che fu bloccata dal mio arresto del giugno
1982 che mi impedì di attivarmi.
Del resto le armi che dovevano essere date a CAVALLINI non erano ancora
giunte.
Le strade grazie alle quali le avremmo procurate erano due: o recuperare
vecchie armi della nostra area provenienti da Rovigo, da Mestre e dal Friuli
che io avrei poi messo a posto oppure recuperare armi nuove trattando con
TORTA a, Milano, il quale era disposto a tutto perchè era in difficoltà
economiche.
E' probabile che in quel periodo TORTA abbia truffato a MAGGI parecchi
milioni che servivano per l'acquisto delle armi e del resto era sempre stato un
imbroglione e un uomo molto venale.
La fornitura di armi a CAVALLINI quindi non si concretizzò, ma CAVALLINI
continuò a tempestare MAGGI per risolvere la pendenza nel senso di avere
comunque qualcosa o perlomeno recuperare il denaro che aveva già anticipato.
Non sono però al corrente del bigliettino che MAGGI, secondo quanto emerso
nel processo c.d. del Poligono, avrebbe cercato di inviare a me tramite Claudio
BRESSAN di Verona e concernente la prosecuzione di questa vicenda.
Tuttavia posso confermare che quando io mi trovavo latitante a Verona era
effettivamente Claudio BRESSAN a tenere i contatti fra noi e MAGGI.... Faccio
presente che precedentemente a questa vicenda del 1982 era andata a buon
fine, invece, una fornitura di alcune armi a CAVALLINI da parte di MAGGI,
armi che provenivano ancora dalla vecchia dotazione di ZORZI a Mestre; si
trattava di mitra tedeschi, M.A.B. italiani e pistole cal.9 e relative munizioni che
ZORZI aveva fatto sottrarre da altri camerati che facevano il servizio militare
credo nel Reparto Lagunari.
Ciò avvenne nel 1979/1980 e comunque in questo caso non fui io
l'intermediario fra MAGGI e CAVALLINI, bensì Marcello SOFFIATI che mi
raccontò la cosa....”””
(DIGILIO 9.1.1997 f.2-3).
Le diverse cessioni di armi a Gilberto CAVALLINI l'ultima delle quali non andata a
buon fine per l'arresto di Carlo DIGILIO nell'estate del 1982 quando già CAVALLINI
aveva anticipato una notevole parte della somma concordata, sono state
approfondite dal collaboratore negli interrogatori in data 21 e 22.2.1997 nell'ambito
166
dei quali egli ha ricordato che CAVALLINI si era presentato al Poligono di tiro
proprio la mattina del 2.8.1980 quando era avvenuta la strage alla Stazione di
Bologna, presenza le cui ragioni dovranno certamente essere oggetto di
specifici approfondimento nell'ambito delle altre istruttorie collegate:
“””....L'Ufficio dà lettura di quanto dichiarato da SODERINI Stefano in data
3.5.1994 in relazione ad alcune armi acquisite dal gruppo durante una rapina
in danno di un collezionista di Roma, armi prime dell'otturatore e che
CAVALLINI intendeva far tornare utilizzabili grazie ad un suo contato in
Veneto non noto al SODERINI.
Posso dire che ricollego quanto riferito da questo testimone ad una richiesta
che effettivamente CAVALLINI mi fece di fare un nuovo otturatore ad alcune
armi che ne erano prive.
Io non volli nemmeno vedere queste armi spiegandogli che era una richiesta
tecnicamente impossibile in quanto non si può costruire un otturatore in modo
artigianale poichè è un pezzo che solo una fabbrica può fare e sarebbe stato
possibile, al più, prendere un otturatore da un'altra arma analoga.
Questa proposta di CAVALLINI avvenne quando egli mi portò il paragrilletto di
un M.A.B. da rifare, episodio di cui ho già parlato; si colloca quindi
probabilmente nel 1979.
Un'analoga richiesta di sostituire i paragrilletto di un M.A.B. avvenne da
parte di CAVALLINI l'anno successivo, proprio la mattina in cui avvenne la
strage di Bologna.
In questo caso egli mi lasciò un pacchetto con il pezzo da rifare su un davanzale
della finestra dell'ufficio della segreteria del Poligono, senza farsi vedere da
me....”””
(DIGILIO 21.2.1997 f.3-4).
“””....L'Ufficio dà lettura a DIGILIO di quanto dichiarato dal collaboratore di
giustizia Walter SORDI, già appartenente all'area dei N.A.R., a foglio 2
dell'interrogatorio in data 26.8.1995 dinanzi a questo Ufficio in relazione alle
trattative per la vendita a CAVALLINI, nell'estate 1982, di armi da parte del
gruppo veneziano.
DIGILIO dichiara: Il racconto di SORDI è sostanzialmente esatto e si riferisce
alla situazione che ho descritto nell'interrogatorio in data 9.1.1997 e cioè
allorchè il nostro gruppo trattò appunto nell'estate del 1982 con CAVALLINI la
possibilità di procurargli una cospicua quantità di armi.
La persona in contatto a Venezia con CAVALLINI di cui parla il testimone sono
certamente io ed infatti io fui arrestato nel giugno del 1982 e rilasciato dopo
circa 10 giorni.
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CAVALLINI certamente poteva ritenere che il contatto con me fosse pericoloso
e che magari io in qualche modo avessi rilasciato confidenze o dichiarazioni
che avrebbero potuto metterlo in pericolo.
La trattativa sino a quel momento si era sviluppata così.
Vi era stata una prima fase in CAVALLINI aveva dato una decina di milioni a
MAGGI come anticipo e aveva ricevuto un primo lotto di armi abbastanza
vecchie che provenivano ancora dal gruppo di Mestre e dall'arsenale di Vittorio
Veneto.
MAGGI si era occupato personalmente di recuperare questa armi contattando
qualche elemento del gruppo di ZORZI ancora attivo a Mestre, mentre Delfo
ZORZI si trovava già da anni in Giappone.
Ricordo che c'era qualche M.A.B. e qualche pistola tedesca.
Le consegnammo a CAVALLINI io e SOFFIATI incontrandolo a Mestre in un
punto isolato vicino al Canale che parte da Piazza Barche.
Ciò avvenne all'inizio del 1982.
CAVALLINI tuttavia si lamentò perchè si trattava di residuati bellici di scarso
valore e funzionalità come io stesso avevo constatato.
Allora CAVALLINI diede a MAGGI un altro anticipo di 10 milioni per una
fornitura di armi migliori che dovevano essere di un valore complessivo di circa
30 milioni.
Iniziarono i contatti con TORTA il quale promise di fornire delle armi buone
con il solito sistema della vendita sottobanco tramite la sua attività di armiere.
Si trattava in particolare, secondo gli accordi, di pistole nuove di recente
fabbricazione.
Nel maggio 1982 incontrai quindi giovanni TORTA nelle vicinanze di Piazzale
Roma e gli diedi i 10 milioni che MAGGI mi aveva a sua volta dato dopo averli
ricevuti a sua volta da CAVALLINI.
Tuttavia TORTA tardò a mantenere le promesse posticipando sempre il
momento della consegna e io nel frattempo fui arrestato, così CAVALLINI si
ritrovò in credito con il gruppo non avendo ricevuto praticamente nulla.
In settembre anche TORTA fu arrestato a seguito di un'indagine dei Carabinieri
che trovarono nei suoi libri di carico e scarico buchi per centinaia e centinaia
di armi che figuravano vendute a persone di fantasia o esistenti, ma ignare di
essere intestatarie di armi.
Sempre con riferimento alla figura di CAVALLINI, faccio presente che egli era
molto attento ai criteri di sicurezza per quanto riguardava la sua persona in
quanto era sempre curato, sbarbato e vestito come un impiegato di banca e in
questo modo non dava assolutamente il sospetto di essere invece un pericoloso
latitante.
La consegna di armi residuati bellici che facemmo io e SOFFIATI non fu l'unica
che andò a buon fine.
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In precedenza c'era state altre consegne e complessivamente il nostro gruppo
gli fornì una trentina di pezzi fra armi lunghe e corte nell'arco di tre consegne,
compresa quella con Marcello SOFFIATI di cui ho fatto cenno.
Alcune armi non erano residuati bellici, ma armi nuove o ribrunite che TORTA
ci aveva fatto avere nei periodi precedenti alla trattativa non andata a buon
fine.
A Venezia, in occasione di questi passaggi di armi non avevamo un luogo di
custodia fissa, ma le tenevamo in piccola quantità un po' tutti, in particolare più
degli altri MONTAVOCI, cercando così di evitare di custodirle in un unico
deposito con il rischio di un sequestro globale....”””
(DIGILIO 22.2.1997 f.5-6).
Si ricordi che il racconto di Carlo DIGILIO in merito alla fornitura di armi a CAVALLINI
in corso nell'estate del 1982 per una somma di notevole importo, fornitura interrotta
dal primo arresto di DIGILIO nel giugno 1982 e poi dalla sua fuga a Villa D'Adda in
settembre, consente una definitiva spiegazione del bigliettino rinvenuto a Claudio
BRESSAN di Verona (omonimo del militante triestino) al momento del suo controllo
sull'autostrada Venezia-Verona.
Il bigliettino, scritto personalmente dal dr. MAGGI e diretto, tramite BRESSAN, a
DIGILIO che in quel momento si trovava a casa di Marcello SOFFIATI, faceva infatti
riferimento a detonatori occultati presso il Poligono di tiro di Verona che potevano
essere fatti "avere agli amici di G.C. (Gilberto CAVALLINI) a parziale piccolo
indennizzo di quello che hanno perso".
Tale progetto del dr. MAGGI di indennizzare parzialmente il gruppo di CAVALLINI
con i detonatori, compensando così parte della somma da questi perduta nell'estate
del 1982, corrisponde perfettamente al racconto di DIGILIO in merito all'ultima fase
dei rapporti con l'esponente dei N.A.R. avvicinatosi alla struttura di Ordine Nuovo.
Dopo l'arresto di Claudio BRESSAN e la scelta di collaborazione da questi operata,
una parte della rete logistica era comunque caduta, il dr. MAGGI era stato arrestato e
DIGILIO era fuggito da Verona riparando, come è noto, prima da Cinzia DI
LORENZO, militante vicina a Rognoni, e poi nella villetta di Villa D'Adda insieme
all'altro milanese Ettore MALCANGI.
Anche in relazione a quanto avvenuto tra il 1978 e il 1982, e cioè nell'ultima
fase dell'attività del gruppo veneziano di Ordine Nuovo, il racconto di Carlo
DIGILIO non è rimasto isolato.
Infatti Gilberto CAVALLINI, sentito in qualità di indiziato, in occasione di un primo
interrogatorio in data 22.9.1995 si era avvalso della facoltà di non rispondere, ma
successivamente, il 2.5.1997, ha riconosciuto che il quadro fornito da DIGILIO in
merito ai rapporti intrattenuti con lui in materia di manutenzione e cessione di
armi corrispondeva sostanzialmente a verità.
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Gilberto CAVALLINI, in ragione della sua complessiva scelta processuale che
esclude dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone che non siano collaboratori
di giustizia, non ha inteso indicare chi lo avesse messo in contatto con Carlo
DIGILIO, ma tale scelta ovviamente non inficia minimamente l'individuazione nel dr.
MAGGI di colui che aveva reso possibili tali attività illecite.
In conclusione anche tale parte delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO che riguardano
l'ultima fase dell'attività del gruppo veneziano di Ordine Nuovo risulta affidabile e
processualmente "corroborata" e con gli avvenimenti del 1982, sfociati con la
fuga di DIGILIO e il primo arresto del dr. MAGGI, termina un ciclo che sembra
aver visto quest'ultimo protagonista di attività eversive durate per un arco di
ben 15 anni.
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ALTRI EPISODI RIFERIBILI AL DR. CARLO MARIA MAGGI
L'AFFISSIONE A MESTRE DEI "MANIFESTI CINESI" PRELEVATI A PADOVA
Oltre ai fatti/reato ora esposti, nel corso dell'attività istruttoria sono emersi altri
episodi dai quali, pur non derivando specifiche imputazioni, è possibile trovare
conferme molto significative del ruolo determinante, sia sul piano decisionale sia sul
piano operativo, ricoperto dal dr. MAGGI nelle attività illecite del gruppo
mestrino/veneziano.
Ci riferiamo in primo luogo al prelievo a Padova da parte del gruppo di finti "manifesti
cinesi" e alla loro successiva affissione a Mestre, episodio così rievocato da Martino
SICILIANO:
“””....Per quanto concerne l'affissione dei manifesti filocinesi.... la vicenda si
sviluppò nei seguenti termini.
Io, ZORZI e Paolo MOLIN, con la FIAT 1100 di MAGGI, partimmo da
Venezia in direzione di Padova.
Ci fermammo a Limena, uscendo proprio al casello dell'autostrada di tale
cittadina.
A Limena Paolo MOLIN conosceva una persona del gruppo di Padova che
doveva consegnare i manifesti cinesi.
Io e ZORZI rimanemmo in macchina e solo MOLIN entrò nell'abitazione di
questo militante tornando, poi, con i manifesti.
Ricordo che il camerata di Padova abitava in un quartiere popolare, in un
condominio.
Preciso che era Paolo MOLIN ad avere più stretti rapporti con quelli di Padova
in quanto aveva studiato giurisprudenza a Padova con FREDA negli anni
precedenti.
Ritornammo quindi a Venezia e MOLIN portò i manifesti a casa sua.
Dei manifesti ricordo solo che c'erano vari riferimenti a Mao Tse Tung.
Un paio di giorni dopo ci ritrovammo tutti e tre, sempre con la macchina di
MAGGI, e procedemmo all'affissione affiancandola, di nostra iniziativa, a
scritte fatte con bombolette spray inneggianti Mao Tse Tung.
Facemmo queste scritte sulla macchine parcheggiate nella zona per infastidire i
residenti e sviluppare al massimo questa iniziativa di provocazione.
Ricordo che era circa la metà del 1968 in concomitanza con le prime
manifestazioni giovanili e con i primi moti studenteschi.
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172
Prendo atto che a Limena abitava ed abita Marco POZZAN e in proposito
posso dire che ne conosco il nome come componente del gruppo FREDA, ma
non posso affermare se fosse lui la persona da cui si recò MOLIN.
Proprio perchè si trattava di una questione riservata, MOLIN non ci disse, o
quantomeno non disse a me, il nome del camerata da cui era andato....”””
(SICILIANO, 6.10.1995, f.3).
Si noti che ancora una volta emerge lo stabile utilizzo da parte del gruppo
dell'autovettura del dr. MAGGI (la FIAT 1100 chiara che aveva sostituito la vecchia
500) e che l'affissione dei finti "manifesti cinesi" da parte dei giovani neonazisti di
Mestre è ricordata anche da Giancarlo VIANELLO che pur non ha saputo indicare la
provenienza degli stessi (interr. 19.11.1994, ff.10-11).
Tale azione, sul piano della ricostruzione complessiva, ètutt'altro che
trascurabile in quanto si inquadra nella strategia coltivata a Padova nel
1967/1968, soprattutto da Giovanni VENTURA (e, parallelamente, a Roma dagli
esponenti di Avanguardia Nazionale), di disinformazione, creazione di
confusione e infiltrazione nel campo dell'avversario e altresì nella strategia
della costruzione di una possibile linea difensiva anticipata ed estremamente
duttile in relazione alle indagini che sarebbero state comunque svolte dopo
l'inizio della campagna di attentati.
Giovanni VENTURA infatti, durante le indagini condotte sulla c.d. pista nera, si è
presentato agli inquirenti come "uomo di sinistra", con simpatie filocinesi, che quindi
non poteva avere condiviso o condiviso sino in fondo, dopo i primi attentati
dimostrativi, una campagna terroristica che colpiva cittadini innocenti.
LA PRESENZA DEL DR. MAGGI ALLA RIUNIONE DI PADOVA OVE VENNE
DELINEATA LA STRATEGIA DEGLI ATTENTATI
Martino SICILIANO, pur escluso dal nucleo operativo nella fase finale, ha avuto
modo di partecipare, nella primavera del 1969, a Padova nella libreria Ezzelino di
Franco FREDA, ad una riunione ristretta ove fu delineata senza troppe reticenze la
strategia degli attentati:
“””....posso dire che certamente quella riunione si svolse alla libreria Ezzelino,
nella saletta posteriore che fungeva anche da ufficio.
Eravamo presenti FREDA, TRINCO, cioè quello che faceva da commesso, io,
MAGGI, MOLIN e ZORZI, all'incirca quattro o cinque mesi prima, per quanto
ora ricordo, degli attentati di Gorizia e di Trieste, direi quindi nel maggio o
giugno del 1969, ricordo infatti che non faceva più freddo, ma non era ancora
estate piena.
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Esattamente si parlò non solo di attentati ai treni, ma anche in luoghi pubblici
al fine di creare panico e insicurezza.
In quella riunione non si scese in particolari operativi, ma si parlò della
strategia politica e parlò soprattutto FREDA.
Era quindi una riunione ristretta a livello di strategia....”””
(SICILIANO, 6.10.1995, ff.6-7).
Riprendendo il discorso a partire dai primi attentati dimostrativi, in particolare quelli
dell'8/9 agosto 1969 sui convogli ferroviari, che egli sapeva essere stati commessi
dal gruppo con ordigni contenuti in scatolette di legno molto simili a quelle che tempo
prima Delfo ZORZI gli aveva consegnato con varie armi in una valigia, Martino
SICILIANO ha precisato:
“””....Noto del resto che si tratta di scatolette che possono alloggiare solo
piccoli ordigni con poco esplosivo e ciò è del tutto in sintonia con i discorsi che
erano stati fatti a Padova in occasione della riunione con MAGGI, ZORZI e
MOLIN nel retro della libreria EZZELINO, di cui ho già parlato
nell'interrogatorio in data 6.10.1995.
In tale riunione, infatti, qualcuno dei padovani, molto probabilmente FREDA,
fece presente che una strategia utile sarebbe stata quella di compiere piccoli
attentati dimostrativi finalizzati a fare pochi danni, ma nel contempo a far
credere, in ragione del loro numero e della loro disseminazione in varie
Regioni del Paese, che esistesse un'organizzazione presente dappertutto ed
articolata, in grado potenzialmente di compiere dovunque attentati più gravi.
Ricordo che comunque FREDA disse che non bisognava farsi scrupoli se,
nonostante si trattasse di attentati dimostrativi, qualche civile fosse rimasto
ferito.
Infatti, sempre secondo FREDA, non si sarebbe fatto peggio degli Alleati che
durante la II guerra mondiale avevano lanciato dagli aerei, sul territorio
italiano, matite esplosive o comunque piccoli ordigni camuffati destinati a
colpire la popolazione e a fare terrorismo psicologico....”””
(SICILIANO, 20.9.1996, f.4).
La presenza congiunta di FREDA e di MAGGI a tale riunione è la testimonianza
diretta della sinergia operativa che si era creata fra le due cellule e che non era stato
possibile mettere in luce se non in minima parte, soprattutto per la mancanza di
collaboratori e testimoni, nel corso delle prime istruttorie.
IL PROGETTO DI EVASIONE DI GIOVANNI VENTURA
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Infine, secondo il racconto di Carlo DIGILIO, fu personalmente il dr. MAGGI a
mettere in contatto lo stesso DIGILIO e Delfo ZORZI per l'incontro del 1972, a
Mestre, in cui quest'ultimo chiese a DIGILIO collaborazione per organizzare
l'evasione di Giovanni VENTURA.
In tale occasione ZORZI mostrò a DIGILIO il calco in cera di una chiave, e cioè
la chiave della cella di VENTURA, pronta per essere riprodotta, spiegandogli
che era necessario aiutare VENTURA a sfuggire agli inquirenti anche se, con le
sue imprudenze, fra cui le confidenze fatte ad un suo amico professore (riferimento,
questo, certamente al prof. Guido LORENZON), egli aveva messo in pericolo tutta
l'organizzazione (interr. DIGILIO 29.1.1994. f.3; 16.4.1994, f.4; 12.11.1994, f.8;
30.12.1996, f.3).
Giovanni VENTURA, che si teneva in contatto con gli altri elementi del gruppo
tramite la sorella (interr. 30.12.1996 citato), non aveva in seguito accettato il progetto
propostogli dai suoi camerati.
Il racconto di DIGILIO sul progetto di evasione di Giovanni VENTURA (che appare
del tutto parallelo ad un altro progetto emerso nel corso della prima istruttoria e
organizzato da Guido GIANNETTINI sempre attivando la sorella di VENTURA,
Mariangela) trova una logica spiegazione nei timori da parte del gruppo che
VENTURA, come sarebbe poi parzialmente avvenuto all'inizio del 1973 con la "semiconfessione" dell'imputato dinanzi ai giudici D'Ambrosio e Alessandrini, cedesse
completamente dinanzi agli inquirenti rivelando la struttura e la strategia dell'intera
organizzazione, con esiti catastrofici anche per coloro che non erano stati individuati.
Non a caso Delfo ZORZI aveva illustrato a Carlo DIGILIO, dimostrando di essere in
grado di progettare sofisticate tecniche di inquinamento e disinformazione, la
necessità di porre in essere "azioni diversive" in varie città d'Italia e cioè attentati
che avrebbero sviato l'attenzione della magistratura verso altre piste, dando
l'impressione che i responsabili degli attentati precedenti fossero ancora liberi (interr.
DIGILIO 12.11.1994, f.9).
Nel corso della prima sentenza-ordinanza depositata da questo Ufficio in data
18.3.1995 si è ampiamente esposto, sulla base dei dati processuali raccolti, che
il più importante di tali "attentati diversivi" era stato quello attuato nell'aprile
del 1973 da ROGNONI, AZZI ed altri militanti de La Fenice sul convoglio TorinoRoma.
Per tale attentato era stato programmata una rivendicazione di sinistra che avrebbe
spinto nuovamente gli inquirenti, impegnati in quel momento sulla pista nera, a
dirigere la propria attenzione sui gruppi di estrema sinistra, in particolare quello
scaturiti dall'attività di Giangiacomo FELTRINELLI nella cui villa era stato progettato,
fra l'altro, di depositare e far rinvenire alcuni dei timers utilizzati per gli attentati del
12.12.1969.
Tale disegno era stato reso impossibile dall'incidente occorso a Nico AZZI durante
l'esecuzione dell'attentato, in quanto l'arresto in flagranza sul treno del militante de
La Fenice aveva reso evidentemente inattuabile qualsiasi rivendicazione di segno
opposto.
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ALTRI DEPOSITI DI ORDINE NUOVO A VENEZIA
SOTTO I TETTI E SOTT’ACQUA
Nel corso di uno dei suoi ultimi interrogatori, Carlo DIGILIO ha parlato di altri due
depositi di armi di cui disponeva il gruppo di Venezia all’inizio degli anni ‘70, gestiti
l’uno da Giorgio BOFFELLI e l’altro da Pietro MONTAVOCI:
“””....Con riferimento al ruolo di Giorgio BOFFELLI, posso aggiungere che lui
si occupava molto dell'acquisizione di armi e della loro tenuta a disposizione in
favore del gruppo.
In casa sua, nascosti nel sottotetto in quanto BOFFELLI abitava all'ultimo
piano, ho visto degli STEN, alcuni MAB, delle vecchie pistole Beretta cal.9
mod.34 e un paio di pistole Browning mod.HP da 13 colpi.
Io vidi queste armi un quanto egli una volta mi chiamò a casa sua per lo
aiutassi nel risolvere un problema che aveva con il caricatore di una delle
Browning.
Infatti egli aveva smontato il caricatore e nel rimontarlo aveva messo lo zoccolo
elevatore alla rovescia per cui questo si incastrava e non spingeva in alto i
proiettili.
Per prendere questo caricatore, che stava insieme alle altre armi, egli si sporse
dalla finestra issandosi sul cornicione e recuperando così il sacco di juta con
tutte le armi dal sottotetto.
BOFFELLI era del resto estremamente spericolato a causa dei suoi precedenti
di mercenario e paracadutista.
Si era procurato alcune di queste armi anche grazie a contatti in Val di Taro,
sull'Appennino Tosco-Emiliano (zona dove non era conosciuto).
Infatti mi disse che alcune di queste armi provenivano addirittura da vecchi
depositi di Partigiani custoditi da gente del posto.
BOFFELLI, comunque, aveva stretto contatti anche con la malavita di Venezia
a cui vendette una parte delle armi che si era procurato facendosi pagare anche
con della cocaina.
Mi confidò tale circostanza e ciò mi diede fastidio perchè non era un
comportamento da militante politico.
Io vidi queste armi intorno al 1970/1971 e probabilmente quando MAGGI,
poco prima dei fatti del 12 dicembre 1969, mi chiese di avvertire BOFFELLI
di far sparire per un po' di tempo quanto di compromettente, si riferiva a
questo piccolo deposito di armi di BOFFELLI che tuttavia io in quel momento
non avevo ancora visto”””.
(DIGILIO, int. 29.6.1997, f.2).
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Giorgio BOFFELLI, grazie ai contatti instaurati in Germania in occasione di incontri
con ex-nazisti, era riuscito anche a procurarsi una pistola cal.22, molto particolare in
quanto perfettamente camuffata da penna stilografica, nonchè un’altra pistola cal.22
di fabbricazione cecoslovacca anch’essa potenzialmente molto pericolosa perchè
munita di un silenziatore incorporato (DIGILIO, int. 9.6.1997, f.4 e anche SICILIANO,
int. 24.6.1997, f.3).
Del tutto particolare era poi la collocazione di un secondo deposito del gruppo:
“””...Sempre in tema di dotazione logistica del gruppo, un altro militante che
custodiva una certa quantità di armi era Giampiero MONTAVOCI.
Questi aveva non solo la cal.8 Lebel che ho già ricordato, ma altre tre o quattro
pistole WALTER cal.9, quelle in dotazione agli ufficiali tedeschi.
Ne vidi anch'io qualcuna personalmente nel retro del suo negozio di
tabaccheria.
MAGGI aveva chiesto a MONTAVOCI di tenere a disposizione queste armi, che
erano molto buone, ma evidentemente MONTAVOCI non poteva tenerle sempre
nel negozio.
Utilizzò quindi uno stratagemma che gli fu reso possibile dall'aiuto di Roberto
ROTELLI con il quale aveva in comune l'attività di subacqueo e con il quale era
in ottimi rapporti.
ROTELLI gli diede un bidoncino di alluminio di quelli che si usavano per il
trasporto del latte spiegandogli che grazie al tappo a tenuta stagna gli era stato
possibile molte volte nascondere sottacqua addirittura delle stecche di sigarette.
I bidoncini, per andare a fondo e rimanere stabili, dovevano essere appesantiti
con delle lastre di piombo all'interno.
Giampiero MONTAVOCI mise allora le pistole e le munizioni, avvolte in
sacchetti, di nylon dentro il bidoncino datogli da ROTELLI e lo affondò
presso una scogliera vicino alla Spiaggia delle Suore al Lido di Venezia.
Il bidoncino era a pochi metri di profondità e MONTAVOCI, con il respiratore,
poteva recuperarlo senza difficoltà quando voleva.
MONTAVOCI mi parlò di questo deposito subacqueo all'incirca nel 1972/1973
ed io, quando me ne parlò, mi ricordai che effettivamente avevo visto in
precedenza parecchi bidoni di alluminio di quel tipo nella casa di campagna di
ROTELLI, in località 4 Fontane.
MONTAVOCI mi disse che queste pistole WALTER venivano dalla zona di
Treviso ed infatti in seguito MAGGI mi confermò che queste pistole a cui
teneva molto gli erano state regalate personalmente dal prof. Lino FRANCO e
provenivano dal deposito di Pian del Cansiglio”””.
(DIGILIO, int.29.6.1997, f.3).
Giorgio BOFFELLI e Giampietro MONTAVOCI, entrambi uomini di fiducia del dr.
MAGGI, erano figure non di primo piano, almeno sotto un profilo operativo, della
cellula di Ordine Nuovo di Venezia.
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Il primo, tuttavia, mercenario in Congo a metà degli anni ‘60, sovente utilizzato da
MAGGI per portare notizie riservate in altre sedi, è colui che aveva reso possibile
l’”aggancio” di Gianfranco BERTOLI per l’operazione dinanzi alla Questura di
Milano ed era stato il militante che più di altri, in ragione della sua amicizia con
BERTOLI, era riuscito a tranquillizzarlo e a convincerlo a fidarsi di loro.
Giampietro MONTAVOCI, molto più giovane, era uno dei “guardaspalle” di MAGGI
(cfr. sul punto anche SICILIANO, int. 10.10.1995, f.2), e, secondo il racconto di
DIGILIO, l’autore materiale dell’attentato al Gazzettino del febbraio 1978.
Mentre Giorgio BOFFELLI è stato arrestato, a seguito di mandato di cattura del G.I.
dr. Lombardi, insieme al dr. MAGGI e a Francesco NEAMI per concorso
nell’organizzazione della strage di Via Fatebenefratelli del 17.5.1973, non è stato
possibile sentire Giampietro MONTAVOCI in quanto egli è deceduto nel 1982 in un
incidente stradale.
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IL PROGETTO DI RAPIMENTO IN AUSTRIA
DI GIANGIACOMO FELTRINELLI
Il fallito progetto di rapimento in Austria di Giangiacomo FELTRINELLI, ideato da
Marco FOSCARI con l’aiuto di Martino SICILIANO, benchè episodio estemporaneo e
non direttamente collegato all’attività di Ordine Nuovo, merita di essere ricordato,
riportando il racconto di Martino SICILIANO, per la sua particolarità e le conseguenze
che avrebbe potuto avere se il piano fosse andato a buon fine:
“””....Marco Foscari disponeva di un castello di famiglia in Carinzia, a
Paternion, ove io fui ospite parecchie volte.
Era un bel castello con delle tenute intorno così ampie da essere addirittura
utilizzato dall'Esercito austriaco per le esercitazioni.
Ricordo che c'erano anche capanni di caccia.
Venimmo a sapere, ed era cosa del resto nota nella zona, che una compagna di
Feltrinelli, che ricordo si chiamava Sibilla Melega, ospitava Feltrinelli in una
sua proprietà non lontana dal castello dei Foscari.
Progettammo quindi di sorprenderlo in quel posto, rapirlo, impacchettarlo e
portarlo oltre confine facendolo ritrovare alle Autorità italiane.
Infatti Feltrinelli era già latitante . Il periodo era circa un anno prima della
sua morte sul traliccio di Segrate.
Facemmo quindi degli appostamenti in quella proprietà accompagnati da
guardiacaccia di Foscari che non aveva difficoltà ad aderire al progetto in
quanto era un ex WAFFEN-SS.
Individuammo senza difficoltà la proprietà dove c'era uno chalet, ma non
riuscimmo a vedere Feltrinelli e anzi lo chalet sembrava in quel momento
chiuso.
Abbandonammo quindi il progetto che morì di colpo così come era nato.
In quella occasione avevamo con dei fucili da caccia di Foscari e un
fuoristrada sempre di Foscari che avrebbe dovuto servirci per il trasporto.
Avevamo dell'etere per stordirlo e corde per legarlo e un baule pronto
nell'altra macchina di Foscari ove lo avremmo chiuso per il trasporto in
Italia.
Di Marco Foscari posso ancora dire che si è "mangiato" in pratica tutti i suoi
beni, è fuggito dall'Italia accusato di bancarotta fraudolenta e attualmente vive
a Palma di Majorca dove vende piccolo antiquariato”””.
(SICILIANO, int.19.10.1994, f.7)
Gli accertamenti svolti dalla Digos di Milano hanno consentito di accertare che
effettivamente l’editore FELTRINELLI disponeva, all’epoca, di una tenuta a Oberhof,
in Carinzia, di proprietà della sua famiglia (cfr. nota della Digos di Milano in data
178
4.10.1994 e allegato verbale di s.i.t. di Inge SCHOENTAL FELTRINELLI in data
3.10.1994, vol.8, fasc.11, ff.27 e ss.).
Non sembra esservi dubbio che il progetto coltivato senza successo da Marco
FOSCARI si sia sviluppato così come narrato da Martino SICILIANO, in quanto
anche Biagio PITARRESI ha ricordato di avere ricevuto da Marco FOSCARI, fra il
1972 e l’inizio del 1973, anche dopo la morte di FELTRINELLI, qualche accenno al
fallito tentativo in Austria (dep. 9.9.1996, f.2).
Del resto, nell’ambito dell’intervista rilasciata da Marco FOSCARI al giornalista
Maurizio DIANESE e di cui già si è fatto cenno nel capitolo 20, FOSCARI ha
confermato, seppur minimizzandolo sotto il profilo della possibilità di una concreta
riuscita, il progetto di sequestro dell’editore e il sopralluogo effettuato insieme a
Martino SICILIANO e al guardiacaccia presso la villa di FELTRINELLI in Carinzia,
nota a FOSCARI in quanto la famiglia FELTRINELLI acquistava legname
proveniente proprio dalla sua tenuta (cfr. pagg. 1-6 e 32 della trascrizione
dell’intervista rilasciata in data 30.10.1997).
Il Conte FOSCARI ha inoltre indicato l’autovettura e il fuoristrada, disponibili per
l’occasione, in modo coincidente con il racconto di Martino SICILIANO (cfr. pag.1
della trascrizione e int. SICILIANO, 20.10.1997, f.3).
L’editore Giangiacomo FELTRINELLI sembra essere stato un obiettivo costante
dell’area di persone gravitante intorno a La Fenice poichè, oltre agli assalti nei
confronti della libreria, ad uno dei quali aveva partecipato anche Martino SICILIANO
(int.18.7.1996, f.3), la sua figura era stata al centro del ben più grave progetto, di cui
si è ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza, di far ritrovare in una villa di
sua proprietà i timers rimasti dopo gli attentati del 12.12.1969, al fine di indirizzare
nuovamente le indagini verso l’estrema sinistra.
179
180
27
LE CONCLUSIONI ISTRUTTORIE
IN MERITO AI SINGOLI EPISODI CRIMINOSI
Passando alle determinazioni conclusive sul piano processuale, non vi è dubbio che
deve essere emessa dichiarazione di prescrizione del reato nei confronti di ZORZI,
SICILIANO, MONTAGNER e MAGGI in ordine al furto di esplosivo nella cava di
Arzignano (capo 14) e nei confronti di ZORZI, VENTURA, POZZAN e FREDA in
ordine ai reati connessi al deposito di armi ed esplosivi di Paese.
Per quanto concerne in particolare gli ultimi due indiziati, Marco POZZAN (il quale,
interrogato da questo Ufficio in data 5.1.1995, si è avvalso della facoltà di non
rispondere) si trovava nel casolare, come ha spiegato DIGILIO, per fornire il suo
concreto contributo, mentre per FREDA (il quale, convocato in data 13.1.1995, non si
è presentato), pur non visto da DIGILIO nel casolare, valgono le considerazioni
esposte nel mandato di comparizione emesso nei suoi confronti.
Infatti egli era il responsabile della cellula padovana e, a conclusione del
processo di Catanzaro, è stato condannato insieme a Giovanni VENTURA per il
concorso nella detenzione delle armi rinvenute nel novembre 1971 a
Castelfranco Veneto.
Poichè tali armi costituivano un piccolo residuo della più ampia dotazione
custodita a Paese, non vi è necessità di molte parole per affermare che egli era
corresponsabile di quanto custodito nel casolare negli anni in cui la cellula
padovana era nella sua fase di piena operatività.
Ugualmente, sulle base delle confessioni di SICILIANO e VIANELLO, deve essere
emessa sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei loro
confronti e anche nei confronti di ZORZI e MAGGI in ordine alla detenzione della
dotazione logistica di armi ed esplosivi del gruppo di Mestre/Venezia (capo 16).
Per quanto concerne i reati connessi agli attentati di Trieste e Gorizia, deve
innanzitutto premettersi che, ad avviso di questo Ufficio e anche del Pubblico
Ministero, l’attentato alla Scuola Slovena deve essere qualificato danneggiamento
aggravato e non tentata strage, come era invece avvenuto nei primi procedimenti .
Infatti le confessioni di SICILIANO e VIANELLO hanno consentito di chiarire che
l’esplosione dell’ordigno, a seguito della chiusura del circuito, era prevista non per
mezzogiorno, quando la scuola sarebbe stata affollata di bambini e insegnanti, ma
per mezzanotte, in un momento, quindi, in cui il coinvolgimento di qualche persona
avrebbe potuto verificarsi solo per circostanze improbabili e fortuite.
Una dichiarazione di prescrizione deve perciò essere adottata nei confronti di
VIANELLO, COZZO e MAGGI in ordine ai reati di cui ai capi 19 e 20 e nei confronti
di Carlo DIGILIO in ordine ai reati di cui al capo 21 (collegati alla consulenza tecnica
da lui fornita per la preparazione e l’innesco dei congegni esplosivi), mentre per
ZORZI e SICILIANO, già prosciolti in sede istruttoria dal G.I. di Trieste, deve essere
180
emessa sentenza di non doversi procedere per inammissibilità di un secondo
giudizio, precludendo l’intervento della prescrizione alcuna forma di riapertura delle
indagini.
Identica a quelle di ZORZI e SICILIANO è la posizione di Francesco NEAMI,
anch’egli prosciolto alla chiusura della prima istruttoria, mentre per quanto concerne
Manlio PORTOLAN deve essere adottata sentenza di non doversi procedere per
intervenuta prescrizione.
In relazione all’attentato in danno dei magazzini COIN di Mestre (capo 23), la
dichiarazione di prescrizione riguarda ANDREATTA, SICILIANO e ZORZI (capo 23)
e in relazione alla connessa detenzione dei candelotti di gelignite (capo 18)
Giuseppe FREZZATO, responsabile anche della cessione di una pistola cal.6,35 e
delle bomba da mortaio a Martino SICILIANO utilizzata per l’attentato all’Università
Cattolica di Milano (capo 24), reati anch’essi prescritti.
Identica formula terminativa riguarda il dr. MAGGI e Carlo DIGILIO per il
favoreggiamento nei confronti di Pietro BATTISTON e Francesco ZAFFONI,
rifugiatisi a Venezia durante la loro latitanza (capo 26).
Alla luce di quanto esposto nei capitoli precedenti, il dr. MAGGI deve invece essere
rinviato a giudizio per rispondere della detenzione delle mine anticarro e,
unitamente a Carlo DIGILIO, per rispondere della detenzione e dell’invio alla
struttura romana, tramite Roberto RAHO, di circa 12 chilogrammi di esplosivo
fra tritolo e acido picrico (capo 25).
Roberto RAHO, invece, per tali ultimi reati non è più perseguibile in quanto già
giudicato dalla Corte d’Assise di Roma nel procedimento, a carico di ADDIS Mauro
ed altri, relativo principalmente alla struttura romana di Ordine Nuovo.
Il dr. MAGGI e Carlo DIGILIO devono essere anche chiamati a rispondere della
complessiva gestione della dotazione di armi comuni e da guerra appartenente
al gruppo di Ordine Nuovo di Mestre/Venezia (capo 27) e, unitamente a Gilberto
CAVALLINI, della manutenzione e riparazione, in un primo momento, della sua
dotazione di armi e, in seguito, della vendita all’esponente dei N.A.R. di
numerose altre armi (capo 28).
Nonostante molti dei reati collegati all’attività della struttura occulta di Ordine Nuovo
siano ormai prescritti in ragione del decorso del tempo, è evidente che l’attribuzione
di responsabilità che discende dall’enorme numero di elementi probatori
raccolti riveste notevolissima importanza.
Infatti tali reati sono, soprattutto per quanto concerne le posizioni di MAGGI,
ZORZI e DIGILIO, prodromici e funzionali ai più gravi reati di cui gli stessi sono
chiamati a rispondere nelle istruttorie collegate in materia di strage e ne
costituiscono in larga parte la chiave di spiegazione e l’antecedente sul piano
storico, logico e indiziario.
181
182
28
I REATI DI
FAVOREGGIAMENTO E DI UTILIZZO DI DOCUMENTI FALSI
CONNESSI ALLA LATITANZA DI CARLO DIGILIO ED ETTORE MALCANGI
I reati indicati ai capi da 27 a 30 dell’elenco delle imputazioni sono collegati al
periodo della latitanza di Carlo DIGILIO ed Ettore MALCANGI a Villa d’Adda e
vedono coinvolti anche Lorenzo PRUDENTE ed Enrico CARUSO, estremisti di
destra milanesi già legati a Gilberto CAVALLINI, che erano stati tra i frequentatori
della villetta abitata dai latitanti.
Per quanto concerne i reati di ricettazione e falso di cui al capo 27 di imputazione,
Ettore MALCANGI, in procinto di lasciare per primo Villa d’Adda alla volta di Santo
Domingo, si era premurato di procurare a DIGILIO due passaporti italiani e una carta
di identità (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.3; int. DIGILIO, 18.10.1995, f.3).
Carlo DIGILIO, assai abile anche nella falsificazione e alterazione di documenti,
aveva poi completato uno dei due passaporti prima di partire a sua volta per Santo
Domingo.
Il problema dei dati che dovevano figurare sul passaporto era stato risolto grazie a
Lorenzo PRUDENTE, il quale aveva fornito a DIGILIO i dati di una persona, più o
meno della stessa età di DIGILIO, che aveva rilevato da una pratica della TORO
ASSICURAZIONI di cui PRUDENTE era all’epoca funzionario (int. PRUDENTE,
6.9.1995, f.4; int. DIGILIO, 18.10.1995, f.3).
Lorenzo PRUDENTE, per aiutare il camerata, aveva quindi utilizzato lo stesso canale
già emerso nel procedimento celebrato a carico dello stesso PRUDENTE, di
Pasquale GUAGLIANONE e degli altri camerati della rete di appoggio logistica
milanese al gruppo di Gilberto CAVALLINI, fornendo in particolare ai latitanti dei
N.A.R. i tagliandi assicurativi falsi, ma compilati su moduli della TORO
ASSICURAZIONI, che il gruppo aveva utilizzato per le autovetture di cui disponeva.
Il passaporto così compilato è quello a nome Piero MARTINELLI, sequestrato a
Carlo DIGILIO al momento del suo arresto a Santo Domingo nel 1992 e di cui si è
ampiamente parlato nella sentenza-ordinanza conclusiva dell’istruttoria 721/88F.
Al momento della conclusione di tale prima istruttoria, Carlo DIGILIO non si era
ancora risolto a dire chi lo avesse aiutato nella prima parte della sua fuga da Villa
d’Adda e cioè nel tragitto sino a Zurigo ove si sarebbe poi imbarcato per Santo
Domingo.
Tale aspetto della fuga era quindi rimasto oscuro e non a caso si ricollega ad
una fase processuale in cui DIGILIO non aveva ancora ammesso in alcun modo
i rapporti intrattenuti, inizialmente tramite il dr. MAGGI, con i componenti del
gruppo CAVALLINI.
182
A seguito di una prima indicazione proveniente da Ettore MALCANGI in merito alla
presenza di PRUDENTE a Villa d’Adda e all’aiuto anche economico fornito tramite
questi (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.2), Carlo DIGILIO, iniziando così a spiegare i
suoi rapporti con le persone vicine a Gilberto CAVALLINI, ha raccontato di essere
stato accompagnato sino a Ponte Chiasso a bordo di un’autovettura guidata da
Lorenzo PRUDENTE, di aver attraversato il confine a piedi in quanto meno
pericoloso e di essere stato recuperato da PRUDENTE dopo le sbarre di frontiera e
accompagnato sino a Zurigo (int. 18.10.1995, ff.1-2).
Il racconto di Lorenzo PRUDENTE in merito a tale ulteriore aiuto fornito è
assolutamente coincidente (int.6.9.1995, ff.3-4) e in sostanza egli , in tale occasione,
aveva svolto il medesimo ruolo emerso nel procedimento appena citato a carico degli
appoggi milanesi di Gilberto CAVALLINI, e cioè l’accompagnamento oltre confine, in
quanto persona “pulita” di Pasquale BELSITO, Cristiano FIORAVANTI, dello stesso
CAVALLINI e di altri esponenti latitanti dei N.A.R.
Non molto diversa è la vicenda della cessione a DIGILIO dei due documenti argentini
già appartenuti ad oppositori del regime politico esistente all’epoca in tale Paese
(capo 30 di imputazione).
Ettore MALCANGI aveva ricevuto tali documenti, già appartenuti a oppositori
eliminati dalla Giunta argentina, da esponenti dei servizi segreti uruguayani con cui
era da tempo in contatto.
Al momento della partenza per Santo Domingo li aveva ceduti a Carlo DIGILIO (int.
MALCANGI, 2.10.1995, ff.1-2; 17.10.1995, f.2).
Carlo DIGILIO aveva tuttavia deciso di non utilizzarli per seguire il suo camerata a
Santo Domingo in quanto, non conoscendo all’epoca la lingua spagnola, temeva di
trovarsi in difficoltà nel caso di un controllo e di essere invece individuato quale
persona differente da quella che appariva sui documenti e aveva così deciso di
utilizzare i documenti italiani intestati a Piero MARTINELLI (int. DIGILIO, 6.11.1995,
ff.1-2; int. MALCANGI, 17.10.1995, f.2).
In quel periodo tuttavia, all’inizio del 1995, a Villa d’Adda si era presentato Enrico
CARUSO, che a Milano, negli anni ‘70, aveva condiviso con CAVALLINI la
militanza nell’estrema destra ed era stato condannato per l’omicidio dello studente
di sinistra Alberto BRASILI.
Enrico CARUSO, in quel momento in semilibertà, aveva deciso di fuggire e di
raggiungere anch’egli Santo Domingo e, avendo bisogno di documenti, aveva
ricevuto da Carlo DIGILIO uno dei due passaporti argentini che aveva anche
completato apponendovi i timbri e la sua fotografia (int. CARUSO, 23.8.1995, f.3, e
14.9.1995, f.3; dep. GAVAGNIN, 10.12.1993, f.1; int. PRUDENTE, 6.9.1995, f.3; int.
DIGILIO, 6.11.1995, f.2, il quale però ha riferito, probabilmente non esattamente, che
il documento era stato fornito a CARUSO direttamente da Ettore MALCANGI).
Enrico CARUSO, una volta raggiunta Santo Domingo insieme a GAVAGNIN, aveva
restituito a Carlo DIGILIO il passaporto argentino (int. CARUSO, 23.8.1995, f.3).
183
184
Si noti che il canale di acquisizione dei nominativi che servivano per i vari documenti
falsi di cui Enrico CARUSO si era servito anche negli anni successivi era la palestra
di arti marziali OLIMPIA di Milano, frequentata anche da Lorenzo PRUDENTE (int.
CARUSO, 23.8.1995, f.4) e in cui molti anni prima, intorno al 1970, si addestrava
Biagio PITARRESI, nel periodo in cui alcuni veneziani, fra cui Delfo ZORZI, venivano
anch’essi a Milano per incontri di arti marziali (dep. PITARRESI, 9.5.1995, f.6).
Tale circostanza testimonia la stabilità nel tempo e la circolarità dei rapporti fra gli
elementi dell’estrema destra pur appartenenti a settori politici ed aree
apparentemente diverse.
Merita anche di essere ricordato che tutte le persone entrate in contatto con DIGILIO
durante la sua latitanza hanno ricordato la bravura vantata da DIGILIO
nell’approntare silenziatori utilizzando tubi di metallo con all’interno feltrini e
mollette (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.4; int. CARUSO, 28.8.1995, f.4; int.
PRUDENTE, 6.9.1995, f.4) e dichiarazioni nello stesso senso sono state raccolte da
molti altri testimoni fra cui Martino SICILIANO.
Carlo DIGILIO, stranamente, pur avendo confessato la sua partecipazione a
gravissimi episodi, ha più volte dichiarato di non essere mai stato in grado di
fabbricare personalmente silenziatori, pur avendo molte volte controllato e
verificato il funzionamento di quelli che pervenivano al gruppo da Roberto
ROTELLI e da altre fonti (int.6.11.1995, f.3).
Si tratta di una negazione singolare, collegata alle molte incertezze di Carlo
DIGILIO in merito all’assunzione di alcune responsabilità e il cui significato
potrà forse essere meglio approfondito in futuro.
Chiariti comunque, in questa seconda fase dell’istruttoria, gli ultimi punti oscuri
connessi alla latitanza di Carlo DIGILIO e come richiesto dal Pubblico Ministero,
Ettore MALCANGI deve essere rinviato a giudizio per rispondere dei reati di cui al
capo 28, Lorenzo PRUDENTE per rispondere dei reati di cui ai capi 29 e 30, lo
stesso MALCANGI, DIGILIO e CARUSO per rispondere dei reati di cui al capo 31, in
quanto per tali capi la prescrizione è stata tempestivamente interrotta e non ne sono
quindi decorsi i termini.
184
29
LA POSIZIONE DI MARCO BALLAN
Il fascicolo trasmesso a seguito di sentenza di incompetenza territoriale del Giudice
Istruttore di Bologna in data 24.9.1992 riguarda anche la posizione di Marco BALLAN
il quale, imputato dei reati di cui agli artt. 270 e 306 c.p., avrebbe fatto parte di una
struttura associativa, costituita a Milano e operante quantomeno sino al 1974, che
sarebbe stata finalizzata alla consumazione di almeno quattro delitti di strage, fra cui
la strage di Piazza della Loggia a Brescia e, probabilmente, l’attentato al treno
Italicus e l’attentato sulla linea ferroviaria Ancona-Pescara avvenuto all’altezza di
Silvi Marina il 29.1.1974.
Al vertice di tale organizzazione sarebbero stati, per la componente avanguardista,
appunto Marco BALLAN e, per la componente ordinovista, Giancarlo ROGNONI.
Gli elementi raccolti dal G.I. di Bologna (che aveva anche emesso nei confronti di
BALLAN e di ROGNONI, in data 12.10.1985, un provvedimento restrittivo) si basano
essenzialmente sulle dichiarazioni del pentito Valerio VICCEI, molto legato negli anni
‘70 a Giancarlo ESPOSTI e a Gianni NARDI, e sono contenuti nel rapporto della
Questura di Bologna - Sezione antiterrorismo, allegato agli atti (vol.5, fasc.1).
In particolare la cellula ascolana di cui faceva parte VICCEI, in stretto contatto con
quella milanese, si era procurata, all’inizio degli anni ‘70, una forte dotazione di
esplosivi e aveva compiuto attentati “minori” quali quello in danno del Tribunale di
Ascoli Piceno del 31.12.1971 e quello in danno del ripetitore RAI di Colle San Marco
del 5.1.1972.
Quando nel 1974 Giancarlo ESPOSTI, che si spostava frequentemente in CentroItalia, era divenuto responsabile militare della cellula ascolana, il vertice milanese di
ROGNONI e BALLAN, secondo le confidenze che VICCEI aveva ricevuto dallo
stesso ESPOSTI, aveva progettato un articolato programma comprendente almeno
quattro operazioni.
Due operazioni, con i treni come obiettivi, erano state assegnate alla cellula ascolana
dal punto di vista organizzativo, mentre altre due azioni nel Centro/Nord dovevano
essere direttamente compiute dal gruppo milanese (cfr. rapporto citato della
Questura di Bologna, f.47).
Si era così giunti al gravissimo attentato sulla linea ferroviaria a Silvi Marina
compiuto, secondo VICCEI, dai due ascolani ORTENZI e MARINI e da due milanesi
dei quali ESPOSTI non gli aveva rivelato i nomi, attentato che avrebbe inaugurato
tale strategia del terrore.
Nonostante la supervisione dei milanesi, l’attentato era tuttavia fallito (la miccia era
stata tranciata dall’inatteso passaggio del locomotore di un treno merci che viaggiava
fuori orario) ed era anche fallito l’attentato commesso il successivo 21.4.1974 a
Vaiano (Firenze) sempre sulla linea ferroviaria.
185
186
I milanesi erano invece passati all’azione attuando la strage di Piazza della Loggia e,
sempre secondo le confidenze raccolte da VICCEI, anche la strage sul treno Italicus
del 4.8.1974.
La morte di Giancarlo ESPOSTI a Pian del Rascino e il sequestro di parte della
dotazione logistica avevano comunque portato alla disintegrazione della cellula
ascolana e la prosecuzione del piano strategico era stata interrotta essendo ormai
venuti meno anche molti dei contatti con gli ambienti militari.
Si noti che, sempre secondo VICCEI, Giancarlo ESPOSTI, poco prima di morire a
Pian del Rascino, deteneva un prototipo della famosa mitraglietta tipi UZI
progettata dal colonnello SPIAZZI e la cui produzione stava per essere tentata
a Madrid dall’ing.POMAR, come la missione in Spagna di Carlo DIGILIO aveva
consentito di accertare (cfr. rapporto citato, ff.66-68).
Nel corso dell’istruttoria condotta dall’A.G. di Bologna, pur essendo stata confermata
la presenza con ruolo direttivo di Marco BALLAN all’interno della cellula milanese di
Avanguardia Nazionale e la complessiva importanza della figura dello stesso
BALLAN, incaricato da DELLE CHIAIE anche di una delicata missione in Argentina
per conto del regime cileno, non erano emersi altri elementi tali da rendere più solido
il quadro indiziario.
Anche nel prosieguo dell’istruttoria condotta da questo Ufficio nessun elemento
significativo si è aggiunto in relazione alla posizione di Marco BALLAN.
Tenendo altresì presente che il giudice istruttore di Bologna, nell’ambito della
sentenza-ordinanza depositata in data 3.8.1994, ha prosciolto Marco BALLAN in
relazione alla sua prospettata corresponsabilità nell’attentato al treno Italicus e che
l’affidabilità di Valerio VICCEI deve ritenersi obbiettivamente indebolita dalla sua fuga
all’estero e dalla sua successiva cattura a Londra, dove egli si era reso responsabile
di una grossa rapina in danno di un caveau di cassette di sicurezza, appare
processualmente corretto prosciogliere Marco BALLAN, in ordine alle imputazioni di
cui ai capi 5 e 6, per non avere commesso il fatto.
186
PARTE
QUARTA
GLI ATTENTATI DEL 12 DICEMBRE 1969
E L’ATTENTATO DI GIANCARLO BERTOLI DINANZI ALLA
QUESTURA DI MILANO IL 17 MAGGIO 1973
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188
30
ORDINE NUOVO E GLI ATTENTATI DEL 12.12.1969:
UNA LETTURA COMPLESSIVA
LA DEPOSIZIONE DI TULLIO FABRIS
La valutazione di una imputazione così delicata come quella di spionaggio politicomilitare di cui al capo 33 di imputazione, mossa a Sergio MINETTO e Carlo DIGILIO
e prospettabile anche nei confronti di alcuni ufficiali statunitensi e quindi contestata,
forse per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, nella presente istruttoria ad
agenti appartenenti non a Paesi dell’Est-europeo, ma a Paesi della N.A.T.O.,
comporta innanzitutto l’esame dei fatti storici che sarebbero stati oggetto delle attività
di spionaggio e collusione.
Il capo di imputazione, così come articolato, riguarda l’attività illecita della struttura
informativa (e i motivi dell’illiceità saranno esposti nel capitolo 52) in relazione alla
strage di Piazza Fontana e agli attentati che l’hanno preceduta, la strage
dinanzi alla Questura di Milano del 17.5.1973 ed altre situazioni di carattere
golpistico o eversivo o attività di depistaggio delle indagini riguardanti tali
episodi, tutte avvenute in territorio veneto anche se proiettate su avvenimenti
consumatisi prevalentemente a Milano.
E’ quindi necessario, prima di valutare sul piano penale l’illiceità e le conseguenze
del comportamento di MINETTO, DIGILIO, del capitano CARRET e degli altri
componenti della struttura informativa avente la sua base a Verona, esporre in modo
sintetico, ma sufficientemente illustrativo, quanto emerso nel corso dell’istruttoria in
relazione agli episodi più gravi e in particolare la strage di Piazza Fontana e la
strage dinanzi alla Questura di Milano.
Tali eventi criminosi sono lo specifico oggetto di altre due indagini (condotte
rispettivamente, con il rito vigente, da parte della Procura della Repubblica di Milano
e, con il rito abrogato in regime di proroga, da parte del Giudice Istruttore dr. Antonio
Lombardi) ed hanno visto nel giugno 1997, peraltro sulla base prevalentemente di
elementi di prova comuni alla presente istruttoria, l’emissione di provvedimenti
restrittivi nei confronti del dr. Carlo Maria MAGGI e di Delfo ZORZI per gli attentati
del 12.12.1969 e nei confronti dello stesso dr. MAGGI, di Giorgio BOFFELLI e di
Francesco NEAMI per la strage del 17.5.1973.
Non si intende nè sarebbe necessario, in questa sede, duplicare le ampie e
dettagliate motivazioni poste a base dei provvedimenti restrittivi del giugno 1997, ma
appare tuttavia utile, sotto un profilo logico e ricostruttivo e al fine di offrire un
immediato quadro di interpretazione dei comportamenti degli imputati accusati di
avere fatto parte della rete americana, esporre, in modo sufficientemente organico e
con riferimento comunque ai soli elementi emersi in questa istruttoria, il quadro
probatorio formatosi in merito a tali due stragi e ai probabili collegamenti fra di esse
sia in tema di comuni mezzi operativi sia in tema di movente di tali azioni (cfr., su tale
ultimo punto, il capitolo 40 dedicato al ruolo dell’on. Mariano RUMOR).
188
L’esposizione degli elementi raccolti può iniziare con l’esame di una testimonianza
che forse non è stata, sul piano esterno, eclatante come la collaborazione di
Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO, ma che sul piano storico e processuale
risulta determinante per affermare la responsabilità della struttura veneta di
Ordine Nuovo negli attentati del 12.12.1969 e sarebbe stata dirompente se gli
elementi di prova che per ragioni di timore sono stati taciuti sino all’autunno del 1994,
fossero giunti quantomeno prima della chiusura dei dibattimenti celebrati a
Catanzaro.
Ci riferiamo alle nuove e complete deposizioni rese dall’elettricista di Padova,
Tullio FABRIS, l’uomo che aiutò Franco FREDA nell’acquisto dei timers, a
personale del R.O.S. Carabinieri in data 16 e 17 novembre 1994 e 9.12.1994 (e dalla
moglie, Maria Paola BETTELLA, in data 17.11.1994), successivamente confermate
con ulteriori precisazioni dinanzi a questo Ufficio in data 24.3.1995.
Il valore di tali dichiarazioni, la cui acquisizione alle istruttorie in corso costituisce un
grande risultato sul piano della serietà e della capacità investigativa del personale del
R.O.S. Carabinieri, è eccezionale.
Si può affermare con ragionevole certezza che tali dichiarazioni, tenendo presente
che provengono da un uomo semplice che per tanti anni, per ragioni più che
comprensibili, non aveva avuto la forza di raccontare tutto ciò che sapeva, se
acquisite nel corso dei precedenti giudizi, ne avrebbero mutato l’esito facendo
franare il castello difensivo dei componenti della cellula padovana.
Se le nuove dichiarazioni di Tullio FABRIS hanno valore solo storico nei
confronti di Franco FREDA e Giovanni VENTURA, assolti, sia pure per
insufficienza di prove, con sentenza definitiva, esse hanno invece pieno valore
processuale e piena attualità nei confronti di altri componenti del gruppo quali
il dr. Carlo Maria MAGGI e Delfo ZORZI.
Infatti questi ultimi sono attualmente accusati, come si desume anche dall’ordinanza
di custodia cautelare emessa dal G.I.P. di Milano nel giugno 1997, di avere
organizzato e commesso gli attentati del 12.12.1969 in concorso con FREDA,
VENTURA e altri componenti della cellula padovana e di conseguenza i nuovi
elementi emersi a carico dei componenti di tale cellula, fortunosamente assolti, sono
pienamente utilizzabili nei confronti di MAGGI e ZORZI contribuendo a formare
il quadro complessivo delle responsabilità della struttura veneta.
Del resto, come si delinea chiaramente dalle nuove deposizioni di Tullio FABRIS, gli
insegnamenti tecnici che grazie a lui sono stati raccolti da FREDA e VENTURA nello
studio legale padovano in merito al funzionamento dei timers erano destinati non ad
essere utilizzati direttamente da costoro, ma ad essere travasati agli elementi che
dovevano materialmente operare, e quindi certamente a Delfo ZORZI e ad altri
componenti della cellula di Mestre/Venezia.
Passando all’esame delle dichiarazioni di FABRIS nel loro sviluppo storico e logico,
bisogna innanzitutto ricordare che questi era estraneo al gruppo e a qualsiasi
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190
militanza politica ed era semplicemente l’elettricista che Franco FREDA, dopo averlo
impiegato in alcuni comuni lavori da artigiano nella fase del rinnovo e
dell’arredamento dello studio di Padova, aveva utilizzato per l’acquisto dei timers
presso la ditta ELETTOCONTROLLI di Bologna senza spiegargli l’uso che intendeva
farne.
Tullio FABRIS infatti, nel settembre 1969, aveva ritirato i 50 timers presso la ditta
bolognese pagandoli con denaro anticipato da FREDA e consegnandoli poi alla
segretaria dello studio.
Nell’istruttoria condotta prima dai giudici di Treviso e poi dai giudici di Milano,
FABRIS aveva confermato l’intervento nell’acquisto dei timers e aveva
aggiunto tre circostanze:
- nello studio legale di Padova aveva sentito discutere FREDA e VENTURA dei
timers acquistati e ave a visto FREDA cederne uno a VENTURA;
- aveva acquistato per FREDA 5 metri di filo di nichel-cromo (cioè il filo poi utilizzato
dal gruppo come resistenza nell’innesco degli ordigni);
- nel settembre 1969, FREDA gli aveva detto che i timers andavano messi all’interno
di cassette metalliche e gli aveva chiesto di procurarne qualcuna (si ricordi l’uso, per
la prima volta, di cassette metalliche nell’ottobre 1969 in occasione degli attentati di
Trieste e Gorizia).
Nel corso della prima istruttoria, anche in sede di confronto con FREDA, Tullio
FABRIS non aveva detto di più, pur confermando le precedenti dichiarazioni.
Quanto riferito sino a quel momento da Tullio FABRIS non era tutta quanta la verità e
tutto quanto poteva interessare così da vicino l’istruttoria.
Nel corso delle deposizioni rese nel novembre 1994 a personale del R.O.S. e
successivamente dinanzi a questo Ufficio egli ha innanzitutto spiegato la ragione
della sua parziale reticenza rivelando di essere stato minacciato ben in tre
occasioni, proprio mentre erano in corso le indagini milanesi, da persone
vicine agli imputati e cioè Massimiliano FACHINI e Pino RAUTI.
Tali minacce sono state confermate anche dalla moglie di Fabris, Maria Rosa
BETTELLA, che aveva assistito all’episodio avvenuto all’interno del negozio del
marito e che aveva visto come protagonisti, insieme, RAUTI e FACHINI.
Ecco i passi più salienti delle dichiarazioni rese da FABRIS e dalla moglie in merito
alle minacce subite:
“””....Voglio far presente che ho molto timore non per avere avuto un ruolo
nella strage, ma per essere stato trascinato, a causa della mia ingenuità e
buona fede, anche perchè il Sig. FREDA appariva come un rispettabile
190
avvocato, in situazioni che mi hanno permesso di capire che si stavano
realizzando delle cattive azioni.
I miei timori sono fondati, in quanto già nel passato ho subìto visite
intimidatorie, delle quali voglio parlare perchè si sia coscienti della mia
situazione emotiva.
Preciso che subito dopo il primo o il secondo verbale di cui mi è stata concessa
lettura (n.d.r.: si tratta di verbali di dichiarazioni rese nel gennaio 1972 dal
teste davanti al G.I. di Treviso) ricevetti la visita di una persona che non
conoscevo e che mi disse di chiamarsi FACHINI e di essere un amico di
FREDA e mi precisò di essere un amico di questi.
Ricordo che era in un periodo freddo.
Il FACHINI mi chiese di raccontargli quali erano state le domande fatte dai
Giudici, cosa alla quale io risposi, chiedendomi inoltre se avevo bisogno di
aiuto e se il lavoro andava bene.
Io gli risposi che non volevo avere più alcun rapporto con loro.
Il FACHINI in questa occasione non reagì in malo modo.
Voglio precisare che in realtà la prima minaccia la subii proprio
contestualmente alla prima deposizione in Padova, allorquando mi incrociai
con la mamma di Franco FREDA che mi intimò di stare attento, in quanto mi
avrebbe mandato al creatore.
Successivamente, sempre in periodo freddo invernale, nello stesso tempo in cui
effettuavo alcune deposizioni in Milano, il FACHINI rivenne, unitamente ad
altra persona a me al momento non nota, sempre presso la mia
abitazione/negozio.
In questa occasione era presente mia moglie ed alcuni clienti.
I due aspettarono l’uscita dei clienti per iniziare a parlare, cosa che fecero solo
con mia moglie, in quanto io arrivai proprio nel momento in cui lei li stava
cacciando e la udii dire che gli avrebbe graffiato il muso.
Mia moglie mi narrò che era stata minacciata in particolar modo dallo
sconosciuto che si era qualificato come milanese.
Riconoscemmo poi in un articolo di giornale l’individuo che aveva
accompagnato il FACHINI, si trattava di Pino RAUTI.
L’ultima minaccia la ebbi nel corso della Fiera Campionaria di quello stesso
anno, credo svoltasi in giugno, ove avevo una stand della Hoover.
Preciso che si trattava dei lavori preparatori della Fiera.
Mentre ero alla Fiera mi trovai improvvisamente di fronte al FACHINI, che fu
molto più duro della prima volta, tant’è che io ebbi il coraggio di intimargli di
non darmi più fastidio”””.
(dep. FABRIS a personale del R.O.S. in data 16.11.1994)
191
192
“””Non feci allora presente quanto ho inteso oggi dire, poichè ero vittima di
una paura ben comprensibile: chi aveva osato tanto non avrebbe avuto alcun
timore ad eliminare scomodi testimoni.
Anzi le minacce ricevute, senza che mi venisse accordata alcuna protezione, mi
rafforzarono nel convincimento che si era creata una situazione di estremo
pericolo per me e per i miei congiunti”””.
(dep. FABRIS a personale del R.O.S. in data 17.11.1994)
“””In conseguenza delle testimonianze che resi, prima all'A.G. di Treviso e in
seguito all'A.G. di Milano, subii i tre episodi di minaccia che ho già riferito.
Il primo avvenne nel mio negozio dopo essere stato sentito dall'A.G. di Treviso
e fu opera del solo Fachini.
Il secondo, sempre in negozio, avvenne dopo essere stato sentito dall'A.G. di
Milano e avvenne ad opera di Massimiliano Fachini e di Pino Rauti e in tale
occasione era presente anche mia moglie.
Il terzo episodio avvenne quando io lavoravo allo stand della Fiera
Campionaria, a Padova, e fu opera del solo Fachini.
Posso precisare che prima di questi tre episodi avevo visto Massimiliano
Fachini una sola volta. Egli mi attese una sera davanti al mio box in fondo alla
discesa e me lo trovai a fianco proprio quando stavo per tirare su la
saracinesca.
Il box si trova proprio sotto la mia abitazione.
Egli si presentò come Fachini e mi disse che era un amico di Freda. Mi chiese
se avevo problemi di lavoro e se avevo avuto qualche problema dal punto di
vista giudiziario.
Il suo tono non era minaccioso e l'incontro fu breve e del resto era una persona
abbastanza di poche parole.
Io in quel momento non ero ancora stato sentito dai giudici, mentre ero già
stato sentito dal dr. Stiz quando Fachini venne per la prima volta nel mio
negozio.
L'incontro davanti al box si colloca circa un paio di mesi prima della prima
venuta di Fachini nel mio negozio.
L'incontro alla Fiera avvenne invece nel maggio del 1972, che è il mese in cui si
tiene appunto la Fiera, quindi questa serie di "incontri" si colloca fra l'autunno
1971 e la primavera 1972.
La seconda volta in negozio, Fachini venne con una persona che egli disse
venire da Milano, era una persona con il cappello e il cappotto con il bavero
alzato e dimostrava circa 40/45 anni.
Durante tutto l'incontro, a parte la presentazione da parte di Fachini, fu sempre
quest'uomo con il cappello a parlare con un tono minaccioso e da far paura.
Mia moglie reagì vivacemente minacciando di graffiarlo se non se ne fossero
192
andati subito. Fece anche il gesto di uscire da dietro il bancone per
raggiungerli.
Circa due settimane dopo riconoscemmo con certezza l'uomo con il cappello
in Pino Rauti che apparve diverse sui giornali e in televisione perchè
coinvolto nell'istruttoria su Piazza Fontana.
Nel corso delle deposizioni rese all'epoca non ho mai voluto narrare con
precisione tutti questi episodi per evidenti ragioni di paura connesse proprio
alle minacce che avevo subìto.
Infatti a quel tempo queste persone sembravano in grado di fare del male, la
nostra è una famiglia semplice e non abbiamo conoscenze e abbiamo avuto
paura.
Posso aggiungere che subito dopo la visita di Fachini e Rauti avevo sollecitato
un aiuto al maresciallo Toniolo dei Carabinieri che lavorava al Tribunale di
Padova.
Chiedevo sorveglianza e protezione, ma in realtà non ho mai visto nulla, le
risposte del maresciallo erano generiche e anzi mi consigliò di non mettermi in
mezzo e di limitare le mie testimonianze al minimo indispensabile.
In sostanza il maresciallo Toniolo mi ascoltava quasi con fastidio.”””
(dep. FABRIS a questo Ufficio, 24.3.1995)
“””Prendo atto che, dopo avermi resa edotta di quanto deposto da mio marito,
mi si richiedono ulteriori particolari in merito all’episodio di cui fui
protagonista.
A questo proposito faccio presente che, pur non potendo ricordare con
precisione l’epoca, nel periodo invernale in cui mio marito rese le sue
deposizioni, si presentarono nel negozio due sconosciuti, che attesero che io
avessi finito di servire i clienti che si trovavano al bancone in quel momento.
Usciti i clienti, i due mi si avvicinarono e il più grande di età, quello che
indossava un cappello ed un cappotto, con il bavero alzato, mi venne presentato
dal più giovane come persona proveniente da Milano.
A questo punto iniziò a parlare l’uomo con il cappello che mi disse: “Vengo per
il caso FREDA, voglio sapere quello che suo marito ha detto ai Carabinieri
e alla Magistratura negli interrogatori”.
Preciso che il tutto fu detto con fare molto autoritario, anzi con prepotenza e in
modo che io rimanessi bloccata in un angolo del magazzino.
Risposi che non avevano alcun diritto di fare quelle domande e li invitai con
fermezza a recarsi dai Carabinieri o dai Magistrati per apprendere quanto
volevano.
Quello col cappotto ribattè che: “Lei si rende conto con chi sta parlando?” e
continuò formulando frasi intimidatorie, al che mi avvicinai verso di lui con
193
194
l’intento di graffiargli il volto e questi a mo’ di difesa si girò dirigendosi verso
l’uscita.
Io aprii la porta così da dargli modo di andarsene dal negozio e, proprio poco
prima di uscire a seguito dell’uomo più giovane, si girò su se stesso
pronunziando le seguenti parole: “Le ripeto che lei non sa chi sono io e vedrà
le conseguenze”.
Sul vialetto i due si incrociarono con mio marito che, successivamente,
chiedendomi che cosa era accaduto, mi informò che l’uomo senza appello era
il FACHINI.....specifico che l’uomo senza copricapo rimase, tranne la frase
iniziale, sempre muto.
Circa due settimane dopo, rivedemmo l’uomo con il cappello, che era venuto
nel negozio, in televisione, dove venne indicato come Pino RAUTI.
Ovviamente prestammo attenzione ai quotidiani e rivedendo la foto di Pino
RAUTI avemmo la piena certezza che era colui che si era recato in negozio
accompagnato dal FACHINI”””.
(dep. BETTELLA a personale del R.O.S. in data 17.11.1994).
Si noti che il riferimento temporale fornito da FABRIS in relazione alla persona di
RAUTI è esatto.
FABRIS, infatti, era stato sentito dal G.I. di Milano, dr. D’Ambrosio, dal 19 al 22
gennaio 1972 e al personale del R.O.S. ha fatto presente di essere stato minacciato
da RAUTI e FACHINI poco tempo dopo, nel suo negozio, e di avere riconosciuto,
ancora pochissimo tempo dopo, RAUTI in televisione in quanto tratto in arresto per
concorso nella strage di Piazza Fontana.
Il mandato di cattura nei confronti di Pino RAUTI è stato effettivamente emesso
dai Giudici milanesi il 2.3.1972 e quindi la scansione temporale indicata da
Tullio FABRIS è assolutamente esatta.
Quanto esposto da FABRIS conferma che questi non aveva riferito, nel corso
dell’istruttoria, tutti i particolari dei suoi rapporti con FREDA e VENTURA (in caso
contrario, del resto, le minacce sarebbero state inutilmente pericolose), ma
soprattutto rivela come, per proteggere la posizione di FREDA, si sia attivato
addirittura Pino RAUTI, cioè il vertice di Ordine Nuovo, evidentemente nella
consapevolezza che l’aggravarsi delle prove a carico di FREDA e VENTURA ed un
loro eventuale crollo dinanzi agli inquirenti avrebbe inesorabilmente travolto l’intera
struttura dal centro alla periferia.
Il coinvolgimento delle più alte strutture gerarchiche di Ordine Nuovo è del resto in
corrispondenza con il complessivo racconto di Carlo DIGILIO, il quale ha riferito
che Pino RAUTI aveva partecipato a Padova ad una riunione preparatoria della
strategia degli attentati (int. 16.5.1997, ff.3-4) e che, secondo il quadro fornitogli da
Delfo ZORZI, tutto era stato deciso a Roma d’intesa con apparati istituzionali.
194
Passando all’esposizione delle nuove circostanze rivelate da Tullio FABRIS, questi
ha riferito di non essersi limitato a rendere possibile l’acquisizione dei timers da parte
di Franco FREDA, ma che nello studio legale di Padova vi erano stati ben tre
incontri grazie ai quali FREDA e VENTURA avevano imparato a far funzionare
gli inneschi, anche con prove pratiche che avevano avuto pieno successo,
l’ultima delle quali collegando direttamente uno dei timers alle restanti parti del
sistema di attivazione.
Vediamo cosa avvenne nei tre incontri, che costituiscono una prova del nove delle
responsabilità del gruppo veneto:
- In un primo incontro nello studio legale, presente solo FREDA (dep. FABRIS al
R.O.S., 17.11.1994, f.2; al G.I., 14.3.1995, f.1) viene provato l’innesco formato da:
batteria, filo elettrico al nichel-cromo e fiammifero antivento (procurato da
FREDA; dep. 24.3.1995, f.3); quest’ultimo, grazie al surriscaldamento del filo
elettrico al momento della chiusura del circuito, si accende.
Tale incontro avviene prima dell’acquisto dei timers e Franco FREDA rimane
soddisfatto della prova (dep. 5.12.1994, f.1).
Tullio FABRIS ha descritto tale primo esperimento, effettuato quando non erano
ancora disponibili i timers, con spontaneità e nello stesso tempo con l’estrema
precisione tecnica che gli deriva dalla sua professione (dep. 17.11.1994, f.2).
Si noti che il particolare relativo all’utilizzo del fiammifero antivento è di estrema
importanza poichè si tratta della miglioria suggerita dal prof. Lino FRANCO in
occasione del secondo accesso al casolare di Paese (int. DIGILIO, 10.10.1994,
f.3) ed il fatto che Franco FREDA si sia impadronito di tale espediente tecnico
testimonia il travaso delle conoscenze all’interno del gruppo nel periodo in cui il
miglioramento dei sistemi di innesco era in fase di continua sperimentazione.
- Il secondo incontro, sempre nello studio di FREDA, presente anche
VENTURA, avviene dopo l’acquisto dei timers ed ha carattere teorico in quanto i
due si limitano a chiedere a FABRIS in che modo l’innesco provato nel corso del
primo incontro possa essere collegato ad un timer.
FREDA annota tutto su un foglio (dep. 5.12.1994, f.1).
Franco FREDA aveva giustificato a FABRIS tale richiesta di informazioni affermando
che il timer, con il suo meccanismo di attivazione in ritardo, doveva servire alla
“partenza di più missili” (dep. 5.12.1994, f.1).
- Nel terzo incontro, quello decisivo, sempre presenti FREDA e VENTURA,
avviene la prova pratica.
Uno dei timers acquistati tramite FABRIS viene collegato al congegno elettrico.
Vengono fatte due prove che hanno entrambe successo ed il filo al nichel-cromo,
dopo la chiusura del contatto da parte del timer, accende il fiammifero antivento
intorno a cui è avvolto (dep. 5.12.1994, f.2).
Dopo le due prove, VENTURA porta via tutto nella sua borsa.
Conviene riportare integralmente tale descrizione della scena contenuta nella
deposizione di Tullio FABRIS in data 5.12.1994 poichè costituisce una fotografia
“tecnica”, ma a posteriori drammatica, di quello che sarebbe avvenuto poche
settimane dopo all’interno della borsa deposta nel salone della Banca
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196
Nazionale dell’Agricoltura e presso gli altri obiettivi della giornata del 12
dicembre 1969:
“””... All’incirca un mese dopo, nell’ottobre/novembre del 1969, si portava
l’impermeabile e non il cappotto, vi fu la prova pratica, anche questa volta
nell’Ufficio del dr. FREDA.
Fu utilizzato un solo timer e la prova fu piuttosto breve, in quanto si trattò solo
di fare il collegamento tra il filo elettrico già sperimentato e i tre morsetti, cioè
il “RITORNO UNO”, il “COMUNE” e il “RITORNO DUE”.
Ribadisco che il timer della ditta RICA non aveva il “ritorno due” ed era quindi
inutilizzabile per gli scopi di FREDA.
Il timer della ELETTROCONTROLLI aveva invece tre morsetti.
il collegamento fu fatto unendo la linguetta rimasta libera delle due batterie da
4.5 volt con il morsetto “comune” del timer, invece il filo al nichel-cromo, che
era collegato ad un capo ad altra linguetta delle due batterie, fu connesso al
morsetto denominato “ritorno due”, col faston.
Ovviamente non vi è alcun bisogno di fare collegamenti al morsetto denominato
“ritorno uno”; esso è presente solo perchè il commutatore, cioè il timer in
deviazione, possa essere utilizzato anche come semplice timer.
Preciso ancora meglio, mentre il timer della Elettrocontrolli poteva fare anche
la funzione del timer della Rica, non poteva avvenire il contrario.
Anche in questo caso fu realizzato l’esperimento utilizzando un fiammifero
antivento.
Credo di ricordare che furono effettuate solo due prove, esse andarono
entrambe bene e sia il FREDA che il VENTURA rimasero molto soddisfatti.
Non vi fu bisogno di cambiare le batterie, furono in grado di sopportare tutti e
due i cortocircuiti.
Ovviamente prima si fa il collegamento di una linguetta delle due pile con il
COMUNE, poi si carica il timer e, solo dopo questa operazione, si può fare
l’ultima connessione tra il nichel-cromo e il RITORNO DUE.
Se non venisse data la carica, il timer si comporterebbe come se la molla si
fosse già scaricata e quindi immediato cortocircuito.
Anche in questo caso il FREDA si annotò il tutto e, comunque, in ogni caso, era
impossibile che sbagliassero in quanto, come detto l’altra volta, il VENTURA
si mise il tutto nella sua borsa e cioè con i contatti con i morsetti ancora
attaccati....”””.
Tullio FABRIS ha aggiunto che il congegno così preparato era stabile sul piano
tecnico, cioè non poteva essere danneggiato da sollecitazioni meccaniche o piccoli
urti e che la carica del timer, benchè meno precisa rispetto a quelli attuali in quanto
ancora a molla, era comunque abbastanza affidabile in quanto su una carica di 60
minuti poteva portare ad un anticipo non voluto al massimo di 2 o 3 minuti (dep.
5.12.1994, f.2).
196
Tale prova pratica con l’utilizzo del timer era avvenuta appunto nell’ottobre-novembre
1969, secondo una precisa scansione temporale in cui si sono succeduti i tre incontri
e che Tullio FABRIS ha ricollegato anche, con precisione, a sue attività di quel
periodo.
Tale circostanza sgretola, quindi, definitivamente la versione di Franco FREDA
secondo cui, subito dopo l’acquisto, e cioè nel settembre 1969, egli avrebbe
ceduto i 50 timers al fantomatico capitano HAMID dei servizi segreti algerini.
Invece un timer da utilizzarsi come campione era presente nello studio di FREDA
varie settimane dopo tale fantasiosa cessione e quindi il racconto di Tullio FABRIS in
merito al terzo incontro e alla prova pratica che in tale occasione era stata effettuata
indica in modo preciso la responsabilità del gruppo di FREDA e VENTURA e
dell’intera struttura veneta nella strage.
D’altronde Franco FREDA aveva fatto presente a Tullio FABRIS che vi era un’altra
persona che avrebbe provveduto a realizzare concretamente quanto in quel
frangente si stava imparando e sperimentando (dep.5.12.1994, f.2), persona
facilmente individuabile in Delfo ZORZI e cioè colui che doveva assumersi il compito
di eseguire materialmente, coordinando quel giorno anche gli altri elementi operativi,
gli attentati del 12.12.1969.
Oltre a quanto avvenuto in occasione dei tre incontri nello studio legale di Franco
Freda, Tullio FABRIS ha riferito altre circostanze di eccezionale gravità che
evidenziano, fra l’altro, la sicurezza dell’impunità che caratterizzava i
movimenti e le attività del gruppo.
Infatti anche dopo gli attentati del 12.12.1969, Franco FREDA non si era fatto
scrupolo di chiedere ancora la collaborazione di FABRIS, tranquillizzandolo in
merito alle protezioni di cui il gruppo godeva e promettendo, questa volta, un lauto
guadagno.
Ecco, in merito ai discorsi di FREDA prima e dopo la strage, il racconto di Tullio
FABRIS:
“””...voglio ancora precisare che in un tempo successivo alla strage di Piazza
Fontana e quando il tempo volgeva verso la primavera quindi, credo, nel marzo
o aprile 1970, mentre mi trovavo nell’Ufficio del signor FREDA, sito in Via San
Biagio, alla presenza del signor Giovanni VENTURA, mi fu chiesto se
desideravo lavorare per loro in maniera continuativa per eseguire i
collegamenti elettrici tra i timers e le pile ed il resto del materiale occorrente
citato nel verbale redatto ieri.
Precisarono testualmente:”La pagheremo bene e sarà protetto in quanto se
dovessero verificarsi dei problemi, anche a noi, stia tranquillo che c’è una
197
198
persona importante a livello governativo che ci darebbe una mano e che
proteggerebbe anche lei”.
Non risposi subito e presi tempo e nell’arco di due giorni ne parlai con mia
moglie decidendo in senso negativo e, ritornando presso l’ufficio del FREDA,
questa volta da solo, lo informai del mio diniego.
Voglio precisare che all’epoca io e mia moglie stavamo costruendo con
sacrifici la nostra casa e che dei soldi ci avrebbero fatto molto comdo, ma
erano successi alcuni episodi che ci fecero molto riflettere e ci imposero di
staccarci completamente da quell’ambiente.
Tali episodi sono essenzialmente:
1) il far presente da parte del FREDA, nel corso del secondo semestre del
1969, che in dicembre di quello stesso anno si sarebbe verificato qualcosa di
molto importante;
2) il legare, sempre da parte del FREDA questi eventi importanti, ricordo il
plurale, alle specifiche richieste in campo elettrico che mi faceva per crearsi un
bagaglio culturale nello specifico settore;
3) il parlare da parte del FREDA, genericamente, della realizzazione di un
“COLPO DI STATO” e comunque di una “DESTABILIZZAZIONE” della
situazione politica italiana.
Preciso che i termini virgolettati sono esattamente quelli utilizzato dal FREDA
ed erano in riferimento a quanto doveva accadere nel dicembre 1969.
Intendo specificare che queste frasi dette dal FREDA non trovavano la loro
origine in una particolare confidenza, ma in un forte desiderio di vantarsi di
quest’ultimo e di appalesare il suo potere...”””
Tullio FABRIS, tuttavia, dopo essersi anche consultato con la moglie (dep.
24.3.1995, f.1), non aveva accettato tali proposte e aveva troncato ogni rapporto con
FREDA evitando anche di parlargli per telefono.
Infatti egli aveva ormai compreso per quale disegno era stato utilizzato:
“””...Poichè l’Ufficio me lo chiede, intendo anche dire che ebbi un fortissimo
travaglio emotivo.
Il pomeriggio del 12.12.1969, dopo aver appreso da un cliente di quanto era
accaduto a Milano, ebbi in cuor mio la certezza morale che FREDA e
VENTURA erano degli assassini, tuttavia non vi volevo credere.
Vi prego di credere che fu un grave contrasto emozionale.
Solo più tardi, quando mi fu fatta la proposta di lavoro continuativo, ebbi la
certezza che erano stati loro: il chiedermi di lavorare per loro fu da me
interpretato come un complimento alle mie conoscenze elettriche, da quel
momento non ho più voluto avere alcun rapporto neanche telefonico con il
FREDA, tant’è che facevo rispondere mia moglie...”””.
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I discorsi di Franco FREDA, riferiti da FABRIS, in merito alle protezioni godute
(si ricordi che sino al 1971 il gruppo veneto non sarebbe stato toccato dalle indagini)
e al collegamento dell’azione delle persone vicine a FREDA con la realizzazione di
un progetto golpistico (si veda, sul punto, ampiamente il capitolo 38 della
sentenza-ordinanza di questo Ufficio conclusiva del primo filone istruttorio) sono in
perfetta sintonia con le restanti acquisizioni processuali.
Non a caso, del resto, Vincenzo VINCIGUERRA aveva sottolineato che l’acquisto
dei timers da parte di FREDA senza particolari precauzioni (ed anzi
coinvolgendo addirittura una persona come FABRIS, estranea al gruppo) era dovuto
al fatto che l’operazione del 12.12.1969 si inquadrava in un piano golpistico che,
secondo gli autori degli attentati, avrebbe certamente avuto successo e quindi gli
stessi, lungi dall’essere perseguitati, si sarebbero anzi trovati in breve volgere di
tempo in posizioni di maggior potere (int. VINCIGUERRA, 10.7.1992, f.1).
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200
31
LE DICHIARAZIONI DI VINCENZO VINCIGUERRA
RELATIVE ALL’ ”OPERAZIONE” DEL 12.12.1969
LA MANIFESTAZIONE DEL M.S.I. E DI ORDINE NUOVO
INDETTA A ROMA PER IL 14.12.1969
Vincenzo VINCIGUERRA ha reso a questo Ufficio, fra il 1991 e il 1993, una serie di
interrogatori in cui egli ha ritenuto di fornire alcuni elementi di conoscenza in suo
possesso utili a ricostruire la storia di quella che egli stesso ha definito l’ “operazione”
del 12.12.1969.
Si tratta di elementi di conoscenza appresi in parte nella prima fase della sua
militanza nella struttura di Ordine Nuovo, e precisamente nella cellula di Udine di cui
facevano parte Carlo CICUTTINI e Ivano BOCCACCIO, e in parte nella seconda fase
di tale militanza quando egli, per non essere tratto in arresto per il fallito dirottamento
di Ronchi dei Legionari in cui Ivano BOCCACCIO aveva trovato la morte, aveva
raggiunto la Spagna e si era unito al gruppo di latitanti gravitanti intorno a Stefano
DELLE CHIAIE, proseguendo poi la sua attività politica in Avanguardia Nazionale
anche in Sud-America e durante i periodi di rientro clandestino in Italia.
In relazione a molte delle notizie che egli ha ritenuto di rendere note nel corso degli
interrogatori, talvolta ampliando in tale sede spunti o concetti già accennati in
documenti o libri da lui scritti e pubblicati anche nel normale circuito editoriale,
Vincenzo VINCIGUERRA ha ritenuto di non rendere comunque noto il nome della
fonte, non intendendo mettere in difficoltà e magari coinvolgere in procedimenti
penali camerati sulla cui onestà e buona fede non erano mai sorti dubbi durante la
militanza e quindi diversi da quelli risultati collusi con apparati dello Stato i cui nomi,
invece, potevano essere indicati senza remore.
Tale scelta, del tutto spiegabile in un’ottica di “militante rivoluzionario” quale si è
sempre considerato e si considera VINCIGUERRA, ha certamente in parte ridotto
la portata processuale delle sue dichiarazioni, ma di certo non l’ha annullata in
quanto si tratta pur sempre di notizie ricevute in un contesto di affidabilità
reciproca fra i due interlocutori all’interno di una ristretta cerchia di persone e
di conseguenza tali notizie, indipendentemente dall’indicazione della specifica
persona che ne è stata la fonte ed integrate dalle altre la cui fonte VINCIGUERRA ha
invece reso nota, rimangono dati coerenti e processualmente utilizzabili.
Ad avviso di questo Ufficio, la figura di Vincenzo VINCIGUERRA e il suo peculiare
comportamento all’interno del mondo di estrema destra sono stati efficacemente
scolpiti in un passaggio della relazione che nel 1994 ha concluso i lavori della
Commissione Parlamentare sulle stragi all’interno dell’ XI Legislatura, passaggio che
per la sua precisione merita di essere riportato:
“””....Questi, però, non si ritiene (e non è) un “pentito” o un dissociato.
200
Infatti Vincenzo VINCIGUERRA ha sempre premesso di non essere disposto a
rivelare tutto quanto a sua conoscenza e, in particolare, non è mai stato
disposto a fare rivelazioni che direttamente o indirettamente portassero
all’individuazione di responsabilità penali di persone che professassero le sue
stesse idee politiche, così come si è sempre riservato il diritto di scegliere il
momento in cui rivelare le notizie in suo possesso.
D’altro canto, VINCIGUERRA non hai chiesto attenuazioni di pena,
accettando di scontare l’ergastolo irrogatogli e in questo modo si è, per così
dire, pagato il diritto di rivelare quello che ritiene opportuno nel momento che
reputa adatto.
Ovviamente questo ha ridotto considerevolmente la portata della
collaborazione di VINCIGUERRA che resta, comunque, il caso più rilevante di
collaborazione con la Giustizia su questo versante delle indagini...”””
Quindi, pur non essendo VINCIGUERRA tecnicamente un collaboratore, è certo che
egli, dal suo punto di vista essenzialmente storico e politico, ha contribuito in modo
significativo a ricostruire alcuni passaggi della strategia della tensione.
L’attendibilità di Vincenzo VINCIGUERRA risulta decisamente avvalorata dal
venir meno, con le indagini di questi ultimi anni, dell’ipotesi prospettata dal G.I.
di Venezia, dr. Casson, secondo cui l’attentato di Peteano sarebbe stato in
qualche modo connesso, forse sotto il profilo dell’esplosivo utilizzato, al
deposito NASCO di Aurisina dell’organizzazione GLADIO e lo stesso
VINCIGUERRA, lungi dall’essere un nazional-rivoluzionario puro e coerente, sarebbe
stato legato a GLADIO o, come altri ordinovisti, a qualche altro apparato istituzionale
e di conseguenza l’attentato da lui commesso non sarebbe stato un gesto di attacco
diretto contro lo Stato, unico in tale settore e quasi parallelo alle azioni delle Brigate
Rosse, ma parte, sin dall’origine, della strategia della tensione e delle sue oscure
connivenze (cfr. ordinanza del G.I. di Venezia in data 24.2.1989 nel procedimento
Peteano-ter, ff.9 e ss., vol.27, fasc.2).
Mai una ricostruzione così infondata, sfornita non solo di qualsiasi elemento di prova,
ma anche di qualsiasi dato indiziario, è stata così cara al mondo dei mass-media,
soprattutto all’inizio degli anni ‘90, all’emergere del “caso GLADIO”, tanto da essere
ancora oggi riportata meccanicamente ogniqualvolta, nell’ambito di commenti
ricostruttivi, viene rievocato l’attentato di Peteano.
L’effetto di tale ingiustificato ed erroneo collegamento è stato nefasto in quanto
è stato una delle ragioni non ultime per le quali VINCIGUERRA, limitando così la
portata delle sue dichiarazioni, ha ritenuto che non fosse possibile alcuna forma di
completa ricostruzione, da parte sua, degli anni della strategia della tensione di
fronte ad una Autorità Giudiziaria.
Egli infatti ha più volte, e non a torto, sottolineato che non era possibile
individuare, se non in modesta parte, nell’Autorità Giudiziaria, e quindi nello
Stato, un interlocutore credibile se la sua posizione e la sua scelta di vita
venivano, anche a livello dei mass-media, radicalmente rovesciate,
trasformandolo da combattente rivoluzionario, che in nome di un ideale si era
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202
risolto ad una scelta estrema contro rappresentanti dello Stato (e perdipiù
Carabinieri, all’epoca sovente “cobelligeranti” della destra), in uno dei tanti
soggetti collusi e condizionati dagli apparati dello Stato e dalle sue strategie.
L’ipotesi fatta propria dal G.I. di Venezia è venuta meno per due ordini di ragioni.
In primo luogo, nonostante l’audizione in questi ultimi anni e nelle più varie istruttorie
di centinaia di imputati e di testimoni appartenenti alle aree più diverse dell’estrema
destra nonchè ai servizi di sicurezza, non è stato acquisito il minimo elemento che
indichi un collegamento fra il gruppo udinese di Ordine Nuovo, di cui VINCIGUERRA
faceva parte, e GLADIO e, in verità, neanche fra tale ultima organizzazione e la
struttura veneta di Ordine Nuovo nel suo insieme.
In secondo luogo è venuta meno l’ipotesi di un collegamento fra il NASCO di
Aurisina e l’attentato di Peteano tramite l’eventuale provenienza dal deposito di
GLADIO, scoperto nel 1972, dell’esplosivo e dell’accenditore a strappo utilizzati per
allestire a Peteano la trappola contro i Carabinieri, ipotesi avanzata dal G.I. di
Venezia (cfr. ordinanza citata, ff.9-10 e 13 e ss.).
Per quanto concerne l’esplosivo, infatti, la perizia ha evidenziato che quello utilizzato
per l’ordigno era esplosivo civile da cava (e non l’esplosivo militare del tipo “C4”
presente nei NASCO) e perdipiù VINCIGUERRA ha spiegato con abbondanza di
particolari e dettagli come egli se lo sia procurato, nell’estate del 1970 insieme
ad alcuni camerati anche originari della zona, sull’altipiano del Piancavallo,
rubandolo da una baracchetta del tutto incustodita di una ditta che stava
effettuando lavori di sbancamento (int. 13.1.1992, ff.3 e 4, e, anche su delega del
G.I. di Venezia, int.27.3.1992, ff.1 e 3).
Tale episodio, confrontando i particolari forniti da VINCIGUERRA e gli esiti degli
accertamenti esperiti dalla Digos di Venezia (cfr. annotazioni in data 13.2.1992,
27.2.1992 e 4.5.1992, vol.27, fasc.2), è facilmente individuabile nel furto subìto nel
luglio del 1970 dall’impresa “Avianese” che stava effettuando lavori nella zona (e
proprio sulla strada sterrata indicata da VINCIGUERRA) e che nulla, ovviamente,
aveva a che fare con GLADIO.
Per quanto concerne l’accenditore a strappo, l’ipotetico collegamento si basava
sul fatto che dal NASCO di Aurisina erano risultati mancanti due accenditori a
strappo e che uno strumento analogo, utilizzato normalmente per il sabotaggio, era
stato utilizzato per far esplodere, al momento dell’intervento della pattuglia dei
Carabinieri, l’ordigno nascosto a Peteano nella FIAT 500.
A parte la circostanza che non vi era alcuna prova , nemmeno generica o indiziaria,
che l’accenditore utilizzato a Peteano fosse uno dei due mancanti da Aurisina, il
collegamento si basava sull’esilissima circostanza secondo cui nessun accenditore a
strappo od oggetto similare era mai stato rinvenuto in alcuna zona del Friuli-Venezia
Giulia (cfr. ordinanza citata, f.10) e quindi tale accenditore, definito strumento di
difficile reperimento, doveva “necessariamente” provenire dal NASCO di Aurisina.
L’assunto di partenza è però del tutto erroneo in quanto da una semplicissima
ricerca è emerso che proprio a Udine, il 31.3.1971, poco più di un anno prima
202
dell’attentato di Peteano, erano stati rinvenuti, insieme ad esplosivo e ad altro
materiale, ben 50 accenditori a strappo di cui qualche gruppo appartenente alla
malavita politica o comune si era evidentemente liberato (cfr. nota della Digos di
Trieste in data 29.4.1993, vol.27, fasc.6, ff.21 e ss., e accertamenti di polizia
scientifica, ff.3-4).
Caduta, quindi, ogni ipotesi di collegamento fra l’attività di Vincenzo VINCIGUERRA
e apparati istituzionali di qualsiasi natura (circostanza questa che, insieme
all’assoluta mancanza di ricerca di benefici processuali, dà alle sue
dichiarazioni piena affidabilità), è possibile passare ad illustrare gli elementi di
conoscenza relativi alla strage di Piazza Fontana che egli ha inteso fornire negli
interrogatori resi a questo Ufficio fra la primavera 1991 e la primavera 1993.
Ecco in sintesi gli elementi contenuti nelle dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA:
- Sul piano generale VINCIGUERRA ha innanzitutto confermato quanto già
dichiarato sin dal 9.8.1984 al G.I. di Bologna, poco tempo dopo avere rivendicato la
propria responsabilità per l’attentato di Peteano e cioè che il baricentro della
struttura stragista al servizio degli apparati dello Stato si trovava in Veneto e in
Lombardia, pur dipendendo dalla struttura centrale di Ordine Nuovo di Roma e
ne facevano parte i militanti responsabili e operativi della varie cellule: fra gli altri
MAGGI e ZORZI a Venezia; SOFFIATI e il colonnello SPIAZZI a Verona; l’intero
gruppo di FREDA e FACHINI a Padova; NEAMI, PORTOLAN e BRESSAN a Trieste;
Roberto RAHO a Treviso; ROGNONI a Milano; Cristano DE ECCHER a Trento; con
agganci minori a Mantova, a Rovigo e in Carnia (int. 4.10.191, f.2).
Tale gruppo di persone era rimasto in stabile collegamento sin dagli anni ‘60,
formando una struttura politicamente ed umanamente omogenea e, anche al
momento del rientro di Ordine Nuovo nel M.S.I. , aveva mantenuto all’interno del
Partito la propria identità e le proprie capacità operative.
Solo l’attentato di Peteano (concettualmente non una strage, ma un’azione di
guerra), compiuto dal piccolo gruppo di Udine, si differenzia dagli altri episodi
dell’epoca in quanto commesso contro lo Stato e non in collusione con gli apparati
dello Stato e oggetto di attività di depistaggio all’insaputa e contro la volontà dei suoi
autori.
- Gli attentati del 12.12.1969 si inquadrano in una strategia golpista e per essi erano
stati utilizzati uomini sia di Ordine Nuovo sia di Avanguardia Nazionale (int.9.3.1992,
f.1; 16.6.1992, f.2).
Tale strategia era stata introdotta nel nostro Paese grazie all’elaborazione teorica
e all’ispirazione dell’AGINTER PRESS di GUERIN SERAC (int.9.3.1992, f.2) che
era la “mente” degli attentati e, in particolare, era in contatto con Stefano DELLE
CHIAIE (int.20.5.1992, f.2).
Elemento caratterizzante di tale strategia era la creazione di falsi gruppo di
estrema sinistra e l’infiltrazione in altri già esistenti, al fine di far ricadere su di
essi la responsabilità degli attentati (int.16.6.192, ff.3-4), provocare l’intervento delle
Forze Armate ed escludere il Partito Comunista da qualsiasi possibilità di influenza
significativa sulla vita politica italiana (int. citato, f.3).
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- Centrale nella ricostruzione degli avvenimenti del 12.12.1969 è poi, secondo il
racconto di VINCIGUERRA, il significato della manifestazione indetta per il
14.12.1969, a Roma, dalla Direzione del M.S.I., subito dopo il rientro di Ordine
Nuovo nel Partito, manifestazione che, all’indomani degli attentati, avrebbe dovuto
innescare la richiesta da parte della “piazza di destra” di un “Governo forte” e
di un intervento dei militari.
Vincenzo VINCIGUERRA, pur ignaro in quel momento del vero significato strategico
dell’adunata, la sera del 12.12.1969 era già partito alla volta di Roma:
“””....In merito all'adunata di Roma, posso specificare che io partii da Udine
con Cesare Turco, proprio la sera del 12 dicembre 1969, in treno per Roma per
recarci appunto alla manifestazione.
Vi era già, ovviamente, la notizia degli attentati e ricordo che alla stazione
fummo fermati da un Commissario di Polizia di Udine che ci interpellò
pensando che fossimo diretti a Milano.
Ritengo significativo ricordare che era giunta per quella manifestazione una
convocazione a parteciparvi anche con i simboli di Ordine Nuovo, ed infatti
avevamo un cartellone con l'ascia bipenne che noi stessi avevamo preparato per
quell'occasione.
La convocazione era avvenuta tramite Maggi e non escludo che mi fosse giunta
anche da Roma.
In sostanza, la convocazione per la manifestazione era avvenuta come se il
rientro di Ordine Nuovo nel M.S.I. non ci fosse stato e in quel momento Ordine
Nuovo si presentava ancora come un'entità autonoma rispetto al M.S.I. con i
propri dirigenti ed i propri simboli. Giunti a Roma restammo tutto il giorno di
sabato 13 dicembre in attesa di notizie in quanto non vi era più la certezza che
l'adunata si sarebbe svolta ugualmente. Sino a tarda notte le notizie erano
ancora incerte. La domenica mattina, e cioè il 14, si seppe che l'adunata non si
sarebbe svolta, in quanto sospesa dal Governo, e in serata ripartimmo per
Udine.
Nel libro io cito la confidenza di Angelo Ventura a Franco Comacchio, riferita
da questi all'Autorità Giudiziaria, per sottolineare quello che anche per mia
conoscenza era un collegamento tra i due episodi, cioè gli attentati del 12
dicembre e l'adunata di Roma, come inseriti in un'unica operazione politica.
Indico negli attentati del 12 dicembre 1969 non l'inizio della strategia della
tensione, bensì il detonatore che, facendo esplodere una situazione, avrebbe
consentito a determinate Autorità politiche e militari la proclamazione dello
stato di emergenza.
A domanda dell'Ufficio, questo mio elemento di conoscenza della verità del
collegamento dei due episodi di cui parla Comacchio risale agli anni '70,
prima della mia carcerazione...”””
(VINCIGUERRA, int.13.1.1992, ff.2-3)
204
Gli articoli e le manchettes delle pagine del quotidiano “Il Secolo d’Italia” del
dicembre 1969, acquisite in copia (vol.10, fasc.10), sono in piena corrispondenza con
la descrizione di Vincenzo VINCIGUERRA relativa a tale manifestazione.
Sin dai primi giorni di dicembre, infatti, il quotidiano del Movimento Sociale Italiano
annunzia con grande enfasi la manifestazione al Palazzetto dello Sport, definita
“Incontro con la Nazione”, “Appuntamento con la Nazione” e “Grande Adunata”.
Oratore principale della giornata era ovviamente il Segretario del Partito, on. Giorgio
Almirante, il quale, con il suo discorso, avrebbe dovuto fare appello all’ “intesa e
compattezza delle forze nazionali nel momento di emergenza” che si stava vivendo,
riservando al suo Partito solo il privilegio, nella lotta per salvare l’Italia, di “combattere
sulla trincea più avanzata” (cfr. “Il Secolo d’Italia”, 12.12.1969, pagine 1 e 8).
Solo il 14.12.1969, giorno della manifestazione, il quotidiano darà la notizia del
divieto, per tale giornata, di qualsiasi manifestazione pubblica e quindi anche della
“Grande adunata”, attribuendo tale provvedimento alla “debolezza del regime verso il
P.C.I.” e ad interventi in tal senso dei socialisti del P.S.I. e dei repubblicani (vol.10,
fasc.10, f.9).
Anche Martino SICILIANO ha ricordato l’importanza della manifestazione, a cui
Ordine Nuovo avrebbe dovuto presentarsi in ranghi compatti con scudi e
insegne, e di essere stato fermato, mentre insieme ad altri mestrini stava per partire
alla volta di Roma, dal contrordine del dr. MAGGI che comunicava l’annullamento
della manifestazione (int.21.8.1997, ff.3-4).
Martino SICILIANO ha anche ricordato che, nei giorni precedenti, Delfo ZORZI
aveva partecipato a Mestre ai preparativi della manifestazione, a dispetto della
versione di ZORZI che, quale linea difensiva, ha cercato di sostenere di essere
stato ormai lontano, in quel periodo, dalla vita politica attiva, di non avere
frequentato quasi più Martino SICILIANO e soprattutto di avere trascorso a
Napoli i giorni precedenti il 12.12.1969.
- Punto centrale è certamente il fatto che Vincenzo VINCIGUERRA, militante ancora
giovanissimo nel dicembre 1969 e non inserito nei progetti strategici più delicati,
avesse appreso a metà degli anni ‘70 (come precisato nell’interrogatorio in data
16.6.1992, f.5) che gli attentati del 12.12.1969 e l’adunata di Roma facevano
parte di un’unica operazione politica.
Si tratta, come rilevato dallo stesso VINCIGUERRA anche nel suo libro “La Strategia
del Depistaggio”, citato nell’interrogatorio in data 13.1.1992, di una notizia del tutto
analoga alla confidenza che Angelo VENTURA, fratello di Giovanni, aveva fatto
a Franco COMACCHIO e che quest’ultimo aveva riferito agli inquirenti nel
corso dell’istruttoria sulla cellula padovana (int. COMACCHIO al P.M. di Treviso,
6.11.1971).
Franco COMACCHIO aveva infatti ricevuto da Angelo VENTURA, pochissimi giorni
prima del 12 dicembre, la confidenza che di lì a poco sarebbe “avvenuto qualcosa
di grosso”, in particolare “una marcia di fascisti a Roma e qualcosa che sarebbe
avvenuta nelle banche”.
Due avvenimenti strategicamente collegati, dunque, ed è significativo che quanto
appreso da VINCIGUERRA da fonte diversa rispetto a quella di COMACCHIO
(int.VINCIGUERRA, 16.6.1992, f.5) confermi a posteriori il racconto di quest’ultimo,
205
206
purtroppo sottovalutato nelle fasi dibattimentali come è avvenuto per tante
circostanze raccolte nel corso delle prime istruttorie.
Perdipiù nel corso della presente indagine anche Giampaolo STIMAMIGLIO,
gravitante nell’ambiente veronese di Ordine Nuovo e molto legato, anche sul piano
amicale, alla famiglia VENTURA, ha riferito che sia Giovanni VENTURA sia il fratello
Luigi gli avevano confidato, prima dei fatti del 12.12.1969, che presto sarebbe
avvenuto “qualcosa di grosso” che avrebbe cambiato la situazione politica in Italia
(dep. 16.3.1994, f.2).
Giuseppe FISANOTTI, anch’egli appartenente all’area di Ordine Nuovo di Verona e
cognato di Giampaolo STIMAMIGLIO avendone sposato la sorella Rita, ha
confermato che sia Giampaolo sia Rita gli avevano riferito le confidenze a loro volta
ricevute da Giovanni VENTURA già all’epoca dei fatti, circostanza questa che
conferma l’attendibilità della testimonianza di Giampaolo STIMAMIGLIO (dep.
FISANOTTI a questo Ufficio, 8.5.1993, f.2).
Gli avvenimenti del 12.12.1969 erano stati, quindi, senza troppe cautele e in varie
occasioni, preannunziati dai fratelli VENTURA ed era stato rimarcato il collegamento
con la manifestazione del 14.12.1969 così come VINCIGUERRA aveva in seguito
appreso da fonti del tutto differenti.
- Per quanto concerne la materiale esecuzione degli attentati, il gruppo di Ordine
Nuovo di Trieste aveva partecipato agli attentati ai treni dell’8/9 agosto 1969
(int.2.12.1992, f.3; 21.12.1992, f.3), mentre Avanguardia Nazionale era
responsabile, fornendo un apporto operativo determinante, degli attentati della
giornata del 12 dicembre 1969 avvenuti a Roma (int.29.6.1992, f.2).
Si noti che tali indicazioni di VINCIGUERRA, seppur laconiche e incomplete, sono in
perfetta sintonia con le altre acquisizioni processuali e cioè le dichiarazioni di Carlo
DIGILIO e, per quanto concerne gli attentati all’Altare della Patria, quelle di Graziano
GUBBINI e di Giuseppe ALBANESE (rispettivamente, dep ai GG.II. di Milano e
Bologna in data 24.1.1994, f.7, e dinanzi al G.I. di Bologna in data 3.9.1992, f.3).
- Aldo TRINCO, commesso della libreria “Ezzelino” di Padova e appartenente alla
cellula di Franco FREDA, incontrando Vincenzo VINCIGUERRA nel 1972, aveva più
volte rivendicato al gruppo di Padova la corresponsabilità nella strage esprimendosi
in modo cinico con le parole “Siamo stati noi, in fondo era plebe“ (int. 16.6.1994, ff.45).
- Delfo ZORZI, nel 1973, aveva proposto a Vincenzo VINCIGUERRA di
collaborare alla fuga di Franco FREDA, il quale avrebbe dovuto evadere dal
carcere ove era detenuto ed espatriare inizialmente in Austria attraverso un valico di
confine non troppo sorvegliato e il cui attraversamento clandestino non doveva
essere troppo impegnativo sul piano fisico in quanto, all’epoca, FREDA soffriva di
problemi alla schiena.
Compito di VINCIGUERRA era quello di individuare il valico più adatto ed egli aveva
scelto a tal fine il Passo del Giramondo, che era sorvegliato da pochissimi militari
della Guardia di Finanza e tramite il quale si poteva raggiungere l’Austria senza
troppe difficoltà (int. 13.1.1992, f.3).
206
Il progetto era stato poi abbandonato senza che VINCIGUERRA ne avesse mai
potuto conoscere le ragioni.
Le non buone condizioni fisiche di Franco FREDA sono state confermate da lui
stesso, il quale ha riferito che all’epoca portava un busto ortopedico soffrendo di
un’ernia del disco (int. FREDA a questo Ufficio, 14.10.1994, f.5).
L’episodio ricordato da VINCIGUERRA è in perfetta sintonia con la proposta
fatta nello stesso periodo da Delfo ZORZI a Carlo DIGILIO di collaborare
all’evasione di Giovanni VENTURA adoperandosi per duplicare la chiave della
cella ove questi era detenuto (int. DIGILIO, 29.1.1994, f.3; 16.4.1994, ff.2-3) ed
entrambi i progetti sono evidentemente indicativi della pregressa comune
operatività del gruppo di FREDA e del gruppo di ZORZI nell’operazione del
12.12.1969.
- Infine VINCIGUERRA ha rievocato un colloquio avuto con Adriano TILGHER,
braccio destro di Stefano DELLE CHIAIE, nell’estate del 1979, pochi mesi prima che
VINCIGUERRA scegliesse di costituirsi anche per non essere più coinvolto nelle
attività di forze che si dicevano “rivoluzionarie”, ma in realtà gli apparivano sempre di
più al servizio dello Stato e delle sue logiche di potere.
Era da poco stato pubblicato un libro scritto da Massimo FINI concernente le indagini
sulla “pista nera”, soprattutto l’istruttoria milanese dei Giudici D’Ambrosio e
Alessandrini, e nel libro l’autore aveva sostenuto la corresponsabilità di Avanguardia
Nazionale negli attentati del 12.12.1969.
Commentando il contenuto del volume, VINCIGUERRA, all’epoca divenuto già
militante di Avanguardia Nazionale ed ancora convinto dell’estraneità almeno di tale
organizzazione alla strategia delle stragi (mentre gli erano ormai chiare le
responsabilità dell’organizzazione in cui aveva militato in precedenza e cioè Ordine
Nuovo), aveva affermato che la ricostruzione del giornalista era comunque priva di
significato, ma Adriano TILGHER lo aveva smentito rispondendogli testualmente “Ti
sbagli, perchè D’Ambrosio ha capito tutto” (int. 16.6.1992, f.4).
La preoccupazione di Adriano TILGHER, espressa con tale commento, si riferiva
non solo alla corresponsabilità di Avanguardia Nazionale, ma anche agli agganci
istituzionali individuati dagli inquirenti e al ruolo di GUERIN SERAC, la cui
importanza era stata compresa nel corso dell’istruttoria milanese, ma non aveva
potuto essere approfondita anche a seguito del trasferimento dell’istruttoria (int.
citato, f.4).
Il commento preoccupato di Adriano TILGHER ricorda il fastidio con cui Stefano
DELLE CHIAIE, a Madrid nel 1974, aveva rinfacciato a GUERIN SERAC l’incauta
intervista rilasciata dal suo braccio destro, Robert LEROY, al settimanale “L’Europeo”
in cui questi, pur senza ovviamente far riferimento ad azioni eversive, aveva rivelato i
rapporti esistiti in passato fra lo stesso LEROY e gli italiani DELLE CHIAIE,
MERLINO e SERPIERI (int. VINCIGUERRA, 20.5.1992, ff.1-2; si veda il testo
dell’intervista in vol.12, fasc.6, ff.6 e ss.).
Tale affermazione, secondo DELLE CHIAIE, era pericolosissima in quanto DELLE
CHIAIE e MERLINO erano indicati nell’appunto del S.I.D. del 16.12.1969 (forse in
parte originato proprio dalla confidenze di Stefano SERPIERI, legato al S.I.D.) come
elementi in contatto con SERAC e LEROY, gerarchicamente dipendenti da questi e
organizzatori, in tale veste, di alcuni degli attentati del 12.12.1969 proprio su
ispirazione dell’AGINTER PRESS.
Ogni riferimento a tali collegamenti era quindi potenzialmente molto dannoso in
quanto toccava un nervo scoperto della strategia complessiva degli attentati e gli
207
208
inquirenti (che, secondo una fonte attendibile come Adriano TILGHER, “avevano
capito tutto”) avrebbero potuto non lasciarsi sfuggire l’occasione di approfondire
ancora, anche alla luce dell’intervista, tale pista.
208
32
LE DICHIARAZIONI DI
MARTINO SICILIANO ED EDGARDO BONAZZI
Come già si è accennato nel capitolo 3, Martino SICILIANO, dopo gli attentati a
Trieste e a Gorizia, non era più stato inserito nel gruppo operativo e non aveva quindi
partecipato alla fase direttamente preparatoria ed esecutiva degli attentati del
12.12.1969.
Tuttavia la sua presenza in alcune significative circostanze precedenti e alcune
confidenze che aveva potuto raccogliere dopo i fatti gli hanno consentito di fornire
agli inquirenti elementi precisi ed univoci in merito alla progressione strategica e
operativa che aveva portato agli attentati.
Gli elementi forniti da Martino SICILIANO sono già in parte sparsi in vari capitoli del
presente provvedimento e possono qui essere riassunti solo in via di sintesi:
- Sin dalla metà degli anni ‘60, nel gruppo si era cominciato a parlare di ordigni
esplosivi e in particolare Martino SICILIANO aveva ricevuto da Delfo ZORZI e
nascosto nella sua camera da letto, che condivideva con il fratello Carlo, una
valigetta contenente alcune armi e tre scatole di legno , simili a quelle per
sigari di lusso, con all’interno di ciascuna di esse un detonatore, del filo
elettrico e quant’altro di utile per l’innesco di ordigni esplosivi (int. 12.10.1995,
f.3 e int. al P.M. di Milano, 13.10.1995, f.2).
Tali scatole di legno apparivano una sorta di prototipo di quelle che, assemblate
presso il casolare di Paese, sarebbero state utilizzate per contenere senza destare
sospetti l’innesco e l’esplosivo degli ordigni deposti sui dieci convogli ferroviari
(int.18.7.1996, f.4 e 25.9.1996, f.3).
La presenza della valigetta nell’abitazione della famiglia SICILIANO e, nelle linee
essenziali, il suo racconto sul punto sono stati confermati dal fratello, Carlo
SICILIANO (dep. a personale del R.O.S., 27.10.1995, f.1 e 4.2.1997, f.1).
- Intorno al 1968 ZORZI e SICILIANO avevano imparato da Piercarlo
MONTAGNER, diplomato in elettrotecnica, ad attivare un circuito formato da
una batteria, filo elettrico, un orologio, funzionante da timer, con un perno
infilato nel quadrante e filamenti di microlampadina come resistenza.
La prova tecnica per l’innesco di un congegno esplosivo aveva avuto successo (int.
21.3.196, ff.3-4, e 18.7.1996, f.4).
In questa fase di apprendistato, Delfo ZORZI aveva anche parlato della possibilità di
utilizzare, avvolto dal filamento, un fiammifero antivento (int.21.3.1996, f.4) e cioè lo
stesso tipo di fiammifero indicato come adatto allo scopo dal prof. Lino FRANCO
durante la “lezione” tenuta al casolare di Paese.
- In alcune riunioni ristrette tenute a Padova presso la libreria “Ezzelino”, FREDA,
TRINCO, MAGGI, ZORZI e MOLIN, alla presenza dello stesso SICILIANO, avevano
delineato la strategia dei primi attentati dimostrativi diffusi, in particolare quelli sui
treni (int. 6.10.1995, ff.6-6, e 29.9.1996, f.4), destinati a disorientare la popolazione e
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a provocare la richiesta di misure di emergenza e il dr. Carlo Maria MAGGI si era
anche pronunziato, nello stesso periodo, a favore della necessità di porre in
essere attentati più gravi in luoghi chiusi e affollati (int. al P.M. di Milano,
11.10.1995, f.7).
- Nelle stesse riunioni era stato individuato come uno dei primi obiettivi l’Ufficio
Istruzione di Milano e dell’attentato, poi effettivamente avvenuto il 23.7.1969,
dovevano occuparsi VENTURA e FREDA, quest’ultimo in particolare più adatto ad
avere facile accesso in un Tribunale in ragione della sua professione di procuratore
legale (int.20.12.1996, f.2).
L’ordigno, deposto - ma non esploso - in un corridoio dell’Ufficio Istruzione, era stato
nascosto in una scatola di lozione per capelli, secondo l’indicazione in base alla
quale dovevano essere utilizzati contenitori esterni che dessero l’idea di un qualsiasi
oggetto dimenticato, ed inoltre era stato utilizzato come temporizzatore un orologio di
marca RUHLA, una sorta di “firma” simbolica di Ordine Nuovo (int.20.12.1996, f.3),
ricordato come tale anche da Carlo DIGILIO.
- Martino SICILIANO aveva poi partecipato personalmente alla spedizione di Trieste
e Gorizia, prove tecniche i cui elementi di collegamento con gli attentati del
12.12.1969 sono stati ampiamente esposti nel capitolo 15 di questa ordinanza.
- Dopo gli attentati di Trieste e Gorizia, che avevano visto il mancato funzionamento
del congegno, Delfo ZORZI, nell’autunno del 1969, aveva comunicato a Martino
SICILIANO che, anche grazie al lavoro di ZIO OTTO, il sistema di timeraggio era
stato migliorato e reso più sicuro (int. 20.10.1994, f.3), circostanza questa che
testimonia come la campagna terroristica non si fosse fermata, ma fosse anzi in
progressione e in pieno svolgimento.
Tale affermazione, inoltre, è in perfetta corrispondenza con quanto riferito
dall’elettricista Tullio FABRIS e da Carlo DIGILIO in merito al fatto che
l’impegno frenetico del gruppo, non solo di ZORZI ma soprattutto di VENTURA,
fosse diretto non più alla ricerca dell’esplosivo, ma alla risoluzione del
problema degli inneschi, visto che una buona parte degli attentati preparatori
(‘attentato al Palazzo di Giustizia di Torino, i due attentati al Palazzo di Giustizia di
Roma, quello all’Ufficio Istruzione di Milano, due dei dieci attentati ai treni e gli
attentati di Trieste e Gorizia) erano falliti per vari difetti dei sistemi di attivazione.
Giustamente, del resto, si è rilevato, nella parte motivazionale di più di una sentenza
conseguita all’istruttoria sulla “pista nera” che il gruppo si era costantemente
affannato nella modifica e nel tentativo di migliorare sia i sistemi di innesco
(utilizzando prima fiammiferi normali, poi filamenti di microlampadine, poi fiammiferi
antivento) sia i sistemi di temporizzazione (utilizzando prima il doppio circuito a
caduta di corrente, poi gli orologi RUHLA, infine i timers per lavatrice), proprio per
evitare gli inconvenienti che avevano portato al fallimento di 6 dei 17 attentati che,
dall’aprile all’agosto 1969, avevano preceduto quelli del 12.12.1969.
- Qualche settimana dopo gli attentati del 12.12.1969, in occasione del Capodanno
trascorso a casa di Giancarlo VIANELLO, Delfo ZORZI aveva riconosciuto, a seguito
delle insistenti domande dei camerati, che l’operazione del 12.12.1969 era stata
“pensata” a livello molto alto, per aiutare l’Italia a difendersi dal comunismo e che gli
anarchici arrestati alcuni giorni dopo la strage erano dei “capri espiatori” e non
c’entravano nulla (int. 7.6.1996, f.3, e 8.6.1996, ff.1-4).
210
Pur senza assumersi esplicitamente responsabilità personali, Delfo ZORZI
aveva affermato che gli attentati erano stati organizzati da Ordine Nuovo del
Triveneto e commissionati dai livelli più alti dell’organizzazione e aveva
ricordato quanto già comunicato a SICILIANO qualche tempo prima e cioè che i
difetti tecnici che si erano presentati nei precedenti attentati erano stati superati
migliorando i sistemi di innesco e di timeraggio grazie all’intervento di ZIO OTTO (int.
8.6.1996, ff.3-4).
In merito alle vittime che tali attentati avevano causato, ZORZI si era espresso in
modo cinico, ricordando ai camerati che la strada della rivoluzione doveva essere
percorsa anche se ciò comportava “la morte di qualche persona” e che, secondo i
teorici nazisti, anche il sangue poteva essere il motore di una rivoluzione nazionale
che avrebbe salvato l’Italia e l’intera Europa dal comunismo ( int. citato, f.4).
In sostanza ZORZI si era espresso negli stessi termini riferiti anche da Carlo
DIGILIO, secondo cui Delfo ZORZI vedeva quanto era accaduto come una
semplice “operazione” di guerra che non comportava particolari problemi dal
punto di vista morale (int. DIGILIO, 12.11.1994, f.7).
- Nel 1971 Franco FREDA, dopo il suo primo arresto ancora limitato al solo reato di
associazione sovversiva e quindi prima dell’incriminazione per strage, aveva inviato
dal carcere a Martino SICILIANO alcune lettere che si giustificavano solo con
l’interesse a “tenere sotto il controllo” lo stesso SICILIANO, camerata certamente non
dei più determinati, qualora fosse interrogato o inquisito dall’Autorità Giudiziaria (int.
6.10.1995, f.5).
Ciò conferma che Martino SICILIANO disponeva sin da allora di elementi di
conoscenza incompleti, ma potenzialmente pericolosissimi, in merito a quanto
avvenuto e che i rischi insiti in tale situazione erano perfettamente noti anche ai
componenti della cellula di Padova.
- Martino SICILIANO ha ricordato che il dr. MAGGI era stato il coordinatore della
campagna di minacce contro il Giudice Istruttore di Treviso, dr. Giancarlo STIZ,
attuata mediante l’invio di numerose lettere di minaccia dopo che il magistrato aveva
dato l’avvio alle indagini sulla cellula di FREDA e VENTURA e, per primo, intuito
l’importanza della “pista nera”.
Tale campagna, di cui si era parlato in occasione di una riunione ristretta del gruppo
di Ordine Nuovo di Mestre (int. 5.12.1996, f.2) è un altro segnale indicativo della
precedente, comune operatività fra la cellula padovana, colpita dalle indagini del
Giudice Stiz, e la cellula di Mestre/Venezia, per molti anni, invece, mai toccata da
interventi investigativi.
- Nella stessa logica si colloca certamente l’allontanamento di Martino SICILIANO
dall’Italia, all’inizio del 1973, in direzione della Germania Federale, allontanamento
propostogli dall’amico Marco FOSCARI, ma molto probabilmente suggerito a
FOSCARI da qualche altro militante ben più coinvolto nelle vicende di Ordine
Nuovo.
Marco FOSCARI aveva infatti comunicato d’urgenza a Martino SICILIANO che, con
l’arrivo a Milano dell’istruttoria sulla c.d. pista nera e lo sviluppo delle indagini ad
opera dei giudici milanesi, egli correva grave pericolo e circolava la voce di nuovi
arresti, dopo quelli di FREDA e VENTURA, fra cui quello dello stesso SICILIANO (int.
12.9.1996, ff.1-2).
211
212
Marco FOSCARI aveva quindi procurato a SICILIANO un “passaggio” clandestino a
bordo di un camion della ditta del comune amico tedesco Sturznickel, titolare di una
ditta di giocattoli per la quale FOSCARI lavorava.
Martino SICILIANO aveva passato il confine al Brennero raggiungendo poi la sede
della ditta di Sturznickel, vicino a Gottinga, e trattenendosi in quel luogo per oltre un
mese sino a quando Marco FOSCARI gli aveva comunicato che le acque
sembravano essersi calmate (int. citato, f.3).
Tale fuga si colloca fra il gennaio e il febbraio 1973, momento assai “caldo” per
l’istruttoria e prossimo alla semi-confessione di Giovanni VENTURA dinanzi ai
Giudici D’Ambrosio e Alessandrini.
Essa ha avuto certamente una funzione preventiva, da possibili cedimenti di
Martino SICILIANO e ricorda quindi un po’ l’allontanamento forzato da Trieste
dell’avv. Gabriele FORZIATI, anch’esso suggerito al possibile testimone da
alcuni camerati paventando il pericolo di un imminente arresto.
In conclusione, le dichiarazioni di Martino SICILIANO si saldano perfettamente con
quelle più dirette e dettagliate di Carlo DIGILIO, così come entrambi i racconti sono
in sintonia con quanto successivamente appreso in un ristretto e affidabile ambiente
carcerario da Edgardo BONAZZI.
Le dichiarazioni di Edgardo BONAZZI sono già state illustrate, nei loro punti
rilevanti, al capitolo 7 della presente ordinanza e in sintesi egli ha confermato di aver
appreso che gli attentati del 12.12.1969 erano stati organizzati ed attuati con
l’apporto prevalente della struttura di Ordine Nuovo del Triveneto e che Delfo ZORZI
era colui il quale aveva materialmente deposto la valigetta nel salone della Banca
Nazionale dell’Agricoltura di Milano.
E’ quindi sufficiente , in questa sede, richiamare l’attenzione su una testimonianza
di riscontro ad una importante affermazione di Edgardo BONAZZI.
Questi ha dichiarato di aver appreso da Guido GIANNETTINI, Nico AZZI e Pierluigi
CONCUTELLI che Pietro VALPREDA aveva funzionato da “capro espiatorio”
secondo un piano già preordinato, in quanto sul taxi di ROLANDI era salito, al fine
“incastrare” l’anarchico, un militante di destra che gli assomigliava notevolmente
(dep.BONAZZI 15.3.1994, f.4, e 7.10.1994, f.2).
Tale ricostruzione dell’avvenimento centrale che aveva portato all’arresto di Pietro
VALPREDA è stata confermata, seppur in modo piuttosto timido e laconico, da
Giampaolo STIMAMIGLIO, gravitante nell’area veronese di Ordine Nuovo ed amico
intimo di tutta la famiglia VENTURA sin dall’adolescenza.
Giovanni VENTURA gli aveva infatti confidato che Pietro VALPREDA era stato
un falso obiettivo per l’Autorità Giudiziaria e che le indagini erano state
intenzionalmente dirottate su di lui, mentre FREDA e lo stesso VENTURA, pur non
avendo partecipato materialmente all’esecuzione degli attentati del 12.12.1969
(circostanza questa che emerge anche dalla presente istruttoria e dalle stesse
confidenze ricevute da BONAZZI in carcere), avevano coordinato il progetto globale
degli attentati (dep.STIMAMIGLIO, 16.3.1994, f.2).
212
La fonte della rivelazione ricevuta da STIMAMIGLIO e il carattere strettamente
confidenziale della stessa, avvenuta in tempi non sospetti, la rendono assai
attendibile tantopiù in quanto il suo significato si salda perfettamente con quanto in
seguito appreso in carcere da Edgardo BONAZZI da personaggi di rilievo
appartenenti allo stesso ambiente.
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214
33
LE PRIME DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO
RELATIVE AGLI ATTENTATI DEL 12.12.1969
Carlo DIGILIO nel primo gruppo di interrogatori, resi sino alla primavera del 1995
(momento in cui è stato colpito da un ictus e quindi l’attività istruttoria in relazione alla
sua persona è stata sospesa per molti mesi), aveva reso solo dichiarazioni molto
timide e frammentarie per quanto concerneva gli attentati del 1969.
Aveva parlato degli accessi al casolare di Paese, ove si trovava la dotazione di armi
e di esplosivi della struttura veneta (si veda in proposito, ampiamente, la parte terza
della presente ordinanza), e del progetto di evasione di Giovanni VENTURA, cui
Delfo ZORZI gli aveva chiesto di collaborare attivandosi per duplicare la chiave della
cella (cfr. capitolo 24 della presente ordinanza).
In tale frangente Delfo ZORZI gli aveva confermato di avere partecipato non solo
all’attentato alla Scuola Slovena di Trieste, ma di avere personalmente agito alla
Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, azione che era stata possibile grazie
all’aiuto (non si sa se consapevole o inconsapevole)del “figlio di un direttore di
Banca” (int. 12.11.1994, f.7, e memoriale allegato a tale interrogatorio).
Delfo ZORZI aveva anche aggiunto che il gruppo operativo, formato da lui stesso, da
Giovanni VENTURA e da Marco POZZAN, dopo gli attentati ai treni dell’agosto 1969
e l’attentato alla Scuola Slovena dell’ottobre dello stesso anno, aveva migliorato le
tecniche di approntamento degli ordigni (int. citato, f.7) risolvendo così i problemi
tecnici che Giovanni VENTURA, già nel periodo degli accessi al casolare di Paese,
gli aveva confidato essere stati risolti grazie all’aiuto di un elettricista (int.6.4.1994,
f.7) che aveva fra l’altro suggerito l’utilizzo di fili elettrici al nichel-cromo.
Evidente è il richiamo all’intervento dell’elettricista Tullio FABRIS che
effettivamente, a Padova, aveva inizialmente procurato a Franco FREDA i fili
elettrici al nichel-cromo da usarsi come resistenza e poi, nel periodo
successivo agli attentati ai treni, aveva consentito al gruppo, con la sua
consulenza, di passare dal sistema di innesco e temporizzazione, certamente
meno sicuro, costituito dall’utilizzo degli orologi RUHLA, al sistema semplice e
affidabile costituito dall’utilizzo dei timers per lavatrice che lo stesso FABRIS
aveva acquistato insieme a Franco FREDA.
E’ anche possibile, per ragioni di compartimentazione, che a Carlo DIGILIO
effettivamente non sia stata fornita da ZORZI e VENTURA l’identità dell’elettricista,
trattandosi di un contatto personale e quasi casuale di Franco FREDA e di una
persona comunque estranea al gruppo, che aveva fornito inconsapevolmente un
contributo tecnico parallelo a quello che era giunto da Carlo DIGILIO e dal prof. Lino
FRANCO nel medesimo periodo.
Sempre con riferimento alla fase degli accessi al casolare di Paese, Carlo DIGILIO
ha inoltre riferito sin dai primi interrogatori di avere visto nell’ufficio di VENTURA, a
Castelfranco Veneto, due orologi RUHLA (int. 6.4.1994, f.6) e cioè gli orologi che
214
costituivano una sorta di “firma” del gruppo veneto di Ordine Nuovo e che saranno
usati, fra l’altro, come temporizzatori in quasi tutti gli attentati sui convogli ferroviari
dell’8/9 agosto 1969.
Sempre nei primi interrogatori, Carlo DIGILIO aveva inoltre riferito che Marcello
SOFFIATI, evidentemente non convinto della strategia stragista condotta dal
gruppo, era entrato in conflitto con Delfo ZORZI, lo aveva chiamato
“mercenario” ed “assassino” con aperto riferimento agli esiti tragici degli
attentati del 12.12.1969 e per tutta risposta era stato minacciato e malmenato da
Delfo ZORZI (int.16.4.1994, f.6).
I primi elementi forniti da Carlo DIGILIO in merito alla strategia degli attentati
erano stati quindi decisamente e volutamente parziali, ma i dettagli forniti (l’utilizzo
degli orologi RUHLA, i fili elettrici al nichel-cromo, l’intervento di un elettricista e
soprattutto l’insieme dell’ “attività” che si svolgeva a Paese in tema di preparazione di
inneschi e di studio degli esplosivi) già si saldavano perfettamente con quanto era
emerso molti anni prima nelle istruttorie di Padova, Treviso e Milano.
215
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34
LE SUCCESSIVE DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO:
LA PRESENZA DEI TIMERS NEL GRUPPO
L’ACQUISTO DEI CANDELOTTI DI GELIGNITE
DA ROBERTO ROTELLI A MESTRE
A partire dall’autunno 1995, momento in cui è stato possibile riprendere gli
interrogatori, Carlo DIGILIO ha reso dichiarazioni via via sempre più fitte e
particolareggiate sul meccanismo che aveva portato agli attentati del 12.12.1969.
Egli ha in primo luogo rivelato che vi era stato un altro incontro operativo con Delfo
ZORZI proprio nel periodo intercorrente fra l’attentato alla Scuola Slovena (ottobre
1969) e gli attentati del 12.12.1969 e che Delfo ZORZI in tale occasione, oltre a farsi
ripetere da Carlo DIGILIO alcuni dettagli tecnici sull’approntamento degli inneschi per
i congegni esplosivi, gli aveva rivelato che il gruppo ormai disponeva di un
elettrotecnico che aveva insegnato l’uso di un timer per chiudere il circuito e
provocare così l’esplosione in modo sicuro ed efficiente (int.4.1.1996, f.3, e
13.1.1996, f.2).
Nel corso dello stesso incontro Delfo ZORZI aveva ammesso dinanzi a Carlo
DIGILIO che alle migliorie sul piano tecnico non aveva corrisposto un progresso
degli uomini destinati a far parte del gruppo operativo in quanto egli aveva dovuto
rinunziare ad utilizzare uno dei militanti che “beveva e parlava troppo ed era quindi
inaffidabile” (int.21.1.1996,. f.3).
Le ulteriori confidenze di Delfo ZORZI chiudono quindi il cerchio in merito al
provvidenziale intervento dell’ “elettricista” o “elettrotecnico” e cioè Tullio FABRIS, il
quale aveva reso possibile il passaggio all’utilizzo da parte del gruppo di uno
strumento semplice e al tempo stesso affidabile come i timers per lavatrice al fine di
temporizzare la chiusura dei circuiti.
Tale parte del racconto di Carlo DIGILIO (resa, si badi bene, senza che egli
nulla sapesse delle nuove dichiarazioni resa da Tullio FABRIS) si salda
perfettamente con il racconto dell’elettricista padovano e ne conferma l’assoluta
attendibilità ed il fatto che quanto insegnato a FREDA e VENTURA in merito al
funzionamento dei timers nello studio dello stesso FREDA fosse stato da questi
ultimi immediatamente comunicato a Delfo ZORZI nella prospettiva di un rapido
utilizzo di tale nuova tecnica di innesco.
Il militante escluso da Delfo ZORZI per la sua scarsa riservatezza e affidabilità
operativa è certamente Martino SICILIANO, il quale non fu più chiamato ad
operare dopo gli attentati di Trieste e Gorizia dell’ottobre 1969.
Anche tale circostanza costituisce un importantissimo riscontro in quanto
testimonia l’assoluta sincerità di Martino SICILIANO allorchè egli afferma di
non essere stato utilizzato per l’operazione del 12.12.1969 per una complessa
216
serie di ragioni, fra cui certamente il fatto che egli era stato individuato da alcuni
investigatori della Questura di Trieste, probabilmente sulla base di una informazione
confidenziale raccolta, come uno degli autori dell’attentato alla Scuola Slovena
(int.SICILIANO, 12.9.1996, ff.4-5).
Con Delfo ZORZI vi era stato un successivo incontro, nel gennaio/febbraio 1970 a
Mestre, e in tale occasione ZORZI aveva per la prima volta ammesso direttamente a
Carlo DIGILIO quanto avrebbe in seguito confermato in occasione dell’incontro
relativo al progetto di evasione di Giovanni VENTURA e cioè che egli aveva
personalmente partecipato all’azione di Milano e che, nonostante tutti quei
morti, tale azione “era stata importante perchè aveva ridato forza alla destra e
colpito le sinistre nel Paese” ed “aveva fatto piacere e aveva goduto
dell’appoggio dei Servizi” (int. 21.1.1996, f.7).
Si ricordi del resto, collocando il commento di Delfo ZORZI nel momento in cui era
avvenuto, che all’inizio del 1970 si era ben lontani dall’individuare o anche solo
ipotizzare la responsabilità di Ordine Nuovo per gli attentati e che, al contrario,
l’Autorità Giudiziaria, sollecitata e diretta in tale direzione dalle “indagini” del
Ministero dell’Interno, aveva imboccato decisamente la pista anarchica arrestando
Pietro VALPREDA e i suoi compagni e trascurando, nella sostanza, di sollecitare
investigazioni nella direzione opposta.
Carlo DIGILIO ha poi riferito, nei primi interrogatori resi dal momento in cui, grazie al
miglioramento delle sue condizioni di salute, è stato possibile riprendere l’attività
istruttoria, in quale modo il gruppo mestrino abbia potuto procurarsi una ingente
quantità di gelignite.
Tale circostanza è della massima importanza in quanto le perizie svolte nel corso
dell’istruttoria milanese nei confronti di FREDA e VENTURA erano giunte alla
conclusione che tale tipo di esplosivo era altamente compatibile con parte di
quello usato per gli attentati del 12.12.1969, mentre sicuramente era gelignite
l’esplosivo rinvenuto all’Ufficio Istruzione di Milano il 24.7.1969 (cfr., in ordine
alla compatibilità fra la gelignite e gli esplosivi usati negli attentati del 1969, anche
l’accertamento tecnico affidato da questo Ufficio al Servizio di Polizia Scientifica
presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale, vol.15, fasc.5, ff.3 e ss.).
Carlo DIGILIO, in uno dei suoi primi interrogatori (27.11.1973, ff.1-2), aveva fatto un
rapido accenno alla figura di Roberto ROTELLI, esperto sommozzatore,
simpatizzante di destra della zona di Venezia-Lido, il quale era specializzato nel
recupero, dalle navi affondate al largo di Venezia, di materiale nautico suscettibile di
essere rivenduto, e che, proprio per tale attività, disponeva di forti quantità di
esplosivo.
Proprio Roberto ROTELLI era colui che, alla fine degli anni ‘60, aveva venduto
al gruppo mestrino una notevole quantità di candelotti di gelignite.
Ecco il racconto di Carlo DIGILIO reso in data 5.1.1996:
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“””Roberto ROTELLI, di cui ho fatto cenno in precedenti interrogatori, aveva
una società di recupero di materiale di valore da navi affondate. Quando c'era
la necessità di sfondare paratie, utilizzava la gelignite che poteva essere calata
senza difficoltà nella zona stagna delle navi; egli recuperava così soprattutto
valori dalla zona della poppa dove c'erano gli alloggi del Comandante.
ROTELLI, quindi, disponendo di gelignite per questi lavori, aveva distratto una
parte dell'esplosivo e mi disse che l'aveva messa nella sua casa di campagna.
Mi disse in seguito che era preoccupato perchè la gelignite aveva cominciato a
trasudare e mi chiese consiglio.
Io mi meravigliai perchè teneva in casa roba tanto pericolosa e gli consigliai di
avvolgere in carta di giornale tubo per tubo tutto l'esplosivo e di metterlo in
sacchi di juta contenenti segatura, ciò al fine di assorbire tutta l'umidità.
ROTELLI mi disse in seguito di avere fatto effettivamente così e che aveva
spostato l'esplosivo nel bunker sito sulle scogliere del Canale Alberoni-Petroli,
esattamente il bunker che ho riconosciuto nelle fotografie che mi avete mostrato
ieri al termine dell'interrogatorio.
Questo bunker aveva una porta metallica massiccia di cui ROTELLI aveva la
chiave e ricordo che questa porta era dipinta con del minio in parte color grigio
e in parte color rosso.
Domanda: Lei ha visto questi tubi di gelignite?
Risposta: ROTELLI me li mostrò quando mi chiese il consiglio a seguito del
trasudamento dello stesso. Ricordo che si trattava di tubi di color rosso
mattone.
Questi avvenimenti si collocano alla fine degli anni '60.
ROTELLI faceva traffici di questo genere soprattutto per denaro e del resto
aveva svolto anche attività di contrabbando.
Era legato a Giampietro MONTAVOCI che come lui frequentava l'ambiente dei
subacquei.
Delfo ZORZI conosceva ROTELLI in quanto questi era un simpatizzante di
destra, e quando seppe che ROTELLI era in grado di procurare silenziatori
iniziò a fargli "la corte" frequentandolo più assiduamente e in pratica per
evitare un mio interessamento che avrebbe potuto causare da parte di ROTELLI
l'aumento del prezzo.
ROTELLI vendette poi anche la gelignite a Delfo ZORZI, infatti mi disse che
da quando aveva venduto a ZORZI la gelignite si sentiva più tranquillo
perchè non correva più pericoli legati a quella detenzione.
Preciso che ROTELLI viveva al Lido di Venezia in località Quattro Fontane e
aveva la casa colonica di cui ho appena parlato non distante dalla zona
Quattro Fontane, ma dall'altra parte del canale.
A domanda dell'Ufficio, non so dove ZORZI abbia sistemato la gelignite dopo
l'acquisto dal ROTELLI.
Posso ipotizzare, per via logica, che egli avesse trovato una sistemazione
analoga a quella inizialmente usata al ROTELLI e cioè in un casolare isolato
218
dell'entroterra di Mestre oppure che la gelignite sia stata depositata nel
casolare di Paese senza che io potessi vederla”””.
(DIGILIO, int. 5.1.1996, ff.1-3).
Nel successivo interrogatorio in data 13.1.1996, Carlo DIGILIO ha completato il
racconto:
“””In merito alla gelignite, riprendendo il discorso già fatto nell'interrogatorio
in data 5.1.1996, posso aggiungere che ROTELLI mi fece vedere i candelotti
nella cantina della sua casaccia in zona Quattro Fontane.
I candelotti erano già nei sacchi di juta che erano almeno una diecina
insieme alla segatura e alla carta di giornale.
Sulla base delle loro dimensioni, erano quindi 150/200 candelotti.
A domanda dell'Ufficio, per quanto mi risulta, ROTELLI all'epoca non aveva
pratica nell'uso di esplosivi.
ROTELLI mi disse che intendeva vendere questo esplosivo che gli era costato
circa 5 milioni investendo proventi del contrabbando di sigarette.
ROTELLI mi fece il nome di ZORZI come possibile acquirente e io gli risposi
che la persona poteva andare bene, però doveva stare molto attento data la
pericolosità del soggetto.
Tempo dopo incontrai ZORZI a Mestre e gli chiesi se ROTELLI lo avesse
contattato ed egli mi rispose di sì.
In pratica io feci da intermediario in questo acquisto.
ZORZI mi chiese se secondo me l'affare era avvenuto in condizioni di
sicurezza e io gli risposi che ROTELLI aveva tutto l'interesse a stare zitto
perchè si trattava di un affare illecito.
Prima della vendita, ROTELLI mi aveva chiesto di valutare l'esplosivo e io gli
chiesi da quanti anni lo aveva ed egli mi disse che erano un paio di anni.
Allora gli dissi che poteva calcolare l'aumento di valore del prezzo iniziale in
base al tempo passato e aggiungere qualcosa per il suo guadagno.
Preciso che fui io a inserire questo concetto un po' bancario nel prezzo di
vendita, anche in base alla mia formazione mentale.
ZORZI in seguito mi disse che aveva sistemato la gelignite in un posto asciutto e
cioè un casolare del mestrino simile a quello che avevo visto a Paese.
Da suoi accenni ho ragione di ritenere che questo casolare potesse trovarsi a
Spinea dove fra l'altro ZORZI e la sua famiglia avevano anche un interesse
commerciale quale un negozio pelletteria o qualcosa del genere.
A D.R.: la vendita della gelignite si colloca fra il 1967 e il 1969, tempo prima
dell'incontro fra me e ZORZI in cui egli disse che aveva dovuto disfarsi di un
suo uomo.
A D.R.: ho appreso che in seguito il ROTELLI prese la licenza di fochino.
219
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A D.R.: confermo che la gelignite che vidi era in candelotti di colore rosso
mattone.
Posso precisare che io maneggiai nella cantina di ROTELLI tre candelotti
perchè egli mi chiese di controllarne il livello di trasudamento. Ricordo che
questi tre candelotti avevano un scritta jugoslava per tutta la loro lunghezza.
Voglio ribadire che ZORZI era molto preoccupato che si mantenesse la
segretezza di questo acquisto e io lo tranquillizzai che nessuno di noi aveva
l'interesse a parlarne.
Per la precisione vidi i candelotti due volte nella cantina, la prima volta quando
non erano stati ancora messi, su mio consiglio, nei sacchi di juta e la seconda
volta quando vi erano già stati messi.
Maneggiai i tre candelotti appunto per verificarne il trasudamento la prima
volta e ROTELLI li estrasse da una scatola di cartone”””.
(DIGILIO, int.13.1.1996, ff.2-3).
Il racconto di Carlo DIGILIO in merito all’acquisto dei candelotti di gelignite è
certamente di grandissima importanza e costituisce una delle chiavi di
interpretazione degli avvenimenti collegati alla campagna terroristica del 1969.
Gelignite avvolta in carta rossa paraffinata è stata infatti utilizzata per gli
attentati dell’ottobre 1969 a Trieste e Gorizia e, come già si è accennato, è
molto probabile che tale tipo di esplosivo abbia fatto parte di quello utilizzato
per gli attentati del 12.12.1969 a Milano e a Roma.
Assai significativo è inoltre l’accenno fatto da Carlo DIGILIO ad un casolare nella
zona di Spinea, utilizzato dal gruppo di ZORZI per le attività commerciali nel campo
delle pelletterie, quale probabile luogo ove tale ingente quantità di esplosivo era stata
occultata poichè, anni dopo, nel 1974, Marcello SOFFIATI, come si vedrà nel
capitolo che segue, aveva fatto riferimento ad un casolare simile in relazione al
prelevamento dell’ordigno transitato da Mestre a Verona.
I riscontri diretti e indiretti al racconto di Carlo DIGILIO in relazione alla persona di
Roberto ROTELLI e alla disponibilità della gelignite da parte del gruppo sono inoltre
numerosi e possono così essere evidenziati:
- Roberto ROTELLI, deceduto per cause naturali nel 1977, era effettivamente un
simpatizzante di destra, titolare con Danilo PELLEGRINI di una società attrezzata
per lavori marittimi e subacquei ed aveva altresì avuto vari procedimenti per reati
comuni che ne testimoniano la disponibilità a traffici illeciti quali quelli descritti da
DIGILIO (cfr. nota della Digos di Venezia in data 10.1.1994, vol.7, fasc.2, ff.302-303).
- l’audizione da parte di personale del R.O.S. Carabinieri di Danilo PELLEGRINI, per
molto tempo socio di Roberto ROTELLI e di altre persone già vicine a quest’ultimo
(cfr. verbali e nota riassuntiva del R.O.S. Carabinieri in data 12.1.1996, , vol.7,
fasc.2, ff.23 e ss.), ha confermato che la società di recuperi subacquei disponeva di
gelignite per le sue attività anche se Roberto ROTELLI, almeno sino al 1973, non era
220
esperto nel diretto utilizzo degli esplosivi, circostanza questa che può spiegare le
ragioni per cui egli aveva chiesto a DIGILIO dei consigli per evitare il trasudamento
dei candelotti (cfr., in particolare, dep. Danilo PELLEGRINI, 11.1.1996, ff.34 e ss.).
Anche Pietro BATTISTON, del resto, ha accennato al fatto che l’esperto nelle
tecniche atte ad evitare il trasudamento dell’esplosivo era nel gruppo Carlo DIGILIO
e che il problema era sorto proprio in relazione a candelotti di gelignite (int.
BATTISTON al P.M. di Milano, 29.9.1995, ff.1-2, vol.13, fasc.3).
- Anche Martino SICILIANO ha ricordato che Roberto ROTELLI era un simpatizzante
di destra della zona del Lido, amico fra l’altro di DIGILIO, ROMANI, MOLIN e
Gastone NOVELLA e che per la sua attività di recuperi da navi affondate disponeva
di esplosivi (int. 18.3.1996, f.6).
Marco FOSCARI, inoltre, gli aveva riferito che ROTELLI era uno degli autori di un
attentato che, all’inizio degli anni ‘60, aveva avuto un valore simbolico per la destra e
cioè l’attentato al monumento alla “Partigiana”, collocato a S. Elena.
Roberto ROTELLI, per avvicinarsi al monumento e per commettere l’episodio, aveva
proprio sfruttato la sua abilità di subacqueo partendo dal Lido a nuoto e
riguadagnando sempre a nuoto la riva dopo avere collocato l’ordigno (int.
SICILIANO, 6.10.1995, f.6, e, in merito alle modalità dell’attentato, avvenuto il
26.7.1961, cfr. nota della Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Padova in data
2.12.1995 e atti allegati, vol.8, fasc.2).
- Il bunker, risalente alla seconda guerra mondiale, nella zona del canale
Alberoni/Petroli, indicato da Carlo DIGILIO come temporaneo luogo di occultamento
della gelignite, è stato individuato in quello ancora esistente appunto lungo il Canale
dei Petroli, nei pressi del Porto di Malamocco, un tempo in uso al Gruppo Subacquei
San Marco di cui faceva parte Roberto ROTELLI (cfr. verbale di sopralluogo del
R.O.S. Carabinieri in data 15.2.1996 e allegato album fotografico, vol.7, fasc.3, ff.8 e
ss.).
In proposito Martino SICILIANO ha ricordato che quasi tutti i componenti del Gruppo
Subacquei erano simpatizzanti di destra e che il bunker era frequentato da persone
dell’ambiente di Ordine Nuovo di Venezia, fra cui Paolo MOLIN che probabilmente
disponeva anche delle chiavi del medesimo (int. SICILIANO, 19.9.1996, ff.1-2).
- Gastone NOVELLA, simpatizzante di Ordine Nuovo nella zona del Lido di Venezia,
ha tratteggiato la figura di Roberto ROTELLI in sintonia con le altre acquisizioni
processuali, ricordando che si trattava di una persona che “per soldi si prestava a
tutto: insomma, uno che aveva lo spirito del mercenario” (dep. 9.12.1995, f.3).
NOVELLA, croupier presso il Casinò di Venezia, ha inoltre riferito che il nome di
Roberto ROTELLI veniva ricollegato, da voci d’ambiente, ad un attentato
dimostrativo su una scala esterna del Casinò avvenuto all’inizio degli anni ‘60 (dep.
citata, f.3).
- Inoltre Vincenzo VINCIGUERRA, sin dagli interrogatori resi a metà degli anni ‘80,
dopo che egli aveva deciso di fare chiarezza sui rapporti intercorsi fra i suoi excamerati di Ordine Nuovo e gli apparati dello Stato, aveva riferito che il dr. Carlo
Maria MAGGI, negli anni 1971/1972, aveva ceduto a lui e agli altri componenti
della cellula di Udine tre candelotti di esplosivo proveniente dalla Jugoslavia
facendo presente che si trattava di esplosivo di notevole potenza e quindi da
221
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utilizzare con particolare attenzione (int. VINCIGUERRA al G.I. di Brescia, 3.7.1985,
vol.6, fasc.5, ff.24-25).
Il gruppo di Udine, non sapendo come utilizzare tale esplosivo e preferendo utilizzare
per gli attentati in progettazione l’esplosivo da cava di cui disponeva, si era disfatto di
tali tre candelotti.
La provenienza jugoslava e la considerevole potenza del materiale ceduto dal dr.
MAGGI a VINCIGUERRA è in assonanza con il racconto di Carlo DIGILIO e non è
escluso che tali candelotti provenissero dalla dotazione costituita dai candelotti
acquistati da Roberto ROTELLI, parte dei quali, come ricordato da Carlo DIGILIO,
erano appunto di provenienza jugoslava.
In conclusione, il racconto di Carlo DIGILIO ha trovato validi elementi di
conferma sia in relazione alla figura e al ruolo di Roberto ROTELLI sia in
relazione alla disponibilità da parte del gruppo mestrino dei candelotti di
gelignite, circostanza questa di eccezionale importanza nel contesto degli
avvenimenti del 1969.
222
35
L’ORDIGNO PRELEVATO A MESTRE DA MARCELLO SOFFIATI
E PORTATO A VERONA NELLA PRIMAVERA DEL 1974
Proseguendo l’esame in senso cronologico delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO e pur
spostandoci di qualche anno in avanti nella scansione temporale degli avvenimenti, il
collaboratore, in data 4.5.1996, si è risolto a riferire un episodio importantissimo
che probabilmente riguarda i preparativi di un’altra strage e cioè quella di
Piazza della Loggia a Brescia, ma comunque si ricollega a quanto esposto nel
capitolo precedente in quanto l’ordigno prelevato a Mestre e diretto in Lombardia
proveniva ancora dall’arsenale di Delfo ZORZI.
Ecco il racconto di Carlo DIGILIO in merito a quanto avvenuto in Via Stella, a
Verona, nel maggio del 1974:
“””Spontaneamente intendo riferire una circostanza della massima importanza
e che riguarda la gravissima strage che avvenne a Brescia.
Qualche giorno dopo la cena con MAGGI, MINETTO e i due SOFFIATI di cui
ho parlato nel precedente interrogatorio, e precisamente non più di 4 o 5 giorni
dopo, Marcello SOFFIATI, su ordine del dr. MAGGI, fu mandato a Mestre a
ritirare una valigetta da Delfo ZORZI e con questa valigetta, in treno, tornò a
Verona nell'appartamento di Via Stella.
Io mi trovavo lì e vidi Marcello SOFFIATI letteralmente terrorizzato.
Mi fece vedere la valigetta, era tipo 24 ore, che conteneva una quindicina di
candelotti, non so se dinamite o gelignite, ma comunque diversi da quelli che
aveva procurato ROTELLI in passato e che erano entrati nella disponibilità di
ZORZI.
Insieme ai candelotti vi era anche il congegno praticamente già approntato.
Era costituito da una normale pila da 4,5 volt e da una sveglia grossa di tipo
molto comune con dei bilancieri che facevano rumore.
I fili erano già collegati tra la pila e la sveglia e quest'ultima, inoltre, aveva già
il perno sistemato sul quadrante e le lancette con le punte piegate in alto per
facilitare il contatto.
Notai che il quadrante della sveglia non era di vetro, ma di plastica.
Era una sveglia veramente dozzinale e di poco prezzo.
SOFFIATI era molto spaventato perchè anche se la sveglia era ovviamente
ferma, egli temeva che in qualche modo il congegno potesse entrare un funzione
poichè il perno era già ben inserito e il quadrante di plastica, se toccato si
schiacciava e poteva creare anche involontariamente il contatto.
Io gli dissi che era stato un pazzo a portare quell'ordigno in treno da Mestre e
di buttare via nell'Adige quella roba appena avesse potuto.
223
224
SOFFIATI però mi disse che su disposizione di MAGGI gli era stato in pratica
ordinato di andare a Mestre per ritirare il congegno da ZORZI per portarlo poi
a Milano, sempre in treno.
ZORZI aveva detto che per quell'operazione era disponibile a mettere a
disposizione l'esplosivo e il congegno, ma non a fare altro.
SOFFIATI era preoccupato e spaventato, ma alla fine mi disse che non poteva
fare altro che portare l'esplosivo dove gli era stato ordinato.
L'unica cosa che potei fare fu quella di sollevare un po' il perno dal quadrante
svitandolo con grande attenzione e riducendo così il pericolo di un contatto non
voluto.
Dopo pochissimi giorni vi fu la strage di Brescia.
Marcello apparve subito angosciato in modo terribile e da quel momento
entrò in contrasto definitivo con ZORZI e MAGGI ed io gli consigliai di
abbandonare definitivamente il gruppo.
Marcello SOFFIATI ebbe la netta sensazione che ZORZI intendesse eliminarlo
ed infatti quando si trovò in qualche occasione a Mestre ebbe cura di tenere
una pistola alla cintola.
Da quel momento, anche su mio consiglio, intensificò i viaggi all'estero, in
particolare in Spagna, per tenersi lontano dall'ambiente.
In sostanza vi fu una progressione costituita dalla cena di Rovigo, di cui ho già
parlato e che fu molto importante sul piano strategico, dalla cena a Colognola
con MAGGI e MINETTO e appunto dall'arrivo di SOFFIATI a Verona con la
valigetta.
Il tutto nel giro di pochi giorni.
Secondo me, in particolare a quella cena di Rovigo, fu decisa una vera e
propria strategia di attentati che si inserivano nei progetti di colpo di Stato che
vedevano uniti civili e militari e si inserivano nella strategia anticomunista del
Convegno Pollio del 1965.
Marcello SOFFIATI parlò, come destinatari dell'ordigno, di gente delle
S.A.M. a Milano, senza specificare nomi.
Faccio presente che quando vi fu la cena con MINETTO e MAGGI in cui
quest'ultimo preannunziò l'attentato non disse in quale città sarebbe avvenuto,
ma indicò genericamente il Nord-Italia.
Dopo quella cena io ero un po' spaesato e rimasi ospite da Marcello SOFFIATI
in Via Stella e quindi ero lì quando lui partì per Mestre e ritornò a Verona
sapendo di trovarmi”””.
In merito al luogo ove l’ordigno era stato prelevato da Marcello SOFFIATI, in un
successivo interrogatorio (15.6.1996, f.3) Carlo DIGILIO ha precisato:
“””Mi sono ricordato un particolare che mi sembra importante.
Quando Marcello SOFFIATI ritornò a Verona con la valigetta che Delfo
ZORZI gli aveva dato, mi disse che il ritiro della stessa non era stato poi così
224
semplice poichè aveva incontrato Delfo ZORZI a Mestre, ma aveva poi dovuto
seguirlo in direzione di Spinea e si erano fermati a MIRANO dove ZORZI
disponeva di una vecchia casa (Marcello la definì una casaccia) in cui teneva
sia del materiale di pelletteria sia gli esplosivi.
Dal racconto di Marcello trassi l'impressione che fosse qualcosa di simile al
casolare che avevo visto anni prima a Paese”””.
Il fabbricato indicato, sia pure indirettamente, da DIGILIO è stato individuato, anche
grazie alla deposizione di Pietro LEVORATO che vi aveva lavorato all’inizio degli
anni ‘80 per conto di Rudi ZORZI (dep. LEVORATO a personale del R.O.S.,
18.7.1996), in quello ubicato in Via Miranese 104, al confine tra il territorio del
Comune di Mirano e il territorio del Comune di Spinea (cfr. nota R.O.S. e allegati
rilievi fotografici, 24.7.1996, vol.6, fasc.4, ff.46 e ss.).
Anche Martino SICILIANO si era recato in quel luogo alla metà degli anni ‘70
ricordando che all’epoca si presentava come un modesto casolare di campagna in
mattoni rossi (mentre attualmente, dopo la ristrutturazione, ha l’aspetto di un
capannone commerciale) e che già da parecchi anni i fratelli ZORZI e Roberto
LAGNA lo utilizzavano per gli aspetti illeciti dell’attività commerciale che svolgevano
nel campo della pelletteria, apponendo, all’interno dello stesso, i marchi di fabbrica
falsi di Gucci o Valentino sulla merce destinata all’esportazione nei Paesi orientali
(int. SICILIANO, 16.6.1996, ff.1-1; 2.8.1996, f.3).
Era impiegato in tale attività non solo Pietro LEVORATO (all’epoca cognato di
SICILIANO avendone sposato la sorella Franca), ma anche Stefano TRINGALI, altro
uomo di fiducia di Delfo ZORZI, e Martino SICILIANO ha ricordato che, oltre al
casolare sito fra Mirano e Spinea, il gruppo disponeva, nei dintorni, di uno o due altri
casolari simili, utilizzati per le medesime attività illecite (int. 16.6.1996, f.2).
Quanto riferito da Marcello SOFFIATI a Carlo DIGILIO, e cioè il prelevamento
dell’ordigno nei pressi di Mestre in un casolare nella disponibilità del gruppo di Delfo
ZORZI, è quindi del tutto verosimile e non è da escludersi che tale fabbricato,
sicuro e lontano da occhi indiscreti, sia stato utilizzato sin dalla fine degli anni
‘60 come deposito di armi ed esplosivi in parallelo al casolare di Paese e poi,
quando quest’ultimo era stato abbandonato (probabilmente non oltre l’inizio
del 1970), in sostituzione dello stesso.
Infatti il casolare di Paese, facilmente raggiungibile da Treviso per VENTURA e da
Padova per i componenti della cellula di Franco FREDA, era invece piuttosto distante
da Venezia e quindi è verosimile che il gruppo mestrino/veneziano avesse bisogno di
un nascondiglio di pronto uso e più prossimo alla zona ove operava e questo poteva
appunto essere il casolare di Mirano.
E’ probabile che tale casolare, in qualche fase dell’attività del gruppo, sia stato anche
il deposito della grande quantità di candelotti di gelignite, acquistati da Roberto
ROTELLI , che Carlo DIGILIO non aveva mai notato nel casolare di Paese e il cui
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226
trasporto in un luogo lontano, anche per ragioni di sicurezza connesse ai rischi di
trasudamento di tale tipo di esplosivo, poteva non essere ritenuto opportuno.
Tornando al racconto di Carlo DIGILIO in merito all’arrivo di Marcello SOFFIATI in
Via Stella, a Verona, con l’ordigno prelevato a Mestre, si deve ricordare che Pietro
BATTISTON e Roberto RAHO hanno fornito di tale episodio un racconto involontario
ed anticipato che difficilmente può essere messo in discussione.
Infatti nella conversazione registrata nel settembre 1995 grazie
all’intercettazione ambientale disposta dal P.M. di Venezia e illustrata nel
capitolo 5, BATTISTON e RAHO si erano rallegrati che Carlo DIGILIO, di cui era
ormai nota all’ambiente la scelta di collaborazione, non avesse comunque
ancora parlato del fatto che Marcello SOFFIATI era partito il giorno prima della
strage di Brescia alla volta di tale città con una valigia piena di esplosivo, e
cioè proprio dell’episodio gravissimo che DIGILIO avrebbe riferito in termini
analoghi qualche mese dopo, sviluppando le proprie dichiarazioni.
Si ricordi ancora che un altro significativo riscontro è costituito dal rinvenimento
nell’abitazione di Silvio FERRARI (saltato in aria a Brescia pochissimi giorni prima
della strage mentre stava trasportando un ordigno a bordo della propria motoretta) di
un candelotto di gelignite proprio di marca jugoslava, corrispondente quindi al tipo di
esplosivo di cui le strutture veneta e lombarda di Ordine Nuovo si erano procurate
una grande quantità già a partire dalla fine degli anni ‘60 (cfr. verbale di sequestro in
data 10.6.1974, vol.17, fasc.5, f.4 e perizia disposta dal G.I. di Brescia, ff.23 e ss.).
Non è possibile, allo stato, sapere se i candelotti e il congegno di innesco transitati a
Verona e diretti con Marcello SOFFIATI alla volta di Milano e Brescia nel maggio
1974
siano stati poi effettivamente utilizzati, in tutto o in parte, per il
confezionamento dell’ordigno deposto in Piazza della Loggia, a Brescia, in un cestino
di rifiuti, la mattina del 28.5.1974.
E’ comunque certo che tale episodio, descritto da Carlo DIGILIO e corroborato da
importanti riscontri, costituisce un elementi significativo della stabile operatività della
struttura di Ordine Nuovo dalla fine degli anni ‘60 quantomeno sino al 1974, del
raccordo strategico fra il gruppo veneto e i militanti della Lombardia e della costante
disponibilità e preparazione di ordigni esplosivi di altissima capacità offensiva.
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36
L’ATTENTATO ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DI MILANO
DEL 24 LUGLIO 1969
GLI ATTENTATI AI TRENI DELL’8/9 AGOSTO 1969
L’ATTENTATO DI GRUMOLO DELLE ABBADESSE DEL 28 MARZO 1971
Carlo DIGILIO è stato colto da un moto di stizza allorchè ha avuto notizia delle
dichiarazioni del Procuratore Aggiunto di Milano, dr. Gerardo D’Ambrosio, in
occasione della commemorazione della strage di Piazza Fontana tenuta a Palazzo
Marino il 12.12.1996, dichiarazioni da cui traspariva un disinteresse di tale Ufficio per
gli elementi emersi in merito al “controllo senza repressione” dell’attività di Ordine
Nuovo da parte delle strutture informative americane, al coinvolgimento di queste
ultime negli avvenimenti del 1969 e alla conseguente coniugazione, sul piano
politico/strategico, della c.d. pista interna, e cioè l’attività di collusione e depistaggio
dei nostri servizi di sicurezza, con la c.d. pista internazionale, in realtà due facce
della medesima medaglia.
Poichè anche gli interventi fuori luogo sono talvolta utili, Carlo DIGILIO, il 14.12.1996,
al momento dell’apertura dell’interrogatorio, ha inteso spontaneamente rivelare
quanto a sua conoscenza (e mai riferito prima) in merito all’attentato all’Ufficio
Istruzione di Milano, episodio che aveva visto l’interessamento e il coinvolgimento
proprio dell’ufficiale americano suo superiore, intendendo così anche confermare il
ruolo svolto da tale struttura negli avvenimenti più gravi.
Carlo DIGILIO ha inteso, con tale racconto, rivolgersi in un certo senso anche al dr.
D’Ambrosio, oggetto del suo moto di stizza, rivelando un episodio che, in base al suo
ricordo, coinvolgeva direttamente il magistrato, ma sotto questo profilo è incorso in
una sorta di sovrapposizione in quanto è vero che all’epoca il dr. D’Ambrosio
svolgeva l’attività di giudice istruttore, ma non conduceva ancora le indagini sul
terrorismo di destra e l’attentato, quindi, aveva un valore dimostrativo ed era diretto
contro l’Ufficio Giudiziario in quanto tale e non contro uno specifico magistrato.
Ecco, comunque, il racconto di Carlo DIGILIO, assai dettagliato e preciso ad
eccezione del parziale errore in merito all’obiettivo, dovuto all’emotività del momento:
“””Negli ultimissimi giorni, tramite la televisione e la stampa che mi è stata
letta da mio cognato, in particolare Il Corriere della Sera, Il Giornale e La
Repubblica, ho saputo che, in occasione delle commemorazioni per gli attentati
del 12 dicembre 1969 e relative manifestazioni, la Procura di Milano ha
espresso scarsa considerazione sulla fondatezza dell'interessamento della C.I.A.
in relazione ai gravi avvenimenti di cui ho parlato nel corso dei miei
interrogatori e ciò nonostante io abbia evidenziato moltissimi fatti e sia stato
l'unico, anche a rischio della mia vita, a parlare dell'attività di una simile
struttura.
227
228
Questa cosa mi ha molto stizzito perchè ho detto la verità e ritengo di avere
detto cose molto importanti, che sono state verificate e servono a far luce sulla
strategia di quegli anni".
L'Ufficio dà atto che effettivamente, in particolare il giorno 13 dicembre sono
apparse sulla stampa e anche in televisione delle sintesi dell'intervento svolto
dal Procuratore Aggiunto di Milano, dr. D'Ambrosio, in occasione della
commemorazione ufficiale relativa agli attentati del 12.12.1969 avvenuta in una
sala di Palazzo Marino a Milano e che da tale intervento, come concordemente
riportato da tali organi di informazione, emerge lo scarso interesse attribuito
da tale Ufficio al possibile coinvolgimento di strutture americane in particolare
nei fatti del dicembre 1969.
DIGILIO prosegue: "Poichè le cose stanno così e poichè mi sembra che non
sia stato dato il giusto peso a quanto ho rivelato su ciò che gli americani
sapevano, intendo immediatamente rivelare un altro episodio molto grave che
riguarda proprio la persona del dr. Gerardo D'Ambrosio.
PROGETTO DI ATTENTATO CONTRO
IL DR. GERARDO D'AMBROSIO
In un periodo di tempo che, quantomeno in questo momento, non sono in grado
di collocare con esattezza, ma che comunque cercherò di fissare in base ad altri
ricordi dell'epoca, venne a Venezia il capitano David CARRET, allora già mio
referente nella struttura C.I.A.
Mi contattò tramite il solito sistema di cui ho già ampiamente parlato e cioè
collocando un bigliettino nella buca delle lettere di casa mia a Sant'Elena.
Ci incontrammo, come facevamo di solito, all'entrata del Palazzo Ducale in San
Marco e mi disse che intendeva parlarmi di una cosa molto delicata.
Mi disse che la sua struttura aveva saputo a Roma, dall'ambiente di Ordine
Nuovo, che tale organizzazione stava progettando un grave attentato con
esplosivo contro la persona del Giudice milanese, dr. D'Ambrosio.
Mi spiegò che tale attentato era stato ispirato da servizi segreti italiani e in
particolare la medesima struttura che aveva ispirato e spinto Delfo ZORZI e il
suo gruppo alla catena di attentati da loro commessi.
Non mi specificò quale, fra le varie esistenti all'epoca, fosse tale struttura
italiana e del reto io non ero sufficientemente titolato a chiedergli spiegazioni
del genere e non sarebbe stato consono ai nostri rispettivi ruoli.
Mi disse che molto probabilmente, visto che io avevo già svolto il ruolo di
"consulente" recandomi al casolare di Paese ed ero conosciuto come tecnico,
chi stava preparando tale attentato mi avrebbe in qualche modo contattato o
228
comunque interpellato per farmi controllare il corretto funzionamento
dell'ordigno.
Faccio presente che certamente il capitano CARRET aveva saputo dei miei due
accessi al casolare di Paese tramite le relazioni del prof. Lino FRANCO.
CARRET mi spiegò che un attentato di tal genere era contrario alla loro
politica e alle direttive dei servizi americani e del generale WESTMORELAND
che pure raccomandavano una durissima opposizione ai comunisti, ma senza
però provocare vittime in modo indiscriminato e che quindi un'azione del
genere non era ammessa e doveva essere contrastata anche per le ripercussioni
che aveva avuto.
Mi chiese quindi di attivarmi, qualora fossi stato coinvolto, per vanificare e
sabotare tale progetto.
Faccio presente ancora, per comprendere il contesto degli avvenimenti, che io
avevo grande stima del capitano CARRET che era un militare di grande
esperienza ed equilibrato.
Effettivamente circa un mese e mezzo dopo, il dr. MAGGI mi telefonò
avvisandomi che avrei avuto una visita.
Faccio presente che per comunicazioni di tal genere il dr. MAGGI telefonava
sempre, per motivi di sicurezza, non da casa ma dall'Ospedale o da un telefono
pubblico.
Mi specificò che era stato lui a dare il mio indirizzo a questa persona che
comunque era una mia vecchia conoscenza.
Il giorno dopo venne a casa mia Giovanni VENTURA; ricordo che si presentò
vestito in modo un po' particolare, con occhiali da sole e un foulard e sembrava
uno dei tanti turisti che girano per Venezia.
Era solo e aveva con una borsa di pelle nera.
Mi disse che mi doveva dare un "ingrato compito" e cioè verificare se l'ordigno
che si trovava nella borsa era stato confezionato secondo le regole di sicurezza
per chi lo avrebbe trasportato.
Mi fece vedere quanto aveva con sè e tirò fuori dalla borsa una delle solite
scatole militari portamunizioni, del tutto identica a quelle che avevo visto al
casolare di Paese.
All'interno c'era un ordigno che così descrivo: c'era un tubo Innocenti sui 20
centimetri di lunghezza saldato ad un'estremità, mentre dall'altra aveva una
filettatura a cui era avvitato un tappo. All'interno del tubo, che svitai, c'era
della gelignite sfusa e un sacchettino di plastica con il solito orologio Ruhla
già pronto con il buco e il perno, una pila da 9 volt, almeno così la ricordo, e
dall'orologio partiva il filamento al nichel-cromo e il fiammifero antivento che
serviva da accensione. Oltre a questo tubo, parte nella scatola e parte nella
borsa, c'erano altri 4 o 5 candelotti di gelignite in carta rossa.
Notai che l'innesco era fatto bene e naturalmente la batteria non era collegata e
l'orologio non era caricato.
229
230
Ricordo che il filamento era avvolto sul fiammifero e fermato ad esso con dello
scotch.
VENTURA mi disse che aveva avuto quel congegno a Mestre dal gruppo di
ZORZI e del resto io avevo riconosciuto la fattura dell'innesco che avevo già
visto a Paese durante il secondo accesso.
VENTURA mi disse che era stato fortunato a riuscire a tornare libero, che si
sentiva comunque perseguitato e che l'ordigno doveva essere usato contro il
Giudice D'Ambrosio.
Io gli feci subito notare che un ordigno del genere era di grande potenza e
avrebbe potuto provocare conseguenze più gravi di quelle di Piazza Fontana.
Gli spiegai comunque che l'ordigno era in condizioni di sicurezza per il
trasporto, ma che comunque, per evitare conseguenze gravissime, si poteva al
più utilizzare a fine intimidatorio solo il tubo che conteneva non più di mezzo
candelotto di gelignite.
Inoltre, per creare ulteriori difficoltà all'esecuzione di un attentato
potenzialmente tanto grave, staccai con una pinzetta la resistenza dal resto
dell'orologio senza farmi notare da VENTURA che, mentre svitavo il tappo del
tubo si era prudentemente ritirato in corridoio.
Richiusi il tubo prima che VENTURA si avvicinasse e così lui non se ne
accorse.
VENTURA si trattenne a casa mia non più di un quarto d'ora e diede
l'impressione di avere accolto il mio consiglio e infatti disse che si sarebbe
disfato dell'esplosivo in più.
Lessi qualche giorno dopo sui giornali che era avvenuto a Milano un attentato
dimostrativo ed esattamente il rinvenimento di un ordigno inesploso, mi sembra
proprio nei pressi dell'Ufficio del dr. D'Ambrosio, e ricollegai quindi
immediatamente tale episodio di intimidazione a quanto era avvenuto durante
la visita di Giovanni VENTURA.
Passò ancora qualche giorno e rividi a Venezia CARRET con il medesimo
sistema e nel medesimo posto.
Gli relazionai quello che avevo fatto ed egli si congratulò con me dicendo che
avevo fatto un ottimo lavoro nel senso che avevo evitato una cosa molto grave.
Mi disse che la loro struttura era stufa di tollerare o appoggiare azioni di
servizi segreti italiani che avevano superato i limiti e scherzavano con il fuoco.
Mi confermò, come già aveva fatto nel primo incontro, che erano concepite
azioni dimostrative in senso anticomunista, ma non massacri indiscriminati.
Questo mi confermò quella che era stata sempre la mia sensazione e cioè che
CARRET avesse un'etica militare e non fosse disposto ad oltrepassarla. Per
quanto concerne il contesto in cui maturò il progetto, posso dire quanto segue.
Il capitano CARRET mi aveva detto che avevano recepito l'informazione sul
progetto nell'ambiente di Ordine Nuovo di Roma.
Io avevo già saputo da SOFFIATI, in tempi precedenti, che Pino RAUTI era in
contatto con la struttura C.I.A. con la veste di informatore e di fiduciario e ciò
230
mi fu confermato dallo stesso capitano CARRET nel corso del secondo
incontro, quando parlammo del modo in cui essi avevano acquisito la notizia
del progetto”””.
(DIGILIO, int. 14.12.1996, ff.1-4).
L’attentato descritto da Carlo DIGILIO è certamente quello del 24.7.1969
allorchè, in un corridoio dell’Ufficio Istruzione, sopra una mensola di marmo
(l’attentato era infatti diretto contro l’Ufficio come tale e non contro un singolo
magistrato), fu rinvenuto un ordigno inesploso, probabilmente ormai
abbandonato da molte ore, formato da un tubo di metallo filettato con un
coperchio avvitato e all’interno della gelignite sfusa, di colore rosso, e con il
sistema di innesco formato da un orologio RUHLA, un detonatore e polvere nera.
L’ordigno era a sua volta celato all’interno di una scatola di cartone della lozione per
capelli “Endoten”, apparentemente abbandonata per caso (cfr. nota della Digos di
Milano in data 18.12.1996 e atti allegati, vol.8, fasc.7, e copia della perizia disposta
all’epoca dal Giudice Istruttore, vol.15, fasc.4, ff.19 e ss.).
L’ordigno, di fattura molto particolare, era quindi esattamente come è stato descritto
da Carlo DIGILIO, ad eccezione della presenza della polvere nera e del detonatore al
posto del fiammifero antivento, particolare che comunque il collaboratore ha
precisato nel successivo interrogatorio in data 30.12.1996, nel corso egli ha anche
spiegato le ragioni per cui aveva indicato erroneamente il Giudice Istruttore, dr.
D’Ambrosio, come diretto obiettivo dell’attentato:
“””Ricordo che l'esplosivo era di colore rosso scuro ed era compresso nel
tubo.
Il congegno di innesco era costituito dal solito orologio, e, ripensandoci meglio,
era completato non dal fiammifero antivento, ma da polvere nera e da un
detonatore.
Il filamento di lampadina, che funzionava da resistenza una volta chiuso il
circuito, faceva accendere la polvere che faceva a sua volta accendere il
detonatore provocando poi l'esplosione dell'ordigno.
Per quanto concerne il periodo in cui l'episodio è avvenuto, esso si colloca
d'estate, qualche mese dopo il mio secondo accesso al casolare di Paese.
L'Ufficio a questo punto mostra a DIGILIO le fotografie allegate al rapporto
della Digos di Milano in data 18.12.1996 concernente il fallito attentato
avvenuto il 24.7.1969 in danno dell'Ufficio Istruzione di Milano essendo
l'ordigno stato collocato in un corridoio di tale Ufficio.
DIGILIO, dopo avere visionato le fotografie, dichiara:
Le fotografie riproducono in ogni suo aspetto esattamente l'ordigno che aveva
VENTURA e cioè tubo metallico filettato, orologio RUHLA con il solito perno,
sacchetto di cellophane e fili elettrici con lo scotch adesivo.
L'attentato è quindi certamente quello di cui ho parlato.
231
232
L'Ufficio fa presente a DIGILIO che all'epoca il dr. D'Ambrosio non era ancora
titolare di indagini concernenti la cellula padovana.
Evidentemente nel corso del precedente interrogatorio, anche in quanto ero
molto turbato per le dichiarazioni che mi erano state lette, avevo sovrapposto
due elementi e cioè l'obiettivo dell'attentato, che era appunto l'Ufficio
Istruzione di Milano, e l'astio che il gruppo aveva maturato, negli anni
successivi, contro il dr. D'Ambrosio, titolare delle indagini sulla strage di
Piazza Fontana e sul gruppo veneto.
Il dr. D'Ambrosio era infatti divenuto solo in seguito, per noi e per tutta la
destra, il nome noto all'interno dell'Ufficio Istruzione di Milano, e il fallito
attentato, pur avendo per obiettivo il medesimo Ufficio, non era diretto contro
la sua persona che non ci era ancora nota.
Comunque mi sembra di ricordare che VENTURA, quando venne a casa mia,
fece cenno a qualche motivo di rancore contro la giustizia per qualche guaio
giudiziario che aveva avuto.
Aggiungo che VENTURA ribadì anche che ordigni di quel tipo si potevano
confezionare ed eseguire con una spesa di 100.000 lire. Egli faceva spesso di
questi discorsi perchè era molto attaccato al denaro”””.
(DIGILIO, int. 30.12.1996, ff.1-2).
Anche Martino SICILIANO, durane le riunioni tenute presso la libreria “Ezzelino” di
Padova, aveva avuto notizia dell’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano:
“””....ricordo che questo episodio avvenne nel 1969 in un periodo intermedio
fra l'attentato al Rettore dell'Università di Padova, prof. Opocher, e il periodo
degli attentati ai treni.
Se ne parlò alle riunioni tenute alla libreria Ezzelino, a Padova, con la
presenza sia dei padovani sia dei mestrini, riunioni di cui ho già ampiamente
parlato e che si collocano appunto poco prima degli attentati ai treni.
L'attentato al Palazzo di Giustizia di Milano era già avvenuto quando vi
furono alcune di queste riunioni e i padovani fecero capire che era stato
FREDA a deporre l'ordigno in quanto per via della sua professione di
procuratore legale aveva più facile accesso al Palazzo di Giustizia.
Ricordo però che da tali discorsi emergeva che fosse stato VENTURA a
spingere perchè l'attentato avvenisse in quel preciso luogo forse anche a causa
di una questione personale nei confronti del Tribunale di Milano.
Ricordo proprio che l'obiettivo era stato ricordato nei discorsi alle riunioni
come l'Ufficio Istruzione.
Preciso che le riunioni che si tennero nell'ufficetto della libreria Ezzelino
furono in totale 4 o 5 e si tennero nel giugno/luglio del 1969 alla presenza dei
soli militanti di sicuro affidamento.
232
Non vi furono riunioni a Padova dopo gli attentati ai treni anche perchè vi era
la sensazione che la Polizia stesse stringendo i controlli e avesse focalizzato il
gruppo FREDA soprattutto per l'attentato al prof. Opocher e l'incendio alla
Sinagoga di Padova.
Quindi da quel momento gli incontri si spostarono sulla nostra zona, cioè a
Mestre.
L'Ufficio mostra a SICILIANO le fotografie allegate alla nota della Digos di
Milano del 18.12.1996 relative all'attentato all'Ufficio Istruzione di Milano del
24.7.1969.
Non avevo mai visto l'ordigno in questione, che peraltro ha una caratteristica
particolare rispetto agli altri per la presenza di un cilindro filettato.
Rilevo invece che il congegno era contenuto in una scatola di lozione per
capelli; tale particolare è perfettamente in sintonia con le "istruzioni" che
venivano fornite proprio durante le riunioni di Padova.
Veniva infatti spiegato, in particolare da parte di FREDA, che nel caso in cui
gli ordigni dovessero essere deposti in luoghi chiusi e frequentati, come
potrebbe essere l'Università o altro ufficio pubblico, dovevano essere utilizzati
contenitori esterni che dessero l'idea di un comune oggetto dimenticato.
Mi sembra del resto che in uno degli attentati di quel periodo, forse proprio
quello in danno dello studio del Rettore dell'Università di Padova, sia stato
utilizzato un libro "scavato" all'interno in modo da lasciare posto all'esplosivo.
Noto che anche in questo caso è stato utilizzato un orologio di marca RUHLA
che è stata per molti anni una sorta di "firma" di Ordine Nuovo per gli
attentati sia perchè erano orologi che costavano poco sia soprattutto per il
richiamo di valenza simbolica ad un nome tedesco”””.
(SICILIANO, int. 20.12.1996, f.2).
L’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano era stato uno degli argomenti toccati da
Giovanni VENTURA durante la lunga semi-confessione al Giudice D’Ambrosio il
17.3.1973.
Giovanni VENTURA aveva dichiarato di aver accompagnato Franco FREDA a
Milano la sera precedente il giorno dell’attentato e di aver incontrato di notte, alla
Stazione Centrale, un misterioso romano che aveva consegnato loro l’ordigno che
tuttavia VENTURA non aveva personalmente deposto al Tribunale in quanto era
partito immediatamente per Milano.
Sulla base di tale monca e in parte fantasiosa confessione, tipica
dell’atteggiamento di VENTURA, sia FREDA sia lo stesso VENTURA sono stati
condannati per l’episodio del 24.7.1969, al termine dei dibattimenti celebrati a
Catanzaro e quindi esiste già una statuizione definitiva in ordine alla
responsabilità della cellula padovana per tale attentato.
233
234
Il racconto di Carlo DIGILIO, tuttavia, consente ora di collocarlo con maggiore
precisione all’interno della campagna terroristica del 1969, in quanto per la
prima volta è emerso come effettivamente fu preparato l’ordigno, utilizzando
ancora una volta i candelotti di gelignite, e soprattutto è emersa, anche in
relazione a tale episodio, l’unità operativa fra la cellula padovana e la cellula
mestrino/veneziana.
Di grande importanza per la ricostruzione complessiva è poi il coinvolgimento
della struttura informativa americana, che era al corrente dei progetti del
gruppo ed era favorevole ad un attentato meramente dimostrativo, come pure,
ovviamente, l’indicazione di DIGILIO in merito ai rapporti fra tale struttura e il Centro
Studi Ordine Nuovo di Pino RAUTI a Roma, rapporti che avevano evidentemente
consentito agli americani di acquisire le notizie sul nuovo attentato che era in
progettazione.
Sembra in sostanza che si fossero costituiti due rapporti fiduciari e di disponibilitò a
rendere noti i propri progetti nel contesto di una linea strategica che poteva essere
comune: a Roma fra il livello centrale della struttura informativa americana e
direttamente i dirigenti del Centro Studi Ordine Nuovo; in Veneto, a livello
periferico, fra Sergio MINETTO, fiduciario della struttura americana, e il dr.
MAGGI, responsabile di Ordine Nuovo per il Triveneto.
Gli attentati sui dieci convogli ferroviari dell’8/9 agosto 1969, finalizzato soprattutto a
dimostrare che la struttura terroristica disponeva di molte cellule ed era in grado di
colpire contemporaneamente in ogni parte d’Italia (ottenendo così il risultato di
spaventare al massimo la popolazione proprio mentre era in pieno svolgimento
l’esodo estivo), hanno seguito di pochi giorni l’attentato più “mirato” e istituzionale
contro l’Ufficio Istruzione di Milano.
Carlo DIGILIO ha descritto praticamente in diretta l’ultima fase preparatoria
della giornata dell’8/9 agosto quando, il 16.5.1997, ha raccontato il suo terzo
accesso al casolare di Paese e i passi salienti di tale interrogatorio sono
ampiamente riportati nel capitolo 12.
Quel giorno, all’interno del casolare, VENTURA, ZORZI, POZZAN e DIGILIO
avevano sistemato il tritolo e il congegno di innesco all’interno delle scatolette di
legno preparate da POZZAN e le scatolette, impacchettate con carta da regalo
affinchè non destassero sospetti quando fossero state deposte negli scompartimenti,
erano state divise fra ZORZI e VENTURA i quali dovevano affidarle a chi
materialmente avrebbe dovuto operare (int. 16.5.1997, ff.4-6).
Uno di questi era Marcello SOFFIATI il quale, alla Stazione di Mestre, aveva
deposto uno dei pacchetti su un treno della linea Venezia-Milano, come DIGILIO
aveva appreso pochi giorni dopo dallo stesso SOFFIATI (int. 13.7.1996, f.3), aiutato
da un giovane veneziano, uomo di fiducia del dr. MAGGI (int. 16.5.1997, f.3),
identificato, con un buon margine di probabilità, grazie agli atti trasmessi dal G.I. di
Venezia, dr. Carlo Mastelloni, in Mario FASSIRON (int. 26.6.1997, f.3), purtroppo
recentemente deceduto prima di poter essere interrogato.
234
Del restoCarlo DIGILIO, giò prima di tale accesso al casolare di Paese, aveva visto
nell’Ufficio di Giovanni VENTURA, a Treviso, alcune scatole di legno molti simili a
quelle che sarebbero poi state usate per contenere gli ordigni esplosivi da deporre
negli scompartimenti dei treni (int. 13.7.1996, f.1) ed ha riconosciuto senza alcun
dubbio, nelle fotografie raffiguranti le scatolette di legno che avevano contenuti i due
ordigni rimasti inesplosi in occasione degli attentati dell’8/9 agosto 1969, i contenitori
che erano stati preparai da Marco POZZAN nel casolare di Paese (int. 4.10.1996, f.3,
con riferimento ai fascicoli dei rilievi tecnici trasmessi dal R.O.S. Carabinieri e dalla
D.C.P.P. del Ministero dell’Interno).
Il dr. Carlo Maria MAGGI, inoltre, in una riunione di “consuntivo” tenuta a Colognola
ai Colli nel settembre 1969, poche settimane dopo gli attentati, con la presenza di
DIGILIO e SOFFIATI, aveva fatto presente che per gli attenatti dell’8/9 agosto erano
stati utilizzati tutti i militanti disponibili delle cellule di Mestre, Trieste, Rovigo, Vicenza
e Verona, così da realizzare un’altra tappa del programma e anche dare “una
dimostrazione agli americani della capacità di agire in modo diffuso e coordinato” (int.
22.6.1996, f.3).
Spostandosi per un momento in avanti sul piano temporale, ma sempre in tema di
attentati a linee ferroviarie commessi dall struttura veneta di Ordine Nuovo, merita di
essere ricordato quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito ad un grave episodio
successivo, quello avvenuto in provincia di Vicenza, sulla linea ferroviaria
all’altezza di Grumolo delle Abbadesse:
“””Ho acquisito nel gruppo alcune notizie in merito ad un attentato che
avvenne in danno della linea ferroviaria nei pressi di Vicenza.
L'episodio si colloca in un periodo successivo agli attentati del 12.12.1969, ma
precedente al prelevamento dell'avv. FORZIATI e alla sua presenza in Via
Stella.
Me ne parlò Marcello SOFFIATI con toni critici, dicendomi che facendo
attentati di questo genere si rischiava di ritonare a commettere episodi molto
gravi che avrebbero danneggiato e non aiutato la nostra area politica.
Mi disse che in concomitanza con una visita del Maresciallo TITO in Italia, i
triestini che avevano ovviamente forti motivi di odio nei confronti di TITO,
aiutati dai mestrini, avevano fatto esplodere una carica su un binario nei
pressi di una stazione di cui ricordo il nome: Grumolo delle Abbadesse.
Non conosco specificamente tale località, ma mi fu detto che era nella zona di
Vicenza.
Il racconto di SOFFIATI avvenne poco tempo dopo il fatto, mentre ci
trovavamo a Colognola in occasione di una festa in onore di Bruno SOFFIATI
Marcello mi fece cenno, quali responsabili dell'azione, NEAMI per il gruppo
triestino e ZORZI per il gruppo mestrino”””.
(DIGILIO, int. 29.10.1996, f.4).
Il grave attentato era effettivamente avvenuto il 28.3.1971, in concomitanza con
una visita del Maresciallo TITO in Italia, e il treno passeggeri diretto a Venezia
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che era transitato poco dopo aveva rischiato di deragliare, con conseguenze
facilmente immaginabili, salvandosi solo grazie alla sua velocità e al fatto che le
cariche di esplosivo avevano fatto saltare un pezzo notevole di rotaia (circa 72
centimetri), ma non sufficiente a impedire che il convoglio oltrepassasse di slancio il
pezzo mancante.
L’episodio era già emerso nell’istruttoria concernente l’attentato di Peteano, in quanto
Vincenzo VINCIGUERRA aveva riferito al G.I. di Venezia di essersi incontrato, uno
o due giorni dopo l’attentato, a Mestre nella sede di Ordine Nuovo, con MAGGI,
ZORZI, PORTOLAN e forse Francesco NEAMI e durante la riunione ZORZI e
PORTOLAN gli avevano confidato di aver appena compiuto l’attentato sulla
linea ferroviaria quale risposta al viaggio di TITO in Italia.
La mancanza, all’epoca, di altri elementi di prova e alcune imprecisioni in cui era
incorso VINCIGUERRA (egli, probabilmente per errore di memoria, aveva
inizialmente riferito che l’attentato era avvenuto in provincia di Vercelli invece che in
provincia di Vicenza) avevano imposto al Giudice il proscioglimento istruttorio dei
quattro indiziati (cfr. sentenza-ordinanza del G.I. di Venezia nel procedimento 1/89
G.I. depositata in data 29.1.1993, vol.7, fasc.2, ff.134 e ss.).
A distanza di tanti anni, le dichiarazioni di VINCIGUERRA, all’epoca isolate,
hanno trovato conferma in quelle di Carlo DIGILIO ed è significativo che la
comune operatività del gruppo di Mestre/Venezia e del gruppo di Trieste, anche
negli anni successivi al 1969, sia confermata anche da questo episodio.
Poichè già nell’istruttoria condotta dall’A.G. di Venezia agli indiziati era stato
contestato il reato di concorso in strage, in ragione dell’elevato pericolo di
deragliamento che aveva corso il convoglio, l’interrogatorio di Carlo DIGILIO del
29.10.1996 è stato trasmesso da questo Ufficio alla Procura della Repubblica di
Milano per l’eventuale diretto esercizio dell’azione penale in connessione con gli altri
fatti di strage ascritti al gruppo o, in alternativa, per la trasmissione degli atti alla
Procura della Repubblica di Vicenza competente per territorio.
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37
IL PREANNUNZIO DA PARTE DEL DR. MAGGI
DEGLI ATTENTATI DEL 12.12.1969
E GLI AVVENIMENTI IMMEDIATAMENTE PRECEDENTI TALE DATA
Carlo DIGILIO, con gli interrogatori resi a questo Ufficio soprattutto a partire
dall’autunno 1996, ha cominciato ad entrare nel vivo degli avvenimenti che hanno
preceduto la giornata del 12.12.1969 anche se, con ogni probabilità, il suo
racconto è ben lungi dall’essere completo e dovrà ancora essere sviluppato e
approfondito all’interno delle indagini collegate in corso presso la Procura della
Repubblica di Milano.
Dopo la riunione di consuntivo del settembre 1969, relativa agli attentati ai treni e di
cui si è già parlato nel capitolo precedente, la “progressione criminosa” della struttura
veneta di Ordine Nuovo non si era certo conclusa ed anzi si stava avvicinando alla
fase culminante dell’operazione terroristica.
All’inizio di ottobre del 1969 vi erano stati gli attentati di Trieste e Gorizia, ulteriore
prova generale illustrata nel capitolo 15 di questa ordinanza, e, alla fine di ottobre,
Carlo DIGILIO aveva nuovamente incontrato Delfo ZORZI a Mestre:
“””Il fatto che si stesse preparando qualcosa di importante mi era del resto già
stato reso evidente da un altro incontro che avvenne con Delfo ZORZI a fine
ottobre 1969 a Mestre.
Sono certo della data in quanto ricordo che si trattava di pochi giorni prima
delle festività dei Santi e dei Morti e il ricordo di tali ricorrenze in quell'anno è
per me vivo in quanto collegato al fatto che dovetti cambiare la lampada votiva
sulla tomba di mio padre che era stata infranta da vandali i quali avevano
anche scritto frasi oltraggiose nei confronti del Corpo della Guardia di Finanza
a cui mio padre apparteneva.
Anche in tale occasione fu ZORZI a chiamarmi al telefono dandomi
appuntamento in Corso del Popolo e l'incontro si limitò ad alcuni discorsi sui
temi legati al funzionamento e all'innesco degli ordigni esplosivi senza che
ZORZI portasse e mi mostrasse del materiale.
In particolare egli mi chiese se i candelotti di gelignite, di cui lui già disponeva,
potevano essere usati interi e cioè essere inseriti in una cassetta metallica senza
prima essere tagliati a metà.
In particolare ZORZI si era convinto che se fossero stati usati i candelotti interi
in una cassetta metallica vi era la possibilità che non sarebbero esplosi
completamente e che quindi la cosa migliore era quella di tagliarli.
Io gli risposi che era un'idea assolutamente infondata in quanto i candelotti
sono fatti per essere utilizzati interi e anzi tagliarli a metà costituisce un
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238
ulteriore pericolo soprattutto se si usa una lama metallica che potrebbe anche
causare una scintilla e farli esplodere durante tale operazione”””.
(DIGILIO, int.17.5.1997, f.9).
I dubbi espressi da Delfo ZORZI a Carlo DIGILIO trovano riscontro nel fatto che, per
ragioni che non sono del tutto chiare, i candelotti di gelignite utilizzati per gli attentati
di Trieste e Gorizia erano stati tagliati a metà, come è chiaramente visibile dal
fascicolo dei rilievi fotografici relativi a tali attentati (cfr. vol.14, fasc.3, f. 5-bis).
E’ possibile che tale operazione fosse semplicemente dovuta al fatto che altrimenti i
candelotti sarebbero entrati a fatica nelle cassette militari che dovevano contenere
l’ordigno.
Carlo DIGILIO aveva comunque fornito a ZORZI, anche in tale occasione, i suoi
consigli in merito alle modalità di maneggio dell’esplosivo che certamente stava per
essere nuovamente utilizzato.
Carlo DIGILIO ha iniziato ad affrontare l’argomento concernente gli avvenimenti
successivi al settembre/ottobre 1969 in modo molto limitato affermando,
nell’interrogatorio in data 30.8.1996, che all’inizio di dicembre 1969 il dr. MAGGI
gli aveva comunicato che nel giro di una settimana vi sarebbero stati “gravi
attentati”, che era necessario cautelarsi procurandosi un alibi per ciascuna giornata
e che dovevano essere avvertiti Giorgio BOFFELLI ed anche i simpatizzanti più
giovani affinchè, grazie soprattutto all’esperienza dello stesso BOFFELLI, fossero
evitati i rischi connessi ad eventuali reazioni degli avversari politici di estrema sinistra
(f.3).
Era anche necessario, secondo le indicazioni del dr. MAGGI, far sparire armi ed altro
materiale compromettente dalle abitazioni dei militanti, in previsione di perquisizioni,
e infatti Carlo DIGILIO si era subito liberato di munizioni che deteneva in casa
illegalmente (int. 9.10.1996, f.12).
Anche lo stesso dr. MAGGI si sarebbe preparato un alibi per i giorni cruciali,
allontanandosi da Venezia per recarsi in montagna e interrompendo apparentemente
i contatti con i militanti (int. 10.9.1996, f.3).
L’ordigno fatto visionare da Delfo ZORZI, il 6 o 7 dicembre, a Carlo DIGILIO in una
zona isolata di Mestre, lungo un canale, in sintonia con il preannunzio del dr. MAGGI,
sarà l’oggetto dell’esposizione del prossimo capitolo.
Riprendendo invece, per comodità di lettura, il filo dei rapporti con il dr. MAGGI in
quel dicembre 1969, Carlo DIGILIO ha dichiarato di averlo rivisto pochissimi giorni
prima del Natale 1969, affrontando con lui, subito, il problema degli avvenimenti
del 12.12.1969.
Questa era stata la risposta del dr. MAGGI:
238
“””Io rividi MAGGI pochissimi giorni prima del Natale 1969, appunto appena
rientrò da Sappada, e gli chiesi una giustificazione ed una spiegazione di
quanto era successo a Milano e Roma.
Egli mi rispose che non dovevo fare critiche nè di tipo morale, nè di tipo
strategico, in quanto i fatti del 12 dicembre erano solo la conclusione di quella
che era stata la nostra strategia maturata nel corso di anni e che c'era una
mente organizzativa al di sopra della nostra, che aveva voluto questa strategia.
Io gli risposi che in questo modo la destra avrebbe perso credito ed in più noi
tutti avremmo rischiato di persona. Lui mi rispose che non dovevamo
preoccuparci, perchè chi aveva organizzato questa strategia aveva anche
pensato a come portare le indagini su altri e così effettivamente stava
succedendo”””.
(DIGILIO, int.10.9.1996).
Era giunto a Venezia, quel medesimo giorno, anche Marcello SOFFIATI con il quale
DIGILIO aveva potuto parlare separatamente prima dell’incontro con il dr. MAGGI:
“””Nei giorni di Natale venne poi a Venezia il SOFFIATI, anche per fare i
saluti ai camerati, ed io riuscii a parlargli in modo appartato. Marcello mi
disse che per fortuna MAGGI non lo aveva "mosso" per i fatti del 12 dicembre e
ne era contento, visto come erano andate le cose. Aggiunse che, invece,
MAGGI si era occupato personalmente di "muovere" alcuni elementi di
Trieste che erano andati a Roma per integrare la parte dell'operazione che era
avvenuta a Roma, parte che era stata gestita soprattutto da DELLE CHIAIE
che egli indicò in forma un po’ dispregiativa come ‘Caccola’ “””.
(DIGILIO, int.10.9.1996).
In un successivo interrogatorio, Carlo DIGILIO ha descritto con maggior precisione la
cena allo Scalinetto in cui era stata fatta una sorta di consuntivo dell’operazione:
“””Ci incontrammo allo Scalinetto a cena io, SOFFIATI e il dr. MAGGI e
quest'ultimo offrì la cena.
Io riuscii a parlare con Marcello in modo appartato prima che arrivasse
MAGGI e che la cena iniziasse.
Qui Marcello mi disse, come ho già accennato, che ringraziava il cielo che
MAGGI non lo avesse utilizzato per i fatti del 12 dicembre e che invece lo stesso
MAGGI aveva "mosso" elementi di Trieste che erano stati inviati a Roma.
Quella sera si lasciò un po' andare e aggiunse che per gli attentati del 12
dicembre erano partiti alla volta di Milano Delfo ZORZI e i mestrini di sua
fiducia viaggiando con la FIAT 1100 di MAGGI.
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Ebbi così conferma di quello che mi aveva detto lo stesso MAGGI pochi giorni
prima e che cioè la responsabilità di quanto era avvenuto era del gruppo di
Ordine Nuovo.
Durante la cena che seguì non si ritornò apertamente sul discorso, anche se
MAGGI chiese conferma anche a Marcello SOFFIATI che nei giorni precedenti
non vi fossero stati controlli di Polizia o perquisizioni a Verona.
La risposta di SOFFIATI fu negativa e del resto anche a Venezia, nelle
settimane precedenti, tutto era stato tranquillo almeno per quanto concerne le
persone vicine al nostro gruppo.
MAGGI si limitò ad aggiungere, anche dinanzi a SOFFIATI, quanto già aveva
detto a me alcuni giorni prima e cioè che la decisione degli attentati era stata
presa a livello molto alto da persone che dirigevano la strategia anche da
Roma.
MAGGI concluse il discorso dicendo di stare tranquilli perchè tutto era sotto
controllo”””.
(DIGILIO, int.5.10.1996, f.12).
Il dr. MAGGI aveva aggiunto che Giovanni VENTURA era stato il coordinatore
dell’operazione del 12.12.1969 per il Nord-Italia, e cioè per la parte
organizzativa veneta dell’operazione, mentre gli uomini erano stati selezionati
personalmente da Delfo ZORZI quale responsabile militare (int. 21.2.1997).
L’utilizzo della FIAT del dr. MAGGI, giudicato anche da Marcello SOFFIATI una
grossa imprudenza che lo stesso MAGGI avrebbe dovuto impedire (int. 21.2.1997,
f.2), non era comunque una sorpresa per Carlo DIGILIO.
Verso la fine di ottobre 1969 vi era stato infatti, a Mestre in Corso del Popolo, un altro
incontro fra ZORZI e MAGGI e DIGILIO che erano giunti appositamente da Venezia.
Delfo ZORZI aveva fatto presente al dr. MAGGI, con riferimento agli attentati di
Trieste e Gorizia appena avvenuti, che lui e i suoi uomini avevano rischiato la vita
fornendo un contributo non paragonabile a quello del dr. MAGGI, il quale si era
limitato a dare la vettura e i fondi per l’operazione (int. 21.2.1997, f.3).
L’autovettura del dr. MAGGI, secondo Delfo ZORZI, sarebbe comunque presto
servita ancora e il dr. MAGGI non si era tirato indietro, consegnando a ZORZI,
al termine dell’incontro, del denaro e un mazzo di chiavi (int. 22.2.1997, f.2).
Sempre durante la cena a Colognola, Carlo DIGILIO aveva fatto cenno agli anarchici
arrestati per gli attentati del 12.12.1969 e il dr. MAGGI “in modo ironico ma con
sicurezza” aveva spiegato che “l’incriminazione degli anarchici era una mossa
strategica che era stata studiata dai Servizi Segreti al momento in cui era stata
concepita l’intera operazione” (int.17.5.1997, f.10).
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Poco tempo dopo, del resto, Sergio MINETTO, a Colognola durante un altro incontro
a casa di Bruno SOFFIATI, si era espresso in termini analoghi facendo capire che
era perfettamente al corrente della responsabilità della struttura di Ordine Nuovo e
non degli anarchici, ma che comunque “nella lotta contro il comunismo, che era
un’esigenza primaria, vi erano azioni le cui conseguenze erano un male necessario”
(int. 17.5.1997, f.10).
Carlo DIGILIO, quindi, sia prima sia dopo gli attentati del 12.12.1969, aveva ricevuto
notizie sufficientemente dettagliate in merito a come si era concluso il programma
strategico iniziato con gli attentati della primavera precedente:
il ruolo di
coordinamento svolto da VENTURA e dal dr. MAGGI; la responsabilità militare
di Delfo ZORZI per la strage di Milano; l’apporto fornito dagli avanguardisti di
Stefano DELLE CHIAIE per gli attentati “minori” di Roma; il coinvolgimento
operativo della cellula triestina; il preordinamento da parte dei Servizi di
sicurezza italiani (con ogni probabilità il Servizio civile e cioè l’Ufficio Affari
Riservati del Ministero dell’Interno) della pista anarchica.
Si tratta, come è facile rilevare, di elementi in perfetta sintonia con le restanti
acquisizioni processuali relative sia all’attività della struttura occulta di Ordine Nuovo
nel suo complesso sia, secondo le dichiarazioni di Tullio FABRIS, Martino
SICILIANO e Edgardo BONAZZI, a come era stata preparata ed eseguita
l’operazione del 12.12.1969.
Resta solo da vedere quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito all’ordigno fattogli
visionare, nella sua consueta veste di tecnico e supervisore, da Delfo ZORZI
pochissimi giorni prima degli attentati.
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L’ORDIGNO VISIONATO DA CARLO DIGILIO
A MESTRE IL 7.12.1969
Prima di esporre quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito al punto centrale e cioè
l’ordigno fattogli visionare a Mestre da Delfo ZORZI il 6 o il 7 dicembre 1969, merita
di essere riportato anche quanto DIGILIO aveva appreso da VENTURA circa una
riunione a Padova finalizzata alla messa a punto della strategia terroristica.
Carlo DIGILIO ha infatti parlato di tale riunione solo nel decisivo interrogatorio del
16.5.1997, poco prima di rivelare quanto era avvenuto in occasione del terzo
accesso al casolare di Paese, e quanto Delfo ZORZI gli aveva mostrato a Mestre
pochissimi giorni prima della strage:
“””Spontaneamente intendo dire che ho sentito parlare di una importante
riunione a Padova che dovrebbe identificarsi in quella di cui si è lungamente
parlato durante le indagini sugli attentati del 1969.
Questa riunione si tenne a Padova nella primavera del 1969.
Io non vi partecipai, ma me ne parlò in seguito VENTURA, nell'autunno dello
stesso anno in una delle occasioni in cui mi recai a Treviso nella sua libreria
per vendere le monete di mio padre e anche per comprare dei libri.
In quel momento erano già avvenuti i primi attentati e in particolare da non
molto quello all'Ufficio Istruzione di Milano e quelli sui treni.
Parlammo degli eventi che erano nati dal lavoro fatto a Paese e VENTURA mi
disse che tutto sommato gli attentati ai treni erano andati bene e che il lavoro
organizzativo procedeva bene e che era stata sperimentata l'operatività di un
alto numero di persone, compresi gli elementi triestini, superando i problemi
connessi allo spostamento nelle varie stazioni ferroviarie nelle quali si era
agito.
Mi disse che la campagna non era finita e che altri gruppi di attentati
sarebbero stati avviati nell'intento di far fare una scelta al mondo militare e a
ruota di questo anche a certi politici di Roma.
VENTURA quindi ribadì che gli attentati non erano l'impresa di quattro pazzi,
ma facevano parte di un piano ben preciso.
Aggiunse che questo progetto era partito con una riunione a Padova nella
primavera, che aveva visto presenti i padovani, i veneziani, alcuni di Treviso,
fra cui lui stesso, e il capo di Ordine Nuovo, Pino RAUTI.
Disse che la riunione si era svolta in una casa privata.
Non sono in grado di dire se tale riunione sia la stessa di cui hanno poi parlato
ampiamente anche i giornali, ma comunque VENTURA me la indicò come
momento di definizione della strategia”””.
(DIGILIO, int. 16.5.1997, ff.3-4).
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I soggetti presenti e i contenuti della riunione sono quindi in assoluta corrispondenza
con le altre riunioni preparatorie cui aveva preso parte anche Martino SICILIANO (int.
SICILIANO, 6.10.1996, f.2).
Infine Carlo DIGILIO si è risolto a rivelare quanto gli era stato chiesto di visionare a
Mestre, in una zona isolata, cinque o sei giorni prima degli attentati:
“””A questo punto intendo riferire quanto io vidi nella disponibilità di ZORZI
nel dicembre 1969 qualche giorno dopo l'allarme che diede il dr. MAGGI in
merito a quanto stava per accadere e qualche giorno prima degli attentati del
12 dicembre 1969.
Sono quasi certo che quanto sto per raccontare avvenne uno o due giorni prima
dell'Immacolata, che cade l'8 dicembre.
Premetto che quando MAGGI, ai primi di dicembre, mi disse di stare in allerta
e di avvisare altri camerati come BOFFELLI, mi disse anche che, per quanto mi
riguardava personalmente, avrei ricevuto una chiamata da ZORZI che avrebbe
avuto bisogno della mia presenza.
Infatti Delfo ZORZI mi chiamò per telefono dicendomi che aveva bisogno di una
"consulenza", espressione che io capii benissimo cosa voleva dire.
Arrivai a Piazza Barche, dove mi aveva dato l'appuntamento, nel tardo
pomeriggio e ZORZI mi accompagnò in quella zona un po' isolata vicino al
canale dove c'eravamo incontrati altre volte e dove in particolare avevamo
esaminato il materiale proveniente da Vittorio Veneto di cui ho parlato nel
verbale in data 30.8.1996.
Mi portò in un punto molto riparato dove era parcheggiata la FIAT 1100 di
MAGGI.
Qui aprì il portabagagli posteriore in cui c'erano tre cassette militari con
scritte in inglese, due più piccole e una un po' più grande.
Aprì tutte e tre le cassette e all'interno di ciascuna c'era dell'esplosivo alla
rinfusa e in particolare quello a scaglie rosacee che avevo visto a Paese e dei
pezzi di esplosivo estratto dalle mine anticarro recuperate dai laghetti.
In ogni cassetta, affondato nell'esplosivo c'era una scatoletta metallica con un
coperchio, come quelle che si usavano per il cacao, che conteneva il congegno
innescante che era stato preparato, come lui mi disse, da un elettricista.
Effettivamente quello che intravvidi era una scatoletta di cartone a forma di
parallelepipedo che nella parte superiore aveva una cupoletta completamente
avvolta con del nastro isolante lasciato un po' molle e questa specie di
cappellotto impediva di vedere come fosse fatto esattamente il congegno
ZORZI mi disse di essere perfettamente sicuro di questo congegno, ma la cosa
che lo preoccupava era la sicurezza generale dell'esplosivo che doveva
trasportare e cioè se poteva esplodere a seguito di scossoni, anche molto
probabili in quanto la macchina di MAGGI era vecchia.
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244
Mi disse che di lì a qualche giorno doveva trasportare queste cassette fino a
Milano e che comunque aveva previsto una fermata a Padova appunto per
cambiare macchina e prenderne una più molleggiata, oltre che per mettere a
posto il congegno.
Io lo rassicurai circa la sicurezza generale dell'esplosivo che non mostrava
segni di essudazione che ne alterassero la stabilità.
Piuttosto avrebbe dovuto fare molta attenzione all'innesco che mi sembrava la
parte più delicata.
Faccio presente che ciascuna delle due scatole piccole c'era almeno un chilo di
esplosivo e un po' di più nella terza più grande.
Ci spostammo a piedi dal luogo e prima di lasciarci Delfo fece cenno ad una
persona che stava sotto un porticato di Piazza Barche di raggiungerlo e vidi
che si trattava di suo fratello e cioè quel giovane con i capelli lunghi e di
bell'aspetto che avevo già visto una delle volte in cui nello stesso punto
avevamo esaminato le armi di LINO FRANCO e che era venuto con una
autovettura DIANE.
Faccio presente che io del resto sapevo che ZORZI non sapeva guidare e quindi
per spostarsi in macchina doveva ricorrere di volta in volta appunto a suo
fratello o a MARIGA che faceva parte del suo gruppo.
Io ovviamente mi resi conto che la richiesta di ZORZI era collegata ai fatti
che MAGGI aveva preannunziato pochi giorni prima.
Quando in seguito, nei giorni di Natale, rividi MAGGI a Venezia gli dissi che
avevo visionato gli ordigni.
Quando SOFFIATI, prima della cena di cui ho parlato in data 5.10.1996, mi
fece cenno al rischio che MAGGI aveva corso, io in effetti sapevo già quanto
era avvenuto”””.
(DIGILIO, int. 16.5.1997, ff.6-7).
Nell’interrogatorio reso il giorno successivo, Carlo DIGILIO ha completato il suo
racconto spiegando che le cassette militari erano solo un contenitore temporaneo,
destinato ad essere subito sostituito da cassette portavalori, di marca JUWEL, già
nella disponibilità del gruppo:
“””Riprendendo questo episodio, faccio innanzitutto presente che nel
bagagliaio della FIAT 1100, oltre alle tre cassette metalliche c'era solo una
borsa sportiva di quelle che normalmente si usano per la palestra, borsa che
ZORZI non aprì e in merito alla quale non fece alcun cenno.
Le tre cassette metalliche avevano delle scritte in inglese e mi sono ricordato
che io feci notare a ZORZI che la loro evidente caratteristica di cassette militari
ad un eventuale controllo avrebbe destato molto sospetto e creato seri pericoli
per chi la trasportava di essere sottoposto ad una verifica.
Fra l'altro notai che le tre cassette non erano nemmeno coperte da un telo ed
erano subito visibili appena aperto il bagagliaio.
244
Feci notare tale circostanza a ZORZI e questi mi rispose che comunque non
c'era da preoccuparsi perchè il problema era già stato affrontato in quanto il
gruppo stava per acquistare delle cassette metalliche che non davano
nell'occhio in quanto erano quelle utilizzate normalmente per la custodia di
valori.
Mi fece anche il nome JEWEL o JUWEL che era la marca allora più nota per
questo tipo di cassette.
Ritornando alla descrizione di quello che vidi, confermo che in ogni cassetta
c'era uno di quei barattoli di cui ho parlato ieri, praticamente immerso
nell'esplosivo che era sfuso.
Non mi azzardai a toccare questi barattoli, intravvedendo solo la sommità della
scatola a forma di parallelepipedo che ho già descritto, per evidenti motivi di
sicurezza.
Chiesi comunque a ZORZI che tipo di innesco fosse e questi mi rispose che
era un meccanismo di assoluta sicurezza preparato per il gruppo da un
elettricista.
E' possibile che i pezzi di tritolo che vidi nelle cassette militari fossero il
materiale recuperato dalle scatolette non utilizzate per gli attentati ai treni
dell'agosto.
Infatti noi avevamo approntato almeno due dozzine di scatolette e cioè un
numero molto superiore al numero degli attentati che poi effettivamente
avvenne e il numero e la grossezza dei pezzi di tritolo che si trovavano nelle
cassette militari corrispondeva grosso modo a quello che poteva essere
recuperato dalle scatolette non utilizzate”””.
(DIGILIO, int. 17.5.1996, ff.8-9).
Gli ultimi elementi forniti così da Carlo DIGILIO appaiono decisivi.
Le cassette portavalori di marca Juwel, occultate all’interno di borse di
similpelle, hanno infatti contenuto i cinque ordigni deposti a Milano e a Roma
il 12.12.1969, aumentando la potenza della deflagrazione e del resto, già nel corso
della prima istruttoria nei confronti di FREDA e VENTURA, Tullio FABRIS aveva
riferito che Franco FREDA gli aveva chiesto , nel settembre 1969, consigli per
l’acquisto di cassette metalliche in cui dovevano essere messi, secondo le parole di
FREDA, i “commutatori” e cioè i timers acquistati proprio insieme a FABRIS.
Gli oggetti a forma di parallelepipedo con una cupoletta, protetti da un
barattolo e immersi nell’esplosivo (e cioè il congegno innescante preparato,
secondo le parole di ZORZI, da un elettricista) corrispondono e non potevano
essere altro che i timers acquistati proprio grazie all’elettricista Tullio FABRIS
che questi, nello studio legale di Padova, aveva insegnato a FREDA e VENTURA a
far funzionare affinchè tali nozioni fossero riportate ad un altro elemento operativo
del gruppo, certamente da identificarsi in Delfo ZORZI.
245
246
Si osservi inoltre, a titolo di completamento del quadro di tale decisivo incontro fra
ZORZI e DIGILIO, che Martino SICILIANO ha riferito che la zona isolata lungo un
canale, non distante da Piazza Barche, era appunto uno dei punti di incontro del
gruppo, anche perchè nei pressi si trovava una palazzina ove aveva, all’epoca, la
nuova sede la palestra di arti marziali e che effettivamente Rudi ZORZI, come
ricordato da Carlo DIGILIO, disponeva in quel periodo di una autovettura Diane
essendo anche munito, a differenza di Delfo, della patente di guida (int. SICILIANO,
24.6.1997, f.3).
Molto probabilmente quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito agli attentati del
12.12.1969 e agli avvenimenti che li avevano preceduti non è ancora tutto
quanto a sua conoscenza, ma è certo che, con gli interrogatori del 15 e 16
maggio 1997 resi a questo Ufficio, egli ha fornito gli elementi di raccordo
fondamentali per comprendere il meccanismo operativo finale cui aveva
portato la progressione criminosa del gruppo, iniziata nella primavera del 1969,
anche sotto il profilo della preparazione politica e strategica studiata sin dagli
anni ancora precedenti.
Rimangono solo, prima di concludere questa parte dell’ordinanza dedicata alla strage
di Piazza Fontana, da esporre gli elementi di collegamento emersi per la prima volta,
nel corso di questa istruttoria, fra gli avvenimenti del 12.12.1969 e l’attentato
commesso da Gianfranco BERTOLI dinanzi alla Questura di Milano il 17.5.1973,
elementi di collegamento connessi alla figura e al ruolo svolto dall’on. Mariano
RUMOR.
246
39
LA FIGURA DI GIANFRANCO BERTOLI
E I SUOI RAPPORTI CON ORDINE NUOVO
I CONTATTI CON ELEMENTI ISRAELIANI
Solo negli interrogatori resi a questo Ufficio in data 12 e 14 ottobre 1996 Carlo
DIGILIO si è risolto a raccontare quanto a sua conoscenza, diretta e con chiari profili
di corresponsabilità, in merito alla persona di Gianfranco BERTOLI e all’attentato
dinanzi alla Questura di Milano del 17.5.1973.
In merito a tale strage è in corso tuttora un procedimento in Istruzione formale, in
quanto il G.I. di Milano, dr. Antonio Lombardi, nel rinviare a giudizio, nel 1974,
l’autore materiale del lancio della bomba a mano “ananas” in Via Fatebenefratelli,
aveva operato uno stralcio riguardante i corresponsabili e gli organizzatori della
strage, convinto, non a torto, che l’intera vicenda non fosse il frutto dell’azione di un
isolato anarchico individualista e che vi fosse un ampio retroterra ancora da
rischiarare.
Effettivamente, con la ripresa delle indagini, in questi ultimi anni tale ipotesi si era
rafforzata.
Talune incongruenze del racconto di BERTOLI, l’attività di informatore da questi
svolta in favore del SIFAR, seppur in tempi antichi, gli accertati contatti con altri
elementi di destra padovani e veneziani (quali Eugenio RIZZATO, Sandro
RAMPAZZO e Sandro SEDONA) e alcune voci che avevano cominciato a levarsi
nell’ambiente di destra (in particolare le testimonianze molto attendibili di Vincenzo
VINCIGUERRA e Roberto CAVALLARO) portavano con sempre maggiore
convinzione a ritenere che Gianfranco BERTOLI, pur avendo meditato a covato
per lungo tempo il suo gesto clamoroso, fosse stato aiutato
nell’organizzazione ed esecuzione dello stesso da ambienti del tutto diversi da
quelli anarchici.
Mancava però la testimonianza decisiva che potesse aprire uno squarcio sui
movimenti e i contatti di BERTOLI prima della strage e che potesse raccontare
in forma diretta, e non per voci o confidenze d’ambiente, gli avvenimenti
precedenti l’arrivo di BERTOLI a Milano.
Tale squarcio è giunto dal racconto di Carlo DIGILIO, che qui si riporta per le sue
connessioni con l’attività delle strutture di sicurezza americane, mentre l’intero
quadro delle corresponsabilità nell’azione di Gianfranco BERTOLI sarà ovviamente
illustrato nel provvedimento istruttorio conclusivo del dr. Antonio Lombardi.
“””...intendo spontaneamente riferire quanto a mia conoscenza in merito alla
persona di Gianfranco BERTOLI, autore della strage dinanzi alla Questura di
Milano.
247
248
Premetto che prima dell'azione di BERTOLI vi fu una riunione a Colognola ai
Colli, presenti MAGGI, SOFFIATI, MINETTO e io nella trattoria che in quel
periodo non era ancora in gestione alla famiglia Soffiati.
MAGGI spiegò che il progetto di un attentato contro il Ministro RUMOR non
poteva al momento essere attuato perchè il primo che era stato interpellato per
l'esecuzione, e cioè Vincenzo VINCIGUERRA, si era rifiutato di prestarsi
poichè non riteneva corretto il progetto.
Il Ministro RUMOR era odiato nell'ambiente di destra perchè aveva ostacolato
i progetti di mutamento istituzionale in Italia e si era mostrato ostile alla destra.
MAGGI disse che era assolutamente necessario trovare un'altra persona che
eseguisse l'attentato.
Ribadì che bisognava "spazzare via RUMOR" e queste sono esattamente le
parole che ricordo egli disse.
MAGGI aggiunse che comunque avrebbe continuato ad occuparsi del
progetto e che riteneva fattibile utilizzare Gianfranco BERTOLI che era una
persona disposta a tutto.
Se si fosse riuscito a reclutare BERTOLI vi sarebbe stata per l'azione una
"copertura" anarchica dinanzi all'opinione pubblica che avrebbe funzionato
come aveva funzionato in passato e cioè per Piazza Fontana.
Anche in questo caso, infatti, l'opinione pubblica, secondo MAGGI, avrebbe
continuato a dire "ecco, i soliti anarchici!".
Io sino a quel momento non aveva mai visto BERTOLI, ma ne avevo solo sentito
parlare nell'ambiente come di un anarchico individualista che conosceva
MAGGI e ancora meglio conosceva BOFFELLI.
Sapevo che BERTOLI aveva i suoi punti di riferimento nel mestrino e cioè
frequentava tale zona.
Mi era stato detto che era una persona che viveva di espedienti e al limite della
sopravvivenza.
Qualche tempo dopo venni a sapere da SOFFIATI che questo BERTOLI era
stato prelevato nel mestrino da elementi del nostro gruppo e portato a Verona
in Via Stella per essere istruito sul da farsi.
Questa notizia si colloca in un periodo successivo al prelevamento di
FORZIATI ed esattamente l'anno dopo.
Quando arrivai in Via Stella vi trovai, oltre a Marcello SOFFIATI, anche
Francesco NEAMI di Trieste e questo BERTOLI, che ricordo malmesso ed
emaciato con la barbetta.
Ricordo che aveva l'abitudine di tirarsi questa barbetta con la mano.
NEAMI gli stava spiegando, con una specie di vero e proprio lavaggio del
cervello, cosa avrebbe dovuto dire alla Polizia in caso di arresto e gli faceva
ripetere le risposte che avrebbe dovuto dare e cioè che era un anarchico
individualista e che si era procurato da solo, in Israele, la bomba per
l'attentato.
248
Capii subito da SOFFIATI e NEAMI che BERTOLI era un debole e mi dissero
infatti che gli piaceva bere e lo avevano convinto anche con la promessa di un
po' di soldi.
Mi dissero che era già lì da parecchi giorni e che lo facevano bere e mangiare a
sazietà.
Anch'io rimasi qualche giorno a dormire in Via Stella, su di un vecchio divano,
e in quei giorni, non in Via Stella, ma a Colognola, vidi anche MINETTO il
quale era perfettamente al corrente di cosa si stava preparando e aveva
personalmente procurato i soldi per BERTOLI tramite gli americani.
Non si trattava comunque di una grande somma, ma di pochi milioni e infatti si
capiva subito, con un'occhiata, che BERTOLI poteva essere comprato con pochi
soldi.
NEAMI dormiva con BERTOLI, nella stanza da letto, per controllare suoi
eventuali colpi di testa, mentre io dormivo su un divano nel salotto e il divano
era posto vicino all'ingresso del bagno.
Ricordo che BERTOLI fumava, beveva era scostante non legò con me faceva
discorsi strani, diceva che comunque fosse andata egli sarebbe diventato un
grand'uomo.
MAGGI andava e veniva e ricordo che gli provò anche la pressione e gli fece
qualche iniezione per dei disturbi che aveva.
BERTOLI diceva di soffrire di reumatismi per la vita disordinata che aveva
fatto.
Ricordo che NEAMI si comportava duramente con lui quando Bertoli non dava
le risposte giuste o esagerava con le sue sparate verbali.
Io mi allontanai da Via Stella prima che BERTOLI entrasse in azione, ricordo
che era primavera ed esattamente il mese di maggio.
Aggiungo che la presenza di NEAMI non era un caso, ma era stata voluta da
MAGGI poichè NEAMI in precedenza aveva già fatto la guardia all'avv.
FORZIATI e quindi sapeva come muoversi, dove fare gli acquisti e la sua
presenza non dava eccessivo sospetto nel quartiere.
Tale precauzione era stata presa anche perchè si temeva qualche soffiata da
parte del padrone del bar sottostante.
Nell'appartamento io avevo visto due o tre bombe a mano a frattura
prestabilita, tipo ananas, che SOFFIATI mi disse essere state procurate da
MINETTO presso la base di Verona dove c'erano residuati di vario genere.
L'operazione era stata fatta sostituendo per precauzione a queste bombe a mano
alcune di quelle molto simili che aveva detenuto Lino FRANCO e di cui ho già
parlato nell'interrogatorio in data 30.8.1996.
Dopo la morte di FRANCO queste bombe erano state recuperate e incamerate
da MINETTO.
Ricordo che io dissi a NEAMI che bisognava stare attenti e di sorvegliare bene
BERTOLI e comunque non trattarlo molto male poichè mi sembrava un po'
249
250
matto e poteva darsi che di notte disinnescasse la bomba a mano e ci facesse
saltare in aria tutti.
Io e NEAMI stavamo infatti svegli a turno e ci tenevamo in piedi con grandi
scorte di caffè.
La prosecuzione del piano consisteva nell'accompagnare BERTOLI una volta
che fosse perfettamente convinto a Milano nei pressi della Questura e farlo
agire.
Io non partecipai a questa fase dell'operazione e non so chi del gruppo abbia
accompagnato BERTOLI, ricordo però che una volta insieme a MAGGI venne
BOFFELLI che era amico di BERTOLI e servì per tirarlo su di morale e
BOFFELLI per rafforzarne i propositi gli disse che doveva mostrare il suo
coraggio e che tutti avrebbero parlato di lui.
Io appresi dell'attentato dalla radio o dal giornale e capii subito che era
andato male perchè non era morto RUMOR ma alcuni passanti.
Subito dopo andammo a cena allo SCALINETTO io, MAGGI e BOFFELLI.
MAGGI ci offrì questa cena per tirarci su, ma MAGGI aveva il muso lungo e
l'atmosfera era lugubre.
Si parlò pochissimo, ma MAGGI cercò di capire da BOFFELLI come mai
BERTOLI avesse sbagliato e BOFFELLI gli rispose che bastava pensare a
come si lancia un sasso e che sempre in questi casi anche per accidente si può
sbagliare la traiettoria.
Aggiungo che MAGGI e ZORZI avevano proposto a VINCIGUERRA di agire
non a Milano ma in Veneto dove RUMOR risiedeva ma VINCIGUERRA si era
rifiutato perchè sarebbe stata una carneficina”””.
(DIGILIO, int. 12.10.1996).
Il racconto in merito alla permanenza di Gianfranco BERTOLI in Via Stella è
proseguito il 14.10.1996 con alcuni approfondimenti:
“””Fra la mia presenza in Via Stella quando c'era BERTOLI e quando appresi
della strage alla Questura di Milano passarono circa due mesi.
Ricordo infatti bene che quando appresi dell'attentato la mia presenza
nell'appartamento era una cosa ormai non recentissima.
Non so ove Gianfranco BERTOLI abbia trascorso tutto quel periodo, ritengo
però che dopo la sosta nell'appartamento si sia mosso perchè ricordo che
spesso diceva che non tollerava che "gli dosassero l'aria" e non tollerava di
essere controllato così strettamente in quella maniera dal gruppo.
Ritengo che così come sia stato spiegato a BERTOLI cosa dovesse rispondere e
cosa dovesse sostenere frase per frase, gli sia stato anche indicato cosa
sostenere in merito ai suoi spostamenti in quel periodo.
Della sua vita passata ricordo che parlava spesso di un suo soggiorno in
Israele e che quando vide le bombe nell'appartamento disse che non aveva
250
niente da imparare perchè quelle bombe le aveva già viste tali e quali in
Israele.
Era un personaggio pieno di sè, si credeva un grand'uomo, diceva sempre che
doveva essere maggiormente rispettato, soprattutto da Francesco NEAMI che lo
prendeva anche a ceffoni quando non rispondeva a tono.
Accennò comunque anche ai suoi precedenti di carattere comune e che era stato
in galera.
Confermo che BERTOLI era un personaggio pieno di tic; si lisciava
continuamente la barbetta e secondo me aveva dei disturbi di carattere ormai
stabili, conseguenti al costante abuso di alcool.
E del resto anche in Via Stella, quando lui era lì, era molto facile inciampare in
bottiglie ormai vuote di alcolici disseminate per la casa.
NEAMI diceva che farlo bere era l'unico modo per tenerlo buono.
BERTOLI era chiaramente, anche dalla parlata, di origine veneta, non so dire
esattamente di quale provincia, ma l'accento denotava un'origine che direi
dell'entroterra mestrino. Era comunque di origini modeste”””.
(DIGILIO, int. 14.10.1996).
Dal racconto di Carlo DIGILIO (in cui questa volta non compare Delfo ZORZI in
quanto, si ricordi, in quel periodo si trovava in Giappone) emerge in sostanza che
BERTOLI, persona disturbata e frustrata alla ricerca di un gesto eclatante che lo
riscattasse, aveva meditato da tempo un’azione del genere (colpendo i partecipanti
alla cerimonia egli intendeva soprattutto “vendicare” PINELLI), ma che l’aiuto
materiale e la spinta decisiva, anche sul piano psicologico, ad effettuare
l’azione erano giunti non dall’ambiente anarchico, ma da un ambiente ben
diverso cui egli era comunque contiguo, nel mestrino, per ragioni di amicizia
personale e comuni frequentazioni.
Anche Martino SICILIANO, del resto, pur non avendo partecipato ai preparativi
dell’azione del 17.5.1973 e avendo conosciuto BERTOLI solo di vista, ha parlato
diffusamente della sua figura.
BERTOLI, secondo il racconto di SICILIANO, conosceva non solo elementi di destra
legati anche alla piccola malavita dell’entroterra mestrino come SEDONA e MARIGA,
ma conosceva molto bene anche il dr. MAGGI e Paolo MOLIN ed era rimasto in
contatto con il dr. MAGGI anche durante la sua permanenza in Israele (int.
18.10.1996, ff.4-5).
Qualche tempo dopo la strage di Via Fatebenefratelli, ZORZI, commentando
l’episodio con SICILIANO, gli aveva detto che l’episodio di Milano era
inquadrato nella loro strategia.
Inoltre anche Martino SICILIANO era al corrente del progetto, maturato fra il 1970 e il
1973 all’interno del gruppo di MAGGI e ZORZI, di eliminare l’on. RUMOR, progetto
di cui ha diffusamente parlato nei suoi interrogatori Vincenzo VINCIGUERRA in
251
252
quanto oggetto di più proposte dei mestrini, da lui rifiutate, di eseguire materialmente
l’azione.
Sulla base del dettagliato racconto di Carlo DIGILIO, approfondito nel corso degli
interrogatori dinanzi al G.I. dr. Lombardi e confermato dagli elementi di riscontro già
acquisiti nell’istruttoria condotta dal Collega, nel giugno 1997 il dr. Carlo Maria
MAGGI, l’ex-mercenario Giorgio BOFFELLI e l’ordinovista triestino Francesco
NEAMI sono stati raggiunto da mandato di cattura per concorso nella strage di
Via Fatebenefratelli.
Per i profili che interessano, nella presente istruttoria, in relazione all’attività svolta
dalle strutture americane, è ovviamente indicativo e gravemente inquietante
l’apporto fornito dal caporete, Sergio MINETTO, il quale era stato informato dal dr.
MAGGI del progetto di azione contro l’on. RUMOR, aveva procurato del denaro per
BERTOLI traendolo dalla cassa della sua struttura e soprattutto aveva procurato le
bombe a mani tipo ananas di cui BERTOLI doveva impratichirsi al funzionamento.
Anche in relazione alla presenza di BERTOLI a Verona, come per tutti gli
avvenimenti precedenti, Carlo DIGILIO non aveva poi mancato di informare il suo
diretto referente, il capitano CARRET, durante uno dei consueti appuntamenti a
Venezia:
“””Lo incontrai (n.u.: il capitano CARRET) infatti a Venezia, secondo un
incontro già prestabilito, la settimana successiva a quella, se non sbaglio dal
lunedì al sabato, che avevo trascorso con BERTOLI in Via Stella.
Spiegai al capitano CARRET la situazione e cioè che il gruppo stava
preparando attraverso BERTOLI un attentato contro l'on. RUMOR.
A differenza di altre situazioni precedenti, come ad esempio l'attentato
all'Ufficio Istruzione di Milano, questa volta CARRET mostrò di non essere
stato ancora informato da nessuno di quanto stava avvenendo.
A seguito del mio racconto e della spiegazione che gli feci in merito a quale tipo
di persona fosse il BERTOLI, il capitano CARRET si mostrò preoccupatissimo e
disse che era un'azione che poteva finire male e che c'era a quel punto il rischio
che anch'io, che ero un suo ottimo informatore, ne fossi travolto.
Aggiunse infatti che nel caso fosse stata effettivamente colpita una così alta
personalità dello Stato, le indagini sarebbero state molto approfondite con il
rischio, tramite BERTOLI, di mettere allo scoperto l'intera struttura e di venire
a sapere tutto quello che era avvenuto anche in passato compresi gli attentati e
il progetto di golpe degli anni 1969/1970”””.
(DIGILIO, int. 13.4.1997).
Un’azione così ad alto rischio come quella che vedeva coinvolto e utilizzato un
personaggio come Gianfranco BERTOLI aveva quindi suscitato notevoli
perplessità in un ufficiale prudente come il capitano CARRET, perplessità che
erano forse il primo sintomo del distacco che di lì a poco, e comunque entro l’anno
252
successivo, le strutture atlantiche avrebbero maturato dall’ipotesi di concorrere, in
Italia come in altri Paesi, a mutare violentemente le strutture istituzionali, con il
conseguente abbandono al loro destino delle frange più radicali dell’estrema destra
in Italia e in Europa.
La figura di Gianfranco BERTOLI e il suo lungo soggiorno in Israele riportano
l’attenzione a due soggetti, Luigi FOA’ e Sergio ALZETTA (nomi certamente in
codice), agenti israeliani probabilmente legati al MOSSAD, con i quali Carlo
DIGILIO era in contatto a Venezia nell’ambito dello scambio di informazioni fra
strutture di intelligence collegate, relative soprattutto alle attività dei gruppi di
estrema sinistra di idee spiccatamente anti-israeliane e anti-sioniste presenti
all’Università di Venezia (int. DIGILIO, 13.7.1996, f.5; 30.8.1996, f.3; 5.3.1997, f.3;
15.3.1997, f.4).
I due tuttavia non si incontravano solo con DIGILIO nell’ambito delle rispettive
attività, ma gravitavano anche intorno all’ambiente di Ordine Nuovo e in
particolare al dr. MAGGI, la cui moglie peraltro è di origine ebrea essendo figlia di
un’ebrea battezzata.
Vincenzo VINCIGUERRA aveva segnalato di essere stato convocato, all’inizio degli
anni ‘70, a casa del dr. MAGGI e di avervi trovato, insieme al padrone di casa, Carlo
DIGILIO, cioè ZIO OTTO, e un giovane con i capelli rossi che aveva sottoposto
VINCIGUERRA ad una sorta di sondaggio in merito alla sua disponibilità a
partecipare a campi di addestramento o attività simili (int. VINCIGUERRA, 16.6.1992,
ff.2-3).
Vincenzo VINCIGUERRA, da buon nazional-rivoluzionario “puro”, si era
notevolmente insospettito ritenendo, non a torto, di essersi trovato di fronte a un
esponente di qualche servizio segreto o struttura militare che, data la brevità
dell’incontro, non era riuscito a identificare.
Carlo DIGILIO ha spiegato che il giovane con i capelli rossi altri non era che
l’israeliano Sergio ALZETTA, interessato a verificare la disponibilità di
VINCIGUERRA a partecipare ad attività di addestramento anche in relazione al
progettato attentato contro l’on. Rumor, attentato proposto da MAGGI e ZORZI in
quel periodo a VINCIGUERRA e da questi sdegnosamente rifiutato (int. DIGILIO,
16.5.1997, ff.1-2).
Sergio ALZETTA del resto, tramite il dr. MAGGI, aveva già fatto partecipare alcuni
simpatizzanti di Ordine Nuovo, fra cui Giorgio BOFFELLI, a campi di
addestramento in zone isolate del bergamasco (int. DIGILIO a questo Ufficio,
16.5.1997, f.2; al G.I. di Venezia, dr. Mastelloni, 8.2.1997, f.3), mentre Luigi FOA’
aveva organizzato, all’inizio degli anni ‘70, sempre tramite il dr. MAGGI, il viaggio
quasi gratuito di parecchi militanti veneti, fra cui Delfo ZORZI, in Libano (in una zona
controllata dai cristiano-maroniti), affinchè essi partecipassero a corsi di
addestramento in funzione anti-araba e anti-palestinese (int. DIGILIO, 15.3.1997, f.4
a questo Ufficio; al g.i. di Venezia dr. MASTELLONI, 8.2.1997, f.3).
253
254
Carlo DIGILIO ha del resto spiegato che nell’ambiente di Ordine Nuovo di
Venezia, anche se ciò poteva apparire in contrasto con una ideologia vicina al
nazismo, vi era un’area di simpatia strategica con lo Stato di Israele in quanto
tale entità era vista come difensore dei valori occidentali in quella Regione,
costituendo, insieme agli americani, una barriera contro i movimenti arabi
influenzati dal mondo sovietico (int. 5.3.1997, f.4).
Sostenitore di tale linea politica era in particolare l’avv. Giampiero CARLET il quale,
alla fine degli anni ‘60, si era impegnato all’interno del M.S.I. e di Ordine Nuovo
affinchè fossero avviate iniziative di appoggio in favore dello Stato di Israele (int.
DIGILIO, 15.3.1997, f.4; dep. CARLET, 5.2.1996, f.1).
Del resto Vincenzo VINCIGUERRA ha ricordato che anche GUERIN SERAC,
creatore dell’AGINTER PRESS e fervente cattolico-tradizionalista, non nascondeva
la sua simpatia per Israele e le forze armate israeliane (a fianco delle quali
l’Esercito francese, di cui egli era stato ufficiale, aveva operato congiuntamente nel
1956 nel Canale di Suez) e che l’unica discriminante nella lotta per la difesa dei
“valori occidentali” doveva essere l’anticomunismo e la volontà di opporvisi
attivamente (dep. VINCIGUERRA a personale del R.O.S., 12.1.1995, f.3).
Anche Martino SICILIANO ha confermato che, pur essendo egli rimasto
personalmente ostile al mondo ebraico durante la sua militanza, esisteva nell’area
di Ordine Nuovo di Mestre/Venezia una corrente filo-israeliana che vedeva tale
in Paese un baluardo in Medio-Oriente contro il comunismo e aveva simpatia in
particolare per i SABRA, cioè gli ebrei non immigrati ma nati in Israele, visti come
combattenti per la propria terra contro la marea araba (int. 30.6.1997, f.2).
Martino SICILIANO ha inoltre confermato che FOA’ e ALZETTA avevano partecipato
ad alcune riunioni di Ordine Nuovo in quanto legati soprattutto al dr. MAGGI e che
soprattutto ALZETTA dava l’impressione di essere un militare con funzioni di
addestramento e di comando (int. citato, f.3).
I due avevano organizzato il viaggio in Israele, già ricordato da Carlo DIGILIO, cui
avevano partecipato una ventina di militanti del Veneto e di Roma fra cui Bobo
LAGNA e quasi certamente Delfo ZORZI (int. citato, f.3).
E’ molto probabile, quindi, che in tale humus sia maturato il lungo soggiorno in
Israele di Gianfranco BERTOLI, ospite di un kibbuz, e il suo “aggancio” per
l’operazione contro l’on. Mariano RUMOR dopo il rifiuto opposto da Vincenzo
VINCIGUERRA.
254
40
IL RUOLO DELL’ON. MARIANO RUMOR
E
IL COLLEGAMENTO FRA GLI ATTENTATI DEL 12.12.1969
E LA STRAGE DI VIA FATEBENEFRATELLI
Il racconto di Carlo DIGILIO ha fatto emergere un filo di collegamento, che sinora
non era stato individuato, fra gli attentati del 12.12.1969 e la strage del 17.5.1973, filo
che passa attraverso la figura e il ruolo dell’on. Mariano RUMOR, Presidente del
Consiglio nel dicembre 1969 e vero e diretto obiettivo della bomba “ananas”
lanciata da Gianfranco BERTOLI dinanzi alla Questura di Milano.
In merito alla figura dell’on. RUMOR così si è espresso sinteticamente Carlo DIGILIO
descrivendo i motivi di astio che l’ambiente di Ordine Nuovo coltivava contro la sua
persona:
“””L'Ufficio chiede a DIGILIO se possa meglio specificare quali fossero le
ragioni di astio da parte dell'ambiente di Ordine Nuovo nei confronti dell'on.
Mariano RUMOR accennate nell'interrogatorio in data 12.10.1996, f.4, in
relazione al progetto di spingere BERTOLI ad attentare contro la vita dello
stesso RUMOR.
Questo è un argomento molto importante e posso meglio spiegare i motivi di
quella che secondo Ordine Nuovo, tramite uno strumento come Gianfranco
BERTOLI, doveva essere una vera e propria vendetta e punizione nei confronti
dell'on. RUMOR.
Questi era odiato poichè i dirigenti di Ordine Nuovo ritenevano che l'on.
RUMOR, Presidente del Consiglio nel dicembre 1969, avesse fatto il "vile" in
quanto, venendo meno alle promesse fatte, non aveva attivato un certo
meccanismo dopo gli attentati decretando lo "stato di emergenza" e mettendo
in moto i militari che avrebbero saputo che sbocco dare alla crisi.
Questa delusione mi fu espressa da SOFFIATI e da MAGGI negli incontri di cui
ho già riferito, che avvennero dopo gli attentati del 12 dicembre, e cioè quello
con MAGGI pochi giorni dopo la strage e la cena con MAGGI e SOFFIATI che
avvenne allo Scalinetto nei giorni di Natale del 1969.
In particolare MAGGI era deluso e disse che di fronte alla reazione
dell'opinione pubblica vi era stata una "ritirata" di RUMOR che aveva
impedito un'immediata presa di posizione dei militari.
Disse proprio "presa di posizione" e non "presa di potere" nel senso che
sarebbe stato un primo intervento che avrebbe dato inizio ad un maggior
controllo dei militari sulla vita del Paese senza un vero e proprio colpo di
Stato.
255
256
Ciò avrebbe permesso comunque l'uscita allo scoperto dei NUCLEI DI DIFESA
DELLO STATO con funzione di appoggio e di propaganda in favore dei
militari.
In seguito il capitano CARRET mi confermò che quello era stato il progetto,
ben visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni
democristiani come RUMOR.
Mi spiegò anche che nei giorni successivi alla strage le navi militari sia italiane
sia americane avevano avuto l'ordine di uscire dai porti perchè, in caso di
manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più
facilmente colpite.
Anche con Sergio MINETTO, a casa di Bruno SOFFIATI, vi furono da parte di
quest'ultimo commenti simili prima ancora dei colloqui che ebbi con
CARRET”””.
(DIGILIO, int.21.2.1997, f.1).
Ciò non significa certamente che l’on. Mariano RUMOR fosse organizzatore o
mandante di stragi come qualche giornalista, dopo l’audizione di questo giudice
dinanzi alla Commissione Parlamentare sulle stragi e il terrorismo, ha titolato,
suscitando il comprensibile sdegno di alcuni ex-esponenti della Democrazia
Cristiana.
Significa piuttosto che il Presidente del Consiglio dell’epoca e una parte della
D.C., ed anche e soprattutto il P.S.D.I., erano visti come il terminale che doveva
concretizzare con le sue decisioni i frutti di una strategia politico/eversiva che,
partendo da soggetti operativi come MAGGI, ZORZI e FREDA, attraverso
mediazioni, probabilmente anche militari, che forse non saranno mai note, era
in grado di indirizzare le scelte ai massimi vertici istituzionali.
Il racconto di Carlo DIGILIO non è isolato nel quadro della ricostruzione della
strategia politica di Ordine Nuovo, discussa molto probabilmente a livello dei vertici
romani dell’organizzazione.
Vincenzo VINCIGUERRA aveva parlato, sin dagli interrogatori resi subito dopo
l’assunzione di responsabilità dell’attentato di Peteano e quindi in un’ottica di
denunzia delle collusioni della destra apparentemente “rivoluzionaria” con apparati e
strategie statali, della sospetta insistenza con cui il dr. MAGGI e Delfo ZORZI,
più volte fra il 1971 e il 1972, gli avevano proposto di eliminare l’on. RUMOR,
piano per la cui esecuzione era stata scelta la residenza dell’on. RUMOR nei pressi
di Vicenza e in ordine alla quale “non vi sarebbero stati problemi con la scorta”,
prospettandosi così complicità inaccettabili per il “puro” VINCIGUERRA (int. al G.I. di
Venezia, 14.8.1984, vol.12, fasc.7, ff.136-138).
Anche Martino SICILIANO aveva appreso da Delfo ZORZI la stessa spiegazione
in merito alle ragioni dell’astio contro l’on. RUMOR:
256
“””In relazione agli avvenimenti che ci interessavano Delfo ZORZI, all'inizio
del 1970, mi parlò della figura dell'on. Mariano RUMOR spiegandomi che da
lui l'ambiente di destra si era aspettato che, nella sua qualità di Presidente del
Consiglio, subito dopo i fatti del 12.12.1969 portasse avanti la scelta di far
proclamare lo Stato di Emergenza.
Sempre secondo ZORZI, già prima dei fatti del dicembre vi erano stati contatti
fra alti esponenti di Ordine Nuovo a Roma e ambienti istituzionali, soprattutto
democristiani, per giungere ad una soluzione di quel tipo in caso di attentati
gravi.
Tale soluzione sembrava sicura, ma dopo gli attentati del 12 dicembre l'on.
RUMOR aveva disatteso queste nostre aspettative e non si era sentito di portare
avanti questa scelta.
Per questo l'on. RUMOR, agli occhi degli alti dirigenti di Ordine Nuovo fra i
quali ZORZI mi indicò MAGGI e SIGNORELLI, era visto come un traditore e
quindi andava prima o poi punito”””.
(SICILIANO, int. 24.6.1997, f.4).
Tale complessiva ricostruzione trova corrispondenza in un documento molto
particolare e precisamente un volumetto, riguardante gli attentati del 12.12.1969 e
soprattutto quanto sarebbe avvenuto, sul piano politico/istituzionale, dopo gli attentati
stessi, quasi sconosciuto anche agli studiosi del settore e mai preso in
considerazione ed analizzato durante le precedenti istruttorie.
Si tratta del breve saggio politico-giudiziario “Il Segreto della Repubblica”,
edito nel 1978 dalle sconosciute Edizioni FLAN e firmato da tale Walter RUBINI.
In realtà Walter RUBINI, come non è stato difficile accertare, è lo pseudonimo di
Fulvio BELLINI e il libro è stato praticamente stampato in proprio avendo in
precedenza le Edizioni FLAN stampato solo un altro volume scritto dallo stesso
autore.
Fulvio BELLINI è un ormai anziano studioso e polemista residente a Milano, militante
sino all’immediato dopoguerra del P.C.I. e in seguito, per un periodo, legatosi a
Giorgio PISANO’ insieme al quale aveva collaborato a varie pubblicazioni di
polemica politico/giudiziaria.
Le informazioni cui ha sovente potuto accedere Fulvio BELLINI non devono essere
certamente di seconda mano se egli per primo, nel 1963, ha potuto prospettare
(prima con una serie di articoli sul periodico “Il Secolo XX” e poi con un libro, il primo,
appunto, pubblicato dalle Edizioni FLAN), con significative argomentazioni sia sul
fatto sia sul movente, la morte di Enrico MATTEI, a bordo dell’aereo su cui
viaggiava, come atto di sabotaggio attuato, forse, da elementi dell’O.A.S. al
servizio di interessi politico-economici stranieri (cfr. atti trasmessi dal P.M. di Pavia,
dr. Vincenzo Calia, vol.20, fasc.10, ff.21 e ss. e 43 e ss.).
257
258
Chiave di volta della ricostruzione operata nel volume pubblicato nel 1978 (che
comunque non contiene, in merito all’esecuzione degli attentati, nulla che non fosse
già noto alle indagini) è il compromesso, appunto “Il Segreto della Repubblica”,
che sarebbe stato raggiunto il 15.12.1969, subito dopo il solenne funerale delle
vittime della strage di Piazza Fontana, fra due ampie aree politiche, una autoritaria
e quasi filo-golpista e una più cauta e non disponibile a ridurre gli spazi di
democrazia, compromesso che comportava che il Presidente del Consiglio, on.
Mariano RUMOR, non si adoperasse per la dichiarazione dello stato di
emergenza e non decidesse di sciogliere le Camere e che tuttavia in cambio,
quale condizione posta dalla componente autoritaria, si desse via libera alla
prosecuzione della pista anarchica voluta dal Ministero dell’Interno e si
rinunziasse ad approfondire la “pista nera” che il nucleo di p.g. dei Carabinieri
di Roma aveva cominciato a battere con successo.
Gli antecedenti sul piano politico e i passaggi di tale situazione di compromesso,
esposti nel volume, sono stati sintetizzati dall’Ufficio nella parte introduttiva alla
testimonianza cui è stato chiamato Fulvio BELLINI in data 2.4.1997 dinanzi a questo
Giudice Istruttore e al Pubblico Ministero:
“””....l'Ufficio richiama l'attenzione del dr. Bellini sui seguenti passaggi della
sua ricostruzione:
- scissione del P.S.I. e formazione del P.S.U. nel luglio 1969, presuntivamente
appoggiata e finanziata da ambienti americani, e ruolo di tale Partito nei
successivi eventi di spinta verso soluzioni autoritarie, noti come "strategia della
tensione" conseguenti agli attentati;
- prevista disponibilità, all'interno della medesima strategia (di cui braccio
operativo sarebbero stati Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), del
Presidente del Consiglio, on. Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza
e a sciogliere le Camere nella prospettiva della formazione di un governo di
centro-destra con l'esclusione del P.S.I.;
- fallimento di tale strategia a seguito dei dubbi e dei tentennamenti a mettere in
opera tali scelte da parte dell'on. Rumor, in particolare dopo i funerali delle
vittime della strage del 12.12.1969, e conseguente venir meno dell'obiettivo
politico degli attentati;
- formazione comunque di un accordo a livello dei più alti vertici politici,
compreso l'on. Moro allora Ministro degli Esteri, affinchè non fosse sviluppata
la pista riguardante l'Aginter Press e Avanguardia Nazionale, delineata
nell'appunto del S.I.D. del 16.12.1969 e inizialmente sviluppata da alcune
indagini del Nucleo di p.g. dei Carabinieri di Roma (in particolare nei confronti
di Delle Chiaie) e di conseguenza avesse sviluppo a livello di indagine di p.g.
258
solo la c.d. pista rossa o anarchica avviata in particolare
dell'Interno”””.
dal Ministero
La testimonianza di Fulvio BELLINI si è sviluppata, nei suoi passaggi più importanti,
nel modo che segue:
“””....posso innanzitutto confermare che la parte centrale e significativa del
volume stesso è la ricostruzione di quanto avvenne a livello politico nel periodo
immediatamente precedente e successivo agli attentati del 12 dicembre 1969 e
di come le indagini presero in sostanza l'indirizzo che era più consono alle
scelte politiche prevalenti in quei momenti.
Faccio ancora presente che pur avendo scritto il libro tra l'inverno 1977 e la
primavera 1978, tanto che era praticamente già scritto quando fu rapito l'on.
Moro, avevo già raccolto le informazioni utili sulla parte centrale dello stesso
sin dall'inizio del 1970.
Quando avvennero gli attentati, a livello di intuizione politico-storica e pur
senza avere inizialmente alcun dato diretto, mi ero subito formato la
convinzione che VALPREDA fosse un capro espiatorio e che gli anarchici
fossero vittime di un meccanismo ben più grande e articolato.
Dico questo non per scelta politica, ma perchè proprio sul piano storico e di
ricerca avevo compreso che alle spalle di questi attentati doveva esserci un
piano finalizzato a cambiare gli equilibri politici del momento.
La mia fonte su quello che avvenne negli ambienti politici dopo gli attentati che
ho riportato nei capitolo VI e VII del libro fu, a partire dal gennaio 1970, un
conoscente inglese che frequentava gli ambienti giornalistici e diceva di essere
il corrispondente in Italia dell'Agenzia Reuter e che conobbi al Circolo della
Stampa, abituale punto di ritrovo di giornalisti, esponenti politici e personaggi
vari.
Sono tuttavia certo che, così come altri soggetti che si qualificavano come
giornalisti, egli in realtà fosse un agente dell'Intelligence Service inglese.
Questo signore aveva all'epoca circa 50 anni ed aveva un aspetto tipicamente
inglese e non si è mai presentato con nome e cognome, cosa che del resto io non
gli ho mai chiesto e che non è mia abitudine fare.
Ho continuato a vederlo normalmente fino al 1975/1976 mentre in seguito gli
incontri si sono un po' rarefatti quantomeno fino al 1987.
Ripeto che la mia esperienza sin dai tempi della guerra, sia con agenti
dell'O.S.S. paracadutati in Italia sia con agenti inglesi mi faceva ben
comprendere con quale tipo di persona stessi parlando.
Anche per la mia simpatia nei confronti di questi ultimi, cioè gli inglesi, dopo la
guerra rifiutai la Bronze Star americana.
Io e l'inglese parlammo per la prima volta credo all'inizio del gennaio 1970,
comunque poche settimane dopo i fatti.
259
260
Egli mi fornì in sostanza tutte le informazioni che io ho riportato nei due
capitoli centrali del libro e cioè che vi era stato un grosso scontro istituzionale
in sostanza fra l'area che aveva fatto capo a Saragat, definibile come Partito
americano, e l'area che aveva fatto capo a Moro, scontro che aveva avuto il
suo epilogo qualche giorno prima di Natale.
In sostanza aveva vinto questa seconda linea che aveva dalla sua parte la
possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini delegate dal
Ministro della Difesa GUI, molto vicino a Moro, al controspionaggio militare e
ai Carabinieri e che stavano portando alla evidenziazione della responsabilità
di gruppi di estrema destra.
Per questa ragione non era stato decretato lo stato di emergenza e non erano
state sciolte le Camere, come soprattutto i settori del rinato P.S.U. volevano,
anche se l'accordo si era comunque concluso lasciando da parte i risultati
delle prime indagini sulla destra e lasciando così che si sviluppasse la c.d.
pista rossa.
Sempre il giornalista inglese mi disse che l'on. Rumor, che inizialmente faceva
parte dell'area del Partito americano, fortemente colpito dalla grande
mobilitazione popolare che vi era stata per i funerali delle vittime del 12
dicembre 1969, era stato colto da dubbi e si era alleato con l'on. Moro non
consentendo così che avvenisse una svolta autoritaria e soprattutto non
consentendo che fossero sciolte le Camere.
L'inglese mi mostrò anche una copia dell'articolo dell'Observer del 14.12.1969
che ho citato all'inizio del capitolo VI e che indicava già a grandi linee questo
tipo di strategia.
Io non conoscevo questo articolo poichè non leggevo l'Observer, ma comunque
mi resi conto che già dal 14 dicembre quel giornale aveva compreso e
sintetizzato la dinamica degli avvenimenti che l'inglese mi aveva ricostruito.
Con riferimento a questo articolo, l'inglese mi disse che in realtà non era un
semplice commento giornalistico, ma una sorta di presa di posizione ufficiale
ben comprensibile negli ambienti politico-diplomatici, che intendeva
disapprovare la possibile destabilizzazione del nostro Paese a seguito di un
eventuale scioglimento delle Camere.
Ciò era stato ben compreso ed era per queste ragioni che Saragat, stizzito,
aveva indotto il Governo ad una protesta diplomatica.
Comunque da tale messaggio del giornale inglese, l'ala facente capo a Moro e a
una forte parte della D.C. aveva capito che non era isolata.
Io, ovviamente, sino a quel momento non sapevo nulla del fatto che fosse stata
iniziata, anche se subito interrotta, un'indagine da parte del controspionaggio
militare che aveva intrapreso una strada ben diversa da quella che portava agli
anarchici del gruppo Valpreda.
Nel corso di questo o di un secondo incontro, l'inglese mi fece vedere dei suoi
appunti, di cui presi nota, che riguardavano proprio gli avvenimenti e
260
soprattutto le indagini successivi al 12 dicembre così come li ho riportati nel
libro.
Ricordo che l'inglese mi citò il fatto dell'immediato ritorno di Moro da
Bruxelles e il fatto che subito GUI lo informò dei primi esiti delle indagini del
servizio informazioni militare sviluppatesi poi con gli interrogatori di DELLE
CHIAIE da parte dei Carabinieri.
Io misi da parte gli appunti che avevo potuto ricavare dai colloqui con l'inglese
e iniziai a svilupparli, sino a scrivere il libro, solo nel momento in cui, intorno
al 1973, le indagini sulla pista nera condotte prima a Treviso e poi a Milano e
l'evidenziazione del ruolo di personaggi come GIANNETTINI mi diedero la
certezza che si era trattato di informazioni esatte e di prima mano.
Le notizie politiche che l'inglese mi ha fornito si sono sempre rivelate esatte
anticipando sovente lo sviluppo di grossi avvenimenti politici nel nostro Paese e
risultando certo qualcosa di ben diverso dalla normale attività giornalistica.
Io non gli ho mai chiesto, dopo l'inizio della nostra conoscenza in cui mi disse
che era della Reuter, per chi effettivamente lavorasse”””.
(dep. Fulvio BELLINI, 2.4.1997).
In sostanza Fulvio BELLINI, anche nella sua testimonianza, ha confermato che
sarebbero stati i dubbi e poi il cambiamento di campo dell’on. Mariano RUMOR
nel dicembre 1969 a determinare il fallimento della strategia politico-istituzionale,
gradita agli americani e alle aree politiche italiane ad essi vicine, che sarebbe stato
l’obiettivo della campagna di attentati.
Fulvio BELLINI avrebbe ricevuto tali informazioni, sin dall’inizio del 1970, da un
giornalista inglese, in realtà corrispondente dei servizi informativi di tale Paese, di cui
si è ben guardato di consentire l’identificazione, anche se il rapporto con lo stesso
sarebbe durato, e proficuamente, per molti anni.
Tale linea di acquisizione di notizie sembra verosimile tenendo presente, ad
esempio, che nei giorni immediatamente successivi al 12 dicembre 1969 la stampa
britannica più autorevole (dal TIMES all’OBSERVER) e portatrice del punto di
vista del Governo non aveva avuto dubbi nell’indicare come “nera” la matrice
della strage e nel ritenerla connessa ad un progetto di svolta autoritaria,
mostrando di disporre di informazioni non di seconda mano (cfr. perizia del dr.
Aldo Giannuli, f.142).
Sembra però difficile che le informazioni raccolte da Fulvio BELLINI si limitino a
quelle raccolte nel 1970 dall’agente inglese e non siano state arricchite, in seguito,
da altri dati di conferma anche in considerazione del fatto che il volume è stato scritto
solo molti anni dopo, secondo l’autore fra l’inverno 1977 e la primavera 1978, e
comunque pubblicato alla fine del 1978.
Non sembra un caso che nella nota aggiunta alla prefazione (pag.9), scritta
certamente quando il testo era già stato scritto, Fulvio BELLINI sottolinei che la
pubblicazione del c.d. memoriale Moro (quello rinvenuto in Via Montenevoso, a
261
262
Milano, il 1°.10.1978) evidenzi “una impressionante analogia fra gli argomenti
toccati dallo scomparso statista e quelli trattati nel “Segreto della Repubblica”.
A questo punto, tenendo presente che secondo il volume, scritto nel periodo
corrispondente al rapimento dello statista, l’on. Aldo MORO (all’epoca Ministro degli
Esteri) sarebbe stato uno dei principali artefici del “compromesso” del dicembre 1969
che aveva comunque arginato la linea oltranzista appoggiata dai filo-americani del
P.S.D.I., compromesso che era stato possibile grazie al mutamento di campo dell’on.
RUMOR (pagg.85-87), è possibile azzardare un’ipotesi.
Non è infatti escluso che Fulvio BELLINI, grazie ai poliedrici contatti di cui godeva sia
a destra sia a sinistra (egli, nella testimonianza, si è in sostanza qualificato come un
comunista amico dei fascisti e viceversa, mostrando stima nei confronti di entrambi i
“rivoluzionari” Mussolini e Lenin), abbia potuto ricevere confidenze o anticipazioni in
merito ai temi e alle linee di interpretazione toccate dall’on. MORO durante la sua
prigionia, e in particolare quelle relative alla strage di Piazza Fontana e alla strategia
della tensione, ricevendo da ciò conferma dei primi elementi raccolti nel 1970.
L’esame del “memoriale MORO” e in particolare del secondo testo rinvenuto nel
1990 in Via Montenevoso in una intercapedine (ammesso che anche tale testo sia
completo) sembra avvalorare tale prospettazione e anche la ricostruzione di
collaboratori di giustizia secondo cui la strage di Via Fatebenefratelli non sarebbe
stato un episodio secondario e l’obiettivo sarebbe stato direttamente l’on. Mariano
RUMOR, e non genericamente le personalità presenti, da punire per il “tradimento”
del dicembre 1969.
Infatti nella parte del “memoriale MORO” dedicata alle riflessioni del “prigioniero”
sulla strage di Piazza Fontana (si veda un estratto, vol.20, fasc.10, ff.14 e ss.), oltre
ad accennare a “responsabilità che si collocano fuori dall’Italia” e al fatto che nella
strategia della tensione doveva presumersi che “Paesi associati a vario titolo alla
nostra politica e quindi interessati ad un certo indirizzo si fossero in qualche modo
impegnati attraverso i loro servizi di informazione” (evidente richiamo, questo, agli
Stati Uniti d’America e ai Paesi del Patto Atlantico), vi è una serie di riferimenti,
ben 4 in poche pagine, all’on. RUMOR.
Leggendo con attenzione il testo si può notare che tutti i riferimenti all’on. RUMOR
contengono, dopo la citazione del nome dell’esponente democristiano, un
insistente riferimento al fatto che ”egli stesso” sarebbe stato “destinatario
dell’attentato BERTOLI” (o oggetto di attacco del BERTOLI o di un attentato, e così
via), riferimenti pleonastici dopo la prima citazione, tenendo presente il fatto
che l’avvenimento di Via Fatebenefratelli era ampiamente noto.
Perchè, allora, citare 4 volte l’attentato di Gianfranco BERTOLI (strage, per così
dire, “minore” rispetto ad altre) nei passi relativi alla strage di Piazza Fontana e
al ruolo dell’on. RUMOR?
Si ha la sensazione che l’on. MORO, in parte in ragione del suo stile e in parte
della situazione di prigionia in cui si trovava, abbia voluto inviare un messaggio
criptico che comunque imponeva lo stesso collegamento fra i due episodi,
quello del 1969 e quello del 1973, emerso nella presente istruttoria.
262
In uno dei passaggi, l’on. RUMOR è anche definito “uomo intelligente ma incostante
e di scarsa attitudine realizzativa“, definizione che sembra richiamare il
comportamento incerto di RUMOR sino all’ultimo momento di quel dicembre 1969
messo in luce tanto dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia quanto dal saggio
polemico di Fulvio BELLINI.
Se a ciò si aggiunge il riferimento inequivoco contenuto nel memoriale (in un altro
passo, oltre a quelli citati, si legge: “...la presenza straniera, a mio avviso, c’era”),
l’insieme delle risultanze della presente istruttoria ne risulta notevolmente rafforzata
e, in prospettiva, la strada dell’approfondimento di tali collegamenti (e in primo luogo
delle “fonti” di Fulvio BELLINI) potrebbe ancora essere utilmente percorsa.
263
264
41
LE INTERSEZIONI DELLA STRUTTURA DI ORDINE NUOVO
CON GLI APPARATI MILITARI
INTERESSATI ALLA GUERRA NON ORTODOSSA
IL RUOLO DEL GENERALE
ADRIANO GIULIO CESARE MAGI BRASCHI
Al fine di mettere a fuoco in via conclusiva le intersezioni tra la strategia degli
attentati e delle stragi e le strutture finalizzate a mutamenti illegali del quadro
istituzionale nell’Italia degli anni ‘60/’70, appare necessario, terminata la fase
espositiva delle più dirette emergenze processuali relative ai vari episodi criminosi,
esaminare le intersezioni fra la struttura occulta di Ordine Nuovo e gli apparati
militari attivi in quel periodo nel campo della guerra non ortodossa e della
guerra psicologica contro il pericolo sovversivo.
Infatti, a dispetto dei proclami di guerra nazional/rivoluzionaria presenti nei testi di
Ordine Nuovo e nelle prese di posizione dei suoi principali esponenti, che avrebbero
comportato, come ha sempre sottolineato Vincenzo VINCIGUERRA, un coerente
rifiuto dei due blocchi militari (quello comunista, ovviamente, e quello nato anche dall’
“occupazione” del nostro Paese da parte delle forze anglo/americane) e un rifiuto del
mondo conservatore e borghese secondo gli ideali più puri dei combattenti della
R.S.I., sembra ormai certo che l’organizzazione di RAUTI, MACERATINI, MAGGI e
SIGNORELLI, solo per citare gli ideologi più noti, non abbia affatto disdegnato il
contatto e l’alleanza con gli apparati istituzionali e con il mondo militare
ufficiale, attestato su posizioni di difesa ad oltranza della scelta di campo atlantica e
contrario a qualsiasi forma di “scivolamento”, anche timido, del Paese a sinistra.
Figura centrale di tale intersezione, oltre all’intera vicenda dell’arruolamento degli
ordinovisti nei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO già trattata nella prima
sentenza/ordinanza, è quella di un generale, sconosciuto all’opinione pubblica e ai
mass-media, e cioè il generale Adriano Giulio Cesare MAGI BRASCHI, uno dei
massimi esperti e propagandisti, per oltre 40 anni, delle tecniche della guerra
non ortodossa.
La figura del generale MAGI BRASCHI è emersa per la prima volta da alcuni
interrogatori di Ettore MALCANGI, l’esponente della destra milanese latitante per
lungo tempo a Villa d’Adda con Carlo DIGILIO, decisosi, con la sua testimonianza e
nei limiti delle sue conoscenze, a far chiarezza su alcuni aspetti equivoci
dell’ambiente politico in cui aveva a lungo militato.
Ettore MALCANGI ha riferito che Carlo DIGILIO, durante il periodo della comune
latitanza, gli aveva confidato di aver avuto rapporti con ambienti della C.I.A. e che
aveva conosciuto un importante generale, in qualche modo legato alla N.A.T.O. di
Verona, il cui cognome, secondo il ricordo di MALCANGI, era FRASCA o BRASCA o
BRASCHI (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.3, e annotazione del R.O.S. sulle strutture di
intelligence, 8.5.1996, vol.23, fasc.9, f.115).
264
Con questo generale, Carlo DIGILIO aveva partecipato ad una riunione che si era
svolta intorno al 1973, probabilmente al Centro CARLOMAGNO di Verona, cui erano
presenti esponenti di tutte le componenti dell’area di destra e di estrema destra: il dr.
MAGGI per Ordine Nuovo, Giuliano BOVOLATO per le S.A.M. di Milano, Carlo
FUMAGALLI per il M.A.R. e il colonnello SPIAZZI per i NUCLEI DI DIFESA DELLO
STATO.
Tale riunione serviva per mettere a punto una strategia comune di mutamento
istituzionale (int. citato, f.4, e int. 17.10.1995, ff.2-3).
La figura di tale generale è comparsa poco dopo nelle deposizioni di Roberto
CAVALLARO, uomo di fiducia del colonnello SPIAZZI negli anni ‘70 e principale
testimone nell’inchiesta sulla ROSA DEI VENTI, rese a personale del R.O.S. in data
23.1.1996 e 26.2.1996.
Roberto CAVALLARO aveva sentito parlare del generale BRASCHI dal colonnello
SPIAZZI e da altri militari aderenti alla ROSA DEI VENTI.
Si trattava di un alto ufficiale dell’Esercito Italiano legato, fra l’altro, ad esponenti
dell’O.A.S. come Jacques SOUSTELLE e soprannominato “FORTEBRACCIO”, con
un richiamo significativo al famoso capitano di ventura, o “FORTE BRASCHI”, con un
richiamo alla località, appunto Forte Braschi a Roma, ove hanno sempre avuto sede i
servizi di sicurezza militari (dep. CAVALLARO, 23.1.1996, ff.1-2).
Del generale BRASCHI parlavano anche l’ing. PIAGGIO e l’avv. DE MARCHI, e cioè
i finanziatori liguri del movimento golpista coinvolti nell’indagine sulla ROSA DEI
VENTI (dep. citata, f.2).
Ma soprattutto Roberto CAVALLARO aveva avuto anche un contatto personale con
MAGI BRASCHI ed è stato quindi in grado di riconoscere il generale in fotografia
(dep. 16.2.1996, f.2).
Roberto CAVALLARO ha infatti rivelato una circostanza che non aveva mai rivelato
prima e cioè che alla ristrettissima riunione tenuta in una villa del vicentino nella
disponibilità del finanziere Michele SINDONA (riunione di cui CAVALLARO aveva
parlato in un memoriale consegnato nel 1976 al G.I. di Padova, dr. Tamburrino) era
presente, oltre a SINDONA, all’on. Giulio ANDREOTTI, a tre alti ufficiali della Marina
e dell’Aeronautica (persone già citate nel memoriale) e allo stesso CAVALLARO,
anche il generale BRASCHI all’epoca colonnello.
Anche tale riunione serviva per mettere a punto un piano di mutamento
istituzionale e CAVALLARO ricordava che il colonnello BRASCHI non
condivideva affatto l’apporto finanziario dato al piano da Michele SINDONA in
quanto, ad avviso dell’ufficiale, il finanziere intendeva utilizzare tale causa
politica per i suoi interessi personali, commerciali e finanziari (dep. 16.2.1996,
f.2).
Il colonnello BRASCHI intendeva invece salvaguardare la centralità politica di quanto
si stava preparando (dep. citata, f.2).
265
266
Martino SICILIANO è stato dal canto suo in grado di ricollegare direttamente il
generale MAGI BRASCHI al gruppo veneto di Ordine Nuovo.
Egli, infatti, aveva sentito parlare da MAGGI, MOLIN e ZORZI di un alto ufficiale
soprannominato appunto FORTE BRASCHI, che costoro contattavano a Roma e da
cui andavano regolarmente in un periodo collocabile fra il 1966 e il 1968 (int.
11.5.1996, ff.1-2).
Molto probabilmente il primo elemento di contatto con il generale MAGI BRASCHI
era stato Paolo MOLIN il quale poco prima, e cioè nel maggio 1965, aveva
partecipato , a Roma, al Convegno dell’ISTITUTO POLLIO sulla guerra
controrivoluzionaria (int. SICILIANO, citato, f.2), convegno cui il generale MAGI
BRASCHI era stato presente con una relazione, ed infatti MOLIN aveva
successivamente diffuso a Venezia diverse copie del volume “La Guerra
Rivoluzionaria” che raccoglieva gli atti e gli interventi di tale convegno (int. citato, f.2).
Il generale MAGI BRASCHI è stato identificato nell’omonimo ufficiale dell’Esercito
(deceduto recentemente, il 22.5.1995) a lungo distaccato presso il SIFAR, impiegato
nel SIOS ESERCITO, oggetto di molte benemerenze fra cui la Croce di Ferro
tedesca, che aveva legato la sua brillante carriera alla specializzazione nello studio
della guerra psicologica e non ortodossa, tanto da diventare, all’inizio degli anni ‘60,
responsabile del “NUCLEO GUERRA NON ORTODOSSA” del SIFAR (cfr.
annotazione del R.O.S. in data 8.5.1996, vol.23, fasc.9, ff.116-117).
Il generale Adriano MAGI BRASCHI aveva tenuto una relazione al Convegno
dell’Istituto Pollio, peraltro sotto le mentite spoglie di un avvocato e professore
universitario al fine di non far emergere in modo troppo diretto l’intervento e
l’interesse dei più alti gradi militari per la strategia delineata nel Convegno stesso.
Sempre in relazione al ricco curriculum militare del generale MAGI BRASCHI, da un
altro documento, fornito dal S.I.S.Mi. e contenuto nel fascicolo personale
dell’ufficiale, risulta che il 23.7.1963 la Direzione del SIFAR aveva rappresentato allo
Stato Maggiore dell’Esercito l’impossibilità di privarsi in breve tempo dell’ufficiale, al
fine di fargli completare il periodo di comando nell’Esercito, in ragione del contributo
che stava dando al Servizio con la sua “provata specializzazione e capacità nel
campo della guerra non ortodossa” e soprattutto in relazione alla “.....Cooperazione
Interalleata in questo particolare ramo....” che stava acquisendo sempre maggiore
importanza ed ingresso (cfr. annotazione del R.O.S. 26.6.1997, vol.23, fasc.9-bis,
f.21).
Tale accenno richiama il probabile inserimento ad alto livello in ambito
N.A.T.O. del generale MAGI BRASCHI, ricordato da Ettore MALCANGI.
Carlo DIGILIO ha avuto molte titubanze prima di parlare della figura del generale
MAGI BRASCHI e dei suoi contatti con il dr. MAGGI, esitazioni che testimoniano
indirettamente la caratura dell’ufficiale.
266
Solo a partire dalla primavera del 1996 DIGILIO si è risolto a fornire via via i decisivi
elementi di comprensione di cui, tuttavia, non si può non sottolineare la probabile
incompletezza e la necessità che nelle fasi ulteriori del procedimento tali aspetti
siano ancora approfonditi.
In sintesi Carlo DIGILIO ha riferito che:
- Il generale MAGI BRASCHI era considerato nell’ambiente di Ordine Nuovo un
ufficiale di grande prestigio, era in contatto con il dr. MAGGI e con gli
ordinovisti veronesi che lo ritenevano l’elemento essenziale di collegamento con
l’ambiente militare nella prospettiva del colpo di Stato (int. 24.2.1996, ff.3-4).
Secondo il dr. MAGGI, il generale MAGI BRASCHI era l’ufficiale che, al momento
necessario, doveva coordinare l’appoggio dei civili ai militari, un vero e proprio
deus ex machina che avrebbe avuto l’ultima parola al momento dell’intervento
dei militari (int.12.6.1996, ff.1-2).
- Era soprannominato FORTEBRACCIO (int.12.6.1996, f.1) e Carlo DIGILIO lo aveva
conosciuto personalmente in occasione di un incontro a Verona, in un locale
pubblico, finalizzato a rinsaldare il raccordo fra civili e militari (int.5.5.1996, f.6).
A tale incontro erano presenti il dr. MAGGI, Marcello SOFFIATI e Giulio MALPEZZI,
ordinovista di Bolzano.
Dopo l’incontro, il generale MAGI BRASCHI si era avviato a piedi verso il Comando
FTASE di Verona, struttura cui probabilmente faceva riferimento (int.5.5.1996, f.6).
Il generale aveva partecipato ad altre riunioni a Verona, presso il Centro
CARLOMAGNO, e a Rovigo, presente Marcello SOFFIATI il quale, in tali occasioni,
rappresentava anche Sergio MINETTO quando questi non poteva essere presente
(int.15.5.1996, f.2).
- Il dr. MAGGI e Paolo MOLIN avevano partecipato al Convegno dell’Istituto
Pollio in cui il generale MAGI BRASCHI era stato relatore e da tale convegno era
originata la strategia che aveva portato alla formazione dei NUCLEI DI DIFESA
DELLO STATO in cui erano inseriti molti ordinovisti (int.12.6.1996, f.2; 19.12.1997,
f.3).
- Carlo DIGILIO ha infine riconosciuto il generale MAGI BRASCHI in una fotografia
acquisita dall’Ufficio durante la perquisizione effettuata nell’abitazione di quest’ultimo
(int.12.6.1996, f.2).
In data 23.5.1996, infatti, è stata operata una perquisizione su disposizione di questo
Ufficio nella villa di Bracciano ove tuttora vive la vedova del generale, Signora Emilia
Caleca (cfr. vol.23, fasc.2, ff.3 e ss.).
Nella biblioteca del generale era ancora presente un’amplissima documentazione in
tema di contro-insorgenza e guerra non ortodossa di provenienza sia italiana sia
statunitense o di altri Paesi occidentali nonchè carteggi e corrispondenza con la
W.A.C.L. (la Lega Anticomunista Mondiale) della cui sezione italiana il generale
MAGI BRASCHI era divenuto dirigente all’inizio degli anni ‘80 succedendo a Edgardo
BELTRAMETTI (cfr. nota del R.O.S. in data 22.5.1996, vol.23, fasc.2, f.34).
267
268
Tale documentazione è stata sottoposta al perito dr. Aldo Giannuli per una
integrazione della perizia principale specificamente finalizzata ad analizzare il ruolo
svolto dall’Ufficiale all’interno delle strutture italiane di guerra non ortodossa.
La relazione integrativa è stata depositata in data 12.9.1997 (cfr. vol.22, fasc.1) e
dalla ricca analisi effettuata dal perito risulta confermato che il generale MAGI
BRASCHI era il miglior specialista dell’Esercito Italiano in tema di contro-insorgenza
e l’Ufficiale, cui era affidata in materia, tramite la partecipazione a corsi e convegni,
una sorta di delega alla rappresentanza esterna e quasi alla “propaganda”
dell’argomento, ruolo questo che ben entra in sintonia con quanto riferito da Carlo
DIGILIO e dagli altri testimoni (cfr. relazione del dr. Giannuli, pagg.52-53).
Dall’analisi della documentazione presente nell’archivio del generale MAGI
BRASCHI risulta anche che questi era stato personalmente l’autore, nel 1963/1964,
dei due manualetti del SIFAR sulla guerra non ortodossa intitolati “La Parata” e “La
Risposta” (cfr. relazione citata, pagg.33-34) e soprattutto che la sua partecipazione
al Convegno dell’Istituto POLLIO del maggio 1965 non era stata un’iniziativa
“privata” dell’Ufficiale, ma egli vi aveva presenziato per esplicito incarico del
Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale ALOJA, cosicchè può
affermarsi che le nostre più alte strutture militari avevano partecipato
direttamente all’organizzazione del Convegno cui erano presenti coloro che
negli anni successivi sarebbero divenuti i principali protagonisti, sul piano
operativo, della strategia della tensione (cfr. relazione citata, pagg.39-40).
In un appunto rinvenuto nella villa del generale MAGI BRASCHI, datato 6.5.1965 e
cioè il giorno successivo alla conclusione del Convegno, l’Ufficiale relaziona al Capo
di Stato Maggiore, con toni esultanti, sullo svolgimento dei lavori sottolineando che
“come disposto da V.E., nei giorni 3/4/5 maggio sono intervenuto al Convegno” i cui
lavori hanno posto l’accento “sulla necessità di un’azione che fronteggi efficacemente
nel nostro Paese gli sviluppi della guerra rivoluzionaria, sull’opportunità di una stretta
collaborazione fra civili e militari” (cfr. relazione citata. pag.39).
Meritano, allora, di essere richiamati i passi salienti della relazione tenuta dal
generale MAGI BRASCHI nella giornata conclusiva del Convegno, in cui egli esprime
senza mezzi termini quali siano le esigenze imposte dalle nuove forme di lotta contro
il pericolo della “guerra rivoluzionaria” comunista che stava serpeggiando
silenziosamente nel Paese e penetrando nei nuclei vitali della società:
“””....Determinante è l’azione militare, lo si sa, l’han detto tutti.
E’ l’azione militare.
Ma non è soltanto dei militari. E’ stato detto da BELTRAMETTI.
La guerra non è più soltanto militare.
E’ “anche” militare, in ultima analisi; ma è economica, è sociale, è religiosa, è
ideologica.
Se la prima guerra mondiale vide gli Stati Maggiori combinati, cioè dalla prima
guerra mondiale si ricavò la necessità di avere Comandi composti dalle tre
Armi, vale a dire gli Stati Maggiori che ragionassero in funzione
tridimensionale; se dalla seconda guerra mondiale sono usciti gli Stati
268
Maggiori integrati, cioè gli Stati Maggiori che comprendono personale di più
nazioni: questa guerra vuole gli Stati Maggiori allargati, gli Stati Maggiori
che comprendano civili e militari contemporaneamente”””.
Le parole del generale MAGI BRASCHI sulla necessità di affrontare e sconfiggere il
nemico costituendo “Stati Maggiori allargati” sembrano preannunziare direttamente la
formazione dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO.
Ma soprattutto, per quanto concerne i profili di responsabilità dei soggetti coinvolti in
questa istruttoria e nelle indagini collegate e l’interpretazione dei loro comportamenti,
gli stretti rapporti fra il dr. Carlo Maria MAGGI e un personaggio del livello del
generale MAGI BRASCHI consentono di affermare che la struttura occulta di
Ordine Nuovo non era l’espressione di quattro fanatici eversori, ma che,
almeno tendenzialmente, tale struttura avesse dei sicuri punti di riferimento
militari e istituzionali in grado, al momento giusto, di sfruttare gli effetti di
paura e disorientamento che gli attentati dovevano suscitare.
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PARTE
QUINTA
LA STRUTTURA DI SICUREZZA E INFORMATIVA DI VERONA
E I SUOI RAPPORTI CON ORDINE NUOVO
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42
LA STRUTTURA INFORMATIVA AMERICANA
NEL RACCONTO DI CARLO DIGILIO
LE PRIME DICHIARAZIONI
La maggiore novità di questa istruttoria è certamente il fatto che per la prima volta in
un ambito strettamente processuale e con elementi di prova via via più solidi è
emerso, all’interno degli avvenimenti noti come strategia della tensione, il quadro
quasi intero di una rete informativa statunitense, un’ipotesi che in passato era
confinata solo a qualche frammento processuale che non era stato possibile
sviluppare per mancanza di testimoni diretti o era stata espressione di ricostruzioni
politiche, soprattutto della c.d. controinformazione, che si basavano su deduzioni e
analisi politico/internazionali più che su dati di fatto.
Gli elementi raccolti, comprese le dichiarazioni dei testimoni di supporto e i riscontri
documentali trovati presso i Comandi dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o
forniti dal S.I.S.Mi., sono stati esposti in modo analitico e ragionato in due ampie
annotazioni approntate dal Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri e dedicate
appunto al coinvolgimento di strutture di intelligence straniere nella “strategia della
tensione” (cfr. annotazioni in data 8.5.1996 e 26.6.1997, vol.23, fasc.9 e 9-bis).
A tali annotazioni (inviate anche alla Commissione Parlamentare sulle stragi per il
loro eventuale utilizzo nella redazione della relazione finale) può quindi farsi
riferimento per l’illustrazione di tutti gli elementi di riscontro che, per la loro ampiezza,
appesantirebbero eccessivamente il presente provvedimento.
In questa sede saranno illustrati solo i personaggi e gli elementi essenziali, tenendo
presente che il venire alla luce di tale struttura informativa non costituisce una
semplice ricerca storica, ma, per le circostanze narrate da Carlo DIGILIO, un risultato
processuale importante e di diretto utilizzo in quanto i componenti di tale rete
hanno svolto un’attività non solo di osservazione, ma anche di consulenza
tecnica, e quindi propulsiva, in quasi tutti gli attentati dal 1969 in poi, dagli
attentati ai treni all’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano, sino agli eventi più
gravi e cioè la strage di Piazza Fontana, la strage dinanzi alla Questura di
Milano e verosimilmente la strage di Piazza della Loggia a Brescia.
La struttura di cui faceva parte Carlo DIGILIO, certamente operante sin dal primo
dopoguerra, faceva capo alla Base FTASE di Verona (sita in Via Roma, nel centro
della città) con diramazioni in tutto il Triveneto.
Tale struttura era probabilmente un servizio di sicurezza prettamente militare (con
sede, appunto, nelle Basi e non nelle Ambasciate), probabile prosecuzione e
sviluppo del C.I.C. (Counter Intelligence Corp) dell’Esercito Americano,
operante in Italia già durante la risalita lungo la Penisola delle forze angloamericane e incaricato in tale frangente soprattutto di individuare e
neutralizzare gli agenti nemici attivi nelle zone già liberate dagli Alleati.
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272
L’organizzazione delineata da Carlo DIGILIO, tralasciando i personaggi di minore
interesse, si compone come segue:
- lo stesso Carlo DIGILIO, con il ruolo di agente informatore che aveva ereditato dal
padre, Michelangelo DIGILIO, ufficiale della Guardia di Finanza;
- Marcello SOFFIATI, agente operativo che aveva ereditato i contatti con gli
americani dal padre, Bruno SOFFIATI, “recuperato” nel dopoguerra dopo aver fatto
parte, a Verona, di una rete informativa vicina alla GESTAPO tedesca;
- Sergio MINETTO, superiore di Carlo DIGILIO nel settore informativo;
- Giovanni BANDOLI, superiore di Marcello SOFFIATI nel settore operativo;
- il prof. Lino FRANCO, fiduciario a Vittorio Veneto dove disponeva anche di una
sua rete, il gruppo SIGFRIED, formato da ex-repubblichini;
- il prof. Pietro GUNNELLA di Verona, elemento di collegamento con il colonnello
Amos SPIAZZI e quindi con l’area dei Nuclei di Difesa dello Stato;
- il capitano Teddy RICHARDS e il capitano David CARRET, ufficiale americani
superiori, in tempi diversi, di MINETTO e di BANDOLI;
- Robert Edward JONES e John Louis HALL, operanti a Trieste e in passato in
contatto con Giovanni BANDOLI;
- Benito ROSSI, fiduciario informativo di Sergio MINETTO per il Trentino-Alto Adige;
- Joseph LUONGO e Leo Joseph PAGNOTTA, già in forza al C.I.C., operanti sin
dal primo dopoguerra come reclutatori dell’intera rete informativa e, fra l’altro, di ex
ufficiali nazisti come il maggiore Karl HASS, condannato per la strage delle Fosse
Ardeatine.
Altri soggetti risultano essere comparsi solo occasionalmente sulla scena di Verona,
come il colonnello Frederik TEPASKY, di stanza nella ex Germania Federale e
presente, di tanto in tanto, nella zona veronese con funzione di supervisore della
struttura (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.3, e anche dep. CAVALLARO al R.O.S.,
16.2.1996, f.1).
Anche in merito ai componenti e al funzionamento della struttura americana, le
dichiarazioni di Carlo DIGILIO presentano quel carattere di frammentarietà e
progressività tipica della scelta del collaboratore che non ha ritenuto, sino ad un certo
punto dell’istruttoria, che sussistessero le condizioni per rivelare circostanze così
gravi e uniche nel panorama dell’eversione.
L’unica possibilità di illustrare le sue dichiarazioni consiste quindi nel riportarne i
passi salienti in successione cronologica, lasciando ai capitoli successivi i riscontri
relativi ai singoli personaggi e alla singole circostanze.
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Inizialmente, Carlo DIGILIO ha rivelato il ruolo di agente della struttura limitatamente
a Marcello SOFFIATI, spiegando che questi dipendeva dal Comando FTASE ed era
incaricato di tenere i rapporti con gli ustascia croati, anche recandosi presso la loro
base di Valencia, in Spagna, e di acquisire notizie sugli esuli cileni in Italia e in
genere sulle formazioni di estrema sinistra (int.30.10.1993 e 29.1.1994, f.1).
Solo successivamente Carlo DIGILIO ha ammesso di avere lavorato anche lui per la
struttura atlantica (il Comando FTASE di Verona è il Comando delle Forze della
N.A.T.O. per tutto il Sud-Europa) e di essere stato inviato, tramite il prof. Lino
FRANCO di Vittorio Veneto, un ex-repubblichino e fiduciario della struttura, a
controllare per la prima volta l’arsenale di armi ed esplosivi che VENTURA e ZORZI
detenevano presso il casolare di Paese, riferendo poi al suo superiore gli esiti della
missione (int. 19.2.1994, ff.2-4, e 5.3.1994, ff.1-2).
Carlo DIGILIO ha così spiegato le ragioni per cui, ereditato il compito dal padre
Michelangelo, deceduto nel 1966, aveva iniziato a divenire a sua volta un
informatore, ruolo ricoperto quantomeno sino al 1978:
“””Mio padre del resto, nella sua qualità di tenente della Guardia di Finanza,
nel periodo della Liberazione, rientrando dalla Grecia, aveva collaborato con
formazioni di partigiani “bianchi” ed era un componente del direttivo
composto da sei persone del Comitato di Liberazione Nazionale di Venezia.
Essendo militare il suo nominativo era rimasto sempre riservato e anche dopo
la guerra si è cercato di fare in modo che rimanesse tale.
Mio padre aveva partecipato alla liberazione di Venezia e al disarmo e alla
cattura della guarnigione tedesca a Venezia.
Inoltre, oltre a tale attività di partigiano, durante e dopo la guerra era stato
informatore dell’O.S.S., che erano i servizi di sicurezza militari americani,
con il nome in codice di “ERODOTO”.
Mio padre aveva i suoi referenti a Verona presso la base della F.T.A.S.E.
Alla sua morte, per le ragioni che ho già accennato, mi fu chiesto se anch’io
intendevo collaborare come aveva fatto lui.
Ovviamente non era un’attività a tempo pieno, ma ciò comportava singole
attività di informazione.
Le persone a cui ho fatto riferimento per tale lavoro sono state diverse e
presentate in tempi successivi.
La cosa ovviamente rivestiva carattere di assoluta riservatezza.
Si trattava comunque di americani i quali usavano anche, per facilitare i
collegamenti, dei loro connazionali di origine italiana.
Non avevo un nome in codice particolare.
Facevo riferimento, se necessario, al nome in codice di mio padre.
Fu quindi in tale veste che io fui chiamato a Verona per assumere l’incarico di
recarmi a Vittorio Veneto dal prof. FRANCO che cercava una persona non
conosciuta nell’ambiente della destra e che fosse esperto in armi.
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274
Sono questi, quindi, i motivi per cui io sono entrato in contatto e ho frequentato
persone come VENTURA o persone di Ordine Nuovo di Venezia..... Al prof.
FRANCO relazionai tutto, compreso il progetto di attentato di cui VENTURA
mi aveva parlato.
In merito, il prof. FRANCO annotò tutto e ricevette da me il percussore.
In tutto ci vedemmo tre o quattro volte sempre in relazione alla vicenda del
casolare e all’attività di VENTURA”””.
(DIGILIO, int. 5.3.1994, f.3).
In un successivo interrogatorio DIGILIO ha spiegato meglio i suoi compiti e parlato
del tentativo di recupero della notevole quantità di esplosivo rubato a
Boscochiesanuova che si era temuto potesse essere utilizzato per attentati contro
basi americane:
“””Come ho già detto io svolsi attività di informazione facendo riferimento al
comando F.T.A.S.E. di Verona a partire dal 1967 e sino al 1978.
La struttura informativa che operava all'interno di questo Comando era una
struttura informativa della C.I.A. interessata ovviamente ad avere il maggior
numero di dati sulla situazione italiana e ad effettuare una sorta di controllo
sull'area del triveneto che era una di quelle di maggiore interesse.
Prima di iniziare questa attività avevo conosciuto occasionalmente
MARCELLO SOFFIATI al Lido di Venezia in un contesto del tutto normale e lo
rividi casualmente a Verona proprio nei medesimi uffici cui io stesso facevo
riferimento.
Si trattava di una palazzina all'interno del Comando di Verona, però a se stante
ed indipendente.
In sostanza Soffiati faceva il mio medesimo lavoro, pur riferendosi a BANDOLI
e cioè a persona diversa a quella cui facevo riferimento io.
Soffiati aveva avuto uno o più nomi in codice, ma in questo momento proprio
non li ricordo e li comunicherò all'Ufficio se riuscirò a farmeli venire in mente.
La struttura comportava l'impegno sia di militari americani in servizio presso
la Base sia di altri americani che si trattenevano in Italia per qualche tempo,
incaricati di specifici servizio di informazione, sia di cittadini italiani che
costituivano in sostanza una rete di informazione sul territorio.
Non erano tutte persone di destra, c'erano anche persone che potevano essere
di orientamento democristiano o liberale purchè tutte sicuramente
anticomuniste.
Ho difficoltà ad indicare altri italiani perchè, pur non essendone certo, posso
ritenere che qualcuno di essi sia ancora in servizio presso tale struttura e
quando io mi dimisi formalmente, nel 1978, ebbi la consegna di mantenere il
silenzio sulla rete di informazione di cui ero a conoscenza.
Posso comunque dire che la rete era formata da diverse sezioni, ognuna delle
quali riferentesi ad un determinato ambiente in cui raccogliere informazioni
274
come ad esempio il mondo industriale, l'estrema destra, l'estrema sinistra e così
via.
Fra le persone incaricate di specifiche missioni di informazione ricordo un
latino-americano che era venuto in Italia per qualche tempo per acquisire
notizie sugli esuli cileni rifugiatisi dopo il golpe contro il governo Allende e che
erano in contatto con l'estrema sinistra locale.
Io non ho avuto rapporti diretti con questa persona che era invece uno dei
referenti di Soffiati nell'ambito della raccolta di informazioni sugli esuli sudamericani di cui avevo già accennato.
Io, nel corso degli anni, ho avuto quattro referenti americani che si sono
succeduti e due di questi erano di origine italiana.
Nel corso della mia attività ho eseguito una dozzina di incarichi di informazione
in diversi settori, non necessariamente sul mondo di estrema destra.
D'altronde non erano necessariamente raccolte di informazioni a sfondi
direttamente politico perchè nel corso della mia attività sono astato incaricato
anche di eseguire la ricerca di materiale radioattivo trafugato.
Ho già fatto cenno all'attività di informazione e di ricerca sui 10 quintali di
esplosivo trafugati dal capannone di una ditta che effettuava lavori di
sbancamento a Boscochiesanuova.
In merito posso precisare che l'interesse a questo trafugamento era soprattutto
legato al fatto che il furto fosse avvenuto non distante dalla Base di Verona in
quanto Boscochiesanuova si trova a una dozzina di chilometri da Verona e
quindi l'acquisizione di informazioni su tale furto, che risultò poi essere
avvenuto a scopo sostanzialmente di lucro, era di interesse in relazione alla
sicurezza della Base.
Avevo una ricompensa in contanti a scadenze non fisse che mi consentiva di
vivere unitamente all'attività di contabile che svolgevo in varie ditte”””.
(DIGILIO, int. 6.4.1994, f.2)
Carlo DIGILIO si era poi recato una seconda volta al casolare di Paese insieme al
prof. Lino FRANCO e in tale occasione erano stati provati per la prima volta gli
inneschi formati da un orologio, una resistenza e un fiammifero (int.10.10.1994, ff.24).
Erano certamente in preparazione i primi attentati della campagna iniziata nella
primavera del 1969 e il prof. Lino FRANCO aveva spiegato a ZORZI e VENTURA
che, per agire in condizioni di massima sicurezza, era necessario usare fiammiferi
antivento e non fiammiferi comuni (int. citato, f.3).
Nell’interrogatorio in data 12.11.1994, Carlo DIGILIO ha finalmente rivelato chi
fosse il suo superiore, e cioè Sergio MINETTO, che lo aveva inviato dal prof. Lino
FRANCO e con il quale era rimasto in contatto sino al 1985, momento della sua fuga
a Santo Domingo.
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“””A questo punto, al fine di completare il quadro di quella che fu la mia
attività presso Ventura e di controlli che mi furono affidati, posso meglio
specificare come e da chi ebbi l'incarico di recarmi dal prof. Franco a Vittorio
Veneto.
Io fui chiamato a Verona da un ufficiale della CIA, che ovviamente anche
Soffiati conosceva bene, il quale affidò a me l'incarico di andare dal prof.
Franco e non da Soffiati in quanto quest'ultimo era troppo conosciuto come
estremista di destra e ciò avrebbe creato problemi con VENTURA, infatti
Franco intendeva mandare da ventura non un personaggio noto, ma una
persona che potesse sembrare un collezionista o un esperto di armi.
Io potevo giocare questa parte mentre Soffiati no o perlomeno c'erano dei
rischi.
L'agente della CIA di Verona che mi mandò da Franco dovrebbe avere
attualmente circa 70 anni, è un italiano di origine veronese ed era stato un alto
ufficiale della X MAS del Principe Borghese e suo uomo di fiducia.
In quegli anni si muoveva nel Veneto presentandosi come commerciante e
riparatore di frigoriferi e teneva i contatti grazie a questa attività di copertura
con esponenti del Fronte Nazionale nelle varie città.
Uno dei punti di incontro, a Venezia, era il ristorante La Rivetta, vicinissimo a
Piazza San Marco.
Il suo Ufficio si occupava quindi di attività operative che erano sia controlli su
addestramenti fatti da italiani sia controlli come quello che io feci sul gruppo di
Ventura sia i contatti con gli esponenti del Fronte Nazionale nel quadro della
preparazione del golpe.
Una delle esercitazione a cui questo agente sovraintese avvenne a Fortezza ed
anche Soffiati, del resto, si era occupato degli addestramenti in Alto Adige in
funzione difensiva nel periodo in cui era in corso l'offensiva del terrorismo
altoatesino.
Quindi questi corsi erano in pratica di addestramento alla controguerriglia per
elementi italiani.
Non mi risulta che questo agente fosse sia mai stato inquisito per i fatti del
golpe Borghese o in altri processi simili.
Quando mi trovai in difficoltà, temendo nel 1982 un secondo arresto dopo il
mio primo arresto e la successiva scarcerazione, io che mi trovavo a Verona a
casa di Soffiati in Via Stella, lo chiamai e lo feci venire in quell'appartamento.
Del resto tale appartamento era in sostanza di copertura perchè serviva per i
contatti con i vari informatori evitando che costoro dovessero recarsi presso il
Comando se non per cose importantissime.
Io chiesi aiuto all'agente e questi mi diede alcuni consigli, anche se io poi mi
allontanai autonomamente accompagnato dal colonnello SPIAZZI e poi da
MALCANGI come ho già ampiamente narrato in relazione alle varie fasi della
mia fuga.
276
Alla fine del 1984, prima di andare a Santo Domingo, nella medesima
occasione in cui mi recai a Verona per sapere dal colonnello Spiazzi come
andava la vendita della mia pistola, utilizzai questo viaggio anche per
incontrare l'agente in un bar tenendo a distanza Malcangi che mi aveva
accompagnato e che avevo fatto sostare in un altro bar.
Chiesi aiuto all'agente spiegandogli che ero in forte difficoltà e che ero ormai
deciso a lasciare l'Italia.
Egli mi consentì di utilizzare a Santo Domingo il suo nome come presentazione
in caso di necessità.
Lo vidi così per l'ultima volta in quell'occasione.
Effettivamente io utilizzai questa possibilità proprio pochi mesi prima del mio
arresto a Santo Domingo. Mi presentai al Consolato americano, entrai in
contatto con un ufficiale facendo il nome dell'agente e questi fece un controllo
per verificare che il nome corrispondesse ad un loro uomo in Italia. Tornai
qualche giorno dopo, mi disse che andava tutto bene, che l'agente era ancora in
Italia, e mi chiese di cosa avessi bisogno. Io gli dissi che ero in forte difficoltà e
che avevo bisogno di un lavoro nel medesimo settore informativo che era stato
in passato il mio.
Mi disse che sarebbe stato possibile utilizzarmi nel campo dell'organizzazione e
riordino dei fuorusciti cubani a Santo Domingo da inviare dove essi avevano la
loro sede principale a Miami, in un campo di raccolta. Precisamente questo
campo si trova vicino a Miami, nella località HEALIAH. Io dovevo in sostanza
occuparmi di un primo vaglio dei soggetti e del loro avviamento negli Stati
Uniti.
Non ebbi tempo di iniziare questo lavoro poichè nel giro di poche settimane fui
arrestato a Santo Domingo a seguito delle indagini della Polizia italiana”””.
(DIGILIO, int. 12.11.1994, f.3).
Si noti che il nome di Sergio MINETTO non è ancora esplicitato nel verbale, ma
è stato fatto per la prima volta da Carlo DIGILIO al personale della Digos di
Venezia che lo stava riaccompagnando nel luogo di detenzione dopo
l’interrogatorio (cfr. relazione della Digos di Venezia in data 15.11.1994, vol.4,
fasc.2, f.84).
Qui si fermano le prime dichiarazioni di Carlo DIGILIO, rese sino al 12.11.1994, in
merito alla struttura informativa americana, che tratteggiano un quadro di grande
novità, ma certamente ancora incompleto.
La possibilità di acquisire nuovi particolari si interromperà sino all’autunno del 1995,
anche in ragione del grave incidente che colpirà la salute di Carlo DIGILIO.
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Solo a partire da tale momento riprenderanno, pur fra molte comprensibili difficoltà (è
dell’ottobre 1995 l’avvio dell’operazione CECCHETTI), gli interrogatori e il quadro
storico e processuale andrà completandosi.
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43
LE DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO
A PARTIRE DALL’OTTOBRE 1995
A partire dall’ottobre 1995, momento in cui è stato possibile riprendere gli
interrogatori (anche se inizialmente si è trattato necessariamente di audizioni assai
brevi per le ancora incerte condizioni di salute), Carlo DIGILIO ha ampliato e
completato il quadro della struttura di intelligence di cui era fiduciario e delle varie
“operazioni” che si erano sviluppate a partire dalla metà degli anni ‘60.
Saranno in questa sede riportati solo gli aspetti essenziali di tali dichiarazioni,
comunque ampiamente ordinate e analizzate nelle annotazioni del R.O.S. del
maggio 1995 e del giugno 1996.
In primo luogo Carlo DIGILIO ha rivelato l’identità anche degli ufficiali americani
responsabili della struttura:
“””Il mio primo reclutatore fu il capitano David CARRETT della Marina
Militare degli Stati Uniti che anche mio padre aveva conosciuto e che infatti
egli mi aveva presentato personalmente.
Intorno al 1974 il capitano CARRET fu sostituito dal capitano RICHARDS
che io incontravo normalmente sotto la torre a San Marco, come del resto
anche il capitano CARRETT.
Il "cambio di guardia" fra i due ufficiali avvenne a Verona dove CARRETT mi
presentò RICHARDS.
Il capitano RICHARDS mi disse di essere in servizio presso la base NATO di
Vicenza, mentre CARRETT era in servizio presso la base di Verona.
Era stato CARRETT a insegnarmi come si eseguono i pedinamenti con
esercitazioni per strada utilizzando degli estranei sia a Verona che a Venezia.
Mi riservo in un prossimo interrogatorio di spiegare l'operazione "DELFINO
ATTIVO" che si svolse nell'Adriatico per controllare la capacità di reazione
della Marina Militare italiana”””.
(DIGILIO, int.21.12.1995, ff.2-3).
“””In merito ai due ufficiali americani CARRET e RICHARDS di cui ho
parlato, posso aggiungere qualche particolare.
RICHARDS veniva chiamato "TEDDY", nome di battesimo che ricordo non
perchè me lo disse direttamente, ma perchè alcuni suoi colleghi lo chiamarono
così in mia presenza, compreso il CARRET.
Questo nel tipico gesto americano e cioè la pacca sulla spalla dicendo "Olà,
Teddy".
CARRET era un uomo alto circa un metro e 85, robusto, con i capelli biondi
tendenti al rossiccio, di tipico temperamento gioviale come molti americani.
Portava occhiali da sole di varie gradazioni, credo che fosse sposato.
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Con lui mi incontravo in Piazzetta del Patriarcato, in zona San Marco, sotto la
torre dell'orologio e a Verona, invece, dietro l'Arena.
Per contattarmi, a Venezia, CARRET lasciava o faceva mettere un bigliettino
nella mia cassetta della posta a S.Elena.
Alcune volte invece non c'era bisogno di questo espediente perchè ci si dava
appuntamento direttamente da una volta all'altra soprattutto in occasione di
festività.
CARRET faceva riferimento ad un ammiraglio molto importante che si
chiamava GRAHAM e che tra il 1974 e il 1976 era diventato famoso nel suo
ambiente in quanto tramite sommergibili di profondità era riuscito a recuperare
da un sommergibile sovietico, affondato per un incidente nell'Atlantico, tre
missili a testata nucleare e codici cifrati.
Per quanto concerne RICHARDS, egli conosceva SOFFIATI e infatti ci
incontrammo qualche volta tutti e tre a Verona dietro l'Arena e anche alla
Stazione ferroviaria di Vicenza dove RICHARDS era di stanza.
Una volta c'era anche Giovanni BANDOLI.
RICHARDS aveva all'epoca sui 40/45 anni, ben portati in quanto era molto
atletico, abbastanza alto, robusto, un po' stempiato e con i capelli un po'
brizzolati”””.
(DIGILIO, int. 5.1.1996, ff.3-4).
Carlo DIGILIO ha poi aggiunto molti particolari in merito al ruolo di Sergio MINETTO
e ha spiegato che i contatti fra MINETTO e il colonnello SPIAZZI erano tenuti dal
prof. GUNNELLA di Verona, che fungeva da elemento di raccordo fra le varie
strutture:
“””Posso ancora aggiungere che il "contatto" fra MINETTO e il colonnello
SPIAZZI era il professor GUNNELLA.
Fu SOFFIATI a indicarmi il nome del professore.
Posso ancora aggiungere che il sistema utilizzato dai componenti della rete per
incontrarsi era un sistema postale, consistente nel fatto che si mandava un
bigliettino al professor GUNNELLA con l'indicazione dell'appuntamento e
GUNNELLA lo mandava alla persona con cui la prima si voleva incontrare.
Questo sistema era utilizzato per città come Verona o Vicenza, mentre a
Venezia io, SOFFIATI e il capitano CARRETT ci incontravamo direttamente in
quanto a causa della presenza di molti turisti e della presenza di navi
americane, e quindi molti marinai e ufficiali americani, era possibile
incontrarsi senza essere notati”””.
(DIGILIO, int. 21.12.1995, f.3).
“””In merito alla persona di Sergio MINETTO, posso aggiungere che egli aveva
una vera passione per la partecipazione a manifestazioni combattentistiche cui
280
partecipava con commilitoni della R.S.I. e della X M.A.S. che soprattutto nel
veronese erano numerosi e affiatati.
Si recava a queste manifestazioni con una bella macchina fotografica tedesca
tipo Laika.
Poichè l'Ufficio mi chiede di meglio precisare il mio accenno, già reso in
precedenti interrogatori, relativo ad esercitazioni in Alto Adige, posso
confermare che vi furono esercitazioni nella zona di Fortezza nel periodo in cui
vi era l'offensiva terroristica altoatesina.
A queste esercitazioni partecipò personalmente il SOFFIATI il quale poi
relazionò a Sergio MINETTO.
Erano esercitazioni comuni di militari e civili in funzione di difesa dell'italianità
del territorio dell'Alto Adige”””.
(DIGILIO, int.5.1.1996, f.4).
“””Sergio MINETTO aveva una forte familiarità con i componenti di
un'organizzazione di ex militari tedeschi che si chiamava ELMETTI
D'ACCIAIO.
Con loro partecipava a cene in due ristoranti di Colognola, quello di SOFFIATI
e quello davanti a quello di Soffiati che esiste ancora.
Ricordo che cantavano inni tedeschi. Anch'io ho partecipato a qualcuna di
queste cene, invitato da SOFFIATI che mi disse che era bene che io partecipassi
perchè c'era anche MINETTO che era il suo superiore.
MINETTO era affiliato come italiano all'organizzazione degli Elmetti d'Acciaio
a cui potevano aderire ex appartenenti alla R.S.I. e ai paracadutisti della
Folgore”””.
(DIGILIO, int. 13.1.1996, f.4).
“””All'inizio degli anni '70, Sergio MINETTO e Marcello SOFFIATI
raccolsero una serie di elementi, soprattutto ex repubblichini o ex ufficiali dei
paracadutisti, che servivano ad attività di contrasto del terrorismo altoatesino
che metteva in pericolo la sovranità del nostro Paese.
Furono scelti i soggetti più abili e decisi e fra questi MASSAGRANDE e
BESUTTI.
Con loro vi furono le esercitazioni a Fortezza cui ho fatto cenno.
Ho appreso, in particolare da SOFFIATI, ma se ne parlava anche nell'ambiente
veronese, che anni prima vi erano stati degli attentati in Austria contro
monumenti compiuti da italiani appositamente inviati, sempre nel medesimo
contesto, al fine di rispondere al terrorismo altoatesino spaventando anche le
Autorità austriache.
Voglio far presente che Sergio MINETTO era veramente un ottimo conoscitore
dell'ambiente di destra e degli ex repubblichini e, nella prima metà degli anni
'70, stilò un elenco di ex repubblichini, di ex appartenenti alla Guardia
Nazionale e alla X MAS e di elementi di ambiente ordinovista che potessero
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essere utilizzati in senso anticomunista e messi a disposizione, in caso di
necessità, delle basi americane di Verona e di Vicenza.
Di questo elenco mi parlarono anche RICHARDS e CARRET e il senso era
quello di poter contrastare con ogni mezzo una possibile presa del potere da
parte dei comunisti in Italia.
Preciso che l'approntamento di questo elenco si colloca fra il 1973 e il
1975”””.
(DIGILIO, int. 20.1.1996, ff.2-3).
“””In varie occasioni Sergio MINETTO mi disse che in gioventù aveva
risieduto in Argentina dove probabilmente aveva imparato ed esercitato il
mestiere di frigoriferista.
In Argentina era entrato in contatto sia con elementi della C.I.A. sia con
tedeschi, ex combattenti, che avevano lasciato la Germania dopo la guerra.
Egli aveva infatti mantenuto forti contatti sia con l'Argentina, e in genere con il
Sud-America, sia con la Germania nell'ambito della sua attività di spionaggio.
Ricordo in particolare un piccolo episodio. In questo contesto, verso la fine
degli anni '70, venne a trovarlo dall'Argentina una persona che tuttavia non vidi
e MINETTO gli fece aveva una grossa somma in pesos argentini. A titolo di
curiosità egli diede sia a me che a Marcello Soffiati uno di questi biglietti di
banca che sino ad allora non avevo mai visto”””.
(DIGILIO, int. 24.2.1996, f.3).
Carlo DIGILIO ha messo poi a fuoco la figura del prof. Lino FRANCO, che godeva
di grande prestigio fra i camerati per essersi arruolato, durante la guerra, nei
reparti tedeschi di contraerea denominati FLAK:
“””In merito al prof. FRANCO posso aggiungere che egli combattè a Cassino
insieme a reparti della Repubblica Sociale Italiana e strinse durante questi
eventi stretti rapporti e amicizie importanti con personalità tedesche fra cui il
famoso generale Kesselring che comandava la zona militare e tutta la linea.
Nell'ambito di questi rapporti fece da consulente per i tedeschi, dimostrando
capacità eccezionali, nell'istruire i militari, anche italiani, nell'uso del fucile
mitragliatore F Gevaert 15 e diede consigli ai tecnici tedeschi per il
miglioramento tecnico dell'arma che era particolarmente usata dai reparti
paracadutisti.
Del resto, sulla linea del Centro Italia c'erano anche i migliori reparti
combattenti della R.S.I.
In seguito, nel dopoguerra, il prof. FRANCO entrò in contatto con gli
ambienti americani in funzione anticomunista proprio grazie alle sua speciali
capacità.
282
Gli americani gli misero a disposizione sia mezzi finanziari sia un capannone a
Monfalcone e un paio nel triestino dove lavorare delle leghe metalliche per
elicotteri ed aerei militari che dovevano esser poi inviati negli Stati Uniti.
In sostanza era la prima lavorazione dei pezzi.
In questa attività fu coadiuvato da Sergio MINETTO che poteva spostarsi
facilmente utilizzando la sua attività di riparatore di frigoriferi.. Probabilmente
MINETTO, grazie alla sua attività, si era proprio occupato del trasporto di
pezzi disponendo di mezzi adatti al trasporto di oggetti pesanti.
L'attività del prof. FRANCO a Trieste e Monfalcone avvenne intorno agli anni
'50/'60 e cioè poco dopo la guerra in quanto per gli americani era un elementi
interessante e fu ingaggiato subito”””.
(DIGILIO, int.4.1.1996, f.2).
“””Prendo visione della fotografia in fotocopia allegata alla nota del R.O.S. in
data 13.1.1996, come allegato 1, in basso nella pagina.
Posso dire che, benchè la fotocopia non sia ottima, essa rappresenta un'arma
da fanteria tedesca, di uso anche contraereo, di cui ho parlato nel corso
dell'interrogatorio in data 4.1.1996 in relazione al prof. Lino Franco.
Era cioè la MG15, cioè MACHINENGEWEHR 15, che veniva usata appunto
anche come arma contraerea montata su camioncini e utilizzata dai reparti
FLAK.
Gli uomini con cui aveva combattuto il prof. FRANCO a Cassino erano
direttamente inquadrati nell'Esercito tedesco.
Ricordo anche che questo tipo di arma aveva tutta una serie di modelli fra cui
la famosa MG42, altrimenti nota come la "Sega di Hitler", e tutte armi con una
grande potenza di fuoco”””.
(DIGILIO, int. 13.1.1996, f.3).
“””In merito al prof. LINO FRANCO, posso aggiungere che il suo gruppo di ex
repubblichini di Vittorio Veneto aveva un deposito di armi sul pianoro di Pian
del Cansiglio che è proprio vicino a Vittorio Veneto, in quella zona in cui le
forze della R.S.I., durante la seconda guerra mondiale, avevano combattuto
duramente.
Confermo che il prof. FRANCO aveva un doppio ruolo e cioè era sia
responsabile del gruppo SIGFRIED sia informatore della C.I.A.
Mi è venuto in mente un altro particolare su di lui: nello stesso periodo in cui si
accertò dove era finita parte dell'esplosivo di Boscochiesanuova, e cioè a Cipro,
MINETTO e SOFFIATI mi dissero che il gruppo di FRANCO aveva inviato
delle armi ai greci di GRIVAS, che combattevano contro i turchi, armi che
erano risultate molto utili.
MINETTO aveva comunque invitato FRANCO alla prudenza in simili
operazioni.
L'epoca, del resto, era quella del colpo di Stato dei "Colonnelli" in Grecia”””.
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(DIGILIO, int. 20/21.1.1996, ff.6-7).
Il prof. Lino FRANCO si era anche reso disponibile a rifornire di armi il gruppo
mestrino di Ordine Nuovo:
“””Sempre in tema di bombe a mano, posso dire che la prima volta che io mi
recai dal prof.Lino FRANCO, poco tempo prima di andare al casolare di Paese,
egli mi mostrò in un cassetto di un mobile di casa sua, oltre ad una baionetta,
alcune bombe a mano tonde di fabbricazione italiana, modello Sipe o SRCM.
Del reato, il professor Franco disponeva di una buona dotazione logistica e il
dottor MAGGI ebbe cura di tenere buoni contatti con lui, proprio al fine di
chiedergli la cessione di parte della sua dotazione, in cambio della garanzia
della presenza di elementi efficienti e sicuri all'interno del gruppo mestrino.
In questo modo a Mestre arrivò vario materiale sia quando era ancora vivo il
professor Franco, sia dopo la sua morte grazie a suo cognato, che del resto
aveva uno stabile di riferimento lavorativo a Mestre nell'ambito del noleggio di
biliardini a bar e locali pubblici vari.
Io non mi recai mai a Vittorio Veneto a prendere questo materiale, ma
comunque vidi parte di questo materiale a Mestre in quanto ero incaricato,
come sempre, di valutarlo e darne un giudizio tecnico.
Io vidi materiale nella macchina che credo appartenesse al fratello di Delfo
ZORZI, una macchina piccola, francese, di colore rosaceo, tipo Dyane, nonchè
nella 1100 di MAGGI.
Per valutare questo materiale, il punto di incontro per tre o quattro volte fu una
strada isolata che costeggia un canale che si raggiunge partendo da piazza
Barche in direzione laguna. Io vidi una pistola Mauser cal.9, di grande valore
commerciale, con un selettore che consentiva lo sparo a raffica, una Machine
Pistole 44, sempre tedesca, con impugnatura in legno, cal. 8 curz, parecchie
bombe a mano di fabbricazione italiana, una baionetta tedesca, qualche rotolo
di miccia proveniente dal Carso, cartucce per fucile tedesco Mauser ancora sui
loro nastri.
Questi incontri avvennero a distanza di tempo, tra la fine degli anni 60 e
comunque dopo gli incontri al casolare ed il 1970-1971 e cioè più o meno il
periodo in cui il dottor MAGGI mi mostrò le mine anticarro.
Eravamo presenti appunto io, ZORZI e MAGGI, qualche volta Marcello
SOFFIATI, il quale aveva anche l'incarico di riferire a MINETTO
l'andamento di queste cessioni ed una volta vidi anche il fratello di ZORZI, che
era un giovane biondo, alto, di corporatura atletica e di bell’aspetto. Era
presente anche perchè Delfo ZORZI non aveva la patente.
Era poi ZORZI a portare via il materiale dopo che io l'avevo esaminato.
Ricordo che una volta venne MINETTO a Mestre e ci avvisò del fatto che
alcune bombe a mano che avevamo ricevuto potevano essere pericolose perchè
284
avariate. Avvisò separatamente sia me che MAGGI ed io confermai a MAGGI
del pericolo, poichè MINETTO, giustamente, mi aveva fatto rilevare che c'erano
problemi collegati all'invecchiamento dell'innesco e bastava una scossa per fare
esplodere tutto”””.
(DIGILIO, int. 30.8.1996, ff.2-3).
Dopo aver tratteggiato in modo più approfondito il ruolo degli esponenti principali
della struttura, DIGILIO ha rievocato una delle più antiche azioni informative cui
aveva partecipato, collegata al furto di una ingente quantità di esplosivo
avvenuto a Boscochiesanuova, vicino a Verona:
“””Questo episodio, di cui ho parlato nei miei primi interrogatori, avvenne
poco tempo dopo la morte di mio padre e in pratica agli inizi della mia attività
come informatore per la C.I.A.
Il furto era stato di una tonnellata di esplosivo, sia tritolo sia gelignite, in danno
di una ditta di sbancamento per la costruzione di strade.
Il fatto aveva impensierito gli americani che nella zona avevano le loro basi e
temevano quindi che potesse essere usato per attentati contro di loro ad opera
di elementi di estrema sinistra.
Fu RICHARDS a investire MINETTO dell'incarico di svolgere indagini per
scoprire gli autori del furto e MINETTO investì a sua volta me e SOFFIATI.
Preciso che all'epoca RICHARDS non era ancora mio superiore in quanto io
dipendevo dal CARRET.
Svolgemmo un'ampia attività informativa tramite l'ambiente di destra di
Verona e la nostra attività ebbe successo in quanto si scoprì che il furto era
avvenuto per motivi di lucro ad opera di malavitosi comuni dell'ambiente
veneto.
Emerse tuttavia una circostanza abbastanza stupefacente e cioè che parte
dell'esplosivo era giunta addirittura all'isola di Cipro e precisamente al gruppo
EOKA del famoso generale GRIVAS che era un combattente assai noto
all'epoca.
Ricordo che del furto parlarono all'epoca i giornali locali tipo l'Arena o il
Gazzettino.
Comunque quando fu accertato, grazie alla nostra rete informativa, che
l'esplosivo non era finito in mano ai comunisti, gli americani si
tranquillizzarono e non mi risulta che la vicenda abbia avuto un seguito
giudiziario”””.
(DIGILIO, int. 21.1.1996, f.5).
Carlo DIGILIO aveva anche partecipato, invitato dal capitano
all’esercitazione denominata DELFINO ATTIVO o DELFINO SVEGLIO:
CARRET,
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286
“””Questo tipo di operazione fu iniziata da CARRET, che l'aveva ideata, e poi
passò a RICHARDS per la prosecuzione.
Ricordo infatti che una volta CARRET riprese RICHARDS in quanto secondo
lui non l'aveva sviluppata bene e CARRET ci teneva perchè era una sua
creatura.
Si trattava in sostanza di un'operazione militare che si svolse nell'alto Adriatico
e che partiva dall'Arsenale del Porto di Venezia.
Delle piccole navi americane, di quelle con i portelloni per gli sbarchi e
Fregate o Corvette italiane lanciavano dalla poppa dei cavi con una specie di
sonar, cioè dei congegni in grado di ricevere e anche trasmettere dei segnali
radio sia al fine di controllare i fondali sia al fine di valutare la reattività delle
Forze militari italiani difensive in caso di attacchi sottomarini.
Io partecipai ad una di queste operazioni insieme al capitano CARRET e perciò
mi resi conto di come funzionava il meccanismo.
Vi parteciparono anche BANDOLI e SOFFIATI”””.
(DIGILIO, int. 5.1.1996, ff.4-5).
All’operazione DELFINO ATTIVO avevano partecipato anche militari greci, inquadrati
dagli americani (int. DIGILIO, 30.12.1997, f.3).
Se in tali casi si era trattato di azioni difensive e preventive o di carattere prettamente
strategico delle strutture militari americane presenti nel nostro Paese in base ad
accordi internazionali (e quindi di azioni informative o militari di per sè non
censurabili), di ben diversa valenza e rilievo, anche sul piano penale, è quanto
DIGILIO ha riferito in merito all’intervento della struttura, diretto o indiretto e
comunque tramite suoi responsabili, nelle fasi preparatorie degli attentati o
comunque, come nel caso della permanenza a Verona dell’avv. Gabriele FORZIATI,
allorchè si era trattato di scongiurare che le indagini in merito ad episodi eversivi
giungessero a buon fine e la struttura occulta di Ordine Nuovo venisse così
individuata e smantellata.
Infatti:
- Con riferimento all’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano del 23.7.1969, uno
dei primi della campagna terroristica, in occasione del quale l’ordigno a base di
gelignite non era esploso solo per un difetto dell’innesco, il capitano CARRET,
incontrando a Venezia Carlo DIGILIO prima dell’attentato, lo aveva avvisato che
la struttura americana era già informata, grazie a notizie acquisite presso il
centro romano di Ordine Nuovo, che tale attentato era in preparazione e che
sarebbe stato attuato dal gruppo veneto (int. DIGILIO, 14.12.1996, f.2).
Il capitano CARRET, invece di impedire la realizzazione di tale attentato e di
informare le nostre Autorità, come sarebbe stato dovere di un Servizio di
Sicurezza di un Paese alleato, si era limitato, nell’occasione, a raccomandare a
DIGILIO di ridurre la potenzialità dell’azione, riducendo l’attentato ad un’azione
intimidatoria (int. citato, f.2) senza che l’ordigno esplodesse.
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DIGILIO si era comportato come gli era stato raccomandato, riducendo
notevolmente, quando Giovanni VENTURA gli aveva portato l’ordigno, la quantità di
esplosivo e non approntando a dovere l’innesco; contribuendo così al suo mancato
funzionamento e al fallimento dell’attentato (int. citato, f.4).
Il capitano CARRET si era in seguito congratulato con DIGILIO per il suo lavoro
ricordando che la struttura vedeva di buon occhio azioni dimostrative, ma non
accettava massacri indiscriminati (int. citato, f.4).
- Il prof,. Lino FRANCO non solo aveva inviato DIGILIO al casolare di Paese una
prima volta per verificare le caratteristiche del deposito, ma lo aveva
accompagnato nel secondo accesso, insegnando a VENTURA e ZORZI come
preparare gli inneschi per azioni dimostrative mentre già erano in fase di
ultimazione, nel casolare, grazie al lavoro di POZZAN, le scatolette di legno che
sarebbero state utilizzate per deporre l’esplosivo sui dieci convogli ferroviari (int.
DIGILIO, 20.8.1996, f.3).
- Sempre con riferimento agli attentati ai treni, Carlo DIGILIO aveva direttamente
riferito al capitano CARRET, durante uno degli incontri periodici a Venezia, quanto
era avvenuto in occasione del suo terzo accesso al casolare, e cioè quando il piano
per l’esecuzione dei dieci attentati era praticamente definito e i compiti erano stati
divisi.
Tale incontro con il capitano CARRET aveva comunque avuto luogo ad attentati già
avvenuti (int. DIGILIO, 17.5.1997, f.10).
- Il capitano CARRET era stato invece informato da Carlo DIGILIO, e questo è
certamente il profilo più grave e significativo, degli attentati del 12.12.1969 con
qualche giorno di anticipo e le notizie recepite da Carlo DIGILIO tramite il dr.
MAGGI in merito all’imminenza della nuova fase della strategia terroristica erano
risultate in perfetta corrispondenza con gli elementi che l’ufficiale andava
ricevendo certamente dalla struttura centrale di Roma:
“””Confermo innanzitutto che MAGGI mi parlò del fatto che vi sarebbero stati
grossi attentati, che bisognava aspettarsi perquisizioni nel nostro ambito e che
vi sarebbe probabilmente stata anche una grossa reazione da parte delle forse
di sinistra.
Di conseguenza i militanti conosciuti dalla Polizia dovevano liberarsi in fretta
di ogni materiale compromettente che avevano in casa.
Qualche giorno dopo, e quindi pochissimi giorni prima degli attentati, ebbi un
incontro con il capitano CARRET dinanzi al Palazzo Ducale.
Era uno dei nostri incontri consuetudinari, che avvenivano ogni 15 giorni circa
e in cui facevamo il punto della situazione.
Si trattava, in questo caso, di un incontro già fissato al termine dell'incontro
precedente.
Altre volte invece, se l'incontro non era programmato, CARRET, come ho già
detto, mi faceva recapitare un bigliettino nella mia casella postale a Sant'Elena.
Io riferii a CARRET quanto mi aveva detto MAGGI, facendone anche il nome, e
percepii che la struttura di CARRET aveva già le antenne alzate e si aspettava
qualcosa e del resto CARRET stesso mi confermò che sapeva benissimo che la
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destra in quel periodo stava preparando qualcosa di grosso nella direzione di
una presa di potere da parte delle forze militari.
CARRET mi chiese di raccogliere e riferire tutte le informazioni possibili in
merito a quanto stava per avvenire.
Io sto rispondendo nello specifico alle domande, ma è ovvio che proprio la
natura del rapporto che coltivavo con CARRET mi conduceva automaticamente
nel corso di ogni incontro a riferirgli tutte le informazioni che andavo
attingendo nell'ambito di Ordine Nuovo e delle destra in genere”””.
(DIGILIO, int. 5.3.1997, f.2).
Non nell’immediatezza degli attentati, ma comunque non a molta distanza di tempo
da essi, nei giorni prossimi all’Epifania del 1970, DIGILIO aveva nuovamente
incontrato il capitano CARRET a Venezia nel solito luogo di appuntamento:
“””Rividi CARRET il giorno dopo l'Epifania e quindi dopo l'incontro con
MAGGI e SOFFIATI, nei giorni di Natale, allo Scalinetto.
Io gli riferii gli altri particolari che avevo acquisito e in particolare che il dr.
MAGGI aveva consentito imprudentemente l'uso della sua autovettura e
CARRET mi disse che, nonostante non ci fosse stata quella sterzata a destra che
si pensava, la situazione era comunque sotto controllo e, nonostante la reazione
delle sinistre, l'ambiente di Ordine Nuovo non sarebbe stato toccato dalle
indagini”””.
(DIGILIO, int. 5.3.1997, f.3).
Il capitano CARRET non si era quindi mostrato molto preoccupato ed anzi aveva
confermato a DIGILIO l’esattezza e la pertinenza dei commenti del dr. MAGGI,
secondo il quale la presa del potere non vi era stata per i tentennamenti del
Presidente del Consiglio che non aveva dichiarato lo stato di emergenza e non si era
adoperato per lo scioglimento delle Camere, come invece avrebbero voluto i
socialdemocratici molto vicini agli americani:
“””...il capitano CARRET mi confermò che quello era stato il progetto, ben
visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni
democristiani come RUMOR.
Mi spiegò anche che nei giorni successivi alla strage le navi militari sia italiane
sia americane avevano avuto l'ordine di uscire dai porti perchè, in caso di
manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più
facilmente colpite.
Anche con Sergio MINETTO, a casa di Bruno SOFFIATI, vi furono da parte di
quest'ultimo commenti simili prima ancora dei colloqui che ebbi con
CARRET”””.
(DIGILIO, int. 21.2.1997).
Carlo DIGILIO, nell’incontro avvenuto nei giorni dell’Epifania, aveva comunque
raccontato “tutto a CARRET, compreso il nome di ZORZI e la tipologia degli
ordigni che (ZORZI) aveva fatto vedere” (int. 17.5.1997 ff.10-11) e cioè le
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cassette metalliche con l’esplosivo all’interno visionate da DIGILIO pochissimi
giorni prima degli attentati.
Il laconico commento dell’Ufficiale era stato che “l’Italia era su un sentiero di spine”
(int. citato f.11).
- Durante la permanenza dell’avv. Gabriele FORZIATI, prima a Colognola e poi in
Via Stella a Verona, finalizzata ad allontanare il rischio che lo spaventato avvocato
testimoniasse dinanzi all’Autorità Giudiziaria e quindi che le indagini sull’attentato alla
Scuola Slovena travolgessero, con un effetto a domino, l’intera struttura occulta di
Ordine Nuovo, Sergio MINETTO aveva svolto un’attività di attenta supervisione
utilizzando ancora una volta Carlo DIGILIO in funzione di controllo degli
avvenimenti e recandosi egli stesso, alcune volte, nell’appartamento, pur evitando di
farsi notare da FORZIATI (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.2; 13.7.1997, f.6).
- Ancora più grave era stato l’intervento di Sergio MINETTO, allorchè
Gianfranco BERTOLI era stato ospitato nell’appartamento di Via Stella per
addestrarlo psicologicamente e materialmente.
Infatti Sergio MINETTO era stato informato dal dr. MAGGI qualche tempo prima,
durante un incontro a Colognola, dell’intenzione da parte del gruppo ordinovista
di utilizzare, al posto di Vincenzo VINCIGUERRA, un’altra persona per portare a
termine il progetto contro l’on. Mariano RUMOR (int. DIGILIO, 12.10.1996, f.4).
Sergio MINETTO era poi stato messo al corrente dell’arrivo di Gianfranco BERTOLI
in Via Stella e aveva fatto in modo di aiutarlo economicamente, tramite denaro
proveniente dalla struttura americana, e molto probabilmente aveva anche fornito la
bomba a mano tipo ananas che Gianfranco BERTOLI doveva imparare a usare (int.
citato, f.5).
- Anche in riferimento al progetto di attentato a Brescia Sergio MINETTO era
stato informato qualche giorno prima dal dr. MAGGI, durante un incontro a
Colognola ai Colli cui erano presenti anche Bruno e Marcello SOFFIATI (int.
DIGILIO, 19.4.1996, f.3).
Si ricordi del resto che Sergio MINETTO, secondo la testimonianza di Dario PERSIC,
si era recato a Brescia il giorno prima della strage di Piazza della Loggia, forse con
un ruolo di “controllo” e verifica degli avvenimenti (dep. Dario PERSIC a personale
del R.O.S., 8.2.1995, f.4).
Tutti questi comportamenti, che superano di gran lunga una semplice attività
informativa e si configurano come la sostanziale condivisione di una strategia, si
spiegano, secondo il racconto di Carlo DIGILIO, con una scelta appunto strategica
del dr. Carlo Maria MAGGI certamente in sintonia con le scelte dei massimi vertici
romani di Ordine Nuovo.
Il dr. MAGGI, pur non entrando direttamente a far parte della struttura
americana, aveva infatti dato la propria disponibilità ad informare tale struttura
dei progetti più importanti di Ordine Nuovo e tale canale di informazione era
reso possibile e, per così dire, “istituzionalizzato” dai rapporti strettissimi che
egli aveva allacciato, tramite la famiglia SOFFIATI, con Sergio MINETTO (int.
DIGILIO, 19.4.1996, ff.2-3).
Le ragioni sottintese ad una simile scelta, in ipotesi anche pericolosa, sono
probabilmente da ricollegarsi alle condizioni oggettive in cui la struttura di Ordine
Nuovo operava negli anni ‘70 e soprattutto nella prima metà di tale decennio.
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Ordine Nuovo, così come le altre organizzazioni di estrema destra, non potendo
raggiungere i propri obiettivi con le sue sole forze, poteva agire da detonatore
scatenante di una certa situazione pre-golpista che tuttavia doveva
necessariamente essere presa in mano da altri, fossero essi ambienti militari
interni o strutture di sicurezza di Paesi alleati sicuramente anticomunisti, per
giungere ad una concretizzazione.
Ovviamente una strategia del genere, necessaria per una organizzazione come
Ordine Nuovo militarmente efficiente ma non estesa e formata da pochi elementi
selezionati, comportava un’informazione anticipata ai “cobelligeranti” delle linee
operative essenziali e dei momenti che avrebbero dovuto fungere da innesco di
risposte istituzionali.
Non è del resto un caso che tale elaborata strategia sembri essersi rarefatta a
partire dalla metà degli anni ‘70 quando, mutato il clima istituzionale ed
europeo, in particolare con la caduta dei regimi di destra in Spagna, Portogallo e
Grecia, una reazione apertamente autoritaria era divenuta per l’Italia
anacronistica ed improponibile.
Passando brevemente ad altre operazioni, la struttura coordinata da Sergio
MINETTO si era anche impegnata nel tentativo di acquisire informazioni sul
luogo ove fosse custodito il generale James Lee DOZIER, rapito dalla Brigate
Rosse nel 1981:
“””Come ho già accennato nell'interrogatorio in data 20.1.1996, l'intera rete fu
attivata in occasione del rapimento del generale DOZIER con la finalità di
acquisire notizie sul luogo ove il generale veniva tenuto sequestrato dagli
elementi delle Brigate Rosse.
Tale attività era coordinata da Sergio MINETTO.
Vi fu una riunione di coordinamento a Colognola e un'altra a Verona, in Via
Stella, e alle ricerche parteciparono militari americani di Verona e Vicenza con
auto civili e furono mobilitate tutte le persone possibili, soprattutto quelle che
conoscevano bene i paesetti nella zona di Verona.
Ad esempio SOFFIATI utilizzò per questa attività anche Dario PERSIC che,
facendo il camionista, conosceva bene la zona, aveva facilità a muoversi e
conosceva meglio i casolari della zona.
La speranza era quella di individuare il luogo ove appunto DOZIER era
sequestrato o acquisire comunque notizie in qualche paesino che potessero
riferirsi a qualcosa di strano che fosse stato notato.
Tuttavia il generale DOZIER fu liberato non per diretto intervento della nostra
rete, ma grazie all'attività delle Forze dell'Ordine italiane che riuscirono a
individuare e a "comprare" una persona vicina ai sequestratori, mi sembra un
brigatista proprio di Mestre.
Io feci anche qualche tentativo di acquisire notizie presso l'ambiente
universitario di Venezia in cui c'era una forte presenza di estrema sinistra”””.
290
(DIGILIO, int. 13.7.1996, f.4).
L’attività nella struttura informativa dipendente dal Comando FTASE di Verona
era “spendibile” anche all’estero ed infatti Carlo DIGILIO, trovandosi in
difficoltà, si era presentato al Consolato degli Stati Uniti a Santo Domingo
spiegando quale era stato il suo ruolo in Italia ed utilizzando come garanzia il
nome di Sergio MINETTO:
“””L'Ufficio mi dà lettura di quanto ho dichiarato in data 12.11.1994 in
relazione alla mia richiesta di essere aiutato dall'Autorità Consolare degli Stati
Uniti d'America a Santo Domingo indicando alla stessa quale era stata la mia
attività in Italia.
In relazione a tali circostanze, confermo che diedi all'ufficiale del Consolato il
nome di Sergio MINETTO, come quest'ultimo mi aveva autorizzato a fare
quando ci vedemmo per l'ultima volta a Verona.
Nel verbale del 12.11.1994 io lo indico come "l'agente" in quanto nel corso di
quell'interrogatorio non avevo ancora voluto indicare al Suo Ufficio il nome di
MINETTO, cosa che poi feci a personale della Digos di Venezia, che mi
ritraduceva a Venezia al termine dell'interrogatorio.
Faccio presente che al Consolato americano mi fu sufficiente fare il nome di
Sergio MINETTO e non ebbi bisogno di fornire i nomi di altri componenti della
"rete" nè italiani nè statunitensi.
Relazionai sinteticamente all'ufficiale quale era stata la mia attività di
informatore per gli americani in Italia.
Come ho già detto, l'attività che mi era stata proposta fu quella di verificare i
fuoriusciti cubani a Santo Domingo, di ottenere da loro informazioni sulla
situazione cubana e cercare di scoprire se fra essi vi fossero agenti castristri.
Tale attività tuttavia non iniziò nemmeno perchè qualche settimana dopo fui
arrestato dalla Polizia dominicana”””.
(DIGILIO, int. 26.3.1997, f.5).
Concludendo con un aspetto minore, ma concreto, l’attività in favore degli americani
non era infine a titolo gratuito e Carlo DIGILIO ha spiegato quali fossero i compensi,
non eccessivi ma comunque gratificanti, tenuto conto dei valori di acquisto
dell’epoca:
“””Il compenso che (il capitano CARRET) mi dava, che era in Lire italiane e
che teneva conto delle eventuali spese di spostamenti e delle condizioni in cui
versava la mia famiglia dopo la morte di mio padre, non era fisso, ma
291
292
comunque si aggirava sulle 300.000 che ricevevo circa ogni mese; all'epoca si
trattava di una somma discreta.
SOFFIATI veniva invece pagato in dollari e la somma era un po' superiore alla
mia, circa 400 dollari, che riceveva credo quasi sempre da John BANDOLI.
Del resto SOFFIATI aveva un ruolo di agente stabile.
Inoltre io facevo parte di un settore informativo, mentre SOFFIATI di un settore
operativo che comportava un coinvolgimento e dei rischi maggiori”””.
(DIGILIO, int. 21.2.1997).
292
44
LA MISSIONE DI CARLO DIGILIO IN SPAGNA
PRESSO L’ING. ELIODORO POMAR
PER CONTO DELLA
STRUTTURA INFORMATIVA STATUNITENSE
La missione di Carlo DIGILIO a Madrid presso l’ing. Eliodoro POMAR per conto della
struttura informativa statunitense costituisce, almeno per il momento, l’unica
operazione all’estero emersa con tutti i particolari nel corso delle indagini.
E’ necessario premettere che l’ing. POMAR, già in servizio con incarichi di rilievo
presso il Centro EURATOM di Ispra, era stato coinvolto all’inizio degli anni ‘70, in
quanto dirigente del Fronte Nazionale di Junio Valerio BORGHESE, nelle indagini
relative al tentativo di colpo di Stato del 7/8 dicembre 1970.
Era tuttavia riuscito a fuggire in Spagna, entrando in contatto a Madrid con i militanti
di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale che man mano raggiungevano tale Paese
a seguito dello sviluppo della varie inchieste giudiziarie.
Nel febbraio del 1977, circa due anni dopo la morte del generale FRANCO, quando
ormai era venuta meno una parte delle protezioni di cui i latitanti godevano, l’ing.
POMAR era stato arrestato insieme ad altri camerati fra cui MASSAGRANDE,
BENVENUTO, Salvatore FRANCIA, ZAFFONI, ROGNONI e POZZAN, questi ultimi
due successivamente estradati in Italia.
Eliodoro POMAR veniva accusato di aver personalmente diretto il laboratorio per la
manutenzione e la fabbricazione di armi scoperto dalla Polizia in Calle Pelayo, ma
riusciva comunque ad ottenere la libertà provvisoria nel giro di poco tempo.
Sino alla collaborazione di Carlo DIGILIO, comunque, nessuno aveva mai parlato
della missione dello stesso DIGILIO a Madrid nel 1975, quando l’attività di POMAR
stava iniziando, nè tantomeno del suo significato e di coloro che l’avevano
commissionata.
Sulla fase preparatoria di tale missione e sull’incontro con SPIAZZI prima della
partenza, si veda, più avanti, quanto esposto nel capitolo 71, mentre questo è il
racconto, contenuto nell’interrogatorio del 9.5.1994, dell’arrivo a Madrid di DIGILIO:
“””Mi recai comunque in Spagna con il compito di contattare Eliodoro
POMAR, che al tempo risiedeva a Madrid credo in quanto latitante in relazione
al processo per il golpe Borghese.
Si trattava di un incarico che discendeva dalla CIA e che precedentemente era
stato affidato a Marcello SOFFIATI.
Il senso dell'incarico era quello di avere notizie sui movimenti e sulle attività di
Eliodoro POMAR, che era un importante fisico nucleare ed era un profondo
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294
conoscitore delle centrali termo-nucleari ed era già stato responsabile, in Italia,
del Centro EURATOM di Ispra.
POMAR aveva fornito la disponibilità di strutture pertinenti a tale Centro nel
1970 per ricoverare armi pesanti tipo mitragliatrici in ordine al progetto di
golpe del 1970.
Si trattava di armi che venivano dall'estero, probabilmente dal Belgio,
nell'ambito dell'Alleanza Atlantica.
POMAR era molto stimato come fisico nucleare ed erano giunte addirittura
notizie secondo cui egli poteva essere "acquistato" da strutture di Paesi dell'Est
per utilizzarne le capacità.
Del resto in quel momento a Madrid egli non versava in buone condizioni
economiche e conosceva persone anch'esse esuli in Spagna ma comunque
sempre di Paesi dell'Est e poteva darsi che qualcuno di questi, in contatto in
realtà con il proprio governo, gli avanzasse qualche proposta.
In sostanza si temeva che potesse passare al campo comunista.
Marcello SOFFIATI, che pure si era recato varie volte in Spagna, preferì
affidare a me tale incarico in quanto egli aveva una scarsa conoscenza dei
problemi tecnici e sapeva poco di armi, settore di cui in quel momento POMAR
si stava occupando.
Andai quindi io, in pratica, al suo posto.
Feci il viaggio da solo in treno e sia per il biglietto sia per l'ordinario
mantenimento ebbi una somma da SOFFIATI.
Il contatto che avevo a Madrid, tramite SOFFIATI, era tale Mariano SANCHEZ
COVISA, ex combattente delle camice azzurre franchiste, responsabile di una
piccola organizzazione denominata "Guerriglieri di Cristo Re".
Incontrai COVISA a Madrid e tramite lui presi alloggio in una pensione del
centro.
Posso precisare che questo COVISA era in contatto con i Servizi Speciali
spagnoli.
Riuscimmo, dopo qualche difficoltà, a incontrare l'ingegnere POMAR che
abitava non lontano dal Paseo de Florida, prossima alla "Stazione del norte"
cioè una stazione ferroviaria diversa dalla stazione centrale di Madrid.
Per parlare con POMAR io utilizzai la presentazione di Covisa ed il pretesto di
essere interessato alla fabbricazione di un modello di mitraglietta che per quei
tempi era considerato molto avanzato.
POMAR infatti, in un suo laboratorio, aveva realizzato o stava realizzando un
progetto di mitraglietta che assomigliava ad un'Ingram e che aveva il
caricatore inseribile nell'impugnatura.
Questo progetto derivava da alcuni disegni del colonnello SPIAZZI che si
erano diffusi nell'ambiente e che SPIAZZI si lamentava che tale idea gli fosse
stata in qualche modo rubata.
Era stato SOFFIATI a suggerirmi di usare questo discorso dell'arma come
punto di contatto con POMAR e come modo per avvicinarlo.
294
Io mi presentai a POMAR, ovviamente, come militante di destra dell'area
veneta amico di SOFFIATI e interessato a sapere quali fossero gli sviluppi della
produzione di quest'arma.
POMAR fu molto disponibile dopo avere saggiato le mie buone conoscenze
tecniche.
Mi condusse nel suo laboratorio che era al primo piano di un edificio dove
aveva sede anche un convento di monache.
Questi locali gli erano stati affittati tramite SANCHEZ COVISA.
POMAR mi disse che i lavori andavano a rilento in quanto mancava la materia
prima come le canne e gli otturatori tanto che egli stava addirittura pensando
di cedere il progetto ad altri in grado di realizzarlo come i croati che pure
avevano una base in Spagna.
Mi fece vedere l'attrezzatura e in particolare un tornio, una piccola fresa, un
trapano verticale e una grossa taglierina per lamiere, una saldatrice elettrica.
Mi accorsi comunque che l'intera struttura non era operativa per la
fabbricazione di armi anche perchè l'impianto elettrico non poteva sostenere il
lavoro contemporaneo di più macchinari.
D'altronde c'erano delle lamiere sagomate e non saldate, quelle che in gergo
tecnico si chiamano le casse dell'arma.
Alla fine capii che il progetto dell'arma era stato ceduto da POMAR ai Servizi
Speciali spagnoli e che anche in cambio le Autorità spagnole gli avevano dato
del denaro ed un lavoro garantito presso una centrale nucleare spagnola.
D'altronde l’arma era già stata realizzata altrove grazie a tecnici reperiti dal
COVISA e quest'ultimo mi confermò che un buon posto di lavoro era stato
comunque trovato a POMAR in modo confacente alle sue capacità.
D'altro canto era il periodo in cui in Spagna stava appunto iniziando
l'apprestamento di centrali nucleari. A questo punto la mia missione
informativa aveva avuto esito positivo.
D'altronde nel centro di Madrid la zona tra Placa del Sol e Placa de Espana
incontrai ROGNONI il quale, avendomi già conosciuto a Venezia, mi riconobbe
e mi chiese se ero lì per POMAR. Alla mia risposta cautamente positiva, mi
disse che stavo perdendo il mio tempo in quanto POMAR aveva già venduto il
progetto ai Servizi spagnoli e tale conferma fu per me conclusiva in merito alle
notizie che dovevo assumere.
Vicino a casa di POMAR mi fermò una persona che personalmente non
conoscevo e che mi si presentò come CONCUTELLI. Evidentemente mi aveva
visto insieme a POMAR e mi chiese se ero venuto per parlare appunto con
POMAR.
Io gli risposi di sì ed egli mi fece delle dissertazioni sulla fabbricazione della
famosa arma e in genere sulle armi. Io a un certo punto mi sganciai usando
come scusa il fatto che dovevo andare a telefonare a mia moglie.
Ci salutammo e la cosa finì lì.
295
296
In quei giorni, a Placa de Espana, dove c'erano anche dei telefoni pubblici
inaugurati da poco, vidi insieme all'ingegnere POMAR un altro italiano che
egli stesso mi presentò.
POMAR mi disse poi che si trattava di Elio MASSAGRANDE di Verona.
In quei giorni c'erano a Madrid molti italiani presenti alla commemorazione in
onore del generale FRANCO.
Ritengo di non avere conosciuto personalmente Vincenzo VINCIGUERRA, ma
non escludo che questi mi abbia visto durante qualcuna delle cerimonie o delle
manifestazioni di quei giorni.
Sicuramente vidi DELLE CHIAIE, credo in Placa del Sol, mentre egli stava in
un capannello con varie persone.
Mi avvicinò a mi chiese se ero un italiano e se per caso, come altri, ero
latitante.
Io gli risposi evasivamente che ero a Madrid per le cerimonie in onore di
FRANCO, ma anche per un viaggio di piacere in compagnia di mia moglie.
D'altro canto l'ingegnere POMAR mi aveva messo sull'avviso in merito
all'opportunità di evitare DELLE CHIAIE che cercava di conglobare italiani
presenti a Madrid.
Rimasi a Madrid in tutto per otto o dieci giorni, tornando poi in treno in Italia.
Mi sganciai da POMAR adducendo motivi di famiglia ed in particolare dissi
che mia madre stava male.
Giunto in Italia preparai una relazione scritta e la consegnai a SOFFIATI
andando da lui a Verona.
Ho avuto la sensazione che il contenuto di tale relazione non sia pervenuto solo
al Comando di Verona o comunque ai referenti a cui era diretto, ma che vi
siano state delle fughe di notizie nell'ambiente della destra imputabili allo
stesso SOFFIATI e che la notizia del mio viaggio a Madrid si fosse quindi
diffusa”””.
(DIGILIO, int. 9.5.1994, f.2).
Non molto tempo dopo tale racconto di Carlo DIGILIO, Eliodoro POMAR, in
occasione di un suo breve rientro in Italia, è stato rintracciato nell’abitazione di cui
ancora dispone a Varese e sentito in qualità di testimone il 9.9.1994 al fine di
verificare quanto narrato dal collaboratore.
La testimonianza di POMAR è un vero capolavoro di reticenza in quanto egli ha
negato di aver mai conosciuto e ospitato DIGILIO o comunque un militante
veneziano e addirittura di aver mai allestito un’officina per la fabbricazione di
mitragliette, limitandosi ad ammettere di aver frequentato occasionalmente, a Madrid,
Giancarlo ROGNONI e Stefano DELLE CHIAIE.
Carlo DIGILIO, comunque, risentito sulle circostanze della sua missione in Spagna,
non ha avuto difficoltà a stroncare il tentativo di POMAR di screditare il suo racconto,
descrivendo con precisione l’appartamento ove l’ingegnere abitava a Madrid, con
296
Maria MASCETTI, in Paseo de Florida, descrivendo le abitudini di vita della coppia e
riconoscendo senza alcuna esitazione l’ing. POMAR in fotografia (int. 20.9.1994, ff.14).
Carlo DIGILIO ha anche descritto minuziosamente l’officina ove l’ing. POMAR aveva
avviato la lavorazione dei pezzi, precisando che l’ingegnere, che non aveva una
grande esperienza in materia di armi, gli aveva chiesto di aiutarlo a migliorare il
sistema di scatto dell’arma che, insieme all’otturatore collocato direttamente sopra la
canna per ridurre l’alzamento del tiro, costituiva uno dei punti di novità dell’arma (int.
citato, f.2).
Parlando sia con l’ingegnere sia con Giancarlo ROGNONI, Carlo DIGILIO aveva
anche appreso una circostanza importante in relazione al significato della sua
missione e cioè che il progetto della mitraglietta era stato ceduto non solo agli
ustascia, ma anche ai servizi segreti spagnoli, evidentemente in cambio della
protezione accordata, in quanto un’arma molto efficiente, ma priva del marchio di
fabbrica e del numero di matricola, era lo strumento ideale per l’utilizzo in operazioni
“coperte” (int. citato, f.3).
Inoltre, una nutrita serie di altre testimonianze, dirette o indirette, ha confermato la
presenza di Carlo DIGILIO a Madrid e i suoi contatti con l’ing. POMAR nel periodo in
cui questi stava impiantando l’officina di Calle Pelayo (cfr., fra gli altri, dep. ZAFFONI,
22.12.1995, f.2; int. CALORE, 9.9.1995, ff.2-3; int. MALCANGI, 10.4.1996, f.3; e
anche dep. Pietro BENVENUTO al G.I. di Bologna, 24.2.1986, f.3, e 17.3.1986, f.5
nell’ambito dell’istruttoria Italicus-bis) anche se nessuno, ovviamente era a
conoscenza che la missione in Spagna di DIGILIO fosse stata commissionata da una
struttura informativa d’oltreoceano.
Gli atti dell’Autorità Giudiziaria spagnola acquisiti alla presente istruttoria (cfr.
documentazione allegata alla nota del R.O.S. in data 22.10.1994, vol.14, fasc.5)
confermano inoltre il quadro delineato da Carlo DIGILIO e da tali atti si trae la
sensazione che l’episodio sia stato trattato in Spagna con una certa benevolenza
contestando a POMAR, MASSAGRANDE, BENVENUTO e agli altri solo ipotesi di
reato non particolarmente gravi che hanno loro consentito, di lì a breve tempo, di
usufruire di un’amnistia riguardante i reati politici.
Con riferimento a tale “benevolenza”, Francesco ZAFFONI ha confermato, nella sua
ultima testimonianza, che il Ministero della Difesa spagnolo, essendo compromesso
nel progetto, si era fatto carico di “ridimensionare” la vicenda a livello giudiziario,
evitando gravi conseguenze a POMAR e agli altri (dep. ZAFFONI, 5.1.1998, f.2).
Nel corso dei successivi interrogatori, dopo che aveva deciso di svelare il ruolo
ricoperto nella struttura da Sergio MINETTO, Carlo DIGILIO ha precisato che era
stato proprio MINETTO ad incaricarlo di recarsi a Madrid al posto di Marcello
SOFFIATI (int. 26.3.1997, f.4).
Così, per la seconda volta, come in relazione agli accessi al casolare di Paese, Carlo
DIGILIO, più adatto e affidabile, aveva sostituito Marcello SOFFIATI passando
297
298
momentaneamente dal settore informativo al settore operativo della struttura cui
faceva riferimento.
Carlo DIGILIO ha anche ricordato che Sergio MINETTO si era recato, negli anni
precedenti, anche autonomamente in Spagna, e precisamente a Valencia dove si
trovava la base dei croati, per trattare con loro la fornitura di aiuti che servivano al
mantenimento della struttura guidata dalla figlia di Ante PAVELIC (int. DIGILIO,
5.5.1996, f.2, e 15.5.1996, f.2).
Con riferimento alla missione presso l’ing. POMAR, Carlo DIGILIO ha fornito
un’altra notizia importante:
“””Posso aggiungere che Pomar mi aveva anche chiesto di poter visionare un
lotto di armi che erano a Madrid nella disponibilità di un gruppo di oppositori
portoghesi di destra che dovrebbe essere stato l'E.L.P.; questo gruppo aveva
sede sia a Madrid sia in una località prossima al confine portoghese.
Era venuto anche a casa di Pomar un elemento portoghese di cui non ricordo il
nome, ma che riconoscerei benissimo se lo vedessi in fotografia.
Pomar mi aveva chiesto di aiutarlo in questa attività di visione di armi in
quanto ne avrebbe avuto un beneficio sia in termini economici che di prestigio.
Io non potevo rifiutare apertamente, ma non aveva nessuna intenzione di
accettare un simile incarico. Quindi, dato che l'accesso a questo lotto di armi
era imminente e doveva avvenire nel giro di pochissimi giorni, inventai una
scusa dicendo che mia madre era ammalata e che pertanto dovevo partire
immediatamente per l'Italia”””.
(DIGILIO, int. 20.9.1994, f.4).
Al suo rientro in Italia, Carlo DIGILIO aveva appreso da Marcello SOFFIATI che
effettivamente quella fornitura di armi per i portoghesi proveniva dagli americani, ma
che aveva fatto comunque bene a non occuparsene non essendo tale attività
ricompresa fra i compiti della sua missione (int. DIGILIO, 26.3.1997, f.4).
Tale circostanza è di rilevante interesse al fine di comprendere il quadro generale
delle alleanze fra le diverse strutture, ufficiali e non, che, alla metà degli anni ‘70,
erano stabilmente impegnate in tutti i Paesi nelle varie forme di guerra non ortodossa
o comunque non dichiarata contro il pericolo comunista.
Come emerge infatti dagli atti di questa istruttoria (int. VINCIGUERRA, 9.3.1992,
pag.17 del documento allegato, e rapporto del R.O.S. in data 23.7.1996 sulle attività
dell’AGINTER PRESS nella guerra non ortodossa, vol.35, fasc.1, ff.103-104) e dalla
stessa documentazione rinvenuta a Lisbona nel 1974 al momento dello
smantellamento della sede dell’AGINTER PRESS, strettissimi erano i rapporti fra i
terroristi dell’E.L.P. che si opponevano (organizzati sul modello dell’O.A.S.) con
azioni clandestine al governo dei militari di sinistra in Portogallo e la struttura di
GUERIN SERAC che si era ricostituita a Madrid dopo l’abbandono di Lisbona.
298
Gli uomini di GUERIN SERAC, molti dei quali peraltro erano portoghesi e di cui
l’E.L.P. era quasi una creatura, curavano la propaganda in favore dell’E.L.P. e le
trasmissioni radio dirette in Portogallo, attivate da basi spagnole prossime al confine
portoghese.
I rifornimenti di armi all’E.L.P. da parte della C.I.A., cui fa riferimento Carlo
DIGILIO, testimoniano quindi la contiguità anche operativa fra strutture ufficiali
e strutture non ufficiali, come l’AGINTER PRESS, all’interno della medesima
strategia, in un contesto in cui è probabilmente difficile distinguere l’azione
dell’uno da quella dell’altro.
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300
45
LE DICHIARAZIONI DI
DARIO PERSIC E BENITO ROSSI
L’ATTENTATO AL PALAZZO DELLA REGIONE DI TRENTO
DELL’11.4.1969
Sparsi in questa o in altre sezioni della presente ordinanza vi sono numerosi
riferimenti alle dichiarazioni rese da Dario PERSIC e Benito ROSSI che costituiscono
il più importante supporto testimoniale al racconto di Carlo DIGILIO in merito alla
struttura informativa americana.
Focalizzando in sintesi il ruolo svolto da questi due personaggi, va ricordato in primo
luogo che Dario PERSIC, di professione camionista, era un intimo amico di Marcello
SOFFIATI, frequentava in modo abbastanza assiduo la trattoria di Colognola ai Colli
ed era un simpatizzante di Ordine Nuovo più per motivi di ambiente che per un vero
impegno politico.
Il suo contributo è stato particolarmente significativo per due ordini di ragioni.
In primo luogo egli, pur non avendo avuto parte attiva in singoli avvenimenti, aveva
recepito moltissime notizie in merito al ruolo di ciascuno, sia sotto il profilo
informativo sia sotto il profilo della militanza ordinovista ed era venuto a conoscenza
di molti degli avvenimenti che si erano sviluppati intorno al gruppo di Colognola.
Era così venuto a sapere della detenzione delle armi e degli esplosivi da parte di
Marcello SOFFIATI (materiale che in parte egli aveva anche custodito per qualche
tempo per fare un piacere all’amico), della presenza a Colognola e a Verona dell’avv.
Gabriele FORZIATI, del ruolo di Carlo DIGILIO nella riparazione delle armi, dei
rapporti fra SOFFIATI e Marco AFFATIGATO.
Soprattutto, Dario PERSIC aveva conosciuto e visto più volte gli ufficiali
americani, il capitano RICHARDS e il capitano CARRET, indicati da DIGILIO e
aveva anche conosciuto bene Sergio MINETTO, potendo così testimoniarne gli
stretti rapporti che lo legavano a Carlo DIGILIO e al dr. MAGGI, rapporti che
inutilmente MINETTO ha cercato di negare.
Soprattutto di Sergio MINETTO aveva percepito, ed ha quindi potuto riferire nel corso
delle varie deposizioni, i rapporti con i servizi segreti americani, collegando varie
confidenze che aveva ricevuto e altre circostanze quale la frequentazione da parte di
MINETTO e di Giovanni BANDOLI del PICCOLO HOTEL di Verona, punto di
riferimento dei militari americani anche per incontri riservati.
Dario PERSIC aveva anche partecipato varie volte al rito del solstizio d’estate, di
ispirazione nazista, che si teneva nei pressi della trattoria di Colognola e vedeva
presenti e accomunati tutti gli esponenti dell’area, da DIGILIO al colonnello SPIAZZI,
da Sergio MINETTO al dr. MAGGI (dep. 8.2.1995, ff.3-4).
300
La collaborazione di Dario PERSIC si è altresì concretizzata con la ricerca e la
consegna a personale del R.O.S. di un gruppo di fotografie che ancora conservava e
che ritraggono molti dei personaggi di Colognola, anche in situazioni conviviali, che
ne testimoniano i rapporti (ad esempio gli stretti rapporti di Sergio MINETTO con
Giovanni BANDOLI; dep. PERSIC, 18.4.1997, f.5) e soprattutto in una delle quali,
scattata nell’abitazione di Giovanni BANDOLI nel 1972, è raffigurato il capitano David
CARRET di cui, ovviamente, non era stato possibile acquisire alcuna fotografia nè i
dati anagrafici completi presso alcuna struttura militare o di polizia.
Le fotografie prodotte da Dario PERSIC (contenute, anche con ingrandimenti
effettuati dal G.I.S. Carabinieri, nel vol.21, fasc.7) sono state quindi di grande utilità
per provare l’esistenza e il ruolo dell’ufficiale indicato da Carlo DIGILIO come
responsabile per molti anni della struttura americana.
Dario PERSIC ha anche riferito di aver direttamente appreso, nell’immediatezza del
fatto, da Marcello SOFFIATI che questi ed altri militanti della cellula di Bolzano
avevano commesso l’attentato al Palazzo della Regione di Trento.
Dario PERSIC, che si trovava a Trento per ragioni di lavoro, era passato con
Marcello SOFFIATI, a bordo dell’autovettura di quest’ultimo, dinanzi al luogo
dell’attentato poche ore dopo la sua commissione e SOFFIATI, il quale aveva chiesto
ironicamente ai poliziotti che delimitavano l’edificio cosa fosse avvenuto, aveva poi
spiegato a PERSIC di esserne l’autore mostrandogli alcuni metri di miccia che
ancora teneva occultata nel cofano (dep. 8.2.1995, f.1).
L’attentato si identifica con quello commesso in danno del Palazzo della Regione di
Trento in data 11.4.1969 mediante la deposizione di un ordigno a base di gelatina o
dinamite innescato appunto da una miccia a lenta combustione (cfr. nota della Digos
di Trento in data 18.12.1996 e atti allegati, vol.8, fasc.6, ff.9 e ss.).
L’episodio è uno dei primi di quella catena di attentati che fra il 1969 e il 1971
hanno colpito la città di Trento e che, pur senza aver fortunatamente provocato
vittime, si collocano nel quadro della strategia della tensione e in merito ai
quali, nel corso delle indagini, erano emersi pesanti sospetti su elementi
dell’estrema destra locale e su ufficiali dei Carabinieri nella qualità di
“protettori” dei responsabili.
Anche Carlo DIGILIO, del resto, ha riferito che Marcello SOFFIATI si era reso
responsabile di attentati dimostrativi contro edifici pubblici in Trentino al fine di creare
confusione, su disposizione e direttiva del dr. MAGGI (int. 19.4.1996, f.2), mentre
Martino SICILIANO ha ricordato di aver effettuato, proprio nell’inverno
1968/1969 alcuni sopralluoghi a Trento insieme a ZORZI, MOLIN e un camerata
di Bolzano, a bordo dell’autovettura del dr. MAGGI, per studiare la possibilità di
un attentato alla Facoltà di Sociologia o, in alternativa, contro il più facile
obiettivo costituito dal Palazzo della Regione (int. 6.10.1995, f.5, e 5.12.1996,
f.2).
Tali sopralluoghi erano quindi, con ogni probabilità, collegati al progetto di attentato
che sarebbe poi, di lì a poco, stato concretamente attuato da Marcello SOFFIATI (int.
5.12.1996, f.3).
301
302
Benito ROSSI era stato indicato da Carlo DIGILIO come un agente informatore di
Sergio MINETTO per la zona del Trentino-Alto Adige (cfr., fra gli altri, int. 9.11.1996,
f.4; 15.3.1997, f.3; 13.4.1997, ff.1-2) e in particolare come elemento attivo, negli anni
‘60, nell’attività di contrasto del terrorismo alto-atesino, avendo partecipato con
MINETTO e SOFFIATI ad esercitazioni ed addestramenti di italiani in funzione di
prevenzione del terrorismo sud-tirolese e, grazie alle sue conoscenze del territorio
(avendo fatto da guida ad italiani per passare clandestinamente i valichi con
l’Austria), presente in azioni di controllo e disturbo delle attività degli irredentisti che
avevano le loro basi in tale Paese.
Anche Dario PERSIC ha testimoniato che Benito ROSSI, sovente presente a
Colognola, era inserito nella N.A.T.O. con funzione di fiduciario e informatore per tale
Regione, notizie queste apprese in più occasioni da Bruno e da Marcello SOFFIATI
(dep. 8.2.1995, f.2, e 7.4.1997, ff.2-3).
L’inserimento di Benito ROSSI, sempre secondo PERSIC, era di buon livello in
quanto egli, a Verona, frequentava stabilmente il PICCOLO HOTEL, punto di
riferimento dei militari americani, era in contatto con Comandanti americani anche di
altre basi e, in ragione della sua attività di commerciante che lo aveva portato spesso
all’estero, aveva dei contatti con elementi della N.A.T.O. anche in Francia
(dep.7.4.1997, f.2).
Benito ROSSI, sentito una prima volta da personale del R.O.S. in data 30.5.1996, ha
inizialmente negato ogni suo inserimento nell’attività politica del gruppo di Colognola,
affermando di aver conosciuto Marcello SOFFIATI solo nell’ambito di normali attività
commerciali (vol.23, fasc.8, f.2).
Successivamente però, Benito ROSSI, pur continuando a negare di essere stato
reclutato da Sergio MINETTO nella rete informativa, ha accettato di fornire numerose
informazioni sia sulla sua storia personale sia sull’attività del gruppo di Colognola che
ha infine ammesso di aver frequentato con notevole assiduità.
Durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana, Benito ROSSI si era arruolato
direttamente nelle forze tedesche entrando a far parte del corpo delle SS italiane,
svolgendo compiti di addestramento con il grado di sergente e partecipando ad
operazioni estremamente pericolose e rocambolesche, sino ad arrendersi, a Milano
negli ultimi giorni dell’aprile 1945, con altri camerati, ad un Comando Partigiano non
comunista ed avendo, così, salva la vita (dep. 17.7.1997, ff.1-2).
Tali circostanze spiegano sia il suo successivo “recupero” in funzione informativa da
parte degli americani sia il fatto che in Trentino-Alto Adige gli siano stati anche
affidati compiti di addestramento, analoghi a quelli che aveva svolto durante la
guerra.
Dopo molte titubanze, Benito ROSSI si è risolto a riferire che tutto il gruppo di
Colognola, da Bruno e Marcello SOFFIATI a Sergio MINETTO e Giovanni
BANDOLI, faceva riferimento alle basi americane di Verona, che il PICCOLO
HOTEL, frequentato soprattutto da MINETTO e BANDOLI, era base per riunioni
riservate e che Marcello SOFFIATI con il suo camper, fingendosi un turista in
302
viaggio con la famiglia, si recava in Spagna in realtà per trasportare armi (dep. a
personale R.O.S. 12.3.1997, f.3; 12.4.1997. f.4; 21.5.1997, ff.1-2; a questo Ufficio
17.7.1997, ff.2-3).
Benito ROSSI, dimostrando di avere una buona conoscenza dei rapporti interni al
gruppo (e certamente anche di conoscere più cose di quante ne abbia riferite), ha
sottolineato che la rete informativa gravitante intorno a Colognola era formata, in
ordine di importanza, da Giovanni BANDOLI, Bruno SOFFIATI, Sergio MINETTO e,
per ultimo, da Marcello SOFFIATI (dep.21.5.1997, f.2), scala che corrisponde
perfettamente alle complessive emergenze processuali.
Benito ROSSI, infine, pur affermando di aver avuto rapporti più saltuari con
l’elemento proveniente da Venezia e certamente identificabile in Carlo DIGILIO, ha
riferito che questi era l’esperto del gruppo nella riparazione delle armi (dep.
12.3.1997, f.2), particolare anche questo in perfetta sintonia con le restanti risultanze.
303
304
46
I RISCONTRI RELATIVI AL
CAPITANO MICHELANGELO DIGILIO
Carlo DIGILIO ha rivelato che suo padre Michelangelo, ufficiale della Guardia di
Finanza, rientrando dalla Grecia in Italia mentre era in corso la guerra di Liberazione,
aveva finto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana passando, in realtà,
informazioni ai partigiani “bianchi” della Brigata Biancotto di Venezia e partecipando
con loro, negli ultimi giorni di guerra, alla liberazione della città e al disarmo della
guarnigione tedesca.
Tale “doppio gioco” era già iniziato in Grecia quando il tenente DIGILIO, di stanza a
Creta durante il periodo dell’attacco tedesco all’Isola, aveva agevolato, tramite agenti
greci, il recupero e il salvataggio dei militari inglesi da parte dei sommergibili alleati.
Già in contatto anche con l’O.S.S. durante la guerra, il tenente DIGILIO era divenuto,
alle fine delle ostilità, dipendente della struttura informativa americana della base
F.T.A.S.E. di Verona, assumendo il nome in codice ERODOTO in ricordo della sua
attività svolta in Grecia.
Al momento della morte di Michelangelo DIGILIO, avvenuta all’inizio del 1967 in un
incidente stradale, il figlio Carlo, che già era stato presentato ai responsabili della
struttura americana, gli era subentrato quale componente della rete informativa.
Un primo riscontro in merito alla genesi del rapporto di Carlo DIGILIO con la struttura
informativa è giunto dalla deposizione di Giovanni TORTA che, all’inizio degli anni
‘80, nella sua qualità di armiere, aveva fornito molte armi a Carlo DIGILIO, destinate
ad essere cedute in parte a Gilberto CAVALLINI.
Giovanni TORTA ha infatti dichiarato che, entrato in confidenza con DIGILIO nel
corso di tale attività, questi gli aveva, seppur laconicamente, rivelato di essere un
“antenna” della C.I.A. a Verona e che anche suo padre, benchè ufficiale della
Guardia di Finanza, aveva in realtà lavorato per i servizi segreti (dep. TORTA a
personale del R.O.S. in data 7.10.1995, f.1).
Si tratta di una confidenza (finalizzata, evidentemente, a rassicurare l’armiere
TORTA in ordine al buon esito della loro attività illegale) sintetica ma significativa in
quanto resa dieci anni prima che DIGILIO rivelasse all’Autorità Giudiziaria le
medesime circostanze.
Il riscontro decisivo è tuttavia giunto dall’acquisizione, nell’aprile 1996, presso
il Comando Generale della Guardia di Finanza, del fascicolo personale di
Michelangelo DIGILIO (vol.21, fasc.8).
Da tale fascicolo (interamente analizzato nella nota del R.O.S. in data 3.4.1996,
vol.21, fasc.9, ff.1 e ss.) risulta che Michelangelo DIGILIO non fu sottoposto ad
epurazione, pur avendo apparentemente prestato giuramento alla R.S.I., in quanto
aveva “svolto azione patriottica nel periodo cospirativo“.
304
In particolare la relazione del Comandante partigiano Erminio LORENZI attesta che
l’Ufficiale, sfidando continui pericoli sin dal settembre 1943, aveva fornito ai partigiani
informazioni sui movimenti delle forze tedesche nel porto di Venezia, trafugando
anche, in favore dei partigiani, ingenti quantità di armi e munizioni e partecipando in
prima persona alla liberazione di Venezia al comando dei suoi uomini e dei patrioti
della Brigata Biancotto.
Ancora più interessante è un tesserino di riconoscimento contenuto nel fascicolo,
intestato al tenente DIGILIO e rilasciato il 28.4.1945 dal Comandante ABE della
Brigata Biancotto del C.L.N. di Venezia.
Sul retro del tesserino è presente una scritta in lingua inglese del P.W.B.
dell’8^ Armata inglese dove si afferma che il titolare è impegnato nella Sezione
Notizie appunto dello Psychological Warfare Board (letteralmente: Comitato di
Guerra Psicologica).
Sempre nel fascicolo vi è inoltre una relazione dattiloscritta del 24.8.1945, redatta
proprio dall’interessato, ove egli precisa di avere giurato fedeltà alla R.S.I. “perchè
consigliato dagli esponenti del Comitato di Resistenza per continuare ad assolvere la
delicata missione affidatami”.
Tali documenti attestano che sin dal 1945 Michelangelo DIGILIO aveva assolto
compiti informativi per gli Alleati nonchè evidenziano le sue capacità di muoversi
quale agente “doppio” a fini strategici.
Non vi potrebbe essere prova migliore della verità del racconto di Carlo
DIGILIO e del fatto che il ruolo svolto da quest’ultimo, pur in un contesto
politico-internazionale profondamente mutato, sia stato la naturale
prosecuzione dell’attività svolta da suo padre.
305
306
47
I RISCONTRI RELATIVI A
BRUNO E MARCELLO SOFFIATI
Bruno SOFFIATI, anch’egli da molti anni deceduto, è stato certamente un esponente
di rilievo dell’estrema destra veronese, segretario del Partito Fascista Repubblicano
a Verona nel periodo della Repubblica Sociale Italiana e in contatto con i Comandi
tedeschi della zona.
Sia Carlo DIGILIO (int. 15.6.1996, f.2) sia Dario PERSIC (dep. 9.2.1995, f.3) hanno
riferito che Bruno SOFFIATI, durante la guerra, non aveva combattuto ma aveva
svolto attività di intelligence gestendo una rete informativa in contatto con il
Comando della GESTAPO che aveva appunto sede a Verona, rete i cui
componenti erano in buona parte fuggiti in Sud-America alla fine della guerra.
Alcuni, comunque, erano stati col tempo riabilitati dagli americani interessati a
controllare, con l’inizio della “guerra fredda”, anche grazie all’esperienza maturata da
costoro, tutto quello che avveniva in una zona strategica come il Veneto (int.
DIGILIO, 15.6.1996, f.2).
Del resto vari testimoni hanno riferito che sia Bruno sia Marcello SOFFIATI
manifestavano apertamente la loro propensione e simpatia per gli americani (dep.
Anna Maria BASSAN al P.M., 8.6.1995, f.7; dep. Franco PANIZZA a personale
R.O.S., 12.4.1996, f.2; dep. Claudio BRESSAN a personale R.O.S., 11.4.1996, f.2;
dep. Enzo VIGNOLA, 28.4.1997 f.2).
Un particolare interessante che testimonia la statura del personaggio Bruno
SOFFIATI è stato ricordato da Dario PERSIC, il quale aveva appreso che questi, nel
dopoguerra, era stato per lungo tempo in possesso degli atti originali del processo a
Galeazzo CIANO che si era appunto svolto a Verona (dep. 9.2.1995, f.3).
Anche l’inserimento in ambienti massonici di Bruno SOFFIATI, ricordato da Carlo
DIGILIO (int. 31.1.1996, f.2) è stato confermato da altri testimoni (dep. Claudio
BRESSAN di Verona, 11.4.1996, f.2; dep. Franco PANIZZA, 12.4.1996, f.2) e trova
ulteriore riscontro nel carteggio sequestrato al figlio Marcello in occasione del suo
primo arresto, nel dicembre 1974 (cfr. vol.8, fasc.1, ff.37-40).
Non vi è quindi da stupirsi che Bruno SOFFIATI discutesse apertamente con Sergio
MINETTO in merito al modo migliore per proseguire l’attività di controllo dell’avv.
Gabriele FORZIATI (dep. PERSIC, 18.4.1997, f.2) che lo stesso Bruno SOFFIATI
aveva ospitato nei primi giorni della sua permanenza nella zona di Verona, nè che
egli fosse presente, con il figlio Marcello e con Sergio MINETTO, alla cena in cui il dr.
MAGGI aveva anticipato la strage di Brescia, una decina di giorni prima che questa
avvenisse (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3).
306
Anche i riscontri acquisiti in merito alla figura ed al ruolo di Marcello SOFFIATI,
prima fonte e poi agente operativo della struttura americana, sono molteplici.
Marcello SOFFIATI, deceduto nel 1988, era anche un militante molto ben inserito nel
movimento Ordine Nuovo e anche per tale ragione non è sempre possibile
discernere con chiarezza quanto delle varie attività di SOFFIATI fosse da attribuire
alla sua militanza ordinovista e quanto alla sua appartenenza alla struttura di
intelligence.
In particolare, i suoi rapporti con gli ustascia di stanza in Spagna e con quelli in grado
di reperire nuovi modelli di armi dalla Cecoslovacchia e dalla Croazia possono
essere stati d’aiuto tanto nello sviluppo dell’attività informativa quanto nel
reperimento di armi ed esplosivi per gli ordinovisti veneti.
Marcello SOFFIATI era anche in contatto, in Spagna, con Mariano SANCHEZ
COVISA, capo dei Guerriglieri di Cristo Re, legato ai servizi di sicurezza spagnoli (int.
DIGILIO, 9.5.1994, f.2) e frequentatore di agenti americani all’epoca residenti in
Spagna (dep.Gaetano ORLANDO, 16.3.1996, e dep. Francesco ZAFFONI,
14.3.1996, f.2 a personale del R.O.S.).
Marcello SOFFIATI era stato anche in grado di mettere in contatto Marco
AFFATIGATO, conosciuto in carcere nel 1976, con la struttura americana dopo
la loro scarcerazione.
Marco AFFATIGATO ha infatti testimoniato di avere inizialmente passato a
SOFFIATI alcuni elenchi di esuli di sinistra sud-americani residenti in Italia, poi
trasmessi da SOFFIATI alla struttura americana, e che, quando egli si era trasferito a
Nizza, lo stesso SOFFIATI lo aveva messo in contatto con tale GEORGE,
appartenente alla Stazione C.I.A. di Parigi, il quale a sua volta lo aveva messo in
contatto con tale STEVENSON, operante per la stessa struttura a Montecarlo (dep.
AFFATIGATO, 2.5.1993, ff.2-3).
Marco AFFATIGATO aveva cercato di sfruttare tale nuova “attività” per ottenere dalla
C.I.A. un aiuto nel progetto di fuga di Giovanni VENTURA dal carcere argentino ove
si trovava, ma aveva ricevuto da tale struttura una risposta negativa e molto
significativa: Giovanni VENTURA, con i suoi interrogatori (evidentemente la lunga
semi-confessione resa nel 1973 al G.I. dr. D’Ambrosio), aveva comunque recato
danno agli ambienti americani e quindi non doveva essere aiutato (dep.
AFFATIGATO citata, f.4).
Claudio BRESSAN di Verona ha inoltre confermato quanto già ricordato da Carlo
DIGILIO (int. 30.10.1993, f.3) in merito all’attività di schedatura, operata da
SOFFIATI, di altri esuli sud-americani, avendo egli personalmente ricevuto da
SOFFIATI un pacchetto di schede (dep. Claudio BRESSAN a personale R.O.S.,
25.5.1995, ff.1-2).
Se non vi è dubbio in merito all’attività prestata da Marcello SOFFIATI in favore della
struttura americana, di cui peraltro egli non faceva mistero almeno nella cerchia dei
camerati, nemmeno vi è dubbio in merito alla sua notevole disponibilità di armi già
ricordata da Carlo DIGILIO (int. 2.12.1996, f.2) che aveva anche potuto notare un
307
308
particolare nascondiglio per le stesse collocato in una botola nella vecchia casa di
Bruno SOFFIATI a Colognola ai Colli (int. 13.4.1997, f.4).
Dario PERSIC, infatti, aveva notato una notevole quantità di armi, munizioni ed
esplosivi nell’appartamento di Via Stella e nel 1973 si era reso disponibile, per motivi
precauzionali e per fare un favore all’amico, a custodirne una parte, per circa un
anno, nella soffitta della sua abitazione, in Via Morelli a Verona (dep. PERSIC,
8.2.1995, f.4, e 9.2.1995, f.4).
Del resto, il 21.12.1974, Marcello SOFFIATI era stato arrestato perchè, durante una
perquisizione nell’abitazione di Via Stella (operata casualmente in quanto SOFFIATI,
poco prima, aveva smarrito in città un borsello contenente delle pallottole), personale
della Questura di Verona aveva rinvenuto una ingente quantità di armi di vario tipo,
bombe a mano, detonatori, proiettili anticarro e 10 candelotti di esplosivo definito “al
plastico” nel verbale di perquisizione, verbale che purtroppo, ai fini della presente
istruttoria, non fornisce ulteriori particolari in merito alle esatte caratteristiche e alla
provenienza dell’esplosivo (cfr. nota della Digos di Verona in data 1°.6.1996 e atti
allegati, vol.8, fasc.2, ff.9 e ss.).
Inoltre, nel corso della medesima perquisizione venivano rinvenute alcune schede
relative ad elementi di estrema sinistra, soprattutto anarchici, uno schizzo relativo
alla base americana di CAMP DARBY (vicino a Livorno) e corrispondenza
proveniente dalla Massoneria Universale di Rito Scozzese, tutti elementi documentali
che confermano quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito all’attività informativa
svolta da Marcello SOFFIATI e ai rapporti della sua famiglia con alcuni ambienti
massonici.
L’attività di Marcello SOFFIATI si è dispiegata per lungo tempo in quanto egli è stato
incriminato per reati associativi e detenzione di armi ed esplosivi, insieme al dr.
MAGGI, al colonnello SPIAZZI e ad altri, anche nel procedimento c.d. del Poligono di
Venezia ed egli, ancora nel 1982, nel corso delle indagini relative a tale
procedimento (originato in buona parte dalla cattura e dalla confessione di Claudio
BRESSAN) aveva ospitato Carlo DIGILIO nell’appartamento di Via Stella durante la
prima parte della sua fuga e della sua latitanza.
In quei giorni, nell’appartamento, i due detenevano la famosa valigetta “24 ore”, di cui
tanto si è parlato nel procedimento celebrato a Venezia, poi affidata a Claudio
BRESSAN e il cui contenuto è stato solo parzialmente e casualmente recuperato nel
1988.
Tale valigetta avrebbe potuto sin da allora mettere gli inquirenti su piste interessanti
e analoghe a quelle seguite nella presente istruttoria in quanto, secondo i ricordi di
Claudio BRESSAN, conteneva non solo l’attrezzatura per la falsificazione dei
documenti, ma molta documentazione relativa a Paesi stranieri (fra cui la Francia, il
Sud-America e i Paesi Arabi) certamente connessa all’attività informativa svolta da
SOFFIATI e DIGILIO (cfr., fra i tanti riferimenti, gli atti acquisiti presso la Digos di
Verona, vol.8, fasc.2, ff.51-53).
La figura di Marcello SOFFIATI attraversa quasi tutti i fatti toccati da questa
istruttoria e dalle indagini collegate.
308
Egli, infatti, non solo gestisce una parte della dotazione di armi ed esplosivi del
gruppo veneto, ma esegue personalmente l’attentato al Palazzo della Regione di
Trento dell’11.4.1969 (dep. PERSIC, 8.2.1996); depone, probabilmente alla
Stazione di Mestre, l’ordigno su uno dei 10 convogli ferroviari oggetto degli
attentati dell’8/9 agosto 1969 (int. DIGILIO 16.9.1997, ff.4-5); mette a disposizione
l’appartamento e partecipa in qualità di “custode” alla permanenza dell’avv. Gabriele
FORZIATI e di Gianfranco BERTOLI in Via Stella, rispettivamente nel 1972 e nel
1973.
Sembra che Marcello SOFFIATI, nonostante le sue doti spiccatamente operative,
non sia stato utilizzato in prima persona dal dr. MAGGI e da Delfo ZORZI
nell’esecuzione degli attentati del 12.12.1969 ed infatti, prima della cena allo
Scalinetto tenuta nei giorni prossimi al Natale del 1969, si rallegra con DIGILIO
confidandogli di non essere stato personalmente coinvolto (int. DIGILIO, 21.2.1997,
f.2).
In alcuni momenti e dinanzi ai fatti più gravi, Marcello SOFFIATI sembra mostrare
segni di resipiscenza o quantomeno di non condividere sino in fondo una strategia
che comporti stragi indiscriminate.
Dopo gli attentati del 12.12.1969 infatti, Marcello SOFFIATI entra in rotta di
collisione con Delfo ZORZI accusandolo di essere privo di “etica militare” e di
essere un mercenario e un assassino per quanto aveva commesso nella banca
milanese.
Delfo ZORZI, per tutta risposta, lo minaccia e lo malmena (int. DIGILIO, 16.4.1994,
f.6).
Anche Martino SICILIANO ha ricordato, del resto, che fra Marcello SOFFIATI e Delfo
ZORZI erano sorti violentissimi motivi di astio (int. 6.10.1995, f.6).
Nella primavera del 1974, Marcello SOFFIATI viene comunque incaricato di
ritirare a Mestre l’ordigno composto da candelotti di gelignite che, dopo una
sosta a Verona in Via Stella e relativa “supervisione” di Carlo DIGILIO, lo
stesso SOFFIATI deve portare a Milano ad alcuni camerati per la finale
destinazione bresciana.
Appena avvenuta la strage di Brescia, egli confida a Carlo DIGILIO il suo disgusto
per aver avuto una parte in un massacro così grave e afferma che se gli americani
avessero continuato a tollerare una strategia simile ciò sarebbe stato di danno in
Italia solo per la destra (int. DIGILIO, 4.5.1996, f.3, e 5.5.1996, f.5).
Da quel momento il contrasto con Delfo ZORZI diventa insanabile e Marcello
SOFFIATI teme addirittura di essere eliminato da qualcuno vicino a quest’ultimo,
avendo cura di portare per precauzione una pistola alla cintola ogniqualvolta si reca
a Mestre (int. DIGILIO, 4.5.1996, f.3).
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310
In tali circostanze trova certamente spiegazione l’angustia di Marcello SOFFIATI
riferita da un altro esponente di destra, Gaetano LO PRESTI, che negli anni
successivi aveva condiviso con SOFFIATI alcuni periodi di carcerazione.
In alcuni interrogatori resi da LO PRESTI al G.I. di Brescia dr. Giampaolo Zorzi
nell’ambito dell’istruttoria-bis sulla strage di Piazza della Loggia, egli ha infatti riferito
che Marcello SOFFIATI gli aveva confidato che il suo “comandante” gli aveva
consegnato dell’esplosivo che lui aveva portato ad altre persone e che tale esplosivo
era stato utilizzato per compiere un grave attentato (cfr. annotazione del R.O.S. in
data 8.5.1995, vol.23, fasc.9, ff.62-63).
Marcello SOFFIATI, secondo LO PRESTI, appariva angustiato dal ricordo dell’utilizzo
di tale esplosivo.
Il termine “comandante” cui egli aveva fatto riferimento dovrebbe, secondo logica,
riferirsi al Reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto e cioè al dr. Carlo Maria
MAGGI.
Purtroppo la morte di Marcello SOFFIATI, avvenuta nel 1988, non ha consentito di
approfondire processualmente tali circostanze e di mettere SOFFIATI dinanzi alle
sue responsabilità.
310
48
I RISCONTRI RELATIVI AL PROF. LINO FRANCO
Anche per quanto concerne il prof. Lino FRANCO è stato possibile, nonostante il
tempo trascorso dalla sua morte, acquisire una serie di riscontri che ne delineano la
figura in perfetta sintonia con il quadro fornito da Carlo DIGILIO.
Egli, in sintesi, secondo il racconto del collaboratore, era il fiduciario di Sergio
MINETTO per la zona di Vittorio Veneto e contemporaneamente il capo del
gruppo SIGFRIED, formato da ex-repubblichini che avevano duramente
combattuto, soprattutto nella zona di Pian del Cansiglio, contro le forze
partigiane e ancora disponevano di depositi di armi sotterrate negli ultimi
giorni del conflitto.
Fra i numerosi riferimenti al prof. Lino FRANCO contenuti nei verbali di Carlo
DIGILIO, essenziali sono il diretto contatto del prof. FRANCO con gli elementi
ordinovisti che gestivano il casolare di Paese, con il conseguente invio sul posto di
DIGILIO nonchè il flusso di armi che, provenendo dai depositi gestiti dagli uomini del
prof. FRANCO, giungevano al gruppo ordinovista di Mestre/Venezia arricchendone la
dotazione (int. DIGILIO, 30.8.1996, ff.2-3).
Tramite la testimonianza della moglie, Pia DE POLI, in mancanza di elementi
documentali, si è potuto accertare che effettivamente il prof. Lino FRANCO era un
uomo di grande prestigio nel suo ambiente, essendosi arruolato nelle fila della R.S.I.
subito dopo l’8 settembre 1943 e venendo inquadrato nel Battaglione BARBARIGO
della X M.A.S. che era stato il primo, nella zona di Anzio e Nettuno, ad entrare in
combattimento contro gli Alleati (dep. DE POLI a personale del R.O.S., 30.3.1995,
vol.23, fasc.5, ff.9 e ss.; annotazione del R.O.S. in data 8.9.1995, vol.23, fasc.9,
ff.31-32).
Alla fine della guerra, fatto prigioniero dagli inglesi per i quali aveva lavorato prima
come barista e poi come sminatore nella zona di Imperia, come molti altri exrepubblichini era emigrato in Argentina nei primi anni ‘50, e cioè più o meno nello
stesso periodo in cui tale Paese era stato raggiunto da due altri appartenenti alla
rete, Pietro GUNNELLA e Sergio MINETTO.
Un’altra analogia con Sergio MINETTO è relativa all’attività lavorativa.
Entrambi, infatti, avevano delle attività in proprio che consentivano facili spostamenti
nell’area dell’intero Triveneto e tali da non destare alcun sospetto.
Sergio MINETTO svolgeva l’attività di riparatore di apparecchi frigoriferi, mentre Lino
FRANCO, unitamente al cognato, aveva una ditta per la distribuzione di flippers e
juke-box nei bar della regione.
Nonostante il tempo trascorso dalla morte del prof. FRANCO, la perquisizione
effettuata in data 18.1.1996 da personale del R.O.S. nell’abitazione ove vive la
vedova ha consentito di rinvenire vari opuscoli di Ordine Nuovo nonchè una copia del
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312
volumetto “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE”, a suo tempo diffuso non fra
i semplici simpatizzanti di destra, ma solo fra gli “addetti ai lavori” (cfr. vol.21, fasc.2,
ff.3 e ss.).
Secondo il racconto di Carlo DIGILIO, il prof. Lino FRANCO aveva fatto vari viaggi
in Grecia, negli anni ‘60, per contatti politici e il suo gruppo, utilizzando i
depositi di cui ancora disponeva sul Pian del Cansiglio, aveva inviato,
facendoli partire dal porto di Venezia, lotti di armi al generale GRIVAS, capo
dell’organizzazione terroristica di estrema destra EOKA-B operante a Cipro
contro il governo dell’Arcivescovo MAKARIOS (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.3, e
1°.2.1997, f.2).
In tali frangenti, Sergio MINETTO aveva ammonito il prof. FRANCO a non muoversi
con eccessiva autonomia e ad attenersi alle direttive che gli erano comunque
imposte dalla sua contemporanea appartenenza alla struttura americana (int.
DIGILIO, 31.1.1996, f.3).
Probabilmente proprio dai depositi di Pian del Cansiglio proveniva parte delle armi
custodite nel casolare di Paese (int. DIGILIO, 1°.2.1997, f.2) e verosimilmente tale
fornitura era stata alla base dei rapporti diretti fra il prof. FRANCO e Giovanni
VENTURA, che gestiva in prima persona il casolare e aveva consentito l’invio sul
posto di Carlo DIGILIO da parte dello stesso prof. FRANCO.
In tali circostanze il prof. FRANCO si era mostrato assai accorto inviando al casolare
non Marcello SOFFIATI (che pur faceva parte della rete operativa), ma appunto
Carlo DIGILIO, normalmente inserito nella rete informativa, più affidabile e
soprattutto molto più competente in materia di armi e di esplosivi (int. DIGILIO,
12.11.1994, f.4).
Non è stato possibile, ovviamente, visto il tempo trascorso, trovare riscontri diretti
della fornitura di armi da parte del gruppo di Lino FRANCO al generale GRIVAS.
Tuttavia dagli atti forniti dal S.I.S.Mi. relativi all’organizzazione EOKA-B emerge
quantomeno un riscontro indiretto, e cioè che alla fine degli anni ‘50 un emissario del
generale GRIVAS si era recato in Italia per valutare la possibilità di acquistare nel
nostro Paese armi per l’organizzazione (cfr. nota del R.O.S. in data 6.6.1996 e atti
allegati provenienti dal S.I.S.Mi., vol.20, fasc.3, ff.1 e ss.).
Molto stretti dovevano anche essere i contatti del prof. FRANCO con il dr.
MAGGI se anche Martino SICILIANO, confermando così il racconto di Carlo
DIGILIO (int. Digilio, 1°.2.1997, f.3), ha ricordato di essersi recato, intorno al
1966/1967, dal prof. FRANCO accompagnando il dr. MAGGI, Giangastone
ROMANI e Delfo ZORZI che intendevano discutere appunto con il prof.
FRANCO in merito alla costituzione di un gruppo di Ordine Nuovo a Vittorio
Veneto (int. SICILIANO, 15.3.1995, f.8).
Un ulteriore riscontro in merito all’attività del prof. Lino FRANCO è stato reso
possibile dalla trasmissione da parte della D.C.P.P., il 29.1.1997, di un appunto
trovato nel fascicolo dell’archivio ordinario del Ministero dell’Interno intestato al prof.
FRANCO.
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Tale appunto di fonte confidenziale, proveniente dall’Ufficio Affari Riservati e
portante la data 19.5.1964, riferisce che il prof. FRANCO di Vittorio Veneto
aveva intenzione di organizzare dei corsi di sabotaggio con la partecipazione di
elementi “fanatici” neofascisti e che a tal fine egli aveva occultato da tempo un
consistente quantitativo di armi e munizioni, circa un centinaio di fucili e mitra
con relativo munizionamento.
Lo stesso prof. FRANCO, per la ricorrenza del 25 aprile 1964, aveva progettato di
compiere un attentato dinamitardo contro la Camera del Lavoro di Milano, essendo
esperto anche nell’approntamento di ordigni esplosivi, ma all’ultimo momento aveva
desistito da tale proposito (cfr. appunto citato, vol.20, fasc.14, f.24).
Giustamente Carlo DIGILIO ha rilevato che il contenuto di tale appunto è in perfetta
sintonia con quanto egli aveva già riferito in precedenza in merito al ruolo del prof.
FRANCO e che questi, per la sua esperienza durante la seconda guerra mondiale,
era il soggetto ideale per fare l’istruttore di tecniche di sabotaggio (int. 1°.2.1997, ff.23).
In conclusione, le notizie riferite da Carlo DIGILIO in merito al prof. Lino
FRANCO e gli elementi raccolti aliunde sulla sua figura sono del tutto
omogenei e ciò garantisce ancora una volta l’affidabilità di quanto dichiarato
dal collaboratore sulla struttura di intelligence americana.
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49
I RISCONTRI RELATIVI AL PROF. PIETRO GUNNELLA
Pietro GUNNELLA, indicato da Carlo DIGILIO quale elemento di collegamento fra
MINETTO e il colonnello SPIAZZI (funzionando quale “buca della posta” per l’inoltro
dei messaggi) nonchè fra quest’ultimo e Elio MASSAGRANDE, latitante in SudAmerica, è stato identificato nell’omonimo professore già residente a Verona e da
tempo deceduto.
Il prof. GUNNELLA era stato condannato, al termine della guerra, avendo aderito alla
R.S.I., per collaborazione militare con il nemico e, per sfuggire alla pur lieve pena
comminatagli, era partito per l’Argentina, Paese scelto anche da MINETTO e dal
prof. Lino FRANCO quale terra di emigrazione, ed era rientrato in Italia solo nel 1959
continuando per alcuni anni l’attività politica nel M.S.I.
Questi pur scarni dati erano già sufficienti a delineare la figura del prof. GUNNELLA
come quella di un personaggio in piena sintonia con il ruolo di staffetta-postino a lui
attribuito da Carlo DIGILIO.
Perdipiù sono stati acquisiti presso la Digos di Verona gli atti relativi ad una
perquisizione effettuata l’11.4.1983 su disposizione del G.I. di Bologna, dr. Leonardo
Grassi, nell’ambito di un procedimento aperto nei confronti, fra gli altri, del colonnello
Amos SPIAZZI e precisamente uno stralcio del procedimento c.d. del Poligono di
Tiro di Venezia.
In occasione della perquisizione era stato rinvenuto un foglio dattiloscritto
intestato PROPOSTA PER L’OPERAZIONE CONTINUITA’, costituito da un
elenco di 10 militari con particolari qualifiche (paracadutisti, artificieri,
pattugliatori) residenti tutti nel veronese e, accanto ad alcuni nomi, un
riferimento al colonnello Amos SPIAZZI (cfr. foglio allegato all’interrogatorio di
Carlo DIGILIO in data 26.3.1997 e atti relativi a Pietro GUNNELLA, di cui alla nota
del R.O.S. in data 24.3.1997, vol.21, fasc.4).
Alcuni dei nomi che vi compaiono (l’artificiere Antonino GRAZIANO e l’ex
ardito/sabotatore della X M.A.S. Ezio ZAMPINI) erano già emersi nella prima parte
dell’istruttoria quali componenti della LEGIONE di Verona dei NUCLEI DI DIFESA
DELLO STATO ed è probabile che l’ “Operazione Continuità”, che in base ad una
data apposta sul foglio dovrebbe risalire al 1979, rappresenti un progetto di
ricostruzione dei NUCLEI (cfr., sul punto, anche int. DIGILIO, 26.3.1997, f.2).
Sempre durante la perquisizione del 1983 sono state rinvenute 10 lettere scambiate
fra il prof. GUNNELLA ed Elio MASSAGRANDE, latitante in Paraguay, che si
riferiscono al progetto di impiantare in tale Paese proficue attività economiche nel
campo dei marmi, dei legnami e dell’acquisto di terreni.
La società già operante in Paraguay, cui GUNNELLA e altri veronesi dovevano dare
un ulteriore apporto, è indicata nella carta intestata come MA.BE., iniziali di
314
MASSAGRANDE e, verosimilmente, dell’ordinovista mantovano Roberto BESUTTI,
molto legato al gruppo veronese.
L’ulteriore perquisizione disposta da questo Ufficio dopo le dichiarazioni di Carlo
DIGILIO, ed operata da personale del R.O.S. in data 6.9.1996 presso l’abitazione
ove Pietro GUNNELLA risiedeva, ha aggiunto a tali dati , già come tali inequivoci, il
rinvenimento di una copia del libretto “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE”,
scritto da Pino RAUTI e da altri teorici della guerra non ortodossa, e di una
pubblicazione edita dal Centro CARLOMAGNO dal titolo “LA DIFESA DI VERONA”,
opera del colonnello Amos SPIAZZI (cfr. vol.21, fasc.4, ff.32 e ss.).
In conclusione, il ruolo di raccordo e di collegamento fra le varie strutture attribuito al
prof. Pietro GUNNELLA da Carlo DIGILIO trova piena conferma nelle scelte di vita e
nei contatti che hanno caratterizzato il personaggio.
315
316
50
I RISCONTRI RELATIVI AL CAPITANO TEDDY RICHARDS
E IL RINVENIMENTO DI ARMI ED ESPLOSIVI
A VERONA NEL 1966
Con Teddy RICHARDS, ufficiale americano in forza per un lungo periodo
presso la base SETAF di Vicenza, ci si avvicina al cuore della rete informativa
descritta da Carlo DIGILIO.
Egli, presente in Italia sin dalla fine degli anni ‘60, aveva preso la guida della struttura
a partire dal 1974 sostituendo il capitano David CARRET, certamente in un momento
in cui i più gravi fatti oggetto di questa istruttoria e delle istruttorie collegate erano già
avvenuti.
Tuttavia Carlo DIGILIO ha avuto modo di descriverne l’operatività in azioni
comunque importanti che hanno contribuito a mettere concretamente a fuoco il
funzionamento della struttura anche nei suoi compiti, per così dire, “istituzionali” e
non illeciti sul piano della nostra normativa penale.
Ci riferiamo all’operazione DELFINO ATTIVO o DELFINO SVEGLIO, svoltasi nelle
acque dell’Adriatico nei pressi di Venezia e finalizzata a saggiare la reattività della
nostra Flotta dinanzi ad un possibile attacco (int. DIGILIO, 5.1.1996, f.3), nonchè al
recupero nella zona dell’Alto Garda, con un’operazione di pura intelligence, di barre
di uranio trafugate all’estero probabilmente da un’altra struttura militare (int. DIGILIO,
22.6.1996, f.2).
L’episodio, che ha consentito l’identificazione dell’Ufficiale e che è più significativo e
qualificante per gli avvenimenti oggetto della presente istruttoria, risale tuttavia al
1966 e cioè alla prima fase della presenza del capitano RICHARDS in Italia.
Nel maggio del 1966, a seguito di un’indagine della Squadra Mobile di Verona partita
quasi casualmente dagli accertamenti relativi ad una rapina, venivano arrestati per
detenzione di armi ed esplosivi Roberto BESUTTI ed Elio MASSAGRANDE e
denunciati Marcello SOFFIATI e Marco MORIN, i primi tre frequentemente presenti
negli atti di questa istruttoria e il quarto condannato quale perito infedele nel
procedimento per l’attentato di Peteano.
Era stato infatti rinvenuto in alcune abitazioni nella loro disponibilità (un
appartamento affittato a Roverè Veronese, l’abitazione di BESUTTI a Mantova e un
appartamento a Livorno nella disponibilità di MASSAGRANDE) un vero e proprio
arsenale di armi ed esplosivi fra cui decine di pistole e fucili di vario tipo, detonatori al
fulminato di mercurio e al T4, detonatori elettrici, ben 173 saponette di tritolo, miccia
detonante, 8 mine antiuomo, 3 bombe a mano MK 2 e 5 barattoli di esplosivo
gelatinizzante israeliano MC 13 (cfr. rapporto della Squadra Mobile di Verona in data
31.5.1966, vol.8, fasc.1, ff.72 e ss.).
Nel corso delle prime indagini, Roberto BESUTTI (inspiegabilmente rilasciato, così
come gli altri arrestati, dopo pochissimi giorni) aveva indicato agli operanti della
316
Squadra Mobile di Verona, in un formale interrogatorio, i nomi di coloro che gli
avevano fornito il materiale, prevalentemente italiani residenti in Trentino ad
eccezione di uno di nazionalità invece statunitense, indicato come Teddy
RICHARDS, all’epoca in servizio presso la Caserma Passalacqua di Verona, che gli
aveva consegnato non poco di quanto sequestrato e cioè una ventina di fucili, bombe
a mano, mine, congegni vari e tritolo.
Il cittadino americano veniva identificato in Theodor RICHARDS, nato il 5.4.1935 a
Waterville (Maine, U.S.A.) in servizio appunto presso il Comando SETAF, allora
ubicato a Verona, e titolare fra l’altro di una licenza rilasciata dalla Questura di
Verona per la collezione di armi antiche (cfr. nota della Digos di Verona in data
20.1.1996 e atti allegati, vol.7, fasc.6, ff.47 e ss.).
Non vi è dubbio che si tratti proprio dell’Ufficiale indicato da Carlo DIGILIO, da lui
peraltro ricordato come soggetto legato a MASSAGRANDE, BESUTTI e SOFFIATI
proprio in relazione a movimenti di armi (int. DIGILIO, 20.1.1996, f.1, e 24.2.1996,
f.3).
Si noti che anche in un appunto rinvenuto presso la Questura di Verona nel fascicolo
intestato a Marcello SOFFIATI si rileva che questi aveva confidenzialmente riferito,
nel 1974 al Dirigente dell’Ufficio Politico di tale città, di aver partecipato intorno al
1966 con BESUTTI e MASSAGRANDE ad alcune riunioni nella villetta, sita nei
pressi di Verona, di un militare americano a nome Ted RICHARDS e che questi, in
cambio di armi da collezione, aveva ceduto al gruppo armi moderne ed efficienti (cfr.
vol.23, fasc.1, f.20).
Dopo l’arresto dei quattro ordinovisti, il procedimento era proseguito in modo
quantomeno singolare.
Era stato infatti inviata una comunicazione alle Autorità Militari americane di stanza a
Verona in merito a quanto emerso a carico di Teddy RICHARDS, ma in seguito non
si era più avuta alcuna notizia di un’incriminazione dello stesso nè da parte
delle Autorità americane nè da parte di quelle italiane.
I quattro ordinovisti erano stati condannati dalla Pretura di Verona a pene irrisorie
(da uno a tre mesi di arresto) prestando fede alla tesi difensiva secondo cui si
sarebbe trattato di un gruppo di collezionisti di armi ed evidentemente anche di
esplosivi.
Perdipiù, quando il G.I. di Venezia dr. Felice Casson, nell’ambito degli
approfondimenti relativi all’attentato di Peteano, che vedeva fra l’altro coinvolto come
autore di una falsa perizia il dr. Marco MORIN, aveva cercato di acquisire il fascicolo
processuale presso l’Archivio della Pretura di Verona, aveva scoperto che il
fascicolo, e solo quello specifico fascicolo, era inspiegabilmente scomparso
(cfr. sentenza-ordinanza depositata in data 3.1.1989 nel procedimento a carico di
MORIN Mario ed altri, vol.27, fasc.1, ff.42 e ss.), cosicchè era stato possibile
ricostruire la vicenda relativa al rinvenimento delle armi e degli esplosivi solo
parzialmente, grazie alle copie rimaste presso la Questura di Verona.
317
318
Non si era certo trattato di una sparizione casuale e infatti la conferma è giunta da
Carlo DIGILIO che aveva in seguito raccolto i commenti soddisfatti di Marcello
SOFFIATI:
“””Un altro episodio importante è quello collegato alla sparizione del fascicolo
concernente l'imputazione di detenzione di armi ed esplosivo a Verona in capo
a MASSAGRANDE, BESUTTI e altri.
Poichè era stato Teddy RICHARDS a fornire al gruppo parte delle armi che
erano state sequestrate, egli poi si preoccupò di far sparire il fascicolo
processuale dal Tribunale di Verona.
Questo intervento valse anche a impedire che rimanessero troppe tracce dello
stesso RICHARDS negli atti.
Mi disse Marcello SOFFIATI che per far sparire questo fascicolo servirono
denaro e connivenze nell'ambiente giudiziario.
Per RICHARDS si era trattato di un episodio squalificante in quanto aveva
ceduto con imprudenza armi della caserma a persone estranee all'ambiente
militare”””.
(DIGILIO, int.14.12.1996, f.5).
Di particolare importanza è il fatto che fra il materiale sequestrato nel maggio
1966 vi fossero ben 5 barattoli di esplosivo gelatinizzante israeliano MC 13,
esplosivo certo non facilmente reperibile e sicuramente di provenienza
militare.
Tale circostanza non può che ricollegarsi agli stretti rapporti intercorrenti fra la
struttura di sicurezza americana e le analoghe strutture israeliane (int. DIGILIO,
6.3.1997, f.1) e alle conseguenti, anche se imprevedibili, ricadute in chiave
strettamente anticomunista sulla struttura di Ordine Nuovo, come si è
ampiamente esposto nel capitolo 39.
Concludendo in ordine alla figura del capitano Teddy RICHARDS, anche Dario
PERSIC ha ricordato di aver avuto modo di conoscerlo a Colognola, presentatogli da
Giovanni BANDOLI, e ne ha fornito una descrizione fisica del tutto analoga a quella
indicata da Carlo DIGILIO (dep. PERSIC, 18.4.1997, f.4, e int. DIGILIO, 5.1.1996,
f.4).
Secondo Dario PERSIC, il militare americano era stato in servizio, sino alla metà
degli anni ‘70, lontano dall’Italia, forse in Vietnam, mentre a Verona era rimasta la
sua famiglia (dep. citata, f.4) e ciò corrisponde con il racconto di Carlo DIGILIO, il
quale ha riferito che il capitano RICHARDS aveva sostituito il capitano CARRET nel
1974 e che il servizio in un altro Paese per alcuni anni era dovuto, probabilmente, a
motivi precauzionali visto il pericolo causato dall’ “infortunio” del 1966 (int. DIGILIO,
5.5.1997, f.2).
Anche in relazione alla figura del capitano Teddy RICHARDS, l’esame di vecchi atti
processuali e le nuove acquisizioni hanno quindi confermato il quadro fornito da
Carlo DIGILIO.
318
51
IL RUOLO DI LEO JOSEPH PAGNOTTA E JOSEPH LUONGO
LA TESTIMONIANZA DEL MAGGIORE KARL HASS
A partire dalla primavera del 1996, Carlo DIGILIO ha fatto riferimento, con particolari
sempre più dettagliati, a due italo-americani, Leo Joseph PAGNOTTA e Joseph
LUONGO, i quali, sin dall’immediato dopoguerra, erano stati i punti di partenza
della costituzione della rete americana reclutando, in funzione della comune
causa anticomunista, sia ex-ufficiali tedeschi sia, soprattutto nel Veneto, exrepubblichini e altri elementi di estrema destra.
I dati forniti da Carlo DIGILIO in relazione a tali due personaggi, di grandissimo
interesse per comprendere gli esordi di tale struttura, sono i seguenti:
- Leo Joseph PAGNOTTA e Joseph LUONGO frequentavano, ancora negli anni ‘70,
con una certa assiduità, Colognola ai Colli e soprattutto PAGNOTTA era molto
legato a Sergio MINETTO, tanto che Bruno SOFFIATI si era rammaricato
pubblicamente che soprattutto MINETTO, più di suo figlio Marcello, avesse alle
spalle un personaggio importante come PAGNOTTA in grado di aiutarlo (int.
4.5.1996, f.2; 5.5.196, f.7).
- PAGNOTTA aveva partecipato allo sbarco alleato in Sicilia e da allora aveva
sempre operato in Italia insieme a LUONGO.
- PAGNOTTA disponeva a Monfalcone di una ditta di importazione di frigoriferi
di nome DETROIT, che era frequentata dal prof. Lino FRANCO e da Sergio
MINETTO e il cui stabilimento serviva anche come copertura per lo studio, in
favore degli americani, di particolari leghe metalliche e altro materiale di
interesse militare (int. 5.4.1996, f.2; 5.5.1996, f.7), settore in cui MINETTO era
particolarmente impegnato avendo acquisito informazioni anche provenienti da
industrie cecoslovacche grazie ad elementi croati che operavano nella zona di
confine.
- PAGNOTTA, sempre utilizzando come copertura la sua attività commerciale, si
occupava di aerei militari e pezzi di ricambio destinati al Medio-Oriente e comunque
ad alleati degli americani (int. 4.10.1996, f.2).
- Sergio MINETTO operava stabilmente con loro tanto che Carlo DIGILIO ricordava
che un giorno MINETTO era partito da Colognola alla volta di Milano ove aveva un
appuntamento con Joseph LUONGO per un’operazione informativa (int.15.6.1996,
f.2).
- Il “riciclaggio” degli ufficiali tedeschi che avevano svolto servizio in Italia
durante la seconda guerra mondiale era stato una delle attività più proficue per
i due agenti americani, poichè tali ufficiali, in cambio di aiuti finanziari e della
possibilità di sfuggire alle sanzioni, avevano messo a disposizione le conoscenze
319
320
che avevano accumulato sul territorio italiano e sugli elementi considerati di sinistra
(int. 12.10.1996, f.3).
Leo Joseph PAGNOTTA è da molto tempo deceduto, ma Carlo DIGILIO ha
comunque potuto riconoscerlo senza difficoltà in una fotografia acquisita da
personale del R.O.S. presso l’abitazione della figlia Annamaria, tuttora residente a
Padova, consentendo così un primo positivo riscontro (int. 29.10.1996, ff.1-2, e
fotografia di Leo Joseph PAGNOTTA, vol.20, fasc.1, f.9).
Ma soprattutto dagli atti forniti dal S.I.S.Mi., relativi al fascicolo aperto sin dalla
metà degli anni ‘50 in relazione alla figura e all’attività di PAGNOTTA, risulta
che questi, nato a Brokton (U.S.A.) il 29.1.1915, era responsabile a quell’epoca
del Counter Intelligence Corp di Trieste, il servizio di sicurezza militare
americano affiancato all’Esercito degli Stati Uniti e già operante nel nostro
territorio sin dal momento dello sbarco degli Alleati in Sicilia, agiva in posizione non
ufficiale sotto la copertura di rappresentante di prodotti importati dagli U.S.A. ed era
interessato alla ditta AVIPA di Trieste di cui era titolare John HALL, elemento legato
a Giovanni BANDOLI di cui si parlerà nel capitolo 54 (cfr. nota del Centro C.S. di
Trieste in data 12.10.1959, vol. 20, fasc.1, f.79).
In seguito, PAGNOTTA, sposatosi con una donna italiana, era divenuto socio e
gestore di fatto della ditta DETROIT (formalmente di proprietà dello zio della moglie)
che si occupava dell’importazione di frigoriferi e disponeva di un capannone a
Monfalcone e di un ufficio di rappresentanza a Padova (cfr. nota del Centro C.S. di
Padova in data 6.9.1972, vol.20, fasc.1, ff.44 e ss.).
Leo Joseph PAGNOTTA, presente in Italia sin dal 1943 e sin da tale epoca inserito
nell’amministrazione alleata in Italia, aveva continuato a frequentare, anche dopo il
suo congedo dal C.I.C., ufficiali e civili americani di stanza in Veneto (cfr. nota citata,
f.47).
La figlia di PAGNOTTA, Annamaria, sentita dal personale del R.O.S., ha confermato
che suo padre era stato presente in Italia sin dal momento dello sbarco in Sicilia
(dep. 13.1.1997, vol.20, fasc.1, f.4) e un dipendente di PAGNOTTA a Padova,
Adriano PATRON, ha riferito che Leo Joseph PAGNOTTA non aveva mai nascosto
di essere stato un ufficiale di collegamento fra l’Esercito degli Stati Uniti e le Autorità
italiane e in seguito impegnato in attività informative per il suo Paese di origine (dep.
16.1.1997, vol.20, fasc.1, ff.3-4).
In un altro fascicolo sempre fornito dal S.I.S.Mi, e relativo all’attività delle strutture
informative americane, si riferisce che Leo Joseph PAGNOTTA, per conto del C.I.C.,
aveva avuto l’incarico di costituire a Milano, nella metà degli anni ‘50, un centro
informativo destinato a lavorare sulla situazione jugoslava e in genere sui Paesi
d’Oltre Cortina (cfr. nota di accompagnamento del R.O.S. in data 4.3.1996 e atti
allegati, vol.20, fasc.11, f.24).
Risulta così confermato, con riscontri difficilmente contestabili, il quadro fornito da
Carlo DIGILIO e cioè che Leo Joseph PAGNOTTA rappresentava uno dei punti di
partenza in Veneto delle rete di cui poi sarebbero entrati a far parte il prof. Lino
320
FRANCO e Sergio MINETTO, quest’ultimo in grado di giustificare i suoi contatti con
la ditta DETROIT di PAGNOTTA in ragione della sua attività di frigoriferista.
Ma gli elementi di riscontro acquisiti non terminano qui.
Infatti, in occasione della perquisizione operata da personale del R.O.S., su
disposizione di questo Ufficio, nel gennaio 1997, nell’abitazione di Annamaria
PAGNOTTA veniva rinvenuta e sequestrata un’agenda del padre risalente al
1955.
Tale agenda, già ad un primo esame e nonostante le difficoltà di decifrazione della
scrittura, risultava contenere numerosissime annotazioni manoscritte relative alla
commercializzazione di aerei militari, di pezzi di ricambio per gli stessi e di
altro materiale di uso bellico (cfr. nota del R.O.S. in data 4.10.1996, vol.20, fasc.1,
ff.24 e ss.).
La completa decifrazione ed analisi di tale agenda veniva quindi affidata al tenente
colonnello dell’Aeronautica Sergio Venezia, ottimo conoscitore fra l’altro delle
strutture militari americane e inglesi (cfr. vol.20, fasc.1, f.15).
Dalla relazione tecnica del colonnello Venezia, depositata in data 20.6.1997,
emerge in modo inequivoco che Leo Joseph PAGNOTTA, nella seconda metà
degli anni ‘50, era stato l’agente intermediario non palese di un Governo
Occidentale (certamente gli Stati Uniti d’America vista la provenienza della
maggior parte del materiale militare) nella vendita di aerei, parti di ricambio e
altro materiale a Paesi amici dell’area Medio-Orientale, in sostanza Israele, a
quell’epoca teatro di conflitti (cfr. vol.20, fasc.14, ff.4 e ss.).
In parole povere, Leo Joseph PAGNOTTA, anche con un guadagno economico
personale, ma certamente su direttive “superiori”, aveva organizzato la vendita a
Israele, in occasione della seconda guerra arabo-israeliana dell’autunno 1956, di
velivoli, carri armati, battelli, mine terrestri e navali, munizioni ed equipaggiamenti
vari (descritti negli accurati schemi illustrativi allegati alla relazione, tratti dalla
decifrazione degli appunti di PAGNOTTA), materiale tutto proveniente dal surplus
militare degli Stati Uniti e di altri Paesi Occidentali che ufficialmente non poteva
essere venduto a Israele.
Infatti gli impegni istituzionali vigenti all’epoca impegnavano da un lato gli Stati Uniti a
non rifornire “ufficialmente” Israele, mentre i Paesi Arabi erano avvantaggiati potendo
acquistare materiale militare dall’Unione Sovietica e dai Paesi ad essa alleati.
Con simili procedure non ufficiali, invece, agenti di fiducia come PAGNOTTA
(che, fra l’altro, era di origine ebrea) avevano aiutato Israele, più debole sul
piano militare soprattutto in termini di velivoli, a disporre di mezzi militari
statunitensi, canadesi e britannici formalmente non più in carico dopo la seconda
guerra mondiale alle Forze Armate di tali Paesi in quanto sostituiti da mezzi più
moderni.
Tale azione di “riequilibrio” delle forze in campo aveva dato i risultati sperati per gli
occidentali in quanto, come noto, l’ “attacco preventivo” israeliano nel Sinai
321
322
dell’ottobre 1956 aveva avuto successo e i Paesi Arabi avevano dovuto rinunziare al
loro sogno di cancellare dal Medio Oriente l’ “Entità Sionista”.
Si aggiunga che da ulteriori atti forniti dal S.I.S.Mi. nella fase finale dell’istruttoria, è
emerso che nel 1955 Leo Joseph PAGNOTTA era in contatto con l’ing. Hussein
SADEGH, Addetto Commerciale presso l’Ambasciata dell’Iran (Paese allora
gravitante nel campo occidentale) a Roma, al fine di intavolare trattative per
l’acquisto di una notevole partita di petrolio grezzo persiano (cfr. nota in data
29.10.1955 del Raggruppamento Centri C.S., in atti S.I.S.Mi., con nota di
accompagnamento del R.O.S. in data 18.9.1997, vol.55, fasc.8, f.28).
In conclusione, è di tutta evidenza come l’analisi dell’agenda di Leo Joseph
PAGNOTTA e l’attività “non ufficiale” da questi svolta in direzione dell’area medioorientale confermi e integri in modo insuperabile il racconto di Carlo DIGILIO relativo
a tale importante personaggio della struttura americana.
Per quanto concerne la figura di Joseph LUONGO, questi è stato identificato
nell’omonimo, nato a New Haven (U.S.A.) il 3.5.1916, cittadino statunitense
residente, a partire dalla metà degli anni ‘80, a Bolzano evidentemente, ormai, come
pensionato in congedo dalle strutture di cui aveva fatto parte (cfr. nota del R.O.S. in
data 15.4.1997, vol.20, fasc.2, f.15).
Anche in relazione alla figura di Joseph LUONGO è stato possibile, con assoluta
precisione, trovare conferma del quadro fornito da Carlo DIGILIO tramite atti
recuperati dalla Direzione del S.I.S.Mi, e risalenti alle fasi abbastanza iniziali della
formazione della rete americana.
Infatti veniva acquisito un atto, portante la data 22.3.1960, contenente il quadro
fornito all’epoca ai nostri Servizi dal maggiore Albert VARA (ufficiale di
collegamento fra il C.I.C. americano e il nostro SIFAR) degli agenti e fiduciari
appunto del Counter Intelligence Corp operanti nel Nord-Italia sotto la copertura delle
basi SETAF (cfr. nota d’analisi del R.O.S. in data 23.9.1996 e atto allegato
trasmesso dal S.I.S.Mi. in data 23.7.1996, vol.20, fasc.2, ff.20 e ss.).
Nella parte manoscritta di tale appunto, Joseph LUONGO è indicato come Capo
dell’Ufficio di contatto, a Roma, con il Ministero dell’Interno e vi è accanto, fra
parentesi, il nome CAPUTO, corrispondente certamente a Ulderico CAPUTO,
all’epoca funzionario del nostro Ministero con compiti di sicurezza (f.30).
Nello schema allegato agli appunti manoscritti, che dovrebbe essere quello originale
statunitense, il nome di Joseph LUONGO è indicato con quelli di altri agenti nel
rettangolino che porta in inglese il titolo “PROGETTI SPECIALI - RECLUTAMENTO
E COLLEGAMENTO” ed è seguito da altri 3 rettangolini contenenti l’indicazione delle
squadre operanti a Verona, Vicenza e Livorno, luoghi ove appunto esistevano ed
esistono Comandi americani (f.33).
322
E’ quindi certo che Joseph LUONGO fosse un quadro di alto livello della
struttura militare di sicurezza statunitense, proprio con il ruolo di organizzatore
e reclutatore indicato da Carlo DIGILIO.
In un altro documento fornito dal S.I.S.Mi. (cfr. nota della Direzione del Servizio in
data 10.5.1994 e analisi del documento da parte del R.O.S. in data 13.5.1994,
vol.20, fasc.5), risalente al 1975 e definito allora dal S.I.D. “esatto nelle linee
generali” (f.7), Joseph LUONGO è indicato come uno dei principali appartenenti
ad una rete di spionaggio americana operante a Vicenza, molto probabilmente
diversa e successiva a quella descritta da Carlo DIGILIO.
Si noti che nel documento, originariamente in lingua inglese e tedesca e proveniente
da un briefing informativo tenuto nel marzo 1975 a Wiesbaden tra appartenenti a più
Servizi in ambito N.A.T.O., è presente una sorta di lamentela (attribuibile al
funzionario del nostro Servizio che ha tradotto e presentato l’appunto) collegata al
fatto che il servizio segreto americano avrebbe teso ad una completa supremazia
informativa in ambito N.A.T.O. assicurandosi il monopolio delle informazioni
nell’ambito dell’Alleanza e raccogliendo notizie anche sulle attività di polizia interna
ed esterna del nostro Paese (f.5).
Per tale ragione fine dell’appunto è anche quello di proporre indagini sugli agenti
non noti indicati nell’elenco (ma fra questi non LUONGO, indicato come “noto”) per
verificare se si tratti di agenti illegali e non accreditati (f.7).
Il quadro dei riscontri, tuttavia, non si ferma qui.
Insieme agli atti appena citati, concernenti anche Joseph LUONGO, il S.I.S.Mi. ha
fornito una fotografia risalente al primo dopoguerra che ritrae alcune persone
in posa durante una cerimonia di battesimo e sul retro di tale fotografia sono
indicati, fra le persone effigiate, Karl HASS, il secondo da destra, e, al suo
fianco, il colonnello “Josip” LUONGO (cfr. vol.20, fasc.2, ff.2 e ss.).
Karl HASS, il maggiore delle SS addetto in Italia, durante la seconda guerra
mondiale, ai servizi di sicurezza, corresponsabile in tale veste del massacro delle
Fosse Ardeatine e recentemente condannato per i reati ad esso connessi, è stato
sentito da personale del R.O.S. in data 4.7.1996 in merito ai rapporti intrattenuti, a
partire dal primissimo dopoguerra, con i servizi segreti occidentali che gli avevano
consentito di vivere indisturbato in Italia e di evitare conseguenze in relazione al
gravissimo episodio in cui aveva avuto parte (cfr. vol.20, fasc.9).
La testimonianza di Karl HASS, estremamente significativa anche se probabilmente
incompleta e reticente, costituisce la conferma completa del racconto di Carlo
DIGILIO in merito al ruolo svolto da PAGNOTTA e LUONGO nella formazione della
rete americana in cui sarebbero poi entrati Sergio MINETTO e le altre persone man
mano reclutate in Veneto soprattutto nelle località in cui si trovavano importanti basi
americane.
Il maggiore HASS, infatti, ha confermato innanzitutto di aver lavorato, già a
partire dal 1943, per il Comando dei servizi di sicurezza tedeschi, che aveva
sede a Verona (e a cui, secondo le testimonianze raccolte nella presente istruttoria,
323
324
sarebbe stato vicino Bruno SOFFIATI che gestiva una propria rete informativa),
partecipando ad importanti operazioni di intelligence quali l’arresto, insieme a Otto
SKORZENY, dei Ministri italiani che avevano “tradito” il Duce e la costituzione di una
rete di radiotrasmissioni, denominata IDA, che avrebbe dovuto continuare a
trasmettere dati da Roma anche dopo l’ingresso nella capitale degli anglo-americani
(dep. citata, f.1).
Arrestato dagli Alleati e trasferito in un carcere americano a Roma, dopo pochi
giorni Karl HASS era stato contattato dal maggiore PAGNOTTA del Counter
Intelligence Corp che gli aveva proposto di lavorare per il servizio segreto
militare americano.
A tal fine era stato portato, nel marzo del 1947, in Austria, a Gmunden, presso il
Comando del C.I.C. e qui gli era stato presentato il maggiore LUONGO che
fungeva anche da elemento di collegamento fra il C.I.C. e il Ministero
dell’Interno italiano (dep. citata, ff.2-3).
Gli era stato quindi fornito un falso passaporto italiano a nome GIUSTINI ed era
quindi rientrato a Roma, alloggiando in un convento, e incaricato di compiti
informativi in favore degli americani nel quadro della difesa dalla comune minaccia
marxista.
In previsione della possibile vittoria del Fronte delle Sinistre nelle elezioni del 1948, il
maggiore HASS aveva quindi attivato una serie di contatti fra la struttura americana e
gli ambienti dell’estrema destra romana al fine di concordare un eventuale piano di
occupazione, in caso di vittoria elettorale delle sinistre, dei principali edifici pubblici e
del trasmettitore radio di Monte Mario (dep. citata, f.3).
Nel corso di tale attività, fra l’altro, il maggiore HASS era entrato in contatto con il
funzionario del Ministero dell’Interno Ulderico CAPUTO (f.6) e cioè proprio il
funzionario indicato nell’appunto del 22.3.1960 appena illustrato, accanto al nome del
maggiore Joseph LUONGO.
All’inizio degli anni ‘50, il maggiore HASS era rientrato in Austria continuando a
lavorare per il Military Information Service nell’ambito di Radio Free Europe (dep.
citata, f.4).
In una successiva deposizione a personale del R.O.S. (18.11.1996, vol.20, fasc.9,
ff.13 e ss.), Karl HASS ha ricordato anche di aver svolto un’attività di collaborazione
con il dr. Ulderico CAPUTO e con gli americani nell’attività di sostegno logistico e
psicologico di un agente sovietico transfuga in Occidente.
Il testimone non ha aggiunto altro, ma quanto ora esposto è più che sufficiente per
confermare che le risultanze istruttorie relative alla formazione e al funzionamento
della rete americana corrispondono a verità.
Al fine di integrare i dati raccolti sul ruolo svolto in Italia dal Karl HASS sono stati
acquisiti, con la collaborazione del S.I.S.Mi., tutti gli atti di interesse ancora presenti
in vecchi fascicoli del SIFAR e del SID (cfr. nota della Direzione del S.I.S.Mi. in data
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5.9.1996 e lettera di accompagnamento e di analisi del materiale raccolto, ad opera
del R.O.S., in data 21.2.1997, vol.20, fasc.9. ff.74 e ss.).
Da tali documenti e dall’analisi ragionata fatta dal personale del R.O.S. emerge non
solo che Karl HASS era stato un agente del C.I.C. (tanto da avere l’incarico di
controllare a Roma i comunisti tedeschi in contatto con il P.C.I. e da svolgere,
all’inizio degli anni ‘50 a Linz in Austria, presso una scuola di spionaggio americana,
l’attività di insegnante per la preparazione di agenti tedeschi; cfr. nota R.O.S. citata,
f.82), ma che i rapporti fra questi e il maggiore LUONGO erano stati ben più intensi e
duraturi tanto da protrarsi quantomeno fino al 1962, allorchè il maggiore LUONGO
era stato dichiarato persona non gradita e allontanato dall’Italia a seguito di scontri
interni fra il servizio segreto civile del Ministero dell’Interno e il SIFAR, con il cui
Direttore di allora il maggiore LUONGO era entrato in contrasto.
In sostanza il maggiore Karl HASS, ancora interessato, all’inizio degli anni ‘60, ad
attività informative concernenti il terrorismo altoatesino (cfr. nota R.O.S. citata, f.87),
sarebbe stato sempre tutelato dai funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero
dell’Interno, dr. Gesualdo BARLETTA e dr. Ulderico CAPUTO, entrambi a stretto
contatto con la rete informativa del maggiore LUONGO, meno gradito, per ragioni
che oggi è ormai difficile stabilire, al servizio segreto militare italiano dell’epoca, e
cioè il SIFAR (cfr. nota R.O.S. citata, ff.86 e 92-93).
A chiusura del cerchio dei riscontri concernenti la figura del maggiore LUONGO,
Carlo DIGILIO, visionata la fotografia della cerimonia di battesimo fornita dal
S.I.S.Mi. (che riguarda il battesimo, a Roma nel 1949, della figlia del maggiore
LUONGO; cfr. dep. Karl HASS, 4.7.1996, ff.7-8), ha riconosciuto senza difficoltà
nella terza persona da destra Joseph LUONGO, conosciuto a Colognola in
quanto in stretto contatto con Sergio MINETTO (int. DIGILIO, 12.10.1996, ff.3-4).
Sarebbe stato certamente di grande interesse sentire il maggiore Joseph LUONGO,
ancora vivente, sulla formazione e l’attività della struttura di spionaggio da lui
coordinata, sui suoi rapporti con Sergio MINETTO e tutto il gruppo di Colognola ai
Colli nonchè sui suoi rapporti con il maggiore Karl HASS ed altri ex-ufficiali tedeschi.
Il maggiore LUONGO, ormai pensionato, si era stabilito da alcuni anni a Bolzano e
quindi una sua convocazione sarebbe stata abbastanza agevole.
Le notizie relative alla sua esistenza in vita e alla circostanza che egli risiedesse in
Italia sono state tuttavia acquisite solo fortunosamente nella primavera del 1997 e in
quel momento stata appurata un’altra circostanza che non appare certo casuale.
Joseph LUONGO aveva lasciato l’Italia ritornando negli Stati Uniti nel giugno
del 1996, rendendosi così concretamente irreperibile proprio nei giorni in cui il
suo nome era uscito per la prima volta durante gli interrogatori che il maggiore
Karl HASS aveva reso alla Procura Militare di Roma (cfr. nota del R.O.S. in data
15.4.1997, vol.20, fasc.2, ff.15-16).
Certamente non una coincidenza.
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52
LA POSIZIONE DI SERGIO MINETTO
Sergio MINETTO è stato interrogato molte volte sia da questo Ufficio sia dal Pubblico
Ministero il quale, proprio con l’incriminazione di MINETTO per il reato di falsa
testimonianza, ha aperto nel maggio 1995 il procedimento 6071/95 R.G.N.R. nel
quale sono successivamente confluiti gli atti e le incriminazioni relative alla strage di
Piazza Fontana.
Sergio MINETTO è stato infatti sentito una prima volta il 17.5.1995 in qualità di
testimone sulla base delle prime dichiarazioni di Carlo DIGILIO e, arrestato per falsa
testimonianza con provvedimento del G.I.P. di Milano in data 19.5.1995, è stato
ancora sentito da questo Ufficio in data 22.5.1995 e dal Pubblico Ministero in data
2.6.1995.
Dopo la sua scarcerazione egli è stato ancora sottoposto a due articolati interrogatori
in data 24.5.1996 (e nel medesimo giorno si è svolto il confronto con Gastone
NOVELLA) e in data 20.6.1997, durante i quali gli sono stati dettagliatamente
contestati tutti gli elementi che via via erano emersi dalle dichiarazioni di Carlo
DIGILIO e di altre persone e dai riscontri effettuati.
La linea scelta da Sergio MINETTO, sin dalla sua prima deposizione, è stata
quella dell’assoluta reticenza e dell’assoluto rifiuto di narrare la sua esperienza
politica e di collaborazione con strutture di informazione straniere, anche a
prescindere dalla rilevanza penale di tale attività, e di rispondere alle domande con
affermazioni al limite dell’inverosimile, dipingendosi sempre come un modesto e
innocuo riparatore di frigoriferi che non comprendeva le ragioni dell’interesse degli
investigatori nei suoi confronti.
In sintesi, MINETTO ha affermato di non essersi interessato di politica dopo la fine
della guerra, durante la quale aveva prestato servizio nella Marina della R.S.I.,
limitandosi per alcuni anni ad essere iscritto al P.S.D.I.
Ha dichiarato di aver frequentato su un piano amichevole, a Colognola ai COLLI,
Bruno a Marcello SOFFIATI ammettendo poi, faticosamente, la conoscenza con
Giovanni BANDOLI, ma di non aver nemmeno mai visto il suo “accusatore” Carlo
DIGILIO.
Ha dichiarato di aver conosciuto occasionalmente, una volta, a metà degli anni ‘60
durante una sagra paesana, il dr. MAGGI, presentatogli da Bruno SOFFIATI, e di
non essersi mai recato a Venezia, nemmeno per lavoro, nè all’estero in nessuna
circostanza, a parte un periodo trascorso in Argentina per ragioni di lavoro.
Quanto alla sua frequentazione delle basi americane, egli ha riconosciuto di essere
entrato qualche volta nelle basi americane di Verona e di Affi, ma solo per riparare
frigoriferi.
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Raramente la linea difensiva di un imputato è stata, tuttavia, progressivamente
smentita in maniera così clamorosa e definitiva, anche se, dinanzi alle
progressive acquisizioni che l’Ufficio gli contestava, Sergio MINETTO non ha
minimamente modificato il proprio atteggiamento, comportandosi da vero agente di
un servizio informativo il quale, pur da tempo in congedo, continua a tutelare la
struttura per cui ha lavorato.
In sintesi:
- La non conoscenza di Carlo DIGILIO da parte di Sergio MINETTO, a parte ogni
considerazione sui numerosi particolari forniti dal collaboratore in merito alla sua
persona, tutti rivelatisi pertinenti, è stata documentalmente smentita
dall’acquisizione delle fotografie del pranzo di nozze di Marcello SOFFIATI e
Anna Maria BASSAN, avvenuto nel 1973 (cfr. fotografie allegate alla deposizione
di quest’ultima dinanzi al P.M., 8.6.1995, vol.25, fasc.1, ff.30 e ss.).
In tali fotografie si nota Sergio MINETTO, testimone della sposa, seduto allo
stesso tavolo in cui siede Carlo DIGILIO e quasi dinanzi a lui.
La circostanza è resa ancor più significativa dal fatto che al pranzo erano presenti
solo i parenti stretti e pochi amici intimi fra cui (oltre a DIGILIO) Giovanni BANDOLI,
anch’egli appartenente alla rete informativa, e Dario PERSIC (dep. BASSAN citata,
f.2; int . DIGILIO, 6.11.1995, ff.4-5).
- Perdipiù Gastone NOVELLA, impiegato al Casinò del Lido di Venezia,
simpatizzante del gruppo di Ordine Nuovo di tale città e anch’egli frequentatore della
casa di Bruno SOFFIATI a Colognola ai Colli, ha ricordato di essere stato
accompagnato insieme a DIGILIO proprio da Sergio MINETTO sull’autovettura di
questi, al termine di un incontro, da Colognola alla stazione ferroviaria di Verona
(dep. NOVELLA, 11.2.1996, f.2).
Quel giorno Sergio MINETTO aveva raccontato di essere stato in contatto, durante la
sua permanenza in Sud-America, con ambienti di esuli tedeschi che avevano
lasciato il loro Paese dopo la sconfitta del regime nazista (dep. citata, f.5).
Gastone NOVELLA ha confermato tali circostanze anche durante il confronto
sostenuto con Sergio MINETTO il 24.5.1996, indicando anche esattamente la marca
dell’autovettura, una Renault, di cui MINETTO disponeva.
- Sergio MINETTO, al fine di giustificare come casuale la sua presenza in alcune
basi americane ed esclusivamente legata alla riparazione di frigoriferi, ha dichiarato
di essere stato appunto occasionalmente introdotto in tale ambiente da un
Carabiniere a nome LIPPOLIS, abitante nel suo stesso stabile e all’epoca in servizio
presso la base SETAF di Verona (int. MINETTO, 22.5.1995, ff.2-3).
Il carabiniere Angelo LIPPOLIS, sentito in data 30.5.1995, ha invece spiegato di non
aver mai prestato servizio presso la base SETAF, ma solo presso il Comando
Gruppo dell’Arma di Verona ed ha pertanto escluso recisamente di aver mai
introdotto MINETTO in basi americane per motivi connessi a riparazioni di frigoriferi,
mettendo così nel nulla il tentativo di MINETTO di dipingere come casuale tale sua
presenza.
- Carlo DIGILIO ha più volte dichiarato, nel corso dei suoi interrogatori, che Sergio
MINETTO era stato più volte inviato in missione all’estero per conto della struttura
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informativa tessendo, anche in tali occasioni, i contatti che questi aveva attivato
durante il suo lavoro di copertura in Italia, appunto come frigoriferista
Sergio MINETTO ha negato di essersi mai recato all’estero dopo il suo ritorno
dall’Argentina, ma, durante la perquisizione effettuata nel maggio 1995 nella sua
abitazione, sono state ritrovate due lettere risalenti al 1987 trasmesse dal Governo
del Land della Svevia concernenti la richiesta di documenti da parte di tale Governo
in relazione ad una pensione che poteva essere riconosciuta allo stesso MINETTO
per attività lavorative svolte nella Germania Occidentale.
Tale questione non ha potuto essere ulteriormente approfondita anche per la scarsa
collaborazione fornita dalle Autorità tedesche, pur investite di una formale rogatoria
avanzata da questo Ufficio (cfr. vol.21, fasc.6), ma rimane il dato inequivoco di
passate presenze, non a caso negate, di Sergio MINETTO nella Germania
Occidentale e cioè in uno dei Paesi cardine della struttura difensiva della N.A.T.O.
ove si tenevano, come ricordato anche dal colonnello Amos SPIAZZI, corsi di
istruzione e di addestramento sotto il patrocinio delle strutture militari americane.
- Una delle poche circostanze ammesse da Sergio MINETTO, e sarebbe del resto
stato difficile il contrario, sono i rapporti strettissimi, quasi di devozione, che egli
aveva sempre coltivato con il commercialista veronese Giancarlo GLISENTI, cui
egli aveva fatto quasi quotidianamente visita, come risulta anche dai servizi di
osservazione del R.O.S. (cfr. vol.46, fasc.8, ff.70 e ss.) nella primavera del 1995,
poco prima che il dr. GLISENTI decedesse per una grave malattia.
Con il dr. GLISENTI, del resto, Sergio MINETTO aveva diviso l’infanzia in quanto sua
madre ne era stata la balia e il padre il giardiniere della sua villa, cosicchè MINETTO
era rimasto sempre l’uomo di fiducia di tale importante famiglia veronese (dep.
MINETTO 17.5.1995, f.3; int. 22.5.1995, f.3).
Il dr. Giancarlo GLISENTI era del resto figlio di Giovanni GLISENTI, Podestà di
Colognola ai Colli nel ventennio fascista.
Esaminando il fascicolo intestato al commercialista presso il Comando Provinciale
Carabinieri di Verona, veniva rinvenuto un appunto dattiloscritto contenente
informazioni a fini di sicurezza sul conto del dr. GLISENTI, con una annotazione
manoscritta del seguente tenore: “appunto consegnato in data 26.4.1965 al
Comando CC FTASE”.
Tale appunto è quindi collegato ad una procedura volta a verificare il grado di
affidabilità del dr. GLISENTI e può avere solo due spiegazioni.
Chi aveva chiesto le informazioni al Comando dei Carabinieri all’interno della base
FTASE della N.A.T.O. si proponeva o di verificare la figura di una persona molto
vicina a Sergio MINETTO, allo scopo di controllarne le frequentazioni, o, più
probabilmente, stava valutando la pssibilità di inserire il dr. GLISENTI, che poteva
essere molto utile in ragione della sua attività professionale, nella stessa struttura di
cui già faceva parte Sergio MINETTO (cfr. annotazione del R.O.S. in data 8.5.1995,
vol.23, fasc.9, f.87).
Perdipiù il giorno successivo alla morte del dr. GLISENTI, il 3.4.1995, veniva
intercettata sull’utenza di casa MINETTO una interessante conversazione fra la
moglie di MINETTO e sua sorella (cfr. vol.46, fasc.9, ff.1 e ss.).
Le due donne stavano dialogando della morte di GLISENTI e ad un certo punto
Giovanna MILANI, moglie di MINETTO, aveva affermato che “l’americano”
l’aveva chiamata circa un’ora prima e che lei gli aveva riferito di aver saputo
della morte del dr. GLISENTI e che Sergio MINETTO per tale ragione si trovava
in Ospedale.
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E’ quindi estremamente significativo che anche la persona più legata, anche sul
piano umano, a Sergio MINETTO, e cioè il dr. Giancarlo GLISENTI, fosse stato sin
dal 1965 oggetto di interesse per il Comando FTASE di Verona e che la sua morte
abbia subito registrato la presenza e l’interessamento di un “americano” rimasto
sconosciuto.
In qualsiasi punto e sotto qualsiasi profilo sia stato possibile verificare l’attività e i
contatti di Sergio MINETTO, compatibilmente con il tempo trascorso e la scontata
mancanza di collaborazione delle Autorità cui egli faceva riferimento, la ricerca ha
invariabilmente portato alla struttura e agli ambienti ampiamente descritto da
Carlo DIGILIO.
- Anche Martino SICILIANO ha contribuito a smontare la linea difensiva di Sergio
MINETTO, secondo la quale egli non avrebbe avuto alcun contatto con il gruppo
ordinovista veneziano nè si sarebbe mai recato a Venezia nemmeno per ragioni di
lavoro.
Martino SICILIANO ha infatti ricordato di aver visto MINETTO un paio di volte a
Colognola ai Colli, insieme al dr. MAGGI e a Delfo ZORZI, e un paio di volte
anche a Venezia, a casa del dr. MAGGI e ad una riunione, nel 1968 fra militanti
di Ordine Nuovo (presenti MAGGI, ZORZI e SOFFIATI) ed ex-repubblichini, a
casa dell’esponente della R.S.I. Mario CENTANNI, al fine di concordare un’azione
comune nella campagna per la scheda bianca che doveva essere condotta alle
elezioni politiche di quell’anno (int. SICILIANO, 1°.6.1996, ff.2-3).
Inoltre le fotografie di Sergio MINETTO con un garofano rosso all’occhiello, al
matrimonio di Marcello SOFFIATI, hanno ricordato a Martino SICILIANO una serie di
battute scherzose che erano circolate nell’ambiente in merito ad un camerata che,
ammiccando al garofano rosso che portava, aveva finto di essere un “compagno”.
Si trattava quasi certamente di Sergio MINETTO, che effettivamente si era iscritto al
P.S.D.I., iscrizione che, dopo la scissione di tale partito dal P.S.I., era una delle più
semplici coperture nella vita civile per gli elementi di destra.
Infatti sotto la guida dell’on. TANASSI, tale Partito, pur essendo formalmente
socialdemocratico, aveva avviato una linea politica decisamente di destra e
favorevole agli americani, cosicchè l’iscrizione al P.S.D.I. era un comodo espediente
per continuare a fare una politica di destra con un’etichetta (simboleggiata appunto
da simboli come il garofano rosso) che permetteva di non esporsi (int. SICILIANO,
1°.6.1996, ff.3-4).
L’utilizzo di tale copertura è stato riferito anche da Carlo DIGILIO, anch’egli a
conoscenza dell’iscrizione di Sergio MINETTO al P.S.D.I. e del suo significato. (int.
14.7.1996, f.3).
- Nell’interrogatorio in data 24.5.1996, Sergio MINETTO, rispondendo ad una
domanda relativa alle ditte con le quali era in contatto nel campo dell’attività di
riparazione dei frigoriferi, ha fatto cenno, fra le altre, alla DETROIT della zona di
Padova, una ditta italiana anche se aveva un nome straniero (f.6).
Tale circostanza, sfuggita a MINETTO proprio alla conclusione dell’interrogatorio, è
di grande importanza.
Infatti la ditta DETROIT, che si occupava della produzione di frigoriferi e che
disponeva di un capannone a Monfalcone e di un ufficio vendite a Padova, era di
fatto diretta da uno dei suoi soci, l’italoamericano Leo Joseph PAGNOTTA.
Leo Joseph PAGNOTTA, secondo il racconto di Carlo DIGILIO confermato dagli atti
forniti dal S.I.S.Mi., altri non era che colui il quale, insieme a Joseph LUONGO,
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330
aveva costituito sin dall’immediato dopoguerra la rete informativa americana
nel Nord-Est d’Italia, quale capo a Trieste del Counter Intelligence Corp di cui
erano entrati a far parte proprio Sergio MINETTO e il prof. Lino FRANCO (cfr.
ampiamente, sulla figura di PAGNOTTA, l’annotazione del R.O.S. in data 26.6.1997
sulla struttura di intelligence statunitense, vol.23, fasc.23, ff.56-60).
Il capannone di Monfalcone, sempre secondo il racconto di Carlo DIGILIO, era
frequentato da MINETTO e dal prof. Lino FRANCO per attività che dovevano
svolgersi in condizioni di copertura e di sicurezza e Leo Joseph PAGNOTTA,
sovente citato nelle discussioni che si svolgevano a Colognola ai Colli, a metà degli
anni ‘70 era ancora considerato uno degli elementi più importanti che stavano alle
spalle degli elementi della rete veronese.
Ancora una volta, quindi, il quadro fornito da Carlo DIGILIO ha avuto un preciso
riscontro e ogni contatto, apparentemente innocente e collegato solo ad attività
lavorative, di Sergio MINETTO riporta all’ambiente della struttura di intelligence
statunitense.
- A definitiva confutazione del tentativo di Sergio MINETTO di dipingersi come un
tranquillo riparatore di frigoriferi devono aggiungersi le dichiarazioni rese sulla sua
figura da altri frequentatori della trattoria e della casa della famiglia SOFFIATI a
Colognola ai Colli: il camionista Dario PERSIC e Benito ROSSI, indicato da DIGILIO
quale “antenna” nel Trentino-Alto Adige della rete informativa americana.
Dario PERSIC, con riferimento alla figura di Sergio MINETTO, ha infatti
dichiarato che questi aveva partecipato, all’inizio degli anni ‘70, ad una
riunione svoltasi nella casa dello stesso PERSIC a Verona, presenti il dr.
MAGGI, DIGILIO e Marcello SOFFIATI, ove si era parlato di un mutamento
istituzionale che sarebbe avvenuto nel giro di breve tempo con l’aiuto degli americani
e partecipava altresì ai “solstizi”, cerimonie di ispirazione nazista che si tenevano nei
pressi della trattoria di Colognola con la partecipazione anche del colonnello SPIAZZI
(dep. PERSIC, 8.2.1995, ff.2-3).
Sergio MINETTO era altresì al corrente della presenza, all’inizio del 1972, dell’avv.
Gabriele FORZIATI di Trieste nell’appartamento di Via Stella (dep. PERSIC citata,
f.3).
Inoltre, con riferimento alla partecipazione di MINETTO all’attività della rete
informativa, egli frequentava, insieme a Giovanni BANDOLI e Benito ROSSI, il
“PICCOLO HOTEL” di Verona, punto di incontro dei militari americani per
riunioni riservate (dep. PERSIC, 7.4.1997, f.2), circostanza questa confermata
anche da Carlo DIGILIO (int. 13.4.1997, f.2).
In sostanza Dario PERSIC ha collocato Sergio MINETTO, in base alle notizie che
aveva appreso durante la frequentazione del gruppo di Colognola, ad un livello
medio-alto della struttura informativa, al di sopra di Carlo DIGILIO, Marcello
SOFFIATI e Benito ROSSI (dep. PERSIC, 7.4.1997, f.3).
Benito ROSSI, dal canto suo, ha riferito che sia Sergio MINETTO sia Marcello
SOFFIATI gli avevano confidato esplicitamente di far parte di strutture
informative americane, che i due si recavano insieme frequentemente alla base
N.A.T.O. di Vicenza e che Sergio MINETTO frequentava stabilmente il PICCOLO
HOTEL di Verona, già ricordato da Dario PERSIC come punto di incontro dei militari
americani (dep. Benito ROSSI, 10.4.1997, ff.3-4; 21.5.1995, ff.1-2).
Con riferimento a tale albergo è stato rintracciato e sentito Nello DOLCI, barista al
Piccolo Hotel all’inizio degli anni ‘70, che ha confermato che all’epoca l’albergo era
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quasi interamente occupato da militari della caserma Passalacqua di Verona in virtù
di una speciale convenzione che era durata sino alla metà degli anni ‘70, quando il
Comando SETAF era stato trasferito a Vicenza, rimanendo a Verona solo il
Comando Centrale della FTASE di Via Roma (dep. DOLCI, 8.4.1997 a personale del
R.O.S.).
In conclusione, non vi è veramente alcun dubbio che Sergio MINETTO fosse un
componente della struttura informativa dipendente dal Comando FTASE di
Verona, con un incarico medio-alto, gestendo in prima persona una rete di
informatori italiani, cui erano alcune volte affidati anche compiti operativi, ed
avendo come diretto superiore, all’interno della struttura, un ufficiale
americano.
Il problema che si pone ai fini della presente istruttoria è, ovviamente, quello della
rilevanza penale di una simile attività con riferimento alla tutela degli interesse
interni del nostro Paese e all’eventuale messa in pericolo della nostra collettività e
del nostro sistema istituzionale.
Sotto tale profilo è evidente che svolgere attività informativa per un Paese
straniero, perdipiù alleato e legato al nostro Paese da uno stabile accordo
internazionale quale il Patto Atlantico, non costituisce reato ogniqualvolta tale
attività abbia per fine ed oggetto la tutela degli interessi militari o di sicurezza
delle strutture militari di quel Paese o della N.A.T.O., regolarmente presenti sul
nostro territorio, o comunque attenga più in generale alla difesa o allo sviluppo degli
interessi politico/strategici insiti in tale rapporto di alleanza e di integrazione
politico/militare.
Alla luce di tale interpretazione, che è l’unica in grado di integrare il precetto penale
nel contesto storico/politico, è certo che alcune delle “operazioni” coordinate da
Sergio MINETTO, descritte da Carlo DIGILIO (ed elencate a MINETTO nella parte
introduttiva dell’interrogatorio in data 20.6.1997), non costituiscono di per sè reato
in quanto in assonanza con le linee stabilite dai nostri rapporti di alleanza o
comunque neutre o inidonee a ledere gli interessi interni del nostro Paese.
Ci riferiamo, ad esempio, al tentativo di recuperare l’esplosivo rubato a
Boscochiesanuova che poteva, in ipotesi, essere utilizzato contro basi americane;
all’assunzione di informazioni sulla situazione alto-atesina negli anni del
terrorismo irredentista; alla raccolta di informazioni sugli elementi di estrema
sinistra dell’Università di Venezia (attività discutibile, ma tipica dell’epoca anche per i
nostri Servizi); al tentativo di rintraccio del luogo ove si trovava il generale
DOZIER, rapito dalle Brigate Rosse; nonchè a missioni sviluppatesi prevalentemente
all’estero quali l’invio di Carlo DIGILIO a Madrid presso l’ing. POMAR e i contatti con
elementi ustascia in Cecoslovacchia e in Spagna, anche al fine di sostenerne la
struttura logistica e militare in funzione anticomunista.
In alcuni di questi casi la linea di demarcazione fra attività di intelligence militare e
attività illecita è veramente sottile (si pensi all’invio di armi a Cipro, agli uomini del
generale GRIVAS, tramite il nucleo SIGFRIED di ex-repubblichini facente capo al
prof. Lino FRANCO) e si porrebbe anche il problema dell’eventuale mancanza di
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accredito presso le nostre parallele strutture di sicurezza dell’agente straniero
operante, ma comunque non ci si trova dinanzi ad attività definibili come eversive o
contrastanti con la sicurezza del nostro Paese.
In altre “operazioni” descritte da Carlo DIGILIO, invece, la situazione è
decisamente diversa.
Non era e non è consentito raccogliere, in favore della struttura informativa, come
è avvenuto sotto la direzione di Sergio MINETTO, liste di elementi veneti affidabili,
normalmente ex-repubblichini o comunque esponenti dell’estrema destra, da
utilizzarsi nel caso di un illegale mutamento istituzionale nel nostro Paese (int.
DIGILIO, 20.1.1996, f.3) o comunque in azioni di contrasto dell’attività delle forze
politiche di sinistra.
Non è ovviamente consentito inviare per ben tre volte un emissario (Carlo
DIGILIO, accompagnato in una occasione dal prof. FRANCO) in una base eversiva
quale il casolare di Paese, gestito dagli ordinovisti padovani e veneziani, non
solo per “visionarne” la dotazione di armi ed esplosivi, ma anche per offrire la propria
“consulenza tecnica” nell’approntamento degli inneschi degli ordigni che stavano
per essere collocati su 10 convogli ferroviari nell’agosto 1969.
Non è consentito sovraintendere ad operazioni di pretta marca eversiva quali il
“trasporto” dell’avv. Gabriele FORZIATI prima a Colognola e poi in Via Stella a
Verona e l’addestramento, anche psicologico, di Gianfranco BERTOLI, sempre
nell’appartamento di Via Stella.
Ancora più grave è l’anticipazione fatta dal dr. MAGGI a Sergio MINETTO,
durante un incontro a Colognola ai Colli, circa 10 giorni prima della strage di
Brescia, in merito ad un grosso attentato terroristico che il gruppo di Ordine
Nuovo stava per compiere (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3, e 4.5.1996, f.3).
In tutti questi casi, anche a concedere che Sergio MINETTO sia stato solo un
recettore di notizie e non uno stimolatore degli avvenimenti che via via
vedevano quali protagonisti i militanti di Ordine Nuovo con cui era in contatto,
non vi è traccia del fatto che Sergio MINETTO o i suoi superiori abbiano
informato le nostre Autorità dei gravi pericoli che l’azione di tale gruppo
costituiva per la collettività.
Non vi è infatti traccia, nonostante gli approfondimenti documentali effettuati, di una
messa in allarme nè a livello degli Organi di p.g. italiani nè a livello dei nostri servizi
di sicurezza, sempre che ciò non sia avvenuto in un contesto diverso e ben più
grave, e cioè un contesto di complicità destinata a non lasciare nulla di scritto dietro
di sè.
D’altronde tale atteggiamento di contiguità e di collusione con la strategia di Ordine
Nuovo da parte di MINETTO e da parte della struttura in cui era inserito è ben
testimoniato dalle parole di Carlo DIGILIO in merito ai rapporti fra MINETTO e il dr.
MAGGI, i quali si frequentavano stabilmente coordinando di fatto le rispettive
strategie.
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Il dr. MAGGI, pur non entrando direttamente a far parte della struttura
americana, aveva accettato di rendersi disponibile a rivelare i programmi del
suo gruppo e, in particolare, tutte le situazioni rilevanti che riguardassero armi,
esplosivi o attentati in preparazione, come era avvenuto in occasione
dell’incontro appena citato (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3)., precedente di pochi
giorni la strage di Brescia.
Era questo un riconoscimento, da parte del dr. MAGGI della rete informativa
americana quale alleato posto che, da solo, Ordine Nuovo non poteva pensare di
ribaltare la realtà istituzionale del Paese, ma al più solo accendere, in senso non solo
metaforico, il detonatore che consentisse ad altri di scendere in campo.
Quando il dr. MAGGI aveva cercato comunque di farsi accettare organicamente nella
struttura americana, ormai all’inizio degli anni ‘70, tale richiesta non era stata
accettata perchè il gruppo di Ordine Nuovo era già gravato da troppe “magagne” per
quello che aveva commesso ed il reclutamento di elementi sicuri e non “pericolosi”
per la struttura, in caso di indagini giudiziarie, si era già concluso molti anni prima
(int. DIGILIO, 14.12.1996, ff.5-6).
Nonostante la necessità di seguire tale direttiva, che veniva dall’alto, Sergio
MINETTO si era comunque molto dispiaciuto in ragione della grande stima ed
amicizia che lo legava al dr. MAGGI (int. citato, f.6).
In conclusione, l’attività spionistica di Sergio MINETTO non risulta in alcun
modo scriminata dall’esercizio di un dovere nei confronti di una struttura
alleata in quanto egli, con le operazioni ora descritte, non ha indirettamente
tutelato, bensì messo in pericolo il nostro Paese e la nostra collettività.
Egli, ove non abbia favorito direttamente con il suo operato azioni eversive, ha
ostacolato le indagini in corso (si veda la sua presenza nell’episodio relativo all’avv.
Gabriele FORZIATI) e anche sotto tale profilo deve rispondere del reato di cui
all’art.257 c.p. in quanto, secondo la migliore dottrina, l’interesse politico interno dello
Stato, tutelato da tale norma, può riferirsi anche ad attività eversive in grado di
mettere in pericolo la sicurezza e il quadro istituzionale dello Stato e tali erano,
certamente, le attività della struttura occulta di Ordine Nuovo.
Sergio MINETTO ha mantenuto fede e continuato idealmente tale atteggiamento, a
distanza di tanti anni e in un contesto internazionale ormai mutato, anche nel corso
della presente istruttoria, chiudendosi in un ostinato e cupo silenzio che mostra
come, nell’agente pur ormai in pensione, non vi sia stato il germe di alcuna
riflessione critica nè egli abbia sentito il dovere morale di raccontare dinanzi alle
Autorità del suo Paese quanto a sua conoscenza in merito a vicende tanto delicate e
importanti per la nostra storia recente.
Un silenzio legato ad un vecchio rapporto di fedeltà di servizio, posto che è ben
difficile, per ragioni di età e di salute, che tale atteggiamento sia dovuto al timore di
una pena.
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334
All’imputazione di cui all’art.257 c.p. si aggiunge nei confronti di Sergio
MINETTO quella di detenzione di armi e bombe a mano (capo 34 di rubrica),
collegata al recupero della dotazione personale del prof. Lino FRANCO dopo la
sua morte avvenuta nel 1969.
Si veda, in proposito, l’interrogatorio di Carlo DIGILIO in data 9.1.1997:
“””...in relazione alla dotazione logistica di Marcello SOFFIATI, faccio
presente che nell'abitazione del padre di Marcello, in cucina anzi, per la
precisione nella cantina da cui si accedeva tramite una botola sita in cucina,
c'era un nascondiglio in cui Marcello, oltre al Moschetto 91/38 cui ho già fatto
cenno, anche un fucile mitragliatore Machinengewehr 15 di fabbricazione
tedesca.
Quest'arma gli era stata data da Sergio MINETTO, il quale a sua volta l'aveva
rilevata dal prof. Lino FRANCO quando questi era morto.
Si tratta del tipo di fucile mitragliatore, con caricatore a sella e bracciolo a due
gambe che si può poggiare anche sulla spalla, che Lino FRANCO aveva
utilizzato durante la guerra sul fronte di Cassino e alla fine della guerra se lo
era portato a casa.
Si tratta cioè dell'arma cui ho fatto cenno nell'interrogatorio in data 13.1.1996
e che serviva ai reparti antiaerei Flak.
Il caricatore ha due tamburi e consentiva l'inserimento di due nastri.
Ho visto il moschetto e questo fucile mitragliatore in quel nascondiglio nel
periodo in cui io rimasi latitante per qualche settimana a casa di Bruno
SOFFIATI nell'estate del 1982.
C'era anche una vecchia valigia di similpelle piena di cartucce Mauser per il
fucile mitragliatore che però erano tutte ossidate.
Dato che io ero latitante pregai SOFFIATI di liberarsi di questa roba in quanto
se fosse stata trovata al momento della mia presenza avrebbe peggiorato la
situazione.
Qualche giorno dopo, SOFFIATI mi disse che effettivamente se ne era liberato,
ma non so se gettandola o restituendola a MINETTO”””.
(DIGILIO, int. 9.1.1997, ff.1-2).
Anche le bombe a mano già detenute dal prof. FRANCO erano state recuperate e
incamerate, dopo la sua morte, da Sergio MINETTO il quale aveva così arricchito
la dotazione della struttura di materiale illegale e non registrato della struttura (int.
DIGILIO, 12.10.1996, ff.5-6).
Concludendo in merito alla posizione di Sergio MINETTO, va ricordata una
circostanza, pur lontanissima nel tempo, che serve, anche sul piano storico, a
confutare il ruolo con il quale MINETTO ha voluto dipingersi, e cioè quello di un
semplice marinaio della Repubblica Sociale Italiana, di un normale lavoratore
emigrato in Argentina dopo la fine della guerra e di tranquillo artigiano per tutto il
resto della sua vita.
334
Durante la perquisizione effettuata nella sua abitazione il 17.5.1995, è stato rinvenuto
e sequestrato un ritaglio del Corriere della Sera, risalente al febbraio del 1945,
che conteneva il resoconto di un episodio apparentemente di cronaca nera
avvenuto a Milano in Galleria Vittorio Emanuele.
Un marinaio della X M.A.S. era stato aggredito da due sconosciuti, certamente a
scopo di rapina, e un poliziotto in abiti civili che si trovava a passare per caso aveva
cercato di difenderlo rimanendo però ucciso da un colpo di pistola esploso da uno dei
due rapinatori (cfr. vol.1, fasc.20, f.32), i quali si erano poi dati alla fuga.
Sergio MINETTO ha spiegato di aver conservato tale ritaglio in quanto era proprio
lui il marinaio aggredito e che nell’occasione stava trasportando, per ordine del suo
Comandante, una valigia contenente la somma di 85 milioni che dovevano essere
versati presso la vicina Banca Commerciale.
Subito dopo, benchè egli fosse l’aggredito e non l’aggressore, MINETTO era stato
circondato da alcuni agenti della ETTORE MUTI (un corpo speciale della R.S.I.,
operante a Milano, fra i più fanatici), portato nella loro caserma, interrogato e
violentemente picchiato (int. MINETTO al P.M., 2.6.1995, f.3, e al G.I., 24.5.1996,
f.5).
Solo dopo alcuni giorni, per intervento dei suoi superiori, MINETTO era stato
rilasciato e la valigia con il denaro restituita.
L’episodio appare difficilmente inquadrabile come un semplice fatto di
delinquenza comune e comunque non si spiega in tal modo l’arresto di MINETTO,
vittima dell’aggressione e trattato poi con estrema violenza dagli uomini della MUTI.
L’enormità della somma trasportata nella valigia (pari ad alcuni miliardi di oggi e
alla cassa di un’intera Divisione dell’Esercito della R.S.I.) e il momento in cui il fatto
avvenne (nel febbraio del 1945, a poche settimane dal crollo della Repubblica
Sociale Italiana) consentono di avanzare l’ipotesi che esso, invece, si inquadri
all’interno della lotta intestina fra le varie fazioni della R.S.I. prossima alla fine e
cioè, da un lato, la componente più violenta e fanatica di cui faceva parte la MUTI e,
d’altro lato, i settori della Marina in procinto di trovare, soprattutto con il campo
anglo-americano, soluzioni concordate che garantissero la salvezza dei loro
uomini e un ruolo degli stessi anche nel dopoguerra.
Il trasporto e il versamento di una somma così ingente può ricollegarsi a qualche
manovra o trattativa di tal genere, con l’interessamento, forse, di alcuni esponenti del
mondo industriale cui, secondo MINETTO, la somma era diretta per il pagamento di
loro attività in favore della Marina della R.S.I.
Quello che è certo è che Sergio MINETTO non era già allora un qualsiasi
marinaio, ma, sin dal 1945, un elemento della massima fiducia, su cui i suoi
Comandanti potevano contare per trasportare da solo una somma enorme,
ruolo che ben si inquadra, nonostante le proteste dell’imputato, con quello assunto
dopo la fine della seconda guerra mondiale ed emerso solo oggi grazie al lungo
racconto di Carlo DIGILIO.
335
336
53
LA POSIZIONE DI GIOVANNI BANDOLI
Giovanni BANDOLI, ufficialmente solo impiegato presso la base americana SETAF,
prima di Verona e poi di Vicenza, come istruttore di audiovisivi, italiano
americanizzato tanto da farsi chiamare normalmente JOHN e da portare sovente la
divisa americana, è stato raggiunto come Carlo DIGILIO e Sergio MINETTO
dall’imputazione di spionaggio politico e militare (cfr. informazione di garanzia
emessa in data 29.11.1995, vol.1, fasc.21, f.17).
Giovanni BANDOLI, con una reticenza non inferiore a quella di Sergio MINETTO,
non solo ha dichiarato di non aver mai fatto parte di alcuna struttura informativa o di
sicurezza, ma ha negato di aver mai conosciuto Carlo DIGILIO e ha ammesso solo di
aver incontrato pochissime volte Sergio MINETTO, prevalentemente presso
l’abitazione di Bruno SOFFIATI a Colognola (cfr. dichiarazioni a personale R.O.S. in
data 25.5.1995, f.2).
Del resto era difficile attendersi un atteggiamento diverso da una persona come
BANDOLI, ormai anziano e in pensione, ma che ha tenuto a sottolineare che
“l’Alleanza (Atlantica) gli aveva dato da mangiare per tanti anni e quindi poteva
esserle solo grato” (cfr. relazione in data 20.5.1995, vol.25, fasc.1, f.6).
Peraltro non sembra esservi dubbio che Giovanni BANDOLI (che non a caso Sergio
MINETTO ha ammesso solo faticosamente di conoscere, dopo una iniziale
negazione; dep. 17.5.1995, f.2, e 22.5.1995, f.4) abbia fatto parte della struttura
descritta da Carlo DIGILIO ed anzi, come giustamente sottolineato nell’annotazione
del R.O.S. in data 8.5.1996 relativa al coinvolgimento di strutture di intelligence nella
“strategia della tensione”, con Giovanni BANDOLI si tocca uno dei livelli importanti
della rete operativa (parzialmente separata da quella informativa) di tale struttura (cfr.
annotazione citata, f.92).
Tralasciando momentaneamente i documenti riferiti a Robert Edward JONES e John
HALL rinvenuti in occasione della perquisizione operata nella casa di BANDOLI il
17.5.1995 e di cui si parlerà nel prossimo capitolo, Carlo DIGILIO ha riferito che egli
era il referente di Marcello SOFFIATI, componente appunto della sezione operativa
della struttura (int. 30.10.1993, f.2).
Carlo DIGILIO aveva avuto occasione di lavorare con Giovanni BANDOLI due volte.
Egli è stato infatti inviato in missione con BANDOLI al Poligono di Avesa,
presso Verona, per seguire e verificare un’esercitazione di civili e militari della
Legione veronese dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, presente il suo
responsabile, colonnello Amos SPIAZZI, il quale, nella deposizione resa al G.I. di
Bologna e a questo Ufficio, ha fra l’altro confermato che tale esercitazione era
avvenuta.
Conclusa positivamente la missione, Giovanni BANDOLI e Carlo DIGILIO avevano
riferito separatamente ai loro superiori in merito al suo esito, circostanza questa che
336
conferma l’esistenza di due reti distinte, anche se collegate, l’una operativa e l’altra
informativa (int, DIGILIO, 6.4.1994, f.4).
Giovanni BANDOLI aveva inoltre partecipato, insieme al capitano Teddy RICHARDS,
a Marcello SOFFIATI e ad altri dipendenti delle basi N.A.T.O. di Verona e di Vicenza,
nell’estate del 1974 nei pressi di Riva del Garda, alla fase finale dell’operazione di
recupero delle barre di uranio sottratte all’estero, probabilmente in Germania,
da alcuni malviventi comuni, individuati e attirati in una trappola grazie all’attività
informativa di Carlo DIGILIO con il conseguente recupero, appunto, del materiale
nucleare (int. DIGILIO, 1°.7.1994, f.2, e 22.6.1996, f.2).
Giovanni BANDOLI aveva anche partecipato, con il capitano CARRET, Marcello
SOFFIATI e Carlo DIGILIO, ad un’esercitazione nell’Alto Adriatico dell’operazione
DELFINO ATTIVO o DELFINO SVEGLIO, finalizzata, con improvvisi allarmi simulati
da piccole navi americane, a saggiare la capacità di reazione della nostra flotta
militare in caso di attacchi effettivi da parte delle forze nemiche (int. DIGILIO,
5.1.1996, f.4).
Dario PERSIC ha inoltre riferito che Giovanni BANDOLI aveva condotto con sè
Marcello SOFFIATI, per alcuni giorni, presso la base di Camp Darby, vicino Livorno
(dep. 9.2.1995, f.2, e, sul punto, anche int. DIGILIO, 2.12.1996, f.3), era in contatto
con il capitano David CARRET avendolo anche incontrato a casa sua per incontri
amichevoli, presente lo stesso PERSIC, (dep. 8.2.1995, f.1) e aveva anche contatti
con Alti Ufficiali americani fra cui un Comandante della base N.A.T.O. di Napoli (dep.
8.2.1995, f.2).
Giovanni BANDOLI si muoveva nella caserma EDERLE di Vicenza, sede del
Comando SETAF, con la massima libertà, non certo da semplice impiegato,
disponendo anche delle chiavi di parecchi uffici come lo stesso PERSIC aveva avuto
modo di notare quando, insieme ai due SOFFIATI e ad Enzo VIGNOLA, era stato
invitato nella caserma (dep. al G.I., 18.4.1997, f.5).
Benito ROSSI ha riferito di aver conosciuto Giovanni BANDOLI, amico di Sergio
MINETTO, alla fine degli anni ‘60 presso il Piccolo Hotel di Verona, luogo dove i
militari americani tenevano riunioni riservate, e lo ha collocato, all’interno della
struttura americana, quale personaggio di notevole rilievo e superiore, per
importanza, a Marcello SOFFIATI e allo stesso Sergio MINETTO (dep. ROSSI,
10.4.1997, f.3, e 21.5.1997, f.2).
In conclusione, se non vi è dubbio alcuno in merito all’internità di Giovanni BANDOLI
alla struttura di intelligence avente la sua base a Verona e la sua articolazione
certamente nelle caserme circostanti, vi è tuttavia da chiedersi se il ruolo da lui
concretamente svolto, così come è stato delineato, sia rilevante sul piano penale
per la legge italiana.
Non vi sono molti precedenti in merito, ma, sul piano logico e della ratio della norma,
collocata nel suo contesto storico e politico/internazionale, deve necessariamente
ritenersi che l’attività di spionaggio concretizzabile in acquisizione di notizie o
nello svolgimento di azioni “coperte” debba, per ledere l’interesse protetto
337
338
dalla norma, porre in pericolo e scontrarsi con l’interesse politico o interno
dello Stato ospitante (anche se in ipotesi l’agente sia cittadino italiano
dipendente da una struttura straniera) e non semplicemente riguardare attività
o situazioni di interesse per il Paese alleato, ma neutre o non pericolose per il
nostro Paese o addirittura in grado di collocarsi nella stessa linea di politica
militare o di sicurezza sancita da accordi internazionali.
Nel caso in esame, gli episodi che risultano aver caratterizzato l’attività di Giovanni
BANDOLI, o almeno quella parte di essa che è nota, e cioè il recupero di barre di
uranio sul nostro territorio, sottratte ad una struttura probabilmente militare
occidentale, e anche l’attività di controllo e di osservazione delle esercitazioni dei
NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, organizzazione parallela, ma pur sempre
ufficiale o semi-ufficiale inserita in senso ampio nella politica difensiva dell’Alleanza
Atlantica, non sembrano in alcun modo aver leso l’interesse politico o interno del
nostro Paese che a quella stessa linea politica si ispirava.
Diverso sarebbe stato se Giovanni BANDOLI avesse partecipato a quelle
attività di raccolta di notizie, elaborazione di strategie, ispirazione e consulenza
“tecnica“, proprie del ruolo svolto da MINETTO e DIGILIO (e indirettamente dai
loro superiori), prodromiche all’esecuzione di attentati e stragi, attività
avvenute senza informare le nostre Autorità (quando non in complicità con le
stesse) e destinate a porre in grave pericolo i nostri cittadini e le istituzioni del
nostro Paese.
Non risulta, però, che Giovanni BANDOLI abbia preso parte a tali attività (egli non è
stato inviato in missione al casolare di Paese nè ha avuto contatti diretti sul piano
informativo e operativo con le attività del gruppo di VENTURA, MAGGI e ZORZI) e di
conseguenza i comportamenti lui ascritti, pur discutibili su altri piani, non
concretizzano il reato di spionaggio politico o militare.
Ferma restando, quindi, la prova del suo inserimento nella struttura descritta da
Carlo DIGILIO, egli deve essere prosciolto con la formula “il fatto non costituisce
reato”.
338
54
LA POSIZIONE DI ROBERT EDWARD JONES
Le figure di Robert Edward JONES e di John HALL sono emerse grazie ad alcuni
documenti rinvenuti nell’abitazione di Giovanni BANDOLI in occasione della
perquisizione del 17.5.1995 e sono state messe a fuoco prevalentemente grazie a
documentazione reperita e fornita dalla Direzione del S.I.S.Mi.
Infatti, al momento della perquisizione, veniva rinvenuto un documento militare
americano datato 16.8.1950 a firma John HALL che attestata l’appartenenza di
BANDOLI al T.E.S. (Trust Excharge Service) di Trieste ed un biglietto da visita di un
agente di viaggi statunitense, tale Bob JONES - THE PROFESSIONAL TRAVEL
AGENT SERVING THE PROFESSIONAL PERSON - con il suo recapito telefonico di
Trieste manoscritto sul retro (cfr. vol.21, fasc.2, ff.33-34).
Riassumendo quanto già ampiamente esposto nell’annotazione del R.O.S. in data
8.5.1995 sulle strutture di intelligence, le informazioni fornite dal S.I.S.Mi. (cfr. in
particolare la nota in data 14.11.1995, vol.21, fasc.1, ff.9 e ss.) consentivano di
giungere all’identificazione di John Louis HALL, nato a Tukoma (Washington U.S.A.), cittadino statunitense noto al Servizio come elemento dei servizi
informativi nordamericani.
Al S.I.S.Mi., John HALL risultava altresì presidente dal 1967 della società AVIPA
(agenzia di vendita di prodotti americani) e gestore del garage-officina denominato
T.E.S., sito a Trieste in Via Ghiberti, al cui interno stazionavano normalmente
automezzi dell’U.S. Army e autovetture con targa civile utilizzate da ufficiali
americani.
Sempre in Via Ghiberti, secondo le informazioni del S.I.S.Mi., nel medesimo
comprensorio aveva sede l’agenzia di viaggi di Bob JONES, frequentata da non
meglio precisate “persone importanti”, oltre a numerosi uffici dell’Esercito U.S.A. e al
Circolo Ufficiali.
Si accertava inoltre che Bob JONES aveva lavorato presso la base SETAF di
Vicenza, come Giovanni BANDOLI, e in seguito in varie basi N.A.T.O. in Europa e
negli U.S.A.
Si accertava soprattutto che alla società AVIPA di Trieste (città in cui aveva
lavorato per gli americani Giovanni BANDOLI all’epoca del Governo militare Alleato;
cfr. nota del S.I.S.Mi. in data 25.3.1996 e allegata informativa in data 12.10.1959 del
Centro C.S. di Trieste, vol.20, fasc.1, f.79) era stato interessato, alla fine degli anni
‘50, Leo Joseph PAGNOTTA, l’italo-americano capo del Counter Intelligence
Corp di Trieste, proprietario della ditta DETROIT di Monfalcone e indicato da
DIGILIO quale reclutatore, nel dopoguerra insieme a Joseph LUONGO,
dell’intera rete americana, compresi il prof. Lino FRANCO e Sergio MINETTO, e
in contatto anche con il maggiore Karl HASS.
339
340
Robert Edward JONES, rintracciato, a differenza di John HALL, e raggiunto quindi da
informazione di garanzia emessa in data 11.1.1996 per il reato di cui all’art.257 c.p.,
ha negato di aver fatto parte di qualsiasi struttura informativa americana.
Non sussistono certo a suo carico gli elementi sufficienti per disporne il rinvio a
giudizio, soprattutto in relazione agli specifici episodi di cui alla presente istruttoria,
ma tale intreccio di elementi ha consentito tuttavia di verificare che, partendo da
DIGILIO e MINETTO e arrivando sino a BANDOLI ed oltre, tutti gli accertamenti,
in una perfetta sintonia e circolarità, portano a toccare ambienti militari
americani di alto livello radicati nel nostro Paese, soprattutto nella zona di
Trieste, sin dal primo dopoguerra.
340
55
LA DIRETTIVA WESTMORELAND
IL CAMPO DI ADDESTRAMENTO DI FORT FOIN
E
I RAPPORTI CON LA STRUTTURA GOLPISTA
Prima di passare alle osservazioni conclusive sulla portata del coinvolgimento della
struttura descritta da Carlo DIGILIO negli avvenimenti salienti della strategia della
tensione e relative alla posizione processuale del capitano David CARRET,
responsabile della struttura sino al 1974, sembrano utili ancora alcuni spunti di
riflessione che scaturiscono dal racconto del collaboratore.
In relazione alle linee strategico-politiche e ai moduli operativi della struttura di
sicurezza statunitense di cui era divenuto agente, Carlo DIGILIO ha fatto più volte
riferimento alla c.d. Direttiva del generale WESTMORELAND del 18.3.1970 (int.
14.12.1996, f.3), tecnicamente il FIELD-MANUAL 30-31, documento riservato agli
ufficiali dell’Esercito U.S.A. e dedicato, con progressivi aggiornamenti, alle linee di
azione dei servizi segreti americani e all’esecuzione di “operazioni speciali”.
In tale documento (una copia del quale fu rinvenuta e sequestrata nella valigia di
Maria Grazia GELLI, figlia del creatore della Loggia P2, all’aereoporto di Fiumicino il
3.7.1981) è molto interessante la parte dedicata al caso di Governi Alleati che
mostrino “passività” o indecisione di fronte alla sovversione comunista
reagendo in modo inadeguato.
In tali casi, secondo il documento, i servizi segreti dell’Alleato nordamericano (fra
cui, si sottolinea, le strutture interne ad una base come la FTASE di Verona e alle
strutture militari circostanti) devono disporre di mezzi per lanciare operazioni
speciali capaci di convincere il Governo e l’Opinione pubblica del Paese amico
della realtà del pericolo e della necessità di portare a termine azioni di risposta.
In sostanza il documento, ricco di indicazioni operative per gli agenti operanti sul
territorio e di grafici e tabelle, illustra come destabilizzare un Paese amico in cui sia
temuta un’avanzata elettorale comunista o dei loro alleati.
Il pensiero va, ovviamente, anche alla situazione politica del nostro Paese tra la
fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70 e il riferimento fatto da DIGILIO a tale
documento (acquisito agli atti anche nella traduzione italiana e a cui si rimanda per
un più approfondito esame; vol.23, fasc.4) appare quindi tutt’altro che azzardato
tenendo presente che i suggerimenti operativi contenuti nella Direttiva
risultano in perfetta sintonia con gli interventi della struttura americana da lui
descritta nei gravi avvenimenti oggetto dell’istruttoria.
Al fine di comprendere più approfonditamente la struttura e i meccanismi di
funzionamento della rete informativa descritta da Carlo DIGILIO, questo Ufficio aveva
anche chiesto di essere autorizzato a visionare i fascicoli esistenti presso le basi
N.A.T.O. del Veneto, e in particolare presso il Comando FTASE di Verona,
341
342
quantomeno limitatamente a quelli intestati a cittadini italiani quali MINETTO e
BANDOLI, i cui nomi attraversavano tutto il corso dell’istruttoria.
Una lettera in tal senso veniva inviata il 15.4.1996 al Presidente del Consiglio, on.
Lamberto Dini, affinchè fossero investiti della richiesta, tramite i componenti italiani,
gli organi collegiali della N.A.T.O. competenti ad autorizzare la visione dei fascicoli
ed eventualmente a disporre la declassificazione dei documenti.
Tale iniziativa non aveva concretamente alcun esito in quanto, dopo una lettera della
Segreteria della Presidenza del Consiglio con cui in data 20.4.1996 si assicurava
l’impegno da parte italiana a sostenere tale richiesta, gli ulteriori sviluppi si limitavano
ad una nota del Ministero della Difesa in data 8.7.1996 con la quale laconicamente si
comunicava che presso le basi di Verona e di Vicenza nessun fascicolo era stato
rinvenuto (cfr. vol.23, fasc.5).
Affermazione, questa, incontrollabile poichè non risultava chi e con quali modalità
avesse effettuato la ricerca nè era stato in alcun modo reso possibile a questo Ufficio
presenziare o comunque partecipare alla ricerca stessa.
Un profilo interessante è poi costituito dai rapporti fra la struttura informativa
americana e le organizzazioni golpiste che si stavano preparando per il
tentativo fallito del Comandante BORGHESE del 7/8 dicembre 1970.
Carlo DIGILIO aveva appreso, nel Comando della base FTASE di Verona presenti il
capitano RICHARDS, SOFFIATI, MINETTO e BANDOLI, che a Fort Foin, nei pressi
di Bardonecchia, nell’agosto del 1970 si era svolto un campo di addestramento
con la presenza di 40 capigruppo che dovevano preparare i nuclei piemontesi
destinati ad entrare in azione pochi mesi dopo, al momento del golpe.
Alcuni dei partecipanti provenivano dal gruppo SIGFRIED e dai NUCLEI DI DIFESA
DELLO STATO e per contribuire a tale esercitazione, molto importante per lo
sviluppo del piano strategico, il prof. Lino FRANCO e SOFFIATI si erano preoccupati
di inviare uno o due mitragliatori e relative munizioni provenienti dai depositi di Pian
del Cansiglio (int. DIGILIO, 27.11.1994, f.2, e 26.6.1997, f.2).
Il capitano RICHARDS si era tuttavia lamentato del fatto che, anche in base alle
informative del S.I.D., era risultato che gli organizzatori del campo avessero
sostenuto che la disponibilità di uomini e mezzi era inferiore a quella effettiva (in
realtà la struttura destinata ad operare in Piemonte disponeva complessivamente di
oltre 500 uomini) e ciò al fine, come sovente accadeva, di ottenere un maggior aiuto
da parte degli americani (int. 27.11.1994, f.2).
Gli atti reperiti e forniti dal S.I.S.Mi. hanno pienamente confermato, anche in questo
caso, il racconto del collaboratore.
Infatti il campo, denominato SIGFRIDO, si era tenuto effettivamente a Fort Foin, per
diversi giorni nell’estate del 1970, nei pressi di una ex-fortezza militare in alta
montagna, con l’addestramento all’uso di armi individuali e di reparto e all’uso di
trasmittenti e con una forte presenza numerica, anche di militanti di Ordine Nuovo,
342
che era stata notata e che aveva destato allarme negli abitanti e nei turisti della zona,
senza tuttavia, a quanto pare, che le forze dell’ordine effettuassero alcun serio
intervento (cfr. nota del R.O.S. in data 4.6.1996 e allegati atti provenienti dal
S.I.S.Mi., vol.20, fasc.6, ff.1 e ss., e nota del R.O.S. in data 2.6.1997 ed ulteriori atti
provenienti dal S.I.S.Mi., vol.7, fasc.7, ff.11 e ss.).
E’ interessante notare che uno degli organizzatori del campo sarebbe stato Giuseppe
DIONIGI, l’ordinovista torinese presso il quale si erano rifugiati, all’inizio degli anni
‘70, i triestini NEAMI, BRESSAN e FERRARO in quanto temevano di essere ricercati
in relazione alla prima indagine che era stata aperta per l’attentato alla Scuola
Slovena di Trieste.
Si può quindi trarre la conclusione, che emerge peraltro dall’insieme degli
interrogatori di Carlo DIGILIO e di altri testimoni come Dario PERSIC, che la struttura
americana non fosse affatto contraria al progetto di colpo di Stato ed anzi fosse
pienamente orientata, almeno in una certa fase, a fornire il suo supporto, lamentando
solo la scarsa sincerità degli esponenti golpisti disponibili a sottostimare le loro forze
pur di ricevere ulteriori aiuti.
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56
IL COINVOLGIMENTO
DELLA STRUTTURA INFORMATIVA AMERICANA
NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
LA POSIZIONE DEL CAPITANO DAVID CARRET
La figura del capitano David CARRET è essenziale nella ricostruzione di Carlo
DIGILIO esposta nei primi due capitoli di questa sezione della sentenza/ordinanza, in
quanto l’ufficiale era stato responsabile della struttura di sicurezza dalla metà
degli anni ‘60 sino al 1974, e cioè negli anni centrali in cui erano avvenuti gli
attentati più gravi e la struttura eversiva di Ordine Nuovo aveva raggiunto i
suoi massimi livelli operativi.
Si osservi che non vi sono dubbi in merito all’esistenza e al ruolo sul territorio italiano
di tale Ufficiale, in forza alla Marina degli Stati Uniti (e quindi facente la spola fra
Verona e Venezia) e che aveva anche invitato Carlo DIGILIO a visitare una portaerei
americana alla fonda nel bacino di San Marco (int. DIGILIO, 5.4.1997, f.3).
Infatti Dario PERSIC è riuscito a recuperare e a consegnare a personale del R.O.S.,
in occasione delle sue audizioni, un piccolo gruppo di fotografie scattate, in momenti
amichevoli e conviviali, quando all’inizio degli anni ‘70 egli frequentava la famiglia
SOFFIATI e gli altri personaggi del gruppo di Colognola ai Colli.
In una di queste fotografie, scattata nell’abitazione di Giovanni BANDOLI e che porta
manoscritto sul retro da parte della moglie di PERSIC la data 23.12.1972, si nota,
oltre ai coniugi PERSIC, un uomo robusto, di circa 35/40 anni, con i capelli corti, che
Dario PERSIC ha appunto indicato nell’americano di stanza a Verona chiamato
CARRET o GARRET (cfr. album fotografico, vol.21, fasc.7, f.5 retro e ingrandimento
f.6; dep. PERSIC al G.I., 18.4.1997, f.3).
Anche Maria Luisa FONDA, moglie di Dario PERSIC, ha ricordato che la persona
presente quel giorno a casa di Giovanni BANDOLI era un ufficiale americano (dep. a
personale del R.O.S. in data 7.4.1997) e anche Enzo VIGNOLA, che frequentava il
gruppo di Colognola più che altro per motivi amichevoli, ha riconosciuto nell’uomo
alto e massiccio con i capelli castano-rossicci effigiato nella fotografia, un ufficiale
americano legato a BANDOLI e a SOFFIATI (dep. al G.I., 28.4.1997, f.3).
Carlo DIGILIO aveva fornito una descrizione del capitano David CARRET del tutto
corrispondente a quella di Dario PERSIC e all’immagine risultante dalla fotografia
(int. DIGILIO, 5.1.1996, f.4) e, presa visione di tale fotografia, non ha avuto difficoltà
e riconoscervi l’ufficiale che per tanti anni era stato suo referente e superiore
(int.19.4.1996, ff.1-2).
344
Fatta questa premessa, non è necessario spendere molte parole per rendersi
conto che il quadro definitivo delineato da Carlo DIGILIO negli interrogatori resi
fra l’autunno 1994 e l’estate 1997 travalica di molto quel “controllo senza
repressione” che, in prima approssimazione, era stato individuato al momento
della stesura della prima sentenza/ordinanza nel marzo 1995 quale schema di
interpretazione dell’intervento della struttura di sicurezza americana negli
eventi oggetto della presente istruttoria e delle indagini collegate.
In realtà, tutti gli avvenimenti principali, dalla presenza di componenti della
struttura al casolare di Paese sino agli attentati all’Ufficio Istruzione di Milano e ai
convogli ferroviari e sino a quelli del 12.12.1969, dalla presenza dell’avv. Gabriele
FORZIATI in Via Stella sino all’addestramento nello stesso luogo di Gianfranco
BERTOLI e ancora oltre, sino alla valigia di esplosivo che doveva giungere a
Brescia, presentano non solo un asettico controllo da parte della struttura, ma
anche un’attività di rafforzamento e di sostegno delle scelte proprie delle
cellule di Ordine Nuovo.
Si caratterizzano altresì come una consulenza e un apporto tecnico affinchè
tali scelte potessero concretizzarsi, il che comporta, sul piano dell’astratta
rilevanza penale, una forma di concorso anche se, secondo gli intendimenti
della struttura americana, gli attentati in preparazione dovevano solo avere una
portata dimostrativa e non provocare vittime.
Concretamente il capitano CARRET risulta essere stato informato degli attentati ai
treni dell’8/9 agosto 1969 solo dopo che tali attentati erano avvenuti (int. DIGILIO,
17.5.1997, f.10), ma essere invece stato informato con ricchezza di dettagli da
Carlo DIGILIO in relazione agli attentati del 12.12.1969 sia prima (int. 5.3.1997,
f.2) sia dopo (int, 17.5.1997, f.10) la loro commissione.
Anche della presenza di Gianfranco BERTOLI in Via Stella e dei preparativi per
l’attentato all’on. RUMOR, il capitano CARRET era stato informato dettagliatamente
da Carlo DIGILIO e, in tale occasione, non a caso l’ufficiale aveva mostrato la sua
preoccupazione per un’azione rischiosissima che poteva mettere a repentaglio
l’intera struttura (int. DIGILIO, 13.4.1997, ff.4-5).
Quanto avvenuto nel dicembre 1969 non era quindi un fatto casuale o isolato, ma
corrispondeva ad un preciso dovere di Carlo DIGILIO di informare, in relazione ai
progetti e agli avvenimenti più gravi, il proprio referente al più alto livello.
In presenza di tale situazione e in presenza altresì di un numero notevolissimo di
riscontri, esposti nei capitoli precedenti, in merito all’esistenza e al funzionamento
della struttura di sicurezza svelata da Carlo DIGILIO, appaiono pienamente
prospettabili nei confronti dell’ufficiale americano diverse ipotesi di reato che
vanno da quella generale di spionaggio politico-militare, già contestata a
MINETTO e DIGILIO, a quelle specifiche di concorso o favoreggiamento in
strage e altri attentati.
Tali valutazioni e tali approfondimenti, compresa la piena identificazione dell’Ufficiale
anche tramite attività di rogatoria, appaiono di competenza della Procura della
345
346
Repubblica di Milano che già conduce le indagini preliminari relative agli attentati del
12.12.1969.
A tal fine, con il dispositivo della presente sentenza/ordinanza deve essere disposta,
ai sensi dell’art.299, II comma, c.p.p. abrogato, la formale trasmissione alla Procura
della Repubblica di Milano di tutti gli atti relativi alla posizione del capitano David
CARRET e degli atti collegati, atti peraltro già da tempo nella disponibilità di tale
Ufficio, affinchè sia valutato l’eventuale esercizio dell’azione penale.
346
57
L’ATTIVITA’ DI CONTROLLO DELLE INDAGINI
SVOLTA DAL FIDUCIARIO DELLA C.I.A. CARLO ROCCHI
NEL 1994
IL FAX INVIATO IN DATA 24.2.1994 ALL’AMBASCIATA DEGLI STATI UNITI,
A ROMA, IN MERITO ALLO SVILUPPO DELLE INDAGINI
L’attività di controllo delle indagini condotte da questo Ufficio da parte di Carlo
ROCCHI tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 in favore della C.I.A. e
dell’Ambasciata americana costituisce, al di là della sua indubbia valenza
penale, una sorta di prosecuzione “ideale” e storica delle attività della struttura
americana descritta in questa parte dell’ordinanza.
Riassumendo la vicenda, già ampiamente esposta davanti alla Commissione
Parlamentare sulle stragi e il terrorismo in data 8.11.1995 dal capitano Massimo
Giraudo del Reparto Eversione del R.O.S., principale obiettivo dell’attività di
inquinamento e di controllo di Carlo ROCCHI, è necessario premettere che
nell’autunno del 1993 erano iniziati con successo una serie di colloqui investigativi,
autorizzati da questo Ufficio e dalla Procura della Repubblica di Brescia, effettuati dal
capitano Giraudo con Biagio PITARRESI, importante elemento dell’estrema destra
milanese degli anni ‘70 ed in seguito protagonista, anche con ex-camerati, di
sequestri di persona ed altri episodi di criminalità comune per i quali lo stesso era
ancora detenuto in espiazione pena.
Nel corso dei colloqui, poi formalizzati in varie deposizioni testimoniali rese sia a
questo Ufficio sia alla Procura di Brescia, Biagio PITARRESI stava fornendo ed ha
effettivamente fornito elementi importanti a sua conoscenza sia relativi al gruppo “La
Fenice” e a Giancarlo ROGNONI, cui per vari anni era stato contiguo, sia relativi alle
fasi preparatorie della strage di Piazza della Loggia, il cui progetto era maturato con
ogni probabilità nell’ambiente milanese.
Gli elementi forniti da Biagio PITARRESI, fra cui numerose circostanze di riscontro
alle dichiarazioni di Martino SICILIANO, sono del resto indicati in vari passi sia della
sentenza-ordinanza già depositata da questo Ufficio in data 18.3.1995 sia nella
presente ordinanza, mentre altri saranno esposti all’interno dell’indagine tuttora in
corso a Brescia e relativa alla strage di Piazza della Loggia.
Si vedano, in proposito, le deposizioni rese a questo Ufficio da PITARRESI in data
10.11.192, 21.11.1994 e 5.5.1995 nonchè la deposizione resa a personale del
R.O.S. in data 9.5.1995, in occasione della quale egli ha confermato la dinamica
della vicenda ROCCHI così come esposta nel presente capitolo ed ha anche fornito
ulteriori dettagli in merito ad operazioni svolte da ROCCHI in Italia e all’estero, e
infine quella in data 9.9.1996).
Con nota in data 18.1.1994, l’Ufficiale del R.O.S. impegnato nei colloqui
investigativi con Biagio PITARRESI segnalava tuttavia una circostanza
preoccupante e di notevole rilevanza per lo sviluppo delle indagini.
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348
Biagio PITARRESI infatti, in occasione di un colloquio investigativo avvenuto il
19.12.1993, risolvendosi ad un rapporto di maggiore lealtà con l’investigatore,
del quale aveva apprezzato la serietà nella conduzione delle indagini e nella
ricerca della verità, riferiva di aver informato del tenore dei precedenti colloqui
investigativi tale Carlo ROCCHI, residente C.I.A. a Milano, con il quale in passato
lo stesso PITARRESI aveva svolto operazioni “coperte” in Austria e nei Paesi
dell’Est-Europeo (cfr. nota del R.O.S. in data 18.1.1994, vol.41, fasc.2, ff.2 e ss., in
particolare ff.8-9).
Carlo ROCCHI, che era in contatto anche con il Centro S.I.S.De. di Milano e in
particolare con il suo Responsabile portante il nome in codice dr.RINALDI, si era
mostrato molto interessato e gli aveva chiesto di fargli avere, sempre utilizzando
come tramite il figlio Luca PITARRESI, una lettera con l’indicazione delle domande
che l’Ufficiale gli poneva nei colloqui allo scopo di capire fino a che punto fossero
arrivate le indagini di questo Ufficio sugli americani.
In tal modo i colloqui investigativi, cui PITARRESI avrebbe comunque dovuto fingere
di essere disponibile, sarebbero stati utili alla struttura C.I.A. per acquisire notizie e
soprattutto per conoscere i nomi degli eventuali indiziati appartenenti a tale
ambiente.
Inoltre Carlo ROCCHI, dopo essersi espresso nei confronti del capitano Giraudo con
la frase: “adesso...gli facciamo la pelle” aveva avanzato a Biagio PITARRESI la
preoccupante richiesta di essere informato in anticipo dello svolgimento dei
successivi colloqui in modo da effettuare a distanza delle fotografie dell’Ufficiale,
eventualmente mentre stava parlando nella caserma ove si sarebbe svolto il
colloquio con lo stesso PITARRESI (cfr. allegato alla nota citata, f.9).
Era stata quest’ultima proposta a disgustare Biagio PITARRESI che si era così
risolto a non rendersi più disponibile ad una simile manovra.
Sulla base di tali indicazioni, Carlo ROCCHI veniva identificato nell’omonimo, nato a
Ovada il 29.8.1919, residente a Milano e titolare con il fratello Luigi di un’agenzia
immobiliare, verosimilmente di copertura, con sede a Milano in Corso Europa n°22.
Venivano altresì effettuati i primi riscontri, fra cui la veridicità di quanto affermato dal
PITARRESI in merito al rinvenimento in suo possesso, al momento del suo arresto
nel 1983, delle piantine, con classifica di segretezza della N.A.T.O., di un aeroporto
abbandonato, sito in provincia di Brindisi, tuttora utilizzato in forma non ufficiale da
servizi di sicurezza italiani e stranieri a scopo di addestramento (cfr. annotazione del
R.O.S. citata, f.4; e anche atti acquisiti presso il Centro S.I.S.De. di Milano, vol.41,
fasc.6., ff.18 e 20-22).
Al fine di mettere a fuoco la figura di ROCCHI veniva inoltre acquisita presso il
S.I.S.Mi. la copia integrale del fascicolo a lui intestato (cfr. vol.44), aperto sin
dall’immediato dopoguerra.
Da tale fascicolo risulta che Carlo ROCCHI intratteneva sin da quell’epoca rapporti
con il Centro C.S. di Milano del SIFAR e con l’agente statunitense Charles
348
SIRACUSA e in tale veste aveva preso contatti in Spagna con Otto SKORZENY
(liberatore di MUSSOLINI dalla prigionia del Gran Sasso) e con il colonnello
DOLLMANN, convincendo quest’ultimo, insieme ad altri agenti americani, a rientrare
da Madrid nei Paesi ancora sotto il controllo Alleato per partecipare con altri militari al
rafforzamento del fronte anticomunista tedesco (cfr. nota del Centro C.S. di Milano,
diretta all’Ufficio D in data 13.10.1952, vol.44, ff.26 e ss.).
Il colonnello DOLLMANN era effettivamente arrivato a Francoforte insieme a Carlo
ROCCHI il 7.10.1952, ma l’azione era stata per il momento sospesa in quanto il
colonnello DOLLMANN era stato ugualmente fermato dalla Polizia Militare a
Francoforte per essere sottoposto al processo di “denazificazione” già pendente a
suo carico e per rispondere dell’ingresso in Germania con i falsi documenti italiani
con i quali viaggiava.
E’ molto probabile, tuttavia, che tale tentativo di reclutare il colonnello DOLLMANN
affinchè questi, con il suo prestigio, si adoperasse a convincere altri ex-militari a
collaborare con gli Occidentali (f.31) sia stato solo rallentato da tale circostanza,
peraltro forse utile al pieno successo finale dell’operazione stessa.
Negli anni successivi, Carlo ROCCHI, nella sua qualità di fiduciario anche del Centro
C.S. di Milano, si era occupato di traffici illeciti di materiali strategici, quali alluminio e
rame, verso i Paesi di Oltre Cortina (cfr. nota in data 17.10.1953, vol.44, f.11), attività
anche questa in piena sintonia con quanto tratteggiato da Biagio PITARRESI in
merito alla figura di Carlo ROCCHI.
Altre attività di Carlo ROCCHI, sempre in base agli atti forniti dal Servizio (cfr. vol.44,
f.85), riguardavano, ancora in collaborazione con Charles SIRACUSA, la repressione
del traffico di sostanze stupefacenti a livello internazionale, e cioè l’attività nella
quale, come fra poco si dirà, egli è risultato anche in questi ultimi anni ancora
impegnato, sempre in contatto con funzionari americani.
Al fine di bloccare l’azione di Carlo ROCCHI in direzione delle indagini e di acquisire
sicuri elementi di prova, questo Ufficio disponeva quindi, a partire dal gennaio 1994,
una fitta serie di intercettazioni telefoniche concernenti tutte le utenze in uso a
ROCCHI, compresi i fax, e autorizzava altresì l’intercettazione fra presenti dei
colloqui che erano in progetto, all’interno dell’Ufficio di ROCCHI, fra questi e Luca
PITARRESI, avendo acconsentito quest’ultimo ad aiutare lo sviluppo delle indagini
portando indosso in tali occasioni un microfono fornitogli dagli operanti.
L’esito delle intercettazioni risultava estremamente positivo e consentiva di seguire
passo passo l’azione di Carlo ROCCHI.
Infatti dal complesso delle telefonate si evidenziava che Carlo ROCCHI era
costantemente impegnato non in un’attività di agente immobiliare, ma in una serie di
contatti con personaggi sia stranieri sia italiani (fra i quali il Commissario Walter
BENEFORTI, già in servizio all’inizio degli anni ‘60 presso l’Ufficio Affari
Riservati e negli anni ‘70 coinvolto nello scandalo delle intercettazioni telefoniche
abusive; cfr. vol.41, fasc.2, ff.190 e ss.), occupandosi di traffici di vario genere e
acquisendo informazioni, non si sa quanto lecitamente, in merito allo sviluppo di
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350
varie indagini in materia di criminalità organizzata e traffico di sostanze stupefacenti
in corso presso la Procura della Repubblica di Milano (cfr., fra le altre, la telefonata in
data 1°.2.1994, vol.41, fasc.2, ff.21-23).
Soprattutto, per quanto interessa la presente istruttoria, Carlo ROCCHI risultava in
contatto, in Italia, con John COSTANZO, agente speciale della D.E.A. americana,
ma, anche utilizzando tale copertura, funzionario della C.I.A. in Italia, con il quale si
poneva in contatto sia tramite il telefono cellulare di COSTANZO sia tramite numeri
dell’Ambasciata americana a Roma (cfr. annotazione del R.O.S. in data 28.2.1994,
vol.41, fasc.2, ff.28 e ss.).
Come segnalato da Biagio PITARRESI, Carlo ROCCHI risultava, sempre grazie alle
intercettazioni telefoniche, parimenti in contatto con il dr. RINALDI del Centro
S.I.S.De. di Milano al quale non aveva alcun problema a chiedere notizie in merito
all’identità e alle attività del capitano Massimo Giraudo, spiegandone con il
funzionario del Servizio anche il motivo (“vogliono coinvolgere i servizi
americani” come “ispiratori delle stragi”) e ricevendo da questi una
preoccupante promessa di “interessamento” (cfr. nota del R.O.S. in data
24.3.1994 e allegata trascrizione della telefonata in data 18.3.1994 fra ROCCHI e il
dr. RINALDI, vol.41, fasc.2, ff.67 e ss.).
Nelle varie conversazioni intercettate fra Luca PITARRESI e Carlo ROCCHI,
quest’ultimo insisteva per avere i nomi delle persone coinvolte nelle indagini che
Biagio PITARRESI poteva avere desunto dai colloqui investigativi (cfr., fra le altre, la
conversazione in data 18.2.1994 alle ore 11.44, vol.41, fasc.2, f.45) e si decideva, a
questo punto, di tendere a ROCCHI un ulteriore “tranello” fornendo a questi, sempre
tramite Luca PITARRESI, un numero di telefono cellulare ed assicurandogli, tramite
le parole del ragazzo, che si trattava di un cellulare “sicuro” appartenente ad un
agente della polizia penitenziaria grazie al quale avrebbe potuto mettersi
direttamente in contatto con il padre Biagio all’interno del carcere.
Tale utenza cellulare era in realtà sottoposta ad intercettazione e momentaneamente
fornita dagli operanti a PITARRESI con l’accordo, da questi rispettato, che egli
fornisse a ROCCHI solo notizie e nomi inesatti, di fantasia o comunque generici, tali
da non arrecare alcun danno alle indagini, ma al contrario da mettere in trappola
Carlo ROCCHI qualora avesse tentato di utilizzare tali dati.
Tale telefonata, effettuata da Carlo ROCCHI a quell’utenza in data 10.2.1994 (cfr.
vol.41, fasc.2, ff.46 e 172 e ss.) si sviluppava come concordato, seguita da un’altra in
data 31.3.1994, allorchè Biagio PITARRESI era stato scarcerato per motivi di salute,
in cui Carlo ROCCHI ancora esortava il suo presunto “confidente” a fingere ancora di
collaborare per acquisire in realtà, nel corso degli incontri, altre notizie da utilizzare in
favore della struttura per cui ROCCHI lavorava (cfr. nota del R.O.S. in data
31.3.1994 e allegata trascrizione, vol.41, fasc.2, ff.75 e ss.).
Sulla base delle notizie importanti (e invece completamente inutili o inesatte) di cui
Carlo ROCCHI credeva di essere in possesso, ulteriormente integrate da un appunto
manoscritto di Biagio PITARRESI fattogli recapitare sempre tramite il figlio Luca,
350
ROCCHI preannunziava a John COSTANZO, in data 24.2.1994, la trasmissione
di un fax, effettivamente inviatogli alle ore 16.08, presso l’Ambasciata
statunitense a Roma, componendo il numero 06-4674-1-2614; cfr. nota del R.O.S.
in data 28.2.1994, vol.41, fasc.2, f.30).
Tale fax, intercettato grazie ai servizi disposti da questo Ufficio, si compone di due
fitte pagine dattiloscritte e contiene le notizie del tutto inesatte o generiche che Carlo
ROCCHI credeva di aver invece utilmente acquisito sulla strage di Piazza Fontana,
la strage di Piazza della Loggia e altri episodi di carattere eversivo e di poterle così
mettere a disposizione dei suoi superiori nella struttura C.I.A. con sede all’interno
dell’Ambasciata (cfr. nota R.O.S. citata, ff.57-58).
In una successiva comunicazione telefonica fra ROCCHI e John COSTANZO,
quest’ultimo manifestava, forse non a caso, un certo scetticismo, ma Carlo ROCCHI
lo rassicurava ricordandogli che Biagio PITARRESI è un elemento di sicura “fedeltà”
e che ha sempre fornito informazioni esatte (cfr. nota del R.O.S. in data 3.3.1994 e
allegata trascrizione della telefonata in data 2.3.1994, ore 11.51, vol.41, fasc.2, ff.61
e ss.).
Veniva così sventato il tentativo di controllo delle indagini da parte di enti stranieri,
penalmente rilevante sotto il profilo dell’art.257 c.p. in quanto Carlo ROCCHI si è
adoperato per mettere a disposizione delle Autorità di un altro Paese notizie relative
ad un’attività istruttoria, di per sè segreta ed attinente a gravi fatti eversivi, in cui
anche apparati del Paese che avrebbe dovuto ricevere le notizie potevano risultare
coinvolti.
Sotto questo profilo appare quantomeno discutibile la richiesta di archiviazione
presentata al G.I.P. in data 13.6.1995 dal Sostituto Procuratore della Repubblica, dr.
Ferdinando Pomarici, (gli atti redatti dal R.O.S. erano stati inviati in doppio originale
anche alla Procura della Repubblica di Milano) in cui viene messo in dubbio il ruolo di
ROCCHI, viene esclusa l’appartenenza di John COSTANZO alla C.I.A. e soprattutto
si afferma che le notizie concernenti indagini penali non possono corrispondere alle
notizie tutelate dall’art.257 c.p. (spionaggio politico o militare) anche in quanto
destinate a divenire, infine, pubbliche,
Osserva infatti, al contrario, la migliore dottrina che l’interesse politico interno dello
Stato, protetto dalla norma, può riferirsi anche ad attività di indagine o ad attività
istruttorie che abbiano per oggetto attività eversive di notevole gravità.
Perdipiù nel caso in esame, e non poteva il Pubblico Ministero ignorarlo, le notizie
dovevano essere fornite al Governo degli Stati Uniti d’America, i cui uomini e
apparati, in base agli sviluppi dell’istruttoria, sarebbero coinvolti sia nella fase
preparatoria sia nella fase propriamente esecutiva delle suddette attività eversive e
sembra quindi indubbio che l’acquisizione anticipata di notizie su tali attività potesse
comportare, in prospettiva, un danno politico per lo Stato italiano sul piano
dell’atteggiamento da assumere nelle relazioni internazionali.
La prospettazione del Pubblico Ministero (per il quale, evidentemente, contattare in
carcere un detenuto testimone in una indagine relativa a gravi fatti eversivi non
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352
costituisce nè il reato di cui all’art.257 c.p. nè alcun altro reato) si è rivelata inesatta
anche su un piano di fatto.
Infatti, prima che il G.I.P. decidesse in ordine alla richiesta di archiviazione nei
confronti di Carlo ROCCHI, questi è stato sentito, da questo Ufficio e dal Pubblico
Ministero nuovo titolare delle indagini, ai sensi dell’art.348 bis c.p.p. del 1930 e in tale
circostanza egli ha ammesso con moltissimi dettagli sia la propria attività sia
quella di John COSTANZO all’interno della C.I.A., confessando altresì in modo
pressochè completo la materialità dei fatti e solo sostenendo sul piano soggettivo,
con un certo candore, che si trattava di un’attività “doverosa” poichè gli
americani hanno il diritto di sapere..... ciò che avviene in Italia.
L’interrogatorio di Carlo ROCCHI merita di essere riportato nei suoi passi salienti
poichè è un testo emblematico di tale concezione del mondo:
“””....Voglio però subito dire che io sin dal 1950 ho lavorato in modo sia
ufficiale sia non ufficiale, come meglio spiegherò, per Enti Informativi
americani, condividendo gli ideali di tale Paese che è alleato del nostro.
Questi miei contatti risalgono al periodo bellico in quanto io ho prestato
servizio in Medio Oriente nella Brigata Folgore e ho partecipato all'avanzata in
Egitto a fianco del Corpo tedesco del generale Rommel.
Sono stato catturato con tutto il Corpo di spedizione nella zona di El Alamein
quando le sorti del conflitto volsero a favore degli inglesi e rimasi prigioniero
prima degli inglesi e poi degli americani......
Proprio in quel periodo strinsi i primi contatti con strutture di Intelligence
americane e in particolare con quello allora chiamato O.S.S. cioè l'Overseas
Secret Service.
Quindi, a partire dall'immediato dopoguerra, ho collaborato ufficialmente con
diversi enti informativi tra cui l'Ufficio narcotici, l'F.B.I. il Secret Service che
corrisponderebbe alla nostra Guardia di Finanza, e la C.I.A., con
quest'ultima dal 1978 fino al 1985 anno in cui ho cessato l'attività operativa
avendo compiuto il 65° anno di età.
Ero regolarmente stipendiato da questi Enti a seconda dei vari servizi che
svolgevo e avevo la qualifica di Special Agent sotto copertura.
Faccio presente che nel 1985, quando ho concluso la mia attività operativa,
lavoravo da qualche anno a New York presso la Presidential Task Force, un
Ente che riunisce tutte le Agenzie Federali, come la D.E.A la C.I.A e l'F.B.I. per
coordinare meglio tutte le operazioni.
Ovviamente nel corso della mia attività ho svolto molte missioni all'estero sia
nel campo dei narcotici, all'inizio della mia attività, sia nel campo politico.
Ad esempio svolsi una missione a Saigon con altri agenti della C.I.A., un anno
prima della fine della guerra, quindi nel 1974, e in quell'occasione ci facemmo
passare per francesi con l'obiettivo di controllare l'attività di alcuni francesi
rimasti in Indocina dopo la fine del colonialismo e passati a lavorare per i
servizi segreti comunisti.
352
Posso in sintesi dire che ho svolto missioni in Spagna, in Portogallo a Beirut,
in occasione del rapimento di Terry Waite, e un po' in tutto il mondo.
Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia avuto contatti anche con strutture
informative italiane, posso dire che io, anche in tempi recenti, ho avuto contatti
con il centro SISDE di Milano e in particolare con il dr. Rinaldi, nome di
copertura del Direttore del Centro, nel campo della sicurezza interna.
In particolare al dr. Rinaldi, all'inizio degli anni '80, avevo presentato l'unico
appartenente all'ambiente della destra eversiva che io abbia conosciuto e cioè
Biagio Pitarresi.
Costui ha svolto per il Rinaldi l'attività di confidente sopratutto nel campo del
traffico di armi in quanto il Pitarresi era ormai legato alla delinquenza comune.
Il Pitarresi era anche inserito nel traffico di droga e univa le sue attività come
confidente ad attività in proprio.
Il dr. Rinaldi comunque gli affidò molti incarichi.
Ricordo che anch'io con Pitarresi, su incarico della D.E.A., feci un viaggio in
Austria per contattare d'intesa con i Servizi austriaco, dei potenziali trafficanti
di droga.
L'operazione però non andò a buon fine in quanto questi trafficanti furono
arrestati per altri motivi.
Poichè, sempre a titolo di ricostruzione della mia attività, l'Ufficio mi chiede se
io abbia conosciuto John Costanzo, posso dire che lo conosco da molti anni ed
è responsabile attualmente della D.E.A. a Roma, mentre prima era Special
Agent a Milano. Sono con lui in buonissimi rapporti di collaborazione.
Anche recentemente ho lavorato con lui nel campo del narcotraffico
consentendogli di entrare in contatto con un importante narcotrafficante. In tale
occasione era presente anche Alessandro Pansa del Servizio Centrale
Operativo della Polizia di Stato.
Non ho invece mai avuto rapporti con il SISMI, tuttavia ricordo che quando il
Servizio militare si chiamava ancora S.I.D., più o meno ai tempi del generale
De Lorenzo, ebbi alcuni rapporti nel campo della sicurezza militare ed entrai
in contatto a Milano con rappresentanti locali del Servizio e cioè i Capi Centro,
in particolare con i colonnelli Giuseppe Palumbo, Recchia e Burlando.
Ho sempre avuto anche buoni rapporti con la Questura sin dagli anni '60,l
anche se da qualche anno questi rapporti sono interrotti.
Ricordo a titolo di esempio che collaborai con il Questore Agnesina per la
ricerca di armi in Alto Adige ai tempi del terrorismo. In questa operazione fui
aiutato dal colonnello Dollmann, che conoscevo molto bene e che nel 1952 feci
rientrare dalla Spagna in Germania insieme ad altri agenti americani, e cioè
Smith e Mendel.
Con un nostro stratagemma il colonnello Dollmann fu arrestato in Germania
perchè egli non si allontanasse dal Paese e la sua presenza ci serviva per
stabilire dei contatti con ex ufficiali dell'Armata di Von Paulus e avvicinarli
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354
quindi alla causa anticomunista, allontanandolo invece dalla tentazione di
passare al blocco comunista.
Per questa ragione avevamo dato a Dollmann un passaporto italiano,
creandogli questo piccolo guaio....
Poichè l'Ufficio mi chiede se io, alla fine del 1993, abbia avuto rapporti con
Luca Pitarresi, figlio di Biagio, il quale era allora detenuto a Padova, posso
spiegare quanto segue.
Fu Luca, che io non avevo mai visto, a venirmi a cercare per conto del padre e
mi disse che il padre era stato contattato in carcere da un ufficiale dei
Carabinieri a nome Giraudo.
Luca Pitarresi mi disse che l'ufficiale dei Carabinieri, per conto della
magistratura milanese stava lavorando sull'eversione di destra e in particolare
sulla strage di Piazza Fontana e forse su quella di Piazza della Loggia.
In particolare al padre erano state chieste informazioni anche su personaggi
stranieri francesi, portoghesi e americani e l'ufficiale sosteneva che erano
emersi coinvolgimenti in tali vicende da parte dei servizi americani.
Conseguentemente Luca, conoscendo la mia pregressa attività tramite il padre,
mi chiese se queste notizie mi interessavano a fini informativi.
Credo che questo contatto risalga alla fine del 1993.
Io non diedi particolare peso a queste notizie anche perchè non conoscevo
nessuno dei nomi che mi erano stati fatti, se non genericamente qualche nome
di italiano noto, come Delle Chiaie.
Ricevetti alcuni appunti da Luca, appunti che gli erano stati consegnati dal
padre, e alcune lettere direttamente da Biagio con la sua riconoscibilissima
calligrafia e in italiano stentato. Ricevetti un paio di appunti da Luca e quattro
o cinque lettere da Biagio.
Passai tutti questi documenti al dr. Rinaldi in quanto preposto al
controspionaggio interno.
In questo periodo Luca venne da me due o tre volte in Corso Europa.
A D.R.: Di questo cose non ho mai parlato con Biagio Pitarresi, anche perchè
lo stesso era detenuto.
Poichè l'Ufficio mi fa presente che risultano dagli atti elementi documentali di
suoi contatti in merito alla questione ora accennata con Biagio Pitarresi, sono
in grado ora di ricordare che ho avuto con lui due contatti telefonici.
Mi chiamò lui affermando che telefonava tramite un cellulare dall'interno del
carcere, cellulare prestatogli da qualcuno.
Poichè l'Ufficio mi fa presente che tali telefonate risultano essere avvenute il 9
febbraio e il 31 marzo 1994, posso dire che si tratta con ogni probabilità delle
telefonate che ricordo.
354
Nel corso di queste conversazioni, Pitarresi mi ripetè le notizie e i nomi che
aveva acquisito sullo svolgimento dell'inchiesta, ribadendomi che erano emersi
elementi in merito al coinvolgimento dei Servizi americani.
Gli risposi che non credevo a quanto mi stava dicendo, ma che se aveva
veramente delle notizie concrete e certe avrebbe potuto farmele sapere.
Francamente al momento non ricordo altro, comunque passai tutte le notizie al
dr. Rinaldi insieme, come ho detto, alle lettere e agli appunti.
Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia informato John Costanzo delle notizie
fornitemi da Pitarresi, rispondo di sì.
Io gli feci una relazione, ricordo sicuramente una sola, e gliela inviai in fax a
Roma all'Ambasciata americana.
Ricordo che il numero dell'Ambasciata inizia con 4674 e poi c'è il numero di fax
che mi pare finisca per 60, mentre ricordo che il suo interno è 2319.
A D.R.: Preferisco non rispondere sul nome di copertura in quanto per ovvie
ragioni connesse al giuramento di fedeltà prestato durante la mia pregressa
attività, non ritengo possibile nè giusto fornire indicazioni su agenti della C.I.A.
in Italia.
Prendo visione degli allegati al rapporto del R.O.S. in data 28.2.1994 e in
particolare degli allegati n.4 e 5.
Nell'allegato n.5 riconosco una lettera mandatami da Biagio Pitarresi o
comunque un documento mandatomi tramite Luca. Si tratta del documento che
comincia con le frasi "C'era un'agenzia di stampa..." e ricordo che conteneva
nomi che non mi dicevano nulla a parte nomi notissimi come quello di Delle
Chiaie.
Nell'allegato n.4, benchè non perfettamente leggibile, riconosco il fax che ho
mandato all'Ambasciata americana a Roma. Il cedolino in calce al fax porta il
numero da me chiamato e noto che le cifre finali sono 2614 e quindi un po'
diverse dal 60 che ricordavo, ma che è comunque il numero del fax.
Mandai all'Ambasciata anche una copia del biglietto da visita del capitano
Giraudo che mi era stato dato da Luca Pitarresi....
Poichè l'Ufficio mi chiede perchè io abbia mandato il fax all'Ambasciata
americana, posso dire che per scrupolo di coscienza ho mandato quest'unica
relazione in quanto Pitarresi insisteva sul fatto che fossero state trovate le
prove del coinvolgimento degli americani negli attentati degli anni '70.
Ho invece mandato al dr. Rinaldi tutti i documenti che avevo ricevuto....
L'Ufficio chiede al sig. Rocchi se abbia chiesto notizie al dr. Rinaldi in merito al
capitano Giraudo..
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356
Posso dire in proposito notizie in merito al capitano Giraudo al dr. Dr. Rinaldi
solo per sapere se questo capitano esistesse veramente e che Biagio Pitarresi
non mi stesse raccontando delle frottole. Per tale motivo ho indicato al dr.
Rinaldi i numeri di telefono del capitano Giraudo, quali emergevano dal
biglietto da visita che mi aveva dato Luca Pitarresi, spiegandogli il motivo per
cui glielo stavo chiedendo.
Per quanto riguarda John Costanzo, ritengo ovviamente di avergli
preannunziato l'invio del fax, non ricordo se per telefono o di persona.
Ritengo anche di avere commentato le notizie di persona o per telefono con
Costanzo dopo avergli inviato il fax.
In quella occasione avevo manifestato a Costanzo la mia opinione che si
trattasse di frottole e del resto la cosa, dopo breve tempo, non ha avuto più
seguito.
A Pitarresi avevo comunque detto di usare le sue informazioni come meglio
credesse per trarre i vantaggi che poteva in relazione alla sua situazione
carceraria....
L'Ufficio fa presente al sig. Rocchi che nel corso dell'incontro tra lui e Luca
Pitarresi, avvenuto il 7.2.1994 in Corso Europa dalle ore 16.51 in poi, egli ha
comunicato a Luca il numero 795154, indicandolo come riservato, cui Biagio
avrebbe potuto chiamarlo e gli ha fatto presente che nel caso tale numero
avesse dovuto passarlo a Biagio tramite una guardia doveva essere presa la
precauzione di togliere una unità da ogni numero.
L'Ufficio fa presente altresì che Rocchi, nel corso di tale incontro, ha
comunicato a Luca che "bisogna capire chi c'è dietro".
Non ricordo questi dettagli. Quella di togliere una unità da ogni numero è una
normale precauzione che si utilizza per impedire che i numeri giusti vadano in
giro.
L'Ufficio fa presente al sig. Rocchi che nel corso dell'incontro con Luca
Pitarresi dell'11.3.1994 dalle ore 10.20 alle ore 10.35 lo stesso Rocchi fa
presente a Luca che Biagio Pitarresi può dire "quello che sa, il minimo
indispensabile", "digli: fa' il furbo, perchè entrando dentro lì può venire a
sapere qualche cosa".
In merito devo dire che posso avergli detto così solo per dargli qualche
importanza e comunque da Roma non avevo avuto più alcun riscontro in merito
alla vicenda che quindi consideravo chiusa.
L'Ufficio fa presente che nella telefonata del 9.2.1994 ore 12.01 tra il Sig.
Rocchi e Biagio Pitarresi (allegato n.8 al rapporto 28.2.1994 del R.O.S.) il
Rocchi esordisce con le parole "dimmi, dimmi tutto" ed acquisisce e trascrive
notizie anche in merito al giudice procedente.
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Posso dire in merito che avevo chiesto notizie sul giudice anche perchè sapevo
c'era un'inchiesta in corso.
L'Ufficio fa presente che nel corso della conversazione il Rocchi promette a
Pitarresi di sentirlo ancora e farà una relazione.
In merito posso confermare che glielo avevo detto.
L'Ufficio a questo punto dà lettura integrale della telefonata intercettata il
10.2.1994 alle ore 12.01.
L'Ufficio fa presente che dalla lettura della telefonata si evince che Carlo
Rocchi acquisisce notizie non in merito alle cognizioni del Pitarresi sui fatti,
bensì in merito a quello che lo stesso Pitarresi avrebbe recepito nel corso dei
colloqui investigativi e cioè il patrimonio interno all'istruttoria, tanto è vero che
il Rocchi domanda "ma ti hanno dato dei particolari, ti hanno fatto dei nomi?"
Posso dire che ho accettato di ricevere queste notizie a titolo di curiosità
personale, il che mi sembra normale.
L'Ufficio fa presente al Rocchi che stava parlando con un detenuto.
Risposta: Lo so che era detenuto, ma era stato lui a cercarmi e io non l'ho
sollecitato.
L'Ufficio contesta al Rocchi che però egli ha fornito il numero telefonico
tramite il quale essere contattato.
Risposta: Luca me l'ha chiesto e io gliel'ho dato....
A domanda dell'Ufficio non mi sono mai occupato nel corso della mia attività
di vicende attinenti alla politica interna o al terrorismo, anche perchè sono
cittadino italiano.
Ho anche sempre evitato di essere coinvolto in operazioni contrarie alla mia
coscienza o agli interessi italiani.
La mia esperienza è stata comunque molto vasta, ad esempio ho fatto viaggi in
Guatemala e Salvador e ho potuto conoscere il maggiore D'Aubuisson pochi
giorni prima che morisse.
Posso aggiungere che attualmente non sono più in servizio anche se con una
certa frequenza gli americani mi chiedono consulenze o faccio gli onori di casa
quando qualche funzionario passa da Milano.
La mia attività per la C.I.A. mi consente di godere di un fondo di previdenza
pagato su un conto in Svizzera”””.
(int. Carlo ROCCHI ex art.348 bis c.p.p., 29.6.1995).
La morte di Carlo ROCCHI, nell’estate del 1996, ha reso impossibile ulteriori
approfondimenti.
La vicenda di cui è stato protagonista all’interno di queste indagini, e che trova
le sue radici nelle più lontane e gravi vicende di cui ha parlato Carlo DIGILIO,
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358
costituisce comunque un piccolo tassello di quella che è stata definita la
“sovranità limitata” in cui ha in parte vissuto il nostro Paese.
PARTE
SESTA
L’ATTIVITA’ DI GUERIN SERAC E DELL’AGINTER PRESS
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58
L’ATTIVITA’ DELL’AGINTER PRESS
PREMESSA GENERALE
L’APPUNTO S.I.D. DEL 16.12.1969
Nel maggio del 1974, un gruppo di militanti appartenenti al nuovo Governo
portoghese, nato dalla Rivoluzione dei Garofani dell’aprile precedente, faceva
irruzione nei locali di un’agenzia di stampa al civico 13 di Rua des Pracas, a Lisbona,
dove un funzionario della PIDE, l’ex polizia politica del regime salazarista, aveva
rivelato celarsi, sotto la copertura dell’agenzia AGINTER PRESS, una centrale di
informazioni che aveva lavorato per la PIDE stessa.
Nei locali semi-abbandonati dell’agenzia, frequentata saltuariamente solo da un
impiegato dopo gli eventi del 25.4.1974, veniva rinvenuta, oltre a un enorme archivio
con documenti e microfilm riguardanti ogni Continente e Paese del mondo,
un’officina per la fabbricazione di falsi documenti, comprese tessere di giornalisti e di
poliziotti, di numerosi Paesi nonchè visti e timbri relativi alle principali frontiere
europee.
Venivano anche rinvenuti documenti commerciali concernenti transazioni di notevole
entità e libri contabili riguardanti i pagamenti di singoli militanti indicati con sigle e
nomi cifrati.
L’esame della documentazione proseguiva presso la Commissione di
smantellamento della PIDE e, secondo i risultati di tale inchiesta, l’AGINTER PRESS
era stata, sino all’aprile 1974, un centro di eversione internazionale, finanziato
non solo dal Governo portoghese ma anche da altri Governi europei, dietro cui
si celava:
- un centro spionistico legato ai servizi segreti portoghesi e ad altri servizi segreti
occidentali quali la C.I.A. e la rete tedesco-occidentale GEHLEN;
- un centro di reclutamento e di addestramento di mercenari e terroristi specializzati
in attentati e sabotaggi soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo;
- un’organizzazione fascista internazionale denominata “ORDRE ET TRADITION” e il
suo braccio militare O.A.C.I. (ORGANIZATION D’ACTION CONTRE LE
COMMUNISME INTERNATIONAL).
La documentazione presentava un numero impressionante di riferimenti a tecniche di
terrorismo e di guerra non ortodossa, per le quali l’AGINTER PRESS, disponendo di
centri di addestramento sia in Portogallo sia in Africa, aveva istituito corsi di
“formazione speciale” della durata di 3 settimane.
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360
In tali corsi venivano insegnate le tecniche di sorveglianza e di pedinamento, le
tecniche di contatto fra agenti, le tecniche di interrogatorio (come condurlo e come
subirlo), le tecniche di alibi e di falsa confessione in caso di arresto e, soprattutto, le
tecniche di terrorismo e di sabotaggio in ogni situazione politico-geografica.
Particolare attenzione veniva dedicata alle missioni speciali, finalizzate sia
all’infiltrazione e alla guerra psicologica sia all’eliminazione di obiettivi materiali o
umani, missioni descritte in modo particolareggiato nella loro scansione dalla fase
preparatoria e dall’arrivo del primo esecutore sul posto, caratterizzato da un’attività di
copertura e da una vita passata fittizia e studiata solo per i terzi che con lui venissero
in contatto, fino al debriefing e cioè la cancellazione di ogni traccia umana e
materiale della missione che era avvenuta.
La complessiva documentazione sequestrata nella sede dell’AGINTER PRESS
nel 1974 dimostra già da sola che essa non fosse solo un’organizzazione
terroristica in senso proprio, come quelle di destra o di sinistra che hanno
operato nel nostro Paese in tempi passati, ma una struttura in grado di
impiantare, dove operava, tecniche di guerra non ortodossa (la guerra segreta e
non dichiarata che mutuava alcuni principi dallo stesso nemico comunista che
intendeva combattere) e utilizzava strumenti tipici dell’attività di intelligence e
cioè tecniche da vero e proprio servizio di sicurezza non ufficiale.
Estremamente indicativi in questo senso sono il sistema crittografico usato
dall’AGINTER PRESS e il codice alfa-numerico attribuito a ciascuno dei suoi
principali esponenti, provenienti dal materiale sequestrato a Rua des Pracas 13 e
acquisito recentemente in Francia da personale del R.O.S. (cfr. vol.36, fasc.2).
Il sistema crittografico funzionava attribuendo a ciascuna parola di interesse una
chiave segreta a doppia lettera desumibile da una tavola di riferimento utilizzata da
tutta l’organizzazione (ad esempio, la parola aereoporto poteva essere indicata con
le lettere AN o NA) cosicchè i concetti chiave per qualsiasi azione potevano essere
scambiati da esponente a esponente della struttura, anche via radio, senza rischio
alcuno.
La decrittazione della tavola di riferimento (resa possibile anche dalla relazione
tecnica del S.I.S.Mi. in data 30.12.1994, allegata alla nota del R.O.S. in data
2.1.1995, vol.36, fasc.2, ff.1 e ss.) ha consentito di evidenziare tutti i concetti di
interesse per l’organizzazione: da azione a trasmissione (1^ colonna), da aereo ad
autostrada o attacco (2^ colonna), da blindato a sbarco (3^ colonna), da ferroviario a
gendarmeria (4^ colonna), da elicottero a infiltrazione (6^ colonna), da logistico a
messaggio (7^ colonna), da missione a obiettivo e a mortaio (8^ colonna), da
pagamento a quartier generale (9^ colonna), da informazione a sabotaggio (10^
colonna), da sicurezza a telegrafo (11^ colonna) e così via.
Tali termini caratterizzano non una semplice attività terroristica, ma una vera e
propria attività militare, seppure “coperta” e non dichiarata (cfr. nota del R.O.S. in
data 29.11.1996, vol.36, fasc.2, ff.11 e ss.).
Nel secondo documento sono presenti i nomi veri dei più importanti esponenti
dell’organizzazione, accompagnati non solo da un nome di battaglia, ma da un
360
codice alfa-numerico per ciascun soggetto: ad esempio, GUERIN SERAC è RALPH
e il suo codice alfa-numerico è C 11; Jean Marie LAURENT è JOEL e il suo codice è
R 22 e così via.
In tutte le formazioni eversive l’utilizzo di nomi di battaglia a protezione della
reale identità è molto comune, ma è assolutamente inusuale l’utilizzo di codici
alfa-numerici patrimonio, piuttosto, di strutture militari o di intelligence e
utilizzati soprattutto per comunicazioni a mezzo radio (cfr. nota del R.O.S. in
data 29.11.1996 citata, f.23).
Direttore dell’AGINTER PRESS, fondata nel settembre del 1966 a Lisbona
soprattutto da elementi francesi, era Yves GUILLOU alias GUERIN SERAC, di
origine bretone, già combattente con il grado di capitano in Corea, Indocina e
Algeria, il quale, nel febbraio del 1962 a Orano, aveva disertato dall’Esercito
Francese e si era unito all’O.A.S. (cfr. annotazione del Ministero dell’Interno Servizio Informazioni e Sicurezza Interna, inviata al G.I. dr. D’Ambrosio in data
20.12.1973; vol.36, fasc.5, ff.1 e ss.).
Dopo la sconfitta algerina, GUERIN SERAC, con altri reduci dell’O.A.S., era riparato
in Portogallo per sfuggire alla condanna per diserzione e tradimento e qui aveva
preso corpo l’idea di dar vita ad un’organizzazione anticomunista internazionale (una
sorta di O.A.S. internazionale) formata da specialisti nella lotta contro la
“sovversione” e caratterizzata non solo, o non tanto, da un’ideologia fascista
(GUERIN SERAC, personalmente, era di orientamento cattolico-tradizionalista e
molti reduci dell’O.A.S. avevano addirittura partecipato, durante la seconda guerra
mondiale, alla resistenza contro i tedeschi), quanto da una scelta di campo in favore
dei “valori occidentali”, ovunque fossero minacciati dai comunisti e dai loro alleati, e
attenta nei primi anni ‘60 soprattutto alla tematica della difesa della “presenza
bianca” nei pochi territori africani rimasti in mano agli europei.
Un simile orientamento e un simile campo di intervento comportava di mantenere
collegamenti con le forze anticomuniste di tutti i Paesi (nell’archivio di Rua des
Pracas sono state trovate tracce di contatti e di scambi di informazioni che coprono
pressochè l’intero globo, Italia compresa) e di non rifiutare il contatto con i servizi
di sicurezza dei principali Paesi occidentali, anch’essi impegnati nella comune
battaglia contro il comunismo e che potevano essere interessati ad “appaltare”
all’AGENZIA operazioni sporche, quali attentati o azioni di sabotaggio o
reclutamento di mercenari per il Paesi del Terzo Mondo, che non potevano
essere condotte ufficialmente e in prima persona da entità governative.
Il principale campo di interesse dell’AGINTER PRESS, nei primi anni di vita, erano
stati i Paesi africani, soprattutto quelli ove vi era ancora una presenza europea
(Congo, Angola, Mozambico, Rhodesia) minacciata dai movimenti anti-colonialisti e
dove quindi era necessario inviare mercenari esperti ed anche svolgere un’azione
più raffinata, caratterizzata dall’infiltrazione (e quindi dalla disgregazione dall’interno)
nei movimenti di liberazione e dalla creazione di “falsi” movimenti di liberazione con
lo scopo specifico di screditare quelli veri.
361
362
A tal fine ad esempio, Roberto LEROY, braccio destro di GUERIN SERAC, si era
recato in Tanzania, fra il 1968 e il 1969, sotto la veste di militante marxista-leninista e
filo-cinese e, incontrando in tale Paese i principali leaders del FRELIMO (il
movimento di liberazione del Mozambico), aveva svolto un’attenta opera di
disinformazione e intossicazione mettendo l’una contro l’altra le varie tendenze del
movimento e quindi avendo certamente una parte o ispirando l’assassinio di uno dei
più importanti dirigenti del FRELIMO, Eduardo Mondlane, ucciso da un sofisticato
congegno esplosivo nascosto all’interno di un libro, tecnica (si noti) nella quale
GUERIN SERAC aveva istruito i suoi adepti (int. VINCIGUERRA, 25.7.1992, f.3).
Ben presto l’AGINTER PRESS aveva comunque cominciato a rivolgere la sua
attenzione alla situazione dei Paesi europei, soprattutto quelli come l’Italia più
degli altri, sull’onda delle agitazioni studentesche e operaie del 1967/1968,
minacciati dalla crescita delle forze di sinistra.
In un documento molto noto dal titolo “LA NOSTRA AZIONE POLITICA”, rinvenuto
negli archivi dell’AGINTER PRESS nel 1974, risalente alla fine del 1968 e inviato a
Lisbona da un corrispondente italiano quasi certamente dell’area di Ordine Nuovo
(cfr. il testo del documento, tradotto anche in italiano, allegato alla nota del R.O.S. in
data 14.2.1994, vol.43, fasc.6, ff.17 e ss.), si auspica senza alcuna ambiguità la
necessità di diffondere il caos in ogni struttura dello Stato, non però per distruggerlo
(si ricordi che la strategia di partenza è la guerra controrivoluzionaria e non quella
rivoluzionaria di stampo marxista, e suo intento è la stabilizzazione finale dell’ordine),
ma per creare una reazione secondaria.
Infatti, secondo il documento e il piano che esso tratteggia, è necessario scatenare
l’azione contro lo Stato tramite l’azione di gruppi estremisti e filo-cinesi, che si
indicano come già infiltrati da parte dell’AGINTER PRESS (e quindi manipolati, se
non creati ad arte), in modo che la successiva reazione dell’opinione pubblica si
rivolga contro le forze di sinistra nel loro complesso e, tramite una pressione
sull’Esercito, la Magistratura e gli altri nuclei vitali dello Stato, la risposta finale sia
una risposta d’ordine vista come “il solo strumento di salvezza per la Nazione”.
In questo documento è esattamente delineata la strategia che personaggi come
Mario MERLINO a Roma (inventore di un gruppo anarchico sotto il suo controllo) e
Giovanni VENTURA in Veneto (infiltrato a manipolatore di un gruppo marxistaleninista a Padova) stavano già attuando ed è in pratica anticipato quanto sarebbe
avvenuto in Italia l’anno successivo con il caos, appunto, le bombe e la strategia
della tensione.
Con la caduta del regime di CAETANO e la “Rivoluzione dei Garofani” dell’aprile
1974, GUERIN SERAC, i reduci dell’O.A.S. alle sue dipendenze e molti militanti
portoghesi si trasferirono a Madrid, circostanza venuta per la prima volta alla luce
con gli interrogatori resi da Vincenzo VINCIGUERRA, a partire dal 1991, che
saranno illustrati nei prossimi capitoli.
A Madrid saranno ripresi e rinsaldati i rapporti con gli italiani, sia appartenenti a
Ordine Nuovo, come Giancarlo ROGNONI, sia appartenenti ad Avanguardia
Nazionale, come Stefano DELLE CHIAIE, grazie alla stabile permanenza in tale
362
città di un nutrito gruppo di latitanti cui gli uomini di GUERIN SERAC daranno
appoggio logistico e ospitalità.
Il “gruppo di Madrid” così costituitosi, vera prosecuzione dell’esperienza
dell’AGINTER PRESS, proseguirà la sua azione secondo le linee strategiche di
sempre, mettendosi al servizio delle strutture di sicurezza spagnole nella “guerra
sporca” contro i militanti dell’E.T.A. e continuando ad operare su diversi piani in altri
Paesi d’Europa e anche in Sud-America.
Caduto anche il bastione spagnolo dopo la morte del generale FRANCO,
nell’autunno del 1975, molti elementi del gruppo si trasferiranno proprio in SudAmerica, mettendo le loro capacità operative al servizio soprattutto delle forze
speciali cilene e argentine.
Tale ulteriore “migrazione” è descritta da VINCIGUERRA (che raggiungerà
l’Argentina e il Cile così come DELLE CHIAIE, Pierluigi PAGLIAI, Augusto CAUCHI e
parecchi spagnoli e francesi) in particolare negli interrogatori resi al P.M. di Roma, dr.
Giovanni Salvi, il quale stava indagando sugli attentati di cui erano stati vittime,
anche con l’apporto di elementi italiani, l’esponente democristiano cileno Bernardo
LEIGHTON e altri antifascisti cileni (cfr. vol.6, fasc.5, ff.162-185).
Anche su altri piani, prettamente militari, elementi del gruppo proveniente da Madrid
daranno un contributo non indifferente, ad esempio verificando per conto dei cileni le
installazioni difensive peruviane nella zona di frontiera nella fase di tensione fra il
Perù e il Cile, attività di spionaggio che poteva più facilmente essere affidata a
cittadini stranieri i quali potevano passare per semplici turisti (int. VINCIGUERRA al
P.M. di Roma, 16.2.1993, f.4, vol.6, fasc.5).
L’esistenza di rapporti fra la struttura di GUERIN SERAC e le organizzazioni di
estrema destra italiane, in particolare Ordine Nuovo, non è una novità ed era
già parzialmente emersa durante le indagini condotte dall’A.G. di Milano sulla
c.d. pista nera, anche perchè una piccola parte del materiale rinvenuto a Lisbona
nella sede dell’AGINTER PRESS era stata fotografata da alcuni giornalisti italiani e
prodotta ai giudici inquirenti dr. D’Ambrosio e dr. Alessandrini.
Era anche in progetto una formale richiesta di rogatoria alle Autorità di Lisbona, ma,
proprio nel periodo in cui l’iniziativa era in cantiere, le indagini relative alla strage di
Piazza Fontana erano state trasferite a Catanzaro e l’inevitabile interruzione che ne
era conseguita aveva fatto sì che tale iniziativa non venisse più ripresa.
Era comunque noto che GUERIN SERAC e Pino RAUTI, dopo uno scambio di
corrispondenza, si erano incontrati a Roma fra il 30 gennaio e il 1° febbraio
1968, anche se il contenuto di tali contatti era emerso solo parzialmente (cfr. nota del
Ministero dell’Interno in data 20.12.1973, vol.36, fasc.5, ff.19-24, contenente notizie
confidenziali da attribuirsi certamente alla fonte ARISTO, e cioè Armando
MORTILLA, come evidenziato nella perizia del dr. Aldo Giannuli, pagg.165-169).
L’anno precedente, del resto, fra il 22 luglio e il 4 agosto 1967, un elemento di Ordine
Nuovo di La Spezia, Piergiorgio BRILLO, si era recato a Lisbona per partecipare ad
un corso di addestramento presso una struttura dell’AGINTER PRESS (cfr. nota del
363
364
Ministero dell’Interno citata, ff.9-11, e atti acquisiti presso il S.I.S.Mi. relativi a
BRILLO, vol.43, fasc.5).
Sempre nel marzo 1967, inoltre, Robert LEROY e il dr. Carlo Maria MAGGI,
rispettivamente uomini di fiducia di GUERIN SERAC e di Pino RAUTI, avevano
partecipato ad un incontro ristretto tenutosi ad Abbiategrasso e organizzato dal
N.O.E. (NOUVEL ORDRE EUROPEEN) su tematiche affini a quelle dell’AGINTER
PRESS e cioè la “resistenza “ delle forze europee in Africa (cfr. nota della Digos di
Milano in data 6.6.1996, vol.6, fasc.3, ff.19 e ss.; int. MAGGI al G.I. di Catanzaro,
6.10.1984, vol.1, fasc.13, f.2; e, sul punto, anche dichiarazioni di Martino SICILIANO
che aveva accompagnato MAGGI, ZORZI e MOLIN all’incontro guidando la vettura di
MAGGI, int. 25.5.1996, f.2, e 7.6.1996, ff.1-2).
Nel corso della presente istruttoria è anche emerso che Guido GIANNETTINI e
GUERIN SERAC si conoscevano sin dal 1964.
E’ stata infatti acquisita, a fini di inquadramento generale, forse per la prima volta,
presso l’archivio del S.I.S.Mi., l’intera produzione della fonte GUIDO (nome in codice
di Guido GIANNETTINI) e cioè tutti i rapporti e le relazioni che questi aveva
trasmesso o approntato, prima per il Reparto R e poi per il Reparto D del S.I.D., a
partire dalla metà degli anni ‘60 (cfr. vol.37, fasc.1-5).
Da due appunti della fonte GUIDO del giugno 1970, contenenti tuttavia notizie
risalenti ad anni precedenti e originate da una richiesta del Servizio a GUIDO di
fornire qualche approfondimento sull’AGINTER PRESS, risulta infatti che
GIANNETTINI era in grado di fornire notizie abbastanza dettagliate su GUERIN
SERAC avendolo frequentato nel 1964 e conoscendone il nome di battaglia RALPH
(cfr. vol.37, fasc.1, ff.262-264).
La fonte riferiva fra l’altro, oltre a particolari sull’aspetto fisico e le abitudini di vita di
GUERIN SERAC (soggetto “inafferrabile” di cui nessuno ha mai disposto di una
fotografia e che non è anagrafato in nessun Paese del mondo), che questi, esule
dalla Francia per sfuggire alla giustizia di DE GAULLE e in contatto con la PIDE
portoghese, si era recato, per missioni, nell’Africa Centrale ex-francese e nell’ex
Congo Belga.
L’AGINTER PRESS, da lui diretta, con il venir meno del potere gaullista (che aveva
perseguitato gli ex-membri dell’O.A.S.) sarebbe stata in seguito finanziata e
appoggiata dal nuovo Governo francese del Presidente POMPIDOU e
l’atteggiamento della stessa in relazione ai conflitti medio-orientali sarebbe stato
favorevole a Israele, in sintonia, peraltro, con la scelta di campo “occidentale”, più
che neofascista, che caratterizzava la linea strategica seguita dall’AGINTER PRESS,
come ampiamente emerso nel corso di questa istruttoria (cfr. appunto denominato
AGINTER, vol.37. fasc.1, f.264).
Guido GIANNETTINI, sentito sul punto da questo Ufficio in data 16.7.1993, ha
riconosciuto come propri gli appunti (diretti all’epoca al Reparto D del S.I.D.)
ammettendo di aver conosciuto nel 1964, a Lisbona, GUERIN SERAC, presentatogli
dal capitano SOUETRE dell’O.A.S. e da un ufficiale della PIDE durante il soggiorno
364
finalizzato a contatti politici con gli ambienti di destra (dep. GIANNETTINI, 16.7.1973,
ff.2-3, e 2.9.1993, f.1).
I contatti di GUERIN SERAC con elementi italiani legati, direttamente o
indirettamente, ad apparati istituzionali, sono quindi stati certamente molto frequenti
già a partire dalla metà degli anni ‘60.
Il ruolo e l’attività dell’AGINTER PRESS rimarrebbe solo un pezzo della storia
delle organizzazioni anticomuniste degli anni ‘60/’70, e cioè del periodo
cruciale dello scontro fra i Blocchi, se il suo nome e quello di GUERIN SERAC
non fossero entrati di prepotenza nelle indagini sugli attentati del 12.12.1969
con l’appunto stilato dal S.I.D. il 16.12.1969, e cioè pochissimi giorni dopo la
strage quando le indagini stavano imboccando la pista VALPREDA.
In tale appunto, di fonte confidenziale e pervenuto alla magistratura solo nel marzo
1973, si riferisce in sintesi che la mente ispiratrice degli attentati sarebbe stato tale
GUERIN SERAC, che gli attentati avvenuti a Roma il 12.12.1969,
contemporaneamente alla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, sarebbero
stati organizzati da Stefano DELLE CHIAIE e che l’esecutore dei due attentati di quel
giorno all’Altare della Patria sarebbe stato Mario MERLINO, definito “filo-cinese”
nell’appunto del 16.12.1969 e successivamente, nella versione più ridotta dello
stesso appunto portante la data 17.12.1969, “anarchico”.
Lo stesso GUERIN SERAC, dirigente a Lisbona dell’AGINTER PRESS e in stabile
contatto con Stefano DELLE CHIAIE, sarebbe di ideologia anarchica e suo “aiutante”
sarebbe un certo Robert LEROY di cui nel testo viene indicato l’indirizzo di Parigi
(p.55 - 83 - 7 La Seyne sur Mer).
Nell’appunto non si indica quale sia la fonte confidenziale, nemmeno con un nome in
codice, ma doveva trattarsi di una persona in stretto contatto con le persone e gli
avvenimenti oggetto dell’informativa, posto che non solo l’indirizzo di un personaggio
poco noto come Robert LEROY risulterà esatto ad un successivo accertamento, ma
che altre notizie che vi appaiono (il fatto che il congegno deposto in Piazza Fontana
fosse ad orologeria e che Mario MERLINO, per circostanze assolutamente casuali, e
cioè il comune luogo di villeggiatura, conoscesse il Direttore della Banca Nazionale
dell’Agricoltura ove era scoppiata la bomba) sarebbero in seguito risultate a loro volta
esatte ed erano assolutamente non note nel momento in cui - la sera del 13.12.1969
- la fonte aveva riferito a personale del S.I.D. tali notizie.
In merito al significato e al valore di tale appunto, di cui sono sempre rimaste ignote
l’origine e le sue vere finalità (in quanto redatto quasi a scopo “cautelativo”, ma non
fatto pervenire all’Autorità Giudiziaria nella prima e cruciale fase delle indagini), si è
discusso per anni nei vari procedimenti e nei dibattimenti celebrati per gli attentati del
12.12.1969, ma una nuova riflessione, anche alla luce delle risultanze di questa
istruttoria e delle indagini collegate, appare legittima e forse difficilmente
discutibile.
Nell’appunto sono contenuti due serie di concetti, l’una depistante e l’altra
probabilmente rispondente a verità, e la sua acquisizione nella prima fase delle
365
366
indagini, depurato dalla parte fuorviante, sarebbe stata di grande utilità per le Autorità
inquirenti.
Certamente GUERIN SERAC non era e non è di ideologia anarchica, come non era
nè anarchico nè filo-cinese Mario MERLINO, rimasto sempre uomo di fiducia di
Stefano DELLE CHIAIE e appositamente infiltrato in gruppi di sinistra.
Se questa è la parte “depistante” dell’appunto (che sarebbe calibrata sulla
necessità di non far fuoriuscire le indagini dall’alveo che stavano seguendo, e cioè la
pista anarchica), altrettanto non sembra possa dirsi della catena di comando
delineata sempre nell’appunto, e cioè, rimanendo ai punti essenziali, GUERIN
SERAC come ispiratore, DELLE CHIAIE come organizzatore e MERLINO come
esecutore degli attentati o quantomeno di parte di essi.
Tale pista, che riporta l’intero piano degli attentati, tanto milanesi quanto romani, ad
una strategia di estrema destra, anche con una ispirazione internazionale, è stata
seguita con molte difficoltà e infine senza risultati processuali (se si eccettuano le
parziali condanne di FREDA e VENTURA per gli attentati preparatori e quelle di
MALETTI e LABRUNA per le attività di depistaggio) nel corso delle varie indagini,
soprattutto quella condotta a metà degli anni ‘80 dal G.I. di Catanzaro dr. Emilio
LEDONNE.
Alla luce delle dichiarazioni rese da Vincenzo VINCIGUERRA fra il 1991 e il
1993 sull’attività del gruppo di Madrid, la parte sostanziale dell’appunto, e cioè
quella che indica la catena di comando, pur alternandone il “colore” politico,
non sembra possa più essere sottovalutata ed anzi dovrebbe essere
sottoposta ad una approfondita riconsiderazione.
Infatti:
- VINCIGUERRA, personalmente presente a Madrid fra il 1974 e il 1975 ed “ospite”
della struttura che era la prosecuzione dell’AGINTER PRESS, ha descritto in modo
diretto e vivido l’operatività comune in azioni illegali di vasto respiro che legava
in quegli anni GUERIN SERAC (in posizione preminente e sovraordinata) a
Stefano DELLE CHIAIE, operatività non recente, ma frutto di rapporti e di
concordanze strategiche che risalivano alla fine degli anni ‘60 e quindi alla fase
cruciale tratteggiata dall’appunto.
La “catena di comando” , quindi, esisteva ed era esistita in passato e la struttura
sovranazionale di GUERIN SERAC era effettivamente in grado di ispirare un
“protocollo di intervento” ai gruppi operativi nei singoli Paesi, basato su attività di
infiltrazione e attentati.
- VINCIGUERRA, inoltre, durante la sua permanenza a Madrid aveva avuto modo di
verificare che una delle maggiori preoccupazioni di GUERIN SERAC e Stefano
DELLE CHIAIE era che non venisse alla luce, nemmeno incidentalmente o per
interventi giornalistici, tale antica “sintonia operativa” in quanto “D’Ambrosio
aveva capito tutto” e se altri avessero potuto riprendere le indagini in direzione
dell’AGINTER PRESS, interrotte nel 1974 con il trasferimento dell’istruttoria e cioè
proprio nel momento più favorevole per sondare la situazione portoghese, molte
366
verità sugli avvenimenti italiani avrebbero cominciato
VINCIGUERRA, 20.5.1992, ff.1-2, e 16.6.1992, f.3).
ad
emergere
(int.
Le dichiarazioni relative all’AGINTER PRESS rese da Vincenzo VINCIGUERRA, che
saranno esposte nei prossimi capitoli, sono quindi molto significative poichè non solo
mettono per la prima volta a fuoco, in modo diretto, una struttura “coperta” che ha
operato per molti anni in diversi Continenti, ma contribuiscono alla ricostruzione di
quanto, su un modello di intervento ispirato da tale struttura, è avvenuto anche nel
nostro Paese.
367
368
59
LE DICHIARAZIONI DI VINCENZO VINCIGUERRA
SULLA STRUTTURA DI GUERIN SERAC OPERANTE A MADRID
Vincenzo VINCIGUERRA si era rifugiato in Spagna dal marzo 1974 al settembre
1975 per sfuggire alla probabile emissione da parte dell’A.G. di Gorizia di un
mandato di cattura per il fallito dirottamente aereo di Ronchi dei Legionari e per gli
altri attentati commessi in Friuli fra il 1971 e il 1972.
Durante la permanenza in Spagna egli si era appoggiato alla struttura logistica e
operativa costituita da GUERIN SERAC e Stefano DELLE CHIAIE e di cui facevano
parte spagnoli, italiani, portoghesi, francesi e militanti di altre nazionalità fra cui
l’americano Jay Simon SALBY, detto CASTOR.
Tale struttura altro non era che la prosecuzione, sul piano temporale e sul
piano strategico, dell’AGINTER PRESS che aveva dovuto abbandonare
Lisbona nella primavera del 1974 e porsi quindi sotto la protezione non più
della P.I.D.E. (la polizia politica portoghese), ma dei servizi di sicurezza
spagnoli.
Le dichiarazioni rese da Vincenzo VINCIGUERRA in relazione a tale argomento,
sempre in un’ottica di ricostruzione di determinati avvenimenti storici e non di
collaborazione processuale, sono comunque le più ampie e descrittive fra quelle rese
a questo Ufficio tra il 1991 e il 1993 e sono le prime che abbiano consentito di
comprendere dall’interno i meccanismi del gruppo madrileno e i rapporti precedenti,
soprattutto fra GUERIN SERAC e gli italiani, che avevano reso possibile la sua
formazione e il suo funzionamento anche in Spagna al servizio della medesima
causa per cui già avevano combattuto sin dalla fine degli anni ‘60.
In linea generale Vincenzo VINCIGUERRA ha spiegato che l’attività di GUERIN
SERAC e delle persone che operavano con lui abbracciava tutti quei Paesi in cui più
forte era il pericolo di un’avanzata da parte dei Partiti e delle formazioni comuniste e
che il gruppo insediatosi a Madrid, dopo la “Rivoluzione dei Garofani” portoghese,
aveva la caratteristica di essere formato anche da persone ufficialmente ricercate
dalle Polizie dei Paesi di appartenenza o comunque emarginate per ragioni politiche,
come molti ex-appartenenti all’O.A.S. algerina, ma che in realtà operavano
indisturbate sotto la copertura dei servizi segreti dei Paesi occidentali (int. 7.5.1992,
f.2).
Dopo GUERIN SERAC, probabilmente sempre rimasto in contatto con i servizi di
sicurezza francesi (int. 7.5.1992, f.2), la figura preminente nella fase madrilena era
Stefano DELLE CHIAIE, anche in virtù dei rapporti personali che da lungo tempo egli
aveva con SERAC (int. 7.5.1992, f.3).
368
A Madrid il gruppo disponeva di vari appartamenti che servivano come stabile rifugio
per i latitanti, soprattutto italiani, e come basi operative:
“””....il primo appartamento in cui abitai quando, nell'estate del 1974, arrivai a
Madrid provenendo da Barcellona, era quello di Avenida Manzanarre, cui ho
già accennato, quello appunto vicino al fiume.
E' qui che fu ospitato per alcuni mesi GUERIN SERAC dopo la caduta del
regime di Caetano.
SERAC andò poi a vivere con la moglie in una villetta all'estrema periferia di
Madrid.
Credo che questo appartamento fosse regolarmente affittato nell'ambito del
mercato immobiliare.
Qui ha abitato anche Mario RICCI e anche DELLE CHIAIE nei periodi in cui
era a Madrid.
Era un appartamento che era una sorta di prima accoglienza ed era l'unico che
possedevamo in quel momento.
Partii da Madrid nel settembre del 1975 e quando tornai, nel giugno del 1976,
c'era un secondo appartamento nella zona centrale di Madrid.
Poi questo appartamento fu lasciato e si creò la disponibilità di due
appartamenti. Uno era affittato regolarmente e sostanzialmente per abitarci,
mentre l'altro, quello che ci fu procurato da EDUARDO, come ho già
accennato, ci era stato appunto procurato dai Servizi Speciali spagnoli ed era
"coperto".
Contestualmente alla disponibilità di questo appartamento "coperto", i Servizi
Speciali costituirono un fondo per il sostegno dei latitanti italiani che veniva
amministrato da Stefano DELLE CHIAIE.
In sostanza, a ciascuno veniva passata mensilmente una somma per le spese
personali che si aggirava sulle 7.000 pesetas.
In quest'ultimo appartamento potevano andare solo un numero limitato di
persone autorizzate, tra cui oltre me, degli italiani, Mario RICCI e Giuseppe
CALZONA.
Con le persone non autorizzate non si poteva nemmeno parlare dell'esistenza di
questo appartamento.
Preciso quindi che quando si discusse degli episodi che mi vengono contestati
nel presente interrogatorio, cioè quelli contro gli obiettivi algerini, eravamo
ancora nell' appartamento di Avenida Manzanarre”””.
(int. 23.9.1992, f.29.
GUERIN SERAC aveva del resto sempre curato gli aspetti logistici, approntando
anche al confine franco/spagnolo uno stabile punto di riferimento per i militanti diretti
in Spagna:
369
370
“””RALPH (nota Ufficio: il nome in codice di GUERIN SERAC) aveva un uomo suo
a Port Bou, di nome BOB, che era un ex appartenente ai commandos francesi,
sommozzatore e palombaro, e che abitava a Port Bou nella zona francese.
Ricordo che nel 1976 BOB accompagno clandestinamente uno di
AVANGUARDIA dalla Francia alla Spagna e l'episodio provocò le rimostranze
di RALPH perchè era stato utilizzato il suo uomo a Port Bou senza la sua
preventiva autorizzazione.
Posso aggiungere che BOB morì, ufficialmente cadendo in territorio francese
dal treno rapido TALGO che unisce Barcellona a Parigi.
L'episodio suscito nel nostro ambiente il forte sospetto che non si fosse trattato
di un incidente, ma che si fosse trattato di omicidio ad opera di una struttura
nemica.
Questo episodio avvenne verso la seconda metà del 1976”””.
(int. 30.6.1993, f.2).
Il gruppo italiano coordinato da GUERIN SERAC e DELLE CHIAIE era numeroso.
Oltre a Mario RICCI, Piero CARMASSI, Augusto CAUCHI e Pierluigi CONCUTELLI vi
era Giuseppe CALZONA, simpatizzante di Avanguardia Nazionale, il quale si trovava
in Spagna perchè ricercato per un omicidio di carattere comune commesso in
Lombardia (int. 30.5.1992, f.2).
Giuseppe CALZONA, originario della provincia di Catanzaro, era stato effettivamente
condannato per l’omicidio, avvenuto a Monza nel 1972, di tale Alfio ODDO e
segnalato, in seguito, in Spagna quale probabile componente di un gruppo che
eseguiva attentati contro militanti dell’E.T.A. (cfr. nota della Digos di Milano in data
23.6.1992, vol.12, fasc.4, ff.30 e ss.).
E’ singolare che CALZONA sia stato tratto in arresto a Madrid nell’estate del 1984,
ma, godendo egli con molta probabilità ancora di coperture, sia stato presto rilasciato
benchè la richiesta di estradizione delle nostre Autorità riguardasse non un delitto
politico, ma un crimine di natura prettamente comune (cfr. nota Digos citata, f.31).
Un altro militante italiano del gruppo aveva invece trovato la morte in un’azione
contro un militante dell’E.T.A. avvenuta nel Paese Basco francese:
“””Posso dire che un esempio concreto delle attività "coperte" all'estero del
gruppo di Madrid fu l'azione cui ho accennato nel libro "Ergastolo per la
libertà" che si svolse nel Paese Basco francese e in cui trovò la morte proprio
un italiano.
Ciò avvenne alla fine del 1975, io non vi partecipai, ma seppi che un gruppetto
di camerati avevano fatto un agguato ad un dirigente dell'E.T.A., uccidendolo,
ma questi prima di morire aveva reagito sparando a sua volta e ferendo in
modo gravissimo l'italiano, questi, prima che il gruppo potesse rientrare in
370
Spagna, era morto e, a quanto mi fu detto, fu abbandonato in un fiume al fine di
non lasciare tracce.
Episodi del genere giustificano la necessità da parte dei Governi e dei Servizi di
Sicurezza di qualsiasi Paese di impiegare in operazioni "coperte" persone che
non possono essere ricollegate agli stessi Governi in modo tale da neutralizzare
gli effetti negativi politici e diplomatici che azioni tese ad eliminare fisicamente
avversari, come in questo caso, produrrebbero nell'opinione pubblica
nazionale”””.
(int. 7.5.1992, f.3).
L’italiano caduto nell’azione in territorio francese è da identificarsi quasi con certezza
in Mario PELLEGRINO, molto legato a Pierluigi CONCUTELLI e condannato, con
questi e con altre persone vicine a Ordine Nuovo, per il sequestro a scopo di
estorsione (in realtà a scopo di finanziamento per l’organizzazione) del banchiere
Luigi MARIANO, fatto avvenuto nel 1975 in provincia di Taranto.
Mario PELLEGRINO, sfuggito alla cattura, era infatti riuscito a raggiungere la Spagna
e di lui non si sono avute più notizie ormai dalla metà degli anni ‘70.
Uno degli uomini di fiducia di GUERIN SERAC presenti a Madrid era l’americano Jay
Simon SALBY, soprannominato CASTOR, probabilmente legato alle strutture di
sicurezza americane e reduce dall’operazione “Baia dei porci” a Cuba, tanto da
essere stato indicato da Fidel Castro, in una trasmissione radiofonica, come il
nemico numero uno di Cuba per le sue attività operative contro il Governo castrista
(int. 2.6.193, f.1; e anche, sul punto, dep. ZAFFONI, 14.6.1996, f.3)
CASTOR era stato arrestato in Algeria nel 1976 dopo un’azione terroristica
commessa infiltrandosi nel Paese con un commando di cui faceva parte anche il
francese Jean Pierre CHERID, anch’egli uomo di GUERIN SERAC (int. 18.4.1994,
f.4 e, ampiamente, i due capitoli che seguono).
CASTOR era sfuggito alla fucilazione anche grazie all’intervento di GUERIN SERAC
che aveva utilizzato a tal fine i suoi rapporti con la Casa Regnante del vicino
Marocco (cfr. memoriale VINCIGUERRA allegato all’interrogatorio in data 9.3.1992,
f.17, e dep. a personale del R.O.S., 12.1.1995, f.1).
Le azioni “coperte” che il gruppo di GUERIN SERAC aveva organizzato a metà degli
anni ‘70 erano numerose e avevano coperto sia Paesi europei sia Paesi
extraeuropei.
Ecco, in sintesi, quello che Vincenzo VINCIGUERRA ha riferito per diretta
partecipazione o in base agli elementi di conoscenza acquisiti durante la sua
permanenza in Spagna:
- Il gruppo si è innanzitutto premurato di contraccambiare concretamente l’ospitalità e
l’aiuto offerto dalle strutture spagnole, rendendosi disponibile ad azioni “coperte”
371
372
contro militanti dell’E.T.A. e altri militanti antifascisti nell’ambito di quella che è stata
chiamata la “guerra sporca” condotta dalle strutture parallele spagnole.
Vincenzo VINCIGUERRA non era stato direttamente utilizzato, per scelta di Stefano
DELLE CHIAIE, sul piano operativo, tuttavia aveva personalmente ricevuto,
tramite Mariano SANCHEZ COVISA, le schede con informazioni e foto
segnaletiche relative ai rifugiati dell’E.T.A. in Francia (alcuni dei quali sarebbero
poi stati colpiti) e una mitraglietta INGRAM “M10” che doveva essere usata per
tali operazioni e che era stata custodita in uno degli appartamenti del gruppo
(int. 30.5.1992, f.2).
Certamente gli uomini presenti a Madrid erano perfettamente addestrati per azioni di
questo tipo in quanto, come ha ricordato VINCIGUERRA (int.25.7.1992, ff.2-3),
sfruttando la sua esperienza di ufficiale dei “commandos” francesi, GUERIN SERAC
aveva messo a disposizione dei militanti tutto il suo bagaglio tecnico concernente i
metodi per identificare, pedinare e prelevare le vittime ed altresì le tecniche relative
all’uso e al trasporto delle armi e degli esplosivi.
Ad esempio, GUERIN SERAC aveva, un giorno, personalmente mostrato a
VINCIGUERRA un libro piuttosto grande, tipo dizionario, con un incavo scavato
all’interno che serviva per trasportare, senza dare sospetti e in condizioni di
sicurezza, esplosivo ed armi di piccolo calibro (int. 25.7.1992, f.3).
Si ricordi, fra l’altro, che proprio con una delle mitragliette INGRAM “M10”
(fabbricate negli Stati Uniti, acquistate dal Servizio Centrale della Polizia
spagnola nel febbraio 1975 e da tale struttura ceduta al gruppo di Madrid)
Pierluigi CONCUTELLI aveva ucciso, nel luglio 1976, il magistrato Vittorio
OCCORSIO che all’epoca stava indagando sulle attività di Ordine Nuovo.
- GUERIN SERAC e i suoi uomini avevano inoltre avuto un ruolo determinante nella
costituzione dell’E.L.P. (Esercito di Liberazione Portoghese) che, a partire dal 1975,
con attentati e azioni di disturbo condotte al confine fra Spagna e Portogallo, aveva
tentato di rovesciare il Governo insediatosi in Portogallo dopo la Rivoluzione dei
Garofani” (cfr. memoriale allegato all’interrogatorio in data 9.3.1992, f.17; int.
2.6.1993, f.1, e anche annotazione del R.O.S. in data 23.7.1993 sull’attività
dell’AGINTER PRESS, vol.35, ff.103-104 e anche int. DIGILIO, 10.5.1996, ff.1-2 e
26.3.1997, f.4).
- L’attività degli uomini di GUERIN SERAC, in ossequio alla teoria che comportava la
difesa dei “valori occidentali” ovunque sembrassero minacciati dal campo avverso, si
era dispiegata anche in altri Continenti.
Nella primavera del 1974, su richiesta dell’ “uomo forte” del Guatemala, Mario
SANDOVAL, un gruppo formato fra gli altri dallo stesso SERAC, da Jay Simon
SALBY e da elementi italiani, tra cui l’ex-paracadutista Piero CARMASSI, si era
recato in Guatemala per distruggere una base di guerriglieri di sinistra che operava
partendo dal Costarica.
Dovendo l’azione essere condotta nel territorio di un Paese sovrano e neutrale, il
diretto intervento dei guatemaltechi era inopportuno e quindi l’operazione “coperta”
era stata affidata ad elementi stranieri (int. 7.5.1992, ff.2-3, e 27.4.1993, f.2).
- Sempre fra il 1975 e il 1976 stava operando nelle Azzorre un altro uomo di fiducia
di GUERIN SERAC, Jean Denis RAINGEARD DE LA BLETIERE, anch’egli exufficiale dell’Esercito Francese, il quale aveva costituito il FRONTE DI LIBERAZIONE
DELLE AZZORRE, in realtà non un movimento di liberazione, ma un gruppo
372
secessionista che aveva la finalità di salvare una zona di alto interesse strategico,
all’epoca, per gli Stati Uniti.
Infatti, qualora le forze comuniste e quelle ad esse alleate avessero avuto
definitivamente il sopravvento in Portogallo, il Fronte costituito da Jean Denis
avrebbe dovuto tentare la secessione delle Azzorre dalla madrepatria portoghese al
fine di consentirvi il mantenimento delle basi americane (int. 7.5.1992, ff.3-4, e
30.5.1992, f.3).
- La struttura di Madrid era stata in grado di inviare suoi elementi anche in Angola.
Tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, Pierluigi CONCUTELLI e alcuni altri italiani di
Avanguardia Nazionale inviati da Stefano DELLE CHIAIE, avevano raggiunto
Luanda, capitale dell’Angola, per appoggiare il movimento filo-occidentale “UNITA”
nella sua lotta contro il M.P.L.A. (Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola) e le
truppe cubane che lo sostenevano (int.3.3.1993, f.1, e 27.4.1993, f.2).
Le truppe cubane avevano tuttavia avuto il sopravvento nella battaglia per il controllo
di Luanda e gli italiani avevano dovuto rientrare in Spagna abbandonando così
anche un progetto commerciale che avrebbe dovuto servire a finanziare il gruppo
(int.9.3.1993, f.1).
- Infine, nel corso del 1977, essendo ormai venute meno in Spagna le più importanti
protezioni a seguito della scomparsa del generale FRANCO e del lento, ma
progressivo, disgregarsi delle strutture del vecchio regime, tutto il gruppo si era man
mano trasferito in Cile e in Argentina, proseguendo comunque le sue attività al
servizio delle strutture di sicurezza di tali Paesi, all’epoca retti da regimi dittatoriali
anticomunisti (int. 27.4.1993, ff.1-2, e quanto narrato dallo stesso VINCIGUERRA nel
volume “Ergastolo per la Libertà”, pubblicato nel 1989, pagg.23-49; e interrogatori
dinanzi al P.M. di Roma, vol.6, fasc.5, ff.162-185).
In quegli anni, Stefano DELLE CHIAIE e le persone a lui vicine, nonostante il
moltiplicarsi, sotto la guida di GUERIN SERAC, di operazioni all’estero che si erano
sviluppate in almeno 3 Continenti, non avevano certo cessato di mantenere i contatti
con l’Italia e gli avvenimenti che nel nostro Paese interessavano l’area di estrema
destra.
Vincenzo VINCIGUERRA ha fatto più volte cenno ad un incontro avvenuto nel
1975 a Madrid nei locali della società ENIESA, facente capo a Stefano DELLE
CHIAIE, fra lo stesso DELLE CHIAIE, ROGNONI e Carlo DIGILIO che era appena
arrivato dall’Italia e aveva nell’occasione portato a VINCIGUERRA, con tono
ironico, i “saluti” di Delfo ZORZI sapendo che fra i due non correvano buoni
rapporti (int. 20.11.1992, f.2, e 2.12.1992, f.2).
L’incontro doveva essere particolarmente riservato, se lo stesso VINCIGUERRA era
rimasto in una stanza a parte, e solo i tre esponenti ad altissimo livello dell’area di
estrema destra si erano trattenuti a parlare separatamente (int. 20.11.1992, f.2).
Carlo DIGILIO, con molta fatica e solo nell’interrogatorio in data 16.5.1997, ha
ammesso di essere stato presente a tale incontro, affermando di essere stato
condotto quasi casualmente da Giancarlo ROGNONI presso la società ENIESA e
373
374
che il colloquio con Stefano DELLE CHIAIE era stato un semplice scambio di vedute
fra camerati in merito alle ragioni della loro reciproca presenza in Spagna (f.3).
Tale versione “minimalista” non appare certo soddisfacente e l’episodio dovrà essere
ulteriormente approfondito visto il livello dei personaggi presenti e anche tenendo in
considerazione che Carlo DIGILIO ha dichiarato di non aver mai visto, prima di tale
occasione, Stefano DELLE CHIAIE, mentre VINCIGUERRA ha affermato che il loro
comportamento al momento dell’ingresso di DIGILIO nei locali della società indicava
con certezza che i due già si conoscevano (int. 20.11.1992, f.2).
Nell’estate del 1974, infine, Stefano DELLE CHIAIE aveva organizzato il
sequestro e l’interrogatorio di Gaetano ORLANDO, mente politica del M.A.R.
(Movimento di Azione Rivoluzionaria) di Carlo FUMAGALLI (sulla figura di
ORLANDO cfr. ampiamente il capitolo 24 della sentenza-ordinanza depositata in
data 18.3.1995).
Gaetano ORLANDO, prelevato dagli uomini di DELLE CHIAIE presso il Residence
Quevedo di Madrid, era sospettato da DELLE CHIAIE di essere in qualche modo
responsabile della morte di Giancarlo ESPOSTI, legato ad Avanguardia Nazionale
ed infiltrato da DELLE CHIAIE nel M.A.R., gruppo con cui aveva operato nel 1974
sino alla sua morte avvenuta nel giugno dello stesso anno a Pian del Rascino.
Durante il sequestro, Gaetano ORLANDO aveva corso seriamente il rischio di essere
eliminato e si era salvato solo perchè, nel corso dell’ “interrogatorio” cui lo avevano
sottoposto DELLE CHIAIE e VINCIGUERRA, era riuscito a convincere i suoi
sequestratori di non avere alcuna responsabilità nella trappola in cui erano caduti
Giancarlo ESPOSTI e gli altri militanti vicini ad Avanguardia Nazionale che erano con
lui al campo di Pian del Rascino.
Al prelevamento di Gaetano ORLANDO avevano partecipato anche Piero
CARMASSI e un argentino e uno spagnolo sempre facenti parte del gruppo di
DELLE CHIAIE, mentre nell’appartamento in cui ORLANDO era stato interrogato era
presente, in funzione di guardaspalle di Stefano DELLE CHIAIE, un altro suo uomo
di fiducia e cioè Mario RICCI (int. 20.11.1992, f.3).
L’episodio è stato rievocato, in termini del tutto analoghi a quelli di VINCIGUERRA,
dallo stesso Gaetano ORLANDO nel corso delle testimonianze rese a questo Ufficio
e al G.I. di Bologna allorchè egli ha deciso di ricostruire alcuni aspetti della sua
esperienza politica (cfr. capitolo 24 della sentenza-ordinanza depositata in data
18.3.1995).
Gaetano ORLANDO ha in particolare confermato la presenza di Mario RICCI come
guardaspalle, da lui in seguito incontrato anche in Paraguay nella zona ove si
trovava Elio MASSAGRANDE, circostanza questa che indica l’importanza del ruolo
operativo e di collegamento svolto da RICCI per Stefano DELLE CHIAIE (dep.
ORLANDO a questo Ufficio, 19.10.1992, f.3, e 28.10.1992, ff.1-2; dep. al G.I. di
Bologna, 13.11.1992, f.1).
374
L’azione nei confronti di Gaetano ORLANDO conferma la determinazione del gruppo
di DELLE CHIAIE e la capacità di “controllare” gli avvenimenti che si sviluppavano in
Italia anche a partire dalla base madrilena.
375
376
60
LE DICHIARAZIONI DI VINCENZO VINCIGUERRA
CONCERNENTI GLI ATTENTATI DELL’ESTATE DEL 1975
CONTRO LE AMBASCIATE ALGERINE
Vincenzo VINCIGUERRA ha parlato per la prima volta degli attentati organizzati
nell’estate del 1975 dal gruppo di GUERIN SERAC nell’interrogatorio in data
18.4.1992, specificando di aver curato personalmente quello avvenuto a Parigi:
“””In merito agli attentati di cui ho accennato nel memoriale, posso dire che
vennero organizzati in comune da italiani, francesi e algerini.
Alcuni di questi, precisamente a Parigi, in Germania e in Italia vennero eseguiti
materialmente da italiani.
Per quanto riguarda l'attentato a Parigi intendo riferirmi ad un apporto
logistico e non all'esecuzione materiale in senso proprio.
Io fui il coordinatore e l'organizzatore di questi tre episodi in accordo con Ives
Guerin Serac che all'epoca stava in Spagna. Io mi recai a Parigi appunto allo
scopo di organizzare questi episodi che servivano a colpire o meglio a dare un
segnale di rivolta contro il governo algerino.
La sigla S.O.A., anagramma di O.A.S., sottolineava l'unione fra vecchi
combattenti francesi, appunto dell'O.A.S., e combattenti algerini del F.L.N. che
si erano ritrovati uniti nella lotta contro il governo algerino accusato di essere
al servizio del comunismo sovietico.
L'attentato di Roma fu, come ho detto, compiuto materialmente da italiani,
come anche quello in Germania; però l'ordigno che fu usato in Germania era
stato fornito dai francesi e venne trasportato in macchina, nascosto in una
ruota di scorta fino al luogo dell'obiettivo; l'ordigno deposto davanti
all'Ambasciata in Germania non esplose.
I nomi dei partecipanti mi sono noti ma non intendo specificarli”””.
(int. 18.4.1992, f.3).
E’ indubbiamente molto significativo il fatto che GUERIN SERAC, di cui il S.O.A. era
sostanzialmente una creatura, ancora nel 1975 abbia tentato una campagna di
destabilizzazione del Governo algerino nato dalla rivolta anticolonialista degli anni
‘60.
Certamente, per GUERIN SERAC, la lotta contro il Governo algerino, perdipiù
all’epoca legato all’Unione Sovietica e ad altri Paesi comunisti, era una sorta di punto
d’onore, posto che lo stesso SERAC aveva disertato dall’Esercito Francese quando il
generale DE GAULLE era in procinto di abbandonare l’Algeria e posto che molti dei
militanti dell’AGINTER PRESS provenivano dalle fila dell’O.A.S.
376
In un successivo interrogatorio, VINCIGUERRA ha fornito un’altra indicazione,
spiegando che per l’attentato avvenuto a Bonn (certamente il più grave, poichè,
come si vedrà nel prossimo capitolo, era stato usato l’esplosivo militare americano
“C4”) anche i militanti rimasti in Italia si erano attivati in quanto un’autovettura
proveniente dall’Italia aveva caricato in Svizzera l’ordigno proveniente dalla Francia e
diretto in Germania (int. 7.5.1992, f.3).
Tale fase logistica dell’operazione è stata descritta da VINCIGUERRA con maggiori
dettagli nell’interrogatorio in data 23.9.1992:
“””Tornando alla descrizione delle modalità dell'attentato di Bonn che non fu
portato a conclusione, posso precisare meglio, a richiesta dell'Ufficio, il
meccanismo dell'azione in quanto nei precedenti interrogatori non è stato
chiarito un passaggio dell'azione stessa.
L'esplosivo partiva dalla Francia ed è stato portato da francesi in Svizzera nelle
circostanze di cui ho detto.
In Svizzera è stato consegnato a due italiani provenienti dall'Italia. Costoro
non dovevano poi compiere l'attentato, ma solo consegnare l'ordigno ad altri
due italiani che essendo latitanti in Spagna erano giunti a Francoforte in volo
dalla Spagna.
Sono questi ultimi che non fecero quanto dovevano e cioè abbandonarono
l'ordigno senza innescarlo.
Guerin Serac si arrabbiò moltissimo con loro avendo capito già dalla semplice
lettura dei giornali che l'ordigno non era scoppiato per difetti nel congegno, ma
per volontà degli attentatori”””.
(int. 23.9.1992, f.3).
Nell’attentato di Bonn erano dunque coinvolti ben quattro italiani, due provenienti
dalla Spagna attraverso la Francia e due incaricati di rilevare l’ordigno in Svizzera.
Uno di questi ultimi due proveniva da Roma, l’altro da Milano ed apparteneva ad
Avanguardia Nazionale, ma VINCIGUERRA non ha inteso rivelarne il nome (int.
20.11.1992, f.3).
VINCIGUERRA si è poi ricordato che, contestualmente agli attentati di Roma, Parigi
e Bonn, vi era stato un quarto attentato a Londra, affidato per l’esecuzione
all’americano CASTOR (e cioè Jay Simon SALBY) e il fallimento di tale attentato,
essendo rimasto inesploso l’ordigno, aveva dato luogo ad una piccola discussione fra
lo stesso VINCIGUERRA e SERAC in merito alle capacità dei reciproci elementi di
fiducia all’interno del gruppo:
“””Voglio innanzitutto far presente all'Ufficio, ripensando agli avvenimenti del
periodo spagnolo, che mi sono ricordato dell'elemento di collegamento fra i tre
attentati antialgerini di Bonn, Parigi e Roma e quello di Londra di cui l'Ufficio
mi aveva fatto presente l'esistenza e la contemporaneità con gli altri.
377
378
Io non avevo preso parte all'organizzazione dell'episodio di Londra, ma mi sono
ricordato che uno o due giorni dopo i vari episodi, e in particolare dopo il
fallimento di quello di Bonn, ebbi la conversazione cui ho già fatto cenno con
Guerin Serac che lamentava in modo molto acceso il fallimento dell'attentato
di Bonn attribuendolo alla scarsa determinazione dei "soliti italiani" dei quali
parlava con una certa veemenza.
Io allora gli risposi che se era vero quello che lamentava per l'episodio di Bonn,
poteva essere successo altrettanto nell'episodio di Londra.
Guerin Serac allora mi rispose che ciò non era assolutamente possibile perchè
a Londra era andato Castor e lui rispondeva di Castor come di se stesso.
Quindi a Londra, secondo Guerin Serac, non poteva essersi trattato che di un
guasto tecnico imprevedibile.
Non mi ricordo se appresi dell'episodio di Londra dalla stampa o da Guerin
Serac in quell'occasione. Sta di fatto che mi ricordo comunque che l'episodio
era collegato, evidentemente seguito da un altro sottogruppo diverso dal mio in
un'ottica di compartimentazione”””.
(int. 2.12.1992, ff.1-2).
Nell’interrogatorio in data 4.2.1994, VINCIGUERRA ha infine sciolto la riserva
limitatamente al nome di almeno uno degli italiani che avevano materialmente
eseguito l’attentato a Bonn provenendo in aereo da Madrid, indicandolo in Mario
RICCI, uomo di fiducia di Stefano DELLE CHIAIE per conto del quale
sostanzialmente egli gestiva l’agenzia di viaggi “TRANSALPINO” utilizzata da molti
latitanti italiani (int. 4.2.1994, f.2).
Si noti che la campagna di attentati dell’estate del 1975 contro le Ambasciate
algerine evidenzia la capacità operativa del gruppo di GUERIN SERAC e la
possibilità di agire in più Pesi europei in quanto gli obiettivi sono stati colpiti
contestualmente e in quattro diversi Paesi europei e la sola organizzazione
dell’attentato di Bonn ha coinvolto non solo la Spagna e la Germania, ma
anche la Francia, la Svizzera e l’Italia.
378
61
I RISCONTRI RELATIVI AGLI ATTENTATI ANTI-ALGERINI
E ALLE ATTIVITA’ NELLE AZZORRE
L’UTILIZZO DELL’ESPLOSIVO MILITARE STATUNITENSE “C4”
NELL’ATTENTATO A BONN DEL 18.8.1975
Gli attentati contro obiettivi algerini rievocati da Vincenzo VINCIGUERRA sono stati
individuati nell’attentato contro i locali dell’AMICALE DES ALGERIENS EN EUROPE
di Parigi del 27.7.1975 (cfr. vol.12, fasc.2, ff.160 e ss.) e nei tre attentati
contemporanei del 18.8.1975 contro le Ambasciate d’Algeria di Roma, Bonn e
Londra (cfr. vol.12, fasc.2, rispettivamente ff.13 e ss., 30 e ss., 45 e ss.).
L’attentato di Roma, commesso contro la sede dell’Ambasciata in Via Villa Ricotti
con circa un chilo di esplosivo innescato a miccia, era stato rivendicato con un
volantino a firma S.O.A. (Soldati dell’Opposizione Algerina) (f.15) e così pure
l’attentato di Parigi, avvenuto in Rue Louis Le Grand 23, che aveva seguito altri
analoghi attentati avvenuti sempre nella capitale, a Lione e a Roubaix (ff.92 e ss.).
Di particolare interesse, a fini di riscontro, sono gli attentati contro le Ambasciate di
Bonn e Londra, anch’essi rivendicati con la stessa sigla.
Infatti l’ordigno deposto dinanzi all’Ambasciata d’Algeria a Londra (composto da
gelignite, un detonatore elettrico di marca spagnola e un orologio da polso in
funzione di timer), rimasto inesploso, veniva recuperato dallo Special Branch e gli
accertamenti effettuati sulla borsa che aveva contenuto l’ordigno consentivano di
evidenziare le impronte digitali di Jay Simon SALBY, nato nel Delaware (U.S.A.)
il 28.7.1937 ed arrestato in Algeria, qualche mese dopo il fallito attentato di Londra,
unitamente al cittadino francese di origine algerina Andrè Noel CHERID e a un
cittadino algerino (cfr. vol.12, fasc.2, ff.49 e ss., in particolare f.66).
L’esame dell’ordigno deposto a Bonn, rimasto anch’esso inesploso per una
banale disattenzione di chi lo aveva maneggiato, evidenziava un congegno molto
sofisticato, formato da un sistema di attivazione elettronico, approntato da un
esperto, e da esplosivo di elevata potenzialità e cioè nove cartucce di T4
addizionato di poli-isobutile e dioctiladipato, composizione che costituisce
l’esplosivo di tipo militare denominato C4, prodotto negli Stati Uniti (cfr. vol.12,
fasc.2, ff.31 e ss., e accertamento della Polizia Scientifica presso il Ministero
dell’Interno sulla base delle relazioni trasmesse dalla Polizia tedesca, ff.74 e ss.).
Gli elementi acquisiti anche grazie alla collaborazione della Polizia inglese e tedesca
forniscono quindi importantissimi riscontri al racconto di Vincenzo VINCIGUERRA sia
in relazione alle modalità con cui sono avvenuti gli attentati sia in relazione ai loro
autori.
Jay Simon SALBY, le cui impronte sono state trovate dagli uomini dello Special
Branch sulla borsa che conteneva l’ordigno deposto a Londra, altri non è che
379
380
l’americano soprannominato CASTOR, indicato da VINCIGUERRA appunto come
l’autore di tale attentato e uomo di fiducia di GUERIN SERAC nel piano operativo.
Alla figura di Jay Simon SALBY è dedicato un ampio capitolo dell’annotazione del
R.O.S. Carabinieri in data 23.7.1996 sulle attività di guerra psicologica e non
ortodossa compiute in Italia fra il 1969 e il 1974 anche attraverso l’AGINTER PRESS
(cfr. vol.35, ff.76-102).
Rimandando per l’esame dell’intero curriculum della vita di SALBY alla lettura di
tale annotazione, si può ricordare in questa sede che egli, dopo aver “lavorato” a
lungo in Sud-America, in particolare al servizio di esponenti militari guatemaltechi
(ff.81-82), era entrato in Portogallo con un falso documento del Guatemala intestato
a tale Hugh FRANKLIN, di nascita canadese, al fine evidente di nascondere la sua
nazionalità statunitense (f.79 dell’annotazione; è stato acquisita anche copia del
documento di ingresso in Portogallo in data 4.10.1973, vol.12, fasc.3, ff.26-27).
In Portogallo si era legato a GUERIN SERAC, che proprio in quei mesi stava
aiutando l’algerino Mouloud KADUANE nella fondazione del S.O.A. (Soldati
dell’Opposizione Algerina), gruppo terroristico formato da ex-coloni francesi,
provenienti perlopiù dall’O.A.S. (di cui la sigla S.O.A. è l’anagramma), e da algerini,
contrari al Governo del loro Paese, il cui obiettivo era rovesciare il Governo nato
dalla rivoluzione algerina.
Il 4.1.1976, pochi mesi dopo l’attentato di Londra, Jay Simon SALBY veniva
arrestato, a bordo di un ferry, mentre tentava di riguadagnare Marsiglia dopo aver
compiuto un’azione di commando direttamente in territorio algerino collocando un
ordigno nel pieno centro di Algeri contro la sede del quotidiano El Moudjahid (Il
Combattente) (cfr. annotazione R.O.S., f.81).
Con Jay Simon SALBY venivano arrestati Andrè Noel CHERID (fratello di Jean
Pierre CHERID, ex-militante dell’O.A.S. più volte nominato da VINCIGUERRA) e un
altro cittadino algerino, Mohamed MEDJEBER.
Anche grazie alle copie degli atti e degli interrogatori messi gentilmente a
disposizione dalle Autorità algerine, pur in assenza di un trattato di assistenza
giudiziaria, è stato possibile verificare l’andamento dell’istruttoria e del processo (cfr.
nota del R.O.S. in data 11.2.1995 di trasmissione degli atti messi a disposizione
dall’Ambasciata d’Algeria a Roma, vol.12, fasc.8, f.6, e atti allegati; e anche la
raccolta del quotidiano algerino El Moudjahid dal gennaio al marzo 1976, epoca dei
fatti, vol.12, fasc.9).
Durante l’istruttoria, i tre avevano confessato di aver commesso una serie di attentati
a firma S.O.A., ingaggiati da un ex-ufficiale dell’Esercito Francese di nome Jean
LAURENT (in cui è facilmente identificabile uno degli uomini di fiducia di GUERIN
SERAC) e SALBY, in particolare, ammetteva di essere stato anche l’autore
dell’attentato all’Ambasciata d’Algeria a Londra (si vedano i verbali di interrogatorio
esposti nell’annotazione del R.O.S., ff.85 e ss.) che era fallito per un banale
inconveniente.
380
Jay Simon SALBY e Mohamed MEDJEBER confessavano inoltre , sempre dinanzi
alle Autorità algerine, di aver preso parte nel 1975, sotto la diretta guida di GUERIN
SERAC, a diverse operazioni contro i militanti baschi, anche con esiti sanguinosi e
anche in territorio francese, dove numerosi esponenti dell’E.T.A. o di gruppi affini si
erano rifugiati (cfr. annotazione del R.O.S., ff.97-99).
Il processo celebrato dalla Corte di Sicurezza di Algeri si concludeva con la
condanna a morte dei tre imputati, ma solo l’algerino MEDJEBER veniva fucilato in
quanto, probabilmente grazie a pressioni dei rispettivi Governi occidentali, la
condanna a morte di SALBY e di CHERID veniva commutata in una pena detentiva e
dopo alcuni anni i due venivano graziati ed espulsi dal Paese.
Di eccezionale importanza è poi l’esito degli accertamenti svolti, inizialmente dalla
Polizia tedesca e poi, su disposizione di questo Ufficio, dal Servizio di Polizia
Scientifica presso il Ministero dell’Interno, sull’esplosivo utilizzato per l’attentato di
Bonn del 18.8.1975, in quanto tale esplosivo è risultato essere il potentissimo
“C4” di produzione militare.
Si tratta infatti di un esplosivo prodotto negli Stati Uniti e di specifica
pertinenza delle Forze Armate statunitensi e della N.A.T.O. cosicchè, appreso
l’esito degli accertamenti, Vincenzo VINCIGUERRA ha esattamente rilevato che
“per la prima volta si ha la prova dell’intervento, in una campagna si
sabotaggio di carattere politico, delle strutture segrete dell’Alleanza Atlantica”
(int. VINCIGUERRA a questo Ufficio, 19.10.1992).
La presenza dell’esplosivo “C4” conferma certamente l’interpretazione secondo cui la
struttura di GUERIN SERAC era una sorta di sub-agenzia collegata ai servizi segreti
occidentali e da questi utilizzata per operazioni all’estero “coperte” in cui, per ragioni
di prudenza e per non compromettere i rapporti con Stati Sovrani, non potevano
agire organismi ufficiali.
Jean Denis, indicato da VINCIGUERRA come l’organizzatore dell’operazione
nelle Azzorre grazie a contatti personali che aveva nell’Arcipelago, è stato
individuato, in base alla documentazione acquisita, in Jean Denis RINGEARD DE
LA BLETIERE, già coinvolto nell’attività dell’O.A.S. e in azioni “coperte” in Katanga e
in Nicaragua (cfr. vol.36, fasc.1, f.111, dove, fra gli atti originari provenienti da
Lisbona, è riportato anche lo schema di addestramento dei militanti dell’AGINTER
PRESS, ff.44-45, compresi l’uso degli esplosivi e le tecniche di infiltrazione).
Sempre nella documentazione proveniente da Lisbona è contenuta anche una lettera
indirizzata a JEAN e portante la data 15.9.1975 in cui compare lo stemma del Fronte
di Liberazione delle Azzorre - Governo Provvisorio Clandestino (vol.36, fasc.1,
f.109).
La storia di tale sedicente Movimento di Liberazione, in realtà gruppo secessionista
al servizio degli interessi statunitensi, è raccontata nel volume “L’ORCHESTRE
381
382
NOIR” di Frederic LAURENT, edito in Francia nel 1978 sulla base di documenti di
prima mano.
Sia nel 1967 sia nel 1973, la base americana di Lages, nelle Azzorre, era servita da
ponte per gli aerei americani che avevano rifornito di armi lo Stato ebraico durante i
due conflitti arabo-israeliani.
Il Portogallo, che amministrava le Azzorre, era infatti l’unico membro della
N.A.T.O. che autorizzava gli Stati Uniti a utilizzare il proprio territorio per
operazioni non concernenti in modo diretto la difesa dell’Alleanza Atlantica.
Tale situazione di favore rischiava di cessare con la Rivoluzione dei Garofani della
primavera del 1974, in quanto il nuovo Governo, orientato a sinistra, sembrava
deciso a non rinnovare a clausola segreta di utilizzo di tale base, utile anche
per interventi in territorio africano.
Era così comparso il Fronte Nazionale di Liberazione delle Azzorre che
rivendicava, facendo leva su un sentimento autonomista autentico, l’indipendenza
dell’Arcipelago dal Portogallo al fine, comunque, di servire gli interessi americani e di
ottenere il rinnovo del contratto di utilizzo della base.
Uomo chiave per la costituzione del Fronte di Liberazione era stato Jean Paul
BLETIERE, residente nelle Azzorre e cugino del luogotenente di GUERIN SERAC,
Jean Denis RINGEARD DE LA BLETIERE.
Grazie al suo impegno erano stati stretti rapporti fra militari di stanza nelle Azzorre e
rappresentanti dell’amministrazione americana da cui erano giunte armi e anche
finanziamenti.
Erano stati quindi compiuti alcuni attentati, soprattutto contro sedi di sinistra, e
inscenate manifestazioni violente e si era costituito il “Governo Provvisorio
Clandestino delle Azzorre” con il compito di separare l’Arcipelago dalla Madrepatria.
In una lettera fra i due uomini dell’AGINTER PRESS, Jean Denis spiegava al cugino
Jean Paul che in caso di secessione si poteva contare sulla possibilità di un rapido
riconoscimento dello Stato azzorreno da parte di molti Stati sud-americani, del SudAfrica e della Spagna e, nel giro di qualche settimana, stante la necessaria
prudenza, anche degli Stati Uniti.
Il Fronte di Liberazione delle Azzorre aveva comunque un’esistenza effimera in
quanto nel novembre 1975, con l’ascesa al potere in Portogallo di un Governo
moderato e filo-atlantico, venivano meno le ragioni della sua esistenza e il Fronte si
scioglieva, rimanendo in piedi solo un gruppo di contatto con affaristi americani al
fine di facilitare l’insediamento nell’Arcipelago di Casinò e di banche americane.
Il racconto di Vincenzo VINCIGUERRA in merito all’attività di Jean Denis nel gruppo
di Madrid trova quindi, anche in questo caso, precisi riscontri nel contesto storico e
negli avvenimenti di quegli anni, finalizzati alla difesa, ovunque possibile, degli
interessi strategici dell’Alleanza Atlantica.
382
Per concludere in merito ai riscontri relativi alle azioni condotte all’estero dagli uomini
di GUERIN SERAC, si ricordi che Vincenzo VINCIGUERRA ha parlato di
un’operazione condotta a partire dal Guatemala nella primavera del 1974 dallo
stesso GUERIN SERAC, da SALBY e da alcuni cittadini italiani finalizzata a liquidare
una base guerrigliera, ubicata nel territorio del vicino Costarica, per conto dell’ “uomo
forte” del Guatemala, Mario SANDOVAL (int. VINCIGUERRA, 7.5.1992, ff.2-3, e, a
conferma, dep. CONCUTELLI, 28.5.1993, f.2).
Pur non essendo possibili riscontri diretti in merito a tale operazione “coperta”,
perdipiù avvenuta in un altro Continente, va sottolineato che il Guatemala è stato la
Nazione centrale per la vita e l’attività di SALBY il quale ha “lavorato” per molti anni
in tale Paese per il colonnello ARANA OSORIO, Comandante militare nella lotta
contro i guerriglieri di sinistra e in seguito Presidente del Guatemala sino al 1974,
attività a seguito della quale SALBY ha avuto certamente la disponibilità del falso
documento del Guatemala utilizzato al momento del suo ingresso in Portogallo (cfr.
annotazione del R.O.S. in data 23.7.1996, ff.81-83).
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384
62
LE DICHIARAZIONI DI
CARLO DIGILIO E MARTINO SICILIANO
RELATIVE ALL’AGINTER PRESS E AL GRUPPO DI MADRID
Carlo DIGILIO ha riferito due importanti episodi, avvenuti entrambi in Spagna nel
periodo della sua permanenza presso l’ing. POMAR, che si ricollegano all’attività in
favore dell’Esercito di Liberazione Portoghese, organizzazione che, mediante azioni
terroristiche ed attività di infiltrazione e di guerra psicologica, doveva, secondo gli
intendimenti di GUERIN SERAC, contribuire alla caduta del Governo di sinistra
insediatosi in Portogallo dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974.
Il primo episodio attiene ad un lotto di armi che doveva pervenire all’E.L.P. dopo
essere stato visionato dall’ing. POMAR:
“””Fu lo stesso ingegnere POMAR a dirmi, a Madrid, che quel lotto di armi
stava per essere consegnato dagli americani a lui affinchè lo visionasse e ne
curasse la spedizione agli elementi dell'E.L.P.
Io tuttavia, non essendomi recato a Madrid per tale incombente, preferii non
accettare l'invito dell'ing. POMAR a trattenermi ancora alcuni giorni e a
partecipare all'operazione così come egli mi aveva chiesto.
Inventai, come scusa, una malattia improvvisa di mia madre.
Quando tornai in Italia, SOFFIATI mi confermò che effettivamente quella
fornitura di armi per i portoghesi proveniva dagli americani, ma che avevo
fatto bene a non occuparmene non essendo un mio compito.
Ritengo che POMAR a Madrid sia stato utilizzato come tramite per il grande
prestigio di cui godeva anche come tecnico.
A Madrid io illustrai all'ing. POMAR anche il disegno del prototipo di
silenziatore della fabbrica cecoslovacca CZ che Marcello SOFFIATI si era
procurato tramite gli ustascia e parlai con l'ingegnere anche delle modalità di
tempera degli acciai, sulla base di procedure sempre della CZ, con particolare
riferimento alle parti che potevano essere utili per il progetto della mitraglietta.
Mi era stato infatti raccomandato da SOFFIATI di portare all'ing. POMAR
ogni utile dato tecnico al fine di accreditarmi subito dinanzi a lui”””.
(DIGILIO, int. 26.3.1997).
Tale episodio conferma fra l’altro che la struttura di GUERIN SERAC e l’E.L.P. erano
appoggiate attivamente dagli americani che, per ragioni di decoro internazionale, non
potevano apparire in prima persona in tali operazioni “coperte”.
384
Il secondo episodio attiene a trasmissioni clandestine a sostegno dell’E.L.P. e
contro il Governo portoghese, dirette in Portogallo da piccole unità mobili operanti
in prossimità del confine fra Spagna e Portogallo:
“””....ricordo che durante il mio primo viaggio in Spagna, ebbi notizie
dall'ingegner POMAR che questi si occupava di un'attività di disturbo via radio
dalla Spagna delle trasmissioni portoghesi e di lancio in quel Paese di
comunicati degli oppositori portoghesi al governo di sinistra. Per fare ciò
sfruttava le sue ottime capacità tecniche, che aveva nel campo elettronico,
capacità che gli consentivano sul piano pratico anche ogni genere di lavori di
riparazioni di radio e televisori.
Per tali trasmissioni egli aveva libero accesso alle strutture della radio
spagnola a Madrid e le stesse autorità spagnole avevano in qualche modo
messo a disposizione dei camion, con relativo personale, che servivano in
forma mobile per trasmettere queste comunicazioni e messaggi.
Ho visto questi camion, che erano dipinti di verde e che avevano una specie di
torretta circolare sul tetto del guidatore.
Io stesso assistetti a parte di queste attività in quanto mi recai da Madrid una
mattina in direzione del confine portoghese, invitato da Giancarlo ROGNONI.
Avevamo due vetture, su una delle quali c'eravamo ROGNONI, sua moglie
Anna ed io e sull'altra l'ingegner POMAR e la sua segretaria Maria.
Arrivammo in prossimità del confine portoghese, ricordo che era una mattina
fredda e nebbiosa, molto a sud, utilizzando la strada che prosegue, poi, fino a
Gibilterra.
Era quasi certamente la zona di Huelva. Raggiungemmo un punto proprio
prossimo al confine portoghese, dove ci aspettava Sanchez COVISA e quel
portoghese di cui ho già parlato in uno dei precedenti interrogatori e che era
quello interessato a quel lotto di armi che dovevano essere visionate, per essere
mandate all'Esercito di Liberazione Portoghese.
Era questo portoghese che si occupava di scegliere e preparare i messaggi e
quel giorno vennero trasmessi utilizzando come lettrice Maria, la segretaria di
POMAR..
Il camion che era lì presente era proprio guidato da un militare spagnolo.
In serata tornammo a Madrid, scortati da una macchina di Sanchez COVISA
con tre o quattro dei suoi uomini.
Anche Leon DEGRELLE, che ho visto una volta a Madrid, appoggiava questa
attività in favore degli oppositori portoghesi e seppi che alla fine egli riuscì ad
ottenere che la radio spagnola dedicasse proprio un'antenna ed una frequenza
ed una intera ora del pomeriggio ai portoghesi per trasmettere direttamente da
Madrid.
Ricordo che ROGNONI utilizzò queste trasmissioni, anche per fare un piccolo
programma sulla situazione dei fuoriusciti italiani.
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386
Io stesso, con l'ingegner POMAR e Sanchez COVISA, mi recai una volta per
tale attività alle sedi delle strutture tecniche della radio spagnola, mi sembra
alla periferia di Madrid. C'erano tante torri di trasmissioni, sorvegliate dai
militari”””.
(DIGILIO, int. 10.9.1996).
Tali attività, formalmente clandestine ma in realtà appoggiate dalle strutture
ufficiali spagnole, sono state ricordate in termini analoghi anche da Vincenzo
VINCIGUERRA (int.2.6.1993, f.1), da Pierluigi CONCUTELLI (dep. 28.5.1993, f.2) e
addirittura confermate dallo stesso Giancarlo ROGNONI (int.6.9.1996, f.4), il
quale tuttavia ha ritenuto di attribuirne la responsabilità al solo DIGILIO nel tentativo,
evidente quanto inutile, di screditare il collaboratore, la cui precisa descrizione
dell’episodio non può certo essere messa in discussione anche tenendo presente
che il breve periodo di permanenza in Spagna non gli avrebbe certo consentito di
seguire autonomamente un’attività del genere.
Martino SICILIANO ha ricordato un interessante episodio collegato ad un
volumetto di propaganda dell’AGINTER PRESS, in favore della “presenza bianca”
in Africa nel periodo della decolonizzazione, che evidenzia il tentativo anche
recente dell’ambiente di Ordine Nuovo di cancellare qualsiasi traccia dei
rapporti con GUERIN SERAC e l’AGINTER PRESS, ritenuti troppo compromettenti
soprattutto in presenza delle attività di indagine condotte da questo e da altri Uffici
sui collegamenti internazionali delle strutture di estrema destra italiane:
“””Paolo MOLIN ci fece avere alcune copie di una pubblicazione, in pratica
un opuscolo, sugli avvenimenti in Congo Belga degli anni '60, di chiara
propaganda colonialista in quanto incentrato sulle atrocità dei guerriglieri e
sull'importanza del colonialismo bianco.
Io avevo conservato una copia di questo opuscolo che era rimasta nella casa
dei miei genitori e di mio fratello quando partii per la Francia e non avevo,
ovviamente, la possibilità di traslocare la mia biblioteca.
Come già ho accennato, con ogni probabilità questo opuscolo era stato
pubblicato dall'AGINTER PRESS.
Nel corso del 1993 avevo già informato Bobo LAGNA del fatto che sapevo di
essere indiziato ed egli, su mia richiesta, mi aveva assicurato di avere fatto
verificare a Milano, tramite l'avv. Pecorella, se vi fossero registrazioni a mio
carico e per il momento la ricerca era stata negativa.
Bobo Lagna mi disse che aveva informato "il giapponese", cioè Delfo ZORZI, di
quanto io gli avevo riferito e Zorzi aveva già garantito che in caso di pericolo
mi avrebbe pagato le spese legali.
In seguito mio fratello CARLO mi disse che Bobo LAGNA, poche settimane
prima di morire, era andato a casa sua e gli aveva specificamente chiesto in
prestito proprio quell'opuscolo, che evidentemente egli o qualcun altro del
gruppo ricordava che facesse ancora parte della mia biblioteca.
Mio fratello gli diede l'opuscolo e non lo rivide più.
386
Poichè tale episodio è avvenuto dopo che io avevo già informato LAGNA, e
quindi ZORZI, dello sviluppo degli avvenimenti, ho la netta sensazione che
fosse una richiesta "guidata", finalizzata a recuperare, e quindi a far
scomparire, un piccolo elemento di riscontro.
E' del resto assai curioso che Lagna si preoccupasse di chiedere una
pubblicazione sul Congo Belga, vicenda assolutamente non di attualità e di cui
non si parla più da circa 30 anni.
Aggiungo che la richiesta di Bobo Lagna a mio fratello fu a colpo sicuro e cioè
egli chiese quell'opuscolo specificamente e senza esitazioni.
Mio fratello mi disse anche che Bobo Lagna, poco tempo prima, gli aveva
confidato di essersi reso conto di essere stato strumentalizzato da Delfo ZORZI
fino alla fine”””.
(SICILIANO, int. 16.3.1996, f.5).
Si ricordi che le vicende dell’ex-Congo Belga erano state effettivamente un campo di
interesse e di intervento per l’AGINTER PRESS in quanto, all’inizio degli anni ‘60,
tale struttura si era impegnata nel reclutamento di mercenari, provenienti in buona
parte dalle fila dell’O.A.S., che dovevano sostenere la secessione della provincia del
Katanga e combattere i primi Governi non colonialisti insediatisi nel Congo Belga e
nei vicini Paesi africani.
Alcuni agenti dell’AGINTER PRESS, fra cui Jean Marie LAURENT, più volte citato
nella documentazione acquisita (cfr. nota del R.O.S. in data 29.11.1994, vol.36,
fasc.2, f.23), erano stati addirittura catturati e imprigionati per diverso tempo a
Brazzaville dopo il fallimento di tali operazioni, condotte certamente con l’appoggio di
servizi di sicurezza europei.
Carlo SICILIANO, fratello di Martino, sentito da personale del R.O.S. in data
4.2.1997, ha confermato la richiesta del volumetto sul Congo Belga da parte di
Bobo LAGNA, volumetto che non era più stato restituito, anche se ha cercato di
minimizzare l’episodio affermando che Bobo LAGNA era più che altro interessato alla
raccolta di materiale propagandistico e quindi la richiesta poteva essere giustificata
da tale interesse (dep. citata, f.1).
In realtà, anche tenendo presente che Carlo SICILIANO è tuttora in contatto, per
ragioni di residenza, con l’ambiente mestrino e quindi le sue dichiarazioni sono
sempre state piuttosto prudenti, appare difficile ipotizzare un interesse così
improvviso da parte di LAGNA per vicende africane che si sono concluse ormai da
moltissimi anni e quindi che è assai probabile che il ritiro e la sparizione del
volumetto si ricolleghino alla volontà da parte degli altri ex-militanti vicini a Delfo
ZORZI di far sparire ogni traccia di rapporti passati ma assai imbarazzanti.
La diffusione dell’opuscolo nell’ambiente mestrino doveva essere peraltro la
prosecuzione dell’attività di reclutamento di mercenari da inviare in Congo Belga
operata dalla struttura di GUERIN SERAC negli anni precedenti, di cui Martino
SICILIANO aveva avuto notizia pur non essendovi stato coinvolto in prima persona:
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388
“””Nel 1963/1964 frequentavano l'ambiente di destra di Mestre due persone
che gravitavano nel M.S.I. e si chiamavano GIANFALDONE e VITALI; non ne
ricordo, almeno per il momento, il nome di battesimo.
Nel periodo immediatamente precedente erano già stati mercenari in Congo nel
quadro della resistenza da parte degli europei al processo di decolonizzazione.
GIANFALDONE era alto, smilzo, con i capelli neri e affermava di essere un
cronista del Secolo d'Italia e viveva in realtà solo di espedienti. Ho saputo negli
anni '80 che è deceduto a Bruxelles per un attacco cardiaco.
VITALI era alto e biondo, robusto, si era candidato per l'M.S.I. alle elezioni
amministrative, ma in realtà viveva anch'egli di espedienti sia frequentando
donne facoltose sia risiedendo negli alberghi di lusso senza pagare il conto.
Frequentavano l'ambiente di Piazza Ferretto a Mestre.
Mi dissero che erano stati ricontattati per una nuova operazione in Africa nella
stessa zona e cioè per sostenere la secessione del Katanga che era una parte
dell'ex Congo belga particolarmente ricca di miniere di diamanti.
Mi dissero che sia la precedente che la nuova operazione in Africa erano
coordinate da GUERIN SERAC che li aveva reclutati.
Era la prima volta che sentivo questo nome.
Mi dissero che era una figura quasi mitica che si spostava in vari Paesi fra
l'Europa e l'Africa per difendere gli interessi dell'occidente e che in
particolare aveva basi sia in Portogallo sia in Belgio.
Infatti il centro di coordinamento cui dovevano fare riferimento per questa
nuova operazione era in Belgio a Bruxelles, mentre l'imbarco per l'Africa
sarebbe avvenuto a Marsiglia.
Entrambi effettivamente partirono, ritornando a Mestre 9 o 10 mesi dopo,
mostrando di essersi anche arricchiti, anche se dissero che la missione, dal
punto di vista militare, era andata male”””.
(SICILIANO, int. 20.5.1996).
E’ quindi certo che l’AGINTER PRESS di GUERIN SERAC, sin dall’inizio degli
anni ‘60 ed anche in territorio mestrino, disponesse di contatti finalizzati alla
propaganda e al reclutamento e quindi fosse un punto di riferimento stabile per
Ordine Nuovo e le altre organizzazioni di estrema destra italiane.
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63
LE DICHIARAZIONI DI
PIERLUIGI CONCUTELLI, FRANCESCO ZAFFONI E ALTRI TESTIMONI
RELATIVE AL GRUPPO DI MADRID
Non è stato facile, per ragioni facilmente comprensibili, acquisire altre dichiarazioni di
riscontro in merito al gruppo che alla metà degli anni ‘70 operava a Madrid, formato
da latitanti di varie nazionalità in prevalenza difficilmente rintracciabili e comunque
poco disponibili a parlare delle “operazioni” illecite e sovente sanguinarie di cui erano
stati protagonisti.
Tuttavia, Pierluigi CONCUTELLI, rifugiatosi a Madrid dal 1975 al 1977 in stretto
contatto con Giancarlo ROGNONI e Stefano DELLE CHIAIE e molto probabilmente
utilizzato, in ragione delle sue capacità militari, in azioni contro militanti dell’E.T.A. e
contro altri militanti antifascisti, ha accettato di fornire una sua timida
ricostruzione di tale ambiente e dei suoi rapporti con GUERIN SERAC.
Le sue dichiarazioni, rese in data 28.5.1993, meritano di essere riportate nei loro
passi salienti:
“””...Con SERAC c’erano portoghesi, francesi ex-O.A.S., italiani e anche
persone di origine croata.
Soprattutto, comunque, portoghesi e ricordo che SERAC aveva progettato
l’infiltrazione in territorio portoghese, con provenienza dalla Spagna, di piccoli
nuclei dotati di trasmittenti a corto raggio, ma in grado, nell’ambito di tale
potenzialità, di sovrapporsi alle trasmissioni delle emittenti legali.
Non so se poi il progetto ebbe buon esito.
La netta sensazione che avevo era che SERAC, il quale assumeva ormai di
essere un ex-agente dei servizi francesi diventato autonomo, fosse in realtà in
servizio attivo e beneficiante di ampia copertura e libertà d’azione.
Dava cioè l’impressione di essere un agente importante, impressione che una
serie di avvenimenti successivi hanno ampiamente confermato.
Ho conosciuto CASTOR, che a SERAC certamente faceva riferimento; era un
cittadino americano che parlava talvolta come sua ex residenza dello Stato
dello UTAH, ricordando in tale Stato la presenza dei mormoni.
Penso di poter affermare che CASTOR fosse il referente della C.I.A. a
Madrid.
CASTOR fu arrestato in Algeria insieme ad un francese di questo gruppo e in
seguito GUERIN SERAC e il fratello del francese catturato in Algeria mi
proposero un’operazione di sequestro aereo consistente nel dirottamento di un
aeromobile algerino sulla tratta Bruxelles/Nord-Africa.
Avevo buoni motivi per rifiutare la proposta e lo feci: non volevo affrontare, per
motivi che non condividevo, un rischio molto alto cui non ero obbligato in
nessun modo.
389
390
Il progetto di sequestro dell’aereo era finalizzato, ovviamente, a chiedere il
rilascio di CASTOR e del francese.
Ho conosciuto JEAN DENIS, che era un cittadino francese che ho visto sia a
Madrid che in Francia.
La prima volta lo conobbi perchè mi fu presentato da DELLE CHIAIE, poi
approfondii la conoscenza per mio conto e lo incontrai in diverse occasioni...
Il DENIS era interessato ad un progetto che riguardava la presa del potere
nelle Azzorre, costituendo un movimento apparentemente anti-imperialista,
ma comunque fittizio e finalizzato soprattutto agli interessi americani.
Questo DENIS conosceva GUERIN SERAC, ma l’impressione era che avessero
due gruppi autonomi e che DENIS fosse più strettamente all’interno del
controllo dei servizi di sicurezza.
A domanda dell’Ufficio, ho avuto notizia di un intervento dello stesso tipo in
Costarica e in Guatemala, nel 1974, anche con la presenza di italiani.
Doveva essere ripetuto nel 1976, ma il secondo episodio non si verificò.
Per quanto ho potuto constatare, GUERIN SERAC e DELLE CHIAIE
trattavano fra loro alla pari.
Io, a un certo punto, al mio ritorno dall’Angola, ruppi questa situazione e tornai
in Italia in quanto avvertivo netto il pericolo di compromissione con apparati
dei servizi segreti.
Sostanzialmente questo ambiente costituiva una struttura di servizio formata da
individui provenienti da vari ambienti e situazioni aventi fra loro come fattore
di coesione la mancanza di mezzi e la necessità di dipendere da chi volesse
organizzarli e mantenerli.
Posso aggiungere che GUERIN SERAC aveva vari soprannomi, fra cui quello
di JUSTO, e che in sostanza appariva l’uomo capace di entrare e uscire dalle
situazioni il che faceva supporre che fosse tutt’altro che l’avventuriero
velleitario che voleva apparire, ma piuttosto un uomo legato strettamente al
mondo dei Servizi.
Era indubbiamente un influenzatore di uomini e un manipolatore di situazioni.
Dopo venti anni, la definizione che mi sembra più attagliante al personaggio è
“agente provocatore in missione””””.
(CONCUTELLI, dep. 28.5.1993).
Gli spunti forniti da Pierluigi CONCUTELLI, che pur ha evitato accuratamente di far
riferimento ad episodi concreti che lo avevano certamente visto come protagonista,
sono in piena corrispondenza con quanto delineato da Vincenzo VINCIGUERRA in
merito al ruolo di GUERIN SERAC e Jay Simon SALBY, uomini di fiducia per
operazioni “sporche” dei servizi di sicurezza americani e in talune occasioni,
probabilmente, anche dei servizi di sicurezza francesi.
Anche Francesco ZAFFONI, un militante minore del gruppo “La Fenice” di cui si è
ampiamente parlato nel capitolo 10, a lungo latitante in Spagna per sfuggire ad una
390
condanna inflittagli dall’A.G. di Milano, seppur non inserito come Pierluigi
CONCUTELLI in ambiti operativi, era entrato in contatto con l’ “americano” e cioè con
Jay Simon SALBY, detto CASTOR.
Egli ha infatti dichiarato che l’americano soprannominato CASTOR, prima di essere
arrestato in Algeria insieme a Noel CHERID, era utilizzato in operazioni contro i
militanti dell’E.T.A. insieme ad un italiano soprannominato CARLO, all’epoca nome di
battaglia di Mario RICCI (dep. a personale del R.O.S., 14.3.1996, f.3).
CASTOR, prima di entrare a far parte, a Madrid, del gruppo dell’AGINTER PRESS,
aveva partecipato al tentativo di sbarco a Cuba finalizzato al rovesciamento del
Governo di FIDEL CASTRO e cioè l’operazione della Baia dei Porci, fallita
senza raggiungere il suo obiettivo (dep. citata, f.3).
Anche tale circostanza, già ricordata da Vincenzo VINCIGUERRA, è sintomatica di
come fossero stretti, seppur non ufficiali, i rapporti fra la struttura di GUERIN
SERAC e gli ambienti americani interessati ad operazioni “coperte”.
Infine, anche Salvatore FRANCIA, altro ordinovista rifugiatosi per molti anni a
Madrid, pur nel contesto di una deposizione assai cauta, ha ricordato che
l’americano soprannominato CASTOR era molto legato a Stefano DELLE CHIAIE e
che quest’ultimo si era molto attivato quando, nel 1976, l’americano era stato
arrestato in Algeria dopo una fallita operazione di “commando” che doveva
concludersi con un attentato nella capitale di quel Paese (dep. FRANCIA,
26.11.1993, f.3).
CASTOR disponeva a Madrid anche di un ufficio, collegato alla società ENIESA
facente capo a Stefano DELLE CHIAIE, ufficio che apparentemente
commercializzava attrezzi per macchine da lavoro, ma che, secondo Salvatore
FRANCIA, dava la “sensazione” che si trattasse di un ufficio di copertura (dep. citata,
f.2).
In tema di contatti all’estero fra elementi dell’AGINTER PRESS ed elementi italiani in
un contesto golpista, va infine ricordato quanto dichiarato da Roberto CAVALLARO.
Questi, nell’ambito dell’istruttoria c.d. Rosa dei Venti, aveva raccontato al G.I. di
Padova di essere stato contattato, nel 1972, proprio all’inizio della sua attività, da un
ufficiale italiano con il nome in codice “GIORGIO” appartenente all’ambiente del
colonnello SPIAZZI, il quale gli aveva spiegato il programma del gruppo e aveva
cercato di saggiare la sua disponibilità a impegnarsi nel progetto golpista con un
ruolo specifico.
A tal fine, GIORGIO aveva invitato Roberto CAVALLARO a partecipare ad un campo
di addestramento e di studio delle tecniche della guerra non ortodossa che si era
tenuto in Francia, in una zona isolata dei Monti Vosgi, con la presenza di francesi,
tedeschi e portoghesi (dep. a personale del R.O.S., 28.6.1995, f.4, e al G.I. dr.
Lombardi, 14.7.1992, f.1).
391
392
Roberto CAVALLARO ha precisato che i portoghesi presenti al campo
facevano parte dell’AGINTER PRESS, confermandosi così il ruolo di
addestramento e di ispirazione di quanto doveva avvenire nei singoli Paesi
ricoperto da tale struttura (cfr. annotazione del R.O.S. in data 11.7.1995, f.2,
contenuta nel vol.2).
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64
I FATTI DI MONTEJURRA, IN NAVARRA, DEL 9 MAGGIO 1976
LA PRESENZA ARMATA
DI STEFANO DELLE CHIAIE E DEI SUOI UOMINI
ALLA SPARATORIA CONTRO I MILITANTI DEMOCRATICI
LA CATTURA DI AUGUSTO CAUCHI
IN ARGENTINA
Una delle azioni più tragiche cui hanno partecipato, in Spagna, Stefano DELLE
CHIAIE ed i suoi uomini è stata, infine, la presenza dell'intero gruppo degli italiani,
armati ed inquadrati militarmente, alla manifestazione carlista del 9.5.1976 a
Montejurra.
Tale presenza è documentata in modo inequivocabile dalle fotografie scattate
nell'occasione anche da fotografi dilettanti e pubblicate da molti giornali spagnoli ed è
confermata dall'ampia testimonianza in merito a tale giornata resa da Gaetano
ORLANDO.
Montejurra, in Navarra, è il colle sacro per il movimento carlista e cioè i sostenitori
degli eredi di Don Carlos, antico pretendente al trono di Spagna escluso dal regno,
dopo le guerre napoleoniche, in favore dell'altro ramo della famiglia dei Borbone.
I seguaci del movimento carlista, presente soprattutto in Navarra ed attestato
originariamente su posizioni retrive e conservatrici, avevano combattuto, durante la
guerra civile spagnola del 1936/1939, a fianco del generale Francisco FRANCO e
della sua sollevazione contro la Repubblica democratica.
In seguito, a partire dalla fine degli anni '60, sotto la guida di Carlos HUGO, erede al
trono carlista, il movimento si era progressivamente spostato su posizioni
democratiche socialiste, alleandosi con le altre forze di opposizione al regime e
diventando in Navarra un punto di riferimento nella lotta contro il franchismo.
Per tale ragione Carlos HUGO e la sua famiglia erano stati esiliati dalla Spagna.
Il fratello minore di Carlos HUGO, l'ex legionario don SIXTO, aveva però coagulato
intorno a sè un'ala minoritaria di carlisti, cercando di opporsi a tale evoluzione in
senso democratico, alleandosi con l'estrema destra e tacciando i seguaci del fratello
di tradimento della causa carlista.
Gli avvenimenti del 9.5.1976, pochi mesi dopo la morte di FRANCO e quando era
perciò iniziato il ritorno della Spagna alla democrazia, erano stati una sorta di colpo
di coda dell'estrema destra radunata per l'occasione intorno a don SIXTO, buon
amico di GUERIN SERAC, di Stefano Delle Chiaie e degli altri latitanti italiani.
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394
Come ogni anno, quella mattina migliaia di militanti del Partito Carlista e di altre forze
democratiche, presente anche Carlos HUGO rientrato clandestinamente in Spagna,
si erano radunati ai piedi del colle ed avevano iniziato l'ascesa verso la vetta, coperta
quel giorno da una fitta nebbia, ove si trova una cappella sacra per il movimento
carlista.
Sulla cima del colle si erano tuttavia attestati don SIXTO ed un centinaio di seguaci
non solo spagnoli (fra cui molti cattolici tradizionalisti del gruppo Guerriglieri di Cristo
Re), ma anche argentini, portoghesi, francesi e soprattutto italiani, inquadrati
militarmente ed armati di bastoni e pistole.
Il gruppo aveva improvvisamente sbarrato la strada ai manifestanti che
stavano salendo e, dopo un breve scambio di invettive, i seguaci di don SIXTO
avevano aperto il fuoco uccidendo due giovani democratici e ferendone
numerosi altri.
L'episodio, che si collocava nel delicato momento della transizione della Spagna
dalla dittatura alla democrazia, aveva suscitato grande clamore nel Paese anche
perchè la GUARDIA CIVIL, presente in forze, non era minimamente intervenuta per
difendere gli aggrediti ed anche in seguito le indagini erano state condotte con poca
convinzione e si erano concluse con lievi condanne nei confronti di pochissime
persone, nonostante l'ampiezza della documentazione fotografica che avrebbe
potuto consentire di individuare e perseguire un numero elevato di aggressori.
Centrale, sin dai primi giorni, era apparso comunque il ruolo degli italiani giunti
in forze da Madrid ed infatti in alcune fotografie scattate al momento
dell'aggressione e pubblicate in parte anche da settimanali italiani, erano ben
visibili, inquadrati nel gruppo paramilitare, Stefano DELLE CHIAIE e Augusto
CAUCHI, quest'ultimo con occhiali neri ed il volto semicoperto da un fazzoletto.
Nè Stefano DELLE CHIAIE nè alcun altro italiano erano stati tuttavia mai perseguiti
in Spagna per tale episodio e qualche mese dopo tutto il gruppo aveva iniziato a
trasferirsi in Cile per mettersi al servizio del regime del generale Pinochet e della sua
Polizia speciale, la DINA, con la quale Stefano DELLE CHIAIE aveva già collaborato
fornendo a Roma, nell'ottobre 1975, l'appoggio logistico per il tentativo di omicidio del
senatore democristiano cileno Bernardo LEIGHTON e di sua moglie (int.
VINCIGUERRA al P.M. di Roma, 9.9.1992).
A distanza di molti anni è stato possibile ricostruire il ruolo ricoperto quel giorno dagli
italiani che provenivano da Madrid grazie non solo alle fotografie, ma anche alla
testimonianza di Gaetano ORLANDO il quale, pur rimanendo nei pressi
dell'albergo situato ai piedi del colle, aveva potuto osservare le fasi preparatorie
dell'azione e aveva raccolto numerose notizie sulla dinamica degli avvenimenti,
nell’immediatezza dei fatti, dagli stessi italiani che, dopo l'interrogatorio cui lo aveva
sottoposto Stefano DELLE CHIAIE, lo avevano parzialmente accettato nel loro
ambiente.
Dal racconto di Gaetano ORLANDO emerge in modo grave, ma nello stesso
tempo prevedibile, la collusione fra gli uomini di Stefano DELLE CHIAIE e la
394
Polizia spagnola che in tale occasione aveva direttamente fornito le armi agli
italiani e poi protetto gli aggressori.
Sui fatti di Montejurra, i passi salienti della deposizione di Gaetano ORLANDO - il
quale era giunto da Madrid con la sua autovettura e accompagnato dal maggiore DE
ROSA - meritano di essere riportati integralmente:
“””Per quanto concerne il mio periodo in Spagna, ribadisco che l'unica
vicenda cui in parte assistetti di persona fu quella di Montejurra, come ho già
accennato al G.I. di Bologna.
La località è a circa 100 chilometri da Madrid, ma io, mentre i fatti accadevano
sulla montagna, rimasi all'Hotel Montejurra insieme al maggiore De Rosa, che
era latitante per i fatti del golpe Borghese.
Lui voleva andare a vedere, ma io riuscii a trattenerlo.
Comunque vidi partire le jeep con le armi e il gruppo degli italiani.
Le jeep e le armi erano state consegnate direttamente dalla Guardia Civil.
C'erano almeno dieci o quindici italiani e fra essi, come è noto, Cauchi,
Cicuttini e alcuni calabresi, veneti e toscani.
Come è noto, c'era anche Stefano Delle Chiaie che fu battezzato generale sul
campo da Sixto V di Borbone con la consegna del "bastone" da generale”””.
(ORLANDO, dep. a questo Ufficio, 17.1.1992, f. 3).
“””Posso aggiungere che quel giorno, fra gli italiani, era presente un Mario,
calabrese, di cui non conosco il cognome ma comunque ricordo che era sposato
ad una certa Rosa, italiana, e si diceva che facesse parte del gruppo di fuoco;
questo mi consta personalmente anche se non l'ho visto sparare personalmente;
fu uno di quelli a cui vidi personalmente consegnare le armi dalla Guardia
Civil.
C'era poi Mario RICCI il quale in Spagna era chiamato Carlo e posso
aggiungere che questo Mario Ricci, alias Carlo, lo incontrai per caso, in
seguito, ad Assuncion in Paraguay.
C'era un ufficiale delle forze speciali italiane, cioè un militare, che aveva
coordinato l'intera operazione di Montejurra con tanto di cartine e di
indicazioni in quanto quel giorno dovevano essere operativi proprio gli
italiani, mentre per gli spagnoli era semplicemente una sfilata.
Questo Ufficiale è tuttora vivente, per quanto mi consta.
All'epoca era un Ufficiale della Folgore e coordinò, lo ribadisco, l'intera
operazione sotto il profilo militare; non so dire se si tratti di persona implicata
in processi qui in Italia.
Non mi sento di rivelare l'identità di questo Ufficiale”””.
(ORLANDO, dep. a questo Ufficio e al G.I. di Brescia, 5.6.1992, f.3 e retro).
In data 19.10.1992 Gaetano ORLANDO ha aggiunto altri particolari:
395
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“””Posso precisare meglio quanto sulla vicenda ebbi già a dichiarare.
La consegna delle armi e delle jeep - che erano due - da parte della Guardia
Civil al gruppo operativo, formato soprattutto da italiani, avvenne dinanzi
all'albergo in cui io e il maggiore De Rosa alloggiavamo ed io, dal mio punto di
osservazione nella zona dell'albergo, vidi questo passaggio delle consegne
direttamente.
Preciso che l'albergo si trova a circa sei o sette chilometri dalla cima della
collina.
Una serie di fotografie assai più indicative anche di quelle che l'Ufficio mi
mostra furono scattate da un reporter della rivista spagnola DIARIO 16 e
subito dopo pubblicate.
Io ebbi modo di vedere, e si vede in queste fotografie, la scena della consegna
degli automezzi dalla Guardia Civil agli italiani.
In una delle fotografie si vede parcheggiata davanti all'albergo la mia
macchina targata SO 20740 di marca Citroen.
Da queste fotografie è possibile riconoscere molti italiani, essendo assai più
chiare di quelle che l'Ufficio mi ha mostrato.
Posso sin d'ora dire che vi è, o potrebbe esserci, l'ufficiale della Folgore di cui
ho parlato.
Un altro italiano che c'era a Montejurra e di cui non avevo mai parlato sin ora
è Piero Carmassi.
Nelle fotografie che l'Ufficio mi ha mostrato di italiani riconosco bene solo
Augusto Cauchi che in una fotografia, ad esempio, si vede con gli occhiali
scuri a sinistra di una persona non molto giovane con un impermeabile
chiaro”””.
Infine, in data 13.11.1992 dinanzi ai G.I. di Milano e Bologna, Gaetano ORLANDO ha
riconosciuto, in una fotografia pubblicata dalla rivista Panorama in data 2.11.1976, a
fianco di Stefano DELLE CHIAIE ed Augusto CAUCHI, l'altro elemento operativo del
gruppo: Mario il calabrese e cioè Giuseppe CALZONA.
La diretta testimonianza di Gaetano ORLANDO, è stata confermata nelle sue linee
essenziali da Vincenzo VINCIGUERRA il quale non era presente a Montejurra
essendo rientrato in quel periodo in Italia, ma aveva appreso alcuni particolari
dell'operazione da Stefano DELLE CHIAIE e dagli altri, sia in un momento
precedente sia in un momento successivo alla stessa:
“””Mi ero recato in Spagna nuovamente solo per un paio di giorni verso fine
aprile/maggio 1976 e solo per partecipare ad una riunione a Madrid
riguardante fatti interni di A.N. e a cui c'erano altri italiani.
Dopo la riunione Stefano Delle Chiaie mi accennò alla imminente
manifestazione di Montejurra, ma io decisi di non trattenermi in Spagna e
rientrai a Roma.
396
Di conseguenza ho notizie solo indirette e posso dire che c'era Mario Ricci,
come dice Orlando, e che Mario il calabrese non è altri che Giuseppe Calzona
di cui ho parlato e che appunto aveva Mario come nome di copertura.
Dell'episodio posso dire che si svolse con una presenza massiccia di italiani sia
di A.N. che di O.N. e che erano state prese delle misure di carattere militare che
comprendevano, fra l'altro, anche l'eventuale utilizzazione di una mitragliatrice,
ma gli incidenti furono tutto sommato ridotti rispetto a quelli che erano stati
paventati.
Prendo visione della fotografia relativa ai fatti di Montejurra pubblicata da
Panorama del 2.11.1976 a pag. 86 e posso dire che la persona a destra di
Cauchi, in prima fila con il basco, è proprio Calzona”””.
(VINCIGUERRA, int. 16.6.1992 f.1)
In data 12.5.1992, dinanzi al G. I. di Bologna, Vincenzo VINCIGUERRA ha aggiunto
che a Montejurra, oltre alle persone già indicate, era presente anche Carlo
CICUTTINI, responsabile insieme allo stesso VINCIGUERRA dell'attentato di
Peteano e sin dal 1972 latitante in Spagna ed aggregato al gruppo di DELLE CHIAIE
(f.2).
Secondo Vincenzo VINCIGUERRA era stata progettata quindi un'azione anche più
grave, addirittura con l'uso di una mitragliatrice contro i manifestanti che stavano
raggiungendo la vetta del colle.
Anche Salvatore FRANCIA, pur non presente a Montejurra, ha confermato di aver
appreso che avevano partecipato all'azione DELLE CHIAIE, CAUCHI e Mario il
calabrese e che il gruppo di DELLE CHIAIE si era recato tranquillamente da Madrid a
Montejurra con tanto di macchine con targhe italiane, sicuri certamente di non aver
alcun fastidio da parte della Polizia spagnola (dep. FRANCIA, 26.11.1993, f.3).
Infine anche Angelo FACCIA, un ex repubblichino residente sin dagli anni '60 a
Barcellona, che era stato convinto, se non costretto, da Stefano DELLE CHIAIE ad
offrire ospitalità e lavoro presso la sua azienda metalmeccanica a molti fuoriusciti
italiani, ha riconosciuto Giuseppe CALZONA e Carlo CICUTTINI in una fotografia che
li ritrae a Montejurra inquadrati a fianco di Stefano DELLE CHIAIE (cfr. dep.
19.08.1994, f. 2).
Decisiva, in quella giornata, era stata quindi la presenza degli italiani inquadrati
da Stefano DELLE CHIAIE, appoggiati dalla Guardia Civil e fra i quali vi era
l'immancabile presenza di un militare e cioè un Ufficiale della Folgore.
Del resto nelle fotografie acquisite in Spagna tramite la Digos di Milano, sinora mai
apparse in Italia, si nota distintamente, nella fase cruciale dell'aggressione, Augusto
CAUCHI con un fazzoletto sul volto, coprire le spalle ad uno spagnolo, seguace di
don Sixto, vestito con impermeabile chiaro e con il basco.
In tale sequenza di fotografie è ritratto uno dei momenti più drammatici in
quanto lo spagnolo avanza, estrae la pistola e fredda con alcuni colpi un
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398
giovane seguace di Carlos HUGO che si trova pochi passi dinanzi a lui (cfr. vol.
13, fasc. 5, fotografie allegate alla nota della Digos di Milano in data 7.9.1993, ff. 119
e seguenti, in particolare fotografie nr. 9 - 10).
L'azione del 9.5.1976 a Montejurra è quindi assai indicativa del carattere
operativo della struttura armata costituita a Madrid da Stefano DELLE CHIAIE
con gli altri fuoriusciti, struttura di servizio pronta a mettersi a disposizione
delle forze di sicurezza spagnole ancora legate, per molto tempo anche dopo la
morte del generale FRANCO, alle ideologie ed ai metodi del vecchio regime che
faticava a scomparire.
Del resto quella di Montejurra certamente non è l'unica azione in cui gli uomini di
Stefano DELLE CHIAIE e GUERIN SERAC si sono posti al servizio degli apparati
istituzionali spagnoli.
Numerosi testimoni infatti, in questa e nelle precedenti istruttorie, hanno fatto
riferimento ad operazioni "sporche", affidate al gruppo di DELLE CHIAIE ed anche a
Pierluigi CONCUTELLI, consistenti nell'eliminazione di esponenti dell'E.T.A. basca o
in operazioni più sofisticate e "mimetizzate" per le quali era stata messa a frutto
l'esperienza italiana.
Talvolta, ad esempio, veniva eseguito il rapimento e l'uccisione di un ostaggio,
spesso un imprenditore, con modalità tali da far ricadere sull'E.T.A. o altri gruppi di
opposizione l'apparente responsabilità dell'operazione (dep. ORLANDO, 13.11.1992,
f.1 al G.I. di Bologna; int. IZZO, 26.5.1992, f.2; int. CALORE al P.M. di Firenze,
12.1.1984, f.3, e int. 2.1.1985, f.5, vol.10, fasc.1; int. VINCIGUERRA, 30.5.1992, f.2).
In particolare Augusto CAUCHI aveva confidato a Gaetano ORLANDO di aver preso
parte, nel 1975, ad una "vigliaccheria" effettuando con altri, nei Paesi Baschi, il
rapimento di un industriale che era stato poi ucciso e gettato in una scarpata.
Il rapimento era stato eseguito prelevando la vittima con la stessa FIAT blu con la
quale era stato operato il sequestro di Gaetano ORLANDO a Madrid e si trattava di
un'azione appunto "mimetizzata" in quanto, essendo la vittima un imprenditore che
non aveva voluto pagare il "contributo volontario" in favore dei nazionalisti baschi, il
sequestro e l'uccisione dell'ostaggio erano stati attribuiti ad un commando dell'E.T.A.
(dep. ORLANDO, 19.10.1992, f.3).
Purtroppo l'incompletezza dei dati, pur convergenti negli elementi essenziali, forniti
dai testimoni su tali operazioni "coperte" e la scarsa collaborazione prestata dalle
Autorità spagnole nonostante varie richieste di rogatoria avanzate dall'Autorità
Giudiziaria italiana, non hanno mai reso possibile individuare con sicurezza gli
episodi cui hanno partecipato gli italiani fra i molti episodi, simili fra loro, avvenuti in
Spagna nella prima metà degli anni '70.
La posizione di Augusto CAUCHI merita ancora qualche osservazione.
398
Augusto CAUCHI è una figura chiave della strategia della tensione che sintetizza e
testimonia tutte le complicità e le collusioni di cui gruppi eversivi dell'estrema destra
hanno goduto da parte dei servizi segreti e di un settore della massoneria.
Augusto CAUCHI, aderente alla cellula toscana di Ordine Nuovo, è stato condannato
ad una lunga pena detentiva, con sentenza definitiva, per numerosi attentati
commessi in Toscana negli anni '70 ed è raggiunto, anche sulla base di dichiarazioni
pur volutamente criptiche di Vincenzo VINCIGUERRA, da gravi elementi indiziari in
relazione alla sua partecipazione alla strage sul treno Italicus, elementi tuttavia
ancora non sufficienti per sostenere validamente un'accusa in giudizio (cfr.
requisitoria del P.M. di Bologna nell'istruttoria Italicus-bis depositata in data 5.5.1994,
ff.6 e ss.).
Augusto CAUCHI, all'inizio degli anni ‘70, riceveva finanziamenti per il suo
gruppo direttamente da Licio GELLI e quest'ultimo non è stato condannato per il
reato di sovvenzione di banda armata solo perchè, in modo certamente improprio, la
Corte di Cassazione ha degradato il gruppo di cui faceva parte CAUCHI da banda
armata ad associazione sovversiva, reato per cui non è prevista l'autonoma figura
criminosa del "sovvenzionatore" (cfr., requisitoria cit. pagg. 6 - 7).
Nel 1975 Augusto CAUCHI, inseguito da numerosi mandati di cattura emessi
dall'A.G. di Firenze, è riuscito a fuggire all'estero, in un primo momento grazie alla
complicità di un sottufficiale dei Carabinieri di Arezzo e poi, nella seconda fase della
fuga, grazie alle omissioni del Capo del Centro C.S. di Firenze, colonnello Federigo
MANNUCCI BENINCASA, il quale, benchè a conoscenza del luogo ove CAUCHI
poteva essere tratto in arresto a Milano, non si era curato di avvertire la polizia
giudiziaria.
Augusto CAUCHI, giunto a Madrid, nonostante il suo passato ordinovista così come
Vincenzo VINCIGUERRA, si era aggregato al gruppo di Stefano DELLE CHIAIE
partecipando probabilmente a numerose azioni contro militanti dell'E.T.A.
Secondo Gaetano ORLANDO anche dalla Spagna Augusto CAUCHI aveva
mantenuto i suoi rapporti con GELLI ed infatti durante la sua permanenza in
Spagna si era allontanato per alcuni giorni ritornando con una somma di
denaro che gli era stata consegnata da Licio GELLI.
Secondo i fuoriusciti italiani non era questa la prima volta in cui anche dalla Spagna
erano avvenuti simili rifornimenti di denaro per i latitanti (dep. ORLANDO al G.I. di
Bologna, 2.8.1993, f.2, vol.20, fasc.1).
Nel 1977 Augusto CAUCHI, essendo ormai venute meno le protezioni offerte dal
regime franchista e durate ancora qualche tempo dopo la morte di FRANCO, aveva
raggiunto il Cile, così come altri italiani, e si era messo al servizio della DINA, la
polizia speciale del generale PINOCHET (int. VINCIGUERRA, 27.4.1993, f.1).
La latitanza di Augusto CAUCHI è durata ben diciassette anni.
Nella primavera del 1993, grazie ad un colloquio investigativo, effettuato su delega di
quest'Ufficio e del G.I. di Bologna da personale del R.O.S. Carabinieri di Roma, con
399
400
un detenuto dell'area di destra, Augusto CAUCHI è stato localizzato ed arrestato in
Argentina (cfr. vol. 13, fasc. 6).
Tuttavia, nonostante l'impegno dispiegato dai funzionari del Ministero di Grazia e
Giustizia che hanno sollecitamente inviato in Argentina tutta la documentazione
necessaria, la procedura di estradizione non ha avuto alcun esito e Augusto
CAUCHI, forse grazie a protezioni di cui ancora gode, non è stato consegnato alle
Autorità italiane ed è stato invece liberato nella primavera del 1995.
400
65
L’ATTIVITA’ DI INFILTRAZIONE DI ROBERT LEROY
IN GRUPPI FILO-CINESI ITALIANI
ALLA FINE DEGLI ANNI ‘60
Nel corso delle indagini, questo Ufficio ha proceduto presso il S.I.S.Mi.
all’acquisizione del fascicolo del S.I.D. aperto negli anni ‘60 nei confronti di Robert
LEROY, francese di orientamento cattolico tradizionalista il quale, nella seconda
guerra mondiale, si era arruolato nelle WAFFEN SS, era stato condannato da una
Corte francese a 20 anni di lavori forzati per collaborazionismo con i tedeschi e in
seguito graziato; negli anni ‘60 era poi divenuto braccio destro di GUERIN
SERAC nell’AGINTER PRESS e in ORDRE ET TRADITION e come tale era stato
indicato nell’appunto del S.I.D. del 16.12.1969 concernente gli attentati appena
avvenuti.
La figura di Robert LEROY (sulla quale si veda anche VINCIGUERRA, dep. a
personale del R.O.S., 15.2.1995, f.4), benchè deceduto nel 1982, poteva essere di
particolare interesse poichè egli negli anni ‘60, spacciatosi per filo-cinese, per conto
dell’AGINTER PRESS si era infiltrato in movimenti di liberazione africani (in
particolare nel FRE.LI.MO., operante in Mozambico) al fine di creare dissidi interni;
inoltre, avendo frequentato il nostro Paese verso la fine degli anni ‘60 (era, fra l’altro,
stato presente insieme al dr. MAGGI al Convegno di Nuovo Ordine Europeo, ad
Abbiategrasso, nel marzo 1967), era possibile che un’attività di tal genere fosse
avvenuta anche in Italia nel periodo che aveva preceduto la strategia
terroristica.
La ricerca effettuata esaminando il fascicolo intestato a Robert LEROY, già presente
occasionalmente in Italia sin dall’inizio del 1966, dava esito positivo.
Infatti risultava che Robert LEROY aveva fondato nella zona di Marsiglia, ove
all’epoca risiedeva, un sedicente movimento filo-cinese, si era messo in contatto con
l’Ambasciata della Cina a Berna (l’unica esistente nell’Europa Occidentale alla fine
degli anni ‘60) e aveva quindi attivato contatti con l’Italia (cfr. nota del Centro C.S. di
Milano in data 20.3.1967, di fonte BILL, identificato nel cittadino svizzero Gerard
BUILLARD, elemento “filo-cinese” politicamente anch’egli legato all’estrema destra e
divenuto fonte del S.I.D., vol.40, fasc.7, ff.4 e ss.).
Si noti che non è possibile sapere con certezza se l‘accreditamento di LEROY e
BUILLARD da parte dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese sia stato un
infortunio della diplomazia cinese o una scelta deliberata della stessa che, accecata
dal proprio odio per la linea comunista ortodossa e filosovietica, abbia scelto di
rendersi disponibile a qualsiasi tipo di alleanza pur di contrastare il nemico
“revisionista” (sul punto cfr. ampiamente la perizia del dr. Aldo Giannuli, vol.22, ff.169
e ss.).
Comunque sia, Robert LEROY e Gerard BUILLARD avevano partecipato, a
Torino nell’ottobre 1967, ad alcune riunioni di un gruppo filo-cinese,
denominato FRONTE RIVOLUZIONARIO CLANDESTINO, con l’evidente intento
401
402
di favorire lo sviluppo di un gruppo oltranzista disposto a scendere sul terreno
dell’illegalità e a commettere azioni provocatorie dannose per tutta l’area di
sinistra.
Tale notizia discendeva da un appunto del Centro C.S. del S.I.D. di Milano in data
8.11.1967 (cfr. vol.40, fasc.7, ff.18 e ss.), di fonte METO, appunto che, per il suo
carattere dettagliato, comportava che la stessa fonte fosse stata presente alle
riunioni.
Questo Ufficio richiedeva quindi al S.I.S.Mi. l’intera produzione della fonte METO,
produzione trasmessa dalla Direzione del Servizio in data 12.7.1993 (cfr. vol.39,
fasc.2) e molto ampia in quanto METO aveva svolto l’attività di fonte per il S.I.D. nel
campo dell’estrema sinistra (probabilmente in ragione di iniziali pressioni connesse
ad attività illecite svolte nell’ambiente estremista) per oltre un decennio, dal 1966 al
1977.
L’esame della documentazione consentiva facilmente di appurare che METO (il vero
nome è in atti), nella seconda metà degli anni ‘60, era un giovane militante filocinese, passato negli anni ‘70 alla militanza in gruppi della “sinistra rivoluzionaria”
milanese e, in seguito, coinvolto in attività terroristiche di un certo livello che lo
avevano portato a sganciarsi dalla sua attività per il S.I.D., vissuta certamente per
molti anni come una sorta di ricatto.
Nel fascicolo di METO risultava presente una copia dell’appunto dell’8.11.1967
concernente le riunioni di Torino (cfr. vol.39, fasc.4, ff.394 e ss.) nonchè, per quanto
concerne la fine degli anni ‘60, numerosissime altre informative riguardanti i gruppi
filo-cinesi, le Edizioni ORIENTE di Milano, i gruppi universitari animati da Renato
CURCIO, il P.S.I.U.P. e così via.
METO veniva quindi sentito da questo Ufficio in qualità di testimone e faceva
presente di aver appunto frequentato, alla fine degli anni ‘60, vari gruppi filo-cinesi e
le Edizioni ORIENTE di Milano, ricordando di aver incontrato alcune volte, presso la
sede delle Edizioni ORIENTE, Gerard BUILLARD che si era presentato come
esponente di un gruppo filo-cinese svizzero e come ex-partigiano (dep. 15.6.1993,
ff.1-2).
Il comportamento di BUILLARD aveva destato sospetti in tale ambiente in
quanto egli aveva fatto presente con insistenza di poter procurare armi senza
difficoltà dalla Svizzera (dep. citata, f.2).
METO ricordava anche il gruppo “FRONTE RIVOLUZIONARIO”, con sedi a
Torino e ad Aosta, citato nell’appunto e anche di aver avuto vari contatti con
esponenti di tale piccola formazione, pur non potendo ricordare, in ragione del tempo
trascorso e del sovrapporsi in quell’epoca di numerosissime iniziative simili, se alle
riunioni fosse presente lo stesso BUILLARD o un cittadino francese chiamato Robert
LEROY (dep. citata, f.2).
METO ha infine riconosciuto BUILLARD in una fotografia tratta dal fascicolo del
S.I.D. a questi intestato (dep. 30.8.1993, f.1), all’interno del quale è contenuta anche
402
la copia di una lettera indirizzata nel 1967 dallo stesso METO a BUILLARD (cfr.
vol.38, fasc.2, f.8).
Inoltre, nel fascicolo intestato a Gerard BUILLARD quale fonte BILL (cfr. vol.38,
fasc.3) è presente la trascrizione della registrazione di un colloquio avvenuto presso
l’Ambasciata d’Italia a Berna, il 6.3.1967, fra “BILL” e due esponenti del Centro C.S.
di Milano nell’ambito del quale lo svizzero offre i suoi servigi ai funzionari del Servizio
italiano (curiosamente per spiare lo stesso ambiente in cui il S.I.D. dispone già della
fonte METO) e fa tra l’altro presente che Robert LEROY è in contatto con
l’Ambasciata cinese a Berna, dispone di molto denaro e frequenta Roma e Milano
con una certa regolarità (cfr. nota del Centro C.S. di Milano in data 10.3.1967, vol.38,
fasc.3, ff.86-87).
Vi sono quindi elementi sufficienti per affermare che quanto riportato nell’appunto
della fonte METO è esatto e che Robert LEROY, con l’aiuto di Gerard BUILLARD,
stesse operando un’attività di infiltrazione dopo essersi “accreditato” presso
l’Ambasciata cinese a Berna.
La prova che Robert LEROY, alla fine degli anni ‘60, si sia infiltrato in gruppi filocinesi italiani è densa di significati.
Testimonia infatti che gli uomini dell’AGINTER PRESS agivano direttamente nel
nostro Paese, uno dei Paesi più a rischio nel conflitto non dichiarato fra
l’Occidente e il mondo comunista, e che anche in Italia doveva essere
sperimentato quel protocollo di intervento che prevedeva, prima di ogni altra
cosa e prima della difesa preventiva mediante il terrore, l’infiltrazione nel
campo avverso per seminare confusione e creare le condizioni affinchè la
responsabilità degli attentati più gravi fosse attribuita alle forze “sovversive”.
Esattamente la stessa strategia preparatoria che, a partire dall’anno
successivo alle riunioni di Robert LEROY a Torino, sarebbe stata utilizzata da
Mario MERLINO a Roma e da Giovanni VENTURA a Padova, rispettivamente
negli ambienti anarchici e filo-cinesi, per costituire un paravento di sinistra a
quanto si stava progettando.
403
404
66
LA POSIZIONE
DI GUERIN SERAC, STEFANO DELLE CHIAIE E DEGLI ALTRI INDIZIATI
IN RELAZIONE ALLE ATTIVITA’
DELL’AGINTER PRESS E DEL GRUPPO DI MADRID
Con riferimento all’imputazione associativa di cui al capo 8, non sembra esservi
dubbio che il gruppo di Madrid, continuatore dell’AGINTER PRESS e formato in parte
dai medesimi militanti, costituisse una banda armata secondo la fattispecie tipica
richiesta dall’art.306 c.p.
Il gruppo era infatti caratterizzato dalla stabilità del vincolo associativo fra i suoi
componenti (alcuni dei quali in grado di mantenere i contatti politico/strategici in molti
Paesi del Mondo e altri, invece, con compiti spiccatamente operativi), disponeva di
basi e riferimenti logistici (si ricordi il sommozzatore incaricato di consentire il transito
tra la Francia e la Spagna), disponeva di armi ed esplosivi forniti anche, come il “C4”,
da altre “strutture” alleate, era in grado di procurare ai suoi partecipanti documenti
falsi e biglietti aerei anche tramite agenzie come la Transalpino (gestita a Madrid da
Stefano DELLE CHIAIE) ed aveva soprattutto, quale propria finalità, la progettazione
di un numero indefinito di “operazioni” terroristiche e di infiltrazione in aree avverse a
scopo di provocazione.
Ugualmente non vi è dubbio che il reato associativo, così come articolato al capo 8,
di rubrica, sia punibile secondo la legge penale italiana.
Infatti il reato di costituzione e partecipazione a banda armata, di cui all’art.306 c.p., è
un delitto contro la personalità dello Stato e quindi sono punibili secondo la legge
italiana, ai sensi dell’art.7 c.p., anche il cittadino o lo straniero che lo commettono in
territorio estero senza che in tal caso vi sia nemmeno la necessità della richiesta del
Ministero della Giustizia.
Concretamente, inoltre, il gruppo operativo, a partire dalla base di Madrid, era
caratterizzato da un continuo passaggio di latitanti dall’Italia alla Spagna e viceversa
(si pensi agli spostamenti in Italia, pur durante i periodi di latitanza in Spagna, di
VINCIGUERRA e CONCUTELLI e ai viaggi in Spagna degli emissari di Stefano
DELLE CHIAIE come Fausto FABBRUZZI, fermato nel 1975 al valico di Ventimiglia
mentre stava cercando di raggiungere Madrid (cfr. atti relativi al fermo di FABBRUZZI
Fausto e MARI Fabio al valico di Ventimiglia il 27.2.1975, vol.28, fasc.4).
Era quindi finalizzato anche a continuare l’attività di sovversione dell’ordinamento del
nostro Paese con mezzi violenti.
Perdipiù, parte dell’attività operativa si è svolta direttamente in Italia, con riferimento
alla fase preparatoria dell’attentato del 18.8.1975 all’Ambasciata d’Algeria a Bonn e
alla commissione, nella stessa data a Roma, dell’attentato contro l’Ambasciata del
medesimo Paese, cosicchè, ai sensi dell’art.6, II comma, c.p., l’attività associativa
nel suo complesso, in quanto avvenuta in parte in Italia, deve considerarsi
404
commessa nel territorio dello Stato e quindi punibile secondo la legge italiana anche
ai sensi del criterio di competenza indicato da tale articolo.
Passando all’esame delle singole posizioni processuali, il mandato di comparizione
emesso nei confronti di Ives Felix Marie GUILLOU, alias GUERIN SERAC, sia in
ordine al reato di costituzione di banda armata sia in ordine ai reati connessi agli
attentati anti-algerini è stato notificato al difensore d’ufficio con il rito dell’irreperibilità
in quanto, come prevedibile, GUERIN SERAC (di cui esistono i dati anagrafici, ma,
ad esempio, nemmeno una fotografia o un indirizzo non puramente fittizio) non è
stato reperito in Francia, nonostante le ricerche effettuate (cfr. vol.1, fasc.1, ff.38 e
ss.) e le ultime notizie, acquisite dagli operanti del R.O.S. tramite contatti con altre
Forze di Polizia, lo indicano presente negli ultimi anni, pur senza un indirizzo
accertato, in Spagna e, non a caso, in Colombia ove egli avrebbe collaborato con il
locale regime militare (cfr. nota del R.O.S. in data 10.10.1994, vol.12, fasc.3, ff.2122).
Non vi è dubbio che GUERIN SERAC deve essere rinviato a giudizio per
rispondere del reato di cui all’art.306, I comma, c.p. essendo egli il principale
artefice ed organizzatore della struttura armata che, dopo la fuga dal
Portogallo, ha operato con base in Spagna irradiando la sua attività in altri
Paesi europei fra cui l’Italia e, in seguito, il Sud-America.
Stefano DELLE CHIAIE è stato interrogato in data 18.9.1992 a seguito
dell’informazione di garanzia e invito a comparire emesso nei suoi confronti in
relazione agli attentati anti-algerini dell’estate del 1975 (cfr. vol.1, fasc.2, ff.16 e ss.),
mentre ha preferito non presentarsi dopo la notifica del mandato di comparizione
emesso in data 7.9.1994 per il reato di costituzione, insieme a GUERIN SERAC,
della banda armata operante a partire dalla base madrilena (cfr. vol.1, fasc.2, ff.25 e
ss.).
Nell’interrogatorio in data 18.9.1992, Stefano DELLE CHIAIE ha riconosciuto di aver
vissuto a Madrid, fra il 1974 e il 1976, in tre diversi appartamenti, proprio come
indicato da Vincenzo VINCIGUERRA, pur negando che tali appartamenti fossero
stati procurati dai Servizi spagnoli ed ha ammesso altresì di aver conosciuto e avuto
rapporti politici con quasi tutte le persone indicate da VINCIGUERRA: GUERIN
SERAC, già incontrato a Roma intorno al 1968 e frequentato a Madrid appunto tra il
1974 e il 1976 (f.3); Robert LEROY, conosciuto in Spagna o in Francia (f.3); Jay
Simon SALBY, per la cui liberazione dopo l’arresto in Algeria, nel 1976, lo stesso
DELLE CHIAIE si sarebbe adoperato (asseritamente tramite il leader druso
JUMBLATT, f.4); e infine JEAN DENIS, l’ufficiale francese che aveva rapporti con le
Azzorre (f.4) e che secondo VINCIGUERRA stava organizzando nell’Arcipelago, a
metà degli anni ‘70, un finto Fronte di Liberazione in funzione degli interessi
occidentali e contro il Governo di sinistra che si era insediato nella Madrepatria
portoghese.
Con tutti costoro Stefano DELLE CHIAIE ha sostenuto di aver avuto meri rapporti di
militanza politica, negando di aver svolto con essi attività illecite sia in Spagna sia in
altri Paesi.
405
406
Ugualmente DELLE CHIAIE ha minimizzato l’episodio del prelevamento e del
sequestro di Gaetano ORLANDO nell’agosto del 1974 (int. citato, f.4), dipingendolo
come semplice “intimidazione”, versione tuttavia assolutamente inattendibile alla luce
delle vivide e coincidenti descrizioni di Vincenzo VINCIGUERRA e dello stesso
ORLANDO, presenti in qualità di sequestratore e di vittima al fatto che, secondo il
racconto del primo, poteva concludersi anche tragicamente per l’esponente del
M.A.R.
Non vi è dubbio che il ruolo centrale ricoperto da Stefano DELLE CHIAIE nella
costituzione e nell’operatività del gruppo di Madrid, reso possibile anche dal fatto che
egli era in grado di organizzare, grazie al suo carisma, i latitanti italiani sia di
Avanguardia Nazionale sia di Ordine Nuovo che man mano venivano convogliati a
Madrid, imponga il suo rinvio a giudizio per il reato di cui all’art.306, I comma, c.p.
(costituzione ed organizzazione di banda armata), mentre i reati connessi agli
attentati anti-algerini dell’estate del 1975 devono essere dichiarati estinti, per Stefano
DELLE CHIAIE come per GUERIN SERAC e come per i materiali esecutori, per
intervenuta prescrizione.
Per quanto concerne la posizione degli altri componenti del gruppo di GUERIN
SERAC e di Stefano DELLE CHIAIE, Mario RICCI, indiziato di partecipazione
semplice alla banda armata nonchè di concorso nella commissione degli attentati
anti-algerini dell’estate del 1975, è stato sentito in data 28.9.1992, e 11.3.1994.
Mario RICCI ha negato di aver partecipato ad attentati o ad altre attività illecite, ma
ha dovuto ammettere altre significative circostanze riferite da Vincenzo
VINCIGUERRA ed in particolare la sua latitanza a Madrid, a partire dal 1974, sotto il
falso nome di Carlo VANOLI, la sua permanenza nell’appartamento sito nella zona
del Manzanarre, la sua conoscenza di GUERIN SERAC e Jay Simon SALBY, oltre
che di Stefano DELLE CHIAIE e Vincenzo VINCIGUERRA, e il fatto che egli fosse al
corrente che, sempre a Madrid, esistesse un secondo appartamento “riservato”,
affittato tramite un agente dei Servizi spagnoli a nome EDUARDO, (int. 28.9.1992,
ff.2-3) nella zona di Puerta de Jerro.
Mario RICCI ha inoltre ammesso di aver partecipato, guidando l’autovettura a bordo
della quale si trovava DELLE CHIAIE, ad un sopralluogo al Residence Quevedo
dove, invece della prevista presenza di Guido GIANNETTINI, era stato localizzata la
presenza di Gaetano ORLANDO (int.11.3.1994, f.2).
Anche se Mario RICCI ha negato di aver partecipato al successivo sequestro ed
interrogatorio di Gaetano ORLANDO ad opera del gruppo, tale sopralluogo non
poteva che essere finalizzato a tale operazione e di conseguenza la parziale
ammissione di Mario RICCI costituisce un ulteriore elemento a suo carico.
A fronte delle precise indicazioni di Vincenzo VINCIGUERRA, che individuano in
Mario RICCI uno degli elementi operativi del gruppo (non si dimentichi che egli era
latitante in Spagna per sfuggire ad una pena inflittagli in Italia per detenzione di armi)
e uno di coloro che si recarono in aereo in Germania Occidentale per commettere
l’attentato in danno dell’Ambasciata di Algeria a Bonn del 18.8.1975 (int.
VINCIGUERRA, 4.2.1994, f.2), non vi è dubbio che la dichiarazione di non doversi
406
procedere nei confronti di Mario RICCI possa essere adottata solo con la formula
dell’intervenuta prescrizione dei reati lui ascritti.
Ad analoghe conclusioni deve giungersi per Piero CARMASSI, da moltissimi anni
irreperibile anche dopo la revoca dell’ordine di carcerazione a suo carico per altri fatti
in ragione di successivi provvedimenti di condono (cfr. vol.1, fasc.6, f.9), nonchè per
Jay Simon SALBY, probabilmente rientrato negli Stati Uniti dopo la sua
scarcerazione dalle prigioni algerine, ma rimasto assolutamente irreperibile (cfr.
vol.1, fasc.5, f.19).
Una dichiarazioni di non doversi procedere per intervenuta prescrizione deve infine
essere emessa nei confronti di Vincenzo VINCIGUERRA sia in ordine al reato
associativo contestatogli nella forma della semplice partecipazione sia in ordine agli
attentati anti-algerini contestatigli in data 23.9.1992 in sede di interrogatorio.
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408
67
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE:
L’AGINTER PRESS NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE
E NELL’ “OPERAZIONE” DEL 12 DICEMBRE 1969
E I DIVERSI SEGMENTI DI INTERVENTO PRESENTI IN TALI AVVENIMENTI
Alla luce di quanto esposto nei capitoli precedenti, appare assai probabile che
l’AGINTER PRESS sia intervenuta in Italia, sul piano dell’ispirazione e in parte
sul piano operativo, nella strategia delle stragi e dei più gravi attentati e che la
pista indicata nell’appunto del S.I.D. del 16.12.1969 (cfr. capitolo 58: si veda in
particolare il testo originale nel fascicolo del S.I.D. intestato a GUERIN SERAC,
vol.40, fasc.5, ff.18 e ss.) fosse tutt’altro che azzardata salvo, da parte degli
estensori, abbandonare poi la stessa a dipingere GUERIN SERAC e Mario
MERLINO come anarchici e filo-cinesi, forse in ossequio ad un accordo ad alto livello
(cfr. capitolo 40) che prevedeva il mantenimento della “pista VALPREDA” pur senza
giungere alla decretazione dello stato di emergenza e allo scioglimento delle
Camere.
Si ricordi, oltre agli elementi sinora illustrati, che un testimone certo non in vena di
collaborazione come Guido GIANNETTINI ha riferito di aver appreso in carcere, a
Catanzaro, da Marco POZZAN che in Spagna, probabilmente intorno al 1974, lo
stesso POZZAN (uomo di fiducia, si badi bene, di Franco FREDA) e Stefano DELLE
CHIAIE avevano fissato un appuntamento con GUERIN SERAC e questi, a causa di
un ritardo dei due italiani, aveva fatto una “lavata di capo” addirittura a Stefano
DELLE CHIAIE, segno chiaro della subalternità a GUERIN SERAC di un
personaggio pur così importante e carismatico come appunto DELLE CHIAIE (dep.
GIANNETTINI, 16.7.1983, f.3).
Un indizio anche questo dell’esistenza di quella “linea di comando” GUERIN SERAC
- DELLE CHIAIE - MERLINO (con la presenza quali elementi operativi , in Veneto e
nel Nord-Italia in genere, degli ordinovisti invece che degli avanguardisti) indicata con
decisione nell’appunto del 16.12.1969.
Nello stesso appunto, scritto in un’ottica “romana” (con attenzione, quindi,
soprattutto a quanto avvenuto il 12.12.1969 a Roma più che a Milano), Mario
MERLINO viene indicato quale autore materiale degli attentati di Roma, in particolare
dei due attentati “minori” all’Altare della Patria, che sarebbero stati di “ripiego” in
quanto in quel momento gli obiettivi originari, altre due banche della zona, erano già
chiuse e gli attentatori si sarebbero liberati degli ordigni già attivati deponendoli
contro un unico obiettivo, appunto l’Altare della Patria.
Si ricordi che se elementi di prova dettagliati e determinanti sono stati acquisiti in
relazione alla responsabilità di Ordine Nuovo per gli attentati di Milano e gli altri
attentati avvenuti soprattutto nel Nord-Italia prima del 12.12.1969, elementi non così
diretti, ma comunque significativi e concordanti, sono stati acquisiti nei
confronti di Avanguardia Nazionale in relazione quantomeno a due aspetti: la
presenza a Roma di istruttori stranieri nel campo dell’uso di esplosivi (specialità,
408
questa, dell’AGINTER PRESS che disponeva degli elementi dell’O.A.S.) e la
materiale responsabilità per i due attentati all’Altare della Patria, cioè proprio
quelli attribuiti a MERLINO, e quindi ad Avanguardia Nazionale, nell’appunto
del S.I.D. concernente GUERIN SERAC.
Infatti:
- Carmine DOMINICI, esponente di rilievo di Avanguardia Nazionale a Reggio
Calabria sino alla metà degli anni ‘70 (la cui collaborazione è stata prematuramente
interrotta dalla diffusione del suo nome quale “pentito” ad opera di un giornalista del
TG3), ha parlato diffusamente di tale JEAN, di origine francese e certamente
proveniente dall’AGINTER PRESS, quale istruttore degli avanguardisti calabresi in
materia di uso degli esplosivi e di confezionamento di ordigni (dep. a personale del
R.O.S., 29.9.1994, f.2).
JEAN frequentava anche l’ambiente romano ed era tenuto in grande considerazione
da Stefano DELLE CHIAIE (dep. citata, f.2).
Carmine DOMINICI ha anche parlato di alcuni timers, detenuti da Bruno GALATI di
Reggio Calabria, tra il 1969 e il 1970, per conto della struttura di Avanguardia
Nazionale di Roma, che questi non aveva voluto restituire costringendo gli
avanguardisti romani, Carmine PALLADINO e Tonino FIORE, a scendere a Reggio
Calabria per tentare, senza successo, di recuperarli con la forza (dep. citata, f.3).
Tale vicenda non è stata ulteriormente approfondita in quanto Carmine DOMINICI ha
interrotto qualsiasi forma di collaborazione, ma potrebbe essere di notevole rilievo.
E’ certo, infatti, che i timers gelosamente tenuti dal GALATI (da tempo deceduto)
non siano i più sofisticati timers elettronici detenuti da Carmine DOMINICI qualche
anno dopo (int. DOMINICI, 30.11.1993, f.6) e si può quindi supporre che i timers
finiti a Reggio Calabria siano parte di quelli acquistati da Franco FREDA, ceduti
dopo gli attentati del 12.12.1969 a Cristano DE ECCHER e, come già ricordato nella
sentenza-ordinanza del 18.3.1995 (cfr. capitolo 11), da questi ceduti, nel giro di
breve tempo e con grande disappunto di FREDA, ad Avanguardia Nazionale e mai
più recuperati.
- Carlo DIGILIO ha affermato di aver appreso, in tempi e circostanze diverse, da
Marcello SOFFIATI subito dopo i fatti e, in seguito, da Giancarlo ROGNONI in
Spagna, che principale responsabile dei tre attentati che erano stati commessi a
Roma il 12.12.1969, contemporaneamente alla strage di Milano, era il gruppo di
Avanguardia Nazionale (int. 7.8.1996, f.4, e 10.9.1996, f.4).
- Prima ancora di Carlo DIGILIO, già Vincenzo VINCIGUERRA aveva affermato “di
avere avuto, a più riprese e in epoche diverse, notizie sulla partecipazione di
elementi di Avanguardia Nazionale agli attentati del 12.12.1969 con riferimento
specifico agli attentati di Roma” (int. 29.6.1992, f.1), pur rifiutando di soffermarsi,
in sede di interrogatorio, sui particolari.
- Con riferimento a notizie apprese in carcere, Edgardo BONAZZI ha ricordato di
aver avuto notizie da Nico AZZI che “i tre attentati romani erano stati commessi
da uomini di Stefano DELLE CHIAIE” (dep. a personale del R.O.S., 22.2.1996,
f.2).
409
410
- Anche Graziano GUBBINI, ordinovista di Perugia inserito a livello piuttosto alto
nell’organizzazione e a lungo detenuto negli anni ‘70, ha affermato di aver appreso in
carcere, durante i dibattiti interni fra i camerati detenuti in merito ai fatti di strage, che
la cellula padovana era responsabile della strage di Piazza Fontana, ma che gli
attentati “minori” di Roma all’Altare della Patria era stati invece commessi da
Avanguardia Nazionale (dep. dinanzi ai G.I. di Bologna e di Milano, 24.1.1994, f.7).
Da queste notizie erano originate le “lezioni”, in termini di pestaggio e
accoltellamento, inflitte a FREDA, a FACHINI e a Giulio CRESCENZI (quest’ultimo
appartenente alla struttura occulta di Avanguardia Nazionale) ad opera di altri
camerati che erano contrari alla linea stragista (dep. citata, f.7).
- Infine, anche Giuseppe ALBANESE, esponente dell’ambiente di destra calabrese
in seguito passato alle fila della malavita comune, ha affermato di aver appreso in
carcere, nel 1971 dall’avanguardista Antonino TRIPODI, che gli attentati all’Altare
della Patria erano stati commessi da elementi calabresi di Avanguardia Nazionale
(dep. al G.I. di Bologna, 3.9.1992, f.3; vol.11, fasc.5).
I rapporti dell’AGINTER PRESS con Pino RAUTI e l’altra organizzazione di estrema
destra, Ordine Nuovo, sono stati sottoposti ad ampia disamina, anche sulla base di
documenti inediti esaminati presso l’Archivio del Ministero dell’Interno dal perito dr.
Aldo Giannuli (pagg.149 e ss. dell’elaborato peritale).
Estremamente importante e indicativa della circolarità dei rapporti fra strutture
eversive straniere, strutture eversive nazionali e apparati dello Stato dell’epoca è
l’individuazione, grazie alla perizia, di colui che aveva promosso e favorito tali
rapporti.
Si tratta del giornalista romano Armando MORTILLA, fondatore dell’AGENZIA
NOTIZIE LATINE, militante del M.S.I. nel primo dopoguerra, trasferitosi nel 1972 a
Madrid.
Armando MORTILLA, tuttavia, non era un semplice militante di destra, ma
aveva svolto per un lunghissimi periodo, dal 1955 al 1975, l’attività di
informatore per il Ministero dell’Interno, con il nome in codice ARISTO,
fornendo notizie di primissima qualità (pagg.165 e ss. della perizia).
Ciò che è più interessante, ed è stato attentamente messo in luce dal perito, è
tuttavia il fatto che ARISTO non fosse un semplice informatore in senso classico
(cioè colui che fornisce notizie in merito ad avvenimenti che avvengono
indipendentemente dalla sua volontà), ma piuttosto un “agente”, cioè un soggetto
che contribuisce in prima persona a determinare gli eventi in merito ai quali poi
riferirà ai suoi referenti.
E’ infatti Armando MORTILLA, alias ARISTO, a promuovere e a tessere, fra il 1967 e
il 1968, i rapporti, in precedenza inesistenti o generici, fra l’AGINTER PRESS e
ORDINE NUOVO, prima organizzando il viaggio dell’ordinovista di La Spezia
Piergiorgio BRILLO a Lisbona per partecipare ad un corso di addestramento e poi
organizzando l’incontro, a Roma nel gennaio 1968 e di cui egli stesso è garante, fra
GUERIN SERAC e Pino RAUTI.
410
Armando MORTILLA, quindi, non è solo un informatore, ma un agente che riferisce
al Ministero dell’Interno ciò che ha organizzato evidentemente con il consenso
di tale struttura dello Stato.
Estremamente significativo in tal senso è l’appunto risalente al maggio 1967 (che
costituisce l’allegato 108 alla perizia; pagg.152-155 della medesima) in cui un
anonimo funzionario del Ministero dell’Interno suggerisce ai suoi superiori
l’opportunità che ARISTO possa “vincolarsi” il più strettamente possibile al gruppo di
Lisbona in modo da funzionare da trait d’union per più approfonditi accordi specifici
fra lo stesso gruppo di Lisbona e Pino RAUTI.
Per favorire ciò, secondo il funzionario, sarebbe utile fornire al gruppo di Lisbona,
tramite ARISTO, notizie sulle attività riservate comuniste con particolare riguardo ai
contatti tra le forze di sinistra italiane e i comunisti portoghesi e spagnoli e anche
quelli dei Paesi africani, quindi notizie di sicuro interesse per l’AGINTER PRESS e
ORDRE ET TRADITION (cfr. pag.133 degli allegati alla perizia).
E’ evidente che in tal modo il Ministero dell’Interno non si limita ad acquisire
informazioni, ma le fornisce, anche al fine di favorire i contatti in Italia dell’AGINTER
PRESS che viene quindi trattata più da organismo collegato che da struttura eversiva
da controllare.
L’AGINTER PRESS non era quindi un’organizzazione di sapore quasi esotico, ma
una realtà in costante contatto, sotto varie forme e attraverso diversi canali, con il
nostro Paese.
E’ poi estremamente probabile che l’AGINTER PRESS disponesse di canali
stabili di collegamento e di forme di reciproco aiuto con la C.I.A. e altre
strutture americane.
Americano e reduce dal fallito sbarco a Cuba, alla Baia dei Porci, era Jay Simon
SALBY, detto CASTOR, uomo di fiducia di GUERIN SERAC sul piano operativo.
Di stretta pertinenza delle strutture militari americane era l’esplosivo “C4” utilizzato
per l’attentato all’Ambasciata d’Algeria a Bonn dell’estate del 1975.
In uno degli appunti a firma ARISTO, acquisiti ed esaminati nella perizia (cfr. pag.161
dell’elaborato e allegato n.115), questi scrive che, per esplicita affermazione di
GUERIN SERAC, la struttura di Lisbona ha rapporti con la destra del Partito
Repubblicano statunitense guidata dal senatore GOLDWATER e che i mezzi
finanziari per le iniziative dell’AGINTER PRESS in Africa provengono a Lisbona
direttamente dagli Stati Uniti (cfr. ff.81-82 allegati alla perizia).
Inoltre, in un documento del S.D.C.I. (servizi segreti portoghesi del periodo
successivo alla Rivoluzione dei Garofani) acquisito da personale del R.O.S. e steso
nel 1975 sulla base di materiale appartenente all’AGINTER PRESS e alla P.I.D.E., si
annota che Robert LEROY, braccio destro di GUERIN SERAC con la sigla in codice
T-BIS, dopo la sua scarcerazione a seguito dell’amnistia per i reati di
411
412
collaborazionismo, si era specializzato nel contro-spionaggio e aveva raccolto, dal
1958 al 1966, informazioni per la N.A.T.O. (cfr. analisi del R.O.S. sul documento,
acquisito in data 7.5.1994, vol.43, fasc.6, in particolare ff.6-7 e 46-47).
In sostanza è molto probabile che l’AGINTER PRESS abbia funzionato come
una sorta di sub-agenzia, sia in Africa e in Sud-America sia in Europa,
incaricata delle azioni meno confessabili che dovevano essere eseguite senza
una compromissione diretta di organismi ufficiali per non creare problemi nè
nei rapporti fra Stati nè, eventualmente, nell’opinione pubblica (cfr. pagg.180181 della perizia).
La diretta provenienza di gran parte del gruppo dirigente dell’AGINTER PRESS
dall’esperienza dell’O.A.S. (uno dei cui punti fermi era, fra l’altro, la cooperazione tra
civile e militari, come avrebbero tentato di fare in Italia ORDINE NUOVO e i NUCLEI
DI DIFESA DELLO STATO) garantiva di per sè la massima affidabilità nel lavoro di
infiltrazione e nelle “azioni coperte” e cioè le forme di lotta che, secondo la teoria
della guerra non ortodossa, risultavano particolarmente idonee, sino alla metà degli
anni ‘70, a fronteggiare l’insidia rivoluzionaria (pag.181 della perizia).
In conclusione, l’AGINTER PRESS, lungi dall’essere una struttura lontana ed
estranea, sembra essere stata uno dei “segmenti” che hanno fattivamente
contribuito, in modo complementare (non potendosi contrapporre quella che è stata
chiamata la “pista internazionale” alla “pista interna”), con l’intervento sia di strutture
ufficiali sia di strutture apertamente illegali, a quella che nel nostro Paese è stata
chiamata la “strategia della tensione”.
Sintetizzando, senza pretesa di completa esattezza, quelle che sono state in questi
anni le acquisizioni della presente istruttoria e delle indagini collegate, potrebbe
affermarsi che:
- l’AGINTER PRESS ha fornito, a partire dalla fine degli anni ‘60, un “protocollo di
intervento, valido anche per gli altri Paesi europei, alle organizzazioni dei singoli
Paesi, fra cui l’Italia, in termini di tecniche di infiltrazione e di addestramento all’uso
degli esplosivi, ispirando probabilmente anche singoli attentati o campagne
terroristiche;
- ORDINE NUOVO è la struttura prevalentemente responsabile, in termini di
esecuzione materiale, degli attentati del 12.12.1969 e di quelli che li hanno preceduti
ed ha continuato ad operare successivamente attuando, tramite Gianfranco
BERTOLI la strage alla Questura di Milano del 17.5.1973, molto probabilmente la
strage di Piazza della Loggia a Brescia e la catena di attentati maggiori e minori,
comprese alcune mancate stragi su convogli ferroviari, proseguita sino all’inizio degli
anni ‘80;
- AVANGUARDIA NAZIONALE è probabilmente responsabile degli attentati “minori”
del 12.12.1969 e, tramite il suo leader, Stefano DELLE CHIAIE, ha garantito, in una
prima fase a Madrid e in seguito in Sud-America, il rifugio e la latitanza dei
componenti di entrambe le organizzazioni, che venivano via via colpiti da
provvedimenti giudiziari, in cambio della disponibilità degli stessi a rendersi complici
e parte attiva nelle azioni “sporche” dei servizi di sicurezza di tali Paesi;
412
- l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, cui anche tramite Armando
MORTILLA (alias ARISTO) era ben conosciuta l’attività dell’AGINTER PRESS e dei
suoi referenti italiani, ha verosimilmente reclutato e attratto nella propria orbita alcuni
elementi operativi dell’estrema destra (fra cui, secondo le dichiarazioni di Vincenzo
VINCIGUERRA e Martino SICILIANO, Delfo ZORZI a partire dal 1968), garantendo
protezione ed instradando consapevolmente sulla pista anarchica le indagini
concernenti i fatti del 12.12.1969;
- il S.I.D., autore dell’appunto di “compromesso” del 16.12.1969 (comunque non
trasmesso in tempo utile all’Autorità Giudiziaria che stava indagando), è intervenuto
soprattutto in una fase successiva, garantendo fra l’altro l’espatrio e la sottrazione
agli inquirenti di Guido GIANNETTINI e di Marco POZZAN e, come si è esposto nella
prima sentenza-ordinanza del 18.3.1995, “chiudendo” nel 1975 la fonte Gianni
CASALINI, interna alla cellula di Padova;
- la struttura informativa americana ha infine controllato da vicino, tramite i suoi
agenti, lo sviluppo degli avvenimenti attuando in parte un “controllo senza
repressione”, garantendo in parte un aiuto logistico (soprattutto al casolare di Paese
tramite il prof. Lino FRANCO e più volte tramite Sergio MINETTO e Carlo DIGILIO)
guardando con favore ad una possibile svolta in senso autoritario in Italia, favorita
dagli attentati che venivano via via progettati e interrompendo, o quantomeno
rallentando, tale attività di controllo e collusione solo alla metà degli anni ‘70 in
ragione del mutato quadro internazionale.
Gli ulteriori sviluppi istruttori e dibattimentali, attesi a Milano, a Brescia e in
altre sedi giudiziarie, diranno in quale misura tale chiave di interpretazione
potrà essere ritenuta esatta.
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414
PARTE
SETTIMA
GLI ALTRI SPUNTI INVESTIGATIVI EMERSI NEL CORSO DELLE INDAGINI
E LE ULTIME ACQUISIZIONI PROCESSUALI
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68
ALTRI EPISODI E CIRCOSTANZE
EMERSI NEL CORSO DELL’ISTRUTTORIA
LE CONFIDENZE DEL GENERALE NICOLA FALDE
IN MERITO AGLI ATTENTATI DEL 12 DICEMBRE 1969
Nel corso dell’istruttoria, attraverso le dichiarazioni di imputati e testimoni e a seguito
di acquisizioni documentali, sono emersi per la prima volta numerosi episodi e
circostanze non direttamente produttrici di imputazioni, che tuttavia non possono
essere del tutto sorvolati sia perchè in molti casi costituiscono un riscontro, diretto o
indiretto, delle testimonianze più importanti sia perchè contribuiscono a mettere a
fuoco il quadro del periodo in cui sono avvenuti i fatti più importanti oggetto di questa
istruttoria e delle altre a questa collegate.
Alcune situazioni si riallacciano (come le confidenze del generale Nicola FALDE e le
confidenze di Paolo ZANETOV a Sonia ARBANASICH) direttamente agli
avvenimenti del 12.12.1969, altre (come l’attentato alla Stazione dei Carabinieri di
Feltre e l’episodio in danno dell’attrice Franca RAME) riguardano il tema dei rapporti
fra apparati istituzionali ed elementi dell’estrema destra, altri ancora (come i nuovi
elementi emersi in merito ai NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO) sono la
prosecuzione e il completamento di argomenti già trattati nella prima sentenzaordinanza.
E’ quindi necessario soffermarsi almeno su alcuni di tali episodi sparsi, e in primo
luogo in merito a quanto appreso dal generale Nicola FALDE da alcuni suoi
colleghi quasi nell’immediatezza degli attentati del 12.12.1969.
Nel volume “Sovranità Limitata”, pubblicato nel 1991 e dedicato alle interferenze
delle strutture politico/militari atlantiche sulla vita politica italiana e sulla c.d. strategia
della tensione, i due autori, Antonio e Gianni CIPRIANI, avevano fatto riferimento ad
una propria fonte personale cui, all’epoca dei fatti, il Capo di Stato Maggiore della
Difesa, generale Giuseppe ALOJA, in un contesto ristretto e affidabile, avrebbe
confidato che “l’attentato di Piazza Fontana era stato in qualche modo
organizzato dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno....Il S.I.D.
si era adoperato per coprire tutto”.
Gianni CIPRIANI, sentito da questo Ufficio in data 7.11.1991, pur avvalendosi del
segreto professionale in merito all’identità della fonte con cui lui e il fratello erano
riusciti ad entrare in contatto, aveva confermato il tenore della confidenza
aggiungendo altri particolari molto significativi.
Infatti spiegava che la fonte era un appartenente ad una struttura militare dello Stato,
con un ruolo di buon livello, e che lo stesso aveva ricevuto la medesima confidenza,
in breve volgere di tempo e in occasione di più colloqui, circa un mese e mezzo dopo
gli attentati del 12.12.1969, non solo dal generale ALOJA, ma anche da due Alti
ufficiali del Reparto D del S.I.D. (dep. Gianni CIPRIANI, 7.11.1991 e 15.12.1991).
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416
Dopo complesse investigazioni, l’Ufficiale “fonte” dei fratelli CIPRIANI veniva
identificato nel generale Nicola FALDE, responsabile, fra il 1967 e il 1968,
dell’Ufficio R.E.I. (Ricerche Economiche e Industriali, una sezione del Reparto D) del
S.I.D., dimessosi dal Servizio nel 1969 a seguito di contrasti con il Direttore
dell’epoca, ammiraglio Eugenio HENKE.
Sentito in qualità di testimone in data 26.6.1995 da personale del R.O.S., il generale
FALDE non solo confermava di aver avuto contatti con i fratelli CIPRIANI durante il
periodo della stesura del volume, ma aggiungeva altri particolari di interesse in
merito alle notizie pervenutegli all’interno del S.I.D.:
“””....confermo di aver avuto numerosi colloqui con il giornalista Gianni
CIPRIANI e di avergli parlato delle notizie da me apprese in un periodo
successivo al 1969, e precisamente nel 1970 e 1971 e probabilmente anche
dopo, circa la strage di Piazza Fontana.
Si tratta di notizie da me recepite in occasione di discorsi con il generale
ALOJA, in un primo tempo, e poi confermatemi dal colonnello VIOLA e dal
generale JUCCI.
Tali notizie erano inerenti al coinvolgimento dell’Ufficio Affari Riservati nella
fase di organizzazione della strage e al ruolo di copertura prestato dal S.I.D.
successivamente all’operazione di strage.
Preciso che con l’Ufficio Affari Riservati i miei interlocutori intendevano
indicare il Prefetto Umberto Federico D’AMATO e non la struttura nel suo
insieme, così come quando si parlava del S.I.D. essi intendevano riferirsi
all’ammiraglio Eugenio HENKE ed ai suoi fidati della Direzione del S.I.D. ed
ai Capi degli Uffici da esso dipendenti.
Si parlò di questi argomenti in quanto Piazza Fontana fu un fatto eclatante per
anni, non sono in grado di fornire ulteriori particolari, però tengo a precisare
che in un contesto di intelligence e su di un argomento di tale delicatezza il solo
accenno rappresentava già una confidenza di altissimo livello.
Posso solo aggiungere che ritengo di poter supporre con sicurezza che HENKE
si servisse strettamente della collaborazione dell’allora colonnello
ALEMANNO, Capo dell’allora Ufficio U.S.P.A., e del colonnello GASCA
QUEIRAZZA, all’epoca Capo dell’Ufficio D.
Non sono in grado di darvi indicazioni neanche sulle motivazioni di quanto mi
venne riferito poichè eravamo appena agli inizi del dopo strage e si guardava
solo al fatto in sè e non erano ancora iniziate le analisi di questo.
I principali alleati di Umberto Federico D’AMATO nel S.I.D. furono HENKE e
ROCCA perchè entrambi facenti parte del centro di potere occulto al quale
accenna anche, autorevolmente, l’on. MORO.
Il colonnello ROCCA non aveva rapporti molto stretti con gli americani, anzi
egli era più il referente della lobby informativa inglese che non di quella
statunitense.
416
Tuttavia egli manteneva rapporti con gli americani a seguito della forte
influenza che D’AMATO esercitava su HENKE.
Preciso che quest’ultimo fatto, cioè l’influenza di D’AMATO su HENKE, è una
mia supposizione non acclarata da dati di fatto”””.
(dep. a personale del R.O.S., 26.6.1995).
Si noti che la scelta del generale FALDE di rivelare il tenore delle confidenze da lui
ricevute sembra ricollegarsi alla professione di antifascismo e di lealtà alle istituzioni
repubblicane manifestata dall’Ufficiale, causa forse non ultima del suo
allontanamento dal Servizio.
Non è purtroppo possibile approfondire ulteriormente le dichiarazioni del generale
Nicola FALDE in quanto, dopo l’audizione da parte del personale del R.O.S., egli non
è stato più risentito nemmeno dopo l’apertura da parte della Procura della
Repubblica di Milano di un nuovo procedimento sulla strage di Piazza Fontana e,
nella primavera del 1996, il generale è deceduto.
Le sue affermazioni, pur nella laconicità delle confidenze ricevute, appaiono
comunque in piena sintonia con quanto emerso in merito all’intervento dei due
servizi di sicurezza italiani, esistenti all’epoca, in relazione agli avvenimenti del
12.12.1969: un ruolo di connivenza e forse di ispirazione della campagna di
attentati e di inquinamento della prima fase delle indagini da parte dell’Ufficio
Affari Riservati; un ruolo di copertura, negli anni successivi, della struttura di
ORDINE NUOVO, vera responsabile degli attentati, da parte del S.I.D.
Si pensi, con riferimento al primo profilo, al reclutamento di Delfo ZORZI in funzione
anticomunista, alla fine degli anni ‘60 tramite il dr. Elvio CATENACCI, nella struttura
parallela del Ministero dell’Interno (ricordata da Vincenzo VINCIGUERRA,
int.3.3.1993, ff.1-2) e all’indirizzo delle indagini, sempre ad opera di funzionari del
Ministero, nei confronti dei gruppi anarchici, subito dopo la strage nonchè
all’occultamento di importanti corpi di reato.
Con riferimento al secondo profilo, si ricordi l’opera di sottrazione di importanti
testimoni all’Autorità Giudiziaria posta in essere dal Reparto D del S.I.D., nella prima
metà degli anni ‘70, procurando l’espatrio di Guido GIANNETTINI e di Marco
POZZAN e “chiudendo” la fonte TURCO e cioè l’ordinovista padovano Gianni
CASALINI che era in procinto di “scaricarsi la coscienza” testimoniando quanto a
sua conoscenza dinanzi agli inquirenti.
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69
IL PREANNUNZIO DEGLI ATTENTATI DEL 12 DICEMBRE 1969
FATTO DA PAOLO ZANETOV A SONIA ARBANASICH
L’episodio che aveva visto come protagonista l’estremista di destra romano Paolo
ZANETOV e la sua fidanzata, Sonia ARBANASICH, era entrato frettolosamente
nell’istruttoria sugli attentati del 12.12.1969 (e precisamente nella parte dell’istruttoria
condotta a Roma nei confronti di Pietro VALPREDA e degli altri militanti del circolo
anarchico “22 Marzo”) ed è stato rapidamente dimenticato, tanto da restare una delle
piste inconcluse di tale complesso di indagini.
In sintesi, Sonia ARBANASICH, giovane studentessa all’epoca sentimentalmente
legata all’esponente di Ordine Nuovo Paolo ZANETOV, aveva reso ai giudici
inquirenti una sofferta testimonianza rivelando che, il pomeriggio del 12.12.1969, il
fidanzato, del quale le erano ben note le posizioni politiche che ella peraltro non
condivideva, aveva mostrato di essere consapevole di quanto stava per
accadere anche a Roma affermando, in presenza della ragazza fra le ore 17.00
e le ore 18.00, “a quest’ora dovrebbe essere già successo.....lo leggerai domani
sui giornali”.
In sostanza, Paolo ZANETOV sarebbe stato uno dei “profeti” degli avvenimenti
del 12.12.1969 così come, fra gli altri, Angelo VENTURA, fratello di Giovanni, il
quale, pochi giorni prima della strage, aveva confidato a Franco COMACCHIO che di
lì a poco sarebbe successo qualcosa di grosso nelle banche.
La negazione di Paolo ZANETOV e la successiva ritrattazione della ARBANASICH
avevano reso inutilizzabile, nell’ambito della prima istruttoria, l’originaria
testimonianza della ragazza.
Nuovamente sentita da personale del R.O.S. nel febbraio 1995, a oltre vent’anni
dalla prima testimonianza. quando timori ed eventuali pressioni erano ormai
certamente venuti meno, Sonia ARBANASICH ha spiegato, con accenti di verità,
le ragioni della sua ritrattazione riferendo per la prima volta anche alcuni episodi
che consentono di comprendere le ragioni del suo mutamento di versione e il
contesto in cui ciò sarebbe avvenuto.
La nuova testimonianza di Sonia ARBANASICH è certamente inquietante e
merita di essere riportata nei suoi passi principali.
La ARBANASICH, dopo aver precisato di non aver mai condiviso le idee politiche del
suo fidanzato, che apparteneva a Ordine Nuovo e frequentava con regolarità il
Centro Studi di Via degli Scipioni, ha raccontato:
“””....il giorno 12 dicembre 1969 mi trovavo con lo ZANETOV in centro a
Roma, nei pressi di Piazza di Spagna.
Era pomeriggio tra le ore 17.00 e le ore 18.00.
418
Ricordo che lo ZANETOV guardò l’orologio che da poco tempo gli aveva
regalato un suo zio e pronunciò la seguente frase: “a quest’ora dovrebbe essere
già successo...”.
Io gli chiesi che cosa avrebbe dovuto succedere e lui mi rispose: “lo leggerai
domani sui giornali”.
Io lì per lì non diedi molto peso all’affermazione dello ZANETOV, ma il giorno
successivo appresi della notizia della strage e ricollegai l’accaduto.
Quando vidi lo ZANETOV il giorno 13.12.1969 gli indicai la notizia sul
giornale che stava leggendo dicendogli allarmata e scioccata: “E’ questa la
cosa di cui parlavi ieri?”.
Lui non mi rispose subito, ma continuò a leggere il giornale.
Poco dopo disse: “Questa volta hanno esagerato...”.
Rimasi talmente scioccata da ciò che non ne parlai più con lo ZANETOV.
In quei giorni, pensando alla strage e agli ordigni esplosi a Roma, mi venne in
mente la riunione a cui partecipò lo ZANETOV (nota Ufficio: una riunione, pochi
giorni prima, presso il Centro Studi Ordine Nuovo), ma non osai mai parlarne con
lui.
Anzi, preciso che non parlai mai più con lo ZANETOV dell’intera faccenda.
Diverso tempo dopo mi trovai a parlare della strage con la mia amica e collega
Silvana DILETTI.
Lei mi confidò di aver sentito da alcune persone che qualcuno sapeva in
anticipo delle bombe.
Io le risposi che anche il mio ragazzo lo sapeva in anticipo, tanto che il giorno
precedente mi aveva detto la frase di cui sopra.
La DILETTI mi chiese se io fossi stata disposta a testimoniare su quanto
accaduto.
Io mi dichiarai disposta e lei mi mise in contatto con alcuni suoi amici dei quali
non ricordo i nomi.
Questi giovani mi fecero raccontare nuovamente la storia e poi mi
accompagnarono dal Giudice che si occupava delle indagini a Roma.
Venni quindi ascoltata dal Giudice e da un uomo che verbalizzava.
Al termine del verbale, il Giudice, del quale non ricordo il nome, mi chiese se
fossi disposta a sostenere un confronto con lo ZANETOV.
Io acconsentii e, poco dopo, venni riascoltata del Giudice in contraddittorio con
lo ZANETOV.
Questi negò tutto, negò addirittura di possedere un orologio e di avermi mai
detto quelle frasi.
Ammise soltanto di aver detto la frase “Questa volta hanno esagerato...”, che
considerava una normale reazione alla notizia.
Terminato il confronto, ci recammo ognuno presso la propria abitazione, ma il
giorno successivo ci incontrammo nuovamente sotto casa mia.
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420
Qui lui mi minacciò, dicendomi di stare attenta poichè i suoi amici non erano
gente tenera; conoscevano bene la mia famiglia e quella delle altre persone che
mi avevano portato a testimoniare.
In particolar modo lo ZANETOV mi disse che sapevano che io avevo un fratello
piccolo e che Silvana DILETTI aveva una figlia di pochi anni.
A questo proposito ricordo che mi disse: “...ti piacerebbe che crescesse senza
una gamba?”.
Io rimasi terrorizzata da queste affermazioni dello ZANETOV che mi invitava
a ritrattare e quindi acconsentii a fare ciò.
Il giorno successivo mi ripresentai dal Giudice accompagnata dallo ZANETOV.
Io avevo intenzione di far capire al Giudice che ero stata minacciata da Paolo,
ma questi mi interrogò senza far allontanare lo ZANETOV e quindi alla sua
presenza io non potei far altro che ritrattare.
Io dissi di essermi inventata tutta la vicenda ed il Giudice rimase impassibile.
L’uomo che verbalizzava disse: “Eppure sembrava così vero il tuo racconto...”.
Io risposi: “Vero, eh?”.
Io a quel punto ero talmente frastornata che non continuai, firmai il verbale e
me ne andai con lo ZANETOV.
Io sono sempre stata convinta che il Giudice avesse compreso che la
ritrattazione era fasulla.
Usciti dal Palazzo di Giustizia, lo ZANETOV mi portò dal suo avvocato, del
quale non ricordo il nome ma che si trovava nei pressi di casa sua, al quale
spiegò l’intera vicenda.
L’avvocato si inquietò dicendogli che avrebbe dovuto venire prima e che aveva
fatto malissimo a farmi ritrattare.
Usciti dall’Ufficio dell’avvocato mi portò verso casa sua.
Ivi giunti, lui, senza parlare, cominciò a salire le scale.
Io feci finta di salire con l’ascensore e, non appena vidi che lui era giunto al
secondo o terzo piano, mi voltai ed uscii.
Lui mi rincorse per strada, mi raggiunse e mi picchiò in mezzo alla strada.
Mi diede quattro o cinque schiaffi e mi lasciò.
Qual giorno fissò la data nella quale lasciai Paolo.
Alcune settimane dopo lui venne a cercarmi pregandomi di tornare con lui, ma
invano.”””.
(ARBANASICH, dep. a personale del R.O.S., 28.2.1995).
In sostanza, secondo il racconto di Sonia ARBANASICH, che ha quantomeno il
pregio di essere stato reso in un momento in cui ogni possibile minaccia non può più
concretizzarsi a tanta distanza di tempo dai fatti nè può più profilarsi alcuna ragione
di personale rancore contro lo ZANETOV, del tutto sincera sarebbe stata la prima
testimonianza e necessitata, invece, la successiva ritrattazione.
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Paolo ZANETOV, sentito in data 13.3.1995 da personale del R.O.S., ha nuovamente
negato di aver preannunziato gli attentati e negato di aver minacciato la
ARBANASICH per indurla a ritrattare, pur ammettendo la sua frequentazione del
Centro Studi Ordine Nuovo, i rapporti con Pino RAUTI e Paolo SIGNORELLI e, in
seguito, anche con Franco FREDA e riconoscendo di essere stato anche arrestato
per detenzione illegale di armi nell’ambito della sua militanza politica.
Alla luce delle complessive risultanze dell’attività istruttoria, la nuova testimonianza
di Sonia ARBANASICH rimane comunque significativa e inquietante e potrebbe
essere oggetto di ulteriore approfondimento da parte della Procura della
Repubblica nell’ambito delle indagini collegate.
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70
LE DICHIARAZIONI DI ETTORE MALCANGI
IN MERITO ALLE C.D. VECCHIE S.A.M. DI MILANO
I riferimenti contenuti in vari capitoli (cfr. in particolare i capitoli 28 e 41) in merito alla
persona di Ettore MALCANGI, convinto militante della destra milanese che ha
tuttavia deciso di rendere note alcune circostanze di rilievo nell’ottica di contribuire a
fare chiarezza sulla strategia della stragi e sulle collusioni che l’hanno resa possibile,
consentono in questa sede di introdurre un argomento che è rimasto largamente
inesplorato nelle precedenti istruttorie e sul quale si sono tuttora acquisiti dati
importanti, ma del tutto incompleti.
Ci riferiamo all’organizzazione milanese denominata “vecchie S.A.M.”, operante sin
dalla metà degli anni ‘60, ai suoi rapporti e alle probabili sovrapposizioni con la
struttura di ROGNONI e MAGGI e al suo possibile apporto logistico ed operativo in
occasione degli attentati più gravi.
In merito, MALCANGI ha spiegato che l’organizzazione era diretta dall’exrepubblichino Giuliano BOVOLATO, era più forte e organizzata di quanto sia mai
apparso ed era divisa in squadre compartimentate di 4 o 5 elementi; affermazioni,
queste, fatte per conoscenza diretta avendo MALCANGI fatto parte della 22^
squadra (dep. a personale del R.O.S., 28.11.1995, ff.1-3).
Anche le S.A.M., come Ordine Nuovo, disponevano di una dotazione di gelignite:
“””Digilio mi parlò, durante la nostra permanenza a Villa D'Adda,
dell'esplosivo gelignite che è una dinamite gelatinizzata.
Non ricordo in che contesto il discorso nacque.
Ricordo tuttavia che il discorso di Digilio mi stupì in quanto la gelignite non è
un esplosivo facile da trattare in quanto è pericolosa e trasuda facilmente.
Del resto ricordo che le vecchie SAM, all'inizio degli anni '70, disponevano di
un deposito di gelignite nella zona di Pero, credo un garage sotterraneo.
Questo garage fu addirittura oggetto di un allagamento e i pompieri
intervennero senza accorgersi del materiale.
Questo esplosivo che, all'epoca era tenuto all'interno di un armadio nel garage,
esisteva ancora nel 1978 perchè Bovolato mi offrì di detenere dell'esplosivo che
sapevo per altra via di essere quello del garage.
Io mi rifiutai sia perchè era pericoloso sia perchè ero contrario all'uso di
esplosivo”””.
(MALCANGI, dep. 17.10.1995, f.4).
L’attività delle S.A.M. non sembrava, però, solo finalizzata alla realizzazione di
attentati, ma inserita in un contesto golpista.
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Carlo DIGILIO aveva infatti confidato a MALCANGI, a Villa d’Adda, di aver
partecipato, nel 1973 a Verona, probabilmente presso il Circolo tradizionalista
CARLO MAGNO, ad una importante riunione cui erano presenti, fra gli altri, il
generale FRASCA o BRASCA (di cui MALCANGI ricorda inesattamente il nome
trattandosi probabilmente del generale Adriano MAGI BRASCHI), il colonnello
SPIAZZI, Carlo FUMAGALLI, il dr. Carlo Maria MAGGI e infine Giuliano BOVOLATO
per le S.A.M.
Finalità di tale riunione era mettere a punto una strategia comune di mutamento
istituzionale (int. MALCANGI, 2.1.1995, f.3, e 17.10.1995, f.2).
La circostanza riporta immediatamente alla memoria il progetto golpista del 1973,
che avrebbe dovuto essere facilitato da una campagna di attentati (fra cui quello al
treno Torino-Roma dell’aprile 1973) e da scontri di piazza, progetto di cui si è
ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza (capitolo 18).
Erano del resto presenti a tale riunione, secondo il racconto di MALCANGI, i
rappresentanti di tutte le componenti del progetto già individuate nel primo filone
dell’istruttoria: il generale MAGI BRASCHI, responsabile del Nucleo SIFAR che si
occupava di guerra non ortodossa e molto legato al dr. MAGGI per ammissione di
Carlo DIGILIO (int. 12.6.1996, ff.1-2); il colonnello SPIAZZI, fra i massimi
responsabili dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO; Carlo FUMAGALLI, capo del
M.A.R. valtellinese; infine lo stesso dr. MAGGI per ORDINE NUOVO e Giuliano
BOVOLATO per le S.A.M.
Carlo DIGILIO aveva anche confidato a Ettore MALCANGI di aver incontrato il
generale MAGI BRASCHI a Verona, nel 1982, propria all’inizio della sua latitanza e
poco prima del suo arrivo presso l’abitazione di Cinzia DI LORENZO in Val Brona
(int. MALCANGI, 2.10.1995, f.3).
Durante tale breve sosta presso l’abitazione della DI LORENZO, MALCANGI e
DIGILIO, incontratisi sul posto e indecisi sul da farsi, avevano discusso in merito
all’ulteriore direzione da prendere.
Carlo DIGILIO aveva allora espresso, prima alla DI LORENZO e poi a MALCANGI, la
volontà di prendere contatto con Giuliano BOVOLATO per rifugiarsi presso il suo
gruppo, ma Ettore MALCANGI lo aveva sconsigliato e lo aveva infine convinto a
raggiungere con lui la casa di Villa d’Adda procuratagli dalla sorella (int. MALCANGI,
10.4.1996, f.2).
A fronte di tali circostanze, l’atteggiamento processuale di Carlo DIGILIO è apparso
quanto mai incerto e reticente.
Egli, infatti, non ha negato, dopo molte titubanze, l’incontro con il generale MAGI
BRASCHI a Verona nel 1982, ma lo ha banalizzato come un fuggevole e casuale
incontro (int. 2.12.1996, f.4) e nonostante una iniziale riserva di mettere a fuoco la
figura di Giuliano BOVOLATO, non ha mai parlato di tale personaggio (int. 4.5.1996,
f.7).
Tale atteggiamento suscita molti interrogativi.
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Secondo il racconto di MALCANGI, che appare credibile e disinteressato,
l’organizzazione S.A.M. disponeva di gelignite, utile per commettere gravi attentati,
ed era ben strutturata e inserita nel progetto golpista del 1973, tanto che BOVOLATO
gli aveva fatto il nome di un ufficiale dei Carabinieri incaricato di fornire la copertura
per il progetto di mutamento istituzionale e che usava il nome in codice PALINURO
(int. 17.10.1995).
Il nome in codice PALINURO è lo stesso che compare nelle registrazioni effettuate
nel 1974 dal capitano LABRUNA con i finanziatori di tali progetti, ORLANDINI e
LERCARI, e si riferisce proprio, anche secondo tali precedenti acquisizioni, ad un
ufficiale dei Carabinieri di Milano (dep. LABRUNA, 16.7.1991, f.2 e capitolo 30 della
prima sentenza-ordinanza in data 18.3.1995).
I rapporti fra Giuliano BOVOLATO sia con ROGNONI sia con il gruppo veneziano del
dr. MAGGI sia con DIGILIO sono anche testimoniati da un episodio narrato da
Martino SICILIANO.
Nel 1969 era in corso un progetto di possibile integrazione fra le vecchie S.A.M. di
Giuliano BOVOLATO e l’area di ORDINE NUOVO e inoltre Giancarlo ROGNONI
aveva chiesto ai veneziani di aiutarlo nel reperire un giornalista iscritto all’albo che
potesse divenire responsabile del giornale La Fenice (int. SICILIANO, 14.3.1996,
f.4).
Per discutere di tali argomenti, MAGGI, ZORZI e SICILIANO avevano incontrato in
un ristorante di Sesto San Giovanni, nell’ottobre 1969, Giuliano BOVOLATO,
Giancarlo ROGNONI e Marcello ROMANI, giornalista residente a Milano, fratello di
Giangastone ROMANI, l’esponente veneziano di Ordine Nuovo molto legato a
MAGGI che quindi poteva convincerlo a offrire la sua disponibilità (int. citato, f.4).
Perdipiù Martino SICILIANO ha anche r
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