Tribunale Civile e Penale di Milano Ufficio Istruzione sez.20^ N.9/92A R.G.P.M. N.2/92F R.G.G.I. Procedimento penale nei confronti di ROGNONI Giancarlo ed altri.REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo italiano Il Giudice Istruttore presso il Tribunale Civile e Penale di Milano, dr. Guido Salvini, ha pronunziato la seguente SENTENZA - ORDINANZA nel procedimento nei confronti di: 1) ROGNONI Giancarlo, nato a Milano il 27.8.1945 ed ivi residente in Via Brusuglio n°47; (difeso di fiducia dall'avv. Benedetto Tusa, Corso Buenos Ayres n°10, Milano). 2) AZZI Nico, nato a Serravalle Po (MN) il 31.7.1951 e residente a Milano in Via Fratelli Ruffini n°1; (difeso di fiducia dall'avv. Patrizia D'Elia, Via Cesare Battisti n°1, Milano). 3) BATTISTON Pietro, nato a Milano il 29.5.1958 elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia, avv. Antonella Pastore, Viale Caldara n°41, Milano. 4) DE MIN Francesco, nato a Milano il 31.3.1951 ed ivi residente in Via San Dionigi n°30; (difeso d'ufficio dall'avv. Roberto Peccianti, Via Corridoni n°6, Milano). 5) SICILIANO Martino, nato a Padova il 31.8.1946, domiciliato presso il Servizio Centrale di Protezione. (difeso d'ufficio dall'avv. Fausto Maniaci, Via Podgora n°12/b, Milano). 2 6) RICCI Mario, nato a San Sepolcro (AR) il 6.7.1949 e residente a Trento in Via Enrico Conci n°6; (difeso di fiducia dall'avv. Diego Senter e dall'avv. Stefano Pietro Galli, entrambi del Foro di Trento ma domiciliati presso lo studio dell'avv. Carlo Rasini, Via Mameli n°10, Milano. 7) GUILLOU Yves Felix Marie alias GUERIN Serac, nato a Ploubezre (Francia) il 2.12.1926, I R R E P E R I B I L E; (difeso d'ufficio dall'avv. Marino Vignali, Viale Regina Margherita n°30, Milano). 8) DELLE CHIAIE Stefano, nato a Caserta il 13.9.1936 e residente a Roma in Via Marco Dino Rossi n°35, ma elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Claudio Menicacci, Via Muzio Clementi n°18, Roma; (difeso di fiducia dagli avv.ti Claudio Menicacci, Via Muzio Clementi n°18, Roma e Giuseppe Pisauro, Via Ezio n°12, Roma) 9) VINCIGUERRA Vincenzo, nato a Catania il 3.1.1949, attualmente detenuto per altra causa presso la Casa di Reclusione di Opera; (difeso d'ufficio dall'avv. Franco Rossi Galante, Viale Montenero n°72, Milano). 10) SALBY Jay Simon alias CASTOR, nato a Philadelphia (Pennsylvania/U.S.A.) il 28.7.1937, I R R E P E R I B I L E; (difeso d'ufficio dall'avv. Giovanni Beretta, Corso Venezia n°24, Milano). 11) CARMASSI Piero, nato a Massa Carrara il 23.4.1945 e residente a Roma in Via Papiria n°68 (difeso d'ufficio dall'avv. Ludovico della Penna, Via P. Calvi n°19 Milano). 12) ZORZI Delfo, nato ad Arzignano (VI) il 3.7.1947, I R R E P E R I B I L E, ma elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia, avv. Gaetano Pecorella, Viale Majno n°9, Milano. 13) VENTURA Giovanni, nato a Piombino Dese il 2.11.1944 e residente a Buenos Ayres, Juncal 1675. (difeso d'ufficio dall'avv. Marino Vignali, Viale Regina Margherita n°30, Milano). 14) MAGGI Carlo Maria, nato a Villanova del Ghebbo (RO) il 29.12.1934 elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Luciano Merlini, Via Fiamma n°27, Milano. (difeso di fiducia dall'avv. Marcantonio Bezicheri del Foro di Bologna, domiciliato presso lo studio dell'avv. Luciano Merlini, Via Fiamma n°27, Milano, e dall'avv. Mauro Ronco, Corso Matteotti n°44, Torino). 15) DIGILIO Carlo, nato a Roma il 7.5.1937, domiciliato presso il Servizio Centrale di Protezione (difeso di fiducia dall'avv. Giorgio Barbesti, Viale Alcide De Gasperi n°60, Crema). 16) VIANELLO Giancarlo, nato a Venezia il 1°.6.1948 2 elettivamente domiciliato presso il difensore d'ufficio, Avv. Massimo Monaco, Viale Piceno n°40, Milano. 17) FREDA Franco, nato a Padova l'11.2.1941 e domiciliato a Brindisi in Via Magaldi n°1. (difeso di fiducia dall'avv. Clemente Manco, Via Saponea n°45, Brindisi). 18) POZZAN Marco, nato a Santorso il 23.4.1926 e residente a Limena (PD) in Via De Gasperi n°45. (difeso di fiducia dall'avv. Edmondo Zappacosta, Via Lisbona n°20, Roma). 19) NEAMI Francesco, nato a Trieste il 5.4.1946 ed ivi residente in Via della Fornace n°8; (difeso di fiducia dall'avv. Sergio Giacomelli, Via Filzi n°6, Triestee dall’avv. Roberto Petringa Nicolosi, Corso di Porta Vittoria n°50, Milano). 20) PORTOLAN Manlio, nato a Trieste l'8.7.1942 ed ivi residente in Via Manzoni 11/1; (difeso di fiducia dall'avv. Marcantonio Bezicheri, Via Marconi n°7, Bologna). 21) ANDREATTA Piero, nato a Venezia l'8.1.1949 e domiciliato a Mestre in Via Abruzzo n°12. (difeso di fiducia dall'avv.prof. Marco Zanotti, Via d'Azeglio n°31, Bologna). 22) FREZZATO Giuseppe, nato a Udine il 26.2.1939, già residente a Preganziol (TV) in Via Schiavonia n°181. I R R E P E R I B I L E (difeso d'ufficio dall'avv. Roberto Peccianti, Via Corridoni n°6, Milano). 23) MONTAGNER Piercarlo, nato a Venezia il 6.12.1947 e residente a Spinea (VE) in Via Abba n°15. (difeso di fiducia dall'avv. Eugenio Vassallo, Via Carducci n°13, Mestre, e dall'avv. Roberto Losengo, Via Podgora n°13, Milano). 24) MINETTO Sergio, nato a Verona il 4.5.1925 ed ivi residente in Via Campania n°29. (difeso di fiducia dall'avv. Giuseppe Pezzotta, Corso Monforte n°20, Milano). 25) BANDOLI Giovanni, nato a Pray (VI) il 24.2.1931 e residente a Negrar (VR) in Via dei Mandolri n°2. (difeso di fiducia dall'avv. Giacomo Zanolini del Foro di Verona, domiciliato presso lo studio dell'avv. Gianfranco Del Popolo Cristaldi, Via Stresa n°16, Milano) 26) JONES Robert Edward, nato a Worcester (Massachussets - U.S.A.) il 19.8.1832 e residente a Maniago (PN) in Via Umberto Saba n°9/e. (difeso d'ufficio dall'avv. Marco Boretti, Via Castelmorrone n°1, Milano). 27) MALCANGI Ettore, nato a Milano il 18.8.1949 e residente a Montemaggiore sul Metauro (PS) in Via Cave n°2. (difeso d'ufficio dall'avv. Ettore Traini, Via Alessandro Volta n°17, Milano). 28) CARUSO Enrico, nato a Milano il 25.2.1956, attualmente detenuto per altro presso la Casa di Reclusione di Opera 3 4 (difeso di fiducia dall'avv. Manuel Sarno, Via Durini n°4, Milano). 29) PRUDENTE Lorenzo, nato a Torino il 22.1.1956 ed elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia, avv. Salvatore Stivala, Via Podgora 6, Milano. 30) CAVALLINI Gilberto, nato a Milano il 26.9.1952, attualmente detenuto per altro presso la Casa di Reclusione di Opera. (difeso di fiducia dall'avv. Luciano Merlini, Via Fiamma n°27, Milano). 31) BALLAN Marco, nato a Milano il 16.4.1944 ed ivi residente in Via Lattanzio n°9, domiciliato a Sesto San Giovanni in Via Gramsci n°463 (difeso di fiducia dall'avv. Giuliano Artelli, Via Loderingo degli Andalò 3/2, Bologna). 32) COZZO Anna Maria, nata ad Ariano Irpino il 9.4.1946 e residente a Napoli in Via Francesco Cilea n°45. (difesa di fiducia dall'avv. Marcantonio Bezicheri, Via Marconi n°7, Bologna, e dall'avv. Salvatore Maria Sergio, Via Salvator Rosa n°287, Napoli). 33) DEDEMO Marzio, nato a Venezia il 2.4.1946 domiciliato presso il Servizio Centrale di Protezione (difeso di fiducia dall'avv. Giorgio Barbesti, Viale Alcide De Gasperi n°60, Crema). 4 IMPUTAZIONI 5 6 BANDA ARMATA E ASSOCIAZIONE SOVVERSIVA ORDINE NUOVO / GRUPPO LA FENICE BATTISTON IMPUTATO 1) del reato di cui agli artt.110, 112 n.1, 270 I parte c.p. per avere, in concorso con ROGNONI e AZZI (organizzatori), con DI LORENZO, MARZORATI e DE MIN (semplici partecipanti) a Milano e con altre persone, fra cui SIGNORELLI Paolo, FACHINI Massimiliano e MELI Mauro, già giudicate a Roma nell'ambito del procedimento n.15/84 Reg.Gen. Corte d'Assise di Roma e tutte appartenenti alle strutture locali di Ordine Nuovo, e quindi in numero superiore a cinque, promosso, costituito ed organizzato un'associazione sovversiva volta a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali costituiti nello Stato, a sopprimere il sistema delle rappresentanze parlamentari nonchè a compiere atti di violenza. In particolare i medesimi contribuivano a creare una struttura interamente clandestina, raccolta intorno alla rivista "La Fenice", che per il conseguimento dei fini indicati acquisiva notevoli quantitativi di armi, bombe a mano e altri esplosivi di provenienza militare, progettava e realizzava attentati di vario genere, predisponeva idonei rifugi per militanti colpiti da provvedimenti restrittivi, procacciava documenti di identità falsificati, addestrava i militanti all'uso delle armi, teneva i contatti con analoghe strutture operanti in lazio, in Veneto e a Roma e diffondeva pubblicazioni finalizzate alla denigrazione della democrazia ed alla propugnazione della sua soppressione con il ritorno, con metodi violenti, dei regimi fascista e nazista. A Milano e in altri luoghi dal 1971 sino all'aprile 1973 per AZZI Nico e sino al febbraio 1977, data del suo arresto in Spagna, per ROGNONI Giancarlo e sino all'inizio del 1977 per DI LORENZO Cinzia e BATTISTON Pietro 2) del reato di cui agli artt.110, 112 n.1, 306, I comma, c.p. per avere, in concorso con le medesime persone di cui al capo A), e quindi in numero superiore a cinque, al fine di commettere i reati di cui al medesimo capo, promosso, costituito ed organizzato una banda armata costituente il livello armato di Ordine Nuovo mediante l'acquisizione per gli associati, con forme e modalità diverse fra cui furti presso depositi militari e consegna da parte di militari ad essi legati, di ingenti quantitativi di armi, munizioni, esplosivi e bombe a mano. A Milano e in altri luoghi dal 1971 sino all'aprile 1973 per AZZI Nico e sino al febbraio 1977, data del suo arresto in Spagna, per ROGNONI Giancarlo e sino all'inizio del 1977 per BATTISTON Pietro. 3) del reato di cui all'art.285 c.p. perchè, in concorso con gli altri dirigenti e attivisti del Circolo "La Fenice", facente parte dell'area di "Ordine Nuovo", allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, preparava un congegno esplosivo a tempo utilizzando un chilogrammo di tritolo, due detonatori, una pila e una sveglia; ordigno collocato 6 materialmente da Nico AZZI nel cestino metallico posto nella ritirata di un vagone del treno direttissimo Torino-Roma gremito di persone; azione interrotta dal fatto che l'AZZI, accovacciato nella predetta ritirata, mentre ultimava il collegamento dei fili elettrici alla pila e metteva a punto l'orologio, provocava accidentalmente lo scoppio di uno dei detonatori; condotta diretta a cagionare un disastro ferroviario ed al fine di uccidere e tale da porre in pericolo la pubblica incolumità. In Milano e Genova, il 7.4.1973 e nelle settimane immediatamente precedenti. 7 8 DETENZIONE E PORTO DI ESPLOSIVI APPARTENENTI ALLA DOTAZIONE LOGISTICA DEL GRUPPO LA FENICE ED OCCULTATI A CELLE LIGURE (1972) ROGNONI - AZZI - DE MIN IMPUTATI 4) dei reati di cui agli artt.110 c.p., 2 e 4 Legge 2.10.1967 n.895 per avere detenuto e portato in luogo pubblico detonatori al fulminato di mercurio e bombe a mano SRCM, provenienti dalla caserma di Imperia ove Azzi svolgeva il servizio militare, nonchè esplosivo tipo ANFO e munizioni varie, materiale appartenente alla dotazione logistica del gruppo "La Fenice" ed attualmente occultato in località Sanda, nella zona di Celle Ligure, non lontano dall'abitazione già appartenente a Rognoni e non reperibile a causa della situazione del luogo. A Milano e Celle Ligure, nel corso del 1972 sino a data imprecisata. BALLAN - ROGNONI IMPUTATI 5) del delitto di cui all'art.270 c.p. per avere, in concorso tra loro, con ESPOSTI Giancarlo (deceduto) e con altri, costituito, promosso, organizzato e diretto un'associazione volta a sovvertire violentemente gli ordinamenti sociali costituiti dallo Stato attraverso un programma che prevedeva reiterati attentati a linee ferroviarie, centrali elettriche, infrastrutture e persone e in particolare, e fra l'altro, almeno quattro delitti di strage che nella prospettazione degli associati avrebbe dovuto determinare, oltre agli esiti immediati di tali delitti, il panico diffuco fra la popolazione ed in tal modo creare le condizioni politiche per il sovvertimento violento delle istituzioni. Associazione operante in Milano, Ascoli Piceno, Silvi Marina, San Benedetto Val di Sambro ed altre località dell'Italia centrale e settentrionale almeno sino al 4.8.1974. 6) del delitto di cui all'art.306 c.p. per avere promosso, costituito e organizzato una banda armata finalizzata alla consumazione del delitto di cui al capo che precede nonchè di almeno quattro delitti di strage previsti dall'art.285 c.p. Associazione operante in Milano, Ascoli Piceno, Silvi Marina, San Benedetto Val di Sambro ed altre località dell'Italia centrale e settentrionale almeno sino al 4.8.1974. 8 ed altresì ROGNONI INDIZIATO 7) del reato di cui agli artt.10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 e 3 e 23 Legge 18.4.1975 n.110 per avere detenuto una pistola Beretta cal.7,65 con canna filettata, facente parte della dotazione logistica del gruppo, nonchè alcuni silenziatori per tale arma provenienti dalla dotazione del gruppo di Mestre/Venezia di Ordine Nuovo e fabbricati da Carlo DIGILIO. A Milano e a Lecco dal 1970 sino a data imprecisata (ma comunque collocabile alla metà degli anni '70). 9 10 CESSIONE DI DOCUMENTI E DETENZIONE DI ARMI DA PARTE DI MARZIO DEDEMO DEDEMO IMPUTATO 8) dei reati di cui agli artt.81, 648, 477 - 482 c.p. per avere ricevuto e portato in Spagna circa 15 patenti di guida e 15 carte di identità italiane di provenienza furtiva nonchè 7 passaporti italiani e timbri componobili per la falsificazione degli stessi, documenti tutti portati da DEDEMO in Spagna su disposizione del dr. Carlo Maria MAGGI e consegnati, in occasione di più viaggi, a Giancarlo ROGNONI unitamente al passaporto e alla patente di guida dello stesso DEDEMO (di cui lo stesso aveva falsamente denunciato il furto), utilizzati in seguito da questi ultimi per approntare falsi documenti dell’ordinovista genovese Mauro MELI, anch’egli latitante a Madrid, A Venezia, Milano e in Spagna tra l’ottobre 1975 e il 1977. 9) dei reati di cui agli artt.10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 per avere detenuto varie armi (tra cui una pistola Browning bifilare e una pistola Franchi-Llama mod.Phyton) consegnategli dal dr. Varlo Maria MAGGI in occasione di servizi di “tutela” armata a Venezia in favore del MAGGI stesso e a Padova in favore di altri due esponenti di destra (uno dei quali probabilmente Paolo SIGNORELLI), in due diverse occasioni, in una delle quali unitamente a Martino SICILIANO. A Venezia e Padova tra il 1972 e il 1973. 10 BANDA ARMATA AGINTER-PRESS / ORDRE ET TRADITION / O.A.C.I. GUILLOU alias GUERIN Serac - DELLE CHIAIE IMPUTATI 10) del reato di cui all'art.306 I comma c.p. perchè, in concorso con Robert Leroy, deceduto, ed altre persone nella veste di partecipanti fra cui Vincenzo VINCIGUERRA, Mario RICCI e Piero CARMASSI, promuovevano ed organizzavano una banda armata che agiva sotto la denominazione "AGINTER PRESS" (ed anche sotto le sigle "ORDRE ET TRADITION" e "O.A.C.I."), con sede prima a Lisbona e poi a Madrid, costituita per commettere i reati di cui agli artt.270 e 283 c.p. e con specifiche finalità anti-comuniste e di mutamento, con mezzi non consentiti, degli ordinamenti costituzionali degli Stati in cui operava. Banda armata formata da cittadini francesi, già aderenti all'O.A.S., e da spagnoli, portoghesi, italiani ed americani addestrati nelle tecniche di disinformazione, infiltrazione, guerra psicologica e sabotaggio, nelle tecniche di pedinamento, sequestro, interrogatorio e schedatura di avversari politici, all'approntamento di basi in cui ospitare latitanti di varie nazionalità e all'approntamento di documenti falsi. Addestrati altresì all'uso delle armi, fra cui mitragliette ricevute dai Servizi Speciali spagnoli e al confezionamento, trasporto ed uso di esplosivi, fra cui esplosivi francesi di provenienza militare. Stefano DELLE CHIAIE organizzando altresì, con la partecipazione di RICCI, CARMASSI, VINCIGUERRA, CICUTTINI ed altre persone, il sequestro e l'interrogatorio di Gaetano Orlando a Madrid nel giugno 1974 ed organizzando inoltre la presenza con armi di numerosi italiani (fra cui CAUCHI, CALZONA, RICCI, CARMASSI, CICUTTINI ed altri), inquadrati militarmente, alla manifestazione di Montejurra (Navarra) del 9.5.1976 e la partecipazione degli stessi alla sparatoria conclusasi con l'omicidio di due militanti carlisti seguaci del Principe Carlos Hugo. Banda armata operante in Spagna, nei confronti degli avversari politici, in Portogallo (sotto il nome di E.L.P.), in America Centrale, nelle Azzorre, in Angola, in Italia, in Francia, in Germania e in Gran Bretagna (con riferimento agli attentati contro Ambasciate d'Algeria commessi nella primavera-estate del 1975) e con sede, dalla metà degli anni '60, a Lisbona e, a partire dalla metà del 1974 quantomeno sino alla prima metà del 1977, a Madrid. ed altresì: VINCIGUERRA - RICCI - CARMASSI INDIZIATI 11) del medesimo reato di cui al capo 10) con il ruolo di semplici partecipanti alla banda armata (art.306, II comma, c.p.). 11 12 ATTENTATI ALLE AMBASCIATE D'ALGERIA IN FRANCIA, GRAN BRETAGNA, GERMANIA FEDERALE, ITALIA (estate 1975) GUILLOU alias GUERIN SERAC - DELLE CHIAIE - VINCIGUERRA SALBY - RICCI - CARMASSI IMPUTATI 12) dei reati di cui agli artt.81 cpv., 110, 112 nn.1 e 2 c.p., 10, 12 e 13 Legge 14.10.1974 n.497 e art.635 c.p. in relazione alla commissione dei seguenti attentati: - attentato in danno dell'Amicale des Algeriens en Europe, Rue Louis Le Grand, Parigi in data 27.7.1975, commesso con la collocazione di un ordigno composto con amatolo; - attentato in danno dell'Ambasciata d'Algeria a Roma in data 18.8.1975, commesso con la collocazione di un ordigno composto con polvere da mina; - attentato in danno dell'Ambasciata d'Algeria a Bonn in data 18.8.1975, commesso con la collocazione di un ordigno non esploso, costituito da un timer elettronico ed esplosivo militare del tipo C4; - attentato in danno dell'Ambasciata d'Algeria a Londra, Hyde Park Gate 6, in data 18.8.1975, commesso con la collocazione di un ordigno non esploso, costituito da un detonatore elettrico di fabbricazione spagnola, da un orologio quale timer e da esplosivo del tipo gelignite. Campagna di attentati (tutti rivendicati con la sigla "S.O.A.- SOLDATI dell'OPPOSIZIONE ALGERINA) promossa ed organizzata a Madrid da GUERIN SERAC e da DELLE CHIAIE Stefano e da VINCIGUERRA Vincenzo a Parigi con particolare riferimento all'attentato commesso a Bonn. Attentati commessi, sotto il profilo dell'esecuzione materiale, a Londra da SALBY e a Bonn da RICCI e CARMASSI in concorso con altri italiani nonchè a Parigi e a Roma da militanti non identificati ma comunque appartenenti alla struttura eversiva, formata da italiani e stranieri, con base a Madrid. 12 BANDA ARMATA ORDINE NUOVO CELLULA DI MESTRE-VENEZIA (1968 - 1975 circa) SICILIANO - MONTAGNER IMPUTATI 13) del reato di cui agli artt.110 e 306, I comma, c.p. in relazione all'art.270 c.p. per avere promosso ed organizzato, in concorso con MAGGI Carlo Maria e ZORZI Delfo (separatamente giudicati), SICILIANO Martino ed altre persone, una banda armata costituitasi a Mestre a partire dalla metà degli anni '60 ed operante in seguito sotto la copertura del Circolo Ezra Pound con sede a Mestre in Via Mestrina. Banda armata che agiva quale struttura occulta di Ordine Nuovo in raccordo con la cellula padovana di FREDA e VENTURA, con la cellula veronese di SOFFIATI e BESUTTI, con la cellula triestina di PORTOLAN e NEAMI nonchè, a partire dalla metà del 1969, con il gruppo milanese "La Fenice", facente capo a ROGNONI Giancarlo, ed altresì in raccordo con alti esponenti militari i quali intendevano convogliare la struttura occulta di Ordine Nuovo, con funzioni di appoggio, in un progetto di colpo di Stato che doveva realizzarsi entro il 1973 sotto la direzione di strutture militari istruite alle tecniche della guerra non ortodossa. Banda armata che, a partire dalla metà degli anni '60 e quantomeno sino al 1982, aveva costituito una dotazione logistica di armi ed esplosivi custoditi in varie basi, aveva istruito i suoi componenti all'utilizzo di tali materiali e alla preparazione di inneschi per ordigni esplosivi ed era finalizzata, secondo una ben precisa progressione criminosa, a compiere prima attentati dimostrativi e poi episodi di strage (alcuni dei quali realizzati) destinati a facilitare il mutamento violento dell'Ordinamento dello Stato. In particolare MONTAGNER agendo in una prima fase, anche in ragione delle sue cognizioni tecniche, all'interno del gruppo operativo e in seguito, e sino a data recentissima, quale raccordo informativo finalizzato a tenere i contatti fra i componenti del gruppo e a proteggerli da possibili iniziative giudiziarie. Banda armata promossa verosimilmente a Roma ed operante a Venezia, padova, Verona, Trieste, Milano, in Spagna ed altri luoghi dalla metà degli anni '60, con l'assetto ora indicato, sino al 1977 (momento del definitivo arresto di ROGNONI Giancarlo) e in seguito, sino a data imprecisata ma comunque collocabile almeno sino al 1982 (data dell'arresto di BRESSAN Claudio di Verona) con il principale apporto operativo del gruppo di Venezia, facente capo a MAGGI e DIGILIO, e del gruppo veronese sino a quel momento non toccati dalle investigazioni dell'Autorità Giudiziaria. 13 14 FURTO DI ESPLOSIVO IN UNA CAVA DI MARMO NEL VICENTINO (1966) ZORZI - SICILIANO - MONTAGNER - MAGGI IMPUTATI 14) dei reati di cui agli artt. 110, 624, 625, nn.2, 5, e 7, c.p. e 1 e 2 Legge 2.10.1967 n.895 per avere sottratto, sfondando la porta di un casotto in una cava di marmo ad Arzignano del Chiampo, 30/40 chilogrammi di esplosivo del tipo ammonal nonchè detonatori e miccia sia detonante sia a lenta combustione. Furto materialmente commesso da Zorzi, Siciliano e Montagner con il supporto di Maggi che aveva fornito l'autovettura Fiat 500 usata per raggiungere Arzignano e ritornare a Venezia con il materiale. Materiale in seguito detenuto da Delfo Zorzi a Venezia in luogo ignoto e poi custodito dallo stesso nel casolare di Paese (TV) di cui al capo che segue. Ad Arzignano del Chiampo (VI) nella prima metà del 1966 e nel periodo successivo. 14 DEPOSITO DI ARMI ED ESPLOSIVI IN UN CASOLARE DOTAZIONE LOGISTICA DELLA STRUTTURA VENETA DI ORDINE NUOVO (anni 1967/1969) ZORZI - VENTURA - FREDA - POZZAN IMPUTATI 15) dei reati di cui agli artt. 110 c.p., 1 e 2 Legge 2.10.1967 n.895 per avere detenuto. in concorso fra loro e con altre persone appartenenti alla struttura veneta di Ordine Nuovo, in un casolare di Paese (TV), una quarantina di armi lunghe prevalentemente da guerra fra cui alcuni moschetti MAUSER, alcuni M.A.B., alcuni STEN, una machine pistol SCHMEISSER MP40, un fucile THOMPSON 45, una mitragliatrice MG42 e alcune cassette di munizioni per dette armi, una baionetta nonchè numerosi candelotti di tritolo custoditi in due cassette militari e circa 30 chilogrammi di esplosivo in scaglie non meglio identificato (comunque a base di nitrato di ammonio) nonchè inneschi costituiti da fiammiferi antivento, detonatori e circuiti elettrici atti ad attivare ordigni esplosivi, materiale tutto costituente parte della dotazione logistica delle cellule di Ordine Nuovo del Veneto. A Treviso e provincia, dal 1967 e negli anni successivi. 15 16 DETENZIONE DI ARMI ED ESPLOSIVI APPARTENENTI ALLA STRUTTURA LOGISTICA DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA E MESTRE (1968 - 1975 circa) MAGGI - ZORZI - SICILIANO - VIANELLO IMPUTATI 16) dei reati di cui agli artt.110, 112 n.1 c.p., 2 e 4 Legge 2.10.1967 n.895 per avere detenuto e portato in luogo pubblico numerose armi corte e lunghe, anche da guerra, fra cui pistole cal.7,65 e cal.9 di fabbricazione italiana e tedesca, revolvers di fabbricazione americana, fucili mitragliatori MAB e STEN, fucili mitragliatori di fabbricazione tedesca originari della seconda guerra mondiale nonchè alcuni silenziatori per pistole semiautomatiche e numerosi chilogrammi di esplosivo del tipo gelignite con relativi detonatori, materiale costituente la dotazione logistica della cellula di Ordine Nuovo di Mestre- Venezia. A Venezia e a Mestre, dal 1968 circa sino alla metà degli anni '70. 16 DANNEGGIAMENTO E INCENDIO DELLA SEDE DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO DI CAMPALTO (1968) ZORZI - SICILIANO - MONTAGNER IMPUTATI 17) dei reati di cui agli artt.110 - 635, I e II comma n.3 - 424 - 624-625, nn.1, 2 e 5, 292 c.p. perchè, in concorso con altre persone non potute identificare, ma comunque appartenenti all'area di estrema destra di Mestre, si introducevano, forzandone la porta, nella sezione del P.C.I. di Campalto danneggiando il mobilio, distruggendo il materiale propagandistico ivi presente ed una bandiera italiana ed appiccando un incendio dopo avere sparso della benzina sul pavimento. Asportando altresì la bandiera del Partito custodita nella sezione. A Campalto, nelle prime ore del 9.10.1968. 17 18 DETENZIONE DI CANDELOTTI DI GELIGNITE FREZZATO IMPUTATO 18) dei reati di cui agli artt.2 e 4 Legge 2.10.1967 n.895 perchè illegalmente deteneva e portava in luogo pubblico almeno otto o nove candelotti di esplosivo del tipo gelignite appartenenti alla struttura logistica di Ordine Nuovo di Mestre-Venezia. A Mestre, nel 1968/1969. 18 ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE ITALO-JUGOSLAVO IN LOCALITA' MONTESANTO DI GORIZIA (4.10.1969) ZORZI-SICILIANO-VIANELLO-NEAMI-PORTOLAN-MAGGI-COZZO INDIZIATI 19) dei delitti di cui agli artt.110, 112, n.1, 56-635, I e II comma, c.p. 2, 4 e 6 Legge 2.10.1967 n.895 per avere, in concorso tra loro e con un'altra persona non identificata, deposto sulla linea di confine italo-jugoslavo un ordigno costituito da sei candelotti di gelignite, contenuti in una cassetta metallica portamunizioni e collegati ad una sveglia, una batteria e un detonatore, ordigno finalizzato a protestare contro la politica del governo italiano nei confronti della Jugoslavia e non esploso per ragioni indipendenti dalla volontà degli attentatori (difetto nell'innesco). In particolare Zorzi, Siciliano e Vianello deponendo materialmente l'ordigno nei pressi del cippo e della rete metallica di confine, Neami e Portolan accompagnando i tre veneziani sulla strada per Gorizia dopo il contemporaneo attentato in danno della Scuola Slovena di Trieste e Maggi fornendo l'autovettura utilizzata per il viaggio a Trieste e a Gorizia nella piena consapevolezza degli attentati che stavano per essere compiuti. A Venezia, Trieste e Gorizia, fra il 3 e il 4 ottobre 1969. 19 20 ATTENTATO IN DANNO DELLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE (3.10.1969) ZORZI-SICILIANO-VIANELLO-NEAMI-PORTOLAN-MAGGI-COZZO IMPUTATI 20) dei reati di cui agli artt.110, 112, n.1, 56-635, I e II comma, c.p. e 2, 4 e 6 Legge 2.10.1967 n.895 per avere, in concorso tra loro e con un'altra persona non identificata, deposto un ordigno costituito da Kg.5,700 di gelignite, contenuti in una cassetta metallica portamunizioni e collegati ad un orologio per l'innesco a tempo, su un davanzale della Scuola elementare Slovena del rione San Giovanni di Trieste, con l'intenzione di danneggiare gravemente l'edificio e di influire in tal modo sull'orientamento politico del governo italiano nei rapporti con la Jugoslavia, non riuscendo nell'intento per ragioni indipendenti dalla loro volontà e connesse al mancato funzionamento dell'innesco. In particolare Zorzi, Siciliano e Vianello portando da Venezia e deponendo materialmente l'ordigno, Neami e Portolan fornendo appoggio logistico a Trieste per l'approntamento definitivo dell'ordigno stesso e conducendo i veneziani sul luogo dell'attentato e Maggi fornendo l'autovettura utilizzata per raggiungere Trieste nella piena consapevolezza dell'attentato che stava per essere compiuto. A Venezia e Trieste fra il 3 e il 4 ottobre 1969. DIGILIO IMPUTATO 21) dei reati di cui agli artt.2, 4 e 6 Legge 2.10.1967 n.895 per avere forniro al gruppo di ZORZI Delfo i candelotti di gelignite utilizzati per gli attentati di Gorizia e di Trieste di cui ai due capi che precedono e avere fornito allo stesso consulenze per la preparazione dell'innesco del congegno esplosivo. A Venezia, nell'autunno 1969. 20 ATTENTATO IN DANNO DEI MAGAZZINI COIN DI MESTRE (1970) SICILIANO - ANDREATTA - ZORZI INDIZIATI 22) dei reati di cui agli artt. 110 c.p. e 2, 4 e 6 Legge 2.10.1967 n.895 per avere fatto esplodere, in concorso tra loro, un ordigno composto da circa 200 grammi di gelignite, miccia a lenta combustione e una capsula detonante presso una vetrina dei magazzini COIN di Mestre siti in Piazza Barche, in particolare ANDREATTA deponendo materialmente l'ordigno e SICILIANO collaborando al suo confezionamento nella sede di Ordine Nuovo di Via Mestrina. A Mestre, il 27.3.1970. 21 22 CESSIONE DI UNA BOMBA DA MORTAIO E DI UNA PISTOLA CAL.6,35 (1971) FREZZATO IMPUTATO 23) dei reati di cui agli artt.1, 2 e 7 Legge 2.10.1967 n.895 per avere detenuto a ceduto a Siciliano Martino una bomba da mortaio da questi usata per commettere l'attentato all'Università Cattolica di Milano del 15.10.1971 nonchè per avere detenuto e ceduto allo stesso una pistola cal.6,35 sequestrata al Siciliano a Mestre in data 27.10.1971. A Venezia e a Milano, rispettivamente nei periodi immediatamente precedenti il 15.10.1971 e il 27.10.1971. 22 DETENZIONE DI MINE ANTICARRO DA PARTE DELLA CELLULA DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA (inizio anni '70) MAGGI - DIGILIO IMPUTATO 24) del reato di cui agli artt. 110 c.p., 1 e 2 Legge 2.10.1967 n.895, 9, 10 e 12 Legge 14.10.1974, n.497 per avere detenuto, MAGGI in concorso con MONTAVOCI Giampietro, deceduto, e con altre persone appartenenti alla cellula veneziana di Ordine Nuovo, due mine anticarro di provenienza bellica contenenti esplosivo T4; per avere altresì il dr. MAGGI concorso a detenere , nella sua veste di responsabile sul piano decisionale ed organizzativo della struttura occulta della cellula di Mestre/Venezia di Ordine Nuovo, circa mezzo chilo di acido picrico e circa 12 chili di tritolo, contenuti in una granata, e alcune mine anticarro di provenienza bellica, autorizzando Carlo DIGILIO ad estrarre l’esplosivo dai contenitori metallici e a suddividerlo in cilindretti e a riconsegnarlo a Roberto RAHO che doveva portarlo alla struttura romana di Ordine Nuovo. A Venezia e Mestre, a partire dal 1971 e quantomeno sino al 1979. 23 24 FAVOREGGIAMENTO NEI CONFRONTI DI MILITANTI DEL GRUPPO "LA FENICE" (1974) MAGGI - DIGILIO IMPUTATI 25) del reato di cui agli artt.110, 378 c.p. per avere, in concorso tra loro, aiutato BATTISTON Piero e ZAFFONI Francesco a sottrarsi alle ricerche dell'Autorità conoscendone la situazione di latitanti in relazione a provvedimenti restrittivi emessi dall'Autorità Giudiziaria di Milano. In particolare dando ospitalità presso l'abitazione di MAGGI alla Giudecca, presso l'abitazione dei gestori della trattoria Lo Scalinetto, presso le abitazioni di Giampietro Montavoci e Giorgio Boffelli, presso il Circolo "Il Quadrato", locale nella disponibilità dell'avv. Giampietro Carlet, persone tutte legate al gruppo di Ordine Nuovo di Venezia. A Venezia, in relazione a ZAFFONI per circa dieci giorni nel gennaio 1974 e in relazione a BATTISTON per circa sei mesi dal gennaio al giugno 1974, sino alla partenza di questi per la Grecia. 24 GESTIONE DELLA DOTAZIONE LOGISTICA DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI MESTRE/VENEZIA (1965 - 1982) DIGILIO - MAGGI IMPUTATI 26) dei reati di cui agli artt.9, 10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 e art.23 Legge 18.4.1975 n.110 per avere DIGILIO nei confronti di MAGGI curato la manutenzione e la modifica delle armi comuni e da guerra appartenenti alla dotazione logistica del gruppo di Ordine Nuovo di Mestre/Venezia, con particolare riferimento alla modifica delle canne e di altre parti di armi e alla fabbricazione di silenziatori. Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito per finalità di terrorismo. Fatti avvenuti a Mestre, Venezia e altre città del Veneto dal 1965 quantomeno sino alla fine del 1982. 25 26 RAPPORTI IN MATERIA DI ARMI FRA IL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA E GILBERTO CAVALLINI (1978 - 1982) MAGGI - DIGILIO - CAVALLINI IMPUTATI 27) dei reati di cui agli artt.110 c.p., 9, 10, 12 e 14 Legge 14.10.1974 n.497 e 23 Legge 18.4.1975 n.110 per avere, in concorso tra loro, detenuto e portato in luogo pubblico armi comuni da sparo e da guerra, parte delle quali clandestine in quanto silenziate e con matricole abrase o comunque alterate. In particolare Carlo Maria MAGGI presentando inizialmente Gilberto CAVALLINI a Carlo DIGILIO affinchè quest'ultimo verificasse il funzionamento delle armi portate da Milano dal Cavallini all'interno dell'automobile nella sua disponibilità, ricevendo MAGGI una somma dal CAVALLINI quale compenso per la consulenza prestata dal gruppo di Ordine Nuovo di Venezia. In tempi successivi, DIGILIO effettuando, nella sua abitazione di Venezia a Sant'Elena, attività di manutenzione e di riparazione di armi portate dal CAVALLINI, attività compiute grazie alle attrezzature di cui DIGILIO disponeva. In tempi ancora successivi (fra il 1979 e il 1982) Carlo Maria MAGGI e Carlo DIGILIO fornendo a Gilberto CAVALLINI numerose armi comuni da sparo e armi da guerra, comprese armi lunghe, in parte originarie della seconda guerra mondiale e provenienti dalla precedente dotazione di Delfo ZORZI e del gruppo di Mestre, in parte acquistate illegalmente tramite l'armiere milanese Giovanni TORTA e fornendo altresì a CAVALLINI alcuni silenziatori fabbricati da Carlo DIGILIO. Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito per finalità di terrorismo. A Milano e Venezia dal 1978 quantomeno sino alla fine del 1982. 26 FAVOREGGIAMENTO E CESSIONE DI MODULI PER CARTE DI IDENTITA' NEI CONFRONTI DI CARLO DIGILIO (1984) MALCANGI - PRUDENTE IMPUTATI MALCANGI 28) del reato di cui agli artt.476, 479, 648 c.p. per avere fornito due libretti per passaporto e un modulo per carta di identità, di provenienza furtiva, a Carlo DIGILIO affinchè questi li utilizzasse per espatriare a Santo Domingo. Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di terrorismo. In Milano e Villa d'Adda, nell'autunno del 1984. PRUDENTE 29) del reato di cui agli artt.476, 479 c.p. per avere fornito a Carlo DIGILIO, in procinto di partire per Santo Domingo, i dati di una persona coinvolta in un incidente, la cui pratica era trattata dalla società di assicurazioni in cui egli operava, affinchè DIGILIO li utilizzasse per approntare i documenti falsi di cui al capo che precede, necessari per la fuga a Santo Domingo. Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di terrorismo. In Milano e Villa d'Adda, nell'autunno del 1984. 30) del reato di cui all'art.378 c.p. per avere, nella sua qualità di persona componente del gruppo di Gilberto CAVALLINI, aiutato Carlo DIGILIO a sottrarsi alle ricerche dell'Autorità, conoscendone la situazione di persona latitante in relazione ad un provvedimento restrittivo emesso dall'Autorità Giudiziaria di Venezia. In particolare accompagnando DIGILIO, con la propria autovettura, sino al confine di Chiasso e poi sino all'aereoporto di Zurigo affinchè questi si imbarcasse su un aereo diretto a Santo Domingo. Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di terrorismo. In Milano, Villa d'Adda e valico di Chiasso, nella primavera del 1985. 27 28 CESSIONE DI DOCUMENTI ARGENTINI DA ETTORE MALCANGI A CARLO DIGILIO E DA QUESTI A ENRICO CARUSO (1985) MALCANGI - DIGILIO - CARUSO IMPUTATI 31) del reato di cui agli artt.476, 479, 648 c.p. per avere MALCANGI detenuto due documenti argentini, già appartenenti ad oppositori politici del Governo esistente a quell'epoca in tale Paese e provenienti dai servizi segreti uruguayani, e averli ceduti a DIGILIO nell'imminenza della partenza di questi per Santo Domingo; DIGILIO per averne invece ceduto uno a CARUSO dopo avervi applicato la fotografia di quest'ultimo, ricevendolo in seguito in restituzione dallo stesso CARUSO a Santo Domingo. Con l'aggravante di cui all'art.1 D.L. 15.12.1978 n.625 per avere agito con finalità di terrorismo. A Villa d'Adda e Santo Domingo, nell'autunno del 1984 in relazione a MALCANGI e a partire dal gennaio 1985 sino al 1986 in relazione a DIGILIO e CARUSO. 28 SPIONAGGIO POLITICO-MILITARE IN FAVORE DI STRUTTURE STATUNITENSI (1966/1985) MINETTO - DIGILIO IMPUTATI 32) del reato di cui agli artt.110, 112 n.1, 257 c.p. per avere svolto, in concorso fra loro e unitamente a cittadini italiani e stranieri, in numero superiore a cinque, attività di spionaggio facendo parte, con un ruolo intermedio fra i responsabili americani e gli informatori, di una rete informativa dipendente dal Comando FTASE di Verona ed operante in tutto il Veneto. In particolare, acquisendo senza alcuna autorizzazione o accreditamento presso i Servizi di sicurezza italiani, notizie riguardanti non solo la sicurezza e la protezione delle basi e degli interessi statunitensi, ma anche eventi concernenti la sicurezza interna del nostro Paese, notizie che come tali potevano essere raccolte solo a seguito di specifiche intese o comunque riferite alle competenti strutture italiane non appena acquisite. In particolare, MINETTO inviando il suo informatore, Carlo DIGILIO, (al posto di Marcello SOFFIATI, non idoneo alla missione poichè troppo conosciuto negli ambienti di estrema destra) a Vittorio Veneto e a Treviso affinchè, con l'aiuto di un altro dipendente della rete informativa, controllasse e seguisse personalmente le attività eversive del gruppo facente capo a Franco FREDA, Giovanni VENTURA e Delfo ZORZI e si recasse insieme a questi nel casolare di Paese (TV) di cui al capo 15) ove era custodito il deposito di armi ed esplosivo del gruppo e ove venivano preparati gli inneschi per gli ordigni da utilizzarsi in attentati. Attività svolta, secondo gli ordini ricevuti, dal Digilio e dall'altro informatore, Prof. LINO FRANCO, che si erano presentati nella veste di consulenti ed esperti di armi ed esplosivi e regolarmente riferita al MINETTO che aveva poi relazionato i suoi superiori. Attività, questa, che aveva messo in pericolo sia sotto il profilo commissivo (consulenza in favore del gruppo FREDA/VENTURA) sia sotto il profilo omissivo (mancata informazione delle nostre Autorità di sicurezza o di polizia giudiziaria) la sicurezza e gli interessi politici del nostro Paese in quanto il gruppo eversivo oggetto dell'azione di osservazione stava progettando attentati finalizzati a mutare con la violenza gli assetti istituzionali dello Stato italiano. Svolgendo altresì il MINETTO, negli anni successivi, analoghe azioni di controllo e di osservazione nei confronti di addestramenti illegali con armi, svolti da nuclei misti di civili e di militari in Veneto e in Alto Adige e nei confronti degli esponenti del Fronte Nazionale che stavano preparando il tentativo di golpe noto come "golpe Borghese", nonchè azioni di raccordo informativo e operativo fra la struttura informativa statunitense e la struttura occulta di Ordine Nuovo. Sergio MINETTO, inoltre, nei primi mesi del 1972, insieme a Carlo DIGILIO e allo stesso SOFFIATI, all'interno dell'appartamento di Via Stella a Verona nella disponibilità del Soffiati, sovrintendendo al "controllo" dell'avv. Gabriele FORZIATI, ivi portato dal dr. Carlo Maria MAGGI e sorvegliato da Francesco NEAMI e da un altro militante triestino di Ordine Nuovo, affinchè fosse convinto a non rivelare all'A.G. di 29 30 Milano, che lo aveva convocato, quanto a sua conoscenza in merito all'attentato alla Scuola Slovena del 3/4 ottobre 1969 e affinchè fosse convinto ad allontanarsi dall'Italia raggiungendo un rifugio sicuro prima in Grecia e poi in Spagna. Sergio MINETTO, ancora, nei primi mesi del 1973, insieme a Carlo DIGILIO e a Marcello SOFFIATI, nel medesimo appartamento di Via Stella, sovrintendendo alla presenza di Gianfranco BERTOLI, ivi condotto dal dr. Carlo Maria MAGGI e "sorvegliato" anche da Francesco NEAMI, affichè fosse definitivamente indotto a compiere un attentato a Milano contro l'on. Mariano RUMOR e fosse rifornito del denaro e della bomba a mano necessaria per l'esecuzione dell'attentato, poi effettivamente commesso a Milano dinanzi alla Questura Centrale in Via Fatenebefratelli il 17.5.1973. Fatti commessi a Verona, Venezia e in altre città del Veneto e in altre Regioni del Nord-Italia dal 1966 quantomeno fino al 1985. ed altresì: BANDOLI - JONES INDIZIATI 33) del medesimo reato di cui al capo 32) 30 DETENZIONE DELLA DOTAZIONE DI ARMI, BOMBE A MANO ED ESPLOSIVO GIA' APPARTENUTA AL PROF.LINO FRANCO (1969 - 1975) MINETTO IMPUTATO 34) dei reati di cui agli artt.110 c.p. e 9, 10, e 12 Legge 14.10.1974 n.497 per avere detenuto e portato in luogo pubblico la dotazione logistica di LINO FRANCO, dopo la morte di questi, costituita da armi da guerra fra cui bombe a mano e un fucile mitragliatore MACHINENGEVERT 15 di fabbricazione tedesca, rilevando tale dotazione dallo stesso LINO FRANCO, consegnandola in custodia a MARCELLO SOFFIATI e facendola così entrare nel patrimonio della banda armata Ordine Nuovo. In Vittorio Veneto, Verona e Colognola ai Colli, dall'estate 1969 sino a data imprecisata, ma comunque collocabile quantomeno alla metà degli anni '70. 31 32 PARTE PRIMA LE LINEE GENERALI DELLA SECONDA ISTRUTTORIA 32 1 P R E M E S S A Anche questa seconda parte dell’istruttoria e i risultati che ha conseguito sono largamente dovuti al costante, mai venuto meno anche nei momenti più difficili, impegno degli Ufficiali e del personale del Reparto Eversione del Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri, che hanno effettuato buona parte dell’attività di ricerca e di accertamento con esiti molto significativi, nonostante la lontananza nel tempo dei fatti, e raccolto e analizzato il quadro delle testimonianze e degli altri elementi raccolti in tre ampie annotazioni conclusive dedicate, le prime due, alle attività di interferenza di strutture di intelligence straniere nella c.d. strategia della tensione e, la terza, alle attività dell’AGINTER PRESS anche in relazione alla situazione italiana. Prezioso è stato anche il contributo della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione che ha messo a disposizione il suo personale nell’attività di ricerca affidata al perito nominato da questo Ufficio, attività che ha consentito il recupero di molto materiale non protocollato e sinora mai esaminato dall’Autorità Giudiziaria, fonte di molti spunti investigativi. Un sincero ringraziamento deve essere rivolto all’Assistente Giudiziaria, Sig.ra Gaetana Izzo, e al maresciallo capo della Guardia di Finanza, Antonio Russo, addetti a questa XX Sezione dell’Ufficio Istruzione di Milano, che hanno partecipato al compimento di centinaia di atti istruttori e hanno assolto per anni un lavoro estremamente impegnativo, determinato anche dalla concomitanza dell’intero lavoro riguardante, quale Sezione G.I.P., i procedimenti in corso con il rito vigente. Un particolare ringraziamento va inoltre al conducente automezzi speciali, Antonio Liguori, che ha sempre curato l’aspetto organizzativo e logistico dell’attività anche nel corso delle numerose trasferte che si sono rese necessarie per compiere i più importanti atti istruttori. L’attività di indagine si è svolta anche grazie alla collaborazione con altri Colleghi titolari di indagini in tema di reati di strage e di eversione con i quali continuo è stato il confronto fra le rispettive linee di investigazione e lo scambio di atti e di informazioni. Fra questi, in particolare, il dr. Francesco Piantoni e il dr. Roberto Di Martino, titolari del procedimento, molto contiguo a questa istruttoria per soggetti e situazioni toccate, relativo alla strage di Piazza della Loggia a Brescia, e il Giudice Istruttore dr. Carlo Mastelloni, titolare del procedimento relativo alla caduta dell’aereo Argo 16, e il dr. Enzo Calia della Procura di Pavia, titolare dell’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei. Costante è stato anche il rapporto con la Commissiona parlamentare d’inchiesta sulla mancata individuazione degli autori delle stragi e sul terrorismo, cui sono stati man mano inviati, allorchè i progressi delle indagini lo consentivano, gli atti e gli accertamenti istruttori più importanti per i suoi lavori e l’elaborazione della sua relazione finale e che, in occasione di diverse audizioni di questo Giudice, ha 33 34 stimolato, tramite le domande poste dal Presidente e dai componenti della Commissione, riflessioni e linee di interpretazione. Purtroppo il lavoro di indagine è stato contrassegnato da ostacoli e incomprensioni che ne hanno ostacolato per lunghi tratti lo svolgimento e in certi momenti messo addirittura in pericolo la sua conclusione. Scarsissimo è stato il sostegno dei dirigenti del Tribunale di Milano, nelle sue varie articolazioni, in ordine agli sviluppi dell’indagine e alla necessità di garantire le condizioni obiettive che ne consentissero la prosecuzione con i migliori risultati. A fronte di decine di segnalazioni scritte di questo Ufficio vi è stato soltanto silenzio, come se la presente istruttoria non esistesse e a questo Ufficio, che ha sempre svolto in forma integrale anche l’attività come G.I.P., non dovesse essere affidato un carico complessivo di lavoro che tenesse conto, almeno in parte, delle due funzioni svolte contemporaneamente per anni e consentisse la prosecuzione di un’istruttoria così importante, in sè e per le altre indagini collegate in corso, con il raggiungimento dei massimi risultati. Soprattutto, nella parte centrale e più delicata dell’istruttoria, una delle più imponenti e articolate macchine di attacco che sia mossa, in questa materia, contro un singolo magistrato e una singola indagine (riconducibile solo in minima parte all’ambiente degli indiziati) ha lanciato una campagna di disinformazione e di discredito che ha avuto solo l’obiettivo di ridurre i risultati potenzialmente ottenibili ed è stata caratterizzata da iniziative, apparentemente legali o come tali camuffate, tali da giungere sino ai limiti dell’aperta intimidazione. Fortunatamente un ristretto numero di Colleghi, di esponenti del mondo istituzionale, di studiosi e di appartenenti al mondo della Stampa, talvolta sfidando pressioni e censure, non è caduto nel tranello ed ha costruito intorno a questa istruttoria un argine di sostegno, solidarietà e onesta informazione che ne ha consentito, anche nell’interesse di chi aveva inteso fermarla, la conclusione. A tutti coloro che sono rimasti sul campo della verità e dell’onore va il mio più profondo ringraziamento. 34 2 L’ I T E R DELL’ISTRUTTORIA La presente istruttoria trae origine dalla separazione, al momento del deposito degli atti della prima istruttoria condotta da questo Ufficio in materia di eversione di destra, di una serie di posizioni e atti relativi ad episodi specifici (concernenti in particolare Piero Battiston ed altri aspetti relativi a “La Fenice” e l’attività in Italia e all’estero degli elementi dell’Aginter Press) e dalla loro riunione ed inserimento, per motivi di economia processuale, nel procedimento già rubricato come 2/92F, trasmesso nell’autunno del 1992 dal Giudice Istruttore di Bologna per ragioni di incompetenza territoriale e riguardante i reati di associazione sovversiva e banda armata a fini di strage, ascritti ad alcuni esponenti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Si intendeva soprattutto con tale provvedimento salvaguardare la riservatezza delle dichiarazioni in parte già rese all’epoca (inizio 1995) da Carlo DIGILIO e da Martino SICILIANO, riguardanti molti reati specifici, ma in particolare la strage di Piazza Fontana, e ciò in attesa che la Procura della Repubblica di Milano aprisse con il nuovo rito un procedimento relativo agli attentati del 12.12.1969 iscrivendo nel registro degli indagati inizialmente il dr. Carlo Maria MAGGI e Delfo ZORZI, indicati dai collaboratori quali corresponsabili di tali attentati. L’attività istruttoria relativa al procedimento 2/92F proseguiva quindi, fino all’estate del 1997, approfondendo ed ampliando in modo notevolissimo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e di Martino SICILIANO, contestando ai vari imputati gli episodi specifici che man mano emergevano o che in precedenza non erano ancora stati contestati e acquisendole testimonianze di tutte le persone citate dai collaboratori o comunque facenti parte in passato dell’area di estrema destra che potessero fornire utili elementi di riscontro. Ovviamente venivano delegate alle strutture di p.g. operanti, in particolare il Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri, ma anche le Digos di Milano, Verona, Trieste e altre città e la D.C.P.P. presso il Ministero dell’Interno, tutti gli accertamenti necessari sempre a fini di riscontro e proseguiva altresì, tramite ricerche “mirate” delegate al personale del Servizio, l’acquisizione di elementi informativi presso il S.I.S.Mi. L’indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Milano si sviluppava, invece, soprattutto sino all’autunno del 1996, più che con l’audizione dei collaboratori, con l’effettuazione di intercettazioni telefoniche ed ambientali riguardanti gli excomponenti dell’area mestrina di Ordine Nuovo, intercettazioni rivelatesi molto efficaci, e con l’approfondimento degli spunti investigativi resi possibili anche dal recupero, presso una caserma di Via Appia a Roma, di moltissimo materiale non protocollato risalente prevalentemente agli anni ‘70. Gli episodi specifici e le imputazioni elevate nella rubrica possono essere sistematizzate in quattro filoni tutti strettamente connessi all’iniziale campo di indagine e cioè le attività eversive di Ordine Nuovo e, in misura minore, di Avanguardia Nazionale negli anni ‘70: 35 36 - La posizione di Pietro BATTISTON e alcuni nuovi episodi attribuibili al gruppo La Fenice (capi 1-9 di imputazione). - Le imputazioni associative e i singoli episodi attribuibili alla struttura occulta di Mestre/Venezia di Ordine Nuovo, struttura in stretta connessione sia con gli elementi milanesi sia, in alcuni casi, con gli elementi triestini (capi 13-28 di imputazione). - Le imputazioni associative prospettabili nei confronti della struttura AGINTER PRESS, dal momento del trasferimento del suo centro di attività da Lisbona a Madrid, e gli episodi ad essa attribuibili in Italia e all’estero (capi 10-13 di imputazione). Di tale struttura, diretta da GUERIN SERAC, facevano parte molti italiani sia di Ordine Nuovo sia di Avanguardia Nazionale e del resto, sin dalla fine degli anni ‘60, l’AGINTER PRESS aveva studiato e ispirato il protocollo di azione delle più importanti organizzazioni di estrema destra sia in Italia sia in altri Paesi europei. - Le imputazioni di spionaggio politico e militare e le altre imputazioni in materia di armi connesse all’attività di controllo e consulenza svolta da una struttura di sicurezza americana, probabilmente di carattere militare ed erede del vecchio COUNTER INTELLIGENCE CORPS, sulle attività di Ordine Nuovo in Veneto negli anni della c.d. strategia della tensione (capi 33-35 di imputazione). Si tratta delle imputazioni di maggior rilievo e novità, anche sul piano dell’interpretazione dell’insieme degli avvenimenti, presenti nell’istruttoria in quanto, in passato, mai erano emerse le prove di un così ampio coinvolgimento, confinato come possibilità nel mondo delle mere ipotesi politiche. A tali filoni maggiori si devono aggiungere le imputazioni di falso e favoreggiamento connesse alla latitanza e alla fuga a Santo Domingo di Carlo DIGILIO (capi 29-32 di imputazione). Tali episodi, ascritti soprattutto ad alcuni elementi vicini a Gilberto CAVALLINI, erano già stati in parte trattati nella prima sentenza-ordinanza conclusiva del procedimento 721/88F. L’attività istruttoria si è inoltre arricchita con l’incarico affidato al dr. Aldo Giannuli, esperto in materie storiche ed archivistiche e consulente della Commissione stragi, di effettuare ricerche di materiale documentale, riguardante fra l’altro Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e l’Aginter Press, presso gli archivi di Enti e Strutture istituzionali sino a quel momento non completamente esplorati (ad esempio gli archivi del Ministero dell’Interno, del Ministero degli Affari Esteri, del Servizio “I” della Guardia di Finanza, dei S.I.O.S. delle Forze Armate), inquadrando poi, anche alla luce dell’ulteriore materiale rinvenuto, l’eventuale corrispondenza delle notizie raccolte con quanto era già emerso dagli atti processuali e inquadrando altresì i fatti oggetto del procedimento nel contesto nazionale e internazionale dell’epoca (cfr. incarico affidato in data 22.1.1996 e successive integrazioni in data 10.12.1996 e 14.3.1997). L’elaborato peritale depositato in data 13.3.1997, che consta di oltre 300 pagine e moltissimi allegati tratti dalla documentazione rinvenuta, consente di mettere a fuoco 36 il contesto internazionale e la posizione dell’Italia negli anni cruciali della “strategia della tensione” e di approfondire argomenti di rilievo quali il dibattito sulla guerra rivoluzionaria sviluppatosi negli anni ‘60 e l’esportazione in tutto il mondo, a partire dalle teorizzazioni del Pentagono, delle tecniche di guerra non ortodossa (argomento, questo, strettamente connesso al ruolo dell’AGINTER PRESS e dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO), la penetrazione di tali tecniche anche nel nostro ambiente militare grazie, in particolare, all’impegno del generale Adriano MAGI BRASCHI e gli stretti rapporti intrattenuti, sin dalla fine degli anni ‘60, fra GUERIN SERAC e Pino RAUTI, propiziati e attivati non da un qualsiasi personaggio dell’estrema destra, ma da Armando MORTILLA, giornalista romano principale fonte informativa del Ministero dell’Interno, con il nome in codice ARISTO, per un ventennio dal 1955 al 1975. Proprio nel lavoro di ricerca del perito va inserita la nota vicenda del ritrovamento o, meglio, recupero dallo stato di abbandono in cui si trovavano, dei fascicoli, non protocollati e contenuti in scatoloni non catalogati, giacenti nell’Archivio di Deposito della Via Appia (impropriamente definiti dalla stampa “archivio parallelo” o “archivio occulto”), il cui ritorno alla luce è stato peraltro reso possibile, come sottolineato dallo stesso perito, dall’impegno e dall’atteggiamento di collaborazione del personale attualmente in servizio presso la D.C.P.P. L’esame di tale materiale, risalente per la maggior parte agli anni ‘60/’70, ha permesso di aprire nuovi spunti investigativi anche nelle istruttorie collegate, ed in particolare nel procedimento avviato dalla Procura di Milano sulla strage di Piazza Fontana. Perdipiù, a titolo di esempio concreto di quella che era, all’epoca, la pratica delle Strutture del Ministero dell’Interno, in uno dei faldoni recuperati in Via Appia è stato addirittura rinvenuto il reperto (alcune parti del congegno ad orologeria e dell’involucro che lo conteneva) relativo all’attentato dell’8.8.1969 al treno 771 in sosta, al momento dell’esplosione, presso la stazione di Pescara, reperto trasmesso dal locale compartimento di Polizia all’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno e da tale Ufficio mai trasmesso all’Autorità Giudiziaria per le necessarie verifiche tecniche e comparative (cfr. vol.8, fasc.8). Il reperto, riemerso dopo 27 anni, è quindi la prova concreta dello stile con cui venivano condotte le indagini sugli attentati commessi dalla cellula veneta. Sempre sul piano generale legato alla storia e allo sviluppo dell’istruttoria, si impone in questa sede un’altra breve considerazione. Ci riferiamo all’antinomia apparente fra “pista interna” e “pista esterna” nei fenomeni di appoggio e di collusione con i presunti autori degli attentati e delle altre attività eversive emerse nel procedimento, antinomia “costruita” in occasione di alcune sterili polemiche extraprocessuali in occasione delle quali qualcuno ha voluto addirittura prospettare che la presente istruttoria si sia occupata della c.d. pista internazionale per tralasciare volutamente la c.d. pista interna. In realtà, poichè Carlo DIGILIO, principale collaboratore ed interlocutore di questo Ufficio nel corso dell’istruttoria, è stato a lungo un informatore di una struttura di 37 38 sicurezza americana ed ha accettato di descrivere con ampiezza di particolari come tale struttura abbia operato in Veneto in quegli anni, è assolutamente ovvio, sul piano dei risultati, che il maggior numero di novità sia stato acquisito in merito a tali inquietanti attività. Analogamente, gli spazi che si sono aperti sull’attività di GUERIN SERAC e dell’Aginter Press, struttura “internazionale”, ma in grado di ispirare l’azione delle organizzazioni di estrema destra italiane e formata, nell’ultima fase, anche da molti cittadini italiani, sono dovuti alla scelta di testimonianza non “collaborativa”, ma comunque “ricostruttiva” di Vincenzo VINCIGUERRA il quale era entrato in contatto, durante la sua latitanza alla metà degli anni ‘70, con gli esponenti di tale organizzazione trasferitisi da Lisbona a Madrid dopo la “rivoluzione dei garofani”. Se spunti altrettanto ampi non si sono aperti in merito alle complicità di strutture italiane, ciò è dovuto non certo alla volontà di seguire una direzione istruttoria, ma al fatto che, dopo la testimonianza del capitano Antonio LABRUNA nel corso della prima fase delle indagini, non sono stati acquisiti, in tale campo, altri testimoni di rilievo eccettuate, forse, le sintetiche dichiarazioni del generale Nicola FALDE, peraltro deceduto poco tempo dopo averle rese. Alcuni elementi significativi sono comunque pervenuti da taluni spezzoni di conoscenza di cui erano in possesso alcuni esponenti di Ordine Nuovo (si pensi al “reclutamento” di ZORZI da parte dell’Ufficio Affari Riservati in occasione del suo arresto nel 1968, testimoniato da VINCIGUERRA, ed alle protezioni, da parte dello stesso Apparato, di cui il gruppo avrebbe goduto, emerse, secondo Martino SICILIANO, durante le indagini sull’attentato alla Scuola Slovena di Trieste), mentre un nuovo e promettente filone di indagine, lasciato per motivi di opportunità processuale agli approfondimenti della Procura di Milano, si è aperto con il recupero e l’esame del materiale della caserma di Via Appia, reso possibile soprattutto dall’attività di ricerca del perito dr. Aldo Giannuli. E’ chiaro, comunque, che i due profili, impropriamente definiti dalla stampa “pista interna” e “pista esterna”, si pongono in rapporto non di antinomia, ma di complementarità, poichè all’epoca nella medesima direzione era orientata la strategia globale degli apparati istituzionali del nostro Paese e di quelli dei Paesi alleati. Sono del resto molto esplicite le osservazioni conclusive sintetizzate sul punto dal dr. Giannuli al termine della sua ricerca: “””Il cenno agli apparati di sicurezza italiani e stranieri ci induce ad affrontare il tema del loro ruolo nella strategia della tensione. Il primo dato evidente è la conferma, pur se talvolta indiretta e frammentaria, del coinvolgimento della C.I.A. nella vicenda (e si pensi, quantomeno, ai documenti sul rapporto fra il servizio americano e l’Aginter Press - allegati 102-115). Questo, naturalmente, non esclude affatto responsabilità interne negli stessi avvenimenti. 38 D’altro canto, è possibile cogliere anche intuitivamente la sterilità di una contrapposizione fra cosiddetta “pista straniera” e “pista interna”: qualsiasi intervento straniero - data la portata e la durata temporale delle operazioni legate alla strategia della tensione - non avrebbe potuto realizzarsi senza il supporto compiacente di ampi settori istituzionali italiani. Così come - stante la particolare delicatezza dello scenario italiano, sicuramente vigilato con la massima attenzione dagli ambienti atlantici ed americani in particolare - non appare molto convincente l’ipotesi di una vicenda tutta interna che sarebbe rimasta incompresa ed incontrollabile da parte dei servizi di sicurezza alleati. E, dunque, non vi è ragione di ritenere che le due piste non si completino a vicenda. L’esame della documentazione sembra confermare pienamente questa ipotesi di indagine”””. (dalla perizia del dr. Aldo Giannuli depositata in data 13.3.1997, pag.284, punto 15). Al termine dell’attività istruttoria i Pubblici Ministeri hanno presentato, in data 14.7.1997, le richieste finali chiedendo il rinvio a giudizio di un gruppo di imputati e la dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione (e quindi non nel merito) in relazione alla maggior parte delle altre posizioni e comunque di verificare in via principale la sussistenza degli elementi di connessione, ai sensi dell’art.45 c.p.p. abrogato, fra i reati specifici via via contestati e i reati base costituiti dalle imputazioni associative che hanno originato l’istruttoria formale. In proposito deve rilevarsi che anche in questa seconda parte dell’istruttoria è stata rigorosamente seguita la linea interpretativa tracciata dal Giudice Istruttore di Bologna, dr. Leonardo GRASSI, nella sentenza-ordinanza conclusiva dell’istruttoriabis sulle stragi dell’Italicus e alla Stazione di Bologna (cfr. capitolo 6 della prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio in data 18.3.1995) e cioè l’opportunità e la necessità di contestare i reati che via via emergevano dalle varie dichiarazioni poichè connessi a quelli originari e purchè avvenuti prima del 24.10.1989. Tale corretto ampliamento delle indagini, insito in qualsiasi istruttoria formale condotta in passato e relativa a strutture criminali di ampio respiro e proporzioni, ha visto solo la contestazione di episodi e situazioni connessi funzionalmente alle strutture organizzative originarie (Ordine Nuovo e, in misura minore, Avanguardia Nazionale) ed in particolare gli episodi specifici espressione del programma criminoso delle 2 bande armate, episodi altresì strettamente connessi sul piano probatorio essendo venuti alla luce, nelle loro linee essenziali, dalle dichiarazioni dei vari associati e cioè Carlo DIGILIO, Martino SICILIANO, Vincenzo VINCIGUERRA e così via. Non vi sono più, quindi, ipotesi di reato da trasmettere alla Procura della Repubblica per l’avvio di indagini secondo il rito vigente, anche tenendo presente che molte prospettazioni di reato sono già state trasmesse ad altre Procure, territorialmente competenti, al termine della prima fase dell’istruttoria (ad esempio i reati prospettabili 39 40 nei confronti dei responsabili dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, con trasmissione alla Procura della Repubblica di Roma) e altri episodi che presentavano minori elementi di connessione con le imputazioni originarie della presente istruttoria (ad esempio l’episodio della cessione di due M.A.B. da Luigi FALICA a Massimiliano FACHINI, trasmesso alla Procura di Bologna, l’attentato al Gazzettino di Venezia del febbraio 1978 e la rapina in danno del laboratorio di preziosi Adularia di Milano, avvenuta il 13.2.1986) sono già stati oggetto, nel corso delle indagini, di separati provvedimenti di trasmissione ad altre Autorità Giudiziarie. Del resto, le profonde connessioni che legano tutte le indagini partite sin dal 1987 con la scoperta del famoso “documento AZZI” sono state ribadite (seppure, nel caso concreto, con conseguenze negative per l’accusa) dal Tribunale del Riesame di Milano che nel luglio del 1987 ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. di Milano per il reato di rifiuto di testimonianza al P.M. proprio nei confronti di Nico AZZI. Infatti il Tribunale del Riesame ha rilevato che il filone investigativo condotto condotto dal Giudice Istruttore in merito all’evoluzione e all’operatività di Ordine Nuovo, e in particolare del gruppo La Fenice, costituisce un continuum con i singoli episodi via via emersi (dal possesso dei timers da parte del gruppo La Fenice, a fini di depistaggio, citato nel “documento AZZI”, all’attentato al treno in occasione del quale questi venne arrestato, sino ai contatti di Ordine Nuovo con i Servizi e alla strage di Piazza Fontana), cosicchè la connessione strategica e probatoria fra ogni circostanza ed episodio impediva che Nico AZZI (imputato in entrambi i filoni di indagine condotti da questo Ufficio) potesse essere sentito come testimone, con i doveri discendenti da tale veste, addirittura nel procedimento nuovo rito nato dall’approfondimento delle dichiarazioni rese e dagli accertamenti svolti nell’istruttoria formale. Del resto anche la strage di Piazza Fontana e gli altri attentati del 12.12.1969 avrebbero potuto senza difficoltà, come gli altri episodi specifici espressione del programma criminoso di Ordine Nuovo, rientrare nel novero dei reati connessi alle originarie imputazioni associative e quindi restare interni all’istruttoria condotta con il vecchio rito. Si è ritenuto tuttavia opportuno, nella primavera del 1995, anche a seguito di missive inviate da questo Ufficio alla Procura della Repubblica, sollecitare e segnalare l’opportunità dell’apertura di un fascicolo di indagini preliminari con il nuovo rito per una molteplicità di ragioni. In quel momento, infatti, il termine massimo per la chiusura delle istruttorie formali era prossimo a scadere (30.6.1995), era assolutamente incerto se il Parlamento intendesse o meno approvare una nuova proroga ed era impensabile che le indagini relative ad una strage potessero concludersi nel giro di 2 o 3 mesi. Appariva inoltre opportuno disporre intercettazioni ambientali nei luoghi ove i fiancheggiatori mestrini di Delfo ZORZI si incontravano per concordare le strategie processuali (intercettazioni ambientali poi disposte dal P.M. con risultati molto significativi) ed anche sotto questo profilo risultava necessario aprire un fascicolo nuovo rito poichè, applicando il vecchio, rito era assai dubbio che si potesse 40 procedere ad un tal genere di intercettazioni, non espressamente vietate, ma nemmeno previste dal codice del 1930. Soprattutto appariva inopportuno che episodi così delicati, gravi e che tanta risonanza avevano avuto nel Paese fossero oggetto di un giudizio in base alle regole di un rito in via di estinzione e, sotto alcuni profili, anche a fronte di possibili critiche da parte dei difensori, meno “pubblico” e meno “garantista”. Concludendo in merito all’iter e alla fase finale della presente istruttoria, è necessario sottolineare che la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura della Repubblica di Milano nei confronti di Carlo DIGILIO e Sergio MINETTO per il reato di spionaggio politico e militare, così come articolato nel capo 32 di imputazione, costituisce una scelta importante perchè comporta una omogeneità di interpretazione e di ricostruzione complessiva dell’intervento della struttura di sicurezza statunitense che lega indissolubilmente e concretamente gli episodi e le indagini relative agli attentati del 12.12.1969 alla strage di Via Fatebenefratelli a Milano e alla strage di Piazza della Loggia a Brescia. 41 42 3 LA COLLABORAZIONE DI CARLO DIGILIO E MARTINO SICILIANO Asse portante della presente istruttoria e delle indagini a questa collegate sono le centinaia di pagine di dichiarazioni rese da Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO a questo Ufficio, il primo a partire dalle sue prime limitatissime ammissioni nel giugno 1993 e il secondo a partire dall’ottobre 1994, data del suo primo rientro in Italia grazie al successo dell’intervento del personale del S.I.S.Mi. Diversa è la genesi di tali due collaborazioni, così come diverso è il ruolo ricoperto dai due in Ordine Nuovo e diverso lo stesso profilo umano dei due personaggi. E’ opportuno innanzitutto sottolineare che, come si evidenzierà quasi da ogni capitolo di questa sentenza-ordinanza, le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO rivestono un’importanza e una valenza elevatissima sia perchè rese dall’interno di un mondo come quello dell’estrema destra, storicamente povero di collaboratori o di dissociati, sia perchè rese in assoluta separatezza le une dalle altre sia perchè corroborate da moltissimi altri testimoni che hanno vissuto parte di tali esperienze. Sotto il primo profilo il muro del silenzio, reso particolarmente forte nel mondo dell’estrema destra dall’importanza dei vincoli di “onore” e di fedeltà ai camerati, tipici di tale ambiente, si è rotto per ragioni diverse e difficilmente ripetibili. Carlo DIGILIO, espulso da Santo Domingo e trovatosi, al suo arrivo in Italia, dinanzi ad una pena di oltre dieci anni da scontare, ha trattato progressivamente la propria resa con le Autorità dello Stato, uniche a poter garantire a DIGILIO un futuro diverso in ragione delle condizioni familiari, della sua età e del suo stato di salute. Carlo DIGILIO in sostanza si è “arreso” in una condizione di assoluta necessità che, come se egli fosse un prigioniero caduto in mano al nemico, non gli consentiva altra scelta. Diverse sono state le motivazioni e l’atteggiamento psicologico di Martino SICILIANO. Questi, raggiunto non da un provvedimento restrittivo, ma da una comunicazione giudiziaria che comunque, una volta resa nota da un quotidiano di Venezia, gli aveva fatto perdere immediatamente la sua attività lavorativa presso una ditta tedesca, ha ritenuto inaccettabili le proposte di sistemazione in Russia o in Giappone avanzategli da Delfo ZORZI ed ha soprattutto ritenuto inaccettabile rispondere, quantomeno all’esterno, di colpe non sue (e cioè di essere uno dei materiali esecutori della strage di Piazza Fontana) e di continuare a fungere da capro espiatorio per il gruppo di Delfo ZORZI. Dopo un lungo oscillare fra le blandizie degli ex-ordinovisti e le proposte di riscatto e tutela che venivano dai funzionari dello Stato, Martino SICILIANO ha deciso di rompere ogni rapporto con i suoi vecchi camerati, manifestando peraltro, sin dai suoi 42 primi interrogatori, un atteggiamento di riflessione critica e di rimorso sincero per i tragici avvenimenti che egli con la sua militanza e il suo impegno operativo sino a pochi giorni prima dei fatti più tragici, aveva comunque contribuito in parte a rendere possibili. Anche per questa ragione la collaborazione di Martino SICILIANO, pur in possesso di un minor bagaglio di conoscenza rispetto a Carlo DIGILIO, è stato sin dall’inizio più semplice e lineare, privo delle remore o titubanze che hanno contraddistinto altre testimonianze. Sotto il secondo profilo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO sono state rese in assoluta separatezza sia, ovviamente, sul piano processuale, in quanto i due non sono mai entrati in contatto durante le indagini, sia su un piano storico. Infatti Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO non si sono praticamente conosciuti durante la loro militanza in quanto DIGILIO, quadro rigorosamente “coperto” della cellula di Venezia, poteva entrare in contatto con i mestrini solo indirettamente tramite incontri riservati con Delfo ZORZI. E’ evidente che tale circostanza accresce di molto la credibilità delle rispettive dichiarazioni, tenendo presente che DIGILIO e SICILIANO, pur storicamente e processualmente separati, hanno reso, su episodi e circostanze anche secondarie, testimonianze del tutto convergenti. Sotto il terzo profilo va rilevato che le dichiarazioni dei due collaboratori non sono rimaste quasi in nessun caso isolate, ma sono state confermate, in linea generale e anche con riferimento a moltissimi episodi specifici, da quelle di un gran numero di altri collaboratori “minori” o semplici testimoni. Ci riferiamo alle dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA rese fra il 1991 e il 1993 in un’ottica di ricostruzione delle collusioni fra l’ambiente di estrema destra e gli apparati dello Stato, a quelle di Tullio FABRIS in merito all’innesco di ordigni mediante timer allo studio della cellula padovana, a quelle importantissime di Edgardo BONAZZI in merito alle notizie apprese in carcere sulle attività del gruppo milanese e del gruppo veneto, a quelle di Giancarlo VIANELLO sulle attività della cellula mestrina, rese, si badi bene, in sintonia con quelle di Martino SICILIANO che egli non vedeva da oltre 20 anni. Ci riferiamo altresì alle importanti dichiarazioni , anche relative alla struttura informativa statunitense, di Dario PERSIC, Benito ROSSI, Ettore MALCANGI e Marzio DEDEMO e a quelle, più limitate ma utili per comprendere la dinamica dell’ambiente mestrino, di Guido BUSETTO, Giuliano CAMPANER e, sino alla sua assoluta chiusura processuale, di Piero ANDREATTA. Con riferimento alla collaborazione di Carlo DIGILIO, egli è stato espulso da Santo Domingo nell’ottobre 1992 e, come si è accennato, ha iniziato a rendere le prime e timide dichiarazioni nel giugno 1993. 43 44 Nella primavera del 1994 egli è stato posto in regime di detenzione extrapenitenziaria, in una struttura idonea, sotto il controllo della Digos di Venezia e, a partire dall’inizio del 1995, con lo svilupparsi e il progredire delle sue dichiarazioni, è stato sottoposto allo speciale Programma di Protezione previsto dalla normativa sui collaboratori di giustizia. La collaborazione di Carlo DIGILIO, benchè unica per importanza nel settore dell’estrema destra e dei rapporti fra tali ambienti e strutture di sicurezza, è stata travagliata e faticosa. Egli infatti, sin dall’inizio, non ha mai accettato di descrivere un quadro organico e cronologicamente scandito della sua militanza politico-eversiva e dei suoi rapporti con la struttura statunitense, ma ha scelto di affrontare, interrogatorio per interrogatorio, singoli argomenti, aprendo sportelli su episodi e circostanze spesso distanti fra loro e procedendo per “accumulazione”, cioè aggiungendo a ciascun episodio sempre nuovi dettagli non in contrasto con la descrizione precedente, ma che comunque sino a quel momento aveva ritenuto di tenere per sè. Carlo DIGILIO ha giustificato tale suo comportamento, improntato ad una sorta di cautela anche se sempre in progressione, con due ordini di ragioni. In primo luogo la lontananza dall’Italia sin dal 1985 non gli aveva consentito subito di verificare se certi apparati statali, che erano stati attivi nel periodo della strategia della tensione e con cui era stato in contatto o erano stati in contatto i suoi camerati, fossero ancora attivi, o sin dove lo fossero, e in grado eventualmente di essere presenti e condizionare anche le strutture preposte al suo controllo e alla sua tutela quale collaboratore di giustizia. In secondo luogo egli ha ben presto fatto presente che quanto era in grado di riferire, unico fra i collaboratori di giustizia e i testimoni, o quantomeno unico con tale ricchezza di particolari, in merito all’intervento di strutture di intelligence straniere nelle stragi e in genere nella strategia della tensione era di tale gravità e novità da imporgli un cammino progressivo nel raccontare verità che sino a quel momento risultavano confinate nelle ricostruzione di parte e anche fantasiose delle pubblicazioni e degli slogans della c.d. contro-informazione. Perdipiù, nel maggio del 1995, in un momento cruciale della sua collaborazione (in quegli stessi giorni era stato arrestato il suo “superiore” negli anni ‘70, Sergio MINETTO, caporete di Verona), Carlo DIGILIO è stato improvvisamente colpito da un grave ictus che ha imposto sino all’ottobre di quell’anno, momento della sua ripresa, la sospensione degli interrogatori. A partire da tale momento, comunque, anche grazie al passaggio della sua tutela a persona del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri (la struttura periferica della Digos di Venezia si era dimostrata ben presto non attrezzata a gestire un personaggio di tale livello), la collaborazione di Carlo DIGILIO è ripresa in modo sempre più completo e determinato, pur risentendo del fatto che per diverso tempo, in ragione delle sue condizioni di salute, gli interrogatori non hanno potuto essere molto lunghi e nemmeno continuativi essendo egli ricoverato in una località assai distante dalla sede di questo Ufficio. 44 Sempre su un piano di esame critico delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO, per tutta la prima fase della sua collaborazione egli si è autorappresentato più come testimone che come corresponsabile degli avvenimenti che stava descrivendo, negando inoltre di essere soprannominato, all’interno della cerchia dei militanti, OTTO o ZIO OTTO (cfr. int.10.10.1994, f.4). Tale circostanza, non irrilevante o secondaria, e la sua valenza vanno spiegate al fine di comprendere quali conseguenze implicasse il riconoscimento di tale soprannome o meglio nome in codice. Nell’ultima istruttoria sugli attentati del 12.12.1969, condotta a Catanzaro dal g.i. dr. Emilio Le Donne nei confronti di Stefano DELLE CHIAIE e Massimiliano FACHINI (e conclusasi con assoluzione dibattimentale nonostante molte intuizioni dell’inquirente che solo oggi risultano confermate nella loro validità), Angelo IZZO e Sergio CALORE avevano riferito di aver appreso in carcere da Franco FREDA che colui che aveva fornito gli esplosivi utilizzati per gli attentati del 12.12.1969 era una persona non giovane, veneta e soprannominata ZIO OTTO. Tale affermazione non poteva non essere considerata sincera e credibile, tenendo presente che i due collaboratori non conoscevano la persona che FREDA aveva nominato e quindi la confidenza era stata riferita dai due così come era stata ricevuta, senza la pretesa di accusare uno specifico soggetto. Sulla base di un collegamento effettuato da Vincenzo VINCIGUERRA nella medesima istruttoria, ZIO OTTO era stato individuato in Carlo DIGILIO, ma non erano stati comunque possibili ulteriori sviluppi. L’ammissione da parte di DIGILIO di essere ZIO OTTO avrebbe comunque comportato, nella prima fase delle sue dichiarazioni, il riconoscimento, in un modo o nell’altro, di responsabilità e di un coinvolgimento ben maggiore di quello che era disposto a rivelare. Dinanzi a tale negazione, che costituiva un punto di snodo dell’intera ricostruzione, questo Ufficio ha ritenuto necessario disporre, soprattutto nella primavera/estate del 1995, una serie di audizioni a tappeto di tutti gli ex-militanti di Ordine Nuovo e dei N.A.R. disposti in qualche modo a testimoniare, al fine di rendere più saldo e inequivocabile il collegamento fra la persona di Carlo DIGILIO e il nome in codice OTTO. L’iniziativa istruttoria ha avuto pieno successo in quanto molti testimoni hanno dichiarato di avere sentito parlare di OTTO (quadro comunque “coperto “ e inaccessibile quasi a tutti, tanto da aver avuto rapporti diretti, alla fine degli anni ‘70, solo con CAVALLINI e non con gli altri militanti dei N.A.R.), fornendo di tale misterioso soggetto qualche dettaglio o particolare, tutti comunque concordanti per un verso o per l’altro, con la persona di Carlo DIGILIO. Ci riferiamo alle testimonianze, fra l’altro, degli ex-militanti dei N.A.R.: Valerio FIORAVANTI (che aveva avuto modo di conoscere DIGILIO per qualche giorno in 45 46 carcere, a Roma, dopo la sua espulsione da Santo Domingo, cfr. dep. 3.7.1995), Francesca MAMBRO (dep. 12.7.1995), Walter SORDI (26.8.1995), Stefano SODERINI (3.5.1994), Pasquale GUAGLIANONE (8.11.1995) nonchè di Enrico CARUSO e Lorenzo PRUDENTE, che erano stati in contatto con DIGILIO durante la sua latitanza (cfr. rispettivamente int. 23.8.1995 e 6.9.1995). Ed ancora agli interrogatori di ex-ordinovisti quali Sergio CALORE (9.9.1995) e Paolo ALEANDRI (9.9.1995) e alle deposizioni di esponenti minori del gruppo mestrino (dep. CAMPANER, 27.4.1995, e Roberto MAGGIORI, 22.4.1995). Dinanzi a tali testimonianze che portavano tutte ad individuare in DIGILIO l’OTTO legato prima a MAGGI e ZORZI e poi a Gilberto CAVALLINI, Carlo DIGILIO ha ammesso finalmente che questo era il suo soprannome (cfr. int. 4.1.1996, f.1) ed anche a partire da tale punto di svolta la sua collaborazione è decollata consentendo di acquisire per la prima volta alle indagini un quadro diretto e di grande spessore non solo sulla strage di Piazza Fontana e gli attentati precedenti (fatti in relazione ai quali, se non era stato il “fornitore” dell’esplosivo, DIGILIO ne aveva contribuito all’acquisto ed aveva poi svolto attività di consulenza), ma anche sulla strage dinanzi alla Questura di Milano, sulla strage di Brescia, sul ruolo della struttura informativa statunitense e in una miriade di episodi minori. Più movimentata nella sua gestazione e nascita, ma più semplice e lineare sin dal momento dello svolgimento dei primi interrogatori rispetto a quella di Carlo DIGILIO, è stata la collaborazione di Martino SICILIANO. Martino SICILIANO, quasi dimenticato militante di Ordine Nuovo di Mestre da quasi 20 anni, residente all’estero salvo brevi rientri nella sua città ove tuttora vive la sua famiglia, è entrato nell’istruttoria a seguito di alcune testimonianze rese da fonti e in circostanze del tutto diverse tra loro nel 1991/1992. Gianluigi RADICE, amico di SICILIANO negli anni ‘70 (cfr. dep. 9.5.1991), Marco AFFATIGATO, l’ex-ordinovista toscano a lungo residente in Francia (dep. 29.4.1992) e il giornalista Gianni CIPRIANI, studioso della c.d. strategia della tensione e autore del volume “Sovranità Limitata” (dep. 7.11.1991) riferivano infatti con vari particolari che l’ex ordinovista mestrino, residente da molti anni a Toulouse, nella Francia meridionale, era molto probabilmente coinvolto nell’esecuzione degli attentati del 12.12.1969. Identificato Martino SICILIANO ed effettuati i primi approfondimenti, egli veniva raggiunto da una prima informazione di garanzia per l’attentato dell’ottobre 1971 all’Università Cattolica di Milano e successivamente, il 25.8.1993, da un’altra per concorso in strage. Nell’ottobre del 1993, il quotidiano La Nuova Venezia dava, con ampio risalto, la notizia di questa seconda informazione di garanzia. Martino SICILIANO, che sino a quel momento aveva evitato di farsi rintracciare cercando di capire, attraverso contatti con gli ex camerati mestrini e soprattutto con 46 Bobo LAGNA, cosa stesse accadendo, a seguito della pubblicazione dell’articolo perdeva immediatamente il suo lavoro di rappresentante di una ditta tedesca. In preda a gravi difficoltà e profondamente angosciato, Martino SICILIANO cominciava a peregrinare per l’Europa e il Sud-America, incerto se accettare la proposta del funzionario del S.I.S.Mi. (che aveva già attivato un contatto, non riuscito, all’inizio del 1993) di scaricarsi la coscienza e collaborare con la Giustizia o se accettare la proposta, da parte di Delfo ZORZI, di aiuto e di una remunerativa attività lavorativa in ex Unione Sovietica o in Estremo Oriente, ovviamente quale ricompensa del suo silenzio. Nel luglio 1994, quando era già in procinto di rientrare in Italia grazie ai pazienti contatti con lui riannodati dal funzionario del Servizio, proprio poche ore prima di imbarcarsi sull’aereo diretto a Milano veniva telefonicamente raggiunto da Delfo ZORZI a Toulouse e convinto a desistere dal presentarsi all’Autorità Giudiziaria e ad instaurare qualsiasi forma di collaborazione. Delfo ZORZI riusciva, nei giorni successivi a “dirottare” SICILIANO a San Pietroburgo, pagandogli il biglietto e una prima somma di denaro, e qui SICILIANO incontrava Rudi ZORZI ed un altro emissario del gruppo i quali rinnovavano le offerte di aiuto economico e di una adeguata sistemazione lavorativa (sugli elementi di riscontro al soggiorno di Martino SICILIANO e Rudi ZORZI a San Pietroburgo, vedi nota S.I.S.Mi. in data 27.12.1994 trasmessa tramite nota R.O.S. in data 29.12.1994, vol.6, fasc.4, ff.25 e ss.). Martino SICILIANO, tuttavia, non convinto della scelta di affidarsi interamente a Delfo ZORZI e temendo che il gruppo avesse in realtà preparato per lui qualche altra soluzione più definitiva, rientrava precipitosamente in Francia e da Toulouse riprendeva di sua iniziativa il contatto con il funzionario del S.I.S.Mi. Infine, superate le ultime titubanze, il 18.10.1994 rientrava in Italia e rendeva a questo Ufficio il primo interrogatorio. E’ doveroso ancora una volta sottolineare che l’azione di contatto e di convinzione svolta dal S.I.S.Mi. nei confronti di Martino SICILIANO è stata un’operazione di intelligence da manuale, condotta con grande professionalità, correttezza e umanità e il cui risultato ha superato addirittura le aspettative iniziali in quanto, stante la storica difficoltà di ottenere atteggiamenti di collaborazione nel mondo dell’estrema destra, il risultato inizialmente sperato era, al più, di ottenere da SICILIANO qualche contributo informativo poi autonomamente sviluppabile sul piano investigativo ed invece la completa collaborazione processuale dell’ex-militante di Ordine Nuovo ha superato le più ottimistiche aspettative. La collaborazione processuale di Martino SICILIANO si è dispiegata prima con gli interrogatori dell’ottobre 1994 in cui egli, nel giro di tre giorni, ha fornito i fondamentali elementi di conoscenza in merito agli episodi da lui vissuti, poi, con altre due rapide “puntate” in Italia dalla lontana località ove vive con la famiglia, per interrogatori di precisazione (gennaio-marzo 1995) ed infine, dal marzo al dicembre 1996 e dal giugno all’agosto 1997, quando egli è rientrato per cospicui periodi di tempo in Italia, 47 48 rientri consentiti dall’adozione del programma di protezione nel nostro Paese pur avendo egli mantenuto la residenza all’estero, con una serie continuativa ed estremamente proficua di interrogatori di approfondimento e di messa a fuoco di altri episodi che via via ritornavano alla memoria. Si noti anche che le intercettazioni telefoniche, disposte da questo Ufficio sin dall’autunno 1994 sulle utenze in uso alle persone indicate da SICILIANO come referenti ancora attuali a Mestre di Delfo ZORZI, hanno evidenziato come i componenti del gruppo, resisi conto della sparizione di SICILIANO da Toulouse e quindi del suo probabile e paventato rientro in Italia per testimoniare, abbiano messo in atto un tentativo disperato, contattando i parenti di SICILIANO e tutti i suoi possibili collegamenti, di scoprire ove egli si trovasse e quindi di farlo desistere dal suo atteggiamento di collaborazione (cfr. in particolare le telefonate fra il 28 ottobre e il 5 novembre 1994 intercorse tra Piercarlo MONTAGNER e Delfo ZORZI o persone comunque legate a quest’ultimo, trascritte e allegate alla nota R.O.S. in data 10.11.1994, vol.46, fasc.1, ff.131 e ss.). Tale tentativo non è riuscito in quanto nel giro di pochissimi giorni, in base ad un programma ben coordinato, Martino SICILIANO aveva reso a Milano gli interrogatori fondamentali ed era poi stato fatto rientrare non in Francia, ma nella lontanissima località ove vive la sua nuova famiglia, difficilmente raggiungibile dagli emissari del gruppo. L’azione di aiuto e di tutela immediata prestata in quei giorni dalla Direzione del S.I.S.Mi., con provvedimenti protocollati e verificabili (cfr. vol.45, fasc.1 e 3), dovrebbe quindi, nel contesto dell’azione complessiva svolta, essere, anche come momento di concreta rottura con scelte ben diverse verificatesi negli anni ‘70 e ‘80, motivo di elogio e non delle critiche che sono state mosse. Si ricordi, del resto, che anche dalla successive intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte dalla Procura di Milano emerge come il gruppo si sia gravemente rammaricato di non aver agito, nell’occasione, più tempestivamente degli uomini dello Stato, impedendo a qualsiasi prezzo la diserzione dell’ex-camerata. Peraltro, nel medesimo contesto, uno dei fiancheggiatori di Delfo ZORZI si è espresso affermando che, in alternativa ad un intervento di recupero che si era dimostrato troppo lento ed inefficace, il “problema” Martino SICILIANO poteva comunque essere risolto con un colpo di pistola calibro 9, affermazione questa che rende a posteriori comprensibili le sensazioni per le quali, non a torto, Martino SICILIANO aveva avuto paura di fidarsi del tutto delle proposte dei suoi ex-camerati. La collaborazione di Martino SICILIANO, a differenza di quella di Carlo DIGILIO, non ha creato particolari difficoltà in quanto egli non ha avuto remore o titubanze alcune a riferire quanto a sua conoscenza e incorrendo, al più, in qualche errore di data dovuto alla lontananza nel tempo dei fatti e riuscendo a mettere a fuoco alcuni avvenimenti solo nei più continuativi e approfonditi interrogatori, svolti nel corso del 1996, durante la sua più lunga permanenza in Italia. Solo Martino SICILIANO, militante di medio livello ma comunque presente in tutte le situazione anche per i numerosi rapporti amicali che coltivava, è riuscito a fornire 48 dall’interno un quadro organico e vivido del mondo di Ordine Nuovo, mettendo sovente a fuoco i rapporti interpersonali fra i vari militanti e simpatizzanti in grado di condizionarne le scelte operative. Martino SICILIANO è stato escluso, dopo gli episodi di Trieste e di Gorizia, dalla fase conclusiva della strategia degli attentati, forse perchè non abbastanza duro e determinato, forse perchè la sua presenza sarebbe stata pericolosa essendo egli già sotto osservazione da parte quantomeno del personale della Questura di Trieste che lo aveva individuato quale uno dei probabili autori dell’attentato alla Scuola Slovena e lo aveva sottoposto ad un interrogatorio a sorpresa pochi giorni dopo il fatto (cfr. int. SICILIANO, 22.9.1996 ff.1-2 e allegato verbale di interrogatorio in data 6.10.1969 dinanzi a personale della Questura di Trieste). Ciò, tuttavia, non gli ha impedito di comprendere, prima e dopo i fatti, come si vedrà nel prosieguo di questa ordinanza, la dinamica di quanto si stava preparando quantomeno a partire dall’estate 1969. Martino SICILIANO, presente non solo agli episodi eversivi ma anche alle manifestazioni di piazza, alle riunioni del circolo di Ordine Nuovo di Via Mestrina, agli addestramenti nella palestra di arti marziali e agli incontri di carattere amicale, è stato soprattutto il primo a scolpire il carattere e il carisma del pur giovanissimo Delfo ZORZI, introverso, determinato, apparentemente privo di emozioni e capace di un grande autocontrollo, appassionato di esoterismo ed insensibile alle conseguenze della violenza tanto da sottoporre ad un duro pestaggio il più debole camerata, Guido BUSETTO, per una piccola mancanza (cfr. int. SICILIANO, 20.10.1994, f.8 e, a conferma, dep. BUSETTO, 11.11.1994 f.3 e 14.4.1995 f.3) e che coltivava interesse solo per la parte meno “compassionevole” delle filosofie orientali. Caratteristiche, queste, confermate poi da tutti gli altri testimoni dell’ambiente e che non saranno disgiunte, in seguito, da un forte intuito per le attività commerciali, intuito che ha consentito di costruire quel ragguardevole e diffuso patrimonio commerciale e finanziario che non poco ha pesato sugli sviluppo di questa indagine e delle indagini collegate. 49 50 4 IL COLPO DI MAGLIO CONTRO LE INDAGINI: L’ ”OPERAZIONE CECCHETTI” Una fase estremamente delicata delle indagini, contestuale alla ripresa della possibilità di interrogare Carlo DIGILIO e all’avvio da parte del personale del R.O.S. di un programma di audizioni di numerosi e importanti testimoni relativi anche all’attività delle strutture statunitensi, è stato purtroppo contrassegnato da una delle più importanti operazioni di confusione e disinformazione, purtroppo non adeguatamente contrastata dagli Uffici preposti, che abbiano toccato negli ultimi decenni le indagini in materia di eversione di destra. Il 28.10.1995, preceduto da una serie di allarmi e messaggi via via segnalati da questo Ufficio alla Procura di Milano, usciva su “La Nuova Venezia” e altri quotidiani veneti uno scoop esclusivo firmato da Giorgio CECCHETTI, cronista giudiziario di Venezia, dal titolo con ampio risalto sulla prima pagina “PIAZZA FONTANA: L’ULTIMO DEPISTAGGIO. Lo scoop, prendendo spunto dal tardivo e generico esposto del dr. Carlo Maria MAGGI e da alcuni accertamenti effettuati dal dr. Felice Casson in merito agli aspetti formali della tutela garantita a Martino SICILIANO (non è chiaro in base a quale competenza, trattandosi di situazioni non verificatesi a Venezia) ed acquisendo, non si sa in quale modo, tali iniziali notizie (si pensi alla riservatezza che dovrebbe contraddistinguere l’attività del Comitato di Controllo sui Servizi di Sicurezza cui il dr. Casson aveva appena inviato una missiva), tentava, senza mezzi termini e senza alcuna verifica dell’effettivo lavoro in corso presso questo Ufficio, di screditare frontalmente e delegittimare i risultati in via di acquisizione nella presente istruttoria. Il giornalista “avvisava” con clamore l’intero ambiente veneto e nazionale che era in corso ad opera del S.I.S.Mi. l’ “ultimo depistaggio” sulla strage di Piazza Fontana, che sarebbe stato scoperto che Martino SICILIANO era stato aiutato e tutelato dal S.I.S.Mi. (curiosa “scoperta”, posto che l’azione del S.I.S.Mi. era già documentata in base alle comunicazioni trasmesse dalla Direzione del Servizio, momento per momento, nei fascicoli dell’istruttoria condotta da questo Ufficio) al fine di “indirizzare in una direzione invece che in un’altra le indagini”. Tutto ciò sarebbe addirittura avvenuto per “impedire che fosse dato un nome e un volto a chi ha organizzato il vile attentato di Piazza Fontana”. Perdipiù, con un’autentica opera di disinformazione, l’articolo aggiungeva che i pentiti sarebbero stati “l’uno contro l’altro”, in particolare Martino SICILIANO avrebbe “scagionato tutti coloro che erano stati indicati come autori della strage da altri “pentiti” neofascisti”, mentre DIGILIO avrebbe addirittura accusato SICILIANO di avere confezionato la bomba scoppiata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura. Il giornalista concludeva affermando che era in corso un’azione in sostanza simile a quella che negli anni ‘70, ad opera del S.I.D., aveva visto la fuga di Marco POZZAN e 50 Guido GIANNETTINI e che a tale situazione stavano fortunatamente ponendo rimedio altri Uffici Giudiziari, diversi ovviamente dall’Ufficio Istruzione di Milano sulle cui indagini, così come sugli operanti del R.O.S., gravavano sospetti ed accuse. Tale cumulo di falsità e distorsioni, pubblicate perdipiù senza che il giornalista operasse alcuna verifica, provocavano un effetto devastante sulle indagini anche in ragione del fatto che i quotidiani ove era apparso l’articolo sono pubblicati nell’area veneta, ove risiede la maggior parte degli imputati e dei testimoni. Veniva messa in pericolo la credibilità, la prosecuzione della collaborazione e forse anche la sicurezza di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO (il primo, all’epoca, ancora privo di un formale programma di protezione, il secondo ripresosi proprio in quei giorni dal grave ictus che lo aveva colpito), veniva con tale opera di delegittimazione resa impossibile o messa in grave difficoltà la prosecuzione delle audizioni già in corso di alcuni testimoni e l’audizione di testimoni sino a quel momento non sentiti in quanto costoro non sapevano più, trovandosi di fronte a personale del R.O.S. Carabinieri, se stavano avendo a che fare con onesti e impegnati investigatori o con pericolosi depistatori, veniva frustrata la scelta e la disponibilità offerta, forse per la prima volta, dal S.I.S.Mi. di dare un prezioso contributo informativo in tale tipo di indagini. Ne usciva rafforzato e più compatto al proprio interno solo l’ambiente ex -ordinovista che da tempo (cfr. quanto esposto al capitolo 19) stava meditando una mossa azzardata, ma resa inevitabile dal progredire delle indagini, finalizzata a colpire soprattutto il personale del R.O.S. che stava giungendo al cuore dell’attività delle cellule eversive di Mestre, Venezia e Milano. Gli ispiratori dell’articolo, diversi comunque dagli ex-ordinovisti e interni probabilmente ad ambienti istituzionali, forse anche a quelli che a parole hanno sempre sostenuto di volere la verità sulla strategia della tensione, ritenevano probabilmente, con una simile azione di attacco e di discredito, di provocare, anche a seguito delle inevitabili reazioni di questo Ufficio e degli operanti, una catena di polemiche tali da distruggere in poche settimane le indagini. Non si dimentichi, del resto, che solo la presente istruttoria, oltre a far venire alla luce le modalità e i materiali esecutori di molti attentati, stava dirigendosi, con elementi di prova sempre più consistenti, verso l’individuazione delle collusioni in tali attentati e delle attività di “controllo” del nostro Paese, negli anni della strategia della tensione, da parte delle strutture dell’Alleanza Atlantica, verità forse auspicata in anni lontani quando, peraltro, non era possibile dimostrarla, ma ormai scomoda, per molteplici ragioni storiche e politiche, al tempo presente. Fortunatamente il tentativo di delegittimazione non raggiungeva il suo scopo e nel giro di qualche mese, seppure con difficoltà e sacrifici inauditi, il fronte delle indagini si ricostituiva permettendo via via l’acquisizione di nuovi e importanti elementi di prova e di conoscenza. La gravità e la strumentalità dell’operazione ora descritta è testimoniata pagina per pagina dagli atti dell’istruttoria e da quanto esposto nella presente sentenzaordinanza. 51 52 Appare tuttavia doveroso riportare integralmente in questa sede quanto Martino SICILIANO ha voluto verbalizzare, in uno dei primi interrogatori resi dopo l’operazione dell’ottobre 1995, in merito alla storia, anche personale, della sua collaborazione in quanto tale racconto testimonia la linearità e la sincerità della sua scelta processuale ed è la migliore risposta all’operazione che è stata tentata: “””Nell'autunno del 1995, quando mi trovavo all'estero con mia moglie e mia figlia, ebbi eco dall'Italia, ed in particolare da mio fratello, del fatto che sulla stampa di Venezia e in televisione erano usciti servizi che mi riguardavano e mi attaccavano pesantemente. Rientrato in Italia circa due settimane or sono, ho potuto leggere con attenzione gli articoli pubblicati nell'ottobre/novembre 1995, in particolare l'articolo a firma Giorgio Cecchetti pubblicato su "La Nuova Venezia" il 28.10.1995. Leggendo questo articolo ho provato molta amarezza sul piano personale in quanto ciò ha ferito e danneggiato non solo me, ma anche la mia famiglia che vive a Mestre e posso dire che il contenuto dell'articolo è veramente falso, vile e disgustoso. Del resto fu proprio il giornalista Giorgio Cecchetti, per primo, a colpirmi pubblicando nell'ottobre del 1993 un articolo sul quotidiano "La Repubblica", rendendo noto che ero stato indiziato per la strage di Piazza Fontana. Tale articolo, ripreso dalla stampa nazionale e anche dalla televisione, ebbe l'effetto, come ho già spiegato, di farmi perdere il posto di lavoro e di privarmi di ogni forma di sostentamento. All'epoca, infatti, io lavoravo come rappresentante e persona di fiducia della società tedesca FRANKE & RUHRHANDEL, società di importazione in Germania di articoli sportivi e da campeggio. Io, per questa società, seguivo gli acquisti, i pagamenti, i carichi e quando veniva in Italia personale direttivo della società, svolgevo anche l'attività di interprete e di accompagnatore presso le ditte italiane. Ovviamente, pochi giorni dopo le notizie di stampa fui convocato a MECKENHEIM, vicino a Bonn, dalla sede centrale e mi fu detto che a causa della pubblicità fatta sul mio nome non mi era più possibile lavorare per loro. Riconsegnai quindi la vettura e rientrai in Francia. Mi ritrovai quindi in una situazione di enorme difficoltà e come ho già dichiarato nei miei primi interrogatori, contattai MONTAGNER lasciandogli il mio numero di telefono francese, e chiedendogli di essere contattato da Delfo ZORZI. Questi mi chiamò dopo qualche giorno, lasciandomi anche un suo numero di fax, ma non di telefono, e mi esortò a non presentarmi in Italia, a non cedere, poichè egli avrebbe risolto tutti i miei problemi legali e di lavoro. 52 Concordammo, come ho già detto, un appuntamento a Parigi nel maggio del 1994, dove rimanemmo insieme per qualche ora. Dopo qualche giorno egli mi riconfermò il suo pieno appoggio purchè non rientrassi in Italia o, al più, rendessi dichiarazioni del tutto reticenti accettando eventualmente di essere sentito solo in Francia. Dopo qualche settimana mi ricontattò e mi disse che una ditta a lui collegata mi avrebbe mandato un invito per recarmi a San Pietroburgo, invito necessario affinchè io potessi ottenere un visto d'ingresso dal Consolato dell'ex/URSS a Marsiglia. Mi fece avere, come ho già detto, sul conto di mia moglie una somma equivalente a 600 o 700 dollari che mi permise di recarmi a Marsiglia per ottenere visto e poi a Zurigo dove avrei trovato un biglietto aereo prepagato per San Pietroburgo. Il mio viaggio a San Pietroburgo subì comunque un ritardo perchè io ero incerto se accettare o meno le offerte di ZORZI. Faccio del resto presente che prima di incontrare ZORZI a Parigi io avevo telefonato al dr. Madia (nota Ufficio: un funzionario del S.I.S.Mi.), che avevo conosciuto a Mestre e che mi aveva fornito il numero del suo cellulare, manifestandogli il mio disagio e chiedendogli quali sarebbero state eventualmente le condizioni e gli esiti di una mia presentazione in Italia. Ovviamente non gli dissi, in questa occasione, che ero già stato contattato da ZORZI. Infatti, già dalla primavera del 1994 io vivevo in uno stato di angoscia poichè le proposte di ZORZI e le sue telefonate chilometriche e piene di allusioni non mi convincevano affatto e dentro di me mi sentivo molto combattuto e molto incerto sulla strada da scegliere. Infatti, se da un lato ZORZI mi prometteva un avvenire sicuro sul piano lavorativo e anche su quello legale, nello stesso tempo percepivo da parte di quell'ambiente un senso di pericolo in quanto non sapevo che fine avrei fatto una volta messomi nelle loro mani. Infatti per loro ero l'anello debole della catena e percepivo nettamente questa sensazione e non sapevo se mi avrebbero effettivamente aiutato o se si sarebbero poi in qualche modo liberati di me. Sapevo inoltre da mio fratello che a Mestre Bobo LAGNA e Piercarlo MONTAGNER seguivano costantemente i miei movimenti, cercavano di acquisire notizie ed esercitavano una forte di pressione parallela a quella che mi proveniva da ZORZI. Nonostante questi embrionali contatti che avevo spontaneamente riattivato con il dr. Madia, andai lo stesso a San Pietroburgo dopo il primo spostamento della prenotazione e mi incontrai appunto con Rodolfo ZORZI che era accompagnato dal responsabile della ditta QUATZAR che io già conoscevo come ex cameriere a Mestre. 53 54 Questa persona aveva preso il posto di Bobo LAGNA che nel frattempo era deceduto. A San Pietroburgo mi furono rinnovate le offerte di lavoro, in quella zona, come uomo di fiducia della catena commerciale, con uno stipendio non eccessivamente elevato, ma con un tenore di vita molto più alto in quanto l'albergo in cui avrei alloggiato costava circa 400 dollari al giorno solo per la camera. Mi ero reso conto, del resto, che ZORZI poteva mettere a posto chi voleva in quanto il mestrino che accompagnava Rodolfo ZORZI a San Pietroburgo era stato in passato semplicemente un cameriere in una pizzeria ed era ora responsabile di una società commerciale. Mi ero anche reso conto che a ZORZI faceva capo, in Russia, una grossa catena commerciale poichè Rodolfo aveva portato per il punto vendita di San Pietroburgo una somma liquida di 50 mila dollari e parecchie valige di occhiali da sole "firmati", introvabili in quella città. Avevano altri punti vendita a Kiev e a Mosca che dovevano essere contattati in quei giorni da Rodolfo. Tutta la situazione, comunque, non mi convinceva e avevo paura. Fui colto da una crisi di paura, non diedi una risposta definitiva e dissi che per il momento avrei dovuto comunque rientrare in Francia e così feci. Quando a San Pietroburgo mi sentii male, ZORZI, contattato al telefono dal mestrino che accompagnava Rodolfo, tentò di convincermi di rimanere in Russia dove avrei potuto farmi curare a sue spese. Io, utilizzando come scusa il fatto che mi sarei trovato più a mio agio presso medici francesi, non accettai di rimanere. Rientrato in Francia mi ricoverai in una clinica di Toulouse per tutto il mese di agosto, anche se ZORZI mi aveva subito telefonato, appena ero giunto a casa, per sapere cosa intendessi fare e io non gli risposi prendendo tempo. All'inizio di settembre ZORZI mi richiamò e mi disse che se non mi andava bene San Pietroburgo avrei potuto avere un'altra sistemazione in Giappone, dalle parti di Osaka dove lui aveva un'attività commerciale. A questo punto capii che ero al bivio e che dovevo scegliere. ZORZI mi disse che lui non aveva problemi, ma che ero io, persona molto più scoperta, ad averne e compresi che rimanendo in Francia ZORZI non mi avrebbe mollato. Dovevo quindi scegliere e telefonai al dr. Madia, verso la metà di settembre, e gli dissi che ero disponibile a incontrarlo a Toulouse per discutere la mia situazione e valutare il mio rientro in Italia affidandomi alle Autorità del mio Paese. Faccio presente che già prima di partire per San Pietroburgo avevo comprato il biglietto per rientrare in Italia, e precisamente per l'aereoporto di Venezia dove avrei dovuto incontrare il dr. Madia, ma proprio poche ore prima di imbarcarmi, alle 4 del mattino ora di Toulouse, quando avevo già la valigia 54 pronta, ZORZI mi telefonò dal Giappone e riuscì a convincermi a non partire dicendomi che se mi fossi presentato in Italia sarei certamente stato arrestato, nonostante le garanzie che mi erano state fornite e mi rammentò, con velate minacce, che non avrei dovuto azzardarmi a testimoniare. In settembre, invece, la mia decisione era sostanzialmente presa e accettai l'incontro con il dr. Madia che si svolse a Toulouse alla fine di settembre. Il dr. Madia, giungendo all'aereoporto, mi avvicinò da solo e molto correttamente mi disse che viaggiava con un collega che io avrei potuto decidere di incontrare o meno; io accettai di incontrare entrambi. Il loro comportamento rafforzo la mia fiducia e accettai di spiegare loro, ovviamente per sommi capi tutti gli episodi e le circostanze in cui ero stato coinvolto negli anni '70 e mi resi quindi disponibile a rientrare in Italia nel giro di pochissimo tempo. Rientrai infatti in Italia nell'ottobre 1994, ma nelle ultime settimane della mia permanenza a Toulouse ZORZI continuò a tempestarmi di telefonate e io cercavo di rispondere evasivamente. Egli mi telefonò addirittura la sera in cui ero appena partito per l'Italia e mia moglie rispose che io ero partito e che non sapeva dove fossi. Certamente ZORZI comprese che io avevo accettato di testimoniare e da quel momento mise tutto l'ambiente sulle mie tracce. In merito a quanto avvenne in questo periodo e alla mia vicenda personale intendo fermamente sottolineare quanto segue. Io ero profondamente turbato sia perchè avevo compreso che in qualche modo ero oggetto dell'istruttoria e che su di me rischiava di pesare indefinitamente il sospetto di essere l'autore materiale di un massacro di cui personalmente non ero invece responsabile, con le conseguenze che ne derivavano anche su mio padre anziano e sul resto della mia famiglia. D'altronde sin dalla fine del 1969, come ho già avuto modo di dire nell'interrogatorio in data 20.10.1994, ho provato rimorso e turbamento essendomi reso conto di avere partecipato ad una progressione di attività criminose e di attentati che, pur senza la mia successiva partecipazione, si era conclusa con fatti gravissimi. Mi sono sentito quindi, in qualche forma, moralmente responsabile e umanamente coinvolto, nonostante il mio distacco da moltissimo tempo da quell'ambiente. Le pressioni di ZORZI e delle persone a lui legate mi facevano temere che io non andassi incontro ad una sistemazione lavorativa, ma a qualcosa di ben diverso. Per questi motivi, nonostante molte titubanze e tentennamenti, nella primavera del 1994 riaprii il contatto con il dr. Madia e alla fine decisi di rientrare. 55 56 Il dr. Madia mi era parso subito come una persona estremamente positiva anche sul piano umano, molto preparata ed ebbe con me un comportamento sempre corretto e lineare. Mi disse che se io avessi accettato di dare informazioni utili, e in prospettiva anche di collaborare formalmente con l'Autorità Giudiziaria, avrei dovuto dire esclusivamente la verità, dire tutto quanto a mia conoscenza per avervi partecipato direttamente o per averlo nell'ambiente in un contesto di affidabilità ed attenermi strettamente a questo tipo di comportamento. Da parte mia risposi che se avessi scelto tale via mi sarei attenuto a tale comportamento e infatti così ho fatto, raccontando tutto quanto a mia conoscenza senza alcuna reticenza e nel contempo senza inventare o aggiungere nulla. Credo che le conferme che sono giunte, come ho appreso durante gli interrogatori, da altri imputati o testimoni confermino ciò e d'altra parte alcune imprecisioni soprattutto nei primi interrogatori, quando a distanza di tanto tempo tante circostanze si affollavano nella mia memoria, ritengo che testimonino la mia spontaneità e sincerità. Ovviamente ho chiesto e ho avuto garanzia, qualora avessi scelto questa strada, di un aiuto economico in quanto mi trovavo in una situazione disperata avendo perso il lavoro e non avendo più un posto dove stare, dal momento che la mia residenza francese era facilmente rintracciabile dagli elementi del mio vecchio ambiente. Faccio presente che una volta ottenuto tale aiuto economico, dall'ottobre 1994, avendo fissato la mia residenza in un luogo molto lontano per motivi familiari e di sicurezza, me la sono cavata da solo senza alcuna ulteriore misura di protezione e tenendomi solo periodicamente in contatto con i due funzionari che avevo conosciuto. Non ho mai saputo, nè mi interessa saperlo, per quale struttura dello Stato lavorassero il dr. Madia e il Capitano Giraudo. Per me sono due funzionari dello Stato che hanno dimostrato correttezza, notevole competenza, e profonde doti di umanità richiamandomi anche, e sempre, ai valori morali della mia scelta. Ciò è avvenuto anche nei momenti più difficili tenendo presente che, dopo la pubblicazione dell'articolo su La Nuova Venezia, la mia situazione familiare nel Paese in cui mi trovavo si era notevolmente aggravata e sono riuscito per molti mesi a reggere l'impatto psicologico di questa situazione solo grazie ai contatti telefonici rassicuranti a tranquillizzanti con il personale del R.O.S. carabinieri di Roma. Nonostante la rabbia ho accuratamente evitato di rilasciare interviste o mettermi in contatto con giornalisti, in quanto non volevo mettere in difficoltà lo sviluppo delle indagini e volevo mantenere, come sentivo mio dovere, un comportamento lineare e sereno. 56 L'articolo del giornalista Cecchetti è stato quindi veramente un episodio vergognoso, punto conclusivo di un accanimento che questo giornalista ha mostrato nei miei confronti e nei confronti della mia famiglia, anche con articoli pubblicati in anni precedenti a questa istruttoria. Oltre a colpire me, come mi sono reso conto tornando in Italia, questo articolo ha colpito anche il lavoro della Giustizia in quanto essendo pubblicato su giornali veneti ha certamente spaventato molti possibili testimoni che potevano certamente aiutare le indagini ed ha invece fatto il gioco dei vecchi elementi di Ordine Nuovo che hanno le maggiori responsabilità in queste vicende. Ho trovato estremamente ingiusto che quanto scritto dal Cecchetti, la cui amicizia di lunga data con il P.M. di Venezia che si occupa di questa materia è a Mestre e Venezia di dominio pubblico, non sia stata smentita da tale Autorità che pure aveva il dovere di farlo e la possibilità di informarsi delle modalità della mia collaborazione, che certo non è stato un depistaggio, ma un aiuto offerto alle Autorità inquirenti. Ho provato anche delusione per il comportamento della Procura di Milano che, da quanto si legge sull'articolo del Cecchetti, sembra anch'essa non avere compreso la mia collaborazione nonostante gli interrogatori che ho reso anche ad essa e che perdipiù, nel mese di ottobre 1995, nel corso di un interrogatorio in presenza di un ufficiale dei Carabinieri, mi aveva garantito l'avvio di una forma di protezione all'estero, cosa che non è mai avvenuta. Dal canto mio sono invece rimasto sempre lealmente disponibile a rendere all'Autorità Giudiziaria fra cui anche al Giudice Istruttore di Milano, dr. Lombardi, tutti gli interrogatori che fossero ritenuti necessari, compresi i confronti con altre persone del vecchio ambiente ordinovista”””. (int .SICILIANO, 29.3.1996, ff.2-8). Si noti che il racconto di Martino SICILIANO in merito alle sue peripezie dopo che la sua incriminazione era divenuta di dominio pubblico, al tentativo del gruppo di Delfo ZORZI di prevenire ogni sua possibile testimonianza e alla sua formale scelta di collaborazione sono in perfetta sintonia con quanto documentato dal S.I.S.Mi. (che ha evitato ogni attività di carattere solamente “informale” e quindi non controllabile) momento per momento, contatto per contatto, telefonata per telefonata nelle note via via trasmesse dal Funzionario operante alla Direzione del Servizio, dalla Direzione del Servizio al Reparto Eversione del R.O.S. e da tale reparto a questo Ufficio (vedi vol.45, fasc.1). Tale doppio riscontro, testimoniale e documentale, testimonia la trasparenza dell’azione svolta dal S.I.S.Mi., che costituisce in tale settore il migliore esempio di azione di intelligence che sino a questo momento sia mai stato condotto dal nostro Paese. 57 58 I danni ai potenziali risultati delle indagini in corso fra il 1995 e il 1996 cagionati dall’operazione Cecchetti e dai suoi ispiratori non potranno comunque essere mai calcolati nè riparati e in questo senso il rinvio a giudizio del giornalista, richiesto e ottenuto nella primavera del 1997 dalla Procura di Padova anche a seguito di querela presentata dal Direttore del S.I.S.Mi. dell’epoca, generale Sergio Siracusa (caso, questo, unico nella recente storia giudiziaria), per rispondere del reato di diffamazione aggravata, risarcisce solo in parte e solo sul piano storico/morale l’indagine dei danni subìti. 58 PARTE SECONDA I NUOVI ELEMENTI EMERSI SUL GRUPPO “LA FENICE” 59 60 5 LA POSIZIONE DI PIETRO BATTISTON Pietro BATTISTON, componente storico del gruppo La Fenice e uomo di fiducia, al pari di Nico AZZI, di Giancarlo ROGNONI, si era reso latitante quando, il 14.12.1973, in un’autovettura custodita all’interno del garage Sanremo di Via Zecca Vecchia a Milano, di proprietà del padre Pio e in cui egli stesso lavorava, era stato rinvenuto un piccolo arsenale di armi ed esplosivo fra cui una saponetta di tritolo da 500 grammi del tutto identica a quella utilizzata da Nico AZZI, nell’aprile 1973, per commettere il fallito attentato sul treno Torino-Roma (cfr. vol.1, fasc.18, ff.1 e ss.). Una volta revocato il mandato di cattura, a seguito della fortunosa assoluzione per insufficienza di prove, Pietro BATTISTON era rientrato in Italia dalla Spagna, ove era rimasto a lungo latitante a Madrid in stretto contatto con Giancarlo ROGNONI, aveva svolto il servizio militare a Mestre (riallacciando fra l’altro, in quel periodo, i rapporti con Carlo DIGILIO già conosciuto a Milano) e si era infine trasferito definitivamente in Venezuela ove aveva impiantato, collaborando a lungo con Roberto RAHO, un’attività commerciale nel campo delle carni surgelate. Nel corso della prima fase dell’istruttoria era emerso che l’esplosivo rinvenuto nel garage Sanremo apparteneva effettivamente a Pietro BATTISTON che lo custodiva per conto del gruppo La Fenice dopo l’arresto di AZZI e la fuga di ROGNONI (cfr. dep. Biagio PITARRESI, 10.11.1992, f.2 e capitolo 11 della sentenza-ordinanza depositata in data 18.3.1995). Nel corso di questo secondo troncone dell’istruttoria è emerso, per ammissione dello stesso BATTISTON e a seguito delle conferme di Carlo DIGILIO, Francesco ZAFFONI, Giuseppina GOBBI, titolare della trattoria Lo Scalinetto di Venezia, e altri testimoni, che egli, a partire dall’inizio del 1974, era rimasto per molti mesi latitante a Venezia, grazie all’aiuto del dr. MAGGI, pranzando alla trattoria Lo Scalinetto, punto di riferimento del gruppo, e abitando nella sede dismessa del circolo Il Quadrato, già sede di Ordine Nuovo di Venezia, messagli a disposizione dallo stesso MAGGI e da Carlo DIGILIO (cfr. ampiamente capitolo 22 della presente sentenza-ordinanza). Nel giugno 1974, Pietro BATTISTON era stato inviato, sempre dai camerati veneziani, in Grecia, nei pressi di Atene, ove, in una villetta, avevano trovato rifugio altri ordinovisti italiani, prevalentemente veronesi, e l’anno successivo egli aveva raggiunto prima Barcellona e poi Madrid riunendosi così a Giancarlo ROGNONI, Pierluigi PAGLIAI, Francesco ZAFFONI e agli altri italiani latitanti. Nel corso delle indagini erano via via emersi altri, anche se frammentari, elementi concernenti il ruolo svolto da Pietro BATTISTON sino all’inizio degli anni ‘80. Sergio CALORE aveva ricordato che BATTISTON aveva reso possibile il contatto fra Giancarlo ROGNONI, ormai latitante, e gli altri coimputati del gruppo La Fenice, rimasti in Italia, raggiungendo ROGNONI nei luoghi in cui si trovava (cfr. int. CALORE al G.I. di Bologna, 22.2.1994, f.2). 60 Mauro MARZORATI, arrestato per l’attentato al treno del 7.4.1973, ha ricordato che BATTISTON gli aveva confidato di essere stato fra i responsabili del fallito attentato del marzo 1973 alla COOP di Bollate, citato nel “documento AZZI” e di cui si è ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza (cfr. dep. MARZORATI, 31.3.1995, ff.2-3 e capitoli 10-11 dell’ordinanza conclusiva del proc. 721/88F). Francesco DE MIN, altro componente minore del gruppo La Fenice, ha rievocato un’altra circostanza e cioè che Nico AZZI, durante la comune detenzione, aveva ritenuto che parte dell’esplosivo sequestrato nel garage di BATTISTON fosse stato parte di quello occultato nel deposito di Celle Ligure ed eventualmente da questi recuperato, confermando così che BATTISTON, all’interno del gruppo, era l’uomo incaricato della custodia e della gestione degli esplosivi (cfr. int. DE MIN, 18.3.1995, f.3). Francesco DE MIN aveva del resto appreso, sempre all’interno del gruppo, che BATTISTON aveva in precedenza fatto sparire dell’esplosivo e per tale ragione era entrato in rotta di collisione con Nico AZZI (int. citato, f.3). Gianni FERORELLI, altro militante della destra milanese, in contatto con il gruppo di ROGNONI, aveva ricevuto da Pietro BATTISTON una pistola cal.7,65 e aveva saputo che questi aveva detenuto per un certo periodo di tempo dell’esplosivo di proprietà di Giancarlo ESPOSTI e Angelo ANGELI, e cioè in sostanza dell’organizzazione S.A.M., contigua a quella di ROGNONI (dep. FERORELLI, 10.3.1995, f.3). Marco CAGNONI, altro componente del gruppo La Fenice, “sopravvissuto” agli arresti dell’aprile 1973, ha confermato che Pietro BATTISTON, entrato in latitanza, era rimasto per diverso tempo a Venezia, dove lo stesso CAGNONI gli aveva fatto visita, ed era stato poi avviato in Grecia dai camerati veneziani stabilendosi ad Atene in una villetta già occupata anche da Elio MASSAGRANDE e altri latitanti italiani (dep. 15.1.1996, f.2). Ma soprattutto CAGNONI ha ricordato che nel periodo precedente, quando ROGNONI era ancora latitante in Svizzera, egli si era recato nella zona del Passo San Bernardino per incontrarlo e qui, oltre a ROGNONI, aveva trovato Pietro BATTISTON, certamente incaricato di tenere in modo più stabile i contatti fra i vari militanti del gruppo dispersi a causa degli arresti e delle indagini giudiziarie in corso (cfr. dep. citata, f.3). Carlo DIGILIO, forse consapevole che l’ammissione dei suoi contatti con il militante milanese avrebbe necessariamente imposto un ulteriore ampliamento delle sue rivelazioni, sino a quel momento contenute ad un numero limitato di episodi, ha ammesso solo il 6.11.1995 di avere conosciuto BATTISTON e di averlo incontrato sia a Milano sia a Venezia sia a Madrid ed infine a Caracas in Venezuela (int. 6.11.1995, f.2), di averlo ospitato in particolare per alcuni giorni nella sua casa di S.Elena quando era latitante a Venezia e di essersi di rimando rivolto a lui per cercare di rintracciare Elio MASSAGRANDE a sua volta latitante in Paraguay (int.10.11.195, f.2). 61 62 Da BATTISTON e Roberto RAHO, Carlo DIGILIO era stato anche aiutato economicamente durante il periodo della sua latitanza a Santo Domingo (int.7.8.1996 f.3 e 3.11.1996 f.2). Sulla base di tali elementi questo Ufficio aveva emesso nei confronti di Pietro BATTISTON due mandati di comparizione, uno per i reati di cui agli artt. 270 e 306 c.p. in relazione alla sua attività nel gruppo La Fenice e l’altro per il reato di cui all’art.285 c.p. in relazione all’attentato al treno Torino-Roma (cfr. vol.1, fasc.18, ff.84 e ss. e 94 e ss.), provvedimenti rimasti tuttavia senza esito in quanto BATTISTON risultava risiedere in Venezuela in una località sconosciuta. La figura di BATTISTON, mai interrogato da alcuna Autorità Giudiziaria, rimaneva quindi sfumata e sfuggente nonostante il ruolo non secondario avuto all’interno dell’area di estrema destra. La svolta avveniva nel settembre 1995, grazie ad una intercettazione ambientale disposta dal P.M. di Venezia, dr. Casson, nell’abitazione di Roberto RAHO, nell’ambito di un procedimento relativo ad un traffico di autovetture rubate che vedeva coinvolti vari ex-ordinovisti. BATTISTON e RAHO iniziavano, infatti, a discutere dell’evoluzione delle indagini in corso presso l’A.G. di Milano dimostrando di essere a conoscenza, anche tramite Lorenzo PRUDENTE, interrogato pochi giorni prima, di molti particolari sia relativi agli sviluppi delle indagini sia direttamente concernenti i fatti che erano avvenuti negli anni ‘70 compreso il ruolo di Carlo DIGILIO, da loro chiamato il “nonno”, incontrato ed aiutato economicamente più volte in Venezuela durante la sua latitanza. RAHO e BATTISTON si mostravano innanzitutto soddisfatti del fatto che Carlo DIGILIO, pur avendo iniziato a collaborare, non avesse riferito tutto quanto a sua conoscenza (circostanza, questa, certamente vera facendo riferimento all’autunno 1995), confermando comunque l’importanza del ruolo da lui ricoperto perchè “di cose da dire non ne ha una, ne ha cento” (cfr. f.6 della trascrizione allegata all’interrogatorio di BATTISTON dinanzi alla Procura di Brescia in data 6.10.1995, vol.13, fasc.3, ff.42 e ss.). I due, parlando liberamente degli episodi che avevano vissuto o di cui erano stati a conoscenza, facevano quindi riferimento a vicende di minore o maggiore importanza quali un viaggio effettuato alla trattoria Lo Scalinetto di Venezia insieme ad Angelo ANGELI (f.3), alla fabbrica di armi impiantata da Eliodoro POMAR a Madrid (f.5), al tentativo di rintracciare Elio MASSAGRANDE in Paraguay quando DIGILIO si trovava in Venezuela (f.4) e soprattutto al fatto che Marcello SOFFIATI, il giorno prima della strage di Brescia, sarebbe partito in direzione di tale città con una valigia piena di esplosivo (f.4 della trascrizione), episodio che sarebbe stato in seguito raccontato da Carlo DIGILIO, pur all’oscuro di tale intercettazione, negli importantissimi interrogatori del 4 e 5 maggio 1996. In sostanza, l’intercettazione di tale conversazione confermava che le indagini, nel loro complesso, si stavano muovendo nella giusta direzione e che era necessario insistere affinchè Carlo DIGILIO decidesse di raccontare anche gli episodi più gravi di cui era stato protagonista. 62 Sentiti dal P.M. di Milano ed anche dal P.M. di Venezia nell’immediatezza dell’intercettazione, RAHO e BATTISTON, posti di fronte al tenore inequivoco delle loro conversazioni, rendevano dichiarazioni di grande importanza per lo sviluppo delle indagini, dichiarazioni che tuttavia non preludevano ad una completa apertura processuale in quanto nel giro di pochi giorni Pietro BATTISTON tornava in Venezuela e non faceva più rientro in Italia, mentre Roberto RAHO assumeva in seguito un atteggiamento di completa chiusura. Sintetizzando gli argomenti toccati da Pietro BATTISTON (che saranno soprattutto oggetto dell’indagine in corso presso la procura di Milano), questi, oltre a riferire in merito alla propria latitanza a Venezia dal gennaio al giugno 1974 (cfr. capitolo 22 della presente ordinanza), rievocava moltissimi episodi di cui aveva appreso a Venezia, soprattutto da Carlo DIGILIO, e che in seguito sarebbero stati confermati dagli interrogatori che questi avrebbe ricominciato a rendere dopo la malattia che lo aveva colpito. Emergevano così circostanze importantissime e cioè che il gruppo di Venezia disponeva di gelignite, di cui DIGILIO aveva cura al fine di evitarne il trasudamento (int. al P.M. di Milano, 29.9.1995, ff.1-2), che altro esplosivo di origine bellica era stato recuparato dalla Laguna, che il gruppo stava studiando il modo di far funzionare al meglio i detonatori mediante una resistenza elettrica (int. citato, f.2). Emergeva ancora che Carlo DIGILIO aveva adibito una stanza della sua abitazione di S.Elena per la riparazione e modificazione di armi in favore del gruppo di Ordine Nuovo e soprattutto che già durante gli incontri fra lo stesso BATTISTON, RAHO e DIGILIO in Venezuela all’inizio degli anni ‘80, quest’ultimo aveva fatto chiari riferimenti alla corresponsabilità del dr. Carlo Maria MAGGI nella strage di Piazza Fontana (int. citato, f.2 e int. 3.10.1995, f.5). Interrogato anche dai Pubblici Ministeri di Brescia titolari dell’indagine sulla strage di Piazza della Loggia, Pietro BATTISTON confermava di avere appreso da RAHO notizie in merito al trasporto di una borsa di esplosivo da parte di Marcello SOFFIATI il giorno precedente la strage di Brescia ed ammetteva altre circostanze importanti quali l’aiuto economico fornito a DIGILIO in Venezuela durante la sua latitanza e la proprietà da parte del dr. MAGGI di una macchina per scrivere (poi ceduta a DIGILIO) con la quale erano stati battuti i volantini utilizzati per rivendicare falsamente con una sigla di sinistra qualche attentato “minore” avvenuto nel Veneto, secondo una tecnica di “diversione” di cui si è già ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio (cfr. int. BATTISTON al P.M. di Brescia, 4.10.1995, ff.1, 2 e 4, vol.13, fasc.3). Interrogato anche da questo Ufficio in data 3.10.1995, Pietro BATTISTON aggiungeva altri episodi, ammettendo di avere probabilmente ceduto una pistola cal.7,65 a Gianni FERORELLI, di essersi recato tre volte in Svizzera con altri camerati milanesi fra cui, in una occasione, Francesco ZAFFONI e Marco CAGNONI, per contattare Giancarlo ROGNONI inizialmente latitante in quel Paese e di avere incontrato Carlo DIGILIO a Madrid durante la visita di questi, nel 1975, dall’ing. POMAR che si stava occupando della riproduzione della famosa mitraglietta (ff.4-5). 63 64 BATTISTON ricordava anche di avere conosciuto Delfo ZORZI a Miano, presentatogli proprio da Giancarlo ROGNONI (int. citato, f.3). Anche Roberto RAHO, incalzato nell’immediatezza dell’intercettazione dal P.M. di Milano, aveva reso dichiarazioni di notevole importanza, salvo poi rifiutare ogni ulteriore rapporto con l’Autorità Giudiziaria. In particolare RAHO aveva confermato di avere conosciuto Carlo DIGILIO tramite Massimiliano FACHINI (personaggio in merito al quale DIGILIO ha mantenuto un rigoroso silenzio), di avere appreso da DIGILIO le tecniche di falsificazione dei documenti e ha confermato altresì la vicenda della macchina per scrivere, originariamente di proprietà del dr. MAGGI, utilizzata per battere le finte rivendicazioni di “sinistra” (cfr. int. al P.M. di Milano, 4.10.1995, ff.1-2). Soprattutto ha confermato che il gruppo di Venezia disponeva da antica data di notevoli quantità di gelignite e che DIGILIO, sin dai loro incontri in Venezuela, aveva fatto riferimento alla responsabilità del dr. MAGGI in relazione alla strage di Piazza Fontana (int. citato, f.3). Roberto RAHO ha aggiunto di avere movimentato, sempre con l’aiuto di DIGILIO, notevoli quantità di tritolo destinate ad entrare a far parte della dotazione della struttura romana e ad essere utilizzate per i grandi attentati, della campagna del 1978/1979, al Campidoglio, al C.S.M. e a Regina Coeli e di avere portato a Roma anche alcuni M.A.B. modificati, sempre da DIGILIO, tagliando parte della canna e sostituendo il calcio originale con una impugnatura di metallo (int. citato, f.4). In tutte queste attività era coinvolto Massimiliano FACHINI il quale, nonostante le ripetute assoluzioni, è così rientrato ancora una volta nelle indagini relative alla struttura occulta di Ordine Nuovo (int. citato, ff.4-5). Tornando alla posizione di Pietro BATTISTON, non vi è dubbio che il ruolo centrale da lui ricoperto all’interno del gruppo di Giancarlo ROGNONI quale custode del materiale esplosivo e in seguito, sino alla fine degli anni ‘70 (e probabilmente oltre tenendo presente i contatti tenuti con Carlo DIGILIO), il ruolo di raccordo svolto consentendo il mantenimento dei collegamenti fra Giancarlo ROGNONI e gli altri ordinovisti, imponga il rinvio a giudizio dell’imputato per rispondere dei reati di cui ai capi 1 e 2 di rubrica. Pietro BATTISTON deve invece essere prosciolto in questa sede in relazione alla sua prospettata partecipazione all’attentato al treno Torino-Roma del 7.4.1973. Infatti gli elementi indicati nel mandato di comparizione emesso nei suoi confronti (l’identità dell’esplosivo rinvenuto nel dicembre 1973 nel garage Sanremo con quello utilizzato da Nico AZZI, la presenza di BATTISTON tanto al convegno del Centro Studi Europa a Genova nel marzo 1973 quanto alla riunione alla birreria Wienervald di Milano il 6.4.1973 (momenti in cui il gruppo dei milanesi mise a punto i preparativi dell’attentato), unitamente alla forte internità al gruppo di Pietro BATTISTON nel 64 corso del 1973, fanno sospettare che egli sia il “quinto uomo” presente alle fasi operative dell’episodio del 7.4.1973, di cui vi è cenno in qualche interrogatorio, quinto uomo riuscito a sfuggire all’individuazione e alla cattura. Si tratta tuttavia di elementi indiziari e incompleti e, in mancanza di dirette indicazioni provenienti da collaboratori o testimoni, inidonei, vista anche la gravità del fatto, a sostenere validamente un’accusa in giudizio. Pietro BATTISTON deve quindi essere prosciolto in ordine al reato di cui al capo 3 di rubrica con la formula non aver commesso il fatto. 65 66 6 IL DEPOSITO DI ESPLOSIVI DEL GRUPPO “LA FENICE” SOTTERRATO A CELLE LIGURE Nico AZZI, dopo una serie di contatti con personale del R.O.S. Carabinieri, pur senza divenire in alcuna forma un collaboratore e sottolineando sempre l’immutata fedeltà ai propri principi ideologici, ha ritenuto giusto rivelare che un deposito di esplosivo sotterrato del gruppo La Fenice esisteva ancora nell’entroterra ligure, nel territorio del comune di Sanda, non lontano dalla villetta di proprietà di Giancarlo ROGNONI a Celle Ligure. Tale deposito (da cui provenivano sia i panetti di tritolo utilizzati per l’attentato al treno del 7.4.1973 sia le bombe a mano SRCM lanciate durante la manifestazione in cui fu ucciso l’agente Antonio Marino; int. AZZI, 10.2.1995, f.2), la cui esistenza era nota solo a lui, ROGNONI e Francesco DE MIN e che con ogni probabilità non era stato più toccato dopo l’arresto di AZZI nell’aprile 1973 e la fuga all’estero di ROGNONI, consisteva in tre contenitori di plastica, occultati in una buca di scarsa profondità con assi di legno poste nel fondo della stessa, contenenti detonatori al fulminato di mercurio e bombe a mano SRCM, rubate dallo stesso AZZI presso la Caserma di Imperia ove aveva prestato il servizio militare, alcune munizioni ed esplosivo del tipo ANFO utilizzato nelle cave (int. AZZI, 10.2.1995 ff.3-4 e rapporto del R.O.S. Carabinieri in data 15.10.1994, f.2). Nico AZZI si era reso anche disponibile a tentare l’individuazione e il recupero di tale deposito, ma il sopralluogo effettuato il 12.10.1994 da lui insieme a personale del R.O.S. dava esito solo parzialmente positivo in quanto, pur essendo stato individuato il casolare ove si trovava il deposito, non era stato più possibile localizzare il punto esatto dell’interramento essendo venuti meno, a oltre vent’anni di distanza, per i numerosi incendi che avevano toccato la zona e per la conseguente modifica della vegetazione, i punti di riferimento ricordati da AZZI. Si riteneva inoltre inutile proseguire le ricerche con mezzi tecnici sofisticati quali metal-detector sia per la presenza nel terreno di minerali ferrosi, che avrebbero comunque reso lunga e costosa la ricerca, sia perchè lo stato di abbandono della zona esclude comunque che l’esistenza del deposito possa costituire un pericolo per l’incolumità di qualcuno. Francesco DE MIN, sentito in qualità di indiziato in data 18.3.1995, ha ammesso di essere al corrente dell’esistenza del deposito di esplosivo, sostenendo tuttavia di esserne venuto a conoscenza quando il suo allestimento era già avvenuto. In particolare, nel marzo 1973 quando, poche settimane prima del fallito attentato al treno Torino-Roma, tutto il gruppo aveva partecipato al convegno a Genova del Centro Studi Europa, egli, con la sua autovettura, aveva accompagnato AZZI e ROGNONI sino a Celle Ligure e poi a piedi i tre avevano raggiunto la località isolata ove era stato sotterrato il materiale. 66 Secondo DE MIN in tale occasione ROGNONI ed AZZI intendevano solo verificare lo stato dei luoghi e controllare che non vi fossero pericoli di deterioramento, cosicchè il gruppo si era limitato a guardare a livello superficiale senza scavare sin nel punto ove si trovavano i contenitori (int. citato, f.2). Anche Mauro MARZORATI, seppure con toni più sfumati, ha dichiarato di aver appreso, durante un’esercitazione effettuata proprio nell’entroterra di Celle Ligure con ROGNONI, AZZI, DE MIN e altri camerati, che in quella zona esisteva un deposito di esplosivo o qualcosa del genere di pertinenza del gruppo (dep. 31.3.1995, f.2). Inoltre Biagio PITARRESI ha riferito che, all’inizio degli anni ‘70, ROGNONI gli aveva confidato che nell’entroterra di Celle Ligure era stato sotterrato dell’esplosivo, fornendo a PITARRESI anche gli essenziali punti di riferimento. Biagio PITARRESI, qualche tempo dopo, si era recato sul posto con un altro camerata per allenarsi all’uso delle armi da fuoco e aveva cercato di individuare il deposito, senza tuttavia riuscirci (dep. 9.9.1986, ff.2-3). Giancarlo ROGNONI, come prevedibile, ha escluso di sapere alcunchè di tale deposito di esplosivo (int. 22.12.1995, f.2), ma la circostanza più interessante in proposito è comunque emersa da un interrogatorio di Martino SICILIANO: “””Io sono stato ospite nella casa di ROGNONI a Celle Ligure per uno o due giorni dopo il mio matrimonio con Ada Giannatiempo, nel 1971. Nell'occasione ROGNONI mi confidò che, non distante dalla sua casa, verso l'interno di Celle Ligure, in una zona impervia, avevano costituito un deposito di armi ed esplosivi sottoterra. Faccio presente che la casa di Rognoni a Celle Ligure si trovava alla periferia del paese, verso l'interno, e subito alle sue spalle ci sono le montagne. Parlai per caso con Bobo LAGNA di questa circostanza ed egli mi disse che non solo non c'era più la casa di Celle Ligure, ma anche che il deposito di esplosivo e munizioni, pur ancora esistente, non era più raggiungibile perchè l'assetto del territorio era cambiato e non era più possibile orientarsi. Bobo Lagna, a Mestre, era colui che si occupava di tenere i contatti con Anna Cavagnoli quando Rognoni era detenuto e quindi anche delle iniziative di aiuto in suo favore ed evidentemente in tale contesto egli aveva appreso del deposito. Del resto Lagna aveva frequentato a Mestre Pietro BATTISTON che veniva a Venezia con una certa frequenza”””. (SICILIANO, int.18.3.1996, f.6). La circostanza riferita da Martino SICILIANO è assai significativa in quanto, tenendo presente che Bobo LAGNA (deceduto nel 1993) era uno degli uomini di fiducia di Delfo ZORZI, la conoscenza da parte del gruppo mestrino del deposito di esplosivo allestito da Giancarlo ROGNONI e dagli altri milanesi evidenzia ancora una volta la sinergia operativa di antica data fra i due gruppi. 67 68 Si aggiunga infine che durante il sopralluogo con il personale del R.O.S. finalizzato ad individuare il punto ove era sepolto l’esplosivo, Nico AZZI aveva fatto agli operanti varie affermazioni di rilievo fra cui il fatto che l’episodio del progettato deposito dei timers nella proprietà di FELTRINELLI corrispondeva a verità (ed egli stesso avrebbe dovuto avere una parte nell’operazione) e il fatto che negli ambienti di destra qualificati fosse notorio che il trasferimento di Delfo ZORZI in Giappone si ricollegasse ad una sua paura di essere coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana (rapporto R.O.S. citato, 15.10.1994, f.3). L’utilizzo processuale di tali affermazioni è tuttavia assai problematico in quanto nè queste nè altre sono state formalizzate da Nico AZZI in sede di interrogatorio. Analoga è la situazione in merito a quanto riferito in seguito da Nico AZZI circa la materiale responsabilità di Delfo ZORZI nell’attentato all’Università Statale di Milano, effettuato anche grazie ad un sopralluogo sull’obiettivo svolto con l’aiuto e la presenza dello stesso AZZI (cfr. nota R.O.S. in data 8.2.1995, f.1). L’attentato cui ha fatto cenno AZZI, avvenuto il 1°.2.1971, è un episodio di notevole gravità in quanto un potente ordigno aveva devastato alcuni locali nella zona biblioteca e nella zona parcheggio dell’Università, sul lato di Via Francesco Sforza (vol.8, fasc.9). L’arresto di Nico AZZI nel luglio 1997, nell’ambito dell’indagine nuovo rito, per il reato di testimonianza reticente (arresto peraltro giudicato erroneo dal Tribunale del Riesame in quanto AZZI non poteva rivestire la qualità di testimone, bensì quella di imputato di reati connessi), non sembra certo avere facilitato la formalizzazione processuale di tali elementi e l’unico dato utilizzabile in merito all’attentato all’Università Statale resta, allo stato, la testimonianza di Biagio PITARRESI. Questi, infatti, ha dichiarato di avere partecipato con altri camerati, pochi giorni dopo il fatto, ad un presidio all’Università Cattolica in quanto si temevano azioni di ritorsione da parte degli studenti di estrema sinistra dell’Università Statale e che nell’occasione Nico AZZI aveva esplicitamente rivendicato a sè e al suo gruppo l’attentato di pochi giorni prima (int. PITARRESI, 9.9.1996, f.3). 68 7 LE DICHIARAZIONI DI EDGARDO BONAZZI IN MERITO AL GRUPPO “LA FENICE” E ALLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA L’esposizione della vicenda connessa al deposito di esplosivi di Celle Ligure consente di introdurre il tema delle dichiarazioni rese da Edgardo BONAZZI non solo in merito a tale episodio e più in generale in merito alle attività del gruppo di ROGNONI, ma soprattutto su alcune circostanze, di grandissimo rilievo, legate agli attentati del 12.12.1969. Tali dichiarazioni hanno infatti permesso di collegare in modo molto saldo l’attività di Giancarlo ROGNONI con quella del gruppo veneto e costituiscono uno dei più importanti pilastri di riscontro a quelle, più dirette e interne di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO. Edgardo BONAZZI, infatti, non è un ordinovista e non è mai stato coinvolto personalmente negli episodi della c.d. strategia della tensione e nelle stragi. Appartenente all’ala “dura” del M.S.I. di Parma, Edgardo BONAZZI si è reso responsabile, nel 1972, insieme ad altri camerati, dell’omicidio di un giovane aderente a Lotta Continua durante uno scontro fra elementi di opposte tendenze politiche. Arrestato e condannato ad una lunga pena detentiva, egli, fino alla metà degli anni ‘80, ha condiviso la carcerazione con soggetti dello spessore di FREDA, CONCUTELLI, AZZI e GIANNETTINI in vari carceri speciali, apprendendo da essi, in quanto considerato un camerata affidabile, una notevole mole di notizie su tutti i fatti di strage e di eversione. A partire dal 1994, Edgardo BONAZZI, prima con una serie di colloqui investigativi con personale del R.O.S. Carabinieri e poi, in sede di formale testimonianza dinanzi a questo Ufficio e ad altre Autorità Giudiziarie, ha deciso con sempre maggiore determinazione di rivelare quanto a sua conoscenza sulla base di una profonda revisione critica dell’esperienza politica del mondo dell’estrema destra. Egli ha infatti più volte sottolineato che il vincolo della “fedeltà” fra camerati non può e non deve essere mantenuto ogniqualvolta le notizie apprese riguardino responsabilità personali o di gruppo su fatti di strage, episodi come tali estranei a qualsiasi forma di antagonismo politico anche deciso e caratterizzati, come lo stesso BONAZZI aveva avuto modo di rendersi conto in carcere, da complicità del mondo della destra con apparati istituzionali che erano in grado di manipolarne ed utilizzarne i militanti. Fatta questa premessa in merito al senso della riflessione di Edgardo BONAZZI, la sua dissociazione si è concretizzata in una serie di deposizioni di cui devono essere 69 70 riportati i punti salienti, alcuni dei quali già in parte accennati nella prima sentenzaordinanza di questo Ufficio: - aveva appreso da Nico AZZI che il gruppo La Fenice disponeva di un deposito di esplosivi e bombe a mano sotterrato in una località impervia della Liguria, deposito certamente da identificarsi in quello di Celle Ligure indicato da AZZI (cfr. dep. 7.10.1994, f.3; 4.2.1995, f.2). - AZZI e il suo gruppo erano altresì responsabili di un attentato fallito in danno di una cooperativa in occasione del quale i camion della stessa erano stati “minati” tutti insieme tramite ordigni collegati da una miccia detonante (dep. 7.10.1994, f.3). Il fallito attentato è certamente da identificarsi nell’episodio in danno della COOP di Bollate del marzo 1973, episodio già indicato nel c.d. documento AZZI e ampiamente trattato nella prima sentenza/ordinanza di questo Ufficio (capitolo 11); - l’attentato in danno del treno Torino-Roma del 7.4.1973 non era l’unico progettato in quel periodo dal gruppo La Fenice. Era stato infatti progettato un attentato all’Università Cattolica che certamente avrebbe avuto gravissime conseguenze e la cui responsabilità, come quella dell’attentato sul treno, avrebbe dovuto ricadere sui gruppi di estrema sinistra. Nico AZZI si era tuttavia opposto alla realizzazione di tale azione e il progetto era stato quindi abbandonato (dep.4.2.1995, f.2); - sempre da Nico AZZI, Edgardo BONAZZI aveva appreso in carcere che Pino RAUTI, capo di Ordine Nuovo, era da molto tempo in contatto con i servizi di sicurezza e di conseguenza l’attività di Ordine Nuovo era in qualche modo eterodiretta (dep. 15.3.1994, f.2); - corrispondeva a verità, secondo le confidenze di Nico AZZI e Guido GIANNETTINI, il progetto di far ritrovare i timers in una villa di proprietà di Giangiacomo FELTRINELLI. Tale progetto, citato proprio nel famoso documento attribuito a Nico AZZI e anch’esso trtattato ampiamente nella prima sentenza-ordinanza di questo Ufficio (capitolo 11), aveva la finalità di ricostituire, dopo l’arresto di FREDA e VENTURA, una pista di sinistra per gli attentati del 12.12.1969. Edgardo BONAZZI ha anche aggiunto un particolare di grande interesse e cioè che tale provocazione era stata personalmente ispirata da Pino RAUTI, anch’egli coinvolto nelle prime indagini sviluppatesi a Treviso e a Milano sulla strage (dep.15.3.1994, f.3; 7.10.1994, f.2; 25.2.1995, f.3) e quindi obiettivamente interessato ad azioni diversive che creassero difficoltà all’istruttoria in corso; - tale progetto in danno dell’editore FELTRINELLI non era stato, in quel periodo, l’unico. Nico AZZI era stato infatti incaricato dai servizi di sicurezza di recarsi in Austria, ove l’editore disponeva di una villa, per eliminarlo a colpi di pistola. Il tentativo era fallito in quanto la vittima non era stata intercettata (dep. 7.10.1994, f.2; 25.2.1995, f.3); Tale tentativo, appreso direttamente da Nico AZZI, si colloca sull’identica linea d’onda del tentativo operato, sempre in Austria, dal veneziano Marco FOSCARI e da 70 Martino SICILIANO e ampiamente descritto negli interrogatori di quest’ultimo (int. 19.10.1994, f.7; 20.10.1997, f.3); - sempre con riferimento alla centrale questione dei timers usati per gli attentati del 12.12.1969, Edgardo BONAZZI aveva appreso da Pierluigi CONCUTELLI che Franco FREDA, nel carcere di Trani, nel 1978, gli aveva chiesto se fosse stato disponibile, nell’ambito del processo di Catanzaro, a farsi passare per il Capitano HAMID e cioè colui al quale FREDA. secondo l’originaria versione difensiva, avrebbe consegnato i 50 timers nel settembre 1969. In tal modo, pur dovendo sostenere un non facile mutamento di versione, FREDA avrebbe comunque allontanato da sè la pericolosissima disponibilità fisica dei timers utilizzati nel dicembre 1969. Pierluigi CONCUTELLI aveva però rifiutato la proposta, anche perchè avrebbe screditato la sua figura di “combattente rivoluzionario” e non di “stragista” e da quel momento si era peraltro convinto della colpevolezza di FREDA allentando i rapporti con lui (dep. 15.3.1994, f.3); - con riferimento all’esecuzione degli attentati del 12.12.1969, GIANNETTINI, nel carcere di Nuoro, aveva confidato a BONAZZI che gli attentati erano collegati ad un imminente progetto golpista, ma che gli esiti gravissimi della strage di Milano, non previsti da chi l’aveva organizzata, avevano di fatto penalizzato il progetto in quanto la risposta del Paese era stata troppo forte e di segno contrario rispetto a quello atteso (dep. 15.3.1994, f.4); - sempre durante la comune detenzione e pur con grande cautela, limitandosi a cenni allusivi, in un primo momento nel 1975 FREDA e in seguito nel 1979/1980 AZZI e GIANNETTINI, avevano fatto capire a BONAZZI che il taxista ROLANDI era stato un testimone soggettivamente in buona fede, ma che la persona da lui vista sul taxi non era VALPREDA, bensì un militante di destra che gli assomigliava molto e che era stato utilizzato per tale specifico compito (dep. 15.3.1994, f.4; 7.10.1994, f.2). Si trattava, secondo gli accenni di AZZI poi confermati più precisamente da CONCUTELLI nel 1981 nel carcere di Novara, di un ex-legionario di origine siciliana frequentatore dell’ambiente milanese del M.S.I. e noto, anche per la comune origine geografica, allo stesso CONCUTELLI (dep. 7.10.1994, f.2; 25.2.1995, ff.1-2); - sempre da Nico AZZI, di cui BONAZZI ha più volte sottolineato la serietà e la credibilità come militante, , aveva appreso che l’appoggio logistico a Milano per coloro che erano giunti per eseguire gli attentati era stato fornito da Giancarlo ROGNONI. Ciò era stato facilitato dal fatto che ROGNONI aveva lavorato nella filiale della Banca commerciale (ove era stata rinvenuta, in un sottopassaggio, la seconda bomba inesplosa) e quindi aveva potuto fornire a chi stava per entrare in azione la descrizione della struttura interna della filiale e le indicazioni utili a collocare l’ordigno nel punto più adatto (dep. 7.10.1994, f.3; 4.2.1995, f.3; 25.2.1995, f.3). Giancarlo ROGNONI, che secondo AZZI, dopo gli attentati, aveva subito temuto di essere individuato e inquisito, ha effettivamente lavorato quale cassiere, per alcune settimane, presso la filiale di Piazza della Scala della Banca Commerciale e nel dicembre 1969 era ancora dipendente di un’altra filiale dello stesso istituto di credito (cfr. nota della Digos di Milano in data 31.10.1994, vol.8, fasc.12). 71 72 Poche settimane dopo gli attentati del 12.12.1969, Giancarlo ROGNONI, il 5.1.1970, senza specificarne le ragioni, si era improvvisamente dimesso dal suo impiego presso l’istituto; - la rivelazione più importante e conclusiva contenuta nelle dichiarazioni di Edgardo BONAZZI è tuttavia giunta con la deposizione resa in data 22.2.1996 dinanzi a personale del R.O.S. Carabinieri, nell’ambito della quale il testimone ha fornito altri particolari a sua conoscenza in merito non solo agli attentati del 12.12.1969, ma anche alle stragi successive sino a quella alla Stazione di Bologna. Dopo avere premesso che non gli era stato possibile dire in precedenza tutto quanto a sua conoscenza per le “naturali remore” esistenti nei confronti di persone con cui aveva condiviso difficili momenti di detenzione, remore che avevano comportato del tempo per far maturare una completa deposizione (dep. citata, f.1), Edgardo BONAZZI ha rivelato l’ultima e decisiva notizia appresa da Nico AZZI durante le discussioni avvenute sul tema delle stragi, discussioni facilitate dal carisma che lo stesso BONAZZI, nel corso degli anni, aveva acquisito all’interno dell’area dei detenuti di estrema destra. Nico AZZI gli aveva esplicitamente detto che Delfo ZORZI era stato l’autore materiale della strage di Piazza Fontana, mentre gli attentati romani di quella stessa giornata erano stati “curati da uomini di Stefano DELLE CHIAIE ”. Quest’ultimo, tuttavia, aveva previsto solo attentati di valenza simbolica poichè eventi più gravi e sanguinosi, come erano avvenuti per una variazione del programma operativo, avrebbero reso più difficile la partenza del progetto golpista che avrebbe dovuto scattare subito dopo gli attentati e che era stato in effetti abbandonato e ripreso solo l’anno successivo con il tentativo del Principe Junio Valerio BORGHESE (dep. citata, f.2). Sempre secondo il racconto di AZZI, gli elementi veneti che avevano operato avevano usufruito di una base a Milano per l’ultimo innesco dei timers e tali notizie erano state confermate a BONAZZI anche da Guido GIANNETTINI, unitamente all’indicazione del ruolo di Pino RAUTI quale coordinatore sia del gruppo veneto sia del gruppo “La Fenice”. Inoltre BONAZZI aveva appreso, nel 1975 da Franco FREDA, che questi conosceva molto bene Delfo ZORZI e che era amareggiato poichè “riteneva l’allontanamento dall’Italia di ZORZI una defezione” (dep. citata, f.3). In proposito si ricordi, del resto, che Guido GIANNETTINI, pur mantenendo un atteggiamento di sostanziale “chiusura” in relazione alle nuove emergenze processuali, ha raccontato di essersi incontrato con Franco FREDA a Roma, nel 1968 o 1969, per ragioni connesse all’infiltrazione del gruppo di FREDA all’interno dell’estrema sinistra e, in tale occasione, di averlo accompagnato in Via del Corso ove FREDA si era incontrato con un giovane camerata veneto presentato a GIANNETTINI con il nome di ZORZI (int. GIANNETTINI, 17.3.1995, f.2). Franco FREDA, sentito da questo Ufficio in merito alle nuove emergenze processuali e ai reati prospettabili nei suoi confronti in relazione all’arsenale custodito nel casolare di Paese, ha cercato di spostare la data della sua conoscenza con Delfo 72 ZORZI al 1970, e cioè ad un momento successivo agli attentati (int.14.10.1994, f.3), ma è stato ulteriormente smentito dall’esame di una delle sue agende sequestrate nel corso della prima istruttoria e ancora allegata agli atti del processo di Catanzaro. Infatti in tale agenda è appuntato l’indirizzo di Delfo ZORZI a Napoli, corrispondente al luogo ove egli abitava nel 1968 appena giunto in tale città per seguire il corso di Lingue Orientali , e altresì il numero di telefono di casa e d’ufficio del padre di ZORZI, a Mestre, risalente ad un momento precedente il 1969, a conferma di quanto stretti e assidui fossero i rapporti fra i due negli anni decisivi per i fatti oggetto delle indagini in corso (cfr. vol.18, fasc.2, f.227). Tornando alle dichiarazioni di Edgardo BONAZZI, successivamente alle deposizioni ora esposte nei loro contenuti salienti, che collegano fermamente ROGNONI a ZORZI e ZORZI a FREDA, il testimone, anche dinanzi alle altre Autorità Giudiziarie competenti, ha reso ulteriori dichiarazioni di grandissima portata per le indagini relative alla strage di Brescia e di notevole interesse per le indagini relative alla strage di Bologna. Non è certo questa la sede per analizzare tali ultime dichiarazioni, mentre sembra opportuno spendere qualche parola sulla posizione assunta da Nico AZZI, fonte della parte più rilevante delle notizie riferite da Edgardo BONAZZI. Nico AZZI, sentito alcune volte da questo Ufficio e più a lungo e più approfonditamente, anche in confronto con Edgardo BONAZZI, dalla Procura della Repubblica nell’ambito della nuova indagine sulla strage di Piazza Fontana, ha confermato. solo in parte e non nei loro profili salienti, le dichiarazioni del suo excompagno di detenzione. Tuttavia, per quanto è possibile esporre in sintesi in questa sede, egli non ha, in linea generale, smentito BONAZZI accusandolo di avere fatto dichiarazioni di fantasia o non corrispondenti al vero, ma ha sostanzialmente e più volte ribadito di non poter o voler offrire conferme in quanto ciò avrebbe comportato danneggiare la posizione di camerati e di rompere il vincolo ideologico e di amicizia che tuttora unisce AZZI all’ambiente dei camerati ex-ordinovisti, vincolo che non consente una formalizzazione processuale delle proprie conoscenze dinanzi a qualsivoglia Autorità Giudiziaria. Certamente anche Nico AZZI è ben lontano dal condividere la scelta delle stragi e degli attentati sanguinosi come metodo di lotta politica ed ha anch’egli operato sulla storia dell’estrema destra personali riflessioni critiche, ma, almeno sino a questo momento, sembra ritenere che il dibattito e la critica in merito a tali avvenimenti debbano restare interni al mondo che, direttamente e indirettamete, ne è stato protagonista. E’ comunque evidente che la sostanziale “non smentita” da parte di Nico AZZI, testimone di riferimento, delle affermazioni di Edgardo BONAZZI, rende queste ultime pienamente utilizzabili sul piano processuale e affidabili, soprattutto nel momento in cui , pur muovendosi da un diverso punto di vista e cioè quello delle dinamiche carcerarie all’interno del ristretto mondo dei detenuti di estrema destra, si integrano comunque perfettamente con la descrizione 73 74 diretta degli avvenimenti offerta da Carlo DIGILIO, Martino SICILIANO e Tullio FABRIS. Vi è solo da rammaricarsi che la decisione di Edgardo BONAZZI di “dissociarsi” non sia maturata prima e cioè quando erano ancora in corso i grandi processi relativi alle stragi e all’eversione di destra. Infatti, sia nel corso delle istruttorie e dei dibattimenti riguardanti la strage di Piazza Fontana sia in altri procedimenti riguardanti altri gravi episodi di strage, alcuni collaboratori, sovente e forse con troppo scetticismo non creduti, e soprattutto Sergio CALORE e Angelo IZZO avevano indicato in Edgardo BONAZZI colui che avrebbe potuto confermare molte delle loro più importanti affermazioni, ma il silenzio e l’atteggiamento di negazione mantenuti all’epoca da BONAZZI non avevano consentito di acquisire conferme forse decisive all’interno delle dinamiche processuali. Se la scelta di BONAZZI fosse intervenuta in tale fase, quando la partita processuale era ancora aperta, forse l’esito di alcuni dibattimenti sarebbe stato diverso. 74 8 LA PRESENZA DI SILENZIATORI NELL’ABITAZIONE DI GIANCARLO ROGNONI Di notevole interesse è la presenza in casa di Giancarlo ROGNONI, a Milano, di alcuni silenziatori provenienti da Venezia, notati da Martino SICILIANO durante uno dei periodi in cui ROGNONI lo aveva ospitato: “””...anch'io ho visto in casa di Giancarlo ROGNONI, a Brusuglio, alcuni silenziatori, che provenivano certamente dalla nostra dotazione di Mestre/Venezia, nonchè una pistola cal.7,65 adattata per il silenziatore. A fine del 1970, inizio 1971, poco prima di sposarmi, sono stato come già ho detto, a lungo ospite di Giancarlo ROGNONI.... Ricordo che in alcune occasioni vidi, nel cassetto inferiore di un mobile/libreria, alcuni silenziatori, direi due o tre, esattamente identici a quelli che avevo molte volte maneggiato a Mestre. Erano cioè i tubi di metallo brunito lunghi 18/20 centimetri con ad una estremità l'apertura per la bocca da fuoco e dall'altro la vite cava che doveva essere avvitata alla canna. Erano esattamente identici appunto ai silenziatori che avevamo a Mestre, quelli con all'interno dischi di feltro e molle che venivano fabbricati da DIGILIO e passati a ZORZI perchè passassero nella dotazione del gruppo. Erano artigianali, ma fatti bene e ZORZI più volte ci aveva spiegato che erano più funzionali e più affidabili rispetto a quelli che si potevano comprare in Svizzera dove erano in libera vendita poichè questi ultimi avevano all'interno della lana di vetro che dopo una ventina di colpi si compattava all'interno perdendo così l'effetto silenziante. Non aveva portato io a ROGNONI i silenziatori che avevo visto a casa sua e che quindi lui aveva avuto tramite qualcun altro del nostro gruppo, con ogni probabilità dallo stesso Delfo ZORZI. Nel medesimo periodo vidi anche una pistola Beretta cal.7,65, con la canna filettata, che era specificamente di proprietà di ROGNONI.... Sempre parlando in tema di silenziatori, Delfo ZORZI mi spiegò perchè ZIO OTTO, cioè DIGILIO, per consentire l'utilizzo di tale strumento, doveva ridurre il calibro dell'arma da 9 a 7,65. Infatti la canna delle pistole Beretta non sporge dal carrello abbastanza per poterci avvitare, una volta filettata, il silenziatore. Allora DIGILIO sostituiva la canna cal.9 con una canna cal.7,65, più piccola, in modo da ricavare tra canna e carrello lo spazio necessario tale da potervi infilare, senza incastrarlo, e avvitare il silenziatore. 75 76 Un paio di volte accompagnai Delfo ZORZI sino al palazzo dove abitata ZIO OTTO, a Sant'Elena, in quanto ZORZI doveva incontrarlo appunto per consegnargli o ritirare da lui armi. Proprio per quanto motivo, del resto, avevamo fatto il tragitto a piedi da Piazzale Roma a Sant'Elena in quanto trasportare armi sul vaporetto, che è sempre affollato, non era consigliabile per ragioni di sicurezza. In entrambe le occasioni, tuttavia, Delfo mi chiese di aspettare ad una certa distanza dal palazzo e di aspettarlo. Avevamo con noi delle borse per il trasporto delle armi....”””. (SICILIANO, int. 18.7.1996). Si noti che la presenza nell'abitazione di Giancarlo ROGNONI di alcuni silenziatori provenienti dal gruppo di Mestre/Venezia è un dettaglio della massima importanza. Testimonia infatti che le due cellule, quella milanese e quella veneziana, avevano, sin dal periodo in cui furono organizzati i più gravi attentati, una comune operatività e si muovevano secondo una strategia comune. Del resto Delfo ZORZI, come ricordato da Martino SICILIANO, nell'autunno 1969 era stato ospite di Giancarlo ROGNONI e in quei giorni si era con ogni probabilità concretizzata la possibilità per il gruppo veneto di disporre di un appoggio logistico e di poter operare con garanzia di sicurezza sul territorio milanese. Giancarlo ROGNONI, seguendo la sua consueta linea difensiva di negazione di qualsiasi episodio compromettente in cui potesse essere stato coinvolto durante la sua militanza, ha negato di avere ricevuto silenziatori da Venezia affermando che non intendeva invece rispondere in merito “all’eventuale detenzione di arnesi di quel genere in altre circostanze o ricevuti da altre persone” (int. 6.9.1996, f.2). Ha ammesso di avere ospitato varie volte Martino SICILIANO nella sua casa di Via Brusuglio e anche di avere conosciuto e ospitato Delfo ZORZI, spostando tuttavia di qualche mese avanti nel tempo il suo rapporto con ZORZI al fine, probabile, di collocare l’inizio di tale imbarazzante conoscenza nel 1970 e non nel cruciale 1969 (int. citato, f.2). I suoi rapporti con il gruppo veneziano sin dall’estate 1969 sono peraltro testimoniati non solo da Martino SICILIANO, che ha fra l’altro ricordato con chiarezza le circostanze del probabile primo incontro a Milano, alla Stazione Centrale, fra ROGNONI e ZORZI (cfr. int. 28.8.1996, f.5), ma anche da Giancarlo RADICE, ospite nella villa di Marco FOSCARI, a Mira di Ricossa, nel luglio 1969 insieme a molti veneziani, che ha anch’egli ricordato in modo vivido la presenza di Giancarlo ROGNONI in quei giorni (e in particolare il 24.7.1969, giorno del primo sbarco sulla Luna) nella villa (cfr. dep. RADICE 23.10.1994, ff.1-2 e 10.3.1996, f.3). 76 9 LE DICHIARAZIONI DI MARZIO DEDEMO IN MERITO AI RAPPORTI FRA MAGGI E ROGNONI DURANTE LA LATITANZA DI QUEST’ULTIMO IN SPAGNA Il ruolo, pur secondario, svolto da Marzio DEDEMO nelle vicende oggetto della presente istruttoria costituisce un’altra testimonianza diretta della stabilità di contatti intrattenuti fra il dr. MAGGI e Giancarlo ROGNONI e del permanere degli stessi anche quando ROGNONI si era rifugiato in Spagna per sfuggire al mandato di cattura emesso nei suoi confronti in relazione all’attentato al treno Torino-Roma del 7.4.1973. Marzio DEDEMO è cognato di Carlo DIGILIO avendone sposato, nel 1975, la sorella Rachele. Anche sul piano delle semplici vicende anagrafiche, la sua persona rappresenta un ponte fra l’ambiente veneziano e l’ambiente milanese. Aveva infatti risieduto a Venezia sino al 1974 e a partire da tale data si era trasferito a Milano lavorando anche, non a caso, nel garage Sanremo di proprietà della famiglia BATTISTON. Uomo di fiducia, per le sue capacità pratiche, del più rappresentativo cognato e un po’ di tutto l’ambiente che intorno a MAGGI e DIGILIO gravitava, Marzio DEDEMO si era reso disponibile, pur senza diventare un militante di Ordine Nuovo, ad una serie di attività lecite e illecite di supporto, instaurando anche a Milano, nella seconda metà degli anni ‘70, rapporti sia con i superstiti del gruppo ROGNONI sia con i militanti di destra come Lorenzo PRUDENTE e Luca CERIZZA, che costituivano la rete di appoggio alla latitanza di Gilberto CAVALLINI. In particolare Marzio DEDEMO, alla fine degli anni ‘70, aveva collaborato con DIGILIO nell’acquisto di notevoli quantità di armi cedute illegalmente dall’armiere Giovanni TORTA e rivendute poi, dopo la punzonatura del numero di matricola, in parte alla malavita comune e in parte, tramite l’intermediazione del dr. MAGGI, a Gilberto CAVALLINI che doveva in quel periodo rafforzare la dotazione del suo gruppo (cfr. ampiamente il capitolo 23 della presente sentenza-ordinanza). Per tali reati, scoperti a seguito del casuale rinvenimento di alcune armi e della successiva confessione di Giovanni TORTA, Marzio DEDEMO era stato condannato dal Tribunale di Milano, il 25.2.1986, alla pena di 4 anni e 8 mesi di reclusione (cfr. sentenza acquisita agli atti, vol.19, fasc.1), anche se non era stato possibile, all’epoca, provare con certezza che parte delle armi fossero state cedute, tramite il dr. MAGGI, ai terroristi neri di Gilberto CAVALLINI e di conseguenza sul punto era intervenuta una parziale assoluzione per insufficienza di prove. Nell’ambito della presente istruttoria Marzio DEDEMO, uso a condividere, per così dire, nel bene e nel male le scelte del suo più autorevole cognato, ha confermato in una serie di dichiarazioni rese prima a personale del R.O.S. 77 78 Carabinieri e poi a questo Ufficio, nei limiti delle sue conoscenze, alcune circostanze riferite da DIGILIO, aggiungendo il racconto di alcuni episodi che lo avevano visto, in genere per conto del dr. MAGGI, quale diretto protagonista. In primo luogo Marzio DEDEMO ha ammesso di avere venduto a Gilberto CAVALLINI, fra il 1978 e il 1981, una quindicina di armi nuove e di notevole potenza utilizzando, quale canale di approvvigionamento, le cessioni fuori registro effettuate dall’armiere Giovanni TORTA (dep. a personale R.O.S., 15.11.1995, ff.1-2; int. a questo Ufficio, 10.4.1997, f.5). Altri episodi di maggior interesse per la presente istruttoria riguardano limitate ma significative attività operative o di comunicazione di informazioni per conto del dr. Carlo Maria MAGGI: - nell’estate del 1973 Anna CAVAGNOLI, moglie di Giancarlo ROGNONI, aveva subìto una gravissima aggressione a colpi di chiave inglese, ad opera di estremisti di sinistra, all’interno del suo negozio di camicie. In quel momento Giancarlo ROGNONI era già latitante all’estero e, in tale situazione di confusione, era prospettabile che dalle persone vicine a ROGNONI e ancora operanti a Milano partissero pesanti azioni di ritorsione con esiti imprevedibili. Il dr. MAGGI aveva allora immediatamente dato disposizione a DEDEMO di raggiungere Milano portando il suo ordine personale ai camerati de “La Fenice” di non compiere alcuna azione di rappresaglia. Marzio DEDEMO era subito partito per Milano e aveva incontrato vari militanti fra cui BATTISTON, ZAFFONI, Cesare FERRI e Cinzia DI LORENZO comunicando loro l’ordine del dr. MAGGI che venne assolutamente rispettato (dep. 15.11.1995, f.3, e int. 10.4.1997, ff.2-3). L’episodio, pur secondario, testimonia la solidità del vincolo gerarchico esistente all’interno di Ordine Nuovo e il ruolo di preminenza rivestito dal dr. MAGGI anche nei confronti di ROGNONI e della struttura milanese; - nel medesimo periodo DEDEMO era stato incaricato dal dr. MAGGI di fare da scorta armata, in due occasioni, a importanti esponenti di destra, provenienti da altre città, che dovevano recarsi a Padova nella zona dell’Università. Per tali azioni di “tutela”, il dr. MAGGI aveva personalmente fornito a DEDEMO due ottime armi, una Franchi-Llama modello PYTON e una Browning bifilare, restituite da DEDEMO dopo l’esito positivo delle missioni organizzate con criteri altamente professionali (dep. 22.1.1996, ff.3-4; int. 10.4.1997, f.4). Dalle dichiarazioni di Martino SICILIANO è emerso che era proprio SICILIANO, pur conosciuto solo di vista da DEDEMO, uno degli altri militanti che avevano partecipato a tale servizio di “scorta” armata e che uno dei dirigenti scortati era molto probabilmente il prof. Paolo SIGNORELLI (int. SICILIANO, 2.8.1996, ff.1-2); - anche in favore del dr. MAGGI, a Venezia, DEDEMO aveva svolto il ruolo di “guardaspalle” e due volte lo aveva inoltre accompagnato a Milano a bordo dell’autovettura guidata dal dottore. In entrambe le occasioni la ragione del viaggio erano incontri con ex-repubblichini in una trattoria. Marzio DEDEMO era rimasto all’esterno a guardia dell’autovettura e quindi non aveva partecipato alle discussioni, ma aveva in seguito comunque saputo da Pio 78 BATTISTON, padre di Pietro BATTISTON, che era invece presente, quale fosse stato il tenore dei discorsi del dr. MAGGI nell’occasione. Il dottore aveva sostenuto che la strage era uno strumento di lotta politica e propugnato la necessità di continuare nella strategia degli attentati, la cui responsabilità doveva cadere sulle forse di sinistra, disgustando con tali discorsi addirittura la maggior parte degli ex-repubblichini presenti (dep. 22.1.1996, f.2; 7.3.1996, f.1. In merito alla “linea politica” del dr. MAGGI, si vedano anche le analoghe dichiarazioni di Martino SICILIANO, int. al P.M. di Milano, 7.10.1995, ff.6-7). - nel 1975 Marzio DEDEMO, in occasione del proprio viaggio di nozze, si era recato a Madrid rimanendo per alcuni giorni ospite di ROGNONI e incontrando anche altri militanti fra i quali ZAFFONI e BATTISTON, quest’ultimo molto legato a DEDEMO che si era adoperato, l’anno precedente, per rendergli possibili i contatti con la famiglia quando era già latitante in Grecia. In occasione del viaggio a Madrid, DEDEMO, su disposizione del dr. MAGGI, aveva portato a ROGNONI molti documenti italiani di vario tipo, di provenienza furtiva, e timbri componibili per la falsificazione degli stessi, nel quadro del sostegno alla latitanza del gruppo di italiani che gravitavano intorno a Giancarlo ROGNONI. Marzio DEDEMO aveva inoltre lasciato a ROGNONI tutti i propri documenti personali, uno dei quali poi sequestrato nel 1977 ad un altro latitante, l’ordinovista genovese Mauro MELI che vi aveva apposto la propria fotografia (dep. 15.11.1995, f.4; 22.1.1996, f.4; int. 10.4.1997, f.4). Secondo le regole vigenti nell’organizzazione, DEDEMO, se fosse stato controllato dalla Polizia durante il trasporto, avrebbe dovuto assumersi l’intera responsabilità del materiale e soprattutto non rivelare quale ne fosse la destinazione (dep. 22.1.1996, f.4). Si noti che Giancarlo ROGNONI, pur escludendo alcuna connessione con attività illecite, ha ricordato di avere ospitato a Madrid Marzio DEDEMO e la moglie e di avere incontrato sempre a Madrid, più o meno nel medesimo periodo, ma in una diversa occasione, Carlo DIGILIO, impegnato evidentemente nella “missione” presso l’ing. POMAR (int. ROGNONI, 6.9.1996, f.3). In ordine ai reati spontaneamente ammessi da Marzio DEDEMO, in ragione del tempo trascorso, deve essere emessa una dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Tuttavia tali episodi sono estremamente significativi all’interno del quadro complessivo delineatosi, poichè confermano sotto molti profili il racconto di Carlo DIGILIO e Martino SICILIANO e soprattutto contribuiscono a mettere a fuoco la preminenza, sia sul piano decisionale sia sul piano operativo, del dr. MAGGI anche al di fuori dell’area veneta e la permanenza di saldi contatti con Giancarlo ROGNONI ed i suoi uomini nel tempo e anche durante il periodo della latitanza in Spagna. 79 80 10 L’IMPUTAZIONE ASSOCIATIVA NEI CONFRONTI DI GIANCARLO ROGNONI TRASMESSA DALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA DI BOLOGNA Le imputazioni associative trasmesse dal Giudice Istruttore di Bologna con sentenza di incompetenza territoriale in data 24.9.1992, connesse al progetto delle quattro stragi che dovevano essere attuate al Nord e in Centro-Italia fra il 1973 e il 1974, riguardano Giancarlo ROGNONI e Marco BALLAN quali presunti ideatori e organizzatori di tale strategia eversiva. Gli elementi essenziali raccolti, soprattutto dal G.I. di Bologna, a sostegno di tale prospettazione d’accusa saranno illustrati nel capitolo 29, dedicato alla posizione di Marco BALLAN. Per quanto concerne invece specificamente la posizione di ROGNONI (anche a prescindere dalla parziale sovrapponibilità fra tale capo di imputazione e le imputazioni associative per le quali ROGNONI, quale capo del gruppo La Fenice, è stato rinviato a giudizio da questo Ufficio con la sentenza-ordinanza conclusiva del procedimento 721/88F), deve rilevarsi che in questa fase, a seguito di recenti acquisizioni, esistono i più netti e attuali elementi di connessione con le indagini in corso da parte della Procura della Repubblica di Brescia in merito alla strage di Piazza della Loggia del 28.5.1974. Poichè la strage di Piazza della Loggia è una delle quattro che, secondo la strutturazione del capo di imputazione formulato dall’A.G. di Bologna, sarebbero state l’espressione del programma criminoso del gruppo milanese che si era coagulato intorno a Giancarlo ROGNONI, appare opportuno, per ragioni di organicità processuale, disporre la trasmissione alla Procura della Repubblica di Brescia delle imputazioni mosse originariamente a ROGNONI dall’A.G. di Bologna e degli atti relativi. Ad integrazione di quanto emerso in relazione all’attività di Giancarlo ROGNONI e del suo gruppo, può aggiungersi che, dopo la chiusura del primo filone dell’istruttoria, è stato possibile acquisire le testimonianze di Francesco ZAFFONI, detto MENTA, un componente minore de La Fenice, rientrato in Italia dalla Spagna dopo una lunghissima latitanza avendo riportato all’inizio degli anni ‘70 una condanna, ormai prescritta, per aver custodito una valigia con esplosivo affidatagli da Giancarlo ESPOSTI. Francesco ZAFFONI, ritenendo giusto fornire il suo contributo in merito all’attività passata di chi ha “infangato l’azione politica della destra con lo strumento delle stragi” (deposizione a personale R.O.S., 14.3.1996, f.1), pur non potendo, per la sua posizione marginale, fornire elementi in merito agli avvenimenti più gravi, ha ricordato dettagli e circostanze di notevole interesse che contribuiscono a completare il quadro complessivo che si è delineato in anni di indagini. 80 Egli ha in primo luogo rievocato la sua fuga a Venezia nel 1974, nel momento in cui la condanna a proprio carico stava per diventare definitiva, prima presso l’abitazione dello stesso dr. MAGGI e poi presso il circolo Il Quadrato, punto di incontro degli ordinovisti veneziani, nello stesso periodo in cui si era rifugiato a Venezia, per diverse ragioni, anche Pietro BATTISTON (cfr. dep. 25.11.1995, f.2). Da Venezia ZAFFONI aveva raggiunto la Spagna, abitando prima a Barcellona e poi a Madrid, ospite dell’appartamento di Giancarlo ROGNONI così come altri camerati milanesi fra cui Pierluigi PAGLIAI e Cinzia DI LORENZO (dep. citata, f.3). A Madrid, Francesco ZAFFONI aveva nuovamente incontrato Carlo DIGILIO che era presente per svolgere attività di “consulenza” in favore dell’ing. Eliodoro POMAR. Quest’ultimo stava infatti attrezzando un’officina destinata alla produzione della mitraglietta progettata dal colonnello SPIAZZI, attività che POMAR svolgeva in sostanza con l’autorizzazione del Ministero dell’Interno spagnolo nell’ambito della protezione fornita ai militanti di destra (dep. 22.11.1995, f.2). Un elemento di grande interesse per la ricostruzione dei rapporti fra i milanesi e i veneziani sono gli incontri a Milano, rievocati da ZAFFONI, con Delfo ZORZI e Carlo Maria MAGGI, legato quest’ultimo da antichissima data a Giancarlo ROGNONI (dep. 29.11.1995 f.4, e 22.12.1995 f.1). Nel 1970 inoltre, Francesco ZAFFONI, unitamente ad un camerata dell’O.A.S. di nome MIGUEL, incontrato su indicazione di ROGNONI, aveva raggiunto S.Etienne e poi Marsiglia, caricando nel doppiofondo di due autovetture una partita di fucili trasportati poi in Algeria e destinati all’opposizione algerina, operazione questa a fini certamente “destabilizzanti” in perfetta sintonia con quanto ampiamente raccontato in merito nei verbali di Vincenzo VINCIGUERRA (dep. ZAFFONI a personale R.O.S., 14.3.1996, f.4). Infine Francesco ZAFFONI ha confermato i rapporti di contiguità, alla fine degli anni ‘60, fra l’area di estrema destra milanese e i Comandi della Divisione Carabinieri “Pastrengo”, ricordando di essersi più volte recato presso la caserma di Via Lamarmora insieme a Giancarlo ESPOSTI, Pietro BATTISTON e altri camerati e che in tali occasioni i militari di guardia, evidentemente preavvisati, non effettuavano alcun controllo, consentendo così, in particolare ad ESPOSTI, che gestiva personalmente i contatti, di entrare e di parlare tranquillamente con alcuni ufficiali (cfr. dep. a personale R.O.S., 25.9.1996, f.3). 81 82 PARTE TERZA LE ATTIVITA’ EVERSIVE DELLA CELLULA DI MESTRE/VENEZIA DI ORDINE NUOVO E I CONTATTI CON IL GRUPPO MILANESE 82 11 LE IMPUTAZIONI ASSOCIATIVE NEI CONFRONTI DI MARTINO SICILIANO E PIERCARLO MONTAGNER E I SINGOLI EPISODI CRIMINOSI ATTRIBUITI ALLA STRUTTURA OCCULTA DI ORDINE NUOVO Esposte nel capitolo 3 le linee generali della collaborazione di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO, è possibile passare ad esaminare anche i singoli episodi ascritti alla cellula di Mestre/Venezia, in collegamento strategico e funzionale con le altre cellule e in particolare quella milanese e secondo un programma criminoso che, nonostante il minor numero di elementi processuali raccolti in proposito, doveva certamente ubbidire alle direttive del Centro romano di RAUTI, SIGNORELLI e MACERATINI meta di numerose visite e incontri da parte soprattutto del dr. MAGGI e di Delfo ZORZI. Gli episodi narrati nei verbali, soprattutto in quelli minuziosissimi di Martino SICILIANO e più limitatamente in quelli di Giancarlo VIANELLO, vanno da manifestazioni iniziali di squadrismo o violenza politica (quali il finto attentato all’Istituto Pacinotti, il danneggiamento dell’insegna della sezione industriale del P.C.I. di Mestre, il progetto di attentato alla sezione del P.C.I. di Piazza Ferretto preparando il quale Giulio NOE’ rimase gravemente ferito; cfr. rispettivamente int. SICILIANO, 14.10.1995, f.1; 9.10.1996, f.2; 22.8.1996, f.1; dep. Roberto MAGGIORI, 22.4.1995, ff.5-6) ad episodi ben più gravi di carattere marcatamente eversivo. A partire dal 1966, infatti, in sintonia con le direttive del Convegno sulla guerra non ortodossa dell’Istituto Pollio e dopo il Convegno alla White Room di Mestre in occasione del quale, presente Pino RAUTI, fu riorganizzata la struttura di Ordine Nuovo del Triveneto (int. SICILIANO, 10.10.1995, f.4), e soprattutto dal 1968, quando Delfo ZORZI entrò più strettamente in contatto con la struttura centrale di Roma, le cellule di Mestre e Venezia si attrezzarono per il salto di qualità accumulando armi ed esplosivi in grande quantità ed iniziando a proporsi, con gli attentati di Trieste e Gorizia, quali una delle realtà trainanti della strategia terroristica. Non è certo un caso che Pino RAUTI, in quegli anni, abbia scelto Mestre quale una delle sue mete preferite durante i propri giri di propaganda e indottrinamento politico (cfr. SICILIANO, int. 5.9.1996, f.3 e, fra gli altri, Guido BUSETTO, dep. 11.11.1996, f.3; Daniela SICILIANO, vedova di Leopoldo BERGANTIN, dep. 5.2.1997, ff.1-2; Nilo GOTTARDI, dep. 30.3.1996, f.3). Sotto il profilo del reato associativo, certamente ravvisabile in quanto, già all’esito del procedimento celebratosi dinanzi alla Corte d’Assise di Roma, la struttura occulta di Ordine Nuovo è stata giuridicamente qualificata come banda armata, il dr. MAGGI e Delfo ZORZI non sono più perseguibili. Infatti il dr. MAGGI è stato condannato con sentenza della Corte d’Assise di Venezia divenuta definitiva, mentre Delfo ZORZI, condannato in primo grado, è stato fortunosamente assolto con formula dubitativa in appello soprattutto perchè all’epoca 83 84 esistevano a suo carico solo le dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA, appartenente alla cellula di Udine e quindi solo saltuariamente presente a Mestre e Venezia. L’imputazione associativa deve invece essere mossa a Martino SICILIANO e Piercarlo MONTAGNER, secondo la formulazione di cui al capo 13 di imputazione che qualifica la cellula di Mestre/Venezia quale componente di una struttura armata unitaria, strategicamente e organicamente collegata alle altre cellule di Milano, Verona, Padova e Trieste e dipendente dalla struttura politico/organizzativa centrale di Roma. Con riferimento alle singole posizioni, in parziale dissenso con la richiesta del Pubblico Ministero contenuta nella requisitoria finale del 14.7.1997, Martino SICILIANO deve essere considerato costitutore e organizzatore della banda armata e non semplice partecipe della stessa in quanto egli è stato presente sin dal primo momento in cui si è verificato il salto di qualità da semplice circolo politico/culturale a struttura eversiva, promuovendo con il suo impegno la formazione della banda e dando un contributo essenziale al progetto del dr. MAGGI e di Delfo ZORZI. Egli deve quindi essere rinviato a giudizio per rispondere del reato di cui all’art.306, I comma, c.p. L’imputazione mossa nei confronti di Piercarlo MONTAGNER deve invece essere derubricata in quella di cui all’art.306, II comma, c.p. (partecipazione semplice), in quanto il suo contributo non è stato altrettanto continuativo ed essenziale. Infatti egli è stato in un primo momento assai vicino a Delfo ZORZI, partecipando al furto di esplosivo ad Arzignano e fornendo anche la sua collaborazione, grazie alla sua qualifica di elettrotecnico, nel gravissimo episodio costituito dalla sperimentazione, nella palestra di Via Verdi, dei circuiti elettrici destinati all’innesco di congegni esplosivi (int. SICILIANO, 20.3.1996, ff.3-6). Tuttavia, dopo non molto tempo , il suo apporto operativo al gruppo è cessato e, rimanendo comunque fermi i suoi rapporti di amicizia e commerciali con Delfo ZORZI, la figura di Piercarlo MONTAGNER è ricomparsa, questa volta in funzione “informativa”, allorchè, fra il 1993 e il 1996, egli ha tentato di controllare Martino SICILIANO e di scoprire dove si trovasse dopo la sua “diserzione”, ha riattivato durante le indagini i contatti fra gli ex-camerati per controllare gli sviluppi dell’istruttoria e acquisire notizie sulle varie testimonianze svolgendo quindi un’intensa attività in favore del più compromesso Delfo ZORZI, attività che gli è costata, nell’estate del 1996, l’arresto insieme a TRINGALI e ANDREATTA con l’imputazione di favoreggiamento aggravato. Tuttavia la prima fase della presenza di MONTAGNER all’interno del gruppo, per il carattere non primario e determinante del suo apporto, non può che essere considerato partecipazione semplice alla banda e di conseguenza, operata tale derubricazione, l’imputazione di cui al capo 13 di rubrica deve essere dichiarata estinta per intervenuta prescrizione. 84 Nel corso degli interrogatori di Martino SICILIANO sono inoltre emersi numerosissimi altri episodi, oltre a quelli di cui fra poco si dirà, che non hanno dato luogo a specifiche imputazioni, ma che contribuiscono, spesso in modo molto vivido e diretto, a tratteggiare il costante attivismo e i rapporti interni fra le persone che facevano parte dell’area di Ordine Nuovo e soprattutto l’idea di fondo che, in parallelo con il messaggio che derivava da apparati istituzionali o militari, si stesse arrivando, tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, allo scontro finale determinato dalla necessità di salvare il Paese dal comunismo. Alcuni di tali episodi, che attengono ai rapporti operativi fra il gruppo milanese e quello veneziano e ad azioni comuni di quest’ultimo con il gruppo triestino o delineano la personalità carismatica e il ruolo propulsivo svolto all’interno della struttura da Delfo ZORZI, meritano di essere accennati in via di sintesi. Ci riferiamo a: 1. L’addestramento all’uso delle armi in un campo paramilitare allestito nel 1971 nella zona sopra Lecco, presenti, oltre a SICILIANO, quasi tutti i militanti o simpatizzanti de La Fenice quali ROGNONI, AZZI, PAGLIAI e anche Giancarlo ESPOSTI (int. 18.10.1994, ff.1-2; 8.11.1996, f.2). 2. L’assalto al Municipio di Padova, il 16.4.1969, giorno successivo all’attentato contro lo studio del Rettore Opocher, attacco finalizzato a colpire il Consiglio Comunale che intendeva denunciare fermamente l’episodio avvenuto all’Università riportabile alla cellula di Padova. In tale occasione, oltre a Martino SICILIANO, erano presenti Piero ANDREATTA, Gianni MARIGA, Giuseppe FREZZATO e Marco FOSCARI, tutti facenti parte dell’area radicale di Mestre/Venezia e coinvolti, con SICILIANO, in altri episodi (int. 16.3.1996, ff.1-3). 3. La spedizione a Trieste, nel novembre 1969, in supporto ai camerati di tale città che intendevano punire alcuni avversari politici che avevano osato “avventurarsi” nella zona centrale della città, controllata dai neri. SICILIANO, VIANELLO e BUSETTO, convocati dal dr. MAGGI che aveva come sempre messo a disposizione la sua autovettura, avevano rinforzato i ranghi dei triestini, già muniti di caschi di plexiglas e mazze da baseball, e i giovani di sinistra erano stati facilmente sopraffatti e colpiti (int.20.10.1994, f.7; 10.10.1995, f.3; 18.3.1996, f.4). Si noti che sia Giancarlo VIANELLO (int.19.11.1994, f.10) sia Guido BUSETTO (dep. 11.11.1994, f.2, e 26.1.1996, f.2) hanno ammesso l’episodio fornendo una descrizione del tutto analoga e così anche Luciano BIASIOLO, militante missino di Mestre rientrato da Trieste, dopo la “spedizione punitiva”, insieme ai camerati ordinovisti (dep.16.12.1995, ff.2-3). 4. Le azioni di vandalismo, fra il 1967 e il 1969, contro chiesette nell’entroterra mestrino e padovano, originate dall’odio di Delfo ZORZI contro la tradizione giudaico/cristiana che, secondo la sua visione ideologica, indeboliva gli spiriti invece di temprarli ed era in radicale antitesi ai modelli dell’uomo pagano, del combattente legionario e del samurai, intrisi di etica guerriera (int. 18.7.1996, ff.1-2). 85 86 5. Delfo ZORZI, nelle sue multiformi attività, affiancava allo studio dei testi teorici di Julius EVOLA e dell’etica guerriera giapponese interessi più pratici quali soprattutto la progettazione di ogni possibile tipo di innesco per ordigni esplosivi, dai normali circuiti elettrici sperimentati nella palestra di Via Verdi grazie all’elettrotecnico MONTAGNER (int. SICILIANO 20.3.1996, ff.3-5) sino a particolari tipi di innesco chimico a base di mercurio o funzionanti tramite un altimetro (int. 20.5.1996, f.2). Disponeva anche di un libro in inglese, fuori commercio e certamente di provenienza militare e forse di provenienza N.A.T.O., che riguardava in termini assai pratici l’uso degli esplosivi e i vari sistemi di innesco (int. 25.4.1996, f.3; 9.8.1997, f.2). 6. Infine ZORZI e MOLIN, reduce quest’ultimo dalla partecipazione al Convegno del Parco dei Principi a Roma sulla guerra non ortodossa, si erano occupati di distribuire tra i militanti fidati, anche all’interno delle caserme, alcune decine di copie del libretto “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE”, scritto da RAUTI e GIANNETTINI sotto falso nome e finanziato da un settore del S.I.D. nell’ottica di allertare e difendere l’Esercito dal pericolo di infiltrazione comunista e di ispirare la formazione di uno “Stato Maggiore parallelo” formato da militari e civili. La diffusione del volumetto semiclandestino all’interno di Ordine Nuovo (int. SICILIANO 9.10.1995, f.3 e 25.5.1996, f.4; e anche dep. Giuliano CAMPANER 1°.4.1995, f.4) indica che la struttura di Delfo ZORZI non si riteneva un gruppo eversivo in senso proprio, ma componente attiva di un più vasto progetto comprendente, al di là dell’ideologia nazional/rivoluzionaria, l’alleanza con strutture istituzionali. Nell’esporre, nei capitoli che seguono, le risultanze relative ai singoli episodi criminosi, al fine di evitare una inutile duplicazione di lavoro, sarà utilizzata, quale filo conduttore, la motivazione del mandato di comparizione emesso da questo Ufficio in data 13.6.1997 nei confronti del dr. Carlo Maria MAGGI, in contestualità con il suo arresto per il concorso nella strage di Piazza Fontana e gli attentati collegati e la strage di Via Fatebenefratelli. Saranno aggiunte solo alcune necessarie integrazioni con riferimento ad alcuni episodi e ad alcune posizioni personali non toccate direttamente da tale provvedimento. 86 12 IL FURTO DI ESPLOSIVO IN UNA CAVA DI MARMO NEL VICENTINO E LA SUA COLLOCAZIONE NEL CASOLARE DI PAESE (TV) OVE FURONO PREPARATI GLI ATTENTATI AI TRENI Tale episodio costituisce, secondo il racconto di Martino SICILIANO, il momento iniziale, avvenuto nel 1965 o più probabilmente nel 1966, della formazione della dotazione militare della struttura occulta di Ordine Nuovo per quanto concerne la cellula mestrino/veneziana e non a caso la data dell'episodio corrisponde ad un momento di poco successivo al Convegno dell'Istituto Pollio, a Roma, durante il quale fu deciso di costituire una struttura anticomunista a diversi livelli, anche prettamente clandestini, e si colloca altresì contestualmente alla nascita, soprattutto in Veneto, dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO costituiti da militari e da civili prevalentemente ordinovisti. Una prima descrizione sintetica dell'episodio è stata fornita da Martino SICILIANO in uno dei suoi primissimi interrogatori, in data 20.10.1994, introducendo il discorso a partire dallo stabile utilizzo da parte del gruppo dell'autovettura del dr. Carlo Maria MAGGI: “””....Voglio anche aggiungere che il dr. Maggi era il responsabile operativo per il Triveneto e poi anche per la Lombardia quando si formò il gruppo milanese, che aveva qualche presenza anche a Bergamo e a Brescia. .... Vorrei anche precisare che la prima macchina del dr. Maggi da me guidata era una Fiat 500, intorno al 1964/1965, sempre disponibile nel garage San Marco di Piazzale Roma a Venezia. Con tale macchina ci recammo io, Zorzi e Piercarlo Montagner sui monti del Chiampo, nella provincia di Vicenza, per il prelievo di una quantità di AMMONAL e di miccia a lenta e rapida combustione di cui ho già parlato. Preciso che Delfo Zorzi, nativo di Arzignano che è un Paese vicino al Chiampo, conosceva molto bene la zona. Una parte di tale materiale fu da noi trasportata sulla 500 di Maggi, un'altra parte invece, dopo essere stata nascosta in quella zona vicino allo stesso casotto dove era stata prelevata, venne recuperata pochi giorni dopo da me e da Zorzi e trasportata prima sulla corriera che dal Chiampo porta a Vicenza e poi in treno fino a Marghera, ove restò a disposizione di Zorzi....”””. (SICILIANO, int. 20.10.1994. L'episodio è stato poi ripreso da Martino SICILIANO, con maggiori dettagli, nell'interrogatorio in data 15.3.1995 allorchè egli, rientrato in Italia dopo la primissima fase della sua collaborazione, ha ripercorso con maggiori approfondimenti tutti gli 87 88 episodi e le circostanze già rapidamente descritte nei primi tre interrogatori dell'ottobre 1994: “””....Ci recammo sul posto con la FIAT 500 del dr. Maggi, accompagnati ovviamente da Zorzi che conosceva i luoghi. Ricordo che io avevo da poco preso la patente e guidavo la macchina. Eravamo io, Montagner e Zorzi. Maggi era al corrente che noi dovevamo prendere la macchina per questa missione. Rubammo da un casotto, sfondando la porta, l'esplosivo, erano 30 o 40 chilogrammi di ammonal diviso in sacchetti di plastica trasparente, nonchè detonatori e miccia sia detonante sia a lenta combustione. Poichè si trattava di un grosso quantitativo ne nascondemmo una parte in un luogo non distante e portammo il resto a Venezia con la 500. Dopo qualche giorno tornammo a Vicenza in treno, sempre noi tre, prendemmo l'autobus per Arzignano e recuperammo l'altro l'esplosivo e la miccia nascondendoceli addosso e rientrando così a Venezia. Zorzi si occupò personalmente di custodire tutto l'esplosivo. Non sono in grado di dire dove lo custodisse. Poichè l'Ufficio mi chiede di descrivere questo esplosivo, posso dire che era contenuto in sacchetti di plastica trasparente del peso di circa 1 o 2 chili ciascuno ed era a scaglie di colore rosa perlaceo e biancastro. Poichè l'Ufficio mi fa il nome della località Paese, posso dire che conosco l'esistenza di questa località che è nei pressi di Treviso e dove se non sbaglio vi è una base aerea. Non la ricollego tuttavia, almeno per quanto a mia conoscenza, ad attività del gruppo. Posso essere più preciso in merito alla data del furto ad Arzignano. Io avevo preso da poco la patente di guida, esattamente l'11.12.1964, come posso rilevare dal documento che ho con me e quindi il fatto si colloca sicuramente nella prima metà del 1965....””” (SICILIANO, int.15.3.1995). Anche per tale episodio, come per quasi tutti gli altri oggetto della presente istruttoria e narrati da Martino SICILIANO e da Carlo DIGILIO, l'iniziale confessione e chiamata in correità di una delle persone coinvolte non è rimasta isolata, ma si sono aggiunte altre dichiarazioni che hanno consentito di acquisire un riscontro incrociato e altamente rassicurante sulla verità degli avvenimenti narrati. Un primo elemento di riscontro, seppur generico, è giunto infatti dalle dichiarazioni di Giancarlo VIANELLO, anch'egli militante della cellula mestrina e coinvolto negli episodi di Trieste e Gorizia dell'ottobre 1969. 88 Giancarlo VIANELLO il quale, nell'ambito di dichiarazioni piuttosto ricche e dettagliate, ha confermato quasi tutte le circostanze riferite per primo da Martino SICILIANO, ha anche ricordato un particolare in piena sintonia con l'episodio del furto presso la cava di Arzignano. Infatti VIANELLO ha ricordato che Delfo ZORZI, nel corso di riunioni tenute a Mestre con gli altri militanti, aveva segnalato che uno dei modi migliori per approvvigionarsi di esplosivo senza difficoltà era rubarlo presso le cave (int. 11.7.1995, f.2). I reati connessi al furto dell'esplosivo presso la cava di Arzignano sono stati contestati, oltre che a ZORZI il quale non si è mai presentato in Italia per rispondere, anche ovviamente a Piercarlo MONTAGNER, fotografo tuttora residente a Mestre, legato da rapporti ancora vivi ed attuali a Delfo ZORZI, sebbene questi risieda da moltissimi anni in Giappone. Si ricordi infatti che Piercarlo MONTAGNER, una delle primissime persone indicate da Martino SICILIANO quale possibile contatto ancora operativo ed esistente fra l'ambiente di Mestre e il Giappone, è stato uno dei tre soggetti colpiti da ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura di Milano nell'estate del 1996 in quanto, soprattutto a seguito di intercettazioni telefoniche ed ambientali, era emersa una vivacissima attività di sostegno e di favoreggiamento nei confronti del capo carismatico del gruppo di Mestre, impossibilitato a seguire direttamente in Italia lo sviluppo delle indagini. Piercarlo MONTAGNER, infatti, sentito anche alla presenza del Pubblico Ministero in data 5.8.1996 quando egli insieme ad ANDREATTA e a TRINGALI era detenuto per il reato di favoreggiamento aggravato dalla finalità di terrorismo, ha fatto parziali ammissioni in merito all'episodio di Arzignano. Egli ha infatti ammesso di essersi recato con altri componenti del gruppo ad Arzignano, nella zona ove vi sono le cave, proprio per verificare i luoghi dove, senza particolari protezioni di persone o di cani da guardia, lasciavano l'esplosivo normalmente utilizzato per tale tipo di lavoro. Il gruppo, sempre secondo il racconto di MONTAGNER, aveva potuto vedere l'esplosivo, chiaro e di aspetto granulare, e quindi assolutamente corrispondente a quello descritto da Martino SICILIANO. MONTAGNER ha tuttavia negato di avere poi partecipato materialmente al furto dell'esplosivo e ha sostenuto che i sopralluoghi cui egli aveva preso parte erano avvenuti non con una FIAT 500 (tipo di vettura di cui allora disponeva il dr. MAGGI), bensì con una GIULIA o una FIAT 1100. Martino SICILIANO non ha avuto difficoltà, focalizzando ulteriormente i suoi ricordi in merito a tale episodio, a smentire il tentativo pur parziale di MONTAGNER di ridurre le proprie responsabilità e forse anche di escludere il dr. MAGGI dalla corresponsabilità in questa prima azione del gruppo. 89 90 Infatti, risentito in data 28.8.1996 dopo l'audizione di MONTAGNER, Martino SICILIANO ha fornito ulteriori particolari che scolpiscono la presenza di MONTAGNER al momento della materiale consumazione del furto: “””....Quanto dice MONTAGNER è una verità parziale nel senso che egli ha invece materialmente partecipato al furto dell'esplosivo. Riprendendo quanto ho già dichiarato in data 15.3.1995, in relazione al furto di Arzignano, posso infatti fornire ulteriori particolari che mi vengono in mente, focalizzando specificamente tale episodio. Partimmo un sabato alla volta di Arzignano io ZORZI e MONTAGNER, subito dopo la fine dell'orario scolastico, in quanto eravamo ancora tutti studenti. Avevamo la 500 di MAGGI, che andammo a prendere, come sempre, al garage San Marco di piazzale Roma. Prendemmo l'autostrada fino a Padova poi la statale fino a Vicenza e raggiungemmo la cava che ZORZI già conosceva. Attendemmo l'imbrunire e riuscimmo ad entrare nel casotto sfondando la porta di ingresso. Risalimmo in macchina tutti e tre riempiendo il portabagagli anteriore della 500 con il materiale rubato. Sono assolutamente certo del fatto che avessimo la macchina di MAGGI per un preciso fatto particolare. Io ero, ovviamente, più abituato a guidare la 1100 di mio padre, che aveva il cambio al volante e di cui conoscevo bene il funzionamento della retromarcia. Avevo, invece, qualche problema con il cambio a cloche della 500 che conoscevo poco e quando ci allontanammo, finimmo in un viottolo, che terminava in un burrone, andando vicini a finirci dentro. Non riuscii assolutamente ad ingranare la retromarcia e fummo costretti a girare la 500, che per fortuna era abbastanza leggera, a mano, facendo forza tutti e tre. Lasciammo parte del materiale a non molta distanza dal casotto in una boscaglia, e l'indomani solo io e ZORZI andammo sul posto in treno e in autobus per recuperare quanto era rimasto lì. Ricordo che faceva ancora abbastanza freddo, avevamo il cappotto e nascondemmo sotto quell'indumento il materiale....””” (SICILIANO, int.28.8.1996). Anche Carlo DIGILIO ha riferito di avere appreso, seppur in tempi molto successivi ai fatti, da Marcello SOFFIATI, che Delfo ZORZI e il suo gruppo avevano rubato dell'esplosivo in una cava vicina proprio al paese natale di Delfo ZORZI e cioè Arzignano nel vicentino (int.31.1.1996, f.4). Il furto dell'esplosivo nella cava e la disponibilità da parte del gruppo già a partire dalla metà degli anni '60 di almeno 30 chili di AMMONAL, pur concretizzandosi in reati prescritti sul piano processuale, costituiscono un tassello molto importante della 90 ricostruzione dell'attività del gruppo mestrino e della credibilità complessiva di quanto narrato da SICILIANO, DIGILIO e dagli altri testimoni che hanno deciso di riferire, magari parzialmente, quanto a loro conoscenza. Infatti è proprio in relazione al furto dell'AMMONAL che le dichiarazioni di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO (i quali non avevano mai operato congiuntamente e si erano a stento conosciuti) si intersecano rafforzandosi reciprocamente e fornendo l'uno all'altro un riscontro di cui ciascuno dei due non poteva nemmeno conoscere l'esistenza. L'esplosivo rubato ad Arzignano, di cui Martino SICILIANO ignorava il luogo ove in seguito era stato custodito non avendo personalmente accesso ai "depositi" gestiti da Delfo ZORZI, è infatti l'esplosivo visto e maneggiato successivamente da Carlo DIGILIO in occasione dei suoi accessi al casolare di Paese, nei pressi di Treviso, gestito da ZORZI insieme a Giovanni VENTURA e Marco POZZAN, componenti della cellula padovana. Carlo DIGILIO ha parlato delle consulenze da lui effettuate in tale casolare, ove erano ammassate armi ed esplosivo e vi era una stampatrice di proprietà di VENTURA, sin dai suoi primi interrogatori, ampliando man mano il tenore e la portata delle sue dichiarazioni e mettendo sempre maggiormente a fuoco l'importanza di tale base operativa e il ruolo da lui svolto non solo nella manutenzione delle armi presenti, ma anche della fabbricazione degli ordigni esplosivi utilizzati per gli attentati ai treni dell'8/9 agosto 1969. Vediamo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO rese in data 19.2.1994, relative a tale importantissima vicenda, raccontate dopo avere spiegato di avere svolto sin dalla metà degli anni '60 l'attività di informatore, così come Marcello SOFFIATI, per una struttura americana che aveva sede nella base FTASE di Verona: “””....La persona a cui facevo riferimento all'interno di questa attività <<nota Ufficio: l'attività informativa appena citata>> mi chiese di prendere contatto con un professore di Vittorio Veneto che aveva bisogno di una persona come me esperta in armi, ma non conosciuta politicamente in tale zona e non contrassegnata da una precisa militanza politica. Mi recai quindi a Vittorio Veneto ove conobbi il professore che si chiamava Professor FRANCO.... Costui .... aveva combattuto per la Repubblica Sociale Italiana tanto da essere appunto il responsabile della locale sezione degli ex combattenti della R.S.I. Il professore mi disse che avrei dovuto controllare una certa situazione proprio grazie alla mia esperienza in fatto di armi. Avrei dovuto poi riferirgli ed egli stesso avrebbe poi riferito alla Struttura cui facevamo riferimento. Mi disse quindi di andare a Treviso in una libreria di cui non ricordo più il nome, gestita da GIOVANNI VENTURA e di chiedere di costui. 91 92 Così feci e conobbi VENTURA, in un primo momento un po' diffidente, ma poi abbastanza presto affabile. Mi espose il suo problema che consisteva nella catalogazione e risistemazione di quella che lui chiamava una "collezione di armi". Capii subito che VENTURA non capiva niente di armi. Ci incontrammo quindi una seconda volta, di lì a pochi giorni, e mi accompagnò con la sua macchina, una Mini Minor rossa, partendo da Treviso sul posto che dovevamo raggiungere. Si trattava di un casolare un po' isolato in provincia di Treviso che all'occorrenza saprei indicare. Ricordo che VENTURA con la sua macchinetta correva a rotta di collo. Arrivammo quindi in una casetta modesta, isolata, in fondo ad un viottolo e vi trovammo un'altra persona che mi riservo di indicare, persona che si fece riconoscere e che io vedevo per la prima volta proprio in quella occasione. All'interno di questo casolare, costituito da due stanze al piano terreno, c'era nella prima stanza a destra qualcosa coperto da un telo ed era una stampatrice che loro stessi indicarono come "la vecchia". VENTURA disse proprio all'altro: "Stai facendo la guardia alla vecchia?". Nella stanza a sinistra, lungo il muro del lato destro, sotto un telo c'era ammassato un quantitativo di armi in una gran confusione, alcune intere, alcune smontate e c'erano anche alcune cassette di munizioni e di caricatori. Sembravano buttate lì di fretta per una ulteriore sistemazione. Ricordo dei moschetti MAUSER, dei M.A.B., un fucile semiautomatico tedesco di precisione, qualche STEN e una mitragliatrice MG 42 e cinque o sei cassette di cartucce per questa mitragliatrice. E poi c'erano altre cartucce di vario tipo. C'erano vari tipi di armi e tanti tipi di cartucce. Ricordo che VENTURA si preoccupava della intercambiabilità di queste cartucce. Talune armi, come ho detto, erano smontate e attaccate con del nastro isolante. Io mi misi a fare questo lavoro di catalogazione e sistemazione occupandomi anche del rimontaggio, quando era possibile, della armi smontate. C'era veramente di tutto, anche delle pistole dell'800 ad avancarica. Il casolare era circondato da un muretto e ciò non consentiva a nessuno, anche a chi fosse passato di lì per caso, di vedere cosa vi fosse all'interno. Ad un certo punto, essendo ora di pranzo, VENTURA uscì con la macchina per andare a prendere dei panini in un paese vicino e l'altro rimase fuori dal casolare di guardia. Mi avevano detto che i sacchi che si notavano sul lato sinistro della stanza dove c'erano le armi, erano un paio di sacchi di juta e un paio di plastica, contenevano del concime chimico e che mi dissero di lasciare perdere. In effetti dall'aspetto poteva sembrare così, ma io sfruttai quei pochi minuti per rendermi conto di cosa ci fosse realmente. 92 Nei due sacchi di juta c'erano due cassette metalliche color verdastro, di tipo militare, che io aprii rapidamente e dentro le quali c'erano dei candelotti di tritolo di quelli in uso all'Esercito, ricoperti di carta con il vano cilindrico, da un lato protetto da un velo di carta, per introdurvi il detonatore. Ricordo che per controllare che non fossero di plastico ne ho preso in mano qualcuno che ho battuto leggermente sullo spigolo della cassetta e davano il suono secco dei candelotti di tritolo che avevo visto durante il servizio militare. Sotto le cassette c'erano anche alcune mine anticarro ancora con la loro custodia metallica e integre. I sacchi di plastica, che stavano davanti a quelli di juta e che erano quelli che potevano sembrare contenere il concime, contenevano invece in totale una ventina di chili di una sostanza a scaglie di colore rosaceo che era un tipo di esplosivo che non sarei in grado di definire. Non mi azzardai a prenderne un campione poichè temevo di essere controllato all’uscita, come in effetti poi avvenne. Sfruttai quei pochi minuti anche per smontare il percussore della mitragliatrice MG 42 che consideravo l'arma più pericolosa nelle loro mani e che ritenevo necessario neutralizzare. Nascosi il percussore, che è molto piccolo, in un calzino. D'altro canto la mancanza del percussore non viene notata dall'esterno e quindi ero tranquillo del fatto che non se ne sarebbero accorti. A domanda dell'Ufficio, tra armi corte e lunghe saranno state una quarantina di cui, a mio avviso, quasi la metà erano pero non utilizzabili. I due ritornarono, dissi loro che avevo fatto un controllo sommario e comunque non completo, e VENTURA mi disse che comunque aveva fretta e che si sarebbe potuto completare l'inventario in seguito in data da stabilirsi. All'uscita, effettivamente, la seconda persona, come io temevo, disse a VENTURA che nonostante l'amicizia e la fiducia dovevo essere comunque perquisito cosa che fece facendomi vuotare le tasche. Io reagii manifestando il mio disappunto, ma non mi opposi. Non trovarono quindi il percussore che avevo nascosto tra le dita dei piedi. Con VENTURA tornai quindi in macchina Treviso e li ci lasciammo. Relazionai accuratamente il professore, così come mi era stato richiesto, e gli consegnai il percussore segnalandogli anche la pericolosità della situazione che avevo notato grazie al mio esame dei sacchi che avevo fatto all'insaputa dei due....””” (DIGILIO, int. 19.2.1994). Nel corso del successivo interrogatorio in data 5.3.1994, DIGILIO ha sciolto la riserva in merito all'identità della persona che custodiva il casolare, indicandola in Delfo ZORZI, uomo di fiducia del dr. MAGGI, ed ha ancora fatto cenno all'esplosivo in scaglie: 93 94 “””....Sciogliendo la riserva del precedente interrogatorio, posso dire che la persona che si trovava nel casolare a fare la guardia era Delfo ZORZI.... In relazione alle armi che ho visto, posso precisare, oltre a quelle che ho già elencato nel precedente interrogatorio, che c'era una machinen pistol SCHMEISSER MP40 nonchè un fucile cal.8 semiautomatico di precisione, di fabbricazione tedesca del 1943, G43 MAUSER.... Per quanto concerne l'esplosivo, la sostanza a scaglie di cui ho accennato era bianca con riflessi rosacei....””” (DIGILIO, int.5.3.1994). A tale primo accesso al casolare da parte di DIGILIO ne era seguito un secondo, la cui descrizione è utile riportare in questa sede non perchè vi siano ulteriori riferimenti all'esplosivo proveniente dalla cava, ma perchè da tale seconda "visita" ben si desume cosa si stesse preparando in quel luogo: “””....La mia seconda visita al casolare avvenne dopo che VENTURA mi aveva chiesto quelle delucidazioni sulle modalità di accensione dei congegni di cui ho già parlato nei precedenti interrogatori e di cui io riferii al prof. FRANCO. L'interesse di Ventura quindi risultava essersi spostato anche nel campo dei congegni esplosivi e il prof. Franco volle andare a fondo di questa vicenda. Il prof. Franco mi convocò per telefono, ci incontrammo a Treviso alla stazione (io avevo raggiunto Treviso in treno) e Franco mi riferì che aveva sentito Ventura il quale aveva dei problemi.... Ci recammo a Paese esattamente quello stesso giorno con una macchina guidata da Franco, dopo avere raccolto a Treviso Giovanni Ventura il quale stava aspettando nei pressi della stazione a bordo della stessa Mini Minor rossa con la quale lo avevo già visto la volta precedente. Raggiunto il casolare vi trovammo Delfo Zorzi che era nella prima stanza, entrando, dove c'era un tavolino. La seconda stanza, a sinistra della prima, aveva la porta semiaperta e c'era un'altra persona che non mi fu presentata e che rimase in quella stanza senza partecipare ai nostri discorsi.... Ebbi la netta impressione che Franco e Delfo Zorzi si conoscessero già. Zorzi appariva più affabile della prima volta in cui l'avevo visto. Franco gli chiese di vedere la pistola. Zorzi recuperò nella stanza a sinistra la pistola che era effettivamente una pistola non comune, una vecchia FROMMER ungherese piuttosto malconcia. Io diedi un'occhiata all'arma, vidi che era piuttosto maltenuta e dissi che con quella era certo meglio non spararci e non aveva neanche un gran valore come arma da collezione. Capii però che nei miei confronti la verifica su quell'arma era poco più che un pretesto in quanto Zorzi insieme all'arma portò alcune componenti di un congegno esplosivo. 94 Si trattava in sostanza del meccanismo di accensione e cioè una pila, un orologio da polso e dei fili nonchè della polvere nera da caccia e dei fiammiferi di tipo comune. ZORZI e VENTURA assemblarono insieme il tutto con una pinzetta e dissero al prof. FRANCO che il problema che non avevano ancora deciso come risolvere era quello di collegare il filo che faceva da resistenza o a polvere nera o a un fiammifero. In questo secondo caso la resistenza doveva essere avvolta attorno al fiammifero. FRANCO, vedendo quell'armeggiare e i dubbi che venivano esposti, sbottò dicendo che il filo non era di quelli più idonei in quanto era troppo rigido e infatti nella prova nelle mani di Zorzi e Ventura si ruppe e dovettero ripetere l'operazione ed inoltre i fiammiferi erano troppo piccoli e potevano usare invece fiammiferi con la testa più grossa, più lunghi, e cioè quelli antivento normalmente in commercio. Franco durante questa operazione accennò che per suoi ricordi di guerra il congegno assomigliava a quello di cui si era tanto parlato in relazione all'attentato di Via Rasella. Disse che si ricordava bene questo particolare sia perchè era un vecchio combattente sia perchè era un fumatore. Franco nello scambio di battute disse ai due "state attenti che siano solo petardi", alludendo chiaramente all'invito ad usarli solo per attentati dimostrativi. Io assistetti senza dire nulla e ebbi comunque la sensazione che Franco non aveva voluto andare al casolare da solo. Da quelle poche battute si comprendeva che Franco nei confronti dei suoi interlocutori aveva un atteggiamento di richiamo alla moderazione e cioè di ricordare loro che non dovevano essere commessi episodi con gravi conseguenze.... Ovviamente commentai con Franco anche il senso di quell'incontro. Egli mi disse che aveva dato questi piccolo aiuto a Ventura per una ragione ben precisa. Si espresse così "se Ventura perde l'appalto, io non so più quale altra persona lo sostituirebbe ricevendo il suo incarico". Del resto il prof. Franco mi aveva specificamente fatto presente che quell'attività di controllo era un'attività che egli svolgeva per incarico della C.I.A. in un momento delicato e nella zona che era di sua competenza. Tornammo a Treviso, mi ringraziò per la mia collaborazione e mi disse che avrebbe continuato lui personalmente a seguire quella storia e io non sarei stato più disturbato....””” (DIGILIO, int. 10.10.1994). 95 96 Nel corso dello stesso interrogatorio e dei successivi, Carlo DIGILIO ha indicato in Marco POZZAN, persona da lui già conosciuta a Treviso e in seguito incontrata nuovamente in Spagna in occasione di un'altra operazione in materia di armi affidata a DIGILIO dalla struttura statunitense, il quinto soggetto presente quel giorno nel casolare di Paese. Tale presenza salda definitivamente la comune operatività del gruppo padovano e del gruppo mestrino/veneziano nella fase immediatamente precedente la catena di attentati della primavera/estate e del dicembre 1969. Carlo DIGILIO, superate ulteriori titubanze, ha così narrato altri particolari relativi alla seconda "visita" al casolare, in occasione della quale erano in corso di costruzione le scatolette di legno che dovevano essere utilizzate per gli attentati ai treni dell'8/9 agosto 1969: “””....Effettivamente ho visto come le scatolette di legno sono state costruite e ciò è avvenuto proprio in occasione del secondo accesso al casolare. Come avevo già riferito in un precedente interrogatorio, Giovanni VENTURA mi aveva fatto cenno alla necessità di munirsi di scatole di legno, simili a quelle per i sigari, per contenere un ordigno caratterizzato dall'innesco con fili di nichel-cromo e fiammiferi antivento.... Giovanni VENTURA poi, come ho già dichiarato, mi fece vedere nel suo ufficio delle scatole di legno per sigari che per la loro fattura assomigliavano a quelle che avrebbero dovuto servire per contenere gli ordigni. Quando arrivai per la seconda volta al casolare di Paese, nella stanza più piccola vidi Marco POZZAN e, durante la mia permanenza sul posto insieme a Lino FRANCO, VENTURA e ZORZI, entrai in questa stanzetta dove POZZAN stava lavorando. Io in realtà già lo conoscevo perchè lo avevo visto in qualche occasione nella libreria di VENTURA a Treviso ed era anche presente la prima volta in cui andai al casolare, circostanza questa che non avevo riferito. POZZAN era di piccola statura e aveva i capelli neri; all'epoca era piuttosto magro ed emaciato e con i lineamenti del viso spigolosi. Sul tavolo di questa stanzetta egli stava eseguendo l'assemblaggio di scatolette di legno, parte delle quali erano già terminate e parte erano ancora in costruzione. Sul tavolo c'era un seghetto, listelle di legno già tagliate, un cacciavite, viti, delle piccole cerniere e vari tubetti di colla il cui odore impregnava la stanza. C'erano due tipi di legno, uno tipo pino, più chiaro, e uno più scuro. Diverse scatolette erano già pronte, appoggiate una sull'altra. Le scatolette non erano molto grandi, non più di 15/20 centimetri per lato. Sul tavolo c'erano anche parecchie pile di tipo comune da 4,5 volt. Con POZZAN, che stava lavorando, scambiai solo pochi convenevoli e continuai la mia attività nell'altra stanza dove, con il prof. Lino FRANCO, si stava lavorando intorno al meccanismo di accensione. 96 Ricordo che ad un certo punto, ZORZI andò nella stanzetta dove era POZZAN incitandolo a darsi da fare.... Quando sui giornali vidi pubblicate le fotografie di uno degli ordigni non esplosi, rinvenuto su uno dei convogli ferroviari, riconobbi immediatamente una delle scatolette di legno viste sul tavolo di POZZAN, così come riconobbi immediatamente il meccanismo di innesco contenuto nella scatola, che era quello che veniva preparato nell'altra stanza. In sostanza, quando mi trovavo nel casolare mancava solo la presenza dell'esplosivo per completare gli ordigni che poi sarebbero stati utilizzati per gli attentati. Quando Marcello SOFFIATI, nel settembre 1969, discusse con MAGGI in merito alla scatola per sigari che MAGGI gli aveva fatto mettere, si riferiva ovviamente a una di quelle scatole modellate come scatole per sigari che avevo visto a Paese. Come ho già accennato, SOFFIATI aggiunse, aprendo il discorso con MAGGI, che la scatola era incartata, diventando così un pacchetto....””” (DIGILIO, int. 20.9.1996). Non è questa la sede per soffermarsi sulla figura del prof. Lino FRANCO di Vittorio Veneto (da molto tempo deceduto) e cioè la persona presso la quale il superiore di Carlo Digilio, Sergio MINETTO, aveva mandato il suo "agente" affinchè, per conto della struttura informativa americana di cui tanto MINETTO quanto il prof. FRANCO facevano parte con ruoli di rilievo, effettuasse le sue "visite" di controllo e consulenza presso il casolare. La figura del prof. Lino FRANCO, già volontario nei reparti tedeschi di contraerea FLAK e animatore a Vittorio Veneto del gruppo SIGFRIED, è stata infatti ampiamente analizzata nel rapporto del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri in data 8.5.1996, relativo al coinvolgimento di strutture di intelligence straniere nella c.d. strategia della tensione (pagg. 31-38). E' sufficiente, per quanto concerne la posizione del dr. MAGGI, ricordare che anch'egli conosceva bene MINETTO e che dalle dichiarazioni di Martino SICILIANO (pur personalmente estraneo alla struttura di intelligence) emergono stretti rapporti politici fra il dr. MAGGI, ZORZI e Lino FRANCO sin dalla metà degli anni '60, avendo lo stesso SICILIANO partecipato con gli altri ad alcune visite del gruppo presso l'abitazione del prof. FRANCO a Vittorio Veneto (int. SICILIANO, 15.3.1995, f.8). Appare invece utile, al fine di comprendere la gravità degli avvenimenti che si stavano preparando nel casolare, vera base operativa della struttura occulta di Ordine Nuovo, riportare la parte dell'interrogatorio reso a questo Ufficio in data 16.5.1997 da Carlo DIGILIO, nell'ambito del quale egli ha riconosciuto di avere effettuato una terza "consulenza tecnica" presso il casolare, partecipando direttamente alla preparazione e alla distribuzione degli ordigni che sarebbero serviti, di lì a pochi giorni, per gli attentati dell'8/9 agosto 1969 sui 10 convogli ferroviari: 97 98 “””....io andai a Paese anche una terza volta in un momento vicinissimo agli attentati ai treni dell'agosto 1969. Mi convocò VENTURA per telefono utilizzando una frase in codice concordata e cioè dicendomi che erano arrivati "altri libri nuovi e che bisognava impacchettarli" con ciò riferendosi alle scatolette da preparare per gli attentati e cioè quelle che io ho descritto nei miei precedenti interrogatori nell'estate del 1996. Mi diede appuntamento alla stazione di Treviso e questa volta venne a prendermi non con la MINI MINOR, ma con la macchina grossa di marca tedesca con la stella sul cofano. Raggiungemmo rapidamente Paese e lì trovammo già ZORZI e POZZAN. Sul tavolo della prima stanza c'erano le scatolette ormai finite, parecchi fogli di carta per impacchettarle, i pezzetti di tritolo tratti dall'esplosivo che avevo già visto al casolare e cioè le mine anticarro pescate dai laghetti, le pile, gli orologi con il perno già fissato sul quadrante e filo elettrico. Io e ZORZI assemblammo rapidamente i vari componenti inserendoli nelle cassette e ad un certo momento a ZORZI, che era molto nervoso, subentrò VENTURA. Nel frattempo POZZAN, nell'altra stanza, stava finendo di costruire le ultime cassette. Faccio presente che la quantità di esplosivo che sistemavamo nelle cassette era abbastanza modesta e cioè tra i 50 e i 100 grammi perchè gli attentati dovevano essere solo dimostrativi. Lavorammo di buona lena per un paio d'ore, ricordo che era pomeriggio, e alla fine avevamo approntato circa due dozzine di cassette. Ciascuna venne poi impacchettata con la carta bloccata da uno scotch leggero che consentisse di aprirle con una certa facilità. Infatti ZORZI aveva preparato parecchi foglietti con uno schizzo illustrativo destinato a ciascuno di coloro che avrebbero poi deposto l'ordigno che doveva essere innescato. C'era il disegno dell'interno della scatoletta e la spiegazione scritta delle operazioni da compiere e in particolare: agganciare il filo al perno sul quadrante e dare la carica all'orologio. La lancetta era già posta a 45 minuti dal contatto. Tale operazione, secondo il programma, andava fatta nella toilette del treno. Verso sera, ZORZI mise in un borsone buona parte delle cassette, mentre VENTURA ne prese qualcuna che mise nella sua borsa di vilpelle nera. POZZAN rimase al casolare e VENTURA accompagnò me e ZORZI alla stazione di Treviso. Salimmo sul treno per Mestre e ZORZI aveva appunto questo borsone sportivo con dentro le cassette. Alla stazione di Mestre ci dividemmo: io presi la filovia per Piazzale Roma, mentre ZORZI si avviò da solo in città. 98 Sapevo che gli attentati sui treni sarebbero avvenuti da lì a pochissimi giorni. Nel giro di uno o due giorni mi misi in contatto con MAGGI, gli relazionai su quello che avevamo fatto ed egli, con il suo solito modo ironico, disse "se sono rose fioriranno". Comunque ZORZI mi aveva già detto che avrebbe contattato MAGGI per la messa a disposizione di tutti gli uomini anche perchè MAGGI doveva aggiungere alcuni elementi a quelli di cui ZORZI già disponeva....””” Si noti che l'esistenza del casolare, pur da moltissimi anni demolito e non più individuabile a causa delle modifiche urbanistiche intervenute nella zona, non può certo essere ritenuta un parto della fantasia. Infatti dell'esistenza di tale base operativa vi era traccia già nell'istruttoria condotta agli inizi degli anni '70, anche se gli accenni fatti all'epoca da due testimoni, in ragione della loro genericità e del carattere indiretto delle notizie apprese dai componenti della cellula padovana, non avevano consentito o giustificato, purtroppo, l'avvio di ricerche utili. Ci riferiamo alla negletta deposizione di Livio JUCULANO, resa spontaneamente all'A.G. di Padova nei giorni immediatamente successivi ai 10 attentati sui convogli ferroviari dell'agosto 1969. Livio JUCULANO, persona con precedenti penali di carattere comune, ma comunque gravitante intorno all'ambiente della cellula padovana, nell'agosto del 1969 aveva fornito molte notizie, purtroppo sottovalutate (e rese inutilizzabili anche dal trasferimento punitivo del Commissario Iuliano che stava indagando sulla cellula eversiva), sulle attività del gruppo di Franco FREDA e in particolare aveva riferito di avere saputo che il gruppo disponeva di un deposito utilizzato per la preparazione degli esplosivi. Secondo JUCULANO tale deposito si trovava in una località di campagna nella zona di Treviso, probabilmente proprio a Paese. Anche Guido LORENZON, amico di infanzia di Giovanni VENTURA e poi principale testimone d'accusa avendo raccolto in varie occasioni le imprudenti confidenze dell'amico, aveva riferito quasi incidentalmente, in un deposizione resa al G.I. dr. D'Ambrosio il 18.8.1972, di aver appreso da VENTURA che le armi del gruppo erano state occultate in una cascina disabitata ubicata fra Paese e Istrana. Tali due testimonianze, non sviluppate e rimaste all'epoca inutilizzate nelle pieghe degli atti processuali, costituiscono una conferma anticipata e difficilmente discutibile delle dichiarazioni rese, oltre vent'anni dopo, da Carlo DIGILIO. Si ricordi inoltre che Guido LORENZON aveva avuto occasione di vedere per un breve momento, nell'appartamento di VENTURA a Treviso, mostrategli dall'amico, alcune delle armi del gruppo probabilmente in fase di trasferimento da un luogo ad un altro. 99 100 Fra queste aveva potuto notare un sacco di juta contenente alcune cassette metalliche militari con scritte in inglese e cioè cassette portamunizioni assolutamente identiche, anche in relazione al sacco che le conteneva, a quelle visionate da Carlo DIGILIO nel casolare (deposizione LORENZON a questo Ufficio, 27.10.1994, f.2), ed inoltre identiche a quelle utilizzate da ZORZI e dal suo gruppo per gli attentati di Trieste e Gorizia dell'ottobre 1969. In sostanza, dalle risultanze istruttorie pure esposte in questo provvedimento in via di sintesi, emergono gravi indizi nei confronti del dr. MAGGI e degli altri componenti del gruppo in relazione alle seguenti circostanze: - l'esplosivo da cava rubato dal gruppo ad Arzignano è il medesimo esplosivo visto in seguito da Carlo DIGILIO nel casolare di Paese. - in tale casolare, oltre all'esplosivo da cava e al tritolo, erano presenti cassette metalliche militari identiche a quelle utilizzate per gli attentati di Trieste e Gorizia nonchè una notevole quantità di armi parte delle quali altro non erano che quelle che sarebbero poi state casualmente rinvenute nel novembre 1971 a Castelfranco Veneto nella disponibilità di persone vicine a VENTURA, ritrovamento da cui sarebbero partite a Treviso le indagini note come "pista nera". Raffrontando infatti il verbale di sequestro delle armi di Castelfranco Veneto e le armi da DIGILIO come presenti nel casolare è facile notare come vi compaiano i medesimi "pezzi": in particolare SCHMEISSER MP40, mitra STEN e cartucce per mitragliatrici. - il casolare era gestito in comune dagli elementi più affidabili e spiccatamente operativi del gruppo padovano facente capo a Franco FREDA e del gruppo veneziano facente capo al dr. MAGGI e, nei momenti più delicati, l'attività di consulenza tecnica era stata affidata all'esperto della struttura e cioè Carlo DIGILIO. - in tale casolare erano stati preparati e assemblati i congegni per gli attentati ai treni dell'agosto 1969 e probabilmente tale luogo era stato utilizzato per altre operazioni appartenenti alla medesima campagna terroristica. - la struttura informativa statunitense facente riferimento alla base FTASE di Verona era perfettamente al corrente, tramite Carlo DIGILIO, il prof. FRANCO e il caporete Sergio MINETTO, di quanto si stava preparando in quel casolare. Vi è infine da ricordare che, secondo recenti risultanze acquisite da questo Ufficio ed entrate a far parte delle indagini in corso presso la Procura di Milano che riguardano direttamente l'esecuzione degli attentati del 12.12.1969, è probabile che l'esplosivo sottratto ad Arzignano sia stato parte di quello utilizzato per tali attentati. 100 13 LA DETENZIONE DI ARMI ED ESPLOSIVI APPARTENENTI ALLA STRUTTURA LOGISTICA DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA E MESTRE Sin dalla seconda metà degli anni '60, poco dopo l'episodio di Arzignano, il gruppo di Mestre, più attivo sul territorio anche per ragioni geografiche e cui la dirigenza veneziana aveva affidato i compiti operativi, aveva iniziato a procurarsi una dotazione di armi e di munizioni. Tali armi non avevano nulla a che vedere con i depositi NASCO di GLADIO (organizzazione con la quale non è emerso alcun elemento di collegamento), ma comunque si trattava di una buona dotazione formata prevalentemente da armi tedesche e americane di provenienza bellica la cui manutenzione e miglioria, anche con riferimento all'approntamento di silenziatori, era attuata da "ZIO OTTO" e cioè Carlo DIGILIO. In tale contesto Delfo ZORZI rispondeva direttamente al dr. MAGGI che era il responsabile operativo per il Triveneto e costituiva l'ultimo anello prima della dirigenza romana di RAUTI, MACERATINI e SIGNORELLI (int. SICILIANO, 19.10.1994, f.4, e 20.10.1994, f.4). Il dr. MAGGI risulta essere stato pienamente a conoscenza della presenza delle armi che aveva avuto anche occasione di maneggiare nella sede del Circolo "Ezra Pound" di Via Mestrina, tenendo talvolta per sè, per difesa personale, una pistola cal.7,65 della dotazione (int. SICILIANO, 15.3.1995, f.5). Appare quindi opportuno riportare le dichiarazioni di sull'argomento specifico delle armi raccolte dal gruppo: Martino SICILIANO “””....(l'armaiolo), a livello di O.N. del Triveneto, era lo "ZIO OTTO" cioè Carlo DIGILIO, chiamato qualche volta anche "il Legionario", anche se non so se lo sia stato veramente o fosse una sua vanteria oppure un nomignolo scherzoso che gli era stato attribuito. Non sono in grado di dire dove avesse appreso le sue conoscenze tecniche. In merito ai silenziatori, posso precisare che io stesso ne ebbi in mano quattro o cinque, insieme alle relative pistole automatiche Beretta cal.9 lungo con la canna già filettata. Quando ho detto che i silenziatori non erano di fattura artigianale, voglio dire che erano molto ben fatti e cioè senza difetti o saldature visibili. Contenevano dischetti di feltro separati da molle e Zorzi mi disse erano migliori migliori di quelli con la lana di vetro in quanto duravano più a lungo e potevano essere utilizzati per un buon numero di colpi. Anche per quanto 101 102 concerne i silenziatori, Zorzi mi disse che li aveva fatti lo Zio Otto, compresa, ovviamente, anche la filettatura. Per quanto concerne le armi che ho visto o di cui ho avuto disponibilità nel gruppo, posso citare, oltre alle Beretta cal.9, anche delle 7,65 sempre Beretta, altre 7,65 di fabbricazione tedesca con le guance in legno e di provenienza bellica, un paio di revolver americani cromati e vari fucili tedeschi sempre della seconda guerra mondiale e qualche baionetta....””” (SICILIANO, 20.10.1994). Tanto nella sede di Via Mestrina quanto nella palestra FIAMMA YAMATO, gestita dal gruppo, circolava il materiale della dotazione: “””....Nella sede di Via Mestrina, quando vi abitava Zorzi, io vidi alcune saponette di tritolo e detonatori sia elettrici sia al fulminato di mercurio, uno dei quali io utilizzai per l'attentato all'Università Cattolica. Era materiale nascosto senza troppe cautele dietro libri o sotto il letto. Sempre in quella stanza vidi le armi della dotazione del gruppo, mentre nella sede della palestra in Via Verdi non vidi mai esplosivo, ma solo qualche 7,65 con il silenziatore, cioè quei silenziatori che Zorzi mi disse erano stati fatti da ZIO OTTO, cioè Carlo Digilio....””” (SICILIANO, 15.3.1995). Il gruppo disponeva tanto di detonatori comuni quanto di detonatori elettrici, questi ultimi utilizzati per gli attentati di Trieste e Gorizia: “””....I detonatori che sottraemmo ad Arzignano e di cui faccio cenno nell'interrogatorio in data 15.3.1995 erano detonatori comuni al fulminato di mercurio che necessitavano per l'ultimo tratto dell'innesco della miccia detonante. Ne asportammo almeno una trentina perchè nel casotto vi era parecchio materiale. Io ne utilizzai uno negli anni successivi per l'attentato all'Università Cattolica e non gettai l'ordigno oltre il muro di cinta in quanto ero consapevole che quei detonatori di vecchio tipo erano pericolosi in quanto possono esplodere da soli come accadde in altre occasioni, credo anche a Nico Azzi. Invece, come ho già accennato nell'interrogatorio in data 15.3.1995, comparvero in seguito nella disponibilità del gruppo, portati da ZORZI, anche i detonatori elettrici, cioè quelli che funzionano con la semplice chiusura di un circuito e il conseguente surriscaldamento del filamento metallico interno. Io ne vidi una decina proprio nelle mani di ZORZI nella sede di O.N. in Via Mestrina. Erano alti circa 4 centimetri, più o meno come una cartuccia cal.22 lungo da fucile e avevano i fili bicolori che ne fuoriuscivano. 102 ZORZI era molto contento perchè diceva che costituivano un progresso in quanto erano molto più sicuri e maneggevoli.... Aggiungo che Delfo ZORZI mi disse che i detonatori elettrici erano molto più sicuri perchè anche cadendo o a seguito di urto non potevano esplodere perchè erano inerti....””” (SICILIANO, 18.3.1996). Le armi viaggiavano talvolta in una borsa della palestra FIAMMA YAMATO ove ZORZI e gli altri si esercitavano nelle arti marziali: “””....Produco all'Ufficio una borsa da palestra nera con scritte rosse e in particolare con la scritta "S.S. FIAMMA YAMATO" che ho ritrovato in casa a Venezia e che risale alla costituzione della palestra. Il ritrovamento di questa borsa mi ha suscitato un ricordo e cioè che con la stessa Delfo ZORZI portò da Napoli o Roma a Mestre due mitra di fabbricazione italiana facendo il viaggio regolarmente in treno. Era la fine del 1968 e cioè il primo periodo del suo allontanamento da Mestre per iniziare gli studi universitari. Mi affidò questa borsa che io tenni a casa mia per una sola notte e poi, a sua richiesta, gli restituii in una borsa più lunga i due mitra. Era una borsa un po' più lunga, di quelle per racchette da tennis, che era molto più idonea a tale uso in quanto la borsa che ho prodotto all'Ufficio a stento riusciva a contenere i due mitra....””” (SICILIANO, 28.3.1996). La dettagliata descrizione fornita da Martino SICILIANO della dotazione militare del gruppo non è rimasta isolata, ma ha trovato piena conferma nelle dichiarazioni di Giancarlo VIANELLO, un altro militante, all'epoca, del gruppo mestrino che ha reso sul punto dichiarazioni confessorie quasi interamente sovrapponibili a quelle di Martino SICILIANO. Giancarlo VIANELLO, anch'egli all'epoca studente a Mestre e molto legato anche sul piano amicale a ZORZI e SICILIANO, dopo essere stato coinvolto da dalla personalità carismatica di ZORZI nell'esecuzione degli attentati di Trieste e Gorizia, si era a fatica ma progressivamente e poi con sempre maggior decisione staccato dal gruppo giungendo infine a rompere ogni passato legame con i suoi ex-camerati e a simpatizzare addirittura per l'area politica opposta. Nel 1972, consapevole del pericolo ancora che ancora rappresentava la struttura di Ordine Nuovo in cui aveva militato, aveva rilasciato alcune interviste a giornali di sinistra nell'intento di lanciare un allarme che potesse far comprendere anche all'opinione pubblica tali pericoli. Per ragioni umanamente comprensibili, legate sia al timore di rappresaglie sia alla scelta di evitare gravi conseguenze giudiziarie e forse un arresto che avrebbe troncato le sue nuove esperienze personali e lavorative, Giancarlo VIANELLO non 103 104 aveva reso pubbliche in quei frangenti le sue corresponsabilità in merito ad alcuni reati consumatisi all'interno del gruppo. Giancarlo VIANELLO, convocato nell'autunno del 1994 dopo che la collaborazione di Martino SICILIANO aveva reso palesi le sue responsabilità, non ha avuto difficoltà, venute anche ormai meno le esigenze di autotutela ora accennate, a ripercorrere interamente dinanzi a questo Ufficio la sua esperienza all'interno di Ordine Nuovo, compresi i reati commessi, fornendo così una prova determinante della credibilità del più ampio racconto di SICILIANO. Ecco il racconto di Giancarlo VIANELLO sulla comparsa delle armi nel gruppo: “””....Nel gruppo di Mestre, alcune armi comparvero per la prima volta solo intorno al marzo del 1969 e cioè dopo l'iscrizione di Delfo all'Università di Napoli e il salto di qualità che egli proponeva in occasione dei suoi rientri a Mestre. Quando tornava a Mestre, egli dormiva in una stanza della sede di Via Mestrina in quanto mi sembra che la sua famiglia si fosse trasferita all'estero per ragioni legate al lavoro del padre. Le armi furono procurate da Zorzi e per la verità erano residuati di guerra non in buone condizioni, anche se posso dire questo sino a quando io rimasi nel gruppo e non in relazione ai tempi successivi. Io ricordo un MAB, uno STEN e una MACHINE PISTOL tedesca. Credo che vi fossero anche delle, pistole, anche se non le ricordo con precisione, come invece ricordo bene le armi lunghe che ho menzionato. Ricordo invece bene alcuni silenziatori, direi tre o quattro, che servivano certamente per pistole. In questo caso non si trattava di residuati o di prodotti militari, ma certamente di strumenti di fabbricazione artigianale e lo posso dire con sicurezza in quanto si vedeva benissimo che non avevano origine industriale. Non sono però in grado di dire come fossero realizzati e quale materiale interno contenessero. Queste armi transitavano nel gruppo, ricordo che una volta le vidi in Via Mestrina e un paio di volte Delfo Zorzi me le affidò contenute in una borsa venendo poi a riprenderle nel giro di poco tempo. Io, in queste occasioni, tenevo la borsa sotto il mio letto e per precauzione ho sempre aperto la borsa e posso quindi dire con certezza che non conteneva esplosivo, in quanto verificavo il contenuto appunto per evitare dei rischi di esplosione accidentale. Non posso dire con certezza quanti di noi abbiano visto o detenuto queste armi in quanto il rapporto non era, per così dire, di gruppo, ma un rapporto di Delfo con le singole persone che ho citato e quindi senza momenti di particolare informazione reciproca su questi argomenti.... Quando vidi le armi vidi anche dei proiettili e ricordo che notai che si trattava di proiettili di calibro non 104 corrispondente alle armi. Ricordo che questi proiettili erano contenuti in una cassetta portamunizioni di tipo militare e del classico colore verde-oliva, del tutto analoghe a quelle che avrei poi visto in occasione degli episodi di Trieste e Gorizia. Ricordo che insieme alle armi vidi una sola cassetta portamunizioni....””” (VIANELLO, 19.11.1994, ff.4 e 5). In un successivo interrogatorio, Giancarlo VIANELLO ha precisato che la Machinen Pistol tedesca di cui il gruppo mestrino di Ordine Nuovo disponeva era esattamente il fucile mitragliatore SCHMEISSER MG42 divenuto famoso durante la seconda guerra mondiale e soprannominato "la sega di Hitler" per la sua potenzialità offensiva (interr. 11.7.1995, f.3). Ed ha inoltre ricordato che erano disponibili anche molti nastri di munizioni per tale arma (interr.10.12.1996, f.2; sul punto si veda anche la conferma di Martino SICILIANO, interr.10.10.1995 f.2). Tale precisazione è importante perchè lo SCHMEISSER MG42 era proprio una delle armi visionate da Carlo DIGILIO durante la sua prima "consulenza" al casolare di Paese e da tale arma DIGILIO aveva sottratto, all'insaputa di ZORZI e VENTURA, il percussore al fine di mostrarlo al prof. Lino FRANCO quale prova degli esiti della sua missione per la struttura informativa statunitense e della potenzialità militare del gruppo che aveva la sua base nel casolare (int.DIGILIO, 19.2.1994, ff.3 e 4). Inoltre, in anni molto precedenti alle dichiarazioni rese nel corso della presente istruttoria e cioè nel processo relativo all'attentato di Peteano, Vincenzo VINCIGUERRA aveva dichiarato di avere incontrato Delfo ZORZI, a Venezia all'inizio degli anni '70, mentre questi stava trasportando una valigia piena di munizioni proprio per la mitragliatrice MG42 (int. VINCIGUERRA al G.I. di Brescia, 2.7.1985, f.5). Tale dichiarazione, resa in tempi non sospetti e costituente un vero riscontro anticipato, evidenzia come la sorte processuale di Delfo ZORZI, imputato nel processo di Peteano di costituzione di banda armata e altri reati strumentali e fortunosamente assolto in appello, avrebbe potuto essere diversa se la voce di VINCIGUERRA, benchè ancora isolata in assenza delle odierne dichiarazioni degli altri ex-militanti di Ordine Nuovo, fosse stata ascoltata con maggiore attenzione. Altri due testimoni hanno fatto cenno alla dotazione militare della struttura di Mestre/Venezia. Piero ANDREATTA, gravitante all'epoca intorno al gruppo di Mestre ed una delle persone arrestate nell'autunno del 1996 per favoreggiamento aggravato nei confronti di Delfo ZORZI e del dr. MAGGI, nell'interrogatorio reso in data 26.5.1995 dinanzi a questo Ufficio e al P.M., aveva ammesso di avere visto la gelignite avvolta in carta 105 106 rossa utilizzata per l'attentato del marzo 1970 al COIN di Mestre (gelignite proveniente certamente dal deposito di Delfo ZORZI) e aveva altresì ammesso di avere rimesso personalmente in contatto, nel gennaio 1995, Delfo ZORZI con il dr. MAGGI quando quest'ultimo, dinanzi all'incombere delle indagini del R.O.S. Carabinieri, stava attraversando una grave crisi. In data 31.5.1995 poi, dinanzi al solo P.M. di Milano, Piero ANDREATTA aveva iniziato a parlare di un grosso carico di armi pervenuto a Mestre, intorno al 1967, al gruppo di Ordine Nuovo e di cui si era occupato Leopoldo BERGANTIN, soggetto molto legato a Delfo ZORZI e suicidatosi alcuni anni or sono. Parte di tale ingente carico di armi era stato poi smistato al gruppo di Verona di MASSAGRANDE e SOFFIATI (interr. ANDREATTA, 31.5.1995, f.3). Dopo tali prime ammissioni, Piero ANDREATTA, risucchiato dal carisma ideologico e probabilmente anche economico di Delfo ZORZI in grado di rendersi presente anche dal lontano Giappone, ha interrotto qualsiasi forma di collaborazione chiudendosi in una posizione assolutamente negativa anche nel periodo del suo arresto nell'estate del 1996. Giulio NOE', altro giovane gravitante all'inizio intorno al gruppo di Mestre e staccatosi dallo stesso dopo uno sfortunato progetto di attentato alla sede del P.C.I. di Piazza ferretto (il piccolo ordigno che stava confezionando era esploso accidentalmente nella sua abitazione ferendolo gravemente ad una mano; cfr. interr. SICILIANO, 22.8.1996 ff.1 e 2), ha parlato di un altro episodio significativo. Una sera, a cavallo degli anni '70, un emissario del gruppo si era presentato a casa di Piercarlo MONTAGNER (un altro dei fiancheggiatori di Delfo ZORZI arrestato nell'estate del 1996) con una borsa di armi, ma questi, forse preso da timore, si era rifiutato di custodire il materiale (deposizione NOE', 18.11.1995, f.3). Tale episodio è del tutto in sintonia con quanto riferito da Martino SICILIANO sin dai primi interrogatori in relazione alla figura di MONTAGNER che, dopo una prima fase in cui si era reso disponibile ad una militanza operativa (sino a partecipare insieme a ZORZI e SICILIANO alle prove di attivazione di un congegno innescante elettrico nella palestra FIAMMA YAMATO (interr. SICILIANO, 20.3.1996, ff.3 e 4), aveva abbandonato tale ruolo rimanendo comunque disponibile, sino a tempi recentissimi, a svolgere funzioni di informatore in merito agli sviluppi delle indagini e di favoreggiatore nei confronti di Delfo ZORZI. Carlo DIGILIO, come meglio si dirà nel paragrafo relativo al capo 7) di imputazione, ha confermato di avere svolto il ruolo di "armaiolo" del gruppo sfruttando le conoscenze tecniche che gli derivavano dal suo impiego presso il Poligono di Tiro di Venezia. Ha fornito, in relazione alla circolazione dei silenziatori, una versione che appare un po' riduttiva rispetto al racconto di Martino SICILIANO, ammettendo di averne maneggiati un notevole numero, circa una trentina, passandoli al dr. MAGGI, a Delfo 106 ZORZI e ad altri componenti del gruppo, ma che il suo compito non era mai stato costruirli, bensì solamente verificarne la fattura e il funzionamento in quanto tali silenziatori provenivano, già pronti, da ambienti croati/ustascia tramite Roberto ROTELLI (interr. DIGILIO, 6.11.1995, f.3, e 4.1.1996, f.4). A titolo di esempio dell'attività svolta da Carlo DIGILIO in favore del gruppo in materia di armi, merita di essere riportato il passo dell'interrogatorio in data 30.8.1996 in cui egli racconta le modalità di acquisizione da parte del gruppo di un buon quantitativo di armi di proprietà del prof. Lino FRANCO, informatore della struttura statunitense e animatore del gruppo SIGFRIED a Vittorio Veneto, il quale disponeva, nella zona di Pian del Cansiglio, di un autonomo deposito di armi provenienti dall'armamento della X MAS e della Repubblica Sociale. “””....Sempre in tema di bombe a mano, posso dire che la prima volta che io mi recai dal prof.Lino FRANCO, poco tempo prima di andare al casolare di Paese, egli mi mostrò in un cassetto di un mobile di casa sua, oltre ad una baionetta, alcune bombe a mano tonde di fabbricazione italiana, modello Sipe o SRCM. Del resto, il prof. FRANCO disponeva di una buona dotazione logistica e il dr. MAGGI ebbe cura di tenere buoni contatti con lui, proprio al fine di chiedergli la cessione di parte della sua dotazione in cambio della garanzia della presenza di elementi efficienti e sicuri all'interno del gruppo mestrino. In questo modo a Mestre arrivò vario materiale, sia quando era ancora vivo il prof. FRANCO sia dopo la sua morte, grazie a suo cognato, che del resto aveva uno stabile riferimento lavorativo a Mestre nell'ambito del noleggio di bigliardini a bar e locali pubblici vari. Io non mi recai mai a Vittorio Veneto a prendere questo materiale, ma comunque vidi parte di questo materiale a Mestre in quanto ero incaricato, come sempre, di valutarlo e darne un giudizio tecnico. Io vidi materiale nella macchina che credo appartenesse al fratello di Delfo ZORZI, una macchina piccola, francese, di colore rosaceo, tipo Dyane, nonchè nella 1100 di MAGGI. Per valutare questo materiale, il punto di incontro per tre o quattro volte fu una strada isolata che costeggia un canale che si raggiunge partendo da piazza Barche in direzione laguna. Io vidi una pistola MAUSER cal.9, di grande valore commerciale, con un selettore che consentiva lo sparo a raffica, una Machine Pistole 44, sempre tedesca, con impugnatura in legno, cal. 8 curz, parecchie bombe a mano di fabbricazione italiana, una baionetta tedesca, qualche rotolo di miccia proveniente dal Carso, cartucce per fucile tedesco Mauser ancora sui loro nastri. Questi incontri avvennero a distanza di tempo, tra la fine degli anni '60 e comunque dopo gli incontri al casolare ed il 1970-1971 e cioè più o meno il periodo in cui il dr. MAGGI mi mostrò le mine anticarro. 107 108 Eravamo presenti appunto io, ZORZI e MAGGI, qualche volta Marcello SOFFIATI, il quale aveva anche l'incarico di riferire a MINETTO l'andamento di queste cessioni, ed una volta vidi anche il fratello di ZORZI, che era un giovane biondo, alto, di corporatura atletica e di bell'aspetto. Era presente anche perchè Delfo ZORZI non aveva la patente. Era poi ZORZI a portare via il materiale dopo che io l'avevo esaminato. Ricordo che una volta venne MINETTO a Mestre e ci avvisò del fatto che alcune bombe a mano che avevamo ricevuto potevano essere pericolose perchè avariate. Avvisò separatamente sia me che MAGGI ed io confermai a MAGGI il pericolo poichè MINETTO, giustamente, mi aveva fatto rilevare che c'erano problemi collegati all'invecchiamento dell'innesco e bastava una scossa per far esplodere tutto....””” (DIGILIO, 30.8.1996, ff.2 e 3). Per quanto concerne l'esplosivo presente nella dotazione del gruppo è sufficiente in questa sede ricordare (posto che l'argomento sarà specificamente e direttamente trattato, per la sua connessione con gli attentati del 12.12.1969, nell'indagine collegata in corso presso la Procura di Milano e nei relativi provvedimenti) che Carlo DIGILIO ha confessato di avere fatto da intermediario, in prossimità del periodo in cui stavano maturando i più gravi attentati, nell'acquisto del contrabbandiere Roberto ROTELLI di una grande quantità (fra i 150 e i 200 candelotti) di gelignite avvolta in carta color rosso mattone e cioè la medesima gelignite utilizzata per gli attentati di Trieste e Gorizia e molto probabilmente anche per i tragici avvenimenti successivi. Tali candelotti di gelignite, in merito alla conservazione dei quali DIGILIO aveva fornito ancora una volta la propria consulenza tecnica spiegando come evitarne il trasudamento e come custodirli senza pericolo, erano stati ritirati e occultati da Delfo ZORZI venendo così a costituire la più micidiale dotazione del gruppo (interr. DIGILIO, 5.1.1996, ff.2 e 3, e 13.1.1996, ff.2 e 3). Si ricordi infine, a titolo di riscontro, che proprio nel periodo in cui, secondo i collaboratori e i testimoni, il gruppo stava formando la sua dotazione e cioè nel novembre 1968, prima Giampiero MARIGA (persona gravitante intorno al gruppo di Mestre) e subito dopo Delfo ZORZI erano stati fermati e arrestati perchè trovati in possesso di alcune armi e di una piccola quantità di esplosivo (cfr. rapporto del Commissariato P.S. di Mestre in data 17.11.1968). Era stato quello, e cioè i primi giorni dell'arresto di ZORZI, il momento cruciale in cui, secondo il racconto di Vincenzo VINCIGUERRA, il giovane e determinato militante mestrino era stato avvicinato da personale dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno e da questi convinto dell'opportunità di non "combattere" in proprio con il rischio di essere, come in quel caso, arrestati, ma di continuare la battaglia anticomunista alle dipendenze di un apparato dello Stato che poteva dare migliori garanzie e, non troppo diversamente da 108 Ordine Nuovo, aveva ugualmente a cuore la difesa dei valori dell'Occidente (interr. VINCIGUERRA, 3.3.1993, ff.2-3). E' questo probabilmente il momento della nascita o del rinsaldarsi dei rapporti fra alcuni elementi dell'estrema destra eversiva, non solo in Veneto ma anche e soprattutto a Roma, e gli emissari dei servizi di sicurezza interni, alleanza che sarebbe stata funzionale alla campagna di attentati che era prossima ad iniziare e al successivo, ma preordinato indirizzo delle indagini verso aree politiche di segno opposto ed estranee a tali avvenimenti. Alla luce del racconto di VINCIGUERRA, non è forse un caso che Delfo ZORZI, interrogato da personale della Polizia di Stato la notte del 17.11.1968, abbia avuto un momento di cedimento ammettendo che un deposito di armi del gruppo esisteva e si trovava probabilmente in provincia di Treviso. La località di Paese, dove all'epoca vi era il casolare, si trova appunto alle porte di Treviso, anche se l'accenno a quel deposito di armi non risulta sviluppato nelle successive indagini dell'epoca e la sua esistenza sarebbe rimasta ignota per 25 anni sino alla collaborazione di Carlo DIGILIO. 109 110 14 LA DEVASTAZIONE DELLA SEDE DEL P.C.I. DI CAMPALTO AVVENUTA IL 9.10.1968 L’azione contro la sede del P.C.I. di Campalto, nei pressi di Mestre, più legata ad una pratica di violenza politica che ad un programma terroristico, ma comunque indicativa della determinazione del gruppo di Delfo ZORZI, è stata così rievocata da Martino SICILIANO: “””....L'azione contro la sezione del P.C.I. di Campalto, di cui ho già fatto cenno a pag.4 del mio memoriale, fu commessa nell'autunno del 1968 da ZORZI, MARIGA, me stesso, e da una quarta persona che potrebbe essere Piercarlo MONTAGNER, anche se non ne ho l'assoluta certezza. Fu un'azione estemporanea legata allo scontro politico dell'epoca. Eravamo con l'autovettura GIULIA di MARIGA e attendemmo nei pressi della sezione sino alla chiusura di un bar vicino perchè in tal modo potevamo agire indisturbati. Erano quindi le prime ore del mattino, sfondammo la porta, danneggiammo i mobili e il materiale propagandistico, svuotammo gli schedari e incendiammo tale materiale e i mobili con della benzina che avevamo portato con noi. Asportammo la bandiera del Partito Comunista e ci allontanammo. Avevamo il volto coperto con calze da donna di nylon. Sono convinto che la bandiera del Partito Comunista avvolgesse parte delle armi ritrovate poco tempo dopo a MARIGA al casello di Mestre sulla sua stessa GIULIA. Fu lo stesso MARIGA, pochi giorni dopo la sua scarcerazione, a riferirmi tale circostanza, anche se è possibile che gli operanti non si fossero accorti che nella vettura si trovasse la bandiera in parte rovinata.“”” (SICILIANO, int.6.10.1995, ff-2-3) In un successivo interrogatorio, Martino SICILIANO ha precisato che l’obiettivo era stato individuato da Giampietro MARIGA, che conosceva molto bene la zona, e che la Sezione era stata messa a soqquadro anche per sottrarre l’elenco degli iscritti poichè alcuni militanti stavano svolgendo opera di “controinformazione” sulle attività di Ordine Nuovo (int. 9.8.1997, f.3). La descrizione dell’episodio offerta da Martino SICILIANO corrisponde perfettamente al contenuto degli atti redatti all’epoca dalla Polizia (cfr. nota della Digos di Venezia in data 3.5.1995 e atti allegati, vol.8, fasc.3). L’azione, come si desume dagli articoli di stampa acquisiti dalla Digos di Venezia, aveva suscitato notevoli reazioni a livello locale sia per l’entità dei danni subìti dalla Sezione (per circa 800.000 lire, all’epoca) sia per lo sfregio rappresentato dall’asportazione della bandiera del Partito. 110 Anche in relazione a tale episodio le ammissioni di Martino SICILIANO non sono rimaste un dato isolato e privo di riscontro. In primo luogo Giancarlo VIANELLO ha ricordato di avere ricevuto da Martino SICILIANO, già nell’immediatezza del fatto, la confidenza della sua partecipazione, insieme a Delfo ZORZI, ad un’azione di danneggiamento contro una sede del P.C.I. nei pressi di Mestre (int. 11.7.1995, f.2). Anche Roberto MAGGIORI, uno dei componenti minori del gruppo di Mestre presto allontanatosi dalla politica attiva, ha riferito di avere subito appreso nell’ambiente che l’azione era stata compiuta da Delfo ZORZI e dalle persone a lui vicine (dep. 22.4.1995, f.5; 6.5.1995, f.4). Inoltre Giuliano CAMPANER, che ha ammesso di avere partecipato con ZORZI e ANDREATTA, il 25.4.1967, ad un’analoga anche se meno grave irruzione contro la sede del P.C.I. in località Tessera, ha fornito così un indiretto elemento di riscontro (dep. al G.I., 27.4.1995, f.3; al P.M., 9.6.1995, f.1) che merita di essere ricordato quasi a titolo di curiosità solo perchè l’azione contro la sede di Tessera e, nell’occasione, la distruzione di un ritratto di Togliatti sembra essere stata la sola azione di violenza ammessa da Delfo ZORZI in occasione delle sue spontanee dichiarazioni a Parigi nel dicembre 1995. Si ricordi peraltro che pochi giorni dopo l’azione contro la sede di Campalto, il 16.11.1968, Delfo ZORZI e Giampietro MARIGA erano stati arrestati per la detenzione illegale di alcune armi e di una piccola quantità di esplosivo (cfr. rapporto del Commissariato di P.S. di Mestre in data 17.11.1968, vol19, fasc.2). Interrogato nella notte da personale della Polizia, Delfo ZORZI aveva avuto un momento di evidente confusione e cedimento, non solo accennando ad un deposito di armi esistente nella provincia di Treviso (certamente il casolare di Paese), ma anche accusando MARIGA di avere partecipato, mascherato con una calza di nylon da donna, all’incendio alla Sezione di Campalto e fornendo altresì a chi lo interrogava altre notizie compromettenti riguardanti il camerata di Mantova Roberto BESUTTI. Giampietro MARIGA era stato quindi incriminato per l’azione del 9.10.1968 contro la sede di Campalto ed era stato poi prosciolto solo a seguito della ritrattazione di Delfo ZORZI in sede processuale. Alla luce di tali circostanze e della situazione di pressione psicologica in cui si trovava ZORZI, non sembra un’affermazione azzardata quella di Vincenzo VINCIGUERRA secondo cui proprio l’arresto del novembre 1968 sarebbe stato l’inizio dell’avvicinamento di ZORZI da parte di funzionari dell’Ufficio Affari Riservati che gli avrebbero proposto, ricevendo una risposta positiva, di non continuare ad agire in proprio, rischiando arresti e denunce, ma di unirsi invece ad un apparato istituzionale nella comune lotta contro il pericolo comunista (int. VINCIGUERRA, 3.3.1993, f.2). 111 112 Concludendo comunque sul punto, i reati di danneggiamento e incendio connessi all’episodio di Campalto e contestati anche a Piercarlo MONTAGNER, che pure ha negato ogni responsabilità, devono essere dichiarati estinti per intervenuta prescrizione. 112 15 L’ATTENTATO IN DANNO DELLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE E L’ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE ITALO-JUGOSLAVO IN LOCALITA' MONTESANTO DI GORIZIA L'attentato alla Scuola Slovena di Trieste era già stato oggetto di interesse nel corso dell'istruttoria contro FREDA, VENTURA e gli altri componenti della cellula padovana condotte dal G.I. dr. D'Ambrosio in quanto gli inquirenti avevano già sospettato un collegamento fra tale grave episodio e gli attentati del 12.12.1969 ed in quanto uno dei possibili testimoni, l'avv. Gabriele FORZIATI di Trieste, entrato in rotta di collisione con i suoi ex-camerati di Ordine Nuovo e quindi soggetto passibile di un cedimento dinanzi all'A.G., era stato per lungo tempo fatto sparire sottraendolo alle convocazioni dei giudici. Si era quindi avuta la netta sensazione (l'avv. FORZIATI era stato, fra l'altro, vittima di un tentativo di estorsione da parte di Franco FREDA) che l'episodio di Trieste fosse maturato nello stesso ambiente in cui erano stati ideati e organizzati gli altri attentati della campagna terroristica della primavera-inverno 1969. Sintetizzando quanto emerge dai rapporti giudiziari e dalle perizie tecniche relative ai due attentati, è sufficente in questa sede ricordare che la mattina del 4.10.1969 (un lunedì) il custode della scuola elementare di lingua slovena, sita in Via Caravaggio 4 a Trieste, scoprì sul davanzale di una finestra una cassetta portamunizioni militare con scritte in inglese avvolta da filo zincato. Quando i Carabinieri intervenuti sollevarono il coperchio, la cassetta risultò contenere sei candelotti di gelignite spezzati a metà, avvolti in carta paraffinata rossa, e un congegno ad orologeria formato da una pila, due detonatori e un orologio da polso con una vite inserita nel quadrante e collegata ai fili elettrici a loro volta collegati ai detonatori (cfr. rapporto riassuntivo del Nucleo Investigativo Carabinieri di Trieste in data 2.2.1970). Ai piedi dell'edificio venivano inoltre rinvenuti otto foglietti di carta con scritte in stampatello di carattere antislavo quali "NO AL VIAGGIO DI SARAGAT IN JUGOSLAVIA", "NO ALLE FOIBE" e così via, firmati FRONTE ANTI SLAVO. La perizia disposta dall'A.G. di Trieste evidenziò che la cassetta conteneva complessivamente kg. 5,700 di gelignite e che l'ordigno non aveva funzionato per un difetto tecnico connesso o al basso voltaggio della pila elettrica o a un cattivo contatto fra i fili conduttori o fra la lancetta dell'orologio e la vite inserita nel quadrante. L'ordigno inesploso deposto vicino al cippo di confine italo-jugoslavo a Gorizia veniva invece rinvenuto casualmente solo in data 6.11.1969, in occasione di lavori di potatura di alcuni alberi eseguiti da operai italiani. 113 114 La cassetta rinvenuta presentava le medesime caratteristiche di quella deposta dinanzi alla scuola di Trieste e risultava contenere un ordigno anch'esso del tutto identico aquello di Trieste, composto da innesco a orologeria e candelotti di gelignite per il peso complessivo di kg. 1,500 (cfr. rapporto riassuntivo del Nucleo Investigativo Carabinieri di Gorizia in data 5.3.1970). Anche in tale occasione venivano rinvenute nelle vicinanze della cassetta cinque foglietti con slogans antislavi. L'ordigno rinvenuto sulla linea di confine veniva quasi immediatamente fatto brillare per ragioni di sicurezza dagli artificeri intervenuti sul posto e l'esplosione risultava di tale potenza da far saltare i vetri di numerosi edifici nel raggio di un centinaio di metri sia in territorio italiano sia in territorio jugoslavo e da danneggiare comunque gravemente il muro di sostegno della rete di confine. Del resto, per comprendere la potenzialità offensiva dei due ordigni deposti a Trieste e a Gorizia, basti pensare che essi complessivamente contenevano una quantità di esplosivo pari a oltre quattro volte quello contenuto nella cassetta metallica lasciata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. L'iter processuale delle istruttorie, che all'epoca avevano interessato il solo episodio di Trieste toccando comunque, anche se con pochi elementi di prova, l'ambiente politico/eversivo che alla luce delle nuove risultanze risulta effettivamente coinvolto nei fatti, era stato alquanto accidentato. In un primo momento, sulla base di pur vaghe dichiarazioni accusatorie di tale SEVERI Antonio, appartenente all'area di estrema destra di Trieste, erano stati indiziati gli ordinovisti triestini NEAMI, BRESSAN e FERRARO (i cui nomi ricorrono nelle attuali dichiarazioni di SICILIANO e VIANELLO come effettivi basisti dell'attentato) i quali si erano dati a precipitosa fuga rifugiandosi presso un ordinovista di Torino. I tre, in seguito, erano stati tuttavia prosciolti stante la labilità degli elementi a loro carico. In seguito, dopo il rientro dell'avv. FORZIATI dal suo "soggiorno" in Spagna, questi, sentito dall'A.G. di Trieste e di Milano, aveva dichiarato di avere appreso da un altro componente del gruppo triestino, Manlio PORTOLAN, che autori dell'attentato erano stati due ordinovisti di Mestre e cioè Delfo ZORZI e Martino SICILIANO. Anche tale seconda istruttoria si era tuttavia conclusa con un proscioglimento poichè le indagini a Mestre erano state assai superficiali e non era stato possibile acquisire elementi più consistenti. Anche alla luce delle successive dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA, che aveva indicato quale profilo non sufficientemente esplorato dalle indagini l'unità di azione, a partire dalla fine degli anni '60, del gruppo mestrino e del gruppo triestino, era comunque sempre rimasto il fondato sospetto che le indagini iniziali avessero imboccato, anche se non coltivato fino in fondo, la pista giusta. 114 L'attentato di Trieste e quello contemporaneo di Gorizia sono stati i primi episodi di cui Martino SICILIANO ha parlato al momento della sua scelta di collaborazione sia per l'intrinseca gravità dei fatti sia per la netta percezione che egli aveva immediatamente avuto che essi fossero collegati agli attentati del 12.12.1969. Vi era infatti la presenza dei candelotti di gelignite, vi era l'utilizzo di cassette metalliche (seppur portamunizioni e non portavalori e quindi diverse da quelle usate per il fatti del 12.12.1969) che avrebbero dovuto aumentare la potenza della deflagrazione; vi era la netta sensazione che la spedizione a Trieste e Gorizia costituisse una prova di affidabilità e una sperimentazione degli uomini e dei mezzi in vista di azioni ancora più gravi. Non a caso Martino SICILIANO, forse giudicato non sufficientemente determinato o forse troppo facilmente individuabile in caso di indagini abbastanza approfondite (interr. SICILIANO, 12.9.1996, f.5), era stato escluso dopo gli attentati di ottobre dal nucleo operativo. Ecco il racconto in merito ai due attentati reso immediatamente da SICILIANO sin dai primi interrogatori: “”” ATTENTATO ALLA SCUOLA SLOVENA DI TRIESTE - OTTOBRE 1969 Il 2 ottobre 1969 ZORZI mi parlò della necessità di effettuare un atto dimostrativo al confine orientale in funzione di contestazione alla preannunciata visita di Saragat a Tito. La visita poi non si verificò comunque, ma per motivi che non attenevano al nostro fallito attentato Fui incaricato da lui di realizzare col pantografo dei volantini manoscritti antiTito da lasciare in loco. Ne parlò solo a, me ma ci mettemmo d'accordo per partire il giorno dopo, insieme a Giancarlo VIANELLO, con la macchina di MAGGI. L'appuntamento era a Piazzale Roma, dove io, Zorzi e Vianello arrivammo in autobus e presso il garage San Marco c'era la macchina di Maggi. Nel baule della stessa vi erano due contenitori metallici del tipo per nastri da mitragliatrice, di colore grigio/verde, riempiti di bastoni di gelignite con un timer già approntato al quale mancava solamente di essere attaccata la batteria. Chiesi a Zorzi perchè vi erano due ordigni al posto di uno e mi risponde che uno dovevamo deporlo a Trieste e l'altro a Gorizia. Preciso che i soldi per la benzina, l'autostrada e il mangiare furono forniti da Maggi. Zorzi, poichè glielo chiesi, mi disse che gli ordigni erano stati preparati dallo ZIO OTTO che ribadisco essere DIGILIO.... Poichè avevo paura di poter saltare in aria innescando l'ordigno, espressi le mie preoccupazioni a ZORZI il 115 116 quale mi tranquillizzo dicendomi che tutto era stato preparato dalla solita persona.... Io non sapevo come effettuare il collegamento dei timers agli ordigni, ma lo ZORZI mi spiegò come i due poli dovessero essere collegati alle batterie. Non sono in grado di spiegare perchè fossi stato prescelto. Saliti in macchina andiamo a TRIESTE ove abbiamo appuntamento con dei locali e cioè NEAMI e PORTOLAN, quest'ultimo ci portò a casa della nonna o della zia, deceduta da poco per cui la casa era libera e dove fu effettuato il collegamento del primo ordigno. Dagli stessi siamo stati chiamati a questa scuola di lingue slovena ove l'ordigno è stato collocato se non erro su una finestra. Non ricordò chi lo collocò, io ho lasciato nelle adiacenze i volantini. Prendo visione delle fotografie contenute nel fascicolo originale dei rilievi tecnici del procedimento relativo all'attentato alla scuola slovena. Riconosco i fogliettini con scritte che furono redatti da me con scritte antislave ed abbandonati sul posto. Io avevo iniziato a scrivere i foglietti con un pantografo, ma dopo poco mi stufai e continuai a scriverli a mano a stampatello.... Riconosco altresì la cassetta portamunizioni, i candelotti e il congegno di accensione, quest'ultimo che ebbi occasione do osservare da vicino prima di effettuare personalmente il collegamento dei fili. L'orologio era stato munito di un perno per costituire il contatto. Eravamo convinti, andando via, di sentire un boato che avrebbe dovuto verificarsi quando noi uscendo da Trieste saremmo stati ormai sulla strada per Gorizia. Il tempo programmato non era molto, meno di un'ora, forse 40 o 45 minuti, ma comunque non sentimmo nulla. Prendo atto che il congegno non esplose in quanto la batteria era quasi del tutto scarica e che ciò è stato accertato dalla perizia. In merito non so cosa dire; io ero convinto che il congegno esplodesse tanto è vero che ho avuto paura di saltare in aria innescandolo, ma evidentemente qualcuno aveva programmato l'azione in modo diverso perchè mi sembra difficile che possa avvenire un errore del genere. Come è noto, io e Delfo Zorzi, sulla base delle dichiarazioni di Gabriele FORZIATI, fummo indiziati in istruttoria di tale attentato doversi anni dopo lo stesso. Fummo prosciolti, ma Forziati in realtà aveva detto il vero. Egli non aveva avuto alcun ruolo nella vicenda, ma evidentemente nell'ambiente di Trieste, che era piccolo, aveva avuto delle confidenze esatte. Subì anche una bastonatura per ritorsione che proveniva ovviamente dall'ambiente di Ordine Nuovo di Trieste. 116 Preciso che sui quotidiani locali apparve la notizia che la bomba avrebbe dovuto esplodere intorno a mezzogiorno causando vittime fra i bambini che frequentavano la scuola. Ciò non è assolutamente esatto perchè l'ora prevista di scoppio non era certo mezzogiorno, ma intorno a mezzanotte e cioè poco dopo che l'ordigno era stato deposto e innescato. D'altronde la posizione del perno non consente un periodo di attesa superiore ad un'ora in quanto veniva usato un comune orologio da polso. ATTENTATO AL CIPPO DI CONFINE CON LA JUGOSLAVIA A GORIZIA Da Trieste Neami e Portolan ci accompagnarono alla strada per Gorizia ove arrivammo con la luce e quindi ci intrattenemmo in un bar onde aspettare il buio e innescare l'ordigno in macchina. Non avemmo appoggi locali. Fu scelto il cippo situato di fronte alla vecchia stazione ferroviaria. Il luogo era adatto anche perchè la strada era poco illuminata. Nei pressi del cippo c'era la rete metallica che segnava il confine. Non sono in grado di ricordare chi depose la cassetta, forse fui io stesso. Fui invece certamente io a lasciare lì vicino dei volantini del tutto analoghi a quelli lasciati a Trieste, anche questi da me manoscritti. Il congegno deposto a Gorizia, per quanto ricordo, era del tutto identico a quello deposto a Trieste. Sapemmo che anche questo ordigno non esplose in quanto non apparve alcuna notizia sui giornali e Neami e Portolan ci confermarono poi la notizia e a distanza di qualche settimana comparve sui giornali la notizia del ritrovamento dell'ordigno inesploso. Io e Zorzi commentammo il fallimento dei due attentati attribuendolo ad un errore nostro e cioè di manipolazione dell'ordigno al momento dell'innesco. Non pensammo ad un difetto originario dell'ordigno....””” (SICILIANO, 18.10.1994, ff.3-5). Il dr. Carlo Maria MAGGI era perfettamente consapevole delle finalità della spedizione e dei motivi per cui la sua autovettura veniva utilizzata: “””....posso precisare che il dr. Maggi, prestandoci la vettura per andare a Trieste e a Gorizia, era perfettamente a conoscenza degli attentati che dovevano essere compiuti e dei loro obiettivi. Preciso che quando arrivammo al Garage Sam Marco, Maggi non c'era e la macchina era parcheggiata nel garage con le chiavi nel quadro in quanto era obbligatorio lasciarvele....””” (SICILIANO, 19.10.1994, f.8). 117 118 In data 20.10.1994, Martino SICILIANO ha fornito ulteriori precisazioni in particolare quelle importantissime relative al color rosso della carta che avvolgeva la gelignite: “””....In merito agli attentati alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine a Gorizia, faccio presente che Zorzi mi disse, nel corso del viaggio a Trieste, che nel caso in cui l'effetto sperato sull'opinione pubblica non fosse stato sufficiente, era già stato approntato un terzo ordigno per il sacrario di Redipuglia, ove sono sepolti i caduti della prima guerra mondiale, attentato che ovviamente avrebbe dovuto essere attribuito ai gruppi sloveni di sinistra. Sempre in merito agli attentati di Trieste e Gorizia, posso precisare che le due cassette metalliche contenenti l'esplosivo erano una un po' più grande dell'altra, ma comunque molto simili e di colore e di chiusura uguali. I candelotti di gelignite erano avvolti in carta color rosso di sfumatura intorno al mattone/bordeaux. Posso inoltre precisare che i detonatori erano del tipo elettrico al fulminato di mercurio. Voglio aggiungere che, in occasione dell'incriminazione per i fatti di Trieste e Gorizia, io fornii al giudice istruttore un alibi falso affermando che quella sera mi trovavo a Trieste con una entreneuse originaria di Bolzano e che a Trieste aveva un bar-latteria. Io conoscevo effettivamente quella ragazza, che si chiamava Ivana Deck, nota come Ivonne, ma ovviamente quella sera non ero con lei....””” (SICILIANO, 20.10.1994). Durante e dopo la spedizione a Trieste e Gorizia, Delfo ZORZI aveva fatto a Martino SICILIANO discorsi ancora più inquietanti: vi erano ancora molti candelotti di gelignite e molte cassette metalliche utilizzabili per altre operazioni e ZIO OTTO (cioè Carlo DIGILIO) aveva migliorato e reso più sicuro il sistema di timeraggio cosicchè le nuove azioni in progettazione sarebbero state portate a termine in condizioni di assoluta affidabilità (interr. SICILIANO, 20.10.1994, f.3). Anche Giancarlo VIANELLO ha parlato sin dal primo interrogatorio degli attentati di Trieste e Gorizia, i fatti più gravi in cui durante la sua militanza era stato coinvolto sotto la spinta e la determinazione carismatica di Delfo ZORZI: “””....I due episodi di Trieste e di Gorizia nacquero in concomitanza con una visita del Presidente Saragat in Jugoslavia. Secondo Zorzi il senso di questi attentati non era tanto antislavo, quanto di creare tensione all'interno del nostro Paese con un ripetersi di episodi, magari non gravi ma diffusi, che colpissero l'opinione pubblica e provocassero disagio ed una richiesta comunque di maggior autorità e ordine.... L'organizzazione 118 degli episodi era dovuto anche nei suoi particolari a Delfo Zorzi, ma pur senza alcuna reticenza non riesco a ricordare se io ne avessi avuta qualche notizia in anticipo o al momento stesso della partenza. Comunque, il senso del mio coinvolgimento, e probabilmente di quello della ragazza che era con noi, era comunque pormi in una situazione tale da non potere più poi fare marcia indietro rispetto alla nostra militanza, essendo compartecipe di fatti di una certa gravità Martino Siciliano, invece, all'epoca non aveva mostrato segni di distacco dai progetti e dalle proposte di Zorzi. Ricordo comunque che partimmo in macchina da Venezia con una Fiat 1100 di colore chiaro, credo beige, del dr. Maggi, vettura che già conoscevo essendo stata usata in occasione di propaganda politica e attacchinaggi. Martino Siciliano, unico di noi ad avere la patente, guidava e oltre a lui c'eravamo Delfo, io e una ragazza della Campania in qualche modo collegata a Delfo e che non ebbi più occasione di vedere in seguito.... Io vidi per la prima volta le due cassette metalliche quando ci fermammo a Trieste per l'approntamento definitivo degli ordigni. Raggiungemmo infatti Trieste nel pomeriggio e ci aspettavano due triestini che conoscevo e che erano noti attivisti di Ordine Nuovo di quella città. Uno era sicuramente Francesco NEAMI e il secondo era un altro militante che conoscevo, ma non riesco assolutamente a ricordare se si trattasse di BRESSAN o di PORTOLAN. In sostanza c'erano due dei militanti triestini più conosciuti. Ricordo che ci incontrammo in un certo punto e li seguimmo in macchina fino ad una abitazione che per quanto ricordo era la casa vuota di una nonna o di una parente di uno dei due e quindi poteva essere utilizzata per approntare i congegni con tranquillità. Era una casa in città a Trieste. In questa casa Delfo Zorzi fece un primo collegamento dei congegni probabilmente non completo perchè ancora un certo tratto di strada ci divideva da Gorizia. Gli ordigni, per quanto ricordo, erano costituiti appunto da cassette metalliche con all'interno dei candelotti e un congegno di innesco formato da batteria e filo elettrico, detonatore e orologio o sveglia che fungeva da timer. Ricordo, per affermazione di Zorzi, che i candelotti erano di gelignite, ma non saprei descriverli in particolare perchè lividi al più per pochi attimi in quanto Zorzi si era appartato in un'altra stanza per armeggiare con essi. Ripartimmo da questo appartamento, che ricordo modesto, alla volta di Gorizia dove arrivammo solo noi quattro intorno all'ora di cena. C'era ancora movimento e ci recammo quindi a cena in una trattoria e poi al cinema all'ultimo spettacolo, cioè quello che inizia intorno alle 22.00/22.30, solo per tirare la mezzanotte e poterci muovere con più libertà.... Ricordo ancora molto bene quale fosse il film che vedemmo quella sera. Il cinema era a Gorizia-città e si trattava di un film e brevi episodi di carattere realistico, ma con toni surreali, a colori, credo americano, nel corso del quale 119 120 c'era ad esempio un episodio di questo genere: due innamorati, che si erano lasciati, si erano dato un appuntamento per molto tempo dopo e in un'altra città, e per la fretta di raggiungersi al momento convenuto si erano scontrati con le rispettive vetture rimanendo uccisi. Era un film con attori poco noti o che io non conoscevo. Terminato lo spettacolo ci portammo in una zona fuori città e isolata e al buio, all'interno della macchina e con la luce interna, Zorzi collegò l'ultimo contatto. Prendemmo poi una strada sterrata ove, ricordo, ebbi molta paura in quanto la macchina sobbalzava e con l'ordigno già innescato c'era il serio rischio di saltare per aria. Raggiungemmo il punto di confine con la Jugoslavia nei presso di una stazione ferroviaria. Zorzi scese e collocò personalmente, mostrando una notevole freddezza, l'ordigno nei pressi del cippo di confine jugoslavo, superando quindi da solo il cippo italiano e la cosiddetta zona di nessuno.... Ripartimmo rapidamente per Trieste, che raggiungemmo quindi intorno all'una di notte. Preciso che a Trieste, prima di raggiungere la casa della parente di uno dei due triestini, costoro ci avevano mostrato dove era la Scuola Slovena e quindi, dopo Gorizia, raggiungemmo il secondo obiettivo senza particolare difficoltà. Credo, anche se non ho un ricordo preciso, che come per l'episodio precedente, sia stato effettuato qualche minuto prima l'ultimo collegamento e poi Delfo depose l'ordigno in qualche punto presso la struttura della scuola. In questo caso ricordo che lasciammo un certo numero di bigliettini con scritte antislave nei pressi della scuola. Io li vidi per la prima volta poco prima dell'azione e ricordo che mi inquietai in quanto le iniziali del "Fronte Anti Slavo" citato negli stessi, erano le stesse della sigla "F.A.S - Fronte di Azione Studentesca" che avevamo usato per diffondere volantini di destra nelle scuole di Mestre e Venezia e ciò avrebbe potuto condurre le indagini fino a noi.... Ricordo un altro particolare e cioè che insieme all'ordigno fu deposto un contenitore con benzina che avrebbe dovuto, se fosse avvenuta l'esplosione, creare un incendio. Ripartimmo a rotta di collo per Venezia.... Posso ancora aggiungere che ebbi la sensazione che l'utilizzo di questa sigla "F.A.S." che almeno in un certo contesto era ben leggibile e l'utilizzo di una notevole quantità di esplosivo fossero un messaggio a referenti di Zorzi per rafforzare il senso della sua capacità operativa. Ritengo peraltro che gli ordigni non siano esplosi per un casuale malfunzionamento, ma che non dovevano esplodere per costituire proprio il messaggio di cui ho appena parlato, oltre naturalmente a rafforzare il coinvolgimento degli altri compartecipi....””” (VIANELLO, 19.11.1994). 120 Anche Giancarlo VIANELLO ha dichiarato di avere appreso da ZORZI che il congegno di innesco era dovuto all'aiuto fornito da "OTTO" e che la gelignite era custodita in un deposito segreto di Delfo ZORZI. Giancarlo VIANELLO è stato in grado di ricordare sia come si presentava la gelignite sia un altro importante particolare di riscontro e cioè la trama del film che il gruppo aveva visto quella sera a Gorizia in attesa di passare all'azione: “””....Mi sono ricordato, dopo il precedente interrogatorio, che i candelotti di gelignite erano avvolti con carta oleata di colore rosso scuro tendente al mattone o al bordeaux. E' questo un ricordo visivo netto, anche se non sono in grado di dire a quale momento della vicenda risalga e cioè a quale momento degli episodi, di cui ho parlato, dell'ottobre 1969. Comunque non avevo mai visto tali candelotti prima del viaggio a Trieste e Gorizia. Per quanto concerne la sosta a Gorizia in attesa del momento più opportuno per agire, posso confermare che assistemmo in città ad una proiezione cinematografica in un comune cinematografo che certamente non era una cineteca o simili. Ribadisco che il film era di produzione statunitense e che era un film ad episodi di carattere fantastico che rappresentava vicende grottesche o surreali. Mi sono ricordato di qualche frammento di un altro episodio che raccontava la vicenda di un automobilista decapitato in autostrada da lamiere trasportate da un camion. L'automobilista aveva proseguito la sua corsa senza testa provocando incidenti dovuti alla sorpresa degli altri automobilisti....””” (VIANELLO, 6.12.1994). In sostanza i due racconti di SICILIANO e VIANELLO, resi separatamente da parte di persone che avevano perso i contatti da oltre vent'anni, sono quasi integralmente sovrapponibili e danno quindi garanzia di piena affidabilità. L'unico lapsus di memoria, più che divergenza, consiste nel fatto che Martino SICILIANO, nella concitazione del primo interrogatorio in cui egli ha dovuto mettere a fuoco in poche ore i ricordi relativi a molti episodi lontanissimi nel tempo, ha collocato l'episodio di Gorizia come successivo, pur nell'ambito della stessa serata, a quello di Trieste. Sentito peraltro sul punto in data 25.1.1995, Martino SICILIANO ha ricordato che l'esatta scansione temporale dei fatti era quella descritta da Giancarlo VIANELLO. I particolari forniti dai due ex-militanti di Ordine Nuovo in merito alle caratteristiche dei due episodi coincidono inoltre perfettamente con quanto emerge dai rapporti giudiziari redatti nell'immediatezza dei fatti. 121 122 Perdipiù sia SICILIANO sia VIANELLO hanno riferito di avere assistito in un cinema di Gorizia, attendendo la notte e quindi il momento di passare all'azione, ad un film a carattere surreale e grottesco diviso in singoli episodi (interr. SICILIANO, 25.1.1995, f.2, e 8.11.1996, f.2; VIANELLO, 19.11.1994, f.7, e 10.12.1996, f.2). Tale film è certamente "La realtà romanzesca", un film ad episodi che era appunto in programmazione in quei giorni presso il Cinema Verdi di Gorizia, come si desume dai quotidiani locali dell'epoca, acquisiti da questo Ufficio tramite la Digos di Venezia. Tale riscontro conferma in modo assolutamente indiscutibile la presenza del gruppo, quella sera, a Gorizia. Carlo DIGILIO, completando il già ricco quadro probatorio relativo ai due attentati "preparatori", ha confermato che in quel periodo, in occasione di diversi incontri avvenuti a Mestre, svolgeva attività di "consulenza" in favore di Delfo ZORZI in merito alle tecniche più adeguate per l'innesco di ordigni esplosivi e che Delfo ZORZI gli aveva confidato di avere organizzato e personalmente partecipato all'attentato alla Scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine di Gorizia (interr. DIGILIO 12.11.1994 e memoriale allegato; 21.2.1997 f.3). Tali azioni, sempre secondo ZORZI, anche se gli attentati materialmente erano falliti, avevano avuto un effetto positivo per l'ambiente di destra del Veneto in termini di prstigio e di operatività e soprattutto avevano contribuito a meglio selezionare e coagulare il gruppo di militanti che ruotava intorno allo stesso ZORZI (interr. DIGILIO 13.1.1996 f.2). In relazione all'attentato do Gorizia, Delfo ZORZI si era vantato con DIGILIO di essersi portato personalmente sulla linea di confine e di avere deposto l'ordigno sfidando il pericolo di essere sorpreso da qualche pattuglia di "graniciari" (le guardie di confine jugoslave) che pattugliavano la zona (interr. DIGILIO 21.2.1997 f.2). Tali particolari corrispondono alle effettive modalità dell'attentato, oltre che alla assoluta determinazione di Delfo ZORZI quale emerge dagli atti, e corrispondono altresì alla descrizione della materiale esecuzione dell'attentato fornita da Giancarlo VIANELLO, il quale ha rievocato la "freddezza" dimostrata da ZORZI nell'avvicinarsi da solo alla linea di confine (interr. VIANELLO 19.11.1994 f.7) Infine, sul piano dei riscontri documentali, sono state acquisite al presente procedimento alcune copie di lettere inviate via telefax da Stefano TRINGALI a Delfo ZORZI, presso la sua residenza in Giappone, che erano state rinvenute casualmente e sequestrate dal Nucleo Regionale polizia tributaria della Guardia di Finanza di Firenze nell'abitazione di Roberto LAGNA (componente del gruppo di Delfo ZORZI, deceduto nel 1993) durante un'operazione in materia di evasione fiscale e di utilizzo di marchi falsi. Il contenuto di tali lettere, che attestano la costante opera di informazione svolta da TRINGALI in favore di ZORZI in merito a quasi tutte le indagini in materia di 122 eversione di destra in corso in Italia e in cui si fa cenno a molte cose "scottanti" affidate in passato da ZORZI a TRINGALI, sono state contestate a quest'ultimo, che si è avvalso della facoltà di non rispondere, nel corso degli interrogatori svolti in data 2.8.1996 e 16.10.1996 ai sensi dell'art.348 bis c.p.p. del 1930. In una di queste lettere, risalente all'estate del 1986, si fa chiaro riferimento al fatto che le indagini allora in corso potessero toccare gli elementi più "deboli" e cioè Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO in quanto "si tratta di roba molto vecchia" e gli inquirenti "cercano sempre un tuo (nota Ufficio: di Delfo ZORZI) parere nella faccenda (GO)". E' evidente la preoccupazione di TRINGALI che, a seguito di un possibile cedimento di SICILIANO e VIANELLO potesse emergere la responsabilità (il "parere") di ZORZI in relazione all'attentato di Gorizia. Inoltre nella stessa lettera si fa chiaro riferimento alla soddisfazione legata al successo per l'assoluzione di FREDA e VENTURA ai processi di Catanzaro e Bari, ma nel contempo alla preoccupazione per la possibilità che gli inquirenti, indagando sul gruppo mestrino, possano trovare "l'anello di congiunzione" tra "l'amico FRITZ" (quasi certamente Franco FREDA) e il dr. Carlo Maria MAGGI e cioè provare il collegamento che era mancato nelle prime istruttorie sugli attentati del 12.12.1969. Sono quindi espressi a chiare lettere da TRINGALI, sin dal 1988, i timori la cui fondatezza sarà confermata, quasi 10 anni dopo, dalla collaborazione di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO ed in questo senso il messaggio sequestrato costituisce un pieno riscontro anticipato e documentale a quelle che saranno le acquisizioni della presente istruttoria. In conclusione, a carico del dr. MAGGI, così come a carico di Delfo ZORZI (cui la contestazione è già stata effettuata con notifica al domicilio eletto presso il difensore), sussistono gravi indizi della sua corresponsabilità sul piano decisionale ed operativo nei due attentati dell'ottobre 1969. Tale circostanza non è di poco conto in quanto, pur non apparendo corretto contestare in relazione a tali episodi, come era avvenuto nelle prime istruttorie, il reato di tentata strage (in quanto l'ordigno doveva esplodere quando la scuola era chiusa), sono assai significativi gli indizi di continuità strategica e di progressione operativa fra tali due attentati e quelli del 12.12.1969. Ci riferiamo alle circostanze riferite da Martino SICILIANO ed esposte all'inizio di questo paragrafo e in particolare alla presenza a Trieste e Gorizia di candelotti di gelignite, contenenti binitrotoluene, esplosivo fortemente compatibile, in base alle perizie effettuate all'epoca, con quello utilizzato per la strage di Piazza Fontana e i 4 attentati ad essa contemporanei. Ci riferiamo altresì ad altri particolari che Martino SICILIANO non poteva conoscere. 123 124 I frammenti degli ordigni esplosivi collocati il pomeriggio del 12.12.1969 a Roma dinanzi all'Altare della Patria, sottoposti a perizia, hanno evidenziato infatti che i candelotti utilizzati in tale occasione erano avvolti da carta rossa paraffinata, e cioè dello stesso colore di quella che avvolgeva i candelotti venduti da Roberto ROTELLI a Delfo ZORZI, visti e maneggiati da SICILIANO, da VIANELLO e, successivamente, per l'attentato al COIN di Mestre, da Piero ANDREATTA. Inoltre anche i candelotti fatti rinvenire da Franco COMACCHIO dopo il rinvenimento delle armi a Castelfranco Veneto nel novembre 1971, e a lui consegnati da Giovanni VENTURA, erano in parte candelotti di gelignite avvolti in carta rossa. Perdipiù Ruggero PAN, commesso della libreria di Giovanni VENTURA, nel corso della prima istruttoria ha riferito che questi, nell'agosto del 1969, dopo gli attentati ai treni, aveva espresso il proposito di utilizzare, per l'avvenire, delle cassette di ferro al fine di provocare danni maggiori, incaricando l'elettricista Tullio FABRIS (che ha confermato la circostanza) di reperirle. Poche settimane dopo, a Trieste e a Gorizia, sono comparse per la prima volta le cassette metalliche, fortunatamente non esplose. Gli elementi di collegamento sono quindi più di quanti lo stesso Martino SICILIANO potesse immaginare. 124 16 LA FUGA DELL'AVV. GABRIELE FORZIATI DA TRIESTE E IL SUO "SOGGIORNO" NELL'APPARTAMENTO DI MARCELLO SOFFIATI IN VIA STELLA A VERONA Quale diretta conseguenza dell'attentato alla Scuola Slovena di Trieste, si innesta la vicenda della fuga da tale città, all'inizio del 1972, dell'avvocato Gabriele FORZIATI, già reggente della cellula triestina di Ordine Nuovo e comunque contrario e personalmente estraneo ad azioni criminose. Come già si è accennato all'inizio di questo paragrafo, l'avvocato FORZIATI, depositario dell'incauta rivelazione fatta da PORTOLAN in merito alla responsabilità di ZORZI e SICILIANO per l'attentato, era stato fatto allontanare con l'inganno dalla sua città da altri militanti, in particolare Francesco NEAMI e Claudio BRESSAN i quali avevano agitato dinanzi a lui la notizia, falsa, di un suo imminente arresto da parte dei Giudici di Treviso per il reato di ricostituzione del disciolto partito fascista. In tal modo si intendeva comunque sottrarre l'avvocato FORZIATI a probabili convocazioni da parte dell'Autorità Giudiziaria dinanzi alla quale egli, in ragione dei contrasti politici e personali che lo stavano in parte contrapponendo agli altri ordinovisti triestini, avrebbe probabilmente riferito quanto confidatogli da PORTOLAN. Mentre già erano note le fasi iniziali e conclusive della sua fuga, terminata nel gennaio 1973 e a cui fece seguito la testimonianza dinanzi al G.I. dr. D'Ambrosio esattamente nei termini che i camerati avevano paventato, era rimasta alquanto nebulosa la fase intermedia dei suoi spostamenti. Infatti, come testimoniato dallo stesso Gabriele FORZIATI e come sostanzialmente ammesso da Claudio BRESSAN anche nella presente istruttoria (dep. BRESSAN a personale del ROS Carabinieri Reparto Eversione, 15.2.1996), l'avvocato triestino era stato avviato prima a Venezia, dove era rimasto qualche giorno, sistemato poi per circa due settimane, prima nell'abitazione del padre di Marcello SOFFIATI a Colognola ai Colli e poi nell'appartamento di questi a Verona, e infine accompagnato dallo stesso Marcello SOFFIATI in Spagna. Se il soggiorno a Venezia era già chiaro nei suoi contorni sin dalle prime indagini (FORZIATI, tramite l'immancabile MAGGI, era stato ospitato da un altro militante, Giangastone ROMANI, che gestiva un albergo al Lido), non erano state invece messe a fuoco le modalità e il significato della permanenza a Verona: cioè chi lo avesse inviato in tale città, che ruolo nella struttura di Ordine Nuovo avesse l'appartamento di SOFFIATI in Via Stella, chi in tale appartamento avesse "custodito" con modi più o meno bruschi lo spaventato triestino. A tali domande hanno dato una risposta, nel corso di questa istruttoria, quasi contemporaneamente e pressochè negli stessi termini, Carlo DIGILIO e lo stesso avvocato FORZIATI e gli elementi che si rilevano da tali racconti sono di importanza 125 126 tutt'altro che trascurabile al fine di ricollegare ruoli e avvenimenti nella storia complessiva della struttura occulta e di coloro che lo "sorvegliavano". E' infatti emerso che l'avvocato FORZIATI era stato accompagnato a Colognola ai Colli, presso l'abitazione del padre di Marcello SOFFIATI, personalmente dal dr. MAGGI e che, dopo una breve permanenza a Colognola, era stato custodito nell'appartamento di Via Stella a Verona non solo da SOFFIATI, ma anche da DIGILIO e da alcuni triestini sotto il controllo ancora del dr. MAGGI e la "supervisione" di Sergio MINETTO. Con riferimento alla presenza di quest'ultimo, infatti, Carlo DIGILIO ha raccontato che l'appartamento di Via Stella non era un punto d'appoggio qualunque, ma al suo interno o nelle sue immediate vicinanze Sergio MINETTO si incontrava con SOFFIATI e lo stesso DIGILIO per riunioni riservate durante le quali i due subordinati gli riferivano le informazioni che egli doveva poi passare ai suoi superiori statunitensi (interr. DIGILIO 12.11.1994 f.4, 19.4.1996 f.3). La presenza di MINETTO in Via Stella durante la permanenza dell'avvocato FORZIATI era quindi collegata all'acquisizione di notizie e al controllo da parte della struttura informativa anche di tale spezzone della vicenda iniziata con gli attentati dell'estate e dell'ottobre 1969. Ecco, sul "prelevamento" di FORZIATI, il racconto di Carlo DIGILIO, che nello stesso appartamento sarebbe stato ospitato anche all'inizio della sua latitanza nell'estate del 1982: “””....FORZIATI era una persona di Trieste, laureato in giurisprudenza, un po' curvo, mingherlino e malfermo in salute che fu oggetto del seguente episodio. Vi era il timore che egli riferisse all'Autorità Giudiziaria quello che egli sapeva sulla struttura in quanto era di Ordine Nuovo e, su ordine di MAGGI, fu quindi prelevato a Trieste e portato a Colognola ai Colli a casa di Bruno SOFFIATI per circa un mese e in seguito per un altro mese nell'appartamento di Marcello SOFFIATI a Verona, in Via Stella. FORZIATI era trattato molto bene, quasi come un ospite, ma comunque il fine era di controllarlo e convincerlo a non parlare. In Via Stella lo controllavano lo stesso Marcello SOFFIATI, Francesco NEAMI, quello di Trieste con i capelli rossicci, ed un altro triestino di cui non so il nome e che venne per qualche giorno. Sergio MINETTO seppe di quello che stava accadendo da Marcello SOFFIATI e mi incaricò di andare a controllare la situazione facendo in modo comunque che a FORZIATI non succedesse nulla di male. Io mi recai varie volte in Via Stella e tranquillizzai il FORZIATI che era una persona mite, colta e di carattere gentile. In Via Stella venne qualche volta anche il dr. MAGGI, ma io non sentii i discorsi che faceva con FORZIATI. 126 Alla fine FORZIATI fu autorizzato a tornare a Trieste. Mi sono anche ricordato che quando io stesso fui ospite in Via Stella durante la mia latitanza, Marcello SOFFIATI, prima di sistemarmi lì, aveva chiesto consiglio a SPIAZZI che aveva risposto: Possiamo metterlo dove avevamo tenuto il "barone", riferendosi certamente a FORZIATI che vantava, appunto, titoli nobiliari. Quindi capii che il colonnello SPIAZZI era al corrente di quanto era avvenuto a FORZIATI. Inoltre mi dispiacque che un nobile come SPIAZZI, che teneva in casa la bandiera sabauda, non avesse avuto rispetto di un altro nobile. A D.R.: Certamente FORZIATI poteva dire delle cose in particolare sul gruppo triestino che era molto duro e facinoroso....””” (DIGILIO 31.1.1996 ff.1 e 2). Quindi non solo il dr. MAGGI e i due triestini (il secondo dei quali identificato in Claudio FERRARO: int. DIGILIO 4.10.1996 f.3), ma anche Sergio MINETTO e il col. Amos SPIAZZI, elemento di raccordo a Verona fra la struttura ordinovista e i militari, seguivano con attenzione e con comprensibile preoccupazione l'andamento della vicenda dell'avvocato FORZIATI o comunque ne erano al corrente. Sulle motivazioni, non certo umanitarie, per le quali il dr. MAGGI seguiva così da vicino il comportamento dell'avvocato FORZIATI quando si trovava a Verona, Carlo DIGILIO è stato assai esplicito in un successivo interrogatorio: “””....Prendo atto che Gabriele FORZIATI, nel corso di una recente testimonianza, ha dichiarato che durante la sua permanenza in Via Stella erano state adottate cautele finalizzate ad evitare che si vedesse chi c'era nell'appartamento, in particolare applicando della carta di colore blu ai vetri. Non ricordo questo particolare, ma ricordo che effettivamente per garantire la sicurezza di chi si trovava all'interno venivano utilizzati, durante la presenza prima dell'avv. Forziati e poi di Bertoli, doppi battenti in legno, sia esterni che interni, che venivano tenuti il più possibile chiusi. C'era anche una tenda, che ricordo blu, che copriva interamente la finestra della camera da letto che guardava sulla tromba delle scale. In proposito ricordo anche che era quasi sempre NEAMI ad occuparsi di questi aspetti pratici, operativi e di sicurezza; era cioè lui che apriva e chiudeva le finestre, apriva la porta e così via. Una volta, durante la permanenza di FORZIATI, vedendo il comportamento duro di NEAMI nei suoi confronti, io lo invitai a mitigarlo un po' facendo presente che l'avv. FORZIATI sembrava innocuo e proprio una brava persona. NEAMI mi rispose che si comportava così perchè il dr. MAGGI gli aveva detto che FORZIATI era a conoscenza di cose gravi relative all'attività del gruppo e se fosse andato dai giudici a testimoniare vi era il rischio che andassimo tutti in galera. 127 128 Furono proprio queste le testuali parole di NEAMI. Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia visto armi o materiale esplosivo in Via Stella in quel periodo, rispondo di no anche perchè tenere materiale simile durante la permanenza di persone come l'avv. Forziati o Bertoli sarebbe stato contrario ed elementari regole di sicurezza. Ricordo tuttavia, in relazione alla dotazione di cui certamente MARCELLO disponeva, un incontro che avvenne in fondo a Via Stella nella piazzetta prima di Piazza Bra fra SOFFIATI e il colonnello SPIAZZI, direi 4 o 5 mesi prima dell'arrivo di FORZIATI a Verona. Io ero appena uscito dall'appartamento e mi trovavo nei pressi del tabaccaio, al crocevia, quando vidi SOFFIATI e SPIAZZI che stavano finendo di parlare nella piazzetta e si stavano salutando. Si allontanarono frettolosamente. SOFFIATI poi mi raggiunse e io gli chiesi di cosa stesse parlando con il colonnello in un modo che mi era apparso concitato e lui rispose che SPIAZZI gli aveva detto di stare molto attento a tenere armi in casa in quanto vi era il pericolo che la Questura, in caso di rinvenimento anche di una sola arma, potesse estendere le indagini e far venire alla luce la struttura della V Legione dei NUCLEI di cui SPIAZZI era responsabile. SOFFIATI mi disse che aveva rassicurato in tal senso il colonnello e che avrebbe riportato tale segnalazione anche ad altri aderenti....””” (DIGILIO 2.12.1996 f.2). L'avvocato Gabriele FORZIATI, sentito nuovamente sulla vicenda che l'aveva visto più vittima che protagonista, focalizzando meglio i propri ricordi o forse sciogliendo qualche riserva e titubanza in merito ad una vicenda comunque per lui assai traumatica, ha dichiarato di aver visto nell'appartamento (ove i movimenti delle persone erano pressochè clandestini e le tapparelle venivano tenute abbassate) non solo Marcello SOFFIATI, ma anche Carlo DIGILIO e Francesco NEAMI e, nei pressi dell'appartamento, il dr. MAGGI (dep. FORZIATI 6.2.1996 e 27.11.1996 a questo Ufficio). Non ha ricordato la figura di Sergio MINETTO, il quale peraltro ha con ogni probabilità avuto l'accortezza di non farsi notare da FORZIATI durante la permanenza di questi a Verona. Comunque anche in questo caso l'indicazione fornita da Carlo DIGILIO non è rimasta isolata poichè ad essa si è aggiunta la testimonianza di Dario PERSIC, un frequentatore della trattoria di Colognola ai Colli, molto legato a Marcello SOFFIATI e coinvolto con un ruolo più marginale nell'attività del gruppo. Questi ha infatti dichiarato, nell'ambito di un'articolata e sincera testimonianza che ha consentito di confermare numerosissimi particolari riferiti da Carlo DIGILIO, che Sergio MINETTO era perfettamente al corrente della permanenza dell'avvocato triestino (soprannominato "lo scheletro" per il suo aspetto fisico) prima a Colognola ai Colli e poi in Via Stella, in quanto lo stesso PERSIC aveva assistito ad un 128 colloquio fra MINETTO e Bruno SOFFIATI, padre di Marcello, in merito alla necessità di trasferire l'avvocato, certamente anche in ragione delle sue precarie condizioni di salute, dalla rustica abitazione di Colognola all'appartamento di Via Stella (deposiz. PERSIC a personale del ROS Carabinieri Reparto Eversione, 8.2.1995 f.3 e 9.2.1995 f.3). A titolo di completamento degli avvenimenti riguardanti l'attentato di Trieste e il ruolo dell'avvocato FORZIATI, deve ricordarsi che Martino SICILIANO ha riferito di avere appreso che Delfo ZORZI e i camerati triestini avevano progettato un'azione di duro pestaggio nei confronti dell'avvocato FORZIATI per punirlo del suo "tradimento" costituito dalle dichiarazioni in danno di ZORZI e dello stesso SICILIANO rese al dr. D'Ambrosio (interr. SICILIANO 15.3.1995 f.9). L'azione di pestaggio contro l'avvocato FORZIATI era poi effettivamente avvenuta nell'aprile 1973, materialmente ad opera, con ogni probabilità, degli stessi triestini (deposiz. FORZIATI 25.2.1992 f.2 e 20.4.1995 f.5). Il soggiorno forzato dell'avvocato triestino a Verona ha contribuito a mettere a fuoco l'importanza ricoperta dall'appartamento di Via Stella, per molti anni, probabilmente dopo l'abbandono del casolare di Paese, vera e propria base operativa del gruppo, nelle vicende che ne hanno contrassegnato l'attività eversiva. In Via Stella infatti, o nelle immediate vicinanze, si incontrava con i suoi informatori, SOFFIATI e DIGILIO, il caporete veronese Sergio MINETTO quando, lontano da presenze indiscrete, era necessario raccogliere le notizie utili per la rete statunitense o fornire le direttive utili per lo sviluppo dell'attività informativa, volta al "controllo senza repressione" e più di una volta anche al supporto tecnico delle attività eversive di Ordine Nuovo. Nei pressi dell'appartamento, a pochi metri dallo stesso all'interno del quale si trovava ancora DIGILIO, "ospite" fisso in via Stella, il colonello SPIAZZI aveva avvertito Marcello SOFFIATI, alla fine del 1971, del pericolo che un'operazione della Questura di Verona potesse portare al rinvenimento delle armi e le indagini potessero estendersi sino a far venire alla luce la V Legione dei Nuclei di Difesa dello Stato, di cui il colonello SPIAZZI era responsabile nella città, struttura che egli aveva costituito affiancando ai militari a lui vicini, pronti al mutamento istituzionale, molti elementi del gruppo di Ordine Nuovo di Verona (interr. DIGILIO 1°.12.1996 f.2). Soprattutto, nell'appartamento di Via Stella, istruito e addestrato dalle medesime persone (SOFFIATI, DIGILIO e il militante triestino Francesco NEAMI), ancora sotto la direzione del dr. MAGGI e sotto la "supervisione" di Sergio MINETTO quale responsabile della struttura informativa, all'inizio del 1973 era stato a lungo istruito psicologicamente e addestrato Gianfranco BERTOLI, agganciato a Mestre dal gruppo affinchè, munito della bomba ananas lui affidata, non avesse esitazioni a recarsi a Milano e ad attentare alla vita dell'on. Mariano RUMOR dinanzi alla Questura di Milano (int. DIGILIO 12.10.1996 f.4-6 e 14.10.1996 f.1-3). 129 130 L'operazione, non facile vista l'instabilità di carattere di Gianfranco BERTOLI e la necessità che egli fosse sorretto psicologicamente ed economicamente, aveva la finalità, dopo il rifiuto opposto da Vincenzo VINCIGUERRA l'anno precedente ad accettare tale compito, di colpire il "traditore" e il "vigliacco" Mariano RUMOR che, nel dicembre 1969, quando era Presidente del Consiglio, dopo molte titubanze, aveva rifiutato di decretare lo stato di pericolo pubblico, reso impossibile la prevista presa di posizione dei militari e fatto fallire il disegno strategico/politico che stava intorno agli attentati del 12.12.1969 (interr.DIGILIO 21.2.1997 f.1-3). Ed ancora, l'anno successivo, nel maggio 1974, aveva fatto tappa nell'appartamento di Via Stella, proveniente da Mestre, Marcello SOFFIATI, portando con sè in una valigetta l'ordigno già quasi pronto consegnatogli dai mestrini e che doveva essere affidato a Milano a coloro che avrebbero dovuto deporlo di lì a pochi giorni in Piazza della Loggia a Brescia (interr. DIGILIO 4.5.1996 ff.2-4 e 5.5.1996 f.1). Carlo DIGILIO, che era stato opportunamente incaricato di restare in attesa nell'appartamento, aveva, mettendo ancora una volta a disposizione le sue capacità tecniche, visionato e personalmente modificato il congegno e consentito che il viaggio di Marcello SOFFIATI verso Milano proseguisse in condizioni di sicurezza. In conclusione può dirsi che l'appartamento di Via Stella a Verona e coloro che lo utilizzavano come base o controllavano cosa vi stesse avvenendo, costituisce il punto di intersezione di quasi tutti gli episodi tragici che, a cavallo degli anni '70, hanno scritto la storia della "strategia della tensione". 130 17 LA POSIZIONE DI ANNAMARIA COZZO, FIDANZATA DI DELFO ZORZI, IN RELAZIONE AGLI ATTENTATI DI TRIESTE E DI GORIZIA Sin dai primi interrogatori resi dinanzi a questo Ufficio, Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO avevano parlato della presenza, a bordo dell’autovettura del dr. MAGGI diretta a Trieste e Gorizia per l’esecuzione degli attentati, oltre a Delfo ZORZI, di una ragazza all’epoca legata a ZORZI da un rapporto sentimentale. Entrambi l’avevano descritta, in modo assolutamente concordante, come una ragazza intorno ai venti anni, forse di nome ANNA MARIA, di aspetto gradevole, con i capelli neri a caschetto, di origine napoletana, gravitante nell’area di Ordine Nuovo di tale città, probabilmente compagna di studi di ZORZI presso la Facoltà di Lingue Orientali e appassionata di arti marziali (int. SICILIANO, 18.10.1994, f.7; 25.1.1995, f.2; int. VIANELLO, 19.11.1994, f.6). Tale ragazza era venuta a Mestre con Delfo ZORZI solo in occasione dell’esecuzione dei due attentati, anche se il legame che la univa a ZORZI, sia personale sia politico, appariva stabile e non occasionale. Il tentativo di identificare la ragazza, delegato da questo Ufficio in varie riprese, a partire dall’autunno 1994, al R.O.S. Carabinieri, alla D.C.P.P. presso il Ministero dell’Interno e alla Digos di Milano, nonostante il massimo impegno e le laboriose ricerche effettuate, non dava l’esito sperato. Infatti la difficoltà a reperire, visto il tempo trascorso, i cartellini di iscrizione all’Università di Napoli, la mancanza di tracce documentali in ordine alla presenza della coppia in alberghi o simili, il fatto che la ragazza non si fosse in seguito probabilmente evidenziata in modo particolare sul piano dell’attivismo politico, non avevano consentito una identificazione certa anche se, sommando i dati raccolti, si era formata una rosa di quattro o cinque nomi, ciascuno però caratterizzato dalla discordanza di qualche particolare con quelli forniti da SICILIANO e VIANELLO e dal fatto che non era stato acquisito alcun elemento del rapporto di conoscenza di tali donne con Delfo ZORZI (in ordine alle ricerche di ANNAMARIA cfr. le note della varie Autorità di p.g. in vol.17, fasc.3). L’esistenza di tale misteriosa fidanzata di Delfo ZORZI risultava comunque assolutamente certa in base ai dati che venivano via via raccolti. Guido BUSETTO, all’epoca componente della cellula di Mestre, aveva ricordato di avere conosciuto al campo di addestramento di Tre Confini, in Abruzzo, svoltosi nell’agosto del 1969 con la partecipazione di soli elementi di Ordine Nuovo, una ragazza napoletana (forse l’unica ragazza presente al campo) assolutamente coincidente con la descrizione della giovane presente pochi mesi dopo a Trieste (cfr. dep. BUSETTO, 18.2.1995, f.1, e, in merito al campo di Tre Confini, vol.8, fasc.4) ed anche un altro mestrino, Giuliano CAMPANER, ricordava di avere avuto notizia di una fidanzata napoletana di Delfo ZORZI, probabilmente studentessa universitaria e 131 132 forse di nome ANNAMARIA, che tuttavia Delfo ZORZI non gli aveva mai presentato (dep. 27.4.1995, f.2). Anche Nico AZZI aveva sentito parlare da Delfo ZORZI di tale ragazza di Napoli, inserita in Ordine Nuovo, presente anche agli scontri di piazza di Valle Giulia, nel 1968 a Roma, e che in tale occasione si era dimostrata abile nell’uso della fionda durante gli scontri (int. 6.6.1996, ff.1-2). Il mistero in ordine all’identità della ragazza di Delfo ZORZI iniziava casualmente a dissolversi riesaminando una fotocopia di una agenda di Franco FREDA sequestrata durante le indagini dell’A.G. di Treviso ed allegata agli atti del processo di Catanzaro. In una pagina di tale agenda da tavolo appare infatti questa annotazione manoscritta: “”Annamaria Cozzo, Via Gigante 204 - Napoli (contatto) (mi deve dire il nome di chi si prende l’iniziativa di vendere libri a Napoli - vedi Delfo - anche per le xilografie”” (cfr. fotocopia dell’agenda di FREDA, vol.18, fasc.1, f.23). Era quindi possibile che in Annamaria COZZO potesse identificarsi la ragazza di Delfo ZORZI, avendola perdipiù Franco FREDA interessata in quel periodo per la diffusione delle pubblicazioni delle “Edizioni A.R.” a Napoli. Acquisita quindi una fotografia di Annamaria COZZO che ne riproducesse fedelmente le fattezze dell’epoca, ella veniva riconosciuta senza alcun dubbio da Martino SICILIANO (int.14.3.1996, f.5, e 1°.6.1996, f.1) e da Giancarlo VIANELLO (int.27.5.1996, f.4) come la ragazza presente alla spedizione di Trieste e Gorizia, da Giampaolo STIMAMIGLIO e, seppur con qualche margine di incertezza visto il tempo trascorso, da Guido BUSETTO come la ragazza presente al campo di addestramento di Ordine Nuovo a Tre Confini (dep. STIMAMIGLIO a personale R.O.S., 29.5.1996, f.2, e dep. BUSETTO, 14.1.1997, f.1). La mancata identificazione in precedenza di Annamaria COZZO, nonostante le complesse ricerche effettuate, era dovuta ad un marginale errore dei testimoni. Ella infatti non era stata iscritta, con Delfo ZORZI alla Facoltà di Lingue Orientali di Napoli, bensì ad altra Facoltà e la mancanza di tale elemento di collegamento aveva fatto venire meno la messa a fuoco della sua persona e indotto la p.g. delegata a seguire o a curare prevalentemente altre piste. Peraltro, proprio nei giorni in cui era avvenuto il recupero dell’agenda di Franco FREDA, quando ancora non vi era alcuna certezza in ordine alla identificazione nella COZZO, fra le diverse donne possibili, della ragazza presente a Trieste, ella veniva sentita in sede di sommarie informazioni testimoniali da personale del R.O.S. Carabinieri. In tale sede Annamaria COZZO, spiegando di avere militato per lungo tempo nell’area di estrema destra, e in particolare nel FUAN di Napoli, e di avere partecipato agli scontri del marzo 1968 all’Università di Roma, riconosceva, dopo molte titubanze e reticenze, di avere conosciuto Delfo ZORZI, frequentatore come lei 132 di una palestra di arti marziali a Napoli, e di avere intrattenuto con lo stesso un legame sentimentale (cfr. s.i.t. 18.1.1996, f.6). Annamaria COZZO riferiva altresì, dopo altre esitazioni, di avere partecipato ad un campo di addestramento “filosofico-ideologico” sugli Appennini, organizzato dal prof. Paolo SIGNORELLI (si tratta certamente del campo di Tre Confini) e di ricordare bene il nome, anche se non le fattezze, di Guido BUSETTO (s.i.t. citato, f.7). Proseguiva ammettendo di essere stata coinvolta in due attentati dimostrativi, collegati alla visita del Presidente Saragat in Jugoslavia ed avvenuti uno a Trieste e il secondo in una zona di confine. Ricordava che in tale spedizione era presente Delfo ZORZI e che per commettere l’attentato di Trieste era stata deposta una cassetta vicino ad un muro di cinta ed erano stati lasciati sul posto dei volantini (s.i.t. citato, f.8). A seguito di tali sintetici ma inequivoci riferimenti agli attentati di Trieste e Gorizia, questo Ufficio procedeva a indiziare formalmente la COZZO in ordine ai reati connessi ai due episodi, con informazione di garanzia ed invito a comparire per il giorno 9.3.1996. Tuttavia Annamaria COZZO, che si era resa conto o era stata probabilmente, nel frattempo, “invitata” a rendersi conto della gravità e dell’importanza per le indagini delle dichiarazioni che ella stava per rendere, non si presentava inviando inoltre all’Ufficio un fax con cui comunicava la scelta di avvalersi comunque della facoltà di non rispondere. Anche non volendo tenere conto, su un piano di correttezza processuale, dell’ultima parte della deposizione di Annamaria COZZO in quanto contenente dichiarazioni pregiudizievoli per se stessa, rese nella qualità di testimone, è certo che gli elementi forniti sulla sua persona tolgono ogni dubbio in merito all’identificazione nella COZZO della ragazza di Delfo ZORZI presente ai due attentati e che l’intera testimonianza, utilizzabile comunque a riscontro delle altre dichiarazioni, contiene elementi del tutto in sintonia con le acquisizioni processuali. La presenza di Annamaria COZZO a Trieste e Gorizia non deve inoltre essere considerata casuale ed occasionale alla luce di quanto riferito da Martino SICILIANO in merito agli avvenimenti immediatamente precedenti. Martino SICILIANO, infatti, era stato convocato qualche giorno prima da Delfo ZORZI a Napoli, aveva raggiunto tale città in treno portando, sempre su richiesta di ZORZI, un fucile tedesco della seconda guerra mondiale quasi certamente consegnatogli da Paolo MOLIN e, alla stazione ferroviaria di Napoli, aveva incontrato Delfo ZORZI e la ragazza. Da qui erano partiti a bordo della FIAT 500 della COZZO in direzione di Bari e sull’autostrada, all’altezza di Candela, si erano fermati e ZORZI e la ragazza si erano allontanati per qualche minuto occultando il fucile in qualche nascondiglio. 133 134 Ripassando rapidamente per Napoli erano subito ripartiti alla volta di Mestre, raggiungendola in un’unica tappa, e nel giro di un paio di giorni vi era stata l’operazione di Trieste e Gorizia (int. SICILIANO, 18.10.1996, f.4; 14.3.1996, f.5). Di tali strani spostamenti, Martino SICILIANO ha fornito una sua spiegazione che appare del tutto condivisibile: “””...ho sempre avuto sin dai primi giorni la netta sensazione che la spedizione a Trieste e Gorizia fosse una messa alla prova dei mezzi e delle persone e della loro affidabilità per le operazioni successive. Anche il complesso tragitto iniziato con il trasporto del fucile a Napoli, il viaggio a Candela insieme ad Anna Maria, il lungo viaggio con la Fiat 500 di nuovo sino a Mestre, seguito nel giro di pochissimi giorni dalla spedizione a Trieste e Gorizia, dava la netta idea di una verifica della disponibilità delle persone. Del resto non ho mai capito perchè mi fu chiesto di portare a Napoli un fucile di non particolare pregio, anzi un residuato bellico, privo di munizioni, al solo fine di occultarlo, dopo un altro viaggio, nei pressi di un'autostrada”””. (SICILIANO, int.20.3.1996). I singolari spostamenti di SICILIANO da Mestre a Napoli e del gruppetto prima in direzione di Bari e poi, senza alcuna sosta, sino a Mestre costituiscono quindi un’altra prova indiziaria del fatto che le attività di quei giorni e la spedizione a Trieste e Gorizia non fossero altro che una prova, in termini di affidabilità dei mezzi e delle persone, di operazioni ben più gravi che sarebbero state portate a termine poco tempo dopo. Si noti del resto che Delfo ZORZI deve avere valutato il pericolo che Annamaria COZZO fosse identificata e che, in ragione del bagaglio di conoscenze di cui certamente la donna dispone in merito alle attività dello stesso ZORZI nel 1968/1969, potesse rendere dichiarazioni pregiudizievoli sia per la sua posizione sia per Ordine Nuovo in generale. Non è probabilmente un caso che Delfo ZORZI, in sede di spontanee dichiarazioni rese a Parigi nel dicembre 1995 al P.M. di Milano, parlando dei suoi legami sentimentali alla fine degli anni ‘60, abbia fatto riferimento a tale Marina CUZZOLIN e ad una certa ANNA MARIA o ANNA CLAUDIA, ma non di origine napoletana, bensì dalmata. In proposito Martino SICILIANO ha fatto presente che Marina CUZZOLIN era persona esistente, ma del tutto estranea all’attività politica del gruppo, mentre non esisteva nell’ambito delle conoscenze di ZORZI alcuna ANNA MARIA o ANNA CLAUDIA di origine dalmata, ragazza di cui certamente, in caso contrario, SICILIANO avrebbe almeno sentito parlare in ragione del legame di amicizia che lo legava a Delfo ZORZI (int. 17.4.1996, f.2). In sostanza è molto probabile che in tale occasione ZORZI, mescolando, secondo una tecnica sperimentata, notizie vere ma prive di qualsiasi interesse e notizie false, 134 abbia deliberatamente cercato di stornare l’attenzione degli inquirenti dalla vera ANNAMARIA, persona che non doveva essere identificata e quindi nemmeno nominata in quanto coinvolta negli attentati di Trieste e Gorizia. In conclusione è opportuno sottolineare che una completa testimonianza di Annamaria COZZO avrebbe molto probabilmente consentito di acquisire, in ragione del suo rapporto confidenziale con Delfo ZORZI e della comune militanza politica negli anni cruciali, elementi di grande importanza per le indagini. Ciò non è stato reso possibile anche dalla sconsiderato comportamento di un funzionario della Digos di Milano (non di tale Ufficio nel suo insieme) che, alla fine del 1995, non ha ritenuto suo dovere fornire a questo Ufficio gli ulteriori dati in corso di acquisizione in merito all’identificazione di ANNAMARIA (ma solo eventualmente alla Procura di Milano che aveva attivato, senza alcun coordinamento e a dispetto degli accordi assunti con questo Ufficio, ricerche parallele). Tale possibilità è stata infatti frustrata anche dall’assoluto rifiuto della Procura della Repubblica di coordinare le attività investigative e l’intervento processuale relativo ad ANNAMARIA, riducendo così in modo sensibile le probabilità di un risultato positivo e l’utilizzo al meglio dei dati raccolti. Gli incresciosi strascichi cui ha dato luogo, non per responsabilità di questo Ufficio, la ricerca di ANNAMARIA sono ampiamente esposti nella memoria inviata nella primavera del 1996 al Consiglio Superiore della Magistratura, allegata agli atti della presente istruttoria. 135 136 18 LA POSIZIONE DEGLI ORDINOVISTI TRIESTINI IN RELAZIONE ALL’ATTENTATO ALLA SCUOLA SLOVENA Resta solo da esaminare, in relazione all’attentato alla Scuola Slovena, la posizione degli elementi triestini, indicati da SICILIANO e VIANELLO, della cellula di Ordine Nuovo, cellula molto attiva nella città anche per evidenti ragioni storico-culturali e molto probabilmente responsabile anche di azioni di provocazione, negli anni ‘60, oltre il confine jugoslavo che si erano concluse con sparatorie con le guardie di confine (int. SICILIANO, 28.3.1996, f.2). Fittissimi e di antica data sono i collegamenti che emergono, dalle testimonianze e dagli altri atti istruttori, fra la cellula di Trieste e la cellula di Mestre/Venezia e sembra superfluo citarli tutti. Basti solo ricordare che, sin dalla metà degli anni ‘60, vi erano state riunioni comuni di elementi di Mestre/Venezia, di Trieste e di altre città, ancora all’interno dell’ala più radicale del M.S.I. e ancora prima dell’uscita di Ordine Nuovo dal partito (int. SICILIANO, 17.4.1996, f.3) e che Francesco NEAMI era sovente ospite, a Venezia, in casa MAGGI (int. DIGILIO, 25.6.1993, f.4; 12.10.1996, f.5), che a Trieste, SICILIANO, VIANELLO e BUSETTO si erano recati per dare man forte ai camerati nell’azione punitiva contro i giovani di estrema sinistra (int. SICILIANO, 20.10.1994, f.7; int. VIANELLO, 19.11.1994, f.10; dep. BUSETTO, 11.11.1994, f.2) e che, del resto, normalmente i militanti triestini erano presenti alle manifestazioni di Ordine Nuovo a Mestre e viceversa i mestrini a quelle convocate a Trieste. I triestini erano stati infatti presenti, con un ruolo molto attivo, agli scontri del 3.5.1970 in Piazza Ferretto, a Mestre, con giovani di opposta tendenza in occasione di un comizio dell’on. ROMUALDI (int. SICILIANO, 28.3.1996, f.3; 5.4.1996, f.2; confronto SICILIANO-Claudio BRESSAN, 22.3.1996, f.3, nel corso del quale il triestino BRESSAN ha ammesso la sua presenza a Mestre), mentre i mestrini poco tempo dopo, l’8.12.1970, avevano partecipato in massa, a Trieste, ad una manifestazione di carattere antislavo che si era conclusa con l’assalto alla sede del P.S.I. e altre azioni di violenza e con l’incriminazione e la condanna, fra gli altri, di Martino SICILIANO, Giampietro MARIGA e Francesco NEAMI (int. SICILIANO, 25.10.1996, f.4 e sentenza allegata alla nota della Digos di Trieste in data 10.10.1996, vol.25, fasc.5, ff.23 e ss.). I nomi di vari militanti triestini (fra cui ancora Francesco NEAMI) erano inoltre presenti nell’agenda sequestrata a Franco FREDA all’inizio dell’istruttoria sulla c.d. pista nera (int. SICILIANO, 21.3.1996, ff.1-2) e in particolare i rapporti fra Claudio BRESSAN e Franco FREDA sono proseguiti quantomeno sino alla fine degli anni ‘70, quando FREDA si trovava in carcere (cfr. fascicolo della Digos di Trieste intestato a Claudio BRESSAN, vol.17, fasc.2, ff.26 e 37-39) a testimonianza dell’importanza rivestita dal gruppo triestino all’interno della geografia di Ordine Nuovo. 136 Per quanto concerne l’attentato alla Scuola Slovena, risulta dalle concordi dichiarazioni di Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO (di indiscutibile valenza probatoria in quanto rese separatamente, a brevissima distanza di tempo, da due persone che non si vedevano da oltre 20 anni) che l’apporto dei militanti triestini fu duplice. Essi infatti, dopo avere atteso e incontrato a Trieste il gruppo che proveniva da Mestre a bordo della FIAT 1100, avevano mostrato ai camerati il punto esatto dove si trovava la Scuola Slovena e quindi la migliore via di accesso e di fuga e avevano messo a disposizione dei mestrini un appartamento, non distante dalla Scuola Slovena, nella disponibilità di uno dei militanti del gruppo, affinchè Delfo ZORZI e gli altri, con una breve sosta, potessero approntare e collegare in condizioni di sicurezza gli inneschi degli ordigni contenuti in due cassette militari che dovevano essere deposte, nella notte, prima a Gorizia sul confine e poi a Trieste. Pur essendo pacifica la presenza e il contributo dei camerati triestini, Martino SICILIANO e Giancarlo VIANELLO hanno avuto difficoltà, in ragione del tempo trascorso, a ricordare quali e quanti dei militanti della locale cellula fossero presenti e quali li abbiano accompagnati nell’appartamento. Martino SICILIANO, mettendo a fuoco progressivamente tali scene, ha ricordato che all’appuntamento a Trieste erano presenti tutti e quattro i militanti più noti della cellula triestina (PORTOLAN, NEAMI, BRESSAN e Claudio FERRARO), ma che solo due, e cioè i più decisi e determinati NEAMI e PORTOLAN, avevano accompagnato il gruppo dei mestrini nell’abitazione che era di proprietà di una parente deceduta di PORTOLAN e che si trovava a non molta distanza dalla Scuola Slovena (int. 18.10.1994, f.4; 29.1.1995, f.2; 16.3.1996, f.4; confronto con Claudio BRESSAN, citato, ff.4-5, e, in merito alla presenza di Claudio FERRARO, int.9.10.1996, ff.1-2). Giancarlo VIANELLO ha ricordato la presenza solo di due triestini, uno dei quali certamente Francesco NEAMI e il secondo anch’egli uno dei militanti più noti, non riuscendo tuttavia a focalizzare se si trattasse di Manlio PORTOLAN o Claudio BRESSAN (int.19.11.1994, f.6, e 6.12.1994, f.2). L’appartamento in cui i mestrini erano stati condotti era modesto, non era abitato e apparteneva ad un parente di uno dei due triestini (int. VIANELLO, 19.11.1994, f.7, e 27.5.1996, ff.5-6). Tali incertezze, comprensibili a tanta distanza nel tempo dei fatti e comunque di per sè indicative della sincerità dei due dichiaranti, non sminuiscono minimamente il quadro di accusa anche tenendo presente che l’indispensabile apporto logistico fornito dal gruppo triestino non solo è perfettamente logico, ma è del tutto in sintonia con l’intervento del gruppo quando, tre anni dopo, sarebbe stato necessario far allontanare da Trieste l’avv. Gabriele FORZIATI nel timore che egli rivelasse quanto, seppur in modo indiretto, egli sapeva sulla responsabilità dei triestini nell’attuazione degli attentati. Infatti la fuga dell’avv. FORZIATI da Trieste a Venezia era stata ispirata e patrocinata con un tranello da Claudio BRESSAN e in seguito Francesco NEAMI e 137 138 probabilmente Claudio FERRARO avevano sorvegliato lo spaventato avvocato nell’appartamento di Via Stella, a Verona, prima che egli raggiungesse la Grecia (cfr. capitolo 16 della presente sentenza-ordinanza). Sul piano delle conclusioni istruttorie, non potendosi, alla luce di quanto esposto nei capitoli precedenti, qualificarsi l’attentato alla Scuola Slovena come tentata strage e non potendosi quindi riaprire l’istruttoria nei confronti di Francesco NEAMI (già prosciolto in sede istruttoria dal G.I. di Trieste) in quanto i reati meno gravi configurabili sono estinti per prescrizione, deve essere emessa nei suoi confronti sentenza di non doversi procedere per inammissibilità di un secondo giudizio. Nei confronti di Manlio PORTOLAN invece, molto probabilmente presente all’appuntamento a Trieste e molto probabilmente colui che aveva messo a disposizione l’appartamento ove fu operato l’innesco degli ordigni, condividendosi le richieste del Pubblico Ministero, deve essere emessa sentenza di non doversi procedere per gli stessi reati per intervenuta prescrizione. Il contributo della cellula di Ordine Nuovo di Trieste all’attentato alla Scuola Slovena dell’ottobre 1969 è, su un piano prospettico, tutt’altro che secondario in quanto tale attentato si pone a metà strada fra gli altri attentati cui tale cellula, secondo i pur incompleti dati emersi, avrebbe partecipato rafforzando l’ipotesi di una stabile operatività organizzata e diretta in prima persona dal dr. MAGGI. Vincenzo VINCIGUERRA, infatti, pur non rivelando la fonte delle sue conoscenze, comunque certamente interne alla struttura di Ordine Nuovo e quindi attendibili, ha dichiarato che Giovanni VENTURA, accennando al G.I. dr. D’Ambrosio alla corresponsabilità della cellula di Udine negli attentati ai treni dell’agosto 1969, (cellula ormai disintegrata dal disastroso esito del dirottamento di Ronchi dei Legionari in cui aveva trovato la morte Ivano BOCCACCIO), aveva coscientemente mentito e cercato di confondere gli investigatori in quanto all’esecuzione di tali attentati, come ben noto allo stesso VENTURA, aveva partecipato invece la cellula di Trieste ancora intatta e operativa (int. VINCIGUERRA, 2.12.1992, f.2; 21.12.1992, f.3). Carlo DIGILIO ha poi confermato che i triestini, sempre a seguito di direttive del dr. MAGGI, avevano partecipato agli attentati ai treni (int.30.8.1996, f.3) e avevano poi dato il loro apporto per l’esecuzione degli attentati “minori” del 12.12.1969 che erano avvenuti a Roma (int.10.9.1996, f.4). Un filo di continuità collega quindi l’importante cellula di Trieste a tutta la catena degli attentati, dalle “prove” di agosto e di ottobre sino alla giornata del 12.12.1969. A margine del coinvolgimento degli elementi triestini di Ordine Nuovo nell’attentato alla Scuola Slovena si colloca la vicenda relativa all’attività informativa e di collaborazione svolta dalla famiglia PORTOLAN con le strutture di sicurezza del nostro Paese e della NATO. Claudio BRESSAN infatti, sin dalla deposizione resa a personale del R.O.S. in data 11.1.1996, aveva fatto cenno alle confidenze ricevute da Manlio PORTOLAN in merito al fatto che la madre, rimasta vedova, aveva affittato, alla fine degli anni ‘60, 138 una stanza dell’appartamento di Via Belpoggio, ove risiedeva con il figlio, ad agenti dei servizi segreti, probabilmente del S.I.D. (dep. citata, f.2). Tale disponibilità era ricollegabile al fatto che il padre di Manlio PORTOLAN, sottufficiale della Guardia di Finanza, era stato in vita sempre legato al medesimo ambiente e di conseguenza il punto di appoggio fornito dalla signora PORTOLAN ad agenti dei servizi distaccati a Trieste era la naturale prosecuzione dell’attività svolta dal marito (int. BRESSAN, 1°.3.1996, f.4). In ragione della situazione che si era creata, anche al figlio Manlio era stata chiesta una collaborazione con il Servizio che egli aveva effettivamente prestato passando informazioni sull’ambiente di estrema sinistra locale (int. citato, f.4). Tale circostanza aveva influito negativamente sull’amicizia fra Claudio BRESSAN e Manlio PORTOLAN, tanto più che quest’ultimo, a dispetto delle teorie naziste e antisemite coltivate all’interno di Ordine Nuovo, era stato assunto presso la ditta di trasporti israeliana ZIM (dep. 11.1.1996, f.3). Tali notizie apparivano immediatamente interessanti e attendibili anche perchè Claudio BRESSAN, certamente non un pentito nè un collaboratore, aveva inteso riferirle incidentalmente per spiegare i contrasti di natura personale e politica insorti , all’inizio degli anni ‘70, con Manlio PORTOLAN all’interno della cellula di Ordine Nuovo di Trieste. Veniva quindi deciso di affidare al S.I.S.Mi. la ricerca di tutti gli atti, risalenti al periodo dall’immediato dopoguerra alla fine degli anni ‘60, che potessero confermare quanto riferito da Claudio BRESSAN. La ricerca dava esito positivo. Infatti, dagli atti forniti dalla Direzione del S.I.S.Mi. risultava che il maresciallo della Guardia di Finanza Filippo PORTOLAN, originario della Dalmazia e sottoposto sin dal dicembre 1943 a procedimento di discriminazione per la sua attività fascista, nel dopoguerra era stato distaccato presso il SIFAR con compiti controinformativi di particolare delicatezza in relazione alla situazione jugoslava e aveva anche collaborato con l’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore Esercito sino al momento del suo posizionamento in congedo, nel 1959 (cfr. fascicolo relativo al mar. Filippo PORTOLAN presso l’Ufficio Coordinamento Informativo e Sicurezza della Guardia di Finanza, vol.20, fasc.4, ff.1 e ss.). Soprattutto dal fascicolo intestato al maresciallo PORTOLAN fornito dal S.I.S.Mi. (vol.20, fasc.4, ff.48 e ss.) e dall’allegata nota di analisi del Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri in data 21.9.1996) emergeva che il maresciallo, anche dopo il suo congedo e sino alla sua morte, aveva continuato a svolgere attività informativa per il Centro C.S. di Trieste e per persone distaccate dell’Ufficio R del S.I.D. in merito alla situazione jugoslava di cui era buon conoscitore avendo prestato servizio militare, durante la guerra, lungo il litorale dalmata e parlando correntemente il serbo/croato ed era stato anche in contatto, nel 1967, con ufficiali della NATO e del Comando del Counter Intelligence Corps della base SETAF di Vicenza per un’azione informativa da svolgere in territorio bulgaro. 139 140 L’eccessiva autonomia e disinvoltura mostrate dal maresciallo PORTOLAN (cui erano stati assegnati i nomi in codice PIPPO e INES) nei rapporti con tali ultime strutture gli erano costate, nel maggio 1967, una “reprimenda” da parte di un elemento del Raggruppamento Centri C.S. di Roma giunto appositamente a Trieste per verificarne l’attività (cfr. nota in data 22.5.1967 del Centro C.S. di Trieste, ff.117 e ss.). Pur non essendovi agli atti riferimenti ad una successiva, analoga attività del figlio Manlio, è evidente che gli elementi acquisiti grazie a tali fascicolo rafforzano notevolmente il racconto di Claudio BRESSAN in merito ai contatti con apparati istituzionali dell’ex-Reggente della cellula di Ordine Nuovo di Trieste e come tale, e fino alla sua sostituzione con Francesco NEAMI nel 1968/1969, diretto referente del dr. MAGGI sul territorio. Perdipiù il generale Guido GIULIANI, Capocentro S.I.D. a Trieste fra il 1965 e il 1968 e firmatario di alcuni atti contenuti nel fascicolo intestato al maresciallo Filippo PORTOLAN, ha confermato non solo che quest’ultimo era uno stabile e importante collaboratore del Centro, soprattutto nelle azioni informative relative alla Jugoslavia, ma anche che il figlio Manlio, di cui il Centro C.S. di Trieste pure ben conosceva l’attiva militanza ordinovista, era stato reclutato per fornire informazioni (dep. generale GIULIANI al G.I. di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, e a questo Ufficio, 28.8.1997, ff.3-4). E’ significativo ricordare che nel fascicolo intestato al maresciallo Filippo PORTOLAN, appena citato, sono presenti due note del Centro C.S. di Trieste con le quali si comunica al Reparto “D” della Direzione Centrale del Servizio l’esito del processo celebrato nel giugno 1962 dal Tribunale di Trieste e che si era concluso con la condanna di Manlio PORTOLAN a circa un anno di reclusione, di Claudio BRESSAN e di altri 3 ordinovisti triestini per l’attentato in danno dell’abitazione dell’antifascista prof. Carlo Schiffrer, avvenuto il precedente 1° aprile, e di Francesco NEAMI per detenzione di armi ed esplosivi (cfr. note del Centro C.S. di Trieste, 26.4.1962 e 2.7.1962, vol.20, fasc.4, ff.89 e ss.). E’ certamente singolare che il Centro C.S. di Trieste utilizzasse e abbia continuato ad utilizzare quale collaboratore sul piano informativo il maresciallo Filippo PORTOLAN e, a un livello più generico, il figlio Manlio negli stessi anni in cui quest’ultimo si rendeva responsabile di attentati e di detenzione di esplosivo ed era uno degli elementi portanti dell’agguerrito e pericoloso gruppo di Ordine Nuovo di Trieste, la cui attività, vi è da concludersi, non interessava più di tanto il Servizio. 140 19 L’ATTENTATO AI MAGAZZINI COIN DI MESTRE DEL 27 MARZO 1970 L’attentato dimostrativo ai magazzini COIN di Mestre, pur nella modestia dell’accadimento, confinato per pochi giorni nella cronaca dei quotidiani locali, costituisce uno dei nodi centrali di questa istruttoria e dell’istruttoria collegata, in corso presso la Procura della Repubblica di Milano, in quanto esso segna la ricomparsa della gelignite utilizzata a Trieste e Gorizia e probabilmente anche per gli attentati più gravi, e le reazioni, altrimenti ingiustificate, di Piero ANDREATTA e degli uomini vicini a Delfo ZORZI rimasti a Mestre, accese dalle indagini allorchè hanno toccato tale episodio, dimostrano che da tale filo era possibile, come è stato anche se solo in parte, risalire all’intera matassa. Di tale episodio ha parlato sin dai primi interrogatori e più volte, anche per progressive messe a fuoco sollecitate dal sempre maggiore interesse degli inquirenti, Martino SICILIANO. In sintesi: - Piero ANDREATTA si era presentato nella sede di Via Mestrina con un ordigno costituito da due o tre candelotti di gelignite e dal solito innesco costituito dall’orologio da polso con il perno nel quadrante, la batteria e i fili elettrici, pregando Martino SICILIANO di provvedere al collegamento dell’innesco (int. 18.10.1994, f.10). - SICILIANO aveva aderito alla richiesta, ma, non essendo in gradi di ripetere esattamente l’operazione come gli era stata insegnata prima degli attentati di Trieste e Gorizia, aveva avvisato ANDREATTA che l’ordigno non era in condizioni di sicurezza (int. 25.1.1995, f.3). E’ quindi probabile che ANDREATTA abbia deciso di cambiare il programma operativo, utilizzando una comune miccia come del resto risulta dal rapporto di polizia giudiziaria relativo all’episodio. - I candelotti che ANDREATTA aveva portato, gelignite avvolta in carta paraffinata rossa, erano assolutamente identici a quelli visti da SICILIANO l’ottobre precedente, durante la spedizione a Trieste e Gorizia (int.25.1.1995, f.3). - Il movente dell’attentato dinamitardo era prevalentemente di carattere personale, anche se venato di coloriture politiche, in quanto ANDREATTA intendeva “vendicare” una ragazza a lui legata, dipendente del COIN, che aveva avuto problemi all’interno dell’azienda (int. 18.10.1994, f.7). Focalizzando meglio tale aspetto, una volta accertato che Giuseppe FREZZATO conviveva all’epoca con Ivana PESCE, dipendente del COIN e sorella di Fiorenzo PESCE, in stretti rapporti commerciali con ANDREATTA nell’ambito dell’Associazione Italia-Benin, Martino SICILIANO ha ritenuto più probabile, per un errore della sua memoria o per un’ambiguità della confidenza di ANDREATTA, che il movente dell’episodio fosse riconducibile a FREZZATO (int. 28.3.1996, f.4). 141 142 L’aiuto era stato chiesto a Martino SICILIANO personalmente da ANDREATTA solo perchè i rapporti fra i due, all’epoca, erano già molto stretti, mentre la conoscenza di FREZZATO da parte di SICILIANO era molto superficiale. Si noti che Piero ANDREATTA svolgeva all’epoca attività commerciale in Africa non solo per conto di Fiorenzo PESCE, ma anche di Stefano TRINGALI che era suo socio e costoro facevano riferimento, sempre sul piano commerciale, a Delfo ZORZI (int.28.3.1996, f.5). - Inoltre pochi giorni prima dell’attentato, Delfo ZORZI aveva chiesto a SICILIANO di fare un giro in motoretta intorno a Piazza Barche, con la Vespa di un giovane presente in quel momento con loro nella piazza, e di calcolare il tempo che consentiva di allontanarsi con tale mezzo dai magazzini COIN e porsi al riparo da una situazione di allarme (int. 28.8.1996, f.2). ZORZI aveva spiegato a SICILIANO che era in programma qualcosa contro i magazzini COIN, in risposta ad uno sciopero in occasione del quale era stato impedito un volantinaggio di destra. SICILIANO aveva accettato di fare il controllo con la motoretta, facendo comunque presente a ZORZI che non intendeva occuparsi di tale azione. Delfo ZORZI, forse anche in ragione della sua diversa personalità, aveva quindi dato a SICILIANO una spiegazione dell’azione in programma un po’ diversa da quella fornita da ANDREATTA accentuandone il carattere più propriamente politico (int.28.8.1996, f.2) e di risposta ad una iniziativa sindacale. L’attentato ai magazzini COIN veniva individuato in quello avvenuto la notte fra il 27 e il 28 marzo 1970, collocando un ordigno a miccia alla base di una vetrata. L’attentato era avvenuto il giorno precedente a quello in cui era già stato proclamato uno sciopero dei dipendenti indetto dalle confederazioni sindacali e, nonostante le indagini svolte, gli autori erano rimasti ignoti (cfr. nota della Digos di Venezia in data 17.12.1996 e atti allegati). Non risultava nemmeno difficile mettere a fuoco, in base agli atti raccolti dalla Digos di Venezia, le figure di Piero ANDREATTA e Giuseppe FREZZATO, entrambi militanti di destra di Mestre, il primo iscritto al M.S.I. e il secondo alla CISNAL, entrambi legati ad ambienti della piccola malavita comune e ANDREATTA comunque vicino, anche per rapporti amicali, all’area di Ordine Nuovo (nota Digos Venezia citata, ff.5-6 e 19-20; nota R.O.S. in data 16.5.1995 relativa a FREZZATO, vol.1, fasc.19). Si noti che dai successivi accertamenti risultava che non solo Ivana PESCE, ma anche un’altra donna legata all’epoca a Giuseppe FREZZATO, e cioè Rita TOSATTO (con la quale, in seguito, FREZZATO era emigrato in Argentina), era dipendente dei magazzini COIN di Piazza barche, per cui il movente accennato da Martino SICILIANO poteva riferirsi tanto all’una quanto all’altra donna essendo fra l’altro entrambe simpatizzanti di destra (int. SICILIANO, 9.10.1996, f.3). 142 Lo sviluppo delle indagini relative a tale attentato, di grande interesse per i profili di collegamento con l’esplosivo usato per gli attentati più gravi, e le reazioni suscitate nell’ambiente di Mestre dalle attività degli inquirenti confermavano che con l’attentato al COIN si era toccato quasi certamente un tasto delicatissimo e di importanza centrale per comprendere la dinamica materiale dell’attività del gruppo mestrino e i rapporti passati e presenti fra i vari soggetti. Si ponga attenzione allo snodarsi degli avvenimenti in ordine cronologico: - In data 6.1.1995 Piero ANDREATTA, rientrato momentaneamente dall’Africa insieme alla moglie, originaria del Benin, viene sentito da questo Ufficio in qualità di indiziato in relazione all’attentato al COIN di Mestre. Nega ogni responsabilità, affermando addirittura di aver fatto parte della componente “moderata” del M.S.I. (quella facente riferimento all’on. MICHELINI) e riparte per l’estero qualche giorno più tardi. - A seguito di decreto di intercettazione telefonica disposta da questo Ufficio, viene intercettata, il 15.1.1995, una conversazione telefonica dal Giappone intercorsa fra Delfo ZORZI e Piercarlo MONTAGNER. I due discutono del comportamento di ANDREATTA (chiamato “l’Africano” o quello che ha “sposato la negra”), commentano con soddisfazione il fatto che ANDREATTA non avesse avuto una “crisi mistica” (cioè non stesse collaborando con gli inquirenti) e che fosse ripartito per l’Estremo Oriente, ove ZORZI intendeva rintracciarlo e controllarlo, e accennano alla necessità di offrire ad ANDREATTA, in precarie condizioni finanziarie, una buona opportunità commerciale che doveva favorire, evidentemente, il mantenimento di tale linea processuale (cfr. nota R.O.S. in data 25.1.1995 e allegata trascrizione della telefonata, vol.46. fasc.1, ff.104 e ss., e anche, sul punto, int. SICILIANO, 25.1.1995, ff.4-5). - In data 19.6.1995, il Pubblico Ministero, nell’ambito dell’indagine nuovo rito nel frattempo aperta, procedeva all’audizione di Paola ROSSI, simpatizzante di destra di Mestre e soprattutto amica di vecchia data di Piero ANDREATTA, Piercarlo MONTAGNER e Stefano TRINGALI. La testimone riferiva di aver incontrato ANDREATTA a Mestre, nel mese di gennaio, pochi giorni dopo l’interrogatorio svolto da questo Ufficio, e che ANDREATTA le aveva riferito di essere stato chiamato in causa da Martino SICILIANO per l’attentato al COIN, attentato che egli aveva effettivamente commesso badando, comunque, che l’ordigno non esplodesse mentre delle persone transitavano nei pressi (dep. citata, ff.1-2). Paola ROSSI aggiungeva che nello stesso mese di gennaio ANDREATTA le aveva chiesto in prestito la propria vettura per recarsi all’aereoporto di Tessera e incontrarsi con Rudi ZORZI, fratello di Delfo (f.2). Con tale decisiva deposizione si chiudeva così il cerchio in merito alla responsabilità di Piero ANDREATTA per l’attentato del marzo 1970. - Qualche giorno prima comunque, il 26.5.1995, era stato nuovamente sentito Piero ANDREATTA alla presenza sia del Giudice Istruttore sia del Pubblico Ministero. Nel corso dell’interrogatorio, a tratti drammatico, ANDREATTA inizialmente negava ancora ogni responsabilità in merito all’episodio che gli veniva contestato e negava 143 144 anche di avere ancora intrattenuto, in quel periodo, contatti con Delfo ZORZI e le persone a lui vicine, ad eccezione di qualche incontro con Piercarlo MONTAGNER finalizzato peraltro a comprendere in quale direzione si stessero muovendo le indagini milanesi (f.6). Una volta mostrate ad ANDREATTA le fotografie scattate dal personale del R.O.S. in data 26.1.1995, che lo ritraevano all’aereoporto Tessera insieme a Rudi ZORZI (cfr. nota R.O.S. in data 31.1.1995, vol.46, fasc.2, f.2), egli aveva un momento di cedimento iniziando a raccontare circostanze di grande interesse per le indagini e soprattutto utili a comprendere cosa si stesse muovendo per cercare di controllarle e di bloccarle. Continuava infatti a negare di aver personalmente partecipato all’attentato, ma dichiarava di aver visto, nel portabagagli dell’autovettura di Giuseppe FREZZATO, otto o nove candelotti di gelignite che questi gli aveva detto essere destinati all’attentato al COIN (f.7). Presa visione di una fotografia facente parte dei rilievi tecnici relativi agli attentati di Trieste e Gorizia, ANDREATTA dichiarava che i candelotti visti nell’autovettura di FREZZATO erano esattamente di quel tipo, avvolti in carta di colore rosso bordeaux (f.7). Ammetteva di aver incontrato Rudi ZORZI all’aereoporto, tramite un appuntamento procurato da MONTAGNER, di avergli riferito le proprie preoccupazioni per quanto stava avvenendo e che aveva “bisogno di una mano” anche in quanto si era reso conto di essere stato interrogato per una cosa piccola (l’attentato al COIN) che si collegava tuttavia ad una molto più grande (evidentemente la strage di Piazza Fontana). ANDREATTA, partito per l’Estremo Oriente dopo aver avuto assicurazione che il messaggio era stato trasmesso a Delfo ZORZI, era stato raggiunto telefonicamente da questi in un albergo di Canton (f.9). ZORZI lo aveva intrattenuto al telefono per quasi due ore facendosi dire tutto quanto a sua conoscenza sull’andamento delle indagini dandogli consigli su come comportarsi e facendogli, non a caso, presente di avere offerto a Martino SICILIANO “un lavoro a Pietroburgo da 4 o 5 mila dollari al mese”, allusione indubbiamente allettante per lo squattrinato ANDREATTA (f.10). I contatti attivati da ANDREATTA dopo l’interrogatorio del gennaio 1995, a seguito del quale egli si era probabilmente accorto che quanto a sua conoscenza in merito all’attentato al COIN e ad altre circostanze era più importante di quanto potesse immaginare e forse un utile mezzo di scambio, non si erano tuttavia fermati qui. Aveva infatti incontrato il dr. MAGGI, sempre nel mese di gennaio, in casa dell’avv. PARISI e anche con il dottore aveva parlato di quanto stava avvenendo sul piano delle indagini. Il dr. MAGGI gli aveva detto, con aria stanca e preoccupata, che in quei giorni i Carabinieri lo stavano contattando per sondare la possibilità di una sua collaborazione e che aveva pertanto bisogno di aiuto (f.11). ANDREATTA gli aveva così procurato un contatto con Rudi ZORZI e i tre erano si erano incontrati a Venezia, in Piazzale Roma, dove Rudi ZORZI e il dr. MAGGI, parlando separatamente, si erano evidentemente accordati in merito all’aiuto da prestare all’ex-Reggente di Ordine Nuovo del Triveneto in difficoltà (f.11). Piero ANDREATTA ha confermato tali circostanze anche in successivi interrogatori dinanzi al P.M. di Milano (31.5.1995, 1°.6.1995 e 6.6.1995) in occasione dei quali egli aveva cominciato a parlare anche dei traffici di armi che alla fine degli anni ‘60, 144 anche con l’aiuto di Leopoldo BERGANTIN, stavano avvenendo all’interno della cellula di Ordine Nuovo di Mestre (cfr. int. al P.M., 1°.6.1995, f.3), ma anche in un successivo confronto con Paola ROSSI, che pure ha confermato il tenore delle confidenze ricevute da ANDREATTA (confronto dinanzi al P.M. in data 22.12.1995), egli ha continuato a negare la sua responsabilità in ordine all’attentato al COIN chiudendosi, a partire da tale momento, in un assoluto mutismo. - Grazie ad un provvedimento, adottato da questo Ufficio, di controllo e di ritardata consegna della corrispondenza del dr. Carlo Maria MAGGI, veniva acquisita copia di una lettere inviata da questi al suo difensore, acquisizione del tutto legittima ai sensi dell’art.341 c.p.p. del 1930 trattandosi di corrispondenza non ancora pervenuta al difensore stesso. In tale lettera il dr. MAGGI fa riferimento al fatto che Piero ANDREATTA aveva fatto capire nell’ambiente di non collaborare, commentando con soddisfazione “ed è già qualche cosa”, prova questa, anche a prescindere dagli equilibrismi di ANDREATTA che pur qualcosa si era lasciato sfuggire, che il gruppo teneva moltissimo al fatto che non fossero rivelate le circostanze, magari poche ma cruciali, che ANDREATTA aveva vissuto di persona (cfr. lettera allegata alla nota R.O.S. in data 8.6.1995, vol.46, fasc.4, ff.28 e ss.). - Anche se può apparire incredibile, alla luce delle ammissioni di ANDREATTA nell’interrogatorio reso in data 26.5.1995, questi ha continuato, per tutto l’anno successivo, a frequentare assiduamente MONTAGNER e TRINGALI cioè coloro che, per conto di Delfo ZORZI, stavano cercando di impedire, tentando in particolare di screditare la testimonianza di Paola ROSSI, che nuove testimonianze peggiorassero ulteriormente la situazione processuale di Delfo ZORZI e del suo gruppo. Le intercettazioni telefoniche e ambientali, estremamente mirate ed efficaci, disposte dalla Procura della Repubblica di Milano e riassunte nell’annotazione della Digos di Venezia in data 24.5.1996 hanno infatti evidenziato, senza alcun margine di dubbio, che l’attentato al COIN era avvenuto così come rievocato da Martino SICILIANO, per ragioni connesse al maltrattamento di una donna di destra durante un picchetto sindacale, e l’insistenza con cui gli uomini di Delfo ZORZI parlano di tale marginale episodio ne testimonia invece l’importanza, quantomeno sotto il profilo dell’esplosivo usato, e il suo collegamento con i fatti più gravi. Infatti, da tali intercettazioni si desume con estrema chiarezza che Piero ANDREATTA è stato aiutato economicamente da Delfo ZORZI per il suo personale silenzio in merito a tale episodio e ha continuato a chiedere aiuti economici sempre maggiori, tanto da infastidire MONTAGNER che lo considerava una sorta di “pensionato” a vita del gruppo di ZORZI. D’altronde Piero ANDREATTA, dinanzi ai suoi interlocutori, poteva rivendicare a sè di essersi “sacrificato” in favore dell’ambiente, salvando con il suo silenzio (che gli era costato il divieto di espatrio, gravissimo in relazione alle sue attività commerciali) l’intera organizzazione. Inequivoche in tal senso sono le frasi, riportate nell’annotazione, “se dovessi dire sì, sono io il colpevole di COIN comincia tutto, questo è il punto....” e “Piero che sa tutto..il Piero, se va a parlare....” Inoltre Piero ANDREATTA poteva rivendicare a sè dinanzi ai camerati, come emerge sempre dalle intercettazioni, il merito di avere messo di nuovo in contatto, quasi casualmente, nel gennaio 1995, il dr. MAGGI con Delfo ZORZI, impedendo così che il dottore, in piena crisi, decidesse di collaborare con i 145 146 Carabinieri e consentendo in suo favore da parte di ZORZI un intervento più rapido ed efficace di quello che era stato attivato con Martino SICILIANO il quale aveva comunque “disertato” e si era affidato ai rappresentanti dello Stato. Tale recupero del dr. MAGGI, prossimo a cedere, da parte dell’organizzazione era stato la precondizione che aveva portato, nell’agosto del 1995, alla presentazione da parte del dottore dell’esposto contro i Carabinieri, contromossa ispirata da Delfo ZORZI in un’ottica di inquinamento delle indagini (cfr. annotazione Digos di Venezia citata, f.19). - Le manovre di “ricatto” e di inquinamento in merito al pur modestissimo attentato al COIN non sono tuttavia terminate qui e non sono nemmeno state interrotte dall’arresto di ANDREATTA, MONTAGNER e TRINGALI, nell’estate del 1996, per il reato di favoreggiamento aggravato. Nel maggio del 1996, il Giudice Istruttore di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, nell’ambito dell’istruttoria relativa all’abbattimento dell’aereo ARGO 16 avvenuto nel 1973, con una coincidenza che testimonia comunque la circolarità delle indagini in questa materia, disponeva una perquisizione nell’abitazione di Baden FREZZATO, padre di Giuseppe e all’epoca dei fatti, nella sua veste di sottufficiale dell’Esercito, custode dell’hangar ove normalmente sostava l’aereo poi abbattuto. Nell’immediatezza della perquisizione Fiorella FREZZATO, sorella di Giuseppe, molto scossa, riferiva al personale del R.O.S. di Padova incaricato della perquisizione di avere ricevuto pochi giorni prima, l’8.5.1996, una visita di Ivana PESCE, negli anni ‘70 sentimentalmente legata a suo fratello Giuseppe e che da questi aveva avuto una figlia di nome Erika. Ivana PESCE, facendo presente di essere in gravi difficoltà economiche anche in quanto Giuseppe FREZZATO non aveva mai passato gli alimenti per la figlia Erika, prospettava la necessità di ricevere dalla famiglia FREZZATO la somma di 10 milioni. Solo in tal caso avrebbe evitato di testimoniare contro Giuseppe FREZZATO, coinvolto, secondo lei, nella “vicenda relativa ad un attentato in danno del COIN” (cfr. dep. Fiorella FREZZATO, 31.5.1996, f.7). Nell’occasione Ivana PESCE aveva anche fatto il nome di Martino SICILIANO (f.8). Fiorella FREZZATO ricordava di aver sentito parlare in casa, all’epoca dei fatti, di tale attentato e che suo fratello e Ivana PESCE, discutendo dell’episodio, avevano fatto riferimento a Piero ANDREATTA e alle conseguenze di quanto era avvenuto. Giuseppe FREZZATO aveva esclamato “Hai visto? Non è successo niente. E’ solo venuta giù una vetrina, ma l’hanno rimessa su e stanno tornando a lavorare come prima” e Ivana PESCE aveva risposto “Giuseppe, stai attento perchè se no ti denuncio” (dep Fiorella FREZZATO al G.I. di Venezia, 7.6.1996, f.2, e a questo Ufficio, 13.6.1996, f.2). Nonostante la chiarezza di questo insieme di circostanze e di questo scambio di battute, soprattutto se lette alla luce del racconto di Martino SICILIANO, Ivana PESCE, sentita da questo Ufficio in data 28.9.1996, pur ammettendo di essersi recata da Fiorella FREZZATO e di avere chiesto del denaro in favore della figlia Erika, ha negato di avere fatto alcun riferimento all’attentato ai magazzini COIN. Si noti del resto che Ivana PESCE, già sentita in data 29.4.1995, aveva assunto anche allora un comportamento estremamente reticente, ammettendo a malapena di essere stata iscritta per qualche tempo, proprio su richiesta di FREZZATO, al sindacato CISNAL del settore commercio (dep. citata, f.3). 146 Indipendentemente dall’eventuale rilevanza penale della vicenda narrata da Fiorella FREZZATO e tenendo presente che la sua testimonianza appare assolutamente spontanea e credibile, è estremamente significativo che un episodio in sè modesto e privo di dirette conseguenze penali come l’attentato del 27.3.1970 possa essere ancora ragione di ricatti e pressioni. In realtà l’intera vicenda dell’attentato rievocata da Martino SICILIANO porta a due significative conclusioni di grande rilevanza per il complesso delle indagini che sono state svolte: - le modalità con cui si era giunti all’esecuzione dell’attentato non dovevano assolutamente essere rivelate poichè la gelignite utilizzata era appartenente allo stesso lotto, entrato nella disponibilità della cellula di Mestre (e proveniente certamente da Roberto ROTELLI), utilizzato per gli attentati dell’ottobre 1969 a Trieste e Gorizia e con ogni probabilità entrato a far parte anche del materiale esplosivo raccolto per gli attentati del 12.12.1969. Piero ANDREATTA, soggetto instabile e processualmente pericoloso a differenza di Giuseppe FREZZATO, irraggiungibile in Argentina, doveva essere blandito e comprato da Delfo ZORZI e dal suo gruppo purchè non rivelasse in qual modo, per tale episodio, era stato acquisito l’esplosivo e quindi dove fosse il deposito di pronto uso di cui la cellula di Ordine Nuovo disponeva a Mestre, deposito più prossimo alla base d’azione del gruppo rispetto a quello di Paese (int. SICILIANO, 5.8.1996, f.4). Con ogni probabilità il deposito da cui provenivano tali candelotti di gelignite era lo stesso casolare nei pressi di Mestre ove, nel 1974, Marcello SOFFIATI avrebbe in seguito ritirato l’ordigno, composto anch’esso da candelotti di gelignite, trasportato prima a Verona e poi a Milano per essere inviato a Brescia (int. DIGILIO, 4.5.1996, ff.2-4). Sempre in termini probabilistici può ritenersi che tale casolare sia quello ubicato fra Mirano e Spinea di cui ZORZI e il suo gruppo, all’epoca, già disponevano, utilizzato soprattutto per l’apposizione di marchi contraffatti sugli articoli di pelletteria destinati ad essere esportati in Estremo Oriente (int. SICILIANO, 16.6.1996, ff.1-3; 2.8.1996, f.3, e, in merito all’identificazione del casolare, nota R.O.S. in data 24.7.1996, vol.6, fasc.4, ff.46 e ss.). - Quasi casualmente le indagini sull’attentato al COIN e l’agitarsi di ANDREATTA dopo il suo interrogatorio del 6.1.1995 hanno reso possibile il riannodarsi dei contatti fra Delfo ZORZI e il dr. MAGGI e il “recupero” di quest’ultimo da parte del gruppo proprio nei giorni in cui, grazie ai colloqui investigativi effettuati dal personale del R.O.S., il dr. MAGGI sembrava prossimo a convincersi dell’opportunità di assumere un atteggiamento quantomeno di “dissociazione”. Non è un caso che il dr. MAGGI, anch’egli, come ANDREATTA, in precarie condizioni economiche, in due lettere acquisite in copia e portanti le date 9.8.1995 e 1°.11.1995 accenni al suo difensore a sostanziosi contributi finanziari che sta per ricevere da un “amico” (cfr. note R.O.S. in data 18.8.1995 e 8.11.1995 e lettere allegate, vol.46, fasc.4, ff.83 e ss. e 88 e ss.). Così come è avvenuto per ANDREATTA, il vacillante silenzio del dr. MAGGI è stato certamente comprato dal camerata proprietario di un ingente impero commerciale e finanziario. 147 148 E’ probabile che solo a “transazione” avvenuta il dr. MAGGI, nell’agosto del 1995, quando peraltro i colloqui investigativi erano cessati da sei mesi, abbia deciso, in cambio, di presentare l’esposto contro il personale del R.O.S. ispirato da ZORZI quale condizione vincente per frenare le indagini (cfr. nota della Digos di Venezia in data 24.5.1996, f.19). Purtroppo, come è noto, tale esposto è stato coltivato, con zelo degno di migliore causa, dall’A.G. di Venezia ottenendo così parte del risultato che i suoi ispiratori si erano prefissati. A seguito della discovery degli atti seguita, nel giugno 1997, all’arresto del dr. MAGGI e all’emissione di ordinanza di custodia cautelare anche nei confronti di Delfo ZORZI, sono emerse comunque le prove del pagamento di una somma assai sostenuta al dr. MAGGI, così come le prime emergenze contestuali all’interrogatorio di ANDREATTA lasciavano già intuire. Indipendentemente, quindi, dalla dichiarazione di prescrizione che deve essere emessa nei confronti di SICILIANO, ZORZI, ANDREATTA e FREZZATO in relazione ai reati connessi all’attentato al COIN di Mestre, è certo che tale episodio, per il quale è stato speso tanto lavoro investigativo e, da parte dell’ambiente mestrino, tanti sforzi per occultare la verità, costituisce sul piano logico/indiziario una delle parti centrali della ricostruzione e del patrimonio complessivo delle indagini collegate. 148 20 GLI ALTRI EPISODI ASCRITTI A GIUSEPPE FREZZATO Nella prima ordinanza si è ampiamente parlato (cfr. capitolo 16) dell’attentato dimostrativo all’Università Cattolica di Milano del 15.10.1971, commesso da Martino SICILIANO partendo dall’abitazione milanese di Marco FOSCARI e utilizzando quale autista Giovanbattista CANNATA. Si tratta , come si ricorderà, del primo episodio emerso nel 1992 a carico di Martino SICILIANO a seguito delle dichiarazioni di Gianluigi RADICE e la notificazione della comunicazione giudiziaria presso l’indirizzo francese di SICILIANO, subito riferita da questi ai camerati rimasti a Mestre, aveva per la prima volta fatto entrare in fibrillazione l’ambiente dei fiduciari di Delfo ZORZI. Essi avevano infatti compreso benissimo che l’emergere di tale pur modesto episodio costituiva il primo segno di sgretolamento del muro di omertà che aveva sino ad allora protetto le attività della struttura di Mestre/Venezia e che le conseguenze potevano essere incalcolabili. Bobo LAGNA, dopo il primo allarme lanciato da SICILIANO, aveva consultato e fatto consultare i registri dell’Ufficio Istruzione di Milano al fine di acquisire notizie sullo stato delle indagini e di sapere chi fosse indiziato e se vi fossero indiziati per la strage di Piazza Fontana, ma fortunatamente non aveva potuto acquisire alcun dato in quanto il regime del vecchio rito è parzialmente diverso da quello attuale e le annotazioni relative ai procedimenti formalizzati non vengono, o meglio non venivano, aggiornate con i nomi dei nuovi indiziati, per ovvie ragioni di riservatezza, sino alla conclusione dell’istruttoria (cfr. int. SICILIANO, 19.10.1994, f.9, e 7.10.1995, f.4). Tornando alla materiale esecuzione dell’attentato all’Università Cattolica, Martino SICILIANO, sin dai suoi primi interrogatori, ha riferito che la bomba da mortaio utilizzata nell’occasione gli era stata procurata da Giuseppe FREZZATO, detto “IL CORVO” (int. 18.10.1994, f.7, e 19.10.1994, ff.1-2). Tale circostanza è del tutto in sintonia con la figura di FREZZATO, legato sia all’estrema destra sia ad ambienti malavitosi (int. SICILIANO, 8.11.1996, f.3), già condannato per la detenzione di esplosivi e munizioni rinvenuti nella sua abitazione (cfr. rapporto del Commissariato della P.S. di Mestre in data 9.4.1970) e indicato anche da altri testimoni (dep. Giuliano CAMPANER, 1°.4.1995, f.2) quale persona coinvolta nel traffico di simili residuati bellici. Giuseppe FREZZATO aveva anche ceduto a Martino SICILIANO la pistola cal. 6,35 sequestrata allo stesso SICILIANO in occasione di una banale rissa avvenuta nel 1971 dinanzi alla pizzeria “Il Tronco” di Corso del Popolo a Mestre (int.SICILIANO, 18.10.1994, f.7, e 28.3.1996, f.5). 149 150 I reati ascritti a Giuseppe FREZZATO, emigrato alcuni anni or sono in Argentina per ragioni peraltro non connesse alle indagini in corso, devono essere dichiarati estinti per intervenuta prescrizione Sempre con riferimento all’attentato all’Università Cattolica di Milano, merita di essere ricordato un nuovo particolare, emerso nella fase finale dell’istruttoria, che corrobora il racconto di Martino SICILIANO anche in relazione a tale attentato minore. Questo Ufficio non aveva potuto procedere all’audizione del Conte Marco FOSCARI per le difficoltà connesse al fatto che questi, da molto tempo, risiede stabilmente a Palma de Majorca. Tuttavia il Conte FOSCARI, nell’ottobre 1997, è stato intervistato in tale località dal giornalista veneziano Maurizio DIANESE durante il lavoro di ricerca e di redazione di un libro, di prossima pubblicazione, dedicato alle vicende del gruppo mestrino e veneziano di Ordine Nuovo. L‘ampia intervista, con il consenso dell’interessato, è stata registrata e Maurizio DIANESE ne ha prodotto a questo Ufficio la trascrizione (cfr. deposizione e verbale di acquisizione in data 30.10.1997). Nell’ambito dell’intervista il Conte FOSCARI, rievocando il suo rapporto di amicizia e di comune militanza politica nell’ambiente di destra con Martino SICILIANO, ha ricordato di averlo accompagnato con la sua autovettura da Mestre a Milano proprio il giorno in cui SICILIANO portava con sè in una borsa la bomba da mortaio destinata ad essere collocata, qualche giorno dopo, nei pressi del muro di cinta dell’Università Cattolica (cfr. pagg. 17-18 della trascrizione). Il Conte FOSCARI, pur personalmente estraneo alla progettazione e all’esecuzione dell’attentato, ha anche ricordato che Martino SICILIANO era partito alla volta dell’Università Cattolica dopo una cena fra amici svoltasi proprio nella casa di FOSCARI a Milano e, essendo stato messo al corrente da SICILIANO delle sue intenzioni, lo aveva esortato a deporre l’ordigno almeno in un punto isolato ove non potesse cagionare danni a persone, esortazione che era stata accolta (cfr. pag.18 della trascrizione e int. SICILIANO, 18.10.1994, f.8; 14.10.1997, f.2). Anche in relazione ai più modesti particolari, la narrazione di Martino SICILIANO ha trovato, quindi, piena conferma. 150 21 LA DETENZIONE DI MINE ANTICARRO DA PARTE DELLA CELLULA DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA L'episodio, costituito dalla disponibilità da parte del dr. MAGGI di mine anticarro, è uno dei primi di cui Carlo DIGILIO ha parlato nei suoi interrogatori in una fase di collaborazione non ancora completa e caratterizzata da una disponibilità ancora incerta, ma progressiva a fare chiarezza e dalla scelta di aggiungere e mettere man mano a fuoco particolari in merito a ciascun fatto cui aveva partecipato o assistito. La vicenda delle mine anticarro, appunto uno dei primi episodi progressivamente messi a fuoco, è un episodio molto importante perchè Carlo DIGILIO, riferendolo sin dall'autunno 1993, ha aperto con esso un primo spiraglio per far comprendere la pericolosità e la potenzialità militare del gruppo mestrino/veneziano che sino a quel momento nessuna indagine sull'eversione di destra aveva avuto la possibilità di inquadrare nella sua vera portata. Vediamo sul punto le dichiarazioni di Carlo DIGILIO in ordine cronologico: “””....Nei primi anni '70, potrebbe essere il 1971 o 1972, il dottor MAGGI mi chiese un favore a cui non potevo acconsentire e che comunque non ero in grado di fargli. Infatti egli mi disse che il suo gruppo aveva recuperato delle mine anticarro, probabilmente residuati del periodo dell'ultima guerra, e che voleva avere un aiuto tecnico per smontarle e cioè aprirne l'involucro di metallo e disinnescarle. Io gli dissi che mi intendevo certamente di armi, ma che non mi intendevo di esplosivi e non volevo comunque collaborare ad una operazione del genere. MAGGI mi disse che avrebbe cercato altrove. Qualche tempo dopo, penso proprio accompagnato dal MAGGI, ebbi occasione di vedere a Mestre una di queste mine già smontata; l'involucro di metallo era già stato tolto ed era rimasta la ciambella di esplosivo di colore giallino che ritengo fosse T4. Non sono assolutamente in grado di ricordare in quale luogo mi fu mostrata questa forma di esplosivo. Ho tuttavia il ricordo di un garage pertinente a qualche abitazione. MAGGI mi disse che questo esplosivo era stato ripescato dall'acqua ove non si deteriorava mai ed accennò al recupero anche di altre mine del genere in "laghetti" e in parte in mare vicino a Venezia. Mi accennò a subacquei che avevano effettuato tali recuperi....””” (int. 9.10.1993). “””....Riprendendo il discorso dell'esplosivo già estratto dal suo contenitore metallico e che mi fu mostrato a Mestre, mi è venuto in mente che questa sorta 151 152 di corona circolare con un piccolo foro nel mezzo, come una grossa forma di formaggio, si trovava nel portabagagli di un'autovettura, in un box, appunto a Mestre.... La forma di esplosivo era alta una diecina di centimetri e del diametro di circa quaranta ed era di colore giallino....””” (int.30.10.1993). Nel corso di un successivo interrogatorio (27.11.1993), Carlo DIGILIO ha precisato che le mine anticarro residuate dalla seconda guerra mondiale provenivano, così come alcune armi, da recuperi effettuati nei laghetti che circondano Mantova, nei quali il materiale era stato gettato dalle truppe tedesche in ritirata sotto l'incalzare, nella primavera del 1945, delle forse angloamericane. Il recupero era stato effettuato da un subacqueo facente parte del gruppo mantovano/veronese di Marcello SOFFIATI e Roberto BESUTTI. La richiesta del dr. MAGGI a carlo DIGILIO non è rimasta comunque isolata, ma ad essa si era aggiunta una richiesta analoga in tema di inneschi per esplosivi: “””....Mi sono anche ricordato che qualche tempo dopo la richiesta di Maggi da me rifiutata di aiutarlo nello smontaggio di mine anticarro, egli mi chiese se conoscevo qualcuno che potesse aiutarlo in un'attività di smontaggio di bombe a mano SRCM al fine di recuperare le capsule detonanti al fulminato di mercurio che, riunite in un certo numero, potevano servire come secondo detonatore da usarsi per esplosivi sordi....””” (int. 27.11.1993). In occasione di uno dei due incontri, insieme al dr. MAGGI era presente anche Delfo ZORZI, elemento spiccatamente operativo del gruppo, anche se DIGILIO non era in grado di ricordare se ZORZI fosse stato presente in occasione dell'esame delle mine anticarro o del discorso in merito alle SRCM da smontare per usarne i detonatori (interr. 16.4.1994). Infine, DIGILIO ha ricordato la presenza di un altro militante allorchè aveva potuto vedere una mina anticarro già smontata: “””....Ritornando all'episodio delle mine anticarro mostratemi da MAGGI, posso aggiungere che, accanto alla vettura all'interno della quale si trovavano le mine già smontate, c'era proprio il MONTAVOCI e la vettura, come ora sono riuscito a focalizzare, non di trovava in un garage ma in un sottoportico semichiuso di una viuzza laterale di Corso del Popolo, a Mestre, non lontano da Piazza Barche. MONTAVOCI mi disse trionfante "hai visto che lavoro siamo riusciti a fare?", accennando alle mine smontate da cui era stato tratto l'esplosivo giallino....””” (interr.6.11.1995). 152 Giampiero MONTAVOCI era un giovane componente del gruppo veneziano di Ordine Nuovo, molto legato a MAGGI cui faceva spesso da guardaspalle. Si osservi che Carlo DIGILIO, in un successivo interrogatorio (5.5.1996), ha indicato in Giampiero MONTAVOCI l'autore materiale dell'attentato avvenuto nel febbraio 1978 in danno della sede de Il Gazzettino di Venezia che si era concluso tragicamente con la morte della guardia giurata Franco BATTAGLIARIN che prestava servizio dinanzi al palazzo. Non è stato possibile interrogare MONTAVOCI in merito a queste vicende in quanto egli è deceduto nel 1982 in un incidente stradale. La disponibilità delle mine anticarro da parte del dr. MAGGI è una circostanza tutt'altro che secondaria nel quadro della ricostruzione della struttura operativa di Ordine Nuovo e della continuità della stessa a partire dalla seconda metà degli anni '60 quantomeno sino agli inizi degli anni '80. Infatti mine anticarro del tutto identiche si trovavano nel casolare di Paese, base clandestina e operativa del gruppo (interr. DIGILIO, 19.2.1994, f.3). Inoltre altri particolari forniti da DIGILIO (in parte anche confermati da Martino SICILIANO; int.7.10.1995 f.3) e cioè il recupero da "laghetti (individuati in quelli che circondano Mantova) dell'esplosivo militare non soggetto ad alterazioni in acqua; la disponibilità di esplosivo "sordo" e cioè non facile ad attivarsi come è appunto sovente quello militare; la necessità quindi di recuperare le capsule detonanti delle SRCM da utilizzarsi come detonatore secondario, costituiscono elementi di piena e concreta continuità con quanto è emerso in altri procedimenti in relazione alla dotazione della struttura occulta di Ordine Nuovo del Veneto e alla sua operatività sino al 1979/1980. Infatti sia l'ordinanza di rinvio a giudizio relativa al procedimento principale concernente la strage di Bologna sia la requisitoria relativa all'istruttoria-bis concernente la medesima strage, depositata nell'estate del 1994, dedicano ampio spazio alle dichiarazioni di alcuni collaboratori già appartenenti all'area di Ordine Nuovo (Sergio CALORE, Paolo ALEANDRI, Gianluigi NAPOLI e Presilio VETTORE), secondo le quali la struttura veneta, facente capo fra gli altri a Massimiliano FACHINI, disponeva appunto da sempre di esplosivo militare sordo, recuperato da laghetti all'epoca non individuati e che aveva bisogno di un detonatore secondario per poter esplodere in quanto offriva maggiore resistenza rispetto ad altri esplosivi come quelli da cava per uso civile. Tale esplosivo (prevalentemente tritolo), secondo le dichiarazioni di tali collaboratori "storici", quantomeno sino alla fine degli anni '70 veniva acquisito dai militanti veneti e poi passato ai componenti della struttura romana che allora operava sotto la sigla "Costruiamo l'Azione" e altre sigle che avevano superato la dizione tradizionale "Ordine Nuovo". L'esplosivo proveniente dal Veneto era stato poi utilizzato a Roma per i grandi attentati della campagna terroristica della primavera del 1979 (quelli contro il 153 154 Campidoglio, il carcere di Regina Coeli, il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministero degli Affari Esteri), alcuni dei quali solo per fortunate coincidenze non avevano provocato un gran numero di vittime. Si aggiunga che nella fase conclusiva dell’istruttoria gli accertamenti effettuati dalla Digos di Mantova e l’audizione di Davide BOTTURA, responsabile della CO.VE.SMI., ditta specializzata nel recupero e nella disattivazione di asplosivi, hanno consentito di accertare che effettivamente nei laghetti, formati dal fiume Mincio, che circondano la città si trovano e sono state anche recentemente recuperate mine anticarro e altri residuati bellici, abbandonati dalle forze tedesche e repubblichine alla fine del secondo conflitto mondiale (cfr. nota della Digos di Mantova in data 25.6.1997 e dep. Davide BOTTURA, 21.6.1997, vol7, fasc.8). Può quindi affermarsi che il racconto di Carlo DIGILIO, seppur giunto troppo tardi per essere utilizzato nel procedimento relativo a tali gravissimi episodi, si salda perfettamente con quanto, in forma più indiretta, era emerso dalle dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia, confermando il ruolo del gruppo veneto quale stabile centro di preparazione e di smistamento del materiale esplosivo. Ed in effetti il racconto di Carlo DIGILIO, che coinvolge a livello operativo e direttivo il dr. Carlo Maria MAGGI, non si è fermato all'episodio delle mine anticarro esaminate agli inizi degli anni '70 a Mestre. Nel corso dei successivi interrogatori, effettuati nel 1996 in una fase di collaborazione ormai priva delle reticenze iniziali, Carlo DIGILIO ha infatti parlato di una serie ripetuta di cessioni, autorizzate dal dr. MAGGI, di notevoli quantità di esplosivo (prima acido picrico, molto simile al tritolo, e poi tritolo) a Roberto RAHO il quale doveva poi convogliarlo, insieme ad alcuni M.A.B. e altre armi, alla struttura romana. Appare opportuno riportare integralmente tali interrogatori: “””.... Vi fu una.... cessione di esplosivo a Roberto RAHO che si colloca intorno al 1978/1979. In occasione di alcune miei escursioni a San Martino di Castrozza io avevo recuperato, in un ghiaione, una granata a mano austriaca residuato della I guerra mondiale. Era una di quelle del tipo difensivo, con il corpo rotondo e con un manico metallico piegato che serve appunto per lanciarle. Il contenuto di tale granata era circa mezzo chilo di acido picrico, un esplosivo di colore giallognolo che somiglia un po' al tritolo. Io la svuotai e conservai in casa l'esplosivo, che aveva la forma cilindrica, dopo averlo tagliato a cubetti. Qualche mese dopo questo recupero, che avvenne un'estate che può essere del 1978 o del 1979, Roberto RAHO si presentò senza preavviso a casa mia e mi chiese nuovamente se avevo dell'esplosivo. Anche questa volta fu molto insistente e mi disse che doveva portarlo a Roma, come aveva già fatto con i candelotti che gli avevo ceduto nel 1974. 154 Gli dissi che avevo solo quell'acido picrico ed egli mi rispose che andava benissimo. Anche questa volta, prima ancora che io glielo chiedessi, mi fece subito presente che c'era l'autorizzazione del dr. MAGGI. Consegnandogli l'esplosivo, segnalai a RAHO che doveva stare attento a non avvicinarlo a fonti di calore. Ricordo che in seguito il dr. MAGGI mi confermò di avere dato l'autorizzazione e mi disse che ogniqualvolta venisse qualcuno a suo nome, anche senza disturbarlo, avrei dovuto cercare di fare quello che mi veniva richiesto....””” (DIGILIO, 7.8.1996, f.3) Tale episodio è stato solo il primo di una lunga serie: “””....Oltre agli episodi di cui ho parlato nell'interrogatorio in data 7.8.1996, ricordo un altro episodio di cessione di esplosivo a Roberto RAHO che si colloca anch'esso nel 1978/1979 e cioè quando gli cedetti il mezzo chilo di acido picrico. SOFFIATI mi portò una mina anticarro tedesca, a forma di tubo, lunga circa 70 centimetri che conteneva un paio di chili di TNT cioè tritolo. Si trattava di mine che venivano usate per far saltare i cingoli dei carri nemici e ricordavano i bangaloore americani. Venivano collocate a mano dai soldati tedeschi. Io aprii questo involucro di metallo traendone l'esplosivo che era di colore giallino e in gergo chiamavamo "formaggio". Io lo divisi a cilindretti utilizzando un seghetto per il legno compensato. Venne Roberto RAHO a casa mia a ritirarlo e mi disse che doveva mandarlo ai camerati di Roma. SOFFIATI mi disse che questa mina era stata recuperata dai laghetti di Mantova tramite il gruppo di BESUTTI il quale non l'aveva recuperata personalmente, ma aveva utilizzato un suo sommozzatore. Si trattava degli stessi laghetti da cui, come ho già ricordato nei primi interrogatori, era stato recuperato il moschetto tedesco. Nel giro di poco tempo SOFFIATI mi portò, in diverse occasioni, altri quattro o cinque di questi ordigni e li teneva in una vecchia borsa di vilpelle tipo quelle dei rappresentanti. Veniva a Venezia in treno come suo solito. Io, per precauzione, li tenevo in acqua tiepida nella vasca da bagno. Io toglievo i tappi, alcuni dei quali erano a volte corrosi e facili da togliere, e poi spingevo fuori l'esplosivo utilizzando uno di quei tubi di cartone che si usano per contenere i fogli da disegno. 155 156 Questo materiale fu ritirato da RAHO il quale, come sempre, diceva che doveva mandarlo a Roma. RAHO veniva a casa mia tranquillamente abbigliato come un normale turista. Come ho già accennato, MAGGI mi aveva dato l'autorizzazione a fare questo lavoro e a consegnare tutto a RAHO....””” (DIGILIO, 6.3.1997). Roberto RAHO di Treviso, autorizzato dal dr. MAGGI a ricevere l'esplosivo da Carlo DIGILIO una volta opportunamente sistemato e reso non pericoloso al trasporto, era un componente della struttura veneta, molto legato a FACHINI e a CAVALLINI, ed era fra i non molti militanti liberi di muoversi dopo gli arresti che avevano falcidiato, all'inizio degli anni '70, le cellule milanese e padovana costringendo altri militanti scampati all'arresto, come ROGNONI e POZZAN, alla latitanza in Spagna. Proprio Roberto RAHO era stato indicato da Sergio CALORE e Paolo ALEANDRI, nel procedimento svoltosi a Roma, come colui che aveva il compito di raccordare la struttura veneta con la struttura romana e aveva materialmente consegnato al gruppo di ALEANDRI una decina di chili di esplosivo fra il 1978 e il 1979. Non a caso proprio nell'abitazione di Roberto RAHO, a Treviso, si è svolta nel settembre 1995 la conversazione con Piero BATTISTON, appena giunto dal Venezuela, intercettata dagli inquirenti veneziani e risultata di estrema utilità per confermare e stimolare il racconto di Carlo DIGILIO in merito agli avvenimenti che avevano coinvolto negli anni '70, a vario titolo, tutti i componenti del gruppo veneto e del gruppo milanese. Sentito in data 4.10.1995 dal P.M. di Milano nell'immediatezza di tale intercettazione ambientale, Roberto RAHO ha avuto peraltro, nonostante i saldi vincoli che tuttora lo legano a coloro con cui aveva condiviso la militanza politica, un momento di "cedimento" incalzato dal P.M., ammettendo di avere trasportato a Roma vari borsoni con armi, fra cui M.A.B., ed esplosivo a suo dire consegnatigli direttamente da DIGILIO nell'appartamento di Sant'Elena e portati dallo stesso RAHO a Roma per la consegna ad ALEANDRI. L'aspetto dell'esplosivo era quello di cubetti giallini simili al formaggio grana e cioè esattamente l'aspetto che ha il tritolo. RAHO ha poi affermato di avere saputo, anche se successivamente ai fatti, che tale esplosivo era stato usato per gli attentati dinanzi alla sala consiliare del Campidoglio, dinanzi al carcere di Regina Coeli e dinanzi al palazzo del Consiglio Superiore della Magistratura. Roberto RAHO non ha voluto dire su indicazione di quale "superiore" e in quale contesto associativo avesse effettuato tali operazioni di trasporto di esplosivo, ma comunque il complessivo quadro probatorio formatosi, omogeneo anche alle risultanze dei precedenti processi concernenti le attività di Ordine Nuovo, consente di affermare l'esistenza a carico del dr. Carlo Maria MAGGI di gravi indizi in merito alla direzione e supervisione da parte sua, nella 156 qualità di "Reggente" di Ordine Nuovo per il Triveneto, fra l'inizio degli anni '70 e quantomeno il 1979/1980 del traffico di esplosivo in dotazione alla struttura occulta. 157 158 22 IL FAVOREGGIAMENTO NEI CONFRONTI DI MILITANTI DEL GRUPPO "LA FENICE" Emergono dalle risultanze processuali anche gravi indizi di responsabilità nei confronti del dr. Carlo Maria MAGGI in relazione all'attività di favoreggiamento operata nel 1974 nei confronti di Piero BATTISTON e di Francesco ZAFFONI, militanti del gruppo "La Fenice" di Milano. In tale caso gli elementi a carico del MAGGI sono stati inizialmente e direttamente forniti dalla viva voce degli stessi soggetti "favoriti". Piero BATTISTON era, all'inizio degli anni '70, uno degli uomini di fiducia di Giancarlo ROGNONI, pienamente inserito nella struttura del gruppo ordinovista di Milano e più volte fermato o arrestato in occasione di episodi di violenza. Di Piero BATTISTON, il cui nome compare moltissime volte nella presente istruttoria ed è indiziato di costituzione di banda armata e di altri reati, si erano perse di fatto le tracce da quasi vent'anni in quanto egli si era trasferito in Venezuela dove gestiva varie attività commerciali anche insieme al camerata Roberto RAHO. Carlo DIGILIO, infatti, durante la sua latitanza a Santo Domingo, si era recato alcune volte in Venezuela, aveva incontrato entrambi e si era scambiato con loro alcune informazioni ricevendo da essi anche un aiuto economico. Piero BATTISTON era rientrato per un breve periodo in Italia nell'autunno del 1995, incontrandosi a Treviso con Roberto RAHO il quale si era ristabilito da alcuni anni nel nostro Paese. In tale appartamento, tuttavia, in relazione a reati peraltro di carattere, era in corso comune da parte della Procura della Repubblica di Venezia un'intercettazione ambientale e così i commenti dei due sulle indagini in corso in Italia, e in particolare sulla collaborazione di DIGILIO e gli accenni ai vecchi episodi avvenuti, erano stati perfettamente registrati. Sentito quindi nel settembre/ottobre 1995 sia dal P.M. di Milano sia dal P.M. di Venezia sia da questo Ufficio, Piero BATTISTON, a fronte di alcune frasi inequivocabili contenute nella registrazione, si era risolto a fare importanti ammissioni in merito a quanto da lui appreso o direttamente vissuto negli anni della militanza, confermando parecchie informazioni fornite da Carlo DIGILIO o addirittura anticipando altre circostanze di cui in quel momento DIGILIO non aveva ancora parlato, ma che erano note sia al BATTISTON sia al RAHO. Tralasciando in questa sede le notizie di maggior rilevanza fornite dal BATTISTON e di diretto interesse per le indagini collegate in corso presso la procura di Milano e la Procura di Brescia, egli, con riferimento alla sua fuga dall'Italia, ha raccontato di avere abbandonato in fretta e furia Milano appena nel dicembre 1973 era stata rinvenuta nel garage di proprietà della sua famiglia una quantità di armi ed esplosivo 158 fra cui panetti di tritolo identici a quelli utilizzati da ROGNONI e Nico AZZI per l'attentato al treno Torino/Roma del 7.4.1973. Si tratta del rinvenimento dell'esplosivo nel garage "Sanremo" (ove fra l'altro lavorava Marzio DEDEMO, cognato di Carlo DIGILIO) già ampiamente esaminato nella sentenza/ordinanza di questo Ufficio in data 18.3.1995 proprio per i collegamenti fra tale rinvenimento e la tentata strage sul convoglio Torino/Roma. Piero BATTISTON, sfuggendo all'esecuzione del mandato di cattura, aveva quindi raggiunto Venezia ed era stato aiutato dal dr. MAGGI che già da tempo conosceva. Il dr. MAGGI lo aveva ospitato per alcuni giorni in casa sua in zona Giudecca, poi gli aveva procurato rifugio per alcuni giorni presso l'abitazione di Pina GOBBI e di suo marito, persone legate al gruppo e gestori all'epoca della trattoria Lo Scalinetto, e infine gli aveva reso possibile dormire per diversi mesi in un locale sito al pianterreno di una vietta centrale di Venezia che aveva l'aria di una sede o di un punto di incontro dismesso. Carlo DIGILIO, che disponeva delle chiavi di quel locale, si era occupato di BATTISTON in tutto quel periodo invitandolo anche più volte presso la sua abitazione a Sant'Elena (deposizione al P.M. di Milano 1° e 3.10.1995, al P.M. di Venezia 1°.10.1995, a questo Ufficio 3.10.1995). Nel giugno 1974, Piero BATTISTON aveva lasciato Venezia avviandosi, sempre tramite gli ordinovisti veneziani, in Grecia, dove già erano rifugiati diversi militanti italiani soprattutto veronesi, e in tempi successivi aveva infine raggiunto la Spagna. Si noti che BATTISTON, durante la permanenza a Venezia, aveva avuto modo di notare in casa di DIGILIO attrezzatura per riparare o modificare armi e aveva da questi appreso numerose notizie in merito alla costante movimentazione da parte del gruppo di materiale esplosivo fra cui in particolare gelignite. Molto simili sono le circostanze della fuga a Venezia di Francesco ZAFFONI, soprannominato "Mentina", altro componente del gruppo "La Fenice" seppur con ruoli più marginali rispetto a quelli di soggetti come AZZI e BATTISTON. Più o meno nello stesso periodo, e cioè nel gennaio 1974, Francesco ZAFFONI si era reso conto tramite i suoi legali che stava per divenire definitiva una sentenza a suo carico relativa ad una partita di esplosivo che egli aveva detenuto negli anni precedenti per conto di Giancarlo ESPOSTI. Aveva quindi deciso di fuggire per sottrarsi alla carcerazione e aveva anch'egli raggiunto Venezia dove già si trovava BATTISTON e si era anch'egli appoggiato al dr. MAGGI che si era reso disponibile ad aiutare anche lui. Francesco ZAFFONI aveva quindi dormito nello stesso locale utilizzato da BATTISTON dopo un'iniziale breve permanenza nell'appartamento di MAGGI. Anch'egli si era appoggiato, per le esigenze di vita, alla trattoria Lo Scalinetto e aveva conosciuto in tale frangente Carlo DIGILIO che avrebbe poi incontrato in 159 160 Spagna negli anni successivi (deposizione a questo Ufficio 25.11.1995 e 22.12.1995). La permanenza di ZAFFONI a Venezia era durata un periodo minore rispetto a quella di BATTISTON in quanto egli, dopo una decina di giorni, aveva raggiunto Barcellona e in seguito Madrid. A titolo di prima conferma del racconto dei due milanesi in merito alla loro latitanza a Venezia, si noti che la loro presenza in quei mesi quantomeno allo Scalinetto in compagnia di DIGILIO, è stata confermata da Pina GOBBI che all'epoca gestiva la trattoria (deposizione a questo Ufficio, 25.10.1995) e da Gastone NOVELLA, simpatizzante del gruppo e amico sia di MAGGI sia di DIGILIO (deposizione a questo Ufficio, 9.12.1995, f.2, e 11.2.1996, f.3). Le ricerche del locale ove MAGGI aveva ospitato i due latitanti, benchè laboriose trattandosi di un punto di incontro non più esistente da molti anni, hanno avuto esito positivo. Infatti Martino SICILIANO, pur non più presente a Venezia al momento dell'arrivo dei due milanesi, ha ricordato che esisteva un locale simile nella zona di Campo Sant'Angelo in cui, alla fine degli anni '60, dove aveva sede il circolo "Il Quadrato" e in cui si incontravano gli ordinovisti veneziani fra cui il dr. MAGGI e l'avv. Giampiero CARLET che aveva nei pressi il proprio studio legale. In seguito il circolo si era sciolto, ma per alcuni anni il dr. MAGGI aveva mantenuto la disponibilità del locale (int. SICILIANO, 14.3.1996, f.3). Più preciso sul punto ha potuto essere Carlo DIGILIO il quale ben conosceva il locale avendo frequentato il circolo Il Quadrato a Venezia insieme ad altri aderenti o simpatizzanti di Ordine Nuovo. Egli ha infatti ricordato di avere visto a Venezia, nel 1974, Pietro BATTISTON e Francesco ZAFFONI, di avere in particolare invitato BATTISTON a casa sua (int.10.11.1995, f.2) e che entrambi avevano dormito nella sede del vecchio circolo Il Quadrato, in zona Campo Sant'Angelo nel pieno centro di Venezia, locale inizialmente affittato dall'avv. CARLET (ragione per cui, si osservi, BATTISTON ricordava la presenza di vecchi libri giuridici) e di cui il dr. MAGGI aveva continuato a disporre delle chiavi anche dopo che il circolo era stato sciolto (int.19.4.1996, f.4, e 15.5.1996, f.1). In base a tali elementi e a seguito degli accertamenti effettuati dal R.O.S. Carabinieri di Padova, la vecchia sede del circolo Il Quadrato è stata individuata senza alcun dubbio nel locale sito al piano terra di Calle del Traghetto Garzoni 3420/b, appunto in zona Campo San'Angelo (cfr. nota R.O.S. Carabinieri di Padova in data 26.4.1996). L'attività di favoreggiamento posta in essere nel 1974 dal dr. MAGGI, pur essendo un episodio apparentemente minore, testimonia la stabilità e la 160 continuità dei rapporti fra il gruppo milanese e il gruppo veneziano e la reciproca fiducia che da molto tempo esisteva fra i loro componenti. Tali strettissimi rapporti fra i milanesi e i veneziani, che le indagini relative alla c.d. pista nera non erano all'epoca riuscite a fare emergere, erano proseguiti e si erano mantenuti sino alla metà degli anni '70 ed oltre quale continuazione dei rapporti antichissimi instauratisi fra ROGNONI e MAGGI ed esposti nel racconto di Martino SICILIANO, di Gianluigi RADICE, di Giancarlo VIANELLO e di molti altri testimoni. Infatti, fin dalla metà del 1969, vi erano stati continui incontri sia nei pressi di Venezia, in particolare a Villa Foscari, sia a Milano tanto che ZORZI, nell'autunno del 1969, era stato più volte ospitato nella casa di Giancarlo ROGNONI a Milano, in Via Brusuglio, e MAGGI e ZORZI avevano effettuato insieme vari viaggi a Milano. Tali continui contatti, mai messi a fuoco prima delle recenti indagini, erano stati con ogni probabilità la base politico/operativa che aveva reso possibile l'appoggio logistico sul territorio milanese fra gli attentati del 1969. 161 162 23 LA GESTIONE DELLA DOTAZIONE LOGISTICA DEL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI MESTRE/VENEZIA E I RAPPORTI IN MATERIA DI ARMI FRA IL GRUPPO DI ORDINE NUOVO DI VENEZIA E GILBERTO CAVALLINI Carlo DIGILIO, nel corso dei suoi interrogatori, ha ammesso di aver proseguito, dopo il definitivo trasferimento di Delfo ZORZI in Giappone, su disposizione del dr. MAGGI, l'attività di manutenzione e di modifica delle armi facenti parte della dotazione logistica di Ordine Nuovo, il cui baricentro venendo meno a partire dalla metà degli anni '70 l'apporto concreto di ZORZI, si era spostato progressivamente da Mestre a Venezia. Riveste particolare importanza in questa seconda fase, che in particolare dal 1977/1978 aveva visto la riorganizzazione del gruppo con l'inserimento di nuovi elementi e la creazione di nuovi rapporti, il rapporto privilegiato costituito dai veneziani, nel campo dell'appoggio logistico e della vendita di armi, con Gilberto CAVALLINI inserito nel gruppo N.A.R. Gilberto CAVALLINI, già latitante dalla metà degli anni '70, non proveniva dall'area di Ordine Nuovo, bensì dalle frange più estremiste della gioventù missina di Milano e infatti in tale contesto si era reso responsabile del primo grave reato partecipando all'uccisione del giovane studente di sinistra Gaetano Amoroso. Evaso e resosi latitante, CAVALLINI aveva stretto rapporti intorno al 1977/1978 con l'area dei N.A.R. romani dei fratelli FIORAVANTI, di SODERINI, di Giorgio VALE ed altri e nel medesimo torno di tempo, sopratutto per sfruttare più ampi appoggi logistici era entrato in contatto con alcuni dei "vecchi" ordinovisti del veneto quali Massimiliano FACHINI, Roberto RAHO, alcuni padovani e, come tra poco si vedrà, il dr.Carlo Maria MAGGI. I contatti di Gilberto CAVALLINI con gli ordinovisti veneti erano da questi in buona parte gestiti separatamente e tenuti in forma personale e riservata in quanto le posizioni ideologiche e le visioni operative e strategiche dell'area dei N.A.R. e degli ordinovisti non erano né comuni né in molti aspetti sovrapponibili. Peraltro, già nei processi celebrati alla fine degli anni '80 (fra cui il già citato processo del "Poligono di tiro di Venezia" in cui erano imputati fra gli altri il dr. MAGGI, molti veneziani e veronesi, il col. SPIAZZI e Giancarlo ROGNONI, Cinzia DI LORENZO e altri milanesi) erano emersi vari indizi dei rapporti di scambio fra gli ordinovisti e CAVALLINI, ma tali indizi non avevano potuto pienamente concretizzarsi. Infatti, nel procedimento nato a lato di quello del Poligono e celebrato a Milano nei confronti di Carlo DIGILIO, di suo cognato Marzio DEDEMO e di Giovanni TORTA (l'armiere milanese che aveva fornito illegalmente moltissime armi a DIGILIO) le condanne avevano sì investito il traffico di armi diretto ai veneziani e ad alcuni esponenti della malavita comune, ma le specifiche imputazioni relative alla cessioni delle armi da 162 TORTA a CAVALLINI tramite DIGILIO erano sfociate in assoluzioni per insufficienza di prove. Nel corso della presente istruttoria, Carlo DIGILIO ha molto esitato prima di narrare i rapporti illeciti instaurati insieme a MAGGI con CAVALLINI a partire dal 1978, esitazioni le cui motivazioni dovranno ancora essere approfondite non essendo tra l'altro escluso che alcuni soggetti coinvolti non siano ancora stati toccati. Tuttavia questo Ufficio ha raccolto, soprattutto a partire dall'estate del 1995, una serie ricchissima di dichiarazioni provenienti da diversi settori (ex ordinovisti come Sergio CALORE, Paolo ALEANDRI, Piero BATTISTON, ex aderenti ai N.A.R. come Stefano SODERINI, Walter SORDI, Valerio FIORAVANTI, Francesca MAMBRO e persone a vario titolo già vicine a CAVALLINI o a DIGILIO come Enrico CARUSO, Lorenzo PRUDENTE ed Ettore MALCANGI) in merito agli stabili rapporti in materia di traffico di armi fra CAVALLINI e DIGILIO, dichiarazioni che non hanno reso possibile l'ulteriore protrarsi del silenzio su quest'ultimo punto. In tal modo, a partire dall'autunno del 1995, Carlo DIGILIO ha ammesso tali rapporti fornendo un numero di elementi e di particolari sempre crescente e con sempre minori reticenze in sintonia con lo sviluppo della sua collaborazione con questo Ufficio. I rapporti di MAGGI e DIGILIO con CAVALLINI in materia di armi si sono sostanzialmente articolati in tre fasi. In un primo momento Carlo DIGILIO aveva verificato il funzionamento delle armi portate da Milano da CAVALLINI. In tempi successivi DIGILIO aveva effettuato nella sua abitazione di Sant'Elena a Venezia, grazie all'attrezzatura di cui disponeva, opera di manutenzione e di modifica delle armi di CAVALLINI. Infine, fra il 1979 e il 1982, MAGGI e DIGILIO avevano fornito a CAVALLINI, dietro compenso, numerose armi comuni da sparo e da guerra, in parte armi vecchie provenienti dalla precedente dotazione di Delfo ZORZI e in parte nuove, acquistate illegalmente tramite l'armiere milanese Giovanni TORTA, legato a DIGILIO. Vediamo i passi più salienti, fra i molti che nei recenti interrogatori di Carlo DIGILIO riguardano i rapporti con Gilberto CAVALLINI. 163 164 Tali rapporti erano iniziati con un'attività di consulenza e di valutazione delle armi di cui Gilberto CAVALLINI disponeva ed erano proseguiti con la manutenzione di alcuni armi lunghe di CAVALLINI e la fornitura di alcuni silenziatori: “””....Un giorno, alla fine degli anni '70, e quindi verso il 1978/1979, il dr. MAGGI mi chiamò per telefono e mi chiese di incontrare in Piazzale Roma un giovane che aveva bisogno di far valutare una partita di armi. Io non sapevo chi fosse e comunque mi incontrai con MAGGI e con quel giovane che dalle fotografie pubblicate sui giornali poi mi resi conto essere Gilberto CAVALLINI. In seguito, dietro mia insistenza, lo stesso MAGGI fu costretto a confermarmi che si trattava proprio di CAVALLINI. Dopo il primo incontro a Piazzale Roma, ci vedemmo ancora probabilmente tre volte io MAGGI e CAVALLINI in un parcheggio presso il Cavalcavia di San Giuliano. CAVALLINI veniva in macchina e in una valigia trasportava ogni volta un certo numero di armi cioè pistole e fucili mitragliatori. Io ogni volta valutavo tecnicamente queste armi e ne indicavo anche il valore di mercato possibile. CAVALLINI ci dava una somma corrispondente al 10% del valore che avevo indicato. La somma veniva incamerata dal MAGGI e veniva da lui usata per dare un aiuto ai camerati di destra detenuti. In seguito CAVALLINI venne anche a casa mia, a Sant'Elena, senza che io gli avessi dato il mio indirizzo e senza alcun preavviso. Era stato MAGGI, imprudentemente, a dargli il mio indirizzo. Si presentava a casa mia quando aveva bisogno di aiuto per la riparazione e manutenzione delle armi....””” (DIGILIO 21.12.95 f.2). “””....Poichè l'Ufficio mi chiede quali fossero le armi, in particolare le armi lunghe, che CAVALLINI mi chiese di controllargli e farne la manutenzione, ricordo che c'erano dei Garand, dei M.A.B. 38, degli M12 e qualche vecchio STEN. Mi meravigliava in particolare del fatto che avesse degli M12 perchè sono mitra in dotazione alle Forze di Polizia italiane. Per tranquillizzarmi mi ricordo che mi mostrò uno o due tesserini in cui egli appariva quale sottufficiale della Guardia di Finanza e c'era la regolare foto in divisa. Ricordo che erano tesserini color verde. Ricordo che CAVALLINI venne anche una volta al Poligono di tiro e mi fece delle pressioni per tornare a trovarmi lì, ma io glielo vietai perchè era troppo pericoloso. A CAVALLINI, intorno al 1980, ho fornito anche alcuni silenziatori....””” 164 (DIGILIO 4.1.1996, ff.2-3). Carlo DIGILIO aveva poi modificato un primo M.A.B. di CAVALLINI rendendolo meglio utilizzabile e punzonato la matricola di altri MAB e STEN con un sistema sofisticato: “””....CAVALLINI mi chiese di modificare un M.A.B. che mi aveva portato sostituendone il calcio di legno con uno di metallo. La cosa mi fu facile perchè avevo visto su una rivista storica un lavoro analogo effettuato da partigiani su armi di cui si erano impossessati durante scontri di guerra. In sostanza bastava togliere il legno e piegare il metallo in un certo punto e artigianalmente fissare il nuovo calcio con due viti. Questa modifica rendeva l'arma più corta e occultabile....””” (DIGILIO 13.1.1996 f.5). “””....Ho punzonato nella mia abitazione alcuni vecchi STEN e alcuni vecchi MAB che aveva portato Gilberto CAVALLINI. Il sistema usato era quello cosiddetto ad "arco voltaico" che consiste nel fondere dei fili di metallo, grazie all'energia elettrica, direttamente sui numeri incisi sull'arma così da coprirli e quindi cancellarli, dopodichè si leviga la parte con una mola abrasiva. Feci questo lavoro con un attrezzo portato dallo stesso CAVALLINI. Punzonai in questo modo anche il MAB cui avevo cambiato il calcio come ho spiegato nell'interrogatorio in data 13.1.1996....””” (DIGILIO 20.1.1996 ff.1-2). Il dr. MAGGI aveva poi procurato a CAVALLINI alcuni giubbetti antiproiettile provenienti dall'armiere Giovanni TORTA: “””....Nel 1979/1980 comprai dall'armiere TORTA, che me li portò a Venezia, sei giubbetti antiproiettile i quali erano fatti con un tessuto sovrapponibile tenuto insieme da velcro per modellarlo sulla figura della persona. Il prezzo che l'armiere TORTA mi fece era in realtà troppo alto e mi accorsi che se li avessi comprati altrove li avrei pagati meno. Tre di questi giubbetti li tenni per il Poligono, uno dei quali utilizzandolo proprio io nella mia attività di istruttore. Altri tre furono portati via da MAGGI dopo molte insistenze, il quale li fece avere a Gilberto CAVALLINI....””” (DIGILIO 12.6.1996 f.3). 165 166 Erano poi iniziate le forniture da parte dei veneziani di armi, alcune delle quali provenienti dalla vecchia dotazione di Delfo ZORZI, a CAVALLINI con regolare compenso: “””....In quel periodo, poichè si è fatto appena cenno al periodo della mia latitanza a Verona, riprendendo quanto ho già spiegato in data 20.1.1996, faccio presente che proseguirono i rapporti fra MAGGI e CAVALLINI. Era in corso la trattativa per la fornitura a CAVALLINI di armi per il valore di circa 30 milioni di lire, trattativa che fu bloccata dal mio arresto del giugno 1982 che mi impedì di attivarmi. Del resto le armi che dovevano essere date a CAVALLINI non erano ancora giunte. Le strade grazie alle quali le avremmo procurate erano due: o recuperare vecchie armi della nostra area provenienti da Rovigo, da Mestre e dal Friuli che io avrei poi messo a posto oppure recuperare armi nuove trattando con TORTA a, Milano, il quale era disposto a tutto perchè era in difficoltà economiche. E' probabile che in quel periodo TORTA abbia truffato a MAGGI parecchi milioni che servivano per l'acquisto delle armi e del resto era sempre stato un imbroglione e un uomo molto venale. La fornitura di armi a CAVALLINI quindi non si concretizzò, ma CAVALLINI continuò a tempestare MAGGI per risolvere la pendenza nel senso di avere comunque qualcosa o perlomeno recuperare il denaro che aveva già anticipato. Non sono però al corrente del bigliettino che MAGGI, secondo quanto emerso nel processo c.d. del Poligono, avrebbe cercato di inviare a me tramite Claudio BRESSAN di Verona e concernente la prosecuzione di questa vicenda. Tuttavia posso confermare che quando io mi trovavo latitante a Verona era effettivamente Claudio BRESSAN a tenere i contatti fra noi e MAGGI.... Faccio presente che precedentemente a questa vicenda del 1982 era andata a buon fine, invece, una fornitura di alcune armi a CAVALLINI da parte di MAGGI, armi che provenivano ancora dalla vecchia dotazione di ZORZI a Mestre; si trattava di mitra tedeschi, M.A.B. italiani e pistole cal.9 e relative munizioni che ZORZI aveva fatto sottrarre da altri camerati che facevano il servizio militare credo nel Reparto Lagunari. Ciò avvenne nel 1979/1980 e comunque in questo caso non fui io l'intermediario fra MAGGI e CAVALLINI, bensì Marcello SOFFIATI che mi raccontò la cosa....””” (DIGILIO 9.1.1997 f.2-3). Le diverse cessioni di armi a Gilberto CAVALLINI l'ultima delle quali non andata a buon fine per l'arresto di Carlo DIGILIO nell'estate del 1982 quando già CAVALLINI aveva anticipato una notevole parte della somma concordata, sono state approfondite dal collaboratore negli interrogatori in data 21 e 22.2.1997 nell'ambito 166 dei quali egli ha ricordato che CAVALLINI si era presentato al Poligono di tiro proprio la mattina del 2.8.1980 quando era avvenuta la strage alla Stazione di Bologna, presenza le cui ragioni dovranno certamente essere oggetto di specifici approfondimento nell'ambito delle altre istruttorie collegate: “””....L'Ufficio dà lettura di quanto dichiarato da SODERINI Stefano in data 3.5.1994 in relazione ad alcune armi acquisite dal gruppo durante una rapina in danno di un collezionista di Roma, armi prime dell'otturatore e che CAVALLINI intendeva far tornare utilizzabili grazie ad un suo contato in Veneto non noto al SODERINI. Posso dire che ricollego quanto riferito da questo testimone ad una richiesta che effettivamente CAVALLINI mi fece di fare un nuovo otturatore ad alcune armi che ne erano prive. Io non volli nemmeno vedere queste armi spiegandogli che era una richiesta tecnicamente impossibile in quanto non si può costruire un otturatore in modo artigianale poichè è un pezzo che solo una fabbrica può fare e sarebbe stato possibile, al più, prendere un otturatore da un'altra arma analoga. Questa proposta di CAVALLINI avvenne quando egli mi portò il paragrilletto di un M.A.B. da rifare, episodio di cui ho già parlato; si colloca quindi probabilmente nel 1979. Un'analoga richiesta di sostituire i paragrilletto di un M.A.B. avvenne da parte di CAVALLINI l'anno successivo, proprio la mattina in cui avvenne la strage di Bologna. In questo caso egli mi lasciò un pacchetto con il pezzo da rifare su un davanzale della finestra dell'ufficio della segreteria del Poligono, senza farsi vedere da me....””” (DIGILIO 21.2.1997 f.3-4). “””....L'Ufficio dà lettura a DIGILIO di quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia Walter SORDI, già appartenente all'area dei N.A.R., a foglio 2 dell'interrogatorio in data 26.8.1995 dinanzi a questo Ufficio in relazione alle trattative per la vendita a CAVALLINI, nell'estate 1982, di armi da parte del gruppo veneziano. DIGILIO dichiara: Il racconto di SORDI è sostanzialmente esatto e si riferisce alla situazione che ho descritto nell'interrogatorio in data 9.1.1997 e cioè allorchè il nostro gruppo trattò appunto nell'estate del 1982 con CAVALLINI la possibilità di procurargli una cospicua quantità di armi. La persona in contatto a Venezia con CAVALLINI di cui parla il testimone sono certamente io ed infatti io fui arrestato nel giugno del 1982 e rilasciato dopo circa 10 giorni. 167 168 CAVALLINI certamente poteva ritenere che il contatto con me fosse pericoloso e che magari io in qualche modo avessi rilasciato confidenze o dichiarazioni che avrebbero potuto metterlo in pericolo. La trattativa sino a quel momento si era sviluppata così. Vi era stata una prima fase in CAVALLINI aveva dato una decina di milioni a MAGGI come anticipo e aveva ricevuto un primo lotto di armi abbastanza vecchie che provenivano ancora dal gruppo di Mestre e dall'arsenale di Vittorio Veneto. MAGGI si era occupato personalmente di recuperare questa armi contattando qualche elemento del gruppo di ZORZI ancora attivo a Mestre, mentre Delfo ZORZI si trovava già da anni in Giappone. Ricordo che c'era qualche M.A.B. e qualche pistola tedesca. Le consegnammo a CAVALLINI io e SOFFIATI incontrandolo a Mestre in un punto isolato vicino al Canale che parte da Piazza Barche. Ciò avvenne all'inizio del 1982. CAVALLINI tuttavia si lamentò perchè si trattava di residuati bellici di scarso valore e funzionalità come io stesso avevo constatato. Allora CAVALLINI diede a MAGGI un altro anticipo di 10 milioni per una fornitura di armi migliori che dovevano essere di un valore complessivo di circa 30 milioni. Iniziarono i contatti con TORTA il quale promise di fornire delle armi buone con il solito sistema della vendita sottobanco tramite la sua attività di armiere. Si trattava in particolare, secondo gli accordi, di pistole nuove di recente fabbricazione. Nel maggio 1982 incontrai quindi giovanni TORTA nelle vicinanze di Piazzale Roma e gli diedi i 10 milioni che MAGGI mi aveva a sua volta dato dopo averli ricevuti a sua volta da CAVALLINI. Tuttavia TORTA tardò a mantenere le promesse posticipando sempre il momento della consegna e io nel frattempo fui arrestato, così CAVALLINI si ritrovò in credito con il gruppo non avendo ricevuto praticamente nulla. In settembre anche TORTA fu arrestato a seguito di un'indagine dei Carabinieri che trovarono nei suoi libri di carico e scarico buchi per centinaia e centinaia di armi che figuravano vendute a persone di fantasia o esistenti, ma ignare di essere intestatarie di armi. Sempre con riferimento alla figura di CAVALLINI, faccio presente che egli era molto attento ai criteri di sicurezza per quanto riguardava la sua persona in quanto era sempre curato, sbarbato e vestito come un impiegato di banca e in questo modo non dava assolutamente il sospetto di essere invece un pericoloso latitante. La consegna di armi residuati bellici che facemmo io e SOFFIATI non fu l'unica che andò a buon fine. 168 In precedenza c'era state altre consegne e complessivamente il nostro gruppo gli fornì una trentina di pezzi fra armi lunghe e corte nell'arco di tre consegne, compresa quella con Marcello SOFFIATI di cui ho fatto cenno. Alcune armi non erano residuati bellici, ma armi nuove o ribrunite che TORTA ci aveva fatto avere nei periodi precedenti alla trattativa non andata a buon fine. A Venezia, in occasione di questi passaggi di armi non avevamo un luogo di custodia fissa, ma le tenevamo in piccola quantità un po' tutti, in particolare più degli altri MONTAVOCI, cercando così di evitare di custodirle in un unico deposito con il rischio di un sequestro globale....””” (DIGILIO 22.2.1997 f.5-6). Si ricordi che il racconto di Carlo DIGILIO in merito alla fornitura di armi a CAVALLINI in corso nell'estate del 1982 per una somma di notevole importo, fornitura interrotta dal primo arresto di DIGILIO nel giugno 1982 e poi dalla sua fuga a Villa D'Adda in settembre, consente una definitiva spiegazione del bigliettino rinvenuto a Claudio BRESSAN di Verona (omonimo del militante triestino) al momento del suo controllo sull'autostrada Venezia-Verona. Il bigliettino, scritto personalmente dal dr. MAGGI e diretto, tramite BRESSAN, a DIGILIO che in quel momento si trovava a casa di Marcello SOFFIATI, faceva infatti riferimento a detonatori occultati presso il Poligono di tiro di Verona che potevano essere fatti "avere agli amici di G.C. (Gilberto CAVALLINI) a parziale piccolo indennizzo di quello che hanno perso". Tale progetto del dr. MAGGI di indennizzare parzialmente il gruppo di CAVALLINI con i detonatori, compensando così parte della somma da questi perduta nell'estate del 1982, corrisponde perfettamente al racconto di DIGILIO in merito all'ultima fase dei rapporti con l'esponente dei N.A.R. avvicinatosi alla struttura di Ordine Nuovo. Dopo l'arresto di Claudio BRESSAN e la scelta di collaborazione da questi operata, una parte della rete logistica era comunque caduta, il dr. MAGGI era stato arrestato e DIGILIO era fuggito da Verona riparando, come è noto, prima da Cinzia DI LORENZO, militante vicina a Rognoni, e poi nella villetta di Villa D'Adda insieme all'altro milanese Ettore MALCANGI. Anche in relazione a quanto avvenuto tra il 1978 e il 1982, e cioè nell'ultima fase dell'attività del gruppo veneziano di Ordine Nuovo, il racconto di Carlo DIGILIO non è rimasto isolato. Infatti Gilberto CAVALLINI, sentito in qualità di indiziato, in occasione di un primo interrogatorio in data 22.9.1995 si era avvalso della facoltà di non rispondere, ma successivamente, il 2.5.1997, ha riconosciuto che il quadro fornito da DIGILIO in merito ai rapporti intrattenuti con lui in materia di manutenzione e cessione di armi corrispondeva sostanzialmente a verità. 169 170 Gilberto CAVALLINI, in ragione della sua complessiva scelta processuale che esclude dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone che non siano collaboratori di giustizia, non ha inteso indicare chi lo avesse messo in contatto con Carlo DIGILIO, ma tale scelta ovviamente non inficia minimamente l'individuazione nel dr. MAGGI di colui che aveva reso possibili tali attività illecite. In conclusione anche tale parte delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO che riguardano l'ultima fase dell'attività del gruppo veneziano di Ordine Nuovo risulta affidabile e processualmente "corroborata" e con gli avvenimenti del 1982, sfociati con la fuga di DIGILIO e il primo arresto del dr. MAGGI, termina un ciclo che sembra aver visto quest'ultimo protagonista di attività eversive durate per un arco di ben 15 anni. 170 24 ALTRI EPISODI RIFERIBILI AL DR. CARLO MARIA MAGGI L'AFFISSIONE A MESTRE DEI "MANIFESTI CINESI" PRELEVATI A PADOVA Oltre ai fatti/reato ora esposti, nel corso dell'attività istruttoria sono emersi altri episodi dai quali, pur non derivando specifiche imputazioni, è possibile trovare conferme molto significative del ruolo determinante, sia sul piano decisionale sia sul piano operativo, ricoperto dal dr. MAGGI nelle attività illecite del gruppo mestrino/veneziano. Ci riferiamo in primo luogo al prelievo a Padova da parte del gruppo di finti "manifesti cinesi" e alla loro successiva affissione a Mestre, episodio così rievocato da Martino SICILIANO: “””....Per quanto concerne l'affissione dei manifesti filocinesi.... la vicenda si sviluppò nei seguenti termini. Io, ZORZI e Paolo MOLIN, con la FIAT 1100 di MAGGI, partimmo da Venezia in direzione di Padova. Ci fermammo a Limena, uscendo proprio al casello dell'autostrada di tale cittadina. A Limena Paolo MOLIN conosceva una persona del gruppo di Padova che doveva consegnare i manifesti cinesi. Io e ZORZI rimanemmo in macchina e solo MOLIN entrò nell'abitazione di questo militante tornando, poi, con i manifesti. Ricordo che il camerata di Padova abitava in un quartiere popolare, in un condominio. Preciso che era Paolo MOLIN ad avere più stretti rapporti con quelli di Padova in quanto aveva studiato giurisprudenza a Padova con FREDA negli anni precedenti. Ritornammo quindi a Venezia e MOLIN portò i manifesti a casa sua. Dei manifesti ricordo solo che c'erano vari riferimenti a Mao Tse Tung. Un paio di giorni dopo ci ritrovammo tutti e tre, sempre con la macchina di MAGGI, e procedemmo all'affissione affiancandola, di nostra iniziativa, a scritte fatte con bombolette spray inneggianti Mao Tse Tung. Facemmo queste scritte sulla macchine parcheggiate nella zona per infastidire i residenti e sviluppare al massimo questa iniziativa di provocazione. Ricordo che era circa la metà del 1968 in concomitanza con le prime manifestazioni giovanili e con i primi moti studenteschi. 171 172 Prendo atto che a Limena abitava ed abita Marco POZZAN e in proposito posso dire che ne conosco il nome come componente del gruppo FREDA, ma non posso affermare se fosse lui la persona da cui si recò MOLIN. Proprio perchè si trattava di una questione riservata, MOLIN non ci disse, o quantomeno non disse a me, il nome del camerata da cui era andato....””” (SICILIANO, 6.10.1995, f.3). Si noti che ancora una volta emerge lo stabile utilizzo da parte del gruppo dell'autovettura del dr. MAGGI (la FIAT 1100 chiara che aveva sostituito la vecchia 500) e che l'affissione dei finti "manifesti cinesi" da parte dei giovani neonazisti di Mestre è ricordata anche da Giancarlo VIANELLO che pur non ha saputo indicare la provenienza degli stessi (interr. 19.11.1994, ff.10-11). Tale azione, sul piano della ricostruzione complessiva, ètutt'altro che trascurabile in quanto si inquadra nella strategia coltivata a Padova nel 1967/1968, soprattutto da Giovanni VENTURA (e, parallelamente, a Roma dagli esponenti di Avanguardia Nazionale), di disinformazione, creazione di confusione e infiltrazione nel campo dell'avversario e altresì nella strategia della costruzione di una possibile linea difensiva anticipata ed estremamente duttile in relazione alle indagini che sarebbero state comunque svolte dopo l'inizio della campagna di attentati. Giovanni VENTURA infatti, durante le indagini condotte sulla c.d. pista nera, si è presentato agli inquirenti come "uomo di sinistra", con simpatie filocinesi, che quindi non poteva avere condiviso o condiviso sino in fondo, dopo i primi attentati dimostrativi, una campagna terroristica che colpiva cittadini innocenti. LA PRESENZA DEL DR. MAGGI ALLA RIUNIONE DI PADOVA OVE VENNE DELINEATA LA STRATEGIA DEGLI ATTENTATI Martino SICILIANO, pur escluso dal nucleo operativo nella fase finale, ha avuto modo di partecipare, nella primavera del 1969, a Padova nella libreria Ezzelino di Franco FREDA, ad una riunione ristretta ove fu delineata senza troppe reticenze la strategia degli attentati: “””....posso dire che certamente quella riunione si svolse alla libreria Ezzelino, nella saletta posteriore che fungeva anche da ufficio. Eravamo presenti FREDA, TRINCO, cioè quello che faceva da commesso, io, MAGGI, MOLIN e ZORZI, all'incirca quattro o cinque mesi prima, per quanto ora ricordo, degli attentati di Gorizia e di Trieste, direi quindi nel maggio o giugno del 1969, ricordo infatti che non faceva più freddo, ma non era ancora estate piena. 172 Esattamente si parlò non solo di attentati ai treni, ma anche in luoghi pubblici al fine di creare panico e insicurezza. In quella riunione non si scese in particolari operativi, ma si parlò della strategia politica e parlò soprattutto FREDA. Era quindi una riunione ristretta a livello di strategia....””” (SICILIANO, 6.10.1995, ff.6-7). Riprendendo il discorso a partire dai primi attentati dimostrativi, in particolare quelli dell'8/9 agosto 1969 sui convogli ferroviari, che egli sapeva essere stati commessi dal gruppo con ordigni contenuti in scatolette di legno molto simili a quelle che tempo prima Delfo ZORZI gli aveva consegnato con varie armi in una valigia, Martino SICILIANO ha precisato: “””....Noto del resto che si tratta di scatolette che possono alloggiare solo piccoli ordigni con poco esplosivo e ciò è del tutto in sintonia con i discorsi che erano stati fatti a Padova in occasione della riunione con MAGGI, ZORZI e MOLIN nel retro della libreria EZZELINO, di cui ho già parlato nell'interrogatorio in data 6.10.1995. In tale riunione, infatti, qualcuno dei padovani, molto probabilmente FREDA, fece presente che una strategia utile sarebbe stata quella di compiere piccoli attentati dimostrativi finalizzati a fare pochi danni, ma nel contempo a far credere, in ragione del loro numero e della loro disseminazione in varie Regioni del Paese, che esistesse un'organizzazione presente dappertutto ed articolata, in grado potenzialmente di compiere dovunque attentati più gravi. Ricordo che comunque FREDA disse che non bisognava farsi scrupoli se, nonostante si trattasse di attentati dimostrativi, qualche civile fosse rimasto ferito. Infatti, sempre secondo FREDA, non si sarebbe fatto peggio degli Alleati che durante la II guerra mondiale avevano lanciato dagli aerei, sul territorio italiano, matite esplosive o comunque piccoli ordigni camuffati destinati a colpire la popolazione e a fare terrorismo psicologico....””” (SICILIANO, 20.9.1996, f.4). La presenza congiunta di FREDA e di MAGGI a tale riunione è la testimonianza diretta della sinergia operativa che si era creata fra le due cellule e che non era stato possibile mettere in luce se non in minima parte, soprattutto per la mancanza di collaboratori e testimoni, nel corso delle prime istruttorie. IL PROGETTO DI EVASIONE DI GIOVANNI VENTURA 173 174 Infine, secondo il racconto di Carlo DIGILIO, fu personalmente il dr. MAGGI a mettere in contatto lo stesso DIGILIO e Delfo ZORZI per l'incontro del 1972, a Mestre, in cui quest'ultimo chiese a DIGILIO collaborazione per organizzare l'evasione di Giovanni VENTURA. In tale occasione ZORZI mostrò a DIGILIO il calco in cera di una chiave, e cioè la chiave della cella di VENTURA, pronta per essere riprodotta, spiegandogli che era necessario aiutare VENTURA a sfuggire agli inquirenti anche se, con le sue imprudenze, fra cui le confidenze fatte ad un suo amico professore (riferimento, questo, certamente al prof. Guido LORENZON), egli aveva messo in pericolo tutta l'organizzazione (interr. DIGILIO 29.1.1994. f.3; 16.4.1994, f.4; 12.11.1994, f.8; 30.12.1996, f.3). Giovanni VENTURA, che si teneva in contatto con gli altri elementi del gruppo tramite la sorella (interr. 30.12.1996 citato), non aveva in seguito accettato il progetto propostogli dai suoi camerati. Il racconto di DIGILIO sul progetto di evasione di Giovanni VENTURA (che appare del tutto parallelo ad un altro progetto emerso nel corso della prima istruttoria e organizzato da Guido GIANNETTINI sempre attivando la sorella di VENTURA, Mariangela) trova una logica spiegazione nei timori da parte del gruppo che VENTURA, come sarebbe poi parzialmente avvenuto all'inizio del 1973 con la "semiconfessione" dell'imputato dinanzi ai giudici D'Ambrosio e Alessandrini, cedesse completamente dinanzi agli inquirenti rivelando la struttura e la strategia dell'intera organizzazione, con esiti catastrofici anche per coloro che non erano stati individuati. Non a caso Delfo ZORZI aveva illustrato a Carlo DIGILIO, dimostrando di essere in grado di progettare sofisticate tecniche di inquinamento e disinformazione, la necessità di porre in essere "azioni diversive" in varie città d'Italia e cioè attentati che avrebbero sviato l'attenzione della magistratura verso altre piste, dando l'impressione che i responsabili degli attentati precedenti fossero ancora liberi (interr. DIGILIO 12.11.1994, f.9). Nel corso della prima sentenza-ordinanza depositata da questo Ufficio in data 18.3.1995 si è ampiamente esposto, sulla base dei dati processuali raccolti, che il più importante di tali "attentati diversivi" era stato quello attuato nell'aprile del 1973 da ROGNONI, AZZI ed altri militanti de La Fenice sul convoglio TorinoRoma. Per tale attentato era stato programmata una rivendicazione di sinistra che avrebbe spinto nuovamente gli inquirenti, impegnati in quel momento sulla pista nera, a dirigere la propria attenzione sui gruppi di estrema sinistra, in particolare quello scaturiti dall'attività di Giangiacomo FELTRINELLI nella cui villa era stato progettato, fra l'altro, di depositare e far rinvenire alcuni dei timers utilizzati per gli attentati del 12.12.1969. Tale disegno era stato reso impossibile dall'incidente occorso a Nico AZZI durante l'esecuzione dell'attentato, in quanto l'arresto in flagranza sul treno del militante de La Fenice aveva reso evidentemente inattuabile qualsiasi rivendicazione di segno opposto. 174 25 ALTRI DEPOSITI DI ORDINE NUOVO A VENEZIA SOTTO I TETTI E SOTT’ACQUA Nel corso di uno dei suoi ultimi interrogatori, Carlo DIGILIO ha parlato di altri due depositi di armi di cui disponeva il gruppo di Venezia all’inizio degli anni ‘70, gestiti l’uno da Giorgio BOFFELLI e l’altro da Pietro MONTAVOCI: “””....Con riferimento al ruolo di Giorgio BOFFELLI, posso aggiungere che lui si occupava molto dell'acquisizione di armi e della loro tenuta a disposizione in favore del gruppo. In casa sua, nascosti nel sottotetto in quanto BOFFELLI abitava all'ultimo piano, ho visto degli STEN, alcuni MAB, delle vecchie pistole Beretta cal.9 mod.34 e un paio di pistole Browning mod.HP da 13 colpi. Io vidi queste armi un quanto egli una volta mi chiamò a casa sua per lo aiutassi nel risolvere un problema che aveva con il caricatore di una delle Browning. Infatti egli aveva smontato il caricatore e nel rimontarlo aveva messo lo zoccolo elevatore alla rovescia per cui questo si incastrava e non spingeva in alto i proiettili. Per prendere questo caricatore, che stava insieme alle altre armi, egli si sporse dalla finestra issandosi sul cornicione e recuperando così il sacco di juta con tutte le armi dal sottotetto. BOFFELLI era del resto estremamente spericolato a causa dei suoi precedenti di mercenario e paracadutista. Si era procurato alcune di queste armi anche grazie a contatti in Val di Taro, sull'Appennino Tosco-Emiliano (zona dove non era conosciuto). Infatti mi disse che alcune di queste armi provenivano addirittura da vecchi depositi di Partigiani custoditi da gente del posto. BOFFELLI, comunque, aveva stretto contatti anche con la malavita di Venezia a cui vendette una parte delle armi che si era procurato facendosi pagare anche con della cocaina. Mi confidò tale circostanza e ciò mi diede fastidio perchè non era un comportamento da militante politico. Io vidi queste armi intorno al 1970/1971 e probabilmente quando MAGGI, poco prima dei fatti del 12 dicembre 1969, mi chiese di avvertire BOFFELLI di far sparire per un po' di tempo quanto di compromettente, si riferiva a questo piccolo deposito di armi di BOFFELLI che tuttavia io in quel momento non avevo ancora visto”””. (DIGILIO, int. 29.6.1997, f.2). 175 176 Giorgio BOFFELLI, grazie ai contatti instaurati in Germania in occasione di incontri con ex-nazisti, era riuscito anche a procurarsi una pistola cal.22, molto particolare in quanto perfettamente camuffata da penna stilografica, nonchè un’altra pistola cal.22 di fabbricazione cecoslovacca anch’essa potenzialmente molto pericolosa perchè munita di un silenziatore incorporato (DIGILIO, int. 9.6.1997, f.4 e anche SICILIANO, int. 24.6.1997, f.3). Del tutto particolare era poi la collocazione di un secondo deposito del gruppo: “””...Sempre in tema di dotazione logistica del gruppo, un altro militante che custodiva una certa quantità di armi era Giampiero MONTAVOCI. Questi aveva non solo la cal.8 Lebel che ho già ricordato, ma altre tre o quattro pistole WALTER cal.9, quelle in dotazione agli ufficiali tedeschi. Ne vidi anch'io qualcuna personalmente nel retro del suo negozio di tabaccheria. MAGGI aveva chiesto a MONTAVOCI di tenere a disposizione queste armi, che erano molto buone, ma evidentemente MONTAVOCI non poteva tenerle sempre nel negozio. Utilizzò quindi uno stratagemma che gli fu reso possibile dall'aiuto di Roberto ROTELLI con il quale aveva in comune l'attività di subacqueo e con il quale era in ottimi rapporti. ROTELLI gli diede un bidoncino di alluminio di quelli che si usavano per il trasporto del latte spiegandogli che grazie al tappo a tenuta stagna gli era stato possibile molte volte nascondere sottacqua addirittura delle stecche di sigarette. I bidoncini, per andare a fondo e rimanere stabili, dovevano essere appesantiti con delle lastre di piombo all'interno. Giampiero MONTAVOCI mise allora le pistole e le munizioni, avvolte in sacchetti, di nylon dentro il bidoncino datogli da ROTELLI e lo affondò presso una scogliera vicino alla Spiaggia delle Suore al Lido di Venezia. Il bidoncino era a pochi metri di profondità e MONTAVOCI, con il respiratore, poteva recuperarlo senza difficoltà quando voleva. MONTAVOCI mi parlò di questo deposito subacqueo all'incirca nel 1972/1973 ed io, quando me ne parlò, mi ricordai che effettivamente avevo visto in precedenza parecchi bidoni di alluminio di quel tipo nella casa di campagna di ROTELLI, in località 4 Fontane. MONTAVOCI mi disse che queste pistole WALTER venivano dalla zona di Treviso ed infatti in seguito MAGGI mi confermò che queste pistole a cui teneva molto gli erano state regalate personalmente dal prof. Lino FRANCO e provenivano dal deposito di Pian del Cansiglio”””. (DIGILIO, int.29.6.1997, f.3). Giorgio BOFFELLI e Giampietro MONTAVOCI, entrambi uomini di fiducia del dr. MAGGI, erano figure non di primo piano, almeno sotto un profilo operativo, della cellula di Ordine Nuovo di Venezia. 176 Il primo, tuttavia, mercenario in Congo a metà degli anni ‘60, sovente utilizzato da MAGGI per portare notizie riservate in altre sedi, è colui che aveva reso possibile l’”aggancio” di Gianfranco BERTOLI per l’operazione dinanzi alla Questura di Milano ed era stato il militante che più di altri, in ragione della sua amicizia con BERTOLI, era riuscito a tranquillizzarlo e a convincerlo a fidarsi di loro. Giampietro MONTAVOCI, molto più giovane, era uno dei “guardaspalle” di MAGGI (cfr. sul punto anche SICILIANO, int. 10.10.1995, f.2), e, secondo il racconto di DIGILIO, l’autore materiale dell’attentato al Gazzettino del febbraio 1978. Mentre Giorgio BOFFELLI è stato arrestato, a seguito di mandato di cattura del G.I. dr. Lombardi, insieme al dr. MAGGI e a Francesco NEAMI per concorso nell’organizzazione della strage di Via Fatebenefratelli del 17.5.1973, non è stato possibile sentire Giampietro MONTAVOCI in quanto egli è deceduto nel 1982 in un incidente stradale. 177 178 26 IL PROGETTO DI RAPIMENTO IN AUSTRIA DI GIANGIACOMO FELTRINELLI Il fallito progetto di rapimento in Austria di Giangiacomo FELTRINELLI, ideato da Marco FOSCARI con l’aiuto di Martino SICILIANO, benchè episodio estemporaneo e non direttamente collegato all’attività di Ordine Nuovo, merita di essere ricordato, riportando il racconto di Martino SICILIANO, per la sua particolarità e le conseguenze che avrebbe potuto avere se il piano fosse andato a buon fine: “””....Marco Foscari disponeva di un castello di famiglia in Carinzia, a Paternion, ove io fui ospite parecchie volte. Era un bel castello con delle tenute intorno così ampie da essere addirittura utilizzato dall'Esercito austriaco per le esercitazioni. Ricordo che c'erano anche capanni di caccia. Venimmo a sapere, ed era cosa del resto nota nella zona, che una compagna di Feltrinelli, che ricordo si chiamava Sibilla Melega, ospitava Feltrinelli in una sua proprietà non lontana dal castello dei Foscari. Progettammo quindi di sorprenderlo in quel posto, rapirlo, impacchettarlo e portarlo oltre confine facendolo ritrovare alle Autorità italiane. Infatti Feltrinelli era già latitante . Il periodo era circa un anno prima della sua morte sul traliccio di Segrate. Facemmo quindi degli appostamenti in quella proprietà accompagnati da guardiacaccia di Foscari che non aveva difficoltà ad aderire al progetto in quanto era un ex WAFFEN-SS. Individuammo senza difficoltà la proprietà dove c'era uno chalet, ma non riuscimmo a vedere Feltrinelli e anzi lo chalet sembrava in quel momento chiuso. Abbandonammo quindi il progetto che morì di colpo così come era nato. In quella occasione avevamo con dei fucili da caccia di Foscari e un fuoristrada sempre di Foscari che avrebbe dovuto servirci per il trasporto. Avevamo dell'etere per stordirlo e corde per legarlo e un baule pronto nell'altra macchina di Foscari ove lo avremmo chiuso per il trasporto in Italia. Di Marco Foscari posso ancora dire che si è "mangiato" in pratica tutti i suoi beni, è fuggito dall'Italia accusato di bancarotta fraudolenta e attualmente vive a Palma di Majorca dove vende piccolo antiquariato”””. (SICILIANO, int.19.10.1994, f.7) Gli accertamenti svolti dalla Digos di Milano hanno consentito di accertare che effettivamente l’editore FELTRINELLI disponeva, all’epoca, di una tenuta a Oberhof, in Carinzia, di proprietà della sua famiglia (cfr. nota della Digos di Milano in data 178 4.10.1994 e allegato verbale di s.i.t. di Inge SCHOENTAL FELTRINELLI in data 3.10.1994, vol.8, fasc.11, ff.27 e ss.). Non sembra esservi dubbio che il progetto coltivato senza successo da Marco FOSCARI si sia sviluppato così come narrato da Martino SICILIANO, in quanto anche Biagio PITARRESI ha ricordato di avere ricevuto da Marco FOSCARI, fra il 1972 e l’inizio del 1973, anche dopo la morte di FELTRINELLI, qualche accenno al fallito tentativo in Austria (dep. 9.9.1996, f.2). Del resto, nell’ambito dell’intervista rilasciata da Marco FOSCARI al giornalista Maurizio DIANESE e di cui già si è fatto cenno nel capitolo 20, FOSCARI ha confermato, seppur minimizzandolo sotto il profilo della possibilità di una concreta riuscita, il progetto di sequestro dell’editore e il sopralluogo effettuato insieme a Martino SICILIANO e al guardiacaccia presso la villa di FELTRINELLI in Carinzia, nota a FOSCARI in quanto la famiglia FELTRINELLI acquistava legname proveniente proprio dalla sua tenuta (cfr. pagg. 1-6 e 32 della trascrizione dell’intervista rilasciata in data 30.10.1997). Il Conte FOSCARI ha inoltre indicato l’autovettura e il fuoristrada, disponibili per l’occasione, in modo coincidente con il racconto di Martino SICILIANO (cfr. pag.1 della trascrizione e int. SICILIANO, 20.10.1997, f.3). L’editore Giangiacomo FELTRINELLI sembra essere stato un obiettivo costante dell’area di persone gravitante intorno a La Fenice poichè, oltre agli assalti nei confronti della libreria, ad uno dei quali aveva partecipato anche Martino SICILIANO (int.18.7.1996, f.3), la sua figura era stata al centro del ben più grave progetto, di cui si è ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza, di far ritrovare in una villa di sua proprietà i timers rimasti dopo gli attentati del 12.12.1969, al fine di indirizzare nuovamente le indagini verso l’estrema sinistra. 179 180 27 LE CONCLUSIONI ISTRUTTORIE IN MERITO AI SINGOLI EPISODI CRIMINOSI Passando alle determinazioni conclusive sul piano processuale, non vi è dubbio che deve essere emessa dichiarazione di prescrizione del reato nei confronti di ZORZI, SICILIANO, MONTAGNER e MAGGI in ordine al furto di esplosivo nella cava di Arzignano (capo 14) e nei confronti di ZORZI, VENTURA, POZZAN e FREDA in ordine ai reati connessi al deposito di armi ed esplosivi di Paese. Per quanto concerne in particolare gli ultimi due indiziati, Marco POZZAN (il quale, interrogato da questo Ufficio in data 5.1.1995, si è avvalso della facoltà di non rispondere) si trovava nel casolare, come ha spiegato DIGILIO, per fornire il suo concreto contributo, mentre per FREDA (il quale, convocato in data 13.1.1995, non si è presentato), pur non visto da DIGILIO nel casolare, valgono le considerazioni esposte nel mandato di comparizione emesso nei suoi confronti. Infatti egli era il responsabile della cellula padovana e, a conclusione del processo di Catanzaro, è stato condannato insieme a Giovanni VENTURA per il concorso nella detenzione delle armi rinvenute nel novembre 1971 a Castelfranco Veneto. Poichè tali armi costituivano un piccolo residuo della più ampia dotazione custodita a Paese, non vi è necessità di molte parole per affermare che egli era corresponsabile di quanto custodito nel casolare negli anni in cui la cellula padovana era nella sua fase di piena operatività. Ugualmente, sulle base delle confessioni di SICILIANO e VIANELLO, deve essere emessa sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei loro confronti e anche nei confronti di ZORZI e MAGGI in ordine alla detenzione della dotazione logistica di armi ed esplosivi del gruppo di Mestre/Venezia (capo 16). Per quanto concerne i reati connessi agli attentati di Trieste e Gorizia, deve innanzitutto premettersi che, ad avviso di questo Ufficio e anche del Pubblico Ministero, l’attentato alla Scuola Slovena deve essere qualificato danneggiamento aggravato e non tentata strage, come era invece avvenuto nei primi procedimenti . Infatti le confessioni di SICILIANO e VIANELLO hanno consentito di chiarire che l’esplosione dell’ordigno, a seguito della chiusura del circuito, era prevista non per mezzogiorno, quando la scuola sarebbe stata affollata di bambini e insegnanti, ma per mezzanotte, in un momento, quindi, in cui il coinvolgimento di qualche persona avrebbe potuto verificarsi solo per circostanze improbabili e fortuite. Una dichiarazione di prescrizione deve perciò essere adottata nei confronti di VIANELLO, COZZO e MAGGI in ordine ai reati di cui ai capi 19 e 20 e nei confronti di Carlo DIGILIO in ordine ai reati di cui al capo 21 (collegati alla consulenza tecnica da lui fornita per la preparazione e l’innesco dei congegni esplosivi), mentre per ZORZI e SICILIANO, già prosciolti in sede istruttoria dal G.I. di Trieste, deve essere 180 emessa sentenza di non doversi procedere per inammissibilità di un secondo giudizio, precludendo l’intervento della prescrizione alcuna forma di riapertura delle indagini. Identica a quelle di ZORZI e SICILIANO è la posizione di Francesco NEAMI, anch’egli prosciolto alla chiusura della prima istruttoria, mentre per quanto concerne Manlio PORTOLAN deve essere adottata sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. In relazione all’attentato in danno dei magazzini COIN di Mestre (capo 23), la dichiarazione di prescrizione riguarda ANDREATTA, SICILIANO e ZORZI (capo 23) e in relazione alla connessa detenzione dei candelotti di gelignite (capo 18) Giuseppe FREZZATO, responsabile anche della cessione di una pistola cal.6,35 e delle bomba da mortaio a Martino SICILIANO utilizzata per l’attentato all’Università Cattolica di Milano (capo 24), reati anch’essi prescritti. Identica formula terminativa riguarda il dr. MAGGI e Carlo DIGILIO per il favoreggiamento nei confronti di Pietro BATTISTON e Francesco ZAFFONI, rifugiatisi a Venezia durante la loro latitanza (capo 26). Alla luce di quanto esposto nei capitoli precedenti, il dr. MAGGI deve invece essere rinviato a giudizio per rispondere della detenzione delle mine anticarro e, unitamente a Carlo DIGILIO, per rispondere della detenzione e dell’invio alla struttura romana, tramite Roberto RAHO, di circa 12 chilogrammi di esplosivo fra tritolo e acido picrico (capo 25). Roberto RAHO, invece, per tali ultimi reati non è più perseguibile in quanto già giudicato dalla Corte d’Assise di Roma nel procedimento, a carico di ADDIS Mauro ed altri, relativo principalmente alla struttura romana di Ordine Nuovo. Il dr. MAGGI e Carlo DIGILIO devono essere anche chiamati a rispondere della complessiva gestione della dotazione di armi comuni e da guerra appartenente al gruppo di Ordine Nuovo di Mestre/Venezia (capo 27) e, unitamente a Gilberto CAVALLINI, della manutenzione e riparazione, in un primo momento, della sua dotazione di armi e, in seguito, della vendita all’esponente dei N.A.R. di numerose altre armi (capo 28). Nonostante molti dei reati collegati all’attività della struttura occulta di Ordine Nuovo siano ormai prescritti in ragione del decorso del tempo, è evidente che l’attribuzione di responsabilità che discende dall’enorme numero di elementi probatori raccolti riveste notevolissima importanza. Infatti tali reati sono, soprattutto per quanto concerne le posizioni di MAGGI, ZORZI e DIGILIO, prodromici e funzionali ai più gravi reati di cui gli stessi sono chiamati a rispondere nelle istruttorie collegate in materia di strage e ne costituiscono in larga parte la chiave di spiegazione e l’antecedente sul piano storico, logico e indiziario. 181 182 28 I REATI DI FAVOREGGIAMENTO E DI UTILIZZO DI DOCUMENTI FALSI CONNESSI ALLA LATITANZA DI CARLO DIGILIO ED ETTORE MALCANGI I reati indicati ai capi da 27 a 30 dell’elenco delle imputazioni sono collegati al periodo della latitanza di Carlo DIGILIO ed Ettore MALCANGI a Villa d’Adda e vedono coinvolti anche Lorenzo PRUDENTE ed Enrico CARUSO, estremisti di destra milanesi già legati a Gilberto CAVALLINI, che erano stati tra i frequentatori della villetta abitata dai latitanti. Per quanto concerne i reati di ricettazione e falso di cui al capo 27 di imputazione, Ettore MALCANGI, in procinto di lasciare per primo Villa d’Adda alla volta di Santo Domingo, si era premurato di procurare a DIGILIO due passaporti italiani e una carta di identità (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.3; int. DIGILIO, 18.10.1995, f.3). Carlo DIGILIO, assai abile anche nella falsificazione e alterazione di documenti, aveva poi completato uno dei due passaporti prima di partire a sua volta per Santo Domingo. Il problema dei dati che dovevano figurare sul passaporto era stato risolto grazie a Lorenzo PRUDENTE, il quale aveva fornito a DIGILIO i dati di una persona, più o meno della stessa età di DIGILIO, che aveva rilevato da una pratica della TORO ASSICURAZIONI di cui PRUDENTE era all’epoca funzionario (int. PRUDENTE, 6.9.1995, f.4; int. DIGILIO, 18.10.1995, f.3). Lorenzo PRUDENTE, per aiutare il camerata, aveva quindi utilizzato lo stesso canale già emerso nel procedimento celebrato a carico dello stesso PRUDENTE, di Pasquale GUAGLIANONE e degli altri camerati della rete di appoggio logistica milanese al gruppo di Gilberto CAVALLINI, fornendo in particolare ai latitanti dei N.A.R. i tagliandi assicurativi falsi, ma compilati su moduli della TORO ASSICURAZIONI, che il gruppo aveva utilizzato per le autovetture di cui disponeva. Il passaporto così compilato è quello a nome Piero MARTINELLI, sequestrato a Carlo DIGILIO al momento del suo arresto a Santo Domingo nel 1992 e di cui si è ampiamente parlato nella sentenza-ordinanza conclusiva dell’istruttoria 721/88F. Al momento della conclusione di tale prima istruttoria, Carlo DIGILIO non si era ancora risolto a dire chi lo avesse aiutato nella prima parte della sua fuga da Villa d’Adda e cioè nel tragitto sino a Zurigo ove si sarebbe poi imbarcato per Santo Domingo. Tale aspetto della fuga era quindi rimasto oscuro e non a caso si ricollega ad una fase processuale in cui DIGILIO non aveva ancora ammesso in alcun modo i rapporti intrattenuti, inizialmente tramite il dr. MAGGI, con i componenti del gruppo CAVALLINI. 182 A seguito di una prima indicazione proveniente da Ettore MALCANGI in merito alla presenza di PRUDENTE a Villa d’Adda e all’aiuto anche economico fornito tramite questi (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.2), Carlo DIGILIO, iniziando così a spiegare i suoi rapporti con le persone vicine a Gilberto CAVALLINI, ha raccontato di essere stato accompagnato sino a Ponte Chiasso a bordo di un’autovettura guidata da Lorenzo PRUDENTE, di aver attraversato il confine a piedi in quanto meno pericoloso e di essere stato recuperato da PRUDENTE dopo le sbarre di frontiera e accompagnato sino a Zurigo (int. 18.10.1995, ff.1-2). Il racconto di Lorenzo PRUDENTE in merito a tale ulteriore aiuto fornito è assolutamente coincidente (int.6.9.1995, ff.3-4) e in sostanza egli , in tale occasione, aveva svolto il medesimo ruolo emerso nel procedimento appena citato a carico degli appoggi milanesi di Gilberto CAVALLINI, e cioè l’accompagnamento oltre confine, in quanto persona “pulita” di Pasquale BELSITO, Cristiano FIORAVANTI, dello stesso CAVALLINI e di altri esponenti latitanti dei N.A.R. Non molto diversa è la vicenda della cessione a DIGILIO dei due documenti argentini già appartenuti ad oppositori del regime politico esistente all’epoca in tale Paese (capo 30 di imputazione). Ettore MALCANGI aveva ricevuto tali documenti, già appartenuti a oppositori eliminati dalla Giunta argentina, da esponenti dei servizi segreti uruguayani con cui era da tempo in contatto. Al momento della partenza per Santo Domingo li aveva ceduti a Carlo DIGILIO (int. MALCANGI, 2.10.1995, ff.1-2; 17.10.1995, f.2). Carlo DIGILIO aveva tuttavia deciso di non utilizzarli per seguire il suo camerata a Santo Domingo in quanto, non conoscendo all’epoca la lingua spagnola, temeva di trovarsi in difficoltà nel caso di un controllo e di essere invece individuato quale persona differente da quella che appariva sui documenti e aveva così deciso di utilizzare i documenti italiani intestati a Piero MARTINELLI (int. DIGILIO, 6.11.1995, ff.1-2; int. MALCANGI, 17.10.1995, f.2). In quel periodo tuttavia, all’inizio del 1995, a Villa d’Adda si era presentato Enrico CARUSO, che a Milano, negli anni ‘70, aveva condiviso con CAVALLINI la militanza nell’estrema destra ed era stato condannato per l’omicidio dello studente di sinistra Alberto BRASILI. Enrico CARUSO, in quel momento in semilibertà, aveva deciso di fuggire e di raggiungere anch’egli Santo Domingo e, avendo bisogno di documenti, aveva ricevuto da Carlo DIGILIO uno dei due passaporti argentini che aveva anche completato apponendovi i timbri e la sua fotografia (int. CARUSO, 23.8.1995, f.3, e 14.9.1995, f.3; dep. GAVAGNIN, 10.12.1993, f.1; int. PRUDENTE, 6.9.1995, f.3; int. DIGILIO, 6.11.1995, f.2, il quale però ha riferito, probabilmente non esattamente, che il documento era stato fornito a CARUSO direttamente da Ettore MALCANGI). Enrico CARUSO, una volta raggiunta Santo Domingo insieme a GAVAGNIN, aveva restituito a Carlo DIGILIO il passaporto argentino (int. CARUSO, 23.8.1995, f.3). 183 184 Si noti che il canale di acquisizione dei nominativi che servivano per i vari documenti falsi di cui Enrico CARUSO si era servito anche negli anni successivi era la palestra di arti marziali OLIMPIA di Milano, frequentata anche da Lorenzo PRUDENTE (int. CARUSO, 23.8.1995, f.4) e in cui molti anni prima, intorno al 1970, si addestrava Biagio PITARRESI, nel periodo in cui alcuni veneziani, fra cui Delfo ZORZI, venivano anch’essi a Milano per incontri di arti marziali (dep. PITARRESI, 9.5.1995, f.6). Tale circostanza testimonia la stabilità nel tempo e la circolarità dei rapporti fra gli elementi dell’estrema destra pur appartenenti a settori politici ed aree apparentemente diverse. Merita anche di essere ricordato che tutte le persone entrate in contatto con DIGILIO durante la sua latitanza hanno ricordato la bravura vantata da DIGILIO nell’approntare silenziatori utilizzando tubi di metallo con all’interno feltrini e mollette (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.4; int. CARUSO, 28.8.1995, f.4; int. PRUDENTE, 6.9.1995, f.4) e dichiarazioni nello stesso senso sono state raccolte da molti altri testimoni fra cui Martino SICILIANO. Carlo DIGILIO, stranamente, pur avendo confessato la sua partecipazione a gravissimi episodi, ha più volte dichiarato di non essere mai stato in grado di fabbricare personalmente silenziatori, pur avendo molte volte controllato e verificato il funzionamento di quelli che pervenivano al gruppo da Roberto ROTELLI e da altre fonti (int.6.11.1995, f.3). Si tratta di una negazione singolare, collegata alle molte incertezze di Carlo DIGILIO in merito all’assunzione di alcune responsabilità e il cui significato potrà forse essere meglio approfondito in futuro. Chiariti comunque, in questa seconda fase dell’istruttoria, gli ultimi punti oscuri connessi alla latitanza di Carlo DIGILIO e come richiesto dal Pubblico Ministero, Ettore MALCANGI deve essere rinviato a giudizio per rispondere dei reati di cui al capo 28, Lorenzo PRUDENTE per rispondere dei reati di cui ai capi 29 e 30, lo stesso MALCANGI, DIGILIO e CARUSO per rispondere dei reati di cui al capo 31, in quanto per tali capi la prescrizione è stata tempestivamente interrotta e non ne sono quindi decorsi i termini. 184 29 LA POSIZIONE DI MARCO BALLAN Il fascicolo trasmesso a seguito di sentenza di incompetenza territoriale del Giudice Istruttore di Bologna in data 24.9.1992 riguarda anche la posizione di Marco BALLAN il quale, imputato dei reati di cui agli artt. 270 e 306 c.p., avrebbe fatto parte di una struttura associativa, costituita a Milano e operante quantomeno sino al 1974, che sarebbe stata finalizzata alla consumazione di almeno quattro delitti di strage, fra cui la strage di Piazza della Loggia a Brescia e, probabilmente, l’attentato al treno Italicus e l’attentato sulla linea ferroviaria Ancona-Pescara avvenuto all’altezza di Silvi Marina il 29.1.1974. Al vertice di tale organizzazione sarebbero stati, per la componente avanguardista, appunto Marco BALLAN e, per la componente ordinovista, Giancarlo ROGNONI. Gli elementi raccolti dal G.I. di Bologna (che aveva anche emesso nei confronti di BALLAN e di ROGNONI, in data 12.10.1985, un provvedimento restrittivo) si basano essenzialmente sulle dichiarazioni del pentito Valerio VICCEI, molto legato negli anni ‘70 a Giancarlo ESPOSTI e a Gianni NARDI, e sono contenuti nel rapporto della Questura di Bologna - Sezione antiterrorismo, allegato agli atti (vol.5, fasc.1). In particolare la cellula ascolana di cui faceva parte VICCEI, in stretto contatto con quella milanese, si era procurata, all’inizio degli anni ‘70, una forte dotazione di esplosivi e aveva compiuto attentati “minori” quali quello in danno del Tribunale di Ascoli Piceno del 31.12.1971 e quello in danno del ripetitore RAI di Colle San Marco del 5.1.1972. Quando nel 1974 Giancarlo ESPOSTI, che si spostava frequentemente in CentroItalia, era divenuto responsabile militare della cellula ascolana, il vertice milanese di ROGNONI e BALLAN, secondo le confidenze che VICCEI aveva ricevuto dallo stesso ESPOSTI, aveva progettato un articolato programma comprendente almeno quattro operazioni. Due operazioni, con i treni come obiettivi, erano state assegnate alla cellula ascolana dal punto di vista organizzativo, mentre altre due azioni nel Centro/Nord dovevano essere direttamente compiute dal gruppo milanese (cfr. rapporto citato della Questura di Bologna, f.47). Si era così giunti al gravissimo attentato sulla linea ferroviaria a Silvi Marina compiuto, secondo VICCEI, dai due ascolani ORTENZI e MARINI e da due milanesi dei quali ESPOSTI non gli aveva rivelato i nomi, attentato che avrebbe inaugurato tale strategia del terrore. Nonostante la supervisione dei milanesi, l’attentato era tuttavia fallito (la miccia era stata tranciata dall’inatteso passaggio del locomotore di un treno merci che viaggiava fuori orario) ed era anche fallito l’attentato commesso il successivo 21.4.1974 a Vaiano (Firenze) sempre sulla linea ferroviaria. 185 186 I milanesi erano invece passati all’azione attuando la strage di Piazza della Loggia e, sempre secondo le confidenze raccolte da VICCEI, anche la strage sul treno Italicus del 4.8.1974. La morte di Giancarlo ESPOSTI a Pian del Rascino e il sequestro di parte della dotazione logistica avevano comunque portato alla disintegrazione della cellula ascolana e la prosecuzione del piano strategico era stata interrotta essendo ormai venuti meno anche molti dei contatti con gli ambienti militari. Si noti che, sempre secondo VICCEI, Giancarlo ESPOSTI, poco prima di morire a Pian del Rascino, deteneva un prototipo della famosa mitraglietta tipi UZI progettata dal colonnello SPIAZZI e la cui produzione stava per essere tentata a Madrid dall’ing.POMAR, come la missione in Spagna di Carlo DIGILIO aveva consentito di accertare (cfr. rapporto citato, ff.66-68). Nel corso dell’istruttoria condotta dall’A.G. di Bologna, pur essendo stata confermata la presenza con ruolo direttivo di Marco BALLAN all’interno della cellula milanese di Avanguardia Nazionale e la complessiva importanza della figura dello stesso BALLAN, incaricato da DELLE CHIAIE anche di una delicata missione in Argentina per conto del regime cileno, non erano emersi altri elementi tali da rendere più solido il quadro indiziario. Anche nel prosieguo dell’istruttoria condotta da questo Ufficio nessun elemento significativo si è aggiunto in relazione alla posizione di Marco BALLAN. Tenendo altresì presente che il giudice istruttore di Bologna, nell’ambito della sentenza-ordinanza depositata in data 3.8.1994, ha prosciolto Marco BALLAN in relazione alla sua prospettata corresponsabilità nell’attentato al treno Italicus e che l’affidabilità di Valerio VICCEI deve ritenersi obbiettivamente indebolita dalla sua fuga all’estero e dalla sua successiva cattura a Londra, dove egli si era reso responsabile di una grossa rapina in danno di un caveau di cassette di sicurezza, appare processualmente corretto prosciogliere Marco BALLAN, in ordine alle imputazioni di cui ai capi 5 e 6, per non avere commesso il fatto. 186 PARTE QUARTA GLI ATTENTATI DEL 12 DICEMBRE 1969 E L’ATTENTATO DI GIANCARLO BERTOLI DINANZI ALLA QUESTURA DI MILANO IL 17 MAGGIO 1973 187 188 30 ORDINE NUOVO E GLI ATTENTATI DEL 12.12.1969: UNA LETTURA COMPLESSIVA LA DEPOSIZIONE DI TULLIO FABRIS La valutazione di una imputazione così delicata come quella di spionaggio politicomilitare di cui al capo 33 di imputazione, mossa a Sergio MINETTO e Carlo DIGILIO e prospettabile anche nei confronti di alcuni ufficiali statunitensi e quindi contestata, forse per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, nella presente istruttoria ad agenti appartenenti non a Paesi dell’Est-europeo, ma a Paesi della N.A.T.O., comporta innanzitutto l’esame dei fatti storici che sarebbero stati oggetto delle attività di spionaggio e collusione. Il capo di imputazione, così come articolato, riguarda l’attività illecita della struttura informativa (e i motivi dell’illiceità saranno esposti nel capitolo 52) in relazione alla strage di Piazza Fontana e agli attentati che l’hanno preceduta, la strage dinanzi alla Questura di Milano del 17.5.1973 ed altre situazioni di carattere golpistico o eversivo o attività di depistaggio delle indagini riguardanti tali episodi, tutte avvenute in territorio veneto anche se proiettate su avvenimenti consumatisi prevalentemente a Milano. E’ quindi necessario, prima di valutare sul piano penale l’illiceità e le conseguenze del comportamento di MINETTO, DIGILIO, del capitano CARRET e degli altri componenti della struttura informativa avente la sua base a Verona, esporre in modo sintetico, ma sufficientemente illustrativo, quanto emerso nel corso dell’istruttoria in relazione agli episodi più gravi e in particolare la strage di Piazza Fontana e la strage dinanzi alla Questura di Milano. Tali eventi criminosi sono lo specifico oggetto di altre due indagini (condotte rispettivamente, con il rito vigente, da parte della Procura della Repubblica di Milano e, con il rito abrogato in regime di proroga, da parte del Giudice Istruttore dr. Antonio Lombardi) ed hanno visto nel giugno 1997, peraltro sulla base prevalentemente di elementi di prova comuni alla presente istruttoria, l’emissione di provvedimenti restrittivi nei confronti del dr. Carlo Maria MAGGI e di Delfo ZORZI per gli attentati del 12.12.1969 e nei confronti dello stesso dr. MAGGI, di Giorgio BOFFELLI e di Francesco NEAMI per la strage del 17.5.1973. Non si intende nè sarebbe necessario, in questa sede, duplicare le ampie e dettagliate motivazioni poste a base dei provvedimenti restrittivi del giugno 1997, ma appare tuttavia utile, sotto un profilo logico e ricostruttivo e al fine di offrire un immediato quadro di interpretazione dei comportamenti degli imputati accusati di avere fatto parte della rete americana, esporre, in modo sufficientemente organico e con riferimento comunque ai soli elementi emersi in questa istruttoria, il quadro probatorio formatosi in merito a tali due stragi e ai probabili collegamenti fra di esse sia in tema di comuni mezzi operativi sia in tema di movente di tali azioni (cfr., su tale ultimo punto, il capitolo 40 dedicato al ruolo dell’on. Mariano RUMOR). 188 L’esposizione degli elementi raccolti può iniziare con l’esame di una testimonianza che forse non è stata, sul piano esterno, eclatante come la collaborazione di Martino SICILIANO e Carlo DIGILIO, ma che sul piano storico e processuale risulta determinante per affermare la responsabilità della struttura veneta di Ordine Nuovo negli attentati del 12.12.1969 e sarebbe stata dirompente se gli elementi di prova che per ragioni di timore sono stati taciuti sino all’autunno del 1994, fossero giunti quantomeno prima della chiusura dei dibattimenti celebrati a Catanzaro. Ci riferiamo alle nuove e complete deposizioni rese dall’elettricista di Padova, Tullio FABRIS, l’uomo che aiutò Franco FREDA nell’acquisto dei timers, a personale del R.O.S. Carabinieri in data 16 e 17 novembre 1994 e 9.12.1994 (e dalla moglie, Maria Paola BETTELLA, in data 17.11.1994), successivamente confermate con ulteriori precisazioni dinanzi a questo Ufficio in data 24.3.1995. Il valore di tali dichiarazioni, la cui acquisizione alle istruttorie in corso costituisce un grande risultato sul piano della serietà e della capacità investigativa del personale del R.O.S. Carabinieri, è eccezionale. Si può affermare con ragionevole certezza che tali dichiarazioni, tenendo presente che provengono da un uomo semplice che per tanti anni, per ragioni più che comprensibili, non aveva avuto la forza di raccontare tutto ciò che sapeva, se acquisite nel corso dei precedenti giudizi, ne avrebbero mutato l’esito facendo franare il castello difensivo dei componenti della cellula padovana. Se le nuove dichiarazioni di Tullio FABRIS hanno valore solo storico nei confronti di Franco FREDA e Giovanni VENTURA, assolti, sia pure per insufficienza di prove, con sentenza definitiva, esse hanno invece pieno valore processuale e piena attualità nei confronti di altri componenti del gruppo quali il dr. Carlo Maria MAGGI e Delfo ZORZI. Infatti questi ultimi sono attualmente accusati, come si desume anche dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. di Milano nel giugno 1997, di avere organizzato e commesso gli attentati del 12.12.1969 in concorso con FREDA, VENTURA e altri componenti della cellula padovana e di conseguenza i nuovi elementi emersi a carico dei componenti di tale cellula, fortunosamente assolti, sono pienamente utilizzabili nei confronti di MAGGI e ZORZI contribuendo a formare il quadro complessivo delle responsabilità della struttura veneta. Del resto, come si delinea chiaramente dalle nuove deposizioni di Tullio FABRIS, gli insegnamenti tecnici che grazie a lui sono stati raccolti da FREDA e VENTURA nello studio legale padovano in merito al funzionamento dei timers erano destinati non ad essere utilizzati direttamente da costoro, ma ad essere travasati agli elementi che dovevano materialmente operare, e quindi certamente a Delfo ZORZI e ad altri componenti della cellula di Mestre/Venezia. Passando all’esame delle dichiarazioni di FABRIS nel loro sviluppo storico e logico, bisogna innanzitutto ricordare che questi era estraneo al gruppo e a qualsiasi 189 190 militanza politica ed era semplicemente l’elettricista che Franco FREDA, dopo averlo impiegato in alcuni comuni lavori da artigiano nella fase del rinnovo e dell’arredamento dello studio di Padova, aveva utilizzato per l’acquisto dei timers presso la ditta ELETTOCONTROLLI di Bologna senza spiegargli l’uso che intendeva farne. Tullio FABRIS infatti, nel settembre 1969, aveva ritirato i 50 timers presso la ditta bolognese pagandoli con denaro anticipato da FREDA e consegnandoli poi alla segretaria dello studio. Nell’istruttoria condotta prima dai giudici di Treviso e poi dai giudici di Milano, FABRIS aveva confermato l’intervento nell’acquisto dei timers e aveva aggiunto tre circostanze: - nello studio legale di Padova aveva sentito discutere FREDA e VENTURA dei timers acquistati e ave a visto FREDA cederne uno a VENTURA; - aveva acquistato per FREDA 5 metri di filo di nichel-cromo (cioè il filo poi utilizzato dal gruppo come resistenza nell’innesco degli ordigni); - nel settembre 1969, FREDA gli aveva detto che i timers andavano messi all’interno di cassette metalliche e gli aveva chiesto di procurarne qualcuna (si ricordi l’uso, per la prima volta, di cassette metalliche nell’ottobre 1969 in occasione degli attentati di Trieste e Gorizia). Nel corso della prima istruttoria, anche in sede di confronto con FREDA, Tullio FABRIS non aveva detto di più, pur confermando le precedenti dichiarazioni. Quanto riferito sino a quel momento da Tullio FABRIS non era tutta quanta la verità e tutto quanto poteva interessare così da vicino l’istruttoria. Nel corso delle deposizioni rese nel novembre 1994 a personale del R.O.S. e successivamente dinanzi a questo Ufficio egli ha innanzitutto spiegato la ragione della sua parziale reticenza rivelando di essere stato minacciato ben in tre occasioni, proprio mentre erano in corso le indagini milanesi, da persone vicine agli imputati e cioè Massimiliano FACHINI e Pino RAUTI. Tali minacce sono state confermate anche dalla moglie di Fabris, Maria Rosa BETTELLA, che aveva assistito all’episodio avvenuto all’interno del negozio del marito e che aveva visto come protagonisti, insieme, RAUTI e FACHINI. Ecco i passi più salienti delle dichiarazioni rese da FABRIS e dalla moglie in merito alle minacce subite: “””....Voglio far presente che ho molto timore non per avere avuto un ruolo nella strage, ma per essere stato trascinato, a causa della mia ingenuità e buona fede, anche perchè il Sig. FREDA appariva come un rispettabile 190 avvocato, in situazioni che mi hanno permesso di capire che si stavano realizzando delle cattive azioni. I miei timori sono fondati, in quanto già nel passato ho subìto visite intimidatorie, delle quali voglio parlare perchè si sia coscienti della mia situazione emotiva. Preciso che subito dopo il primo o il secondo verbale di cui mi è stata concessa lettura (n.d.r.: si tratta di verbali di dichiarazioni rese nel gennaio 1972 dal teste davanti al G.I. di Treviso) ricevetti la visita di una persona che non conoscevo e che mi disse di chiamarsi FACHINI e di essere un amico di FREDA e mi precisò di essere un amico di questi. Ricordo che era in un periodo freddo. Il FACHINI mi chiese di raccontargli quali erano state le domande fatte dai Giudici, cosa alla quale io risposi, chiedendomi inoltre se avevo bisogno di aiuto e se il lavoro andava bene. Io gli risposi che non volevo avere più alcun rapporto con loro. Il FACHINI in questa occasione non reagì in malo modo. Voglio precisare che in realtà la prima minaccia la subii proprio contestualmente alla prima deposizione in Padova, allorquando mi incrociai con la mamma di Franco FREDA che mi intimò di stare attento, in quanto mi avrebbe mandato al creatore. Successivamente, sempre in periodo freddo invernale, nello stesso tempo in cui effettuavo alcune deposizioni in Milano, il FACHINI rivenne, unitamente ad altra persona a me al momento non nota, sempre presso la mia abitazione/negozio. In questa occasione era presente mia moglie ed alcuni clienti. I due aspettarono l’uscita dei clienti per iniziare a parlare, cosa che fecero solo con mia moglie, in quanto io arrivai proprio nel momento in cui lei li stava cacciando e la udii dire che gli avrebbe graffiato il muso. Mia moglie mi narrò che era stata minacciata in particolar modo dallo sconosciuto che si era qualificato come milanese. Riconoscemmo poi in un articolo di giornale l’individuo che aveva accompagnato il FACHINI, si trattava di Pino RAUTI. L’ultima minaccia la ebbi nel corso della Fiera Campionaria di quello stesso anno, credo svoltasi in giugno, ove avevo una stand della Hoover. Preciso che si trattava dei lavori preparatori della Fiera. Mentre ero alla Fiera mi trovai improvvisamente di fronte al FACHINI, che fu molto più duro della prima volta, tant’è che io ebbi il coraggio di intimargli di non darmi più fastidio”””. (dep. FABRIS a personale del R.O.S. in data 16.11.1994) 191 192 “””Non feci allora presente quanto ho inteso oggi dire, poichè ero vittima di una paura ben comprensibile: chi aveva osato tanto non avrebbe avuto alcun timore ad eliminare scomodi testimoni. Anzi le minacce ricevute, senza che mi venisse accordata alcuna protezione, mi rafforzarono nel convincimento che si era creata una situazione di estremo pericolo per me e per i miei congiunti”””. (dep. FABRIS a personale del R.O.S. in data 17.11.1994) “””In conseguenza delle testimonianze che resi, prima all'A.G. di Treviso e in seguito all'A.G. di Milano, subii i tre episodi di minaccia che ho già riferito. Il primo avvenne nel mio negozio dopo essere stato sentito dall'A.G. di Treviso e fu opera del solo Fachini. Il secondo, sempre in negozio, avvenne dopo essere stato sentito dall'A.G. di Milano e avvenne ad opera di Massimiliano Fachini e di Pino Rauti e in tale occasione era presente anche mia moglie. Il terzo episodio avvenne quando io lavoravo allo stand della Fiera Campionaria, a Padova, e fu opera del solo Fachini. Posso precisare che prima di questi tre episodi avevo visto Massimiliano Fachini una sola volta. Egli mi attese una sera davanti al mio box in fondo alla discesa e me lo trovai a fianco proprio quando stavo per tirare su la saracinesca. Il box si trova proprio sotto la mia abitazione. Egli si presentò come Fachini e mi disse che era un amico di Freda. Mi chiese se avevo problemi di lavoro e se avevo avuto qualche problema dal punto di vista giudiziario. Il suo tono non era minaccioso e l'incontro fu breve e del resto era una persona abbastanza di poche parole. Io in quel momento non ero ancora stato sentito dai giudici, mentre ero già stato sentito dal dr. Stiz quando Fachini venne per la prima volta nel mio negozio. L'incontro davanti al box si colloca circa un paio di mesi prima della prima venuta di Fachini nel mio negozio. L'incontro alla Fiera avvenne invece nel maggio del 1972, che è il mese in cui si tiene appunto la Fiera, quindi questa serie di "incontri" si colloca fra l'autunno 1971 e la primavera 1972. La seconda volta in negozio, Fachini venne con una persona che egli disse venire da Milano, era una persona con il cappello e il cappotto con il bavero alzato e dimostrava circa 40/45 anni. Durante tutto l'incontro, a parte la presentazione da parte di Fachini, fu sempre quest'uomo con il cappello a parlare con un tono minaccioso e da far paura. Mia moglie reagì vivacemente minacciando di graffiarlo se non se ne fossero 192 andati subito. Fece anche il gesto di uscire da dietro il bancone per raggiungerli. Circa due settimane dopo riconoscemmo con certezza l'uomo con il cappello in Pino Rauti che apparve diverse sui giornali e in televisione perchè coinvolto nell'istruttoria su Piazza Fontana. Nel corso delle deposizioni rese all'epoca non ho mai voluto narrare con precisione tutti questi episodi per evidenti ragioni di paura connesse proprio alle minacce che avevo subìto. Infatti a quel tempo queste persone sembravano in grado di fare del male, la nostra è una famiglia semplice e non abbiamo conoscenze e abbiamo avuto paura. Posso aggiungere che subito dopo la visita di Fachini e Rauti avevo sollecitato un aiuto al maresciallo Toniolo dei Carabinieri che lavorava al Tribunale di Padova. Chiedevo sorveglianza e protezione, ma in realtà non ho mai visto nulla, le risposte del maresciallo erano generiche e anzi mi consigliò di non mettermi in mezzo e di limitare le mie testimonianze al minimo indispensabile. In sostanza il maresciallo Toniolo mi ascoltava quasi con fastidio.””” (dep. FABRIS a questo Ufficio, 24.3.1995) “””Prendo atto che, dopo avermi resa edotta di quanto deposto da mio marito, mi si richiedono ulteriori particolari in merito all’episodio di cui fui protagonista. A questo proposito faccio presente che, pur non potendo ricordare con precisione l’epoca, nel periodo invernale in cui mio marito rese le sue deposizioni, si presentarono nel negozio due sconosciuti, che attesero che io avessi finito di servire i clienti che si trovavano al bancone in quel momento. Usciti i clienti, i due mi si avvicinarono e il più grande di età, quello che indossava un cappello ed un cappotto, con il bavero alzato, mi venne presentato dal più giovane come persona proveniente da Milano. A questo punto iniziò a parlare l’uomo con il cappello che mi disse: “Vengo per il caso FREDA, voglio sapere quello che suo marito ha detto ai Carabinieri e alla Magistratura negli interrogatori”. Preciso che il tutto fu detto con fare molto autoritario, anzi con prepotenza e in modo che io rimanessi bloccata in un angolo del magazzino. Risposi che non avevano alcun diritto di fare quelle domande e li invitai con fermezza a recarsi dai Carabinieri o dai Magistrati per apprendere quanto volevano. Quello col cappotto ribattè che: “Lei si rende conto con chi sta parlando?” e continuò formulando frasi intimidatorie, al che mi avvicinai verso di lui con 193 194 l’intento di graffiargli il volto e questi a mo’ di difesa si girò dirigendosi verso l’uscita. Io aprii la porta così da dargli modo di andarsene dal negozio e, proprio poco prima di uscire a seguito dell’uomo più giovane, si girò su se stesso pronunziando le seguenti parole: “Le ripeto che lei non sa chi sono io e vedrà le conseguenze”. Sul vialetto i due si incrociarono con mio marito che, successivamente, chiedendomi che cosa era accaduto, mi informò che l’uomo senza appello era il FACHINI.....specifico che l’uomo senza copricapo rimase, tranne la frase iniziale, sempre muto. Circa due settimane dopo, rivedemmo l’uomo con il cappello, che era venuto nel negozio, in televisione, dove venne indicato come Pino RAUTI. Ovviamente prestammo attenzione ai quotidiani e rivedendo la foto di Pino RAUTI avemmo la piena certezza che era colui che si era recato in negozio accompagnato dal FACHINI”””. (dep. BETTELLA a personale del R.O.S. in data 17.11.1994). Si noti che il riferimento temporale fornito da FABRIS in relazione alla persona di RAUTI è esatto. FABRIS, infatti, era stato sentito dal G.I. di Milano, dr. D’Ambrosio, dal 19 al 22 gennaio 1972 e al personale del R.O.S. ha fatto presente di essere stato minacciato da RAUTI e FACHINI poco tempo dopo, nel suo negozio, e di avere riconosciuto, ancora pochissimo tempo dopo, RAUTI in televisione in quanto tratto in arresto per concorso nella strage di Piazza Fontana. Il mandato di cattura nei confronti di Pino RAUTI è stato effettivamente emesso dai Giudici milanesi il 2.3.1972 e quindi la scansione temporale indicata da Tullio FABRIS è assolutamente esatta. Quanto esposto da FABRIS conferma che questi non aveva riferito, nel corso dell’istruttoria, tutti i particolari dei suoi rapporti con FREDA e VENTURA (in caso contrario, del resto, le minacce sarebbero state inutilmente pericolose), ma soprattutto rivela come, per proteggere la posizione di FREDA, si sia attivato addirittura Pino RAUTI, cioè il vertice di Ordine Nuovo, evidentemente nella consapevolezza che l’aggravarsi delle prove a carico di FREDA e VENTURA ed un loro eventuale crollo dinanzi agli inquirenti avrebbe inesorabilmente travolto l’intera struttura dal centro alla periferia. Il coinvolgimento delle più alte strutture gerarchiche di Ordine Nuovo è del resto in corrispondenza con il complessivo racconto di Carlo DIGILIO, il quale ha riferito che Pino RAUTI aveva partecipato a Padova ad una riunione preparatoria della strategia degli attentati (int. 16.5.1997, ff.3-4) e che, secondo il quadro fornitogli da Delfo ZORZI, tutto era stato deciso a Roma d’intesa con apparati istituzionali. 194 Passando all’esposizione delle nuove circostanze rivelate da Tullio FABRIS, questi ha riferito di non essersi limitato a rendere possibile l’acquisizione dei timers da parte di Franco FREDA, ma che nello studio legale di Padova vi erano stati ben tre incontri grazie ai quali FREDA e VENTURA avevano imparato a far funzionare gli inneschi, anche con prove pratiche che avevano avuto pieno successo, l’ultima delle quali collegando direttamente uno dei timers alle restanti parti del sistema di attivazione. Vediamo cosa avvenne nei tre incontri, che costituiscono una prova del nove delle responsabilità del gruppo veneto: - In un primo incontro nello studio legale, presente solo FREDA (dep. FABRIS al R.O.S., 17.11.1994, f.2; al G.I., 14.3.1995, f.1) viene provato l’innesco formato da: batteria, filo elettrico al nichel-cromo e fiammifero antivento (procurato da FREDA; dep. 24.3.1995, f.3); quest’ultimo, grazie al surriscaldamento del filo elettrico al momento della chiusura del circuito, si accende. Tale incontro avviene prima dell’acquisto dei timers e Franco FREDA rimane soddisfatto della prova (dep. 5.12.1994, f.1). Tullio FABRIS ha descritto tale primo esperimento, effettuato quando non erano ancora disponibili i timers, con spontaneità e nello stesso tempo con l’estrema precisione tecnica che gli deriva dalla sua professione (dep. 17.11.1994, f.2). Si noti che il particolare relativo all’utilizzo del fiammifero antivento è di estrema importanza poichè si tratta della miglioria suggerita dal prof. Lino FRANCO in occasione del secondo accesso al casolare di Paese (int. DIGILIO, 10.10.1994, f.3) ed il fatto che Franco FREDA si sia impadronito di tale espediente tecnico testimonia il travaso delle conoscenze all’interno del gruppo nel periodo in cui il miglioramento dei sistemi di innesco era in fase di continua sperimentazione. - Il secondo incontro, sempre nello studio di FREDA, presente anche VENTURA, avviene dopo l’acquisto dei timers ed ha carattere teorico in quanto i due si limitano a chiedere a FABRIS in che modo l’innesco provato nel corso del primo incontro possa essere collegato ad un timer. FREDA annota tutto su un foglio (dep. 5.12.1994, f.1). Franco FREDA aveva giustificato a FABRIS tale richiesta di informazioni affermando che il timer, con il suo meccanismo di attivazione in ritardo, doveva servire alla “partenza di più missili” (dep. 5.12.1994, f.1). - Nel terzo incontro, quello decisivo, sempre presenti FREDA e VENTURA, avviene la prova pratica. Uno dei timers acquistati tramite FABRIS viene collegato al congegno elettrico. Vengono fatte due prove che hanno entrambe successo ed il filo al nichel-cromo, dopo la chiusura del contatto da parte del timer, accende il fiammifero antivento intorno a cui è avvolto (dep. 5.12.1994, f.2). Dopo le due prove, VENTURA porta via tutto nella sua borsa. Conviene riportare integralmente tale descrizione della scena contenuta nella deposizione di Tullio FABRIS in data 5.12.1994 poichè costituisce una fotografia “tecnica”, ma a posteriori drammatica, di quello che sarebbe avvenuto poche settimane dopo all’interno della borsa deposta nel salone della Banca 195 196 Nazionale dell’Agricoltura e presso gli altri obiettivi della giornata del 12 dicembre 1969: “””... All’incirca un mese dopo, nell’ottobre/novembre del 1969, si portava l’impermeabile e non il cappotto, vi fu la prova pratica, anche questa volta nell’Ufficio del dr. FREDA. Fu utilizzato un solo timer e la prova fu piuttosto breve, in quanto si trattò solo di fare il collegamento tra il filo elettrico già sperimentato e i tre morsetti, cioè il “RITORNO UNO”, il “COMUNE” e il “RITORNO DUE”. Ribadisco che il timer della ditta RICA non aveva il “ritorno due” ed era quindi inutilizzabile per gli scopi di FREDA. Il timer della ELETTROCONTROLLI aveva invece tre morsetti. il collegamento fu fatto unendo la linguetta rimasta libera delle due batterie da 4.5 volt con il morsetto “comune” del timer, invece il filo al nichel-cromo, che era collegato ad un capo ad altra linguetta delle due batterie, fu connesso al morsetto denominato “ritorno due”, col faston. Ovviamente non vi è alcun bisogno di fare collegamenti al morsetto denominato “ritorno uno”; esso è presente solo perchè il commutatore, cioè il timer in deviazione, possa essere utilizzato anche come semplice timer. Preciso ancora meglio, mentre il timer della Elettrocontrolli poteva fare anche la funzione del timer della Rica, non poteva avvenire il contrario. Anche in questo caso fu realizzato l’esperimento utilizzando un fiammifero antivento. Credo di ricordare che furono effettuate solo due prove, esse andarono entrambe bene e sia il FREDA che il VENTURA rimasero molto soddisfatti. Non vi fu bisogno di cambiare le batterie, furono in grado di sopportare tutti e due i cortocircuiti. Ovviamente prima si fa il collegamento di una linguetta delle due pile con il COMUNE, poi si carica il timer e, solo dopo questa operazione, si può fare l’ultima connessione tra il nichel-cromo e il RITORNO DUE. Se non venisse data la carica, il timer si comporterebbe come se la molla si fosse già scaricata e quindi immediato cortocircuito. Anche in questo caso il FREDA si annotò il tutto e, comunque, in ogni caso, era impossibile che sbagliassero in quanto, come detto l’altra volta, il VENTURA si mise il tutto nella sua borsa e cioè con i contatti con i morsetti ancora attaccati....”””. Tullio FABRIS ha aggiunto che il congegno così preparato era stabile sul piano tecnico, cioè non poteva essere danneggiato da sollecitazioni meccaniche o piccoli urti e che la carica del timer, benchè meno precisa rispetto a quelli attuali in quanto ancora a molla, era comunque abbastanza affidabile in quanto su una carica di 60 minuti poteva portare ad un anticipo non voluto al massimo di 2 o 3 minuti (dep. 5.12.1994, f.2). 196 Tale prova pratica con l’utilizzo del timer era avvenuta appunto nell’ottobre-novembre 1969, secondo una precisa scansione temporale in cui si sono succeduti i tre incontri e che Tullio FABRIS ha ricollegato anche, con precisione, a sue attività di quel periodo. Tale circostanza sgretola, quindi, definitivamente la versione di Franco FREDA secondo cui, subito dopo l’acquisto, e cioè nel settembre 1969, egli avrebbe ceduto i 50 timers al fantomatico capitano HAMID dei servizi segreti algerini. Invece un timer da utilizzarsi come campione era presente nello studio di FREDA varie settimane dopo tale fantasiosa cessione e quindi il racconto di Tullio FABRIS in merito al terzo incontro e alla prova pratica che in tale occasione era stata effettuata indica in modo preciso la responsabilità del gruppo di FREDA e VENTURA e dell’intera struttura veneta nella strage. D’altronde Franco FREDA aveva fatto presente a Tullio FABRIS che vi era un’altra persona che avrebbe provveduto a realizzare concretamente quanto in quel frangente si stava imparando e sperimentando (dep.5.12.1994, f.2), persona facilmente individuabile in Delfo ZORZI e cioè colui che doveva assumersi il compito di eseguire materialmente, coordinando quel giorno anche gli altri elementi operativi, gli attentati del 12.12.1969. Oltre a quanto avvenuto in occasione dei tre incontri nello studio legale di Franco Freda, Tullio FABRIS ha riferito altre circostanze di eccezionale gravità che evidenziano, fra l’altro, la sicurezza dell’impunità che caratterizzava i movimenti e le attività del gruppo. Infatti anche dopo gli attentati del 12.12.1969, Franco FREDA non si era fatto scrupolo di chiedere ancora la collaborazione di FABRIS, tranquillizzandolo in merito alle protezioni di cui il gruppo godeva e promettendo, questa volta, un lauto guadagno. Ecco, in merito ai discorsi di FREDA prima e dopo la strage, il racconto di Tullio FABRIS: “””...voglio ancora precisare che in un tempo successivo alla strage di Piazza Fontana e quando il tempo volgeva verso la primavera quindi, credo, nel marzo o aprile 1970, mentre mi trovavo nell’Ufficio del signor FREDA, sito in Via San Biagio, alla presenza del signor Giovanni VENTURA, mi fu chiesto se desideravo lavorare per loro in maniera continuativa per eseguire i collegamenti elettrici tra i timers e le pile ed il resto del materiale occorrente citato nel verbale redatto ieri. Precisarono testualmente:”La pagheremo bene e sarà protetto in quanto se dovessero verificarsi dei problemi, anche a noi, stia tranquillo che c’è una 197 198 persona importante a livello governativo che ci darebbe una mano e che proteggerebbe anche lei”. Non risposi subito e presi tempo e nell’arco di due giorni ne parlai con mia moglie decidendo in senso negativo e, ritornando presso l’ufficio del FREDA, questa volta da solo, lo informai del mio diniego. Voglio precisare che all’epoca io e mia moglie stavamo costruendo con sacrifici la nostra casa e che dei soldi ci avrebbero fatto molto comdo, ma erano successi alcuni episodi che ci fecero molto riflettere e ci imposero di staccarci completamente da quell’ambiente. Tali episodi sono essenzialmente: 1) il far presente da parte del FREDA, nel corso del secondo semestre del 1969, che in dicembre di quello stesso anno si sarebbe verificato qualcosa di molto importante; 2) il legare, sempre da parte del FREDA questi eventi importanti, ricordo il plurale, alle specifiche richieste in campo elettrico che mi faceva per crearsi un bagaglio culturale nello specifico settore; 3) il parlare da parte del FREDA, genericamente, della realizzazione di un “COLPO DI STATO” e comunque di una “DESTABILIZZAZIONE” della situazione politica italiana. Preciso che i termini virgolettati sono esattamente quelli utilizzato dal FREDA ed erano in riferimento a quanto doveva accadere nel dicembre 1969. Intendo specificare che queste frasi dette dal FREDA non trovavano la loro origine in una particolare confidenza, ma in un forte desiderio di vantarsi di quest’ultimo e di appalesare il suo potere...””” Tullio FABRIS, tuttavia, dopo essersi anche consultato con la moglie (dep. 24.3.1995, f.1), non aveva accettato tali proposte e aveva troncato ogni rapporto con FREDA evitando anche di parlargli per telefono. Infatti egli aveva ormai compreso per quale disegno era stato utilizzato: “””...Poichè l’Ufficio me lo chiede, intendo anche dire che ebbi un fortissimo travaglio emotivo. Il pomeriggio del 12.12.1969, dopo aver appreso da un cliente di quanto era accaduto a Milano, ebbi in cuor mio la certezza morale che FREDA e VENTURA erano degli assassini, tuttavia non vi volevo credere. Vi prego di credere che fu un grave contrasto emozionale. Solo più tardi, quando mi fu fatta la proposta di lavoro continuativo, ebbi la certezza che erano stati loro: il chiedermi di lavorare per loro fu da me interpretato come un complimento alle mie conoscenze elettriche, da quel momento non ho più voluto avere alcun rapporto neanche telefonico con il FREDA, tant’è che facevo rispondere mia moglie...”””. 198 I discorsi di Franco FREDA, riferiti da FABRIS, in merito alle protezioni godute (si ricordi che sino al 1971 il gruppo veneto non sarebbe stato toccato dalle indagini) e al collegamento dell’azione delle persone vicine a FREDA con la realizzazione di un progetto golpistico (si veda, sul punto, ampiamente il capitolo 38 della sentenza-ordinanza di questo Ufficio conclusiva del primo filone istruttorio) sono in perfetta sintonia con le restanti acquisizioni processuali. Non a caso, del resto, Vincenzo VINCIGUERRA aveva sottolineato che l’acquisto dei timers da parte di FREDA senza particolari precauzioni (ed anzi coinvolgendo addirittura una persona come FABRIS, estranea al gruppo) era dovuto al fatto che l’operazione del 12.12.1969 si inquadrava in un piano golpistico che, secondo gli autori degli attentati, avrebbe certamente avuto successo e quindi gli stessi, lungi dall’essere perseguitati, si sarebbero anzi trovati in breve volgere di tempo in posizioni di maggior potere (int. VINCIGUERRA, 10.7.1992, f.1). 199 200 31 LE DICHIARAZIONI DI VINCENZO VINCIGUERRA RELATIVE ALL’ ”OPERAZIONE” DEL 12.12.1969 LA MANIFESTAZIONE DEL M.S.I. E DI ORDINE NUOVO INDETTA A ROMA PER IL 14.12.1969 Vincenzo VINCIGUERRA ha reso a questo Ufficio, fra il 1991 e il 1993, una serie di interrogatori in cui egli ha ritenuto di fornire alcuni elementi di conoscenza in suo possesso utili a ricostruire la storia di quella che egli stesso ha definito l’ “operazione” del 12.12.1969. Si tratta di elementi di conoscenza appresi in parte nella prima fase della sua militanza nella struttura di Ordine Nuovo, e precisamente nella cellula di Udine di cui facevano parte Carlo CICUTTINI e Ivano BOCCACCIO, e in parte nella seconda fase di tale militanza quando egli, per non essere tratto in arresto per il fallito dirottamento di Ronchi dei Legionari in cui Ivano BOCCACCIO aveva trovato la morte, aveva raggiunto la Spagna e si era unito al gruppo di latitanti gravitanti intorno a Stefano DELLE CHIAIE, proseguendo poi la sua attività politica in Avanguardia Nazionale anche in Sud-America e durante i periodi di rientro clandestino in Italia. In relazione a molte delle notizie che egli ha ritenuto di rendere note nel corso degli interrogatori, talvolta ampliando in tale sede spunti o concetti già accennati in documenti o libri da lui scritti e pubblicati anche nel normale circuito editoriale, Vincenzo VINCIGUERRA ha ritenuto di non rendere comunque noto il nome della fonte, non intendendo mettere in difficoltà e magari coinvolgere in procedimenti penali camerati sulla cui onestà e buona fede non erano mai sorti dubbi durante la militanza e quindi diversi da quelli risultati collusi con apparati dello Stato i cui nomi, invece, potevano essere indicati senza remore. Tale scelta, del tutto spiegabile in un’ottica di “militante rivoluzionario” quale si è sempre considerato e si considera VINCIGUERRA, ha certamente in parte ridotto la portata processuale delle sue dichiarazioni, ma di certo non l’ha annullata in quanto si tratta pur sempre di notizie ricevute in un contesto di affidabilità reciproca fra i due interlocutori all’interno di una ristretta cerchia di persone e di conseguenza tali notizie, indipendentemente dall’indicazione della specifica persona che ne è stata la fonte ed integrate dalle altre la cui fonte VINCIGUERRA ha invece reso nota, rimangono dati coerenti e processualmente utilizzabili. Ad avviso di questo Ufficio, la figura di Vincenzo VINCIGUERRA e il suo peculiare comportamento all’interno del mondo di estrema destra sono stati efficacemente scolpiti in un passaggio della relazione che nel 1994 ha concluso i lavori della Commissione Parlamentare sulle stragi all’interno dell’ XI Legislatura, passaggio che per la sua precisione merita di essere riportato: “””....Questi, però, non si ritiene (e non è) un “pentito” o un dissociato. 200 Infatti Vincenzo VINCIGUERRA ha sempre premesso di non essere disposto a rivelare tutto quanto a sua conoscenza e, in particolare, non è mai stato disposto a fare rivelazioni che direttamente o indirettamente portassero all’individuazione di responsabilità penali di persone che professassero le sue stesse idee politiche, così come si è sempre riservato il diritto di scegliere il momento in cui rivelare le notizie in suo possesso. D’altro canto, VINCIGUERRA non hai chiesto attenuazioni di pena, accettando di scontare l’ergastolo irrogatogli e in questo modo si è, per così dire, pagato il diritto di rivelare quello che ritiene opportuno nel momento che reputa adatto. Ovviamente questo ha ridotto considerevolmente la portata della collaborazione di VINCIGUERRA che resta, comunque, il caso più rilevante di collaborazione con la Giustizia su questo versante delle indagini...””” Quindi, pur non essendo VINCIGUERRA tecnicamente un collaboratore, è certo che egli, dal suo punto di vista essenzialmente storico e politico, ha contribuito in modo significativo a ricostruire alcuni passaggi della strategia della tensione. L’attendibilità di Vincenzo VINCIGUERRA risulta decisamente avvalorata dal venir meno, con le indagini di questi ultimi anni, dell’ipotesi prospettata dal G.I. di Venezia, dr. Casson, secondo cui l’attentato di Peteano sarebbe stato in qualche modo connesso, forse sotto il profilo dell’esplosivo utilizzato, al deposito NASCO di Aurisina dell’organizzazione GLADIO e lo stesso VINCIGUERRA, lungi dall’essere un nazional-rivoluzionario puro e coerente, sarebbe stato legato a GLADIO o, come altri ordinovisti, a qualche altro apparato istituzionale e di conseguenza l’attentato da lui commesso non sarebbe stato un gesto di attacco diretto contro lo Stato, unico in tale settore e quasi parallelo alle azioni delle Brigate Rosse, ma parte, sin dall’origine, della strategia della tensione e delle sue oscure connivenze (cfr. ordinanza del G.I. di Venezia in data 24.2.1989 nel procedimento Peteano-ter, ff.9 e ss., vol.27, fasc.2). Mai una ricostruzione così infondata, sfornita non solo di qualsiasi elemento di prova, ma anche di qualsiasi dato indiziario, è stata così cara al mondo dei mass-media, soprattutto all’inizio degli anni ‘90, all’emergere del “caso GLADIO”, tanto da essere ancora oggi riportata meccanicamente ogniqualvolta, nell’ambito di commenti ricostruttivi, viene rievocato l’attentato di Peteano. L’effetto di tale ingiustificato ed erroneo collegamento è stato nefasto in quanto è stato una delle ragioni non ultime per le quali VINCIGUERRA, limitando così la portata delle sue dichiarazioni, ha ritenuto che non fosse possibile alcuna forma di completa ricostruzione, da parte sua, degli anni della strategia della tensione di fronte ad una Autorità Giudiziaria. Egli infatti ha più volte, e non a torto, sottolineato che non era possibile individuare, se non in modesta parte, nell’Autorità Giudiziaria, e quindi nello Stato, un interlocutore credibile se la sua posizione e la sua scelta di vita venivano, anche a livello dei mass-media, radicalmente rovesciate, trasformandolo da combattente rivoluzionario, che in nome di un ideale si era 201 202 risolto ad una scelta estrema contro rappresentanti dello Stato (e perdipiù Carabinieri, all’epoca sovente “cobelligeranti” della destra), in uno dei tanti soggetti collusi e condizionati dagli apparati dello Stato e dalle sue strategie. L’ipotesi fatta propria dal G.I. di Venezia è venuta meno per due ordini di ragioni. In primo luogo, nonostante l’audizione in questi ultimi anni e nelle più varie istruttorie di centinaia di imputati e di testimoni appartenenti alle aree più diverse dell’estrema destra nonchè ai servizi di sicurezza, non è stato acquisito il minimo elemento che indichi un collegamento fra il gruppo udinese di Ordine Nuovo, di cui VINCIGUERRA faceva parte, e GLADIO e, in verità, neanche fra tale ultima organizzazione e la struttura veneta di Ordine Nuovo nel suo insieme. In secondo luogo è venuta meno l’ipotesi di un collegamento fra il NASCO di Aurisina e l’attentato di Peteano tramite l’eventuale provenienza dal deposito di GLADIO, scoperto nel 1972, dell’esplosivo e dell’accenditore a strappo utilizzati per allestire a Peteano la trappola contro i Carabinieri, ipotesi avanzata dal G.I. di Venezia (cfr. ordinanza citata, ff.9-10 e 13 e ss.). Per quanto concerne l’esplosivo, infatti, la perizia ha evidenziato che quello utilizzato per l’ordigno era esplosivo civile da cava (e non l’esplosivo militare del tipo “C4” presente nei NASCO) e perdipiù VINCIGUERRA ha spiegato con abbondanza di particolari e dettagli come egli se lo sia procurato, nell’estate del 1970 insieme ad alcuni camerati anche originari della zona, sull’altipiano del Piancavallo, rubandolo da una baracchetta del tutto incustodita di una ditta che stava effettuando lavori di sbancamento (int. 13.1.1992, ff.3 e 4, e, anche su delega del G.I. di Venezia, int.27.3.1992, ff.1 e 3). Tale episodio, confrontando i particolari forniti da VINCIGUERRA e gli esiti degli accertamenti esperiti dalla Digos di Venezia (cfr. annotazioni in data 13.2.1992, 27.2.1992 e 4.5.1992, vol.27, fasc.2), è facilmente individuabile nel furto subìto nel luglio del 1970 dall’impresa “Avianese” che stava effettuando lavori nella zona (e proprio sulla strada sterrata indicata da VINCIGUERRA) e che nulla, ovviamente, aveva a che fare con GLADIO. Per quanto concerne l’accenditore a strappo, l’ipotetico collegamento si basava sul fatto che dal NASCO di Aurisina erano risultati mancanti due accenditori a strappo e che uno strumento analogo, utilizzato normalmente per il sabotaggio, era stato utilizzato per far esplodere, al momento dell’intervento della pattuglia dei Carabinieri, l’ordigno nascosto a Peteano nella FIAT 500. A parte la circostanza che non vi era alcuna prova , nemmeno generica o indiziaria, che l’accenditore utilizzato a Peteano fosse uno dei due mancanti da Aurisina, il collegamento si basava sull’esilissima circostanza secondo cui nessun accenditore a strappo od oggetto similare era mai stato rinvenuto in alcuna zona del Friuli-Venezia Giulia (cfr. ordinanza citata, f.10) e quindi tale accenditore, definito strumento di difficile reperimento, doveva “necessariamente” provenire dal NASCO di Aurisina. L’assunto di partenza è però del tutto erroneo in quanto da una semplicissima ricerca è emerso che proprio a Udine, il 31.3.1971, poco più di un anno prima 202 dell’attentato di Peteano, erano stati rinvenuti, insieme ad esplosivo e ad altro materiale, ben 50 accenditori a strappo di cui qualche gruppo appartenente alla malavita politica o comune si era evidentemente liberato (cfr. nota della Digos di Trieste in data 29.4.1993, vol.27, fasc.6, ff.21 e ss., e accertamenti di polizia scientifica, ff.3-4). Caduta, quindi, ogni ipotesi di collegamento fra l’attività di Vincenzo VINCIGUERRA e apparati istituzionali di qualsiasi natura (circostanza questa che, insieme all’assoluta mancanza di ricerca di benefici processuali, dà alle sue dichiarazioni piena affidabilità), è possibile passare ad illustrare gli elementi di conoscenza relativi alla strage di Piazza Fontana che egli ha inteso fornire negli interrogatori resi a questo Ufficio fra la primavera 1991 e la primavera 1993. Ecco in sintesi gli elementi contenuti nelle dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA: - Sul piano generale VINCIGUERRA ha innanzitutto confermato quanto già dichiarato sin dal 9.8.1984 al G.I. di Bologna, poco tempo dopo avere rivendicato la propria responsabilità per l’attentato di Peteano e cioè che il baricentro della struttura stragista al servizio degli apparati dello Stato si trovava in Veneto e in Lombardia, pur dipendendo dalla struttura centrale di Ordine Nuovo di Roma e ne facevano parte i militanti responsabili e operativi della varie cellule: fra gli altri MAGGI e ZORZI a Venezia; SOFFIATI e il colonnello SPIAZZI a Verona; l’intero gruppo di FREDA e FACHINI a Padova; NEAMI, PORTOLAN e BRESSAN a Trieste; Roberto RAHO a Treviso; ROGNONI a Milano; Cristano DE ECCHER a Trento; con agganci minori a Mantova, a Rovigo e in Carnia (int. 4.10.191, f.2). Tale gruppo di persone era rimasto in stabile collegamento sin dagli anni ‘60, formando una struttura politicamente ed umanamente omogenea e, anche al momento del rientro di Ordine Nuovo nel M.S.I. , aveva mantenuto all’interno del Partito la propria identità e le proprie capacità operative. Solo l’attentato di Peteano (concettualmente non una strage, ma un’azione di guerra), compiuto dal piccolo gruppo di Udine, si differenzia dagli altri episodi dell’epoca in quanto commesso contro lo Stato e non in collusione con gli apparati dello Stato e oggetto di attività di depistaggio all’insaputa e contro la volontà dei suoi autori. - Gli attentati del 12.12.1969 si inquadrano in una strategia golpista e per essi erano stati utilizzati uomini sia di Ordine Nuovo sia di Avanguardia Nazionale (int.9.3.1992, f.1; 16.6.1992, f.2). Tale strategia era stata introdotta nel nostro Paese grazie all’elaborazione teorica e all’ispirazione dell’AGINTER PRESS di GUERIN SERAC (int.9.3.1992, f.2) che era la “mente” degli attentati e, in particolare, era in contatto con Stefano DELLE CHIAIE (int.20.5.1992, f.2). Elemento caratterizzante di tale strategia era la creazione di falsi gruppo di estrema sinistra e l’infiltrazione in altri già esistenti, al fine di far ricadere su di essi la responsabilità degli attentati (int.16.6.192, ff.3-4), provocare l’intervento delle Forze Armate ed escludere il Partito Comunista da qualsiasi possibilità di influenza significativa sulla vita politica italiana (int. citato, f.3). 203 204 - Centrale nella ricostruzione degli avvenimenti del 12.12.1969 è poi, secondo il racconto di VINCIGUERRA, il significato della manifestazione indetta per il 14.12.1969, a Roma, dalla Direzione del M.S.I., subito dopo il rientro di Ordine Nuovo nel Partito, manifestazione che, all’indomani degli attentati, avrebbe dovuto innescare la richiesta da parte della “piazza di destra” di un “Governo forte” e di un intervento dei militari. Vincenzo VINCIGUERRA, pur ignaro in quel momento del vero significato strategico dell’adunata, la sera del 12.12.1969 era già partito alla volta di Roma: “””....In merito all'adunata di Roma, posso specificare che io partii da Udine con Cesare Turco, proprio la sera del 12 dicembre 1969, in treno per Roma per recarci appunto alla manifestazione. Vi era già, ovviamente, la notizia degli attentati e ricordo che alla stazione fummo fermati da un Commissario di Polizia di Udine che ci interpellò pensando che fossimo diretti a Milano. Ritengo significativo ricordare che era giunta per quella manifestazione una convocazione a parteciparvi anche con i simboli di Ordine Nuovo, ed infatti avevamo un cartellone con l'ascia bipenne che noi stessi avevamo preparato per quell'occasione. La convocazione era avvenuta tramite Maggi e non escludo che mi fosse giunta anche da Roma. In sostanza, la convocazione per la manifestazione era avvenuta come se il rientro di Ordine Nuovo nel M.S.I. non ci fosse stato e in quel momento Ordine Nuovo si presentava ancora come un'entità autonoma rispetto al M.S.I. con i propri dirigenti ed i propri simboli. Giunti a Roma restammo tutto il giorno di sabato 13 dicembre in attesa di notizie in quanto non vi era più la certezza che l'adunata si sarebbe svolta ugualmente. Sino a tarda notte le notizie erano ancora incerte. La domenica mattina, e cioè il 14, si seppe che l'adunata non si sarebbe svolta, in quanto sospesa dal Governo, e in serata ripartimmo per Udine. Nel libro io cito la confidenza di Angelo Ventura a Franco Comacchio, riferita da questi all'Autorità Giudiziaria, per sottolineare quello che anche per mia conoscenza era un collegamento tra i due episodi, cioè gli attentati del 12 dicembre e l'adunata di Roma, come inseriti in un'unica operazione politica. Indico negli attentati del 12 dicembre 1969 non l'inizio della strategia della tensione, bensì il detonatore che, facendo esplodere una situazione, avrebbe consentito a determinate Autorità politiche e militari la proclamazione dello stato di emergenza. A domanda dell'Ufficio, questo mio elemento di conoscenza della verità del collegamento dei due episodi di cui parla Comacchio risale agli anni '70, prima della mia carcerazione...””” (VINCIGUERRA, int.13.1.1992, ff.2-3) 204 Gli articoli e le manchettes delle pagine del quotidiano “Il Secolo d’Italia” del dicembre 1969, acquisite in copia (vol.10, fasc.10), sono in piena corrispondenza con la descrizione di Vincenzo VINCIGUERRA relativa a tale manifestazione. Sin dai primi giorni di dicembre, infatti, il quotidiano del Movimento Sociale Italiano annunzia con grande enfasi la manifestazione al Palazzetto dello Sport, definita “Incontro con la Nazione”, “Appuntamento con la Nazione” e “Grande Adunata”. Oratore principale della giornata era ovviamente il Segretario del Partito, on. Giorgio Almirante, il quale, con il suo discorso, avrebbe dovuto fare appello all’ “intesa e compattezza delle forze nazionali nel momento di emergenza” che si stava vivendo, riservando al suo Partito solo il privilegio, nella lotta per salvare l’Italia, di “combattere sulla trincea più avanzata” (cfr. “Il Secolo d’Italia”, 12.12.1969, pagine 1 e 8). Solo il 14.12.1969, giorno della manifestazione, il quotidiano darà la notizia del divieto, per tale giornata, di qualsiasi manifestazione pubblica e quindi anche della “Grande adunata”, attribuendo tale provvedimento alla “debolezza del regime verso il P.C.I.” e ad interventi in tal senso dei socialisti del P.S.I. e dei repubblicani (vol.10, fasc.10, f.9). Anche Martino SICILIANO ha ricordato l’importanza della manifestazione, a cui Ordine Nuovo avrebbe dovuto presentarsi in ranghi compatti con scudi e insegne, e di essere stato fermato, mentre insieme ad altri mestrini stava per partire alla volta di Roma, dal contrordine del dr. MAGGI che comunicava l’annullamento della manifestazione (int.21.8.1997, ff.3-4). Martino SICILIANO ha anche ricordato che, nei giorni precedenti, Delfo ZORZI aveva partecipato a Mestre ai preparativi della manifestazione, a dispetto della versione di ZORZI che, quale linea difensiva, ha cercato di sostenere di essere stato ormai lontano, in quel periodo, dalla vita politica attiva, di non avere frequentato quasi più Martino SICILIANO e soprattutto di avere trascorso a Napoli i giorni precedenti il 12.12.1969. - Punto centrale è certamente il fatto che Vincenzo VINCIGUERRA, militante ancora giovanissimo nel dicembre 1969 e non inserito nei progetti strategici più delicati, avesse appreso a metà degli anni ‘70 (come precisato nell’interrogatorio in data 16.6.1992, f.5) che gli attentati del 12.12.1969 e l’adunata di Roma facevano parte di un’unica operazione politica. Si tratta, come rilevato dallo stesso VINCIGUERRA anche nel suo libro “La Strategia del Depistaggio”, citato nell’interrogatorio in data 13.1.1992, di una notizia del tutto analoga alla confidenza che Angelo VENTURA, fratello di Giovanni, aveva fatto a Franco COMACCHIO e che quest’ultimo aveva riferito agli inquirenti nel corso dell’istruttoria sulla cellula padovana (int. COMACCHIO al P.M. di Treviso, 6.11.1971). Franco COMACCHIO aveva infatti ricevuto da Angelo VENTURA, pochissimi giorni prima del 12 dicembre, la confidenza che di lì a poco sarebbe “avvenuto qualcosa di grosso”, in particolare “una marcia di fascisti a Roma e qualcosa che sarebbe avvenuta nelle banche”. Due avvenimenti strategicamente collegati, dunque, ed è significativo che quanto appreso da VINCIGUERRA da fonte diversa rispetto a quella di COMACCHIO (int.VINCIGUERRA, 16.6.1992, f.5) confermi a posteriori il racconto di quest’ultimo, 205 206 purtroppo sottovalutato nelle fasi dibattimentali come è avvenuto per tante circostanze raccolte nel corso delle prime istruttorie. Perdipiù nel corso della presente indagine anche Giampaolo STIMAMIGLIO, gravitante nell’ambiente veronese di Ordine Nuovo e molto legato, anche sul piano amicale, alla famiglia VENTURA, ha riferito che sia Giovanni VENTURA sia il fratello Luigi gli avevano confidato, prima dei fatti del 12.12.1969, che presto sarebbe avvenuto “qualcosa di grosso” che avrebbe cambiato la situazione politica in Italia (dep. 16.3.1994, f.2). Giuseppe FISANOTTI, anch’egli appartenente all’area di Ordine Nuovo di Verona e cognato di Giampaolo STIMAMIGLIO avendone sposato la sorella Rita, ha confermato che sia Giampaolo sia Rita gli avevano riferito le confidenze a loro volta ricevute da Giovanni VENTURA già all’epoca dei fatti, circostanza questa che conferma l’attendibilità della testimonianza di Giampaolo STIMAMIGLIO (dep. FISANOTTI a questo Ufficio, 8.5.1993, f.2). Gli avvenimenti del 12.12.1969 erano stati, quindi, senza troppe cautele e in varie occasioni, preannunziati dai fratelli VENTURA ed era stato rimarcato il collegamento con la manifestazione del 14.12.1969 così come VINCIGUERRA aveva in seguito appreso da fonti del tutto differenti. - Per quanto concerne la materiale esecuzione degli attentati, il gruppo di Ordine Nuovo di Trieste aveva partecipato agli attentati ai treni dell’8/9 agosto 1969 (int.2.12.1992, f.3; 21.12.1992, f.3), mentre Avanguardia Nazionale era responsabile, fornendo un apporto operativo determinante, degli attentati della giornata del 12 dicembre 1969 avvenuti a Roma (int.29.6.1992, f.2). Si noti che tali indicazioni di VINCIGUERRA, seppur laconiche e incomplete, sono in perfetta sintonia con le altre acquisizioni processuali e cioè le dichiarazioni di Carlo DIGILIO e, per quanto concerne gli attentati all’Altare della Patria, quelle di Graziano GUBBINI e di Giuseppe ALBANESE (rispettivamente, dep ai GG.II. di Milano e Bologna in data 24.1.1994, f.7, e dinanzi al G.I. di Bologna in data 3.9.1992, f.3). - Aldo TRINCO, commesso della libreria “Ezzelino” di Padova e appartenente alla cellula di Franco FREDA, incontrando Vincenzo VINCIGUERRA nel 1972, aveva più volte rivendicato al gruppo di Padova la corresponsabilità nella strage esprimendosi in modo cinico con le parole “Siamo stati noi, in fondo era plebe“ (int. 16.6.1994, ff.45). - Delfo ZORZI, nel 1973, aveva proposto a Vincenzo VINCIGUERRA di collaborare alla fuga di Franco FREDA, il quale avrebbe dovuto evadere dal carcere ove era detenuto ed espatriare inizialmente in Austria attraverso un valico di confine non troppo sorvegliato e il cui attraversamento clandestino non doveva essere troppo impegnativo sul piano fisico in quanto, all’epoca, FREDA soffriva di problemi alla schiena. Compito di VINCIGUERRA era quello di individuare il valico più adatto ed egli aveva scelto a tal fine il Passo del Giramondo, che era sorvegliato da pochissimi militari della Guardia di Finanza e tramite il quale si poteva raggiungere l’Austria senza troppe difficoltà (int. 13.1.1992, f.3). 206 Il progetto era stato poi abbandonato senza che VINCIGUERRA ne avesse mai potuto conoscere le ragioni. Le non buone condizioni fisiche di Franco FREDA sono state confermate da lui stesso, il quale ha riferito che all’epoca portava un busto ortopedico soffrendo di un’ernia del disco (int. FREDA a questo Ufficio, 14.10.1994, f.5). L’episodio ricordato da VINCIGUERRA è in perfetta sintonia con la proposta fatta nello stesso periodo da Delfo ZORZI a Carlo DIGILIO di collaborare all’evasione di Giovanni VENTURA adoperandosi per duplicare la chiave della cella ove questi era detenuto (int. DIGILIO, 29.1.1994, f.3; 16.4.1994, ff.2-3) ed entrambi i progetti sono evidentemente indicativi della pregressa comune operatività del gruppo di FREDA e del gruppo di ZORZI nell’operazione del 12.12.1969. - Infine VINCIGUERRA ha rievocato un colloquio avuto con Adriano TILGHER, braccio destro di Stefano DELLE CHIAIE, nell’estate del 1979, pochi mesi prima che VINCIGUERRA scegliesse di costituirsi anche per non essere più coinvolto nelle attività di forze che si dicevano “rivoluzionarie”, ma in realtà gli apparivano sempre di più al servizio dello Stato e delle sue logiche di potere. Era da poco stato pubblicato un libro scritto da Massimo FINI concernente le indagini sulla “pista nera”, soprattutto l’istruttoria milanese dei Giudici D’Ambrosio e Alessandrini, e nel libro l’autore aveva sostenuto la corresponsabilità di Avanguardia Nazionale negli attentati del 12.12.1969. Commentando il contenuto del volume, VINCIGUERRA, all’epoca divenuto già militante di Avanguardia Nazionale ed ancora convinto dell’estraneità almeno di tale organizzazione alla strategia delle stragi (mentre gli erano ormai chiare le responsabilità dell’organizzazione in cui aveva militato in precedenza e cioè Ordine Nuovo), aveva affermato che la ricostruzione del giornalista era comunque priva di significato, ma Adriano TILGHER lo aveva smentito rispondendogli testualmente “Ti sbagli, perchè D’Ambrosio ha capito tutto” (int. 16.6.1992, f.4). La preoccupazione di Adriano TILGHER, espressa con tale commento, si riferiva non solo alla corresponsabilità di Avanguardia Nazionale, ma anche agli agganci istituzionali individuati dagli inquirenti e al ruolo di GUERIN SERAC, la cui importanza era stata compresa nel corso dell’istruttoria milanese, ma non aveva potuto essere approfondita anche a seguito del trasferimento dell’istruttoria (int. citato, f.4). Il commento preoccupato di Adriano TILGHER ricorda il fastidio con cui Stefano DELLE CHIAIE, a Madrid nel 1974, aveva rinfacciato a GUERIN SERAC l’incauta intervista rilasciata dal suo braccio destro, Robert LEROY, al settimanale “L’Europeo” in cui questi, pur senza ovviamente far riferimento ad azioni eversive, aveva rivelato i rapporti esistiti in passato fra lo stesso LEROY e gli italiani DELLE CHIAIE, MERLINO e SERPIERI (int. VINCIGUERRA, 20.5.1992, ff.1-2; si veda il testo dell’intervista in vol.12, fasc.6, ff.6 e ss.). Tale affermazione, secondo DELLE CHIAIE, era pericolosissima in quanto DELLE CHIAIE e MERLINO erano indicati nell’appunto del S.I.D. del 16.12.1969 (forse in parte originato proprio dalla confidenze di Stefano SERPIERI, legato al S.I.D.) come elementi in contatto con SERAC e LEROY, gerarchicamente dipendenti da questi e organizzatori, in tale veste, di alcuni degli attentati del 12.12.1969 proprio su ispirazione dell’AGINTER PRESS. Ogni riferimento a tali collegamenti era quindi potenzialmente molto dannoso in quanto toccava un nervo scoperto della strategia complessiva degli attentati e gli 207 208 inquirenti (che, secondo una fonte attendibile come Adriano TILGHER, “avevano capito tutto”) avrebbero potuto non lasciarsi sfuggire l’occasione di approfondire ancora, anche alla luce dell’intervista, tale pista. 208 32 LE DICHIARAZIONI DI MARTINO SICILIANO ED EDGARDO BONAZZI Come già si è accennato nel capitolo 3, Martino SICILIANO, dopo gli attentati a Trieste e a Gorizia, non era più stato inserito nel gruppo operativo e non aveva quindi partecipato alla fase direttamente preparatoria ed esecutiva degli attentati del 12.12.1969. Tuttavia la sua presenza in alcune significative circostanze precedenti e alcune confidenze che aveva potuto raccogliere dopo i fatti gli hanno consentito di fornire agli inquirenti elementi precisi ed univoci in merito alla progressione strategica e operativa che aveva portato agli attentati. Gli elementi forniti da Martino SICILIANO sono già in parte sparsi in vari capitoli del presente provvedimento e possono qui essere riassunti solo in via di sintesi: - Sin dalla metà degli anni ‘60, nel gruppo si era cominciato a parlare di ordigni esplosivi e in particolare Martino SICILIANO aveva ricevuto da Delfo ZORZI e nascosto nella sua camera da letto, che condivideva con il fratello Carlo, una valigetta contenente alcune armi e tre scatole di legno , simili a quelle per sigari di lusso, con all’interno di ciascuna di esse un detonatore, del filo elettrico e quant’altro di utile per l’innesco di ordigni esplosivi (int. 12.10.1995, f.3 e int. al P.M. di Milano, 13.10.1995, f.2). Tali scatole di legno apparivano una sorta di prototipo di quelle che, assemblate presso il casolare di Paese, sarebbero state utilizzate per contenere senza destare sospetti l’innesco e l’esplosivo degli ordigni deposti sui dieci convogli ferroviari (int.18.7.1996, f.4 e 25.9.1996, f.3). La presenza della valigetta nell’abitazione della famiglia SICILIANO e, nelle linee essenziali, il suo racconto sul punto sono stati confermati dal fratello, Carlo SICILIANO (dep. a personale del R.O.S., 27.10.1995, f.1 e 4.2.1997, f.1). - Intorno al 1968 ZORZI e SICILIANO avevano imparato da Piercarlo MONTAGNER, diplomato in elettrotecnica, ad attivare un circuito formato da una batteria, filo elettrico, un orologio, funzionante da timer, con un perno infilato nel quadrante e filamenti di microlampadina come resistenza. La prova tecnica per l’innesco di un congegno esplosivo aveva avuto successo (int. 21.3.196, ff.3-4, e 18.7.1996, f.4). In questa fase di apprendistato, Delfo ZORZI aveva anche parlato della possibilità di utilizzare, avvolto dal filamento, un fiammifero antivento (int.21.3.1996, f.4) e cioè lo stesso tipo di fiammifero indicato come adatto allo scopo dal prof. Lino FRANCO durante la “lezione” tenuta al casolare di Paese. - In alcune riunioni ristrette tenute a Padova presso la libreria “Ezzelino”, FREDA, TRINCO, MAGGI, ZORZI e MOLIN, alla presenza dello stesso SICILIANO, avevano delineato la strategia dei primi attentati dimostrativi diffusi, in particolare quelli sui treni (int. 6.10.1995, ff.6-6, e 29.9.1996, f.4), destinati a disorientare la popolazione e 209 210 a provocare la richiesta di misure di emergenza e il dr. Carlo Maria MAGGI si era anche pronunziato, nello stesso periodo, a favore della necessità di porre in essere attentati più gravi in luoghi chiusi e affollati (int. al P.M. di Milano, 11.10.1995, f.7). - Nelle stesse riunioni era stato individuato come uno dei primi obiettivi l’Ufficio Istruzione di Milano e dell’attentato, poi effettivamente avvenuto il 23.7.1969, dovevano occuparsi VENTURA e FREDA, quest’ultimo in particolare più adatto ad avere facile accesso in un Tribunale in ragione della sua professione di procuratore legale (int.20.12.1996, f.2). L’ordigno, deposto - ma non esploso - in un corridoio dell’Ufficio Istruzione, era stato nascosto in una scatola di lozione per capelli, secondo l’indicazione in base alla quale dovevano essere utilizzati contenitori esterni che dessero l’idea di un qualsiasi oggetto dimenticato, ed inoltre era stato utilizzato come temporizzatore un orologio di marca RUHLA, una sorta di “firma” simbolica di Ordine Nuovo (int.20.12.1996, f.3), ricordato come tale anche da Carlo DIGILIO. - Martino SICILIANO aveva poi partecipato personalmente alla spedizione di Trieste e Gorizia, prove tecniche i cui elementi di collegamento con gli attentati del 12.12.1969 sono stati ampiamente esposti nel capitolo 15 di questa ordinanza. - Dopo gli attentati di Trieste e Gorizia, che avevano visto il mancato funzionamento del congegno, Delfo ZORZI, nell’autunno del 1969, aveva comunicato a Martino SICILIANO che, anche grazie al lavoro di ZIO OTTO, il sistema di timeraggio era stato migliorato e reso più sicuro (int. 20.10.1994, f.3), circostanza questa che testimonia come la campagna terroristica non si fosse fermata, ma fosse anzi in progressione e in pieno svolgimento. Tale affermazione, inoltre, è in perfetta corrispondenza con quanto riferito dall’elettricista Tullio FABRIS e da Carlo DIGILIO in merito al fatto che l’impegno frenetico del gruppo, non solo di ZORZI ma soprattutto di VENTURA, fosse diretto non più alla ricerca dell’esplosivo, ma alla risoluzione del problema degli inneschi, visto che una buona parte degli attentati preparatori (‘attentato al Palazzo di Giustizia di Torino, i due attentati al Palazzo di Giustizia di Roma, quello all’Ufficio Istruzione di Milano, due dei dieci attentati ai treni e gli attentati di Trieste e Gorizia) erano falliti per vari difetti dei sistemi di attivazione. Giustamente, del resto, si è rilevato, nella parte motivazionale di più di una sentenza conseguita all’istruttoria sulla “pista nera” che il gruppo si era costantemente affannato nella modifica e nel tentativo di migliorare sia i sistemi di innesco (utilizzando prima fiammiferi normali, poi filamenti di microlampadine, poi fiammiferi antivento) sia i sistemi di temporizzazione (utilizzando prima il doppio circuito a caduta di corrente, poi gli orologi RUHLA, infine i timers per lavatrice), proprio per evitare gli inconvenienti che avevano portato al fallimento di 6 dei 17 attentati che, dall’aprile all’agosto 1969, avevano preceduto quelli del 12.12.1969. - Qualche settimana dopo gli attentati del 12.12.1969, in occasione del Capodanno trascorso a casa di Giancarlo VIANELLO, Delfo ZORZI aveva riconosciuto, a seguito delle insistenti domande dei camerati, che l’operazione del 12.12.1969 era stata “pensata” a livello molto alto, per aiutare l’Italia a difendersi dal comunismo e che gli anarchici arrestati alcuni giorni dopo la strage erano dei “capri espiatori” e non c’entravano nulla (int. 7.6.1996, f.3, e 8.6.1996, ff.1-4). 210 Pur senza assumersi esplicitamente responsabilità personali, Delfo ZORZI aveva affermato che gli attentati erano stati organizzati da Ordine Nuovo del Triveneto e commissionati dai livelli più alti dell’organizzazione e aveva ricordato quanto già comunicato a SICILIANO qualche tempo prima e cioè che i difetti tecnici che si erano presentati nei precedenti attentati erano stati superati migliorando i sistemi di innesco e di timeraggio grazie all’intervento di ZIO OTTO (int. 8.6.1996, ff.3-4). In merito alle vittime che tali attentati avevano causato, ZORZI si era espresso in modo cinico, ricordando ai camerati che la strada della rivoluzione doveva essere percorsa anche se ciò comportava “la morte di qualche persona” e che, secondo i teorici nazisti, anche il sangue poteva essere il motore di una rivoluzione nazionale che avrebbe salvato l’Italia e l’intera Europa dal comunismo ( int. citato, f.4). In sostanza ZORZI si era espresso negli stessi termini riferiti anche da Carlo DIGILIO, secondo cui Delfo ZORZI vedeva quanto era accaduto come una semplice “operazione” di guerra che non comportava particolari problemi dal punto di vista morale (int. DIGILIO, 12.11.1994, f.7). - Nel 1971 Franco FREDA, dopo il suo primo arresto ancora limitato al solo reato di associazione sovversiva e quindi prima dell’incriminazione per strage, aveva inviato dal carcere a Martino SICILIANO alcune lettere che si giustificavano solo con l’interesse a “tenere sotto il controllo” lo stesso SICILIANO, camerata certamente non dei più determinati, qualora fosse interrogato o inquisito dall’Autorità Giudiziaria (int. 6.10.1995, f.5). Ciò conferma che Martino SICILIANO disponeva sin da allora di elementi di conoscenza incompleti, ma potenzialmente pericolosissimi, in merito a quanto avvenuto e che i rischi insiti in tale situazione erano perfettamente noti anche ai componenti della cellula di Padova. - Martino SICILIANO ha ricordato che il dr. MAGGI era stato il coordinatore della campagna di minacce contro il Giudice Istruttore di Treviso, dr. Giancarlo STIZ, attuata mediante l’invio di numerose lettere di minaccia dopo che il magistrato aveva dato l’avvio alle indagini sulla cellula di FREDA e VENTURA e, per primo, intuito l’importanza della “pista nera”. Tale campagna, di cui si era parlato in occasione di una riunione ristretta del gruppo di Ordine Nuovo di Mestre (int. 5.12.1996, f.2) è un altro segnale indicativo della precedente, comune operatività fra la cellula padovana, colpita dalle indagini del Giudice Stiz, e la cellula di Mestre/Venezia, per molti anni, invece, mai toccata da interventi investigativi. - Nella stessa logica si colloca certamente l’allontanamento di Martino SICILIANO dall’Italia, all’inizio del 1973, in direzione della Germania Federale, allontanamento propostogli dall’amico Marco FOSCARI, ma molto probabilmente suggerito a FOSCARI da qualche altro militante ben più coinvolto nelle vicende di Ordine Nuovo. Marco FOSCARI aveva infatti comunicato d’urgenza a Martino SICILIANO che, con l’arrivo a Milano dell’istruttoria sulla c.d. pista nera e lo sviluppo delle indagini ad opera dei giudici milanesi, egli correva grave pericolo e circolava la voce di nuovi arresti, dopo quelli di FREDA e VENTURA, fra cui quello dello stesso SICILIANO (int. 12.9.1996, ff.1-2). 211 212 Marco FOSCARI aveva quindi procurato a SICILIANO un “passaggio” clandestino a bordo di un camion della ditta del comune amico tedesco Sturznickel, titolare di una ditta di giocattoli per la quale FOSCARI lavorava. Martino SICILIANO aveva passato il confine al Brennero raggiungendo poi la sede della ditta di Sturznickel, vicino a Gottinga, e trattenendosi in quel luogo per oltre un mese sino a quando Marco FOSCARI gli aveva comunicato che le acque sembravano essersi calmate (int. citato, f.3). Tale fuga si colloca fra il gennaio e il febbraio 1973, momento assai “caldo” per l’istruttoria e prossimo alla semi-confessione di Giovanni VENTURA dinanzi ai Giudici D’Ambrosio e Alessandrini. Essa ha avuto certamente una funzione preventiva, da possibili cedimenti di Martino SICILIANO e ricorda quindi un po’ l’allontanamento forzato da Trieste dell’avv. Gabriele FORZIATI, anch’esso suggerito al possibile testimone da alcuni camerati paventando il pericolo di un imminente arresto. In conclusione, le dichiarazioni di Martino SICILIANO si saldano perfettamente con quelle più dirette e dettagliate di Carlo DIGILIO, così come entrambi i racconti sono in sintonia con quanto successivamente appreso in un ristretto e affidabile ambiente carcerario da Edgardo BONAZZI. Le dichiarazioni di Edgardo BONAZZI sono già state illustrate, nei loro punti rilevanti, al capitolo 7 della presente ordinanza e in sintesi egli ha confermato di aver appreso che gli attentati del 12.12.1969 erano stati organizzati ed attuati con l’apporto prevalente della struttura di Ordine Nuovo del Triveneto e che Delfo ZORZI era colui il quale aveva materialmente deposto la valigetta nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. E’ quindi sufficiente , in questa sede, richiamare l’attenzione su una testimonianza di riscontro ad una importante affermazione di Edgardo BONAZZI. Questi ha dichiarato di aver appreso da Guido GIANNETTINI, Nico AZZI e Pierluigi CONCUTELLI che Pietro VALPREDA aveva funzionato da “capro espiatorio” secondo un piano già preordinato, in quanto sul taxi di ROLANDI era salito, al fine “incastrare” l’anarchico, un militante di destra che gli assomigliava notevolmente (dep.BONAZZI 15.3.1994, f.4, e 7.10.1994, f.2). Tale ricostruzione dell’avvenimento centrale che aveva portato all’arresto di Pietro VALPREDA è stata confermata, seppur in modo piuttosto timido e laconico, da Giampaolo STIMAMIGLIO, gravitante nell’area veronese di Ordine Nuovo ed amico intimo di tutta la famiglia VENTURA sin dall’adolescenza. Giovanni VENTURA gli aveva infatti confidato che Pietro VALPREDA era stato un falso obiettivo per l’Autorità Giudiziaria e che le indagini erano state intenzionalmente dirottate su di lui, mentre FREDA e lo stesso VENTURA, pur non avendo partecipato materialmente all’esecuzione degli attentati del 12.12.1969 (circostanza questa che emerge anche dalla presente istruttoria e dalle stesse confidenze ricevute da BONAZZI in carcere), avevano coordinato il progetto globale degli attentati (dep.STIMAMIGLIO, 16.3.1994, f.2). 212 La fonte della rivelazione ricevuta da STIMAMIGLIO e il carattere strettamente confidenziale della stessa, avvenuta in tempi non sospetti, la rendono assai attendibile tantopiù in quanto il suo significato si salda perfettamente con quanto in seguito appreso in carcere da Edgardo BONAZZI da personaggi di rilievo appartenenti allo stesso ambiente. 213 214 33 LE PRIME DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO RELATIVE AGLI ATTENTATI DEL 12.12.1969 Carlo DIGILIO nel primo gruppo di interrogatori, resi sino alla primavera del 1995 (momento in cui è stato colpito da un ictus e quindi l’attività istruttoria in relazione alla sua persona è stata sospesa per molti mesi), aveva reso solo dichiarazioni molto timide e frammentarie per quanto concerneva gli attentati del 1969. Aveva parlato degli accessi al casolare di Paese, ove si trovava la dotazione di armi e di esplosivi della struttura veneta (si veda in proposito, ampiamente, la parte terza della presente ordinanza), e del progetto di evasione di Giovanni VENTURA, cui Delfo ZORZI gli aveva chiesto di collaborare attivandosi per duplicare la chiave della cella (cfr. capitolo 24 della presente ordinanza). In tale frangente Delfo ZORZI gli aveva confermato di avere partecipato non solo all’attentato alla Scuola Slovena di Trieste, ma di avere personalmente agito alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, azione che era stata possibile grazie all’aiuto (non si sa se consapevole o inconsapevole)del “figlio di un direttore di Banca” (int. 12.11.1994, f.7, e memoriale allegato a tale interrogatorio). Delfo ZORZI aveva anche aggiunto che il gruppo operativo, formato da lui stesso, da Giovanni VENTURA e da Marco POZZAN, dopo gli attentati ai treni dell’agosto 1969 e l’attentato alla Scuola Slovena dell’ottobre dello stesso anno, aveva migliorato le tecniche di approntamento degli ordigni (int. citato, f.7) risolvendo così i problemi tecnici che Giovanni VENTURA, già nel periodo degli accessi al casolare di Paese, gli aveva confidato essere stati risolti grazie all’aiuto di un elettricista (int.6.4.1994, f.7) che aveva fra l’altro suggerito l’utilizzo di fili elettrici al nichel-cromo. Evidente è il richiamo all’intervento dell’elettricista Tullio FABRIS che effettivamente, a Padova, aveva inizialmente procurato a Franco FREDA i fili elettrici al nichel-cromo da usarsi come resistenza e poi, nel periodo successivo agli attentati ai treni, aveva consentito al gruppo, con la sua consulenza, di passare dal sistema di innesco e temporizzazione, certamente meno sicuro, costituito dall’utilizzo degli orologi RUHLA, al sistema semplice e affidabile costituito dall’utilizzo dei timers per lavatrice che lo stesso FABRIS aveva acquistato insieme a Franco FREDA. E’ anche possibile, per ragioni di compartimentazione, che a Carlo DIGILIO effettivamente non sia stata fornita da ZORZI e VENTURA l’identità dell’elettricista, trattandosi di un contatto personale e quasi casuale di Franco FREDA e di una persona comunque estranea al gruppo, che aveva fornito inconsapevolmente un contributo tecnico parallelo a quello che era giunto da Carlo DIGILIO e dal prof. Lino FRANCO nel medesimo periodo. Sempre con riferimento alla fase degli accessi al casolare di Paese, Carlo DIGILIO ha inoltre riferito sin dai primi interrogatori di avere visto nell’ufficio di VENTURA, a Castelfranco Veneto, due orologi RUHLA (int. 6.4.1994, f.6) e cioè gli orologi che 214 costituivano una sorta di “firma” del gruppo veneto di Ordine Nuovo e che saranno usati, fra l’altro, come temporizzatori in quasi tutti gli attentati sui convogli ferroviari dell’8/9 agosto 1969. Sempre nei primi interrogatori, Carlo DIGILIO aveva inoltre riferito che Marcello SOFFIATI, evidentemente non convinto della strategia stragista condotta dal gruppo, era entrato in conflitto con Delfo ZORZI, lo aveva chiamato “mercenario” ed “assassino” con aperto riferimento agli esiti tragici degli attentati del 12.12.1969 e per tutta risposta era stato minacciato e malmenato da Delfo ZORZI (int.16.4.1994, f.6). I primi elementi forniti da Carlo DIGILIO in merito alla strategia degli attentati erano stati quindi decisamente e volutamente parziali, ma i dettagli forniti (l’utilizzo degli orologi RUHLA, i fili elettrici al nichel-cromo, l’intervento di un elettricista e soprattutto l’insieme dell’ “attività” che si svolgeva a Paese in tema di preparazione di inneschi e di studio degli esplosivi) già si saldavano perfettamente con quanto era emerso molti anni prima nelle istruttorie di Padova, Treviso e Milano. 215 216 34 LE SUCCESSIVE DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO: LA PRESENZA DEI TIMERS NEL GRUPPO L’ACQUISTO DEI CANDELOTTI DI GELIGNITE DA ROBERTO ROTELLI A MESTRE A partire dall’autunno 1995, momento in cui è stato possibile riprendere gli interrogatori, Carlo DIGILIO ha reso dichiarazioni via via sempre più fitte e particolareggiate sul meccanismo che aveva portato agli attentati del 12.12.1969. Egli ha in primo luogo rivelato che vi era stato un altro incontro operativo con Delfo ZORZI proprio nel periodo intercorrente fra l’attentato alla Scuola Slovena (ottobre 1969) e gli attentati del 12.12.1969 e che Delfo ZORZI in tale occasione, oltre a farsi ripetere da Carlo DIGILIO alcuni dettagli tecnici sull’approntamento degli inneschi per i congegni esplosivi, gli aveva rivelato che il gruppo ormai disponeva di un elettrotecnico che aveva insegnato l’uso di un timer per chiudere il circuito e provocare così l’esplosione in modo sicuro ed efficiente (int.4.1.1996, f.3, e 13.1.1996, f.2). Nel corso dello stesso incontro Delfo ZORZI aveva ammesso dinanzi a Carlo DIGILIO che alle migliorie sul piano tecnico non aveva corrisposto un progresso degli uomini destinati a far parte del gruppo operativo in quanto egli aveva dovuto rinunziare ad utilizzare uno dei militanti che “beveva e parlava troppo ed era quindi inaffidabile” (int.21.1.1996,. f.3). Le ulteriori confidenze di Delfo ZORZI chiudono quindi il cerchio in merito al provvidenziale intervento dell’ “elettricista” o “elettrotecnico” e cioè Tullio FABRIS, il quale aveva reso possibile il passaggio all’utilizzo da parte del gruppo di uno strumento semplice e al tempo stesso affidabile come i timers per lavatrice al fine di temporizzare la chiusura dei circuiti. Tale parte del racconto di Carlo DIGILIO (resa, si badi bene, senza che egli nulla sapesse delle nuove dichiarazioni resa da Tullio FABRIS) si salda perfettamente con il racconto dell’elettricista padovano e ne conferma l’assoluta attendibilità ed il fatto che quanto insegnato a FREDA e VENTURA in merito al funzionamento dei timers nello studio dello stesso FREDA fosse stato da questi ultimi immediatamente comunicato a Delfo ZORZI nella prospettiva di un rapido utilizzo di tale nuova tecnica di innesco. Il militante escluso da Delfo ZORZI per la sua scarsa riservatezza e affidabilità operativa è certamente Martino SICILIANO, il quale non fu più chiamato ad operare dopo gli attentati di Trieste e Gorizia dell’ottobre 1969. Anche tale circostanza costituisce un importantissimo riscontro in quanto testimonia l’assoluta sincerità di Martino SICILIANO allorchè egli afferma di non essere stato utilizzato per l’operazione del 12.12.1969 per una complessa 216 serie di ragioni, fra cui certamente il fatto che egli era stato individuato da alcuni investigatori della Questura di Trieste, probabilmente sulla base di una informazione confidenziale raccolta, come uno degli autori dell’attentato alla Scuola Slovena (int.SICILIANO, 12.9.1996, ff.4-5). Con Delfo ZORZI vi era stato un successivo incontro, nel gennaio/febbraio 1970 a Mestre, e in tale occasione ZORZI aveva per la prima volta ammesso direttamente a Carlo DIGILIO quanto avrebbe in seguito confermato in occasione dell’incontro relativo al progetto di evasione di Giovanni VENTURA e cioè che egli aveva personalmente partecipato all’azione di Milano e che, nonostante tutti quei morti, tale azione “era stata importante perchè aveva ridato forza alla destra e colpito le sinistre nel Paese” ed “aveva fatto piacere e aveva goduto dell’appoggio dei Servizi” (int. 21.1.1996, f.7). Si ricordi del resto, collocando il commento di Delfo ZORZI nel momento in cui era avvenuto, che all’inizio del 1970 si era ben lontani dall’individuare o anche solo ipotizzare la responsabilità di Ordine Nuovo per gli attentati e che, al contrario, l’Autorità Giudiziaria, sollecitata e diretta in tale direzione dalle “indagini” del Ministero dell’Interno, aveva imboccato decisamente la pista anarchica arrestando Pietro VALPREDA e i suoi compagni e trascurando, nella sostanza, di sollecitare investigazioni nella direzione opposta. Carlo DIGILIO ha poi riferito, nei primi interrogatori resi dal momento in cui, grazie al miglioramento delle sue condizioni di salute, è stato possibile riprendere l’attività istruttoria, in quale modo il gruppo mestrino abbia potuto procurarsi una ingente quantità di gelignite. Tale circostanza è della massima importanza in quanto le perizie svolte nel corso dell’istruttoria milanese nei confronti di FREDA e VENTURA erano giunte alla conclusione che tale tipo di esplosivo era altamente compatibile con parte di quello usato per gli attentati del 12.12.1969, mentre sicuramente era gelignite l’esplosivo rinvenuto all’Ufficio Istruzione di Milano il 24.7.1969 (cfr., in ordine alla compatibilità fra la gelignite e gli esplosivi usati negli attentati del 1969, anche l’accertamento tecnico affidato da questo Ufficio al Servizio di Polizia Scientifica presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale, vol.15, fasc.5, ff.3 e ss.). Carlo DIGILIO, in uno dei suoi primi interrogatori (27.11.1973, ff.1-2), aveva fatto un rapido accenno alla figura di Roberto ROTELLI, esperto sommozzatore, simpatizzante di destra della zona di Venezia-Lido, il quale era specializzato nel recupero, dalle navi affondate al largo di Venezia, di materiale nautico suscettibile di essere rivenduto, e che, proprio per tale attività, disponeva di forti quantità di esplosivo. Proprio Roberto ROTELLI era colui che, alla fine degli anni ‘60, aveva venduto al gruppo mestrino una notevole quantità di candelotti di gelignite. Ecco il racconto di Carlo DIGILIO reso in data 5.1.1996: 217 218 “””Roberto ROTELLI, di cui ho fatto cenno in precedenti interrogatori, aveva una società di recupero di materiale di valore da navi affondate. Quando c'era la necessità di sfondare paratie, utilizzava la gelignite che poteva essere calata senza difficoltà nella zona stagna delle navi; egli recuperava così soprattutto valori dalla zona della poppa dove c'erano gli alloggi del Comandante. ROTELLI, quindi, disponendo di gelignite per questi lavori, aveva distratto una parte dell'esplosivo e mi disse che l'aveva messa nella sua casa di campagna. Mi disse in seguito che era preoccupato perchè la gelignite aveva cominciato a trasudare e mi chiese consiglio. Io mi meravigliai perchè teneva in casa roba tanto pericolosa e gli consigliai di avvolgere in carta di giornale tubo per tubo tutto l'esplosivo e di metterlo in sacchi di juta contenenti segatura, ciò al fine di assorbire tutta l'umidità. ROTELLI mi disse in seguito di avere fatto effettivamente così e che aveva spostato l'esplosivo nel bunker sito sulle scogliere del Canale Alberoni-Petroli, esattamente il bunker che ho riconosciuto nelle fotografie che mi avete mostrato ieri al termine dell'interrogatorio. Questo bunker aveva una porta metallica massiccia di cui ROTELLI aveva la chiave e ricordo che questa porta era dipinta con del minio in parte color grigio e in parte color rosso. Domanda: Lei ha visto questi tubi di gelignite? Risposta: ROTELLI me li mostrò quando mi chiese il consiglio a seguito del trasudamento dello stesso. Ricordo che si trattava di tubi di color rosso mattone. Questi avvenimenti si collocano alla fine degli anni '60. ROTELLI faceva traffici di questo genere soprattutto per denaro e del resto aveva svolto anche attività di contrabbando. Era legato a Giampietro MONTAVOCI che come lui frequentava l'ambiente dei subacquei. Delfo ZORZI conosceva ROTELLI in quanto questi era un simpatizzante di destra, e quando seppe che ROTELLI era in grado di procurare silenziatori iniziò a fargli "la corte" frequentandolo più assiduamente e in pratica per evitare un mio interessamento che avrebbe potuto causare da parte di ROTELLI l'aumento del prezzo. ROTELLI vendette poi anche la gelignite a Delfo ZORZI, infatti mi disse che da quando aveva venduto a ZORZI la gelignite si sentiva più tranquillo perchè non correva più pericoli legati a quella detenzione. Preciso che ROTELLI viveva al Lido di Venezia in località Quattro Fontane e aveva la casa colonica di cui ho appena parlato non distante dalla zona Quattro Fontane, ma dall'altra parte del canale. A domanda dell'Ufficio, non so dove ZORZI abbia sistemato la gelignite dopo l'acquisto dal ROTELLI. Posso ipotizzare, per via logica, che egli avesse trovato una sistemazione analoga a quella inizialmente usata al ROTELLI e cioè in un casolare isolato 218 dell'entroterra di Mestre oppure che la gelignite sia stata depositata nel casolare di Paese senza che io potessi vederla”””. (DIGILIO, int. 5.1.1996, ff.1-3). Nel successivo interrogatorio in data 13.1.1996, Carlo DIGILIO ha completato il racconto: “””In merito alla gelignite, riprendendo il discorso già fatto nell'interrogatorio in data 5.1.1996, posso aggiungere che ROTELLI mi fece vedere i candelotti nella cantina della sua casaccia in zona Quattro Fontane. I candelotti erano già nei sacchi di juta che erano almeno una diecina insieme alla segatura e alla carta di giornale. Sulla base delle loro dimensioni, erano quindi 150/200 candelotti. A domanda dell'Ufficio, per quanto mi risulta, ROTELLI all'epoca non aveva pratica nell'uso di esplosivi. ROTELLI mi disse che intendeva vendere questo esplosivo che gli era costato circa 5 milioni investendo proventi del contrabbando di sigarette. ROTELLI mi fece il nome di ZORZI come possibile acquirente e io gli risposi che la persona poteva andare bene, però doveva stare molto attento data la pericolosità del soggetto. Tempo dopo incontrai ZORZI a Mestre e gli chiesi se ROTELLI lo avesse contattato ed egli mi rispose di sì. In pratica io feci da intermediario in questo acquisto. ZORZI mi chiese se secondo me l'affare era avvenuto in condizioni di sicurezza e io gli risposi che ROTELLI aveva tutto l'interesse a stare zitto perchè si trattava di un affare illecito. Prima della vendita, ROTELLI mi aveva chiesto di valutare l'esplosivo e io gli chiesi da quanti anni lo aveva ed egli mi disse che erano un paio di anni. Allora gli dissi che poteva calcolare l'aumento di valore del prezzo iniziale in base al tempo passato e aggiungere qualcosa per il suo guadagno. Preciso che fui io a inserire questo concetto un po' bancario nel prezzo di vendita, anche in base alla mia formazione mentale. ZORZI in seguito mi disse che aveva sistemato la gelignite in un posto asciutto e cioè un casolare del mestrino simile a quello che avevo visto a Paese. Da suoi accenni ho ragione di ritenere che questo casolare potesse trovarsi a Spinea dove fra l'altro ZORZI e la sua famiglia avevano anche un interesse commerciale quale un negozio pelletteria o qualcosa del genere. A D.R.: la vendita della gelignite si colloca fra il 1967 e il 1969, tempo prima dell'incontro fra me e ZORZI in cui egli disse che aveva dovuto disfarsi di un suo uomo. A D.R.: ho appreso che in seguito il ROTELLI prese la licenza di fochino. 219 220 A D.R.: confermo che la gelignite che vidi era in candelotti di colore rosso mattone. Posso precisare che io maneggiai nella cantina di ROTELLI tre candelotti perchè egli mi chiese di controllarne il livello di trasudamento. Ricordo che questi tre candelotti avevano un scritta jugoslava per tutta la loro lunghezza. Voglio ribadire che ZORZI era molto preoccupato che si mantenesse la segretezza di questo acquisto e io lo tranquillizzai che nessuno di noi aveva l'interesse a parlarne. Per la precisione vidi i candelotti due volte nella cantina, la prima volta quando non erano stati ancora messi, su mio consiglio, nei sacchi di juta e la seconda volta quando vi erano già stati messi. Maneggiai i tre candelotti appunto per verificarne il trasudamento la prima volta e ROTELLI li estrasse da una scatola di cartone”””. (DIGILIO, int.13.1.1996, ff.2-3). Il racconto di Carlo DIGILIO in merito all’acquisto dei candelotti di gelignite è certamente di grandissima importanza e costituisce una delle chiavi di interpretazione degli avvenimenti collegati alla campagna terroristica del 1969. Gelignite avvolta in carta rossa paraffinata è stata infatti utilizzata per gli attentati dell’ottobre 1969 a Trieste e Gorizia e, come già si è accennato, è molto probabile che tale tipo di esplosivo abbia fatto parte di quello utilizzato per gli attentati del 12.12.1969 a Milano e a Roma. Assai significativo è inoltre l’accenno fatto da Carlo DIGILIO ad un casolare nella zona di Spinea, utilizzato dal gruppo di ZORZI per le attività commerciali nel campo delle pelletterie, quale probabile luogo ove tale ingente quantità di esplosivo era stata occultata poichè, anni dopo, nel 1974, Marcello SOFFIATI, come si vedrà nel capitolo che segue, aveva fatto riferimento ad un casolare simile in relazione al prelevamento dell’ordigno transitato da Mestre a Verona. I riscontri diretti e indiretti al racconto di Carlo DIGILIO in relazione alla persona di Roberto ROTELLI e alla disponibilità della gelignite da parte del gruppo sono inoltre numerosi e possono così essere evidenziati: - Roberto ROTELLI, deceduto per cause naturali nel 1977, era effettivamente un simpatizzante di destra, titolare con Danilo PELLEGRINI di una società attrezzata per lavori marittimi e subacquei ed aveva altresì avuto vari procedimenti per reati comuni che ne testimoniano la disponibilità a traffici illeciti quali quelli descritti da DIGILIO (cfr. nota della Digos di Venezia in data 10.1.1994, vol.7, fasc.2, ff.302-303). - l’audizione da parte di personale del R.O.S. Carabinieri di Danilo PELLEGRINI, per molto tempo socio di Roberto ROTELLI e di altre persone già vicine a quest’ultimo (cfr. verbali e nota riassuntiva del R.O.S. Carabinieri in data 12.1.1996, , vol.7, fasc.2, ff.23 e ss.), ha confermato che la società di recuperi subacquei disponeva di gelignite per le sue attività anche se Roberto ROTELLI, almeno sino al 1973, non era 220 esperto nel diretto utilizzo degli esplosivi, circostanza questa che può spiegare le ragioni per cui egli aveva chiesto a DIGILIO dei consigli per evitare il trasudamento dei candelotti (cfr., in particolare, dep. Danilo PELLEGRINI, 11.1.1996, ff.34 e ss.). Anche Pietro BATTISTON, del resto, ha accennato al fatto che l’esperto nelle tecniche atte ad evitare il trasudamento dell’esplosivo era nel gruppo Carlo DIGILIO e che il problema era sorto proprio in relazione a candelotti di gelignite (int. BATTISTON al P.M. di Milano, 29.9.1995, ff.1-2, vol.13, fasc.3). - Anche Martino SICILIANO ha ricordato che Roberto ROTELLI era un simpatizzante di destra della zona del Lido, amico fra l’altro di DIGILIO, ROMANI, MOLIN e Gastone NOVELLA e che per la sua attività di recuperi da navi affondate disponeva di esplosivi (int. 18.3.1996, f.6). Marco FOSCARI, inoltre, gli aveva riferito che ROTELLI era uno degli autori di un attentato che, all’inizio degli anni ‘60, aveva avuto un valore simbolico per la destra e cioè l’attentato al monumento alla “Partigiana”, collocato a S. Elena. Roberto ROTELLI, per avvicinarsi al monumento e per commettere l’episodio, aveva proprio sfruttato la sua abilità di subacqueo partendo dal Lido a nuoto e riguadagnando sempre a nuoto la riva dopo avere collocato l’ordigno (int. SICILIANO, 6.10.1995, f.6, e, in merito alle modalità dell’attentato, avvenuto il 26.7.1961, cfr. nota della Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Padova in data 2.12.1995 e atti allegati, vol.8, fasc.2). - Il bunker, risalente alla seconda guerra mondiale, nella zona del canale Alberoni/Petroli, indicato da Carlo DIGILIO come temporaneo luogo di occultamento della gelignite, è stato individuato in quello ancora esistente appunto lungo il Canale dei Petroli, nei pressi del Porto di Malamocco, un tempo in uso al Gruppo Subacquei San Marco di cui faceva parte Roberto ROTELLI (cfr. verbale di sopralluogo del R.O.S. Carabinieri in data 15.2.1996 e allegato album fotografico, vol.7, fasc.3, ff.8 e ss.). In proposito Martino SICILIANO ha ricordato che quasi tutti i componenti del Gruppo Subacquei erano simpatizzanti di destra e che il bunker era frequentato da persone dell’ambiente di Ordine Nuovo di Venezia, fra cui Paolo MOLIN che probabilmente disponeva anche delle chiavi del medesimo (int. SICILIANO, 19.9.1996, ff.1-2). - Gastone NOVELLA, simpatizzante di Ordine Nuovo nella zona del Lido di Venezia, ha tratteggiato la figura di Roberto ROTELLI in sintonia con le altre acquisizioni processuali, ricordando che si trattava di una persona che “per soldi si prestava a tutto: insomma, uno che aveva lo spirito del mercenario” (dep. 9.12.1995, f.3). NOVELLA, croupier presso il Casinò di Venezia, ha inoltre riferito che il nome di Roberto ROTELLI veniva ricollegato, da voci d’ambiente, ad un attentato dimostrativo su una scala esterna del Casinò avvenuto all’inizio degli anni ‘60 (dep. citata, f.3). - Inoltre Vincenzo VINCIGUERRA, sin dagli interrogatori resi a metà degli anni ‘80, dopo che egli aveva deciso di fare chiarezza sui rapporti intercorsi fra i suoi excamerati di Ordine Nuovo e gli apparati dello Stato, aveva riferito che il dr. Carlo Maria MAGGI, negli anni 1971/1972, aveva ceduto a lui e agli altri componenti della cellula di Udine tre candelotti di esplosivo proveniente dalla Jugoslavia facendo presente che si trattava di esplosivo di notevole potenza e quindi da 221 222 utilizzare con particolare attenzione (int. VINCIGUERRA al G.I. di Brescia, 3.7.1985, vol.6, fasc.5, ff.24-25). Il gruppo di Udine, non sapendo come utilizzare tale esplosivo e preferendo utilizzare per gli attentati in progettazione l’esplosivo da cava di cui disponeva, si era disfatto di tali tre candelotti. La provenienza jugoslava e la considerevole potenza del materiale ceduto dal dr. MAGGI a VINCIGUERRA è in assonanza con il racconto di Carlo DIGILIO e non è escluso che tali candelotti provenissero dalla dotazione costituita dai candelotti acquistati da Roberto ROTELLI, parte dei quali, come ricordato da Carlo DIGILIO, erano appunto di provenienza jugoslava. In conclusione, il racconto di Carlo DIGILIO ha trovato validi elementi di conferma sia in relazione alla figura e al ruolo di Roberto ROTELLI sia in relazione alla disponibilità da parte del gruppo mestrino dei candelotti di gelignite, circostanza questa di eccezionale importanza nel contesto degli avvenimenti del 1969. 222 35 L’ORDIGNO PRELEVATO A MESTRE DA MARCELLO SOFFIATI E PORTATO A VERONA NELLA PRIMAVERA DEL 1974 Proseguendo l’esame in senso cronologico delle dichiarazioni di Carlo DIGILIO e pur spostandoci di qualche anno in avanti nella scansione temporale degli avvenimenti, il collaboratore, in data 4.5.1996, si è risolto a riferire un episodio importantissimo che probabilmente riguarda i preparativi di un’altra strage e cioè quella di Piazza della Loggia a Brescia, ma comunque si ricollega a quanto esposto nel capitolo precedente in quanto l’ordigno prelevato a Mestre e diretto in Lombardia proveniva ancora dall’arsenale di Delfo ZORZI. Ecco il racconto di Carlo DIGILIO in merito a quanto avvenuto in Via Stella, a Verona, nel maggio del 1974: “””Spontaneamente intendo riferire una circostanza della massima importanza e che riguarda la gravissima strage che avvenne a Brescia. Qualche giorno dopo la cena con MAGGI, MINETTO e i due SOFFIATI di cui ho parlato nel precedente interrogatorio, e precisamente non più di 4 o 5 giorni dopo, Marcello SOFFIATI, su ordine del dr. MAGGI, fu mandato a Mestre a ritirare una valigetta da Delfo ZORZI e con questa valigetta, in treno, tornò a Verona nell'appartamento di Via Stella. Io mi trovavo lì e vidi Marcello SOFFIATI letteralmente terrorizzato. Mi fece vedere la valigetta, era tipo 24 ore, che conteneva una quindicina di candelotti, non so se dinamite o gelignite, ma comunque diversi da quelli che aveva procurato ROTELLI in passato e che erano entrati nella disponibilità di ZORZI. Insieme ai candelotti vi era anche il congegno praticamente già approntato. Era costituito da una normale pila da 4,5 volt e da una sveglia grossa di tipo molto comune con dei bilancieri che facevano rumore. I fili erano già collegati tra la pila e la sveglia e quest'ultima, inoltre, aveva già il perno sistemato sul quadrante e le lancette con le punte piegate in alto per facilitare il contatto. Notai che il quadrante della sveglia non era di vetro, ma di plastica. Era una sveglia veramente dozzinale e di poco prezzo. SOFFIATI era molto spaventato perchè anche se la sveglia era ovviamente ferma, egli temeva che in qualche modo il congegno potesse entrare un funzione poichè il perno era già ben inserito e il quadrante di plastica, se toccato si schiacciava e poteva creare anche involontariamente il contatto. Io gli dissi che era stato un pazzo a portare quell'ordigno in treno da Mestre e di buttare via nell'Adige quella roba appena avesse potuto. 223 224 SOFFIATI però mi disse che su disposizione di MAGGI gli era stato in pratica ordinato di andare a Mestre per ritirare il congegno da ZORZI per portarlo poi a Milano, sempre in treno. ZORZI aveva detto che per quell'operazione era disponibile a mettere a disposizione l'esplosivo e il congegno, ma non a fare altro. SOFFIATI era preoccupato e spaventato, ma alla fine mi disse che non poteva fare altro che portare l'esplosivo dove gli era stato ordinato. L'unica cosa che potei fare fu quella di sollevare un po' il perno dal quadrante svitandolo con grande attenzione e riducendo così il pericolo di un contatto non voluto. Dopo pochissimi giorni vi fu la strage di Brescia. Marcello apparve subito angosciato in modo terribile e da quel momento entrò in contrasto definitivo con ZORZI e MAGGI ed io gli consigliai di abbandonare definitivamente il gruppo. Marcello SOFFIATI ebbe la netta sensazione che ZORZI intendesse eliminarlo ed infatti quando si trovò in qualche occasione a Mestre ebbe cura di tenere una pistola alla cintola. Da quel momento, anche su mio consiglio, intensificò i viaggi all'estero, in particolare in Spagna, per tenersi lontano dall'ambiente. In sostanza vi fu una progressione costituita dalla cena di Rovigo, di cui ho già parlato e che fu molto importante sul piano strategico, dalla cena a Colognola con MAGGI e MINETTO e appunto dall'arrivo di SOFFIATI a Verona con la valigetta. Il tutto nel giro di pochi giorni. Secondo me, in particolare a quella cena di Rovigo, fu decisa una vera e propria strategia di attentati che si inserivano nei progetti di colpo di Stato che vedevano uniti civili e militari e si inserivano nella strategia anticomunista del Convegno Pollio del 1965. Marcello SOFFIATI parlò, come destinatari dell'ordigno, di gente delle S.A.M. a Milano, senza specificare nomi. Faccio presente che quando vi fu la cena con MINETTO e MAGGI in cui quest'ultimo preannunziò l'attentato non disse in quale città sarebbe avvenuto, ma indicò genericamente il Nord-Italia. Dopo quella cena io ero un po' spaesato e rimasi ospite da Marcello SOFFIATI in Via Stella e quindi ero lì quando lui partì per Mestre e ritornò a Verona sapendo di trovarmi”””. In merito al luogo ove l’ordigno era stato prelevato da Marcello SOFFIATI, in un successivo interrogatorio (15.6.1996, f.3) Carlo DIGILIO ha precisato: “””Mi sono ricordato un particolare che mi sembra importante. Quando Marcello SOFFIATI ritornò a Verona con la valigetta che Delfo ZORZI gli aveva dato, mi disse che il ritiro della stessa non era stato poi così 224 semplice poichè aveva incontrato Delfo ZORZI a Mestre, ma aveva poi dovuto seguirlo in direzione di Spinea e si erano fermati a MIRANO dove ZORZI disponeva di una vecchia casa (Marcello la definì una casaccia) in cui teneva sia del materiale di pelletteria sia gli esplosivi. Dal racconto di Marcello trassi l'impressione che fosse qualcosa di simile al casolare che avevo visto anni prima a Paese”””. Il fabbricato indicato, sia pure indirettamente, da DIGILIO è stato individuato, anche grazie alla deposizione di Pietro LEVORATO che vi aveva lavorato all’inizio degli anni ‘80 per conto di Rudi ZORZI (dep. LEVORATO a personale del R.O.S., 18.7.1996), in quello ubicato in Via Miranese 104, al confine tra il territorio del Comune di Mirano e il territorio del Comune di Spinea (cfr. nota R.O.S. e allegati rilievi fotografici, 24.7.1996, vol.6, fasc.4, ff.46 e ss.). Anche Martino SICILIANO si era recato in quel luogo alla metà degli anni ‘70 ricordando che all’epoca si presentava come un modesto casolare di campagna in mattoni rossi (mentre attualmente, dopo la ristrutturazione, ha l’aspetto di un capannone commerciale) e che già da parecchi anni i fratelli ZORZI e Roberto LAGNA lo utilizzavano per gli aspetti illeciti dell’attività commerciale che svolgevano nel campo della pelletteria, apponendo, all’interno dello stesso, i marchi di fabbrica falsi di Gucci o Valentino sulla merce destinata all’esportazione nei Paesi orientali (int. SICILIANO, 16.6.1996, ff.1-1; 2.8.1996, f.3). Era impiegato in tale attività non solo Pietro LEVORATO (all’epoca cognato di SICILIANO avendone sposato la sorella Franca), ma anche Stefano TRINGALI, altro uomo di fiducia di Delfo ZORZI, e Martino SICILIANO ha ricordato che, oltre al casolare sito fra Mirano e Spinea, il gruppo disponeva, nei dintorni, di uno o due altri casolari simili, utilizzati per le medesime attività illecite (int. 16.6.1996, f.2). Quanto riferito da Marcello SOFFIATI a Carlo DIGILIO, e cioè il prelevamento dell’ordigno nei pressi di Mestre in un casolare nella disponibilità del gruppo di Delfo ZORZI, è quindi del tutto verosimile e non è da escludersi che tale fabbricato, sicuro e lontano da occhi indiscreti, sia stato utilizzato sin dalla fine degli anni ‘60 come deposito di armi ed esplosivi in parallelo al casolare di Paese e poi, quando quest’ultimo era stato abbandonato (probabilmente non oltre l’inizio del 1970), in sostituzione dello stesso. Infatti il casolare di Paese, facilmente raggiungibile da Treviso per VENTURA e da Padova per i componenti della cellula di Franco FREDA, era invece piuttosto distante da Venezia e quindi è verosimile che il gruppo mestrino/veneziano avesse bisogno di un nascondiglio di pronto uso e più prossimo alla zona ove operava e questo poteva appunto essere il casolare di Mirano. E’ probabile che tale casolare, in qualche fase dell’attività del gruppo, sia stato anche il deposito della grande quantità di candelotti di gelignite, acquistati da Roberto ROTELLI , che Carlo DIGILIO non aveva mai notato nel casolare di Paese e il cui 225 226 trasporto in un luogo lontano, anche per ragioni di sicurezza connesse ai rischi di trasudamento di tale tipo di esplosivo, poteva non essere ritenuto opportuno. Tornando al racconto di Carlo DIGILIO in merito all’arrivo di Marcello SOFFIATI in Via Stella, a Verona, con l’ordigno prelevato a Mestre, si deve ricordare che Pietro BATTISTON e Roberto RAHO hanno fornito di tale episodio un racconto involontario ed anticipato che difficilmente può essere messo in discussione. Infatti nella conversazione registrata nel settembre 1995 grazie all’intercettazione ambientale disposta dal P.M. di Venezia e illustrata nel capitolo 5, BATTISTON e RAHO si erano rallegrati che Carlo DIGILIO, di cui era ormai nota all’ambiente la scelta di collaborazione, non avesse comunque ancora parlato del fatto che Marcello SOFFIATI era partito il giorno prima della strage di Brescia alla volta di tale città con una valigia piena di esplosivo, e cioè proprio dell’episodio gravissimo che DIGILIO avrebbe riferito in termini analoghi qualche mese dopo, sviluppando le proprie dichiarazioni. Si ricordi ancora che un altro significativo riscontro è costituito dal rinvenimento nell’abitazione di Silvio FERRARI (saltato in aria a Brescia pochissimi giorni prima della strage mentre stava trasportando un ordigno a bordo della propria motoretta) di un candelotto di gelignite proprio di marca jugoslava, corrispondente quindi al tipo di esplosivo di cui le strutture veneta e lombarda di Ordine Nuovo si erano procurate una grande quantità già a partire dalla fine degli anni ‘60 (cfr. verbale di sequestro in data 10.6.1974, vol.17, fasc.5, f.4 e perizia disposta dal G.I. di Brescia, ff.23 e ss.). Non è possibile, allo stato, sapere se i candelotti e il congegno di innesco transitati a Verona e diretti con Marcello SOFFIATI alla volta di Milano e Brescia nel maggio 1974 siano stati poi effettivamente utilizzati, in tutto o in parte, per il confezionamento dell’ordigno deposto in Piazza della Loggia, a Brescia, in un cestino di rifiuti, la mattina del 28.5.1974. E’ comunque certo che tale episodio, descritto da Carlo DIGILIO e corroborato da importanti riscontri, costituisce un elementi significativo della stabile operatività della struttura di Ordine Nuovo dalla fine degli anni ‘60 quantomeno sino al 1974, del raccordo strategico fra il gruppo veneto e i militanti della Lombardia e della costante disponibilità e preparazione di ordigni esplosivi di altissima capacità offensiva. 226 36 L’ATTENTATO ALL’UFFICIO ISTRUZIONE DI MILANO DEL 24 LUGLIO 1969 GLI ATTENTATI AI TRENI DELL’8/9 AGOSTO 1969 L’ATTENTATO DI GRUMOLO DELLE ABBADESSE DEL 28 MARZO 1971 Carlo DIGILIO è stato colto da un moto di stizza allorchè ha avuto notizia delle dichiarazioni del Procuratore Aggiunto di Milano, dr. Gerardo D’Ambrosio, in occasione della commemorazione della strage di Piazza Fontana tenuta a Palazzo Marino il 12.12.1996, dichiarazioni da cui traspariva un disinteresse di tale Ufficio per gli elementi emersi in merito al “controllo senza repressione” dell’attività di Ordine Nuovo da parte delle strutture informative americane, al coinvolgimento di queste ultime negli avvenimenti del 1969 e alla conseguente coniugazione, sul piano politico/strategico, della c.d. pista interna, e cioè l’attività di collusione e depistaggio dei nostri servizi di sicurezza, con la c.d. pista internazionale, in realtà due facce della medesima medaglia. Poichè anche gli interventi fuori luogo sono talvolta utili, Carlo DIGILIO, il 14.12.1996, al momento dell’apertura dell’interrogatorio, ha inteso spontaneamente rivelare quanto a sua conoscenza (e mai riferito prima) in merito all’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano, episodio che aveva visto l’interessamento e il coinvolgimento proprio dell’ufficiale americano suo superiore, intendendo così anche confermare il ruolo svolto da tale struttura negli avvenimenti più gravi. Carlo DIGILIO ha inteso, con tale racconto, rivolgersi in un certo senso anche al dr. D’Ambrosio, oggetto del suo moto di stizza, rivelando un episodio che, in base al suo ricordo, coinvolgeva direttamente il magistrato, ma sotto questo profilo è incorso in una sorta di sovrapposizione in quanto è vero che all’epoca il dr. D’Ambrosio svolgeva l’attività di giudice istruttore, ma non conduceva ancora le indagini sul terrorismo di destra e l’attentato, quindi, aveva un valore dimostrativo ed era diretto contro l’Ufficio Giudiziario in quanto tale e non contro uno specifico magistrato. Ecco, comunque, il racconto di Carlo DIGILIO, assai dettagliato e preciso ad eccezione del parziale errore in merito all’obiettivo, dovuto all’emotività del momento: “””Negli ultimissimi giorni, tramite la televisione e la stampa che mi è stata letta da mio cognato, in particolare Il Corriere della Sera, Il Giornale e La Repubblica, ho saputo che, in occasione delle commemorazioni per gli attentati del 12 dicembre 1969 e relative manifestazioni, la Procura di Milano ha espresso scarsa considerazione sulla fondatezza dell'interessamento della C.I.A. in relazione ai gravi avvenimenti di cui ho parlato nel corso dei miei interrogatori e ciò nonostante io abbia evidenziato moltissimi fatti e sia stato l'unico, anche a rischio della mia vita, a parlare dell'attività di una simile struttura. 227 228 Questa cosa mi ha molto stizzito perchè ho detto la verità e ritengo di avere detto cose molto importanti, che sono state verificate e servono a far luce sulla strategia di quegli anni". L'Ufficio dà atto che effettivamente, in particolare il giorno 13 dicembre sono apparse sulla stampa e anche in televisione delle sintesi dell'intervento svolto dal Procuratore Aggiunto di Milano, dr. D'Ambrosio, in occasione della commemorazione ufficiale relativa agli attentati del 12.12.1969 avvenuta in una sala di Palazzo Marino a Milano e che da tale intervento, come concordemente riportato da tali organi di informazione, emerge lo scarso interesse attribuito da tale Ufficio al possibile coinvolgimento di strutture americane in particolare nei fatti del dicembre 1969. DIGILIO prosegue: "Poichè le cose stanno così e poichè mi sembra che non sia stato dato il giusto peso a quanto ho rivelato su ciò che gli americani sapevano, intendo immediatamente rivelare un altro episodio molto grave che riguarda proprio la persona del dr. Gerardo D'Ambrosio. PROGETTO DI ATTENTATO CONTRO IL DR. GERARDO D'AMBROSIO In un periodo di tempo che, quantomeno in questo momento, non sono in grado di collocare con esattezza, ma che comunque cercherò di fissare in base ad altri ricordi dell'epoca, venne a Venezia il capitano David CARRET, allora già mio referente nella struttura C.I.A. Mi contattò tramite il solito sistema di cui ho già ampiamente parlato e cioè collocando un bigliettino nella buca delle lettere di casa mia a Sant'Elena. Ci incontrammo, come facevamo di solito, all'entrata del Palazzo Ducale in San Marco e mi disse che intendeva parlarmi di una cosa molto delicata. Mi disse che la sua struttura aveva saputo a Roma, dall'ambiente di Ordine Nuovo, che tale organizzazione stava progettando un grave attentato con esplosivo contro la persona del Giudice milanese, dr. D'Ambrosio. Mi spiegò che tale attentato era stato ispirato da servizi segreti italiani e in particolare la medesima struttura che aveva ispirato e spinto Delfo ZORZI e il suo gruppo alla catena di attentati da loro commessi. Non mi specificò quale, fra le varie esistenti all'epoca, fosse tale struttura italiana e del reto io non ero sufficientemente titolato a chiedergli spiegazioni del genere e non sarebbe stato consono ai nostri rispettivi ruoli. Mi disse che molto probabilmente, visto che io avevo già svolto il ruolo di "consulente" recandomi al casolare di Paese ed ero conosciuto come tecnico, chi stava preparando tale attentato mi avrebbe in qualche modo contattato o 228 comunque interpellato per farmi controllare il corretto funzionamento dell'ordigno. Faccio presente che certamente il capitano CARRET aveva saputo dei miei due accessi al casolare di Paese tramite le relazioni del prof. Lino FRANCO. CARRET mi spiegò che un attentato di tal genere era contrario alla loro politica e alle direttive dei servizi americani e del generale WESTMORELAND che pure raccomandavano una durissima opposizione ai comunisti, ma senza però provocare vittime in modo indiscriminato e che quindi un'azione del genere non era ammessa e doveva essere contrastata anche per le ripercussioni che aveva avuto. Mi chiese quindi di attivarmi, qualora fossi stato coinvolto, per vanificare e sabotare tale progetto. Faccio presente ancora, per comprendere il contesto degli avvenimenti, che io avevo grande stima del capitano CARRET che era un militare di grande esperienza ed equilibrato. Effettivamente circa un mese e mezzo dopo, il dr. MAGGI mi telefonò avvisandomi che avrei avuto una visita. Faccio presente che per comunicazioni di tal genere il dr. MAGGI telefonava sempre, per motivi di sicurezza, non da casa ma dall'Ospedale o da un telefono pubblico. Mi specificò che era stato lui a dare il mio indirizzo a questa persona che comunque era una mia vecchia conoscenza. Il giorno dopo venne a casa mia Giovanni VENTURA; ricordo che si presentò vestito in modo un po' particolare, con occhiali da sole e un foulard e sembrava uno dei tanti turisti che girano per Venezia. Era solo e aveva con una borsa di pelle nera. Mi disse che mi doveva dare un "ingrato compito" e cioè verificare se l'ordigno che si trovava nella borsa era stato confezionato secondo le regole di sicurezza per chi lo avrebbe trasportato. Mi fece vedere quanto aveva con sè e tirò fuori dalla borsa una delle solite scatole militari portamunizioni, del tutto identica a quelle che avevo visto al casolare di Paese. All'interno c'era un ordigno che così descrivo: c'era un tubo Innocenti sui 20 centimetri di lunghezza saldato ad un'estremità, mentre dall'altra aveva una filettatura a cui era avvitato un tappo. All'interno del tubo, che svitai, c'era della gelignite sfusa e un sacchettino di plastica con il solito orologio Ruhla già pronto con il buco e il perno, una pila da 9 volt, almeno così la ricordo, e dall'orologio partiva il filamento al nichel-cromo e il fiammifero antivento che serviva da accensione. Oltre a questo tubo, parte nella scatola e parte nella borsa, c'erano altri 4 o 5 candelotti di gelignite in carta rossa. Notai che l'innesco era fatto bene e naturalmente la batteria non era collegata e l'orologio non era caricato. 229 230 Ricordo che il filamento era avvolto sul fiammifero e fermato ad esso con dello scotch. VENTURA mi disse che aveva avuto quel congegno a Mestre dal gruppo di ZORZI e del resto io avevo riconosciuto la fattura dell'innesco che avevo già visto a Paese durante il secondo accesso. VENTURA mi disse che era stato fortunato a riuscire a tornare libero, che si sentiva comunque perseguitato e che l'ordigno doveva essere usato contro il Giudice D'Ambrosio. Io gli feci subito notare che un ordigno del genere era di grande potenza e avrebbe potuto provocare conseguenze più gravi di quelle di Piazza Fontana. Gli spiegai comunque che l'ordigno era in condizioni di sicurezza per il trasporto, ma che comunque, per evitare conseguenze gravissime, si poteva al più utilizzare a fine intimidatorio solo il tubo che conteneva non più di mezzo candelotto di gelignite. Inoltre, per creare ulteriori difficoltà all'esecuzione di un attentato potenzialmente tanto grave, staccai con una pinzetta la resistenza dal resto dell'orologio senza farmi notare da VENTURA che, mentre svitavo il tappo del tubo si era prudentemente ritirato in corridoio. Richiusi il tubo prima che VENTURA si avvicinasse e così lui non se ne accorse. VENTURA si trattenne a casa mia non più di un quarto d'ora e diede l'impressione di avere accolto il mio consiglio e infatti disse che si sarebbe disfato dell'esplosivo in più. Lessi qualche giorno dopo sui giornali che era avvenuto a Milano un attentato dimostrativo ed esattamente il rinvenimento di un ordigno inesploso, mi sembra proprio nei pressi dell'Ufficio del dr. D'Ambrosio, e ricollegai quindi immediatamente tale episodio di intimidazione a quanto era avvenuto durante la visita di Giovanni VENTURA. Passò ancora qualche giorno e rividi a Venezia CARRET con il medesimo sistema e nel medesimo posto. Gli relazionai quello che avevo fatto ed egli si congratulò con me dicendo che avevo fatto un ottimo lavoro nel senso che avevo evitato una cosa molto grave. Mi disse che la loro struttura era stufa di tollerare o appoggiare azioni di servizi segreti italiani che avevano superato i limiti e scherzavano con il fuoco. Mi confermò, come già aveva fatto nel primo incontro, che erano concepite azioni dimostrative in senso anticomunista, ma non massacri indiscriminati. Questo mi confermò quella che era stata sempre la mia sensazione e cioè che CARRET avesse un'etica militare e non fosse disposto ad oltrepassarla. Per quanto concerne il contesto in cui maturò il progetto, posso dire quanto segue. Il capitano CARRET mi aveva detto che avevano recepito l'informazione sul progetto nell'ambiente di Ordine Nuovo di Roma. Io avevo già saputo da SOFFIATI, in tempi precedenti, che Pino RAUTI era in contatto con la struttura C.I.A. con la veste di informatore e di fiduciario e ciò 230 mi fu confermato dallo stesso capitano CARRET nel corso del secondo incontro, quando parlammo del modo in cui essi avevano acquisito la notizia del progetto”””. (DIGILIO, int. 14.12.1996, ff.1-4). L’attentato descritto da Carlo DIGILIO è certamente quello del 24.7.1969 allorchè, in un corridoio dell’Ufficio Istruzione, sopra una mensola di marmo (l’attentato era infatti diretto contro l’Ufficio come tale e non contro un singolo magistrato), fu rinvenuto un ordigno inesploso, probabilmente ormai abbandonato da molte ore, formato da un tubo di metallo filettato con un coperchio avvitato e all’interno della gelignite sfusa, di colore rosso, e con il sistema di innesco formato da un orologio RUHLA, un detonatore e polvere nera. L’ordigno era a sua volta celato all’interno di una scatola di cartone della lozione per capelli “Endoten”, apparentemente abbandonata per caso (cfr. nota della Digos di Milano in data 18.12.1996 e atti allegati, vol.8, fasc.7, e copia della perizia disposta all’epoca dal Giudice Istruttore, vol.15, fasc.4, ff.19 e ss.). L’ordigno, di fattura molto particolare, era quindi esattamente come è stato descritto da Carlo DIGILIO, ad eccezione della presenza della polvere nera e del detonatore al posto del fiammifero antivento, particolare che comunque il collaboratore ha precisato nel successivo interrogatorio in data 30.12.1996, nel corso egli ha anche spiegato le ragioni per cui aveva indicato erroneamente il Giudice Istruttore, dr. D’Ambrosio, come diretto obiettivo dell’attentato: “””Ricordo che l'esplosivo era di colore rosso scuro ed era compresso nel tubo. Il congegno di innesco era costituito dal solito orologio, e, ripensandoci meglio, era completato non dal fiammifero antivento, ma da polvere nera e da un detonatore. Il filamento di lampadina, che funzionava da resistenza una volta chiuso il circuito, faceva accendere la polvere che faceva a sua volta accendere il detonatore provocando poi l'esplosione dell'ordigno. Per quanto concerne il periodo in cui l'episodio è avvenuto, esso si colloca d'estate, qualche mese dopo il mio secondo accesso al casolare di Paese. L'Ufficio a questo punto mostra a DIGILIO le fotografie allegate al rapporto della Digos di Milano in data 18.12.1996 concernente il fallito attentato avvenuto il 24.7.1969 in danno dell'Ufficio Istruzione di Milano essendo l'ordigno stato collocato in un corridoio di tale Ufficio. DIGILIO, dopo avere visionato le fotografie, dichiara: Le fotografie riproducono in ogni suo aspetto esattamente l'ordigno che aveva VENTURA e cioè tubo metallico filettato, orologio RUHLA con il solito perno, sacchetto di cellophane e fili elettrici con lo scotch adesivo. L'attentato è quindi certamente quello di cui ho parlato. 231 232 L'Ufficio fa presente a DIGILIO che all'epoca il dr. D'Ambrosio non era ancora titolare di indagini concernenti la cellula padovana. Evidentemente nel corso del precedente interrogatorio, anche in quanto ero molto turbato per le dichiarazioni che mi erano state lette, avevo sovrapposto due elementi e cioè l'obiettivo dell'attentato, che era appunto l'Ufficio Istruzione di Milano, e l'astio che il gruppo aveva maturato, negli anni successivi, contro il dr. D'Ambrosio, titolare delle indagini sulla strage di Piazza Fontana e sul gruppo veneto. Il dr. D'Ambrosio era infatti divenuto solo in seguito, per noi e per tutta la destra, il nome noto all'interno dell'Ufficio Istruzione di Milano, e il fallito attentato, pur avendo per obiettivo il medesimo Ufficio, non era diretto contro la sua persona che non ci era ancora nota. Comunque mi sembra di ricordare che VENTURA, quando venne a casa mia, fece cenno a qualche motivo di rancore contro la giustizia per qualche guaio giudiziario che aveva avuto. Aggiungo che VENTURA ribadì anche che ordigni di quel tipo si potevano confezionare ed eseguire con una spesa di 100.000 lire. Egli faceva spesso di questi discorsi perchè era molto attaccato al denaro”””. (DIGILIO, int. 30.12.1996, ff.1-2). Anche Martino SICILIANO, durane le riunioni tenute presso la libreria “Ezzelino” di Padova, aveva avuto notizia dell’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano: “””....ricordo che questo episodio avvenne nel 1969 in un periodo intermedio fra l'attentato al Rettore dell'Università di Padova, prof. Opocher, e il periodo degli attentati ai treni. Se ne parlò alle riunioni tenute alla libreria Ezzelino, a Padova, con la presenza sia dei padovani sia dei mestrini, riunioni di cui ho già ampiamente parlato e che si collocano appunto poco prima degli attentati ai treni. L'attentato al Palazzo di Giustizia di Milano era già avvenuto quando vi furono alcune di queste riunioni e i padovani fecero capire che era stato FREDA a deporre l'ordigno in quanto per via della sua professione di procuratore legale aveva più facile accesso al Palazzo di Giustizia. Ricordo però che da tali discorsi emergeva che fosse stato VENTURA a spingere perchè l'attentato avvenisse in quel preciso luogo forse anche a causa di una questione personale nei confronti del Tribunale di Milano. Ricordo proprio che l'obiettivo era stato ricordato nei discorsi alle riunioni come l'Ufficio Istruzione. Preciso che le riunioni che si tennero nell'ufficetto della libreria Ezzelino furono in totale 4 o 5 e si tennero nel giugno/luglio del 1969 alla presenza dei soli militanti di sicuro affidamento. 232 Non vi furono riunioni a Padova dopo gli attentati ai treni anche perchè vi era la sensazione che la Polizia stesse stringendo i controlli e avesse focalizzato il gruppo FREDA soprattutto per l'attentato al prof. Opocher e l'incendio alla Sinagoga di Padova. Quindi da quel momento gli incontri si spostarono sulla nostra zona, cioè a Mestre. L'Ufficio mostra a SICILIANO le fotografie allegate alla nota della Digos di Milano del 18.12.1996 relative all'attentato all'Ufficio Istruzione di Milano del 24.7.1969. Non avevo mai visto l'ordigno in questione, che peraltro ha una caratteristica particolare rispetto agli altri per la presenza di un cilindro filettato. Rilevo invece che il congegno era contenuto in una scatola di lozione per capelli; tale particolare è perfettamente in sintonia con le "istruzioni" che venivano fornite proprio durante le riunioni di Padova. Veniva infatti spiegato, in particolare da parte di FREDA, che nel caso in cui gli ordigni dovessero essere deposti in luoghi chiusi e frequentati, come potrebbe essere l'Università o altro ufficio pubblico, dovevano essere utilizzati contenitori esterni che dessero l'idea di un comune oggetto dimenticato. Mi sembra del resto che in uno degli attentati di quel periodo, forse proprio quello in danno dello studio del Rettore dell'Università di Padova, sia stato utilizzato un libro "scavato" all'interno in modo da lasciare posto all'esplosivo. Noto che anche in questo caso è stato utilizzato un orologio di marca RUHLA che è stata per molti anni una sorta di "firma" di Ordine Nuovo per gli attentati sia perchè erano orologi che costavano poco sia soprattutto per il richiamo di valenza simbolica ad un nome tedesco”””. (SICILIANO, int. 20.12.1996, f.2). L’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano era stato uno degli argomenti toccati da Giovanni VENTURA durante la lunga semi-confessione al Giudice D’Ambrosio il 17.3.1973. Giovanni VENTURA aveva dichiarato di aver accompagnato Franco FREDA a Milano la sera precedente il giorno dell’attentato e di aver incontrato di notte, alla Stazione Centrale, un misterioso romano che aveva consegnato loro l’ordigno che tuttavia VENTURA non aveva personalmente deposto al Tribunale in quanto era partito immediatamente per Milano. Sulla base di tale monca e in parte fantasiosa confessione, tipica dell’atteggiamento di VENTURA, sia FREDA sia lo stesso VENTURA sono stati condannati per l’episodio del 24.7.1969, al termine dei dibattimenti celebrati a Catanzaro e quindi esiste già una statuizione definitiva in ordine alla responsabilità della cellula padovana per tale attentato. 233 234 Il racconto di Carlo DIGILIO, tuttavia, consente ora di collocarlo con maggiore precisione all’interno della campagna terroristica del 1969, in quanto per la prima volta è emerso come effettivamente fu preparato l’ordigno, utilizzando ancora una volta i candelotti di gelignite, e soprattutto è emersa, anche in relazione a tale episodio, l’unità operativa fra la cellula padovana e la cellula mestrino/veneziana. Di grande importanza per la ricostruzione complessiva è poi il coinvolgimento della struttura informativa americana, che era al corrente dei progetti del gruppo ed era favorevole ad un attentato meramente dimostrativo, come pure, ovviamente, l’indicazione di DIGILIO in merito ai rapporti fra tale struttura e il Centro Studi Ordine Nuovo di Pino RAUTI a Roma, rapporti che avevano evidentemente consentito agli americani di acquisire le notizie sul nuovo attentato che era in progettazione. Sembra in sostanza che si fossero costituiti due rapporti fiduciari e di disponibilitò a rendere noti i propri progetti nel contesto di una linea strategica che poteva essere comune: a Roma fra il livello centrale della struttura informativa americana e direttamente i dirigenti del Centro Studi Ordine Nuovo; in Veneto, a livello periferico, fra Sergio MINETTO, fiduciario della struttura americana, e il dr. MAGGI, responsabile di Ordine Nuovo per il Triveneto. Gli attentati sui dieci convogli ferroviari dell’8/9 agosto 1969, finalizzato soprattutto a dimostrare che la struttura terroristica disponeva di molte cellule ed era in grado di colpire contemporaneamente in ogni parte d’Italia (ottenendo così il risultato di spaventare al massimo la popolazione proprio mentre era in pieno svolgimento l’esodo estivo), hanno seguito di pochi giorni l’attentato più “mirato” e istituzionale contro l’Ufficio Istruzione di Milano. Carlo DIGILIO ha descritto praticamente in diretta l’ultima fase preparatoria della giornata dell’8/9 agosto quando, il 16.5.1997, ha raccontato il suo terzo accesso al casolare di Paese e i passi salienti di tale interrogatorio sono ampiamente riportati nel capitolo 12. Quel giorno, all’interno del casolare, VENTURA, ZORZI, POZZAN e DIGILIO avevano sistemato il tritolo e il congegno di innesco all’interno delle scatolette di legno preparate da POZZAN e le scatolette, impacchettate con carta da regalo affinchè non destassero sospetti quando fossero state deposte negli scompartimenti, erano state divise fra ZORZI e VENTURA i quali dovevano affidarle a chi materialmente avrebbe dovuto operare (int. 16.5.1997, ff.4-6). Uno di questi era Marcello SOFFIATI il quale, alla Stazione di Mestre, aveva deposto uno dei pacchetti su un treno della linea Venezia-Milano, come DIGILIO aveva appreso pochi giorni dopo dallo stesso SOFFIATI (int. 13.7.1996, f.3), aiutato da un giovane veneziano, uomo di fiducia del dr. MAGGI (int. 16.5.1997, f.3), identificato, con un buon margine di probabilità, grazie agli atti trasmessi dal G.I. di Venezia, dr. Carlo Mastelloni, in Mario FASSIRON (int. 26.6.1997, f.3), purtroppo recentemente deceduto prima di poter essere interrogato. 234 Del restoCarlo DIGILIO, giò prima di tale accesso al casolare di Paese, aveva visto nell’Ufficio di Giovanni VENTURA, a Treviso, alcune scatole di legno molti simili a quelle che sarebbero poi state usate per contenere gli ordigni esplosivi da deporre negli scompartimenti dei treni (int. 13.7.1996, f.1) ed ha riconosciuto senza alcun dubbio, nelle fotografie raffiguranti le scatolette di legno che avevano contenuti i due ordigni rimasti inesplosi in occasione degli attentati dell’8/9 agosto 1969, i contenitori che erano stati preparai da Marco POZZAN nel casolare di Paese (int. 4.10.1996, f.3, con riferimento ai fascicoli dei rilievi tecnici trasmessi dal R.O.S. Carabinieri e dalla D.C.P.P. del Ministero dell’Interno). Il dr. Carlo Maria MAGGI, inoltre, in una riunione di “consuntivo” tenuta a Colognola ai Colli nel settembre 1969, poche settimane dopo gli attentati, con la presenza di DIGILIO e SOFFIATI, aveva fatto presente che per gli attenatti dell’8/9 agosto erano stati utilizzati tutti i militanti disponibili delle cellule di Mestre, Trieste, Rovigo, Vicenza e Verona, così da realizzare un’altra tappa del programma e anche dare “una dimostrazione agli americani della capacità di agire in modo diffuso e coordinato” (int. 22.6.1996, f.3). Spostandosi per un momento in avanti sul piano temporale, ma sempre in tema di attentati a linee ferroviarie commessi dall struttura veneta di Ordine Nuovo, merita di essere ricordato quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito ad un grave episodio successivo, quello avvenuto in provincia di Vicenza, sulla linea ferroviaria all’altezza di Grumolo delle Abbadesse: “””Ho acquisito nel gruppo alcune notizie in merito ad un attentato che avvenne in danno della linea ferroviaria nei pressi di Vicenza. L'episodio si colloca in un periodo successivo agli attentati del 12.12.1969, ma precedente al prelevamento dell'avv. FORZIATI e alla sua presenza in Via Stella. Me ne parlò Marcello SOFFIATI con toni critici, dicendomi che facendo attentati di questo genere si rischiava di ritonare a commettere episodi molto gravi che avrebbero danneggiato e non aiutato la nostra area politica. Mi disse che in concomitanza con una visita del Maresciallo TITO in Italia, i triestini che avevano ovviamente forti motivi di odio nei confronti di TITO, aiutati dai mestrini, avevano fatto esplodere una carica su un binario nei pressi di una stazione di cui ricordo il nome: Grumolo delle Abbadesse. Non conosco specificamente tale località, ma mi fu detto che era nella zona di Vicenza. Il racconto di SOFFIATI avvenne poco tempo dopo il fatto, mentre ci trovavamo a Colognola in occasione di una festa in onore di Bruno SOFFIATI Marcello mi fece cenno, quali responsabili dell'azione, NEAMI per il gruppo triestino e ZORZI per il gruppo mestrino”””. (DIGILIO, int. 29.10.1996, f.4). Il grave attentato era effettivamente avvenuto il 28.3.1971, in concomitanza con una visita del Maresciallo TITO in Italia, e il treno passeggeri diretto a Venezia 235 236 che era transitato poco dopo aveva rischiato di deragliare, con conseguenze facilmente immaginabili, salvandosi solo grazie alla sua velocità e al fatto che le cariche di esplosivo avevano fatto saltare un pezzo notevole di rotaia (circa 72 centimetri), ma non sufficiente a impedire che il convoglio oltrepassasse di slancio il pezzo mancante. L’episodio era già emerso nell’istruttoria concernente l’attentato di Peteano, in quanto Vincenzo VINCIGUERRA aveva riferito al G.I. di Venezia di essersi incontrato, uno o due giorni dopo l’attentato, a Mestre nella sede di Ordine Nuovo, con MAGGI, ZORZI, PORTOLAN e forse Francesco NEAMI e durante la riunione ZORZI e PORTOLAN gli avevano confidato di aver appena compiuto l’attentato sulla linea ferroviaria quale risposta al viaggio di TITO in Italia. La mancanza, all’epoca, di altri elementi di prova e alcune imprecisioni in cui era incorso VINCIGUERRA (egli, probabilmente per errore di memoria, aveva inizialmente riferito che l’attentato era avvenuto in provincia di Vercelli invece che in provincia di Vicenza) avevano imposto al Giudice il proscioglimento istruttorio dei quattro indiziati (cfr. sentenza-ordinanza del G.I. di Venezia nel procedimento 1/89 G.I. depositata in data 29.1.1993, vol.7, fasc.2, ff.134 e ss.). A distanza di tanti anni, le dichiarazioni di VINCIGUERRA, all’epoca isolate, hanno trovato conferma in quelle di Carlo DIGILIO ed è significativo che la comune operatività del gruppo di Mestre/Venezia e del gruppo di Trieste, anche negli anni successivi al 1969, sia confermata anche da questo episodio. Poichè già nell’istruttoria condotta dall’A.G. di Venezia agli indiziati era stato contestato il reato di concorso in strage, in ragione dell’elevato pericolo di deragliamento che aveva corso il convoglio, l’interrogatorio di Carlo DIGILIO del 29.10.1996 è stato trasmesso da questo Ufficio alla Procura della Repubblica di Milano per l’eventuale diretto esercizio dell’azione penale in connessione con gli altri fatti di strage ascritti al gruppo o, in alternativa, per la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Vicenza competente per territorio. 236 37 IL PREANNUNZIO DA PARTE DEL DR. MAGGI DEGLI ATTENTATI DEL 12.12.1969 E GLI AVVENIMENTI IMMEDIATAMENTE PRECEDENTI TALE DATA Carlo DIGILIO, con gli interrogatori resi a questo Ufficio soprattutto a partire dall’autunno 1996, ha cominciato ad entrare nel vivo degli avvenimenti che hanno preceduto la giornata del 12.12.1969 anche se, con ogni probabilità, il suo racconto è ben lungi dall’essere completo e dovrà ancora essere sviluppato e approfondito all’interno delle indagini collegate in corso presso la Procura della Repubblica di Milano. Dopo la riunione di consuntivo del settembre 1969, relativa agli attentati ai treni e di cui si è già parlato nel capitolo precedente, la “progressione criminosa” della struttura veneta di Ordine Nuovo non si era certo conclusa ed anzi si stava avvicinando alla fase culminante dell’operazione terroristica. All’inizio di ottobre del 1969 vi erano stati gli attentati di Trieste e Gorizia, ulteriore prova generale illustrata nel capitolo 15 di questa ordinanza, e, alla fine di ottobre, Carlo DIGILIO aveva nuovamente incontrato Delfo ZORZI a Mestre: “””Il fatto che si stesse preparando qualcosa di importante mi era del resto già stato reso evidente da un altro incontro che avvenne con Delfo ZORZI a fine ottobre 1969 a Mestre. Sono certo della data in quanto ricordo che si trattava di pochi giorni prima delle festività dei Santi e dei Morti e il ricordo di tali ricorrenze in quell'anno è per me vivo in quanto collegato al fatto che dovetti cambiare la lampada votiva sulla tomba di mio padre che era stata infranta da vandali i quali avevano anche scritto frasi oltraggiose nei confronti del Corpo della Guardia di Finanza a cui mio padre apparteneva. Anche in tale occasione fu ZORZI a chiamarmi al telefono dandomi appuntamento in Corso del Popolo e l'incontro si limitò ad alcuni discorsi sui temi legati al funzionamento e all'innesco degli ordigni esplosivi senza che ZORZI portasse e mi mostrasse del materiale. In particolare egli mi chiese se i candelotti di gelignite, di cui lui già disponeva, potevano essere usati interi e cioè essere inseriti in una cassetta metallica senza prima essere tagliati a metà. In particolare ZORZI si era convinto che se fossero stati usati i candelotti interi in una cassetta metallica vi era la possibilità che non sarebbero esplosi completamente e che quindi la cosa migliore era quella di tagliarli. Io gli risposi che era un'idea assolutamente infondata in quanto i candelotti sono fatti per essere utilizzati interi e anzi tagliarli a metà costituisce un 237 238 ulteriore pericolo soprattutto se si usa una lama metallica che potrebbe anche causare una scintilla e farli esplodere durante tale operazione”””. (DIGILIO, int.17.5.1997, f.9). I dubbi espressi da Delfo ZORZI a Carlo DIGILIO trovano riscontro nel fatto che, per ragioni che non sono del tutto chiare, i candelotti di gelignite utilizzati per gli attentati di Trieste e Gorizia erano stati tagliati a metà, come è chiaramente visibile dal fascicolo dei rilievi fotografici relativi a tali attentati (cfr. vol.14, fasc.3, f. 5-bis). E’ possibile che tale operazione fosse semplicemente dovuta al fatto che altrimenti i candelotti sarebbero entrati a fatica nelle cassette militari che dovevano contenere l’ordigno. Carlo DIGILIO aveva comunque fornito a ZORZI, anche in tale occasione, i suoi consigli in merito alle modalità di maneggio dell’esplosivo che certamente stava per essere nuovamente utilizzato. Carlo DIGILIO ha iniziato ad affrontare l’argomento concernente gli avvenimenti successivi al settembre/ottobre 1969 in modo molto limitato affermando, nell’interrogatorio in data 30.8.1996, che all’inizio di dicembre 1969 il dr. MAGGI gli aveva comunicato che nel giro di una settimana vi sarebbero stati “gravi attentati”, che era necessario cautelarsi procurandosi un alibi per ciascuna giornata e che dovevano essere avvertiti Giorgio BOFFELLI ed anche i simpatizzanti più giovani affinchè, grazie soprattutto all’esperienza dello stesso BOFFELLI, fossero evitati i rischi connessi ad eventuali reazioni degli avversari politici di estrema sinistra (f.3). Era anche necessario, secondo le indicazioni del dr. MAGGI, far sparire armi ed altro materiale compromettente dalle abitazioni dei militanti, in previsione di perquisizioni, e infatti Carlo DIGILIO si era subito liberato di munizioni che deteneva in casa illegalmente (int. 9.10.1996, f.12). Anche lo stesso dr. MAGGI si sarebbe preparato un alibi per i giorni cruciali, allontanandosi da Venezia per recarsi in montagna e interrompendo apparentemente i contatti con i militanti (int. 10.9.1996, f.3). L’ordigno fatto visionare da Delfo ZORZI, il 6 o 7 dicembre, a Carlo DIGILIO in una zona isolata di Mestre, lungo un canale, in sintonia con il preannunzio del dr. MAGGI, sarà l’oggetto dell’esposizione del prossimo capitolo. Riprendendo invece, per comodità di lettura, il filo dei rapporti con il dr. MAGGI in quel dicembre 1969, Carlo DIGILIO ha dichiarato di averlo rivisto pochissimi giorni prima del Natale 1969, affrontando con lui, subito, il problema degli avvenimenti del 12.12.1969. Questa era stata la risposta del dr. MAGGI: 238 “””Io rividi MAGGI pochissimi giorni prima del Natale 1969, appunto appena rientrò da Sappada, e gli chiesi una giustificazione ed una spiegazione di quanto era successo a Milano e Roma. Egli mi rispose che non dovevo fare critiche nè di tipo morale, nè di tipo strategico, in quanto i fatti del 12 dicembre erano solo la conclusione di quella che era stata la nostra strategia maturata nel corso di anni e che c'era una mente organizzativa al di sopra della nostra, che aveva voluto questa strategia. Io gli risposi che in questo modo la destra avrebbe perso credito ed in più noi tutti avremmo rischiato di persona. Lui mi rispose che non dovevamo preoccuparci, perchè chi aveva organizzato questa strategia aveva anche pensato a come portare le indagini su altri e così effettivamente stava succedendo”””. (DIGILIO, int.10.9.1996). Era giunto a Venezia, quel medesimo giorno, anche Marcello SOFFIATI con il quale DIGILIO aveva potuto parlare separatamente prima dell’incontro con il dr. MAGGI: “””Nei giorni di Natale venne poi a Venezia il SOFFIATI, anche per fare i saluti ai camerati, ed io riuscii a parlargli in modo appartato. Marcello mi disse che per fortuna MAGGI non lo aveva "mosso" per i fatti del 12 dicembre e ne era contento, visto come erano andate le cose. Aggiunse che, invece, MAGGI si era occupato personalmente di "muovere" alcuni elementi di Trieste che erano andati a Roma per integrare la parte dell'operazione che era avvenuta a Roma, parte che era stata gestita soprattutto da DELLE CHIAIE che egli indicò in forma un po’ dispregiativa come ‘Caccola’ “””. (DIGILIO, int.10.9.1996). In un successivo interrogatorio, Carlo DIGILIO ha descritto con maggior precisione la cena allo Scalinetto in cui era stata fatta una sorta di consuntivo dell’operazione: “””Ci incontrammo allo Scalinetto a cena io, SOFFIATI e il dr. MAGGI e quest'ultimo offrì la cena. Io riuscii a parlare con Marcello in modo appartato prima che arrivasse MAGGI e che la cena iniziasse. Qui Marcello mi disse, come ho già accennato, che ringraziava il cielo che MAGGI non lo avesse utilizzato per i fatti del 12 dicembre e che invece lo stesso MAGGI aveva "mosso" elementi di Trieste che erano stati inviati a Roma. Quella sera si lasciò un po' andare e aggiunse che per gli attentati del 12 dicembre erano partiti alla volta di Milano Delfo ZORZI e i mestrini di sua fiducia viaggiando con la FIAT 1100 di MAGGI. 239 240 Ebbi così conferma di quello che mi aveva detto lo stesso MAGGI pochi giorni prima e che cioè la responsabilità di quanto era avvenuto era del gruppo di Ordine Nuovo. Durante la cena che seguì non si ritornò apertamente sul discorso, anche se MAGGI chiese conferma anche a Marcello SOFFIATI che nei giorni precedenti non vi fossero stati controlli di Polizia o perquisizioni a Verona. La risposta di SOFFIATI fu negativa e del resto anche a Venezia, nelle settimane precedenti, tutto era stato tranquillo almeno per quanto concerne le persone vicine al nostro gruppo. MAGGI si limitò ad aggiungere, anche dinanzi a SOFFIATI, quanto già aveva detto a me alcuni giorni prima e cioè che la decisione degli attentati era stata presa a livello molto alto da persone che dirigevano la strategia anche da Roma. MAGGI concluse il discorso dicendo di stare tranquilli perchè tutto era sotto controllo”””. (DIGILIO, int.5.10.1996, f.12). Il dr. MAGGI aveva aggiunto che Giovanni VENTURA era stato il coordinatore dell’operazione del 12.12.1969 per il Nord-Italia, e cioè per la parte organizzativa veneta dell’operazione, mentre gli uomini erano stati selezionati personalmente da Delfo ZORZI quale responsabile militare (int. 21.2.1997). L’utilizzo della FIAT del dr. MAGGI, giudicato anche da Marcello SOFFIATI una grossa imprudenza che lo stesso MAGGI avrebbe dovuto impedire (int. 21.2.1997, f.2), non era comunque una sorpresa per Carlo DIGILIO. Verso la fine di ottobre 1969 vi era stato infatti, a Mestre in Corso del Popolo, un altro incontro fra ZORZI e MAGGI e DIGILIO che erano giunti appositamente da Venezia. Delfo ZORZI aveva fatto presente al dr. MAGGI, con riferimento agli attentati di Trieste e Gorizia appena avvenuti, che lui e i suoi uomini avevano rischiato la vita fornendo un contributo non paragonabile a quello del dr. MAGGI, il quale si era limitato a dare la vettura e i fondi per l’operazione (int. 21.2.1997, f.3). L’autovettura del dr. MAGGI, secondo Delfo ZORZI, sarebbe comunque presto servita ancora e il dr. MAGGI non si era tirato indietro, consegnando a ZORZI, al termine dell’incontro, del denaro e un mazzo di chiavi (int. 22.2.1997, f.2). Sempre durante la cena a Colognola, Carlo DIGILIO aveva fatto cenno agli anarchici arrestati per gli attentati del 12.12.1969 e il dr. MAGGI “in modo ironico ma con sicurezza” aveva spiegato che “l’incriminazione degli anarchici era una mossa strategica che era stata studiata dai Servizi Segreti al momento in cui era stata concepita l’intera operazione” (int.17.5.1997, f.10). 240 Poco tempo dopo, del resto, Sergio MINETTO, a Colognola durante un altro incontro a casa di Bruno SOFFIATI, si era espresso in termini analoghi facendo capire che era perfettamente al corrente della responsabilità della struttura di Ordine Nuovo e non degli anarchici, ma che comunque “nella lotta contro il comunismo, che era un’esigenza primaria, vi erano azioni le cui conseguenze erano un male necessario” (int. 17.5.1997, f.10). Carlo DIGILIO, quindi, sia prima sia dopo gli attentati del 12.12.1969, aveva ricevuto notizie sufficientemente dettagliate in merito a come si era concluso il programma strategico iniziato con gli attentati della primavera precedente: il ruolo di coordinamento svolto da VENTURA e dal dr. MAGGI; la responsabilità militare di Delfo ZORZI per la strage di Milano; l’apporto fornito dagli avanguardisti di Stefano DELLE CHIAIE per gli attentati “minori” di Roma; il coinvolgimento operativo della cellula triestina; il preordinamento da parte dei Servizi di sicurezza italiani (con ogni probabilità il Servizio civile e cioè l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno) della pista anarchica. Si tratta, come è facile rilevare, di elementi in perfetta sintonia con le restanti acquisizioni processuali relative sia all’attività della struttura occulta di Ordine Nuovo nel suo complesso sia, secondo le dichiarazioni di Tullio FABRIS, Martino SICILIANO e Edgardo BONAZZI, a come era stata preparata ed eseguita l’operazione del 12.12.1969. Resta solo da vedere quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito all’ordigno fattogli visionare, nella sua consueta veste di tecnico e supervisore, da Delfo ZORZI pochissimi giorni prima degli attentati. 241 242 38 L’ORDIGNO VISIONATO DA CARLO DIGILIO A MESTRE IL 7.12.1969 Prima di esporre quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito al punto centrale e cioè l’ordigno fattogli visionare a Mestre da Delfo ZORZI il 6 o il 7 dicembre 1969, merita di essere riportato anche quanto DIGILIO aveva appreso da VENTURA circa una riunione a Padova finalizzata alla messa a punto della strategia terroristica. Carlo DIGILIO ha infatti parlato di tale riunione solo nel decisivo interrogatorio del 16.5.1997, poco prima di rivelare quanto era avvenuto in occasione del terzo accesso al casolare di Paese, e quanto Delfo ZORZI gli aveva mostrato a Mestre pochissimi giorni prima della strage: “””Spontaneamente intendo dire che ho sentito parlare di una importante riunione a Padova che dovrebbe identificarsi in quella di cui si è lungamente parlato durante le indagini sugli attentati del 1969. Questa riunione si tenne a Padova nella primavera del 1969. Io non vi partecipai, ma me ne parlò in seguito VENTURA, nell'autunno dello stesso anno in una delle occasioni in cui mi recai a Treviso nella sua libreria per vendere le monete di mio padre e anche per comprare dei libri. In quel momento erano già avvenuti i primi attentati e in particolare da non molto quello all'Ufficio Istruzione di Milano e quelli sui treni. Parlammo degli eventi che erano nati dal lavoro fatto a Paese e VENTURA mi disse che tutto sommato gli attentati ai treni erano andati bene e che il lavoro organizzativo procedeva bene e che era stata sperimentata l'operatività di un alto numero di persone, compresi gli elementi triestini, superando i problemi connessi allo spostamento nelle varie stazioni ferroviarie nelle quali si era agito. Mi disse che la campagna non era finita e che altri gruppi di attentati sarebbero stati avviati nell'intento di far fare una scelta al mondo militare e a ruota di questo anche a certi politici di Roma. VENTURA quindi ribadì che gli attentati non erano l'impresa di quattro pazzi, ma facevano parte di un piano ben preciso. Aggiunse che questo progetto era partito con una riunione a Padova nella primavera, che aveva visto presenti i padovani, i veneziani, alcuni di Treviso, fra cui lui stesso, e il capo di Ordine Nuovo, Pino RAUTI. Disse che la riunione si era svolta in una casa privata. Non sono in grado di dire se tale riunione sia la stessa di cui hanno poi parlato ampiamente anche i giornali, ma comunque VENTURA me la indicò come momento di definizione della strategia”””. (DIGILIO, int. 16.5.1997, ff.3-4). 242 I soggetti presenti e i contenuti della riunione sono quindi in assoluta corrispondenza con le altre riunioni preparatorie cui aveva preso parte anche Martino SICILIANO (int. SICILIANO, 6.10.1996, f.2). Infine Carlo DIGILIO si è risolto a rivelare quanto gli era stato chiesto di visionare a Mestre, in una zona isolata, cinque o sei giorni prima degli attentati: “””A questo punto intendo riferire quanto io vidi nella disponibilità di ZORZI nel dicembre 1969 qualche giorno dopo l'allarme che diede il dr. MAGGI in merito a quanto stava per accadere e qualche giorno prima degli attentati del 12 dicembre 1969. Sono quasi certo che quanto sto per raccontare avvenne uno o due giorni prima dell'Immacolata, che cade l'8 dicembre. Premetto che quando MAGGI, ai primi di dicembre, mi disse di stare in allerta e di avvisare altri camerati come BOFFELLI, mi disse anche che, per quanto mi riguardava personalmente, avrei ricevuto una chiamata da ZORZI che avrebbe avuto bisogno della mia presenza. Infatti Delfo ZORZI mi chiamò per telefono dicendomi che aveva bisogno di una "consulenza", espressione che io capii benissimo cosa voleva dire. Arrivai a Piazza Barche, dove mi aveva dato l'appuntamento, nel tardo pomeriggio e ZORZI mi accompagnò in quella zona un po' isolata vicino al canale dove c'eravamo incontrati altre volte e dove in particolare avevamo esaminato il materiale proveniente da Vittorio Veneto di cui ho parlato nel verbale in data 30.8.1996. Mi portò in un punto molto riparato dove era parcheggiata la FIAT 1100 di MAGGI. Qui aprì il portabagagli posteriore in cui c'erano tre cassette militari con scritte in inglese, due più piccole e una un po' più grande. Aprì tutte e tre le cassette e all'interno di ciascuna c'era dell'esplosivo alla rinfusa e in particolare quello a scaglie rosacee che avevo visto a Paese e dei pezzi di esplosivo estratto dalle mine anticarro recuperate dai laghetti. In ogni cassetta, affondato nell'esplosivo c'era una scatoletta metallica con un coperchio, come quelle che si usavano per il cacao, che conteneva il congegno innescante che era stato preparato, come lui mi disse, da un elettricista. Effettivamente quello che intravvidi era una scatoletta di cartone a forma di parallelepipedo che nella parte superiore aveva una cupoletta completamente avvolta con del nastro isolante lasciato un po' molle e questa specie di cappellotto impediva di vedere come fosse fatto esattamente il congegno ZORZI mi disse di essere perfettamente sicuro di questo congegno, ma la cosa che lo preoccupava era la sicurezza generale dell'esplosivo che doveva trasportare e cioè se poteva esplodere a seguito di scossoni, anche molto probabili in quanto la macchina di MAGGI era vecchia. 243 244 Mi disse che di lì a qualche giorno doveva trasportare queste cassette fino a Milano e che comunque aveva previsto una fermata a Padova appunto per cambiare macchina e prenderne una più molleggiata, oltre che per mettere a posto il congegno. Io lo rassicurai circa la sicurezza generale dell'esplosivo che non mostrava segni di essudazione che ne alterassero la stabilità. Piuttosto avrebbe dovuto fare molta attenzione all'innesco che mi sembrava la parte più delicata. Faccio presente che ciascuna delle due scatole piccole c'era almeno un chilo di esplosivo e un po' di più nella terza più grande. Ci spostammo a piedi dal luogo e prima di lasciarci Delfo fece cenno ad una persona che stava sotto un porticato di Piazza Barche di raggiungerlo e vidi che si trattava di suo fratello e cioè quel giovane con i capelli lunghi e di bell'aspetto che avevo già visto una delle volte in cui nello stesso punto avevamo esaminato le armi di LINO FRANCO e che era venuto con una autovettura DIANE. Faccio presente che io del resto sapevo che ZORZI non sapeva guidare e quindi per spostarsi in macchina doveva ricorrere di volta in volta appunto a suo fratello o a MARIGA che faceva parte del suo gruppo. Io ovviamente mi resi conto che la richiesta di ZORZI era collegata ai fatti che MAGGI aveva preannunziato pochi giorni prima. Quando in seguito, nei giorni di Natale, rividi MAGGI a Venezia gli dissi che avevo visionato gli ordigni. Quando SOFFIATI, prima della cena di cui ho parlato in data 5.10.1996, mi fece cenno al rischio che MAGGI aveva corso, io in effetti sapevo già quanto era avvenuto”””. (DIGILIO, int. 16.5.1997, ff.6-7). Nell’interrogatorio reso il giorno successivo, Carlo DIGILIO ha completato il suo racconto spiegando che le cassette militari erano solo un contenitore temporaneo, destinato ad essere subito sostituito da cassette portavalori, di marca JUWEL, già nella disponibilità del gruppo: “””Riprendendo questo episodio, faccio innanzitutto presente che nel bagagliaio della FIAT 1100, oltre alle tre cassette metalliche c'era solo una borsa sportiva di quelle che normalmente si usano per la palestra, borsa che ZORZI non aprì e in merito alla quale non fece alcun cenno. Le tre cassette metalliche avevano delle scritte in inglese e mi sono ricordato che io feci notare a ZORZI che la loro evidente caratteristica di cassette militari ad un eventuale controllo avrebbe destato molto sospetto e creato seri pericoli per chi la trasportava di essere sottoposto ad una verifica. Fra l'altro notai che le tre cassette non erano nemmeno coperte da un telo ed erano subito visibili appena aperto il bagagliaio. 244 Feci notare tale circostanza a ZORZI e questi mi rispose che comunque non c'era da preoccuparsi perchè il problema era già stato affrontato in quanto il gruppo stava per acquistare delle cassette metalliche che non davano nell'occhio in quanto erano quelle utilizzate normalmente per la custodia di valori. Mi fece anche il nome JEWEL o JUWEL che era la marca allora più nota per questo tipo di cassette. Ritornando alla descrizione di quello che vidi, confermo che in ogni cassetta c'era uno di quei barattoli di cui ho parlato ieri, praticamente immerso nell'esplosivo che era sfuso. Non mi azzardai a toccare questi barattoli, intravvedendo solo la sommità della scatola a forma di parallelepipedo che ho già descritto, per evidenti motivi di sicurezza. Chiesi comunque a ZORZI che tipo di innesco fosse e questi mi rispose che era un meccanismo di assoluta sicurezza preparato per il gruppo da un elettricista. E' possibile che i pezzi di tritolo che vidi nelle cassette militari fossero il materiale recuperato dalle scatolette non utilizzate per gli attentati ai treni dell'agosto. Infatti noi avevamo approntato almeno due dozzine di scatolette e cioè un numero molto superiore al numero degli attentati che poi effettivamente avvenne e il numero e la grossezza dei pezzi di tritolo che si trovavano nelle cassette militari corrispondeva grosso modo a quello che poteva essere recuperato dalle scatolette non utilizzate”””. (DIGILIO, int. 17.5.1996, ff.8-9). Gli ultimi elementi forniti così da Carlo DIGILIO appaiono decisivi. Le cassette portavalori di marca Juwel, occultate all’interno di borse di similpelle, hanno infatti contenuto i cinque ordigni deposti a Milano e a Roma il 12.12.1969, aumentando la potenza della deflagrazione e del resto, già nel corso della prima istruttoria nei confronti di FREDA e VENTURA, Tullio FABRIS aveva riferito che Franco FREDA gli aveva chiesto , nel settembre 1969, consigli per l’acquisto di cassette metalliche in cui dovevano essere messi, secondo le parole di FREDA, i “commutatori” e cioè i timers acquistati proprio insieme a FABRIS. Gli oggetti a forma di parallelepipedo con una cupoletta, protetti da un barattolo e immersi nell’esplosivo (e cioè il congegno innescante preparato, secondo le parole di ZORZI, da un elettricista) corrispondono e non potevano essere altro che i timers acquistati proprio grazie all’elettricista Tullio FABRIS che questi, nello studio legale di Padova, aveva insegnato a FREDA e VENTURA a far funzionare affinchè tali nozioni fossero riportate ad un altro elemento operativo del gruppo, certamente da identificarsi in Delfo ZORZI. 245 246 Si osservi inoltre, a titolo di completamento del quadro di tale decisivo incontro fra ZORZI e DIGILIO, che Martino SICILIANO ha riferito che la zona isolata lungo un canale, non distante da Piazza Barche, era appunto uno dei punti di incontro del gruppo, anche perchè nei pressi si trovava una palazzina ove aveva, all’epoca, la nuova sede la palestra di arti marziali e che effettivamente Rudi ZORZI, come ricordato da Carlo DIGILIO, disponeva in quel periodo di una autovettura Diane essendo anche munito, a differenza di Delfo, della patente di guida (int. SICILIANO, 24.6.1997, f.3). Molto probabilmente quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito agli attentati del 12.12.1969 e agli avvenimenti che li avevano preceduti non è ancora tutto quanto a sua conoscenza, ma è certo che, con gli interrogatori del 15 e 16 maggio 1997 resi a questo Ufficio, egli ha fornito gli elementi di raccordo fondamentali per comprendere il meccanismo operativo finale cui aveva portato la progressione criminosa del gruppo, iniziata nella primavera del 1969, anche sotto il profilo della preparazione politica e strategica studiata sin dagli anni ancora precedenti. Rimangono solo, prima di concludere questa parte dell’ordinanza dedicata alla strage di Piazza Fontana, da esporre gli elementi di collegamento emersi per la prima volta, nel corso di questa istruttoria, fra gli avvenimenti del 12.12.1969 e l’attentato commesso da Gianfranco BERTOLI dinanzi alla Questura di Milano il 17.5.1973, elementi di collegamento connessi alla figura e al ruolo svolto dall’on. Mariano RUMOR. 246 39 LA FIGURA DI GIANFRANCO BERTOLI E I SUOI RAPPORTI CON ORDINE NUOVO I CONTATTI CON ELEMENTI ISRAELIANI Solo negli interrogatori resi a questo Ufficio in data 12 e 14 ottobre 1996 Carlo DIGILIO si è risolto a raccontare quanto a sua conoscenza, diretta e con chiari profili di corresponsabilità, in merito alla persona di Gianfranco BERTOLI e all’attentato dinanzi alla Questura di Milano del 17.5.1973. In merito a tale strage è in corso tuttora un procedimento in Istruzione formale, in quanto il G.I. di Milano, dr. Antonio Lombardi, nel rinviare a giudizio, nel 1974, l’autore materiale del lancio della bomba a mano “ananas” in Via Fatebenefratelli, aveva operato uno stralcio riguardante i corresponsabili e gli organizzatori della strage, convinto, non a torto, che l’intera vicenda non fosse il frutto dell’azione di un isolato anarchico individualista e che vi fosse un ampio retroterra ancora da rischiarare. Effettivamente, con la ripresa delle indagini, in questi ultimi anni tale ipotesi si era rafforzata. Talune incongruenze del racconto di BERTOLI, l’attività di informatore da questi svolta in favore del SIFAR, seppur in tempi antichi, gli accertati contatti con altri elementi di destra padovani e veneziani (quali Eugenio RIZZATO, Sandro RAMPAZZO e Sandro SEDONA) e alcune voci che avevano cominciato a levarsi nell’ambiente di destra (in particolare le testimonianze molto attendibili di Vincenzo VINCIGUERRA e Roberto CAVALLARO) portavano con sempre maggiore convinzione a ritenere che Gianfranco BERTOLI, pur avendo meditato a covato per lungo tempo il suo gesto clamoroso, fosse stato aiutato nell’organizzazione ed esecuzione dello stesso da ambienti del tutto diversi da quelli anarchici. Mancava però la testimonianza decisiva che potesse aprire uno squarcio sui movimenti e i contatti di BERTOLI prima della strage e che potesse raccontare in forma diretta, e non per voci o confidenze d’ambiente, gli avvenimenti precedenti l’arrivo di BERTOLI a Milano. Tale squarcio è giunto dal racconto di Carlo DIGILIO, che qui si riporta per le sue connessioni con l’attività delle strutture di sicurezza americane, mentre l’intero quadro delle corresponsabilità nell’azione di Gianfranco BERTOLI sarà ovviamente illustrato nel provvedimento istruttorio conclusivo del dr. Antonio Lombardi. “””...intendo spontaneamente riferire quanto a mia conoscenza in merito alla persona di Gianfranco BERTOLI, autore della strage dinanzi alla Questura di Milano. 247 248 Premetto che prima dell'azione di BERTOLI vi fu una riunione a Colognola ai Colli, presenti MAGGI, SOFFIATI, MINETTO e io nella trattoria che in quel periodo non era ancora in gestione alla famiglia Soffiati. MAGGI spiegò che il progetto di un attentato contro il Ministro RUMOR non poteva al momento essere attuato perchè il primo che era stato interpellato per l'esecuzione, e cioè Vincenzo VINCIGUERRA, si era rifiutato di prestarsi poichè non riteneva corretto il progetto. Il Ministro RUMOR era odiato nell'ambiente di destra perchè aveva ostacolato i progetti di mutamento istituzionale in Italia e si era mostrato ostile alla destra. MAGGI disse che era assolutamente necessario trovare un'altra persona che eseguisse l'attentato. Ribadì che bisognava "spazzare via RUMOR" e queste sono esattamente le parole che ricordo egli disse. MAGGI aggiunse che comunque avrebbe continuato ad occuparsi del progetto e che riteneva fattibile utilizzare Gianfranco BERTOLI che era una persona disposta a tutto. Se si fosse riuscito a reclutare BERTOLI vi sarebbe stata per l'azione una "copertura" anarchica dinanzi all'opinione pubblica che avrebbe funzionato come aveva funzionato in passato e cioè per Piazza Fontana. Anche in questo caso, infatti, l'opinione pubblica, secondo MAGGI, avrebbe continuato a dire "ecco, i soliti anarchici!". Io sino a quel momento non aveva mai visto BERTOLI, ma ne avevo solo sentito parlare nell'ambiente come di un anarchico individualista che conosceva MAGGI e ancora meglio conosceva BOFFELLI. Sapevo che BERTOLI aveva i suoi punti di riferimento nel mestrino e cioè frequentava tale zona. Mi era stato detto che era una persona che viveva di espedienti e al limite della sopravvivenza. Qualche tempo dopo venni a sapere da SOFFIATI che questo BERTOLI era stato prelevato nel mestrino da elementi del nostro gruppo e portato a Verona in Via Stella per essere istruito sul da farsi. Questa notizia si colloca in un periodo successivo al prelevamento di FORZIATI ed esattamente l'anno dopo. Quando arrivai in Via Stella vi trovai, oltre a Marcello SOFFIATI, anche Francesco NEAMI di Trieste e questo BERTOLI, che ricordo malmesso ed emaciato con la barbetta. Ricordo che aveva l'abitudine di tirarsi questa barbetta con la mano. NEAMI gli stava spiegando, con una specie di vero e proprio lavaggio del cervello, cosa avrebbe dovuto dire alla Polizia in caso di arresto e gli faceva ripetere le risposte che avrebbe dovuto dare e cioè che era un anarchico individualista e che si era procurato da solo, in Israele, la bomba per l'attentato. 248 Capii subito da SOFFIATI e NEAMI che BERTOLI era un debole e mi dissero infatti che gli piaceva bere e lo avevano convinto anche con la promessa di un po' di soldi. Mi dissero che era già lì da parecchi giorni e che lo facevano bere e mangiare a sazietà. Anch'io rimasi qualche giorno a dormire in Via Stella, su di un vecchio divano, e in quei giorni, non in Via Stella, ma a Colognola, vidi anche MINETTO il quale era perfettamente al corrente di cosa si stava preparando e aveva personalmente procurato i soldi per BERTOLI tramite gli americani. Non si trattava comunque di una grande somma, ma di pochi milioni e infatti si capiva subito, con un'occhiata, che BERTOLI poteva essere comprato con pochi soldi. NEAMI dormiva con BERTOLI, nella stanza da letto, per controllare suoi eventuali colpi di testa, mentre io dormivo su un divano nel salotto e il divano era posto vicino all'ingresso del bagno. Ricordo che BERTOLI fumava, beveva era scostante non legò con me faceva discorsi strani, diceva che comunque fosse andata egli sarebbe diventato un grand'uomo. MAGGI andava e veniva e ricordo che gli provò anche la pressione e gli fece qualche iniezione per dei disturbi che aveva. BERTOLI diceva di soffrire di reumatismi per la vita disordinata che aveva fatto. Ricordo che NEAMI si comportava duramente con lui quando Bertoli non dava le risposte giuste o esagerava con le sue sparate verbali. Io mi allontanai da Via Stella prima che BERTOLI entrasse in azione, ricordo che era primavera ed esattamente il mese di maggio. Aggiungo che la presenza di NEAMI non era un caso, ma era stata voluta da MAGGI poichè NEAMI in precedenza aveva già fatto la guardia all'avv. FORZIATI e quindi sapeva come muoversi, dove fare gli acquisti e la sua presenza non dava eccessivo sospetto nel quartiere. Tale precauzione era stata presa anche perchè si temeva qualche soffiata da parte del padrone del bar sottostante. Nell'appartamento io avevo visto due o tre bombe a mano a frattura prestabilita, tipo ananas, che SOFFIATI mi disse essere state procurate da MINETTO presso la base di Verona dove c'erano residuati di vario genere. L'operazione era stata fatta sostituendo per precauzione a queste bombe a mano alcune di quelle molto simili che aveva detenuto Lino FRANCO e di cui ho già parlato nell'interrogatorio in data 30.8.1996. Dopo la morte di FRANCO queste bombe erano state recuperate e incamerate da MINETTO. Ricordo che io dissi a NEAMI che bisognava stare attenti e di sorvegliare bene BERTOLI e comunque non trattarlo molto male poichè mi sembrava un po' 249 250 matto e poteva darsi che di notte disinnescasse la bomba a mano e ci facesse saltare in aria tutti. Io e NEAMI stavamo infatti svegli a turno e ci tenevamo in piedi con grandi scorte di caffè. La prosecuzione del piano consisteva nell'accompagnare BERTOLI una volta che fosse perfettamente convinto a Milano nei pressi della Questura e farlo agire. Io non partecipai a questa fase dell'operazione e non so chi del gruppo abbia accompagnato BERTOLI, ricordo però che una volta insieme a MAGGI venne BOFFELLI che era amico di BERTOLI e servì per tirarlo su di morale e BOFFELLI per rafforzarne i propositi gli disse che doveva mostrare il suo coraggio e che tutti avrebbero parlato di lui. Io appresi dell'attentato dalla radio o dal giornale e capii subito che era andato male perchè non era morto RUMOR ma alcuni passanti. Subito dopo andammo a cena allo SCALINETTO io, MAGGI e BOFFELLI. MAGGI ci offrì questa cena per tirarci su, ma MAGGI aveva il muso lungo e l'atmosfera era lugubre. Si parlò pochissimo, ma MAGGI cercò di capire da BOFFELLI come mai BERTOLI avesse sbagliato e BOFFELLI gli rispose che bastava pensare a come si lancia un sasso e che sempre in questi casi anche per accidente si può sbagliare la traiettoria. Aggiungo che MAGGI e ZORZI avevano proposto a VINCIGUERRA di agire non a Milano ma in Veneto dove RUMOR risiedeva ma VINCIGUERRA si era rifiutato perchè sarebbe stata una carneficina”””. (DIGILIO, int. 12.10.1996). Il racconto in merito alla permanenza di Gianfranco BERTOLI in Via Stella è proseguito il 14.10.1996 con alcuni approfondimenti: “””Fra la mia presenza in Via Stella quando c'era BERTOLI e quando appresi della strage alla Questura di Milano passarono circa due mesi. Ricordo infatti bene che quando appresi dell'attentato la mia presenza nell'appartamento era una cosa ormai non recentissima. Non so ove Gianfranco BERTOLI abbia trascorso tutto quel periodo, ritengo però che dopo la sosta nell'appartamento si sia mosso perchè ricordo che spesso diceva che non tollerava che "gli dosassero l'aria" e non tollerava di essere controllato così strettamente in quella maniera dal gruppo. Ritengo che così come sia stato spiegato a BERTOLI cosa dovesse rispondere e cosa dovesse sostenere frase per frase, gli sia stato anche indicato cosa sostenere in merito ai suoi spostamenti in quel periodo. Della sua vita passata ricordo che parlava spesso di un suo soggiorno in Israele e che quando vide le bombe nell'appartamento disse che non aveva 250 niente da imparare perchè quelle bombe le aveva già viste tali e quali in Israele. Era un personaggio pieno di sè, si credeva un grand'uomo, diceva sempre che doveva essere maggiormente rispettato, soprattutto da Francesco NEAMI che lo prendeva anche a ceffoni quando non rispondeva a tono. Accennò comunque anche ai suoi precedenti di carattere comune e che era stato in galera. Confermo che BERTOLI era un personaggio pieno di tic; si lisciava continuamente la barbetta e secondo me aveva dei disturbi di carattere ormai stabili, conseguenti al costante abuso di alcool. E del resto anche in Via Stella, quando lui era lì, era molto facile inciampare in bottiglie ormai vuote di alcolici disseminate per la casa. NEAMI diceva che farlo bere era l'unico modo per tenerlo buono. BERTOLI era chiaramente, anche dalla parlata, di origine veneta, non so dire esattamente di quale provincia, ma l'accento denotava un'origine che direi dell'entroterra mestrino. Era comunque di origini modeste”””. (DIGILIO, int. 14.10.1996). Dal racconto di Carlo DIGILIO (in cui questa volta non compare Delfo ZORZI in quanto, si ricordi, in quel periodo si trovava in Giappone) emerge in sostanza che BERTOLI, persona disturbata e frustrata alla ricerca di un gesto eclatante che lo riscattasse, aveva meditato da tempo un’azione del genere (colpendo i partecipanti alla cerimonia egli intendeva soprattutto “vendicare” PINELLI), ma che l’aiuto materiale e la spinta decisiva, anche sul piano psicologico, ad effettuare l’azione erano giunti non dall’ambiente anarchico, ma da un ambiente ben diverso cui egli era comunque contiguo, nel mestrino, per ragioni di amicizia personale e comuni frequentazioni. Anche Martino SICILIANO, del resto, pur non avendo partecipato ai preparativi dell’azione del 17.5.1973 e avendo conosciuto BERTOLI solo di vista, ha parlato diffusamente della sua figura. BERTOLI, secondo il racconto di SICILIANO, conosceva non solo elementi di destra legati anche alla piccola malavita dell’entroterra mestrino come SEDONA e MARIGA, ma conosceva molto bene anche il dr. MAGGI e Paolo MOLIN ed era rimasto in contatto con il dr. MAGGI anche durante la sua permanenza in Israele (int. 18.10.1996, ff.4-5). Qualche tempo dopo la strage di Via Fatebenefratelli, ZORZI, commentando l’episodio con SICILIANO, gli aveva detto che l’episodio di Milano era inquadrato nella loro strategia. Inoltre anche Martino SICILIANO era al corrente del progetto, maturato fra il 1970 e il 1973 all’interno del gruppo di MAGGI e ZORZI, di eliminare l’on. RUMOR, progetto di cui ha diffusamente parlato nei suoi interrogatori Vincenzo VINCIGUERRA in 251 252 quanto oggetto di più proposte dei mestrini, da lui rifiutate, di eseguire materialmente l’azione. Sulla base del dettagliato racconto di Carlo DIGILIO, approfondito nel corso degli interrogatori dinanzi al G.I. dr. Lombardi e confermato dagli elementi di riscontro già acquisiti nell’istruttoria condotta dal Collega, nel giugno 1997 il dr. Carlo Maria MAGGI, l’ex-mercenario Giorgio BOFFELLI e l’ordinovista triestino Francesco NEAMI sono stati raggiunto da mandato di cattura per concorso nella strage di Via Fatebenefratelli. Per i profili che interessano, nella presente istruttoria, in relazione all’attività svolta dalle strutture americane, è ovviamente indicativo e gravemente inquietante l’apporto fornito dal caporete, Sergio MINETTO, il quale era stato informato dal dr. MAGGI del progetto di azione contro l’on. RUMOR, aveva procurato del denaro per BERTOLI traendolo dalla cassa della sua struttura e soprattutto aveva procurato le bombe a mani tipo ananas di cui BERTOLI doveva impratichirsi al funzionamento. Anche in relazione alla presenza di BERTOLI a Verona, come per tutti gli avvenimenti precedenti, Carlo DIGILIO non aveva poi mancato di informare il suo diretto referente, il capitano CARRET, durante uno dei consueti appuntamenti a Venezia: “””Lo incontrai (n.u.: il capitano CARRET) infatti a Venezia, secondo un incontro già prestabilito, la settimana successiva a quella, se non sbaglio dal lunedì al sabato, che avevo trascorso con BERTOLI in Via Stella. Spiegai al capitano CARRET la situazione e cioè che il gruppo stava preparando attraverso BERTOLI un attentato contro l'on. RUMOR. A differenza di altre situazioni precedenti, come ad esempio l'attentato all'Ufficio Istruzione di Milano, questa volta CARRET mostrò di non essere stato ancora informato da nessuno di quanto stava avvenendo. A seguito del mio racconto e della spiegazione che gli feci in merito a quale tipo di persona fosse il BERTOLI, il capitano CARRET si mostrò preoccupatissimo e disse che era un'azione che poteva finire male e che c'era a quel punto il rischio che anch'io, che ero un suo ottimo informatore, ne fossi travolto. Aggiunse infatti che nel caso fosse stata effettivamente colpita una così alta personalità dello Stato, le indagini sarebbero state molto approfondite con il rischio, tramite BERTOLI, di mettere allo scoperto l'intera struttura e di venire a sapere tutto quello che era avvenuto anche in passato compresi gli attentati e il progetto di golpe degli anni 1969/1970”””. (DIGILIO, int. 13.4.1997). Un’azione così ad alto rischio come quella che vedeva coinvolto e utilizzato un personaggio come Gianfranco BERTOLI aveva quindi suscitato notevoli perplessità in un ufficiale prudente come il capitano CARRET, perplessità che erano forse il primo sintomo del distacco che di lì a poco, e comunque entro l’anno 252 successivo, le strutture atlantiche avrebbero maturato dall’ipotesi di concorrere, in Italia come in altri Paesi, a mutare violentemente le strutture istituzionali, con il conseguente abbandono al loro destino delle frange più radicali dell’estrema destra in Italia e in Europa. La figura di Gianfranco BERTOLI e il suo lungo soggiorno in Israele riportano l’attenzione a due soggetti, Luigi FOA’ e Sergio ALZETTA (nomi certamente in codice), agenti israeliani probabilmente legati al MOSSAD, con i quali Carlo DIGILIO era in contatto a Venezia nell’ambito dello scambio di informazioni fra strutture di intelligence collegate, relative soprattutto alle attività dei gruppi di estrema sinistra di idee spiccatamente anti-israeliane e anti-sioniste presenti all’Università di Venezia (int. DIGILIO, 13.7.1996, f.5; 30.8.1996, f.3; 5.3.1997, f.3; 15.3.1997, f.4). I due tuttavia non si incontravano solo con DIGILIO nell’ambito delle rispettive attività, ma gravitavano anche intorno all’ambiente di Ordine Nuovo e in particolare al dr. MAGGI, la cui moglie peraltro è di origine ebrea essendo figlia di un’ebrea battezzata. Vincenzo VINCIGUERRA aveva segnalato di essere stato convocato, all’inizio degli anni ‘70, a casa del dr. MAGGI e di avervi trovato, insieme al padrone di casa, Carlo DIGILIO, cioè ZIO OTTO, e un giovane con i capelli rossi che aveva sottoposto VINCIGUERRA ad una sorta di sondaggio in merito alla sua disponibilità a partecipare a campi di addestramento o attività simili (int. VINCIGUERRA, 16.6.1992, ff.2-3). Vincenzo VINCIGUERRA, da buon nazional-rivoluzionario “puro”, si era notevolmente insospettito ritenendo, non a torto, di essersi trovato di fronte a un esponente di qualche servizio segreto o struttura militare che, data la brevità dell’incontro, non era riuscito a identificare. Carlo DIGILIO ha spiegato che il giovane con i capelli rossi altri non era che l’israeliano Sergio ALZETTA, interessato a verificare la disponibilità di VINCIGUERRA a partecipare ad attività di addestramento anche in relazione al progettato attentato contro l’on. Rumor, attentato proposto da MAGGI e ZORZI in quel periodo a VINCIGUERRA e da questi sdegnosamente rifiutato (int. DIGILIO, 16.5.1997, ff.1-2). Sergio ALZETTA del resto, tramite il dr. MAGGI, aveva già fatto partecipare alcuni simpatizzanti di Ordine Nuovo, fra cui Giorgio BOFFELLI, a campi di addestramento in zone isolate del bergamasco (int. DIGILIO a questo Ufficio, 16.5.1997, f.2; al G.I. di Venezia, dr. Mastelloni, 8.2.1997, f.3), mentre Luigi FOA’ aveva organizzato, all’inizio degli anni ‘70, sempre tramite il dr. MAGGI, il viaggio quasi gratuito di parecchi militanti veneti, fra cui Delfo ZORZI, in Libano (in una zona controllata dai cristiano-maroniti), affinchè essi partecipassero a corsi di addestramento in funzione anti-araba e anti-palestinese (int. DIGILIO, 15.3.1997, f.4 a questo Ufficio; al g.i. di Venezia dr. MASTELLONI, 8.2.1997, f.3). 253 254 Carlo DIGILIO ha del resto spiegato che nell’ambiente di Ordine Nuovo di Venezia, anche se ciò poteva apparire in contrasto con una ideologia vicina al nazismo, vi era un’area di simpatia strategica con lo Stato di Israele in quanto tale entità era vista come difensore dei valori occidentali in quella Regione, costituendo, insieme agli americani, una barriera contro i movimenti arabi influenzati dal mondo sovietico (int. 5.3.1997, f.4). Sostenitore di tale linea politica era in particolare l’avv. Giampiero CARLET il quale, alla fine degli anni ‘60, si era impegnato all’interno del M.S.I. e di Ordine Nuovo affinchè fossero avviate iniziative di appoggio in favore dello Stato di Israele (int. DIGILIO, 15.3.1997, f.4; dep. CARLET, 5.2.1996, f.1). Del resto Vincenzo VINCIGUERRA ha ricordato che anche GUERIN SERAC, creatore dell’AGINTER PRESS e fervente cattolico-tradizionalista, non nascondeva la sua simpatia per Israele e le forze armate israeliane (a fianco delle quali l’Esercito francese, di cui egli era stato ufficiale, aveva operato congiuntamente nel 1956 nel Canale di Suez) e che l’unica discriminante nella lotta per la difesa dei “valori occidentali” doveva essere l’anticomunismo e la volontà di opporvisi attivamente (dep. VINCIGUERRA a personale del R.O.S., 12.1.1995, f.3). Anche Martino SICILIANO ha confermato che, pur essendo egli rimasto personalmente ostile al mondo ebraico durante la sua militanza, esisteva nell’area di Ordine Nuovo di Mestre/Venezia una corrente filo-israeliana che vedeva tale in Paese un baluardo in Medio-Oriente contro il comunismo e aveva simpatia in particolare per i SABRA, cioè gli ebrei non immigrati ma nati in Israele, visti come combattenti per la propria terra contro la marea araba (int. 30.6.1997, f.2). Martino SICILIANO ha inoltre confermato che FOA’ e ALZETTA avevano partecipato ad alcune riunioni di Ordine Nuovo in quanto legati soprattutto al dr. MAGGI e che soprattutto ALZETTA dava l’impressione di essere un militare con funzioni di addestramento e di comando (int. citato, f.3). I due avevano organizzato il viaggio in Israele, già ricordato da Carlo DIGILIO, cui avevano partecipato una ventina di militanti del Veneto e di Roma fra cui Bobo LAGNA e quasi certamente Delfo ZORZI (int. citato, f.3). E’ molto probabile, quindi, che in tale humus sia maturato il lungo soggiorno in Israele di Gianfranco BERTOLI, ospite di un kibbuz, e il suo “aggancio” per l’operazione contro l’on. Mariano RUMOR dopo il rifiuto opposto da Vincenzo VINCIGUERRA. 254 40 IL RUOLO DELL’ON. MARIANO RUMOR E IL COLLEGAMENTO FRA GLI ATTENTATI DEL 12.12.1969 E LA STRAGE DI VIA FATEBENEFRATELLI Il racconto di Carlo DIGILIO ha fatto emergere un filo di collegamento, che sinora non era stato individuato, fra gli attentati del 12.12.1969 e la strage del 17.5.1973, filo che passa attraverso la figura e il ruolo dell’on. Mariano RUMOR, Presidente del Consiglio nel dicembre 1969 e vero e diretto obiettivo della bomba “ananas” lanciata da Gianfranco BERTOLI dinanzi alla Questura di Milano. In merito alla figura dell’on. RUMOR così si è espresso sinteticamente Carlo DIGILIO descrivendo i motivi di astio che l’ambiente di Ordine Nuovo coltivava contro la sua persona: “””L'Ufficio chiede a DIGILIO se possa meglio specificare quali fossero le ragioni di astio da parte dell'ambiente di Ordine Nuovo nei confronti dell'on. Mariano RUMOR accennate nell'interrogatorio in data 12.10.1996, f.4, in relazione al progetto di spingere BERTOLI ad attentare contro la vita dello stesso RUMOR. Questo è un argomento molto importante e posso meglio spiegare i motivi di quella che secondo Ordine Nuovo, tramite uno strumento come Gianfranco BERTOLI, doveva essere una vera e propria vendetta e punizione nei confronti dell'on. RUMOR. Questi era odiato poichè i dirigenti di Ordine Nuovo ritenevano che l'on. RUMOR, Presidente del Consiglio nel dicembre 1969, avesse fatto il "vile" in quanto, venendo meno alle promesse fatte, non aveva attivato un certo meccanismo dopo gli attentati decretando lo "stato di emergenza" e mettendo in moto i militari che avrebbero saputo che sbocco dare alla crisi. Questa delusione mi fu espressa da SOFFIATI e da MAGGI negli incontri di cui ho già riferito, che avvennero dopo gli attentati del 12 dicembre, e cioè quello con MAGGI pochi giorni dopo la strage e la cena con MAGGI e SOFFIATI che avvenne allo Scalinetto nei giorni di Natale del 1969. In particolare MAGGI era deluso e disse che di fronte alla reazione dell'opinione pubblica vi era stata una "ritirata" di RUMOR che aveva impedito un'immediata presa di posizione dei militari. Disse proprio "presa di posizione" e non "presa di potere" nel senso che sarebbe stato un primo intervento che avrebbe dato inizio ad un maggior controllo dei militari sulla vita del Paese senza un vero e proprio colpo di Stato. 255 256 Ciò avrebbe permesso comunque l'uscita allo scoperto dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO con funzione di appoggio e di propaganda in favore dei militari. In seguito il capitano CARRET mi confermò che quello era stato il progetto, ben visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni democristiani come RUMOR. Mi spiegò anche che nei giorni successivi alla strage le navi militari sia italiane sia americane avevano avuto l'ordine di uscire dai porti perchè, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più facilmente colpite. Anche con Sergio MINETTO, a casa di Bruno SOFFIATI, vi furono da parte di quest'ultimo commenti simili prima ancora dei colloqui che ebbi con CARRET”””. (DIGILIO, int.21.2.1997, f.1). Ciò non significa certamente che l’on. Mariano RUMOR fosse organizzatore o mandante di stragi come qualche giornalista, dopo l’audizione di questo giudice dinanzi alla Commissione Parlamentare sulle stragi e il terrorismo, ha titolato, suscitando il comprensibile sdegno di alcuni ex-esponenti della Democrazia Cristiana. Significa piuttosto che il Presidente del Consiglio dell’epoca e una parte della D.C., ed anche e soprattutto il P.S.D.I., erano visti come il terminale che doveva concretizzare con le sue decisioni i frutti di una strategia politico/eversiva che, partendo da soggetti operativi come MAGGI, ZORZI e FREDA, attraverso mediazioni, probabilmente anche militari, che forse non saranno mai note, era in grado di indirizzare le scelte ai massimi vertici istituzionali. Il racconto di Carlo DIGILIO non è isolato nel quadro della ricostruzione della strategia politica di Ordine Nuovo, discussa molto probabilmente a livello dei vertici romani dell’organizzazione. Vincenzo VINCIGUERRA aveva parlato, sin dagli interrogatori resi subito dopo l’assunzione di responsabilità dell’attentato di Peteano e quindi in un’ottica di denunzia delle collusioni della destra apparentemente “rivoluzionaria” con apparati e strategie statali, della sospetta insistenza con cui il dr. MAGGI e Delfo ZORZI, più volte fra il 1971 e il 1972, gli avevano proposto di eliminare l’on. RUMOR, piano per la cui esecuzione era stata scelta la residenza dell’on. RUMOR nei pressi di Vicenza e in ordine alla quale “non vi sarebbero stati problemi con la scorta”, prospettandosi così complicità inaccettabili per il “puro” VINCIGUERRA (int. al G.I. di Venezia, 14.8.1984, vol.12, fasc.7, ff.136-138). Anche Martino SICILIANO aveva appreso da Delfo ZORZI la stessa spiegazione in merito alle ragioni dell’astio contro l’on. RUMOR: 256 “””In relazione agli avvenimenti che ci interessavano Delfo ZORZI, all'inizio del 1970, mi parlò della figura dell'on. Mariano RUMOR spiegandomi che da lui l'ambiente di destra si era aspettato che, nella sua qualità di Presidente del Consiglio, subito dopo i fatti del 12.12.1969 portasse avanti la scelta di far proclamare lo Stato di Emergenza. Sempre secondo ZORZI, già prima dei fatti del dicembre vi erano stati contatti fra alti esponenti di Ordine Nuovo a Roma e ambienti istituzionali, soprattutto democristiani, per giungere ad una soluzione di quel tipo in caso di attentati gravi. Tale soluzione sembrava sicura, ma dopo gli attentati del 12 dicembre l'on. RUMOR aveva disatteso queste nostre aspettative e non si era sentito di portare avanti questa scelta. Per questo l'on. RUMOR, agli occhi degli alti dirigenti di Ordine Nuovo fra i quali ZORZI mi indicò MAGGI e SIGNORELLI, era visto come un traditore e quindi andava prima o poi punito”””. (SICILIANO, int. 24.6.1997, f.4). Tale complessiva ricostruzione trova corrispondenza in un documento molto particolare e precisamente un volumetto, riguardante gli attentati del 12.12.1969 e soprattutto quanto sarebbe avvenuto, sul piano politico/istituzionale, dopo gli attentati stessi, quasi sconosciuto anche agli studiosi del settore e mai preso in considerazione ed analizzato durante le precedenti istruttorie. Si tratta del breve saggio politico-giudiziario “Il Segreto della Repubblica”, edito nel 1978 dalle sconosciute Edizioni FLAN e firmato da tale Walter RUBINI. In realtà Walter RUBINI, come non è stato difficile accertare, è lo pseudonimo di Fulvio BELLINI e il libro è stato praticamente stampato in proprio avendo in precedenza le Edizioni FLAN stampato solo un altro volume scritto dallo stesso autore. Fulvio BELLINI è un ormai anziano studioso e polemista residente a Milano, militante sino all’immediato dopoguerra del P.C.I. e in seguito, per un periodo, legatosi a Giorgio PISANO’ insieme al quale aveva collaborato a varie pubblicazioni di polemica politico/giudiziaria. Le informazioni cui ha sovente potuto accedere Fulvio BELLINI non devono essere certamente di seconda mano se egli per primo, nel 1963, ha potuto prospettare (prima con una serie di articoli sul periodico “Il Secolo XX” e poi con un libro, il primo, appunto, pubblicato dalle Edizioni FLAN), con significative argomentazioni sia sul fatto sia sul movente, la morte di Enrico MATTEI, a bordo dell’aereo su cui viaggiava, come atto di sabotaggio attuato, forse, da elementi dell’O.A.S. al servizio di interessi politico-economici stranieri (cfr. atti trasmessi dal P.M. di Pavia, dr. Vincenzo Calia, vol.20, fasc.10, ff.21 e ss. e 43 e ss.). 257 258 Chiave di volta della ricostruzione operata nel volume pubblicato nel 1978 (che comunque non contiene, in merito all’esecuzione degli attentati, nulla che non fosse già noto alle indagini) è il compromesso, appunto “Il Segreto della Repubblica”, che sarebbe stato raggiunto il 15.12.1969, subito dopo il solenne funerale delle vittime della strage di Piazza Fontana, fra due ampie aree politiche, una autoritaria e quasi filo-golpista e una più cauta e non disponibile a ridurre gli spazi di democrazia, compromesso che comportava che il Presidente del Consiglio, on. Mariano RUMOR, non si adoperasse per la dichiarazione dello stato di emergenza e non decidesse di sciogliere le Camere e che tuttavia in cambio, quale condizione posta dalla componente autoritaria, si desse via libera alla prosecuzione della pista anarchica voluta dal Ministero dell’Interno e si rinunziasse ad approfondire la “pista nera” che il nucleo di p.g. dei Carabinieri di Roma aveva cominciato a battere con successo. Gli antecedenti sul piano politico e i passaggi di tale situazione di compromesso, esposti nel volume, sono stati sintetizzati dall’Ufficio nella parte introduttiva alla testimonianza cui è stato chiamato Fulvio BELLINI in data 2.4.1997 dinanzi a questo Giudice Istruttore e al Pubblico Ministero: “””....l'Ufficio richiama l'attenzione del dr. Bellini sui seguenti passaggi della sua ricostruzione: - scissione del P.S.I. e formazione del P.S.U. nel luglio 1969, presuntivamente appoggiata e finanziata da ambienti americani, e ruolo di tale Partito nei successivi eventi di spinta verso soluzioni autoritarie, noti come "strategia della tensione" conseguenti agli attentati; - prevista disponibilità, all'interno della medesima strategia (di cui braccio operativo sarebbero stati Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), del Presidente del Consiglio, on. Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza e a sciogliere le Camere nella prospettiva della formazione di un governo di centro-destra con l'esclusione del P.S.I.; - fallimento di tale strategia a seguito dei dubbi e dei tentennamenti a mettere in opera tali scelte da parte dell'on. Rumor, in particolare dopo i funerali delle vittime della strage del 12.12.1969, e conseguente venir meno dell'obiettivo politico degli attentati; - formazione comunque di un accordo a livello dei più alti vertici politici, compreso l'on. Moro allora Ministro degli Esteri, affinchè non fosse sviluppata la pista riguardante l'Aginter Press e Avanguardia Nazionale, delineata nell'appunto del S.I.D. del 16.12.1969 e inizialmente sviluppata da alcune indagini del Nucleo di p.g. dei Carabinieri di Roma (in particolare nei confronti di Delle Chiaie) e di conseguenza avesse sviluppo a livello di indagine di p.g. 258 solo la c.d. pista rossa o anarchica avviata in particolare dell'Interno”””. dal Ministero La testimonianza di Fulvio BELLINI si è sviluppata, nei suoi passaggi più importanti, nel modo che segue: “””....posso innanzitutto confermare che la parte centrale e significativa del volume stesso è la ricostruzione di quanto avvenne a livello politico nel periodo immediatamente precedente e successivo agli attentati del 12 dicembre 1969 e di come le indagini presero in sostanza l'indirizzo che era più consono alle scelte politiche prevalenti in quei momenti. Faccio ancora presente che pur avendo scritto il libro tra l'inverno 1977 e la primavera 1978, tanto che era praticamente già scritto quando fu rapito l'on. Moro, avevo già raccolto le informazioni utili sulla parte centrale dello stesso sin dall'inizio del 1970. Quando avvennero gli attentati, a livello di intuizione politico-storica e pur senza avere inizialmente alcun dato diretto, mi ero subito formato la convinzione che VALPREDA fosse un capro espiatorio e che gli anarchici fossero vittime di un meccanismo ben più grande e articolato. Dico questo non per scelta politica, ma perchè proprio sul piano storico e di ricerca avevo compreso che alle spalle di questi attentati doveva esserci un piano finalizzato a cambiare gli equilibri politici del momento. La mia fonte su quello che avvenne negli ambienti politici dopo gli attentati che ho riportato nei capitolo VI e VII del libro fu, a partire dal gennaio 1970, un conoscente inglese che frequentava gli ambienti giornalistici e diceva di essere il corrispondente in Italia dell'Agenzia Reuter e che conobbi al Circolo della Stampa, abituale punto di ritrovo di giornalisti, esponenti politici e personaggi vari. Sono tuttavia certo che, così come altri soggetti che si qualificavano come giornalisti, egli in realtà fosse un agente dell'Intelligence Service inglese. Questo signore aveva all'epoca circa 50 anni ed aveva un aspetto tipicamente inglese e non si è mai presentato con nome e cognome, cosa che del resto io non gli ho mai chiesto e che non è mia abitudine fare. Ho continuato a vederlo normalmente fino al 1975/1976 mentre in seguito gli incontri si sono un po' rarefatti quantomeno fino al 1987. Ripeto che la mia esperienza sin dai tempi della guerra, sia con agenti dell'O.S.S. paracadutati in Italia sia con agenti inglesi mi faceva ben comprendere con quale tipo di persona stessi parlando. Anche per la mia simpatia nei confronti di questi ultimi, cioè gli inglesi, dopo la guerra rifiutai la Bronze Star americana. Io e l'inglese parlammo per la prima volta credo all'inizio del gennaio 1970, comunque poche settimane dopo i fatti. 259 260 Egli mi fornì in sostanza tutte le informazioni che io ho riportato nei due capitoli centrali del libro e cioè che vi era stato un grosso scontro istituzionale in sostanza fra l'area che aveva fatto capo a Saragat, definibile come Partito americano, e l'area che aveva fatto capo a Moro, scontro che aveva avuto il suo epilogo qualche giorno prima di Natale. In sostanza aveva vinto questa seconda linea che aveva dalla sua parte la possibilità di mettere sul tavolo i primi risultati delle indagini delegate dal Ministro della Difesa GUI, molto vicino a Moro, al controspionaggio militare e ai Carabinieri e che stavano portando alla evidenziazione della responsabilità di gruppi di estrema destra. Per questa ragione non era stato decretato lo stato di emergenza e non erano state sciolte le Camere, come soprattutto i settori del rinato P.S.U. volevano, anche se l'accordo si era comunque concluso lasciando da parte i risultati delle prime indagini sulla destra e lasciando così che si sviluppasse la c.d. pista rossa. Sempre il giornalista inglese mi disse che l'on. Rumor, che inizialmente faceva parte dell'area del Partito americano, fortemente colpito dalla grande mobilitazione popolare che vi era stata per i funerali delle vittime del 12 dicembre 1969, era stato colto da dubbi e si era alleato con l'on. Moro non consentendo così che avvenisse una svolta autoritaria e soprattutto non consentendo che fossero sciolte le Camere. L'inglese mi mostrò anche una copia dell'articolo dell'Observer del 14.12.1969 che ho citato all'inizio del capitolo VI e che indicava già a grandi linee questo tipo di strategia. Io non conoscevo questo articolo poichè non leggevo l'Observer, ma comunque mi resi conto che già dal 14 dicembre quel giornale aveva compreso e sintetizzato la dinamica degli avvenimenti che l'inglese mi aveva ricostruito. Con riferimento a questo articolo, l'inglese mi disse che in realtà non era un semplice commento giornalistico, ma una sorta di presa di posizione ufficiale ben comprensibile negli ambienti politico-diplomatici, che intendeva disapprovare la possibile destabilizzazione del nostro Paese a seguito di un eventuale scioglimento delle Camere. Ciò era stato ben compreso ed era per queste ragioni che Saragat, stizzito, aveva indotto il Governo ad una protesta diplomatica. Comunque da tale messaggio del giornale inglese, l'ala facente capo a Moro e a una forte parte della D.C. aveva capito che non era isolata. Io, ovviamente, sino a quel momento non sapevo nulla del fatto che fosse stata iniziata, anche se subito interrotta, un'indagine da parte del controspionaggio militare che aveva intrapreso una strada ben diversa da quella che portava agli anarchici del gruppo Valpreda. Nel corso di questo o di un secondo incontro, l'inglese mi fece vedere dei suoi appunti, di cui presi nota, che riguardavano proprio gli avvenimenti e 260 soprattutto le indagini successivi al 12 dicembre così come li ho riportati nel libro. Ricordo che l'inglese mi citò il fatto dell'immediato ritorno di Moro da Bruxelles e il fatto che subito GUI lo informò dei primi esiti delle indagini del servizio informazioni militare sviluppatesi poi con gli interrogatori di DELLE CHIAIE da parte dei Carabinieri. Io misi da parte gli appunti che avevo potuto ricavare dai colloqui con l'inglese e iniziai a svilupparli, sino a scrivere il libro, solo nel momento in cui, intorno al 1973, le indagini sulla pista nera condotte prima a Treviso e poi a Milano e l'evidenziazione del ruolo di personaggi come GIANNETTINI mi diedero la certezza che si era trattato di informazioni esatte e di prima mano. Le notizie politiche che l'inglese mi ha fornito si sono sempre rivelate esatte anticipando sovente lo sviluppo di grossi avvenimenti politici nel nostro Paese e risultando certo qualcosa di ben diverso dalla normale attività giornalistica. Io non gli ho mai chiesto, dopo l'inizio della nostra conoscenza in cui mi disse che era della Reuter, per chi effettivamente lavorasse”””. (dep. Fulvio BELLINI, 2.4.1997). In sostanza Fulvio BELLINI, anche nella sua testimonianza, ha confermato che sarebbero stati i dubbi e poi il cambiamento di campo dell’on. Mariano RUMOR nel dicembre 1969 a determinare il fallimento della strategia politico-istituzionale, gradita agli americani e alle aree politiche italiane ad essi vicine, che sarebbe stato l’obiettivo della campagna di attentati. Fulvio BELLINI avrebbe ricevuto tali informazioni, sin dall’inizio del 1970, da un giornalista inglese, in realtà corrispondente dei servizi informativi di tale Paese, di cui si è ben guardato di consentire l’identificazione, anche se il rapporto con lo stesso sarebbe durato, e proficuamente, per molti anni. Tale linea di acquisizione di notizie sembra verosimile tenendo presente, ad esempio, che nei giorni immediatamente successivi al 12 dicembre 1969 la stampa britannica più autorevole (dal TIMES all’OBSERVER) e portatrice del punto di vista del Governo non aveva avuto dubbi nell’indicare come “nera” la matrice della strage e nel ritenerla connessa ad un progetto di svolta autoritaria, mostrando di disporre di informazioni non di seconda mano (cfr. perizia del dr. Aldo Giannuli, f.142). Sembra però difficile che le informazioni raccolte da Fulvio BELLINI si limitino a quelle raccolte nel 1970 dall’agente inglese e non siano state arricchite, in seguito, da altri dati di conferma anche in considerazione del fatto che il volume è stato scritto solo molti anni dopo, secondo l’autore fra l’inverno 1977 e la primavera 1978, e comunque pubblicato alla fine del 1978. Non sembra un caso che nella nota aggiunta alla prefazione (pag.9), scritta certamente quando il testo era già stato scritto, Fulvio BELLINI sottolinei che la pubblicazione del c.d. memoriale Moro (quello rinvenuto in Via Montenevoso, a 261 262 Milano, il 1°.10.1978) evidenzi “una impressionante analogia fra gli argomenti toccati dallo scomparso statista e quelli trattati nel “Segreto della Repubblica”. A questo punto, tenendo presente che secondo il volume, scritto nel periodo corrispondente al rapimento dello statista, l’on. Aldo MORO (all’epoca Ministro degli Esteri) sarebbe stato uno dei principali artefici del “compromesso” del dicembre 1969 che aveva comunque arginato la linea oltranzista appoggiata dai filo-americani del P.S.D.I., compromesso che era stato possibile grazie al mutamento di campo dell’on. RUMOR (pagg.85-87), è possibile azzardare un’ipotesi. Non è infatti escluso che Fulvio BELLINI, grazie ai poliedrici contatti di cui godeva sia a destra sia a sinistra (egli, nella testimonianza, si è in sostanza qualificato come un comunista amico dei fascisti e viceversa, mostrando stima nei confronti di entrambi i “rivoluzionari” Mussolini e Lenin), abbia potuto ricevere confidenze o anticipazioni in merito ai temi e alle linee di interpretazione toccate dall’on. MORO durante la sua prigionia, e in particolare quelle relative alla strage di Piazza Fontana e alla strategia della tensione, ricevendo da ciò conferma dei primi elementi raccolti nel 1970. L’esame del “memoriale MORO” e in particolare del secondo testo rinvenuto nel 1990 in Via Montenevoso in una intercapedine (ammesso che anche tale testo sia completo) sembra avvalorare tale prospettazione e anche la ricostruzione di collaboratori di giustizia secondo cui la strage di Via Fatebenefratelli non sarebbe stato un episodio secondario e l’obiettivo sarebbe stato direttamente l’on. Mariano RUMOR, e non genericamente le personalità presenti, da punire per il “tradimento” del dicembre 1969. Infatti nella parte del “memoriale MORO” dedicata alle riflessioni del “prigioniero” sulla strage di Piazza Fontana (si veda un estratto, vol.20, fasc.10, ff.14 e ss.), oltre ad accennare a “responsabilità che si collocano fuori dall’Italia” e al fatto che nella strategia della tensione doveva presumersi che “Paesi associati a vario titolo alla nostra politica e quindi interessati ad un certo indirizzo si fossero in qualche modo impegnati attraverso i loro servizi di informazione” (evidente richiamo, questo, agli Stati Uniti d’America e ai Paesi del Patto Atlantico), vi è una serie di riferimenti, ben 4 in poche pagine, all’on. RUMOR. Leggendo con attenzione il testo si può notare che tutti i riferimenti all’on. RUMOR contengono, dopo la citazione del nome dell’esponente democristiano, un insistente riferimento al fatto che ”egli stesso” sarebbe stato “destinatario dell’attentato BERTOLI” (o oggetto di attacco del BERTOLI o di un attentato, e così via), riferimenti pleonastici dopo la prima citazione, tenendo presente il fatto che l’avvenimento di Via Fatebenefratelli era ampiamente noto. Perchè, allora, citare 4 volte l’attentato di Gianfranco BERTOLI (strage, per così dire, “minore” rispetto ad altre) nei passi relativi alla strage di Piazza Fontana e al ruolo dell’on. RUMOR? Si ha la sensazione che l’on. MORO, in parte in ragione del suo stile e in parte della situazione di prigionia in cui si trovava, abbia voluto inviare un messaggio criptico che comunque imponeva lo stesso collegamento fra i due episodi, quello del 1969 e quello del 1973, emerso nella presente istruttoria. 262 In uno dei passaggi, l’on. RUMOR è anche definito “uomo intelligente ma incostante e di scarsa attitudine realizzativa“, definizione che sembra richiamare il comportamento incerto di RUMOR sino all’ultimo momento di quel dicembre 1969 messo in luce tanto dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia quanto dal saggio polemico di Fulvio BELLINI. Se a ciò si aggiunge il riferimento inequivoco contenuto nel memoriale (in un altro passo, oltre a quelli citati, si legge: “...la presenza straniera, a mio avviso, c’era”), l’insieme delle risultanze della presente istruttoria ne risulta notevolmente rafforzata e, in prospettiva, la strada dell’approfondimento di tali collegamenti (e in primo luogo delle “fonti” di Fulvio BELLINI) potrebbe ancora essere utilmente percorsa. 263 264 41 LE INTERSEZIONI DELLA STRUTTURA DI ORDINE NUOVO CON GLI APPARATI MILITARI INTERESSATI ALLA GUERRA NON ORTODOSSA IL RUOLO DEL GENERALE ADRIANO GIULIO CESARE MAGI BRASCHI Al fine di mettere a fuoco in via conclusiva le intersezioni tra la strategia degli attentati e delle stragi e le strutture finalizzate a mutamenti illegali del quadro istituzionale nell’Italia degli anni ‘60/’70, appare necessario, terminata la fase espositiva delle più dirette emergenze processuali relative ai vari episodi criminosi, esaminare le intersezioni fra la struttura occulta di Ordine Nuovo e gli apparati militari attivi in quel periodo nel campo della guerra non ortodossa e della guerra psicologica contro il pericolo sovversivo. Infatti, a dispetto dei proclami di guerra nazional/rivoluzionaria presenti nei testi di Ordine Nuovo e nelle prese di posizione dei suoi principali esponenti, che avrebbero comportato, come ha sempre sottolineato Vincenzo VINCIGUERRA, un coerente rifiuto dei due blocchi militari (quello comunista, ovviamente, e quello nato anche dall’ “occupazione” del nostro Paese da parte delle forze anglo/americane) e un rifiuto del mondo conservatore e borghese secondo gli ideali più puri dei combattenti della R.S.I., sembra ormai certo che l’organizzazione di RAUTI, MACERATINI, MAGGI e SIGNORELLI, solo per citare gli ideologi più noti, non abbia affatto disdegnato il contatto e l’alleanza con gli apparati istituzionali e con il mondo militare ufficiale, attestato su posizioni di difesa ad oltranza della scelta di campo atlantica e contrario a qualsiasi forma di “scivolamento”, anche timido, del Paese a sinistra. Figura centrale di tale intersezione, oltre all’intera vicenda dell’arruolamento degli ordinovisti nei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO già trattata nella prima sentenza/ordinanza, è quella di un generale, sconosciuto all’opinione pubblica e ai mass-media, e cioè il generale Adriano Giulio Cesare MAGI BRASCHI, uno dei massimi esperti e propagandisti, per oltre 40 anni, delle tecniche della guerra non ortodossa. La figura del generale MAGI BRASCHI è emersa per la prima volta da alcuni interrogatori di Ettore MALCANGI, l’esponente della destra milanese latitante per lungo tempo a Villa d’Adda con Carlo DIGILIO, decisosi, con la sua testimonianza e nei limiti delle sue conoscenze, a far chiarezza su alcuni aspetti equivoci dell’ambiente politico in cui aveva a lungo militato. Ettore MALCANGI ha riferito che Carlo DIGILIO, durante il periodo della comune latitanza, gli aveva confidato di aver avuto rapporti con ambienti della C.I.A. e che aveva conosciuto un importante generale, in qualche modo legato alla N.A.T.O. di Verona, il cui cognome, secondo il ricordo di MALCANGI, era FRASCA o BRASCA o BRASCHI (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.3, e annotazione del R.O.S. sulle strutture di intelligence, 8.5.1996, vol.23, fasc.9, f.115). 264 Con questo generale, Carlo DIGILIO aveva partecipato ad una riunione che si era svolta intorno al 1973, probabilmente al Centro CARLOMAGNO di Verona, cui erano presenti esponenti di tutte le componenti dell’area di destra e di estrema destra: il dr. MAGGI per Ordine Nuovo, Giuliano BOVOLATO per le S.A.M. di Milano, Carlo FUMAGALLI per il M.A.R. e il colonnello SPIAZZI per i NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO. Tale riunione serviva per mettere a punto una strategia comune di mutamento istituzionale (int. citato, f.4, e int. 17.10.1995, ff.2-3). La figura di tale generale è comparsa poco dopo nelle deposizioni di Roberto CAVALLARO, uomo di fiducia del colonnello SPIAZZI negli anni ‘70 e principale testimone nell’inchiesta sulla ROSA DEI VENTI, rese a personale del R.O.S. in data 23.1.1996 e 26.2.1996. Roberto CAVALLARO aveva sentito parlare del generale BRASCHI dal colonnello SPIAZZI e da altri militari aderenti alla ROSA DEI VENTI. Si trattava di un alto ufficiale dell’Esercito Italiano legato, fra l’altro, ad esponenti dell’O.A.S. come Jacques SOUSTELLE e soprannominato “FORTEBRACCIO”, con un richiamo significativo al famoso capitano di ventura, o “FORTE BRASCHI”, con un richiamo alla località, appunto Forte Braschi a Roma, ove hanno sempre avuto sede i servizi di sicurezza militari (dep. CAVALLARO, 23.1.1996, ff.1-2). Del generale BRASCHI parlavano anche l’ing. PIAGGIO e l’avv. DE MARCHI, e cioè i finanziatori liguri del movimento golpista coinvolti nell’indagine sulla ROSA DEI VENTI (dep. citata, f.2). Ma soprattutto Roberto CAVALLARO aveva avuto anche un contatto personale con MAGI BRASCHI ed è stato quindi in grado di riconoscere il generale in fotografia (dep. 16.2.1996, f.2). Roberto CAVALLARO ha infatti rivelato una circostanza che non aveva mai rivelato prima e cioè che alla ristrettissima riunione tenuta in una villa del vicentino nella disponibilità del finanziere Michele SINDONA (riunione di cui CAVALLARO aveva parlato in un memoriale consegnato nel 1976 al G.I. di Padova, dr. Tamburrino) era presente, oltre a SINDONA, all’on. Giulio ANDREOTTI, a tre alti ufficiali della Marina e dell’Aeronautica (persone già citate nel memoriale) e allo stesso CAVALLARO, anche il generale BRASCHI all’epoca colonnello. Anche tale riunione serviva per mettere a punto un piano di mutamento istituzionale e CAVALLARO ricordava che il colonnello BRASCHI non condivideva affatto l’apporto finanziario dato al piano da Michele SINDONA in quanto, ad avviso dell’ufficiale, il finanziere intendeva utilizzare tale causa politica per i suoi interessi personali, commerciali e finanziari (dep. 16.2.1996, f.2). Il colonnello BRASCHI intendeva invece salvaguardare la centralità politica di quanto si stava preparando (dep. citata, f.2). 265 266 Martino SICILIANO è stato dal canto suo in grado di ricollegare direttamente il generale MAGI BRASCHI al gruppo veneto di Ordine Nuovo. Egli, infatti, aveva sentito parlare da MAGGI, MOLIN e ZORZI di un alto ufficiale soprannominato appunto FORTE BRASCHI, che costoro contattavano a Roma e da cui andavano regolarmente in un periodo collocabile fra il 1966 e il 1968 (int. 11.5.1996, ff.1-2). Molto probabilmente il primo elemento di contatto con il generale MAGI BRASCHI era stato Paolo MOLIN il quale poco prima, e cioè nel maggio 1965, aveva partecipato , a Roma, al Convegno dell’ISTITUTO POLLIO sulla guerra controrivoluzionaria (int. SICILIANO, citato, f.2), convegno cui il generale MAGI BRASCHI era stato presente con una relazione, ed infatti MOLIN aveva successivamente diffuso a Venezia diverse copie del volume “La Guerra Rivoluzionaria” che raccoglieva gli atti e gli interventi di tale convegno (int. citato, f.2). Il generale MAGI BRASCHI è stato identificato nell’omonimo ufficiale dell’Esercito (deceduto recentemente, il 22.5.1995) a lungo distaccato presso il SIFAR, impiegato nel SIOS ESERCITO, oggetto di molte benemerenze fra cui la Croce di Ferro tedesca, che aveva legato la sua brillante carriera alla specializzazione nello studio della guerra psicologica e non ortodossa, tanto da diventare, all’inizio degli anni ‘60, responsabile del “NUCLEO GUERRA NON ORTODOSSA” del SIFAR (cfr. annotazione del R.O.S. in data 8.5.1996, vol.23, fasc.9, ff.116-117). Il generale Adriano MAGI BRASCHI aveva tenuto una relazione al Convegno dell’Istituto Pollio, peraltro sotto le mentite spoglie di un avvocato e professore universitario al fine di non far emergere in modo troppo diretto l’intervento e l’interesse dei più alti gradi militari per la strategia delineata nel Convegno stesso. Sempre in relazione al ricco curriculum militare del generale MAGI BRASCHI, da un altro documento, fornito dal S.I.S.Mi. e contenuto nel fascicolo personale dell’ufficiale, risulta che il 23.7.1963 la Direzione del SIFAR aveva rappresentato allo Stato Maggiore dell’Esercito l’impossibilità di privarsi in breve tempo dell’ufficiale, al fine di fargli completare il periodo di comando nell’Esercito, in ragione del contributo che stava dando al Servizio con la sua “provata specializzazione e capacità nel campo della guerra non ortodossa” e soprattutto in relazione alla “.....Cooperazione Interalleata in questo particolare ramo....” che stava acquisendo sempre maggiore importanza ed ingresso (cfr. annotazione del R.O.S. 26.6.1997, vol.23, fasc.9-bis, f.21). Tale accenno richiama il probabile inserimento ad alto livello in ambito N.A.T.O. del generale MAGI BRASCHI, ricordato da Ettore MALCANGI. Carlo DIGILIO ha avuto molte titubanze prima di parlare della figura del generale MAGI BRASCHI e dei suoi contatti con il dr. MAGGI, esitazioni che testimoniano indirettamente la caratura dell’ufficiale. 266 Solo a partire dalla primavera del 1996 DIGILIO si è risolto a fornire via via i decisivi elementi di comprensione di cui, tuttavia, non si può non sottolineare la probabile incompletezza e la necessità che nelle fasi ulteriori del procedimento tali aspetti siano ancora approfonditi. In sintesi Carlo DIGILIO ha riferito che: - Il generale MAGI BRASCHI era considerato nell’ambiente di Ordine Nuovo un ufficiale di grande prestigio, era in contatto con il dr. MAGGI e con gli ordinovisti veronesi che lo ritenevano l’elemento essenziale di collegamento con l’ambiente militare nella prospettiva del colpo di Stato (int. 24.2.1996, ff.3-4). Secondo il dr. MAGGI, il generale MAGI BRASCHI era l’ufficiale che, al momento necessario, doveva coordinare l’appoggio dei civili ai militari, un vero e proprio deus ex machina che avrebbe avuto l’ultima parola al momento dell’intervento dei militari (int.12.6.1996, ff.1-2). - Era soprannominato FORTEBRACCIO (int.12.6.1996, f.1) e Carlo DIGILIO lo aveva conosciuto personalmente in occasione di un incontro a Verona, in un locale pubblico, finalizzato a rinsaldare il raccordo fra civili e militari (int.5.5.1996, f.6). A tale incontro erano presenti il dr. MAGGI, Marcello SOFFIATI e Giulio MALPEZZI, ordinovista di Bolzano. Dopo l’incontro, il generale MAGI BRASCHI si era avviato a piedi verso il Comando FTASE di Verona, struttura cui probabilmente faceva riferimento (int.5.5.1996, f.6). Il generale aveva partecipato ad altre riunioni a Verona, presso il Centro CARLOMAGNO, e a Rovigo, presente Marcello SOFFIATI il quale, in tali occasioni, rappresentava anche Sergio MINETTO quando questi non poteva essere presente (int.15.5.1996, f.2). - Il dr. MAGGI e Paolo MOLIN avevano partecipato al Convegno dell’Istituto Pollio in cui il generale MAGI BRASCHI era stato relatore e da tale convegno era originata la strategia che aveva portato alla formazione dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO in cui erano inseriti molti ordinovisti (int.12.6.1996, f.2; 19.12.1997, f.3). - Carlo DIGILIO ha infine riconosciuto il generale MAGI BRASCHI in una fotografia acquisita dall’Ufficio durante la perquisizione effettuata nell’abitazione di quest’ultimo (int.12.6.1996, f.2). In data 23.5.1996, infatti, è stata operata una perquisizione su disposizione di questo Ufficio nella villa di Bracciano ove tuttora vive la vedova del generale, Signora Emilia Caleca (cfr. vol.23, fasc.2, ff.3 e ss.). Nella biblioteca del generale era ancora presente un’amplissima documentazione in tema di contro-insorgenza e guerra non ortodossa di provenienza sia italiana sia statunitense o di altri Paesi occidentali nonchè carteggi e corrispondenza con la W.A.C.L. (la Lega Anticomunista Mondiale) della cui sezione italiana il generale MAGI BRASCHI era divenuto dirigente all’inizio degli anni ‘80 succedendo a Edgardo BELTRAMETTI (cfr. nota del R.O.S. in data 22.5.1996, vol.23, fasc.2, f.34). 267 268 Tale documentazione è stata sottoposta al perito dr. Aldo Giannuli per una integrazione della perizia principale specificamente finalizzata ad analizzare il ruolo svolto dall’Ufficiale all’interno delle strutture italiane di guerra non ortodossa. La relazione integrativa è stata depositata in data 12.9.1997 (cfr. vol.22, fasc.1) e dalla ricca analisi effettuata dal perito risulta confermato che il generale MAGI BRASCHI era il miglior specialista dell’Esercito Italiano in tema di contro-insorgenza e l’Ufficiale, cui era affidata in materia, tramite la partecipazione a corsi e convegni, una sorta di delega alla rappresentanza esterna e quasi alla “propaganda” dell’argomento, ruolo questo che ben entra in sintonia con quanto riferito da Carlo DIGILIO e dagli altri testimoni (cfr. relazione del dr. Giannuli, pagg.52-53). Dall’analisi della documentazione presente nell’archivio del generale MAGI BRASCHI risulta anche che questi era stato personalmente l’autore, nel 1963/1964, dei due manualetti del SIFAR sulla guerra non ortodossa intitolati “La Parata” e “La Risposta” (cfr. relazione citata, pagg.33-34) e soprattutto che la sua partecipazione al Convegno dell’Istituto POLLIO del maggio 1965 non era stata un’iniziativa “privata” dell’Ufficiale, ma egli vi aveva presenziato per esplicito incarico del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale ALOJA, cosicchè può affermarsi che le nostre più alte strutture militari avevano partecipato direttamente all’organizzazione del Convegno cui erano presenti coloro che negli anni successivi sarebbero divenuti i principali protagonisti, sul piano operativo, della strategia della tensione (cfr. relazione citata, pagg.39-40). In un appunto rinvenuto nella villa del generale MAGI BRASCHI, datato 6.5.1965 e cioè il giorno successivo alla conclusione del Convegno, l’Ufficiale relaziona al Capo di Stato Maggiore, con toni esultanti, sullo svolgimento dei lavori sottolineando che “come disposto da V.E., nei giorni 3/4/5 maggio sono intervenuto al Convegno” i cui lavori hanno posto l’accento “sulla necessità di un’azione che fronteggi efficacemente nel nostro Paese gli sviluppi della guerra rivoluzionaria, sull’opportunità di una stretta collaborazione fra civili e militari” (cfr. relazione citata. pag.39). Meritano, allora, di essere richiamati i passi salienti della relazione tenuta dal generale MAGI BRASCHI nella giornata conclusiva del Convegno, in cui egli esprime senza mezzi termini quali siano le esigenze imposte dalle nuove forme di lotta contro il pericolo della “guerra rivoluzionaria” comunista che stava serpeggiando silenziosamente nel Paese e penetrando nei nuclei vitali della società: “””....Determinante è l’azione militare, lo si sa, l’han detto tutti. E’ l’azione militare. Ma non è soltanto dei militari. E’ stato detto da BELTRAMETTI. La guerra non è più soltanto militare. E’ “anche” militare, in ultima analisi; ma è economica, è sociale, è religiosa, è ideologica. Se la prima guerra mondiale vide gli Stati Maggiori combinati, cioè dalla prima guerra mondiale si ricavò la necessità di avere Comandi composti dalle tre Armi, vale a dire gli Stati Maggiori che ragionassero in funzione tridimensionale; se dalla seconda guerra mondiale sono usciti gli Stati 268 Maggiori integrati, cioè gli Stati Maggiori che comprendono personale di più nazioni: questa guerra vuole gli Stati Maggiori allargati, gli Stati Maggiori che comprendano civili e militari contemporaneamente”””. Le parole del generale MAGI BRASCHI sulla necessità di affrontare e sconfiggere il nemico costituendo “Stati Maggiori allargati” sembrano preannunziare direttamente la formazione dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO. Ma soprattutto, per quanto concerne i profili di responsabilità dei soggetti coinvolti in questa istruttoria e nelle indagini collegate e l’interpretazione dei loro comportamenti, gli stretti rapporti fra il dr. Carlo Maria MAGGI e un personaggio del livello del generale MAGI BRASCHI consentono di affermare che la struttura occulta di Ordine Nuovo non era l’espressione di quattro fanatici eversori, ma che, almeno tendenzialmente, tale struttura avesse dei sicuri punti di riferimento militari e istituzionali in grado, al momento giusto, di sfruttare gli effetti di paura e disorientamento che gli attentati dovevano suscitare. 269 270 PARTE QUINTA LA STRUTTURA DI SICUREZZA E INFORMATIVA DI VERONA E I SUOI RAPPORTI CON ORDINE NUOVO 270 42 LA STRUTTURA INFORMATIVA AMERICANA NEL RACCONTO DI CARLO DIGILIO LE PRIME DICHIARAZIONI La maggiore novità di questa istruttoria è certamente il fatto che per la prima volta in un ambito strettamente processuale e con elementi di prova via via più solidi è emerso, all’interno degli avvenimenti noti come strategia della tensione, il quadro quasi intero di una rete informativa statunitense, un’ipotesi che in passato era confinata solo a qualche frammento processuale che non era stato possibile sviluppare per mancanza di testimoni diretti o era stata espressione di ricostruzioni politiche, soprattutto della c.d. controinformazione, che si basavano su deduzioni e analisi politico/internazionali più che su dati di fatto. Gli elementi raccolti, comprese le dichiarazioni dei testimoni di supporto e i riscontri documentali trovati presso i Comandi dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o forniti dal S.I.S.Mi., sono stati esposti in modo analitico e ragionato in due ampie annotazioni approntate dal Reparto Eversione del R.O.S. Carabinieri e dedicate appunto al coinvolgimento di strutture di intelligence straniere nella “strategia della tensione” (cfr. annotazioni in data 8.5.1996 e 26.6.1997, vol.23, fasc.9 e 9-bis). A tali annotazioni (inviate anche alla Commissione Parlamentare sulle stragi per il loro eventuale utilizzo nella redazione della relazione finale) può quindi farsi riferimento per l’illustrazione di tutti gli elementi di riscontro che, per la loro ampiezza, appesantirebbero eccessivamente il presente provvedimento. In questa sede saranno illustrati solo i personaggi e gli elementi essenziali, tenendo presente che il venire alla luce di tale struttura informativa non costituisce una semplice ricerca storica, ma, per le circostanze narrate da Carlo DIGILIO, un risultato processuale importante e di diretto utilizzo in quanto i componenti di tale rete hanno svolto un’attività non solo di osservazione, ma anche di consulenza tecnica, e quindi propulsiva, in quasi tutti gli attentati dal 1969 in poi, dagli attentati ai treni all’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano, sino agli eventi più gravi e cioè la strage di Piazza Fontana, la strage dinanzi alla Questura di Milano e verosimilmente la strage di Piazza della Loggia a Brescia. La struttura di cui faceva parte Carlo DIGILIO, certamente operante sin dal primo dopoguerra, faceva capo alla Base FTASE di Verona (sita in Via Roma, nel centro della città) con diramazioni in tutto il Triveneto. Tale struttura era probabilmente un servizio di sicurezza prettamente militare (con sede, appunto, nelle Basi e non nelle Ambasciate), probabile prosecuzione e sviluppo del C.I.C. (Counter Intelligence Corp) dell’Esercito Americano, operante in Italia già durante la risalita lungo la Penisola delle forze angloamericane e incaricato in tale frangente soprattutto di individuare e neutralizzare gli agenti nemici attivi nelle zone già liberate dagli Alleati. 271 272 L’organizzazione delineata da Carlo DIGILIO, tralasciando i personaggi di minore interesse, si compone come segue: - lo stesso Carlo DIGILIO, con il ruolo di agente informatore che aveva ereditato dal padre, Michelangelo DIGILIO, ufficiale della Guardia di Finanza; - Marcello SOFFIATI, agente operativo che aveva ereditato i contatti con gli americani dal padre, Bruno SOFFIATI, “recuperato” nel dopoguerra dopo aver fatto parte, a Verona, di una rete informativa vicina alla GESTAPO tedesca; - Sergio MINETTO, superiore di Carlo DIGILIO nel settore informativo; - Giovanni BANDOLI, superiore di Marcello SOFFIATI nel settore operativo; - il prof. Lino FRANCO, fiduciario a Vittorio Veneto dove disponeva anche di una sua rete, il gruppo SIGFRIED, formato da ex-repubblichini; - il prof. Pietro GUNNELLA di Verona, elemento di collegamento con il colonnello Amos SPIAZZI e quindi con l’area dei Nuclei di Difesa dello Stato; - il capitano Teddy RICHARDS e il capitano David CARRET, ufficiale americani superiori, in tempi diversi, di MINETTO e di BANDOLI; - Robert Edward JONES e John Louis HALL, operanti a Trieste e in passato in contatto con Giovanni BANDOLI; - Benito ROSSI, fiduciario informativo di Sergio MINETTO per il Trentino-Alto Adige; - Joseph LUONGO e Leo Joseph PAGNOTTA, già in forza al C.I.C., operanti sin dal primo dopoguerra come reclutatori dell’intera rete informativa e, fra l’altro, di ex ufficiali nazisti come il maggiore Karl HASS, condannato per la strage delle Fosse Ardeatine. Altri soggetti risultano essere comparsi solo occasionalmente sulla scena di Verona, come il colonnello Frederik TEPASKY, di stanza nella ex Germania Federale e presente, di tanto in tanto, nella zona veronese con funzione di supervisore della struttura (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.3, e anche dep. CAVALLARO al R.O.S., 16.2.1996, f.1). Anche in merito ai componenti e al funzionamento della struttura americana, le dichiarazioni di Carlo DIGILIO presentano quel carattere di frammentarietà e progressività tipica della scelta del collaboratore che non ha ritenuto, sino ad un certo punto dell’istruttoria, che sussistessero le condizioni per rivelare circostanze così gravi e uniche nel panorama dell’eversione. L’unica possibilità di illustrare le sue dichiarazioni consiste quindi nel riportarne i passi salienti in successione cronologica, lasciando ai capitoli successivi i riscontri relativi ai singoli personaggi e alla singole circostanze. 272 Inizialmente, Carlo DIGILIO ha rivelato il ruolo di agente della struttura limitatamente a Marcello SOFFIATI, spiegando che questi dipendeva dal Comando FTASE ed era incaricato di tenere i rapporti con gli ustascia croati, anche recandosi presso la loro base di Valencia, in Spagna, e di acquisire notizie sugli esuli cileni in Italia e in genere sulle formazioni di estrema sinistra (int.30.10.1993 e 29.1.1994, f.1). Solo successivamente Carlo DIGILIO ha ammesso di avere lavorato anche lui per la struttura atlantica (il Comando FTASE di Verona è il Comando delle Forze della N.A.T.O. per tutto il Sud-Europa) e di essere stato inviato, tramite il prof. Lino FRANCO di Vittorio Veneto, un ex-repubblichino e fiduciario della struttura, a controllare per la prima volta l’arsenale di armi ed esplosivi che VENTURA e ZORZI detenevano presso il casolare di Paese, riferendo poi al suo superiore gli esiti della missione (int. 19.2.1994, ff.2-4, e 5.3.1994, ff.1-2). Carlo DIGILIO ha così spiegato le ragioni per cui, ereditato il compito dal padre Michelangelo, deceduto nel 1966, aveva iniziato a divenire a sua volta un informatore, ruolo ricoperto quantomeno sino al 1978: “””Mio padre del resto, nella sua qualità di tenente della Guardia di Finanza, nel periodo della Liberazione, rientrando dalla Grecia, aveva collaborato con formazioni di partigiani “bianchi” ed era un componente del direttivo composto da sei persone del Comitato di Liberazione Nazionale di Venezia. Essendo militare il suo nominativo era rimasto sempre riservato e anche dopo la guerra si è cercato di fare in modo che rimanesse tale. Mio padre aveva partecipato alla liberazione di Venezia e al disarmo e alla cattura della guarnigione tedesca a Venezia. Inoltre, oltre a tale attività di partigiano, durante e dopo la guerra era stato informatore dell’O.S.S., che erano i servizi di sicurezza militari americani, con il nome in codice di “ERODOTO”. Mio padre aveva i suoi referenti a Verona presso la base della F.T.A.S.E. Alla sua morte, per le ragioni che ho già accennato, mi fu chiesto se anch’io intendevo collaborare come aveva fatto lui. Ovviamente non era un’attività a tempo pieno, ma ciò comportava singole attività di informazione. Le persone a cui ho fatto riferimento per tale lavoro sono state diverse e presentate in tempi successivi. La cosa ovviamente rivestiva carattere di assoluta riservatezza. Si trattava comunque di americani i quali usavano anche, per facilitare i collegamenti, dei loro connazionali di origine italiana. Non avevo un nome in codice particolare. Facevo riferimento, se necessario, al nome in codice di mio padre. Fu quindi in tale veste che io fui chiamato a Verona per assumere l’incarico di recarmi a Vittorio Veneto dal prof. FRANCO che cercava una persona non conosciuta nell’ambiente della destra e che fosse esperto in armi. 273 274 Sono questi, quindi, i motivi per cui io sono entrato in contatto e ho frequentato persone come VENTURA o persone di Ordine Nuovo di Venezia..... Al prof. FRANCO relazionai tutto, compreso il progetto di attentato di cui VENTURA mi aveva parlato. In merito, il prof. FRANCO annotò tutto e ricevette da me il percussore. In tutto ci vedemmo tre o quattro volte sempre in relazione alla vicenda del casolare e all’attività di VENTURA”””. (DIGILIO, int. 5.3.1994, f.3). In un successivo interrogatorio DIGILIO ha spiegato meglio i suoi compiti e parlato del tentativo di recupero della notevole quantità di esplosivo rubato a Boscochiesanuova che si era temuto potesse essere utilizzato per attentati contro basi americane: “””Come ho già detto io svolsi attività di informazione facendo riferimento al comando F.T.A.S.E. di Verona a partire dal 1967 e sino al 1978. La struttura informativa che operava all'interno di questo Comando era una struttura informativa della C.I.A. interessata ovviamente ad avere il maggior numero di dati sulla situazione italiana e ad effettuare una sorta di controllo sull'area del triveneto che era una di quelle di maggiore interesse. Prima di iniziare questa attività avevo conosciuto occasionalmente MARCELLO SOFFIATI al Lido di Venezia in un contesto del tutto normale e lo rividi casualmente a Verona proprio nei medesimi uffici cui io stesso facevo riferimento. Si trattava di una palazzina all'interno del Comando di Verona, però a se stante ed indipendente. In sostanza Soffiati faceva il mio medesimo lavoro, pur riferendosi a BANDOLI e cioè a persona diversa a quella cui facevo riferimento io. Soffiati aveva avuto uno o più nomi in codice, ma in questo momento proprio non li ricordo e li comunicherò all'Ufficio se riuscirò a farmeli venire in mente. La struttura comportava l'impegno sia di militari americani in servizio presso la Base sia di altri americani che si trattenevano in Italia per qualche tempo, incaricati di specifici servizio di informazione, sia di cittadini italiani che costituivano in sostanza una rete di informazione sul territorio. Non erano tutte persone di destra, c'erano anche persone che potevano essere di orientamento democristiano o liberale purchè tutte sicuramente anticomuniste. Ho difficoltà ad indicare altri italiani perchè, pur non essendone certo, posso ritenere che qualcuno di essi sia ancora in servizio presso tale struttura e quando io mi dimisi formalmente, nel 1978, ebbi la consegna di mantenere il silenzio sulla rete di informazione di cui ero a conoscenza. Posso comunque dire che la rete era formata da diverse sezioni, ognuna delle quali riferentesi ad un determinato ambiente in cui raccogliere informazioni 274 come ad esempio il mondo industriale, l'estrema destra, l'estrema sinistra e così via. Fra le persone incaricate di specifiche missioni di informazione ricordo un latino-americano che era venuto in Italia per qualche tempo per acquisire notizie sugli esuli cileni rifugiatisi dopo il golpe contro il governo Allende e che erano in contatto con l'estrema sinistra locale. Io non ho avuto rapporti diretti con questa persona che era invece uno dei referenti di Soffiati nell'ambito della raccolta di informazioni sugli esuli sudamericani di cui avevo già accennato. Io, nel corso degli anni, ho avuto quattro referenti americani che si sono succeduti e due di questi erano di origine italiana. Nel corso della mia attività ho eseguito una dozzina di incarichi di informazione in diversi settori, non necessariamente sul mondo di estrema destra. D'altronde non erano necessariamente raccolte di informazioni a sfondi direttamente politico perchè nel corso della mia attività sono astato incaricato anche di eseguire la ricerca di materiale radioattivo trafugato. Ho già fatto cenno all'attività di informazione e di ricerca sui 10 quintali di esplosivo trafugati dal capannone di una ditta che effettuava lavori di sbancamento a Boscochiesanuova. In merito posso precisare che l'interesse a questo trafugamento era soprattutto legato al fatto che il furto fosse avvenuto non distante dalla Base di Verona in quanto Boscochiesanuova si trova a una dozzina di chilometri da Verona e quindi l'acquisizione di informazioni su tale furto, che risultò poi essere avvenuto a scopo sostanzialmente di lucro, era di interesse in relazione alla sicurezza della Base. Avevo una ricompensa in contanti a scadenze non fisse che mi consentiva di vivere unitamente all'attività di contabile che svolgevo in varie ditte”””. (DIGILIO, int. 6.4.1994, f.2) Carlo DIGILIO si era poi recato una seconda volta al casolare di Paese insieme al prof. Lino FRANCO e in tale occasione erano stati provati per la prima volta gli inneschi formati da un orologio, una resistenza e un fiammifero (int.10.10.1994, ff.24). Erano certamente in preparazione i primi attentati della campagna iniziata nella primavera del 1969 e il prof. Lino FRANCO aveva spiegato a ZORZI e VENTURA che, per agire in condizioni di massima sicurezza, era necessario usare fiammiferi antivento e non fiammiferi comuni (int. citato, f.3). Nell’interrogatorio in data 12.11.1994, Carlo DIGILIO ha finalmente rivelato chi fosse il suo superiore, e cioè Sergio MINETTO, che lo aveva inviato dal prof. Lino FRANCO e con il quale era rimasto in contatto sino al 1985, momento della sua fuga a Santo Domingo. 275 276 “””A questo punto, al fine di completare il quadro di quella che fu la mia attività presso Ventura e di controlli che mi furono affidati, posso meglio specificare come e da chi ebbi l'incarico di recarmi dal prof. Franco a Vittorio Veneto. Io fui chiamato a Verona da un ufficiale della CIA, che ovviamente anche Soffiati conosceva bene, il quale affidò a me l'incarico di andare dal prof. Franco e non da Soffiati in quanto quest'ultimo era troppo conosciuto come estremista di destra e ciò avrebbe creato problemi con VENTURA, infatti Franco intendeva mandare da ventura non un personaggio noto, ma una persona che potesse sembrare un collezionista o un esperto di armi. Io potevo giocare questa parte mentre Soffiati no o perlomeno c'erano dei rischi. L'agente della CIA di Verona che mi mandò da Franco dovrebbe avere attualmente circa 70 anni, è un italiano di origine veronese ed era stato un alto ufficiale della X MAS del Principe Borghese e suo uomo di fiducia. In quegli anni si muoveva nel Veneto presentandosi come commerciante e riparatore di frigoriferi e teneva i contatti grazie a questa attività di copertura con esponenti del Fronte Nazionale nelle varie città. Uno dei punti di incontro, a Venezia, era il ristorante La Rivetta, vicinissimo a Piazza San Marco. Il suo Ufficio si occupava quindi di attività operative che erano sia controlli su addestramenti fatti da italiani sia controlli come quello che io feci sul gruppo di Ventura sia i contatti con gli esponenti del Fronte Nazionale nel quadro della preparazione del golpe. Una delle esercitazione a cui questo agente sovraintese avvenne a Fortezza ed anche Soffiati, del resto, si era occupato degli addestramenti in Alto Adige in funzione difensiva nel periodo in cui era in corso l'offensiva del terrorismo altoatesino. Quindi questi corsi erano in pratica di addestramento alla controguerriglia per elementi italiani. Non mi risulta che questo agente fosse sia mai stato inquisito per i fatti del golpe Borghese o in altri processi simili. Quando mi trovai in difficoltà, temendo nel 1982 un secondo arresto dopo il mio primo arresto e la successiva scarcerazione, io che mi trovavo a Verona a casa di Soffiati in Via Stella, lo chiamai e lo feci venire in quell'appartamento. Del resto tale appartamento era in sostanza di copertura perchè serviva per i contatti con i vari informatori evitando che costoro dovessero recarsi presso il Comando se non per cose importantissime. Io chiesi aiuto all'agente e questi mi diede alcuni consigli, anche se io poi mi allontanai autonomamente accompagnato dal colonnello SPIAZZI e poi da MALCANGI come ho già ampiamente narrato in relazione alle varie fasi della mia fuga. 276 Alla fine del 1984, prima di andare a Santo Domingo, nella medesima occasione in cui mi recai a Verona per sapere dal colonnello Spiazzi come andava la vendita della mia pistola, utilizzai questo viaggio anche per incontrare l'agente in un bar tenendo a distanza Malcangi che mi aveva accompagnato e che avevo fatto sostare in un altro bar. Chiesi aiuto all'agente spiegandogli che ero in forte difficoltà e che ero ormai deciso a lasciare l'Italia. Egli mi consentì di utilizzare a Santo Domingo il suo nome come presentazione in caso di necessità. Lo vidi così per l'ultima volta in quell'occasione. Effettivamente io utilizzai questa possibilità proprio pochi mesi prima del mio arresto a Santo Domingo. Mi presentai al Consolato americano, entrai in contatto con un ufficiale facendo il nome dell'agente e questi fece un controllo per verificare che il nome corrispondesse ad un loro uomo in Italia. Tornai qualche giorno dopo, mi disse che andava tutto bene, che l'agente era ancora in Italia, e mi chiese di cosa avessi bisogno. Io gli dissi che ero in forte difficoltà e che avevo bisogno di un lavoro nel medesimo settore informativo che era stato in passato il mio. Mi disse che sarebbe stato possibile utilizzarmi nel campo dell'organizzazione e riordino dei fuorusciti cubani a Santo Domingo da inviare dove essi avevano la loro sede principale a Miami, in un campo di raccolta. Precisamente questo campo si trova vicino a Miami, nella località HEALIAH. Io dovevo in sostanza occuparmi di un primo vaglio dei soggetti e del loro avviamento negli Stati Uniti. Non ebbi tempo di iniziare questo lavoro poichè nel giro di poche settimane fui arrestato a Santo Domingo a seguito delle indagini della Polizia italiana”””. (DIGILIO, int. 12.11.1994, f.3). Si noti che il nome di Sergio MINETTO non è ancora esplicitato nel verbale, ma è stato fatto per la prima volta da Carlo DIGILIO al personale della Digos di Venezia che lo stava riaccompagnando nel luogo di detenzione dopo l’interrogatorio (cfr. relazione della Digos di Venezia in data 15.11.1994, vol.4, fasc.2, f.84). Qui si fermano le prime dichiarazioni di Carlo DIGILIO, rese sino al 12.11.1994, in merito alla struttura informativa americana, che tratteggiano un quadro di grande novità, ma certamente ancora incompleto. La possibilità di acquisire nuovi particolari si interromperà sino all’autunno del 1995, anche in ragione del grave incidente che colpirà la salute di Carlo DIGILIO. 277 278 Solo a partire da tale momento riprenderanno, pur fra molte comprensibili difficoltà (è dell’ottobre 1995 l’avvio dell’operazione CECCHETTI), gli interrogatori e il quadro storico e processuale andrà completandosi. 278 43 LE DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO A PARTIRE DALL’OTTOBRE 1995 A partire dall’ottobre 1995, momento in cui è stato possibile riprendere gli interrogatori (anche se inizialmente si è trattato necessariamente di audizioni assai brevi per le ancora incerte condizioni di salute), Carlo DIGILIO ha ampliato e completato il quadro della struttura di intelligence di cui era fiduciario e delle varie “operazioni” che si erano sviluppate a partire dalla metà degli anni ‘60. Saranno in questa sede riportati solo gli aspetti essenziali di tali dichiarazioni, comunque ampiamente ordinate e analizzate nelle annotazioni del R.O.S. del maggio 1995 e del giugno 1996. In primo luogo Carlo DIGILIO ha rivelato l’identità anche degli ufficiali americani responsabili della struttura: “””Il mio primo reclutatore fu il capitano David CARRETT della Marina Militare degli Stati Uniti che anche mio padre aveva conosciuto e che infatti egli mi aveva presentato personalmente. Intorno al 1974 il capitano CARRET fu sostituito dal capitano RICHARDS che io incontravo normalmente sotto la torre a San Marco, come del resto anche il capitano CARRETT. Il "cambio di guardia" fra i due ufficiali avvenne a Verona dove CARRETT mi presentò RICHARDS. Il capitano RICHARDS mi disse di essere in servizio presso la base NATO di Vicenza, mentre CARRETT era in servizio presso la base di Verona. Era stato CARRETT a insegnarmi come si eseguono i pedinamenti con esercitazioni per strada utilizzando degli estranei sia a Verona che a Venezia. Mi riservo in un prossimo interrogatorio di spiegare l'operazione "DELFINO ATTIVO" che si svolse nell'Adriatico per controllare la capacità di reazione della Marina Militare italiana”””. (DIGILIO, int.21.12.1995, ff.2-3). “””In merito ai due ufficiali americani CARRET e RICHARDS di cui ho parlato, posso aggiungere qualche particolare. RICHARDS veniva chiamato "TEDDY", nome di battesimo che ricordo non perchè me lo disse direttamente, ma perchè alcuni suoi colleghi lo chiamarono così in mia presenza, compreso il CARRET. Questo nel tipico gesto americano e cioè la pacca sulla spalla dicendo "Olà, Teddy". CARRET era un uomo alto circa un metro e 85, robusto, con i capelli biondi tendenti al rossiccio, di tipico temperamento gioviale come molti americani. Portava occhiali da sole di varie gradazioni, credo che fosse sposato. 279 280 Con lui mi incontravo in Piazzetta del Patriarcato, in zona San Marco, sotto la torre dell'orologio e a Verona, invece, dietro l'Arena. Per contattarmi, a Venezia, CARRET lasciava o faceva mettere un bigliettino nella mia cassetta della posta a S.Elena. Alcune volte invece non c'era bisogno di questo espediente perchè ci si dava appuntamento direttamente da una volta all'altra soprattutto in occasione di festività. CARRET faceva riferimento ad un ammiraglio molto importante che si chiamava GRAHAM e che tra il 1974 e il 1976 era diventato famoso nel suo ambiente in quanto tramite sommergibili di profondità era riuscito a recuperare da un sommergibile sovietico, affondato per un incidente nell'Atlantico, tre missili a testata nucleare e codici cifrati. Per quanto concerne RICHARDS, egli conosceva SOFFIATI e infatti ci incontrammo qualche volta tutti e tre a Verona dietro l'Arena e anche alla Stazione ferroviaria di Vicenza dove RICHARDS era di stanza. Una volta c'era anche Giovanni BANDOLI. RICHARDS aveva all'epoca sui 40/45 anni, ben portati in quanto era molto atletico, abbastanza alto, robusto, un po' stempiato e con i capelli un po' brizzolati”””. (DIGILIO, int. 5.1.1996, ff.3-4). Carlo DIGILIO ha poi aggiunto molti particolari in merito al ruolo di Sergio MINETTO e ha spiegato che i contatti fra MINETTO e il colonnello SPIAZZI erano tenuti dal prof. GUNNELLA di Verona, che fungeva da elemento di raccordo fra le varie strutture: “””Posso ancora aggiungere che il "contatto" fra MINETTO e il colonnello SPIAZZI era il professor GUNNELLA. Fu SOFFIATI a indicarmi il nome del professore. Posso ancora aggiungere che il sistema utilizzato dai componenti della rete per incontrarsi era un sistema postale, consistente nel fatto che si mandava un bigliettino al professor GUNNELLA con l'indicazione dell'appuntamento e GUNNELLA lo mandava alla persona con cui la prima si voleva incontrare. Questo sistema era utilizzato per città come Verona o Vicenza, mentre a Venezia io, SOFFIATI e il capitano CARRETT ci incontravamo direttamente in quanto a causa della presenza di molti turisti e della presenza di navi americane, e quindi molti marinai e ufficiali americani, era possibile incontrarsi senza essere notati”””. (DIGILIO, int. 21.12.1995, f.3). “””In merito alla persona di Sergio MINETTO, posso aggiungere che egli aveva una vera passione per la partecipazione a manifestazioni combattentistiche cui 280 partecipava con commilitoni della R.S.I. e della X M.A.S. che soprattutto nel veronese erano numerosi e affiatati. Si recava a queste manifestazioni con una bella macchina fotografica tedesca tipo Laika. Poichè l'Ufficio mi chiede di meglio precisare il mio accenno, già reso in precedenti interrogatori, relativo ad esercitazioni in Alto Adige, posso confermare che vi furono esercitazioni nella zona di Fortezza nel periodo in cui vi era l'offensiva terroristica altoatesina. A queste esercitazioni partecipò personalmente il SOFFIATI il quale poi relazionò a Sergio MINETTO. Erano esercitazioni comuni di militari e civili in funzione di difesa dell'italianità del territorio dell'Alto Adige”””. (DIGILIO, int.5.1.1996, f.4). “””Sergio MINETTO aveva una forte familiarità con i componenti di un'organizzazione di ex militari tedeschi che si chiamava ELMETTI D'ACCIAIO. Con loro partecipava a cene in due ristoranti di Colognola, quello di SOFFIATI e quello davanti a quello di Soffiati che esiste ancora. Ricordo che cantavano inni tedeschi. Anch'io ho partecipato a qualcuna di queste cene, invitato da SOFFIATI che mi disse che era bene che io partecipassi perchè c'era anche MINETTO che era il suo superiore. MINETTO era affiliato come italiano all'organizzazione degli Elmetti d'Acciaio a cui potevano aderire ex appartenenti alla R.S.I. e ai paracadutisti della Folgore”””. (DIGILIO, int. 13.1.1996, f.4). “””All'inizio degli anni '70, Sergio MINETTO e Marcello SOFFIATI raccolsero una serie di elementi, soprattutto ex repubblichini o ex ufficiali dei paracadutisti, che servivano ad attività di contrasto del terrorismo altoatesino che metteva in pericolo la sovranità del nostro Paese. Furono scelti i soggetti più abili e decisi e fra questi MASSAGRANDE e BESUTTI. Con loro vi furono le esercitazioni a Fortezza cui ho fatto cenno. Ho appreso, in particolare da SOFFIATI, ma se ne parlava anche nell'ambiente veronese, che anni prima vi erano stati degli attentati in Austria contro monumenti compiuti da italiani appositamente inviati, sempre nel medesimo contesto, al fine di rispondere al terrorismo altoatesino spaventando anche le Autorità austriache. Voglio far presente che Sergio MINETTO era veramente un ottimo conoscitore dell'ambiente di destra e degli ex repubblichini e, nella prima metà degli anni '70, stilò un elenco di ex repubblichini, di ex appartenenti alla Guardia Nazionale e alla X MAS e di elementi di ambiente ordinovista che potessero 281 282 essere utilizzati in senso anticomunista e messi a disposizione, in caso di necessità, delle basi americane di Verona e di Vicenza. Di questo elenco mi parlarono anche RICHARDS e CARRET e il senso era quello di poter contrastare con ogni mezzo una possibile presa del potere da parte dei comunisti in Italia. Preciso che l'approntamento di questo elenco si colloca fra il 1973 e il 1975”””. (DIGILIO, int. 20.1.1996, ff.2-3). “””In varie occasioni Sergio MINETTO mi disse che in gioventù aveva risieduto in Argentina dove probabilmente aveva imparato ed esercitato il mestiere di frigoriferista. In Argentina era entrato in contatto sia con elementi della C.I.A. sia con tedeschi, ex combattenti, che avevano lasciato la Germania dopo la guerra. Egli aveva infatti mantenuto forti contatti sia con l'Argentina, e in genere con il Sud-America, sia con la Germania nell'ambito della sua attività di spionaggio. Ricordo in particolare un piccolo episodio. In questo contesto, verso la fine degli anni '70, venne a trovarlo dall'Argentina una persona che tuttavia non vidi e MINETTO gli fece aveva una grossa somma in pesos argentini. A titolo di curiosità egli diede sia a me che a Marcello Soffiati uno di questi biglietti di banca che sino ad allora non avevo mai visto”””. (DIGILIO, int. 24.2.1996, f.3). Carlo DIGILIO ha messo poi a fuoco la figura del prof. Lino FRANCO, che godeva di grande prestigio fra i camerati per essersi arruolato, durante la guerra, nei reparti tedeschi di contraerea denominati FLAK: “””In merito al prof. FRANCO posso aggiungere che egli combattè a Cassino insieme a reparti della Repubblica Sociale Italiana e strinse durante questi eventi stretti rapporti e amicizie importanti con personalità tedesche fra cui il famoso generale Kesselring che comandava la zona militare e tutta la linea. Nell'ambito di questi rapporti fece da consulente per i tedeschi, dimostrando capacità eccezionali, nell'istruire i militari, anche italiani, nell'uso del fucile mitragliatore F Gevaert 15 e diede consigli ai tecnici tedeschi per il miglioramento tecnico dell'arma che era particolarmente usata dai reparti paracadutisti. Del resto, sulla linea del Centro Italia c'erano anche i migliori reparti combattenti della R.S.I. In seguito, nel dopoguerra, il prof. FRANCO entrò in contatto con gli ambienti americani in funzione anticomunista proprio grazie alle sua speciali capacità. 282 Gli americani gli misero a disposizione sia mezzi finanziari sia un capannone a Monfalcone e un paio nel triestino dove lavorare delle leghe metalliche per elicotteri ed aerei militari che dovevano esser poi inviati negli Stati Uniti. In sostanza era la prima lavorazione dei pezzi. In questa attività fu coadiuvato da Sergio MINETTO che poteva spostarsi facilmente utilizzando la sua attività di riparatore di frigoriferi.. Probabilmente MINETTO, grazie alla sua attività, si era proprio occupato del trasporto di pezzi disponendo di mezzi adatti al trasporto di oggetti pesanti. L'attività del prof. FRANCO a Trieste e Monfalcone avvenne intorno agli anni '50/'60 e cioè poco dopo la guerra in quanto per gli americani era un elementi interessante e fu ingaggiato subito”””. (DIGILIO, int.4.1.1996, f.2). “””Prendo visione della fotografia in fotocopia allegata alla nota del R.O.S. in data 13.1.1996, come allegato 1, in basso nella pagina. Posso dire che, benchè la fotocopia non sia ottima, essa rappresenta un'arma da fanteria tedesca, di uso anche contraereo, di cui ho parlato nel corso dell'interrogatorio in data 4.1.1996 in relazione al prof. Lino Franco. Era cioè la MG15, cioè MACHINENGEWEHR 15, che veniva usata appunto anche come arma contraerea montata su camioncini e utilizzata dai reparti FLAK. Gli uomini con cui aveva combattuto il prof. FRANCO a Cassino erano direttamente inquadrati nell'Esercito tedesco. Ricordo anche che questo tipo di arma aveva tutta una serie di modelli fra cui la famosa MG42, altrimenti nota come la "Sega di Hitler", e tutte armi con una grande potenza di fuoco”””. (DIGILIO, int. 13.1.1996, f.3). “””In merito al prof. LINO FRANCO, posso aggiungere che il suo gruppo di ex repubblichini di Vittorio Veneto aveva un deposito di armi sul pianoro di Pian del Cansiglio che è proprio vicino a Vittorio Veneto, in quella zona in cui le forze della R.S.I., durante la seconda guerra mondiale, avevano combattuto duramente. Confermo che il prof. FRANCO aveva un doppio ruolo e cioè era sia responsabile del gruppo SIGFRIED sia informatore della C.I.A. Mi è venuto in mente un altro particolare su di lui: nello stesso periodo in cui si accertò dove era finita parte dell'esplosivo di Boscochiesanuova, e cioè a Cipro, MINETTO e SOFFIATI mi dissero che il gruppo di FRANCO aveva inviato delle armi ai greci di GRIVAS, che combattevano contro i turchi, armi che erano risultate molto utili. MINETTO aveva comunque invitato FRANCO alla prudenza in simili operazioni. L'epoca, del resto, era quella del colpo di Stato dei "Colonnelli" in Grecia”””. 283 284 (DIGILIO, int. 20/21.1.1996, ff.6-7). Il prof. Lino FRANCO si era anche reso disponibile a rifornire di armi il gruppo mestrino di Ordine Nuovo: “””Sempre in tema di bombe a mano, posso dire che la prima volta che io mi recai dal prof.Lino FRANCO, poco tempo prima di andare al casolare di Paese, egli mi mostrò in un cassetto di un mobile di casa sua, oltre ad una baionetta, alcune bombe a mano tonde di fabbricazione italiana, modello Sipe o SRCM. Del reato, il professor Franco disponeva di una buona dotazione logistica e il dottor MAGGI ebbe cura di tenere buoni contatti con lui, proprio al fine di chiedergli la cessione di parte della sua dotazione, in cambio della garanzia della presenza di elementi efficienti e sicuri all'interno del gruppo mestrino. In questo modo a Mestre arrivò vario materiale sia quando era ancora vivo il professor Franco, sia dopo la sua morte grazie a suo cognato, che del resto aveva uno stabile di riferimento lavorativo a Mestre nell'ambito del noleggio di biliardini a bar e locali pubblici vari. Io non mi recai mai a Vittorio Veneto a prendere questo materiale, ma comunque vidi parte di questo materiale a Mestre in quanto ero incaricato, come sempre, di valutarlo e darne un giudizio tecnico. Io vidi materiale nella macchina che credo appartenesse al fratello di Delfo ZORZI, una macchina piccola, francese, di colore rosaceo, tipo Dyane, nonchè nella 1100 di MAGGI. Per valutare questo materiale, il punto di incontro per tre o quattro volte fu una strada isolata che costeggia un canale che si raggiunge partendo da piazza Barche in direzione laguna. Io vidi una pistola Mauser cal.9, di grande valore commerciale, con un selettore che consentiva lo sparo a raffica, una Machine Pistole 44, sempre tedesca, con impugnatura in legno, cal. 8 curz, parecchie bombe a mano di fabbricazione italiana, una baionetta tedesca, qualche rotolo di miccia proveniente dal Carso, cartucce per fucile tedesco Mauser ancora sui loro nastri. Questi incontri avvennero a distanza di tempo, tra la fine degli anni 60 e comunque dopo gli incontri al casolare ed il 1970-1971 e cioè più o meno il periodo in cui il dottor MAGGI mi mostrò le mine anticarro. Eravamo presenti appunto io, ZORZI e MAGGI, qualche volta Marcello SOFFIATI, il quale aveva anche l'incarico di riferire a MINETTO l'andamento di queste cessioni ed una volta vidi anche il fratello di ZORZI, che era un giovane biondo, alto, di corporatura atletica e di bell’aspetto. Era presente anche perchè Delfo ZORZI non aveva la patente. Era poi ZORZI a portare via il materiale dopo che io l'avevo esaminato. Ricordo che una volta venne MINETTO a Mestre e ci avvisò del fatto che alcune bombe a mano che avevamo ricevuto potevano essere pericolose perchè 284 avariate. Avvisò separatamente sia me che MAGGI ed io confermai a MAGGI del pericolo, poichè MINETTO, giustamente, mi aveva fatto rilevare che c'erano problemi collegati all'invecchiamento dell'innesco e bastava una scossa per fare esplodere tutto”””. (DIGILIO, int. 30.8.1996, ff.2-3). Dopo aver tratteggiato in modo più approfondito il ruolo degli esponenti principali della struttura, DIGILIO ha rievocato una delle più antiche azioni informative cui aveva partecipato, collegata al furto di una ingente quantità di esplosivo avvenuto a Boscochiesanuova, vicino a Verona: “””Questo episodio, di cui ho parlato nei miei primi interrogatori, avvenne poco tempo dopo la morte di mio padre e in pratica agli inizi della mia attività come informatore per la C.I.A. Il furto era stato di una tonnellata di esplosivo, sia tritolo sia gelignite, in danno di una ditta di sbancamento per la costruzione di strade. Il fatto aveva impensierito gli americani che nella zona avevano le loro basi e temevano quindi che potesse essere usato per attentati contro di loro ad opera di elementi di estrema sinistra. Fu RICHARDS a investire MINETTO dell'incarico di svolgere indagini per scoprire gli autori del furto e MINETTO investì a sua volta me e SOFFIATI. Preciso che all'epoca RICHARDS non era ancora mio superiore in quanto io dipendevo dal CARRET. Svolgemmo un'ampia attività informativa tramite l'ambiente di destra di Verona e la nostra attività ebbe successo in quanto si scoprì che il furto era avvenuto per motivi di lucro ad opera di malavitosi comuni dell'ambiente veneto. Emerse tuttavia una circostanza abbastanza stupefacente e cioè che parte dell'esplosivo era giunta addirittura all'isola di Cipro e precisamente al gruppo EOKA del famoso generale GRIVAS che era un combattente assai noto all'epoca. Ricordo che del furto parlarono all'epoca i giornali locali tipo l'Arena o il Gazzettino. Comunque quando fu accertato, grazie alla nostra rete informativa, che l'esplosivo non era finito in mano ai comunisti, gli americani si tranquillizzarono e non mi risulta che la vicenda abbia avuto un seguito giudiziario”””. (DIGILIO, int. 21.1.1996, f.5). Carlo DIGILIO aveva anche partecipato, invitato dal capitano all’esercitazione denominata DELFINO ATTIVO o DELFINO SVEGLIO: CARRET, 285 286 “””Questo tipo di operazione fu iniziata da CARRET, che l'aveva ideata, e poi passò a RICHARDS per la prosecuzione. Ricordo infatti che una volta CARRET riprese RICHARDS in quanto secondo lui non l'aveva sviluppata bene e CARRET ci teneva perchè era una sua creatura. Si trattava in sostanza di un'operazione militare che si svolse nell'alto Adriatico e che partiva dall'Arsenale del Porto di Venezia. Delle piccole navi americane, di quelle con i portelloni per gli sbarchi e Fregate o Corvette italiane lanciavano dalla poppa dei cavi con una specie di sonar, cioè dei congegni in grado di ricevere e anche trasmettere dei segnali radio sia al fine di controllare i fondali sia al fine di valutare la reattività delle Forze militari italiani difensive in caso di attacchi sottomarini. Io partecipai ad una di queste operazioni insieme al capitano CARRET e perciò mi resi conto di come funzionava il meccanismo. Vi parteciparono anche BANDOLI e SOFFIATI”””. (DIGILIO, int. 5.1.1996, ff.4-5). All’operazione DELFINO ATTIVO avevano partecipato anche militari greci, inquadrati dagli americani (int. DIGILIO, 30.12.1997, f.3). Se in tali casi si era trattato di azioni difensive e preventive o di carattere prettamente strategico delle strutture militari americane presenti nel nostro Paese in base ad accordi internazionali (e quindi di azioni informative o militari di per sè non censurabili), di ben diversa valenza e rilievo, anche sul piano penale, è quanto DIGILIO ha riferito in merito all’intervento della struttura, diretto o indiretto e comunque tramite suoi responsabili, nelle fasi preparatorie degli attentati o comunque, come nel caso della permanenza a Verona dell’avv. Gabriele FORZIATI, allorchè si era trattato di scongiurare che le indagini in merito ad episodi eversivi giungessero a buon fine e la struttura occulta di Ordine Nuovo venisse così individuata e smantellata. Infatti: - Con riferimento all’attentato all’Ufficio Istruzione di Milano del 23.7.1969, uno dei primi della campagna terroristica, in occasione del quale l’ordigno a base di gelignite non era esploso solo per un difetto dell’innesco, il capitano CARRET, incontrando a Venezia Carlo DIGILIO prima dell’attentato, lo aveva avvisato che la struttura americana era già informata, grazie a notizie acquisite presso il centro romano di Ordine Nuovo, che tale attentato era in preparazione e che sarebbe stato attuato dal gruppo veneto (int. DIGILIO, 14.12.1996, f.2). Il capitano CARRET, invece di impedire la realizzazione di tale attentato e di informare le nostre Autorità, come sarebbe stato dovere di un Servizio di Sicurezza di un Paese alleato, si era limitato, nell’occasione, a raccomandare a DIGILIO di ridurre la potenzialità dell’azione, riducendo l’attentato ad un’azione intimidatoria (int. citato, f.2) senza che l’ordigno esplodesse. 286 DIGILIO si era comportato come gli era stato raccomandato, riducendo notevolmente, quando Giovanni VENTURA gli aveva portato l’ordigno, la quantità di esplosivo e non approntando a dovere l’innesco; contribuendo così al suo mancato funzionamento e al fallimento dell’attentato (int. citato, f.4). Il capitano CARRET si era in seguito congratulato con DIGILIO per il suo lavoro ricordando che la struttura vedeva di buon occhio azioni dimostrative, ma non accettava massacri indiscriminati (int. citato, f.4). - Il prof,. Lino FRANCO non solo aveva inviato DIGILIO al casolare di Paese una prima volta per verificare le caratteristiche del deposito, ma lo aveva accompagnato nel secondo accesso, insegnando a VENTURA e ZORZI come preparare gli inneschi per azioni dimostrative mentre già erano in fase di ultimazione, nel casolare, grazie al lavoro di POZZAN, le scatolette di legno che sarebbero state utilizzate per deporre l’esplosivo sui dieci convogli ferroviari (int. DIGILIO, 20.8.1996, f.3). - Sempre con riferimento agli attentati ai treni, Carlo DIGILIO aveva direttamente riferito al capitano CARRET, durante uno degli incontri periodici a Venezia, quanto era avvenuto in occasione del suo terzo accesso al casolare, e cioè quando il piano per l’esecuzione dei dieci attentati era praticamente definito e i compiti erano stati divisi. Tale incontro con il capitano CARRET aveva comunque avuto luogo ad attentati già avvenuti (int. DIGILIO, 17.5.1997, f.10). - Il capitano CARRET era stato invece informato da Carlo DIGILIO, e questo è certamente il profilo più grave e significativo, degli attentati del 12.12.1969 con qualche giorno di anticipo e le notizie recepite da Carlo DIGILIO tramite il dr. MAGGI in merito all’imminenza della nuova fase della strategia terroristica erano risultate in perfetta corrispondenza con gli elementi che l’ufficiale andava ricevendo certamente dalla struttura centrale di Roma: “””Confermo innanzitutto che MAGGI mi parlò del fatto che vi sarebbero stati grossi attentati, che bisognava aspettarsi perquisizioni nel nostro ambito e che vi sarebbe probabilmente stata anche una grossa reazione da parte delle forse di sinistra. Di conseguenza i militanti conosciuti dalla Polizia dovevano liberarsi in fretta di ogni materiale compromettente che avevano in casa. Qualche giorno dopo, e quindi pochissimi giorni prima degli attentati, ebbi un incontro con il capitano CARRET dinanzi al Palazzo Ducale. Era uno dei nostri incontri consuetudinari, che avvenivano ogni 15 giorni circa e in cui facevamo il punto della situazione. Si trattava, in questo caso, di un incontro già fissato al termine dell'incontro precedente. Altre volte invece, se l'incontro non era programmato, CARRET, come ho già detto, mi faceva recapitare un bigliettino nella mia casella postale a Sant'Elena. Io riferii a CARRET quanto mi aveva detto MAGGI, facendone anche il nome, e percepii che la struttura di CARRET aveva già le antenne alzate e si aspettava qualcosa e del resto CARRET stesso mi confermò che sapeva benissimo che la 287 288 destra in quel periodo stava preparando qualcosa di grosso nella direzione di una presa di potere da parte delle forze militari. CARRET mi chiese di raccogliere e riferire tutte le informazioni possibili in merito a quanto stava per avvenire. Io sto rispondendo nello specifico alle domande, ma è ovvio che proprio la natura del rapporto che coltivavo con CARRET mi conduceva automaticamente nel corso di ogni incontro a riferirgli tutte le informazioni che andavo attingendo nell'ambito di Ordine Nuovo e delle destra in genere”””. (DIGILIO, int. 5.3.1997, f.2). Non nell’immediatezza degli attentati, ma comunque non a molta distanza di tempo da essi, nei giorni prossimi all’Epifania del 1970, DIGILIO aveva nuovamente incontrato il capitano CARRET a Venezia nel solito luogo di appuntamento: “””Rividi CARRET il giorno dopo l'Epifania e quindi dopo l'incontro con MAGGI e SOFFIATI, nei giorni di Natale, allo Scalinetto. Io gli riferii gli altri particolari che avevo acquisito e in particolare che il dr. MAGGI aveva consentito imprudentemente l'uso della sua autovettura e CARRET mi disse che, nonostante non ci fosse stata quella sterzata a destra che si pensava, la situazione era comunque sotto controllo e, nonostante la reazione delle sinistre, l'ambiente di Ordine Nuovo non sarebbe stato toccato dalle indagini”””. (DIGILIO, int. 5.3.1997, f.3). Il capitano CARRET non si era quindi mostrato molto preoccupato ed anzi aveva confermato a DIGILIO l’esattezza e la pertinenza dei commenti del dr. MAGGI, secondo il quale la presa del potere non vi era stata per i tentennamenti del Presidente del Consiglio che non aveva dichiarato lo stato di emergenza e non si era adoperato per lo scioglimento delle Camere, come invece avrebbero voluto i socialdemocratici molto vicini agli americani: “””...il capitano CARRET mi confermò che quello era stato il progetto, ben visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni democristiani come RUMOR. Mi spiegò anche che nei giorni successivi alla strage le navi militari sia italiane sia americane avevano avuto l'ordine di uscire dai porti perchè, in caso di manifestazioni o scontri diffusi, ancorate nei porti potevano essere più facilmente colpite. Anche con Sergio MINETTO, a casa di Bruno SOFFIATI, vi furono da parte di quest'ultimo commenti simili prima ancora dei colloqui che ebbi con CARRET”””. (DIGILIO, int. 21.2.1997). Carlo DIGILIO, nell’incontro avvenuto nei giorni dell’Epifania, aveva comunque raccontato “tutto a CARRET, compreso il nome di ZORZI e la tipologia degli ordigni che (ZORZI) aveva fatto vedere” (int. 17.5.1997 ff.10-11) e cioè le 288 cassette metalliche con l’esplosivo all’interno visionate da DIGILIO pochissimi giorni prima degli attentati. Il laconico commento dell’Ufficiale era stato che “l’Italia era su un sentiero di spine” (int. citato f.11). - Durante la permanenza dell’avv. Gabriele FORZIATI, prima a Colognola e poi in Via Stella a Verona, finalizzata ad allontanare il rischio che lo spaventato avvocato testimoniasse dinanzi all’Autorità Giudiziaria e quindi che le indagini sull’attentato alla Scuola Slovena travolgessero, con un effetto a domino, l’intera struttura occulta di Ordine Nuovo, Sergio MINETTO aveva svolto un’attività di attenta supervisione utilizzando ancora una volta Carlo DIGILIO in funzione di controllo degli avvenimenti e recandosi egli stesso, alcune volte, nell’appartamento, pur evitando di farsi notare da FORZIATI (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.2; 13.7.1997, f.6). - Ancora più grave era stato l’intervento di Sergio MINETTO, allorchè Gianfranco BERTOLI era stato ospitato nell’appartamento di Via Stella per addestrarlo psicologicamente e materialmente. Infatti Sergio MINETTO era stato informato dal dr. MAGGI qualche tempo prima, durante un incontro a Colognola, dell’intenzione da parte del gruppo ordinovista di utilizzare, al posto di Vincenzo VINCIGUERRA, un’altra persona per portare a termine il progetto contro l’on. Mariano RUMOR (int. DIGILIO, 12.10.1996, f.4). Sergio MINETTO era poi stato messo al corrente dell’arrivo di Gianfranco BERTOLI in Via Stella e aveva fatto in modo di aiutarlo economicamente, tramite denaro proveniente dalla struttura americana, e molto probabilmente aveva anche fornito la bomba a mano tipo ananas che Gianfranco BERTOLI doveva imparare a usare (int. citato, f.5). - Anche in riferimento al progetto di attentato a Brescia Sergio MINETTO era stato informato qualche giorno prima dal dr. MAGGI, durante un incontro a Colognola ai Colli cui erano presenti anche Bruno e Marcello SOFFIATI (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3). Si ricordi del resto che Sergio MINETTO, secondo la testimonianza di Dario PERSIC, si era recato a Brescia il giorno prima della strage di Piazza della Loggia, forse con un ruolo di “controllo” e verifica degli avvenimenti (dep. Dario PERSIC a personale del R.O.S., 8.2.1995, f.4). Tutti questi comportamenti, che superano di gran lunga una semplice attività informativa e si configurano come la sostanziale condivisione di una strategia, si spiegano, secondo il racconto di Carlo DIGILIO, con una scelta appunto strategica del dr. Carlo Maria MAGGI certamente in sintonia con le scelte dei massimi vertici romani di Ordine Nuovo. Il dr. MAGGI, pur non entrando direttamente a far parte della struttura americana, aveva infatti dato la propria disponibilità ad informare tale struttura dei progetti più importanti di Ordine Nuovo e tale canale di informazione era reso possibile e, per così dire, “istituzionalizzato” dai rapporti strettissimi che egli aveva allacciato, tramite la famiglia SOFFIATI, con Sergio MINETTO (int. DIGILIO, 19.4.1996, ff.2-3). Le ragioni sottintese ad una simile scelta, in ipotesi anche pericolosa, sono probabilmente da ricollegarsi alle condizioni oggettive in cui la struttura di Ordine Nuovo operava negli anni ‘70 e soprattutto nella prima metà di tale decennio. 289 290 Ordine Nuovo, così come le altre organizzazioni di estrema destra, non potendo raggiungere i propri obiettivi con le sue sole forze, poteva agire da detonatore scatenante di una certa situazione pre-golpista che tuttavia doveva necessariamente essere presa in mano da altri, fossero essi ambienti militari interni o strutture di sicurezza di Paesi alleati sicuramente anticomunisti, per giungere ad una concretizzazione. Ovviamente una strategia del genere, necessaria per una organizzazione come Ordine Nuovo militarmente efficiente ma non estesa e formata da pochi elementi selezionati, comportava un’informazione anticipata ai “cobelligeranti” delle linee operative essenziali e dei momenti che avrebbero dovuto fungere da innesco di risposte istituzionali. Non è del resto un caso che tale elaborata strategia sembri essersi rarefatta a partire dalla metà degli anni ‘70 quando, mutato il clima istituzionale ed europeo, in particolare con la caduta dei regimi di destra in Spagna, Portogallo e Grecia, una reazione apertamente autoritaria era divenuta per l’Italia anacronistica ed improponibile. Passando brevemente ad altre operazioni, la struttura coordinata da Sergio MINETTO si era anche impegnata nel tentativo di acquisire informazioni sul luogo ove fosse custodito il generale James Lee DOZIER, rapito dalla Brigate Rosse nel 1981: “””Come ho già accennato nell'interrogatorio in data 20.1.1996, l'intera rete fu attivata in occasione del rapimento del generale DOZIER con la finalità di acquisire notizie sul luogo ove il generale veniva tenuto sequestrato dagli elementi delle Brigate Rosse. Tale attività era coordinata da Sergio MINETTO. Vi fu una riunione di coordinamento a Colognola e un'altra a Verona, in Via Stella, e alle ricerche parteciparono militari americani di Verona e Vicenza con auto civili e furono mobilitate tutte le persone possibili, soprattutto quelle che conoscevano bene i paesetti nella zona di Verona. Ad esempio SOFFIATI utilizzò per questa attività anche Dario PERSIC che, facendo il camionista, conosceva bene la zona, aveva facilità a muoversi e conosceva meglio i casolari della zona. La speranza era quella di individuare il luogo ove appunto DOZIER era sequestrato o acquisire comunque notizie in qualche paesino che potessero riferirsi a qualcosa di strano che fosse stato notato. Tuttavia il generale DOZIER fu liberato non per diretto intervento della nostra rete, ma grazie all'attività delle Forze dell'Ordine italiane che riuscirono a individuare e a "comprare" una persona vicina ai sequestratori, mi sembra un brigatista proprio di Mestre. Io feci anche qualche tentativo di acquisire notizie presso l'ambiente universitario di Venezia in cui c'era una forte presenza di estrema sinistra”””. 290 (DIGILIO, int. 13.7.1996, f.4). L’attività nella struttura informativa dipendente dal Comando FTASE di Verona era “spendibile” anche all’estero ed infatti Carlo DIGILIO, trovandosi in difficoltà, si era presentato al Consolato degli Stati Uniti a Santo Domingo spiegando quale era stato il suo ruolo in Italia ed utilizzando come garanzia il nome di Sergio MINETTO: “””L'Ufficio mi dà lettura di quanto ho dichiarato in data 12.11.1994 in relazione alla mia richiesta di essere aiutato dall'Autorità Consolare degli Stati Uniti d'America a Santo Domingo indicando alla stessa quale era stata la mia attività in Italia. In relazione a tali circostanze, confermo che diedi all'ufficiale del Consolato il nome di Sergio MINETTO, come quest'ultimo mi aveva autorizzato a fare quando ci vedemmo per l'ultima volta a Verona. Nel verbale del 12.11.1994 io lo indico come "l'agente" in quanto nel corso di quell'interrogatorio non avevo ancora voluto indicare al Suo Ufficio il nome di MINETTO, cosa che poi feci a personale della Digos di Venezia, che mi ritraduceva a Venezia al termine dell'interrogatorio. Faccio presente che al Consolato americano mi fu sufficiente fare il nome di Sergio MINETTO e non ebbi bisogno di fornire i nomi di altri componenti della "rete" nè italiani nè statunitensi. Relazionai sinteticamente all'ufficiale quale era stata la mia attività di informatore per gli americani in Italia. Come ho già detto, l'attività che mi era stata proposta fu quella di verificare i fuoriusciti cubani a Santo Domingo, di ottenere da loro informazioni sulla situazione cubana e cercare di scoprire se fra essi vi fossero agenti castristri. Tale attività tuttavia non iniziò nemmeno perchè qualche settimana dopo fui arrestato dalla Polizia dominicana”””. (DIGILIO, int. 26.3.1997, f.5). Concludendo con un aspetto minore, ma concreto, l’attività in favore degli americani non era infine a titolo gratuito e Carlo DIGILIO ha spiegato quali fossero i compensi, non eccessivi ma comunque gratificanti, tenuto conto dei valori di acquisto dell’epoca: “””Il compenso che (il capitano CARRET) mi dava, che era in Lire italiane e che teneva conto delle eventuali spese di spostamenti e delle condizioni in cui versava la mia famiglia dopo la morte di mio padre, non era fisso, ma 291 292 comunque si aggirava sulle 300.000 che ricevevo circa ogni mese; all'epoca si trattava di una somma discreta. SOFFIATI veniva invece pagato in dollari e la somma era un po' superiore alla mia, circa 400 dollari, che riceveva credo quasi sempre da John BANDOLI. Del resto SOFFIATI aveva un ruolo di agente stabile. Inoltre io facevo parte di un settore informativo, mentre SOFFIATI di un settore operativo che comportava un coinvolgimento e dei rischi maggiori”””. (DIGILIO, int. 21.2.1997). 292 44 LA MISSIONE DI CARLO DIGILIO IN SPAGNA PRESSO L’ING. ELIODORO POMAR PER CONTO DELLA STRUTTURA INFORMATIVA STATUNITENSE La missione di Carlo DIGILIO a Madrid presso l’ing. Eliodoro POMAR per conto della struttura informativa statunitense costituisce, almeno per il momento, l’unica operazione all’estero emersa con tutti i particolari nel corso delle indagini. E’ necessario premettere che l’ing. POMAR, già in servizio con incarichi di rilievo presso il Centro EURATOM di Ispra, era stato coinvolto all’inizio degli anni ‘70, in quanto dirigente del Fronte Nazionale di Junio Valerio BORGHESE, nelle indagini relative al tentativo di colpo di Stato del 7/8 dicembre 1970. Era tuttavia riuscito a fuggire in Spagna, entrando in contatto a Madrid con i militanti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale che man mano raggiungevano tale Paese a seguito dello sviluppo della varie inchieste giudiziarie. Nel febbraio del 1977, circa due anni dopo la morte del generale FRANCO, quando ormai era venuta meno una parte delle protezioni di cui i latitanti godevano, l’ing. POMAR era stato arrestato insieme ad altri camerati fra cui MASSAGRANDE, BENVENUTO, Salvatore FRANCIA, ZAFFONI, ROGNONI e POZZAN, questi ultimi due successivamente estradati in Italia. Eliodoro POMAR veniva accusato di aver personalmente diretto il laboratorio per la manutenzione e la fabbricazione di armi scoperto dalla Polizia in Calle Pelayo, ma riusciva comunque ad ottenere la libertà provvisoria nel giro di poco tempo. Sino alla collaborazione di Carlo DIGILIO, comunque, nessuno aveva mai parlato della missione dello stesso DIGILIO a Madrid nel 1975, quando l’attività di POMAR stava iniziando, nè tantomeno del suo significato e di coloro che l’avevano commissionata. Sulla fase preparatoria di tale missione e sull’incontro con SPIAZZI prima della partenza, si veda, più avanti, quanto esposto nel capitolo 71, mentre questo è il racconto, contenuto nell’interrogatorio del 9.5.1994, dell’arrivo a Madrid di DIGILIO: “””Mi recai comunque in Spagna con il compito di contattare Eliodoro POMAR, che al tempo risiedeva a Madrid credo in quanto latitante in relazione al processo per il golpe Borghese. Si trattava di un incarico che discendeva dalla CIA e che precedentemente era stato affidato a Marcello SOFFIATI. Il senso dell'incarico era quello di avere notizie sui movimenti e sulle attività di Eliodoro POMAR, che era un importante fisico nucleare ed era un profondo 293 294 conoscitore delle centrali termo-nucleari ed era già stato responsabile, in Italia, del Centro EURATOM di Ispra. POMAR aveva fornito la disponibilità di strutture pertinenti a tale Centro nel 1970 per ricoverare armi pesanti tipo mitragliatrici in ordine al progetto di golpe del 1970. Si trattava di armi che venivano dall'estero, probabilmente dal Belgio, nell'ambito dell'Alleanza Atlantica. POMAR era molto stimato come fisico nucleare ed erano giunte addirittura notizie secondo cui egli poteva essere "acquistato" da strutture di Paesi dell'Est per utilizzarne le capacità. Del resto in quel momento a Madrid egli non versava in buone condizioni economiche e conosceva persone anch'esse esuli in Spagna ma comunque sempre di Paesi dell'Est e poteva darsi che qualcuno di questi, in contatto in realtà con il proprio governo, gli avanzasse qualche proposta. In sostanza si temeva che potesse passare al campo comunista. Marcello SOFFIATI, che pure si era recato varie volte in Spagna, preferì affidare a me tale incarico in quanto egli aveva una scarsa conoscenza dei problemi tecnici e sapeva poco di armi, settore di cui in quel momento POMAR si stava occupando. Andai quindi io, in pratica, al suo posto. Feci il viaggio da solo in treno e sia per il biglietto sia per l'ordinario mantenimento ebbi una somma da SOFFIATI. Il contatto che avevo a Madrid, tramite SOFFIATI, era tale Mariano SANCHEZ COVISA, ex combattente delle camice azzurre franchiste, responsabile di una piccola organizzazione denominata "Guerriglieri di Cristo Re". Incontrai COVISA a Madrid e tramite lui presi alloggio in una pensione del centro. Posso precisare che questo COVISA era in contatto con i Servizi Speciali spagnoli. Riuscimmo, dopo qualche difficoltà, a incontrare l'ingegnere POMAR che abitava non lontano dal Paseo de Florida, prossima alla "Stazione del norte" cioè una stazione ferroviaria diversa dalla stazione centrale di Madrid. Per parlare con POMAR io utilizzai la presentazione di Covisa ed il pretesto di essere interessato alla fabbricazione di un modello di mitraglietta che per quei tempi era considerato molto avanzato. POMAR infatti, in un suo laboratorio, aveva realizzato o stava realizzando un progetto di mitraglietta che assomigliava ad un'Ingram e che aveva il caricatore inseribile nell'impugnatura. Questo progetto derivava da alcuni disegni del colonnello SPIAZZI che si erano diffusi nell'ambiente e che SPIAZZI si lamentava che tale idea gli fosse stata in qualche modo rubata. Era stato SOFFIATI a suggerirmi di usare questo discorso dell'arma come punto di contatto con POMAR e come modo per avvicinarlo. 294 Io mi presentai a POMAR, ovviamente, come militante di destra dell'area veneta amico di SOFFIATI e interessato a sapere quali fossero gli sviluppi della produzione di quest'arma. POMAR fu molto disponibile dopo avere saggiato le mie buone conoscenze tecniche. Mi condusse nel suo laboratorio che era al primo piano di un edificio dove aveva sede anche un convento di monache. Questi locali gli erano stati affittati tramite SANCHEZ COVISA. POMAR mi disse che i lavori andavano a rilento in quanto mancava la materia prima come le canne e gli otturatori tanto che egli stava addirittura pensando di cedere il progetto ad altri in grado di realizzarlo come i croati che pure avevano una base in Spagna. Mi fece vedere l'attrezzatura e in particolare un tornio, una piccola fresa, un trapano verticale e una grossa taglierina per lamiere, una saldatrice elettrica. Mi accorsi comunque che l'intera struttura non era operativa per la fabbricazione di armi anche perchè l'impianto elettrico non poteva sostenere il lavoro contemporaneo di più macchinari. D'altronde c'erano delle lamiere sagomate e non saldate, quelle che in gergo tecnico si chiamano le casse dell'arma. Alla fine capii che il progetto dell'arma era stato ceduto da POMAR ai Servizi Speciali spagnoli e che anche in cambio le Autorità spagnole gli avevano dato del denaro ed un lavoro garantito presso una centrale nucleare spagnola. D'altronde l’arma era già stata realizzata altrove grazie a tecnici reperiti dal COVISA e quest'ultimo mi confermò che un buon posto di lavoro era stato comunque trovato a POMAR in modo confacente alle sue capacità. D'altro canto era il periodo in cui in Spagna stava appunto iniziando l'apprestamento di centrali nucleari. A questo punto la mia missione informativa aveva avuto esito positivo. D'altronde nel centro di Madrid la zona tra Placa del Sol e Placa de Espana incontrai ROGNONI il quale, avendomi già conosciuto a Venezia, mi riconobbe e mi chiese se ero lì per POMAR. Alla mia risposta cautamente positiva, mi disse che stavo perdendo il mio tempo in quanto POMAR aveva già venduto il progetto ai Servizi spagnoli e tale conferma fu per me conclusiva in merito alle notizie che dovevo assumere. Vicino a casa di POMAR mi fermò una persona che personalmente non conoscevo e che mi si presentò come CONCUTELLI. Evidentemente mi aveva visto insieme a POMAR e mi chiese se ero venuto per parlare appunto con POMAR. Io gli risposi di sì ed egli mi fece delle dissertazioni sulla fabbricazione della famosa arma e in genere sulle armi. Io a un certo punto mi sganciai usando come scusa il fatto che dovevo andare a telefonare a mia moglie. Ci salutammo e la cosa finì lì. 295 296 In quei giorni, a Placa de Espana, dove c'erano anche dei telefoni pubblici inaugurati da poco, vidi insieme all'ingegnere POMAR un altro italiano che egli stesso mi presentò. POMAR mi disse poi che si trattava di Elio MASSAGRANDE di Verona. In quei giorni c'erano a Madrid molti italiani presenti alla commemorazione in onore del generale FRANCO. Ritengo di non avere conosciuto personalmente Vincenzo VINCIGUERRA, ma non escludo che questi mi abbia visto durante qualcuna delle cerimonie o delle manifestazioni di quei giorni. Sicuramente vidi DELLE CHIAIE, credo in Placa del Sol, mentre egli stava in un capannello con varie persone. Mi avvicinò a mi chiese se ero un italiano e se per caso, come altri, ero latitante. Io gli risposi evasivamente che ero a Madrid per le cerimonie in onore di FRANCO, ma anche per un viaggio di piacere in compagnia di mia moglie. D'altro canto l'ingegnere POMAR mi aveva messo sull'avviso in merito all'opportunità di evitare DELLE CHIAIE che cercava di conglobare italiani presenti a Madrid. Rimasi a Madrid in tutto per otto o dieci giorni, tornando poi in treno in Italia. Mi sganciai da POMAR adducendo motivi di famiglia ed in particolare dissi che mia madre stava male. Giunto in Italia preparai una relazione scritta e la consegnai a SOFFIATI andando da lui a Verona. Ho avuto la sensazione che il contenuto di tale relazione non sia pervenuto solo al Comando di Verona o comunque ai referenti a cui era diretto, ma che vi siano state delle fughe di notizie nell'ambiente della destra imputabili allo stesso SOFFIATI e che la notizia del mio viaggio a Madrid si fosse quindi diffusa”””. (DIGILIO, int. 9.5.1994, f.2). Non molto tempo dopo tale racconto di Carlo DIGILIO, Eliodoro POMAR, in occasione di un suo breve rientro in Italia, è stato rintracciato nell’abitazione di cui ancora dispone a Varese e sentito in qualità di testimone il 9.9.1994 al fine di verificare quanto narrato dal collaboratore. La testimonianza di POMAR è un vero capolavoro di reticenza in quanto egli ha negato di aver mai conosciuto e ospitato DIGILIO o comunque un militante veneziano e addirittura di aver mai allestito un’officina per la fabbricazione di mitragliette, limitandosi ad ammettere di aver frequentato occasionalmente, a Madrid, Giancarlo ROGNONI e Stefano DELLE CHIAIE. Carlo DIGILIO, comunque, risentito sulle circostanze della sua missione in Spagna, non ha avuto difficoltà a stroncare il tentativo di POMAR di screditare il suo racconto, descrivendo con precisione l’appartamento ove l’ingegnere abitava a Madrid, con 296 Maria MASCETTI, in Paseo de Florida, descrivendo le abitudini di vita della coppia e riconoscendo senza alcuna esitazione l’ing. POMAR in fotografia (int. 20.9.1994, ff.14). Carlo DIGILIO ha anche descritto minuziosamente l’officina ove l’ing. POMAR aveva avviato la lavorazione dei pezzi, precisando che l’ingegnere, che non aveva una grande esperienza in materia di armi, gli aveva chiesto di aiutarlo a migliorare il sistema di scatto dell’arma che, insieme all’otturatore collocato direttamente sopra la canna per ridurre l’alzamento del tiro, costituiva uno dei punti di novità dell’arma (int. citato, f.2). Parlando sia con l’ingegnere sia con Giancarlo ROGNONI, Carlo DIGILIO aveva anche appreso una circostanza importante in relazione al significato della sua missione e cioè che il progetto della mitraglietta era stato ceduto non solo agli ustascia, ma anche ai servizi segreti spagnoli, evidentemente in cambio della protezione accordata, in quanto un’arma molto efficiente, ma priva del marchio di fabbrica e del numero di matricola, era lo strumento ideale per l’utilizzo in operazioni “coperte” (int. citato, f.3). Inoltre, una nutrita serie di altre testimonianze, dirette o indirette, ha confermato la presenza di Carlo DIGILIO a Madrid e i suoi contatti con l’ing. POMAR nel periodo in cui questi stava impiantando l’officina di Calle Pelayo (cfr., fra gli altri, dep. ZAFFONI, 22.12.1995, f.2; int. CALORE, 9.9.1995, ff.2-3; int. MALCANGI, 10.4.1996, f.3; e anche dep. Pietro BENVENUTO al G.I. di Bologna, 24.2.1986, f.3, e 17.3.1986, f.5 nell’ambito dell’istruttoria Italicus-bis) anche se nessuno, ovviamente era a conoscenza che la missione in Spagna di DIGILIO fosse stata commissionata da una struttura informativa d’oltreoceano. Gli atti dell’Autorità Giudiziaria spagnola acquisiti alla presente istruttoria (cfr. documentazione allegata alla nota del R.O.S. in data 22.10.1994, vol.14, fasc.5) confermano inoltre il quadro delineato da Carlo DIGILIO e da tali atti si trae la sensazione che l’episodio sia stato trattato in Spagna con una certa benevolenza contestando a POMAR, MASSAGRANDE, BENVENUTO e agli altri solo ipotesi di reato non particolarmente gravi che hanno loro consentito, di lì a breve tempo, di usufruire di un’amnistia riguardante i reati politici. Con riferimento a tale “benevolenza”, Francesco ZAFFONI ha confermato, nella sua ultima testimonianza, che il Ministero della Difesa spagnolo, essendo compromesso nel progetto, si era fatto carico di “ridimensionare” la vicenda a livello giudiziario, evitando gravi conseguenze a POMAR e agli altri (dep. ZAFFONI, 5.1.1998, f.2). Nel corso dei successivi interrogatori, dopo che aveva deciso di svelare il ruolo ricoperto nella struttura da Sergio MINETTO, Carlo DIGILIO ha precisato che era stato proprio MINETTO ad incaricarlo di recarsi a Madrid al posto di Marcello SOFFIATI (int. 26.3.1997, f.4). Così, per la seconda volta, come in relazione agli accessi al casolare di Paese, Carlo DIGILIO, più adatto e affidabile, aveva sostituito Marcello SOFFIATI passando 297 298 momentaneamente dal settore informativo al settore operativo della struttura cui faceva riferimento. Carlo DIGILIO ha anche ricordato che Sergio MINETTO si era recato, negli anni precedenti, anche autonomamente in Spagna, e precisamente a Valencia dove si trovava la base dei croati, per trattare con loro la fornitura di aiuti che servivano al mantenimento della struttura guidata dalla figlia di Ante PAVELIC (int. DIGILIO, 5.5.1996, f.2, e 15.5.1996, f.2). Con riferimento alla missione presso l’ing. POMAR, Carlo DIGILIO ha fornito un’altra notizia importante: “””Posso aggiungere che Pomar mi aveva anche chiesto di poter visionare un lotto di armi che erano a Madrid nella disponibilità di un gruppo di oppositori portoghesi di destra che dovrebbe essere stato l'E.L.P.; questo gruppo aveva sede sia a Madrid sia in una località prossima al confine portoghese. Era venuto anche a casa di Pomar un elemento portoghese di cui non ricordo il nome, ma che riconoscerei benissimo se lo vedessi in fotografia. Pomar mi aveva chiesto di aiutarlo in questa attività di visione di armi in quanto ne avrebbe avuto un beneficio sia in termini economici che di prestigio. Io non potevo rifiutare apertamente, ma non aveva nessuna intenzione di accettare un simile incarico. Quindi, dato che l'accesso a questo lotto di armi era imminente e doveva avvenire nel giro di pochissimi giorni, inventai una scusa dicendo che mia madre era ammalata e che pertanto dovevo partire immediatamente per l'Italia”””. (DIGILIO, int. 20.9.1994, f.4). Al suo rientro in Italia, Carlo DIGILIO aveva appreso da Marcello SOFFIATI che effettivamente quella fornitura di armi per i portoghesi proveniva dagli americani, ma che aveva fatto comunque bene a non occuparsene non essendo tale attività ricompresa fra i compiti della sua missione (int. DIGILIO, 26.3.1997, f.4). Tale circostanza è di rilevante interesse al fine di comprendere il quadro generale delle alleanze fra le diverse strutture, ufficiali e non, che, alla metà degli anni ‘70, erano stabilmente impegnate in tutti i Paesi nelle varie forme di guerra non ortodossa o comunque non dichiarata contro il pericolo comunista. Come emerge infatti dagli atti di questa istruttoria (int. VINCIGUERRA, 9.3.1992, pag.17 del documento allegato, e rapporto del R.O.S. in data 23.7.1996 sulle attività dell’AGINTER PRESS nella guerra non ortodossa, vol.35, fasc.1, ff.103-104) e dalla stessa documentazione rinvenuta a Lisbona nel 1974 al momento dello smantellamento della sede dell’AGINTER PRESS, strettissimi erano i rapporti fra i terroristi dell’E.L.P. che si opponevano (organizzati sul modello dell’O.A.S.) con azioni clandestine al governo dei militari di sinistra in Portogallo e la struttura di GUERIN SERAC che si era ricostituita a Madrid dopo l’abbandono di Lisbona. 298 Gli uomini di GUERIN SERAC, molti dei quali peraltro erano portoghesi e di cui l’E.L.P. era quasi una creatura, curavano la propaganda in favore dell’E.L.P. e le trasmissioni radio dirette in Portogallo, attivate da basi spagnole prossime al confine portoghese. I rifornimenti di armi all’E.L.P. da parte della C.I.A., cui fa riferimento Carlo DIGILIO, testimoniano quindi la contiguità anche operativa fra strutture ufficiali e strutture non ufficiali, come l’AGINTER PRESS, all’interno della medesima strategia, in un contesto in cui è probabilmente difficile distinguere l’azione dell’uno da quella dell’altro. 299 300 45 LE DICHIARAZIONI DI DARIO PERSIC E BENITO ROSSI L’ATTENTATO AL PALAZZO DELLA REGIONE DI TRENTO DELL’11.4.1969 Sparsi in questa o in altre sezioni della presente ordinanza vi sono numerosi riferimenti alle dichiarazioni rese da Dario PERSIC e Benito ROSSI che costituiscono il più importante supporto testimoniale al racconto di Carlo DIGILIO in merito alla struttura informativa americana. Focalizzando in sintesi il ruolo svolto da questi due personaggi, va ricordato in primo luogo che Dario PERSIC, di professione camionista, era un intimo amico di Marcello SOFFIATI, frequentava in modo abbastanza assiduo la trattoria di Colognola ai Colli ed era un simpatizzante di Ordine Nuovo più per motivi di ambiente che per un vero impegno politico. Il suo contributo è stato particolarmente significativo per due ordini di ragioni. In primo luogo egli, pur non avendo avuto parte attiva in singoli avvenimenti, aveva recepito moltissime notizie in merito al ruolo di ciascuno, sia sotto il profilo informativo sia sotto il profilo della militanza ordinovista ed era venuto a conoscenza di molti degli avvenimenti che si erano sviluppati intorno al gruppo di Colognola. Era così venuto a sapere della detenzione delle armi e degli esplosivi da parte di Marcello SOFFIATI (materiale che in parte egli aveva anche custodito per qualche tempo per fare un piacere all’amico), della presenza a Colognola e a Verona dell’avv. Gabriele FORZIATI, del ruolo di Carlo DIGILIO nella riparazione delle armi, dei rapporti fra SOFFIATI e Marco AFFATIGATO. Soprattutto, Dario PERSIC aveva conosciuto e visto più volte gli ufficiali americani, il capitano RICHARDS e il capitano CARRET, indicati da DIGILIO e aveva anche conosciuto bene Sergio MINETTO, potendo così testimoniarne gli stretti rapporti che lo legavano a Carlo DIGILIO e al dr. MAGGI, rapporti che inutilmente MINETTO ha cercato di negare. Soprattutto di Sergio MINETTO aveva percepito, ed ha quindi potuto riferire nel corso delle varie deposizioni, i rapporti con i servizi segreti americani, collegando varie confidenze che aveva ricevuto e altre circostanze quale la frequentazione da parte di MINETTO e di Giovanni BANDOLI del PICCOLO HOTEL di Verona, punto di riferimento dei militari americani anche per incontri riservati. Dario PERSIC aveva anche partecipato varie volte al rito del solstizio d’estate, di ispirazione nazista, che si teneva nei pressi della trattoria di Colognola e vedeva presenti e accomunati tutti gli esponenti dell’area, da DIGILIO al colonnello SPIAZZI, da Sergio MINETTO al dr. MAGGI (dep. 8.2.1995, ff.3-4). 300 La collaborazione di Dario PERSIC si è altresì concretizzata con la ricerca e la consegna a personale del R.O.S. di un gruppo di fotografie che ancora conservava e che ritraggono molti dei personaggi di Colognola, anche in situazioni conviviali, che ne testimoniano i rapporti (ad esempio gli stretti rapporti di Sergio MINETTO con Giovanni BANDOLI; dep. PERSIC, 18.4.1997, f.5) e soprattutto in una delle quali, scattata nell’abitazione di Giovanni BANDOLI nel 1972, è raffigurato il capitano David CARRET di cui, ovviamente, non era stato possibile acquisire alcuna fotografia nè i dati anagrafici completi presso alcuna struttura militare o di polizia. Le fotografie prodotte da Dario PERSIC (contenute, anche con ingrandimenti effettuati dal G.I.S. Carabinieri, nel vol.21, fasc.7) sono state quindi di grande utilità per provare l’esistenza e il ruolo dell’ufficiale indicato da Carlo DIGILIO come responsabile per molti anni della struttura americana. Dario PERSIC ha anche riferito di aver direttamente appreso, nell’immediatezza del fatto, da Marcello SOFFIATI che questi ed altri militanti della cellula di Bolzano avevano commesso l’attentato al Palazzo della Regione di Trento. Dario PERSIC, che si trovava a Trento per ragioni di lavoro, era passato con Marcello SOFFIATI, a bordo dell’autovettura di quest’ultimo, dinanzi al luogo dell’attentato poche ore dopo la sua commissione e SOFFIATI, il quale aveva chiesto ironicamente ai poliziotti che delimitavano l’edificio cosa fosse avvenuto, aveva poi spiegato a PERSIC di esserne l’autore mostrandogli alcuni metri di miccia che ancora teneva occultata nel cofano (dep. 8.2.1995, f.1). L’attentato si identifica con quello commesso in danno del Palazzo della Regione di Trento in data 11.4.1969 mediante la deposizione di un ordigno a base di gelatina o dinamite innescato appunto da una miccia a lenta combustione (cfr. nota della Digos di Trento in data 18.12.1996 e atti allegati, vol.8, fasc.6, ff.9 e ss.). L’episodio è uno dei primi di quella catena di attentati che fra il 1969 e il 1971 hanno colpito la città di Trento e che, pur senza aver fortunatamente provocato vittime, si collocano nel quadro della strategia della tensione e in merito ai quali, nel corso delle indagini, erano emersi pesanti sospetti su elementi dell’estrema destra locale e su ufficiali dei Carabinieri nella qualità di “protettori” dei responsabili. Anche Carlo DIGILIO, del resto, ha riferito che Marcello SOFFIATI si era reso responsabile di attentati dimostrativi contro edifici pubblici in Trentino al fine di creare confusione, su disposizione e direttiva del dr. MAGGI (int. 19.4.1996, f.2), mentre Martino SICILIANO ha ricordato di aver effettuato, proprio nell’inverno 1968/1969 alcuni sopralluoghi a Trento insieme a ZORZI, MOLIN e un camerata di Bolzano, a bordo dell’autovettura del dr. MAGGI, per studiare la possibilità di un attentato alla Facoltà di Sociologia o, in alternativa, contro il più facile obiettivo costituito dal Palazzo della Regione (int. 6.10.1995, f.5, e 5.12.1996, f.2). Tali sopralluoghi erano quindi, con ogni probabilità, collegati al progetto di attentato che sarebbe poi, di lì a poco, stato concretamente attuato da Marcello SOFFIATI (int. 5.12.1996, f.3). 301 302 Benito ROSSI era stato indicato da Carlo DIGILIO come un agente informatore di Sergio MINETTO per la zona del Trentino-Alto Adige (cfr., fra gli altri, int. 9.11.1996, f.4; 15.3.1997, f.3; 13.4.1997, ff.1-2) e in particolare come elemento attivo, negli anni ‘60, nell’attività di contrasto del terrorismo alto-atesino, avendo partecipato con MINETTO e SOFFIATI ad esercitazioni ed addestramenti di italiani in funzione di prevenzione del terrorismo sud-tirolese e, grazie alle sue conoscenze del territorio (avendo fatto da guida ad italiani per passare clandestinamente i valichi con l’Austria), presente in azioni di controllo e disturbo delle attività degli irredentisti che avevano le loro basi in tale Paese. Anche Dario PERSIC ha testimoniato che Benito ROSSI, sovente presente a Colognola, era inserito nella N.A.T.O. con funzione di fiduciario e informatore per tale Regione, notizie queste apprese in più occasioni da Bruno e da Marcello SOFFIATI (dep. 8.2.1995, f.2, e 7.4.1997, ff.2-3). L’inserimento di Benito ROSSI, sempre secondo PERSIC, era di buon livello in quanto egli, a Verona, frequentava stabilmente il PICCOLO HOTEL, punto di riferimento dei militari americani, era in contatto con Comandanti americani anche di altre basi e, in ragione della sua attività di commerciante che lo aveva portato spesso all’estero, aveva dei contatti con elementi della N.A.T.O. anche in Francia (dep.7.4.1997, f.2). Benito ROSSI, sentito una prima volta da personale del R.O.S. in data 30.5.1996, ha inizialmente negato ogni suo inserimento nell’attività politica del gruppo di Colognola, affermando di aver conosciuto Marcello SOFFIATI solo nell’ambito di normali attività commerciali (vol.23, fasc.8, f.2). Successivamente però, Benito ROSSI, pur continuando a negare di essere stato reclutato da Sergio MINETTO nella rete informativa, ha accettato di fornire numerose informazioni sia sulla sua storia personale sia sull’attività del gruppo di Colognola che ha infine ammesso di aver frequentato con notevole assiduità. Durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana, Benito ROSSI si era arruolato direttamente nelle forze tedesche entrando a far parte del corpo delle SS italiane, svolgendo compiti di addestramento con il grado di sergente e partecipando ad operazioni estremamente pericolose e rocambolesche, sino ad arrendersi, a Milano negli ultimi giorni dell’aprile 1945, con altri camerati, ad un Comando Partigiano non comunista ed avendo, così, salva la vita (dep. 17.7.1997, ff.1-2). Tali circostanze spiegano sia il suo successivo “recupero” in funzione informativa da parte degli americani sia il fatto che in Trentino-Alto Adige gli siano stati anche affidati compiti di addestramento, analoghi a quelli che aveva svolto durante la guerra. Dopo molte titubanze, Benito ROSSI si è risolto a riferire che tutto il gruppo di Colognola, da Bruno e Marcello SOFFIATI a Sergio MINETTO e Giovanni BANDOLI, faceva riferimento alle basi americane di Verona, che il PICCOLO HOTEL, frequentato soprattutto da MINETTO e BANDOLI, era base per riunioni riservate e che Marcello SOFFIATI con il suo camper, fingendosi un turista in 302 viaggio con la famiglia, si recava in Spagna in realtà per trasportare armi (dep. a personale R.O.S. 12.3.1997, f.3; 12.4.1997. f.4; 21.5.1997, ff.1-2; a questo Ufficio 17.7.1997, ff.2-3). Benito ROSSI, dimostrando di avere una buona conoscenza dei rapporti interni al gruppo (e certamente anche di conoscere più cose di quante ne abbia riferite), ha sottolineato che la rete informativa gravitante intorno a Colognola era formata, in ordine di importanza, da Giovanni BANDOLI, Bruno SOFFIATI, Sergio MINETTO e, per ultimo, da Marcello SOFFIATI (dep.21.5.1997, f.2), scala che corrisponde perfettamente alle complessive emergenze processuali. Benito ROSSI, infine, pur affermando di aver avuto rapporti più saltuari con l’elemento proveniente da Venezia e certamente identificabile in Carlo DIGILIO, ha riferito che questi era l’esperto del gruppo nella riparazione delle armi (dep. 12.3.1997, f.2), particolare anche questo in perfetta sintonia con le restanti risultanze. 303 304 46 I RISCONTRI RELATIVI AL CAPITANO MICHELANGELO DIGILIO Carlo DIGILIO ha rivelato che suo padre Michelangelo, ufficiale della Guardia di Finanza, rientrando dalla Grecia in Italia mentre era in corso la guerra di Liberazione, aveva finto di aderire alla Repubblica Sociale Italiana passando, in realtà, informazioni ai partigiani “bianchi” della Brigata Biancotto di Venezia e partecipando con loro, negli ultimi giorni di guerra, alla liberazione della città e al disarmo della guarnigione tedesca. Tale “doppio gioco” era già iniziato in Grecia quando il tenente DIGILIO, di stanza a Creta durante il periodo dell’attacco tedesco all’Isola, aveva agevolato, tramite agenti greci, il recupero e il salvataggio dei militari inglesi da parte dei sommergibili alleati. Già in contatto anche con l’O.S.S. durante la guerra, il tenente DIGILIO era divenuto, alle fine delle ostilità, dipendente della struttura informativa americana della base F.T.A.S.E. di Verona, assumendo il nome in codice ERODOTO in ricordo della sua attività svolta in Grecia. Al momento della morte di Michelangelo DIGILIO, avvenuta all’inizio del 1967 in un incidente stradale, il figlio Carlo, che già era stato presentato ai responsabili della struttura americana, gli era subentrato quale componente della rete informativa. Un primo riscontro in merito alla genesi del rapporto di Carlo DIGILIO con la struttura informativa è giunto dalla deposizione di Giovanni TORTA che, all’inizio degli anni ‘80, nella sua qualità di armiere, aveva fornito molte armi a Carlo DIGILIO, destinate ad essere cedute in parte a Gilberto CAVALLINI. Giovanni TORTA ha infatti dichiarato che, entrato in confidenza con DIGILIO nel corso di tale attività, questi gli aveva, seppur laconicamente, rivelato di essere un “antenna” della C.I.A. a Verona e che anche suo padre, benchè ufficiale della Guardia di Finanza, aveva in realtà lavorato per i servizi segreti (dep. TORTA a personale del R.O.S. in data 7.10.1995, f.1). Si tratta di una confidenza (finalizzata, evidentemente, a rassicurare l’armiere TORTA in ordine al buon esito della loro attività illegale) sintetica ma significativa in quanto resa dieci anni prima che DIGILIO rivelasse all’Autorità Giudiziaria le medesime circostanze. Il riscontro decisivo è tuttavia giunto dall’acquisizione, nell’aprile 1996, presso il Comando Generale della Guardia di Finanza, del fascicolo personale di Michelangelo DIGILIO (vol.21, fasc.8). Da tale fascicolo (interamente analizzato nella nota del R.O.S. in data 3.4.1996, vol.21, fasc.9, ff.1 e ss.) risulta che Michelangelo DIGILIO non fu sottoposto ad epurazione, pur avendo apparentemente prestato giuramento alla R.S.I., in quanto aveva “svolto azione patriottica nel periodo cospirativo“. 304 In particolare la relazione del Comandante partigiano Erminio LORENZI attesta che l’Ufficiale, sfidando continui pericoli sin dal settembre 1943, aveva fornito ai partigiani informazioni sui movimenti delle forze tedesche nel porto di Venezia, trafugando anche, in favore dei partigiani, ingenti quantità di armi e munizioni e partecipando in prima persona alla liberazione di Venezia al comando dei suoi uomini e dei patrioti della Brigata Biancotto. Ancora più interessante è un tesserino di riconoscimento contenuto nel fascicolo, intestato al tenente DIGILIO e rilasciato il 28.4.1945 dal Comandante ABE della Brigata Biancotto del C.L.N. di Venezia. Sul retro del tesserino è presente una scritta in lingua inglese del P.W.B. dell’8^ Armata inglese dove si afferma che il titolare è impegnato nella Sezione Notizie appunto dello Psychological Warfare Board (letteralmente: Comitato di Guerra Psicologica). Sempre nel fascicolo vi è inoltre una relazione dattiloscritta del 24.8.1945, redatta proprio dall’interessato, ove egli precisa di avere giurato fedeltà alla R.S.I. “perchè consigliato dagli esponenti del Comitato di Resistenza per continuare ad assolvere la delicata missione affidatami”. Tali documenti attestano che sin dal 1945 Michelangelo DIGILIO aveva assolto compiti informativi per gli Alleati nonchè evidenziano le sue capacità di muoversi quale agente “doppio” a fini strategici. Non vi potrebbe essere prova migliore della verità del racconto di Carlo DIGILIO e del fatto che il ruolo svolto da quest’ultimo, pur in un contesto politico-internazionale profondamente mutato, sia stato la naturale prosecuzione dell’attività svolta da suo padre. 305 306 47 I RISCONTRI RELATIVI A BRUNO E MARCELLO SOFFIATI Bruno SOFFIATI, anch’egli da molti anni deceduto, è stato certamente un esponente di rilievo dell’estrema destra veronese, segretario del Partito Fascista Repubblicano a Verona nel periodo della Repubblica Sociale Italiana e in contatto con i Comandi tedeschi della zona. Sia Carlo DIGILIO (int. 15.6.1996, f.2) sia Dario PERSIC (dep. 9.2.1995, f.3) hanno riferito che Bruno SOFFIATI, durante la guerra, non aveva combattuto ma aveva svolto attività di intelligence gestendo una rete informativa in contatto con il Comando della GESTAPO che aveva appunto sede a Verona, rete i cui componenti erano in buona parte fuggiti in Sud-America alla fine della guerra. Alcuni, comunque, erano stati col tempo riabilitati dagli americani interessati a controllare, con l’inizio della “guerra fredda”, anche grazie all’esperienza maturata da costoro, tutto quello che avveniva in una zona strategica come il Veneto (int. DIGILIO, 15.6.1996, f.2). Del resto vari testimoni hanno riferito che sia Bruno sia Marcello SOFFIATI manifestavano apertamente la loro propensione e simpatia per gli americani (dep. Anna Maria BASSAN al P.M., 8.6.1995, f.7; dep. Franco PANIZZA a personale R.O.S., 12.4.1996, f.2; dep. Claudio BRESSAN a personale R.O.S., 11.4.1996, f.2; dep. Enzo VIGNOLA, 28.4.1997 f.2). Un particolare interessante che testimonia la statura del personaggio Bruno SOFFIATI è stato ricordato da Dario PERSIC, il quale aveva appreso che questi, nel dopoguerra, era stato per lungo tempo in possesso degli atti originali del processo a Galeazzo CIANO che si era appunto svolto a Verona (dep. 9.2.1995, f.3). Anche l’inserimento in ambienti massonici di Bruno SOFFIATI, ricordato da Carlo DIGILIO (int. 31.1.1996, f.2) è stato confermato da altri testimoni (dep. Claudio BRESSAN di Verona, 11.4.1996, f.2; dep. Franco PANIZZA, 12.4.1996, f.2) e trova ulteriore riscontro nel carteggio sequestrato al figlio Marcello in occasione del suo primo arresto, nel dicembre 1974 (cfr. vol.8, fasc.1, ff.37-40). Non vi è quindi da stupirsi che Bruno SOFFIATI discutesse apertamente con Sergio MINETTO in merito al modo migliore per proseguire l’attività di controllo dell’avv. Gabriele FORZIATI (dep. PERSIC, 18.4.1997, f.2) che lo stesso Bruno SOFFIATI aveva ospitato nei primi giorni della sua permanenza nella zona di Verona, nè che egli fosse presente, con il figlio Marcello e con Sergio MINETTO, alla cena in cui il dr. MAGGI aveva anticipato la strage di Brescia, una decina di giorni prima che questa avvenisse (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3). 306 Anche i riscontri acquisiti in merito alla figura ed al ruolo di Marcello SOFFIATI, prima fonte e poi agente operativo della struttura americana, sono molteplici. Marcello SOFFIATI, deceduto nel 1988, era anche un militante molto ben inserito nel movimento Ordine Nuovo e anche per tale ragione non è sempre possibile discernere con chiarezza quanto delle varie attività di SOFFIATI fosse da attribuire alla sua militanza ordinovista e quanto alla sua appartenenza alla struttura di intelligence. In particolare, i suoi rapporti con gli ustascia di stanza in Spagna e con quelli in grado di reperire nuovi modelli di armi dalla Cecoslovacchia e dalla Croazia possono essere stati d’aiuto tanto nello sviluppo dell’attività informativa quanto nel reperimento di armi ed esplosivi per gli ordinovisti veneti. Marcello SOFFIATI era anche in contatto, in Spagna, con Mariano SANCHEZ COVISA, capo dei Guerriglieri di Cristo Re, legato ai servizi di sicurezza spagnoli (int. DIGILIO, 9.5.1994, f.2) e frequentatore di agenti americani all’epoca residenti in Spagna (dep.Gaetano ORLANDO, 16.3.1996, e dep. Francesco ZAFFONI, 14.3.1996, f.2 a personale del R.O.S.). Marcello SOFFIATI era stato anche in grado di mettere in contatto Marco AFFATIGATO, conosciuto in carcere nel 1976, con la struttura americana dopo la loro scarcerazione. Marco AFFATIGATO ha infatti testimoniato di avere inizialmente passato a SOFFIATI alcuni elenchi di esuli di sinistra sud-americani residenti in Italia, poi trasmessi da SOFFIATI alla struttura americana, e che, quando egli si era trasferito a Nizza, lo stesso SOFFIATI lo aveva messo in contatto con tale GEORGE, appartenente alla Stazione C.I.A. di Parigi, il quale a sua volta lo aveva messo in contatto con tale STEVENSON, operante per la stessa struttura a Montecarlo (dep. AFFATIGATO, 2.5.1993, ff.2-3). Marco AFFATIGATO aveva cercato di sfruttare tale nuova “attività” per ottenere dalla C.I.A. un aiuto nel progetto di fuga di Giovanni VENTURA dal carcere argentino ove si trovava, ma aveva ricevuto da tale struttura una risposta negativa e molto significativa: Giovanni VENTURA, con i suoi interrogatori (evidentemente la lunga semi-confessione resa nel 1973 al G.I. dr. D’Ambrosio), aveva comunque recato danno agli ambienti americani e quindi non doveva essere aiutato (dep. AFFATIGATO citata, f.4). Claudio BRESSAN di Verona ha inoltre confermato quanto già ricordato da Carlo DIGILIO (int. 30.10.1993, f.3) in merito all’attività di schedatura, operata da SOFFIATI, di altri esuli sud-americani, avendo egli personalmente ricevuto da SOFFIATI un pacchetto di schede (dep. Claudio BRESSAN a personale R.O.S., 25.5.1995, ff.1-2). Se non vi è dubbio in merito all’attività prestata da Marcello SOFFIATI in favore della struttura americana, di cui peraltro egli non faceva mistero almeno nella cerchia dei camerati, nemmeno vi è dubbio in merito alla sua notevole disponibilità di armi già ricordata da Carlo DIGILIO (int. 2.12.1996, f.2) che aveva anche potuto notare un 307 308 particolare nascondiglio per le stesse collocato in una botola nella vecchia casa di Bruno SOFFIATI a Colognola ai Colli (int. 13.4.1997, f.4). Dario PERSIC, infatti, aveva notato una notevole quantità di armi, munizioni ed esplosivi nell’appartamento di Via Stella e nel 1973 si era reso disponibile, per motivi precauzionali e per fare un favore all’amico, a custodirne una parte, per circa un anno, nella soffitta della sua abitazione, in Via Morelli a Verona (dep. PERSIC, 8.2.1995, f.4, e 9.2.1995, f.4). Del resto, il 21.12.1974, Marcello SOFFIATI era stato arrestato perchè, durante una perquisizione nell’abitazione di Via Stella (operata casualmente in quanto SOFFIATI, poco prima, aveva smarrito in città un borsello contenente delle pallottole), personale della Questura di Verona aveva rinvenuto una ingente quantità di armi di vario tipo, bombe a mano, detonatori, proiettili anticarro e 10 candelotti di esplosivo definito “al plastico” nel verbale di perquisizione, verbale che purtroppo, ai fini della presente istruttoria, non fornisce ulteriori particolari in merito alle esatte caratteristiche e alla provenienza dell’esplosivo (cfr. nota della Digos di Verona in data 1°.6.1996 e atti allegati, vol.8, fasc.2, ff.9 e ss.). Inoltre, nel corso della medesima perquisizione venivano rinvenute alcune schede relative ad elementi di estrema sinistra, soprattutto anarchici, uno schizzo relativo alla base americana di CAMP DARBY (vicino a Livorno) e corrispondenza proveniente dalla Massoneria Universale di Rito Scozzese, tutti elementi documentali che confermano quanto riferito da Carlo DIGILIO in merito all’attività informativa svolta da Marcello SOFFIATI e ai rapporti della sua famiglia con alcuni ambienti massonici. L’attività di Marcello SOFFIATI si è dispiegata per lungo tempo in quanto egli è stato incriminato per reati associativi e detenzione di armi ed esplosivi, insieme al dr. MAGGI, al colonnello SPIAZZI e ad altri, anche nel procedimento c.d. del Poligono di Venezia ed egli, ancora nel 1982, nel corso delle indagini relative a tale procedimento (originato in buona parte dalla cattura e dalla confessione di Claudio BRESSAN) aveva ospitato Carlo DIGILIO nell’appartamento di Via Stella durante la prima parte della sua fuga e della sua latitanza. In quei giorni, nell’appartamento, i due detenevano la famosa valigetta “24 ore”, di cui tanto si è parlato nel procedimento celebrato a Venezia, poi affidata a Claudio BRESSAN e il cui contenuto è stato solo parzialmente e casualmente recuperato nel 1988. Tale valigetta avrebbe potuto sin da allora mettere gli inquirenti su piste interessanti e analoghe a quelle seguite nella presente istruttoria in quanto, secondo i ricordi di Claudio BRESSAN, conteneva non solo l’attrezzatura per la falsificazione dei documenti, ma molta documentazione relativa a Paesi stranieri (fra cui la Francia, il Sud-America e i Paesi Arabi) certamente connessa all’attività informativa svolta da SOFFIATI e DIGILIO (cfr., fra i tanti riferimenti, gli atti acquisiti presso la Digos di Verona, vol.8, fasc.2, ff.51-53). La figura di Marcello SOFFIATI attraversa quasi tutti i fatti toccati da questa istruttoria e dalle indagini collegate. 308 Egli, infatti, non solo gestisce una parte della dotazione di armi ed esplosivi del gruppo veneto, ma esegue personalmente l’attentato al Palazzo della Regione di Trento dell’11.4.1969 (dep. PERSIC, 8.2.1996); depone, probabilmente alla Stazione di Mestre, l’ordigno su uno dei 10 convogli ferroviari oggetto degli attentati dell’8/9 agosto 1969 (int. DIGILIO 16.9.1997, ff.4-5); mette a disposizione l’appartamento e partecipa in qualità di “custode” alla permanenza dell’avv. Gabriele FORZIATI e di Gianfranco BERTOLI in Via Stella, rispettivamente nel 1972 e nel 1973. Sembra che Marcello SOFFIATI, nonostante le sue doti spiccatamente operative, non sia stato utilizzato in prima persona dal dr. MAGGI e da Delfo ZORZI nell’esecuzione degli attentati del 12.12.1969 ed infatti, prima della cena allo Scalinetto tenuta nei giorni prossimi al Natale del 1969, si rallegra con DIGILIO confidandogli di non essere stato personalmente coinvolto (int. DIGILIO, 21.2.1997, f.2). In alcuni momenti e dinanzi ai fatti più gravi, Marcello SOFFIATI sembra mostrare segni di resipiscenza o quantomeno di non condividere sino in fondo una strategia che comporti stragi indiscriminate. Dopo gli attentati del 12.12.1969 infatti, Marcello SOFFIATI entra in rotta di collisione con Delfo ZORZI accusandolo di essere privo di “etica militare” e di essere un mercenario e un assassino per quanto aveva commesso nella banca milanese. Delfo ZORZI, per tutta risposta, lo minaccia e lo malmena (int. DIGILIO, 16.4.1994, f.6). Anche Martino SICILIANO ha ricordato, del resto, che fra Marcello SOFFIATI e Delfo ZORZI erano sorti violentissimi motivi di astio (int. 6.10.1995, f.6). Nella primavera del 1974, Marcello SOFFIATI viene comunque incaricato di ritirare a Mestre l’ordigno composto da candelotti di gelignite che, dopo una sosta a Verona in Via Stella e relativa “supervisione” di Carlo DIGILIO, lo stesso SOFFIATI deve portare a Milano ad alcuni camerati per la finale destinazione bresciana. Appena avvenuta la strage di Brescia, egli confida a Carlo DIGILIO il suo disgusto per aver avuto una parte in un massacro così grave e afferma che se gli americani avessero continuato a tollerare una strategia simile ciò sarebbe stato di danno in Italia solo per la destra (int. DIGILIO, 4.5.1996, f.3, e 5.5.1996, f.5). Da quel momento il contrasto con Delfo ZORZI diventa insanabile e Marcello SOFFIATI teme addirittura di essere eliminato da qualcuno vicino a quest’ultimo, avendo cura di portare per precauzione una pistola alla cintola ogniqualvolta si reca a Mestre (int. DIGILIO, 4.5.1996, f.3). 309 310 In tali circostanze trova certamente spiegazione l’angustia di Marcello SOFFIATI riferita da un altro esponente di destra, Gaetano LO PRESTI, che negli anni successivi aveva condiviso con SOFFIATI alcuni periodi di carcerazione. In alcuni interrogatori resi da LO PRESTI al G.I. di Brescia dr. Giampaolo Zorzi nell’ambito dell’istruttoria-bis sulla strage di Piazza della Loggia, egli ha infatti riferito che Marcello SOFFIATI gli aveva confidato che il suo “comandante” gli aveva consegnato dell’esplosivo che lui aveva portato ad altre persone e che tale esplosivo era stato utilizzato per compiere un grave attentato (cfr. annotazione del R.O.S. in data 8.5.1995, vol.23, fasc.9, ff.62-63). Marcello SOFFIATI, secondo LO PRESTI, appariva angustiato dal ricordo dell’utilizzo di tale esplosivo. Il termine “comandante” cui egli aveva fatto riferimento dovrebbe, secondo logica, riferirsi al Reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto e cioè al dr. Carlo Maria MAGGI. Purtroppo la morte di Marcello SOFFIATI, avvenuta nel 1988, non ha consentito di approfondire processualmente tali circostanze e di mettere SOFFIATI dinanzi alle sue responsabilità. 310 48 I RISCONTRI RELATIVI AL PROF. LINO FRANCO Anche per quanto concerne il prof. Lino FRANCO è stato possibile, nonostante il tempo trascorso dalla sua morte, acquisire una serie di riscontri che ne delineano la figura in perfetta sintonia con il quadro fornito da Carlo DIGILIO. Egli, in sintesi, secondo il racconto del collaboratore, era il fiduciario di Sergio MINETTO per la zona di Vittorio Veneto e contemporaneamente il capo del gruppo SIGFRIED, formato da ex-repubblichini che avevano duramente combattuto, soprattutto nella zona di Pian del Cansiglio, contro le forze partigiane e ancora disponevano di depositi di armi sotterrate negli ultimi giorni del conflitto. Fra i numerosi riferimenti al prof. Lino FRANCO contenuti nei verbali di Carlo DIGILIO, essenziali sono il diretto contatto del prof. FRANCO con gli elementi ordinovisti che gestivano il casolare di Paese, con il conseguente invio sul posto di DIGILIO nonchè il flusso di armi che, provenendo dai depositi gestiti dagli uomini del prof. FRANCO, giungevano al gruppo ordinovista di Mestre/Venezia arricchendone la dotazione (int. DIGILIO, 30.8.1996, ff.2-3). Tramite la testimonianza della moglie, Pia DE POLI, in mancanza di elementi documentali, si è potuto accertare che effettivamente il prof. Lino FRANCO era un uomo di grande prestigio nel suo ambiente, essendosi arruolato nelle fila della R.S.I. subito dopo l’8 settembre 1943 e venendo inquadrato nel Battaglione BARBARIGO della X M.A.S. che era stato il primo, nella zona di Anzio e Nettuno, ad entrare in combattimento contro gli Alleati (dep. DE POLI a personale del R.O.S., 30.3.1995, vol.23, fasc.5, ff.9 e ss.; annotazione del R.O.S. in data 8.9.1995, vol.23, fasc.9, ff.31-32). Alla fine della guerra, fatto prigioniero dagli inglesi per i quali aveva lavorato prima come barista e poi come sminatore nella zona di Imperia, come molti altri exrepubblichini era emigrato in Argentina nei primi anni ‘50, e cioè più o meno nello stesso periodo in cui tale Paese era stato raggiunto da due altri appartenenti alla rete, Pietro GUNNELLA e Sergio MINETTO. Un’altra analogia con Sergio MINETTO è relativa all’attività lavorativa. Entrambi, infatti, avevano delle attività in proprio che consentivano facili spostamenti nell’area dell’intero Triveneto e tali da non destare alcun sospetto. Sergio MINETTO svolgeva l’attività di riparatore di apparecchi frigoriferi, mentre Lino FRANCO, unitamente al cognato, aveva una ditta per la distribuzione di flippers e juke-box nei bar della regione. Nonostante il tempo trascorso dalla morte del prof. FRANCO, la perquisizione effettuata in data 18.1.1996 da personale del R.O.S. nell’abitazione ove vive la vedova ha consentito di rinvenire vari opuscoli di Ordine Nuovo nonchè una copia del 311 312 volumetto “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE”, a suo tempo diffuso non fra i semplici simpatizzanti di destra, ma solo fra gli “addetti ai lavori” (cfr. vol.21, fasc.2, ff.3 e ss.). Secondo il racconto di Carlo DIGILIO, il prof. Lino FRANCO aveva fatto vari viaggi in Grecia, negli anni ‘60, per contatti politici e il suo gruppo, utilizzando i depositi di cui ancora disponeva sul Pian del Cansiglio, aveva inviato, facendoli partire dal porto di Venezia, lotti di armi al generale GRIVAS, capo dell’organizzazione terroristica di estrema destra EOKA-B operante a Cipro contro il governo dell’Arcivescovo MAKARIOS (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.3, e 1°.2.1997, f.2). In tali frangenti, Sergio MINETTO aveva ammonito il prof. FRANCO a non muoversi con eccessiva autonomia e ad attenersi alle direttive che gli erano comunque imposte dalla sua contemporanea appartenenza alla struttura americana (int. DIGILIO, 31.1.1996, f.3). Probabilmente proprio dai depositi di Pian del Cansiglio proveniva parte delle armi custodite nel casolare di Paese (int. DIGILIO, 1°.2.1997, f.2) e verosimilmente tale fornitura era stata alla base dei rapporti diretti fra il prof. FRANCO e Giovanni VENTURA, che gestiva in prima persona il casolare e aveva consentito l’invio sul posto di Carlo DIGILIO da parte dello stesso prof. FRANCO. In tali circostanze il prof. FRANCO si era mostrato assai accorto inviando al casolare non Marcello SOFFIATI (che pur faceva parte della rete operativa), ma appunto Carlo DIGILIO, normalmente inserito nella rete informativa, più affidabile e soprattutto molto più competente in materia di armi e di esplosivi (int. DIGILIO, 12.11.1994, f.4). Non è stato possibile, ovviamente, visto il tempo trascorso, trovare riscontri diretti della fornitura di armi da parte del gruppo di Lino FRANCO al generale GRIVAS. Tuttavia dagli atti forniti dal S.I.S.Mi. relativi all’organizzazione EOKA-B emerge quantomeno un riscontro indiretto, e cioè che alla fine degli anni ‘50 un emissario del generale GRIVAS si era recato in Italia per valutare la possibilità di acquistare nel nostro Paese armi per l’organizzazione (cfr. nota del R.O.S. in data 6.6.1996 e atti allegati provenienti dal S.I.S.Mi., vol.20, fasc.3, ff.1 e ss.). Molto stretti dovevano anche essere i contatti del prof. FRANCO con il dr. MAGGI se anche Martino SICILIANO, confermando così il racconto di Carlo DIGILIO (int. Digilio, 1°.2.1997, f.3), ha ricordato di essersi recato, intorno al 1966/1967, dal prof. FRANCO accompagnando il dr. MAGGI, Giangastone ROMANI e Delfo ZORZI che intendevano discutere appunto con il prof. FRANCO in merito alla costituzione di un gruppo di Ordine Nuovo a Vittorio Veneto (int. SICILIANO, 15.3.1995, f.8). Un ulteriore riscontro in merito all’attività del prof. Lino FRANCO è stato reso possibile dalla trasmissione da parte della D.C.P.P., il 29.1.1997, di un appunto trovato nel fascicolo dell’archivio ordinario del Ministero dell’Interno intestato al prof. FRANCO. 312 Tale appunto di fonte confidenziale, proveniente dall’Ufficio Affari Riservati e portante la data 19.5.1964, riferisce che il prof. FRANCO di Vittorio Veneto aveva intenzione di organizzare dei corsi di sabotaggio con la partecipazione di elementi “fanatici” neofascisti e che a tal fine egli aveva occultato da tempo un consistente quantitativo di armi e munizioni, circa un centinaio di fucili e mitra con relativo munizionamento. Lo stesso prof. FRANCO, per la ricorrenza del 25 aprile 1964, aveva progettato di compiere un attentato dinamitardo contro la Camera del Lavoro di Milano, essendo esperto anche nell’approntamento di ordigni esplosivi, ma all’ultimo momento aveva desistito da tale proposito (cfr. appunto citato, vol.20, fasc.14, f.24). Giustamente Carlo DIGILIO ha rilevato che il contenuto di tale appunto è in perfetta sintonia con quanto egli aveva già riferito in precedenza in merito al ruolo del prof. FRANCO e che questi, per la sua esperienza durante la seconda guerra mondiale, era il soggetto ideale per fare l’istruttore di tecniche di sabotaggio (int. 1°.2.1997, ff.23). In conclusione, le notizie riferite da Carlo DIGILIO in merito al prof. Lino FRANCO e gli elementi raccolti aliunde sulla sua figura sono del tutto omogenei e ciò garantisce ancora una volta l’affidabilità di quanto dichiarato dal collaboratore sulla struttura di intelligence americana. 313 314 49 I RISCONTRI RELATIVI AL PROF. PIETRO GUNNELLA Pietro GUNNELLA, indicato da Carlo DIGILIO quale elemento di collegamento fra MINETTO e il colonnello SPIAZZI (funzionando quale “buca della posta” per l’inoltro dei messaggi) nonchè fra quest’ultimo e Elio MASSAGRANDE, latitante in SudAmerica, è stato identificato nell’omonimo professore già residente a Verona e da tempo deceduto. Il prof. GUNNELLA era stato condannato, al termine della guerra, avendo aderito alla R.S.I., per collaborazione militare con il nemico e, per sfuggire alla pur lieve pena comminatagli, era partito per l’Argentina, Paese scelto anche da MINETTO e dal prof. Lino FRANCO quale terra di emigrazione, ed era rientrato in Italia solo nel 1959 continuando per alcuni anni l’attività politica nel M.S.I. Questi pur scarni dati erano già sufficienti a delineare la figura del prof. GUNNELLA come quella di un personaggio in piena sintonia con il ruolo di staffetta-postino a lui attribuito da Carlo DIGILIO. Perdipiù sono stati acquisiti presso la Digos di Verona gli atti relativi ad una perquisizione effettuata l’11.4.1983 su disposizione del G.I. di Bologna, dr. Leonardo Grassi, nell’ambito di un procedimento aperto nei confronti, fra gli altri, del colonnello Amos SPIAZZI e precisamente uno stralcio del procedimento c.d. del Poligono di Tiro di Venezia. In occasione della perquisizione era stato rinvenuto un foglio dattiloscritto intestato PROPOSTA PER L’OPERAZIONE CONTINUITA’, costituito da un elenco di 10 militari con particolari qualifiche (paracadutisti, artificieri, pattugliatori) residenti tutti nel veronese e, accanto ad alcuni nomi, un riferimento al colonnello Amos SPIAZZI (cfr. foglio allegato all’interrogatorio di Carlo DIGILIO in data 26.3.1997 e atti relativi a Pietro GUNNELLA, di cui alla nota del R.O.S. in data 24.3.1997, vol.21, fasc.4). Alcuni dei nomi che vi compaiono (l’artificiere Antonino GRAZIANO e l’ex ardito/sabotatore della X M.A.S. Ezio ZAMPINI) erano già emersi nella prima parte dell’istruttoria quali componenti della LEGIONE di Verona dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO ed è probabile che l’ “Operazione Continuità”, che in base ad una data apposta sul foglio dovrebbe risalire al 1979, rappresenti un progetto di ricostruzione dei NUCLEI (cfr., sul punto, anche int. DIGILIO, 26.3.1997, f.2). Sempre durante la perquisizione del 1983 sono state rinvenute 10 lettere scambiate fra il prof. GUNNELLA ed Elio MASSAGRANDE, latitante in Paraguay, che si riferiscono al progetto di impiantare in tale Paese proficue attività economiche nel campo dei marmi, dei legnami e dell’acquisto di terreni. La società già operante in Paraguay, cui GUNNELLA e altri veronesi dovevano dare un ulteriore apporto, è indicata nella carta intestata come MA.BE., iniziali di 314 MASSAGRANDE e, verosimilmente, dell’ordinovista mantovano Roberto BESUTTI, molto legato al gruppo veronese. L’ulteriore perquisizione disposta da questo Ufficio dopo le dichiarazioni di Carlo DIGILIO, ed operata da personale del R.O.S. in data 6.9.1996 presso l’abitazione ove Pietro GUNNELLA risiedeva, ha aggiunto a tali dati , già come tali inequivoci, il rinvenimento di una copia del libretto “LE MANI ROSSE SULLE FORZE ARMATE”, scritto da Pino RAUTI e da altri teorici della guerra non ortodossa, e di una pubblicazione edita dal Centro CARLOMAGNO dal titolo “LA DIFESA DI VERONA”, opera del colonnello Amos SPIAZZI (cfr. vol.21, fasc.4, ff.32 e ss.). In conclusione, il ruolo di raccordo e di collegamento fra le varie strutture attribuito al prof. Pietro GUNNELLA da Carlo DIGILIO trova piena conferma nelle scelte di vita e nei contatti che hanno caratterizzato il personaggio. 315 316 50 I RISCONTRI RELATIVI AL CAPITANO TEDDY RICHARDS E IL RINVENIMENTO DI ARMI ED ESPLOSIVI A VERONA NEL 1966 Con Teddy RICHARDS, ufficiale americano in forza per un lungo periodo presso la base SETAF di Vicenza, ci si avvicina al cuore della rete informativa descritta da Carlo DIGILIO. Egli, presente in Italia sin dalla fine degli anni ‘60, aveva preso la guida della struttura a partire dal 1974 sostituendo il capitano David CARRET, certamente in un momento in cui i più gravi fatti oggetto di questa istruttoria e delle istruttorie collegate erano già avvenuti. Tuttavia Carlo DIGILIO ha avuto modo di descriverne l’operatività in azioni comunque importanti che hanno contribuito a mettere concretamente a fuoco il funzionamento della struttura anche nei suoi compiti, per così dire, “istituzionali” e non illeciti sul piano della nostra normativa penale. Ci riferiamo all’operazione DELFINO ATTIVO o DELFINO SVEGLIO, svoltasi nelle acque dell’Adriatico nei pressi di Venezia e finalizzata a saggiare la reattività della nostra Flotta dinanzi ad un possibile attacco (int. DIGILIO, 5.1.1996, f.3), nonchè al recupero nella zona dell’Alto Garda, con un’operazione di pura intelligence, di barre di uranio trafugate all’estero probabilmente da un’altra struttura militare (int. DIGILIO, 22.6.1996, f.2). L’episodio, che ha consentito l’identificazione dell’Ufficiale e che è più significativo e qualificante per gli avvenimenti oggetto della presente istruttoria, risale tuttavia al 1966 e cioè alla prima fase della presenza del capitano RICHARDS in Italia. Nel maggio del 1966, a seguito di un’indagine della Squadra Mobile di Verona partita quasi casualmente dagli accertamenti relativi ad una rapina, venivano arrestati per detenzione di armi ed esplosivi Roberto BESUTTI ed Elio MASSAGRANDE e denunciati Marcello SOFFIATI e Marco MORIN, i primi tre frequentemente presenti negli atti di questa istruttoria e il quarto condannato quale perito infedele nel procedimento per l’attentato di Peteano. Era stato infatti rinvenuto in alcune abitazioni nella loro disponibilità (un appartamento affittato a Roverè Veronese, l’abitazione di BESUTTI a Mantova e un appartamento a Livorno nella disponibilità di MASSAGRANDE) un vero e proprio arsenale di armi ed esplosivi fra cui decine di pistole e fucili di vario tipo, detonatori al fulminato di mercurio e al T4, detonatori elettrici, ben 173 saponette di tritolo, miccia detonante, 8 mine antiuomo, 3 bombe a mano MK 2 e 5 barattoli di esplosivo gelatinizzante israeliano MC 13 (cfr. rapporto della Squadra Mobile di Verona in data 31.5.1966, vol.8, fasc.1, ff.72 e ss.). Nel corso delle prime indagini, Roberto BESUTTI (inspiegabilmente rilasciato, così come gli altri arrestati, dopo pochissimi giorni) aveva indicato agli operanti della 316 Squadra Mobile di Verona, in un formale interrogatorio, i nomi di coloro che gli avevano fornito il materiale, prevalentemente italiani residenti in Trentino ad eccezione di uno di nazionalità invece statunitense, indicato come Teddy RICHARDS, all’epoca in servizio presso la Caserma Passalacqua di Verona, che gli aveva consegnato non poco di quanto sequestrato e cioè una ventina di fucili, bombe a mano, mine, congegni vari e tritolo. Il cittadino americano veniva identificato in Theodor RICHARDS, nato il 5.4.1935 a Waterville (Maine, U.S.A.) in servizio appunto presso il Comando SETAF, allora ubicato a Verona, e titolare fra l’altro di una licenza rilasciata dalla Questura di Verona per la collezione di armi antiche (cfr. nota della Digos di Verona in data 20.1.1996 e atti allegati, vol.7, fasc.6, ff.47 e ss.). Non vi è dubbio che si tratti proprio dell’Ufficiale indicato da Carlo DIGILIO, da lui peraltro ricordato come soggetto legato a MASSAGRANDE, BESUTTI e SOFFIATI proprio in relazione a movimenti di armi (int. DIGILIO, 20.1.1996, f.1, e 24.2.1996, f.3). Si noti che anche in un appunto rinvenuto presso la Questura di Verona nel fascicolo intestato a Marcello SOFFIATI si rileva che questi aveva confidenzialmente riferito, nel 1974 al Dirigente dell’Ufficio Politico di tale città, di aver partecipato intorno al 1966 con BESUTTI e MASSAGRANDE ad alcune riunioni nella villetta, sita nei pressi di Verona, di un militare americano a nome Ted RICHARDS e che questi, in cambio di armi da collezione, aveva ceduto al gruppo armi moderne ed efficienti (cfr. vol.23, fasc.1, f.20). Dopo l’arresto dei quattro ordinovisti, il procedimento era proseguito in modo quantomeno singolare. Era stato infatti inviata una comunicazione alle Autorità Militari americane di stanza a Verona in merito a quanto emerso a carico di Teddy RICHARDS, ma in seguito non si era più avuta alcuna notizia di un’incriminazione dello stesso nè da parte delle Autorità americane nè da parte di quelle italiane. I quattro ordinovisti erano stati condannati dalla Pretura di Verona a pene irrisorie (da uno a tre mesi di arresto) prestando fede alla tesi difensiva secondo cui si sarebbe trattato di un gruppo di collezionisti di armi ed evidentemente anche di esplosivi. Perdipiù, quando il G.I. di Venezia dr. Felice Casson, nell’ambito degli approfondimenti relativi all’attentato di Peteano, che vedeva fra l’altro coinvolto come autore di una falsa perizia il dr. Marco MORIN, aveva cercato di acquisire il fascicolo processuale presso l’Archivio della Pretura di Verona, aveva scoperto che il fascicolo, e solo quello specifico fascicolo, era inspiegabilmente scomparso (cfr. sentenza-ordinanza depositata in data 3.1.1989 nel procedimento a carico di MORIN Mario ed altri, vol.27, fasc.1, ff.42 e ss.), cosicchè era stato possibile ricostruire la vicenda relativa al rinvenimento delle armi e degli esplosivi solo parzialmente, grazie alle copie rimaste presso la Questura di Verona. 317 318 Non si era certo trattato di una sparizione casuale e infatti la conferma è giunta da Carlo DIGILIO che aveva in seguito raccolto i commenti soddisfatti di Marcello SOFFIATI: “””Un altro episodio importante è quello collegato alla sparizione del fascicolo concernente l'imputazione di detenzione di armi ed esplosivo a Verona in capo a MASSAGRANDE, BESUTTI e altri. Poichè era stato Teddy RICHARDS a fornire al gruppo parte delle armi che erano state sequestrate, egli poi si preoccupò di far sparire il fascicolo processuale dal Tribunale di Verona. Questo intervento valse anche a impedire che rimanessero troppe tracce dello stesso RICHARDS negli atti. Mi disse Marcello SOFFIATI che per far sparire questo fascicolo servirono denaro e connivenze nell'ambiente giudiziario. Per RICHARDS si era trattato di un episodio squalificante in quanto aveva ceduto con imprudenza armi della caserma a persone estranee all'ambiente militare”””. (DIGILIO, int.14.12.1996, f.5). Di particolare importanza è il fatto che fra il materiale sequestrato nel maggio 1966 vi fossero ben 5 barattoli di esplosivo gelatinizzante israeliano MC 13, esplosivo certo non facilmente reperibile e sicuramente di provenienza militare. Tale circostanza non può che ricollegarsi agli stretti rapporti intercorrenti fra la struttura di sicurezza americana e le analoghe strutture israeliane (int. DIGILIO, 6.3.1997, f.1) e alle conseguenti, anche se imprevedibili, ricadute in chiave strettamente anticomunista sulla struttura di Ordine Nuovo, come si è ampiamente esposto nel capitolo 39. Concludendo in ordine alla figura del capitano Teddy RICHARDS, anche Dario PERSIC ha ricordato di aver avuto modo di conoscerlo a Colognola, presentatogli da Giovanni BANDOLI, e ne ha fornito una descrizione fisica del tutto analoga a quella indicata da Carlo DIGILIO (dep. PERSIC, 18.4.1997, f.4, e int. DIGILIO, 5.1.1996, f.4). Secondo Dario PERSIC, il militare americano era stato in servizio, sino alla metà degli anni ‘70, lontano dall’Italia, forse in Vietnam, mentre a Verona era rimasta la sua famiglia (dep. citata, f.4) e ciò corrisponde con il racconto di Carlo DIGILIO, il quale ha riferito che il capitano RICHARDS aveva sostituito il capitano CARRET nel 1974 e che il servizio in un altro Paese per alcuni anni era dovuto, probabilmente, a motivi precauzionali visto il pericolo causato dall’ “infortunio” del 1966 (int. DIGILIO, 5.5.1997, f.2). Anche in relazione alla figura del capitano Teddy RICHARDS, l’esame di vecchi atti processuali e le nuove acquisizioni hanno quindi confermato il quadro fornito da Carlo DIGILIO. 318 51 IL RUOLO DI LEO JOSEPH PAGNOTTA E JOSEPH LUONGO LA TESTIMONIANZA DEL MAGGIORE KARL HASS A partire dalla primavera del 1996, Carlo DIGILIO ha fatto riferimento, con particolari sempre più dettagliati, a due italo-americani, Leo Joseph PAGNOTTA e Joseph LUONGO, i quali, sin dall’immediato dopoguerra, erano stati i punti di partenza della costituzione della rete americana reclutando, in funzione della comune causa anticomunista, sia ex-ufficiali tedeschi sia, soprattutto nel Veneto, exrepubblichini e altri elementi di estrema destra. I dati forniti da Carlo DIGILIO in relazione a tali due personaggi, di grandissimo interesse per comprendere gli esordi di tale struttura, sono i seguenti: - Leo Joseph PAGNOTTA e Joseph LUONGO frequentavano, ancora negli anni ‘70, con una certa assiduità, Colognola ai Colli e soprattutto PAGNOTTA era molto legato a Sergio MINETTO, tanto che Bruno SOFFIATI si era rammaricato pubblicamente che soprattutto MINETTO, più di suo figlio Marcello, avesse alle spalle un personaggio importante come PAGNOTTA in grado di aiutarlo (int. 4.5.1996, f.2; 5.5.196, f.7). - PAGNOTTA aveva partecipato allo sbarco alleato in Sicilia e da allora aveva sempre operato in Italia insieme a LUONGO. - PAGNOTTA disponeva a Monfalcone di una ditta di importazione di frigoriferi di nome DETROIT, che era frequentata dal prof. Lino FRANCO e da Sergio MINETTO e il cui stabilimento serviva anche come copertura per lo studio, in favore degli americani, di particolari leghe metalliche e altro materiale di interesse militare (int. 5.4.1996, f.2; 5.5.1996, f.7), settore in cui MINETTO era particolarmente impegnato avendo acquisito informazioni anche provenienti da industrie cecoslovacche grazie ad elementi croati che operavano nella zona di confine. - PAGNOTTA, sempre utilizzando come copertura la sua attività commerciale, si occupava di aerei militari e pezzi di ricambio destinati al Medio-Oriente e comunque ad alleati degli americani (int. 4.10.1996, f.2). - Sergio MINETTO operava stabilmente con loro tanto che Carlo DIGILIO ricordava che un giorno MINETTO era partito da Colognola alla volta di Milano ove aveva un appuntamento con Joseph LUONGO per un’operazione informativa (int.15.6.1996, f.2). - Il “riciclaggio” degli ufficiali tedeschi che avevano svolto servizio in Italia durante la seconda guerra mondiale era stato una delle attività più proficue per i due agenti americani, poichè tali ufficiali, in cambio di aiuti finanziari e della possibilità di sfuggire alle sanzioni, avevano messo a disposizione le conoscenze 319 320 che avevano accumulato sul territorio italiano e sugli elementi considerati di sinistra (int. 12.10.1996, f.3). Leo Joseph PAGNOTTA è da molto tempo deceduto, ma Carlo DIGILIO ha comunque potuto riconoscerlo senza difficoltà in una fotografia acquisita da personale del R.O.S. presso l’abitazione della figlia Annamaria, tuttora residente a Padova, consentendo così un primo positivo riscontro (int. 29.10.1996, ff.1-2, e fotografia di Leo Joseph PAGNOTTA, vol.20, fasc.1, f.9). Ma soprattutto dagli atti forniti dal S.I.S.Mi., relativi al fascicolo aperto sin dalla metà degli anni ‘50 in relazione alla figura e all’attività di PAGNOTTA, risulta che questi, nato a Brokton (U.S.A.) il 29.1.1915, era responsabile a quell’epoca del Counter Intelligence Corp di Trieste, il servizio di sicurezza militare americano affiancato all’Esercito degli Stati Uniti e già operante nel nostro territorio sin dal momento dello sbarco degli Alleati in Sicilia, agiva in posizione non ufficiale sotto la copertura di rappresentante di prodotti importati dagli U.S.A. ed era interessato alla ditta AVIPA di Trieste di cui era titolare John HALL, elemento legato a Giovanni BANDOLI di cui si parlerà nel capitolo 54 (cfr. nota del Centro C.S. di Trieste in data 12.10.1959, vol. 20, fasc.1, f.79). In seguito, PAGNOTTA, sposatosi con una donna italiana, era divenuto socio e gestore di fatto della ditta DETROIT (formalmente di proprietà dello zio della moglie) che si occupava dell’importazione di frigoriferi e disponeva di un capannone a Monfalcone e di un ufficio di rappresentanza a Padova (cfr. nota del Centro C.S. di Padova in data 6.9.1972, vol.20, fasc.1, ff.44 e ss.). Leo Joseph PAGNOTTA, presente in Italia sin dal 1943 e sin da tale epoca inserito nell’amministrazione alleata in Italia, aveva continuato a frequentare, anche dopo il suo congedo dal C.I.C., ufficiali e civili americani di stanza in Veneto (cfr. nota citata, f.47). La figlia di PAGNOTTA, Annamaria, sentita dal personale del R.O.S., ha confermato che suo padre era stato presente in Italia sin dal momento dello sbarco in Sicilia (dep. 13.1.1997, vol.20, fasc.1, f.4) e un dipendente di PAGNOTTA a Padova, Adriano PATRON, ha riferito che Leo Joseph PAGNOTTA non aveva mai nascosto di essere stato un ufficiale di collegamento fra l’Esercito degli Stati Uniti e le Autorità italiane e in seguito impegnato in attività informative per il suo Paese di origine (dep. 16.1.1997, vol.20, fasc.1, ff.3-4). In un altro fascicolo sempre fornito dal S.I.S.Mi, e relativo all’attività delle strutture informative americane, si riferisce che Leo Joseph PAGNOTTA, per conto del C.I.C., aveva avuto l’incarico di costituire a Milano, nella metà degli anni ‘50, un centro informativo destinato a lavorare sulla situazione jugoslava e in genere sui Paesi d’Oltre Cortina (cfr. nota di accompagnamento del R.O.S. in data 4.3.1996 e atti allegati, vol.20, fasc.11, f.24). Risulta così confermato, con riscontri difficilmente contestabili, il quadro fornito da Carlo DIGILIO e cioè che Leo Joseph PAGNOTTA rappresentava uno dei punti di partenza in Veneto delle rete di cui poi sarebbero entrati a far parte il prof. Lino 320 FRANCO e Sergio MINETTO, quest’ultimo in grado di giustificare i suoi contatti con la ditta DETROIT di PAGNOTTA in ragione della sua attività di frigoriferista. Ma gli elementi di riscontro acquisiti non terminano qui. Infatti, in occasione della perquisizione operata da personale del R.O.S., su disposizione di questo Ufficio, nel gennaio 1997, nell’abitazione di Annamaria PAGNOTTA veniva rinvenuta e sequestrata un’agenda del padre risalente al 1955. Tale agenda, già ad un primo esame e nonostante le difficoltà di decifrazione della scrittura, risultava contenere numerosissime annotazioni manoscritte relative alla commercializzazione di aerei militari, di pezzi di ricambio per gli stessi e di altro materiale di uso bellico (cfr. nota del R.O.S. in data 4.10.1996, vol.20, fasc.1, ff.24 e ss.). La completa decifrazione ed analisi di tale agenda veniva quindi affidata al tenente colonnello dell’Aeronautica Sergio Venezia, ottimo conoscitore fra l’altro delle strutture militari americane e inglesi (cfr. vol.20, fasc.1, f.15). Dalla relazione tecnica del colonnello Venezia, depositata in data 20.6.1997, emerge in modo inequivoco che Leo Joseph PAGNOTTA, nella seconda metà degli anni ‘50, era stato l’agente intermediario non palese di un Governo Occidentale (certamente gli Stati Uniti d’America vista la provenienza della maggior parte del materiale militare) nella vendita di aerei, parti di ricambio e altro materiale a Paesi amici dell’area Medio-Orientale, in sostanza Israele, a quell’epoca teatro di conflitti (cfr. vol.20, fasc.14, ff.4 e ss.). In parole povere, Leo Joseph PAGNOTTA, anche con un guadagno economico personale, ma certamente su direttive “superiori”, aveva organizzato la vendita a Israele, in occasione della seconda guerra arabo-israeliana dell’autunno 1956, di velivoli, carri armati, battelli, mine terrestri e navali, munizioni ed equipaggiamenti vari (descritti negli accurati schemi illustrativi allegati alla relazione, tratti dalla decifrazione degli appunti di PAGNOTTA), materiale tutto proveniente dal surplus militare degli Stati Uniti e di altri Paesi Occidentali che ufficialmente non poteva essere venduto a Israele. Infatti gli impegni istituzionali vigenti all’epoca impegnavano da un lato gli Stati Uniti a non rifornire “ufficialmente” Israele, mentre i Paesi Arabi erano avvantaggiati potendo acquistare materiale militare dall’Unione Sovietica e dai Paesi ad essa alleati. Con simili procedure non ufficiali, invece, agenti di fiducia come PAGNOTTA (che, fra l’altro, era di origine ebrea) avevano aiutato Israele, più debole sul piano militare soprattutto in termini di velivoli, a disporre di mezzi militari statunitensi, canadesi e britannici formalmente non più in carico dopo la seconda guerra mondiale alle Forze Armate di tali Paesi in quanto sostituiti da mezzi più moderni. Tale azione di “riequilibrio” delle forze in campo aveva dato i risultati sperati per gli occidentali in quanto, come noto, l’ “attacco preventivo” israeliano nel Sinai 321 322 dell’ottobre 1956 aveva avuto successo e i Paesi Arabi avevano dovuto rinunziare al loro sogno di cancellare dal Medio Oriente l’ “Entità Sionista”. Si aggiunga che da ulteriori atti forniti dal S.I.S.Mi. nella fase finale dell’istruttoria, è emerso che nel 1955 Leo Joseph PAGNOTTA era in contatto con l’ing. Hussein SADEGH, Addetto Commerciale presso l’Ambasciata dell’Iran (Paese allora gravitante nel campo occidentale) a Roma, al fine di intavolare trattative per l’acquisto di una notevole partita di petrolio grezzo persiano (cfr. nota in data 29.10.1955 del Raggruppamento Centri C.S., in atti S.I.S.Mi., con nota di accompagnamento del R.O.S. in data 18.9.1997, vol.55, fasc.8, f.28). In conclusione, è di tutta evidenza come l’analisi dell’agenda di Leo Joseph PAGNOTTA e l’attività “non ufficiale” da questi svolta in direzione dell’area medioorientale confermi e integri in modo insuperabile il racconto di Carlo DIGILIO relativo a tale importante personaggio della struttura americana. Per quanto concerne la figura di Joseph LUONGO, questi è stato identificato nell’omonimo, nato a New Haven (U.S.A.) il 3.5.1916, cittadino statunitense residente, a partire dalla metà degli anni ‘80, a Bolzano evidentemente, ormai, come pensionato in congedo dalle strutture di cui aveva fatto parte (cfr. nota del R.O.S. in data 15.4.1997, vol.20, fasc.2, f.15). Anche in relazione alla figura di Joseph LUONGO è stato possibile, con assoluta precisione, trovare conferma del quadro fornito da Carlo DIGILIO tramite atti recuperati dalla Direzione del S.I.S.Mi, e risalenti alle fasi abbastanza iniziali della formazione della rete americana. Infatti veniva acquisito un atto, portante la data 22.3.1960, contenente il quadro fornito all’epoca ai nostri Servizi dal maggiore Albert VARA (ufficiale di collegamento fra il C.I.C. americano e il nostro SIFAR) degli agenti e fiduciari appunto del Counter Intelligence Corp operanti nel Nord-Italia sotto la copertura delle basi SETAF (cfr. nota d’analisi del R.O.S. in data 23.9.1996 e atto allegato trasmesso dal S.I.S.Mi. in data 23.7.1996, vol.20, fasc.2, ff.20 e ss.). Nella parte manoscritta di tale appunto, Joseph LUONGO è indicato come Capo dell’Ufficio di contatto, a Roma, con il Ministero dell’Interno e vi è accanto, fra parentesi, il nome CAPUTO, corrispondente certamente a Ulderico CAPUTO, all’epoca funzionario del nostro Ministero con compiti di sicurezza (f.30). Nello schema allegato agli appunti manoscritti, che dovrebbe essere quello originale statunitense, il nome di Joseph LUONGO è indicato con quelli di altri agenti nel rettangolino che porta in inglese il titolo “PROGETTI SPECIALI - RECLUTAMENTO E COLLEGAMENTO” ed è seguito da altri 3 rettangolini contenenti l’indicazione delle squadre operanti a Verona, Vicenza e Livorno, luoghi ove appunto esistevano ed esistono Comandi americani (f.33). 322 E’ quindi certo che Joseph LUONGO fosse un quadro di alto livello della struttura militare di sicurezza statunitense, proprio con il ruolo di organizzatore e reclutatore indicato da Carlo DIGILIO. In un altro documento fornito dal S.I.S.Mi. (cfr. nota della Direzione del Servizio in data 10.5.1994 e analisi del documento da parte del R.O.S. in data 13.5.1994, vol.20, fasc.5), risalente al 1975 e definito allora dal S.I.D. “esatto nelle linee generali” (f.7), Joseph LUONGO è indicato come uno dei principali appartenenti ad una rete di spionaggio americana operante a Vicenza, molto probabilmente diversa e successiva a quella descritta da Carlo DIGILIO. Si noti che nel documento, originariamente in lingua inglese e tedesca e proveniente da un briefing informativo tenuto nel marzo 1975 a Wiesbaden tra appartenenti a più Servizi in ambito N.A.T.O., è presente una sorta di lamentela (attribuibile al funzionario del nostro Servizio che ha tradotto e presentato l’appunto) collegata al fatto che il servizio segreto americano avrebbe teso ad una completa supremazia informativa in ambito N.A.T.O. assicurandosi il monopolio delle informazioni nell’ambito dell’Alleanza e raccogliendo notizie anche sulle attività di polizia interna ed esterna del nostro Paese (f.5). Per tale ragione fine dell’appunto è anche quello di proporre indagini sugli agenti non noti indicati nell’elenco (ma fra questi non LUONGO, indicato come “noto”) per verificare se si tratti di agenti illegali e non accreditati (f.7). Il quadro dei riscontri, tuttavia, non si ferma qui. Insieme agli atti appena citati, concernenti anche Joseph LUONGO, il S.I.S.Mi. ha fornito una fotografia risalente al primo dopoguerra che ritrae alcune persone in posa durante una cerimonia di battesimo e sul retro di tale fotografia sono indicati, fra le persone effigiate, Karl HASS, il secondo da destra, e, al suo fianco, il colonnello “Josip” LUONGO (cfr. vol.20, fasc.2, ff.2 e ss.). Karl HASS, il maggiore delle SS addetto in Italia, durante la seconda guerra mondiale, ai servizi di sicurezza, corresponsabile in tale veste del massacro delle Fosse Ardeatine e recentemente condannato per i reati ad esso connessi, è stato sentito da personale del R.O.S. in data 4.7.1996 in merito ai rapporti intrattenuti, a partire dal primissimo dopoguerra, con i servizi segreti occidentali che gli avevano consentito di vivere indisturbato in Italia e di evitare conseguenze in relazione al gravissimo episodio in cui aveva avuto parte (cfr. vol.20, fasc.9). La testimonianza di Karl HASS, estremamente significativa anche se probabilmente incompleta e reticente, costituisce la conferma completa del racconto di Carlo DIGILIO in merito al ruolo svolto da PAGNOTTA e LUONGO nella formazione della rete americana in cui sarebbero poi entrati Sergio MINETTO e le altre persone man mano reclutate in Veneto soprattutto nelle località in cui si trovavano importanti basi americane. Il maggiore HASS, infatti, ha confermato innanzitutto di aver lavorato, già a partire dal 1943, per il Comando dei servizi di sicurezza tedeschi, che aveva sede a Verona (e a cui, secondo le testimonianze raccolte nella presente istruttoria, 323 324 sarebbe stato vicino Bruno SOFFIATI che gestiva una propria rete informativa), partecipando ad importanti operazioni di intelligence quali l’arresto, insieme a Otto SKORZENY, dei Ministri italiani che avevano “tradito” il Duce e la costituzione di una rete di radiotrasmissioni, denominata IDA, che avrebbe dovuto continuare a trasmettere dati da Roma anche dopo l’ingresso nella capitale degli anglo-americani (dep. citata, f.1). Arrestato dagli Alleati e trasferito in un carcere americano a Roma, dopo pochi giorni Karl HASS era stato contattato dal maggiore PAGNOTTA del Counter Intelligence Corp che gli aveva proposto di lavorare per il servizio segreto militare americano. A tal fine era stato portato, nel marzo del 1947, in Austria, a Gmunden, presso il Comando del C.I.C. e qui gli era stato presentato il maggiore LUONGO che fungeva anche da elemento di collegamento fra il C.I.C. e il Ministero dell’Interno italiano (dep. citata, ff.2-3). Gli era stato quindi fornito un falso passaporto italiano a nome GIUSTINI ed era quindi rientrato a Roma, alloggiando in un convento, e incaricato di compiti informativi in favore degli americani nel quadro della difesa dalla comune minaccia marxista. In previsione della possibile vittoria del Fronte delle Sinistre nelle elezioni del 1948, il maggiore HASS aveva quindi attivato una serie di contatti fra la struttura americana e gli ambienti dell’estrema destra romana al fine di concordare un eventuale piano di occupazione, in caso di vittoria elettorale delle sinistre, dei principali edifici pubblici e del trasmettitore radio di Monte Mario (dep. citata, f.3). Nel corso di tale attività, fra l’altro, il maggiore HASS era entrato in contatto con il funzionario del Ministero dell’Interno Ulderico CAPUTO (f.6) e cioè proprio il funzionario indicato nell’appunto del 22.3.1960 appena illustrato, accanto al nome del maggiore Joseph LUONGO. All’inizio degli anni ‘50, il maggiore HASS era rientrato in Austria continuando a lavorare per il Military Information Service nell’ambito di Radio Free Europe (dep. citata, f.4). In una successiva deposizione a personale del R.O.S. (18.11.1996, vol.20, fasc.9, ff.13 e ss.), Karl HASS ha ricordato anche di aver svolto un’attività di collaborazione con il dr. Ulderico CAPUTO e con gli americani nell’attività di sostegno logistico e psicologico di un agente sovietico transfuga in Occidente. Il testimone non ha aggiunto altro, ma quanto ora esposto è più che sufficiente per confermare che le risultanze istruttorie relative alla formazione e al funzionamento della rete americana corrispondono a verità. Al fine di integrare i dati raccolti sul ruolo svolto in Italia dal Karl HASS sono stati acquisiti, con la collaborazione del S.I.S.Mi., tutti gli atti di interesse ancora presenti in vecchi fascicoli del SIFAR e del SID (cfr. nota della Direzione del S.I.S.Mi. in data 324 5.9.1996 e lettera di accompagnamento e di analisi del materiale raccolto, ad opera del R.O.S., in data 21.2.1997, vol.20, fasc.9. ff.74 e ss.). Da tali documenti e dall’analisi ragionata fatta dal personale del R.O.S. emerge non solo che Karl HASS era stato un agente del C.I.C. (tanto da avere l’incarico di controllare a Roma i comunisti tedeschi in contatto con il P.C.I. e da svolgere, all’inizio degli anni ‘50 a Linz in Austria, presso una scuola di spionaggio americana, l’attività di insegnante per la preparazione di agenti tedeschi; cfr. nota R.O.S. citata, f.82), ma che i rapporti fra questi e il maggiore LUONGO erano stati ben più intensi e duraturi tanto da protrarsi quantomeno fino al 1962, allorchè il maggiore LUONGO era stato dichiarato persona non gradita e allontanato dall’Italia a seguito di scontri interni fra il servizio segreto civile del Ministero dell’Interno e il SIFAR, con il cui Direttore di allora il maggiore LUONGO era entrato in contrasto. In sostanza il maggiore Karl HASS, ancora interessato, all’inizio degli anni ‘60, ad attività informative concernenti il terrorismo altoatesino (cfr. nota R.O.S. citata, f.87), sarebbe stato sempre tutelato dai funzionari dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, dr. Gesualdo BARLETTA e dr. Ulderico CAPUTO, entrambi a stretto contatto con la rete informativa del maggiore LUONGO, meno gradito, per ragioni che oggi è ormai difficile stabilire, al servizio segreto militare italiano dell’epoca, e cioè il SIFAR (cfr. nota R.O.S. citata, ff.86 e 92-93). A chiusura del cerchio dei riscontri concernenti la figura del maggiore LUONGO, Carlo DIGILIO, visionata la fotografia della cerimonia di battesimo fornita dal S.I.S.Mi. (che riguarda il battesimo, a Roma nel 1949, della figlia del maggiore LUONGO; cfr. dep. Karl HASS, 4.7.1996, ff.7-8), ha riconosciuto senza difficoltà nella terza persona da destra Joseph LUONGO, conosciuto a Colognola in quanto in stretto contatto con Sergio MINETTO (int. DIGILIO, 12.10.1996, ff.3-4). Sarebbe stato certamente di grande interesse sentire il maggiore Joseph LUONGO, ancora vivente, sulla formazione e l’attività della struttura di spionaggio da lui coordinata, sui suoi rapporti con Sergio MINETTO e tutto il gruppo di Colognola ai Colli nonchè sui suoi rapporti con il maggiore Karl HASS ed altri ex-ufficiali tedeschi. Il maggiore LUONGO, ormai pensionato, si era stabilito da alcuni anni a Bolzano e quindi una sua convocazione sarebbe stata abbastanza agevole. Le notizie relative alla sua esistenza in vita e alla circostanza che egli risiedesse in Italia sono state tuttavia acquisite solo fortunosamente nella primavera del 1997 e in quel momento stata appurata un’altra circostanza che non appare certo casuale. Joseph LUONGO aveva lasciato l’Italia ritornando negli Stati Uniti nel giugno del 1996, rendendosi così concretamente irreperibile proprio nei giorni in cui il suo nome era uscito per la prima volta durante gli interrogatori che il maggiore Karl HASS aveva reso alla Procura Militare di Roma (cfr. nota del R.O.S. in data 15.4.1997, vol.20, fasc.2, ff.15-16). Certamente non una coincidenza. 325 326 52 LA POSIZIONE DI SERGIO MINETTO Sergio MINETTO è stato interrogato molte volte sia da questo Ufficio sia dal Pubblico Ministero il quale, proprio con l’incriminazione di MINETTO per il reato di falsa testimonianza, ha aperto nel maggio 1995 il procedimento 6071/95 R.G.N.R. nel quale sono successivamente confluiti gli atti e le incriminazioni relative alla strage di Piazza Fontana. Sergio MINETTO è stato infatti sentito una prima volta il 17.5.1995 in qualità di testimone sulla base delle prime dichiarazioni di Carlo DIGILIO e, arrestato per falsa testimonianza con provvedimento del G.I.P. di Milano in data 19.5.1995, è stato ancora sentito da questo Ufficio in data 22.5.1995 e dal Pubblico Ministero in data 2.6.1995. Dopo la sua scarcerazione egli è stato ancora sottoposto a due articolati interrogatori in data 24.5.1996 (e nel medesimo giorno si è svolto il confronto con Gastone NOVELLA) e in data 20.6.1997, durante i quali gli sono stati dettagliatamente contestati tutti gli elementi che via via erano emersi dalle dichiarazioni di Carlo DIGILIO e di altre persone e dai riscontri effettuati. La linea scelta da Sergio MINETTO, sin dalla sua prima deposizione, è stata quella dell’assoluta reticenza e dell’assoluto rifiuto di narrare la sua esperienza politica e di collaborazione con strutture di informazione straniere, anche a prescindere dalla rilevanza penale di tale attività, e di rispondere alle domande con affermazioni al limite dell’inverosimile, dipingendosi sempre come un modesto e innocuo riparatore di frigoriferi che non comprendeva le ragioni dell’interesse degli investigatori nei suoi confronti. In sintesi, MINETTO ha affermato di non essersi interessato di politica dopo la fine della guerra, durante la quale aveva prestato servizio nella Marina della R.S.I., limitandosi per alcuni anni ad essere iscritto al P.S.D.I. Ha dichiarato di aver frequentato su un piano amichevole, a Colognola ai COLLI, Bruno a Marcello SOFFIATI ammettendo poi, faticosamente, la conoscenza con Giovanni BANDOLI, ma di non aver nemmeno mai visto il suo “accusatore” Carlo DIGILIO. Ha dichiarato di aver conosciuto occasionalmente, una volta, a metà degli anni ‘60 durante una sagra paesana, il dr. MAGGI, presentatogli da Bruno SOFFIATI, e di non essersi mai recato a Venezia, nemmeno per lavoro, nè all’estero in nessuna circostanza, a parte un periodo trascorso in Argentina per ragioni di lavoro. Quanto alla sua frequentazione delle basi americane, egli ha riconosciuto di essere entrato qualche volta nelle basi americane di Verona e di Affi, ma solo per riparare frigoriferi. 326 Raramente la linea difensiva di un imputato è stata, tuttavia, progressivamente smentita in maniera così clamorosa e definitiva, anche se, dinanzi alle progressive acquisizioni che l’Ufficio gli contestava, Sergio MINETTO non ha minimamente modificato il proprio atteggiamento, comportandosi da vero agente di un servizio informativo il quale, pur da tempo in congedo, continua a tutelare la struttura per cui ha lavorato. In sintesi: - La non conoscenza di Carlo DIGILIO da parte di Sergio MINETTO, a parte ogni considerazione sui numerosi particolari forniti dal collaboratore in merito alla sua persona, tutti rivelatisi pertinenti, è stata documentalmente smentita dall’acquisizione delle fotografie del pranzo di nozze di Marcello SOFFIATI e Anna Maria BASSAN, avvenuto nel 1973 (cfr. fotografie allegate alla deposizione di quest’ultima dinanzi al P.M., 8.6.1995, vol.25, fasc.1, ff.30 e ss.). In tali fotografie si nota Sergio MINETTO, testimone della sposa, seduto allo stesso tavolo in cui siede Carlo DIGILIO e quasi dinanzi a lui. La circostanza è resa ancor più significativa dal fatto che al pranzo erano presenti solo i parenti stretti e pochi amici intimi fra cui (oltre a DIGILIO) Giovanni BANDOLI, anch’egli appartenente alla rete informativa, e Dario PERSIC (dep. BASSAN citata, f.2; int . DIGILIO, 6.11.1995, ff.4-5). - Perdipiù Gastone NOVELLA, impiegato al Casinò del Lido di Venezia, simpatizzante del gruppo di Ordine Nuovo di tale città e anch’egli frequentatore della casa di Bruno SOFFIATI a Colognola ai Colli, ha ricordato di essere stato accompagnato insieme a DIGILIO proprio da Sergio MINETTO sull’autovettura di questi, al termine di un incontro, da Colognola alla stazione ferroviaria di Verona (dep. NOVELLA, 11.2.1996, f.2). Quel giorno Sergio MINETTO aveva raccontato di essere stato in contatto, durante la sua permanenza in Sud-America, con ambienti di esuli tedeschi che avevano lasciato il loro Paese dopo la sconfitta del regime nazista (dep. citata, f.5). Gastone NOVELLA ha confermato tali circostanze anche durante il confronto sostenuto con Sergio MINETTO il 24.5.1996, indicando anche esattamente la marca dell’autovettura, una Renault, di cui MINETTO disponeva. - Sergio MINETTO, al fine di giustificare come casuale la sua presenza in alcune basi americane ed esclusivamente legata alla riparazione di frigoriferi, ha dichiarato di essere stato appunto occasionalmente introdotto in tale ambiente da un Carabiniere a nome LIPPOLIS, abitante nel suo stesso stabile e all’epoca in servizio presso la base SETAF di Verona (int. MINETTO, 22.5.1995, ff.2-3). Il carabiniere Angelo LIPPOLIS, sentito in data 30.5.1995, ha invece spiegato di non aver mai prestato servizio presso la base SETAF, ma solo presso il Comando Gruppo dell’Arma di Verona ed ha pertanto escluso recisamente di aver mai introdotto MINETTO in basi americane per motivi connessi a riparazioni di frigoriferi, mettendo così nel nulla il tentativo di MINETTO di dipingere come casuale tale sua presenza. - Carlo DIGILIO ha più volte dichiarato, nel corso dei suoi interrogatori, che Sergio MINETTO era stato più volte inviato in missione all’estero per conto della struttura 327 328 informativa tessendo, anche in tali occasioni, i contatti che questi aveva attivato durante il suo lavoro di copertura in Italia, appunto come frigoriferista Sergio MINETTO ha negato di essersi mai recato all’estero dopo il suo ritorno dall’Argentina, ma, durante la perquisizione effettuata nel maggio 1995 nella sua abitazione, sono state ritrovate due lettere risalenti al 1987 trasmesse dal Governo del Land della Svevia concernenti la richiesta di documenti da parte di tale Governo in relazione ad una pensione che poteva essere riconosciuta allo stesso MINETTO per attività lavorative svolte nella Germania Occidentale. Tale questione non ha potuto essere ulteriormente approfondita anche per la scarsa collaborazione fornita dalle Autorità tedesche, pur investite di una formale rogatoria avanzata da questo Ufficio (cfr. vol.21, fasc.6), ma rimane il dato inequivoco di passate presenze, non a caso negate, di Sergio MINETTO nella Germania Occidentale e cioè in uno dei Paesi cardine della struttura difensiva della N.A.T.O. ove si tenevano, come ricordato anche dal colonnello Amos SPIAZZI, corsi di istruzione e di addestramento sotto il patrocinio delle strutture militari americane. - Una delle poche circostanze ammesse da Sergio MINETTO, e sarebbe del resto stato difficile il contrario, sono i rapporti strettissimi, quasi di devozione, che egli aveva sempre coltivato con il commercialista veronese Giancarlo GLISENTI, cui egli aveva fatto quasi quotidianamente visita, come risulta anche dai servizi di osservazione del R.O.S. (cfr. vol.46, fasc.8, ff.70 e ss.) nella primavera del 1995, poco prima che il dr. GLISENTI decedesse per una grave malattia. Con il dr. GLISENTI, del resto, Sergio MINETTO aveva diviso l’infanzia in quanto sua madre ne era stata la balia e il padre il giardiniere della sua villa, cosicchè MINETTO era rimasto sempre l’uomo di fiducia di tale importante famiglia veronese (dep. MINETTO 17.5.1995, f.3; int. 22.5.1995, f.3). Il dr. Giancarlo GLISENTI era del resto figlio di Giovanni GLISENTI, Podestà di Colognola ai Colli nel ventennio fascista. Esaminando il fascicolo intestato al commercialista presso il Comando Provinciale Carabinieri di Verona, veniva rinvenuto un appunto dattiloscritto contenente informazioni a fini di sicurezza sul conto del dr. GLISENTI, con una annotazione manoscritta del seguente tenore: “appunto consegnato in data 26.4.1965 al Comando CC FTASE”. Tale appunto è quindi collegato ad una procedura volta a verificare il grado di affidabilità del dr. GLISENTI e può avere solo due spiegazioni. Chi aveva chiesto le informazioni al Comando dei Carabinieri all’interno della base FTASE della N.A.T.O. si proponeva o di verificare la figura di una persona molto vicina a Sergio MINETTO, allo scopo di controllarne le frequentazioni, o, più probabilmente, stava valutando la pssibilità di inserire il dr. GLISENTI, che poteva essere molto utile in ragione della sua attività professionale, nella stessa struttura di cui già faceva parte Sergio MINETTO (cfr. annotazione del R.O.S. in data 8.5.1995, vol.23, fasc.9, f.87). Perdipiù il giorno successivo alla morte del dr. GLISENTI, il 3.4.1995, veniva intercettata sull’utenza di casa MINETTO una interessante conversazione fra la moglie di MINETTO e sua sorella (cfr. vol.46, fasc.9, ff.1 e ss.). Le due donne stavano dialogando della morte di GLISENTI e ad un certo punto Giovanna MILANI, moglie di MINETTO, aveva affermato che “l’americano” l’aveva chiamata circa un’ora prima e che lei gli aveva riferito di aver saputo della morte del dr. GLISENTI e che Sergio MINETTO per tale ragione si trovava in Ospedale. 328 E’ quindi estremamente significativo che anche la persona più legata, anche sul piano umano, a Sergio MINETTO, e cioè il dr. Giancarlo GLISENTI, fosse stato sin dal 1965 oggetto di interesse per il Comando FTASE di Verona e che la sua morte abbia subito registrato la presenza e l’interessamento di un “americano” rimasto sconosciuto. In qualsiasi punto e sotto qualsiasi profilo sia stato possibile verificare l’attività e i contatti di Sergio MINETTO, compatibilmente con il tempo trascorso e la scontata mancanza di collaborazione delle Autorità cui egli faceva riferimento, la ricerca ha invariabilmente portato alla struttura e agli ambienti ampiamente descritto da Carlo DIGILIO. - Anche Martino SICILIANO ha contribuito a smontare la linea difensiva di Sergio MINETTO, secondo la quale egli non avrebbe avuto alcun contatto con il gruppo ordinovista veneziano nè si sarebbe mai recato a Venezia nemmeno per ragioni di lavoro. Martino SICILIANO ha infatti ricordato di aver visto MINETTO un paio di volte a Colognola ai Colli, insieme al dr. MAGGI e a Delfo ZORZI, e un paio di volte anche a Venezia, a casa del dr. MAGGI e ad una riunione, nel 1968 fra militanti di Ordine Nuovo (presenti MAGGI, ZORZI e SOFFIATI) ed ex-repubblichini, a casa dell’esponente della R.S.I. Mario CENTANNI, al fine di concordare un’azione comune nella campagna per la scheda bianca che doveva essere condotta alle elezioni politiche di quell’anno (int. SICILIANO, 1°.6.1996, ff.2-3). Inoltre le fotografie di Sergio MINETTO con un garofano rosso all’occhiello, al matrimonio di Marcello SOFFIATI, hanno ricordato a Martino SICILIANO una serie di battute scherzose che erano circolate nell’ambiente in merito ad un camerata che, ammiccando al garofano rosso che portava, aveva finto di essere un “compagno”. Si trattava quasi certamente di Sergio MINETTO, che effettivamente si era iscritto al P.S.D.I., iscrizione che, dopo la scissione di tale partito dal P.S.I., era una delle più semplici coperture nella vita civile per gli elementi di destra. Infatti sotto la guida dell’on. TANASSI, tale Partito, pur essendo formalmente socialdemocratico, aveva avviato una linea politica decisamente di destra e favorevole agli americani, cosicchè l’iscrizione al P.S.D.I. era un comodo espediente per continuare a fare una politica di destra con un’etichetta (simboleggiata appunto da simboli come il garofano rosso) che permetteva di non esporsi (int. SICILIANO, 1°.6.1996, ff.3-4). L’utilizzo di tale copertura è stato riferito anche da Carlo DIGILIO, anch’egli a conoscenza dell’iscrizione di Sergio MINETTO al P.S.D.I. e del suo significato. (int. 14.7.1996, f.3). - Nell’interrogatorio in data 24.5.1996, Sergio MINETTO, rispondendo ad una domanda relativa alle ditte con le quali era in contatto nel campo dell’attività di riparazione dei frigoriferi, ha fatto cenno, fra le altre, alla DETROIT della zona di Padova, una ditta italiana anche se aveva un nome straniero (f.6). Tale circostanza, sfuggita a MINETTO proprio alla conclusione dell’interrogatorio, è di grande importanza. Infatti la ditta DETROIT, che si occupava della produzione di frigoriferi e che disponeva di un capannone a Monfalcone e di un ufficio vendite a Padova, era di fatto diretta da uno dei suoi soci, l’italoamericano Leo Joseph PAGNOTTA. Leo Joseph PAGNOTTA, secondo il racconto di Carlo DIGILIO confermato dagli atti forniti dal S.I.S.Mi., altri non era che colui il quale, insieme a Joseph LUONGO, 329 330 aveva costituito sin dall’immediato dopoguerra la rete informativa americana nel Nord-Est d’Italia, quale capo a Trieste del Counter Intelligence Corp di cui erano entrati a far parte proprio Sergio MINETTO e il prof. Lino FRANCO (cfr. ampiamente, sulla figura di PAGNOTTA, l’annotazione del R.O.S. in data 26.6.1997 sulla struttura di intelligence statunitense, vol.23, fasc.23, ff.56-60). Il capannone di Monfalcone, sempre secondo il racconto di Carlo DIGILIO, era frequentato da MINETTO e dal prof. Lino FRANCO per attività che dovevano svolgersi in condizioni di copertura e di sicurezza e Leo Joseph PAGNOTTA, sovente citato nelle discussioni che si svolgevano a Colognola ai Colli, a metà degli anni ‘70 era ancora considerato uno degli elementi più importanti che stavano alle spalle degli elementi della rete veronese. Ancora una volta, quindi, il quadro fornito da Carlo DIGILIO ha avuto un preciso riscontro e ogni contatto, apparentemente innocente e collegato solo ad attività lavorative, di Sergio MINETTO riporta all’ambiente della struttura di intelligence statunitense. - A definitiva confutazione del tentativo di Sergio MINETTO di dipingersi come un tranquillo riparatore di frigoriferi devono aggiungersi le dichiarazioni rese sulla sua figura da altri frequentatori della trattoria e della casa della famiglia SOFFIATI a Colognola ai Colli: il camionista Dario PERSIC e Benito ROSSI, indicato da DIGILIO quale “antenna” nel Trentino-Alto Adige della rete informativa americana. Dario PERSIC, con riferimento alla figura di Sergio MINETTO, ha infatti dichiarato che questi aveva partecipato, all’inizio degli anni ‘70, ad una riunione svoltasi nella casa dello stesso PERSIC a Verona, presenti il dr. MAGGI, DIGILIO e Marcello SOFFIATI, ove si era parlato di un mutamento istituzionale che sarebbe avvenuto nel giro di breve tempo con l’aiuto degli americani e partecipava altresì ai “solstizi”, cerimonie di ispirazione nazista che si tenevano nei pressi della trattoria di Colognola con la partecipazione anche del colonnello SPIAZZI (dep. PERSIC, 8.2.1995, ff.2-3). Sergio MINETTO era altresì al corrente della presenza, all’inizio del 1972, dell’avv. Gabriele FORZIATI di Trieste nell’appartamento di Via Stella (dep. PERSIC citata, f.3). Inoltre, con riferimento alla partecipazione di MINETTO all’attività della rete informativa, egli frequentava, insieme a Giovanni BANDOLI e Benito ROSSI, il “PICCOLO HOTEL” di Verona, punto di incontro dei militari americani per riunioni riservate (dep. PERSIC, 7.4.1997, f.2), circostanza questa confermata anche da Carlo DIGILIO (int. 13.4.1997, f.2). In sostanza Dario PERSIC ha collocato Sergio MINETTO, in base alle notizie che aveva appreso durante la frequentazione del gruppo di Colognola, ad un livello medio-alto della struttura informativa, al di sopra di Carlo DIGILIO, Marcello SOFFIATI e Benito ROSSI (dep. PERSIC, 7.4.1997, f.3). Benito ROSSI, dal canto suo, ha riferito che sia Sergio MINETTO sia Marcello SOFFIATI gli avevano confidato esplicitamente di far parte di strutture informative americane, che i due si recavano insieme frequentemente alla base N.A.T.O. di Vicenza e che Sergio MINETTO frequentava stabilmente il PICCOLO HOTEL di Verona, già ricordato da Dario PERSIC come punto di incontro dei militari americani (dep. Benito ROSSI, 10.4.1997, ff.3-4; 21.5.1995, ff.1-2). Con riferimento a tale albergo è stato rintracciato e sentito Nello DOLCI, barista al Piccolo Hotel all’inizio degli anni ‘70, che ha confermato che all’epoca l’albergo era 330 quasi interamente occupato da militari della caserma Passalacqua di Verona in virtù di una speciale convenzione che era durata sino alla metà degli anni ‘70, quando il Comando SETAF era stato trasferito a Vicenza, rimanendo a Verona solo il Comando Centrale della FTASE di Via Roma (dep. DOLCI, 8.4.1997 a personale del R.O.S.). In conclusione, non vi è veramente alcun dubbio che Sergio MINETTO fosse un componente della struttura informativa dipendente dal Comando FTASE di Verona, con un incarico medio-alto, gestendo in prima persona una rete di informatori italiani, cui erano alcune volte affidati anche compiti operativi, ed avendo come diretto superiore, all’interno della struttura, un ufficiale americano. Il problema che si pone ai fini della presente istruttoria è, ovviamente, quello della rilevanza penale di una simile attività con riferimento alla tutela degli interesse interni del nostro Paese e all’eventuale messa in pericolo della nostra collettività e del nostro sistema istituzionale. Sotto tale profilo è evidente che svolgere attività informativa per un Paese straniero, perdipiù alleato e legato al nostro Paese da uno stabile accordo internazionale quale il Patto Atlantico, non costituisce reato ogniqualvolta tale attività abbia per fine ed oggetto la tutela degli interessi militari o di sicurezza delle strutture militari di quel Paese o della N.A.T.O., regolarmente presenti sul nostro territorio, o comunque attenga più in generale alla difesa o allo sviluppo degli interessi politico/strategici insiti in tale rapporto di alleanza e di integrazione politico/militare. Alla luce di tale interpretazione, che è l’unica in grado di integrare il precetto penale nel contesto storico/politico, è certo che alcune delle “operazioni” coordinate da Sergio MINETTO, descritte da Carlo DIGILIO (ed elencate a MINETTO nella parte introduttiva dell’interrogatorio in data 20.6.1997), non costituiscono di per sè reato in quanto in assonanza con le linee stabilite dai nostri rapporti di alleanza o comunque neutre o inidonee a ledere gli interessi interni del nostro Paese. Ci riferiamo, ad esempio, al tentativo di recuperare l’esplosivo rubato a Boscochiesanuova che poteva, in ipotesi, essere utilizzato contro basi americane; all’assunzione di informazioni sulla situazione alto-atesina negli anni del terrorismo irredentista; alla raccolta di informazioni sugli elementi di estrema sinistra dell’Università di Venezia (attività discutibile, ma tipica dell’epoca anche per i nostri Servizi); al tentativo di rintraccio del luogo ove si trovava il generale DOZIER, rapito dalle Brigate Rosse; nonchè a missioni sviluppatesi prevalentemente all’estero quali l’invio di Carlo DIGILIO a Madrid presso l’ing. POMAR e i contatti con elementi ustascia in Cecoslovacchia e in Spagna, anche al fine di sostenerne la struttura logistica e militare in funzione anticomunista. In alcuni di questi casi la linea di demarcazione fra attività di intelligence militare e attività illecita è veramente sottile (si pensi all’invio di armi a Cipro, agli uomini del generale GRIVAS, tramite il nucleo SIGFRIED di ex-repubblichini facente capo al prof. Lino FRANCO) e si porrebbe anche il problema dell’eventuale mancanza di 331 332 accredito presso le nostre parallele strutture di sicurezza dell’agente straniero operante, ma comunque non ci si trova dinanzi ad attività definibili come eversive o contrastanti con la sicurezza del nostro Paese. In altre “operazioni” descritte da Carlo DIGILIO, invece, la situazione è decisamente diversa. Non era e non è consentito raccogliere, in favore della struttura informativa, come è avvenuto sotto la direzione di Sergio MINETTO, liste di elementi veneti affidabili, normalmente ex-repubblichini o comunque esponenti dell’estrema destra, da utilizzarsi nel caso di un illegale mutamento istituzionale nel nostro Paese (int. DIGILIO, 20.1.1996, f.3) o comunque in azioni di contrasto dell’attività delle forze politiche di sinistra. Non è ovviamente consentito inviare per ben tre volte un emissario (Carlo DIGILIO, accompagnato in una occasione dal prof. FRANCO) in una base eversiva quale il casolare di Paese, gestito dagli ordinovisti padovani e veneziani, non solo per “visionarne” la dotazione di armi ed esplosivi, ma anche per offrire la propria “consulenza tecnica” nell’approntamento degli inneschi degli ordigni che stavano per essere collocati su 10 convogli ferroviari nell’agosto 1969. Non è consentito sovraintendere ad operazioni di pretta marca eversiva quali il “trasporto” dell’avv. Gabriele FORZIATI prima a Colognola e poi in Via Stella a Verona e l’addestramento, anche psicologico, di Gianfranco BERTOLI, sempre nell’appartamento di Via Stella. Ancora più grave è l’anticipazione fatta dal dr. MAGGI a Sergio MINETTO, durante un incontro a Colognola ai Colli, circa 10 giorni prima della strage di Brescia, in merito ad un grosso attentato terroristico che il gruppo di Ordine Nuovo stava per compiere (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3, e 4.5.1996, f.3). In tutti questi casi, anche a concedere che Sergio MINETTO sia stato solo un recettore di notizie e non uno stimolatore degli avvenimenti che via via vedevano quali protagonisti i militanti di Ordine Nuovo con cui era in contatto, non vi è traccia del fatto che Sergio MINETTO o i suoi superiori abbiano informato le nostre Autorità dei gravi pericoli che l’azione di tale gruppo costituiva per la collettività. Non vi è infatti traccia, nonostante gli approfondimenti documentali effettuati, di una messa in allarme nè a livello degli Organi di p.g. italiani nè a livello dei nostri servizi di sicurezza, sempre che ciò non sia avvenuto in un contesto diverso e ben più grave, e cioè un contesto di complicità destinata a non lasciare nulla di scritto dietro di sè. D’altronde tale atteggiamento di contiguità e di collusione con la strategia di Ordine Nuovo da parte di MINETTO e da parte della struttura in cui era inserito è ben testimoniato dalle parole di Carlo DIGILIO in merito ai rapporti fra MINETTO e il dr. MAGGI, i quali si frequentavano stabilmente coordinando di fatto le rispettive strategie. 332 Il dr. MAGGI, pur non entrando direttamente a far parte della struttura americana, aveva accettato di rendersi disponibile a rivelare i programmi del suo gruppo e, in particolare, tutte le situazioni rilevanti che riguardassero armi, esplosivi o attentati in preparazione, come era avvenuto in occasione dell’incontro appena citato (int. DIGILIO, 19.4.1996, f.3)., precedente di pochi giorni la strage di Brescia. Era questo un riconoscimento, da parte del dr. MAGGI della rete informativa americana quale alleato posto che, da solo, Ordine Nuovo non poteva pensare di ribaltare la realtà istituzionale del Paese, ma al più solo accendere, in senso non solo metaforico, il detonatore che consentisse ad altri di scendere in campo. Quando il dr. MAGGI aveva cercato comunque di farsi accettare organicamente nella struttura americana, ormai all’inizio degli anni ‘70, tale richiesta non era stata accettata perchè il gruppo di Ordine Nuovo era già gravato da troppe “magagne” per quello che aveva commesso ed il reclutamento di elementi sicuri e non “pericolosi” per la struttura, in caso di indagini giudiziarie, si era già concluso molti anni prima (int. DIGILIO, 14.12.1996, ff.5-6). Nonostante la necessità di seguire tale direttiva, che veniva dall’alto, Sergio MINETTO si era comunque molto dispiaciuto in ragione della grande stima ed amicizia che lo legava al dr. MAGGI (int. citato, f.6). In conclusione, l’attività spionistica di Sergio MINETTO non risulta in alcun modo scriminata dall’esercizio di un dovere nei confronti di una struttura alleata in quanto egli, con le operazioni ora descritte, non ha indirettamente tutelato, bensì messo in pericolo il nostro Paese e la nostra collettività. Egli, ove non abbia favorito direttamente con il suo operato azioni eversive, ha ostacolato le indagini in corso (si veda la sua presenza nell’episodio relativo all’avv. Gabriele FORZIATI) e anche sotto tale profilo deve rispondere del reato di cui all’art.257 c.p. in quanto, secondo la migliore dottrina, l’interesse politico interno dello Stato, tutelato da tale norma, può riferirsi anche ad attività eversive in grado di mettere in pericolo la sicurezza e il quadro istituzionale dello Stato e tali erano, certamente, le attività della struttura occulta di Ordine Nuovo. Sergio MINETTO ha mantenuto fede e continuato idealmente tale atteggiamento, a distanza di tanti anni e in un contesto internazionale ormai mutato, anche nel corso della presente istruttoria, chiudendosi in un ostinato e cupo silenzio che mostra come, nell’agente pur ormai in pensione, non vi sia stato il germe di alcuna riflessione critica nè egli abbia sentito il dovere morale di raccontare dinanzi alle Autorità del suo Paese quanto a sua conoscenza in merito a vicende tanto delicate e importanti per la nostra storia recente. Un silenzio legato ad un vecchio rapporto di fedeltà di servizio, posto che è ben difficile, per ragioni di età e di salute, che tale atteggiamento sia dovuto al timore di una pena. 333 334 All’imputazione di cui all’art.257 c.p. si aggiunge nei confronti di Sergio MINETTO quella di detenzione di armi e bombe a mano (capo 34 di rubrica), collegata al recupero della dotazione personale del prof. Lino FRANCO dopo la sua morte avvenuta nel 1969. Si veda, in proposito, l’interrogatorio di Carlo DIGILIO in data 9.1.1997: “””...in relazione alla dotazione logistica di Marcello SOFFIATI, faccio presente che nell'abitazione del padre di Marcello, in cucina anzi, per la precisione nella cantina da cui si accedeva tramite una botola sita in cucina, c'era un nascondiglio in cui Marcello, oltre al Moschetto 91/38 cui ho già fatto cenno, anche un fucile mitragliatore Machinengewehr 15 di fabbricazione tedesca. Quest'arma gli era stata data da Sergio MINETTO, il quale a sua volta l'aveva rilevata dal prof. Lino FRANCO quando questi era morto. Si tratta del tipo di fucile mitragliatore, con caricatore a sella e bracciolo a due gambe che si può poggiare anche sulla spalla, che Lino FRANCO aveva utilizzato durante la guerra sul fronte di Cassino e alla fine della guerra se lo era portato a casa. Si tratta cioè dell'arma cui ho fatto cenno nell'interrogatorio in data 13.1.1996 e che serviva ai reparti antiaerei Flak. Il caricatore ha due tamburi e consentiva l'inserimento di due nastri. Ho visto il moschetto e questo fucile mitragliatore in quel nascondiglio nel periodo in cui io rimasi latitante per qualche settimana a casa di Bruno SOFFIATI nell'estate del 1982. C'era anche una vecchia valigia di similpelle piena di cartucce Mauser per il fucile mitragliatore che però erano tutte ossidate. Dato che io ero latitante pregai SOFFIATI di liberarsi di questa roba in quanto se fosse stata trovata al momento della mia presenza avrebbe peggiorato la situazione. Qualche giorno dopo, SOFFIATI mi disse che effettivamente se ne era liberato, ma non so se gettandola o restituendola a MINETTO”””. (DIGILIO, int. 9.1.1997, ff.1-2). Anche le bombe a mano già detenute dal prof. FRANCO erano state recuperate e incamerate, dopo la sua morte, da Sergio MINETTO il quale aveva così arricchito la dotazione della struttura di materiale illegale e non registrato della struttura (int. DIGILIO, 12.10.1996, ff.5-6). Concludendo in merito alla posizione di Sergio MINETTO, va ricordata una circostanza, pur lontanissima nel tempo, che serve, anche sul piano storico, a confutare il ruolo con il quale MINETTO ha voluto dipingersi, e cioè quello di un semplice marinaio della Repubblica Sociale Italiana, di un normale lavoratore emigrato in Argentina dopo la fine della guerra e di tranquillo artigiano per tutto il resto della sua vita. 334 Durante la perquisizione effettuata nella sua abitazione il 17.5.1995, è stato rinvenuto e sequestrato un ritaglio del Corriere della Sera, risalente al febbraio del 1945, che conteneva il resoconto di un episodio apparentemente di cronaca nera avvenuto a Milano in Galleria Vittorio Emanuele. Un marinaio della X M.A.S. era stato aggredito da due sconosciuti, certamente a scopo di rapina, e un poliziotto in abiti civili che si trovava a passare per caso aveva cercato di difenderlo rimanendo però ucciso da un colpo di pistola esploso da uno dei due rapinatori (cfr. vol.1, fasc.20, f.32), i quali si erano poi dati alla fuga. Sergio MINETTO ha spiegato di aver conservato tale ritaglio in quanto era proprio lui il marinaio aggredito e che nell’occasione stava trasportando, per ordine del suo Comandante, una valigia contenente la somma di 85 milioni che dovevano essere versati presso la vicina Banca Commerciale. Subito dopo, benchè egli fosse l’aggredito e non l’aggressore, MINETTO era stato circondato da alcuni agenti della ETTORE MUTI (un corpo speciale della R.S.I., operante a Milano, fra i più fanatici), portato nella loro caserma, interrogato e violentemente picchiato (int. MINETTO al P.M., 2.6.1995, f.3, e al G.I., 24.5.1996, f.5). Solo dopo alcuni giorni, per intervento dei suoi superiori, MINETTO era stato rilasciato e la valigia con il denaro restituita. L’episodio appare difficilmente inquadrabile come un semplice fatto di delinquenza comune e comunque non si spiega in tal modo l’arresto di MINETTO, vittima dell’aggressione e trattato poi con estrema violenza dagli uomini della MUTI. L’enormità della somma trasportata nella valigia (pari ad alcuni miliardi di oggi e alla cassa di un’intera Divisione dell’Esercito della R.S.I.) e il momento in cui il fatto avvenne (nel febbraio del 1945, a poche settimane dal crollo della Repubblica Sociale Italiana) consentono di avanzare l’ipotesi che esso, invece, si inquadri all’interno della lotta intestina fra le varie fazioni della R.S.I. prossima alla fine e cioè, da un lato, la componente più violenta e fanatica di cui faceva parte la MUTI e, d’altro lato, i settori della Marina in procinto di trovare, soprattutto con il campo anglo-americano, soluzioni concordate che garantissero la salvezza dei loro uomini e un ruolo degli stessi anche nel dopoguerra. Il trasporto e il versamento di una somma così ingente può ricollegarsi a qualche manovra o trattativa di tal genere, con l’interessamento, forse, di alcuni esponenti del mondo industriale cui, secondo MINETTO, la somma era diretta per il pagamento di loro attività in favore della Marina della R.S.I. Quello che è certo è che Sergio MINETTO non era già allora un qualsiasi marinaio, ma, sin dal 1945, un elemento della massima fiducia, su cui i suoi Comandanti potevano contare per trasportare da solo una somma enorme, ruolo che ben si inquadra, nonostante le proteste dell’imputato, con quello assunto dopo la fine della seconda guerra mondiale ed emerso solo oggi grazie al lungo racconto di Carlo DIGILIO. 335 336 53 LA POSIZIONE DI GIOVANNI BANDOLI Giovanni BANDOLI, ufficialmente solo impiegato presso la base americana SETAF, prima di Verona e poi di Vicenza, come istruttore di audiovisivi, italiano americanizzato tanto da farsi chiamare normalmente JOHN e da portare sovente la divisa americana, è stato raggiunto come Carlo DIGILIO e Sergio MINETTO dall’imputazione di spionaggio politico e militare (cfr. informazione di garanzia emessa in data 29.11.1995, vol.1, fasc.21, f.17). Giovanni BANDOLI, con una reticenza non inferiore a quella di Sergio MINETTO, non solo ha dichiarato di non aver mai fatto parte di alcuna struttura informativa o di sicurezza, ma ha negato di aver mai conosciuto Carlo DIGILIO e ha ammesso solo di aver incontrato pochissime volte Sergio MINETTO, prevalentemente presso l’abitazione di Bruno SOFFIATI a Colognola (cfr. dichiarazioni a personale R.O.S. in data 25.5.1995, f.2). Del resto era difficile attendersi un atteggiamento diverso da una persona come BANDOLI, ormai anziano e in pensione, ma che ha tenuto a sottolineare che “l’Alleanza (Atlantica) gli aveva dato da mangiare per tanti anni e quindi poteva esserle solo grato” (cfr. relazione in data 20.5.1995, vol.25, fasc.1, f.6). Peraltro non sembra esservi dubbio che Giovanni BANDOLI (che non a caso Sergio MINETTO ha ammesso solo faticosamente di conoscere, dopo una iniziale negazione; dep. 17.5.1995, f.2, e 22.5.1995, f.4) abbia fatto parte della struttura descritta da Carlo DIGILIO ed anzi, come giustamente sottolineato nell’annotazione del R.O.S. in data 8.5.1996 relativa al coinvolgimento di strutture di intelligence nella “strategia della tensione”, con Giovanni BANDOLI si tocca uno dei livelli importanti della rete operativa (parzialmente separata da quella informativa) di tale struttura (cfr. annotazione citata, f.92). Tralasciando momentaneamente i documenti riferiti a Robert Edward JONES e John HALL rinvenuti in occasione della perquisizione operata nella casa di BANDOLI il 17.5.1995 e di cui si parlerà nel prossimo capitolo, Carlo DIGILIO ha riferito che egli era il referente di Marcello SOFFIATI, componente appunto della sezione operativa della struttura (int. 30.10.1993, f.2). Carlo DIGILIO aveva avuto occasione di lavorare con Giovanni BANDOLI due volte. Egli è stato infatti inviato in missione con BANDOLI al Poligono di Avesa, presso Verona, per seguire e verificare un’esercitazione di civili e militari della Legione veronese dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, presente il suo responsabile, colonnello Amos SPIAZZI, il quale, nella deposizione resa al G.I. di Bologna e a questo Ufficio, ha fra l’altro confermato che tale esercitazione era avvenuta. Conclusa positivamente la missione, Giovanni BANDOLI e Carlo DIGILIO avevano riferito separatamente ai loro superiori in merito al suo esito, circostanza questa che 336 conferma l’esistenza di due reti distinte, anche se collegate, l’una operativa e l’altra informativa (int, DIGILIO, 6.4.1994, f.4). Giovanni BANDOLI aveva inoltre partecipato, insieme al capitano Teddy RICHARDS, a Marcello SOFFIATI e ad altri dipendenti delle basi N.A.T.O. di Verona e di Vicenza, nell’estate del 1974 nei pressi di Riva del Garda, alla fase finale dell’operazione di recupero delle barre di uranio sottratte all’estero, probabilmente in Germania, da alcuni malviventi comuni, individuati e attirati in una trappola grazie all’attività informativa di Carlo DIGILIO con il conseguente recupero, appunto, del materiale nucleare (int. DIGILIO, 1°.7.1994, f.2, e 22.6.1996, f.2). Giovanni BANDOLI aveva anche partecipato, con il capitano CARRET, Marcello SOFFIATI e Carlo DIGILIO, ad un’esercitazione nell’Alto Adriatico dell’operazione DELFINO ATTIVO o DELFINO SVEGLIO, finalizzata, con improvvisi allarmi simulati da piccole navi americane, a saggiare la capacità di reazione della nostra flotta militare in caso di attacchi effettivi da parte delle forze nemiche (int. DIGILIO, 5.1.1996, f.4). Dario PERSIC ha inoltre riferito che Giovanni BANDOLI aveva condotto con sè Marcello SOFFIATI, per alcuni giorni, presso la base di Camp Darby, vicino Livorno (dep. 9.2.1995, f.2, e, sul punto, anche int. DIGILIO, 2.12.1996, f.3), era in contatto con il capitano David CARRET avendolo anche incontrato a casa sua per incontri amichevoli, presente lo stesso PERSIC, (dep. 8.2.1995, f.1) e aveva anche contatti con Alti Ufficiali americani fra cui un Comandante della base N.A.T.O. di Napoli (dep. 8.2.1995, f.2). Giovanni BANDOLI si muoveva nella caserma EDERLE di Vicenza, sede del Comando SETAF, con la massima libertà, non certo da semplice impiegato, disponendo anche delle chiavi di parecchi uffici come lo stesso PERSIC aveva avuto modo di notare quando, insieme ai due SOFFIATI e ad Enzo VIGNOLA, era stato invitato nella caserma (dep. al G.I., 18.4.1997, f.5). Benito ROSSI ha riferito di aver conosciuto Giovanni BANDOLI, amico di Sergio MINETTO, alla fine degli anni ‘60 presso il Piccolo Hotel di Verona, luogo dove i militari americani tenevano riunioni riservate, e lo ha collocato, all’interno della struttura americana, quale personaggio di notevole rilievo e superiore, per importanza, a Marcello SOFFIATI e allo stesso Sergio MINETTO (dep. ROSSI, 10.4.1997, f.3, e 21.5.1997, f.2). In conclusione, se non vi è dubbio alcuno in merito all’internità di Giovanni BANDOLI alla struttura di intelligence avente la sua base a Verona e la sua articolazione certamente nelle caserme circostanti, vi è tuttavia da chiedersi se il ruolo da lui concretamente svolto, così come è stato delineato, sia rilevante sul piano penale per la legge italiana. Non vi sono molti precedenti in merito, ma, sul piano logico e della ratio della norma, collocata nel suo contesto storico e politico/internazionale, deve necessariamente ritenersi che l’attività di spionaggio concretizzabile in acquisizione di notizie o nello svolgimento di azioni “coperte” debba, per ledere l’interesse protetto 337 338 dalla norma, porre in pericolo e scontrarsi con l’interesse politico o interno dello Stato ospitante (anche se in ipotesi l’agente sia cittadino italiano dipendente da una struttura straniera) e non semplicemente riguardare attività o situazioni di interesse per il Paese alleato, ma neutre o non pericolose per il nostro Paese o addirittura in grado di collocarsi nella stessa linea di politica militare o di sicurezza sancita da accordi internazionali. Nel caso in esame, gli episodi che risultano aver caratterizzato l’attività di Giovanni BANDOLI, o almeno quella parte di essa che è nota, e cioè il recupero di barre di uranio sul nostro territorio, sottratte ad una struttura probabilmente militare occidentale, e anche l’attività di controllo e di osservazione delle esercitazioni dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO, organizzazione parallela, ma pur sempre ufficiale o semi-ufficiale inserita in senso ampio nella politica difensiva dell’Alleanza Atlantica, non sembrano in alcun modo aver leso l’interesse politico o interno del nostro Paese che a quella stessa linea politica si ispirava. Diverso sarebbe stato se Giovanni BANDOLI avesse partecipato a quelle attività di raccolta di notizie, elaborazione di strategie, ispirazione e consulenza “tecnica“, proprie del ruolo svolto da MINETTO e DIGILIO (e indirettamente dai loro superiori), prodromiche all’esecuzione di attentati e stragi, attività avvenute senza informare le nostre Autorità (quando non in complicità con le stesse) e destinate a porre in grave pericolo i nostri cittadini e le istituzioni del nostro Paese. Non risulta, però, che Giovanni BANDOLI abbia preso parte a tali attività (egli non è stato inviato in missione al casolare di Paese nè ha avuto contatti diretti sul piano informativo e operativo con le attività del gruppo di VENTURA, MAGGI e ZORZI) e di conseguenza i comportamenti lui ascritti, pur discutibili su altri piani, non concretizzano il reato di spionaggio politico o militare. Ferma restando, quindi, la prova del suo inserimento nella struttura descritta da Carlo DIGILIO, egli deve essere prosciolto con la formula “il fatto non costituisce reato”. 338 54 LA POSIZIONE DI ROBERT EDWARD JONES Le figure di Robert Edward JONES e di John HALL sono emerse grazie ad alcuni documenti rinvenuti nell’abitazione di Giovanni BANDOLI in occasione della perquisizione del 17.5.1995 e sono state messe a fuoco prevalentemente grazie a documentazione reperita e fornita dalla Direzione del S.I.S.Mi. Infatti, al momento della perquisizione, veniva rinvenuto un documento militare americano datato 16.8.1950 a firma John HALL che attestata l’appartenenza di BANDOLI al T.E.S. (Trust Excharge Service) di Trieste ed un biglietto da visita di un agente di viaggi statunitense, tale Bob JONES - THE PROFESSIONAL TRAVEL AGENT SERVING THE PROFESSIONAL PERSON - con il suo recapito telefonico di Trieste manoscritto sul retro (cfr. vol.21, fasc.2, ff.33-34). Riassumendo quanto già ampiamente esposto nell’annotazione del R.O.S. in data 8.5.1995 sulle strutture di intelligence, le informazioni fornite dal S.I.S.Mi. (cfr. in particolare la nota in data 14.11.1995, vol.21, fasc.1, ff.9 e ss.) consentivano di giungere all’identificazione di John Louis HALL, nato a Tukoma (Washington U.S.A.), cittadino statunitense noto al Servizio come elemento dei servizi informativi nordamericani. Al S.I.S.Mi., John HALL risultava altresì presidente dal 1967 della società AVIPA (agenzia di vendita di prodotti americani) e gestore del garage-officina denominato T.E.S., sito a Trieste in Via Ghiberti, al cui interno stazionavano normalmente automezzi dell’U.S. Army e autovetture con targa civile utilizzate da ufficiali americani. Sempre in Via Ghiberti, secondo le informazioni del S.I.S.Mi., nel medesimo comprensorio aveva sede l’agenzia di viaggi di Bob JONES, frequentata da non meglio precisate “persone importanti”, oltre a numerosi uffici dell’Esercito U.S.A. e al Circolo Ufficiali. Si accertava inoltre che Bob JONES aveva lavorato presso la base SETAF di Vicenza, come Giovanni BANDOLI, e in seguito in varie basi N.A.T.O. in Europa e negli U.S.A. Si accertava soprattutto che alla società AVIPA di Trieste (città in cui aveva lavorato per gli americani Giovanni BANDOLI all’epoca del Governo militare Alleato; cfr. nota del S.I.S.Mi. in data 25.3.1996 e allegata informativa in data 12.10.1959 del Centro C.S. di Trieste, vol.20, fasc.1, f.79) era stato interessato, alla fine degli anni ‘50, Leo Joseph PAGNOTTA, l’italo-americano capo del Counter Intelligence Corp di Trieste, proprietario della ditta DETROIT di Monfalcone e indicato da DIGILIO quale reclutatore, nel dopoguerra insieme a Joseph LUONGO, dell’intera rete americana, compresi il prof. Lino FRANCO e Sergio MINETTO, e in contatto anche con il maggiore Karl HASS. 339 340 Robert Edward JONES, rintracciato, a differenza di John HALL, e raggiunto quindi da informazione di garanzia emessa in data 11.1.1996 per il reato di cui all’art.257 c.p., ha negato di aver fatto parte di qualsiasi struttura informativa americana. Non sussistono certo a suo carico gli elementi sufficienti per disporne il rinvio a giudizio, soprattutto in relazione agli specifici episodi di cui alla presente istruttoria, ma tale intreccio di elementi ha consentito tuttavia di verificare che, partendo da DIGILIO e MINETTO e arrivando sino a BANDOLI ed oltre, tutti gli accertamenti, in una perfetta sintonia e circolarità, portano a toccare ambienti militari americani di alto livello radicati nel nostro Paese, soprattutto nella zona di Trieste, sin dal primo dopoguerra. 340 55 LA DIRETTIVA WESTMORELAND IL CAMPO DI ADDESTRAMENTO DI FORT FOIN E I RAPPORTI CON LA STRUTTURA GOLPISTA Prima di passare alle osservazioni conclusive sulla portata del coinvolgimento della struttura descritta da Carlo DIGILIO negli avvenimenti salienti della strategia della tensione e relative alla posizione processuale del capitano David CARRET, responsabile della struttura sino al 1974, sembrano utili ancora alcuni spunti di riflessione che scaturiscono dal racconto del collaboratore. In relazione alle linee strategico-politiche e ai moduli operativi della struttura di sicurezza statunitense di cui era divenuto agente, Carlo DIGILIO ha fatto più volte riferimento alla c.d. Direttiva del generale WESTMORELAND del 18.3.1970 (int. 14.12.1996, f.3), tecnicamente il FIELD-MANUAL 30-31, documento riservato agli ufficiali dell’Esercito U.S.A. e dedicato, con progressivi aggiornamenti, alle linee di azione dei servizi segreti americani e all’esecuzione di “operazioni speciali”. In tale documento (una copia del quale fu rinvenuta e sequestrata nella valigia di Maria Grazia GELLI, figlia del creatore della Loggia P2, all’aereoporto di Fiumicino il 3.7.1981) è molto interessante la parte dedicata al caso di Governi Alleati che mostrino “passività” o indecisione di fronte alla sovversione comunista reagendo in modo inadeguato. In tali casi, secondo il documento, i servizi segreti dell’Alleato nordamericano (fra cui, si sottolinea, le strutture interne ad una base come la FTASE di Verona e alle strutture militari circostanti) devono disporre di mezzi per lanciare operazioni speciali capaci di convincere il Governo e l’Opinione pubblica del Paese amico della realtà del pericolo e della necessità di portare a termine azioni di risposta. In sostanza il documento, ricco di indicazioni operative per gli agenti operanti sul territorio e di grafici e tabelle, illustra come destabilizzare un Paese amico in cui sia temuta un’avanzata elettorale comunista o dei loro alleati. Il pensiero va, ovviamente, anche alla situazione politica del nostro Paese tra la fine degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70 e il riferimento fatto da DIGILIO a tale documento (acquisito agli atti anche nella traduzione italiana e a cui si rimanda per un più approfondito esame; vol.23, fasc.4) appare quindi tutt’altro che azzardato tenendo presente che i suggerimenti operativi contenuti nella Direttiva risultano in perfetta sintonia con gli interventi della struttura americana da lui descritta nei gravi avvenimenti oggetto dell’istruttoria. Al fine di comprendere più approfonditamente la struttura e i meccanismi di funzionamento della rete informativa descritta da Carlo DIGILIO, questo Ufficio aveva anche chiesto di essere autorizzato a visionare i fascicoli esistenti presso le basi N.A.T.O. del Veneto, e in particolare presso il Comando FTASE di Verona, 341 342 quantomeno limitatamente a quelli intestati a cittadini italiani quali MINETTO e BANDOLI, i cui nomi attraversavano tutto il corso dell’istruttoria. Una lettera in tal senso veniva inviata il 15.4.1996 al Presidente del Consiglio, on. Lamberto Dini, affinchè fossero investiti della richiesta, tramite i componenti italiani, gli organi collegiali della N.A.T.O. competenti ad autorizzare la visione dei fascicoli ed eventualmente a disporre la declassificazione dei documenti. Tale iniziativa non aveva concretamente alcun esito in quanto, dopo una lettera della Segreteria della Presidenza del Consiglio con cui in data 20.4.1996 si assicurava l’impegno da parte italiana a sostenere tale richiesta, gli ulteriori sviluppi si limitavano ad una nota del Ministero della Difesa in data 8.7.1996 con la quale laconicamente si comunicava che presso le basi di Verona e di Vicenza nessun fascicolo era stato rinvenuto (cfr. vol.23, fasc.5). Affermazione, questa, incontrollabile poichè non risultava chi e con quali modalità avesse effettuato la ricerca nè era stato in alcun modo reso possibile a questo Ufficio presenziare o comunque partecipare alla ricerca stessa. Un profilo interessante è poi costituito dai rapporti fra la struttura informativa americana e le organizzazioni golpiste che si stavano preparando per il tentativo fallito del Comandante BORGHESE del 7/8 dicembre 1970. Carlo DIGILIO aveva appreso, nel Comando della base FTASE di Verona presenti il capitano RICHARDS, SOFFIATI, MINETTO e BANDOLI, che a Fort Foin, nei pressi di Bardonecchia, nell’agosto del 1970 si era svolto un campo di addestramento con la presenza di 40 capigruppo che dovevano preparare i nuclei piemontesi destinati ad entrare in azione pochi mesi dopo, al momento del golpe. Alcuni dei partecipanti provenivano dal gruppo SIGFRIED e dai NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO e per contribuire a tale esercitazione, molto importante per lo sviluppo del piano strategico, il prof. Lino FRANCO e SOFFIATI si erano preoccupati di inviare uno o due mitragliatori e relative munizioni provenienti dai depositi di Pian del Cansiglio (int. DIGILIO, 27.11.1994, f.2, e 26.6.1997, f.2). Il capitano RICHARDS si era tuttavia lamentato del fatto che, anche in base alle informative del S.I.D., era risultato che gli organizzatori del campo avessero sostenuto che la disponibilità di uomini e mezzi era inferiore a quella effettiva (in realtà la struttura destinata ad operare in Piemonte disponeva complessivamente di oltre 500 uomini) e ciò al fine, come sovente accadeva, di ottenere un maggior aiuto da parte degli americani (int. 27.11.1994, f.2). Gli atti reperiti e forniti dal S.I.S.Mi. hanno pienamente confermato, anche in questo caso, il racconto del collaboratore. Infatti il campo, denominato SIGFRIDO, si era tenuto effettivamente a Fort Foin, per diversi giorni nell’estate del 1970, nei pressi di una ex-fortezza militare in alta montagna, con l’addestramento all’uso di armi individuali e di reparto e all’uso di trasmittenti e con una forte presenza numerica, anche di militanti di Ordine Nuovo, 342 che era stata notata e che aveva destato allarme negli abitanti e nei turisti della zona, senza tuttavia, a quanto pare, che le forze dell’ordine effettuassero alcun serio intervento (cfr. nota del R.O.S. in data 4.6.1996 e allegati atti provenienti dal S.I.S.Mi., vol.20, fasc.6, ff.1 e ss., e nota del R.O.S. in data 2.6.1997 ed ulteriori atti provenienti dal S.I.S.Mi., vol.7, fasc.7, ff.11 e ss.). E’ interessante notare che uno degli organizzatori del campo sarebbe stato Giuseppe DIONIGI, l’ordinovista torinese presso il quale si erano rifugiati, all’inizio degli anni ‘70, i triestini NEAMI, BRESSAN e FERRARO in quanto temevano di essere ricercati in relazione alla prima indagine che era stata aperta per l’attentato alla Scuola Slovena di Trieste. Si può quindi trarre la conclusione, che emerge peraltro dall’insieme degli interrogatori di Carlo DIGILIO e di altri testimoni come Dario PERSIC, che la struttura americana non fosse affatto contraria al progetto di colpo di Stato ed anzi fosse pienamente orientata, almeno in una certa fase, a fornire il suo supporto, lamentando solo la scarsa sincerità degli esponenti golpisti disponibili a sottostimare le loro forze pur di ricevere ulteriori aiuti. 343 344 56 IL COINVOLGIMENTO DELLA STRUTTURA INFORMATIVA AMERICANA NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE OSSERVAZIONI CONCLUSIVE LA POSIZIONE DEL CAPITANO DAVID CARRET La figura del capitano David CARRET è essenziale nella ricostruzione di Carlo DIGILIO esposta nei primi due capitoli di questa sezione della sentenza/ordinanza, in quanto l’ufficiale era stato responsabile della struttura di sicurezza dalla metà degli anni ‘60 sino al 1974, e cioè negli anni centrali in cui erano avvenuti gli attentati più gravi e la struttura eversiva di Ordine Nuovo aveva raggiunto i suoi massimi livelli operativi. Si osservi che non vi sono dubbi in merito all’esistenza e al ruolo sul territorio italiano di tale Ufficiale, in forza alla Marina degli Stati Uniti (e quindi facente la spola fra Verona e Venezia) e che aveva anche invitato Carlo DIGILIO a visitare una portaerei americana alla fonda nel bacino di San Marco (int. DIGILIO, 5.4.1997, f.3). Infatti Dario PERSIC è riuscito a recuperare e a consegnare a personale del R.O.S., in occasione delle sue audizioni, un piccolo gruppo di fotografie scattate, in momenti amichevoli e conviviali, quando all’inizio degli anni ‘70 egli frequentava la famiglia SOFFIATI e gli altri personaggi del gruppo di Colognola ai Colli. In una di queste fotografie, scattata nell’abitazione di Giovanni BANDOLI e che porta manoscritto sul retro da parte della moglie di PERSIC la data 23.12.1972, si nota, oltre ai coniugi PERSIC, un uomo robusto, di circa 35/40 anni, con i capelli corti, che Dario PERSIC ha appunto indicato nell’americano di stanza a Verona chiamato CARRET o GARRET (cfr. album fotografico, vol.21, fasc.7, f.5 retro e ingrandimento f.6; dep. PERSIC al G.I., 18.4.1997, f.3). Anche Maria Luisa FONDA, moglie di Dario PERSIC, ha ricordato che la persona presente quel giorno a casa di Giovanni BANDOLI era un ufficiale americano (dep. a personale del R.O.S. in data 7.4.1997) e anche Enzo VIGNOLA, che frequentava il gruppo di Colognola più che altro per motivi amichevoli, ha riconosciuto nell’uomo alto e massiccio con i capelli castano-rossicci effigiato nella fotografia, un ufficiale americano legato a BANDOLI e a SOFFIATI (dep. al G.I., 28.4.1997, f.3). Carlo DIGILIO aveva fornito una descrizione del capitano David CARRET del tutto corrispondente a quella di Dario PERSIC e all’immagine risultante dalla fotografia (int. DIGILIO, 5.1.1996, f.4) e, presa visione di tale fotografia, non ha avuto difficoltà e riconoscervi l’ufficiale che per tanti anni era stato suo referente e superiore (int.19.4.1996, ff.1-2). 344 Fatta questa premessa, non è necessario spendere molte parole per rendersi conto che il quadro definitivo delineato da Carlo DIGILIO negli interrogatori resi fra l’autunno 1994 e l’estate 1997 travalica di molto quel “controllo senza repressione” che, in prima approssimazione, era stato individuato al momento della stesura della prima sentenza/ordinanza nel marzo 1995 quale schema di interpretazione dell’intervento della struttura di sicurezza americana negli eventi oggetto della presente istruttoria e delle indagini collegate. In realtà, tutti gli avvenimenti principali, dalla presenza di componenti della struttura al casolare di Paese sino agli attentati all’Ufficio Istruzione di Milano e ai convogli ferroviari e sino a quelli del 12.12.1969, dalla presenza dell’avv. Gabriele FORZIATI in Via Stella sino all’addestramento nello stesso luogo di Gianfranco BERTOLI e ancora oltre, sino alla valigia di esplosivo che doveva giungere a Brescia, presentano non solo un asettico controllo da parte della struttura, ma anche un’attività di rafforzamento e di sostegno delle scelte proprie delle cellule di Ordine Nuovo. Si caratterizzano altresì come una consulenza e un apporto tecnico affinchè tali scelte potessero concretizzarsi, il che comporta, sul piano dell’astratta rilevanza penale, una forma di concorso anche se, secondo gli intendimenti della struttura americana, gli attentati in preparazione dovevano solo avere una portata dimostrativa e non provocare vittime. Concretamente il capitano CARRET risulta essere stato informato degli attentati ai treni dell’8/9 agosto 1969 solo dopo che tali attentati erano avvenuti (int. DIGILIO, 17.5.1997, f.10), ma essere invece stato informato con ricchezza di dettagli da Carlo DIGILIO in relazione agli attentati del 12.12.1969 sia prima (int. 5.3.1997, f.2) sia dopo (int, 17.5.1997, f.10) la loro commissione. Anche della presenza di Gianfranco BERTOLI in Via Stella e dei preparativi per l’attentato all’on. RUMOR, il capitano CARRET era stato informato dettagliatamente da Carlo DIGILIO e, in tale occasione, non a caso l’ufficiale aveva mostrato la sua preoccupazione per un’azione rischiosissima che poteva mettere a repentaglio l’intera struttura (int. DIGILIO, 13.4.1997, ff.4-5). Quanto avvenuto nel dicembre 1969 non era quindi un fatto casuale o isolato, ma corrispondeva ad un preciso dovere di Carlo DIGILIO di informare, in relazione ai progetti e agli avvenimenti più gravi, il proprio referente al più alto livello. In presenza di tale situazione e in presenza altresì di un numero notevolissimo di riscontri, esposti nei capitoli precedenti, in merito all’esistenza e al funzionamento della struttura di sicurezza svelata da Carlo DIGILIO, appaiono pienamente prospettabili nei confronti dell’ufficiale americano diverse ipotesi di reato che vanno da quella generale di spionaggio politico-militare, già contestata a MINETTO e DIGILIO, a quelle specifiche di concorso o favoreggiamento in strage e altri attentati. Tali valutazioni e tali approfondimenti, compresa la piena identificazione dell’Ufficiale anche tramite attività di rogatoria, appaiono di competenza della Procura della 345 346 Repubblica di Milano che già conduce le indagini preliminari relative agli attentati del 12.12.1969. A tal fine, con il dispositivo della presente sentenza/ordinanza deve essere disposta, ai sensi dell’art.299, II comma, c.p.p. abrogato, la formale trasmissione alla Procura della Repubblica di Milano di tutti gli atti relativi alla posizione del capitano David CARRET e degli atti collegati, atti peraltro già da tempo nella disponibilità di tale Ufficio, affinchè sia valutato l’eventuale esercizio dell’azione penale. 346 57 L’ATTIVITA’ DI CONTROLLO DELLE INDAGINI SVOLTA DAL FIDUCIARIO DELLA C.I.A. CARLO ROCCHI NEL 1994 IL FAX INVIATO IN DATA 24.2.1994 ALL’AMBASCIATA DEGLI STATI UNITI, A ROMA, IN MERITO ALLO SVILUPPO DELLE INDAGINI L’attività di controllo delle indagini condotte da questo Ufficio da parte di Carlo ROCCHI tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 in favore della C.I.A. e dell’Ambasciata americana costituisce, al di là della sua indubbia valenza penale, una sorta di prosecuzione “ideale” e storica delle attività della struttura americana descritta in questa parte dell’ordinanza. Riassumendo la vicenda, già ampiamente esposta davanti alla Commissione Parlamentare sulle stragi e il terrorismo in data 8.11.1995 dal capitano Massimo Giraudo del Reparto Eversione del R.O.S., principale obiettivo dell’attività di inquinamento e di controllo di Carlo ROCCHI, è necessario premettere che nell’autunno del 1993 erano iniziati con successo una serie di colloqui investigativi, autorizzati da questo Ufficio e dalla Procura della Repubblica di Brescia, effettuati dal capitano Giraudo con Biagio PITARRESI, importante elemento dell’estrema destra milanese degli anni ‘70 ed in seguito protagonista, anche con ex-camerati, di sequestri di persona ed altri episodi di criminalità comune per i quali lo stesso era ancora detenuto in espiazione pena. Nel corso dei colloqui, poi formalizzati in varie deposizioni testimoniali rese sia a questo Ufficio sia alla Procura di Brescia, Biagio PITARRESI stava fornendo ed ha effettivamente fornito elementi importanti a sua conoscenza sia relativi al gruppo “La Fenice” e a Giancarlo ROGNONI, cui per vari anni era stato contiguo, sia relativi alle fasi preparatorie della strage di Piazza della Loggia, il cui progetto era maturato con ogni probabilità nell’ambiente milanese. Gli elementi forniti da Biagio PITARRESI, fra cui numerose circostanze di riscontro alle dichiarazioni di Martino SICILIANO, sono del resto indicati in vari passi sia della sentenza-ordinanza già depositata da questo Ufficio in data 18.3.1995 sia nella presente ordinanza, mentre altri saranno esposti all’interno dell’indagine tuttora in corso a Brescia e relativa alla strage di Piazza della Loggia. Si vedano, in proposito, le deposizioni rese a questo Ufficio da PITARRESI in data 10.11.192, 21.11.1994 e 5.5.1995 nonchè la deposizione resa a personale del R.O.S. in data 9.5.1995, in occasione della quale egli ha confermato la dinamica della vicenda ROCCHI così come esposta nel presente capitolo ed ha anche fornito ulteriori dettagli in merito ad operazioni svolte da ROCCHI in Italia e all’estero, e infine quella in data 9.9.1996). Con nota in data 18.1.1994, l’Ufficiale del R.O.S. impegnato nei colloqui investigativi con Biagio PITARRESI segnalava tuttavia una circostanza preoccupante e di notevole rilevanza per lo sviluppo delle indagini. 347 348 Biagio PITARRESI infatti, in occasione di un colloquio investigativo avvenuto il 19.12.1993, risolvendosi ad un rapporto di maggiore lealtà con l’investigatore, del quale aveva apprezzato la serietà nella conduzione delle indagini e nella ricerca della verità, riferiva di aver informato del tenore dei precedenti colloqui investigativi tale Carlo ROCCHI, residente C.I.A. a Milano, con il quale in passato lo stesso PITARRESI aveva svolto operazioni “coperte” in Austria e nei Paesi dell’Est-Europeo (cfr. nota del R.O.S. in data 18.1.1994, vol.41, fasc.2, ff.2 e ss., in particolare ff.8-9). Carlo ROCCHI, che era in contatto anche con il Centro S.I.S.De. di Milano e in particolare con il suo Responsabile portante il nome in codice dr.RINALDI, si era mostrato molto interessato e gli aveva chiesto di fargli avere, sempre utilizzando come tramite il figlio Luca PITARRESI, una lettera con l’indicazione delle domande che l’Ufficiale gli poneva nei colloqui allo scopo di capire fino a che punto fossero arrivate le indagini di questo Ufficio sugli americani. In tal modo i colloqui investigativi, cui PITARRESI avrebbe comunque dovuto fingere di essere disponibile, sarebbero stati utili alla struttura C.I.A. per acquisire notizie e soprattutto per conoscere i nomi degli eventuali indiziati appartenenti a tale ambiente. Inoltre Carlo ROCCHI, dopo essersi espresso nei confronti del capitano Giraudo con la frase: “adesso...gli facciamo la pelle” aveva avanzato a Biagio PITARRESI la preoccupante richiesta di essere informato in anticipo dello svolgimento dei successivi colloqui in modo da effettuare a distanza delle fotografie dell’Ufficiale, eventualmente mentre stava parlando nella caserma ove si sarebbe svolto il colloquio con lo stesso PITARRESI (cfr. allegato alla nota citata, f.9). Era stata quest’ultima proposta a disgustare Biagio PITARRESI che si era così risolto a non rendersi più disponibile ad una simile manovra. Sulla base di tali indicazioni, Carlo ROCCHI veniva identificato nell’omonimo, nato a Ovada il 29.8.1919, residente a Milano e titolare con il fratello Luigi di un’agenzia immobiliare, verosimilmente di copertura, con sede a Milano in Corso Europa n°22. Venivano altresì effettuati i primi riscontri, fra cui la veridicità di quanto affermato dal PITARRESI in merito al rinvenimento in suo possesso, al momento del suo arresto nel 1983, delle piantine, con classifica di segretezza della N.A.T.O., di un aeroporto abbandonato, sito in provincia di Brindisi, tuttora utilizzato in forma non ufficiale da servizi di sicurezza italiani e stranieri a scopo di addestramento (cfr. annotazione del R.O.S. citata, f.4; e anche atti acquisiti presso il Centro S.I.S.De. di Milano, vol.41, fasc.6., ff.18 e 20-22). Al fine di mettere a fuoco la figura di ROCCHI veniva inoltre acquisita presso il S.I.S.Mi. la copia integrale del fascicolo a lui intestato (cfr. vol.44), aperto sin dall’immediato dopoguerra. Da tale fascicolo risulta che Carlo ROCCHI intratteneva sin da quell’epoca rapporti con il Centro C.S. di Milano del SIFAR e con l’agente statunitense Charles 348 SIRACUSA e in tale veste aveva preso contatti in Spagna con Otto SKORZENY (liberatore di MUSSOLINI dalla prigionia del Gran Sasso) e con il colonnello DOLLMANN, convincendo quest’ultimo, insieme ad altri agenti americani, a rientrare da Madrid nei Paesi ancora sotto il controllo Alleato per partecipare con altri militari al rafforzamento del fronte anticomunista tedesco (cfr. nota del Centro C.S. di Milano, diretta all’Ufficio D in data 13.10.1952, vol.44, ff.26 e ss.). Il colonnello DOLLMANN era effettivamente arrivato a Francoforte insieme a Carlo ROCCHI il 7.10.1952, ma l’azione era stata per il momento sospesa in quanto il colonnello DOLLMANN era stato ugualmente fermato dalla Polizia Militare a Francoforte per essere sottoposto al processo di “denazificazione” già pendente a suo carico e per rispondere dell’ingresso in Germania con i falsi documenti italiani con i quali viaggiava. E’ molto probabile, tuttavia, che tale tentativo di reclutare il colonnello DOLLMANN affinchè questi, con il suo prestigio, si adoperasse a convincere altri ex-militari a collaborare con gli Occidentali (f.31) sia stato solo rallentato da tale circostanza, peraltro forse utile al pieno successo finale dell’operazione stessa. Negli anni successivi, Carlo ROCCHI, nella sua qualità di fiduciario anche del Centro C.S. di Milano, si era occupato di traffici illeciti di materiali strategici, quali alluminio e rame, verso i Paesi di Oltre Cortina (cfr. nota in data 17.10.1953, vol.44, f.11), attività anche questa in piena sintonia con quanto tratteggiato da Biagio PITARRESI in merito alla figura di Carlo ROCCHI. Altre attività di Carlo ROCCHI, sempre in base agli atti forniti dal Servizio (cfr. vol.44, f.85), riguardavano, ancora in collaborazione con Charles SIRACUSA, la repressione del traffico di sostanze stupefacenti a livello internazionale, e cioè l’attività nella quale, come fra poco si dirà, egli è risultato anche in questi ultimi anni ancora impegnato, sempre in contatto con funzionari americani. Al fine di bloccare l’azione di Carlo ROCCHI in direzione delle indagini e di acquisire sicuri elementi di prova, questo Ufficio disponeva quindi, a partire dal gennaio 1994, una fitta serie di intercettazioni telefoniche concernenti tutte le utenze in uso a ROCCHI, compresi i fax, e autorizzava altresì l’intercettazione fra presenti dei colloqui che erano in progetto, all’interno dell’Ufficio di ROCCHI, fra questi e Luca PITARRESI, avendo acconsentito quest’ultimo ad aiutare lo sviluppo delle indagini portando indosso in tali occasioni un microfono fornitogli dagli operanti. L’esito delle intercettazioni risultava estremamente positivo e consentiva di seguire passo passo l’azione di Carlo ROCCHI. Infatti dal complesso delle telefonate si evidenziava che Carlo ROCCHI era costantemente impegnato non in un’attività di agente immobiliare, ma in una serie di contatti con personaggi sia stranieri sia italiani (fra i quali il Commissario Walter BENEFORTI, già in servizio all’inizio degli anni ‘60 presso l’Ufficio Affari Riservati e negli anni ‘70 coinvolto nello scandalo delle intercettazioni telefoniche abusive; cfr. vol.41, fasc.2, ff.190 e ss.), occupandosi di traffici di vario genere e acquisendo informazioni, non si sa quanto lecitamente, in merito allo sviluppo di 349 350 varie indagini in materia di criminalità organizzata e traffico di sostanze stupefacenti in corso presso la Procura della Repubblica di Milano (cfr., fra le altre, la telefonata in data 1°.2.1994, vol.41, fasc.2, ff.21-23). Soprattutto, per quanto interessa la presente istruttoria, Carlo ROCCHI risultava in contatto, in Italia, con John COSTANZO, agente speciale della D.E.A. americana, ma, anche utilizzando tale copertura, funzionario della C.I.A. in Italia, con il quale si poneva in contatto sia tramite il telefono cellulare di COSTANZO sia tramite numeri dell’Ambasciata americana a Roma (cfr. annotazione del R.O.S. in data 28.2.1994, vol.41, fasc.2, ff.28 e ss.). Come segnalato da Biagio PITARRESI, Carlo ROCCHI risultava, sempre grazie alle intercettazioni telefoniche, parimenti in contatto con il dr. RINALDI del Centro S.I.S.De. di Milano al quale non aveva alcun problema a chiedere notizie in merito all’identità e alle attività del capitano Massimo Giraudo, spiegandone con il funzionario del Servizio anche il motivo (“vogliono coinvolgere i servizi americani” come “ispiratori delle stragi”) e ricevendo da questi una preoccupante promessa di “interessamento” (cfr. nota del R.O.S. in data 24.3.1994 e allegata trascrizione della telefonata in data 18.3.1994 fra ROCCHI e il dr. RINALDI, vol.41, fasc.2, ff.67 e ss.). Nelle varie conversazioni intercettate fra Luca PITARRESI e Carlo ROCCHI, quest’ultimo insisteva per avere i nomi delle persone coinvolte nelle indagini che Biagio PITARRESI poteva avere desunto dai colloqui investigativi (cfr., fra le altre, la conversazione in data 18.2.1994 alle ore 11.44, vol.41, fasc.2, f.45) e si decideva, a questo punto, di tendere a ROCCHI un ulteriore “tranello” fornendo a questi, sempre tramite Luca PITARRESI, un numero di telefono cellulare ed assicurandogli, tramite le parole del ragazzo, che si trattava di un cellulare “sicuro” appartenente ad un agente della polizia penitenziaria grazie al quale avrebbe potuto mettersi direttamente in contatto con il padre Biagio all’interno del carcere. Tale utenza cellulare era in realtà sottoposta ad intercettazione e momentaneamente fornita dagli operanti a PITARRESI con l’accordo, da questi rispettato, che egli fornisse a ROCCHI solo notizie e nomi inesatti, di fantasia o comunque generici, tali da non arrecare alcun danno alle indagini, ma al contrario da mettere in trappola Carlo ROCCHI qualora avesse tentato di utilizzare tali dati. Tale telefonata, effettuata da Carlo ROCCHI a quell’utenza in data 10.2.1994 (cfr. vol.41, fasc.2, ff.46 e 172 e ss.) si sviluppava come concordato, seguita da un’altra in data 31.3.1994, allorchè Biagio PITARRESI era stato scarcerato per motivi di salute, in cui Carlo ROCCHI ancora esortava il suo presunto “confidente” a fingere ancora di collaborare per acquisire in realtà, nel corso degli incontri, altre notizie da utilizzare in favore della struttura per cui ROCCHI lavorava (cfr. nota del R.O.S. in data 31.3.1994 e allegata trascrizione, vol.41, fasc.2, ff.75 e ss.). Sulla base delle notizie importanti (e invece completamente inutili o inesatte) di cui Carlo ROCCHI credeva di essere in possesso, ulteriormente integrate da un appunto manoscritto di Biagio PITARRESI fattogli recapitare sempre tramite il figlio Luca, 350 ROCCHI preannunziava a John COSTANZO, in data 24.2.1994, la trasmissione di un fax, effettivamente inviatogli alle ore 16.08, presso l’Ambasciata statunitense a Roma, componendo il numero 06-4674-1-2614; cfr. nota del R.O.S. in data 28.2.1994, vol.41, fasc.2, f.30). Tale fax, intercettato grazie ai servizi disposti da questo Ufficio, si compone di due fitte pagine dattiloscritte e contiene le notizie del tutto inesatte o generiche che Carlo ROCCHI credeva di aver invece utilmente acquisito sulla strage di Piazza Fontana, la strage di Piazza della Loggia e altri episodi di carattere eversivo e di poterle così mettere a disposizione dei suoi superiori nella struttura C.I.A. con sede all’interno dell’Ambasciata (cfr. nota R.O.S. citata, ff.57-58). In una successiva comunicazione telefonica fra ROCCHI e John COSTANZO, quest’ultimo manifestava, forse non a caso, un certo scetticismo, ma Carlo ROCCHI lo rassicurava ricordandogli che Biagio PITARRESI è un elemento di sicura “fedeltà” e che ha sempre fornito informazioni esatte (cfr. nota del R.O.S. in data 3.3.1994 e allegata trascrizione della telefonata in data 2.3.1994, ore 11.51, vol.41, fasc.2, ff.61 e ss.). Veniva così sventato il tentativo di controllo delle indagini da parte di enti stranieri, penalmente rilevante sotto il profilo dell’art.257 c.p. in quanto Carlo ROCCHI si è adoperato per mettere a disposizione delle Autorità di un altro Paese notizie relative ad un’attività istruttoria, di per sè segreta ed attinente a gravi fatti eversivi, in cui anche apparati del Paese che avrebbe dovuto ricevere le notizie potevano risultare coinvolti. Sotto questo profilo appare quantomeno discutibile la richiesta di archiviazione presentata al G.I.P. in data 13.6.1995 dal Sostituto Procuratore della Repubblica, dr. Ferdinando Pomarici, (gli atti redatti dal R.O.S. erano stati inviati in doppio originale anche alla Procura della Repubblica di Milano) in cui viene messo in dubbio il ruolo di ROCCHI, viene esclusa l’appartenenza di John COSTANZO alla C.I.A. e soprattutto si afferma che le notizie concernenti indagini penali non possono corrispondere alle notizie tutelate dall’art.257 c.p. (spionaggio politico o militare) anche in quanto destinate a divenire, infine, pubbliche, Osserva infatti, al contrario, la migliore dottrina che l’interesse politico interno dello Stato, protetto dalla norma, può riferirsi anche ad attività di indagine o ad attività istruttorie che abbiano per oggetto attività eversive di notevole gravità. Perdipiù nel caso in esame, e non poteva il Pubblico Ministero ignorarlo, le notizie dovevano essere fornite al Governo degli Stati Uniti d’America, i cui uomini e apparati, in base agli sviluppi dell’istruttoria, sarebbero coinvolti sia nella fase preparatoria sia nella fase propriamente esecutiva delle suddette attività eversive e sembra quindi indubbio che l’acquisizione anticipata di notizie su tali attività potesse comportare, in prospettiva, un danno politico per lo Stato italiano sul piano dell’atteggiamento da assumere nelle relazioni internazionali. La prospettazione del Pubblico Ministero (per il quale, evidentemente, contattare in carcere un detenuto testimone in una indagine relativa a gravi fatti eversivi non 351 352 costituisce nè il reato di cui all’art.257 c.p. nè alcun altro reato) si è rivelata inesatta anche su un piano di fatto. Infatti, prima che il G.I.P. decidesse in ordine alla richiesta di archiviazione nei confronti di Carlo ROCCHI, questi è stato sentito, da questo Ufficio e dal Pubblico Ministero nuovo titolare delle indagini, ai sensi dell’art.348 bis c.p.p. del 1930 e in tale circostanza egli ha ammesso con moltissimi dettagli sia la propria attività sia quella di John COSTANZO all’interno della C.I.A., confessando altresì in modo pressochè completo la materialità dei fatti e solo sostenendo sul piano soggettivo, con un certo candore, che si trattava di un’attività “doverosa” poichè gli americani hanno il diritto di sapere..... ciò che avviene in Italia. L’interrogatorio di Carlo ROCCHI merita di essere riportato nei suoi passi salienti poichè è un testo emblematico di tale concezione del mondo: “””....Voglio però subito dire che io sin dal 1950 ho lavorato in modo sia ufficiale sia non ufficiale, come meglio spiegherò, per Enti Informativi americani, condividendo gli ideali di tale Paese che è alleato del nostro. Questi miei contatti risalgono al periodo bellico in quanto io ho prestato servizio in Medio Oriente nella Brigata Folgore e ho partecipato all'avanzata in Egitto a fianco del Corpo tedesco del generale Rommel. Sono stato catturato con tutto il Corpo di spedizione nella zona di El Alamein quando le sorti del conflitto volsero a favore degli inglesi e rimasi prigioniero prima degli inglesi e poi degli americani...... Proprio in quel periodo strinsi i primi contatti con strutture di Intelligence americane e in particolare con quello allora chiamato O.S.S. cioè l'Overseas Secret Service. Quindi, a partire dall'immediato dopoguerra, ho collaborato ufficialmente con diversi enti informativi tra cui l'Ufficio narcotici, l'F.B.I. il Secret Service che corrisponderebbe alla nostra Guardia di Finanza, e la C.I.A., con quest'ultima dal 1978 fino al 1985 anno in cui ho cessato l'attività operativa avendo compiuto il 65° anno di età. Ero regolarmente stipendiato da questi Enti a seconda dei vari servizi che svolgevo e avevo la qualifica di Special Agent sotto copertura. Faccio presente che nel 1985, quando ho concluso la mia attività operativa, lavoravo da qualche anno a New York presso la Presidential Task Force, un Ente che riunisce tutte le Agenzie Federali, come la D.E.A la C.I.A e l'F.B.I. per coordinare meglio tutte le operazioni. Ovviamente nel corso della mia attività ho svolto molte missioni all'estero sia nel campo dei narcotici, all'inizio della mia attività, sia nel campo politico. Ad esempio svolsi una missione a Saigon con altri agenti della C.I.A., un anno prima della fine della guerra, quindi nel 1974, e in quell'occasione ci facemmo passare per francesi con l'obiettivo di controllare l'attività di alcuni francesi rimasti in Indocina dopo la fine del colonialismo e passati a lavorare per i servizi segreti comunisti. 352 Posso in sintesi dire che ho svolto missioni in Spagna, in Portogallo a Beirut, in occasione del rapimento di Terry Waite, e un po' in tutto il mondo. Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia avuto contatti anche con strutture informative italiane, posso dire che io, anche in tempi recenti, ho avuto contatti con il centro SISDE di Milano e in particolare con il dr. Rinaldi, nome di copertura del Direttore del Centro, nel campo della sicurezza interna. In particolare al dr. Rinaldi, all'inizio degli anni '80, avevo presentato l'unico appartenente all'ambiente della destra eversiva che io abbia conosciuto e cioè Biagio Pitarresi. Costui ha svolto per il Rinaldi l'attività di confidente sopratutto nel campo del traffico di armi in quanto il Pitarresi era ormai legato alla delinquenza comune. Il Pitarresi era anche inserito nel traffico di droga e univa le sue attività come confidente ad attività in proprio. Il dr. Rinaldi comunque gli affidò molti incarichi. Ricordo che anch'io con Pitarresi, su incarico della D.E.A., feci un viaggio in Austria per contattare d'intesa con i Servizi austriaco, dei potenziali trafficanti di droga. L'operazione però non andò a buon fine in quanto questi trafficanti furono arrestati per altri motivi. Poichè, sempre a titolo di ricostruzione della mia attività, l'Ufficio mi chiede se io abbia conosciuto John Costanzo, posso dire che lo conosco da molti anni ed è responsabile attualmente della D.E.A. a Roma, mentre prima era Special Agent a Milano. Sono con lui in buonissimi rapporti di collaborazione. Anche recentemente ho lavorato con lui nel campo del narcotraffico consentendogli di entrare in contatto con un importante narcotrafficante. In tale occasione era presente anche Alessandro Pansa del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato. Non ho invece mai avuto rapporti con il SISMI, tuttavia ricordo che quando il Servizio militare si chiamava ancora S.I.D., più o meno ai tempi del generale De Lorenzo, ebbi alcuni rapporti nel campo della sicurezza militare ed entrai in contatto a Milano con rappresentanti locali del Servizio e cioè i Capi Centro, in particolare con i colonnelli Giuseppe Palumbo, Recchia e Burlando. Ho sempre avuto anche buoni rapporti con la Questura sin dagli anni '60,l anche se da qualche anno questi rapporti sono interrotti. Ricordo a titolo di esempio che collaborai con il Questore Agnesina per la ricerca di armi in Alto Adige ai tempi del terrorismo. In questa operazione fui aiutato dal colonnello Dollmann, che conoscevo molto bene e che nel 1952 feci rientrare dalla Spagna in Germania insieme ad altri agenti americani, e cioè Smith e Mendel. Con un nostro stratagemma il colonnello Dollmann fu arrestato in Germania perchè egli non si allontanasse dal Paese e la sua presenza ci serviva per stabilire dei contatti con ex ufficiali dell'Armata di Von Paulus e avvicinarli 353 354 quindi alla causa anticomunista, allontanandolo invece dalla tentazione di passare al blocco comunista. Per questa ragione avevamo dato a Dollmann un passaporto italiano, creandogli questo piccolo guaio.... Poichè l'Ufficio mi chiede se io, alla fine del 1993, abbia avuto rapporti con Luca Pitarresi, figlio di Biagio, il quale era allora detenuto a Padova, posso spiegare quanto segue. Fu Luca, che io non avevo mai visto, a venirmi a cercare per conto del padre e mi disse che il padre era stato contattato in carcere da un ufficiale dei Carabinieri a nome Giraudo. Luca Pitarresi mi disse che l'ufficiale dei Carabinieri, per conto della magistratura milanese stava lavorando sull'eversione di destra e in particolare sulla strage di Piazza Fontana e forse su quella di Piazza della Loggia. In particolare al padre erano state chieste informazioni anche su personaggi stranieri francesi, portoghesi e americani e l'ufficiale sosteneva che erano emersi coinvolgimenti in tali vicende da parte dei servizi americani. Conseguentemente Luca, conoscendo la mia pregressa attività tramite il padre, mi chiese se queste notizie mi interessavano a fini informativi. Credo che questo contatto risalga alla fine del 1993. Io non diedi particolare peso a queste notizie anche perchè non conoscevo nessuno dei nomi che mi erano stati fatti, se non genericamente qualche nome di italiano noto, come Delle Chiaie. Ricevetti alcuni appunti da Luca, appunti che gli erano stati consegnati dal padre, e alcune lettere direttamente da Biagio con la sua riconoscibilissima calligrafia e in italiano stentato. Ricevetti un paio di appunti da Luca e quattro o cinque lettere da Biagio. Passai tutti questi documenti al dr. Rinaldi in quanto preposto al controspionaggio interno. In questo periodo Luca venne da me due o tre volte in Corso Europa. A D.R.: Di questo cose non ho mai parlato con Biagio Pitarresi, anche perchè lo stesso era detenuto. Poichè l'Ufficio mi fa presente che risultano dagli atti elementi documentali di suoi contatti in merito alla questione ora accennata con Biagio Pitarresi, sono in grado ora di ricordare che ho avuto con lui due contatti telefonici. Mi chiamò lui affermando che telefonava tramite un cellulare dall'interno del carcere, cellulare prestatogli da qualcuno. Poichè l'Ufficio mi fa presente che tali telefonate risultano essere avvenute il 9 febbraio e il 31 marzo 1994, posso dire che si tratta con ogni probabilità delle telefonate che ricordo. 354 Nel corso di queste conversazioni, Pitarresi mi ripetè le notizie e i nomi che aveva acquisito sullo svolgimento dell'inchiesta, ribadendomi che erano emersi elementi in merito al coinvolgimento dei Servizi americani. Gli risposi che non credevo a quanto mi stava dicendo, ma che se aveva veramente delle notizie concrete e certe avrebbe potuto farmele sapere. Francamente al momento non ricordo altro, comunque passai tutte le notizie al dr. Rinaldi insieme, come ho detto, alle lettere e agli appunti. Poichè l'Ufficio mi chiede se io abbia informato John Costanzo delle notizie fornitemi da Pitarresi, rispondo di sì. Io gli feci una relazione, ricordo sicuramente una sola, e gliela inviai in fax a Roma all'Ambasciata americana. Ricordo che il numero dell'Ambasciata inizia con 4674 e poi c'è il numero di fax che mi pare finisca per 60, mentre ricordo che il suo interno è 2319. A D.R.: Preferisco non rispondere sul nome di copertura in quanto per ovvie ragioni connesse al giuramento di fedeltà prestato durante la mia pregressa attività, non ritengo possibile nè giusto fornire indicazioni su agenti della C.I.A. in Italia. Prendo visione degli allegati al rapporto del R.O.S. in data 28.2.1994 e in particolare degli allegati n.4 e 5. Nell'allegato n.5 riconosco una lettera mandatami da Biagio Pitarresi o comunque un documento mandatomi tramite Luca. Si tratta del documento che comincia con le frasi "C'era un'agenzia di stampa..." e ricordo che conteneva nomi che non mi dicevano nulla a parte nomi notissimi come quello di Delle Chiaie. Nell'allegato n.4, benchè non perfettamente leggibile, riconosco il fax che ho mandato all'Ambasciata americana a Roma. Il cedolino in calce al fax porta il numero da me chiamato e noto che le cifre finali sono 2614 e quindi un po' diverse dal 60 che ricordavo, ma che è comunque il numero del fax. Mandai all'Ambasciata anche una copia del biglietto da visita del capitano Giraudo che mi era stato dato da Luca Pitarresi.... Poichè l'Ufficio mi chiede perchè io abbia mandato il fax all'Ambasciata americana, posso dire che per scrupolo di coscienza ho mandato quest'unica relazione in quanto Pitarresi insisteva sul fatto che fossero state trovate le prove del coinvolgimento degli americani negli attentati degli anni '70. Ho invece mandato al dr. Rinaldi tutti i documenti che avevo ricevuto.... L'Ufficio chiede al sig. Rocchi se abbia chiesto notizie al dr. Rinaldi in merito al capitano Giraudo.. 355 356 Posso dire in proposito notizie in merito al capitano Giraudo al dr. Dr. Rinaldi solo per sapere se questo capitano esistesse veramente e che Biagio Pitarresi non mi stesse raccontando delle frottole. Per tale motivo ho indicato al dr. Rinaldi i numeri di telefono del capitano Giraudo, quali emergevano dal biglietto da visita che mi aveva dato Luca Pitarresi, spiegandogli il motivo per cui glielo stavo chiedendo. Per quanto riguarda John Costanzo, ritengo ovviamente di avergli preannunziato l'invio del fax, non ricordo se per telefono o di persona. Ritengo anche di avere commentato le notizie di persona o per telefono con Costanzo dopo avergli inviato il fax. In quella occasione avevo manifestato a Costanzo la mia opinione che si trattasse di frottole e del resto la cosa, dopo breve tempo, non ha avuto più seguito. A Pitarresi avevo comunque detto di usare le sue informazioni come meglio credesse per trarre i vantaggi che poteva in relazione alla sua situazione carceraria.... L'Ufficio fa presente al sig. Rocchi che nel corso dell'incontro tra lui e Luca Pitarresi, avvenuto il 7.2.1994 in Corso Europa dalle ore 16.51 in poi, egli ha comunicato a Luca il numero 795154, indicandolo come riservato, cui Biagio avrebbe potuto chiamarlo e gli ha fatto presente che nel caso tale numero avesse dovuto passarlo a Biagio tramite una guardia doveva essere presa la precauzione di togliere una unità da ogni numero. L'Ufficio fa presente altresì che Rocchi, nel corso di tale incontro, ha comunicato a Luca che "bisogna capire chi c'è dietro". Non ricordo questi dettagli. Quella di togliere una unità da ogni numero è una normale precauzione che si utilizza per impedire che i numeri giusti vadano in giro. L'Ufficio fa presente al sig. Rocchi che nel corso dell'incontro con Luca Pitarresi dell'11.3.1994 dalle ore 10.20 alle ore 10.35 lo stesso Rocchi fa presente a Luca che Biagio Pitarresi può dire "quello che sa, il minimo indispensabile", "digli: fa' il furbo, perchè entrando dentro lì può venire a sapere qualche cosa". In merito devo dire che posso avergli detto così solo per dargli qualche importanza e comunque da Roma non avevo avuto più alcun riscontro in merito alla vicenda che quindi consideravo chiusa. L'Ufficio fa presente che nella telefonata del 9.2.1994 ore 12.01 tra il Sig. Rocchi e Biagio Pitarresi (allegato n.8 al rapporto 28.2.1994 del R.O.S.) il Rocchi esordisce con le parole "dimmi, dimmi tutto" ed acquisisce e trascrive notizie anche in merito al giudice procedente. 356 Posso dire in merito che avevo chiesto notizie sul giudice anche perchè sapevo c'era un'inchiesta in corso. L'Ufficio fa presente che nel corso della conversazione il Rocchi promette a Pitarresi di sentirlo ancora e farà una relazione. In merito posso confermare che glielo avevo detto. L'Ufficio a questo punto dà lettura integrale della telefonata intercettata il 10.2.1994 alle ore 12.01. L'Ufficio fa presente che dalla lettura della telefonata si evince che Carlo Rocchi acquisisce notizie non in merito alle cognizioni del Pitarresi sui fatti, bensì in merito a quello che lo stesso Pitarresi avrebbe recepito nel corso dei colloqui investigativi e cioè il patrimonio interno all'istruttoria, tanto è vero che il Rocchi domanda "ma ti hanno dato dei particolari, ti hanno fatto dei nomi?" Posso dire che ho accettato di ricevere queste notizie a titolo di curiosità personale, il che mi sembra normale. L'Ufficio fa presente al Rocchi che stava parlando con un detenuto. Risposta: Lo so che era detenuto, ma era stato lui a cercarmi e io non l'ho sollecitato. L'Ufficio contesta al Rocchi che però egli ha fornito il numero telefonico tramite il quale essere contattato. Risposta: Luca me l'ha chiesto e io gliel'ho dato.... A domanda dell'Ufficio non mi sono mai occupato nel corso della mia attività di vicende attinenti alla politica interna o al terrorismo, anche perchè sono cittadino italiano. Ho anche sempre evitato di essere coinvolto in operazioni contrarie alla mia coscienza o agli interessi italiani. La mia esperienza è stata comunque molto vasta, ad esempio ho fatto viaggi in Guatemala e Salvador e ho potuto conoscere il maggiore D'Aubuisson pochi giorni prima che morisse. Posso aggiungere che attualmente non sono più in servizio anche se con una certa frequenza gli americani mi chiedono consulenze o faccio gli onori di casa quando qualche funzionario passa da Milano. La mia attività per la C.I.A. mi consente di godere di un fondo di previdenza pagato su un conto in Svizzera”””. (int. Carlo ROCCHI ex art.348 bis c.p.p., 29.6.1995). La morte di Carlo ROCCHI, nell’estate del 1996, ha reso impossibile ulteriori approfondimenti. La vicenda di cui è stato protagonista all’interno di queste indagini, e che trova le sue radici nelle più lontane e gravi vicende di cui ha parlato Carlo DIGILIO, 357 358 costituisce comunque un piccolo tassello di quella che è stata definita la “sovranità limitata” in cui ha in parte vissuto il nostro Paese. PARTE SESTA L’ATTIVITA’ DI GUERIN SERAC E DELL’AGINTER PRESS 358 58 L’ATTIVITA’ DELL’AGINTER PRESS PREMESSA GENERALE L’APPUNTO S.I.D. DEL 16.12.1969 Nel maggio del 1974, un gruppo di militanti appartenenti al nuovo Governo portoghese, nato dalla Rivoluzione dei Garofani dell’aprile precedente, faceva irruzione nei locali di un’agenzia di stampa al civico 13 di Rua des Pracas, a Lisbona, dove un funzionario della PIDE, l’ex polizia politica del regime salazarista, aveva rivelato celarsi, sotto la copertura dell’agenzia AGINTER PRESS, una centrale di informazioni che aveva lavorato per la PIDE stessa. Nei locali semi-abbandonati dell’agenzia, frequentata saltuariamente solo da un impiegato dopo gli eventi del 25.4.1974, veniva rinvenuta, oltre a un enorme archivio con documenti e microfilm riguardanti ogni Continente e Paese del mondo, un’officina per la fabbricazione di falsi documenti, comprese tessere di giornalisti e di poliziotti, di numerosi Paesi nonchè visti e timbri relativi alle principali frontiere europee. Venivano anche rinvenuti documenti commerciali concernenti transazioni di notevole entità e libri contabili riguardanti i pagamenti di singoli militanti indicati con sigle e nomi cifrati. L’esame della documentazione proseguiva presso la Commissione di smantellamento della PIDE e, secondo i risultati di tale inchiesta, l’AGINTER PRESS era stata, sino all’aprile 1974, un centro di eversione internazionale, finanziato non solo dal Governo portoghese ma anche da altri Governi europei, dietro cui si celava: - un centro spionistico legato ai servizi segreti portoghesi e ad altri servizi segreti occidentali quali la C.I.A. e la rete tedesco-occidentale GEHLEN; - un centro di reclutamento e di addestramento di mercenari e terroristi specializzati in attentati e sabotaggi soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo; - un’organizzazione fascista internazionale denominata “ORDRE ET TRADITION” e il suo braccio militare O.A.C.I. (ORGANIZATION D’ACTION CONTRE LE COMMUNISME INTERNATIONAL). La documentazione presentava un numero impressionante di riferimenti a tecniche di terrorismo e di guerra non ortodossa, per le quali l’AGINTER PRESS, disponendo di centri di addestramento sia in Portogallo sia in Africa, aveva istituito corsi di “formazione speciale” della durata di 3 settimane. 359 360 In tali corsi venivano insegnate le tecniche di sorveglianza e di pedinamento, le tecniche di contatto fra agenti, le tecniche di interrogatorio (come condurlo e come subirlo), le tecniche di alibi e di falsa confessione in caso di arresto e, soprattutto, le tecniche di terrorismo e di sabotaggio in ogni situazione politico-geografica. Particolare attenzione veniva dedicata alle missioni speciali, finalizzate sia all’infiltrazione e alla guerra psicologica sia all’eliminazione di obiettivi materiali o umani, missioni descritte in modo particolareggiato nella loro scansione dalla fase preparatoria e dall’arrivo del primo esecutore sul posto, caratterizzato da un’attività di copertura e da una vita passata fittizia e studiata solo per i terzi che con lui venissero in contatto, fino al debriefing e cioè la cancellazione di ogni traccia umana e materiale della missione che era avvenuta. La complessiva documentazione sequestrata nella sede dell’AGINTER PRESS nel 1974 dimostra già da sola che essa non fosse solo un’organizzazione terroristica in senso proprio, come quelle di destra o di sinistra che hanno operato nel nostro Paese in tempi passati, ma una struttura in grado di impiantare, dove operava, tecniche di guerra non ortodossa (la guerra segreta e non dichiarata che mutuava alcuni principi dallo stesso nemico comunista che intendeva combattere) e utilizzava strumenti tipici dell’attività di intelligence e cioè tecniche da vero e proprio servizio di sicurezza non ufficiale. Estremamente indicativi in questo senso sono il sistema crittografico usato dall’AGINTER PRESS e il codice alfa-numerico attribuito a ciascuno dei suoi principali esponenti, provenienti dal materiale sequestrato a Rua des Pracas 13 e acquisito recentemente in Francia da personale del R.O.S. (cfr. vol.36, fasc.2). Il sistema crittografico funzionava attribuendo a ciascuna parola di interesse una chiave segreta a doppia lettera desumibile da una tavola di riferimento utilizzata da tutta l’organizzazione (ad esempio, la parola aereoporto poteva essere indicata con le lettere AN o NA) cosicchè i concetti chiave per qualsiasi azione potevano essere scambiati da esponente a esponente della struttura, anche via radio, senza rischio alcuno. La decrittazione della tavola di riferimento (resa possibile anche dalla relazione tecnica del S.I.S.Mi. in data 30.12.1994, allegata alla nota del R.O.S. in data 2.1.1995, vol.36, fasc.2, ff.1 e ss.) ha consentito di evidenziare tutti i concetti di interesse per l’organizzazione: da azione a trasmissione (1^ colonna), da aereo ad autostrada o attacco (2^ colonna), da blindato a sbarco (3^ colonna), da ferroviario a gendarmeria (4^ colonna), da elicottero a infiltrazione (6^ colonna), da logistico a messaggio (7^ colonna), da missione a obiettivo e a mortaio (8^ colonna), da pagamento a quartier generale (9^ colonna), da informazione a sabotaggio (10^ colonna), da sicurezza a telegrafo (11^ colonna) e così via. Tali termini caratterizzano non una semplice attività terroristica, ma una vera e propria attività militare, seppure “coperta” e non dichiarata (cfr. nota del R.O.S. in data 29.11.1996, vol.36, fasc.2, ff.11 e ss.). Nel secondo documento sono presenti i nomi veri dei più importanti esponenti dell’organizzazione, accompagnati non solo da un nome di battaglia, ma da un 360 codice alfa-numerico per ciascun soggetto: ad esempio, GUERIN SERAC è RALPH e il suo codice alfa-numerico è C 11; Jean Marie LAURENT è JOEL e il suo codice è R 22 e così via. In tutte le formazioni eversive l’utilizzo di nomi di battaglia a protezione della reale identità è molto comune, ma è assolutamente inusuale l’utilizzo di codici alfa-numerici patrimonio, piuttosto, di strutture militari o di intelligence e utilizzati soprattutto per comunicazioni a mezzo radio (cfr. nota del R.O.S. in data 29.11.1996 citata, f.23). Direttore dell’AGINTER PRESS, fondata nel settembre del 1966 a Lisbona soprattutto da elementi francesi, era Yves GUILLOU alias GUERIN SERAC, di origine bretone, già combattente con il grado di capitano in Corea, Indocina e Algeria, il quale, nel febbraio del 1962 a Orano, aveva disertato dall’Esercito Francese e si era unito all’O.A.S. (cfr. annotazione del Ministero dell’Interno Servizio Informazioni e Sicurezza Interna, inviata al G.I. dr. D’Ambrosio in data 20.12.1973; vol.36, fasc.5, ff.1 e ss.). Dopo la sconfitta algerina, GUERIN SERAC, con altri reduci dell’O.A.S., era riparato in Portogallo per sfuggire alla condanna per diserzione e tradimento e qui aveva preso corpo l’idea di dar vita ad un’organizzazione anticomunista internazionale (una sorta di O.A.S. internazionale) formata da specialisti nella lotta contro la “sovversione” e caratterizzata non solo, o non tanto, da un’ideologia fascista (GUERIN SERAC, personalmente, era di orientamento cattolico-tradizionalista e molti reduci dell’O.A.S. avevano addirittura partecipato, durante la seconda guerra mondiale, alla resistenza contro i tedeschi), quanto da una scelta di campo in favore dei “valori occidentali”, ovunque fossero minacciati dai comunisti e dai loro alleati, e attenta nei primi anni ‘60 soprattutto alla tematica della difesa della “presenza bianca” nei pochi territori africani rimasti in mano agli europei. Un simile orientamento e un simile campo di intervento comportava di mantenere collegamenti con le forze anticomuniste di tutti i Paesi (nell’archivio di Rua des Pracas sono state trovate tracce di contatti e di scambi di informazioni che coprono pressochè l’intero globo, Italia compresa) e di non rifiutare il contatto con i servizi di sicurezza dei principali Paesi occidentali, anch’essi impegnati nella comune battaglia contro il comunismo e che potevano essere interessati ad “appaltare” all’AGENZIA operazioni sporche, quali attentati o azioni di sabotaggio o reclutamento di mercenari per il Paesi del Terzo Mondo, che non potevano essere condotte ufficialmente e in prima persona da entità governative. Il principale campo di interesse dell’AGINTER PRESS, nei primi anni di vita, erano stati i Paesi africani, soprattutto quelli ove vi era ancora una presenza europea (Congo, Angola, Mozambico, Rhodesia) minacciata dai movimenti anti-colonialisti e dove quindi era necessario inviare mercenari esperti ed anche svolgere un’azione più raffinata, caratterizzata dall’infiltrazione (e quindi dalla disgregazione dall’interno) nei movimenti di liberazione e dalla creazione di “falsi” movimenti di liberazione con lo scopo specifico di screditare quelli veri. 361 362 A tal fine ad esempio, Roberto LEROY, braccio destro di GUERIN SERAC, si era recato in Tanzania, fra il 1968 e il 1969, sotto la veste di militante marxista-leninista e filo-cinese e, incontrando in tale Paese i principali leaders del FRELIMO (il movimento di liberazione del Mozambico), aveva svolto un’attenta opera di disinformazione e intossicazione mettendo l’una contro l’altra le varie tendenze del movimento e quindi avendo certamente una parte o ispirando l’assassinio di uno dei più importanti dirigenti del FRELIMO, Eduardo Mondlane, ucciso da un sofisticato congegno esplosivo nascosto all’interno di un libro, tecnica (si noti) nella quale GUERIN SERAC aveva istruito i suoi adepti (int. VINCIGUERRA, 25.7.1992, f.3). Ben presto l’AGINTER PRESS aveva comunque cominciato a rivolgere la sua attenzione alla situazione dei Paesi europei, soprattutto quelli come l’Italia più degli altri, sull’onda delle agitazioni studentesche e operaie del 1967/1968, minacciati dalla crescita delle forze di sinistra. In un documento molto noto dal titolo “LA NOSTRA AZIONE POLITICA”, rinvenuto negli archivi dell’AGINTER PRESS nel 1974, risalente alla fine del 1968 e inviato a Lisbona da un corrispondente italiano quasi certamente dell’area di Ordine Nuovo (cfr. il testo del documento, tradotto anche in italiano, allegato alla nota del R.O.S. in data 14.2.1994, vol.43, fasc.6, ff.17 e ss.), si auspica senza alcuna ambiguità la necessità di diffondere il caos in ogni struttura dello Stato, non però per distruggerlo (si ricordi che la strategia di partenza è la guerra controrivoluzionaria e non quella rivoluzionaria di stampo marxista, e suo intento è la stabilizzazione finale dell’ordine), ma per creare una reazione secondaria. Infatti, secondo il documento e il piano che esso tratteggia, è necessario scatenare l’azione contro lo Stato tramite l’azione di gruppi estremisti e filo-cinesi, che si indicano come già infiltrati da parte dell’AGINTER PRESS (e quindi manipolati, se non creati ad arte), in modo che la successiva reazione dell’opinione pubblica si rivolga contro le forze di sinistra nel loro complesso e, tramite una pressione sull’Esercito, la Magistratura e gli altri nuclei vitali dello Stato, la risposta finale sia una risposta d’ordine vista come “il solo strumento di salvezza per la Nazione”. In questo documento è esattamente delineata la strategia che personaggi come Mario MERLINO a Roma (inventore di un gruppo anarchico sotto il suo controllo) e Giovanni VENTURA in Veneto (infiltrato a manipolatore di un gruppo marxistaleninista a Padova) stavano già attuando ed è in pratica anticipato quanto sarebbe avvenuto in Italia l’anno successivo con il caos, appunto, le bombe e la strategia della tensione. Con la caduta del regime di CAETANO e la “Rivoluzione dei Garofani” dell’aprile 1974, GUERIN SERAC, i reduci dell’O.A.S. alle sue dipendenze e molti militanti portoghesi si trasferirono a Madrid, circostanza venuta per la prima volta alla luce con gli interrogatori resi da Vincenzo VINCIGUERRA, a partire dal 1991, che saranno illustrati nei prossimi capitoli. A Madrid saranno ripresi e rinsaldati i rapporti con gli italiani, sia appartenenti a Ordine Nuovo, come Giancarlo ROGNONI, sia appartenenti ad Avanguardia Nazionale, come Stefano DELLE CHIAIE, grazie alla stabile permanenza in tale 362 città di un nutrito gruppo di latitanti cui gli uomini di GUERIN SERAC daranno appoggio logistico e ospitalità. Il “gruppo di Madrid” così costituitosi, vera prosecuzione dell’esperienza dell’AGINTER PRESS, proseguirà la sua azione secondo le linee strategiche di sempre, mettendosi al servizio delle strutture di sicurezza spagnole nella “guerra sporca” contro i militanti dell’E.T.A. e continuando ad operare su diversi piani in altri Paesi d’Europa e anche in Sud-America. Caduto anche il bastione spagnolo dopo la morte del generale FRANCO, nell’autunno del 1975, molti elementi del gruppo si trasferiranno proprio in SudAmerica, mettendo le loro capacità operative al servizio soprattutto delle forze speciali cilene e argentine. Tale ulteriore “migrazione” è descritta da VINCIGUERRA (che raggiungerà l’Argentina e il Cile così come DELLE CHIAIE, Pierluigi PAGLIAI, Augusto CAUCHI e parecchi spagnoli e francesi) in particolare negli interrogatori resi al P.M. di Roma, dr. Giovanni Salvi, il quale stava indagando sugli attentati di cui erano stati vittime, anche con l’apporto di elementi italiani, l’esponente democristiano cileno Bernardo LEIGHTON e altri antifascisti cileni (cfr. vol.6, fasc.5, ff.162-185). Anche su altri piani, prettamente militari, elementi del gruppo proveniente da Madrid daranno un contributo non indifferente, ad esempio verificando per conto dei cileni le installazioni difensive peruviane nella zona di frontiera nella fase di tensione fra il Perù e il Cile, attività di spionaggio che poteva più facilmente essere affidata a cittadini stranieri i quali potevano passare per semplici turisti (int. VINCIGUERRA al P.M. di Roma, 16.2.1993, f.4, vol.6, fasc.5). L’esistenza di rapporti fra la struttura di GUERIN SERAC e le organizzazioni di estrema destra italiane, in particolare Ordine Nuovo, non è una novità ed era già parzialmente emersa durante le indagini condotte dall’A.G. di Milano sulla c.d. pista nera, anche perchè una piccola parte del materiale rinvenuto a Lisbona nella sede dell’AGINTER PRESS era stata fotografata da alcuni giornalisti italiani e prodotta ai giudici inquirenti dr. D’Ambrosio e dr. Alessandrini. Era anche in progetto una formale richiesta di rogatoria alle Autorità di Lisbona, ma, proprio nel periodo in cui l’iniziativa era in cantiere, le indagini relative alla strage di Piazza Fontana erano state trasferite a Catanzaro e l’inevitabile interruzione che ne era conseguita aveva fatto sì che tale iniziativa non venisse più ripresa. Era comunque noto che GUERIN SERAC e Pino RAUTI, dopo uno scambio di corrispondenza, si erano incontrati a Roma fra il 30 gennaio e il 1° febbraio 1968, anche se il contenuto di tali contatti era emerso solo parzialmente (cfr. nota del Ministero dell’Interno in data 20.12.1973, vol.36, fasc.5, ff.19-24, contenente notizie confidenziali da attribuirsi certamente alla fonte ARISTO, e cioè Armando MORTILLA, come evidenziato nella perizia del dr. Aldo Giannuli, pagg.165-169). L’anno precedente, del resto, fra il 22 luglio e il 4 agosto 1967, un elemento di Ordine Nuovo di La Spezia, Piergiorgio BRILLO, si era recato a Lisbona per partecipare ad un corso di addestramento presso una struttura dell’AGINTER PRESS (cfr. nota del 363 364 Ministero dell’Interno citata, ff.9-11, e atti acquisiti presso il S.I.S.Mi. relativi a BRILLO, vol.43, fasc.5). Sempre nel marzo 1967, inoltre, Robert LEROY e il dr. Carlo Maria MAGGI, rispettivamente uomini di fiducia di GUERIN SERAC e di Pino RAUTI, avevano partecipato ad un incontro ristretto tenutosi ad Abbiategrasso e organizzato dal N.O.E. (NOUVEL ORDRE EUROPEEN) su tematiche affini a quelle dell’AGINTER PRESS e cioè la “resistenza “ delle forze europee in Africa (cfr. nota della Digos di Milano in data 6.6.1996, vol.6, fasc.3, ff.19 e ss.; int. MAGGI al G.I. di Catanzaro, 6.10.1984, vol.1, fasc.13, f.2; e, sul punto, anche dichiarazioni di Martino SICILIANO che aveva accompagnato MAGGI, ZORZI e MOLIN all’incontro guidando la vettura di MAGGI, int. 25.5.1996, f.2, e 7.6.1996, ff.1-2). Nel corso della presente istruttoria è anche emerso che Guido GIANNETTINI e GUERIN SERAC si conoscevano sin dal 1964. E’ stata infatti acquisita, a fini di inquadramento generale, forse per la prima volta, presso l’archivio del S.I.S.Mi., l’intera produzione della fonte GUIDO (nome in codice di Guido GIANNETTINI) e cioè tutti i rapporti e le relazioni che questi aveva trasmesso o approntato, prima per il Reparto R e poi per il Reparto D del S.I.D., a partire dalla metà degli anni ‘60 (cfr. vol.37, fasc.1-5). Da due appunti della fonte GUIDO del giugno 1970, contenenti tuttavia notizie risalenti ad anni precedenti e originate da una richiesta del Servizio a GUIDO di fornire qualche approfondimento sull’AGINTER PRESS, risulta infatti che GIANNETTINI era in grado di fornire notizie abbastanza dettagliate su GUERIN SERAC avendolo frequentato nel 1964 e conoscendone il nome di battaglia RALPH (cfr. vol.37, fasc.1, ff.262-264). La fonte riferiva fra l’altro, oltre a particolari sull’aspetto fisico e le abitudini di vita di GUERIN SERAC (soggetto “inafferrabile” di cui nessuno ha mai disposto di una fotografia e che non è anagrafato in nessun Paese del mondo), che questi, esule dalla Francia per sfuggire alla giustizia di DE GAULLE e in contatto con la PIDE portoghese, si era recato, per missioni, nell’Africa Centrale ex-francese e nell’ex Congo Belga. L’AGINTER PRESS, da lui diretta, con il venir meno del potere gaullista (che aveva perseguitato gli ex-membri dell’O.A.S.) sarebbe stata in seguito finanziata e appoggiata dal nuovo Governo francese del Presidente POMPIDOU e l’atteggiamento della stessa in relazione ai conflitti medio-orientali sarebbe stato favorevole a Israele, in sintonia, peraltro, con la scelta di campo “occidentale”, più che neofascista, che caratterizzava la linea strategica seguita dall’AGINTER PRESS, come ampiamente emerso nel corso di questa istruttoria (cfr. appunto denominato AGINTER, vol.37. fasc.1, f.264). Guido GIANNETTINI, sentito sul punto da questo Ufficio in data 16.7.1993, ha riconosciuto come propri gli appunti (diretti all’epoca al Reparto D del S.I.D.) ammettendo di aver conosciuto nel 1964, a Lisbona, GUERIN SERAC, presentatogli dal capitano SOUETRE dell’O.A.S. e da un ufficiale della PIDE durante il soggiorno 364 finalizzato a contatti politici con gli ambienti di destra (dep. GIANNETTINI, 16.7.1973, ff.2-3, e 2.9.1993, f.1). I contatti di GUERIN SERAC con elementi italiani legati, direttamente o indirettamente, ad apparati istituzionali, sono quindi stati certamente molto frequenti già a partire dalla metà degli anni ‘60. Il ruolo e l’attività dell’AGINTER PRESS rimarrebbe solo un pezzo della storia delle organizzazioni anticomuniste degli anni ‘60/’70, e cioè del periodo cruciale dello scontro fra i Blocchi, se il suo nome e quello di GUERIN SERAC non fossero entrati di prepotenza nelle indagini sugli attentati del 12.12.1969 con l’appunto stilato dal S.I.D. il 16.12.1969, e cioè pochissimi giorni dopo la strage quando le indagini stavano imboccando la pista VALPREDA. In tale appunto, di fonte confidenziale e pervenuto alla magistratura solo nel marzo 1973, si riferisce in sintesi che la mente ispiratrice degli attentati sarebbe stato tale GUERIN SERAC, che gli attentati avvenuti a Roma il 12.12.1969, contemporaneamente alla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, sarebbero stati organizzati da Stefano DELLE CHIAIE e che l’esecutore dei due attentati di quel giorno all’Altare della Patria sarebbe stato Mario MERLINO, definito “filo-cinese” nell’appunto del 16.12.1969 e successivamente, nella versione più ridotta dello stesso appunto portante la data 17.12.1969, “anarchico”. Lo stesso GUERIN SERAC, dirigente a Lisbona dell’AGINTER PRESS e in stabile contatto con Stefano DELLE CHIAIE, sarebbe di ideologia anarchica e suo “aiutante” sarebbe un certo Robert LEROY di cui nel testo viene indicato l’indirizzo di Parigi (p.55 - 83 - 7 La Seyne sur Mer). Nell’appunto non si indica quale sia la fonte confidenziale, nemmeno con un nome in codice, ma doveva trattarsi di una persona in stretto contatto con le persone e gli avvenimenti oggetto dell’informativa, posto che non solo l’indirizzo di un personaggio poco noto come Robert LEROY risulterà esatto ad un successivo accertamento, ma che altre notizie che vi appaiono (il fatto che il congegno deposto in Piazza Fontana fosse ad orologeria e che Mario MERLINO, per circostanze assolutamente casuali, e cioè il comune luogo di villeggiatura, conoscesse il Direttore della Banca Nazionale dell’Agricoltura ove era scoppiata la bomba) sarebbero in seguito risultate a loro volta esatte ed erano assolutamente non note nel momento in cui - la sera del 13.12.1969 - la fonte aveva riferito a personale del S.I.D. tali notizie. In merito al significato e al valore di tale appunto, di cui sono sempre rimaste ignote l’origine e le sue vere finalità (in quanto redatto quasi a scopo “cautelativo”, ma non fatto pervenire all’Autorità Giudiziaria nella prima e cruciale fase delle indagini), si è discusso per anni nei vari procedimenti e nei dibattimenti celebrati per gli attentati del 12.12.1969, ma una nuova riflessione, anche alla luce delle risultanze di questa istruttoria e delle indagini collegate, appare legittima e forse difficilmente discutibile. Nell’appunto sono contenuti due serie di concetti, l’una depistante e l’altra probabilmente rispondente a verità, e la sua acquisizione nella prima fase delle 365 366 indagini, depurato dalla parte fuorviante, sarebbe stata di grande utilità per le Autorità inquirenti. Certamente GUERIN SERAC non era e non è di ideologia anarchica, come non era nè anarchico nè filo-cinese Mario MERLINO, rimasto sempre uomo di fiducia di Stefano DELLE CHIAIE e appositamente infiltrato in gruppi di sinistra. Se questa è la parte “depistante” dell’appunto (che sarebbe calibrata sulla necessità di non far fuoriuscire le indagini dall’alveo che stavano seguendo, e cioè la pista anarchica), altrettanto non sembra possa dirsi della catena di comando delineata sempre nell’appunto, e cioè, rimanendo ai punti essenziali, GUERIN SERAC come ispiratore, DELLE CHIAIE come organizzatore e MERLINO come esecutore degli attentati o quantomeno di parte di essi. Tale pista, che riporta l’intero piano degli attentati, tanto milanesi quanto romani, ad una strategia di estrema destra, anche con una ispirazione internazionale, è stata seguita con molte difficoltà e infine senza risultati processuali (se si eccettuano le parziali condanne di FREDA e VENTURA per gli attentati preparatori e quelle di MALETTI e LABRUNA per le attività di depistaggio) nel corso delle varie indagini, soprattutto quella condotta a metà degli anni ‘80 dal G.I. di Catanzaro dr. Emilio LEDONNE. Alla luce delle dichiarazioni rese da Vincenzo VINCIGUERRA fra il 1991 e il 1993 sull’attività del gruppo di Madrid, la parte sostanziale dell’appunto, e cioè quella che indica la catena di comando, pur alternandone il “colore” politico, non sembra possa più essere sottovalutata ed anzi dovrebbe essere sottoposta ad una approfondita riconsiderazione. Infatti: - VINCIGUERRA, personalmente presente a Madrid fra il 1974 e il 1975 ed “ospite” della struttura che era la prosecuzione dell’AGINTER PRESS, ha descritto in modo diretto e vivido l’operatività comune in azioni illegali di vasto respiro che legava in quegli anni GUERIN SERAC (in posizione preminente e sovraordinata) a Stefano DELLE CHIAIE, operatività non recente, ma frutto di rapporti e di concordanze strategiche che risalivano alla fine degli anni ‘60 e quindi alla fase cruciale tratteggiata dall’appunto. La “catena di comando” , quindi, esisteva ed era esistita in passato e la struttura sovranazionale di GUERIN SERAC era effettivamente in grado di ispirare un “protocollo di intervento” ai gruppi operativi nei singoli Paesi, basato su attività di infiltrazione e attentati. - VINCIGUERRA, inoltre, durante la sua permanenza a Madrid aveva avuto modo di verificare che una delle maggiori preoccupazioni di GUERIN SERAC e Stefano DELLE CHIAIE era che non venisse alla luce, nemmeno incidentalmente o per interventi giornalistici, tale antica “sintonia operativa” in quanto “D’Ambrosio aveva capito tutto” e se altri avessero potuto riprendere le indagini in direzione dell’AGINTER PRESS, interrotte nel 1974 con il trasferimento dell’istruttoria e cioè proprio nel momento più favorevole per sondare la situazione portoghese, molte 366 verità sugli avvenimenti italiani avrebbero cominciato VINCIGUERRA, 20.5.1992, ff.1-2, e 16.6.1992, f.3). ad emergere (int. Le dichiarazioni relative all’AGINTER PRESS rese da Vincenzo VINCIGUERRA, che saranno esposte nei prossimi capitoli, sono quindi molto significative poichè non solo mettono per la prima volta a fuoco, in modo diretto, una struttura “coperta” che ha operato per molti anni in diversi Continenti, ma contribuiscono alla ricostruzione di quanto, su un modello di intervento ispirato da tale struttura, è avvenuto anche nel nostro Paese. 367 368 59 LE DICHIARAZIONI DI VINCENZO VINCIGUERRA SULLA STRUTTURA DI GUERIN SERAC OPERANTE A MADRID Vincenzo VINCIGUERRA si era rifugiato in Spagna dal marzo 1974 al settembre 1975 per sfuggire alla probabile emissione da parte dell’A.G. di Gorizia di un mandato di cattura per il fallito dirottamente aereo di Ronchi dei Legionari e per gli altri attentati commessi in Friuli fra il 1971 e il 1972. Durante la permanenza in Spagna egli si era appoggiato alla struttura logistica e operativa costituita da GUERIN SERAC e Stefano DELLE CHIAIE e di cui facevano parte spagnoli, italiani, portoghesi, francesi e militanti di altre nazionalità fra cui l’americano Jay Simon SALBY, detto CASTOR. Tale struttura altro non era che la prosecuzione, sul piano temporale e sul piano strategico, dell’AGINTER PRESS che aveva dovuto abbandonare Lisbona nella primavera del 1974 e porsi quindi sotto la protezione non più della P.I.D.E. (la polizia politica portoghese), ma dei servizi di sicurezza spagnoli. Le dichiarazioni rese da Vincenzo VINCIGUERRA in relazione a tale argomento, sempre in un’ottica di ricostruzione di determinati avvenimenti storici e non di collaborazione processuale, sono comunque le più ampie e descrittive fra quelle rese a questo Ufficio tra il 1991 e il 1993 e sono le prime che abbiano consentito di comprendere dall’interno i meccanismi del gruppo madrileno e i rapporti precedenti, soprattutto fra GUERIN SERAC e gli italiani, che avevano reso possibile la sua formazione e il suo funzionamento anche in Spagna al servizio della medesima causa per cui già avevano combattuto sin dalla fine degli anni ‘60. In linea generale Vincenzo VINCIGUERRA ha spiegato che l’attività di GUERIN SERAC e delle persone che operavano con lui abbracciava tutti quei Paesi in cui più forte era il pericolo di un’avanzata da parte dei Partiti e delle formazioni comuniste e che il gruppo insediatosi a Madrid, dopo la “Rivoluzione dei Garofani” portoghese, aveva la caratteristica di essere formato anche da persone ufficialmente ricercate dalle Polizie dei Paesi di appartenenza o comunque emarginate per ragioni politiche, come molti ex-appartenenti all’O.A.S. algerina, ma che in realtà operavano indisturbate sotto la copertura dei servizi segreti dei Paesi occidentali (int. 7.5.1992, f.2). Dopo GUERIN SERAC, probabilmente sempre rimasto in contatto con i servizi di sicurezza francesi (int. 7.5.1992, f.2), la figura preminente nella fase madrilena era Stefano DELLE CHIAIE, anche in virtù dei rapporti personali che da lungo tempo egli aveva con SERAC (int. 7.5.1992, f.3). 368 A Madrid il gruppo disponeva di vari appartamenti che servivano come stabile rifugio per i latitanti, soprattutto italiani, e come basi operative: “””....il primo appartamento in cui abitai quando, nell'estate del 1974, arrivai a Madrid provenendo da Barcellona, era quello di Avenida Manzanarre, cui ho già accennato, quello appunto vicino al fiume. E' qui che fu ospitato per alcuni mesi GUERIN SERAC dopo la caduta del regime di Caetano. SERAC andò poi a vivere con la moglie in una villetta all'estrema periferia di Madrid. Credo che questo appartamento fosse regolarmente affittato nell'ambito del mercato immobiliare. Qui ha abitato anche Mario RICCI e anche DELLE CHIAIE nei periodi in cui era a Madrid. Era un appartamento che era una sorta di prima accoglienza ed era l'unico che possedevamo in quel momento. Partii da Madrid nel settembre del 1975 e quando tornai, nel giugno del 1976, c'era un secondo appartamento nella zona centrale di Madrid. Poi questo appartamento fu lasciato e si creò la disponibilità di due appartamenti. Uno era affittato regolarmente e sostanzialmente per abitarci, mentre l'altro, quello che ci fu procurato da EDUARDO, come ho già accennato, ci era stato appunto procurato dai Servizi Speciali spagnoli ed era "coperto". Contestualmente alla disponibilità di questo appartamento "coperto", i Servizi Speciali costituirono un fondo per il sostegno dei latitanti italiani che veniva amministrato da Stefano DELLE CHIAIE. In sostanza, a ciascuno veniva passata mensilmente una somma per le spese personali che si aggirava sulle 7.000 pesetas. In quest'ultimo appartamento potevano andare solo un numero limitato di persone autorizzate, tra cui oltre me, degli italiani, Mario RICCI e Giuseppe CALZONA. Con le persone non autorizzate non si poteva nemmeno parlare dell'esistenza di questo appartamento. Preciso quindi che quando si discusse degli episodi che mi vengono contestati nel presente interrogatorio, cioè quelli contro gli obiettivi algerini, eravamo ancora nell' appartamento di Avenida Manzanarre”””. (int. 23.9.1992, f.29. GUERIN SERAC aveva del resto sempre curato gli aspetti logistici, approntando anche al confine franco/spagnolo uno stabile punto di riferimento per i militanti diretti in Spagna: 369 370 “””RALPH (nota Ufficio: il nome in codice di GUERIN SERAC) aveva un uomo suo a Port Bou, di nome BOB, che era un ex appartenente ai commandos francesi, sommozzatore e palombaro, e che abitava a Port Bou nella zona francese. Ricordo che nel 1976 BOB accompagno clandestinamente uno di AVANGUARDIA dalla Francia alla Spagna e l'episodio provocò le rimostranze di RALPH perchè era stato utilizzato il suo uomo a Port Bou senza la sua preventiva autorizzazione. Posso aggiungere che BOB morì, ufficialmente cadendo in territorio francese dal treno rapido TALGO che unisce Barcellona a Parigi. L'episodio suscito nel nostro ambiente il forte sospetto che non si fosse trattato di un incidente, ma che si fosse trattato di omicidio ad opera di una struttura nemica. Questo episodio avvenne verso la seconda metà del 1976”””. (int. 30.6.1993, f.2). Il gruppo italiano coordinato da GUERIN SERAC e DELLE CHIAIE era numeroso. Oltre a Mario RICCI, Piero CARMASSI, Augusto CAUCHI e Pierluigi CONCUTELLI vi era Giuseppe CALZONA, simpatizzante di Avanguardia Nazionale, il quale si trovava in Spagna perchè ricercato per un omicidio di carattere comune commesso in Lombardia (int. 30.5.1992, f.2). Giuseppe CALZONA, originario della provincia di Catanzaro, era stato effettivamente condannato per l’omicidio, avvenuto a Monza nel 1972, di tale Alfio ODDO e segnalato, in seguito, in Spagna quale probabile componente di un gruppo che eseguiva attentati contro militanti dell’E.T.A. (cfr. nota della Digos di Milano in data 23.6.1992, vol.12, fasc.4, ff.30 e ss.). E’ singolare che CALZONA sia stato tratto in arresto a Madrid nell’estate del 1984, ma, godendo egli con molta probabilità ancora di coperture, sia stato presto rilasciato benchè la richiesta di estradizione delle nostre Autorità riguardasse non un delitto politico, ma un crimine di natura prettamente comune (cfr. nota Digos citata, f.31). Un altro militante italiano del gruppo aveva invece trovato la morte in un’azione contro un militante dell’E.T.A. avvenuta nel Paese Basco francese: “””Posso dire che un esempio concreto delle attività "coperte" all'estero del gruppo di Madrid fu l'azione cui ho accennato nel libro "Ergastolo per la libertà" che si svolse nel Paese Basco francese e in cui trovò la morte proprio un italiano. Ciò avvenne alla fine del 1975, io non vi partecipai, ma seppi che un gruppetto di camerati avevano fatto un agguato ad un dirigente dell'E.T.A., uccidendolo, ma questi prima di morire aveva reagito sparando a sua volta e ferendo in modo gravissimo l'italiano, questi, prima che il gruppo potesse rientrare in 370 Spagna, era morto e, a quanto mi fu detto, fu abbandonato in un fiume al fine di non lasciare tracce. Episodi del genere giustificano la necessità da parte dei Governi e dei Servizi di Sicurezza di qualsiasi Paese di impiegare in operazioni "coperte" persone che non possono essere ricollegate agli stessi Governi in modo tale da neutralizzare gli effetti negativi politici e diplomatici che azioni tese ad eliminare fisicamente avversari, come in questo caso, produrrebbero nell'opinione pubblica nazionale”””. (int. 7.5.1992, f.3). L’italiano caduto nell’azione in territorio francese è da identificarsi quasi con certezza in Mario PELLEGRINO, molto legato a Pierluigi CONCUTELLI e condannato, con questi e con altre persone vicine a Ordine Nuovo, per il sequestro a scopo di estorsione (in realtà a scopo di finanziamento per l’organizzazione) del banchiere Luigi MARIANO, fatto avvenuto nel 1975 in provincia di Taranto. Mario PELLEGRINO, sfuggito alla cattura, era infatti riuscito a raggiungere la Spagna e di lui non si sono avute più notizie ormai dalla metà degli anni ‘70. Uno degli uomini di fiducia di GUERIN SERAC presenti a Madrid era l’americano Jay Simon SALBY, soprannominato CASTOR, probabilmente legato alle strutture di sicurezza americane e reduce dall’operazione “Baia dei porci” a Cuba, tanto da essere stato indicato da Fidel Castro, in una trasmissione radiofonica, come il nemico numero uno di Cuba per le sue attività operative contro il Governo castrista (int. 2.6.193, f.1; e anche, sul punto, dep. ZAFFONI, 14.6.1996, f.3) CASTOR era stato arrestato in Algeria nel 1976 dopo un’azione terroristica commessa infiltrandosi nel Paese con un commando di cui faceva parte anche il francese Jean Pierre CHERID, anch’egli uomo di GUERIN SERAC (int. 18.4.1994, f.4 e, ampiamente, i due capitoli che seguono). CASTOR era sfuggito alla fucilazione anche grazie all’intervento di GUERIN SERAC che aveva utilizzato a tal fine i suoi rapporti con la Casa Regnante del vicino Marocco (cfr. memoriale VINCIGUERRA allegato all’interrogatorio in data 9.3.1992, f.17, e dep. a personale del R.O.S., 12.1.1995, f.1). Le azioni “coperte” che il gruppo di GUERIN SERAC aveva organizzato a metà degli anni ‘70 erano numerose e avevano coperto sia Paesi europei sia Paesi extraeuropei. Ecco, in sintesi, quello che Vincenzo VINCIGUERRA ha riferito per diretta partecipazione o in base agli elementi di conoscenza acquisiti durante la sua permanenza in Spagna: - Il gruppo si è innanzitutto premurato di contraccambiare concretamente l’ospitalità e l’aiuto offerto dalle strutture spagnole, rendendosi disponibile ad azioni “coperte” 371 372 contro militanti dell’E.T.A. e altri militanti antifascisti nell’ambito di quella che è stata chiamata la “guerra sporca” condotta dalle strutture parallele spagnole. Vincenzo VINCIGUERRA non era stato direttamente utilizzato, per scelta di Stefano DELLE CHIAIE, sul piano operativo, tuttavia aveva personalmente ricevuto, tramite Mariano SANCHEZ COVISA, le schede con informazioni e foto segnaletiche relative ai rifugiati dell’E.T.A. in Francia (alcuni dei quali sarebbero poi stati colpiti) e una mitraglietta INGRAM “M10” che doveva essere usata per tali operazioni e che era stata custodita in uno degli appartamenti del gruppo (int. 30.5.1992, f.2). Certamente gli uomini presenti a Madrid erano perfettamente addestrati per azioni di questo tipo in quanto, come ha ricordato VINCIGUERRA (int.25.7.1992, ff.2-3), sfruttando la sua esperienza di ufficiale dei “commandos” francesi, GUERIN SERAC aveva messo a disposizione dei militanti tutto il suo bagaglio tecnico concernente i metodi per identificare, pedinare e prelevare le vittime ed altresì le tecniche relative all’uso e al trasporto delle armi e degli esplosivi. Ad esempio, GUERIN SERAC aveva, un giorno, personalmente mostrato a VINCIGUERRA un libro piuttosto grande, tipo dizionario, con un incavo scavato all’interno che serviva per trasportare, senza dare sospetti e in condizioni di sicurezza, esplosivo ed armi di piccolo calibro (int. 25.7.1992, f.3). Si ricordi, fra l’altro, che proprio con una delle mitragliette INGRAM “M10” (fabbricate negli Stati Uniti, acquistate dal Servizio Centrale della Polizia spagnola nel febbraio 1975 e da tale struttura ceduta al gruppo di Madrid) Pierluigi CONCUTELLI aveva ucciso, nel luglio 1976, il magistrato Vittorio OCCORSIO che all’epoca stava indagando sulle attività di Ordine Nuovo. - GUERIN SERAC e i suoi uomini avevano inoltre avuto un ruolo determinante nella costituzione dell’E.L.P. (Esercito di Liberazione Portoghese) che, a partire dal 1975, con attentati e azioni di disturbo condotte al confine fra Spagna e Portogallo, aveva tentato di rovesciare il Governo insediatosi in Portogallo dopo la Rivoluzione dei Garofani” (cfr. memoriale allegato all’interrogatorio in data 9.3.1992, f.17; int. 2.6.1993, f.1, e anche annotazione del R.O.S. in data 23.7.1993 sull’attività dell’AGINTER PRESS, vol.35, ff.103-104 e anche int. DIGILIO, 10.5.1996, ff.1-2 e 26.3.1997, f.4). - L’attività degli uomini di GUERIN SERAC, in ossequio alla teoria che comportava la difesa dei “valori occidentali” ovunque sembrassero minacciati dal campo avverso, si era dispiegata anche in altri Continenti. Nella primavera del 1974, su richiesta dell’ “uomo forte” del Guatemala, Mario SANDOVAL, un gruppo formato fra gli altri dallo stesso SERAC, da Jay Simon SALBY e da elementi italiani, tra cui l’ex-paracadutista Piero CARMASSI, si era recato in Guatemala per distruggere una base di guerriglieri di sinistra che operava partendo dal Costarica. Dovendo l’azione essere condotta nel territorio di un Paese sovrano e neutrale, il diretto intervento dei guatemaltechi era inopportuno e quindi l’operazione “coperta” era stata affidata ad elementi stranieri (int. 7.5.1992, ff.2-3, e 27.4.1993, f.2). - Sempre fra il 1975 e il 1976 stava operando nelle Azzorre un altro uomo di fiducia di GUERIN SERAC, Jean Denis RAINGEARD DE LA BLETIERE, anch’egli exufficiale dell’Esercito Francese, il quale aveva costituito il FRONTE DI LIBERAZIONE DELLE AZZORRE, in realtà non un movimento di liberazione, ma un gruppo 372 secessionista che aveva la finalità di salvare una zona di alto interesse strategico, all’epoca, per gli Stati Uniti. Infatti, qualora le forze comuniste e quelle ad esse alleate avessero avuto definitivamente il sopravvento in Portogallo, il Fronte costituito da Jean Denis avrebbe dovuto tentare la secessione delle Azzorre dalla madrepatria portoghese al fine di consentirvi il mantenimento delle basi americane (int. 7.5.1992, ff.3-4, e 30.5.1992, f.3). - La struttura di Madrid era stata in grado di inviare suoi elementi anche in Angola. Tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976, Pierluigi CONCUTELLI e alcuni altri italiani di Avanguardia Nazionale inviati da Stefano DELLE CHIAIE, avevano raggiunto Luanda, capitale dell’Angola, per appoggiare il movimento filo-occidentale “UNITA” nella sua lotta contro il M.P.L.A. (Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola) e le truppe cubane che lo sostenevano (int.3.3.1993, f.1, e 27.4.1993, f.2). Le truppe cubane avevano tuttavia avuto il sopravvento nella battaglia per il controllo di Luanda e gli italiani avevano dovuto rientrare in Spagna abbandonando così anche un progetto commerciale che avrebbe dovuto servire a finanziare il gruppo (int.9.3.1993, f.1). - Infine, nel corso del 1977, essendo ormai venute meno in Spagna le più importanti protezioni a seguito della scomparsa del generale FRANCO e del lento, ma progressivo, disgregarsi delle strutture del vecchio regime, tutto il gruppo si era man mano trasferito in Cile e in Argentina, proseguendo comunque le sue attività al servizio delle strutture di sicurezza di tali Paesi, all’epoca retti da regimi dittatoriali anticomunisti (int. 27.4.1993, ff.1-2, e quanto narrato dallo stesso VINCIGUERRA nel volume “Ergastolo per la Libertà”, pubblicato nel 1989, pagg.23-49; e interrogatori dinanzi al P.M. di Roma, vol.6, fasc.5, ff.162-185). In quegli anni, Stefano DELLE CHIAIE e le persone a lui vicine, nonostante il moltiplicarsi, sotto la guida di GUERIN SERAC, di operazioni all’estero che si erano sviluppate in almeno 3 Continenti, non avevano certo cessato di mantenere i contatti con l’Italia e gli avvenimenti che nel nostro Paese interessavano l’area di estrema destra. Vincenzo VINCIGUERRA ha fatto più volte cenno ad un incontro avvenuto nel 1975 a Madrid nei locali della società ENIESA, facente capo a Stefano DELLE CHIAIE, fra lo stesso DELLE CHIAIE, ROGNONI e Carlo DIGILIO che era appena arrivato dall’Italia e aveva nell’occasione portato a VINCIGUERRA, con tono ironico, i “saluti” di Delfo ZORZI sapendo che fra i due non correvano buoni rapporti (int. 20.11.1992, f.2, e 2.12.1992, f.2). L’incontro doveva essere particolarmente riservato, se lo stesso VINCIGUERRA era rimasto in una stanza a parte, e solo i tre esponenti ad altissimo livello dell’area di estrema destra si erano trattenuti a parlare separatamente (int. 20.11.1992, f.2). Carlo DIGILIO, con molta fatica e solo nell’interrogatorio in data 16.5.1997, ha ammesso di essere stato presente a tale incontro, affermando di essere stato condotto quasi casualmente da Giancarlo ROGNONI presso la società ENIESA e 373 374 che il colloquio con Stefano DELLE CHIAIE era stato un semplice scambio di vedute fra camerati in merito alle ragioni della loro reciproca presenza in Spagna (f.3). Tale versione “minimalista” non appare certo soddisfacente e l’episodio dovrà essere ulteriormente approfondito visto il livello dei personaggi presenti e anche tenendo in considerazione che Carlo DIGILIO ha dichiarato di non aver mai visto, prima di tale occasione, Stefano DELLE CHIAIE, mentre VINCIGUERRA ha affermato che il loro comportamento al momento dell’ingresso di DIGILIO nei locali della società indicava con certezza che i due già si conoscevano (int. 20.11.1992, f.2). Nell’estate del 1974, infine, Stefano DELLE CHIAIE aveva organizzato il sequestro e l’interrogatorio di Gaetano ORLANDO, mente politica del M.A.R. (Movimento di Azione Rivoluzionaria) di Carlo FUMAGALLI (sulla figura di ORLANDO cfr. ampiamente il capitolo 24 della sentenza-ordinanza depositata in data 18.3.1995). Gaetano ORLANDO, prelevato dagli uomini di DELLE CHIAIE presso il Residence Quevedo di Madrid, era sospettato da DELLE CHIAIE di essere in qualche modo responsabile della morte di Giancarlo ESPOSTI, legato ad Avanguardia Nazionale ed infiltrato da DELLE CHIAIE nel M.A.R., gruppo con cui aveva operato nel 1974 sino alla sua morte avvenuta nel giugno dello stesso anno a Pian del Rascino. Durante il sequestro, Gaetano ORLANDO aveva corso seriamente il rischio di essere eliminato e si era salvato solo perchè, nel corso dell’ “interrogatorio” cui lo avevano sottoposto DELLE CHIAIE e VINCIGUERRA, era riuscito a convincere i suoi sequestratori di non avere alcuna responsabilità nella trappola in cui erano caduti Giancarlo ESPOSTI e gli altri militanti vicini ad Avanguardia Nazionale che erano con lui al campo di Pian del Rascino. Al prelevamento di Gaetano ORLANDO avevano partecipato anche Piero CARMASSI e un argentino e uno spagnolo sempre facenti parte del gruppo di DELLE CHIAIE, mentre nell’appartamento in cui ORLANDO era stato interrogato era presente, in funzione di guardaspalle di Stefano DELLE CHIAIE, un altro suo uomo di fiducia e cioè Mario RICCI (int. 20.11.1992, f.3). L’episodio è stato rievocato, in termini del tutto analoghi a quelli di VINCIGUERRA, dallo stesso Gaetano ORLANDO nel corso delle testimonianze rese a questo Ufficio e al G.I. di Bologna allorchè egli ha deciso di ricostruire alcuni aspetti della sua esperienza politica (cfr. capitolo 24 della sentenza-ordinanza depositata in data 18.3.1995). Gaetano ORLANDO ha in particolare confermato la presenza di Mario RICCI come guardaspalle, da lui in seguito incontrato anche in Paraguay nella zona ove si trovava Elio MASSAGRANDE, circostanza questa che indica l’importanza del ruolo operativo e di collegamento svolto da RICCI per Stefano DELLE CHIAIE (dep. ORLANDO a questo Ufficio, 19.10.1992, f.3, e 28.10.1992, ff.1-2; dep. al G.I. di Bologna, 13.11.1992, f.1). 374 L’azione nei confronti di Gaetano ORLANDO conferma la determinazione del gruppo di DELLE CHIAIE e la capacità di “controllare” gli avvenimenti che si sviluppavano in Italia anche a partire dalla base madrilena. 375 376 60 LE DICHIARAZIONI DI VINCENZO VINCIGUERRA CONCERNENTI GLI ATTENTATI DELL’ESTATE DEL 1975 CONTRO LE AMBASCIATE ALGERINE Vincenzo VINCIGUERRA ha parlato per la prima volta degli attentati organizzati nell’estate del 1975 dal gruppo di GUERIN SERAC nell’interrogatorio in data 18.4.1992, specificando di aver curato personalmente quello avvenuto a Parigi: “””In merito agli attentati di cui ho accennato nel memoriale, posso dire che vennero organizzati in comune da italiani, francesi e algerini. Alcuni di questi, precisamente a Parigi, in Germania e in Italia vennero eseguiti materialmente da italiani. Per quanto riguarda l'attentato a Parigi intendo riferirmi ad un apporto logistico e non all'esecuzione materiale in senso proprio. Io fui il coordinatore e l'organizzatore di questi tre episodi in accordo con Ives Guerin Serac che all'epoca stava in Spagna. Io mi recai a Parigi appunto allo scopo di organizzare questi episodi che servivano a colpire o meglio a dare un segnale di rivolta contro il governo algerino. La sigla S.O.A., anagramma di O.A.S., sottolineava l'unione fra vecchi combattenti francesi, appunto dell'O.A.S., e combattenti algerini del F.L.N. che si erano ritrovati uniti nella lotta contro il governo algerino accusato di essere al servizio del comunismo sovietico. L'attentato di Roma fu, come ho detto, compiuto materialmente da italiani, come anche quello in Germania; però l'ordigno che fu usato in Germania era stato fornito dai francesi e venne trasportato in macchina, nascosto in una ruota di scorta fino al luogo dell'obiettivo; l'ordigno deposto davanti all'Ambasciata in Germania non esplose. I nomi dei partecipanti mi sono noti ma non intendo specificarli”””. (int. 18.4.1992, f.3). E’ indubbiamente molto significativo il fatto che GUERIN SERAC, di cui il S.O.A. era sostanzialmente una creatura, ancora nel 1975 abbia tentato una campagna di destabilizzazione del Governo algerino nato dalla rivolta anticolonialista degli anni ‘60. Certamente, per GUERIN SERAC, la lotta contro il Governo algerino, perdipiù all’epoca legato all’Unione Sovietica e ad altri Paesi comunisti, era una sorta di punto d’onore, posto che lo stesso SERAC aveva disertato dall’Esercito Francese quando il generale DE GAULLE era in procinto di abbandonare l’Algeria e posto che molti dei militanti dell’AGINTER PRESS provenivano dalle fila dell’O.A.S. 376 In un successivo interrogatorio, VINCIGUERRA ha fornito un’altra indicazione, spiegando che per l’attentato avvenuto a Bonn (certamente il più grave, poichè, come si vedrà nel prossimo capitolo, era stato usato l’esplosivo militare americano “C4”) anche i militanti rimasti in Italia si erano attivati in quanto un’autovettura proveniente dall’Italia aveva caricato in Svizzera l’ordigno proveniente dalla Francia e diretto in Germania (int. 7.5.1992, f.3). Tale fase logistica dell’operazione è stata descritta da VINCIGUERRA con maggiori dettagli nell’interrogatorio in data 23.9.1992: “””Tornando alla descrizione delle modalità dell'attentato di Bonn che non fu portato a conclusione, posso precisare meglio, a richiesta dell'Ufficio, il meccanismo dell'azione in quanto nei precedenti interrogatori non è stato chiarito un passaggio dell'azione stessa. L'esplosivo partiva dalla Francia ed è stato portato da francesi in Svizzera nelle circostanze di cui ho detto. In Svizzera è stato consegnato a due italiani provenienti dall'Italia. Costoro non dovevano poi compiere l'attentato, ma solo consegnare l'ordigno ad altri due italiani che essendo latitanti in Spagna erano giunti a Francoforte in volo dalla Spagna. Sono questi ultimi che non fecero quanto dovevano e cioè abbandonarono l'ordigno senza innescarlo. Guerin Serac si arrabbiò moltissimo con loro avendo capito già dalla semplice lettura dei giornali che l'ordigno non era scoppiato per difetti nel congegno, ma per volontà degli attentatori”””. (int. 23.9.1992, f.3). Nell’attentato di Bonn erano dunque coinvolti ben quattro italiani, due provenienti dalla Spagna attraverso la Francia e due incaricati di rilevare l’ordigno in Svizzera. Uno di questi ultimi due proveniva da Roma, l’altro da Milano ed apparteneva ad Avanguardia Nazionale, ma VINCIGUERRA non ha inteso rivelarne il nome (int. 20.11.1992, f.3). VINCIGUERRA si è poi ricordato che, contestualmente agli attentati di Roma, Parigi e Bonn, vi era stato un quarto attentato a Londra, affidato per l’esecuzione all’americano CASTOR (e cioè Jay Simon SALBY) e il fallimento di tale attentato, essendo rimasto inesploso l’ordigno, aveva dato luogo ad una piccola discussione fra lo stesso VINCIGUERRA e SERAC in merito alle capacità dei reciproci elementi di fiducia all’interno del gruppo: “””Voglio innanzitutto far presente all'Ufficio, ripensando agli avvenimenti del periodo spagnolo, che mi sono ricordato dell'elemento di collegamento fra i tre attentati antialgerini di Bonn, Parigi e Roma e quello di Londra di cui l'Ufficio mi aveva fatto presente l'esistenza e la contemporaneità con gli altri. 377 378 Io non avevo preso parte all'organizzazione dell'episodio di Londra, ma mi sono ricordato che uno o due giorni dopo i vari episodi, e in particolare dopo il fallimento di quello di Bonn, ebbi la conversazione cui ho già fatto cenno con Guerin Serac che lamentava in modo molto acceso il fallimento dell'attentato di Bonn attribuendolo alla scarsa determinazione dei "soliti italiani" dei quali parlava con una certa veemenza. Io allora gli risposi che se era vero quello che lamentava per l'episodio di Bonn, poteva essere successo altrettanto nell'episodio di Londra. Guerin Serac allora mi rispose che ciò non era assolutamente possibile perchè a Londra era andato Castor e lui rispondeva di Castor come di se stesso. Quindi a Londra, secondo Guerin Serac, non poteva essersi trattato che di un guasto tecnico imprevedibile. Non mi ricordo se appresi dell'episodio di Londra dalla stampa o da Guerin Serac in quell'occasione. Sta di fatto che mi ricordo comunque che l'episodio era collegato, evidentemente seguito da un altro sottogruppo diverso dal mio in un'ottica di compartimentazione”””. (int. 2.12.1992, ff.1-2). Nell’interrogatorio in data 4.2.1994, VINCIGUERRA ha infine sciolto la riserva limitatamente al nome di almeno uno degli italiani che avevano materialmente eseguito l’attentato a Bonn provenendo in aereo da Madrid, indicandolo in Mario RICCI, uomo di fiducia di Stefano DELLE CHIAIE per conto del quale sostanzialmente egli gestiva l’agenzia di viaggi “TRANSALPINO” utilizzata da molti latitanti italiani (int. 4.2.1994, f.2). Si noti che la campagna di attentati dell’estate del 1975 contro le Ambasciate algerine evidenzia la capacità operativa del gruppo di GUERIN SERAC e la possibilità di agire in più Pesi europei in quanto gli obiettivi sono stati colpiti contestualmente e in quattro diversi Paesi europei e la sola organizzazione dell’attentato di Bonn ha coinvolto non solo la Spagna e la Germania, ma anche la Francia, la Svizzera e l’Italia. 378 61 I RISCONTRI RELATIVI AGLI ATTENTATI ANTI-ALGERINI E ALLE ATTIVITA’ NELLE AZZORRE L’UTILIZZO DELL’ESPLOSIVO MILITARE STATUNITENSE “C4” NELL’ATTENTATO A BONN DEL 18.8.1975 Gli attentati contro obiettivi algerini rievocati da Vincenzo VINCIGUERRA sono stati individuati nell’attentato contro i locali dell’AMICALE DES ALGERIENS EN EUROPE di Parigi del 27.7.1975 (cfr. vol.12, fasc.2, ff.160 e ss.) e nei tre attentati contemporanei del 18.8.1975 contro le Ambasciate d’Algeria di Roma, Bonn e Londra (cfr. vol.12, fasc.2, rispettivamente ff.13 e ss., 30 e ss., 45 e ss.). L’attentato di Roma, commesso contro la sede dell’Ambasciata in Via Villa Ricotti con circa un chilo di esplosivo innescato a miccia, era stato rivendicato con un volantino a firma S.O.A. (Soldati dell’Opposizione Algerina) (f.15) e così pure l’attentato di Parigi, avvenuto in Rue Louis Le Grand 23, che aveva seguito altri analoghi attentati avvenuti sempre nella capitale, a Lione e a Roubaix (ff.92 e ss.). Di particolare interesse, a fini di riscontro, sono gli attentati contro le Ambasciate di Bonn e Londra, anch’essi rivendicati con la stessa sigla. Infatti l’ordigno deposto dinanzi all’Ambasciata d’Algeria a Londra (composto da gelignite, un detonatore elettrico di marca spagnola e un orologio da polso in funzione di timer), rimasto inesploso, veniva recuperato dallo Special Branch e gli accertamenti effettuati sulla borsa che aveva contenuto l’ordigno consentivano di evidenziare le impronte digitali di Jay Simon SALBY, nato nel Delaware (U.S.A.) il 28.7.1937 ed arrestato in Algeria, qualche mese dopo il fallito attentato di Londra, unitamente al cittadino francese di origine algerina Andrè Noel CHERID e a un cittadino algerino (cfr. vol.12, fasc.2, ff.49 e ss., in particolare f.66). L’esame dell’ordigno deposto a Bonn, rimasto anch’esso inesploso per una banale disattenzione di chi lo aveva maneggiato, evidenziava un congegno molto sofisticato, formato da un sistema di attivazione elettronico, approntato da un esperto, e da esplosivo di elevata potenzialità e cioè nove cartucce di T4 addizionato di poli-isobutile e dioctiladipato, composizione che costituisce l’esplosivo di tipo militare denominato C4, prodotto negli Stati Uniti (cfr. vol.12, fasc.2, ff.31 e ss., e accertamento della Polizia Scientifica presso il Ministero dell’Interno sulla base delle relazioni trasmesse dalla Polizia tedesca, ff.74 e ss.). Gli elementi acquisiti anche grazie alla collaborazione della Polizia inglese e tedesca forniscono quindi importantissimi riscontri al racconto di Vincenzo VINCIGUERRA sia in relazione alle modalità con cui sono avvenuti gli attentati sia in relazione ai loro autori. Jay Simon SALBY, le cui impronte sono state trovate dagli uomini dello Special Branch sulla borsa che conteneva l’ordigno deposto a Londra, altri non è che 379 380 l’americano soprannominato CASTOR, indicato da VINCIGUERRA appunto come l’autore di tale attentato e uomo di fiducia di GUERIN SERAC nel piano operativo. Alla figura di Jay Simon SALBY è dedicato un ampio capitolo dell’annotazione del R.O.S. Carabinieri in data 23.7.1996 sulle attività di guerra psicologica e non ortodossa compiute in Italia fra il 1969 e il 1974 anche attraverso l’AGINTER PRESS (cfr. vol.35, ff.76-102). Rimandando per l’esame dell’intero curriculum della vita di SALBY alla lettura di tale annotazione, si può ricordare in questa sede che egli, dopo aver “lavorato” a lungo in Sud-America, in particolare al servizio di esponenti militari guatemaltechi (ff.81-82), era entrato in Portogallo con un falso documento del Guatemala intestato a tale Hugh FRANKLIN, di nascita canadese, al fine evidente di nascondere la sua nazionalità statunitense (f.79 dell’annotazione; è stato acquisita anche copia del documento di ingresso in Portogallo in data 4.10.1973, vol.12, fasc.3, ff.26-27). In Portogallo si era legato a GUERIN SERAC, che proprio in quei mesi stava aiutando l’algerino Mouloud KADUANE nella fondazione del S.O.A. (Soldati dell’Opposizione Algerina), gruppo terroristico formato da ex-coloni francesi, provenienti perlopiù dall’O.A.S. (di cui la sigla S.O.A. è l’anagramma), e da algerini, contrari al Governo del loro Paese, il cui obiettivo era rovesciare il Governo nato dalla rivoluzione algerina. Il 4.1.1976, pochi mesi dopo l’attentato di Londra, Jay Simon SALBY veniva arrestato, a bordo di un ferry, mentre tentava di riguadagnare Marsiglia dopo aver compiuto un’azione di commando direttamente in territorio algerino collocando un ordigno nel pieno centro di Algeri contro la sede del quotidiano El Moudjahid (Il Combattente) (cfr. annotazione R.O.S., f.81). Con Jay Simon SALBY venivano arrestati Andrè Noel CHERID (fratello di Jean Pierre CHERID, ex-militante dell’O.A.S. più volte nominato da VINCIGUERRA) e un altro cittadino algerino, Mohamed MEDJEBER. Anche grazie alle copie degli atti e degli interrogatori messi gentilmente a disposizione dalle Autorità algerine, pur in assenza di un trattato di assistenza giudiziaria, è stato possibile verificare l’andamento dell’istruttoria e del processo (cfr. nota del R.O.S. in data 11.2.1995 di trasmissione degli atti messi a disposizione dall’Ambasciata d’Algeria a Roma, vol.12, fasc.8, f.6, e atti allegati; e anche la raccolta del quotidiano algerino El Moudjahid dal gennaio al marzo 1976, epoca dei fatti, vol.12, fasc.9). Durante l’istruttoria, i tre avevano confessato di aver commesso una serie di attentati a firma S.O.A., ingaggiati da un ex-ufficiale dell’Esercito Francese di nome Jean LAURENT (in cui è facilmente identificabile uno degli uomini di fiducia di GUERIN SERAC) e SALBY, in particolare, ammetteva di essere stato anche l’autore dell’attentato all’Ambasciata d’Algeria a Londra (si vedano i verbali di interrogatorio esposti nell’annotazione del R.O.S., ff.85 e ss.) che era fallito per un banale inconveniente. 380 Jay Simon SALBY e Mohamed MEDJEBER confessavano inoltre , sempre dinanzi alle Autorità algerine, di aver preso parte nel 1975, sotto la diretta guida di GUERIN SERAC, a diverse operazioni contro i militanti baschi, anche con esiti sanguinosi e anche in territorio francese, dove numerosi esponenti dell’E.T.A. o di gruppi affini si erano rifugiati (cfr. annotazione del R.O.S., ff.97-99). Il processo celebrato dalla Corte di Sicurezza di Algeri si concludeva con la condanna a morte dei tre imputati, ma solo l’algerino MEDJEBER veniva fucilato in quanto, probabilmente grazie a pressioni dei rispettivi Governi occidentali, la condanna a morte di SALBY e di CHERID veniva commutata in una pena detentiva e dopo alcuni anni i due venivano graziati ed espulsi dal Paese. Di eccezionale importanza è poi l’esito degli accertamenti svolti, inizialmente dalla Polizia tedesca e poi, su disposizione di questo Ufficio, dal Servizio di Polizia Scientifica presso il Ministero dell’Interno, sull’esplosivo utilizzato per l’attentato di Bonn del 18.8.1975, in quanto tale esplosivo è risultato essere il potentissimo “C4” di produzione militare. Si tratta infatti di un esplosivo prodotto negli Stati Uniti e di specifica pertinenza delle Forze Armate statunitensi e della N.A.T.O. cosicchè, appreso l’esito degli accertamenti, Vincenzo VINCIGUERRA ha esattamente rilevato che “per la prima volta si ha la prova dell’intervento, in una campagna si sabotaggio di carattere politico, delle strutture segrete dell’Alleanza Atlantica” (int. VINCIGUERRA a questo Ufficio, 19.10.1992). La presenza dell’esplosivo “C4” conferma certamente l’interpretazione secondo cui la struttura di GUERIN SERAC era una sorta di sub-agenzia collegata ai servizi segreti occidentali e da questi utilizzata per operazioni all’estero “coperte” in cui, per ragioni di prudenza e per non compromettere i rapporti con Stati Sovrani, non potevano agire organismi ufficiali. Jean Denis, indicato da VINCIGUERRA come l’organizzatore dell’operazione nelle Azzorre grazie a contatti personali che aveva nell’Arcipelago, è stato individuato, in base alla documentazione acquisita, in Jean Denis RINGEARD DE LA BLETIERE, già coinvolto nell’attività dell’O.A.S. e in azioni “coperte” in Katanga e in Nicaragua (cfr. vol.36, fasc.1, f.111, dove, fra gli atti originari provenienti da Lisbona, è riportato anche lo schema di addestramento dei militanti dell’AGINTER PRESS, ff.44-45, compresi l’uso degli esplosivi e le tecniche di infiltrazione). Sempre nella documentazione proveniente da Lisbona è contenuta anche una lettera indirizzata a JEAN e portante la data 15.9.1975 in cui compare lo stemma del Fronte di Liberazione delle Azzorre - Governo Provvisorio Clandestino (vol.36, fasc.1, f.109). La storia di tale sedicente Movimento di Liberazione, in realtà gruppo secessionista al servizio degli interessi statunitensi, è raccontata nel volume “L’ORCHESTRE 381 382 NOIR” di Frederic LAURENT, edito in Francia nel 1978 sulla base di documenti di prima mano. Sia nel 1967 sia nel 1973, la base americana di Lages, nelle Azzorre, era servita da ponte per gli aerei americani che avevano rifornito di armi lo Stato ebraico durante i due conflitti arabo-israeliani. Il Portogallo, che amministrava le Azzorre, era infatti l’unico membro della N.A.T.O. che autorizzava gli Stati Uniti a utilizzare il proprio territorio per operazioni non concernenti in modo diretto la difesa dell’Alleanza Atlantica. Tale situazione di favore rischiava di cessare con la Rivoluzione dei Garofani della primavera del 1974, in quanto il nuovo Governo, orientato a sinistra, sembrava deciso a non rinnovare a clausola segreta di utilizzo di tale base, utile anche per interventi in territorio africano. Era così comparso il Fronte Nazionale di Liberazione delle Azzorre che rivendicava, facendo leva su un sentimento autonomista autentico, l’indipendenza dell’Arcipelago dal Portogallo al fine, comunque, di servire gli interessi americani e di ottenere il rinnovo del contratto di utilizzo della base. Uomo chiave per la costituzione del Fronte di Liberazione era stato Jean Paul BLETIERE, residente nelle Azzorre e cugino del luogotenente di GUERIN SERAC, Jean Denis RINGEARD DE LA BLETIERE. Grazie al suo impegno erano stati stretti rapporti fra militari di stanza nelle Azzorre e rappresentanti dell’amministrazione americana da cui erano giunte armi e anche finanziamenti. Erano stati quindi compiuti alcuni attentati, soprattutto contro sedi di sinistra, e inscenate manifestazioni violente e si era costituito il “Governo Provvisorio Clandestino delle Azzorre” con il compito di separare l’Arcipelago dalla Madrepatria. In una lettera fra i due uomini dell’AGINTER PRESS, Jean Denis spiegava al cugino Jean Paul che in caso di secessione si poteva contare sulla possibilità di un rapido riconoscimento dello Stato azzorreno da parte di molti Stati sud-americani, del SudAfrica e della Spagna e, nel giro di qualche settimana, stante la necessaria prudenza, anche degli Stati Uniti. Il Fronte di Liberazione delle Azzorre aveva comunque un’esistenza effimera in quanto nel novembre 1975, con l’ascesa al potere in Portogallo di un Governo moderato e filo-atlantico, venivano meno le ragioni della sua esistenza e il Fronte si scioglieva, rimanendo in piedi solo un gruppo di contatto con affaristi americani al fine di facilitare l’insediamento nell’Arcipelago di Casinò e di banche americane. Il racconto di Vincenzo VINCIGUERRA in merito all’attività di Jean Denis nel gruppo di Madrid trova quindi, anche in questo caso, precisi riscontri nel contesto storico e negli avvenimenti di quegli anni, finalizzati alla difesa, ovunque possibile, degli interessi strategici dell’Alleanza Atlantica. 382 Per concludere in merito ai riscontri relativi alle azioni condotte all’estero dagli uomini di GUERIN SERAC, si ricordi che Vincenzo VINCIGUERRA ha parlato di un’operazione condotta a partire dal Guatemala nella primavera del 1974 dallo stesso GUERIN SERAC, da SALBY e da alcuni cittadini italiani finalizzata a liquidare una base guerrigliera, ubicata nel territorio del vicino Costarica, per conto dell’ “uomo forte” del Guatemala, Mario SANDOVAL (int. VINCIGUERRA, 7.5.1992, ff.2-3, e, a conferma, dep. CONCUTELLI, 28.5.1993, f.2). Pur non essendo possibili riscontri diretti in merito a tale operazione “coperta”, perdipiù avvenuta in un altro Continente, va sottolineato che il Guatemala è stato la Nazione centrale per la vita e l’attività di SALBY il quale ha “lavorato” per molti anni in tale Paese per il colonnello ARANA OSORIO, Comandante militare nella lotta contro i guerriglieri di sinistra e in seguito Presidente del Guatemala sino al 1974, attività a seguito della quale SALBY ha avuto certamente la disponibilità del falso documento del Guatemala utilizzato al momento del suo ingresso in Portogallo (cfr. annotazione del R.O.S. in data 23.7.1996, ff.81-83). 383 384 62 LE DICHIARAZIONI DI CARLO DIGILIO E MARTINO SICILIANO RELATIVE ALL’AGINTER PRESS E AL GRUPPO DI MADRID Carlo DIGILIO ha riferito due importanti episodi, avvenuti entrambi in Spagna nel periodo della sua permanenza presso l’ing. POMAR, che si ricollegano all’attività in favore dell’Esercito di Liberazione Portoghese, organizzazione che, mediante azioni terroristiche ed attività di infiltrazione e di guerra psicologica, doveva, secondo gli intendimenti di GUERIN SERAC, contribuire alla caduta del Governo di sinistra insediatosi in Portogallo dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974. Il primo episodio attiene ad un lotto di armi che doveva pervenire all’E.L.P. dopo essere stato visionato dall’ing. POMAR: “””Fu lo stesso ingegnere POMAR a dirmi, a Madrid, che quel lotto di armi stava per essere consegnato dagli americani a lui affinchè lo visionasse e ne curasse la spedizione agli elementi dell'E.L.P. Io tuttavia, non essendomi recato a Madrid per tale incombente, preferii non accettare l'invito dell'ing. POMAR a trattenermi ancora alcuni giorni e a partecipare all'operazione così come egli mi aveva chiesto. Inventai, come scusa, una malattia improvvisa di mia madre. Quando tornai in Italia, SOFFIATI mi confermò che effettivamente quella fornitura di armi per i portoghesi proveniva dagli americani, ma che avevo fatto bene a non occuparmene non essendo un mio compito. Ritengo che POMAR a Madrid sia stato utilizzato come tramite per il grande prestigio di cui godeva anche come tecnico. A Madrid io illustrai all'ing. POMAR anche il disegno del prototipo di silenziatore della fabbrica cecoslovacca CZ che Marcello SOFFIATI si era procurato tramite gli ustascia e parlai con l'ingegnere anche delle modalità di tempera degli acciai, sulla base di procedure sempre della CZ, con particolare riferimento alle parti che potevano essere utili per il progetto della mitraglietta. Mi era stato infatti raccomandato da SOFFIATI di portare all'ing. POMAR ogni utile dato tecnico al fine di accreditarmi subito dinanzi a lui”””. (DIGILIO, int. 26.3.1997). Tale episodio conferma fra l’altro che la struttura di GUERIN SERAC e l’E.L.P. erano appoggiate attivamente dagli americani che, per ragioni di decoro internazionale, non potevano apparire in prima persona in tali operazioni “coperte”. 384 Il secondo episodio attiene a trasmissioni clandestine a sostegno dell’E.L.P. e contro il Governo portoghese, dirette in Portogallo da piccole unità mobili operanti in prossimità del confine fra Spagna e Portogallo: “””....ricordo che durante il mio primo viaggio in Spagna, ebbi notizie dall'ingegner POMAR che questi si occupava di un'attività di disturbo via radio dalla Spagna delle trasmissioni portoghesi e di lancio in quel Paese di comunicati degli oppositori portoghesi al governo di sinistra. Per fare ciò sfruttava le sue ottime capacità tecniche, che aveva nel campo elettronico, capacità che gli consentivano sul piano pratico anche ogni genere di lavori di riparazioni di radio e televisori. Per tali trasmissioni egli aveva libero accesso alle strutture della radio spagnola a Madrid e le stesse autorità spagnole avevano in qualche modo messo a disposizione dei camion, con relativo personale, che servivano in forma mobile per trasmettere queste comunicazioni e messaggi. Ho visto questi camion, che erano dipinti di verde e che avevano una specie di torretta circolare sul tetto del guidatore. Io stesso assistetti a parte di queste attività in quanto mi recai da Madrid una mattina in direzione del confine portoghese, invitato da Giancarlo ROGNONI. Avevamo due vetture, su una delle quali c'eravamo ROGNONI, sua moglie Anna ed io e sull'altra l'ingegner POMAR e la sua segretaria Maria. Arrivammo in prossimità del confine portoghese, ricordo che era una mattina fredda e nebbiosa, molto a sud, utilizzando la strada che prosegue, poi, fino a Gibilterra. Era quasi certamente la zona di Huelva. Raggiungemmo un punto proprio prossimo al confine portoghese, dove ci aspettava Sanchez COVISA e quel portoghese di cui ho già parlato in uno dei precedenti interrogatori e che era quello interessato a quel lotto di armi che dovevano essere visionate, per essere mandate all'Esercito di Liberazione Portoghese. Era questo portoghese che si occupava di scegliere e preparare i messaggi e quel giorno vennero trasmessi utilizzando come lettrice Maria, la segretaria di POMAR.. Il camion che era lì presente era proprio guidato da un militare spagnolo. In serata tornammo a Madrid, scortati da una macchina di Sanchez COVISA con tre o quattro dei suoi uomini. Anche Leon DEGRELLE, che ho visto una volta a Madrid, appoggiava questa attività in favore degli oppositori portoghesi e seppi che alla fine egli riuscì ad ottenere che la radio spagnola dedicasse proprio un'antenna ed una frequenza ed una intera ora del pomeriggio ai portoghesi per trasmettere direttamente da Madrid. Ricordo che ROGNONI utilizzò queste trasmissioni, anche per fare un piccolo programma sulla situazione dei fuoriusciti italiani. 385 386 Io stesso, con l'ingegner POMAR e Sanchez COVISA, mi recai una volta per tale attività alle sedi delle strutture tecniche della radio spagnola, mi sembra alla periferia di Madrid. C'erano tante torri di trasmissioni, sorvegliate dai militari”””. (DIGILIO, int. 10.9.1996). Tali attività, formalmente clandestine ma in realtà appoggiate dalle strutture ufficiali spagnole, sono state ricordate in termini analoghi anche da Vincenzo VINCIGUERRA (int.2.6.1993, f.1), da Pierluigi CONCUTELLI (dep. 28.5.1993, f.2) e addirittura confermate dallo stesso Giancarlo ROGNONI (int.6.9.1996, f.4), il quale tuttavia ha ritenuto di attribuirne la responsabilità al solo DIGILIO nel tentativo, evidente quanto inutile, di screditare il collaboratore, la cui precisa descrizione dell’episodio non può certo essere messa in discussione anche tenendo presente che il breve periodo di permanenza in Spagna non gli avrebbe certo consentito di seguire autonomamente un’attività del genere. Martino SICILIANO ha ricordato un interessante episodio collegato ad un volumetto di propaganda dell’AGINTER PRESS, in favore della “presenza bianca” in Africa nel periodo della decolonizzazione, che evidenzia il tentativo anche recente dell’ambiente di Ordine Nuovo di cancellare qualsiasi traccia dei rapporti con GUERIN SERAC e l’AGINTER PRESS, ritenuti troppo compromettenti soprattutto in presenza delle attività di indagine condotte da questo e da altri Uffici sui collegamenti internazionali delle strutture di estrema destra italiane: “””Paolo MOLIN ci fece avere alcune copie di una pubblicazione, in pratica un opuscolo, sugli avvenimenti in Congo Belga degli anni '60, di chiara propaganda colonialista in quanto incentrato sulle atrocità dei guerriglieri e sull'importanza del colonialismo bianco. Io avevo conservato una copia di questo opuscolo che era rimasta nella casa dei miei genitori e di mio fratello quando partii per la Francia e non avevo, ovviamente, la possibilità di traslocare la mia biblioteca. Come già ho accennato, con ogni probabilità questo opuscolo era stato pubblicato dall'AGINTER PRESS. Nel corso del 1993 avevo già informato Bobo LAGNA del fatto che sapevo di essere indiziato ed egli, su mia richiesta, mi aveva assicurato di avere fatto verificare a Milano, tramite l'avv. Pecorella, se vi fossero registrazioni a mio carico e per il momento la ricerca era stata negativa. Bobo Lagna mi disse che aveva informato "il giapponese", cioè Delfo ZORZI, di quanto io gli avevo riferito e Zorzi aveva già garantito che in caso di pericolo mi avrebbe pagato le spese legali. In seguito mio fratello CARLO mi disse che Bobo LAGNA, poche settimane prima di morire, era andato a casa sua e gli aveva specificamente chiesto in prestito proprio quell'opuscolo, che evidentemente egli o qualcun altro del gruppo ricordava che facesse ancora parte della mia biblioteca. Mio fratello gli diede l'opuscolo e non lo rivide più. 386 Poichè tale episodio è avvenuto dopo che io avevo già informato LAGNA, e quindi ZORZI, dello sviluppo degli avvenimenti, ho la netta sensazione che fosse una richiesta "guidata", finalizzata a recuperare, e quindi a far scomparire, un piccolo elemento di riscontro. E' del resto assai curioso che Lagna si preoccupasse di chiedere una pubblicazione sul Congo Belga, vicenda assolutamente non di attualità e di cui non si parla più da circa 30 anni. Aggiungo che la richiesta di Bobo Lagna a mio fratello fu a colpo sicuro e cioè egli chiese quell'opuscolo specificamente e senza esitazioni. Mio fratello mi disse anche che Bobo Lagna, poco tempo prima, gli aveva confidato di essersi reso conto di essere stato strumentalizzato da Delfo ZORZI fino alla fine”””. (SICILIANO, int. 16.3.1996, f.5). Si ricordi che le vicende dell’ex-Congo Belga erano state effettivamente un campo di interesse e di intervento per l’AGINTER PRESS in quanto, all’inizio degli anni ‘60, tale struttura si era impegnata nel reclutamento di mercenari, provenienti in buona parte dalle fila dell’O.A.S., che dovevano sostenere la secessione della provincia del Katanga e combattere i primi Governi non colonialisti insediatisi nel Congo Belga e nei vicini Paesi africani. Alcuni agenti dell’AGINTER PRESS, fra cui Jean Marie LAURENT, più volte citato nella documentazione acquisita (cfr. nota del R.O.S. in data 29.11.1994, vol.36, fasc.2, f.23), erano stati addirittura catturati e imprigionati per diverso tempo a Brazzaville dopo il fallimento di tali operazioni, condotte certamente con l’appoggio di servizi di sicurezza europei. Carlo SICILIANO, fratello di Martino, sentito da personale del R.O.S. in data 4.2.1997, ha confermato la richiesta del volumetto sul Congo Belga da parte di Bobo LAGNA, volumetto che non era più stato restituito, anche se ha cercato di minimizzare l’episodio affermando che Bobo LAGNA era più che altro interessato alla raccolta di materiale propagandistico e quindi la richiesta poteva essere giustificata da tale interesse (dep. citata, f.1). In realtà, anche tenendo presente che Carlo SICILIANO è tuttora in contatto, per ragioni di residenza, con l’ambiente mestrino e quindi le sue dichiarazioni sono sempre state piuttosto prudenti, appare difficile ipotizzare un interesse così improvviso da parte di LAGNA per vicende africane che si sono concluse ormai da moltissimi anni e quindi che è assai probabile che il ritiro e la sparizione del volumetto si ricolleghino alla volontà da parte degli altri ex-militanti vicini a Delfo ZORZI di far sparire ogni traccia di rapporti passati ma assai imbarazzanti. La diffusione dell’opuscolo nell’ambiente mestrino doveva essere peraltro la prosecuzione dell’attività di reclutamento di mercenari da inviare in Congo Belga operata dalla struttura di GUERIN SERAC negli anni precedenti, di cui Martino SICILIANO aveva avuto notizia pur non essendovi stato coinvolto in prima persona: 387 388 “””Nel 1963/1964 frequentavano l'ambiente di destra di Mestre due persone che gravitavano nel M.S.I. e si chiamavano GIANFALDONE e VITALI; non ne ricordo, almeno per il momento, il nome di battesimo. Nel periodo immediatamente precedente erano già stati mercenari in Congo nel quadro della resistenza da parte degli europei al processo di decolonizzazione. GIANFALDONE era alto, smilzo, con i capelli neri e affermava di essere un cronista del Secolo d'Italia e viveva in realtà solo di espedienti. Ho saputo negli anni '80 che è deceduto a Bruxelles per un attacco cardiaco. VITALI era alto e biondo, robusto, si era candidato per l'M.S.I. alle elezioni amministrative, ma in realtà viveva anch'egli di espedienti sia frequentando donne facoltose sia risiedendo negli alberghi di lusso senza pagare il conto. Frequentavano l'ambiente di Piazza Ferretto a Mestre. Mi dissero che erano stati ricontattati per una nuova operazione in Africa nella stessa zona e cioè per sostenere la secessione del Katanga che era una parte dell'ex Congo belga particolarmente ricca di miniere di diamanti. Mi dissero che sia la precedente che la nuova operazione in Africa erano coordinate da GUERIN SERAC che li aveva reclutati. Era la prima volta che sentivo questo nome. Mi dissero che era una figura quasi mitica che si spostava in vari Paesi fra l'Europa e l'Africa per difendere gli interessi dell'occidente e che in particolare aveva basi sia in Portogallo sia in Belgio. Infatti il centro di coordinamento cui dovevano fare riferimento per questa nuova operazione era in Belgio a Bruxelles, mentre l'imbarco per l'Africa sarebbe avvenuto a Marsiglia. Entrambi effettivamente partirono, ritornando a Mestre 9 o 10 mesi dopo, mostrando di essersi anche arricchiti, anche se dissero che la missione, dal punto di vista militare, era andata male”””. (SICILIANO, int. 20.5.1996). E’ quindi certo che l’AGINTER PRESS di GUERIN SERAC, sin dall’inizio degli anni ‘60 ed anche in territorio mestrino, disponesse di contatti finalizzati alla propaganda e al reclutamento e quindi fosse un punto di riferimento stabile per Ordine Nuovo e le altre organizzazioni di estrema destra italiane. 388 63 LE DICHIARAZIONI DI PIERLUIGI CONCUTELLI, FRANCESCO ZAFFONI E ALTRI TESTIMONI RELATIVE AL GRUPPO DI MADRID Non è stato facile, per ragioni facilmente comprensibili, acquisire altre dichiarazioni di riscontro in merito al gruppo che alla metà degli anni ‘70 operava a Madrid, formato da latitanti di varie nazionalità in prevalenza difficilmente rintracciabili e comunque poco disponibili a parlare delle “operazioni” illecite e sovente sanguinarie di cui erano stati protagonisti. Tuttavia, Pierluigi CONCUTELLI, rifugiatosi a Madrid dal 1975 al 1977 in stretto contatto con Giancarlo ROGNONI e Stefano DELLE CHIAIE e molto probabilmente utilizzato, in ragione delle sue capacità militari, in azioni contro militanti dell’E.T.A. e contro altri militanti antifascisti, ha accettato di fornire una sua timida ricostruzione di tale ambiente e dei suoi rapporti con GUERIN SERAC. Le sue dichiarazioni, rese in data 28.5.1993, meritano di essere riportate nei loro passi salienti: “””...Con SERAC c’erano portoghesi, francesi ex-O.A.S., italiani e anche persone di origine croata. Soprattutto, comunque, portoghesi e ricordo che SERAC aveva progettato l’infiltrazione in territorio portoghese, con provenienza dalla Spagna, di piccoli nuclei dotati di trasmittenti a corto raggio, ma in grado, nell’ambito di tale potenzialità, di sovrapporsi alle trasmissioni delle emittenti legali. Non so se poi il progetto ebbe buon esito. La netta sensazione che avevo era che SERAC, il quale assumeva ormai di essere un ex-agente dei servizi francesi diventato autonomo, fosse in realtà in servizio attivo e beneficiante di ampia copertura e libertà d’azione. Dava cioè l’impressione di essere un agente importante, impressione che una serie di avvenimenti successivi hanno ampiamente confermato. Ho conosciuto CASTOR, che a SERAC certamente faceva riferimento; era un cittadino americano che parlava talvolta come sua ex residenza dello Stato dello UTAH, ricordando in tale Stato la presenza dei mormoni. Penso di poter affermare che CASTOR fosse il referente della C.I.A. a Madrid. CASTOR fu arrestato in Algeria insieme ad un francese di questo gruppo e in seguito GUERIN SERAC e il fratello del francese catturato in Algeria mi proposero un’operazione di sequestro aereo consistente nel dirottamento di un aeromobile algerino sulla tratta Bruxelles/Nord-Africa. Avevo buoni motivi per rifiutare la proposta e lo feci: non volevo affrontare, per motivi che non condividevo, un rischio molto alto cui non ero obbligato in nessun modo. 389 390 Il progetto di sequestro dell’aereo era finalizzato, ovviamente, a chiedere il rilascio di CASTOR e del francese. Ho conosciuto JEAN DENIS, che era un cittadino francese che ho visto sia a Madrid che in Francia. La prima volta lo conobbi perchè mi fu presentato da DELLE CHIAIE, poi approfondii la conoscenza per mio conto e lo incontrai in diverse occasioni... Il DENIS era interessato ad un progetto che riguardava la presa del potere nelle Azzorre, costituendo un movimento apparentemente anti-imperialista, ma comunque fittizio e finalizzato soprattutto agli interessi americani. Questo DENIS conosceva GUERIN SERAC, ma l’impressione era che avessero due gruppi autonomi e che DENIS fosse più strettamente all’interno del controllo dei servizi di sicurezza. A domanda dell’Ufficio, ho avuto notizia di un intervento dello stesso tipo in Costarica e in Guatemala, nel 1974, anche con la presenza di italiani. Doveva essere ripetuto nel 1976, ma il secondo episodio non si verificò. Per quanto ho potuto constatare, GUERIN SERAC e DELLE CHIAIE trattavano fra loro alla pari. Io, a un certo punto, al mio ritorno dall’Angola, ruppi questa situazione e tornai in Italia in quanto avvertivo netto il pericolo di compromissione con apparati dei servizi segreti. Sostanzialmente questo ambiente costituiva una struttura di servizio formata da individui provenienti da vari ambienti e situazioni aventi fra loro come fattore di coesione la mancanza di mezzi e la necessità di dipendere da chi volesse organizzarli e mantenerli. Posso aggiungere che GUERIN SERAC aveva vari soprannomi, fra cui quello di JUSTO, e che in sostanza appariva l’uomo capace di entrare e uscire dalle situazioni il che faceva supporre che fosse tutt’altro che l’avventuriero velleitario che voleva apparire, ma piuttosto un uomo legato strettamente al mondo dei Servizi. Era indubbiamente un influenzatore di uomini e un manipolatore di situazioni. Dopo venti anni, la definizione che mi sembra più attagliante al personaggio è “agente provocatore in missione””””. (CONCUTELLI, dep. 28.5.1993). Gli spunti forniti da Pierluigi CONCUTELLI, che pur ha evitato accuratamente di far riferimento ad episodi concreti che lo avevano certamente visto come protagonista, sono in piena corrispondenza con quanto delineato da Vincenzo VINCIGUERRA in merito al ruolo di GUERIN SERAC e Jay Simon SALBY, uomini di fiducia per operazioni “sporche” dei servizi di sicurezza americani e in talune occasioni, probabilmente, anche dei servizi di sicurezza francesi. Anche Francesco ZAFFONI, un militante minore del gruppo “La Fenice” di cui si è ampiamente parlato nel capitolo 10, a lungo latitante in Spagna per sfuggire ad una 390 condanna inflittagli dall’A.G. di Milano, seppur non inserito come Pierluigi CONCUTELLI in ambiti operativi, era entrato in contatto con l’ “americano” e cioè con Jay Simon SALBY, detto CASTOR. Egli ha infatti dichiarato che l’americano soprannominato CASTOR, prima di essere arrestato in Algeria insieme a Noel CHERID, era utilizzato in operazioni contro i militanti dell’E.T.A. insieme ad un italiano soprannominato CARLO, all’epoca nome di battaglia di Mario RICCI (dep. a personale del R.O.S., 14.3.1996, f.3). CASTOR, prima di entrare a far parte, a Madrid, del gruppo dell’AGINTER PRESS, aveva partecipato al tentativo di sbarco a Cuba finalizzato al rovesciamento del Governo di FIDEL CASTRO e cioè l’operazione della Baia dei Porci, fallita senza raggiungere il suo obiettivo (dep. citata, f.3). Anche tale circostanza, già ricordata da Vincenzo VINCIGUERRA, è sintomatica di come fossero stretti, seppur non ufficiali, i rapporti fra la struttura di GUERIN SERAC e gli ambienti americani interessati ad operazioni “coperte”. Infine, anche Salvatore FRANCIA, altro ordinovista rifugiatosi per molti anni a Madrid, pur nel contesto di una deposizione assai cauta, ha ricordato che l’americano soprannominato CASTOR era molto legato a Stefano DELLE CHIAIE e che quest’ultimo si era molto attivato quando, nel 1976, l’americano era stato arrestato in Algeria dopo una fallita operazione di “commando” che doveva concludersi con un attentato nella capitale di quel Paese (dep. FRANCIA, 26.11.1993, f.3). CASTOR disponeva a Madrid anche di un ufficio, collegato alla società ENIESA facente capo a Stefano DELLE CHIAIE, ufficio che apparentemente commercializzava attrezzi per macchine da lavoro, ma che, secondo Salvatore FRANCIA, dava la “sensazione” che si trattasse di un ufficio di copertura (dep. citata, f.2). In tema di contatti all’estero fra elementi dell’AGINTER PRESS ed elementi italiani in un contesto golpista, va infine ricordato quanto dichiarato da Roberto CAVALLARO. Questi, nell’ambito dell’istruttoria c.d. Rosa dei Venti, aveva raccontato al G.I. di Padova di essere stato contattato, nel 1972, proprio all’inizio della sua attività, da un ufficiale italiano con il nome in codice “GIORGIO” appartenente all’ambiente del colonnello SPIAZZI, il quale gli aveva spiegato il programma del gruppo e aveva cercato di saggiare la sua disponibilità a impegnarsi nel progetto golpista con un ruolo specifico. A tal fine, GIORGIO aveva invitato Roberto CAVALLARO a partecipare ad un campo di addestramento e di studio delle tecniche della guerra non ortodossa che si era tenuto in Francia, in una zona isolata dei Monti Vosgi, con la presenza di francesi, tedeschi e portoghesi (dep. a personale del R.O.S., 28.6.1995, f.4, e al G.I. dr. Lombardi, 14.7.1992, f.1). 391 392 Roberto CAVALLARO ha precisato che i portoghesi presenti al campo facevano parte dell’AGINTER PRESS, confermandosi così il ruolo di addestramento e di ispirazione di quanto doveva avvenire nei singoli Paesi ricoperto da tale struttura (cfr. annotazione del R.O.S. in data 11.7.1995, f.2, contenuta nel vol.2). 392 64 I FATTI DI MONTEJURRA, IN NAVARRA, DEL 9 MAGGIO 1976 LA PRESENZA ARMATA DI STEFANO DELLE CHIAIE E DEI SUOI UOMINI ALLA SPARATORIA CONTRO I MILITANTI DEMOCRATICI LA CATTURA DI AUGUSTO CAUCHI IN ARGENTINA Una delle azioni più tragiche cui hanno partecipato, in Spagna, Stefano DELLE CHIAIE ed i suoi uomini è stata, infine, la presenza dell'intero gruppo degli italiani, armati ed inquadrati militarmente, alla manifestazione carlista del 9.5.1976 a Montejurra. Tale presenza è documentata in modo inequivocabile dalle fotografie scattate nell'occasione anche da fotografi dilettanti e pubblicate da molti giornali spagnoli ed è confermata dall'ampia testimonianza in merito a tale giornata resa da Gaetano ORLANDO. Montejurra, in Navarra, è il colle sacro per il movimento carlista e cioè i sostenitori degli eredi di Don Carlos, antico pretendente al trono di Spagna escluso dal regno, dopo le guerre napoleoniche, in favore dell'altro ramo della famiglia dei Borbone. I seguaci del movimento carlista, presente soprattutto in Navarra ed attestato originariamente su posizioni retrive e conservatrici, avevano combattuto, durante la guerra civile spagnola del 1936/1939, a fianco del generale Francisco FRANCO e della sua sollevazione contro la Repubblica democratica. In seguito, a partire dalla fine degli anni '60, sotto la guida di Carlos HUGO, erede al trono carlista, il movimento si era progressivamente spostato su posizioni democratiche socialiste, alleandosi con le altre forze di opposizione al regime e diventando in Navarra un punto di riferimento nella lotta contro il franchismo. Per tale ragione Carlos HUGO e la sua famiglia erano stati esiliati dalla Spagna. Il fratello minore di Carlos HUGO, l'ex legionario don SIXTO, aveva però coagulato intorno a sè un'ala minoritaria di carlisti, cercando di opporsi a tale evoluzione in senso democratico, alleandosi con l'estrema destra e tacciando i seguaci del fratello di tradimento della causa carlista. Gli avvenimenti del 9.5.1976, pochi mesi dopo la morte di FRANCO e quando era perciò iniziato il ritorno della Spagna alla democrazia, erano stati una sorta di colpo di coda dell'estrema destra radunata per l'occasione intorno a don SIXTO, buon amico di GUERIN SERAC, di Stefano Delle Chiaie e degli altri latitanti italiani. 393 394 Come ogni anno, quella mattina migliaia di militanti del Partito Carlista e di altre forze democratiche, presente anche Carlos HUGO rientrato clandestinamente in Spagna, si erano radunati ai piedi del colle ed avevano iniziato l'ascesa verso la vetta, coperta quel giorno da una fitta nebbia, ove si trova una cappella sacra per il movimento carlista. Sulla cima del colle si erano tuttavia attestati don SIXTO ed un centinaio di seguaci non solo spagnoli (fra cui molti cattolici tradizionalisti del gruppo Guerriglieri di Cristo Re), ma anche argentini, portoghesi, francesi e soprattutto italiani, inquadrati militarmente ed armati di bastoni e pistole. Il gruppo aveva improvvisamente sbarrato la strada ai manifestanti che stavano salendo e, dopo un breve scambio di invettive, i seguaci di don SIXTO avevano aperto il fuoco uccidendo due giovani democratici e ferendone numerosi altri. L'episodio, che si collocava nel delicato momento della transizione della Spagna dalla dittatura alla democrazia, aveva suscitato grande clamore nel Paese anche perchè la GUARDIA CIVIL, presente in forze, non era minimamente intervenuta per difendere gli aggrediti ed anche in seguito le indagini erano state condotte con poca convinzione e si erano concluse con lievi condanne nei confronti di pochissime persone, nonostante l'ampiezza della documentazione fotografica che avrebbe potuto consentire di individuare e perseguire un numero elevato di aggressori. Centrale, sin dai primi giorni, era apparso comunque il ruolo degli italiani giunti in forze da Madrid ed infatti in alcune fotografie scattate al momento dell'aggressione e pubblicate in parte anche da settimanali italiani, erano ben visibili, inquadrati nel gruppo paramilitare, Stefano DELLE CHIAIE e Augusto CAUCHI, quest'ultimo con occhiali neri ed il volto semicoperto da un fazzoletto. Nè Stefano DELLE CHIAIE nè alcun altro italiano erano stati tuttavia mai perseguiti in Spagna per tale episodio e qualche mese dopo tutto il gruppo aveva iniziato a trasferirsi in Cile per mettersi al servizio del regime del generale Pinochet e della sua Polizia speciale, la DINA, con la quale Stefano DELLE CHIAIE aveva già collaborato fornendo a Roma, nell'ottobre 1975, l'appoggio logistico per il tentativo di omicidio del senatore democristiano cileno Bernardo LEIGHTON e di sua moglie (int. VINCIGUERRA al P.M. di Roma, 9.9.1992). A distanza di molti anni è stato possibile ricostruire il ruolo ricoperto quel giorno dagli italiani che provenivano da Madrid grazie non solo alle fotografie, ma anche alla testimonianza di Gaetano ORLANDO il quale, pur rimanendo nei pressi dell'albergo situato ai piedi del colle, aveva potuto osservare le fasi preparatorie dell'azione e aveva raccolto numerose notizie sulla dinamica degli avvenimenti, nell’immediatezza dei fatti, dagli stessi italiani che, dopo l'interrogatorio cui lo aveva sottoposto Stefano DELLE CHIAIE, lo avevano parzialmente accettato nel loro ambiente. Dal racconto di Gaetano ORLANDO emerge in modo grave, ma nello stesso tempo prevedibile, la collusione fra gli uomini di Stefano DELLE CHIAIE e la 394 Polizia spagnola che in tale occasione aveva direttamente fornito le armi agli italiani e poi protetto gli aggressori. Sui fatti di Montejurra, i passi salienti della deposizione di Gaetano ORLANDO - il quale era giunto da Madrid con la sua autovettura e accompagnato dal maggiore DE ROSA - meritano di essere riportati integralmente: “””Per quanto concerne il mio periodo in Spagna, ribadisco che l'unica vicenda cui in parte assistetti di persona fu quella di Montejurra, come ho già accennato al G.I. di Bologna. La località è a circa 100 chilometri da Madrid, ma io, mentre i fatti accadevano sulla montagna, rimasi all'Hotel Montejurra insieme al maggiore De Rosa, che era latitante per i fatti del golpe Borghese. Lui voleva andare a vedere, ma io riuscii a trattenerlo. Comunque vidi partire le jeep con le armi e il gruppo degli italiani. Le jeep e le armi erano state consegnate direttamente dalla Guardia Civil. C'erano almeno dieci o quindici italiani e fra essi, come è noto, Cauchi, Cicuttini e alcuni calabresi, veneti e toscani. Come è noto, c'era anche Stefano Delle Chiaie che fu battezzato generale sul campo da Sixto V di Borbone con la consegna del "bastone" da generale”””. (ORLANDO, dep. a questo Ufficio, 17.1.1992, f. 3). “””Posso aggiungere che quel giorno, fra gli italiani, era presente un Mario, calabrese, di cui non conosco il cognome ma comunque ricordo che era sposato ad una certa Rosa, italiana, e si diceva che facesse parte del gruppo di fuoco; questo mi consta personalmente anche se non l'ho visto sparare personalmente; fu uno di quelli a cui vidi personalmente consegnare le armi dalla Guardia Civil. C'era poi Mario RICCI il quale in Spagna era chiamato Carlo e posso aggiungere che questo Mario Ricci, alias Carlo, lo incontrai per caso, in seguito, ad Assuncion in Paraguay. C'era un ufficiale delle forze speciali italiane, cioè un militare, che aveva coordinato l'intera operazione di Montejurra con tanto di cartine e di indicazioni in quanto quel giorno dovevano essere operativi proprio gli italiani, mentre per gli spagnoli era semplicemente una sfilata. Questo Ufficiale è tuttora vivente, per quanto mi consta. All'epoca era un Ufficiale della Folgore e coordinò, lo ribadisco, l'intera operazione sotto il profilo militare; non so dire se si tratti di persona implicata in processi qui in Italia. Non mi sento di rivelare l'identità di questo Ufficiale”””. (ORLANDO, dep. a questo Ufficio e al G.I. di Brescia, 5.6.1992, f.3 e retro). In data 19.10.1992 Gaetano ORLANDO ha aggiunto altri particolari: 395 396 “””Posso precisare meglio quanto sulla vicenda ebbi già a dichiarare. La consegna delle armi e delle jeep - che erano due - da parte della Guardia Civil al gruppo operativo, formato soprattutto da italiani, avvenne dinanzi all'albergo in cui io e il maggiore De Rosa alloggiavamo ed io, dal mio punto di osservazione nella zona dell'albergo, vidi questo passaggio delle consegne direttamente. Preciso che l'albergo si trova a circa sei o sette chilometri dalla cima della collina. Una serie di fotografie assai più indicative anche di quelle che l'Ufficio mi mostra furono scattate da un reporter della rivista spagnola DIARIO 16 e subito dopo pubblicate. Io ebbi modo di vedere, e si vede in queste fotografie, la scena della consegna degli automezzi dalla Guardia Civil agli italiani. In una delle fotografie si vede parcheggiata davanti all'albergo la mia macchina targata SO 20740 di marca Citroen. Da queste fotografie è possibile riconoscere molti italiani, essendo assai più chiare di quelle che l'Ufficio mi ha mostrato. Posso sin d'ora dire che vi è, o potrebbe esserci, l'ufficiale della Folgore di cui ho parlato. Un altro italiano che c'era a Montejurra e di cui non avevo mai parlato sin ora è Piero Carmassi. Nelle fotografie che l'Ufficio mi ha mostrato di italiani riconosco bene solo Augusto Cauchi che in una fotografia, ad esempio, si vede con gli occhiali scuri a sinistra di una persona non molto giovane con un impermeabile chiaro”””. Infine, in data 13.11.1992 dinanzi ai G.I. di Milano e Bologna, Gaetano ORLANDO ha riconosciuto, in una fotografia pubblicata dalla rivista Panorama in data 2.11.1976, a fianco di Stefano DELLE CHIAIE ed Augusto CAUCHI, l'altro elemento operativo del gruppo: Mario il calabrese e cioè Giuseppe CALZONA. La diretta testimonianza di Gaetano ORLANDO, è stata confermata nelle sue linee essenziali da Vincenzo VINCIGUERRA il quale non era presente a Montejurra essendo rientrato in quel periodo in Italia, ma aveva appreso alcuni particolari dell'operazione da Stefano DELLE CHIAIE e dagli altri, sia in un momento precedente sia in un momento successivo alla stessa: “””Mi ero recato in Spagna nuovamente solo per un paio di giorni verso fine aprile/maggio 1976 e solo per partecipare ad una riunione a Madrid riguardante fatti interni di A.N. e a cui c'erano altri italiani. Dopo la riunione Stefano Delle Chiaie mi accennò alla imminente manifestazione di Montejurra, ma io decisi di non trattenermi in Spagna e rientrai a Roma. 396 Di conseguenza ho notizie solo indirette e posso dire che c'era Mario Ricci, come dice Orlando, e che Mario il calabrese non è altri che Giuseppe Calzona di cui ho parlato e che appunto aveva Mario come nome di copertura. Dell'episodio posso dire che si svolse con una presenza massiccia di italiani sia di A.N. che di O.N. e che erano state prese delle misure di carattere militare che comprendevano, fra l'altro, anche l'eventuale utilizzazione di una mitragliatrice, ma gli incidenti furono tutto sommato ridotti rispetto a quelli che erano stati paventati. Prendo visione della fotografia relativa ai fatti di Montejurra pubblicata da Panorama del 2.11.1976 a pag. 86 e posso dire che la persona a destra di Cauchi, in prima fila con il basco, è proprio Calzona”””. (VINCIGUERRA, int. 16.6.1992 f.1) In data 12.5.1992, dinanzi al G. I. di Bologna, Vincenzo VINCIGUERRA ha aggiunto che a Montejurra, oltre alle persone già indicate, era presente anche Carlo CICUTTINI, responsabile insieme allo stesso VINCIGUERRA dell'attentato di Peteano e sin dal 1972 latitante in Spagna ed aggregato al gruppo di DELLE CHIAIE (f.2). Secondo Vincenzo VINCIGUERRA era stata progettata quindi un'azione anche più grave, addirittura con l'uso di una mitragliatrice contro i manifestanti che stavano raggiungendo la vetta del colle. Anche Salvatore FRANCIA, pur non presente a Montejurra, ha confermato di aver appreso che avevano partecipato all'azione DELLE CHIAIE, CAUCHI e Mario il calabrese e che il gruppo di DELLE CHIAIE si era recato tranquillamente da Madrid a Montejurra con tanto di macchine con targhe italiane, sicuri certamente di non aver alcun fastidio da parte della Polizia spagnola (dep. FRANCIA, 26.11.1993, f.3). Infine anche Angelo FACCIA, un ex repubblichino residente sin dagli anni '60 a Barcellona, che era stato convinto, se non costretto, da Stefano DELLE CHIAIE ad offrire ospitalità e lavoro presso la sua azienda metalmeccanica a molti fuoriusciti italiani, ha riconosciuto Giuseppe CALZONA e Carlo CICUTTINI in una fotografia che li ritrae a Montejurra inquadrati a fianco di Stefano DELLE CHIAIE (cfr. dep. 19.08.1994, f. 2). Decisiva, in quella giornata, era stata quindi la presenza degli italiani inquadrati da Stefano DELLE CHIAIE, appoggiati dalla Guardia Civil e fra i quali vi era l'immancabile presenza di un militare e cioè un Ufficiale della Folgore. Del resto nelle fotografie acquisite in Spagna tramite la Digos di Milano, sinora mai apparse in Italia, si nota distintamente, nella fase cruciale dell'aggressione, Augusto CAUCHI con un fazzoletto sul volto, coprire le spalle ad uno spagnolo, seguace di don Sixto, vestito con impermeabile chiaro e con il basco. In tale sequenza di fotografie è ritratto uno dei momenti più drammatici in quanto lo spagnolo avanza, estrae la pistola e fredda con alcuni colpi un 397 398 giovane seguace di Carlos HUGO che si trova pochi passi dinanzi a lui (cfr. vol. 13, fasc. 5, fotografie allegate alla nota della Digos di Milano in data 7.9.1993, ff. 119 e seguenti, in particolare fotografie nr. 9 - 10). L'azione del 9.5.1976 a Montejurra è quindi assai indicativa del carattere operativo della struttura armata costituita a Madrid da Stefano DELLE CHIAIE con gli altri fuoriusciti, struttura di servizio pronta a mettersi a disposizione delle forze di sicurezza spagnole ancora legate, per molto tempo anche dopo la morte del generale FRANCO, alle ideologie ed ai metodi del vecchio regime che faticava a scomparire. Del resto quella di Montejurra certamente non è l'unica azione in cui gli uomini di Stefano DELLE CHIAIE e GUERIN SERAC si sono posti al servizio degli apparati istituzionali spagnoli. Numerosi testimoni infatti, in questa e nelle precedenti istruttorie, hanno fatto riferimento ad operazioni "sporche", affidate al gruppo di DELLE CHIAIE ed anche a Pierluigi CONCUTELLI, consistenti nell'eliminazione di esponenti dell'E.T.A. basca o in operazioni più sofisticate e "mimetizzate" per le quali era stata messa a frutto l'esperienza italiana. Talvolta, ad esempio, veniva eseguito il rapimento e l'uccisione di un ostaggio, spesso un imprenditore, con modalità tali da far ricadere sull'E.T.A. o altri gruppi di opposizione l'apparente responsabilità dell'operazione (dep. ORLANDO, 13.11.1992, f.1 al G.I. di Bologna; int. IZZO, 26.5.1992, f.2; int. CALORE al P.M. di Firenze, 12.1.1984, f.3, e int. 2.1.1985, f.5, vol.10, fasc.1; int. VINCIGUERRA, 30.5.1992, f.2). In particolare Augusto CAUCHI aveva confidato a Gaetano ORLANDO di aver preso parte, nel 1975, ad una "vigliaccheria" effettuando con altri, nei Paesi Baschi, il rapimento di un industriale che era stato poi ucciso e gettato in una scarpata. Il rapimento era stato eseguito prelevando la vittima con la stessa FIAT blu con la quale era stato operato il sequestro di Gaetano ORLANDO a Madrid e si trattava di un'azione appunto "mimetizzata" in quanto, essendo la vittima un imprenditore che non aveva voluto pagare il "contributo volontario" in favore dei nazionalisti baschi, il sequestro e l'uccisione dell'ostaggio erano stati attribuiti ad un commando dell'E.T.A. (dep. ORLANDO, 19.10.1992, f.3). Purtroppo l'incompletezza dei dati, pur convergenti negli elementi essenziali, forniti dai testimoni su tali operazioni "coperte" e la scarsa collaborazione prestata dalle Autorità spagnole nonostante varie richieste di rogatoria avanzate dall'Autorità Giudiziaria italiana, non hanno mai reso possibile individuare con sicurezza gli episodi cui hanno partecipato gli italiani fra i molti episodi, simili fra loro, avvenuti in Spagna nella prima metà degli anni '70. La posizione di Augusto CAUCHI merita ancora qualche osservazione. 398 Augusto CAUCHI è una figura chiave della strategia della tensione che sintetizza e testimonia tutte le complicità e le collusioni di cui gruppi eversivi dell'estrema destra hanno goduto da parte dei servizi segreti e di un settore della massoneria. Augusto CAUCHI, aderente alla cellula toscana di Ordine Nuovo, è stato condannato ad una lunga pena detentiva, con sentenza definitiva, per numerosi attentati commessi in Toscana negli anni '70 ed è raggiunto, anche sulla base di dichiarazioni pur volutamente criptiche di Vincenzo VINCIGUERRA, da gravi elementi indiziari in relazione alla sua partecipazione alla strage sul treno Italicus, elementi tuttavia ancora non sufficienti per sostenere validamente un'accusa in giudizio (cfr. requisitoria del P.M. di Bologna nell'istruttoria Italicus-bis depositata in data 5.5.1994, ff.6 e ss.). Augusto CAUCHI, all'inizio degli anni ‘70, riceveva finanziamenti per il suo gruppo direttamente da Licio GELLI e quest'ultimo non è stato condannato per il reato di sovvenzione di banda armata solo perchè, in modo certamente improprio, la Corte di Cassazione ha degradato il gruppo di cui faceva parte CAUCHI da banda armata ad associazione sovversiva, reato per cui non è prevista l'autonoma figura criminosa del "sovvenzionatore" (cfr., requisitoria cit. pagg. 6 - 7). Nel 1975 Augusto CAUCHI, inseguito da numerosi mandati di cattura emessi dall'A.G. di Firenze, è riuscito a fuggire all'estero, in un primo momento grazie alla complicità di un sottufficiale dei Carabinieri di Arezzo e poi, nella seconda fase della fuga, grazie alle omissioni del Capo del Centro C.S. di Firenze, colonnello Federigo MANNUCCI BENINCASA, il quale, benchè a conoscenza del luogo ove CAUCHI poteva essere tratto in arresto a Milano, non si era curato di avvertire la polizia giudiziaria. Augusto CAUCHI, giunto a Madrid, nonostante il suo passato ordinovista così come Vincenzo VINCIGUERRA, si era aggregato al gruppo di Stefano DELLE CHIAIE partecipando probabilmente a numerose azioni contro militanti dell'E.T.A. Secondo Gaetano ORLANDO anche dalla Spagna Augusto CAUCHI aveva mantenuto i suoi rapporti con GELLI ed infatti durante la sua permanenza in Spagna si era allontanato per alcuni giorni ritornando con una somma di denaro che gli era stata consegnata da Licio GELLI. Secondo i fuoriusciti italiani non era questa la prima volta in cui anche dalla Spagna erano avvenuti simili rifornimenti di denaro per i latitanti (dep. ORLANDO al G.I. di Bologna, 2.8.1993, f.2, vol.20, fasc.1). Nel 1977 Augusto CAUCHI, essendo ormai venute meno le protezioni offerte dal regime franchista e durate ancora qualche tempo dopo la morte di FRANCO, aveva raggiunto il Cile, così come altri italiani, e si era messo al servizio della DINA, la polizia speciale del generale PINOCHET (int. VINCIGUERRA, 27.4.1993, f.1). La latitanza di Augusto CAUCHI è durata ben diciassette anni. Nella primavera del 1993, grazie ad un colloquio investigativo, effettuato su delega di quest'Ufficio e del G.I. di Bologna da personale del R.O.S. Carabinieri di Roma, con 399 400 un detenuto dell'area di destra, Augusto CAUCHI è stato localizzato ed arrestato in Argentina (cfr. vol. 13, fasc. 6). Tuttavia, nonostante l'impegno dispiegato dai funzionari del Ministero di Grazia e Giustizia che hanno sollecitamente inviato in Argentina tutta la documentazione necessaria, la procedura di estradizione non ha avuto alcun esito e Augusto CAUCHI, forse grazie a protezioni di cui ancora gode, non è stato consegnato alle Autorità italiane ed è stato invece liberato nella primavera del 1995. 400 65 L’ATTIVITA’ DI INFILTRAZIONE DI ROBERT LEROY IN GRUPPI FILO-CINESI ITALIANI ALLA FINE DEGLI ANNI ‘60 Nel corso delle indagini, questo Ufficio ha proceduto presso il S.I.S.Mi. all’acquisizione del fascicolo del S.I.D. aperto negli anni ‘60 nei confronti di Robert LEROY, francese di orientamento cattolico tradizionalista il quale, nella seconda guerra mondiale, si era arruolato nelle WAFFEN SS, era stato condannato da una Corte francese a 20 anni di lavori forzati per collaborazionismo con i tedeschi e in seguito graziato; negli anni ‘60 era poi divenuto braccio destro di GUERIN SERAC nell’AGINTER PRESS e in ORDRE ET TRADITION e come tale era stato indicato nell’appunto del S.I.D. del 16.12.1969 concernente gli attentati appena avvenuti. La figura di Robert LEROY (sulla quale si veda anche VINCIGUERRA, dep. a personale del R.O.S., 15.2.1995, f.4), benchè deceduto nel 1982, poteva essere di particolare interesse poichè egli negli anni ‘60, spacciatosi per filo-cinese, per conto dell’AGINTER PRESS si era infiltrato in movimenti di liberazione africani (in particolare nel FRE.LI.MO., operante in Mozambico) al fine di creare dissidi interni; inoltre, avendo frequentato il nostro Paese verso la fine degli anni ‘60 (era, fra l’altro, stato presente insieme al dr. MAGGI al Convegno di Nuovo Ordine Europeo, ad Abbiategrasso, nel marzo 1967), era possibile che un’attività di tal genere fosse avvenuta anche in Italia nel periodo che aveva preceduto la strategia terroristica. La ricerca effettuata esaminando il fascicolo intestato a Robert LEROY, già presente occasionalmente in Italia sin dall’inizio del 1966, dava esito positivo. Infatti risultava che Robert LEROY aveva fondato nella zona di Marsiglia, ove all’epoca risiedeva, un sedicente movimento filo-cinese, si era messo in contatto con l’Ambasciata della Cina a Berna (l’unica esistente nell’Europa Occidentale alla fine degli anni ‘60) e aveva quindi attivato contatti con l’Italia (cfr. nota del Centro C.S. di Milano in data 20.3.1967, di fonte BILL, identificato nel cittadino svizzero Gerard BUILLARD, elemento “filo-cinese” politicamente anch’egli legato all’estrema destra e divenuto fonte del S.I.D., vol.40, fasc.7, ff.4 e ss.). Si noti che non è possibile sapere con certezza se l‘accreditamento di LEROY e BUILLARD da parte dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese sia stato un infortunio della diplomazia cinese o una scelta deliberata della stessa che, accecata dal proprio odio per la linea comunista ortodossa e filosovietica, abbia scelto di rendersi disponibile a qualsiasi tipo di alleanza pur di contrastare il nemico “revisionista” (sul punto cfr. ampiamente la perizia del dr. Aldo Giannuli, vol.22, ff.169 e ss.). Comunque sia, Robert LEROY e Gerard BUILLARD avevano partecipato, a Torino nell’ottobre 1967, ad alcune riunioni di un gruppo filo-cinese, denominato FRONTE RIVOLUZIONARIO CLANDESTINO, con l’evidente intento 401 402 di favorire lo sviluppo di un gruppo oltranzista disposto a scendere sul terreno dell’illegalità e a commettere azioni provocatorie dannose per tutta l’area di sinistra. Tale notizia discendeva da un appunto del Centro C.S. del S.I.D. di Milano in data 8.11.1967 (cfr. vol.40, fasc.7, ff.18 e ss.), di fonte METO, appunto che, per il suo carattere dettagliato, comportava che la stessa fonte fosse stata presente alle riunioni. Questo Ufficio richiedeva quindi al S.I.S.Mi. l’intera produzione della fonte METO, produzione trasmessa dalla Direzione del Servizio in data 12.7.1993 (cfr. vol.39, fasc.2) e molto ampia in quanto METO aveva svolto l’attività di fonte per il S.I.D. nel campo dell’estrema sinistra (probabilmente in ragione di iniziali pressioni connesse ad attività illecite svolte nell’ambiente estremista) per oltre un decennio, dal 1966 al 1977. L’esame della documentazione consentiva facilmente di appurare che METO (il vero nome è in atti), nella seconda metà degli anni ‘60, era un giovane militante filocinese, passato negli anni ‘70 alla militanza in gruppi della “sinistra rivoluzionaria” milanese e, in seguito, coinvolto in attività terroristiche di un certo livello che lo avevano portato a sganciarsi dalla sua attività per il S.I.D., vissuta certamente per molti anni come una sorta di ricatto. Nel fascicolo di METO risultava presente una copia dell’appunto dell’8.11.1967 concernente le riunioni di Torino (cfr. vol.39, fasc.4, ff.394 e ss.) nonchè, per quanto concerne la fine degli anni ‘60, numerosissime altre informative riguardanti i gruppi filo-cinesi, le Edizioni ORIENTE di Milano, i gruppi universitari animati da Renato CURCIO, il P.S.I.U.P. e così via. METO veniva quindi sentito da questo Ufficio in qualità di testimone e faceva presente di aver appunto frequentato, alla fine degli anni ‘60, vari gruppi filo-cinesi e le Edizioni ORIENTE di Milano, ricordando di aver incontrato alcune volte, presso la sede delle Edizioni ORIENTE, Gerard BUILLARD che si era presentato come esponente di un gruppo filo-cinese svizzero e come ex-partigiano (dep. 15.6.1993, ff.1-2). Il comportamento di BUILLARD aveva destato sospetti in tale ambiente in quanto egli aveva fatto presente con insistenza di poter procurare armi senza difficoltà dalla Svizzera (dep. citata, f.2). METO ricordava anche il gruppo “FRONTE RIVOLUZIONARIO”, con sedi a Torino e ad Aosta, citato nell’appunto e anche di aver avuto vari contatti con esponenti di tale piccola formazione, pur non potendo ricordare, in ragione del tempo trascorso e del sovrapporsi in quell’epoca di numerosissime iniziative simili, se alle riunioni fosse presente lo stesso BUILLARD o un cittadino francese chiamato Robert LEROY (dep. citata, f.2). METO ha infine riconosciuto BUILLARD in una fotografia tratta dal fascicolo del S.I.D. a questi intestato (dep. 30.8.1993, f.1), all’interno del quale è contenuta anche 402 la copia di una lettera indirizzata nel 1967 dallo stesso METO a BUILLARD (cfr. vol.38, fasc.2, f.8). Inoltre, nel fascicolo intestato a Gerard BUILLARD quale fonte BILL (cfr. vol.38, fasc.3) è presente la trascrizione della registrazione di un colloquio avvenuto presso l’Ambasciata d’Italia a Berna, il 6.3.1967, fra “BILL” e due esponenti del Centro C.S. di Milano nell’ambito del quale lo svizzero offre i suoi servigi ai funzionari del Servizio italiano (curiosamente per spiare lo stesso ambiente in cui il S.I.D. dispone già della fonte METO) e fa tra l’altro presente che Robert LEROY è in contatto con l’Ambasciata cinese a Berna, dispone di molto denaro e frequenta Roma e Milano con una certa regolarità (cfr. nota del Centro C.S. di Milano in data 10.3.1967, vol.38, fasc.3, ff.86-87). Vi sono quindi elementi sufficienti per affermare che quanto riportato nell’appunto della fonte METO è esatto e che Robert LEROY, con l’aiuto di Gerard BUILLARD, stesse operando un’attività di infiltrazione dopo essersi “accreditato” presso l’Ambasciata cinese a Berna. La prova che Robert LEROY, alla fine degli anni ‘60, si sia infiltrato in gruppi filocinesi italiani è densa di significati. Testimonia infatti che gli uomini dell’AGINTER PRESS agivano direttamente nel nostro Paese, uno dei Paesi più a rischio nel conflitto non dichiarato fra l’Occidente e il mondo comunista, e che anche in Italia doveva essere sperimentato quel protocollo di intervento che prevedeva, prima di ogni altra cosa e prima della difesa preventiva mediante il terrore, l’infiltrazione nel campo avverso per seminare confusione e creare le condizioni affinchè la responsabilità degli attentati più gravi fosse attribuita alle forze “sovversive”. Esattamente la stessa strategia preparatoria che, a partire dall’anno successivo alle riunioni di Robert LEROY a Torino, sarebbe stata utilizzata da Mario MERLINO a Roma e da Giovanni VENTURA a Padova, rispettivamente negli ambienti anarchici e filo-cinesi, per costituire un paravento di sinistra a quanto si stava progettando. 403 404 66 LA POSIZIONE DI GUERIN SERAC, STEFANO DELLE CHIAIE E DEGLI ALTRI INDIZIATI IN RELAZIONE ALLE ATTIVITA’ DELL’AGINTER PRESS E DEL GRUPPO DI MADRID Con riferimento all’imputazione associativa di cui al capo 8, non sembra esservi dubbio che il gruppo di Madrid, continuatore dell’AGINTER PRESS e formato in parte dai medesimi militanti, costituisse una banda armata secondo la fattispecie tipica richiesta dall’art.306 c.p. Il gruppo era infatti caratterizzato dalla stabilità del vincolo associativo fra i suoi componenti (alcuni dei quali in grado di mantenere i contatti politico/strategici in molti Paesi del Mondo e altri, invece, con compiti spiccatamente operativi), disponeva di basi e riferimenti logistici (si ricordi il sommozzatore incaricato di consentire il transito tra la Francia e la Spagna), disponeva di armi ed esplosivi forniti anche, come il “C4”, da altre “strutture” alleate, era in grado di procurare ai suoi partecipanti documenti falsi e biglietti aerei anche tramite agenzie come la Transalpino (gestita a Madrid da Stefano DELLE CHIAIE) ed aveva soprattutto, quale propria finalità, la progettazione di un numero indefinito di “operazioni” terroristiche e di infiltrazione in aree avverse a scopo di provocazione. Ugualmente non vi è dubbio che il reato associativo, così come articolato al capo 8, di rubrica, sia punibile secondo la legge penale italiana. Infatti il reato di costituzione e partecipazione a banda armata, di cui all’art.306 c.p., è un delitto contro la personalità dello Stato e quindi sono punibili secondo la legge italiana, ai sensi dell’art.7 c.p., anche il cittadino o lo straniero che lo commettono in territorio estero senza che in tal caso vi sia nemmeno la necessità della richiesta del Ministero della Giustizia. Concretamente, inoltre, il gruppo operativo, a partire dalla base di Madrid, era caratterizzato da un continuo passaggio di latitanti dall’Italia alla Spagna e viceversa (si pensi agli spostamenti in Italia, pur durante i periodi di latitanza in Spagna, di VINCIGUERRA e CONCUTELLI e ai viaggi in Spagna degli emissari di Stefano DELLE CHIAIE come Fausto FABBRUZZI, fermato nel 1975 al valico di Ventimiglia mentre stava cercando di raggiungere Madrid (cfr. atti relativi al fermo di FABBRUZZI Fausto e MARI Fabio al valico di Ventimiglia il 27.2.1975, vol.28, fasc.4). Era quindi finalizzato anche a continuare l’attività di sovversione dell’ordinamento del nostro Paese con mezzi violenti. Perdipiù, parte dell’attività operativa si è svolta direttamente in Italia, con riferimento alla fase preparatoria dell’attentato del 18.8.1975 all’Ambasciata d’Algeria a Bonn e alla commissione, nella stessa data a Roma, dell’attentato contro l’Ambasciata del medesimo Paese, cosicchè, ai sensi dell’art.6, II comma, c.p., l’attività associativa nel suo complesso, in quanto avvenuta in parte in Italia, deve considerarsi 404 commessa nel territorio dello Stato e quindi punibile secondo la legge italiana anche ai sensi del criterio di competenza indicato da tale articolo. Passando all’esame delle singole posizioni processuali, il mandato di comparizione emesso nei confronti di Ives Felix Marie GUILLOU, alias GUERIN SERAC, sia in ordine al reato di costituzione di banda armata sia in ordine ai reati connessi agli attentati anti-algerini è stato notificato al difensore d’ufficio con il rito dell’irreperibilità in quanto, come prevedibile, GUERIN SERAC (di cui esistono i dati anagrafici, ma, ad esempio, nemmeno una fotografia o un indirizzo non puramente fittizio) non è stato reperito in Francia, nonostante le ricerche effettuate (cfr. vol.1, fasc.1, ff.38 e ss.) e le ultime notizie, acquisite dagli operanti del R.O.S. tramite contatti con altre Forze di Polizia, lo indicano presente negli ultimi anni, pur senza un indirizzo accertato, in Spagna e, non a caso, in Colombia ove egli avrebbe collaborato con il locale regime militare (cfr. nota del R.O.S. in data 10.10.1994, vol.12, fasc.3, ff.2122). Non vi è dubbio che GUERIN SERAC deve essere rinviato a giudizio per rispondere del reato di cui all’art.306, I comma, c.p. essendo egli il principale artefice ed organizzatore della struttura armata che, dopo la fuga dal Portogallo, ha operato con base in Spagna irradiando la sua attività in altri Paesi europei fra cui l’Italia e, in seguito, il Sud-America. Stefano DELLE CHIAIE è stato interrogato in data 18.9.1992 a seguito dell’informazione di garanzia e invito a comparire emesso nei suoi confronti in relazione agli attentati anti-algerini dell’estate del 1975 (cfr. vol.1, fasc.2, ff.16 e ss.), mentre ha preferito non presentarsi dopo la notifica del mandato di comparizione emesso in data 7.9.1994 per il reato di costituzione, insieme a GUERIN SERAC, della banda armata operante a partire dalla base madrilena (cfr. vol.1, fasc.2, ff.25 e ss.). Nell’interrogatorio in data 18.9.1992, Stefano DELLE CHIAIE ha riconosciuto di aver vissuto a Madrid, fra il 1974 e il 1976, in tre diversi appartamenti, proprio come indicato da Vincenzo VINCIGUERRA, pur negando che tali appartamenti fossero stati procurati dai Servizi spagnoli ed ha ammesso altresì di aver conosciuto e avuto rapporti politici con quasi tutte le persone indicate da VINCIGUERRA: GUERIN SERAC, già incontrato a Roma intorno al 1968 e frequentato a Madrid appunto tra il 1974 e il 1976 (f.3); Robert LEROY, conosciuto in Spagna o in Francia (f.3); Jay Simon SALBY, per la cui liberazione dopo l’arresto in Algeria, nel 1976, lo stesso DELLE CHIAIE si sarebbe adoperato (asseritamente tramite il leader druso JUMBLATT, f.4); e infine JEAN DENIS, l’ufficiale francese che aveva rapporti con le Azzorre (f.4) e che secondo VINCIGUERRA stava organizzando nell’Arcipelago, a metà degli anni ‘70, un finto Fronte di Liberazione in funzione degli interessi occidentali e contro il Governo di sinistra che si era insediato nella Madrepatria portoghese. Con tutti costoro Stefano DELLE CHIAIE ha sostenuto di aver avuto meri rapporti di militanza politica, negando di aver svolto con essi attività illecite sia in Spagna sia in altri Paesi. 405 406 Ugualmente DELLE CHIAIE ha minimizzato l’episodio del prelevamento e del sequestro di Gaetano ORLANDO nell’agosto del 1974 (int. citato, f.4), dipingendolo come semplice “intimidazione”, versione tuttavia assolutamente inattendibile alla luce delle vivide e coincidenti descrizioni di Vincenzo VINCIGUERRA e dello stesso ORLANDO, presenti in qualità di sequestratore e di vittima al fatto che, secondo il racconto del primo, poteva concludersi anche tragicamente per l’esponente del M.A.R. Non vi è dubbio che il ruolo centrale ricoperto da Stefano DELLE CHIAIE nella costituzione e nell’operatività del gruppo di Madrid, reso possibile anche dal fatto che egli era in grado di organizzare, grazie al suo carisma, i latitanti italiani sia di Avanguardia Nazionale sia di Ordine Nuovo che man mano venivano convogliati a Madrid, imponga il suo rinvio a giudizio per il reato di cui all’art.306, I comma, c.p. (costituzione ed organizzazione di banda armata), mentre i reati connessi agli attentati anti-algerini dell’estate del 1975 devono essere dichiarati estinti, per Stefano DELLE CHIAIE come per GUERIN SERAC e come per i materiali esecutori, per intervenuta prescrizione. Per quanto concerne la posizione degli altri componenti del gruppo di GUERIN SERAC e di Stefano DELLE CHIAIE, Mario RICCI, indiziato di partecipazione semplice alla banda armata nonchè di concorso nella commissione degli attentati anti-algerini dell’estate del 1975, è stato sentito in data 28.9.1992, e 11.3.1994. Mario RICCI ha negato di aver partecipato ad attentati o ad altre attività illecite, ma ha dovuto ammettere altre significative circostanze riferite da Vincenzo VINCIGUERRA ed in particolare la sua latitanza a Madrid, a partire dal 1974, sotto il falso nome di Carlo VANOLI, la sua permanenza nell’appartamento sito nella zona del Manzanarre, la sua conoscenza di GUERIN SERAC e Jay Simon SALBY, oltre che di Stefano DELLE CHIAIE e Vincenzo VINCIGUERRA, e il fatto che egli fosse al corrente che, sempre a Madrid, esistesse un secondo appartamento “riservato”, affittato tramite un agente dei Servizi spagnoli a nome EDUARDO, (int. 28.9.1992, ff.2-3) nella zona di Puerta de Jerro. Mario RICCI ha inoltre ammesso di aver partecipato, guidando l’autovettura a bordo della quale si trovava DELLE CHIAIE, ad un sopralluogo al Residence Quevedo dove, invece della prevista presenza di Guido GIANNETTINI, era stato localizzata la presenza di Gaetano ORLANDO (int.11.3.1994, f.2). Anche se Mario RICCI ha negato di aver partecipato al successivo sequestro ed interrogatorio di Gaetano ORLANDO ad opera del gruppo, tale sopralluogo non poteva che essere finalizzato a tale operazione e di conseguenza la parziale ammissione di Mario RICCI costituisce un ulteriore elemento a suo carico. A fronte delle precise indicazioni di Vincenzo VINCIGUERRA, che individuano in Mario RICCI uno degli elementi operativi del gruppo (non si dimentichi che egli era latitante in Spagna per sfuggire ad una pena inflittagli in Italia per detenzione di armi) e uno di coloro che si recarono in aereo in Germania Occidentale per commettere l’attentato in danno dell’Ambasciata di Algeria a Bonn del 18.8.1975 (int. VINCIGUERRA, 4.2.1994, f.2), non vi è dubbio che la dichiarazione di non doversi 406 procedere nei confronti di Mario RICCI possa essere adottata solo con la formula dell’intervenuta prescrizione dei reati lui ascritti. Ad analoghe conclusioni deve giungersi per Piero CARMASSI, da moltissimi anni irreperibile anche dopo la revoca dell’ordine di carcerazione a suo carico per altri fatti in ragione di successivi provvedimenti di condono (cfr. vol.1, fasc.6, f.9), nonchè per Jay Simon SALBY, probabilmente rientrato negli Stati Uniti dopo la sua scarcerazione dalle prigioni algerine, ma rimasto assolutamente irreperibile (cfr. vol.1, fasc.5, f.19). Una dichiarazioni di non doversi procedere per intervenuta prescrizione deve infine essere emessa nei confronti di Vincenzo VINCIGUERRA sia in ordine al reato associativo contestatogli nella forma della semplice partecipazione sia in ordine agli attentati anti-algerini contestatigli in data 23.9.1992 in sede di interrogatorio. 407 408 67 OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: L’AGINTER PRESS NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE E NELL’ “OPERAZIONE” DEL 12 DICEMBRE 1969 E I DIVERSI SEGMENTI DI INTERVENTO PRESENTI IN TALI AVVENIMENTI Alla luce di quanto esposto nei capitoli precedenti, appare assai probabile che l’AGINTER PRESS sia intervenuta in Italia, sul piano dell’ispirazione e in parte sul piano operativo, nella strategia delle stragi e dei più gravi attentati e che la pista indicata nell’appunto del S.I.D. del 16.12.1969 (cfr. capitolo 58: si veda in particolare il testo originale nel fascicolo del S.I.D. intestato a GUERIN SERAC, vol.40, fasc.5, ff.18 e ss.) fosse tutt’altro che azzardata salvo, da parte degli estensori, abbandonare poi la stessa a dipingere GUERIN SERAC e Mario MERLINO come anarchici e filo-cinesi, forse in ossequio ad un accordo ad alto livello (cfr. capitolo 40) che prevedeva il mantenimento della “pista VALPREDA” pur senza giungere alla decretazione dello stato di emergenza e allo scioglimento delle Camere. Si ricordi, oltre agli elementi sinora illustrati, che un testimone certo non in vena di collaborazione come Guido GIANNETTINI ha riferito di aver appreso in carcere, a Catanzaro, da Marco POZZAN che in Spagna, probabilmente intorno al 1974, lo stesso POZZAN (uomo di fiducia, si badi bene, di Franco FREDA) e Stefano DELLE CHIAIE avevano fissato un appuntamento con GUERIN SERAC e questi, a causa di un ritardo dei due italiani, aveva fatto una “lavata di capo” addirittura a Stefano DELLE CHIAIE, segno chiaro della subalternità a GUERIN SERAC di un personaggio pur così importante e carismatico come appunto DELLE CHIAIE (dep. GIANNETTINI, 16.7.1983, f.3). Un indizio anche questo dell’esistenza di quella “linea di comando” GUERIN SERAC - DELLE CHIAIE - MERLINO (con la presenza quali elementi operativi , in Veneto e nel Nord-Italia in genere, degli ordinovisti invece che degli avanguardisti) indicata con decisione nell’appunto del 16.12.1969. Nello stesso appunto, scritto in un’ottica “romana” (con attenzione, quindi, soprattutto a quanto avvenuto il 12.12.1969 a Roma più che a Milano), Mario MERLINO viene indicato quale autore materiale degli attentati di Roma, in particolare dei due attentati “minori” all’Altare della Patria, che sarebbero stati di “ripiego” in quanto in quel momento gli obiettivi originari, altre due banche della zona, erano già chiuse e gli attentatori si sarebbero liberati degli ordigni già attivati deponendoli contro un unico obiettivo, appunto l’Altare della Patria. Si ricordi che se elementi di prova dettagliati e determinanti sono stati acquisiti in relazione alla responsabilità di Ordine Nuovo per gli attentati di Milano e gli altri attentati avvenuti soprattutto nel Nord-Italia prima del 12.12.1969, elementi non così diretti, ma comunque significativi e concordanti, sono stati acquisiti nei confronti di Avanguardia Nazionale in relazione quantomeno a due aspetti: la presenza a Roma di istruttori stranieri nel campo dell’uso di esplosivi (specialità, 408 questa, dell’AGINTER PRESS che disponeva degli elementi dell’O.A.S.) e la materiale responsabilità per i due attentati all’Altare della Patria, cioè proprio quelli attribuiti a MERLINO, e quindi ad Avanguardia Nazionale, nell’appunto del S.I.D. concernente GUERIN SERAC. Infatti: - Carmine DOMINICI, esponente di rilievo di Avanguardia Nazionale a Reggio Calabria sino alla metà degli anni ‘70 (la cui collaborazione è stata prematuramente interrotta dalla diffusione del suo nome quale “pentito” ad opera di un giornalista del TG3), ha parlato diffusamente di tale JEAN, di origine francese e certamente proveniente dall’AGINTER PRESS, quale istruttore degli avanguardisti calabresi in materia di uso degli esplosivi e di confezionamento di ordigni (dep. a personale del R.O.S., 29.9.1994, f.2). JEAN frequentava anche l’ambiente romano ed era tenuto in grande considerazione da Stefano DELLE CHIAIE (dep. citata, f.2). Carmine DOMINICI ha anche parlato di alcuni timers, detenuti da Bruno GALATI di Reggio Calabria, tra il 1969 e il 1970, per conto della struttura di Avanguardia Nazionale di Roma, che questi non aveva voluto restituire costringendo gli avanguardisti romani, Carmine PALLADINO e Tonino FIORE, a scendere a Reggio Calabria per tentare, senza successo, di recuperarli con la forza (dep. citata, f.3). Tale vicenda non è stata ulteriormente approfondita in quanto Carmine DOMINICI ha interrotto qualsiasi forma di collaborazione, ma potrebbe essere di notevole rilievo. E’ certo, infatti, che i timers gelosamente tenuti dal GALATI (da tempo deceduto) non siano i più sofisticati timers elettronici detenuti da Carmine DOMINICI qualche anno dopo (int. DOMINICI, 30.11.1993, f.6) e si può quindi supporre che i timers finiti a Reggio Calabria siano parte di quelli acquistati da Franco FREDA, ceduti dopo gli attentati del 12.12.1969 a Cristano DE ECCHER e, come già ricordato nella sentenza-ordinanza del 18.3.1995 (cfr. capitolo 11), da questi ceduti, nel giro di breve tempo e con grande disappunto di FREDA, ad Avanguardia Nazionale e mai più recuperati. - Carlo DIGILIO ha affermato di aver appreso, in tempi e circostanze diverse, da Marcello SOFFIATI subito dopo i fatti e, in seguito, da Giancarlo ROGNONI in Spagna, che principale responsabile dei tre attentati che erano stati commessi a Roma il 12.12.1969, contemporaneamente alla strage di Milano, era il gruppo di Avanguardia Nazionale (int. 7.8.1996, f.4, e 10.9.1996, f.4). - Prima ancora di Carlo DIGILIO, già Vincenzo VINCIGUERRA aveva affermato “di avere avuto, a più riprese e in epoche diverse, notizie sulla partecipazione di elementi di Avanguardia Nazionale agli attentati del 12.12.1969 con riferimento specifico agli attentati di Roma” (int. 29.6.1992, f.1), pur rifiutando di soffermarsi, in sede di interrogatorio, sui particolari. - Con riferimento a notizie apprese in carcere, Edgardo BONAZZI ha ricordato di aver avuto notizie da Nico AZZI che “i tre attentati romani erano stati commessi da uomini di Stefano DELLE CHIAIE” (dep. a personale del R.O.S., 22.2.1996, f.2). 409 410 - Anche Graziano GUBBINI, ordinovista di Perugia inserito a livello piuttosto alto nell’organizzazione e a lungo detenuto negli anni ‘70, ha affermato di aver appreso in carcere, durante i dibattiti interni fra i camerati detenuti in merito ai fatti di strage, che la cellula padovana era responsabile della strage di Piazza Fontana, ma che gli attentati “minori” di Roma all’Altare della Patria era stati invece commessi da Avanguardia Nazionale (dep. dinanzi ai G.I. di Bologna e di Milano, 24.1.1994, f.7). Da queste notizie erano originate le “lezioni”, in termini di pestaggio e accoltellamento, inflitte a FREDA, a FACHINI e a Giulio CRESCENZI (quest’ultimo appartenente alla struttura occulta di Avanguardia Nazionale) ad opera di altri camerati che erano contrari alla linea stragista (dep. citata, f.7). - Infine, anche Giuseppe ALBANESE, esponente dell’ambiente di destra calabrese in seguito passato alle fila della malavita comune, ha affermato di aver appreso in carcere, nel 1971 dall’avanguardista Antonino TRIPODI, che gli attentati all’Altare della Patria erano stati commessi da elementi calabresi di Avanguardia Nazionale (dep. al G.I. di Bologna, 3.9.1992, f.3; vol.11, fasc.5). I rapporti dell’AGINTER PRESS con Pino RAUTI e l’altra organizzazione di estrema destra, Ordine Nuovo, sono stati sottoposti ad ampia disamina, anche sulla base di documenti inediti esaminati presso l’Archivio del Ministero dell’Interno dal perito dr. Aldo Giannuli (pagg.149 e ss. dell’elaborato peritale). Estremamente importante e indicativa della circolarità dei rapporti fra strutture eversive straniere, strutture eversive nazionali e apparati dello Stato dell’epoca è l’individuazione, grazie alla perizia, di colui che aveva promosso e favorito tali rapporti. Si tratta del giornalista romano Armando MORTILLA, fondatore dell’AGENZIA NOTIZIE LATINE, militante del M.S.I. nel primo dopoguerra, trasferitosi nel 1972 a Madrid. Armando MORTILLA, tuttavia, non era un semplice militante di destra, ma aveva svolto per un lunghissimi periodo, dal 1955 al 1975, l’attività di informatore per il Ministero dell’Interno, con il nome in codice ARISTO, fornendo notizie di primissima qualità (pagg.165 e ss. della perizia). Ciò che è più interessante, ed è stato attentamente messo in luce dal perito, è tuttavia il fatto che ARISTO non fosse un semplice informatore in senso classico (cioè colui che fornisce notizie in merito ad avvenimenti che avvengono indipendentemente dalla sua volontà), ma piuttosto un “agente”, cioè un soggetto che contribuisce in prima persona a determinare gli eventi in merito ai quali poi riferirà ai suoi referenti. E’ infatti Armando MORTILLA, alias ARISTO, a promuovere e a tessere, fra il 1967 e il 1968, i rapporti, in precedenza inesistenti o generici, fra l’AGINTER PRESS e ORDINE NUOVO, prima organizzando il viaggio dell’ordinovista di La Spezia Piergiorgio BRILLO a Lisbona per partecipare ad un corso di addestramento e poi organizzando l’incontro, a Roma nel gennaio 1968 e di cui egli stesso è garante, fra GUERIN SERAC e Pino RAUTI. 410 Armando MORTILLA, quindi, non è solo un informatore, ma un agente che riferisce al Ministero dell’Interno ciò che ha organizzato evidentemente con il consenso di tale struttura dello Stato. Estremamente significativo in tal senso è l’appunto risalente al maggio 1967 (che costituisce l’allegato 108 alla perizia; pagg.152-155 della medesima) in cui un anonimo funzionario del Ministero dell’Interno suggerisce ai suoi superiori l’opportunità che ARISTO possa “vincolarsi” il più strettamente possibile al gruppo di Lisbona in modo da funzionare da trait d’union per più approfonditi accordi specifici fra lo stesso gruppo di Lisbona e Pino RAUTI. Per favorire ciò, secondo il funzionario, sarebbe utile fornire al gruppo di Lisbona, tramite ARISTO, notizie sulle attività riservate comuniste con particolare riguardo ai contatti tra le forze di sinistra italiane e i comunisti portoghesi e spagnoli e anche quelli dei Paesi africani, quindi notizie di sicuro interesse per l’AGINTER PRESS e ORDRE ET TRADITION (cfr. pag.133 degli allegati alla perizia). E’ evidente che in tal modo il Ministero dell’Interno non si limita ad acquisire informazioni, ma le fornisce, anche al fine di favorire i contatti in Italia dell’AGINTER PRESS che viene quindi trattata più da organismo collegato che da struttura eversiva da controllare. L’AGINTER PRESS non era quindi un’organizzazione di sapore quasi esotico, ma una realtà in costante contatto, sotto varie forme e attraverso diversi canali, con il nostro Paese. E’ poi estremamente probabile che l’AGINTER PRESS disponesse di canali stabili di collegamento e di forme di reciproco aiuto con la C.I.A. e altre strutture americane. Americano e reduce dal fallito sbarco a Cuba, alla Baia dei Porci, era Jay Simon SALBY, detto CASTOR, uomo di fiducia di GUERIN SERAC sul piano operativo. Di stretta pertinenza delle strutture militari americane era l’esplosivo “C4” utilizzato per l’attentato all’Ambasciata d’Algeria a Bonn dell’estate del 1975. In uno degli appunti a firma ARISTO, acquisiti ed esaminati nella perizia (cfr. pag.161 dell’elaborato e allegato n.115), questi scrive che, per esplicita affermazione di GUERIN SERAC, la struttura di Lisbona ha rapporti con la destra del Partito Repubblicano statunitense guidata dal senatore GOLDWATER e che i mezzi finanziari per le iniziative dell’AGINTER PRESS in Africa provengono a Lisbona direttamente dagli Stati Uniti (cfr. ff.81-82 allegati alla perizia). Inoltre, in un documento del S.D.C.I. (servizi segreti portoghesi del periodo successivo alla Rivoluzione dei Garofani) acquisito da personale del R.O.S. e steso nel 1975 sulla base di materiale appartenente all’AGINTER PRESS e alla P.I.D.E., si annota che Robert LEROY, braccio destro di GUERIN SERAC con la sigla in codice T-BIS, dopo la sua scarcerazione a seguito dell’amnistia per i reati di 411 412 collaborazionismo, si era specializzato nel contro-spionaggio e aveva raccolto, dal 1958 al 1966, informazioni per la N.A.T.O. (cfr. analisi del R.O.S. sul documento, acquisito in data 7.5.1994, vol.43, fasc.6, in particolare ff.6-7 e 46-47). In sostanza è molto probabile che l’AGINTER PRESS abbia funzionato come una sorta di sub-agenzia, sia in Africa e in Sud-America sia in Europa, incaricata delle azioni meno confessabili che dovevano essere eseguite senza una compromissione diretta di organismi ufficiali per non creare problemi nè nei rapporti fra Stati nè, eventualmente, nell’opinione pubblica (cfr. pagg.180181 della perizia). La diretta provenienza di gran parte del gruppo dirigente dell’AGINTER PRESS dall’esperienza dell’O.A.S. (uno dei cui punti fermi era, fra l’altro, la cooperazione tra civile e militari, come avrebbero tentato di fare in Italia ORDINE NUOVO e i NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO) garantiva di per sè la massima affidabilità nel lavoro di infiltrazione e nelle “azioni coperte” e cioè le forme di lotta che, secondo la teoria della guerra non ortodossa, risultavano particolarmente idonee, sino alla metà degli anni ‘70, a fronteggiare l’insidia rivoluzionaria (pag.181 della perizia). In conclusione, l’AGINTER PRESS, lungi dall’essere una struttura lontana ed estranea, sembra essere stata uno dei “segmenti” che hanno fattivamente contribuito, in modo complementare (non potendosi contrapporre quella che è stata chiamata la “pista internazionale” alla “pista interna”), con l’intervento sia di strutture ufficiali sia di strutture apertamente illegali, a quella che nel nostro Paese è stata chiamata la “strategia della tensione”. Sintetizzando, senza pretesa di completa esattezza, quelle che sono state in questi anni le acquisizioni della presente istruttoria e delle indagini collegate, potrebbe affermarsi che: - l’AGINTER PRESS ha fornito, a partire dalla fine degli anni ‘60, un “protocollo di intervento, valido anche per gli altri Paesi europei, alle organizzazioni dei singoli Paesi, fra cui l’Italia, in termini di tecniche di infiltrazione e di addestramento all’uso degli esplosivi, ispirando probabilmente anche singoli attentati o campagne terroristiche; - ORDINE NUOVO è la struttura prevalentemente responsabile, in termini di esecuzione materiale, degli attentati del 12.12.1969 e di quelli che li hanno preceduti ed ha continuato ad operare successivamente attuando, tramite Gianfranco BERTOLI la strage alla Questura di Milano del 17.5.1973, molto probabilmente la strage di Piazza della Loggia a Brescia e la catena di attentati maggiori e minori, comprese alcune mancate stragi su convogli ferroviari, proseguita sino all’inizio degli anni ‘80; - AVANGUARDIA NAZIONALE è probabilmente responsabile degli attentati “minori” del 12.12.1969 e, tramite il suo leader, Stefano DELLE CHIAIE, ha garantito, in una prima fase a Madrid e in seguito in Sud-America, il rifugio e la latitanza dei componenti di entrambe le organizzazioni, che venivano via via colpiti da provvedimenti giudiziari, in cambio della disponibilità degli stessi a rendersi complici e parte attiva nelle azioni “sporche” dei servizi di sicurezza di tali Paesi; 412 - l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, cui anche tramite Armando MORTILLA (alias ARISTO) era ben conosciuta l’attività dell’AGINTER PRESS e dei suoi referenti italiani, ha verosimilmente reclutato e attratto nella propria orbita alcuni elementi operativi dell’estrema destra (fra cui, secondo le dichiarazioni di Vincenzo VINCIGUERRA e Martino SICILIANO, Delfo ZORZI a partire dal 1968), garantendo protezione ed instradando consapevolmente sulla pista anarchica le indagini concernenti i fatti del 12.12.1969; - il S.I.D., autore dell’appunto di “compromesso” del 16.12.1969 (comunque non trasmesso in tempo utile all’Autorità Giudiziaria che stava indagando), è intervenuto soprattutto in una fase successiva, garantendo fra l’altro l’espatrio e la sottrazione agli inquirenti di Guido GIANNETTINI e di Marco POZZAN e, come si è esposto nella prima sentenza-ordinanza del 18.3.1995, “chiudendo” nel 1975 la fonte Gianni CASALINI, interna alla cellula di Padova; - la struttura informativa americana ha infine controllato da vicino, tramite i suoi agenti, lo sviluppo degli avvenimenti attuando in parte un “controllo senza repressione”, garantendo in parte un aiuto logistico (soprattutto al casolare di Paese tramite il prof. Lino FRANCO e più volte tramite Sergio MINETTO e Carlo DIGILIO) guardando con favore ad una possibile svolta in senso autoritario in Italia, favorita dagli attentati che venivano via via progettati e interrompendo, o quantomeno rallentando, tale attività di controllo e collusione solo alla metà degli anni ‘70 in ragione del mutato quadro internazionale. Gli ulteriori sviluppi istruttori e dibattimentali, attesi a Milano, a Brescia e in altre sedi giudiziarie, diranno in quale misura tale chiave di interpretazione potrà essere ritenuta esatta. 413 414 PARTE SETTIMA GLI ALTRI SPUNTI INVESTIGATIVI EMERSI NEL CORSO DELLE INDAGINI E LE ULTIME ACQUISIZIONI PROCESSUALI 414 68 ALTRI EPISODI E CIRCOSTANZE EMERSI NEL CORSO DELL’ISTRUTTORIA LE CONFIDENZE DEL GENERALE NICOLA FALDE IN MERITO AGLI ATTENTATI DEL 12 DICEMBRE 1969 Nel corso dell’istruttoria, attraverso le dichiarazioni di imputati e testimoni e a seguito di acquisizioni documentali, sono emersi per la prima volta numerosi episodi e circostanze non direttamente produttrici di imputazioni, che tuttavia non possono essere del tutto sorvolati sia perchè in molti casi costituiscono un riscontro, diretto o indiretto, delle testimonianze più importanti sia perchè contribuiscono a mettere a fuoco il quadro del periodo in cui sono avvenuti i fatti più importanti oggetto di questa istruttoria e delle altre a questa collegate. Alcune situazioni si riallacciano (come le confidenze del generale Nicola FALDE e le confidenze di Paolo ZANETOV a Sonia ARBANASICH) direttamente agli avvenimenti del 12.12.1969, altre (come l’attentato alla Stazione dei Carabinieri di Feltre e l’episodio in danno dell’attrice Franca RAME) riguardano il tema dei rapporti fra apparati istituzionali ed elementi dell’estrema destra, altri ancora (come i nuovi elementi emersi in merito ai NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO) sono la prosecuzione e il completamento di argomenti già trattati nella prima sentenzaordinanza. E’ quindi necessario soffermarsi almeno su alcuni di tali episodi sparsi, e in primo luogo in merito a quanto appreso dal generale Nicola FALDE da alcuni suoi colleghi quasi nell’immediatezza degli attentati del 12.12.1969. Nel volume “Sovranità Limitata”, pubblicato nel 1991 e dedicato alle interferenze delle strutture politico/militari atlantiche sulla vita politica italiana e sulla c.d. strategia della tensione, i due autori, Antonio e Gianni CIPRIANI, avevano fatto riferimento ad una propria fonte personale cui, all’epoca dei fatti, il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Giuseppe ALOJA, in un contesto ristretto e affidabile, avrebbe confidato che “l’attentato di Piazza Fontana era stato in qualche modo organizzato dall’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno....Il S.I.D. si era adoperato per coprire tutto”. Gianni CIPRIANI, sentito da questo Ufficio in data 7.11.1991, pur avvalendosi del segreto professionale in merito all’identità della fonte con cui lui e il fratello erano riusciti ad entrare in contatto, aveva confermato il tenore della confidenza aggiungendo altri particolari molto significativi. Infatti spiegava che la fonte era un appartenente ad una struttura militare dello Stato, con un ruolo di buon livello, e che lo stesso aveva ricevuto la medesima confidenza, in breve volgere di tempo e in occasione di più colloqui, circa un mese e mezzo dopo gli attentati del 12.12.1969, non solo dal generale ALOJA, ma anche da due Alti ufficiali del Reparto D del S.I.D. (dep. Gianni CIPRIANI, 7.11.1991 e 15.12.1991). 415 416 Dopo complesse investigazioni, l’Ufficiale “fonte” dei fratelli CIPRIANI veniva identificato nel generale Nicola FALDE, responsabile, fra il 1967 e il 1968, dell’Ufficio R.E.I. (Ricerche Economiche e Industriali, una sezione del Reparto D) del S.I.D., dimessosi dal Servizio nel 1969 a seguito di contrasti con il Direttore dell’epoca, ammiraglio Eugenio HENKE. Sentito in qualità di testimone in data 26.6.1995 da personale del R.O.S., il generale FALDE non solo confermava di aver avuto contatti con i fratelli CIPRIANI durante il periodo della stesura del volume, ma aggiungeva altri particolari di interesse in merito alle notizie pervenutegli all’interno del S.I.D.: “””....confermo di aver avuto numerosi colloqui con il giornalista Gianni CIPRIANI e di avergli parlato delle notizie da me apprese in un periodo successivo al 1969, e precisamente nel 1970 e 1971 e probabilmente anche dopo, circa la strage di Piazza Fontana. Si tratta di notizie da me recepite in occasione di discorsi con il generale ALOJA, in un primo tempo, e poi confermatemi dal colonnello VIOLA e dal generale JUCCI. Tali notizie erano inerenti al coinvolgimento dell’Ufficio Affari Riservati nella fase di organizzazione della strage e al ruolo di copertura prestato dal S.I.D. successivamente all’operazione di strage. Preciso che con l’Ufficio Affari Riservati i miei interlocutori intendevano indicare il Prefetto Umberto Federico D’AMATO e non la struttura nel suo insieme, così come quando si parlava del S.I.D. essi intendevano riferirsi all’ammiraglio Eugenio HENKE ed ai suoi fidati della Direzione del S.I.D. ed ai Capi degli Uffici da esso dipendenti. Si parlò di questi argomenti in quanto Piazza Fontana fu un fatto eclatante per anni, non sono in grado di fornire ulteriori particolari, però tengo a precisare che in un contesto di intelligence e su di un argomento di tale delicatezza il solo accenno rappresentava già una confidenza di altissimo livello. Posso solo aggiungere che ritengo di poter supporre con sicurezza che HENKE si servisse strettamente della collaborazione dell’allora colonnello ALEMANNO, Capo dell’allora Ufficio U.S.P.A., e del colonnello GASCA QUEIRAZZA, all’epoca Capo dell’Ufficio D. Non sono in grado di darvi indicazioni neanche sulle motivazioni di quanto mi venne riferito poichè eravamo appena agli inizi del dopo strage e si guardava solo al fatto in sè e non erano ancora iniziate le analisi di questo. I principali alleati di Umberto Federico D’AMATO nel S.I.D. furono HENKE e ROCCA perchè entrambi facenti parte del centro di potere occulto al quale accenna anche, autorevolmente, l’on. MORO. Il colonnello ROCCA non aveva rapporti molto stretti con gli americani, anzi egli era più il referente della lobby informativa inglese che non di quella statunitense. 416 Tuttavia egli manteneva rapporti con gli americani a seguito della forte influenza che D’AMATO esercitava su HENKE. Preciso che quest’ultimo fatto, cioè l’influenza di D’AMATO su HENKE, è una mia supposizione non acclarata da dati di fatto”””. (dep. a personale del R.O.S., 26.6.1995). Si noti che la scelta del generale FALDE di rivelare il tenore delle confidenze da lui ricevute sembra ricollegarsi alla professione di antifascismo e di lealtà alle istituzioni repubblicane manifestata dall’Ufficiale, causa forse non ultima del suo allontanamento dal Servizio. Non è purtroppo possibile approfondire ulteriormente le dichiarazioni del generale Nicola FALDE in quanto, dopo l’audizione da parte del personale del R.O.S., egli non è stato più risentito nemmeno dopo l’apertura da parte della Procura della Repubblica di Milano di un nuovo procedimento sulla strage di Piazza Fontana e, nella primavera del 1996, il generale è deceduto. Le sue affermazioni, pur nella laconicità delle confidenze ricevute, appaiono comunque in piena sintonia con quanto emerso in merito all’intervento dei due servizi di sicurezza italiani, esistenti all’epoca, in relazione agli avvenimenti del 12.12.1969: un ruolo di connivenza e forse di ispirazione della campagna di attentati e di inquinamento della prima fase delle indagini da parte dell’Ufficio Affari Riservati; un ruolo di copertura, negli anni successivi, della struttura di ORDINE NUOVO, vera responsabile degli attentati, da parte del S.I.D. Si pensi, con riferimento al primo profilo, al reclutamento di Delfo ZORZI in funzione anticomunista, alla fine degli anni ‘60 tramite il dr. Elvio CATENACCI, nella struttura parallela del Ministero dell’Interno (ricordata da Vincenzo VINCIGUERRA, int.3.3.1993, ff.1-2) e all’indirizzo delle indagini, sempre ad opera di funzionari del Ministero, nei confronti dei gruppi anarchici, subito dopo la strage nonchè all’occultamento di importanti corpi di reato. Con riferimento al secondo profilo, si ricordi l’opera di sottrazione di importanti testimoni all’Autorità Giudiziaria posta in essere dal Reparto D del S.I.D., nella prima metà degli anni ‘70, procurando l’espatrio di Guido GIANNETTINI e di Marco POZZAN e “chiudendo” la fonte TURCO e cioè l’ordinovista padovano Gianni CASALINI che era in procinto di “scaricarsi la coscienza” testimoniando quanto a sua conoscenza dinanzi agli inquirenti. 417 418 69 IL PREANNUNZIO DEGLI ATTENTATI DEL 12 DICEMBRE 1969 FATTO DA PAOLO ZANETOV A SONIA ARBANASICH L’episodio che aveva visto come protagonista l’estremista di destra romano Paolo ZANETOV e la sua fidanzata, Sonia ARBANASICH, era entrato frettolosamente nell’istruttoria sugli attentati del 12.12.1969 (e precisamente nella parte dell’istruttoria condotta a Roma nei confronti di Pietro VALPREDA e degli altri militanti del circolo anarchico “22 Marzo”) ed è stato rapidamente dimenticato, tanto da restare una delle piste inconcluse di tale complesso di indagini. In sintesi, Sonia ARBANASICH, giovane studentessa all’epoca sentimentalmente legata all’esponente di Ordine Nuovo Paolo ZANETOV, aveva reso ai giudici inquirenti una sofferta testimonianza rivelando che, il pomeriggio del 12.12.1969, il fidanzato, del quale le erano ben note le posizioni politiche che ella peraltro non condivideva, aveva mostrato di essere consapevole di quanto stava per accadere anche a Roma affermando, in presenza della ragazza fra le ore 17.00 e le ore 18.00, “a quest’ora dovrebbe essere già successo.....lo leggerai domani sui giornali”. In sostanza, Paolo ZANETOV sarebbe stato uno dei “profeti” degli avvenimenti del 12.12.1969 così come, fra gli altri, Angelo VENTURA, fratello di Giovanni, il quale, pochi giorni prima della strage, aveva confidato a Franco COMACCHIO che di lì a poco sarebbe successo qualcosa di grosso nelle banche. La negazione di Paolo ZANETOV e la successiva ritrattazione della ARBANASICH avevano reso inutilizzabile, nell’ambito della prima istruttoria, l’originaria testimonianza della ragazza. Nuovamente sentita da personale del R.O.S. nel febbraio 1995, a oltre vent’anni dalla prima testimonianza. quando timori ed eventuali pressioni erano ormai certamente venuti meno, Sonia ARBANASICH ha spiegato, con accenti di verità, le ragioni della sua ritrattazione riferendo per la prima volta anche alcuni episodi che consentono di comprendere le ragioni del suo mutamento di versione e il contesto in cui ciò sarebbe avvenuto. La nuova testimonianza di Sonia ARBANASICH è certamente inquietante e merita di essere riportata nei suoi passi principali. La ARBANASICH, dopo aver precisato di non aver mai condiviso le idee politiche del suo fidanzato, che apparteneva a Ordine Nuovo e frequentava con regolarità il Centro Studi di Via degli Scipioni, ha raccontato: “””....il giorno 12 dicembre 1969 mi trovavo con lo ZANETOV in centro a Roma, nei pressi di Piazza di Spagna. Era pomeriggio tra le ore 17.00 e le ore 18.00. 418 Ricordo che lo ZANETOV guardò l’orologio che da poco tempo gli aveva regalato un suo zio e pronunciò la seguente frase: “a quest’ora dovrebbe essere già successo...”. Io gli chiesi che cosa avrebbe dovuto succedere e lui mi rispose: “lo leggerai domani sui giornali”. Io lì per lì non diedi molto peso all’affermazione dello ZANETOV, ma il giorno successivo appresi della notizia della strage e ricollegai l’accaduto. Quando vidi lo ZANETOV il giorno 13.12.1969 gli indicai la notizia sul giornale che stava leggendo dicendogli allarmata e scioccata: “E’ questa la cosa di cui parlavi ieri?”. Lui non mi rispose subito, ma continuò a leggere il giornale. Poco dopo disse: “Questa volta hanno esagerato...”. Rimasi talmente scioccata da ciò che non ne parlai più con lo ZANETOV. In quei giorni, pensando alla strage e agli ordigni esplosi a Roma, mi venne in mente la riunione a cui partecipò lo ZANETOV (nota Ufficio: una riunione, pochi giorni prima, presso il Centro Studi Ordine Nuovo), ma non osai mai parlarne con lui. Anzi, preciso che non parlai mai più con lo ZANETOV dell’intera faccenda. Diverso tempo dopo mi trovai a parlare della strage con la mia amica e collega Silvana DILETTI. Lei mi confidò di aver sentito da alcune persone che qualcuno sapeva in anticipo delle bombe. Io le risposi che anche il mio ragazzo lo sapeva in anticipo, tanto che il giorno precedente mi aveva detto la frase di cui sopra. La DILETTI mi chiese se io fossi stata disposta a testimoniare su quanto accaduto. Io mi dichiarai disposta e lei mi mise in contatto con alcuni suoi amici dei quali non ricordo i nomi. Questi giovani mi fecero raccontare nuovamente la storia e poi mi accompagnarono dal Giudice che si occupava delle indagini a Roma. Venni quindi ascoltata dal Giudice e da un uomo che verbalizzava. Al termine del verbale, il Giudice, del quale non ricordo il nome, mi chiese se fossi disposta a sostenere un confronto con lo ZANETOV. Io acconsentii e, poco dopo, venni riascoltata del Giudice in contraddittorio con lo ZANETOV. Questi negò tutto, negò addirittura di possedere un orologio e di avermi mai detto quelle frasi. Ammise soltanto di aver detto la frase “Questa volta hanno esagerato...”, che considerava una normale reazione alla notizia. Terminato il confronto, ci recammo ognuno presso la propria abitazione, ma il giorno successivo ci incontrammo nuovamente sotto casa mia. 419 420 Qui lui mi minacciò, dicendomi di stare attenta poichè i suoi amici non erano gente tenera; conoscevano bene la mia famiglia e quella delle altre persone che mi avevano portato a testimoniare. In particolar modo lo ZANETOV mi disse che sapevano che io avevo un fratello piccolo e che Silvana DILETTI aveva una figlia di pochi anni. A questo proposito ricordo che mi disse: “...ti piacerebbe che crescesse senza una gamba?”. Io rimasi terrorizzata da queste affermazioni dello ZANETOV che mi invitava a ritrattare e quindi acconsentii a fare ciò. Il giorno successivo mi ripresentai dal Giudice accompagnata dallo ZANETOV. Io avevo intenzione di far capire al Giudice che ero stata minacciata da Paolo, ma questi mi interrogò senza far allontanare lo ZANETOV e quindi alla sua presenza io non potei far altro che ritrattare. Io dissi di essermi inventata tutta la vicenda ed il Giudice rimase impassibile. L’uomo che verbalizzava disse: “Eppure sembrava così vero il tuo racconto...”. Io risposi: “Vero, eh?”. Io a quel punto ero talmente frastornata che non continuai, firmai il verbale e me ne andai con lo ZANETOV. Io sono sempre stata convinta che il Giudice avesse compreso che la ritrattazione era fasulla. Usciti dal Palazzo di Giustizia, lo ZANETOV mi portò dal suo avvocato, del quale non ricordo il nome ma che si trovava nei pressi di casa sua, al quale spiegò l’intera vicenda. L’avvocato si inquietò dicendogli che avrebbe dovuto venire prima e che aveva fatto malissimo a farmi ritrattare. Usciti dall’Ufficio dell’avvocato mi portò verso casa sua. Ivi giunti, lui, senza parlare, cominciò a salire le scale. Io feci finta di salire con l’ascensore e, non appena vidi che lui era giunto al secondo o terzo piano, mi voltai ed uscii. Lui mi rincorse per strada, mi raggiunse e mi picchiò in mezzo alla strada. Mi diede quattro o cinque schiaffi e mi lasciò. Qual giorno fissò la data nella quale lasciai Paolo. Alcune settimane dopo lui venne a cercarmi pregandomi di tornare con lui, ma invano.”””. (ARBANASICH, dep. a personale del R.O.S., 28.2.1995). In sostanza, secondo il racconto di Sonia ARBANASICH, che ha quantomeno il pregio di essere stato reso in un momento in cui ogni possibile minaccia non può più concretizzarsi a tanta distanza di tempo dai fatti nè può più profilarsi alcuna ragione di personale rancore contro lo ZANETOV, del tutto sincera sarebbe stata la prima testimonianza e necessitata, invece, la successiva ritrattazione. 420 Paolo ZANETOV, sentito in data 13.3.1995 da personale del R.O.S., ha nuovamente negato di aver preannunziato gli attentati e negato di aver minacciato la ARBANASICH per indurla a ritrattare, pur ammettendo la sua frequentazione del Centro Studi Ordine Nuovo, i rapporti con Pino RAUTI e Paolo SIGNORELLI e, in seguito, anche con Franco FREDA e riconoscendo di essere stato anche arrestato per detenzione illegale di armi nell’ambito della sua militanza politica. Alla luce delle complessive risultanze dell’attività istruttoria, la nuova testimonianza di Sonia ARBANASICH rimane comunque significativa e inquietante e potrebbe essere oggetto di ulteriore approfondimento da parte della Procura della Repubblica nell’ambito delle indagini collegate. 421 422 70 LE DICHIARAZIONI DI ETTORE MALCANGI IN MERITO ALLE C.D. VECCHIE S.A.M. DI MILANO I riferimenti contenuti in vari capitoli (cfr. in particolare i capitoli 28 e 41) in merito alla persona di Ettore MALCANGI, convinto militante della destra milanese che ha tuttavia deciso di rendere note alcune circostanze di rilievo nell’ottica di contribuire a fare chiarezza sulla strategia della stragi e sulle collusioni che l’hanno resa possibile, consentono in questa sede di introdurre un argomento che è rimasto largamente inesplorato nelle precedenti istruttorie e sul quale si sono tuttora acquisiti dati importanti, ma del tutto incompleti. Ci riferiamo all’organizzazione milanese denominata “vecchie S.A.M.”, operante sin dalla metà degli anni ‘60, ai suoi rapporti e alle probabili sovrapposizioni con la struttura di ROGNONI e MAGGI e al suo possibile apporto logistico ed operativo in occasione degli attentati più gravi. In merito, MALCANGI ha spiegato che l’organizzazione era diretta dall’exrepubblichino Giuliano BOVOLATO, era più forte e organizzata di quanto sia mai apparso ed era divisa in squadre compartimentate di 4 o 5 elementi; affermazioni, queste, fatte per conoscenza diretta avendo MALCANGI fatto parte della 22^ squadra (dep. a personale del R.O.S., 28.11.1995, ff.1-3). Anche le S.A.M., come Ordine Nuovo, disponevano di una dotazione di gelignite: “””Digilio mi parlò, durante la nostra permanenza a Villa D'Adda, dell'esplosivo gelignite che è una dinamite gelatinizzata. Non ricordo in che contesto il discorso nacque. Ricordo tuttavia che il discorso di Digilio mi stupì in quanto la gelignite non è un esplosivo facile da trattare in quanto è pericolosa e trasuda facilmente. Del resto ricordo che le vecchie SAM, all'inizio degli anni '70, disponevano di un deposito di gelignite nella zona di Pero, credo un garage sotterraneo. Questo garage fu addirittura oggetto di un allagamento e i pompieri intervennero senza accorgersi del materiale. Questo esplosivo che, all'epoca era tenuto all'interno di un armadio nel garage, esisteva ancora nel 1978 perchè Bovolato mi offrì di detenere dell'esplosivo che sapevo per altra via di essere quello del garage. Io mi rifiutai sia perchè era pericoloso sia perchè ero contrario all'uso di esplosivo”””. (MALCANGI, dep. 17.10.1995, f.4). L’attività delle S.A.M. non sembrava, però, solo finalizzata alla realizzazione di attentati, ma inserita in un contesto golpista. 422 Carlo DIGILIO aveva infatti confidato a MALCANGI, a Villa d’Adda, di aver partecipato, nel 1973 a Verona, probabilmente presso il Circolo tradizionalista CARLO MAGNO, ad una importante riunione cui erano presenti, fra gli altri, il generale FRASCA o BRASCA (di cui MALCANGI ricorda inesattamente il nome trattandosi probabilmente del generale Adriano MAGI BRASCHI), il colonnello SPIAZZI, Carlo FUMAGALLI, il dr. Carlo Maria MAGGI e infine Giuliano BOVOLATO per le S.A.M. Finalità di tale riunione era mettere a punto una strategia comune di mutamento istituzionale (int. MALCANGI, 2.1.1995, f.3, e 17.10.1995, f.2). La circostanza riporta immediatamente alla memoria il progetto golpista del 1973, che avrebbe dovuto essere facilitato da una campagna di attentati (fra cui quello al treno Torino-Roma dell’aprile 1973) e da scontri di piazza, progetto di cui si è ampiamente parlato nella prima sentenza-ordinanza (capitolo 18). Erano del resto presenti a tale riunione, secondo il racconto di MALCANGI, i rappresentanti di tutte le componenti del progetto già individuate nel primo filone dell’istruttoria: il generale MAGI BRASCHI, responsabile del Nucleo SIFAR che si occupava di guerra non ortodossa e molto legato al dr. MAGGI per ammissione di Carlo DIGILIO (int. 12.6.1996, ff.1-2); il colonnello SPIAZZI, fra i massimi responsabili dei NUCLEI DI DIFESA DELLO STATO; Carlo FUMAGALLI, capo del M.A.R. valtellinese; infine lo stesso dr. MAGGI per ORDINE NUOVO e Giuliano BOVOLATO per le S.A.M. Carlo DIGILIO aveva anche confidato a Ettore MALCANGI di aver incontrato il generale MAGI BRASCHI a Verona, nel 1982, propria all’inizio della sua latitanza e poco prima del suo arrivo presso l’abitazione di Cinzia DI LORENZO in Val Brona (int. MALCANGI, 2.10.1995, f.3). Durante tale breve sosta presso l’abitazione della DI LORENZO, MALCANGI e DIGILIO, incontratisi sul posto e indecisi sul da farsi, avevano discusso in merito all’ulteriore direzione da prendere. Carlo DIGILIO aveva allora espresso, prima alla DI LORENZO e poi a MALCANGI, la volontà di prendere contatto con Giuliano BOVOLATO per rifugiarsi presso il suo gruppo, ma Ettore MALCANGI lo aveva sconsigliato e lo aveva infine convinto a raggiungere con lui la casa di Villa d’Adda procuratagli dalla sorella (int. MALCANGI, 10.4.1996, f.2). A fronte di tali circostanze, l’atteggiamento processuale di Carlo DIGILIO è apparso quanto mai incerto e reticente. Egli, infatti, non ha negato, dopo molte titubanze, l’incontro con il generale MAGI BRASCHI a Verona nel 1982, ma lo ha banalizzato come un fuggevole e casuale incontro (int. 2.12.1996, f.4) e nonostante una iniziale riserva di mettere a fuoco la figura di Giuliano BOVOLATO, non ha mai parlato di tale personaggio (int. 4.5.1996, f.7). Tale atteggiamento suscita molti interrogativi. 423 424 Secondo il racconto di MALCANGI, che appare credibile e disinteressato, l’organizzazione S.A.M. disponeva di gelignite, utile per commettere gravi attentati, ed era ben strutturata e inserita nel progetto golpista del 1973, tanto che BOVOLATO gli aveva fatto il nome di un ufficiale dei Carabinieri incaricato di fornire la copertura per il progetto di mutamento istituzionale e che usava il nome in codice PALINURO (int. 17.10.1995). Il nome in codice PALINURO è lo stesso che compare nelle registrazioni effettuate nel 1974 dal capitano LABRUNA con i finanziatori di tali progetti, ORLANDINI e LERCARI, e si riferisce proprio, anche secondo tali precedenti acquisizioni, ad un ufficiale dei Carabinieri di Milano (dep. LABRUNA, 16.7.1991, f.2 e capitolo 30 della prima sentenza-ordinanza in data 18.3.1995). I rapporti fra Giuliano BOVOLATO sia con ROGNONI sia con il gruppo veneziano del dr. MAGGI sia con DIGILIO sono anche testimoniati da un episodio narrato da Martino SICILIANO. Nel 1969 era in corso un progetto di possibile integrazione fra le vecchie S.A.M. di Giuliano BOVOLATO e l’area di ORDINE NUOVO e inoltre Giancarlo ROGNONI aveva chiesto ai veneziani di aiutarlo nel reperire un giornalista iscritto all’albo che potesse divenire responsabile del giornale La Fenice (int. SICILIANO, 14.3.1996, f.4). Per discutere di tali argomenti, MAGGI, ZORZI e SICILIANO avevano incontrato in un ristorante di Sesto San Giovanni, nell’ottobre 1969, Giuliano BOVOLATO, Giancarlo ROGNONI e Marcello ROMANI, giornalista residente a Milano, fratello di Giangastone ROMANI, l’esponente veneziano di Ordine Nuovo molto legato a MAGGI che quindi poteva convincerlo a offrire la sua disponibilità (int. citato, f.4). Perdipiù Martino SICILIANO ha anche r