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Serrapetrona
San Severino
CENTRO STUDI MARCHE
Giuseppe Giunchi
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Luciano Gregoretti: unendo le arti
Serrapetrona (MC), Palazzo Claudi, Via Rave 7
21 giugno - 13 settembre 2015
www.fondazioneclaudi.it
Progetto: Stefania Severi
Cura del catalogo: Maria Teresa Copelli, Stefania Severi
Allestimento espositivo: Arch. Giampiero Calcaterra
Contributi:
Massimo Ciambotti (Presidente Fondazione Claudi)
Paola Ballesi
Antonio Bruni
Enzo G. Castellari
Stefania Severi
Claudio Strinati
Yang Yu Lin
Foto: Archivio Luciano Gregoretti
Copertina: Luciano Gregoretti, La moglie del generale, 1976, tecnica mista
con tessuto elastico plastificato, cm 49 x 89. Foto M.P. Michieletto
Progetto grafico: Giuseppe Moroni
Realizzazione: Coop Sociale “Apriti Sesamo” ONLUS
Circ.ne Clodia 36 - 00195 Roma
Tel. 06 39030387 - fax 06 39761077
E-mail: [email protected]
www.apritisesamo.org
Prima edizione: maggio 2015
ISBN: 978-88-98135-43-1
© 2015 Edilazio
EdiLet-Edilazio Letteraria
Via Taranto, 178 - 00182 Roma
Tel. e fax 06 7020663 - 06 70392827
E-mail: [email protected] - [email protected]
www.edilet.it - www.edilazio.com
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Luciano Gregoretti
UNENDO LE ARTI
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Indice
Massimo Ciambotti, La Fondazione Claudi ed il progetto “Greg”
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Claudio Strinati, Il linguaggio di Gregoretti
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Antonio Bruni, Per Greg
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Nato il 4 luglio
10
Yang Yu Lin, A Luciano Gregoretti espressione di cultura
22
Il teatro, il gioco della vita
23
Enzo G. Castellari, Luciano Gregoretti un amico ritrovato
32
Il cinema: western, musicarelli e non solo
34
Antonio Bruni, Greg e l’allusione filmica
40
Viva la televisione
42
Paola Ballesi, Il magistero di Luciano Gregoretti
all’Accademia di Belle Arti di Macerata
48
Lunga vita all’Accademia
50
Stefania Severi, Il percorso di Luciano Gregoretti nelle arti figurative
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Impara l’Arte
60
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La Fondazione Claudi ed il progetto “Greg”
Massimo Ciambotti
Presidente della Fondazione Claudi
La Fondazione Claudi ha accolto con entusiasmo l’idea di allestire, nella prestigiosa sede
del Palazzo Claudi di Serrapetrona, una mostra antologica dedicata al regista Luciano
Gregoretti per due essenziali motivi, ai quali se ne aggiunge un terzo più di carattere
personale.
Il primo motivo è che Gregoretti è da sempre un grande amico della Fondazione, in quanto
ha potuto conoscere e frequentare personalmente sia il fondatore Vittorio Claudi (19202006) che i due artisti ai quali la stessa Fondazione è dedicata: il fratello poeta Claudio
Claudi (1914-1972) e la madre, la pittrice Anna Claudi (1894-1976). Luciano ricorda spesso
un’immagine rimasta impressa nella sua memoria, quando nella sua natìa San Severino
vedeva il giovane Claudio leggere avidamente libri in una panchina dei giardini pubblici e
scrivere poesie, assorto nei suoi pensieri e disturbato solo da alcuni ragazzi che giocavano
nei pressi. Mi ha narrato diverse volte questo particolare, perché lo aveva colpito parecchio,
essendo forse un’immagine d’altri tempi. Gregoretti incontrerà successivamente i Claudi a
Roma dopo il loro definitivo trasferimento e dopo che la casa dei Claudi in via Antonio
Serra sarà diventata uno dei salotti letterari più importanti della città, frequentato da poeti
e artisti come Luzi, Cardarelli, Stradone, Sebastiano Carta, Alfonso Gatto e altri.
Il secondo motivo si collega direttamente alle finalità della Fondazione. Leggendo il
nostro Statuto, dove all’art. 3 si afferma che tra gli scopi della Fondazione c’è quello
di “dare un sostegno economico ad alcuni ‘Principi morali’ di età avanzata … scelti tra
poeti, pensatori, artisti, scienziati di elevata statura morale”, il pensiero mi è andato
subito a Luciano Gregoretti, persona appunto “di elevata statura morale”, con un
curriculum straordinario che spazia dalle esperienze teatrali e cinematografiche come
regista, alla realizzazione di numerosi e assai noti programmi culturali e socio-politici
alla RAI, alla docenza di regia, alla conduzione di inchieste televisive, fino alla
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realizzazione di film e cortometraggi, senza trascurare le attività di architetto, scultore
e pittore. Persona quindi eclettica, operosa, infaticabile, sempre disponibile a nuove
avventure, capace di apprendere il meglio dai grandi registi e scenografi con cui ha
lavorato, quindi umile nel mettere continuamente a disposizione il meglio di sé. Il
sostegno economico di cui parla il nostro Statuto si è tradotto così nella volontà di
ripercorrere con una mostra il suo itinerario di vita, volto ad unire le arti, secondo
sentieri molteplici che spesso si incrociano sovrapponendo modalità espressive diverse
nel lavoro e nelle attività svolte.
Il motivo di carattere personale è il rapporto assai edificante che ho avuto modo di vivere in
questi anni con Luciano Gregoretti. L’ho conosciuto appena dopo essere diventato Presidente
della Fondazione Claudi (ottobre 2006), in occasione di qualche evento romano. Ho scoperto
così che lui e Maria Teresa hanno ancora una casa a San Severino dove si recano soprattutto
d’estate. Così, ho avuto modo di approfondire questa conoscenza, invitandoli regolarmente
anche ai sempre più frequenti appuntamenti nelle Marche. Luciano è una di quelle persone
con cui si trascorrerebbero volentieri ore e ore a parlare, sempre entusiasta, mai invadente,
con un grande calore umano, trasmesso attraverso racconti, aneddoti, storie piccole e grandi
vissute come veri avvenimenti della vita. A lui mi legano così sentimenti di stima ed affetto,
che spero ricambiati sì da contribuire ad accrescere ulteriormente la nostra amicizia. Gli stessi
sentimenti che leggo nei vari interventi contenuti in questo catalogo, di personaggi illustri
che ne omaggiano la professionalità, l’entusiasmo, la versatilità e il fervore instancabile.
Per il prezioso contributo alla realizzazione della mostra e del catalogo e la pazienza
dimostrata nel mettere insieme tutti i tasselli del mosaico “Luciano Gregoretti”, sono molto
grato alla curatrice Stefania Severi e ovviamente a Maria Teresa Copelli, moglie di Luciano e
sua stretta collaboratrice.
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Il linguaggio di Gregoretti
Claudio Strinati
Storico e critico d’arte già Soprintendente al Polo Museale Romano
La carriera di Luciano Gregoretti è lunga e variegata, e la sua figura di artista risulta
talmente gremita di competenze e risultati da lasciare quasi interdetti. Gregoretti ha
maturato una esperienza notevole di pittore, di scultore sia pure sui generis, di creatore di
immagini su molti livelli differenti, ma ha poi messo in luce il suo talento di artista creativo
e poliedrico anche nell’espletamento di attività che in apparenza con l’arte ci entrerebbero
fino a un certo punto. Così in lui convivono l’appassionato di automobili che è stato in
grado, in giovane età, di creare una scuderia di rilevantissima importanza tale da lasciare
un segno profondo; un aiuto scenografo e poi scenografo lui stesso in un contesto di
prestigio assoluto come il teatro di Garinei e Giovannini; un magnifico allestitore di navi;
un esperto di cavalli; un cineasta che ha fatto dell’ambientalismo e dell’ecologia uno
strumento di comunicazione potente; un manager culturale che spazia in innumerevoli
campi del sapere, dalla musica alle inchieste televisive, sempre mantenendo una sua
indiscussa e vivace personalità di scopritore, ricercatore infaticabile, curioso dell’Uomo e
della Natura.
Alla pittura arriva presto sull’onda anche della fascinazione del tempo della “dolce vita” ma
da subito le sue vicende si intersecano con le stranezze e le complicazioni di questo strano
mondo. Ingaggiato all’Hotel Flora di Via Veneto nel 1962 dalla società americana
Transoceanea interrompe ben presto i rapporti perché scopre di essere raggirato da questi
fin troppo abili imprenditori di Chicago, ma non per questo smette di lavorare come artista
figurativo, dati gli ottimi riscontri comunque ottenuti. Dieci anni dopo arrivano i bassorilievi
in plastica, tipico prodotto di una cultura anni Settanta che marca poi Gregoretti in maniera
alquanto incisiva per il resto della sua operosissima vita. Poi negli anni Ottanta e Novanta
è intensa la sua attività di documentarista e regista all’interno e all’esterno della sua amata
Accademia di Belle Arti di Macerata con i cui allievi mette in cantiere tante iniziative.
Foto © Masha Sirago
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Si precisa sempre meglio la sua figura di uomo di cinema e televisione, culminante nei
primi anni dopo il 2000 con una serie di prodotti che restano nella storia del genere come
il celebre programma di Rai1 “Made in Italy”.
Ma intanto le soddisfazioni professionali di Gregoretti non mettono in ombra la sua attività
di artista in prima persona che in tanti anni e attraverso una miriade di argomenti non
sempre facilmente ricollegabili l’uno all’altro, ha inventato una gamma di immagini di
persone e di cose sempre contraddistinte da uno spirito arguto e talvolta stralunato, acuto
indagatore di quelle verità che si celano sotto l’immediatezza della superficie ma diventano
così facilmente attingibili da temperamenti come il suo, disincantato e nello stesso tempo
pieno di squisito e intelligente fervore nello scrutare ciò che ci circonda. E sempre si
manifesta chiaro in lui l’amore per la Natura, per gli animali ma anche per quei personaggi
che sono sballottati dalla storia ad occupare posizioni apparentemente eminenti e poi
travolti dall’andirivieni delle situazioni e del destino.
Il linguaggio di Gregoretti artista figurativo è stravagante e rigoroso al contempo. Slegato
da qualunque vincolo di scuola o di ossequio alla norma, Gregoretti è stato ed è, nel corso
degli anni, artista vero e serio, la cui produzione è una sorta di “unicum” nel nostro tempo.
Come tale bisogna riaccostarlo e trarre dal suo lavoro quella intima soddisfazione che
promana sempre da menti intelligenti e mai prone al luogo comune.
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A Luciano Gregoretti Anno 2015
Antonio Bruni
Poeta già Head of Rai International Events
Greg l’artista
Immagini ardite e sfidanti
o classiche in stile e rigore
realizzi unendo le arti
dai vita ad oggetti e vicende
ricerchi inventando le strade
che partono sempre da Marche
la terra di genio e di canto
che incarni ed innalzi a bandiera
maestro di giovani e anziani
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Nato il 4 luglio
Nato il 4 luglio, non è il titolo di un ben noto film, ma il giorno della mia nascita a San
Severino Marche nell’anno 1928. Il mio nome è Luciano. I miei genitori sono Francesco
Gregoretti e Cesira Scisciani. Rimasto vedovo nel 1923 con cinque figli, Francesco sposò
Cesira nel 1927. Quando sono nato, oltre ad essere l’ultimo di sei figli ero anche figlio unico
di secondo letto come si diceva allora.
Francesco Gregoretti
Cesira Scisciani
Nel settembre del 1932, avevo quattro anni, arrivò per me il momento di andare all’asilo
infantile, oggi scuola materna. Eravamo una quarantina tra femminucce e maschietti, tutti
sistemati in un enorme stanzone con un altissimo soffitto a volta e ampi finestroni, nel
settecentesco e monumentale Palazzo Servanzi Collio. Con l’asilo ebbero inizio anche i miei
primi rapporti di vita sociale. La mia infanzia cominciò ad aprirsi a persone diverse dal protettivo
nucleo familiare ed io incominciai ad apprendere i primi insegnamenti grafici come le aste, i
cerchi e i quadrati, ecc… All’asilo si andava tutti agghindati con un grembiulino a quadretti
bianchi e celesti, colletto tondo di piqué bianco e grande fiocco azzurro di seta lucida. I
grembiulini delle bambine erano invece a quadretti bianchi e rosa, come rosa era il loro fiocco
di seta. Sul taschino del proprio grembiulino ognuno di noi aveva un distintivo ricamato con
filo rosso. Il mio raffigurava una pipa curvilinea come quella di Sherlock Holmes. La nostra
cartella era un cestino in leggera paglia gialla e lucida con un manico che reggeva ai lati due
recipienti cubici leggermente svasati sul fondo, chiusi da due coperchi. In un recipiente
mettevamo le matite colorate, le gomme, i quadernetti e il nostro giocattolo preferito, nell’altro
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la pietanza e la frutta per il pranzo perché il pane e la pasta, asciutta o in brodo, li passava l’asilo.
Uno dei giocattoli da me più amati era un’automobilina in lucidissimo lamierino cromato, un
modellino di una delle prime macchine da corsa della casa tedesca Auto Union, oggi Audi. Ogni
bambino aveva il proprio sgabello e il proprio tavolinetto.
Con l’arrivo della primavera passavamo tutti molte ore all’aperto nel giardino del confinante
palazzo vescovile Scina Gentili del XVI secolo, per giocare al sole e correre sotto il verde degli
alberi e tra i coloratissimi fiori delle aiuole. La direttrice dell’asilo si chiamava Palmina, era
molto miope, aveva il labbro superiore ombreggiato dai baffi e parlava sempre a voce altissima.
Nel 1933 diventai Figlio della Lupa e indossai la mia prima divisa: fez di panno nero con
cordone e nappa, camicetta di cotone nero a maniche lunghe, calzoncini corti di panno
grigioverde, calzettoni anch’essi grigioverdi con due righe nere sotto al ginocchio, scarpe di
cuoio nere e per il periodo invernale una mantellina di panno grigioverde e guanti di filo
bianco. La divisa veniva poi esaltata da un’appariscente e larga cintura bianca alla vita con
bretelle altrettanto larghe che si incrociavano sul petto dove campeggiava un vistoso fermaglio
di bronzo, una “m” stilizzata che stava a significare “Mussolini”, ma che voleva significare
anche “Mamma”, come riportava in grassetto il nostro abbecedario. Fu la prima volta che
avvertii il disaccordo di mio padre che scuotendo la testa disse: «Che buffonata!...».
Sempre nel 1933 accadde un evento per me indimenticabile. Mia sorella Maria dette alla luce
un bambino e io a soli quattro anni diventai zio, lo zio di Furio, il primo di una lunga serie
di nipoti.
Nel settembre del 1934 mi iscrissero alle scuole elementari. Nel primo e secondo anno ebbi
come prima insegnante la maestra Camilla, una signora molto fine con i capelli bianchissimi
raccolti dietro la nuca che parlava con grande delicatezza e sempre a bassa voce. La ascoltavamo
tutti in gran silenzio e ne ho ancora un amorevole ricordo. In terza elementare ho avuto invece
un personaggio di tutt’altro carattere ma altrettanto indimenticabile, Valentino Brisinello, un
estroso ed estroverso maestro, profugo dal Trentino. Vedovo e con una bambina si era
facilmente inserito nell’ambiente della nostra città. Era benvoluto, stimato e sempre pronto ad
una gioviale chiacchierata. Con i suoi baffi e il suo pizzo brizzolati mi ricordava tanto
l’irredentista Cesare Battisti. La sua voce era un po’ nasale ma molto musicale, specialmente
davanti ad un buon bicchiere di vino, che beveva spesso e volentieri. Il maestro Brisinello era
anche un ottimo pittore e caricaturista. Ha dipinto pregevoli quadri ed è un vero peccato che
io non ne abbia neanche uno. A noi alunni ha saputo donare anche momenti molto divertenti
disegnando alla lavagna le caricature degli altri insegnanti e di alcuni personaggi del paese.
Da piccolo mi piaceva pensare di avere due mamme, tante erano le effusioni di mia sorella
Laura, o meglio Nunetta come la chiamavamo familiarmente. Era una ventenne sempre pronta
a esaudire i miei desideri e anche qualche mio capriccio. Molto più di mia madre, che secondo
me peccava di troppe ansie e di qualche severità di troppo nei miei confronti. Laura era
un’appassionata di cucito e confezionava con molta cura e ricercatezza i miei abiti. Oltre
all’immancabile vestito da marinaretto, me ne aveva cucito uno di velluto blu con camicetta
Luciano bambino
al Giardino Pubblico
Luciano
Figlio della Lupa
Luciano
con il nipote Furio
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di seta bianca con al collo un ricco jabot ricamato, come finemente ricamate erano le ruches
dei polsini. Questo raffinato abitino fu però criticato e qualcuno ironicamente rilevò che
sembravo una femminuccia. Via i merletti allora e il mio vestito di velluto blu diventò
convenzionale e discreto.
Con il passare degli anni anche la mia “carriera politica” viveva il suo inevitabile corso. Da
Figlio della Lupa passai a capomanipolo dei Tamburini, poi a Balilla e infine a Balilla
moschettiere.
Luciano
in posa ginnica
Luciano
col piccolo Nino
Luciano che studia
in terrazza
Dopo le scuole elementari, nell’ottobre del 1939, arrivarono gli studi ginnasiali che avevano
una durata di cinque anni perché la scuola media non era stata ancora istituita. Direi che nel
bene e nel male, per me e per molti miei compagni, i primi tre anni furono determinanti per
la nostra istruzione. L’insegnante di Lettere si chiamava Anna. Era molto affettuosa ma anche
molto autoritaria e con indiscutibile severità ci ha insegnato a rispettare le regole della vita
e a studiare sodo.
Nel 1942 e nel 1943 la quarta e quinta ginnasiale furono tormentate dalle drammatiche notizie
che arrivavano dai vari fronti della seconda guerra mondiale, disastrosa come tutte le guerre. La
mia generazione sfiorò la chiamata alle armi, mentre di tragedia in tragedia l’Italia si stava
avviando al cambiamento. Nell’estate del 1944 anche nella nostra regione finirono finalmente
rappresaglie ed eccidi. I partigiani scesero dalle montagne, due giorni dopo a San Severino
arrivarono i Neozelandesi della divisione “Cat black”, a Macerata i Polacchi, mentre a Camerino
arrivarono i Maori.
Gli studi liceali furono per me piuttosto complessi. Nell’ottobre del 1944 i licei più vicini a
San Severino erano quelli di Macerata e Camerino. Il collegamento viario con Camerino
era lungo e disagevole. Si doveva prendere prima il treno da San Severino a
Castelraimondo, poi aspettare il tram che collegava la stazione di Castelraimondo con il
centro di Camerino. Quei tram non erano tanto sicuri e non sono mancati incidenti anche
piuttosto gravi. Malgrado ciò i miei genitori scelsero Camerino, perché qui abitava una
famiglia di nostri parenti. A casa loro mi sono trovato molto bene e per me quel periodo è
stato anche divertente perché al Liceo Classico sono accadute cose impensate. Avevo stretto
amicizia con due irrequieti compagni di scuola, Gilberto e Enrico. Le lezioni di filosofia
venivano tenute dal professor Mugno, un giovane partigiano che arrivava a scuola con due
bombe a mano tipo “balilla” attaccate alla cintura e che venivano da lui disinvoltamente
depositate nel cassetto della cattedra. Quando la scolaresca diventava troppo chiassosa, lui
ci guardava minaccioso e apriva il cassetto. Il mio amico Enrico allora con tono risoluto
urlava: «Tutti sotto!» e noi giù tutti al riparo sotto i banchi, con le dita nelle orecchie in
attesa del botto che naturalmente non arrivò mai. Il tutto finiva sempre con la solita frase
del professore: «Tiratevi su e non fate gli stupidi!». C’era poi il professore di Botanica
Zampetti che veniva spesso in aula con in mano alcuni rametti di piante per insegnarci a
classificare i vegetali e ogni volta Gilberto, in stretto dialetto camerinese, gli rivolgeva
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impietosamente la stessa domanda: «Professò, ch’i fattu l’erba pe’ li cunigli?». Il professore
naturalmente lo spediva regolarmente fuori dall’aula. Una volta Gilberto riuscì addirittura
a convincere e coinvolgere me ed Enrico in una beffa che avrebbe potuto metterci in una
scabrosa situazione. In una parte dell’Orto Botanico, a ridosso delle mura del Palazzo
Ducale, il professor Zampetti aveva meticolosamente creato un giardino pensile con tante
varietà di piante, più o meno esotiche, con cartellini con la denominazione scientifica. Noi
tre scavalcammo nottetempo il cancello dell’orto e, senza procurare danni, scambiammo
accuratamente di posto molti di quei cartellini. Di questo “ameno” scherzo il professore se
ne accorse solo qualche giorno dopo. Era sicurissimo che in quella “bella impresa”, come
la chiamava ironicamente, c’era lo zampino di Gilberto e compagni, ma non riuscì mai a
provarlo, cosicché potemmo scampare ad una seppur giusta e meritata punizione.
Ai primi di marzo del 1945 me ne tornai a casa perché a San Severino fu aperto un liceo
privato. Quell’anno comunque, invece di studiare andai molto spesso al Circolo Cittadino
a giocare a biliardo. Diventai piuttosto bravo, giocavo memorabili partite all’“italiana” e “a
buche” con il veterinario Osvaldo Pioli, Presidente del Circolo, e con altri validi stecchisti.
Erano molti i soci che scommettevano su di noi consistenti cifre di am-lire, già in
circolazione. Alla fine di giugno però mi dovetti ritirare dagli esami per la mia insufficiente
preparazione. Meglio non parlare di quello che mi fu detto a casa. Di questo periodo vorrei
ricordare il professor Faccenna, insegnante di storia e filosofia. Non era marchigiano e non
so da dove arrivasse, ma malgrado fosse paraplegico e con grosse difficoltà di
deambulazione era sempre di buon umore. Le sue lezioni non erano mai noiose perché
intervallate da aneddoti e situazioni divertenti. Parlando del Rinascimento italiano, ci disse
più volte che i toscani avevano eletto a torto il Masaccio come padre di questo grande
periodo storico perché, secondo lui, i primi sintomi di questa rivoluzione artistica venivano
già pienamente espressi in alcuni affreschi di Gentile da Fabriano. Questa sua convinzione
mi rimase talmente impressa che quando ho avuto modo di chiedere a storici dell’arte come
Antonio Paolucci, Vittorio Sgarbi e Mario Lolli Ghetti cosa ne pensassero, a sorpresa mi
hanno risposto che era una ipotesi da non sottovalutare.
All’inizio del nuovo anno scolastico, nel mese di ottobre del 1945 i miei genitori per la
passata bocciatura mi imposero il collegio, il Convitto Nazionale di Macerata, considerato
da me una prigione. Si dormiva in camerata con l’istitutore che impartiva ordini e invitava
continuamente a rispettare esagerate regole paramilitari. Quando non venivano rispettate
si finiva fermi sull’attenti in mezzo ad un grande corridoio davanti alla porta del Rettore.
Una volta accadde che per il freddo stessi battendo i piedi per riscaldarmi, ma all’improvviso
mi arrivò un calcio nel sedere con l’ordine perentorio che in punizione si doveva restare
fermi come una statua. Era il vice rettore Giacomelli! Quattro mesi dopo decisi di disertare
e andare da mia sorella Delia sposata a Rimini. Fui naturalmente riportato in collegio ma
dopo la terza fuga i miei genitori decisero finalmente di mettermi a casa di loro amici,
marito e moglie senza figli, che abitavano al centro di Macerata. Rispettavo scrupolosamente
gli orari dei pasti, di pomeriggio uscivo quando volevo ma la sera no. Ho studiato
Luciano in I ginnasio
con la Prof. ssa Anna
Luciano con amici
al Giardino Pubblico,
alla sua destra Giovanni
Luciano a 18 anni con la
sorella Laura a Macerata
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Luciano in spiaggia
a S. Benedetto del Tronto
1946
Luciano al Veglionissimo
dello Sport
Teatro Feronia 1947
Luciano con Pina,
Miss Liquigas
Organizzazione quattro +1
regolarmente tutto l’anno, ma nella seconda metà di maggio, il diavolo ci ha messo lo
zampino: dopo una partita di pallone e una doccia fredda, incappai in una lunga e fastidiosa
febbre intestinale che mi impedì di terminare l’anno scolastico. Era il secondo anno che
perdevo. Apriti cielo!
Nell’ottobre del 1946 con pianti e promesse riuscii a convincere papà e mamma a cercare
una famiglia di Macerata dove io potessi attendere privatamente alla preparazione della
licenza liceale scientifica più facile di quella classica. Mi ritrovai così presso una stupenda
famiglia, dove la simpatia e la quiete regnavano sovrane, composta da padre, madre e tre
figli, un maschio e due femmine, una delle quali era professoressa di matematica, ideale
per le materie scientifiche. Aiutato da tutti loro programmai il piano di esami prendendo
lezioni private anche da un’altra professoressa per le materie umanistiche. In questa serena
atmosfera riuscivo a studiare fino all’una di notte e a frequentare gli amici solo da
mezzogiorno e mezzo all’una e mezzo, ora del pranzo. Tutto ciò mi costò un discreto
esaurimento nervoso ma mi consentì di riconquistare in pieno la fiducia dei miei.
Fu in quel periodo che iniziai a dipingere ed a partecipare a mostre.
Tra luglio e ottobre del 1947 sostenni con successo gli esami di maturità scientifica
mettendomi in pari con gli anni perduti e potei così iscrivermi alla Facoltà di Ingegneria
dell’Università di Roma.
A San Severino nella primavera del 1948 Gigetto, Franco, Dino ed io creammo la
“Organizzazione Quattro” che divenne poi “Organizzazione Quattro + 1” perché qualche
mese dopo aggregammo Mimì, un po’ più giovane di noi. Il nostro scopo era quello di dare
vita a grandi serate danzanti in fondo al Giardino Pubblico dove c’erano la piattaforma di
pattinaggio a rotelle e la splendida pagoda in seguito vergognosamente demolita.
Chiamammo questo spazio, preso in affitto dal Comune, “Il Muro danze” riferito ai racconti
dell’esistenzialista Jean Paul Sartre molto di moda in quel tempo. Per tutta l’estate
organizzammo con successo numerose feste da ballo nella piattaforma di pattinaggio del
giardino con serate memorabili come la “Rhum Cocomer” e la serata “Friggi bene, se friggi
Liquigas”.
Quell’anno comprammo anche una Fiat 509 che Gigetto aveva trovato a Cingoli. Era una
berlina divenuta “spider” perché la parte superiore della carrozzeria era stata tagliata. La
pagammo molto poco, con l’aggiunta di cinque chili di caramelle provenienti dalla fabbrica
di confetti del padre di Gigetto. Con la Fiat 509 abbiamo scorrazzato lungo la nostra fascia
costiera, malgrado i malandati freni a corda che aveva. Da giovani incoscienti, per fermarci
in poco spazio dovevamo addirittura saltar fuori dalla macchina e fermarla anche con le
nostre forze. Per noi comunque è stato un periodo divertentissimo e più che finire in un
campo, sotto una pianta di mele per non sbattere contro il passaggio a livello chiuso tra
Matelica e San Severino, non ci è capitato.
Negli anni ’30 veder passare la Mille Miglia a San Severino era per me l’avvenimento più
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eccezionale dell’anno. Muniti di binocolo io ed alcuni amici andavamo sull’alta terrazza
dell’industria di mio padre e da lì potevamo scorgere per lunghi tratti le auto che venivano
da Tolentino, il loro passaggio sotto di noi fino al ponte di Sant’Antonio verso
Castelraimondo.
Nel 1950 conobbi a Roma un gruppo di giovani appassionati come me di gare
automobilistiche di velocità, tra cui Giuseppe Faranda, figlio di un deputato messinese.
Gepy, così lo chiamavamo, aveva lasciato la facoltà di ingegneria e con il consenso e i soldi
del padre aveva aperto sulla via Tiburtina, alla periferia di Roma, un capannone dove
costruiva siluretti da corsa, leggerissimi e velocissimi, spinti dal motore bicilindrico delle
moto tedesche BMV 750 cc., elaborato e potenziato. Il telaio, disegnato da lui stesso, era
avvolto da un tubolare di sottile lamiera di acciaio, tanto risicato da dover piazzare il cambio
fuori dal ristrettissimo alloggio del pilota. Le gare avvenivano nell’anello in terra battuta
dell’ippodromo di Vallelunga, il futuro autodromo di Roma. Con quei siluretti che giravano
in un accecante turbinio di polvere venivano effettuate numerose manches a totalizzatore
e gli spettatori, sempre numerosi, scommettevano come per le corse dei cavalli, puntando
su una decina di concorrenti. Gepy mi invitò a correre con uno di questi suoi potenti
siluretti, ma nelle poche gare che feci non riuscii neanche a piazzarmi perché, a causa del
turbinio del polverone, finivo sempre regolarmente fuori pista. Si risolse così quella mia
prima negativa esperienza, anche se divertimento ed emozione furono per me grandissimi.
Le prime gare automobilistiche su pista di sabbia si svolsero a fine novembre 1951 e fu
subito un successo.
Nel gennaio del 1955 ottenuto il consenso di papà e senza avvertire mia madre, mi iscrissi
alla Scuderia Montegrappa, così denominata perché aveva la sua sede in piazza Monte
Grappa a Roma nel Palazzo del Convitto Nazionale.
Erano anni in cui gli Automobil Club d’Italia, per pubblicizzare la produzione
automobilistica, organizzavano gare di velocità anche in salita. Nel Gran Premio della
Montagna giovani e meno giovani si incontravano ogni sabato per le prove, la punzonatura
e l’assegnazione del numero di gara con ogni tipo di auto, dalle piccole cilindrate ai bolidi,
divisi per categorie. La Scuderia Montegrappa offriva importanti agevolazioni ai soci che
volevano gareggiare, pagava l’iscrizione alle gare e una parte delle spese di preparazione
del motore. Gli eventuali premi vinti venivano divisi a metà con la Scuderia.
Io correvo nella categoria Turismo Speciale fino a 1500 c.c. con una Fiat 1100/103, motore
aumentato di cilindrata e potenziato da un collettore Abarth, un carburatore doppio corpo
e sospensioni rinforzate. In questa categoria erano purtroppo presenti anche due scatenati
e agguerriti corridori, Nataloni e Ferrante, che gareggiavano con due Lancia Appia sfornate
fresche fresche in quello stesso anno da Casa Lancia e magicamente preparate a Terni. In
quasi tutte le gare, mi sono sempre imbattuto con i due che arrivavano regolarmente sempre
primi e secondi di categoria, cosicché io il più delle volte mi sono dovuto accontentare del
terzo posto. Il terzo premio era piuttosto scarso, una modesta cifra in denaro, alcuni buoni
Luciano
cantante al night
La Fiat 509
Luciano con la sua prima
auto Fiat 1100
Luciano alla quinta gara
Frascati - Tuscolo
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per benzina, olio o gomme. Quando Germano Nataloni dopo la Spoleto Monteluco mi fece
provare la sua Appia, dovetti amaramente constatare che questa era più scattante e molto
più stabile della mia Fiat, sia in curva che in frenata. Imparai allora che vincere o perdere
sono due problemi esistenziali: chi non sa perdere non sa neanche vincere.
Molino a Cilindri S.A.
prima industria automatica
delle Marche
Interno del Molino
completamente sventrato
Luciano con Dino Betti
e Francesco Battibocca
alla Coppa del Cimino
Menelao
(Gian Paolo Paciaroni)
vincitore beve nella
Coppa Luigi Fagioli a Osimo
Nel 1957 si aprì per me un periodo disastroso. Mi trasferii a San Severino perché papà
cominciava ad avere i primi sintomi di un grave deterioramento dovuto all’età. Poi, in
seguito ad una operazione chirurgica per un’ulcera allo stomaco, il 31 dicembre di
quell’anno venne a mancare. Poco tempo prima che questa tragedia avvenisse e malgrado
gli avversi avvenimenti economici familiari, mio padre era riuscito ad entrare in possesso
di tutte le azioni del Molino a Cilindri S.A. da lui creato nel 1933. Con la sua malattia
l’amministrazione di questa industria passò nelle mani del primogenito di famiglia. L’anno
successivo disgraziatamente il molino venne completamente distrutto da un catastrofico
incendio. Dopo la morte di mio padre e dopo l’incendio, la divisione del patrimonio
familiare, ancora molto consistente, sfociò subito in una causa giudiziaria e in una assurda
situazione che presto racconterò ampiamente in un libro di memorie che sto scrivendo.
Una vera disperazione per me e mia madre che si protrasse fino al 1960.
Quanto all’Università la tirai piuttosto a lungo. Dopo il biennio di Ingegneria passai ad
Architettura, feci diversi esami poi quando le vicende familiari mi costrinsero di nuovo a
San Severino trasferii i miei studi all’Istituto Parificato Hotech Suisse di Zurigo. Qui, a
giugno del 1959, riuscii finalmente a prendere il diploma di laurea in Architettura Settore
Scenografia.
Intanto, nel 1958, avevo fondato a San Severino la Scuderia Automobilistica Settempeda
insieme ad un gruppo di amici: Francesco Maria e Giuseppe Battibocca, Gian Paolo
Paciaroni, Bruno Luzi, Aldo Alba, Dino Betti, Diego Maggiori e Alberto Farroni. Per circa
due anni sono stato un Presidente tuttofare con la grande soddisfazione di assistere alle
vittorie e ai traguardi raggiunti dai piloti di questa scuderia. Questi successi ebbero un’eco
sulla stampa con servizi su Stadio, Il Resto del Carlino e La Voce Settempedana.
Con il mio allontanamento da San Severino per motivi di lavoro, la Settempeda fu presa in
mano dal giornalista Nello Biondi che la trasferì a Macerata e la denominò in seguito
Scuderia Marche.
Trascorsi quegli anni tra fiduciose speranze e amare delusioni, afflitto da quella balorda
esperienza che la vita mi aveva riservato, finché mi si presentò l’opportunità di andare a
Roma a lavorare in teatro. Dopo averne parlato con mia madre e senza pensarci due volte,
nell’udienza giudiziaria di metà ottobre al Tribunale di Camerino, mandai al diavolo chi di
dovere, rinunciai a quanto mi spettava di diritto riservandomi solo l’appartamento del
secondo piano del palazzetto di famiglia.
Nel settembre del 1960, grazie al prestito di un amico, Giovanni, mi trasferii a Roma per
lavorare nel campo dello spettacolo, al Sistina con Giulio Coltellacci. Vorrei sottolineare
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che avevo iniziato a lavorare senza pretendere alcun compenso, ma solo per imparare. I
soldi che avevo avuto in prestito stavano per finire e avevo già deciso di andare la sera a
servire e a lavare i piatti in un ristorante che conoscevo in piazza Regina Margherita. Senza
sapere nulla di queste mie preoccupazioni, Coltellacci mi fece trovare una mattina, sul mio
tavolo da disegno, una busta a me indirizzata. Prima di aprirla andai nella stanza accanto
dove aveva il suo studio e gli chiesi cos’era. Mi rispose semplicemente: «Ma è il tuo
compenso… Non hai lavorato?» Ritornato nella mia stanza aprii la busta e trovai un assegno.
Di sfuggita lessi sessantamila ma poi mi accorsi che erano seicentomila. Gli gridai: «Giulio…
esco un momento!» e via di corsa. Per le scale cominciai a saltare di gioia e a dare i pugni
sulle pareti per l’incontenibile contentezza. Quella cifra significava la risoluzione di buona
parte dei miei problemi. Pagavo 23 mila lire al mese per il piccolo appartamento dove
abitavo e dovevo restituire un enorme prestito. Ero felice, finalmente ero riuscito a
guadagnare lavorando, ma lavorando sodo! E feci felice anche mia madre.
Anche se in seguito mi sono dedicato al cinema ed alla televisione, il teatro non l’ho mai
dimenticato, tanto da voler con entusiasmo lavorare per lo Sferisterio di Macerata, nel 1980,
e per l’Arena Gigli di Porto Recanati, nel 2007 e 2008.
Luciano con la cavalla
Elaine Rodney
L’amore per l’universo dell’arte figurativa, alimentato in me dalla frequentazione di
Coltellacci, ha continuato ad accompagnarmi. Non ho mai smesso di dipingere, tanto che
nel 1962 un buon numero di miei quadri è giunto fino negli USA. Anche in seguito ho
sempre coltivato questa mia passione ed ho realizzato e continuo a realizzare pitture,
sculture e rilievi.
Curioso di tutto, sono sempre stato pronto ad affrontare le esperienze che il caso mi poneva
avanti, ed è così che ho accettato anche lavori “extra”. E sono stato anche e sempre
dell’avviso che per lavorare e progredire al meglio sia necessario, anzi indispensabile,
conoscere il maggior numero possibile di persone. Credo che questa convinzione mi abbia
aiutato moltissimo.
Proprio per la conoscenza e la fiducia di un giornalista sportivo svizzero, ai primi di marzo
del 1963 fui chiamato a Montecatini dai fratelli Santi per la progettazione, il restauro e
l’ampliamento delle Scuderie di Corse al Trotto Santipasta. All’epoca era assai noto il loro
slogan “Santipasta: la pasta di tutti i santi giorni!”. Fu un lavoro piacevole e un incontro
interessantissimo. Proprio in quei giorni era arrivata da New York Elaine Rodney, la cavalla
che aveva vinto nel campo del trotto il più grande numero di gare e di somme in denaro.
Alla fine i fratelli Santi, soddisfatti del mio lavoro, mi donarono uno dei due orologi d’oro
extra piatti avuti per la loro partecipazione all’“International Roosevelt Raceway”. Gli orologi
erano solo 19, uno per ogni trottatore partecipante. Erano stati costruiti con il marchio di
quell’importante gara di New York e il mio lo conservo ancora con particolare cura.
Ritornato da Montecatini, sempre nel 1963, fui chiamato dall’imprenditore Forges Davanzati
e dalla Sancro film di Roma per la costruzione, nel Cantiere Navale Italmar di Palermo di
Scafo St. Francis progettato
dall’ing. navale Gabbiano
St. Francis in lavorazione
come progettato da Luciano
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Esterno St. Francis
ultimato
St. Francis
interno
St. Francis
interno bar
Riproduzione
del Tavolo Macchina 1
proprietà dei Fratelli Sansone, di uno yacht: il Saint Francis. Quando dissi loro che io ero
andato al massimo su un pattino, Forges Davanzati mi mise in mano un grosso pacco di
riviste marinare invitandomi a partire prima possibile. Arrivato a Palermo trovai un
bellissimo scafo di 39 metri già pronto, progettato dall’ing. Gabbiano, un nome una
garanzia. Con molta trepidazione e molti interrogativi mi misi subito all’opera e progettai
la suddivisione della barca e tutti gli arredi interni. A poppa ricavai otto cabine doppie con
bagno per gli ospiti, a prua una grande cabina armatoriale, al centro l’alloggio per i due
potenti motori Perkins, tre cabine per i sei marinai e una per il capitano e infine gli arredi
tutti da me disegnati e realizzati in cantiere: mobili, tavoli, poltrone, sedie, letti ecc. Mi
accorsi solo allora quanto mi era servita la “scuola” di Giulio Coltellacci.
Un giorno venne a trovarmi il regista Marco Ferreri, che era in cantiere con alla fonda la
sua barca da 16 metri a guscio di noce, molto bella, chiamata Cochecito (carrozzella) come
il titolo del suo secondo film girato in Spagna. Volle la scultura di un cavallo che avevo
realizzato ma non me la pagò subito, perché mi disse che al momento non aveva liquidità
disponibile, ma mi assicurò che lo avrebbe fatto quanto prima. Visitando l’interno del Saint
Francis, vide il Tavolo Macchina n.1, un tavolo da salotto da me progettato, che si apriva a
ventaglio. All’interno delle quattro zampe, quattro forcelle telescopiche avvitate al pavimento
permettevano di alzarlo fino a 70 cm. e ottenere così un tavolo da pranzo per otto persone.
«Mi piace - disse Ferreri - sembra una bara». Lo guardai attonito e osservai: «Spero che
non sia così anche per il Saint Francis!». Lui, com’era solito fare, accennò un sorriso a labbra
serrate e sentenziò: «La speranza è l’ultima a morire, ma muore!» A questo punto non mi
rimase che toccare ferro. Volle anche lui il Tavolo Macchina n.1 per la sua barca. Cominciò
così un’amicizia che ebbe seguito anche a Roma. Marco mi chiamò più volte per inventare
soggetti, per revisioni di sceneggiature o per suggerimenti vari, ma non fui mai pagato né
per quelle collaborazioni, né per la scultura. Quel tavolo era veramente bello tanto che ne
feci fare uno uguale per me ed ancora oggi troneggia nel mio salotto.
Costruito a scopo commerciale, il Saint Francis veniva affittato a 500.000 lire al giorno più
il carburante per navigare e le spese delle vettovaglie per ospiti ed equipaggio. Il primo a
prenderlo in affitto per 15 giorni fu un celebre chirurgo americano che operava al cervello,
David Cooper, con moglie e sei piccoli figli tanto vivaci da correre con le scarpe da tennis
sopra poltrone e divani. Ma per chi avevo lavorato così intensamente per circa sette mesi?!
Nel 1965 iniziava la mia avventura nel cinema come scenografo e come sceneggiatore. Questo
periodo è durato fino alla fine degli anni Sessanta ed è stato molto intenso. Sarei tornato al
cinema solo nel 1980, per un lavoro completamente diverso da quelli precedenti: un film di
animazione.
Lasciato il cinema, all’inizio degli anni Settanta sono approdato come collaboratore esterno alla
Rai, per la quale ho realizzato innumerevoli programmi.
Nel 1972 iniziava anche la mia docenza presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, dove mi
fu affidata la cattedra di Elementi di Regia, che ho conservato fino al 1994.
Mentre continuavo ad operare nel campo documentaristico, nel 1990 ho incontrato la mia
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futura moglie, Maria Teresa Copelli, divenuta poi mia collaboratrice come soggettista,
sceneggiatrice e aiuto regista. Già dai primi lavori svolti insieme ho potuto constatare, tra le
sue doti, la spontanea attitudine alla regia e la scrupolosa ricerca dei più corretti significati
espressivi in ogni vicenda da raccontare. Il primo servizio che abbiamo realizzato insieme per
la Rai è stato “Vivere la città”, mentre Tesi di laurea è stato il primo film a soggetto girato insieme
per l’Azienda di Promozione Turistica di Fermo. Fin dall’inizio della sua collaborazione mi sono
liberato dal peso delle riprese con l’elicottero, sempre avvenute sotto la sua direzione. Ed è per
il suo piacere di volare se ho accettato lavori negli USA, in Palestina e in ogni dove. Devo
confessare che tutte le volte che ho dovuto prendere l’aereo ho provato panico e angoscia. Con
un mio atterrito: «Che succede???» dopo aver sentito il rombo dei motori attenuarsi durante
un atterraggio a Palermo, spaventai tutti i passeggeri, anche quelli che dimostravano tanta
sicurezza. Mi dissero poi che era il normale rallentamento per atterrare. Feci sì una figuraccia
ma mi accorsi che tutti avevano avuto paura. Scoprii poi, e ne è testimone mia moglie, a cui
piace immensamente volare, che anche le hostess avevano fondati motivi di paura. Tutte!
Il 18 giugno del 2003, alla bella età di 75 anni, nella fastosa Sala della Protomoteca del
Campidoglio di Roma ho vissuto un evento eccezionale. Sono stato nominato Marchigiano
dell’anno 2002 con l’assegnazione del “Picus del Ver Sacrum” da parte del CeSMa, Centro
Studi Marche “Giuseppe Giunchi” di Roma. Oltre ai notabili del CeSMa, in primo luogo il
Presidente Onorario prof. Fernando Aiuti, il Presidente dott.ssa Rosanna Vaudetti, il Direttore
Organizzativo Pina Gentili, era presente a mia insaputa anche il Sindaco di San Severino, l’ing.
Medaglione
Picus del Ver Sacrum
per Marchigiano dell’anno
Luciano premiato
da Francesca Benedetti
e Silvio Spaccesi
Luciano con Maria Teresa
che mostra il Picus
Fabio Eusebi
ex Sindaco di San Severino
alla Manifestazione
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Fabio Eusebi, che mi ha fatto omaggio di un pregevole volume. C’erano poi il brillante e
poliedrico attore Silvio Spaccesi, la bionda e brava attrice Francesca Benedetti, personalità della
politica e della stampa e tanti, tanti nipoti e amici. Per la prima volta nella mia vita questa ambita
nomina ha testimoniato e apprezzato il lavoro da me svolto a favore di una cultura polivalente
e mirata a mettere in evidenza l’ambiente in cui viviamo.
Nella motivazione del Premio: «[…] Il premio “Picus del Ver Sacrum” gli viene conferito per
aver attirato, fin dal 1976, l’attenzione sul patrimonio artistico, urbanistico e ambientale delle
Marche. In quell’anno infatti vinceva, con Il verde muove realizzato per la nostra regione, il
Primo Premio Assoluto alla XII Mostra Internazionale del film didattico. Nel 2001, 25 anni più
tardi, la Regione Marche gli ha affidato la realizzazione del seguito: Il luogo dell’abitare, un film
che sta facendo ancora il giro delle Marche. Attualmente continua a tener viva la problematica
ambientalista con programmi come “Italia che vai” e “Geo&Geo”».
Luciano
con Rosanna Vaudetti
Luciano col Sindaco
Cesare Martini e Soci
della rifondata Scuderia
Quando nel 2007 ho ricevuto da San Severino la telefonata di Pietro Caglini con la proposta
di rifondare la Scuderia Settempeda dopo un cinquantennio, credevo di sognare. Pietro è
uno degli storici più attenti in fatto di motorismo d’epoca ed è Presidente del C.A.E.M.
(Circolo Automotoveicoli d’Epoca Marchigiano) fin dalla sua fondazione avvenuta nel 1976.
Nel corso delle sue ricerche si era spesso imbattuto nella Scuderia Settempeda e ne aveva
promosso la rifondazione. Pietro stava raccogliendo tutte le notizie e le foto che
comprovavano l’attività sportiva passata. Io purtroppo avevo perduto molto del materiale
di quell’epoca e l’ho potuto aiutare ben poco. Sono immensamente grato a Pietro di questa
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sua iniziativa, del certosino lavoro che ha svolto con invidiabile professionalità e gli sono
grato perché la memoria storica degli avvenimenti, pubblicata nell’album Scuderia
Settempeda (1958-1960), è importante anche per le generazioni future. Questo fascicolo,
edito nella circostanza, mi ha anche restituito vecchi amici di squadra. Ricordare infatti è
vitale per poter riafferrare dal passato un pezzo di indentità scomparso.
Continuando a frequentare a Roma le varie iniziative del CeSMa, sempre molto
interessanti, ho avuto modo di incontrare il Presidente della Fondazione Claudi di
Serrapetrona, il prof. Massimo Ciambotti, che ha ritenuto meritevole dare vita ad una
mostra dove potrò esporre tutta la mia attività professionale, artistico-culturale e sportiva.
Quest’invito, che mi ha riempito di gioia, mi ha fatto anche recuperare ricordi che credevo
perduti. Sono riandato alla mia infanzia, quando andavo a giocare al giardino con i miei
amici. Mi era capitato più volte di vedere il professor Claudio Claudi, seduto sulla
panchina posta sotto il grande e possente cedro del Libano, davanti alla fontana che aveva
al centro due teneri amorini riparati da un ombrellino. Con un libro, un quaderno e una
penna stilografica il professor Claudi leggeva, prendeva appunti e spesso guardava fisso
e assorto davanti a sé come per penetrare un’idea. Ricordo di essermi anche fermato a
parlare con lui.
Scudetto Scuderia
Settempeda
A San Severino era considerato un po’ strambo, mentre a casa si accennava al “figlio del
farmacista” come a un colto anticonformista. Il padre Adolfo, farmacista a Serrapetrona,
aveva acquistato anche a San Severino una farmacia e un appartamento dove era venuto
ad abitare con la moglie Anna e i figli, Claudio, il più grande, Dina e Vittorio.
Nel bellissimo appartamento, situato al secondo piano di un palazzo patrizio, al n. 80 di
via Massarelli, Anna, splendida pittrice, aveva realizzato preziosi affreschi sui soffitti e
sulle pareti di alcune stanze. Ebbi modo di vedere anche Vittorio che, sebbene molto
giovane, già aiutava il padre nella farmacia. Mia sorella Giulia ricorda d’essere stata invitata
a casa Claudi per una grande festa della matricola organizzata da Dina. Qualche anno più
tardi rividi Dina alla guida di una Lancia Aprilia blu, nuova fiammante. Si era fermata di
fronte a casa mia ed era scesa dall’auto per parlare con una amica. Occhi truccati, capelli
neri alla garçon, labbra dipinte e un lungo bocchino d’oro e d’avorio con tanto di sigaretta
accesa. Indimenticabile! Veniva proprio da un altro mondo. Intorno agli anni ’70,
l’appartamento dei Claudi fu acquistato da Giancarlo Cristini e da sua moglie Barbara
che a tutt’oggi vi abita. Purtroppo alcune decorazioni di Anna sono andate perdute a
causa di successive ristrutturazioni.
Se Dio vuole, grazie all’invito del prof. Ciambotti, incontrerò nuovamente la famiglia
Claudi, viva oggi nella splendida realtà costituita dalla Fondazione che ne porta il nome.
Copertina dell’album
della rifondata Scuderia
fatto stampare da Caglini
Luciano nominato da Caglini
Presidente Onorario
della rifondata Scuderia
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A Luciano Gregoretti espressione di cultura
Yang Yu Lin
Maestra di danza, danzatrice e coreografa
Provai una forte emozione quando nel 2007 ricevetti una telefonata dal regista Luciano
Gregoretti, venuto poi con sua moglie Maria Teresa nella mia scuola di danza per assistere
ad una esibizione di ballo con le mie allieve. Ritrovarmi poi la sera del 28 giugno 2008 sul
palcoscenico dell’Arena Beniamino Gigli di Porto Recanati con un mio spettacolo
coreografico sottolineato dagli applausi di un caloroso pubblico è stato un soffio, dolce ed
entusiasmante.
È nato così il nostro felice rapporto di lavoro e la nostra amicizia. Da allora la loro
considerazione per le mie coreografie e i loro suggerimenti hanno sempre sollecitato il
fantastico mondo delle mie figurazioni.
Trovo splendido che il prof. Massimo Ciambotti, Presidente della Fondazione Claudi, abbia
aperto un variegato ventaglio sulla vita e sulle capacità artistiche di Luciano mirabilmente
affiancate dalla vitale spinta emotiva di Maria Teresa in questa manifestazione culturale
dove sarà presente la sensibilità di storici dell’arte, del cinema, del teatro, della televisione
e dell’accademia di belle arti.
Sono infine molto lieta con l’occasione di poter esprimere ancora una volta la mia stima e
il mio affetto a Luciano e Maria Teresa. Mi sono trovata sempre a mio agio con loro, sia
nello spettacolo che fuori. Li ringrazio di questo invito e non vedo l’ora di poter conoscere
le loro amicizie su vasta scala.
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Il teatro, il gioco della vita
A dare il via al mio incontro con il teatro è stato Alberto Bonucci, che avevo conosciuto a
Roma diventandone amico. Bonucci, che nel 1951 con Franca Valeri e Vittorio Caprioli aveva
dato vita al famoso Teatro dei Gobbi, nel 1960 aveva partecipato al film Un mandarino per
Teo con Walter Chiari e Sandra Mondaini. Il soggetto e la sceneggiatura erano di Garinei e
Giovannini e la scenografia di Giulio Coltellacci. Nell’estate di quell’anno Bonucci, in giro per
le Marche, venne a trovarmi ed io ebbi così la buona sorte di raccontargli l’assurda situazione
in cui ero precipitato in seguito alla morte di mio padre. Gli chiesi se poteva in qualche modo
aiutarmi e lui mi rassicurò: «Avrai tutto il mio interessamento e anche tutta la mia
comprensione». Mi aveva rincuorato ma non mi sarei mai aspettato che, di lì a un mese, mi
telefonasse per comunicarmi che aveva parlato con lo scenografo Giulio Coltellacci e con
Garinei e Giovannini, padri della Commedia Musicale del Teatro Sistina, riferendomi
testualmente che «mi aspettavano a braccia aperte». Un mese dopo ero già a Roma per
cominciare da sottozero una nuova vita. Era l’ottobre del 1960.
Giulio Coltellacci abitava in via Francesco Crispi, angolo via del Tritone, in un’immensa
terrazza in cui aveva fatto costruire uno stupendo appartamento-studio. Per farmi lavorare
comodamente inserì nella prima stanza un tavolo da disegno e lì lavoravo, facendo la spola
tra lo studio e la mia piccola nuova abitazione in affitto, trovata nel quartiere Tuscolano.
Trio dei Gobbi:
Alberto Bonucci, FrancaValeri,
Vittorio Caprioli
Tour a tour al Teatro
Fiammetta Roma 1960
Il mio primo contatto con il mondo teatrale avvenne al Teatro Fiammetta di Roma il 9
dicembre del 1960. Scena unica e costumi disegnati da Coltellacci per la deliziosa e divertente
commedia Tour à tour con Bice Valori, Gianrico Tedeschi, Maria Grazia Francia, e altri attori
tra cui il giovane Luca Ronconi, al suo primo lavoro teatrale sia come attore che come regista.
Coltellacci mi dimostrò disponibilità e fiducia e, dopo un paio di mesi, mi mandò nella grande
Sartoria ANNAMODE a controllare i costumi di Delia Scala, di Domenico - Mimmo Modugno
e del corpo di ballo per la Commedia Musicale Rinaldo in Campo. Nel salone di prova trovai
le ballerine che indossavano solo un microscopico slip. Debbo riconoscere che rimasi molto
impacciato di fronte a tante nudità e alla disinvoltura con cui provavano e cambiavano
costume. Per me era la prima volta, ma poi ci feci l’abitudine.
Delia Scala Show
gennaio 1961 al Teatro
Biondo di Palermo
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“Rinaldo in campo”
12 settembre 1961
al Teatro Alfieri di Torino
“Enrico ’61” Teatro Sistina
stagione 1961/62
“Rugantino”
15 dicembre 1962
al Teatro Sistina di Roma
Rinaldo in campo era una commedia musicale scritta in quell’anno da Garinei e Giovannini per le
celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia. Lo spettacolo doveva andare in scena al Sistina nel
gennaio del 1961, ma durante le prove Modugno, saltando da uno sgabello, cadde malamente e
si ruppe una gamba. Il debutto fu rimandato con la disperazione di tutti.
Garinei e Giovannini decisero subito di non sciogliere la compagnia e in pochi giorni inventarono
il Delia Scala show. Per il debutto scelsero il Teatro Biondo di Palermo e qui verso la fine di gennaio
del 1961 io vissi l’indimenticabile momento della mia prima “passerella”. Mi incoraggiava anche
la confidenza subentrata con Delia Scala. Un giorno in teatro mi chiese se potevo andare a
prenderle un documento che aveva lasciato in una delle sue borse chiuse nell’armadio della sua
camera all’Hotel delle Palme dove eravamo tutti alloggiati. Mi dette la chiave scusandosi di doverlo
chiedere a me perché c’era da rovistare e non si fidava dei commessi. Fiducia che apprezzai molto.
A settembre del 1961 al Teatro Alfieri di Torino avvenne finalmente il debutto di Rinaldo
in campo, definito a quell’epoca il più grande successo teatrale di tutti i tempi avvenuto in
Italia e primo come record d’incassi.
Nella stagione teatrale 1961/1962 andò in scena anche Enrico ’61 con Renato Rascel, ma
con lui purtroppo non ebbi un buon rapporto. Unico mio sollievo era che Renatino, come lo
chiamava Garinei, aveva da ridire un po’ con tutti. Un giorno mostrandomi la calzamaglia
arrivatagli dalla sartoria per alterare in una scena la sua fisionomia, mi disse seccato e insofferente:
«… e questa che non mi entra, dove me la metto?» «Ma che c’entro io?... Non è mica colpa mia se
hai la testa grossa!» gli risposi e me ne andai.
Oltre ad essere uno dei migliori scenografi e costumisti del 1900, Coltellacci era anche un ricercato
e fine arredatore. Quando nel ’61 Vittorio Gassman comprò all’Aventino una stupenda villa da
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restaurare, si affidò completamente a Coltellacci. Fu un lavoro sbalorditivo. Nel seminterrato venne
ricavato lo spazio per un piccolo cine-teatro con palcoscenico e platea. Un locale del piano terra
divenne una grande sala da gioco. Fui mandato addirittura a Parigi per acquistare un biliardo del
1800 restaurato, visto da Coltellacci solo in foto. Io che avevo perduto un anno di liceo perché
invece di studiare ero andato a giocare a stecca, lo provai e lo trovai efficientissimo. Quando, per
il rimborso delle spese di viaggio e permanenza, Giulio si accorse che ero andato a Parigi in treno,
mi chiese perché il treno e non l’aereo, io non ebbi il coraggio di dirgli che avevo paura di volare.
Nasceva intanto Rugantino. Per questa speciale commedia musicale, Coltellacci ideò un
palcoscenico girevole con un cerchio centrale ruotante sia a destra che a sinistra. Il cerchio era
circondato da una larga “corona circolare” concentrica che ruotava anch’essa nei due sensi. Queste
due piattaforme ruotando indipendentemente anche di pochi centimetri potevano dar luogo a
vari cambi di scena anche con gli attori in campo. Quando finì di disegnare i bozzetti di quelle
stupende scene, Coltellacci mi chiese se me la sentivo di realizzare un modellino in scala. Era per
me la prova del fuoco. Usai legno, lamierino, sfoglie di sughero, cartone, stoffe, celluloide, spugna,
filo di ferro, ruote e rotelle dentate di orologi di varie dimensioni, cinghiette e codini di topo e
tutto ciò che potevo inventare. Il meccanismo per far girare le due piattaforme lo montò un
orologiaio. Due mesi e mezzo di intenso lavoro con ansia e batticuore. Il modellino in scala
piacque molto e alla fine di novembre, montato il palcoscenico girevole con le scene dipinte,
cominciarono le prove della compagnia. Rugantino fu l’ultimo lavoro che feci come aiuto di
Coltellacci, un grande impegno che si concluse il 15 dicembre del 1962 con la messa in scena
dello spettacolo.
Cartellone stagione lirica
1980
“Il Barbiere di Siviglia”
scena 2
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Era giunto per me il tempo di lasciare il Teatro. Non potevo continuare ad essere l’aiuto di Giulio
Coltellacci. Se volevo progredire dovevo cercare altri spazi. Passai così alla Televisione e
all’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Macerata. In seguito, sia pure saltuariamente, tornai
diverse volte ad occuparmi di scenografia e regia teatrale.
“Il Barbiere di Siviglia”
scena 1
Nel 1980 lo Sferisterio di Macerata mi dette l’incarico di realizzare scene e costumi per Il
Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. Nel ricevere l’incarico il mio primo pensiero corse
subito alla grande baraonda che si verificava allo Sferisterio ad ogni cambio scena. Potenti
riflettori sparati in faccia al pubblico per non far vedere quello che avveniva sul palcoscenico
poi giù colpi di martello e rumori a non finire. Lo trovavo assurdo e fastidioso. Una delle mie
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preoccupazioni fu poi di coinvolgere in questo lavoro i miei allievi dell’Accademia, cosa che
mi riuscì solo molto marginalmente. Altro mio desiderio era dare il giusto significato alla storia
tratta dalla omonima commedia di Beaumarchais. Il Barbiere di Siviglia era per me un’opera
cosiddetta “buffa”, ma non farsesca né tantomeno clownesca. Non si fa sculettare Rosina; Don
Bartolo è un personaggio spassoso, bizzarro ma non grottesco. Infine io consideravo e continuo
a considerare quest’opera “buffa” un’accurata indagine sui costumi e sulla morale di una certa
classe sociale di allora. A qualcuno però non appariva così!
Nelle scene che progettai non riportai la “solita” Siviglia con le “solite” casette bianche, ma uno
scorcio del Barrio de Santa Cruz caratterizzato dagli edifici di stile gotico. Feci allestire tre alte
scene articolate orizzontalmente che si illuminavano solo quando vi si svolgeva l’azione dei
cantanti-attori e per la prima volta il pubblico dello Sferisterio non dovette subire la luce
accecante dei riflettori e i trambusti dei cambi-scena. Vasta fu l’eco della stampa, tra cui la
recensione di Rodolfo Celletti sul settimanale Epoca (23/8/1980). Qualche anno più tardi
qualcuno usò questo tipo di “allestimento orizzontale” e se ne vantò come fosse stato il primo.
Che ingiustizia!
Nel 2007 (6-7-8 giugno) mia moglie Maria Teresa Copelli ed io realizzammo, all’Arena Gigli di
Porto Recanati, tre giorni di Commemorazione di Beniamino Gigli a 50 anni dalla sua
scomparsa.
Fui particolarmente lieto dell’incarico che mi riportava tra l’altro alla mia infanzia. Nella lontana
estate del 1937, ben settanta anni prima, avevo vissuto una memorabile serata per un concerto
tenuto a San Severino dall’amato e famoso tenore Beniamino Gigli. In piazza Vittorio Emanuele
III, oggi piazza del Popolo, era stato allestito un grandioso palcoscenico coperto da una
splendida cupola a forma di conchiglia. La platea era vastissima e gremita di gente venuta da
ogni dove. Io e il mio amichetto Giovanni, lo stesso Giovanni che molto tempo dopo nel 1960
mi avrebbe dato l’importante prestito per venire a Roma a lavorare, fummo prescelti per portare
ai due cantanti lirici due bellissime corbeille di fiori. Alla fine del concerto, azzimati e
infiocchettati, Giovanni ed io, uno da una parte e uno dall’altra del palco, entrammo in scena
con una certa fatica, perché le corbeille erano più alte di noi. La mia toccò a Gigli. I due cantanti
ci ringraziarono e ci invitarono a rimanere vicino a loro, mentre gli applausi si facevano sempre
più calorosi e interminabili. Quando arrivò il momento, vidi che Giovanni invece di uscire al
seguito della cantante veniva verso di me. Mi misi a gesticolare piuttosto platealmente per
fargli capire che doveva uscire dalla parte opposta insieme alla soprano. Ciò suscitò
inevitabilmente l’ilarità del pubblico che per fortuna trovò la cosa divertente. Gigli tornò
indietro, disse a Giovanni di uscire insieme alla cantante, poi divertito imbracciò la corbeille,
mi prese per mano e uscimmo insieme di scena. Non mi sarei mai aspettato che nel retropalco,
dopo avermi chiesto come mi chiamavo, il grande Beniamino Gigli mi prendesse sulle sue
ginocchia e mi cantasse una breve strofetta che finiva con un acuto e con il mio nome.
Raggiunsi i miei in platea, mamma mi rimproverò per quel mio scomposto gesticolare sul
palcoscenico, ma non me ne importò nulla perché il mio entusiasmo era proprio alle stelle.
“Serata Gigli” 7 luglio 2007
Luciano a sn. sul palco
saluta il pubblico
Il tenore Juanjo Cura
canta con Beniamino Gigli
nipote omonimo
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Commemorazione
di Beniamino Gigli
6, 7, 8 luglio 2007 all’Arena
Gigli di Porto Recanati
29
Per Maria Teresa e per me sono stati tre giorni di intenso e impegnativo lavoro, senza calcolare
la precedente lunga preparazione anche per avere noti personaggi sul palcoscenico dell’Arena.
Lei si è completamente dedicata alla regia, alle postazioni delle telecamere e alle riprese
televisive delle due serate, mentre io mi sono occupato della scenografia dell’Arena e del
ruolino di marcia delle manifestazioni che si sono susseguite.
Di spicco due novità assolute. Per la prima serata, condotta dalla giornalista Daniela Gurini, il
poeta Antonio Bruni ha scritto in omaggio a Beniamino Gigli Il canto è un senso d’amore, poema
teatrale interpretato in scena dallo stesso autore con gli attori Alessia Raccichini e Bruno Maria
Tallini. Per la seconda serata, condotta dalla giornalista Rai Barbara Capponi, una poesia scritta
da Robertomaria Siena, ispirata dal VI canto dell’Eneide di Virgilio: “Manibus date lilia plenis
- Date gigli a piene mani” interpretata in scena da Bruno Maria Tallini.
Venuto espressamente dall’Argentina il tenore Juanjo Cura ha cantato moltissimi brani del
repertorio gigliano e infine si è esibito in un duetto insieme a Beniamino Gigli, nipote del
tenore. Ospite d’Onore il mezzosoprano Giulietta Simionato di 97 anni, particolarmente lieta
di poter essere presente e ricordare alla numerosa platea l’amicizia professionale che l’aveva
legata a Beniamino Gigli.
Nel 2008 Maria Teresa ed io siamo tornati alla Arena Gigli di Porto Recanati per la direzione
artistica della Commemorazione di Ferdinando Scarfiotti, grande scenografo, a vent’anni dal
suo premio Oscar in America e dal David di Donatello e Nastro d’Argento in Italia per il film
L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Come ormai di prammatica Maria Teresa si è
occupata delle riprese con le telecamere ed io della scenografia e dello svolgimento del
programma. Il maestro Bertolucci non potendo essere presente all’evento del 5 luglio, ci ha
rilasciato un’intervista per la serata e una sua testimonianza per il libro da noi in seguito
pubblicato.
Con il rilevante materiale sia di stampa che fotografico raccolto, con tutte le notizie avute da
familiari e amici sulla sua vita, è venuto spontaneo per noi pensare alla pubblicazione della
biografia di Scarfiotti. Ne è uscito un apprezzato libro d’arte, ma non avremmo mai
immaginato che raccontare una storia di vita non fosse tanto facile come raccontare una favola.
Nando Forever. Ferdinando Scarfiotti, scenografo di Luciano Gregoretti e Maria Teresa Copelli
(coll. Grandi Scenografi 1, 2010, Zecchini Editore, pagg. 168 con DVD allegato) è stato
presentato a Roma, nella Sala Kodak della Casa del Cinema, il 6 marzo 2010. La data non è
casuale: abbiamo voluto ricordare Nando nel giorno del suo compleanno.
Scarfiotti era nato il 6 marzo del 1941 a Potenza Picena e se fosse stato in vita avrebbe
festeggiato il suo 69° compleanno. È venuto purtroppo a mancare a soli 53 anni a Los Angeles
il 30 aprile del 1994. È stato definito “lo scenografo di Bertolucci”, per la sua intensa
collaborazione con il regista, in film come Ultimo tango a Parigi, Il thè nel deserto, solo per
citarne qualcuno. Oltre alla Nomination all’Oscar per il film Toys, gli sono stati riconosciuti
prestigiosi premi come il César e il BAFTA. Il suo lavoro spaziava dall’opera lirica alla prosa,
dal musical ai film, tutti di grande successo prodotti in Italia, Francia, Olanda, Austria,
Inghilterra e U.S.A.
Scenografia dell’Arena Gigli
per la commemorazione
di Scarfiotti - 2008
Maria Teresa e Luciano
nell’intervista
a Bernardo Bertolucci
La giornalista RAI
Barbara Capponi
conduttrice della serata
Emanuele e Giovanna Scarfiotti,
Vittorio Storaro, Tonia Cafolla
e Pier Luigi Pizzi
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Commemorazione
di Ferdinando Scarfiotti
il 5 luglio 2008 all’Arena
Gigli di Porto Recanati
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Roma - Casa del Cinema 2010
Gabriella Pescucci, Piero Tosi,
Milena Canonero,
Vittorio Storaro ecc.
Roma - Casa del Cinema
foto di gruppo
Macerata - Antichi Forni 2010
Aperitivi Culturali
Ha lavorato con registi di fama internazionale come Visconti, Zeffirelli, Wilder, Bogdanovich,
Schlesinger, De Palma, Schrader, Levinson ed altri. Le sue scenografie sono tuttora in
repertorio nei maggiori teatri d’Europa mentre i suoi disegni di scene e costumi si possono
ammirare in molti musei teatrali (Milano La Scala, Vienna Staatsoper, Londra Royal Opera
House e Covent Garden).
Il libro è stato presentato anche a Macerata il 4 agosto 2010, dall’Associazione Sferisterio
Cultura in Aperitivi Culturali agli Antichi Forni, bellissima sede delle manifestazioni della
Stagione Lirica dello Sferisterio. Anfitrione della serata il prof. Evio Hermas Ercoli.
Il teatro è sempre stato per me un’entusiasmante esperienza, una riflessione sul gioco della
vita: se la vita è un gioco, chi non sa giocare non sa neanche vivere.
Maria Teresa e Luciano
Antichi Forni 4 agosto 2010
Libro-Biografia di Nando
Scarfiotti con DVD
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Luciano Gregoretti un amico ritrovato
Enzo G. Castellari
Soggettista, sceneggiatore, regista cinematografico
Potrebbe passare un secolo o anche due, ma la camera del mio occhio potrà sempre
proiettare fotogramma per fotogramma la sequenza della prima volta che vidi Luciano
Gregoretti. Ricordo benissimo che nel 1964 mio padre Marino Girolami stava girando un
divertente film: I magnifici Brutos del West nel villaggio western della Elios, da poco tempo
costruito. Il primo giorno di riprese notai subito un giovane che aveva messo piede per la
prima volta in un set cinematografico. Si muoveva timidamente anche se si dava un gran
da fare per alcune necessità scenografiche o per assistere in tutta confidenza e con molta
premura mio padre Marino. Quando durante una pausa papà gli chiese se c’era la possibilità
di avere un grande cuscino per la scena da girare, lui gli domandò: «Quanto grande più o
meno?»
Non l’avesse mai detto! Mi avvicinai minaccioso e a un palmo dal naso gli gridai: «A chi
meni tu?» Lui rimase di stucco, mi guardò trasognato e a mezza voce riuscì a dirmi: «...A
nessuno... Ma chi l’ha detto che voglio menà a qualcuno?...» Ed io di rincalzo: «Sei stato tu
e l’hai detto anche chiaramente: più o “meno”!!!... E se voi menà possiamo pure comincià
subito!»
Papà intanto si era avvicinato e sorridendo divertito gli disse: «Luciano… non ti
preoccupare, a mio figlio Enzo piace sempre scherzare». Tutto finì in una risata, però lui,
ancora incredulo, cercava di schermirsi per non aver capito che era stato solo uno scherzo.
Durante le riprese del film siamo andati più volte alla ricerca di spassose situazioni, ma poi
ci siamo rivisti raramente per l’impegno pressante dei miei primi film, girati anche all’estero.
So comunque che Luciano, prima di arrivare alla regia, ha scritto anche insieme a Tito, un
amico comune, molti soggetti e sceneggiature e che poi ha lasciato il cinema per la
televisione.
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Ci siamo incontrati di nuovo per la dolorosa perdita dell’amico Tito, poi in alcune
manifestazioni cinematografiche e ad una cena intorno alla piscina di una villa di Sacrofano.
Da giovane prima di frequentare la Facoltà di Architettura di Valle Giulia mi sono diplomato
all’Accademia di Belle Arti di via Ripetta. È stato così inevitabile anche per me l’hobby della
pittura. Da moltissimi anni però non uso più né pennelli, né colori perché ho trovato
estremamente divertente e avvincente disegnare minuziose riproduzioni con una comune
penna a sfera.
Sarò senza dubbio presente a Serrapetrona alla mostra di pittura, scultura e di ciò che è
riuscito a fare Luciano Gregoretti nella sua vita e ne sono anche felice.
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Il cinema: western, musicarelli e non solo
Il film Per Mille dollari al giorno del 1965, non sancisce solo il mio ingresso in campo
cinematografico, ma convalida anche il mio primo passaggio dalla scenografia alla
sceneggiatura, due attività molto diverse tra loro. La scenografia si occupa di trovare o
progettare gli ambienti inerenti a tutte le scene del film, esterni o interni che siano, la
sceneggiatura sviluppa il soggetto già stilato e descrive in dettaglio il testo del racconto
Paese di produzione
Italia Spagna
Anno 1965
Durata 80 min
Colore B/N
Genere Western
Regia Silvio Amadio
Soggetto
Silvio Amadio
Tito Carpi
Luciano Gregoretti
Sceneggiatura
Silvio Amadio
Tito Carpi
Luciano Gregoretti
Produttore
Tirso Fil Roma - Petruka Film Madrid
Fotografia Mario Pacheco
Montaggio Josè Antonio Rojo
Musiche Gino Peguri
Scenografia Eduardo Torre
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cinematografico, dialoghi compresi in un copione. Il tutto è comunque preceduto dal
soggetto che è il primo a nascere e a dare il via alle tappe successive.
Col passare del tempo e con la voglia di uscire dall’inflazione dei film western, Silvio
Amadio, Tito Carpi ed io inventammo la storia di un’intricata rapina architettata per puro
divertimento da un personaggio della Roma bene di allora dal titolo “Favoloso colpo a via
Condotti, angolo piazza di Spagna”. Appariva chiaro il riferimento ad una ben nota
gioielleria come chiaro era per noi che il personaggio della Roma bene, protagonista ideale
per questo stravagante furto, non poteva essere altri che Kirk Douglas, in veste di un
impeccabile ma scanzonato personaggio dell’alta borghesia. Douglas trovò il copione
abilmente orchestrato e accettò di interpretare il film, ma per precedenti impegni già firmati
non poteva essere disponibile prima dell’autunno del 1969. Peccato, perché la Produzione
Tirso Film non riuscì a risolvere materialmente i problemi che comportavano questa
scadenza, noi non credemmo opportuno cambiare protagonista e così il film con mia
grande delusione non fu realizzato.
Rita, la figlia americana girato sempre nel 1965, malgrado sia stato più volte e da troppi
rimaneggiato da essere definito un “musicarello”, ebbe un buon successo di cassetta. Gli
interni del film furono girati negli stabilimenti della Titanus e gli esterni a Roma città.
Solo poche volte sono andato sul set soprattutto per fare qualche chiacchierata con lo
spassosissimo Totò e con l’effervescente Rita Pavone. Totò attore simbolo della comicità
italiana, soprannominato “il principe della risata”, è stato anche drammaturgo, cantante,
paroliere e poeta. Rita, soprannominata “Pel di carota” per il rosso dei suoi capelli, è
stata e continua ad essere cantante e cantautore di successo. Scatenata show girl, ma
solo per professionalità e non per carattere, non ha mai amato la mondanità e preferisce
stare a casa, possibilmente per una tranquilla partita a carte.
Nel novembre del 1966 Tito Carpi, Roberto Natale ed io scrivemmo, su richiesta della
Tirso Film, il soggetto e la sceneggiatura di Granada addio, una storia fatta su misura per
Claudio Villa. La regia del film fu affidata, nell’aprile del 1967, a Marino Girolami. Ho
imparato molto da Marino ed è stato sempre piacevole seguire le sue riprese. Dirigeva il
set in maniera autorevole ma rispettosa e, anche se cordialmente, non permetteva a
nessuno dei numerosi componenti la troupe di discutere o di entrare in conflitto tra
loro. Per le riprese esterne, girate lungo alcune vie di Roma, il set era stato allestito sul
piano di un grande rimorchio a tre assi tirato da un autotreno: un vero palcoscenico
viaggiante al quale mi accodai diverse volte con molta curiosità e interesse.
Fu il modo migliore per sincerarmi completamente della traboccante ammirazione e
affetto che la gente aveva per Claudio Villa e rimasi estremamente sorpreso quando un
giorno un gruppo di giovani lo fischiò e gli rivolse insolenti ingiurie.
Il suo deciso e reattivo carattere non gli permise però di accettare quelle provocazioni
tanto che fummo costretti faticosamente a trattenerlo per impedirgli di affrontare
Anno 1965
Durata 91 min
Colore B/N
Genere Comico
Regia Piero Vivarelli
Soggetto
Piero Vivarelli
Sceneggiatura
Bruno Corbucci
Tito Carpi
Luciano Gregoretti
Produttore
Fabrizio Capucci
e Giancarlo Marchetti
Casa di Produzione
CMV
Produzione
Cinematografica
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Paese di Produzione
Italia
Anno 1967
Durata 95 min
Colore Colore
Genere Commedia
Regia Marino Girolami
Soggetto
Tito Carpi
Alessandro Ferraù
Luciano Gregoretti
Roberto Natale
Sceneggiatura
Tito Carpi
Luciano Gregoretti
Roberto Natale
Casa di Produzione
Tirso Film
Distribuzione
Interfilm
Fotografia
Franco Villa
Montaggio
Vincenzo Tomassi
Musiche
Giancarlo Chiaramello
Scenografia
Giorgio Desideri
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personalmente una pericolosa baruffa. Conoscendolo più a fondo, Claudio mi fece
dimenticare qualche sua gigioneria di troppo, apprezzare le sue non comuni doti tenorili
e scoprire anche le sue buone qualità di attore. Afferrava al volo le indicazioni del regista
e interpretava ruoli diversi con disinvoltura e sicurezza. Era veramente un simpatico
“romanaccio” nel senso migliore della parola. Mi piace infine ricordare che in una sua
esibizione canora riuscì a sbalordire ed entusiasmare un vasto pubblico, tutto
appartenente al mondo dello spettacolo, con l’acuto più lungo della storia del canto:
trenta secondi tutti a squarciagola.
Gente d’Onore, del 1967, sancì il debutto come produttore del grande attore Folco Lulli, che
tanta popolarità aveva conquistato con l’interpretazione di Vite vendute, capolavoro di
Georges Clouzot. La nostra storia si svolgeva in Sicilia, ma girare sul posto sarebbe venuto
a costare troppo. Folco mi affidò la scenografia del film, raccomandandomi però di trovare
il modo di contenere al massimo le spese. Con molte perplessità cominciai la ricerca dei
luoghi più vicini e più adatti alle ambientazioni scenografiche della trama, impiegando più
di un mese per questa prima fase. Disegnai poi le scene degli interni che girammo in due
giorni in uno studio di Cinecittà, trasformando radicalmente le costruzioni precedentemente
utilizzate per un altro film. In Sicilia siamo andati solamente per alcuni camera-car e qualche
panoramica di raccordo, perché il grosso dalla fine riprese lo effettuammo a Guadagnolo,
il centro montuoso più alto del Lazio che poteva essere benissimo “barattato” per territorio
siciliano. Folco rimase soddisfattissimo e riuscì a produrre il suo film senza sforare né i
tempi di programmazione, né i costi. La troupe, composta da un gruppo di giovani spiritosi,
lavorò alacremente e diligentemente ed il film ebbe anche un buon successo di cassetta.
Fummo tutti pagati con assegni a vista il che non succedeva spesso. È stato per me un
periodo molto gratificante, anche se tre o quattro giorni prima della fine delle riprese, per
dare un piccolo aiuto agli attrezzisti, presi sbadatamente in mano un ferro rovente che mi
costrinse a girare per più di due mesi con la mano destra impacchettata.
Il periodo cinematografico da me attraversato stava purtroppo degenerando per la difficile
situazione economica sopravvenuta dopo l’esplosione dei colossal a Cinecittà, occupata
dagli americani e addirittura soprannominata “la Hollywood sul Tevere”. Il successo delle
produzioni americane aveva introdotto nel nostro cinema, fino allora piuttosto provinciale,
una ventata di modernità, di divismo, di feste, di mondanità sfociata nei night club, con i
paparazzi che diventavano sempre più numerosi, determinanti e invadenti. Che dire poi
del cosiddetto “generone romano” costituito dalle masse di comparse, di generici, di artisti
in cerca di notorietà, di avventurosi produttori? Perfino i “mattonellari” del cosiddetto
quadrilatero della imprenditoria emiliana erano scesi a Roma per diventare improvvisati e
audaci produttori cinematografici.
Di pari passo in questo periodo le proteste popolari si erano fatte sempre più pressanti,
non escluse quelle del movimento femminista per l’uguaglianza dei diritti. A mio avviso,
Paese di produzione
Italia
Anno 1967
Durata 90 minuti
Colore Colore
Audio Sonoro
Genere Drammatico
Regia Folco Lulli
Soggetto
Folco Lulli
Sceneggiatura
Folco Lulli
Tito Carpi
Scenografia
Luciano Gregoretti
Il riposo del boss
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Genere Western
Anno 1968
Regia Osvaldo Civirani
Soggetto
Tito Carpi
Osvaldo Civirani
Luciano Gregoretti
Sceneggiatura
Tito Carpi
Osvaldo Civirani
Luciano Gregoretti
Fotografia
Osvaldo Civirani
Musiche
Angelo Lavagnino
Produzione
Osvaldo Civirani
per DENWER FILM
Distribuzione
Denwer
CRONOSCOPE
EASTMANCOLOR
però, trovavo che anche il loro movimento stava tradendo i valori morali di una “nuova
civiltà”, che avrebbe dovuto essere ben diversa da quella praticata dall’uomo con
prepotenza, arroganza, violenza, dispotismo e corruzione. Sull’onda di queste mie
convinzioni scrissi un soggetto cinematografico caratterizzato anche da un velato umorismo
nero e lo intitolai: “Condoglianze alla vedova”. La trama raccontava di un’avvenente donna
che dopo aver scelto l’uomo adatto a realizzare un suo preciso progetto, lo sposava, si
appropriava del suo carattere poi, in maniera fantasiosa e fantastica, lo eliminava. E così
fece per cinque volte, traendo da ognuno di loro quanto le serviva per arrivare a quella che
lei definiva “uguaglianza dei diritti con l’uomo”: prepotenza, arroganza, violenza, dispotismo
e ricchezza. La prima stesura della sceneggiatura la scrissi con Barbara Alberti e Amedeo
Pagani. Barbara suggerì di cambiare il titolo con un altro che trovai ancora più significativo:
“Il salto nell’uomo”. Avevo già avuto la disponibilità di Claudine Auger come protagonista,
di Marco Ferreri che aveva trovato divertente interpretare uno dei cinque personaggi del
film, un dispotico notaio, e di Raimondo Vianello per interpretare un ricchissimo conte, ma
la sorte non mi venne a favore. La Sancro Film, che avrebbe dovuto produrre il film, fu
costretta inaspettatamente a chiudere i battenti per salvarsi dalla crisi economica e sociale
di quel periodo. Il produttore Bianco Manini, che resisteva anche grazie al successo avuto
da Quien sabe? di Damiano Damiani, si disse disponibile a produrre il film, ma pose come
condizione alcuni “aggiustamenti pseudo-erotici” che avrebbero stravolto il significato della
vicenda. Malgrado mi dicesse di dargli ascolto, perché lui il cinema italiano l’aveva nel
taschino del gilet, io non accettai. Così “Il salto nell’uomo” giace ancora nel cassetto e lui
ha fatto ritorno in Emilia a produrre tortellini.
T’ammazzo!... Raccomandati a Dio, del 1968, come molti western di allora, ebbe un buon
successo di pubblico.
Tra il 1967 e il 1969 Tito ed io, pur di sopravvivere, continuammo il filone western e
scrivemmo soggetti e sceneggiature per la mia regia di altri due film: “Perdonare è bene,
sparare è meglio” e “Due colt per sopravvivere”. Era un periodo in cui questi film si giravano
in pochissimo tempo perché erano tanti e bravissimi i gruppi di cavallari e di stuntman
specializzati per risse, tafferugli e putiferi vari. Dovevano essere prodotti dalla West
Cinematografica che ci aveva pagato per la stesura dei soggetti e delle sceneggiature con
un bel mazzo di cambiali. Poco tempo dopo le cambiali non furono pagate, la West
Cinematografica sparì e noi non riuscimmo a saperne più nulla, come se non fosse mai
esistita.
Nel 1980 Sergio Minuti ed io realizzammo, per la URBS Film, Il Trenino nel Pianeta Favola.
Sergio è un ottimo disegnatore di cartoni animati, già collega dell’Accademia di Belle Arti
di Macerata. Il suo sembrava più un divertente gioco che un lavoro. Davanti a due specchi
aperti a libro, assumeva con la sua faccia tutte, ed erano tante, le espressioni che gli
servivano per trasportarle poi in maniera buffa nei suoi disegni: oggetti, macchine o
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simpatici animali. Nelle musiche scritte da Gino Peguri, c’era anche una canzone, ma
mancavano ancora le parole. Chi poteva scriverle? Mi offrii io senza sapere che in quel
tempo bisognava ancora sostenere un esame per l’accertamento della qualifica di paroliere,
una procedura che per oltre cinquant’anni ha “preoccupato” gli autori musicali. La fase di
preparazione all’esame e la prova davanti alla Commissione composta da insigni autori e
compositori si svolgeva a Roma presso la Direzione Generale della SIAE ed aveva tutte le
caratteristiche di un esame di stato. Io lo superai, fui promosso paroliere e la canzone venne
intitolata Sono un ragazzino e non lo posso far.
Questo film di animazione è stato un unicum ed una eccezione perché già nel 1970,
amareggiato da troppe sfavorevoli vicende, avevo cominciato a pensare di porre fine alla
mia esperienza cinematografica. Lasciai questo ambiente perché non volli attendere tempi
migliori accettando di fare film generici o addirittura sotto-generici. Avevo passato la
quarantina, avevo cominciato a lavorare tardi e avevo fretta di arrivare, non so dove, ma
di arrivare. Mi rivolsi allora alla Rai…
Genere Animazione
Anno 1980
Regia
Luciano Gregoretti
Sceneggiatura
Luciano Gregoretti
Sergio Minuti
Animazioni
Sergio Minuti
Fotografia
Giulio Marcolini,
Sergio Faiella,
Sergio Maccioni
Anna Sancini
Montaggio
Sergio Minuti
Musiche
Gino Peguri
Produzione
URBS FILM PRODUZIONI
Distribuzione
Indipendenti Regionali
1981
Luciano controlla l’inquadratura
Durata
89 minuti
Colore
40
Greg e l’allusione filmica
Antonio Bruni
Poeta già Head of Rai International Events
Sente la necessità di esprimersi in diverse maniere. Non si è mai accontentato di una
specializzazione comunicativa Luciano Gregoretti, nato e cresciuto in quella terra dalle
multiformi arti che sono le Marche, terra sanguigna e mite ma densa di ispirazioni.
Studiando architettura, Greg ha incontrato e percorso le diverse strade dell’espressione,
dalle corse in automobile, manifestazioni di stampo futurista, alle pitture di città storiche
adagiate su tavole, fino alle sculture riutilizzando oggetti di uso comune, tecniche che ha
poi fuso nell’arte della regia.
La musa che lo ha attirato maggiormente e a cui si è dedicato con le maggiori energie, è
stata indubbiamente la ripresa cinematografica per il grande, ma soprattutto per il piccolo
schermo, la televisione. Raccontare la natura, la sua resistenza all’invadenza e agli
avvelenamenti umani, è il suo interesse principale.
Sempre da libero professionista ha realizzato decine di documentari e programmi per la
Rai come “Gente di mare”, “I Parchi naturali del Veneto”, “I giorni della nostra storia”, fino
a “Civiltà”, “Claxon”, “Made in Italy”, per citarne qualcuno, girando in tutta Italia, dall’Europa
al Medio Oriente e all’America, sempre alla ricerca del difficile equilibrio tra rispetto
ecologico e sviluppo produttivo. Ha una particolare capacità di fantasia nel collegare, con
effetti e trucchi visivi, immagini di situazioni diverse, colte al volo, sortendo allusioni e
sfumature inaspettate.
Il suo montaggio cinematografico è leggero e veloce, talvolta arguto, come se seguisse uno
spartito di Gioachino Rossini di cui, da buon marchigiano, è un appassionato ascoltatore.
Greg non ha voluto mai essere un realizzatore televisivo tecnico, non gli è mai piaciuta
l’immobilità di uno studio televisivo, anche se in pratica ne conosce bene le tecniche.
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Preferisce essere un regista che spazia usando maschere differenti, fornendo spunti per
interpretazioni diverse, magari contraddittorie pur di solleticare la curiosità dello spettatore.
In questa sua libertà d’interpretazione ha incontrato difficoltà e incomprensioni
professionali, ma la sua passione di affrontare diversi generi ha avuto sempre il sopravvento,
misurandosi con inchieste ecologiche e storico-politiche, con la danza classica e moderna,
con i brani sceneggiati, le sequenze comiche, fino a realizzare importanti spot pubblicitari.
Le ragioni del mercato televisivo gli hanno concesso scarse volte di esprimersi in maniera
così complessa. Si potrebbe, anche con pochi assaggi di quello che Greg ha fatto in tanti
anni di lavoro, realizzare una gustosa antologia filmica sulla sua tecnica allusiva. È una
proposta, oltre che un mio desiderio.
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Mike Bongiorno e Sabina
Ciuffini al Teatro dell’Arte
di Milano a fine intervista
rilasciata a Luciano
Luciano in Rai
con telecamera da studio
Luciano
in uno studio Rai TV
Viva la Televisione
Negli anni Settanta i programmi televisivi erano divisi tra spettacolo e cultura e facevano
capo a due direzioni distinte. A Viale Mazzini, parlai con un vice Direttore dei Culturali e
gli chiesi di poter lavorare come regista, lasciai il mio curriculum e me ne andai con
l’impressione di non essere stato preso in considerazione. Dopo pochi giorni invece ricevetti
una telefonata dal compianto giornalista Caposervizio della Rai Mino Damato. Iniziò così
la mia collaborazione da libero professionista con la TV di Stato.
Il mio primo programma “Usi e costumi della Sicilia”, una serie di servizi da 30 minuti l’uno,
era rivolto ai problemi delle ragazze siciliane che fin da bambine venivano promesse-spose
per aumentare le loro ricchezze e quindi il potere economico delle due famiglie. Non trovai
l’argomento di facile soluzione e per non cadere nella spirale di una rigorosa inchiesta,
scrissi una breve sceneggiatura per ognuno dei cinque cortometraggi che avevano come
protagoniste cinque ragazze contrarie al matrimonio prefissato dai loro genitori. Mino
Damato la considerò addirittura un’impresa. Mentre stavo al montaggio il Direttore della
Programmazione mi mise al corrente della sua preoccupazione per la quantità di pellicola
che avevo girato. Troppo poca - mi disse - per non avere problemi di montaggio. Come si
dice in gergo avevo girato in rapporto di uno a tre, avevo cioè girato tre metri di pellicola
per montarne uno, mentre di solito gli altri giravano col rapporto minimo di uno a otto.
Tranquillizzai subito il Direttore e gli dissi che sprecare pellicola mi avrebbe provocato solo
malessere, anche se la pellicola non era mia e lui mi ringraziò.
Da quel momento la mia collaborazione con la Rai diventò consuetudine e i miei problemi
economici cominciarono finalmente a diminuire sempre più.
Sarebbe troppo lungo elencare tutti i programmi che ho realizzato, mi limiterò quindi ad
accennare a quelli che reputo più importanti.
Era il 1972, un anno particolarmente intenso e a mio modo di pensare anche fortunato.
Mino Damato mi propose un programma sui figli unici per rilevarne pregi e difetti. Sui figli
unici era stato scritto e detto ‘di tutto e di più’: viziati, narcisisti, egoisti, oppure insicuri,
timidi e chiusi. L’argomento mi interessava personalmente in quanto anch’io figlio unico,
anche se di secondo letto. Prima di scrivere i testi, consultai due eminenti sociologi, uno
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dei quali era il prof. Domenico De Masi. Il punto chiave era l’amore troppo spesso esclusivo
dei genitori, soprattutto delle madri, esposte maggiormente al rischio di delusioni. Pensai
di approfondire queste tesi con una serie di inchieste ironiche e divertenti. Cercai i
personaggi adatti, coinvolsi per primo il cantante Riccardo del Turco che ancora giovane
aveva ottenuto nel 1966 il suo primo grande successo con Son figlio unico, la canzone
divenuta poi doverosamente la colonna sonora dei titoli di testa e di coda dei dieci servizi
che realizzai in giro per l’Italia. Al Teatro dell’Arte di Milano intervistai Mike Buongiorno,
anche lui figlio unico. Senza tante storie né esitazioni, mentre stava registrando una puntata
del suo programma televisivo “Rischiatutto” mi concesse il tempo necessario per girare il
mio servizio su di lui e su Sabina Ciuffini la “valletta parlante” da lui stesso scoperta. Mike
come al solito si rivelò puntualmente bravo, serio e divertente. Non mi sarei mai aspettato
poi che mi salutasse simpaticamente alla fine dell’intervista con la sua storica frase: «Fiato
alle trombe Gregoretti (al posto di Turchetti) e… allegria!». A Milano girai uno dei servizi
anche a casa di Pierfrancesco Partiseti, figlio unico di Biancarosa Paoli, per me la più bella
donna di Macerata al tempo della mia Maturità Scientifica.
Partendo da Genova girai “Gente di mare”, un programma sulla vita dei marinai, da quelli
dei rimorchiatori a quelli delle barche da pesca, delle petroliere, delle navi di linea, per
finire con i piloti del campionato del mondo Offshore ovvero di altura. Fu molto apprezzato
e suggestivo l’inusuale accostamento che feci tra cultura e spettacolo con una divertente
“Ballata dei rimorchiatori” a tempo di valzer. Durante le riprese al largo del porto di Livorno,
dovetti pericolosamente arrampicarmi su una traballante scaletta di corda lungo
l’interminabile fiancata di una petroliera scarica. Dopo due giorni di navigazione mi resi
conto della triste e monotona vita che i pochi membri dell’equipaggio dovevano sostenere
durante i lunghissimi spostamenti della petroliera e dovetti anche constatare il loro continuo
ricorso all’alcool. Faticosa ma sostenibile invece la vita degli equipaggi dei grandi
pescherecci, anche perché ogni due o tre giorni facevano scalo nei vari porti per scaricare
il pescato. Trovai molto divertente alla fine girare le gare di velocità dei bolidi dell’Offshore
che raggiungevano in mare aperto la pericolosissima velocità di 250 km/h pari a 160 miglia
orarie. Nel provare uno di questi bolidi, quello del due volte campione del mondo Carlo
Bonomi, figlio di Anna Biolchini Bonomi, “Signora della Finanza”, rimasi stupefatto
soprattutto per la spinta di partenza che riusciva ad alzare di 50 gradi la prua di quei potenti
“Cigarette”, costruiti in un noto cantiere di Sestri Levante.
L’anno successivo Carlo Bonomi mi commissionò la pubblicità della Postal Market e io
realizzai lo spot televisivo: “I prezzi chiodati”. Altro spot pubblicitario lo realizzai per
Marzotto con “Veste sicuro chi veste Marzotto”, con le immagini di Giannino Marzotto che
aveva vinto due edizioni della Mille Miglia, una delle quali in abito doppio petto.
Un lavoro lungo e impegnativo fu per me il programma “I giorni della nostra storia” per la
TV dei ragazzi. Raccontai dettagliatamente l’ascesa del Fascismo dal 1922 al 1940. Anche
Luciano
in uno studio Rai TV
Prima pagina del Corriere
con articolo di Arrigo
Benedetti sul documentario
sul Portogallo
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se avevo vissuto parte di quelle vicende, potei scoprire a fondo gli aspetti più
incomprensibili di quel periodo.
Sempre per il Settore Storia realizzai il programma “Appena ieri” con la collaborazione del
giornalista Stefano Munafò per le cinque, o forse più puntate su alcuni avvenimenti storici
italiani dal 1948 al 1960.
Nei primi anni Settanta fece molto rumore l’uscita nella TV inglese BBC del programma
“Civilisation” di Kenneth Clark, uno storico dell’arte che aveva lavorato per due anni a
Firenze con il suo famoso maestro Bernard Berenson, che considerava l’Italia e in particolare
Firenze come “culla” dell’arte. In quel programma televisivo era del tutto evidente il
personale punto di vista di Clark sull’evoluzione della civiltà occidentale dopo la caduta
dell’Impero Romano. Qualcuno lo accusò di eurocentrismo e conservatorismo per la
supremazia manifestata a favore della civiltà occidentale su quella orientale. In quel periodo
avevo avuto l’opportunità di conoscere una persona straordinaria come Renzo Nissim.
Laureato in legge, Renzo è stato anche un noto pianista di musica jazz, tra i primi a
diffondere questa musica in Italia, un pittore e un autore teatrale, radiofonico e televisivo
di spicco. Presentammo insieme alla Rai una proposta di valutazione del libro di Kenneth
Clark Civiltà, appena uscito in Italia. Ottenuta l’approvazione scrivemmo i testi ed io realizzai
cinque puntate sulla falsariga raccontata dallo storico inglese.
Per il programma “Claxon” girai otto divertenti cortometraggi a soggetto sull’uso sbagliato
e pericoloso dell’automobile, con altrettanti diversi attori, fra cui Simona Marchini, Daniele
Formica, Cesare Polacco, ecc...
“Portogallo, una storia
europea alla Biennale
di Venezia”
Un vero scoop fu poi il programma “Portogallo, una storia europea” del 1974, realizzato
insieme al valente e coraggioso giornalista Valerio Ochetto, già arrestato a Praga nel 1972
per la sua attività in difesa di diritti umani, della libertà e dell’indipendenza dei popoli. La
prima delle tre puntate andò in onda il 25 aprile dopo il Telegiornale della sera, in
contemporanea con la Rivoluzione dei Garofani, cosiddetta perché quel giorno i cittadini
di Lisbona cominciarono a regalare garofani rossi che furono introdotti dai militari in rivolta
nelle canne dei loro fucili.
Lavorando contemporaneamente in tre moviole riuscii a consegnare la puntata pochi minuti
prima della messa in onda. Valerio ed io avemmo anche la soddisfazione di veder pubblicato
in prima pagina del “Corriere della Sera” un pregevole articolo di Arrigo Benedetti. Il
programma fu poi presentato dalla Rai alla Biennale di Venezia.
Nel 1972/73 realizzai per la Rai due inchieste televisive legate alle Marche, mia terra
d’origine: “Quercia Amica” e “Giù le mani dagli alberi”. Questi servizi precedettero
l’approvazione della Legge Regionale, prima legge in Italia per la salvaguardia degli alberi
ad alto fusto non fruttiferi.
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Locandina per “La laguna
di Venezia” in anteprima
al Casino del Lido
Copertina del VHS del film
“Tesi di laurea”
Copertina del VHS del film
“Riflessi d’autunno”
Luciano alla Ferrari
con il pilota René Arnoux
per Made in Italy
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Copertina del VHS del film
“Il verde muove”
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Il mio film a soggetto Il verde muove, girato nel 1976 per l’Assessorato Regionale
all’Urbanistica e all’Ambiente, vinse a Roma il 1° premio assoluto alla XII Mostra
Internazionale del film didattico e VI Rassegna sull’attività delle Regioni.
Sempre per la Rai ho poi realizzato nel Lazio, Toscana, Marche e Veneto, numerose
trasmissioni sul rapporto tra natura e ambiente: I Colli Albani, Il Lago di Vico, Le piante
officinali, La Maremma Toscana, Le Marche: un modello di sviluppo, I custodi dell’ambiente, I
Monti Sibillini, Il Delta del Po, La Laguna di Venezia, I Colli Euganei, La Lessinia, Il Bosco del
Cansiglio, Le Alpi di Senes e Fanes.
Su Rai1 e su Rai2 sono andati in onda:Vivere la città, Mercati del 2000, Doppio Anniversario,
Tre città a confronto: Palermo, Roma, Trieste.
Per Risparmio energetico feci costruire Zipp, un piccolo robot che parlava dei problemi della
città di Brescia con il Direttore Generale delle Municipalizzate della città e con la gente
incontrata per strada.
Nel 1987 e nel 1989, insieme a mia moglie Maria Teresa, ho realizzato e prodotto le
edizioni di “Linea verde estate”.
È del 1993 il film a soggetto dal titolo Tesi di laurea, commissionato dall’A.P.T. di Fermo
per la promozione e la valorizzazione storico-artistico-culturale del territorio fermano,
scritto e diretto sempre insieme a Maria Teresa, così come Riflessi d’Autunno, un audiovisivo
di 30 minuti e dieci cortometraggi da 10 minuti l’uno, per la campagna promozionale
vitivinicola del 1994, indetta dall’Assessorato Regionale Agricoltura delle Marche.
Copertina del VHS del film
“Il Luogo dell’Abitare”
Luciano regista durante
le riprese
Dal 1997 al 2001 sono stato coautore e consulente di “Made in Italy”, il programma sui
Beni Culturali e Ambientali in onda su Rai1 da novembre a giugno, di “Notti Romane”
(speciali-estate 1997) e “Notti Mediterranee” (speciali-estate 1998).
Dopo 25 anni dal film Il verde muove, mia moglie ed io abbiamo scritto e diretto nel 2001
Il Luogo dell’Abitare, anche questo un film a soggetto di 50 minuti commissionato
dall’Assessorato Regionale all’Urbanistica, in occasione della Prima Relazione sullo stato
dell’Ambiente delle Marche.
Pagina del Corriere
Adriatico del 6 luglio 1984
dedicata a Luciano
Sono stato inoltre consulente di “Geo e Geo”, per Rai3 e di “Italia che vai” per Rai1.
Questo lavoro mi ha consentito di fare innumerevoli incontri ed altrettanto innumerevoli
esperienze, offrendomi continui e nuovi impulsi. Sono sempre stato dell’idea, infatti, che
si debbano cercare buoni motivi per vivere, altrimenti si tira solo a campare.
La campionessa europea
Laura Zacchilli durante
le riprese a Montecassiano
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Il magistero di Luciano Gregoretti all’Accademia di Belle Arti di Macerata
Paola Ballesi
Storica e critica d’arte, già docente e Direttrice dell’AA.BB.AA. di Macerata
È stato uno dei maestri dell’Accademia di Belle Arti di Macerata nel periodo pionieristico
della sua fondazione e del suo radicamento nel territorio, in qualità di docente del corso
di Regia, un ruolo che ha svolto con autentica passione per più di un ventennio. Era titolare
di un insegnamento che, solo a partire dalla prima metà degli anni Settanta, insieme ad
altri fu inserito tra le discipline delle Accademie accanto a quelle tradizionali di pittura,
scultura, decorazione e scenografia, con lo scopo di rispondere alle nuove esigenze culturali
e formative.
E Luciano assolse quell’impegno non solo con grande dedizione, ma anche con tutta una
serie di iniziative progettuali anticipando e interpretando al meglio la cosiddetta cultura
del progetto che di lì a breve avrebbe ridefinito la mission di queste istituzioni, di pari
passo con i nuovi ordinamenti più rispondenti alle esigenze emergenti dal mercato del
lavoro e dell’innovazione.
Di fatto, le esperienze maturate nel campo della regia cinematografica e teatrale accanto a
nomi di spicco e la passione per l’insegnamento fecero subito del professor Gregoretti un
punto di riferimento per gli studenti che ne apprezzavano oltre che la sicura professionalità
anche le notevoli doti umane arricchite da naturale garbo e gentilezza, un modo di porgere
tanto spontaneo che elargiva, accompagnato da un ampio sorriso, anche ai colleghi più
coriacei.
In realtà le lezioni di regia erano estremamente coinvolgenti e interessanti. Sia perché erano
radicate alla realtà del territorio e dunque affrontavano problematiche legate alla sua
identità e valorizzazione, come nel caso della Stagione lirica dello Sferisterio con Il Barbiere
di Siviglia del 1980. Sia perché spesso si trasformavano in veri e propri happening in cui
ciascuno studente trovava la propria giusta dimensione di crescita nel mestiere e di
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maturazione etica innescata dalle dinamiche interpersonali dei gruppi di lavoro
sapientemente governati dal maestro con l’ausilio del suo immancabile collaboratore,
Giancarlo Verdini, docente di Mass media.
Proprio queste furono le motivazioni che accompagnarono il riconoscimento che nel 1994,
in veste di direttore dell’Accademia maceratese, ebbi modo di attribuirgli in occasione della
sua messa in quiescenza omaggiandolo con una medaglia di bronzo, forgiata dal nostro
collega scultore Claudio Candelaresi, sul cui fronte è rappresentato un volo di uccelli che
viaggiano in formazione verso nuovi orizzonti che solo l’arte può schiudere e che Luciano
con il suo entusiasmo visionario ci ha insegnato a scoprire.
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Lunga vita all’Accademia!
Luciano con allievi nel cortile
dell’Accademia, il bambino
è figlio dell’allieva
che lo portava con sé quando
non aveva alternative
L’Accademia di Belle Arti è stata fondata a Macerata nel 1972 per affiancare l’arte alla
plurisecolare università di tradizione, un sogno perseguito già da molto tempo e portato
avanti con tenacia dal professor Giorgio Cegna, raffinato disegnatore, validamente
coadiuvato dall’on. Adriano Ciaffi, già Deputato al Parlamento. Conoscevo Giorgio fin
da quando ancora giovanissimi ci incontravamo ai premi di pittura ex-tempore
organizzati in varie città delle Marche. Non lo vedevo da qualche anno e non avrei mai
immaginato che mi telefonasse per affidarmi il Corso Speciale di “Teoria e metodo dei
mass-media”.
L’invito mi lasciò piuttosto perplesso, convinto com’ero che un conto fosse dirigere una
troupe, un conto insegnare. Ma Giorgio insistette dicendomi che il Settore della
Comunicazione aveva urgente bisogno di una struttura specifica ed io, secondo il suo
parere potevo farlo. «Almeno per un paio d’anni - replicò - l’Accademia non può stare
senza questa cattedra!» Tanto fece che alla fine riuscì a liberarmi da tutte le mie
perplessità e accettai anche se l’andirivieni settimanale da Roma a Macerata e ritorno da
ottobre a luglio, sarebbe stato per me molto faticoso.
Mi misi subito al lavoro, scrissi le dispense da dare agli studenti e chiesi che la cattedra
venisse chiamata “Corso Speciale di Regia”, più appropriato e specifico. La mia richiesta
in seguito fu approvata anche dal Ministero della Pubblica Istruzione che la istituì
addirittura “ad hominem”.
L’Accademia aveva la sua sede nel nobiliare Palazzo Buonaccorsi, splendida espressione
dell’architettura tardobarocca. Un luogo affascinante con uno scenografico cortile e un
ampio scalone che introduceva a straordinari interni. La mia aula aveva il soffitto a
cassettoni in legno e le pareti foderate da pregiata seta damascata in rosso.
Nel primo incontro con gli allievi, misi subito in chiaro che non dovevamo perdere
tempo, che loro sedendo davanti a me dovevano essere consapevoli del posto che
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occupavo e quindi nessuna eccessiva confidenza ma sempre molta cordialità di rapporti,
e infine che mi prendevo l’impegno di creare le migliori possibilità per il loro futuro
lavoro.
Mi preoccupava comunque sentirli parlare un pessimo italiano, impastato di dialetto e
sottolineato dalle cantilene dei loro luoghi di provenienza. Quando stupiti e increduli
sentirono al registratore il proprio modo di esprimersi, furono tutti d’accordo sulla
necessità di dedicare “alla dizione” almeno un’ora a settimana.
Il mio pragmatismo mi spinse poi a cimentarmi in una difficile ma non impossibile
innovazione: mettere gli studenti a contatto diretto con i mezzi tecnici per realizzare dei
filmati. Pensai allora di rivolgermi all’on. Umberto Delle Fave che era stato nominato
Direttore Generale della Rai e che aveva il suo collegio elettorale nelle Marche.
A Roma, davanti al palazzo di viale Mazzini trovai una gran folla di manifestanti che
avevano innalzato un grande e divertente striscione: “Se non ci volete dare del pane,
dateci almeno Delle Fave!!!”.
Luciano e il compianto
collega Giancarlo Verdini
(primo a ds.)
e gruppo di allievi
Prime lezioni sulla ripresa
cinematografica
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Due allieve
si preparano a girare
Il Sig. Società ruba Erostrato
(Bambolo) alla Comunità
per educarlo a suo modo
Luciano e Verdini durante
le riprese de “Il cerchio”
con allieve interpreti
Poster dell’Anno Accademico
1976 /1977
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Per fortuna quella frase aveva messo di buon umore anche l’onorevole, che, come speravo,
assicurò il suo interesse per soddisfare la mia convincente e inedita proposta. Per avere
quanto richiesto dovetti andare a sollecitarlo altre due o tre volte. Poi finalmente dalla Sede
Regionale Rai di Bari arrivò una cinepresa Arriflex 16 mm. corredata di obiettivo zoom, di
cavalletto, di chassis per pellicola lungometraggio, nonché alcune scatole di pellicola vergine
in B/N e grande fu l’animazione e la curiosità di tutta l’Accademia.
Mi era stato promesso anche un registratore Nagra 3 portatile, ma visto che tardava ad
arrivare, il Direttore Amministrativo, dott. Piergiorgio Poloni, che si era perfettamente reso
conto dell’importanza del mio progetto, trovò il modo per farlo acquistare direttamente
dall’Amministrazione dell’Accademia.
Geloso custode di tutta l’attrezzatura e delle bobine girate è sempre stato il compianto
collega Giancarlo Verdini che da esperto tecnico insegnava ai giovani l’utilizzo manuale
della cinepresa e del registratore che avevamo a disposizione.
Verso la primavera di ogni anno gli allievi erano in grado di inventare, non senza vivaci ma
necessarie discussioni tra di loro, un soggetto e scrivere poi un abbozzo di sceneggiatura
sufficiente per girare un filmato.
Lo chiameremo Erostrato fu il primo e legittimo esempio di film a soggetto girato in Italia da
un gruppo di studenti. Ispirato all’Esistenzialismo il racconto analizzava brevemente il valore
specifico dell’individuo moderno connotato da insensatezza, precarietà e assurdità.
Nel 1972 l’Accademia era prevalentemente al maschile, ma dopo qualche anno la prevalenza
diventò femminile, tanto che nel 1976 fu un gruppo di allieve a girare nell’ampio e
spettacolare cortile dell’Accademia: Il cerchio, una rappresentazione teatrale da loro scritta
sulla condizione della donna dopo il ’68.
Nel corso degli anni arrivammo a girare e montare una serie di cortometraggi da circa
dodici minuti l’uno su “L’artigianato che scompare”: Il cordaio, Il bottaio, Rame che vive (i
calderai), Fratelli Fabbri ferrai, Penelope oggi, Il carbonaio… Nei filmati raccontavamo il lavoro
degli artigiani con interviste fatte dagli allievi. Per conto dell’Accademia portai questi
cortometraggi alla Sede Rai di Ancona. Dopo averli visionati, il Direttore li trovò tanto
interessanti da volerli acquistare. Otto milioni di lire, questa era la valutazione.
L’Amministrazione dell’Accademia non poté però effettuare la vendita perché la legge vietava
il commercio alle Istituzioni.
Nell’Anno Accademico 1988/89, sull’onda delle Celebrazioni programmate dal Centro
Nazionale Studi Leopardiani di Recanati, gli allievi lanciarono l’idea di realizzare un “docufilm” sulla vita di Giacomo Leopardi e sulle sue opere. Anche se molto ambiziosa per una
scuola, portai avanti l’iniziativa. Stilammo un soggetto e una pre-sceneggiatura dal titolo:
“Giacomo Leopardi, il canto della libertà, lo spettacolo dell’eterno”. Lavorammo sodo per
Il cordaio della serie
“Artigianato che scompare”
Il bottaio della serie
“Artigianato che scompare”
Penelope oggi della serie
“Artigianato che scompare”
(La tessitrice)
I calderai - Rame che vive
“Artigianato che scompare”
Fratelli Fabbri ferrai
“Artigianato che scompare”
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realizzare il film entro giugno e alla fine fummo gratificati sia dal Centro Studi che aveva
trovato il nostro lavoro più che meritevole e a costi così contenuti da assicurarci il suo
finanziamento, sia dal Ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Galloni, che dopo essersi
complimentato con noi ci prospettò la sua iniziativa di utilizzare il film come materiale
didattico per le Scuole Medie Italiane. Per i due giorni di riprese a Palazzo Leopardi
avevamo avuto il permesso della contessa e di suo figlio Vanni, molto soddisfatti anche
perché Giacomo non veniva mai rappresentato da un attore ma solo da una voce fuori
campo e i personaggi della famiglia Leopardi, che indossavano splendidi costumi disegnati
e cuciti da alcune allieve, non avrebbero mai mostrato i loro visi. Incredibilmente il ciak a
Palazzo Leopardi ci fu poi negato senza motivo e senza mai aver saputo perché. E pensare
che per dare lustro al film avevamo coinvolto anche Valeria Moriconi, che avrebbe
interpretato Adelaide Antici, madre di Giacomo vista sempre di scorcio.
Troupe di allievi
che girano
Luciano dà indicazioni
per riprese
Luciano con una allieva
durante le riprese
Merita infine un particolare ricordo la partecipazione del Corso Speciale di Regia al
Concorso Nazionale Cinematografico “Vivere il mare”, indetto dal Ministero della Pubblica
Istruzione nell’anno 1993. Questa nostra “impresa” fu resa possibile anche dal generoso
intervento delle Istituzioni che oltre a metterci a disposizione un pullman per il trasporto
degli studenti e dei mezzi tecnici, pagarono anche le spese che incontrammo nel giorno
dello spostamento, compresi i pasti. Il Club Nautico di Porto San Giorgio ci fornì le due
grandi imbarcazioni a vela che ci servirono per girare sul mare. Avevamo scelto Porto San
Giorgio perché aveva avuto il riconoscimento internazionale della Bandiera Blu.
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Il nostro cortometraggio raccontava a grandi tratti la storia della nautica da diporto a vela
con il titolo di Via col vento. Al montaggio il testo fu letto e registrato dalle voci di due
studenti, un ragazzo e una ragazza, idonei ad improvvisarsi speaker. Una curiosità: nella
sceneggiatura avevamo inserito anche l’incredibile frase diffusa dalla Società J.P. Morgan
di New York: “Se chiedi quanto costa una barca è segno che non te la puoi permettere”.
Arrogante ma vero! Il girato lo arricchimmo anche con le immagini di repertorio della
famosa imbarcazione a vela “Il Moro di Venezia” nella grande regata dell’America’s Cup.
Per la colonna sonora utilizzammo come base la canzone “I will always love you” cantata
da Whitney Houston. Tutto ciò ci permise di vincere il Primo Premio del Concorso
Nazionale consistente in un soggiorno gratuito di due settimane per gli allievi e per me in
un villaggio turistico della Calabria nel mese di agosto. Per impegni di lavoro
precedentemente presi con la Rai, purtroppo io fui costretto a rinunciare.
Allievo prepara la cinepresa
per girare “Via col vento”
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Il Corso Speciale di Regia aveva la durata di un anno, ma molto spesso, anche dopo aver
superato l’esame, erano molti gli studenti che frequentavano di nuovo il Corso per affinare
e approfondire la pratica della ripresa cinematografica.
Ho provato grande piacere e soddisfazione tutte le volte che le ragazze o i ragazzi mi hanno
telefonato per dirmi che avevano trovato lavoro nel cinema o in TV come operatori,
cameraman, fonici o addirittura come adattatori di colonne sonore e perfino come
doppiatori, insomma tutto ciò che avevo desiderato per loro fin dall’inizio del mio
insegnamento.
Scultura
Premio Accademia
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Durante questi ventitré anni ho avuto poi la felice gratificazione dei Direttori, da Luigi
Montanarini, Giorgio Cegna, Vincenzo Bianchi, Remo Brindisi, Armando Ginesi,
Robertomaria Siena, per giungere infine ad un Direttore donna, la stupenda Paola Ballesi.
Arrivato al pensionamento Paola mi ha premiato con una preziosa scultura in bronzo del
noto artista e nostro collega Claudio Candelaresi, scultura che mi fu consegnata dal
Presidente dell’Amministrazione Mario Clementoni all’apertura dell’anno accademico
1994/95.
Dopo il disastroso terremoto del 1997, la sede dell’Accademia venne spostata in un altro
prestigioso palazzo, nell’ex Convento delle Monache Cappuccine, dove poco tempo fa ho
telefonato per avere un’informazione. Mi ha risposto Giovanni, un custode di allora ancora
in servizio. Sentirlo ricordare con fervore il periodo della mia docenza come se fosse stato
ieri, ha suscitato in me oltre alla sorpresa, una grande nostalgia. Sono passati più di quaranta
anni ma il ricordo è ancora vivo.
Il 20 marzo 2013 per i festeggiamenti del Quarantennale dell’Accademia organizzato dal
nuovo Direttore Paola Taddei, ho avuto il piacere di rivedere alcuni direttori e colleghi. È
stato un momento colmo di intense emozioni.
Quarantennale dell’Accademia
20 Marzo 2013
Fila di sn. Paola Ballesi
con microfono, Luciano,
a seguire, in piedi
la Direttrice Paola Taddei
con il prof. Stefano Lucinato
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Foto © Vanna Naretto
Il percorso di Luciano Gregoretti nelle arti figurative
Stefania Severi
Storico e critico d’arte
Le arti figurative hanno accompagnato tutto il percorso di Luciano Gregoretti.
La pratica del disegno e della pittura ha scandito la sua gioventù come momento di ludica
riflessione sugli amici o di poetica empatia con gli animali e le piante. Empatia che negli
anni lo spingerà a realizzare numerosi documentari sull’ambiente.
Caratteristica costante della sua prassi artistica è l’essere andata avanti quasi ad ondate, sulla
suggestione di un evento o sullo stimolo di un accadimento.
Nel 1954 dava inizio ad una produzione di opere di cui rimane traccia nella Ragazza recitante
del 1956, che fa emergere un dato non secondario della sua personalità: l’attenzione per la
società, che sarà elemento indispensabile per i suoi futuri servizi di impegno sociologico,
quali, ad esempio, i documentari dedicati ai figli unici o alle ragazze siciliane. Tale impegno
ha caratterizzato anche opere successive come la scultura Il domatore-Industria contro
artigianato, polimaterica e con ampio uso di ready made, del 1958.
Nel 1957 l’esperimento dell’uso della ceramica, subito abbandonato nonostante gli esiti
positivi perché ritenuto troppo “lento” a livello esecutivo, evidenzia un aspetto non
secondario del suo carattere, l’urgenza del risultato. Tale “fretta”, certamente negativa per
molti processi creativi, diventerà invece merito nella successiva pratica della regia, offrendole
l’indispensabile “ritmo”.
La prima importante prova nel campo delle arti figurative si è manifestata quando è entrato
in contatto con il teatro e con il grande scenografo Giulio Coltellacci. Proprio mentre
collaborava con lui, Gregoretti ha iniziato ad impegnarsi con maggior slancio nella pratica
della pittura, con un occhio vigile da un lato alle correnti del suo tempo dall’altro alla
tradizione. Risale all’epoca, e precisamente al 1961, l’aver risposto ad un annuncio che
cercava giovani artisti ed aver vinto le selezioni che lo avrebbero portato ad un contratto di
produzione di un certo numero di quadri da vendere negli USA. Tale passo evidenzia la sua
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volontà propositiva e il suo considerare l’attività artistica non certo secondaria. L’episodio,
che nella sua autobiografia ha ampio risalto, fa emergere anche la sua natura intransigente.
La sperimentazione dei materiali, dato distintivo di Gregoretti che ne aveva dato le prime
avvisaglie alla fine degli anni ’50, diventerà una costante di molta della sua successiva
produzione. Ne offre ulteriore prova il Cristo del 1963, un’opera intensa e suggestiva, nata
in un cantiere e suggerita forse dagli stessi materiali lì accumulati e destinati ad altro utilizzo.
Ma la produzione più interessante di Gregoretti sono gli “alto-bassi”, opere polimateriche
realizzate dal 1972 al 1976, anno in cui furono esposti alla Chair Gallery di Roma. È evidente
l’affinità con le ricerche di Enrico Castellani e Agostino Bonalumi, sia in relazione alla tecnica
che ai materiali che agli effetti finali di rilievi che si animano e mutano a seconda
dell’incidenza della luce. Ma mentre in Castellani e Bonalumi rimane sempre sottesa la ricerca
astratto-geometrica-optical, nell’opera di Gregoretti emerge una indubbia matrice
espressionista, chiaramente esplicitata dal titolo che egli ha assegnato alle sue opere: La luna,
La donna rana, La moglie del generale, Donna incinta…
Le sculture del 2003/4, polimateriche, sottendono la reinterpretazione, in chiave giocosa,
di miti antichi ma sempre attuali, quello dell’eroe costretto ad andare, Ulisse, e quello
dell’eroina costretta a rimanere ferma, Penelope.
Infine ancora una intelligente vena ludica, come veicolo di stigmatizzazione sociale, emerge
nell’ultima produzione polimaterica, ancora in corso, battezzata “baroccocò”. Anche qui il
divertissement non è fine a se stesso, ma fa emergere il contrasto tra apparenza e sostanza.
Gregoretti, recuperando ed attualizzando le tematiche artistico-letterarie, che sono alla base
dei suoi lavori a partire dal 2000, dimostra altresì una vigile attenzione per le sue radici
culturali, sulle quali da sempre ha fondato la sua poliedrica attività.
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Impara l’Arte
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In parole povere per me vuol dire che
nessuno inventa niente e così anche nell’Arte. Nel bene e nel male l’ambiente che ci circonda
è sempre a disposizione delle nostre possibilità di fare, possibilità saldamente connaturate
alla nostra mente che non ha mai un punto di arrivo. Reputo la pittura prevalente sulle
altre arti per l’immediatezza della sua esecuzione e la istantanea e godibile visibilità.
Nelle Marche la pittura è stata sempre di casa e anch’io da ragazzo avevo cominciato a
dipingere anche se solo per passatempo.
Mela con pera a metà, 1947,
olio su tela ovale, cm 73 x 35
Mi piaceva pure disegnare e per la prima volta partecipai ad una mostra collettiva per
giovanissimi in un salone del palazzo della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) di San
Severino. Avevo disegnato i profili di una serie di corpi in pose plastiche. “Piuttosto
semplicistico - disse qualcuno - questi disegni al massimo possono essere considerati un
suggerimento per l’esecuzione di una statua”. In quel tempo trovavo il “figurativismo” una
primaria ed essenziale necessità per poter ritrarre ciò che si presentava ai miei occhi ed ero
convinto che quel tanto o quel poco che bastava io lo avevo. Cominciai a dedicare il mio
tempo libero alla pittura ad olio, dipinsi alcuni quadri che ho poi regalato con mio grande
compiacimento, qualcun altro l’ho venduto, me ne sono rimasti solo due: La sciabica e Mela
con pera a metà. La mia passione per la pittura non è stata sempre costante. A volte è passato
più di un anno senza che toccassi un pennello.
Il mio primo e impegnativo periodo pittorico avvenne durante un mese di vacanza a
Monteluco di Spoleto. Era l’agosto del 1954, l’Hotel Paradiso aveva un ampio parco dove
potei dipingere all’aperto una quindicina di quadri per una mostra che purtroppo non venne
più realizzata. Non mi fu possibile neanche riavere quei miei dipinti. Avevo chiamato questa
serie “Bambini prodigio” con l’intenzione di disapprovare quei genitori che, pur di
soddisfare la propria vanità, spronavano e a volte costringevano i loro figli ad esibirsi
davanti agli amici, in balli, canti e recitazioni varie, magari sopra una sedia, sperando di
dare loro un primo avvio verso la celebrità. Oggi tutto ciò può risultare anacronistico, ma
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Sfinge del XX secolo, 1957,
terracotta, cm 12 x 18
Il Pentimento, 1957,
terracotta, cm 12 x 9
quello che avveniva oltre sessanta anni fa, mi faceva già intuire una società che puntava
dritta all’edonismo di massa e allo sfrenato consumismo. Della tipologia di quei quadri ho
solo Ragazza recitante, nostalgicamente dipinto a San Severino un paio di anni dopo.
Nei primi anni di università ho disegnato il profilo dei volti di alcuni miei amici e colleghi,
Bernardino, Clotilde, Ferruccio… ed anche il mio che, con un neologismo, ho chiamato
Autoprofilo.
Spinto dalla curiosità di misurare le mie capacità, nel 1957 modellai due piccole sculture
in creta, Sfinge del XX secolo e Il Pentimento ma non trovando immediatezza nell’esecuzione
anche a causa della cottura, la creta non l’ho più usata.
Nel primo dopoguerra erano sempre più numerosi i Comuni delle Marche che
La sciabica, 1947,
olio su tavola, cm 50 x 53
62
Profilo di Bernardino, matita
su carta, cm 25 x 17,5
Profilo di Ferruccio, matita su
carta di quaderno, cm 15,5 x 12
Profilo di Clotilde, matita
su carta, cm 30 x 22
Autoprofilo, matita su carta,
cm 21 x 16,5
organizzavano i premi di pittura ex tempore, dipinti o disegni realizzati sul posto e finalizzati
ad illustrare il territorio. Incontrare a queste manifestazioni giovani venuti da ogni dove
era piacevolissimo. Importante manifestazione era la Marguttiana, una mostra di pittura a
cielo aperto che si svolgeva negli Anni Sessanta a Macerata, lungo lo stretto e caratteristico
Vicolo degli Orti. Partecipai anch’io con due piccoli quadri dipinti molti anni prima: L’ora
del gattino e Fiori nella nicchia.
Nella Marguttiana di Macerata, trasferita in seguito a Via del Corso, erano sempre più
numerosi i giovani pittori. Tra i tanti il mio ricordo va a due validi compianti artisti: il pittor
Wladimiro Tulli e Alfredo Lambertucci, divenuto poi architetto e docente di Interni alla
Facoltà di Architettura di Roma.
L’ora del gattino, 1946, olio
su tela, cm 25 x 20
Fiori nella nicchia, 1946,
olio su tela, cm 25 x 20
Nell’autunno del 1961, mentre stavo costruendo il modellino in scala della scenografia del
Rugantino, lessi per caso l’avviso di una società import-export d’arte contemporanea con sede a
Chicago, denominata Transoceanea, che invitava giovani pittori a presentarsi con due loro dipinti
all’Hotel Flora di Via Veneto dal manager John Krneta. Perché non presentarmi anch’io? Era un
momento favorevole, stavo dipingendo alcuni quadri ad olio ispirati alla tecnica e allo stile di
Giulio Coltellacci, mio grande maestro. Quella mattina ne scelsi due e andai a Via Veneto dove
trovai una lunghissima fila di ragazzi e ragazze. Dopo circa due ore venne finalmente il mio
turno. John Krneta, dopo aver esaminato attentamente i miei quadri, mi propose un contratto
che prevedeva l’acquisto mensile della mia produzione pittorica con un compenso pari alla metà
del ricavato di vendita, 100 $, consistente per me in 50 $ a quadro, equivalenti all’epoca a 30.000
lire. Se avessero in seguito aumentato il prezzo di vendita, avrebbero adeguato di conseguenza
anche il mio compenso. Accettai e seppi poi che di tutta quella moltitudine di giovani che si era
presentata, solo un’altra ragazza aveva avuto il mio stesso contratto.
Nel piccolo appartamento di Roma non avevo però spazio sufficiente e così, ogni volta che
potevo, andavo per qualche giorno a San Severino, con grande felicità di mia madre. Feci fare
un grande piano di legno, lo sistemai in una stanza su due cavalletti e mi misi subito al lavoro
come un forsennato, riuscendo a dipingere agevolmente, e in serie, una decina di tele per volta.
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Ragazza recitante, 1956,
olio su tavola, cm 54 x 60
Aspettavo che i colori a olio si asciugassero poi le spedivo alla Transoceanea avvolte e protette
da un tubo di cartone pesante. Pensavano loro ad incorniciarle. Ne spedii tante, circa dieci o
dodici al mese e di molte ho ancora le diapositive. Di opere simili, realizzate in anni successivi,
mi sono rimaste Il tempo delle mele, Romanità e Civiltà. Dipingevo con slancio anche perché
rassicurato dall’estrema puntualità con cui venivo ogni volta pagato. Ciò mi permetteva di
togliermi di dosso qualche pensiero di troppo e di aiutare anche mia madre. Dopo alcuni mesi,
però, cominciò a insinuarsi nei miei pensieri un dubbio: “Ma se vendono i miei quadri con tanta
facilità perché non alzano il prezzo come previsto dal contratto?” Nell’aprile del 1962, quando
la Transoceanea mi propose di fare una mostra personale con una ventina di miei quadri a Le
petit Montmartre, una delle loro Gallerie di Chicago, accantonai il mio dubbio. Accettai entusiasta
e riuscii ad inviare 18 tele. Ricevetti anche l’opuscolo settimanale Chicago News Week, con
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l’annuncio e un breve articolo sulla mia mostra che venne inaugurata sabato 2 giugno 1962 e
che sarebbe rimasta aperta per almeno tre settimane. Krneta mi scrisse una lettera
complimentandosi per i miei dipinti che erano piaciuti molto, specialmente quelli che
raffiguravano i luoghi della Roma antica. Spinto da questo elogio il mio dubbio si riaffacciò
nuovamente. Decisi di telefonare ad un’amica di mia cugina che risiedeva a Chicago, per
chiederle di fare per mio conto una piccola indagine. Seppi così che i miei quadri erano già stati
venduti a 200 $ l’uno, il doppio del prezzo pattuito e che quella era la mia quotazione anche per
chi avesse voluto prenotare un mio dipinto. Ma che errore avevo commesso!?! Ero convinto che
Krneta fosse un galantuomo mentre era un mercante che mi stava sottraendo cifre rilevanti. Un
avvocato mi disse che con la testimonianza della mia amica potevo sicuramente adire alle vie
legali. Non a Roma però, ma a Chicago perché lì era la sede giudiziaria. Di andare a Chicago
non ci pensavo proprio.
Scrissi impulsivamente alla Transoceanea una pesante lettera, Krneta mi telefonò dicendomi che
era disponibile a farmi un nuovo contratto raddoppiando la mia quotazione, ma io esacerbato
lo mandai al diavolo e chiusi quella che avevo considerato una occasione d’oro. Ho raccontato
tutto così dettagliatamente perché durante questo periodo avevo cominciato spesso e seriamente
a fantasticare se fosse o no il caso di fare il pittore professionista. È passato tanto tempo ma
qualche volta me lo domando ancora.
Il tempo delle mele, 1966,
olio su tela, cm 73 x 36
Romanità, 1967, olio su tela,
cm 24 x 55
A Palermo, nel 1963 durante i mesi trascorsi al cantiere Italmar per lo Yacht Saint Francis,
mi piaceva ogni tanto andare alla “vuccirìa” a mangiare pane e panelle, fatte con farina di
granoturco e fritte in olio che bolliva da sempre in grandi bidoni di lamiera. Percorrendo
Via Maqueda, la principale e lunghissima via di Palermo, vedevo sempre più numerose le
donne che si davano alla prostituzione. Due di loro attirarono la mia attenzione e le
disegnai: delle mie Prostitute a Palermo, una era tanto magra da sembrare tisica, mentre l’altra
piuttosto formosa sembrava tiroidea.
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Civiltà, 1966, olio su tavola,
cm 80 x 109
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Una mattina, sempre a Via Maqueda, rimasi frastornato dalla lenta e straziante morte di un
vecchio cavallo al traino di una carrozzella da passeggio. Inginocchiato con la testa distesa,
la bocca schiumosa e con il collo che si allungava sempre di più sull’asfalto, quella povera
bestia cadde infine riversa su un fianco e morì emanando uno sfibrante e prolungato soffio.
Il vetturino sbalordito la guardava impietrito con le lacrime agli occhi. Ritornato in cantiere,
sentii la necessità di ricreare in ferro battuto quella agghiacciante scena, approfittando dei
materiali e delle attrezzature che potevo avere a disposizione.
Prostitute a Palermo, 1963,
matita grassa su carta,
cm 30 x 20
Ne nacque Cavallo morente, una scultura che il regista Marco Ferreri volle acquistare ma
non me la pagò mai. Dopo la sua improvvisa scomparsa telefonai a Parigi alla moglie
Jacqueline per le rituali condoglianze e per pregarla di restituirmela. Mi disse che a Parigi
non c’era e che l’avrebbe cercata a Roma. Non sono riuscito a saperne più nulla.
Durante il mio periodo palermitano all’Italmar realizzai, sempre in ferro, altre due sculture
che raffiguravano due barche a vela. Una la vendetti alla baronessa di Ficarra, l’altra mi fu
chiesta dal capocantiere mastro Agostino, cappello bisunto a falde ondulate ma occhiali
d’oro. Gliela regalai riconoscente per la sua valida collaborazione.
Modellai in filo di rame anche un Cristo messo in seguito su tavola triangolare per evocare
la Trinità. Di quel periodo, è l’unica opera che mi è rimasta.
Qualche anno dopo mi venne offerta l’opportunità di fare una mostra nella raffinata Chair
Gallery di Via di Propaganda a Roma della gallerista Anna Laura d’Avanzo Puoti. Non dissi
di no, perché senza usare né colori né pennelli pensavo già da tempo ad una singolare
innovazione. Un panno in tinta unita elasticizzato e plastificato, visto in un negozio di parati,
aveva stimolato la mia curiosità. Quattro erano i colori: bianco, nero, rosso e verde scuro.
L’elasticità e i lucidi riflessi del panno, mi avevano suggerito di dar vita ad una sorta di
bassorilievi e l’invito della Chair Gallery era arrivato proprio al momento giusto. Avevo
lavorato sodo per creare le varie forme usando vaschette di plastica, testine di celluloide,
cornici di fanali d’auto e qualsiasi altro arnese, attrezzo o utensile che, fissato sopra una
tavoletta di legno, potesse originare un ben definito spessore. Avevo poi ricoperto il tutto
con quella plastica estensibile, tirandola da ogni lato e inchiodandola sul retro, per creare
immagini illusorie che si modificano guardando il quadro da parti diverse. Erano nati così
gli “alto-bassi”, come forse impropriamente li avevo chiamati, perché definirli bassorilievi
mi suonava presuntuoso. I primi lavori li avevo realizzati nel 1972.
L’inaugurazione della Mostra alla Chair Gallery, realizzata insieme al pittore professionista
Luigi Priore, avvenne la sera del 6 maggio1976. In quell’occasione presentai anche una mia
scultura: Il domatore-Industria contro artigianato, del 1958. Priore fu definito da un critico:
“surrealista e splendido paesaggista dell’immaginario metafisico”, mentre i miei “alto-bassi”
in plastica furono considerati interessantissimi ma, secondo lo stesso critico, non giudicabili
perché suscitavano sensazioni rilevabili solo a livello psichico.
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Cristo, 1963, filo di rame
su tavola, cm 90 x 60
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Locandina Chair Gallery
Roma, 1976
Luciano alla Chair Gallery
con la gallerista, modelle e il
pittore Luigi Priore, 1976
Il domatore - Industria
contro artigianato, 1958,
tecnica mista e materiali
vari, cm h 125 x 70 x 39
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Per me non era un complimento. Quando poi lessi su “Paese Sera” che i miei lavori venivano
apprezzati per lo sforzo fatto nella ricerca innovativa, mi sentii offeso. A ridarmi tranquillità
e fiducia fu la positiva critica di altri giornali e del settimanale “Arte”.
Scriveva Lia Mangani: «Per Luciano Gregoretti, in arte Greg, già noto in campo
cinematografico e televisivo, il suo debutto nel settore artistico-espressivo, presenta il suo
costante impegno a dar “forma” concreta e visiva alle sue esplosioni di vita interiore, con
creazioni che emergono levigate e prorompenti da lucidi fondali.
Un’estrosa e geniale combinazione è poi l’uso e l’assetto di strutture metalliche, di pezzi
desunti da veri macchinari per le sue sculture…» Quella serata fu molto effervescente e
cordiale. Numerosissimi gli invitati: ambasciatori, giornalisti, indossatrici, attori, produttori
cinematografici, pittori, cantanti, sportivi e perfino una baronessa. Affari comunque pochi perché
vendetti solo tre “alto-bassi”. Gli altri sono ancora con me: La luna, Trilogia, La donna rana,
Oltre il Futuro, La moglie del generale, Donna incinta…
La donna rana, 1976, tecnica
mista con tessuto elastico
plastificato, cm 59 x 70
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La luna, 1976, tecnica mista
con tessuto elastico
plastificato, cm 72 x 88
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Trilogia, 1976, tecnica mista
con tessuto elastico
plastificato, cm 50 x 60
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Oltre il Futuro, 1972, tecnica
mista con tessuto plastico
elastico, cm 62 x 74
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Donna incinta, 1972, tecnica
mista con tessuto elastico
plastificato, cm 82 x 65
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La moglie del generale, 1976,
tecnica mista con tessuto
elastico plastificato,
cm 49 x 89
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Ulisse - Il cavallo di Troia,
2014, tecnica mista
e materiali vari,
cm h 60 x 55 x 25
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Nel 2004 ho cominciato di nuovo a riprendere contatto con la scultura. Nella grande soffitta
della mia casa di San Severino avevo trovato due vecchie macchine per cucire, residuo di
una mia passata voglia di collezionismo. Portate a Roma, creai con esse e con il pensiero
rivolto ad Omero, Penelope-la Ragna meccanica e Ulisse-il cavallo di Troia.
Sostenuto sempre dal costante e indispensabile aiuto di mia moglie Maria Teresa, ho anche
ripreso a dipingere con pennelli, colori e spatola, in uno stile che vagheggiavo da tempo e
che guardava al passato con occhio ironico.
In accordo con Maria Teresa questi lavori sono stati definiti in stile “Baroccocò”. Ne offre un
esempio il dipinto Maria Cristina nel 1613.
Fino a quando Dio vorrà, io continuerò a dipingere e a costruire sculture, convinto come
sono che, per invecchiare bene, basta pensare che il lavoro che si sta realizzando sia migliore
di quello precedente.
Penelope - La Ragna
meccanica, 2013,
tecnica mista e materiali vari,
cm h 51 x 55 x 24
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Maria Cristina nel 1613,
2014, tecnica mista e collage
su tavola, cm 73 x 53
Si ringraziano
CALZATURIFICIO spa MONTEGRANARO
SAN SEVERINO MARCHE
SAN SEVERINO MARCHE Loc. Parolito
VINI e DOLCIUMI
Arte liquoristica Italiana
Finito di stampare nel mese di maggio 2015
per conto della Casa Editrice Edilazio
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catalogo - Antonio Bruni