ANNO XViii - N. 12
Dicembre 2013
LA NUOVA FENICE
Tarì 2 (D 0,50)
BRICIOLE DI SALUTE
ià da metà del mese di
novembre le città cominciano a presentare
segni delle prossime festività natalizie, ma la crisi, e non solo, la
crisi come da più parti si ripete,
ha prodotto e continua a produrre un notevole incremento
dei fenomeni di sotto-occupazione, lavoro nero e disoccupazione, aggravando una serie di
aspetti negativi della flessibilità
del lavoro, per cui per molti
l’aria non è e non sarà di festa.
Il tema della povertà è sempre
un argomento scomodo, in
tempo come adesso di crisi economica e di crisi di valori, in cui
al termine stesso è difficile dare
contorni. Non si è poveri solamente per carenza di risorse economiche, ma oggi si presenta
come carenza di relazioni e di
socialità, come perdita d’identità, come smarrimento di valori
e come assenza di punti di riferimento solidali all’interno di
una città. Basta stare un’ora con
gli operatori del Progetto Briciole di Salute a Monreale, nato
dalla collaborazione dell’ Arcivescovo di Monreale Mons. Mi-
G
chele Pennisi, Priore costantiniano di Sicilia con il comune
della città normanna, di cui la responsabile è l’assessore alla cultura Lia Giangreco.e del Sacro
Militare Ordine Costantiniano
di S. Giorgio delegazione Sicilia, del CE.ST.E.S.S onlus, del
Centro Studi per le politiche
pubbliche e di Nuovi Spazi onlus, per rendersene conto.
Ai tempi del Beato Giacomo
Cusmano la perdita di lavoro,
un incidente o una malattia determinavano un affiatamento ulteriore non solo nella famiglia
colpita, ma spesso anche nel
rione oggi c’è un impoverimento
e si innescano dinamiche di disgregazioni.
La povertà culturale e relazionale aggrava ancora di più la povertà materiale.
L’Ordine Costantiniano pur
mantenendo i principi originari
con il progetto in atto a Monreale aggiorna la sua attività e
precisamente sta imparando ad
ascoltare e quindi rispondere ai
bisogni della società.
I nuovi poveri sono oggi nei nostri quartieri, nei nostri condo-
Da sx: cav. Vincenzo Nuccio, l’Assessore alla cultura Lia Giangreco e il
cav. Antonio di Janni
Da sx: cav. Antonio di Janni, S.E. Mons. Michele Pennisi e cav. Vincenzo
Nuccio.
mini, dove vivono anziani soli,
che hanno difficoltà a fare la
spesa e nell’acquistare i farmaci,
le giovani coppie con figli piccoli e single senza alcun reddito.
Numerose famiglie monrealesi
meno abienti settimanalmente
richiedono latte, omogeneizzati,
pannolini per il loro figli agli
operatori del progetto Briciole
di Salute. Questo fabbisogno
settimanale viene fornito dalla
delegazione Costantiniana di Sicilia e distribuito dai volontari
delle altre associazioni che condividono il Progetto.
In questo periodo di festa il contrasto diventa ancora più evidente
e pertanto è necessario avvicinarsi
a tutti con umiltà e dare spazio
alla nostra fantasia, inventandoci
iniziative adeguate e collaborando con quanto in atto, fornendo aiuti e supporto ove possibile, lavorando per azioni che
spingano le istituzioni e la società
civile a farsi carico di alcuni servizi, ormai divenuti essenziali.
Occorre, nello spirito dei principi
dell’Ordine Costantiniano e guidati dalla luce che il figlio di Dio
dalla grotta di Betlemme ci dona,
sensibilizzare tutti rispetto alle tematiche della povertà ed alle condizioni di vita dei soggetti poveri,
contrastando la mentalità dell’individualismo e promuovendo
meccanismi di solidarietà senza
alcuna discriminazione.
Il tutto non solo finalizzato all’assistenza nell’immediato ed
al superamento della condizione
di disagio, ma soprattutto alla
prevenzione, nella consapevolezza che solo così, in divenire,
si può pervenire a condizioni di
vita più accettabili per i singoli
individui e più gestibili per le
comunità.
Vincenzo Nuccio
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LA NUOVA FENICE
Mostra a Monreale
ET VERBUM CARO FACTUM EST
na delegazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio guidata dal Delegato Vicario Cavaliere di Gran Croce di
Grazia Nobile Antonio di Janni
e composta dai Cavalieri Gaetano Giarrusso, Vincenzo Nuccio e Carmelo Sammarco hanno partecipato alla presentazione della mostra Et verbum caro factum est promossa dall’Arcidiocesi di Monreale, dal
Museo Diocesano di Monreale
e dall’Ente Opere di Religione
e di Culto.
La mostra realizzata nella Sala
San Placido del Museo Diocesano è stata resa possibile dalla
collaudata sinergia tra la Soprintendenza BB.CC.AA. di
Palermo rappresentata dall’Arch. Lina Bellanca, dal Comune di Monreale presente con
l’Assessore alla Cultura Signora Lia Giangreco, dall’Archivio
Storico Diocesano e la Biblioteca Torres.
L’Arch. Bellanca ha evidenziato nel suo intervento come nonostante la cronica carenza di
fondi, l’attenzione per Monreale è sempre vigile, infatti, ha comunicato che spera entro l’anno
2014 di restituire tutto il complesso monumentale dell’ex
convento dei benedettini, del
U
chiostro e del Duomo alla comunità non solo locale ma internazionale essendo il complesso
Guglielmo unico al mondo.
L’Assessore Giangreco nell’intervento di saluto a nome del
Sindaco e dell’Amministrazione Comunale ha evidenziato la
perfetta unità d’intenti con tutte
le altre sigle, infatti l’Adorazio-
ne dei Pastori di M. Stommer
di casa al Palazzo Municipale,
il prezioso Libro d’Oro del V
secolo della Biblioteca Comunale sono i due pezzi pregiati
della Mostra ed è orgogliosa di
rendere partecipe il pubblico di
questi due tesori che non senza
fatica sono ritornati negli anni
di proprietà dell’Amministrazione comunale.
Il Museo era rappresentato dalla direttrice Prof. ssa Maria
Concetta Di Natale che nel suo
indirizzo di saluto e nel guidare
i vari interventi ha illustrato le
tappe del museo dalla sua inaugurazione all’iniziativa odierna.
S.E. Mons. Michele Pennisi Arcivescovo di Monreale e Priore
per la Sicilia dell’Ordine Costantiniano partendo dal titolo
della Mostra “Et verbum caro
factum est et abitavit in nobis, et vidimus gloriam eius”,
prologo del Vangelo di Giovanni, ha condotto i presenti attra-
verso l’umanizzazione del figlio di Dio alla vita della Chiesa e come la fede professata da
secoli parta e si diffonde dal
quell’avvenimento della nascita di Gesù.
L’Ordine Costantiniano non
può che rilevare con piacere anche la precedente mostra sempre del Museo Diocesano Signum Crucis che dal 27 aprile
al 27 agosto 2013 in coincidenza con l’ingresso in diocesi S.E.
Mons. Pennisi ha segnato anche l’anno del XVII Centenario
dell’Editto di Costantino.
La mostra Et Verbum caro factum est che resterà aperta fin al
23 febbraio 2014 merita una visita in special modo per il bellissimo dipinto di Matthias
Stommer “L’Adorazione dei
pastori” mirabilmente illustrato
nel catalogo dell’iniziativa dalla vice direttrice del museo
Dott.ssa Lisa Sciortino.
Antonio di Janni
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LA NUOVA FENICE
L’ORDINE COSTANTINIANO DI S. GIORGIO
ONORA S. CATERINA D’ALESSANDRIA
l 25 Novembre, ricorrenza liturgica di Santa Caterina
d’Alessandria, una Delegazione di Cavalieri del Sacro Militare Ordine Costantiniano di
San Giorgio, su invito di Mons.
Mario Di Pietro, Cappellano Costantiniano, ha partecipato alla solenne celebrazione dei Vespri e
della S. Messa presso la Chiesa
Parrocchiale di S. Caterina Valverde in Messina.
Unitamente al Coordinatore di
Messina, Comm. Prof. Gianni
Bonanno, hanno preso parte alla
Liturgia i Cavalieri Costantiniani Giuseppe Amato, Letterio
Donato, Salvatore Italiano, Carmelo La Rosa, Santo Giacomo
Legrottaglie, Giuseppe Matranga, Aldo Mattei, Franz Riccobono, Francesco Maria Salpietro, Salvatore Scalzo, Marco
Sciliberto, Francesco Stagno
D’Alcontres. Tra gli aspiranti
Cavalieri figurava il Col. Corrado Benzi, Comandante del 5°
Reggimento Fanteria della Brigata “Aosta”.
Presenti alla cerimonia anche una
rappresentanza di Cavalieri del
Santo Sepolcro di Messina, il cui
Preside Avv. Clodomiro Tavaniè
dell’Ordine Costantiniano, numerosi membri della Confraternita di San Giuseppe a Palazzo, e
molti fedeli della Parrocchia.
La cerimonia si è tenuta in un
clima particolarmente raccolto,
I
nel quale i Cavalieri Costantiniani hanno inteso manifestare il
loro affetto e la loro vicinanza
spirituale a Mons. Di Pietro, colpito dalla recentissima perdita
della madre. Il lutto subìto dal
Confratello Sacerdote è stato per
lui occasione di rendere una
commovente testimonianza di
Fede nella Risurrezione, ed è
stato edificante vederlo sereno,
pur se profondamente provato
dal dolore del distacco fisico.
Nella sua omelia Mons. Di Pietro ha ricordato l’eroismo delle
virtù della Martire Caterina, che,
sebbene fosse solo una giovane
donna, non esitò a sfidare il governatore di Egitto e Siria Massimino Daia, esortandolo a convertirsi al Cristianesimo.
Fedele a Cristo sino alla morte,
Caterina diviene esempio vivo
per i giovani d’oggi e per tutti i
Cristiani, ai quali continua ad
indicare che la vera saggezza
non consiste nella “furberia” di
sottrarsi ai propri impegni e responsabilità, ma nell’affrontare
con coraggio le prove della vita,
per testimoniare la vera Fede.
La tradizione ci narra infatti che
la giovane fu esortata all’apostasia e che sostenne il confronto
con un commissione di saggi filosofi, i quali avevano il compito
di indurla a sacrificare agli dei.
Caterina, divinamente ispirata,
fu talmente convincente da con-
vertire i dottori pagani, persuadendoli ad accettare la morte,
piuttosto che perseverare nella
falsa religione pagana.
Rifiutata l’offerta di matrimonio dello stesso Massimino, la
sapiente giovinetta fu quindi
condannata ad essere straziata
da una ruota dentata, che invece,
al contatto con la delicata fanciulla, si spezzò prodigiosamente, dimostrando il favore divino per la perseveranza nella
Fede della giovane cristiana.
Accecato dall’ira, il perfido governatore pagano ordinò allora
che Caterina fosse decapitata.
La Leggenda prosegue riportando il miracoloso trasporto del
corpo della Martire, ad opera degli Angeli, dalla città egizia di
Alessandria sino al monte Sinai,
dove ancora oggi sorge un Monastero a lei dedicato.
Recependo tutti gli elementi
della narrazione agiografica,
l’iconografia rappresenta la Vergine Alessandrina in splendide
vesti, intenta a confutare i saggi
dottori e filosofi, o singolarmente, munita degli attributi
propri: la ruota dentata spezzata,
il libro e la penna d’oca, la corona indicante le sue nobili origini, la spada con cui fu decapitata, e la palma, simbolo per antonomasia del Martirio.
Al termine del solenne Rito
Eucaristico, concelebrato da
Mons. Angelo Oteri e da P. Mario Magro, Mons. Di Pietro ha
fatto dono di una icona raffigurante la Santa Martire alla Delegazione Costantiniana, ai cavalieri del Santo Sepolcro e
alla Confraternita di San Giuseppe a Palazzo.
Salvatore Italiano
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LA NUOVA FENICE
LA POLITICA CULTURALE IN SICILIA
IN EPOCA BORBONICA
’appuntamento culturale
ideato dal Cav. Baldassare Cacioppo sul tempo di
cultura all’epoca dei Borbone, segna un momento importante per
la rilettura di un periodo storico
troppo frettolosamente rimosso e
sicuramente può rappresentare
una occasione importante perché
non si debba avere più paura della verità.
La conferenza, inserita nel programma per il XVII Centenario
dell’Editto di Costantino, introdotta e moderata dal Delegato
Vicario del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio che ha riscosso la partecipazione di un folto pubblico, ha
visto un’accurata esposizione
sulla Tutela legislativa dell’antico nella Sicilia Borbonica da
parte del cav. Baldassare Cacioppo e due interventi che con
comprensibili voli secolari hanno attraverso centocinquanta
anni di Regno delle Due Sicilie
curati dallo storico Pasquale
Hammel e dal Soprintendente
del Mare della Regione Siciliana Prof. Sebastiano Tusa.
Al termine del convegno S.E. il
Prefetto Comm. Gianfranco
Romagnoli ed il Delegato Vicario hanno consegnato ai Relatori una medaglia ricordo dell’Ordine Costantiniano.
L
Il mondo culturale di allora certamente conosceva le biblioteche, ma esse erano privilegio o
degli enti religiosi o di alcuni
privati. La situazione cominciò
a cambiare e questi depositi
culturali si cominciarono ad
aprire ad un pubblico che per
quanto ristretto, era comunque
in espansione.
A Messina esisteva la Biblioteca del Salvadot, ma essa nel periodo tra il 1728\1738 fu aperta
al pubblico; a Palermo e a Catania rispettivamente nel 1760 e
1775. Quasi contemporaneamente si apriva ad Agrigento la
Lucchesi Palli, a Siracusa la
Monsignor Alagona, a Canicattì la San Marco La Torre, e la
Daidone e Ciprì a Termini Imerese. Qualche anno dopo, nel
1782 a Palermo, si apriva a Palermo un’altra pubblica biblioteca ad opera del teatrino Sterzinger. A questo punto appare
chiaro come l’impulso dato alla
biblioteche a Palermo creò i
presupposti per due grandi fiori
all’occhiello del settore ancora
validissimi e rinomati ai nostri
giorni: la Comunale e l’ex Nazionale, ora Regionale, in via
Vittorio Emanuele.
Nel periodo borbonico fiorirono, una grande serie per la verità, numerosi compendi e ponderosa raccolta di eruditi e letterati siciliani che sulla scia di
Mongitore approdarono a straordinari risultati come appunto
la Scinà ed il Mira. Una vasta
espansione di giornali e riviste
costellò il lungo percorso erudito delle persone colte e non
mancarono gli interventi anche
sulle stampe estere. A riprova
di quanto si è esposto bisogna
sottolineare che i viaggiatori e
gli osservatori stranieri evidenziarono la partecipata frequentazione dei Siciliani con la lingua straniera. Infatti Patrick
Brydone, nel suo TRAVEL, notava che a Palermo nelle libre-
rie c’erano un sacco di libri in
edizione straniera in vendita ordinaria nelle librerie.
E a proposito dell’apertura alle
visite straniere è da sottolineare
il fatto che il travel di Brydone
e il reisen di Wolfang Goethe
aprirono una proficua stagione
di viaggi verso il Sud Italia e la
Sicilia in particolare. La cultura
del Meridione italiano, nonostante: commenti completamente negativi di Gladstone e
nonostante gli scontri della monarchia con gli intellettuali per
le rivolte, ebbe un incentivo all’espansione e fu per la prima
volta conosciuta in Europa.
L’immagine primaria che scaturì da tali viaggi fu anzitutto la
solarità dei luoghi e poi e grande fascino dell’arte e della tradizione. Dal primo resoconto di
Sir William Digby, nel XVII
sec. Ai viaggiatori successivi la
cultura dell’isola non fu mai
dissociata dalle sue bellezze.
In seguito le posizioni negative
inglesi furono modificate da altri connazionali come Acton
che non vide nulla di così assurdamente tragico nel vivere al
tempo dei Borbone. Non c’è
dubbio che una pesante presenza britannica fu per molti anni
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notata in Sicilia, e la presenza di
lord Bentick non fu casuale, ma
dettata da motivazioni del Foreign Office. La prima presenza
britannica in Sicilia fu dovuta
all’ammiraglio Horatio Nelson,
che, dopo la vittoriosa battaglia
di Abukin contro Napoleone
Buonaparte ebbe «graziosamente» in dono la ducea di
Bronte, assumendone il titolo.
Negli stessi anni imprenditori
vitivinicoli britannici come gli
Inghan e Woodhouse, e poi i
Whitaker, crearono di tipo di
vino liquoroso entrato nella
leggenda con nome di “marsala”. In realtà gli interessi economico-politici britannici furono vari e potenti, e durarono sino oltre la cosiddetta conquista
del Sud ad opera di Garibaldi
Inglesi, tedeschi e francesi letteralmente presero d’assalto la
Calabria e la Sicilia e, nonostante le difficili e spesso inesistenti vie di comunicazioni,
compirono epiche visite e lasciarono ponderosi documenti
di viaggio.
Circolava ai tempi dei Borbone
un simpatico aneddoto sulla
premura di Nelson per Palermo
a proposito della sua difesa della città. Quando per un fatto di
sangue nei confronti di alcuni
turchi uccisi a Palermo, e comandante della flotta turca, la
fonda a Palermo, voleva cannoneggiare la città, fu dissuaso
nella dimostrazione di forza di
Nelson. Ma, si diceva, il gesto
umanitario dell’ammiraglio inglese fu dettato dalla paura di
vedere ferita la sua amica Emma Hamilton allora Palermo e
non dell’altruismo per i cittadini palermitani. Sicuramente dal
punto di vista culturale il mondo britannico non aggiunse quasi nulla, tranne una serie di conoscenze tardive come fascino
soprattutto di due autori Lord
George Byron e si Walter Scott.
Vincenzo Mortillaro a Palermo,
oppure “Il giornale dell’agricoltore” che informava sulle ultime conquiste tecniche o nuovi
sistemi di attività agricole come
le sementi o gli innesti nuovi.
Non dimentichiamo che la Sicilia era reduce dalla tristezza ondata di fillossera che distrusse
completamente i vitigni e fu necessario il reimpianto.
La prima cattedra di Economia
Agraria, guarda caso, sorse a
Il progresso editoriale invece si
notò con le molte pubblicazioni
e riviste di alto tono in vari
campi del sapere.
Il progresso editoriale invece si
notò con le molte pubblicazioni
e riviste di alto tono in vari
campi del sapere. Ricordiamo a
tale proposito riviste come “Il
giornale di Scienze, lettere, e
arti per la Sicilia” diretta da
Palermo nel 1804 e ne fu titolare il famoso Paolo Balsamo,
autore del testo” Viaggio in Sicilia e particolarmente nella
Contea di Modica”, in cui venivano descritti, dal punto di vista agricolo, i luoghi all’incirca
della provincia di Ragusa dei
nostri giorni.
L’impulso dato alle tre università siciliane fu grande e degno
LA NUOVA FENICE
Direttore responsabile: Antonio Di Janni
Stampa a cura della Casa Editrice CE.S.T.E.S.S.
via Catania, 42/B - Palermo
Autorizzazione del Tribunale di Palermo n. 13 del 15.03.96
Casa Editrice CE.ST.E.S.S.
Centro Studi Economici-Sociali Sicilia
via Catania, 42/B - Tel. 091.6253590 - Fax 0917301720
PALERMO
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di nota, in quanto la loro posizione culturale assunse legittimamente un ruolo leader nell’isola. L’esperienza culturale
siciliana aveva anche avuto un
momento particolare quando
nel 1720 a Palermo Giovanni
Battista Caruso aveva promosso la diffusione di due tavole di
rame con monumenti scritti
arabici. Essi erano una cronaca
di Sicilia dell’827 al 963, che
per la prima volta, come manoscritto della Cronaca di Cambridge, era stato invitato in terra siciliana nella traduzione di
Thomas Hobwart. Tale documento fu ristampato a Palermo
con annessa traduzione latina.
Anche piccoli centri risentirono
degli impulsi culturali e anche
la lontana Ragusa Ibla vide il
fiorire di uno scrittore locale
con perfette conoscenza di inglese e francese, oltre al greco,
ossia Giambattista Marini. Divenne un tocco di classe, in
quegli anni, avere nella biblioteche private i libri di tre autori: le poesie di Byron, le Vite
Parallele di Plutarco e qualche
romanzo di Walter Scott.
Gli intellettuali siciliani cominciarono così la loro stagione e
non mancarono simpatiche figure di gente amena, come
l’abate Vella che addirittura dava luogo a documenti arabi di
un’era perfettamente incolto. Il
marchese Natale scrisse addirittura un poema su Leibuiz.
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LA NUOVA FENICE
Le università nel loro nuovo
corso videro grandi progressi
come a Catania che si arricchì
inoltre di scuole tecniche per i
fanciulli meno abbienti. Il principe di Cutelli fondò un collegio per mettere su culturalmente ventiquattro giovani di buona
famiglia.
Francesco Paolo Di Blasi propugnava nei suoi scritti l’esigenza
di cui nuovo codice e la soppressione della primogenitura.
A Palermo il marchese di Villabianca si dedicò a grandi studi
E sempre nell’ultimo periodo
vanno menzionati gli artisti
Francesco Lojacono, Antonio
Leto e Michele Cati, e lo scultore Benedetto Civiletti. Nella
disamina citano pure Luigi Caprana, Mario Rapisardi e Giovanni Verga, anche se per poco
in aura borbonica ma comunque in essa formatisi.
La rinomanza dei luoghi del
Regno delle Due Sicilie portò
nella prima metà del Novecento anche viaggiatori dai lontani
Stati Uniti d’America come
antiquari come Columba, Mirabella, Landolina scopritore della Venere omonima di Siracusa.
Nel campo musicale emerse
Alessandro Scarlatti, nato a
Trapani e deceduto a Napoli, e
nell’ultimo periodo borbonico
Vincenzo Bellini, e l’altro catanese Giovanni Pacini ed il palermitano Enrico Petrella.
Nel campo letterario ci furono
nomi come Giovanni Meli e
poeta dialettale, Domenico
Tempisi, e poeta satirico, Marianna Coffa Caruso la poetessa, Michele Amari autore della “Storia del Vespro Siciliano”, e “Storia dei Musulmani
in Sicilia”, S. Attardi monaco
scrittore.
Importante incisore in rame fu
Tommaso Aloisio Juvera, messinese e il pittore Salvatore Forte palermitano; poi ricordiamo
il grande architetto G.B. Basile.
Washinghton Irving, autore di
un testo sui briganti meridionali ed il famoso Hermans Melville, autore di Moby Dick. Codesto infatti, venuto per guarire
la sua depressione momentanea, rimase affascinato a Napoli da via Toledo da paragonarla
alla Broadway della New York
di quei tempi, ossia negli anni
1856-1857.
L’opinione negativa di Gladstone, lentamente perdeva il mordente e l’Isola divenne un luogo di grande turismo internazionale e di teste coronate. A riprova di quanto esposto possiamo citare alcuni tra i più noti
alberghi palermitani di inizio
novecento, l’Hotel d’Angleterra a Piazza Marina, il Prince of
Wales, l’Hotel Albion e il Madame de Montagne.
Il palazzo Benso, in cui aveva
alloggiato Goethe, divenne il
Grande Albergo, il Trinacria ricordato anche nel romanzo “Il
Gattopardo”.
Il flusso di stranieri era anche
favorito, oltre che dal clima, da
alcune istituzioni di carattere
scientifico che sorsero allora
nell’isola unitamente agli studi
delle Università.
Si videro dunque due giardini
botanici a Palermo e a Catania,
ma il primo divenne oltremodo
famoso perché si inseriva anche
ne contesto delle splendide ville palermitane e della vicina
Bagheria. Infatti il fascino delle
dimore di Bagheria aveva assunto vaste proporzioni, tanto
che la villa del Principe di Palagonia fu quasi una leggenda.
Accanto ai giardini botanici e
alle ville bisogna ricordare
l’istituzione importantissima
del cosiddetto “Bosco della Ficuzza” in territorio di Marineo
(PA) ad opera di Ferdinando
III, il primo esempio di conservazione e funzione dell’ambiente naturale con annessi allevamenti specializzati di animali domestici di gran pregio.
Il bosco sorgeva su un territorio
esteso per 1116,82 ettari, e divenne ben presto un modello
molto lodato. Esso infatti, pur
essendo un luogo preordinato
per la caccia, assumeva nel
contempo, mutatis mutandis, le
caratteristiche di un’oasi ecologica in quanto le sperimentazioni animali assunsero proporzioni interessanti.
Nel bosco della Ficuzza, secondo il progetto dell’architetto
Marvuglia formatosi alla scuola del Vanvitelli con canoni
classicisti, sorse uno splendido
palazzo reale, residenza estive
e luogo di caccia, una sorta di
dimora legata al luogo, quasi
come le antiche Adriamutherai
dell’imperatore Adriano. Tutto
il complesso divenne proprietà
demaniale e fu stabilito come
santo protettore San Isidoro
Agricola. Si videro grandi armenti di bovini modicani e sciclitani, pecore e capre da Mistretta e da S. Cataldo e stalloni berberi come Turco e Philippstadt che diedero origine ai
rinomati cavalli di sangue
orientale in vari punti della Sicilia. Ricordiamo soltanto per
il piacere della rievocazione
che nel 1930 a Milano, nella
Fiera Agricola Nazionale, gli
esemplari arabi allevati nella
frazione ragusana di S. Giacomo meritarono ben tre medaglie d’oro in campo nazionale.
Per mantenere l’ordine e il rispetto sanitario nel complesso
laboratorio della Ficuzza si
riunirono le schiere di guardacaccia e veterinari che potessero egregiamente badare alle
varie esigenze.
E nel contesto della cultura
nuova, in campo produttivo,
nella sperduta Ragusa Ibla del
tempo, fu costruita una filanda
di cotone ad opera del barone
Francesco Maria Arezzo di
Donnafugata: un’azienda dove
tra operai e carrettieri lavoravano circa ottanta persone.
Un’altra iniziativa culturale
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LA NUOVA FENICE
Il Prof. Tusa riceve la Medaglia Costantiniana da S.E. il Prefetto Gianfranco Romagnoli
molto importante per l’epoca
furono i compendi geografici,
ossia delle pubblicazioni che
fornivano una serie di ragguagli
sulle consistenze abitative dei
vari centri con notizie e dati di
censimento, come ad esempio
l’opera dell’Ortolani.
Non fu quindi un caso che le
guide del famoso Baedeker riportassero anche notizie su alcuni centri minori dell’…che
avevano un dato particolare oppure per la presenza di personaggi in vista a livello extra-regionale.
Nel campo dell’istruzione scolastica certamente i Gesuiti tenevano la supremazia, ma sia
durante il loro splendore e dopo
la loro cacciata, anche altri ordini come i Teatini avevano ottenuto grandi successi. Questi
ultimi, infatti, col permesso dei
sovrani provvedettero all’istruzione “dei giovanetti di seconda classe” e crearono nel 1737
a Palermo il Collegio della
Concezione nel Palazzo del
Principe di Lampedusa dietro la
chiesa di Santa Cita. Sotto il regno di Ferdinando II, nonostante la brutta fama, furono aperte
scuole pubbliche e anche scuole nautiche, proprio per consentire un flusso d’istruzione che
non doveva rimanere privilegio
di pochi eletti.
Sicuramente non mancarono
episodi di repressione nell’Isola, ma lo spirito del tempo non
vedeva di buon occhio le grandi
aperture all’innovazione, ma
ciò non deve servire a valutare
troppo negativamente l’intero
periodo. E se volessimo dare
un’ulteriore valutazione al
mondo borbonico, bisogna per
forza citare un aspetto del fenomeno del brigantaggio post-unitario, represso con un esercito
guidato dal generale Cialdini di
ben centoventimila uomini. Tra
le varie componenti dei gruppi
di briganti meritano una menzione autonoma quanti furono
sostenitori nostalgici dell’an-
cien regime, ben diversi dai malavitosi o dai grassatori comuni.
Non fu un caso che tra le fila dei
rivoltosi all’assetto sabaudo si
trovarono militari di carriera come il famoso generale Borjes.
Le luci e le ombre si susseguono nella storia, ma non bastano,
nelle ricostruzioni le opinioni
dei soli vincitori, essi hanno un
interesse di parte che sovente
offusca o modifica la realtà. E
per concludere bisogna citare il
grande Pirandello che notava
con grande precisione e arguzia:
alla luce dei falò le ombre degli
sciocchi e degli intelligenti sono
perfettamente uguali.
Vincenzo Nuccio
Il cav. Cacioppo riceve la Medaglia Costantiniana da S.E. il Prefetto
Gianfranco Romagnoli
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LA NUOVA FENICE
SIBILLA DI LILIBEO
erso la punta estrema occidentale della Sicilia, in
località Capo Boeo, si
dice che lì vivesse la Sibilla Lilibetana, da alcuni identificata
con la Cumana; si dice pure che
dimorasse in una grotta posta alle
pendici del promontorio, presso
la città di Marsala in provincia di
Trapani, dove anticamente era la
colonia cartaginese di Lilibeo.
L’antico nome presenta più interpretazioni: la prima potrebbe derivare da Lily, “acqua”, e da
Beo, quindi da Eubei, abitatori
prefenici del luogo, oppure sembra che il nome di quella colonia,
fondata dai Cartaginesi, derivi invece dalla parola greca Lilybaion,
dal significato “che guarda la Libia”, infatti la città era stata edificata proprio di fronte alla costa
settentrionale dell’Africa, in antico chiamata Lybia.
Per Esichio, storico e letterato
bizantino, la parola Lylibeo era
un termine onomatopeico dal
significato di sorgente; secondo altri ancora, quella parola
stava per “promontorio che
guarda il luogo della prostituzione sacrale”, in quanto sopra
il vicino monte Eryx (latino) o
Eρuξ (greco) sorgeva la città
omonima di Erice, fondata dagli Elimi, gente autoctona, o,
secondo Tucidide, da esuli troiani. Questa città era conosciuta anche con il nome di “Lilubaion” in dialetto ionico e Liliboeum in lingua dorica, ma prima della sua fondazione in
tempi preistorici sulla cima del
monte veniva praticato un culto in onore della dea della fecondità, una dea madre locale,
divinità primitiva che in seguito venne assorbita da altre portate dai coloni punici, greci e
poi latini. Il risultato fu la costruzione di un tempio dedicato alla dea dell’amore, dove secondo un uso diffuso soprattutto tra le genti babilonesi, feni-
V
cie e assire, veniva praticato la
prostituzione dalle ierodule, le
schiave sacre della dea fenicia
Astarte -Tanit, poi identificata
con la greca Afrodite ed infine
con la latina Venere. Le giovani donne, con la loro pratica in
onore della dea, volevano propiziare la fertilità e la prosperità economica del loro tempio e
della comunità alla quale appartenevano, assicurata dalle
splendide offerte che i fedeli, i
naviganti, i visitatori tutti usavano lasciare a loro per onorare
la dea. Pure Cicerone, inviato
come questore in quei luoghi
negli anni 75-76 a. C., vedendo
la colonia la definì una splendidissima civitas e ricordò nel
processo contro Verre la presenza delle schiave sacre e dei
tanti schiavi pubblici, che lavoravano nel tempio di Venere.
grotta, posta attualmente a circa
5 metri di profondità sotto terra, ma in origine meno profonda (1,50 metri), da sempre era
considerata sacra perché al suo
interno sgorgava una sorgente
dall’acqua miracolosa, capace
di guarire le malattie e dare il
dono della profezia a chi
l’avesse bevuta.
Data l’importanza dell’acqua
come fonte di vita, vi sono teorie che collegano alla presenza
di divinità femminili, come dee
madri o ninfe, le sorgenti che si
trovavano dentro strutture ipogee e che erano luogo di culto
presso le popolazioni primitive.
Queste divinità femminili, queste grotte sotterranee con le loro sorgenti, sono la testimonianza di una religiosità protostorica dell’Isola, dove, come
nel resto del bacino mediterra-
Adolfo de Carolis: Sibilla
Si diceva anche, da parte dei locali, che invece la colonia di
Lilybayon fosse stata fondata
dalla Sibilla di Lilybeo, la sacerdotessa di Apollo, e che poi
sopra di essa in seguito sarebbe
sorta Marsala e proprio questa
profetessa, creduta essere la vera Sibilla Cumana, una volta
morta sarebbe stata sepolta nella grotta dove viveva. Quella
neo, era molto praticata una devozione di tipo matriarcale alla
quale, in seguito, si sono sovrapposte altri culti importati
dalle nuove immigrazioni, le
quali hanno così favorito il sincretismo religioso tra loro e le
popolazioni autoctone.
Infatti tra le nuove divinità importate dai Greci, oltre ad Afrodite, anch’ella una più antica
dea Madre, vi fu pure Apollo, il
quale portò con sé la sua sacerdotessa, ed il suo culto presto si
diffuse tra le genti di Sicilia;
ciò è testimoniato dalla presenza di molte statue e da mosaici,
che raffiguravano il dio, tra i
quali va ricordato quello che si
trova nella Villa del Casale a
Piazza Armerina; inoltre molti
templi erano stati dedicati al
dio, a Siracusa, a Selinunte ed
ancora in altre località dell’isola e si pensa che anche a Marsala esistesse un tempio costruito
in onore del dio dove la devozione verso di lui era profondamente sentita tanto che, a ricordo di essa, la città ha voluto che
nel suo stemma civico fosse
rappresentato Apollo con una
lira tra le mani.
Nulla esclude che presso la fonte di quel pozzo (così definito
da Diodoro Siculo) fosse venerata prima una divinità femminile profetica e guaritrice, poi
mutata nella Sibilla, la quale,
secondo la tradizione oracolare
apollinea, come tutte le altre
sue profetesse, doveva prima
purificarsi con l’acqua di una
fonte, ritenuta miracolosa, e poi
berla, perché solo così la sacerdotessa si veniva a trovare nella condizione necessaria per ricevere il dio dentro di sé e
quindi dare i vaticini richiesti.
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LA NUOVA FENICE
Una volta adempiuti tutti i riti
iniziali, ella si poneva davanti
l’ara di Apollo, che si crede si
trovasse nella grotta, posta sotto al tempio del dio, e rispondeva alle domande dei fedeli. Ma
al tempo stesso non è chiaro se
questa Sibilla Lilybetana sia
stata una persona reale, in carne
ed ossa, o piuttosto una figura
irreale, incorporea, quindi vista
come uno spirito dalle doti profetiche e guaritrici presente in
quell’acqua. Di questa sacerdotessa, al dunque, si sa molto
poco, e sono giunte a noi solo
vaghe notizie che affermano
una sua esistenza, ma al tempo
Marsala - Antro della Sibilla
stesso queste sono poche ed insufficienti per conoscerla ampiamente; comunque questi
racconti sono stati tali da accrescere il mistero e l’interesse
intorno alla sua persona.
Un racconto, che nasce nel
tempo del mito, dice che Ulisse, giunto in Sicilia durante il
suo lungo peregrinare, sia andato da lei per dissetarsi alla
sua fonte e per interrogarla riguardo al suo futuro e su ciò
che avveniva nella sua reggia.
Prove storiche di queste credenze ve ne sono, come il ritrovamento di una moneta di bronzo di epoca romana, che su una
faccia rappresenta un treppiede
con un serpente avvolto intorno, entrambi simboli di Apollo,
e sull’altra faccia il volto della
Sibilla racchiuso in un triango-
lo, la figura geometrica che
rappresenta la Sicilia. La notizia storica più attendibile, che
cita la Sibilla lilibetana, è fornita da Diodoro Siculo, lo storico
del I sec., che, nella Biblioteca
storica, XII, 14, 4, racconta
dello sbarco in Sicilia, nel 409
a. C, presso Capo Boeo, di Annibale Magone, condottiero e re
dei Cartaginesi, in guerra con i
Greci di Selinunte per il dominio sull’isola; lo storico così
scriveva: « … Annibale il Cartaginese portava le truppe sul
promontorio di fronte alla Libia
e poneva l’accampamento vicino al pozzo chiamato Lilibeo…» la cui acqua era utilizzata dai sacerdoti cartaginesi al
seguito della spedizione. In seguito, in epoca storica, tra il II
ed il IV secolo d. C., con l’avvento del cristianesimo, alcuni
cristiani presero possesso del
luogo e usarono il pozzo come
fonte battesimale attribuendo
anche essi alle acque della sorgente poteri salvifici, come prima avevano creduto i pagani.
Così pure, tra il III ed il IV sec.,
il letterato romano Caio Giulio
Solino, nelle Collectanae rerum memorabilum, II, 6; V7, ci
informa dell’esistenza del sepolcro della veggente ricordando che «Lilybetano liIybeum
oppidum decus est Sibillae sepulcro» (sul monte Lilibeo la
citta di Lilibeo si fregia del sepolcro della Sibilla).
Altre fonti, che attestano l’esistenza della grotta e della fonte,
ci sono state lasciate in epoche
diverse: nel V sec. dal vescovo
di Marsala Pascasino, nel XIV
sec. da Fazio degli Uberti, poeta didascalico fiorentino, nel
XVI dal frate domenicano
Tommaso Fazello, nella De Rebus Siculis, dal barone siciliano
Arezio; e inoltre dagli storici siciliani il gesuita Ottavio Gaetani e l’abate Rocco Pirri, anch’essi vissuti tra il XVI ed il
XVII sec. e poi ancora dal presbitero palermitano A. Mongitore (1663-1743) in La Sicilia
ricercata nelle cose memorabi-
Erice - Il Castello
li, e dallo studioso J. Philippe
D’Orville nel ‘700. Anche negli
Opuscoli Palermitani, scritti da
F. M. E. Gaetani, marchese di
Villabianca, si legge che la città di Marsala era famosa perché
la maga Sibilla aveva vissuto in
una grotta posta sotto la chiesa
di San Giovanni Battista e si
specifica che «al centro della
gotta sta il tanto celebrato pozzo, dalle cui acque, che tiene di
salso, probabilmente bevea la
Sibilla prima di proferire l’indovinamenti»; ancora è possibile, per chi si reca in quel luogo, veder sgorgare l’acqua di
quella sorgente.
il battesimo di Cristo nel fiume
Giordano; così pure fu posta una
statua del santo dentro la grotta e
forse proprio sull’ara di Apollo.
Ma, come riporta nell’800 il famoso storico ed antropologo siciliano Giuseppe Pitré nelle Feste
Patronali in Sicilia, continuarono nei secoli i pellegrinaggi alla
grotta per consultare la cara Sibilla che si credeva ancora presente in quel luogo, così le ragazze si recavano alla vigilia della
festa del santo, nel rito dello scutu (ascolto), per chiedere a lei se
si sarebbero sposate, le donne
maritate se i mariti erano fedeli e
i malati per curarsi tuffandosi tre
San Giovanni
Nel 1576 sul posto venne edificata dai Gesuiti una chiesa dedicata a S. Giovanni Battista, il
quale era stato un personaggio
biblico legato pure lui alla profezia e all’acqua, avendo praticato
volte nell’acqua e invocando il
nome del Padre, del Figlio e del
Santo: così si fondevano insieme
le due religiosità, quella pagana
con quella cristiana.
Carla Amirante
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LA NUOVA FENICE
ROSA, PROFUMO DI SANTITÀ:
ROSALIA E ROSA DA LIMA
olteplici sono i significati della rosa nel linguaggio dei fiori, e variabili a
seconda del colore: viene subito
alla mente la rosa rossa, notoriamente simbolo della passione
d’amore. Ma questo fiore, con il
suo profumo intenso e delicato
insieme, può assumere un altro
significato: quello della santità.
Ne è esempio Santa Rosalia, che
nell’inno a lei dedicato viene
definita “Rosa fulgida che dolce olìa”.
Di Santa Rosalia, nel cui nome
alla rosa si unisce il giglio, ho
avuto modo di parlare in miei
precedenti articoli nei quali riferivo delle opere letterarie,
teatrali e poetiche, a lei dedicate nel Seicento: dal dramma sacro La Rosalia del Gesuita siciliano P. Ortensio Scammacca
alla commedia La mejor flor de
Sicilia: Santa Rosolea di Agustin de Salazar, drammaturgo
spagnolo del Secolo d’oro, ai
tre poemi del palermitano Pietro Fullone, meglio noto come
Petru Fudduni. In questa sede,
però, al fine di istituire poi un
parallelo tra queste due sante,
intendo parlare innanzitutto di
un’altra rosa dal forte profumo
di santità: Santa Rosa da Lima,
M
patrona dell’America, anche lei
protagonista di una commedia
spagnola di Agustin Moreto
Santa Rosa del Peru (1699) in
quanto appartenente a quello
stesso mondo dell’Hispanidad,
stabilitosi tra le due sponde dell’Oceano, che accomuna la Sicilia con l’America latina e che,
riscoprendo e valorizzando la
figura della Santa normanna, la
inserì saldamente nel proprio
universo.
Rosa appartiene a quella schiera di santi, in un primo tempo,
come lei, di famiglia spagnola
ma in seguito anche meticci ed
indios, che fiorì nel Perù tra il
Cinquecento e il Seicento, all’indomani della Conquista e
della cristianizzazione di quel
grande Paese. Figlia di un hidalgo spagnolo, fu cresimata, al
pari del futuro santo meticcio
Martino de Porres, da un’altra
grande figura di santità, l’arcivescovo di Lima Toribio de
Mogrovejo, promotore della
pubblicazione, in Perù, del catechismo in spagnolo, quechua e
aymara e fondatore a Lima, nel
1591, del primo seminario di
tutta l’America Latina. Fu lo
stesso Mogrovejo a convocare
e presiedere il terzo Concilio di
Giuseppe Velasquez: Santa Rosalia, XVIII sec.
Lima, che segnò l’applicazione
in America dei deliberati del
Concilio di Trento.
La commedia di Moreto ci narra come, per aiutare la sua famiglia caduta in miseria, la giovane si dedicò al lavoro manuale.
ma poi, rispondendo alla chiamata di Cristo, decise di ritirarsi lontana dal mondo, vivendo
in solitudine rinchiusa in un padiglione del suo giardino, dove
si sottopose a ogni forma di privazione del cibo e del sonno e
alle più severe discipline, confortata da apparizioni di Gesù e
di Maria Bambina. Un servitore
fatuo, sciocco e un po’ gaglioffo, la tipica figura del gracioso
della commedia aurisecolare
spagnola, eletto da lei quale inflessibile guardiano per filtrare
le rare visite del suo direttore
spirituale, finì sull’esempio della santa per indirizzarsi sulla via
della santità. Ugual sorte toccò
al fidanzato di Rosa, che lei
aveva rifiutato per divenire sposa di Cristo: questo giovane nobile e ricco, che avrebbe potuto
sollevare la famiglia della fidanzata dalla povertà, dopo
aver tentato di violentarla per
istigazione del demonio che voleva farla recedere dalla sua
scelta, si pentì e scelse anche lui
il cammino della santità. Estenuata dalle privazioni, Rosa
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LA NUOVA FENICE
Rosa da Lima
morì ancora molto giovane e,
appesa in ginocchio ai rami, a
forma di croce, di un albero del
suo orto, venne elevata in cielo,
dove fu accolta da Gesù, daMaria e dalla sua protettrice Santa
Caterina.
Le comedias de santos, nel teatro spagnolo aurisecolare, procedono un po’ per schemi fissi:
ma a prescindere da ciò e dalla
comune appartenenza degli autori Salazar e Moreto alla scuola calderoniana, nelle due commedie sopra citate risulta evidente il parallelismo, tra la biografia (fantastica) di Santa Rosalia e quella posteriore di Santa Rosa da Lima. Entrambe bel-
Toribio Mogrovejo
le e destinate a un ricco matrimonio, che rifiutano per amore
di Cristo; entrambe votate al-
l’eremitaggio e a una vita di
privazioni; entrambe sostenute
nei momenti difficili da teofanie ed apparizioni angeliche;
entrambe tentate invano dal demonio; entrambe morte in giovane età ed assunte in cielo con
grande edificazione spirituale
dei presenti.
E’ in forza di queste forti analogie, sottolineate anche dall’iconografia che le raffigura entrambe coronate di rose, e della
comune appartenenza al mondo
dell’Hispanidad, che possiamo
affermare che Rosalia e Rosa
sono due fiori del paradiso
ispanico.
Gianfranco Romagnoli
LE FONTANELLE DIMENTICATE
redo che potrei riconoscere le fontanelle
della mia città anche se ne
sentissi soltanto l’odore.
Ricordo perfettamente che quando da bambino mi inchinavo per
bere dal piccolo rubinetto d’ottone percepivo un odore particolare emanato da queste fontanelle,
sicuramente dovuto all’interazione dell’acqua con il particolare metallo di cui sono costituite.
E’ strano come gli odori entrino
a far parte della nostra memoria, rievocando con vivida lucidità le cose a cui gli odori
stessi appartengono.
Quel ricordo è rimasto impresso forte nella mia memoria, ed
C
ancora più forte quello della
soddisfazione che provavo nel
dissetarmi, magari dopo una
partita al pallone, o semplicemente rifocillandomi durante
una di quelle tipiche giornate
assolate che la nostra terra offre
nelle stagione più calde.
Oggi i nostri ragazzi non la cercano neanche la fontanella, sicuramente perché non l’hanno
mai conosciuta, e noi grandi ce
la siamo dimenticata.
Eppure, ne sono sicuro, chi
viene da fuori a trovarci, intendo il turista, di certo troverebbe
gradevole chinarsi a bere un
sorso d’acqua da una di queste
fontanelle, magari opportuna-
mente collocate dalla nostra
Amministrazione lungo le arterie principali della Città.
Sono certo che anche il turista
legherebbe indissolubilmente
ai propri ricordi l’odore tipico
che emanano queste fontanelle
alla nostra Città, magari dicendo: “E’ vero, a Palermo fa un
grande caldo d’estate, ma puoi
rinfrescarti in quelle fantastiche
fontanelle di cui la Città è disseminata”.
Con il sogno che questa diventi
una Città a vocazione turistica.
Gasperino Como
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LA NUOVA FENICE
IL NATALE BORBONICO
l Natale a Casa Borbone ha
rappresentato sempre un momento fondamentale dell’anno reale. La dinastia regnante un
pò per spirito religioso, un pò per
inserirsi nel solco della tradizione natalizia partenopea ha riservato un’attenzione speciale alla
festa più attesa.
La notte di Natale d’obbligo era la
Santa Messa nella Cappella Reale Palatina della reggia di Caserta, che fu tra l’altro inaugurata proprio la notte di Natale del 1784.
Veniamo ora agli addobbi natalizi. Per molto tempo, la tradizione
dell’albero di Natale rimase tipica delle regioni a nord del Reno.
I cattolici la consideravano un uso
protestante. Furono gli ufficiali
prussiani, dopo il Congresso di
Vienna, a contribuire alla sua diffusione negli anni successivi. A
Vienna l’albero di Natale apparve nel 1816, per volere della
principessa Henrietta von NassauWeilburg, ed in Francia nel 1840,
introdotto dalla duchessa di Orléans. Nel Regno delle Due Sicilie
tale uso subentrò quindi successivamente e raggiunse proporzioni
consumistiche solo agli inizi del
Novecento (sotto l’egida piemontese). I Borbone dunque non applicarono mai tale uso. Il presepe
invece era un vero pallino per i
Borbone, più per Carlo e per
Francesco I che fu addirittura un
collezionista del genere. All’allestimento del presepio partecipava
l’intera corte, non solo artisti e artigiani che realizzavano le statuine, ma anche dame di corte e principesse che si interessavano del
confezionamento degli abiti eseguito dalle sarte più abili della manifattura reale. Il presepe reale era
allestito in una sala ellittica all’interno della Reggia di Caserta.
Questi presepi immortalavano i
fatti dell’epoca, come il ritrovamento di Pompei e Ercolano (la
prima campagna di scavo avvenne fra il 1738 e il 1765 sotto
il patrocinio di Carlo di Borbone,
strano dunque che l’attuale ammi-
I
nistrazione comunale nomini un
erede Savoia come ambasciatore
di Pompei nel mondo...), nonchè
i cortei e le feste principesche.
Oggi il presepe della Reggia è stato restaurato di recente, dopo
che la maggior parte dei pastori
era stata trafugata: quelle oggi visibili sono le statuine che appartenevano a Ferdinando II.
zuppe: una di purè d’erbe; una di
polpette all’Allemanda; una di
barrone con maccheroni. «Due rilievi»: uno di culardos (voce popolare per coscia), con capponi e
lingua in allesso con aspò (aspic)
e uno composto di un arrosto di
piccioni e grigliata con beccacce,
beccaccine, tordi e salsicce. Sei
entrate: una di pasticcetti di Sar-
I Borbone quindi favorirono sempre l’antica tradizione presepiale napoletana. Come da tradizione infatti le figurine erano realizzate parte in terracotta, teste mani
e piedi, mentre l’anima era in
stoppa e fil di ferro. Venivano realizzati veri e propri progetti: l’ultimo fu del 1844, e l’attuale presepe presente alla Reggia si ispira proprio a quel progetto.
Il giorno di Natale l’augusto sovrano partecipava con la famiglia reale al pranzo natalizio presso la sala
da pranzo della reggia di Caserta.
Il menù di Natale consumato
dalla famiglia reale in forma privata il 25 dicembre del 1827, sotto il regno di Francesco I (oggi
conservato nell’archivio della
Reggia di Caserta) fu un pranzo
molto intimo e meno pomposo
del solito. Due anni prima infatti era morto (nel gennaio del
1825) il padre Ferdinando I di
Borbone e quindi non ci furono
grandi ricevimenti per quelle festività. Nonostante ciò il pranzo
di Natale fu di tutto rispetto.
Il menù era così composto: tre
no alla tedesca, uno di papigliotte (filetti ndr) di beccaccine alla
Pericord, uno di granatine di petti di gallote con ragù di piselli;
uno di lattarole (animelle ndr) alla
macedonia con ragù alla Tolosa;
uno di gelatina di portogalli (aranci); una canestrina di pasticcerie
ed amarenghe secche alla crema.
Solo per Sua Maestà; una di tinche
bollite; una di cardi con salsa gialla (maionese); uno de gamberi di
Sarno alla finisserbe (fines-herbes);
una di carciofi alla Lionese; una di
capitoni arrostiti.
Il Natale borbonico dunque mescolava tradizione, regalità, religiosità e sobrietà. Il nostro Natale é invece una strana alchimia commerciale che poco ha ancora di senso
religioso, poca sobrietà e sempre
meno tradizione. Ecco che la crisi economica che tanto ci fa penare diventa occasione per riscoprire le nostre radici, per rendere di
nuovo genuino ciò che é stato sofisticato ed edulcorato dalla vacua
modernità del 2013, dalla globalizzazione che sempre più diventa “americanizzazione” di usi e costumi in realtà plurisecolari, in realtà nostri da sempre.
Che il Natale 2013 possa essere un
vero Natale borbonico: tradizionale, regale, religioso e sobrio.
Francesco Paolo Guarneri
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