SOCIETÀ DI STUDI POLITICI
Scuola di alta formazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Umanesimo e Rinascimento
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Le nozze dei Bentivoglio (1487)
Cronisti e poeti
a cura di Bruno Basile e Stefano Scioli
La scuola di Pitagora
editrice
Questa collana è promossa dalla Società di studi politici ed è diretta da
Gerardo Fortunato.
Le traduzioni di Beroaldo e Naldi sono dovute, rispettivamente, a
Alessandro Barbone e Francesco Lupi.
Copyright © 2014 La scuola di Pitagora editrice
Via Monte di Dio, 54
80132 Napoli
www.scuoladipitagora.it
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ISBN
ISBN
978-88-6542-060-7 (versione cartacea)
978-88-6542-155-0 (versione elettronica nel formato PDF)
Printed in Italy - Stampato in Italia nel mese di maggio 2014.
INDICE
Introduzione
Giovanni Sabadino degli Arienti
HYMENEUS BENTIVOLUS
Angelo Michele Salimbeni
LA GIOSTRA DEL GUANTO. LA PARTITA A PALLONE.
LA GIRANDOLA
Filippo Beroaldo il Vecchio
NUPTIAE BENTIVOLORUM
Le nozze dei Bentivoglio
Antonio Cortesi Urceo detto Codro
DE RENOVATIONE BONONIAE
Rinascita di Bologna
Naldo Naldi
EPITHALAMION IN HANNIBALEM
ATQUE LUCRETIAM BENTIVOLOS
Epitalamio per Annibale e Lucrezia Bentivoglio
9
21
25
139
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147
151
193
197
205
209
Cherubino Ghirardacci
SPOSALIZIO DI ANNIBALE DI GIOVANNI BENTIVOGLIO
CON MADONNA LUCREZIA FIGLIA NATURALE
DEL DUCA DA ESTE FATTO CON MAGNIFICENZA
Nota critica ai testi
225
229
243
INTRODUZIONE
«Giovanni [II Bentivoglio] felicissimo di tutti
i tiranni d’Italia ed esempio di prospera fortuna»
F. GUICCIARDINI, Storia d’Italia, VII, 11
Le nozze che unirono, nel gennaio 1487, Annibale Bentivoglio e
Lucrezia d’Este sono, sotto il profilo storico, solo un episodio di quella politica di alleanze domestiche consueta ai dinasti delle famiglie
signorili del Quattrocento. Per capire quanto stesse a cuore l’unione ai
genitori dell’augusta coppia, basta ricordare che Giovanni II
Bentivoglio ed Ercole I d’Este fidanzarono ufficialmente i giovani nel
1478, quando «la detta Lucrezia avea 8 anni» e messer Annibale «avea
nove anni». D’altronde tra Bologna e Ferrara, Signorie contigue, dovevano esserci relazioni di buon vicinato, già da tempo sancite da comuni commerci e legami militari, magari per trattare – da pari a pari – con
Venezia, che controllava i traffici di derrate preziose nell’area padana,
mantenendo monopoli sul sale1.
Cfr. C. M. ADY, I Bentivoglio, tr. it., Varese, Dall’Oglio, 1965; A.
SORBELLI, I Bentivoglio, a cura di M. BACCI, Bologna, Cappelli, 1969, B.
BASILE (a cura di), Bentivolorum magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel
Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1984; M. VIROLI, I Bentivoglio signori di Bologna,
Cesena, Il Ponte Vecchio, 2011. Per il contesto storico, utile M. FOLIN (a cura
di), Corti italiane del Rinascimento: arti, cultura e politica. 1395-1530, Milano,
Officina Libraria, 2010. Per la politica matrimoniale del tempo, sono indispensabili L. FABBRI, Alleanza matrimoniale e patrimonio nella Firenze del Quattrocento. Uno studio della famiglia Strozzi, Firenze, Olschki, 1991 e D. LOMBARDI, Storia del matrimonio in Italia. Dal Medioevo a oggi, Bologna, Il Mulino,
1
10
Bruno Basile
A un tale quadro scontato si deve però aggiungere, suggerita dai
cronisti dell’epoca, una calcolata strategia da parte di Giovanni II, sempre inquieto riguardo ai principi a lui vicini. Se questo indiscusso pater
familias scelse come compagna Ginevra Sforza (di casata guerriera
milanese) i rampolli – maschi e femmine – ebbero destini non meno
prestigiosi di Annibale: Alessandro sposò Ippolita Sforza, Giovanni
juniore Laura Gonzaga, Hermes Jacopa Orsini. Francesca fu unita a
Galeotto Manfredi, signore di Faenza, Leonora a Ghiberto Pio da
Carpi, e Violante al riminese Pandolfo Malatesta. Pensando ai ricchi
beni dotali posti in palio, queste cerimonie ebbero il valore di veri trattati, ad un tempo politici ed economici. Non dimentichiamo l’aiuto
offerto da Astorgio III di Faenza ai Bolognesi all’epoca dell’invasione
delle Romagne da parte del Valentino: era il nipote di Giovanni II.
Il Bentivoglio, egualmente insicuro all’interno della sua città, una
Bologna che non tutta lo amava (nel 1488, ad un anno dalle nozze
famose, avvenne la sanguinosa congiura dei Malvezzi)2, cercò nell’occasione festiva di celebrare il suo potere con un rito di magnificenza
utile alla casata, che in quella circostanza presentava il primogenito di
Giovanni come futuro dinasta felsineo (Annibale II). Sul piano del
pathos del dominio, Giovanni II non era certo inferiore ad alcun principe d’epoca. Lo dimostra la sontuosità della sua dimora cittadina, considerata, da viaggiatori e cronisti, tra le più belle dell’Italia quattrocentesca – al momento delle nozze appena compiuta – e la febbrile pervicacia impiegata per ottenere una moneta per la città-stato di Bologna.
Una coniatura portata a termine solo nel 1494, con placet imperiale di
Massimiliano d’Asburgo, proteste dello Stato della Chiesa (che aveva
imposto il ducato con armi papali e il motto Bononia docet), e meraviglia dell’Italia tutta quando Giovanni diffuse il suo aureo, con il pro1988. Per le feste in uso, cfr. R. STRONG, Arte e potere. Le feste del Rinascimento.
1450-1650, tr. it., Milano, Mondadori, 1987. Suggestiva ricostruzione di un
pranzo nuziale del Rinascimento in J. DICKIE, Con gusto. Storia degli Italiani a
tavola, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 97 sgg. e in M. COGOTTI e J. DI
SCHINO (a cura di), Magnificenze a tavola. Le arti del banchetto rinascimentale,
Roma, De Luca, 2012.
2
R. BELVEDERI, I Bentivoglio e i Malvezzi a Bologna negli anni 1463-1506, in
«Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Bari», VI, 1967, pp. 3378.
INTRODUZIONE
11
prio profilo inciso – si dice – da Francesco Francia, pittore di corte, e
di modulo così largo da svettare su zecchini veneziani e fiorini toscani
(a cui nemmeno l’albagìa medicea appose il ritratto di Lorenzo)3. In
attesa di quell’evento, che avrebbe portato prae manibus la grandezza
della casata, il Bentivoglio si servì di quella festa per identici scopi di
sublime propaganda.
Le nuptiae Bentivolorum avrebbero dovuto coinvolgere non solo la
città, gemellandola con Ferrara, ma la rappresentanza diplomatica di
tutti i principi d’Italia, chiamati, con la ritualità dei doni – ricambiati da
feste e pranzi d’apparato solenne – a legittimare il potere assoluto della
Signoria felsinea. La quale, a sua volta, avrebbe dovuto aprirsi a tutti
gli strati sociali cittadini in una kermesse di popolo abilmente promosso
a giudice delle domus jucunditatis principesche (interne ed esterne alla
città) e di una nuova ristrutturazione urbanistica varata per l’occasione4. Giovanni II, insomma, voleva qualcosa di più di un tripudio locale sul genere di quello orchestrato, nel 1466, da Lorenzo de’ Medici in
occasione del matrimonio della sorella – l’amatissima Nannina – con
Bernardo Rucellai. Una festa risolta da un banchetto offerto, in via
della Vigna, a cinquecento persone. Pranzo che vide serviti, da donzelli in livrea, «260 capponi, 500 paperi, 236 anitracci, 1500 pollastri e
470 pippioni». Il tutto accompagnato da vini scelti, dolciumi – furono
G. GOZZADINI, Memorie per la vita di Giovanni II Bentivoglio, Bologna,
Tipi delle Belle Arti, 1839 (ancora fondamentale per il palazzo); C. M. ADY, I
Bentivoglio, cit., pp. 133-134, per le vicende numismatiche. Giovanni fece
coniare anche un doppio ducato; entrambe le monete – superbe e rarissime
oggi – sono apparse in una vendita all’asta a S. Marino: cat. «Artemide Aste»,
XXIII, 14 dic. 2008, p. 65 (valutate 9.000 e 10.000 euro). Per la politica monetaria delle Signorie, cfr. A. CAIROLA, Le monete del Rinascimento, Roma,
Editalia, 1973 e L. BELLOCCHI, Le monete di Bologna, Bologna, Cassa di
Risparmio, 1987, spec. p. 142.
4
G. ZANNONI, Una rappresentazione allegorica a Bologna nel 1487, in «Atti
della R. Accademia dei Lincei. Rendiconti», s. IV, 7, 1891, pp. 414-427; G.
CAZZOLA, La festa nel Quattrocento: spettacolo e persuasione di massa, in
«Quaderni Medievali», VI, 1978, pp. 96-103; ID., «Bentivoli machinatores».
Aspetti politici e momenti teatrali di una festa quattrocentesca bolognese, in
«Biblioteca teatrale», XXIII-XXIV, 1979, pp. 14-38; M. CALORE, Pubblico e
spettacolo nel Rinascimento. Indagine sul territorio dell’Emilia Romagna, Bologna, Università degli Studi, 1992.
3
12
Bruno Basile
impiegate 1500 uova – e, segno della finezza laurenziana, venti «catini
di gelatina»5.
Senza escludere colazioni e pranzi d’apparato – quello strettamente nuziale accolse 150 gentiluomini e dame – Giovanni II distinse abilmente le ritualità signorili dagli spectacula per i concittadini, pur rendendoli, di fatto, contemporanei. Il rito religioso officiato tra Ferrara e
Bologna, il corteo di nobili che accompagnò la coppia fin sul sagrato di
San Petronio (ma giungendo alle porte felsinee dopo un itinerario per
via d’acqua), avevano una funzione d’incanto spettacolare, visto lo
splendore degli abiti sfoggiati, le cavalcature e i séguiti di armigeri in
alta uniforme. Il popolo era solo spettatore, lungo le vie o raccolto nella
piazza prospiciente il palazzo dei Bentivoglio, a poca distanza dalla
chiesa di S. Giacomo Maggiore. Ma era coinvolto, se non dalle rappresentazioni allegoriche allestite presso gli archi trionfali – dove si recitavano poesie volgari e latine –, almeno da una struttura processionale
dei cortei dove avevano posto, come in una fiera di paese, pantomimi,
giocolieri, uomini sui trampoli, baruffe di nani. E non mancò, per il più
vasto pubblico, l’intermezzo delle gare a squadre e delle tenzoni, che
affrontarono cavalieri e fanti in torneo, e giovani cittadini nel giuoco
del pallone: non la toscana «palla al piede», ma un duro scontro con
rilanci anche di mano, una sorta di rugby a zuffa, antenato delle partite di calcio poi codificate, nel cuore del Cinquecento, da Antonio
Scaino6.
Documento riproposto in M. G. MUZZARELLI, Guardaroba medievale.
Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 87. Cfr. N.
CAREW-REID, Feste e politica a Firenze sotto Lorenzo il Magnifico, in «Quaderni
Medievali», XXIV, 1987, pp. 25-55.
6
Per queste costumanze, cfr. J. HEERS, Fêtes, jeux et joutes dans les societés
d’Occident à la fin du Moye Âge, Montréal-Paris, Institute d’études médiévalesVrin, 1971 e i saggi di F. CARDINI, Il torneo nelle pratiche cerimoniali di corte, in
«Quaderni di Teatro», VII, 1984, pp. 9-19 e A. PINELLI, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, in AA.VV., Memoria dell’antico nell’arte italiana,
a cura di S. SETTIS, Torino, Einaudi, 1985, II, pp. 279-350. Finissimi A. M.
TESTA VERDE MATTEINI, La decorazione festiva e l’itinerario di “rifondazione”
della città negli ingressi trionfali a Firenze tra XV e XVI secolo, in «Mitteilungen
des Kunsthirorischen Instituts in Florenz», XXXII, 1988, pp. 325-352 e U.
ROZZO, Una festa di nozze sforzesca del gennaio 1489 a Tortona, in «Libri &
5
INTRODUZIONE
13
Temendo, a ragione, che nella festa l’inevitabile disordine prevalesse sulle ritualità cortesi d’obbligo, i Bentivoglio si assicurarono la regia
di un amuseur professionista, Ercole Albergati detto Zafrano, il quale si
adoperò non solo per un degno finale – la girandola di fuochi d’artificio preparati dallo specialista toscano Francesco d’Angelo, il Cecca –
ma per curatissime scenografie di effetto teatrale7. E non c’era che
l’imbarazzo della scelta tra gli archi trionfali per gli sposi, i viridaria
apprestati per ostentare, in trofei fioriti, le armi nobiliari dei coniugi, i
pranzi, suddivisi, con studiato rispetto verso gli strati sociali del tempo,
tra quello nobiliare, entro le mura del palazzo Bentivoglio, e quello di
piazza, animatissimo accanto alla celebre magione. Uno spazio quest’ultimo ottenuto da Giovanni II coprendo con un assito quanto ricavato dalla demolizione – risarcita, ma imposta – delle case del vicino
quartiere. Una «rovina» unanimamente accettata come primo auspicio
di regolarmentazione urbana, forse di modello ferrarese. Ercole I
d’Este, con la pianificazione cittadina affidata nel 1471 a Biagio
Rossetti, faceva già scuola8. Ma veniamo al pranzo ufficiale di nozze,
quello principesco.
Documenti», XIV, 1989, pp. 9-23. Il Trattato del giuoco della palla di A. Scaino
fu edito a Venezia (G. Giolito,1555).
7
Questo amuseur è ricordato come «scurra» (buffone, in latino). Ma l’epiteto non inganni: di norma tale personaggio era di cultura, come sa chi abbia
letto le memorie di Ser Atanasio buffone, ossia Monaldo degli Atanagi, morto
nel 1564, al servizio, come regista, di Guidubando II della Rovere, e poi amuseur del re di Francia Francesco I e caro a Enrico II: vd. G. ZANNONI, Ser
Atanasio buffone, in «Nuova Antologia», LXXXII, 1859, pp. 25-57 e T.
SAFFIOTI, … e il signor duca ne rise di buona maniera. Vita privata di un buffone
di corte nella Urbino del Cinquecento, Milano, Book Time, 2008 (con elenco dei
codici mss. vaticani che tramandano le memorie – ancora inedite – del singolare personaggio). Non si deve confondere il buffone con i nani «sollazzevoli»:
il primo poteva anche divenire ministro nel Quattrocento (come Coquinet, «le
fou de Bourgogne»), i nanerottoli servivano solo per gli entremets divertenti di
corte: vd. J. HUIZINGA, L’Autunno del Medioevo, tr. it., Roma, Newton, 2007,
pp. 34 e 44.
8
Simili ristrutturazioni urbane per feste erano consuete: R. SCOFIELD, A
Humanist Description of the Architecture for the Wedding of Gian Galeazzo Sforza
and Isabella di Aragona (1489), in «Papers for the British School at Rome»,
LVI, 1988, pp. 212-240. Bibliografia in A. F. MARCIANO, L’età di Biagio Rossetti,
14
Bruno Basile
La presenza di ben ventidue portate lo rese mitico presso un grande pubblico che, se colto, conosceva il limite dei venti piatti stigmatizzato come lusso dispendioso nel tardo impero romano di Eliogabalo.
Tuttavia è documentato che lo splendore dei cibi – di solito appena
assaggiati su piatti offerti dagli scalchi – e la varietà dei vini serviti avevano, in epoca rinascimentale, un valore di rito estetico, sancito da
apposite preparazioni «a vista» che allineavano in serie studiata – cucinati, ma imbanditi con le loro stesse livree naturali – pavoni, fagiani,
uccelli, cacciagioni seguiti da pasticci, salumi e caraffe di vini. Valore
chiaramente confermato dai dolci, vere piramidi scolpite di zucchero,
con architetture di ogni forma e soggetto (castelli, fontane, palagi mitologici) decorate con gli stemmi delle casate, fatte sfilare in una lenta
processione per lo stupore. Sappiamo da ricettari rinascimentali – celebri quelli del maître Cristoforo da Messisburgo – che questi trionfi alimentari erano consueti, lasciati al capriccio del Signore, capace di iterare ad libitum le portate: fino a cinquanta, esposte su scenografiche
«credenze»9.
Semmai nel prandium felsineo è da notare la presenza – inconsueta e di chiaro valore simbolico (un rito di fertilità) – di animali vivi,
prima catturati, poi addomesticati, che trascorrevano, liberamente, per
le sale e il peristilio del giardino del palazzo bentivolesco. Uccelli, conigli, cerbiatti si alternavano a ricci e porcelli: questi ultimi, per noi, inaccettabili in un contesto cerimoniale. Ma non si dimentichi che a
Bologna il maiale aveva un valore totemico, simbolo di grassa e festo-
Ferrara, Cassa di Risparmio, 1991 e R. J. TUTTLE, Piazza Maggiore. Studi su
Bologna nel Cinquecento, tr. it., Venezia, Marsilio, 2001.
9
Per gli archetipi classici dei prandia, cfr. R. TURCAN, Vivere alla corte dei
Cesari, tr. it., Firenze, Giunti, 1991, pp. 211-216; per l’epoca bentivolesca, cfr.
AA.VV., Spettacoli conviviali dall’antichità classica al ’400. Atti del VII
Congresso del Centro Studi sul Teatro Medievale e Rinascimentale (Viterbo,
27-30 maggio 1982), Viterbo, Tip. Agnesotti, 1983 e specialmente E. FACCIOLI
(a cura di), L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della
tavola dal XIV al XIX secolo, Torino, Einaudi, 1987 (per il Messisburgo, pp.
285-306). Non si dimentichi – sfuggito agli storici dell’alimentazione – che il
pavone, cibo raffinato fin dal Medioevo, era animale sacro a Giunone e indicato per i pranzi di nozze, alludendo anche all’immortalità: cfr. J. J. BACHOFEN,
La dottrina dell’immortalità della teologia orfica, tr. it., Milano, Rizzoli, 2003, pp.
156-157, e il riscontro dell’Epithalamium di G. A. Salimbeni, ott. 161.
INTRODUZIONE
15
sa opulenza, come sa chi abbia letto, di Giulio Cesare Croce,
l’Eccellenza e trionfo del porco, o sia a conoscenza della Festa della porchetta, che radunava tutto il popolo in Piazza Maggiore10. Unendo a
questi particolari il rito scambievole dei doni (dai gioielli ai cavalli: i
Medici regalarono una bianca «chinea» agli sposi), si giunge al termine di un tripudio in cui, per legge non scritta, la spesa pubblica doveva superare il valore della dote, e il popolino goderne a sua volta. Il
Diario bolognese di Gaspare Nadi registra che il Bentivoglio, «messer
Zoane», distribuì «30 migiara de libre de charne», «14 corbe de savore» – ossia di salsa – «950 chorbe de farina e 352 libre de chonfeto»11.
Una cronaca lieta, dunque, per i pettegolezzi – in un ruvido idioma –
dei cronisti d’epoca, ma che conosce anche una valenza letteraria di
tutto rispetto.
Lo dimentichiamo troppo spesso: la festa era la migliore occasione
per gli scrittori legati a una casata nobiliare per celebrare il proprio
genio creativo. Capolavori assoluti del nostro Rinascimento nacquero
per le feste di corte: dalle Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici di
Poliziano (capace di ripetersi, per i Gonzaga, con il sublime Orfeo) fino
– e scendiamo nel tempo di quasi un secolo – all’Aminta del Tasso,
scritto per una festa estense. E simili impegni, garbatamente imposti,
erano considerati di alto prestigio dal letterato di turno. Tasso, caduto
in disgrazia presso Alfonso II d’Este, passò – come Poliziano – nella
corte gonzaghesca, accettando di scrivere, in versi, la Genealogia di
quella casata: un terribile dovere, che la dice lunga sulla persistenza,
secolare, di certi costumi. Cercandone la scaturigine, come per tante
tradizioni dotte del Rinascimento, c’imbattiamo in Lorenzo de’
10
G. C. CROCE, Eccellenza e trionfo del porco e opere in prosa, a cura di M.
ROUCH, Bologna, Pendragon, 2006 e la vasta raccolta documentaria a cura di
U. LEOTTI e M. PIGOZZI, La festa della Porchetta a Bologna, Loreto, Ed.
Tecnostampa, 2010. Per usi ludici del maiale in feste popolari, cfr. M. BOITEUX,
Le feste: cultura del riso e della derisione, in A. VAUCHEZ (a cura di), Roma medievale, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 297-315. Utile M. MONTANARI (a cura di),
Bologna grassa. La costruzione di un mito, Bologna, Clueb, 2004.
11
G. NADI, Diario bolognese, a cura di C. RICCI e A. BACCHI DELLA LEGA,
rist., Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1969, p. 124. Simili indiscrezioni si leggono nelle Croniche di G. Poggi, G. de’ Borselli e soprattutto di F.
dalla Tuata (Bologna, Bibl. Univ., ms. 1438, cc. 138v-145r).
16
Bruno Basile
Medici, il principe che illuminò anche le nozze bentivolesche con il
fasto della sua famiglia: quelle gemme e perle che incantarono anche il
popolino bolognese, vedendole baluginare sugli abiti fiorentini.
Lorenzo, nel 1469, per celebrare la sua vittoria in un torneo cavalleresco, commissionò un poemetto a Luigi Pulci, suo letterato di corte. Il
lavoro celebrativo, una Giostra in 160 ottave, fu diffuso manoscritto e,
a stampa, dal 1482, incantò, come modello, i principi dell’Italia tutta12.
Giovanni II Bentivoglio, nel 1470 – Firenze e Bologna sono vicine
– commissionò anch’egli a Giovanni Sabadino degli Arienti il suo trionfo in un torneo: quello scrittore era il letterato più illustre della sua
corte. Prevedibile che, nel 1487, venisse impiegato per la scrittura –
sempre in prosa – di un Hymeneus nuziale: lavoro che impegnò il diligente Sabadino con studiate strategie. Essendo un ottimo amanuense,
ma in un’epoca dove a Bologna fioriva già la stampa, preparò, come
dono per la famiglia bentivolesca, un memorandum delle nozze costituito da un codicetto con raffinate miniature: arientesco nell’autografia,
quasi certamente ferrarese nelle decorazioni araldiche. Un capolavoro
conservato – in acquisizione recente da trafile collezionistiche – nella
Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. Nel testo Arienti
si dimostra cronista impeccabile, di una puntualità affettuosa nel ricordo di persone ed eventi, stilizzati da una prosa la cui patinatura latineggiante non vela, ma rende illustre il parlato petroniano. E sfogliando le
pagine del testo si ottiene una restituzione pittoresca dell’evento, reso
L. PULCI, Morgante e opere minori, a cura di A. GRECO, Torino, Utet,
1997, vol. II, pp. 1321-1369 e M. MARTELLI, Letteratura fiorentina del
Quattrocento. Il filtro degli anni Sessanta, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 185198. Per altri ragguagli storici, cfr. J. FLECKENSTEIN (ed.), Das ritterliches
Turnier im Mittelalter, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1985 e M. DAVIE,
Luigi Pulci’s “Stanze per la Giostra”. Verse and Prose Account of a Florentine Joust
of 1469, in «Italian Studies», XLIV, 1989, pp. 41-58. Sul mecenatismo laurenziano, cfr. A. CHASTEL, Arte e Umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il
Magnifico, tr. it., Torino, Einaudi, 1964, P. VENTRONE (a cura di), Le tems
revient. Il tempo si rinnova. Feste e spettacoli nella Firenze di Lorenzo il Magnifico,
Milano, Silvana Ed., 1992, F. W. KENT, Lorenzo de’ Medici and the Art of the
Magnificence, Baltimore-London, The Johns Hopkins Univ. Press, 2004 e I.
WALTER, Lorenzo de’ Medici e il suo tempo, tr. it., Roma, Donzelli, 2005.
12
INTRODUZIONE
17
quasi sacrale dall’uso – e abuso – d’inchiostri aurei e porporini per trasformare una cronaca in libro-oggetto, vero tesoro per i posteri13.
Arienti era un notaio felsineo: e quel ceto colto rappresentava, a
Bologna, la classe da cui la città traeva magistrati e fini umanisti. Ancor
oggi il forestiero è colpito dalla presenza dell’austero Palazzo dei Notai
accanto alla chiesa di San Petronio, protettore della città. L’agiatezza
sociale dei giuristi e la loro perfetta conoscenza del latino era di per sé
garanzia di squisita competenza letteraria. E non si dimentichi che a
quell’epoca solo una disponibilità economica consistente – e quella dei
notai era assodata – poteva permettere l’acquisto dei codici di opere
classiche – o à la page – che costituivano la biblioteca indispensabile di
uno scrittore. Un abito che, a Bologna, unisce in una tenace tradizione il Medioevo di Enrichetto delle Querce – il notaio lettore di Dante
– e il Rinascimento di Arienti, amateur di Boccaccio molto prima della
scrittura delle Novelle Porretane14. Non sorprende, quindi, che alle
nozze desse un contributo poetico, in ottave, il notaio Angelo Michele
Salimbeni, che scelse quel metro narrativo (lo stesso delle Stanze del
Poliziano, in stampa bolognese, però, solo nel 1494) per descrivere
anch’egli pompe nuziali, torneo e giuoco del pallone, permettendo così
quella lettura incrociata degli eventi che è una delizia per gli storici. Ma
nessuno di essi – finora – si è accorto che il testo giunto a stampa
(Salimbeni era più moderno dello scriba antiquario Arienti) è dedicato
a Lorenzo de’ Medici, e non certo per fare torto a Giovanni II che perseguiva magnificenze toscane. Era uso dell’epoca che le potenti casate
Sul rapporto tra principe e cenacoli artistici felsinei, cfr. M. FAIETTI, K.
OBERHUBER (a cura di), Bologna e l’Umanesimo, Bologna, Nuova Alfa Ed.,
1988. Per le usuali committenze signorili durante feste, materiale vastissimo è
raccolto in AA.VV., Les fêtes de la Renaissance, études réunis et presentées par
J. JACQUOT, Paris, Centre National de la Recherche Scientifique, 1956-1975 (3
voll.), integrabili, nell’ottica popolare, con A. M. LECOQ, La “Città festeggiante”. Les fêtes publiques au XVe et XVIe siècles, in «Revue de l’Art», XXXIII,
1976, pp. 83-100 e R. BESSI, Umanesimo volgare. Studi di letteratura fra Tre e
Quattrocento, Firenze, Olschki, 2004, pp. 303-314.
14
G. FASOLI, Giuristi, giudici e notai nell’ordinamento comunale italiano e
nella vita cittadina, in EAD., Scritti di storia medievale, Bologna, La Fotocromo
Emiliana, 1974, pp. 609-622 e spec. T. DE ROBERTIS, Scritture di libri, scritture
di notai, in «Medioevo e Rinascimento», XXI, 2010, pp. 1-27.
13
18
Bruno Basile
effettuassero furtive carezze di alleanza attraverso le dediche delle
opere letterarie. E per un Salimbeni che omaggiava un Medici nella
festa bentivolesca, c’era un poeta laurenziano che omaggiava il
Bentivoglio: caso di Naldo Naldi, anch’egli a stampa, ma a Firenze,
con un opuscolo nuziale, e in latino. Naldi in quella lingua non era
secondo a nessuno, nemmeno a Poliziano: semmai doveva guardarsi
dal magister degli Ordelaffi, Antonio Cortesi Urceo, detto Codro, fresco adepto dello Studio bolognese e della corte signorile, impegnato
anch’egli in un metro festoso di canto latino15.
L’aspetto letterario più imprevisto venne però da Filippo Beroaldo
il Vecchio, severo umanista dello Studio, filologo di fama europea, che
Giovanni II coinvolse per il fatto di saperlo allievo del dotto Puteolano,
l’erudito precettore di Annibale, lo sposo novello. E il latino delle
Nuptiae Bentivolorum è davvero un dono suggestivo: la brevità del testo
– che trascura, polemicamente, le deliziose minuzie care all’Arienti e al
Salimbeni – è tutta tesa a rivendicare le possibilità espressive della lingua classica nei confronti di un evento “moderno”. Beroaldo, tanto
versato in simili exploits (dichiara, in corso d’opera, di aver descritto –
in una lettera al Puteolano – una partita di calcio), non arretra di fronte ad alcun tecnicismo. Cortei, cibi, gare sportive e persino lo spettacolo finale di fuochi d’artificio sono evocati con souplesse ironica, e sfoggio di terminologie rarissime, specillate, con erudizione peregrina, nel
patrimonio allora poco sondato della tarda latinità imperiale. Un unicum di valenza polemica anticiceroniana per gli accademici, e di finezQueste strategie potevano anche emarginare qualche poeta di provincia,
non inserito nella vita politica o di corte: è il caso di Francesco Uberti (la cui
poesia nuziale bentivolesca rimase confinata in un codice della Malatestiana,
S. XXIX, 2): cfr. L. PICCIONI, Di Francesco Uberti umanista cesenate de’ tempi di
Malatesta Novello e Cesare Borgia, Bologna, Zanichelli, 1903, pp. 9-10 e 99100. Oppure del Vaticinium latino di Nicola Burzi, parmense, conservato da G.
GOZZADINI, Memorie per la vita di Giovanni II Bentivoglio, cit., pp. 45-46. Sulla
cultura dello Studio felsineo, cfr. S. FABRIZIO-COSTA, L. LA BRASCA, Le professeur d’humanités dans les Universités de Bologne et Florence à la fin du XVe siècle:
images et conscience d’une fonction, in AA.VV., Culture et professions en Italie (fin
XVe-début XVIIe siècles), études réunis par A. C. FIORATO, Paris, Presses de la
Sorbonne, 1989, II, pp. 11-42 e anche G. M. ANSELMI, L. AVELLINI, E.
RAIMONDI, Il Rinascimento padano, in A. ASOR ROSA (a cura di), Letteratura italiana. Storia e Geografia. L’età moderna, Torino, Einaudi, 1988, pp. 521-591.
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INTRODUZIONE
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za “barocca” per il palato di lettori emunctae naris16. E anche un giuoco, dove l’idioma solenne dell’antichità è impiegato per l’effimero
moderno, con ironia divertita. Ma la letteratura umanistica, non
dimentichiamolo, è anche questo: un lusus teatrale che relativizza ogni
esperienza, mescidando presente e passato dinanzi all’occhio, smagato, di una coscienza moderna.
Se ne accorse Cherubino Ghirardacci, lo storico della Bologna rinascimentale, quando, riunendo assieme la polifonia di tante voci diverse, ma consonanti, volle anch’egli, nella sua Historia di Bologna, ricostruire quello scenario festoso: lo scelse ad emblema della stagione
bella felsinea all’insegna del governo Bentivoglio17, su documenti scrutinati, forse, dopo il 1570. Ma l’equilibrio narrativo della sua ricostruzione fedele, comunque da ricordare per un lettore moderno, non deve
porre in oblio la pregnanza dei testi originali: encomiastici, preziosamente didascalici, bilingui – in volgare e latino, le due anime della civiltà umanistica e rinascimentale – ma capaci sempre, alle soglie di
un’epoca che avrebbe conosciuto guerre18, e la cacciata dei superbi
Bentivoglio (1506), di suggerire un’oasi di edenica festa cittadina e,
ricordando le nozze, di mantenere – eterna – «la dolce memoria di
quel giorno».
BRUNO BASILE
Per capire lo stile complicato di Beroaldo, vd. J. F. D’AMICO, The Progress
of Renaissance Latin Prose: the Case of Apuleianism, in «Renaissance Quarterly»,
XXXVII, 1984, pp. 351-392.
17
Sul tema della lode della città nella storiografia felsinea, cfr. L.
QUAQUARELLI, Per singulare memoria. Retoriche a margine e identità municipale
nel Quattrocento bolognese, Bologna, Clueb, 2001.
18
Cfr. G. M. ANSELMI e A. DE BENEDICTIS (a cura di), Città in guerra.
Esperienze e riflessioni nel primo ’500. Bologna nelle “Guerre d’Italia”, Bologna,
Minerva Ed., 2008. Ulteriore bibliografia sul contesto storico è registrata in D.
DELCORNO BRANCA, Filologia e cultura volgare nell’Umanesimo bolognese, in G.
M. ANSELMI e M. GUERRA (a cura di), Lorenzo Valla e l’Umanesimo bolognese,
Bologna, Bononia Univ. Press, 2009, pp. 117-151.
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GIOVANNI SABADINO DEGLI ARIENTI
Cronista e scrittore (Bologna, 1445 ca. - ivi 1510). Di nobile, antica famiglia felsinea, per seguire la volontà del padre Ugolino si addottorò in giurisprudenza e divenne notaio. Ma, appassionato di letteratura, seguì le lezioni di Manfredo Valturio, affermandosi come buon latinista e raffinato amanuense. Per Lodovico Bentivoglio scrisse una cronaca cittadina, il De civica salute (1467 ca.), in uno splendido manoscritto che gli diede fama. Nel 1471 è nominato segretario di Andrea
Bentivoglio, figlio di Lodovico, e contemporaneamente il signore di
Bologna, Giovanni II, gli commissionò la descrizione di un torneo svoltosi nell’anno precedente, il 4 ottobre 1470. Considerato ormai il letterato della corte signorile bolognese, tenne un’orazione per il matrimonio di Ercole I d’Este ed Eleonora d’Aragona e celebrò
nell’Hymeneus Bentivolus le nozze di Annibale Bentivoglio e Lucrezia
d’Este. Legato al mondo nobiliare e umanistico della sua città (conobbe Filippo Beroaldo il Vecchio, Cesare Nappi, Giovan Battista
Spagnoli detto il Mantovano) scrisse un elegante Libro consolatorio per
Egano Lambertini, volgarizzò la Storia del Tempio di Loreto del
Mantovano, ma soprattutto compose, su modello boccacciano (il De
mulieribus claris), la Gynevera de le clare donne, opera dedicata alla
moglie, Ginevra Sforza, di Giovanni II, una silloge di trentatré elogi di
donne famose (1489-90 ca.). Perdurando l’alleanza tra i Bentivoglio e
gli Estensi, Arienti scrisse una Vita di Andrea Bentivoglio, la squisita
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Bruno Basile
Descrizione del zardin Viola dei signori di Bologna e divenne corrispondente di Isabella d’Este su argomenti storici e antiquari, dimostrandosi
epistolografo di vaglia. Per Isabella, nel 1498, compose una Vita di Anna
Sforza di notevole qualità.
Negli ultimi anni del Quattrocento – le cronologie sono discusse –
Arienti dedicò a Ercole I d’Este le Novelle Porretane (unico testo del
letterato giunto alla stampa d’epoca: Bologna, Enrico di Colonia,
1483; ma la data reale d’impressione si colloca tra il 1492 e il 1498), e
il De triumphis religionis (1497 ca.). Se quest’ultimo trattatello contiene qualche pagina suggestiva sui palazzi e i giardini di Ferrara, la silloge novellistica (di cui è pervenuto l’autografo: Firenze, Bibl. Nazionale, cod. Pal. 503) è certamente un piccolo capolavoro.
Ambientato nell’estate del 1475 a Porretta, il luogo di villeggiatura
dei nobili bolognesi, si compone di sessantuno novelle raccontate nella
boccacciana cornice del locus amoenus di quelle terme. Qui una brigata di gentiluomini e di gentildonne (oltre ad Andrea e Ulisse
Bentivoglio compaiono Guidantonio Lambertino, Beatrice di Saliceto,
Pietro Andrea Morsiani, il Beroaldo, il Nappi, il Mantovano e altre
comparse) narra storie d’amore e d’avventura, facezie e piacevolezze,
ben intonate con il carattere di ogni narratore, spaziando così dall’aneddoto salace a un Discorso sull’anima, recitato, come conclusione,
dal Mantovano. L’impasto linguistico, tra un parlato-scritto emiliano e
cadenze toscane e latine, rispecchia il meglio della studiata scrittura di
Arienti, il quale, dopo quell’opera, non lascia più tracce del suo ingegno. Emarginato dalla corte bentivolesca, tentò, negli ultimi anni della
sua vita, di ritornare cronista di nozze celebri: ma l’opuscolo scritto per
il matrimonio di Alfonso d’Este e di Lucrezia Borgia (1501), malgrado
lo stile lambiccato di chi forse ebbe modo di leggere, nel 1499,
l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, è un lavoro algido,
tradizionale, da vecchio cortigiano ormai superato da nuovi tempi corruschi di guerra e poco sensibili alle evocazioni delle domus jucunditatis quattrocentesche.
Edizioni
Il torneo fatto a Bologna il IV ottobre MCCCCLXX, a cura di A.
ZAMBIAGI, Parma, Battei, 1888; Libro consolatorio, a cura di V. FINZI, in
GIOVANNI SABADINO DEGLI ARIENTI
23
«Ateneo Veneto», XXIV (1901), I, pp. 129-140; II, pp. 240-260, 384397; Gynevera de le clare donne, a cura di C. RICCI e A. BACCHI DELLA
LEGA, Bologna, Romagnoli Dall’Acqua, 1887 (rist., ivi, Commissione
per i Testi di Lingua, 1968); Vita clarissimi senatoris com. Andreae
Bentivoli bononiensis, a cura di G. GIORDANI, Bologna, Della Volpe,
1840; Vita di Anna Sforza, a cura di P. BENEDETTI, Ferrara, Taddei,
1874; De triumphis religionis, a cura di W. L. GUNDERSHEIMER, Genève,
Droz, 1972; Descrizione del zardin Viola, in B. BASILE, Scrittori in giardino, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 59-69; Novelle Porretane, a cura di
G. GAMBARIN, Bari, Laterza, 1914; a cura di P. STOPPELLI, L’Aquila,
Japadre, 1975; a cura di B. BASILE, Roma, Salerno Ed., 1981; Letters
(1481-1510), ed. by C. JAMES, Firenze, Olschki, 2001; Un autografo di
Giovanni Sabadino degli Arienti: l’opuscolo per le nozze di Lucrezia
Borgia e Alfonso d’Este, a cura di B. BASILE e S. SCIOLI, in «Filologia e
Critica», XXXVII, 2008, pp. 95-109.
Critica
M. MINUTELLI, La miraculosa aqua. Lettura delle “Porretane novelle”,
Firenze, Olschki, 1990; R. SHEPHERD, Giovanni Sabadino degli Arienti,
Ercole d’Este and the Decoration of the Italian Renaissance Court, in
«Renaissance Studies», IX, 1995, pp. 18-57; ID., Giovanni Sabadino
degli Arienti and a Practical Definition of Magnificence in the Context of
Renaissance Architecture, in M. ROGERS, F. AMES-LEWIS (eds.), Concepts
of Beauty in Renaissance Art, Aldershot, Ashgate, 1998, pp. 52-65; C.
JAMES, Giovanni Sabadino degli Arienti. A Literary Career, Firenze,
Olschki, 1996; L. QUAQUARELLI, Clara gente e camere pinte: Giovanni
Sabadino degli Arienti voce della Bologna cortese, in «Schede umanistiche», II, 2004, pp. 9-27; S. CARAPEZZA, I «piacevoli e aspri casi
d’amore» nelle “Porretane” di Giovanni Sabadino degli Arienti, in «La
parola del testo», XIII, 2010, pp. 351-375. Sulla lingua mescidata di
latino e dialetto dell’Hymeneus, cfr. L. ROSIELLO, Grafematica, fonematica e critica testuale, in «Lingua e Stile», I, 1966, pp. 63-78; AA.VV.,
Due manoscritti autografi di Giovanni Sabadino degli Arienti acquisiti
dalla Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, in «L’Archiginnasio», XCIX, 2004, pp. 197-286 e B. BASILE, Arienti e il pranzo
24
Bruno Basile
nuziale di Annibale Bentivoglio e Lucrezia d’Este, in «Quaderni di Filologia romanza», XXII, 2014, pp. 137-146.
* * *
Il testo dell’Hymeneus Bentivolus è esemplato sull’autografo (Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio, B. 40602); per la descrizione del
ms. vd. Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia, vol. CXVI,
Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio. Serie B, a cura di M.
FANTI, Firenze, Olschki, 2013, pp. 175-176. Per la “storia materiale”
della copia bolognese (il codicetto pergamenaceo autografo, composto
di 76 carte di circa un quarto di foglio, era, alla fine del Cinquecento,
nella biblioteca del giurista bolognese Annibale Monterenzi; riemerge
poi nell’ultimo torno dell’Ottocento per migrare dalla collezione parigina di Eugène Piot nella grande raccolta di Horace Landau; nel cuore
del secolo scorso – anni Sessanta – si trova nelle mani di R. H. Radasch
di New York e approda, nel 1979, in un catalogo della ditta Laurence
Witten Rare Books di Southport, Connecticut), vd. F. BACCHELLI, Due
omaggi di Giovanni Sabadino degli Arienti per nozze principesche, in
«L’Archiginnasio», XCIX, 2004, p. 204, n. 6. La divisione in capitoli
rispetta, con numeri romani, i capilettera miniati dell’originale.
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