Communitas, n. 68 (2013)
Abolire i partiti politici? Rileggere Weil e Adriano Olivetti, pensando alla Terza Repubblica
di Damiano Palano
«In Francia», dice una delle tante massime
attribuite a Napoleone, «la salvezza di tutti risiede
nell’annientamento dei partiti». E, due secoli dopo,
è davvero difficile non riconoscere nelle parole di
Bonaparte qualcosa di molto familiare, qualcosa
che sentiamo ripetere quasi quotidianamente nel
lungo crepuscolo della Seconda Repubblica. E
che, per la verità, ha segnato senza soluzioni di
continuità l’ultimo ventennio, perché – dalle
giornate di Tangentopoli – il livore contro la
«partitocrazia» non ha mai davvero perduto la
propria energia. Ma, dato che il solenne impegno
a ‘riformare’ i partiti e il sistema politico assunto
più o meno da tutte le forze nei primi anni della Seconda Repubblica non ha prodotto, nella realtà,
alcuna rilevante modificazione, è del tutto comprensibile che quel rancore torni oggi a riemergere
ancora più forte, ulteriormente amplificato dalle ricadute della crisi economica.
Beppe Grillo ha fatto della critica alla partitocrazia il perno attorno a cui far ruotare un intero
immaginario, ma è piuttosto semplice ritrovare più di qualche precedente della polemica condotta dal
comico genovese, perché il concetto di partito è circondato nella sua storia da una fama molto più che
sinistra (per averne qualche conferma ulteriore, il lettore può sfogliare le pagine di Partito, un volumetto
dell’autore di queste righe, in uscita per i tipi del Mulino). Di recente Grillo si è richiamato per esempio
alla Nota sulla soppressione dei partiti politici di Simone Weil, che proprio in questi giorni viene
ripubblicata nell’antologia Senza partito edita da Vita-Feltrinelli, Milano, 2013 (→QUI).
In quelle pagine, Weil pronunciava una condanna senza appello contro ogni partito, e contro la stessa
idea di partito. «Un partito politico», scriveva per esempio, «è una macchina per fabbricare una
passione collettiva», «è un’organizzazione costituita in modo da esercitare una oppressione collettiva
sul pensiero di ciascuno degli esseri umani che ne sono membri», e, dunque, «fine primo e ultimo di
ogni partito politico è il suo potenziamento senza limite alcuno». Ma, soprattutto, in virtù di questi
elementi, agli occhi di Weil qualsiasi partito doveva apparire come «totalitario in nuce e
nell’aspirazione» (p. 23). Ogni partito, secondo il ragionamento di Weil, non può che puntare alla
propria espansione, e questo conduce tendenzialmente a trasformare lo strumento in un fine, o
comunque a perdere di vista il bene comune. «I partiti sono meravigliosi meccanismi in virtù dei quali in
tutto il Paese non rimane un solo spirito che presti la propria attenzione allo sforzo di discernere il bene,
la giustizia e la verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non potrebbe
immaginare nulla di più ingegnoso. Se la realtà è stata finora un po’ meno cupa, è solo perché i partiti
non avevano ancora divorato tutto» (p. 33). E proprio per questo effetto – sulla vita pubblica e anche
sulla vita interiore di ciascun individuo – Weil si scaglia senza alcuna esitazione contro il fenomeno
partitico: «L’influenza dei partiti ha interamente contaminato la vita mentale della nostra epoca. Un
uomo che aderisce a un partito ha scorto probabilmente nell’azione e nella propaganda di questo
partito cose che gli sono sembrate buone e giuste. Egli però non ha mai studiato la posizione del partito
rispetto a tutti i problemi della vita pubblica. Entrando nel partito, accetta posizioni che ignora.
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Sottomette il suo pensiero all’autorità del partito. Quando a poco a poco conoscerà quelle posizioni, le
ammetterà senza esaminarle (p. 35).
Naturalmente Weil non si riferiva ai partiti cui oggi guarda polemicamente Grillo, ma alle formazioni
totalitarie che avevano condotto l’Europa alla guerra, e, in particolar modo, ai partiti comunisti nella
stagione dello stalinismo. Il suo attacco era dunque principalmente rivolto contro la forza distruttiva
dell’ideologia, e contro le tendenze totalitarie dei partiti ideologici. Partiti che, evidentemente, oggi non
esistono più (o quantomeno non nella forma che essi assunsero nel corso del Novecento). Nonostante
il bersaglio sia diverso, la polemica funziona però ugualmente. Perché, all’interno di questo schema –
dalle più o meno esplicite matrici roussoviane – la presenza dei partiti viene sempre concepita come
una minaccia (reale o potenziale) all’unità del «popolo», un popolo – ovviamente mitizzato – cui
dovrebbe essere consegnato lo scettro del potere. Anche se è piuttosto inevitabile che persino il
discorso antipartitico rischi di trasformarsi in una sorta di ‘ideologia’, e che debba dunque alimentare il
meccanismo di ‘eterogenesi dei fini’ su cui attira l’attenzione Marco Revelli nell’introduzione alla piccola
antologia di Weil: «è la stessa ragione per cui la militanza di partito, anziché favorire il movimento e il
mutamento che si proporrebbe, produce – per una sorta di ‘eterogenesi dei fini’ – il proprio opposto:
l’immobilismo. La riproduzione infinita dell’esistente» (p. 13).
Scritta probabilmente nei primi mesi del 1943, la Nota
sulla soppressione dei partiti politici fu pubblicata solo
diversi anni dopo, nel 1950, quando ormai la guerra
era conclusa e i partiti avevano riconquistato una
(quasi) completa legittimazione. A darla alle stampe –
come ricostruisce Marco Dotti – fu il periodico «La
Table Ronde» nel 1950, e già qualche mese dopo la
rivista italiana «Comunità» ne propose una versione
italiana, tradotta da Franco Ferrarotti. L’interesse
della rivista non era certo occasionale, perché in
effetti la concezione dell’ordine politico delineata
daAdriano Olivetti nei suoi scritti teorici, e al cuore del
progetto
politico-culturale
del
movimento
«Comunità», comprendeva anche una dichiarata
diffidenza – se non addirittura una vera e propria
ostilità – nei confronti dei partiti. La più nitida
esemplificazione di questo atteggiamento è
probabilmente condensata in Democrazia senza
partiti (Comunità, Roma – Ivrea, 2013, pp. 79, euro
6.00), un opuscolo originariamente apparso nel 1949
con il titolo Fini e fine della politica. Nel volumetto –
riproposto
proprio
sull’onda
della
polemica
antipartitica cresciuta negli ultimi mesi – sono riprese
alcune delle tesi al cuore di L’ordine politico delle Comunità, l’opera principale di Olivetti. E, soprattutto,
viene enunciata l’aspirazione a una democrazia «integrata», «una forma nuova di rappresentanza più
forte, più efficiente della democrazia ordinaria, ma altrettanto rispettosa dell’eterno principio
dell’eguaglianza fondamentale degli uomini e della libertà di ognuno all’associazione, alla propaganda,
all’esplicazione del proprio pensiero politico» (p. 41). Per molti versi, si trattava di un disegno
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quantomeno ambizioso, che riconosceva la necessità di un’articolazione territoriale e, soprattutto, la
centralità delle comunità locali. Ma, sul versante dei partiti, la posizione di Olivetti era netta, forse più di
quella di Weil, perché nel nuovo ordine i partiti non avrebbero più avuto alcuna utilità: «Il compito dei
partiti politici sarà esaurito e la politica avrà un fine quando sarà annullata la distanza fra i mezzi e i fini,
quando cioè la struttura dello Stato e della società giungeranno a un’integrazione, a un equilibrio per
cui sarà la società e non i partiti a creare lo Stato. Questo è il compito che si è assunto il Movimento
Comunità: tracciare una via atta a dimostrare che è possibile che nell’ambito dello Stato vivano
ugualmente dei dualismi creativi, quella contrapposizione di forze, quel contrasto fra tradizione e
progresso senza i quali la società e la vita sarebbero esaurite nell’immobilità» (pp. 43-44).
Come osserva Stefano Rodotà nella Presentazione all’opuscolo di Olivetti, è necessario «evitare la
tentazione di restituire a questo scritto sui partiti una ambigua attualità, attraverso le considerazioni più
polemiche, che devono essere valutate nel particolarissimo contesto, lì delineato, di critica radicale alla
democrazia rappresentativa e di ‘tutto il potere alle comunità’» (p. 17). In altre parole, si tratta di un
discorso che guarda a una direzione molto lontana da quella cui si rivolge oggi la polemica antipolitica.
Ma rileggere quelle ormai antiche pagine è forse interessante anche per riconoscere le radici
genealogiche della critica alla «partitocrazia». Quando già nel secondo dopoguerra incominciano a
levarsi le prime voci contro il ‘totalitarismo’ dei partiti, contro la loro ‘dittatura’, o contro quella che
prende a essere chiamata come «partitocrazia», a influire su quelle posizioni non è soltanto un
nostalgico rimpianto della vecchia rappresentanza liberale. A incidere – seppur spesso in modo
sotterraneo – è anche la convinzione che un sistema rappresentativo debba coinvolgere gli interessi
delle categorie economiche, e che dunque l’esigenza di un ordinamento ‘corporativo’ debba essere
ripresa, seppur all’interno di un quadro democratico e pluralista. E, probabilmente, non è affatto casuale
che Giuseppe Maranini, il più fiero critico della «partitocrazia» postbellica, oltre a trovare un
interlocutore simpatetico in Olivetti, non abbandoni mai completamente l’aspirazione a una democrazia
«integrale», capace di dare rappresentanza ai corpi intermedi e alle categorie produttive.
Se la lettura dei frammenti di Weil e Olivetti è sufficiente per
comprendere come la critica dei partiti sia stata articolata da
prospettive fra loro molto differenti, è abbastanza chiaro che la
polemica odierna punta su aspetti ben diversi, che coinvolgono
soprattutto la trasformazione dei partiti in macchine voraci,
sempre più lontane dalle ideologie del passato, e invece
sempre più interessate ad accaparrarsi risorse finanziarie e
cariche istituzionali. E che si tratti di una polemica in grado di
incontrare sempre grandi consensi è dimostrato – prima
ancora che dai risultati delle ultime elezioni – dagli scaffali
delle
nostre
librerie,
in cui,
dopo
il
successo
della Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, si sono
affastellate decine e decine di volumi e volumetti dedicati a
illustrare a un pubblico goloso tutte le facce del malcostume
politico, del parassitismo istituzionale, della tabe partitocratica.
Uno tra i tanti esempi di questa letteratura è fornito
dal Manifesto per l’abolizione dei partiti politici di Willer
Bordon (Ponte alle grazie, pp. 126, euro 7.50), un pamphlet in
cui l’ex ministro ed ex senatore si richiama esplicitamente al manifesto di Simone Weil, non solo per
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attaccare la degenerazione della politica, ma soprattutto per sostenere che i partiti non sono
indispensabili alla democrazia. «Sino a oggi» scrive Bordon, «nessuno ha mai messo in discussione
quella che è una sorta di legge fisica delle società moderne: i partiti sono la democrazia. Senza di essi
o con un partito solo si esce dalla democrazia. E anche quando i partiti – come avviene
prepotentemente oggi – hanno dato orrenda prova di sé, scatta una sorta di scudo atomico, un riflesso
condizionato o la paura ancestrale che si prova a infrangere un tabù» (p. 11). E invece Bordon cerca
proprio di incrinare la fede in quel tabù, non riprendendo gli ammonimenti di Weil, bensì mostrando
come i partiti di cui la pensatrice francese metteva in luce la natura totalitaria si siano oggi trasformati in
qualcosa di completamente diverso, la cui soppressione produrrebbe probabilmente un beneficio allo
stato puro. «I partiti, questi partiti» – si legge nel Manifesto di Bordon – «sono per di più in mano a
ristrettissime gerarchie, spesso, almeno dal punto di vista dell’esperienza politica, vere e proprie
‘gerontocrazie’. I partiti, questi partiti, non hanno alcuna vita democratica, non sono cioè scalabili e,
lungi dall’essere depositari di un’ideologia, sono spesso dei conglomerati delle posizioni politiche più
distanti, riunite unicamente dall’esigenza di difendere uno spazio di potere. I partiti, questi partiti, hanno
invaso la vita pubblica, si sono impossessati della principale agenzia informativa del Paese, la Rai,
hanno trasformato la stessa sanità pubblica in un luogo di lottizzazione selvaggia. I partiti, questi partiti,
sono quindi inevitabilmente non autoriformabili» (p. 21). Su quest’ultimo punto, e cioè la capacità (e la
volontà) dei partiti di ‘autoriformarsi’, Bordon non sembra in effetti avere molti dubbi. «Il troppo tempo
passato in pratiche non lodevoli ha fatto seccare definitivamente le radici, la linfa vitale», e dunque
«senza un bel taglio chirurgico ogni speranza sarà seppellita, il morto mangerà il vivo e si continuerà a
essere complici di una situazione che addirittura umilia la storia della democrazia e quella, pur gloriosa,
dei partiti» (ibi, p. 95).
Da questa metafora piuttosto macabra trapela, quantomeno, la scarsa simpatia nutrita da Bordon nei
confronti dei partiti. Ma, per la verità, a dispetto dell’intento dichiarato di attaccare un tabù consolidato,
Bordon non sostiene davvero la tesi che sia possibile – o augurabile – una democrazia senza partiti.
Piuttosto, si limita ad affermare che sono «questi partiti», ovvero i partiti esistenti, a dover essere
soppressi, e che diventa necessario ripensare le forme di organizzazione della politica in termini
adeguati alla mutata realtà sociale. In questo senso scrive per esempio: «La politica deve trovare nuovi
modi di organizzazione che non possono essere però preassegnati; nuovi dirigenti devono affermarsi,
trovarsi, strutturarsi, e lo devono fare liberamente, senza costrizioni e limiti imposti da chi è abituato a
promuovere per cooptazione! Credo che quello che ieri sarebbe stato impossibile oggi non lo sia più
grazie a una straordinaria nuova casa comune: la piattaforma informatica, il mondo dei social network e
più in generale del Web. Questo mondo permette tempi e modi di organizzazione assolutamente diversi
dal passato; controlli costanti e continui di ogni dichiarazione e su ogni atto che è stato chiamato a
ricoprire temporaneamente un incarico associativo o più propriamente pubblico; una trasparenza
persino inimmaginabile solo poco tempo fa. […] ma soprattutto consente a un livello non più
aristocratico ma di massa – e di una massa a differenza del passato ormai fortemente acculturata – la
creazione di formazioni politiche a tempo finalizzate a un singolo obiettivo, che si scioglieranno nel
momento stesso in cui quell’obiettivo verrà raggiunto e, nel medesimo momento, permette che una
parte delle stesse energie si riorganizzi attorno a un nuovo obiettivo» (ibi, pp. 23-24).
Nel discorso di Bordon si possono agevolmente riconoscere molti dei motivi di cui quell’immaginario
che Grillo e il suo alter ego Gianroberto Casaleggio hanno trasformato nell’ingrediente di una sorta di
brand dal successo irresistibile. Il limite di questi ragionamenti non sta però soltanto nel loro carattere
‘anti-politico’, ma soprattutto nella loro ingenuità di fondo. D’altronde, discorsi molto simili a quello di
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Bordon accompagnarono la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. In quegli anni, i ‘vecchi’
partiti erano giudicati come una peste bubbonica il cui morbo andava debellato senza esitazioni. I
vecchi partiti – ‘pesanti’, ‘burocratici’, ‘parassitari’ – dovevano lasciare il posto a partiti ‘leggeri’,
trasparenti, aperti alle sollecitazioni provenienti dal territorio. E, al contrario, la ‘società civile’ veniva
rappresentata come la custode dell’onestà, del rigore e della giustizia. A distanza di vent’anni sappiamo
come sono andate le cose, sappiamo che quei partiti che erano dati per morti, o che si erano impegnati
a diventare specchi di virtù, di rinnovamento, di trasparenza, si sono rivelati ben presto voraci almeno
quanto i vecchi, e che alla ‘gerontocrazia’ degli Andreotti, Craxi e Forlani si è sostituita rapidamente una
nuova ‘casta’, più o meno gerontocratica, eppure non meno a resistente a cedere posizioni di potere.
Tutte le generose aspirazioni degli anni Novanta si ritrovano oggi nelle varie proposte – più o meno
serie, più o meno dignitose – di ‘abolire’ i partiti politici. Proposte che risultano peraltro rafforzate,
rispetto al passato, dall’enfasi posta sulle nuove tecnologie, invariabilmente rappresentate in termini fin
troppo ottimistici. Ma il punto non è che quelle critiche non colgano limiti reali, e che – come le vecchie
critiche alla partitocrazia – non portino alla luce una degenerazione effettiva, o quantomeno dei rischi
concreti. Il problema è piuttosto che, continuando a pensare in termini irrealistici al mutamento dei
partiti, propongono soluzioni che non possono che rivelarsi irrealistiche: soluzioni destinate a produrre
conseguenze irrilevanti, o addirittura peggiori delle degenerazioni che si intendevano combattere. E
sarebbe sufficiente pensare, da questo punto di vista, a cosa ha realmente prodotto quella specie di
‘federalismo all’italiana’ generato dalle riforme degli anni Novanta e dalla modificazione del Titolo V
della Costituzione, o alla proliferazione dello spoils system nelle amministrazioni locali, cui abbiamo
assistito nell’ultimo quindicennio. Una proliferazione innescata dal tentativo di ‘modernizzare’ la
macchina amministrativa, di renderla più flessibile, ‘leggera’, efficiente, oltre che dalla volontà di
rendere l’amministrazione più indipendente dalla politica. Ma che, nella realtà, si è tradotta in una sorta
di ‘rivoluzione clientelare’ e nella costruzione di un formidabile meccanismo di erogazione di rendite
politiche, attorno al quale i partiti personali hanno potuto edificare piccoli e grandi feudi locali.
Sarebbe troppo semplice imputare il fallimento delle speranze di riforma degli anni Novanta solo alla
perversione di una casta vampiresca. Forse bisognerebbe incominciare a sospettare che fosse
sbagliata la lettura che si volle dare alla fine della Prima Repubblica. Forse si dovrebbe iniziare a
pensare che le attese risposte nella ‘rinascita morale’ dei primi anni Novanta si basavano su una
convinzione ingenua, ossia sulla convinzione che davvero – insieme ai partiti – si potessero eliminare
elementi che sono costitutivi dei fenomeni politici (e della storia italiana). Che davvero gli individui si
possano mettere insieme per perseguire singoli obiettivi, senza che qualcuno – per avidità, ambizione
personale, convinzione ideologica – tenti di trasformare quell’aggregazione informale in qualcosa di più
strutturato e duraturo, e senza che gli eletti non tendano a percepirsi come depositaria di interessi e
competenze che devono comunque essere preservate mediante ruoli più stabili, oltre che mediante le
‘dovute’ garanzie pecuniarie. E che una tradizione consolidata di clientelismo possa essere cancellata
da evanescenti proclami di rinnovamento, trasparenza e onestà.
È difficile dire se al contemporaneo revival ‘anti-partitico’ debba spettare la medesima sorte toccata alla
critica di cui fu oggetto la partitocrazia della Prima Repubblica. E, d’altronde, non è ancora chiaro se il
declino della Seconda Repubblica preluda davvero all’avvento di una Terza, o non sia invece solo
l’inizio di una lunga agonia. Ma certo la retorica della polemica contro la casta e le sue mille cricche non
sembra oggi meno ingenua rispetto a quella di cui si nutrì l’effimera stagione ‘riformista’ degli anni
Novanta. Così, nonostante tutte le più generose promesse di ‘tagliare’ i costi della politica, il rischio è
davvero che la sostanza dei problemi sia molto lontana dall’essere anche solo lontanamente sfiorata, e
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che i rimedi si rivelino addirittura peggio della malattia. Perché – si sa – la strada che conduce
all’inferno è sempre lastricata dalle migliori intenzioni.
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