L’APPORTO MARCHIGIANO AL POPOLAMENTO DI CORNETO
1. Maremma desolata
Il processo di spopolamento della Maremma e dell’Agro romano è stato, dalla metà
del Trecento a Ottocento inoltrato, fortissimo e, là dove è mancato il correttivo della
immigrazione forestiera, inarrestabile.
Ciò è ben noto per la Campagna romana 1 . Ad esempio la diocesi di Ostia nel 1701 era
ridotta a 206 anime e nel 1782 risultava ormai disabilitata e soppressa. Più vicino a
Corneto, Cerveteri passò dai 2.500 abitanti del secolo XIV ai 400 del 1701 ai 173 del
1708 ai 117 del 1782. Anche ad Anguillara, dove pure affluirono molti forestieri, si
registrano cali di popolazione: dai 2.500 abitanti del Trecento ai 1.000 del 1701 ai 681
del 1782 2 .
Un saldo nascite/morti costantemente negativo (caratterizzante tutta la parte
occidentale dello Stato pontificio compresa la capitale) e lo stillicidio degli abbandoni
sono le forme in cui si realizza la lunga depressione demografica maremmana; le
cause possono essere individuate sì nelle sfavorevoli condizioni climatiche come
anche nella concentrazione della proprietà in estesi latifondi, e nel prevalere
dell’incolto, del pascolo, della coltura estensiva. I due fattori sembrano interagire e
potenziarsi a vicenda, nel senso che, se la malaria desertifica le aree più basse e fertili
consegnandole al latifondo, il latifondo demotiva l’insediamento sparso e con ciò
elimina il presidio umano del territorio rendendolo più esposto all’impaludamento e
all’abbandono.
E’un circolo vizioso che non può essere rotto in un punto qualsiasi, ma precisamente
nel nodo delle condizioni ambientali mediante il riassetto della proprietà e la bonifica
dei suoli: ciò che appunto faranno, ma solo negli ultimi
1
Dell’ampia bibliografia sull’Agro romano basterà ricordare l’ormai classico G. TOMASSETTI, La campagna romana
antica, medievale e moderna, 4 voll., Roma 1914 - 1922, e il recente e già fondamentale G. Rossi, l’Agro di Roma tra
‘500 e ‘800. Condizioni di vita e di lavoro, Roma 1985, al quale si rinvia anche come repertorio bibliografico. Della
bibliografia relativa agli aspetti economici e sociali della Maremma cornetana il testo più cospicuo sembra ancora il vol.
XI, curato da F. NOBILI VITELLESCHI, degli Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della
classe agricola, t. I (Roma e Grosseto), Roma 1884.
2
TOMASSETTI, La campagna cit., I, p. 156; F. CORRIDORE, La popolazione dello Stato romano (1656-1901),
Roma 1906, pp. 93-242; R. AGO, Braccianti, contadini e grandi proprietari in un villaggio laziale nel primo
Ottocento, in “Quaderni Storici”, 46 (1981) pp. 60-91.
cento anni, le riforme fondiarie 3 .
2. Lo spopolamento di Corneto
Il ragguardevole sviluppo della città, e le sue prosperose vicende fecero salire la
popolazione ad una cifra molto maggiore che non è oggidì. Afferma il Valesio in modo
positivo, che nelle epoche medievali essa contava, compreso il distretto, 31.900 abitanti.
Così della sua patria il Dasti nel 1878 4 quando Corneto-Tarquinia contava attorno ai
5000 abitanti. Ora, per quanto vaghe siano le connotazioni “epoche medioevali” e
“distretto” e dunque piuttosto favolosa la notizia, è fuori discussione il drastico
ridimensionamento demografico subito da Corneto tra medioevo ed età moderna. Sono
ancora sotto gli occhi di tutti le testimonianze dell’ampiezza e dello splendore raggiunti
dalla città nel basso medioevo, ed è certo che anche l’agro era allora popolato, al punto che
fuori le mura della città si contavano 26 chiese 5 .
Il crollo demografico della metà del Trecento, comune a tutta Italia 6 dovette colpire anche
Corneto ed è pensabile che i meccanismi dello spopolamento della Campagna romana,
forse allora innescati e accelerati dopo la metà del Cinquecento 7 si siano prodotti anche
nella Tuscia costiera 8 .
Fatto sta che, in una costituzione papale dell’inizio del Seicento, dell’Agro cornetano si
diceva che
da moltissimi anni giaceva incolto, e quello che un tempo costituiva il granaio di Roma,
invece di essere coltivato in pro degli uomini era riservato a pascolo degli animali e
forniva una modesta quantità di frumento 9 .
3
ENTE MAREMMA, La riforma fondiaria in Maremma. Programmi e prime realizzazioni, Roma 1953; per lo stretto
rapporto fra malaria e latifondo, P. CORTI, Malaria e società contadina nel Mezzogiorno, in Storia d’Italia, Annali, 7,
Torino 1984, pp. 635-678.
4
L. DASTI, Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto, Tarquinia 1910/2 (1. a ed. 1878), p. 99.
5
Ibid, pp. 410 e sgg.
6
A. BELLETTINI, La popolazione italiana dall’inizio dell’era volgare ai giorni nostri. Valutazioni e tendenze, in
Storia d’Italia Einaudi, vol. V, Torino 1973, pp. 505 sgg.
7
TOMASSETTI, La campagna cit., I, pp. 128-158; P. PECCHIAI, Roma nel Cinquecento, Bologna 1948, pp. 286294; G. CAROCCI, Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del sec. XVI, Milano 1961, pp. 300-307; sui meccanismi
di espulsione dei contadini E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino 1968, pp. 166-175.
8
ROSSI, L’Agro, cit., p. 106; S. CONTI, Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di S. Pietro, Firenze 1980. Più in
generale, C. KLAPISCH - ZUBER, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in Storia d’Italia Einaudi, vol. V,
Torino 1973, pp. 309-364.
9
Costituzione Urbem Romam, M. P. di Paolo V del 6 ottobre 1608, riprodotta a stampa in Alla eccellentissima
commissione mista incaricata della dimissione dei debiti delle Comunità. Cornetana. Di Tassa sopra i Pascoli
Nel 1701 la popolazione della città toccava il suo minimo storico, 1.891 abitanti. Ma già nel
1439 era stato
ristretto il circuito della Città verso la Chiesa di Castello, perché era rimasto disabitato da
quella parte
e nel 1478 a causa di una epidemia
molti abitanti morirono e molti scasarono et detta città è restata senza popolazione et
lavoranti 10 .
Era già allora evidente l’urgenza di arrestare il declino demografico mediante introduzione
di famiglie forestiere, e 200 famiglie provenienti dalla Lombardia nel 1474, e “molte
famiglie Albanesi venute a domicilio” nel 1482, colmarono almeno in parte i vuoti. Si cercò
di agevolare il loro inserimento, e un “sussidio da distribuirsi alle 200 famiglie di
Lombardi” fu deliberato nel 1491 11 .
Gli innesti di popolazione non potevano tuttavia avere che effetti limitati in presenza di
cause strutturali demovore, a rimuovere le quali le autorità cittadine non avevano forse né
consapevolezza né autorità né volontà.
Si continuava così ad agire sugli effetti, e gli statuti di Corneto del 1545 disposero che, a
qualunque forestiero volesse accasarsi in città, la comunità doveva assicurare la
disponibilità (per quanto non gratuita, si crede) del terreno sufficiente a costruire una casa e
a impiantare una vigna, il permesso di possedere dieci vacche e cinquanta pecore, e
l’esenzione fiscale per un decennio 12 . Le agevolazioni non potevano essere sufficienti a
creare condizioni veramente allettanti per gli “esteri”, i quali avrebbero dovuto disinvestire
in patria per impiantarsi in una città che, a fronte di aleatorie prospettive di miglioramento
economico, offriva le certezze di un difficile inserimento in un ambiente nuovo e in un clima
micidiale. Sta di fatto che nel 1608 Paolo V certificava il declino di un’agricoltura ormai
consegnata al pascolo, e i provvedimenti adottati in conseguenza, prevedendo facilitazioni
Comunali. Per la popolazione di Corneto. Sommario, Roma 1821 (in ABFT); una valutazione del M.P. e dei suoi
effetti è in Lotte e contrasti intorno alle lestre dell’Università agraria di Corneto e Tarquinia, a c. di B. BLASI, in
“Bollettino S.T.A.S.”, n. 14 (1985), p. 260.
10
DASTI, Notizie, cit., pp. 346, 354.
11
Ibid, pp. 352-360.
12
M. RUSPANTINI, (a cura di), Gli statuti della città di Corneto, MDXLV, Tarquinia 1982, cap. XIII del lib. V.
Extraordinariorum.
alla commercializzazione dei cereali, dovettero effettivamente incentivare l’agricoltura e
aprire per Corneto effettive possibilità di tenuta demografica e di ripresa nel lungo termine.
L’azione combinata delle agevolazioni statutarie, degli incentivi papali, della posizione
relativamente felice della città, del suo cospicuo patrimonio edilizio, di un tessuto sociale
resistente, fece sì che, come si notava a metà dell’Ottocento,
non pochi si son trasferiti a fissare la loro dimora a Corneto, e può asserirsi che quella città
è l’aggregato di tante famiglie forastiere 13
3. Forme della migrazione
In un ambiente come quello maremmano che si potrebbe definire di bassa pressione
demografica e di elevato potenziale economico era naturale che si riversassero correnti
migratorie da aree, come quella appenninica, nelle quali la pressione demografica eccedeva
il potenzale economico: specie se questo denunciava, come avvenne sul finire del
Cinquecento, rigidità superiori alla norma e il sistema manifestava incapacità di
adeguamento 14 .
Dalle Marche, in particolare, si registrano trasferimenti di famiglie già nel Quattrocento 15 :
ma sono casi isolati, le Marche sono in quel periodo terra di colonnizazione intensa, e
dunque prevalentemente di immigrazione 16
Nella seconda metà del Cinquecento invece la terra è ormai capillarmente
appoderata e coltivata, e l’aumento di popolazione, che in montagna ha raggiunto uno dei
suoi massimi storici, si accompagna alla messa coltura dei terreni sempre più elevati
e marginali, con rese calanti fino alla rottura dell’equilibrio posizione-risorse. La
rottura si manifesta drammaticamente nel 1590, ma se ne colgono segni fin dagli anni
13
N. MILELLA, Relazioni intorno all’incarico datogli di visitare i territori di Corneto e Montalto di Castro per
investigare i bisogni di quelle popolazioni e per suggerire i mezzi più opportuni per provvedervi, Roma 1848 (in ACT);
la frase successiva della relazione (“però.... da quarant’anni in qua non v’è stata alcuna persona che siasi recata a
stabilire il suo domicilio a Corneto”) contrasta con altre risultanze e andrebbe verificata sulle scritture di anagrafe
parrocchiale.
14
F.C. SPOONER, L’economia dell’Europa dal 1559 al 1609, in Storia del Mondo Moderno Cambridge, vol. III, trad.
it. Milano 1968, pp. 14 - 17; R. ROMANO, La storia economica. Dal secolo XIV al Settecento, in Storia d’Italia
Einaudi, vol. II, Torino 1974, pp. 1813-1934.
15
M. MUNARI, Monte Romano 1456-1853. Quattro secoli di urbanistica. Nascita di una comunità, Viterbo 1980, pp.
21-25; DASTI, Notizie cit., p. 254.
16
S. ANSELMI, L’agricoltura marchigiana nella dimensione storica, in ID. (a cura di), Insediamenti rurali, case
coloniche, economia del podere nella storia dell’agricoltura marchigiana, Jesi 1985, pp. 31 sgg.; ID., La rivoluzione
agricola dei secoli XIV e XV, in ID. (a cura di), Economia e società: le Marche tra XV e XX secolo, Bologna 1978.
Settanta 17 . Ed è appunto negli anni Settanta che si registrano le prime testimonianze
di emigrazioni stagionali collettive verso le Maremme: da Ussita (“discendentibus
universis indigenis 18 ”) e da Mercatello (“familiae prope omnes 19 ”). Tali correnti,
prodotte dal sovraccarico umano della montagna combinato alla fame di braccia delle
spopolate campagne laziali, muovono lungo i percorsi della transumanza pastorale e
con questa convivono per secoli.
La transumanza, che ha tradizioni antichissime e forme ancestrali 20 , ha carattere di
reciprocità, nel senso che in diversi periodi storici ma anche contemporaneamente
possono essere i proprietari della montagna a spostare il loro bestiame per farlo
svernare in pianura, o i proprietari dellla pianura a spingere il bestiame negli alpeggi
estivi: nell’uno e nell’altro caso i pastori (vergaro, pecorari, biscini) sono
generalmente originari della montagna.
E’ sulla scia delle correnti transumanti che, a seguito anche dei provvedimenti di Pio
V intesi a erodere il latifondo e a favorire l’agricoltura contro il preponderare della
pastorizia 21 , si sviluppa nel tardo Cinquecento un afflusso di manodopera stagionale
che viene impiegata soprattutto nella cerealicoltura, ma anche in altre lavorazioni
agricole. Si tratta quasi sempre di piccoli proprietari coltivatori, che integrano un
reddito divenuto nelle loro terre sempre più avaro sfruttando lo sfasamento
stagionale della coltura dei cereali. In montagna si semina presto e si miete tardi.
Arano i loro terreni, seminano e partono, lasciando allae famiglie la cura delle
lavorazioni intermedie, che del resto in montagna per varie ragioni sono meno
complesse. In Maremma sono attesi per le lavorazioni di sterpatura, ribattitura,
terranera, mondarella. Molti, attorno ai centri collinari meno degradati, come
Corneto, sono anche impiegati nelle operazioni invernali di viticoltura, di orticoltura.
Presto comincia il taglio dei fieni, al quale fa seguito la mietitura. La “trita” conclude
17
Esemplari le vicende economiche e demografiche di un’area della montagna marchigiana studiate da E. DI
STEFANO, Una comunità della montagna camerinese in età moderna: Appennino fra XVI e XVII secolo, in “Proposte
e Ricerche”, 7 (1981)., pp. 108-126; ID., La “crisi” del Seicento nell’area appenninica: il territorio camerte, in
“Proposte e Ricerche”, 17 (1986), pp. 73-85; per altre aree R. PACI, Politica ed economia in un comune del ducato di
Urbino: Gubbio tra’ 500 e ‘600, Urbino 1967; S. ANSELMI (a cura di), La montagna tra Toscana e Marche.
Ambiente, territorio, cultura, società dal medioevo al XIX secolo, Milano 1985; C. CASANOVA, Comunità e governo
pontificio in Romagna in età moderna, Bologna 1981.
18
P. PIRRI, Ussita, Roma 1920, p. 201.
19
Visitatio urbinatem ecclesiae, item Mercatelli, Lamollarum, Sestini, Monasterii, in ARCH. SEGR. VAT.,
Visitationes Apostolicae, n. 22.
20
“Nessuno può seriamente obiettare oggi sull’antichità e la continuità attraverso i templi dell’economia della
“transumanza”, almeno fin dal Neolitico” (G. CASELLI, La “Via Tyrrhenica” e altri percorsi pastoali della Toscana
collinare, in Campagne maremmane tra ‘800 e ‘900, Firenze - Grosseto 1983, p. 288). Di un convegno su
transumanza e pastorizia tenuto a Ussita nel settembre 1984 sono in corso di pubblicazione gli atti a cura del Cento di
Studi Storici Maceratesi.
il ciclo 22 , ma sono già partiti quasi tutti per tornare alle loro case 23 quando ormai
anche i loro campi cominciano a imbiondire, e nelle maremme l’aria si è fatta greve e
malsana. Così ogni anno, per secoli, fino agli inizi del Novecento.
Le ondate migratorie degli stagionali generano fatalmente il terzo tipo di
emigrazione, quella permanente. Chi in patria ha meno da perdere, anche sul piano
umano; chi riesce a farsi un credito con la propria capacità e laboriosità; chi riesce a
combinare i suoi piani con qualche zitella o vedova proprietaria di casa; chi sa
inventarsi un mestiere; chi infine ha un gruzzoletto da investire ed è in grado di
sfruttare le agevolazioni statutarie; chi trova uno stabile impiego nelle aziende di
campagna o nei palazzi dei cornetani ricchi: tutti costoro finiscono per cogliere
l’occasione e si accasano in città, acquisendo ben presto i diritti dei cittadini originari.
4. “L’aggregato di tante famiglie forastiere”
Come, attraverso l’assorbimento di popolazione immigrata, Corneto sia riuscita (a
differenza della maggior parte dei centri vicini) ad assicurarsi una sostanziale tenuta
demografica e poi vistosi incrementi, e quale sia stato il contributo dei marchigiani al
ripopolamento di questa città che per tanti di loro è stata maledizione e al tempo
stesso west avventuroso e terra promessa, è dunque il tema di queste pagine.
Il contributo si limita, anche per la distanza dell’autore delle fonti documentarie, alla
tabulazione di dati che si ritengono in vario modo utili, e ad annotazioni che,
rinviando a quei dati e senza pretesa di esaurire l’argomento, sottolineino, della storia
quotidiana e umile di Corneto moderna 24 , gli aspetti che sono sembrati più
significativi o più problematici.
a) evoluzione complessiva;
21
CARAVALE, Da Martino V cit., p. 329.
Sulle tecniche agrarie in area marchigiana G. BATTARRA, Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, Cesena
1782/2 (1. a ed. 1778); G. PEDROCCO, Storia dell’agricoltura nelle Marche dall’Unità ad oggi, Urbino 1976; in area
laziale L. DORIA, Istituzioni georgiche per la coltivazione de’ grani ad uso delle Campagne Romane, Roma 1799/2 (1.
a ed. 1777); E. METALLI, Usi e costumi della Campagna romana, Roma 1982/3 (1. a ed. 1903); A.M. GIRELLI, Le
terre dei Chigi ad Ariccia, Milano 1983; ROSSI, L’Agro cit.
23
Risultano quasi tutte stipulate nelle più vicine località della maremma interna, viterbese e toscana, le scritture
concernenti la trebbiatura (“gavette di trita” e “trecce di cavalle”) conservate in ABFT, Scrittura ed apoche 1815-1827
e Apoche dell’azienda campestre 1850-1878.
24
Sono gli orientamenti di una storiografia nuova (cfr. L. OSBAT, Gli Statuti della Città di Corneto nel 1545 nel
quadro dello sviluppo del centralismo amministrativo dello Stato Pontificio, in “Bollettino STAS”, n. 12 (1983), pp. 5
sgg;) che a Tarquinia, comprensibilmente dato l’immenso prestigio del patrimonio archeologico della città, più stenta a
farsi strada.
22
Il dato a quo della demografia cornetana è costituito dai 31.900 abitanti delle “epoche
medieali”. I numeri successivi, della metà del Seicento alla metà dell’Ottocento, si
collocano su una piattaforma incomparabilmente più bassa. Essi attendono di essere
convalidati o confutati, e in qualche passaggio spiegati, come nell’anomalo
rigonfiamento dei rilevamenti 1636 e 1742. Nell’insieme tuttavia appaiono accettabili,
e il trend positivo che si osserva dall’inizio del Settecento non contrasta che in
superficie con la nozione di un saldo naturale costantemente negativo nel Lazio in età
moderna (a Roma per tutto il Settecento 25 , ad esempio, e ancora a metà Ottocento a
Corneto, dove il Dasti nel 1869 rileva una media annua di 131 nati e di 140 morti):
con tutto ciò - osserva lo stesso Dasti - la popolazione in genere non diminuisce, anzi
è in qualche aumento per l’aggregazione dei campagnuoli esteri, che si domiciliano
di frequente in Corneto e vi si accasano 26 .
b) i forestieri;
L’incidenza degli “esteri” sulla popolazione residente della città si mantiene sempre
molto alta. Nelle campionature dei decessi per i secoli XVII-XVIII i forestieri sono in
rapporto di 4:1 con i cornetani. Con la saturazione delle disponibilità edilizie in città e
il naturalizzarsi dei forestieri, l’immigrazione incide in proporzione via via minore:
ma ancora nel 1874, su una popolazione di circa 5.000 abitanti, i residenti nati
altrove sono 992; la stessa proporzione fra residenti e allogeni si rileva nel 1908 nella
parrocchia di S. Leonardo. Nel decennio postbellico si registrano ancora ben 1.687
immigrazioni 27 .
c) i marchigiani;
I marchigiani incidono costantemente per più di un terzo sulla quota di
immigrazione. Nel 1874 l’incidenza è ancora del 39,5%; solo sul finire del secolo si
registra una netta diminuzione, e nel periodo postbellico la quota marchigiana nei
25
CORRIDORE, La popolazione cit., p. 56.
L. DASTI, Statistica della Città di Corneto e suo territorio, quale fu constatata dal sottoscritto nel 1869, al suo
ritorno in patria dalla Moldavia dopo nove anni di assenza, a c. di B. BLASI, in Bollettino STAS”, n. 10 (1981), pp. 7
sgg. (manoscritto in ACT).
27
La tab. 3 ne riporta solo 1.387 in quanto di 300 non è indicata la patria.
26
trasferimenti di residenza si riduce a un ormai modesto 8,8%. In definitiva, e
malgrado la diminuita affluenza degli ultimi decenni, non si sarebbe troppo sorpresi
se appropriate ricerche appurassero che da un quarto a un terzo della attuale
popolazione di Tarquinia ha più o meno remote ascendenze marchigiane 28 .
d) areali della immigrazione marchigiana;
Nel periodo che va dalla fine del XVI secolo alla fine del XVIII prevale nettamente a
Corneto la presenza di immigrati (permanenti o stagionali, le annotazioni di morte
raramente consentono di distinguere) da un’area comprendente il Montefeltro, l’alta
Valtiberina, l’Eugubino, il Camerte, il Vissano: più o meno la dorsale appenninica già
indicata come teatro della crisi di fine Cinquecento. Nel campione 1646-1663 il solo
Montefeltro è rappresentato da 36 casi, contro 45 casi di cornetani e 147 di altra
provenienza. Emblema della crisi dell’area appenninica è Sasso di Simone (una
utopica città fatta costruire attorno al 1570 da Cosimo I Medici a 1.200 metri di
altitudine), ormai abbandonata dagli abitanti molti dei quali hanno cercato una
possibilità di vita in Maremma: in una sola delle sei parrocchie di Corneto, dieci vi
trovano la morte fra 1646 e 1662 29 .
I dati del periodo napoleonico mostrano ancora una preponderanza del Montefeltro e
in particolare di Pennabilli 30 : ma forte è anche la presenza del Vissano, mentre si va
delineando quello che nel corso del secolo costituirà un vero e proprio esodo dalle
colline intorno Macerata: dalla sola Montemilone-Pollenza proverà più di un sesto (e
nel 1874 quasi un terzo) dell’intero contingente marchigiano.
Sul finire dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, estintasi o dirottata
all’estero 31 l’emigrazione bracciantile del Maceratese, tornano a prevalere le aree, e le
forme, dell’antica transumanza: soprattutto il Vissano, con vari casi di fortunata
intraprendenza nell’industria armentizia 32 .
28
Ci piace vedere simboleggiata la “metà marchigiana” di Corneto nella lapide bifronte di cui C. DE CESARIS,
Considerazioni su una lapide tombale, in “Bollettino STAS”, n. 11 (1982), pp. 11 sgg.
29
ALLEGRETTI, Disfecemi, cit.
30
Sulla emigrazione da Pennabilli a Corneto G. ALLEGRETTI, Dall’Appennino pesarese alle Maremme:
l’emigrazione stagionale tra ‘700 e ‘800, in Campagne Maremmane cit., pp. 157 sgg.
31
Sui vari aspetti e momenti del fenomeno migratorio con particolare riferimento alle Marche si vedano L.
NICOLETTI, L’emigrazione dal Comune di Pergola in relazione a quella di altri Comuni della Provincia di Pesaro Urbino, Roma 1909; E. SORI, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna 1979; G.
CAVAZZANI, L’emigrazione nel XX secolo: il caso marchigiano, in “Quaderni di Resistenza Marche”, nn. 11-12
(1986), pp. 5-32.
32
PIRRI, Ussita, cit., pp. 223-263; SERENI, Il capitalismo, cit., pp. 174, 198-199; F. COLETTI, La grande e la
piccola industria armentizia dell’Appennino marchigiano, in “Giornale degli economisti”, ottobre 11984.
e) gli stagionali;
Sembra ovvio pensare che l’immigrazione permanente si alimenti almeno in parte
della immigrazione stagionale 33 : ma lo stato attuale delle conoscenze non permette di
stabilire precisi rapporti fra i due aspetti del fenomeno.
Le migrazioni stagionali sono per la prima volta censite, in Italia, nel 1905. A quella
data si danno per arrivati nel comune di Tarquinia 1.670 lavoratori nel periodo
gennaio-aprile 1875 in maggio-luglio, 2.245 in agosto-dicembre. Il rapporto fra
avventizi e popolazione stabile è di 38: 100 nel periodo di massima affluenza: è un
rapporto alto, ma tale ancora da non condizionare totalmente l’economia della città e
da non stravolgerne l’assetto sociale: molto più condizionante deve essere la presenza
degli stagionali a Cerveteri, con un rapporto di 102:100, e soprattutto a Montalto,
dove il rapporto è di 237:100 34 .
Sessant’anni prima, nel 1848, la relazione Milella valutava in 2.000 gli avventizi
presenti a Corneto 35 . Per l’antico regime non sono disponibili informazioni
complessive, ma l’impressione è che nei secoli XVI-XVIII il numero resti molto al
disotto delle 2.000 unità necessarie alla coltivazione del 16.000 ettari (su 27.700)
effettivamente coltivati a metà Ottocento 36 : se così è, la palude, l’incolto, il pascolo e
il bosco devono aver occupato nei secoli precedenti una estensione molto maggiore.
f) i quadranti;
Nello stato d’anime 1790 della parrocchia di Santa Margherita sono registrati,
assieme ai 390 abitanti stabili, 157 quartieranti. Dei 390 parrocchiani, 175 sono
indicati come cornetani (originari o naturalizzati) e 160 come forestieri; di questi, 58
sono marchigiani. Ma l’interesse maggiore del documento sta appunto nella insolita
menzione dei quartieranti, che sono con ogni evidenza gli stagionali: si distinguono
sia dai “garzoni” che coabitano stabilmente con le famiglie per le quali lavorano, sia
dagli avventizi sistemati in campagna che nessuno conosce e si cura di conoscere.
Negli archivi di Tarquinia capita di trovare elenchi di cavalle con nome, età,
sommaria descrizione e note caratteristiche anche comportamentali, annotazioni di
33
Sui vari aspetti della emigrazione dalle Marche, e in special modo sulla emigrazione stagionale, ALLEGRETTI,
Marchigiani, cit.
34
MIN. AGR. IND. COMM. UFF. LAVORO, Le correnti periodiche di migrazione interna in Italia durante il 1905,
Roma 1907.
35
MILELLA, Relazioni cit., all. A/Corneto. Notizie statistiche ecc.
36
Ibidi, Distinzione della superficie ecc.
figliatura e di morte: ma non esiste un solo elenco di lavoratori stagionali 37 . Essi
entrano nella documentazione scritta solo in casi eccezionali e solo se qualche
particolarità li colleghi ai residenti. Così, con la vedova Maria Domenica Bernasconi
da Sant’Angelo in Vado e i suoi due figli di sette e due anni, è registrato nella casa del
Capitolo anche “Domenico il castrataro, che dorme in campagna, ma è custodito circa
i panni dalla suddetta Maria Domenica”: evidentemente è registrato fra le “anime”
solo perché la giovane vedova lo accudisce “circa i panni”, e dunque in qualche modo
ha un recapito fisso che lo rende identificabile, ma al di fuori di pur tenui possibilità
di connotazione, si situa l’oscuro mondo degli stagionali senza recapito e senza
identità.
Le famiglie che ospitano quartieranti sono per lo più di origine forestiera, e
generalmente ne tengono più d’uno. Biagio Rossi di San Leo ne ospita addirittura 45;
Sebastiano Cerbini da Toscanella ha in casa 14 pigionali. Alcuni invece si
acquartierano in proprio, come i 7 che vivono nella casa dei Padri di Castello; e un
caso del genere si riscontra anche in parrocchia San Leonardo, dove nel 1792 si
trovano riuniti in una casa 13 lavoratori di vari paesi del Montefeltro 38 . Nell’elenco
dei 157 quartieranti di Santa Margherita, in 97 casi è indicata la professione: si tratta
di lavoranti ai grani in 56 casi, di vaccari in 18, bifolchi 9, vignaroli 6, garzoni 5,
casenghi 2, castratari 1. C’è anche qualche nucleo familiare al completo, con donne e
bambini; ma in generale, salvo pochissime eccezioni, si tratta di emigranti maschi e
adulti (con l’avvertenza che nel mondo della migrazione si diventa adulti a tredici
anni).
Nulla invece si può dire della loro proveninza, perché la “patria” non viene quasi mai
indicata. Ma i numeri, e le classificazioni, dicono molto meno di una lettura
“dall’interno” del documento; lettura che consente di ricostruire in modo più
suggestivo e coinvolgente strutture familiari e rapporti sociali, insomma di “entrare in
casa”.
37
Anche questo del 1790 è tutt’altro che esauriente: di pochissimi quartieranti si riferiscono cognome e patria, la
maggior parte sono indicati con un numero complessivo (ad esempio: “Nella casa del Beneficio Riccardi. Biagio Rossi
di San Leo, figlio di Antonio Rossi, anni 35, cr. com. Quartieranti numero quarantacinque, e la maggior parte di
comunione: tutti lavorano ai grani”). E’ ancora inspiegata la ragione per la quale non viene registrata né l’assenza degli
stagionali negli stati d’anime delle parrocchie d’origine, né la loro presenza negli stati d’anime delle parrocchie
maremmane. Diversa la situazione per la diocesi di Porto, dove le gravissime condizioni morali e materiali dei monelli
costringe i vescovi a tenere sotto controllo il fenomeno fin dal ‘600 (ROSSI, L’Agro cit.). Nelle scritture aziendali
(ABFT) non si sono trovati neppure elenchi parziali.
38
ASLT, Stati d’anime 1768-1793¸Stato d’anime 1792. Tutti gli altri casi si riferiscono allo Stato d’anime 1790 di
Santa Margherita, cit.
Nella casa della confraternita della Misericordia abita una Maria Bernardini da
Gubbio, ventitreenne vedova di un certo Marino, con la figlia Caterina di due anni.
Tiene una famiglia di quartieranti: Andrea Piastra da San Sisto nel Montefeltro, 40
anni con la moglie di 30, un figlio di 9 e uno di 4, uno zio di 60 anni. Nella simbiosi
tra padrone di casa e quartierante può capitare, come in questo caso, che sia l’ospite
ad assumere funzione portante E, in questo caso, cogliamo probabilmente il
momento di passaggio tra la condizione dello stagionale e quella dell’immigrato
stabile; Andrea Piastra sarà arrivato nelle stagioni precedenti da solo, e poi si sarà
deciso a portare anche la famiglia; il passo successivo sarà di metter su casa in
proprio, appena possibile.
Entriamo in un’altra casa, di proprietà dei Padri di Castello anche questa, dove abita
Cesare Chienna di Parchiule nella Massa Trabaria, vedovo quarantaseinne di Maria
Domenica Carciani (altro cognome massano), con la moglie di Pietra Savelli anche lei
di Parchiule e anche lei vedova, e con tre figli di primo letto di lui e un figlio di primo
letto di lei. La morte, in queste terre, moltiplica talami e bare. Tengono quattro
quartieranti: Gian Andrea Sebastiani col figlio Domenico e Girolamo Monticelli col
fratello Giovanni. Eccoli finalmente ubicati, i due figli di Domenico Monticelli di
Piandimeleto, che la madre dà per dispersi “a Roma” e forse morti, assieme al padre,
nelle scritture di affitto delle terre di famiglia 39 .
Avere quartieranti “delle proprie parti” può essere una risorsa, se non proprio un
mestiere, per molti marchigiani accasati a Corneto. Si riproduce nel capoluogo
maremmano un microcosmo urbano della immigrazione che arricchisce le
opportunità economiche e diversifica le figure sociali. Nel 1706, è stato già segnalato,
un tale di Pennabilli possiede a Corneto una casa con un letto di tavole e un’altra casa
da dare a nolo ai compaesani, ai quali fa anche credenza di piccole quantità di pane e
denaro 40 .
Nel 1811 la partizione della popolazione in cornetani, forestieri accasati e avventizi è
chiara anche all’estensore della statistica. 255 sono i cornetani, 136 gli “esteri” e solo
74 le “persone avventizie dimoranti nella parrocchia [...] nel dì 23 marzo 1811 che nei
mesi estivi ritornano alla loro patria”. Sono ancora prevalentemente iin gruppo, e il
gruppo più numeroso, 22, è quello acquartierato nel magazzino del Seminario. Non ci
39
Il caso è segnalato in G. ALLEGRETTI, Piandimeleto 1574-1860, in corso di pubblicazione (cap; II/6). L’identità
dei due giovani è stata verificata in ARCH. PARR. PIANDIMELETO, Libro dei battesimi 1793-1842.
40
ALLEGRETTI, Dall’Appennino cit., p. 160.
sono donne; c’è un solo bambino sotto i quattordici anni 41 : si ha l’impressione che il
fenomeno sia contenuto e controllato dalle nuove autorità di governo.
g) cadaveri non identificati:
5 martii 1746. Inventum fuit in hoc teritorio cadaver cuius nomen et patria
ingnorantur et [...] illud nemo cognovit licet expositum [...] 42 .
Aveva ben ragione, la madre dei giovani Monticelli, non vedendoli tornare a casa, di
sospettare che fosse accaduto a loro ciò che accadeva a molti. Nel campione 17461755, su 205 cadaveri sepolti, 39 sono trovati nei campi e in genere restano senza
riconoscimento di identità. Responsabile maggiore di queste morti sembra la malaria,
che colpisce soprattutto all’inizio dell’estate, quando i “montanari” stanno per tornare
ai loro paesi: fra il 21 e il 26 giugno 1748 vengono trovati nelle campagne 5 cadaveri.
Il fenomeno, che non si riscontra ancora nel campione 1646-1663, conserva invece
rilevanza nel periodo 1790-1810: su 552 sepolti, figurano 70 morti in abbandono dei
quali 20 restano senza nome, 20 morti per varie disgrazie connesse alla vita rurale, 15
morti per fatti di sangue.
Sono numeri che dicono molto sulla durezza della condizione dei lavoratori in questa
area (anche se par giusto ricordare che incidenti, delitti e morti repentine incidono
fortemente in tutte le popolazioni di antico regime).
Nel Seicento, il numero degli avventizi è minore e gli spazi disponibili all’interno delle
mura cittadine sono maggiori: per questo, forse, tutti gli avventizi registrati muoiono
in qualche casa di città, magari “in quodam stabulo super palea 43 , e non ancora
dispersi nelle lestre o nei pantani come più tardi si verificherà; ma potrebbe anche
supporsi che le confraternite non si curino ancora, o non siano in grado, di
recuperare i cadaveri e di portarli a sepoltura in città. Anche sull’elevato numero di
morti non identificati nel Settecento si potrebbero avanzare interpretazioni diverse e
contrastanti (ad esempio: caporalato ancora poco diffuso, oppure efferata disumanità
41
Stato delle anime esistenti nella parrocchia della ven. Chiesa cattedrale e parrocchiale di S. Maria e Margarita di
Corneto nel dì 23 marzo 1811, in ASMT.
42
ASMT, Liber mortuorum 1736-1683 cit.
43
ASMT, Liber mortuorum 1646-1683 cit.; sui morti in campagna e sulla assistenza agli avventizi A. PORFIDO,
Mons. Bonaventura Gazola O.F.M., in “Bollettino S.T.A.S.”, n. 14 (1985), pp. 232-234. In campagna vengono censiti
nel 1853 cento casali, ma sono o disabitati, o abitati da un garzone; d’inverno vi trovano ricovero i pastori (Relazione in
ACT, XV/5); utili indicazioni sulla evoluzione dei casali in R. COMBA, Le origini medievali dall’assetto insediativo
moderno nelle campagne italiane, in Storia d’Italia, Annali, 8, Torino 1985, pp. 795 sgg.
dei caporali 44 ). Le ambivalenze denunciano l’inadeguatezza degli studi sulla materia e
postulano una estensione delle ricerche.
h) una popolazione pioniera;
La popolazione residente di Corneto mostra, almeno fino a tutto il Settecento,
evidenti caratteri di popolazione pioniera, cioè maschia e adulta: che è poi anche, va
da sé, una popolazione meno vitale.
Nel 1646-47 le donne rappresentano il 35,2% del totale dei morti; nel 1790-1810
rappresentano il 40,9%. La percentuale sarà naturalmente minore tra gli immigrati
(nel 1853 tra i residenti di origine marchigiane le donne costituiscono il 25%), e
minore ancora tra gli avventizi (fra i quartieranti del 1790 in parrocchia Santa
Margherita il 4,2%).
Per quanto riguarda l’età, è caratteristica di questa popolazione la bassa incidenza
delle fasce estreme. Nel 1646-47 i morti in età inferiore a un anno sono il 9,1%; nel
1759-60 rappresentano il 24,5%; nel 1790-1810 il 18,6%; i morti in età inferiore ai 10
anni rappresentano, rispettivamente, il 27,3, il 44,9 e il 41,1%. Sono valori molto bassi
rispetto ai livelli normali che possono collocarsi fra il 55 e il 60% 45 ; lo stesso può dirsi
dei morti in età superiore ai 60 anni (rispettivamente 4,5, 12,2 e 11,4%, mentre una
popolazione “normale” registra valori oscillanti tra il 16 e il 25%). A conclusioni
analoghe si giunge esaminando la struttura della popolazione vivente: nello stato
d’animo di Santa Margherita del 1790 gli abitanti inferiori ai 10 anni di età
rappresentano il 20,8% del totale, quelli in età superiore ai 60 anni appena il 5,6%.
i) la presenza femminile
In uno studio su Anguillara, Renata Ago ha bene illustrato il significato della presenza
femminile nella società di un villaggio laziale di immigrazione, anche per ciò che
riguarda l’integrazione dei forestieri 46 .
Si può dire che la scarsità delle donne ne esalti il ruolo: ciò è comprensibile e in
qualche modo scontato. Non sarà tuttavia inutile aggiungere qualche elemento di
informazione e giudizio. Anzitutto sulla longevità delle donne: muoiono oltre i 70
44
Propendiamo e per un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli avventizi tra XVII e XVIII secolo, e
per una più tarda generalizzazione dell’istituto del caporalato; sulle confraternite cornetane M. CORTESELLI, A.
PARDI, Corneto com’era. Chiese, Confraternite e Conventi cornetani di un tempo, Tarquinia 1983, pp. 155 sgg.
45
C. VERNELLI, Vicende demografiche di un comune agricolo delle Marche: Morro d’Alba, 1558-1861, in “Proposte
e Ricerche”, nn. 3-4 (1979), pp. 99 sgg.
46
AGO, Braccianti, cit.
anni, nel campione 1790-1810, il 7,1% delle donne e solo il 3,4% degli uomini (e questi
quasi esclusivamente ecclesiastici o”signori”).
Inoltre, in più di un caso la presenza delle donne rivela anche nel mondo del lavoro
un peso molto maggiore di quanto ci si possa attendere: si pensi alla figura, ben nota
ai cornetani, della contessa Maria Giustina Bruschi Falgari nata Quaglia, per lungo
tempo energica amministratrice del patrimonio familiare 47 ; ma anche a quella, tanto
più umile ma inedita e sorprendente, di Maria Magni, analfabeta “caporala nativa
della terra di Monteromano”. E’ vero che la mercede per i suoi “uomini monelli” è un
po' più bassa di quella spuntata dai colleghi maschi, e che i suoi contratti sono
approvati e sottoscritti dal marito: ma insomma la donna resta attiva sulla piazza per
molti anni, per lo meno dal 1841 al 1859, e nel mestiere di caporale, difficile non
meno che famigerato, pochi sanno restare in sella tanto a lungo 48 .
Infine, ci si aspetta di trovare la retribuzione delle donne nei lavori di campagna più
bassa di quella degli uomini, e sarà senz’altro così. Tuttavia, nell’unica serie
significativa (11 pagamenti fra 1803 e 1811) che nel corso di questa ricerca sia stato
possibile ricostruire, e nella quale il raffronto è ineccepibile perché istituito fra
pagamenti simultanei per lavori identici, la retribuzione media delle donne risulta di
baiocchi 10.1, quella degli uomini di 9.2 49 .
Non basta certo a concludere che le donne sono pagate meglio degli uomini, ma
suggerisce per lo meno qualche riserva su inveterate convinzioni pregiudiziali, e
ancora una volta evidenzia la necessità di ricerche sistematiche che queste pagine,
nella più alta delle loro ambizioni, mirano a stimolare.
Girolamo Allegretti
L’autore desidera ringraziare quanti a Tarquinia gli hanno agevolato la consultazione
degli archivi in particolare le dottoresse Patrizia Ceccarini e Maria Lidia Perotti, il
maestro Bruno Blasi che gli ha sacrificato molto del proprio tempo e gli è stato
prodigo della propria conoscenza di uomini e cose cornetane, padre Guglielmo
Amadei parroco di San Giovanni Battista.
47
R. CIALDI, Notizie genealogiche della famiglia Bruschi Falgari dal 1592 al 1923, ms. in ABFT.
ABFT, Anno 4°. Azienda di campagna. Stagione 1841 in 1842, fasc. 1 e 3; Apoche dell’azienda cit., nn. 94, 109,
129, 196.
49
ABFT, Inserti volanti in Esito ed introito vigne e chiuse Bruschi Falgari.
48
Un ringraziamento è dovuto all’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di
Pesaro, che ha sostenuto con un contributo finanziario la ricerca.
L’indagine negli archivi cornetani è confluita con altre ricerche nei saggi Marchigiani
in Maremma (in S. ANSELMI (a cura di), Marche, di prossima pubblicazione per
Storia d’Italia Einaudi, Regioni); Disfecemi Maremma. Note sulla disertata “città”
del Sasso di Simone (di prossima pubblicazione in “Studi Montefeltrani”, 13).
Il materiale non ancora utilizzato potrà essere elaborato in altri studi: ma solo con la
paziente sistematica ricerca di studiosi locali si può pensare di giungere a risultati
meno frammentari e precari.
ABBREVIAZIONI
ACT
Archivio Storico comunale, Tarquinia
ABFT Archivio privato Bruschi Falgari, presso Società Tarquiniense di Arte e Storia
ASMT Archivio della parrocchia di Santa Maria e Margherita, presso Archivio del
duomo, Tarquinia
ASLT
Archivio della parrocchia di San Leonardo, presso Archivio parrocchiale SS.
Antonio e Giovanni Battista, Tarquinia.
Ho utilizzato le risultanze delle indagini d’archivio svolte a Corneto nei saggi.
REPUBBLICA MINORE
Vicende 1848-49 della Corneto Repubblicana
Corneto: 19 marzo 1849, festa di S. Giuseppe.
Quella sera una Compagnia di Comici darà spettacolo nel Pubblico Teatro della Città
di Corneto.
Da circa quattro mesi il Pontefice Pio IX ha lasciato il Quirinale per mettersi al riparo
in Gaeta sotto la protezione del Re di Napoli Federico II di Borbone.
Da circa quaranta giorni l’Assemblea Costituente di Roma ha dichiarato decaduto il
potere temporale del Papa e con 120 voti su 143 votanti, ha decretato la nascita della
Repubblica Romana.
Il potere esecutivo è in mano ad un primo triumvirato (Saliceti, Ermellini, Montecchi)
che, fra dieci giorni, sarà sostituito dalla terna Mazzini, Saffi ed Armellini.
Se è vero che la matrice di quanto sta avvenendo è di natura politica, è anche vero che
in ogni angolo della novella repubblica, principalmente a Roma e nelle grandi città
delle legazioni, dilagano in terrorismo e le vendette private.
:
A mantenere un minimo di ordine non servono pochi carabinieri, o bersaglieri, la
Guardia Civica o qualche sgangherata Compagnia di Reduci residua di quel corpo di
spedizione che Pio IX ha inviato l’anno scorso alla Guerra di Lombardia sotto il
comando del Generale Durando.
E Corneto? Nel suo piccolo la città fa quanto può per contribuire al marasma del
momento ma senza raggiungere particolari eccessi. Gaeta è troppo vicina a Roma e
Pio IX non ha alcuna intenzione di rimanervi a lungo.
Diamogli assieme un’occhiata:
Governatore della Città e custode dell’ordine repubblicano è il romano Augusto
Colombo che dipende funzionalmente dal Preside (Prefetto, n.d.r.) di Civitavecchia
Michele Mannucci. E’ un ex funzionario dello Stato Pontificio con famiglia a Roma e
inquilino, a Tarquinia, in una casa di proprietà dei fratelli Alfonso e Cesare
Sbrinchetti.
Una specie di impiegato statale che cerca di servire la repubblica così come ha servito
Pio IX. Non ama le decisioni drastiche nè gli spargimenti di sangue. Interviene solo se
è preso per il collo dagli avvenimenti e cercando di non compromettersi più di tanto.
Gonfaloniere della Città, quello che i posteri chiameranno sindaco, è Domenico
Boccanera. Anch’esso sembra essere un moderato; gode di molto prestigio presso la
cittadinanza e malgrado le incertezze politiche del momento ha il coraggio, forse per
avere fatto male i suoi conti, di dichiararsi di fede repubblicana.
Da pochi mesi è attivo il Circolo Popolare di Corneto del quale è vice presidente il
signor Conte dr. Pietro Soderini.
Il suo statuto è stato stilato nella base di quelli adottati dagli stessi circoli di Roma e
di Ancona che godono fama di essere, tra gli ammazza-preti, i più spinti e facinorosi.
Esso prevede “come diritto quello di petizione e come scopo quello soltanto di
interessarsi di affari municipali quali potessero migliorare la condizione sociale dei
cittadini.”.
Vi aderiscono ceti diversi ma la sua matrice è ovviamente progressista e liberale. Tra
gli aderenti più in vista si notano i cerusici dr. Francesco Mascioli, dr. Pietro Orazi e
dr. Luigi Lattanzi: tre borghesi illuminati, che a tutela dello spirito e del corpo dei
cornetani, alternano la dispensa di idee a quella del chinino.
Quest’ultimo è la panacea di ogni malanno ma la civica salute è ulteriormente
assicurata dall’Ospedale Pubblico Buonfratelli, condotto dai frati Fatebenefratelli,
dove i tre dottori sunominati si alternano, con turni mensili, per la visita giornaliera
ai ricoverati.
L’organico dell’ospedale è poi completato da altri tre specialisti: il Reverendo Padre
Priore Romualdo Michelacci per l’amministrazione, il laico Fra Camillo De Acetis
come infermiere e infine il signor Giovan Battista Belli con funzioni di facchino e di
becchino sia per l’ospedale che per la città.
Il dr. Mascioli, tra l’attività cerusica e quella del Circolo Popolare, trova il tempo di
curare l’amministrazione della “bottega ad uso di caffé” condotta da Giuseppe
Forchieri e chiamata, dal nome dell’antico padrone, caffé Reali.
Questo è certamente il locale che va per la maggiore. I suoi battenti, ad onta delle
severe restrizioni del decaduto “governo dei preti” adesso restano solitamente aperti
fino alle ore piccole del mattino.
Tra un bicchiere e l’altro vi si parla di tutto ma principalmentem com’è facile intuire,
si discutono le incalzanti vicende politiche del momento.
Vi si incontrano sia “bianchi” che “neri”: i primi che vivono la loro stagione di gloria
dando fiato alle loro corde vocali e i secondi che tacciono, appartati, ingoiando rabbia
e caffé in attesa di una rivincita che non è improbabile. Infatti troppe incertezze
mettono in dubbio la possibilità di sopravvivenza della repubblica. Figure di Santi e
di Madonne hanno incominciato a piangere in vari angoli dell’ex Stato Pontificio; ma
soprattutto fatti meno miracolosi alimentano le speranze dei neri: in Francia
l’Assemblea “Repubblicana” non eclude ancora una possibile spedizione in aiuto del
Papa.
Queste incertezze alimentano l’esistenza tra i bianchi e i neri, di una terza e più
numerosa frazione di cornetani pronta a dichiarare la sua profonda fede politica solo
a cose sicuramente finite.
Terminiamo qui il nostro tentativo di dare un quadro generale di quell’epoca ed una
fotografia di Corneto ripresa nel giorno di S. Giuseppe del 1849. Abbiamo scelto
questa data perché quella sera, durante e dopo lo spettacolo dato dai comici nel
Pubblico Teatro della Città, avverrà l’unico fattaccio di sangue della Corneto
repubblicana. Ma prima di soffermarmi su di esso narriamo, con le parole del
cronista di allora, d’un paio di episodi già prima avvenuti:
“Mentre si verificava in Roma un qualche principio di turbolenza popolare a carico
specialmente di molti Cardinali su i primi di maggio del 1848, ed alcuni di questi
intimoriti s’involavano alla Capitale, Casimiro Falzacappa la mattina del 3 detto mese
spargeva voce in Corneto e asseriva di aver veduti dalla sua abitazione gli
Eminentissimi Cardinali Macchi e Gizzi (Segretario di Stato e Presidente del
Consiglio dei Ministri sotto Pio IX - n.d.r.) rifugiati nell’abitazione di contro di
proprietà ed uso di Domenico Boccanera, e così dicendo istigava la Guardia Civica a
procederne all’arresto. Un numero difatti di Militi Cittadini... guidati dal Tenente
Domenico Marzoli si faceva ad intromettersi nella casa del Boccanera, e perquisiva
ogni angolo, dopo di che correva pure a ricercarli nel vicino Convento e Chiesa di S.
Francesco, dove il Falzacappa diceva averli veduti entrare travestiti. Nè paghi di ciò,
veduto vano ogni tentativo, e seguendo sempre i suggerimenti del Falzacappa si
recavano ancora quei Militi nei Casini di Campagna al Boccanera appartenenti, e
ricercavano quelli puranco, ma sempre inutilmente, perché era stato il tutto un sogno
del Falzacappa, fatto forse ad arte onde mettere in compromessia taluno, e
probabilmente quel Gonfaloniere d’allora (Boccanera -- n.d.r.) il quale si mostrava
restio a lasciarsi predominare dalle prepotenze dei due fratelli Falzacappa”.
Per questo episodio, dopo la caduta della Repubblica Romana, alcuni Cornetani (dr.
Mascioli, dr. Lattanzi, ed altri del Circolo Popolare - n.d.r.) dovranno rispondere al
Supremo Tribunale della S. Consulta per l’accusa:
“D’aver promossa la spedizione del 3 Maggio 1848 per il tentato sacrilego arresto
degli Eminentissimi Cardinali Macchi e Gizzi, accompagnato da ingiurie atroci e
violata immunità”.
La Repubblica Romana viene proclamata il 9 febbraio 1849.
Il Circolo Popolare di Corneto indice una grande festa cittadina con banda e
luminarie che culmina con l’erezione, sulla piazza principale, dell’Albero della
Libertà. Un gesto comune a molti centri, grandi e piccoli, dove capita che questi alberi
vengano addirittura benedetti dai parroci locali.
Ma quell’emblema assume subito i sapore di uno schiaffo in faccia per quei cornetani
che la pensano diversamente e che se lo trovano davanti ogni volta che mettono il
naso fuori casa. Le possibilità che qualcuno possa tentare di abbatterlo sono molte
tanto che, nei giorni successivi, i cornetani più mattinieri scorgono:
“il tronco di quello superficialmente bruciato, il che era certo indizio che nella scorsa
notte si fosse proceduto ad appiccarvi il fuoco e farlo preda delle fiamme”.
Visto però che l’albero repubblicano ben resiste al fuoco papalino qualcuno prende la
decisione di usare un mezzo più sicuro e sbrigativo:
“Al tocco dell’Ave Maria della sera del 3 marzo 1849 una mano della feccia del
popolo, e d’individui tutti reduci dalla galera, e senza alcun dubbio prezzolati
all’oggetto irrompeva improvvisamente sulla piazza, ed armata di accetta e di altre
armi taglienti si scagliava addosso a quell’albero, e ne tentava con replicati colpi
l’atterramento. Accorreva sull’istante la Guardia Civica e si faceva ad inseguire i
colpevoli che si davano a precipitosa fuga. Fra questi avevano avuto la principale
parte Giovanni ed Adriano Draghi, e Bernardo Molinari soprachiamato Belardo.
Mentre i primi due scomparivano alla ricerca della forza, il Belardo si rifugiava a
ridosso di un angolo esterno della Chiesa Cattedrale, eludendo così quei militi che lo
inseguivano (godimento immunità nei luoghi ecclesiastici per cui, come nel gioco dei
quattro cantoni, poteva essere arrestato solo se si fosse scostato dal muro - n.d.r.).
Rimanevano i militi a guardarlo a vista e intanto si faceva tutto noto al
Governatore Colombo, che udito il tumulto dalla sua residenza, era disceso al
sottoposto Quartiere Civico dove si trovava pure il colonnello di quella Guardia,
signor Conte Pietro Falzacappa. Si riferiva di più al Colombo che la piazza della
Cattedrale era stipata di popolo il quale mostrava quel fermento che indicava poco
di buono.
Mentre si raddoppiavano le pattuglie Civiche per tutta la Città il Governatore si
faceva per mezzo di gentil a richiedere all’E.mo Vescovo Clarelli la facoltà di poter
estrarre da luogo immune il Molinari fattori reo di attentato alla sicurezza del
Governo e all’ordine pubblico... Giungeva finalmente la risposta dell’E.mo Clarelli...
che, contro ogni sua aspettativa, era negativa. Si rivolgeva allora il Colombo al
Colonnello Falzacappa chiedendogli consiglio... e da molte non irragionevoli
osservazioni veniva il Governatore indotto ad emettere l’ordine di arresto contro il
Molinari, non tralasciando però di far preghiera affinché si fosse arrestato in un
momento che si fosse staccato dall’immune, come gli si faceva supporre fosse
avvenuto... per la grave ebrietà, che facendolo traballare lo costringeva talvolta a
scostarsi dal suo posto. Veniva così arrestato il Molinari e in tutta quella notte
null’altro avveniva di sinistro.”
E veniamo adesso a quel giorno di S. Giuseppe 1849:
“quella sera una Compagnia di Comici si esponeva al Pubblico Teatro di quella Città
di Corneto. Negli intervalli dello spettacolo e in mezzo agli applausi degli intervenuti
si udivano talvolta delle voci di: morte ai neri!.... uscivano specialmente quei gridi
da una loggia dell’ordine terzo fuori della quale si vedeva talvolta apparire un
lumicciolo acceso, col quale forse quei discoli volevano significare di dar lume a
coloro che appellavano neri e probabilmente al Gonfaloniere che sedeva nella
sottoposta loggia al lato del Governatore Augusto Colombo e del Signor Conte Dr.
Pietro Soderini. Mal tollerando il Governatore quel disordine, nè d’altronde
stimandolo degno di troppe energiche misure pregava il Soderini a volersi recare
nella loggia donde uscivano quei rumori ed ottenere con buone maniere la
cessazione o nel caso contrario minacciare severi provvedimenti.
Vedeva gentilmente alle preghiere del Governatore il Soderini, e alle dimostranze di
quest’ultimo cedevano pure quei schiamazzanti desistendo da ogni clamore e
spegnendo l’accesa face.
Aveva quindi termine lo spettacolo e si ritirava ognuno”.
Prima di procedere nelle vicende di quella sera vediamo di conoscere chi erano quegli
“schiamazzanti”. Ve li presentiamo:
- “Salvatore Paniccia, di Francesco, di anni 20, scapolo di professione mugnaio”.
- “Vincenzo Painasi, detto Bujolo, del fù Benedetto, di anni 27, ammogliato con una
figlia, professione ganarista, addetto alla misura dei cereali”.
- “Crispino Fioravanti del fù Giuseppe, pure di Corneto, ammogliato, lavorante alle
Saline di Porto Clementino e cognato del Paniccia”.
Il Paniccia appare il più interessante dei tre nonché il capo banda di quanto è
avvenuto e di quanto avverrà quella notte.
Egli è un “Reduce della Lombardia” e cioè uno di quei militi delle forze papaline
inviate da Pio IX nel 1848 a marciare contro l’Austria sotto il comando del
piemontese Giovanni Durando.
E’ tornato da quella spedizione doppiamente inferocito sia per la batosta ricevuta
dalle truppe austriache nella difesa di Vicenza sia a causa di:
“una certa Gabriella Pampersi la quale, amante una volta del Paniccia, alla
partenza di costui per la guerra della Lombardia si era gettata nelle braccia di tale
Benedetto Lastrai, Cornetano, di professione scritturale, di anni 29, ammogliato,
dal quale si vociferava perfino avesse di seguito procreato un figlio”.
Quel Benedetto Lastrai non è peraltro uno stinco di santo:
“egli è infatti quello stesso Lastrai il quale, a tacere d’altri fatti, nella tenera età, e
mentre indossava pure gli abiti clericali, ebbe campo d’introdursi nell’abitazione
dell’in allora Vescovo di Corneto Eminentissimo Cardinal Velzi, e di trafugargli un
orologio d’oro a ripetizione, quale nascose dentro il campanile della Chiesa dei
Reverendissimi Padri Agostiniani di colà, ma poi restituì perché venne a palesarsi in
un subito e il furto e l’autore di quello”.
Il Paniccia quindi ha un buon motivo per avercela con Lastrai e, se anche volesse
dimenticare le corna della Pampersi, c’è un altro carico da undici a renderglielo
odioso: Benedetto Lastrai è un papalino agguerrito e non ha alcun timore ad
ostentare la sua fedeltà per il “Legittimo Governo del Clementissimo Sovrano il
Pontefice Pio IX”.
Questo è davvero troppo ma nessuno può pensare che la resa dei conti sia tanto
vicina.
Dopo il teatro, verso le tre di notte, il trio degli schiamazzanti “ebbri dal soverchio
vino”, sia avvia verso il Caffé Reali.
Potrebbe essere solo il bicchiere della staffa se non vi fossero tre piccoli particolari
che non quadrano: Paniccia con una baionetta, Painasi con una sciabola e Fioravanti
con un fucile!
“Vuole il caso” che all’interno del caffé ci sia proprio il Lastrai il quale, ad escludere
ogni possibilità di malinteso e per nulla intimorito da quell’arsenale, si fa premura di
accoglierli amorevolmente con questa frase:
“Ecco là li repubblicani; se la piglieranno in culo loro e la loro repubblica”
e per essere più che certo di non essere stato frainteso ripete la frase una seconda
volta.
Possiamo immaginare l’effusione dei baci e degli abbracci che ne seguono!
Non ci scappa il morto grazie all’intervento degli astanti e l’accorrere della Guardia
Civica ma non manca qualche schizzo di sangue.
Il Paniccia viene arrestato subito. Painasi fugge a casa e si infila sotto le coperte: più
tardi viene arrestato in camicia da notte “macchiata di sangue nelle parti basse” e
giustifica tali macchie asserendo “di avere lui mal venereo”. Un mese dopo viene
“assalito da forte splenite” e ricoverato all’Ospedale dei Buonfratelli dal quale s’invola
verso la latitanza mentre il Padre Priore, il Frate Infermiere ed il Becchino, vale a dire
tutto il personale, è a cena.
Fioravanti scompare ed ancora latitante nel 1851.
L’unico a pagarla sarà il Paniccia che, il 3 marzo 1851, per l’accusa di “ferite con
qulache pericolo di vita”, si beccherà tre anni di lavori forzati.
Il 24 aprile 1849 una nave a vapore, la Panama, sbarca a Civitavecchia il primo
contingente del Corpo di Spedizione Mediterraneo inviato dal Governo Francese. Per
la giovane Repubblica Romana è l’inizio della fine!
E’ un episodio triste e non solo per il sangue che dovrà inevitabilmente scorrere ma
anche perché il colpo mortale viene da un’altra repubblica, quella francese, che
ancora travagliata da pesanti problemi di consolidamento (cadrà anch’essa nel 1852)
va a preoccuparsi di soffocarne un’altra.
Il Preside repubblicano di Civitavecchia, Michele Mannucci, impartisce qualche
disposizione di resistenza che però subito annulla in seguito ad un accordo secondo il
quale italiani e francesi si riconoscono tutti fratelli e tutti repubblicani.
Così la popolazione di Civitavecchia esulta, il Preside salva la faccia e il comandante
della spedizione, Generale Oudinot, ha tutto il tempo di affilare quella sciabola che i
monarchici e i clericali dell’Assemblea Francese gli hanno affidato per decapitare la
Repubblica Romana.
Nello stesso tempo e dagli altri stati della penisola molti liberali continuano ad
affluire verso Roma per partecipare alla sua eventuale difesa.
E torniamo a Corneto:
“Approdata appena a Civitavecchia la Spedizione Francese si presentava a quelle
sponde un bastimento contenente un battaglione di Militi Lombardi i quali
chiedevano di sbarcare. Si opponeva il Generale Oudinot... che permetteva loro di
approdare ma solo in un altro punto della spiaggia. Sembrava quindi che questi
volessero avvicinarsi al Porto Clementino poco distante da Corneto. Nel tempo
stesso nasceva a Corneto e si faceva subito estesa la voce che una Delegazione di
Patrizi Cornetani si fosse diretta al Generale francese onde supplicarlo a porre
impedimento a tale sbarco facendogli supporre che in Corneto regnasse l’anarchia e
chiedergli l’intervento delle sue truppe mostrandogli il timore che quei Lombardi
potessero dargli il sacco. L’aver recato simile insulto alla città.... facendola credere
incivilizzata e inospitale per lo sgarbo che si andava ad usare a quei Lombardi, che
dimandavano soltanto il transito onde dirigersi alla difesa di Roma, indispettì il
Circolo Popolare e indusse il socio Eugenio Lucidi a far proposta di dichiarare i
componenti la Deputazione nemici della patria. Non ammoniva sul momento il
Circolo alla menzione del Lucidi, ma in mezzo a mille riflessioni decideva di voler
prima conoscere se quella Deputazione venisse composta d’intrusi, oppure di
individui appartenenti al Municipio o da questo aventi mandato. A tal uopo si
rivolgeva il Circolo per mezzo di lettera al Gonfaloniere Domenico Boccanera,
chiedendogli di poter conoscere la vera natura della Deputazione. Rispondeva il
Boccanera protestando che il Municipio non aveva mai cessato di aderire alla
Repubblica, che ora vi aderiva pià che mai, e che nessuna Deputazione era partita
dal seno del Municipio con mandato municipale.
Dopo tale risposta il Circolo, considerando come pochi intrusi si fossero assunti il
nome di una città intera, l’avessero compromessa con tante menzogne e fossero
incorsi negli estremi voluti dalle ordinanze ministeriali per essere dichiarati nemici
dalla patria, emise il decreto col quali li dichiarò tali”.
Siamo ora ai primi di maggio di quel 1849: qualche giorno dopo l’emanazione del
decreto del Circolo Popolare ed appena prima che i suddetti “nemici della patria”
avvertissero la sana opportunità di squagliarsela da Corneto.
Per il Governatore Repubblicano Augusto Colombo incomincia una pesante odissea
molto esplicativa dell’aria che tirava in quei momenti:
“.... si presentava al Governatore Colombo un giovane il quale accusatosi per un
certo Ravizza di Lombardia presentava il suo passaporto per il visto governativo
necessario a recarsi a Viterbo. Osservava il Colombo la regolarità del documento, la
vidimazione della polizia di Civitavecchia da cui veniva il Lombardo e secondava
dopo ciò le di lui richieste.
Intanto quegli si faceva a promuover discorso sugli affari politici di quei tempi e
diceva di essere egli ai servigi del Triumvirato della Repubblica Romana e di
dirigersi a Viterbo per operare in unione col Preside di quella Città e provincia
Pietro Ricci al quale professava antica amicizia.
Da tali discorsi passava quel Lombardo a mostrare la sua sorpresa sulla
Deputazione da Corneto partita al Generale Francese e della quale diceva aver
inteso parlare tanto in Civitavecchia quanto nei pochi momenti che si trovava in
Corneto. Concludeva poi infine facendo le sue meraviglie al Colombo nel vedere
impunito cotanto eccesso vieppiù delittuoso in quei momenti in cui tutti i Municipi
dello Stato Romano emettevano le loro proteste contro l’intervento Militare
Francese.
Il Colombo rispondeva evasivamente a colui dicendo di non costargli abbastanza
dell’esistenza della nota Deputazione... di non avere più ne’ Militi necessari... nè
istruzioni dal suo Preside per poter prendere provvedimenti a carico di quella.
- Il Lombardo, avvedutosi dei pretesti del Colombo, cercava di abbatterli dicendo
che al tutto si poteva porre rimedio con l’invocare dal Preside di Viterbo una qualche
forza militare e promettendo di volersi egli stesso interessare in quella sede di tale
faccenda. Procurava di addurre il Colombo nuove difficoltà per dissuadere quel
Lombardo dal suo progetto; ma quanto più egli parlava tanto più si avvedeva il
Lombardo che erano meri pretesti e vane scuse per il che si partiva senza neppur
rispondere alle ultime difficoltà dal Colombo messe in campo.
- Rimaneva sorpreso il Colombo del contegno di quel facciendone, ma sperava pure
che il Preside di Viterbo si sarebbe ricusato dall’intervenire (Corneto era fuori dalla
sua provincia, n.d.r.).
- S’ingannava però il Colombo perché non conosceva ancora di qual tempra fosse
Pietro Ricci.
- La mattina seguente, poco prima del mezzo giorno, si presentava di nuovo il
Lombardo al Colombo e gli recava un foglio del Ricci con queste parole:
- Mi ha sorpreso fortemente, Cittadino Governatore, l’ascoltare dal Lombardo come
sia partita da costì una Deputazione sedicente Municipale al Generale Francese a
fargli inique richieste, e come poi membri di quella si aggirino impuniti per le
contrade di codesta Città. Penso che la vostra indolenza nel punire cotali traditori
della patria possa nascere dalla sola mancanza di forza materiale e dalla
impossibilità di rivolgervi al vostro Preside (quello di Civitavecchia, n.d.r.) che si
trova circondato da nemici, vi spedisco da qui un picchetto della Guardia Civica
Mobilizzata quale dietro le vostre istruzioni potrò venire al fermo dei colpevoli, che
trasmetterete quindi a me per assoggettarli alle pene di cui si son fatti degni. Vi
porrete in pieno concerto col Comandante del picchetto e con il Lombardo per la
riuscita dell’operazione.
Inoltre, dai dati del Lombardo rilevava il Colombo che il picchetto aveva fatto posta
a Monteromano per attendere ivi le di lui istruzioni e il sopraggiungere della notte
più propizia all’esecuzione del progetto”.
Questa volta il nostro povero Governatore sembra irrimediabilmente messo con le
spalle al muro e chiuso in un vicolo cieco dal quale appare impossibile uscire senza
sbattere il muso da qualche parte.
Il Colombo non vuole ammazzare nessuno ma, a sua volta, non vuole neanche
passare qualche brutto guaio per cui:
“....pensò in primo luogo a sbarazzarsi della presenza del Lombardo che respinse a
Monteromano con l’insegnamento che colà, assieme alla spedizione, attendesse gli
ordini suoi da parteciparglieli nella giornata. Rimasto solo e ruminati tra se mille e
mille progetti onde impedire l’esecuzione dei pazzi voleri del Ricci, risolve alla fine di
diportarsi a Civitavecchia per informare il Preside Michele Mannucci e da lui avere
autorizzazione per far indietreggiare quel picchetto e impedire quell’arresto.
.... pregava così i fratelli Alfonso e Cesare Sbrinchetti (suoi padroni di casa, n.d.r.)
affinché si fossero compiaciuti somministrargli gentilmente il loro Calesse per
recarsi sul momento stesso a Civitavecchia.
I due fratelli si offrirono essi stessi a lui compagni e, posto in ordine il Calesse,
volarono a Civitavecchia.
Giunti appena colà e fermatesi sulla Piazza d’Armi, tale Domenico Annovazzi si
avvicinava al Colombo e faceva noto l’arresto del Preside Mannucci poche ore
prima avvenuto ad opera del Comando Francese.
Po immaginare ognuno come restasse a tale notizia il Colombo il quale vedeva in
quel momento caduti a terra i suoi progetti.
Raccontando la sua vicenda all’Annovazzi, che minutava presso quella Presidenza,
viene loro in capo l’idea che il fermo del Mannucci potesse servire di pretesto a
respingere indietro il picchetto col fare appunto prontezza a quei militi chè l’arresto
della Deputazione Cornetana avrebbe attirata l’ira del Comando Francese sul
Mannucci ora che l’aveva in suo potere.
Colla solita gentilezza si prestavano i Sbrinchetti ai desideri del Colombo e posto di
nuovo all’ordine il calesse si partirono per Monteromano.
Durante il viaggio, nel porre a tortura il suo cervello, rifletté egli che la migliore
delle scuse sarebbe stato il dire di avere parlato personalmente col Mannucci
rinchiuso nel forte di Civitavecchia e di avere da lui ricevuto l’ordine di impedire
quell’arresto per la ragione di allontanare da lui le severe misure che avrebbe
potuto il Comando Francese prendere a di lui danno. Ciò sopponendo che il
Mannucci non sarebbe stato dimesso per allora e quindi non temeva potesse venire
in luce la sua astuzia e menzogna.
Giungevano coloro nelle vicinanze di Monteromano mentre andava già ad
annottare. Al ridosso di quel paese posto sopra una collina evvi una breve si, ma
coscesa salita che terminava colla posta dell’istesso paese. Si rifletté quindi fermare
il Calesse prima della salita e ascenderla a piedi. Il minore dei fratelli Sbrinchetti
rimase a guardare il Calesse ed il Colombo unito all’Alfonso si portò nel paese
mentre si avvicinava la prima ora della notte.
Entrati quei due appena la porta videro vari militari viterbesi che si trattenevano
alcuni nella vicina Osteria della Posta alla sinistra di chi entra quel paese, alcuni
sulla sporta spalancata di quella ed altri giravano all’esterno. Avvicinossi il
Colombo ad uno di quei militi e gli richiese che avesse a lui indicato il loro
Comandante. Sul momento venne ricercato e trovato il Capitano Cesare Bertarelli
Comandante la Civica Mobilizzata di Viterbo. Presentatosi al Bertarelli il Colombo,
annunciatosi per il Governatore di Corneto, narrò come essendo reduce da
Civitavecchia aveva colà potuto parlare col Mannucci la mattina stessa arrestato,
ed aveva da lui ricevuto l’ordine d’impedire quell’arresto che gli sarebbe stato certo
cagione di gravi dispiaceri ora che si trovava in ostaggio dei Francesi.
A tale parole unì il Colombo altre riflessioni parte vere e parte false riuscendo a
persuadere quei militi d’indietreggiare e abbandonare l’impresa. Il Colombo e gli
Sbrinchetti si avviarono quindi verso Corneto ove giunsero verso le tre ore della
notte entrando dalla porta della Maddalena.”
Il Colombo congeda i fratelli Sbrinchetti in Piazza S. Marco rivolgendo loro la
raccomandazione di tacere i fatti di quella giornata e se ne va via a dormire stanco
morto ma “immerso nel piacere di vedere così bene soddisfatti i suoi desideri”.
Ma spesso le bugie hanno le gambe corte e per di più il nostro Governatore appare
decisamente scalognato.
Quello stesso giorno Mazzini aveva inviato a Civitavecchia Carlo Rusconi che era il
Ministro degli Esteri della Repubblica Romana.
Il suo compito doveva essere quello di sbattere in faccia al Generale Oudinot una
formale protesta dell’Assemblea Repubblicana e farli soprattutto osservare che la sua
invasione era sfacciatamente in contrasto con l’articolo 5 della Costituzione
Repubblicana Francese per quanto concerneva la libertà dei popoli.
Oudinot si rifiutò addirittura di riceverlo ed il Ministro, vista anche la fine fatta quel
giorno dal Preside Mannucci, stimò più salubre allontanarsi da Civitavecchia per
dirigersi verso Viterbo passando da Vetralla. Uscendo dalla città incrociò il calesse
della spedizione.
Colombo-Sbrinchetti che vi stava entrando e, guarda il caso, più tardi va ad
imbattersi anche in un altro personaggio della nostra vicenda:
“Il preside Ricci dopo avere divulgata per la Città di Viterbo la notizia della
spedizione da lui fatta e dopo avere pubblicamente esternato il di lui desiderio di
ordinare la fucilazione dei membri della nota Deputazione Cornetana appena
fossero giunti arrestati nelle sue mani, si era recato a Vetralla, per farsi incontro a
quei Militi reduci dall’impresa di Monteromano. Giunto a Vetralla in sulla sera si
era imbattuto nell’in allora Ministro dell’Estero Carlo Rusconi, che appena arrestato
il Mannucci si era dipartito da Civitavecchia dirigendosi verso Viterbo.... con un
legno di Posta, involandosi forse al pericolo di correre anch’egli la medesima sorte
del Preside.
Riuniti pertanto il Ricci e il Rusconi a Vetralla rimasero attoniti nello scorgere il
Picchetto reduce da Monteromano arrivare senza prigionieri. Si faceva il Bertarelli
a narrare per esteso l’accato e quel Preside vedeva nel racconto del Bertarelli
l’astuzia e le menzogne del Colombo tanto più che il Rusconi faceva riflettere non
essere supponibile che il Comando Francese avesse permesso al Colombo di parlare
al Mannucci prigioniero.
Tali giustissime riflessioni davano materia a coloro di discorrer male sulla condotta
del Colombo, e di esternare il loro sentimento sulla di lui fede politica poco a quel
Governo confacente.
Con tali ragionamenti conveniva il Lombardo Ravizza ivi presente il quale diceva di
avere notato la dubbiezza della fede politica del Colombo.
Dopo di ciò riedevano tutti a Viterbo e più di tutti rammaricato vi giungeva il Ricci
nel vedere andati a vuoto i suoi progetti di sangue.”
Pochissimi giorni dopo il mancato arresto dei Patrioti Cornetani, dei quali purtroppo
non abbiamo potuto conoscere i nomi, gli esploratori, a cavallo, che il prudente
Governatore Colombo aveva posto a sentinella tra Corneto e Tarquinia, correvano ad
avvertire l’arrivo delle truppe francesi:
“non esitò il Colombo ad allontanarsi dal luogo e di ritirarsi da un impiego che era
stato cagione di continui dispiaceri e che già da vario tempo anelava di
abbandonare”.
Così, i primi giorni di maggio 1849, ha fine l’esperienza Repubblicana dei Cornetani
molti dei quali dovranno poi vedersela coi tribunali del ripristinato Governo
Papalino.
Due mesi dopo, il 4 luglio 1849, i vessilli della Francia repubblicana completano
l’occupazione di Roma e Mazzini si lascia sfuggire l’opportunità di coniare per primo
quell’espressione che, un secolo dopo, parlerà di “pugnalate alla schiena”.
A fine luglio Roma è già governata da un nuovo triunvirato: quello dei Cardinali
commissari del Papa Della Genga, Altieri e Vannicelli che i romani chiameranno “i
triunviri rossi”. Pio IX torna a fare il “Papa Re” nell’aprile 1850.
Incominciano le punizioni e nel 1851 troviamo il nostro amico ex Governatore
Augusto Colombo che, per avere cercato di nuotare senza lode e senza colpa in un
mare di episodi più grandi di lui:
“da un anno è condannato a trovarsi in un pubblico carcere, in associazione con
quella feccia tolta dal crogiolo della società che si vomita ogni giorno in quel luogo”.
Il poveraccio è in piedi davanti al Supremo Tribunale della S. Consulta che lo chiama
a rispondere di ben sei capi d’accusa.
Come sia finita la sua vicenda non lo sappiamo. Tuttavia ci è dato di nutrire buone
speranze nel leggere la parte conclusiva dell’arringa difensiva concordata col suo
avvocato:
“.... che se pure tutte le ragioni superiormente affacciate non valessero a convincere
il Supremo Tribunale in favore del Colombo e si volesse infliggere a lui un castigo,
essendo la pena dovuta a simili trascorsi meramente disciplinare ed Ecclesiastica, e
potendo questa consistere in esercizi spirituali, di buon grado vi si assoggetta il
Colombo... bramandosi da lui come mezzo per rammentarsi nella solitudine tutti i
doveri di cristiano”.
Il che ci lascia pensare che la farà franca anche questa volta, seppure all’ombra di un
chiostro e vestito da frate.
Adrio Adami
ETRUSCHI IN SVEZIA?
La mostra del “tesoretto” di Hassle
Nel settembre del 1986, come i lettori di questo Bollettino ricordano, è stata
inaugurata nella Rocca Albornoz di Viterbo una mostra etrusca dedicata agli scavi
svedesi di San Giovenale, Luni, Acquarossa. Con essa s’intendeva presentare al
pubblico italiano, anche non specialistico, i risultati dell’impegno scientifico degli
archeologi svedesi su un arco di oltre 30 anni. Per una coincidenza passata
inosservata, nel mese di marzo si celebrava in Svezia un anniversario archeologico
riguardante da vicino Tarquinia: quello del ritrovamento fortuito d’un reperto del VI
sec. a.C. giudicato di provenienza etrusco-italica. Per ricordare l’avvenimento, fu
presentato il reperto in una mostra a Glanshammar, nel cui territorio 50 anni fa
aveva avuto luogo la scoperta.
Il “tesoretto” fu esposto con criteri didattici esemplari. Attraverso una serie di carte
topografiche, documenti di scavo, disegni su scala, gigantografie, diapositive, foto di
particolari, si intese porre a disposizione del pubblico le informazioni visualizzate che
guidassero alla lettura scientifica degli oggetti. Gli ampi commenti scritti sui pannelli,
completati da una guida sonora registrata su nastro, oltre a narrare le modalità dello
scavo e del restauro, presentavano le diverse interpretazioni archeologiche e storiche
avanzate dagli studiosi.
La mostra, patrocinata dal locale circolo storico e archeologico, dal museo
provinciale, dall’assessorato alla cultura di Örebro, era aperta ogni giorno al pubblico
ininterrottamente dalle 8 alle 20, con possibilità di visitarla, previo appuntamento,
anche fino alle 23! Si calcola che dall’11 al 20 marzo l’abbiano visitata oltre 5.000
persone. Durante questo periodo sono stati organizzati programmi culturali di vario
genere. Ogni mattinata Erik Persson - ex presidente del consiglio comunale per molti
anni e cui si deve il merito di gran parte dei contatti culturali con la Tuscia viterbese ha parlato del ritrovamento ed ha commentato una cavalcata di diapositive dai suoi
viaggi in Provincia di Viterbo, a scolaresche di vario ordine, ed associazioni e circoli, a
gruppi di cittadini. Inoltre, sono state organizzate conferenze d’argomento
archeologico concernenti il territorio di Glanshammar nei suoi rapporti col resto della
Svezia. Il ciclo delle manifestazioni raggiunse la massima intensità il 16 marzo,
quando nei locali comunali fu presentato un programma durato l’intera giornata, con
discorsi ufficiali, proiezioni di diapositive, musiche e danze popolari. Nella stessa
occasione fu tenuta dal sottoscritto una conferenza sulla civiltà degli etruschi e sulla
loro presenza a Tarquinia e nel resto della Tuscia, davanti ad un pubblico di oltre 300
persone.
Il successo della manifestazione è certo dipeso dalla sua stessa eccezionalità, ma
anche dalla vivace vita associativa, caratteristica dei Paesi Scandinavi, sensibile a
proposte culturali. Molte sono le persone che hanno collaborato negli sforzi per
riportare sul luogo della scoperta il reperto e presenarlo per la prima volta alla
popolazione. Oltre ad Erik Persson, il merito va ad Agneta Bruhn, che lavora alla
direzione d’un centro diurno e alla coordinazione dell’attività di oltre cinquanta
associazioni locali: alla sua gentilezza si deve gran parte della documentazione qui
riportata; con lei ha collaborato Bengt Eriksson, presidente del circolo per la storia
locale.
Inizialmente, gran parte degli sforzi degli organizzatori furono tesi a superare le
difficoltà burocratiche per ottenere il permesso di esporre gli oggetti all’esterno del
museo ove sono normalmente custoditi. Non furono trascurate infatti le precauzioni:
data l’eccezionalità degli oggetti esposti, una guardia armata li proteggeva giorno e
notte.
Le resistenze iniziali della sovrintendenza hanno riportato alla ribalta il dilemma:
museo locale o museo nazionale? L’interrogativo è ben noto ai lettori, al corrente
delle annose polemiche italiane. Per motivi storici, i musei archeologici centrali
presero in consegna nell’800 i reperti più significativi delle varie regioni italiane,
come si verificò nel caso delle statue di Ferento. Soltanto negli ultimi anni si è
verificata un’inversione di tendenza, per cui si insiste a che i reperti restino in loco,
come avvenne per i famosi bronzi di Riace. In Svezia, dove l’autorità statale è esistita
per secoli, la tradizione centralistica vede una concentrazione degli istituti culturali
nella capitale, malgrado malcelate resistenze regionali che sollecitano con insistenza
un maggior decentramento. Secondo Hans-Ake Nordström, funzionario del museo
storico nazionale e organizzatore della mostra di Glanshammar, è indispensabile che
in Svezia esista un museo centrale, la cui funzione sia quella di offrire una visione
d’insieme, quale non possono invece fornire i singoli musei su scala regionale.
Essendo compito precipuo del museo centrale quello di descrivere il passato del
Paese, durante la preistoria e il medioevo, sullo sfondo complessivo della storia
europea, un reperto eccezionale come quello di Hassle, soltanto se esposto accanto ad
altri documenti di varia provenienza geografica sfugge al pericolo d’una
interpretazione campanilistica riduttiva, entrando invece nel suo autentico contesto
storico che lo rende comprensibile.
Occorre aggiungere, fa notare Nordström, che per ragioni storiche e ambientali il
museo centrale svedese funge in realtà allo stesso tempo come un museo che può
dirsi “locale”, anche se opera in un contesto molto più ampio degli altri musei
regionali o provinciali: visto nel più vasto contesto europeo, infatti, il museo
nazionale svedese è un museo pur sempre su scala “regionale”.
Il reperto di Hassle, anche se assolutamente unico nel suo genere in Scandinavia, non
è il solo apporto culturale giunto in passato dall’esterno.
Infatti, il museo nazionale possiede un gran numero di oggetti fabbricati oltre
confine, in zone anche molto remote, e giunti fin qui per vie e motivi diversi. Il
fenomeno più noto ed evidente costituito dall’arte medioevale. Non soltanto i grandi
costruttori di cattedrali gotiche erano maestri italiani, per lo più lombardi; ma si può
dire che tutta l’arte medioevale svedese è tributaria di quella continentale.
Numerosi e importanti oggetti, prodotti in Francia, Olanda, Germania o Inghilterra,
sono oggi gelosamente conservati proprio nei musei svedesi: non è esagerato
affermare che la Svezia sia depositaria di un vero e proprio tesoro di enorme valore
per la storia dell’arte medievale europea. Mentre sul continente, per le traversie della
storia, una grande quantità di preziosi oggetti artistici sono andati sfortunatamente
perduti, in seguito a catastrofi naturali, guerre, incendi, distruzioni, incuria, qui
hanno potuto trovare sicuro asilo documenti di grande valore storico.
Francesco Petroselli
Famosi oggetti di bronzo in mostra a Glanshammar
Il 9 maggio 1936 ebbe luogo una singolare scoperta a Glanshammar. Il contadino
Axel Nilsson, durante i lavori di bruciatura dell’erba sul suo campo, scoprì per caso
sul greto di un ruscello qualcosa di rotondo che, a prima vista, aveva l’apparenza di
una... ruota d’automobile. Ma non era una ruota abbandonata: era una caldaia di
bronzo contenente al suo interno una serie di altri oggetti anch’essi in bronzo.
Il terreno dove avvenne la scoperta era un appezzamento coltivato, acquistato da Axel
Nilsson e frazionato da un podere denominato Hassle: per questo motivo gli oggetti
presero il nome di “tesoretto di Hassle”. L’etimologia del toponimo (nel sec. XVI
scritto Hässle) è di tipo botanico e va interpretato come “podere presso il boschetto di
nocciòli”. Era questo uno dei tanti poderi appartenenti alla famiglia di Gustavo Vasa.
Poiché questo è tra i reperti bronzei scientificamente più importanti e di pregiata
qualità della Svezia, è conservato a Stoccolma, nel Museo storico nazionale. Ma
quest’anno il tesoretto è andato in trasferta, cadendo il cinquantesimo della sua
sensazionale scoperta. Infatti, in seguito alle pressioni esercitate dalla popolazione, il
Museo nazionale ha consentito di esporre i celebri bronzi durante due settimane nella
sede comunale di Glanshammar. L’unico oggetto che non è stato esposto è la grande
caldaia. “E’ rotta in più punti e troppo fragile, per cui non abbiamo osato esporla ai
rischi del trasporto”, afferma Hans-Ake Nordström, responsabile della sezione età
della pietra e del bronzo del Museo e responsabile della mostra.
Quel 9 maggio era per Axel Nilsson un giorno di lavoro assolutamente come tutti gli
altri. Un suo vicino che stava arando notò che Nilsson quel giorno lavorava sulla riva
del ruscello, dove un fossato di scolo si immette nel ruscello. Lo vide dirigersi
improvvisamente verso casa, portando con sè la falce fienaia.
Alcune ore dopo vide arrivare un’automobile da cui scesero alcune persone che si
diressero al greto e si misero ad osservare attentamente qualcosa: si trattava del
sovrintendente Bertil Waldén e di sua moglie, la scrittrice Margit Palmaer Waldén.
Alex Nilsson, osservando meglio, aveva infatti visto che la caldaia conteneva alcuni
oggetti e aveva estratto una delle spade di bronzo. Capito che si trattava di qualcosa di
eccezionale, non di un relitto qualsiasi ma di un reperto archeologico, aveva
telefonato a Örebro dando l’allarme alla Sovrintendenza.
Il giorno successivo venne sul posto una spedizione tecnica di sette persone, le quali
prepararono lo scavo, fotografando, effettuando il rilievo topografico, costruendo
sopra il ruscello un ponticello di legno provvisorio. Al lavoro parteciparono vari
archeologi. Margit Waldén ne scrisse subito su un diffuso settimanale nazionale e gli
archeologi ne diedero la notizia al mondo scientifico sul bollettino della
sovrintendenza.
Secondo la testimonianza di Margit Waldén, alcuni ragazzi a pesca nel ruscello
avevano già notato gli oggetti, ma avevano creduto si trattasse... d’un macchinario per
la mungitura fuori uso e abbandonato.
La caldaia era situata così in superficie che era stata danneggiata nel corso di scavi di
drenaggio. Si può dire che fu salvato in extremis dagli archeologi, in quanto stava
scivolando lentamente nel ruscello. Il vicino Axsel Nilsson spiega che gli oggetti
vennero alla luce proprio quella primavera perché in aprile s’era verificato un forte
innalzamento del livello delle acque del lago vicino. Ogni primavera la scarpata del
ruscello era stata sommersa dall’acqua ed evidentemente la caldaia si era spostata un
po' alla volta dalla posizione originaria.
Il “tesoretto di Hassle” è normalmente conservato al Museo storico nazionale della
capitale, esposto in una grande vetrina ben illuminata ed ermeticamente chiusa: il
colore opaco del bronzo si staglia in modo perfetto contro lo sfondo azzurro. Molti si
chiedono giustamente perché si conservi a Stoccolma e non nel museo provinciale di
Örebro. Non dovrebbe restare in loco?
Risponde il Docente Nordström: “Non è che noi vogliamo arraffare ogni reperto. Ma
questo di Stoccolma è un museo a livello nazionale e quindi dobbiamo avere la
possibilità di mostrare al pubblico reperti di ogni epoca e provenienti dall’intero
territorio nazionale. Il “tesoretto” è uno dei reperti più eccezionali e singolari, per
questo è stato sistemato nella capitale. Ma occorre aggiungere che però gli abbiamo
dato il posto d’onore che meritava”.
Kerstin Larsson
dal “Nerikes Allehanda” del 10/03/1986
(Trad. di F. Petroselli)
Il reperto di Hassle, uno dei più singolari della Svezia
Il “tesoretto” è giudicato dagli esperti il reperto archeologico dell’età del bronzo più
singolare rinvenuto in territorio svedese. Non c’è dubbio che gli oggetti siano stati
confezionati in area mediterranea; la grande caldaia può risalire al VI sec. a.C. e
assomiglia molto ad oggetti dello stesso tipo che si ammirano nel Museo Vaticano e in
quello etrusco di Villa Giulia.
Il reperto è costituito dalla grande caldaia, due secchielli, due spade e un’elsa, due
ganci e dodici piastre di bronzo. La cosa unica per la Svezia è che si tratta di tutti
oggetti non di fattura locale, ma importati; il che dimostra che anche gli uomini
dell’età del bronzo intraprendevano lunghi viaggi attraverso l’Europa. Si ritiene che la
caldaia con il suo contenuto sia stato seppellito nella terra di Glanshammar circa 500
anni a.C., perciò quando si stava passando dall’età del bronzo a quella del ferro. La
caldaia (alta circa 34 cm. e di un diametro massimo di circa 64 cm.) è di un tipo che si
ritrova nel mondo greco classico. Secondo il docente Hans-Ake Nordström, si tratta
probabilmente di un oggetto costruito in area culturale greca, circa 600 anni a.C. Può
anche essere arrivato dall’Italia meridionale in epoca greca.
La caldaia di Hassle è l’unico reperto di quel tipo rinvenuto al nord delle Alpi. Il
punto più prossimo alla Svezia dove sia stato rinvenuto un oggetto simile è Sainte
Colombe nella Borgogna, in Francia; un terzo oggetto dello stesso tipo è stato
rinvenuto in una famosa tomba etrusca, la Regolini Galassi, a Cerveteri. Caldaie del
genere, ma con il bordo superiore decorato da colli di grifoni, potevano essere
sistemati su treppiedi e posti davanti al tempio per fungere da catini sacrificali. Anche
nella caldaia di Hassle si nota la presenza di fori, i quali mostrano che vi era una
qualche forma di decorazione.
Inoltre, l’oggetto è stato riparato in più parti durante il tempo in cui è stato utilizzato.
I due secchielli sono del tipo chiamato ciste a cordone, per via del fregio inciso come
ornamento sulla parete. Esemplari esattamente uguali sono stati trovati in più luoghi
dell’Italia settentrionale e in località dell’Europa centrale, nei pressi di Older,
Weichsel e in Austria.
Le due spade, che sono state piegate per poterle farle entrare nella caldaia, si ritiene
appartengano alla cultura di Hallstatt, nome di una celebre località archeologica
austriaca. Alla cultura di Hallstatt sono collegate anche le piastre in bronzo che si
crede siano state confezionate in territorio centro-europeo.
E’ incerto l’uso delle piastre e dei ganci. Questi possono esser stati un particolare di
morso da cavallo; le piastre possono aver ornato una bardatura equestre, oppure
possono esser state applicate ad un abito o uniforme, dal momento che sono molto
leggere.
A giudicare dall’apparenza, sembrano esser state foggiate a colpi di martello su una
matrice; la prominenza centrale è fissata con cinque chiodi ribattuti.
Il diametro è di cm. 17,5. Sia il bordo che la borchia centrale sono in ferro; anzi, le
piastre sono i più antichi oggetti con applicazioni in ferro posseduti dal Museo
nazionale di Stoccolma.
Quando un paio di anni fa furono sottoposte ad un intervento di conservazione da
uno specialista che lavorava al microscopio, furono scoperte delle tracce di segni
incisi, ma se ne ignora il significato.
Le parti in ferro puro sono scomparse quasi completamente per ossidazione.
Secondo Hans-Ake Nordström, lo stato di conservazione tutto sommato così buono
degli oggetti è attribuibile al fatto che giacevano nell’argilla, dove non ha avuto luogo
circolazione d’aria. Sono stati trattati in museo da un esperto restauratore, il quale,
una volta allontanate incrostazioni e particelle staccate, li ha cosparsi di una vernice
protettiva speciale, lavorando in ambiente sotto vuoto.
Nei paesi mediterranei si usava nell’antichità trasportare vino in secchielli decorati
con scanalature; così pure caldaie del formato di quella di Hassle non erano usate
soltanto durante cerimonie religiose, ma anche nei conviti per contenervi vino.
Hanno una capienza di circa 70 litri.
Il docente Hans-Ake Nordström afferma: “Forse il reperto può essere interpretato
come un servizio completo da usare in un convito o in una festa religiosa. Forse è
stato sepolto nella terra di Glanshammar da un personaggio nobile come offerta alle
divinità”.
Kerstin Larsson
dal “Nerikes Allehanda” del 10/03/86
(Trad. di F. Petroselli)
Il Tesoretto di Hassle a cinquant’anni dalla scoperta
E’ grazie al comportamento oculato ed esemplare di un agricoltore che questo
eccezionale documento storico ha potuto esser fatto oggetto d’un tempestivo esame
scientifico in loco. Axel Nilsson infatti, dopo un’esitazione iniziale, intuì che il
recipiente era con tutta probabilità un oggetto di grande interesse archeologico, e lo
lasciò senza toccarlo dove si trovava, avvertendo invece subito le autorità competenti.
La prima ricognizione poté aver luogo il 12 maggio 1936, sotto la direzione scientifica
dei sovrintendenti K.A. Gustawsson e Bertil Waldén, alla cui relazione di scavo
attingiamo parte delle informazioni che seguono.
Il luogo della scoperta, nel territorio di Glanshammar, è situato a circa 500 m. a nordovest del podere di Berga (local. Hassle), dove i Nilsson abitano, e ad ovest d’un
modesto corso d’acqua, Averstaan. Il terreno è tuttora proprietà dei Nilsson. Al
momento della prima ricognizione, l’apertura della caldaia affiorava quasi per intero
allo scoperto: era colma di terriccio da dove spuntava l’estremità d’una spada;
un’altra spada, al momento della scoperta, era stata trovata adagiata sopra il terriccio
ed era stata estratta dal proprietario del terreno.
All’interno dell’ampio recipiente si potevano intravedere due secchielli scanalati e
una piastra, tutti di bronzo. La cavità esistente sul lato sinistro della caldaia provava
che questa era slittata alcuni centimetri in direzione del corso d’acqua durante quella
primavera: movimento dovuto al fatto, che a periodi, l’acqua aveva sommerso gli
oggetti. Negli ultimi anni probabilmente la caldaia era stata visibile sulla scarpata.
Ogni volta che l’acqua raggiungeva un livello più alto, la caldaia era sospinta un poco
di più verso il ruscello; con grande verosimiglianza, la volta successiva che si fosse
verificato un altro innalzamento sarebbe scivolata fatalmente sul fondo del ruscello:
si può quindi dire che il salvataggio sia davvero avvenuto all’ultimo momento.
I due archeologi constatarono che l’apertura della caldaia si trovava circa mezzo
metro al disopra del livello dell’acqua e circa 0,7 m. sotto quello del terreno (l’altezza
s.l.m. era di 25,47). La condizione della superficie attorno al reperto non era quella
originaria, dato che la zona circostante è da secoli coltivata e in dolce declivio:
durante i lavori agricoli, per es. di aratura, una quantità di terriccio è stata ogni volta
trasportata in direzione dell’alveo. In passato il ruscello seguiva un percorso
serpeggiante diverso dall’attuale. Nel 1884-85, nel corso di opere di rettifica e
drenaggio, fu estratta anche una quantità di terriccio che in parte fu gettato sopra gli
oggetti. Quando poi fu tracciato un fossato di scolo coperto nelle immediate
adiacenze della caldaia, questa ne risultò danneggiata da sfondarne il lato sinistro. E’
perciò probabile che il reperto originariamente non si trovasse così in profondità
come appariva nel 1936, ma più in superficie.
Per primi furono estratti gli oggetti visibili nella caldaia: la spada, i due secchielli e
una piastra; non fu toccato invece il contenuto giacente sul fondo della caldaia,
sottoposto ad esame accurato in laboratorio, rinvenendovi altre undici piastre e due
ganci. La parte del contenuto superficiale esaminato in loco appariva del tutto
mescolato: tra gli oggetti si trovavano argilla mista a erbe, foglie, ramoscelli
trasportati dall’acqua. Nemmeno il contenuto sul fondo era originario, ma il risultato
del lungo avorio delle acque: colpì la presenza di abbondanti depositi ferrosi sia nel
terriccio all’interno della caldaia che nelle sue adiacenze. Questa era adagiata su un
banco di argilla vergine, presente anche all’interno dei recipienti; sul lato intatto della
caldaia poggiava uno strato d’argilla di circa tre decimetri, mescolato a resti vegetali
semidecomposti. E’ probabile che il luogo del reperto sia stato originariamente una
sorgente, che in seguito ha trovato altro sbocco; oppure sia stato il vecchio ruscello, il
cui percorso venne modificato coi lavori successivi al terreno. Questa ipotesi potrebbe
fornire una spiegazione accettabile alla presenza d’un deposito di vegetali, attorno al
reperto, di una composizione analoga a quella del letto originario. Nell’antichità, il
corso d’acqua serpeggiante era più ampio di oggi ed era forse fiancheggiato da tratti
paludosi periodicamente sommersi.
I due archeologi ci hanno lasciato una dettagliata descrizione del reperto come
apparve loro 50 anni or sono.
La grande caldaia ha le seguenti dimensioni: alt. 34, cm.; diam. mass. 64. cm; diam.
dell’apertura 40,5 cm.; largh. del bordo 3,1-3,4 cm., suo spessore 0,30 cm.; spessore
del metallo 0,05 cm. La caldaia, dal fondo arrotondato, appariva riparata in ben sette
punti differenti durante il periodo della sua utilizzazione: le accomodature erano
state eseguite con lamina di bronzo e chiodi ribattuti. Al di sotto del bordo, in quattro
punti equidistanti, si notavano tracce di impugnature; in due di questi, situati l’uno di
fronte all’altro, si notava come depressione del metallo dovuta ad una piastra rotonda
fissata da tre bulloni; negli altri tre bulloni; negli altri tre punti erano visibili tre
chiodi ribattuti, ma nessun segno sulla lamina.
I due secchielli (alt. 19,8 cm.; diam. mass. 23,4 cm.), quasi identici salvo la forma del
fondo e degli agganci dei manici, sono decorati da nove robusti cerchi convessi o
cordoni orizzontali, tra i quali corrono linee di punti martellati.
Sull’esterno del fondo, una ridotta parte centrale, costituita da due cerchi concentrici
(tre nell’altro secchio) attorno ad una leggera depressione, è circondata da una larga
lista a rilievo ben marcata. La connessura dei recipienti è situata sotto uno degli
agganci, cui sono fissati doppi manici, attori e mobili, culminanti in stilizzate teste di
uccello.
Ambedue le spade sono di bronzo e grosso modo dello stesso tipo (lungh. rispettiva
93,5 e 87 cm.); una borchia ha fatto parte dell’elsa di quella dalla punta arrotondata.
Le spade erano state ripiegate per farle entrare nella caldaia, cosa che ricorre più di
frequente con quelle di ferro.
Le dodici piastre sono in leggera lamina bronzea (diam. 17,5-17,8 cm.; spessore 0,1
cm.): ciascuna ha sei cerchi concentrici convessi e un bordo piano, largo 0,8 cm., su
cui era fissato con chiodi di ferro un aggancio semicircolare; al centro, una borchia,
probabilmente in ferro, fissata in cinque punti con ribattiture. Ogni piastra ha potuto
esser fissata ad un supporto mediante un dispositivo sul retro. Insieme con le piastre
sono stati anche trovati due ganci di bronzo (lungh. 4,1 e 4,3 cm.) e una lamina di
bronzo, forse apparentemente alla caldaia. Mentre le spade, ben conservate, erano
con sicurezza del tipo noto come di Hallstatt, la grande sorpresa era costituita dalla
caldaia, unica del genere nell’intera Europa settentrionale. Ai due sovrintendenti
erano noti molto esemplari simili, in genere decorati lungo il bordo d’apertura con
motivi zoomorfi, e talora muniti di treppiedi. Tra le poche caldaie del genere
rinvenute fuori dell’area culturale greco-etrusca, ne era ben nota dalla letteratura una
in particolare, in Francia, poggiante appunto su un treppiedi e decorata da quattro
teste di grifoni. I due studiosi ritennero che la caldaia di Hassle avesse avuto lo stesso
aspetto e fosse stata fabbricata in un paese del Mediterraneo, probabilmente in
Magna Graecia oppure in area etrusca addirittura.
Anche le ciste a cordoni non erano state prima di allora rinvenute in Scandinavia:
dello stesso tipo di quelle trovate, in gran numero, all’interno di tombe in Germania,
dovevano esser state fabbricate in Italia settentrionale. Incerto fu giudicato invece il
luogo di provenienza delle dodici piastre, anche se dovevano appartenere alla cultura
di Hallstatt. Altrettanto poco chiara la loro funzione: i due studiosi fecero l’ipotesi che
si trattasse di particolari decorativi d’un equipaggiamento equestre. Lo faceva
supporre un reperto di secchi di bronzo in un territorio tedesco, simili a quelli di
Hassle, accanto ai quali era stato trovato una quantità di oggetti facenti parte del
corredo d’un cavaliere.
Sulla base di considerazioni comparative, si poté datare con sufficiente sicurezza il
“tesoretto” attorno al VI sec. a.C., momento di passaggio dall’età del bronzo a quella
del ferro: epoca in cui il ferro era un metallo raro in Svezia e, come si deduce da
questi oggetti, usato soprattutto per scopi ornamentali.
Ci si chiese subito il motivo per cui oggetti così preziosi fossero stati immersi in un
corso d’acqua o in una sorgente che sboccava in esso.
Secondo Gustawsson e Waldén, una spiegazione plausibile è che si sia trattato di
un’offerta rituale da parte di un personaggio altolocato. L’usanza di immergere
oggetti preziosi nelle sorgenti, a scopo religioso o magico, risale alle epoche più
remote della storia e si trasmette per secoli fino a tempi recenti.
Nel VI sec. a.C., questi oggetti, lungi dall’essere utensili d’uso comune, costituivano
veramente un corredo di notevole valore economico. Anche se prima di raggiungere
dal Mediterraneo le campagne di Glanshammar possono esser trascorsi molti anni, la
presenza del “tesoretto” in area svedese riveste un’importanza grandissima, sul piano
archeologico e culturale in genere, tennero subito a sottolineare i due studiosi che per
primi se ne occuparono.
Fin dal primo annuncio della scoperta, il reperto ha risvegliato l’immaginazione di
cittadini d’ogni ceto in Svezia, affascinati dal mistero della sua inattesa e insospettata
presenza a migliaia di chilometri dal luogo di origine. Come una sfida, ha parimenti
attirato dal primo momento l’attenzione della comunità scientifica, suscitando tra gli
archeologi una discussione protrattasi per decenni, nello sforzo di fornire
un’interpretazione soddisfante del fenomeno.
Si insiste dagli specialisti sull’importanza che si tratti di materiale non indigeno ma
importato, il cui carattere è estraneo all’ambiente nordico. In una discussione critica
riassuntiva delle ricerche precedenti, il Prof. B. Stjernquest di Lund, nel 1962, in una
miscellanea di omaggio al Re Gustavo VI Adolfo, analizza con accuratezza la caldaia e
i due secchielli, dato l’interesse che suscitano le loro forme, comparabili direttamente
con quelle di oggetti appartenenti ad aree geografiche molto distanti dalla nordica,
cioè al bacino del Mediterraneo.
La caldaia, un recipiente che mostra tracce evidenti di usura, mancante di alcune
parti, appartiene al gruppo di oggetti noto per numerosi esemplari simili presenti in
area greca, italiana e francese. Quale fosse con esattezza l’aspetto originario della
caldaia è impossibile stabilirlo, ma è assolutamente chiaro che la caldaia di Hassle
appartiene allo stesso gruppo. Attraverso studi molto penetranti, è stato accertato con
sicurezza che la caldaia forse più celebre d’Oltralpe, quella di Sainte Colombe,
proviene dalla Magna Grecia e in seguito, per via di scambi, attraversata l’Etruria, sia
giunta in Francia: quella di Hassle somiglia molto a questa.
Sette caldaie dello stesso tipo sono note in Italia: due da Vetulonia, tre dalla tomba
Regolini-Galassi di Caere, 2 da Praeneste, tutte pubblicate e ben note agli studiosi.
Esistono inoltre vari ornamenti metallici zoomorfi, con teste di leone o grifoni, che
debbono essere appartenuti a oggetti analoghi.
Il materiale greco è molto più antico, ma si tratta in questo caso di oggetti
frammentari: ciò è spiegabile col fatto che in Grecia questi grandi recipienti sono stati
spesso utilizzati come doni votivi e quindi sepolti presso qualche santuario,
esponendoli a maggior rischio di distruzione.
Circa la questione della provenienza geografica delle caldaie, non è oggi più così
assiomatico tra gli studiosi che esse abbiano l’Etruria necessariamente come terra
d’origine. La decorazione presenta invece sia forti tratti greci, nella forma dei grifoni,
sia tratti orientali, nel disegno dei leoni ornamentali. La questione è resa complicata
dal fatto che sull’arte etrusca, come noto, si sono esercitati profondi influssi sia di tipo
greco che orientale nel corso della sua storia. In più casi, i luoghi di fabbricazione
appaiono senza il minimo dubbio orientali; in altri, le caldaie appaiono legate da
vicino alle tradizioni artigianali greche e orientali.
Estremamente complicata è la questione della provenienza della caldaia di Hassle,
giudicata nel ‘43 di fattura etrusca (databile attorno al 550-575 a.C.) dal Prof. A.
Akerström di Göteborg, autore nel ‘28 d’una tesi pionieristica, oggi di grande valore
documentario, sulle tombe dipinte tarquiniesi. Non esistono oggi prove sicure che la
caldaia sia stata fabbricata in territorio etrusco: i risultati emergenti dall’attento
studio comparativo di Stjernquist vanno piuttosto in direzione della Grecia - forse
della Magna Graecia, cioè l’Italia Meridionale - ma non è stata raggiunta l’assoluta
sicurezza. Ciò non esclude che la caldaia possa esser passata per via di scambi
successivi attraverso l’Etruria, beninteso.
I due secchielli costituiscono, come si è detto, i due esemplari di ciste a cordoni di
tipo etrusco rinvenuti più al Nord. Si tratta di prodotti artigianali che gli scavi in
Europa centrale e meridionale hanno restituito in gran numero. Bologna è stato un
importante centro produttivo di queste ciste, come testimonia il ricco materiale
recuperato nella zona della Certosa; un altro epicentro vivace era situato nei pressi di
Venezia e in Istria. Le ciste di Hassle sono con assoluta sicurezza prodotti importati di
fattura etrusco-italica e rientrano pertanto in un contesto continentale di grandi
dimensioni. A differenza di un altro sottotipo, altrettanto numeroso, dai manici fissi,
queste di Hassle hanno manici mobili, caratteristica piuttosto comune in area
italiana.
Le piastre, date le loro caratteristiche, possono aver avuto soltanto funzione
decorativa e non statica. Per la loro grandezza, si può ragionevolmente supporre che
abbiano decorato una superficie relativamente estesa: possono ad esempio essere
state applicate sui lati di un carro cerimoniale. Non esistono però prove sicure che
corroborino questa vecchia ipotesi; anzi l’assenza sulle piastre dei fòri necessari ad
appenderle porta ad escluderla, afferma Hans-Ake Nordström, curatore della mostra
di Glanshammar. Egli attira l’attenzione sulla coincidenza non trascurabile che gli
oggetti, a parte la caldaia, appaiono tutti in numero pari: due spade, due ciste, due
ganci, dodici piastre. Si potrebbe pensare per es. a due personaggi, ciascuno recante
una spada e una cista, ricoperti di un abito cerimoniale adornato di sei piastre,
appese simmetricamente, tre sul petto e tre sul dorso. Durante il recente lavoro di
consolidamento, sono state studiate le lievi tracca del metallo utilizzato per applicarvi
la parte decorativa in ferro, ma non si sa ancora esattamente in che modo possono
essere state fissate al supporto. Evidente appare invece dall’analisi che sono state
fabbricate in forme leggermente diverse, ribattendo il metallo sopra matrici di legno.
Eventualmente, il corredo di oggetti può essere stato usato in una qualche forma di
offerta rituale di bevande, secondo una tradizione di tipo mediterraneo, conclude
Nordström. Con la stessa prudenza si esprime circa il luogo di fabbricazione delle
ciste, che lui esclude, personalmente, sia da ricercare entro l’area propriamente
etrusca, anche se oggetti del genere vi siano ben attestati. Dall’evidenza cartografica
della diffusione su piano europeo dei manufatti, si ricavano piuttosto indicazioni che
suggeriscono l’Italia settentrionale o addirittura la zona alpina orientale, alle spalle
del Veneto.
La presenza di oggetti d’importazione a Hassle, mostrano che la Svezia centrale, nel
periodo che segna il passaggio dall’età del bronzo a quella del ferro, ebbe contatti non
sporadici ma intensi col continente, dato che bronzi rari come questi poterono
superare distanze ragguardevoli fino a raggiungere, dopo un percorso sicuramente
difficoltoso, la Scandinavia. A causa della rarità degli oggetti, soprattutto dovuto alla
presenza di decorazione di ferro, il corredo rappresentava all’epoca un grande valore
economico come dimostra la cura con cui più volte, anche se goffamente, si è riparata
la grande caldaia.
E’ impossibile invece accertare con esattezza i particolari del percorso seguito al nord
delle Alpi. Il reperto mostra però l’esistenza inequivocabile di contatti regolari e su
largo raggio; d’altra parte testimonia l’esistenza, in quest’area scandinava, di una
forza economica notevole. All’epoca, la valle del lago Mälaren era un territorio ricco,
fertile, relativamente ben popolato, che manteneva contatti regolari con territori
anche molto lontani. Essendo la rete commerciale stabile e articolata, il territorio
centrale dell’attuale Svezia non viveva affatto in condizioni di isolamento culturale,
ma era strettamente legato sia con la Norvegia, sia a sud con la Scania e la
Danimarca, sia a sud-est con l’isola di Gotland sul Baltico.
Più a sud, in direzione del Mediterraneo, rivestivano evidentemente una grande
importanza per i trasporti le vie fluviali, come quella dell’Oder che si apriva il passo
attraverso il continente. Contro questa teoria, prevalente tra gli studiosi, che
attribuisce la presenza degli oggetti a pacifiche attività commerciali, nel 1958 si è
formulata l’ipotesi dal Reinecke, che gli oggetti di Hassle rappresentino un bottino di
guerra. Stjenrquist, non avendo il Reinecke portato prove fondate dell’affermazione,
ritiene la teoria insostenibile, trattandosi, nel caso di Hassle, non di un reperto isolato
ed eccezionale, ma di un fenomeno che rientra in un articolato contesto di ampio
raggio europeo.
Secondo gli studiosi svedesi, la caldaia e i due secchi hanno insieme percorso il lungo
cammino che dal meridione li ha portati a raggiungere la Scandinavia. La caldaia, se è
da considerare di fattura etrusca, può esser giunta al Nord attraverso il territorio
italiano settentrionale nel corso del VI secolo; lo stesso può essere avvenuto se è da
considerare di fattura greca. Stjernquist è incline a individuare in Spina oppure in
Adria, i due importantissimi centri commerciali all’epoca, una tappa possibile del loro
passaggio, se non addirittura il luogo di provenienza. Anche i due secchi o ciste
proverrebbero dalle zone etrusche di confine situate nella parte settentrionale della
costa adriatica. Successivamente, caldaia e ciste passarono dall’area di fabbricazione
originaria ai territori dell’Europa continentale, e per tappe successive alla
Scandinavia.
Nella storia della ricerca archeologica di questo secolo, il reperto di Hassle, lungi da
costituire, come si potrebbe credere, una futile curiosità per dilettanti, ha gettato una
luce nuova sulle condizioni culturali di epoche lontane, su quel periodo di transizione
che vide l’avvento rivoluzionario del ferro nella regione di Närke, dove Glanshammar
è situata. Smentendo la leggendaria opinione che la regione giacesse in assoluto
isolamento, il reperto ha dimostrato, al contrario, l’esistenza, già vari secoli prima
dell’era volgare, di relazioni commerciali vivaci e ha testimoniato la realtà di una
corrente di scambi, diretti o indiretti, con i paesi remoti dell’area mediterranea.
Una conferma di questa vivacità di scambi esistente in età remota, è giunta da
un’altra recente scoperta di oggetti, anch’essi risalenti all’età del bronzo. La storia del
rinvenimento è analoga a quella di Hassle; il luogo è Fröslunda, sulla penisola di
Kalland, sulle rive del lago Vänern.
Nell’autunno del 1985, quando il contadino Bert Ivarsson dovevano cominciare i
lavori di aratura autunnale di uno dei molti campi paludosi coltivati presso il casale,
l’aratro urtò contro una piastra metallica verdognola, larga circa mezzo metro, che gli
sembrò un grande coperchio. Ma ebbe il sospetto di essersi imbattuto in un reperto
archeologico, per cui avvisò la Soprintendenza e il museo di Skara. Quando, la
mattina stessa di Ognissanti, l’archeologo Lars Jacobzon giunse sul posto, rimase
stupefatto e provò la più grande emozione della sua carriera: nel solco tracciato
dall’aratro giacevano i resti non di uno, ma di numerosi scudi di bronzo decorati. Non
ebbe dubbi su che cosa si trattasse. Infatti, come archeologo gli era ben noto uno
scudo dello stesso tipo trovato in Svezia in precedenza, a Nachhälle. Si tratta di uno
degli oggetti dell’età del bronzo più famosi, eccezionalmente ben conservato,
finemente adorno di una serie di anatre in rilievo lungo il bordo.
Alla prima ricognizione, s’intravedevano cinque o sei scudi semicoperti dall’argilla
ma, nelle condizioni climatiche piovose dell’autunno svedese, non era certo facile
procedere alla delicata operazione di recupero in modo soddisfacente, per cui si
decise di aspettare la primavera. Nel frattempo, la Sovrintendenza pose il vincolo
sull’intero podere e durante l’inverno il reperto fu sottoposto invece in loco ai primi
indispensabili e lunghi lavori di consolidamento, da parte del restauratore capo del
laboratorio archeologico di Stoccolma. Si dovette aspettare la primavera per
cominciare in maggio, passata la Pentecoste, i lavori di scavo, con le prime
sovvenzioni elargite dalla Sovrintendenza per effettuare un primo sondaggio
approfondito.
Bastarono pochi giorni di lavoro perché fosse evidente che il reperto superava di
molto le aspettative più ottimistiche degli archeologi. Infatti, fu possibile procedere al
consolidamento di ben 18 scudi, in parte frammentari, situati a circa 40 cm. di
profondità, subito sotto il livello dell’aratura. Lavorando con estrema prudenza, si
riuscì a liberare gli oggetti dal fango e a sollevare quelli integri, inglobati all’interno di
grandi blocchi di terra, per trasportarli al museo provinciale di Skara e quindi inviarli
per il restauro in laboratorio a Stoccolma. Il lavoro, lungo e delicato, di analisi
dettagliata degli oggetti e lo sforzo paziente di ricomporne il migliaio di frammenti, si
può dire sia appena iniziato e prenderà certamente anni prima di arrivare alla
pubblicazione scientifica conclusiva.
Nel frattempo tuttavia, si è deciso di esporre senza indugi alcuni esemplari
all’ammirazione del pubblico svedese. Come è noto, non avviene spesso, anzi quasi
mai si verifica che un reperto venga esposto così rapidamente, a pochi mesi dal suo
ritrovamento. La ragione è che si tratta d’un caso davvero eccezionale nella storia
della ricerca archeologica: mai prima di oggi erano stati trovati nello stesso luogo
tanti oggetti, e scudi in particolare, dell’età del bronzo. Dai primi esami risulta che
hanno un diametro di circa 70 cm., uno spessore di 0,5 mm.; esistono tracce delle
impugnature in piombo; sono stati lavorati a sbalzo martellando la lamina su matrici
in legno; una serie di cerchi concentrici a rilievo, a linee o puntiformi, decora la
superficie con motivi esclusivamente geometrici.
Nella mostra si è voluto esibire il reperto non in modo isolato, ma ponendolo in
relazione contestuale con altri coevi, provenienti dalla stessa regione e conservati in
vari musei svedesi. Già agli inizi del secolo, a Lilla Edet sulla costa occidentale,
furono trovate alcune strane spade, di cui non si apprezzò subito in pieno
l’importanza scientifica. Una di esse non c’è dubbio che provenga dalla Baviera e
appartenga alla cultura di Hallstatt. Come si è detto, è nel territorio alpino a nord di
Venezia che nella tarda età del bronzo - tra il mille e il VI sec. a.C. - si sviluppò una
civiltà molto ricca e progredita, basata sulla metallurgia: la prosperità di quei popoli
dipendeva dall’estrazione di rame, oro e soprattutto salgemma. A testimonianza del
ruolo di intermediario negli scambi commerciali tra il bacino del Mediterraneo e il
Baltico, tra l’area greco-etrusca e quella nordica, svolto dalla cultura di Hallstatt, oltre
il “tesoretto” di Hassle, il più ricco di oggetti importati, esiste inoltre un imponente
vaso in bronzo con decorazioni ornitomorfe trovato in Scania e il grande scudo, unico
del genere in Svezia, rinvenuto a un centinaio di chilometri più a nord, in Halland.
Ma la nuova scoperta sovverte la “classifica” tra gli oggetti bronzei della cultura di
Hallstatt, ponendo gli scudi di Fröslunda al primo posto.
Nell’età del bronzo era diffusa la cremazione e al momento della cerimonia funebre
venivano posti nella tomba, come doni al morto, gioielli di piccole dimensioni o
oggetti personali da toletta. La maggior parte dei reperti di quell’epoca sono stati
ritrovati in zone acquitrinose. Proprio in zone bagnate dalle acque sono stati trovati
oggetti di culto, come tamburi cerimoniali, elmi, scudi, grandi trombe e corni,
essendo la presenza delle acque caratteristica della dimora delle divinità. D’altronde,
è lungo le vie fluviali o lungo le coste e sui laghi che avveniva il movimento di merci e
persone. La funzione rituale di oggetti del genere è confermata da una serie di
figurine bronzee provenienti dalla Danimarca che alludono a giochi e danze, del tipo
di quelle rappresentate nelle pitture rupestri di Tanum nel Bohuslän.
Oggetti di culto, come scudi ed elmi, così caratteristici della tarda età del bronzo,
compaiono in genere a coppia, non isolati. Ciò ha fatto pensare agli archeologi che si
possa trattare del culto di divinità gemelle, come Castore e Polluce: certe figurine
sarde in terracotta, fornite di scudo, sembrano fornire elementi in questa direzione.
La cosa certa è che gli scudi non possono essere stati mai usati come vere armi
difensive. Si tratta invece di oggetti di lusso: lucidi e splendenti, ciascuno di essi
rappresentava certamente un grande valore economico, misurato in capi di bestiame
o prodotti agricoli. Il reperto mostra inequivocabilmente che in quella società esisteva
una forte dose di controllo sociale in cui il prestigio individuale e della famiglia aveva
gran peso. Basti pensare che, per confezionare pesanti e costosi gioielli femminili,
non si esitava ad investire una ricchezza nell’acquisto di 1 chilogrammo del prezioso,
nuovo metallo di moda, il bronzo. A causa del loro peso eccessivo, certamente le
donne avranno potuto adornarsene solo nelle grandi occasioni, durante la cerimonia
del matrimonio e per solennizzare qualche festa pubblica: la loro funzione non era
tanto quella di sottolineare la bellezza forse, quanto di dimostrare pubblicamente la
possibilità economica di cui disponeva la famiglia e accrescere il prestigio della
parentela all’interno del gruppo.
In tutta l’Europa è nota la presenza d’una ventina di scudi del genere, i quali dal
nome della località ove vennero rinvenuti i primi, sono chiamati scudi di Herzsprung
(Mecklenburg). Il direttore del museo di Skara, Ulf Erik Hagberg, ricorda che lo
scudo nel corso della storia ha sempre rivestito grande valore simbolico: “Il re
Salomone, si racconta nel Libro dei Re, fece fabbricare prima del suo incontro con la
regina di Saba, 200 grandi e 200 piccoli scudi d’oro massiccio. Nel Foro, all’interno
della Regia, erano conservati, insieme alla lancia di Marte, 12 scudi sacri che i Salii
portavano in processione solenne: erano gli oggetti di culto più antichi e importanti
di Roma. Anche nel tempio di Delfi c’era uno scudo votivo dello stesso tipo di quello
trovato in Svezia, a Kalland”. Si tratta di alcuni esempi, conclude Hagberg, che
mostrano l’ampiezza dei contatti culturali esistenti in Europa nella tarda età del
bronzo, all’interno dei quali gli scudi di Fröslunda come il tesoretto di Hassle vanno
interpretati.
Francesco Petroselli
Università di Göteborg
Lettera dalla Svezia: un’amicizia trentennale.
Cari amici tarquiniesi,
quando una mattina di maggio 50 anni fa Axel Nilsson trovò nel suo campo quegli
oggetti di bronzo - il “tesoretto di Hassle”, così chiamato dal luogo del rinvenimento non poteva lontanamente immaginare che ciò lo avrebbe fatto passare alla storia, né
tanto meno che ciò avrebbe generato un’amicizia fiorente tra italiani e svedesi.
Un’amicizia nata per l’entusiasmo ostinato e per l’amore fanatico di Renzo Javarone
per la terra natia. E si sa anche che l’amicizia è una pianta delicata che va coltivata,
altrimenti si appassisce.
Gli amici tarquiniesi ricorderanno che Javarone era non solo un commerciante noto,
ma anche un appassionato etruscologo dilettante. Segnato dall’esperienza tragica
della guerra, voleva, in una catena internazionale di amicizie, collegare la Tuscia oggetto della sua adorazione e delle sue ricerche storiche - con tutte le località
europee toccate dall’espansione commerciale e culturale dei suoi antenati etruschi.
Nella vostra città, la città primigenia e più nobile dell’antica confederazione etrusca,
nei primi anni Cinquanta era stato tenuto un congresso etruscologico internazionale,
con la presenza di specialisti come Pallottino e Boethius.
In quell’occasione si discusse dell’espansione commerciale etrusca e su una carta fu
mostrato che una località svedese - Hassle - rappresentava il punto più settentrionale
di tale espansione, essendovi stato trovato un reperto di probabile origine etrusca. Ciò
bastò per dare a Javarone l’impulso per ideare una missione originale e stringere un
contatto diretto tra la vostra città e Hassle. Con l’appoggio della vostra energica
organizzazione Pro-Tarquinia, furono inviati due messaggeri - Francesco Petroselli e
Remigio Gaisek - i quali partirono alla fine di luglio del 1955 per raggiungere con
mezzi di fortuna e a piedi la lontana Hassle, di cui ignoravano l’ubicazione esatta,
seguendo lo stesso cammino che si supponeva gli antichi mercanti etruschi avessero
seguito. Il 9 settembre giunsero a Stoccolma e per gli archeologi Olof Vessberg e Erik
Berggren del Museo mediterraneo cui si rivolsero si trattava di trovare la persona che
doveva rappresentare “il sindaco di Hassle” - una “città” inesistente. La scelta cadde
sul sottoscritto, allora presidente del consiglio comunale di Glanshammar, nel cui
territorio il podere di Hassle è situato. Non mi restò che darmi da fare per
organizzare con le autorità provinciali una degna accoglienza ai due originali
messaggeri. Il 13 settembre ebbe luogo la cerimonia ufficiale del gemellaggio nella
chiesa di Glanshammar gremita all’inverosimile. Quella sera memorabile, i due
messaggeri, barbuti e abbronzati, lessero ad alta voce nelle due lingue il messaggio
del vostro sindaco dell’epoca Adalberto Bellucci e successivamente il saluto
melanconico e pieno di sentimento di Renzo Javarone indirizzato “Ad uno svedese...”
Nell’uditorio commosso nacque subito un desiderio bruciante di poter ricambiare
questa visita al più presto, per poter ammirare la vostra terra, tanto bella e ricca di
monumenti.
Ringraziando per il vostro saluto, manifestai l’augurio che i legami di amicizia allora
allacciati si consolidassero e portassero ad altri regolari contatti. Presi in consegna
una serie di stupendi regali, tra cui autentici oggetti etruschi in bronzo e ceramica,
ora gelosamente conservati in una teca nella scuola comunale. Quando mia moglie ed
io fummo invitati, con altri conterranei (Bertil e Margit Waldén, Broberg, Bärnhjelm
ecc.) dal sindaco Bruno Blasi nel 1957 per una visita ufficiale in provincia di Viterbo,
era questo il nostro primo viaggio fuori della Scandinavia. Non rimanemmo affatto
delusi: il nostro giro da Milano, a Firenze e Roma bastò a farci innamorare per
sempre della vostra bella Italia. Il viaggio ebbe anche aspetti informali divertenti, sia
nelle trattorie di Trastevere che Bertil Waldén conosceva altrettanto bene del Forum
Romanum, sia nelle escursioni nella vostra provincia.
Ricordo un piccolo aneddoto. La nostra delegazione fu trasportata nelle Alfa Romeo
dell’Amministrazione provinciale, con autisti in livrea, attraverso i meravigliosi
paesaggi e le città ricche di storia; e la prima tappa d’obbligo fu Montefiascone, dove in prima mattinata - ci furono serviti assaggi delle migliori annate del famoso
Est!Est!Est! La scrittrice Margit Waldén, che viaggiava invece in una piccola Fiat,
aveva l’impressione che la velocità fosse un po' eccessiva per le strade tortuose e
strette. Come risposta alle sue trepidazioni le arrivò dall’autista che aveva partecipato
alle libagioni: “La Sua vita non ha mica più valore della mia”. E per essere sicuro di
esser capito aggiunse: “La mia vita mi sta altrettanto a cuore”. E infatti tutto andò
bene.
Dopo le visite di omaggio alle autorità provinciali e comunali di Viterbo, giunse
l’avvenimento indimenticabile: il ricevimento ufficiale della nostra delegazione nel
vostro palazzo comunale da parte del sindaco Blasi, quest’uomo così genuino e
amabile che ha fatto tanto per mantenere in questi decenni viva l’amicizia nata tra la
vostra città e Glanshammar. Il signor Blasi ha sempre accolto noi svedesi con lo
stesso calore nel corso di questi anni: nel 1960, 1964, 1970, 1972 senza dimenticare il
1983 e il 1985, quando giungemmo in autobus con un gruppo di quasi cento
pensionati! A nostra volta, abbiamo avuto il piacere nel 1958 di accogliere a
Glanshammar una simpatica delegazione ufficiale tarquiniese, formata da Bruno
Blasi, Cesare De Cesaris, Alessandro Tappella e Giuseppe Guerri.
Potranno loro stessi raccontare le loro avventure. Con la loro spontanea vivacità
latina, la loro mimica, la loro eleganza e il loro calore si acquistarono le simpatie di
tutti. Furono ospiti dei conti Mörner a Esplunda e poterono stringere la mano a Axel
Nilsson, il quale li guidò in una ricognizione sul luogo preciso in cui era stato trovato
il “tesoretto” etrusco. Altre gradite visite ci sono giunte dalla provincia di Viterbo tra
cui una delegazione della Camera di Commercio con i dottori Corigliano e Felicetti.
Negli ultimi anni hanno avuto luogo scambi sportivi tra le nostre province, con la
partecipazione di squadre di calcio a tornei internazionali, come quello “GrossiMorera” organizzato dall’EPT.
La vostra terra, la Tuscia che Javarone tanto amava, è ricca di bellezze sia
naturalistiche che archeologiche e artistiche d’ogni epoca, dal villanoviano al
neoclassico. Vi chiederete quindi che cosa può offrire il territorio del mio Comune agli
amici italiani che speriamo di salutare nostri ospiti numerosi e graditi.
Örebro e Glanshammar sono situati nella parte centro-meridionale della Svezia, “nel
cuore del paese”, come dice la pubblicità turistica, a circa 250 km. dalla capitale.
Glanshammar conta circa 3.000 abitanti, in parte contadini, in parte addetti occupati
in due industrie estrattive e in una chimica; 204 persone si spostano come pendolari
per lavorare nel terziario del capoluogo (78, inversamente vengono dall’esterno);
abbiamo il 2,6% di disoccupati. Accanto a famiglie composte di 4 persone e oltre
(31%), ci sono nuclei famigliari di 2 membri (30%) e il 21% di persone sole. Per il
1990 si prevede un aumento della popolazione.
In seguito ad una riforma amministrativa, Glanshammar alcuni anni or sono ha
perduto l’autonomia comunale è stata assorbita nel Comune di Örebro (120.000
circa). Il capoluogo provinciale (80.000 ab.), fondato oltre 700 anni fa, è situato al
centro di un’ampia zona boscosa, paesaggisticamente attraente, dove già nel ‘500 si
estraevano minierali. Un tempo Örebro era famosa per i suoi calzaturifici;
attualmente, è un centro commerciale e industriale notevole (cellusosa, alimentari,
meccanica), amministrativo e universitario. Oltre alle attrazioni naturali (un bel
parco ornitologico, per esempio), vanta una vivace attività culturale, organizzata dalle
numerose associazioni e dagli enti pubblici (teatro, concerti, pinacoteca, museo
storico-etnografico, museo tecnico ecc.). Abbiamo anche noi monumenti importanti
di cui andiamo fieri. Nel territorio di Glanshammar si possono ammirare vari castelli:
Myrö, appartenuto all’ordine francescano prima della Riforma; quello di Esplunda,
dei conti Mörner, con una delle più preziose biblioteche private di Svezia; Kägleholm,
un tempo proprietà della famiglia di Santa Brigitta; Ekeberg, dove è nata la seconda
moglie di Gustavo Vasa. La chiesa di Glanshammar, del sec. XII, è ricca di opere
d’arte, tra cui un famoso crocifisso ligneo descritto da Selma Lagerlöf nel suo
“Gerusalemme”. L’attività estrattiva nel nostro territorio è testimoniata da una
miniera d’argento sfruttata nel ‘300 e tuttora da una moderna cava di marmo. Il
Teatro d’arte drammatica di Stoccolma - diretto per molti anni da Ingemar Bergman è stato costruito nel 1908 con marmo proveniente da Glanshammar, d’una qualità
molto simile a quello di Carrara.
Un’altra attrazione, oltre quella paesaggistica, è la ricchezza di monumenti
archeologici. La presenza umana è testimoniata in epoca preistorica e dell’età del
ferro, da numerose tombe a dolmen o a forma di nave, alture fortificate, ecc. Due terzi
delle iscrizioni runiche della provincia di Örebro si trovano nel nostro territorio.
Quest’anno, in marzo, abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario del
ritrovamento del “tesoretto di Hassle” con una riuscita mostra. Ogni giorno durante
quel periodo ho avuto il piacere di parlare della vostra provincia e dei contatti
amichevoli con Tarquinia e Viterbo, mostrando una serie di diapositive a scolaresche
e altri gruppi di cittadini. Ogni volta l’uditorio ha mostrato lo stesso grande interesse.
Il 16 marzo la manifestazione si concluse con un nutrito programma musicale e danze
popolari in costume durato l’intera giornata, e con una conferenza molto apprezzata
del professor Francesco Petroselli sulla civiltà etrusca e sulla vostra provincia. La
mostra è stata visitata da oltre 5000 persone.
Vorrei concludere con alcune considerazioni e un augurio. La nostra patria, la Svezia,
ha un clima più duro del mediterraneo, la sua popolazione ha un carattere più calmo
e silenzioso dell’italiana. Non abbiamo la vivacità che caratterizza le popolazioni di
paesi meridionali, ma una dote l’abbiamo in comune con gli italiani: la cordialità e la
fedeltà nell’amicizia. Gli svedesi sono tra i popoli della terra più amanti della pace, e
la Svezia ha avuto il privilegio di poter vivere un lunghissimo periodo di libertà e di
pace. I popoli della terra vivono tuttora in un mondo incerto e pieno di pericolo; e
provano la stessa angoscia che provava Renzo Javarone scrivendo il suo commosso
messaggio di saluto indirizzato “ad uno svedese” qualsiasi a cui offriva amicizia.
Lasciatemi, cari amici tarquiniesi, esprimere l’augurio che gli uomini e le donne che
guidano il destino dei popoli possano convincersi che la comprensione tra le nazioni e
la pace può essere raggiunta e difesa, evitando di utilizzare follemente arti distruttive.
Con un caro saluto a voi tutti,
vostro amico
Erik Persson
(Trad. F. Petroselli)
IMMAGINE PROPRIA DEL CARDINALE
GIOVANNI VITELLESCHI
Di numerosi colleghi e compagni d’epoca del Giovanni Vitelleschi (+1440) cardinale
di Firenze e il più potente condottiero della Chiesa Romana, i tratti dei volti ci sono
noti. Su monete e medaglie, su affreschi murali e tavole in legno, in cera e in marmo
sono stati tramandati.
Infatti proprio all’inizio del Rinascimento l’interesse per la personalità, la sua
fisionomia ed espressione era molto vivace - non solo nel committente, cioè il
raffigurato stesso, preoccupato per la sua fama, ma anche fra gli stessi artisti - e dopo
la svolta del secolo ciò è stato ancora incrementato dall’intensificata richiesta dei
collezionisti.
Le premesse per una riproduzione fedele dei tratti del cardinale ci sono perciò tutte;
sappiamo di due ritratti; uno era nel Vaticano, l’altro nel suo palazzo. Nonostante ciò
non ci è pervenuto nessun originale a causa di avversità, riservate evidentemente non
solo alla persona stessa.
Se cerchiamo tuttavia di riconoscerlo dopo secoli, si tratta di un pezzo di storia del
ritratto, che proviamo a ricostruire.
Che Giovanni Vitelleschi fosse ben disposto verso gli artisti ci viene chiaro dalla
ordinazione a Fra Filippo Lippi di un’immagine della Madonna, all’inizio della sua
carriera come arcivescovo di Firenze. In detta immagine si vede attraverso la finestra
una parte del colle con le mura cittadine della sua patria Corneto-Tarquinia, là dove
era destinata come pala d’altare. Lì aveva fatto anche ornare la biblioteca del suo
splendido palazzo nuovo con il programma di pitture scelte da lui personalmente e
probabilmente allo stesso tempo anche la cappella Decem Milium Crucifixorum
accanto. Però come stanno le cose con la tradizione dell’immagine?
I
Muzio Polidori (+ 1683) il cronista di Corneto, fa accenno ad un sigillo del cardinale
del 1436; esso mostrava il Salvatore con la Vergine Maria, San Giovanni, il Santo del
suo nome, e San Nicola. Sul retro c’era la sua immagine propria incorniciata dalla
scritta SIGILLUM JOHANNIS CARDINALIS FLORENTINI DE CORNETO.
Nell’archivio della cattedrale però non si trovano più i documenti del processo
esecuzionale ai quali era fissato. Con essi è sparita questa immagine con ogni più
preciso dettaglio, cioè se era ritratto in ginocchio, seduto, benedicente o in preghiera.
Ma comunque date le misure e la funzione di un sigillo non darà molto schiarimento!
II
Un’indicazione più importante riceviamo da Giorgio Vasari (1511-1574). Lui che ha
scritto le sue vite degli artisti su proposta oppure per conto del poliedrico studioso
Paolo Giovio (1483-1552) parla di una copia di un affresco romano del nostro
cardinale, che ha allora visto in possesso dello storiografo.
Vasari la elenca nell’ordine delle 8 copie degli affreschi, con i quali furono adornate le
stanze del Vaticano sotto Nicola V intorno al 1450.
Piero della Francesca, nella stanza che fu in seguito detta stanza d’Eliodoro, aveva
dipinto le teste di Carlo VII di Francia, Nicolò Fortebraccio, Antonio Colonna,
principe di Salerno, Francesco Carmagnola, Giovanni Vitelleschi, Cardinal
Bessarione, Francesco Spinola e Battista da Canneto così piene di vita, che Raffaello
da Urbino ordinava di esse delle copie. Queste furono eseguite probabilmente dal
Bramantino - Bartolomeo Suardi - prima che dovessero essere abbattuti gli affreschi
di Piero per fare posto ai propri quadri “Liberazione di Pietro dal Carcere” e
“Miracolo di Bolsena” (circa 1514). Tali copie furono donate da Giulio Romano,
allievo ed erede di Raffaello, poco dopo il 1520, allo studioso Paolo Giovio. Questi
allora aveva iniziato a Firenze la collezione di verae imagines. Perciò Giovanni
Vitelleschi “in effige” (fig. 1) appartenne al nucleo del museo Giovio, più tardi molto
famoso, che il vescovo, appassionato collezionista, costituì nella sua città natale,
Como.
Partì forse da queste copie romane l’unità di misura stabilita per la progettata galleria
dei ritratti? La tela dovrebbe misurare circa 1 piede e ½ “in linteo sesquipedale”.
Possiamo aspettarci dall’affresco dipinto 10 anni dopo la morte violenta del
Vitelleschi una certa rassomiglianza, ciò non vale più nella stessa misura per la copia
di esso. Crediamo tuttavia di riconoscere questo regalo di Giulio Romano in quel
ritratto del Museo Giovio a Como, che è tornato là nel 1965 dopo lunghe traversie,
causate da questioni ereditarie, in una successione che si è ridotta dai circa 300
ritratti ai 40 attuali.
Stretto
della
cornice
(78,5
x
95
cm.)
appare
la
figura
imponente
dell’approssimativamente cinquantenne con la scritta
JOANNES VITELLESCUS PATRIARCHA ALEXAN. CARDINALIS ET PONT.
EXERCITUS IMPER.
Proprio questo contrasto fra onori sacerdotali e mondani rende la persona di
Giovanni Vitelleschi inconfondibile. E’ vestito con la cappa magna di un lucente rosso
scarlatto. Un viso pallido, passionale, di profilo, 3/4 girato verso destra, appare
illuminato sotto il grosso cappello, dal quale scende, ben tesa dalla nappa, la corda.
Fra sopracciglia nere, diritte si staglia il naso aquilino. La sua punta arriva quasi fino
a contorno della sua guancia. La bocca piena, con gli angoli piegati all’ingiù e il mento
poco pronunciato invece mostrano tratti sensibili. Contrasti violenti fanno dedurre
un temperamento impetuoso. Sotto la mozzetta larga con cappuccio, che chiude le
forme in modo semplice, il braccio destro è alzato, perché la mano avvolge e poggia il
bastone di comanco sull’anca. La sinistra regge l’impugnatura della spada. Il
singolare di questa veste da cardinale, la spada (!) attaccata alla cintura, è autentico.
Perché per caso Giovio ne parla nella biografia del Giovanni Vitelleschi nel descrivere
l’atto della cattura del condottiero “incurvum gladium, quo militari mori cinctus erat”
(VITAE ILLUSTRIUM VIRORUM, Basilea 1578, pagina 63). Tutti gli altri ritratti
perciò derivano da questo.
III
La galleria dei ritratti del Paolo Giovio incontrava fra i principi del 16° secolo e
generalmente fra le persone colte, enormi consensi. In tutta Europa, spronata dal
fervore collezionistico del fondatore del museo di Como e vescovo di Nocera stessa, si
sviluppava una grande richiesta di ritratti di personalità famose. Continuamente gli si
chiedevano delle copie dei ritratti della sua collezione.
Un altro ritratto di Giovanni Vitelleschi (fig.2) che ancora oggi è esposto negli Uffizi
di Firenze, apparteneva sin dal 1568 alla collezione di Cosimo I dei Medici. Come
sappiamo da una vasta corrispondenza, a partire dal 1552 il principe aveva affidato
appositamente ad un pittore, Cristoforo Dell’Altissimo, il compito di copiare i quadri
del museo iconografico di Como. Quello del nostro cardinale fa parte dei 280 ritratti,
tutti un po' più grandi degli “originali” di Giovio, che Cristoforo dipinse su tela nel
corso degli anni.
Come il titolo, Joes CAR. VITELLESCHI, anche l’inquadratura è molto ridotta, cioè
limitata alla riproduzione della testa. Le caratteristiche sono state attenuate, non solo
nel viso. E’ andata persa la componente militaresca nello sguardo e negli ornamenti
accessori, risulta attenuata la componente individuale a favore di una più grande
spiritualità della copia fiorentina.
IV
Approfittando della fama crescente della collezione dello storico, i cui scritti sono nel
frattempo molto letti, l’editore Perna di Basilea voleva aggiungere ai ritratti verbali
anche quelli dipinti. Dopo la morte dello scrittore, mandò un artista a Como che
doveva disegnare per suo conto dei ritratti. Della serie di 150 eroici guerrieri della sua
raccolta, per i quali Giovio ha scritto la biografia, solamente 128 ritratti vengono
stampati. L’edizione di Basilea della VITAE ILLUSTRIUM VIRORUM, del Giovio è
adornata con queste silografie la prima volta nel 1578.
Anche il ritratto del JOANNES VITELLIUS CORNETANUS / PATRIARCHA ET
CARDINALIS ne fa parte (fig.3). Esso riproduce solo una parte del quadro di Como,
però è più grande di quello dell’Altissimo (fatto più tardi) per il Medici; a ciò
corrisponde anche il titolo più lungo. Risulta chiaro il significato della testa girata
verso destra per via della mano destra alzata con il bastone di comando ancora
appena visibile. Il ritratto è fedele per quanto riguarda lo sguardo e l’inclinazione
della testa, anche se manca la spada. La silografia mostra in confronto al modello
dipinto non solo una cornice con motivi a rilievo alla moda, ma anche forme ricche,
mosse sulla corda del cappello e sulla mozzetta. Il viso in sé appare più largo e perciò
meno severo. Evidentemente nel 16 secolo il dipinto non era ancora così scurito in
modo che l’Altissimo e anche l’artista di Basilea potevano intravedere e riprodurre
dalla tela romana nella casa di Giovio un berretto chiaro sotto il cappello;
normalmente i cardinali portavano sotto il loro cappello a falde larghe il cappuccio.
La precisione degli incisori di svizzeri è molto ammirevole, tenendo presente che
l’illustrazione fino alla stampa era sottoposta a duplice traduzione: tramite il
disegnatore inviato a Como e poi a Basilea attraverso l’intagliatore.
Quanto guadagno si aspettasse Perna dalle illustrazioni viene evidenziato da un
estratto pubblicato già un anno prima, nel 1577 a Basilea, che presentava, in
riferimento alle stampe delle medesime matrici, sotto la silografia una breve “history”
del raffigurato in lingua tedesca anziché in latino come la “Vita”. Non manca neanche
la breve, avvincente storia di Vitelleschi sotto il suo ritratto.
V
Contro l’informazione di Vasari e la nostra genesi del quadro a Como sembra parlare
una notizia, che viene tramandata da E. Muentz nel saggio fondamentale “Le musée
de portraits de Paul Jove 1900/01, dove scrive senza esitazione: “Le portrait du
Musaeum Jovianum avait été copié sur une peinture du palais Vitelleschi à Corneto”.
Evidentemente si tratta di un errore, perché lo studioso francese non poteva
conoscere il ritratto romano, dono di Giulio Romano (Pippi) allora ancora sepolto in
una raccolta privata, oggi a Como (fig.1), ma probabilmente prese per il modello un
altro affresco nominato dal Giovio. Negli scritti di Giovio non si parla della copia di
Corneto; lui conclude la sua biografia di Vitelleschi con questa frase: “Cornetanus
patriarcha et cardinalis vera Vitelli effiges depicta in magno conclavi eius domus
Corneti spectatur “ (ELOGIA VIRORUM BELLICA VIRTUTE ILLUSTRIUM. Venezia
1546/1561).
Non conosciamo nulla al riguardo nè il contenuto nè la storia di questo affresco.
Forse ci diranno qualcosa i lavori di restauro, attualmente in corso a Palazzo
Vitelleschi, se un giorno avranno portato alla luce “in magno conclavi” un ritratto del
fondatore, che ha superato le bufere del tempo. Solo allora potremmo giudicare
rassomiglianze e rapporti. In primo luogo dobbiamo però chiederci se la notizia si
basa su una di Giovio, cioè se dopo circa 100 anni dalla morte violenta di Giovanni
Vitelleschi per mano di un incaricato del Papa Eugenio IV, Antonio Rido, ci fosse
ancora in vista nella sua casa una sua immagine. Giovio stesso informa che il palazzo
degno di ammirazione viene ora nominato “Pontificum hospitio”. Ciò viene
confortato inequivocabilmente dagli stemmi dei Papi Eugenio IV e Nicola V, lì
presenti in affreschi e sculture. Hanno forse lasciato esistere quello del loro
soccorritore e loro vittima? E’ vero che Nicola V permise, nell’anno del Giubileo 1450,
il ritorno delle ossa del defunto cardinale a Corneto, dove venne eretto un
“marmoreum cenotaphium” nel Duomo, a cura di suo nipote, vescovo, secondo
un’iscrizione conservata fino ad oggi.
VI
Allorquando nell’anno 1629 il consiglio di Corneto decise di decorare la sala
Consiliare del Palazzo Comunale, vennero scelti per gli affreschi delle quattro pareti
delle scene, nelle quali si vedeva glorificata la grandezza della città, dipinte da C.
Donati.
Due pareti erano dedicate al grande cardinale: dopo la fuga sul Tevere, accompagna il
Papa Eugenio IV (1434), da lui salvato, nel suo ingresso nell’Urbe.
E prima di tutto: la seduta del Senato Romano del 1436 nel Palazzo dei Conservatori
(fig.4). Durante questa seduta venne decretata l’esecuzione di una statua equestre sul
Campidoglio per Giovanni Vitelleschi, come riconoscenza per la liberazione dai
tiranni e difesa dalla carestia.
Così sull’affresco - a differenza della realtà - alla decisione dell’assemblea si
accompagna l’esecuzione. In primo piano, sulla destra, ecco il monumento del
cardinale, in sella del cavallo a destra, mentre un genio alato pennella sullo zoccolo
l’iscrizione JOHANNI VITELLESCO PATRIARCAE ALESSANDRINO TERTIO A
ROMULO ROMANAE URBIS PARENTI. Ma il tema di questa creazione fantasiosa ha
a che fare con la “vera effigies” citata da Giovio?
Un’immagine del Cardinale nel rocchetto, in alto ai lati dell’albero genealogico di
Corneto, è talmente mediocre che non può avere nessuna pretesa di un vero ritratto
(fig.5). Seduto, indica con l’indice della mano destra, appoggiata, più o meno
discretamente sul tavolo alla sua sinistra, dove accanto ad un libro e un campanello,
dimorano, in modo da non poter sfuggire, il suo elmo e il bastone di comando (con
nappa!). Nè la fisionomia, nè la composizione - che presuppone il quadro di Raffaello
di Papa Giulio II - fanno pensare ad una conseguenza della “effigie in magno
conclave” citata da Giovio, nel salone del suo palazzzo, distante solo un centinaio di
metri.
Tuttavia queste considerazioni possono aiutarci a sciogliere un modesto enigma della
iconografia romana.
VII
Nella Chiesa di S. Maria Nova (S. Francesca Romana) a Roma si trova ancora oggi il
suo monumento funebre di Antonio Rido di Padova (fig.6). Suo figlio Johannes
Franciscus glielo ha fatto erigere dopo la morte. EX TESTAMENTO assicura
l’iscrizione sul sarcofago, che serve da zoccolo. Due amorini alati si appoggiano ai lati
su degli scudi gentilizi. Sopra si erige, seguendo immagini della Roma Antica, il
monumento proprio in marmo bianco, il cippo, attorniato da pilastri scanalati.
La superficie viene riempita dall’immagine di un cavaliere, ripreso di profilo, che
eretto sulle staffe, guarda verso destra (cioè fuori dalla porta della chiesa). Corazzato
completamente, saluta con il bastone di comando nella destra, mentre la sinistra
regge le redini del cavallo, riccamente bardato. Sulla testa porta solo un berrettino.
Forse sembrava più opportuno, adeguatamente alla santità del luogo e alla volontà di
pace del defunto, di collocare l’elmo di guerra sotto il cavallo, che alza la zampa
anteriore sinistra.
Si tratta dell’unico monumento funebre del 15° secolo a Roma, che rappresenta il
defunto a cavallo, come rilievo. Questa opera d’arte viene attribuita a Mino Del
Reame di Napoli.
Questo rilievo, molto spiccato negli strati anteriori, fa pensare ad una statua equestre,
pregiata nella sua semplicità.
Anche se fossimo tentati di pensare ad un artista, discepolo di Donatello a Padova,
patria di Rido, come si spiega la scelta di questa singolare onoranza funebre, sotto
forma di rilievo equestre a Roma? Evidentemente è da ricondurre al committente.
Nel defunto è stato identificato quell’Antonio Rido che morì sotto Nicola V come
comandante delle truppe papali. Castellano di Castel Sant’Angelo, come lo magnifica
l’iscrizione, ha ricevuto lì il Papa Eugenio IV con l’imperatore Sigismondo, però in
relazione alla nostra storia ha interpretato un ruolo ambiguo. Noi lo conosciamo in
rapporto - su ordine vero o presunto di Eugenio IV - alla cattura e alla morte del
Legato Papale Giovanni Vitelleschi.
Da ciò, dalla sua biografia, si potrebbe spiegare il motivo del suo monumento
funebre, come altamente personale. Al suo avversario, l’Arcivescovo di Firenze e
Patriarca di Alessandria, non solo venne attribuito, come abbiamo già sentito, dal
Senato Romano nel 1436, il titolo TERTIO PATER PATRIAE, ma venne anche
promessa l’onoranza tramite un monumento equestre sul Campidoglio.
Anche se non si giunse più all’esecuzione di esso e anche se può essere eccessiva la
relazione dei contemporanei circa l’invidia di Rido verso Vitelleschi, ciò nonostante
potrebbe essere stata la promessa del Senato di onorare in questo modo il nemico di
Antonio, lo sprone per il Governatore dello Stato Pontificio, il PRAEFECTO, ad
erigere a se stesso il desiderato monumento equestre, come propongono anche le
fonti storiche.
Anche se non poteva essere plastico e ufficiale, mostra per un monumento funebre
privato una dignità sorprendente, quasi imperiale. L’opera d’arte in sé già esprime
l’idea di un monumento equestre: nella sua forma strettamente essenziale, con la
rinuncia a qualsiasi cenno al “privato” nell’assetto anticheggiante. Il cavallo con la
zampa alzata ci ricorda la statua di Marco Aurelio, anche se questa è arrivata sul
Campidoglio solamente cento anni più tardi. Nonostante l’alta posizione alla Corte
Papale manca qualsiasi segno o parola cristiani. A favore dell’idea parla anche la
scelta molto abile del luogo della sepoltura: nel cuore di Roma, al Forum Romanum,
nella Chiesa (separata da Nicola V) Santa Maria Nova, precisamente nel suo atrio
sud, il prolungamento diretto della Via Sacra.
Già Giovio notò l’intenzione di questo monumento funebre, tanto è vero che nel finale
della sua biografia del Cardinale Vitelleschi fa riferimento a Rido e la sua
“marmoream equestrem statuam quae in vestibulo templi Divae Mariae novae ad
arcum Titi conspicitur”. (Elogia 1561, 63).
Fosse stata eseguita la statua equestre di Giovanni Vitelleschi come progettato, le
sarebbe servita come modello, come per il rilievo del nemico mortale Rido, la statua
equestre dell’imperatore Marco Aurelio (ca. 173 dopo Cristo) che durante il Medioevo
è stata sempre visibile esempio al Laterano come il cosiddetto Costantino.
Renate Schumacker
Wolfgarten
Traduzione della Sig.ra Theresia Cagnoli
STENDHAL e CORNETO
Prima parte: “Walks in Roma”
Viaggio a Canino - Vasi etruschi
Seconda parte: Stendhal e Merimée in Etruria
Terza parte: un racconto stendhaliano: “Maria Fortuna”.
Muriel Augry
PREFAZIONE
I passaggi dove è menzionata Corneto nella “Correspondance” di Stendhal, console di
Francia a Civitavecchia dal 1831 al 1841, sono assai numerosi. “Les tombeaux de
Corneto” 1) , libretto scritto verso la metà degli anni 1830, costituisce certamente
l’omaggio più importante reso dall’autore alla piccola città.
Ma esiste un frammento inedito 2) , pressapoco dello stesso periodo, che si rivela
degno del più grande interesse. Esso si presenta come lo sviluppo di un passaggio del
capitolo intitolato “Manière de voir Rome en dix jours” che conclude le “Promenades
dans Rome”.
“WALKS IN ROME”
Seconda edizione.
6 maggio 11824 - Viaggio a Canino - Vasi Etruschi - 28 marzo (18)35.
6 maggio - Le nostre signore vanno a trascorrere tre o quattro giorni nel palazzo di
una principessa mezzo-tedesca senza di noi perché abbiamo timore di annoiarci.
Domani approfitteremo di questa vacanza per andare a comprare dei vasi nell’antica
Etruria e, meglio ancora, per vedere in particolare e con occhio critico i luoghi dove
essi sono stati scoperti. Andremo a Cerveteri, Ponte dell’Abbadia, Vulci, Massignano
(sic) e Canino.
1)
Vedere la prefazione di Gian Franco Grechi e la traduzione di Bruno Blasi delle “Tombe di Corneto”, pubblicate in
occasione del bicentenario della nascita di Stendhal, a cura della Cassa di Risparmio di Civitavecchia.
2)
Si tratta di un quaderno autografo di undici fogli in folio, appartenenti ad una collezione particolare.
Corneto, 7 maggio - Siamo usciti alle quattro di stamattina attraverso la Porta di
Roma, vicina al palazzo del (......) dove in questi ultimi giorni è stato messo in carcere
un “capo d’ordine”, cosa che ha fatto scalpore per due giorni, ma oggi siamo forse i
soli che si siano ricordati di questo pover’uomo passando vicino alla sua tomba. A
Roma ci si dimentica facilmente dei poveri sventurati come dei morti.
In quattro ore siamo arrivati a Cerveteri (il duca di Cerveteri è uno degli uomini più
belli di Toscana).
Un (........) e sua moglie, che è fittavola, conduce il lavoro di scavo e ci ha mostrato
una collana di filigrana d’oro, lavorata con estrema raffinatezza. Questa collana d’oro
senza lega pesa due once (175 grammi, credo) e la moglie ci chiede duemila franchi.
Ne offriamo mille. Abbiamo provato degli anelli d’oro adattabili a tutte le dita;
funzionano egregiamente ancora dopo duemila anni!... Abbiamo comprato un
bellissimo vaso. Le figure sono dipinte in nero su fondo giallo. Non crediate che
coloro che comprano questi vasi ne conoscano il vero valore. Il loro valore lo si
giudica con lo stesso criterio con cui si stima un gioiello e cioé unicamente per la sua
bellezza. M. Inghirami e gli altri hanno inventato su questi vasi delle storie che non
sono punto divertenti e che in più non hanno il minimo buon senso. Inoltre tali storie
non sono neppure interessanti. Dunque quando si trova un vaso dai colori finemente
dipinti, vivaci, che non sia né troppo piccolo né troppo in cattivo stato, allora lo si
dichiara di prima qualità e vale da quaranta a sessanta franchi. Il nostro vaso
(comprato da un amico tedesco) ci è costato cinquantasette luigi.
Ci siamo fermati a C.[ivita]-V[ecchi]a unicamente per vedere il bel negozio di
M.D.B.xxx, il solo mercante d’arte che non sia un ciarlatano. Ci ha venduto per tre
scudi dei vasi che a Roma ne costerebbero venticinque (for me: regali alla Signora
(......) a questo volgare Rochester); abbiamo visto gli scavi del Signor c[on]te di Mxxx,
e finalmente siamo venuti a passare la notte a Corneto, a venti leghe da Roma. Scrivo
questo in un’osteria che è in realtà una casa d’abitazione, gestita da gente giovane e
amabile.
L’indomani, il Signor Mxxx ha volentieri acconsentito di condurci insieme al signor
Avolta presso le tombe del “Père Lachaire de Tarquinies”. Questa necropoli, per dirla
alla maniera pedante dotta ed accademica, ha due leghe di lunghezza e una e mezza di
larghezza. Ciascuna tomba consiste in una piccola cantina di dieci piedi per otto,
ricoperta da tre o quattro piedi di terra, e perfettamente nascosta. Le pareti di questa
piccola stanza sono dipinte. Alcune di queste pitture (affreschi naturalmente) sono
contemporanee del primo e più importante periodo della guerra di Troia (......... a.C.):
altre pitture risalgono all’epoca dell’impero romano. Sono convinto comunque che la
maggior parte sono coeve dell’epoca di Tarquinio. Sappiate che l’Etruria fu sotto la
dominazione di potenti sacerdoti e che essa fu interamente conquistata
quarantacinque anni dopo la fondazione della sua terribile vicina.
Roma, la conquistatrice, era tranquilla e non voleva inimicarsi invano le popolazioni
a lei soggette alle quali generosamente offriva lo status di alleati. Essa infatti
rispettava e permetteva i loro culti. Dovette essere rispettosa soprattutto della
religione, specie in Etruria, paese interamente dominato da un’abile casta
sacerdotale. Se prima della conquista, gli aristocratici e la gente di rango avevano
l’abitudine di farsi sotterrare dopo la Loro morte nelle piccole tombe dipinte di cui
abbiamo parlato e di farsi mettere, dopo l’incinerazione, in vasi dipinti, questa è una
usanza che i Romani dovettero lasciare intatta. Questo tipo di stoltezza era riservata
ai tempi moderni. I Romani avevano il buon senso di non avere sacerdoti.
7 aprile - Da Corneto, attraverso percorsi impossibili o piuttosto estensioni ricoperte
di fango, siamo arrivati a La Cucumella. E’ qui, o nei dintorni che il Signor Luigi
B[onaparte, principe di Canino, ha trovato dei vasi che, in seguito, ha venduto a
dodicimila franchi (ci riferiscono che corrispondono a circa due milioni al paese).
Un piccolo corso d’acqua, o piuttosto fiume, poiché si va a gettare nel mare a sette
miglia da qui, chiamato La Fiora, divide La Cucumella (vasto insieme di territori in
pianura su cui non sorgono costruzioni e d’aspetto desolato) da un altopiano elevato
dove si suppone con sufficiente probabilità che sia stato un tempo la città etrusca di
Vulci. Un uomo di buon senso, il Signor Principe Mxxx, pensa che Vulci stessa, di cui
oggi appena si trovano i resti e che millecinquecento anni fa, sotto il regno di
Costantino, era appena un villaggio, fosse stata costruita sulle rovine di una città
contemporanea a Troia, se non addirittura anteriore.
Lo stato penoso in cui si trovano alcuni vasi rinvenuti nelle tombe a Vulci o nel suo
sobborgo La Cucumella, ci ha suggerito tale ipotesi.
Scrivo questo sotto una capannella di paglia, eretta sulle rovine di una cappella
cristiana dell’anno 400. Gli intendenti posti a capo degli scavi hanno messo il loro
caminetto là dove una volta c’era il pulpito: per fortuna il muro che fu eretto a difesa
della tramontana tiene ancora, ma piove nella loro capanna, come lo sentiamo in
questo momento.
PREFAZIONE (parte seconda)
La passione di Stendhal per gli etruschi cresce col passare degli anni. A Civitavecchia,
preso dalla noia, egli diviene assai felice non appena, in occasione di una visita, può
rivestire i panni del “Cicerone”. Allorché nell’autunno del 1839 lo scrittore francese
Mérimée 1) sbarca a Civitavecchia col proposito di passare un mese a Roma e a Napoli
in compagnia di Stendhal, quest’ultimo lo porta a conoscenza delle scoperte venute
alla luce a Corneto e nell’agro romano e gli presenta un suo amico, Donato Bucci,
mercante d’arte.
Come archeologo, Mérimée viene subito affascinato da ciò che rappresentano questi
scavi come testimonia il passo di una lettera indirizzata a Requiem il 16 novembre
1839.
A Requien,
Marsiglia, il 16 novembre (1839)
.................
Ho comprato a Civita-Vecchia per cento franchi dei vasi etruschi. Ne ho una cassetta
piena, tutti molto vecchi e alcuni abbastanza belli. Qui c’è un uomo molto onesto che
li estrae nei dintorni dalle tombe etrusche. La più bella patera vale 100 franchi; per
quindici franchi, si ha qualcosa di molto presentabile e vecchio di almeno 2700 anni.
Vi raccomando quest’uomo per il vostro museo, semmai Vi prende l’interesse per
l’Etruria.
Addio ancora, a presto.
Pr. Merimée
PREFAZIONE (parte terza)
MARIA FORTUNA
1)
Il 9 ottobre Mérimée arriva a Roma. Egli la lascerà il 21 ottobre, diretto a Napoli in compagnia di Stendhal. Il loro
viaggio durerà fino al 10 novembre.
“La constante préoccupation de Beyle était l’étude des passions. Lorsque quelque
provincial lui demandait quelle était la profession, il respondait gravement:
observateur du coeur humain 1) .
E in questa maniera che in “H.B. 2) , necrologio di carattere satirico, Mérimée, più
giovane di Stendhal di venti anni, presenta ai posteri il suo amico e maestro di
pensiero.
Osservare i costumi, cogliere il fatto autentico, quello che costituisce la “couleur
locale”, è questo, infatti, il passatempo preferito dal console di Francia a Civitavecchia
nel 1830. E’ il motivo questo per cui lo scrittore francese fu attirato dalle avventure di
Maria Fortuna.
Tuttavia Mérimée, nell’omaggio postumo reso a Stendhal aggiunge: Sa curiosité
constante de connaître tous les mystères du coeur humain l’attirait même parfois
auprès des gens pour lesquels il avait peu d’estime 3) .
Infatti soddisfatta tale curiosità, l’interesse scemava poiché Stendhal odiava più di
ogni altra cosa la banalità e la volgarità.
Questo spiega perché Stendhal non ha sviluppato la novella “Maria Fortuna” che è,
senz’altro, il raccolto di un fatto autentico secondo il gusto dello stesso Stendhal: ma è
in fondo la narrazione di una sordida vicenda criminale, senz’alcuna ampiezza
strutturale e psicologica.
Non essendovi basi sufficienti allo sviluppo della sua immaginazione, l’autore si è
limitato a riportare il racconto che gli era stato fatto senza aggiungervi il dovuto
studio psicologico. I personaggi della sua novella risultano quindi essere rozzi,
grossolani, privi di nobili sentimenti. Bernardo Containi, amante di Livia Rangoni,
alias Maria Fortuna, è un “omaccio” che uccide il di lei marito senza farsi il minimo
scrupolo. I domestici di Rangoni, Gianvincenzo Mari e Tullio Rivolta, anch’essi privi
di scrupoli morali, passano al servizio di Containi, guidati unicamente dall’interesse e
così nella foresta di Cerveteri uccidono a tradimento Bernardo Containi, dopo averlo
spogliato di duecento scudi.
Nessuno di questi omicidi ha un movente nobile o giustificato. Possiamo ben dire di
assistere ad una serie di delitti “vils, vulgaires, plats, communs 4) come Stendhal
1)
“La costante preoccupazione di Beyle era lo studio delle passioni. Quando qualche provinciale gli chiedeva quale
fosse la sua professione, rispondeva con aria seria: osservatore del cuore umano”.
2)
Libretto di una quindicina di pagine, scritto nel 1850 per commemorare la memoria di Stendhal.
3)
“Grazie alla sua viva curiosità di conoscere tutti i misteri del cuore umano, egli era perfino attirato da quelle persone
verso le quali, altrimenti, non avrebbe nutrito che pochissima stima”.
4)
“Vili, volgari, banali, comuni”.
teneva a sottolinearlo e a notarlo in margine ai manoscritti italiani che aveva scoperti
a Roma in via delle Botteghe Oscure. Ma se è quasi normale che i personaggi
secondari nulla facciano per captare la nostra simpatia, ci aspetteremmo almeno che
il personaggio principale possedesse un carattere tale da soddisfarci pienamente e
ricompensarci della nostra delusione.
Invece non è così. Livia Rangoni infatti è una donna che non si eleva mai alle
dimensioni raggiunte dalle sue “sorelle italiane” tra cui Léonore, protagonista della
novella intitolata “Le Philtre” o perfino da quello di Mina de Vanghel, giovane tedesca
romantica.
Livia Rangoni in effetti non la si può misurare con lo stesso metro con cui sono state
valutate queste eroine stendhaliane. Aggressiva e volitiva e al tempo stesso dolce e
fragile, la donna ideale che Stendhal vuole rappresentare nei suoi romanzi è un essere
energico, passionale, che si prefigge uno scopo e fa di tutto per raggiungerlo, anche a
costo di commettere le peggiori pazzie. Spesso in aperto contrasto con le regole
dell’ambiente nel quale vive, essa aspira ad un ideale e sogna una vita vissuta
all’insegna della passione, segno questo di una personalità d’eccezione.
Il suo amore è una lotta, un mezzo eroico per affermare la sua originalità e una
maniera sicura di mettere in pratica i valori in cui crede. Infatti il personaggio
femminile stendhaliano si sottomette difficilmente ad un codice di leggi ad esso
imposto; esso preferisce seguire la propria morale.
Tenace, la donna stendhaliana non si dichiara mai vinta da nessun ostacolo: la
passione giustifica tutto. Fisicamente, intellettualmente tale figura romantica è nata
proprio per provare grandi sentimenti: il suo carattere di essere unico la spinge a
fuggire ogni mediocrità, a conoscere il grande amore, perché tali sono i suoi più vivi
desideri. Questa categoria di donna che Stendhal predilige nella descrizione è quella
appunto dell’eroina della passione.
Alcuni anni prima, in seguito ad un amore infelice per la contessa Métilde
Dembovsky, Stendhal iniziò la redazione di un trattato teorico sull’amore che doveva
poi portare alla stesura del celebre “De l’Amour”. In quest’opera l’autore aveva
proceduto ad una classificazione delle varietà dell’amore. Distingueva quattro forme
d’amore: l’amore-passione, l’amore-gusto, l’amore-fisico e l’amore-vanità.
L’amore-passione è considerato dall’autore come il più degno d’essere vissuto; tale
amore è posto senz’altro dubbio al di sopra di tutte le altre forme d’amore; esso è la
somma aspirazione di quasi tutti i suoi personaggi femminili.
L’amore che anima Livia Rangoni è ben lontano da quel sentimento nobile che è
l’amore-passione. “Maria Fortuna” è la storia di un adulterio, quindi vi è
rappresentato l’amore volgare, il più basso nella scala dei sentimenti, cioè l’amorefisico. Stendhal lo definisce così: “A la chasse, trouver una belle et fraîche paysanne
qui fuit dans le bois. Tout le monde connaît l’amour fondé sur ce genre de plaisirs;
quelque sec et malheureux que soit le caractère, on commence par là a seize ans 5) .
L’amore fisico è in effetti il legame che unisce Bernardo Containi a Livia Rangoni.
Stendhal è lungi dal condannare il piacere fisico poiché questo “étant dans la nature,
est connu de tout le monde” 6) ; tuttavia egli ammette che esso “n’a qu’un rang
subordonné aux yeux de tendres et passionnées 7) .
Invece Livia Rangoni non appartiene a quest’ultima categoria di esseri Essa infatti
non abbandona suo marito per seguire l’impulso irresistibile di un amore folle in
compagnia del suo amante. Se così avesse fatto, la qualità del suo amore avrebbe
entusiasmato il suo autore e affascinato il lettore.
Forse avrebbe addirittura ricevuto l’approvazione di Stendhal; poiché il Nostro non si
considera affatto un moralista. In ogni caso, ella avrebbe avuto tutta un’altra
dimensione potendo l’immaginazione dell’autore trovare ulteriori trame di sviluppo.
Ma, purtroppo, Livia Rangoni non è nemmeno ciò che oseremmo definire una “buona
amante”. Allorché il suo amante muore, non prova nemmeno il minimo dolore. Di
più, continua il suo cammino con i domestici come se niente fosse accaduto e,
freddamente, non ha che un pensiero: provare la sua innocenza. Cattiva sposa, cattiva
amante, Livia Rangoni non può che essere anche cattiva madre!..... Infatti abbandona
i suoi tre bambini e questo ai nostri occhi suonerà come definitiva condanna.
Incinta di alcuni mesi, essa perderà il suo bambino. Questo aborto accidentale
causato naturalmente dal modo di vita che essa conduceva nella foresta, assume
anche una significazione simbolica. Livia Rangoni non è degna del nobile ufficio di un
amore consapevole: accidentalmente concepito, esso è stato accidentalmente
perduto.
Dopo questa descrizione, Livia Rangoni appare come un personaggio privo di
qualsiasi sentimento. La fine del racconto non contribuisce affatto ad una
rivalorizzazione di questa figura. Di certo è l’occasione per Stendhal di mostrare una
5)
Durante la caccia, incontrare una belle e fresca contadina che fugge nei boschi. Ciascuno conosce l’amore che si
alimenta di questo genere di piaceri; qualunque sia il carattere e lo spirito arido e infelice, si comincia da lì a sedici
anni”.
6)
“Essendo naturale, è prerogativa di tutti”.
7)
... riveste un’importanza di second’ordine agli occhi delle anime tenere, nobili e appassionate”.
volta di più il suo anticlericalismo per mettere in risalto la corruzione della Chiesa;
ma questa conclusione non fa che peggiorare il carattere negativo della protagonista.
Infatti con ciò che le resta dei suoi beni, Livia acquista la sua libertà. Essa sa
perfettamente come uscire dalla brutta situazione: per denaro si uccide, col denaro si
libera un colpevole.
Ecco che l’interesse è l’unica guida morale delle anime meschine. Livia Rangoni non è
la sola che approfitta di tale meccanismo di corruzione, ma visto che ella vi aderisce
perfettamente non mostrando nessuna incertezza, allora la sua figura in nessun
momento acquista una luce diversa.
Incarnando l’anti-eroina, Livia Rangoni non può far parte degli eletti, degli “happy
few” stendhaliani.
MARIA FORTUNA
Eccovi il racconto tale e quale mi è stato fatto. Confrontare il vero racconto,
perfettamente esatto, del signor Spinola.
Estate del 1834, o piuttosto 13 settembre, festa di santa Rosa da Viterbo.
Questa mattina, 5 febbraio 1835, Livia Rangoni è stata trasferita dal carcere
femminile di Civita-Vecchia, ed è partita per quello di Manziana, feudo del Santo
Spirito, dietro richiesta di Monsignor Cioia, capo supremo “commendatore di San[to]
Spirito”.
Circa tre mesi fa Livia Rangoni partì da Toscanella, dove abitava, e insieme a suo
marito venne a trascorrere la notte a Canepina, borgo nelle vicinanze di Viterbo,
presso Bernardo Containi, amico di suo marito e suo amante. L’indomani Rangoni e
sua moglie partono per andare verso Corneto. Arrivati a dodici miglia da Canepina,
un uomo mascherato aggredisce Rangoni e lo trapassa a colpi di coltello. L’assassino
era Bernardo Containi, amante di Livia.
Rangoni è lasciato come morto sulla strada. Containi fugge e ritorna a casa a
Canepina. Livia va a chiamare alcuni contadini che abitavano vicino al luogo dov’era
avvenuto l’assassinio, prende in affitto un asino, vi fa deporre il suo sfortunato
consorte e infine lo riporta con grande fatica da Containi a Canepina dove aveva
trascorso la notte. Il Containi si dispera per la disgrazia capitata al suo amico;
vengono dati a Rangoni i primi soccorsi, ma alla fine questi muore due giorni dopo.
(Nel romanzo prima di morire ha alcuni sospetti).
Morto Rangoni, la vedova ritornata a Toscanella con Containi, suo amante, vende i
buoi di suo marito, un gregge di pecore e anche alcuni ettari di terra, abbandona i
suoi tre piccoli bambini e lascia infine Toscanella seguita da Containi, suo amante, da
Gianvincenzo Mari e Tullio Rivolta, domestici di suo marito, i quali partono armati
dei loro fucili come lo era il Containi. (Nel romanzo, Gianvincenzo è innamorato di
Livia).
Questi tre uomini e Livia, incinta di qualche mese, arrivano a Vetralla e di là alla
“Ossetta”, osteria all’inizio di Grosseto, in mezzo a grandi alberi di ulivi. Dopo alcuni
giorni fanno chiamare un vetturino e si mettono d’accordo per dargli venticinque
paoli per condurli a Monterone (a mezza strada fra Civita-Vecchia e Roma).
L’indomani si parte. Una volta arrivati nel bosco di Magnone, Containi e gli altri
dicono al vetturino che non vogliono più proseguire oltre. Meno male; però almeno
pagatemi - dice il vetturino.
I tre uomini puntano i loro fucili e il vetturino è felicissimo di partire per Corneto
anche senza essere pagato.
Pare che Livia ed i tre uomini continuassero la loro strada a piedi. Arrivarono a
Monterone. Intanto cominciarono a vedersi nei dintorni degli avvisi relativi
all’uccisione di Rangoni e che parlano di arrestare Containi e Livia, fortemente
sospetti.
Da Monterone i quattro viaggiatori arrivarono a Cerveteri. Qui Livia Rangoni perse il
bambino che aspettava e ciò la costrinse a letto per una quindicina di giorni. Dopo
questo tempo, partì con i tre uomini, però Containi aveva da 150 a 200 scudi (1100
franchi). Nel bosco di Cerveteri, Gianvincenzo spara a Containi, lo deruba e
abbandona il cadavere nella foresta.
I carabinieri trovano questo cadavere, emanano avvisi di ricerca e indagano sugli
assassini che si pensa siano nascosti nei boschi della Tolfa. Arrivati a La Bianca,
piccolo villaggio proprio vicino a Tolfa, i carabinieri apprendono che la vigilia due
uomini ed una donna, le cui caratteristiche rispondono a quelle delle persone
ricercate, hanno in questo sito cenato con tre galline la sera precedente. Infine due
giorni dopo Livia Rangoni, Gianvincenzo e Tullio vengono arrestati proprio mentre
stavano per superare la frontiera toscana nei pressi di Farnese.
Vengono tradotti a Civita-Vecchia per essere sottoposti a processo.
Una persona onesta, che avesse visto come fosse andata la procedura, assicurerebbe
che le due uccisioni avrebbero potuto essere imputate a carico dei carcerati. Poiché
Livia aveva qualche bene da parte, invia del denaro a Roma e dopo qualche giorno
arriva una lettera di M....... commendatore del Santo Spirito, con la quale costui
chiede di istruire lui il processo a carico dei prigionieri in quanto l’ultimo delitto era
stato consumato nel territorio di Manziana, feudo del Santo Spirito, al quale questo
diritto spetta in virtù delle ultime leggi.
Questa mattina, tutti i monelli di Civita-Vecchia si sono riuniti a lungo intorno alla
carretta dove stava Livia Rangoni. Il comandante della fortezza non aveva ancora
ricevuto l’ordine del Monsignore delegato per la liberazione di Gianvincenzo. Alla fine
l’ordine arrivò, dopo tre ore di trattative, e Gianvincenzo, Livia e Tullio partirono per
le prigioni di Manziana dove non c’è alcun dubbio che la loro innocenza sarà
senz’altro e presto riconosciuta.
LA VALLE DEL FIUME MARTA
NELL’ETA’ DEL BRONZO
Questa relazione è frutto del lavoro dell’équipe preistorica del GAR che, oltre a fornire
un sussidio didattico al Gruppo, per quanto riguarda la Preistoria, e a collaborare con
i settori di ricerca, le sezioni, e i Gruppi archeologici del Lazio, dal 1980 si occupa
della preistoria tarquiniese.
Tutto il lavoro di documentazione grafica e fotografica, di controlli sul terreno e di
confronti tipologici, nonché l’elaborazione dei dati geologici e topografici è stato
svolto da tutti i componenti dell’ équipe.
I siti preistorici oggetto della relazione sono stati rinvenuti, nella quasi totalità,
intorno al 1970 dall’allora “settore Tarquinia” composto da vari membri, tra cui
vogliamo ricordare e ringraziare Lodovico Magrini e Gaetano Bellucci. I materiali
recuperati vennero segnalati alla Soprintendenza competente (S.A.E.M.), ma non
vennero studiati e, ritenendoli un patrimonio estremamente importante per la
conoscenza della preistoria dell’Etruria, vennero affidati nel 1980 all’équipe
preistorica perché ne curasse lo studio e la pubblicazione.
La nostra équipe ha svolto finora due lavori paralleli e complementari: il ricontrollo
della localizzazione dei siti, per poter analizzare il contesto ambientale, topografico e
geologico, la classificazione, la documentazione e lo studio dei materiali recuperati.
Questa organizzazione del lavoro ha permesso di individuare particolarità insediative
interessanti e di recuperare ulteriori elementi datanti, nonché, estendendo le
ricognizioni a zone circostanti, di individuare due siti nuovi rispetto a quelli
localizzati nel 1970.
Il sistema di lavoro ci ha permesso inoltre di rendere noti, seppure brevemente,
alcuni dei siti man mano che terminava il lavoro di documentazione. Sono stati
pubblicati i siti di Monterana, Ferleta, Larga Callare, Le Grotte, mentre sono in corso
di stampa Pisciarello, Ancarano e Castellina della Roccaccia.
Il lavoro si è concentrato sull’area costituita dal corso del fiume Marta, nel tratto che
va da Tuscania al mare, area ricca di insediamenti dell’Età del Bronzo. Dal punto di
vista geologico e topografico si tratta di un complesso piuttosto omogeneo di colline e
altipiani incisi da corsi d’acqua di scarsa rilevanza, tra cui spicca il fiume Marta per
lunghezza di corso e portata d’acqua. A Sud la zona osservata è limitata dal corso del
fiume Mignone che sembra separare due aree culturalmente abbastanza diverse. A
Nord il limite è costituito dal torrente Arrone che separa l’area tarquiniese da quella
vulcente. Il territorio non presenta generalmente rilievi accentuati, trattandosi di
deposizioni sedimentarie quasi esclusivamente marine, con prevalenza di sabbie e
argille. I rilievi sono costituiti da arenarie, calcari e travertini mentre sono molto
scarsi i lembi di formazione vulcanica; la valle del fiume Marta, infine, è composta da
depositi alluvionali fluviopalustri, antichi, recenti e attuali.
La vegetazione prevalente è costituita dalla macchia mediterranea mista a querceto,
ma la maggior parte dell’area orientale è da secoli oggetto di lavori agricoli che hanno
completamente sconvolto l’assetto ambientale originale.
La scelta delle zone di insediamento nei vari periodi dell’Età del Bronzo presi in
esame è stata fortemente influenzata dall’ambiente: vennero preferite in tutte le
epoche aree, con substrati rocciosi resistenti (calcari, arenarie, tufi), anche se la
conformazione topografica prescelta subì dei cambiamenti.
Gli insediamenti del Bronzo Medio sono situati di preferenza intorno ai 100 metri sul
livello del mare, su pendii di rilievo poco accentuati; nel Bronzo Recente e Finale gli
insediamenti aumentano e si situano intorno ai 150 metri di latitudine sul livello del
mare: vengono preferite colline isolate naturalmente dai pianori circostanti, spesso
con pareti ripide; infine i siti che nascono ex novo nell’Età del Ferro si situano in
pianura, vicino al mare, entro i 15 metri di altitudine.
La vicinanza al sito di un corso d’acqua è fondamentale in tutti i periodi, ma più
interessante appare la distribuzione degli insediamenti nelle tre fasi: nel Bronzo
Medio i siti sono piuttosto distanziati e scarsi, nel Bronzo Recente - Finale (non c’è un
solo insediamento ascrivibile interamente e solo al Bronzo Recente) il numero degli
insediamenti aumenta e si assiste al fenomeno dei siti accoppiati, a poche centinaia di
metri l’uno dall’altro, spesso separati da un corso d’acqua.
Infine nell’Età del Ferro, oltre agli insediamenti che continuano nel tempo, nascono
dei nuovi siti vicino alla costa, il loro numero decresce visibilmente e la distribuzione
è molto più ampia.
Date le condizioni dei ritrovamenti è molto difficile tentare una stima delle aree
occupate in origine dagli insediamenti: nella maggior parte dei casi i materiali che
sono stati recuperati affioravano per lavori agricoli profondi o a causa di sterri per
costruire strade di campagna; nel primo caso la dispersione dei materiali dovute alle
arature può falsare l’estensione originale del sito, ingrandendola; nel secondo caso il
concentramento limitato può essere dovuto semplicemente alla ristrettezza della
porzione di sito asportata dal taglio della strada. Solo nel caso di Ferleta, sito non
interessato da lavori agricoli, è possibile stimare l’estensione originale dell’abitato in
3 ettari; altri siti non intaccati da lavori agricoli sono però stati interessati
dall’insediamento nel Medio Evo (Torrionaccio, Le Grotte, Castellina della Roccaccia,
Castellina della Civita, Santa Maria in Castello) che ha generalmente modificato la
sommità dei siti e causato lo scivolamento lungo i pendii del materiale preistorico.
I ritrovamenti ascrivibili all’Età del Bronzo Medio sono numericamente troppo scarsi
per poter fornire stime statistiche sull’estensione dei siti.
Gli Insediamenti
Escluso Trocche di Casalta, i siti del Bronzo Medio sono monofase (Omo Morto,
Pisciarello, Largo Callare, Ancarano). I materiali non sono di solito in buone
condizioni a causa della lunga esposizione sul terreno o di lavori agricoli reiterati nel
tempo.
I tipi ceramici più caratteristici sono ciotole carenate con carena a spigolo molto
accentuato, dolietti e olle con cordoni multipli, basse scodelle con anse a maniglia,
manici forati.
Su questi siti il lavoro di studio dei materiali deve ancora essere svolto in maniera
approfondita; ad un’osservazione preliminare si può comunque notare la presenza di
tutti gli elementi sia formali che decorativi che permettono di inserire i nostri siti in
una fase avanzata del Bronzo Medio dell’Italia centrale.
I siti del Bronzo Recente - Finale sono ben più numerosi e i materiali presentano per
lo più un ottimo livello di conservazione. Non abbiamo individuato insediamenti con
materiale ascrivibile esclusivamente al Bronzo Recente, mentre sono numerosi i siti
che presentano l’associazione Bronzo Recente - Bronzo Finale e quelli monofase
ascrivibili al Bronzo Finale.
All’interno di quest’ultimo periodo si possono distinguere siti di periodo più antico
(Montanara, Torrionaccio, Castellina della Roccaccia) e siti di periodo più recente
(Ferleta, Castellina della Civita, Pian di Civita, Le Grotte e Trocche di Casalta).
Le forme ceramiche rientrano pienamente nella tipologia creata per il SubAppenninico e per il Protovillanoviano nell’Italia centrale: ciotole con carene
arrotondate, ciotole a labbro rientrante, tazze biconiche, anse a protome e cilindrorette. Le decorazioni a cuppelle e solcature, quelle applicate e la comparsa della
tecnica “a cordicella” trovano confronti stretti con l’area Tosco-Adriatico-Laziale, ma
il dato più interessante viene dall’analisi dei siti con cui si trovano i confronti più
stretti: l’area Tolfetano-Cerite, ricca di presenze dell’Età del Bronzo, non offre
confronti convincenti, mentre ben più significativi appaiono quelli con l’area del
fiume Fiora; non si tratta comunque di confronti talmente stretti da far pensare ad
un’unica area culturale.
Per quanto riguarda l’Età del Ferro, come per il Bronzo Finale, si può identificare una
fase antica e più recente. Particolarmente significativi i materiali della Ferleta e di
Pian di Civita, che appartengono al Villanoviano evoluto, mentre quelli di Fontanile
delle Serpi e Trocche di Casalta possono essere ascritti al Villanoviano iniziale.
Una menzione a parte meritano i siti di Montarana e Ferleta: il sito di Monterana,
separato dalla città di Tarquinia dalla Valle del fiume Marta, è stato fortemente
intaccato dai lavori agricoli, ma mostrava ancora, a distanza di dieci anni dal
ritrovamento, due concentramenti di materiali; sulla sommità della collina era
concentrato il materiale del Bronzo Recente insieme ad alcuni frammenti ascrivibili
al Bronzo antico, periodo attestato nella zona fino ad ora solo dai materiali recuperati
in questo sito. Da rilevare in particolare la presenza del frammento di ciotola
decorata nello stile del Bicchiere Campaniforme, che sembra di fattura meno accurata
rispetto ai materiali di Torre Crognola (Vulci), ma che si può mettere in relazione con
i materiali raccolti da Magrini intorno al 1970 alla Selvaccia di Spinicci, per tracciare
una continuità di occupazione della zona tarquiniese per lo meno dall’Eneolitico
tardo al Ferro.
La felice posizione dell’insediamento, la quantità e la qualità dei materiali recuperati
fanno supporre un grosso sito che ha avuto una lunga durata nel tempo e
probabilmente un’estensione territoriale notevole.
Ferleta, sito che dal Bronzo Recente arriva al Villanoviano evoluto, è una collina
allungata di circa 300 x 100 metri, separata dal resto del pianoro per mezzo di un
vallo artificiale scavato presumibilmente al tempo dell’insediamento. La sommità
della collina e parte del pianoro retrostante sono occupati da un oliveto centenario
rinselvatichito e primi materiali furono recuperati nella fossa creata dallo
sradicamento di uno di questi enormi alberi.
La particolarità del sito sta nel mostrare ancora parte delle strutture adattate per uso
abitativo: lungo i fianchi scoscesi della collina si aprono delle cavità parzialmente
franate e interrate, da noi definite “ripari”, di fronte a cui si rinvengono materiali
ceramici. La sommità dell’insediamento doveva invece essere utilizzata da strutture
costruite, ricordando così il modello abitativo di Sorgenti della Nova, che mostra
strutture parzialmente scavate nella roccia lungo i pendii e capanne interamente
costruite in legno sulla sommità.
I materiali ascrivibili al Bronzo Finale evoluto mostrano analogie con quelli degli
insediamenti dell’area settentrionale del Lazio (Sorgenti della Nova, Torre Crognola,
Norchia). Particolarmente interessanti sono i materiali del Villanoviano evoluto, che
trovano confronti proprio a Tarquinia tra i materiali della Necropoli di Monterozzi.
Conclusioni
Questa relazione rappresenta un sunto del lavoro svolto e da svolgere sulla zona,
lavoro che costituirà una monografia sull’Età del Bronzo nell’area del fiume Marta da
Tuscania al mare. A questo punto del lavoro è quindi difficile trarre delle conclusioni
definitive, è possibile però cercare di tracciare un quadro della strategia
dell’insediamento.
Alla scarsa presenza di insediamenti oneolitici, segue nel Bronzo Medio
un’occupazione del territorio che non è massiccia e che mostra di prediligere zone di
altitudine media, inserite in un paesaggio generalmente ondulato e boscoso, con corsi
d’acqua nelle vicinanze.
Già con il Bronzo Recente il modello d’insediamento cambia: le zone sono
morfologicamente più varie, con preferenza per colline isolate o isolabili, con pareti
piuttosto ripide. La vicinanza dei corsi d’acqua è vista come elemento di scelta ancora
più condizionante in zone che dovevano essere ricche di vegetazione boschiva.
Il dato più interessante è l’aumento numerico e di dimensione dei siti, che si
diffondono lungo la valle del Marta, spesso occupando colline affrontate.
Quest’ultimo dato, che sembrerebbe indicare una funzione di controllo della via
fluviale e di alcuni punti strategici, è quello che merita un’osservazione più accurata
nell’ambito dello studio globale, soprattutto tenendo conto del fatto che il fenomeno
non continua nell’Età del Ferro, ma anzi si assiste, in quest’ultimo periodo, ad una
diminuzione degli insediamenti e ad un allontanamento dalle zone interne verso
quelle costiere.
Infine è da notare la continuità in tre dei siti esaminati (Ferleta, Pian di Civita,
Trocche di Casalta) tra Bronzo Finale ed Età del Ferro, continuità che da molti veniva
negata e che, se fosse testimoniata in maniera inequivocabile per mezzo di uno scavo
stratigrafico, permetterebbe di rivedere la problematica relativa al passaggio tra l’Età
del Bronzo e quella del Ferro.
Anna Maria Conti
GRUPPO ARCHEOLOGICO
ROMANO
BIBLIOGRAFIA
- AA.VV. “Sorgenti della Nova” - ED. C.N.R. Milano, Roma 1981
- Cassano S. - Manfredini A. “Torrionaccio (Vt) Scavo di un abitato protostorico” - in
Notizie Scavi serie VIII vol. XXXII, 1978.
-- Colonna G. “L’insediamento del Bronzo Finale in Italia”, Atti della XXI riun. sc. II.
PP. Firenze, 1979.
- Conti A.M. “La Ferleta: un insediamento dell’Età del Bronzo a Tarquinia” in
Ricognizioni Archeologiche n. 2 - Roma, 1987 G.A.R.
- Pennacchioni M. “Torre Crognola” - in “Vulci” rinvenimenti di superficie di epoca
preistorica” Quaderni del G.A.R. n. 7 Roma, 1977.
- Pennacchioni M. “Presenze dell’Età del Bronzo a Tarquinia: Pisciarello, Ancarano,
Omo Morto” in Atti del V Conv. dei G.A. del Lazio, Bolsena 1980, in corso di stampa.
Pennacchioni M. - Persiani C. “L’insediamento preistorico della Montarana” in Atti
del IV Conv. dei G.A.del Lazio, Rieti, 1979, ed. Roma, 1982.
Persiani C. “Nuovi ritrovamenti dell’Età del Bronzo nella valle del fiume Marta”, in
“Ricognizioni Archeologiche n. 27 Roma, 1986./
UN SANTO VENUTO DA LONTANO
Ho chiesto ad alcuni amici tarquiniesi notizie su uno dei loro Santi Protettori - S.
Agapito-, ma nessuno di loro è stato preciso ed esauriente in merito. Qualcuno dei più
“acculturati” conosceva i Santi Martiri Sinforiano, Saturnino, Sisinnio, Timoteo;
qualcuno dei più tradizionalisti conosceva l’altro Protettore S. Secondiano e la sua
festa; tutti ignoravano le vicende di questo Santo Agapito. E’ in realtà vero che si
tratta di un martire del lontano III°secolo, ma è pur vero che, controllando negli
Archivi cornetani, emergono numerosissimi dati e notizie del Santo, sia da vivo che
da morto.
Agapito era nato a Palestrina intorno al 259 ed apparteneva ad una nobile famiglia
romana, con vasti possedimenti terrieri in Provincia. Il ragazzo era cresciuto nella
fede cristiana come tutti i componenti della sua Gens.
Nel 274, al tempo dell’Imperatore Aureliano, venne introdotto in Roma il culto del
Sole di Emesa come religione di Stato e l’imperatore fu onorato come personaggio
divino. In conseguenza di ciò iniziò una persecuzione che interessò anche i cristiani
della Provincia.
In quindicenne Agapito, individuato come cristiano, venne imprigionato e gli fu
richiesto di abiurare e di riconoscere la natura divina dell’Imperatore. Il ragazzo
rimase saldo nella sua fede, per cui fu flagellato alla presenza di Aureliano e
successivamente sottoposto a tortura con l’imposizione sul capo di carboni ardenti.
Poiché persisteva nel suo convincimento, gli vennero frantumate le mascelle e fu
quindi esposto nell’Anfiteatro di Palestrina, insieme ai Santi Anastasio e Porfirio e il
18 agosto venne decapitato con un colpo di spada, come si usava per i nobili cittadini
romani.
Queste sono le notizie sulla vita e sulla morte del santo. Ma da un testo manoscritto
del 19o sec. 1 , conservato nell’Archivio della STAS, apprendiamo ulteriori notizie su i
luoghi di sepoltura, sulla nascita del culto, su “i vari viaggi” delle reliquie del corpo
del Santo.
Vediamo allora “il seguito”!
1
Da “MEMORIE STORICHE” di S. Agapito Martire della Città di Palestrina, raccolte ed ordinate da un devoto del
medesimo Santo”. Tomo 14
La notte seguente la decollazione, alcuni pii cristiani suoi concittadini raccolsero il
corpo del Martire e lo trasportano ad un miglio fuori da Palestrina, in un luogo
chiamato “Le Quadrelle” che era stato utilizzato anche per la sepoltura dei corpi dei
santi Gordiano, Abbondio, Miliano e Ninfa.
Per la custodia del corpo si utilizzò “una cassa nuova ivi trovata”.
Non appena la religione cristiana si potè professare liberamente, sul luogo della
sepoltura dei corpi dei Santi venne eretta la chiesa rurale di S. Gordiano, restaurata
da Papa Leone III alla fine dell’VIII secolo. Le memorie ricordano che nella chiesa
esisteva un affresco riproducente il sacrificio del Santo quindicenne e che una vicina
fonte portava il nome di S. Agapito.
La crudezza del martirio del giovane e la forza d’animo dimostrata dal ragazzo nel
sostenere il supplizio e le sofferenze fecero propagare nei luoghi vicini il culto del
Santo giovanetto.
I prenestini vollero portare in città il corpo di Agapito per il quale avevano costruito
una chiesa: alla fine del 4o secolo provvidero alla traslazione nella nuova dimora, in
una cripta appositamente predisposta.
Nell’anno 974 si effettuò un sopralluogo su i resti del Santo ed in quella occasione le
reliquie del braccio vennero donate ad alcuni monaci che le donarono a città anche
distanti tra loro.
Il 14 gennaio 1116 il corpo di S. Agapito venne traslato nella Cattedrale di Palestrina,
su ordine del vescovo Carone, come attestato da una lapide esistente all’esterno di
detta chiesa.
Allorchè nel 1297 Papa Bonifacio VIII fece incendiare la città di Palestrina a lui ostile,
la Cattedrale e le reliquie in essa contenute furono “esentate dalla distruzione”.
Frattanto il culto e la devozione a S. Agapito aumentavano negli anni e le reliquie
venivano ricercate per essere venerate con particolare pietà tra le cittadine del Lazio.
Anche in Corneto il culto si sviluppò intorno al 1300 e si ha memoria di una
processione nel 1379: in quella occasione venne esibita la reliquia del “braccio del
santo donata da alcuni monaci”. Sicuramente si trattava di una parte della reliquia
consegnata nell’anno 974 “ad alcuni monaci” e giunta misteriosamente in Corneto.
Gli “Statuti dell’Arte degli Ortolani” redatti nel 1389 - al Capitolo 16o - prevedevano
di portare nella processione del 18 agosto il cero di tre libbre, già utilizzate nella
processione del Salvatore, alla vigilia della festa dell’Assunta.
La reliquia del braccio era conservata nella Chiesa di S. Pancrazio, in una nicchia
scavata nella colonna di sinistra, vicina all’altare del Crocefisso..
- Riporto uno stralcio delle “Historie Cornetane” del Camillo Falgari dalle quali
apprendiamo:
“..... Anno 1436. Era Giovanni Vitelleschi Patriarca e Capitano Pontificio. Lorenzo
Colonna, con buon numero di soldatesche con sè, predando la Campagna di Roma,
scorreva per il territorio, per lo chè il Patriarca, ritornato frettolosamente indietro da
Piperno, dopo aver espugnato molte terre minori, pose il campo a Pellestrina,
posseduta dal medesimo Lorenzo. Era la città difficile ad essere espugnata per essere
essa situata sopra un alto e scosceso monte et alcune vie strette e tortuose, per le
quali poteva ascendersi, erano difese da fortissimi cancelli (grate) con gente armata.
Il Patriarca non perdutosi d’animo per questa difficoltà, posta una parte del suo
esercito in agguato, con l’altra fece attaccare una fierissima battaglia alli cancelli. E,
mentre tutti i nemici sono intenti a difendersi da questa banda (parte), coloro che
erano nascosti ebbero lungo aggio con scale et altri istromenti (mezzi) di guadagnare
l’altezza del monte, onde quei che difendeano li cancelli, abbandonato il posto,
diedero campo a tutto l’esercito ecclesiastico di salire alla cima del monte e stringere
più d’appresso la città, alla quale, mancando l’acqua e le vettovaglie, fu dopo qualche
tempo costretta d’arrendersi.
“Ritornato l’anno seguente - 1437 - in Roma, per dare memorabile esempio alle città
dello Stato Ecclesiastico di non sottrarsi in avvenire dal clementissimo dominio
pontificio, ai dì 20 maggio spedì dodici operai per ciaschedun Rione di Roma a
Pellestrina per distruggerla, dato spazio (tempo) convenevole a quei cittadini di
ritirare le loro sostanze. Mandò di poi il Patriarca in dono alla sua Patria (Corneto)
non solo le campane, le mostre di marmo e le porte di bronzo della cattedrale di
quella Città. ma anche un tesoro di reliquie, tra le quali il Corpo di S. Agapito Martire,
la di cui testa donò alla Chiesa di S. Francesco dei Frati Minori, servandosi le altre
reliquie nella Chiesa di S. Maria Margherita (eretta da Eugenio IV nel 1435 a nuova
Cattedrale di Corneto 1) ”.
Un Privilegio del Cardinale Ludovico Scarampi, emanato a Viterbo il 27 maggio 1440,
autorizzava i frati francescani di Corneto a deporre le urne con le reliquie del Santo
sopra l’altare maggiore, in una nicchia scavata nel muro divisorio tra la cappella e il
1)
Le mostre di marmo e le porte di bronzo della Cattedrale prenestina furono utilizzate per ornare il portale del Palazzo
Vitelleschi, in fase di costruzione, mentre alcune campane furono poste nella torre campanaria del Comune. Un’altra
campane, chiamata “la Palestrina”, venne issata sul campanile della Chiesa di S. Francesco. Successivamente - nel 1697
- venne calata dal campanile per essere rifusa dai fonditori piemontesi Giovanni-Andrea e Giacomo-Antonio Berardi,
con una speda di 100 scudi. Con la fusione la campana perse circa 10 libbre. Una nuova fusione di questa campana
avvenne nel 1729, con una spesa per la Comunità di 50 scudi.
coro: nicchia rifinita da una parte da una lapide di marmo e dall’altra da una grata o
cancello chiuso da tre chiavi, tenute rispettivamente dal priore dei Minori, dal
Camerlengo della Città e da quello dell’Arte dei Mercanti.
Nel 1441 si solennizzò con particolare cura la festa del Santo con una processione
nella quale vennero offerti due ceri da tre libbre. Essi furono accompagnati da un
pallio “fatto correre la sera della vigilia della festa”. Il tutto fu offerto dall’Università
degli Ortolani, con una spesa di 4 scudi. Anche i molinai cittadini contribuirono con
una offerta di 16 scudi. Intervenne alla processione il Collegio dei Notai, la Società
degli Speziali 1) e quella dei Casenghi. I nobili ed i patrizi, con torce in mano,
circondavano le reliquie del Santo.
Gli abitanti di Palestrina, rientrati nella loro città e ricostruitala per la quasi totalità,
iniziarono a richiedere la restituzione almeno dei corpi dei Santi - ed in particolare di
quello di S. Agapito -, rivolgendosi “ai Priori et all’inclito popolo di Corneto”. Da parte
loro i Cornetani rifiutarono la restituzione delle reliquie, timorosi che così facendo,
avrebbero poi dato il via alle pretese per la restituzione almeno dei corpi dei Santi - ed
in particolare di quello di S. Agapito -, rivolgendosi “ai Priori et all’inclito popolo di
Corneto”. Da parte loro i Cornetani rifiutarono la restituzione delle reliquie, timorosi
che così facendo, avrebbero poi dato il via alle pretese per la restituzione di tutti gli
altri beni asportati con la forza dal Vitelleschi. Risposero ai prenestini ricordando la
giustezza della punizione inflitta dal Patriarca a motivo della loro protervia,
soggiungendo di non voler essere più molestati con richieste di restituzione od altro.
I prenestini invece tornarono alla carica e questa volta intervenne per loro Papa
Innocenzo VIII, il quale nel 1492 autorizzò il cardinale di S. Clemente e Mons. Marco
Barbo a prelevare parte delle reliquie conservate in una cassetta in S. Francesco. I
cornetani richiesero un Breve papale che stabilisse che quella doveva essere l’ultima
richiesta dei prenestini, ma Innocenzo morì proprio in quell’anno, il Breve non fu
emanato e gli abitanti di Palestrina tornarono alla carica nel 1499, facendo questa
volta intervenire il cardinale di S. Marcello, per ottenere la restituzione di un dito
della mano del Santo.
Ma intanto negli animi dei cornetani si era sviluppato un culto sincero per questo
Santo “straniero”; la loro devozione era così aumentata che Papa Giulio II, nel 1503,
nei primi giorni del suo pontificato, decise di far racchiudere parte della testa del
santo in un reliquiario d’argento a forma di busto, a grandezza naturale. I resti del
1)
Il Collegio degli Speziali venne fondato in Corneto nel 1424 da Antonello di Pietro e da Biagio di Cecco.
cranio furono collocati all’interno in “un piattino d’argento con sponda, di una
larghezza di un palmo, tra ovatta e un panno di taffetà rosso”.
L’opera d’argento viene considerata una delle migliori e più riuscite esecuzioni del
Rinascimento.
Il busto, ornato da due collane d’argento dorato, con decorazioni a piccoli gigli di
campo, è posto sopra un piedistallo ottogonale dell’altezza di 20 cm. ed è sostenuto
da otto piccoli leoni 1) .
Sulle otto facce si vedono gli stemmi:
- di Papa Giulio II;
- del cardinale Domenico della Rovere, vescovo di Corneto, morto nel 1501;
- del cardinale Giovanni Vitelleschi;
- del Comune di Corneto. Croce bianca in campo rosso, con ramo di corniolo;
- di Clemente Galeotto, nipote del Papa Giulio II;
- del Cardinale Giorgio Costa, morto nel 1508 a 102 anni. Era stato nominato nel 1495
vice-protettore dei Frati Minori in sostituzione di Giuliano Della Rovere, occupato
nella Legazione di Francia. Lo stemma presenta una ruota d’argento in campo
celeste;
- una scritta a ricordo della traslazione delle reliquie del 1437;
- l’assenso papale per la concessione di un’indulgenza plenaria da concedersi in
occasione della prossima festa del Santo.
La spesa per l’esecuzione dell’opera fu sostenuta dai Frati Minori di Corneto e dalla
Comunità, le quali ricorsero a numerose oblazioni e copiosissime elemosine.
Il 26 febbraio 1582, al tempo del Vescovo Bentivoglio, parte delle reliquie vennero
rinchiuse in una nuova cassetta e collocate nella Cappella di S. Gerolamo, esistente
nella Chiesa di S. Francesco: la cappella era patronato dalla Famiglia Martellacci e
Papa Gregorio XIII, l’anno prima, vi aveva eretto un altare privilegiato.
Intanto il braccio che si conservava nella Chiesa di S. Pancrazio nel 1583 venne
racchiuso in un vaso d’argento e custodito in Cattedrale.
Ma i traslochi non erano ancora bastati. Infatti, alla morte del Cardinale Carlo
d’Angennes dei Signori di Rambouillet, si demolì l’altare maggiore della chiesa di S.
Francesco per la costruzione di uno nuovo, un omaggio da parte degli eredi del
Cardinale alla memoria del loro parente, morto nel 1585 nel Palazzo Vitelleschi. Per
poter meglio realizzare il manufatto venne anche demolito il tramezzo che custodiva
sin dal 1440 parte del Corpo del Santo. Le cassette con le reliquie furono
provvisoriamente tumulate in un angolo della sagrestia. Nel 1587 - ultimata la
sistemazione dell’altare maggiore - le ossa vennero esumate, poste in una nuova urna,
sistemate decorosamente in una nicchia della cappella dell’altare maggiore. Anche
questa volta l’urna veniva chiusa con tre chiavi custodite dai frati francescani, dalla
Comunità cornetana e dagli eredi di Mattia Martellacci - cittadino e cornetano.
I prenestini non erano ancora contenti! Per ottenere “giustizia” ricorsero a Papa Sisto
V, il quale - con Breve del 7 luglio 1588 - ordinò che una considevole parte delle
reliquie fosse consegnata al legato Francesco Ripa, vescovo di Capri, per essere
ricondotta a Palestrina. Per evitare tentennamenti ed indugi da parte di Corneto si
minacciò di scomunicare i Magistrati, gli Amministratori e tutto il popolo. Di fronte
ad una simile minaccia convenne obbedire. E una lapide affissa il 25 agosto 1588
nella Cattedrale di Palestrina ricorda la restituzione e l’arrivo in città delle reliquie del
Santo. I cornetani non si dettero per vinti, ma le 44 petizioni inviate all’autorità
pontificia (comportanti una spesa di 33 scudi) non ebbero alcun effetto. Soltanto nel
1633 avvenne uno scambio con i prenestini: dietro cessione di un osso di S. Agapito si
ebbe un osso di S. Ilario. Lo scambio avvenne alla presenza del patrizio prenestino
Francesco Barberini.
Ma l’urna di S. Agapito venne nuovamente aperta il 21 aprile 1634 per prelevare una
piccola reliquia da consegnare alla città di Bisenzo, ove era iniziata una devozione per
il Santo forse da parte di alcune famiglie di carbonai trasferitesi da Corneto in quella
terra. La festa e gli onori tributati furono di risonanza provinciale e molte persone
parteciparono alla processione di traslazione.
A complicare le cose intervenne il 17 agosto 1671 un ritrovamento di reliquie nella
Chiesa di S. Pancrazio. Mentre si provvedeva ad abbellire questa chiesa per
l’imminente festività del Santo, il parroco - don Giovanni Morelli - nel collocare un
vaso su di un capitello, volle “spianare” la base di appoggio, ma il muro cedette,
scoprendo una nicchia ed un’urna in cui erano riposti alcuni resti ossei ed una targa
di ferro e piombo con una scritta corrosa in cui si volle leggere: “Quì riposano le
reliquie di S. Agapito”. A lume delle nostre conoscenze può ritenersi che il
ritrovamento riguardasse altri Santi omonimi, a meno che non si voglia supporre che,
per evitare di restituire il resto del corpo del Santo alla città di Palestrina, si fossero
prelevate tutte le reliquie per essere conservate nascostamente nelle chiese cornetane.
1)
Attualmente il busto di S. Agapito è conservato nel Monastero delle Monache Passioniste, essendo considerato il
Ora il racconto si fa più interessante perché si dipinge di giallo!
In una relazione redatta da don Sebastiano Vaiani e dai Minori Osservanti P. Antonio
da Legogne e P. Pietro-Maria da Corneto, apprendiamo che:
“il 17 agosto 1728 avvenne un misfatto per mancanza di culto in Bisenzo. Infatti, alla
vigilia delle feste di S. Agapito, venne esposta la sua reliquia (quella per intenderci
donata dalla Città di Corneto nel 1634). Ma il bifolco Ciandera, alle 18,30 del martedì
17 agosto, vedendo la poca gente presente che si dedicava a libagioni, bagordi e
gozzoviglie, pensò di rubarla: cosa che eseguì con molta sveltezza. Presa la reliquia, la
coprì con un fazzoletto e la mise “nella catana”. Si tolse il cappello e le scarpe in segno
di rispetto e, per sentieri scoscesi solo a lui noti, si recò in un piccolo Castello
diroccato, distante un miglio da Valentano, e depose la reliquia rubata nella Chiesa di
S. Maria di Nempe, membro della Commenda di S. Magno in Gradoli.
Alle 21,30 si recò a Valentano, ove la notizia dell’arrivo “misterioso” della reliquia si
sparse in un attimo. Ci fu un accorrere di gente festante e la reliquia venne
accompagnata processionalmente nella Chiesa Collegiata di questa Città. Ma più
“misterioso” appare il fatto che erano stati predisposti “fuochi di legno, spari di
bombarderia da tutti i soldati presenti in città, fontante di vino ed acquavite”. Sorge a
questo punto spontaneo il sospetto che tutto fosse stato organizzativo e previsto.
Il Ciandera fu inseguito dai bisentini senza essere raggiunto. Poco tempo dopo si rese
spontaneamente al vescovo Pompilio Bonaventura, al quale chiese perdono, ma non
fece nomi. Fu così carcerato per due mesi e liberato solo dietro pagamento di una
multa di 25 scudi.
Venne poi ordinata la restituzione della reliquia a Bisenzo, ma gli abitanti di
Valentano nicchiavano, trovando pretesti e scuse per non restituire quanto era giunto
in loro possesso. Alla fine dovettero piegarsi all’ordinanza vescovile, ma come
ritorsione nei confronti del Bonaventura, nessun cittadino di Valentano poco dopo si
recò a riceverlo, in occasione di una visita del presule. Egli così si rese conto del forte
desiderio dei valentanesi di possedere una reliquia di S. Agapito, per cui nello stesso
anno la richiesta venne girata a Corneto che “ben volentieri” il 14 febbraio 1730 inviò
un dente e parte di un osso del Santo. Si ha memoria che dal 1730 inviò un dente e
parte di un osso del Santo. Si ha memoria che dal 1730 in Valentano si prese l’usanza
di recitare un Rosario in suffragio del povero bifolco Ciandera, che per suo merito
dotò Valentano di una reliquia tanto desiderata.
Convento dei Francescani pericolante.
Ma le vicende avventurose non si arrestano più!
Nella notte del 16 agosto 1786 cadde un fulmine sulla Chiesa di S. Francesco che
“dalla volta reale” penetrò nella Cappella dell’altare maggiore ed entrò nell’armadio
ove venivano conservate le Sante Reliquie, distruggendo cristalli, cassette ed urne,
svanendo poi attraverso il campanile, senza arrecare ulteriori danni. Parte delle
reliquie del nostro Santo si salvarono perché erano esposte nella Cappella di S.
Gerolamo, ove si stava effettuando un triduo per la prossima festività, con
esposizione del busto d’argento.
Quell’anno la processione non fu effettuata per lo stato pietoso nel quale le urne
erano state ridotte.
Nell’anno 1788 il Vescovo Garampi volle rendersi conto dello stato di conservazione
delle reliquie. Alla presenza di P. Ladislao da Viterbo si aprirono le cassette e con
l’occasione si prelevò una piccola reliquia che venne donata alla Famiglia Marchetti,
ancora di Palestrina. Si indisse poi una sottoscrizione per provvedere ai lavori di
riparazione del campanile lavori che vennero ultimati nel 1789. I 26 scudi raccolti per
il rifacimento e chiodatura delle urne, visto “il rincaro dei prezzi”, si utilizzarono per
una festa e processione, con l’intervento del Vescovo Maury, che però accusò la
Comunità di inutili sperperi.
Nel 1912 Papa Benedetto XV contribuì alla rifusione di due campane. Alla maggiore
venne dato il nome di S. Francesco e alla minore quello di S. Agapito.
L’ultimo tentativo dei prenestini di tornare in possesso della testa del Santo si è
verificato intorno al 1930, al tempo del Cardinale Salotti di Montefiascone. Quando
l’urna fu aperta, si trovò soltanto un piccolo osso del cranio, essendosi ormai tutti i
resti “sbriciolati”. Probabilmente i prenestini da allora - speriamo - avranno
rinunciato a tornare in possesso delle ultime reliquie di S. Agapito.
Ma il culto del Santo in Corneto rimase radicato per tutto il 1800, e si ha memoria
della solenne processione ad esso dedicata. Si svolgeva il 18 agosto di ogni anno. Era
preceduta, la sera della vigilia, dalla recita dei Vespri solenni nella Chiesa di S.
Francesco, ove intervenivano il Magistrato e i maggiorenti della città. Essi venivano
incensati e potevano lucrare l’indulgenza plenaria concessa da Giulio II nel 1503.
Contemporaneamente nella Chiesa di S. Pancrazio veniva esposta la reliquia del
braccio. In questa chiesa si trovavano riuniti il Capitolo cornetano, il clero secolare e
quello regolare.
La processione del 18 agosto partiva da S. Francesco ed era preceduta da un terziario
francescano e due chierici. Seguivano “i signori della festa” - quello nuovo e quello
vecchio”, con candele in mano. Venivano due sacerdoti con la cassetta e il busto di S.
Agapito.
Ad un segnale convenuto partiva dalla Chiesa di S. Pancrazio la processione recante il
braccio del Santo. Esso era preceduto dai trombettieri comunali, dai Frati Minori
Conventuali, dai Serviti, dagli Agostiniani con croce. Seguiva la croce capitolare e
l’intero Capitolo. Venivano i patrizi che con le loro candele accese contornavano la
reliquia. Chiudeva la sfilata il Magistrato, scortato dai suoi valletti.
I due tronconi si univano presso l’odierno incrocio di Corso Vittorio Emanuele e Via
Garibaldi. Suono di campane, sparo di mortaretti.
La prima sosta avveniva presso la Chiesa di Santa Croce, ove i Fatebenefratelli
allestivano un altare splendente di candele. Si passava poi alle chiese di S. Lucia e di
San Marco per poi dividersi e tornare ai luoghi di partenza.
Il giorno dopo, alla presenza del Magistrato, si ammetteva la cittadinanza al bacio del
busto, tra suoni di tromba e tripudio popolare. Le spese venivano sostenute
dall’Università degli Ortolani e da quella dei Calzolai.
Queste sono le vicende del Santo Agapito da Palestrina, di questo Santo sconosciuto a
Corneto, nonostante che ne sia il Patrono. Non è stato facile destreggiarsi tra
leggenda e storia, ma l’avventura era degna di essere raccontata: una vicenda che lo
ha visto viaggiare più da morto che da vivo; un corpo partito per intero e tornato in
patria solo a piccoli resti. Un Santo venerato e con un culto diffuso, senza esagerare,
in tutta l’Europa.
Tralascio di enumerare tutte le città, chiese, ordini religiosi che vantano il possesso
dei resti del Santo fanciullo. Egli, proprio per il supplizio dei carboni ardenti cui fu
sottoposto era considerato il protettore di coloro che soffrivano di emicrania. Visti i
tempi odierni, nei quali il mal di testa è male comune a tantissimi uomini e donne, si
potrebbe riscoprire il Santo e ricorrere alla sua virtù traumaturgica, considerando il
Suo lungo periodo di inoperosità.
Ora finalmente i resti mortali di Agapito riposano sotto la predella dell’altare
maggiore di S. Francesco, ove sono stati traslati, allorché nel 1961 è stato eretto il
nuovo altare.
Speriamo che finalmente i suoi resti possano trovare quel riposo dovuto a chi per
giungere a Corneto da lontano ha dovuto sostenere tante traversie.
Mario Corteselli
LE MOLE DEL MIGNONE
Sono stato con Silvio De Pietri a ritrovare ed a rintracciare le mole del Mignone: il
vecchio Silvio fu l’ultimo mugnaio a lavorare alle Mole, che furono definitivamente
chiuse nel 1916 quando lui aveva 16 anni.
Del vecchio mulino si vedono distintamente ancora le due macine, le tracce del livello
raggiunto dalle piene del fiume, l’ingresso delle tubine, le stanze dove abitavano i
lavoranti e dove lui teneva la contabilità del grano che entrava e della farina che
usciva. Ed esiste ancora il vecchio ponte a più arcate che attraversava il fiume.
Fin dai tempi più remoti esistevano piccoli mulini che appena soddisfacevano le
esigenze dei proprietari ed alle mole pertanto affluivano gli abitanti di Civitavecchia,
Tolfa, Allumiere e Monteromano, da tutte quelle località insomma, il cui territorio
non possedeva che piccoli torrenti e non corsi d’acqua sui quali costruire mulini che
garantissero un lavoro continuato delle macine anche in tempo di siccità.
Tutti i paesi sopracitati, ed altri ancora, fino alla seconda metà del 1500 erano stati
costretti a macinare i loro grani nelle maestose mole a sei macine sul fiume Marta,
appartenenti alla Comunità di Corneto; ma la strada era lunga ed anche pericolosa,
poiché i contadini il più delle volte erano costretti a trasportare i loro grani
servendosi delle barche, data l’inesistenza di ponti abbastanza solidi sul fiume
Mignone.
Già nel 1471 si era sentita la necessità della costruzione di nuovi mulini, data
l’indisponibilità, per restauri, delle Mole del Marta: Guittutio Vitelleschi, a
quell’epoca, si offrì di fabbricare a sue spese, un mulino sul Melletra, affluente del
Mignone, con l’intesa che “rassettati poi i molini pubblici (sul Marta) qua non si
possa più macinare da alcuno” (1).
La Comunità di Corneto, forse temendo di perdere l’esclusiva della molitura del grano
che esercitava in Corneto e nel territorio limitrofo, qualora i nuovi mulini
continuassero ad essere funzionanti anche dopo la riparazione delle sue mole, negò il
permesso.
Quasi cento anni dopo si fece avanti un cittadino di Civitavecchia, che, con l’appoggio
del potentissimo cardinale Guido Ascanio Sforza, cercò di forzare la mano alla
Comunità cornetana: il 9.1.1560 infatti, Guido Fulci, bolognese, in qualità di agente e
procuratore del reverendissimo Guido Ascanio Sforza, cardinale diacono di Santa
Fiora, e amministratore delle chiese di Corneto e Montefiascone, cede in enfiteusi
perpetua al capitano Ettore Blancardo, civitavecchiese, un rubbio di terreno posto
nella tenuta di Cencelle, vicino al fiume Mignone, di pertinenza delle suddette chiese,
per la costruzione di un mulino a grano da edificarsi entro il mese di settembre 1561.
L’affitto è stabilito in scudi 18 annui da pagarsi nel giorno della Pasqua di
Resurrezione.
I patti furono i seguenti: né il cardinale né i suoi successori potranno costruire nella
tenuta di Cencelle un altro molino per uso degli abitanti di Civitavecchia e del suo
porto e neanche concedere licenza ad altri di costruire molini nella stessa tenuta; in
caso contrario il cardinale e i suoi successori saranno tenuti al risarcimento dei danni
e, durante tutto il tempo della controversia, il Capitano non sarà tenuto a pagare
alcun censo o canone. Qualora d’altro canto, il Blancardo o i suoi eredi non paghino il
canone pattuito per un biennio, decadranno dal diritto di enfiteusi e il diretto
dominio del fondo passerà nuovamente al Cardinale o ai suoi successori” (2).
La prevedibile reazione cornetana non si fece attendere: di li a qualche mese, il 6
Maggio 1560, Fabrizio, guardiano comunale, avvertì la Comunità che i famigliari del
Capitano Blancardo “asportano sassi, con bestie, dal territorio cornetano a Cencelle,
per la costruzione di un mulino” (3).
Il Consiglio Generale di Corneto si riunì subito e decise, nella seduta del 12 maggio,
1560, di inviare a Roma un messo per informare i procuratori del Comune, Giacomo
Vipereschi ed Orazio Albizini, circa l’operato del Capitano Ettore ed ottenere un
parere legale sulla faccenda (4).
Il 19 Maggio 1560 il Consiglio Generale decise di mandare un ambasciatore a Roma, a
conferire col Cardinale Camerlengo, onde ottenere di poter procedere contro il
Capitano Blancardo, specificando che “questo non si fa per contro alla mente di Lei,
ma solo per la conservazione delle nostre ragioni e delle poche nostre entrate” (5).
Il Papa in persona, Pio IV, prese in mano la faccenda e con Motu Proprio che
ratificava, in ultima analisi, l’atto di cessione in enfiteusi a favore del Capitano
Blancardo, concesse di edificare un molino sul Mignone, nel territorio di Cencelle,
spettante a Corneto, per il servizio di Civitavecchia e suo porto (6). Forte di questo, il
nostro Capitano continuò la costruzione del mulino.
Il Comune di Corneto tentò allora di procacciarsi con negoziato ciò che non aveva
potuto ottenere con la forza: o l’uso delle mole del Mignone, o la diretta proprietà.
Ai primi di novembre inviò, infatti, Scipione Vipereschi dal Cardinale Legato
offrendosi di pagare il medesimo censo che pagava il Blancardo per l’affitto del
terreno,
impegnandosi,
altresì,
a
risarcire
il
Capitano
dei
danni:
contemporaneamente incaricò un architetto di recarsi sul posto per vedere se si
poteva impedire la costruzione del mulino e, nel caso”, di fabbricare dal canto nostro”
(7).
Ma tutto rimase lettera morta ed allora il 4 Maggio 1561 il Consiglio decise di inviare
una inibizione di ulteriore costruzione al Capitano Blancardo che, è bene ricordarlo,
operava sul territorio cornetano, come ci mostra la pianta catastale che riportiamo
(8).
In data 6 Maggio 1561 si diede finalmente mandato al Procuratore del Comune di
Roma di procedere, per vie legali, contro il Capitano Ettore Blancardo e la citazione in
giudizio avvenne in data 2 Maggio.
Il Capitano Blancardo nominò suo procuratore Benedetto Bona da Cortona.
In attesa della discussione della causa il Capitano, forte dell’atto di enfiteusi del
terreno e, soprattutto, del motu proprio di Pio V, preseguiva i lavori di costruzione
che, come si ricorderà, dovevano essere portati a termine entro il mese di settembre,
pena la decadenza del diritto.
La reazione dei cornetani, direttamente minacciati nelle loro entrate divenne, a
questo punto, violenta: è del 22 Luglio 1561 una lettera con la quale la Comunità di
Civitavecchia informa quella di Corneto del fatto che il Capitano Blancardo ha fatto
ricorso ad essa, lamentandosi che “alcuni uomini di Corneto.... con minacce hanno
costretto i lavoranti ad abbandonare i lavori del mulino”. I cornetani rispondono,
molto laconicamente, che “sebbene si sia un po' esagerato sulla portata del fatto, non
di meno credono di haverlo fatto a ragione” (10).
Finalmente il 25 Luglio 1561, la Comunità informa messer Laudizio Ziti, ambasciatore
a Roma, dell’arrivo di Emilio Leli con il procuratore nella persona di Giacomo
Vipereschi, relativo al giudizio intentato dal Comune contro il Capitano Blancardo.
E’ da presumere che la controversia fu sfavorevole al Comune di Corneto in quanto
non ci sono dubbi circa il fatto che il Capitano portò a termine la sua Lega (mulino):
lo si deduce dal catasto rustico di Corneto che nel 1566 riporta quanto segue: in
contrada Montericcio “la Magnifica Comunità di Corneto (possiede) some tre e stara
quattro di poppe; confina verso Cencelle, il Mignone, dove era la Lega del Capitano
Ettore” (11).
Ma da quanto appena detto si deduce però, che se è vero che il mulino sul Mignone fu
costruito, è pur vero che esso ebbe vita breve, forse perché il Comune di Corneto era
riuscito alla fine, non si sa come, e far si che le nuove mole venissero disertate.
Nell’anno 1571 la Comunità emanò uno statuto, col quale proibì ai cittadini ed
abitanti nel territorio di Corneto, di macinare in altri mulini che non fossero quelli
comunali sul Marta, sotto pena della perdita dei grani, intendendo con ciò garantire
ulteriormente il proprio diritto di proprietà privata, nonché tutelarsi contro altri
nuovi tentativi tendenti a ripetere l’esperienza dello sfortunato Capitano.
E non aveva torto il lungimirante Comune di Corneto! Infatti, pochi anni dopo e
precisamente il 1 Luglio 1579, Papa Gregorio XIII con motu proprio, concesse a
Latino Orsini il diritto di fabbricare un mulino sul Mignone che dovesse servire per
gli abitanti del Comune di Civitavecchia e delle galere pontificie (13).
Nello stesso periodo di tempo vennero scoperte le miniere di allume sui monti della
Tolfa e, poiché si formò una comunità di operai, con le loro famiglie, nella zona dove
ancora attualmente sorge la chiesa di S. Maria della Farnesiana, si rese necessaria la
costruzione, oltre che della chiesa di S. Severella, anche di una piccola mola per la
comodità sia dei lavoranti che dei comuni di Tolfa e Allumiere.
Ma, per tornare alle mole degli Orsini, le traversie non erano ancora finite: i molini
vennero venduti, con istrumento datato 3 Marzo 1598, a Mario Fani (14). Tutto andò
bene fino alla metà del 1600: ad un certo punto Francesco Fani ed i fratelli, eredi di
Mario Fani, cominciarono ad allettare i cittadini del circondario, offrendo prezzi più
bassi per il lavoro di molitura del grano. Non solo: cominciarono anche a vendere il
pane, a prezzo competitivo col forno comunale di Corneto, nelle osterie di loro
proprietà.
Molti, forse troppi cittadini cornetani ed abitanti nei paesi limitrofi preferirono
macinare al Mignone: inevitabilmente il Comune di Corneto, sentendosi ancora una
volta minacciato nei suoi diritti, e, soprattutto, nelle sue entrate, dovette presentare,
il 18 Dicembre 1651, una citazione in giudizio nei confronti di Francesco Fani “coram
Aloysio Homodeo”, giudice e chierico della Reverendissima Camera Apostolica.
La Comunità ottenne l’inibizione contro la famiglia Fani a non essere molestata nei
suoi diritti (15).
I Fani presentarono allora, una istanza per la revoca di tale inibizione, invocando il
diritto dei cittadini a macinare i loro grani dove più a loro piacesse (16). La causa,
rimessa da principio al Cardinale Sacchetto per la concordia, venne, dopo
innumerevoli rinvii, definita nel 1654, “coram Pallavicino”, a favore dei signori Fani.
Probabilmente la famiglia Fani non versava in buone condizioni economiche e per
questo aveva cercato di accattivarsi la clientela praticando prezzi più bassi. Che le
finanze dei conti Fani fossero in dissesto ci viene confermato da un atto del 2 Maggio
1731 col quale i tanto contrastati molini venivano dati in affitto, dal signor Giuseppe
Serafino Requitani. Economo deputato dei creditori dell’eredità giacente del fu Fabio
Fani, ad Antonio Maria Miniati, il quale aveva non solo l’appalto del forno di
Civitavecchia, ma l’anno prima, 1730, aveva ottenuto anche quello del forno di
Corneto, obbligandosi a “molare nel mulino del Comune” sul Marta, in virtù della
clausola con la quale, nel 1571, veniva affittato il forno comunale: la faccenda è tanto
assurda che i creditori dei Fani fanno istanza per la recissione del contratto (17).
Successivamente, nel 1783, troviamo come proprietari delle mole del Mignone, gli
eredi del fu conte Nicola Soderini e come affittuario Alessandro Chiocca, cornetano.
Da questa data in poi non si hanno altre notizie di successivi passaggi di proprietà
delle Mole, né sulle loro vicende.
Silvio Di Pietri non ricorda quando la sua famiglia venne in possesso dei mulini, ma si
vanta di essere nipote di mugnai, a loro volta mugnai di antica data e sempre sul
Mignone.
La mia mattinata col vecchio Silvio, densa di storia e di ricordi, è terminata ed io
prendo sotto braccio l’amico che, claudicando, mi ripete ancora della diga sul fiume,
del ponte a più arcate, dei danni che facevano le piene, ecc. ecc.... e ritorniamo alla
macchina.
Ma un pensiero mi balena: chissà quante legnate si saranno dati i cornetani ed i
civitavecchiesi in quel lontano 22 luglio 1561!
Mi viene da ridere: sono storie di fiume.
Antonio Pardi
MOTU PROPRIO DI GREGORIO
XIII Copia dell’anno 1732
Sebbene nella nostra terra di Civitavecchia e nel suo territorio ci siano alcuni mulini
ad acqua, tuttavia, quelli posti sui torrenti e che funzionano con le acque piovane
possono entrare in funzione solo d’inverno e quando piove, cosicché soprattutto in
estate e negli altri periodi di siccità la predetta terra, non avendo la comodità di
macinare, soffre molto per questo e i suoi abitanti, cittadini della città e del territorio
cornetano, per macinare sono costretti ad andare a circa dieci miglia di distanza con
grande spesa di trasporto, grande perdita di tempo e grande fatica e dovendo per
forza attraversare il fiume Mignone sul ponte di Carente, talvolta anche con grave
pericolo di essere travolti, per cui non solo gli stessi abitanti e cittadini ma anche le
triremi della nostra Camera Apostolica che lì stanno e le navi che approdano al porto
di Civitavecchia per portare le merci anche alla nostra alma Urbe e lì si fermano
subiscono un grave danno e svantaggio, perché i fornai sono costretti ad alzare il
prezzo delle gallette e del pane, in relazione alle spese che sostengono per la
macinazione.
Ci è stato riferito che si può costruire e fabbricare un mulino sul detto fiume Mignone
nel predetto territorio di Corneto, ma a mezza strada tra Civitavecchia e la Città di
Corneto, vicino e al di là del Ponte rotto che esiste sullo stesso fiume, come anche nel
passato sul medesimo fiume in un altro luogo per concessione e indulto di Papa Pio
IV, nostro predecessore, o della Camera apostolica fu iniziata la costruzione di un
mulino, ma, come si dice, non fu condotta a termine per lo scarso impegno e le poche
forze di colui o di coloro che avevano intrapreso l’opera.
Noi a tanti e così gravi inconvenienti predetti vogliamo ovviare per il futuro e
provvedere con un opportuno rimedio giuridico e aiutare con speciali favori e
concessioni il diletto figlio latino Urfino Domicello Romano, che, seguendo le orme
insigni dei suoi antenati milita al servizio della nostra Chiesa con il grado, l’onore e
l’ufficio che ricopre di Luogotenente generale delle armi e della milizia della stessa
Chiesa e per il quale molto confidiamo in Dio e al medesimo Latino e ai suoi
successori ed eredi e agli aventi diritto nel tempo da lui o da loro anche nel futuro
concediamo che in quel sopra nominato fiume Mignone in un luogo pubblico presso il
detto Ponte possa essere costruito un mulino con qualunque corpo centrale e
appendici e modi e forme gli piaccia e anche qualunque altro edificio per qualunque
uso gli sembrerà opportuno e gli piacerà costruire e fabbricare e tutte queste
costruzioni mantenerle e usarle apertamente e pubblicamente o farle costruire e
fabbricare e mantenere e usare e percepirne tutto il guadagno che di lì proverrà e che
se ne potrà ricavare e adoperarle per proprio uso e utilità concediamo che per l’uso e
la costruzione e la manutenzione di questo mulino e di tutti gli altri edifici a lui
graditi possa servirsi, anche, per qualunque uso, delle colonne e dei pilastri e delle
basi e delle strutture del detto Ponte e possa in quelle e sopra quelle costruire o
appoggiare (sopraelevare?) i predetti edifici o qualunque altro edificio gli piaccia e
anche (portare) l’acqua del predetto fiume per le rive e i luoghi ameni al mulino e gli
altri edifici predetti; dovunque i cittadini o gli abitanti e gli abitatori della medesima
città di Corneto possono scavare e portare via la Puteolana, altrimenti chiamata
Porzolana, nel territorio di Corneto, e anche possono tagliare legna nei boschi di Tolfa
e nei possessi e tenute della Camera apostolica e di Civitavecchia a lor piacimento, e
anche nei possessi della stessa città e nelle sue tenute possono scavare ed estrarre
pietre di qualunque genere per fabbricare (da costruzione). E per portare tali
materiali ed altri di qualunque genere necessari per fabbricare questo mulino e gli
altri edifici predetti sul luogo del mulino e degli edifici vicini concediamo che possano
liberamente e lecitamente, con pieno diritto passare attraverso qualunque luogo, sia
pubblico che privato, tanto con i carri che con i giumenti o in qualsiasi altro modo,
pagando i danni ai privati, una volta fattane la stima, i suoi predetti e gli agenti di lui
o di loro possano anche fare ciò che a tutti, ai singoli, a qualunque altra persona, di
ogni grado, stato, condizione e dignità, eccetto naturalmente a Latino, ai suoi predetti
o a chi ne ha licenza da lui, è assolutamente e in perpetuo proibito e non lecito. Sotto
pena, in virtù della Santa obbedienza e del nostro sdegno, di mille ducati d’oro della
Camera da pagare per una metà alla Camera apostolica e per l’altra metà a Latino e ai
suoi predetti senza possibilità di condono e sotto pena di altre pene più gravi a nostro
arbitrio e ogni volta che si contravverrà (a queste disposizioni) e per ognuno dei
contravventori (incurren?) proibiamo che per 100 canne tanto al di qua che al di là
del predetto Ponte si costruisca qualche edificio per macinare o per fare pane e
qualsiasi altra cosa o allo stesso Latino e ai suoi eredi e successori e a chi avrà licenza
da lui e da loro in questo spazio di 100 canne dall’uno e dall’altro lato del ponte, come
in qualunque altra parte del fiume e delle sue rive permettiamo di costruire e gestire
forni per costruire gli edifici predetti e qualunque di essi permettiamo di usare
liberamente liberamente le colonne, i pilastri, le basi del predetto ponte, se lo
vorranno, e vogliamo che, a riguardo di tutte le singole cose sopra dette e sotto scritte
non debbano o possano essere molestati e impediti nell’uso e godimento di queste da
nessuno, di qualsiasi autorità rivestito. Oltre a ciò concediamo che Latino stesso
raccolga un qualche frutto delle sue fatiche in questo lavoro e che lo stesso Latino e i
suoi eredi e successori e aventi diritto, o che lo avranno, da lui o da loro, da ora ed in
perpetuo possano godere ed usare tutti i privilegi, facoltà, libertà, immunità,
esenzioni, onori, vantaggi, concessioni, indulti, e tutte le altre grazie di cui godono i
cittadini di Civitavecchia che abitano in essa secondo diritto, uso, consuetudine,
privilegi e concessione e ugualmente ne possano godere in futuro. Concediamo anche
allo stesso Latino e ai suoi eredi e successori, in perpetuo la licenza di prendere acqua
dal fiume, di fare rivi ed argini, di mettere dentro travi, di costruire muri sulle rive del
fiume, di fare rivi ed argini, di mettere dentro travi, di costruire muri sulle rive del
fiume e di fare tutte le altre cose necessarie ed utili, per ora e per il futuro, al mulino e
agli altri edifici da costruire e di passare e di trasportare per le strade e per i sentieri
pubblici per quanto stretti e gli concediamo anche il passaggio e il trasporto e tutte le
altre cose utili alla costruzione e alla gestione del mulino....
Stabiliamo anche dandone mandato ai diletti figli il Camerario, il Tesoriere, il
Depositario, e anche i Governatori della città di Corneto e di Civitavecchia, i Generali
della Camera Apostolica, ai loro luogotenenti, presenti e futuri, alle Comunità, alle
Università e a tutti gli altri a cui spetta, di accettare e osservare e far osservare a tutti
la presente e di curare che sia registrata nei registri della Camera Apostolica e
decidano lettere, mandati e proibizioni anche penali a favore degli stessi nell’uso e
godimento di queste cose.
BIBLIOGRAFIA
N. 1
- MUZIO POLIPORI - Croniche Cornetane, - pag. 263
N. 2
- ARCHIVIO STORICO COMUNALE TARQUININESE (A.S.C.T.): Brevi,
Patenti, Privilegi, 1479, 1483, 1560 - Atti relativi alla compra della pesca sul
Mignone e Carte Sparse 1560/1789.
N. 3
- A.S.C.T. - Reformationes 1559-1564, c.100 v.
N. 4
- A.S.C.T. - Reformationes 1559/1560, cc. 154 e 155 r. e Registro delle Lettere
1558/1564 c. 68 r.
N.5
- A.S.C.T. - Reformationes 1559/1560 c. 158 v.
N.6
- A.S.C.T. - Carte sparse 1560/1789: Motu Proprio di Pio IV (copia).
N.7
- A.S.C.T. - Reformationes 1559/1560, c. 206 r.
N.8
- A.S.C.T. - Carte Sparse 1559*1560, c. 206 r.
N.9
- A.S.C.T. - Registro delle Lettere 1558/1564, c. 100 r. e Carte Sparse
150/1789.
N. 10 - A.S.C.T. - Carte sparse 1560/1789 e Registro delle Lettere 1558/1564 c. 106
v.
N. 11
- A.S.C.T. - Catasto 1566, V. B 12.
N. 12
- A.S.C.T. - Carte sparse 1560/1789.
N. 13
- A.S.C.T. - Carte sparse 1560/1789 e Archivio della S.T.A.S.: Motu Proprio di
Gregorio XIII (integralmente riportato).
N. 14
- A.S.C.T. - Carte Sparse 1560/1789
N. 15
- A.S.C.T. - Carte Sparse 1560/1789
N. 16
- A.S.C.T. - Carte Sparse 1560/1789
N. 17
- A.S.C.T. - Carte Sparse 1560/1789.
Mi sento in dovere di ringraziare la sig.ra Lidia Perotti, dell’archivio storico del nostro
Comune, per la preziosa e fattiva collaborazione.
DIPINTI DEL SEI E SETTECENTO A TARQUINIA
Le schede relative ad opere d’arte della città di Tarquinia sono estratte da un più
ampio studio presentato alla Scuola di Perfezionamento in Storia dell’Arte
dell’Università di Urbino a titolo di dissertazione scritta finale. Mi preme
sottolineare che l’ingente massa di materiali analizzati nel lavoro suddetto, sono
stati riprodotti fotograficamente e schedati dal sottoscritto nel corso di tre
campagne
promosse
congiuntamente
dal
Comune
di
Tarquinia
e
dalla
Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma e del Lazio fin dal 1981-1982.
Questi materiali, che vanno man mano rivelando l’importanza del complesso
artistico accumulatosi nei secoli, vengono presentati come anticipazione alla
consegna da parte della Soprintendenza al Comune di una copia delle singole schede
di catalogo relative alle opere d’arte, ma anche egli oggetti, agli elementi
ornamentali e architettonici, la restituzione delle quali dovrebbe iniziare fin dal
prossimo autunno.
L’Autore
Giannino Tiziani
La Crocefissione con la Vergine, S. Giovannino ed i Santi Crispino e
Crispiniano (qui attribuita a Bartolomeo Cavozzi), olio su tela (261 x 178)
già presso la cattedrale prima del 1642. In deposito presso il monastero
delle Passioniste. Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127691.
Il dipinto, estremamente offuscato per la sporcizia ed il nerofumo sedimentato, è
attualmente depositato presso il Monastero delle Passioniste di Tarquinia.
Il fondo molto scurito non lascia intravedere nessuna figurazione mentre in primo
piano emergono le quattro figure di santi composti in modi strettamente simmetrici
attorno al Crocefisso. La proprietà disegnativa delle figure è notevolissima come
anche il cromatismo intenso, quale il blu metallico del manto della Vergine, il rosso
cupo del manto di S. Giovannino ed il verde smeraldo della sua veste. La figura di S.
Crispino, la prima a sinistra, ha un acceso contrasto di timbri nella tunicella verde e
nella clamide giallo oro. Forti i caratteri tardomanieristi a livello del taglio
compositivo, piramidale, uniti al gusto caravaggesco delle soluzioni cromatiche e
luminose.
La tela è sicuramente quella già posta sull’altare della confraternita dei calzolai
intitolata a S. Crispino, nella cattedrale, tela che aveva esattamente questo soggetto,
come è riportato in un piccolo disegno seppure molto sommario, a matita, riprodotto
dal Marchese 1) , dove la cappella è riconoscibile per lo stemma dell’arte sovrapposto
all’arcone. Questa, già costruita nel 1580, nel 1629 risulta posta alla sinistra dell’altare
maggiore 2) . Per le tracce evidenti di nerofumo, oltre che per i caratteri stilistici, il
dipinto va posto ad una data anteriore all’incendio subito dall’edificio nel 1642. La
cappella dell’arte dei calzolai che dopo la ricostruzione appare spostata sul lato destro
della chiesa (1655), scompare nei restauri del 1879. L’artista autore della tela non è di
facile collocazione (anche per le pessime condizioni di leggibilità dell’opera) nel
complesso panorama dei due primi decenni del Seicento. Tra i caravaggeschi l’opera
ritrova analogie con quella di Bartolomeo Cavarozzi (Viterbo 1590- Roma 1625) ad
una data forse prossima alla Visitazione eseguita dall’artista per il Palazzo Comunale
di Viterbo e dotata con certezza al 1622. La tela viterbese documenta il momento di
massimo accostamento del pittore ai modi del Caravaggio nell’intensa resa veristica
delle figure, rispetto ai quali l’opera tarquiniese dimostra caratteri stilistici molto
vicini, sia nel modo di illuminare le figure con una luce leggermente direzionata da
sinistra, che anche nel modo di panneggiare. Si confronti il manto di S. Giovanni con
quello di S. Elisabetta del dipinto viterbese, ad ampie pieghe stazzonate, oltre alla
composizione semplificata, ridotta a poche grandi figure primarie disposte a piramide
delle prime opere quale la S. Orsola e le Vergini Compagne, del 1608 (Roma S.
Marco), dipinto al quale quello della cattedrale di Tarquinia si avvicina ancora per
una certa durezza dei volti levigati, dove la luce disegna profili netti e
1)
2)
L. Marchese, Tarquinia nel Medioevo, Tarquinia Civitavecchia 1974, fig. p. 27.
M. Corteselli, A. Pardi, Corneto com’era, Tarquinia 1983, pp. 87-88.
contemporaneamente bamboleggianti, alla maniera del Roncalli, primo maestro del
Cavarozzi. Di questa sua prima maniera la Crocefissione conserva (perché di lui
sembra potersi trattare) l’allungamento delle figure, la grafia delle pieghe a “gorghi” paragonabili ad esempio quell’elemento ad “U” fatto dal manto sulla coscia della
Vergine e lo stesso motivo nella medesima zona anatomica della S. Orsola - oltre
all’appiombo delle due figure femminili e alla resa ed alla gestualità delle mani. Si
confrontino in particolare quelle della Vergine con quelle della compagna di destra di
S. Isidoro, vicinissime tra loro, come anche il gesto di preghiera della compagna alle
spalle di S. Orsola con quello di S. Crispino.
La Crocefissione, seppur ormai più spostata sul versante caravaggesco documenta un
lessico ancora in mutamento, né del resto un risultato altissimo come quello della
Visitazione di Viterbo può essere colto al primo tentativo, nè deve essere stata
sufficiente all’artista per raggiungerlo l’esecuzione dell’unica altra opera nota della
sua nuova maniera, il S. Isidoro Agricola (Viterbo, S. Angelo in Spatha).
La Crocefissione, a nostro parere va posta tra l’esecuzione del S. Isidoro e quella della
Visitazione, ritrovandosi in essa elementi riscontrabili in entrambe queste opere. Ad
esempio la tela con S. Isidoro ha la stessa intensa qualità luministica intuibile
nell’opera tarquiniese ed anche i rapporti proporzionali tra le due figure di S.
Crispino e di S. Isidoro, al di là di analogie anatomiche quale il collo muscoloso ma
snello, il viso barbato, sono rispettate. Un altro elemento accomuna le due tele: le
aureole rese prospetticamente come un sottile filamento metallico, che poi
scompaiono nei dipinti successivi del Cavarozzi. Tra il 1608, data del dipinto di S.
Orsola e quella del 1622, data della Visitazione di Viterbo, la Crocefissione si pone più
vicina alla prima opera, per i palesi ricordi compositivi che ne conserva. Papa Ciriaco
raffigurato nella sinistra del dipinto romano, anticipa nello scorcio della testa volta
verso l’alto a sinistra (dalle orbite profonde come quelle del S. Crispiniano) quella
della figura identicamente stante, seppure tanto più “vera” di S. Crispino ai piedi del
quale gli attribuiti quali la palma del martirio, la subbia ed il trincetto, acquistano
quasi il senso di una minuscola natura morta dall’intenso verismo. Questas
componente è poi sviluppata negli oggetti sul tavolo del S. Girolamo nella Galleria
Palatina di Firenze, data anche ad Orazio Gentileschi, e negli attributi di S. Caterina
nel dipinto con La Sacra Famiglia (già a Firenze Collezione Privata), verismo notato
da Italo Faldi: “un altro tratto singolare, anche se marginale del Cavarozzi....
l’accanita e minuziosa resa veristica degli oggetti, riprodotti con una tale evidenza
visiva da sfiorare gli inganni ottici di un Angelo Caroselli 3) .
S. Teresa d’Avila caccia il demonio in vesti angeliche, prima metà del
secolo XVII (qui attribuito a Vincenzo Basti o Bastici), olio su tela, (159,5
x 115), Museo Nazionale Etrusco (deposito del Comune di Tarquinia).
Il dipinto, pulito e reintelato recentemente, era completamente illeggibile perfino nel
soggetto iconografico. Dopo l’intervento dell’Istituto di Restauro della Provincia di
Viterbo, seppure molto compromesso per la caduta della pellicola pittorica, ha
rivelato un buon livello artistico nella notevole figura del demone dal complesso e
tormentato panneggio a pieghe schiacciate, messo in fuga dalla santa mediante il
crocefisso.
In particolare il forte taglio obliquo della composizione ed i netti contrasti di luce e di
ombra rivelano nell’artista una conoscenza da vicino della pittura, se non
caravaggesca, almeno di quella che più direttamente da essa discende. Rivelatrice è
l’ombra netta che stacca fortemente il collo dalla spalla nella figura giovanile. In
questo artista va riconosciuto un minore, seppure, forse, educatosi su esempi
caravaggeschi romani dell’ultimo periodo.
La tela è probabilmente da attribuire a quello stesso Vincenzo Basti (“Vincentius
Bastius de Vigevano”) che si firma nel dipinto con S. Michele Arcangelo, presso la
Chiesa di S. Martino. Chissà perché Lorenzo Balduini che riproduce quest’ultima
opera senza alcun commento ma riportando l’iscrizione con il nome del pittore, la
dice di anonimo, forse confuso da quell’invenit che stà ovviamente per inventò (nel
senso peraltro di formulare, e quindi “per dipinse”, e non “per rinvenne”) 1). . La tela
con S. Teresa è accomunata al S. Michele Arcangelo dal medesimo taglio
organizzativo della figura principale e dalla saldezza volumetrica, dalla sommaria,
geometrizzante rotondità dei volti della santa e dell’Arcangelo. Anche i panneggi, per
quel poco che se ne scorgono spuntare al di sotto della lorica sono i medesimi, leggieri
3)
I Faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma 1970, p. 281, fig. 225. I due santi Crispino e Crispiniano, a lungo
venerati a Corneto come protettori della confraternita dei Calzolai, hanno una storia assai incerta e sicuramente
interpolata è la parte che li riguarda nella passione dei santi Giovanni e Paolo, del IX secolo, favolosa e frutto di
fantasia. I due sarebbero stati martirizzati nelle Gallie, a Soisson, nel 287, dove nel VI secolo fu costruita una grande
chiesa a loro dedicata (cfr. G. Moroni,Dizionario di Erudizione storico ecclesiastica, vol. XVIII, Venezia 1843, p. 195,
s.v. “Crispiniano”).
1).
L. BALDUINI, Monaldo Trofi “civis cornetanus”, Tarquinia, 1985, fig. 89, p. 202.
e schiacciati. Il presunto anonimo pittore, che nel quadro di S. Martino datato 1623
appare ancora legato ad un generico manierismo romano, subisce profondamente la
lezione del nuovo naturalismo caravaggesco. L’artista, probabilmente lombardo (“de
Viglievano”) è, a mio parere, quel Vincenzo Bastici che lavora fin dal 1598 nel Palazzo
Comunale e che ancora nel 1601 era in vertenza con il comune per il pagamento degli
stessi lavori 2) .
Pier Francesco Mola (1612-1666), La Visione di S. Brigida, databile al
1647-1650, olio su tela (243 x 141), Chiesa di S. Francesco, cappella
Cardini, poi Falzacappa. Negativo Soprint. B.A.S. Roma n. 127674.
Idem, Santa Brigida in Estasi, neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127665.
La pala d’altare, che raffigura il miracolo del crocefisso di S. Paolo Fuori le Mura che
parla alla santa, deve essere riferito alla committenza della prima delle due famiglie
che ebbero il patronato della cappella 1) . Il dipinto si adatta infatti perfettamente alla
sua cornice di stucco seicentesca, e corrisponde cronologicamente alla data di
esecuzione della cappella e del monumento funebre ad Arcangelo Cardini, opera
inedita di scuola algardiana vicina ai modi del Bolgi e ancor più a quelli del
Giorgetti 2) . Nell’attico dell’altare si trova un quadretto con la santa in estasi, le mani
sul seno, lo sguardo volto al cielo. Opera certa dello stesso artista del dipinto
maggiore, animata da un intenso luminismo in cui più che la lezione di Caravaggio e
del Guercino si scorge l’interpretazione della luce franta, quasi riflessa dal soggetto,
memore di Giovanni Serodine, conterraneo del Mola ed artista di poco più anziano
che ebbe influenza su di lui 3) .
L’attribuzione dell’opera al Mola è tradizionale, ma mai verificata; il dipinto è infatti
completamente ignoto alla critica. L’unica fonte è lo storico francescano Casimiro da
Roma (1742) che ne dà una laconica notizia: “Nella Cappella di S. Brigida ornata di
stucchi, oggi spettante ai signori Falzacappa, vedesi una tela in cui dal Mola è stata
2)
G. TIZIANI, Ricerche sul Palazzo Comunale e sugli affreschi della sala del consiglio, in: Bollettino Soc.
tarquiniense di Arte e Storia, 1984, p. 82.
1)
Localmente la tela è stata riesumata e confermata al Mola dallo scrivente, restituendo contemporaneamente la
cappella ai Cardini (G. TIZIANI, Un dipinto del Mola e due minori “barocchi” inediti, in: Pro Tarquinia, IX, 7 luglio
1985, p. 3; idem, Famiglie e stemmi cornetani dalla schedatura dei beni artistici di Tarquinia, in: Bollettino della Soc.
Tarquiniense di Arte e Storia, 1985, Tarquinia 1986, pp. 202-203.
2)
Si ringrazia la Sig.ra Antonia Nava Cellini per la sua cortese perizia, espressa verbalmente, sull’opera scultorea.
3)
S. RUDOLPH, Contributo per Pier Francesco Mola, in: Arte illustrata, nn. 15-16, 1967, p. 19.
colorita la detta santa orante innanzi a un crocefisso” 4) . Effettivamente quest’opera
può essere attribuita all’artista ticinese in base all’analisi stilistica e può essere
collocata cronologicamente al suo secondo periodo romano (1647-1666), quando le
sue opere si caratterizzarono per il tono basso, ma anche coloristicamente intenso,
per il suo plasticismo conciliato con il cromatismo veneto e con una monumentalità
nella resa della figura in cui agisce la lezione di Nicolas Poussin, tutto ciò interpretato
sulla base di una sensibilità “romantica” che ne fa uno degli artisti più suggestivi del
Seicento romano. Al Mola non sfuggì peraltro l’opera dei maggiori artisti
contemporanei operanti a Roma, soprattutto Caravaggio, Mattia Preti e Pietro da
Cortona. Nella S. Brigida dell’altare Cardini peraltro l’illuminazione è più vicina ai
modi del Guercino e del Poussin che del Caravaggio. Proprio al potente classicismo di
Poussin rimanda infatti in questa tela il saldo modellato del crocefisso e la figura
semplificata, appassionata ma contenuta, della santa, tela priva di quegli aspetti
ziganeschi rilevati dalla Rudolph 5) in tante sue opere.
Il colore dominante è dato dai bruni terra e dai toni plumbei, analogo a quelle tinte
“cupe, tra il verde marcio e piombo, caratteristiche del presepe e d’altre opere che si
datano al primo decennio dell’attività romana” 6) dopo il suo ritorno nel 1647.
Un elemento raro nella produzione del Mola è la raffigurazione di un interno e
addirittura unica è quella del dipinto nel dipinto, qui un’immagine sacra della
Madonna col Bambino posta sopra l’altare alle spalle della santa. Il pendone sopra
l’immagine sacra è di un viola carico ed intenso che non può non rammentare certi
viola del Caravaggio, come quello che domina la Madonna dei Pellegrini di S.
Agostino a Roma.
La tela per il monastero tarquiniese è in stretta relazione con due opere dell’artista in
cui invece il paesaggio ha una larga parte. Lo stesso “taglio” diagonale, che si
incardina da un lato ad una figura stante everticalizzata da alcuni elementi
architettonici alle spalle, ritorna infatti nella predica di S. Barnaba nella chiesa
romana di S. Carlo al Corso, del 1653, dove l’altare che nel dipinto tarquiniese chiude
sul fondo in orizzontale viene tradotto con una muraglia. La stessa organizzazione
spaziale si ha nel Giuseppe che incontra i fratelli (Roma, Palazzo del Quirinale) del
1657, con il quale la tela in S. Francesco ha i rapporti più calzanti. Ritengo infatti che
4)
CASIMIRO DA ROMA, Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei frati minori della provincia romana, 2ª
ed., Roma 1845, p. 188. L’affermazione dello storico settecentesco è riportata testualmente dal Romanelli (E.
ROMANELLI, S. Francesco di Tarquinia, Roma, 1967, p. 82).
5)
S. RUDOLPH, citi., p. 19.
6)
Idem, p. 21.
il disegno preparatorio per la S. Brigida sia servito come base per la composizione e
per le figure principali dell’affresco romano, seppure rovesciato. La composizione
sulla verticale, tutta spostata di lato ed il taglio orizzontale mediano dalla balaustra,
quello che nell’affresco separa il primo piano dal pittorico paesaggio di esotica
antichità, sono gli stessi della tela di S. Francesco di Tarquinia. Analoga funzione di
secondo piano, (svolta nell’opera tarquiniese dal dipinto della Madonna col Bambino)
nell’affresco romano è assolta dal loggiato che chiude a sinistra, in cui l’elemento
obliquo del pendone è tradotto nella tettoia, secondo consuete modalità compositive
del Mola per piani verticali ed orizzontali.
Altri confronti a sostegno dell’attribuzione al Mola si possono portare tra la figura
della mistica e quella della Vergine nella Fuga in Egitto (Roma, Galleria Pallavicini)
per il cromatismo caldo e basso che si avvicina molto a quello della santa in estasi nel
quadretto dell’attico, la cui stessa bellezza venusta è ben riscontrabile nel tipo della
Madonna raffigurata nel raro soggetto con l’Immagine di S. Domenico portata a
Soriano (Roma, Chiesa di S. Domenico e Sisto). Qualcuno ha ritenuto recentemente,
contro ogni elemento di credibilità, che una tela, da lui detta Madonna di Cibona,
una Madonna col Bambino, che si conserva presso la curia vescovile di Tarquinia,
sarebbe opera dello stesso artista 7) . Di questa affermazione non viene data peraltro
nessuna motivazione, né documentata né critica. L’opera è invece copia ottocentesca,
o addirittura del primo Novecento, di un dipinto dai caratteri tardo quattrocenteschi,
all’Antoniazzo Romano.
Giovan Francesco Romanelli e scuola, l’Angelo Custode, databile alla
metà del sec. XVII olio su tela (193 x 123 - senza gli ingrandimenti-),
Chiesa dell’Addolorata, primo altare sinistro, dal precedente Oratorio
dell’Angelo Custode. Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127795.
La tela, in cattivo stato di conservazione, ha diffuse cadute di colore numerosi ritocchi
ossidati ed estese ridipinture, chiaramente visibili nella zona superiore destra. Il
soggetto, tipicamente controriformista, è esaltato dalla spoglia composizione che si
incentra sulla classica figura alata che indica il cielo al bambino.
7)
L. BALDUINI, Monaldo Trofi “civis cornetanus”, Tarquinia 1985, fig. 101. In quest’opera, nonostante l’assurda
attribuzione al Mola dell’opera suddetta, manca proprio la S. Brigida del convento di S. Francesco. Sull’opera del Mola
v. J. GENTY, Pier Francesco Mola, pittore, Lugano 1979; R. COCKE, Pier Francesco Mola, Oxford, 1972; S.
RUDOLPH, Contributo per Pier Francesco Mola, in Arte Illustrata, nn. 15-16, 1967, pp. 10-25.
Il colore è tenue, accordato sui toni chiari: bianco madreperlaceo con cangianze
gialle, violetti. Il paesaggio retrostante si mantiene anch’esso sui toni argentei ed
azzurrini. L’opera si apparenta assai da vicino alle due tele precedenti qui date al
Romanelli, la S. Lucia della chiesa omonima ed il S. Sebastiano gà nella cattedrale. Il
linguaggio formale è il medesimo: un ampio “classicismo barocco”, quale è quello del
maestro viterbese nel periodo della maturità, che concilia lo stile di Pietro da Cortona
con le sottigliezze cromatico luministiche di Guido Reni. La medesima mano che
intervenne nei volti di S. Sebastiano e di S. Lucia si rivela anche nel volto del
Bambino, dove lo stesso “ductus” si riconosce nelle bocche piccole, nei larghi piani
facciali, nei nasi sottili, nel modo di inclinare le teste e nei panneggi moderatamente
mossi e con pieghe schiacciate.
Particolarmente romanelliano è il volto dell’angelo dal perfetto ovale e dall’elegante
incedere della figura, probabilmente di aiuti, o di restauro, è invece per la maggior
parte la figura del bambino. Piuttosto attenutato dalla caduta del colore e dalle
ridipinture è il fascio di luce dorata che piove dall’alto sulle due figure e che attenua la
freddezza dei toni cromatici.
Il dipinto, ingrandito nella seconda metà del Settecento su tutti e quattro i lati per
adattarlo alla nuova sede, si ispira direttamente ad un’opera di Pietro da Cortona con
lo stesso soggetto, ora alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Palazzo Corsini (inv.
n. 1753). L’impostazione è identicamente di tre quarti e le figure similmente
gradienti.
L’Angelo Custode di Tarquinia ritrova molto da presso, sia stilisticamente che
compositivamente, la tela con il S. Sebastiano, seppure ne rovesci la figura, sia nel
taglio che nel caratteristico modo di panneggiare per pieghe non rigonfie ma
schiacciate. Il dipinto, ingrandito nella seconda metà del Settecento su tutti e quattro
i lati per adattarlo alla nuova sede, si ispira direttamente ad un’opera di Pietro da
Cortona con lo stesso soggetto, ora alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Palazzo
Corsini (inv. n. 1753). L’impostazione è identicamente di tre quarti e le figure
similmente gradienti.
L’Angelo Custode di Tarquinia ritrova molto da presso, sia stilisticamente che
compositivamente, la tela con il S. Sebastiano, seppure ne rovesci la figura, sia nel
taglio che nel caratteristico modo di panneggiare per pieghe non rigonfie ma
schiacciate. Il dipinto, sconosciuto alla critica è stato recentemente dato ad anonimo
del Settecento 1) senza rilevare l’analogia con le due altre tele succitate, gli vengono
anzi accostate altre opere della stessa Chiesa di S. Leonardo, una delle quali di qualità
estremamente scadente e comunque stilisticamente incongrue. La tela del Romanelli
si pone attorno al 1640, data in cui l’oratorio dell’Angelo Custode fu ultimato, come
già affermato in uno scritto precedente in cui davo l’opera al Romanelli e ad un
aiuto 2) .
Da ricerche nell’archivio storico comunale di Tarquinia si è risaliti ai responsabili
degli interventi operati successivamente sul dipinto. Il pittore Lazzaro Nardeschi 3) lo
ritoccava nel 1743 a causa delle macchie prodotte dall’umidità 4) , mentre
l’ampliamento della tela, la pulitura ed il ritocco furono opera di Sebastiano Carelli
“in Viterbo” nel 1789 5) .
Nel suo insieme il dipinto, il disegno del quale fu sicuramente opera del maestro
viterbese, si ritiene che sia opera di bottega tranne che nel volto dell’angelo, che il
Romanelli dovette effettivamente eseguire tutto di sua mano. Ciò per una certa
semplificazione dei panneggi e per una certa minore eleganza, particolarmente nella
figura del bambino. Le condizioni attuali del dipinto non permettono peraltro una
lettura ottimale dell’opera per la quale si auspica un intervento di restauro.
Giovan Francesco Romanelli (Viterbo 1610-1662), S. Sebastiano, 1650 c.
olio su tela (216 x 143), Monastero delle Passioniste, dalla Chiesa
Cattedrale. Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127697.
La tela con il S. Sebastiano può essere assegnata con fondamento al Romanelli in base
all’analisi stilistica 1) . Questa ne fa un’ opera della piena maturità, quando il
cortonismo di fondo della sua cultura ha trovato “un nuovo equilibrio compositivo, di
1)
L. BALDUINI, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia 1983, p. 171 nota 7, p. 172 nota 9.
G. TIZIANI, Inediti: Tre schede per Giovan Francesco Romanelli, in: Pro Tarquinia, IX, n. 9, settembre 1985, p. 3.
3)
Lazzaro Nardeschi dipingeva nel 1761 le iscrizioni sopra gli archi della Chiesa di S. Leonardo (A.S.C., Fondo Serviti,
libro di uscite, marzo 1761, c.n. 6). Precedentemente nel 1734 egli aveva “fatto tutte le iscrizioni nella sala del Palazzo
Magistrale e... ripolito le pitture offuscate dalla polvere” (cfr. G. TIZIANI, Ricerche sul Palazzo Comunale, in:
Bollettino S.T.A.S., 1984, p. 6).
4)
A.S.C., Fondo Serviti, libro delle uscite 1740-1750, maggio giugno 1743, cc. 70, 78.
5)
Ibidem, 1778-1801, c. 17 v.
2)
1)
Il Romanelli, detto Raffaello da Viterbo, o il Raffaellino, fu allievo del Domenichino e di Pietro da Cortona. Artista
di primo piano al tempo di Papa Urbano VIII Barberini (1623-1644) fu protetto da quella famiglia, dalla quale fu
impiegato in varie imprese, tra le quali soprattutto spiccano gli affreschi nella Sala della Contessa Matilde in Vaticano e
i disegni tradotti in arazzi per la corte francese. A Parigi dipinse nel palazzo del cardinale Mazarino (1646-1647) e,
pacate cadenze, di tenere inclinazioni sentimentali, di una ricerca di bellezza
formale, di decoro neoraffaelleschi” 2) . Tipico di questa fase, dopo il distacco
dell’artista dal Cortona, è la chiarezza della tavolozza, la semplicità compositiva e
cromatica. Questa tela, che si conserva in discrete condizioni, raffigura il martire
secondo la più consueta iconografia: legato ad un albero contro un cielo color cobalto,
coperto da un perizoma di un colore tra il viola ed il grigio. Posati in terra in
bell’evidenza si trovano il manto color carminio e l’elmo piumato.
L’ampio e semplificato paesaggio alle spalle della figura, un po' offuscato da depositi
di polvere, ha toni color terra naturale sfumati negli azzurrini. Nella sua
organizzazione l’artista adotta lo stesso metodo di procedere per contrapposti che si
riscontra nella figura; alla curva del monte risponde quella contraria dell’emiciclo
delle nubi. Al putto angelico che sostiene la corona del martirio sulla testa del Santo
indicandogli il cielo risponde in basso a destra, spostato in secondo piano, l’elmo
piumato.
Il modellato della figura è fortemente plastico ma il movimento interno è così
accentuato e il taglio per linee spezzate attraverso la diagonale del dipinto così esibito
che se ne ha l’effetto teatrale di una figura danzante, quasi leziosa.
Quest’opera, però, di grande nitore compositivo, può essere posta allo stesso
momento in cui l’artista eseguiva gli affreschi di Palazzo Lante a Roma (1653), vi
appare infatti già attiva e padroneggiata la conciliazione tra le diverse fonti a cui il
Romanelli attinse; Pietro da Cortona, il Domenichino, l’Albani, Guido Reni. La
presenza di quest’ultimo artista è infatti rilevante in quest’opera come anche nella
tela con S. Lucia presso la chiesa delle Benedettine (v. chiesa successiva).
Il S. Sebastiano richiama particolarmente la figura del Sansone vittorioso sui filistei
di Guido Reni che si conserva nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, opera eseguita
dopo il 1614, dove l’eroe è una figura accentuatamente classica, alla quale il
Romanelli si ispirò rovesciandola però da sinistra a destra e accentuandone il
plasticismo e l’enfasi sentimentale. Confronti con altre opere del Romanelli possono
effettuarsi con il S. Lorenzo della Cattedrale di Viterbo (1648), di cui il dipinto
tarquiniese riprende l’impaginazione e l’organizzazione della figura (ripetuta
nell’angelo dell’Annunciazione del Museo Civico di Viterbo del 1657), con l’affrescho
che raffigura la Storia e la Poesia in Palazzo Lante, particolarmente per la figura del
durante il soggiorno francese successivo (1646-1647), in varie sale del Louvre. La sua pittura esercitò quindi un largo
influsso sugli artisti francesi del Seicento.
2)
I. FALDI, Pittori Viterbesi di Cinque secoli, Roma 1970, pp. 66-73, figg. 242-249.
putto, una sigla tipicamente romanelliana, come anche con la Madonna del Rosario
nella chiesa di S. Sisto a Roma (1652).
Inoltre sia le due figure che il paesaggio retrostante, seppure molto semplificate,
ricordano quelle del Battesimo di Cristo nel cartone per arazzi conservato nella
Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, del 1650 circa; ciò anche in stilemi peculiari
dell’artista, il quale il panneggio del perizoma, ed il manto disposto in terra come
elemento compositivo.
La tela, che ben dimostra il “facile mestiere” di cui parla il Witkower riferendosi ai
caratteri della produzione romanelliana 3) , dovette pervenire al monastero delle
passioniste dalla cattedrale. Qui, secondo il Pardi ed il Corteselli, nel 1652 si trovava
una cappella dedicata agli Innocenti ed a S. Sebastiano, ma si ha motivo di ritenere
che gli stessi incorrano in un errore di lettura quando affermano che “La cappella
aveva un altare di stucco bianco, sopra il quale era posta la statua di S. Sebastiano,
opera del Romanelli. La statua veniva custodita in una teca ed era portata in
processione nel giorno della festa del santo” 4) . Ora considerato che dell’artista viene
dato solamente il cognome, ciò indica una sua cospicua notorietà, ma non risulta
peraltro alcuno scultore seicentesco omonimo o assimilabile.
Questa tela era assolutamente inedita fino al settembre 1985, quando chi scrive ne
diede notizia su un giornale locale con queste stesse indicazioni critiche 5) nello stesso
mese il Balduini diede anch’esso notizia dell’opera 6) seppure senza valutazioni
critiche o stilistiche, nel dubbio poi che la sua assegnazione al Romanelli fosse
inesatta poco oltre la dà come dubitativa, ma sempre in modo apodittico.
Giovan Francesco Romanellii, S. Lucia, databile al secondo decennio del
sec. XVII, olio su tela (209 x 116), Chiesa di S. Lucia, altare maggiore.
Neg. Soprint. B.A.S. n. 127787.
La tela raffigura la santa stante che regge nella destra una patena con i suoi occhi e
nella sinistra la palma. Sul fondo compare la città di Siracusa con una scena del
martirio della santa, rappresentata contro un edificio grandioso che riproduce il
Pantheon.
3)
R.WITTKOKER, Arte e Architettura in Italia 1600-1750, Torino 1972, p. 278.
M. CORTESELLII, A. PARDI, Corneto com’era, Tarquinia 1983, pp. 89-91.
5)
G. TIZIANI, Inediti: tre schede per Giovan Francesco Romanelli, in: Pro Tarquinia, IX, n. 9, settembre 1985, p.3.
6)
L. BALDUINI, Monaldo Trofi “civis cornetanus”, Tarquinia 1985, pp. 70, 192, tav. XIII.
4)
La figura, abbigliata all’antica, risente dei modi di Guido Reni, tanto che localmente
se ne sostenne l’appartenenza alla scuola dell’artista bolognese, come ad esempio
nella guida del Blasi 1) . Questa attribuzione fu originata dalla perizia di restauro del
1975. In questo intervento fu asportato un ingrandimento seriore che aveva aggiunto
alla figura di due angeli reggipendone. Il Balduini, pur senza dichiarare le fonti di tale
attribuzione si attiene a quella indicazione, mentre chi scrive l’ha da tempo attribuito
al Romanelli 2) .
La lettura stilistica fatta dai restauratori è in effetti plausibile; effettivamente il lessico
del Reni è ben presente al Romanelli, i timbri perlacei ma anche densi del colore, il
bianco della veste cangiante in grigio perla, il verde, cupo, elettrico del manto e l’oro
della tunica, oltre che l’accentuato classicismo del soggetto, raffigurato secondo la più
consueta iconografia. Il confronto tra questa tela ed il dipinto con S. Sebastiano
conservato presso il monastero delle Passioniste, conferma l’attribuzione alla stessa
mano sia per le palesi analogie tra i volti, sia per l’identico modo di spartire i capelli ai
lati della fronte, per i larghi piani facciali dalle ampie arcate sopraccigliari (caratteri
tutti che si riscontrano in un’opera certa quale il S. Lorenzo della Cattedrale di
Viterbo, 1648) per i nasi regolari ma appuntiti, per gli snodi tra spalla e collo e tra
questo e la testa oltre che per particolarità quali il modo di coprire in parte le orecchie
con le capigliature fruenti dietro la nuca.
Come il S. Sebastiano quest’opera si deve porre tra il 1650 e il 1662. Il luminismo che
la caratterizza è del resto pienamente sviluppato nell’Ultima Cena del Duomo di
Rieti, opera della maturità dell’artista viterbese (1653) 3) . La figura della martire
d’altronde, seppure depurata dai più accesi accenti barocchi, riprende il taglio
compositivo di un’opera giovanile di Gian Lorenzo Bernini, la Santa Bibiana (16241626), a cui si rifà anche per la contenuta espressione della mimica. Si può quindi
inserire quest’opera, che spicca nella produzione romanelliana per la pacatezza degli
accenti formali e per il suo insistito classicismo, in un momento che risente oltre che
1)
B. BLASI, Chiese, palazzi e torri della città di Tarquinia, Tarquinia Roma, s.d., p. 51.
L. BALDUINI, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia 1983, p. 51 nota 21; Idem, Il pittore Monaldo “civis
cornetanus”, Tarquinia, 1985, pp. 220, 226, tav. XVIII. G. TIZIANI, Inediti: tre schede per Giovan Francesco
Romanelli, in: Pro Tarquinia, IX, n. 9, settembre 1985, p. 3.
3)
Per un confronto v. I. FALDI, Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma 11970, p. 69 fig. 257. I rapporti del Romanelli
con il Reni sono stati messi in evidenza dalla Czabor (A. CZABOR, Le tableau de Giovan Francesco Romanelli dans
la Galerie des Maîtres anciens, in Bulletin du Musée National Hongrois des Beaux Art, 14, 1959, pp. 68-74, v. p. 68
ss.), rapporti stilistici confermati dal Faldi (I. FALDI, cit., pp. 70, 257, nota 25). Per la biografia del Romanelli v. A.
GARGANA, Un pittore di corte, Giovan Francesco Romanelli, in: Comune di Viterbo, Rassegna di attività cittadine,
II, nn. 10-12, ottobre dicembre 1937, pp. 171-179.
2)
della dominante reniana anche della reazione più strettamente classicista,
concretizzatasi attorno ad Andrea Socchi.
Il Wittkower rilevava come quest’ultima tendenza “il classicismo del barocco”, ebbe
presa anche su artisti allievi di Pietro da Cortona come appunto Giovan Francesco
Romanelli, proprio tra gli anni ‘40 e ‘50 del secolo.
Teodoro Rusca, I Santi Francesco di Paola, Giovanni Nepomuceno, Luigi
Gonzaga e Giuseppe Calasanzio, 1759. Olio su tela (263 x 173), Chiesa
della Madonna del Suffragio. Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127785.
La tela si trova in non buone condizioni di conservazione per le cadute di colore,
ampie soprattutto nella parte alta del dipinto. Secondo il Pardi ed il Corteselli una
tela con questo soggetto sarebbe stata dipinta per la Chiesa del Suffragio da un tale
Teodoro Rusca 1) , anch’esso artista ignoto alle fonti ed ai lessici degli artisti 2) . Costui
l’avrebbe eseguita nel 1759 per la somma si 80,7 scudi. Il nome dell’artista (la fonte
non è rilevata dagli autori succitati), e la data di esecuzione risulta peraltro dal
manoscritto Falzacappa precedentemente citato. La tela si apparenta stilisticamente
in modo molto stretto con quello di Giovanni Conca (cugino del famoso Sebastiano)
nella Chiesa di Santa Maria della Luce, che raffigura i Santi Francesco di Sales,
Francesco di Paola e Jeanne François di Valois (Neg. Soprint. B.A.S. Roma n.
51490). L’analogia si spinge fino alla caratterizzazione delle figure ed alla definizione
fisionomica delle stesse, oltre a reperirsi anche nel tono correntemente piano e
narrativo e, pure, nel colore sobrio, impostato su toni intermedi. La datazione a dopo
il 1748 per quest’opera è sicura perr la presenza di Giuseppe Calasanzio, raffigurato in
primo piano, fondatore delle Scuole Pie e degli Scolopi, che fu beatificato in
quell’anno e che verrà canonizzato nel 1767.
Il Rusca si pone quindi nella più stretta orbita del Conca minore che, fatti i primi
studi a Napoli con il Solimena, imitò poi a lungo i modi del cugino Sebastiano 3) .
Non sembra da escludere che sia la stessa mano del Rusca quelle che eseguì la bella
tela proveniente dalla Chiesa di San Marco con S. Giovanni Facundo, ora nella
collezione comunale, dai caratteri stilistici molto vicini (v. scheda successiva). La tela
è organizzata su uno schema centralizzato che fa perno sulla figura di S. Francesco di
1)
2)
Corteselli, A. Pardi, Corneto com’era, Tarquinia 1983, p. 108.
Cognome frequente tra gli artisti lombardi o ticinesi.
Paola, posta al centro sui gradini di un edificio che si intravede appena alle sue spalle.
In primo piano inginocchiati si trovano a sinistra S. Giovanni Nepomuceno e a destra
S. Giovanni Calasanzio 4) . Il primo vestito coi paramenti sacri e, alle sue spalle, un
putto nel gesto del silenzio ricorda che il santo fu glorificato come martire della
confessione e come tale adottato nel 1732 dai gesuiti.
L’altro santo vestito del saio dell’ordine tiene alla sua destra un bambino orante a
ricordo della sua attività di educatore. Un po' di lato rispetto alle figure suddette,
disposte in semicerchio, si trova S. Luigi Gonzaga.
Seppure dell’autore di questa opera, il presunto Teodoro Rusca, non si ha alcuna
notizia, rimane il ritratto del cardinale Giovanni Battista Bussi, ora nel Museo Civico
di Viterbo, datato 1714, dipinto di Giuseppe Rusca.
A quest’ultimo artista, peraltro sconosciuto, il Faldi attribuisce il ritratto di Papirio
Bussi, da lui datato tra il 1723 ed il 1752 5) . La cultura figurativa di Giuseppe Rusca, a
differenza di quella di Teodoro, appare secondo il Faldi “affine ai modi di un
Domenico Maria Muratori”. Considerate le cronologie di questo gruppo di opere è
molto probabile che tra i due artisti corresse un rapporto di parentela, forse molto
stretto, quale tra padre e figlio o, meno probabilmente, di fratellanza.
Gioacchino Paver, Miracolo di S. Isidoro Agricola, 1759, olio su tela, (263
x 173), Chiesa dell’Addolorata, altare sinistro. Neg. Soprint. B.A.S. Roma
n. 127786.
Il dipinto offuscato e con numerosi ritocchi ossidati raffigura il classico motivo del
santo che fa scaturire miracolosamente l’acqua alla presenza di un aggraziato
gentiluomo, sotto lo sguardo benevolo della Vergine con il Bambino benedicente.
Sullo sfondo del finissimo paesaggio di monti l’angelo va conducendo la coppia di
buoi che trascinano l’aratro.
Questa tela si contraddistingue per la freschezza delle luci riflesse e colorate, per i
delicati controluce, per la finezza dei rapporti cromatici e chiaroscurali, per la grazia
tutta settecentesca, rococò, che la pervade, in altre parole per il suo “ésprit de finèsse”
piuttosto raro in ambito romano e tale da ricordare lo spirito francesizzante di un
3)
Sul Conca cfr. S. Rudolph, La pittura del ‘700 a Roma, Milano 1983, pp. 180, 759, fig. 80.
Sui due Santi v. L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, tomo 3, 2, Paris, 1958, pp. 728-731 (S. Giovanni
Nepomuceno), 762 (S. Giovanni Colasanzio).
5)
I. Faldi, Dipinti e sculture, in: Viterbo segreta, Viterbo, Palazzo dei Priori, 31 marzo - 17 aprile 1983, p. 36, fig. p.
37.
4)
Michele Rocca o i cipriosi personaggi di Giacomo Triga. I modi del pittore sono
inoltre caratterizzati dal procedere per velature invece che con una pittura a corpo.
Il dipinto che in base a non specificate ricerche documentarie sarebbe opera di tale
Gioacchino Paver 1) , artista ignoto alle fonti ed alla critica, che lo avrebbe dipinto nel
1759 per 60 scudi, appare legato ad una cultura settentrionale, austriaca o bavarese
non lontana da quella di artisti come Ignazio Stern (morto nel 1748). In particolare è
significativo il confronto con una sua opera: Il Sogno di S. Giuseppe, del 1723
(Milano) e, per quanto riguarda la figura della Vergine, con la figura della Primavera
dello stesso Stern, entrambe figure diafane e porcellanose che uniscono ad una forma
calligrafica una resa sensibile e nervosa ed il gusto per i tagli scorciati. Il cognome
“Paver” (o forse “Bauer”?) sembrerebbe indicare un artista di area austriaca o, forse,
sloveno-croata, come ad esempio nel caso di Franz Paver, pittore della prima metà
del XIX secolo, originario di Fiume, che studiò a Venezia e a Roma. Questo dipinto ed
il suo pendant (v. scheda successiva) potrebbero essere due di quelli che furono
esportati da Roma il 2 ottobre 1759 dal nobile cornetano Giovan Francesco
Falzacappa, il quale portò via “quattro quadri cioè tre d’altare di palmi 10 e 91/2 ed
una piccola figurante diverse santi opere moderne 2) . Il terzo dipinto d’altare è
probabilmente quello dell’altare maggiore che raffigura La Madonna e le Anime
Purganti.
Pittore della cerchia di Giovanni Conca (Teodoro Rusca?), S. Giovanni
Facundo, inizi della seconda metà del XVIII secolo, olio su tela, (209 x
142), Museo Nazionale, collezione del Comune di Tarquinia, dalla Chiesa
di S. Marco. Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127767.
Il dipinto era collocato al secondo altare destro della chiesa di S. Marco ancora nel
1907, quando fu preso in consegna dal comune 1) . La tela rappresenta la conversione
di alcuni armati da parte del santo, ha toni pacati del colore ed un andamento che
rifugge ad effetti dichiaratamente rocaille; anche l’impianto narrativo è piano, molto
1)
M. Corteselli, A. Pardi, Corneto com’era, Tarquinia 1983, p. 108. Questi autori si rifanno certamente al manoscritto
Falzacappa (Memorie di Corneto, vol. XIII, fasc. 17) in cui effettivamente compare il nome del Paver.
2)
A. Bertolotti, Esportazione di oggetti di Belle arti da Roma nei secoli XVII-XVIII. Arch. Storico Letterario di Roma,
II, fasc. 5, I gennaio 1878, p. 278.
vicino a quello del dipinto con S. Francesco di Paola nella chiesa del Suffragio, dato
da cronache ottocentesche, peraltro attendibili, a Teodoro Rusca.
Il leggero andamento diagonale su cui si dispongono le figure ha in realtà la stessa
angolazione del dipinto dell’Addolorata. Qui la figura che imposta la classica
disposizione semicircolare su cui entrambe le opere si compongono si trova sulla
sinistra (la figura dell’armato) invece che sulla destra, ma il modo di comporre è
identico. Come nell’altra tela la figura monastica è il cardine, analogamente rialzata
su alcuni gradini di un edificio retrostante di cui è similmente visibile la zona
angolare con un brano di cielo schermato da quinte arboree alla sinistra.
Sul gradino dove posa il santo rimane la scritta: S. Giovanni Facundo/Ispano 2) . Il
santo infatti, eremitano (1430-1479), nato a Salamanca, è patrono degli agostiniani,
ai quali apparteneva la chiesa di S. Marco. Nel retro del telaio è iscritto: S. Giovan.
Sig. Orsi di Corneto. Il telaio è però quello usato al momento in cui il dipinto venne
allungato inferiormente. Questo dipinto era firmato sul lato inferiore ma l’iscrizione è
quasi completamente perduta.
Dal confronto di questa tela con quella già citata della chiesa del Suffragio,
vicinissima ai modi di Giovanni Conca, è già emerso in precedenza l’analogo gusto
compositivo e cromatico che, depurato dagli stilemi barocchetti, approda ad una
narrazione piana, dai toni sommessi, quasi di cronaca a cui si adegua la scelta
cromatica per un “giusto mezzo” tra colore e rilievo chiaroscurale, con qualche cenno
appena di ambientazione naturalistica. L’opera rivela anche un gustoso interesse per
la pittura di genere popolaresco nelle due figure di sgherri, più atterriti della figura
imponente del santo che convertiti. In particolare una eco caravaggesca si ritrova
nella figura posta in primo piano, tradotta però in chiave settecentesca, arguta e
“spiritosa”, nella consueta disposizione ad “S” che tende a rovesciarsi all’indietro.
Tipicamente settecentesca è anche la figura del giovane chierico, da confrontare con il
S. Luigi Gonzaga del Rusca, che si ritrova esibita in alcune opere di Benedetto Luti,
ben presenti alla mente di questo interessante artista romano.
Angelo Campanella (Roma 1746-1811), La Vergine col Bambino e i santi
Caterina d’Antiochia e Secondiano (II Sacro Cuore), 1796, olio su tela
(360 x 215), Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127699. Il grande dipinto che
1)
“Palma custode”, Elenco degli oggetti di antichità”, 7, n. 4 (“quadro moderno, S. Giovanni da S. Facundo, aut.
Ignoto” 24 maggio 1907). La tela non è poi annoverata tra quelle consegnate dal comune al Ministero della P.I. nel
1916.
proviene dalla cattedrale è firmato e datato in basso a destra entro un
cartiglio: ANGELUS CAMPANELLA 1796.
In via di rapido degrado questa tela è lacera nella parte superiore destra ed ha estese
cadute di colore. I toni cromatici sono attenuati, pastello, e privilegiano quindi la resa
plastica su quella coloristica. Completamente inedita fino a poco tempo orsono è stata
resa nota da chi scrive nel 1985 1) . Angelo Campanella (1746-1811), di cui si conoscono
poche opere, in questo dipinto ed in quello presso la Chiesa dell’Annunziata (v.
scheda successiva) si rivela un artista fortemente conservatore, che dei nuovi canoni
neoclassici accetta solo elementi secondari, marginali, rimanendo ancorato a quel
protoneoclassicismo aggraziato di cui il massimo esponente fu Pompeo Batoni. Da
costui il Campanella assorbì moltissimo, coincidendo l’affermazione ed il predominio
artistico del Batoni nella Roma settecentesca con gli anni della sua formazione
giovanile presso l’istituto di S. Michele a Ripa. Egli si formò inoltre sullo studio di
Raffaello, di Fra Bartolomeo e dei classici 2) . In questa tela il pittore forse
condizionato anche dal soggetto religioso, sia nei toni rialzati del colore, il rosso lacca
e l’oro delle vesti, oltre che nell’enfasi sentimentale, mostra di aderire pienamente a
quel “barocco di ritorno” rilevato dalla critica artistica nell’ultimo decennio del
Settecento romano.
Questa grande tela proviene dalla cattedrale e deve essere quella che fino al 1879 si
trovava nella Cappella del Sacro Cuore 3) . Vi si leggono riferimenti stilistici
soprattutto al Batoni e a Domenico Corvi nelle figure dei santi e dell’angelo sulla
destra oltrechè alla tradizione raffaellesca nella Madonna col Bambino.
La raffigurazione della città di Corneto, sul fondo, per la quale intercede il santo
protettore è una immagine completamente di invenzione, non vi si rileva infatti alcun
pur minimo riferimento ad aspetti reali o topografici della città. Non si capisce quindi
come faccia il Balduini a supporre che il Campanella (che eseguì certamente la tela
nel suo laboratorio romano) abbia potuto riprodurre “la città... prima che il vescovo
Bartolomeo Vitelleschi voltasse l’entrata della cattedrale a mezzogiorno” 4) , modifica
2)
1)
L. Réau, Iconographie dé l’art crétièn, tomo III, 2, Paris, 1958, p. 733.
G. TIZIANI, Un dipinto del Mola e due minori “barocchi” inediti, in: Pro Tarquinia, IX, n. 7, luglio 1985, p. 3.
Su Angelo Campanella v. U. THIEME-F. BECKER, Allgemeine Lexikon, vol. V, 1911, pp. 455-456. S. RUDOLPH,
La pittura del ‘700 a Roma, Milano 1983, pp. 122-754.
3)
A. PARDI M. CORTESELLI, Corneto com’era, Tarquinia 11983, p. 93.
4)
L. BALDUINI, Monaldo Trofi “civis cornetanus”, Tarquinia 1985, fig. 2, p.5.
2)
apportata nel sec. XV, né il motivo di un tale interesse “filologico”, sicuramente
estraneo al pittore romano.
Angelo Campanella, La Vergine col Bambino ed i Santi Francesco di
Paola e Rocco, 1780-1790 c. (255 x 168,5), Chiesa dell’Annunziata. Neg.
Soprint. B.A.S. Roma n. 127794.
Il dipinto si caratterizza per i toni dominanti del colore alquanto bassi, sul grigio
perlaceo e plumbeo, su cui risaltano i blu ed i rosa degli abiti della Vergine, il giallo
cadmio dell’abito di S. Rocco ed il verde smeraldo del cuscino su cui posa i piedi la
Vergine. Questa, assisa sul trono, sorregge il Bambino benedicente. Il cromatismo del
Campanella in questa opera ha riscontro in quelle batoniane e corviane degli ottanta
del secolo.
La concezione monumentale del dipinto pur nelle sue piccole dimensioni, il grande
respiro della composizione, l’ambientazione dell’evento in un nobile emiciclo
colonnato e la classicità delle figure, unite alla maniera pastosa di panneggiare ed alla
pennellata sensibile ed animata, ancora ricca di mezzi toni, confermano nel
Campanella (che è riconoscibile per tale con certezza grazie al confronto con l’opera
precedente) la sua sostanziale adesione alla tradizione tardo barocca ed in particolare
alla riforma batoniana, erede del classicismo, del Luti del Chiari e del Maratta.
Le analogie con il Sacro Cuore di Gesù e Maria e i Santi Secondiano e Margherita,
già nella Cattedrale, sono palesi sia per il comune sentore devozionale delle due tele
che per la composizione tradizionalmente piramidale con figure disposte
simmetricamente ai lati di quelle primarie, in altri termini per l’identica concezione
organizzativa dei due dipinti. Anche questa tela è stata da poco riconosciuta al pittore
romano.
Due opere possono essere chiamate in causa come precedenti di questo dipinto,
entrambe famose ai tempi del Campanella ed esposte in sedi prestigiose: La Caduta
di Simon Mago di Pompeo Batoni (Chiesa di S. Maria degli Angeli a Roma) e la Dea
Roma, di Domenico Corvi, di cui rimane il cartone e la traduzione in arazzo nella Sala
del Trono in Campidoglio. In entrambe le opere appare l’idea dell’alto trono sotto una
solenne esedra semicircolare di ordine dorico.
Scuola di Vincenzo Camuccini, Compianto sul corpo di Cristo, olio su tela
(286 x 185), Monastero delle Benedettine, dalla chiesa annessa di S.
Lucia. Neg. Soprint. B.A.S. Roma n. 127701.
Il dipinto, come il suo pendant, era posto un lato della navata unica della chiesa di S.
Lucia, delle stesse monache benedettine. La tela composta semplicemente è opera di
ormai avanzato gusto neoclassico e di elevata qualità artistica. Il pittore che è da
ricercarsi nella cerchia di Vincenzo Camuccini (Roma 1771-1844) si serve di un colore
arido, impostato sui toni bassi, che conferisce alla figure una estrema nitidezza
plastica ed una forte intensità chiaroscurale. La tela fu probabilmente eseguita nella
bottega dell’artista romano del quale però alcuni elementi stilistici, particolarmente
evidenti nei volti delle figure, impediscono di accettare l’autografia.
Il soggetto e la composizione si rifanno però direttamente alla Pietà di Vincenzo
Camuccini, che alla sua morte rimese presso il suo studio, e ad un suo disegno per la
stessa opera, che si trova presso gli eredi di Cantalupo in Sabina 1) .
Non è escluso che i disegni per questa opera siano stati forniti direttamente dal
maestro. Nel dipinto tarquiniese rispetto al modello camucciano si è però verificata
una rotazione delle figure, che qui si dispongono su di una leggera diagonale invece
che su di un piano parallelo all’osservatore. L’origine delle figure resta però
perfettamente riconoscibile seppure della più complessa composizione camucciniana
siano rimaste solamente le figure primarie. In particolare è riconoscibile la figura di
Cristo, di grande idealizzazione formale (tanto vicina ai modi del maestro romano ed
al suo disegno di Cantalupo da poter pensare ad un suo diretto intervento), quella
della Maddalena ed il volto di S. Giovannino. La Vergine, qui non più in deliquio, si
svolge implorante verso il cielo mentre nelle opere camucciniane la sua figura, più
contenuta, era una potente figura michelangiolesca. L’ignoto allievo del Camuccini
(non facile da individuare per la lunga attività formativa svolta da questi) ha fatto
scivolare la gamba sinistra della madre per far “salire” il corpo di Cristo ed inoltre,
forse meccanicamente ha interpolato la composizione camucciniana con una idea
tratta dal famossimo Giuramento degli Orazi di Jean Louis Davis (1784), giudicato a
1)
Per i disegni dell’artista v. Vincenzo Camuccini, 1771-1844, bozzetti e disegni dallo studio dell’artista. Catalogo
della mostra, Roma Galleria Nazionale d’Arte Moderna 27 ottobre-31 dicembre 1978, a cura di G. Piantoni De Angelis,
prefazione a cura di I. Faldi. Per un profilo dello stesso: A. Bovero, in: Dizionario biografico degli Italiani, vol. 17,
Roma 1974, pp. 627-630, s.v.
suo tempo “il più bel quadro del secolo” 2) , come sembra potersi affermare dal
confronto con il gruppo delle donne nel dipinto del Louvre. La figura del S. Giovanni
che nel modello camucciniano sosteneva la Vergine è qui spostato sul fondo del
dipinto, ammantato in una ampia tunica è una austera figura poussiniana ma ha
perso lo stretto coordinamento figurativo che aveva nel progetto del maestro. Di
origine chiaramente camucciniana sono del resto le grandi masse plastiche ed il
colore volutamente povero, davidiano. La tela per il neoclassicismo avanzato, allora si
sarebbe detto “dorico”, potrebbe essere datato addirittura agli inizi del XIX secolo ma
deve essere trattenuto invece entro l’ultimo decennio del Settecento per i caratteri più
tradizionali del suo pendant, con S. Benedetto.
Uno studio del 1817 della Deposizione del Camuccini si trova ad Avignone (Museé
Calvet) ma non offre maggiori analogie con il dipinto tarquiniese. Questa tela,
sconosciuta alla critica, è stata divulgata recentemente ma priva di ogni definizione
stilistica, cronologica, né é stato definito l’ambito culturale 3) . L’esecuzione dell’opera
è in rapporto al nuovo allestimento avuto dalla chiesa dopo l’incendio del 1780 ed al
suo conseguente restauro, terminato nel 1783 quando la chiesa fu riconsacrata 4) . Non
è però detto che a quella data fossero completi tutti gli arredi dell’edificio sacro,
l’unico della città con l’interno in stile Luigi XVI e che ha in Roma un calzante
parallelo nella Chiesa di S. Caterina da Siena in Via Giulia, opera di Paolo Posi (17081776), costruita tra il 1766 ed il 1775.
Sarebbe molto interessante sapere se la commissione di questa tela e della sua
compagna abbiano a che fare con la figura del Cardinal Garampi, vescovo di Corneto
e Montefiascone, il quale morendo nel 1792, ebbe modo forse di entrare in contatto
con i nuovi e più oltranzisti sostenitori del Neoclassicismo, che tali non erano quelli
presenti nel suo elenco precedentemente citato, seppure di alcuni, ad esempio di
Giuseppe Pant e del Mitty non si conosce nulla. I nominativi di costoro sono: Batoni,
Corvi, La Piccola, Maron, Unberbergher, Pant, Ceretta (di Milano, pittore ed
incisore), Moore (pittore paesista), Hachert, Labruzzi, Morghen (incisore), Volpato
(incisore), Mitty, Monsù, Filidoni (incisore), Kauffmann, Cades, Stefano Tofanelli,
Peter (pittore di animali come Monsù 5) ).
2)
A. Hauser, Storia sociale dell’Arte, Vol. II, Torino 1983, tav. fuori testo.
L. Balduini, Monaldo Trofi “civis cornetanus”, Tarquinia 1985, p. 217, fig. 98.
4)
M. Corteselli, A. Pardi, Corneto com’era, Tarquinia 1983, p. 60.
5)
C. Faccioli, Da Due note nel “fondo Garampi” dell’Archivio Vaticano, in: l’Urbe, XXXIV, gennaio febbraio 19711,
pp. 13-27, v. pp. 14-15.
3)
Scuola di Vincenzo Camuccini, S. Benedetto intercede presso la Vergine
per la salvezza di un uomo, 1784-1790 c., olio su tela, (268 x 185),
Monastero delle Benedettine, dalla chiesa di S. Lucia Neg. Soprint. B.A.S.
Roma N. 127703.
Questo dipinto, già posto nella chiesa di S. Lucia era contrapposto a quello con il
Compianto sul Corpo di Cristo (scheda precedente). E’ opera sicuramente della stessa
mano, seppure di minore intensità espressiva e più legato al tema devozionale; sotto
il profilo stilistico rimane vicino a formule più tradizionalmente rocaille seppure le
figure della Vergine con il Bambino assisa sulle nubi eviti gli scorci consueti e tenda a
disporsi sulla superficie, secondo un taglio orizzontale, a fregio, come dettato dal
nuovo gusto neoclassico. In particolare la gloria angelica è nella scia della tradizione
tardosettecentesca, appena aggiornata nei volti e nella nuova monumentalità
statuaria. L’uomo a terra si può invece fare risalire al celebre dipinto di Marco
Benefial con S. Margherita da Cortona che scopre il corpo dell’amato (Roma, chiesa
dell’Aracoeli), che fece scuola a Roma si può riferire con buona approssimazione al
disegno di Vincenzo Camuccini con la testa di Pietro Lombardo, tratto dalla Disputa
del SS. Sacramento di Raffaello nelle Stanze Vaticane 1) .
Il gusto per il taglio compositivo ancora ad X e per la linea serpentinata su cui si
sviluppa la scena, dichiara un artista formatosi in un clima ancora pervaso dalla
tradizione seppure la scelta di campo sia ormai nettamente neoclassica. Il nuovo
indirizzo è operativo soprattutto nella selezione cromatica, addirittura estremista
nella limitatezza del colore, che si ispira a quelli terrosi, ai bruni ed ai rossi aridi del
Camuccini, ma in maniera addirittura esasperata, col che l’artista ottiene effetti quasi
surreali, come se l’immagine fosse bruciata dallo stesso colore rossastro che la
pervade.
Virginio Monti (Genzano 1852-1942), I Santi Crispino e Crispiniano
davanti a Rizio Vario rifiutano di adorare gli idoli, Chiesa cattedrale,
abside sinistra (Cappella del Sacramento). Affresco firmato e datato in basso a
1)
Vincenzo Camuccini 1771-1844, bozzetti e disegni dallo studio dell’artista, catalogo della mostra, Roma, Galleria
Nazionale d’Arte moderna, 27 ottobre 31 dicembre 1978, a cura di G. Piantoni De Angelis, n. 11, p. 18.
sinistra: V. Monti fece 1887 per commissione del rev. Sig. Arcidiacono Don
Francesco Boccanera”.
L’opera ha sofferto per le infiltrazioni di umidità che l’hanno in parte danneggiata.
L’identificazione del soggetto si basa sul fatto che questo dipinto dovette sostituire,
dopo otto anni dalla data dei grandi restauri subiti dalla chiesa nel 1879, la tela
seicentesca con la Crocefissione ed i santi protettori della Confraternita dei Calzolai
che, al momento dei restauri, era ancora in opera sul suo altare 1) .
Del nuovo dipinto, di cui manca ogni riferimento bibliografico, si è persa la memoria
del soggetto persino la chiesa stessa. Le due figure di santi mancano infatti di ogni
attributo. Il Boccanera fece decorare la cappella con specchiature a finti marmi nella
parte
bassa,
con
la
pala
d’altare
incorniciata
da
candelabre
grottesche
neocinquecentesche e con le figure di profeti nei pennacchi e nelle lunette della
cupola. Fece anche dono della grandiosa bussola di legno intagliato del portale, dal
pulpito, delle logge ai lati del presbiterio, dei due dipinti di S. Margherita (opera
quasi certaa di Pietro Gagliardi) e della Madonna del Rosario 2) .
La pala d’altare si caratterizza per l’elegante storicismo di raffinato gusto Art
Nouveau, non lontano da quello di Cesare Maccari. L’affresco e le figure soprastanti
sono rese con facile padronanza del disegno e della composizione in toni chiari, con
ombre leggerissime e trasparenti. Forte l’interesse ricostruttivo dell’ambiente, tipico
della pittura nella Roma Umbertina, ma privo di retorica e di pesantezze antiquarie.
L’artista, attivissimo in Roma a cavallo tra i due secoli, è ampiamente ricordato nella
guida delle chiese romane di Diego Angeli 3) .
Del Monti, autore di oggetti sacri, che come molti altri della scuola romana
dell’ottocento, lavorò anche nell’isola di Malta, rimangono numerose opere nelle
chiese romane di S. Gioacchino, in Vaticano, in S. Andrea della Valle, in S. Brigida, in
S. Carlo ai Catinari, in S. Chiara, nella Chiesa del Corpus Domini, del Sacro Cuore a
Castro Pretorio.
1)
M. CORTESELLI, A. PARDI, Corneto com’era, Tarquinia 1983, p. 93.
C. DE CESARIS, La Cattedrale di Corneto”, Restauro del 1875-1879, in: Bollettino della Società Tarquiniense di
Arte e Storia, anno 1984, p. 130.
3)
D. ANGELI, Le Chiese di Roma, Roma s.d. (1903), pp. 77,82,94,103,120,160,215,360; A. CORNA,Dizionario della
Storia dell’arte in Italia, Piacenza 1930, vol. II, p. 667; C. CESCHI, Le Chiese di Roma, Dagli inizi del neoclassico al
1961, Roma 1963, pp. 143-145; T.C.I. Guida di Roma e dintorni, ed. 1965, pp. 223, 476.
2)
TRE DIPINTI OTTOCENTESCHI INEDITI
DI CESARE MASINI E DI VIRGINIO MONTI
Cesare Masini (Bologna 1812-1891), il Pentimento di S. Pietro, olio su tela
(233 x 167) Chiesa di S. Maria di Valverde, Altare destro.
La tela è firmata e datata in basso a destra, quasi invisibile: C. MASINI F. PERUGIA
1842.
Il dipinto che, come il suo pendant nell’abside di sinistra corrisponde esattamente
alla cornice che lo ospita, dovette essere eseguito per la sede attuale, che proprio in
quegli anni ebbe un totale rifacimento dell’interno ad opera dell’architetto cornetano
Giovan Battista Benedetti e che fu riconsacrata nel 1853. Cesare Masini fu pittore,
storico dell’arte, incisore e xilografo ed anche segretario dell’Accademia di Bologna, è
questa componente accademico-purista che emerge dal dipinto e dal suo compagno,
posto nell’abside destra della stessa chiesa, purismo non lontano da quello di
Tommaso Minardi, di Pietro Mussini e del Tenerani che proprio attorno a quegli anni
si era definitivamente affermato. Il Purismo, movimento a sfondo romantico, in
queste come nella maggior parte delle opere rinnovò più i contenuti, che sono per lo
più di ispirazione religiosa, che non la forma, che rimase palesemente accademica
ispirata ai maestri quattrocenteschi, al Perugino, a Raffaello giovane.
L’immagine monumentale, potente, del santo abbigliato come una figura della
statutaria romana con tunica grigia e manto bianco cereo, si staglia contro la sagoma
oscura di una collina, unico elemento diagonale, dinamico della composizione e
contro il cielo che albeggia in toni rosati. In questo caso “il ritratto” del santo, quasi
un nobile studio accademico (in altri casi, come nel S. Filippo Benizzi, vero punto di
forza, caratterizzante, dell’opera) redime solo in parte la compassatezza e la messa in
posa, l’intenzionalità del modello, non riscattata neanche dall’accentuazione mimica,
come raggelata dall’oltranzismo della semplificazione compositiva e formale.
Elementi di stile che rispondono peraltro alla poetica del purismo. Nel Masini non è
però assente la nuova sensibilità romantica che si tradisce innanzitutto nel sentore
malinconico, assorto, delle due opere e nelle loro ambientazioni crepuscolari.
Delle due tele, questa in particolare evidenzia macchie di umidità e sedimenti di
polvere.
Cesare Masini (qui attribuito), S. Filippo Benizzi, olio su tela (223 x 167),
Chiesa di S. Maria di Valverde, altare sinistro.
La tela raffigura il maggiore dei santi dell’ordine dei serviti, ordine che officiava la
chiesa annessa al loro monastero, in cui erano installati fin dal secolo XVI. Come nel
dipinto dell’abside destrra, la figura è stante, il santo è presentata secondo un taglio
compositivo estremamente semplificato, mentre con un bastone fa sgorgare una
sorgente di acqua calda dal suolo, iconografia che, come in numerosi altri casi di
contaminazione tra repertori figurativi dei santi, S. Filippo Benizzi condivide con S.
Isidoro agricola. Alle sue spalle, un angelo che alita a fil di terra si allontana con il
triregno pontificio a ricordo del rifiuto che il santo fece della propria elevazione al
soglio di Pietro. In terra, tra erbe e piante, dipinte con un esacerbato naturalismo da
pittore “primitivo”, sono adagiati il volume ed i gigli, attributi del santo.
Ritorna qui l’organizzazione dello sfondo su un’unica diagonale quella della
vegetazione che, come il monte nel S. Pietro, fa da quinta alla figura, animata dalla
diversa diagonale tracciata dall’angelo. La malinconica, assorta figura del giovane
santo, di immediata evidenza ritrattistica, si intona con la luce vespertina del cielo al
tramonto, fondale alla iconica immagine fermata, quasi come in un dipinto
medioevale, nel gesto ieratico che presenta il fatto miracoloso.
La tela, priva di ogni iscrizione, fu eseguita dal Masini assieme all’altra nel 1842,
entrambi i dipinti sono del tutto inediti. L’artista perugino in entrambe le opere
dimostra un consolidato mestiere pittorico, seppure quasi negato a favore della
sapiente resa plastico-disegnativa che rammenta opere di scultura coeva di un Pietro
Tenerani e di un Lorenzo Bartolini.
Nella stessa chiesa di S. Maria di Valverde, oltre a questi dipinti ed a quelli di Pietro
Gagliardi, provenienti dalla chiesa di S. Marco, si trovano altre due tele, anch’esse da
S. Marco, opere modeste, inedite, di Giovanni Orsi pittore attivo nella prima metà del
secolo a Forlì e a Ravenna, che raffigurano la Crocifissione con la Vergine e S.
Giovannino, e la Vergine che appare a S. Nicola da Tolentino. Il primo dipinto
riporta: “Giovanni Orsi in (...) fece 1846”, il secondo: Giov.i Orsi dip. e 1846.
Entrambe le opere, improntate alla medesima cultura purista, ma di qualità molto
minore di quelle del Masini, seppure registrate negli inventari comunali già nel 1907
e in quelli successivi, sono del tutto adespoti e privi di bibliografia.
Su Cesare Masini U. THIEME-F. BECKER, Allgemeine Lexikon, vol. XXIV, 1930, p.
205; A. COMANDUCCI, Dizionario, vol. III, 1962, p. 1129; E. BENEZIT, Dictionaire,
1976, vol. 7, p. 238.
QUIDAM GUIDOCTUS PISANUS ME FECIT...
(in margine al libro “Corneto com’era 1)
In quest’ultimo decennio gli studi di epigrafia in provincia di Viterbo segnano una
sorprendente fioritura, confermando l’accresciuto interesse per questa disciplina
“ancillare”, i cui apporti non sono sempre valorizzati appieno rispetto alle fonti
definite “stricto sensu” letterarie e documentarie 2) .
Non intendiamo tanto riferirci ai saggi, pur significativi, che illustrano singoli testi 3) ,
quanto ai cospicui contributi relativi all’antichità classica, i quali con aggiunte ed
aggiornamenti, vanno ad integrare la monumentale opera del Corpus Inscriptionum
Latinarum 4) , e soprattutto alle sillogi sul Medioevo e sulle età susseguenti, che si
impongono per consistenza di epigrafi e per dovizia di apparato esegetico. La
constatazione assume ancor più rilievo se si considera che 5) nonostante che la
1)
Onde sgombrare il campo da possibili equivoci, (di-) chiariamo immediatamente che non è nelle nostre intenzione
recensire il volume di Mario CORTESELLI e Antonio PARDI (Corneto com’era. Chiese, Confraternite e Conventi
cornetani d’un tempo. Tarquinia, Tip. Giacchetti in coll. con la Grafica Romana di Roma, 1983, pp. 300, con ill. bn.),
ma piuttosto trarre spunto da talune notizie nel medesimo contenute, per avviare una ricerca del tutto autonoma.
Semmai consideriamo il saggio come un omaggio dovuto ad uno dei coautori, nostro conterraneo, ma residente ormai
da diversi lustri a Tarquinia e divenuto di diritto cittadino cornetano, al quale ci legano affettuosi, seppur sfumati,
ricordi d’infanzia. Desideriamo altresì esprimere il nostro ringraziamento al giovane studente di architettura Gianluca
Cerri, per la valida collaborazione prestataci in ricerche bibliografiche presso gli istituti rromani.
2)
Non bisogna tuttavia sottacere che anche nei secoli passati gli storici più avvertiti hanno registrato le epigrafi,
riconoscendone l’intrinseca importanza documentaria. Si può menzionare per tutti Feliciano BUSSI, che nella Istoria
della città di Viterbo (in Roma, nella Stamperia del Bernabò e Lazzarini, MDCCXLIII, pp. XX-478) riporta su 394
pagine di testo ben 163 iscrizioni pertinenti ai monumenti, agli avvenimenti e ai personaggi della città.
3)
Citiamo exempli causa: A. CAROSI, Storie di tutti i giorni nei graffiti di San Rocco e Monte Calvello, in “Biblioteca
e Società”, a. III, n. 2-3- 30 sett. 1981, pp. 5-12; N. ANGELI, I Belli, una dinastia di “campanari” viterbesi, idem, a.
IV, n. 3-4, 21 dic. 1982, pp. 37-42 (ai testi pubblicati bisogna aggiungere quello della campana di San Benedetto a
Montefiascone del 1830, vedi infra: BRECCOLA - MARI, p. 283); L. CIMARRA, Artefici e commitenti nelle
iscrizioni cosmatesche di Civitacastellana, ibid., a. V., n. 3-4, 32 dic. 1983,pp. 37-40; I. DINI, G. PACCHIAROTTI, F.
RICCI, L. SANTELLA, Il complesso monumentale di San Leonardo a Graffignano, in “Informazioni”, n. 2-3, dic.
1986, pp. 38-48.
4)
Ci riferiamo segnatamente ai “Supplementa Italica” (Nuova serie. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1981, pp.
107-176) relativi alla Regio VII (Etruria: Falerii Novi) a cura dell’insigne epigrafista I. DI STEFFANO MANZELLA.
5)
A. CAMPANA, Le iscrizioni medioevali di San Gemini, in “San Gemini e Casulae”, (Milano, 1976, pp. 81-132), p.
85, col.l.
raccolta di iscrizioni medioevali d’Italia sia stata tante volte auspicata, desiderata,
progettata, e nonostante una gloriosa tradizione di studi sulle iscrizioni medievali,
che comincia addirittura nel Rinascimento, manca ancora una raccolta generale e ci
si deve accontare, nei casi più fortunati, di raccolte limitate a singole città o
monumenti, o collezioni, raramente ad alto livello scientifico, ancor più raramente
fornite di documentazione fotografica; e per il resto si deve ricorrere a una enorme e
ramificata bibliografia costituita da storie locali, pubblicazioni particolari di ogni
genere, periodici di istituzioni storiche regionali o cittadine, ecc., spesso di non facile
reperimento.
In ordine cronologico il primo che ha approntato una raccolta sistematica delle
iscrizioni esistenti od esistite in un determinato ambito territoriale è stato il dotto
sacerdote Giacomo Pulcini di Civita Castellana: egli ha (ri-) pubblicato testi pertinenti
all’antichità (falisca e romana) e al Medioevo, includendo inoltre quelli moderni e
addirittura contemporanei, nell’opera “Falerii Veteres, Falerii Novi, Civita
Castellana 6) , la quale, sebbene non sia scevra, nella sua farraginosa mole, da
incongruenze, da errori di trascrizione e da omissioni, costituisce nondimeno uno
strumento utile per le ricerche a venire. E’ seguito poi l’opuscolo di Pietro Volpini
“Montefiascone attraverso le epigrafi 7) , nel quale “si presentano quaranta epigrafi
incise nelle lapidi, che rievocano avvenimenti importanti e personaggi che hanno
segnato profondamente venti secoli di storia della città falisca”.
Da ultimo ancor fresca di stampa, la raccolta “Le epigrafi medievali di Viterbo 8) nella
quale sono edite le iscrizioni del capoluogo provinciale dal VI al XV secolo, opera che
si distingue per rigore scientifico e perizia filologica, curatore Attilio Carosi, ex
direttore della Biblioteca Comunale degli Ardenti.
Lavori meritori, occorre ribadirlo, che rappresentano la necessaria premessa per
avviare indagini di maggior impegno su base provinciale od areale, ma che non sono
del tutto esenti da mende: a parte i rilievi critici che a ciascun editore, a mo’ di
recensione, si potrebbero muovere, un limite che ci sembra comune a tutti e tre, è
quello di aver tralasciato o, meglio, trascurato di rilevare le iscrizioni che figurano
sugli arredi sacri (come reliquiari, croci astili e stazionali, calici, teche e acquamanili),
6)
G. PULCINI, Falerii Veteres, Falerii Novi, Civitacastellana.Biblioteca Falisca, 1970, pp. 270.
P. VOLPINI, Montefiascone attraverso le epigrafi. 2° Quaderno di Studi Storici. Montefiascone, Centro di Iniziative
Cultrurali, 1981, pp. 72.
8)
A. CAROSI, Le epigrafi medievali di Viterbo (sec. VI-XV). Viterbo, Agnesotti, 1986, pp. 172.
7)
sulle suppellettili in genere e soprattutto, data la usualità e la notorietà della presenza
epigrafica su siffatti oggetti, sulle campane 9) .
L’esame delle campane, ad esempio, permette di acquisire tutta una serie di dati
relativi, oltreché alla tecnica fusoria, alla epigrafia, alla storia della iconografia, della
religiosità, del costume e dell’arte. In effetti, con maggiore frequenza a partire dal
secolo XII, vengono dapprima incise, poi apposte, su tali strumenti iscrizioni, che, su
una o più linee di scrittura, riferiscono il nome del donatore o del fonditore, quello
del santo titolare della chiesa, la data e la circostanza della dedica. Si accompagnano
contestualmente invocazioni come quella, più spesso ricorrente, che sembra esser
derivata dall’epitaffio di Sant’Agata 10) :
Mentem sanctam spontaneum honorem Deo
et patriae liberationem.
oppure orazione come l’Ave Maria od inni come il Salve Regina, magari con le parole
ridotte in sigla, formule devozionali e beneaugurali che la campana esprime in prima
persona 11) :
Laudo Deum verum, plebem voco, congrego clerum,
defunctos ploro, nimbum fugo, festa decoro.
Funera plango, fulmina frango, sabbata pango
excito lentos, dissipo ventos, paco cruentos.
Convoco, signo, noto, compello, concino, ploro.
9)
Il VOLPINI avrebbe potuto, ad esempio, ricavare dal volume di G. BRECCIOLA e M. MARI (Montefiascone. Grotte
di Castro, C. Ceccarelli, 1979, pp. 281-282), edito dal medesimo Centro di Iniziative Culturali, una iscrizione
campanaria del 1301, che reca il nome del fonditore Matteus de Viterbio.( La siglia MSSODEPL, che secondo gli
autori del citato libro “sta per un acrostico motto sacro o di un detto della Bibbia o più probabilmente di una
invocazione’, sarà da sciogliere ‘Mentem Sanctam Spontaneum (h) Onorem Deo Et Patriae Liberaationem’).
10)
Sulla formula e il relativo significato ha scritto il SERAFINI (Torri campanarie di Roma e del Lazio nel Medioevo...
Prefazione di C. Ricci, Roma, P. Sansani, MCMXXVII, p. 80, par. 103, col. L): “Parecchie campane di Roma recano,
con leggere varianti, l’iscrizione Mentem sanctam, spontaneum honorem Deo et patriae Liberationem. Essa attira
l’attenzione per la straordinaria forma grammaticale all’accusativo; ma a ben pensarci non è che una modificazione
delle altre epigrafi, già riportate, per le quali la campana parla ai fedeli delle mansioni a lei affidate. Sono perciò
sottintese delle voci verbali in prima persona, equivalenti a “invoco” o “signo”. Il fatto che le parole in origine abbiano
forse fatto parte di un’iscrizione posta sul sepolcro della martire Sant’Agata, non ci spiega perché esse siano state
adottate su tante campane, se non fosse che realmente dicevano in breve dell’ufficio proprio della campana’.
11)
A. SERAFINI, op. cit. I., p. 76, par. 104, coll. 1-2
arma, dies, horas, fulgura, festa, rogos.
Ad impreziosire la superficie esterna si aggiungono ben presto decorazioni come
monete e medaglie, sigilli di dignitari ecclesiastici, stemmi nobiliari, effigi di santi,
fregi e rilievi. Per limitarci alla Tuscia Viterbese, è sufficiente segnalare che proviene
dal territorio di Canino uno degli esemplari più antichi che si conoscono in Italia 12) e
che su un’antica campana della chiesa di san Sisto in Viterbo ci tramanda notizie
precise lo storico settecentesco Feliciano Bussi 13) .
Io trovo in un’antica memoria di questa città, che la campana grossa di San Sisto era
del Comune della città di Nola e che essendo stata recata in Viterbo dall’imperador
Federico II nell’anno 1243 egli stesso la donasse a tal chiesa; la quale notizia, benché
peraltro grossa campana, di cui oggi la stessa chiesa si prevale non è altrimenti quella,
mentre in questa trovasi formata in caratteri gotici la seguente iscrizione:
AD. HONOREM. DEI. ET. BEATI. SISTI. ANNO.
DOMINI MCCLVI. MAGISTER. BENCIVENNE.
PISANUS. ME FECIT. MENTEM. SANCTAM. SPONTANEUM.
HONOREM. DOMINI. ET PATRIAE. LIBERATIONEM.
L’iscrizione, pur nella sua brevità, attesta l’opera del Magister Bencivenne, lo stesso
che nel 1259 fuse la bella campana maggiore per la Chiesa di S. Domenico a Fermo 14) ,
confermando la presenza nell’Italia Centrale di fonditori pisani e la loro attività
itinerante 15) :
Andavano di luogo in luogo trasportando le loro officine, secondo un costume che
durò fino al secolo XVIII (ma già nel secolo XVI vi furono fonderie stabili) praticando
anche dal ‘400 in poi la fusione delle bocche da fuoco. Naturalmente una professione
12)
G.B. DE ROSSI, Cloche avec inscription dédicatoire du VII ou du IX siècle trouvée à Canino, in “Revue de l’Art
Chrétien” (1890n p.l). Il DERAFINI (op. cit., I, p. 75, par. 102, col.1),, che propone una diversa lettura commenta:
“Campana medioevale proveniente dal territorio prossimo a Canino (Tuscia Romana). Secolo VIII o principio del
secolo IX. E’ probabilmente una delle più antiche campane liturgiche che esistano, fusa in forma elegante con un bel
bronzo dai riflessi argentei. Crediamo che in origine abbia appartenuto ad una abbazia posta sotto il titolo di San
Michele Arcangelo nella regione esistente tra Tuscania e Tarquinia’. A rafforzare l’ipotesi di un dedicatore locale,
come ha ben osservato D. MANTOVANI (Momenti di storia di Blera. I documenti. Roma, Tip. Veneziana, 1984, pp.
32-43), interviene l’elemento onomastico VIVENTIV (S), che rimanda a San Vivenzio, vescovo e patrono della città di
Blera (“fuori di questa terra Vivenzio è ignoto).
13)
F. BUSSI, op. cit., P. 63.
14)
CALZINI E., Campane e fonditori di campane, in “Rassegna Bibliografica dell’arte italian”, a. XIV, 1911, p. 152; a.
XVIII, 1915, P. 16.
15)
Vd. E.I., vol. VIII, pp. 564-566, s.v. “campana”. A complemento vd. P. TOESCA Il Medioevo (Torino, UTET,
1965, vol. II, p. 1142, nota 2); A. DA MORRONA, Pisa illustrata nelle arti del disegno (Livorno, 1812, 2 ed., vol. I,
pp. 441-2; vol..II, pp. 105-115, 414-422).
così esercitata si trasmetteva di padre in figlio: è nota la famiglia francese dei DE
CROISILLES, fonditori di campane nei secoli XIII-XIV; molte altre famiglie tedesche
e olandesi furono attive fino al secolo XVIII.
In Italia la fusione di campane fu praticata comunemente nel Medioevo; ed il
ripetersi nel secolo XIII di nomi di fonditori pisani attivi a Roma, a Lucca, a Firenze
(Bartolomeo, Loteringio di Bartolomeo, Guidoccio, Guidotto e Andrea Pisano di
Guidotto, Bonoguida e Rico Fiorentini, Andreotto e Giovanni) dimostra anche da noi
quella tradizione familiari e nomade.
E proprio a Corneto troviamo attivo, (ma la data tramandata dovrebbre risultare
erronea e di conseguenza essere posticipata di circa un decennio), uno degli artefici
pisani menzonati, cioè Loteringio di Bartolomeo, dalla cui fonderia sono uscite anche
altre campane per chiese della Toscana (Lucca, Museo: 1242; Pisa, campanile del
Duomo: 1262) 16) :
un ignoto cronista dei Serviti riporta che una campana della chiesa (scilicet: S. Maria
in Valverde) portava la seguente iscrizione: Anno Domini 1211. Mi fece Lotteringio,
figlio di Bartolomeo Pisano, al tempo dei fratelli Leonardo, Angelo e Simeone.
Non è da escludere che la campana provenisse dalle chiese altrettanto antiche di S.
Nicola o San Martinello, allorché nel 1582 i Serviti la acquistarono dal Vescovo
Bentivoglio e che perciò la data riportata possa riferirsi ad una delle due chiese.
I maestri fonditori pisani operarono durante tutto il secolo XIII nell’Italia Centrale,
precisamente nelle regioni del versante tirrenico, risalendo fin nel cuore dell’Umbria
e travalicando in qualche caso l’Appennino 17) :
Bartolomeo gettò in bronzo le campane per la Basilica di San Francesco di Assisi nel
11239; un tal Magister Bonus è presente a Sangemini (TR) nel 1291, quando fonde
una campana per la chiesa di Sant’Egidio 18) . L’attività di questi artefici si esplica
anche a Roma: la tipologia delle loro campane si differenzia da altre uscite da diversa
fonderia soprattutto per una forma tubolare, elegante ma non molto allungata, e per
pareti più spesse. Se Bartolomeo firma la sua opera per la chiesa di San Cosimato a
Trastevere, con maggiore frequenza ricorre il nome di Guidotto Pisano, il quale nella
seconda metà del secolo dovette assurgere, per la sua abilità tecnica, ad una certa
notorietà: dalla sua officina escono nel 1286 i due bronzi di San Nicola in carcere su
commissione di Pandolfo de Sabello, pro redemptione anime sue; nel 1289 campana
16)
M. CORTESELLI - A. PARDI, op. cit., p. 110.
Con questa affermazione non si vuole escludere, beninteso, la presenza di fonditori pisani in altre regioni di Italia,
ma semplicemente dire che un’indagine così estesa non rientra nei limiti che ci siamo imposti.
17)
della “predica” di San Pietror, fatta per legato di un certo Riccardo, notaio del Pap
Nicolò IV e, con la collaborazione del figlio Andrea, una delle campane di Santa Maria
Maggiore, entrambe dapprima depositate al Museo Lateranense e trasferite poi al
Museo Sacro Vaticano; nel 1291 quella di Sant’Angelo in Pescheria 19) ; alla fine del
secolo XIII o nella prima decade di quello successivo un’altra campana di Santa
Maria Maggiore su commissione di Pietro Savelli 20) . La documentazione di cui
possiamo disporre conferma la presenza periodica del maestro pisano a Roma
nell’arco di un trentennio, ma l’attività di Guidotto fu, come già si è accennato,
itinerante su un’area più vasta, come si desume dalla scheda del repertorio ThiemeBecker 21) :
Glockengiesser in Pisa von dem mehrere datierte Glocken erhalten sind, die frühste
von 1273 aus S. Michele in Lucca (heute Pinak.), gegossen in Gemeinsch mit
Bartolomeo Pisano. In S. Severo e Martino bei (zerstört) befand sich eine Glocke mit
dem Datum 1277. Ferner: Lucca, San Giovanni (1281); Parma, Certosa (1287;
erhalten); Rom, St. Peter (1289).
Naturalmente tale attività non si limita alle grandi città, ma si estende con
spostamenti successivi ai centri minori: nel 1272 a San Paolo in Sabina (Ri) Guidotto
foggia, in onore della Vergine Maria e di San Pietro Apostolo, un elegante campana
avente un’altezza di cm. 80 (nodo compreso) e il diametro maggiore di cm. 63 22) :
+ A.D. M. CC.LXXII. AD. HONOREM DI. ET BEATE MARIE
VIRGINIS. ET. S. PETRI. APOLI + . GUIDACTUS PISEANUS ME FECIT. XCS VICIT.
XCS REGNAT. XCS IMPERAT. AGLA.
18)
A. CAMPANA, op. cit., p. 105, col. 2.
A. SERAFINI, op. cit., I, pp. 77-79. L’ARMELLINI (Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX... Roma, Edizioni del
Pasquino, 1982, p. 231) informa che la campana di Santa Maria Maggiore (quella del 1289) fu ai suoi tempi tolta,
depositata nei Giardini del Vaticano e sostituita con un’altra donata dal Papa Leone XIII. Quella coeva di San Pietro nel
1891, si ruppe, colpita da un fulmine, e fu sostituita da una nuova campana rinfusa nel 1893, anno giubilare di Leone
XIII.
20)
A. SERAFINI (op. cit., I, P. 78, nota 1) a proposito delle due campane di S. Maria Maggiore annota: “la data
tradizionale delle due campane dei Savelli era esattamente il 1285; ma mentre quella di Pandolfo è invece del 1289,
l’altra parte posteriore di alquanti anni; l’intervento di Pietro Savelli fa supporre infatti che Pandolfo fosse già morto
(an. 1306), e d’altra parte la presenza contemporanea del cardinale tuscolano (molto probabilmente il Buccamazza,
+1309) ci impedisce di portare la data aldilà dei primi anni del secolo XIV. Dalla quale osservazione si desume che
Guidotto fu attivo a Roma fino alla prima decade del sec. XIV. Un errore cronologico è rilevabile anche nel TOESCA
(op. cit. II, p. 1142, nota 2), il quale per la campana più antica di Santa Maria Maggiore accoglie la data del 1279.
21)
THIEME-BECKER, Allegemeines Lexicon der bildenden Künstler. Leipzig, 1968, s.v. “Guidotto da Pisa’. Trad.:
“Fonditore di campane in Pisa, di cui sono conservate molte campane datate, la prima del 1273 da S. Michele in Lucca
(oggi nella Pinacoteca) fusa in comune con Bartolomeo Pisano. In San Severo e Martino presso Orvieto (distrutta) si
trovava una campana con la data 1277. Inoltre: Lucca, San Giovanni (1281); Parma, Certosa (1287, conservata?);
Roma, San Pietro (1289).
22)
M.G. MARA, Una campana di Guidotto Pisano a San Paolo in Sabina, in “Rivista di Archeologia Cristiana”, 36
(1960), pp. 151-158.
19)
La chiusa della iscrizione declatoria reca oltre ad AGLA, parola di pregnante valore
magico-religioso, la triplice acclamazione alla regalità di Cristo, formula trasmessa,
durante l’esercizio di apprendistato e di collaborazione, da maestro Bartolomeo, che
l’aveva impiegata almeno fin dal 1221 nella campana abbaziale di Livorno 23) . Nel 1278
a Velletri, sotto il guardianato di frate Andrea de Auricola, fonde per la chiesa di S.
Francesco una campana pro anima D(omini) Boni Iohannis de Placentia 24) ed una
altra ancora conservata nella torre del palazzo municipale 25) . Tre anni dopo lo
troviamo a Corneto, dove per la chiesa di San Michele (detta anche Sant’Angelo de
puteis o della pinca) firma una campana dedicata alla Vergine Maria e a San Michele
Arcangelo, la quale più tardi sarà traslata nella chiesa di San Marco 26) . Anche in
questo caso ricorre la formula Christus vincit - Christus regnat - Christus imperat,
come avverrà nel 1290, quando sempre a Corneto egli presterà la sua opera alla
Chiesa di Sant’Egidio 27) :
Il campanile (scil.: della chiesa di S. Maria del Suffragio) recava due campane
provenienti dalla chiesa di Sant’Egidio: esse vennero calate e rifuse il 24 aprile 1863
su ordine del cardinale Quaglia e con una spesa di 25 scudi. La campana maggiore
portava la seguente iscrizione: Anno Domini 1290. Ad honorem Dei et Beatae Virginis
Mariae et intus corum P.P.E. Prior Bartholomaei - XPC vincit - XPC regnat - XPC
imperat. Quidam Guidoctus Pisanus me fecit.
Luigi Cimarra
RICERCA SU ALCUNE EFFIGI DIPINTE IN TELA
23)
E. CALZINI, art. cit., p. 152. E allora la campana di San Paolo non costituisce più l’antica testimonianza di
acclamazione alla regalità di Cristo che sia stata incisa nel bronzo, dovendosi il terminus a quo anticiparsi 1221.
Un’osservazione a parte meritano le “laudes regiae”, il cui passaggio dalla sfera profana all’uso liturgico avviene nel
secolo VIII nella chiesa gallicana, dove la formula si mantiene come nota caratteristica delle “laudes” gallicane. Verso
la fine del sec. XII la triplice acclamazione appare sulle monete dei re. Secondo dex exemples authentiques de cette
formule remarquable. Aupavarant, on ne la rencontre nulle part, pas plus en Gaule qu’à Rome et ailleurs dans
l’epigraphie et la liturgie’ (H. LECLERQ, Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, VII, 2, 11908, s.v.
“laudes”).
24)
B. THEULI - A. COCCIA, La provincia Romana dei Frati Minori Conventuali dall’origine ai nostri giorni. Roma,
Edizioni Lazio Francescano, 1967, P. 441.
25)
G. TOMASSETTI, La campagna Romana antica medievale e moderna. Vol. II, p. 378; E. MARTINORI, Lazio
Turrito... Roma, soc. Tip. Manuzio, MCMXXXIV, parte III, p. 205.
26)
M. CORTESELLI - A. PARDI, op. cit., p. 119-120.
27)
M. CORTESELLI - A. PARDI, op. cit., p. 108.
Cesare Petrosellini e Caterina di Bernardo Gabriellis 1) furono i genitori di Domenico
Ottavio Petrosellini, nato in Corneto il 10 ottobre 1683 e battezzato nella chiesa di S.
Giovanni Battista 2) da Nicolaus Meconus, servita. Suo padrino fu Ottavio Dino, per
procura di Domenico Falgari.
Fu il primogenito di dieci figli che i Petrosellini ebbero nell’arco di 22 anni e che
furono tutti annotati con tanto di bei nomi nei registri della Parrocchia di S. Giovanni
Battista ed in quella di S. Pancrazio Martire di Corneto 3) .
Il terzogenito di Cesare Petrosellini, Francesco, sposò Antonia di Pietro Antonio de
Benedettis ed il 30 novembre 1727 ebbe un figlio che venne registrato nel “Libro dei
Battesimi” nella Cattedrale di Corneto, con i nomi di Giuseppe Antonio Andrea 4) .
1)
Cesare figlio di Domenico e Caterina figlia di Bernardino Gabrielli da Corneto si sposarono nella chiesa di S.
Giovanni Battista il 25 dicembre 1682, come attesta la p.64r. nel “Libro dei Matrimoni” dal 1663 al 1726 (ms.) presso
l’Archivio della chiesa di S. Giovanni Battista di Tarquinia.
2)
“Libro dei Battesimi” dal 1663 al 1698, (ms.) iniziato dal Rettore Innocenzo Fasciani, presso l’Archivio della chiesa
di S. Giovanni Battista; cfr. “Famiglie Diverse Cornetane” - Petrosellini - , p. 355, (ms), già n ell’Archivio Falzacappa
ora presso l’Archivio della Società Tarquiniense d’Arte e Storia (S.T.A.S.); “Diz. Enc. Italiano”, vol. IX, Roma 1958,
p. 331”; C. Mariani, “Notizie dell’abate Domenico Ottavio Petrosellini”, Roma, 1890, p. 12. Il Mariani annota la data di
nascita del Petrosellini 1- ottobre 1683 anziché 10 ottobre. A riguardo del nome egli scrive: “Si vede, che tanto il
compare che il suo procuratore, vollero imporgli i loro nomi”. “DOMENICO OTTAVIO PETROSELLINI da Corneto
(Tarquinia) (1683-1747), sacerdote e poetaarcade, buon improvvisatore, discepolo del Gravina, fondò nel 1717
l’Accademia dei Quirini, che accolse i Graviniani dissidenti dall’Arcadia. Durò quest’Accademia dal 1717 al 1764 e
pubblicò due raccolte (1717 e 1730): vi appartennero alcuni poeti ricordati dal Martello nella II satira del Segretario
Cliternate: Avvi Petrosellin, che può d’un morto
Fare immortal coll’istancabil canto;
Lemer ne’ versi suoi pulito e scòrto;
Bucci, ch’andar può d’Alighieri accanto;
che del Chiabrera appena invidia il manto.
Il Petrosellini scrisse gli argomenti del RICCIARDETTO del Forteguerri e compose un poema satirico giocoso in IV
canti d’ottave: il GIAMMARIA ovvero l’ARCADIA LIBERATA, rimasto inedito fino al 1892, quando fu pubblicato a
Corneto-Tarquinia, premessovi un Discorso di Dione Crateo (il Gravina).
Il poeta narra lo scisma famoso dei Quirini, cagionato dalla tirannia di Giammaria Crescimbeni, custode generale
d’Arcadia, e termina coll’intervento di due figure allegoriche: l’Allegrezza e la Penitenza, la quale ultima, dopo aver
conciato in malo il povero Alfesibeo Cario, reduce dai trionfi arcadici, gli predice le glorie dell’Accademia dei Quirini.
Ma il Petrosellini rientrò nel grembo dell’Arcadia dopo la vittoria di questa sui dissidenti; e si leggono sue rime, col
nome di Eniso Pelasgo, nei tomi X (1747), XI (1749), XII (1759), delle rime degli Arcadi: rime di uno che ha studiato
il Chiabrera e il Filicaia e fa presentire, come ha notato il Calcaterra, la vacua e rumorosa maniera Frugoniana.
Notevole il sonetto al Bentivoglio per la traduzione della Tebaide”.
(Da: G. Natali, IL SETTECENTO, IV Ediz., parte II, Milano, (Vallardi), pp. 10541055.
Per uno studio più completo su D.O. Petrosellini si rimanda: C. Mariani, “Notizie dell’Abate D.O. Petrosellini”, Roma
11890; C. Mariani, “Canzoni” dell’Abate Domenico Ottavio Petrosellini, pubblicate nel 2° Centenario di Arcadia dal
suo concittadino Crispino Mariani, Roma, 1890; D. O. Petrosellini, “Il Giammaria”, Corneto-Tarquinia, 1892. Altri
suoi manoscritti, sono reperibili in Roma presso l’Accademia Arcadia, in Piazza S. Agostino, dove esiste il poema
satirico “L’Arcadia Liberata” o “Il Giammaria”.
3)
Oltre a Domenico Ottavio, i Petrosellini ebbero nove figli con i nomi di Giovanni, 1685, p. 127; Francesco, 1686, p.
132; Francesco Stefano, 1688, p. 143; Rosa Sabbata, 1690, p. 148; Augusto Cesare, 1697, p. 112; Agata Maria
Maddalena, 1702, p. 8; Giuseppe Antonio 1705, p. 18; tutti registrati nei libri presso la chiesa di S. Giovanni Battista di
Corneto, mentre Giuseppe Bernardino, 1693, p. 22 e Francesca Maria Giacinta, 1695, p.5, sono registrati nei libri già
presso la chiesa di S. Pancrazio M. di Corneto, ora presso l’Archivio della Cattedrale di Tarquinia.
4)
“Libro dei Battesimi” dal 1727 al 1735, p. 6, presso l’Archivio della Cattedrale di Tarquinia.
Sia Domenico Ottavio che Giuseppe - più grande il primo di ben 44 anni - furono
nella vita abati, poeti “et arcadis ambo”, non per questo però devono essere creduti
fratelli, ma, come riportano i documenti, da considerare zio e nipote a tutti gli effetti,
anche se Domenico Ottavio ebbe un fratello di nome Giuseppe Antonio che nacque
nel 1705 5) e fu il decimo ed ultimo figlio di Cesare e Caterina.
Crispino Mariani, in “Notizie dell’Abate D.O. Petrosellini”, Roma 1890, p. 12, scrive di
lui una piccola biografia, riportando anche alcune sue poesie con il nome pastorale di
“Eniso Pelasgo”, ed in contrasto con Luigi Dasti nella sua “Storia di Corneto” 6) egli
nega “recisamente” che il D.O. Petrosellini fu uno dei fondatori di Arcadia, mentre è
pienamente d’accordo con Pietro Falzacappa quando questi scrive che il poeta ricoprì
la carica di sottocustode di Arcadia. Se però Domenico Ottavio non fu uno dei
fondatori di Arcadia, “fu certamente uno dei fondatori della non meno celebre
Accademia Quirina”. Seguì gli studi nel celebre Seminario di Montefiascone, a 22
anni fu annoverato fra gli Arcadi - 19 dicembre 1705 - e visse in Roma, dove morì il 14
maggio 1747, come resistrato in Arcadia.
Sempre nelle stesse “Notizie...”, p. 10, è scritta una breve biografia di Giuseppe
Petrosellini, nipote di Domenico Ottavio. Anche questi fu valente poeta e membro di
varie accademie: “visse in Roma, fu bussolante di N.S. e segretario del principe
Giustiniani”. L’Abate Giuseppe Brogi, pro-custode generale di Arcadia, c’informa che
Giuseppe fu nipote di Domenico Ottavio Petrosellini. Infatti, in un suo sonetto di lode
al defunto Domenico Ottavio, alludendo al giovane Giuseppe, si esprime così: “di
eccelso vate non minor nepote” 7) .
Quanto detto finora lo ritengo necessario per quello che mi appresto a descrivere
intorno ad alcune effigi, raffigurate su tela e che si trovano in Tarquinia,
Montefiascone e Roma. Molto probabilmente le tele sono riconoscibili nella figura
dell’Abate Domenico Ottavio Petrosellini.
Inizierò col parlare della tela dipinta ad olio, attualmente esposta lungo una piccola
scala del Seminario di Montefiascone (fig.1); essa è contrassegnata, nel retro, dal
numero “6” e reca la scritta “Petrosellini”; il tutto segnato a gesso da lavagna, come
del resto, in questo modo, sono trattati quasi tutti gli altri quadri esposti nel
Seminario.
5)
Vedi nota n°3.
“Notizie Storico Archeologiche di Tarquinia e Corneto”, Roma, 1878, pp. 180-181.
7)
C. Mariani, “Notizie”, op. cit., p. 10, Giuseppe Petrosellini portò il nome pastorale di Enisildo Prosindio.
6)
Nelle sue “Notizie” (op.cit. p. 12), il Mariani ci parla del dipinto del Petrosellini nel
Seminario di Montefiascone in questi termini: “dove tutt’ora si vede il suo ritratto, e
sotto si legge - Poeta clarissimus-”. Anche il Bergamaschi in “Vita del Servo di Dio
Card. M.A. Barbarigo”, Roma 1919, vol. I. p. 448, dice: “ tra i primi professori illustri
del Seminario e Collegio di Montefiascone del tempo del fondatore card. M.A.
Barbarigo, si deve ricordare Domenico Ottavio Petrosellini, di Corneto....” “Egli entrò
in Seminario nel 1699. Il Seminario collocò nella galleria dei professori e degli
Studenti Illustri il quadro commemorativo, aggiungendovi la seguente iscrizione:
“DOMINICUS-OCTAVIUS/PETROSELLINI/CORNETANUS-POETACLARISSIMUS/ARCADIE/PRO
CUSTOS
ET
CENSOR/15-IUNI
-
1701.
CONVICTOR”.
Infine, secondo le affermazioni di un sacerdote ex rettore e professore del Seminario
di Montefiascone e Corneto per un decennio (1961-1970), 8) la tela, esposta nelle
pareti della piccola scala è stata sempre riconosciuta in Seminario per l’effige di
Domenico Ottavio Petrosellini. Il Reverendo ricorda ancora quando il quadro era
nella “Galleria dei Professori” e portava la scritta citata dal Bergamaschi.
Il Canonico Meconi, Prefetto degli Studi del Collegio e Seminario di Corneto e
Montefiascone, nel 1826, tramite il Card. Gazola, chiedeva al Gonfaloniere di
Corneto, Francesco Maria Bruschi Falgari, di poter entrare in possesso del ritratto del
celebre Domenico Ottavio Petrosellini, per collocarlo nei corridoi del nuovo braccio
del Seminario, accanto agli altri ritratti degli allievi (“Il Procaccia”, n.9, pp.1-5).
In realtà, non sappiamo se il quadro richiesto dal Meconi sia l’attuale esistente in
Seminario; non è da escludere però che esso possa esserci arrivato tramite
l’interessamento di qualche agiata famiglia di Corneto, per esempio la casa Mariani.
Nell’ufficio del comandante i Vigili Urbani di Tarquinia, è appesa alle pareti una tela
di minori dimensioni di quella nel Seminario (fig.2), proveniente dall’ex Archivio del
8)
Mons. Antonio Patrizi ex Rettore e Professore del Seminario di Montefiascone e Corneto (1961-1970); oggi Parroco
della Basilica Cattedrale del Santo Sepolcro di Acquapendente, in una lettera inviatami in data 16 ottobre 1986, così mi
scrive: “Riguardo al quadro di Domenico Ottavio Petrosellini di Corneto, nonostante abbia passato una per una le carte
(ed anche i libri e i registri) dell’Archivio storico del Seminario di Montefiascone, non ho trovato alcun accenno al
tempo in cui il quadro possa essere stato donato alla galleria dei professori ed ex alunni illustri del Seminario stesso. Le
posso però assicurare, con certezza, che il quadro del Petrosellini è di Domenico Ottavio e non dell’altro, Giuseppe,
perché:
1) era collocato sopra l’iscrizione riportata dal Bergamaschi, la quale inizia con le parole: DOMINICUS-OCTAVIUS
PETROSELLINI-CORNETANUS,
2) ricordo bene che il defunto Mons. Leonetti, Professore e Rettore del Seminario a cavallo degli anni ‘40, che sapeva
a a memoria tutta la storia del Seminario tramandata oralmente dalle generazioni dei professori che l’avevano
preceduto, ci additava questo Petrosellini di Corneto come un grande poeta del primo ‘700 ed accademico di Arcadia.
3) Giuseppe Petrosellini non risulta essere stato considerato tra gli ex alunni del Seminario, dato, ma non è certo, che ne
debba essere stato alunno”.
Palazzo Comunale. Essa risulta perfettamente uguale a quella del Seminario di
Montefiascone 9) . Nel “Saggio o Cenni Brevissimi sull’Antichità e Pregi della Città di
Corneto”, n. 103, p. 315, Corneto 1839 10) , è riportato che il concittadino Petrosellini fu
poeta insigne ed “il di lui ritratto conservasi in seg.ria Magistrale”. Dalle annotazioni
nelle “Famiglie Diverse Cornetane” F.5, si apprende che “il ritratto del Petrosellini fu
posto in seg.ria nell’ottobre ca. 1827, e copiato dall’originale in Arcadia”.
Non sappiamo, però, se le due annotazioni provenienti dall’Archivio Falzacappa, si
riferiscono al quadro del Petrosellini che è nel comando dei Vigili Urbani. E’ più
probabile invece che l’ultimo di questi scritti si riferisca ad altra tela inventariata,
raffigurante il D.O. Petrosellini e facente parte della Raccolta Comunale (fig.3), oggi
ubicata nel Palazzo Vitelleschi di Tarquinia 11) .
Un quarto quadro del Petrosellini (fig.4), forse uno dei più certi, è quello che un
tempo era presso l’Accademia Arcadia, oggi trasferito nei magazzini di Palazzo
Braschi al Museo di Roma. Questo dipinto, che differisce per alcuni piccoli particolari
da quello della Raccolta Comunale, può considerarsi quasi certamente il modello che
servì a realizzare la tela della nostra Raccolta 12) .
9)
La tela dell’archivio, che venne pubblicata per la prima volta in “Croniche di Corneto” di Mutio Polidori, Tav. I, con
la denominazione: “Ritratto di ecclesiastico del XVII sec. (forse Muzio Polidori?”) (Corneto 1609-1683), oltre ad
essere copia perfettamente uguale all’altra del seminario di Montefiascone, sia per il colore che nel disegno,
sembrerebbe anche dipinta dal medesimo pennello. Stando poi ad una memoria, tramandata dal Sig. Giuseppe Volpini
(Corneto 1883-1971) al Comm. Renzo Rotelli, che fu per molti anni responsabile dell’Archivio Comunale, il dipinto
avrebbe dovuto raffigurare il Canonico Domenico Sensi (Viterbo 1805-Corneto 1880), già Arcidiacono della Cattedrale
di Corneto. Ultimamente però, ottenuta la fotografia di questo Prelato, per gentile concessione dell’Istituto
Archeologico Germanico di Roma, e fatti i dovuti confronti, è da escludere qualsiasi somiglianza tra questo volto ed il
ritratto dell’archivio.
10)
Il manoscritto, già nell’Archivio Falzacappa, è ora visibile nell’Archivio della S.T.A.S.
11)
Questa tela alla voce 3 di un “Elenco” è annotata: “Ritratto a mezzo busto di D.O. Petrosellini con cornice”. Nel
1916 la tela è consegnata dal Comune di Corneto-Tarquinia al Ministero della P.I. a firma G. Cultrera e C. Palma. Negli
“Inventari” del 1947 e 1970, fatti compilare dalla Soprintendenza alle Antichità per l’Etruria Meridionale, a firma M.
Moretti, il quadro della Raccolta Comunale, alla voce 9 è così annotato: “Ritratto a mezzo busto di Domenico Ottavio
Petrosellini. Misura senza cornice m. 0,62 x 0,50. Valore app.vo L. 1000”.
12)
La tela, che differisce da quella della Raccolta Comunale per avere il personaggio i capelli meno bianchi, risulta così
annotata nella scheda del Museo di Roma: “Anonimo; prima metà del XIX sec. tela dipinta ad olio 72 x 61, cornice
dorata, raffigurante Domenico Ottavio Petrosellini, Magazzini di Palazzo Braschi (Museo di Roma)”.
Secondo uno scritto del 1957, inviato al Sindaco di Tarquinia Sig. Bruno Blasi dal Sig. Luigi Petrosellini, parente del
poeta, per ottenere nella toponomastica della Città l’intestazione di una via con il nome dei due Petrosellini, risulterebbe
che il quadro conservato già nell’Accademia Arcadia di Roma, è opera eseguita ad olio nell’anno 1760. Inoltre, stando
ad uno scritto del prof. Italo Faldi, apparso in “Tuscia” 1983, è probabile che il dipinto del Petrosellini sia opera del
pittore Vincenzo Milione (1735? - Roma, 1805), operante nella seconda metà del XVIII secolo in Roma ed avente lo
studio in via del Sudario.”.... di lui conosciamo solo ritratti, che dovette dipingere a iosa considerando i tanti che ad
ogni piè sospinto è dato incontrare, prevalentemente (a parte i circa trenta di Arcadi eseguiti per l’Accademia
dell’Arcadia su commissione del Principe Luigi Gonzaga di Castiglione, conservati nel Museo di Roma a Palazzo
Braschi), di cardinali o alti prelati, ...). Il Faldi inoltre dice che certe ripetitività del Milione, nei personaggi raffigurati a
mezzo busto “tenendo nella mano destra una lettera”, fanno “pensare che i ritratti fossero già impostati in precedenza in
serie comprendenti non più di due o tre tipologie, in attesa del committente del quale aggiungere il volto”.
Fino al 1979, anche nella Sala Capitolare della nostra Cattedrale era appeso un
quadro di D.O. Petrosellini che, è annotato nell’”Inventario” della S. Visita fatta alla
Chiesa Cattedrale nel 1934, come fotografia con cornice dorata “dono fatto al Capitolo
dal Signor Crispino Mariani 13) . Per il Rev. D. Giovanni Felici, il quadro, citato anche
in precedenti Visite Vescovili, sarebbe riconoscibile (come da fotografia mostratagli)
con la tela del Seminario di Montefiascone e con quella che si trova nell’ufficio del
Comandante i Vigili Urbani di Tarquinia.
Riepilogando, e a conclusione di quanto già detto, ci troviamo di fronte a quattro
quadri, dei quali due, quello del Seminario e quello già nell’Archivio, perfettamente
uguali; quello in Arcadia e l’altro della Raccolta Comunale, identici tra loro. A questo
punto però, ci si chiede quale sia il vero Domenico Ottavio Petrosellini. Oppure
trattasi di due ritratti distinti di Giuseppe e Domenico Ottavio Petrosellini?
E’ anche possibile che il quadro del Seminario di Montefiascone sia pervenuto in
quella sede dalla “Collezione” di casa Mariani 14) , mentre quello, già nell’Archivio
Comunale, sia una copia di quest’ultimo. Del resto, non fu Crispino Mariani che nel
1883 donò al Comune di Corneto le poesie inedite del Petrosellini, estratte dal tomo X
d’Arcadia? (“Notizie” op. cit., p.12). E non fu lo stesso Mariani che donò il quadroritratto del Poeta al Capitolo della Cattedrale di Corneto? E poi chi meglio di Crispino
Mariani era a conoscenza dell’opera letteraria del Poeta di Corneto, soprattutto per
aver dato alle stampe quelle preziose “notizie” sull’Abate?
Considerando ancora che il quadro dell’Archivio non ebbe a subire la stessa sorte di
essere messo da parte insieme agli altri dipinti della Raccolta Comunale 15) , ma restò
appeso per tanti anni alle pareti di quell’ufficio di rappresentanza del nostro Comune,
è ovvio pensare che per rimanere in quel luogo, una valida ragione doveva pur
esserci. Infatti, quale personaggio se non il Petrosellini poteva essere raffigurato in un
dipinto da porsi nella sala dell’Archivio Comunale?
Non potrei considerare completa questa mia ricerca congetturale se prima non
esprimessi, fra le tante probabilità accennate, anche quella, non meno trascurabile,
13)
“Inventario”, esibito in S. Visita fatta alla Chiesa Cattedrale di Tarquinia nel 1934 dal Vescovo Mons. Luigi Drago e
redatto dal Segretario capitolare D. Carlo Scoponi.
14)
Per tutto l’arco dell’800 fino ai tempi nostri, nella Casa Mariani furono conservati molti dipinti che raffiguravano
grandi personaggi di Corneto.
15)
Il dipinto dell’Archivio, a differenza di tutti gli altri quadri della Raccolta Comunale, non è mai stato annotato negli
“Inventari” fatti preparare dal Comune nelle prime decadi di questo secolo. Non sappiamo inoltre se il dipinto è
annotato negli “Inventari Interni”, che certamente il Comune avrà fatto compilare. Nei vari archivi, dove attualmente
sono conservate le pubblicazioni del Petrosellini, non si è riusciti a trovare alcuna sua effigie. Ciò avrebbe facilitato di
molto il riconoscimento delle tele.
della possibilità che le quattro tele in questione possano raffigurare la medesima
effigie: quella del poeta D.O. Petrosellini.
Infine, se il ritratto del D.O. Petrosellini è rimasto esposto nelle sale dell’Accademia
Arcadia per molti anni, ciò è avvenuto soltanto perché l’Accademia era certa che
quella tela raffigurava Petrosellini.
Si può sostenere questo ragionamento anche per il ritratto del Petrosellini che si trova
nel Seminario di Montefiascone, soprattutto se si prendono in considerazione gli
scritti del Bergamaschi e le dichiarazioni rilasciate dall’ex Rettore del Seminario.
Lorenzo Balduini
BIBLIOGRAFIA
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-
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“Scheda” del dipinto raffigurante D.O. Petrosellini, presso l’Archivio
dell’Accademia Arcadia in Roma.
“Scheda” del dipinto raffigurante D.O. Petrosellini, presso l’Archivio di
Palazzo Braschi (Museo di Roma).
Fotografia del Canonico Domenico Sensi, presso l’Archivio Fotografico
dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma.
“Il Procaccia”, a cura di M. Brandi, P. Ceccarini, L.M. Perotti,
Tarquinia,
I. FALDI,
pp.
1983, n. 9, pp. 1-5.
“Vicedomino Videcomini il papa di un giorno”, in “Tuscia” 1983, n. 31,
32-33.
Una tela dei “SETTE FONDATORI ORDINE SERVI DI MARIA”
nella “RACCOLTA CIVICA”.
A distanza di alcuni anni, da quando cioè fui chiamato per preventivare un restauro
di alcune tele della “Raccolta Civica”, solo oggi ho avuto la possibilità di rivedere
quelle opere che, rimaste per tanto tempo dimenticare nel più completo abbandono
in ambienti di Palazzo Vitelleschi, sono di recente ritornate a Tarquinia, dopo aver
subito un ottimo e provvidenziale restauro scientifico da parte del “Laboratorio di
Restauro della provincia di Viterbo”. Il mio interesse nel rivedere le tele si ferma su
alcune, ed in modo particolare su di una tela che forse un tempo aveva fatto bella
mostra sugli altari di qualche chiesa officiata dai monaci dell’Ordine “Servi di Maria”
nella città di Corneto.
Da quel che mi risulta sapere, a proposito di questa tela, dirò che essa fu rinvenuta e
consegnata al prof. Cultrera, (allora direttore del nostro museo), dal portiere della
Scuola Comunale Sig. Angelo Cervellini, come si può constatare da una ricevuta
(A.S.C., Cat. 9, cl. 8.F.1.), nella quale è detto: “Dichiaro di aver preso in consegna dal
portiere della Scuola Comunale Sig. Angelo Cervellini, una tela con cornice dorata,
rappresentante sette frati, di cui uno che sembra il superiore, con un libro aperto
sulle ginocchia. Tarquinia, 24 novembre 1923. Giuseppe Cultrera”.
La scuola citata nella ricevuta del Cultrera è da individuarsi nell’attuale Scuola Media,
un tempo monastero Agostiniano O.S.A., dove il Cervellini svolse per parecchi anni la
sua mansione di portiere abbinandola con l’attività di ciabattino che faceva durante le
pause del suo lavoro.
Il quadro descritto nella ricevuta può riconoscersi in quello che oggi fa parte della
“Raccolta Civica”, anche se la misura attuale della tela, di cm. 94,4 x 138, sia
leggermente aumentata rispetto a quella già conosciuta prima dell’intervento di
restauro. Questa tela, dipinta ad olio, con molta probabilità è stata commissionata dai
Servi di Maria ad artista che la dipinse circa la seconda metà del XVII secolo, e che
per l’esattezza rappresenta “I SETTE FONDATORI ORDINE SERVI DI MARIA”.
Da un “Inventario” della chiesa di Valverde (A.S.C., 1744, p. 45), sembra che un
quadro, raffigurante i Sette Santi Fondatori, era “situato in mezzo al Coro” sotto di
cui vi era collocato un Crocifisso. Non sappiamo però con esattezza se il quadro del
Coro di Valverde sia lo stesso ritrovato nella scuola Comunale. Inoltre, questi
“Inventari” non parlano di altri quadri con simile denominazione; anche da quelli
comunali si ricava poco o nulla.
Un’identica copia della tela di Tarquinia, la possiamo vedere affrescata nelle pareti
dell’Abbazia di Praglia (ex convento dei “Servi”). “Si tratta di opera che dal punto di
vista stilistico è ascrivibile alla seconda metà del ‘600, di artista padovano.
Rappresenta i Sette Fondatori nell’atto di professare la Regola di S. Agostino: S.
Bonfiglio 1) è seduto, con sulle ginocchia un libro aperto (la Regola di S. Agostino), e
gli altri sono inginocchiati intorno” (P.M. Branchesi, “Il Servo di Maria”, n.1.2,, 1983,
p.23).
L’affresco di Praglia, e la tela della Collezione Comunale hanno una identica
eccezionale iconografia e sono realizzate cromaticamente con toni bruno-ocra, anche
se nella tela di Tarquinia è evidente una colorazione un po' più fredda di quella
dell’affresco. Rimane pertanto uguale nelle due opere la disposizione dei monaci
nell’interno dell’ambiente, mentre nella veduta di un esterno, attraverso una piccola
loggia, l’architettura e le figurine che vi appaiono, sono leggermente diverse nei due
dipinti.
Come questa tela sia finita nel monastero degli Agostiniani non ci è dato conoscere,
sappiamo solo che tale quadro, (forse per l’insolita iconografia) rappresenta, secondo
esperti dell’Ordine dei “Servi”, un qualcosa di molto interessante e perciò non
trascurabile, sia dal punto di vista della conservazione, che da quello storicoambientale, tenendo anche in considerazione che la presenza e le vicende in Corneto
dei Servi di Maria si protrassero ininterrottamente per circa quattro secoli.
Lorenzo Balduini
IL SOFA’ DELLE MUSE
Sull’estrema rampa di via delle Croci, nel cuore della Clementina, a lato di un
cedimento geologico, esisteva un sedile, scavato nella viva roccia da non si sa bene
chi; ma da qualcuno che aveva la capacità di modificarne la durezza modellandovi
una spalliera un po' mossa, alla Luigi Filippo. Sarebbe dovuto servire probabilmente
alla sosta di chi, in passato, si portava su quella salita, detta appunto delle Croci,
dove i nostri padri seguivano le sacre rappresentazioni di Pasqua che avevano il
merito di muovere a pietà il cuore degli uomini, indurito dalla miscredenza e dalle
correnti di pensiero che cominciarono a serpeggiare, dopo la Riforma, in ogni strato
sociale d’Europa e del mondo. Quella salita dunque stava lì a rammentare le tre
cadute di Nostro Signore sotto il legno della croce, ancor prima che la dolorosa
vicenda del Venerdì Santo si concludesse sul campo detto del Calvario. Ed è
1)
S. Bonfiglio Monaldi (Firenze, 1198-1262), è uno dei Sette Santi Fondatori e primo Generale dell’Ordine Servi di
Maria.
facilmente immaginabile l’effetto che tutta quella messa in scena poteva esercitare
sull’animo del popolo fedele.
Ebbene, quel sedile venne battezzato da alcuni buontemponi che fra le due guerre
rappresentarono la punta avanzata della cultura locale, con la più curiosa delle
invenzioni: il Sofà delle Muse, quando già le Muse, per rivelazione di Leonardo
Sinisgalli, non dimoravano più sul Parnaso così come ce le proponeva il telone del
Teatro Comunale, ma appollaiate sui rami delle querce a mangiar ghiande e coccole.
Ma più che un’invenzione, fu il plagio di una rubrica letteraria allora in voga su di un
periodico del tempo, che il sor Ernesto Braghetti, con un pizzico di civetteria, volle
compiere per dimostrare di essere a ragione il depositario della coltura.
Data l’esposizione del sito, era consigliabile andarci d’estate, per appuntamento, a
rifiatare sul tardo pomeriggio il ponentino; perché d’inverno e nelle stagioni più
mutevoli, ci tenzonava sopra l’intiera progenie eolica. Per cui la maggior parte
dell’anno ci si incontrava in zone più a riparo e prossime all’abitato, come Porta
Firenze, per ripetere il mezzo giro della Circonvallazione, sotto le mura, così come
accadeva nell’inferno dantesco ai prodighi e agli avari. Perché raggiunto il limite oltre
il quale s’annidavano gli spifferi più insolenti, si girava e rigirava sotto l’imperio del
sor Ernesto che su tutta quella brigata aveva la maggiore ascendenza. Lo si vedeva
spuntare, non prima delle undici antimeridiane, su piazza Cavour, sempre
elegantemente vestito con una delle tante lobbie, e un vecchio giornale in mano
arrotolato, per dare inizio alle quotidiane deambulazioni. Si discorreva di tutto quel
che stava accadendo o era già accaduto in paese e fuori, naturalmente con il senno del
poi: e si finiva col parlare di giornalismo, di letteratura, ma soprattutto di musica. Su
Giuseppe Verdi e sul discusso “un pa pa” dei suoi accompagnamenti orchestrali, il sor
Ernesto tagliava corto, col ricorrere a quella canzone che Gabriele d’Annunzio,
pronunciò in morte del Cigno di Busseto che “pianse ed amò per tutti”. Sentenze
simili erano di suggello a qualsiasi disputa. Cosicché il discorso poteva poi deviare da
parte dell’uno sulla dolcezza del proprio apparecchio radiofonico o intorno alla
capacità interpretativa dei cantanti: o da parte dell’avvocato Latino Latini che, per
avere una voce di basso profondo, si privilegiava di aver cantato addirittura col
baritono De Luca di passaggio un giorno a Tarquinia non so bene in quale
circostanza. Se lo si trovava in vena di esibizione, si metteva a cantare l’aria dal “Don
Carlos” che era il suo cavallo di battaglia. Ma forse l’età o una naturale distorsione del
timbro vocale, più che di un cavallo doveva trattarsi di un vero e proprio ronzino. Non
è improbabile una sua partecipazione a un ruolo secondario nelle compagnie dei
guitti che, alle stagioni morte, venivano a svernare a Corneto che vantava allora un
efficiente teatro comunale. Bastavano due modestissime voci, tenore e soprano, per
rimediare “in loco” comprimari, comparse, coristi; mentre per i musicanti
dell’orchestra c’era la riserva delle due bande rivali, la Rossa e la Nera, che si
riconciliavano soltanto in quelle occasioni.
Si raccontava in proposito che, in una edizione della “Favorita”, un basso dilettante,
dovendo recitarre in canto la frase “Sire che mai fu? La corte v’attende”, su quel fu,
preso in piena profondità vocale e sul quale nemmeno Donizetti aveva creduto di
collocare una mezza corona, il direttore d’orchestra dovette per ben tre volte
abbassare la bacchetta per por termine a quel fu che tacque sol quando si svuotò la
cassa toracica dell’interprete. E l’avvocato Latini, per statura e peso, avrebbe potuto
benissimo rappresentare quel comprimario, sia per vanità che per passione.
In quel teatro scomparso, come tante cose nobili di questo paese, si avvicendarono,
secondo il sor Ernesto, molti attori di prosa, fra cui Giacinta Pezzana. Io ricordo di
avervi visto recitare dal loggione, insieme ai miei genitori che nonostante la loro
condizione culturale mi recavano di tanto in tanto a teatro, un drammone la cui
interprete non faceva che entrare ed uscire di scena per lamentarsi della scomparsa di
qualcheduno che era effigiato in un quadro che si portava continuamente dietro. Ma
più m’incuriosiva il sorprendere nell’occhiaia di una maschera in mano a una Musa
del telone, la mobilità dello sguardo del capocomico che ammiccava con brevi
intervalli per accertare gli umori e l’entità del pubblico.
Intorno ai fatti letterari, il più aggiornato era senza dubbio il sor Ernesto, grazie ad
una personale corrispondenza con Vincenzo Cardarelli: cose che se lo inorgogliva,
non lo faceva discostare di un et dalla stima e dalla venerazione per il poeta-soldato
d’Annunzio della cui opera omnia aveva riempito la sua libreria.
Non so se in omaggio a d’Annunzio si era fatto fotografare, per un giovanile peccato
di presunzione, in un galoppatoio, vestito alla Sperelli o nella foggia di qualche altro
eroe dannunziano. Riguardo a queste radicate preferenze che erano, nei confronti con
Cardarelli, come il diavolo e l’acqua santa, egli finiva sempre col dare a Cesare quel
che era di Cesare e a Dio quel che era di Dio. Non ammetteva confronti e tanto meno
discussioni non so se per incapacità critica o per partito preso. Perché, a dire il vero,
egli veniva sempre più diventando l’elemento catalizzatore attorno a cui finivano per
gravitare tutte le persone che riteneva di prestigio e di utilità alla comitiva tutta. E
tutti lo degnavano di rispetto e considerazione così come accadeva una volta nelle
arcaiche famiglie contadine. Non perché ne avesse qualche provenienza, ma una certa
esperienza specie nel modo di prevedere le variazioni del clima nelle quattro stagioni:
se sarebbe piovuto o venuta la secca, come i venti avrebbero spirato, a seconda se la
luna s’affacciava a ponente oppure a levante, se il sole calava rosso la sera o se il
maestrale si faceva cavalcare dalla tramontana.
Insomma sapeva dare gli appuntamenti più acconci senza venir mai meno alle sue
vedute metereologiche, con più esperienza dei cacciatori maremmani che si bagnano
di bava l’indice di una mano prima di esporlo all’aria per vaticinare il tempo. Ma
questa sua capacità nessuno sospettava che gli derivasse dalla posizione della sua
camera da letto da cui poteva comodamente vedere sulla torre del Municipio la
direzione della banderuola.
Fra le varie dispute, non è che non si affacciasse qualche conversazione politica,
specie dopo la campagna etiopica e la conquista dell’Impero; oppure in piena guerra
di Spagna o in previsione di quella che poi si sarebbe scatenata, con qualche accenno
di critica, ma sempre al riparo da orecchie sospette. Tutto questo però non esonerava
nessuno dalle adunanze di ogni sabato fascista dov’era d’obbligo la “cimicia”
all’occhiello e la camicia nera.
Altrimenti come sarebbe stato possibile al sor Ernesto esercitare, senza intralci, il
commercio-monopolio dei prodotti caseari che variavano dal cacio pecorino alla vera
ricotta romana che puntualmente ogni giorno venivano spediti per ferrovia a grande
velocità verso Milano? Grazie al quale egli si poteva permettere, con un fratello in
sott’ordine, una vita agiata e senza scossoni di sorta.
Chi se la rideva di tutti e di tutto era il dottor Giuseppe Bellati, medico condotto in
pensione, specie quando l’avvocato Latini si presentava nel gruppo di tarda mattina
per spulciare dal suo taccuino unito e scucito una delle rarità o stravaganze
linguistiche, racimolte chissà dove. E le discussioni erano infinite quando non ci si
arenava di fronte alla scarsa conoscenza del greco e del latino che i due vantavano di
aver studiato in epoche giovanili. Tanto che ogni membro, una volta che veniva a
trovarsi fra le mani una parola scorbutica e antiquata, se la segnava per farne motivo
di sfida e dibattito. Ma il sor Ernesto, sotto il gesto imperioso della sua mano, trovava
sempre modo di collocare la ragione dalla parte giusta con l’agitare le bellissime
mani, curate a dovere, con le unghie ampie e convesse come ghiande mature: il che
dava modo all’avvocato Latini di intravedervi un segno nefasto, non so dire se
suggerito dall’invidia di avere le proprie come quelle di un norcino. Fatto sta che il sor
Ernesto cadde un pomeriggio d’estate sulla strada che più frequentava, nei pressi del
Sofà delle Muse, senza portar a termine il discorso che aveva appena iniziato. Quando
l’adagiarono sul lettino del pronto soccorso all’Ospedale, era già morto. E vederlo così
in disordine da quella sua maniera abbottonatissima nel vestire, con la camicia aperta
sul petto da dove spuntava un foglio di giornale (se l’era messo a protezione di un
presunto dolore reumatico) e con i capelli rovesciati all’indietro che lui riusciva, quasi
per magia, a portare sul davanti dalla nuca per mascherare la calvizie, ebbi la
medesima impressione che subivo nel leggere di monatti e di camere mortuarie dove
il mestiere faceva venir meno anche il rispetto. Certo è che se il dottor Bellati non
l’avesse preceduto di qualche tempo, lo avrebbe messo in guardia da quella fine così
inaspettata e improvvisa.
Quando nelle buone giornate m’incammino verso quelle zone un po' fuori
dell’abitato, anche se il Sofà delle Muse ha dovuto dar luogo alle esigenze della
moderna edilizia, non riesco a dimenticare tutti quei personaggi che mi furono vicini
nel tempo della mia giovinezza e tutte le vicende che ebbero protagonisti personaggi
come il sor Ernesto, il dottor Bellati e l’avvocato Latini; e se oggi ne scrivo, è per una
memoria da tramandare, dato che la sorte aveva negato loro ogni successione di
prole.
Uno degli ultimi ma fedelissimo frequentatore fu un tal pensionato delle ferrovie,
certo Baldacchini, che aveva una vasta conoscenza del potenziometro, un accessorio,
a quanto pareva, assai importante per il buon funzionamento degli apparecchi
telefonici. La sua piccola statura, una pronuncia quasi nasale come di eterno
raffreddato che gli faceva pronunciare “potezziometro”, era di generale utilità. Tanto
che don Vincenzo Galano, parroco di san Giovanni, salito quassù in Maremma dal
salernitano, lo appellava spesso col nome di “radiologo”; e con la stessa facilità con
cui chiamava Vittoria la Sonnambula, la verduraia, “Vittoria verd’o mare”, o come
consigliava le sue anime a non esporsi d’estate al sole perché avrebbero potuto
contrarre la “pleurita”, fatale porta d’accesso alla “tubercolotica”. Ma a don Vincenzo,
per rispetto anche al suo abito talare, non si facevano pesare queste ed altre
improprietà linguistiche, nemmeno quando, dovendo far trascrivere all’ufficio di
stato civile la nascita di un neonato, fece notare al funzionario che il genitore, essendo
maschio, non poteva essere “geometra”, ma “geometro”. E così via. Di tutte queste
cose l’avvocato Latini prendeva nota nel suo taccuino per poi farne motivo
d’imitazione quando tutti si radunavano per le tradizionali merende estive, fatte in
casa sua per consumare il pollo alla “Caraffa” (cuoco e funzionario-disegnatore della
Soprintendenza ai Monumenti) o all’orto-giardino del notaro Sconocchia, in fondo
all’Alberata, oppure a mangiare la “panzanella” nel fondo rustico di Valentino Boni,
nella zona di Montarozzi, che in aperta campagna e in luogo appartato, acquistava un
sapore inenarrabile. Qui, nonostante il pane fosse abbondantemente inzuppato e
condito, si vuotavano fiaschi e bottiglioni di vino casareccio che il buon anfitrione
metteva a disposizione della comitiva. Di queste pappate, io venivo a conoscenza nelle
discussioni postume perché non venni mai ritenuto in grado, forse per la mia giovane
età, di parteciparvi. Ed era il giorno che anche padre Bartolomeo Pucci, francescano,
veniva ammesso a quelle cerimonie manducatorie, lui che aveva consumato gli occhi
a tradurre dal latino l’Eneide di Virgilio in versi endecasillabi, sempre nella speranza
che qualcuno un giorno o l’altro si ricordasse di questa sua enorme fatica di Sisifo.
Era alto come uno stollo, corpacciuto, con una voce cavernosa che rideva a sbalzi e
con lo sguardo rimpicciolito dietro due lenti più spesse di un culo di bicchiere. Era un
sant’uomo, al punto che la notte veniva svegliato e infastidito da anime in pena per le
quali egli pregava perché trovassero pace nel mondo dei più, ma dessero pace a lui nel
mondo dei meno. Di fronte a questa sua disponibilità e per la miriade di spiriti che
aspettavano la proverbiale goccia d’acqua come il ricco Epulone, era naturale che le
anime dei trapassati non gli dessero un momento di tregua, nemmeno la notte. Ma lui
ridacchiava e cercava di spiegare tutto con la bonomia e la sua grande bontà. E
ridacchiava senza ombra di malizia anche di un altro membro della comitiva che, a
causa della sua scarsissima cultura, cercava, senza successo ed in ogni occasione,
d’intromettersi nelle dispute etimologiche. Una volta che costui se ne stava ad
ascoltare di certe vicende che accadevano in Corsica contro le nostre truppe da
sbarco, non appena caduta la Francia, se ne sortì crucciato con questa battuta: “Ma
guarda che ti vanno a combinare questi corsari!” “La risata, anche se sommessa, fu
generale: “Lo so, lo so. Avrei dovuto dire questi corsicani! “Ma la risata fu più
rumorosa, anche se sempre inferiore all’ilarità che avrebbe dovuto suggerire.
Se la segnò al dito e medità una vendetta. Un giorno si presentò con questo quesito.
“Vediamo se sapete dirmi cosa significa Luna Park”. Tutti cercarono di dare la più
logica delle spiegazioni. Ma lui, orgoglioso di aver trovato tutti impreparati, seguitava
a sorridere sornione e a negare con il movimento del capo dicendo: “Ah, questa volta
vi ci ho pizzicato! “Alla fine dette la stura al suo sapere sentenziando: “Luna Park vuol
dire luna morta!” - E perché?” - ripresero tutti in coro. - “Perché le Parche erano le
dee della morte”.
C’era stata evidentemente qualche confusione di troppo.
In quel periodo in cui al “Circolo Tarquinia” s’erano infiltrati, grazie alla politica del
“largo ai giovani”, nuovi elementi perturbatori del tran tran della paciosa borghesia
cornetana, il sor Ernesto aveva lasciato quel ritrovo, concedendosi maggiore libertà di
passeggiare all’aperto e nei luoghi più vari, forse per parlare o mormorare
liberamente su alla Clementina d’estate, sulla Circonvallazione nelle stagioni di
mezzo, e lungo la strada della Gabelletta quando soffiava la tramontana di “bon core”
che a Tarquinia la fa da padrona” per tre o sei o nove”. Insomma tutta una strategia
peripatetica che avrebbe dovuto consentire alla comitiva una vita lunga e altrettanto
beata.
Intorno alla musica lirica, più di ogni altro manifestava un fornaretto del posto che,
dopo ogni concerto radiofonico del lunedì sera offerto dalla Martini e Rossi,
raggiungeva il gruppo sulla tarda mattinata. Con una voce da tenorino di grazia,
accennava sempre a motivi musicali senza tralasciare giudizi sui cantanti che avevano
partecipato a quel concerto; ed i pareri erano sempre i più discordi, perché facevano
testo i mostri sacri della lirica che erano allora Giacomo Lauri Volpi, Beniamino Gigli,
Tito Schipa, Aureliano Pertile e Galliano Masini. Tutto il resto non aveva senso per
cui si storceva la bocca di fronte a qualche altra voce giovane che cominciava ad
apparire sull’orizzonte del teatro italiano. I do di petto avevano sempre qualche
ombra di velatura o di distorsione o di calata, con quella meticolosità che nemmeno i
critici più avveduti si permettevano di mettere in discussione. Il sor Ernesto, quando
lo vedeva spuntare di tra gli alberi del viale, sottovoce e ridanciano borbottava: “Ecco
buciardella! a causa di un racconto che lo stesso aveva fatto un giorno che aveva
partecipato ad un raduno combattentistico a Milano dov’era riuscito ad enumerare
nientedimeno che mille bandiere e una. Su quell’una, cadde il sospetto che si trattasse
di un’esagerazione che poteva sconfinare in una vera e propria bugia.
Ma nonostante tutto, regnava sempre la più assoluta concordia, specie quando
l’avvocato Latini si metteva ad imitare l’andatura di un certo vinaio di Bagnaia che
aveva tutto un modo proprio di incedere quando veniva a Tarquinia a piazzare il suo
prodotto vinicolo che aveva il pregio di non far male per via che a Bagnaia l’acqua è
assai leggera e diuretica.
Quando tuonò il primo colpo di cannone e l’Italia venne avvolta nel velo buio
dell’oscuramento totale, tutti si preoccuparono di non farsi trovare a corto di
alimenti. E fu la volta che l’avvocato Latini, senza chiedere consiglio a chi ne sapeva
più di lui, acquistò da certi contadini cinque quintali di patate e una mezza dozzina di
prosciutti, fra cosci e spallette, nascosta segretamente all’interno della sua cantina.
Accadde però che le patate, nell’umidità del disotto, “ricicciarono”, il che ne
comprometteva la commestibilità. E fu d’uopo trovare qualche acquirente prima che
la merce deperisse. Chi entrò a far contrattare e portar via, non poté fare a meno di
vedere appesa al soffitto quella mezza dozzina di prosciutti. La cosa si venne a sapere:
e fu il sor Ernesto che un giorno, presente lo stesso avvocato Latini, accennò ad un
certo concerto di un sestetto d’archi che aveva ascoltato passando sotto le finestre di
un certo palazzo in via del Duomo. L’allusione era chiara, ma l’avvocato fece orecchio
da mercante. Tanto che il sor Ernesto si permise di rimproverargli la sua furba
quanto ingenua capacità di saper provvedere in eccesso e mai in difetto, riguardo alle
patate. Ma la guerra era la guerra e ciascuno cercava di industriarsi secondo le
proprie capacità e necessità.
Don Vincenzo Galano, un po' per l’età ma più per deficienza organizzativa, finì con
l’essere accolto nella famiglia dei frati francescani. Per cui si rese disponibile alla
comunità con l’esercitare la funzione di cappellano all’Ospedale Civile. Perdurando la
tragica divisione dell’Italia a causa della linea gotica, le Suore dell’Ospedale,
settentrionali per la totalità, non ebbero più notizie nè dalla loro Casa Madre di
Torino, nè dalle loro famiglie. Tanto che un giorno, la Superiora, confidandosi con lui
per avere una parola di conforto ed uno spiraglio di speranza, gli chiese a bruciapelo:
“Cosa ne pensa lei, reverendo padre?”
Don Vincenzo che aveva nell’aspetto e nell’ironia una notevole rassomiglianza con
Angelo Musco, accusò il colpo, ma immediata fu la sua risposta: “E lei, cosa ne
penzate, reverenta Madre?
La conversazione terminò lì. Nè ebbe ulteriore seguito.
Un bel giorno Cardarelli scrisse a Braghetti che sarebbe arrivato a Tarquinia per
passarvi un paio di giorni con due suoi amici, Cesare Zavattini e Giuseppe Cesetti.
Perciò provvedesse all’albergo per tutti, ma più specialmente per lui che desiderava la
solita camera nella locanda della “sora” Olimpia, a mezzogiorno e con la porta vicino
al gabinetto. Per gli altri due lasciava all’amico la più ampia scelta nel modo di
provvedervi. Ma gli alberghi a Tarquinia non c’erano e fu necessario trovare una
camera a due letti in casa di un amico comune.
Il sor Ernesto si mobilitò per la cena in casa propria che dovette essere abbastanza
gustosa se gli ospiti si trattennero presso di lui fino alle ore piccole. Al momento di
andare a letto, Zavattini e Cesetti non fecero che ridere per tutta la notte per i ronfi e
le strombazzate di culo che, con crescendo rossiniano, filtravano attraverso una porta
divisoria fra le due camere, da parte del proprietario dell’appartamento. Di tutto
questo se ne parlò e rise ancora per tutto il giorno dopo, se non altro per allietare la
giornata a Zavattini che, nel corso della visita al Museo e alle Tombe Etrusche, si
dimostrava indifferente e annoiato.
Di ciò il sor Ernesto restò sgomento per il fatto che la sua conoscenza con uomini di
così celebrata notorietà dovesse rimaner offuscata da quel tristo e sconveniente
ricordo. E di tutte queste faccende non se ne interessò mai più, anche perché il
fratello, insieme ad altri, venne coinvolto in una vicenda giudiziaria che lo voleva
complice di un atto di sabotaggio politico.
Era accaduto che a causa dei bombardamenti su Napoli, fosse arrivato l’ordine di
provvedere alla mattanza di qualche migliaio di abbacchi da spedire a grande velocità
nella città partenopea. Il fratello di Braghetti, per una sua capacità professionale, il
veterinario e un macellaio del posto provvidero alla mattanza, alla visita sanitaria ed
alla spedizione in vagoni appositamente approntati per l’immediato inoltro. I vagoni,
purtroppo, chissà per quali misteriosi intrighi che non vennero mai chiariti, vennero
lasciati per due o tre giorni in un binario morto dello scalo ferroviario di San Lorenzo
in Roma: quando arrivarono a Napoli, il fetore era tale che fu necessario bruciare
tutta quella carne in momenti in cui la gente moriva di fame. Bisognò trovare un
capro espiatorio. E i tre vennero arrestati, processati per direttissima e destinati a
domicilio coatto, chi ad Assisi, chi a Montalto di Castro e chi altrove. Tutta questa
vicenda pesò molto sull’animo del sor Ernesto che chiese aiuto a Cardarelli perché,
grazie alle sue conoscenze, potesse trovare qualche personalità che facesse giustizia a
questi tre poveri cristi che in verità non avevano né colpa né meriti. Ma il sor Ernesto
per il fatto che era stato precettato presso l’ufficio comunale dell’ammasso granario e
per una sua impratica disponibilità, non si mosse da casa e il fratello dovette scontare
il confino fino a quando il Fascismo cadde ed i perseguitati politici poterono far
ritorno alle loro case. Ma cadde anche l’amicizia con Vincenzo Cardarelli che s’incrinò
definitivamente.
Fu così che ad uno ad uno, tutti quelli della brigata scomparvero ed i superstiti, dopo
la tragedia della guerra e la durezza dei cuori a causa delle privazioni, delle rovine, dei
disagi, finirono per dimenticare quel Sofà delle Muse che rimase per qualche anno
sulla strada delle Croci, senza più che uno vi si sedesse per riprendere il discorso
interrotto così bruscamente dalla guerra. Ognuno cercò di salvaguardare se stesso e la
propria famiglia; e le compagnie si dispersero vieppiù.
L’ultimo ad andarsene fu l’avvocato Latini. Ricordo ancora la mestizia, anche se un
po' superficiale, che mi dimostrò durante il funerale del sor Ernesto, con il cappello in
mano, e fortemente turbato di essere l’ultimo superstite di quella allegra brigata.
Il Sofà delle Muse non rappresentò più di un bisogno di riposo a chi vi passava
accanto, perché venne a mancare il piacere di camminare a piedi; mentre nessuno
riuscì a frenare l’espansione edilizia che tutto livella per costruire enormi alveari
dove, al contrario, di quel che avviene fra le api, nessuno conosce il suo vicino di casa.
Sono i tempi o meglio i segni dei tempi. E se scriviamo oggi di queste cose del
passato, è perché ci piace rivivere quei momenti della nostra giovinezza e lasciare, se
il Signore e gli uomini vorranno, la testimonianza di chi ha calcato prima di noi le
strade di questo nostro paese che tutti cominciamo ad amare e rispettare sol quando
avvertiamo vicino il passo sordo della Morte.
Bruno Blasi
BREVE STORIA DEL TEATRO DEL PUBBLICO PALAZZO OVVERTO DEL
TEATRO COMUNALE DI TARQUINIA
Il Palazzo Municipale di Tarquinia si trova sulla piazza chiamata un tempo Piazza
Nazionale ed è uno degli edifici più antichi del paese. Sia l’Apollonj Ghetti che la
Raspi Serra 1) attribuiscono la data della sua costruzione ai secoli XII-XVI. Il Palazzo
constava di un piano terreno e due superiori al nord, e di un piano terreno e tre piani
al sud. Le sue linee architettoniche sono state in gran parte mutate a causa di
posteriori riparazioni e “appiccicature” come le chiama il La Valle. Si ha notizia di
questo Palazzo 2)
nel manoscritto esistente in Viterbo presso il conte Giovanni
Pagliacci, intitolato: - Ricordi di casa Sacchi - che parte dal 1297. Esso contiene il
seguente paragrafo scritto di pugno da Giovanni Sacchi: “1407. In questo anno del
mese di luglio ed agosto fui fatto Confalonieri de la città di Corneto et feci rifar le
mura di Corneto verso Viterbo, che, in gran parte, erano ruvinate. In quel tempo
fecimo bonificar una parte del palazzo di esso Confalonier de’ Signori etc.”
Lo stesso Dasti, nella descrizione delle parti più notevoli del Palazzo Municipale, dice
che al centro di esso “è situato il Teatro Comunale”; e che pure nei secoli precedenti il
Palazzo fosse adibito a Teatro, ci è data conferma 3) da un documento d’archivio
1)
Joselita Raspi Serra, La Tuscia Romana, Milano 1972: Il Palazzo Comunale conserva, all’esterno, nella parte
settentrionale, ancora le potenti strutture originali, mentre sulla facciata meridionale rimangono cornici di arco con
decorazioni a bugne stellate. All’interno rimane un ampio salone chiuso da una capriata, delle strutture rimaste,
attribuibile al XIV secolo”.
2)
L. Dasti, Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto, Tarquinia 1910.
3)
Registro del Consiglio 1567-1591, cons. del 5 gennaio 1567.
dell’anno 1567 che dice: “che per qualche comodità alla commedia che si
rappresenterà nel nostro Palazzo acciò che la si mostri con qualche magnificenza, suo
parer è che se gli applichino lì diece scudi che deve l’appaltatore de nostri Molini di
straordinario per le feste del Carnovale, et di più li sedici scudi che si devono ritener
nelle provisioni et salarii del presente nostro sig. Commissario per le duo tazze
d’argento de duo semestri ch’è quasi stato da noi et tutto si spenda accuratamente per
servizio di dicta Comedia”. Di che tipo di Commedia si trattasse non ci è dato sapere
ma deve essere stata importante ed interessante se il Consiglio aveva destinato
ventisei scudi per mostrarla al pubblico “con qualche magnificenza”.
Da altri documenti dell’anno 1607 4) : “Alli signori comici di Corneto... scudi... per le
commedie che dovranno rappresentare in questo Carnevale nel Palazzo Pubblico
conforme al solito”, si ricava che nel Palazzo Municipale le rappresentazioni teatrali
comiche o tragiche (maggiormente comiche) si tenevano annualmente nel periodo
del Carnevale con gran concorso di pubblico.
In un documento del 1654 5) si parla di comici cornetani che hanno in pronto due
bellissime
commedie
(proprie
o
altrui?)
e
chiedono
sovvenzioni
per
la
rappresentazione: “Li comici di Corneto umilissimi delle Signorie Vostre Illustrissime
espongono havere in pronto due commedie bellissime per rappresentare questo
presente Carnevale nel solito Palazzo della Comunità e perché vi è necessario per fare
il palco et altre spese di qualche denaro supplicano le Signorie loro Illustrissime
degnassi ordinare che venghi somministrato qualche poco di denaro che con quello
deveno havere della gabbella del bollo possino supplire alla detta spesa, che il tutto
riceveranno dalla benignità delle Signorie vostre obbligandosi il balio che si farà farlo
restare per l’altrui anni nel modo che stava prima che il tutto ecc. ecc.”.
Per tutto il 1600 e il 1700 il Palazzo continuò ad essere destinato a pubblico teatro
dove furono fatte molteplici opere di restauro come si ricava dai Registri dei Consigli
di vari anni: nel 1762 6)
fu compiuto un restauro del Teatro per essere stato
danneggiato durante la rinnovazione dei tetti e delle mura (a tal fine venivano
destinati 400 scudi); nel 1765 7) fu deciso di impiegare il ricavato di un taglio di alberi
nella costruzione e fabbrica del Teatro già incominciata; nel 1769 8) continua
l’erogazione dei 400 scudi “a condizione però che, per il decorso di anno 20 a venire
4)
Speculi 1607/1615 c. 117 recto.
Fondo carte sparse 1654.
6)
Reg. Cons. 1756-1764 c. 186 Cons. del 21 febbraio 1762.
7)
Reg. Cons. 1765-1760 c. 5 cons. del 22 gennaio 1765.
8)
Reg. Cons. 1765-1760 c. 139 cons. del 18 gennaio 1769.
5)
dovesse rimanere sospesa e tolta dalla tabella l’uscita di annui scudi venti del cerchio
carnevalesco”. Nell’anno 1772 9) con nuovi lavori si verifica un aumento del numero
dei palchetti (peraltro già esistenti) che viene portato a sessanta per essere assegnati
alle famiglie più cospicue di Corneto. Ed arriviamo al Febbraio del 1795, anno in cui il
Consiglio delibera i provvedimenti da prendersi affinché siano salvate dalla rovina le
famose scene del Bibiena 10) : “Molti sono stati i temperamenti presi della S.
Congregazione del Buon Governo e da questo pubblico Consiglio, affinché le famose
scene del Bibiena che noi abbiamo non andassero in ulteriore ruina: ma siccome tra li
tanti stabilimenti fatti, niente si è posto in esecuzione, et il danno va sempre
crescendo, sono di parere che questo pubblico Consiglio determini in quella guisa
appunto, che stabilì il defunto Eminentissimo Lante già Prefetto della detta Sacra
Congregazione in occasione della di lui personale visita fatta in questa città nell’anno
1762, cioè che gli scudi venti tabellati per il cerchio carnevalesco si erogassero nella
costruzione del nuovo teatro, e però su lo stesso piede dico ancor’io, che nel futuro
anno 1796 debbano incominciare a lasciarsi li suddetti scudi venti a benefizio del
detto teatro e così continuare di anno in anno sino alla totale restaurazione delle
scene, e compimento del medesimo”. “.... Il secondo (consulto) che riguarda
l’erogazione delli scudi venti del cerchio a benefizio del pubblico teatro, riportò
similmente voti favorevoli n. 14 e niuno contrario, e restò pienamente approvato”.
Il Consiglio, dunque, decise di sottrarre venti scudi annui dalle spese del carnevale a
beneficio del Teatro e per il restauro delle scene del Bibiena, e qui è doveroso
soffermarci sul periodo storico in cui visse ed operò questa grande famiglia.
Nel ‘600 in tutte le capitali europee trionfavano gli splendori delle scenografie ideate
da pittori e scenotecnici italiani; nei teatri a palchetti, costruiti per la gioia delle classi
ricche, venivano rappresentati spettacoli in prosa o in musica nei quali la parte visiva
aveva quasi sopraffatto quella uditiva. Le messinscene barocche erano di una bellezza
incomparabile e sbalordivano il pubblico che andava all’Opera più per vedere i
trucchi, i meccanismi e i fulgori delle scene che per sentir cantare o recitare.
A Parigi Giacomo Torelli di Fano (1608-1678) detto il “grande stregone”, arriva a fare
quarantaquattro cambiamenti di scena in una sola opera 11) . E’ in questo periodo che
nasce ed inizia la sua attività , che si svolgerà per quattro generazioni, la gloriosa
9)
Reg. Cons. 1771-1777 c. 32 cons. del 16 febbraio 1772.
Reg. Cons. 1791-1796 c. 168 cons. del 18 gennaio 1795.
11)
S. D’Amico, Storia del Teatro, Milano 1968.
10)
dinastia dei Bibiena (o Bibbiena; il loro vero nome era Galli ma rimasero denominati
così per la loro provenienza da Bibbiena, cittadina del Casentino).
Sappiamo che il fondatore fu Giovanni Maria Galli (1619-1665) e che con lui iniziò in
famiglia l’arte della scenografia. I suoi figli furono: Maria Oriana, modesta pittrice e
Francesco che lavorò in tutta Europa. Lo troviamo a Vienna, dove costruì un grande e
magnifico teatro, a Verona per la costruzione del Teatro Filarmonico la cui soluzione
dei palchi gradualmente salienti e sporgenti ed orientati tutti verso la scena restò
fondamentale nella storia dell’edificio teatrale, e in Francia dove progettò il Teatro
dell’Opera di Nancy 12) . Il più famoso dei figli di Giovanni Maria fu comunque
Ferdinando (1657-1743). Allievo del Cignani, studiò prospettiva e architettura con
Mauro Aldovrandini e Giacomo Antonio Mannini; lavorò alla corte di Francia per il
famoso Rivani, macchinista di Luigi XIV quindi divenne architetto del Duca di
Parma, Ranuccio Farnese, per il quale lavorò per ben diciotto anni e disegnò il celebre
giardino di Colorno 13) . Ferdinando fu architetto e pittore famosissimo di decorazioni
teatrali e perfezionò inoltre i meccanismi per mutare rapidamente le scene in teatro.
Di lui ci restano due trattati: uno sull’archiettura civile e l’altro sulle prospettive. La
fama europea gli derivò soprattutto dall’essere stato il teorico della scenografia
opposta a quella tradizionale ad essa centrale; al centro delle sue scene, anziché uno
sfondamento illusivo, si viene a creare un angolo dal quale si moltiplicano fughe e
prospettive convergenti e divergenti dalla scena in infinite combinazioni. Le fortune
delle scenografie di Ferdinando sono parallele alle esigenze del gusto del tempo che
indulgeva alla spettacolarità fastosa e barocca 14) . La dinastia continuò con i figli di
Ferdinando: Giovanni Maria che lavorò a Praga; Alessandro attivo a Mannheim e
Giuseppe che lavorò come scenografo a Vienna nei teatri ma anche per cerimonie
nuziali o funebri. Ultimo della serie Carlo, figlio di Giuseppe, grande apparatore e
inventore di macchine teatrali di ogni genere.
Questa grande dinastia di consumatissimi prospettici ed appassionati teorici
continuò per tutto il ‘600 ed il ‘700 a diffondere nell’Europa intera la scenografia
italiana 15) .
La città di Corneto ebbe dunque la fortuna di avere nel suo teatro alcune scene di
questa famosa famiglia ma, come si è visto, non si curava troppo di mantenerle in
buono stato.
12)
Dizionario di cognizioni utili di scienze, lettere e arti, Torino 1925.
V. Golzio, Storia dell’Arte italiana (‘600 e ‘700) vol. IV tomo secondo.
14)
V. Mariani, Enciclopedia dello spettacolo, Roma 1954-1965.
13)
Altro non si sa né sul contenuto delle scene né delle opere nelle quali vennero
impiegate.
Durante il periodo napoleonico nell’anno 1802 16) , i documenti ci informano che nel
teatro si continuavano a rappresentare spettacoli comici e drammatici e si davano
feste da ballo; nel 1812 altre notizie interessanti 17) : furono fatte delle spese per
mantenere le quattro mutazioni di scena che avevano i “cieli” rovinati nonché per
l’illuminazione dei tre ordini di palchi, palcoscenico e quinte (illuminazione che
veniva fatta con fiaccole ed andava controllata a vista per il pericolo continuo di
incendi).
Nel 1813, durante l’occupazione francese 18) , si parla di “praticare un solaio sopra lo
scenario del Teatro per rendere più facile e variabile il meccanismo delle comiche
decorazioni’. Si pone in opera anche una nuova scena che rappresentava un
sotterraneo diviso in due parti ed un nuovo sipario, essendo il vecchio insufficiente.
Questo sipario nuovo si alzava in senso verticale ed era molto bello; aveva dipinte sul
panno delle scene raffiguranti Apollo con le nove Muse sul Parnaso, scene che erano
costate 75 scudi. Il sipario rimase nel Teatro fino alla seconda guerra mondiale poi
scomparve, probabilmente rubato da qualcuno.
Nell’anno 1835 si fece la divisione 19) dei camerini per uomini e donne ed altri lavori
generali di restauro come il mattonato sotto il palcoscenico, l’aggiustatura di alcune
finestre e perfino della buca del suggeritore. Il tutto per 144 scudi. Furono anche
ristrutturati i posti dell’orchestra, il che fa pensare che forse il Teatro possedesse una
propria orchestra stabile.
Nell’anno 1836 si esegue 20) la ristrutturazione totale di tutto il posto dell’orchestra,
leggii e banchi compresi.
Si mette in opera anche un altro scenario; il Comune appalta i lavori del palco al
macchinista Materazzi e al pittore Scarabellotti che dipinge “un primo scenario
raffigurante una camera fissa, ed un secondo raffigurante un bosco”.
Nel 1840 viene eseguito il lavoro più grosso 21) : i pittori Tasca e Pasquini ridipingono
tutto il soffitto e i parapetti dei palchi, dorature in oro zecchino comprese, per scudi
350.
15)
F. Testi, La musica italiana nel ‘600 e nel ‘700, Milano 1970.
Tit. 4, fasc. 20.
17)
Tit. 4, fasc. 20.
18)
Tit. 4, fasc. 20.
19)
Tit. 4, fasc. 20.
20)
Tit. 4, fasc. 20.
21)
Tit. 4, fasc. 20.
16)
Nel 1846 fu impiegato un operaio 22) fisso per l’accensione dei lampioni e il cambio
delle scene, con carica di macchinista e illuminatore. E veniamo al 1853, anno in cui il
Teatro Municipale fu dotato di un bel lampadario in cristallo che illuminava la platea.
Questo era costituito da un fusto di ferro di sei palmi e mezzo, con sei catene dorate,
lumi di ottone e applicazioni di pietre quadre, pendoli e gocce in cristallo 23) .
Per altri trent’anni vengono fatte delle spese annuali di manutenzione pura e
semplice e di miglioramento dell’illuminazione, ma nel 1884 la situazione del Teatro
doveva esser molto peggiorata se si delibera 24) di demolire i palchi e la parte del tetto
che li copre, lasciando soltanto il soffitto della platea. Il legname dei palchi demoliti
viene venduto ed il ricavato distribuito ai palchettisti.
Dal 1885 al 1893 sull’argomento Teatro manca il carteggio, si presuppone quindi un
lungo periodo di inattività.
Sul finire del secolo, nel 1893, si decide la ristrutturazione della sala con palcoscenico
e la costruzione della nuova galleria (al posto dei palchi), secondo un progetto
dell’ingegnere Camillo Grispini, utilizzando tra l’altro i fondi della disciolta Società
Filodrammatica 25) . Il progetto viene approvato dal Genio Civile nel novembre del
1894 e con delibera del 16 settembre 1895 viene affidato l’appalto della ricostruzione
della Sala ad Antonio Ghignoni che dovrà eseguire dei lavori per innalzare una
“galleria semplice” su colonne di ghisa e costruire una nuova scala attigua alla sala
teatrale 26) .
Tali lavori vengono ultimati nell’agosto del 1897, quindi viene fatto un altro progetto
per la trasformazione e l’adattamento del “già Teatro Comunale a Sala con
palcoscenico e galleria” 27) . La sala si ammoderna con un impianto di illuminazione
elettrica e viene finalmente collaudata nel 1898 28) .
Per il pagamento dei lavori viene contratto un mutuo ipotecario con la Banca d’Italia.
Agli inizi del nuovo secolo, nel 1906, la sala viene richiesta da diversi enti per feste da
ballo e servizi musicali da eseguirsi il primo dell’anno e durante il carnevale, come
d’uso 29) . Viene addirittura istituito un corpo di vigili (o pompieri), dipendente
direttamente dal Comune, a tutela della sicurezza della Sala.
22)
Tit. 4, fasc. 20.
Tit. 4, fasc. 20.
24)
Tit. 4, fasc. 3.
25)
Tit. 4, fasc. 3.
26)
Tit. 4, fasc. 32.
27)
Tit. 4, fasc. 32.
28)
Cat. 15 classe 3.
29)
Cat. 15 classi 3-11.
23)
Nel 1911 risultano dai carteggi molte richieste per l’utilizzazione della sala 30) durante
il carnevale, per veglioni e feste di beneficenza allietati da concertini musicali e premi
alle migliori maschere.
Nel 1919 31) vengono fatte nuove richieste: vuole la Sala la Compagnia Drammatica
“Ars Nova”, la vogliono i granatieri del distaccamento di Corneto per una recita di
beneficenza, c’è addirittura una richiesta per una conferenza di propaganda
proletaria il primo di maggio, nonché per concerti vocali e per numerose opere liriche
come la Norma, la Favorita, il Barbiere di Siviglia ecc. Viene inoltrata per la prima
volta una richiesta per dare un trattenimento cinematrografico a pagamento, due
volte la settimana, con l’assicurazione che gli spettacoli proposti saranno “di carattere
onesto e consono alla popolazione”. Purtroppo quasi tutte le richieste non potranno
essere soddisfatte dal Consiglio, vista l’ubicazione della Sala troppo prossima ad uffici
ed archivi comunali.
Nel 1920 continuano le richieste da parte di un Comitato cittadino perché vengano
dati per un anno spettacoli istruttivi e popolari 32) nel desiderio di “riparare allo stato
di abbandono del Teatro stesso”. Un certo prof. Nyno vuole fare uno spettacolo
“scientifico di telepatia, trasmissione del pensiero e suggestione”.
Nel 1921 la Società di assistenza Croce Azzurra fa una richiesta 33) perché venga
accordata la Sala alla Società Filodrammatica che vi deve rappresentare alcuni
spettacoli. Ci sono anche altre curiose richieste da parte del prestigiatore Lord
Kistner e del trasformista Fremo.
Il Partito Comunista d’Italia, sez. della III Internazionale-Corneto-Tarquinia, chiede
il Teatro per una conferenza nella ricorrenza del quarto anniversario della
Rivoluzione russa.
Ma già nel 1922 le Giovani Italiane premono per la concessione della Sala 34) in
occasione dell’inaugurazione del gagliardetto. Anche la Società Tarquiniense d’Arte e
Storia fa per la prima volta una richiesta per tenere l’assemblea generale dei soci.
Pure in quest’anno non mancano le curiosità: il padre della signorina Adele Parrucci,
che va sposa al signor Pietro Termentini di Roma, chiede al Sindaco se può utilizzare
la Sala per il banchetto di nozze con cento invitati, servito da Pietro Giudizi (il quale
30)
Cat. 15 classi 3-11.
Cat. 15 classi 3-11.
32)
Cat. 15 classi 3-11.
33)
Cat. 15 classi 3-11.
34)
Cat. 14 classi 3-11.
31)
ultimo lamenta il fatto che le cento persone non possono entrare nel suo Ristorante).
La richiesta ovviavemente non viene esaudita.
Nel 1925 lo stato in cui era ridotto il teatro è così deplorevole che due animosi
cittadini, Menotti Pampersi e Antonio Antonelli, offrono 30.000 lire per la
ristrutturazione del Teatro ed il rifornimento 35) di tutti gli arredamenti necessari a
patto che “il Teatro non venga più concesso per riunioni politiche”. Chiedono in
cambio l’utilizzo della Sala per quindici anni anche come cinematografo. La richiesta
fu accettata dalla Giunta poi, però, i due si dovettero scontrare con Vittorio Massi,
proprietario del Cinema Teatro Etrusco (inaugurato nel 1924) il quale inondò il
Commissario Prefettizio di lettere, lamentando la concorrenza. Il progetto quindi
andò in fumo e lo stato del Teatro peggiorò sempre di più.
Nel 1926 il Podestà 36) , sentita la Giunta e considerata la sempre più precaria
condizione della Sala dava a tutti i richiedenti una risposta fissa che suonava così: “Lo
stato di manutenzione (del teatro) è da tempo così deplorervole che già altre volte
quest’anno ho ritenuto opportuno di non concederlo ad altri richiedenti, per tale
motivo sono spiacente non poter aderire alla Sua richiesta”.
Il degrado dell’edificio, da quest’anno in poi, non è più arrestabile, anche se vengono
fatti nuovi tentativi per tenerlo in vita, con le solite concessioni per veglioni e balli di
beneficenza.
Negli anni 1927 e 1928 si alternano le concessioni e i rifiuti per utilizzare la Sala; ai
primi del ‘27 c’è una lettera del Commissario Prefettizio al Prefetto di Viterbo che
dice: “In questo Comune esiste soltanto il Teatro Comunale ed il Cinema-Teatro dei
fr.lli Massi.
Il Teatro comunale non viene più concesso per pubbliche rapprresentazioni avendo
bisogno di importanti restauri. Il Cinema-Teatro è stato aperto al pubblico nel 1924
previa regolare visita della Commissione di Vigilanza”. Il Teatro viene quindi
concesso per feste da ballo, per concerti del Corpo Bandistico, per feste danzanti proScuola Musicale e per conferenze, ma viene negato a Compagnie teatrali. Esiste poi,
in data 3 aprile 1927, l’incongruente verbale della Commissione di vigilanza dei
Pubblici Spettacoli, composta di tre membri, che autorizza le pubbliche
rappresentazioni ed afferma che: “la costruzione sia del palcoscenico che della
galleria esistente per gli spettatori è valida e non presenta alcun pericolo” 37) .
35)
Cat. 15 classe 3
Cat. 15 classe 3
37)
Cat. 15 classe 3
36)
Nel 1929 il Teatro non viene mai concesso e c’è una lettera del Podestà al Prefetto che
dice che il Teatro del Comune non è “agevolato pel suo funzionamento con specifiche
sovvenzioni perché non più in efficienza, non trovandosi in buone condizioni statiche
e quindi nell’impossibilità di poter agire” 38) . Seguono alcuni anni di silenzio poi, nel
1935, troviamo un’altra lettera del Podestà al Prefetto in cui si afferma che il Teatrro
Comunale, non presentando requisiti di garanzia, non è più in esercizio.
Negli anni che vanno dal 1936 al 1939 gli spettacoli teatrali sono sempre più spesso
sostituiti da altro genere di rappresentazioni 39) : alla Barriera S. Giusto si fanno
giochi ginnici all’aperto e spettacoli di prosa estivi, si autorizza l’apertura di un Parco
Divertimenti con “autoscooter e tiro fografico”, si permettono le esibizioni di vari
Circhi Equestri nonché le rappresentazioni del Teatro ambulante “Il carro di Tespi”.
In Piazza S. Francesco si fanno “giochi umoristici”; si cerca insomma di sopperire in
vari modi alla mancanza della Sala comunale. Nel 1938 troviamo una risposta del
Podestà al Prefetto in cui si dichiara che: “non possono aderire al Consorzio dei Teatri
Lirici poiché il Teatro è da vari anni inagibile”. Anche i balli pubblici vengono
dirottati verso la sala del nuovo Cinema-Teatro Etrusco che, da quest’epoca in poi,
sostituirà la Sala comunale in tutto e per tutto.
Dal 1941 al ‘45 si trovano forti restrizioni sugli spettacoli di qualsiasi tipo a causa
della guerra; nei documenti d’archivio, il glorioso Teatro non è più nominato e la sua
decadenza è sempre più evidente, come risulta anche dalla fotografia del 1940
allegata al testo. Fu demolito quasi interamente negli anni ‘60 per poi essere
ricostruito, restaurato ed adibito a Sala del Consiglio Comunale negli anni più recenti,
ma la sua demolizione deve senz’altro aver provocato più d’una malinconia nei cuori
di molti tarquiniesi.
Maria Laura e Carla Santi
BIBLIOGRAFIA
B. APOLLONJ GHETTI, Architettura della Tuscia, Milano 1968, Città del Vaticano
1960
J. RASPI SERRA, Corneto Monumentale, Corneto Tarquinia 1913
L. DASTI, Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto, Tarquinia 1910
38)
Cat. 15 classe 3
Dizionario di cognizioni utili di scienze, lettere e arti, Torino 1925
S. D’AMICO, Storia del Teatro, Milano 1968
V. GOLZIO, Storia dell’Arte italiana (‘600 e ‘700) vol. IV tomo secondo
V. MARIANI, Enciclopedia dello Spettacolo, Roma 1954-1965
F. TESTI, La musica italiana nel ‘600 e nel ‘700, Milano 1970
Documenti dell’Archivio Storico Comunale Tarquiniese: registri dei Consigli anni
1567-1796; Speculi 1607-1715; Fondo carte sparse 1654; Tit. 4 fascicoli 20, 3, 32; Cat.
15 classi 3-11.
SOCIETA’ CATTOLICA “GIOVANI FEDELI”
di Tarquinia
Ottanta anni fa, 18 marzo 1906, nasceva in Tarquinia, con tanto di approvazione
ecclesiastica, una Associazione mariana giovanile dal titolo molto impegnativo:
“Giovani Fedeli”.
Era una associazione parallela alla Gioventù Cattolica Italiana che a questa poi si
aggregò e da questa ancora fu incorporata e assorbita. Associazione di giovani perché
attendessero alla formazione della prima coscienza e nello stesso tempo, legati alla
gerarchia ecclesiastica, operassero nella chiesa per santificare ed evangelizzare.
Giovani che portassero la loro modesta esperienza e ne assumessero la propria
responsabilità nel mondo, nell’ambiente, per santificarlo e sopraelevarlo: la così detta
“consecratio mundi” di pacellania memoria
***
Angelo Rossi, per la gloria di Dio e Servo della S. Sede Apostolica, Vescovo di
Corneto e Civitavecchia.
Abbiamo letto e ponderato il presente regolamento della Società Cattolica Giovani
Fedeli nella città di Corneto, e siccome nulla abbiamo ivi trovato che si opponga alla
Fede e ai Buoni Costumi, ma piuttosto tutto è diretto allo scopo di perfezionare la
39)
Cat. 15 classe 3
religiosa e morale educazione dei giovani, lo abbiamo approvato e ne inculchiamo
l’osservanza.
Civitavecchia 26 Marzo 1906
Angelo Vescovo
Erigiamo poi canonicamente la predetta Società Cattolica Giovani Fedeli di Corneto
Tarquinia ed eleggiamo ad Assistente Ecclesiastico della medesima il Rev.mo Sig. D.
Girolamo Can. Pariboni e a Direttore lo stesso fondatore Rev.mo D. Benedetto
Preposto Reali.
Civitavecchia 26 Marzo 1906.
***
Il fondatore D. Benedetto Reali fu il primo Direttore e lui resterà sempre fino alla
estinzione della Società; il primo Presidente fu Amleto Fortuzzi, il primo Segretario fu
Gaddi Alfredo e il primo Cassiere fu Amulio Silli.
Queste cariche vennero fatte nella prima adunanza inaugurale 18 marzo 1906 in una
sala “graziosamente” offerta dal Direttore, con l’altare ai piedi del quale i soci emisero
la promessa solenne di osservare lo Statuto e il Regolamento. Questa promessa poi
doveva essere fatta da tutti i soci che, dopo sei mesi di prova, venivano accolti tra gli
effettivi.
Queste notizie le ho desunte dall’Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia
VERBALI DELLA SOCIETA’ “Giovani Fedeli” 3 volumi manoscritti.
Gli ascritti alla Società “Giovani fedeli” erano di quattro classi:
a) I soci attivi, erano giovani secolari dimoranti in Tarquinia, i quali nel dare il loro
nome alla Società, promettevano la perfetta osservanza dello Statuto e Regolamento,
prestavano la loro opera nel praticare i mezzi indicati, adempivano con diligenza e
fedeltà gli uffici loro affidati. A questa classe non potevano appartenere che giovani di
esemplare condotta civile, morale e religiosa che avevano raggiunto almeno il
quindicesimo anno di età e non prima di aver terminato un semestre di prova. I soli
soci attivi avevano il voto consultivo e deliberativo nelle adunanze, eleggevano e
potevano essere eletti a cariche.
b) I soci partecipanti, giovani secolari, sempre dimoranti in Tarquinia, che
nell’iscriversi alla Società promettevano di osservare esattamente lo statuto col
regolamento, prendevano parte a tutte le funzioni e adunanze. In queste adunanze
però non avevano nè voto consultivo e nè deliberativo e neanche potevano eleggere o
essere eletti a qualche carica. Erano ricevuti in questa classe tutti quei soci di buone
speranze che avevano frequentato o che frequentavano questa congregazione
mariana e che erano giunti almeno agli anni 141/2. Volendo poi passare alla classe dei
soci attivi dovevano essere disposti a fare prima il semestre di prova.
c) I soci onorari divenivano quei soci attivi che cambiavano domicilio o che
abbracciavano lo stato ecclesiastico o che avevano compiuto il venticinquesimo anno
di età o che per altri motivi, cessavano spontaneamente di essere soci attivi.
d) I soci benemeriti quei signori che per oblazioni, doni, protezione e altri motivi,
avevano speciali titoli alla gratitudine della Società, partecipavano ai beni spirituali
della medesima associazione. In questa classe potevano annoverarsi anche le signore
e gli ecclesiastici.
Lo scopo della Società “Giovani Fedeli” era:
perfezionare l’educazione morale dei giovani e rassodarli nel bene, informare il socio
ad uno spirito franco e coraggioso, alla professione pubblica di principi cattolici;
adoperarsi, particolarmente col buon esempio, per ravvivare nella gioventù e nel
popolo il sentimento religioso e il rispetto ai superiori.
Con quali mezzi? sane letture, conferenze, il pronto ed esemplare esercizio di tutti gli
atti di culto esterno, massime la partecipazione alle pubbliche solenni manifestazioni
religiose, accostarsi in corpo alla SS. Eucarestia, nelle feste dei Santi Patroni,
Immacolata, S. Giuseppe e S. Luigi Gonzaga, la fuga di tutto ciò che in qualche modo
offendesse la religione e il buon costume, la reciproca tolleranza, l’emulazione nel
bene, i vincoli di una pura e leale amicizia tra i soci, cooperare in genere all’Azione
Cattolica.
Giovani fedeli: fedeli a che cosa? al Vangelo.
Erano cristiani? erano seguaci di Cristo tali giovani. Dunque dovevano seguire le sue
orme: un grande amore al Padre Celeste, amore che poi li avrebbe condotti a una
testimonianza di fede a tutta prova e senza vergogna, a una frequenza ai Sacramenti,
a una partecipazione attiva agli atti di culto esterno, non dimenticando però la
primaria importanza del culto interno, a una obbedienza senza condizione alla Chiesa
Maestra e Guida e ai suoi legittimi Rappresentanti, a una carità operosa, a una
disponibilità per i fratelli ecc.
Erano cristiani questi giovani? pronti ad avere alta la fronte dinanzi all’errore e agli
erranti, condendo tutto con la carità e la comprensione.
I mezzi per riuscire in questo lavoro duro e diuturno, erano loro indicati, i dirigenti
ne erano solleciti nel ricordarli, il regolamento ne indicava alcuni ma tutto stava chè
ognuno ne approfittasse con amore, con entusiasmo.
L’essere giovani doveva costituire per loro un motivo di più per agire in una certa
maniera, con entusiasmo, con coraggio, con grande amore, sempre disponibili,
sempre pronti. Avevano energie fresche non deteriorate dal peccato, dovevano saper
sfruttare tali forze morali e fisiche, non dovevano intorbidire nell’ozio, nel peccato,
nel disimpegno, nel divertimento a tutti i costi.
Fedeltà a che cosa? allo studio, al lavoro, agli impegni derivanti dal loro stato
giovanile. Era chiaro: nemo dat quod non habet. Se non si è carichi di idee sane, se
non si ha una fede viva, se non si è santi o non si intende alla santità, come si potrà
essere lievito, fermento nella massa, in un mondo materializzato? Come si potrà
essere coraggiosi e testimoni in mezzo a un mondo pagano? C’erano sì degli errori che
serpeggiavano nella società, ma s’avvertiva anche che qualcosa si andava muovendo,
s’avvertiva che sotto la cenere c’era del fuoco, quindi era doveroso che si trovassero
giovani pronti e ben preparati a risolvere o tentare di risolvere questioni di portata
fondamentale per la chiesa e per la Patria.
***
I soci nel dare il proprio nome alla Società, dovevano stare agli impegni; il Consiglio
doveva vigilare perché la Società non deviasse dallo scopo prefissosi e dallo spirito
cattolico che doveva animarla; tutte le adunanze dovevano iniziare e terminare con la
preghiera e l’invocazione ai Santi Protettori: l’Immacolata, S. Giuseppe e S. Luigi
Gonzaga, le feste di questi Protettori dovevano essere celebrate con solennità e con la
partecipazione di tutti i soci. L’Assistente doveva premettere alle adunanze una
conferenza spirituale per il bene dei soci e doveva vigilare “al morale e cattolico”
andamento dell’Associazione. Il regolamento prevedeva anche delle Commissioni per
risolvere casi particolari: sarebbero i così detti gruppi di studio, più o meno. Dopo i
sei mesi di prova, se creduto degno, il giovane per passare tra i soci attivi doveva
emettere la seguente promessa:
“Io N.N. avendo spontaneamente dato il mio nome alla società cattolica “Giovani
fedeli” di Corneto Tarquinia, dichiaro e prometto, senza alcuna restrizione mentale,
ai componenti il Consiglio di Presidenza e a tutti i soci attivi e partecipanti della
medesima Società, di osservare esattamente lo Statuto e il Regolamento e di
adempiere con fedeltà gli incarichi che potranno essermi affidati” (Cfr. Verbale del
2L, 31-3-1906)
La quota che ognuno doveva dare alla cassa comune era di centesimi 30 mensili da
versarsi in due rate. L’Associazione aveva un distintivo e una bandiera. Il primo,
consisteva in un piccolo cappio formato con nastrini di seta del colore della bandiera;
poi fu cambiato in una forma più elegante e più duratura. (Cfr. Verbali del 31-3, 27-4,
20-10-1906). La bandiera doveva essere di colore rosa acceso, attraversata d’ambo le
parti da una lista diagonale di seta bianca con al centro il motto “Fedeltà”, una frangia
d’argento nell’intorno; il nastro doveva essere di seta bianca con frangia d’oro e con
l’iscrizione: “Società Cattolica Giovani Fedeli” Corneto Tarquinia. Poi dopo, essendo
stato impossibile trovare stoffa di tale colore e di altro, fu lasciato al Presidente la
piena libertà di scegliere quel colore che meglio a lui fosse piaciuto.
***
L’Associazione doveva essere una cosa seria, impegnativa e tali dovevano essere, agire
e ritenuti, tutti i soci che dovevano stare alla promessa. E’ vero, erano giovani, e come
i giovani di ogni tempo e di ogni regione, avevano i loro difetti tra i quali l’incostanza
ed è per questo che l’Assistente ecclesiastico, il Direttore, i Dirigenti ripetutamente
richiamavano gli ascritti ai propri doveri che liberamente erano stati sottoscritti con
la promessa. Da tutti si voleva prontezza, coraggio, esemplarità in tutti gli atti di
culto, vittoria sul rispetto umano ecc. ecc. Onde per questo non mancavano anche
pene abbastanza serie: non accettazione tra i soci attivi, sospensione a tempo
indeterminato, dimissione dalla Società (Cfr. Verbali del 28-7-1906).
Per es. un tizio fu espulso dalla Società per diversi motivi: non pagava la quota
mensile, spesso non prendeva parte alle adunanze, aveva poco coraggio nel
manifestare pubblicamente la propria fede in quanto sorpreso a leggere periodici
immorali, antireligiosi e sovversivi (Cfr. Verbale del 31-12-1907); il Direttore biasimò
la condotta di un altro, per il suo poco sentimento religioso, per la noncuranza del
regolamento, per aver partecipato a una festa da ballo il primo giorno di quaresima,
poi per il suo poco coraggio (Cfr. Verbale del 5-7-1908); nella medesima seduta
l’Assistente biasimò fortemente quei soci che senza giusti motivi, con frivoli pretesti
non avevano partecipato alla Processione del Corpus Domini, non solo ma avevano
infastidito chi vi aveva partecipato; venne ancora riprovata la condotta di un tizio che
pubblicamente non aveva avuto difficoltà a leggere periodici antireligiosi e immorali
(Cfr. Verbale del 17-10-1909); ancora; il Direttore biasimava fortemente la condotta
di quei giovani che erano poco corretti nel parlare, che non ascoltavano per intero la
S. Messa festiva e che non stavano in chiesa col dovuto rispetto (Cfr. Verbale del 288-1910); ancora: il Direttore dolentissimo biasimava vivamente il litigio avvenuto per
la pubblica via fra due soci: uno di costoro, essendo recidivo e di condotta
provocatoria, venne radiato ma poi riammesso per aver chiesto perdono (Cfr. Verbale
del 19-11-1911).
I soci attivi e partecipanti non potevano prendere parte a recite che la “Gioventù
Cattolica” teneva nel suo teatrino (Cfr. Verbale del 11-1-1907), anzi avendo un tizio
trasgredito tale ordine il 21-11-1909, venne ripreso severamente e poi espulso. Al
contrario, venne pubblicamente lodato e portato come esempio la condotta di un tizio
che, invitato a iscriversi a una società di principi sovversivi, diede nobile esempio di
rifiuto (Cfr. Verbale del 24-2-1907).
Gli iscritti non potevano far parte di altri circoli, tra i quali anche quello della
Gioventù Cattolica; dal verbale del 30-3-1907 si sa che circolavano voci che alcuni
soci di nascosto avevano fatto pratiche per essere ricevuti in tale circolo giovanile, ma
da accertamenti fatti, tale notizia risultò falsa.
La Società aveva una orchestrina: il 5-5-1910 era stata comprata una chitarra che
doveva servire solo ed esclusivamente per il divertimento dei soci e solo per via del
tutto eccezionale fu permesso che tale orchestrina suonasse per carnevale presso le
Suore di S. Vincenzo (Cfr. Verbale del 25-1-1913).
Alcuni chiesero di far parte di una associazione sportiva, ma non fu loro concesso
onde due soci si dimisero dalla società “Giovani Fedeli”, per passare a quella sportiva
(Cfr. Verbale del 29-6-1911).
Non mancavano anche gite sociali o passeggiate, ma sapete ove si andava? A
Civitavecchia, a Viterbo (Madonna della Quercia), a Vetralla, a Montefiascone.
Le conferenze, le istruzioni le teneva sempre l’Assistente Ecclesiastico o il Direttore,
ma anche dei soci ben preparati non mancavano di dare il loro contributo su questo
punto: dal verbale del 20-9-1908 si sa che il socio attivo tale Marzi Ernesto, con eletti
concetti e forbita parola, parlò sulla missione del giovane cattolico in mezzo
all’odierna società; lo stesso socio tenne ancora un’altra conferenza sopra il rispetto
umano, mostrando i gravi danni spirituali e sociali che causa questo vizio, e ancora
una terza sulle cattive letture (Cfr. Verbale del 29-9-1909). Tali conferenze non erano
sempre a sfondo morale, spesso avevano per oggetto questioni sociali: sul socialismo,
sulla questione operaia, sulla stampa cattiva e sue deleterie conseguenze (Cfr. Verbale
del 10-4-1910). E a proposito della stampa immorale, fu proposto ai soci di darsi da
fare per ostacolarla con forza e coraggio: amici e famiglie consegnassero tutta la
stampa di tal genere, venisse portata dal Direttore per poi essere distrutta.
***
Intanto si andavano maturando idee nuove, più ecclesiali, idee che più aderissero ai
desideri della S. Sede. Perché non aderire più fattivamente alle aspirazioni della S.
Madre Chiesa Cattolica? E fu così che, dietro desideri più volte manifestati dai soci e
dietro proposta del Direttore, fu deliberato l’aggregazione della società “Giovani
Fedeli” alla Gioventù Italiana di Azione Cattolica (Cfr. Verbale del 9,10 Nov. 1910).
Furono intanto preparati i documenti richiesti e inviati a Roma all’Ufficio di
Presidenza della GIAC il quale in data 13-12-1910 rispondeva accogliendo tale
adesione. Era solo adesione per ora, ma l’idea di fondersi non era lontana.
Le conseguenze furono che si dovette prendere la tessera di riconoscimento (Cfr.
Verbale del 29-6-1911), partecipare al pellegrinaggio nazionale della Gioventù
cattolica in Roma nei giorni 9, 10, 11, 12, 13 sett. 1913, partecipare all’assemblea
generale della GIAC tenutasi a Roma nei giorni 3-4-5 gennaio, usare il distintivo della
GIAC (Cfr. Verbale 29-1-1915), partecipazione del presidente Fortuzzi Giulio alla
Direzione diocesana voluta dal Vescovo che aveva lo scopo di promuovere, coordinare
l’Azione Cattolica in Diocesi (Cfr. Verbale 19, 21, 11, 1910) partecipazione del
presidente diocesano alle adunanze della “Giovani fedeli”.
Però fino alla completa fusione della “Giovani fedeli” in quella della GIAC, si seguitò a
fare come sempre. In vista dell’iniquo progetto di legge sulla precedenza obbligatoria
del così detto matrimonio civile su quello ecclesiastico, i soci dopo ampia discussione
e spiegazione del Direttore sulla portata di tale legge, unanimi, emettono un voto di
protesta e di biasimo per questo settario disegno di legge e deliberano di portare il
loro modesto contributo; il 25-11-1915 fu inviata una lettera circolare a tutti i militari
ex associati esortandoli ad iscriversi in qualche circolo più vicino, ad essere esemplari
in tutto, portando ovunque in alto il nome del cristiano, del cattolico; si
commemorarono il 16-11-1916 gli esemplari soci Bozzi Fausto e Paparozzi Giulio
morti sul campo di battaglia nel 119115; il 14 gennaio e il 24 febbraio 1917 due soci
militari tale Rogani Gioacchino e Palma Umberto, venuti in licenza dal fronte,
tennero dei discorsi di circostanza a tutti i presenti ispirati a sentimenti di cristiano
patriottismo.
Dalla semplice adesione o aggregazione si arrivò alla completa fusione con la GIAC.
Così il 24 marzo 1917 cessava di esistere la tanto gloriosa società dei “Giovani Fedeli”
che tanto bene aveva operato in Tarquinia anche se per poco spazio di tempo.
Da questa data nei locali dell’attuale sede dei Giovani Fedeli, il medesimo Direttore
disse che avrebbe aperta una sala Convegno Giovanile che poteva essere frequentata
solo da ex soci che ne avessero fatta domanda a lui direttamente.
Sciolta definitivamente la “Giovani Fedeli”, si autorizzava il Presidente di notificare
tale decisione ultima alla Presidenza Generale della GIAC. Poi vennero alienati e
venduti al Direttore D. Benedetto per lire 200 tutti i mobili e tutto quanto
apparteneva all’ex Società “Giovani fedeli”.
In questa associazione sono passati moltissimi giovani di Tarquinia - enumerarli è
matematicamente impossibile - che furono parenti diretti di uomini che operano oggi
nel nostro paese. Riporto sotto l’elenco dei Presidenti:
Fortuzzi Amleto eletto il 18-3-1906, rieletto il 19-3-1907, ancora il 19-3-1908; il 1-XI1908 fu eletto Sileoni Ulderico; Fulvio Fortuzzi eletto il 19-3-1909, ancora il 19-31910 e ancora il 19-3-1911 e il 23-3-1912; Palma Umberto eletto il 4 agosto 1912;
Paparozzi Giulio eletto il 30-3-1913, ancora il 22-3-1914; Fortuzzi Fulvio eletto il 9
agosto 1914; Stefani Antonio eletto il 24-1-1915; Ferrari Vincenzo eletto il 21-3-1915,
lo stesso in data 19-3-1916; essendosi verificati degli inconvenienti dal 28-5-1916 il
Direttore fu anche Presidente e il 18-6-1916 fu eletto V. Presidente Leardini Bruno; il
15 ottobre 1916 fu rieletto Fulvio Fortuzzi che rimase fino all’estinzione della Società.
Adolfo Porfido
APPENDICE AL GLOSSARIO DEL DIALETTO CORNETANO 1
A.
Aggadiare (v.)
1
Prendersi pena di qualche cosa, preoccuparsi.
Questa è la terza appendice al Glossario pubblicato nel Bollettino dell’anno 1983.
Allecconire (v.)
Invogliare con moine e promesse chicchessia per ottenere
ciò che si
desidera. Risvegliare l’appetito della gola. In forma
figurata, vale
anche per allettare. Dall’arcaico “allerconire”.
B.
Babbalèo (s.)
Di persona buona a nulla. Derivazione da babbeo.
Boccaio (s.)
Porta-lampadina la cui apertura tonda è simile a bocca, dove
grazie ad un’avvitatura, si colloca la lampadina.
Budellona (s.)
Riferito a persona bassa e grassa, malformata e sudicia. E’
anche
riferito a donna di malaffare. Derivazione dalla
parola budello che è il
condotto stercorario animale.
C.
Cacatore (s.)
Cacatoio, latrina. Più propriamente era il pozzo nero, ricavato in
una
parete delle scale o del cortile di un palazzo oppure in un
piccolo
stanzino, la cui apertura cilindrica era chiusa da
un tappo di marmo,
munito da un alto manico in ferro.
Caciotta (s.)
Oltre al vero significato della parola, viene usato anche in
riferimento
alla polpa bianca e dolciastra all’interno del ceppo
disseccato del
carciofo. Smegma.
Callarella (l.a.)
Viene usato come detto “callarella callarella” nel senso di
non
doversela prendere troppo per una discussione
avuta o per un lavoro
condotto
allontanarsi senza meditare vendetta e tanto
a
buon
fine;
meno
ma
serbando
rancore.
Derivazione da “caldaia” che in dialetto vien detta “callara”. E la
“callarella” era il recipiente in cui ogni lavoratore o
pastore o
guardiano di bestiame, la sera, approntava
la sua magra cena.
Cosicché
prendeva la sua “callarella” e se ne
nell’allontanarsi
ognuno
andava per i fatti suoi,
con la buona o con la cattiva sorte, rassegnato.
Cannara (s)
L’allocuzione “culo a cannara” è riferita al sodomita, quando si
dispone all’atto sessuale. Il Vigolo, nel commento ai
Sonetti del Belli,
il Morandi, era una grossa
riporta la parola “cannarone” che, secondo
canna, una specie di zufolo, fatto col
gambo di un grosso cardo. Perciò
la “cannara” o il “cannarone”
non erano altro che il fallo.
Cazzabùbbolo (s.)
Uomo buono a nulla. Minchione. Simbiosi delle parole “cazzo”
che
viene usato con significato di scarsa intelligenza, come
testa di c., e di
bubbolo che è un tipo di sonaglio usato per i
bambini.
Cazzone (s.)
Uomo buono a nulla. Generalmente si crede che le persone con
ipertrofia sessuale abbiano scarsa intelligenza. Minchione.
Commodezza o
Comodità o comodo. Stare all’altrui o alla propria
“commodezza”
significa
rassegnarsi
all’altrui
servizio,
all’altrui agio o al proprio.
commidezza
Cularcione (s.)
Dicesi di persona grassa o mal formata, dal grosso sedere. Vedi
cularcio.
F.
Famigliola o
Tipo di fungo mangereccio assai piccolo che cresce in cespi,
ricchi di Famijjoola (s.)minuti funghi.
Fava (s.)
Oltre al significato che si dà comunemente all’ortaggio o al
legume, è anche riferito al glande virile.
Fijjare (v.)
Figliare, far molti figli.
G.
Gregna (s.)
Oltre al significato e all’etimologia della parola data nei precedenti
glossari degli anni 1983, 1984 e 1985, si dà notizia che la parola gregna
è stata usata da Matteo Palmieri ne “Il libro della vita civile” (1529) col
significato “Unione di molti covoni”.
I.
Imbacucchito (ag.)
Divenire bacucco. Vedi bacucco.
Impicciaticcio (s.)
Qualcosa di molto intrigato e confuso, da render difficile o quasi
impossibile il disbrigo.
Derivazione dalla parola impicciato o impiccio.
Impuzzolire (v.)
Impuzzire, spandere puzzo all’intorno.
Incordonare (v.)
L’effetto doloroso che si avverte nei testicoli quando non si
riesce,
dopo lungo tempo di eccitazione, a concludere il coito. E’
lo stesso
dolore che si proverebbe se essi venissero
cordonati, ossia sottoposti a
tortura.
Inculare o (v.)
‘nculare
Fare azione di sodomia.
Incùlete o (v.)
‘nculete
Forma
imperativa
riflessiva
del
verbo
inculare.
Invito
perentorio ad
altri per trasferire su se stesso l’azione di sodomia.
Ridurre se stesso ad
azione di narcisismo.
Infilzetta (s.)
Passare interamente una fettuccia o un elastico da un orlo
all’altro, di
una blusa o di una veste, in modo da non essere
vista. Derivazione
diminutiva di filza.
Insifonata o
‘nsifonata
Atto materiale del coito. La parola prende avvio da sifone, nel
senso
che si fa passare, con forma violenta, il liquido
spermatico dal sesso
virile a quello femminile. Usata in forma
quasi di dispregio verso la
donna e di vanto da parte dell’uomo.
Intopàta o
‘ntopata (ag.)
Dicesi di donna sessualmente dotata ed eccitante fisicamente.
In senso
traslato può essere anche riferito all’uomo.
Derivazione da “topa” che
in gergo è la vagina ossia l’organo
sessuale femminile. (Vedi topa).
M.
Mammaléo (s.)
Dicesi di persona buona a niente e che ha sempre bisogno
di stare fra
le vesti della mamma. Dicesi anche di persona
mancante di iniziativa.
Mannàra (s.)
Giuoco infantile dei tempi passati utilizzando i noccioli delle
albicocche, delle pesche. Il più grosso svuotato della
mandorla e
riempito
di
pesante, veniva lanciato contro gli
distanza in mucchietti di quattro. E prendeva
mannara. La derivazione da mannaia è essenzialmente
piombo,
altri
perciò
noccioli,
il
reso
collocati
nome
più
a
di
dovuta al peso dello strumento di morte o all’azione che essa
determinava.
P.
Patonza (s.)
Organo sessuale della donna. Etimologia incerta.
Piccasorcio (s.)
Pungitopo o agrifoglio. E’ una trasposizione di pungi
(picca) e topo
Pisciarèlla (s.)
(sorcio).
Azione continua di orinare a causa di una paura o del freddo di
una
Porzétta (l.a.)
forte emozione.
Noto il detto “a porzetta”, cioé sollevare il corpo o un attrezzo
pesante
con la sola forza dei polsi. (alterazione di polso in
porzo)
Porzìno (s.)
Fasciatura stretta di stoffa o di cuoio all’altezza dei polsi per
evitare,
nello
slogature. (Diminutivo di
sforzo
dell’esercizio
ginnastico,
delle
polso che in dialetto vien detto
pòrzo).
Puntarelle (s.)
Le punte o i germogli teneri delle piante eduli.
Punzò (l.a.)
E’ comune il detto “ a culo punzò”. Lo stesso che “a cannara”
(vedi
cannara).
Punzo è apocope di punzone. Nel senso cioè che il punzone
s’esprime
con forza, su metalli e materie dure.
L’atto di sodomia richiede, da parte dell’uomo attivo, una
disposizione di forza quasi a punzonare l’uomo passivo.
R.
Rifreddore (s.)
ironico nei
Rimessino (s.)
riparo le
Alterazione della parola raffreddore. Usasi anche in senso
confronti di chi è affetto da blenorragia.
Piccolo recinto di passoni o palizzata ove vengono rimesse al
bestie domestiche e brade, come cavalli, buoi,
pecore e simili.
Diminutivo di rimessa che dal genere femminile passa a quello
maschile.
S.
Sbarellare (v.)
Far cadere violentemente giù dalla barella una persona. In
senso
Scacchiare (v.)
Vedi
figurato buttar tutto all’aria oppure uscir di senno.
Togliere i germogli o i tralci (cacchi) dalla vite in primavera.
cacchio.
Scaccolare (v.)
Togliere le caccole dal naso o da altra parte del corpo.
Scaciare (v.)
Togliere lo smegma dal glande virile. (Vedi caciotta).
Schifetto (s.)
Piccolo piatto di legno poco fondo, usato nelle campagne per
selezionare legumi vari dalle impurità.
Estensione di significato della parola “schifo”, termine marinaro
per
Scorsòne (s.)
indicare piccoli palischermi.
Percorso che l’acqua scava durante un’alluvione e che il
contadino
rispetta senza modificarne l’andatura. Parola che
deriva dal verbo
Scùlato (ag.)
scorrere e scorso.
Di persona esageratamente fortunata al gioco; con chiaro
riferimento a culo, vale a dire senza fondo e senza limite.
Semàro (s.)
Semaio, venditore di semi.
Sfavare (v.)
Far retrocedere il prepuzio per mettere in mostra il glande
virile. Vedi
Sfonnòne (s.)
Dal
fava.
Parolaccia, parola oscena che si usa nel linguaggio famigliare.
verbo sfondare, ossia rompere il fondo per far uscire
liberamente tutto
il contenuto.
Smaldrappàto (ag.) Dicesi di persona mal vestita e mal ridotta. Derivazione da “mal
drappato”
ossia
mal
vestito,
con
una
s
iniziale
rafforzativa.
Smemoriare (v.)
Sottopunto (s.)
Perdere la memoria.
Mettere un punto sotto un altro a rinforzo di una
cucitura. Rifinitura.
Spaciàre (v.)
Concludere in pareggio un rapporto economico di dare e avere.
Appianare una contabilità in modo da non lasciare
sospesi. Far pari e
Spargiàra (s.)
patta. Derivazione della parola pace.
Chioma arruffata e mal curata. Derivazione da aspargeto o
asparagiaia.
Spulàre (v.)
interamente al
Spurciàre (v.)
Rafforzativo
di
pulare
(vedi
gioco.
Levar di dosso le pulci. Vedi purcia.
pulare).
Venir
spogliato
Spuzzolìre (v.)
Il contrario di impuzzolire. Togliere il puzzo di dosso o da un
ambiente.
Stòpare (v.)
Levar caccole dal naso che in dialetto vengono detti topi.
Stranculète (v.)
(vedi incùlete) Ha lo stesso significato della parola già
citata (incùlete)
ma con senso rafforzativo e ripetitivo.
Strìgole (s.)
Punte di erba selvatica edule.
Svacàre (v.)
Togliere gli acini d’uva da un grappolo o far uscire dal guscio,
quando
è seccato, fagioli, ceci, piselli, ed ogni altro legame.
Vedi vaco o vago.
T.
Topa (s.)
Vagina, organo femminile. Dicesi altresì, sempre in gergo,
“sorca”
ossia la femmina del sorcio o del topo. Il cui colore grigio
scuro o
nerastro, fa riferimento al colore cupo e nascosto del
sesso femminile.
I significati di derivazione possono essere
molti altri.
Z.
Zebbedéi (s.)
In termine eufemistico sono i testicoli.
La trasposizione ha radice dal nome Zebedeo, padre di Giacomo
e
Giovanni discepoli di Gesù, i quali formavano una
coppia. Siccome i
testicoli sono due ossi a coppia, ecco il
riferimento. L’accostamento
potrebbe sembrare irriverente
e irriguardoso; c’è da considerare che
nel Patrimonio di S.
Pietro o Stato della Chiesa, c’era un forte
sentimento
antipapale e laicistico per cui si spiega l’accostamento al
nome di Zebedeo e ai due figli di Zebedeo detti anche Zebedei.
Lo stesso G.G. Belli nel sonetto n.106 “Li penzieri libberi” usa
nel 4.
Zòccola (s.)
di
bassa a
verso la forma “janna, minchione, zebbedei, gemelli”.
Dicesi in riferimento a donna di malaffare. Come pure di sorcio
fogna. Derivazione da zoccolo che è sempre la parte più
contatto con la terra.
Bruno Blasi
CRONACA DELL’ANNO 1986
La Società Tarquiniense d’Arte e Storia, di concerto con l’Azienda Autonoma di
Soggiorno e Turismo dell’Etruria Meridionale e con l’Amministrazione Comunale, ha
preferito, per l’anno in corso, dare inizio ad una serie di concerti di musica
cameristica giovandosi della disponibilità del complesso dei Solisti Aquilani, diretti
dal maestro Vittorio Antonellini: una serie di concerti pomeridiani, sia strumentali
che vocali, nelle giornate di giovedì, per i periodi primaverile e autunnale, dato che
nel periodo estivo i concerti vengono eseguiti dall’Accademia Nazionale di S. Cecilia
in Roma, in accordo con l’Assessorato alla Cultura del nostro Comune. Infatti,
dall’aprile al giugno e dall’ottobre al dicembre, i nove concerti sono stati eseguiti nella
sala G.B. Sacchetti della nostra sede, di fronte a un pubblico che via via è andato
aumentando di presenze, sia per la serietà che per la preparazione degli esecutori.
Dall’aprile al novembre, presso la sede del Palazzo Vitelleschi, sono stati presentati
per la prima volta in Italia i disegni di alcune tombe etrusche, qualcuna delle quali
scomparsa, eseguiti nel 1835 dal pittore romano Carlo Ruspi su incarico di Luigi I, re
di Baviera. Questi cartoni lucidi, sovrapposti sulle pareti tombali, riproducono tutti i
disegni così come si presentavano all’occhio del visitatore, con a fianco gli appunti e
alcune memorie dello stesso riproduttore, a volte eseguiti con qualche arbitrio.
Così che si sono conosciuti i disegni delle tombe del Citaredo, delle Iscrizioni,
Querciola e di un fregio della tomba delle Bighe, andato pressochè distrutto, dove
sono rappresentate gare sportive di tutte le discipline allora note, con il pubblico degli
aristocratici e relative consorti sulle tribune, mentre i servi sostano sotto, in vari
atteggiamenti, erotici compresi. Le altre tombe riprodotte sul lucido sono quelle del
Triclinio, del Morto, del Barone. Questa esposizione, curata dalla Soprintendenza alle
Antichità dell’Etruria Meridionale e dall’Istituto Germanico di Roma, è stata visitata
da uno stuolo innumerevole di visitatori, consapevoli che tali testimonianze saranno
collocate definitivamente presso gli archivi del Museo di Baviera. Per tale
avvenimento è stato anche stampato un volume illustrato e celebrativo, grazie al
contributo della Cassa di Risparmio di Civitavecchia.
Per rimanere nel campo delle manifestazioni culturali, è stata aperta una nuova
tomba etrusca nella zona del Calvario, chiamata dei “Démoni Azzurri”, scoperta
casualmente a seguito di uno scavo lungo la strada provinciale di Ripagretta per la
messa in opera di un nuovo acquedotto comunale. Tale tomba, fortemente
danneggiata dalle vibrazioni prodotte dal traffico pesante, è tuttora affidata alla cura
dei restauratori, mentre il traffico è stato limitato su di un solo lato. Ebbene questa
scoperta è stata di corollario alla suddetta Mostra di Palazzo Vitelleschi. Con
l’occasione di questi avvenimenti e con il rientro da Milano del materiale archeologico
in prestito a quella città, si sarebbe dovuta mostrare una serie di acquarelli del pittore
Adolfo Ajelli riproducenti tutte le tombe allora scoperte negli anni che vanno dal 1929
al
1932. Ma tutto è stato rinviato all’anno 1987, non avendo trovato la
Soprintendenza fondi necessari per l’allestimento di tutta la Mostra.
Nell’Auditorium di San Pancrazio sono state allestite manifestazioni artistiche: la
prima con la presentazione degli acquarelli di Lorenzo Balduini, riproducenti aspetti
della nostra città (marzo-aprile), la seconda con una Mostra Filatelica, approntata
dalla locale Associazione Filatelico-Numismatica in occasione dell’apertura della
Tomba dei Démoni Azzurri (agosto); e infine una interessante Mostra di Ceramiche,
sotto il titolo “Il Bucchero 3.000 anni dopo” con la presentazione in prima assoluta di
opere fittili di pregevolissima fattura, opera dei fratelli Cesare e Giovanni Calandrini,
Lorenzo Paoloni e Marino Ceccarini (settembre). Sempre nell’Auditorium di San
Pancrazio è stata fatta la presentazione del romanzo di Melo Freni “La passione di
Petra” con l’intervento di Francesco Boneschi e di Fiorella Passamonti, alla presenza
dello stesso autore.
Nella sala G.B. Sacchetti, nei mesi di maggio e di giugno, si è avuta una serie di
concerti di giovani pianisti; mentre dal 3 al 24 Luglio, la “Giovane Velka” ha
presentato “La Sonata”, esecuzione di concerti per pianoforte e strumenti antichi.
Nella medesima sala, il 12 luglio, sotto la presidenza dell’illustre scrittore Carlo Bo, è
stata premiata l’opera vincitrice del concorso di poesia “Tarquinia-Cardarelli”, “Da
brace a cenere” di Siro Angeli.
Sono state organizzate a favori dei Soci due gite turistico-culturali, la prima per
visitare Siena, Pienza e Monte Oliveto; la seconda alle abbazie di Fossanova e
Casamari, rispettivamente il 20 luglio e il 7 settembre.
Il 15 ottobre ha tenuto nella sala Sacchetti un concerto pianistico Stefano Albanese.
I concerti dei Solisti Aquilani si sono tenuti secondo il seguente programma:
27 marzo 3 aprile -
concerto da camera dei Solisti Aquilani diretti da V. Antonellini;
concerto del pianista Andrea Serafini
17 aprile -
concerto del duo pianistico Isabella Cristante e Patrizia Gallo
24 aprile -
concerto vocale del mezzo-soprano Teresa Rocchino e del tenore
Angelo Degli Innocenti, pianista accompagnatore, Domenico Poccia
01 maggio - concerto di Michele De Angelis, per liuto e chitarra
15 maggio -
camerata polifonica viterbese, diretta da Zeno Scipioni
29 maggio -
concerto dell’orchestra dei Solisti Aquilani diretti da V. Antonellini
24 ottobre -
concerto del duo Maurizio Gambini, violoncello, e Massimo Giorgi,
contrabbasso
13 novembre - concerto del soprano M. Vittoria Romano di musica da camera dal
titolo “Dal salotto a Piedigrotta”, accompagnatore il pianista Marco Fumo.
Su sollecitazione di alcuni giovani iscritti, la STAS si è prodigata, attraverso contatti
con la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale, per creare a Tarquinia
un Gruppo Archeologico per collaborare alla pulitura e alla salvaguardia del
patrimonio tombale del nostro territorio; si è avuto un incontro con la dott.ssa
Cataldi e con una Ispettrice che dovrà guidare questo Gruppo alla pulizia e alla
sorveglianza delle tombe già scavate e abbandonate, a cominciare, con la stagione
estiva, dalle tombe del Calvario.
In ottobre, lo scultore ternano Aurelio de Felice ha donato al socio Bruno Blasi una
statua bronzea, raffigurante una figura di adolescente, eseguite anni addietro come
omaggio a Vincenzo Cardarelli. Il socio Blasi l’ha donata a sua volta alla S.T.A.S.
perché la collocasse alla sommità della scalea in via dell’Archetto, 4.
Il 28 dicembre, venuto a scadere il triennio del mandato, il Consiglio Direttivo si è
dimesso facendo convocare l’Assemblea dei Soci per approvare il Bilancio consuntivo
dell’anno 1986 e procedere, nello stesso tempo, all’elezione del nuovo Consiglio
Direttivo. I risultati ottenuti sono stati i seguenti: eletti Guerri Sergio, Tiziani
Giannino, De Cesaris Cesare, Blasi Bruno, Corteselli Mario, Pardi Antonio, Moretti
Carlo. A revisori dei conti sono risultati eletti i sigg. Santiloni Giuseppe, Cannucci
Filippo e Tiberi Lilia Grazia.
Nel corso dell’anno la biblioteca-archivio si è arricchita di nuove pubblicazioni: 7
volumi illustrati della Bibbia, 6 volumi della Divina Commedia illustrata, 6 volumi di
capolavori nei secoli, omaggio del cardinale Sergio Guerri; da parte del socio Romano
Cancellieri sono stati donati 6 volumi sulla 2ª Guerra Mondiale di Winston Churchill
e 3 volumi sulla salvezza dei Beni Culturali in Italia e 6 volumi di Teodoro Momsen
sulla storia di Roma Antica; da parte del consigliere De Cesaris Cesare sono stati
donati 4 volumi di scritti scelti tra “Antico e moderno” di Benedetto Riposati; da
parte di Bruno Blasi il volume “I Rasenna”, una “Collezione di stampe” e l’opuscolo
completo della Mostra di Matta al “Centre Pompidou” di Parigi. Infine il socio
Pierozzi Davide ha donato un quadro da lui eseguito, riproducente la pianta della
città di Corneto nel 1800.
Altri avvenimenti nel corso dell’anno sono stati la 37ª edizione della Mostra-Mercato
delle Macchine Agricole e del Cavallo Maremmano, nonché la 800ª Fiera di
Tarquinia (quartiere medioevale) nei giorni del 1, 2, 3, 4 maggio.
Dal 17 al 31 maggio, presso la “Lestra” è stata presentata, sotto l’egida del Comune,
una Mostra antologica del pittore tarquiniese Manlio Alfieri.
Nei giorni 12, 13 e 14 settembre, è stata organizzata dalla Polisportiva Tarquiniese la
1ª Festa dello Sport, con esercitazioni sportive e con la rassegna di testimonianze
fotografiche attraverso il tempo.
Il 14 settembre, il Moto Club ha organizzato il 2ª Motoraduno a Tarquinia, mentre
all’Hotel Helios è stata tenuta una grande manifestazione dal titolo “Una voce per
l’Etruria”, manifestazione turistico-culturale con la presenza di molte autorità, scelte
in ogni campo.
Nel periodo natalizio, l’Associazione “Amici del Presepio” ha partecipato su invito alla
Mostra Europea del Presepio a Verona, dove è stato mostrato il Presepio
settecentesco che la Società Tarquiniense d’Arte e Storia ha recuperato dall’oblio e
fatto restaurare. Stando alle notizie di stampa, il nostro Presepio è stato giudicato uno
dei migliori in senso assoluto.
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Bollettino Completo 1986 - Società Tarquiniese Arte e Storia