S
tudi e commenti
Che cos’è
la CEI:
storia e identità
Relazione
di mons. Giuseppe Betori
«Non è semplice riassumere oltre
mezzo secolo di vita e di storia della
Conferenza episcopale italiana
(CEI)». Sono queste le prime parole
di mons. Betori – che di tale storia è
stato negli ultimi anni un protagonista – in occasione della relazione introduttiva al II Seminario di aggiornamento giuridico-amministrativo,
organizzato dalla CEI per i vescovi
di recente nomina il 26-28 novembre 2007 a Roma. A partire dall’iniziale «necessità di coordinare l’azione pastorale e d’individuare un soggetto pubblico in grado di rappresentare la Chiesa italiana» (19521954), mons. Betori racconta come
si è fatta strada la necessità di formare la Conferenza episcopale italiana così come la conosciamo oggi,
attraverso l’avvicendarsi dei programmi pastorali decennali e dei
convegni ecclesiali nazionali che, a
partire dagli anni settanta, hanno
contribuito a definirne l’identità.
Mons. Giuseppe Betori è stato promosso il 9 settembre scorso arcivescovo di Firenze; lascia l’incarico di
segretario generale della CEI al vescovo siciliano Mariano Crociata
(cf. riquadro a p. 551).
N
Stampa (26.9.2008) da file in nostro possesso.
Sottotitoli redazionali.
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on è semplice riassumere oltre mezzo secolo di
vita e di storia della Conferenza episcopale italiana (CEI), senza contare che il tratto di strada
più recente, a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, non è sufficientemente sedimentato
per permettere un’analisi compiuta. Nondimeno, la vicenda della Conferenza episcopale in Italia presenta
tratti peculiari, che la differenziano da analoghe esperienze in Europa e negli altri continenti.
Il primo tratto saliente è che la CEI è più giovane rispetto ad altre conferenze, costituitesi già nel XIX secolo, soprattutto negli anni di Leone XIII. Ricordo, ad
esempio, che in Belgio i vescovi si riuniscono dal 1832,
mentre quelli tedeschi decisero d’incontrarsi periodicamente già a partire dal 1867; in Irlanda, la Conferenza
episcopale nasce nel 1854 e nel 1899 il Concilio latinoamericano invita gli episcopati a tenere regolari riunioni.
Anche nell’Italia degli stati preunitari esisteva una
tradizione di assemblee di vescovi: le riunioni regionali,
che saranno formalizzate nel 1889 dall’istruzione vaticana Alcuni arcivescovi. Essa prescriveva almeno una riunione l’anno – antesignana delle attuali conferenze regionali –, anche se la fisionomia di tali organismi era ben
lontana da quella odierna. Il profondo legame con il papa, vescovo di Roma, e la presenza della Santa Sede
spiegano questo apparente «ritardo», che fa sì che la
Chiesa italiana non si concepisca né si esprima in maniera distinta da Roma. D’altra parte, anche dopo il
Concordato del 1929 le questioni non aventi carattere
regionale sono risolte dalla Santa Sede, che fino al 1968
gestisce direttamente anche i seminari regionali
La decisione, presa nel 1952, di convocare tutti i presidenti delle conferenze regionali costituisce quindi una
svolta a tutti gli effetti, maturata anche alla luce della
missione guidata da p. Riccardo Lombardi e sostenuta
da Pio XII per un risveglio dei cattolici italiani. Già alla
fine degli anni quaranta la frammentazione delle iniziative e delle istituzioni cattoliche aveva destato, infatti,
profonda preoccupazione, ma i timori per la solidità del
cattolicesimo italiano avevano subito un ulteriore incremento dopo le note vicende politiche del 1948. Anche
per queste ragioni, Pio XII auspicava un potente risveglio, un «saggio inquadramento» e «un assennato impie-
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go» delle forze cattoliche. In questo clima, l’8 gennaio
1952, ha luogo a Firenze la prima riunione dei presidenti delle conferenze regionali, sotto la presidenza del
card. Schuster, quale membro anziano. I temi all’ordine
del giorno sono la vita cristiana, il clero secolare e regolare, il laicato; l’obiettivo è quello di presentare al papa
delle conclusioni, che possano ispirare iniziative di rinnovamento. L’eco di quella riunione si spinse fino alla
lettera collettiva dell’episcopato italiano del 1954, che vide la luce nonostante la perplessità espressa da numerosi vescovi nei confronti di un documento che non portasse la firma del papa.
In realtà, fu proprio la Santa Sede a sostenere l’iniziativa di un messaggio dell’episcopato nazionale, in cui
i firmatari affermano di «interpretare tutti i vescovi italiani». La stessa Santa Sede avvertiva infatti la necessità
di una maggiore responsabilizzazione dei vescovi italiani, attraverso un’azione collettiva che tracciasse un programma pastorale su cui far convergere le iniziative diocesane. Emergeva infatti la duplice necessità di coordinare l’azione pastorale e d’individuare un soggetto pubblico in grado di rappresentare la Chiesa italiana: nasce
così il primo statuto, ancora provvisorio, della CEI, approvato dalla sacra Congregazione concistoriale il 1°
agosto 1954.
Tre papi del XX secolo provengono dalla CEI, di cui
hanno fatto parte come vescovi: Giovanni XXIII, Paolo
VI e Giovanni Paolo I. Il suo sviluppo, discreto e progressivo, non è estraneo a questo profondo legame con i
pontefici, pur nella varietà delle stagioni storiche che caratterizzano l’esperienza italiana. È una crescita che deve fare i conti con le resistenze locali e con l’attivismo
delle associazioni ecclesiali nazionali. Intesa prospettivamente, la storia della CEI è soprattutto la storia del lento ma proficuo emergere di un soggetto ecclesiale unitario in Italia. Il nuovo statuto provvisorio del 1959 va in
questa direzione, prevedendo la figura del presidente,
designato dal Comitato direttivo e nominato dal santo
padre. Anche la Commissione episcopale per l’Azione
cattolica, che fino al 1952 era stata l’unica struttura nazionale, viene inquadrata come commissione della CEI.
Esiste ormai un Segretariato permanente e all’inizio degli anni sessanta viene costituito l’Ufficio catechistico nazionale, come strumento della Commissione per le attività catechistiche.
In questa stagione, segnata da mutamenti profondi
nella società italiana e dal progressivo sgretolarsi di quel
fronte unitario che aveva presidiato la comunanza d’intenti tra la Chiesa e i politici cattolici nell’immediato dopoguerra, si staglia il concilio Vaticano II, e con esso la
ricerca di un nuovo rapporto con le istituzioni del paese.
È questa, però, soltanto una parte – forse, a ben vedere,
neppure la più importante – delle funzioni svolte dalla
CEI, che si caratterizza sempre più per l’azione pastorale. Se in precedenza le numerose diocesi italiane avevano trovato una convergenza d’orientamento e d’intenti
nelle parole del papa, nelle direttive della Santa Sede e
nelle attività dell’Azione cattolica, si va progressivamente configurando una diversa articolazione delle responsabilità, all’interno della quale la CEI è legittimata a
trattare tutti gli affari relativi all’Italia. Così, a metà degli anni sessanta, il tono della prima Assemblea plenaria
della CEI, a cui partecipa anche il papa, è quello di un
nuovo inizio dell’istituzione, in particolar modo per la
presenza alla riunione non più dei soli presidenti delle
conferenze regionali o dei soli metropoliti, ma di tutti i
vescovi italiani. È il fulcro del piano d’azione pastorale,
cioè l’evangelizzazione, a esigere necessariamente un assetto differente della Conferenza stessa. .
* I programmi pastorali si trovano nell’Enchiridion CEI: Evangelizzazione e sacramenti (1973), vol. 2; Comunione e comunità (1981),
vol. 3; Evangelizzazione e testimonianza della carità (1990), vol. 4; Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), vol. 7.
Evangelizzazione
e s acramenti
Nel 1965 il nuovo statuto, che non ha più carattere di
provvisorietà, ne disegna una configurazione diversa rispetto al passato, prevedendo l’Assemblea generale, di
cui fanno parte tutti i vescovi, compresi gli ausiliari, il
Consiglio di presidenza (formato dal presidente, dal vicepresidente, dai presidenti delle conferenze regionali e
da altri), le Commissioni e i Comitati, il Segretariato generale, guidato da un vescovo-segretario. Le ripetute
modifiche al testo statutario – l’attuale risale al 2000 –
manifestano tutte l’esigenza di rimodellare la struttura di
fronte alle nuove sfide e alle mutate necessità. In termini propositivi, l’impulso iniziale si concretizzò nel progetto di fondo di attuare nelle diocesi le decisioni conciliari, inserendole con tempestività e saggezza attraverso
programmi o piani pastorali che consentissero al cattolicesimo italiano di crescere in maniera unitaria, evitando
polarizzazioni, ritardi o avanzamenti discordi. Tale
cammino sarà segnato in particolare dai programmi pastorali decennali (Evangelizzazione e sacramenti – 1973;
Comunione e comunità – 1981; Evangelizzazione e testimonianza della carità – 1990; Comunicare il Vangelo in
un mondo che cambia – 2001)* e dai convegni ecclesiali
nazionali (a Roma nel 1976, a Loreto nel 1985, a Palermo nel 1995 e a Verona nel 2006), posti a metà dei percorsi decennali, quali tappe miliari del percorso della
Chiesa italiana.
Di fonte al travaglio che caratterizza la stagione ecclesiale a cavallo degli anni sessanta e settanta, la CEI
concentra le proprie forze sull’aspetto propositivo, cercando di fornire alle Chiese italiane stimoli e strumenti
per una rinnovata azione pastorale. Non a caso l’Assemblea plenaria del 1967 discute della cultura teologica del
clero e del laicato, mentre nel 1968 si parla dei laici nella Chiesa. Durante l’Assemblea straordinaria del 1969 ci
si prepara al futuro sinodo dei vescovi e si discute dell’Azione cattolica. Nel 1970 vengono focalizzati alcuni
problemi pastorali di pressante attualità: il ruolo delle
ACLI, la famiglia e l’introduzione della legge sul divor-
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zio, il passaggio dalla Pontificia opera di assistenza alla
Caritas italiana.
Comincia a farsi largo nella sensibilità generale la
consapevolezza che il problema della fede costituisce in
primo luogo una responsabilità missionaria, che impone
il dovere di ripresentare a ogni generazione che si affaccia alla vita la proposta che viene da Dio. A partire da
quest’attenzione, già pienamente espressa nelle conclusioni conciliari, gli obiettivi del decennio 1970-1980
mettono a fuoco il tema dell’evangelizzazione. Si tratta
di una tappa importante, che mira a connettere la multiforme attività dei cattolici italiani in campo sociale con
la prospettiva dell’evangelizzazione, mentre è sempre
più condivisa la consapevolezza che il quadro sociale
tradizionale, in cui la Chiesa ha un suo ruolo assicurato,
è sottoposto a rapide trasformazioni e a un processo di
erosione, che esige una nuova comunicazione della fede.
Per questa ragione, molte energie saranno dedicate all’elaborazione del progetto catechistico e alla redazione
dei catechismi per le diverse fasce d’età. Non di minore
importanza è il ruolo svolto dalla CEI nell’attuazione
della riforma liturgica, per la quale offre le competenze
necessarie e gli strumenti operativi per la traduzione e
pubblicazione dei libri liturgici e un contesto di unità
che ne favorisce l’accoglienza.
«Procedere uniti», diventa il compito della CEI: agire e agire insieme. La maturazione dell’identità specifica
della Conferenza episcopale si comprende appieno
guardando a questo suo ruolo di sintesi e di cinghia di
trasmissione fra le tante e diverse diocesi italiane. È l’affermarsi di un progetto, ma anche lo sviluppo di una coscienza ecclesiale comune in un mondo sempre più
frammentato. Sotto tale profilo, il primo Convegno ecclesiale nazionale, tenuto a Roma nel 1976, porta a maturazione la rinnovata fisionomia della Chiesa italiana.
La storia del primo quarto di secolo di vita della CEI,
che si conclude con la scomparsa di Paolo VI (1978), è
dunque quella di una stagione di fondazione, ma anche
del progressivo affermarsi di una consapevolezza identitaria e insieme missionaria, che diventerà, nel tempo,
sempre più rilevante e propositiva.
Comunione e comunità
Con il pontificato di Giovanni Paolo II nuove problematiche si delineano nello scenario italiano e mondiale.
Dal punto di vista istituzionale, la promulgazione del rinnovato Codice di diritto canonico (1983) e la revisione del
Concordato lateranense (1984) segnano un nuovo modello di rapporti con lo stato. Fin dai primi interventi,
Giovanni Paolo II aveva posto l’enfasi sul carattere universale della verità e sul nesso stringente fra verità e libertà, aspettandosi dai cattolici italiani un annuncio più
esplicito della verità cristiana e un ruolo più attivo o, per
meglio dire, più diretto, all’interno della vita nazionale,
con la consapevolezza di dover essere soggetto operoso e
influente nei dinamismi culturali e sociali del popolo italiano. Il nuovo piano pastorale, Comunione e comunità
(1981), intendeva porre attenzione alle condizioni inter-
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ne della comunità cristiana, nel tentativo di affrontare e
sanare i focolai di crisi ereditati dal decennio precedente.
Ma il tema non era estraneo alle preoccupazioni di una
società attraversata da tensioni rilevanti, che assumevano
anche il volto del terrorismo.
Tra il 1980 e il 1985 la vita della Chiesa fu segnata
anche da due grandi eventi, esterni e di carattere differente. Il primo fu il referendum sulla legge dell’aborto,
perso dalle forze cattoliche. Tale risultato, che non ebbe
– a differenza di quello analogo sul divorzio – effetti dirompenti all’interno della Chiesa, dal momento che i cattolici si erano presentati alla prova sostanzialmente concordi, certamente accentuò la frattura tra la società italiana e la tradizione morale cattolica, aprendo un contrasto destinato a svilupparsi fino ai giorni nostri.
Nell’allocuzione pronunciata da Giovanni Paolo II
nel corso del Convegno ecclesiale di Loreto (1985) è posta non soltanto senza indugi la questione dell’indirizzo
della Chiesa italiana, ma anche si assesta quell’identità
che la CEI verrà chiamata ad assumere compiutamente
nel suo sviluppo. Se, come affermato in quella sede dal
papa, l’identità storica del popolo italiano non è separabile dal cristianesimo, allora il processo di secolarizzazione impone ai cattolici l’impegno d’«iscrivere la verità cristiana sull’uomo nella realtà di questa nazione italiana»
(Regno-doc. 9,1985,316). Per tale ragione, la Chiesa è
chiamata a operare «affinché la fede cristiana abbia, o recuperi, un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro» (Regno-doc. 9,1985,317).
A partire da Loreto, grazie anche alle risorse rese
disponibili dal nuovo Accordo concordatario, prende il
via un forte rafforzamento della struttura della CEI,
con l’aumento degli uffici e delle commissioni, che nel
corso degli anni ottanta e novanta sarebbero giunti a
coprire tutti gli ambiti di attività delle Chiese locali. In
parallelo, sul versante dei rapporti con il laicato, fra il
1985 e il 1995 si deve invece prendere atto delle persistenti difficoltà ad armonizzare le molteplici espressioni
dell’associazionismo cattolico. È questo anche il periodo della crisi dei tradizionali partiti politici, con un conseguente incremento di responsabilità per la Chiesa,
spesso chiamata a ribadire i valori fondamentali e irrinunciabili per il paese, compreso quello dell’unità.
Questo percorso culmina nella «grande preghiera per
l’Italia», voluta da Giovanni Paolo II e promossa dalla
CEI nel 1994 (cf. Regno-doc. 7,1994,217ss).
Proprio in questi anni cominciano a emergere le prime accuse d’«ingerenza» della Chiesa in ambiti che le sarebbero alieni. Sul punto, mi sembra doveroso chiarire almeno una questione di fondo: in un paese democratico
tutte le agenzie culturali hanno il diritto e il dovere d’intervenire nel dibattito pubblico e il loro intervento contribuisce al corretto funzionamento del sistema. La Chiesa
è stata partecipe della storia della comunità nazionale, si
è riconosciuta come parte di una vicenda comune, ha
avuto con ciò coscienza di essere una Chiesa italiana, investendo se stessa e le proprie convinzioni nel dibattito
pubblico, senza tirarsi mai fuori dal gioco democratico,
ma rafforzando semmai tale fondamentale pratica e rinsaldando, nel medesimo tempo, l’identità nazionale. Inol-
tre, quando si parla della presenza della Chiesa nella società italiana, bisognerebbe guardare non soltanto alle
prese di posizione dei vescovi, ma anche a quella ripresa
di vitalità del mondo cattolico che negli ultimi lustri ha saputo esprimersi in molteplici forme d’azione sociale: cooperative culturali, editoria, mass media, scuole paritarie,
associazioni di genitori, consultori familiari, assistenza sociale, volontariato ecc. Ricordiamo, solo in anni recenti,
la voce della Chiesa e della CEI sulla questione meridionale, sulla criminalità organizzata, sulla corruzione e il deficit statale, sugli aspetti complessi della comunicazione.
In questa fase, è particolarmente significativa la ripresa
delle Settimane sociali dei cattolici italiani (1988), il documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (1989) e l’assunzione, nello stesso anno, della gestione del quotidiano Avvenire, destinato a diventare lo
strumento-tramite tra i vescovi e l’opinione pubblica.
Meno evidente nella percezione dell’opinione pubblica, ma non meno significativa per la storia della CEI, è
stata negli anni ottanta l’attenzione alla dimensione giuridica e propriamente normativa. Il Concordato del 1984
anche in ambiti importanti si limita a fissare alcuni principi di carattere generale, rinviandone la specificazione a
intese successive fra il Governo e la CEI. Ciò ha contribuito a consolidarne il profilo istituzionale, dal momento
che è stata chiamata ad assumere un ruolo di protagonista nella realizzazione dei principi pattizi: basti ricordare,
a questo proposito, le delibere relative al sostentamento
del clero e le intese sui beni culturali ecclesiastici e sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Di particolare rilevanza fu la riduzione del numero delle diocesi, che nel 1987 passarono da più di 300 a
228 (oggi sono 226, compreso l’Ordinariato militare), e
l’entrata a regime del nuovo sistema di finanziamento
della Chiesa: il cosiddetto «otto per mille», non solo impose la necessità di costanti contatti istituzionali fra la
CEI e il governo, ma rese disponibile un’ingente massa di
risorse finanziarie, destinate a transitare attraverso i canali della CEI stessa, secondo parametri chiari e pubblici, approvati dagli stessi vescovi, creando così un legame
più saldo con le diocesi.
nella Chiesa. La spiritualità diviene così parola chiave del
cattolicesimo odierno, seppure non priva di potenziali
equivoci. A essi il Convegno palermitano cercò di porre
rimedio, ribadendo che la spiritualità deve incentrarsi
sulla persona di Cristo e deve tradursi in vita nello Spirito. Si tratta, pertanto, di una spiritualità storica, personalizzata, di comunione, declinata secondo il termine della
«reciprocità», che trova espressione sintetica in una formula: «Contemplativi nella storia e memori del mondo
davanti a Dio» (CEI, Con il dono della carità dentro la storia, 26.5.1996, n. 11; ECEI 6/131).
Sul secondo versante a Palermo emerse l’urgenza di
un’«estroversione» della Chiesa che recuperasse il senso
forte della verità, per aprirsi con una precisa identità al
dialogo e all’incontro con l’uomo contemporaneo, nella
consapevolezza che la Parola ha in sé capacità d’incarnazione in ogni tempo e in ogni luogo. Dall’incontro di
queste due esigenze si aprì lo spazio del progetto culturale, già tracciato nel settembre 1994 dal card. Ruini nella
prolusione al Consiglio episcopale permanente.
L’orizzonte del progetto culturale era, ed è, il riconoscimento delle sfide cruciali che la cultura pone oggi alla
fede, nella convinzione che solo raccogliendo queste sfide
la fede può esprimere la sua energia creativa e alimentare il rinnovamento dell’uomo e della società. L’obiettivo
che emerse allora fu quello di costruire, con categorie attuali, una visione cristiana del mondo, consapevole delle
proprie radici e della propria pertinenza nelle questioni
vitali, fiduciosa circa le proprie potenzialità nel dialogo
con la cultura contemporanea, per renderci capaci di di-
Evangelizzazione e testimonianza del la carità
L’evento centrale del decennio 1990-2000 è costituito
dal Convegno ecclesiale di Palermo (1995). Rinnovando
un’esperienza già felicemente proposta nei due decenni
precedenti, le Chiese in Italia si ritrovarono per un appuntamento nazionale che rappresentò una presa di coscienza significativa della situazione del cattolicesimo italiano. La consapevolezza dell’emergere di molti temi, tutti oggettivamente urgenti (famiglia, giovani, comunicazioni sociali, povertà…), fu riletta alla luce di una nuova
esigenza di sintesi e di essenzialità, ma anche di più coraggiosa presenza nella storia: l’essere e la missione del
cristiano e della Chiesa.
Sul primo versante quest’esigenza si tradusse, e si traduce ancora, nella richiesta di riconoscere l’assoluto primato della spiritualità rispetto a ogni altro «fare» della e
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re in modo originale e plausibile la nostra fede. Dietro al
progetto c’è un’intuizione fondamentale, che potrebbe essere così sintetizzata: far passare l’evangelizzazione della
Chiesa italiana, cioè il suo compito proprio e naturale, attraverso un rinnovato e più intenso confronto critico con
le forme della cultura diffusa. Solo entrando nel vivo del
rapporto tra Vangelo e cultura e confrontandosi anche
sulle questioni che chiamano in causa l’essere della Chiesa nella storia è possibile salvare oggi questa eredità. La
vicenda del referendum sulla legge riguardante la fecondazione assistita (2005) lo dimostra: si tratta di un’esigenza di sempre, ma che assume urgenze nuove in alcuni
momenti e ambiti.
L’intuizione circa il ruolo decisivo del rapporto tra fede e cultura si collega ad altri interrogativi di fondo, che
toccano la qualità evangelica del cattolicesimo italiano, i
suoi tratti peculiari nel quadro del cattolicesimo europeo,
la sua disponibilità al dialogo con le altre componenti religiose e culturali presenti nell’odierno contesto pluralistico, le sue potenzialità di proiezione missionaria e, più in
radice, la sua tenuta di fronte ai forti processi di scristianizzazione della mentalità e del costume.
Come ben s’intuisce, si tratta di riflessioni e preoccupazioni che trovano riscontro in un altro nodo della riflessione espressa dalla Chiesa italiana in questi anni più
recenti: mi riferisco alla questione antropologica, cioè alla
netta contrarietà della Chiesa rispetto a una concezione
puramente naturalistica o materialistica dell’essere umano, che sopprime ogni differenza qualitativa tra noi e il
resto della natura. Essa è intimamente collegata e sotto
vari aspetti interdipendente con un’ampia gamma di
scelte etiche, di comportamenti, di stili di vita e anche di
concezioni e indirizzi sociali, economici, politici e legislativi, che a loro volta tendono a restringere, spesso in maniera radicale, la dimensione razionale, libera e responsabile della nostra vita, per privilegiare in via quasi esclusiva la sfera dei sentimenti immediati.
Dopo Palermo si procede così a configurare il Servizio nazionale per il progetto culturale. Cresce, inoltre,
l’impegno della CEI nel campo delle comunicazioni sociali, con il rilancio di Avvenire, la realizzazione dell’agenzia di stampa SIR, la nascita dell’emittente televisiva
Sat2000 e del circuito radiofonico InBlu. Non si è trattato però soltanto di dotarsi di strumenti tecnici, ma anche
d’inserire le loro potenzialità in una rinnovata coscienza
della centralità del problema della comunicazione, secondo la sintesi elaborata nel Direttorio sulle comunicazioni sociali Comunicazione e missione (2004).
Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia
In parallelo, si compie uno sforzo di più ampio raggio
per riportare al centro delle comunità ecclesiali uno stile
di vita improntato alla priorità dell’annuncio. Con tale
impegno, la CEI ha voluto dare corpo alla «nuova evangelizzazione», tema centrale dell’insegnamento di Giovanni Paolo II: la Chiesa, infatti, o è missionaria o non è.
La missione costituisce il mezzo per attuare la logica dell’incarnazione e la fedeltà all’amore appassionato di Dio
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verso l’uomo. Se l’obiettivo è la conversione missionaria
della vita e la sua fondazione in Cristo, diviene irrilevante misurare l’azione della Chiesa in termini di maggioranza e minoranza. Occorre piuttosto immaginare con
gioia creativa e umiltà determinata i modi e i momenti
della nostra partecipazione al progetto di Dio. È questo
l’identikit della parrocchia che si è tentato di profilare
nella nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in
un mondo che cambia (2004), al fine di tratteggiare la
«nuova frontiera» della pastorale. In quest’orizzonte devono leggersi anche i richiami a una pastorale integrata,
al «fare rete», che caratterizzano gli orientamenti per il
decennio corrente, dedicato al tema Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001).
Non sono mancati in questi anni segnali nuovi e consolanti: una fioritura di iniziative che suscitano domande
a partire dal pensiero cristiano; il costante impegno a essere presenti sul difficile fronte delle comunicazioni sociali; e, soprattutto, una promettente convergenza tra le
diverse aggregazioni che compongono il mondo laicale,
che si è potuto spendere in modo unitario in difficili frangenti in cui erano in questione valori irrinunciabili circa
la vita e la famiglia. Sotto questo profilo, le contrapposizioni, che in passato avevano prodotto profondi segni di
rottura, sembrano lasciare il passo a uno stile non solo di
pacifica contiguità, ma anche di operosa ricerca, d’incontro e di collaborazione. La varietà non appare più
una minaccia, né l’identità propria un primato. Si aprono tempi d’effettiva fraternità, in cui il dono dell’uno arricchisce tutti, al di fuori di calcoli meschini e inutili contese, senza nulla togliere alla specificità di ciascun percorso e al carisma di cui ogni aggregazione si sente depositaria. Da questa ritrovata intesa sono potuti nascere
anche strumenti di coordinamento per una rappresentanza del pensiero cristianamente ispirato sui versanti
della vita, della famiglia, dell’educazione, del mondo della sanità, del sociale in senso ampio.
Infine, non possiamo dimenticare che l’attenzione
espressa dalla CEI negli ultimi dieci anni per i temi della
famiglia e della vita si è costantemente dovuta misurare
con una sostanziale indifferenza se non, addirittura, un
diffuso compiacimento per la disgregazione di un istituto
basilare della società, la famiglia, e di un diritto fondamentale della persona, la vita.
Per ciò che concerne il primo aspetto, la CEI si è impegnata a promuovere una pastorale organica con e per
le famiglie, secondo gli orientamenti del Direttorio di pastorale familiare (1993), valorizzando l’apporto di sacerdoti, consacrati, coppie animatrici e gruppi ecclesiali, e
ricordando nel contempo alla politica che chi serve la famiglia, serve la società intera.
Il secondo tema, la vita e in particolare il diritto alla
vita, ha visto un impegno certamente non minore e,
aspetto ancora più significativo, una consonanza di sforzi del mondo cattolico per alcuni versi addirittura inedita. L’esito del referendum sulla fecondazione assistita
rappresenta in certo modo l’episodio apicale di una stagione che si è aperta con la fine degli anni novanta e che
sta facendo emergere un modo nuovo di esprimersi da
parte del mondo cattolico. Nel passato, esso si percepiva
O
rientamenti pastorali di mons. Crociata
A
l termine dell’ultimo Consiglio permanente della CEI (2225.9.2008) è stato dato l’annuncio della nomina, da parte
del papa, del nuovo segretario generale: mons. Mariano Crociata, vescovo di Noto, il quale sostituirà, a partire dal 20 ottobre prossimo, mons. Giuseppe Betori divenuto arcivescovo
di Firenze. Pochi giorni prima (14 settembre) mons. Crociata
aveva firmato il corposo testo degli orientamenti pastorali
2008-2009 della sua diocesi, frutto di ampia consultazione ed
emblematico della sua sensibilità ecclesiale. I nodi maggiori
del documento, Discepoli di Gesù sulle orme di Paolo, sono: il
discepolato cristiano, l’esperienza e l’esempio di Paolo di Tarso, le indicazioni pratiche in relazione ai cinque ambiti di vita
sviluppati nel convegno ecclesiale di Verona. Riprendiamo alcuni passi delle pagine iniziali del testo (opuscolo, Noto 2008,
pp. 9-12 e 16s).
L’idea generativa
Gli orientamenti pastorali (...) adottano come idea generativa
l’esperienza dei discepoli di Gesù; propongono infatti il discepolato evangelico come modello e origine dell’esistenza cristiana
anche per il nostro tempo; vogliono suggerire e far sperimentare
quanto sia possibile, significativo e ricco di speranza vivere oggi
come discepoli di Gesù.
Chiamiamo generativa l’idea di discepolato perché non è una
a caso tra altre, ma svolge un ruolo determinante nelle origini cristiane e in ogni forma di rinascita cristiana. Essa ci fa capire che
essere cristiani non è un insieme affastellato di cose da sapere e
da fare, ma una relazione personale di fede in Gesù da cui tutto
si genera nell’esistenza credente di ogni singolo cristiano e di
ogni comunità cristiana, come pure di ogni uomo che viene in
contatto con Gesù e con i suoi discepoli.
Dall’appartenenza a una religione
alla relazione con la persona di Gesù
Se osserviamo il modo di vivere e di pensare di tanti cristiani, è possibile constatare che essi sembrano per lo più sentirsi,
più o meno consapevolmente, parte di una totalità segnata dal
cristianesimo, e come tali fedeli di una religione tra altre, parte
dell’istituzione ecclesiastica, membri di un’organizzazione religiosa, individui inseriti in un processo di tradizione e in una cultura impregnate di cristianesimo; prevale in altri termini un senso quasi anonimo e impersonale di sentire e vivere l’appartenenza cristiana.
Siamo sollecitati, perciò, a riscoprire il vero volto della fede
cristiana, che consiste nella relazione personale con Gesù. In tale
passaggio, dall’appartenenza religiosa sociologica e culturale alla
relazione e sequela personale e comunitaria dietro a Gesù, avviene come un processo di liberazione, perché ciò che prima appariva un peso insopportabile, come tutte le forme di legame associativo in cui si appanna l’origine e il senso, ora si presenta per ciò
che veramente è, una relazione personale capace di ridare respiro e speranza a una vita che ritrova senso, entusiasmo, gioia, possibilità di dedizione e di solidarietà.
Una speranza anche per chi è lontano
Anche rispetto ai non pochi che vivono lontano dalla religiosità tradizionale cristianamente ispirata, che non svolgono alcuna pratica religiosa o che hanno abbracciato forme spurie o alternative di credenza e di pratica religiosa, la riscoperta del discepolato evangelico è capace di fornire il senso genuino di una
fede e di un’esperienza che non avevano mai gustato o che sorprende con il suo sapore di novità e di autenticità, come solo la
scoperta di una persona straordinaria sa dare. (...)
Le condizioni del discepolato: libertà e coraggio
La chiamata dei discepoli, che risponde all’iniziativa di elezione da parte di Gesù sul modello delle elezioni veterotestamentarie (Es 3,10; Gdc 6,11.14; Ger 1,5; Is 49,1.5; Am 7,15), esige alcune condizioni per la sequela. Anche se le pretese sembrano ardue, esse tuttavia richiedono al discepolo di ricomprendere la
sua identità, il suo essere in libertà. Il superamento dei legami è a
fondamento del recupero di una libertà che restituisce il senso
della propria identità umana. La piccola sezione di Lc 9,57-62 in
parallelo con Mt 8,18-22 presenta alcuni casi di una chiamata, fondata sulla prontezza, docilità e apertura nella libertà della sequela. La situazione di Gesù che «non ha dove posare il capo» (Lc
9,58) suggerisce al discepolo la libertà da ogni forma di sicurezza.
Non è possibile capire il mistero della chiamata senza questa
apertura al volere di Dio che prende le mosse dalla lucida e sapiente intenzionalità di accogliere la novità (il novum) che irrompe nella propria vita.
La libertà dai legami parentali (Lc 9,59s) è un altro aspetto essenziale del discepolato evangelico (cf. Mt 10,37; 19,29). Chi segue
Gesù, incamminato verso Gerusalemme e quindi verso il compimento della volontà del Padre, deve concepirsi pienamente intimo nella relazione con lui, appartenente a lui in una dimensione
per così dire «consacratoria», secondo lo statuto di impegno tipico delle elezioni veterotestamentarie. Questa libertà discepolare si completa nelle sue condizioni con la capacità di sapersi distanziare da richiami del passato (Lc 9,61s). La compagnia di Gesù
maestro, che è una presenza viva, certa e gioiosa, non ammette
dilazioni o pentimenti.
La libertà, recuperata nell’intima relazione con Gesù, reclama
inoltre un’intelligente comprensione delle conseguenze che i discepoli devono tenere in conto: il rischio della propria vita per restare fedeli a Gesù e all’annuncio del Vangelo (cf. Mc 8,35). Portare la croce e seguire Gesù comporta non solo la condivisione del
suo destino, ma anche il rischio di essere condannati come Gesù
stesso (cf. Mt 10,38; Lc 14,27; Mc 8,34; Gv 15,18-25).
@ MARIANO CROCIATA
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S
tudi e commenti
ed era percepito in maniera sostanzialmente unitaria nei
diversi ambiti dell’esperienza sociale. Oggi, la convergenza che scaturisce dal comporsi delle diversità non appare di per sé meno capace di dire il mistero cristiano di
fronte al mondo; anzi, per certi versi, ne può illustrare
ancor meglio il volto di unità e cattolicità. L’ulteriore passo sta nel capire come dall’unità così ripensata e rimodellata potrà concretamente generarsi il superamento del
rischio di una «diaspora culturale» dei cattolici.
È a partire da questi elementi che vanno compresi gli
obiettivi di fondo del Convegno ecclesiale di Verona
(2006): anzitutto, l’orizzonte degli orientamenti pastorali
decennali e quindi il tema della comunicazione del Vangelo, come modulazione della decisa missionarietà chiesta dalla condizione presente in termini di vera e propria
conversione della pastorale; in secondo luogo, la prospettiva della speranza, in cui si evidenzia che il Vangelo è sì
risposta alle contraddizioni, ai bisogni e alle attese dell’uomo contemporaneo, ma soprattutto opera una radicale novità nel vissuto dei singoli e, per loro tramite, della società; infine, la necessità di dare un contenuto sostanziale al riferimento alla coscienza personale e all’ethos collettivo, individuando tale contenuto nell’evidenziare il di più di libertà che il Vangelo dona all’uomo e
che ne è ragione di credibilità, mostrando come il fondamento ultimo di questa progettualità evangelica, che s’incarna nella vita del fedele cristiano nel mondo, è costituito non da un’idea, ma da una persona: Gesù salvatore, il Risorto.
Tutto questo equivale a rappresentare una Chiesa coraggiosamente testimone del Vangelo nelle parole e nelle
opere, o, per usare il titolo stesso del Convegno, l’essere
realmente «Testimoni di Gesù Risorto, speranza del
mondo». A tal proposito, la nota pastorale Rigenerati per
una speranza viva (1Pt 1,3): testimoni del grande sì di Dio
all’uomo (2007) non solo registra il successo di un evento
che ha coinvolto le comunità cristiane in un dialogo fraterno e vivace, ma fornisce un orientamento imprescindibile al nostro lavoro attraverso tre scelte di fondo: il primato di Dio nella vita e nella pastorale della Chiesa; la testimonianza personale e comunitaria come forma dell’esistenza cristiana; una pastorale che converge sull’unità
della persona. Di grande rilevanza è anche la svolta metodologica sperimentata nella preparazione e nei lavori
del Convegno, che attende ora di essere tradotta nella
prassi pastorale delle diocesi: passare da un approccio dicotomizzato per fasce d’età e settori di attività (giovani,
famiglia, scuola, lavoro…) a una proposta integrata, che
coglie la persona nella sua unitarietà e nel suo vivere in
situazione, aiutandola a crescere e a riflettere a partire da
alcune dimensioni esistenziali significative, quali l’affettività, il lavoro e la festa, la fragilità, l’educazione e la cittadinanza.
La presenza e la parola di Benedetto XVI hanno accompagnato e orientato il Convegno di Verona, indicando «quel che appare davvero importante per la presenza
cristiana in Italia» ed evidenziando come il nostro paese
«costituisce un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana» (Regno-doc. 19,2006,672). «La Chiesa,
infatti – ha rilevato il santo padre –, qui è una realtà mol-
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to viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente d’ogni età e condizione» (Regno-doc.
19,2006,673). È una Chiesa resa forte dal radicamento
delle tradizioni cristiane nel tessuto popolare, dal grande
sforzo di evangelizzazione e catechesi specialmente verso
i giovani e le famiglie, dalla reazione delle coscienze di
fronte a un’etica individualistica e dalla possibilità di dialogo con segmenti della cultura che percepiscono la gravità del distacco dalle radici cristiane della nostra civiltà.
Abbiamo davanti a noi grandi opportunità per dare, con
la forza dello Spirito Santo, «risposte positive e convincenti alle attese e agli interrogativi della nostra gente: se
sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa nazione, ma anche all’Europa e al
mondo» (Regno-doc. 19,2006,673).
Di fronte all’arduo compito di evangelizzare in un
mondo dominato dal relativismo e dalla secolarizzazione,
il «carattere popolare» della Chiesa italiana può essere
una risorsa assai positiva. È utile riandare in proposito alle parole del nuovo presidente della CEI card. Angelo
Bagnasco nella sua prima prolusione all’Assemblea generale del maggio 2007: «Guardo al nostro amato paese e
ripeto a tutti che i vescovi rinnovano il gesto semplice e
vero dell’amicizia. Non parliamo dall’alto, né vogliamo
fare in alcunché da padroni. Ci preme Cristo e il suo
Vangelo, null’altro. Lo annunciamo come misura piena
dell’umanesimo, non per rilevare debolezze o segnare
sconfitte, ma per un’obbedienza che è esigente prima di
tutto verso di noi, e che è promozione di autentica libertà per tutti. Quando ci appelliamo alle coscienze, non è
per essere intrusivi, ma per richiamare quei contenuti
pregnanti senza i quali cessa il presidio ultimo di ogni
persona, anzitutto per i meno fortunati (…). Con trasparenza, siamo a servizio della gioia. Nel nostro orizzonte
non c’è un popolo triste, svuotato dal nichilismo e tentato dalla decadenza. C’è un popolo vivo, capace di rinnovarsi grazie alle proprie risorse e alla propria inevitabile
disciplina, capace di non tradire i suoi giovani, capace di
parole credibili nel consesso internazionale» (Regno-doc.
11,2007,361).
È questo lo sfondo storico e ideale da cui si staglia l’agire concreto e quotidiano degli uffici e dei servizi che costituiscono la Segreteria generale della CEI, il cui compito è di esclusivo sostegno dei progetti diocesani e di coordinamento di quanto esiste nella comunità ecclesiale italiana. Non esiste e non può esistere una «pastorale della
CEI», intesa come progetto unitario elaborato a tavolino
in circonvallazione Aurelia e replicato o adattato a livello
diocesano e locale. Ciò non significa rinunciare alla giusta esigenza di coordinare gli sforzi e di presentarsi con linee pastorali convergenti in una realtà sempre più complessa e globalizzata. Non significa neppure penalizzare
le realtà più piccole o meno attrezzate, e quindi più in difficoltà nel progettare e realizzare un proprio piano pastorale. Vuol dire piuttosto non stravolgere l’identità della CEI e rispettare le competenze dei vescovi, ai quali
unicamente spetta il governo pastorale delle diocesi.
@ GIUSEPPE BETORI,
segretario generale della CEI
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