Saggi degli accademici incolti 7 V Lucio D’Ubaldo Prima di Nathan Il municipalismo sociale dei cattolici e il progetto riformatore di Romolo Murri nelle elezioni amministrative romane (1902) OPERA REALIZZATA CON IL CONTRIBUTO MINISTERO PER I BENI CULTURALI E AMBIENTALI UFFICIO CENTRALE PER I BENI LIBRARI E GLI ISTITUTI CULTURALI 1998 Si ringrazia Serena Visintin per la collaborazione nelle ricerche di archivio e nella raccolta di materiali utilizzati per questo studio. S’intende altresì ringraziare Stefania Troiani per il prezioso lavoro redazionale e Daniela Toccaceli per la cura del prodotto editoriale. Ad Alberto Gaffi, Principe dell’Accademia degli Incolti, le cui edizioni accolgono questo scritto, semplicemente la conferma dei sentimenti di stima e di amicizia. Il libro è dedicato, in segno di ricordo e come testimonianza di affetto immutato, a Lamberto Valli. (...) Essi hanno però, come succede di norma presso i conservatori, sempre trascurato un contatto con il popolo. Adesso arrivano i democratici cristiani, che potrebbero rappresentare un contrappeso ai socialisti insorgenti, e che desiderano solo una gestione per il popolo, ma anche attraverso il popolo, e guarda un po’, i “Cavalieri Conti e Commendatori” dell’antica città non lo tollerano. (...) Noi auguriamo ai nostri amici romani una splendida vittoria per il bene del cristianesimo e della democrazia. Alcide De Gasperi (“Reichspost”, 27 giugno 1902) INDICE Prefazione di Giovanni Galloni pag. 3 Introduzione 13 CAPITOLO I Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 21 CAPITOLO II I cambiamenti a cavallo del ’900: 39 la nascita della democrazia cristiana e la “rinascita”dei comuni CAPITOLO III Le elezioni amministrative del 1902: 63 l’iniziativa di Romolo Murri, la sfida all’Unione Romana e il veto della S. Sede CAPITOLO IV Una questione aperta, quale politica di centro? 95 Indice - Documenti Le imminenti elezioni amministrative da “Cultura Sociale” - 16 aprile 1902 109 Alla conquista dei comuni da “Cultura Sociale” - 1 maggio 1902 115 Un problema di tattica da “Cultura Sociale” - 1 giugno 1902 119 (carteggio tra Luigi Sturzo e Romolo Murri) Il programma municipale dei d.c. romani da “Il Domani d’Italia” - 8 giugno 1902 131 (di Romolo Murri) Elezioni amministrative in Roma Elettori Cattolici Romani! Il programma dei partiti popolari da “Il Domani d’Italia” - 15 giugno 1902 145 148 149 Noi ribelli Il municipio del popolo Elezioni amministrative in Roma Nei rioni da “Il Domani d’Italia” - 22 giugno 1902 153 155 158 162 Elezioni amministrative in Roma da “Il Domani d’Italia” - 29 giugno 1902 163 Le elezioni a Roma da “Il Domani d’Italia” - 6 luglio 1902 167 Postfazione di Anna Maria Isastia 171 Bibliografia Indice dei nomi 183 187 Prefazione 3 PREFAZIONE Il merito di Lucio D’Ubaldo con la pubblicazione in volume di questo saggio dal significativo titolo “Prima di Nathan” è quello di essere andato a riscoprire il passaggio della storia amministrativa della città di Roma, quasi del tutto dimenticato, delle elezioni amministrative del 29 giugno 1902 che videro la vittoria delle due liste moderate, quella cattolica dell’Unione Romana e quella laica dell’Unione liberale apparentemente in competizione fra loro, ma sostanzialmente alleate nell’intento di escludere dalla rappresentanza capitolina tutti gli esponenti laici più spinti e di tendenza anticlericale ed in particolare lo stesso Nathan che poi si prenderà una clamorosa rivincita nelle successive elezioni. Questo risultato fu possibile grazie ad un sistema elettorale allora vigente rigidamente maggioritario che dava però la possibilità all’elettore di cancellare nomi della lista prescelta per sostituirli con nomi di una lista concorrente. Non è però tanto questo risultato che può suscitare interesse per noi oggi, quanto l’analisi della fase preparatoria delle elezioni che l’Autore del libro è andato a ricercare con scrupolosa diligenza e che documentano come in quella competizione amministrativa vi fu un tentativo clamoroso ed altrettanto sfortunato (e forse in sè irragionevole) di entrata in campo di Romolo Murri, il leader riconosciuto del movimento democratico cristiano e cioè del movimento della sinistra intransigente cattolica giunto allora al massimo della sua notorietà e del suo prestigio all’interno dell’Opera del Congressi. Perché - ci possiamo domandare oggi - Romolo Murri tentò questa operazione proprio all’interno di un ambiente, come quello del cattolicesimo romano, che doveva saper essergli naturalmente ostile? Era noto infatti come il tradizionale raggruppamento elettorale romano per le amministrative, quello dell’Unione Romana (punto di incontro di tutti i cattolici moderati transigenti e intransigenti) era tenden- 4 Prefazione zialmente conservatore e, in ogni caso, ostile ad ogni forma di programmismo sia laico che cattolico. A questo interrogativo D’Ubaldo fornisce una risposta implicita, che forse può essere resa esplicita pensando che Murri con il suo intervento diretto nelle elezioni romane intendeva rovesciare, proprio partendo dalla capitale, la tendenza in atto ad utilizzare i cattolici come massa di manovra a difesa della conservazione più retriva in sede amministrativa come primo passo per usarli poi, una volta caduto il non expedit, in sede di voto politico. L’obiettivo di Murri, e lo rileva bene D’Ubaldo, era infatti quello di accelerare i tempi per la formazione di un partito popolare cattolico (per il popolo e con il popolo) in antagonismo ai conservatori liberali e in competizione con le sinistre laiche, e proprio in questo senso riformatore e di centro, capace di recuperare i valori morali e politici del Risorgimento e di superare la questione romana non attraverso lo scontro tra Stato e Chiesa, ma ricreando fiducia nella democrazia e soprattutto fiducia tra il popolo, tutto il popolo, e la Chiesa. È vero che nel disegno politico di Murri rimangono ancora i limiti - che saranno poi superati da Sturzo - tra sfera e responsabilità autonoma della politica e sfera e responsabilità religiosa, ma è altrettanto vero che si intravedono già le linee di un grande disegno riformatore nel quale la vera democrazia sociale ricavata dalla Dottrina sociale della Chiesa non poteva affermarsi “fuori dagli schemi di una moderna democrazia politica”. E ciò richiedeva l’uscita con un programma definito non solo sulle questioni economico-sociali a difesa delle classi più umili, ma anche sulle questioni politiche istituzionali e, in particolare, sulla riforma in senso autonomistico dello Stato, oltre che sulla riforma in senso proporzionale delle leggi elettorali. In questo quadro si collocava allora l’interesse di Murri per le autonomie comunali e per l’Associazione dei comuni oltre che l’interesse già manifestato dai giovani democristiani verso i programmi comunali le cui linee, enunciate al Congresso di Torino del 1899, comprendevano fra l’altro, anticipando lo stesso Giolitti, la municipalizzazione dei servizi pubblici e l’attribuzione ai comuni di molte funzioni fino ad allora esercitate dallo Stato. Nel quadro di questa linea di pensiero e di azione murriana, avversa ad ogni combinazione elettorale con i liberali e volta a bloc- Prefazione 5 care l’emergere delle sinistre, si spiega la richiesta di Murri di partecipare a Roma con la sua personale candidatura e con quella di altri seguaci nella lista dell’Unione Romana che si definiva genericamente cattolica e che, almeno formalmente, si contrapponeva a quella liberale (anch’essa composita e comprendente liberali di varie tendenze). L’unica condizione posta da Murri per dare il suo contributo era che si accettasse il programma amministrativo dei giovani democristiani socialmente avanzato e comprendente fra l’altro appunto la municipalizzazione dei principali servizi pubblici, sì da dare una qualificazione all’Unione Romana che non aveva mai avuto un programma elettorale e formava liste di candidati per lo più esponenti dell’aristocrazia e della borghesia ad essa collegata. Le difficoltà, come è documentato nel libro, non nacquero sul programma che non fu mai formalmente respinto, ma in sostanza non fu preso in considerazione dall’Unione Romana nè prima nè durante il corso della campagna elettorale. Interessante è invece notare come l’iniziativa di Murri fosse seguita con vivo interesse a livello nazionale; essa ebbe infatti una adesione dello stesso giovanissimo De Gasperi allora studente a Vienna, anche se dal suo consenso traspare un certo scetticismo sul risultato, e da una adesione dello stesso Sturzo anche se attenuata dalla riserva circa il possibile sbocco verso alleanze con partiti non cattolici; e questo perché Sturzo, in base alla esperienza portata a buon fine poco tempo dopo nella sua Caltagirone, rimaneva fedele al suo principio di liste di soli cattolici. La difficoltà vennero invece sulla accettazione della candidatura di Romolo Murri, respinta nella fase conclusiva della formazione della lista dall’Unione Romana con il consenso vaticano. La reazione fu che i democratici cristiani romani non si impegnarono ufficialmente nella campagna elettorale. Aveva prevalso cioè la tendenza moderata dell’Unione Romana che aveva evitato, dal suo punto di vista, il rischio di vedere nella sua lista un noto esponente cattolico progressista riformatore il quale, con la sua sola presenza e soprattutto con la sua indomabile iniziativa, avrebbe turbato il vecchio equilibrio conservatore e aperto attraverso il programma nuove e in qualche modo spregiudicate alleanze nel consiglio comunale. I risultati elettorali premiarono, come si è visto, la tendenza conservatrice perché senza Murri in lista furono possibili i giochi elettorali per fare eleggere, accanto ai cattolici moderati, i liberali più conservatori realizzando così un consiglio comunale quasi del tutto omogeneo nella 6 Prefazione tendenza clerico-moderata e all’interno del quale un gioco assai limitato potevano avere le pur generose iniziative di uno o al massimo due murriani risultati eletti. Ma questa quasi omogenea maggioranza conservatrice ebbe, non dobbiamo dimenticarlo, una influenza determinante per facilitare l’alternativa nelle successive elezioni comunali a favore di una maggioranza di sinistra laica e massonica fortemente anticlericale e caratterizzata dalla figura di Nathan, il quale poté oltre tutto avvalersi come sua base programmatica del programma lanciato da Murri. È dunque dal ricordo di questo, in sè marginale episodio storico opportunamente rievocato che nascono riflessioni e considerazioni dal significato politico ancora attuale. Le ultime pagine del libro di D’Ubaldo che riguardano questo aspetto vanno particolarmente segnalate al lettore e possono essere utilizzate come punto di partenza per un allargamento del dibattito politico in corso. Innanzitutto dalla documentazione storica esposta nel libro si ricavano con estrema lucidità i punti che crearono l’unità e l’originalità del pensiero politico di tre personaggi che possiamo considerare i fondatori del cattolicesimo democratico in Italia e cioè Romolo Murri, Luigi Sturzo e, sia pure ancora giovanissimo, Alcide De Gasperi. Pur esprimendo valutazioni diverse da Murri circa la possibilità di un esito positivo del tentato inserimento dei democratici cristiani entro il consiglio comunale di Roma, Sturzo e De Gasperi dimostrarono di essere d’accordo con Murri sul valore dell’iniziativa. È in primo luogo considerata valida la posizione politica con la quale il gruppo murriano intende partecipare alle elezioni amministrative romane e che nel futuro potrà essere adottata anche in competizioni politiche nazionali. Questa posizione si definisce come “antagonismo”, che di per sè non tollera forma alcuna di alleanza o di compromesso, con la destra liberale e moderata e invece “competizione concorrenziale” con la sinistra laica e socialista. Se ne ricava quindi - e questo è il secondo elemento - una posizione che, essendo distinta sia dalla destra liberale che dalla sinistra laica e socialista, si autodefinisce di centro e che, per esprimersi nelle istituzioni in piena autonomia e non essere schiacciata su una posizione non propria, ha bisogno di un sistema elettorale tendenzialmente proporzionale. Luigi Sturzo, che avrebbe appunto sviluppato nella sua Prefazione 7 Caltagirone una esperienza elettorale amministrativa conclusasi vittoriosamente, si preoccupa che l’iniziativa di Murri a Roma non abbia come obiettivo immediato quello di realizzare una maggioranza di potere, magari attraverso un meccanismo di alleanze con partiti non cattolici. Preferibile è, secondo Sturzo, presentarsi da soli anche con il rischio di riuscire in minoranza o di non riuscire affatto. Secondo il modello in sè esemplare usato da Sturzo a Caltagirone, il comune non fu conquistato attraverso alleanze di potere nè con la maggioranza di destra liberal-massonica nè con la minoranza di sinistra socialista, ma con la battaglia di chiara contrapposizione programmatica sul piano sociale alla destra ed una concorrenza spinta sullo stesso terreno con i socialisti dopo aver chiarito le insuperabili divergenze ideologiche. I risultati a Caltagirone furono - come è noto - che alla fine Sturzo, senza alcun patteggiamento, costrinse i moderati a votare per lui e per un programma sociale amministrativo concorrenziale con quello socialista, pur di sbarrare la strada ad un’altrimenti inevitabile maggioranza socialista. Si evidenzia così il terzo punto di convergenza del pensiero fra Murri Sturzo e De Gasperi, quello secondo cui il programma è l’elemento di qualificazione fondamentale di un partito per l’oggi solo amministrativo, ma per il domani anche politico e nazionale. Il programma dunque e non l’identità cattolica è l’elemento qualificante il partito dei cattolici democratici. L’identità cattolica infatti unisce i credenti in alcuni principi religiosi, ma non li può unire su un programma politico o amministrativo perché, pur partendo dai comuni principi religiosi, possono essere dedotti sul piano dell’azione sociale o politica sia comportamenti conservatori o moderati che comportamenti progressisti. Si ricava ancora di qui che il programma è l’unico o almeno il fondamentale strumento di dialogo nelle istituzioni tra il partito dei cattolici democratici e gli altri partiti e quindi anche il punto di partenza necessario per la formazione delle maggioranze. Le alleanze si possono anzi si debbono fare tra forze politiche diverse solo quando risulti chiara la convergenza sui programmi e non solo per la conquista del potere. È quindi una concezione del potere, e in definitiva dello Stato e delle istituzioni, finalizzata al bene comune che storicamente si identifica nei programmi che le forze politiche propongono nella vi- 8 Prefazione sione dell’interesse collettivo e sui quali richiedono e ottengono il consenso popolare necessario. Di qui emerge l’ultimo, ma fondamentale punto di convergenza fra il pensiero politico di Murri Sturzo e De Gasperi: il popolarismo. Come nel dibattito dei laici progressisti alla costituente francese del 1791, Murri sostiene che i democratici cristiani non debbono essere solo per il popolo ma con il popolo, con tutto il popolo, elemento essenziale per recuperare i valori morali e politici dell’unità nazionale propri del Risorgimento e per ristabilire un rapporto di fiducia tra il popolo, tutto il popolo, e la Chiesa cattolica. Da questi cinque punti che già emergono nel giungo del 1902 dall’iniziativa di Murri si svilupperà in modo più compiuto il pensiero di Sturzo nel discorso di Caltagirone del dicembre del 1905 e nelle “Idee ricostruttive” di De Gasperi, il programma della Dc del 1944-45. Che cosa dunque mancò all’iniziativa di Murri e che cosa rese invece possibile - sia pure in tempi e in condizioni diverse - a Sturzo la conquista di Caltagirone e la formazione di un partito di cento deputati e a De Gasperi una maggioranza relativa alle Camere in contrapposizione alla destra fascista e nel confronto con i comunisti? Dalla lettura del libro di D’Ubaldo risultano evidenti le contraddizioni in cui è incorso Romolo Murri e che dovevano inevitabilmente portare al fallimento della sua pur generosa iniziativa. La prima fondamentale contraddizione è che Murri pensava ad un partito cattolico popolare ed erede dei valori del Risorgimento pur rimanendo all’interno dello schema dell’Opera dei Congressi che era, come l’Azione cattolica, una struttura ecclesiale e dalla quale poteva nascere solo un partito che fosse strumento della Chiesa contro lo Stato e non lo strumento auspicato per ristabilire il rapporto di fiducia tra tutto il popolo italiano e la Chiesa. Questa contraddizione - come si è detto - fu superata da Sturzo con la costruzione di un partito aconfessionale e quindi capace di tutelare i diritti di libertà religiosa nel quadro più ampio di difesa dei diritti delle libertà civili politiche e sociali. La seconda contraddizione, che nasce direttamente dalla prima, è che se si mantiene, almeno sul piano teorico, la unità di tutti i cattolici sul terreno politico, diventa poi impossibile qualificare il partito sul terreno programmatico fuori dall’ambito ristretto riguardante Prefazione 9 solo i diritti di libertà religiosa. Si illudeva quindi Murri di poter inserire se stesso e i suoi democratici cristiani con un programma amministrativo progressista (comprendente perfino le municipalizzazioni) entro una lista a grandissima maggioranza moderata e dominata dalla nobiltà romana. Era logico allora che l’Unione Romana temesse la presenza di un Murri il quale avrebbe sconvolto gli assestati equilibri e impedito il dialogo con le espressioni più moderate della lista laica e liberale. Ma questa politica moderata di puro potere dell’Unione Romana, come poi tutto il moderatismo cattolico espresso fino ad oggi nel nostro paese, peccava di miopia ed era destinata a farsi travolgere dalla evoluzione della storia. È significativo infatti che, respingendo Murri e il suo programma e alleandosi di fatto con la destra liberale, l’Unione Romana abbia sì conquistato nel giugno 1902 un potere quasi assoluto nel Comune di Roma, ma abbia nello stesso tempo create le premesse perché nelle successive elezioni si formasse la maggioranza più anticlericale dell’intera storia amministrativa di Roma, la maggioranza capitanata da Nathan. E non è senza significato che lo stesso Nathan abbia adottato un programma amministrativo che per la parte sociale riprendeva nei punti fondamentali il programma dei democratici cristiani di Murri, comprese le municipalizzazioni. Analogamente è naturale e facilmente prevedibile che tutte le volte in cui i cattolici democratici non sono riusciti a far convergere su di sé il consenso dei moderati con un programma socialmente aperto in concorrenza alle sinistre, si sono poi di fatto formate maggioranze di destra che hanno aperto la strada alla sinistra anche estrema. Viceversa, tutte le volte che su programmi riformatori di partiti qualificatisi di centro sono potuti convergere i consensi moderati come male minore per evitare il prevalere della sinistra, si sono potute formare maggioranze stabili. Così è stato per Sturzo a Caltagirone, così è stato per De Gasperi che nella Dc, la quale pur presentava un programma riformatore e mantenne alla Costituente e nelle istituzioni un dialogo con le sinistre, ha potuto giovarsi della convergenza dei voti di una gran parte dei moderati, anche se costretti a votare (come scrisse Montanelli) “turandosi il naso”. Oggi però le condizioni, che hanno reso possibile per quasi mezzo secolo, il disegno cattolico democratico sono in larga parte mutate. E quindi i modelli sturziani e degasperiani richiedono ormai un adeguato aggiornamento. 10 Prefazione È venuta meno innanzitutto la condizione del sistema elettorale proporzionale senza del quale nessun partito di centro avrebbe potuto nascere in Italia. Senza il sistema proporzionale nè Sturzo avrebbe potuto raggiungere i cento deputati nel 1919 (e si sarebbe dovuto accontentare di qualche rara presenza in Parlamento) né De Gasperi avrebbe potuto raggiungere nel 1946 la maggioranza relativa all’Assemblea costituente. Ancora valido è l’ammonimento di Sturzo ai murriani che dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi avrebbero voluto dar vita subito ad un partito politico che in quelle condizioni sarebbe stato solo una “chiesuola”. La seconda e forse più rilevante condizione venuta meno proprio sul terreno politico è che, dopo il crollo del muro di Berlino e la trasformazione della maggioranza del Pci in Pds, è venuta meno l’antica forza di pressione sui moderati per spingerli ad una convergenza elettorale verso il centro. E tuttavia, se è vero che non può più infatti ragionevolmente aver presa il timore di una maggioranza ideologica programmatica di tipo collettivista, non si sono neppure create le condizioni di un bipartitismo attraverso il quale tutte le posizioni politiche possano tranquillamente confluire in due soli schieramenti. Sono pertanto venute meno le condizioni per cui possa emergere come forza maggioritaria o comunque determinate un partito o uno schieramento di centro, ma non è venuta meno, anzi per certi aspetti si è accresciuta, la “voglia di centro” o comunque la consapevolezza che senza l’apporto determinante dei voti moderati nessuno dei due schieramenti in competizione può vincere. In questa situazione quale insegnamento ci possono offrire oggi gli episodi storici ricordati con tanta puntualità dal libro di D’Ubaldo? Innanzitutto che, senza un ritorno oggi del tutto improbabile ad un sistema elettorale proporzionale e soprattutto se permane una sinistra non più qualificata per l’ideologia e non estremizzata sul programma e si conserva una destra resistente attorno alle figure dei rispettivi leaders (Berlusconi e Fini), nessuna prospettiva nè elettorale nè politica può avere un partito o uno schieramento di centro autonomo sia dalla destra che dalla sinistra. Un raggruppamento di centro che convogliasse i partitini di derivazione democristiana confluiti nel polo di centro-destra non 11 Prefazione avrebbe alcuna possibilità di successo e non modificherebbe di fatto la situazione se fosse costretto a confermare la sua alleanza con la destra. Se poi questo centro decidesse di delimitarsi a destra escludendo le forze di derivazione fascista, con molta probabilità non potrebbe essere alternativo al centro-sinistra. D’altra parte se è vero che il maggior partito erede della tradizione politica del vecchio Pci ha perduto, come si è detto, tutti i tratti ideologici e programmatici che ostacolavano nel passato la collaborazione con i partiti democratici di centro, è altrettanto vero che esso non ha finora perduto - specie per la composizione della sua classe dirigente - il metodo che lo caratterizzava nell’esercizio del potere. E questa è la ragione per cui senza l’apporto del centro la sinistra non ha potuto raggiungere la maggioranza nelle elezioni del 1994, mentre con l’apporto di una parte del centro ha raggiunto invece la maggioranza nelle elezioni del 1996 o, quantomeno, ha impedito che la raggiungesse il centro-destra. Un raggruppamento di centro che, nascendo all’interno dello schieramento di centro-sinistra qualificato dall’Ulivo, potesse svilupparsi in virtù di un programma concorrenziale con quello della sinistra estrema avrebbe dunque ancora la possibilità di attrarre i voti moderati che potrebbero confluire con l’obiettivo di ricostituire all’interno dell’Ulivo un diverso equilibrio di forze tra sinistra e centro, puntando a superare i rischi di metodo nella gestione del potere. Questo sembra oggi il compito e la strada che il Partito Popolare e gli altri raggruppamenti di centro esistenti all’interno dell’Ulivo possono percorrere per riprendere ancora ed attuare, nelle presenti condizioni, gli insegnamenti storici sempre preziosi della tradizione cattolico-popolare. Dobbiamo quindi essere grati a Lucio D’Ubaldo per averci, con il suo libro storico, ricondotto a ragionare sui nostri problemi attuali. Giovanni Galloni (Roma, maggio 1998) Introduzione 13 INTRODUZIONE Questa stringata riflessione sulla genesi e il significato dell’esperienza che Romolo Murri consumò nelle elezioni capitoline del 1902, non ha grandi cose da esibire e proporre. Non si avvale di documenti inediti né di testimonianze nuove. Ruota dunque attorno a ciò che a vario titolo e in diverse sedi è stato già esposto, analizzato e commentato. In fondo si tratta di un lavoro semplice, di puro riordino di testi e documenti, sui quali si è cercato di “incidere” con pazienza e qualche ostinazione per ricavare almeno una traccia o un indizio utili a una riflessione sull’odierna vicenda politica. A pensarci bene, il salto all’indietro fin alle soglie di questo nostro secolo - “breve” o “sterminato” che sia(1) - ci riporta a un tempo e a una condizione politico-culturale che mostra punti di contatto con la situazione in cui ora è dato a noi di vivere e di operare. Un’epoca nuova si affacciava, una nuova era oggi si profila all’orizzonte. Avanzava, a quel tempo, l’idea del socialismo come alternativa stupenda e grandiosa al mondo borghese-capitalista; un’idea capace di 1. Alla tesi di Eric Hobsbawn, Il secolo breve, Rizzoli, 1995, con la quale s’intende significare l’esplosione e l’esaurimento tra il primo conflitto mondiale e la caduta dell’Unione Sovietica delle grandi illusioni della politica moderna, recentemente Marcello Veneziani (Il Secolo sterminato, Rizzoli, 1998) ha voluto opporre una diversa interpretazione che mira a identificare nel novecento il secolo in cui si incrociano e si confondono gli “incantamenti” ideologici, con la caduta nell’esperienza tragica dei diversi totalitarismi, e il “disincanto” cinico e massificante dell’uniformità globalistica del mercato. Questa lettura si configura però non come un definitivo congedo delle titaniche passioni e devastazioni che la coppia fascismo-comunismo ha prodotto, ma come una sottile e sofisticata operazione di recupero dell’organicismo comunitario che soggiace a uno dei due poli rivoluzionari del novecento, quello storicamente incarnato dal fascismo, l’abbandono delle forme e dei limiti del quale non sembrerebbe determinare il pieno distacco da una tradizione di pensiero e di prassi politica a cui l’Autore, in un modo o nell’altro, criticamente si ricollega in antitesi alle fin troppo equivoche procedure di rimozione ideologica e vicendevole legittimazione delle due forze antagoniste uscite sconfitte dell’immane confronto storico. 14 Introduzione muovere e sostenere l’azione del quarto stato, la classe emarginata e sfruttata per eccellenza, ma tuttavvia indenne dalle colpe e dalle catastrofi dell’esperienza nata successivamente con l’Ottobre sovietico. I cattolici, invece, si accingevano a dare un senso diverso e nuovo alla loro opposizione, sperimentando i limiti di una unità organizzativa a carattere pre-politico e cogliendo quindi l’urgenza di una inevitabile, corretta e giusta separazione tra conservatori e progressisti, moderati e democratici, clericali e innovatori. La speranza di cambiamento assumeva il nome e il vessillo della democrazia cristiana, l’ala più intraprendente e coraggiosa del movimento cattolico. Il caso ha voluto che, a distanza di quasi un secolo, lo stesso processo di distinzione per linee omogenee di pensiero politico abbia dovuto fare i conti con la dissoluzione di quella democrazia cristiana che gli eventi della guerra fredda avevano obbligato, in un certo senso, a costituirsi come riferimento unitario dei cattolici italiani. Cosa ci consegni questo evento da molti ritenuto liberatorio è un problema finora irrisolto. Il fatto, però, che un lungo ciclo politico sia giunto a conclusione costituisce di per sé una novità sufficiente e una condizione fondamentale ai fini della ricerca di legittimazione di un futuro che appare senza radici e senza memoria. In questa cornice, il cattolicesimo politico si è consumato nell’arco di poco tempo nel contrasto di opzioni politiche programmi e alleanze, lasciando a una minoranza il compito di salvare le ragioni della storia e dell’impegno dei democratici d’ispirazione cristiana. La presentazione e il rinnovamento del cattolicesimo democratico sono tuttavia apparsi all’orizzonte dello scenario politico come elementi possibili all’interno di una prospettiva di tutela e rappresentanza dei cosiddetti ceti moderati. Mentre il confronto con il movimento comunista aveva dilatato lo sviluppo e l’apertura della proposta democratico cristiana, tanto da inglobare in essa il tema del “laburismo cristiano”(2), all’inverso ora, caduto il Muro e scomparso l’antagonista 2. Cfr. Vincenzo Saba, Quella specie di laburismo cristiano. Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi, 1946-1951, Edizioni lavoro, 1996. Si noti, en passant, che l’espressione “laburismo cristiano” è usata da Alcide De Gasperi, sia pure in chiave oggettivamente polemica, in una lettera indirizzata il 3 gennaio 1952 a Pio XII per chiedere un autorevole intervento in vista delle imminenti elezioni amministrative romane. Introduzione 15 storico, il possibile dispiegamento del progetto puro conservato nel cuore dell’esperienza cattolico democratica ha lasciato il campo alla ridefinizione della figura del “politico” cattolico come forma della moderazione. Ciò si propone in un tempo, per altro, di tumultuosa e radicale accellerazione dei processi politici, così da rendere assai arduo il collegamento con un’area sociale e culturale che in quanto già storicamente soggetta all’egemonia democristiana dovrebbe conservarsi nella sua tradizionale vocazione centrista e moderata, ma in quanto sottoposta alle tensioni e alle spinte del cambiamento in corso è piuttosto incarnazione essa stessa di una nuova mentalità radicale. Tornando al nostro facile parallelismo storico, è riscontrabile insomma come il nascente movimento democratico cristiano s’incaricasse all’alba di questo secolo di fornire gli strumenti e le formule per una battaglia politica che doveva opporre all’utopia socialista una diversa prospettiva di cambiamento, facendo sì che i ceti popolari (in specie i contadini e la piccola borghesia urbana) potessero liberarsi del clerico-moderatismo per competere ad armi pari con i movimenti politici di sinistra. Viceversa, in questo scorcio di tempo che ci separa dal Duemila, è finalmente caduta la barriera ideologica che impediva la piena collaborazione dei cattolici democratici con l’insieme delle componenti politiche della sinistra. Ma invece di sancire l’incontro tra filoni diversi di un pensiero politico riformatore, l’alleanza sembra costituita sulla base di uno schema che riserva ai cattolici - per loro autonoma decisione - il ruolo di rappresentanza moderata dell’area politico-elettorale di centro. Si potrebbe dunque dire: a sinistra in quanto moderati, a sinistra essendo e rimanendo comunque moderati. Insomma, quasi una eterogenesi dei fini. Infatti i giovani democratici cristiani di Murri sognavano di contrastare l’impeto palingenetico del socialismo in nome e in virtù di una idea alternativa di rivoluzione, laddove alle asprezze e agli errori della lotta di classe si opponeva la forza del solidarismo cristiano e la fede nella libertas quale strumento a servizio del popolo e per il popolo. Il fatto che essi rifiutassero la violenza dei mezzi rivoluzionari del socialismo definiva specificamente il loro essere moderati, ma del pari il ripudio della logica e della prassi del conservatorismo clericale qualificava il loro essere portatori di una modernità culturale e politica. 16 Introduzione Con lo sguardo al passato, alla ricerca delle proprie radici, i cattolici rimasti fedeli alla lezione del popolarismo avrebbero pertanto una ragione in più per rivendicare innanzi tutto l’ancoraggio ideale e politico a una più feconda cultura del rinnovamento, ponendo la tematica della moderazione in posizione ausiliare e aggiuntiva, vale a dire come utile ragionamento sulle modalità e lo stile di una peculiare condotta politica. Non un progetto politico moderato, ma un moderato - e cioè realista e integralmente umano - agire in funzione di una politica del cambiamento e dell’innovazione. Poiché sta scritto che i “miti erediteranno la terra”(3), spetta ai politici che trovano nella Parola l’ispirazione per il loro impegno concreto, intraprendere il cammino verso una nuova democrazia che mitighi la violenza del potere, o meglio di tutti i poteri, facendo sì che sopravviva e agisca sempre la speranza di rendere gli ultimi, gli esclusi, i più poveri come eredi delle risorse e delle opportunità offerte dall’odierna economia attraversata dalla cosidetta “rivoluzione della conoscenza”. Forse questa lettura politica della mitezza, in quanto trasfigurazione della controversa idea di moderazione, potrebbe sostenere il ricongiungersi all’interno della tradizione democratico cristiana dell’originaria vocazione antimoderata e progressista con l’odierna ricerca di una propria identità, autonoma e distinta, nell’ambito di una coalizione in cui pesa effettivamente il rischio di egemonia della sinistra di estrazione socialista e comunista. Prendiamolo dunque come un buon pretesto questo andare con il pensiero al tentativo di Murri di promuovere, quasi cent’anni fa, una scelta politica generosamente rivolta alla costruzione di un’inedita prospettiva di lavoro ed impegno di quel manipolo di giovani che credevano utile lo sforzo di avvicinare - come essi dicevano - la democrazia al cristianesimo. Da questa convinzione è nata una storia, una grande storia. Un’altra, pur fedele alla precedente, forse potrà sorgere ancora, ma a condizione che vi sia una nuova speranza, un nuovo progetto, una nuova politica. 3. Cfr. Dalmazio Mongillo, Sergio Quinzio, Quando i miti erediteranno la terra? (a cura di Giancarlo Marinelli), Edizioni lavoro, 1995. IL MUNICIPALISMO SOCIALE DEI CATTOLICI E IL PROGETTO RIFORMATORE DI ROMOLO MURRI NELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE ROMANE (1902) I IL RETROTERRA STORICO E CULTURALE DELL’OPPOSIZIONE CATTOLICA Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 21 Una vicenda oramai lontana, sperduta nelle pieghe delle cronache di altri tempi, non è affatto spoglia di significato e di valore se torna utile al riesame di una prospettiva politica che le urgenze del presente pongono in evidenza. Nella tarda primavera del 1902, quando già il movimento dei giovani democratici cristiani subiva i primi segni tangibili di freno e di condizionamento da parte delle autorità vaticane, Romolo Murri tentava la strada di un accordo politico con i clericali dell’Unione Romana in vista delle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale. Un’operazione destinata a fallire per le resistenze e le ostilità che accompagnavano da tempo le mosse del sacerdote marchigiano, ma che s’inseriva in un più vasto disegno di penetrazione nell’ambito della vita politica locale di quel variegato e ancora fragile complesso di forze cattoliche, rinserrate ai margini delle istituzioni per effetto del non expedit decretato a suo tempo dal Pontefice come risposta alla breccia di Porta Pia, ossia all’evento conclusivo che pose fine per mano del nuovo Stato italiano al regime temporale della Chiesa. L’opposizione dei cattolici è, fin dalla costituzione dell’unità nazionale sotto la monarchia sabauda, una dichiarazione di sfida e di lotta che s’impernia sul rifiuto della legittimità della grande operazione risorgimentale. Fuori dallo Stato, dunque, poiché l’armamentario ideologico e le concrete scelte di governo della classe dirigente liberale costituivano una rottura rivoluzionaria che la Chiesa avrebbe voluto evitare, ma che alla resa dei conti doveva invece subire nei termini più crudi e difficili da prevedere. Il quadro politico e istituzionale, posto in essere soprattutto dall’intelligenza e dalla volontà del Conte di Cavour, aveva senza dubbio molti elementi di debolezza e fragilità. L’atteggiamento, però, della Chiesa rivelava una difficoltà molto seria in ordine alla più corretta e adeguata valutazione dei fenomeni che prendevano origine dalla Rivoluzione francese e che solo in apparenza, e in via transitoria, erano stati messi sotto controllo con la Restaurazione sancita nel Congresso di Vienna del 1815, alla fine delle guerre napoleoniche. Lo spirito di libertà a cui anelava la borghesia europea e il sentimento d’indipendenza nazionale dei popoli soggetti al dominio dell’Impero Austro-Ungarico, non potevano rimanere molto a lungo compressi nella camicia di forza del legittimismo che il Principe di Metternich aveva tenacemente difeso. 22 Capitolo I Sarebbero stati i cattolici francesi ad aprire un varco nell’atteggiamento preclusivo della Chiesa verso tutte le novità che l’ascesa della borghesia portava impetuosamente alla ribalta. Di fronte alla rivoluzione del 1830, contraddistinta dall’avvento della cosiddetta Monarchia di Luglio che accompagnò il varo di una prima costituzione liberale, si levò la voce di un monaco bretone, Félicité Robert de Lamennais, in rottura anni dopo con la Chiesa, a rendere omaggio al significato cristiano di una trasformazione sociale e politica incardinata sul nuovo principio della libertà, anche se conseguenza ed espressione della moderna speculazione dei filosofi “atei” dell’Illuminismo. L’apertura del Lamennais comportava il rifiuto di legare la Chiesa alle sorti dell’Ancien régime e , in un quadro di stretta correlazione, la scelta di un diverso approccio critico nei riguardi del liberalismo che andava via via propagandosi in ogni angolo del Vecchio Continente. In anticipo sul Tocqueville, e in un’ottica almeno inizialmente intraecclesiale, Lamennais definiva il nuovo modo di combattere le distorsioni politiche e sociali che il nascente regime borghese sembrava destinato a determinare. Si operava dunque il distacco netto dalle posizioni controrivoluzionarie, come quelle lucidamente esposte da Joseph de Maistre, benché di quest’ultimo il Lamennais conservasse l’idea della essenzialità del verticismo gerarchico della Chiesa cattolica e perciò il valore “politico”, a garanzia dell’unità del popolo dei credenti, della figura del Papa. L’originalità del discorso che il Lamennais metteva in campo era tale da rovesciare la critica alla borghesia formulata, fino ad allora, sulla scorta dell’insegnamento tradizionalista della Chiesa. Non già l’accusa per la propagazione dell’idea di libertà, ma la contestazione di un uso particolare ed angusto della “concreta” libertà proposta, diveniva il leit motiv della polemica cattolica verso la borghesia al potere. La libertà non era per tutti, ma solo per i ceti borghesi che, avendola intanto impugnata come arma contro le monarchie assolute, ne facevano ora lo strumento di difesa e di controllo nei riguardi del popolo, inteso quest’ultimo come un coacervo indistinto di gruppi e strati sociali subalterni (1). La libertà borghese era perciò una espropriazio1. Sul concetto di “popolo” in Lamennais e sul suo rifiuto a prendere in considerazione la moderna tematica delle “classi” cfr. Franco Rodano, Questione democristiana e compromesso storico, Editori Riuniti, 1977, e in particolare il lungo saggio d’apertura, pp. 13-112. Questo aspetto costituisce, a giudizio del- Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 23 ne indebita che veniva perpetrata, nella realtà del nuovo assetto politico, ai danni dei ceti popolari. Lamennais stabiliva dunque un’opposizione di tipo nuovo, essendo la precedente concepita e diretta in funzione del ripristino dell’ordine fondato sul trono e sull’altare: ora, viceversa, i cattolici avrebbero acquisito coscienza della necessità di dichiarare guerra all’ingiustizia prodotta da una rivoluzione a senso unico, in cui il liberismo della borghesia si traduceva, per dirla in breve, nella distruzione delle libertà popolari. Il senso di forte diffidenza e contrarietà verso gli esiti concreti del movimento rivoluzionario non dava più vita alla pretesa di rilegittimazione dei vecchi ordinamenti, ma conservava pur sempre del pensiero cattolico controrivoluzionario la ferma pregiudiziale nei riguardi del moderno Stato della borghesia. In Francia, dunque, si produceva una profonda trasformazione in senso sociale delle forme di presenza e d’impegno dei cattolici. Tuttavia la condanna della borghesia, ovvero dei nuovi istituti della libertà che il suo avvento al potere aveva sancito, pur evitando di replicare in termini aggiornati la nostalgia per il modello teocratico-sacrale dell’epoca medioevale, rimaneva impigliata all’interno di una prospettiva radicalmente antistatalista che precludeva la possibilità di formulare una critica ben più efficace e incisiva della società capitalistico-borghese. L’importanza della lezione di Lamennais consisteva, pertanto, nella formulazione di un pensiero antimoderno che non si riduceva a una forma di utopia premoderna. Ciò nonostante, questo nuovo modello di cattolicesimo sociale si arrestava sulla soglia della politica intesa come luogo e sintesi dei processi di potere, con l’inevitabile incapacità o impossibilità, alla resa dei conti, di superare lo stadio della denuncia e della semplice protesta l’Autore, il limite più grave che caratterizza la riflessione di Lamennais. In essa convergono elementi di un certo romanticismo e influenze cattolico-scolastiche che espongono l’analisi storica e il giudizio politico al condizionamento inevitabile dell’integralismo. L’idea di una democrazia pura, quale si profila all’orizzonte di un pensiero che esclude l’egemonia di una classe sociale, importa la riduzione del cambiamento sociale a processo tumultuoso e la degradazione a forme anarchizzanti dell’ordinamento politico; talché il partito cristiano, nella conseguente intenzione di fare argine a questa deriva, è indotto a ricorrere all’intervento superiore della Chiesa, usando integralisticamente il potere e l’apparato “ideologico” di cui essa dispone come strumento per ingessare la democrazia. Per Rodano l’integralismo è perciò implicito nel modo stesso di procedere di un pensiero fondato sull’astrattezza aclassista. 24 Capitolo I derivante da una qualche, pur legittima, pregiudiziale morale. Questa linea cattolico sociale che in Francia si svilupperà già a partire dai primi decenni del secolo scorso, in Italia comincerà a prendere forma e consistenza solo molto più tardi, quando il nuovo indirizzo di Leone XIII, reso evidente e forte con l’enciclica Rerum novarum, getterà le basi per un nuovo corso del movimento cattolico. All’interno dell’Opera dei Congressi, l’organizzazione nata per fornire una cornice di unità all’azione dei cattolici e una base comune alle varie forme di intransigenza antiliberale, si manifesterà sul finire del secolo l’esigenza di una profonda revisione della formula di intervento nella realtà sociale italiana. In questo passaggio, Giuseppe Toniolo costituirà il punto di riferimento di quei settori preoccupati più che mai di declinare l’insegnamento sociale della Chiesa in forme e modi tali da non pregiudicare la coesione del movimento cattolico; Romolo Murri, dal canto suo, eserciterà invece un ruolo straordinario di mobilitazione e di guida delle nuove generazioni cattoliche che avvertivano oramai il bisogno di acquisire strumenti di analisi e di proposta più adeguati a garantire una traduzione più viva ed efficace del messaggio sociale cristiano. La storia di questo periodo è anche uno scontro di generazioni, ma ciò nondimeno la rottura, nel quadro del medesimo riferimento culturale, tra la posizione conservatrice dei vecchi intransigenti e quella “progressista” dei giovani democratici cristiani. La linea di demarcazione è tuttavia meno semplice e scontata. Le categorie politiche di “destra” e “sinistra” non aiutano in particolare a stabilire il senso dell’evoluzione, tra contrasti e convergenze, dei diversi punti di vista all’interno dell’Opera dei Congressi. In discussione non era il valore dell’opposizione allo Stato liberale, ma le modalità concrete di esercizio e di sviluppo che essa avrebbe dovuto assumere, soprattutto in relazione all’emergere di un movimento socialista in lotta, nel medesimo tempo, con la borghesia sul terreno economico-politico e con la Chiesa sul piano etico-sociale. Tra fallimenti coloniali, scandali finanziari e rivolte popolari, si consumava per altro il declino della classe dirigente liberale sul finire del secolo: le speranze e gli ideali della grande stagione risorgimentale sopravvivevano nel miglior dei casi solo nella retorica e nella liturgia delle pubbliche manifestazioni. Quanto più cresceva l’ini- Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 25 ziativa dei cattolici, tanto più aumentava la preoccupazione dei gruppi dirigenti. A Milano la repressione dei disordini del 1898 avrebbe comportato per la prima volta uno scontro aperto con le organizzazioni cattoliche, messe sotto tutela e sottoposte a stretta vigilanza al pari dei nuclei rivoluzionari socialisti. D’altronde il linguaggio adoperato per destituire di valore e di legittimità l’avvento della borghesia alla guida del nuovo Stato, spesso non lasciava margini a possibili sfumature e sottigliezze. In un discorso del 1877, tenuto a Bergamo in occasione del IV congresso cattolico, don David Albertario così si esprimeva: “Per lottare con energia dobbiamo odiare il nemico, odiarlo di un odio razionale, frutto della cognizione intima che di lui ci è d’uopo; odiare cordialmente, odiare con tutte le forze dello spirito, odiare sempre, odiare collo scritto, coi fatti, colle parole, odiare in modo che l’odio divenga natura nostra e tutti la veggano, la sentano, l’imitino o la temano; odiare come in cielo si odia il peccato, odiare tanto, che l’odio al liberalismo uguagli l’amore alla fede e a Dio(2) ”. È chiaramente un’espressione di radicalismo antiliberale che si comprende solo se posta in collegamento con i tentativi in corso, già a poca di distanza di tempo dall’ingresso dei piemontesi a Roma, d’individuare malgrado tutto un possibile terreno d’intesa tra Stato e Chiesa. Questo iniziale atteggiamento anticonciliatorista è ciò che va ad alimentare la cultura e la prassi dell’Opera dei Congressi e che successivamente condiziona la linea di condotta delle nuove generazioni cattoliche più interessate ad aggredire e risolvere il tema della questione sociale, vale a dire della umile condizione di vita delle masse contadine ed operaie. Si può dunque tracciare un arco ideale, che unisce politica e autobiografia, tra il proclama di Bergamo e la partecipazione alle giornate del 1898, a Milano, in cui proprio l’Albertario sarebbe stato tratto in arresto come corresponsabile dei disordini sociali. Da tempo la storiografia ha chiarito che il nucleo positivo della posizione intransigente si deve cogliere nella preservazione del movimento cattolico dai facili accomodamenti con la nuova classe diri- 2. Il testo completo del discorso si può leggere nella raccolta curata da Pietro Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana - Antologia di documenti, Edizioni Studium,1963, pp. 49-51. 26 Capitolo I gente, talché si conferma anche a distanza di un secolo la convinzione, assunta da Luigi Sturzo a paradigma della sua proposta politica, che il non aver accettato transazioni si è rivelata come la vera e grande opportunità per la successiva nascita del partito di ispirazione cristiana, concepito in termini di aconfessionalità e in forza di premesse antimoderate. Diversamente, qualora avesse prevalso la preoccupazione di giungere assai presto a chiudere il conflitto tra Governo e S. Sede, una formazione politica dei cattolici avrebbe visto la luce fin dai giorni immediatamente successivi alla presa di Porta Pia, ma il suo connotato, allora, sarebbe stato fatalmente di tipo moderato e la sua natura conservatrice si sarebbe imposta come un fatto pressoché scontato. Altro è invece il tema della mancata disponibilità della Chiesa e dei cattolici a contribuire in modo serio ed organico alla edificazione dell’unità nazionale, offrendo elementi essenziali alla definizione delle basi morali e civili dello Stato. È incontestabile il fatto che l’estraneità e l’ostilità dei cattolici abbia reso fragile lo sviluppo dell’iniziativa risorgimentale e compromesso perciò l’affermazione piena dei valori di solidarietà e coesione nella vita politica della nuova Italia. Ma una volta consumato il divorzio tra Chiesa e classi dirigenti, il processo di reintegrazione delle masse cattoliche all’interno della struttura politico-statuale richiedeva un lungo tirocinio dall’opposizione e una fase laboriosa di crescita nella società civile. L’impegno nella cooperazione e nelle varie forme di mutualità, nella organizzazione e tutela delle prime esperienze sindacali, nella promozione di numerose strutture di credito locale - come le Casse rurali - essenziali ai fini della lotta all’usura e allo sfruttamento delle piccole imprese familiari, sono il tessuto in cui opera un movimento che assorbe la sollecitazione della Chiesa affinché la cura dei bisogni degli strati più deboli e più poveri della società si configuri nei termini di un organico processo di riconquista cristiana del mondo moderno. Emerge la prospettiva di un neoguelfismo che abbandoni le illusioni e le ingenuità presenti nella fase di avvio del Risorgimento, quando con Rosmini Balbo e Gioberti si arrivò a propugnare un’egemonia cattolica in seno al progetto di rinnovamento morale e civile del popolo italiano, puntando sul coinvolgimento delle élites per realizzare il sogno di un’Italia unita sotto la presidenza del Pontefice. Ora, svanite quelle speranze, una nuova strategia consigliava di rico- Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 27 struire i legami tra Chiesa e popolo allo scopo di contenere e combattere - sul terreno dell’organizzazione sociale e della propaganda eticoreligiosa - l’ideologia, il potere, la prassi politica di una classe dirigente intrisa di pregiudiziali motivazioni antiecclesiastiche. Questo indirizzo non vale solo per l’Italia, ma interessa in vario modo le realtà nazionali dell’Europa intera. In Italia, però, lo sviluppo di questa nuova dimensione sociale del cristianesimo si carica di tensioni e problemi che altrove non manifestano un’analoga forza di condizionamento. La ferita rappresentata dalla questione romana implica, appunto, la conservazione di una speciale distinzione tra sociale e politico volta ad assegnare al movimento cattolico l’obbligo di salvaguardare la propria identità soprattutto in virtù di un impegno nelle opere di carità. Sciolto il legame trono-altare, la testimonianza cristiana si realizza in mezzo al popolo. Perciò la democrazia deve perdere, nel quadro della nuova mentalità, il suo carattere di pura forza dissolutrice dei vecchi ordinamenti per acquisire una funzione diretta a favorire la reintegrazione del popolo cristiano nelle istituzioni di una società non più afflitta dalle lacerazioni e dai conflitti generati dal liberalismo. Democrazia e cristianesimo sembrano allora specchiarsi nell’azione che i tempi nuovi esigono per il risanamento delle basi morali e civili della società. Tanto più cresce la sensibilità per i problemi sociali, quanto più la democrazia appare lo strumento migliore per ricostruire la presenza delle forze cattoliche. Gli anni che vanno dal 1870 alla fine del secolo si dipanano in questa complessa vicenda in cui l’intransigenza cattolica si afferma sulle prime, acerbe e ciò nondimeno robuste tentazioni conciliatoriste, foriere di un compromesso di stampo conservatore, sulla base della teoria dei fatti compiuti, con le posizioni del ceto politico liberale più aperte al dialogo e alla collaborazione. Clamoroso il caso del gesuita Carlo Maria Curci, tra i fondatori e i più attivi scrittori de “La civiltà cattolica”, il quale si era ben presto convinto della impossibilità di restaurare il potere temporale e già nel 1875 aveva presentato a Pio IX un documento in cui si consigliava l’intesa con l’Italia. Non si trattava di un ripudio della precedente polemica intransigente in favore di un cattolicesimo liberale di tipo risorgimentale, ma del passaggio a un modello apertamente clerico-moderato. Da questo versante vengono le proposte e i tentativi di forzare il non ex- 28 Capitolo I pedit avviando la costituzione di un primo nucleo di partito cattolico conservatore. Ma sotto la guida di Pio IX e dello stesso Leone XIII, l’indisponibilità della S. Sede a stabilire un accordo con lo Stato unitario per chiudere la questione romana, determinerà il fallimento dell’operazione a tutto vantaggio delle correnti intransigenti. Ora, mentre in Germania i cattolici si organizzavano in partito, dando vita alla esperienza del Zentrum a cui si doveva riconoscere un originale indirizzo laico e interconfessionale (3), ancora nello stesso arco di tempo il movimento cattolico in Italia procedeva a piccoli passi come un blocco abbastanza unitario, con una forza non trascurabile, privo tuttavia di adeguata fisionomia politica e reale consistenza programmatica. Il reticolo di gruppi parrocchiali e diocesani, le strutture di assistenza e formazione, le iniziative sociali e le attività di studio, compongono un mosaico interessante ma non ancora capace di assumere rilievo politico e men che meno responsabilità di tipo istituzionale: “né eletti né elettori” rimane la parola d’ordine, lanciata da 3. Cfr. Stefano Trinchese, Governare dal centro - Il modello tedesco nel “cattolicesimo politico” italiano del ’900, Edizioni Studium, 1994. In particolare, la ricostruzione storica dell’Autore consente di verificare come il mito del “Centro” tedesco sia stato accolto in forme molto differenziate all’interno dell’esperienza cattolica italiana. In ogni caso, la tendenza prevalente è stata quella di evitare una traduzione politica in chiave puramente moderata e conservatrice. Ciò vale, in parte, anche per il tentativo più serio e concreto di promuovere un partito di cattolici sull’esempio tedesco, quello formulato a Rho nel 1904 da Filippo Meda, erede spirituale e politico di don Davide Albertario. Posto che nel pensiero e nel lavoro politico di questo autorevole esponente del cattolicesimo lombardo agisca la volontà di sanare la frattura tra coscienza laica e sensibilità religiosa, ponendo come obiettivo la “moralizzazione” della democrazia liberale e insieme il recupero di responsabilità etico-civile dei credenti, l’opzione che ne deriva sul piano storico è indotta a separarsi dal legittimismo e dal moderatismo per enunciare, in via alternativa, il progetto di un partito di centro capace di gestire in forma graduale una scelta riformatrice. In Meda dunque non si confonde irrimediabilmente la figura del cattolico liberale con quella del clerico moderato, non essendo la conservazione degli assetti di potere il nucleo fondante della possibile formazione politica di centro che egli auspica e prefigura alla luce di una ormai più che matura esigenza riguardante tutti i cattolici e tutta la nazione. Cfr. Paolo Emilio Taviani, Due discorsi di Filippo Meda, “Civitas”, n°5-6, 1959, pp. 3-10. Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 29 don Giacomo Margotti nel 1861, di cui si nutre il popolo dei fedeli impegnato nella battaglia morale e civile per la libertà cristiana (4). L’astensionismo elettorale appariva come un arma di difesa e al tempo stesso un atto di accusa. L’anticlericalismo dei circoli liberali, il modello laico di Stato, l’aggressione ai diritti della Chiesa, avevano lacerato il tessuto morale e religioso della nazione. La distinzione tra paese reale e paese legale ha origine, dunque, nella lotta dei cattolici per il ripristino delle basi legittime del potere politico e delle istituzioni rappresentative. Per essi l’ordinamento politico non corrispondeva più alla struttura originaria della società: infatti la rivoluzione liberale, incarnata nel moto risorgimentale, definiva un assetto dei pubblici poteri che non ricercava nella legittimazione religiosa il suo più vero e stabile ancoraggio (5). Era perciò necessario ricostruire dalle fondamenta l’edificio sociale, stabilendo un fronte di 4. Né eletti, né elettori, in “L’armonia della religione colla civiltà”, 8 gennaio 1861 (cfr. Dal neoguelfismo..., op. cit., pp. 39-40). Il rifiuto delle procedure elettorali, in anticipo sul decreto del non expedit di Leone XIII, si definiva sulla base di una sfiducia radicale nei riguardi dei moderni istituti di partecipazione politica e della classe dirigente liberale. “Non mica che siamo indifferenti”, si leggeva nell’appello, “sulle sorti della patria nostra, e neutrali nella battaglia che si combatte tra l’ordine e la rivoluzione. Ci sta vivamente a cuore che la Chiesa trionfi, che la nostra patria diventi ordinata, prospera e gloriosa. Ma col nostro voto non potremo ottenere ciò dagli uomini, e quindi (...) nel giorno delle elezioni noi pregheremo (...) perché vinca una volta la santa causa della religione, del diritto e della giustizia; e con ciò non terremo né per Garibaldi, né per Cavour, ma serviremo potentemente la patria”. Da notare nel testo il forte richiamo alle ragioni della patria, ritenute manomesse e contraffatte dai politici liberali, ma non per questo estranee od ostili alla viva coscienza civile dei cattolici. 5. “La libertà, dunque, della rivoluzione laicista era una libertà che i cattolici intransigenti non accettavano, non soltanto perché, come essi affermavano, era “assoluta” ossia perché loro sembrava che si presentasse come un bene privilegiato e riservato alla sola classe dirigente liberale che ne stabiliva natura e limiti, ma soprattutto perché contrastava con il loro ideale integralistico, in cui Stato e società civile dovevano entrare nell’obbedienza assoluta alle leggi della Chiesa”. Gabriele De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla restaurazione all’età giolittiana, Laterza, 1974, p. 75. 30 Capitolo I lotta con quel nuovo ceto di potere che, nel migliore dei casi, voleva piegare la Chiesa a un ruolo subalterno, senza più influenza diretta sulla società intesa come naturale consorzio civile. Il rifiuto delle pratiche elettorali si fondava pertanto su una critica della ideologia borghese in cui operavano, nel medesimo tempo, visioni nostalgiche e ansie palingenetiche. Rientrava in questa difesa dell’ordine naturale, a cui il liberalismo avrebbe opposto la “perniciosa” novità dei suoi valori, l’attenzione e il rispetto per le comunità locali. Se lo Stato moderno esibiva una conformazione artificiale, ben altrimenti i poteri locali rappresentavano il momento originario, e quindi più autentico, della struttura sociale. Le rinnovate teorie del diritto naturale, da Massimo Taparelli d’Azeglio esposte in modo organico e successivamente accolte all’interno delle correnti ufficiali del neo-tomismo, offrivano gli strumenti per definire la realtà dei poteri locali, in primis del comune, come il luogo ove effettivamente nasce e si realizza la dimensione sociale dell’umanità. Come la famiglia e l’associazione professionale, il comune è un corpo intermedio tra la persona e lo Stato, con ciò stesso appalesando il suo essere prima dello Stato, sia da un punto di vista logico che cronologico. È fondamentalmente un’eredità dello Stato assoluto il processo di accentramento che lo Stato a direzione laico-borghese ha continuato a sviluppare, aggravandone il peso a misura dell’incremento di efficienza acquisito, tanto da ridurre l’autonomia dei corpi locali a strumento del potere statuale, ovvero come semplice articolazione burocratica degli apparati pubblici centrali. Tutto si ricollega al programma della borghesia che in via di principio afferma il valore assoluto della libertà, ma in pratica riconosce e promuove esclusivamente la propria libertà, ad essa sottomettendo ogni altra possibilità di espressione attinente all’autonomia dei ceti, delle professioni, delle famiglie, delle autonomie locali. La difesa del comune si può concepire allora come la prima rottura dello schema ideologico, politico e istituzionale del liberalismo e come l’avvio perciò di una operazione che partendo dal basso, cioè dai gangli vitali della comunità, punti in modo sistematico al risanamento della società moderna. Con queste premesse è più agevole intendere l’atteggiamento che i cattolici, anche dell’ala intransigente, tennero in rapporto alle Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 31 elezioni amministrative. Nel 1872, a Napoli e più blandamente a Roma, risuonarono appelli e sollecitazioni per un esplicito impegno dei fedeli nelle operazioni di rinnovo dei rispettivi consigli comunali. Di lì a poco tempo, in occasione del secondo congresso nazionale tenuto a Firenze nel settembre del 1875, le organizzazioni cattoliche avrebbero adottato ufficialmente la linea del non expedit, la cui fase d’incubazione può essere retrodatata ai primi mesi del 1871. Tuttavia, così come suscita sospetto e contrarietà la partecipazione al voto per il Parlamento, all’inverso il coinvolgimento nella vita amministrativa locale ottiene subito una più che benevola forma di attenzione e incoraggiamento. È evidente, per altro, che le amministrazioni locali sono ben presto considerate come un terreno di confronto o di possibile compromesso tra le due ali che si fronteggiano nel laicato cattolico. La scelta per l’intervento nelle amministrazioni locali non fa solo da contrappeso alla linea dell’astensionismo sul piano politico generale, ma è anche il segno e la volontà di una sperimentazione in chiave moderata della futura collaborazione tra cattolici e liberali. Parte della nobiltà fedele al Papa dà mostra di vivere con affanno la politica di contrapposizione tra Chiesa e Stato, avvertendo i rischi di un reciproco logoramento e la conseguente prospettiva di uno stallo prolungato dagli esiti incerti. In questa cornice, già carica di difficoltà e pericoli, doveva sembrare opportuna la ricerca di un punto di contatto che fosse virtualmente la premessa di una graduale e reciproca dichiarazione di disponibilità a ricomporre un’organica articolazione di governo del Paese. In assenza di questa sia pur minima condizione, sarebbe stato inevitabile che gli elementi più radicali e settari della classe politica liberale fossero posti nella condizione di sfruttare gli effetti prodotti dallo stato di aperta conflittualità per imporre un progetto ancor più segnato dall’anticlericalismo. L’appello alla pacificazione diviene la piattaforma politica dei cattolici conservatori i quali si adoperano - senza per altro ricevere coperture dal Vaticano - a gettare ponti e a fornire assicurazioni, immaginando di attenuare o di aggirare le disposizioni che bloccano il dialogo tra le parti in conflitto. Emerge così un discorso nuovo. La difesa dell’unità nazionale è innanzi tutto vissuta come alternativa alle suggestioni legittimiste e reazionarie; il rispetto per l’indipendenza 32 Capitolo I della S. Sede è inoltre dichiarato principio irrinunciabile soprattutto in funzione di una vera stabilità politica dell’Italia unificata; lo Stato, eccessivamente condizionato dell’uniformità amministrativa imposta dai piemontesi, diviene in ultimo oggetto specifico di attenzione affinché possa aprirsi realmente a una riforma del suo impianto organizzativo e burocratico, accogliendo l’esigenza di promuovere e difendere il patrimonio delle diverse tradizioni locali. Con un linguaggio chiaro e concreto, l’Associazione dei Conservatori Nazionali, nata a Firenze nel 1879, dichiara perciò di voler “praticare, quale base effettiva d’un radicale interno rinnovamento dello Stato, il concetto di un vero ed efficace decentramento amministrativo, economico e civile, che sia consentaneo alle tradizioni, ai sentimenti, alle condizioni ed ai caratteri svariati dei popoli della Penisola ” (6). La linea dei primi conciliatoristi non manca, dunque, di modernità. Va allora riconosciuto che l’interesse per il riordino in chiave autonomistica dello Stato - volendo usare una formula più attuale appartiene in modo precipuo alla iniziativa dei cattolici conservatori e definisce un indirizzo che, pur collegato a un obbiettivo di stabilizzazione dei rapporti politici, apre una prospettiva nuova nella riflessione e nella prassi del cattolicesimo politico. Ci si muove in un ambito che non enfatizza più il “mito” del comune e delle repubbliche medievali, sicché il rinnovamento dello Stato si propone nei termini di una complessiva riforma dell’ordinamento dei poteri. Non echeggia neppure il tema giobertiano del federalismo, non foss’altro perché, nella contingenza storica post-unitaria, il richiamo alle teorie del filosofo e politico piemontese sarebbe stato obiettivamente incongruo e fuorviante. In realtà, il federalismo di Gioberti era uno strumento politico per superare agli inizi del processo risorgimentale l’impasse derivante dalla combinazione di attività cospirative e repressione, in una spirale davvero negativa per le speranze di unità dell’Italia. Egli non elabora una filosofia politica d’impianto federalista, ma assume 6. Questa è la formulazione che si legge all’art. 6 dello Statuto dell’Associazione avente come suo prestigioso organo d’informazione la fiorentina “Rassegna nazionale”. Cfr. Mariangiola Reineri, Il movimento cattolico in Italia dall’Unità al 1948, Loescher Editore, 1975, in particolare p.43. Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 33 più semplicemente una valutazione contingente e realistica circa l’utilità di un patto tra i Principi italiani, ivi compreso il Pontefice come Primus inter pares, in forza del quale realizzare un assetto nazionale tendenzialmente unitario e finalmente libero dalle tutele e dal controllo delle potenze straniere. Gioberti è tanto poco interessato al federalismo in senso stretto da eludere l’approfondimento di ciò che esso implica ed esige. All’opposto, nel suo impegno filosofico e politico si registra la reiterata polemica verso il cosiddetto partito municipalista che impediva, con la difesa sistematica delle piccole logiche territoriali, l’apertura del Piemonte alla prospettiva di una grande politica nazionale. In definitiva, la esasperazione in termini radicali di una concezione pur intrinsecamente giusta e vitale della funzione che spetta alle comunità territoriali, è percepita dallo “pseudo-federalista” Gioberti (7) come forma di nuovo ghibellinismo, come restaurazione del “sogno di Arnaldo da Brescia”, come alternativa improvvida a quell’unico sistema, il guelfismo, che per duttilità e realismo avrebbe potuto corrispondere meglio alla tradizione storica e civile dell’Italia: “Ma se nell’età media, egli dice, quando i sensi nazionali dormivano, la città e il comune erano la sola patria, oggi il caso è diverso, essendo giunto a maturità bastevole il bisogno, il concetto e l’istinto spontaneo di nazione (8)”. Per 7. È Gianfranco Miglio a definire quello di Gioberti una specie di “pseudo-federalismo”. Questa affermazione rientra in una critica più ampia e radicale al cattolicesimo politico ottocentesco, responsabile per Miglio di aver soltanto in superficie contestato il centralismo statale moderno. L’eredità del pensiero cattolico del ‘600, che è alla base della creazione dello Stato assoluto, ha impedito di svolgere una operazione di effettivo ripudio del “nuovo” accentramento laico-borghese. “I cattolici europei del secolo XIX non potevano dunque levarsi contro i difetti dello Stato unitario, perché avevano alle spalle l’eredità di una teoria rigorosamente unitaria dello Stato. È certo estremamente significativo che l’unico pensatore politico, l’unico grande giureconsulto che abbia difeso la concezione organica cristiano-medioevale dello Stato nell’età moderna, traducendola in termini di costituzione federale, sia l’Althusio, cioè un protestante dei tempi di Suarez”. Cfr. I cattolici di fronte all’Unità d’Italia, p. 357, in Gianfranco Miglio, Le regolarità della politica, 2 voll., Giuffré Editore, 1988. 8. Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile dell’Italia, Laterza, 1968, p. 201. 34 Capitolo I questo sarebbe più corretto scorgere nella lezione di Gioberti il rifiuto di una sorta di “teorica del federalismo”, quella stessa teorica, cioè, che passando per Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, a cavallo tra ottocento e novecento informerà di sé la cultura radicale e repubblicana, nonché in parte quella socialista, ma non stabilirà seri punti di contatto con la posizione “autonomista” dei cattolici. Il pensiero politico federalista di matrice laica ha insistito, infatti, sul carattere tipicamente italiano della “repubblica dei comuni”, rintracciando tuttavia nella tradizione “ghibellina” l’origine di una forma di Stato. In particolare Giuseppe Ferrari s’incaricherà di stabilire con la medievale esperienza dei liberi comuni italiani quel collegamento ideale che doveva servire a formulare un’alternativa nel cuore del Risorgimento, enunciando la necessità di un nuovo Stato, laico repubblicano e policentrico, entro cui si sarebbe dovuto sviluppare così forte uno spirito di libertà e di autonomia civile tale da produrre nel tempo il dissolvimento del vecchio stato autoritario e clericale. Questa posizione sconfinante nell’anarchismo agirà come un fattore negativo all’interno del discorso sul federalismo, poiché in una nazione storicamente senza Stato essa apparirà incapace di fornire risposta e soluzioni adeguate ai bisogni della nuova Italia. Anche Carlo Cattaneo, con un approccio politico diverso al tema dell’ordinamento dei pubblici poteri, promuoverà un’analoga saldatura tra liberalismo e federalismo sempre sulla base del distacco e della diffidenza nei riguardi dello Stato unitario cavouriano. Questa prevenzione critica, assorbente un certo pessimismo sulle sorti della nazione e sulla capacità di estendere alle regioni più arretrate la prospettiva d’una Italia civile e moderna, manca essa stessa di sensibilità verso la necessaria edificazione di uno Stato nuovo. Rimane in fondo il sospetto che il federalismo di estrazione lombardo-veneta sia stato e si sia conservato in forza di una condotta delle classi dirigenti locali più inclini alla difesa delle libertà commerciali di un’area già fortemente progredita che non al sostegno della strategia volta al supera- Quantunque nel Rinnovamento si assista a un cambiamento di prospettiva, poiché cade la speranza di una federazione presieduta dal Papa e si afferma un’idea più laica di nazione, anche nel Primato Gioberti manifesta analoghe preoccupazioni in ordine ai limiti del municipalismo. Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 35 mento dei vari staterelli in cui da secoli l’Italia risultava essere divisa. Schematicamente, alla luce del dibattito in corso oggi in Italia, sembrerebbe che grazie ai movimenti di opposizione, come in specie quello cattolico, il federalismo abbia rappresentato lungo la storia del Paese la bandiera più significativa del cambiamento politico-istituzionale, alla cui stregua, pertanto, il semplice discorso sulla valorizzazione delle autonomie locali sarebbe stato insufficiente e ambiguo. Ma è vero semmai il contrario. È vero, cioè, che l’aspetto per così dire rivoluzionario del federalismo non di rado si accompagnava, almeno nel campo cattolico, a ipotesi legittimiste o temporaliste che potevano assorbire aspettative e volontà di rinnovamento, ma pur sempre in relazione a un progetto che rimaneva contraddittorio e confuso. Forse serve un ulteriore precisazione. Quando il tema del rinnovamento delle istituzioni locali diventerà con la nuova esperienza dei democratici cristiani un qualcosa di diverso, inserendosi in una strategia di partecipazione politica a carattere moderno e con un impianto tipicamente riformatore, ancora una volta - e non per pura casualità - sarà piuttosto l’appello al federalismo a tornare utile per un brusco richiamo, in tutti i sensi, all’ortodossia dei comportamenti. “In una delle conferenze, tenute a Roma al Circolo dell’Immacolata sul finire del secolo scorso, Toniolo parlò dei “Futuri atteggiamenti politici” dei cattolici. L’Autore concentrò l’attenzione e parlò di Stati federali e complessi, di autonomie regionali, omettendo quelle amministrative, in relazione alla dovuta indiscutibile indipendenza del Pontefice” (9). È una questione che l’oramai vecchio sociologo cattolico, in polemica con Murri e i suoi giovani amici, riprenderà di lì a breve in una lettera del 15 agosto 1902 a don Albertario. Pur essendo tutta nuova la temperie culturale e politica, egli intenderà utilizzare un’argomentazione che per quanto desueta nella forma era evidentemente troppo consustanziale al tradizionale progetto su cui aveva fatto leva l’azione dell’Opera dei Congressi. “Noi, precisa Toniolo, vogliamo e dobbiamo essere cattolici, e perciò stesso patrioti sinceri e ferventi ..., ma dobbiamo essere gli uomini dell’avvenire, che nell’indipendenza 9. Cfr. Antonio Fantetti, La questione temporale: Murri, Toniolo, Meda, p. 198, in AAVV., Il movimento politico dei cattolici (Antologia di Civitas), Edizioni Civitas, Roma, 1969. 36 Capitolo I del Papato in un proprio territorio, vuole adattare il prototipo ed il germe di quello Stato federale fondato sulle autonomie locali, in cui è l’unica possibile unità italiana ” (10). Non si può ignorare, dunque, che un certo filone culturale cattolico abbia utilizzato, in modo sia pure occasionale e senza una organicità di fondo, la questione del federalismo come una forma di minaccia o di recriminazione nei riguardi del liberalismo. Da qui a dire che questo intento abbia avuto continuità e rigore, ce ne corre davvero. Il generico federalismo dell’ala intransigente, usato all’occorrenza per ribadire il diritto della Chiesa all’indipendenza territoriale, e il più concreto autonomismo dei conservatori, esibito in funzione di un’intesa clerico-moderata per il governo del Paese, si sovrappongono e si confondono nel contesto degli interessi, delle sensibilità, dei bisogni che i cattolici faticosamente cercano di tradurre in una loro autonoma piattaforma politico-programmatica. L’intreccio tattico induce progressivamente a individuare alcuni concetti cardine della proposta cattolica. Appartiene infatti a un comune sentire il disagio e più ancora l’avversione nei confronti di uno Stato che al centro e in periferia assume il volto aggressivo di una forza che mina alla base l’organizzazione sociale tradizionale. La forte pressione fiscale che pesa maggiormente sulle fasce popolari, l’ingerenza dello Stato nella organizzazione delle Opere Pie, il disegno di estendere il controllo sulla pubblica istruzione, sono le pericolose manifestazioni del liberalismo centralista ed anticlericale. La risposta che i cattolici pensano di allestire sul piano locale ha perciò un valore politico generale e corrisponde alla scelta di conservare integra la propria autonomia e distinzione in rapporto alle responsabilità di governo del Paese. Nei comuni è possibile intervenire a sostegno degli interessi popolari e, al tempo 10. Idem, p.199. La lettera di Toniolo cade dunque all’indomani del fallito tentativo di Murri di presentare una lista di candidati democratici cristiani alle amministrative di Roma e in un frangente in cui i rapporti interni all’Opera dei Congressi sembrano giunti al punto di massima tensione, obbligando la S. Sede a intervenire ufficialmente proprio nella speranza di poter contenere l’esperienza murriana in ambiti di maggiore disciplina, sotto il profilo sia pastorale che politico. È evidente allora come il prof. Toniolo, con questo suo intervento dai toni così tradizionalisti, intenda assumere una posizione di grande fermezza affinché la fedeltà al Papa non venga minimamente scalfita da dubbi e incertezze. Il retroterra storico e culturale dell’opposizione cattolica 37 stesso, a tutela dei diritti della Chiesa. Per i moderati si trattava di operare con prudenza e flessibilità, giocando sulle alleanze per dissaldare o indebolire il blocco di potere liberale; per gli intransigenti valeva piuttosto l’aspirazione ad affermare, anche quando le alleanze venivano stipulate, il carattere della diversità e dell’autonomia del movimento cattolico. Il punto di forza dei moderati era indubbiamente rappresentato dalla concretezza della loro proposta politica. Soprattutto nelle grandi città, dove spesso gli interessi dei ceti emergenti finivano per saldarsi al di là delle contrapposizioni ideologiche o religiose, l’accordo tra liberal-conservatori e clericali consentiva di assicurare la formazione di giunte e l’elezione di sindaci che garantivano lato sensu il rispetto delle posizioni cattoliche. Al riparo di queste intese, non prive di risvolti pratici, la Chiesa poteva indubbiamente muoversi con più tranquillità. Avveniva così che la tutela delle libertà locali non rimaneva un’affermazione astratta di un principio o di un’istanza, ma si associava in via di fatto alla difesa del concetto di libertas ecclesiae. In un modo o nell’altro il problema era sempre questo: che la questione romana, cuore della protesta cattolica, appariva agli occhi degli intransigenti sottomessa ad una tattica largamente compromissoria. In nome della Chiesa si alimentava pertanto una resistenza, ma con ciò non si liberava spontaneamente, dall’involucro dell’integralismo, un diverso progetto alternativo. 38 Capitolo I II I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana e la “rinascita” dei comuni I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 41 Sul finire del secolo le correnti europee del cattolicesimo sociale assumevano una fisionomia e un peso molto diverso rispetto al passato. La Dottrina sociale della Chiesa si apriva a un discorso nuovo sulla democrazia e sulla libertà, le idee cristiane potevano e dovevano trovare il modo di reinserirsi nel flusso della storia, offrendo una sponda alla domanda di giustizia che attraversava i popoli. Il futuro della democrazia non avrebbe dovuto separarsi da un cristianesimo più sensibile e più solerte in ordine alle tematiche del progresso e del “risanamento” sociale. Le novità che il mondo moderno aveva portato alla ribalta erano destinate a perire se la Chiesa avesse conservato in forma chiusa e retriva le sue pregiudiziali. Questa democrazia, con grandi privilegi per i pochi e grandi doveri per i più, richiedeva un supplemento d’anima che solo il cristianesimo era in grado di fornire. Ma se il cattolicesimo sociale nei primi decenni del secolo aveva sviluppato una netta propensione antistatalista, in opposizione specialmente al monopolio borghese del potere e in armonia con l’ipotesi di riconquista cristiana della società, ora viceversa considerava essenziale che la politica in quanto forma moderna di carità s’incarnasse nell’esercizio concreto di quelle pubbliche funzioni attribuite agli apparati dello Stato. In Europa, soprattutto in Austria e in Germania, i cristianosociali si fanno interpreti di questo nuovo modo di pensare. Non si può leggere l’esperienza dei giovani democratici cristiani, raccolti attorno alla grande personalità di Murri, al di fuori di questo più ampio scenario culturale e politico. Un’esperienza nuova, segnata dai limiti del volontarismo e dell’irrequietezza, che tuttavia si pone all’origine del più maturo impegno dei cattolici nella vita politica italiana. Le linee del clerico-moderatismo, dell’intransigentismo, del cattolicesimo sociale rappresentano, volendo dir così, un termine a quo della prima democrazia cristiana, condizionandone il percorso e lo sviluppo, ma non assorbendone l’originalità e l’autonomia. L’avvento della prima democrazia cristiana costituisce il principio di un nuovo pensiero dei cattolici sulle questioni sociali e politiche dell’Italia. È il tentativo di entrare nel vivo delle lotte con un linguaggio e una proposta all’altezza dei tempi in cui la coscienza dei cristiani si deve incarnare. Un’apertura alla modernità e, in conclusione, una condanna sotto l’accusa di modernismo: in questa parabola si racchiude la stagione del murri- 42 Capitolo II smo, con il suo carico di attese e frustrazioni, di slanci e passi falsi. Questa é tuttavia la temperie in cui si forma una nuova classe dirigente: anche Sturzo e De Gasperi, ciascuno per proprio conto, attraversano la medesima vicenda. Gli anni che vanno dalla fondazione del circolo cattolico romano degli studenti universitari (dicembre 1894) allo scioglimento dell’Opera dei Congressi (luglio 1904) circoscrivono le speranze e le delusioni del movimento democratico cristiano. È il periodo in cui la battaglia di Murri per l’assunzione di un ruolo di guida all’interno delle organizzazioni cattoliche si sviluppa inizialmente in maniera a dir poco travolgente, con la dirigenza dei “vecchi” intransigenti raccolta attorno a Giambattista Paganuzzi oramai in declino e priva in apparenza di solide coperture in Vaticano; poi entra rapidamente in crisi con il mutare degli indirizzi ecclesiastici a seguito della morte di Leone XIII (20 luglio 1903) e l’elezione di Pio X (9 agosto). La breve stagione del rinnovamento democratico cristiano subisce il contraccolpo di un generale ripiegamento della Chiesa su posizioni di ostilità verso le nuove tendenze politiche in campo cattolico. Prevale un indirizzo pastorale che si concentra sulla lotta al modernismo, non solo per gli aspetti teologici ma anche per i risvolti politici, da cui esce travolta la tendenza di Murri a collegare riforma politica a riforma religiosa. Nella fase culminante della vicenda democratico cristiana del tempo, si definiscono le linee di evoluzione dell’impegno sociale e politico dei cattolici. A distanza di circa tre anni l’uno dall’altro, Murri Meda e Sturzo formulano i loro rispettivi programmi. Murri, con il discorso di San Marino del 16 agosto 1902, porterà alle estreme conseguenze il suo ideale politico-religioso a seguito del quale, avendo egli auspicato a gran voce un nuovo rapporto tra cristianesimo e libertà, subirà la riprovazione della S. Sede e la censura dei circoli intransigenti per un suo ipotetico cedimento, “col pretesto della democrazia cristiana” (11), allo schema del libero esame e del protestantesimo; Meda, con il discorso di Rho del 29 dicembre 1904, lancerà senza successo l’idea della formazione di un Centro, sull’esempio tedesco, che fosse più che un vero partito una federazione di correnti 11. Sulla soglia del libero esame e del protestantesimo, “La difesa”, 26 settembre 1902, in Piergiorgio Grassi, Il discorso di San Marino 1902, Edizioni Frama’s , 1974, pp. 206-208. I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 43 senza una rigida disciplina organizzativa e programmatica(12); Sturzo, in ultimo, con il discorso di Caltagirone del 29 dicembre 1905, getterà le basi di quel partito di cattolici, programmatico e aconfessionale, che solo nell’immediato primo dopoguerra troverà finalmente modo di nascere e di affermarsi sulla scena della vita politica nazionale(13). Sarebbe di tutto interesse una rilettura comparata di questi testi che rappresentano il punto di massima tensione del progetto politico delle nuove generazioni cattoliche, oltre il quale, malgrado le battute d’arresto che le circostanze avrebbero imposto, si potrà cogliere lo sviluppo potenziale delle diverse alternative proposte. Di certo, in tale circuito di analisi, vi è il dato della implausibilità sotto il profilo storico-concreto del progetto murriano. La democrazia cristiana non fu per Murri solo un mezzo per risolvere i problemi sociali ed economici, ma anche e soprattutto un’espressione visibile di un equilibrio superiore concernente l’aspetto spirituale e morale della vita. Con il suo impegno guardò a tutta la vita e a tutti i suoi problemi, compresi quelli letterari, attraverso cui scorse, ad esempio, la grande funzione educatrice della poesia di Ada Negri. In lui opera, appunto, l’apertura e il respiro culturale di quel rinnovamento cattolico che va sotto il nome di modernismo, stagione intensa e convulsa di speranze, aspirazioni, progetti la cui valenza complessiva è da tempo sottoposta a un vaglio critico più sereno e distaccato, tanto da coglierne a distanza di tempo il motivo essenziale e positivo oltrepassante la condanna storica inflitta dalla Chiesa (14). La 12. Vedi supra nota n° 3. 13. “Nell’inquadramento generale, nella sua strutturazione essenziale il testo sturziano si distingue nettamente e dal discorso di Rho di Filippo Meda e dal programma di Romolo Murri: il primo ha un carattere operativo immediato, non tocca problemi fondamentali, risente d’essere stato concepito in clima elettorale e in vista di un risultato pratico imminente; il programma di Murri è ancora fortemente attraversato da un’ansia religiosa, è ancora, nonostante le professioni di autonomismo, nello schema di un’azione cattolica leoniana. Il concetto di partito nasce in Sturzo come risultato di un’analisi storica, come portato di un’esperienza che ha il suo costante termine di riferimento nella relatività delle condizioni materiali in cui deve svilupparsi l’azione politica”. Gabriele De Rosa, Luigi Sturzo, UTET, 1977, p. 133. 14. Cfr. Pietro Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Il Mulino, 1961. 44 Capitolo II consapevolezza di aver innescato un grande cambiamento nella mentalità e nella sensibilità del cattolicesimo militante, si accompagnava negli ultimi anni di vita, quando già il dissidio con la Chiesa si era ricomposto superando la scomunica del 1909, a una sottile percezione di fallimento (15). Con orgoglio, tuttavia, scriverà l’8 settembre a “Il Giornale d’Italia”: “Caro Bergamini, tra i partiti, o nuclei di partiti in via di ricostruzione, i quali si sono volontariamente offerti a collaborare con il governo Badoglio per il mantenimento di una severa disciplina nazionale che è necessità suprema in quest’ora difficile, c’è la “Democrazia Cristiana”. L’annunzio della presenza di questa riuscirà nuovo a molti, e parecchi risaliranno col pensiero alla Democrazia Cristiana storica, la quale “tra il ‘98 e il 1903 aveva dato speranze copiose di successo” (“Osservatore Romano”, 29 agosto corr.). Poiché con questa Democrazia Cristiana io ho una stretta parentela e le sue vicende furono così intensamente associate alle mie vicende personali, mi permetta di far noto che io non ho avuto parte all’iniziativa della “ricostruzione” di essa e che mi riserbo di vedere ed eventualmente di dire, con serena obbiettività, quanto e come nei suoi sviluppi questa Democrazia Cristiana risponderà allo spirito ed al programma integrale dell’antica e profitterà della ricca esperienza religiosa e politica maturata nel lungo intervallo, così da poter rispondere oggi a profonde e vitali esigenze del nostro paese”. La morte, un anno dopo, sarebbe giunta a stroncare questa sorta di rivendicazione di un proprio diritto di supervisione e di critica del programma politico della nuova formazione degasperiana. La democrazia cristiana di Murri nasce nel 1900 a Roma, il pomeriggio del 3 settembre, in una riunione tenuta a latere del Congresso cattolico (1-5 settembre), alla presenza tra gli altri di Marc 15. “Ho riveduto, dopo molti anni, Romolo Murri pochi giorni prima della sua morte: (...). Quanto a sé, egli mi aveva scritto di considerasi come un uomo fallito due volte: una prima, in quel movimento democratico cristiano, che avrebbe potuto mutare il corso della storia d’Italia; una seconda, nel tentativo di trovare e ravvivare la spiritualità cristiana al di fuori del Cattolicismo istituzionale ecclesiastico. A voce però, richiesto da me, mi disse di aver adoperato la parola “fallimento”, senza aver avuto l’intenzione di darle un senso definito e preciso”. Corrado Giovannini, Romolo Murri. 1- La crisi religiosa, “Politica d’Oggi”, 15 gennaio 1945. I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 45 Sangnier e Luigi Sturzo. Doveva essere un incontro ufficiale, ma le polemiche insorte all’annuncio di un autonomo convegno dei democratici cristiani fecero parlare di un atto d’indisciplina destinato a compromettere l’unità del movimento cattolico e spinsero i promotori a ripiegare su una formula meno impegnativa. L’anno successivo, nel Congresso di Taranto (2-6 settembre 1901) un Breve pontificio inviato ai partecipanti veniva letto come una forma di sostegno all’azione dei democratici cristiani. E nonostante i segnali negativi che invece sopraggiunsero con i primi mesi del 1902, il movimento murriano raggiungeva la vetta del suo successo nel Congresso di Bologna (10-13 novembre 1903), tenutosi sotto la presidenza del conte Giovanni Grosoli - più aperto ai giovani - che il mese prima (21 ottobre) era succeduto al Conte Paganuzzi alla guida dell’Opera dei Congressi. Pochi mesi prima, come sopra ricordato, era morto Leone XIII: il nuovo Papa, Pio X, avrebbe atteso un anno ma alla fine avrebbe sciolto l’Opera, togliendo quello spazio d’iniziativa e di direzione politica che i democratici cristiani avevano conquistato all’interno della vecchia e gloriosa organizzazione. Finiva un tipo d’impegno dei cattolici che per quasi un trentennio aveva rappresentato lo sforzo di preservare un equilibrio faticoso tra scelta religiosa e azione politica, apertura sociale e tradizionalismo a sfondo clericale. Il rinnovamento suscitato da Murri aveva accelerato la crisi di questo modello politico-religioso e, trascinando con sé un retaggio di questioni irrisolte, aveva aperto comunque la strada a un nuovo tipo di presenza del cattolicesimo politico. È necessario, a questo punto, cercare di definire sinteticamente la novità del movimento democratico cristiano. In che cosa consiste e si esprime? Qual è il suo contributo più valido e il suo aspetto, dunque, di vera originalità? Sono domande che lasciano intendere, appunto, che sarebbe superficiale immaginare che anche la democrazia cristiana di Murri non fosse contraddistinta, essendo “figlia” della stessa logica che presiedeva all’esistenza dell’Opera dei Congressi, da un particolare approccio ai temi religiosi, politici e sociali. In verità il nesso che si coglie nella originaria proposta democratico cristiana tra rinnovamento della politica e riforma della Chiesa è la conferma del modello teorico dell’intransigentismo, benché articolato in forme e contenuti peculiari. 46 Capitolo II Poiché non può esserci una nuova politica senza un nuovo modo d’intendere e di vivere il cristianesimo, le implicazioni che ne conseguono sono necessariamente quelle che si determinano sul terreno dell’integralismo. La laicità della politica, intesa non solo come dimensione propria dell’autonomia del laicato, ma anche e soprattutto come espressione di una struttura propriamente naturale della politica (ovvero non sottomessa alla hibrys di un discorso ideologico che sequestra l’agire umano nella società e nella storia in forza di un’astratta pretesa di assoluto); appunto questa laicità, che sarà la conquista del partito aconfessionale di Sturzo, rimane a tutti gli effetti un’ipotesi ben al di fuori dell’impegno teorico e della scelta pratica di Murri. Orbene, se l’ibrida natura politico-religiosa è il limite del murrismo, viceversa la sua capacità di rovesciare in senso democratico e progressivo la generica sensibilità cristiana ai temi del sociale costituisce lo spartiacque tra la vecchia e la nuova figura del movimento cattolico. E, dunque, possiamo così dire che i principali punti di distacco dalla tradizione e dalla prassi ufficiale dei cattolici sono quelli che nel pensiero e nell’opera del sacerdote marchigiano riguardano: 1. il giudizio positivo sul valore morale e politico del Risorgimento, non più visto come pura e semplice “violenza” contro la Chiesa, ma piuttosto come grande rivoluzione nazionale - ancorché deviata e corrotta dalla borghesia - a cui i cattolici avrebbero dovuto apportare il loro decisivo contributo di rigenerazione e riscatto in nome degli interessi del popolo italiano e della Chiesa (16); 2. la convinzione che la questione romana non fosse più da risolvere in un rapporto di scontro - e neppure tanto per via meramente diplomatica - con lo Stato italiano, ma in virtù di una rinascita in senso neoguelfo della iniziativa sociale dei cattolici, giacché solo questa avrebbe garantito il ripristino di una condizione di fiducia tra popolo e Chiesa da cui sarebbe stato possibile far discendere, come logica con- 16. “(...) Murri critica aspramente i gruppi dirigenti liberali, che non tengono più fede a quei princìpi di libertà per i quali la borghesia combatté nel Risorgimento. Di questi princìpi devono farsi difensori i democratici cristiani: “le conquiste della libertà e del progresso, comunque ci sian venute, sono oggi nostre, I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 47 seguenza, la restaurazione dei diritti della S. Sede (17); 3. l’apertura alla democrazia, non già quale semplice regola entro cui esercitare una nuova forma di carità, ma quale tessuto politico di una società riordinata sulla base di un principio di giustizia tale da configurare l’iniziativa democratica e cristiana come una politica per il popolo e con il popolo; 4. l’impegno a costruire una nuova unità popolare che avrebbe comportato, a fronte dell’antagonismo con il “partito” liberale, una come sono degli eredi di chi le guadagnò con la congiura e con la penna, e, obliterati dal tempo antichi malintesi e dissidi, noi siamo oggi divenuti difensori di quelle libertà e di quei diritti, al rispetto dei quali tenta invece di sottrarsi il liberalismo dominante”. E nei riguardi dell’Italia contemporanea e della sua classe dirigente il Murri svolge una critica, che ha ben poco di comune con la tradizionale polemica antigovernativa dei vecchi clericali, intessuta di demagogismo generico, ma che invece è influenzata dai motivi allora correnti nella propaganda socialista e radicale”. In Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, 1974, p.273. Riemerge allora in Murri quel modello di critica alla borghesia e al liberalismo che già negli anni ‘30 era stato formulato dal Lamennais. In questo senso non è improprio associare queste due figure del movimento cattolico, anche se gli studi più accurati (cfr. Sergio Zoppi, Dalla Rerum novarum alla democrazia cristiana di Murri, Il Mulino, 1991) tendono ad escludere facili parallelismi, in termini di pensiero e di vita, tra il francese e l’italiano. Si consideri, infine, che lo stesso Murri ha sempre rifiutato e contestato di essere il “nuovo Lamennais italiano”, formula che andò ben presto a caratterizzare il senso della critica dei suoi vari oppositori. 17. Qui si riscontra, con grande chiarezza, la divergenza tra Murri e Meda. Questi puntava a una funzione di condizionamento interno della democrazia liberale, sicché anche l’unità politica dei cattolici sarebbe stata una ipotesi transeunte in relazione alla necessità di superare la questione romana e in vista anche di un’intesa stabile e duratura nell’orizzonte politico più ampio tra tutti i veri democratici, senza distinzione alcuna di ideologia o di appartenenza religiosa. Invece Murri pensava sì alla soluzione del conflitto tra Stato e Chiesa, ma in virtù di una grande rinascita del sentimento cristiano tra le masse popolari, tale da spezzare il pregiudizio anticlericale. Grazie, quindi, al rinnovamento della vita morale e civile della nazione, si sarebbe potuto affermare un nuovo sistema politico, vale a dire una rigenerazione della democrazia parlamentare e un’alternativa cristiano-popolare al potere elitario della borghesia liberale. 48 Capitolo II capacità di competizione dei cattolici con i movimenti di opposizione (socialisti, repubblicani e radicali), seguendo un metodo intransigente di lotta ideale e politica (18); 5. il confronto scevro da complessi con il collettivismo marxista a cui si attribuisce la qualità di profezia fallimentare, capace di generare la speranza di una definitiva e irreversibile emancipazione dall’ordine iniquo del capitalismo, ma incapace praticamente di fondare sulla libertà civile e politica la prospettiva della nuova società senza classi, essendo il determinismo filosofico e morale l’arma decisiva e insieme l’ostacolo invalicabile della sua opzione rivoluzionaria(19); 6. il superamento della ostilità cattolica verso lo Stato, proprio in quanto peculiare prodotto della rivoluzione liberale, individuando i 18. Si tratta, in verità, di un approccio che non assume correttamente il valore delle alleanze, ma insegue l’obiettivo di un assorbimento delle istanze popolari e democratiche nella esperienza di una nuova politica cristiana. La democrazia cristiana di Murri gioca la sua capacità di raccogliere la protesta delle classi emarginate anche attraverso l’occupazione degli spazi aperti dai settori radicali della borghesia. Per questo, in ricordo di Felice Cavallotti, Murri scrive che proprio quella uccisione in duello pone fine alla “illusione d’una giustizia possibile nel liberalismo”. E aggiunge: “Ma il campo lasciato libero dall’illusione che pareva sostanza l’occupiamo noi, noi cattolici”. Per poi concludere che era ormai necessario “sgombrare la via ad un programma cattolico di sinistra” (in “Cultura sociale”, 16 marzo 1898, p.91; cfr. anche G. Candeloro, Il Movimento cattolico..., op.cit., p. 271). 19. “Osserviamo un momento il programma massimo del collettivismo. Il Marx, che pure aveva ricevuto dalla filosofia tedesca contemporanea il criterio generale della relatività delle cose e che si vantava quindi di aver esploso la metafisica e con essa la filosofia della storia (sviluppo della storia umana su di un piano preconcetto) volle poi egli stesso, per la contraddizione grave ed evidente fra il pensatore e il propagandista, anticipare gli eventi e prenunziare una forma ventura della società, emergente dai contrasti di classe; ed anzi di quella forma ventura egli non assegnò che il fondamentale carattere economico, il possesso in comune dei beni di produzione; limitandosi per tutto il resto a dire che le altre formazioni sociali e la medesima sostanza del loro contenuto (due cose ben I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 49 nodi reali di una riforma del sistema istituzionale e dell’ordinamento dei poteri al fine di garantire tanto l’effettivo esercizio delle libertà popolari quanto la riduzione, mediante l’intervento pubblico (20), delle condizioni materiali d’ingiustizia e di sperequazione; 7. la scelta del tema delle autonomie locali in funzione, appunto, di una riorganizzazione dello Stato su basi democratiche, avviando una riflessione tecnico-scientifica in merito alle questioni del decentramento amministrativo e abbandonando progressivamente lo schema della libertas ecclesiae quale fattore di legittimazione delle libertà locali, a cui invece aveva fatto riferimento fino ad allora il discorso au- distinte) si sarebbero modellate su quel nuovo rapporto economico, generatore di tutta la società ventura. Avemmo così per qualche decennio un programma massimo, vale a dire uno stato sociale previsto come termine definitivo d’un processo storico universale che aveva un contenuto assegnatole nettamente: un certo stato economico e la dipendenza di tutto il resto da esso. Ora, come osserva brevemente in altra parte di questo stesso numero un nostro amico, il tentativo è fallito; in meno di cinquant’anni quei due canoni sono divenuti l’uno e l’altro un impaccio pel movimento d’idee e di fatti che essi non riescono più a contenere e sono stati spezzati dal movimento stesso che continua la sua via: perché è tentativo vano e pieno di superbia il volere a un momento qualunque della storia uscire dai limiti della contingenza che racchiudono l’opera nostra umana e mortale e assegnar delle norme definite ai progressi venturi dell’umanità, in ispecie quando si è rinunziato alla filosofia tradizionale ed a ciò che essa contiene di realmente immutabile per tutti i tempi”. Romolo Murri, Programma massimo e minimo della democrazia cristiana, in “Cultura sociale” del 1° agosto, 1° settembre, 1° novembre 1901, ora in Gabriella Fanello Marcucci, Documenti programmatici dei democratici cristiani (1899-1943), Edizioni Cinque Lune, 1983, in particolare pp. 47-48. 20. Qui invece si evidenzia l’appartenenza di Murri a un diverso ciclo culturale e politico rispetto a Lamennais. Come quest’ultimo si faceva paladino di una posizione antiliberale e antistatalista, Murri associava all’inverso la polemica antiborghese a un “uso” alternativo dello Stato, in coerenza con ciò che il cattolicesimo sociale, in particolare della scuola austriaca e tedesca, andava predicando negli anni a cavallo del ’900. Grazie a questa posizione ideale e politica si avvia un atteggiamento favorevole all’intervento dello Stato in campo economico e sociale, con ciò dimostrando una qualche sintonia con il “nuovo” pensiero dominante nei circoli intellettuali dell’epoca. 50 Capitolo II tonomista e genericamente federalista dei cattolici. Sulla scorta di tali valutazioni, è evidente come nel pensiero dei giovani democratici cristiani sia soprattutto forte il convincimento che il liberalismo produca una sostanziale disgregazione sociale, a fronte della quale, come dato fittizio di unità politica, si ergerebbe il modello accentrato dello Stato. Il richiamo alla dimensione primaria e naturale delle comunità locali rispetto allo Stato assumeva, in questa chiave, i connotati di una proposta innovatrice che tralasciava la polemica di tipo pregiudiziale allo Stato risorgimentale per acquisire il valore di un’alternativa politico-istituzionale volta a determinare un assetto dei pubblici poteri che fosse lo specchio reale di una vita democratica segnata dal pluralismo degli interessi popolari e dalla possibilità di autogoverno dei corpi sociali e territoriali. Rompere l’uniformità amministrativa voleva dire in sostanza poter concepire uno Stato che, contrariamente alla linea di evoluzione della società industrializzata moderna, potesse andare oltre la semplificazione della dialettica sociale introdotta dal capitalismo e fosse capace di recuperare una funzione di garanzia per le diverse forme di libertà, di partecipazione e di cooperazione. La critica si spostava dal livello generico e astratto dell’opposizione antimoderna e antiliberale a quello per così dire di merito, laddove cominciava ad essere più importante la costruzione di una piattaforma alternativa che prendesse lo spunto dalla corruzione morale e politica delle classi dirigenti e dalla cattiva amministrazione, sia al centro che in periferia, dello Stato. Il “Programma di Torino dei giovani democratici cristiani” (1899) è il documento che raccoglie in forma agile e stile moderno i punti qualificanti di una politica di riforme corrispondente, secondo gli estensori, “alle aspirazioni di una vera democrazia e ai principi sociali del cristianesimo”. Il testo si articola in dodici punti ed esibisce ogni volta, in apertura dei singoli paragrafi, la formula: “Noi vogliamo...”. Si chiede, tra l’altro, l’introduzione del sistema elettorale proporzionale e a suffragio allargato, la tutela del lavoro minorile e il rispetto per il riposo settimanale, la previsione di un minimo salariale per legge, il riconoscimento dell’iniziativa popolare attraverso il referendum, la riforma tributaria (con l’introduzione, in particolare, di una imposta moderatamente progressiva), l’avvio di un processo di riordino a base autonomistica dello Stato e, in conclusione, la definizione di I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 51 un compito sociale del comune. In proposito, così recita espressamente il punto 4: “Noi vogliamo un largo decentramento amministrativo come avviamento alla effettiva autonomia comunale e regionale, contemperata con le esigenze strettamente nazionali dello Stato”. L’appello finiva con un riferimento, oltre che a Leone XIII e Giuseppe Toniolo, allo statista inglese appena scomparso (1898) William Gladstone, quali artefici dell’avvento a livello internazionale della democrazia cristiana che, per quei giovani, “sarà la gloria del secolo ventesimo” (21). Non è casuale questo accenno a uno sviluppo internazionale dell’iniziativa democratico cristiana. Evidentemente si manifesta l’aspirazione a trovare esempi e contatti con le altre nazioni per non rinchiudere la novità del movimento democratico cristiano nell’ambito circoscritto della realtà politica italiana. E guardando alle esperienze estere - questa volta non tanto alla Francia, quanto alle nazioni di lingua tedesca e all’Inghilterra - essi trovano i dati e gli strumenti per sviluppare una proposta moderna nel campo del decentramento amministrativo e dell’autogoverno municipale. Siamo ad un passaggio politico in cui il dibattito in Italia dei primi anni del novecento prende congedo dalle tentazioni conservatrici o reazionarie che avevano alimentato le scelte dei governi Di Rudinì e Pelloux. Si avverte con il nuovo secolo l’urgenza di aprire una fase diversa nella vita politica e amministrativa del Paese. Con il governo Zanardelli (1901-1903) si pongono le premesse per il “decennio giolittiano”: la classe dirigente liberale si dispone a una guida più illuminata, aperta alle riforme sociali e alla sperimentazione di nuove alleanze politiche. È in questo contesto che a seguito di una lunga e talvolta contrastata gestazione, nasce nel 1901 a Parma (17 - 19 ottobre) l’Associazione dei Comuni Italiani per iniziativa prevalente di radicali e socialisti. I cattolici con Sturzo entreranno subito dopo, nel congresso di Messina del 1902. L’Associazione ricalca nelle sue finalità statutarie e nelle sue linee organizzative l’esempio della Lega dei comuni, sorta in Inghilterra già diversi anni prima. Tutte le correnti più 21. Il testo integrale del Programma si può leggere in P. Scoppola, Dal neoguelfismo..., op. cit., pp.93-95. 52 Capitolo II aperte della realtà politica nazionale si misurano e si confrontano, dunque, con le questioni del rinnovamento istituzionale ed amministrativo, facendo ampiamente ricorso alle novità di carattere programmatico ed operativo che il panorama internazionale metteva a disposizione degli studiosi e dei politici. L’ingresso nell’Associazione dei comuni non era un fatto scontato, anzi poteva costituire un ulteriore dimostrazione di quella libertà di manovra e di comportamento che qualificava, non sempre positivamente agli occhi delle autorità vaticane, il gruppo dei democratici cristiani. La responsabilità di questa operazione è generalmente attribuita a Sturzo. Ma egli non aderisce da solo: con lui, destinato ad assumere nel 1915 la carica di Vice-Presidente nazionale, ci sono fin dall’inizio Angelo Mauri, Filippo Meda, Giuseppe Micheli. Tutta la migliore rappresentanza del giovane movimento democratico cristiano è pertanto coinvolta, con maggiori o minori responsabilità, nella vita politico-organizzativa della nuova Associazione. È da supporre che la decisione di Sturzo fosse in qualche misura dibattuta o perlomeno messa a conoscenza preventivamente delle figure di maggiore spicco del movimento. Non c’è tuttavia un coordinamento formale, manca una sede ufficiale ove dibattere la linea e la condotta politica. Risulta chiaro, comunque, che l’atteggiamento di Sturzo in seno all’Associazione risente anche delle alterne vicende del movimento cattolico. Le oscillazioni e i mutamenti di fronte, come il passaggio dal congresso di Roma (1903) al congresso di Napoli (1904) dallo schieramento di sinistra a quello moderato, non corrispondono soltanto a una più o meno forte disposizione tattica di Sturzo, né a condizionamenti tutti interni alla vita dell’Associazione: giocano anche fattori politici generali per cui, non appena le circostanze si fanno più difficili, si determina la volontà di Sturzo di non fornire alibi o pretesti a chi intenda colpire quel tanto di autonomia dei democratici cristiani (22). Ma quale è il ruolo culturale e politico di Murri nel dibattito 22. “La figura di Sturzo che appare nei primi congressi dell’Anci è quella di un politico concreto e pragmatico che maturava e adattava la propria azione alle mutate condizioni politiche. A Roma, egli era riuscito a conquistare la fiducia dell’ala moderata dell’Associazione con una posizione radicale che doveva liberale i cattolici dallo stereotipo del clericale, senza per questo arrivare ad indentificarsi con le posizioni socialiste, piuttosto affiancandosi ad esse; a Napoli I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 53 sulle autonomie locali? È stato detto che pur avendo accolto, sin dal 1898, molti contributi su “Cultura sociale”, egli non avrebbe assegnato soverchia importanza a questa specifica problematica (23). Ma non si può neppure dire che sfuggisse all’esame e alla valutazione del sacerdote marchigiano il quadro delle implicazioni che questo confronto teorico-politico poteva determinare. Il tema della “rinascita” dei comuni coinvolgeva tutte le forze attive della società, tutti i movimenti di opposizione. La conquista dei municipi era considerata dai socialisti una parte essenziale del loro programma minimo, con ciò volendo significare il nucleo delle richieste e degli obbiettivi ritenuti indispensabili ai fini della costruzione della prima, fondamentale tappa della lotta politica rivoluzionaria. A livello locale era perciò possibile realizzare un esempio di contropotere capace di dare valenza concreta alle aspettative di cambiamento radicale delle masse popolari. “Impadroniamoci dei comuni”, era stata la parola d’ordine di Andrea Costa. In fin dei conti, cattolici e socialisti si ritrovavano a competere sullo stesso piano, avendo in comune l’aspirazione a rovesciare gli equilibri di potere locale e la corrente prassi di governo dei circoli liberali, con tanto di camarille e clientelismi, che aveva svuotato e impoverito la vita democratica tanto delle grandi città quanto dei piccoli centri. Ma era pressoché evidente che la convergenza imposta dall’idem sen- però le cose erano cambiate parecchio, le spiegazioni possono essere sostanzialmente due. La prima, un poco semplicistica, è di mera tattica politica: il sacerdote calatino, una volta dimostrato il carattere non clerico moderato della propria azione, non aveva più ragione di continuare ad affiancare le posizioni più estremiste ed aveva voluto contribuire, con l’ala moderata dell’Associazione, a togliere la direzione dell’Anci ai socialisti. Tanto più che erano poi soprattutto i rivoluzionari che si erano messi saldamente in testa ad una campagna per le dimissioni dei consigli comunali che aveva debolissime prospettive di successo, e oltretutto utilizzavano la “Rivista municipale” quasi come fosse una rivista propria, senza lasciar alcuno spazio agli altri”. Oscar Gaspari, I primi anni di Sturzo nell’Associazione dei Comuni Italiani (1902-1905), “Sociologia”, ESI, n°2/97, Nuova Serie, p.157. 23. “(...) né egli, tutto preso dalla questione politica nazionale e dai rapporti tra Stato e Chiesa, vi dedicherà mai un’attenzione particolare (a parte i momenti elettorali). Accoglie tuttavia nella sua rivista i contributi dei giovani studiosi democratici cristiani di ogni parte d’Italia, che scrivono su questioni comunali fin dai primi numeri”. Mario Belardinelli, Movimento cattolico e questione comunale dopo l’Unità, Edizioni Studium, 1979, p.131. 54 Capitolo II tire antiliberale, fosse tuttavia rovesciabile in aperto e duro contrasto in relazione alle mète e alle strategie così diverse che entrambi i movimenti erano spinti a propugnare. L’anticlericalismo, come portato della filosofia moderna e della rivoluzione industriale, transitava dal liberalismo al socialismo in forme e modi che potevano apparire ancora più aspri e temibili, assumendo in termini programmatici il connotato di un ateismo militante e rivoluzionario. La collaborazione nei comuni tra cattolici e socialisti era, quindi, una ipotesi irrealistica che serviva da pretesto e schermo per le polemiche in un certo senso artificiose dei conservatori(24). Poteva accadere, però, che il rifiuto dei cattolici a fare blocco con i liberali aprisse le porte dei municipi ad amministrazioni radicali e socialiste. Era questa la ragione del contrasto che divideva il movimento cattolico. L’ansia di cambiamento che animava i democratici cristiani precludeva gli spazi di manovra ai moderati che agivano, all’inverso, con la preoccupazione di evitare la radicalizzazione della vita politica nazionale e locale. Le due sensibilità o meglio le due linee politiche implicavano alternativamente, da un lato, la ricerca e la difesa dell’autonomia dei cattolici sulla base di una nuova piattaforma programmatica e, dall’altro, la tendenza a privilegiare il tema delle alleanze, naturalmente in chiave moderata, per ottenere il rispetto di poche ed essenziali richieste (in genere riferibili al corretto impiego delle risorse pubbliche, per non gravare sulle classi popolari con una tassazione troppo elevata, e alla tutela delle organizzazioni cattoliche nel campo dell’istruzione e dell’assistenza) (25). La forza di proposta dei democratici cristiani era pertanto ciò che distingueva il campo tra “no- 24. Cfr. Lorenzo Bedeschi, Socialisti e cattolici nei comuni dall’unità al fascismo, Edizioni della Lega per le autonomie e i poteri locali, Roma, 1973. 25. Nella sua relazione al congresso di Taranto, il Presidente dell’Opera dei Congressi, il “vecchio” Giambattista Paganuzzi, in risposta alle spinte dei giovani avrebbe ancora una volta precisato. “Nei Comuni e nelle Province (...) il nostro ingresso significhi ingresso del principio cristiano nella scuola, predominio della moralità, risparmio della proprietà pubblica e privata. E significhi ancora ingresso di quel principio di beneficenza cristiana voluto dal S. Padre”. In M. Belardinelli, op. cit., p. 143. Si noti, anche in queste parole, la lettura riduttiva che il conservatore Paganuzzi fa delle indicazioni pontificie, insistendo sulla caratteristica di movimento a carattere sociale e senza implicazioni politiche della democrazia cristiana, formula di compromesso che del resto suonava condanna delle spinte più coraggiose e innovative. I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 55 vatori” e conservatori. Quest’ultimi, anche se mossi dalle migliori intenzioni politiche e morali, erano lontani dall’idea democratica di un vero e significativo “contatto” con il popolo, idea che in realtà qualificava il programma e l’azione dei giovani che si raccoglievano attorno alla bandiera della democrazia cristiana. Il contributo teorico e politico offerto dai giovani murriani in tema di autonomie locali consiste precipuamente nell’aver contrapposto al socialismo municipale, che i riformisti alla Turati avevano imposto all’interno del partito, il loro municipalismo sociale, frutto degli studi comparativi con la più avanzata cultura amministrativa degli altri Paesi, specialmente con la Science of city government dei circoli fabiani inglesi e la Kommunale Sozialpolitik dei cristiano-sociali austriaci e tedeschi. L’indirizzo scientifico esposto da Angelo Mauri, Francesco Invrea e Antonio Nicola, si distaccava altresì dalle posizioni prevalenti della cultura giuridica italiana che, volendo solo fare qualche riferimento, con I principi di diritto amministrativo di Vittorio Emanuele Orlando e la Teoria del decentramento amministrativo di Carlo Francesco Ferraris, confermava il permanere di una vocazione statalista di ascendenza hegeliana tendente a ridurre gli enti locali a meri organi decentrati dello Stato. Ecco dunque il giudizio più appropriato sulla novità degli studi di questi giovani cattolici: “Appare notevole in questi lavori non solo il superamento graduale di quei riferimenti al medioevo, che avevano caratterizzato i primi studi di quanti si erano formati alla scuola cristiano-sociale del Toniolo, ma il respiro europeo che li anima e li orienta a proporre soluzioni adeguate alle esigenze del mondo contemporaneo” (26). Sono molti gli elementi distintivi della riforma autonomistica dello Stato che prende corpo attraverso l’approfondimento teorico degli scrittori impegnati sulle pagine di “Cultura sociale”, tutti per altro così attivi nel lavoro di formazione dei quadri della prima democrazia cristiana. Francesco Invrea, uno dei leader del gruppo dc torinese, produrrà lo sforzo più ampio ed organico per l’elaborazione del programma municipalista. I suoi numerosi interventi sulla rivista di Murri saranno successivamente rielaborati e pubblicati a parte in un volume che ebbe notevole eco e diffusione tra tutti i militanti (27). Nella presen- 26. M. Belardinelli, op. cit., p. 134. 27. Cfr. Francesco Invrea, Il comune e la sua funzione sociale, Società Cattolica Editrice, Roma, 1902. 56 Capitolo II tazione era detto che il “risveglio comunale” appariva come una delle novità che caratterizzavano la vita delle nazioni più progredite. E mentre lo Stato accentrato e accentratore mostrava i suoi limiti per aver distrutto la pluralità e l’organicità della esperienza democratica, riducendo le funzioni di governo a un sistematico e meccanico procedimento astratto, a livello comunale riprendeva a svilupparsi un senso comunitario nuovo, uno spirito riformatore che nasceva dalla domanda di partecipazione del popolo e di maggiore efficienza dei servizi, un modello di autogoverno che garantiva una valorizzazione della democrazia locale a fronte di quel processo, in parte inevitabile ma nell’insieme esasperato e controproducente, di assorbimento di tutte le funzioni a livello di poteri centrali. Il comune per Invrea doveva anticipare lo Stato nell’attuazione di quelle riforme che i tempi esigevano. Non bastava, quindi, la tradizionale difesa dell’autonomia dei corpi territoriali: occorreva compiere un salto di qualità. Unitamente ai temi della democrazia e della partecipazione, della sana ed onesta amministrazione, del pluralismo nel campo dell’assistenza e della scuola, era indispensabile e doveroso fare riferimento al problema di una funzione sociale, efficiente e moderna, del comune. Sul piano istituzionale veniva formulata la proposta di dotare i comuni di uffici del lavoro, in sintonia con l’idea di istituire analogamente a livello statale un apposito ministero, affinché i pubblici poteri fossero posti nella condizione di affrontare con adeguati strumenti i problemi connessi alla cosiddetta “questione sociale” (28). Sul piano economico s’invoca un’iniziativa più diretta e più organica dell’ente locale. Nella cura dell’igiene pubblica, nell’allestimento dei mercati, nella organizzazione dei forni e dei 28. Il distacco dalla posizione clerico-moderata è anche in questo caso molto netta, quantunque la Dottrina sociale della Chiesa costituisca pur sempre il comune elemento di legittimazione. ”Nell’involucro dell’enciclica di Leone XIII potevano coesistere le scelte economiche della democrazia cristiana e quelle del clerico-moderatismo. Alla democrazia cristiana, che nei conflitti fra capitale e lavoro chiamava lo Stato a mediare gli interessi generali della comunità nazionale, fino a proporre la creazione di un ministero del lavoro, i clerico-moderati opponevano la neutralità dei pubblici poteri ai quali sarebbe spettato la difesa dell’ordine, della pace sociale e della tutela del libero gioco delle forze del mercato”. Francesco Maria Cecchini, La prima democrazia cristiana, vol. II, p. 60, in AA.VV., Storia del Movimento Cattolico in Italia, Il Poligono Editore, 1981. I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 57 mattatoi, nella gestione della pubblica illuminazione, delle tranvie, degli acquedotti e dei trasporti funebri, in ogni ambito di quel vasto campo dei servizi pubblici era giunto il momento di verificare se non fosse più democratico, più economico, più efficiente affidare il compito di promozione e direzione alla mano pubblica, vale a dire al potere municipale. Era una svolta! “Con l’attuazione delle riforme fin qui accennate, sosteneva Invrea, si restituirà ai comuni quella vitalità che oggi loro manca; se ne risanerà l’organismo, e lo si renderà idoneo al compimento delle proprie funzioni, che il progresso sociale tende a rendere sempre più complesso. E così risorgerà tra noi quella rigogliosa vita locale che ben lungi dal generare o mantenere un gretto campanilismo, è invece (come ci insegna l’esempio delle nazioni ove la vita locale è più in fiore) il fondamento migliore di un potente e sincero sentimento nazionale, e nello stesso tempo permette lo svolgimento d’una sana e forte democrazia, riuscendo così potente strumento d’una sana e forte educazione politica, e risvegliando efficacemente sulle popolazioni la coscienza, oggi così affievolita, della responsabilità e della solidarietà sociale” (29). Un linguaggio tecnico e un progetto politico in cui anche il retaggio della vecchia sociologia cattolica era palesemente marginale e poco influente. La municipalizzazione dei servizi pubblici è perciò un punto qualificante della corrente di pensiero del municipalismo sociale cattolico, benché in genere sia piuttosto collegata alla stagione del riformismo democratico e socialista. È tuttavia un’esperienza che travalica i confini ideologici e gli angusti riferimenti politici, essendo ad esempio già avviata sul finire del secolo in una città come Milano dall’amministrazione clerico-moderata di Giuseppe Vigoni, sindaco dal febbraio 1895 al luglio 1899. In genere i cattolici, o comunque i giovani appartenenti alla corrente democratico cristiana, sono pienamente e legittimamente partecipi di questa nuova formula di sviluppo e organizzazione delle attività del comune moderno. Essi condividono l’esigenza di sottrarre alle gestioni private l’esercizio di servizi che interessano la vita dell’intera popolazione e che richiedono, proprio per 29. F. Invrea, op. cit., p.63. 58 Capitolo II questo, un’assunzione di responsabilità diretta da parte delle istituzioni, quali appunto i comuni e le province (30). La municipalizzazione dei servizi a rilevante interesse pubblico è, dunque, una prospettiva che unifica le forze riformatrici d’inizio secolo e che corrisponde a una evoluzione della scienza economica e alla nuova cultura amministrativa. È una scelta progressista che trova riscontro nella legge istitutiva della municipalizzazione (L. 29 marzo 1903, n.103) promossa dal Governo Giolitti: essa esprime “l’esigenza di nuove tecniche nel controllo e nella gestione dell’economia comunale, indicando prospettive alternative rispetto alle “città sociali” dell’imprenditoria privata” (31). È un elemento fondamentale della strategia di modificazione dal basso dello Stato, attraverso la valorizzazione dell’autonomia di comuni e 30. Non del tutto omogenea, a riguardo, appare la posizione di Luigi Sturzo. La municipalizzazione dei servizi pubblici, per il sacerdote di Caltagirone, intanto poteva esistere e avere titolo di legittimità, in quanto destinata fondamentalmente a recuperare, sotto altre forme, la più generale ed antica preoccupazione dei cattolici circa la moralizzazione della vita amministrativa locale e la salvaguardia dei demani e delle pubbliche proprietà quali condizioni materiali atte a garantire una possibile funzione sociale delle istituzioni, a vantaggio delle classi popolari e delle fasce povere della società. Egli pertanto insiste sul fatto che “la municipalizzazione dei servizi pubblici non perda il suo carattere proprio ed essenziale e si trasformi in un nuovo sfruttamento, mutate le guise” (L. Sturzo, Il Senatore Saredo e la municipalizzazione dei servizi pubblici, “La croce di Costantino”, 24 luglio 1901, ora in L. Sturzo, La Regione nella Nazione, Zanichelli, 1974, p.326). All’inverso, ciò che conta per Sturzo è il recupero da parte del comune moderno di quella più antica vocazione alla tutela e alla promozione, attraverso il corretto uso dei patrimoni collettivi, dalle classi sociali inferiori. “La municipalizzazione dei servizi pubblici, sistema di carattere del tutto moderno, riavvia il comune alla sua funzione naturale e storica” ( idem, p.326 ). Anche Toniolo, nel suo “Il programa dei cattolici di fronte al socialismo” del 1894, aveva sottolineato l’esigenza di “salvare le ultime reliquie e ricomporre possibilmente i patrimoni collettivi degli enti morali giuridici, delle opere pie, delle corporazioni religiose, della Chiesa, che furono ritenuti sempre quasi il tesoro riservato del popolo, cui possono aggiungersi i beni e le proprietà collettive dei comuni, delle province, dello Stato (...)”. In altre parole, l’interventismo statale o municipale nell’economia avrebbe potuto dare luogo, agli occhi di chi come Sturzo conserverà sempre una chiara nota di avversione al burocraticismo statalista, a forme incestuose e perverse d’incrocio tra pubblico e privato, con effetti ineliminabili di inefficienza e corruzione politico-economica. Una preoccupazione che oggi, a distanza di un secolo, riprende corpo nel dibattito economico e orienta per altro le scelte di riordino nei rapporti tra pubblico e privato. 31. Giuseppe Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma in età giolittiana, Liguori editore, 1994, p. 17. L’Autore, riferendosi alla tematica delle “città sociali”, intende parlare di una certa sensibilità riformatrice ed umanitaria, I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 59 province, nonché l’organizzazione a questo livello di una vita civile più giusta e solidale. Del resto, l’ipotesi della municipalizzazione dei servizi era nel novero delle prospettive che derivavano dai nuovi indirizzi economici della scuola neo-classica (o del marginalismo) che aveva tra i principali esponenti il francese Léon Walras e l’italiano Vilfredo Pareto. Le elaborazioni di questa recente scienza economica, ponendosi in contrasto con le teorie di Karl Marx circa l’inevitabile “sfruttamento” del lavoro salariato nel regime capitalistico di libera concorrenza, recuperava una positiva valutazione del mercato. Grazie ad esso, qualora non sussistano condizioni di monopolio che ne alterino il corretto funzionamento, si realizza una ottimale allocazione delle risorse e un’equa remunerazione di tutti i fattori produttivi. Questa nuova teoria, che invece della produzione delle merci poneva al centro il tema della distribuzione del reddito prodotto, dando priorità alla questione del consumo e riconoscendo pertanto la centralità del cittadino-consumatore, faceva da base alla edificazione di quelle politiche che nel tempo, soprattutto a seguito della crisi del ‘29, avrebbero incarnato il nuovo modello del welfare state. La lezione del marginalismo entra nel vivo delle nuove tendenze municipaliste. La scelta politica di annettere alla gestione pubblica alcuni grandi servizi non è il riflesso di una visione dogmatica volta a punire l’impresa capitalistica, ma un atto di governo consapevole e responsabile che mira a rimuovere le condizioni di monopolio che interferiscono nella dinamica del libero mercato, recando pregiudizio e danno agli interessi legittimi dei consumatori. L’intervento dell’ente pubblico non prefigura, allora, un tentativo di controllo arbitrario e burocratico sulla produzione di beni e servizi, ma è piuttosto la individuazione delle garanzie per un più efficiente e razionale equilibrio di mercato, dove il pubblico può decidere di entrare in concorrenza con il privato allo scopo di raggiungere l’efficace e giusta soddisfazione della domanda dei consumatori. Il modello di organiz- espressione delle correnti più aperte e radicali della cultura del libero mercato, secondo la quale competeva e interessava all’imprenditore assicurare i servizi primari, come l’alloggio per le famiglie dei lavoratori, definendo all’occorrenza accordi e convenzioni con i pubblici poteri. 60 Capitolo II zazione delle attività e delle funzioni del comune moderno si forma, in buona misura, sulla scorta di un pensiero economico che tende a sostituire il tema del sovrappiù che si determina nel campo della produzione con la questione del conflitto che scaturisce proprio dalla organizzazione del consumo. È rispetto a questo contrasto d’interessi che le istituzioni devono pertanto intervenire affinché l’iniziativa imprenditoriale, quantunque essenziale ed insostituibile, possa svilupparsi in un contesto di mercato effettivamente libero e non surrettiziamente alterato dalla formazione di cartelli e monopoli privati. La municipalizzazione dei servizi è sostenuta, in questo ampio orizzonte teorico, da uomini di varia formazione e tendenza politico-culturale a cui appariva evidente la bontà dell’intervento pubblico locale. Quanti erano assertori, come il socialista Giovanni Montemartini(32), di una nuova azione riformista dello Stato non potevano che auspicare un ruolo più attivo, o meglio d’avanguardia, delle amministrazioni locali. Ma anche la scuola che mirava a conciliare l’istanza di giustizia del socialismo e il ruolo determinante del libero mercato - e qui, oltre il già citato Pareto, è bene ricordare anche Antonio De Viti De Marco, Bruno Leone, Maffeo Pantaleoni - individua nella nuova attività economica dei municipi un motivo ulteriore, quand’ anche straordinario, di contenimento e disarticolazione dell’invadenza crescente del burocraticismo statalista. Conviene, a questo punto, seguire per esteso il ragionamento del democratico cristiano Francesco Invrea: “Ora dal momento che il monopolio è inevitabile è certo meglio che esso sia esercitato dal comune nell’interesse pubblico che dai privati nell’interesse privato. Perché è chiaro che un monopolio di fatto, lasciato a privati speculatori, torna a sommo detrimento del pubblico, il quale resta così legato mani e piedi in balìa dei fortunati concessionari. È vero che a frenare questo monopolio i comuni sogliono negli atti di concessione inserire delle clausole con le quali vengon posti dei limiti alle tariffe e in altri modi si cerca di tutelare gli interessi del pubblico; ma trattandosi di concessioni necessariamente assai lunghe, i freni possono essere da 32. Questi sarà uno dei più autorevoli membri della Giunta Nathan, artefice principale delle politiche di municipalizzazione dei servizi pubblici nella capitale. I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 61 principio sufficienti, ma col tempo diventano derisori. E poi i comuni con le concessioni ai privati si precludono per un tempo lunghissimo la via ai perfezionamenti tecnici e ai miglioramenti del servizio; perché le società profittando del loro naturale monopolio trascurano d’introdurre nei servizi i necessari perfezionamenti. Del resto in pratica si vede abbastanza quanto riescano deficienti ed illusorie tutte le cautele che i comuni prendono per porre dei freni al monopolio delle società anonime concessionarie. L’unico rimedio in conseguenza sta in ciò, che il comune assuma direttamente l’impianto e l’esercizio dei servizi pubblici cittadini” (33). Questo, allora, è il manifesto dei democratici cristiani all’inizio del secolo: una piattaforma politica avanzata e, per così dire, aggressiva e pugnace. È vero che per la pubblicistica corrente la grande svolta nella politica municipalista si realizza con il sindaco Nathan e la tanto celebrata epopea della sua giunta laica, democratica e di sinistra. Ma, prima di Nathan, sul piano teorico e programmatico il municipalismo sociale dei cattolici non è da meno nel proporre una scelta di modernità, in linea appunto con le posizioni politico-culturali più aperte e dinamiche sia di matrice liberale che socialista. Volendo semplificare parecchio, si può rilevare dunque che al movimento cattolico-municipalista non manca la forza del riformismo, quanto la capacità di traduzione politica del suo disegno innovativo. 33. F. Invrea, op. cit., pp. 74-75. 62 Capitolo II I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 63 64 Capitolo II I cambiamenti a cavallo del ’900: la nascita della democrazia cristiana 65 66 Capitolo II CAPITOLO III Le elezioni del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri, la sfida all’Unione romana e il veto della S. Sede Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 65 Il tentativo di Murri di qualificare in senso democratico cristiano l’impegno amministrativo dei cattolici romani in occasione del turno generale del giugno 1902 per il rinnovo di parte della rappresentanza consiliare, si può leggere in definitiva come un’operazione matura dal punto di vista dell’accumulazione di proposte e suggerimenti tecnici, ma debole sotto il profilo delle effettive possibilità politiche. Del resto, l’iniziativa che egli assume ha un evidente significato di sfida agli occhi dei circoli conservatori e tradizionalisti del mondo cattolico capitolino. Più che una sperimentazione è una provocazione, non foss’altro perché è proprio a Roma che la proposta di una lista aperta ai candidati e al programma dei democratici cristiani viene con tanta enfasi presentata. Siamo nella Città Eterna, nel cuore della cattolicità: qui la tradizione, da quasi trent’anni, vuole che l’Unione Romana organizzi la lista cattolica con l’obiettivo di ricercare un’intesa possibile con i liberali moderati. Era, come già ricordato, l’archetipo della politica clerico-moderata che vigeva nelle principali amministrazioni locali e che stabiliva di per sé il contrappeso, nelle forme consentite dal non expedit, all’intransigenza cattolica(34). Tutto si poteva supporre meno che un’iniziativa di stampo nuovo, come quella congegnata da Murri, potesse trovare terreno favorevole e sufficiente disponibilità non chissà dove, ma addirittura nella capitale. Eppure Murri gioca le sue carte a Roma, forte evidentemente del prestigio, della simpatia e del consenso che la sua democrazia cristiana proprio nell’Urbe era riuscita a conquistare. Il movimento aveva un carattere nazionale, circoli ne erano sorti ovunque, in altre città si poteva cogliere un analogo fermento di idee e di militanza, ma certamente Roma costituiva la realtà più significativa e vitale della democrazia cristiana, se non altro perché qui si manifestava più direttamente e intensamente il magistero morale e politico del fondatore, Romolo Murri, che per tutti era il vero ed incontrastato leader. 34. “In altre parole l’Unione Romana, all’insegna della moralità amministrativa, rappresenta la liason tra gli interessi economici cattolici e quelli liberali secondo l’invito di Paolo Campello della Spina: <<Nei Consigli comunali la politica deve tacere >>. L’incontro avviene sul piano dell’immobilismo sociale, naturalmente coperto dal rispetto per la religione”. L. Bedeschi, Socialisti e cattolici ..., op. cit, p. 49. 66 Capitolo III La Roma dei primi anni del ’900 non era certo una grande metropoli - la sua popolazione si aggirava attorno alle 400.000 unità poiché il suo ruolo di primario centro amministrativo, in qualità di capitale del nuovo Stato unitario, andava sì convulsamente sviluppandosi, ma non poteva ancora ritenersi compiuto. L’orientamento delle classi dirigenti piemontesi aveva escluso, del resto, una commistione di attività industriali con funzioni tipicamente culturali e burocratiche. La capitale doveva avere un suo status, una sua propria identità, una caratteristica tutta fondata sul ruolo di centro della cultura, della scienza e della politica, rinverdendo le glorie della sua millenaria tradizione storica e della sua vocazione cosmopolita. Solo Luigi Pianciani, sindaco nel 1873-4 e nel 1881-2, avrebbe vanamente tentato di indirizzare la città verso un qualche sviluppo di tipo industriale. In realtà lo spettro della Comune di Parigi, con la paura di tensioni e tumulti nel punto nevralgico della nuova compagine statuale, avevano autorizzato Quintino Sella a insistere affinché Roma si conservasse diversa, al di fuori e al di sopra dei problemi che travagliavano le altre città italiane ed europee. Una scelta laica, del resto, che escludeva apertamente l’opzione di un Bettino Ricasoli, assertore convinto della missione storica di “provocare” dall’esterno la riforma della Chiesa, per il quale Roma acquisita alla nuova Italia doveva essere il centro dinamico di un nuovo cattolicesimo. Dal 1870 in avanti la capitale aveva modificato in profondità la sua struttura urbana e la sua vita civile. In pochi decenni avrebbe compiuto il passaggio da città simbolo di un piccolo Stato a grande capitale di una importante nazione, subendo processi di trasformazione che nel Vecchio Continente avevano richiesto due o tre secoli di lento e graduale sviluppo. I primi sventramenti per realizzare le sedi della pubblica amministrazione, le grandi opere infrastrutturali, le speculazioni edilizie e la trasformazione del tessuto urbano, la nascita di nuovi ricchi e l’arrivo di masse senza lavoro e senza casa: è un quadro, questo, che permette di cogliere le contraddizioni di una città che in teoria avrebbe dovuto acquisire una sorta di più moderna funzionalità, unitamente a un nuovo prestigio in Italia e nel mondo, ma che in realtà era costretta ad affrontare le conseguenze impreviste di uno sviluppo senza programmazione e senza controllo. Si avvertiva sempre più, con il nuovo secolo, l’esigenza di Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 67 una nuova guida politica, di una classe dirigente locale più consapevole delle proprie responsabilità, di un quadro amministrativo in grado di fronteggiare con maggiore determinazione i grandi problemi che le trasformazioni sociali portavano alla ribalta. Il mito della “Roma laica”, centro d’irradiazione di nuova civiltà, subiva l’usura degli eventi e pativa nel contempo la pressione delle masse popolari per una svolta nella vita politica e amministrativa locale. Il modello piemontese tendeva a mostrare i suoi limiti e le sue contraddizioni, sia in campo economico che urbanistico. Una città priva di nerbo produttivo e soggetta a interventi architettonico-urbanistici, recanti spesso il segno della speculazione e dell’affarismo, si affacciava all’alba del nuovo secolo ponendo allo scoperto bisogni e domande sociali difficilmente circoscrivibili nel disegno austero e magniloquente della politica dei ceti dirigenti post-unitari. Si avvertiva anche la stanchezza di una certa retorica risorgimentale che non trovava altre risorse che non fossero quelle della contrapposizione pura e semplice tra la “Roma laica” e la “Roma dei Papi”. Il Campidoglio doveva rappresentare, naturalmente ed emblematicamente, il nuovo volto dell’Urbe, in congiunzione con le antiche memorie dei Cesari e perciò fatalmente in alternativa alla tradizione espressa dal potere temporale della Chiesa. Ma questa pregiudiziale anticlericale nel corso degli anni si era irrigidita in forme e costumi che rivelavano la tendenza delle élites liberali a farsi scudo di un qualche motivo ideologico per conservare ed estendere, in buona sostanza, i propri ambiti di potere. Era pertanto matura la spinta popolare che dall’anticlericalismo estraeva, a beneficio di un programma radicale, il motivo di rottura con il passato dominio “dei preti”, vedendo proprio nell’intreccio d’interessi tra i moderati di appartenenza liberale o cattolica la dimostrazione ultima del perché fosse ormai giunto il momento di guardare al futuro attraverso le lenti di una nuova politica. Si avvertivano, in altre parole, i prodromi della svolta che nel 1907 avrebbe portato all’elezione - con la vittoria del Blocco popolare in cui erano confluiti liberali, radicali, repubblicani e socialisti - del sindaco Nathan. Un passo indietro. È vero che i cattolici a Roma avevano tentato ben presto di reinserirsi nel gioco politico e amministrativo che si era determinato 68 Capitolo III con la “conquista” piemontese. È però un luogo comune la descrizione semplificata di una vicenda che starebbe lì ad esprimere una sorta di immediata e ininterrotta collaborazione tra liberali e cattolici, con amministrazioni moderate che si sarebbero alternate alla guida del Campidoglio nel segno di una comune volontà di stabilizzare ben presto la vita amministrativa della nuova capitale. Al contrario, i primi passi che i cattolici romani mossero sul piano politico locale furono improntati al rifiuto dei fatti compiuti e quindi alla condivisione delle pregiudiziali vaticane: sicché, per essere chiari, “(...) salvo pochissime eccezioni (essi) si astennero dalle elezioni per il primo consiglio comunale nel novembre 1870 e parimenti si astennero dal prendere parte a qualsiasi manifestazione ufficiale” (35). Invero solo due anni dopo si organizzarono, attraverso la Società Primaria Romana per gli Interessi Cattolici, per combattere da posizioni intransigenti il “mostro liberale”. Rispondevano così all’appello del Card. Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, rilanciato pur senza particolare convinzione dello stesso Pio IX, affinché i cattolici prendessero parte alle elezioni amministrative (per le quali non era necessario nessun giuramento di fedeltà al nuovo Stato) e potessero almeno in questo modo contrastare, secondo le parole del vecchio Pontefice, “i progressi dell’empietà e il pervertimento della gioventù” (36). La battaglia dei cattolici, in quell’anno, fu anche contraddistinta dal desiderio di salvaguardare l’identità dei “romani de Roma” contro l’invasione dei liberal-buzzurri. Questo indirizzo intransigente uscirà sconfitto, e pure in maniera molto netta, provocando così l’avvio di un ripensamento della strategia politica da seguire. 35. Filippo Mazzonis, L’Unione Romana e la partecipazione dei cattolici alle elezioni amministrative in Roma (1870-1881), “Storia e politica”, 1970 (aprile.giugno), p.220. La ricostruzione storica del Mazzonis è essenziale per comprendere l’evoluzione del comportamento politico dei cattolici romani e il carattere per così dire esemplare dell’Unione Romana al cospetto delle organizzazioni cattoliche delle altre città italiane, nonché della stessa Opera dei Congressi. Infatti “(...) il movimento cattolico romano poté accrescere notevolmente la propria influenza su scala nazionale tanto da essere considerato (...) uno dei maggiori “centri d’irradiazione” del movimento italiano” (idem, p.229). 36. Sono parole tratte da un discorso di Pio IX ai parroci romani il 2 luglio 1872. Cfr. Mazzonis, cit., p. 223, nota 28. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 69 Dal 1872 inizia una riflessione, dunque, che porta in breve successione a distinguere all’interno del blocco liberale gli avversari dai dissidenti, immaginando di concentrare solo sui primi il giudizio di condanna morale e politica. L’apertura ai moderati del mondo liberale corrisponde a un tentativo che, pur facendo leva sull’iniziativa dei cattolici romani, aveva tuttavia una dimensione e un respiro nazionale. C’è da rilevare che questo approccio, transigente e conciliatorista, non avrebbe mai significato il recupero della posizione assunta dai cattolici liberali nel corso del Risorgimento, nè l’individuazione di uomini della statura di Marco Minghetti, ancora attivi sullo scenario politico, come possibili riferimenti del nuovo corso. Come scriveva il Padre Oreglia su “La civiltà cattolica”, bisognava distinguere gli appartenenti alla nuova scuola liberale non massonica, che dovevano essere considerati liberali solo “politicamente, in quanto desiderano liberiorem administrationem, ma non moralmente né religiosamente in quanto vogliono mantenersi cattolici, apostolici, romani”(37). Su questa nuova base nasce l’Unione Romana che si cimenterà, per la prima volta, nelle elezioni amministrative del 1877. I suoi esponenti di maggiore spicco venivano dalle file dell’aristocrazia bianca che, a differenza della nera, aveva nutrito la speranza di poter stabilire fin dall’inizio un rapporto minimo di collaborazione con lo Stato liberale. C’è dunque un pratico abbandono dell’esperienza della Società Primaria Romana per gli Interessi Cattolici, dal cui programma quello dell’Unione Romana si distanziava “per l’assenza ( e non è una differenza da poco, ma riguarda piuttosto l’impostazione di fondo ) di toni polemici, di rivendicazioni territoriali, di attacchi ideologici” (38). Al suo esordio, appunto nel 1877, l’Unione Romana riuscì a imporsi all’attenzione degli interlocutori innanzi tutto per il discreto successo, il 10 37. Idem, p. 233, nota 61. 38. Idem, p. 241. Scarno ed essenziale, come evidenzia il Mazzonis, il contributo programmatico dell’Unione Romana cui si rifarà ovunque in Italia la prima esperienza del moderatismo clericale. Così possiamo leggere che i due punti principali del programma elettorale furono sempre: “1) Un’amministrazione saggia e prudente del denaro pubblico. 2) L’istruzione religiosa nelle scuole che coltivi e tuteli l’educazione morale delle giovani generazioni”. Idem, p.253. 70 Capitolo III giugno, alle elezioni amministrative per il comune e poi per l’inaspettato e trionfale risultato, il 18 novembre, alle provinciali. Parte dell’alta borghesia romana, il cosiddetto generone, così come prima si era conformato agli equilibri del nuovo Stato, così ora, registrando i primi segni di crisi dei liberali, si disponeva per evidenti ragioni d’interesse a compiere un tragitto inverso. In buona sostanza, nello scenario politico romano si riflettono o si determinano gli orientamenti a carattere nazionale dei cattolici. Non si può dire, cioè, che l’impianto moderato e conservatore dell’Unione Romana fosse esente da contrasti esterni ed interni. Se così fosse non sarebbe mai avvenuto che nel 1878 gli intransigenti si presentassero con liste separate, determinando la sconfitta del fronte cattolico. È vero, insomma, che tra successi e sconfitte andrà consolidandosi nel tempo una sensibilità e una propensione dei cattolici capitolini a operare con duttilità affinché nessuna dispersione di forze desse mai agli avversari l’opportunità d’imporsi e fosse invece quanto più concreta, grazie proprio all’unità delle organizzazioni cattoliche, la possibilità di esercitare un potere di condizionamento nel quadro delle alleanze di volta in volta stabilite con i moderati di parte liberale. Questo modello di comportamento fu difeso dall’Unione Romana anche quando sul piano nazionale s’impose la linea degli intransigenti, tetragona ad ogni prospettiva di aggiramento e svuotamento del non expedit, anche solo nelle elezioni amministrative. Si può riconoscere, in sintesi, che l’Unione Romana fu in origine il risultato dell’accordo di due gruppi contrapposti, i transigenti e gli intransigenti: ora, “mentre ai primi era lasciata la funzione di rappresentanza ufficiale, e la loro incidenza pratica, e di conseguenza le loro responsabilità vanno ricondotte entro questi limiti, agli intransigenti toccò il controllo dell’organizzazione e il compito di impedire, senza rompere equilibri talvolta molto precari, che certe aperture assumessero un carattere politico più generale” (39). Questo peculiare impasto politico e ideologico, renderà 39. Idem, p.256. A riguardo della coerenza, rispettivamente, dei transigenti e degli intransigenti nella vicenda politica romana, il Mazzonis sostiene la tesi di una maggiore “tenuta” politica da parte dei transigenti. Questi mantennero una linea molto chiara che li portò a stabilire una distanza incolmabile con la dirigenza e l’organizzazione stessa dell’Opera dei Congressi. Per contro, non si giustificherebbe il comportamento degli intransigenti romani che, per parte loro, avrebbero dovuto marcare una distinzione ferma ed inequivocabile nei riguardi Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 71 congeniale un progressivo e inarrestabile impulso dell’Unione Romana a realizzare quegli accordi e quei compromessi che sembreranno più utili, con l’andare del tempo, a conservare semplicemente una certa capacità di controllo sull’amministrazione capitolina, per giunta smarrendo così il valore di una politica delle alleanze che perlomeno implicava un primo assaggio di concretezza e laicità nell’agire politico dei cattolici. Nel 1902 lo scenario politico nazionale e romano appare, dunque, segnato da un complesso di novità ed emergenze. È evidente la volontà della borghesia illuminata di considerare ormai chiusa la strada dell’autoritarismo che i governi succedutisi negli ultimi anni del secolo avevano tentato d’imboccare con grande nocumento per la vita democratica dell’Italia (40). Il disegno riformatore di Zanardelli e Giolitti, comporta una trasformazione del sistema delle alleanze, sicché i socialisti e i cattolici, per diverse ragioni esclusi dal processo risorgimentale, sono in forme alternative e conflittuali sollecitati ad assume- della collaborazione con i moderati di matrice liberale. Ma a parere dell’Autore non si trattava evidentemente di veri e propri intransigenti, ma di vecchi integralisti, più che mai abbarbicati attorno all’idea nostalgica del potere temporale e preoccupati, con il passare del tempo, di difendere concretamente i loro interessi, specialmente di tipo fondiario. 40. L’atteggiamento di chiusura dei governi Di Rudinì e Pelloux, trasformatosi nel giro di poco tempo in quella politica di reazione che portò alle gravi repressioni dei moti del ’98, era psicologicamente e politicamente motivato dalla convinzione che fosse necessario “armare” la difesa della democrazia liberale, esposta ai pericoli di una lotta di opposizione in cui prendeva anche corpo un inedito connubio tra radicali e cattolici. Scriveva Di Rudinì nel suo diario: “Quando finirà questa gazzarra rosso- conservatrice !!? A Roma i clericali, la marmaglia borghese - clericale, è entusiasta di Cavallotti, che fa evidentemente molto bene i loro interessi. Mostrando che il governo dei liberali fu un governo di ladri, la repubblica e il Papa ci guadagnano e ci sguazzano. E la fede, le plebi sono sempre le stesse: ladro chi sta in alto! ”. In Nino Valeri, Giolitti, UTET, 1971, p. 143. Invece il giolittismo si afferma, una volta registrato il fallimento della svolta a destra nella crisi di fine secolo, come un nuovo progetto democratico delle classi dirigenti liberali. Alla scelta conservatrice e reazionaria, che aveva un supporto ideologico nella proposta di Sidney Sonnino tesa a restaurare in chiave antiparlamentare le prerogative della Corona e a conferire allo Stato una più robusta intelaiatura burocratico-amministrativa capace di garantire una formale base di neutralità all’azione di governo, si sostituiva l’iniziativa più aperta e dinamica di Giovanni Giolitti in nome della riscontrata maggiore utilità di un’azione volta a integrare le classi popolari nello Stato e a cooptare in qualche misura le forze politiche di opposizione nella guida del Paese. 72 Capitolo III re una qualche corresponsabilità a livello di governo. Si manifesta, in tale contesto, il logoramento delle formule di compromesso nella politica amministrativa locale che avevano consentito ai cattolici di attivare una strategia di reinserimento nel circuito della democrazia post-risorgimentale. Ci si rende conto, con crescente disagio, che le masse popolari potrebbero definitivamente abbandonare la Chiesa per riconoscersi nell’annuncio rivoluzionario del socialismo, lasciando ai cattolici il compito di organizzare la protesta antiliberale entro confini angusti e vecchie modalità di tipo corporativo, al di fuori cioè di uno spirito vitale di rinnovamento politico e culturale. Tant’è che la ripresa, a scadenza ciclica, del laicismo d’impronta anticlericale e massone era percepito dai cattolici come una vera minaccia che unendo - si dovrebbe dire oggettivamente - liberali, radicali e socialisti avrebbe potuto determinare non solo la irreversibile condanna del potere temporale della Chiesa, ma anche la riduzione dell’impegno cristiano a un ruolo di supplenza nella cura pubblica della povertà e della emarginazione sociale. E non era pertanto una ragione di sorpresa il fatto che a Roma, in una città ove il conflitto sociale e politico tendeva ad acuirsi con la fine delle speranze o delle illusioni alimentate dalla classe dirigente liberale, si formasse attorno a Murri un gruppo di democratici cristiani disposti a lottare per introdurre nel rinnovamento della società e delle istituzioni i germi dell’ispirazione cristiana, aprendo una fase di conflittualità con l’ambiente conservatore dei clericali romani. In cosa consiste, allora, il tentativo di Murri? All’approssimarsi della scadenza elettorale amministrativa, egli avanza nei primi giorni di giugno la proposta di presentare nella lista dell’Unione Romana, ancorché sulla base di un programma autonomo, alcuni candidati appartenenti alla sua democrazia cristiana. Le condizioni non sono propizie: alla prevedibile resistenza dei conservatori romani si aggiunga la determinazione ecclesiastica a comprimere, dopo tentennamenti e parziali aperture, lo spazio di manovra dei giovani murriani. Se il congresso di Taranto aveva rappresentato, nell’autunno dell’anno precedente, un sostanziale successo dei democratici cristiani all’interno dell’Opera dei Congressi, con le Istruzioni emanate il 27 gennaio dalla Segreteria di Stato si metteva bruscamente fine all’autonomia del movimento democratico cristiano, ricondotto d’autorità sotto il controllo del II°Gruppo di Economia sociale e cristiana dell’Opera dei Congressi, guidata dal Conte Stanislao Medolago Albani. Il mutamento d’indirizzo dei vertici vaticani gettava lo scompiglio nelle fila della democrazia cristiana. Al pronto allineamen- Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 73 to del gruppo di Milano, poco incline con Meda ad esasperare le ragioni di conflitto con la S. Sede e ad assumere una linea politica oltranzista, fa da contrappeso l’atteggiamento di resistenza del nucleo romano. Murri tenta di leggere le Istruzioni vaticane in maniera da non pregiudicare i pur modesti margini di manovra che sembrerebbero rimanere aperti. In una intervista in prima pagina su “Il Corriere della Sera” del 18-19 febbraio dichiara di voler rispettare gli indirizzi della S. Sede, ma non nasconde il disagio e il disappunto per un disegno che mira ad emarginare i “novatori” e a ricondurre appunto la democrazia cristiana all’interno di una angusta e tradizionale visione della politica come pura e semplice azione di carità sociale(41). In effetti, le direttive della S. Sede costituiscono uno degli ultimi tentativi di evitare la disarticolazione del movimento cattolico facendo leva sulla necessità di una mediazione tra le esigenze di rinnovamento poste dai giovani e le preoccupazioni per i rischi delle novità paventate dai vertici dell’Opera dei Congressi. Il declino del lungo pontificato di Leone XIII sembrava denunciare l’impotenza della gerarchia a mantenere integra la piattaforma programmatica derivante dalla Rerum novarum, poiché l’emergere di una diversa sensibilità culturale e politica delle nuove generazioni cattoliche revocava in dubbio l’ipotesi che una vera democrazia sociale potesse affermarsi al di fuori degli schemi di una moderna democrazia politica. Sotto il vigile controllo del Card. Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario di Stato, l’Opera dei Congressi veniva confermata come la sede nella 41. Così si esprime Murri: “Evidentemente, un’azione religiosa e di carità spiegata in nome del cristianesimo nella società moderna, un’attività benefica a favore del popolo, è molto, ma non è tutto: essa è buona per tutti i cattolici e consigliata a tutti, ma perciò stesso lascia fuori di sé molti elementi i quali per necessità dividono i cattolici, in quanto questi appartengono a diverse classi ed hanno diversi interessi e diverse abitudini politiche e sociali”. In La democrazia cristiana attende (Intervista con don Romolo Murri), “Il Corriere della Sera”, 18-19 Febbraio 1902. È una riflessione critica che incide non su un aspetto secondario della Dottrina sociale della Chiesa, ma su un punto assai delicato e controverso. D’altronde, nell’ Enciclica Graves de communi pubblicata il 18 gennaio 1901, Leone XIII si era espresso con grande chiarezza quando, nel riconoscere pure un valore in sè alla nuova formula della democrazia cristiana, aveva precisato: “Non sia poi lecito di dare un senso politico alla democrazia cristiana. Perché, sebbene la parola democrazia, chi guardi all’etimologia e all’uso dei filosofi, serva ad indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel caso nostro, smesso ogni senso politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo”. Nel superamento di questa limitazione si gioca, dunque, tutto il significato “rivoluzionario” dell’azione intellettuale e politica di Murri. 74 Capitolo III quale le varie anime del movimento cattolico dovevano trovare le ragioni ideali, morali ed organizzative di un impegno unitario. Ai giovani era offerta la possibilità di far maturare la loro prospettiva di cambiamento all’interno della tradizionale organizzazione cattolica. Ai moderati si dava incarico di garantire il rispetto di una interpretazione del non expedit come strumento di lotta per l’affermazione dei diritti della Chiesa. Ai democratici cristiani si concedeva lo spazio per vivificare con idee nuove il programma e l’iniziativa del movimento cattolico. Sul piano politico si ribadiva perciò l’opzione intransigente, mitigata dalla ricerca di possibili alleanze sul piano locale con i settori moderati della classe dirigente liberale. Sul piano programmatico, invece, si recepiva il nuovo discorso dei democratici cristiani, valutato stricto sensu nei termini di un approccio etico e culturale, senza implicazioni pericolose sul terreno della lotta politica. Sarebbe un errore, pertanto, considerare pregiudizialmente ostile ai democratici cristiani la linea centrista del Card. Rampolla. Questi, semmai, puntava a utilizzare il nucleo “neointransigente” del movimento dc per contenere le tentazioni collaborazioniste che riaffioravano ciclicamente - ma ora con maggiore chiarezza e vigore politico - nel mondo cattolico, soprattutto in quei settori che apparivano più solerti e fervidi nell’esprimere fedeltà alle direttive della S. Sede. Il gruppo milanese, ad esempio, aveva sì dichiarato la propria adesione senza remore alla svolta vaticana sancita dalle Istruzioni; e però, come lo stesso Murri ricordava con una punta di malcelato fastidio nella succitata intervista a “Il Corriere della Sera”, era questo lo stesso gruppo che nell’ottobre del 1901, in una riunione a Varese, aveva lanciato un messaggio “patriottico” volto implicitamente a forzare i vincoli del non expedit e a cui la S. Sede doveva replicare, benché in via riservata, non senza una certa durezza (42). Il difficile rapporto umano tra Murri e il Card. Rampolla non faceva velo, pertanto, a una strategia vaticana che poneva al vertice di ogni altra cosa la preservazione 42. Cfr. Ernesto Vercesi, Le origini del movimento cattolico in Italia 18701922, Il Poligono editore, 1981. Si cita, a riguardo dell’iniziativa dei giovani cattolici lombardi, la lettera del Segretario di Stato, Card. Rampolla, all’arcivescovo di Milano, Card. Ferrari, in cui veniva apertamente condannata la propensione a esaltare i doveri nazionali dei cattolici a discapito delle rivendicazioni della S. Sede in ordine alla questione del potere temporale (cfr. in particolare p. 92). Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 75 dell’unità dei cattolici e la difesa dei diritti della Chiesa. Tanto è vero che il desiderio di conservare il potenziale innovativo dei giovani democratici cristiani, pur nel contesto dei forti limiti imposti con le Istruzioni, faceva sì che lo stesso programma per il turno generale delle elezioni amministrative del giugno 1902 , presentato dal II° Gruppo dell’Opera dei Congressi, fosse in gran parte corrispondente agli indirizzi su cui da tempo avevano lavorato Murri e i suoi amici. È difficile pensare ad una svista o ad un fraintendimento da parte della Segreteria di Stato: forse, e più plausibilmente, si deve intravedere in questa apertura la sanzione di un equilibrio tra esigenze diverse, laddove le istanze del vecchio intransigentismo e il nuovo modello cristiano d’impegno sociale venivano ricondotti a una qualche sintesi. Giunti a questo punto non può che soccorrerci, ai fini della precisazione di quanto poco sopra affermato, una completa riproduzione delle norme generali del programma cattolico per le elezioni amministrative. Ecco, dunque, il testo della circolare, emanata da Bergamo in data 10 aprile 1902, dal Presidente Medolago Albani: “Si avvicinano i giorni nei quali gli elettori amministrativi saranno chiamati a rinnovare, per metà, i Consigli comunali e provinciali. Non occorre ricordare ai cattolici e alle associazioni che dirigono il movimento elettorale, i criteri direttivi d’ordine religioso e morale che il Sommo Pontefice ha più volte tracciati a riguardo delle elezioni amministrative, né le deliberazioni prese in argomento, dai Congressi cattolici regionali, sempre opportune e pratiche; basterà all’uopo che si consultino gli atti dei diciotto Congressi, tenutisi dal 1874 al 1901. Il II° Gruppo, mentre esorta i cattolici a prendere parte attiva e illuminata alla prossima azione elettorale, tenendo sempre presenti e le sapienti direzioni pontificie e le deliberazioni dei nostri Congressi, non può trattenersi dal chiamare l’attenzione loro sopra alcuni punti del programma nuovo d’azione amministrativa, in corrispondenza alle condizioni ed ai bisogni presenti delle nostre popolazioni, e al felice risveglio che si nota, da qualche tempo, nella vita comunale e provinciale. In generale, il II° Gruppo raccomanda ai cattolici di far tesoro degli studi compiuti, in questi ultimi anni, nel campo economico sociale, e degli esperimenti, comunque riusciti, fatti in parecchi comuni grandi e piccoli, con l’applicazione di indirizzi più moderni, conformi 76 Capitolo III specialmente alla funzione odierna del comune. Ricordino che la legge assegna ai comuni e alle province limiti purtroppo ristretti alle loro iniziative e alle loro attività; limiti, non di rado, da certe autorità tutorie resi ancora più angusti. Ond’è che le rappresentanze amministrative e gli elettori stessi non devono trascurare nessuna propizia occasione che loro si presenti, per chiedere nelle consentite forme legali: a) Una più razionale limitazione nella tutela dello Stato che invade tutte indistintamente le funzioni dei comuni e delle provincie. b) Una limitazione nell’assorbimento fatto dallo Stato di parecchie funzioni che legittimamente appartengono ai comuni e alle provincie, come, ad esempio, le scuole primarie e secondarie. c) Una giusta suddivisione delle spese, sgravando i bilanci dei comuni e delle provincie di tutti gli oneri obbligatorii per parecchi servizii esclusivamente o prevalentemente governativi. La doverosa partecipazione dei cattolici alla vita amministrativa importa che, in relazione alle condizioni ed ai bisogni dei singoli comuni e delle singole provincie, essi abbiano a formulare un programma breve, concreto, pratico, sincero. Tale programma non dovrebbe trascurare i seguenti punti: 1) Che nei regolamenti di lavoro si inseriscano alcune importanti clausole sociali, determinando, cioè, che municipii e provincie, sia che facciano lavorare direttamente, sia che eseguiscano per mezzo di appalto, fissino il minimo del salario, il massimo delle ore di lavoro, il riposo festivo. 2) Che nei servizi pubblici da affidarsi ai privati, venga inclusa nei contratti la partecipazione del comune o della provincia ai redditi, con quote percentuali e fisse; la ingerenza o la vigilanza loro nella esecuzione di contratti aventi attinenza alla soddisfazione di pubblici bisogni; il diritto di rescindere i contratti di lunga durata, a condizione eque, specialmente quelli che si prestano alla perfettibilità degli strumenti tecnici. 3) Che in materia di dazio si abbia cura di sgravare le voci di ordinario consumo popolare. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 77 4) Che si preferiscano agli appaltatori singoli, le cooperative di lavoro, con invito alle Commissioni provinciali di essere molto oculate nell’accordare l’iscrizione se non a vere cooperative, che offrano tutte le volute garanzie. 5) Che si favorisca la municipalizzazione dei servizii pubblici, distinguendo quelli in cui prevale l’elemento morale e che riguardano generi di prima necessità, come l’igiene, l’acqua, la luce, da quelli in cui è prevalente l’elemento tecnico e commerciale, ed è più facile la frode: i primi, con le dovute cautele, possono essere più facilmente e più utilmente municipalizzati che non i secondi. 6) Che si preferisca il sistema della progressività equa e moderata a quello della proporzionalità, nell’applicazione delle tasse comunali. 7) Che si rifiutino sussidi alle Camere del lavoro, le quali hanno generalmente dimostrato di non essere inspirate ai principi di moralità e di giustizia sociale; che si promuova, invece, la istituzione di Uffici del lavoro. 8) Che il riposo festivo, compatibilmente con le esigenze di alcuni servizii pubblici permanenti, sia accordato a tutti gli impiegati delle provincie e dei comuni. 9) Che le Opere pie, proprietarie di beni stabili, modificando opportunamente sistemi contrattuali in corso, sostituendo all’unico grande affitto, il sistema della affittanza collettiva ai lavoratori o il frazionamento dei poderi, dandoli in conduzione diretta ai contadini, secondino ed incoraggino con opportune istituzioni e premi il miglioramento agricolo, sia con la elevazione morale ed economica dei contadini, sia con l’introduzione dei metodi razionali di coltivazione del suolo, sia col provvedere meglio alla salubrità delle abitazioni e all’igiene domestica. 10) Che si chieda o si favorisca la istituzione di collegi di probiviri nell’industria, come nell’agricoltura. Questa traccia, che il II° Gruppo ha creduto di esporre ai cattolici italiani, sia per loro argomento di esame e di considerazione; veggano quali punti possano interessarli principalmente e questi si studino a fondo. In tal guisa operando, il programma d’azione amministrativa dei cattolici si avvantaggerà, diventando sempre più serio, pratico, attuabile, in quella parte che generalmente si fa più apprezza- 78 Capitolo III re, cioè la economico-sociale. Se in ogni comune e provincia d’Italia il II° Gruppo troverà corrispondenza nello studio e nell’applicazione del suesposto programma, l’azione popolare cristiana o democratico-cristiana ne avrà notevole incremento, e il popolo, a poco a poco, sarà tratto a riconoscere nei cattolici i suoi migliori amici. Affinché questi nobili intenti possano essere più facilmente raggiunti, il II° Gruppo raccomanda caldamente e confida che coloro i quali hanno diretta in passato l’azione elettorale vorranno desiderare o accogliere con lieto animo la cooperazione dei giovani militanti sotto la bandiera della democrazia cristiana, e questi, tesoreggiando l’esperienza degli anziani, provata al fuoco delle combattute battaglie, sapranno recare nel movimento elettorale tutta la loro attività e il loro zelo; gli uni e gli altri cooperando a mantenere e consolidare la concordia nel pensiero e nelle opere fra i cattolici italiani (43)”. Costretto all’angolo, sottomesso alla disciplina dell’Opera dei Congressi, privato della propria autonomia, il movimento dei giovani dc era tuttavia riconosciuto nel suo essere propriamente un’espressione forte della volontà riformatrice dei cattolici. In quel frangente, per altro, essi erano sollecitati a schierarsi con rinnovato fervore e spirito di unità anche in ragione del fatto che si riaccendeva improvvisamente la discussione sulla legge per il divorzio, indizio ulteriore della minaccia che incombeva sulla “civiltà cristiana”. La distinzione o più ancora la dissociazione del campo cattolico in conservatori e progressisti non poteva che apparire, allora, se non come una formula equivoca, inopportuna e quanto mai dannosa. Questa ricucitura del tessuto politico ed organizzativo dei cattolici scontava comun- 43. Il testo si trova pubblicato sul numero del 17 giugno 1902 de “La Voce della Verità”, giornale della Società Primaria Romana per gli Interessi Cattolici, che fungeva da portavoce ufficioso dell’Unione Romana. È evidente lo sforzo che sostiene la circolare diffusa dai vertici dell’Opera dei Congressi: coinvolgere i giovani democratici cristiani cui si concedeva il massimo di soddisfazione sul piano dei contenuti e delle scelte programmatiche in vista della imminente competizione amministrativa che, quantunque affrontata con spirito nuovo, non poteva e non doveva rappresentare tuttavia la circostanza per sconfessare le “combattute battaglie” degli anziani. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 79 que la difficoltà a mantenere unita e solidale un’esperienza che subiva da diverso tempo lacerazioni e contrasti non di poco conto. In sede locale, l’appello del II° Gruppo dell’Opera stenterà ad affermarsi come un solido ed efficace proposito. Le resistenze dei moderati che monopolizzavano in molte città e paesi l’organizzazione elettorale dei cattolici, erano fatalmente destinate ad emergere in un modo o nell’altro. E così il programma elettorale, con il suo evidente connotato democratico cristiano, non era rifiutato o contestato, ma spesso più semplicemente aggirato. Esisteva e contava, ma non fino al punto di modificare una condotta conservatrice stratificata nel corso di molti anni. Il dissenso veniva perciò occultato e tatticamente sostituito da un ossequio tutto formale, ma privo di conseguenze pratiche, verso il complesso delle novità elaborate. Il comportamento dell’Unione Romana si sarebbe qualificato, in relazione alla spinta generale del movimento democratico cristiano e alla proposta di accordo avanzata localmente da Murri, con questo tipo di prudente e vischioso distacco. L’ingresso dei giovani non era pubblicamente contrastato, ma, nella misura in cui sembrava tradursi in realtà, d’incanto s’infrangeva sugli scogli di una reticenza diffusa volta a smorzarne l’impianto riformatore e la carica simbolica di rinnovamento. Non c’era soluzione di continuità con il passato: i clericali, specialmente a Roma, miravano a prolungare una tradizione che intanto risultava efficace in quanto riusciva, a loro giudizio, a irretire le forze liberali nel gioco del compromesso sulle questioni essenziali a cui i cattolici rimanevano fedeli. “Elettori ed eletti, come cattolici, non possono aver bisogno di pubblicare programmi per tracciare la loro condotta in rapporto ai grandi principi religiosi e morali che si onorano di professare”: con queste parole, l’Unione chiamava a raccolta le sue schiere, limitando il significato del proprio appello alla consueta difesa dei valori cattolici. Il programma elettorale predisposto dall’Opera dei Congressi veniva riproposto come allegato alla circolare per le elezioni, tuttavia non ne era garantita una diffusione adeguata, magari attraverso l’affissione di manifesti (44). Nulla proprio sembrava mutare nella gestione della campagna elettorale dei conservatori ro44. D’altronde, spiegava la nota del Comitato Centrale dell’Associazione, era prassi consolidata dell’Unione Romana evitare di pubblicizzare con manifesti la propria posizione politico-programmatica. Quella consuetudine, confermata a 80 Capitolo III mani: il blocco moderato, a guida cattolica, doveva restare immune dalla contaminazione democratico cristiana. In verità, con il passaggio da Pio IX a Leone XIII di fatto si era andato attenuando l’indirizzo vaticano concernente la richiesta di una effettiva restaurazione dell’antico potere temporale, anche se nelle parole e negli atti mai era venuta meno la protesta per il vulnus inferto dallo Stato italiano. Ma questa evoluzione sotterranea, a carattere eminentemente diplomatico, contemplava in pari tempo la sottolineatura del carattere “sacro” della città di Roma, quasi a voler restringere il campo delle rivendicazioni vaticane ad un reciproco riconoscimento di uno speciale diritto di controllo e supervisione della Chiesa sulla vita spirituale e materiale dell’Urbe(45). Il problema che si propone, a questo punto della nostra ricostruzione storica, è il perché della scelta di Murri. Non doveva sfuggire alla sua valutazione politica, quantunque segnata da un certo radicalismo di fondo, la difficoltà che avrebbe incontrato una proposta di accordo tra moderati e democratici cristiani nella città di Roma. Del resto, il fatto stesso che nell’operazione interveniva in prima persona il leader del nuovo movimento politico, non poteva che aggravare l’istintiva e consolidata diffidenza degli ambienti clericali della capitale. Le elezioni cadevano, per giunta, in un momento di particolare tensione tra i giovani dc e il Vaticano. In questa crisi, l’atteggiamento di Murri mostrava oscillazioni e incertezze di particolare evidenza. Da un lato, intuendo la serietà del conflitto con le autorità ecclesiastiche, il sacerdote marchigiano aveva dichiarato l’intendimento di appartarsi dalla vita pubblica, pensando di salvare con il suo “sacrificio” l’esperienza della democrazia cristiana. Dall’altro, però, questo proclamato distacco dall’impegno politico appariva tutti gli effetti, era la spia di un modello di comportamento teso a conseguire concreti risultati amministrativi, evitando formule e gesti in qualche modo aggressivi che avrebbero potuto incrinare, sotto l’accusa d’indebita ingerenza clericale, la capacità di attrazione di forze liberali moderate, offrendo di conseguenza il destro alla sempre possibile costituzione di un fronte radicale anticattolico. 45. Cfr. Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dall’unificazione a Giovanni XXIII, PBE Einaudi, 1965, pp. 55. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 81 come un semplice gioco di specchi, poiché Murri immancabilmente riemergeva dai suoi silenzi e dai suoi ritiri, come se un imperativo superiore comandasse la volontà dell’uomo. Secondo logica, una volta verificata la determinazione della S. Sede circa l’inquadramento dei giovani nell’Opera dei Congressi, un Murri davvero convinto dell’opportunità di farsi da parte non avrebbe dovuto avventurarsi in quella che finiva per essere, inevitabilmente, una sorta di sfida all’Unione Romana. Si potrebbe dire che il gesto di Murri s’inquadrava nella grande difficoltà del momento e nella condizione di estremo imbarazzo in cui egli era costretto a muoversi da molti mesi. In questo senso, l’operazione romana andrebbe letta come una provocazione o al limite come un atto isolato e istintivo corrispondente al bisogno di aprire un varco nella cortina di isolamento che circondava tutta l’iniziativa dei democratici cristiani. Ma la chiarezza di linguaggio politico e la fredda constatazione, a cose fatte, del fallimento dell’esperimento proposto, inducono a ritenere che Murri non fosse guidato da una impolitica volontà di giocare il tutto per tutto, scegliendo tra l’altro il terreno più infido e scabroso possibile. In realtà, aprendo il dibattito a Roma sulla condotta elettorale delle organizzazioni cattoliche e assumendo su di sé il compito di tradurre in pratica la riflessione avviata da tempo sulla questione delle autonomie locali, egli si disponeva a compiere una verifica seria e circostanziata dei rapporti che intercorrevano tra le varie anime del movimento cattolico e a stabilire un metro di valutazione molto concreto in ordine alle obiezioni sollevate a carico della “eresia” politica del murrismo. Era necessario, insomma, dimostrare che lo scontro verteva sui contenuti, sulla prassi, sui metodi che il conservatorismo clericale ostinatamente difendeva. Qualcosa che si poneva a metà strada, dunque, tra la speranza e la convinzione di poter innescare finalmente il meccanismo essenziale alla costituzione del partito cattolico. La questione nasceva dalla politica e sempre alla politica doveva tornare. Ma forse l’indole inquieta di Murri lasciava temere dell’altro o forse, alla luce del discorso di San Marino tenuto appena due mesi dopo le elezioni amministrative, la sua rottura con l’establishment cattolico era già pervenuta al punto di non ritorno. Sta di fatto che l’episodio qui esaminato in relazione al rinnovo del consiglio comunale di Roma, 82 Capitolo III tutto può esser stato fuorché un banale incidente di percorso, con generiche e inevitabili responsabilità da ambo le parti. È ancora possibile supporre che Murri fosse convinto della opportunità di una prova di forza sul terreno delle scelte amministrative, e quindi dei relativi comportamenti elettorali, che dovevano orientare il nuovo corso politico del movimento cattolico. Si è visto poco sopra come la mediazione tra moderati e democratici cristiani avesse comportato, nell’ambito dell’Opera dei Congressi, l’adozione di un programma per le elezioni municipali che incardinava l’unità dei cattolici sulla base di quelle idee e di quegli indirizzi che i giovani avevano assunto a paradigma della loro iniziativa. La definizione di questo equilibrio che implicava per i moderati, da una parte, l’adesione a un nuovo programma di stampo riformatore e per i democratici cristiani, dall’altra, l’accettazione delle liste unitarie cattoliche, lasciava intravedere molte incertezze e troppi distinguo. Agiva, pertanto, nella discussione interna al movimento democratico cristiano un senso di diffidenza per l’unità politico-elettorale dello schieramento cattolico. Il discorso di Murri conteneva elementi che miravano a forzare le tradizionali formule dell’impegno sociale e politico che la Chiesa, dai tempi della Rerum novarum, aveva provveduto a codificare. In ogni caso pur muovendo dal rifiuto e dalla condanna del moderatismo clericale, egli non rifiutava l’ipotesi di un possibile recupero, in tempi diversi e per gradi successivi, di tutto o di gran parte del movimento cattolico alle ragioni della democrazia cristiana. Questa era l’utopia di Murri: una rinascita cattolica, sostenuta dall’idea moderna di un cristianesimo riconciliato con la democrazia, da doversi ottenere in forza di una operazione di critica culturale delle forme di vita e di organizzazione del movimento cattolico, il cui esito tuttavia non escludeva la possibilità di salvare ogni parte e ogni esperienza di quella complessa realtà così severamente e audacemente “provocata”. L’intransigenza di Murri agisce all’esterno, verso il mondo liberale, come rifiuto dell’agnosticismo e dell’individualismo borghese; all’interno, nell’ambito delle organizzazioni cattoliche, come distacco dalla prassi di autoisolamento e separazione dal mondo moderno. Il senso del nuovo intransigentismo murriano risiede in questa volontà di rompere gli schemi e conquistare l’egemonia sulla scorta di un intervento per così dire straordinario, in quanto di natura epocale, capace Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 83 di suscitare una transvalutazione dell’esperienza storica del cattolicesimo. Ecco, perciò, l’inclinazione a procedere con atti di grande determinazione e vigore che, per una concatenazione necessaria delle idee e delle cose, declinano in forme d’intempestività e radicalismo. Manca il motivo della gradualità e della concretezza politica, tanto da far apparire la proposta e l’iniziativa dei giovani democratici cristiani in sovraesposizione rispetto alle reali capacità e possibilità di tenuta politica. Murri s’incaricherà di spiegare il motivo per il quale l’autonomia della democrazia cristiana poteva coniugarsi, nella prospettiva di una politica di riforme, con l’apertura ai partiti non cattolici(46). Nel confronto che si apre sulle pagine di “Cultura Sociale”(47) il giovane Sturzo si dimostra immediatamente consapevole dei rischi a cui Murri espone, per effetto del suo approccio precipitoso, l’ancora gracile movimento democratico cristiano. Il discorso verte sulla tattica elettorale da assumere. Contrariamente alle aperture di Murri, si registra una sua netta contrarietà alla previsione di possibili accordi con partiti non cattolici (ovvero, stante la preclusione antiliberale di tutto il mo- 46. L’incertezza e l’ambivalenza di Murri, in questo passaggio politico, sono il segno di una difficoltà più generale. L’impegno municipalista non è l’abbandono del disegno vagheggiato di un nuovo partito in cui raccogliere le giovani generazioni cattoliche. E però non si configura neppure come una chiara e concreta verifica delle condizioni “ambientali” che avrebbero dovuto accogliere e garantire una simile strategia politica. “Del resto era nel suo temperamento impetuoso il forzare le situazioni. Ecco perché, vistasi preclusa la via del partito, imboccava quella del municipalismo a cui peraltro imprimeva un’indubbio carattere politico in senso democratico cristiano. La battaglia comunale insomma gli serviva da copertura. Non è da escludersi che a ciò lo abbia indotto anche l’esperienza che il suo amico don Sturzo (anzi suo discepolo in questi anni) stava facendo in Sicilia”. L. Bedeschi, Socialisti e cattolici ..., op. cit. , p. 110. Bisogna dire, però, che questa descrizione che Bedeschi propone non toglie il carattere tattico e per così dire difensivo della condotta di Murri, preoccupato evidentemente di salvaguardare innanzi tutto un certo grado di autonomia del movimento democratico cristiano. Gli indirizzi del pontificato leoniano avrebbero dovuto incidere, un pò ovunque, sulla dura scorsa del tradizionalismo politico dei cattolici. Un vento nuovo spirava da anni in ogni regione e contrada d’Italia. Ma a Roma evidentemente era diverso. 47. Infra, testi riportati nella documentazione allegata, pp. 119-135. 84 Capitolo III vimento cattolico, con i partiti popolari di matrice repubblicana, radicale o socialista). Per il futuro leader del Partito Popolare, il tema delle alleanze è innanzi tutto fonte di artificiale e impropria divisione del fronte cattolico e conseguentemente ragione di facile discriminazione e condanna del movimento democratico cristiano. L’ansia sociale dei cattolici non può e non deve tradursi in un comportamento politico destinato a trasmettere alla pubblica opinione e alla base elettorale di riferimento un messaggio del tutto squilibrato e confuso. L’analisi sturziana si differenzia, già in questa fase della costruzione del movimento democratico cristiano, dalla ipotesi neo-intransigente e modernistica che esaltando l’afflato morale e sociale del movimento cattolico ignora, o meglio surroga arbitrariamente, l’esigenza di fondare l’iniziativa del futuro partito in termini di autonomia e laicità della politica. È utile del resto ricordare, a questo riguardo, proprio il carattere innovativo dell’esperienza amministrativa di Sturzo, il suo valore pedagogico ed esemplare per tutto il movimento cattolico, l’anticipazione per molti aspetti del suo futuro modello di comportamento politico in quanto leader di partito. “Possiamo ritrovare, scrive De Rosa, nello Sturzo calatino, poco più che trentenne, alcune caratteristiche di comportamento, che rimarranno in lui costanti, una psicologia politica lineare, che non subì crisi o dubbi nel corso delle sue vicende politiche, dalla fondazione del PPI all’esilio”(48). Si può, così inquadrare correttamente l’atteggiamento tattico che Sturzo adotta nella costruzione delle alleanze locali. Essendo evidentemente prioritaria, a suo giudizio, l’esigenza di affermare l’esistenza stessa dei cattolici sul terreno politico, Sturzo avvia le prime mosse evitando di scontrarsi frontalmente con i gruppi locali dominanti. Inizialmente, nel 1899, appoggia il candidato milazziano Amore contro il latifondista Libertini, di matrice liberale. Successivamente, nel 1902, per evitare lo scioglimento del consiglio comunale vota il candidato libertiniano. Ma nel 1905, in virtù di questo approccio duttile, ottiene addirittura la maggioranza assoluta dei seggi. L’autonomia dei cattolici, attraverso la 48. In Introduzione a Umberto Chiaramonte, Il municipalismo di Luigi SturzoPro-sindaco di Caltagirone (1899-1920), Morcelliana, 1992, p. 11. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 85 presentazione di una lista propria, è perciò il risultato di una complessa e prudente operazione politica che riesce a dissaldare il blocco degli interessi organizzati attorno alle forze del latifondo e a impedire la subalternità dei cattolici agli schieramenti elettorali da tempo consolidati. E però non si tratta di un’azione tendente a risolversi solo nell’ambito delle opportunità elettorali e a dare di sé un’immagine di pericolosa indifferenza politica. Alle spalle di una condotta molto abile sul piano delle alleanze, vi è un grande lavoro di formazione che utilizza la carica ideale e politica dell’intransigentismo per dislocare progressivamente i cattolici fuori dagli schemi clerico-moderati, in particolare in una regione come la Sicilia dove la Chiesa e i fedeli subivano fortemente l’attrazione del paternalismo borbonico e il ricatto della proprietà fondiaria. Il problema della specificità e dell’autonomia delle liste cattoliche è dunque riconosciuto come essenziale allo sviluppo di una prospettiva equilibrata e gradualista di penetrazione all’interno delle istituzioni democratiche. Contrariamente a Murri, che aveva sottolienato l’esigenza prioritaria di considerare i conservatori come avversari e di prevedere la possibilità pertanto di stipulare nuove alleanze, Sturzo resta fermo nell’indicare i rischi di un’apertura presumibilmente “rovinosa”(49). Condividendo la lotta contro i conservatori, egli propone una collocazione al centro (né con i liberali né con i socialisti), anche 49. Cfr. “Cultura Sociale”, n° 106, 1 giugno 1902, Un problema di tattica, laddove Sturzo così esordisce: “Caro Pram, questa volta sono più radicale di te; tu ammetti che nelle prossime elezioni amministrative i democratici cristiani, secondo le circostanze dei luoghi, con le debite riserve e cautele, possono unirsi con qualche partito non cattolico, e scendere uniti nella lotta, e, vincendo, nella vita amministrativa; io credo che questa tattica potrà, date le attuali condizioni, riuscire rovinosa in ogni caso” (Infra, p. 125). Tuttavia il rifiuto delle intese con partiti non cattolici - ipotesi avanzata da Pram (alias Murri) in modo per altro allusivo e con l’obiettivo d’una conquista dei voti da ottenere, appunto,anche mediante alleanze nuove - non si riferisce a una pregiudiziale astratta e definitiva, ma ad una questione di opportunità e convenienza, giacché, secondo Sturzo, quel che conta è “l’avvenire della democrazia cristiana come partito di vita pubblica, più che qualsiasi problema speciale e locale di una possibile soluzione immediata”. L’articolo altro non è se non una lettera inviata da Caltagirone il 10 Maggio a cui Murri risponde di seguito, restringendo al minimo il dissenso con il giovane sacerdote siciliano. 86 Capitolo III scontando il fatto che l’isolamento dei democratici cristiani avrebbe in molti casi avvantaggiato i socialisti. Ma se così sarà, conclude il sacerdote calatino, la vittoria dei socialisti nei comuni sarà cagione inevitabile del loro infiacchimento, da cui risulterà più nitida l’azione del partito dell’avvenire(50). Alla fine é proprio la linea di Sturzo che ufficialmente si assume e si propone ai militanti della democrazia cristiana. Nell’opuscolo che viene allegato al numero 23 de “Il Domani d’Italia”, recante il titolo battagliero ed aggressivo di Conquistiamo i Comuni!, si riporta un passo di Sturzo che costituisce lo stralcio del suo precedente intervento, apparso sul fascicolo di ”Cultura Sociale” del 2 giugno 1902. Il riquadro intitolato La nostra tattica dice testualmente: a) bisogna scendere in campo nelle prossime elezioni amministrative, là dove la preparazione è sufficiente per un’affermazione di principio e di partito; b) dove questa preparazione non è sufficiente, è meglio o l’astensione positiva, o un intervento indiretto; purché si affermi sempre il carattere di partito distinto e staccato dagli altri; c) in nessuna ragione e per nessun caso - come criterio generale - è opportuno stringere leghe con i partiti avversi, liberali, popolari o personali di consorteria; d) é necessario formulare programmi chiari, netti, specifici (sia d’indole generale che locale) e fare grande propaganda delle nostre idee; e) tranne in casi specialissimi ed eccezionali, nei quali è doveroso tentare di aver la maggioranza, - obbiettivo nostro dev’esser quello di ottenere nei consigli la minoranza o il centro (51); f) le liste devono essere formate di candidati coscienti del nostro programma, e che abbiano la sufficienza di sostenerlo nei Consi- 50. Infra, in particolare p. 130. 51. Con questa affermazione si precisa una strategia che sarà di lungo termine e, specialmente nel pensiero e nella condotta politica di Sturzo, dovrà qualificare la posizione del partito d’ispirazione cristiana. La conquista del centro è l’obiettivo che attesta in ogni caso la volontà dei cattolici di mantenersi separati e distinti dal blocco moderato, respingendo la tentazione di inserirsi in maggioranze generalmente prive di chiare e concrete basi programmatiche. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 87 gli; e devono essere composti di elementi delle diverse classi sociali, dal proprietario al lavoratore; g) dove non è possibile formare una lista, è meglio contentare anche d’un solo candidato, intieramente nostro e capace di sostenere il mandato consiliare. Nel caso di Roma, ricorreva chiaramente la condizione ultima cui faceva riferimento Sturzo: non esisteva, cioè, la possibilità di una lista autonoma dei democratici cristiani, talché si trattava di ricercare l’intesa con l’organizzazione ufficiale dei cattolici, l’Unione Romana, per l’inserimento puro e semplice nell’elenco dei candidati di alcuni rappresentanti dc. In questo senso Murri si muove sulla falsariga di quanto era stato dibattuto e convenuto all’interno del movimento. La sua non è dunque una iniziativa isolata o un gesto del tutto improvvisato, quasi un atto sbocciato dal nulla o un’intuizione legata alle circostanze, ma una espressione abbastanza coerente del disegno che veniva emergendo, in quel contesto particolarmente difficile, nei settori più avanzati del movimento cattolico (52). Murri non si sottrae al compito di battistrada o, per meglio dire, alle proprie responsabilità di leader. Entra sulla scena con la determinazione e l’impeto che lo distinguono, tenendo alta la preoccupazione di fare della vicenda amministrativa di Roma un’occasione straordinaria di verifica e di spiegazione della politica dei democratici cristiani. L’impegno in prima persona di Murri, e per giunta nella capitale del Regno e nel centro universale della cristianità, non può passare certamente inosservato. Anzi, come facilmente intuibile, si presenta agli occhi dei militanti e dei simpatizzanti nella forma di una scommessa coraggiosa e senza dubbio entusiasmante. Così d’altronde un giovane studente, Alcide De Gasperi, che aveva conosciuto da appena pochi mesi Murri in occasione di una sua visita a Roma(53), valuta il 52. Bedeschi, tornando più recentemente su queste vicende, insiste invece sul carattere e il valore più che mai individuale delle scelte del leader, restringendo tutto a una “tattica che egli intendeva adottare di fronte agli ukase dell’autorità ecclesiastica nel tentativo di salvare il movimento”. Lorenzo Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi - Ricostruzione storica ed epistolario, Edizioni San Paolo, 1994, p.130. 53. Alcide De Gasperi accompagnava sul finire di febbraio Monsignor Ernst Kommer, di cui era segretario da alcuni mesi, in una lunga trasferta romana che si inseriva nei festeggiamenti per il giubileo del pontificato di Leone XIII. “Il 3 marzo era in piazza San Pietro con Monsignor Kommer per la solenne benedizione con cui si aprivano le celebrazioni del venticinquesimo anno di pontificato di Leone XIII; e poi in Vaticano, in udienza prima dal pontefice e poi da Ma- 88 Capitolo III l’Unione Romana. Sulla “Reichspost” di Vienna, città in cui viveva come universitario, egli riporta e commenta la scelta di Murri di partecipare attivamente alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale: “I democratici cristiani hanno in questa occasione per la prima volta redatto un programma, che nel complesso concorda con quello cristiano-sociale. Volendo conservare, dopo le ultime disposizioni del Vaticano, l’unione con i conservatori, essi entrarono in trattativa con la “Unione Romana”, e le offrirono un compromesso, in virtù del quale sarebbero spettati ai democratici cristiani quattro mandati e in particolare un artigiano e tre propagandisti della Democrazia Cristiana, probabilmente Murri stesso. Benché le trattative non siano ancora concluse, sembra che la “Unione Romana” non voglia saperne dei democratici cristiani. Questa associazione ha avuto finora, a partire dal 1870, esclusivamente nelle proprie mani il monopolio delle elezioni, e i suoi candidati hanno finora amministrato insieme ai liberali. Essi hanno però, come succede di norma presso i conservatori, sempre trascurato un contatto con il popolo. Adesso arrivano i democratici cristiani, che potrebbero rappresentare un contrappeso ai socialisti insorgenti, e che riano Rampolla, il potente Segretario di Stato che voleva allineati con la diplomazia vaticana i cattolici nel governo o all’opposizione. Su questi incontri s’è fatto un pò di favola, soprattutto attribuendo al giovane universitario un ruolo significativo, senza però precisarne la natura e la portata. La colpa è di un buco nella memoria di Maria Romana De Gasperi, che nella biografia del padre situa l’avvenimento nel tardo autunno, facendolo slittare di quasi nove mesi”. Enrico Nassi, Alcide De Gasperi. L’utopia del centro, Giunti, 1997, pp. 24- 25. In ogni caso, il teologo e il suo segretario erano stati accreditati - ricorda sempre Nassi con particolare menzione in quell’adunanza di circa 40.000 invitati. Kommer, infatti, era rappresentante del Senato accademico austriaco e De Gasperi il Presidente dell’Associazione degli Universitari cattolici trentini. A Roma De Gasperi conosce personalmente Murri, facendogli più volte visita presso la sede di Via Montecatini. In una di queste occasioni viene presentato da Murri come uno studente trentino di talento ad Antonio Fogazzaro, lo scrittore cattolico al centro di grande interesse da parte della pubblica opinione dell’epoca. L’emozione sul giovane è fortissima: se ne ha una vivida e gustosa descrizione in una sua lettera, per la prima volta parzialmente riprodotta in Maria Romana Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Mondadori, 1965, p.28. Questi incontri e queste esperienze rappresentano per De Gasperi la possibilità di apprendere dal vivo ciò che si agita e si diffonde nella realtà intellettuale e giovanile del cattolicesimo italiano, grazie in particolare al contributo del movimento democratico cristiano di Murri. “Sta di fatto che De Gasperi ritornava dai colloqui romani pieno di fervore e <<troppo radicale>>, esaltava la validità delle idee democraticocristiane murriane con articoli e interviste nella Reichspost , prometteva di <<far trionfare incontrastata la Democrazia Cristiana>> anche nel suo Trentino, iniziava la collaborazione ai periodici murriani”. L. Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi..., op. cit., p. 129. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 89 desiderano solo una gestione per il popolo, ma anche attraverso il popolo, e guarda un po’, i “Cavalieri Conti e Commendatori” dell’antica città non lo tollerano. Il Domani d’Italia a dire il vero non dà la questione per persa; noi però dubitiamo fortemente della possibilità di un accordo. Ciò nonostante i democratici cristiani si danno un gran da fare. (...). Noi auguriamo ai nostri amici romani una splendida vittoria per il bene del cristianesimo e della democrazia (54)”. A pochi giorni dal voto, dunque, De Gasperi presagisce il fallimento dell’operazione Murri. Le sue parole sono però intrise di speranza e di fiducia, poiché l’iniziativa sembra comunque aprire una fase nuova nella politica dei cattolici italiani. S’intravede la possibilità di esercitare un’azione più coerente in ordine alla costruzione di un sistema sociale e politico maggiormente in sintonia con il programma riformatore dei democratici cristiani. È questa la fase in cui viene alla luce, oramai, l’esaurimento della tattica moderata che condanna a un destino di subalternità l’organizzazione del movimento cattolico. Con nuove idee e nuovi programmi si può invece conquistare l’autonomia, l’efficacia, la credibilità di un soggetto politico chiaramente strutturato, sebbene non ancora in veste di partito. L’augurio di De Gasperi per “una splendida vittoria” reca in sé la convinzione che la sortita di Murri trascenda le caratteristiche di un esperimento localistico e mu- 54. Alcide De Gasperi, La presa di posizione dei democratici cristiani alle elezioni del consiglio comunale di Roma, in “Reichspost”, 27 giugno 1902 (ora in Lorenzo Bedeschi, Il giovane De Gasperi e l’incontro con Romolo Murri, Bompiani 1974, pp.109-110). La succinta ma puntuale cronaca giornalistica mette in rilievo la piena adesione di De Gasperi alle nuove idee democratico cristiane e al programma antimoderato del movimento murriano. È l’indizio che rivela una scelta ideale e politica, quella democratico cristiana, niente affatto subordinata alla scuola cristiano sociale mitteleuropea cui De Gasperi, secondo alcuni, dovrebbe tutta la sua formazione. Ancora Bedeschi, a proposito del suddetto articolo, sottolinea il fatto che “linguaggio, presentazione e notizie risultavano totalmente favorevoli a Murri: anzi, sul giornale viennese l’improvvisato pubblicista anticipava addirittura il programma municipale dei democratici cristiani romani, di cui evidentemente Murri gli aveva parlato nei colloqui, se poteva scriverne almeno due settimane prima ch’esso venisse reso pubblico. Però, nella breve sintesi, veniva tacitata la parte veramente innovativa che, al di là delle municipalizzazioni progettate, si basava sul rovesciamento delle alleanze, da ricercarsi fra i partiti popolari invece che tra quelli conservatori e moderati” (L. Bedeschi, Murri Sturzo De Gasperi..., op. cit., pp. 129-130). Il discorso sulle alleanze a sinistra, tuttavia, dovrebbe essere inquadrato nei termini e nei limiti qui riscontrati, non avendo mai assunto in realtà un carattere politicamente esplicito e programmaticamente limpido. 90 Capitolo III nicipale. Invece, malgrado attese e speranze, la vittoria dei conservatori avrebbe infine significato la sanzione della immaturità e debolezza della prima stagione democratico cristiana. Il carisma di Murri non sarebbe stato sufficiente a vincere le ritrosie, le resistenze e le obiezioni del mondo tradizionalista in cui si esprimeva il pensiero e l’azione della stragrande maggioranza dei cattolici romani. La tutela e la vigilanza così strette della Segreteria di Stato non potevano che produrre, del resto, riserve e contrarietà verso un’iniziativa promossa con tanto slancio e abnegazione. Va tenuto presente che un sacerdote impegnato nella vita amministrativa romana rappresentava un’ipotesi ben al di fuori delle possibilità concrete che la S. Sede fosse disponibile a prendere in considerazione. Qualche anno prima, era stata sconsigliata la candidatura al Campidoglio di Mons. Giacomo Radini-Tedeschi, futuro vescovo di Bergamo e all’epoca autorevole prelato della Curia vaticana, da cui dipendevano tutte le opere cattoliche di Roma (55). L’opposizione del Segretario di Stato, Card. Rampolla, in via riservata esposta e rappresentata da Mons. Della Chiesa, faceva riferimento ai rischi di un sempre più aspro contenzioso tra Stato e Santa Sede quale risultato di un eventuale impegno esplicito e diretto del clero nella vita politica, benché limitato ai soli livelli delle amministrazioni locali. Questa preoccupazione, sia detto per incidens, può essere considerata alla base della diffidenza che nel primo dopoguerra segnerà il rapporto tra Sturzo e Mons. Gasparri, già collaboratore di Rampolla e Segretario di Stato durante il pontificato di Giacomo Della Chiesa (Benedetto XV). Le difficoltà frapposte alla candidatura di Murri non sono, dunque, riferibili tanto a un problema di maggiore o minore apertura, in ambito ec- 55. Cfr. Lorenzo Bedeschi, Il programma municipalistico dc nel 1902 e la candidatura di Romolo Murri (documenti inediti), “Humanitas”, n.12, dicembre 1967, pp. 1225-1250. Il riferimento al divieto opposto alla candidatura di Mons. Radini-Tedeschi è a p. 1233. La ricostruzione di Bedeschi - l’unica finora apparsa con la dovuta ampiezza, organicità e ricchezza documentativa - si avvale delle carte messe a disposizione dalla Contessa Eugenia Salimei, sposata in seconde nozze con il Conte Francesco, collaboratore di Murri e protagonista egli stesso del tentativo di presentazione della lista democratico cristiana. Francesco Salimei, tra l’altro, parteciperà con Sturzo ai primi congressi dell’Associazione dei Comuni in rappresentanza dei cattolici. Cfr. a riguardo O. Gaspari, I primi anni di Sturzo ..., cit., in particolare p. 147. Nelle elezioni del 1902 verrà eletto in consiglio comunale quale unico esponente dell’ala democratico cristiana, essendo stato prescelto dalla Segreteria di Stato quale elemento di mediazione tra Murri e i vertici dell’Unione Romana. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 91 clesiastico, nei riguardi della sua persona. Sulla base del carteggio del Conte Francesco Salimei, Lorenzo Bedeschi rileva che “gli amici sostenitori di Murri in Vaticano sono i monsignori Celli e Gasparri, mentre Leone XIII (cosa non nota) e Toniolo gli erano decisamente contrari sì da rendergli difficile ogni proselitismo (56)”. Cade pertanto il sospetto di una avversione della Curia generalizzata , poiché anche in questo caso il rapporto con Murri evidenzia linee di giudizio e di condotta parzialmente diversificate all’interno delle più alte sfere della Gerarchia. Vero è che su tutto emerge, infine, il grande timore del Card. Rampolla circa i pericoli di una ripresa dell’anticlericalismo in quanto esito inevitabile, insieme, della divisione dei cattolici e della radicalizzazione del loro impegno politico. Nella vicenda romana, il Conte Salimei gioca un ruolo assai rilevante. Come Guardia Nobile è ben introdotto nelle stanze che contano dei Sacri Palazzi. Essendo un giovane brillante, e per giunta di una famiglia appartenente alla nobiltà nera, è subito considerato come un opportuno anello di congiunzione tra l’Unione Romana e il drappello democratico cristiano (di cui fa parte). Non per nulla, malgrado l’esito improduttivo dell’operazione Murri egli risulterà comunque nella lista degli eletti (57), decidendo in ultimo di ritirare le dimissioni da neo-consigliere comunale inoltrate alla presidenza dell’Unione Romana all’indomani dello scrutinio. Spetta a lui spiegare a Murri il perché del veto che la Segreteria di Stato oppone alla sua candidatura 56. Idem, p. 1245. 57. L’impegno di Salimei in consiglio comunale sarà espressione, del resto, di quel progetto riformatore che inserisce i cattolici sulla scia del cambiamento e dell’innovazione da cui scaturirà, di lì a pochi anni, la svolta dell’amministrazione Nathan. Ecco come lo stesso Salimei descriverà la sua esperienza in una lettera del 19 marzo 1903 indirizzata a Murri: “Così ho portato il mio piccolo contributo nelle commissioni per l’Istituto delle case popolari e dell’ufficio del lavoro dove credo di aver apportato non inutili modificazioni. E altre questioni sto studiando e per altre sto sempre sulla breccia: come per quella per i lavori pubblici per i quali sono diventato un vero incubo per la Giunta e per il sindaco che sono quindi costretti a camminare con prudenza. Tu dici: voi lavorate per una Giunta che non è nostra. Noi lavoriamo per il bene della città, cercando nel tempo stesso di dimostrare quali attitudini abbia per questo fine il nostro partito al disopra degli altri. E tra molta zavorra, vi sono nelle nostre file uomini di un grande valore, e me lo riconosceva recentemente l’on. Luzzatti, quali per es. il Santucci e il Benucci. E nelle questioni tecniche non è facile raggiungere la competenza di questi uomini. (...)”. Idem, nota 38, pp. 1242-1243. Salimei divenne successivamente consigliere e quindi vicepresidente dell’Istituto case popolari fino al 1915, attraversando dunque la fase in cui si dispiega l’esperienza della Giunta Nathan. 92 Capitolo III e l’alternativa che sarebbe stato invece opportuno perseguire. Infatti gli scrive il 22 giugno in modo preciso e circostanziato: “Io riconosco francamente delle difficoltà alla tua candidatura per il consiglio comunale, oggi; ma ritengo che esse saranno molto minori per una candidatura al consiglio provinciale. Certamente quest’ufficio non è il più indicato per te, ed in genere non è terreno opportuno allo svolgimento delle nostre idee. Ma a quella candidatura io annetto due scopi importanti: 1° una potente affermazione che farà dare un gran passo avanti al nostro partito e in Italia e all’estero, contenendo anche indirettamente un attestato di fiducia da parte del Vaticano; 2° assuefare la cittadinanza all’idea del sacerdote nelle amministrazioni pubbliche preparandoti così il terreno per le future elezioni comunali. (...). Per me la riuscita, oltre l’importanza locale, avrebbe come ti ho detto un alto valore per gli interessi più generali e prevalenti del partito. Per questi interessi tu dovresti fare anche un sacrificio, accettando la candidatura provinciale. Tu sai che anche i nostri amici di Milano non la trovano del tutto inutile (58)”. La proposta, in sé ragionevole ed elegante, è però registrata come una provocazione da parte dell’interessato. L’accorta regia vaticana non sembra pertanto orientata a contenere o smentire, in modo chiuso e incomprensivo, il discorso politico dei giovani democratici cristiani. Il Card. Rampolla, in questo passaggio emblematico, ha di mira essenzialmente la salvaguardia dell’unità politica dei cattolici. Il nuovo impianto programmatico non costituisce un irrimediabile motivo di frattura, sebbene il moderatismo dell’Unione Romana ne voglia ridurre il valore e la portata. Il problema politico-diplomatico consiste nella conservazione di un quadro di unità operativa dei cattolici, facendo attenzione a non sovraccaricare l’apertura alla democrazia cristiana di simbologie troppo forti. L’ingresso di Murri nel consiglio comunale di Roma avrebbe determinato sicuramente un clamore così vasto da rendere irrefrenabile la spinta alla costituzione di un partito di matrice cristiana, anticipando di circa vent’anni lo sbocco politico a cui pervenne il popolarismo di Sturzo. Ecco la ragione del compromesso: sostanziale accettazione dell’autonomia programmatica del gruppo democratico cristiano, con il semplice inserimento in lista di alcuni rappresentanti del gruppo - ferma 58. Idem, p. 1235. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 93 restando l’esclusione di Murri - non in quanto espressione di un movimento ideale e politico, ma semplicemente come singoli “cattolici di Roma”. Un modo come un altro per ravvivare la presenza e l’impegno della tradizionale organizzazione elettorale dei cattolici, senza tuttavia raccogliere l’esigenza di un riconoscimento concreto della novità costituita dalla compagine democratico cristiana. L’offerta della candidatura alla provincia non poteva costituire un valido elemento di compensazione. Né, d’altra parte, poteva essere accettabile la prospettiva di una semplice cooptazione di uno o due rappresentanti democratici cristiani in quanto “cattolici di Roma”. Nonostante la fragilità organizzativa e il modesto peso elettorale (59), Murri intendeva presumibilmente giocare la carta di una pubblica legittimazione della sua democrazia cristiana. Programma e candidati, insieme, incarnavano la novità dell’iniziativa murriana. Per il leader del movimento, che pure individuava nei consigli provinciali la sede istituzionale ove in quel tempo la rappresentanza cattolica si esprimeva con maggior forza (60) , l’abbandono della candidatura comunale in funzione di quella provinciale non avrebbe avuto altro significato se non quello della sua sostanziale delegittimazione politica. Il giovane Salimei attribuisce all’ostinazione dell’uomo il rifiuto del compromesso che sembrava delinearsi, ma in verità, ben oltre ogni aspetto caratteriale, giocava nella reazione negativa di Murri la consapevolezza di dover spingere fino alle conseguenze ultime, così da poterne stabilire il grado di attendibilità, il laborioso processo di ricomposizione che la Segreteria di Stato aveva messo in moto nella 59. Salimei scrive il 5 giugno 1904 una lunga lettera alla Baronessa Gertrud von Hügel, che nel 1907 diverrà sua moglie, precisando le difficoltà dei democratici cristiani romani, non senza una punta di polemica verso l’atteggiamento irremovibile di Murri. “Noi come gruppo democratico cristiano eravamo quattro gatti; non potevamo contare, isolati, neppure 50 voti”. (In G. Bedeschi, Il programma ..., op. cit., 1240). Questa lapidaria affermazione, destinata presumibilmente anche a giustificare da parte di Salimei la sua dissociazione dal tentativo di Murri, denuncia in ogni caso la scarsa penetrazione del movimento d.c. nella realtà cattolica romana. 60. “Speciale argomento di studio potrebbe offrire l’opera dei cattolici nelle deputazioni provinciali, molto più che in questo campo essi hanno fatto le loro migliori conquiste”. C.S., Dopo le elezioni amministrative - Una proposta, “Cultura sociale”, n°109, 16 luglio 1902, p. 206. L’editoriale, come si vede, é firmato C.S. ed é pertanto attribuibile a Murri quale direttore della rivista. 94 Capitolo III speranza di mantenere formalmente unito il fronte politico-elettorale dei cattolici. Parallelamente, gli sforzi di mediazione della S. Sede potevano anche risultare efficaci nel prospettare e garantire un accordo per una lista aperta ai giovani d.c., ma si scontravano con la manifesta ostilità dei moderati nei riguardi di Murri in persona. Alcuni mesi prima, e precisamente su “Cultura Sociale” del 1 dicembre 1901, questi aveva polemizzato duramente con “La Voce della Verità”, arrivando a definire gli animatori di questa testata come i “meno felici avanzi d’una età passata e chiusa per sempre(61)”. Con queste premesse, altro che accordo! 61. In G. Bedeschi, ed Il programma municipalistico..., op. cit., nota 37, pp. 1239-1240. Le elezioni amministrative del 1902: l’iniziativa di Romolo Murri 95 CAPITOLO IV Una questione aperta: quale politica di centro? Una questione aperta: quale politica di centro? 97 I documenti de “Il Domani d’Italia”, riportati in appendice, testimoniano l’impegno, la determinazione, la qualità del tentativo promosso da Murri. Il discorso con il quale egli formula pubblicamente il suo programma è la sintesi dei motivi culturali e politici della proposta municipalista dei democratici cristiani. Non mancano gli accenni alle questioni più concrete della vita amministrativa capitolina, ma il filo conduttore dell’esposizione riconduce sistematicamente questo o quell’aspetto tecnico-operativo alla coerenza di un progetto più generale. La battaglia per Roma assume dunque le note di un impegno di civiltà e il valore di una “rinascita” cristiana. Mentre il vecchio mondo declina, solo l’azione democratica e profondamente riformatrice delle nuove generazioni cattoliche può contenere, se non proprio surrogare, il grande sentimento di emancipazione che le classi popolari erroneamente affidano alla mobilitazione e all’iniziativa del movimento socialista. La “moderateria liberale”, come dice Murri, imprigiona le forze e la vitalità del cattolicesimo militante consegnandole ad una inaccettabile funzione di copertura del conservatorismo sociale e politico. Ecco, allora, cosa sembrerebbe delinearsi: una volta acquisita la separazione dal moderatismo conservatore, i cattolici avrebbero dovuto competere con le altre forze riformatrici, eventualmente stabilendo modalità di cooperazione sul piano delle possibili convergenze programmatiche. Nulla di più e nulla di meno. Di certo l’unità delle forze popolari costituisce un obiettivo storicamente ambizioso che solo una nuova sensibilità religiosa e una nuova mentalità cattolica avrebbero potuto legittimare. Ma non per questo Murri arriva con il suo ibridismo politico-religioso a “confondere” irrimediabilmente l’azione della democrazia cristiana con l’afflato pedagogico-assistenziale di quanti testimoniano, sulla scorta delle idee e delle suggestioni legate al progressivo diffondersi del modernismo, l’insopprimibile esigenza del riscatto innanzi tutto morale delle classi subalterne. L’impegno di uomini come Giulio Salvadori, Giovanni Semeria, don Brizio Casciola, Enrico Possenti, Emilio Re non rientra pertanto nel cono d’ombra delle murrismo. Neppure il cenacolo che si organizza a casa di Pio Molajoni risulta essere frequentato dal sacerdote marchigiano. Queste espressioni del rinnovamento cattolico che agita- 98 Capitolo IV no la Roma a cavallo del novecento (62) sembrano dunque giustapporsi, ma non integrarsi, al moto di inevitabile e sofferta emancipazione dal ben noto contesto clerico-moderato che vede protagonisti i giovani democratici cristiani. Invece, per il tramite di Salimei e soprattutto della sua futura consorte, la baronessa Gertrud Von Hügel, Murri è in contatto con il più raffinato ambiente intellettuale modernista della capitale. “La figlia del grande elaboratore del modernismo cattolico [Friedrich Von Hügel], stabilitasi a Roma all’inizio del secolo teneva salotti intellettuali nella propria abitazione di Via Veneto 14. Aperta alle idee moderne come il padre (aveva avuto quale direttore spirituale padre Tyrrel) si interessava dei novatori invitandoli a casa sua. Murri era uno di questi e più volte accettò l’invito” (63). Da una parte, allora, la frequentazione dei circoli intellettuali modernisti, dall’altra l’assenza apparente di legami con l’attività di quanti s’impegnavano a tradurre in chiave operativa e formativa queste idee di rinnovamento che scaturivano da un cattolicesimo inquieto e non rassegnato. È una contraddizione che sembra avvolgere l’iniziativa di Murri, forse perché siamo noi impossibilitati a trovarne le spiegazioni risolutive in mancanza di maggiori elementi di conoscenza o forse perché, all’inverso, essa andrebbe spiegata come la conseguenza di una linea politica che mirava a trascendere e riassumere le tensioni etiche e civili di piccoli gruppi di testimonianza, facendo del messaggio democratico cristiano l’inglobante della novitas del cattolicesimo italiano. In quest’ultimo caso apparirebbe chiaro il fatto che il murrismo, quale anima del progetto democratico cristiano, dovesse esprimere un suo livello di autonomia politica e culturale tanto da configurarsi come un fenomeno irriducibile alla pura e semplice esperienza del modernismo. La sfida al moderatismo dell’Unione Romana e la condanna della sua tendenza al connubio con i conservatori liberali, s’infrangono dunque sugli scogli di una coriacea difesa della tradizionale linea di condotta della organizzazione ufficiale dei cattolici. Chiusa ogni possibilità di accordo in presenza del veto sulla candidatura Murri, il movimento democratico cristiano si pronuncia ufficialmente per l’a62. Cfr. P. Scoppola, Crisi modernista ..., op. cit., in particolare pp. 86-89 63. L. Bedeschi, Il programma municipalista ... , op. cit., p. 1236. Una questione aperta: quale politica di centro? 99 stensione dalle urne. Ciò nonostante, nella lista dell’Unione Romana vengono inseriti, come atto unilaterale, Francesco Salimei, Romolo Ducci, Umberto Perazzi, legati più o meno intensamente all’esperienza murriana (64). È il segno di quell’apertura, moderata e circoscritta, volta appunto ad assorbire la spinta democratico cristiana. I risultati elettorali decretano il successo della lista clericale che, al pari di quella liberale, raccoglie all’incirca 6.800 voti (con i Popolari fermi intorno ai 4700). Ma con il gioco attento delle preferenze, i moderati cattolici riescono a portare in consiglio comunale anche alcuni liberali ritenuti più affidabili e disponibili. La compattezza degli uni, impegnati a votare senza defezioni e a deporre nelle urne la lista dell’Unione Romana “così com’è compilata” (65), fa da contrappeso a una certa stanchezza e riluttanza del blocco liberale. Una campagna elettorale combattiva, una partecipazione alle urne non entusiasmante: questa è la fotografia della battaglia amministrativa del 29 giugno 1902, sindaco il Principe Prospero Colonna. Scriverà “Il Messaggero” nella sua cronaca del giorno dopo: “Tutto lasciava supporre, data l’acredine portata nella lotta, che il concorso del pubblico alle urne fosse questa volta di molto più animato che non negli anni precedenti: invece, se l’apatia degli elettori non ha trionfato completamente, non si può nemmeno registrare uno zelo eccessivo nella maggioranza dei cittadini iscritti nelle liste amministrative” (66) . Su 35.000 aventi diritto solo 20.000, all’incirca, aveva deciso di votare. L’af- 64. La lista completa dell’Unione Romana presentata sul numero del 27 giugno 1902 de “La Voce della Verità” è la seguente: Candidati pel consiglio Comunale - Acciaresi Prof. Primo, Pubblicista. - Buttarelli Paolo, Industriale - Ceccarelli Eugenio, Negoziante - Cecchini Giulio, Negoziante - Chigi Principe Mario- Colonna Principe Marcantonio - Di Carpegna Conte Mario fu Filippo - Ducci Romolo, Operaio tipografo - Galli Prof. Augusto - Salimei Conte Francesco - Salustri-Galli Pietro, Mercante di campagna - Santucci Conte Avv. Carlo Candidati per il consiglio Provinciale Mandamento I, Lapponi Dott. Giuseppe - Mandamento II, Busiri Ing. Carlo Jacoucci Avv. Virginio - Mandamento III, Ruspoli Principe Alessandro di Francesco - Mandamento V, Antici-Mattei Principe Tommaso - Santucci Conte Avv. Carlo. 65. In Le elezioni di oggi, “La Voce della Verità”, 28 giugno 1902. 66. In La giornata di ieri, “Il Messaggero”, 30 giugno 1902. 100 Capitolo IV fluenza era stata dunque al di sotto del 60 per cento (ma nel 1905 scenderà addirittura al 43 per cento per poi risalire nel 1907, l’anno della vittoria del Blocco popolare, al 65 per cento). Sempre per l’autorevole quotidiano romano la causa di tale basso livello di partecipazione non poteva che risiedere nelle incertezze e divisioni del fronte liberale: “Si può essere liberali quanto si vuole, ma quando si vede che sono appunto i liberali quelli che maggiormente si dilaniano fra loro, l’elettore sente la nausea salire alla gola e si allontana da questa lotta infeconda augurandosi un commissario regio a vita, che possa con saggezza dirigere le cose capitoline, libero da ogni preconcetto politico” (67) . L’articolo concludeva sottolineando, per contro, il maggior livello di mobilitazione del mondo clericale. Il giudizio di Murri, prima e dopo il voto, non può che essere di severità e distacco. Commenterà così, a metà luglio, le operazioni elettorali: “Fra pochi giorni le agitazioni elettorali saranno finite in tutta Italia. Se si guarda al numero ed alla importanza assoluta dei successi essi sono stati poca cosa per noi (...). La nostra propaganda, pur così recente, ha creato dappertutto una situazione nuova ai cattolici nella vita pubblica; ed ha permesso ad essi di presentarsi al pubblico, per la prima volta, in nome proprio, con forze proprie, staccati virtualmente o anche di fatto dai conservatori, dei quali erano stati insino ad oggi una comoda appendice. (...). Infine in alcuni luoghi, come a Roma, se le concessioni fatte ai nostri non furono quali si erano giustamente domandate, anche le antiche organizzazioni cattoliche elettorali non poterono non riconoscere col fatto che la situazione erasi, in tre anni, enormemente mutata: e la segreta preoccupazione li condusse a seguire una via di mezze misure che mostrava la loro malavoglia, senza impedire il cammino delle idee e lo spostamento di molti interessi e di molte tendenze già prevalenti” (68). La battaglia non era stata vinta, ma l’averla combattuta restava comunque un merito delle giovani generazioni. Anno di svolta, il 1902. Roma costituirà presumibilmente il contesto sociale in cui più acuto e profondo rimarrà il contrasto e l’an- 67. Ibidem. 68. C.S., Dopo le elezioni amministrative ..., cit., p. 205. Una questione aperta: quale politica di centro? 101 tagonismo tra le due ali del movimento cattolico, fino al punto di incidere sulle prospettive elettorali. Questa distinzione di linea politica non sarà riassorbita o superata. Di lì a qualche anno, il 10 novembre 1907, dopo aver conseguito nel giugno precedente soltanto un successo parziale da cui sarebbe scaturito - per l’impossibilità di costituire una maggioranza - un breve commissariamento del Campidoglio, il Blocco popolare arriverà finalmente alla vittoria. In quella occasione, l’Unione Romana deciderà nella campagna autunnale di disertare le urne. Il dissidio tra l’anima clerico-moderata e quella democratico cristiana si pensa che abbia potuto accentuare le difficoltà e ampliato, inoltre, le diffidenze che spingevano tradizionalmente l’Unione Romana ad astenersi(69). In un certo senso questo scenario era stato anticipato profeticamente da Romolo Murri quando, nel commentare “a caldo” l’esito delle elezioni del 1902, così scriveva: “L’Unione Romana perde terreno ad ogni nuova elezione, mentre i popolari guadagnano rapidamente: il partito liberale invece si sgretola, come è apparso nelle interne divisioni che lo hanno lacerato questa volta e nella rivelazione del morbo massonico che lo inquina (26 candidati massoni, osservava il Fanfulla, su 34). Una parte del liberalismo si attaccherà, mediante le aderenze moderate, all’Unione Romana, a danno certo del cattolicismo: l’altra parte cadrà nelle file del partito più avanzato e radicale, pel quale anche sta in serbo l’appoggio del governo. E allora, vedremo: e vedrà, l’Unione Romana che oggi ha voluto fare a meno di noi” (70). Virtualmente se non di fatto, per dirla ancora con Murri, si era consumata la secessione della prima democrazia cristiana dall’ambiente clerico-moderato. Un nucleo dirigente si era andato formando, consapevole dei propri obiettivi e delle proprie responsabilità. Murri Sturzo e De Gasperi si ritrovavano insieme a condividere, ciascuno con la propria personalità e la propria maturazione, questo percorso 69. Cfr. Mario Belardinelli, I cattolici nella vita politica romana, in Istituto per la storia del Risorgimento italiano. Comitato di Roma, Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan, Atti del Convegno di studi (Roma 28 - 30 Maggio 1984), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1986. Inoltre cfr. Maria Immacolata Macioti, Ernesto Nathan. Il sindaco che cambiò il volto di Roma. Attualità di un’esperienza, Newton CSS, 1995, in particolare p. 38. 70. Infra, p. 179. 102 Capitolo IV che avrebbe condotto all’ affermazione di una nuova autonomia culturale e politica dei cattolici in aperto contrasto con il vecchio modello del moderatismo clericale. L’episodio delle elezioni amministrative romane racchiude parte di queste speranze e di questi contrasti. È una pagina di storia minore, ma non di minore dignità e valore. Potremmo anche porci, in conclusione, il classico e retorico interrogativo: e se Murri avesse vinto? Se la sua proposta avesse attecchito, riscuotendo successo nella città capitale d’Italia e sede universale della cristianità? Sappiamo che vi è una risposta altrettanto classica e retorica destinata a ripetere all’infinito che la storia non si scrive con i se e con i ma. Tuttavia, soffermarci su quanto è realmente accaduto e al contempo ipotizzare esiti alternativi, serve se non altro a capire meglio la genesi e lo sviluppo di un movimento politico, quello dei giovani democratici cristiani degli inizi di questo secolo, che riuscirà nel tempo, passo dopo passo, a conquistare la guida del cattolicesimo sociale e democratico. Un movimento che vince sulla base di una grande motivazione che ruota attorno a un programma di riforme economico-sociali e a una strategia di cambiamento politico. Il radicalismo che nel complesso l’iniziativa di Murri contempla, è forse la malattia infantile del cattolicesimo politico, o chissà, la sua fonte di vitalità incomprimibile. Comunque, non si può ridurre tutto a un limite di carattere di questo sacerdote inquieto, “polemico prima che intelligente, dinamico quanto illogico” (71), giacché si finirebbe per sottovalutare le ragioni più profonde della storia che lo ha visto protagonista generoso, ma pur sempre sconfitto. Se infine riconosciamo il valore di quel salto che si compie con l’abbandono del conservatorismo clerico-moderato, possiamo accordarci sulla valutazione della operazione di Murri come l’indizio di un processo più ampio e di una evoluzione più ricca, positiva e coinvolgente. In quella vicenda politica ed elettorale che suscitò le speranze di un manipolo di giovani, nonché a rovescio i timori della vecchia dirigenza cattolica, possiamo scovare il nucleo di un progetto politico che torna ad essere attuale oggi, emblematicamente e per analogia, allorché ci si imbatte 71. Michele Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo, Einaudi, 1963, p. 172. Una questione aperta: quale politica di centro? 103 nel problema di una nuova legittimazione della scelta antimoderata dei cattolici democratici. Il dibattito politico dell’estate 1902 proietta allora sulla scena odierna la questione della originalità di un movimento politico d’ispirazione cristiana orientato a fondare le sue ragioni culturali e la sua capacità di attrazione politica nel punto dove s’infrange il moderatismo, equivoco e malinteso, di un certo “sentire” cattolico. La questione che riemerge dalla nebbia della memoria per interrogarci sul futuro dei democratici d’ispirazione cristiana, attiene alla plausibilità di una mera equazione tra popolarismo e moderatismo. Se la figura del cattolicesimo democratico non si libera da questa gabbia teorica, rinuncia ad esprimere il suo potenziale di novità ed originalità(72). Altro è pensare, anche sulla scia dell’esperienza di questo secolo, a un ruolo di condizionamento e di guida dei settori moderati della società, altro è concepire il soggetto politico come una diretta proiezione dell’humus moderato del Paese. In un caso si esercita una legittima funzione direttiva, mentre nell’altro non si fa che gettare alle ortiche la propria identità in favore di un generico appiattimento sulla semplice domanda di stabilità, equilibrio e ponderazione che nasce dal ventre molle della società. In questo quadro il confronto tra Murri e Sturzo sulla natura e la funzione politica del centro può essere ancora un termine di riferimento essenziale e decisivo. Murri prendeva dunque le mosse dalla preoccupazione circa i pericoli nei quali il movimento cattolico nel corso del Risorgimento e successivamente poteva rimanere imprigionato, quando in sostanza era possibile che nascesse - e fortunatamente, per l’intransigenza della Chiesa, ciò non avvenne - un “centro cattolico, numeroso di più di un centinaio di voti, composto di ricchi proprietari di ogni parte d’Italia e di alcuni capi del movimento religioso; un centro preso non eccessivamente sul serio dal paese e dal liberalismo, ricco delle grazie di una parte della Destra ma povero di 72. Cfr. anche Adriano Ossicini, Il fantasma cattocomunista e il sogno democristiano, Editori Riuniti, 1998. Netta è la contestazione da parte dell’Autore della tradizionale e ciclicamente riproposta identificazione dei cattolici in quanto tali con i moderati (vedi in particolare il primo capitolo). 104 Capitolo IV forze vive” (73) . Sturzo in alternativa rivaluta, per parte sua, l’ipotesi del centro quale spazio politico confacente al ruolo e alla responsabilità dei cattolici democratici, ma non per questo si concede l’alibi di ignorare l’analisi critica di Murri. Essa viceversa permane nel corpus teorico e politico del popolarismo, dando vita così a un processo di fondazione del centro in quanto luogo e struttura di una politica riformatrice d’ispirazione cristiana. Sturzo in definitiva mirava a “costituire un terzo partito che rappresentasse i cittadini che non erano d’accordo nè con il partito di chi voleva comandare in qualsiasi modo, nè con il partito di chi si opponeva a tutti i costi. Una teoria <<dinamica>>, di un centro che superasse quella <<meccanica>> di due formazioni sempre contrapposte, per arrivare ad una sintesi del <<partito di Centro, cioé ora controllo, ora opposizione, ora collaborazione, creando così gli urti e i contatti di chi vive tutta la vita della società>>”(74). La lezioni di Murri si presenta, dunque, come un, patrimonio assolutamente necessario alla formazione del modello di partito aconfessionale, democratico e popolare - che nasce sulle ceneri della tradizione clericale e moderata. Proprio facendo appello a questa lezione, é forse ancora oggi possibile ritrovare quella fonte di interrogativi e sollecitazioni a cui sempre la coscienza inquieta dei cristiani sente l’esigenza di rivolgersi. 73. Citazione di Murri tratta da S. Zoppi, Dalla Rerum novarum ..., op. cit., p. 70. 74. O. Gaspari, I primi anni di Sturzo..., cit., p. 158. Per la definizione del “partito di Centro”, inserita nella citazione, Cfr. L. Sturzo, I cattolici nei municipi, “Cultura Sociale”, 16 giugno 1904, pp. 179-180. È merito di Gaspari, grazie ad approfondite ricerche sulla storia della prima Associazione dei Comuni italiani (cfr. soprattutto il suo recentissimo L’Italia dei municipi. Il movimento comunale in età liberale (1879-1906), Donzelli, 1998), l’aver individuato un fecondo rapporto tra cattolici e radicali su cui occorrerà tornare in maniera più ampia ai fini di una nuova comprensione della genesi e dello sviluppo dell’idea del “centro” nell’originaria accezione democratico cristiana. DOCUMENTI Documenti 107 Sono qui riprodotti innanzi tutto gli articoli apparsi su “Cultura Sociale” in cui si dispiega il confronto tra Murri e Sturzo sulla questione della tattica elettorale da adottare nei comuni. Seguono i testi de “Il Domani d’Italia” che illustrano il programma, il dibattito, il conflitto a cui occorre riferirsi per comprendere il senso e la portata dell’iniziativa politica che mirava alla presentazione di una qualificata rappresentanza del movimento murriano all’interno della lista dell’Unione Romana. È evidente che una esauriente lettura “in diretta” degli avvenimenti richiederebbe una base documentale più ricca e variegata. Ma intanto si è cercato di riportare alla luce la parola e gli intendimenti dei principali attori della vicenda amministrativa del 1902. In particolare, gli interventi e i commenti di Murri costituiscono l’espressione più diretta e autorevole del processo politico innescato, in quel frangente, dai giovani democratici cristiani romani. Documenti 109 Da “Cultura Sociale”, 16 aprile 1902 LE IMMINENTI ELEZIONI AMMINISTRATIVE Prepariamoci Si avvicina il giugno, con le elezioni amministrative per il rinnovamento d’una metà di Consigli comunali che avranno luogo in quasi tutti i comuni d’Italia: ed i cattolici d’azione debbono incominciare a prepararsi e discutono già - solo pochi di essi, in verità - la via da seguire. Quantunque le nostre idee in proposito possano esser note da tempo ci proveremo a riassumerle brevemente, per comodo degli amici ai quali piaccia vederle formulate in brevi pagine e per avviare, se mai, una discussione intorno ad esse. Il problema delle elezioni amministrative si presenta molto complesso: infatti non si tratta in esso, come nella politica-sociale dei cattolici in Italia, di affermare dei principi e di tendere direttamente a tradurli in atti, ma è questione spesso di conservare e di conquistare il potere. E per potere intendiamo non già la maggioranza occupata direttemente dai cattolici, ma qualunque parte e particella di influenza si desideri avere, contentandosi della minoranza, come fa, per esempio, a Roma l’Unione romana, o dividendo la maggioranza con un partito affine, come tentarono a Napoli nelle ultime elezioni, o semplicemente, provocando la riuscita di uno piuttosto che di un altro partito o gruppo o uomo dal quale si sperano protezioni e favori. Ora le questioni che si connettono alla conquista ed all’uso del potere in qualsiasi misura sono sempre molto complesse, per due motivi. Il primo motivo è che esse hanno sempre un carattere eminentemente locale. Le elezioni amministrative non sono una cosa a sé ed una novità passeggera nella vita di un comune: esse sono un atto, un momento, e dei più importanti, di questa e si ricongiungono quindi strettamente a tutto ciò che di quella vita determina la realtà concreta e lo sviluppo: si tratta di problemi d’indole finanziaria e amministrativa, di riflessi di più vaste lotte politiche, di equilibri di gruppi; e di parti lo- 110 Documenti cali e personali. Ora è evidente che intorno a tutto cio è difficile far delle considerazioni d’indole generale che non siano banali e state già fatte le mille volte. Ricorderemo solo, a tale proposito, le deliberazioni seguenti, prese nel convegno regionale romagnolo della democrazia cristiana, tenuto in Imola nell’ aprile scorso. L’altro fatto che complica le questioni riguardanti il potere municipale è che le più importanti di esse non sono già quelle aventi più stretta attinenza con i grandi problemi politici e sociali del momento, ma quelle che nel periodo delle elezioni vengono prime, o fra le prime, nell’animo degli elettori. Così la presenza di alcune suore in un ospedale, la revoca d’un maestro elementare, lo stato delle finanze locali, qualche problema più urgente di viabilità o di altri servizi pubblici, determina una parte degli elettori a votare per gli uni o per gli altri. E si noti che questo elemento mobile il quale, secondo che si trasferisce da una parte o dall’altra, decide sovente della vittoria, è proprio il cattolico; al quale il difetto d’un programma comune e di una più vasta organizzazione di partito toglie spesso quella consistenza che gli altri ricevono dalle clientele parlamentari e dalle direzioni o imposizioni del partito, e che li obbliga a sacrificare una parte delle rivendicazioni personali e locali a motivi d’interesse comune, per lo stimolo più vivo che questi esercitano sulla loro coscienza politica. Noi, quante volte avemmo occasione di occuparci di problemi municipali, e specialmente polemizzando con alcuni amici di Milano in occasione di elezioni in quella città, se fummo solleciti di affermare certi principi generali, non negammo l’importanza di tali questioni locali e la ragionevolezza di alleanze che si stringevano talora per esse; benché, per una coincidenza notevole ma non curiosa, quelle alleanze avvenissero sempre con i partiti conservatori. E quante volte ci si invitò a dare un parere sui casi particolari pei quali non conoscessimo bene i dati di fatto, ci rifiutammo risolutamente, parendoci che specialmente in tali circostanze lo stare al summum ius e il procedere con criteri uniformi e applicabili meccanicamente sia la peggiore delle politiche. Noi non riproviamo quindi a priori e senz’altro le alleanze dei cattolici, e più specialmente dei democratici cristiani con i partiti conservatori, neanche quando si tratti semplicemente di dare il proprio Documenti 111 voto ai cattolici liberali e ricchi conservatori invece che ai candidati dei socialisti o dei partiti popolari: solo insistemmo ed insistiamo perché tali alleanze, e specialmente quelle del genere indicato che son le peggiori, siano ridotte allo stretto necessario e strette, non per abitudine o per servilità, ma solo in seguito ad un esame accurato dello stato delle cose: e purché si prendano tutte le precauzioni necessarie ad assicurare i vantaggi in vista dei quali sono concluse e a diminuire i danni che inevitabilmente producono. Giacché non si può negare, innanzi tutto, che tali alleanze ed accordi abbiano presentato per molto tempo e infino ad oggi il carattere non di una serie per quanto numerosa di fatti isolati, dovuti a condizioni locali, ma di uno stato d’animo disuso e comune a tutti, il quale risaliva a condizioni di fatto d’indole nazionale, riassumentisi nella assenza dei cattolici dalla vita pubblica, nel fascino inconsapevole che su di essi aveva esercitato la borghesia rivoluzionaria e conservatrice, nel difetto di forza, di resistenza e di lotta e d’un programma proprio attinto a un concetto elevato di rettitudine amministrativa, di giustizia civile e di solidarietà. Insieme avveniva che la borghesia liberale conservatrice e, sinché non venne la lotta contro i partiti sovversivi, anche le frazioni democratiche di essa, se incoraggiavano tutte le forme più insidiose di guerra alla Chiesa e di scristianizzamento della società, si mostrarono benevole ai cattolici ed al piccolo clero locale, od almeno si astennero il più spesso da lotte violente: sicché le questioni ed il sentimento religioso delle masse o esulava dal campo delle contese amministrative o militavano in favore dei conservatori e dell’aristocrazia liberale locale, riguardata ancora da molti dei nostri con occhio umile e servile. Quando venne, in questi ultimi anni, il movimento cristiano sociale, noi mettemmo innanzi e sostenemmo principi che qui ci proveremo di riassumere, i quali dovevano avere un’influenza diretta anche sulla condotta dei cattolici nelle elezioni amministrative, e modificarla, anche quando lo stato di cose e gli accordi precedentemente contratti avessero dovuto durare ancora un certo periodo di tempo. I democratici cristiani sostennero: che oramai i cattolici italiani avrebbero dovuto escire dalla lunga apatia per le cose sociali e far propria, correggendola ed integrendola, gran parte del programma della giovane e vigorosa democrazia, avvia- 112 Documenti re una larga propaganda di idee e di organizzazione professionale; che era necessario, ora che il nuovo atteggiamento sociale e la necessità e il dovere di salvar le masse dal socialismo ci restituivano un’influenza notevole nella vita pubblica e la possibilità di farci e di organizzare delle forze nostre, per un programma nostro, rompere le catene che ci avvicinavano, specialmente nella vita amministrativa, ai conservatori, ricordare le molte e insidiose ingiurie da essi fatte alla religione cattolica e considerarli ugualmente come avversari; prender posizione nelle contese e nelle lotte di classe, che dovevano assumere rapidamente tanta importanza, non a priori per l’una classe e per l’altra, ma per quello dei due contendenti a cui vantaggio avessero militato le ragioni di giustizia e di carità sociale così luminosamente espresse ed illustrate nell’enciclica Rerum novarum; e poiché evidentemente, a tenore degli studi e delle conclusioni di tanti cattolici e della stessa enciclica Rerum novarum, il più spesso le ragioni di giustizia e di equità militavano a sfavore dei lavoratori, ridotti dall’ingordigia dei padroni ad una condizione poco men che servile, essere dovere dei cattolici di occuparsi direttamente ed efficacemente delle rivendicazioni dei lavoratori, per un principio di giustizia— e ciò basterebbe — non soltanto, ma anche per impedire che i socialisti con speciosi pretesti economici li alienassero dal cattolicismo, e per contenerne le mosse impetuose e inconsiderate dentro i termini della legalità e della lotta pacifica. In base a tali principi ed al fatto che li seguirono si è venuta facendo e si va facendo tuttora una sostanziale trasformazione nell’anima e nella condotta dei cattolici: trasformazione che per la immanenza e la superiorità del cattolicismo e dei principi dai quali muove la nostra condotta non ha dato luogo a grandi scosse violente, ma che deve riflettersi un poco alla volta su tutta l’attività pubblica di parte nostra. E le elezioni del giugno prossimo saranno un indizio importante e sicuro dei progressi fatti del programma cristiano sociale fra i cattolici. Diremo nel prossimo numero quali siano, dinanzi alle elezioni imminenti, gli speciali doveri dei democratici cristiani militanti: diremo oggi brevissimamente di quelli che ci sembrano doveri di tutti i cattolici, benché tocchi in particolar modo ai nostri vigilarne e inculcarne l’osservanza. Documenti 113 Non si deliberi l’accordo con altre parti o frazioni senza aver prima bene esaminato se motivi gravi lo richiedano. Trovarcisi tratti spontaneamente, passivamente, senza alcuna affermazione od atto proprio, è una debolezza e servilità che deve finire. L’accordo non deve significare identità e confusione nella preparazione alla lotta. Normalmente l’organizzazione elettorale dei cattolici deve essere tutta una cosa a sè: anche in vista di elezioni prossime, i cattolici debbono lavorare, compilare liste, aprire scuole elettorali, far pratiche per conto proprio tranne negli ultimi giorni, quando il lavoro di propaganda debba essere per necessità fatto insieme. Richieste e concessioni chiare ed esplicite debbono sempre accompagnare l’accordo. Coloro che sono eletti da voti di cattolici, anche se si crederanno per ciò liberi di insistere nei loro principi clerico-liberali, sappiano almeno che qualche cosa è ad essi positivamente vietato od imposto dalla volontà di quelli che hanno concorso ad eleggerli. Non manchino mai i cattolici di assicurarsi nel consiglio municipale almeno una o due persone che rappresentino schiettamente ed integralmente i loro principi e che possano in ogni occasione dividere, con un taglio chiaro ed esplicito, la responsabilità degli elettori cattolici da quella degli altri elettori della maggioranza. Dove i cattolici non danno dei voti che a liberali conosciuti od a cattolici di incerte idee e di fiacco carattere, ci pare assai difficile liberarli dalle responsabilità degli atti e delle omissioni delle quali il municipio si renderà reo contro la coscienza cattolica ed i diritti della Chiesa. In occasione delle elezioni e della propaganda elettorale ricordino di esser cristiani e di avere dei grandi ideali e principi religiosi da difendere. Non lascino quindi mai ai loro alleati la direzione assoluta della lotta nè trascurino alcuna delle occasioni che si offrono ad essi per affermarsi e prepararsi maggiori conquiste nell’avvenire. Esigano rigorosamente da tutti quelli pei quali voteranno una irreprensibile rettitudine amministrativa e l’equo trattamento di tutte le classi e più specialmente delle più bisognose di aiuto. PRAM Documenti 115 Da “Cultura Sociale”, 1° maggio 1902 ALLA CONQUISTA DEI COMUNI Ci rimane ora a vedere con quali criteri generali debbono condursi nelle imminenti elezioni amministrative i democratici cristiani; in quanto essi, oltreché dei compiti comuni di onestà e capacità amministrativa e di solidarietà e coerenza di parte, debbono occuparsi ancora della lenta e graduale attuazione del loro programma cristiano-sociale. Ciò impone ad essi dei riguardi speciali nello scegliere la loro base d’azione, nei rapporti con gli altri partiti o con le varie frazioni di parte cattolica, nell’attività municipale. Base d’azione dei nostri debbono essere gli elettori delle classi più basse e gli operai più in particolare. È necessario, per una buona azione municipale dei nostri, che essi veggano di mirare più specialmente alla conquista degli elettori popolari, di curare l’iscrizione di nuovi elettori, anche mediante scuole serali, di aver frequenti contatti con i già iscritti, occupandosi con essi di questioni amministrative e cercando di formarli alla consapevolezza dei propri interessi di classe e del modo di difenderli. Armonizzare questi interessi toccherà poi al comune e alle varie frazioni che lo compongono; ma errerebbe chi, per amore di quest’armonia, la quale non potrà essere che una risultante, mancasse di stimolare i lavoratori ed il popolo minuto a reclamare la tutela dei propri diritti di comunisti e una provvida cura per le loro più urgenti necessità. Ed anche, per stringere, dove condizioni locali le rendano necessarie, alleanze con altri, è indispensabile che i nostri non agiscano individualmente e in nome di un programma vago e generico, ma facciano valere il numero dei voti dei quali essi dispongono e dal quale viene ad essi il diritto di occuparsi di cose amministrative; come aventi già un mandato implicito e fiduciario, il quale deve anche esser garante, per la vigilanza degli elettori, che il programma democratico-cristiano, agitato nei giorni di elezioni, non sia poi dimenticato per via, tra i comodi opportunismi che suggerisce ed impone il potere. Dove i nostri non hanno un numero sufficiente di elettori loro e si- 116 Documenti curi, ci pare che essi siano nello stretto dovere di non prender parte ufficialmente alla lotta, come gruppo distinto. Ed anche in periodi di agitazioni elettorali noi dobbiamo mirare principalmente al popolo, illustrando di preferenza quel che le nuove amministrazioni dovrebbero fare per esso, o quello che i candidati della lista preferita si sono espressamente impegnati affare, o, infine, il programma amministrativo della democrazia cristiana, affidandone la futura attuazione alla nascente coscienza degli interessati. Dove si disponga di un certo numero di elettori e non sia quindi necessario astenersi dalla lotta, converrà tuttavia avere dei criteri e delle cautele speciali nella scelta dei candidati propri e nel designare la loro linea di condotta per l’avvenire. Delle alleanze parlammo nel numero scorso. Gruppi dei nostri non dovrebbero, crediamo, concorrervi se non a queste tre condizioni: che sia salva, innanzi al pubblico, la loro personalità; che una parte, la più urgente, del loro programma e delle loro rivendicazioni sia accettata espressamente dagli altri; che tra i candidati figuri qualche rappresentante delle classi inferiori e dei lavoratori, scelto e designato da essi. Introdurre, accanto ai soliti, qualche buon elemento operaio nella vita comunale risponde mirabilmente non solo alle più vitali esigenze del nostro programma, ma anche a quei criteri generali di pace sociale e di cristiana cooperazione, sui quali tanto insiste la S. Sede e che sono quindi un dovere per tutti. Salvi così i doveri di parte, se i nostri potranno, nonostante la impreparazione che essi portano a questa prima campagna elettorale, la quale per giunta li sorprende in un periodo d’incertezze e di transizione, guadagnarsi un posto nel municipio e con ciò una tribuna opportunissima e nuovi mezzi di lavorare, tanto meglio; purché anche nei posti acquistati rimangano fedeli al programma. E innazi tutto, nei contatti e nelle agitazioni elettorali, non contenti di quello che avranno guadagnato per sè, essi dovranno cercare di avere una influenza utile e diretta sul lavoro degli altri. Tocca ad essi fare che i candidati-vanità cedano il posto a gente attiva e di carattere solidamente cattolico, che le alleanze non divengano connubi ibridi, che chiunque deve qualche cosa a voti di elettori popolari paghi di gratitudine e di reciprocità dei servizi i voti che non avrà clandestinamente pagato sulla soglia della sala per le elezioni, e si renda utile al Documenti 117 movimento cattolico popolare. Anche noi democratici cristiani abbiamo—prima dell’attuazione parziale o integrale del nostro programma—un programma direi quasi pregiudiziale e comune a tutti i cattolici; quello che deve gradualmente preparare i nostri, educandone il carattere e migliorandone la cultura, a prendere alla nostra vita pubblica — alla professionale e comunale specialmente—una parte più vasta e più rispondente ai principi cattolici. Questo programma previo e pregiudiziale deve condurci a non disdegnare i contatti e i rapporti i quali, dando forza agli elementi più moderni e più affini ai nostri ed allontanando gli altri preparino la via alle nostre idee o, se si vuole, a noi: anche noi democratici cristiani non dobbiamo disdegnare di esser qualche volta “ministeriali” e di saper discernere e cogliere le opportunità, purché ciò si faccia consapevolmente, per guadagnare altri a noi ed aumentare di forza, e non già per i vantaggi degli altri, così da meritarci l’appellativo, insidioso, che in qualche luogo fu dato ai nostri, di democratici addomesticati. Addomesticati no; domestici cioè facenti parte d’una sola casa e della stessa famiglia sí: e le intransigenze e le concessioni non sono per noi due tattiche diverse ed opposte, ma due vie delle quali la buona non può indicarsi a priori, ma sarà quella che ci condurrà più direttamente e sicuramente allo scopo. Di quel che i nostri saranno, una volta arrivati o condotti alcuni di loro in municipio, avremo tempo di parlare. Le basi generali del nostro programma amministrativo sono note da tempo, e le ricordava recentemente, con opportuna circolare, la presidenza del II° gruppo. Ai nostri tocca di quelle varie e complesse rivendicazioni scegliere le più adatte alle mutevoli circostanze locali, propugnarle arditamente e tenacemente, acquistare ad esse popolarità , indurre la maggioranza - con la forza della opinione pubblica - a farle proprie. * * * Ma forse, nelle elezioni del giugno imminente, poco sarà possibile ai nostri fare ed ottenere per l’impreparazione della quale parlavamo più sopra. Solo fra tre anni, se continueremo a lavorare e se sapremo prendere i passi per tempo, il nostro sarà un movimento maturo e potremo fare molte conquiste. In questo tempo, che deve essere per noi 118 Documenti un periodo di preparazione e di raccoglimento, oltre al venir preparando e facendo gli elettori di parte nostra nelle associazioni professionali e nelle scuole elettorali, i democratici cristiani debbono attendere a preparare sè stessi al lavoro di domani, seguendo con attenzione lo svolgersi della vita municipale nel luogo, studiando, allenandosi alla vita pubblica, tenendosi in frequenti rapporti con gli elettori, chiamando vicino a sé, nelle associazioni di studio e di propaganda, alcuni dei migliori elementi popolari per preparare anche essi alla candidatura e al lavoro. Il nostro programma pratico, nelle cose municipali, deve essere: andare dai gruppi e dai circoli di studio al municipio, portati dalle nostre associazioni economiche. Una volta preso possesso dei municipi, noi saremo divenuti padroni di un magnifico campo di lavoro. PRAM Documenti 119 Da “Cultura Sociale”, 1 giugno 1902 UN PROBLEMA DI TATTICA Caro Pram, Questa volta sono più radicale di te; tu ammetti che nelle prossime elezioni amministrative i democratici cristiani, secondo le circostanze dei luoghi, con le debite riserve e cautele, possono unirsi con qualche partito non cattolico, e scendere uniti nella lotta, e, vincendo, nella vita amministrativa; io credo che questa tattica potrà, date le attuali condizioni, riuscire rovinosa in ogni caso. Credo opportuno manifestarti le mie idee, perché una polemica fra di noi potrà sempre apportar luce alla questione, per me molto complessa. Io credo che un tal problema di tattica non debba essere studiato solamente dal punto di vista locale, vagliando le condizioni di fatto e le circostanze specifiche in cui i democratici cristiani ma anche e con maggior ragione da un punto di vista generale. Noi democratici cristiani non siamo un partito puramente amministrativo, quali ce ne sono tanti nei comuni del Regno, la cui vitalità è circoscritta in quell’ambito determinato, con i fini di una più o meno onesta amministrazione, di una finanza più o meno democratica; a non parlare dei partiti che sono delle vere consorterie di mutua assicurazione, e servono come valida piattaforma delle elezioni politiche. La concezione del nostro programma è così vasta, che la vita amministrativa, nel senso stretto della parola, diviene (per quanto importante) una parte limitata e circoscritta. Noi invece dobbiamo guardare la vita amministrativa, non solamente come il mezzo di dare ai nostri comuni una onesta amministrazione, ma in rapporto ai compiti generali e alle finalità speciali che incombono a noi come partito sociale in tutto l’ambito della vita pubblica. A noi è preclusa (e giustamente) la vita parlamentare, quella vita che, nella sua complessa funzione e nell’influenza che esercita 120 Documenti sull’ambiente, dà grande forza morale ad un partito e determina in molta parte della coscienza delle masse. Questa proibizione, per quanto in sè giusta, necessaria ed emanata per ragioni di ordine altissimo, ci costituisce (è una semplice costatazione di fatto) di fronte agli altri partiti, in una inferiorità notevole e diminuisce la nostra influenza nella vita pubblica e nell’animo delle masse, che bisogna educare al nostro programma e stringere a noi; perché per tale proibizione ci viene a mancare una porzione efficace di vita pubblica, che influisce sulla psiche del popolo e determina un cumulo di rapporti e d’interessi e una maggiore propaganda di programma e d’idee. Se all’influenza che può avere un partito per la posizione parlamentare si aggiunge il carattere di partito nuovo, riformatore, che accoglie in sè le aspirazioni del popolo e sente le vie della riscossa nazionale o sociale, allora le masse vengono quasi fatalmente attratte nell’orbita di quel partito e la coscienza popolare fermenta nuove aspirazioni di vita. Il liberalismo nella fase nazionale ha avuto ieri, come ha oggi il socialismo nelle fase sociale, tutte due le condizioni; e nessuna meraviglia reca se il popolo ieri fu con i liberali (anche senza esser tale) e oggi con i socialisti (pur non accettando intieramente le teorie del sistema), e ciò almeno nella vita pubblica; la quale di rimbalzo influisce notevolmente sulla vita privata, come condizione ambientale efficacissima, come educazione di sentimento, come complesso di aspirazioni, come sviluppo di interessi. Noi democratici cristiani nella vita pubblica necessariamente dobbiamo assumere il carattere di partito (benché tale parola non incontri il gusto di molti....bizantini); e di partito nella sua essenza popolare, nei suoi rapporti universali, e non circoscritto ad un solo problema. Questo carattere ci mette a paro dei partiti nuovi, con un elemento specifico e tutto nostro che determina una preponderanza notevole, l’elemento religioso. E se ci manca l’azione parlamentare, ci restano nella vita pubblica due elementi di primo ordine, cioè l’organizzazione positiva del non expedit, che tocca i rapporti tra Pontefice e popolo, e che è un primo stadio di politica guelfo-italiana, e l’azione municipale e provinciale che racchiude in sè molti problemi d’interes- Documenti 121 se generale e determina una notevole influenza di partito sulla vita pubblica e sociale. Or, condizione necessaria di vita per ogni partito è pigliare nette le posizioni di lotta e mostrare il proprio carattere senza ambagi; questa mancanza di equivoci ci farà avere tosto amici e nemici, necessari gli uni e gli altri allo svolgimento del programma, all’incremento delle forze, all’attuazione dei propositi, alla conquista della vita pubblica. Intensificare le forze è un secondo criterio di tattica, che deriva dal primo; l’equivoco politico snerva, fiacca, corrompe; la franchezza, si chiami anche intransigenza, elimina gli spiriti deboli e corrobora i coscienti; così le forze del partito s’intensificano. Perché ciò avvenga sono necessarie le affermazioni pubbliche nelle principali ragioni specifiche di partito, che per noi sono i fatti religiosi, il non expedit , i fatti sociali, la vita amministrativa. Ogni affermazione può avere un esito positivo o un esito negativo nella finalità immediata; uno sciopero che non ha risultato, una lotta elettorale perduta o viceversa; dico nella finalità immediata, perché se si lotta per un principio vero (è il nostro caso), i risultati mediati sono sempre positivi, non ostante le oscillazioni, anche forti, della vita pubblica; perché solo così si formano le coscienze e l’elemento intellettivo e morale corrobora. Da ciò io credo che scenda evidente il seguente postulato: “Che è d’uopo dare tutto e intiero il carattere specifico all’affermazione di un principio, anche con la previsione che i risultati immediati possano essere negativi; anziché, per ottenere un risultato affermativo, sminuire l’efficacia e il carattere dell’affermazione stessa.” * ** Entrando nell’argomento delle elezioni amministrative, esaminiamo quale sia la condizione degli altri partiti e la nostra; e quale potrà essere la posizione che si assumerebbe da noi, o unendoci con altri, o scendendo in campo da soli. Possiamo dividere l’Italia in due parti; quella dove esistono partiti d’idee e quella dove esistono partiti di persone; s’intende che si tratta di caratteri predominanti, non essendo quasi mai i partiti d’idee 122 Documenti scevri di personalismo, e quelli di presone addirittura senza qualche idea d’indole generale. Nelle città dove sono di fronte i partiti d’idee per lo più troviamo i liberali (divisi in due o più campi, con denominazioni diverse: progressisti, moderati, giovani monarchici, democratici, ecc.); i popolari (radicali, socialisti, repubblicani, siano o no coalizzati); e i cattolici, divisi, se non di nome, almeno di fatto, e per criteri non di rado irriducibili, in conservatori e democratici cristiani. Questi ultimi in generale sono pochi, agli inizi della loro vita e forse del tutto nuovi alle lotte amministrative. Tranne in pochi centri, dove si sono affermati in una delle precedenti campagne amministrative, o dove i cattolici (tipo generico) sono all’amministrazione da pochi anni, nel resto d’Italia le prossime elezioni generali segneranno per i nostri amici un primo passo, un primo tentativo, che per sè è il più difficile e gravido di conseguenze, buone o cattive, per l’avvenire della vita pubblica del partito. Una delle due ipotesi: o i nostri hanno già con le leghe di lavoro, con l’istituzione di opere economiche, con la propaganda , una posizione non indifferente nell’ambito del comune, e uomini coscienti, adatti a disimpegnare il mandato consigliare; - o invece sono scarsi di forze non solo numeriche, ma anche intellettive, nè la coscienza degli aderenti e dei simpatizzanti si trova sufficientemente formata. Nella prima ipotesi, io credo necessario che i nostri manifestino la propria individualità , distinta e non confusa con l’individualità di altri partiti. Pur avendo di mira prendere una posizione in consiglio, o di centro o di minoranza, - in casi eccezionali, e dove i precedenti lo consigliano, quella di maggioranza - l’educazione del proprio corpo elettorale e i fini generali della nostra azione impongono il dovere d’un programma veramente democratico-cristiano e di uno stacco leale e netto da qualsiasi altro partito che non può con noi avere le stesse idee e lo stesso programma. Del resto, è così difficile il caso che i nostri si uniscano con i socialisti, che ciò si esclude senza discussione. Restano i liberali non settari - perché i liberali settari hanno in rapporto a noi l’enorme irriducibilità di propositi - con i quali se è possibile un accordo nei limiti dell’onestà amministrativa e dell’elemento religioso; non è possibile un’intesa sincera nel resto del nostro Documenti 123 programma che tocca l’essenza della democrazia cistiana. Ammettere una decapitazione di programma è semplicemente una capitolazione prima della battaglia. Prescinderne è mettere a base degl’indizi della nostra vita pubblica l’equivoco, rovinoso in ogni senso e per ogni ragione. Le masse che seguono il nostro programma si crederebbero giustamente tradite e ingannate; un’onda di sfiducia ci farebbe perdere quella posizione di già acquistata. E non è di questo solo lo svantaggio che da simile coalizione ne verrebbe. Non si può accompagnare dall’azione municipale una forte ripercussione sull’azione politica; ed è evidente che noi, dando forza ai liberali perché vincano nelle elezioni comunali e provinciali, contribuiamo indirettamente a sostenere un partito politico che ne’ suoi criteri fondamentali è antisociale, e nel fatto ha rovinato la nazione, ha combattuto la Chiesa; un partito che è destinato a rovinare, e che nella sua rovina tenterebbe di travolgere il nostro partito, anche alleandosi con i socialisti: gli esempi non sono lontani. Si aggiunga che il popolo, sopra cui contiamo come elemento di vita pubblica, non potrebbe certo aver fiducia in noi, visto che col trionfo dei liberali, per causa nostra, lasciamo che continui un regime di vita pubblica poco o niente consono agli interessi, ai diritti e alle rivendicazioni popolari. E non basta: la coalizzazione di due partiti, uno più forte e uno più debole, irriducibili nelle idee fondamentali e negli indirizzi pratici generali, riesce al sacrifizio del più debole al più forte . Conveniamo che il più debole è il nostro; - ebbene, se i partiti coalizzati saranno soccombenti, i nostri nomi, che non hanno i precedenti politici e l’influenza dei pezzi grossi della liberaleria, resteranno in fondo all’urna, con gli svantaggi e senza i reali vantaggi di un’affermazione; se invece riusciranno ad avere la maggioranza, andando all’amministrazione i nostri dovranno accettare eredità per lo più rovinose, con colleghi niente affatto disposti a subire le nostre influenze - e così avranno tutti gli svantaggi del potere, specialmente per un partito giovane, e che non si è prima affermato nei banchi dell’opposizione, senza il vantaggio di una posizione predominante nei diversi rami di amministrazione e nel paese. E di ciò quarant’anni di vita municipale cattolica ci fanno fe- 124 Documenti de; per lo più i nostri, senza volerlo, han servito di piedistallo ai liberali, che han saputo andare a baciare l’anello del vescovo o portare l’ombrello al Sacramento o intervenire in pompa nelle feste del santo patrono. Una difficoltà. - Non sarà peggio per il comune e per gli interessi generali della religione e della democrazia cristiana che vadano al municipio o i liberali settari o i socialisti? Ecco: quanto al meglio o al peggio non si può dare risposta assoluta; perché, secondo i diversi punti di vista da cui si guarda, varia e si modifica il giudizio; certo che un tal trionfo non può esser voluto da noi, ma se avverrà anche perché noi non ci saremo uniti ad un altro partito, non potrà cadere su di noi la responsabilità del male; ma su quegli elettori che hanno col loro suffragio fatta cader la bilancia da quella parte. Del resto, per aver troppo ristretta visione del male e dei rimedi, molti sforzi generosi dei cattolici nell’ambito municipale sono andati a vuoto, e non ci hanno lasciato nessun terreno preparato, nessun ambiente formato; e l’utilità del momento ha spesso rovinato l’avvenire. Io ho ferma convinzione che il potere che cade in persone che mancano del vero criterio dell’onestà e del bene, quando vi è una ben nutrita opposizione nella vita pubblica, sfrutta e rovina. Del resto i partiti liberali settari sono già sfruttati; i socialisti, che hanno l’aura popolare otterranno il loro quarto d’ora fatalmente e ineluttabilmente. È meglio che arrivino alla gran lotta dell’avvenire sfruttati dal potere; perduti nelle dolorose condizioni amministrative dei nostri comuni; impotenti a mantenere le troppo facili promesse; ridotti alla verità negativa delle loro fallacie; mentre si andrà affermando ed evolvendo il nuovo partito dell’avvenire, fondato sulla verità e la giustizia, disposto a non dar tregua al nemico ma a combatterlo in tutte le posizioni. Se il liberalismo avesse avuto in noi un avversario forte, unito, agguerrito, la decadenza sarebbe stata affrettata, e nella evoluzione avrebbe trionfato più presto la forma normale della società. Mi sono divulgato molto sulla prima ipotesi, perché è più facile la tentazione d’una unione per arrivare al consiglio, là dove le nostre forze sono evolute per la vita pubblica, benché non siano così numerose da essere sicure dell’esito in una lotta in cui scenderebbe- Documenti 125 ro da sole. La seconda ipotesi, cioè che i nostri siano pochi di numero, non intieramente coscienti del programma, e non abbiano persone che possano bene rappresentare al consiglio l’idea democratico cristiana, credo che sia più generale. Stabilire una tattica netta e precisa in tali casi è assai difficile. Forse sarebbe meglio non scendere per ora in campo ma attendere che si maturi l’organizzazione con opere di propaganda, con istituzioni speciali, con un’azione prudente e progrediente nell’ambito sociale. Se è possibile, anche su una o poche persone, un’affermazione che non sia addirittura microscopica io la consiglierei, come una prima prova; anzi come mezzo di propaganda, riesce spesso assai utile; a Caltagirone nel 1899, a Girgenti e a Sciacca nel 1891 tali tentativi sono riusciti - Se ciò non si crede opportuno, un altro mezzo di affermazione sarebbe lo scegliere una questione ardente d’indole locale, possibilmente sociale, e votare per coloro che accettano formalmente i criteri dei democratici cristiani, mantenendo però nette le distinzioni. Anche quando si stimerà più utile appartarsi, è conveniente che si faccia in una forma positiva e non mai negativa, come per esempio, l’astensione in massa, o una candidatura protesta, o un ordine del giorno vigoroso. Importante è l’affermazione del partito; tale affermazione dev’essere principio, anche tenue di vitalità. Passiamo poi a guardare quella parte dell’Italia dove, più che il partito, può la consorteria a base di persone che tentano aver il potere per reggere sè e i propri deputati; - anche per tali cause con maggior ragione escludo qualsiasi proposta di unione e di coalizione. Per lo più questi partiti personali non sono onesti, non hanno programma, e loro fine precipuo è tenersi in alto per ragioni politiche... ed economiche, fin troppo economiche! - Manca alla loro azione elettorale e amministrativa qualsiasi idealità; per lo più il capo partito, il grosso barone, il deputato, sono l’insegna attorno a cui si agitano le più basse passioni pubbliche, e attorno a cui mestano i mafiosi, i camorristi, i girella, i tornacontisti . Ambiente corrotto, dove la compravendita del voto è la condizione indispensabile di vittoria; dove il favoritismo personale è cardine di vita amministrativa e sostegno delle maggioranze; dove il confusionismo e la disonestà sono conseguen- 126 Documenti ze della mancanza di carattere e di idee. E il popolo non ha nessuna coscienza della vita pubblica, dei doveri che impone, nessun criterio d’indole generale; - facile alla passione arriva al delirio della vittoria o all’abbattimento della sconfitta, riguardate come finalità ultime di tutta l’azione, che deve riuscire benefica o malefica ai propri interessi personali. - Tale passione fa riguardare gli avversari come nemici, turba le amicizie e le famiglie, e crea nell’ambito del comune la fazione, tante volte confusa o immedesimata con le tradizioni delle divisioni campanilistiche tra le due chiese e il culto di due santi. In tale condizione l’unione nostra con uno dei due partiti forti e potenti che da gran tempo, come i guelfi e i ghibellini, dividono le città riuscirebbe ad alienarci metà di Comune, che domani potrebbe divenir nostro, e a stabilire uno stacco profondo, insanabile. A nulla varrebbe il programma sopra cui ci potremmo affermare; non si capisce un programma, nè entra nella coscienza popolare, se non quando un lungo lavorio di fatti lo impone . Altrimenti anche per noi sarebbe fatale il confusionismo dei partiti locali, che ci trascinerebbe, anche senza volerlo alla rovina. E ciò a non parlare delle altre conseguenze d’indole generale e di carattere politico ed amministrativo sopra esposte. È chiaro che in ogni caso è meglio far da soli, e seguire la tattica sopraccennata, che si può riassumere così: a) Bisogna scendere in campo nelle prossime elezioni amministrative, là dove la preparazione è sufficiente per un’affermazione di principio e di partito; b) Dove questa preparazione non è sufficiente è meglio o l’astensione positiva , o un intervento indiretto; purché si affermi sempre il carattere di partito distinto e staccato dagli altri; c) In nessuna ragione e per nessun caso (come criterio generale) è opportuno stringere leghe con i partiti avversi , liberali, popolari o personali di consorteria. d) È necessario formulare programmi chiari, netti, specifici (sia d’indole generale che locale) e fare larga propaganda delle nostre idee; e) Tranne in casi specialissimi ed eccezionali, nei quali è do- Documenti 127 veroso tentare di avere la maggioranza, - obiettivo nostro dev’essere quello di ottenere nei Consigli la minoranza o il centro; f) Le liste devono essere formulate di candidati coscienti del nostro programma, e che abbiano la sufficienza di sostenerlo nei Consigli; e devono essere composte di elementi delle diverse classi sociali, dal propietario al lavoratore; g) Dove non è possibile formare una lista, è meglio contentarsi anche d’un solo candidato intieramente nostro e capace di sostenere il mandato consiliare. Torno ad insistere che la preoccupazione maggiore dei nostri, nelle prossime elezioni amministrative, dev’essere quella dell’avvenire del partito democratico-cristiano nella vita pubblica; nè dobbiamo per considerazioni locali ritardare i passi al cammino della idea democratica cristiana. Caro Pram, forse m’ingannerò; ma tu potrai meglio di me guardare il nostro passato, prossimo e remoto, e il nostro avvenire. Ti sembrerò pessimista; io aborro dagl’idilli. In questo momento, quando ancora una cultura soda anche riguardo ai problemi amministrativo-sociali non è generalizzata nel campo nostro; quando molto di tradizionale e di vecchio, diffuso nel nostro ambiente, ci lega ai liberali; quando (nonostante gli sforzi) un soffio di reazione passa sul nostro capo, una qualsiasi oscillazione della nostra condotta potrebbe portare gravi conseguenze nell’avvenire. Credi che io esageri? Caltagirone 10 maggio 1902. Tuo L. Sturzo Se l’amico L. Sturzo non dichiarasse di aver scritto l’articolo per suscitare una polemica con me, io non mi sarei forse accorto, leggendo il suo, d’un dissenso sostanziale nelle idee: grandissima parte delle cose che L. Sturzo scrive nella lettera precedente io accetto e sottoscrivo a due mani. 128 Documenti Ma qualche differenza e qualche cosa che io non accetto delle idee di L. Sturzo c’é, ed é appunto la parte che riguarda l’esclusione assoluta - benché egli aggiunga come criterio generale - d’ogni accordo con uomini e partiti non cattolici. In fondo, nei miei due articoli, a una tattica di accordi si concedeva molto poco: i democratici cristiani non avrebbero dovuto prendervi parte che alla spicciolata e senza impegnare il programma, e solo in quanto si supponeva che le altre graduazioni di cattolici - suggerente spesso l’autorità ecclesiastica - avrebbero accettato e concluso tali accordi. Le restrizioni che io metteva erano poi tali e così gravi che realmente solo in pochissimi casi esse avrebbero potuto verificarsi, dando così luogo ai nostri di agire per conto proprio e con grande libertà di mosse, come essi accennano a fare nei centri dove sono più numerosi e meglio organizzati. Come criterio generale di partito democratico cristiano le idee dello Sturzo sono giustissime, credo, e sono anche le mie; ma una parte dei suggerimenti pratici contenuti nei due articoli della Cultura non era rivolta ai democratici cristiani, organizzati più o meno in associazione di partito ma a tutti quelli che, individui o aggruppati, per simpatie o affinità, avessero voluto tenerne conto; di fatto il primo di que’ due articoli era rivolto a tutti i cattolici. Ora, democratici o simpatizzanti ve ne sono dappertutto; ed é certo che, salva la integrità e la purezza del programma, essi possono con molti modi variamente influire sull’esito delle elezioni, favorendo gli uni o gli altri elementi; e ottenere, dentro certi limiti, con una condotta oculata e prudente, risultati notevolissimi. Non si trattava di condotta di partito, ma di evoluzione generale dell’ambiente: acquistar contatto con gli elettori, trattar le quistioni municipali, prendere dalle elezioni e dai comizi occasione di far conoscere il proprio programma, facilitare l’accettazione di operai nelle liste anche concordate, procurare la eliminazione graduale dei vecchi elementi parassitari, ottenere assicurazioni e promesse per lo sviluppo dell’organizzazione democratica cristiana: tutti criteri di tattica spicciola che, anche fuori della condotta rigida e intransigente di partito, possono avere larghissima applicazione, e che hanno il vantaggio di rispondere allo stato dell’animo cattolico in questi ultimi tempi. Ma quale é l’indole dei problemi municipali più gravi e qua- Documenti 129 le il loro rapporto con le rivendicazioni generali del nostro programma cattolico sociale? E dobbiamo o possiamo noi seguire nei problemi municipali una linea di condotta unica, mettendoci fuori, in nome di un partito guelfo, dalla varia combinazione dei dati di fatto e delle attività politiche locali? Grosse questioni che richiedono una risposta più larga e matura. PRAM. Documenti 131 Da “ Il Domani d’Italia”, 8 Giugno 1902 Il programma municipale dei d.c. romani Discorso di R. Murri «Tutto ciò che è di Roma rinasce». Signori! In mezzo a tante mutevoli vicende di parti e di scuole, un fatto domina la vita moderna e ne costituisce la nota caratteristica: il rapido estendersi, in tutti i campi dell’attività umana, dell’associazione. Sia che con l’aumento della ricchezza e della cultura il rapido incalzare dei bisogni costringa a provvedere con sforzi collettivi alla soddisfazione di quelli che hanno carattere comune; o che la consapevolezza e il possesso che l’uomo ha acquistato delle forme concrete dei rapporti sociali renda queste più adatte alle necessità umane, più plasmabili e quindi più facili a svilupparsi; o sia anche che davvero l’uomo diviene ogni giorno più fratello all’uomo e negli atti della sua vita esterna si traduce un miglioramento, profondamente religioso e cristiano, avvenuto nei cuori; siano esse od altre o tutte queste ed altre insieme le cause, certo mai come oggi questo fatto che ha tanta importanza nella vita della specie umana, l’associazione, ebbe più rapido sviluppo e più vaste applicazioni. E tutte le forme di associazione vi hanno guadagnato: la libera, o cooperativa, la professionale, determinata da una evidente e stabile coincidenza di interessi, la politica. Ed è evidente che ciascuna di esse è in intimi rapporti con le altre: poiché tutte le avvolge e penetra e domina un più alto senso di solidarietà, un principio nuovo di giustizia sociale, un trasmutarsi del diritto umano per la sostituzione di un più elevato concetto di proporzioni e di corrispondenze etiche al calcolo strettamente giuridico e quasi meccanico della parità assoluta. Ma nello sviluppo della associazione politica noi vediamo avvenire questo fatto: che mentre i compiti dello Stato e del comune aumentano insieme, una diffidenza giusta e diffusissima ci porta ad esaminare e vagliare accuratamente ogni nuova pretesa di espansione da 132 Documenti parte dello Stato, ma con senso di fiducia giovanile e freschissima teniamo dietro all’aumento dell’attività dei comuni: e mentre pel primo, più che gli aumenti necessarii e spontanei di operosità, ci preoccupa il bisogno urgente di sottoporre ad una revisione critica tutti i suoi compiti attuali, di fare il processo ad una lunga tendenza di accentramento e di compressione delle altre forze sociali, di sfrondare gli ufficii parassitarii della milizia permanente, della burocrazia, della amministrazione, delle scuole di Stato, pei secondi cerchiamo e sollecitiamo provvedimenti legislativi che diano ad essi libertà piena di mosse e di azione. E quel che oggi si fa per questa via, con il lodevole progetto di legge Giolitti sulla municipalizzazione, è giudizio comune non sia che un primo passo; un primo acconto a un creditore che reclama con insistenza ogni giorno maggiore i suoi crediti lungamente trascurati. E, notatelo bene, non è una apposizione di nuovi compiti agli antichi, un estendersi delle funzioni municipali: è la sostanza stessa della cosa municipale che si trasforma, nel concetto delle attribuzioni sue proprie, nei modi di attingere alla ricchezza pubblica i beni dei quali ha bisogno, nei suoi rapporti con le classi nelle quali ha le radici, in quelli con lo Stato che la sovrasta: è un ente nuovo, produttore di servigii collettivi, integratore della comunità delle famiglie che lo compongono, e soprattutto, provvido iniziatore di giustizia, di assistenza, di tutela, di comuni incrementi, il quale si sostituisce al municipio presente, organo decaduto e avvilito di prevalenze di classe, di Stati accentratori, d’un dritto pubblico gendarme, che dinanzi ai cittadini stava, quasi come un estraneo, a tutelare l’incolumità delle persone e dei beni, e null’altro. E questi suoi compiti il municipio nuovo ripiglia, rifiorendo nel turgido e fecondo terreno delle democrazie contemporanee, e risollevandosi, dalla decadenza di quattro secoli di servitù politica che pesarono specialmente su di esso e dalle grettezze in cui lo chiuse un regalismo arido ed assorbente, al concetto profondo e cristiano d’una illimitata solidarietà comunale fra i liberi ed eguali che lo compongono: e li ripiglia, parte ricevendoli, come l’istruzione e la beneficenza, dalla Chiesa, provvida tutrice la quale li esercitò in luogo di esso e per esso, maternamente; parte rivendicandoli dallo Stato, tenace e violento usurpatore, parte strappandoli all’ingordigia di speculatori, e parte anche esprimendoli da sé medesimo e dal fecondo alito di giustizia e Documenti 133 di pace sociale che lo ravviva. Ma io debbo affrettarmi a parlarvi del municipio di Roma e della materia di osservazione e di analisi, che esso mi offre; ed esaminando anche il muoversi in esso dei partiti e dei programmi nell’ora presente, a delinearvi molto brevemente il programma che emerge dalle cose indicate, e che per noi democratici cristiani è norma di condotta alla quale rimarremmo stabilmente fedeli. Prima del ’70 un governo degno di ogni rispetto, ma antico nelle forme, invadente e sospettoso anche per necessità di difesa, sacerdotale, penetrava il municipio romano e lo dirigeva, lasciandogli poco più che l’ufficio d’una semplice rappresentanza. Quanto limitata fosse attività di questo lo dice, fra l’altro, il bilancio modestissimo delle spese e il ricordo ancora vivo della parte che nel governo della città prendeva lo Stato. Al comune nuovo, per un lungo periodo di tempo, durante il quale la borghesia governò sovrana e concetti politici dominarono tutta la vita pubblica – il proletariato si preparava allora silenziosamente alle prime conquiste, – il suo compito primo fu spontaneamente delineato dalla situazione. Esso fu, sino alla crisi della fine del secondo decennio, un compito principalmente edilizio. Far dimenticare che Roma era, sino al ’70, la città dei preti, offrire allo Stato una bella capitale, rinnovare tutto, piacere alla borghesia grassa e magra che affluiva in Roma, fu il programma municipale di venti anni. Il proletariato, avventizio in gran parte, contento dei grossi salarii, mobilissimo, non esisteva come organizzazione cittadina e potenza municipale. Innanzi a questa sete del nuovo e invadenza di estranei, nella febbre di spendere e di distruggere che agitava la citta, l’Unione Romana sorse a raccogliere i cittadini della Roma di prima, fedeli alla Chiesa per tradizione o per ufficio, quella parte della borghesia grossa e quieta la quale vedeva con ispavento la fretta faraginosa degli altri, e l’artigianato locale per cui la Chiesa era ancora la padrona cara e dispensatrice di lavoro. L’Unione romana non rappresentava una resistenza politica, né un programma di riconquista: aliena da pretese e da intemperanze, essa era per eccellenza, un elemento moderatore. E l’Unione romana fu forte: fu forte pe le affinità degli elementi 134 Documenti che la componevano e la loro docilità; forte anche per la democratica semplicità della sua costituzione e pel valore degli uomini integri che le diedero vita e la diressero. Venne la crisi edilizia e il còmpito del municipio romano, invertito nei termini, rimase nella sostanza lo stesso, grettamente finanziario: dove prima si trattava di spendere, oggi si trattava di risparmiare. E contro le intemperanze degli elementi politici più avanzati, i rappresentanti dell’Unione romana appoggiarono la borghesia liberale moderata della città e presero parte con essa al potere. Ma, come avviene sempre, lo stato delle cose andava mutando nella profondità, mentre alla superficie esse rimanevano le stesse: e agli spiriti osservatori la decadenza e l’irrequietezza le quali apparvero poi improvvise nella notissima riunione dell’ottobre scorso incominciavano a manifestarsi. Nelle ultime elezioni i socialisti presentarono un faraginoso programma loro e si affermarono su di esso: dei nomi dei candidati dell’Unione non tutti furono egualmente accetti al pubblico, e parecchi col tempo divennero anche meno accetti per la nota indifferenza all’alto ufficio: gli effetti della crisi edilizia cominciavano a dileguarsi, tanto che – sogno d’una notte di inverno – l’antico programma di ingrandimenti edilizii parve dovesse tornar d’un tratto in onore: la questione delle Naiadi mostrò come anche sulla tutela della parte del programma più strettamente religiosa e morale le cattoliche oche capitoline sonnecchiassero: i Comitati rionali dell’Unione languivano. Ma c’è di più. La coscienza popolare è lentamente ma perennemente permeata da altre correnti di idee. Benché Roma, per l’assenza d’un proletariato industriale e per la prevalenza di interessi politici, sembri terreno poco adatto alle nuove fioriture sociali, tuttavia anche in essa va lentamente avvenendo una nuova orientazione degli animi. I problemi economici e sociali, la consapevolezza di poter far qualche cosa in un senso o nell’altro per risolverli, le nuove scuole e parti sociali salgono sull’orizzonte e lo tingono di nuovi colori: vecchi problemi tramontano o nuovi problemi compaiono. Due fatti debbono richiamare più specialmente la vostra attenzione: il rapido progresso della organizzazione professionale e l’apparire Documenti 135 – salutate, signori – della democrazia cristiana. Il primo fatto, favorito dalla Camera del lavoro ed anche, nei limiti del possibile, dalla nostra Lega cattolica del lavoro, sostituisce agli elettori disorganizzati d’un giorno, raccolti pèlè mèle all’ultim’ora da un’associazione politica, elettori affiatati: il secondo vi avverte che in questi ultimi anni un’ampia revisione critica del programma di parte cattolica ha avuto luogo e che esso ha oramai nuovi paragrafi e nuove esigenze, che è impossibile trascurare. Quali sono questi paragrafi e queste esigenze nuove sarebbe lungo il dirvi: della parte sociale io mi occuperò più oltre: pel resto vi dirò solo che il programma democratico cristiano rende o tende a rendere impossibili molte ibride alleanze e concessioni possibili un giorno ed ovvie: che dai cattolici, clero o laicato, eletti o elettori, essa reclama integrità di principii, rettitudine piena non di coscienza solo, ma di condotta oggettivamente considerata, una altissima cura di ogni compito di educazione popolare e di tutela sociale, un senso acuto e perspicuo di modernità e di civiltà, una feconda gara, in giovinezza di idee di iniziative di opere civili con tutte le altre o scuole o parti, negli interessi del cristianesimo stesso e della Chiesa. E per noi deve cessare specialmente quella tacita bugia che a consumatori cattolici ed ecclesiastici associava stabilmente fornitori liberali, che i compiti religiosi della vita parrocchiale e della istruzione privata dissociava intieramente dai compiti civili dei cattolici, che conosceva la via del Vaticano per sollecitarne appoggi frequenti più che per narrare lieti successi, che il mandato amministrativo, delicatissimo ufficio e gravissima responsabilità, diminuiva inconsapevolmente, per superbia od egoismo di classe ad affare privato e comoda sinecura. A noi importa mostrare, più che contro cattive volontà contro false abitudini sociali, che la vita privata, la famiglia, il circolo, la professione, il municipio non sono cose o parti isolate, disiecti membra christiani, ma costituiscono un circuito chiuso, un organismo vivo, nella cui salda unità si affermano il carattere di cittadino integro e il principio religioso profondamente sentito. E noi incalza e punge il proposito di ricondurre il cristianesimo al governo della civiltà e di attrarre ad esso le correnti della democrazia, acque pullulanti dal profondo seno dell’Europa cristiana. 136 Documenti Diamo ora uno sguardo ai partiti e ai programmi di oggi. Essi si riassumono in tre classi: l’Unione liberale, la democratica, la romana. La prima, raccolta di borghesia liberale conservatrice e di parvenus della massoneria e dell’alta democrazia, di aristocratici bianchi e di monarchicucci anelanti alla croce, di tutti i comitati per le onoranze e per i festeggiamenti, di clientele politiche e di clientele d’ufficio, non ha programma, altro che questo: rimanere al governo. Ed essa si divide internamente in due: elementi massonici e anticlericali sazii e stupidi parassiti del potere in tutte le sue ramificazioni ed elementi moderati che sottomano ricorrono e si appoggiano ai clericali. Ipocrita e follaiuola essa batte oggi il chitet dell’anticlerismo: e il chitet dà un suono fesso e rauco che vellica disgustosamente l’orecchio più che allarmarlo. L’Unione democratica, dottrinaria e prevalentemente politica, è associazione giovane che forse, come tutte le cose giovani qui in Roma, avrà poca fortuna questa volta; ma che avendo affermato, per bocca dell’on. Sacchi, la libertà per tutti, negli amplissimi limiti della costituzione, raccoglie in sé tutti gli elementi della Camera del lavoro, associazioni professionali autonome, come quella degli impiegati governativi, e le frazioni più colte e progressiste della borghesia. Essa sarebbe un fascio di forze imponente: solo le nuocerà forse grandemente il non aver potuto, per strettezza di tempo e difficoltà di organizzazione (essendo la maggior parte dei soci non romani d’origine) il raccogliere in un programma più pratico e preciso di tutela di interessi locali le sue tendenze amministrative. Ma l’Unione democratica ha largamente affermato la volontà di accogliere nel suo programma le principali rivendicazioni della democrazia municipale: ed è molto: e gli uomini che essa sceglierà porteranno certo, se eletti, in Campidoglio il soffio dei tempi nuovi. Una affermazione del Sacchi, nel suo recente discorso elettorale, debbo qui rilevare: ed è quella nella quale egli, giudicando superate le vecchie distinzioni fra clericali e anticlericali, dice che la questione va posta nel terreno economico: alla quale però contraddice l’altra, dello stesso Sacchi e nello stesso discorso, che i clericali sono fuori della costituzionalità, perché non accettano il terreno presente delle lotte civili. Nel che l’on. Sacchi erra: perché oggi i cattolici, rivendicando an- Documenti 137 che per sé le migliori tendenze e conquiste della democrazia, accettano benissimo per la loro attività il terreno che egli chiama costituzionale: le loro riserve non sono d’indole politica, e non toccano quindi direttamente la loro attività economica e sociale, ma sì sono d’indole religiosa: né sono certo tali per loro natura – forse l’on. Sacchi ne ha una idea antiquata e inesatta – da impedire ad essi di sentirsi cittadini e democratici, come ogni altro e di contendere agli altri la direzione dei moti civili e sociali. Ciò è così vero che noi cattolici stessi (o almeno noi democratici cristiani) nella presente lotta municipale, siamo lieti di fare come il Sacchi e di portare la questione sul terreno economico: per tutte le rivendicazioni d’indole edita e spirituale che il cristianesimo ci suggerisce prendendo posizione nella vita pubblica, non per imporle dal di fuori, in nome d’una autorità superiore ed estranea, ma per promuoverle dal di dentro come forze di incivilimento e di progresso muoventisi ed operanti nel seno medesimo della civiltà cristiana. L’affermazione adunque del Sacchi non ci tange. Ed ora, signori, il nostro programma. Ma, non temete, sarò breve: giacché un programma d’azione pubblica non prenasce mai intiero nella mente d’un uomo, né si adagia nei periodi di un breve discorso. Noi vogliamo solo che il pubblico sappia quale impegno prendiamo innanzi ad esso e che giudichi se il nostro pensiero risponde al suo animo: poi il programma lo verremo esponendo, o nella critica, libera sempre e serena, dovesse anche appuntarsi oramai contro i nostri, fuori del Campidoglio, o nella critica e nell’azione insieme in Campidoglio; e l’una cosa piuttosto che l’altra, secondo che a voi piacerà, o elettori romani. Della parte religiosa del nostro programma permettete che non vi occupi a lungo. Pretese nuove, in questo campo, noi non affacciamo. Potrebbe trattarsi, al più, di far valere più liberamente e più vigorosamente le consuete: neutralità della Giunta, non troppi zeli patriottici, specie quando abbiano il male della retorica, rispetto alla religione, libertà alle sue manifestazioni consuete, insegnamento religioso efficace nelle scuole. Potrà forse anche trattarsi di più prontezza di decisioni, integrità di condotta cristiana nelle cose pubbliche, libertà di mosse: ma il più e il meno non mutano la specie, osservano gli antichi 138 Documenti naturalisti. Certo un desiderio vago dice ai cattolici romani che gli interessi religiosi potrebbero essere in Campidoglio più validamente protetti; e che non proprio quando si tratti della croce in Campidoglio o del sacerdote nelle scuole ma quando si gestiscono le cose del pubblico economiche e amministrative una parola, anche meno apertamente clericale, se volete, ma più profondamente cristiana, troverebbe le vie dell’anima popolare e rinnoverebbe gli antichi entusiasmi. Più urgente e più grave è la questione morale. Il municipio moderno ha un nobile compito educativo: compito di tutela, contro l’invadente empietà di costumi e il paganesimo nuovo, compito di elevazione positiva dell’intelletto e dell’anima popolare. Dove si tratti di moralità e di educazione noi dobbiamo smettere il timore di parer clericali quando si tratta solo di essere uomini e cristiani: e perseguitare nei teatri nelle vetrine nelle vie nelle scuole la immoralità, implacabilmente. Ma sono più specialmente i còmpiti sociali del comune moderno quelli nei quali voi attendete da noi una parola nuova e più aperta: ed eccoci a dirvela, purché ci teniate conto dei limiti, strettissimi, di spazio e di tempo. Noi vogliamo, o signori, – la parola è al suo posto, – noi vogliamo spezzare la attuale compagine della vita municipale romana per ricomporla: e la nostra riforma vuol cominciare direttamente dagli elettori. Ravvivare conviene il corpo elettorale dei nostri, chiamarlo ad occuparsi esso stesso dei più urgenti problemi cittadini, aggiungere ai vincoli religiosi e politici che uniscono gli elettori nostri quelli più stretti della solidarietà di interessi e di rivendicazioni economiche: e poi anche ravvivare il contatto e ristabilire la fiducia fra elettori ed eletti, chiamare alcuni dal basso a salire, creare nel seno dell’Unione romana – alla cui illustre presidenza io rendo qui tuttavia omaggio – una rappresentanza extra-consiliare che controlli e punga l’opera dei consiglieri di parte nostra: avviarci così a fare realmente del municipio un corpo di rappresentanti degli interessi collettivi della città, animati da un altissimo senso di giustizia distributiva e aperti al soffio dei nuovi ordinamenti democratici. Provvedete al popolo, accettatene nel vostro seno gli elementi migliori sin da ora, educatelo, restituitegli il senso della sua libertà e dignità, organizzatelo, chiamatelo a discutere i suoi affari ed a miglio- Documenti 139 rare le sue condizioni con la solidarietà, dategli la fiducia in sé stesso, e poi fategli, a questo popolo, più posto, più posto, più posto nella vita pubblica: questo è il nostro programma, e tutto il nostro programma. Primi nell’attuazione di esso i compiti morali ed educativi dei quali abbiamo parlato: viene subito appresso l’appoggio largo, intelligente, cordiale alle forze di rinnovamento che emergono spontanee dallo stesso corpo sociale, a questo nisus formativus di organizzazioni nuove che comincia a rivelarsi sotto i nostri occhi. Alcune cose specialmente, da tal punto di vista è necessario fare senza ritardo: migliorare l’educazione tecnica e commerciale dei figli della piccola borghesia, ottenendo dallo Stato o promuovendo per proprio conto la fondazione di una scuola commerciale media e superiore, con annesso un museo commerciale, dando sussidii per viaggi all’estero, incoraggiando, dove e quanto è possibile, poiché non vogliamo farci illusioni su ciò, il sorgere di industrie rispondenti alle condizioni della città e la trasformazione dell’agro romano. Ed è anche opinione nostra che i cattolici in Campidoglio né debbono né possono limitarsi al semplice trattare le cose amministrative: attingendo forza nel loro ufficio e cercandone nella scienza più recente, la quale prepara il fondo ideale onde germogliano le nuove attività, essi dovrebbero tenersi in frequenti rapporti con la vita cittadina e con quella del loro partito, esser larghi di appoggio e di aiuto a ogni iniziativa che rifluisca nella vita comunale con nuovi flutti e correnti. Fra queste forme di attività nuova da incoraggiare noi mettiamo anche la cooperazione in ogni sua forma. È vero che una classe rispettabile di cittadini protestava recentemente contro alcune applicazioni di essa: ma noi non chiediamo privilegii sibbene libertà e favore per la cooperazione, che è, come osservava recentemente un liberista, non arma di offesa ma difesa dei cittadini contro le ingiustizie della distribuzione: e, sinché un dritto nuovo non si sarà venuto formando, noi crediamo che ad essa basti il presente terreno di libertà e di eguaglianza, quando la avvivi un profondo senso di solidarietà e la diriga un sicuro intelletto del suo intricato meccanismo. Vien terzo il problema di ciò che deve il comune direttamente fare: e qui prima ci si presenta la questione finanziaria. Il sistema tributario del Comune di Roma, permettete che lo dica subito, è radicalmente ingiusto: basta osservare che i più dei tre quinti 140 Documenti dei proventi sono dati dai consumi popolari e che dall’altra parte i due quinti delle spese vanno a pagare interessi di debiti contratti per i begli occhi dello Stato italiano e per le velleità patriottiche delle classi superiori. Avrebbe il popolo, se chiesto del suo parere, pagato tanto più caro il pane od il vino per la trasformazione edilizia della «capitale»? Io so, o signori, che i termini attuali dei bilanci sono per qualche tempo immutabili: e che il recente contratto col governo trasferisce allo Stato l’onere immediato di alcune trasformazioni edilizie più urgenti. Ma osservate che non un soldo deve dare il comune per nuove imprese edilizie, potendo ancora impiegare molte braccia e molto denaro in sistemazioni urgenti. Nello studio delle questioni tributarie noi desideriamo che i cattolici portino, non più solo il consiglio d’una lunga esperienza, ma i lumi delle indagini compiute in questi ultimi anni dalla scienza: indagini e risultamenti di essa che nella trasformazione dei tributi diretti e indiretti, per ragioni o di giustizia o d’una più retta discriminazione della finanza politica e comunale, o di comodità industriali e fiscali, offrono tanto campo a riforme e ad audaci iniziative. Inoltre, ed è quel che più importa, la nuova amministrazione troverà forse votato dalla Camera il progetto di legge per la municipalizzazione dei servizi pubblici; essa dovrà quindi subito provvedere per un avvenire non molto lontano: trovar modo, senz’altro, di riscattare i trams – servizio cittadino di enorme importanza economica e sociale, indegnamente gestito – e la luce, possibilmente e più tardi l’energia elettrica e l’acqua. È proprio, ripeto, la nuova amministrazione che nel triennio prossimo deve mettere i capisaldi per la soluzione di questo problema di importanza vitale, per la ricerca dei capitali necessarii all’utile impiego, e per la costituzione del nuovo demanio comunale. Il popolo esige che i suoi interessi siano più vigorosamente e, permettetemi di aggiungere la parola, più insospettabilmente rappresentati, da alcuni i cui interessi si confondono intieramente con quelli del popolo e che sopra gli interessi porti la voce, e solo essa, del dovere e della giustizia. Alcuni servizi pubblici di minore importanza possono essere anche subito municipalizzati; altri più accuratamente sorvegliati; in altri il municipio può più sollecitamente provvedere ad entrare in lizza con la produzione privata, per frenare i prezzi e introdurre migliora- Documenti 141 menti tecnici: come fu tentato pel pane, per l’acqua, e come alcuni proposero già di fare per la forza idroelettrica. Ed allora, quando i cespiti del nuovo demanio municipale lo permettessero, solo allora, purtroppo, si potrà affrontare l’arduo problema della liberazione del popolo dalle imposte delle fame, sui consumi di prima necessità. Ma la lotta contro l’ingordigia e la speculazione privata, la lotta contro le grandi società vampiri deve essere proclamata ed iniziata subito, per l’onore di Roma e la salute del popolo. A me non pare che l’attività d’un municipio conscio di questi suoi uffici civili possa, in un primo periodo della sua espansione, condurre a gravi conflitti con l’autorità prefettizia, tutrice e spesso arbitra, in nome delle mille ritorte che l’accentramento statale e la burocrazia amministrativa hanno passato intorno alle braccia ed al corpo dei comuni italiani, dei passi del municipio: ma quando anche fosse, il merito di un contrasto aperto e reciso contro una tutela eccessiva, condannata oramai dallo spirito pubblico e dai progressi della democrazia, sarebbe maggiore del danno. Tutti i grandi municipii di Europa sono stati in questi ultimi anni e sono ancora in conflitto aperto con lo Stato: in Italia e a Roma una simile lotta sarebbe tanto più bella quanto migliori sono le nostre tradizioni, più avida e assorbente la cura gelosa dello Stato, più alte le cause del conflitto che verrebbero a riflettersi in esso il giorno in cui i cattolici, in nome della libertà e della democrazia, alzassero dal Campidoglio la loro protesta: dal Campidoglio immemore oggi delle sue glorie latine e dei destini della città. Primo dovere d’un municipio che intenda tutto ciò e che abbia un così vasto e difficile campo di lavoro come è questo di Roma è crearsi un organo di informazioni e di iniziative adatto allo scopo. Noi ci dividiamo radicalmente, su questo punto, anche dai socialisti perché dei doveri del municipio abbiamo un concetto più organico e meno sospettoso e vogliamo un ufficio e consiglio municipale del lavoro. L’ufficio che raccolga diligentemente indicazioni, informazioni, statistiche, programmi: un consiglio che la messe raccolta ordini a scopi di provvidenza e di iniziative d’amministrazione, che intervenga paciere nei conflitti, consulente nelle discussioni d’indole sociale e finanziaria, creatore di nuovi enti, annessi all’ufficio e al consiglio che, nello sviluppo di questa attività nuova sociale del comune, fossero trovati necessari. 142 Documenti Questo ufficio del lavoro necessario a una azione provvida e oculata, come l’occhio è necessario al braccio, noi reclamiamo sia non chiesto sommessamente, ma voluto ed imposto, e costituito entro il più breve termine possibile, con le 6000 lire che erano stanziate nel bilancio dell’anno in corso per sussidio alla Camera del lavoro e con la soppressione di qualche altra spesa inutile. Edotto dai risultati d’una inchiesta ordinata e permanente, il municipio potrà così iniziare quanto prima un utile intervento nelle questioni che hanno attinenza col lavoro. Dolorosamente, la nostra legislazione sociale è così incompleta che il municipio non può far molto in questo campo: pur tuttavia così alta è la sua autorità, così varii i suoi mezzi, così forte l’appoggio che, anche contro lo Stato, gli verrebbe da un largo consenso popolare e dalla sicurezza di se stesso che i risultati morali ed economici potrebbero essere in breve tempo notevolissimi. Ecco intanto alcuni dei compiti precisi del municipio, come noi l’intendiamo, in questa materia: la tutela degli operai dipendenti direttamente o indirettamente da esso; le clausole sociali negli appalti; il favore accordato alle cooperative di produzione; la vigilanza perché le poche leggi sociali che abbiamo sieno rigorosamente osservate; l’arbitrato nei conflitti di classe; la sorveglianza benevola e incoraggiante della organizzazione professionale. L’ufficio municipale del lavoro è quindi la prima e la più concreta delle nostre rivendicazioni. Esso elaborerà, sulla traccia delle idee brevemente indicate, i progetti di opere ed iniziative nuove alle quali fosse opportuno porre mano. Ma noi dobbiamo, anche o signori, spingere l’occhio più innanzi e fermarlo un momento sull’ultima cerchia delle degradanti sfere sociali, alla periferia di questo immenso circolo della vita cittadina, là dove si ricoverano i detriti delle famiglie vinte dalla miseria, i residui di vite affrante dal lavoro, i giovani condannati dalla miseria al disonore e al delitto, le povere pavide famiglie che non riescono a farsi un tetto quieto in cerchia meno triste e lottano contro il pericolo delle ultime degradazioni. Poveri quartieri che non hanno mai conosciuto la società altro che per la fredda e nemica sorveglianza della questura, per i quali la quiete e il lusso dei cittadini è davvero un insulto. Ora, io lo dico con certa coscienza e con voce alta e ferma, al municipio tocca provvedere a riparare a simili miserie cittadine: organizzare la pietà Documenti 143 privata e dirigerla, aprire rifugii diurni, tutelare l’osservanza delle regole elementari di igiene e di morale, profittare dell’appoggio del clero e, quando fosse necessario, sollecitarlo. Molte forme di assistenza suggerirebbe un amoroso intelletto di tali miserie: la scuola, con aggiunta la refezione gratuita ai più poveri (ed in certi quartieri sono tutti), il sussidio intelligente ed illuminato alle iniziative di comunità e di associazioni caritatevoli, l’ispezione diretta affidata a dame pie e buone, l’opera locale della congregazione di carità, ed altre che suggerirà l’esperienza. Di altre forme di iniziativa provvida a tutela degli umili io dovrei occuparmi: delle case operaie, dello sviluppo edilizio (per la parte stradale e di illuminazione che riguarda la città) dei quartieri popolari, della assistenza degli infermi a domicilio e via dicendo: forme di attività municipale nelle quali spesso non si tratta di fare, poiché molto fu fatto, ma di fare di più, di fare più amorosamente e più razionalmente. E se è necessario affrontare, per tal ramo di spese, poiché esse aumenterebbero di parecchio, la questione finanziaria, io credo si possa equamente avanzare una proposta. La tassa di famiglia, quella fra tutte che più si avvicina al nostro concetto fondamentale di imposta personale sul reddito non rende oggi che 870,000 lire. Tale cifra è evidentemente assai bassa. L’aliquota massima potrebbe essere assai facilmentre elevata, per le famiglie il cui reddito accertato superi le 10,000 lire, così che solo i molto ricchi verrebbero ad esserne colpiti: è giusto, o signori, che l’aristocrazia inoperosa, il temuto mondo politico, coloro i quali guadagnano nell’agro romano sui salarii di fame, coloro che vengono dalle provincie a godere gli agii e i tepori invernali della capitale, coloro che più largamente attingono al bilancio dello Stato concorrano un poco di più a liberare dalla fame, dalla miseria, dall’abbrutimento questa folla di infelici che fanno con essi una sola civitas. Forse essi ritaglieranno la nuova e modesta contribuzione sulle spese di puro lusso e sarà tanto di guadagnato anche per essi: forse anche ritaglieranno sulle spese di beneficienza, e sarà ancora qualche cosa di guadagnato: in molte iniziative urgenti il municipio può far più e meglio dei privati, e in ispecie di quelli che organizzano balli per la tutela dei cani e dei muli. 144 Documenti Ed ora ho finito. Le linee generali del programma sommariamente esposto vi avranno forse persuaso che un nuovo e vastissimo campo di lavoro sta innanzi a coloro che il 29 corrente la città porterà al Campidoglio: e che di una lieta primavera di attività cristiana e sociale nella vita pubblica noi cattolici speriamo veder fiorire quel campo. Io mi auguro e vi auguro che un giorno e non lontano il comune di Roma appartenga ai Romani e vuol dire ai cattolici, a noi cattolici. Oggi io vi scongiuro di occuparvi attivamente di un problema più modesto nei termini ma non meno importante: la gente di Roma, al soffio della democrazia, vuol essere un popolo: un popolo di operosi cittadini, un popolo di liberi e di uguali, organizzato, padrone delle sue sorti, retto dalla giustizia ad un benessere crescente: impedite che questo popolo romano si formi al suono della parola lusingatrice dei democratici radicali ed anticattolici: inalberate voi il vessillo della democrazia, fate che il popolo romano, disprezzando le cupide voglie d’una democrazia di Stato ed atea, appartenga a sé e a Cristo, libero e forte: e che l’anima di esso frema e parli ed operi in Campidoglio, e il mondo, che sa le vie di Roma, guardi ed ammiri la nuova forza del pensiero latino. Documenti 145 Da “Il Domani d’Italia”, 15 Giugno 1902 Elezioni amministrative in Roma Sabato sera nella sala del Gruppo democratico cristiano romano in via Montecatini 5, ha avuto luogo la annunciata conferenza di R. Murri sull’argomento: Programmi e partiti municipali in Roma. Il Murri dopo aver rapidamente tratteggiato la posizione sociale del comune nuovo, ricordò, a grandi tratti, le vicende del Comune di Roma in questi ultimi trent’anni e rifece la genesi dell’Unione romana; della quale disse che essa si è sempre proposta un compito modesto e strettamente amministrativo di elemento moderatore e che, potendo avere la maggioranza, preferì lasciare il potere alla borghesia liberale conservatrice, contentandosi d’una parte subordinata. Passò poi a delineare il programma che, secondo i democratici cristiani, dovrebbero svolgere in comune i nuovi amministratori di parte cattolica. In una rapida esposizione il Murri toccò moltissimi punti: insisté più specialmente sui seguenti: a) Sviluppo dell’istruzione ed educazione professionale in Roma anche con l’impianto di una scuola e di borse commerciali; b) Impianto d’un ufficio e consiglio del lavoro il quale con inchieste e lavori statistici prepari la nuova attività sociale del comune; c) Studii per la denunzia (quando il progetto di legge Giolitti sarà passato in legge) dei contratti con la Società dei trams e con l’altra per l’illuminazione di Roma, affinché il comune possa municipalizzare detti servizii. Iniziative, in concorrenza con altre Società, per la distribuzione dell’energia motrice e dell’acqua (Vergine); d) Favori varii alla cooperazione di produzione ed alle organizzazioni professionali; e) Assistenza dei quartieri più poveri con istituzioni municipali di vario genere e con la refezione gratuita ai bambini delle scuole povere nei quartieri suburbani; f) Passaggio allo stato delle spese edilizie riguardanti non interessi locali ma quelli politici e nazionali della capitale; g) Ritocco della tassa di famiglia per i redditi superiori alle 10,000 lire. 146 Documenti Il Murri fu calorosamente applaudito: il programma che egli ha presentato, a nome dei democratici cristiani romani, avrà certo una larga eco nelle presenti lotte amministrative e susciterà varie ed importanti discussioni. Dall’operaio Borgognoni fu poi presentato e approvato il seguente ordine del giorno: «Il gruppo d.c. e la Lega cattolica di Roma riuniti in adunanza elettorale la sera del 7 giugno udito il discorso del sac. Romolo Murri, riafferma la propria adesione al programma cattolico municipale espresso nel discorso sulle linee delle grandi direzioni della democrazia e del cristianesimo sociale; delibera di fare una larga propaganda nella iniziata campagna elettorale per la diffusione di quel programma; si augura che gli elettori cattolici per mezzo dell’Unione Romana, riconoscendo l’opportunità di avere in Campidoglio rappresentanti delle nuove tendenze cattoliche municipali portino nella lista dei candidati dell’Unione un gruppo di democratici cristiani e ne votino concordemente i nomi insieme agli altri». Seguì poi una vivace discussione. Il signor Susi dell’Avanti fece ampio elogio delle idee e dei propositi esposti dall’oratore: illustrò poi le condizioni finanziarie del Comune di Roma, che dimostrò gravissime; asserì che liberali e cattolici benché divisi da profonde divergenze politiche, sono però egualmente responsabili della situazione attuale del comune e insistette a questo proposito su alcuni fatti particolari. Rispose Murri rilevando alcuni punti del suo discorso in cui era ampiamente trattata la questione finanziaria ed edilizia; egli si disse sicuro che l’impulso nuovo venuto dalle nuove idee metterà gli eletti dell’Unione romana perfettamente all’unisono con le vere esigenze di Roma quali esse sono intese dal popolo. Il Conte Soderini scagionò l’Unione romana dalle accuse del Susi: ricordò principalmente come i liberali si siano valsi della questione politica per impedire e ostacolare l’opera riparatrice dei cattolici: essi fecero apparire come politiche questioni puramente morali o finanziarie, coprendo i loro interessi particolari sotto la smagliante veste del patriottismo. Il signor Vercellone (radicale) riconobbe i meriti particolari del Conte Soderini; egli e pochissimi altri furono dei veri solitari nel consesso comunale. L’oratore domandando scusa per la indiscrezione Documenti 147 pose poi in termini precisi questa questione: cosa faranno i democratici cristiani se l’Unione romana non accetterà il loro programma e il concorso dei loro uomini: avranno la forza e il coraggio di staccarsi? La domanda era suggestiva e compromettente, però il Murri fu felicissimo nel rispondere: egli affermò che il programma democratico cristiano rimarrà intatto sempre e ad ogni costo; è in corso un’intesa con l’Unione romana, ma se questa intesa fosse impossibile, i democratici cristiani attingerebbero nei loro principii e nel loro stesso programma i criterii della condotta da tenersi eventualmente. La discussione, terminata alle 11, elevata, educata, interessantissima, lasciò la miglior impressione in tutto l’uditorio, costituendo nella lealtà e nell’ampiezza della discussione un fatto nuovo e dei più promettenti per la diffusione delle nostre idee. Inoltre, constatiamolo subito, a quel programma hanno fatto ottima accoglienza la stampa cattolica e gli elettori romani. Un giornalista romano, mal menandola in una corrispondenza al Cittadino, di Genova, mostrava di non averlo letto con attenzione o di essere troppo estraneo a certi argomenti: ne riportava invece larghi tratti, con lodi, l’Osservatore Cattolico in due numeri consecutivi. Il Travaso ne lodava la sincerità e la opportunità in un articolo di fondo: la Tribuna diceva che si sarebbe potuto discuterlo se a mettere a posto i democratici cristiani, quando avessero voluto fare sul serio, non ci fosse stato pronto non so quale spauracchio dall’alto: paura vana, poiché nessuno spauracchio della Tribuna varrà ad imporre ai democratici cristiani ed agli elettori romani una fiducia che essi non avessero od una condotta che ritenessero contraria alla loro coscienza. L’Avanti! dice che tanto i nostri voteranno egualmente per l’Unione romana: osserviamo votare o no per l’Unione è un metodo di lotta: la sostanza è per noi fare propaganda nella maniera più efficace a un programma schiettamente democratico; il resto verrà da sé. Altri si sono mostrati offesi di altre parti del discorso: avvertiamo che sarebbe forse impolitico toccare tasti molto delicati e volere che si faccia per i singoli un giudizio che noi abbiamo genericamente voluto fare per una generazione e un ambiente. Speriamo che l’avvertimento non cada invano. Altri infine avrebbero voluto vedere ricordare con più lode il passato dell’Unione romana. Gli è che noi non siamo molto soliti a 148 Documenti lodare: ma quel che dicemmo di essa ci pareva una lode e grande e meritata. Per l’Unione Romana si tratta oggi di ripigliare le sue nobilissime tradizioni, ravvivando il suo spirito e completando il suo programma e di ristabilire un perfetto affiatamento fra gli elettori, conducendo i più restii di essi, con l’autorità che ha, sino là dove è giunta a tanto tempo la S. Sede con le sue direzioni sociali e con le sue lodi ai democratici cristiani. Mai come in questo caso chi non va innanzi va indietro. Il programma nostro è stato ora ristampato in opuscolo a parte: ad esso i democratici cristiani di Roma, in Campidoglio rimarranno strettamente fedeli. Intanto vedremo quel che la campagna elettorale avviata darà: e non mancheremo di segnalare al pubblico i fatti più notevoli e specialmente i tentativi individuali, se ci fossero, di combattere il programma e i nomi nostri per poter più facilmente scambiare, nell’ombra, appoggi e promesse con i liberali. Riceviamo e pubblichiamo: Ill.mo Signor Direttore, È giunto a nostra conoscenza che i vari presidenti dei Comitati rionali per l’Unione romana non credono ancora opportuno d’indire le adunanze per gli elettori, supponendole non necessarie. Non sappiamo invero spiegarci il motivo d’una tale innovazione, in specie nel presente momento elettorale, che ha scosso così profondamente le fibre patriottiche dei nostri avversari. Ci auguriamo, perciò, che quanto prima tali voci saranno smentite. Ringraziandola della benevola ospitalità concessaci, ci firmiamo Di Lei Ill.mo Signor Direttore dev.mi ALCUNI ELETTORI Elettori Cattolici Romani! Nella riunione tenuta ieri sera in Via Montecatini n. 5, il grup- Documenti 149 po democratico cristiano, e un buon numero di elettori amici presenti, hanno deciso di prendere viva parte alla campagna elettorale già incominciata, facendo propaganda nei rioni per il loro programma e per alcuni nomi da proporre alla accettazione degli elettori nelle adunanze rionali, perché l’Unione romana li accolga poi nella lista. I nomi sono stati scelti con questo criterio: un operaio, muratore, per affermare il principio della rappresentanza diretta degli interessi nella vita comunale e per mostrare agli lettori cattolici di parte popolare che di essi specialmente si occuperanno i democratici cristiani, salvo il rispetto alla giustizia e ai diritti di ciascuno: tre propagandisti del gruppo stesso, perché in Campidoglio, fra i trentacinque consiglieri dell’Unione romana, siedano alcuni, rappresentanti diretti del nuovo programma e delle nuove tendenze cattoliche popolari. Voi, elettori cattolici, potete esser certi sin da ora che i nostri amici dalla vostra fiducia prenderanno forza e argomento a sostenere validamente in consiglio le loro idee, secondo il programma già noto e con tanto favore accolto dal pubblico. Rispettosi del dovere di unione e di accordo con gli altri rappresentanti di parte cattolica, essi propugneranno validamente il rispetto geloso degli interessi del pubblico in tutti gli affari, l’allargamento della attività del comune secondo i suoi compiti di tutela degli umili e di incremento della vita pubblica, la lenta e graduale trasformazione della finanza municipale, e la reintegrazione d’un nuovo patrimonio del popolo, sul terreno oggi occupato dai capitali anonimi e dalle grandi società produttrici dei più importanti servigii pubblici. Se disgrazia volesse che non fossero accettati nella lista essi, attingerebbero egualmente nella fiducia vostra la forza di parlare a voce alta e dinanzi al pubblico dei diritti e degli interessi di Roma cattolica e popolare: e conterebbero su giorni meno vicini per un trionfo più intiero. Il programma dei partiti popolari Ha molti pregi e molti difetti: e non sapremmo dire se quelli su questi prevalgano. Prima ha il pregio di essere un programma amministrativo, 150 Documenti mentre i liberali fanno dell’anticlericalismo goffo: poi ha l’altro che vi passa dentro un soffio vivace di democrazia: esso è anzi tratteggiato a linee così vaste, che l’attuazione non può non parerne molto difficile e remota. Ha nelle prime righe il merito di portare la questione, dalle viete e spesso in questi ultimi tempi false contese fra clericali e anticlericali, sul terreno dei più urgenti problemi economici: ma perché poi, verso la fine, la sfuriata contro la partecipazione del clero alle opere pie e agli istituti di educazione? Combatte l’accentramento statale: ma perché poi propugna un altro accentramento, non meno odioso, quello del municipio nella istruzione elementare, che è dovere primo delle famiglie? Quando le scuole clericali in Roma raccolgono 20,000 alunni, mettersi a combatterle è intolleranza gretta e spendereccia che contrasta con la serenità di altre parti del programma dei partiti popolari. Cerchi il comune che quelle scuole rispondano ai programmi pedagogici e all’igiene e basta. Ma il programma dei popolari si occupa specialmente del problema finanziario e fa bene: e ciò che esso dice meriterebbe un lungo ed accurato esame, il quale ci è impossibile. Il programma lamenta: «Così di fronte a ventitré milioni e mezzo di entrate il comune ha ventinove milioni e ottocentomila lire di spese. Oltre sei milioni di disavanzo. Il sussidio governativo dei due milioni e mezzo annui, stabilito fra i proventi diversi, viene a ridurre il disavanzo a poco meno di quattro milioni». E poi: «Sono 11 milioni circa di interessi e tasse ed oltre 3 milioni di ammortamenti che il nostro comune paga ogni anno per i suoi debiti». E la causa di questo sbilancio e debito enorme? «Il comune ha speso per la trasformazione edilizia di Roma oltre 200 milioni, lo Stato ha contribuito per non più di 70 milioni. Il comune subisce in conseguenza delle spese fatte il carico insopportabile di 14 milioni annui, lo Stato dà 2 milioni e mezzo di contributo. È giustizia questa?». Ottime cose. Ma e i rimedii quali sono? L’imposta suggerita sulle aree fabbricabili e sui miglioramenti edilizii dei quali beneficiano i privati è buona e noi ne accettiamo vo- Documenti 151 lentieri il principio: ma nelle presenti condizioni edilizie della città, quanto può essa rendere? Noi suggerivamo l’aumento della tassa di famiglia pei redditi superiori alle lire 10,000: ad esso accennano forse anche i popolari dove parlano di esenzioni ingiuste ed arbitrarie: ma quell’imposta dovrebbe essere devoluta alle nuove spese per i compiti sociali del comune. La conclusione delle cose ampiamente esposte in quel programma dovrebbe essere questa: chi ha rotto paghi: il governo si assuma il peso, almeno in parte, dei debiti comunali. Ma perché, invece di un accenno timidissimo, i partiti popolari, i quali hanno mezzo di sostenere quel loro programma in Parlamento, non hanno indicato con chiarezza le loro rivendicazioni e i mezzi di giungervi? Noi siamo stati più sobrii. Alieni da qualunque solidarietà con questo e con altri governi passati o futuri prossimi noi avremmo potuto e voluto spingere assai più avanti questo programma di rivendicazioni popolari, se poi i cattolici potessero attuarlo in municipio: ma il loro compito è assai più modesto, sinché essi si propongono di rimanere minoranza; e noi non volemmo fare uno sfoggio inutile di grandi idee che poi, al governo, si sarebbero dovute dimenticare. Il programma nostro, paragonato a questo, ci pare abbia il merito di essere più vasto e insieme più pratico e più organico. Documenti 153 Da “Il Domani d’Italia”, 22 Giugno 1902 Per la prima volta, con la presente campagna per le elezioni municipali, i democratici cristiani si occupano delle cose pubbliche della città di Roma e prendono parte – con interesse vivissimo – ai comizii del popolo che delibera sulla sua vita cittadina ed elegge i suoi rappresentanti. In tale occasione essi sentono il bisogno imperioso di portare il loro pensiero al Soglio di S. Pietro: e con l’animo che sa e non dimentica, col proposito fermo ed immobile di impiegare tutta la loro vita e le loro giovani forze per la causa delle libertà della Chiesa e della Sede romana, fedeli al loro sovente esposto programma guelfo, essi depongono ai piedi di Leone XIII, sovrano pontefice, l’omaggio del loro filiale attaccamento e della devozione di cattolici e di cittadini romani: ed insieme l’attestazione che i loro candidati portando in Campidoglio, se eletti, le speranze e il programma della democrazia cristiana, nulla avranno più a cuore, nel difendere gli interessi delle classi popolari e del municipio libero ed autonomo, che ravvivare nella città romana il senso della missione affidatale da Dio, l’amore vivo alla Sede di S. Pietro e il proposito di essere esempio e maestra all’umanità civile del diritto nuovo cristiano che gli umili invocano e che la democrazia, benedetta da Leone XIII, prepara. Essi rispondono anche così alla sfida riunita dei liberali e dei popolari, i quali all’odio per la Chiesa e pel papa hanno dedicato, nella presente campagna elettorale, la loro parola più aspra. Noi ribelli Parliamo in terza pagina di quel che riguarda l’Unione romana, la propaganda dei democratici cristiani e la condotta di questi nelle imminenti elezioni amministrative. Osserviamo qui brevemente come i fatti i quali si svolgono sotto i nostri occhi permettono un paragone istruttivo con quel che è avvenuto a proposito dei d.c. e dell’Opera dei congressi. In quel caso come in questo noi non combattemmo l’istituto, che dice- 154 Documenti vamo anzi espressamente degno di molte lodi, ma le più recenti manifestazioni di una tendenza conservatrice ed accentratrice che costituiva un allontanamento dell’attività di parte nostra dal vero campo di lotta e un pericolo per l’avvenire. Allora come ora noi non combattevamo l’unità dei cattolici, ma, osservando che essa era divenuta impossibile di fatto per la intolleranza di parecchi, volevamo fosse più stabilmente ricostituita con un sufficiente ampliamento del programma e con la accettazione di uomini nuovi. Allora come ora la grande maggioranza dei cattolici ci venne dando ragione, mentre le resistenze forti e tenaci vennero da quelli che erano alla sommità e che si compiacquero a immaginarci e descriverci con i più neri colori. E come nel disastro morale del 1898 noi alzammo la voce per distinguere nettamente la nostra condotta da quella dei conservatori, così oggi, dinanzi ad un pericolo simile, noi distinguiamo le nostre responsabilità dalle altrui, certi che male serviremmo la causa cattolica accettando senza beneficio dell’inventario un patrimonio di attività pubblica e di programmi civili gravato da molti debiti verso le esigenze dei tempi. Allora, dopo un lungo dissenso, finimmo con l’avere ragione e l’Opera dové, bene o male, rinnovarsi: questa volta, vedremo. E quel che avviene a Roma avviene in molti municipii d’Italia: a Genova, p. es., a Napoli, a Firenze ed altrove. Associazioni cattoliche preesistenti, benemerite da principio degli interessi di parte cattolica, si sono trovate un poco alla volta tirate sul terreno di altri interessi, hanno compiuto inconsapevolmente un certo adattamento all’ambiente pieno di idee e di tendenze liberistiche, si sono create degli organi rappresentativi che vivono poi d’una vita quasi autonoma, a scapito della vitalità di tutta l’associazione. È il vecchissimo assioma che ogni istituzione divenuta potente si chiude e si fa conservatrice. I democratici cristiani, che in un più fresco effluvio di fede ed in un più vivo contatto col pensiero e con l’attività del tempo, hanno attinto energie nuove e propositi di ulteriori avanzamenti e progressi nel grande programma sociale cattolico, si avanzano e chiedono la loro parte. E il loro dritto; essi non chiedono che di lavorare; si presentano a nome di tutti gli elettori contro gli eletti costituitisi come un Documenti 155 corpo a sé e immemori delle origini del loro mandato, fanno un esame del presente e del passato più vicino, espongono le loro idee di lavoro. E sempre e dapertutto essi si sentono ripetere da quattro anni le stesse accuse, opporre le stesse difficoltà, e solo dopo molte lotte apparisce come quei principi di affetto alla Chiesa, di unità, di esperienza, invocati contro di essi, stavano invece dalla loro parte e come essi avevano ragione. Solo che spesso, perché ciò avvenga, è necessario un fatto nuovo: il sostituirsi di un nemico più pericoloso al nemico liberale, lo stacco violento dei cattolici conservatori dai conservatori liberali, il pericolo d’una egemonia socialista con tutte le rovine che essa minaccia. Che anche a Roma, a Genova, a Napoli, per le lotte amministrative debba avvenire lo stesso? A ogni modo la democrazia cristiana andrà innanzi per la sua via, con la fermezza e il coraggio che mise altre volte in simili imprese: non avendone essa un’altra per giungere, come anela, alla conquista dei municipi italiani. Il municipio del popolo (*) Signori, Il mio recente discorso di cose municipali ha fatto emettere a qualcuno dei lamenti su frasi ed accenni riferentisi alle passate amministrazioni ed a coloro che vi presero parte; ed ha dato luogo alle più ampie riserve su alcuni punti del programma indicato. Io ne sono rimasto… deluso: mi pareva essere stato così parco nella critica e nel programma da meritare forse più lodi per la parsimonia che per l’abbondanza: e le critiche mossemi mi hanno così poco toccato che io mi sono invece deciso a fare un altro passo, un piccolo passo avanti, perché i miei critici o abbiano argomento nuovo di accuse, se ciò piace ad essi, e mi perdonino l’altro discorso, pensando il più che io aveva loro risparmiato. Io dissi chiaramente che noi vogliamo il municipio del popolo: per essere intiero avrei dovuto esaminare e perché oggi il munici- 156 Documenti pio romano non sia del popolo e di chi esso sia invece; due questioni molto scabrose, delle quali se io volessi andare a fondo non so precisamente quali contrasti in Roma e fuori si leverebbero. Deliberò le due questioni. Perché l’odierno municipio non sia del popolo potrebbero dirvelo le agitazioni elettorali dei giorni correnti. Io non sono in vena di dar lodi e non dirò quindi neanche che i propagandisti democratici cristiani – sono pochi e quei pochi spesso occupati ad altro – si siano dati gran che da fare in questi giorni per illuminare il popolo. Ma e anche gli altri che han fatto? Quali questioni furono agitate e discusse? Chi rese i conti? Chi prese impegni precisi e definiti per l’avvenire? E il popolo, l’elettore nostro, e il proletariato autentico in special modo, da chi fu convocato davvero, dove si è riunito, quando e dove e come ha mostrato di aver dei desiderii chiari, dei propositi espliciti, delle esigenze categoriche da accompagnare al voto? Nell’adunanza di uno dei rioni più numerosi, più di un centinaio di elettori sentirono quietamente fare dal presidente la dichiarazione che essi non avevano mai pensato di occuparsi di nomi e discuterli: la presidenza dell’Unione li avrebbe presentati e bastava; essi erano lì per organizzare il voto e… gli accessorii del voto. Potrebbe dire qualcuno: ecco il popolo di Roma: ma della Roma di Augusto o di quella dei Gracchi? Io dico invece che il popolo di Roma, trascurato e disilluso, è assente e pensa solo a se stesso, come può. E per questo il nostro programma è destarlo, chiamarlo, educarlo alla vita pubblica. Più grave l’altra questione: se il municipio non è del popolo, di chi è? O adunanze consiliari, o nobile lista degli ottanta, o rumorosa attività sindacale, proscenio a grande stile ed a soggetto epico del Comune di Roma. O interessi del pubblico, o consumi popolari, o movimento misterioso di capitali anonimi e di imprese industriali, pesanti come uno strano jato sul capo dell’urbe e sul collo, chi sa i vostri segreti, chi vi insegue per le latebre della vita finanziaria, chi traccia la trama e scopre i vestigii degli occulti consigli che vi guidano? Grande, primo, supremo interesse pubblico è la finanza pubblica: è quell’intricato meccanismo di servizi collettivi che raccoglie realmente tutto il popolo nella identità del pagare e del chiedere: cam- Documenti 157 po del municipio nuovo è questo terreno amplissimo, oggi dominato dai capitali anonimi, dalle Società vampiri e dai giuochi di borsa e dove domani sorgerà, fondato su d’un popolo nuovo e cementato dalla solidarietà collettiva, il nuovo edificio della finanza municipale, il municipio del popolo. Oggi il comune è fuori di questo campo vastissimo ed importantissimo, dove i consumi popolari grondano realmente lacrime e sangue e dove spazia indisturbata la speculazione capitalistica: esso ne custodisce l’entrata ed esclude quelli che vorrebbero penetrarvi per portarvi la voce del popolo: p. es. qualche d.c. sfacciato e radicale che non si chiama Tizio né Caio, e che, se da quindici anni mangia il pane che pagò dazio alla stazione di Termini (forse con la polvere di marmo che non lo pagò) e beve l’acqua della Società marcia e legge e si guasta gli occhi col gas della Società romana e affida il suo corpo ai carrozzoni della tramways-omnibus, non è «romano de Roma» o almeno del collegio politico di Frosinone o di Viterbo. E allora perché il popolo di Roma dovrebbe ascoltarlo? Paghi, per bacco, il popolo, ma pensi ad altro. Così dunque il municipio di Roma è tagliato in due: mezzo sta in Campidoglio e là c’è un sindaco, ci sono i clericali, i massoni, e i moderati e là si discute e si combina e si parla di bellissimi e importantissimi argomenti: mezzo sta fuori del Campidoglio, sta… un po’ per tutto, e là governa, signore nascosto e terribile d’una folla muta, il capitale: il capitale anonimo, la società per azioni, il banco, il ministero del Tesoro; e qualche frammento sperduto di quel danaro torna agli elettori dei Comitati liberali, il giorno delle elezioni. E questo capitale non è cattolico, anche quando è di prelati, né è massone, anche quando vien dai massoni. È l’oro, è mammone, è il principe del secolo. Ecco o signori perché il municipio non è del popolo, ecco di chi è il municipio. Ed ecco anche perché, se siete vaghi di saperlo, noi vi presentammo un programma concreto e adatto ai bisogni locali, il quale si ispirava insieme alla scienza più fresca ed alla più sana democrazia; e per sostenere quel programma, cavalieri del popolo in Campidoglio, domandammo quattro posti, per voi, per la democrazia, per noi. Ad ogni modo, o programma dei nostri quattro candidati, se parteciperanno alla lotta, o piattaforma delle agitazioni elettorali del prossimo 158 Documenti triennio, la parola che noi vi rivolgemmo non sarà caduta nel vuoto e darà i suoi frutti. Così a Vienna, sino a pochi anni addietro, la finanza delle grosse banche (ebree) e delle grosse Società (ebree) dominava sovrana ed aveva creato nella grande città un immenso organismo burocratico parassitario, che avea le sedi sue vitali negli uffici delle Società anonime (ebree): e correva tutte le strade, con reti immense di ferro e di rame e di piombo, e penetrava tutte le case e tutte le stanze: e la ditta era il municipio semita. Venne un turbine, sorse un uomo, gli ebrei e la Corte e tutti gli altolocati si spaventarono e il municipio delle Società finanziarie crollò e il municipio del popolo sorse: e quell’uomo si chiamava Lueger e quel turbine era il popolo organizzato da Lueger e da Lichtenstein, il popolo democratico cristiano. Viva Vienna del popolo e viva Lueger, signori. Ed io scendo. (*) Parole dette da d. Murri alla riunione elettorale del 18 corrente. Elezioni amministrative in Roma Mercoledì 18 ebbe luogo nella sala Giraud l’annunziata riunione elettorale dei d.c. Parlò primo D. Romolo Murri, il discorso del quale riportiamo in altra parte del giornale. Una triplice salva di applausi e frequenti grida di viva Murri accolsero la fine del suo discorso. Sorge quindi a parlare, accolto da applausi, il Conte Francesco Salimei, ricordando brevemente le principali rivendicazioni del nostro programma ed in ispecie la necessità di interessare il popolo direttamente alla vita pubblica, trasferendo ad esso il controllo oggi esercitato dallo Stato, ed il dovere nel municipio di occuparsi dei nuovi problemi creati dal sorgere di grossi monopolii industriali sul terreno dei più delicati servigii pubblici: monopoli nei quali l’interesse finanziario degli speculatori e dell’alta banca e quello fiscale del municipio prevale all’interesse collettivo della cittadinanza. Il Salimei promette quindi che i democratici cristiani una vol- Documenti 159 ta in Campidoglio cercheranno questo contatto diretto e frequente con i loro elettori e si occuperanno attivamente degli interessi popolari. È applauditissimo. Chiese quindi la parola l’operaio Giulio Cece, uno dei candidati del Gruppo d.c. romano: e, invitato a salire alla presidenza, lesse opportune parole ringraziando i soci del gruppo dell’attività spiegata a favore del popolo e facendo una efficace professione di fede cristiana e di democrazia. Il tipografo Ravelli fa una breve esortazione agli elettori perché votino concordi i nostri candidati. In appresso chiede di parlare G. Cassola, socialista, redattore dell’Avanti!: avuta la parola appena, dalle prime frasi, si dichiara avversario e socialista, scoppiano interruzioni le quali sono subito dominate dal presidente che invita il Cassola a proseguire. Ed egli osserva che il programma dei democratici cristiani, quale apparisce nel discorso di R. Murri, è preso in gran parte dai socialisti i quali fin da tre anni addietro presentarono un loro programma per le elezioni municipali in Roma; e che gli pare la tattica dei democratici cristiani contraddica ai loro principii, mentre essi appoggiano l’Unione romana, contro il cui operato Cassola fa una carica a fondo. Invita quindi i d.c. a rivelare chiaramente i loro intendimenti ed i loro propositi. Appena il Cassola ha finito, parecchi chiedono di parlare: ma parla primo D. R. Murri. Egli osserva in primo luogo che il programma dei democratici cristiani contiene certo le rivendicazioni generali della democrazia, quali si vanno delineando dovunque. La causa del popolo è una, i suoi interessi sono gli stessi a qualunque partito appartenga chi li promuove. Ed anche i progressi della scienza finanziaria, lo spirito di solidarietà crescente, e lo sviluppo della attività municipale e delle autonomie locali è patrimonio comune dell’umanità civile e cristiana in questo momento storico. Anzi, osserva il Murri, i socialisti se si sono vigorosamente e con parecchi buoni risultati per la democrazia, affermati sul terreno politico, nel terreno municipale hanno fatto molto meno ed i loro sforzi sono raramente attecchiti. Né ha carattere socialista il Municipal trading inglese o americano, né ha tendenze socialiste la nuova scienza comunale, né, nei paesi latini i socialisti hanno fatto buona prova ogni volta che sono saliti al potere. Ciò dipende dal 160 Documenti loro programma di lotta di classe, buono forse per un partito politico, ma impossibile nei municipi, dove le classi sono a contatto immediato, dalle loro tendenze di partito e dalle impossibilità in cui sono di attuare il programma collettivista e l’egemonia della classe lavoratrice. Del resto si pongono a raffronto i due programmi democratici: quello dei partiti popolari ed il nostro, l’uno è diverso dall’altro ed opposto ad esso come il socialismo si oppone alla democrazia cristiana. I partiti popolari infatti tacciono sull’ufficio e consiglio del lavoro, negando al municipio la facoltà di darsi un organo autonomo di ricerche, di mediazione, di iniziativa, perché vogliono influire essi direttamente, per ragioni di partito, nell’attività sociale municipale; essi dichiarano di non fare dell’anticlericalismo e poi vogliono che siano passati al municipio, andando così per odio religioso incontro ad una maggiore spesa di oltre mezzo milione, i 20,000 alunni delle scuole private. Esigete che nelle nostre scuole si osservino le regole didattiche igieniche, osserva il Murri, ma lasciate stare i nostri fanciulli, lasciateli alle loro scuole, ai loro maestri, che si fanno educatori per un alto principio religioso, alla loro fede! Così i socialisti non toccano affatto la questione dei tributi diretti, ecc. ecc. Passa quindi il Murri ad esaminare la condotta dei d.c. di fronte all’Unione. Dice che essi non hanno temuto mai, quando era il caso, di portare la critica in famiglia e rimproverare quelli di parte loro d’una condotta che spesso non era più adatta agli interessi religiosi della società ed alle esigenze del tempo: e che anche all’Unione romana essi hanno ricordato apertamente il dovere di scendere sul terreno della azione sociale, di rinnovare le sue forze in un contatto più diretto col popolo e di allargare e completare il suo programma: e ciò non disconoscendo le gloriose origini della stessa Unione romana e tornando ad osservare come lo stato attuale del Comune di Roma non sia dovuto principalmente ad essa che anzi fu elemento temperato e moderatore: e prese anche di quando in quando delle iniziative che almeno implicitamente rendevano un omaggio preventivo al nostro programma. Ad ogni modo i democratici cristiani hanno oggi posto la questione avanti agli elettori direttamente e si rivolgono ad essi e ad essi chiedono la forza di salire in Campidoglio, ora od un’altra volta. Documenti 161 Quanto all’Unione romana, siccome essa rappresenta anche altre frazioni di cattolici, noi non le abbiamo chiesto di accettare tutto il nostro programma: le chiediamo solo di farci una parte – e non fummo esagerati nelle pretese – fra i suoi rappresentanti: e essa mostra di tener conto di noi, e ci avrà uniti; o, non accettando i nostri, dichiarerà di voler fare a meno di noi e di non considerarci come forza viva ed operante nella cittadinanza e noi non potremo sancire col voto la sua condotta e la nostra esclusione. Il Murri nella sua efficace e perspicace replica fu spesso interrotto da vivissimi applausi: un ultimo e più lungo ne suscita la recisa dichiarazione finale. Parlano quindi brevemente il Petrilli, chiedendo ai socialisti reciprocità per la cortesia con la quale li si lascia parlare nelle nostre adunanze, il De Paolis appartenente al gruppo, e G.B. Valente, proponendo due ordini del giorno che sono accettati. Il dott. Cozzi chiede che si voti un ordine del giorno deliberante formalmente la condotta dei cattolici in caso di esclusione dalla lista dei nostri candidati: dopo spiegazioni di Murri e Pierantoni sulla necessità di lasciare ancora l’adito aperto a trattative ed accordi e di attendere la compilazione della lista, l’assemblea prende atto delle loro dichiarazioni e l’adunanza è chiusa. Nuovi applausi, specialmente ai candidati presenti e a D. Murri; applausi che si rinnovano sulla via all’uscita dal teatrino. Serata riuscitissima e indimenticabile, che ha dato veramente al giovane movimento democratico cristiano in Roma il battesimo di cittadinanza. Diamo i due ordini del giorno approvati ad unanimità nella adunanza. «L’adunanza degli elettori democratici cristiani, riaffermando la piena adesione al programma presentato a nome del gruppo D.C., delibera di continuare la propaganda iniziata per i candidati scelti. Si rallegra della accoglienza loro fatta in varii rioni e si augura che l’Unione romana rappresentante delle aspirazioni dei cattolici li raccolga nella lista, provvedendo così alla unità delle forze cattoliche e alle aspirazioni popolari di Roma. Si riserva di deliberare ulteriormente quando sarà nota la lista dell’Unione romana». 162 Documenti G.B. Valente presenta il seguente ordine del giorno, che è accettato: «Il gruppo d.c. invita tutti i d.c. disorganizzati e i simpatizzanti a dare il loro nome alle organizzazioni d.c., Gruppo e Lega del lavoro, per lavorare in esse non solo alla vigilia delle elezioni, ma tutto l’anno». La stampa romana ha riferito largamente – non sempre con esattezza – intorno alle adunanze e al lavoro nostro e mostra di seguir questo con vivo interesse. Notiamo specialmente il Travaso, il Giornale d’Italia, l’Avanti!, il Popolo romano, ecc. Nei rioni La propaganda nei rioni procede alacremente. Le difficoltà più gravi si incontrano spesso nella apatia degli elettori, i quali o non convocati in tempo e tutti dalle varie segreterie dei rioni od abituati a disinteressarsi di programmi e di nomi, non intervengono. Dove le adunanze sono riescite più numerose i nomi dei nostri sono stati accettati con applausi e con votazione unanime. Così è avvenuto nei due rioni più importanti (Prati e Monti) dove il programma e i candidati del gruppo d.c. furono validamente sostenuti dai nostri amici presenti. Altre riunioni regionali hanno luogo nella settimana entrante. Preghiera agli amici di non mancare. Chi non è stato invitato, si presenti dal segretario del proprio rione a chiedere il biglietto. Documenti 163 Da “Il Domani d’Italia”, 29 Giugno 1902 Elezioni amministrative in Roma Oggi gli elettori romani sono chiamati a rinnovare per metà il loro consiglio municipale. Delle tre liste che si contendono il campo quella dell’Unione romana, con sedici nomi, riuscirà tutta per la maggioranza, con molta probabilità: la lotta vera è quest’anno tra i popolari ed i liberali; e degli uni e degli altri entreranno probabilmente nomi in Campidoglio secondo le combinazioni e le miscele che saranno fatte all’ultim’ora. Ci daranno le elezioni d’oggi un consiglio capace di vivere e di governare? Ne dubitiamo: ed in questo caso si avrebbero le elezioni generali a non lontana scadenza e una lista unica combinata fra i popolari e i più vicini, con l’appoggio del governo. E la lotta sarebbe più nettamente posta. Oggi, mentre i cattolici si preparano a votare, non è il momento di lunghe riflessioni, che rimettiamo a elezioni avvenute. Daremo tuttavia una rapida scorsa al movimento elettorale cattolico di questi ultimi giorni. Nei rioni le adunanze di questa settimana sono riuscite più numerose e rumorose. In parecchie di esse, non ostante la qualità dei presenti, tutti piccola e media borghesia clericale di antica data, si sono avute buone affermazioni e dichiarazioni democratiche cristiane: ed i candidati del Gruppo hanno raccolto in parecchi luoghi la maggioranza. Agitatissima riescì l’adunanza generale dei componenti la presidenza dei vari rioni, adunanza la quale, non sappiamo bene perché, ha puro carattere consultivo: e vi furono prese parecchie importanti deliberazioni; fra le altre, quella di un distacco netto e assoluto dai liberali e la rinnovazione per metà degli uscenti. In genere tuttavia la propaganda dei cattolici è stata fiacca e non è uscita dalle solite linee burocratiche, come conveniva a gente sicura di vincere oggi e poco pensosa del domani. Il Gruppo democratico cristiano ha deliberato di non prendere parte ufficiale alla lotta, ritirando così implicitamente le sue designazioni; dopo le vicende di questi ultimi giorni era per esso dovere evidente di rispetto a se stesso, e di fedeltà al programma proprio, pel quale il Gruppo ha deliberato di iniziare quanto prima una agitazione 164 Documenti popolare ordinata ed efficace. Hanno scontentato molti elettori cattolici non romani di origine le dichiarazioni fatte spesso da membri influenti dell’Unione romana in questi giorni che essa Unione non porterebbe se non gente nativa di Roma; poiché più di un terzo degli elettori cattolici non è romano di origine, e poiché, a norma dei più elementari principii di diritto civile, l’essere eletti ed elegibili è la stessa cosa, il voto concedendosi appunto ai cittadini che hanno interessi da far valere e da tutelare. La riunione del Gruppo tenuta mercoledì scorso fu tumultuosissima, essendo i soci divisi sulla condotta da tenere, per quanto unanimi nel riconoscere la necessità di una astensione ufficiale del Gruppo. Su d’uno dei punti più importanti della discussione passò la massima che i soci del Gruppo, non potendo considerare impegnato il programma democratico-cristiano, avrebbero agito individualmente come cattolici. Intanto crediamo che, a cose calme, un riordinamento interno di tutte le forze democratiche cristiane di Roma sarà l’effetto della ora chiusa agitazione elettorale. Molte osservazioni dovremmo fare intorno ai mezzi di lotta che furono messi in opera da parecchi in questi giorni contro il Gruppo democratico cristiano ed i suoi designati; ma non vogliamo parer di fare opera di divisione, in questo momento, anche col solo difendere i nostri da offese ed accuse gravi e ingiustificate e passiamo sopra volentieri a queste miserie. Elettori romani: la lotta dei giorni scorsi non mancò di essere istruttiva: più istruttive saranno forse le vicende alle quali il Comune di Roma si avvia: esso ha bisogno dell’opera dello Stato per non andare incontro al fallimento e lo Stato darà l’opera sua a prezzo di un anticlericalismo più spiccato, se il popolo di Roma non si ridesta; il popolo è sul destarsi e comincia a volere la sua parte, ma dolorosamente, a giudicare dagli uomini che prevalgono oggi, non saranno i cattolici quelli che profitteranno di questo risveglio, appoggiandosi fortemente su di esso per ristabilire e rinnovare il municipio senza l’opera dello Stato e senza pagare i favori di questo con la fede cattolica. Noi democratici cristiani rimarremo sulla breccia col nostro programma: e quel programma, esposto e sostenuto vigorosamente da D. Romolo Murri ed alla cui coerenza, opportunità e schiettezza democratica sino gli avversari hanno reso ragione, finirà col prevalere. Documenti 165 Ecco l’ordine del giorno votato dopo lunga discussione, dal Gruppo: Il gruppo democratico cristiano romano riaffermando ancora una volta il suo proposito di prendere parte attiva alla vita municipale con il programma a nome del Gruppo stesso svolto ed illustrato in questi giorni; dolente che si sia mostrato di non apprezzare sufficientemente quel programma e la urgenza delle rivendicazioni cattoliche e popolari in esso contenute, non accettando i quattro nomi presentati dal Gruppo stesso delibera di non prender parte ufficialmente alla lotta, certo tuttavia che i suoi membri compiranno individualmente il loro dovere di cittadini cattolici. È uscita oggi, venerdì, la lista dell’Unione romana con 17 nomi. Notiamo fra questi il nome di F. Salimei, il quale era uno dei quattro designati dal gruppo democratico cristiano; quello di Romolo Ducci, simpatico e valoroso propagandista del nostro gruppo e della Lega cattolica del lavoro, che non si era potuto includere nella lista dei quattro, ma pel quale la nostra Commissione elettorale s’era impegnata volentieri a fare propaganda; ed infine il nome di U. Perazzi, uno dei migliori amici delle nostre organizzazioni, organizzatore lui stesso della sua classe (commercianti) e che ha fondato poco tempo addietro una cooperativa cattolica di produzione (carbone Vittoria). Dopo i fatti che hanno indotto il gruppo ad astenersi, questi successi parziali dei nostri amici ci rallegrano e ci fanno sperare bene pel partito stesso in prossime occasioni. Documenti 167 Da “Il Domani d’Italia”, 6 Luglio 1902 Le elezioni a Roma Quel che si prevedeva è avvenuto. Il corpo elettorale romano ha dato la grande maggioranza dei suffragi ai clerico-moderati: e nel segreto dell’urna, sotto le apparenze d’una lotta vivace fra Unione Liberale e Unione Romana, si è compiuto il connubio che domani ci darà una amministrazione mista di moderati e di clericali, con a capo il sen. Vitelleschi. L’esame dei voti è facilissimo. Il Conte Santucci e il marchese Vitelleschi, i primi delle liste liberale e clericale, hanno 7200 e 7400 voti rispettivamente: l’ultimo dei 25 liberali esciti ha 6200 voti, mentre la media dei voti degli altri 17 esclusi è di circa 5500. Tutti i candidati della lista dell’Unione romana sono riusciti per la maggioranza, con 6700-7200 voti. Tenuto conto delle cancellature e delle minuscole clientele personali è facile vedere come: a) la lista dell’Unione Romana ha avuto una media di settemila voti; b) i voti dei liberali sommano seimilacinquecento; c) quindi sono stati i cattolici che, scegliendo nella lista del partito liberale i nomi più affini, hanno determinato la vittoria dei liberali entrati su quelli sconfitti, ed hanno dato alle elezioni di domenica la loro fisionomia e il carattere di successo evidente e definitivo della combinazione clerico-moderata per il governo della cosa municipale. Questo fatto, che apparisce evidente dal semplice spoglio dei resultati dell’urna, è anche provato da altre circostanze egualmente notevoli. Della lista liberale i battuti sono stati precisamente i più spinti: gli ebrei ed i massoni, e più clamorosamente che gli altri il Nathan, spadroneggiante sul municipio in quest’ultimo periodo di amministrazione puramente liberale. Sono riusciti invece i moderati: e per la maggioranza tutti o quasi quelli che si può supporre l’Unione Romana avrebbe portato nella sua lista, se, come era intenzione della presidenza, l’avesse com- 168 Documenti pletata, all’ultim’ora, con nomi scelti fra i bigi: Vitelleschi, GiordanoApostoli, Torlonia, Tittoni, Cruciani-Alibrandi, Salvati, Ruspoli, Santini, Cagliati, di Roccagiovine, ecc. Inoltre è notorio che in molti rioni alla lista dell’Unione Romana sono stati aggiunti, per opera dei consueti agenti elettorali, parecchi nomi scelti nell’altra lista: primo il Vitelleschi. Non solo: ma anche alcuni non portati dalla lista liberale sono stati aggiunti dai nostri, p.e. il Tenerani che, non essendo in alcuna lista, deve almeno la metà dei 2000 voti raccolti ai elettori dell’Unione Romana. Apparisce adunque evidente come fu proprio l’Unione Romana quella che domenica scorsa conquistò per sé e per gli affini tutta la maggioranza o quasi del consiglio comunale; e che con essa trionfarono i criteri e le tendenze già note della presidenza dell’Unione stessa ed i suoi voti per una amministrazione nella quale i cattolici, lasciando ai moderati più affini la gerenza visibile del potere, fossero realmente i padroni delle cose capitoline. E ciò è tanto più notevole in quanto l’Unione Romana ha potuto raggiungere questo risultato senza ricorrere allo espediente d’una lista combinata, il quale avrebbe scoperto troppo il giuoco ed urtato i nervi di molti elettori, solleciti assai più della forma che della sostanza; raggiungerlo permettendosi anzi il lusso di avere con sé due esciti da quel gruppo democratico cristiano il cui programma era per molta parte se non la condanna certo la esclusione dei metodi e dei criterii di governo seguiti sin qui; neutralizzando essa così, con pochissima spesa e con parecchio guadagno, quel malessere diffuso ed inconsapevole che si era manifestato nelle masse elettorali cattoliche e che avrebbe potuto condurre, se trascurato, a svogliatezze e defezioni pericolose, se pure non ha già determinato il passaggio di parecchie centinaia di elettori della Unione Romana ai partiti popolari. Noi non diremo ora se il successo di ieri sia stato, in definitiva, un vantaggio della causa cattolica e, se sì, per quali motivi ed in che misura: diremo solo come, in una campagna elettorale in cui quelli che erano sicuri della vittoria vollero instaurare la vecchia amministrazione clerico-moderata e tutto quell’intricato complesso di interessi e di abitudini municipali che conosciamo, bene fece il gruppo democratico cristiano ad astenersi: e bene farà a tener gli occhi aperti e vigilare perché la nuova amministrazione non sia troppo liberale nella Documenti 169 sostanza e troppo dimentica dei doveri nuovi di giustizia e di iniziativa imposti oggi alla attività municipale. Ed è utile che, mentre i partiti popolari son quasi saliti in tre anni ai cinquemila voti e potrebbero domani raccogliere anche le frazioni più avanzate del liberalismo e riuscire, ci sia un gruppo di nostri, nuovo e fedele ad un programma schiettamente democratico, che impedisca ai socialisti ed ai loro alleati di prendere il monopolio della tutela degli interessi popolari. Intanto i segni della trasformazione alla quale accennavamo nel nostro programma municipale sono sempre più evidenti. L’Unione Romana perde terreno ad ogni nuova elezione, mentre i popolari guadagnano rapidamente: il partito liberale invece si sgretola, come è apparso nelle interne divisioni che lo hanno lacerato questa volta e nella rivelazione del morbo massonico che lo inquina (26 candidati massoni, osservava il Fanfulla, su 34). Una parte del liberalismo si attaccherà, mediante le aderenze moderate, all’Unione Romana, a danno certo del cattolicismo: l’altra parte cadrà nelle file del partito più avanzato e radicale, pel quale anche sta in serbo l’appoggio del governo. E allora, vedremo: e vedrà, l’Unione Romana che oggi ha voluto fare a meno di noi. Postfazione 171 POSTFAZIONE Il titolo del libro di Lucio D’Ubaldo Prima di Nathan esprime la consapevolezza, condivisa da tutta la storiografia italiana, che, nella storia amministrativa di Roma capitale, gli anni dal 1907 al 1913 hanno segnato una tappa importante. Fu infatti questo il periodo in cui la carica di sindaco fu ricoperta da Ernesto Nathan che ebbe l’intelligenza e la capacità di circondarsi di alcune delle migliori menti dell’epoca, insieme alle quali riuscì a trasformare Roma in una moderna capitale europea. Nei decenni precedenti la città aveva vissuto situazioni molto complesse, delineate con grande sensibilità e consapevolezza dall’Autore che ha messo particolarmente in luce le problematiche all’interno del mondo cattolico. Un’analisi altrettanto approfondita del liberalismo romano avrebbe imposto un esagerato numero di pagine e sarebbe stata inopportuna in questa sede. Può essere invece più significativo ripercorrere, sia pure con pochi cenni, il periodo dell’apprendistato politico di Nathan che venne maturando nel corso di diciotto anni le linee guida di quella che sarà la sua azione di sindaco. 1889-1902: gli esordi politici di Ernesto Nathan Quando Nathan il 2 dicembre 1907 aprì i lavori del consiglio comunale di Roma, nelle vesti di sindaco, aveva alle spalle una lunga esperienza di amministratore pubblico, sempre svolta dai banchi dell’opposizione. Politicamente Nathan si era formato alla scuola di Giuseppe Mazzini ma, con realismo, aveva progressivamente operato una differenziazione tra i principi ideali dell’Apostolo genovese - che ebbero 172 Postfazione una influenza non secondaria su tutta la sinistra democratica della seconda metà dell' ottocento - e l’intransigentismo istituzionale dei mazziniani puri, che rifiutavano qualunque forma di riconoscimento allo stato retto da un sistema monarchico, da cui prese progressivamente le distanze. Nato a Londra, iniziò la sua attività di pubblico amministratore nel 1889, - non appena ebbe ottenuta la cittadinanza italiana(1),- in coincidenza con l’allargamento della base elettorale dovuta alla nuova legge Crispi. Era arrivato a Roma alla fine del 1870 e, in quei due decenni, aveva approfondito le tematiche sociali ed economiche più avanzate della democrazia riformatrice europea. A partire dagli anni ottanta entrò nell’agone politico maturando, insieme ad alcuni tra i più attivi personaggi della vita pubblica, il progetto di un raggruppamento di tutte le forze della sinistra laica e democratica che si sperava di poter opporre vittoriosamente alla maggioranza conservatrice, al notabilato dominante nella vita politica locale e nazionale. Un progetto che aveva radici lontane nel mondo democratico italiano post-unitario di matrice garibaldina, ma che non era mai approdato a risultati duraturi. Riprenderà corpo nel 1890, nel Patto di Roma scaturito dal congresso radicale, voluto da Cavallotti, con la collaborazione di Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan. Egli continuerà a perseguire questo disegno con tenacia e lo realizzerà, sia pure tra non poche difficoltà tra il 1907 e il 1913 quando sarà a capo di una Giunta capitolina costituita da un “blocco” laico democratico che comprendeva liberali, demo-costituzionali, repubblicani, radicali e socialisti. Alla fine del 1889, grazie all’appoggio di repubblicani e radicali, fu eletto nel consiglio provinciale di Pesaro. Nella città marchigiana affondavano le radici italiane della famiglia attraverso la forte figura della madre di Ernesto, Sarina Levi Nathan, attivissima mazziniana. Non dimentichiamoci, del resto, che Giuseppe Mazzini concluse la sua esistenza terrena a Pisa in casa di una figlia di Sarina, Giannetta Nathan Rosselli. Nell’autunno del 1889 Ernesto entrò anche nel consiglio comunale di Roma dove visse un’esperienza breve, ma tale da lasciare il 1. La concessione della cittadinanza italiana ad Ernesto Nathan fu votata dal Parlamento il 9 febbraio 1888. Postfazione 173 segno. Nella capitale, schiacciata dagli scandali e dalla crisi edilizia, per la prima volta quell’anno, ci fu non un confronto di clientele, ma di partiti che rappresentavano l’uno il ceto affaristico e reazionario, prevalentemente legato a certi ambienti vaticani, l’altro la borghesia più avanzata e quei settori popolari che la nuova legge ammetteva al voto. Fu questo il contesto nel quale, nelle elezioni del 10 novembre, avvenne la vittoria del primo blocco laico radicale, promosso da Baccarini, e sostenuto anche dal governo Crispi, in cui entrarono liberali, radicali, elementi operai e impiegatizi. Eletto assessore supplente all’Ufficio II Economato la prima impressione che dell’amministrazione romana ebbe Nathan fu pessima. “È un da fare inconcepibile, per quei di buona volontà, e mi ci includo, che accettando vogliono far sul serio e ridurre il disordine a condizioni normali. Difficile compito con una tradizione ed un arruffio d’interessi come esiste qui, ed in cui, se non cadiamo, più d’una volta incespicheremo”(2). Non ci fu però modo di avviare un programma di interventi perché i centri di potere romano e lo stesso governo resero la vita difficile al sindaco Augusto Armellini, un personaggio gradito ai democratici, inoffensivo per i conservatori(3). La disastrosa situazione del bilancio dell’amministrazione capitolina, gravata da un deficit pesantissimo (4) e da un’elevata esposizione debitoria, indussero il capo del governo a presentare un disegno di legge per la città di Roma nel quale l’intervento statale era subordinato ad una pesante ingerenza governativa nell’amministrazione della capitale. Non era certo quello che chiedeva la città, considerando che il dissesto economico del municipio era in gran parte conseguenza degli insufficienti sussidi concessi dal governo per i tanti lavori edilizi sollecitati alla Capitale per la sua trasformazione (5). 2. Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna, Fondo Saffi, Sez. 3. Lettera di Nathan a Saffi, Corrispondenza politica 1846-1890, Roma, 2 febbraio 1890. 3. Fiorella Bartoccini, Roma nell’ottocento, Bologna. 1985, p.727. 4 Nel 1890 la situazione finanziaria del comune, ormai sull’orlo del collasso, era diventata insostenibile, il disavanzo raggiungeva i 6 milioni sul bilancio normale e circa 12 milioni sul bilancio straordinario del piano regolatore del 1883. 5. La prima crisi legata alla questione edilizia si ebbe a Roma nel 1874. Il 3 luglio di quell’anno il sindaco Pianciani si dimise perché il comune non era in grado di sopportare l’onere finanziario impostogli dall’espansione edilizia della città. 174 Postfazione Ci furono polemiche seguite, il 28 marzo 1890, da dimissioni in massa dei consiglieri comunali per protestare contro i provvedimenti crispini per Roma, ma solo Nathan le confermò ripetutamente anche quando il resto della Giunta cercò di trovare una soluzione alla vertenza tra Stato e comune. Il 25 giugno si giungeva alla conclusione con le definitive dimissioni del consiglio comunale. Nelle successive elezioni fu ritenuto politicamente più conveniente escludere il nome di Nathan dalla lista liberale insieme ad altri nomi di radicali e repubblicani; ed egli ritenne opportuno non accettare la candidatura offerta da altri comitati elettorali per evitare dispersioni di voti che avrebbero avvantaggiato gli avversari(6). Convinto che a Roma la lotta politica fosse innanzi tutto un confronto fra opposti principi più che tra amministratori più o meno validi, Nathan evitò sempre le personalizzazioni offrendo il suo appoggio alle liste liberali anche quando da queste fu escluso il suo nome. Troppo apertamente schierato in senso antigovernativo, dovette aspettare il giugno del 1895 per poter essere nuovamente eletto in Campidoglio dove andò a sedere a sinistra accanto ai repubblicani Ettore Ferrari, Pilade Mazza, Federico Zuccari. Nel 1890 il suo nome fu escluso dalla lista dei candidati al comune. La stessa cosa si ripeté nelle amministrative della primavera del 1892, in mezzo a violente polemiche, per la ferma opposizione dei “moderati intransigenti” che lo consideravano troppo radicale. Ottenne la candidatura nelle elezioni parziali del giugno 1893, ma non fu eletto. Anzi le spaccature tra i democratici permisero ai cattolici dell’ <<Unione Romana>> di riportare una totale vittoria (7). Negli anni che vanno dalla fine del 1889 al 1894 Nathan fu il 6. Lettera di Ernesto Nathan e Ettore Ferrari a Menotti Garibaldi pubblicata su La Tribuna del 15 dicembre 1890. Lo presentò isolatamente come proprio candidato il giornale romano “Il Messaggero” Alberto Caracciolo, Roma capitale, Roma, 1984 (1956), p 232. 7. Mario Casella, Roma fine ‘800. Forze politiche e religiose, lotte elettorali, fermenti sociali (1889-1900), Napoli 1995, pp. 210-226. Postfazione 175 capo dell’opposizione nel Consiglio provinciale di Pesaro dove era stato eletto, come abbiamo già accennato, da un forte raggruppamento di repubblicani e radicali (8). Si mostrò particolarmente attento ai problemi legati alla situazione sanitaria locale, in particolare alle questioni derivate dal sovraffollamento del manicomio di San Benedetto che raccoglieva malati da tutta la provincia. Le condizioni di vita delle campagne marchigiane e la situazione di pesante indigenza della popolazione contadina provocava la pellagra che, non curata, conduceva alla demenza. Il conseguente aumento dei ricoverati faceva nascere problemi di igiene che Nathan giudicava ineludibili. Per gli stessi motivi riteneva che si dovesse trovare modo di occuparsi di coloro che, guariti, non potevano essere abbandonati nuovamente (9). Convinto assertore del sistema cooperativistico, di matrice mazziniana, che intendeva migliorare le condizioni economiche di artigiani e operai attraverso l’assunzione diretta di impegni di lavoro da parte di società cooperative costituite dagli stessi lavoratori, si impegnò, a Pesaro, per far avere direttamente ai cantonieri stradali l’appalto per la manutenzione delle strade. La stessa proposta ripetè poi a Roma facendo riferimento anche ai risultati positivi ottenuti a Pesaro (10). Considerato un amministratore pubblico molto competente, negli anni pesaresi fu riconfermato tutti gli anni quale membro della commissione provinciale del bilancio. Nell’estate del 1895 Nathan tornò a far parte del consiglio comunale romano, dopo anni di impegno profuso nella Congregazione di carità di Roma(11), composta da otto membri eletti dal consiglio comunale, che, dopo il ‘70, aveva assorbito antiche istituzioni caritative 8.Anna Maria Isastia, Ernesto Nathan. Un mazziniano inglese tra i democratici pesaresi. Appendice di documenti a cura di Pier Damiano Mandelli, Milano, 1994. 9. Sull’argomento si veda Paolo Giovannini, Il manicomio San Benedetto di Pesaro. Follia, psichiatria e società (1829-1514) una indagine storica, Note e riviste di psichiatria, a.LXXIII (1890), pp.127-145. 10. Seduta del consiglio comunale del 20 dicembre 1895. Sulle stesse posizioni il 21 dicembre 1896 interviene Mazza. 11. A. M. Isastia, Ernesto Nathan, cit., p 73. 176 Postfazione pontificie subentrando ad esse. Nathan era direttore degli Uffici della Congregazione di cui era presidente Emanuele Ruspoli, anche lui nel consiglio provinciale di Pesaro e Urbino, eletto sindaco di Roma alla fine del 1892. Dal 1895 all’autunno del 1902, sarà consigliere di minoranza in giunte a maggioranza clerico moderata dove, come scrive Caracciolo, regnava la convivenza e l’equilibrio tra uomini devoti al governo e uomini cari al Vaticano, tra esponenti di gruppi capitalistici diversi, tra rappresentanti del liberalismo e cattolici conservatori(12). Le linee della sua azione, in piena sintonia con quelle dell’opposizione di sinistra, appaiono subito chiare. Attenzione al sociale, preoccupazione costante per le condizioni di vita e di lavoro delle classi meno abbienti, anche per quelle del mondo contadino. Si pensi alla sua preoccupazione perché si avviino i lavori per la bonifica dell’Agro romano. Dai verbali delle sedute del consiglio comunale emerge un Nathan tecnico austero, amministratore competente. Colpisce la sua insensiblità agli aspetti estetici delle questioni trattate, che, in una città ricca di monumenti e ricordi storici come la capitale d’Italia, erano spesso all’attenzione del consiglio. Ad esempio, nelle discussioni sui diversi sistemi di trasporto pubblico, a differenza di altri, si preoccupava solo delle questioni strutturali. Per gli stessi motivi(13), essendo in discussione il completamento della nuova galleria sotto il colle del Quirinale, sostenne che era meglio destinare al recupero dei quartieri popolari i soldi che il collega Iacovacci avrebbe voluto spendere per impreziosire la galleria stessa. Se tutti sanno che una delle glorie della Giunta Nathan (14) è 12 . A. Caracciolo, Roma capitale, cit., p. 234. 13. Tornata del 21 marzo 1902. 14. Sulle attività della Giunta Nathan esiste una bibliografia molto vasta. Segnaliamo gli atti di un convegno di studi svoltosi nel 1984 (Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan, Roma, 1986), il lavoro di Giuseppe Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma in età giolittiana, Napoli, 1994 e quello di Maria I. Macioti, Ernesto Nathan. Il sindaco che cambiò il volto di Roma. Attualità di un’esperienza. Roma, 1995, corredato da un’ampia bibliografia. La fonte principale per lo studio di questi anni dell’amministrazione romana resta Cinque anni di amministrazione popolare MCMVII MCMXII, Roma 1913. Postfazione 177 stata la decisa opposizione alla speculazione edilizia, é meno noto il fatto che Nathan cominciò ad impegnarsi pubblicamente in quella direzione fin dal dicembre del 1895, ben 9 anni prima che Giolitti varasse la sua legge. Il 13 dicembre 1895 infatti sollevò il problema della revisione dei redditi dell’imposta sui fabbricati presentando, insieme ai colleghi Ettore Ferrari, Lizzani, Zuccari, Malatesta un ordine del giorno con il quale invitava “la Giunta a far valere presso il Governo e presso la rappresentanza nazionale le ragioni di giustizia che militano per procedere ad un nuovo accertamento del reddito dei fabbricati nella città di Roma” (15). Il tema viene ripreso con insistenza nel corso degli anni. L’espansione della capitale era avvenuta senza controlli. Molti caseggiati erano stati edificati violando le più elementari norme igieniche. Nathan è uno dei pochi che denuncia lo scandalo e la gravità di una tale situazione. All’inizio del 1898 lamenta le condizioni del nuovo quartiere Tiburtino “tutto e sempre ingombro di detriti umani, vegetali, organici e inorganici”. Dilagano malattie e prostituzione contro le quali chiede di intervenire migliorando le condizioni igieniche e impiantando l’illuminazione a gas in quello come in altri quartieri periferici. Alla fine del 1901 pone nuovamente la questione “degli alloggi della popolazione non abbiente, ora ricacciata ed agglomerata nei quartieri più malsani con grave danno della moralità e dell’igiene pubblica”. Nathan sostiene la necessità di risanare i quartieri poveri, primo fra tutti quello fuori Porta S. Lorenzo. Di grande interesse la sua raccomandazione di ‘‘escludere il concetto di case esclusivamente operaie in cui si addensa la popolazione come un alveare, mentre sarebbe l’ideale che ogni famiglia potesse col tempo divenire proprietaria della casetta in cui abita”. Pochi mesi dopo, a marzo 1902, torna a denunciare la situazione dei nuovi quartieri popolari, cresciuti senza controlli, che non ha comunque risolto il problema delle tante famiglie povere accalcate in locali fatiscenti e malsani. Nel testo della relazione della commissione sul bilancio preventivo 1902, di cui Nathan fa parte, troviamo anche un preciso riferi- 15. Il pronunciamento del consiglio comunale era finalizzato a dare forza ai deputati che avevano presentato analoga interpellanza alla Camera. 178 Postfazione mento a quello che sarà il più difficile provvedimento della futura amministrazione Nathan: la tassazione delle aree fabbricabili. “Cosi mentre le case pagano un’imposta in ragione dei fitti ritratti, mentre gli osti stessi pagano in ragione dei broccoli e dei carciofi prodotti, le aree fabbricabili non pagano un soldo, sebbene rappresentino valori ingenti, e ciò perché si dicono non redditizi”. La tassazione di quelle aree è giudicata “un ottimo calmante per le sfrenate speculazioni che furono più volte così esiziali alla prosperità ed allo sviluppo normale della città’’. Tra le questioni che Nathan giudicò sempre di primaria importanza, accanto a quella della costruzione di case per i ceti più modesti, troviamo una mai sopita attenzione alla scuola. Torna in continuazione a denunciare la mancanza di edifici scolastici, il sovraffollamento delle classi, le proibitive condizioni igieniche delle scuole comunali. Come conseguenza di questa situazione molti bambini non andavano a scuola o erano costretti ad iscriversi a scuole private. Si preoccupava anche di un’altra istituzione, all’epoca ancora nuova, i giardini d’infanzia, che egli auspicava fossero “veramente giardini all’aria aperta” . Perché tutti potessero avere una formazione di base chiedeva l’incremento della somma destinata agli alunni poveri e di quella destinata alla refezione scolastica. L’esigenza di togliere i minori dalla strada e di dare a tutti una istruzione e una coscienza civile lo spinse, nei sette anni in cui fu consigliere, a tornare spesso a lamentare l’insufficienza degli edifici scolastici e lo scandalo di bambini rifiutati dalle scuole dell’obbligo per mancanza di posti. Appena eletto, a fine 1895, tra le tante questioni affrontate, Nathan pose anche il problema del riordino dell’organico del personale del comune (16) che già allora creava non pochi problemi, e chiese di assicurare contro gli infortuni tutti gli operai del municipio(17) dicendo 16. Seduta del 16 dicembre 1895. Nathan chiedeva di eliminare il personale fuori organico e di determinare il numero di impiegati necessari per ciascun ufficio. Gli impiegati provvisori che lavoravano da molti anni dovevano essere mandati via con una pensione. 17. Seduta del 20 dicembre 1895. Postfazione 179 che “sarebbe stato un bell’esempio quello che il Comune di Roma facesse iscrivere tutti i suoi operai alla Cassa Nazionale di Soccorso”. Qualche anno dopo, nel 1902, pose invece il problema della trasparenza delle carriere e del diritto dei dipendenti di conoscere le motivazioni di promozioni negate o di non ammissioni a concorsi interni. Nel 1897 il consiglio comunale lo elesse membro della commissione per il bilancio(18) lo stesso incarico che aveva ricoperto per anni a Pesaro. Tra le questioni alla sua attenzione una posizione non secondaria era riservata al problema dell’evasione fiscale. Nel corso degli anni tornò ripetutamente sulla questione. Da una parte chiedeva che le imposte fossero applicate secondo il criterio della giustizia distributiva(19) concetto questo che faticava ancora ad affermarsi; dall’altra lamentava uno scarto eccessivo tra i preventivi e il reale gettito delle tasse comunali che si spiegava solo con larghe sacche di evasione. Mentre cercava di risolvere il problema dei mancati introiti dovuti alla pubblica amministrazione, Nathan appariva però anche molto preoccupato delle conseguenze della crisi economica sui cittadini della capitale. All’inizio del 1898 pose al consiglio comunale il problema delle condizioni di vita della popolazione che stavano peggiorando di giorno in giorno. Il 7 febbraio chiese al sindaco, con una interrogazione, misure per ridurre il prezzo del pane. Sappiamo bene quale scotto pagherà il paese alla carestia e alla miopia della classe dirigente! La relazione della commissione sul bilancio preventivo per l’esercizio 1899 confermò il grave stato di disagio economico in cui versavano migliaia di famiglie, anche se cominciava a notarsi un lento miglioramento delle condizioni economiche generali. Sempre per venire incontro ai bisogni della gente, nel 1899 18. Fece parte della commissione per il bilancio nel 1897 (bilancio preventivo 1898), nel 1898 e nel 1901. I bilanci del 1896 e del 1900 furono discussi articolo per articolo. Il suo ruolo appare sempre di rilievo nell’ambito di questioni finanziarie ed economiche. Dal 1898 al 1901 fu anche revisore dei conti. 19. Seduta del 30 novembre 1900. 180 Postfazione propose tariffe ridotte per il trasporto degli operai, portando ad esempio il felice esperimento avviato dal municipio di Milano. Nell’estate del 1901 chiederà un calmiere, sempre per frenare la crescita del prezzo del pane, proponendone la vendita diretta da parte del comune. Anche il tema della municipalizzazione dei servizi pubblici fu reiteratamente affrontato da Nathan ben prima di diventare sindaco. Può apparire un controsenso lodare le municipalizzazioni in un momento in cui si lavora a privatizzare le aziende pubbliche. In realtà considerando che ogni sistema alla lunga mostra i suoi limiti, è normale che si proceda per aggiustamenti progressivi alla ricerca di una impossibile soluzione ottimale. Merito di Nathan fu quello di impegnarsi nella direzione che lui, e non solo lui, riteneva la migliore, in quella fase storica, nell’interesse pubblico. Contrario ai monopoli, fin dal 1898, durante la discussione per il rinnovo del contratto in vigore con la Società Anglo-Romana per l’illuminazione a gas ed elettrica, contestò gli accordi proponendo di municipalizzare il servizio per abbattere il costo delle utenze. Un ordine del giorno sull’argomento venne respinto, ma la mancata approvazione della convenzione con la Società Anglo-Romana indusse il sindaco e la Giunta a rimettere il mandato. Era la seconda volta che un’iniziativa di Nathan metteva in crisi il consiglio comunale di Roma. Problema analogo si pose nel 1901 nei confronti della società dell’Acqua Marcia, ‘‘feudo” del Vaticano, che nel 1885 aveva stipulato col comune una convenzione che le garantiva il monopolio della distribuzione idrica. Quando l’amministrazione municipale propose di venderle anche la fonte dell’Acqua Vergine, Nathan si oppose dichiarandosi assolutamente contrario a rafforzare una convenzione che andava in direzione opposta all’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte del comune che lui auspicava(20) . 20. Per la municipalizzazione dell’Acqua Pia Marcia, furono a lungo impegnati, nel secondo dopoguerra, i consiglieri Selvaggi e Natoli. Bisogna arrivare al 1964 per raggiungere l’obiettivo di avere il controllo pubblico sull’intera rete degli acquedotti. Postfazione 181 Tornò a trattare l’argomento nel 1902 denunciando l’enorme ritardo accumulato dalla capitale rispetto a tante altre città più attente alla salvaguardia degli interessi dei cittadini. Va detto però che a partire da quell’anno cominciò a farsi strada una diversa attenzione al problema. È noto che nella primavera di quell’anno Giolitti presentò in Parlamento il disegno di legge sulla municipalizzazione dei servizi(21). Non stupisce che Nathan, tanto interessato al progetto, abbia chiesto alla Giunta di entrare nel merito della proposta che gli appariva macchinosa e di difficile applicazione perché lasciava troppi spazi alle “società monopolizzatrici”. Il 1902 fu un anno importante per Roma perché segnò la nascita dell’Unione democratica romana e dei primi tentativi di saldare in un blocco i partiti democratici della capitale. Sconfitta nel 1902 e poi nel 1905, per la mancata adesione dei socialisti, la coalizione riuscì alla fine vincitrice nel 1907 con un programma che vedeva al primo punto l’incremento della scuola elementare, seguita dalla tutela della pubblica igiene e da una nuova politica edilizia. Da questi sia pur rapidi cenni, appare con tutta evidenza che l’uomo che sedette in consiglio comunale dal 1895 al 1902 era un personaggio molto attento a quanto accadeva in Italia e fuori, ben deciso a modernizzare la città di Roma. Tutte le tematiche che affronterà da sindaco sono già presenti nei suoi interventi degli anni precedenti. I decenni a cavallo del secolo sembrano indicare un’accelerazione dei processi di interazione sociale, all’interno dei quali la città appare come punto di intersezione essenziale, e Nathan dimostra di conoscere e condividere la più moderna teorizzazione sul nuovo ruolo e i nuovi compiti dei centri urbani. Si pensi alla sua costante attenzione alle questioni igieniche e sanitarie, che costituirono in quei decenni uno dei terreni di intervento più assiduo e specifico dell’azione municipale, o al nodo rappresentato dalla municipalizzazione dei servizi pubblici (acqua, gas, illuminazione, trasporti). Più in generale Nathan appare consapevole della necessità di trovare un equilibrio fondato su contrappesi e reciproci riconoscimenti tra lo Stato e il Governo della città, tra il centro e la periferia, tra la 21. Legge 103/1903 sulle municipalizzazioni. 182 Postfazione politica nazionale e la società riassunta da una consapevole rappresentanza comunale. Ecco perché anche da consigliere dell’opposizione, Nathan non si limitò mai alla sola denuncia. Le sue proposte furono sempre concrete, fattive, costruttive, palesemente in sintonia con la più avanzata teorizzazione europea, espressione di una nuova coscienza amministrativa e di una generazione fiduciosa che l’ente locale potesse essere al centro di un progetto riformatore. Anna Maria Isastia (Roma, Maggio 1998) Bibliografia 183 BIBLIOGRAFIA G. Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma in etá giolittiana, Liguori editore, 1994. F. Bartoccini, Roma nell’ottocento, Bologna, 1985. L. Bedeschi, Il giovane De Gasperi e l’incontro con Romolo Murri, Bompiani, 1974. L. Bedeschi, Il programma municipalistico dc nel 1902 e la candidatura di Romolo Murri (documenti inediti), “Humanitas”, n. 12, dicembre, 1967. L. 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Indice dei nomi 187 INDICE DEI NOMI Acciaresi, Primo, 99n Albani Medolago, Stanislao, 72, 75 Albertario, David, 25, 35, 28n Althusio, Giovanni, 33n Amore, Sebastiano, 84 Antici-Mattei, Tommaso, 99n Apostoli, Giuseppe Giordano, 168 Armellini, Augusto, 173 Azeglio Taparelli, Massimo d’, 30 Baccarini, Alfredo, 173 Balbo, Cesare, 26 Barbalace, Giuseppe, 58n, 176n Bartoccini, Fiorella, 173n Bedeschi, Lorenzo, 54n, 65n, 83n, 87n, 88n, 89n, 90n, 91, 93n, 94n, 98n Belardinelli, Mario, 53n, 54n, 55n, 101n Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa), 90 Benucci, Francesco Saverio, 91n Bergamini, Alberto, 44 Berlusconi, Silvio, 10 Borgognoni, 146 Brescia, Arnaldo da, 33 Busiri, Carlo, 99n Buttarelli, Paolo, 99n C.S. (sigla) Cagliati, 168 Campello della Spina, Paolo, 65n 188 Indice dei nomi Candeloro, Giorgio, 47n, 48n Caracciolo, Alberto, 174n, 176 e n Casciola, Brizio, 97 Casella, Mario, 174n Cassola, G., 159 Cattaneo, Carlo, 34 Catti De Gasperi, Maria Romana, 88n Cavallotti, Felice, 48n, 71n, 172 Cavour, Camillo Benso di, 21, 29n Ceccarelli, Eugenio, 99n Cecchini, Francesco Maria, 56n Cecchini, Giulio, 99n Cece, Giulio, 158 C. M. Celli, 91 Chiaramonte, Umberto, 84n Chigi, Mario, 99n Colonna, Marcantonio, 99n Colonna, Prospero, 99 Costa, Andrea, 53 Cozzi, 161 Crispi, Francesco, 172, 173 Cruciani-Alibrandi, Enrico, 168 Curci, Carlo Maria, 27 D’Ubaldo, Lucio, 3, 4, 6, 8, 10, 11, 171 De Gasperi, Alcide, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 14n, 42, 87 e n, 88n, 89 e n, 101 De Paolis, 161 De Rosa, Gabriele, 29n, 43n, 84 De Viti De Marco, Antonio, 60 Del Gallo di Roccagiovine, Luciano, 168 Della Chiesa, Giacomo (vedi Benedetto XV) Di Carpegna, Mario, 99n Di Rudinì, Antonio, 51, 71n Indice dei nomi 189 Ducci, Romolo, 99 e n, 165 Fantetti, Antonio, 35n Ferrari, Andrea Carlo, 74n Ferrari, Ettore, 74n, 136, 172, 174 e n, 177 Ferrari, Giuseppe, 34 Ferraris, Carlo Francesco, 55 Fini, Gianfranco, 10 Fogazzaro, Antonio, 88n Galli, Augusto, 99n Garibaldi, Giuseppe, 29n, 174n Gaspari, Oscar, 53n, 90n, 104n Gasparri, Pietro, 90, 91 Gioberti, Vincenzo, 26, 32, 33 e n, 34 e n Giolitti, Giovanni, 4, 58, 71 e n, 132, 145, 177, 181 Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), 80n Giovannini, Corrado, 44n Giovannini, Paolo, 175n Gladstone, William, 51 Grassi, Piergiorgio, 42n Grosoli, Giovanni, 45 Hobsbawn, Eric, 13n Iacovacci, 176 Invrea, Francesco, 55 e n, 56, 57 e n, 60, 61n Isastia, Anna Maria, 174n, 175n Jacoucci, Virginio, 99n Jemolo, Arturo Carlo, 80n Kommer, Ernest, 87n, 88n Lamennais. Felicité Robert de, 22 e n, 23 e n, 47n, 49n Lapponi, Giuseppe, 99n Leone XIII (Vincenzo G. Pecci), 24, 28, 29n, 42, 45, 51, 56n, 73 e n, 80, 87n, 91, 153, 176n Leone, Bruno, 60 Libertini, Pasquale, 84 190 Indice dei nomi Lizzani, Carlo, 177 Macioti, Maria Immacolata, 173, 176n Maistre, Joseph de, 22 Malatesta, Alberto, 177 Mandelli, Pier Damiano, 175n Marcucci Fanello, Gabriella, 49n Margotti, Giacomo, 29 Marinelli, Giancarlo, 16n Marx, Karl, 48n, 59 Mauri, Angelo, 52, 55 Mazza, Pilade, 174, 175n Mazzini, Giuseppe, 171, 172 Mazzonis, Filippo, 68n, 69n, 70n Meda, Filippo, 28n, 35n, 42, 43n, 47n, 52, 73 Metternich, Klemens W.L. di, 21 Micheli, Giuseppe, 52 Miglio, Gianfranco, 33n Minghetti, Marco, 69 Molajoni, Pio, 97 Mongillo, Dalmazio, 16n Montemartini, Giovanni, 60 Murri, Romolo, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 13, 15, 16, 21, 24, 35, 36n, 41, 42, 43 e n, 44 e n, 45, 46 e n, 47n, 48n, 49n, 52, 55, 65, 72, 73, 74, 75, 80, 81, 82, 83 e n, 85 e n, 87 e n, 88 e n, 89 e n, 89 e n, 90 e n, 91 e n, 92, 93 e n, 94, 97, 98, 100, 101, 102, 103, 104, 107, 145, 146, 147, 158, 159, 160, 161 Nassi, Enrico, 88n Nathan Levi, Sarina, 172 Nathan, Ernesto, 3, 9, 61, 67, 91n, 167, 171, 172 e n, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181 Natoli, Aldo, 180n Negri, Ada, 43 Nicola, Antoni, 55 Indice dei nomi Oreglia, Luigi, 69 Orlando, Vittorio Emanuele, 55 Ossicini, Adriano, 103 Paganuzzi, Giambattista, 42, 45, 54n Pantaleoni, Maffeo, 60 Pareto, Vilfredo, 59, 60 Pelloux, Luigi, 51, 71n Perazzi, Umberto, 99, 165 Petrilli, 161 Pianciani, Luigi, 66, 173n Pierantoni, Pietro, 161 Pio X (Giuseppe Sarto), 42, 45 Pio XI (Giovanni Mastai Ferretti), 27, 28, 68 e n, 80 Possenti, Enrico, 97 PRAM (sigla), 113, 118 Quinzio, Sergio, 16n Radini Tedeschi, Giacomo, 90 e n Rampolla del Tindaro, Mariano, 73, 74n, 88n, 90, 91, 92 Ranchetti, Michele, 102n Ravelli, 159 Re, Emilio, 97 Reineri, Mariangiola, 32n Riario Sforza, Sisto, 68 Ricasoli, Bettino, 66 Rodano, Franco, 22n, 23n Rosmini, Antonio, 26 Rosselli Nathan, Giannetta, 172 Ruspoli di Francesco, Alessandro, 99n Ruspoli, Emanuele, 175 Ruspoli, Enrico, 168 Saba, Vincenzo, 14n Sacchi, Ettore, 136, 137 Saffi, Aurelio, 173n 191 192 Indice dei nomi Salimei, Eugenia, 90n Salimei, Francesco, 90n, 91 e n, 93n, 98, 99n, 158, 165 Salustri-Galli, Pietro, 99n Salvadori, Giulio, 97 Salvati, Giovan Battista, 167 Sangnier, Marc, 45 Santini, Pio, 167 Santucci, Carlo, 91n, 99n, 167 Scoppola, Pietro, 25n, 43n, 51n, 98n Sella, Quintino, 66 Selvaggi, Giovanni, 180n Semeria, Giovanni, 97 Soderini, Odoardo, 146, 147 Sonnino, Sidney, 71n Sturzo, Luigi, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 24, 26, 40, 41, 42, 43 e n, 45, 51, 52 e n, 58n, 84, 85 e n, 86 e n, 87 e n, 89n, 102, 103, 104, 107, 127, 128 Susi, 146 Taviani, Paolo Emilio, 28n Tenerani, Carlo, 168 Tittoni, Romolo, 167 Tocqueville, Alexis de, 22 Toniolo, Giuseppe, 24, 35 e n, 36n, 51, 55, 58n, 91 Torlonia, Augusto, 167 Trinchese, Stefano, 28n Turati, Filippo, 55 Tyrrel, George, 98 Valente, Giovambattista, 161 Valeri, Nino, 71n Veneziani, Marcello, 13n Vercellone, 146 Vercesi, Ernesto, 74n Vigoni, Giuseppe, 58 Indice dei nomi Vitelleschi, Francesco, 167, 168 Von Hügel, Friedrich, 98 Von Hügel, Gertrud, 93n, 98 Walras, Lèon, 59 Zanardelli, Giuseppe, 51, 71 Zoppi, Sergio, 47n, 104n Zuccari, Federico, 174, 176 193