Fondazione Card. Ferrari Unità d'Italia e coscienza cattolica Como, 7 febbraio 2011 I cattolici, il Risorgimento e l'unità d'Italia. Scontri e incontri. Prof. Giorgio Vecchio Ordinario di storia contemporanea ‐ Università di Parma Mons. Angelo Riva Questo è il primo di un mini ciclo di incontri che la Fondazione Card. Ferrari intende dedicare ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Il 17 marzo 1861 nasceva lo Stato unitario italiano, e questa data per un certo verso è stato un punto d’arrivo, per un altro un punto di partenza, sia sul piano civile, nel senso che, come si diceva, fatta l’Italia occorreva fare gli Italiani, ma anche nel senso che quella data ha dato inizio ad una stagione complessa dei rapporti tra il neo nato Stato italiano e la Chiesa. Una stagione complessa, che per diverso tempo rappresentò anche una ferita aperta per la coscienza cristiana, un’appartenenza combattuta e spesso difficile. C’è voluto del tempo perché questa ferita fosse rimarginata, possiamo dire certamente almeno fino al Concilio Vaticano II, passando per i Patti Lateranensi e poi per il magistero illuminato di Pio XII. Nell’arco di questi 150 molta acqua è passata, potremmo dire, sotto i ponti del Tevere: dal Non expedit, l’invito rivolto ai cattolici a non partecipare alla vicenda politica del neo‐nato Stato italiano, fino alla Gaudium et Spes del Vaticano II, passando per il Codice di Camaldoli, forse l’esempio più fulgido del cattolicesimo politico italiano nella fase costituente della nuova Costituzione. Certamente, misurate sui tempi lunghi di Dio, le cannonate dei garibaldini durante la Breccia di Porta Pia ebbero di che apparire provvidenziali, ma non altrettanto apparvero alle orecchie di Pio IX, rinserrato dentro le mura vaticane. Un periodo storico quindi molto complesso, 150 anni di confronti, incontri e scontri, anni complessi, convulsi e turbolenti, anche drammatici, consapevoli del fatto che nella visione cristiana la storia non è mai una commedia, neanche una tragedia, è sempre un dramma, il dramma dell’incontro tra il Vangelo e la complessità della storia. A illustrarci questo transito drammatico abbiamo invitato il prof. Giorgio Vecchio, uno dei massimi esperti in campo nazionale su questo argomento, dal 2004 Professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Parma. Prof. Giorgio Vecchio Ho preparato 5 punti: l’epoca delle illusioni, l’epoca dello scontro, l’epoca della lacerazione, l’epoca del nazionalismo cattolico, l’epoca della riscoperta del Risorgimento. Non credo che riuscirò a toccarli tutti, ma potremo eventualmente riprenderli durante la discussione. L’epoca delle illusioni: Pio IX e il neoguelfismo. Potremmo richiamare per sommi capi la situazione della Chiesa universale, e in particolare di quella italiana, nei primi anni del 1800, dopo la caduta di Napoleone e nell’epoca della restaurazione. Dopo i colpi inferti dalla Rivoluzione francese e dalle conquiste napoleoniche, la Chiesa deve ricostituirsi, deve rimettere ordine nelle proprie strutture, che sono state lacerate, addirittura con la deportazione di Papa Pio VII, e questo già implica un accentramento dell’istituzione della Chiesa attorno alla figura del Papa, il Papa martire, perseguitato, intorno a cui i fedeli si stringono. Ed è un periodo anche in reazione proprio agli anni napoleonici di ripresa religiosa: tutto l’ ‘800 è un grande secolo di rinascita religiosa, e lo testimoniano le innumerevoli fondazioni di nuovi istituti religiosi e la presenza di tanti santi, soprattutto attivi nel campo della carità, nel campo sociale. Si calcola che nel corso dell’ ‘800 siano sorti 200 istituti religiosi in Italia, dei 1 quali 50 a testa tra Piemonte, Lombardia e Veneto. Pensate alle Canossiane, alle Orsoline, alle Marcelline, ma anche ai grandi santi, da don Bosco e dal Cottolengo al Murialdo, a Ludovico Pavoni, per arrivare, verso la fine del secolo, alla presenza del nostro don Guanella, di don Orione, ma anche, al Sud, ad Annibale di Francia a Messina, Bartolo Longo a Pompei, e tanti altri ancora. Questa rinascita religiosa è volta soprattutto ai problemi sociali, sia perché questi sono drammaticamente acuti, tanto dopo la fine dell’epoca napoleonica quanto nel corso del secolo, e poi perché l’epoca dell’Illuminismo ha fatto passare l’idea che si può scegliere una vita religiosa purché serva a qualcosa. Quindi niente vita contemplativa, niente claustrali, ma invece istituti che lavorino per i poveri, per i portatori di handicap e via dicendo. Tutta questa ripresa della Chiesa, sia organizzativa che di presenza rinnovata nella società, avviene sotto il segno di quello che è stato chiamato l’ultramontanismo, pensando ad una visuale francese verso Roma, vale a dire l’idea che la Chiesa non solo è un’istituzione di origine divina, ma è anche una società perfetta in quanto tale, perfetta al suo interno, e capace di essere guida sicura in tutti gli aspetti della società. La Chiesa non ha bisogno di nulla che venga dall’esterno, perché già possiede tutta la verità, non solo la verità ultima, escatologica, ma anche la verità sui problemi del suo tempo. Quindi si capisce perché poi, quando partirà in Italia l’Opera dei Congressi, la dichiarazione che verrà più volte letta è quella che il Congresso è ‘cattolico’, e basta, perché aggiungere qualsiasi altro aggettivo a ‘cattolico’ è sminuire il ‘cattolico’ stesso, lì è già compresa tutta la verità, anche di fronte ad una società che è naturalmente imperfetta. Questa Chiesa accetta il principio di legittimità, vale a dire rimettere sui troni i sovrani che erano stati spodestati dalla Rivoluzione francese, però lo fa con il consueto realismo che di solito attribuiamo alla Curia vaticana: quindi in Francia si accetterà nel 1830 il nuovo regime di Luigi Filippo, che spazza via i Borbone, si accetterà a maggior ragione il Belgio nel 1830, perché si stacca dai Paesi Bassi governati dai Calvinisti, e così si accetterà anche l’indipendenza dei paesi dell’America Latina. Quindi il principio di legittimità anche per la Chiesa vale fino ad un certo punto, con qualche eccezione. Monaldo Leopardi, il papà di Giacomo, in nome del principio della tutela rigorosa dell’autorità, condanna i cristiani greci che si stanno ribellando al sultano turco ottomano, e musulmano. Sul piano culturale in questa Chiesa si diffondono testi, opuscoli, anche una stampa schiettamente reazionaria, ostile a tutto ciò che la Rivoluzione ha messo in movimento, molto spesso senza una qualità culturale. Se andiamo ad esaminare i prodotti culturali, troviamo le menti migliori nel cattolicesimo liberale, cioè coloro che studiano un diverso rapporto tra il cattolicesimo e il portato del liberalismo, le libertà moderne, a partire da Lamennais in Francia e via via diffondendosi in Italia. In questo contesto il pontificato di Gregorio XVI, fino al 1846, si distingue per il carattere fortemente reazionario, di chiusura cioè ad ogni possibile cambiamento, non solo culturale, ma anche tecnologico: il rifiuto delle ferrovie, ad esempio, e di ogni adattamento dello Stato pontificio alle esigenze che comunque, anche ai tempi della Restaurazione, stanno rivenendo alla luce e portando in auge le richieste di un Parlamento, di una società nazionale, di un minimo di libertà civile. Gregorio XVI con l’enciclica Mirari vos del 1832 condanna i principi cattolico‐liberali di Lamennais e tutti coloro che propugnano una conciliazione tra la Chiesa e la modernità. Cito ad esempio: “Va denunciata quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che debbasi ammettere, e garantire per ciascuno, la libertà di coscienza”. La libertà di stampa è definita pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita, perché proprio dalla libertà di stampa, la libertà di coscienza, peggio ancora, sulla base della libertà di coscienza, il riconoscimento della libertà religiosa, e quindi la parificazione dell’errore delle altre religioni con la verità cattolica, da tutto questo deriva, secondo Gregorio XVI, la decadenza e la rovina degli stati contemporanei, la corruzione dei giovani. E naturalmente c’è anche la difesa dei legittimi principi: il potere dei principi viene da Dio, e quindi chi resiste ai principi, cioè all’autorità costituita, resiste all’ordine divino, e quindi è un ribelle, non solo contro il principe, ma contro Dio. Ora, questi principi vanno a scontrarsi con quello che sta maturando in Italia, e con la spinta all'unità italiana. I primi decenni dell'Ottocento saranno quelli in cui, possiamo dirlo pacificamente, si inventa l'Italia; gli stati si inventano, sono in qualche modo assimilabili alla vita umana: non esistono, si inventano, cioè si fanno passare dei progetti culturali, si realizzano effettivamente, poi hanno il loro sviluppo fino alla decadenza e alla scomparsa. L'invenzione dell'Italia avviene ad opera dei letterati, da Manzoni a Berchet, a Giusti, allo stesso Mameli e tantissimi altri, di artisti (penso ad Hayez, Induni..), ma l'Italia si inventa anche per necessità economiche, aspetto questo che viene solitamente trascurato nelle polemiche degli ultimi anni: c'è bisogno di un'unità italiana per facilitare le produzioni e i commerci. Come si poteva trasportare 2 un prodotto fatto a Como per l'Italia, quando si doveva passare per tutte le frontiere con relative dogane, passaporti, monete diverse? Come si poteva far sviluppare i commerci e l'industria quando non si poteva viaggiare per la penisola? La gran parte dei commerci tra le regioni e gli stati italiani avviene via mare: è più comodo andare da Genova a Livorno, a Civitavecchia, a Napoli, a Palermo, che non traversare gli Appennini senza ferrovie, perché poi ogni stato era autonomo e molti non volevano le ferrovie. Quindi c'è una molla ideale che spinge verso l'unificazione, c'è una molla economica e commerciale che non va trascurata e c'è una molla epocale, perché la riscoperta del senso della nazione non è un fenomeno solo italiano, ma la riscoprono tutti, salvo chi già aveva una unità nazionale, come Francia ed Inghilterra. La nazione viene riscoperta ad esempio dai Tedeschi (pensiamo alle invettive e alle opere di Fichte contro la presenza napoleonica), e via via, a cascata, il nazionalismo, o quanto meno il senso della nazionalità, viene riscoperto dagli Slavi, dai popoli balcanici e, a fine '800, dalle popolazioni arabe e dai palestinesi, perché sono soggetti ai Turchi. Quindi il fenomeno italiano è un fenomeno europeo, quantomeno, e ha diverse ragioni. In questo processo che sta avanzando in modo irreversibile come collocare la presenza di una Chiesa come quella di Gregorio XVI? I tentativi, che si rivelano poi illusori, sono quelli dei Neoguelfi, primo di tutti l'abate Vincenzo Gioberti, che nel 1843 scrive “Del primato morale e civile degli Italiani”, un testo importante, non tanto per gli effetti, quanto perché accredita un'idea che è destinata in qualche modo a durare fino a noi, con tutti i dovuti cambiamenti: l'idea cioè che l'Italia sia una nazione speciale, sia “naturalmente cattolica”, perché è la sede del Papato, del successore di Pietro e quindi che l'Italia, in mezzo a tutto il mondo, abbia una sua missione originaria, per cui ci deve essere l'identificazione tra l'essere italiano e l'essere cristiano cattolico. Ora, Gioberti, quando scrive questo testo, quando ci ritorna nelle successive edizioni con i “Prolegomena del primato” non ha in mente una unità d'Italia, anzi addirittura respinge l'idea di unità, il supporre che l'Italia, divisa com'è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere di uno solo, è demenza. Però mette le basi di un progetto federale, una federazione tra gli stati esistenti, naturalmente che risponda a quella missione cattolica, a quel primato civile e morale che gli Italiani hanno o devono avere. L'opera di Gioberti è piena di punti non risolti, ad esempio: cosa ne facciamo dell'Austria, considerato che gli austriaci erano i padroni, quindi si poteva scrivere quello che si voleva, ma si decideva a Vienna. E' qui che si innesta il tentativo di riflessione di Cesare Balbo, “Le speranze d'Italia”, che è dell'anno successivo, cioè con l'idea di convincere pacificamente gli Austriaci a 'inorientarsi', cioè ad andare verso i Balcani e lasciare libero questo progetto di confederazione. Nel progetto neoguelfo nella confederazione, che non è neppure federazione (confederazione significa avere i legami tra gli stati ancora più labili, se vogliamo vedere nella storia più recente, la confederazione era quella che aveva in mente De Gaulle a proposito dell'Europa), il Papa avrebbe dovuto essere il Presidente: quindi si riconosceva l’esistenza dello Stato della Chiesa, e anzi si attribuiva al Papa questo ruolo di capo di questa confederazione italiana. Ora, in tutto questo turbinio di idee degli anni '40 (e non dimentichiamo che in questi anni in Italia si verificano annualmente i Congressi degli scienziati, che, mi duole dirlo, si svolgono a rotazione in tutti gli stati italiani salvo che nello Stato della Chiesa; l'occasione è per gli scienziati, che sono soprattutto tecnici dell'agricoltura, la realtà economica dominante, di poter discutere e confrontarsi e nasce un sentimento comune anche su questo terreno) arriva, nel 1846, l'elezione di Pio IX. I primi mesi del suo pontificato sembrano dar corpo a queste suggestioni neoguelfe, perché uno dei primi gesti che Pio IX compie appena eletto è quello di dare l'amnistia a tutti i condannati politici, di lasciar tornare a Roma, o nello Stato della Chiesa, i fuoriusciti politici. Andrebbero però letti tutti i documenti, perché Pio X concede l'amnistia a patto però che si firmi un impegno ad essere buoni sudditi: è un perdono di un papà un po' rigoroso, non un'apertura alle libertà civili e politiche. Non si bada neanche al fatto che Pio IX pubblica l'enciclica Qui pluribus che è un rinnovato attacco ai principi liberali; attenua un po' la censura della stampa e si arriva al '48, quando il Papa sembra essere trascinato nella corrente risorgimentale, presenta una serie di riforme dello Stato della Chiesa, m dice di riservarsi il diritto di giudicare e di resistere a richieste di riforme non conformi a doveri suoi. Questo proclama del 10 febbraio 1948 finisce con la celebre frase “Benedite, gran Dio, l'Italia” che suscita di nuovo enormi entusiasmi in tutta la penisola. Peccato che l'Italia si chiede venga benedetta da Dio in quanto cattolica, non in quanto entità nazionale unica. C'è una serie di equivoci, di incomprensioni, di entusiasmi eccessivi che vengono drasticamente tagliati nel corso della Prima Guerra di Indipendenza: nell'allocuzione del 29 aprile del 1948 Pio XI proclama di voler far ritornare a Roma le truppe che erano state mandate a combattere insieme a Carlo Alberto e ai Savoia, ed è evidente che non poteva 3 fare diversamente, e qui sta l'equivoco. In quanto sovrano di uno stato aveva tutti i diritti di mandare i suoi uomini a partecipare ad una guerra, come capo dello stato poteva impiegare l'esercito come voleva, ma come capo della Chiesa universale non poteva utilizzare i suoi uomini perdi più contro un altro stato dichiaratamente cattolico come l'Austria (che poi era 'dichiaratamente cattolica' quando conveniva, perché il Concordato del 1855 non era così tanto generoso nei confronti della Chiesa). Questo intervento del 1848 è anche importante perché Po IX afferma di amare tutte le genti con lo stesso affetto di padre, e ripudia esplicitamente i subdoli consigli di coloro che vorrebbero che il Pontefice romano fosse capo e presiedesse a costituire una cotal nuova repubblica degli universi popoli d'Italia. E mette in guardia anche gli italiani dal guardarsi da siffatti astuti consigli e perniciosi e di rimanere attaccati ai loro principi. Con questa allocuzione si segna la frattura, perché il rifiuto esplicito del Papa di porsi a capo di una qualsivoglia unione degli stati italiani significa la fine del neoguelfismo, dei sogni di Gioberti e Balbo e amici loro. E segna anche in qualche modo la fine delle speranze del federalismo, quel federalismo che viene definitivamente battuto, non tanto nel '61 quando si proclama l'unità d'Italia, ma tra '48 e '49, perché salta l'idea di un federalismo alla neoguelfa, quindi presieduto dal Papa, ma salta anche l'idea di un federalismo come propugnava Cattaneo ai tempi della sua guida delle Cinque Giornate di Milano perché dopo la disfatta del '48‐'49 l'iniziativa passa in mano tutta ai Savoia: non è più Venezia che si ribella, Milano che si ribella, cioè c'è una convergenza da diverse parti d'Italia che possono aspirare a mettersi insieme. Da questo momento l'iniziativa è nelle mani di uno solo, cioè di Vittorio Emanuele II, o, se volete, di Cavour, e quindi è già in questo modo che le prospettive di una convergenza federalistica vengono battute. Sappiamo che la Prima Guerra di Indipendenza ha l'esito drammatico per la Chiesa con la rivolta a Roma (il 24 novembre Pio IX lascia Roma e fugge a Gaeta), la proclamazione della Repubblica Romana, che prima di essere schiacciata nel luglio del '49 dalle truppe francesi vara un documento che conviene rileggere, che è di grandissimo interesse, perché la Costituzione della Repubblica Romana è molto più avanzata dello Statuto Albertino, che è di solo un anno prima, perché fortemente democratica, segna la piena uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, sancisce la piena indipendenza della magistratura di fronte al potere politico, e parecchi articoli anticipano la nostra Costituzione del '46‐'48. L’epoca dello scontro. Finisce così con la Prima Guerra di Indipendenza l'epoca delle illusioni e si va allo scontro, già nel decennio preunitario tra gli anni '50‐'60, caratterizzato dall'iniziativa appunto del Piemonte, che si muove già in contrapposizione alla Chiesa: le Leggi Siccardi, che vengono approvate nel 1850 sono fortemente osteggiate dalla Chiesa, perché eliminano una serie di proprietà ecclesiastiche e una serie di privilegi che oggi a noi sembra scontato che si dovessero abolire: il Foro ecclesiastico, vale a dire che un sacerdote incriminato, accusato per reati comuni (mi viene in mente la pedofilia, per stare sull'attualità) avrebbe dovuto essere giudicato non dal tribunale ordinario, ma da un tribunale di ecclesiastici. E già questo è il segnale che il Piemonte, con Cavour, va sulla strada della modernizzazione, e la strada della modernizzazione si incrocia, si scontra, con quella della Chiesa. La Chiesa di Pio IX rimane comunque rigida sulle sue posizioni e il guaio per Pio IX è che questa Chiesa e questa sua rigidità contribuiscono a far perdere credibilità. Ci sono anche episodi penosi da ricordare, come quel caso del piccolo Edgardo Mortara, a Bologna nel 1858, la storia drammatica anche se a lieto fine, di questo bambino ebreo la cui famiglia ha una domestica cattolica; Edgardo, piccolissimo, sembra essere in fin di vita e, presa da un giusto scrupolo, dal suo punto di vista, la domestica prende dell'acqua e lo battezza, cosa che sappiamo essere consentita anche ai laici in condizioni tutte particolari. Qualche anno dopo, nel 1858, si ripresenta un caso analogo con un suo fratellino, la domestica parla e si viene a sapere che Edgardo è stato battezzato, seppur in quella forma tutta particolare. A questo punto la gendarmeria pontificia interviene, perché un bambino cattolico non può essere educato in una famiglia di ebrei, e quindi Edgardo viene sottratto ai suoi genitori e messo in un collegio. E’ un esempio tremendo di rigidità, poi a lieto fine perché Edgardo maturerà una vocazione al sacerdozio e si farà prete. Questo però non cancella la violazione dei diritti umani, per usare il linguaggio di oggi. Scoppia un caso internazionale, ci sono pressioni internazionali perché questa decisione venga rivista, ma Pio IX tiene duro e ciò non contribuisce a rafforzare l’immagine dello Stato della Chiesa. Conosciamo gli avvenimenti che portano, tra il ’59 e il ’61, alla proclamazione del Regno d’Italia, e ricordo che già in questo contesto abbiamo il graduale smembramento dello Stato della Chiesa, prima con la ribellione delle Legazioni 4 (Bologna, le Romagne che, tanto per non smentirsi, erano terra rivoluzionaria), si perde da parte del Papa l’Umbria e le Marche, quando, con la scusa di fermare Garibaldi, Cavour manda le truppe piemontesi verso Sud, e si arriva alla proclamazione di un’unità d’Italia che avviene sotto il segno del Piemonte e dell’accentramento. Inizia la protesta: e mi piace qui accennare che la proposta lombarda contro lo stato unitario inizia prima ancora che lo stato unitario sia fatto, perché già nel 1859 i criteri di annessione della Lombardia al Piemonte sono contestati dai Lombardi che vedono vanificate le autonomie locali; sulla “Perseveranza”, che era il quotidiano conservatore di Milano, Cesare Correnti scrive: “finis Langobardiae” (la Lombardia è finita). Poi per contraccolpo, e per motivi diversi, nel ’60‐’61, nasce anche tutta una questione meridionale. Le contrapposizioni tra Lombardia e la capitale (prima Torino, poi Firenze per poco tempo e poi Roma) durano a lungo. Fatto il Regno d’Italia sappiamo che manca Roma. E da una parte Pio IX, con l’allocuzione ai cardinali del 18 marzo 1861, ribadisce la sua posizione: “da lungo tempo si chiede al sommo pontefice che si riconcili e si accomodi con il progresso e il liberalismo, e come vien chiamata, con la moderna civiltà. Ma come mai potrà aver luogo un simile accordo mentre questa società moderna è madre e propagatrice feconda di infiniti errori, di indeterminabili mali, di massime opposte a quelle della religione cattolica? Essa dà libero varco alla miscredenza, accoglie nei pubblici uffici gli infedeli, apre ai loro figli le pubbliche scuole, osteggia i sodalizi nonché le sopravvivenze del clero sull’istruzione, spoglia la Santa sede dei suoi legittimi possedimenti, fomenta la licenza dei costumi, inceppa la salutare azione del sacerdozio e tende ad abbattere la Chiesa di Cristo”. Sottolineo quel accoglie nei pubblici uffici gli infedeli, perché c’è anche un problema poi di parificazione dei diritti degli Ebrei, che ottengono finalmente la piena parità dei diritti civili e politici grazie all’unità d’Italia, grazie ai Savoia, perché prima non era affatto garantita negli stati della Restaurazione. Quindi il fatto che poi un ebreo (o un ateo dichiarato, o un massone) venga a fare l’insegnante è una cosa che cozza contro i principi del rifiuto della libertà di coscienza e quindi anche della libertà di insegnamento. Qualche tempo dopo, il 27 marzo, Cavour lancia nel Parlamento di Torino uno dei suoi ultimi discorsi: “Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza;, rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche. Ebbene, quello che voi non avete potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere vostri alleati e vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza. Noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: ‘libera Chiesa in libero Stato’”. Bellissimo principio, poi si trattava di vedere come concretizzarlo, e in ogni caso queste due citazioni dicono la distanza enorme che esisteva tra le parti. Peraltro le tensioni tra lo Stato appena uscito dal Risorgimento e la Chiesa sono destinate ad aumentare già in quegli anni ’60, prima ancora della presa di Roma. A parte i tentativi garibaldini del ’62, quando viene fermato in Aspromonte, o nel ’67 con la spedizione fermata a Mentana, c’è lo scoglio rappresentato dalla legge sui beni ecclesiastici del ’66, quando, per far fronte all’enorme deficit dello Stato e alle spese incontrate per la Terza Guerra di Indipendenza (quella che porta ad acquisire Venezia), lo Stato italiano (che intanto ha capitale a Firenze) sopprime una serie di ordini e corporazioni religiose, che non sono più riconosciute agli effetti civili; la Chiesa e questi ordini religiosi vengono espropriati di una grande quantità di terreni e di possessi, che poi vengono rivenduti, favorendo le operazioni o dei grandi proprietari al Sud o della borghesia imprenditoriale del Nord. Per la verità queste soppressioni e questi espropri causano naturalmente uno scontro durissimo, ma non riescono a fermare quello che invece era l’aspetto più positivo della Chiesa italiana, cioè il fiorire di nuovi istituti con nuove attenzioni agli aspetti sociali, alla povertà, all’istruzione e così via. Del resto, la politica italiana ormai non mira alla distruzione della Chiesa, come polemicamente si afferma, ma appunto brutalmente a impossessarsi di alcune ricchezze che servono o comunque a limitare i poteri della Chiesa. Sempre in questi anni, c’è nel 1864 l’enciclica Quanta cura, che è famosa soprattutto per il Sillabo degli errori che viene annesso, che ribadiscono la distanza enorme che esiste. Il Sillabo è un elenco di 80 affermazioni giudicate erronee e da respingere, quindi se alla n. 75 si dice “sulla compatibilità del regno temporale con lo spirituale possono disputare tra di loro i figli della Chiesa cristiana e apostolica”, si deve leggere a rovescio che ‘è vietato ai cattolici di discutere del rapporto tra il potere temporale e quello spirituale’; oppure: “ai tempi nostri non giova più mantenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualsiasi altro culto”, significa che la religione cattolica deve rimanere unica religione dello stato escludendo gli altri culti. E così non si può affermare che l’eliminazione dello stato temporale della Chiesa gioverebbe alla missione della Chiesa, che il Papa ci guadagnerebbe venendo a patti con il progresso, il liberalismo e la civiltà 5 moderna e via dicendo. Peraltro in questi anni ’60 la Chiesa, al suo interno, non ha posizioni univoche: esiste un ‘pluralismo politico’ dei cattolici italiani; intanto ci sono forti differenze regionali: in Piemonte (che aveva già avuto lo scontro sulle Leggi Siccardi) il clero è spesso ostile allo Stato, tant’è vero che manifestazioni di forte intransigenza antisabauda, o perlomeno antiliberale, avvengono in Piemonte; la formula richiamata prima del “Non expedit” è stata consacrata da Pio IX, ma l’idea che non si deve andare a votare nasce dalle elezioni del ’57 in Piemonte, quindi ancor prima dell’Unità. “Né eletti, né elettori” è affermato da don Margotti che sostiene che tanto liberali o democratici “son tutti della stessa buccia” (anche perché c’erano stati brogli elettorali e quindi si diceva che era perfettamente inutile andare a votare). Al contrario in Lombardia abbiamo un clero che molto spesso è più patriottico: alle Cinque Giornate di Milano vanno sulle barricate anche i seminaristi, tra i Martiri di Belfiore del ’55 ci sono tre preti che vengono impiccati perché patrioti. Bisogna quindi tener conto delle differenze regionali e del fatto che nel ’62 un prete, Passaglia, scrive un indirizzo pubblico a Pio IX in cui, pur senza nominare il problema, lo invita a venire a patti con la causa nazionale. Questo indirizzo di Passaglia, che poi naturalmente viene condannato, raccoglie 9000 firme di altrettanti preti e si calcola sia circa il 10% dei preti italiani. La divisione tocca lo stesso episcopato: celeberrimo è mons. Geremia Bonomelli a Cremona, che è il vescovo ‘conciliatorista’ per eccellenza, coraggioso nelle sue posizioni e altrettanto nel sottomettersi quando viene ripreso da Roma; Scalabrini, che veniva da Fino Mornasco, a Piacenza è su questa linea e tra l’altro è interessante notare che entrambi abbinano questa posizione politica a una forte sensibilità verso gli emigranti. Nazari di Calabiana, che è arcivescovo di Milano ed è predecessore di Andrea Carlo Ferrari, non viene mai fatto cardinale, caso quasi unico nella storia della diocesi di Milano (poi c’è anche Montini, che deve aspettare Giovanni XXIII per avere il cardinalato perché Pio XII non glielo dà) perché ritenuto troppo filo‐sabaudo (del resto veniva anche dalla corte dei Savoia). Oltre ai preti e ai vescovi, non dimentichiamo gli intellettuali: Manzoni accetta la nomina a senatore del Regno, e se andate a prendere la stampa intransigente cattolica, quando muore i giudizi non sono affatto teneri: la cattolicità di Manzoni l’abbiamo scoperta (o meglio sottolineata) dopo; Cesare Cantù, l’Abate Stoppani, il Tommaseo, sono tutte personalità legate all’idea di una conciliazione fra lo Stato e la Chiesa, accettando i fatti compiuti e quindi venendo a patti con uno stato che ormai è quello anche dei cattolici. L’epoca della lacerazione. Con la presa di Roma inizia l’epoca della lacerazione: lo scontro si incancrenisce e lacerazione vuol dire che un buon cattolico non può essere un buon suddito italiano. La formula “Né eletti, né elettori” non va però esagerata nella sua importanza, considerando che fino alla riforma elettorale dell’ ’82 ha diritto di voto il 2% della popolazione italiana e ne va a votare la metà; lo Stato avvia un processo di costruzione dell’identità italiana; con l’ ‘82 muore Garibaldi, l’ultimo dei grandi, nel ’78 era morto Pio IX ed anche Vittorio Emanuele, prima ancora Mazzini ed escono dalla scena i grandi padri. Ecco allora la politica di mitizzarli per renderli appunto (soprattutto Garibaldi e Vittorio Emanuele, non Mazzini perché era troppo repubblicano e Cavour poco popolare) come i miti di riferimento, i miti fondativi. In tutti i comuni italiani i monumenti si fanno in questi anni. Pensate al tentativo di far passare un’educazione borghese e in qualche modo liberale, comunque nazionale, dei ragazzi italiani. Si forgiano generazioni di italiani e si addita un preciso modello di laboriosità, di devozione, di impegno, rispetto delle istituzioni, affetto per la Patria e il Tricolore. Certo è che questo sforzo di educazione civile, di costruzione degli Italiani, è accompagnato da un altro aspetto inquietante per la coscienza cattolica, perché non c’è stata solo la frattura (di per sé enorme) della perdita dello stato temporale; esiste indubbiamente una componente massonica, laicistica nell’Italia del dopo unità; l’anticlericalismo non è una invenzione, è anche violento: quando qualche anno dopo la morte di Pio IX è in corso il trasporto della sua salma, c’è una turba di anticlericali che dà l’assalto al corteo per prendere la bara e buttarla nel Tevere. Non sono cose da poco; la propaganda anticlericale è fortissima, la presenza della massoneria è forte, l’idea che la Chiesa sia destinata alla scomparsa, e che in qualche caso sia anche bene facilitarne la scomparsa, non si riferisce più soltanto allo stato temporale, ma anche alla Chiesa in quanto tale. Va detto che, a parte queste frange estreme, comunque la situazione italiana rimane diversa da quella francese, almeno dal punto di vista istituzionale‐legislativo: in Francia nel 1905 si arriva con quella terribile legge di separazione Stato‐Chiesa che è un autentico choc, un trauma; praticamente, non riconoscendo più, in Francia, ogni presenza civile della Chiesa, non si riconosce neanche più la 6 proprietà delle chiese, degli edifici sacri, dei monasteri, dei seminari ecc., quindi si devono fare delle associazioni private che diventano proprietarie delle chiese, delle cappelle e dei monasteri. La laicizzazione francese è estremamente radicale. In Italia malgrado la pattuglia anticlericale non si arriva a questi estremi, e peraltro, se andate a leggere la stampa ancora fino agli inizi del ‘900 e oltre, ci sono ancora voci anticlericali fortissime: “L’Asino” socialistoide di Podrecca e Galantara è stracolmo di vignette anticlericali che toccano poi casi di comportamento immorale del prete. Lo stesso Mussolini è fortemente anticlericale, e lo sarà malgrado tutto per tutta la vita. Quando ho fatto la tesi di laurea mi ero letto il “Popolo d’Italia” del 1919 e più o meno Mussolini definiva così il Papa, che era Benedetto XV: “la scimmia rinsecchita vestita di bianco che siede sulla seggiola di Pietro”. L’anticlericalismo quindi c’è e questo fa capire anche l’arroccamento da parte della Chiesa, che peraltro poi naturalmente ci mette anche di suo, proprio con quel rigido rifiuto non solo di aspetti politici, ma di una civiltà nel suo complesso. Il mancato riconoscimento dello Stato italiano e quindi l’opposizione di sistema della Chiesa allo Stato italiano ha una serie enorme di conseguenze. Intanto il “Né eletti, né elettori” contribuisce a rafforzare lo stato liberale, perché nel parlamento unitario non esiste un partito o comunque una pattuglia di deputati che si richiami direttamente ai valori cristiani, anche se poi gran parte dei governanti sono poi cattolici praticanti, soprattutto gli uomini della destra storica. C’è lo scontro sui simboli, il Tricolore viene più volte definito un cencio, uno straccio; peraltro si contrappongono le bandiere bianche e gialle, i recuperi delle bandiere medievali, come la croce rossa in campo bianco dei comuni della Lega lombarda; per inciso, il monumento ad Alberto da Giussano di Legnano è stato fatto nel 1900 soprattutto per iniziativa cattolica; i miti del Carroccio, di Alberto da Giussano e via dicendo, sono miti tutti risorgimentali; esiste anche un’opera di Verdi, “La battaglia di Legnano” e Legnano è l’unica città oltre a Roma che è citata nell’Inno di Mameli (meglio: il “Cantico degli Italiani” di Mameli musicato da Novaro) e il riferimento che fanno i cattolici papalini nella polemica con lo stato nazionale usa tutti questi simboli delle vecchie autonomie, dei vecchi comuni del Medioevo. Vedete come i simboli nella storia cambiano i loro significati. C’è naturalmente lo sviluppo di una stampa cattolica violentemente intransigente, anti liberale, che anzi, come fa don Albertario, poco evangelicamente incita all’odio contro i liberali, ma ci sono soprattutto tre problemi. Il primo è il problema materiale: rifiutando di riconoscere lo stato liberale i vescovi nominati rinunciano a chiedere l’exequatur allo stato, che era il documento burocratico che consentiva ai vescovi di entrare in possesso dei beni materiali della diocesi; è quello che succede anche a Como con mons. Nicora; con questo rifiuto si lasciava un’arma potentissima nelle mani dello Stato, perché lo Stato poteva decidere, in base alle informazioni che aveva sui novelli vescovi, se consentire se concederlo ugualmente in modo autonomo, oppure non darlo. Ma se non lo si dava, il vescovo nominato non poteva entrare in possesso dei beni materiali della diocesi e non poteva amministrarli, non poteva neanche entrare legittimamente in episcopio, non poteva far nulla dal punto di vista materiale. E quando questi casi cominciano a diventare diverse decine il Vaticano si trova di fronte ad un grosso problema economico, perché mandare da Roma i soldi a decine di diocesi in un tempo prolungato è un problema. Qui si innesca il secondo aspetto: si rafforza il processo di centralizzazione della Chiesa periferica attorno a Roma. Sono gli anni in cui il mito del Papa prigioniero ecc. porta ad una centralizzazione e sacralizzazione della sua figura che nei tempi precedenti non esisteva, e porta anche una crescente accentramento verso la Curia romana, anche spesso per motivi di tipo economico. Era la logica psicologica dell’assedio, quindi ci si stringe compatti attorno al capo. L’ultimo aspetto è quello che, per contrapporsi meglio al paese delle istituzioni, legale, i cattolici si spostano sempre più verso la società, rafforzando tutte le tensioni e attenzioni alla questione sociale. Allontanandosi dalle istituzioni del paese legale i cattolici sono spinti ad avvicinarsi al paese reale, quello della povera gente, dei contadini sopraffatti dall’usura nelle campagne (ecco così le Casse rurali, le Società operaie, di Mutuo soccorso, di assicurazione, le Cooperative di consumo fino alle Leghe bianche, tutto quello che in un certo modo viene poi legittimato e incentivato dalla Rerum Novarum di Leone XIII). L’epoca del nazionalismo cattolico. Quando cominceranno a cambiare i tempi? Quando si affacceranno alla ribalta delle generazioni nuove. Non è un caso che i segnali di un mutamento forte della sensibilità si hanno alla fine dell’ ‘800 e ai primi del ‘ ‘900, vale a dire quando arrivano sulla scena i giovani nati attorno al 1870, quando non esisteva già più lo stato temporale; è un distacco psicologico e culturale dall’idea che la Chiesa debba avere uno stato 7 temporale (pensate ai ventenni di adesso che non sanno neanche più che cos’era l’Unione Sovietica, perché sono nati dopo il crollo del Muro di Berlino). Per di più si tratta di giovani che vanno alle università pubbliche, come Filippo Meda, Giuseppe Micheli, Luigi Sturzo che è di questa generazione, Romolo Murri: tutti questi impostano il problema della presenza dei cattolici di fronte allo Stato risorgimentale in termini completamente diversi dai loro padri, e da qui tutta la fibrillazione, gli entusiasmi della prima Democrazia cristiana, che è un momento bellissimo, entusiasmante, negli ultimi anni dell’ ‘800 e nei primi del ‘ ‘900; la richiesta di una revisione che passa anche il recupero dei simboli innanzitutto dello Stato; giovani di ogni tipo cominciano a recuperare anche l’idea che il Tricolore è bello, è di tutti; don Primo Mazzolari nel 1905, a 15 anni, nel suo diario scrive: “La bandiera tricolore sventola maestosa e quel panno quante cose dice al povero animo stanco; egli mi parla della patria, l’Italia, dell’Italia così bella, così sfortunata, mi parla di una libertà novella, di una indipendenza nuova, mi parla di un re buono, di un re giovane (Vittorio Emanuele III), come il suo suddito generoso, eroico, come il suo popolo”. Potrei citarne molti altri, come Francesco Luigi Ferrari, uno dei fondatori e primi presidenti della F.U.C.I. e grande coscienza democratica. Tutto questo fa nascere una sensibilità nuova, che comincia cementarsi con il patriottismo sia per la guerra di Libia, in cui si stampano i santini con il sacerdote che dice Messa davanti ai soldati schierati in Libia, con dietro le palme, e tutti i tricolori che contornano, oppure tutte le immaginette e i foglietti sacri, gli opuscoli che vengono diffusi nella Prima Guerra Mondiale, la consacrazione delle truppe italiane che Padre Gemelli propone al Sacro Cuore. Ormai la saldatura è stata fatta, il problema è che viene fatta magari in termini acritici, senza una revisione culturale, almeno nella gran massa del corpo della Chiesa, e il nazionalismo, il patriottismo che si assume diventa presto nazionalismo in contrapposizione a quello fascista, che attraversa poi tutto il ventennio fascista adottandone anche il linguaggio. Andate a leggere quello che scrivevano le riviste cattoliche e anche dell’Azione cattolica in particolare, ai tempi della guerra d’Etiopia. L’epoca della riscoperta del Risorgimento. In questo modo la saldatura viene fatta (e nel ’29 c’è pure la Conciliazione e quindi la sanzione formale della fine della Questione romana e della lacerazione) nella confluenza dei cattolici attorno ad un’idea di patria sottolineata con forza anche nel suo elemento non solo nazionale, ma anche nazionalistico. Ma questo conduce anche al recupero dei protagonisti del Risorgimento, e quando si arriva alla Resistenza gran parte dei partigiani cattolici vanno a recuperare loro stessi l’idea del Risorgimento, parlando della Resistenza come del secondo Risorgimento, cioè della seconda rinascita italiana. I miti del Risorgimento poi tornano buoni perché il nemico parla ancora la lingua tedesca. Nella Resistenza si riscoprono dunque i protagonisti del Risorgimento e già peraltro questo era avvenuto in tante famiglie di cattolici ‘tutti d’un pezzo’. C’è un bel racconto di Paolo Emilio Taviani, uno dei massimi dirigenti della Democrazia cristiana, che ricorda come suo nonno, ancora ragazzino, avesse incontrato Mazzini per le strade di Genova e avesse taciuto per non tradirlo e Taviani scrive nelle sue memorie: “Dall’età di nove anni sono repubblicano, ed entusiasta di Mazzini, perché lo era il mio maestro di catechismo”. Ho scoperto recentemente studiando la storia di un giornale che ha appassionato generazioni di ragazzi italiani, il “Vittorioso”, edito dall’A.V.E., editrice dell’Azione Cattolica, che all’avvicinarsi del centenario dell’Unità d’Italia, negli anni ’60, moltiplica i fumetti a sfondo risorgimentale, e anche per il “Vittorioso” Garibaldi è un eroe bello e biondo. (da registrazione – non rivista dal relatore) 8 
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I Cattolici, il Risorgimento e l`Unità d`Italia. Scontri e incontri