INTRODUZIONE
“Non più schiavi ma fratelli”: è questo il titolo del messaggio di papa
Francesco in occasione della Giornata Mondiale della Pace 2015.
Papa Francesco afferma che la piaga dello sfruttamento dell’uomo
da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e
carità, annientando la libertà e la dignità cui tutti siamo chiamati dal
progetto che Dio ha sull’umanità.
È l’allontanamento dell’uomo da Dio che dà spazio a una cultura
dell’asservimento, da cui conseguono il rifiuto dell’altro, il maltrattamento delle persone, la violazione della dignità e dei diritti fondamentali,
la istituzionalizzazione delle diseguaglianze.
Alla radice della schiavitù – afferma Papa Francesco – vi è una situazione di peccato che corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal
suo Creatore e dai suoi simili: per questo motivo questi ultimi non sono
più percepiti come fratelli e sorelle in umanità ma come oggetti da sfruttare. Oltre a questa causa spirituale e profonda vi sono molte altre cause
materiali: tra queste la povertà, il sottosviluppo, l’esclusione, il mancato
accesso all’educazione, scarse o inesistenti opportunità di lavoro, la corruzione e la brama di arricchimento, i conflitti armati e la violenza.
La schiavitù non è dunque soltanto un fenomeno che deriva dal comportamento di persone senza scrupoli, ma è anche il risultato di una cultura che non percepisce più nell’ “altro” una persona ma uno strumento
da usare, e di ben precisi meccanismi economici e sociali che creano le
condizioni per lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La schiavitù assume molteplici forme e volti e coinvolge ancora oggi
milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – che vengono
di fatto private della libertà. La schiavitù non coinvolge solo persone in
qualche lontano luogo del mondo, ma è sempre più presente anche nei
nostri territori. E ciò accade soprattutto in questi tempi di crisi econo1
mica, che mette tanti fratelli in condizione di grande fragilità e li espone
così allo sfruttamento.
La schiavitù è presente in molti ambiti a noi vicini. Nel mondo del lavoro, con situazioni sempre più precarie dove sempre più sono i lavoratori
“invisibili”, senza diritti e sfruttati; nelle famiglie, dove i fenomeni di violenza domestica sono sempre più evidenti; nell’industria del sesso, dove
la tratta di donne e transgender coinvolge sempre più spesso anche dei
giovanissimi gestiti da organizzazioni criminali; nelle situazioni di povertà
materiale e spirituale, nelle quali in molti sono portati a rinunciare alla
propria dignità e a “farsi schiavi” del gioco, delle dipendenze, della violenza. Spesso oggetto di schiavitù sono i migranti.
Dal Messaggio di Papa Francesco si leva un forte richiamo per un rinnovato impegno comune per sconfiggere la schiavitù. Non solo gli Stati
e le Istituzioni devono operare in questo senso, ma anche la comunità
ecclesiale e ciascun uomo di buona volontà è chiamato a dare il proprio
contributo, mediante gesti di fraternità verso chi incontriamo per le
strade e con scelte coerenti di consumo, ma anche mediante una sollecitazione alle istituzioni perché svolgano il proprio ruolo nel rimuovere i
fattori che creano terreno favorevole alle condizioni di schiavitù.
La Commissione Giustizia e Pace della Diocesi di Lucca ha ritenuto
importante promuovere una lettura del tema della schiavitù nel nostro
territorio, a Lucca, in Versilia, in Garfagnana. Lo scopo è quello di aprirci
gli occhi sulle forme di schiavitù oggi presenti tra di noi, di capire quali
sono le cause e le responsabilità personali e sociali, ma anche di individuare possibili risposte, già presenti nel nostro territorio o ancora da elaborare.
Per questo motivo la Commissione ha incontrato Associazioni e
Gruppi che operano in questo ambito per avviare un percorso di attenzione a questo tema a partire dal Messaggio di papa Francesco.
Il primo risultato di questo cammino comune è il presente opuscolo,
dove vengono raccontate storie di schiavitù che riguardano anche il no2
stro territorio, ma che comunque toccano la nostra quotidianità e i nostri
stili di vita. Proponiamo in breve una lettura delle cause che le hanno
determinate ma si indicano anche possibili vie di uscita. Si tratta solo di
un piccolo contributo che vuole stimolare la riflessione di tutti, e che
può essere usato come strumento di informazione e animazione nelle
scuole, nei gruppi parrocchiali e in altre realtà ecclesiali e non.
Vorremmo che questo sia uno stimolo alle nostre comunità e alla
Chiesa di Lucca per intraprendere un percorso di presa di coscienza, di
rimozione delle strutture sociali di peccato e di iniziative concrete di
aiuto perché tutti possiamo essere “non più schiavi ma fratelli”.
Commissione Giustizia e Pace
della Diocesi di Lucca
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
XLVIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2015
NON PIÚ SCHIAVI, MA FRATELLI
1. All’inizio di un nuovo anno, che accogliamo come una grazia e un
dono di Dio all’umanità, desidero rivolgere, ad ogni uomo e donna, così
come ad ogni popolo e nazione del mondo, ai capi di Stato e di Governo
e ai responsabili delle diverse religioni, i miei fervidi auguri di pace, che
accompagno con la mia preghiera affinché cessino le guerre, i conflitti e
le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e
nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego
in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione
di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla
tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità.
Nel messaggio per il 1° gennaio scorso, avevo osservato che al «desiderio
di una vita piena … appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità,
che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare». Essendo
l’uomo un essere relazionale, destinato a realizzarsi nel contesto di rapporti interpersonali ispirati a giustizia e carità, è fondamentale per il suo
sviluppo che siano riconosciute e rispettate la sua dignità, libertà e autonomia. Purtroppo, la sempre diffusa piaga dello sfruttamento dell’uomo
da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e
carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti
fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme sulle quali desidero brevemente riflettere, affinché, alla luce
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della Parola di Dio, possiamo considerare tutti gli uomini “non più schiavi,
ma fratelli”.
In ascolto del progetto di Dio sull’umanità
2. Il tema che ho scelto per il presente messaggio richiama la Lettera di
san Paolo a Filemone, nella quale l’Apostolo chiede al suo collaboratore
di accogliere Onesimo, già schiavo dello stesso Filemone e ora diventato
cristiano e, quindi, secondo Paolo, meritevole di essere considerato un
fratello. Così scrive l’Apostolo delle genti: «E’ stato separato da te per un
momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo,
ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 15-16). Onesimo
è diventato fratello di Filemone diventando cristiano. Così la conversione
a Cristo, l’inizio di una vita di discepolato in Cristo, costituisce una nuova
nascita (cfr 2 Cor 5,17; 1 Pt 1,3) che rigenera la fraternità quale vincolo
fondante della vita familiare e basamento della vita sociale.
Nel Libro della Genesi (cfr 1,27-28) leggiamo che Dio creò l’uomo maschio e femmina e li benedisse, affinché crescessero e si moltiplicassero:
Egli fece di Adamo ed Eva dei genitori, i quali, realizzando la benedizione
di Dio di essere fecondi e moltiplicarsi, generarono la prima fraternità,
quella di Caino e Abele. Caino e Abele sono fratelli, perché provengono
dallo stesso grembo, e perciò hanno la stessa origine, natura e dignità
dei loro genitori creati ad immagine e somiglianza di Dio.
Ma la fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste
tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa
dignità. In quanto fratelli e sorelle, quindi, tutte le persone sono per natura in relazione con le altre, dalle quali si differenziano ma con cui condividono la stessa origine, natura e dignità. E’ in forza di ciò che la
fraternità costituisce la rete di relazioni fondamentali per la costruzione
della famiglia umana creata da Dio.
Purtroppo, tra la prima creazione narrata nel Libro della Genesi e la nuova
nascita in Cristo, che rende i credenti fratelli e sorelle del «primogenito
tra molti fratelli» (Rm 8,29), vi è la realtà negativa del peccato, che più
volte interrompe la fraternità creaturale e continuamente deforma la
bellezza e la nobiltà dell’essere fratelli e sorelle della stessa famiglia
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umana. Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide
per invidia commettendo il primo fratricidio. «L’uccisione di Abele da
parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad
essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura
l’uno dell’altro».
Anche nella storia della famiglia di Noè e dei suoi figli (cfr Gen 9,18-27),
è l’empietà di Cam nei confronti del padre Noè che spinge quest’ultimo
a maledire il figlio irriverente e a benedire gli altri, quelli che lo avevano
onorato, dando luogo così a una disuguaglianza tra fratelli nati dallo
stesso grembo.
Nel racconto delle origini della famiglia umana, il peccato di allontanamento da Dio, dalla figura del padre e dal fratello diventa un’espressione
del rifiuto della comunione e si traduce nella cultura dell’asservimento
(cfr Gen 9,25-27), con le conseguenze che ciò implica e che si protraggono di generazione in generazione: rifiuto dell’altro, maltrattamento
delle persone, violazione della dignità e dei diritti fondamentali, istituzionalizzazione di diseguaglianze. Di qui, la necessità di una conversione
continua all’Alleanza, compiuta dall’oblazione di Cristo sulla croce, fiduciosi che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia … per mezzo
di Gesù Cristo» (Rm 5,20.21). Egli, il Figlio amato (cfr Mt 3,17), è venuto
per rivelare l’amore del Padre per l’umanità. Chiunque ascolta il Vangelo
e risponde all’appello alla conversione diventa per Gesù «fratello, sorella
e madre» (Mt 12,50), e pertanto figlio adottivo di suo Padre (cfr Ef 1,5).
Non si diventa però cristiani, figli del Padre e fratelli in Cristo, per una
disposizione divina autoritativa, senza l’esercizio della libertà personale,
cioè senza convertirsi liberamente a Cristo. L’essere figlio di Dio segue
l’imperativo della conversione: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia
battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e
riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Tutti quelli che hanno
risposto con la fede e la vita a questa predicazione di Pietro sono entrati
nella fraternità della prima comunità cristiana (cfr 1 Pt 2,17; At 1,15.16;
6,3; 15,23): ebrei ed ellenisti, schiavi e uomini liberi (cfr 1 Cor 12,13; Gal
3,28), la cui diversità di origine e stato sociale non sminuisce la dignità
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di ciascuno né esclude alcuno dall’appartenenza al popolo di Dio. La comunità cristiana è quindi il luogo della comunione vissuta nell’amore tra
i fratelli (cfr Rm 12,10; 1 Ts 4,9; Eb 13,1; 1 Pt 1,22; 2 Pt 1,7).
Tutto ciò dimostra come la Buona Novella di Gesù Cristo, mediante il
quale Dio fa «nuove tutte le cose» (Ap 21,5), sia anche capace di redimere
le relazioni tra gli uomini, compresa quella tra uno schiavo e il suo padrone, mettendo in luce ciò che entrambi hanno in comune: la filiazione
adottiva e il vincolo di fraternità in Cristo. Gesù stesso disse ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il
suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal
Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
I molteplici volti della schiavitù ieri e oggi
3. Fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ci sono state
epoche nella storia dell’umanità in cui l’istituto della schiavitù era generalmente accettato e regolato dal diritto. Questo stabiliva chi nasceva
libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri
termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva
liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce.
Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la
schiavitù, reato di lesa umanità, è stata formalmente abolita nel mondo. Il
diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è
stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile.
Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato
diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di
persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù.
Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi
settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agri8
colo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei
Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli
standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli
la cui legislazione tutela il lavoratore.
Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati
dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di
loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato
dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche
ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere
nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie
quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza
strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì,
penso al “lavoro schiavo”.
Penso alle persone costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori,
ed alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a
quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto
di dare o non dare il proprio consenso.
Non posso non pensare a quanti, minori e adulti, sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita
di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale.
Penso infine a tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi
terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per
quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro
spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi.
Alcune cause profonde della schiavitù
4. Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della
persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto.
Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo
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Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri
di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come
oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con
la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della
libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come
un mezzo e non come un fine.
Accanto a questa causa ontologica – rifiuto dell’umanità nell’altro –,
altre cause concorrono a spiegare le forme contemporanee di schiavitù.
Tra queste, penso anzitutto alla povertà, al sottosviluppo e all’esclusione,
specialmente quando essi si combinano con il mancato accesso all’educazione o con una realtà caratterizzata da scarse, se non inesistenti, opportunità di lavoro. Non di rado, le vittime di traffico e di asservimento
sono persone che hanno cercato un modo per uscire da una condizione
di povertà estrema, spesso credendo a false promesse di lavoro, e che invece sono cadute nelle mani delle reti criminali che gestiscono il traffico
di esseri umani. Queste reti utilizzano abilmente le moderne tecnologie
informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo.
Anche la corruzione di coloro che sono disposti a tutto per arricchirsi va
annoverata tra le cause della schiavitù. Infatti, l’asservimento ed il traffico delle persone umane richiedono una complicità che spesso passa attraverso la corruzione degli intermediari, di alcuni membri delle forze
dell’ordine o di altri attori statali o di istituzioni diverse, civili e militari.
«Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale
o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché
fosse il dominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori».
Altre cause della schiavitù sono i conflitti armati, le violenze, la criminalità e il terrorismo. Numerose persone vengono rapite per essere vendute, oppure arruolate come combattenti, oppure sfruttate sessualmente,
mentre altre si trovano costrette a emigrare, lasciando tutto ciò che possiedono: terra, casa, proprietà, e anche i familiari. Queste ultime sono
spinte a cercare un’alternativa a tali condizioni terribili anche a rischio
della propria dignità e sopravvivenza, rischiando di entrare, in tal modo,
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in quel circolo vizioso che le rende preda della miseria, della corruzione
e delle loro perniciose conseguenze.
Un impegno comune per sconfiggere la schiavitù
5. Spesso, osservando il fenomeno della tratta delle persone, del traffico
illegale dei migranti e di altri volti conosciuti e sconosciuti della schiavitù,
si ha l’impressione che esso abbia luogo nell’indifferenza generale.
Se questo è, purtroppo, in gran parte vero, vorrei ricordare l’enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili,
portano avanti da tanti anni in favore delle vittime. Tali istituti operano
in contesti difficili, dominati talvolta dalla violenza, cercando di spezzare
le catene invisibili che tengono legate le vittime ai loro trafficanti e sfruttatori; catene le cui maglie sono fatte sia di sottili meccanismi psicologici, che rendono le vittime dipendenti dai loro aguzzini, tramite il ricatto
e la minaccia ad essi e ai loro cari, ma anche attraverso mezzi materiali,
come la confisca dei documenti di identità e la violenza fisica. L’azione
delle congregazioni religiose si articola principalmente intorno a tre
opere: il soccorso alle vittime, la loro riabilitazione sotto il profilo psicologico e formativo e la loro reintegrazione nella società di destinazione
o di origine.
Questo immenso lavoro, che richiede coraggio, pazienza e perseveranza,
merita apprezzamento da parte di tutta la Chiesa e della società. Ma esso
da solo non può naturalmente bastare per porre un termine alla piaga
dello sfruttamento della persona umana. Occorre anche un triplice impegno a livello istituzionale di prevenzione, di protezione delle vittime e
di azione giudiziaria nei confronti dei responsabili. Inoltre, come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi,
così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono
la società.
Gli Stati dovrebbero vigilare affinché le proprie legislazioni nazionali sulle
migrazioni, sul lavoro, sulle adozioni, sulla delocalizzazione delle imprese
e sulla commercializzazione di prodotti realizzati mediante lo sfruttamento del lavoro siano realmente rispettose della dignità della persona.
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Sono necessarie leggi giuste, incentrate sulla persona umana, che difendano i suoi diritti fondamentali e li ripristinino se violati, riabilitando chi
è vittima e assicurandone l’incolumità, nonché meccanismi efficaci di
controllo della corretta applicazione di tali norme, che non lascino spazio
alla corruzione e all’impunità. E’ necessario anche che venga riconosciuto
il ruolo della donna nella società, operando anche sul piano culturale e
della comunicazione per ottenere i risultati sperati.
Le organizzazioni intergovernative, conformemente al principio di sussidiarietà, sono chiamate ad attuare iniziative coordinate per combattere
le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono la tratta
delle persone umane ed il traffico illegale dei migranti. Si rende necessaria una cooperazione a diversi livelli, che includa cioè le istituzioni nazionali ed internazionali, così come le organizzazioni della società civile
ed il mondo imprenditoriale.
Le imprese, infatti, hanno il dovere di garantire ai loro impiegati condizioni di lavoro dignitose e stipendi adeguati, ma anche di vigilare affinché
forme di asservimento o traffico di persone umane non abbiano luogo
nelle catene di distribuzione. Alla responsabilità sociale dell’impresa si
accompagna poi la responsabilità sociale del consumatore. Infatti, ciascuna persona dovrebbe avere la consapevolezza che «acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico».
Le organizzazioni della società civile, dal canto loro, hanno il compito di
sensibilizzare e stimolare le coscienze sui passi necessari a contrastare e
sradicare la cultura dell’asservimento.
Negli ultimi anni, la Santa Sede, accogliendo il grido di dolore delle
vittime della tratta e la voce delle congregazioni religiose che le accompagnano verso la liberazione, ha moltiplicato gli appelli alla comunità internazionale affinché i diversi attori uniscano gli sforzi e
cooperino per porre termine a questa piaga. Inoltre, sono stati organizzati alcuni incontri allo scopo di dare visibilità al fenomeno della
tratta delle persone e di agevolare la collaborazione tra diversi attori,
tra cui esperti del mondo accademico e delle organizzazioni internazionali, forze dell’ordine di diversi Paesi di provenienza, di transito e di
destinazione dei migranti, e rappresentanti dei gruppi ecclesiali impe12
gnati in favore delle vittime. Mi auguro che questo impegno continui
e si rafforzi nei prossimi anni.
Globalizzare la fraternità, non la schiavitù né l’indifferenza
6. Nella sua opera di «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società», la Chiesa si impegna costantemente nelle azioni di carattere caritativo a partire dalla verità sull’uomo. Essa ha il compito di mostrare a tutti
il cammino verso la conversione, che induca a cambiare lo sguardo verso
il prossimo, a riconoscere nell’altro, chiunque sia, un fratello e una sorella
in umanità, a riconoscerne la dignità intrinseca nella verità e nella libertà,
come ci illustra la storia di Giuseppina Bakhita, la santa originaria della
regione del Darfur in Sudan, rapita da trafficanti di schiavi e venduta a padroni feroci fin dall’età di nove anni, e diventata poi, attraverso dolorose
vicende, “libera figlia di Dio” mediante la fede vissuta nella consacrazione
religiosa e nel servizio agli altri, specialmente i piccoli e i deboli. Questa
Santa, vissuta fra il XIX e il XX secolo, è anche oggi testimone esemplare
di speranza per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli
sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa «piaga nel
corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo».
In questa prospettiva, desidero invitare ciascuno, nel proprio ruolo e nelle
proprie responsabilità particolari, a operare gesti di fraternità nei confronti di coloro che sono tenuti in stato di asservimento. Chiediamoci
come noi, in quanto comunità o in quanto singoli, ci sentiamo interpellati
quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani, o quando
dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone.
Alcuni di noi, per indifferenza, o perché distratti dalle preoccupazioni
quotidiane, o per ragioni economiche, chiudono un occhio. Altri, invece,
scelgono di fare qualcosa di positivo, di impegnarsi nelle associazioni
della società civile o di compiere piccoli gesti quotidiani – questi gesti
hanno tanto valore! – come rivolgere una parola, un saluto, un “buongiorno” o un sorriso, che non ci costano niente ma che possono dare speranza, aprire strade, cambiare la vita ad una persona che vive
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nell’invisibilità, e anche cambiare la nostra vita nel confronto con questa
realtà.
Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un fenomeno mondiale che
supera le competenze di una sola comunità o nazione. Per sconfiggerlo,
occorre una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso. Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli
uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da
lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della
piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo
male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli
e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il
coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo, che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama «questi miei
fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45).
Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo
fratello?” (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi
pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci
artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che
possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che
esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2014
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STORIE DI SCHIAVITU’
E
PERCORSI DI LIBERAZIONE
15
Associazione:
Ce.I.S.
La storia che ci racconta:
Maria, obbligata a prostituirsi
Maria ha 15 anni, abita con la sua famiglia in una cittadina della
Romania. I suoi genitori svolgono saltuariamente una attività lavorativa
pertanto vivono in una condizione di forte precarietà economica. Ciò
condiziona la decisione di Maria di accettare la proposta avanzatale da
una connazionale, vale a dire di emigrare in Italia per poter intraprendere
un lavoro regolarmente retribuito come barista o badante. A farle la proposta è una signora che di fatto contatta la ragazza nella sua stessa abitazione, facendosi presentare da una conoscente comune. Non è difficile
convincere i genitori della bontà della proposta. La madre e il padre sottoscrivono così l’autorizzazione per l’espatrio della figlia ancora minorenne. Maria ricca di sogni e speranze si prepara alla partenza con
grande entusiasmo; giunge finalmente il giorno stabilito e la partenza
avviene su di una autovettura assieme ad altre 3 persone fra cui la signora. A bordo dell’automezzo attraversano l’Ungheria, l’Austria e dopo
2 giorni di viaggio raggiungono Torino dove si recano presso una abitazione in cui vivono due cittadini rumeni. Maria permane in tale abitazione per circa due mesi assieme ad una altra ragazza rumena di circa
19 anni. Le sembra tutto normale, e nulla le fa presagire quello che sarebbe accaduto da lì a poco. Circa una settimana dopo uno degli uomini
le dice “Devi guadagnare quello che mangi, l’affitto della casa… da stasera inizi a lavorare sulla strada”. Deve prostituirsi, lo capisce solo in quel
momento. E’ sola, non conosce nessuno oltre quella gente, non sa l’Italiano… Loro regolarmente la accompagnano sulla strada nelle ore notturne, la controllano . Alle sue resistenze minacciano di venderla a degli
Albanesi. Tutto il guadagno viene ceduto dalla giovane agli sfruttatori
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che le trattengono anche il passaporto. Maria guadagna circa 400/500
euro a sera; viene ceduta a sua insaputa a degli Albanesi che la trasferiscono per lavorare in una città della Toscana. Qui la giovane viene liberata grazie ad una operazione di Polizia. E’ accompagnata in un centro
di accoglienza dove la giovane può intraprendere un percorso individuale
e ridefinire così il proprio progetto migratorio. Sporge denuncia presso
le Autorità competenti che riescono così ad attivare un procedimento
giudiziario e di indagine contro gli sfruttatori.
Dal 2000 ad oggi, Maria come circa altre 30.000 vittime per lo più
donne, ma anche uomini, minori, e transgenders, condotte in Italia con
l’inganno, l’approfitto di una condizione di fragilità esistenziale, costrette
da forme di sfruttamento sessuale, lavorativo, di accattonaggio, di economie illegali, sono riuscite a sottrarsi da tali “violenze” grazie all’aiuto,
la protezione e la tutela di enti che come il CeIS di Lucca hanno costituito
una risposta concreta a tale realtà. Il numero delle persone accolte in
questi anni dal CeIS si aggira attorno alle 250 unità. Le stime ufficiali
individuate dalla Direzione Nazionale Antimafia individuano in
40/50mila euro l’anno la cifra sottratta alle organizzazioni criminali per
ogni singolo soggetto. Se si moltiplica tale somma per 30.000 vittime si
ottiene un totale pari a 1 miliardo e 350mila euro. Non va inoltre dimenticato che il denaro proveniente dallo sfruttamento della prostituzione è
denaro “vivo” immediatamente riciclabile e utile per altre attività criminali come il commercio di droga.
Eppure, nonostante tutto, il sistema nazionale anti tratta sta soffrendo ed è incerto il suo futuro. L’Italia non ha infatti rispettato la direttiva europea di arrivare ad ottobre 2014 con l’approvazione di un Piano
nazionale anti tratta disinvestendo sul lavoro di emersione e individuazione delle vittime, di formazione dei vari attori coinvolti, dei centri di
accoglienza, degli sportelli e del Numero Verde nazionale ( 800 290 290).
Tutto questo in una fase epocale in cui i Paesi di “origine” risultano sempre più compromessi, con l’inevitabile prolificare di “viaggi senza speranza” .
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Cosa possiamo fare?
Informarsi e denunciare.
Per approfondire:
ASGI-associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione; Associazione
Gruppo Abele; Associazione On the Road; O.I.M Organizzazione Internazionale per i Migranti; Osservatorio Nazionale Tratta; Consiglio di Europa
(GRETA)-rapporto del Gruppo di esperti
Contatti:
Numero verde nazionale 800 290 290;
Numero verde Toscana 800 186 086;
Cellulare di riferimento per il territorio della provincia di Lucca 335 6975107
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Associazione:
Cgil, Cisl, Uil
La storia che ci racconta:
Lavoro e diritti negati
Prima storia: Lavoravo in una ditta edile di Livorno che è andata in crisi.
Due miei compagni di lavoro l’hanno rilevata e mi hanno tenuto, pensavo
“mi è capitata una grande fortuna!”. Ma non era così. Dopo due mesi ci è
stato chiesto di lavorare un’ora in più senza riscuoterla ed abbiamo accettato dato che la crisi mette a rischio l’impresa, potevamo perdere il lavoro.
Non è bastato questa richiesta, il mese successivo ci hanno detto di lavorare gratuitamente due ore al giorno, ed abbiamo accettato. Sono passati
altri tre mesi e ci hanno chiesto di andare a lavorare il sabato, naturalmente
senza essere pagati. Mi sono rifiutato spiegando che ero interessato a garantire la vita dell’azienda ma non potevo rinunciare a stare con i miei figli,
anche per un periodo breve. Non è bastato. Mi hanno accusato di non svolgere bene il lavoro, sono persino arrivati a dire che rubavo gli attrezzi. Sono
stato isolato dai miei stessi compagni di lavoro. A niente è servito ricordare
come mi ero dato da fare, a come avevo accettato di tralasciare le norme
di sicurezza anche sui ponteggi, a quanto tempo ho aspettato per essere
pagato. Alla fine ho subito il licenziamento sapendo che non potevo fare
diversamente: nel mio settore se “pianti grane” si sa in giro e di trovare un
nuovo lavoro non se ne parla.
Seconda storia: Sono in Toscana da sette anni, abito a Lucca con mia moglie
e due figli. Lavoro in una cooperativa di facchinaggio di cui sono anche socio.
Da un anno a questa parte lavoro poco e saltuariamente. Non me lo hanno
detto chiaramente ma penso che sia dovuto al fatto che mi sono lamentato
per la paga e le ore in più che facevo. Altri miei connazionali contemporaneamente fanno due turni di lavoro, se continua così non posso più restare.
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Cosa possiamo fare?
La cosa più semplice, ma solo teoricamente, è rifiutare lavori dove siano
negati i diritti. In alternativa organizzarsi sindacalmente. Anche il lavoratore dell’artigianato, del commercio, delle cooperative può trovare
spesso risposte se si iscrive al sindacato, se non altro perchè c’è chi può
spiegargli i sui diritti e le modalità con cui rivendicarli.
Dobbiamo sapere che esistono certificazioni per le imprese come la
SA8000 che garantiscono il rispetto dei diritti sindacali ma anche etici e
ambientalisti e regolarci di conseguenza privilegiandole negli acquisti o
nell’affidare loro commesse di lavoro.
Nella società moderna con i social network, seppure risulta difficile
creare delle “black list” a causa di possibili contenziosi giudiziari, potremmo attivare una comunicazione che segnali imprese che hanno
buoni comportamenti.
Va poi detto che la crisi economica non è l’elemento che genera il fenomeno dello sfruttamento e delle vessazioni sul lavoro, è un moltiplicatore.
Esiste prevaricazione anche nei periodi di boom economico, lo si deve ad
un concetto che vede alcuni o molti imprenditori cercare il massimo profitto caricando il costo in termini umani sui propri dipendenti. Lo si fa
sottopagando, disconoscendo i diritti contrattuali e alcune volte anche
umani in nome del proprio interesse. In Italia il sistema di controllo non
è sufficientemente efficace e consente di aggirare le norme, abbiamo
una cultura per cui non è bene rivendicare i diritti altrimenti siamo irriconoscenti con chi ci dà da lavorare. Troppo spesso ci si sente e si è soli.
Il sindacato spesso riesce ad intervenire ma solo nelle aziende più grandi
e dove l’iscrizione è alta, tale da garantire quell’unione che fa la forza.
Per approfondire:
www.unar.it, www.discriminazionesullavoro.it
Contatti:
Cgil 0583 44151, Cisl 0583 508811, Uil 0583 469203
21
Associazione:
Centro Antiviolenza “LUNA”
La storia che ci racconta:
Elena con una lettera si racconta
Cara Sandra,
la fatica e il dolore di scrivere a te amica da sempre è quasi fisico eppure
al dolore fisico ero abituata; sai ho trovato il coraggio per fare quello che
tu implorandomi mi dicevi che andava fatto. Non so se è stato il tuo continuo parlarmi, sostenermi senza giudizio, ricordarmi di quanta allegria,
quante speranze avevamo condiviso ai tempi dell’università… o se sono stati
gli occhi di Anna che quella ultima sera mi guardavano da dietro la porta
socchiusa di camera, tenera nel suo pigiamone, sai, stringeva forte forte tra
le braccia il suo orsacchiotto bianco che le avevi regalato tu e da cui non si
separava mai; che incredibile forza traspariva dai suoi meravigliosi occhi
verdi, lo sai ha solo otto anni!!! Mi sentivo una bambola di pezza, seduta
sul letto con il viso gonfio, non riuscirei a dire se per le botte o per il tanto
piangere. In fondo non era successo niente di diverso! Una scena che si ripete ormai da anni e come scritta in un copione… comincia sempre con uno
sguardo che mi toglie ogni sicurezza, mi fa sentire inadeguata in ogni circostanza, che mi fa sentire come non dovrei essere, mi fa sentire colpevole
di qualche cosa… ma di cosa?? Poi le urla… Gli insulti… le botte… le lacrime… la porta sbattuta… la solitudine… Mi ricordo quella volta che era
più violento del solito e che dalla paura sono scappata sul pianerottolo di
casa e chiedendo aiuto ho suonato tutti i campanelli… “aiuto mi ammazza..
per favore aiutatemi…!” ma non mi ha aperto nessuno... Forse non erano in
casa! Poi per fortuna la signora del primo piano ha chiamato il carabinieri.
Sono arrivati dopo poco ma lui era lì e ha detto che ero una matta
isterica in cura dallo psichiatra… e se ne sono andati..e sono rimasta ancora più sola. Poi puntualmente arrivavano le scuse del giorno dopo...
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sembrava impossibile che le stesse mani che poche ore prima mi avevano
colpito mi sfiorassero con una carezza, che da quella bocca da cui poche
ore prima erano uscite parole irripetibili ora mi chiedessero perdono e
promesse di amore... che da quegli occhi che poche ore prima mi guardavano con odio ora mi guardassero imploranti… e io che volevo credere
che quella fosse stata veramente l’ultima volta e che lui aveva finalmente
capito il male che mi aveva fatto…
Cosa c’era di diverso questa volta? Gli occhi di mia figlia che continuavano a fissarmi pieni di dolore, di paura, di giudizio… non erano occhi
di una bambina ma di una persona adulta già segnata dalla vita… i suoi
occhi mi hanno dato la forza e il coraggio di prendere una valigia, infilaci
dentro solo poche cose… di alzare il telefono e chiamare il numero del
centro antiviolenza che mi avevi dato.. dicendo semplicemente “ho bisogno di aiuto!”. Sono uscita di casa e ho lasciato la donna di pezza lì,
sul letto, e così ho messo un punto nella mia vita e sono andata a capo.
Il dopo non è stato facile... in casa rifugio, ma insieme ad altre donne
ho comunque trovato la strada per ricominciare a vivere.
Grazie per sempre la tua “ritrovata “amica Elena.
Cosa possiamo fare?
La violenza sulle donne è un reato e una “cosa” che riguarda tutti e non
solo le donne riguarda la scuola, la comunità, i servizi sociali, i servizi al
lavoro ed ognuno di noi. C’è un tempo per guardare. C’è un tempo per
comprendere. C’è un tempo per ascoltare. C’è un tempo per accogliere.
E questo tempo è adesso.
Per approfondire
www.associazioneluna.it
Contatti
Associazione Luna 0583 997928, email: [email protected]
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Associazione:
Gruppo Volontari Carcere
Un luogo che è una vera storia
Il Carcere è rimasta l’ultima struttura totale, che secondo l’art. 27
della Costituzione, deve tendere alla rieducazione del condannato e non
può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Il carcere è in
realtà oggi una discarica sociale: persone con problemi di salute, tra cui
soprattutto dipendenza e problemi psichiatrici, persone con problemi di
cittadinanza, come i migranti, persone con problemi di natura economica,
i poveri, vecchi e nuovi, affollano, anzi, sovraffollano, le celle dei nostri
istituti. Il carcere fa quel che può, spesso anche più di quel che può,
spesso gli viene chiesto di cercare risposte che non sono state trovate
prima e che non saranno cercate dopo, quando la persona è fuori dalle
sbarre, nella società “libera”. In carcere non si vive bene. Qualcuno dirà…
e vorrei anche vedere. Ma non è solo il problema della privazione della
libertà, è il problema che dicevamo all’inizio, il problema del rispetto del
senso di umanità, da ricercare talvolta in problemi di efficienza organizzativa, di edilizia penitenziaria, di possibilità culturali ed economiche assenti e che, banalmente, aprono più facilmente le porte delle nostre
patrie galere. In carcere il tasso di suicidi è superiore di venti volte rispetto a quelle medio, fuori dalle sbarre. Papa Francesco ci ha ricordato
che… anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella. Spendiamo
milioni di energie, umane, spesso anche di grande qualità e spessore,
economiche, ma spesso le spendiamo male. Occorre, per la prima volta
negli ultimi quarant’anni, passate le emergenze penitenziarie legate
prima al terrorismo e poi alla mafia, ripensare questo luogo, ripensarlo
come reale luogo di rieducazione, di possibile recupero, anche perché, a
tutti noi, a chi lo ha toccato, a chi solo ne è stato sfiorato, a chi ci opera,
a chi ne sente solo distrattamente parlare, a chi non interessa e a coloro
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che dicono “I Care”, a tutti noi conviene che il carcere sia un tempo utile
e che possa restituire alla libertà cittadini nuovi.
Cosa possiamo fare?
Possiamo: Informarci. Parlarne. Incontrarci. Fare qualcosa. Proporre azioni
di solidarietà e/o di volontariato. Combattere i luoghi comuni e le semplificazioni. Avvicinarci al carcere o alle strutture di accoglienza.
Per approfondire
www.espressionidalcarcere.blogspot.com, www.ristretti.it
Contatti
Gruppo Volontari Carcere: 0583 990062,
Massimiliano Andreoni: 346 8093667
25
Associazione:
AMNESTY INTERNATIONAL Onlus
Sezione Italiana gruppo 201 Lucca
La storia che ci racconta:
Gli schiavi dei pomodori
Foggia/Italia
Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe
impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire
chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce
l’ordine e la sicurezza nei campi. “Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca
lavoro, digli che oggi siamo a posto”, lo avverte in dialetto e se ne va su
un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla
maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: “Sei
romeno?”. Un mezzo sorriso lo convince. “Ti posso prendere, ma domani”,
promette, “ce l’hai un’amica?”. “Un’amica?”. “Mi devi portare una tua
amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una
ragazza qualunque”. Il caporale indica una ventenne e il suo compagno,
indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta
meccanizzata dei pomodori: “Quei due sono romeni come te. Lei col
padrone c’è stata”. “Ma io sono solo”. “Allora niente lavoro”
Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un
censimento Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. romeni con e senza
permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali,
Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da
pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che
qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli
imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne
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infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari,
agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati:
italiani, arabi, europei dell’Est. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche
riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il
gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su
materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro
al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali
trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a
cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al
giorno per il trasporto nei campi.Nessuno sa quanti siano i lavoratori
romeni, bulgari o africani spariti. I caporali, quando li ingaggiano o li
massacrano di botte, non sanno nemmeno come si chiamano.
Cosa possiamo fare?
La risposta è una sola, possiamo fare moltissimo:
• Innanzitutto la consapevolezza del problema: quando compriamo
una scatola di pelati leggete l’etichetta per vederne la provenienza
del raccolto, la filiera dichiarata, la certificazione CE, questi
possono essere segnali importanti perché vengono venduti anche
in Italia. Se le indicazioni sono “fumose e generiche” è un
campanello d’allarme;
• non fidatevi della sola affermazione “biologico”se non viene
indicata la certificazione obbligatoria dell’ente che ha fatto i
controlli necessari;
• sappiate scegliere NON in base al costo del prodotto: se costano
poco qualcosa non va...;
• sappiate che in Italia esiste il reato di “riduzione in schiavitù” ma
solo su denuncia; gli schiavi hanno bisogno di denaro e,se essi
stessi fanno denuncia, vengono picchiati o uccisi; quindi sta a noi
cittadini farci carico di eventuali denunce;
27
• cerchiamo di non far finta di nulla e di non lavarcene le mani: chi
si arricchisce con queste attività è un delinquente e noi ne
diventiamo complici.
Per approfondire:
www.amnestyinternational.it;
www.medicisenzafrontiere.it (Progetto Italia);
www.larepubblica.it (inchiesta di Fabrizio Gatti).
Contatti:
gruppo 201 Lucca di A.I. - Responsabile Armida Bandoni: cell. 339 2612379
28
Associazione:
Gruppo Volontari Accoglienza Immigrati
Una donna sfruttata
fin da bambina
In questa storia si intrecciano i temi della scarsa inclusione della popolazione rom albanese nel contesto sociale di provenienza, dei matrimoni combinati e della tratta. E’ una storia che inizia da lontano; da
quando questa bambina, proprio come le sue amiche, come sua madre e
sua nonna prima di lei, non hanno potuto frequentare le scuole pubbliche
e sono diventate donne, quasi analfabete. Una “bambina”, la chiameremo
sempre così, nata con un destino segnato: fare da serva nella sua famiglia
al padre e ai fratelli, per poi diventare la schiava della famiglia del marito
non appena possibile, ancora adolescente. Questo era il suo destino e lo
ha sempre accettato, senza protestare, sperando soltanto di trovare un
marito gentile che non la picchiasse troppo e non la lasciasse per qualcun’altra. Così non è andata alla nostra “bambina”. Il marito scelto dal
padre era un uomo violento, alcolizzato che la trattava alla stregua di
un pungiball, mentre la suocera la sfruttava come una serva. Dopo qualche anno, quest’uomo si è stancato di lei e di loro figlio: senza tanti scrupoli, li ha “rispediti” dalla sua famiglia di origine. Penserete: per fortuna!
E, invece, no… essere ripudiate è una delle peggiori infamie possibili per
una donna e copre di vergogna tutta la sua famiglia. La nostra “bambina”
era diventata un peso economico e un motivo di scandalo. L’hanno fatta
lavorare, picchiata quando tornavano a casa ubriachi e, alla fine, venduta
per poche lire ad un amico appena conosciuto al bar del quartiere.
Quest’uomo, che vive in Italia da tanti anni, si è presentato al padre e,
saputo che aveva una figlia ripudiata, si è offerto di portare lei e il bambino in Italia e che, una volta arrivati qui, si sarebbe occupato del loro
mantenimento. Migliaia di altre ragazze sono diventate proprietà di amici
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degli uomini della famiglia con questa promessa e, dopo pochi mesi, si
sono ritrovate a lavorare per strada, a fare le prostitute per l’uomo che
aveva promesso loro un matrimonio e una famiglia. Dopo pochi giorni
hanno preso un aereo e sono arrivati in Italia, sono andati ad abitare
nella casa che quest’uomo divideva con altri due connazionali e alcune
amiche di diversa nazionalità che frequentavano l’appartamento. La nostra “bambina” con figlio durante il primo mese passato in Italia, non è
mai uscita di casa, ha pulito e cucinato… una moglie deve comportarsi
così ed era contenta, nessuno la picchiava! Un giorno, però, è arrivata la
notizia: c’erano dei problemi economici e lei avrebbe dovuto lavorare.
Nessun problema, la nostra “bambina” è giovane e forte, ma quando
chiese che lavoro avrebbe dovuto fare la risposta fu sconvolgente. La
prostituta! Per fortuna però è riuscita a scappare con il figlio, a cercare
e a trovare aiuto, ha anche trovato il coraggio di denunciare la sua storia
e adesso ha ricominciato a costruire per lei, bambina ormai donna, e per
il bambino che è suo figlio, un futuro vero, magari duro ma libero e consapevole.
Cosa possiamo fare?
A livello macro sarebbe necessario implementare i networks nazionali
e internazionali tra gli operatori ed organizzazioni che lavorano in questo
ambito, in modo da condividere best practice e creare nuove metodologie
attraverso training formativi rivolti a mediatori, operatori sociali e sanitari, educatori di comunità, insegnanti, corpo di polizia e polizia municipale. Sarebbe anche importante organizzare attività di sensibilizzazione
e di costruzione di conoscenze tra i cittadini, nonché mettere in campo
attività di pressione sugli attori politici e sul governo, affinché si trovino
delle misure volte a contrastare il fenomeno. Nell’immediato è di fondamentale importanza aiutare e sostenere le donne che chiedono aiuto nel
loro percorso di rinascita. Questo aiuto non deve ovviamente limitarsi a
quello materiale, certamente importante soprattutto per quel che riguarda la possibilità di frequentare corsi di lingua e di formazione, ma
anzi deve essere centrato sul supporto emotivo e sul sostegno nella fase
30
di costruzione di una nuova identità di donna e di madre con capacità
positive, diritti e soprattutto sogni.
Per approfondire:
www.assistentisociali.org/immigrazione/vittime_di_tratta_III.htm;
http://ita.babelmed.net/cultura-e-societa/36-mediterraneo/13388-esseredonna-in-albania-dal-kanun-ad-oggi.html;
http://old.terrelibere.org/doc/donne-migranti-nella-prostituzione#_Toc32582359;
www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Rom-d-Albania-76445;
www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/I-rom-d-Albania-una-visita-allacomunita-di-Fushe-Kruja-151357;
www.savethechildren.it/IT/Tool/Blog/Commenti?id_blogpost=96
Contatti:
Gruppo Volontari Accoglienza Immigrati
Via del Fosso 170 Lucca
Tel\Fax 0583 953707
email: [email protected]
31
Associazione:
Centro per la Cooperazione Missionaria
Diocesi di Lucca
In Africa ancora schiavi
per il nord del mondo
Si chiamano Zaccarie, Modest, Basile, Pascal, Irené, George… i nomi
di coloro che avrebbero fatto carte false per entrare a Essakane, la miniera d’oro situata nel nord del Burkina Faso e in cui negli ultimi anni si
sono riversate migliaia e migliaia di persone nella speranza di trovare
fortuna. Zaccarie ce l’ha fatta, lavora all’esterno della cava come falegname specializzato per realizzare strumenti da lavoro e supporti da utilizzare nei cunicoli interni. Proprio lui che qualche hanno fa se n’era
andato dal villaggio da fallito dopo essersi formato come artigiano e aver
avviato con il microcredito, una piccola falegnameria sulla strada che
collega Kaya a Dori, poi, la crisi si era fatta sentire ed era stato costretto
a presentare domanda per entrare a Essakane. Adesso, ogni volta che
rientra in paese dalla sua famiglia è accolto come un “privilegiato” si è
comprato una mucca, si sposta con la moto, è vestito bene e il sorriso è
tornato a illuminare il suo volto.
Ma questa è la storia di uno fra tanti che è riuscito a prendersi la sua
rivincita….gli altri, invece, sono spesso costretti ad accettare condizioni
disumane, a respirare aria insalubre e a sopportare orari di lavoro estenuanti… e a pagare il prezzo più altro sono sempre i bambini utilizzati
fin da tenera età che vivono praticamente sotto terra, trasportando pesanti carichi di minerali. Alcuni bambini migrano da soli verso le miniere
d’oro e finiscono per essere sfruttati e maltrattati sia da chi li “assume”
che da altri che si appropriano della loro paga. Numerosi bambini lavorano anche utilizzando il mercurio, una sostanza tossica, per separare
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l’oro dal minerale. Il mercurio attacca il sistema nervoso centrale e si dimostra particolarmente nocivo per i bambini, i suoi effetti tossici non si
vedono immediatamente, si sviluppano col tempo, e la maggior parte dei
cercatori d’oro ignora i terribili effetti sulla loro salute. Tra questi ci sono
ovviamente il cancro, ma anche danni celebrali e aborti spontanei. I siti
d’oro artigianali nascono dove viene trovata qualche traccia d’oro e non
appartenendo a nessuna compagnia non sono oggetto di alcun controllo.
Dove viene individuata la presenza aurifera vengono scavati artigianalmente dei fori, profondi fino a 50 metri, tenuti in piedi da precarie strutture di legno. Si cerca l’oro con una zappa e una torcia tascabile legata
alla testa. Una volta spaccate manualmente le rocce vengono portate in
superficie e sbriciolate, lavate e setacciate. Tutto questo lavoro riduce le
persone ad una maschera di polvere. Polvere che ovviamente ricoprirà
anche i loro polmoni. I siti industriali, invece, sono di proprietà di grandi
compagnie minerarie straniere (Canada, Australia, Gran Bretagna e Sud
Africa) che spesso impongono lo sgombero di interi territori, compresi
villaggi abitati, per lo sfruttamento di un’area. Per molti andare a lavorare
in miniera è un miraggio, per questo non ci pensano due volte ad abbandonare il proprio lavoro nei campi, a far morire gli orti comunitari, a
lasciare la propria famiglia per mesi…
Racconto questo per dire che nessuno nasce povero né sceglie di essere o diventare povero. È la società nella quale nasciamo che ci fa poveri
o ricchi. Si può decidere di vivere in una situazione di grande sobrietà,
ma non è la povertà subita dai circa tre miliardi di esseri umani che sono
esclusi dal diritto ad una vita degna e dignitosa, contro la loro volontà.
Poveri si diventa perché la povertà è una costruzione sociale. L’esclusione
produce l’impoverimento e l’impoverimento è figlio di una società che
non crede nei diritti di vita e di cittadinanza per tutti né nella responsabilità politica collettiva per garantire tali diritti a tutti gli abitanti della
Terra. Questi processi avvengono solo nelle società ingiuste, La lotta contro la povertà (l’impoverimento) diventa, anzitutto, lotta contro la ricchezza inuguale, ingiusta e predatrice (l’arricchimento). Il pianeta degli
impoveriti è diventato popoloso a causa della mercificazione dei beni comuni e della vita. Il lavoro, i diritti, la protezione sociale, sono stati trat33
tati come costi e come tali da razionalizzare, tagliare e/o privatizzare. La
povertà è oggi una delle forme più avanzate di schiavitù perché basata su
un furto di umanità e di futuro.
Cosa possiamo fare?
Possiamo: mettere fuorilegge le leggi, le istituzioni e le pratiche sociali
collettive che generano ed alimentano i processi d’impoverimento senza
necessariamente dover compiere gesti eclatanti ma semplicemente partendo dal nostro stile di vita e dall’attenzione all’Altro".
Il nostro augurio è quello che abbiate voglia di essere curiosi perché è
proprio dalla curiosità che si crea informazione, un informazione che genera conoscenza e che ci rende uomini liberi di scegliere.
Per approfondire
www.misna.it;
www.volontariatoggi.info;
www. nigrizia.it;
www.africa-news.eu.
Contatti
Missio Diocesi Lucca 0583 430946;
Claudia del Rosso: 366 6449061;
Email: [email protected]
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Associazione:
Ufficio Pastorale CARITAS Diocesi Lucca
Bianca è bellissima
Bianca è bellissima. Una bimba fatta di sole. Le piace la musica, le
piace ballare e le piace ridere.
Da grande giura che farà la parrucchiera delle attrici o forse la salvatrice di animali grandi, come le balene, per esempio.
Bianca darebbe il suo regno per un paio di scarpe nuove della Nike e
le chiederebbe per il suo compleanno, ma non lo farà. Da tanto papà non
lavora più e la signora che guardava la mamma è morta. Morta la signora,
finito il lavoro. Ora è difficile trovarne un’altra. “C’è la crisi”, ti spiega
Bianca dall’alto dei sue sette anni.
La crisi è che non è il momento di chiedere regali. Ed è che tutti chiedono tutti soldi e i soldi non si possono trovare.
Così la crisi è che il padrone di casa dice che non può andare avanti
così e i signori dell’acqua chiedono di pagare.
I signori del telefono hanno chiesto di pagare e poi hanno staccato
tutto e anche i signori del gas, i signori della luce, hanno fatto lo stesso.
Ora in casa c’è più freddo di quando erano i termosifoni a scaldare
tutto. Una bombola del gas fa un caldo debole, timido e mangia l’ossigeno nelle stanze. Bianca respira e sente che è come se l’aria buona se
la fossero già bevuta tutta e non ne fosse rimasta abbastanza per la sua
testa, che le fa male, si ribella.
Bianca si consola con il caldo e si accosta alla stufa più che può. Il
calore le fa le macchie rosse sulle gambe... “Mi scalda come una fetta di
pane nel forno”, pensa tra sé ridendo. A Bianca piace ridere.
Una bombola del gas fa funzionare anche la cucina, così si sceglie
quasi sempre di cucinare qualcosa che cuoce in fretta. Niente riso,
Bianca. Pasta veloce. Il gas della bombola è prezioso come l’ossigeno.
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Bianca studia di giorno, prima che la luce se ne vada e nella casa rimangano le candele a illuminare.
Così, Bianca preferisce non invitare le sue amiche per giocare. Sente
che ci sarebbero tante cose da spiegare. Cose grandi che lei non capisce,
ma che fanno la paura negli occhi dei grandi. Comunque, le amiche di
Bianca hanno sempre qualche cosa da fare: c’è la danza, l’inglese, il dentista.
Bianca si guarda le mani, si guarda i denti storti un po’. Ci passa sopra
la lingua. Poi guarda la barba di suo padre e pensa che magari un giorno
sarà diverso da così. Da domani.
Ci saranno piccole soluzioni, si creerà un piccolo pontile dove mettersi
al riparo, non sentirsi in questo stare in bilico sempre.
...
I percorsi della povertà sono tutti uguali e tutti diversi.
Sono quasi sempre uguali nei tragitti che fanno percorrere, nella frustrante attesa di risposte, nella stanchezza che incidono nelle vite che
incappano.
Sono spesso simili nel capitombolo che raccontano: il lavoro che
manca, la difficoltà a far fronte alle spese, la paura di perdere la casa
nella quale si abita, i salti mortali per tenere insieme tutto, i buchi che
si tappano e quelli che si aprono.
Diverso, singolare è il dolore che cammina a braccetto con la povertà:
le famiglie che si dividono, la depressione, il sentirsi inutili, il perdere la
speranza, la fiducia nel cambiamento che si spegne piano piano.
I grandi si curano come possono e maldestramente spesso si fanno
tutto il male che riescono.
Ma i bimbi guardano le cose da un altro piccolo, trascurato punto di
vista.
La schiavitù che raccontano è quella di chi non può raggiungere i
semi del suo cuore.
E’ la catena che tiene lontano dalle cose che desideri, dai talenti che
potresti esprimere, dallo sport, dalla piena partecipazione alla vita della
comunità, alla scuola, alla cultura, alle esperienze che tracciano i sentieri
per diventare adulti consapevoli e felici domani.
36
E’ la schiavitù sottile del vivere esclusi, tagliati fuori dal circuito delle
nostre comunità, alimentato dal denaro come dalla benzina.
Caritas sceglie quest’anno di guardare la schiavitù dell’esclusione sociale con gli occhi dei bambini, per costruire il paese di domani.
Cosa possiamo fare?
Possiamo stare vicini. Non arrendersi al pessimismo da bar, alla facile
conclusione che ormai è troppo tardi per poter incidere, fare qualcosa.
Possiamo al contrario inventare un nuovo modo per fare comunità.
Tornare a sentire che le storie degli altri ci riguardano. Non credere che
le regole che hanno valso fin qui debbano rimanere le stesse in eterno.
Immaginare modi quotidiani, fatti di gesti piccoli per essere uomini e
donne che si prendono cura. Garantire a tutti i bambini un accesso pieno
ai diritti di cittadinanza, includerli senza limitazioni nella espressione
delle comunità, lottando perché nessuno dei più piccoli resti ai margini.
Ci sono mille piccoli gesti che possiamo promuovere: nelle scuole dei nostri figli, nelle società sportive, nelle scuole di musica, nei modi di festeggiare i compleanni.
Ogni luogo può diventare un luogo di liberazione.
Per approfondire
http://www.caritasitaliana.it/home_page/area_stampa/00004776_False_
partenze___Rapporto_Caritas_Italiana_2014_su_poverta_e_esclusione_sociale_in_Italia.html
Contatti
Ufficio Pastorale Caritas Lucca
0583.430939
www.caritaslucca.org
37
Indice:
Introduzione
................................................................................
pag. 1
Messaggio di papa Francesco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2015
Storie di schiavitù e percorsi di liberazione
Ce.I.S.
5
..................................
» 15
..............................................................................................
» 17
Cgil, Cisl, Uil
...................................................................................
Centro Antiviolenza “LUNA”
Gruppo Volontari Carcere
» 20
..........................................................
» 22
..............................................................
» 24
AMNESTY INTERNATIONAL Onlus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 26
Sezione Italiana gruppo 201 Lucca
Gruppo Volontari Accoglienza Immigrati
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Centro per la Cooperazione Missionaria Diocesi di Lucca
Ufficio Pastorale CARITAS Diocesi Lucca
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Libretto a cura della
Commissione Giustizia e Pace della Diocesi di Lucca,
in occasione della 48ma Giornata Mondiale della Pace
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Non più schiavi ma fratelli