Settimana N° 4 (1-7 giugno 2009) LA VITA SEGRETA DELL'ACQUA, UN MONDO DA PROTEGGERE Scritto da Lou Del Bello Di acqua, in Emilia-Romagna, ce n'è tanta. Per questo siamo abituati a darla per scontata, a pagarla poco, a non chiederci da dove viene e quale percorso fa per arrivare ai nostri rubinetti. Di più, ne sottovalutiamo perfino la qualità, preferendo troppo spesso l'acqua in bottiglia, che pure non è affatto più salubre né tantomeno conveniente. Per esempio, nell'area bolognese il prezzo di un metro cubo di acqua (1000 litri) è di circa 60 centesimi (0,607 euro per la tariffa base), mentre il prezzo dell'acqua in bottiglia varia dai 30 ai 50 centesimi al litro. Nel più economico dei casi, 30 centesimi, la differenza è di ben cinquecento volte. Se a questa aggiungiamo poi i costi di smaltimento degli imballaggi in plastica, la forbice si allarga ancora. Queste e altre abitudini irrazionali di consumo sono un segno di quanto poco si conosca il sistema dell'acqua e in definitiva il suo valore, non tanto in termini monetari ma come elemento funzionale alla base di ogni ecosistema. Averne tanta non ci mette al riparo dal rischio di rimanere senza, dopo averne guastato la qualità e aver inficiato irrimediabilmente la naturale capacità di autodepurazione dei corsi d'acqua. Il problema maggiore, però, non è tanto l'uso domestico ma l'impiego massiccio di risorse idriche nell'agricoltura e nell'allevamento degli animali, che nella nostra zona sono intensivi. Per questo parlando di gestione dell'acqua, più che in altri ambiti, è importante avere una buona conoscenza del quadro generale di sfruttamento, ancor prima di concentrarsi sulle piccole pratiche quotidiane di risparmio, che pure sono sempre utili. In Emilia-Romagna le acque sono prelevate per usi civili, industriali, agricoli e zootecnici. Come si vede dalle figure (la fonte è l'annuario regionale dei dati ambientali 2008 di Arpa), questi ultimi settori richiedono la maggiore quantità di acqua. L'acqua a rischio A causa del sovrasfruttamento, il bilancio idrico è passivo: alla chiusura dei conti, il deficit del fiume Po, ad esempio, è di 12 109 metri cubi l'anno. In questo bilancio, i consumi civili pesano per 2,5 unità, quelli industriali per 7,8, quelli per l'irrigazione e la zootecnia per 21,9. Come si vede, l'industrializzazione agricola e zootecnica prosciuga le nostre acque ad un ritmo preoccupante, il che crea problemi di approvvigionamento non solo durante i periodi di siccità. Ma questo non è l'unico fattore di rischio. Anche la qualità risente molto delle attività dell'uomo: pesticidi, nitrati, idrocarburi clorati avvelenano i corsi distruggendo l'equilibrio degli ecosistemi e ovviamente richiedendo procedimenti più lunghi e costosi per rendere l'acqua nuovamente adatta ad usi civili o agricoli. I corsi d'acqua sono organismi vivi che si evolvono, integrandosi e comunicando con il territorio circostante: alterandone le caratteristiche si incide sull'intera area, che comprende la flora, la fauna, l'uomo. Per questo proteggere la salute di un fiume non vuol dire solo ridurre l'inquinamento, ma anche rispettarne i ritmi e gli spazi: alterare la forma del letto, velocizzare il deflusso, eliminare la vegetazione circostante possono sembrare operazioni che non incidono sulla qualità dell'acqua, mentre in realtà alterano la possibilità dell'ambiente di autoregolarsi, e quindi di sopravvivere. Facilitare l'infiltrazione delle acque, rallentarne il deflusso, permettere il contatto dei flussi con la vegetazione delle rive (ripariale) e con i batteri presenti nel suolo sono condizioni indispensabili per favorire la capacità di autodepurazione di un corso d'acqua. E' chiaro che questo approccio rende più complessa la soluzione del problema. Ci vuole infatti una pianificazione accurata che consideri i diversi aspetti in gioco, dalle esigenze di sfruttamento alle condizioni naturali: equilibrio biologico, chimico, anche paesaggistico. Per fare questo, bisogna studiare ogni intervento di regolamentazione in base alle caratteristiche specifiche della zona e ancora una volta è fondamentale la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, comprese le comunità che risiedono sul posto. Come proteggerla? La nostra Regione, se da un lato risente di maggiori problemi a causa della densità abitativa e della forte industrializzazione, dall'altro però ha sempre avuto un occhio attento ai rischi di questa situazione. E' del 2005 il Piano Regionale di Tutela delle Acque, che ha lo scopo di valutare l'entità dei problemi idrici rispetto agli obiettivi previsti dall'Europa, fissati per il 2008 e il 2016. A poca distanza dalla scadenza della prima tappa di controllo, la situazione non è positiva, ma si intravede un leggero miglioramento: i prelievi industriali sono drasticamente diminuiti e anche la grande agricoltura sta attuando tecnologie che diminuiscono il fabbisogno di acqua. La programmazione razionale dell'irrigazione, il riuso delle acque reflue, il miglioramento delle reti di conduzione in modo da minimizzare gli sprechi, la realizzazione di piccoli invasi a basso impatto ambientale sono gli strumenti di questo progresso. Anche qui, rilocalizzare è una parola chiave: piuttosto che un grande impianto, oggi si preferisce realizzarne diversi di piccole e medie dimensioni, ben distribuiti. Anche le nuove tecnologie verdi sono al centro dell'attenzione,tra le più interessanti c'è la fitodepurazione, basata sull'impiego di piante palustri che attraverso meccanismi biologici e fisici naturali sono in grado di trasformare o biodegradare le sostanze inquinanti presenti nell'acqua. Per quanto riguarda l'impiego civile, ottimizzare l'uso delle risorse idriche vuol dire soprattutto imparare a risparmiare, e per questo la Regione ha messo in campo una strategia basata sull'educazione e l'informazione. Piccoli passi sono già compiuti, e la strada per la salvaguardia dell'acqua è tracciata; entro il 2016 l'EmiliaRomagna dovrà dimostrare un ulteriore progresso. La rivoluzione più importante, però, sembra già compiuta, e sta nel modo di considerare la risorsa idrica: non più una materia prima da sfruttare ma un organismo vivo da conoscere e rispettare, adeguando le norme e gli usi umani ai cambiamenti del sistema idrico, non più il contrario. SEGUENDO LA VOCE DELL'ACQUA Scritto da Lou Del Bello Vale la pena di passare una giornata a Ridracoli, il serbatoio della Romagna, non solo per passeggiare sulle sponde del lago verde in cui si specchiano le montagne, o per stupirsi davanti all'imponenza della diga, che ha richiesto sette anni di lavori, dal 1975 al 1982. Non solo per il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, dove ci si perde nel gioco di ombra e luce del bosco, e da lontano si possono vedere i daini che si arrampicano sul fianco della parete rocciosa. Una visita a Ridracoli è tutto questo, ma è anche un viaggio di risalita dalle comodità più consuete e rassicuranti di casa all'acqua come elemento naturale, portatore di vita e depositario di una forza che l'uomo ha potuto imbrigliare solo con grande fatica. Qui, l'acqua è il centro dell'attività dell'uomo, che lavora per portarla a valle nelle abitazioni di tutta la Romagna, e il cuore di un ecosistema armonioso e incontaminato, palpitante di vita, di suoni e colori. Qui si impara ad immergersi nell'ombra del bosco rispettandone i segreti, incantandosi a guardare i piccoli animali che scelgono di mostrarsi o ascoltando i loro suoni provenienti dal folto. L'acqua è una presenza che in quest'aria sussurra e respira. Come appare diversa dal liquido umile in cui facciamo bollire la pasta, in cui sciacquiamo i panni: eppure, è la stessa acqua. Il lago di Ridracoli è alimentato da un bacino imbrifero diretto ed alcuni indiretti. Il bacino imbrifero, ossia la la porzione di territorio che convoglia le acque nel corpo idrico principale è quello del Bidente di Ridracoli, altri bacini indiretti sono collegati al lago da una galleria. La diga, che nel suo punto massimo è alta 103,5 metri, ha una lunghezza di 432 metri e la si attraversa per accedere al parco. Camminare lungo questo confine artificiale è un'esperienza: da un lato, a pochi metri dal parapetto, le acque verdi del lago, appena increspate dal passaggio del battello elettrico che porta in giro i visitatori; dall'altra parte, lo strapiombo, misurato dal volo di un cardellino. Dal lago, l'acqua viene prelevata da due imbocchi che convergono in un pozzo di 130 metri, che la conduce verso il potabilizzatore. Attraverso una galleria di derivazione, invece, è alimentata la centrale idroelettrica di Isola, che si trova ad un livello inferiore. Con un salto di 250 metri, la forza dell'acqua che precipita mette in moto delle turbine che producono elettricità. La centrale di Isola può produrre, attraverso un gruppo turbina della potenza di 8 MW, circa 34 GWh di energia l'anno. Dopo questo passaggio, l'acqua viene reimmessa nel lago senza che ne siano alterate le qualità chimiche e batteriologiche. Il trattamento di potabilizzazione, invece, è diviso in tappe più complesse: preclorazione, trattamenti chimici, filtrazione e disinfezione. Comincia a questo punto la corsa verso gli acquedotti cittadini, che distribuisce l'acqua ai diversi serbatoi locali, interrati per le colline, pensili per le città di pianura. Questi ultimi, detti anche torri piezometriche, hanno la funzione di far arrivare l'acqua in pressione agli utenti e hanno una capacità variabile da 150 a 20.000 metri cubi. All'idro museo di Ridracoli, tra le montagne, si può seguire l'intero percorso dell'acqua a valle attraverso cartine, spiegazioni e giochi per i piccoli (ma quando nessuno guarda, li provano anche i grandi). Affacciandosi fuori, contemplando il silenzio dei monti e la quiete del lago, questa sembra una strana storia avventurosa, irreale. Ma una volta a casa, aperto il rubinetto e riempito il solito bicchiere sembra che, proprio sul fondo, l'acqua abbia un sapore un po' diverso, più buono. (Foto di Gabriele Fittipaldi) RISPARMIARE ACQUA SOTTO LE DUE TORRI: LE PROPOSTE DEL COMUNE DI BOLOGNA Scritto da Elisabetta Mongardi Le principali fonti da cui viene prelevata l’acqua per Bologna sono due: il sottosuolo e i corsi superficiali. Nel primo caso, lo sfruttamento del sottosuolo ha provocato, negli anni, un abbassamento significativo delle falde, causando uno sprofondamento del suolo di oltre 3 metri e riducendo di conseguenza la possibilità di utilizzare questo metodo per procurare l’acqua necessaria. Per quanto riguarda i fiumi (torrente Setta, Reno e Savena i più utilizzati a questo scopo), essi presentano tutta una serie di problemi naturali - tra cui siccità e variazioni di portata- che li rendono una fonte di approvvigionamento non sempre sicura. Come se non bastasse, negli ultimi anni si è registrato un aumento del degrado delle aree fluviali di Bologna e provincia, un danno che si ripercuote anche sulla flora e fauna che le popolano. Di fronte a queste considerazioni, è chiara la necessità del Comune di investire risorse sul risparmio idrico. Secondo i dati forniti dal Comune stesso, Bologna consuma, da sola, dai 33 ai 37 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Il consumo domestico medio si aggira invece intorno ai 180 litri al giorno per abitante. Per raggiungere la soglia ideale dei 150 litri giornalieri pro capite, che corrispondono a circa il 70% delle risorse potabili distribuite, secondo la PTA, dovrebbe verificarsi un abbassamento degli usi domestici, agricoli e industriali pari al 15% per i prossimi dieci anni. Sorge spontanea la domanda: a che punto siamo? Il Comune di Bologna ha all’attivo una campagna di sensibilizzazione dei cittadini al risparmio idrico: sul sito del Comune gli utenti possono scaricare un opuscolo informativo che contiene tutti i consigli di base per ridurre l’uso domestico. Sul fronte scolastico, esiste il progetto Scuolambiente: un programma di educazione ambientale condotto nelle principali scuole medie bolognesi, che non tocca solo il tema dell’acqua ma si occupa anche di aria ed energie rinnovabili. Il Comune sostiene inoltre di aver avviato un progetto per migliorare i consumi idrici all’interno degli edifici comunali e non solo: promette una riduzione sensibile dei consumi dell’acqua per l’irrigazione di aree verdi pubbliche come i Giardini Margherita, grazie alla quale conta di risparmiare oltre cinquantamila metri cubi d’acqua l’anno. Per quanto riguarda le iniziative più recenti, lo scorso 20 Marzo si è svolta in Piazza Maggiore la Giornata Mondiale dell’Acqua, sempre ad opera del Comune in collaborazione con l’associazione Centro Antartide, il gruppo Hera e alcune scuole medie della città. L’iniziativa prevedeva anche la sostituzione, nelle scuole coinvolte, dei vecchi rubinetti e l’installazione di nuovi riduttori di flusso. Abbiamo cercato di contattare alcune scuole (Testoni-Fioravanti, Volta, Irnerio, Besta) per verificare se la sostituzione dei rubinetti sia effettivamente avvenuta, ma senza ottenere risposta… Durante la manifestazione sono stati anche distribuiti gratuitamente ai partecipanti dei frangigetti da montare sui rubinetti domestici. Sempre nell’ambito della giornata mondiale dell’acqua, Lino Zanichelli, assessore all’ambiente e allo sviluppo della regione Emilia-Romagna, ha lanciato il nuovo Forum Nazionale sul Risparmio e la Conservazione della Risorsa Idrica, che trovate a questo indirizzo: www.forumrisparmioacqua.it Per chi volesse approfondire l’argomento ● Il sito di Ato 5, agenzia di ambito dei servizi pubblici di Bologna; ● Pier Francesco Campi ci ha segnalato questo cortometraggio realizzato dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con la società Ermesambiente, di cui è responsabile; ● La campagna di comunicazione Acqua Risparmio vitale; ● Il tema dei consumi domestici all’interno della campagna di comunicazione Consumabile CO-HOUSING, SCEGLIERE I VICINI E SCEGLIERE L'AMBIENTE Scritto da Biljana Prijic Gli italiani sono un popolo di proprietari immobiliari. La casa "di proprietà" è una certezza su cui contare per molti, un sogno da realizzare a tutti costi per i pochi che ne sono esclusi. E quando si cerca una casa da comprare l'impegno ecologista può passare in secondo piano, perché sono davvero troppe le variabili da tenere in conto: a quanto, dove, mutuo, prestito, notaio, rogito, e via dicendo. Infatti abitazioni ecologiche sono diffuse sul territorio solo laddove le politiche pubbliche sono intervenute massicciamente per permettere ai cittadini di costruire o ristrutturare secondo una sensibilità già diffusa tra la popolazione. In Italia solo in Alto Adige, purtroppo. Altrove, anche quando il sogno di comprare casa si avvera, ci si ritrova spesso proprietari di un appartamento in condominio dove magari non si conosce il proprio dirimpettaio, bisogna tenersi la caldaia comune a gasolio, e dove non si può fare economia su nulla: ciascuno ha il suo condizionatore, la sua auto, fa la sua spesa all'ipermercato il sabato pomeriggio, nessuno può permettersi un pezzetto di giardino. Il cohousing nasce per interrompere questa fuorviante idea di modernità, riscoprendo i tradizionali valori della socialità, e conciliandoli con la coscienza ecologica del terzo millennio. Il termine cohousing definisce insediamenti di abitazioni private con ampi spazi destinati all'uso comune e alla condivisione tra i coabitanti: grandi cucine, camere per gli ospiti, laboratori per il fai da te, spazi gioco per i bambini, micro-nidi, palestra, internetcafè, carsharing, biblioteca o altri servizi utili per la comunità. Di solito un progetto di cohousing comprende dalle 10 alle 40 famiglie che convivono come comunità di vicinato e gestiscono gli spazi condivisi in modo collettivo, ottenendo in questo modo risparmi di costi e benefici di natura ecologica. Il gruppo nasce con il principio del vicinato elettivo: cioè “ci si sceglie”. Inoltre gli insediamenti spesso recuperano ex-fabbricati artigiani, caserme o altri edifici di proprietà pubblica non utilizzati all’interno delle aree urbane, o edifici rurali in abbandono. Ma perché una scelta di questa natura, che sembra riscoprire idee di condivisione degli spazi tutt'altro che nuove e moderne, dovrebbe essere ecocompatibile? Semplice. Avete mai provato a installare a casa vostra dei pannelli solari? A isolare imposte e pareti per diminuire l'uso di riscaldamento e condizionatori? A trasformare una parte del giardino in orto? Sì? Ed è stato scoraggiante, immaginiamo. Sono scelte ecologiche nobili, ma richiedono studio, dedizione, tempo. E soldi, naturalmente. Il cohousing è un modo per comprarsi o affittare casa che rende più facile essere coerenti con le proprie idee di sostenibilità, perché rende abbordabile le soluzioni tecniche, architettoniche e logistiche che un singolo spesso rimanda in quanto troppo costose. E magari qualcuno aderisce a un cohousing per riuscire a comprare casa, e se la casa è allo stesso prezzo, ma "consuma" un decimo della media in quella zona, o addirittura è una casa passiva, tanto meglio. Imparerà ad amare l'idea, e risparmierà negli anni anche dei bei soldini. Ma l'impronta verde il cohousing l'ho acquisita solo di recente? Niente affatto. Il cohousing è nato in Danimarca verso la fine degli anni '60, si è poi sviluppato negli Stati Uniti e nel resto dell'Europa, soprattutto in Paesi di grandi tradizioni ambientaliste, come la Germania. L'idea è quindi ecologista da sempre, ma naturalmente è oggi che il cohousing ha l'occasione di segnare una svolta nel modo di vivere delle persone e di porsi come alternativa all'inefficiente allocazione delle risorse dei singoli e all'isolamento delle società moderne. In Italia si sta sviluppando ora, e uno dei nuclei attivi è proprio nella nostra regione. Non c'è da stupirsene. In Emilia-Romagna ci sono le condizioni perché questo nuovo modo di vivere il territorio e condividere esperienze abbia successo. La socialità e il rispetto del territorio sono già scritti nel DNA di queste terre, solo che le regole implicite dello sviluppo economico hanno imposto come altrove un atteggiamento al vivere quotidiano più simile al consumo che al godimento. Si tratta in fondo di riscoprire valori di condivisione e attenzione alle risorse che si sono affievoliti negli ultimi decenni, per una nuova cultura del “buon vivere” che da sempre ha contraddistinto il “modello emiliano”. L'associazione E'/Co-Housing è nata a Bologna nel marzo 2008, promossa dal circolo tematico Ecologisti S.p.A. (socialità per azioni di ecologia attiva). Ha riunito fin da subito diverse decine di nuclei familiari: uomini e donne, bambini e anziani, di tutte le provenienze e professioni, desiderosi di trovare nuovi modi di abitare insieme. L'associazione promuove un modello abitativo eco-sostenibile da destinare alla coabitazione residenziale, con servizi da condividere e da gestire insieme. La costruzione, la ristrutturazione, gli spazi comuni e il sistema di regole saranno decisi dalle famiglie che andranno a convivere insieme, ma nello spirito dell'associazione condivideranno due principi: una socialità trangenerazionale e un'attenzione viva all'ambiente. UNA VIA D'USCITA PER CASALECCHIO Scritto da Matteo Pierfelice La via d’uscita sintetizzata in tre punti: educare a produrre meno rifiuti; abituarsi a riciclare, recuperare, riusare; puntare agli “acquisti verdi” certificati, che automaticamente significa rispettare anche i primi due punti. Sono questi i principi che ispirano il piano energetico per il comune di Casalecchio di Reno studiato dal prof. Leonardo Setti, docente di Recupero energetico alla Facoltà di Chimica industriale dell’Università di Bologna. Insieme all’Assessore all’Ambiente Beatrice Grasselli, le linee d’indirizzo sono state illustrate il 22 aprile nella “Casa della conoscenza” del comune bolognese. L’obiettivo è quello di ridurre la dipendenza da combustibili fossili e diminuire drasticamente la quantità di rifiuti in discarica. Entro il 2011 la percentuale di raccolta differenziata dovrebbe arrivare al 60%, come previsto anche dalla finanziaria del 2007. Un comune come quello di Casalecchio ha un consumo stimato di 129mila tonnellate di petrolio equivalente “in situ”, cioè sul territorio, e sessantanovemila tonnellate equivalenti “ex situ”, cioè la quantità che viene fatta consumare fuori dal territorio. Per questo il piano mette l’accento sull’autosufficienza tramite energie rinnovabili reperibili sul territorio. Dipendere dall’energia proveniente da altri territori vuol dire incidere in maniera fortemente negativa su quei luoghi. L’errore è stato già commesso con il petrolio. “L’Italia – spiega il professor Setti – prende milioni di litri di petrolio dalla Nigeria”. Ma bisogna stare attenti a non commettere il medesimo errore con le fonti rinnovabili. “Quello che è successo in Puglia con le pale eoliche – continua Setti – è esemplare. Alcune aree sono state colonizzate dalle pale e i comuni fanno accordi di royalty sconosciuti ai cittadini”. Il consumo stimato nella relazione viene ripartito tra cinque voci: sono i consumi residenziali, i trasporti, il terziario, le industrie e l’amministrazione pubblica. L’amministrazione pubblica incide pochissimo, mentre, per le altre quattro voci, passare agli acquisti verdi significherebbe incidere per il 34,8% sui consumi. Al livello residenziale la parte che consuma di più è il centro storico. Questo ovviamente pone dei problemi urbanistici e architettonici. Perché nel centro storico non tutti hanno tetti sui quali impiantare pannelli solari. Inoltre, seppure i pannelli ricoprissero tutti i tetti, si verrebbe a modificare radicalmente l’aspetto del paese. Riguardo al primo problema Setti osserva che “non necessariamente i pannelli devono stare sui tetti. A Casalecchio ne servirebbero 213mila metri quadri e la zona industriale della città misura 384mila metri quadri. Si potrebbero usare quelli”. Il problema dell’impatto estetico invece “richiede di fare l’importante passo culturale di accettare i pannelli nei centri storici. Ora può sembrare strano ma magari nei prossimi decenni diventerà del tutto normale”. I trasporti sono un altro nodo da affrontare. A Casalecchio il novantaquattro per cento dei 269mila veicoli va a petrolio. Le soluzioni previste dal piano energetico sono due: aumentare e razionalizzare il trasporto pubblico, e l’uso massiccio del metano come combustibile di transizione fino al periodo 2017/2020. Le emissioni si ridurrebbero del venti-trenta per cento, ma a quel punto sarebbe fondamentale un’oculata gestione per non soccombere alla dipendenza dal metano. A partire dalle case. “Ho dotato la mia abitazione di un buon isolamento termico, di impianto di riscaldamento a pavimento e di impianto solare termico. Risparmio dai sette ai diciannove metri quadri di gas a settimana. Col metano risparmiato faccio il pieno alla mia Panda a metano”. Si innesca così un circolo virtuoso anche dal punto di vista economico. Se si riqualificassero il cinquanta per cento degli edifici di Casalecchio si ridurrebbero i costi di bolletta di cinque milioni di euro all’anno. Con impianti fotovoltaici a casa da due chilowatt si risparmierebbero undici milioni di euro all’anno e una quantità di metano sufficiente a convertire a gas il quarantaquattro per cento del parco auto. Come trovare finanziamenti per realizzare tutto ciò? Il piano prevede anche una notevole autonomia dal governo centrale. Punta a coinvolgere la cittadinanza con delle quote di denaro che vanno intese come polizza o contributo previdenziale volontario. Si fisserebbe un prezzo dell’anidride carbonica (per esempio venti euro per tonnellata equivalente) usando l’incasso per realizzare piattaforme fotovoltaiche. Si potrebbero inoltre vendere quote di energia da due chilowatt a chi non ha il tetto su cui montare gli impianti. “Nondimeno – conclude Setti – bisogna fare attenzione ai progetti formativi nelle scuole e, prima ancora, sperare che ci sia la volontà politica di attuare un simile piano”. In questo senso dopo le elezioni ne sapremo sicuramente di più. LAST MINUTE MARKET: QUANDO LO SPRECO DIVENTA RISORSA Scritto da Alessandro Kostis Secondo alcuni studi di settore il 95% dei prodotti ritirati dalla vendita è ancora commerciabile. Partendo da questo dato si può facilmente intuire cosa abbia spinto alcuni ricercatori del Dipartimento di Economia e Ingegneria dell'Università di Bologna a creare nel 1998 il progetto Last Minute Market. Nelle sue intenzioni il programma, oggi portato avanti da una società spin-off dell'Università felsinea, prevede un servizio di consulenza e di organizzazione per contribuire ad abbattere lo spreco alimentare trasformandolo in risorsa. Nella pratica Last Minute Market si rivolge a tutte quelle realtà imprenditoriali che si trovano ogni giorno a fare i conti con eccedenze di merci invendute, non solo alimentari. L'idea è che, anche se non adatte alla vendita, queste possono tranquillamente essere redistribuite a tutti quegli enti caritativi e di assistenza che necessitano ogni giorno di ingenti risorse per soddisfare il loro compito. L'ultimo attore che viene coinvolto sono le istituzioni, che conseguono benefici indiretti di tipo sociale ed ambientale, vedendo diminuire la spesa pubblica per l’assistenza e l’ammontare dei rifiuti in discarica. L'idea ha subito raccolto adesioni non solo in Emilia-Romagna, ma anche a livello nazionale (da qualche anno sono attivi studi di fattibilità anche in Argentina e Brasile). Adesioni che tra l'altro si sono riflesse persino sul piano normativo, contribuendo a promulgare la cosiddetta legge anti-sprechi contenuta nella finanziaria del 2008, che persegue appunto l'obiettivo di porre un freno agli sprechi alimentari detassando tutti i prodotti ceduti dalle imprese alle onlus secondo questa logica. L'iniziativa però non si esaurisce solo con il recupero di generi alimentari. Infatti si possono “riciclare” anche prodotti diversi che presentino delle imperfezioni di confezionamento, come ad esempio detersivi, prodotti per l'igiene personale, oppure ancora libri destinati al macero (dirottati invece verso le biblioteche), fino ad arrivare ai farmaci da banco. Passiamo ai risultati. Nel 2009 nel comune di Bologna, che partecipa anche a livello istituzionale con il progetto “Il buono che avanza”, sono state recuperate più di 69 tonnellate di alimenti per un valore commerciale di 239.000 euro, 600 chilogrammi di generi non alimentari, 800 unità di farmaci e più di 300 libri. I donatori che hanno contribuito a questi risultati nel territorio bolognese sono E.Leclerc-Conad di via Larga, Il banco del Pane di via Zamboni, il Consorzio Agribologna e il Caffè Terzi di via Oberdan. Inoltre da quest'anno Last Minute Market collabora anche con le scuole comunali per il recupero di frutta e pane in eccedenza. Per quel che riguarda i beneficiari, nel comune di Bologna troviamo, per esempio, la Caritas (con la sua mensa in via Santa Caterina), la CSAPSA (cooperativa sociale con sede in via Marsala) e la mensa dei frati minori di via Guinizelli. Il grande successo dell'iniziativa, che si sta estendendo a macchia d'olio su tutto il territorio nazionale, è facilmente comprensibile grazie allo schema win-win, proprio del progetto Last Minute Market: un progetto a somma positiva. Non ci sono sconfitti, solo vincitori. Infatti le imprese for-profit abbattono i costi di smaltimento delle merci invendute, recuperano l'Iva su queste ultime, migliorano la gestione del magazzino riducendo le giacenze, e, soprattutto, rafforzano il loro profilo di responsabilità sociale e la loro immagine, partecipando all'azione della comunità a sostegno delle persone in difficoltà. Dall'altro versante, le imprese no-profit vedono le loro esigenze assistenziali soddisfatte, riuscendo ad accedere a risorse altrimenti irraggiungibili. Insomma trasformare lo spreco in risorsa non è più un'utopia, anzi, oggi è più facile di quel che sembri. LA PAROLA A FABRIZIO PIVA, “PAPÀ” DEL MARCHIO BIO-HABITAT Scritto da Giulia Biguzzi CCPB srl è un organismo di controllo e certificazione che deriva la propria attività ed esperienza dal Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici Soc. Coop. fondato nel 1988. CCPB srl è riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF) per l’applicazione del Reg.CE 834/07, e sue successive modifiche ed integrazioni, relativamente alle aziende che producono, preparano, distribuiscono ed importano prodotti realizzati secondo il metodo dell’agricoltura biologica. Nell’ambito delle produzioni biologiche, CCPB srl, è attivo nel settore del verde condotto con metodo biologico, contrassegnato dal marchio Bio-Habitat. Abbiamo intervistato Fabrizio Piva, amministratore unico di CCPB. Dottor Piva, a che punto siamo con le ispezioni delle aree verdi di Bologna? Le ispezioni sono già state fatte, ci sarà bisogno di qualche tempo in più per il rilascio delle certificazioni. Come si sono svolte le ispezioni? I nostri ispettori hanno effettuato degli esami in loco, nei sessantasette ettari di verde sottoposti ad esame, basandosi su di una check list del disciplinare Bio-habitat per capire se l'area esaminata fosse conforme al metodo biologico. Ciò è stato fatto prelevando campioni dal terreno, verificando se la registrazione dei prodotti per la difesa e la protezione delle aree, come ad esempio i cicatrizzanti od i fertilizzanti, sia a norma. Abbiamo osservato come si sia svolta la potatura: ad esempio lei pensi ai casi in cui ci si trova in un'area che è vicino ad una strada, dobbiamo verificare il rispetto delle radici, non deve verificarsi una asfissia delle stesse,ad esempio vanno evitate le capitozzature (accorciamenti che interessano le branche principali o il tronco della pianta, da wikipedia). Esistono anche diverse norme che controllano l'arredo del parco, come le panchine e le aree sportive:dobbiamo verificare che siano inserite in modo corretto all'interno del parco, e che non contengano materie inquinanti. Successivamente si procederà con la certificazione del marchio, che è di proprietà di Serbios. Nel caso in cui le aree controllate presentino delle irregolarità, che cosa succede? In questo caso viene dato un periodo di adeguamento coerente con l'irregolarità riscontrata, che può andare da un mese fino anche ad un anno di tempo. Che ruolo ha il comitato tecnico scientifico arruolato da Serbios? Il ruolo del comitato scientifico è quello di completare lo standard, di certificazione, per migliorarlo ed adattarlo nel corso del tempo. Altre notizie sulle certificazioni Bio per i parchi qui ESTATE CON “VOLONTARIAMBIENTE”, DIVERTIMENTO UTILE IN VACANZA Scritto da Laura Simoni Non avete ancora pianificato nessun viaggio per le vacanze estive? Le isole caraibiche sono fuori dalla portata del vostro portafogli? Avete appena rotto col partner, i vostri amici non hanno ferie prima di ottobre e temete di ritrovarvi da soli sul solito lettino della solita spiaggia del solito lido? Non angosciatevi. Abbiamo la soluzione a tutti i vostri problemi: quello di cui avete bisogno è un “campo di volontariato” di Legambiente! Esperienze di vita e formative, vacanze utili e divertenti, ma soprattutto a prezzi decisamente anti-crisi, in luoghi che meritano di essere visitati e salvaguardati. È uscito il nuovo programma estivo di “Volontariambiente”: quest’anno si potrà scegliere tra più di trecento campi di volontariato e progetti che dal 1991 vengono organizzati dalle associazioni aderenti al Network Alliance of European Voluntary Service Organizations (prima fra tutte Legambiente). Campi in Italia e all’estero, che ogni anno coinvolgono circa quattromila ragazzi, giovani e adulti, nella tutela del patrimonio naturalistico, storico, artistico e culturale delle regioni ospitanti. Qualche esempio? Grande successo riscuotono da sempre i Campi di Salvalarte per la riscoperta e la valorizzazione dei tesori artistici ed archeologici nascosti nel nostro paese e spesso dimenticati. A Scafa (Pe), nel bel mezzo del Parco del Lavino, il campo prevede il ripristino di un mulino del ‘600 e la realizzazione della campagna nazionale di Salvalarte. In più, in collaborazione con la Protezione Civile, i volontari svolgeranno attività di prevenzione degli incendi boschivi e seguiranno corsi di primo intervento nelle emergenze. Valorizzare il territorio significa anche riscoprire e rimettere in uso vecchie strade appenniniche e percorsi storici che per secoli hanno rappresentato le uniche vie di comunicazione, commercio e scambio culturale tra popoli. Nelle colline attorno Sogliano sul Rubicone (FC), durante la prima metà di agosto, i volontari svolgeranno attività di ripristino di alcuni sentieri in disuso in un’area boschiva abbandonata. E poi via con le escursioni: seguendo le orme del passato, imboccheranno quegli stessi sentieri calpestati dal pie’ mortale dell’esule Dante. I Campi della Legalità si svolgono nei terreni confiscati alle mafie e gestiti dalle cooperative sociali insieme alla rete Libera (qualche info qui): a Castel Volturno, in provincia di Caserta la cooperativa sociale “Le Terre di don Peppe Diana” vuole recuperare alcune aziende agricole sequestrate alla camorra e crearci una fattoria didattica e bioenergetica, che produca prodotti agroalimentari, come le “mozzarelle della legalità”. Per chi proprio non riesce a resistere alle tentazioni esotiche e d’oltre oceano, proponiamo due ultime ideevacanza. Il Campo under 18 nella regione di Shimane, coinvolgerà i ragazzi in quelle antiche attività di agricoltura, allevamento e gestione fondiaria del Giappone arcaico e rurale; al termine dell’esperienza i giovani venuti da tutto il mondo aiuteranno la piccola comunità locale a realizzare l’annuale Festa dell’Estate, venendo così in contatto con gli usi e le consuetudini di un popolo nobile e forte delle proprie tradizioni. E, dulcis in fundo, il Brasile! Un campo all’estero per veri avventurieri, nella Riserva Naturale di Janaina, in piena foresta pluviale. Il campo ha una durata di 12 giorni ed ha inizio nel mese di Settembre: i nostri eroici volontari dovranno dormire in spartane capanne o su amache o tende portate per la bisogna. Nei fine settimana ci sarà il trasferimento tra il campo ed Itacarè, in barca (guadando il Rio de Contas dopo due ore di cammino nella giungla) o, per i più pelandroni, su autobus, per raggiungere le spiagge assolate e deserte della magnifica Costa del Cacao. Insomma, ce n’è per tutti i gusti: zaino in spalla e…buon divertimento! Il programma completo sul sito di Legambiente. DA REGGIO A BRUXELLES, MA IN BICICLETTA Scritto da Gabriele Fittipaldi Si è tenuta a Bruxelles la XV edizione di “VELO-CITY 2009”, la più grande conferenza internazionale dedicata alle politiche ciclabili. Tra i 27 comuni europei invitati alla manifestazione anche Reggio Emilia. Tema di quest'anno il “Re-cycling cities”, ovvero ripensare la mobilità delle città mettendo al centro le esigenze delle due ruote. Circa 1000 partecipanti provenienti da 52 paesi si sono confrontati sul tema della mobilità sostenibile sottolineando il ruolo e le potenzialità dell'uso della bicicletta nel contesto urbano. Al termine della conferenza il sindaco Delrio ha sottoscritto la “Carta di Bruxelles” impegnandosi entro il 2020 a portare al 15% l’uso della bicicletta come mezzo di trasporto abituale e a ridurre del 50% gli incidenti mortali che colpiscono i ciclisti. I vantaggi nell'uso quotidiano della bicicletta sono molti: in città è il mezzo di trasporto più economico e per tragitti inferiori ai 5 km è più veloce dell'auto, fa bene alla salute e aiuta a mantenersi in buona forma fisica ma soprattutto è completamente ecologico. Il comune di Reggio Emilia, primo nella classifica nazionale di Legambiente dedicata alla mobilità sostenibile, sta attuando un progetto di ampliamento e manutenzione degli oltre 140 km della propria rete ciclo-pedonale. “La convivenza tra auto e biciclette è difficile. Occorre creare una rete di vere piste ciclabili in sede propria per mantenere il ciclista il più possibile in strada e non sui marciapiedi dove entrerebbe in conflitto coi pedoni”, spiega l'assessore al traffico Paolo Gandolfi. La poca sicurezza e il traffico sono tra i principali ostacoli che ci fanno rinunciare a pedalare. “Lo sforzo che bisogna fare è di garantire la sicurezza curando qualitativamente ogni singolo percorso con attraversamenti rialzati e prioritari, creando delle zone a velocità massima di 30 km/h sapendo che il rischio maggiore è l'investimento laterale da parte di auto che non rispettano la precedenza”. I pericoli in agguato sono tanti e in caso di incidenti non si è protetti, ma anche la condotta non sempre rispettosa del codice della strada da parte dei ciclisti va sottolineata. “Ci sono due tipologie di ciclisti: le tartarughe, anziani e famiglie con bambini piccoli che si fermano agli incroci nonostante il diritto di precedenza e le lepri, più intraprendenti e maggiormente a rischio di investimenti”. Durante il convegno sono state richieste ai rappresentanti della Commissione Europea adeguate risorse finanziarie in aiuto alle politiche locali sulla ciclabilità. “Tutta la platea ha fortemente richiesto di prevedere una specifica fonte di finanziamento per le ciclabili, ma al momento i contributi europei sono rivolti a progetti di sensibilizzazione e scambio di buone pratiche, ben poco per la realizzazione di opere concrete locali”. L'europarlamentare tedesco Michael Cramer sostiene che solo lo 0.9% del bilancio europeo dei Trasporti è attualmente destinato alla ciclabilità urbana ed extraurbana. Scegliere la bici comporta un cambiamento dello stile di vita, nelle abitudini e nell'organizzazione delle attività quotidiane. Ma la salita più dura da affrontare rimane la forte chiusura mentale verso la bicicletta, da molti vista ancora come un simbolo di arretratezza nonostante siano i paesi più sviluppati e ricchi ad utilizzare maggiormente le due ruote come mezzo di trasporto quotidiano. L'appuntamento con la prossima edizione di Velo-City sarà dal 23 al 26 giugno a Copenhagen. Naturalmente tutti in bicicletta! (Le immagini che illustrano gli articoli sono prese da Flickr)