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società
1991 – 2011. rapina del mento
La ricostruzione
dell’evento.
Le luci e
le ombre. Le voci
dei protagonisti.
Un episodio
che i devoti
di tutto il mondo
non hanno mai
dimenticato.
Un fatto che,
ancora oggi,
ha molto
da raccontare.
Il Santo
ritrovato
di N i c o l e t t a M a s e t t o
S
ono le 18.20 del 10 ottobre 1991. Tre banditi, armati
e coperti da passamontagna, entrano nella Basilica di
sant’Antonio e rubano il Mento del Santo. Alcuni fedeli e una guardia vengono immobilizzati sotto la minaccia delle armi. I malviventi fuggono poi a bordo di un’auto
guidata da un quarto complice. La Reliquia viene ritrovata
settantuno giorni dopo, il 20 dicembre 1991, «ufficialmente» a Roma, vicino all’aeroporto di Fiumicino.
La verità su autori, mandanti e sul perché di una rapina
giudicata da subito anomala, verrà a galla molto tempo dopo. La firma, inattesa, è quella della «mala del Brenta». Autori materiali, Andrea Zammattio, Andrea Batacchi e Stefano Galletto, insieme con Giulio Maniero, il quarto complice. Mandante, il boss della mala, Felice Maniero. Lo scopo,
estorsione: la Reliquia viene usata come oggetto di scambio
con l’intenzione di costringere lo Stato a scendere a patti.
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1991 – 2011. rapina del mento
«Il Santo
in ostaggio»
Torniamo a quella data. È
il tardo pomeriggio di una
giornata insolitamente calda
per un ottobre non ancora avvolto dai colori dell’autunno.
Sono le 18.20. In chiesa ci sono i fedeli, che si attardano dopo la messa delle cinque del pomeriggio, e alcuni turisti. Una strana quiete avvolge il luogo
sacro. All’improvviso, in Basilica fanno
irruzione i tre malviventi. Camminano spediti, con passo sicuro,
verso la Cappella del
Tesoro. Il «tesoro»
in questione sono le
Reliquie di sant’Antonio. Dopo aver
rubato quella del
Mento, si precipitano in via Orto
Botanico, una strada
laterale, dove ad attenderli c’è il quar-
to bandito alla guida di una
Ford Fiesta nera che in seguito risulterà rubata. La notizia viene battuta subito dalle agenzie di stampa. Ne parleranno televisioni e giornali
di tutto il mondo: addirittura il «Time», nell’edizione del
28 ottobre 1991, dedica un
articolo all’evento. I titoli sono a tutta pagina: «Il Santo in
ostaggio» si legge, in un accavallarsi, per settantuno giorni, di ipotesi, illazioni, telefonate di sciacalli e appelli. Numerosi quelli lanciati dai frati della Basilica e dal rettore
dell’epoca, padre Olindo Baldassa; dal delegato pontificio, monsignor Marcello Costalunga che, proprio in Basilica durante la celebrazione del 21 ottobre 1991 per il
tredicesimo anniversario del
pontificato di Giovanni Paolo
II, parla «della vicinanza del
Santo Padre e della sua trepidazione per le sorti della Reliquia»; dal vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo. Per
un lungo periodo non si sa-
prà chi ha commissionato la
rapina e chi sono stati gli esecutori. Ci vorranno tre anni
prima di arrivare alla verità.
Il quotidiano «La Repubblica» dell’11 febbraio 1995 scrive, a pagina 19: «L’hanno scoperto gli uomini della Criminalpol del Veneto che, a conclusione di una lunga inchiesta coordinata dalle procure
di Padova e di Venezia, hanno ricostruito uno dei misteri
più fitti nella storia della malavita locale, quello appunto del clamoroso assalto al
“tempio” di Sant’Antonio. Tra
le sei persone che, tre anni
e quattro mesi dopo il furto,
hanno ricevuto l’ordine di custodia c’è anche il boss della
Riviera, Felice Maniero». L’ex
capo indiscusso della banda
criminale, che si sviluppò tra
le province di Padova e di Venezia, confermerà quanto già
dichiarato dai suoi sodali in
merito all’episodio nella lunga «confessione» resa ai magistrati. La sua collaborazione con lo Stato inizia il 18 no-
l’editoriale
Operazione verità
I
mmancabilmente, quando
accompagno un gruppo di
pellegrini a visitare la Cappella del
Tesoro con le Reliquie del Santo, in
fondo alla Basilica, ritornano le stesse
domande: «Com’è andata quella
volta della rapina? È vero che
avevano le pistole? Ma… per la
restituzione del Mento, è stato
pagato un riscatto?». Nessuno, in
modo chiaro e lineare, soprattutto
documentato e sistematico, si è mai
impegnato a ricostruire una vicenda
che ha dello strano, del paradossale,
ma che ha suscitato curiosità e
attenzione mediatica attirando sulla
città di Padova e sulla Basilica i
riflettori del mondo. Dal 10 ottobre al
20 dicembre 1991 trascorrono 71
interminabili giorni che tengono col
fiato sospeso i devoti del Santo,
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milioni di fedeli nei cinque continenti.
Si organizzano veglie di preghiera
perché la Reliquia torni presto e
intatta nel luogo originario, dov’è
custodita dai frati e venerata dai
pellegrini con un passaggio
quotidiano di più di 2 mila persone.
Per tutto il tempo, così racconta Felice
Maniero, l’ex boss della mala del
Brenta mandante della rapina che ci
ha concesso in esclusiva una
lunga intervista, la Reliquia
giace seppellita – anche se
ben sigillata – lungo le rive
scoscese del fiume Brenta.
Deve servire come merce
di scambio per fare
pressioni sullo
Stato e ottenere
benefici, parte
dei quali
verranno concessi. La messinscena
finale del ritrovamento è, appunto,
una messinscena. Si dice, fin dal
primo lancio Ansa, alle 10.50 del 20
dicembre 1991, che la Reliquia è stata
rinvenuta nei pressi di Fiumicino,
ed è il generale dei carabinieri
Antonio Viesti che la riconsegna,
due giorni dopo, nella cornice
di una solenne celebrazione di
ringraziamento, ai frati del Santo.
In questo nutrito dossier, che dissipa
ogni ombra (o quasi), siamo andati
alla fonte, ascoltando i protagonisti
dei fatti e lasciando parlare gli
esperti. Una pagina di cronaca
nera che ha come protagonista
il nostro Santo ci aiuta così a
rileggere un pezzo di storia
della nostra Italia.
padre Ugo Sartorio
vembre 1994, sei giorni dopo l’ultimo arresto, avvenuto
a Torino. Ma proseguirà per
mesi. Svelati il mandante e gli
autori, della rapina del Mento del Santo si continuerà comunque a parlare a lungo,
più o meno direttamente, come risulta dagli interrogatori, dalle «confessioni» dell’ex
boss e dai documenti contenuti nelle centinaia di faldoni di atti processuali riguardanti Felice Maniero e la mala del Brenta.
Come
in un film
Il primo malvivente, appena
entrato nel deambulatorio del
Santuario, fa stendere a terra
tre turisti romani che si trovano sul lato sinistro, e con
la mano destra tiene puntata
la pistola in direzione dell’addetto alla distribuzione delle
immaginette. Un altro, entrato nella Cappella del Tesoro,
sale i gradini e inizia a colpire, con una mazza come quelle abitualmente utilizzate dai
muratori nei cantieri edili, la
teca centrale. All’interno, nella parte inferiore è custodita
la Lingua, in quella superiore, il Mento. Il reliquiario del
Mento è tutto incastonato di
pietre preziose. Per il bandito è più facile lasciarsi abbagliare dal luccichio delle pietre piuttosto che dal piccolo
scrigno, più semplice, contenente la Lingua. Eppure Maniero, come rivela nell’intervista che ci ha rilasciato in
esclusiva, aveva ordinato ai
suoi di rubare la Lingua che,
come l’ex boss sapeva molto
bene, è la Reliquia del Santo di più alto valore devozionale in tutto il mondo. Questa parte del corpo umano
è fragilis­sima, tra le prime
a dissolversi subito dopo la
morte; nel caso di sant’Antonio, essendosi mantenuta incorrotta a distanza di secoli, «costituisce – come si leg-
ge nelle guide per i pellegrini
– un miracolo perenne, unico
nella storia e carico di significato religioso quale suggello dell’opera di rievangelizzazione della società a opera del
Santo».
Il secondo uomo col passamontagna continua nel suo
tentativo di rompere il vetro.
Uno, due, tre colpi potenti.
Quanti bastano per far accorrere Jorge Damonte, una delle guardie in servizio all’interno della Basilica. «Era un
frastuono forte, cupo, mai
sentito – ricorda, vent’anni dopo, Jorge –. Mi trovavo davanti alla sacrestia. Feci appena in tempo a varcare il cancello della Cappella che mi ritrovai con la canna di una pistola puntata al-
la tempia». È il terzo uomo a
prendere in ostaggio la guardia: «Disse solo: “Stai fermo,
non muoverti” – ricorda ancora Damonte –. Quattro parole che rammento ancora in
maniera nitida. Con la coda dell’occhio riuscii a vedere che la pistola era chiara e
lucida. Raccontai, in seguito,
questo particolare agli inquirenti che mi chiesero se avessi già avuto a che fare con le
armi visto che l’avevo descritta nel dettaglio». Ma Damonte non ha mai avuto dimestichezza con le armi. È sempre
stato un intellettuale, convinto difensore di democrazia
e uguaglianza. Proprio per
questo qualche anno prima
era stato costretto a lasciare
in fretta e furia il suo Paese,
Autori della rapina
Sono in quattro:
Andrea Zammattio,
Andrea Batacchi
e Stefano Galletto
(nell’illustrazione
di Luca Salvagno),
ai quali si aggiunge
Giulio Maniero, che
li attende a bordo di
un’auto rubata. Nella
pagina accanto, Jorge
Damonte, la guardia
tenuta in ostaggio e,
nel riquadro, il direttore
padre Ugo Sartorio.
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1991 – 2011. rapina del mento
Sdegno
e incredulità
Questi i sentimenti dei
devoti alla notizia del
furto che fece il giro del
mondo (sotto, la prima
pagina di un quotidiano
locale dell’11 ottobre
1991). Al centro,
il reliquiario del Mento.
Nella pagina accanto,
il magistrato Francesco
Saverio Pavone e,
nel riquadro, padre
Luciano Bertazzo.
l’Uruguay, per evitare la cattura a causa del suo impegno
contro la dittatura. «Mi sembrava tutto così irreale, come
se stessi vivendo la scena di
un film – racconta –. In quei
minuti, sette-otto al massimo, non mi sono reso conto
di nulla. La tentazione era di
reagire, ma continuavo a ripetermi che non dovevo farlo. Paura? No, quel bandito,
che con la destra mi puntava
la pistola e con la sinistra mi
teneva bloccato, era tranquillo, sicuro di sé, un professionista e non un malvivente
maldestro e avventato. Non
gli interessava farmi del male. Non era quello il suo scopo. Lui voleva solo rubare la
Reliquia». Sul posto nel frattempo giunge anche fra Claudio Gottardello, all’epoca custode della Basilica. «Ricordo
il gran parapiglia. Con altri
confratelli corsi verso la Cappella del Tesoro. Tutto avremmo pensato ma mai, davvero, che si arrivasse a tanto.
Fu come un fulmine a ciel sereno – ricorda fra Gottardello che oggi vive nel convento di San Pietro di Barbozza
(Treviso) –. Chi poteva avere
interesse a compiere un gesto
simile, e perché? Me lo sono
chiesto per tanto tempo, senza trovare spiegazioni». La
prima telefonata di fra Claudio è al rettore del Santuario
antoniano che, quel giorno, si
trova fuori sede per un convegno. Padre Baldassa rientra poche ore dopo. Per tutta
la notte resta incollato al telefono, l’unico esistente all’epoca, che si trova nella portineria del convento.
Autori
e mandanti
«Per lungo tempo questo grave atto sacrilego rimase impunito – spiega Francesco
Saverio Pavone, il magistrato
che, insieme ai colleghi Michele Dalla Costa e Antonio
Fojadelli, ha cercato per più
di un decennio di sgominare
la mala del Brenta –. Almeno
fino a quando, tra la fine del
1994 e gli inizi del 1995, lo
stesso Maniero, catturato doMessaggero
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po la famosa evasione nella
notte tra il 13 e il 14 giugno
1994 dalla casa di reclusione
di Padova, si deciderà a collaborare con la giustizia. Maniero è una persona estremamente furba, intelligente, carismatica. Non lascia nulla al
caso. Egli ha reso un’ampia
collaborazione che ha portato allo sfaldamento della
banda nota come “Mafia del
Brenta”».
Pavone è il giudice istruttore che ha il coraggio di chiamare fatti e persone col loro
nome. È il primo che muove,
nei confronti della mala del
Brenta, l’accusa di «associazione a delinquere di stampo
mafioso». Un’accusa mai formulata in precedenza, tanto
che, proprio nel 1994, prima
della lettura della storica sentenza, venne addirittura contestata da alcuni pubblici ministeri che non ne capirono la
portata innovativa e, per certi versi, dirompente, non credendo possibile il fenomeno
di una mafia al Nord. Ma alla
fine la sentenza è inequivocabile: mandante della rapina, Maniero; autori materiali Zammattio, Batacchi, Galletto e Giulio
Maniero. Ad eccezione di Batacchi, gli altri imputati ammettono l’addebito e
PADRE LUCIANO BERTAZZO
Le Reliquie, memoria e presenza
per questo fatto tutti, Maniero incluso, sono riconosciuti
colpevoli dei reati di rapina
aggravata, porto e detenzione di armi in luogo pubblico
e furto dell’autovettura utilizzata per la fuga.
A patti
con lo Stato
A chi può interessare il furto di una Reliquia? Se lo chiederanno in tanti, senza trovare una risposta plausibile, nei
giorni successivi alla diffusione della notizia che fece il gi-
Il furto della Reliquia ha avuto anche un
valore simbolico per i devoti e per la città
di Padova, come testimonia padre Luciano
Bertazzo, dal 1985 direttore del Centro studi
antoniani.
Msa. Che ricordo ha di quell’avvenimento?
Bertazzo. Un ricordo molto vivido. Alle
cinque di quel pomeriggio, un’ora prima
del furto, avevo parlato con il custode della
Basilica per un progetto di catalogazione
delle oreficerie del Santo. Una strana
coincidenza e uno strano furto, tutt’ora
non del tutto chiaro. Un atto, credo,
anche stupido, almeno dal punto di vista
dell’oggetto in sé, visto che si trattava di
un reliquario in bronzo dorato, con scarso
valore economico e, per di più, difficile da
cedere, perché troppo conosciuto a livello
internazionale. La motivazione storica più
accreditata è che si sia trattato di un atto
dimostrativo della banda Maniero per
ribadire il proprio potere.
Che cosa rappresentano per i fedeli
le Reliquie antoniane?
Le Reliquie antoniane, come tutte le Reliquie
dei santi in genere, sono una parte concreta
e visibile della santità. Il loro culto, che ha
conosciuto uno sviluppo particolare proprio
nel mondo occidentale, ha significato nei
secoli la possibilità di impossessarsi di questa
santità o, almeno, di poterla avere vicina. Le
Reliquie sono memoria e presenza al tempo
stesso, il segno tangibile della santità di un
uomo che si invoca per lla sua amicizia con
Dio. Sono una garanzia e una sicurezza.
Non c’è il rischio che il culto delle Reliquie
diventi quasi un rituale magico?
La storia delle Reliquie occupa un capitolo
importante della storia della devozione
popolare. Venendo all’oggi, io penso che la
Reliquia abbia perso il significato che aveva
nei secoli passati. C’è stata un’evoluzione
della devozione popolare, anche se rimane
fisso il tema del toccare, di avere una parte
della santità, con il rischio che la Reliquia
diventi un feticcio o un amuleto.
C’è chi giudica questa devozione
anacronistica.
L’ Ostensione del corpo del Santo, avvenuta
lo scorso anno, dimostra che c’è ancora una
grande domanda di incontro con la memoria
della santità. In questi ultimi anni, forse
proprio a partire dal successo strepitoso
che ebbe il passaggio di una Reliquia di
sant’Antonio in diverse parti del mondo
nel 1995, in
occasione
dell’ottavo
centenario
della nascita del
Santo, il ricorso
a percorsi
itineranti delle
Reliquie si è
esteso anche
ad altri corpi
di santi. Il
toccare la Reliquia significa ancor oggi vivere
un momento intenso, di devozione e di
preghiera. È chiaro che c’è sempre il rischio
dello sconfinamento, ma molto dipende
anche da come viene gestito questo tipo
di devozione, se potenziando l’aspetto
magico oppure quello della conversione o
dell’impegno a rinsaldare il proprio progetto
di vita cristiana.
Rispetto al valore simbolico, che cosa ha
significato il furto di una Reliquia così
importante come quella del Mento?
Nell’immediato ha provocato stupore e
offesa tra i padovani, che lo hanno vissuto
come un attacco sacrilego al loro Santo
ma anche a Padova, visto che la Basilica è
un luogo-simbolo della città. Oltretutto si
trattava di una Reliquia insigne; il Mento,
come del resto la Lingua ospitata in un altro
reliquiario, è una di quelle Reliquie che san
Bonaventura ha rinvenuto praticamente
intatte nel 1263, trentadue anni dopo la
morte del Santo, nel corso della prima
ricognizione del corpo. Il ritrovamento della
Lingua, con la quale Antonio annunciava
la Parola di Dio, perfettamente conservata,
divenne un segno prodigioso, ricco di
valore simbolico, che ricordava il ruolo di
predicatore eccellente che Antonio aveva
avuto agli inizi dell’ordine francescano.
Un ruolo che ormai faceva parte della sua
bioagiografia.
Si è trattato di un oltraggio simbolico,
non solo nei confronti del corpo fisico,
ma anche della memoria, del modo in cui
sant’Antonio era ed è rappresentato.
Sì, lo possiamo leggere anche così. Anche se
credo che chi ha compiuto un gesto tanto
stupido non avesse i mezzi per coglierne il
valore simbolico. Di fatto il reliquario tornò
quasi intonso, eccezion fatta per un leoncino,
tra l’altro un’applicazione postuma.
Giulia Cananzi
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1991 – 2011. rapina del mento
Ilvo Diamanti*
1991: il contesto sociale
Msa. Professor Diamanti,
com’era il Veneto di
vent’anni fa?
Diamanti. È il periodo nel
quale nasce e si afferma il
mito del Nordest. Fino a
quel momento, in realtà,
non è che il Veneto fosse
fermo, anzi, lo sviluppo
economico di quest’area
stava affermandosi in
modo veloce almeno da
una ventina d’anni, però
era poco visibile.
Per quale motivo?
Si trattava di uno sviluppo
di piccola impresa, diffuso,
quindi difficilmente
percepibile, senza un
evento scatenante preciso.
Sino ad allora si era
abituati a uno sviluppo
di altro tipo, basato sulla
grande impresa e sulle
concentrazioni, anche
urbane. Tra gli anni ‘80 e
‘90 ci si accorge di ciò che
sta avvenendo. E questo
riguarda anche gli stessi
abitanti del Nordest, i quali
fino a quel momento non
avevano adeguato i propri
stili di vita a quelli di una
società opulenta.
Nei primi
anni ’90
tutto questo
cambia, la
ricchezza
diventa molto
evidente.
E questa
tendenza
viene
amplificata
dalla caduta
del muro
di Berlino,
evento che
trasforma
il Triveneto
da area di
confine a
zona di passaggio, crocevia
obbligato rapido e veloce
per le imprese, i mercati
e i flussi migratori. Nei
primi anni ’90, dunque,
assistiamo, insieme
con il rivolgimento in
campo politico che ha
portato al crollo della
Prima repubblica, non
a caso all’indomani
della caduta del muro,
anche alla rivoluzione
economica che trasforma
la dimensione piccola da
limite in risorsa visibile e
rende consapevole anche
quest’area.
Perché questo aspetto è
così importante?
Non è un caso che proprio
in questa realtà si realizzi
il rovesciamento del
sistema politico che
caratterizza la cosiddetta
Seconda repubblica. Un
rovesciamento accelerato
dalla scomparsa rapida
della Dc e dall’affermarsi
dell’altro soggetto
politico che, insieme
a Berlusconi, sarà
protagonista della caduta
della Prima repubblica:
la Lega. La Lega, infatti,
nasce nel Nordest degli
anni ’80 come Liga, lega
regionalista, anche se poi
è «monopolizzata»
dalla Lombardia
in seguito alla
centralità
acquisita da
Bossi. La Lega
è il fenomeno
politico che dà
visibilità alla
«rivoluzione»
economica in
atto: la nascita
di un ceto medio
privato, di piccola
impresa.
giovanni giovannetti / olycom
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Come cambia il contesto
religioso?
Nel quadro fin qui
descritto, si assiste anche
a una secolarizzazione
profonda. La «sacrestia
d’Italia», come veniva
chiamato il Veneto,
smette di essere tale
perché c’è una sorta
di autonomizzazione
perfino dalla fede. Si
crea così un fenomeno
definito di «religione
senza Chiesa»: rimangono
solo alcuni elementi di
tipo etico (il valore della
tradizione, della famiglia,
della comunità…) che si
trasformano in una sorta di
morale sociale. Assistiamo
quindi all’affermarsi di
una religione senza Dio,
che trova un’interprete
nella Lega. La Chiesa,
a sua volta, acquista
sempre maggior peso a
livello sociale ma come
organizzazione. Di queste
tendenze la devozione
a sant’Antonio e alle sue
Reliquie è un segno, un
simbolo il cui rilievo va
oltre la fede. Per certi
versi non è un caso che
anche questo passaggio
sia scandito dal furto del
Mento del Santo, episodio
che sottolinea il valore
materiale e religioso delle
Reliquie. L’interesse della
mala del Brenta pone
in evidenza il valore di
mercato che in un certo
senso questo simbolo ha e
non soltanto per chi crede.
Sabina Fadel
*docente di Scienza
e comunicazione politica
all’Università di Urbino e di
Politica comparata a Parigi 2
ro del mondo. Gli inquirenti
brancolano nel buio: la Reliquia non ha un valore monetizzabile e, soprattutto, non è
vendibile. Chi può avere interesse a entrarne in possesso?
In quelle fasi concitate si accavallano ipotesi, le più diverse:
dal furto su commissione di
qualche collezionista a quello
finalizzato a riti esoterici.
«Si scoprì in seguito che lo
scopo del furto sacrilego era
duplice – prosegue il giudice Pavone –. Il reato venne
commesso nella prospettiva
di poter trattare con le autorità la liberazione di Giuliano Rampin, cugino di Maniero, all’epoca dei fatti in carcere per reati di droga, e per ottenere la revoca della sorveglianza speciale che era stata applicata a Felice Manie-
Il mito del Nordest
La rapina avviene
in un contesto di rapido
sviluppo economico
e crescente ricchezza,
come sottolinea
il professor Ilvo
Diamanti (nella pagina
precedente). In basso,
Monica Zornetta,
autrice del libro La resa
in cui si parla anche
dell’atto sacrilego.
grand tour collection / corbis
ro. Entrambe le richieste non
andarono in porto, in quanto
non possono essere consentite da alcun magistrato trattative su richieste di tal genere».
La rapina in Basilica segna un
cambio di rotta nella strategia
criminale della banda Maniero. Non più rapine in villa,
nei laboratori orafi o ai caveau
di grandi hotel, come il Des
Bains al Lido di Venezia, finalizzate solo a far soldi. La nuova tipologia di reati ha scopo
estorsivo e vuole costringere
le istituzioni a scendere a patti: io ti restituisco quell’oggetto dal valore inestimabile in
cambio di benefici che possono essere la liberazione di
un sodale, uno sconto di pena, la fine di misure restrittive. Maniero anticipa, in ver-
sione provinciale, una modalità mai sperimentata fino ad
allora dal crimine organizzato. La stessa, per molti aspetti, utilizzata nell’attacco sferrato dalla mafia alle istituzioni con le stragi del 1993: a Firenze, in via dei Georgofili,
poco lontano dagli Uffizi, e a
Roma, di fronte alla chiesa di
San Giorgio al Velabro. L’Italia viene colpita al cuore nei
luoghi simbolo della sua arte
e della sua storia.
La passione
per l’arte
«Per la banda Maniero – sottolinea la giornalista Monica
Zornetta –, come ebbe a dichiarare lo stesso boss, le rapine, inclusa quella in Basilica, sono “l’attività più reddi-
tizia dopo la droga”. Un’attività proseguita poi, non
a caso, fino alla fine dei
giorni dell’organizzazione».
Monica Zornetta conosce molto bene la storia
di Felice Maniero e della mafia del Brenta. A
lui e alla sua banda ha
infatti dedicato alcuni volumi che fanno luce su questa e altre storie
di criminalità e
mafia in Veneto:
da A casa nostra,
scritto con Danilo Guerretta, fino a
La resa. Ascesa, declino e «pentimento» di Felice Maniero,
entrambi per Baldini Castoldi Dalai.
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1991 – 2011. rapina del mento
Ore di ansia
Sono quelle precedenti
al ritrovamento,
avvenuto il 20 dicembre
1991 come racconta
l’allora rettore padre
Olindo Baldassa
(nella foto in basso).
Al centro, un’immagine
dell’epoca: il rientro
solenne della Reliquia.
A pagina seguente,
la locandina del film
«La Lingua del Santo»
per la regia del
padovano Carlo
Mazzacurati (sotto).
«“Felicetto” apprezza molto
l’arte contemporanea e anche
quella antica. Da sempre le
opere d’arte esercitano su di
lui un grande fascino, al punto che si può parlare di una
vera e propria “fissazione” –
afferma la giornalista –. Conosce, più di altri, quanto valore esse abbiano, al di là di
quello puramente monetizzabile. E sa altrettanto bene la
grande risonanza che il trafugamento, di un Velázquez
o di una Reliquia può avere,
addirittura in tutto il mondo». Una passione per l’arte
iniziata ancora sui banchi di
scuola. A Felicetto non piace studiare. Porta a casa una
sfilza di voti bassi in tutte le
materie, tranne in educazione artistica e musica.
«Uno spirito creativo dietro un’irrequieta incostanza, che i professori riescono
però a cogliere, tanto che lo
premiano con un 8 e un 7 in
pagella». Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà
degli anni Novanta, Maniero è al culmine del suo potere
criminale. «Il boss – prosegue Zornetta – si diletta egli
stesso a dipingere. Ha un vero e proprio debole per Salvador Dalì di cui, all’epoca, custodisce in casa una preziosa china. E per Mario Schifano che, intorno al 1992, sarà
addirittura ospite nella villa
bunker di Campolongo Maggiore (Venezia) per insegnargli tecniche e trucchi della
sua “pop art”».
Il Santo
«ritrovato»
«Erano da poco passate le nove di mattina del 20 dicembre quando sentii squillare il
telefono». Il racconto vivido
e puntuale è di padre Olindo Baldassa. Oggi vive nel
convento di San Francesco a
Brescia: all’epoca era rettore
della Basilica da pochi mesi.
Nell’opuscolo pubblicato per
i cinquant’anni di sacerdozio,
il primo dei ricordi è proprio
quello. «Ogni volta che alzavamo la cornetta il desiderio
di tutti era di ricevere la notizia tanto attesa del ritrovamento. Capitò a me. Ricordo
ancora, era venerdì. Ricordo
anche le parole dei carabinieri di Prato della Valle: “Padre,
hanno ritrovato la Reliquia. È
stata recuperata a Roma”».
La prima notizia Ansa sul ritrovamento viene battuta alle
10.50. I dettagli sono scarni.
«Roma, 20 dic. 10.50. La Reliquia di sant’Antonio è stata ritrovata nei pressi di Fiumicino dai carabinieri per la
tutela del patrimonio artistico guidati dal colonnello Roberto Conforti. La Reliquia,
trafugata dalla Basilica della
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città veneta, stava per essere
trasferita all’estero».
A mezzogiorno, nella capitale, i carabinieri indicono una
conferenza stampa per illustrare i dettagli dell’operazione. Poi la Reliquia vola direttamente a Padova scortata
dai militi dell’Arma, in testa
il comandante generale Antonio Viesti. Sarà egli stesso
a consegnarla ai frati nel corso della celebrazione solenne
di domenica 22 dicembre. La
città è in festa per il Mento ritrovato pochi giorni prima di
Natale. Le campane risuonano per l’intera città. Quella
domenica una folla immensa
giunge in Basilica per pregare davanti al Mento del Santo.
Una festa a metà per i carabinieri. Il pomeriggio del giorno prima, infatti, il brigadiere Germano Craighero, 30
anni, sposato con due figli,
era morto nelle campagne di
Piazzola sul Brenta (Padova),
ucciso dal cosiddetto «fuoco
amico».
Ma la Reliquia, nonostante
quello che si era fatto credere
per tutto quel tempo, non era
mai uscita dal Veneto. «Nel
carlo mazzacurati
«La Lingua del Santo»
contesto di questa attività investigativa, quando ancora le
indagini erano in alto mare,
si inserirono i carabinieri del
Nucleo tutela patrimonio artistico, allora comandati dal
colonnello Roberto Conforti
– spiega il giudice Pavone –.
Tramite Alfredo Vissoli, personaggio che, all’epoca, aveva
rapporti con Giuliano Ferrato per ricettazione di oggetti di valore rubati, riuscirono
a recuperare la Reliquia, facendo apparire che la stessa
fosse stata ritrovata nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino
in partenza per il Sudamerica.
Al contrario, la Reliquia non
era mai stata portata fuori dal
Veneto in quanto sepolta, subito dopo il furto, lungo un argine nella zona del Brenta e
poi fatta trovare in un cassonetto delle immondizie a Ponte di Brenta, alla periferia nordest di Padova. Per questo falso ideologico in atto pubblico furono arrestati sia i marescialli La Gravinese e Tarantino sia il colonnello Conforti, in seguito assolto in giudizio, mentre i due sottufficiali
furono condannati».
Nel suo film La Lingua del Santo,
presentato nel 2000 alla Mostra
del Cinema di Venezia, il regista
padovano Carlo Mazzacurati narra
le vicende tragicomiche di Willy e
Antonio, interpretati, rispettivamente,
dagli attori Fabrizio Bentivoglio
e Antonio Albanese. Due ladri
maldestri che rubano, dalla Basilica
di Padova, la reliquia della Lingua
di sant’Antonio. Il problema è come
ottenere un riscatto senza essere
acciuffati.
Msa. Lei è stato ispirato dai fatti di
cronaca oppure la trama nasce da un’idea originale
che aveva già avuto in precedenza?
Mazzacurati. Non c’è nessuna analogia tra i personaggi
che io racconto nel film e quelli del fatto di cronaca.
Certo, mi ha ispirato l’idea che due persone potessero
impossessarsi di una Reliquia. Il film non ha, comunque,
niente a che vedere con la mala del Brenta.
Ciò che accade nel suo film richiama un certo modo di
vivere all’epoca. È vero che il denaro era tutto? E chi
non ce l’aveva, non era nessuno?
Seppure amplificato dai mass media, effettivamente era
quello, per certi aspetti, il clima che si respirava allora.
La crisi economica che viviamo adesso non era ancora
iniziata. E c’era la sensazione diffusa che un’area dell’Italia,
definita approssimativamente come quella del Nordest,
aveva saputo, meglio di altre, generare profitto.
Il mio film racconta, in modo un po’ paradossale,
questo fenomeno, attraverso le vicende umane di due
«poveracci» incapaci di adeguarsi al sistema.
La cinematografia recente – lo abbiamo visto anche
all’ultima Mostra del Cinema di Venezia – sembra
privilegiare i temi dell’immigrazione, delle difficoltà
d’integrazione e del multiculturalismo. Nel frattempo,
negli undici anni trascorsi dall’uscita de La Lingua
del Santo, è cambiato anche il Nordest.
Come, secondo lei? In meglio o in peggio?
Sicuramente la situazione è molto più
complessa, anche in relazione al quadro
economico globale che si è riflesso
inevitabilmente sull’Italia e, ovviamente,
pure sul Nordest. E le conseguenze si
stanno sentendo. Così anche il processo
d’integrazione sta subendo questa crisi.
Purtroppo i mass media vengono usati
come mazze da baseball, a volte per
creare, in modo indotto e artificiale,
delle sensazioni di paura e di pericolo
sproporzionate.
La politica, purtroppo, è stata spesso
assente di fronte a questi fenomeni.
Alessandro Bettero
Rose rosse
dal carcere
La rapina del Mento del Santo è uno dei tanti crimini che
compaiono negli atti del maxiprocesso contro la mafia
del Brenta iniziato nel 1994.
Maniero e la sua banda rispondono di reati, commessi
tra il 1984 e il 1994, come associazione mafiosa e rapine,
detenzione e traffico internazionale di stupefacenti, evasioni dal carcere, sequestro
di persona, presunta corruzione di rappresentanti delle
forze dell’ordine, rapine e omicidi. Tra tutti, il
più sanguinoso
è l’assalto al treno Milano-Venezia avvenuto
nel 1990 all’altezza di Vigonza, nella campagna padovana,
in cui morì la
studentessa universitaria di Conegliano Veneto
(Treviso) Cristina Pavesi.
Messaggero
di
ottobre 2011
sant
’Antonio
| 39
dossier
società
1991 – 2011. rapina del mento
carlo lucarelli
La banalità malata del male
Presentare Carlo Lucarelli significa fare i
conti con una tavolozza di colori. Si parte dal
giallo, perché Lucarelli nasce come scrittore
di romanzi e racconti a sfondo poliziesco,
con molte frequentazioni nel più cupo
sottogenere noir. Il nero torna anche come
aggettivo della «cronaca nera», di cui l’autore
bolognese è uno dei più rigorosi indagatori.
Oltre che con la penna, ha dimostrato il suo
talento di investigatore dei misteri di casa
nostra ideando e conducendo per la Rai Blu
notte, la trasmissione con la quale è diventato
noto al grande pubblico. Una delle ultime
puntate andate in onda – rivedibile su www.
lucarelliracconta.rai.it – è dedicata proprio
alla mala del Brenta.
Msa. Nella vicenda della rapina della
Reliquia di sant’Antonio qualche ombra
rimane. Lei che idea si è fatto?
Lucarelli. L’episodio rientra nel metodo
della criminalità organizzata di depredare
il patrimonio dello Stato e della Chiesa in
modo da fare pressioni e ottenere benefici.
Tutta la vicenda Maniero ha sempre
mantenuto delle ombre che sarebbe stato
meglio dileguare fino in fondo per fugare
ogni dubbio.
In questi mesi si fa un gran parlare di
una possibile trattativa tra Stato e mafia
siciliana negli anni ‘90. C’è stata, a suo
parere, una trattativa tra Stato e mafia del
Brenta?
Difficile a dirsi, ma è un’ipotesi possibile.
Anche la trattativa tra mafia e Stato: io
credo sia molto possibile, ma attualmente è
un’ipotesi al vaglio degli inquirenti. Tra l’altro,
la dinamica sarebbe la stessa, ovvero un
negoziato provocato da un uso spregiudicato
e quasi terrorista del
patrimonio artistico. Se
la trattativa è plausibile,
forse dobbiamo pensare
che lo fosse anche ai
tempi di Felice Maniero.
Sono quelle famose
ombre che sarebbe
bene dissipare.
Come spiega
il fascino che
Maniero e
figure come lui
esercitano nel
pubblico?
La cronaca
nera, la metà
lapresse
Messaggero
40 |
di
sant
’Antonio
ottobre 2011
oscura, ha sempre colpito di più: il male
incuriosisce perché spaventa, è eccezionale,
in senso negativo chiaramente. Altrettanto
eccezionale è la vita di un poliziotto, ma da
un punto di vista narrativo ti appassiona di
meno. Non ti chiedi perché un uomo fa il suo
dovere: lo fa perché è giusto così. Ti domandi
piuttosto: perché quell’uomo non è una
brava persona? Perché Maniero ammazza
la gente e un altro salva i bambini? Che uno
salvi i bambini è fantastico ma «normale»:
è la banalità del bene. Invece: possibile che
a qualcuno venga in mente di ammazzarli?
Sfruttare questa curiosità per capire significa
studiare il male per riuscire a combatterlo. Il
problema è che molte volte la curiosità viene
usata superficialmente sia dai media che dai
narratori, e allora rimane soltanto il fascino
del male, uno shock emotivo fine a se stesso.
Ma quella è un’altra cosa, è pornografia
criminale.
Nella sua trasmissione, dalle interviste ai
compagni di Maniero si ricava piuttosto
l’impressione della banalità del male:
gli omicidi sono raccontati con grigia
piattezza.
È così. La banalità del male è la scoperta che
fai quando cominci a chiederti il perché di
certe cose. Abbiamo lasciato apposta parlare
i sodali di Maniero in quella maniera così
fredda e agghiacciante. Molti spettatori ci
hanno scritto: come si permette quello di
parlare di gente uccisa come se bevesse un
bicchiere d’acqua? Se l’avesse raccontato in
modo più epico, come in un film, sarebbe
stato diverso. La realtà è invece molto più
banale, ed è quello che fa paura.
Magari si può essere attratti da uno come
Maniero. Poi lo senti parlare e scopri che
dietro il male c’è solo una banalità malata.
Allora il male non è più scenografico ma
squallido. Altro che fascino. Per arrivare
a questa consapevolezza però bisogna
approfondire, non trattare i «cattivi» come
fossero personaggi e basta. Ci vuole una
cautela particolare.
Resta la domanda: come ha fatto Maniero a
mettere in piedi un impero simile tra Venezia,
Padova e Ferrara? Vuol dire che noi cittadini
non siamo stati così attenti da fermarlo
subito. Quando cominci a chiederti come è
successo sei sulla buona strada. E al di là del
fatto che la mafia del Brenta non ci sia più,
bisogna continuare a vigilare.
Alberto Friso
A presiedere quello che viene definito uno dei processi più imponenti mai messi in piedi fino ad allora è il
giudice Graziana Campanato. Il processo contro la mala
della Riviera del Brenta trova
spazio – è la prima volta che
accade – nell’aula bunker di
Mestre (Venezia). Ogni giorno vengono spostate, con rischi non indifferenti, centinaia di imputati rinchiusi in
vari istituti di pena.
Nominata nel luglio 2010 presidente della Corte d’Appello
di Brescia, Graziana Campanato è stata una delle prime
donne a intraprendere la carriera in magistratura (fino al
1963 riservata agli uomini).
Tra i processi più importanti, quello celebrato a Padova
contro Autonomia Operaia e
Toni Negri e quello contro i
venetisti, guidati da Fausto
Faccia, che scalarono il campanile di San Marco a Venezia. «Nel maxiprocesso – afferma il giudice Campanato
– non è stato affrontato l’epi-
sodio della rapina del Mento.
Dunque, non me ne sono occupata direttamente, ma ho
letto le carte. La circostanza
venne a galla in seguito, dopo che Maniero la rivelò nella sua confessione. Ha usato
una strategia molto pagante, davvero ingegnosa per costringere lo Stato a scendere
a patti. Del resto, ricordiamo
che aveva in busta paga uomini delle forze dell’ordine».
Graziana Campanato ha conosciuto il boss oltre che come imputato nel «processone» anche come collaboratore di giustizia. «È un personaggio del crimine, con il carisma di un leader, con una
straordinaria capacità aggregativa, perfettamente in grado di intrattenere rapporti
con personalità di spicco della criminalità e con la mafia.
Godeva della fama di uomo
raffinato, amante delle cose
belle, del lusso e dell’arte, ma
non dimentichiamo che è stato un assassino, e dei più feroci e spietati. L’unica debolezza che gli si può attribuire è la
dipendenza dalla madre: a lei,
solo per fare un esempio, inviava ogni anno un mazzo di
rose rosse dal carcere in occasione della festa della mamma. Un altro punto fermo della sua vita è la famiglia. Nei
Tra fiction e realtà
Al centro, l’attore Elio
Germano che interpreta
Maniero nella fiction
a lui dedicata, nella
quale Katia Ricciarelli
(nel riquadro) ha il ruolo
della madre. Pagina
precedente: lo scrittore
Carlo Lucarelli.
la fiction
Katia Ricciarelli, una mamma importante
Mamma di un criminale per fiction, cantante di professione
e attrice per passione. Da qualunque lato la si guardi, Katia
Ricciarelli, con i suoi riccioli biondi e gli occhi cobalto che ti
fissano gentili, emana energia e sicurezza. Non c’è da stupirsi se
il regista Andrea Porporati l’ha voluta nel cast della sua ultima
fatica Faccia d’angelo, fiction targata Sky (in uscita a inizio 2012)
sulla vita di Felice Maniero. E così l’attrice, nata a Rovigo
nel 1946, lo scorso febbraio è tornata in Veneto per vestire
i panni di Lucia Carrain, la madre di Maniero, interpretato
da Elio Germano (nella foto, in una scena del film).
Msa. Come si è preparata per entrare nel personaggio?
Ricciarelli. Non avendo conosciuto la signora Carrain, il lavoro
è stato abbastanza complesso. Ho
cercato di ricostruire il personaggio
dagli atti dei tribunali. E poi,
d’accordo col regista, l’ho arricchito
con un pizzico di ironia per evitare
che ne uscisse una donna troppo
rigida.
Che influenza ha esercitato
mamma Lucia nella vita di Felice
Maniero?
Una grossa influenza. A quanto mi
risulta, ancora oggi, madre e figlio vivono da qualche parte
del mondo insieme.
Lei nasce cantante, ma ormai si è conquistata il titolo
di attrice a tutti gli effetti...
È vero, io nasco cantante e quasi mi vergogno a definirmi
attrice. Recitare per me non è una professione, ma un grande
piacere. A breve inizierò le riprese di una fiction diretta da Pupi
Avati per Raiuno. Al centro della vicenda, il tema della famiglia.
Qual è il suo rapporto con la fede?
Ora sono molto devota, ma il mio avvicinamento alla fede
è stato tardivo. Ho vissuto un’infanzia incentrata sulla lotta
per la sopravvivenza, non c’era tempo per la religione.
Che rapporto la lega a Padova e in particolare
a sant’Antonio?
Ho cominciato a venire a Padova quando avevo sedici anni.
In Basilica del Santo sono stata molte volte, ancora oggi
quando mi trovo nei paraggi faccio un salto in giornata.
Ma, considerato che il mio lavoro mi costringe a viaggiare
molto, non si tratta mai di un appuntamento fisso.
Rapine, omicidi e sequestri ormai sono all’ordine del giorno
in tv e sul grande schermo. Ma così non si corre il rischio
di diseducare le nuove generazioni?
Oggi l’offerta sullo schermo è a 360 gradi: sta a noi scegliere.
Anche se suscita sempre un po’ di attrazione, il male non si può
nascondere. Quel che serve è il coraggio di valutare e decidere
cosa vale la pena di vedere e cosa invece no. Un bambino
non può ancora compiere questa scelta, ma le persone
che gli stanno vicine devono farla per lui.
Luisa Santinello
Messaggero
di
ottobre 2011
sant
’Antonio
| 41
dossier
società
1991 – 2011. rapina del mento
Il paese dell’ex boss
«Noi siamo altro»
C
ampolongo
Maggiore, il
comune della
campagna veneziana che
ha visto nascere e crescere
il boss e i suoi traffici, a
tanto tempo di distanza
fatica a svincolarsi
dall’etichetta «paese
natale di». «Noi siamo
altro» dicono adesso a
Campolongo Maggiore.
A testa alta, specialmente
i giovani.
Il prima
La leggenda racconta
di un ragazzo del
posto, carismatico e di
bell’aspetto, che girava
sempre elegante a bordo
di auto potenti. Che apriva
il cancello della sua villa
– dai millantati bagni
con i rubinetti d’oro – ai
bambini del paese, liberi
di sguazzare nell’acqua
della sua piscina.
«Personalmente non ci
sono mai stata. Maniero si
circondava delle persone
che condividevano le sue
avventure. Per gli altri, per
la gente normale, la villa
era off limits, un posto da
non avvicinare».
È Oriana Boldrin,
presidente
Messaggero
42 |
di
sant
’Antonio
ottobre 2011
dell’associazione culturale
“Mondo di carta” e
volontaria che cura la
cultura della legalità per
conto del Comune, a
spiegarci com’è cambiato
il paese. «Della rapina
della Reliquia del Santo
abbiamo saputo dai
telegiornali. L’avvenimento
ha lasciato sbigottita
l’intera popolazione,
non solo quella che
frequentava la chiesa: ci è
parso incredibile che una
cosa così grave fosse stata
architettata da persone di
Campolongo. Sapevamo
della malavita in altre parti
d’Italia, non sospettavamo
di averla in casa».
Il dopo
Dal 1995 villa Maniero,
unico bene confiscato
al boss della mala del
Brenta, è patrimonio
comune. Prima utilizzata
come centro di ritrovo
per anziani, oggi è gestita
dall’associazione «Affari
puliti» e ospita giovani
imprenditori che, all’inizio
dell’attività lavorativa,
possono godere di affitti
agevolati. Le abitazioni
di altri due sodali di
Maniero sono diventate
rispettivamente centro
sociale per il sostegno a
persone con disagi psichici
e per il ritrovo dei giovani
del paese, e sede di alloggi
per famiglie in disagio
economico.
«A Campolongo non si è
soltanto voltato pagina,
ma si è cambiato libro –
sottolinea la professoressa
Boldrin, insegnante in una
scuola superiore –. Dove
la mafia ha attecchito
una volta, trova radici
più facili cui aggrapparsi.
Noi non lo vogliamo,
perciò cerchiamo di offrire
opportunità ai nostri
ragazzi. “Mondo di carta”,
spesso in collaborazione
con “Libera”, organizza
incontri con autori che
si occupano di mafia.
All’inizio nessuno voleva
venire a parlare nel nostro
paese. L’apripista e il
garante è stato il giudice
Francesco Saverio Pavone.
È venuto di persona e,
dopo lui, tanti altri: Carla
Del Ponte, per esempio,
e la sorella di Giovanni
Falcone». Dallo scorso
febbraio, secondo in Italia,
il Comune ha aperto lo
«Scaffale della legalità»,
con pubblicazioni,
documenti, dvd che
trattano di legalità, di
diritti umani e di mafie
nel mondo. E ogni anno, a
giugno, si svolge la «Festa
della legalità», evento
pubblico con i magistrati
che si sono occupati del
fenomeno della mafia
veneta. A loro il compito
di premiare i giovani
vincitori del concorso
letterario nazionale
intitolato a Cristina Pavesi.
Cinzia Agostini
confronti dei magistrati ha
sempre tenuto un comportamento rispettoso: non contestava mai quanto gli veniva
detto e non si è mai atteggiato a vittima. Quando era collaboratore non ebbe privilegi di alcun tipo. In quel periodo utilizzava i suoi denari,
e non quelli dello Stato. Beni
che ha dimostrato di saper tenere ben nascosti. Maniero ha
rivelato tante e indubbie capacità che – ne sono personalmente convinta –, se non
fossero state usate nella sua
azienda del crimine, l’avrebbero fatto diventare un imprenditore di successo».
Il Santo
«restituito»
Oggi Felice Maniero ha chiuso il suo conto con la giustizia. Lo Stato gli ha confiscato
un unico bene, la villa bunker di Campolongo Maggiore.
Dal 23 agosto dello scorso anno, dopo la scadenza dell’ultima misura restrittiva a suo
carico, è un uomo libero. Vive in una località segreta, con
una nuova identità. Fa l’imprenditore, proprio la professione che il giudice Campanato vedeva adatta a lui. Ma la
sua attività non è più una holding del crimine. Sono molte
le cose che non rifarebbe, come dichiara. Una su tutte, diventare un boss. Maniero ha
deciso di parlare, oggi,
a vent’anni di distanza. Possiamo credere o meno sia a lui
sia al suo racconto
su quell’episodio.
Il «perché» lo
abbia fatto, accettando l’intervista del «Messaggero», lo dice lui stesso: «Per poter
riparare, anche solo per
la miliardesima parte,
al dispiacere che ho provocato
ai fedeli». Un tassello necessario, anche il suo, per ricomporre nel modo più completo, vent’anni dopo,
quel fatto e una pagina di storia mai dimenticata.
Un Santo «ritrovato», allora, dopo la
rapina del Mento.
Un Santo «restituito», oggi – ci auguriamo – ai suoi fedeli grazie anche
a questo
contributo di verità.
Una devozione
che continua
La Cappella del Tesoro
dov’è custodito
il Mento. A lato,
il giudice Graziana
Campanato, presidente
del maxiprocesso
contro la banda
Maniero. Nella pagina
accanto, la villa bunker
di Campolongo
Maggiore (Venezia),
unico bene confiscato
all’ex boss Maniero.
Messaggero
di
ottobre 2011
sant
’Antonio
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dossier
società
1991 – 2011. rapina del mento
felice maniero
«Un boss
non è un eroe»
a cura di N i c o l e t t a M a s e t t o
L’ex capo
della «mala
del Brenta»
parla, per la
prima volta,
della rapina del
Mento, rivelando
particolari
inediti.
E dice: «Non
rifarei il boss».
mimmo carriero / olycom
Messaggero
44 |
di
sant
È
uno dei protagonisti
di questa storia. Anzi,
in qualità di mandante
e regista, ne è, per certi versi, il protagonista assoluto.
Felice Maniero parla della rapina del Mento del Santo. È
la prima volta che racconta la
sua verità, a vent’anni di distanza, su quell’episodio. In
precedenza lo ha fatto solo davanti ai giudici, nel corso degli interrogatori resi durante
la «collaborazione» iniziata
nel 1994. Tra l’altro, per confermare quanto già svelato dai
sodali che l’avevano eseguita.
Maniero oggi ha la stessa
«faccia d’angelo» di allora, gli
stessi occhi vivaci e intelligenti di quand’era un criminale spietato che seminava
il terrore in tutto il Nordest.
Lo stesso volto, ma un’altra identità e una nuova vita. L’ex «boss» vive in una località segreta. Fa l’imprenditore, ha un’azienda con una
quindicina di dipendenti. Le
sue priorità sono la famiglia
e il lavoro. C’è chi continua a
non credere nel suo ravvedimento. In ogni caso ci è sembrato giusto dar voce anche
alla sua versione dei fatti.
Msa. Sono trascorsi vent’anni dalla rapina del Mento.
Perché ha deciso di parlare
per la prima volta pubblicamente di quel fatto?
Maniero. La ragione principale è quella di poter riparare, anche solo per la miliardesima parte, al dispiace-
’Antonio
ottobre 2011
re che ho provocato ai fedeli. Poi per il giornale su cui
uscirà l’intervista.
Di chi fu l’idea del furto? E
perché rubare proprio la Reliquia di sant’Antonio?
In quel momento avevo un
grave problema da risolvere:
mio cugino Giuliano era stato appena arrestato, rischiava almeno dieci anni di carcere e io non potevo sopportare una simile eventualità.
Dovevo farlo uscire di lì, in
qualsiasi modo. Avevo pensato di tutto: di farlo evadere, di
andare a liberarlo, di rubare
qualcosa di eclatante per poi
effettuare lo scambio, di corrompere qualche magistrato.
Dovevo decidere in fretta. Mi
sentivo responsabile e questa, per me, era una situazione quasi soffocante. Un giorno, mentre chiacchieravo con
Giuseppe Pastore (un fedelissimo di Maniero, ndr), lui mi
disse «Feli, il Santo a Padova!». Mi brillarono subito gli
occhi. Era una delle rarissime opere d’arte, venerata dal
mondo intero, con cui avrei
potuto chiedere lo scambio.
Senza indugi chiamai un altro mio cugino, Giulio, e altri del gruppo: Andrea Batacchi, Stefano Galletto e Andrea Zammattio.
In pochi giorni organizzai la
rapina che venne messa a segno. Ottenni quello che mi
ero prefissato. Dopo la consegna della Reliquia, Giuliano venne scarcerato.
In ballo, nella trattativa, c’era
però un’altra questione per
lei importante: la sorveglianza speciale.
All’epoca ero sottoposto alla
misura di prevenzione. Nella
trattativa, oltre alla liberazione di mio cugino, inserii la
revoca di quel provvedimento. Ma a me, in via prioritaria, interessava far scarcerare
Giuliano. Come «anticipo»
dello scambio mi venne data la possibilità di uscire da
Campolongo Maggiore per
motivi di lavoro. In seguito
avrebbero dovuto revocarmi
il provvedimento, che sarebbe scaduto entro pochi mesi.
Questa promessa non venne
mantenuta. Era prevedibile,
avevano già la Reliquia.
Di quanto accaduto quel 10
ottobre 1991 si sa più o me-
archivio / ansa
no tutto. C’è ancora qualcosa
che non è stato detto?
Un particolare, se non ricordo
male, inedito, è che io avevo
ordinato di prendere la Lingua di sant’Antonio, molto più
«sostanziale» per lo scambio.
Invece, quegli zucconi mi arrivarono con il Mento. A loro non dissi nulla. Dentro di
me, però, feci questo pensiero:
per prendere la Reliquia sbagliata, di sicuro devono aver
ritenuto, come tutti noi, che
la lingua fosse dentro la bocca. Negli intenti, e poi nei fatti, quell’azione ebbe il risalto
e l’eco voluti.
Lei conosceva il Santo prima di allora? C’era, per caso, qualche altro elemento,
ad esempio devozionale, che
legava lei o la sua famiglia a
sant’Antonio?
Tutti i miei familiari, parenti
compresi, sono cattolici praticanti, ma nessun collegamento. Sono un appassionato d’arte. Avevo già visitato la
Basilica almeno tre, quattro
volte. Non con cattive intenzioni, sia chiaro, ma solo per
godermi le sue bellezze architettoniche e artistiche. Quando Pastore pronunciò la fatidica frase, la mia mente aveva già elaborato tutto, conclusione compresa.
Nemmeno un attimo di titubanza, allora, per il Santo
più venerato nel mondo?
No, nessuna. Allora ero un
non credente in assoluto. Per
quanto riguarda, poi, il rispetto per il Santo e i credenti, quando si è dall’altra parte la parola «rispetto» è sconosciuta.
Nelle ricostruzioni si racconta che la Reliquia è stata riposta in un sacco e nascosta
sotto terra. Vi è rimasta tutto il tempo?
Appena rubata, la Reliquia
venne portata in uno dei nostri covi. Nel frattempo si vociferava del suo valore. Mi
giungevano voci del tipo: «Il
reliquiario è tutto incastonato di pietre preziose, chissà
quanto varrà». Allora chiamai
mio cugino Giulio e andammo a prenderla per metterla subito al sicuro. La impacchettammo perfettamente, al
riparo da qualsiasi infiltrazione d’umidità e la seppellimmo lungo l’argine del Brenta.
Dove peraltro rimase tutto il
tempo, fino al momento della riconsegna. Un fatto è certo: nel caso non avessi ottenu-
Gli inediti
Il primo. «Avevo
bisogno di un gesto
eclatante per trattare
con lo Stato, ma l’idea
del Santo non fu mia».
Il secondo. «In verità,
ordinai di rubare la
Lingua, mi arrivarono
col Mento».
Nelle foto: Maniero,
il giorno dell’ultimo
arresto, il 12 novembre
1994, a Torino;
accanto, con la figlia
Elena, morta nel 2006.
Messaggero
di
ottobre 2011
sant
’Antonio
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dossier
società
1991 – 2011. rapina del mento
Non esistono
guadagni facili
«Comandavo trecento
persone – asserisce
l’ex boss –. L’unica
persona che ha
guadagnato soldi,
alla fine, sono stato io.
Ho pagato il mio conto
con la giustizia.
Ognuno è libero di
credermi oppure no».
Messaggero
46 |
di
sant
to quello che chiedevo, la Reliquia sarebbe stata riconsegnata ai frati. Non l’avrei mai
venduta per portarmi a casa
un bel po’ di soldi. Non era
quello il mio obiettivo.
Con questo crimine lei aveva anticipato una strategia
che, pur diversa nelle modalità (le stragi mafiose del
1993 a Firenze e a Roma contro luoghi simbolo delle istituzioni e della cultura), innescava ugualmente un braccio di ferro con lo Stato, costretto a trattare, a scendere
a patti con la criminalità. A
posteriori è convinto che fosse l’unica strategia perseguibile?
Per quanto riguardava me, ricattare lo Stato e ottenere ciò
che chiedevo era a dir poco
eccitante. In ogni caso, ero
lontano anni luce, anche solo nell’intenzione, dal fare del
male a chicchessia. Sì, in quel
momento era l’unica soluzione per ottenere favori concreti. Diventando confidente
(Maniero è stato, e tale vuole
essere definito, un «collaboratore di giustizia», ndr), pe-
’Antonio
ottobre 2011
raltro cosa impensabile per
me, avrei potuto certamente ottenere favori, ma davvero non credo che avrebbero concesso la scarcerazione
di una persona che rischiava
non uno, bensì dieci anni di
detenzione.
Si dice che lei, non altrettanto quelli della banda, non si
sarebbe comunque mai sbarazzato della Reliquia.
Certo, è la verità. Alcuni giorni dopo il furto della Reliquia
vennero a casa mia un primario dell’ospedale di Padova, a
cui mi legava un rapporto di
amicizia, e il fratello di un avvocato, con cui avevo avuto
rapporti esclusivamente professionali. Non ho mai fatto i
loro nomi e mai li farò perché il loro interesse era unicamente quello di salvaguardare la Reliquia e farla tornare al
suo posto. Entrambi erano in
stretto contatto con i frati della Basilica, ovviamente preoccupatissimi. Mi hanno chiesto di fare tutto ciò che era
possibile per salvaguardarla.
Li ho tranquillizzati dicendo
che era tutto sotto controllo.
Il mento del Santo si trovava al sicuro sotto l’argine del
Brenta. Seppero il giorno dopo che l’avevo consegnato alle
forze dell’ordine. Il resto, credo sia noto a tutti.
Quando venne restituita, la
Reliquia non aveva, nel piccolo basamento, uno dei
quattro leoncini che fu poi
ricostruito. Che fine fece?
Sicuramente non fu rubato da uno dei miei uomini,
che casomai avrebbero preso una delle bellissime pietre
incastonate. È probabile che
possano averlo perso durante il furto. Oltre questa ipotesi, non sarebbe leale fare altre
supposizioni.
Chi seguì le fasi successive
alla rapina fino al «ritrovamento»?
In assoluto, io. Direttamente
e in ogni sequenza.
Lei è credente?
Purtroppo no. Anche se, per
la verità, ultimamente mi capita di «traballare» un po’.
Frequento con tantissima
gioia un convento di frati ad
Assisi. Quando sono lì, e ammiro il paesaggio e l’architettura, mi sembra di stare in un
altro mondo. Appena entro in
convento, riesco a rilassarmi
come non mai. I frati hanno uno sguardo sereno, sembra sorridano anche quando
non lo fanno. Ho la fortuna
di fare con loro lunghissime
chiacchierate, di una piacevolezza unica. Sono incuriosito,
oltre i limiti, soprattutto dai
racconti dei frati più anziani,
dalla vita trascorsa assieme ai
lebbrosi o in villaggi sperduti dell’Amazzonia. Nelle loro
parole colgo la grande nostalgia per luoghi in cui, lo si percepisce subito, hanno vissuto
il periodo più felice della loro vita. Nonostante sappiano
chi sono e che non sono credente, avverto che, per loro,
non vi è alcuna differenza. Lì,
lo confesso, mi sento l’ultimo
dell’universo.
Ha paura di qualcosa?
Se intende paura dovuta alla
mia vita passata no, mai avuta, probabilmente per incoscienza.
C’è qualcosa che non rifarebbe?
Se ha pazienza potremmo
parlare per giorni delle cose che non rifarei. Ma, più di
ogni altra cosa, cancellerei
il momento in cui ho voluto
diventare un boss. E lo dico
soprattutto per i giovani del
Sud che mi leggeranno: ragazzi, non credete ai miti costruiti dalle cronache nere o
celebrati nei vostri quartieri.
Non esiste per niente il tanto decantato «codice d’onore» che vogliono inculcarvi.
È solo un imbroglio per farvi
cadere in una trappola da cui
non uscirete più. Finirete per
essere solo dei burattini nelle
mani dei boss, utilizzati unicamente per i loro personali
tornaconti. E in più, statene
certi, non diventerete mai e
poi mai ricchi! Il 95 per cento dei detenuti in Italia, oltre
a non potersi acquistare nemmeno un dentifricio, ha gettato le proprie mogli e i propri figli nella disperazione
più totale. E anche voi giovanissimi, che non avete ancora famiglia, sarete destinati a
distruggervi la vita e a diventare causa di dolore infinito.
Pensate sempre a chi vi ama:
che ne sarà di loro? Questa è
la cruda realtà.
Ritornando al tanto decantato «codice d’onore», sappiate che un giorno, molto probabilmente, uno del clan, che
magari riterrete vostro grande amico, con una scusa qualsiasi vi accompagnerà in una
trappola dove verrete uccisi a
tradimento, se non torturati prima. E sapete per cosa?
Solo per intrighi tra boss, per
denaro, addirittura per antipatia o per altri futili motivi. E non perché avete disobbedito, non avete rispettato
le regole o tradito. Chi, invece, lo fa, rarissimamente viene eliminato, diventa infame
ed escluso dal clan. Altro che
onore, giuramenti, fratellanze! Sono dei vigliacchi, il più
delle volte spietati solo con
chi ha giurato loro fedeltà.
Sapete qual è una delle frasi
più ricorrenti: «Qui lo Stato
ci ha abbandonati, se non ci
fossimo noi la gente morirebbe di fame, quelli al governo
sono i veri delinquenti, basta leggere i giornali». È una
logica infame. Giocano sulla pelle della povera gente in
gravi difficoltà, per autocertificarsi, poi, come salvatori della patria. Loro che compiono stragi! Loro che eseguono e fanno eseguire feroci
uccisioni! Loro che inondano
il pianeta di droghe! Ragazzi, non cadete nella trappola.
Non esistono guadagni facili,
men che meno in quel mondo vile, colmo di violenza e
di tradimenti.
Comandavo circa trecento
persone. Posso assicurarvi
che l’unico che ha veramente guadagnato soldi sono stato io. Tutti gli altri, compresi
«bracci destri e sinistri», dopo aver patito dieci, quindici
anni di galera, oggi sono sen-
za una lira, vecchi, distrutti e
disperati.
Parole forti le sue. Ma si rende conto che qualcuno potrebbe non credere a una persona che, tra i reati contestati, ha avuto proprio quello di
omicidio e traffico di droga?
Certo, ci mancherebbe! Me
ne rendo conto. Su quanto accaduto ho reso delle confessioni alla magistratura e non
esistono più dubbi a riguardo
da parte di nessun inquirente. Con l’aggiunta, poi, di innumerevoli riscontri oggettivi e conseguenti condanne,
ormai passate al vaglio della Corte Suprema. Credo che
questo basti a togliere eventuali dubbi a qualsiasi persona ragionevole. In ogni caso,
su quanto affermo ognuno è
libero di pensarla come vuole, di credermi oppure no.
Oggi che persona è Felice
Maniero?
Nulla di speciale. Normalmente sono a casa prima delle nove di sera. Lavoro davvero moltissimo e mi piace. È
una nuova sfida, anche personale, alla quale non mi sottraggo.
n
olycom
Messaggero
di
ottobre 2011
sant
’Antonio
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