dossier società 1991 – 2011. rapina del mento La ricostruzione dell’evento. Le luci e le ombre. Le voci dei protagonisti. Un episodio che i devoti di tutto il mondo non hanno mai dimenticato. Un fatto che, ancora oggi, ha molto da raccontare. Il Santo ritrovato di N i c o l e t t a M a s e t t o S ono le 18.20 del 10 ottobre 1991. Tre banditi, armati e coperti da passamontagna, entrano nella Basilica di sant’Antonio e rubano il Mento del Santo. Alcuni fedeli e una guardia vengono immobilizzati sotto la minaccia delle armi. I malviventi fuggono poi a bordo di un’auto guidata da un quarto complice. La Reliquia viene ritrovata settantuno giorni dopo, il 20 dicembre 1991, «ufficialmente» a Roma, vicino all’aeroporto di Fiumicino. La verità su autori, mandanti e sul perché di una rapina giudicata da subito anomala, verrà a galla molto tempo dopo. La firma, inattesa, è quella della «mala del Brenta». Autori materiali, Andrea Zammattio, Andrea Batacchi e Stefano Galletto, insieme con Giulio Maniero, il quarto complice. Mandante, il boss della mala, Felice Maniero. Lo scopo, estorsione: la Reliquia viene usata come oggetto di scambio con l’intenzione di costringere lo Stato a scendere a patti. Messaggero 30 | di sant ’Antonio ottobre 2011 di ottobre 2011 sant ’Antonio | 31 nicola bianchi Messaggero dossier società 1991 – 2011. rapina del mento «Il Santo in ostaggio» Torniamo a quella data. È il tardo pomeriggio di una giornata insolitamente calda per un ottobre non ancora avvolto dai colori dell’autunno. Sono le 18.20. In chiesa ci sono i fedeli, che si attardano dopo la messa delle cinque del pomeriggio, e alcuni turisti. Una strana quiete avvolge il luogo sacro. All’improvviso, in Basilica fanno irruzione i tre malviventi. Camminano spediti, con passo sicuro, verso la Cappella del Tesoro. Il «tesoro» in questione sono le Reliquie di sant’Antonio. Dopo aver rubato quella del Mento, si precipitano in via Orto Botanico, una strada laterale, dove ad attenderli c’è il quar- to bandito alla guida di una Ford Fiesta nera che in seguito risulterà rubata. La notizia viene battuta subito dalle agenzie di stampa. Ne parleranno televisioni e giornali di tutto il mondo: addirittura il «Time», nell’edizione del 28 ottobre 1991, dedica un articolo all’evento. I titoli sono a tutta pagina: «Il Santo in ostaggio» si legge, in un accavallarsi, per settantuno giorni, di ipotesi, illazioni, telefonate di sciacalli e appelli. Numerosi quelli lanciati dai frati della Basilica e dal rettore dell’epoca, padre Olindo Baldassa; dal delegato pontificio, monsignor Marcello Costalunga che, proprio in Basilica durante la celebrazione del 21 ottobre 1991 per il tredicesimo anniversario del pontificato di Giovanni Paolo II, parla «della vicinanza del Santo Padre e della sua trepidazione per le sorti della Reliquia»; dal vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo. Per un lungo periodo non si sa- prà chi ha commissionato la rapina e chi sono stati gli esecutori. Ci vorranno tre anni prima di arrivare alla verità. Il quotidiano «La Repubblica» dell’11 febbraio 1995 scrive, a pagina 19: «L’hanno scoperto gli uomini della Criminalpol del Veneto che, a conclusione di una lunga inchiesta coordinata dalle procure di Padova e di Venezia, hanno ricostruito uno dei misteri più fitti nella storia della malavita locale, quello appunto del clamoroso assalto al “tempio” di Sant’Antonio. Tra le sei persone che, tre anni e quattro mesi dopo il furto, hanno ricevuto l’ordine di custodia c’è anche il boss della Riviera, Felice Maniero». L’ex capo indiscusso della banda criminale, che si sviluppò tra le province di Padova e di Venezia, confermerà quanto già dichiarato dai suoi sodali in merito all’episodio nella lunga «confessione» resa ai magistrati. La sua collaborazione con lo Stato inizia il 18 no- l’editoriale Operazione verità I mmancabilmente, quando accompagno un gruppo di pellegrini a visitare la Cappella del Tesoro con le Reliquie del Santo, in fondo alla Basilica, ritornano le stesse domande: «Com’è andata quella volta della rapina? È vero che avevano le pistole? Ma… per la restituzione del Mento, è stato pagato un riscatto?». Nessuno, in modo chiaro e lineare, soprattutto documentato e sistematico, si è mai impegnato a ricostruire una vicenda che ha dello strano, del paradossale, ma che ha suscitato curiosità e attenzione mediatica attirando sulla città di Padova e sulla Basilica i riflettori del mondo. Dal 10 ottobre al 20 dicembre 1991 trascorrono 71 interminabili giorni che tengono col fiato sospeso i devoti del Santo, Messaggero 32 | di sant ’Antonio ottobre 2011 milioni di fedeli nei cinque continenti. Si organizzano veglie di preghiera perché la Reliquia torni presto e intatta nel luogo originario, dov’è custodita dai frati e venerata dai pellegrini con un passaggio quotidiano di più di 2 mila persone. Per tutto il tempo, così racconta Felice Maniero, l’ex boss della mala del Brenta mandante della rapina che ci ha concesso in esclusiva una lunga intervista, la Reliquia giace seppellita – anche se ben sigillata – lungo le rive scoscese del fiume Brenta. Deve servire come merce di scambio per fare pressioni sullo Stato e ottenere benefici, parte dei quali verranno concessi. La messinscena finale del ritrovamento è, appunto, una messinscena. Si dice, fin dal primo lancio Ansa, alle 10.50 del 20 dicembre 1991, che la Reliquia è stata rinvenuta nei pressi di Fiumicino, ed è il generale dei carabinieri Antonio Viesti che la riconsegna, due giorni dopo, nella cornice di una solenne celebrazione di ringraziamento, ai frati del Santo. In questo nutrito dossier, che dissipa ogni ombra (o quasi), siamo andati alla fonte, ascoltando i protagonisti dei fatti e lasciando parlare gli esperti. Una pagina di cronaca nera che ha come protagonista il nostro Santo ci aiuta così a rileggere un pezzo di storia della nostra Italia. padre Ugo Sartorio vembre 1994, sei giorni dopo l’ultimo arresto, avvenuto a Torino. Ma proseguirà per mesi. Svelati il mandante e gli autori, della rapina del Mento del Santo si continuerà comunque a parlare a lungo, più o meno direttamente, come risulta dagli interrogatori, dalle «confessioni» dell’ex boss e dai documenti contenuti nelle centinaia di faldoni di atti processuali riguardanti Felice Maniero e la mala del Brenta. Come in un film Il primo malvivente, appena entrato nel deambulatorio del Santuario, fa stendere a terra tre turisti romani che si trovano sul lato sinistro, e con la mano destra tiene puntata la pistola in direzione dell’addetto alla distribuzione delle immaginette. Un altro, entrato nella Cappella del Tesoro, sale i gradini e inizia a colpire, con una mazza come quelle abitualmente utilizzate dai muratori nei cantieri edili, la teca centrale. All’interno, nella parte inferiore è custodita la Lingua, in quella superiore, il Mento. Il reliquiario del Mento è tutto incastonato di pietre preziose. Per il bandito è più facile lasciarsi abbagliare dal luccichio delle pietre piuttosto che dal piccolo scrigno, più semplice, contenente la Lingua. Eppure Maniero, come rivela nell’intervista che ci ha rilasciato in esclusiva, aveva ordinato ai suoi di rubare la Lingua che, come l’ex boss sapeva molto bene, è la Reliquia del Santo di più alto valore devozionale in tutto il mondo. Questa parte del corpo umano è fragilissima, tra le prime a dissolversi subito dopo la morte; nel caso di sant’Antonio, essendosi mantenuta incorrotta a distanza di secoli, «costituisce – come si leg- ge nelle guide per i pellegrini – un miracolo perenne, unico nella storia e carico di significato religioso quale suggello dell’opera di rievangelizzazione della società a opera del Santo». Il secondo uomo col passamontagna continua nel suo tentativo di rompere il vetro. Uno, due, tre colpi potenti. Quanti bastano per far accorrere Jorge Damonte, una delle guardie in servizio all’interno della Basilica. «Era un frastuono forte, cupo, mai sentito – ricorda, vent’anni dopo, Jorge –. Mi trovavo davanti alla sacrestia. Feci appena in tempo a varcare il cancello della Cappella che mi ritrovai con la canna di una pistola puntata al- la tempia». È il terzo uomo a prendere in ostaggio la guardia: «Disse solo: “Stai fermo, non muoverti” – ricorda ancora Damonte –. Quattro parole che rammento ancora in maniera nitida. Con la coda dell’occhio riuscii a vedere che la pistola era chiara e lucida. Raccontai, in seguito, questo particolare agli inquirenti che mi chiesero se avessi già avuto a che fare con le armi visto che l’avevo descritta nel dettaglio». Ma Damonte non ha mai avuto dimestichezza con le armi. È sempre stato un intellettuale, convinto difensore di democrazia e uguaglianza. Proprio per questo qualche anno prima era stato costretto a lasciare in fretta e furia il suo Paese, Autori della rapina Sono in quattro: Andrea Zammattio, Andrea Batacchi e Stefano Galletto (nell’illustrazione di Luca Salvagno), ai quali si aggiunge Giulio Maniero, che li attende a bordo di un’auto rubata. Nella pagina accanto, Jorge Damonte, la guardia tenuta in ostaggio e, nel riquadro, il direttore padre Ugo Sartorio. Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 33 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento Sdegno e incredulità Questi i sentimenti dei devoti alla notizia del furto che fece il giro del mondo (sotto, la prima pagina di un quotidiano locale dell’11 ottobre 1991). Al centro, il reliquiario del Mento. Nella pagina accanto, il magistrato Francesco Saverio Pavone e, nel riquadro, padre Luciano Bertazzo. l’Uruguay, per evitare la cattura a causa del suo impegno contro la dittatura. «Mi sembrava tutto così irreale, come se stessi vivendo la scena di un film – racconta –. In quei minuti, sette-otto al massimo, non mi sono reso conto di nulla. La tentazione era di reagire, ma continuavo a ripetermi che non dovevo farlo. Paura? No, quel bandito, che con la destra mi puntava la pistola e con la sinistra mi teneva bloccato, era tranquillo, sicuro di sé, un professionista e non un malvivente maldestro e avventato. Non gli interessava farmi del male. Non era quello il suo scopo. Lui voleva solo rubare la Reliquia». Sul posto nel frattempo giunge anche fra Claudio Gottardello, all’epoca custode della Basilica. «Ricordo il gran parapiglia. Con altri confratelli corsi verso la Cappella del Tesoro. Tutto avremmo pensato ma mai, davvero, che si arrivasse a tanto. Fu come un fulmine a ciel sereno – ricorda fra Gottardello che oggi vive nel convento di San Pietro di Barbozza (Treviso) –. Chi poteva avere interesse a compiere un gesto simile, e perché? Me lo sono chiesto per tanto tempo, senza trovare spiegazioni». La prima telefonata di fra Claudio è al rettore del Santuario antoniano che, quel giorno, si trova fuori sede per un convegno. Padre Baldassa rientra poche ore dopo. Per tutta la notte resta incollato al telefono, l’unico esistente all’epoca, che si trova nella portineria del convento. Autori e mandanti «Per lungo tempo questo grave atto sacrilego rimase impunito – spiega Francesco Saverio Pavone, il magistrato che, insieme ai colleghi Michele Dalla Costa e Antonio Fojadelli, ha cercato per più di un decennio di sgominare la mala del Brenta –. Almeno fino a quando, tra la fine del 1994 e gli inizi del 1995, lo stesso Maniero, catturato doMessaggero 34 | di sant ’Antonio ottobre 2011 po la famosa evasione nella notte tra il 13 e il 14 giugno 1994 dalla casa di reclusione di Padova, si deciderà a collaborare con la giustizia. Maniero è una persona estremamente furba, intelligente, carismatica. Non lascia nulla al caso. Egli ha reso un’ampia collaborazione che ha portato allo sfaldamento della banda nota come “Mafia del Brenta”». Pavone è il giudice istruttore che ha il coraggio di chiamare fatti e persone col loro nome. È il primo che muove, nei confronti della mala del Brenta, l’accusa di «associazione a delinquere di stampo mafioso». Un’accusa mai formulata in precedenza, tanto che, proprio nel 1994, prima della lettura della storica sentenza, venne addirittura contestata da alcuni pubblici ministeri che non ne capirono la portata innovativa e, per certi versi, dirompente, non credendo possibile il fenomeno di una mafia al Nord. Ma alla fine la sentenza è inequivocabile: mandante della rapina, Maniero; autori materiali Zammattio, Batacchi, Galletto e Giulio Maniero. Ad eccezione di Batacchi, gli altri imputati ammettono l’addebito e PADRE LUCIANO BERTAZZO Le Reliquie, memoria e presenza per questo fatto tutti, Maniero incluso, sono riconosciuti colpevoli dei reati di rapina aggravata, porto e detenzione di armi in luogo pubblico e furto dell’autovettura utilizzata per la fuga. A patti con lo Stato A chi può interessare il furto di una Reliquia? Se lo chiederanno in tanti, senza trovare una risposta plausibile, nei giorni successivi alla diffusione della notizia che fece il gi- Il furto della Reliquia ha avuto anche un valore simbolico per i devoti e per la città di Padova, come testimonia padre Luciano Bertazzo, dal 1985 direttore del Centro studi antoniani. Msa. Che ricordo ha di quell’avvenimento? Bertazzo. Un ricordo molto vivido. Alle cinque di quel pomeriggio, un’ora prima del furto, avevo parlato con il custode della Basilica per un progetto di catalogazione delle oreficerie del Santo. Una strana coincidenza e uno strano furto, tutt’ora non del tutto chiaro. Un atto, credo, anche stupido, almeno dal punto di vista dell’oggetto in sé, visto che si trattava di un reliquario in bronzo dorato, con scarso valore economico e, per di più, difficile da cedere, perché troppo conosciuto a livello internazionale. La motivazione storica più accreditata è che si sia trattato di un atto dimostrativo della banda Maniero per ribadire il proprio potere. Che cosa rappresentano per i fedeli le Reliquie antoniane? Le Reliquie antoniane, come tutte le Reliquie dei santi in genere, sono una parte concreta e visibile della santità. Il loro culto, che ha conosciuto uno sviluppo particolare proprio nel mondo occidentale, ha significato nei secoli la possibilità di impossessarsi di questa santità o, almeno, di poterla avere vicina. Le Reliquie sono memoria e presenza al tempo stesso, il segno tangibile della santità di un uomo che si invoca per lla sua amicizia con Dio. Sono una garanzia e una sicurezza. Non c’è il rischio che il culto delle Reliquie diventi quasi un rituale magico? La storia delle Reliquie occupa un capitolo importante della storia della devozione popolare. Venendo all’oggi, io penso che la Reliquia abbia perso il significato che aveva nei secoli passati. C’è stata un’evoluzione della devozione popolare, anche se rimane fisso il tema del toccare, di avere una parte della santità, con il rischio che la Reliquia diventi un feticcio o un amuleto. C’è chi giudica questa devozione anacronistica. L’ Ostensione del corpo del Santo, avvenuta lo scorso anno, dimostra che c’è ancora una grande domanda di incontro con la memoria della santità. In questi ultimi anni, forse proprio a partire dal successo strepitoso che ebbe il passaggio di una Reliquia di sant’Antonio in diverse parti del mondo nel 1995, in occasione dell’ottavo centenario della nascita del Santo, il ricorso a percorsi itineranti delle Reliquie si è esteso anche ad altri corpi di santi. Il toccare la Reliquia significa ancor oggi vivere un momento intenso, di devozione e di preghiera. È chiaro che c’è sempre il rischio dello sconfinamento, ma molto dipende anche da come viene gestito questo tipo di devozione, se potenziando l’aspetto magico oppure quello della conversione o dell’impegno a rinsaldare il proprio progetto di vita cristiana. Rispetto al valore simbolico, che cosa ha significato il furto di una Reliquia così importante come quella del Mento? Nell’immediato ha provocato stupore e offesa tra i padovani, che lo hanno vissuto come un attacco sacrilego al loro Santo ma anche a Padova, visto che la Basilica è un luogo-simbolo della città. Oltretutto si trattava di una Reliquia insigne; il Mento, come del resto la Lingua ospitata in un altro reliquiario, è una di quelle Reliquie che san Bonaventura ha rinvenuto praticamente intatte nel 1263, trentadue anni dopo la morte del Santo, nel corso della prima ricognizione del corpo. Il ritrovamento della Lingua, con la quale Antonio annunciava la Parola di Dio, perfettamente conservata, divenne un segno prodigioso, ricco di valore simbolico, che ricordava il ruolo di predicatore eccellente che Antonio aveva avuto agli inizi dell’ordine francescano. Un ruolo che ormai faceva parte della sua bioagiografia. Si è trattato di un oltraggio simbolico, non solo nei confronti del corpo fisico, ma anche della memoria, del modo in cui sant’Antonio era ed è rappresentato. Sì, lo possiamo leggere anche così. Anche se credo che chi ha compiuto un gesto tanto stupido non avesse i mezzi per coglierne il valore simbolico. Di fatto il reliquario tornò quasi intonso, eccezion fatta per un leoncino, tra l’altro un’applicazione postuma. Giulia Cananzi Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 35 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento Ilvo Diamanti* 1991: il contesto sociale Msa. Professor Diamanti, com’era il Veneto di vent’anni fa? Diamanti. È il periodo nel quale nasce e si afferma il mito del Nordest. Fino a quel momento, in realtà, non è che il Veneto fosse fermo, anzi, lo sviluppo economico di quest’area stava affermandosi in modo veloce almeno da una ventina d’anni, però era poco visibile. Per quale motivo? Si trattava di uno sviluppo di piccola impresa, diffuso, quindi difficilmente percepibile, senza un evento scatenante preciso. Sino ad allora si era abituati a uno sviluppo di altro tipo, basato sulla grande impresa e sulle concentrazioni, anche urbane. Tra gli anni ‘80 e ‘90 ci si accorge di ciò che sta avvenendo. E questo riguarda anche gli stessi abitanti del Nordest, i quali fino a quel momento non avevano adeguato i propri stili di vita a quelli di una società opulenta. Nei primi anni ’90 tutto questo cambia, la ricchezza diventa molto evidente. E questa tendenza viene amplificata dalla caduta del muro di Berlino, evento che trasforma il Triveneto da area di confine a zona di passaggio, crocevia obbligato rapido e veloce per le imprese, i mercati e i flussi migratori. Nei primi anni ’90, dunque, assistiamo, insieme con il rivolgimento in campo politico che ha portato al crollo della Prima repubblica, non a caso all’indomani della caduta del muro, anche alla rivoluzione economica che trasforma la dimensione piccola da limite in risorsa visibile e rende consapevole anche quest’area. Perché questo aspetto è così importante? Non è un caso che proprio in questa realtà si realizzi il rovesciamento del sistema politico che caratterizza la cosiddetta Seconda repubblica. Un rovesciamento accelerato dalla scomparsa rapida della Dc e dall’affermarsi dell’altro soggetto politico che, insieme a Berlusconi, sarà protagonista della caduta della Prima repubblica: la Lega. La Lega, infatti, nasce nel Nordest degli anni ’80 come Liga, lega regionalista, anche se poi è «monopolizzata» dalla Lombardia in seguito alla centralità acquisita da Bossi. La Lega è il fenomeno politico che dà visibilità alla «rivoluzione» economica in atto: la nascita di un ceto medio privato, di piccola impresa. giovanni giovannetti / olycom Messaggero 36 | di sant ’Antonio ottobre 2011 Come cambia il contesto religioso? Nel quadro fin qui descritto, si assiste anche a una secolarizzazione profonda. La «sacrestia d’Italia», come veniva chiamato il Veneto, smette di essere tale perché c’è una sorta di autonomizzazione perfino dalla fede. Si crea così un fenomeno definito di «religione senza Chiesa»: rimangono solo alcuni elementi di tipo etico (il valore della tradizione, della famiglia, della comunità…) che si trasformano in una sorta di morale sociale. Assistiamo quindi all’affermarsi di una religione senza Dio, che trova un’interprete nella Lega. La Chiesa, a sua volta, acquista sempre maggior peso a livello sociale ma come organizzazione. Di queste tendenze la devozione a sant’Antonio e alle sue Reliquie è un segno, un simbolo il cui rilievo va oltre la fede. Per certi versi non è un caso che anche questo passaggio sia scandito dal furto del Mento del Santo, episodio che sottolinea il valore materiale e religioso delle Reliquie. L’interesse della mala del Brenta pone in evidenza il valore di mercato che in un certo senso questo simbolo ha e non soltanto per chi crede. Sabina Fadel *docente di Scienza e comunicazione politica all’Università di Urbino e di Politica comparata a Parigi 2 ro del mondo. Gli inquirenti brancolano nel buio: la Reliquia non ha un valore monetizzabile e, soprattutto, non è vendibile. Chi può avere interesse a entrarne in possesso? In quelle fasi concitate si accavallano ipotesi, le più diverse: dal furto su commissione di qualche collezionista a quello finalizzato a riti esoterici. «Si scoprì in seguito che lo scopo del furto sacrilego era duplice – prosegue il giudice Pavone –. Il reato venne commesso nella prospettiva di poter trattare con le autorità la liberazione di Giuliano Rampin, cugino di Maniero, all’epoca dei fatti in carcere per reati di droga, e per ottenere la revoca della sorveglianza speciale che era stata applicata a Felice Manie- Il mito del Nordest La rapina avviene in un contesto di rapido sviluppo economico e crescente ricchezza, come sottolinea il professor Ilvo Diamanti (nella pagina precedente). In basso, Monica Zornetta, autrice del libro La resa in cui si parla anche dell’atto sacrilego. grand tour collection / corbis ro. Entrambe le richieste non andarono in porto, in quanto non possono essere consentite da alcun magistrato trattative su richieste di tal genere». La rapina in Basilica segna un cambio di rotta nella strategia criminale della banda Maniero. Non più rapine in villa, nei laboratori orafi o ai caveau di grandi hotel, come il Des Bains al Lido di Venezia, finalizzate solo a far soldi. La nuova tipologia di reati ha scopo estorsivo e vuole costringere le istituzioni a scendere a patti: io ti restituisco quell’oggetto dal valore inestimabile in cambio di benefici che possono essere la liberazione di un sodale, uno sconto di pena, la fine di misure restrittive. Maniero anticipa, in ver- sione provinciale, una modalità mai sperimentata fino ad allora dal crimine organizzato. La stessa, per molti aspetti, utilizzata nell’attacco sferrato dalla mafia alle istituzioni con le stragi del 1993: a Firenze, in via dei Georgofili, poco lontano dagli Uffizi, e a Roma, di fronte alla chiesa di San Giorgio al Velabro. L’Italia viene colpita al cuore nei luoghi simbolo della sua arte e della sua storia. La passione per l’arte «Per la banda Maniero – sottolinea la giornalista Monica Zornetta –, come ebbe a dichiarare lo stesso boss, le rapine, inclusa quella in Basilica, sono “l’attività più reddi- tizia dopo la droga”. Un’attività proseguita poi, non a caso, fino alla fine dei giorni dell’organizzazione». Monica Zornetta conosce molto bene la storia di Felice Maniero e della mafia del Brenta. A lui e alla sua banda ha infatti dedicato alcuni volumi che fanno luce su questa e altre storie di criminalità e mafia in Veneto: da A casa nostra, scritto con Danilo Guerretta, fino a La resa. Ascesa, declino e «pentimento» di Felice Maniero, entrambi per Baldini Castoldi Dalai. Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 37 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento Ore di ansia Sono quelle precedenti al ritrovamento, avvenuto il 20 dicembre 1991 come racconta l’allora rettore padre Olindo Baldassa (nella foto in basso). Al centro, un’immagine dell’epoca: il rientro solenne della Reliquia. A pagina seguente, la locandina del film «La Lingua del Santo» per la regia del padovano Carlo Mazzacurati (sotto). «“Felicetto” apprezza molto l’arte contemporanea e anche quella antica. Da sempre le opere d’arte esercitano su di lui un grande fascino, al punto che si può parlare di una vera e propria “fissazione” – afferma la giornalista –. Conosce, più di altri, quanto valore esse abbiano, al di là di quello puramente monetizzabile. E sa altrettanto bene la grande risonanza che il trafugamento, di un Velázquez o di una Reliquia può avere, addirittura in tutto il mondo». Una passione per l’arte iniziata ancora sui banchi di scuola. A Felicetto non piace studiare. Porta a casa una sfilza di voti bassi in tutte le materie, tranne in educazione artistica e musica. «Uno spirito creativo dietro un’irrequieta incostanza, che i professori riescono però a cogliere, tanto che lo premiano con un 8 e un 7 in pagella». Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Novanta, Maniero è al culmine del suo potere criminale. «Il boss – prosegue Zornetta – si diletta egli stesso a dipingere. Ha un vero e proprio debole per Salvador Dalì di cui, all’epoca, custodisce in casa una preziosa china. E per Mario Schifano che, intorno al 1992, sarà addirittura ospite nella villa bunker di Campolongo Maggiore (Venezia) per insegnargli tecniche e trucchi della sua “pop art”». Il Santo «ritrovato» «Erano da poco passate le nove di mattina del 20 dicembre quando sentii squillare il telefono». Il racconto vivido e puntuale è di padre Olindo Baldassa. Oggi vive nel convento di San Francesco a Brescia: all’epoca era rettore della Basilica da pochi mesi. Nell’opuscolo pubblicato per i cinquant’anni di sacerdozio, il primo dei ricordi è proprio quello. «Ogni volta che alzavamo la cornetta il desiderio di tutti era di ricevere la notizia tanto attesa del ritrovamento. Capitò a me. Ricordo ancora, era venerdì. Ricordo anche le parole dei carabinieri di Prato della Valle: “Padre, hanno ritrovato la Reliquia. È stata recuperata a Roma”». La prima notizia Ansa sul ritrovamento viene battuta alle 10.50. I dettagli sono scarni. «Roma, 20 dic. 10.50. La Reliquia di sant’Antonio è stata ritrovata nei pressi di Fiumicino dai carabinieri per la tutela del patrimonio artistico guidati dal colonnello Roberto Conforti. La Reliquia, trafugata dalla Basilica della Messaggero 38 | di sant ’Antonio ottobre 2011 città veneta, stava per essere trasferita all’estero». A mezzogiorno, nella capitale, i carabinieri indicono una conferenza stampa per illustrare i dettagli dell’operazione. Poi la Reliquia vola direttamente a Padova scortata dai militi dell’Arma, in testa il comandante generale Antonio Viesti. Sarà egli stesso a consegnarla ai frati nel corso della celebrazione solenne di domenica 22 dicembre. La città è in festa per il Mento ritrovato pochi giorni prima di Natale. Le campane risuonano per l’intera città. Quella domenica una folla immensa giunge in Basilica per pregare davanti al Mento del Santo. Una festa a metà per i carabinieri. Il pomeriggio del giorno prima, infatti, il brigadiere Germano Craighero, 30 anni, sposato con due figli, era morto nelle campagne di Piazzola sul Brenta (Padova), ucciso dal cosiddetto «fuoco amico». Ma la Reliquia, nonostante quello che si era fatto credere per tutto quel tempo, non era mai uscita dal Veneto. «Nel carlo mazzacurati «La Lingua del Santo» contesto di questa attività investigativa, quando ancora le indagini erano in alto mare, si inserirono i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico, allora comandati dal colonnello Roberto Conforti – spiega il giudice Pavone –. Tramite Alfredo Vissoli, personaggio che, all’epoca, aveva rapporti con Giuliano Ferrato per ricettazione di oggetti di valore rubati, riuscirono a recuperare la Reliquia, facendo apparire che la stessa fosse stata ritrovata nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino in partenza per il Sudamerica. Al contrario, la Reliquia non era mai stata portata fuori dal Veneto in quanto sepolta, subito dopo il furto, lungo un argine nella zona del Brenta e poi fatta trovare in un cassonetto delle immondizie a Ponte di Brenta, alla periferia nordest di Padova. Per questo falso ideologico in atto pubblico furono arrestati sia i marescialli La Gravinese e Tarantino sia il colonnello Conforti, in seguito assolto in giudizio, mentre i due sottufficiali furono condannati». Nel suo film La Lingua del Santo, presentato nel 2000 alla Mostra del Cinema di Venezia, il regista padovano Carlo Mazzacurati narra le vicende tragicomiche di Willy e Antonio, interpretati, rispettivamente, dagli attori Fabrizio Bentivoglio e Antonio Albanese. Due ladri maldestri che rubano, dalla Basilica di Padova, la reliquia della Lingua di sant’Antonio. Il problema è come ottenere un riscatto senza essere acciuffati. Msa. Lei è stato ispirato dai fatti di cronaca oppure la trama nasce da un’idea originale che aveva già avuto in precedenza? Mazzacurati. Non c’è nessuna analogia tra i personaggi che io racconto nel film e quelli del fatto di cronaca. Certo, mi ha ispirato l’idea che due persone potessero impossessarsi di una Reliquia. Il film non ha, comunque, niente a che vedere con la mala del Brenta. Ciò che accade nel suo film richiama un certo modo di vivere all’epoca. È vero che il denaro era tutto? E chi non ce l’aveva, non era nessuno? Seppure amplificato dai mass media, effettivamente era quello, per certi aspetti, il clima che si respirava allora. La crisi economica che viviamo adesso non era ancora iniziata. E c’era la sensazione diffusa che un’area dell’Italia, definita approssimativamente come quella del Nordest, aveva saputo, meglio di altre, generare profitto. Il mio film racconta, in modo un po’ paradossale, questo fenomeno, attraverso le vicende umane di due «poveracci» incapaci di adeguarsi al sistema. La cinematografia recente – lo abbiamo visto anche all’ultima Mostra del Cinema di Venezia – sembra privilegiare i temi dell’immigrazione, delle difficoltà d’integrazione e del multiculturalismo. Nel frattempo, negli undici anni trascorsi dall’uscita de La Lingua del Santo, è cambiato anche il Nordest. Come, secondo lei? In meglio o in peggio? Sicuramente la situazione è molto più complessa, anche in relazione al quadro economico globale che si è riflesso inevitabilmente sull’Italia e, ovviamente, pure sul Nordest. E le conseguenze si stanno sentendo. Così anche il processo d’integrazione sta subendo questa crisi. Purtroppo i mass media vengono usati come mazze da baseball, a volte per creare, in modo indotto e artificiale, delle sensazioni di paura e di pericolo sproporzionate. La politica, purtroppo, è stata spesso assente di fronte a questi fenomeni. Alessandro Bettero Rose rosse dal carcere La rapina del Mento del Santo è uno dei tanti crimini che compaiono negli atti del maxiprocesso contro la mafia del Brenta iniziato nel 1994. Maniero e la sua banda rispondono di reati, commessi tra il 1984 e il 1994, come associazione mafiosa e rapine, detenzione e traffico internazionale di stupefacenti, evasioni dal carcere, sequestro di persona, presunta corruzione di rappresentanti delle forze dell’ordine, rapine e omicidi. Tra tutti, il più sanguinoso è l’assalto al treno Milano-Venezia avvenuto nel 1990 all’altezza di Vigonza, nella campagna padovana, in cui morì la studentessa universitaria di Conegliano Veneto (Treviso) Cristina Pavesi. Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 39 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento carlo lucarelli La banalità malata del male Presentare Carlo Lucarelli significa fare i conti con una tavolozza di colori. Si parte dal giallo, perché Lucarelli nasce come scrittore di romanzi e racconti a sfondo poliziesco, con molte frequentazioni nel più cupo sottogenere noir. Il nero torna anche come aggettivo della «cronaca nera», di cui l’autore bolognese è uno dei più rigorosi indagatori. Oltre che con la penna, ha dimostrato il suo talento di investigatore dei misteri di casa nostra ideando e conducendo per la Rai Blu notte, la trasmissione con la quale è diventato noto al grande pubblico. Una delle ultime puntate andate in onda – rivedibile su www. lucarelliracconta.rai.it – è dedicata proprio alla mala del Brenta. Msa. Nella vicenda della rapina della Reliquia di sant’Antonio qualche ombra rimane. Lei che idea si è fatto? Lucarelli. L’episodio rientra nel metodo della criminalità organizzata di depredare il patrimonio dello Stato e della Chiesa in modo da fare pressioni e ottenere benefici. Tutta la vicenda Maniero ha sempre mantenuto delle ombre che sarebbe stato meglio dileguare fino in fondo per fugare ogni dubbio. In questi mesi si fa un gran parlare di una possibile trattativa tra Stato e mafia siciliana negli anni ‘90. C’è stata, a suo parere, una trattativa tra Stato e mafia del Brenta? Difficile a dirsi, ma è un’ipotesi possibile. Anche la trattativa tra mafia e Stato: io credo sia molto possibile, ma attualmente è un’ipotesi al vaglio degli inquirenti. Tra l’altro, la dinamica sarebbe la stessa, ovvero un negoziato provocato da un uso spregiudicato e quasi terrorista del patrimonio artistico. Se la trattativa è plausibile, forse dobbiamo pensare che lo fosse anche ai tempi di Felice Maniero. Sono quelle famose ombre che sarebbe bene dissipare. Come spiega il fascino che Maniero e figure come lui esercitano nel pubblico? La cronaca nera, la metà lapresse Messaggero 40 | di sant ’Antonio ottobre 2011 oscura, ha sempre colpito di più: il male incuriosisce perché spaventa, è eccezionale, in senso negativo chiaramente. Altrettanto eccezionale è la vita di un poliziotto, ma da un punto di vista narrativo ti appassiona di meno. Non ti chiedi perché un uomo fa il suo dovere: lo fa perché è giusto così. Ti domandi piuttosto: perché quell’uomo non è una brava persona? Perché Maniero ammazza la gente e un altro salva i bambini? Che uno salvi i bambini è fantastico ma «normale»: è la banalità del bene. Invece: possibile che a qualcuno venga in mente di ammazzarli? Sfruttare questa curiosità per capire significa studiare il male per riuscire a combatterlo. Il problema è che molte volte la curiosità viene usata superficialmente sia dai media che dai narratori, e allora rimane soltanto il fascino del male, uno shock emotivo fine a se stesso. Ma quella è un’altra cosa, è pornografia criminale. Nella sua trasmissione, dalle interviste ai compagni di Maniero si ricava piuttosto l’impressione della banalità del male: gli omicidi sono raccontati con grigia piattezza. È così. La banalità del male è la scoperta che fai quando cominci a chiederti il perché di certe cose. Abbiamo lasciato apposta parlare i sodali di Maniero in quella maniera così fredda e agghiacciante. Molti spettatori ci hanno scritto: come si permette quello di parlare di gente uccisa come se bevesse un bicchiere d’acqua? Se l’avesse raccontato in modo più epico, come in un film, sarebbe stato diverso. La realtà è invece molto più banale, ed è quello che fa paura. Magari si può essere attratti da uno come Maniero. Poi lo senti parlare e scopri che dietro il male c’è solo una banalità malata. Allora il male non è più scenografico ma squallido. Altro che fascino. Per arrivare a questa consapevolezza però bisogna approfondire, non trattare i «cattivi» come fossero personaggi e basta. Ci vuole una cautela particolare. Resta la domanda: come ha fatto Maniero a mettere in piedi un impero simile tra Venezia, Padova e Ferrara? Vuol dire che noi cittadini non siamo stati così attenti da fermarlo subito. Quando cominci a chiederti come è successo sei sulla buona strada. E al di là del fatto che la mafia del Brenta non ci sia più, bisogna continuare a vigilare. Alberto Friso A presiedere quello che viene definito uno dei processi più imponenti mai messi in piedi fino ad allora è il giudice Graziana Campanato. Il processo contro la mala della Riviera del Brenta trova spazio – è la prima volta che accade – nell’aula bunker di Mestre (Venezia). Ogni giorno vengono spostate, con rischi non indifferenti, centinaia di imputati rinchiusi in vari istituti di pena. Nominata nel luglio 2010 presidente della Corte d’Appello di Brescia, Graziana Campanato è stata una delle prime donne a intraprendere la carriera in magistratura (fino al 1963 riservata agli uomini). Tra i processi più importanti, quello celebrato a Padova contro Autonomia Operaia e Toni Negri e quello contro i venetisti, guidati da Fausto Faccia, che scalarono il campanile di San Marco a Venezia. «Nel maxiprocesso – afferma il giudice Campanato – non è stato affrontato l’epi- sodio della rapina del Mento. Dunque, non me ne sono occupata direttamente, ma ho letto le carte. La circostanza venne a galla in seguito, dopo che Maniero la rivelò nella sua confessione. Ha usato una strategia molto pagante, davvero ingegnosa per costringere lo Stato a scendere a patti. Del resto, ricordiamo che aveva in busta paga uomini delle forze dell’ordine». Graziana Campanato ha conosciuto il boss oltre che come imputato nel «processone» anche come collaboratore di giustizia. «È un personaggio del crimine, con il carisma di un leader, con una straordinaria capacità aggregativa, perfettamente in grado di intrattenere rapporti con personalità di spicco della criminalità e con la mafia. Godeva della fama di uomo raffinato, amante delle cose belle, del lusso e dell’arte, ma non dimentichiamo che è stato un assassino, e dei più feroci e spietati. L’unica debolezza che gli si può attribuire è la dipendenza dalla madre: a lei, solo per fare un esempio, inviava ogni anno un mazzo di rose rosse dal carcere in occasione della festa della mamma. Un altro punto fermo della sua vita è la famiglia. Nei Tra fiction e realtà Al centro, l’attore Elio Germano che interpreta Maniero nella fiction a lui dedicata, nella quale Katia Ricciarelli (nel riquadro) ha il ruolo della madre. Pagina precedente: lo scrittore Carlo Lucarelli. la fiction Katia Ricciarelli, una mamma importante Mamma di un criminale per fiction, cantante di professione e attrice per passione. Da qualunque lato la si guardi, Katia Ricciarelli, con i suoi riccioli biondi e gli occhi cobalto che ti fissano gentili, emana energia e sicurezza. Non c’è da stupirsi se il regista Andrea Porporati l’ha voluta nel cast della sua ultima fatica Faccia d’angelo, fiction targata Sky (in uscita a inizio 2012) sulla vita di Felice Maniero. E così l’attrice, nata a Rovigo nel 1946, lo scorso febbraio è tornata in Veneto per vestire i panni di Lucia Carrain, la madre di Maniero, interpretato da Elio Germano (nella foto, in una scena del film). Msa. Come si è preparata per entrare nel personaggio? Ricciarelli. Non avendo conosciuto la signora Carrain, il lavoro è stato abbastanza complesso. Ho cercato di ricostruire il personaggio dagli atti dei tribunali. E poi, d’accordo col regista, l’ho arricchito con un pizzico di ironia per evitare che ne uscisse una donna troppo rigida. Che influenza ha esercitato mamma Lucia nella vita di Felice Maniero? Una grossa influenza. A quanto mi risulta, ancora oggi, madre e figlio vivono da qualche parte del mondo insieme. Lei nasce cantante, ma ormai si è conquistata il titolo di attrice a tutti gli effetti... È vero, io nasco cantante e quasi mi vergogno a definirmi attrice. Recitare per me non è una professione, ma un grande piacere. A breve inizierò le riprese di una fiction diretta da Pupi Avati per Raiuno. Al centro della vicenda, il tema della famiglia. Qual è il suo rapporto con la fede? Ora sono molto devota, ma il mio avvicinamento alla fede è stato tardivo. Ho vissuto un’infanzia incentrata sulla lotta per la sopravvivenza, non c’era tempo per la religione. Che rapporto la lega a Padova e in particolare a sant’Antonio? Ho cominciato a venire a Padova quando avevo sedici anni. In Basilica del Santo sono stata molte volte, ancora oggi quando mi trovo nei paraggi faccio un salto in giornata. Ma, considerato che il mio lavoro mi costringe a viaggiare molto, non si tratta mai di un appuntamento fisso. Rapine, omicidi e sequestri ormai sono all’ordine del giorno in tv e sul grande schermo. Ma così non si corre il rischio di diseducare le nuove generazioni? Oggi l’offerta sullo schermo è a 360 gradi: sta a noi scegliere. Anche se suscita sempre un po’ di attrazione, il male non si può nascondere. Quel che serve è il coraggio di valutare e decidere cosa vale la pena di vedere e cosa invece no. Un bambino non può ancora compiere questa scelta, ma le persone che gli stanno vicine devono farla per lui. Luisa Santinello Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 41 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento Il paese dell’ex boss «Noi siamo altro» C ampolongo Maggiore, il comune della campagna veneziana che ha visto nascere e crescere il boss e i suoi traffici, a tanto tempo di distanza fatica a svincolarsi dall’etichetta «paese natale di». «Noi siamo altro» dicono adesso a Campolongo Maggiore. A testa alta, specialmente i giovani. Il prima La leggenda racconta di un ragazzo del posto, carismatico e di bell’aspetto, che girava sempre elegante a bordo di auto potenti. Che apriva il cancello della sua villa – dai millantati bagni con i rubinetti d’oro – ai bambini del paese, liberi di sguazzare nell’acqua della sua piscina. «Personalmente non ci sono mai stata. Maniero si circondava delle persone che condividevano le sue avventure. Per gli altri, per la gente normale, la villa era off limits, un posto da non avvicinare». È Oriana Boldrin, presidente Messaggero 42 | di sant ’Antonio ottobre 2011 dell’associazione culturale “Mondo di carta” e volontaria che cura la cultura della legalità per conto del Comune, a spiegarci com’è cambiato il paese. «Della rapina della Reliquia del Santo abbiamo saputo dai telegiornali. L’avvenimento ha lasciato sbigottita l’intera popolazione, non solo quella che frequentava la chiesa: ci è parso incredibile che una cosa così grave fosse stata architettata da persone di Campolongo. Sapevamo della malavita in altre parti d’Italia, non sospettavamo di averla in casa». Il dopo Dal 1995 villa Maniero, unico bene confiscato al boss della mala del Brenta, è patrimonio comune. Prima utilizzata come centro di ritrovo per anziani, oggi è gestita dall’associazione «Affari puliti» e ospita giovani imprenditori che, all’inizio dell’attività lavorativa, possono godere di affitti agevolati. Le abitazioni di altri due sodali di Maniero sono diventate rispettivamente centro sociale per il sostegno a persone con disagi psichici e per il ritrovo dei giovani del paese, e sede di alloggi per famiglie in disagio economico. «A Campolongo non si è soltanto voltato pagina, ma si è cambiato libro – sottolinea la professoressa Boldrin, insegnante in una scuola superiore –. Dove la mafia ha attecchito una volta, trova radici più facili cui aggrapparsi. Noi non lo vogliamo, perciò cerchiamo di offrire opportunità ai nostri ragazzi. “Mondo di carta”, spesso in collaborazione con “Libera”, organizza incontri con autori che si occupano di mafia. All’inizio nessuno voleva venire a parlare nel nostro paese. L’apripista e il garante è stato il giudice Francesco Saverio Pavone. È venuto di persona e, dopo lui, tanti altri: Carla Del Ponte, per esempio, e la sorella di Giovanni Falcone». Dallo scorso febbraio, secondo in Italia, il Comune ha aperto lo «Scaffale della legalità», con pubblicazioni, documenti, dvd che trattano di legalità, di diritti umani e di mafie nel mondo. E ogni anno, a giugno, si svolge la «Festa della legalità», evento pubblico con i magistrati che si sono occupati del fenomeno della mafia veneta. A loro il compito di premiare i giovani vincitori del concorso letterario nazionale intitolato a Cristina Pavesi. Cinzia Agostini confronti dei magistrati ha sempre tenuto un comportamento rispettoso: non contestava mai quanto gli veniva detto e non si è mai atteggiato a vittima. Quando era collaboratore non ebbe privilegi di alcun tipo. In quel periodo utilizzava i suoi denari, e non quelli dello Stato. Beni che ha dimostrato di saper tenere ben nascosti. Maniero ha rivelato tante e indubbie capacità che – ne sono personalmente convinta –, se non fossero state usate nella sua azienda del crimine, l’avrebbero fatto diventare un imprenditore di successo». Il Santo «restituito» Oggi Felice Maniero ha chiuso il suo conto con la giustizia. Lo Stato gli ha confiscato un unico bene, la villa bunker di Campolongo Maggiore. Dal 23 agosto dello scorso anno, dopo la scadenza dell’ultima misura restrittiva a suo carico, è un uomo libero. Vive in una località segreta, con una nuova identità. Fa l’imprenditore, proprio la professione che il giudice Campanato vedeva adatta a lui. Ma la sua attività non è più una holding del crimine. Sono molte le cose che non rifarebbe, come dichiara. Una su tutte, diventare un boss. Maniero ha deciso di parlare, oggi, a vent’anni di distanza. Possiamo credere o meno sia a lui sia al suo racconto su quell’episodio. Il «perché» lo abbia fatto, accettando l’intervista del «Messaggero», lo dice lui stesso: «Per poter riparare, anche solo per la miliardesima parte, al dispiacere che ho provocato ai fedeli». Un tassello necessario, anche il suo, per ricomporre nel modo più completo, vent’anni dopo, quel fatto e una pagina di storia mai dimenticata. Un Santo «ritrovato», allora, dopo la rapina del Mento. Un Santo «restituito», oggi – ci auguriamo – ai suoi fedeli grazie anche a questo contributo di verità. Una devozione che continua La Cappella del Tesoro dov’è custodito il Mento. A lato, il giudice Graziana Campanato, presidente del maxiprocesso contro la banda Maniero. Nella pagina accanto, la villa bunker di Campolongo Maggiore (Venezia), unico bene confiscato all’ex boss Maniero. Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 43 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento felice maniero «Un boss non è un eroe» a cura di N i c o l e t t a M a s e t t o L’ex capo della «mala del Brenta» parla, per la prima volta, della rapina del Mento, rivelando particolari inediti. E dice: «Non rifarei il boss». mimmo carriero / olycom Messaggero 44 | di sant È uno dei protagonisti di questa storia. Anzi, in qualità di mandante e regista, ne è, per certi versi, il protagonista assoluto. Felice Maniero parla della rapina del Mento del Santo. È la prima volta che racconta la sua verità, a vent’anni di distanza, su quell’episodio. In precedenza lo ha fatto solo davanti ai giudici, nel corso degli interrogatori resi durante la «collaborazione» iniziata nel 1994. Tra l’altro, per confermare quanto già svelato dai sodali che l’avevano eseguita. Maniero oggi ha la stessa «faccia d’angelo» di allora, gli stessi occhi vivaci e intelligenti di quand’era un criminale spietato che seminava il terrore in tutto il Nordest. Lo stesso volto, ma un’altra identità e una nuova vita. L’ex «boss» vive in una località segreta. Fa l’imprenditore, ha un’azienda con una quindicina di dipendenti. Le sue priorità sono la famiglia e il lavoro. C’è chi continua a non credere nel suo ravvedimento. In ogni caso ci è sembrato giusto dar voce anche alla sua versione dei fatti. Msa. Sono trascorsi vent’anni dalla rapina del Mento. Perché ha deciso di parlare per la prima volta pubblicamente di quel fatto? Maniero. La ragione principale è quella di poter riparare, anche solo per la miliardesima parte, al dispiace- ’Antonio ottobre 2011 re che ho provocato ai fedeli. Poi per il giornale su cui uscirà l’intervista. Di chi fu l’idea del furto? E perché rubare proprio la Reliquia di sant’Antonio? In quel momento avevo un grave problema da risolvere: mio cugino Giuliano era stato appena arrestato, rischiava almeno dieci anni di carcere e io non potevo sopportare una simile eventualità. Dovevo farlo uscire di lì, in qualsiasi modo. Avevo pensato di tutto: di farlo evadere, di andare a liberarlo, di rubare qualcosa di eclatante per poi effettuare lo scambio, di corrompere qualche magistrato. Dovevo decidere in fretta. Mi sentivo responsabile e questa, per me, era una situazione quasi soffocante. Un giorno, mentre chiacchieravo con Giuseppe Pastore (un fedelissimo di Maniero, ndr), lui mi disse «Feli, il Santo a Padova!». Mi brillarono subito gli occhi. Era una delle rarissime opere d’arte, venerata dal mondo intero, con cui avrei potuto chiedere lo scambio. Senza indugi chiamai un altro mio cugino, Giulio, e altri del gruppo: Andrea Batacchi, Stefano Galletto e Andrea Zammattio. In pochi giorni organizzai la rapina che venne messa a segno. Ottenni quello che mi ero prefissato. Dopo la consegna della Reliquia, Giuliano venne scarcerato. In ballo, nella trattativa, c’era però un’altra questione per lei importante: la sorveglianza speciale. All’epoca ero sottoposto alla misura di prevenzione. Nella trattativa, oltre alla liberazione di mio cugino, inserii la revoca di quel provvedimento. Ma a me, in via prioritaria, interessava far scarcerare Giuliano. Come «anticipo» dello scambio mi venne data la possibilità di uscire da Campolongo Maggiore per motivi di lavoro. In seguito avrebbero dovuto revocarmi il provvedimento, che sarebbe scaduto entro pochi mesi. Questa promessa non venne mantenuta. Era prevedibile, avevano già la Reliquia. Di quanto accaduto quel 10 ottobre 1991 si sa più o me- archivio / ansa no tutto. C’è ancora qualcosa che non è stato detto? Un particolare, se non ricordo male, inedito, è che io avevo ordinato di prendere la Lingua di sant’Antonio, molto più «sostanziale» per lo scambio. Invece, quegli zucconi mi arrivarono con il Mento. A loro non dissi nulla. Dentro di me, però, feci questo pensiero: per prendere la Reliquia sbagliata, di sicuro devono aver ritenuto, come tutti noi, che la lingua fosse dentro la bocca. Negli intenti, e poi nei fatti, quell’azione ebbe il risalto e l’eco voluti. Lei conosceva il Santo prima di allora? C’era, per caso, qualche altro elemento, ad esempio devozionale, che legava lei o la sua famiglia a sant’Antonio? Tutti i miei familiari, parenti compresi, sono cattolici praticanti, ma nessun collegamento. Sono un appassionato d’arte. Avevo già visitato la Basilica almeno tre, quattro volte. Non con cattive intenzioni, sia chiaro, ma solo per godermi le sue bellezze architettoniche e artistiche. Quando Pastore pronunciò la fatidica frase, la mia mente aveva già elaborato tutto, conclusione compresa. Nemmeno un attimo di titubanza, allora, per il Santo più venerato nel mondo? No, nessuna. Allora ero un non credente in assoluto. Per quanto riguarda, poi, il rispetto per il Santo e i credenti, quando si è dall’altra parte la parola «rispetto» è sconosciuta. Nelle ricostruzioni si racconta che la Reliquia è stata riposta in un sacco e nascosta sotto terra. Vi è rimasta tutto il tempo? Appena rubata, la Reliquia venne portata in uno dei nostri covi. Nel frattempo si vociferava del suo valore. Mi giungevano voci del tipo: «Il reliquiario è tutto incastonato di pietre preziose, chissà quanto varrà». Allora chiamai mio cugino Giulio e andammo a prenderla per metterla subito al sicuro. La impacchettammo perfettamente, al riparo da qualsiasi infiltrazione d’umidità e la seppellimmo lungo l’argine del Brenta. Dove peraltro rimase tutto il tempo, fino al momento della riconsegna. Un fatto è certo: nel caso non avessi ottenu- Gli inediti Il primo. «Avevo bisogno di un gesto eclatante per trattare con lo Stato, ma l’idea del Santo non fu mia». Il secondo. «In verità, ordinai di rubare la Lingua, mi arrivarono col Mento». Nelle foto: Maniero, il giorno dell’ultimo arresto, il 12 novembre 1994, a Torino; accanto, con la figlia Elena, morta nel 2006. Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 45 dossier società 1991 – 2011. rapina del mento Non esistono guadagni facili «Comandavo trecento persone – asserisce l’ex boss –. L’unica persona che ha guadagnato soldi, alla fine, sono stato io. Ho pagato il mio conto con la giustizia. Ognuno è libero di credermi oppure no». Messaggero 46 | di sant to quello che chiedevo, la Reliquia sarebbe stata riconsegnata ai frati. Non l’avrei mai venduta per portarmi a casa un bel po’ di soldi. Non era quello il mio obiettivo. Con questo crimine lei aveva anticipato una strategia che, pur diversa nelle modalità (le stragi mafiose del 1993 a Firenze e a Roma contro luoghi simbolo delle istituzioni e della cultura), innescava ugualmente un braccio di ferro con lo Stato, costretto a trattare, a scendere a patti con la criminalità. A posteriori è convinto che fosse l’unica strategia perseguibile? Per quanto riguardava me, ricattare lo Stato e ottenere ciò che chiedevo era a dir poco eccitante. In ogni caso, ero lontano anni luce, anche solo nell’intenzione, dal fare del male a chicchessia. Sì, in quel momento era l’unica soluzione per ottenere favori concreti. Diventando confidente (Maniero è stato, e tale vuole essere definito, un «collaboratore di giustizia», ndr), pe- ’Antonio ottobre 2011 raltro cosa impensabile per me, avrei potuto certamente ottenere favori, ma davvero non credo che avrebbero concesso la scarcerazione di una persona che rischiava non uno, bensì dieci anni di detenzione. Si dice che lei, non altrettanto quelli della banda, non si sarebbe comunque mai sbarazzato della Reliquia. Certo, è la verità. Alcuni giorni dopo il furto della Reliquia vennero a casa mia un primario dell’ospedale di Padova, a cui mi legava un rapporto di amicizia, e il fratello di un avvocato, con cui avevo avuto rapporti esclusivamente professionali. Non ho mai fatto i loro nomi e mai li farò perché il loro interesse era unicamente quello di salvaguardare la Reliquia e farla tornare al suo posto. Entrambi erano in stretto contatto con i frati della Basilica, ovviamente preoccupatissimi. Mi hanno chiesto di fare tutto ciò che era possibile per salvaguardarla. Li ho tranquillizzati dicendo che era tutto sotto controllo. Il mento del Santo si trovava al sicuro sotto l’argine del Brenta. Seppero il giorno dopo che l’avevo consegnato alle forze dell’ordine. Il resto, credo sia noto a tutti. Quando venne restituita, la Reliquia non aveva, nel piccolo basamento, uno dei quattro leoncini che fu poi ricostruito. Che fine fece? Sicuramente non fu rubato da uno dei miei uomini, che casomai avrebbero preso una delle bellissime pietre incastonate. È probabile che possano averlo perso durante il furto. Oltre questa ipotesi, non sarebbe leale fare altre supposizioni. Chi seguì le fasi successive alla rapina fino al «ritrovamento»? In assoluto, io. Direttamente e in ogni sequenza. Lei è credente? Purtroppo no. Anche se, per la verità, ultimamente mi capita di «traballare» un po’. Frequento con tantissima gioia un convento di frati ad Assisi. Quando sono lì, e ammiro il paesaggio e l’architettura, mi sembra di stare in un altro mondo. Appena entro in convento, riesco a rilassarmi come non mai. I frati hanno uno sguardo sereno, sembra sorridano anche quando non lo fanno. Ho la fortuna di fare con loro lunghissime chiacchierate, di una piacevolezza unica. Sono incuriosito, oltre i limiti, soprattutto dai racconti dei frati più anziani, dalla vita trascorsa assieme ai lebbrosi o in villaggi sperduti dell’Amazzonia. Nelle loro parole colgo la grande nostalgia per luoghi in cui, lo si percepisce subito, hanno vissuto il periodo più felice della loro vita. Nonostante sappiano chi sono e che non sono credente, avverto che, per loro, non vi è alcuna differenza. Lì, lo confesso, mi sento l’ultimo dell’universo. Ha paura di qualcosa? Se intende paura dovuta alla mia vita passata no, mai avuta, probabilmente per incoscienza. C’è qualcosa che non rifarebbe? Se ha pazienza potremmo parlare per giorni delle cose che non rifarei. Ma, più di ogni altra cosa, cancellerei il momento in cui ho voluto diventare un boss. E lo dico soprattutto per i giovani del Sud che mi leggeranno: ragazzi, non credete ai miti costruiti dalle cronache nere o celebrati nei vostri quartieri. Non esiste per niente il tanto decantato «codice d’onore» che vogliono inculcarvi. È solo un imbroglio per farvi cadere in una trappola da cui non uscirete più. Finirete per essere solo dei burattini nelle mani dei boss, utilizzati unicamente per i loro personali tornaconti. E in più, statene certi, non diventerete mai e poi mai ricchi! Il 95 per cento dei detenuti in Italia, oltre a non potersi acquistare nemmeno un dentifricio, ha gettato le proprie mogli e i propri figli nella disperazione più totale. E anche voi giovanissimi, che non avete ancora famiglia, sarete destinati a distruggervi la vita e a diventare causa di dolore infinito. Pensate sempre a chi vi ama: che ne sarà di loro? Questa è la cruda realtà. Ritornando al tanto decantato «codice d’onore», sappiate che un giorno, molto probabilmente, uno del clan, che magari riterrete vostro grande amico, con una scusa qualsiasi vi accompagnerà in una trappola dove verrete uccisi a tradimento, se non torturati prima. E sapete per cosa? Solo per intrighi tra boss, per denaro, addirittura per antipatia o per altri futili motivi. E non perché avete disobbedito, non avete rispettato le regole o tradito. Chi, invece, lo fa, rarissimamente viene eliminato, diventa infame ed escluso dal clan. Altro che onore, giuramenti, fratellanze! Sono dei vigliacchi, il più delle volte spietati solo con chi ha giurato loro fedeltà. Sapete qual è una delle frasi più ricorrenti: «Qui lo Stato ci ha abbandonati, se non ci fossimo noi la gente morirebbe di fame, quelli al governo sono i veri delinquenti, basta leggere i giornali». È una logica infame. Giocano sulla pelle della povera gente in gravi difficoltà, per autocertificarsi, poi, come salvatori della patria. Loro che compiono stragi! Loro che eseguono e fanno eseguire feroci uccisioni! Loro che inondano il pianeta di droghe! Ragazzi, non cadete nella trappola. Non esistono guadagni facili, men che meno in quel mondo vile, colmo di violenza e di tradimenti. Comandavo circa trecento persone. Posso assicurarvi che l’unico che ha veramente guadagnato soldi sono stato io. Tutti gli altri, compresi «bracci destri e sinistri», dopo aver patito dieci, quindici anni di galera, oggi sono sen- za una lira, vecchi, distrutti e disperati. Parole forti le sue. Ma si rende conto che qualcuno potrebbe non credere a una persona che, tra i reati contestati, ha avuto proprio quello di omicidio e traffico di droga? Certo, ci mancherebbe! Me ne rendo conto. Su quanto accaduto ho reso delle confessioni alla magistratura e non esistono più dubbi a riguardo da parte di nessun inquirente. Con l’aggiunta, poi, di innumerevoli riscontri oggettivi e conseguenti condanne, ormai passate al vaglio della Corte Suprema. Credo che questo basti a togliere eventuali dubbi a qualsiasi persona ragionevole. In ogni caso, su quanto affermo ognuno è libero di pensarla come vuole, di credermi oppure no. Oggi che persona è Felice Maniero? Nulla di speciale. Normalmente sono a casa prima delle nove di sera. Lavoro davvero moltissimo e mi piace. È una nuova sfida, anche personale, alla quale non mi sottraggo. n olycom Messaggero di ottobre 2011 sant ’Antonio | 47