Lorenza Servetti
Corinna Testi Pescatori e la società budriese
Una parola ben più autorevole ed efficace della mia doveva risuonare in
questo momento ed inneggiare al lavoro, alla previdenza, al risparmio, al mutuo
soccorso, all’istruzione, a questi vincoli che fraternamente riunendovi
costituiscono lo scopo della vostra società.
[...] Non fu un vano scopo che mi decise a parlarvi, ma il pensiero che non
sarebbe tornato sgradito a voi, operaie, la parola di un’operaia, perché tale non
deve chiamarsi solo chi incallisce la mano nel quotidiano e aspro lavoro
quotidiano, ma ancora chi dà alla società il lavoro della propria mente e del
lavoro sente le fatiche e insieme le soddisfazioni.
[...]Ricordate che ognuna di voi, per quanto modesto, umile sia l’ufficio che
compie nel mondo, può fare e molto per il bene comune. Allora soltanto,
impegnandoci, potremo dire di non avere vissuto inutilmente e di avere lasciata
qualche parte di noi che non andrà dispersa nel mondo.
[...] Incitate dunque, socie operaie, le vostre compagne ad entrare nel nostro
sodalizio. Dite loro che la donna non perde nulla della sua femminilità
associandosi in nome del lavoro, della previdenza, del mutuo soccorso,
dell’istruzione. Ella mostra invece di volere degnamente occupare il posto al
quale la moderna società l’ha innalzata per amore di giustizia. Dite loro che nei
giorni dolorosi quando il male viene tristemente a visitarvi e con esso entrano i
timori angosciosi di un domani forse senza pane perché senza lavoro, la vostra
associazione accorre pronta ad allontanarli co’ suoi sussidi, che non sono
un’elemosina umiliante, ma il frutto del vostro lavoro stesso, dei modesti vostri
risparmi che la cooperazione ha fatto il miracolo di moltiplicare.
[…] Mostratevi sempre unite e ferme nei propositi. Dalla comunanza e dallo
scambio di idee non potranno uscirne che cose vantaggiose per la nostra Società
(operaia) e fate sì che essa possa diventare il modello delle presenti e future
associazioni femminili, decoro nostro e del nostro paese.
Queste “Parole della signorina Corinna Testi”, tratte dal discorso commemorativo
dei vent’anni della Società operaia femminile di Budrio a lei affidato il 27 giugno
1897, ben presentano la loro autrice e, insieme, mettono in luce anche aspetti
importanti della società budriese in cui ella operava e per il cui miglioramento si
prodigò tutta la vita1.
Corinna Testi, di famiglia benestante, avrebbe potuto godere individualmente della
sua posizione sociale, del “privilegio” dell’istruzione - il padre Guglielmo,
veterinario, aveva avuto ampie possibilità di far studiare i suoi figli, lei da maestra, il
fratello da medico. Volle invece impegnarsi perché tale privilegio fosse esteso a tutti,
diventasse un “diritto”.
C’è un filo rosso che attraversa la sua opera: la convinzione che l’istruzione per
tutti e la solidarietà, il mutuo soccorso, l’“agire per il bene comune”, siano
fondamentali per il benessere e il progresso di una comunità. E che il valore di una
comunità si manifesti proprio nella capacità di mettere in atto questi principi.
Idee e principi che le derivavano anche dall’ambiente famigliare: la madre Enrica
Boari – che fu nel primo consiglio direttivo dell’Asilo infantile, ma soprattutto il
padre Guglielmo Testi, mazziniano, repubblicano, fortemente impegnato nella
politica budriese, nel momento in cui Budrio, dopo l’attiva partecipazione al
Risorgimento, iniziava la sua vita di Comune di Prima classe del nuovo regno
unitario.
Fu proprio Guglielmo che nel 1863 svolse un ruolo molto importante nel tentativo
di “riorganizzazione” della “Società Operaia di Mutuo soccorso e Miglioramento” di
Budrio, fra le prime del territorio bolognese, sorta nel settembre 1861 sotto l’impulso
di quella di Bologna, di cui era uno dei principali dirigenti il concittadino Quirico
Filopanti2. La Società operaia budriese, di cui era stato proclamato presidente
onorario Giuseppe Garibaldi e socio onorario Giuseppe Mazzini, nel proprio statuto
contemplava come proprio scopo la “reciproca solidarietà, il mutuo soccorso, la
promozione dell’istruzione, dell’educazione, del benessere degli operai”.
Interclassista, aveva un direttivo composto da mazziniani, garibaldini, democratici
del partito d’azione ed era guardata con sospetto dalle autorità prefettizie. Nel 1863
era stata “sospesa” dal prefetto per aver partecipato, a Genova, al “Congresso delle
Associazioni democratiche”, da cui era sorta quella “Società emancipatrice italiana”
che il governo sciolse per i suoi fini considerati “sovversivi”.
Anche la Società budriese venne guardata con sospetto e, per dare il permesso di
riaprirla, il prefetto chiedeva l’assicurazione di eliminare “ogni fine politico”, di
dedicarsi solo al mutuo soccorso, e, di fatto, la costituzione di una nuova Società. I
membri dell’associazione però non vollero rinunciare ai principi fondatori e non
accettarono questa delibera, appellandosi al fatto che la società budriese non era stata
sciolta, ma solo sospesa. Tra questi scontri mai risolti si arriverà al 1871, quando, pur
1
La Società Operaia Femminile di Mutuo Soccorso di Budrio nel XX Anniversario della sua fondazione. Parole della
Signorina CORINNA TESTI e del Dott. ETTORE ZANARDI- Il giorno 27 giugno 1897 Budrio, Budrio, 1897. Opuscolo
conservato da un privato, che mi ha gentilmente concesso di consultarlo.
2
Filopanti ne fu presidente nel 1863, 1864,1866 e1868. La Società Operaia di Mutuo Soccorso di
Bologna era stata fondata il 9 aprile 1860.
di far rivivere l’associazione, cedettero e acconsentirono ad una “rifondazione”,
riprendendo tuttavia il nome, lo statuto e le finalità della prima società.
Intanto nel 1864 era stata fondata da Raffaele Belluzzi, importante figura del
mondo politico e culturale bolognese e a Budrio professore della Scuola tecnica da lui
creata, la “Società Liberale Budriese”, liberal progressista, che accolse molti membri
della sospesa Società Operaia, fra cui Guglielmo Pescatori, che per molti anni ne fu
presidente. La presenza a Budrio di un associazionismo così vario - nel 1862 si era
aggiunta anche la “Società del Tiro a segno”, garibaldina - ispirato a favorire “il
progresso sociale e culturale”, è un segno della vivacità della vita politica locale nei
primi anni postunitari: centri propulsori di valide iniziative, le associazioni divennero
anche un bacino da cui attingere i nuovi amministratori.
Nel 1877 nella Società operaia alla sezione maschile, se ne era aggiunta anche una
femminile, rispondendo ad una richiesta avanzata nel corso degli anni Settanta da
tutte le Società operaie del Bolognese. Si inizia con 39 socie effettive ed 8 onorarie,
numero che non variò molto negli anni, mantenendo una media di 45-50 iscritte (ma
nel 1889 ve ne furono 128 e nel 1897, 150). Già l’anno dopo la fondazione, la Società
femminile ha una propria bandiera ed una sua rappresentante nel Consiglio Direttivo
maschile. Dal 1889 avrà anche un proprio Direttivo, eletto annualmente
dall’Assemblea delle socie ed una propria sede.
Prospetto del “Movimento dei soci e delle socie” 1878-1879
(Archivio storico Comunale; da: Fedora Servetti Donati, Movimenti e associazioni popolari a Budrio dopo l'Unità)
Lo statuto della sezione femminile, basato sui principi fondanti della maschile, si
arricchisce di nuovi temi, legati specificatamente alla condizione femminile:
Art. 3 La società ha per principio la fratellanza e per fine il Mutuo Soccorso,
col miglioramento morale, intellettuale ed economico delle operaie. Quindi essa
fornisce alle socie un sussidio in caso di malattia e per il parto e un sussidio
mensile dopo i 65 anni di età. Consentendolo i suoi mezzi, favorisce ed aiuta le
istituzioni pubbliche educative, come: scuola popolare, conferenze, biblioteca;
ne fonda delle proprie, stanzia premi a favore di socie o di figlie di socie per
profitto e frequenza nelle scuole.
La sezione fu presieduta a lungo da Gismunda Redditi Menarini, personalità di
spicco della società budriese del periodo, attivamente impegnata in opere benefiche e
nella valorizzazione del ruolo della donna.
E’ a lei che si devono importanti iniziative, come, fra le prime dell’associazione, la
fondazione di una “Scuola di Ricamo per giovinette”, specializzata in lavori in
étamine e in seta: i proventi delle vendite dei ricami servivano per l'acquisto di libri,
per gite d’istruzione e aiuti alle socie bisognose. O l’istituzione di una dote annua di
£.25 per le socie nubili senza mezzi, alla cui realizzazione la Menarini contribuì con
denaro proprio, per non gravare troppo sul bilancio della Società, come fece in più di
una occasione, come, fra le altre, per la realizzazione della bandiera.
Ultimo decennio dell'Ottocento: esposizione dei lavori della “Scuola di ricamo”
(Da: Fedora Servetti Donati, Immagine di un paese nei suoi antichi soprannomi- Budrio 1750-1950)
Non è un caso che a commemorare il XX anniversario della Società operaia
femminile sia chiamata Corinna Testi, già da tempo impegnata nella Società e
dirigente. E insieme a lei Ettore Zanardi, medico, dirigente socialista, attivo nella vita
politica e sociale del paese, in prima linea nella lotta per la difesa della salute
pubblica, della scuola e dell’istruzione, temi che porterà all’attenzione pubblica anche
attraverso un giornale “militante” da lui fondato “Il Lavoratore” Organo
socialista(1901-1907). Zanardi sarà poi, agli inizi del 1900, l’ideatore del primo
sanatorio “popolare” per malati di tubercolosi.
Li lega, oltre ad un’amicizia fraterna, la condivisione di ideali e lo stesso forte
senso della comunità. Corinna ha solo 25 anni, ma ha già alle spalle un’esperienza
grande di messa in pratica di quell’“operare per il bene comune”, valore fondante
della Società operaia.
Dal 1892 è direttrice dell’“Asilo Infantile per i figli dei lavoratori”, alla cui
fondazione aveva collaborato. Opera importante per la comunità, fortemente voluta
dalla prima Giunta socialista, insediatasi nel novembre 1889, con sindaco Silvio
Monari, primo sindaco elettivo (fino ad allora il sindaco era di nomina regia) e un
consiglio comunale in cui anche la classe operaia era rappresentata: su 25 consiglieri
vi erano 8 operai e un colono3.
Grande fu l’investimento della giunta sulla scuola, con anche i primi progetti di
edilizia scolastica - realizzati poi solo nella seconda esperienza socialista del 19044.
Alle spese di gestione dell’Asilo, che forniva anche la refezione a mezzogiorno,
partecipano, insieme al Comune, la Partecipanza e la Congregazione di carità, mentre
per le spese di impianto i soldi erano già stati raccolti da un “Comitato” presieduto da
Gismunda Redditi, il cui marito, l’ingegnere Luigi Menarini sistemò gratis i locali in
cui sarebbero stati accolti i bambini.
Luigi Menarini e il fratello Enrico, amici di Filopanti, e di Carducci, facevano parte
di quella schiera di personaggi budriesi, che avevano partecipato attivamente al
processo risorgimentale e alla riorganizzazione postunitaria del comune: membro
della Società operaia e più volte presidente della Società liberale, consigliere
comunale e presidente a più riprese della Congregazione di carità, aveva anche messo
a disposizione della comunità, gratuitamente, le proprie competenze professionali.
Nel 1880 aveva attuato gratis i lavori per la trasformazione del Palazzo comunale e
nel 1891 segue tutti i lavori per rendere possibile l'avvio dell’asilo.
Alla morte, nel 1898, Luigi lasciò tutto il suo patrimonio all’Asilo, compresa la
villa in Via Benni, che, secondo la sua volontà, dopo la morte della moglie
Gismunda, ne sarebbe diventata la sede definitiva.
3
4
Effetto della legge elettorale del 1882, in cui al requisito del censo per essere elettori fu
sostituito quello delle capacità: («saper leggere e scrivere») e dell’ ulteriore allargamento del
corpo elettorale nel 1889: a Budrio da 685 iscritti alle liste elettorali amministrative nel 1888 si
passa a 1.517 del 1889, dal 4,2% al 9,3% della popolazione complessiva (16.305 abitanti). Ad
ottenere ciò contribuì fortemente la Società Operaia con l’istituzione di scuole serali.
Archivio storico Budrio, Consiglio Comunale 14-4-1890.
E così fu: dal 1914, infatti, un anno dopo il decesso di Gismunda, nella bella villa
Menarini adattata al nuovo uso, si trasferì l'Asilo, intitolato alla memoria della
piccola Argentina Menarini, figlia dei donatori, e arricchito con nuovi lasciti della
stessa Gismunda e della sorella dell’ingegnere, Costanza.
L'Asilo cominciò a funzionare nel 1892, sotto la direzione di Corinna Pescatori, che
nel testo sopracitato, proprio nel ventesimo della Società operaia ricorda
“l’entusiasmo, l’alacrità con cui le socie si adoperarono perché questo stesso luogo,
che ogni giorno s’allieta della gioconda spensieratezza di molti dei vostri figlioletti
che qui accoglie, sorgesse presto per il bene loro, per la vostra tranquillità”.
Villa Menarini in via Benni nel 1897.
Al centro del gruppo presso il cancello, Gismunda Redditi Menarini
(Archivio fotografico Cocchi; da: Fedora Servetti Donati, Movimenti e associazioni popolari a Budrio dopo l'Unità)
Fedora Servetti Donati nel primo studio sulla Pescatori parla di un suo resoconto
sul primo anno di funzionamento dell'Asilo, L’Asilo infantile di Budrio. Parole della
Direttrice. Saggio annuale, 1893, in cui appariva “quali modernissimi intendimenti
pedagogici la guidassero”5. Saggio oggi purtroppo non più rintracciabile.
Abbiamo però la testimonianza delle sue moderne concezioni didattiche
nell’istituzione di una piccola “Accademia” teatrale per i bambini che, giocando,
imparavano a recitare. A questo scopo scrisse l’operetta per parole e musica Gino e
Mimì , che nell’ottobre del 1897 i bambini, istruiti dalla Direttrice, rappresentarono
nel Teatro Consorziale e, visto il successo, anche in altri teatri in giro per l’Italia.
Nel 1901 compose e diede alle stampe anche un’altra “favola in prosa e musica per
ragazzi”, Fata Regina, e continuò negli anni a organizzare e seguire le
“filodrammatiche” scolastiche.
Album con le foto della recita di “Gino e Mimì regalato dai bambini alla loro direttrice
(Proprietà privata)
5
Fedora Servetti Donati, Movimenti e associazioni popolari a Budrio, Tamari,1974,pp.
L’opuscolo si trovava nell’archivio privato della figlia Graziella.
Cartolina postale con la foto di una recita della “filodrammatica” diretta da Corinna.
Budrio 1916-1917
(Archvio fotografico Fedora Servetti Donati)
L’impegno per l’istruzione - considerata un bene primario per il progresso di una
comunità - continuerà negli anni, con la consapevolezza della necessità di agire per
renderla accessibile e gratuita anche per chi tradizionalmente ne era escluso, come le
donne, in piena condivisione con le idee del pedagogista Antonio Gabelli: “il
risorgimento di un popolo comincia dall’educazione della donna”6.
Nella sua opera all’interno della Società operaia, Corinna insiste proprio su questo,
sul valore dell'istruzione, “che deve aggiungersi al sentimento di fratellanza”, come
sottolineava lo statuto della società.
Diverse sono le iniziative da lei promosse in questo senso: l’istituzione di premi ai
figli delle socie che si distinguono a scuola; le “gite d’istruzione” per le socie stesse,
a visitare le seterie di Portomaggiore, ad esempio, ma anche semplicemente a vedere
il mare a Rimini, nella convinzione che
non è istruzione solo il sapere che si acquista lungo assiduo studio sui libri, ma
tutto ciò che, presentandosi nuovo alla nostra mente, accresce il patrimonio
delle idee, e scopre innanzi al pensiero un più vasto orizzonte.
[...] Migliorare la nostra mente e il nostro cuore, snebbiare la mente
dall’ignoranza, se è un diritto che la società riconosce nella donna, è nel tempo
stesso un dovere a cui la donna deve ubbidire.
6
A.Gabelli, L’Italia e l’istruzione femminile, in “Nuova antologia”, vol. XV, Roma, 1870.
Sempre nell’ottica del contribuire alla diffusione del sapere fra le classi popolari e
del mettere in pratica i principi statutari della Società operaia, lavorò alla
catalogazione dei libri della Biblioteca Comunale per ripristinare la Biblioteca
Circolante, già in funzione nel 1871 sotto il patrocinio della Società.
A lei fu affidato il compito di organizzare un’Università Popolare, promuovendo
incontri culturali, conferenze, studi, concerti. Oggi, con la dispersione dell’archivio
privato della famiglia Pescatori e di gran parte delle carte relative alla Società
operaia, non ne è rimasta documentazione scritta7; tuttavia si può supporre con
sufficiente certezza che l’Università budriese sorgesse su impulso della Università
popolare “G.Garibaldi” di Bologna, istituzione legata alla Società operaia, nata col
fine di “diffondere la scienza e la cultura... per la redenzione dall’ignoranza”. Vi si
tenevano corsi di storia, arte, geografia, legislazione, fisica, chimica, cicli di
conferenze sull’attualità anche con proiezione di diapositive e gite di istruzione8.
Pure fuori dall’ambito della Società operaia, fu sempre disponibile a impegnarsi in
prima persona in progetti per il bene della collettività, come la grande avventura del
Sanatorio popolare di Zanardi: nel 1902 la troviamo segretaria di quel “Comitato di
signore e signorine pro sanatorio”, costituito ad hoc, per contribuire alla difficile
impresa della raccolta fondi. Il Comitato contribuì con lotterie, mercatini,
sottoscrizioni popolari di pochi centesimi che, “anche se le somme raccolte non
erano granché - dice Zanardi - avevano l’ottimo effetto di far capire agli operai
come il loro contributo benché modesto fosse necessario un’opera di difesa
collettiva”. E accompagnò l'impresa del sanatorio fino alla sua realizzazione,
organizzando anche, poco prima dell’inaugurazione, una festa nel parco del sanatorio
( Domenica 4 giugno 1905)9.
Corinna aveva continuato il suo impegno sociale anche dopo il matrimonio, nel
1898, con Giuseppe Garibaldo Pescatori, figlio di quell’Erminio, seguace e amico di
Garibaldi, dapprima repubblicano mazziniano, poi vicino alle posizioni
internazionaliste della Comune parigina, che introdusse a Bologna le idee
dell’Internazionale dei lavoratori, fondando nel 1871 una nuova società operaia,
internazionalista: “Il Fascio Operaio”.
Allontanatasi dal paese per seguire in Friuli il marito, professore di lettere classiche
che là aveva avuto la cattedra (anche lei ottenne un insegnamento di canto e musica
nella Scuola Normale - per maestre - di San Pietro al Natisone), rimasta vedova pochi
anni dopo, nel 1907 fece ritorno a Budrio con i due figli, e riprese subito la sua
attività nella Società operaia femminile.
7
8
9
Rimane però la documentazione di una fonte orale: i ricordi della figlia Graziella trasmessi a
Fedora Servetti Donati.
Cfr. L. Arbizzani, Sguardi sull’ultimo secolo, p.104. Bologna nel 1903 diventerà la sede della
Federazione nazionale delle Università Popolari. Si veda qui oltre il saggio di Cinzia Venturoli.
La festa, come le altre iniziative pro sanatorio del Comitato, viene pubblicizzata sul giornale
fondato da Zanardi, “Il Lavoratore” (28 maggio 1905).
Sua é la proposta di attivare nei locali della Società un laboratorio di maglieria a
macchina, i cui guadagni, uniti alle modeste quote associative, si aggiunsero ai fondi
per una pensione, anche se modesta, per le socie anziane.
Con tali iniziative mise in pratica le sue modernissime idee sul lavoro femminile,
ribadendone l’importanza e affermando la necessità di preparare la donna al suo
inserimento lavorativo, per tutelarla. Lei stessa aveva sempre lavorato fuori dalle
mura domestiche: cosa non frequente all’epoca.
Il tema del lavoro è centrale anche nell’articolato progetto che nel febbraio 1918,
con la guerra ancora in corso, presentò al Municipio: Fondiamo scuole elementari di
agricoltura e di educazione domestica. Osservazioni e proposte al Municipio di
Budrio. “Osservazioni” in cui si dimostra come in una moderna concezione della
società, istruzione e preparazione al lavoro debbano procedere di pari passo e
debbano essere applicate a un campo troppo a lungo trascurato, quello
dell’agricoltura, tanto più importante - nota Corinna - dopo le distruzioni della guerra.
Senza soffermarmi sull’analisi interessantissima che la Pescatori fa del momento
storico e della ripresa che deve seguire alla guerra, vorrei indicare solo alcuni punti
cruciali: le scuole elementari di agricoltura, gratuite, “fondate e mantenute dai
Comuni o da Comitati privati col concorso di Enti o Comuni, sussidiate dai Ministri
dell’agricoltura e dell’Istruzione” rispondono alla necessità di “formare un nuovo
lavoratore dei campi, dalla mentalità più larga e comprensiva, sradicare dannosi
pregiudizi, imparare l’uso delle macchine, cambiare l’opinione che il mestiere del
contadino valga assai meno degli altri mestieri”.
E tanto più importanti saranno per le donne “dei campi”, alla cui cooperazione è
dovuta gran parte del lavoro rurale: esse dovranno diventare un mezzo per farle uscire
dalla condizione di inferiorità in cui sono tenute, “considerate talvolta poco più di
uno strumento da lavoro o poco meno di una bestia da soma.[...]
Solo la scuola potrà compiere questa opera di rinnovamento con efficacia e
sollecitudine perché la scuola resterà il faro da cui si irradia la luce continua, che
vince e fuga l’ignoranza”.
Il progetto, pur avendo ottenuto l’approvazione del Ministro per l’agricoltura, non
venne messo in opera, forse per mancanza di mezzi. Ma Corinna non si diede per
vinta e qualche anno dopo (1922), sempre sotto il patrocinio della Società Operaia
femminile budriese, fondò la Scuola Serale di Disegno Applicato alle Arti e ai
Mestieri, che funzionò almeno fino al 1927.
Anche tale iniziativa si inseriva in quel programma di educazione-istruzione
accessibile a tutti che costituisce, come abbiamo visto, il filo rosso dell’opera della
Pescatori: gratuita, aperta a tutti, uomini e donne, si svolgeva in ore serali proprio
perché rivolta a lavoratori; vi si insegnava, oltre al disegno applicato, anche cultura
generale. La presidenza della scuola era stata affidata ad Augusto Majani (Nasìca) e
vi tennero lezione validissimi insegnanti bolognesi, artisti affermati dell’entourage di
Alfonso Rubbiani, come i professori Aldrovandi e Simoncini, e il budriese Giovanni
Venturoli, che aveva già partecipato ai lavori di decorazione del Municipio.
Vi insegnava anche la figlia di Corinna, Graziella Pescatori, futura importante
pittrice, allora poco più che sedicenne e già appassionata di pittura.
La scuola ebbe grande successo, come ci dimostra la lunga lista degli studenti
documentati (108) e dovette essere anche di gran giovamento: fra gli alunni
ritroviamo molti, allora giovani lavoranti, che diventarono poi fra i più apprezzati
artigiani del paese. Forte anche la partecipazione delle donne, di poco inferiore a
quella maschile. Il suo carattere innovativo ed i suoi pregevoli risultati ebbero un
riconoscimento nazionale alla Mostra nazionale didattica di Firenze del 1925, dove
la Scuola venne premiata con una medaglia di bronzo, oggi conservata presso la
Biblioteca comunale.
I disegni esposti nella mostra che accompagna il convegno, fortunosamente
recuperati da un privato e donati con generosità al Comune, sono una piccola parte
dell’intero fondo (458 disegni), ma bastano a dimostrare la vivacità culturale di quella
che abbiamo chiamato “un’avventura collettiva” e l’importanza di una “educazione al
lavoro”.
Nel 1925 troviamo la Pescatori impegnata ad organizzare un ginnasio inferiore
(Ginnasio Filopanti) privato, gestito dai genitori, dove, per suo espresso
interessamento, furono gratuitamente accolti alcuni ragazzi che, pur avendo
dimostrato attitudine agli studi, non avrebbero potuto continuarli per le loro
condizioni familiari. Gli alunni avrebbero sostenuto l’esame da privatisti al Liceo
Galvani di Bologna, dove da tempo Corinna lavorava come segretaria.
Alla fine degli anni Trenta, in accordo col Comune, commissionò, completamente
a sue spese, un censimento delle opere d’arte esistenti nel Budriese a Heinrich
Bodmer, studioso e critico d’arte, noto in Italia e all’estero per le sue pubblicazioni e
già direttore dell’Istituto Germanico di Storia dell’Arte in Firenze.
Questi, tra il 1938 e il 1940, compì accurati sopralluoghi e studi, ma lo scoppio
della guerra e il ritorno, pochi anni dopo, in Svizzera interruppero l’opera. Il Bodmer
morì prima che si fosse potuto pubblicare il suo lavoro, che, ancora manoscritta e
senza la revisione generale che l'autore avrebbe voluto, fu inviata dalla vedova al
Comune di Budrio, nel cui archivio è conservata: fonte preziosissima per gli studi del
patrimonio artistico budriese futuri.
Ancora dunque Corinna Testi Pescatori si rivela “instancabile animatrice di ogni
opera culturale e sociale a Budrio”, come l’aveva definita Fedora Servetti Donati nel
primo studio su di lei. E anche questo ultimo atto di amore per il proprio paese
risponde a quel senso della comunità che ha caratterizzato tutta la sua opera: un bene
comune da difendere e far progredire con impegno individuale e collettivo,
condividendo i valori della solidarietà, del lavoro e dell’istruzione per tutti,
considerati motori di ogni progresso sociale.
UN’AVVENTURA COLLETTIVA
Mostra dei lavori degli allievi della “Scuola serale di Disegno
applicato alle Arti e Mestieri” di Corinna Testi Pescatori
(1922-1927)
a cura di Susan Williams e Lorenza Servetti
Gli allievi della “Scuola serale di Disegno applicato alle Arti e Mestieri”.
Al centro, in prima fila, la fondatrice Corinna Testi Pescatori
(Archivio fotografico Montanari-Pazzaglia)
Lorenza Servetti
Scheda introduttiva
I disegni esposti nella mostra fanno parte di un ricco corpus (432 disegni di almeno
108 diversi autori) fortunosamente salvato dalla dispersione e donato, nel 2005, dalla
famiglia che li ha ricuperati al Comune di Budrio. Oggi sono conservati nella
Biblioteca Comunale “Augusto Majani”.
Essi sono il frutto di una delle più significative esperienze realizzate in paese nei
primi decenni del ‘900: la “Scuola serale di Disegno applicato alle Arti e Mestieri”,
fondata da Corinna Testi Pescatori (1872-1953), instancabile animatrice di ogni opera
culturale e sociale a Budrio fra Otto e Novecento.
Donna dalle idee avanzate, Corinna considerava l’istruzione un bene primario per
tutti e dedicò la sua vita a mettere in atto questo principio. La Scuola serale aveva
come scopo appunto quello di offrire un’istruzione professionale e rendere
accessibile il sapere anche a chi era avviato al lavoro, comprese le donne, le più
escluse dall’istruzione. E per rendere più completa la formazione degli alunni,
accanto al disegno applicato vi si insegnava anche cultura generale.
Fu una vera “avventura collettiva”, come abbiamo voluto chiamarla, cui
parteciparono tra i 1922 e il 1927, gli autori dei disegni: ragazze e ragazzi che la sera,
dopo il lavoro, la frequentavano con passione, consapevoli di godere di un privilegio
– l’insegnamento gratuito – e di una grande opportunità: imparare ad eseguire disegni
precisi e armoniosi per intagli su legno, ricami, circuiti elettrici, mobili, inferriate e
cancelli, utili per il loro futuro lavorativo, sotto la guida di validi insegnanti
bolognesi, artisti affermati dell’entourage di Alfonso Rubbiani, come Armando
Aldrovandi e Luigi Simoncini, il budriese Giovanni Venturoli, ed anche Augusto
Majani (Nasica), che ne fu presidente.
La scuola fu patrocinata dalla “Società operaia femminile di Mutuo Soccorso” di
Budrio, fondata nel 1877, della quale Corinna era da lungo tempo una dirigente e ai
cui principi di “reciproca solidarietà, mutuo soccorso e promozione dell’istruzione,
dell’educazione e al benessere degli operai”, anche questa iniziativa si ispirò. Nei
fogli di molti disegni se ne può vedere il timbro, accanto al “visto” di Luigi
Simoncini, che ne fu direttore e maestro.
Il successo dell’iniziativa fu grande, come testimonia la lunga lista delle allieve e
degli allievi, e notevoli furono i risultati concreti: furono messi in luce abilità e talenti
degli studenti, giovani lavoranti che diventarono poi apprezzati artigiani: falegnami,
fabbri, meccanici, sarte, ricamatrici, e che mantennero vivo il ricordo della scuola e
lagratitudine per quello che era stato loro offerto, come appare dalle testimonianze
che abbiamo raccolto. Come quella del figlio di Valter Starni - di cui sono in mostra i
disegni di cancelli e inferriate, e che realizzò poi con suo padre la cancellata del
cimitero di Budrio - che ricordava sempre con affetto la fondatrice Corinna, presente
a tutte le lezioni e che loro studenti in gruppo accompagnavano a casa, fuori Budrio,
per non farle fare il tragitto da sola. O quella di una allieva, divenuta provetta
ricamatrice di corredi, che quando la guerra le distrusse la casa piangeva disperata
non solo per non aver più un tetto, ma per la perdita dei preziosi disegni fatti a scuola,
a cui si ispirava per i suoi ricami.
Il carattere innovativo della scuola ed i suoi pregevoli risultati ebbero anche un
riconoscimento alla “Mostra nazionale didattica” di Firenze del 1925, dove la Scuola
venne premiata con una medaglia di bronzo finemente lavorata.
Nel poderoso corpus delle opere - che comprende disegni decorativi, i più
numerosi, con motivi geometrici o floreali, di chiara influenza liberty; lavori che
rappresentano scene di fantasia, animali, nature morte; disegni architettonici, tecnici o
raffiguranti elementi di arredamento, fino a progettazioni edilizie - risalta una
vivacità e una passione che ci fa pensare ad una scuola seguita con dedizione e con
gioia, vissuta come grande opportunità di apprendimento e possibilità di esprimere le
proprie capacità.
L’esposizione di una parte notevole di questo materiale, organizzato secondo i
soggetti raffigurati, in modo da dare il senso complessivo del corpus - al quale si
aggiungono alcune opere conservate da privati e gentilmente concesse - vuole essere
un contributo offerto ai concittadini per una conoscenza più approfondita del
patrimonio storico e culturale di Budrio e, al contempo, un omaggio a Corinna Testi
Pescatori, e alle donne e agli uomini che con tanto fervore parteciparono alla sua
innovativa iniziativa.
La mostra è stata ripresentata a Bologna, da maggio a luglio 2012, presso la
galleria Freak Andò di Maurizio Marzadori, nell’elegante allestimento di Raffaele
Battaglia e Maurizio Marzadori: ai disegni si è aggiunta l’esposizione di pezzi di
artigianato (mobili, inferriate, pizzi e decori) che ne richiamano i motivi e lo stile.
Per l’occasione è stato pubblicato anche un opuscolo con i disegni.
(Si veda il Pdf “Un'avventura collettiva”)
Gli autori dei disegni del Fondo “Corinna Testi Pescatori”
COMELLINI Rinaldo
ALBERONI Giuseppe
ALBERONI Salva
ARMAROLI Guerrino
BACCA Anna
CURTI Angiolino
DALL’AGLIO Luigi
DE LUCCA Stefano
FAVALINI Arvedo
FAVALINI Walter
BACCA Onorato
BALOTTA Domenica
BETTINI Ernesto
FEDERICI Amilcare
BIAVATI Armando
FEDERICI Armando
BONAGA Adolfo
BONDIOLI Francesco
BONORA Edgardo
BONORA Giulio
BONORA Pietro
BONORA Rino
BORGHINI Laura
BORTOLOTTI Assunta
FEDERICI Derna
GALVANI Antonio
GARAVINI Costante
GHELLI Lisetta
GIULIANI Marcella
GORIA Elena
GRASSI Romano
BOTTAZZI Francesco
GNUDI Raffaella
BUSI Bianca
LODI Giorgio
BUTTAZZI Paolina
MAGAGNOLI Gualtiero
CACCIARI ………
MAGLI Giovanni
CANTELLI Giovanni
MARANI Francesco
CAPRINI Angelo
MARCHESINI Ostilio
CARPANI Adolfo
MARCHESINI Pacifico
CASARI Isotta
MASETTI Gianna
CHIODINI Edmondo
MASSARENTI Ada
CHIODINI Leone
MASSARENTI Nino
CODICE’ Albertina
MESSEDAGLIA Clara
MINARELLI Elio
SARTI G.
MINGARDI Renato
SAVIGNI Evaristo
MINGHETTI Mercede
SCANABISSI Enotrio
MONARI Clara
SCANABISSI Salva
MONARI Nives
SCANABISSI Valentina
MONTANARI Alfonsina
SGARZI Angelo
MONTANARI Giulia
SGARZI Francesco
MONTANARI Teresa
SPISNI Dino
MONTANARI Lina
STARNI Walter
MONTI Angelo
TESTI Maria
MORARA Ariodante
TESTONI Clara (Ormea?)
NASCETTI Bruno
TRIPPA Angelo
NASCETTI Giacomo (Mino)
TOMESANI Renato
NASCETTI Lina
VEROLI Lina
OPPI Fidenzio
VILLA Amedeo (fu Aldo)
ORSONI Enzo
VILLA Amedeo (di Domenico)
ORSONI Oliviero
VILLA Marino
PARENTI Aldo
ZAGA Loredana
PARENTI Luigi
ZAGA Maria
PATELLI Paolo
ZAMBONI Cesare
PAVANI Lorenzo
ZAMBONI Guido
POGGI Lidia
ZAMBONI Maria
RAMBALDI Adolfo
ZANOTTI Giorgio
REGGIANI Aldo
ZANOTTI Lina
RONCHI Gianni
ZECCHINI Olga
RUBINI Aldo
ZUCCHERI Amedeo
RUGGERI Renata
ZUCCHERI Leonida
SAMOGGIA Maria
Cinzia Venturoli
Un percorso su istruzione e welfare tra XIX e XX secolo.
L’esperienza bolognese
In queste mie brevi note vorrei provare ad allargare il nostro sguardo in un dialogo
fra nazionale e locale che ci permetta di mettere in luce l'importanza dell'attività che
coinvolgeva, e coinvolge, la comunità locale sia come associazioni di lavoratori e
cittadini, sia come amministrazione; attività che, soprattutto nella nostra regione e
nella nostra provincia ha assunto un importante ruolo nello sviluppo del welfare state,
dello stato sociale.
Partendo dall'Unità d'Italia, dalla fine dell'800, le tappe che dobbiamo brevemente
toccare sono il fascismo e gli anni cinquanta.
Frutto della necessità di offrire risposta ai gravi problemi sollevati dalla nascita
dell'economia di mercato, lo Stato sociale, la lotta alla povertà e all'emarginazione,
hanno assunto apetti differenti a seconda dei tempi storici. Gli studiosi sono
d’accordo sul fatto che le origini delle moderne politiche sociali, e quindi del Welfare
state, vadano rintracciate nella grande intuizione di Bismarck sulle «assicurazioni
sociali obbligatorie » e a partire dal 1898 tali forme di protezione sociale sono state
introdotte anche nel nostro paese proprio per integrare le classi operaie dell’industria
nel sistema politico e istituzionale italiano con interventi mirati verso determinati
gruppi sociali.
Bisogna però fare un passo indietro e tornare all'indomani della nascita del Regno
d'Italia quando il settore della beneficenza pubblica era basato sulle Opere pie e sulle
associazioni volontaristiche: era la cosiddetta carità legale, cioè l'azione di tutela dei
ceti più deboli svolta dallo Stato a livello locale era demandata alle Province e in
ambito comunale alle Congregazioni di carità.
La politica del laissez faire caratteristica dell'orientamento dei gruppi dirigenti del
nuovo stato italiano fece sì che l'intervento nel campo dell'assistenza e della
previdenza fosse realmente molto limitato e l'esperienza mutualistica nacque proprio
per fare fronte alle carenze dello Stato nei confronti delle esigenze dei lavoratori e di
larghissimi strati della popolazione.
Interessante è l’analisi dell’esperienza del mutuo soccorso, ovvero delle
associazioni nel mondo del lavoro che è alla base di una cultura e di una pratica
sociale fondate sull'idea di solidarietà tra eguali al fine di soddisfare bisogni
(assistenza, prevenzione, organizzazione del tempo libero, servizi alla persona,
istruzione …) di fronte al consolidarsi della società industriale.
Si svilupparono, in Europa e in Italia, forme mutualistiche, di tipo sindacale ed
organizzative come le cooperative Case del popolo, che non solo fornivano modi e
luoghi di aggregazione e di mutuo soccorso, ma fungevano da pungolo
all'amministrazione statale affinché prendesse in considerazione le esigenze dei
proletari, dei lavoratori. Pungolo che, seppur lentamente, porterà fino ai governi
Giolitti ad una prima strutturazione del sistema previdenziale.
Nel 1864 il Ministero di agricoltura, industria e commercio pubblicò la prima
statistica post-unitaria delle società di mutuo soccorso aggiornata al 31 dicembre
1862 ; da questa indagine si rilevò che le associazioni di mutuo soccorso in Italia
erano 443, concentrate in Piemonte, Liguria, Emilia, Lombardia, Toscana e Umbria,
con 111.608 soci. Di esse solo il 15% erano nate prima del 1848; il 38% fra il 1848 e
il 1860 (di cui il 70% in Piemonte) e il 47% nei soli due anni fra l’unificazione e la
redazione dalla statistica.
Su queste origini così rapide e tumultuose, e strettamente legate alle vicende
politiche risorgimentali, si innestò un processo di sviluppo più graduale, ma
estremamente importante per estensione e continuità. Secondo le statistiche
pubblicate dal Ministero di agricoltura, industria e commercio, le società di mutuo
soccorso delle province di Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Piacenza,
Ravenna e Reggio Emilia, il cui territorio oggi grosso modo corrisponde a quello
della Regione Emilia Romagna, aumentarono dalle 66 del 1862 alle 520 del 1904.
Sono cifre che collocano il territorio delle otto province «emiliane» fra quelli in cui
l’associazionismo mutualistico italiano conobbe una maggiore diffusione.
Le società operaie potevano, e dovevano, invece assolvere compiti di assistenza
essenziale per le classi disagiate e, secondo il giudizio Gioacchino Pepoli, esponete
della destra e Sindaco di Bologna negli anni immediatamente successivi al 1861,
queste organizzazioni si dedicavano all’assistenza in modo diverso rispetto a quello
della carità privata (umiliante per il lavoratore diceva nel 1865), lo facevano
stimolando l’operosità dei propri aderenti e, soprattutto, il coinvolgimento delle
società operaie era un mezzo per evitava il conflitto sociale 10. Questo era un punto
fondamentale visto che le uniche società operaie ritenute legittime erano quelle non
politicizzate.
«L’operaio soffre: la sua vita è torturata dai bisogni: egli cerca nei disordini
sovente il rimedio dei suoi mali, odia invece di amare, cospira invece di lavorare. Sta
al Comune, provvido tutore di tutti, di aprire in questa notte oscurissima allo
intelletto del popolo uno splendido orizzonte», affermava il Pepoli nel 186711.
In quegli anni il Comune, quindi si operava per favorire e sviluppare le società di
mutuo soccorso, a patto che si astenessero da qualsiasi tipo di iniziativa politica.
La netta prevalenza delle società maschili restò indiscussa lungo l’arco di tempo
qui considerato, con un numero assai basso di società femminili e una percentuale di
società miste (in cui cioè erano ammesse le donne) che si aggirava attorno ad un
quarto del totale. Furono soprattutto donne intellettuali, dell'alta borghesia che
crearono strutture di sostegno, assistenza, ed educazione dirette a donne di classi
sociali meno agiate. A Bologna era attivo già nel 1890 un comitato per il
miglioramento della donna. Nel maggio 1898 le leghe femminili furono considerate
sovversive e vennero sciolte12. In seguito vennero fondate la società di mutuo
soccorso femminili, laiche o religiose, caratterizzate da finalità di mutuo sostegno: a
10
11
12
Gioacchino Pepoli e le società di mutuo soccorso, Bologna, regia tipografia, 1878, p. 11
(discorso tenuto alla società artigiana di Bologna il 22 gennaio 1865).
M. Maragi, Storia della Società operaia di Bologna, Imola, Galeani, 1970, p. 94.
R. Ropa, Dall’unità d’Italia alla prima guerra mondiale, in R. Ropa, C. Venturoli, Donne e
lavoro una identità difficile, Bologna, Compositori, 2010, p.68.
quella bolognese, all'inizio del 1878, erano iscritte 864 lavoratrici e in Emilia
l'adesione più alta era per le leghe agricole: 47%.
In seguito all'enciclica Rerum novarum, si diffusero fra fine ottocento ed inizio
‘900 le organizzazioni cattoliche.
Temi che occupavano le organizzazioni femminili erano, oltre alla mutua assistenza
fra le socie, l'istruzione e la creazione, diremo noi, di servizi quali gli asili.
Temi questi che trovavano una sensibilità anche nelle amministrazioni comunali
tanto che, ad esempio, in Consiglio comunale di Bologna, Ceneri nel 1878 affermava
che la beneficenza doveva mutare in assistenza e il municipio non doveva risparmiare
su questo tipo di interventi (gratuità dei libri scolastici, aumento dei salari, servizio
medico a domicilio) per poi largheggiare per la costruzione del monumento al re13.
Molte le iniziative che guardavano verso l'istruzione delle classi sociali allora
sistematicamente escluse da quello che donne e uomini legati all'associazionismo
ritenevano un bene essenziale. Ad esempio, le Università Popolari che spesso erano
allocate, soprattutto nei paesi di provincia, nelle Case del popolo.
Questa esperienza iniziò in Italia nei primi anni del Novecento, ad esempio a
Bologna l’inaugurazione dell’Università Popolare «Giuseppe Garibaldi» avvenne nel
1901 e, fino l'avvento del fascismo, si sviluppò sul territorio nazionale soprattutto nei
luoghi in cui più presenti erano le forze socialiste e democratiche una rete di queste
organizzazioni che avevano lo scopo di diffondere l'istruzione e la cultura a livello
popolare.
Fu l’Emilia-Romagna la regione in cui si mostrò più interessante il movimento
delle Università Popolari, anche perché in questa regione si tentò di adeguare la
struttura delle Università e dei corsi alle esigenze locali 14. Nel 1912 esistevano in
provincia di Bologna 9 succursali di questa organizzazione le Università Popolare di
Bologna, secondo il giudizio degli studiosi, furono centri di irraggiamento e di azione
molteplice ed unitaria a favore della cultura popolare in tutta la regione, e divennero
un elemento così solido della vita democratica cittadina, che solo il fascismo poté
porre fine alla loro opera15.
In molte altre realtà, invece, le Università andarono in crisi fin dal 1902 e lo stesso
Antonio Gramsci nel 1916 esprimeva alcune critiche sulla struttura di queste
13
14
15
A. Preti, F. Tarozzi, L’attività di consigliere comunale, in A. Varni (a cura di), Giuseppe Ceneri
l’avvocato, lo studioso, il politico, Bologna, il mulino, 2002, pag. 85
. Ambrosoli, Iniziative di educazione popolare in Italia tra ottocento e novecento, in Il sapere
per la società civile: le università popolari nella storia d’Italia, Varese, Università popolare di
Varese, 1994, p. 99.
M. G. Rosada, Le università popolari in Italia: 1900-1918, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 93.
istituzioni che, in molti casi non erano riuscite a catturare l’attenzione delle persone
che ne seguivano i corsi, visto che questi erano giudicati, a volte, solo nozionistiche.
Nel 1904 si cercò di rilanciare queste organizzazione e venne dapprima fondata la
Federazione e poi, nel 190616, l’Unione italiana dell’Educazione popolare che legava,
in una sorte di rete educativo-culturale, le Università popolari ad altre istituzioni quali
l’Unione magistrale e la Lega delle cooperative.
Istruzione e scuola erano uno dei punti caratterizzanti anche il programma della
giunta popolare di Bologna nei primi anni del novecento, in questo continuo rimando
fra associazionismo e amministrazione.
Nel programma della giunta si trovavano temi quali: istruzione laica, refezione
comunale, abolizione o trasformazione della Scuola Superiore femminile, sviluppo
dell’edilizia scolastica e riordinamento del regolamento riguardante gli insegnanti 17.
Della refezione a lungo il Consiglio comunale aveva discusso anche durante la
precedente amministrazione Dallolio e, per la maggioranza popolare era «non un atto
di carità e di beneficenza, ma come integrazione dell’insegnamento elementare,
perché, se si pretende che i bambini poveri vadano a scuola, si deve anche fornir loro
il modo di poterne profittare al pari di tutti gli altri» 18. Nonostante le difficoltà e le
limitazioni legate al bilancio comunale questo servizio venne istituito e, secondo le
relazioni di Giuseppe Sgarzi direttore della Refezione, influì positivamente «sul
benessere morale e materiale, sulla disciplina, sull’interessamento allo studio e sulla
frequenza alla scuola», dei bambini ammessi ad usufruire di questo servizio19.
L’esistente istituto professionale femminile pareva agli amministratori non in grado
di soddisfare le nuove richieste e le nuove esigenze di Bologna perché «se è vero (e
non è da dubitarsi) che anche l’educazione e l’istruzione della donna debbono
informarsi ai sentimenti ed ai bisogni del tempo e del popolo, è innegabile che l’età
moderna, richiede eziandio nel campo femminile la massima diffusione dello
insegnamento a base professionale»
Il nuovo Istituto doveva formare «abili operaie e brave massaie» attraverso
laboratori e corsi di durata compresa fra i tre e i quattro anni in cui sarebbero stati
insegnati, fra l’altro, sartoria e taglio, cucina, ricamo e merletti nei laboratori, mentre
16
17
18
19
F. Cambi, Le università popolari nella storia dell’educazione (1900-1914). Cultura popolare,
educazione scientifica e immagini della scienza, in Il sapere per la società civile: le università
popolari nella storia d’Italia, Varese, Università popolare di Varese, 1994, p. 117 e segg.
M. D’Ascenzo, La scuola elementare nell’età liberale Il caso Bologna 1859-1911, Bologna,
Clueb, 1997, pp. 234-245.
ASCBo, Atti del consiglio comunale, tornata del 23 dicembre 1903.
Comune di Bologna, Servizio della refezione scolastica, anno 1904-1905, Bologna, regia
tipografia, 1905, pp. 18-19.
i corsi potevano essere di telegrafia, commerciale e di lingua francese. Per le alunne
che avessero deciso di frequentare solo i laboratori erano previste lezioni di italiano,
aritmetica, disegno e di storia del Risorgimento. L’attenzione alla storia, a quella
contemporanea soprattutto, e al suo insegnamento era un atteggiamento da sempre
vivo nelle istituzioni comunali fin dai primi momenti dopo l’Unità
indipendentemente dall’appartenenza politica degli amministratori. La trasformazione
della Scuola superiore portava con sé l’abolizione del corso elementare a pagamento,
preparatorio alla Scuola, abolizione motivata anche dalla convinzione che la scuola
dovesse essere una occasione in cui tutte le classi sociali convivessero, si
conoscessero, potessero imparare gli uni dagli altri e che quindi il «Comune
democratico» dovesse agire per eliminare, anche in questo campo, le differenze di
classe20.
«Pane e alfabeto» era stato lo slogan elettorale della lista socialista che resse
l’amministrazione di Bologna dal 1914; per la realizzazione della sua prima parte, la
giunta aveva messo grande impegno, ma anche per quello che riguarda lo sviluppo
dell’istruzione, ancora e soprattutto verso le classi sociali più povere, e per il
miglioramento delle sedi scolastiche intensa fu l’attività dell’Amministrazione e in
particolar modo dell’assessore Mario Longhena.
«Promettemmo ai nostri elettori pane ed alfabeto: il pane l’abbiamo dato e
vogliamo dare anche l’alfabeto» affermava nel 1918 il sindaco Zanardi rivendicando
l’attività della sua amministrazione nei confronti dei bambini ai quali, veniva offerta
una completa assistenza scolastica. In primo luogo gli asili che non dovevano essere
«case di custodia» come veniva esplicitamente richiesto anche dal Ministro della
pubblica istruzione, ma luoghi igienicamente adeguati in cui poter insegnare ai
bambini a «amare le cose belle e disimparare a trastullarsi tra il fango e le
immondizie», seguendo quindi una concezione pedagogica moderna21.
In particolar modo, però, l’Amministrazione cercò di intervenire sull’istruzione
elementare, popolare e professionale, giudicate fondamentali per permettere ai
giovani della classe operaia di avere una adeguata istruzione. Secondo il giudizio dei
socialisti non vi era ancora una scuola adatta alle esigenze di questa parte della
popolazione, non vi era cioè ancora nessuna istituzione in grado di «creare
l’operaio», di formare operai specializzati. A questo scopo vennero stanziati fondi per
i corsi popolari di avviamento, anche se secondo i socialisti erano le scuole
professionali e quella industriale in specifico da sviluppare. Anche le scuole serali
20
21
E. Jacchia e A. Nigrisoli, Relazione sul progetto di soppressione della Scuola Tecnica
Femminile e di istituzione d’una Scuola Comunale Professionale Femminile di arti e mestieri,
Bologna, 1903, p. 8
ASCB, Atti del Consiglio comunale, tornata del 24 febbraio 1918.
potevano essere utili in questa complessa organizzazione volta a fornire il maggior
numero di strumenti per l’istruzione delle classi meno abbienti, così come le
biblioteche popolari che potevano «sottrarre i giovani operai alle osterie», ma la
Giunta si lamentava di poter fare molto poco in questo campo, dove pure sarebbe
stato necessario intervenire a fondo, vista la ristrettezza dei bilanci. La scuola avrebbe
dovuto fornire non solo le prime nozioni culturali ma anche «quell’insieme di
cognizioni e di sentimenti, pei quali i giovani potranno, fatti adulti, essere migliori,
più forti, più temperati alle future lotte del lavoro»i. Nell’intenzione degli
amministratori socialisti si doveva organizzare una scuola che potesse formare operai
specializzati, esperti nel proprio lavoro e consapevoli dell’organizzazione delle
strutture in cui si trovavano a lavorare, ma anche, e forse soprattutto, operai coscienti
della propria condizione e della possibilità e della necessità di rivendicare i propri
diritti. Persone che, grazie alla scolarizzazione e «formati col beneficio dell'istruzione
da noi loro procurata», avrebbero infine potuto occuparsi di politica ed essere anche
eletti al parlamento e nelle istituzioni locali22.
Per poter assolvere a questo compito la scuola elementare doveva essere preceduta
dagli asili, così come accennato, ed affiancata da altre istituzioni quali patronati,
refezioni, dopo scuola, scuole speciali e colonie. Nell’ambito dei bilanci comunali
elevate furono sempre le spese previste per l’istruzione, tanto che di sovente dalla
minoranza si sollevarono proteste sia per la quantità di questi stanziamenti, sia per la
diversa concezione che i consiglieri avevano dell’educazione.
Per l’assessore Longhena gli educatori, diventati una necessità a causa della guerra
e del conseguente impegno delle donne nei lavori extradomestici, dovevano diventare
una istituzione importante per l’educazione popolare, soprattutto per i bambini delle
periferie o dei quartieri poveri del centro cittadino, così che anche questi potessero
avere la possibilità di essere adeguatamente educati e seguiti, senza dover ricorrere ad
opere di beneficenza o a scuole private non in grado di fornire la necessaria qualità
dell’attività pedagogica né delle strutture cosa che invece il Comune era in grado di
fare23. Il Comune diventava così, anche nel campo dell’istruzione, un soggetto
fondamentale ed estremamente attivo e presente, mentre secondo la minoranza il
Comune doveva solo essere un elemento di integrazione dell’educazione «privata e
paterna»
22
23
ASCB, Atti del Consiglio comunale, tornata del 16 febbraio 1916.
G. Balduzzi, La politica per la scuola elementare nella Bologna “Rossa” (1914-1919), in L.
Rossi (a cura di), Cultura, istruzione e socialismo nell’età giolittiana, Milano, Franco Angeli,
1991., p. 211.
Le donne, ancora escluse dal diritto principale di cittadinanza, ovvero dal voto,
usavano le loro associazioni per seguire, incitare spingere le amministrazioni locali a
impegnarsi per i temi che ritenevano essenziali, ancora una volta la creazione della
previdenza, i miglioramenti sul lavoro, la tutela della maternità e dell'infanzia,
l'istruzione e la creazione dei servizi.
Un esempio, fra i tanti, di questa volontà del fare, del creare, aggregandosi, i servizi
di cui si necessitava per poter migliorare non solo la propria vita, ma anche la vita
della comunità è la creazione degli asili delle mondine nella vicina Molinella.
Fra la prima guerra mondiale e il 1919, la politica previdenziale dei governi, da
Salandra a Nitti, si caratterizza essenzialmente per l'estensione ai lavoratori agricoli
dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, a completamento di un
ciclo avviato nel 1898, e per l'introduzione di altre due assicurazioni obbligatorie che
valsero a colmare un ritardo accumulato nei confronti dei Paesi europei, vale a dire
l'assicurazione sull'invalidità e vecchiaia per gli operai dell'industria e quella contro la
disoccupazione.
Durante il fascismo
Quando il fascismo va al potere - e prima ancora dell'edificazione della dittatura,
negli anni delle politiche liberiste - si è già manifestata l'esigenza di unificare,
semplificare e generalizzare i trattamenti previdenziali da cui è sorta la Cassa
nazionale infortuni, poi la Cassa nazionale assicurazioni sociali. Su questo terreno vi
sono dunque, elementi di continuità che non devono però fare perdere di vista ciò che
attiene in maniera specifica alla politica del regime
La necessità di mantenere il consenso (o di non acuire il dissenso) dei lavoratori i
cui salari erano sensibilmente ridotti negli anni della crisi economica, di utilizzare le
risorse degli enti e di attuare politiche sociali volte a premiare gruppi e individui
schierati a favore del fascismo portano da un lato, a costruire i “grandi enti”, e ,
dall’altro, a frammentare le gestioni e i benefici degli enti assicurativi-assistenziali e,
in ultima analisi, a un uso distorto dello stesso principio assicurativo.
La torsione in senso centralistico e autoritario della politica sociale del fascismo,
solo in parte mascherata dal moltiplicarsi degli enti e degli operatori ad essa deputati,
è strettamente connessa alla centralità che tale politica viene assumendo nel “nuovo
ordinamento”, come stanno a testimoniare la propaganda e l'autorappresentazione del
regime. Il fascismo si presentava, all’interno e all’estero, come la più moderna
soluzione dei problemi di assistenza e previdenza per gli strati più deboli della
popolazione, nella prospettiva di costruire una società armonica in cui tutti sarebbero
stati soddisfatti, educati, integrati. Quello che è certo è che, a fronte delle innovazioni
legislative e delle concrete realizzazioni, la soddisfazione dei bisogni elementari
divenne ardua per gli strati popolari dopo il 1926 e negli anni Trenta.
D'altro canto, il fascismo tende a non riconoscere (e neppure ad utilizzare) la
categoria dei “poveri”, estranea all'apparato teorico che doveva sostenere la
costruzione di una società fascista: una delle parole d'ordine della politica sociale
fascista era stato proprio il superamento del “vecchio concetto di carità e di
beneficenza”, in nome di un'attività previdenziale e assistenziale improntata alla
“solidarietà umana, nazionale e fascista, attività che non umiliano, ma educano le
masse lavoratrici al risparmio”24.
A fianco dei maggiori istituti costituiti per grandi fasce di lavoratori (enti locali,
privati, stato, parastato), videro la luce molti altri nel campo della beneficenza,
dell’assistenza e della previdenza. La loro gestione assunse i tratti comuni ad altri
ambiti dell’organizzazione fascista: accentramento e doppioni burocratici,
autoritarismo, ma anche corruzione e degenerazioni corporativa. Il moltiplicarsi degli
istituti, ma anche la loro parcellizzazione, la mancanza di controlli e di regole
rispettate fu all'origine di un sistema clientelare i cui esiti si sarebbero protratti ben
oltre la fine del fascism. Non va poi dimenticato che, a fianco dei nuovi enti, rimasero
attivi quelli tradizionali di beneficenza, legati all'associazionismo caritativo borghese
e alle istituzioni ecclesiastiche.
In questo settore, lo Stato fascista conservò praticamente immutata
l’organizzazione della pubblica carità preesistente. Si affermò allora un’inedita
“ideologia dell’assistenza pubblica” fondata sull'inefficienza dell'intervento - un
giudizio diffuso tra gli stessi assistiti - compensata dalla sua gratuità, e con un ampio
potere discrezionale, anche in materia di ricoveri, nelle mani di primari e podestà.
Anche in questo caso, il proliferare delle mutue lasciò ai margini i lavoratori
agricoli, a ribadire l’attenzione del regime fascista nei confronti di agrari e affittuari e
il pieno rispetto da essi esercitato sul sistema delle relazioni agrarie.
Anche se non ne conosciamo l'entità, i poveri, gli indigenti esistevano ed avevano
bisogno di assistenza e di beneficenza. Fra gli strumenti di una politica assistenziale,
legata anche in questo caso strettamente alla creazione del consenso e alla
costruzione del “mito di Mussolini”, va annoverata la segreteria particolare del Duce,
a cui gli italiani rivolgevano lettere, suppliche, richieste di vario genere; fra queste,
naturalmente, anche domande di aiuti ed elargizioni in denaro. Le richiesta
riguardavano, solitamente, le condizioni abitative – e quindi l’accesso alle case
popolari - sussidi per famiglie numerose e per disoccupati, premi di fecondità e di
24
Cfr. A. Preti, C. Venturoli, Fascismo e stato sociale in V. Zamagni (a cura di), Povertà e
innovazioni istituzionali in Italia Dal Medioevo ad oggi, Bologna, il Mulino, 2000.
nuzialità. La segreteria particolare disponeva anche di fondi che provenivano da Enti
o donazioni private e che venivano erogati in forme assai varie, dalla beneficenza al
finanziamento di lavori pubblici. Le elargizioni venivano di solito effettuate
attraverso il Partito fascista e le sue organizzazioni periferiche, oppure erano fatte
pervenire direttamente a coloro che ne avevano fatto richiesta; anche le istituzioni di
beneficenza si rivolgevano a questa struttura per ottenere finanziamenti di vario
genere. Le domande erano numerose: ad esempio, nel periodo ottobre 1936- ottobre
1937 giunsero a Mussolini 123.047 istanze di sussidio e 77.578 richieste di lavoro, a
dimostrazione del disagio economico del paese e del carisma di Mussolini, dalla cui
diretta volontà, nell'immaginario di tanti italiani, discendevano gli aiuti, la
beneficenza, le opere pubbliche.
Nell’organizzazione dell’assistenza e nella politica sociale fascista, le donne
assunsero così un ruolo particolare: da un lato erano investite del ruolo di madri, e
poste ai margini, anche per ragioni congiunturali, del mondo del lavoro; dall’altro
acquistarono una visibilità pubblica assumendo compiti nell'organizzazione della
assistenza.
Durante il regime fascista, nei fasci femminili e nelle organizzazioni giovanili del
partito, le donne vedevano consacrato un ruolo pubblico che ricalcava quello privato
di cura e istruzione; paradigmatico è in questo senso il ruolo di visitatrice. Le
Visitatrici fasciste, istituzione creata nel 1930, ispezionavano gli Istituti di cura e si
recavano presso le famiglie considerate bisognose per portare aiuti e per controllare
al contempo la fedeltà al regime, requisito necessario per ricevere i sussidi. Il modello
femminile più propagandato dal regime era quello delle Massaia rurali: donne legate
alla campagna, lontane dai vezzi e dai vizi delle città, impegnate ad accudire una
famiglia numerosa25.
Le donne che portavano sostegni economici a domicilio, le massaie rurali che
curavano l’assistenza nelle campagne si facevano quindi carico del doppio ruolo
benefico e propagandistico attribuito loro dal regime.
Nelle iniziative rivolte all’infanzia, la befana del Duce fu una tipica istituzione del
regime, estesa a tutto il territorio nazionale con norme ben definite e con la consueta
doppia finalità di beneficenza e propaganda .
L’ultima riforma degli enti di assistenza fu quella che portò, nel 1937, alla
creazione dell’Eca, Gli esiti furono modesti, visto che le funzioni dell’Eca non si
discostavano, in realtà, da quelle della Congregazione di carità:
La galassia previdenziale mostrò un intreccio fra gestioni autonome privilegiate,
frutto di riconoscimento politico, di pegno di fedeltà al regime, e controllo o uso
politico centralizzato degli istituti previdenziali e delle loro risorse. L'ulteriore
25
C. Venturoli, Dal regime fascista agli anni Sessanta, R. Ropa, C, Venturoli, Donne e lavoro, cit.,
intreccio fra assicurazione sociale (o “previdenza sociale”) e politiche socioassistenziali del regime sta a testimoniare l'insufficienza degli esiti delle prime e l'uso
compensativo delle seconde in una duplice accezione: quella propriamente “fascista”
(dalla politica demografica a quella della razza) e quella anticiclica. La previdenza
non rende dunque superflua l'assistenza, anche se questa cerca di qualificarsi in forme
“moderne” e “fasciste” (dalle integrazioni salariali all'assistenza alla maternità e
all'infanzia) che producono effetti concreti e costituiscono modelli d'intervento non
effimeri.
Dopo la guerra
Nell’immediato dopoguerra si doveva affrontare l’emergenza, e si doveva pensare,
e ripensare, l’amministrazione e la democrazia.
Dapprima bisognava fare fronte alle distruzioni, alle precarie condizioni materiali,
in altre parole, bisognava assistere chi era rimasto colpito dagli eventi bellici, infatti
uno dei primi interventi che videro l’impegno, anche e soprattutto, femminile fu
quello rivolto ai reduci: vennero organizzati i rimpatri e l’assistenza agli uomini
ricoverati negli ospedali.
Un altro versante in un cui si concentrò immediatamente l’attività delle donne fu
quello dell’assistenza ai bambini. Le donne, organizzate in associazioni femminili e
nei partiti, nonché nei sindacati. Anche in questo caso come primo intervento si tentò
di rispondere alle emergenze portando aiuto ai bambini residenti in zone nelle quali la
guerra aveva causato disagi ancor più rilevanti rispetto a quello che era successo nella
pianura bolognese, ecco quindi l’accoglienza dei bambini del sud (Napoli, Cassino,
Frosinone) e di bambini dell’Appennino. Dal 1947, dopo una decisione del Comitato
centrale del Pci, si iniziò a preparare l’organizzazione per ospitare i bambini, vi si
impegnano donne dell’Udi e dei partiti della sinistra ed anche rappresentanti degli
enti amministrativi. Secondo alcuni dati, all’inizio di questa attività 6.000 famiglie si
dichiararono disposte a offrire ospitalità a bambini di Napoli e Cassino e alla fine del
gennaio 1947 cominciarono ad arrivare i piccoli ospiti.
Sempre rivolti all’infanzia vi furono altri momenti di organizzazione, infatti,
convinte che non bastasse dare cibo e riparo, le donne cominciarono ad impegnarsi
nell’organizzazione delle colonie e degli asili in cui alla cura si cercò di affiancare un
progetto educativo. Questo impegno, queste lotte, molto spesso furono difficili ed
ebbero prezzi alti per le donne che vi parteciparono. A titolo di esempio si può
ricordare come Vittorina Tarozzi, nel 1954, venne arrestata e condannata ad un anno
senza condizionale in quanto accusata di aver offeso il prefetto quando, in qualità di
consigliere comunale, si era recata in prefettura per chiedere che non vi fossero veti o
tagli nel bilancio comunale sui fondi stanziati per le colonie come poteva invece
accadere.
Le donne dell’Udi chiedevano alla Prefettura, alla Provincia e ai Comuni, di
stanziare i fondi necessari (nella misura dei 2/4 la Prefettura e del ¼ rispettivamente il
Comune e la Provincia) per assicurare durante i mesi invernali a tutti i bimbi figli di
disoccupati e alluvionati ospitati nella nostra provincia: una tazza di latte tutti i
giorni; una maglietta di lana per i mesi invernali; la refezione scolastica a tutti i bimbi
bisognosi. Chiedevano inoltre alle Prefetture, al Comune, all’Onmi, di costituire
mense gratuite per mamme e bimbi bisognosi dai 0 ai 6 anni; al Patronato scolastico,
al Comune, alla Prefettura grembiulini, libri e materiale didattico per i bimbi
bisognosi26.
La preoccupazione che il prefetto, e più precisamente la Giunta provinciale
amministrativa, potesse annullare gli stanziamenti, respingendo le delibere del
consiglio comunale, era molto presente, visto che non così rari erano le situazione in
cui ciò avvenne in tutti i comuni della provincia bolognese. Ad esempio, proprio in
seguito alle richiesti dell’Udi il comune di Medicina stanziò nel 1952 «un contributo
straordinario alla refezione scolastica di 150.000 £» che fu annullato dalla Giunta
provinciale amministrativa di Bologna perché «la spesa facoltativa in parola non è
ammissibile date le condizioni deficitarie del bilancio e la posizione del comune agli
effetti della sovrimposta».
Per i primi momenti del dopo 1945 le donne avevano cercato di lavorare assieme in
questo campo dell’assistenza, poi, dal 1948 in poi questo divenne impossibile, a
causa della guerra fredda e quindi, pur cercando nelle amministrazioni di collaborare
per quanto possibile. Si formarono però due associazioni il Cif, Udi, che in quei primi
anni del dopoguerra si impegnarono moltissimo per organizzare una rete di servizi
dedicata ai bambini e quindi alle donne. Sola a Bologna l’Udi nel 1947 organizzò 28
colonie che ospitavano 5.200 bambini e 21 doposcuola con 270 bambini. Il Cif nel
1948 organizzò 40 colonie temporanee e 32 diurne ospitando 10.130 bambini.
Le donne, per diversi motivi, sono protagoniste e a loro sono affidati i temi
dell’assistenza, anche in virtù di vecchi stereotipi. Immediatamente dopo la
Liberazione, nel 1946 Anselmo Marabini, esponente del partito comunista, scriveva
su «La lotta»:
26
Carta rivendicativa, Udi, Comitato provinciale. gennaio 1952.
Chi meglio della donna può concorrere nella buona amministrazione delle
Opere Pie, dove ci sono i nostri ammalati, i nostri vecchi, i nostri bambini orfani
da assistere con amore? La donna in questa grande opera di assistenza sociale
vi metterà senza dubbio l’ardore di madre […]. Innanzi tutto la donna più
dell’uomo è dotata di uno squisito senso pratico e umano […] la partecipazione
della donna alla vita del paese è anche preziosa per l’elaborazione di leggi
democratiche sull’assistenza sociale, sulla protezione della famiglia,
sull’organizzazione dei servizi annonari.
Anche in questo secondo dopoguerra venivano individuati due campi ritenuti molto
importanti: l’acculturazione e la qualificazione professionale da un lato e
l’allestimento di servizi in grado di affiancare le donne nei loro compiti dall’altro.
Erano, in questo senso, ritenuti di grande importanza i servizi che si rivolgevano ai
bambini e all’organizzazione dell’assistenza in generale; venivano, poi, rivendicati
anche tutti quegli strumenti che siano volti a sollevare dagli oneri e dagli obblighi del
lavoro domestico le donne ad esempio l’istallazione delle lavatrici elettriche
pubbliche per sollevare le donne del peso esclusivo delle faccende famigliari.
Gli asili nido avrebbero dovuto essere un servizio rivolto a tutte le donne, non solo
per quelle che lavorarono; i nidi, cioè, non erano una sorta di luogo in cui lasciare i
bambini in assenza della madre, ma un luogo utile alla crescita fisica, psicologica e
sociale dei bambini.
La soddisfazione di queste esigenze doveva venire dagli enti locali, gli unici in
grado di rispondere alle esigenze dei cittadini in questo campo in cui il decentramento
era indispensabile.
Nella seconda metà degli anni sessanta i servizi alla prima infanzia diventano una
priorità, ricorda Adriana Lodi:
Una cosa di cui vado molto orgogliosa è quella di avere condotto una grande
battaglia contro l’istituzionalizzazione dei vecchi e dei bambini. Ma una cosa è
parlarne nei convegni, ed un'altra è avere la possibilità di fare delle scelte
concrete contro l’istituzionalizzazione, e noi le abbiamo fatte.
Dicevano: “i primi anni di vita è bene che il bambino stia con la madre”, ma
dopo i primi anni di vita, se la madre è rimasta a casa, chi la prende più a
lavorare? Quindi, abbiamo cominciato a pensare agli asili nido comunali, ma il
riferimento non poteva essere quello dell’Omni. Chiedemmo alla scuola
comunale “Elisabetta Sirani” di istituire corsi serali rapidi per dirigenti di
comunità ed assistenti d'infanzia, perché l'asilo potesse aprire con un personale
adeguato. All'inaugurazione del primo asilo nido nel 1969 presentammo i conti
insieme ad una delibera che prevedeva tre mesi di attività per i tre asili nido per
cento bambini per una spesa complessiva di diciotto milioni. Ci furono
polemiche in giunta: “Come si fa a sostenere dei servizi di questo genere, è
molto meglio dare i soldi alle madri perché stiano a casa, altrimenti ci costa
troppo”. Fu una grande battaglia politica condotta all’interno, ma se Bologna
non avesse messo in piedi allora tutti questi servizi, oggi il livello della città
sarebbe ben diverso! Se qui a Bologna c'è il maggior numero di donne che
lavorano in tutta Italia, è proprio perché ricevono dei sostegni, degli aiuti
attraverso servizi qualificati ed innovativi. Queste sono le cose che dibattevamo
allora al nostro interno e che oggi sono nuovamente in discussione.
Per esempio, per gli anziani c'era solo un vecchio ricovero. Pino Beltrame,
che era stato assessore dall’immediato dopoguerra, aveva progettato una nuova
casa di riposo, rivoluzionaria per quell'epoca. Una volta nel vecchio ricovero
c’erano i cameroni con trenta quaranta posti letto, mentre lì c’erano camerette
da due-tre letti, quindi un modo nuovo di pensare all’assistenza per gli anziani.
Ci sono voluti molti anni per passare dal progetto alla realizzazione, poi ad un
certo punto, dopo aver preparato questa bella casa di riposo, venduta in seguito
al Giovanni XXIII che la gestiva, non abbiamo pensato ad aumentare i posti per
le case di riposo, anzi ci siamo opposti ed abbiamo intrapreso un'altra strada.,
se una persona era vecchia, era senza pensione e viveva da sola, dove finiva?
Doveva andare al ricovero. Noi abbiamo deciso di cambiare quest'impostazione
offrendo delle alternative. Per gli anziani che non avevano mezzi, molti allora
non avevano la pensione, ci siamo inventati il sussidio in luogo di ricovero che
invece di supplire le spese dei costi di mantenimento all’interno della struttura
sanitaria andavano direttamente all’assistito.
Ci siamo detti che era meglio spendere un tot per ogni ricovero, dare cioè i
soldi direttamente agli anziani perché potessero restare nella loro casa.
In seguito, abbiamo istituito dei centri di assistenza domiciliare.
Nel percorso di costruzione di un Welfare efficiente e giudicato indispensabile un
filo rosso lega e collega i diversi nodi e si dipana nel secolo scorso acquisendo di
volta in volta diverse sfumature, ma rimanendo sempre al centro dell’interesse degli
amministratori. L’entrata delle donne sulla scena politica e amministrativa dà a
questo percorso una, direi inevitabile, accelerazione.
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Corinna Testi Pescatori e la società budriese