Possono sembrare pensieri che lasciano il tempo che trovano, perché non danno soluzioni o suggerimenti per risolvere problemi concreti; non danno “ricette” pratiche! Sono inviti a riflettere su se stessi, sul proprio comportamento; indicano una traccia per interrogarci sul nostro vivere interiore, anche da un punto di vista che chiamerei psicologico. Per tale motivo queste poche pagine vanno lette con la lente, adagio, adagio, permettendo a ogni parola di entrare nel nostro cuore per illuminarlo sul suo agire. Il suggerimento, quindi, è: leggetelo con calma, in un profondo clima di silenzio. Buon Natale. Il Rettore con gli educatori Collegio Ballerini, dicembre 2009 Via Verdi, 77 - 20038 Seregno (MB) - Tel. 0362 235501 www.collegioballerini.it - [email protected] 70volte7 in vacanza Stefano Pelizzoni in vacanza PENSIERI PENSIERI colpa pentimento perdono Stefano Pelizzoni 70volte7 colpa pentimento perdono A chiunque abbia avuto la forza di perdonarmi, rendendoci entrambi migliori Umano, troppo umano Mi hai dato il nemico come un dono * e come un flagello che mi corregge per il mio bene, * o compassionevole: * perché il male che mi viene da lui * coopera con me per il bene, * pur non venendo da intenzione buona; * eppure io non mi rifugio in te * con una preghiera grata: * prima che io mi perda del tutto, * salvami, Signore. Tropario bizantino Tutti abbiamo presente il celebre passo dell’evangelista Giovanni (8,7), che recita: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra». È inutile ricordare che, di fronte a tale invito, nessuno ebbe il coraggio di procedere alla lapidazione dell’adultera così come prescriveva la legge, ma «se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi». Come mai? Perché nel nostro cuore sappiamo di non essere immuni da colpe e, quanto più abbiamo vissuto, tanto più abbiamo sbagliato. La morale del passo evangelico è valida ancora oggi: chi decidesse di dare il via al lancio di pietre farebbe quanto meno un gesto di disonestà. Vorrei qui riprendere e approfondire un passaggio del mio ultimo opuscolo, Il sale e la luce, per parlare di quel genere di colpa che non nasce dalla precisa volontà di fare del male, ma dal paradosso della nostra naturale tendenza al bello e al buono. Il peccato di per sé è bello, è qualcosa che attrae e affascina, altrimenti nessuno peccherebbe. L’attitudine ad esso è dunque legata ad una inclinazione distorta al bello, che è ciò verso cui tende naturalmente ognuno. Dunque, c’è una ragione che rende bello l’errore. Tra le tante possibili, quella che probabil3 mente ci fa sentire più padroni, più liberi, persone in grado di gestire da sé la propria vita. Cadere nell’errore è spesso violare le regole, fare quello che ci pare e piace, mettere noi stessi al centro di tutto e porre il resto e gli altri in subordine. Si pecca, fondamentalmente, perché si confonde qual è il bene più grande. Anche Dante, tracciando la casistica dei peccati nella Commedia, ne attribuisce la causa all’errata scelta dell’obiettivo verso il quale indirizzare la nostra naturale tendenza ad amare. Si pecca non perché si odia il bene, ma perché si ama il male, consapevolmente o meno. Secondo il libro dei Proverbi (24,16), la differenza tra il giusto è l’empio non è legata al fatto che il primo non sbaglia mai, ma che, a differenza del secondo, non resta schiavo dell’errore. Il giusto cade, il giusto pecca, perché anche il giusto è un uomo e come tale non può ritenersi al di sopra delle proprie debolezze. Anzi, sarebbe proprio la presunzione di saper sempre come fuggire il male la causa della perdizione. L’errore ci insegna che siamo esseri limitati e fallibili; ci spinge a non stimarci più di quello che siamo realmente; accettando la nostra incompletezza, ci porta all’umiltà. Sbagliare significa prendere coscienza che la strada è irta di pericoli e dobbiamo sempre restare vigili, evitare di crogiolarci in false sicurezze acquisite, non dare mai per scontato ciò che siamo e ciò che abbiamo raggiunto. È acquistare coscienza della propria individuale fragilità, evitando così di ritenerci migliori degli altri, come insegna la nota parabola del pubblicano e del fariseo (Lc 18,9-32). Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tem4 pio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Sbagliare ci fa sentire uomini tra gli uomini, partecipi delle stesse debolezze e degli stessi egoismi. In questo consiste, paradossalmente, la possibilità di vedere il male come un dono che, attraverso il calvario del pentimento, ci corregge e ci spinge verso il desiderio del bene. Questo avviene quando il pensiero di ciò che abbiamo fatto ci provoca disgusto e ci sollecita ad un cambio di atteggiamento e ad una maggiore attenzione negli atti, nei gesti, nelle parole. Il nemico che ci fa cadere in tentazione, sia pur partendo da una intenzione malvagia, ci obbliga a cercare il bene. Si dice che la strada che porta all’inferno è lastricata di buone intenzioni. Si potrebbe anche dire, parafrasando, che la scala che conduce al Paradiso è fatta di gradini allentati, sui quali bisogna fare molta attenzione per non inciampare e cadere. Certo, in quei momenti è un pensiero ben poco consolante, specie quando ci rendiamo conto che non solo l’errore è male, ma fa male e fa del male. Spesso ciò che abbiamo fatto è fonte di sofferenza non solo per noi, ma anche per chi ci sta vicino; al limite, diventa anche motivo di una chiusura totale dell’altro nei nostri confronti. L’unica riflessione che in quel 5 momento può consolarci è quella che, spesso inconsapevolmente, ponevamo le persone alle quali abbiamo fatto del male – al limite anche noi stessi – ad un gradino inferiore al nostro nella scala della considerazione, tenendo così in scarso conto le esigenze e la sensibilità altrui. L’errore ci ha resi coscienti di ciò, e ci aiuta – quando possibile – a ripensare le nostre stesse gerarchie di valori. È in quel momento che ci troviamo di fronte a due diverse strade da scegliere. O si imbocca quella dell’impoverimento interiore, oppure quella della maturazione della coscienza. Nel primo caso, la consapevolezza della nostra limitatezza porta alla disperazione di non potersene liberare, che genera il vizio, ovvero lo scivolare in una catena ininterrotta di errori. Nel secondo, il senso della finitezza porta alla speranza di poterla progressivamente superare, attraverso un percorso di evoluzione. Tornando all’esempio di prima, è la differenza che corre tra chi cerca di rialzarsi da solo dopo una caduta e chi aspetta che qualcun altro venga a tirarlo su o, al limite, finisce per sentirsi più comodo a stare lungo disteso e non voglia più riprendere, per evitare di fare fatica, la posizione eretta. Il senso del peccato modifica la percezione delle situazioni e ce le restituisce come occasioni di trasformazione interiore. La nostra esistenza diviene così un grande spazio di lavoro e di conquista spirituale. L’idea della caduta sottolinea l’imperfezione di tutte le cose, ma ci spinge anche a cercare in esse qualcosa di più profondo e appagante. Il senso del peccato insegna la virtù del discernimento e dell’attenzione. La ricerca del bene può essere solo il frutto di una continua serie di trasformazioni interiori, lunga e faticosa, che deve guardarsi da approdi prematuri e illusori. 6 Un cammino in avanti Avvolto dall’abisso delle colpe, * invoco l’abisso imperscrutabile * della tua amorosa compassione: * dalla corruzione, * fammi risalire, o Dio. Tropario bizantino Cito ancora un altro proverbio: «Sbagliando s’impara». Ma imparare seguendo altre vie è sicuramente meglio. Evitiamo di interpretare in modo scorretto quanto detto prima. Non è così semplice. Se prendiamo troppo alla lettera il proverbio, potremmo arrivare a concludere: «Allora, sbagliamo più che si può!». No, sbagliare è tragico, quando si tratta del peccato, quindi quanto meno si può fare il male, tanto meglio è. Non è che stia dicendo che più si pecca e più si diventa bravi. Non dimentichiamo quell’altro detto che afferma «errare è umano, perseverare diabolico». L’insistenza nel peccato genera l’abitudine ad esso e l’impossibilità a staccarcene. Quando però è stato commesso il peccato bisognerebbe, perlomeno, cercare di cogliere anche da quello scivolone qualcosa che ci possa rendere migliori. Indubbiamente, tutte le esperienze, nel momento in cui sono assunte con coscienza, con libertà, diventano una ricchezza. Occorre tuttavia percorrere un cammino perché questo avvenga. Quando si cade nell’errore, occorre prima di tutto assumere la consapevolezza di ciò che si è fatto. Ma questo da solo non basta. È da lì che inizia l’itinerario vero e proprio, che deve passare forzatamente dal pentimento, che è una via differente dal semplice senso di colpa. Quest’ultimo diventa solitamente un ri7 vangare ciò che è accaduto, soffermandosi sui singoli episodi e sui momenti specifici. Il senso di colpa genera frustrazione e, spesso, disperazione, portando a desiderare l’impossibile: poter tornare indietro e ripercorrere il tutto con i passi che, a posteriori, ci sembrano quelli giusti. Raramente esso porta a considerare le ragioni profonde del nostro agire, limitando l’orizzonte all’errore in sé, e non a ciò che lo ha generato. Così, se si ripresentasse una situazione analoga ma non identica, nove volte su dieci ci ricascheremmo ancora. Viceversa, il pentimento prende in considerazione tutto ciò che siamo, l’insieme dei nostri valori e delle nostre relazioni con l’Altro e con gli altri. Ci impone uno scavo interiore, un ripensamento globale. Non solo saremmo in grado di affrontare nel modo corretto un’analoga situazione, ma facilmente riusciremmo persino ad evitare che si ripresenti. Soprattutto differenti sono gli obiettivi che i due atteggiamenti ci impongono. Il senso di colpa suggerisce, come affermano anche gli studi di freudiana memoria, la rimozione. Ci fa desiderare che non sia accaduto nulla, e non è raro il caso in cui si finisca per autoconvincersi che realmente ciò sia possibile. Tendiamo a minimizzare ciò che è accaduto, riducendolo ad un evento reputato marginale; o riusciamo a ridimensionare il ruolo che abbiamo rivestito, scaricando se possibile su altri le principali responsabilità. Nei casi più estremi, ne eliminiamo addirittura la memoria. Cerchiamo di fare come se nulla fosse e riprendere il cammino semplicemente cancellando un tratto della via percorsa. Tale atteggiamento ci porta, col tempo, a ripetere quell’errore che tanto ha fatto e ci ha fatto del male. 8 Il pentimento, invece, ci impone di fare tesoro dell’esperienza. Non è un semplice rimuovere, ma è un sublimare gli eventi, cercare di dare loro un senso alla luce di una maturazione che non può prescindere da ciò che è accaduto. È, come detto sopra, trasformare un male in un bene. Questo ci permette di conoscere meglio noi stessi, di individuare i nostri punti deboli, ma anche di intervenire con efficacia a puntellarli. Un percorso che necessita grande umiltà e sacrificio. La prima è indispensabile per ammettere onestamente le nostre responsabilità, per non cercare alibi o pretesti. Il secondo è fondamentale per iniziare una strada che tenda in avanti, nella ritrovata serenità che riprendere il cammino con la forza di convivere assieme ad un’esperienza negativa, al limite drammatica, ci aiuta a camminare con passo più sicuro. Inoltre, ci permette anche di entrare meglio in sintonia con gli altri, provando comprensione per i loro difetti, le loro mancanze, le loro piccole e grandi carenze; in una parola, per amarli. L’amore vero è un amore che non deve mai dimenticare, neanche il male che abbiamo fatto. Deve poterne fare tesoro, proprio per capire di più chi ci accompagna nel cammino, per essere più umili, per amare di più, per permettere al peccatore di interiorizzare e condividere la propria esperienza con gli altri. Per noi comuni mortali, l’esempio illuminante resta quello di uno tra i più celebri convertiti, sant’Agostino. Leggere e meditare le pagine de Le Confessioni è seguire un itinerario di analisi introspettiva che esorta a guardare dentro noi stessi, vincendo le inevitabili ripulse, e accettando anche quanto di poco nobile possiamo trovarvi. Per tutti valga questo passo, tratto dal primo capitolo del IV libro: 9 Subirò la derisione dei presuntuosi, coloro che non hai ancora prostrati e schiacciati per il loro bene, Dio mio; ma ti confesserò ugualmente le mie infamie a tua lode. Permettimi, ti scongiuro, concedimi di percorrere col ricordo presente gli antichi percorsi del mio errore e di immolarti una vittima di giubilo. Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? e chi è l’uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te. 10 Ad immagine di Dio Hai mostrato, o Sovrano, ai tuoi discepoli * l’umiltà che innalza: * cinto ai fianchi il grembiule, * hai lavato loro i piedi * e li hai predisposti a imitare la tua condotta. Tropario bizantino Il pentimento, tuttavia, non può ridursi ad un’esperienza autoreferenziale. È fin troppo facile essere indulgenti con se stessi, assolversi da soli anche dal più grave dei delitti. La conclusione definitiva di un itinerario di redenzione non può che passare da una relazione con l’altro, con colui che è stato ferito dal mio gesto. Il pentimento riconosce la colpa, ma non la cancella. Per quello occorre un atto di coraggio, anzi due. Il primo lo compie chi ha commesso il torto. Anche per questo ci vuole un atto di umiltà, accompagnato da un sacrificio. Il primo gesto consiste nella disponibilità ad accettare il giudizio degli altri e confrontarlo col proprio, nella speranza che possano arrivare a coincidere, magari per mezzo di un cammino da fare insieme. Il sacrificio è riuscire a trovare il modo di comunicare all’altro – e di convincerlo, ma prima di tutto perché si è convinti – che l’equilibrio potrà essere ricostruito solo col suo benestare. È trovare il coraggio di dire: «Ecco, io ti ho fatto un torto e adesso mi metto nelle tue mani perché ho bisogno di te e del tuo perdono». E qui il cammino diventa, se possibile, ancora più arduo, perché spesso si tratta di fare i conti con chi si sente – e spesso diventa difficile non capirlo – incapace di concederlo. La difficoltà del perdono è che a esso non segue immediatamente 11 l’estinzione del torto: è necessaria, anche per chi è chiamato a perdonare, un’elaborazione, qualcosa che trasformi. Anche per lui non si tratta di far finta che qualcosa non sia accaduto, ma di credere a oltranza che qualcosa di positivo possa venire dal prossimo, anche contro ogni evidenza. Occorre vedere nell’altro qualcosa in più dell’atto che ha compiuto; «mai confondere l’errore con l’errante», recita la Pacem in Terris (83). Che prosegue: «in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza, congenita alla sua natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità». Non vi sono condizioni per il perdono; esso, infatti è per-dono, un gesto gratuito e incondizionato che nasce dalla libera volontà di chi lo concede. Anch’esso presuppone non l’oblio, ma il ricordo. La frase «perdono, ma non dimentico» è quanto mai corretta, ma non nel significato di minaccia o avvertimento con la quale di solito la pronunciamo; il perdono non cancella la memoria dell’offesa, ma la pone in secondo piano, evita che essa offuschi le relazioni interpersonali. In tal senso, anzi, perdonare equivale a fare un doppio regalo: da un lato significa riuscire ad amare l’altro così com’è, nonostante i suoi difetti e i suoi torti; dall’altro è offrirgli la possibilità di ricostruirsi come persona, permettendogli di completare il cammino di redenzione che ha già iniziato individualmente. Così che il regalo abbia, in realtà, una corresponsione: non perdono solo perché è cambiato qualcosa, ma anche perché può cambiare qualcosa proprio grazie al mio gesto, che stimola un’inversione di rotta. Certo, è un dono che costa, spesso parecchio; però tale difficoltà non toglie nulla alla grandezza dell’ideale proposto. 12 In un solo caso il perdono si rivela inutile; quando dall’altra parte non si avverta l’esigenza di essere perdonati, perché non vi è stato quell’itinerario precedentemente descritto che parte dalla consapevolezza della colpa e giunge al pentimento e alla richiesta di liberazione dal rimorso. Sembra assurdo, ma spesso non si ha l’umiltà necessaria di accettare il perdono, perché in tal modo si dimostra di non aver ammesso l’errore con se stessi e di non essere ancora pronti a porvi rimedio. In presenza di tale condizione, il perdono ricevuto apparirà non un atto di forza, ma di debolezza, e non sortirà gli effetti desiderati. Il perdono come gesto gratuito è qualcosa che ci rende simili a Dio. Infatti è da Lui che discende la concezione cristiana del perdono come atto d’amore. Dio ci perdona senza nostro merito, attraverso il sacrificio del Figlio; lo fa perché ci ama, non per come ci rivolgiamo a Lui. Ci fornisce il modello più compiuto di perdono, al quale ci chiama anche ad uniformarci: «Voi dunque sarete perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). Saper perdonare è l’atto umano che più di ogni altro ci avvicina alla perfezione di Dio; è la strada che ci conduce verso il miglioramento di noi stessi, perché ci ricorda ciò che siamo: peccatori perdonati da Dio. Questo non ci rende migliori di chi non condivide quest’impostazione della fede, ma ci inserisce in un meccanismo che apre alla dimensione della speranza e respinge la chiusura nell’egoismo individuale. Il Vangelo ci insegna che non esiste l’espressione “per sempre”: per quanto negative appaiano le cose, nulla è disperato e nessuno è perso definitivamente. Attraverso il perdono, rifletto sugli altri la mia crescita 13 morale; l’esperienza migliora entrambi. L’invito evangelico è a un perdono praticamente infinito (Mt 18,21-22). Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: Signore, quante volte dovrò perdonare il mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. Proprio perché simile al gesto di Cristo, il perdono è un atto sacro; come tale merita non solo il massimo rispetto, ma anche la massima discrezione. È e deve restare un fatto privato, una questione tra le coscienze di coloro che ne sono protagonisti. Ecco perché fa rabbia vederlo spesso banalizzato, quando viene tirato in ballo a fini sensazionalistici o spettacolari. Un tema caro ad un mio amico, spesso oggetto delle nostre chiacchierate notturne. Avete mai fatto caso, nei telegiornali, alle domande che l’intervistatore di turno rivolge a chi è stato vittima di un evento luttuoso più o meno deliberatamente provocato? Tra quelle di rito – molte delle quali già di per sé rivelatrici dell’assoluta assenza di sensibilità e partecipazione umana nei confronti della persona che si ha davanti – è ormai entrata stabilmente questa: «Ma lei se la sente di perdonare?». È francamente raccapricciante vedere non solo come la televisione faccia mercato del dolore, ma ormai pretenda di esibire – e talvolta anche giudicare – i sentimenti più intimi e profondi dell’uomo, in un interesse animato solo dalle esigenze dello show-business. Le stesse che animano le strazianti scene di riappacificazione tra vip, pseudo ed aspiranti tali nelle varie case, isole e fattorie, dopo (finte?) faide interne che porta14 no all’inevitabile scena madre dell’abbraccio fraterno ad uso dello spettacolo. Tutto ciò non fa altro che sminuire uno dei cardini della nostra vita di uomini e cristiani; quel gesto, spesso causa di tanti sforzi e tanti tormenti interiori, che spalanca le porte ad una diversa prospettiva di noi stessi e degli altri. 15 PRO MANUSCRIPTO dicembre 2009 Possono sembrare pensieri che lasciano il tempo che trovano, perché non danno soluzioni o suggerimenti per risolvere problemi concreti; non danno “ricette” pratiche! Sono inviti a riflettere su se stessi, sul proprio comportamento; indicano una traccia per interrogarci sul nostro vivere interiore, anche da un punto di vista che chiamerei psicologico. Per tale motivo queste poche pagine vanno lette con la lente, adagio, adagio, permettendo a ogni parola di entrare nel nostro cuore per illuminarlo sul suo agire. Il suggerimento, quindi, è: leggetelo con calma, in un profondo clima di silenzio. Buon Natale. Il Rettore con gli educatori Collegio Ballerini, dicembre 2009 Via Verdi, 77 - 20038 Seregno (MB) - Tel. 0362 235501 www.collegioballerini.it - [email protected] 70volte7 in vacanza Stefano Pelizzoni in vacanza PENSIERI PENSIERI colpa pentimento perdono