Gianni beccali
RESISTENZA
Chignolo Po 1943-1945
a cura di
ERCOLE ONGARO
Quaderni ILSRECO n. 20, aprile 2008
Foto di copertina:
partigiani della 10a Brigata GL, Castel S. Giovanni 25 aprile 1945.
Cari amici e care amiche,
non potete neanche immaginare l’emozione e nello stesso tempo il carico di responsabilità che ho provato quando mi hanno chiesto di scrivere queste poche righe di
introduzione alla ristampa del conosciuto e apprezzato, da noi chignolesi, libro di
Gianni Beccali.
Questo per diversi motivi: fondamentalmente per la stima che provo nei confronti di
Gianni, per l’importanza e serietà dell’argomento trattato e per la mia età anagrafica
che mi fa sentire inadatto a dire ma ancora pronto ad ascoltare e apprendere a riguardo di quel tragico e per certi versi fantastico periodo storico definito Resistenza.
Nel testo di Gianni possiamo ritrovare la sua caratteristica principale che tanto lo
rende conosciuto, apprezzato ed amato: la semplicità.
Una semplicità che mai si può confondere con banalità o approssimazione, ma quella
semplicità che ti mette a tuo agio, che ti permette di vivere ogni suo intervento, anche il più duro, con familiarità, con quotidianità: questo li rende unici.
Descrive fatti, volti, luoghi a noi vicini, che abbiamo conosciuto, in cui siamo cresciuti e in cui viviamo, ridando ogni volta vita ed energia alla storia della Liberazione.
Questo testo è impreziosito dall’introduzione di Ercole Ongaro, frutto di una attenta ricerca storica, che ha saputo rendere il senso di “impegno” che ha caratterizzato
tutta la vita di Gianni ma anche di un intero paese, attualizzando, di fatto, l’intero
contenuto.
Ricordare e, per noi più giovani, conoscere la storia di una guerra assurda che ha
assunto i connotati più tragici quando si è trasformata in guerra civile è, e sarà, sempre importante: per non sbagliare di nuovo, per capire la differenza tra confronto e
scontro, per apprezzare e difendere la libertà e la democrazia, per vivere e cercare la
pace, per completare e saldare il processo di unificazione dell’Europa, tanto importante ma sempre a rischio.
Proprio per poter credere in una vera Europa unita è necessario superare le ultime
diffidenze nei confronti di quei popoli a cui maggiormente si possono imputare le
colpe di tanta violenza che ha segnato la prima metà del secolo scorso: di certo può
facilitare riflettere sulle colpe del nostro Paese.
Storici appassionati come Ongaro ci possono aiutare, descrivendo le guerre di invasione e conquista italiane non solo con gli occhi delle famiglie sconvolte per la
partenza di lavoratori chiamati a combattere. Se riuscissimo a mettere in evidenza le
lotte di partigiani di altri popoli, come quello greco, le loro guerre di liberazione, la
continua ricerca di giustizia nei confronti di criminali di guerra italiani; se cominciassimo ad imparare i nomi di quei paesi dove per mano di nostri connazionali si
effettuarono atroci rappresaglie, potremmo meglio comprendere che la violenza e la
ferocia non sono tipici di un popolo ma possono annidarsi e svilupparsi in ogni essere
umano; questo ci aiuterebbe a perdonare oltre che ad essere perdonati ma soprattutto
a non considerare importanti conquiste della nostra società come inattaccabili.
Grazie Gianni.
Il Sindaco
ing. Antonio Bonati
(per Piera, Bunatìn)
3
.
L’Istituto Lodigiano per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea (ILSRECO) si è
costituito nel 1998 per rendere viva la memoria storica sia attraverso la raccolta e la valorizzazione
del patrimonio documentario scritto, orale, iconografico e audiovisivo esistente nel Lodigiano
sia attraverso nuove ricerche sui molteplici aspetti della società contemporanea. Ha sede a Lodi
presso l’Archivio storico comunale, in via Fissiraga 17.
Istituto Lodigiano per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea (ILSRECO)
via Fissiraga, 17 - 26900 LODI - tel. 0371.424128 - e-mail: [email protected]
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Con il Quaderno n. 20 dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (ILSRECO) - su proposta della sezione ANPI
“Anna” Paolina Passaglia di Chignolo Po, Graffignana e San Colombano al Lambro - viene edito il testo di Gianni Beccali Resistenza. Chignolo Po 1943-1945,
pubblicato in forma di pro manuscripto nel 1983.
Il disagio e il risentimento nel vedere la Resistenza deformata da commemorazioni strumentali aveva spinto Gianni a scrivere la storia della Resistenza chignolese, basandosi prevalentemente sui propri ricordi. Al termine della sua fatica
sentiva però di poter affermare: “Ho raccontato il più semplicemente possibile
fatti e situazioni, in modo veritiero, mettendo in evidenza le persone che sono
state veramente l’anima della Resistenza nel nostro paese”.
Una spinta, meno contingente, venne a Gianni dalla volontà di rispondere a una
domanda di conoscenza e di memoria storica da parte di chi è nato dopo la
guerra.
Questa riedizione dello scritto di Beccali è introdotta da un saggio storico, in
cui si è cercato sia di documentare storicamente sul piano archivistico e bibliografico alcuni episodi salienti narrati da Beccali, sia di arricchire ulteriormente la
conoscenza della storia politica e sociale chignolese dalla fine dell’Ottocento alla
seconda guerra mondiale.
Il lavoro di Gianni non ha soltanto valore sul piano della ricostruzione storica,
ma anche su quello della testimonianza di un percorso esistenziale e politico coerente, all’insegna della fedeltà a ideali di giustizia e di dignità per tutti, a partire
da chi sta in basso nella scala sociale. Questa testimonianza di dedizione e di
impegno costanti Gianni l’ha realizzata nel suo paese, per i suoi concittadini, ma
avendo come orizzonte l’Italia e il mondo.
A corredo finale del testo di Beccali è poi stata trascritta l’intervista realizzata il 12
gennaio 2007: un discorrere calmo, riflessivo, in cui Gianni ha ripercorso la storia
della sua famiglia, della sua adolescenza, della presa di coscienza politica, della lotta
resistenziale, del suo impegno politico nell’Italia democratica postbellica.
Il senso di questa pubblicazione è di far conoscere ai più giovani non soltanto
l’impegno tenace di un uomo che molto si è prodigato per il suo paese - di cui è
stato consigliere comunale, assessore e sindaco (1980-1990) - ma anche i sacrifici
che sono stati necessari per conquistare libertà, democrazia, diritti. Soltanto un
impegno rinnovato ogni giorno potrà difendere conquiste così importanti.
Ercole Ongaro
direttore ILSRECO
aprile 2008
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Desidero ringraziare vivamente il sindaco di Chignolo Po, Antonio Bonati, e il
vice sindaco Franco Giraldi per aver sostenuto il progetto di questa pubblicazione
e avermi autorizzato alla consultazione dell’Archivio storico comunale; ringrazio
anche il personale del settore Anagrafe per avermi facilitato tale consultazione.
Presso l’Archivio Storico Diocesano di Pavia mi sono state preziose la consulenza
e la disponibilità del prof. Xenio Toscani e di don Michele Rosa, che ringrazio.
Un sentito ringraziamento al presidente, Vincenzo Campanella, e al Direttivo
della sezione ANPI di Chignolo Po, Graffignana e San Colombano al Lambro.
In particolare ringrazio tutti coloro che, con un’attiva collaborazione, hanno permesso di realizzare la riedizione del libro di Gianni:
Angelo Golzi, che ha trascritto l’intervista a Beccali; Barbara Cassinari e Rachele Equitani, che hanno provveduto alla versione elettronica del testo; Edoardo
Benzoni e Cesare Cassinari, che hanno messo a disposizione immagini digitali
di Beccali.
Ma al di là di quanto ciascuno ha fatto, sento gratitudine per la stima e amicizia
che mi hanno sempre manifestato.
Un grazie vivissimo a Gianni e Piera e ai loro familiari.
E. O.
Le fotografie sono della famiglia Beccali, a eccezione delle seguenti:
p. 95 in alto (Edoardo Benzoni), in basso (Cesare Cassinari); p. 97 in alto (Cesare
Cassinari), in basso (Edoardo Benzoni); p. 98 (Cesare Cassinari).
abbreviazioni
ACCP: Archivio Comunale di Chignolo Po
ASDPv: Archivio Storico Diocesano di Pavia
6
Ercole Ongaro
“Ma vale la pena…”
Gianni Beccali,
una vita di lotta per la dignità di tutti
Quasi a conclusione del suo testo sulla Resistenza a Chignolo Po - scritto nel
1982-1983 e che ora viene riedito - Gianni Beccali lancia il suo messaggio più
assillante: “La lotta non è finita”; e specifica:
La via della giustizia è molto più impervia di quanto credevamo, ma vale la
pena intraprenderla e lottare seriamente per la realizzazione di una società
migliore che tenga sempre più conto dei lavoratori1.
Gianni ha trovato in questa lotta il senso della propria vita; per questo dalle
sue pagine scaturisce l’invito a cercare il senso del vivere nel rompere il cerchio
dell’egoismo e dell’indifferenza per assumere come orizzonte dell’esistenza la
costruzione di una società più giusta, più solidale, più fraterna. Il suo cruccio
è stato vedere persone che si chiudono nell’inerzia del proprio recinto personale o familiare, che non sentono la dimensione collettiva dell’avventura
umana, che anestetizzano la propria coscienza, chiudono gli occhi e stanno a
capo chino come, nell’esordio del romanzo, il protagonista di Conversazione in
Sicilia di Elio Vittorini (1941):
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genero umano
perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi
con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo
voglia di nulla. […] Ero quieto; ero come se non avessi nulla di mio da mettere
in gioco. [...] Pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo2.
1
2
Infra, p. 76.
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Einaudi, Torino 1976, pp. 5-6.
7
La presa di coscienza di Gianni avvenne, nella seconda metà degli anni
Trenta, a Milano, dove faceva il garzone panettiere: il contatto con alcuni antifascisti sul luogo di lavoro e la durezza del trattamento da parte del padrone
suscitarono in lui la determinazione a non subire passivamente, a non chinare
il capo, bensì a ribellarsi e organizzarsi per cambiare la situazione propria e
quella della classe lavoratrice cui apparteneva.
A seguito della piega assunta dagli eventi bellici Gianni, tra la fine del
1942 e l’inizio del 1943, lasciò Milano e rientrò al paese. Ma non voleva rassegnarsi a sprofondare nella vittoriniana “quiete” della “non speranza”, nel vuoto
dei falsi miti del fascismo, perché in lui ardeva la “febbre di fare qualcosa in
contrario”: era deciso a cercare altri con cui condividere un sogno di riscatto,
di liberazione, con cui lottare per una società nuova, senza diseguaglianze e
sopraffazioni. Una lotta che non è mai finita.
Gianni Beccali: da figlio di carrettiere a lavoratore-panettiere
Gianni è figlio di un carrettiere, Paolo Beccali, e di Giulia Marchini: è nato
a Chignolo Po il 21 aprile 1924. Prima di lui, nel 1922, era nato il fratello
Cesare; nel 1928, il terzogenito Luigi. I Beccali abitavano, come ancora oggi,
in via Rusca, possedevano un piccolo appezzamento di terra, ma i mezzi per
vivere derivavano soprattutto dall’attività di carrettiere del padre: Paolo Beccali trasportava merci, eseguiva traslochi, si occupava della fornitura di legna;
riusciva così a garantire alla famiglia una vita sul filo dello stretto necessario:
“Ce la cavavamo appena, appena, appena”3, ricorda Gianni.
Erano giorni violenti quelli dell’aprile 1924, quando è nato Gianni:
la prima domenica del mese si erano svolte le elezioni politiche generali, che
avevano visto il successo del Blocco Nazionale (fascisti, liberali, clerico-moderati) e, nonostante il successo, lo squadrismo fascista si stava scatenando in
aggressioni e intimidazioni, in vendette. Una scia di violenza interrotta soltanto a metà giugno di fronte all’esecrazione generale per l’assassinio, a Roma,
del deputato socialdemocratico Giacomo Matteotti.
Gianni frequentò le scuole elementari in paese: fu inevitabilmente balilla, anche se il padre non gli comperò mai la divisa, accampando motivi economici. All’età di nove anni perdette la mamma, ammalata di cuore. Il padre si
risposò l’anno dopo, con Ines Malinverni, perché i suoi tre figli avessero chi li
E. Ongaro, Intervista a G. Beccali, Chignolo Po 12 gennaio 2007 (videoregistrazione in Dvd, riprese e montaggio di Giancarlo Volpari, Archivio ILSRECO, Lodi), infra, pp. 99-122 Le informazioni di questo paragrafo sulla famiglia e su Gianni giovane sono ricavate dalla suddetta intervista.
3
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accudisse, mentre lui girava per paesi, anche lontani, col suo carretto. A undici
anni Gianni migrò a Milano, trovando lavoro presso un panettiere di corso
Italia: prima portava a domicilio il pane, poi lavorò al forno. I dipendenti alloggiavano nella soffitta del fornaio.
Soprattutto sul lavoro, più che in famiglia, cominciò a sentire discorsi politici: due suoi compagni, Dino e Giacomo Pozzi, uno anarchico l’altro comunista, talvolta abbozzavano qualche analisi della situazione usando
espressioni mai prima ascoltate: sfruttamento capitalistico, dittatura liberticida, politica imperialistica, necessità di una rivoluzione, sogni di uguaglianza e
di giustizia sociale. Anche un terzo compagno di lavoro, il compaesano Beria,
contribuì ad ampliare il suo orizzonte politico.
Dopo aver portato la guerra lontano, in Etiopia, in Spagna, in Albania,
il fascismo nel 1940 portò la guerra in casa. Dopo due anni di guerra i bombardamenti colpirono anche il Nord del Paese. Si era ormai nel 1942-1943 e
il regime fascista, sotto cui Gianni era nato e vissuto, stava rantolando sotto
i colpi della sconfitta militare e delle sempre più frequenti incursioni aeree.
Dalle città del Nord una fiumana di sfollati cercava scampo nei paesi, non
ancora esposti ai bombardamenti. Allora anche Gianni, seguì il corso della
corrente degli sfollati e tornò a Chignolo Po, paese agricolo di circa 4.400
abitanti, con un solo sito industriale, la filanda. Gianni era un giovanotto di
quasi 19 anni, alto, magro, straripante forza fisica, con tanta voglia di lavorare,
ma anche di non rinchiudersi - dopo aver conosciuto la grande città - nell’angusto orizzonte di un paese, confinato in un estremo lembo di pianura alla
confluenza del Lambro nel Po.
Chignolo Po4: dalla tradizione socialista alla coercizione fascista
In paese Gianni non si collegò soltanto con i propri coetanei, ma cercò contatti con persone più anziane che avessero una preparazione politica, con le
quali riprendere l’esile filo dei discorsi avviati con Dino e Giacomo; conobbe
così Cesare Callegari ed Eugenio Pozzi, iscritti clandestinamente al Partito
La bibliografia su Chignolo Po nel Novecento è limitata. Il testo che riserva più approfondimento alle vicende politico-sociali del secolo scorso è quello di Pietro Scotti: Chignolo Po e la sua
storia, pp. 343, dattiloscritto inedito che ho potuto consultare presso l’Archivio storico diocesano
di Pavia; inoltre la monografia di don Angelo Rossi: Chignolo Po e le sue frazioni, Tipografia Artigianelli, Pavia 1964 e quella di don Gianfranco Mascheroni, Il Borgo di Chignolo e la Chiesa di
S. Maria e Lorenzo, Tipografia Bodoniana, Pavia 1981. Scotti è autore anche di un altro testo, ma
con scarsi accenni al Novecento: Chignolo Po. Frammenti di storia, Personaggi e fatti particolari che
ne hanno caratterizzato lo sviluppo economico e sociale, Greppi Editore, 2007, pp. 250.
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9
comunista. Cominciò a conoscere il passato antifascista di Chignolo, la sua
tradizione socialista; essa è compendiata da Gianni in due figure emblematiche delle origini del socialismo chignolese: Alfredo Assani e Egisto Chioffi.
Il socialismo aveva attecchito a Chignolo Po nell’ultimo decennio
dell’Ottocento e già nelle elezioni amministrative della primavera 1898 era
stato eletto in Consiglio Comunale un rappresentante del Partito socialista,
Alfredo Assani, che nella seduta consiliare del 30 ottobre 1898 propose un
ordine del giorno di solidarietà a favore dei condannati del Tribunale militare
di Milano per la protesta repressa nel sangue dal gen. Bava Beccaris5.
Nelle elezioni politiche del novembre 1904, svoltesi poche settimane dopo il primo sciopero generale italiano, si presentarono nel Collegio di
Corteolona due candidati socialisti, accanitamente in lotta fra loro, uno di
tendenza riformista (Fabrizio Maffi) e l’altro rivoluzionario (Walter Mocchi),
che a Chignolo ottennero rispettivamente 5 e 71 voti, su circa 300 votanti6.
Risultò eletto il radicale Carlo Romussi, nel Collegio che aveva visto più volte
vincitore il suo compagno di fede Felice Cavallotti.
Nel 1908 a Chignolo la lista dei “Partiti popolari” (radicali, socialisti, repubblicani, liberali progressisti) riportò alle elezioni amministrative “un
successo trionfale” e nella nuova Amministrazione entrarono - scriveva il settimanale socialista della provincia di Pavia - “quattro nostri compagni, i quali
sapranno vigilare perché il programma del lavoro abbia completo e pronto
svolgimento”7. Il socialista Alfredo Assani diventò assessore, accanto al sindaco repubblicano Oreste Ranza8.
L’anno seguente i socialisti si organizzarono per aprire a Chignolo una
sezione del partito9; nel 1913 risultavano tesserati 30 chignolesi10.
Nel luglio 1914 fu eletto sindaco il socialista Alfredo Assani, uno dei
pochi sindaci di fede socialista eletto prima della Grande Guerra11. I primi
atti della sua maggioranza - nelle cui file sedeva il giovane Egisto Chioffi furono l’invio di un telegramma di condanna e di solidarietà per l’assassinio
Pietro Scotti, Chignolo Po e la sua storia, cit., p. 232.
Collegio di Corteolona, in “La Plebe” (settimanale socialista riformista), 5 novembre 1904.
7
Ibidem, Chignolo Po, 2 ottobre 1908.
8
ACCP, Registro dei verbali delle deliberazioni consiliari, 4 ottobre 1908.
9
Chignolo Po, in “La Plebe”, 4 giugno 1909.
10
Situazione del Partito Socialista nella Provincia di Pavia, ibidem, 22 novembre 1913. A Monticelli Pavese erano 40 gli iscritti, 26 a S. Cristina, mentre non risultavano iscritti a Miradolo e Pieve
Porto Morrone.
11
ACCP, Registro dei verbali delle deliberazioni consiliari, 13 giugno 1914.
5
6
10
del leader socialista francese Jean Jaurés, l’approvazione di un voto contro la
guerra e contro “le speculazioni da taluni tentate in occasione della guerra”,
l’istituzione di una nuova scuola alla frazione Alberone12. La maggioranza
socialista avrebbe sostenuto accesi contrasti con il prefetto per gli ordini del
giorno di critica al governo e alla sua politica repressiva nei confronti della
protesta popolare13.
Le elezioni politiche del novembre 1919, le prime con sistema proporzionale, rappresentarono uno sconvolgimento del panorama politico italiano:
il sisma si riprodusse anche a Chignolo. L’ultimo comizio del candidato socialista Montemartini è così raccontato dal cronista:
I chignolesi, uomini e donne, improvvisarono al nostro compagno una dimostrazione non mai vista e difficile a descriversi. Orchestra, torcie a vento, canto
dei nostri inni socialisti e rivoluzionari, evviva al Socialismo… era l’anima del
popolo compressa da quattro anni di dolori e di bavaglio che si espandeva liberamente. Il corteo imponente percorse tutto il paese, ingrossandosi ad ogni
casa e ad ogni via laterale. […] Era pronto per un comizio il teatro, ma la folla
non vi poteva entrare tutta e l’on. Montemartini parlò a tutta la popolazione
di Chignolo dal balcone del Municipio, interrotto continuamente da applausi
e da evviva14.
Il primo partito risultò il socialista con 324 voti, cui seguivano la lista dei
Combattenti (66 voti), del Partito popolare (32), degli Agrari (8)15.
L’onda lunga socialista fu confermata anche a livello amministrativo,
nell’ottobre 1920. I socialisti mantennero l’Amministrazione comunale e il
ruolo di sindaco fu assunto da Egisto Chioffi, trentunenne, già consigliere
nella precedente legislatura: lo affiancarono in giunta l’ex sindaco Assani, Romolo Bonati, Carlo Oltrasi e Martino Cavallini16.
Ma tra le nuove forze politiche del dopoguerra c’era anche il fascismo
di Mussolini, le cui squadre armate dalla primavera del 1921 avviarono una
sistematica demolizione delle strutture organizzative socialiste. Anche ChiIbidem, 5 luglio 1914.
Pietro Scotti, Chignolo Po e la sua storia, cit, pp. 236-237.
14
Movimento elettorale. Chignolo Po, in “La Plebe”, 13 novembre 1919.
15
Risultato delle elezioni, ibidem, 22 novembre 1919. In provincia di Pavia il Partito socialista ebbe
il 60% dei consensi (54% in Italia), il Partito popolare il 16% (20% in Italia).
16
Ibidem, 7 novembre 1920.
12
13
11
gnolo Po subì l’oltraggio dei fascisti. Il 23 maggio 1921 squadre di fascisti di
Castel S. Giovanni e di Pavia “avevano portato la devastazione nella sede della
Società Operaia di mutuo soccorso”, proseguendo poi per S. Cristina, dove
minacciarono il sindaco e i consiglieri socialisti affinché si dimettessero17. Due
mesi dopo, domenica 10 luglio, il tragitto degli squadristi si invertì: prima a S.
Cristina, poi a Chignolo, dove gruppi di fascisti piacentini, giunti su due camion, si sguinzagliarono nel paese bastonando bestialmente coloro che erano
riconoscibili come socialisti o comunisti; cercarono il sindaco Chioffi, ma non
lo trovarono18.
Tentò di contrastare lo squadrismo fascista sul terreno della violenza
il movimento degli Arditi del popolo, spontanea reazione di militanti di alcuni partiti (socialisti, comunisti, repubblicani) e di semplici cittadini. Ma la
pronta reazione del governo, della polizia e della magistratura li scompaginò:
nell’agosto 1921 una ventina di Arditi del popolo furono arrestati a Pavia e nel
gennaio 1922 a Chignolo ci furono altri 18 arresti19.
Le violenze squadristiche e le connivenze dell’apparato statale liquidarono, tra l’estate e l’autunno 1922, la quasi totalità delle giunte socialiste. Domenica 27 agosto un folto gruppo di fascisti raggiunse Chignolo Po e occupò
la sede del Municipio, chiedendo le dimissioni del sindaco e della Giunta
socialista; lanciò minacce di morte al sindaco e all’assessore Carlo Oltrasi20.
Ai primi di settembre la Giunta di Chignolo fu costretta alle dimissioni e Chioffi, che Beccali definisce “uomo buono e integerrimo, di ideali
nobili e molto saldi”, fu picchiato, ingiuriato e, dopo l’avvento della dittatura,
arrestato (9 dicembre 1926) e condannato a tre anni di confino, ridotti a due
in appello, che scontò a Lipari21.
Il Comune di Chignolo Po andò a nuove elezioni amministrative nel
febbraio 1923: vinse la lista del Blocco nazionale, formata da liberali e fascisti.
Fu rieletto sindaco Oreste Ranza22. Questi non aveva ancora compreso che la
violenza era connaturata al fascismo e si illuse sul ritorno del fascismo nell’al-
Le inaudite violenze di S. Cristina-Bissone, ibidem, 29 maggio 1921.
Chignolo Po. Bestiali violenze fasciste contro i passanti, ibidem, 14 luglio 1921.
19
Eros Francescangeli, Arditi del Popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista
(1917-1922), Odradek, Roma 2000, p. 211.
20
Chignolo Po. Occupazione del Comune, in “La Plebe”, 1 settembre 1922.
21
Infra, p. 42; Adriano del Pont (coordinatore), Antifascisti nel Casellario Politico Centrale, ANPPIA, Roma, Quaderno 6, p.77 (Chioffi fu anche “ripetutamente fermato, vigilato fino al 1942”).
22
ACCP, Registro dei verbali delle deliberazioni consiliari, 4 marzo 1923.
17
18
12
veo della legalità; ma le proposte di adesione del Comune alla Federazione dei
Comuni Fascisti e di conferimento della cittadinanza onoraria a Mussolini,
le sopraffazioni che precedettero le elezioni politiche dell’aprile 1924 lo convinsero a dare le dimissioni da sindaco (16 marzo); dopo l’assassinio del deputato socialdemocratico Giacomo Matteotti (10 giugno) si dimise anche da
consigliere comunale (12 luglio)23. A lui era succeduto come sindaco il fascista
Lodovico Salvi, che come primo atto aveva fatto deliberare la cittadinanza
onoraria al duce24.
Ai socialisti era stato impedito di presentare la lista alle elezioni amministrative del 1923 e i militanti più noti avevano dovuto abbandonare il
paese. Avevano ripiegato le loro bandiere, le avevano nascoste, si erano rinchiusi nella vita degli affetti familiari; guadagnarsi il pane per sé e per la propria famiglia era diventato l’assillo più importante.
Alcuni antifascisti chignolesi, sorpresi a manifestare contro il regime,
incapparono nella sua rete repressiva: Luigi Viola (cl. 1901), nato a Chignolo,
ma residente a Milano, carrettiere, comunista, fu ammonito nel 1927 “per diffusione di volantini comunisti”; Erminio Galazzi (cl. 1886), sarto, socialista, fu
diffidato nell’aprile 1931 “per discorsi contrari al regime”; Giuseppe Bianchi
(cl. 1889), bracciante, antifascista, fu arrestato il 15 giugno 1931 “per offese al
Capo del Governo”; Silvio Beria (cl. 1898), lattoniere, comunista, fu arrestato
nel novembre 1931 per diffusione di volantini con la scritta “Mussolini cane
senza coscienza carnefice e vile”; Giuseppe Cremonesi (cl. 1898), muratore,
antifascista, fu arrestato il 20 dicembre 1942 per aver affermato “il duce è il
primo ladro d’Italia”; Pietro Rossi (cl. 1890), autista, antifascista, fu arrestato
nel febbraio 1943 per aver scritto “W Stalin” su un manifesto di propaganda
fascista e condannato a due anni di confino a Pisticci, ma tornò libero in agosto per la caduta di Mussolini25.
Gli anni Trenta portarono al pettine i nodi delle contraddizioni del fascismo: illudendosi del cosiddetto consenso di massa, il regime si lanciò nella
politica di conquista attraverso guerre di aggressione, dall’Etiopia alla Spagna,
dall’Albania alla Francia, dalla Grecia alla Jugoslavia. Guerre che sconvolsero
Ibidem, 16 marzo e 12 luglio 1924.
Ibidem, 19 aprile 1924.
25
Adriano del Pont (coordinatore), Antifascisti…, cit., Quaderno 19, p. 98 (Viola); Quaderno 9,
Roma 1992, p. 44 (Galazzi); Quaderno 3, p. 240 (Bianchi, nato a Miradolo Terme); Quaderno 3,
p. 112 (Beria); Quaderno 6, p. 376 (Cremonesi); Quaderno 16, p. 113 (Rossi). Devo la segnalazione di questi nominativi a Gennaro Carbone, che ringrazio vivamente.
23
24
13
le vite dei lavoratori chiamati a combatterle e delle loro famiglie. Il fascismo
si era anche illuso di aver forgiato un uomo nuovo, guerriero, con le parate dei
balilla e degli avanguardisti, con le marce e le esercitazioni cui aveva costretto
- come ricorda Gianni Beccali - i giovani cresciuti sotto il regime.
La guerra e la caduta del fascismo
La guerra trascinò il fascismo davanti allo specchio della verità: ne emersero
le velleità, l’impreparazione militare, il vuoto spirituale, l’inganno. L’apparente
consenso si disintegrò di fronte alla verità della morte di migliaia di soldati,
del dolore delle famiglie, delle requisizioni di ferro, rame e bestiame, dei sacrifici della vita quotidiana (tesseramento e carenze molteplici, ammasso dei
prodotti agricoli e borsa nera, oscuramento e incursioni aeree), del prolungarsi
del conflitto, del delinearsi della sconfitta. Il podestà di Chignolo - che dal
1935 era il rag. Oreste Visconti - nel marzo 1943 coglieva “un notevole malcontento fra le famiglie” e prospettava il rischio che si andasse verso un punto
di rottura:
Le famiglie, pur avendo una notevole azienda agricola, per il richiamo alle
armi dei componenti, per l’impossibilità di trovare manodopera per i lavori
necessari oppure sottostare a tariffe di molto superiori a quelle sindacali, per
la mancanza di foraggio, per l’obbligo di conferimento di tutti i generi all’ammasso, trovansi in condizioni di grave disagio26.
Le difficoltà del settore agricolo furono quelle che maggiormente allontanarono la popolazione dal regime; la struttura economica di Chignolo Po era ancora prevalentemente agricola: una quindicina di aziende di piccola e media
dimensione (tra le 90 e 600 pertiche), due grandi (circa 1200 pertiche), con alle
dipendenze dei salariati e degli avventizi, alcune centinaia di coltivatori diretti
che conducevano piccolissimi appezzamenti di terreno, un centinaio di commercianti e artigiani, alcune decine di professionisti e impiegati, trenta esercenti,
qualche decina di saccaroli, carrettieri, canestrai, merciai, osti, gelatai27.
ACCP, cart. 19 bis, fasc. 6, Lettera del podestà al presidente della commissione per i soccorsi militari,
16 marzo 1943. Il patrimonio animale del Comune era così costituito, prima della crisi bellica: 626
vacche, 479 manzi e vitelli, 136 buoi, 12 tori, 256 cavalli, 91 asini, 3 muli, 445 maiali, 28 scrofe e
verri, 12 capre, 10 pecore (cart. 29, fasc. 42, Lettera del podestà a Lodovico Salvi, 30 gennaio 1939).
27
Ibidem, cart. 29, fasc. 41, Lettera del podestà al Procuratore delle imposte dirette, 5 ottobre 1939; cart.
30 fasc. 12, Lettera del sindaco E. Chioffi all’Ufficio provinciale del lavoro, 9 luglio 1946.
26
14
Gli sfollati in fuga dalle città andavano nella primavera 1943 riempiendo i vuoti lasciati nelle famiglie dai soldati sui fronti di guerra; 403 chignolesi erano sotto le armi: 380 nell’Esercito, 14 nell’Aeronautica, 9 nella
Marina28. Molti erano già i caduti e i dispersi: sul fronte greco albanese erano
morti Ciro Cerri (cl. 1920) e Ernesto Vitti (cl. 1916) nel 1941; nella campagna di Russia erano scomparsi Carlo Cerri (cl. 1922), Giovanni Corona (cl.
1915), Livio Gallazzi (cl. 1922), Bruno Ghidotti (cl. 1912), Natalino Rancati
(cl. 1922), Ettore Tosca (cl. 1922); sul fronte tunisino il 20 marzo 1943 era
perito Giovanni Ganassali (cl. 1917)29.
Una popolazione sfiduciata, stanca, soprattutto desiderosa di una svolta radicale accolse quindi con manifestazioni di gioia l’annuncio della caduta
di Mussolini e del suo regime, il 25 luglio 1943. Tacciono i documenti d’archivio, ma il ricordo di Gianni Beccali è nitido:
A Chignolo, oltre alle iniziative degli antifascisti organizzati tendenti a legarsi
maggiormente con la gente per le battaglie che già si intravedevano per il futuro, ci furono manifestazioni spontanee che misero in evidenza la volontà di
molti giovani di battersi per la restaurazione della Libertà30.
Gianni e altri giovani antifascisti entrarono nella sede dell’ex Società Operaia,
occupata dalla GIL, ne asportarono alcune suppellettili, come quadri del duce
e manifesti, bruciandoli sulla via31. Contro alcuni di quelli che si erano distinti
nella distruzione delle insegne del regime si sarebbe poi scatenata la repressione del maresciallo dei carabinieri. Era la prova che, nonostante l’arresto del
dittatore, la struttura repressiva dello Stato in funzione antipopolare restava
intatta. Erano scomparse dalla circolazione le camicie nere, ma il clima era
da stato di assedio. Per questo l’incontro che Gianni Beccali, Eugenio Pozzi
e Carlo Porrini ebbero con un esponente del Partito comunista il 13 agosto
1943 dovette svolgersi clandestinamente: di notte, dietro il castello di Chignolo, con il classico segno di riconoscimento della metà di una moneta di
carta, sfidando il coprifuoco che dal 3 agosto scattava proprio alle ore 2232.
Ibidem, cart. 19 bis, fasc. 6, Lettera del podestà al prefetto, 2 febbraio 1943.
Ibidem, cart. 20, fasc. 28, Elenco dei dispersi e caduti redatto dal sindaco E. Chioffi, [1945 o 1946];
ho citato quelli morti fino alla primavera del 1943.
30
Infra, p. 45.
31
E. Ongaro, Intervista a G. Beccali, cit., infra, p. 104.
32
Il coprifuoco alle ore 22, in “La Provincia Pavese”, 4 agosto 1943. L’ ordine era del Comandante
della Difesa Territoriale, gen. Ruggero.
28
29
15
Il comunista mandato dal partito era Edoardo Pettinari, salariato agricolo di Turano Lodigiano33; il collegamento era stato fornito dalla militante
comunista Anna Passaglia ved. Lanzani di S. Colombano al Lambro. Fu una
discussione serrata e proficua, dalla quale scaturì “l’indirizzo generale di lavoro
e di lotta” che ispirò la lotta nei venti mesi della Resistenza: tessere contatti con
esponenti di altre forze politiche, stare in stretta relazione con la popolazione
lavoratrice, costituire gruppi armati ma senza staccarsi mai dalla popolazione34.
La Resistenza nonviolenta
Gianni Beccali l’8 settembre 1943 era a Chignolo, dove lavorava presso un
fornaio. La catastrofe innescata dall’annuncio dell’armistizio e soprattutto
dalla fuga del re, del governo e dello Stato Maggiore dell’esercito si colse a
Chignolo con il flusso dei soldati che erano di passaggio e cercavano con ogni
mezzo di raggiungere le loro case, dopo essere scappati dalle caserme. “Quasi
tutto il paese è mobilitato per aiutare i soldati”, testimonia Gianni: si reperivano abiti borghesi, si offriva cibo e ospitalità, si consigliava un tragitto sicuro
per evitare posti di blocco tedeschi35. Tra tutti si distinse la famiglia di Carlo
Porrini, per la generosità che la caratterizzava.
Abbiamo ancora una volta la conferma che la popolazione si è mossa
non per un ordine venuto dal neo costituito Comitato di Liberazione Nazionale
(CLN), ma perché ascolta la propria coscienza, la propria umanità più profonda,
e quindi si mette in gioco, rischia, non volge la testa dall’altra parte davanti a un
essere umano che è nel bisogno, nel pericolo, che domanda aiuto.
In fuga sono anche gli ex prigionieri alleati, di cui nel centro di Chignolo
c’era un “campo di raccolta”: essi chiedevano di essere accompagnati in Svizzera
o verso Sud sperando di avvicinarsi all’esercito degli Alleati che risalivano la penisola. “Anche per loro fu fatto tutto il possibile” assicura Gianni: si procurarono
guide per il viaggio, fu data loro assistenza, e quelli rimasti furono “nascosti nella
case e protetti dalla popolazione”36. Un prigioniero, che rifiutò l’aiuto, finì con
Pettinari era nato a cascina Monticelli di Bertonico nel 1911, figlio di un casaro; dopo il servizio militare aveva cominciato a lavorare come aiuto-casaro, poi anche come trasportatore di latte
(“menalàtt”), mestiere che gli permetteva spostamenti e contatti sul territorio. La sua maturazione politica risale al periodo della guerra. Dal 1941 era sposato con Maria Ferrari, sarta di Turano
(Giacomo M. Bassi, Turano Lodigiano e la sua gente nel 1900, Amministrazione Comunale, Turano Lodigiano 2004, pp. 334-338).
34
Infra, p. 47.
35
Infra, p. 48.
36
Ibidem.
33
16
l’essere catturato: i fascisti della Repubblica di Salò lo portarono in caserma
“legato, come un forzato” e sparì, probabilmente deportato in Germania37.
Gianni, con il fratello Cesare, ha personalmente partecipato ad alcuni
viaggi fino al confine svizzero, non soltanto accompagnando ex prigionieri
alleati, ma anche ebrei38.
Queste forme di Resistenza nonviolenta, praticate da centinaia di cittadini chignolesi, testimoniano la partecipazione popolare alla lotta di Liberazione e l’isolamento in cui dovettero muoversi i fascisti nei venti mesi del
tragico azzardo messo in atto con la Repubblica di Salò.
Questa realtà di Resistenza popolare e di isolamento del potere fascista fu resa ancora più evidente con il fenomeno dei renitenti alla leva, cui
Gianni Beccali dedica l’ultimo paragrafo (“Sbandati”) a conclusione della sua
storia. Lo ha estrapolato dal racconto disposto cronologicamente proprio per
dargli maggior rilievo. Il fascismo di Salò si illuse su una risposta plebiscitaria
dei “suoi” giovani, che non avevano conosciuto altra realtà che quella del regime, cresciuti ed educati a suon di slogan bellicisti e di marce col moschetto.
Beccali riporta uno dei tanti bandi con cui si minacciava la pena di morte; ciononostante “la maggioranza dei giovani disertò, nascondendosi nelle campagne, dormendo nelle capanne in estate, sulle cascine e nelle stalle d’inverno”39.
Senza la rete di solidarietà da parte della popolazione, i rastrellamenti messi
in atto dai fascisti avrebbero avuto un esito ben più disastroso.
Anche le famiglie dei renitenti ebbero bisogno spesso della solidarietà
dei vicini, perché il regime tolse ai familiari dei renitenti le tessere annonarie,
sospese lo stipendio, le licenze di esercizio; ricorse perfino all’arresto del padre
o della madre. Tali drastici provvedimenti indussero molti a presentarsi, ma
ben presto poi essi fuggivano dalle caserme e ritornavano alla macchia. Così
fu anche per Gianni, che si presentò per evitare che arrestassero suo padre; fu
portato a Novara, ma l’indomani, con alcuni compagni, scavalcò la recinzione
della caserma e tornò a Chignolo. Per qualche tempo si aggregò agli sbandati
del paese, il cui gruppo più consistente era quello del Boscone, poi entrò in
clandestinità. Gli sbandati si distinsero per la collaborazione che sempre prestarono ai partigiani e al CLN.
Beccali dedica un paragrafo al rastrellamento più drammatico, avvenuto il 1° novembre 1944, solenne festa di Tutti i Santi, quando i militi fascisti
Infra, p. 50.
E. Ongaro, Intervista a G. Beccali, cit., infra, pp. 106-107.
39
Infra, p. 78.
37
38
17
violarono perfino lo spazio sacro della chiesa: vi fecero irruzione con i mitra
spianati durante la celebrazione della messa per sorprendervi i giovani renitenti:
Il Prevosto, don Giuseppe Brusoni, coraggiosamente va incontro ai fascisti
cercando di fermarli, rimproverandoli per il sacrilegio che stavano consumando nella Casa di Dio. Viene travolto a forza e minacciato di morte. Molti
[giovani] riescono a fuggire, ma alcuni vengono presi e caricati sui camion40.
Tra gli arrestati furono Annibale Gaudenzi e Giorgio Guasconi, particolarmente invisi ai fascisti perché ambedue erano disertori della Divisione Monterosa. Furono portati a Chiavari e processati dal Tribunale Militare: Gaudenzi fu condannato alla pena capitale, Guasconi a 30 anni di reclusione41.
Gaudenzi venne fucilato l’11 gennaio 1945: aveva 19 anni. Il suo corpo fu
riportato a Chignolo dopo la fine della guerra; il parroco don Brusoni annotò
nel registro dei morti:
Animam Deo reddidit in civitate Chiavari per fucilazione, perché considerato
disertore dell’Esercito Repubblicano. […] Sacramentis Poenitentiae et SS. Eucharistiae refectus a Sac. Cappellano Carceri di Chiavari. […] Sepultum a Chiavari usque ad diem 12 Junii, postea in coemeterium huius Paroeciae sepultum est 17
Junii42.
Molti altri gesti di Resistenza nonviolenta sono descritti nel libro di
Beccali, anche se non sono denominati come tali. Richiamo l’attenzione su
quelli delle donne, non solo di quelle citate per nome da Gianni (tra cui Piera
Moro, divenuta poi sua moglie), ma di tante altre rimaste nell’anonimato:
Il movimento partigiano locale ha avuto da esse ogni tipo di aiuto: nascondigli
sicuri, informazioni necessarie sulle azioni da compiere, aiuti in vestiario, in
Infra, p. 59.
ACCP, cart. 20, fasc. 10, Lettera del sindaco E. Chioffi alla Questura, 10 dicembre 1945. Da questa lettera del sindaco apprendiamo che Annibale Gaudenzi, prima di morire, scrisse una lettera
alla sorella Lina; anche Guasconi scrisse una lettera a Lina Gaudenzi e un’altra alla fidanzata di
Annibale.
42
ASDPv, Liber Defunctorum Paroeciae Cuneoli ad Padum ab anno 1926 ad annum 1952, 1945, n. 27.
40
41
18
generi alimentari, ecc. Hanno imposto i funerali con tutti gli onori ai caduti
partigiani, sfidando la ferocia della GNR di Corteolona43.
Può sembrare oggi una cosa scontata quella del funerale ai caduti della Resistenza; invece non era affatto così. In molti paesi e città - Lodi, per esempio
- per i fucilati non furono celebrate le esequie funebri. A Chignolo non soltanto furono fatte solennemente, ma - racconta Gianni - perfino fu procurata
una corona di garofani rossi per il funerale di Carlo Porrini e poi deposta sulla
tomba la sua camicia rossa; anche per gli altri caduti non mancarono mai sulle
tombe fiori o drappi rossi, che i fascisti per un certo tempo rimossero. Se i
funerali si sono celebrati, lo si deve anche all’esemplare coraggio del parroco
don Giuseppe Brusoni. Ma tutti gli altri gesti di pietà sui corpi dei caduti e
in loro memoria sono stati possibili per l’intrepido coraggio di alcune donne
che, ascoltando unicamente la propria coscienza e la propria umanità, hanno
sfidato il potere e hanno fatto rivivere a Chignolo l’antica figura di Antigone,
la ribellione della sua coscienza e la sua pietà per le vittime.
Un ricordo e un’ammirazione particolare Gianni ebbe per Anna Passaglia di S. Colombano al Lambro: efficiente staffetta, instancabile nell’azione
resistenziale, umanissima nella solidarietà verso tutti.
In conclusione, la stessa Resistenza armata, fenomeno di una piccola
minoranza, non avrebbe potuto sopravvivere, senza il sostegno di chi ha scelto
di restare sul terreno della Resistenza nonviolenta: costoro non avevano in
tasca la tessera di un partito, ma erano ispirati da sentimenti di pietà e di solidarietà umana, oltre che da una forte avversione contro la guerra.
La Resistenza armata: la 167a Brigata Garibaldi
Gianni Beccali entrò in clandestinità dopo la fuga dalla caserma di Novara, nei
primi mesi del 1944. Non poteva più riprendere il suo posto di lavoro come
panettiere. Intensificò i contatti con sbandati e renitenti di una vasta zona attorno. Anche grazie all’arrivo della primavera e alle sollecitazioni provenienti
dalla struttura clandestina del Partito comunista, venne delineandosi il progetto di dar vita a una formazione partigiana: sorse la 167a Brigata Garibaldi,
che si muoveva nei comuni a nord della collina di S. Colombano al Lambro e
in quelli a sud fino al Po. Comandante fu Ermanno Monti, nome di battaglia
43
Infra, p. 68.
19
Ermanno44; commissario politico Gianni De Vecchi, nome di battaglia Cavallini45. Oltre al distaccamento dei chignolesi (Gianni e Cesare Beccali, Carlo
Porrini, Carlo Rossi, Giovanni Vitti “Canéla”, il romano Franco Pappacena e
il milanese Eugenio Boccadoro), ve ne era un altro nei paesi a nord della collina con Luigi Vignati (“Gino Scrivanti”), Pietro e Paolo Biancardi e un certo
Cobianchi di Livraga, Francesco Bellinzona (“Nélu”) e Luigi Curti (“Luisìn”)
di Borghetto Lodigiano, Bruno Dalcerri di S. Colombano al Lambro46.
Le basi del distaccamento chignolese erano i boschi di Lambrinia e
alcune cascine del Lungo Po; per alcune settimane, in estate, la brigata si
sistemò nell’edificio di proprietà della Curia pavese in Valbissera, sul crinale
della collina di S. Colombano. La stagione estiva favorì le azioni di guerriglia,
le cui avvisaglie erano già state annunciate a Chignolo fin dal novembre 1943
tramite l’affissione di due manifestini manoscritti, di evidente produzione locale, “incitanti at uccidere locale segretario fascio repubblicano et fascisti et
tedeschi”47.
I Notiziari della GNR hanno registrato un’azione compiuta la notte
del 4 agosto: nei pressi di Chignolo Po un gruppo di “banditi” fermarono e
rapinarono un autocarro con targa della GNR guidato dal brigadiere Giorgio
Bongi del Reparto Motorizzazione Trasporti del Comando generale; poiché
il Bongi fu “lasciato in libertà dai banditi”, i suoi superiori sospettarono che
fosse “responsabile di favoreggiamento”48. La sera del 26 agosto - documenta
un altro “Notiziario” - a Chignolo Po una ventina di “banditi armati” si preErmanno Monti era nato a Milano nel 1924, ma nei suoi primi anni di vita era stato affidato
alla famiglia Comandù di Turano Lodigiano, con la quale Ermanno mantenne intensi contatti
anche in seguito. Entrato nella Resistenza, trovò spesso ricovero presso la famiglia Comandù
(Giacomo M. Bassi, Turano Lodigiano…, cit. pp. 286-288).
45
Giovanni De Vecchi era nato a Zorlesco nel 1918, figlio di un fornaciao; anch’egli lavorò alla
fornace di Zorlesco. Chiamato sul fronte greco, uccise in un diverbio un sottufficiale fascista; condannato da un Tribunale Militare e detenuto a Gaeta, fu liberato dopo la caduta di Mussolini. Nei
primi mesi della Resistenza operò nel 3° GAP “Rubini” a Milano, poi in una brigata in Valtellina
e dalla tarda primavera nel Basso Lodigiano (Giacomo M. Bassi, La terra sul badile. Una storia per
la Cooperativa di Zorlesco, Zorlesco 1989, pp. 37-38).
46
Brevi note su Luigi Vignati e altri partigiani con lui in contatto sono presenti in: [Don Ermanno Livraghi], Livraga 1940-1945, Parrocchia di Livraga 1995, pp. 137-139.
47
Documento citato in Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in
una provincia padana. Pavia 1943-1945, il Mulino, Bologna 2002, p. 103.
48
Archivio Fondazione L. Micheletti, Brescia, Notiziari della GNR, 5 agosto 1944, p. 42. Dello
stesso tenore la notizia riportata dai “Notiziari” il 29 ottobre e riguardante un’azione del 3 ottobre
a Chignolo nell’abitazione di Luigi Ghislini (tutto l’archivio dei “Notiziari” è consultabile sul sito
www.musil.bs.it). Episodio citato anche da Giulio Guderzo, L’altra guerra…, cit., p. 246.
44
20
sentò al domicilio di Gioacchino Buggiani, da dove “asportarono biancheria,
biciclette, un fucile da caccia e altri oggetti”49.
I frequenti spostamenti dei componenti la Brigata attirarono l’attenzione dei fascisti. Il comandante della Brigata Nera di S. Angelo Lodigiano,
Lino Meucci, segnalò ai suoi superiori, l’11 settembre 1944, che “una grossa
banda di partigiani si aggira nei pressi di Graffignana”, mostrandosi armati
anche in paese; Meucci consigliava di preparare un rastrellamento coordinato con la Brigata nera di Pavia così da attaccare contemporaneamente da
entrambi i versanti della collina, “onde precludere ai partigiani ogni via di
scampo”50.
Le prime perdite avvennero il 15 settembre: “Scrivanti” e un suo compagno furono uccisi alla cascina Maiano di S. Angelo Lodigiano durante un
tentativo di recupero di armi e di denaro51.
Il 24 settembre un nucleo della 167a Brigata Garibaldi attentò alla vita
del milite fascista Attilio Battiani. Ai primi di ottobre fu disarmato il commissario del fascio di Borghetto Lodigiano, al quale si intimò di abbandonare
la zona, se non voleva rischiare la vita. L’11 ottobre nei pressi di Casalpusterlengo furono uccisi due militi della GNR ad opera di un nucleo gappista della
167a 52.
Ma il 18 ottobre fu la GNR a colpire, catturando Pietro Biancardi e
Paolo Sigi; sei giorni dopo caddero nella trama repressiva Paolo Biancardi
(che morì per le ferite), Marcello De Avocatis, Ferdinando Zaninelli e Giuseppe Frigoli53. Quest’ultimo era amico dei fratelli Biancardi, ma non attivo nella guerriglia partigiana54. Pertanto il comandante della Brigata Nera di
Lodi, Ugo Morelli, avvertiva i suoi superiori che “i paesi di S. Colombano,
Graffignana, Livraga, Borghetto Lodigiano, S. Angelo, stanno diventando
zone pericolose”55; preannunciava rastrellamenti.
Ibidem, 9 settembre 1944; anche in Giulio Guderzo, L’altra guerra…, cit., p. 247.
Lettera di Lino Meucci al Comando Brigata Nera A. Resega di Milano, S. Angelo Lodigiano 11
settembre 1944 (documento in mio possesso, ricevuto da Luigi Curti, che ringrazio vivamente).
51
E. Ongaro, Guerra e Resistenza nel Lodigiano 1940-1945, Il Papiro Editrice Altrastoria, Lodi
1994, p. 149.
52
Ibidem, p. 184.
53
Ibidem, p. 185.
54
E. Ongaro, Intervista a Domenica Frigoli in Fugazza, S. Colombano al Lambro 1 settembre
2005 (videoregistrazione in Dvd, riprese e montaggio di Giancarlo Volpari, Archivio ILSRECO,
Lodi).
55
Lettera di U. Morelli al Comando Brigata Nera A. Resega di Milano, Lodi 24 ottobre 1944 (documento in mio possesso, ricevuto da Luigi Curti).
49
50
21
Le forze partigiane allora tentarono di colpire a sud della collina: il 28 ottobre era in programma un colpo grosso, proposto dalla 6a Brigata Giustizia e
Libertà dell’Oltrepò piacentino e pavese: attaccare a Camporinaldo un convoglio di auto che trasportava un alto ufficiale tedesco per sottrargli documenti importanti che avrebbe avuto con sé. Vi parteciparono Gianni Beccali,
Eugenio Boccadoro, Carlo Porrini e quattro partigiani dell’Oltrepò. Per un
imprevisto l’azione fallì; infatti, mentre i sette partigiani erano sulla strada,
sopraggiunsero due militi della GNR in bicicletta e il conflitto a fuoco con
loro (uno di essi fu ucciso) fece fallire l’agguato programmato. Essendo stati
riconosciuti da molti testimoni, fu deciso il trasferimento in montagna, a Romagnese, dei partecipanti all’azione.
I mesi più difficili della Resistenza, da fine ottobre 1944, Gianni li visse prevalentemente in montagna, nell’Oltrepò, ma la sua mobilità fu sempre
molto elevata: scendeva e risaliva. Anche Monti, De Vecchi, Curti, Bellinzona, Pappacena e altri componenti della Brigata salirono in montagna, a causa
dell’intensificarsi della repressione fascista dopo l’agguato di Camporinaldo,
ma non vi si adattarono: la nostalgia/attrazione per la pianura, dove si erano
formati come partigiani, fu irresistibile. Erano prigionieri di un sogno al limite dell’impossibile: realizzare una brigata permanente di guerriglia in pianura,
fidando nelle nebbie autunno-invernali, nella conoscenza palmo a palmo dei
luoghi, nella solidarietà della popolazione.
L’antivigilia di Natale del 1944 altre dolorose perdite: Bruno Dalcerri
di S. Colombano e Carlo Porrini incapparono in un posto di blocco a Camporinaldo, mentre si recavano a un incontro con membri del CLN di Milano. Furono immediatamente fucilati56. Avrebbe dovuto essere con loro anche
Gianni, sceso appositamente dalla montagna ma trattenuto a letto da febbre
alta in casa di amici a Chignolo. Gianni così ricorda:
Tra noi vi erano rapporti più che fraterni, in modo particolare con Carlo
Porrini. Insieme abbiamo creato l’organizzazione antifascista a Chignolo Po,
senza mai separarci una volta, vivendo insieme tutte le peripezie della scelta
politica e di lotta fatta dall’inizio del 1943. Inoltre persone come lui, con la
sua carica umana e di altruismo, leali e coraggiose fino all’inverosimile, sono
molto rare57.
L’episodio è riportato anche da Giulio Guderzo, L’altra guerra…, cit., p. 564. Il Questore li
definì “ribelli”.
57
Infra, p. 63.
56
22
I funerali di Porrini, stroncato a 21 anni, si svolsero il 26 dicembre; il parroco
nel Liber Defunctorum annotò che era stato “rinvenuto morto vicino al Casello
Cimitero di Camporinaldo pieno di ferite da arma da fuoco”58.
Dalcerri, che abitava a Campagna di S. Colombano, era stato sepolto
il giorno di Natale e al funerale avevano partecipato poche persone, anche
perché militi fascisti erano girati poco prima per le strade sparando a scopo di
intimidazione. Suo fratello Francesco, che allora aveva dieci anni, ricorda:
L’abbiamo vegliato due giorni in casa. Non l’hanno semplicemente ucciso,
l’hanno massacrato, come minimo aveva una ottantina di colpi di mitra in
corpo. Devono anche aver infierito su di lui col calcio del fucile, perché aveva
mezza faccia via, rotta, spaccata. In più gli hanno rubato la bici, il portafoglio, i
guanti. Quelli che l’hanno ucciso erano proprio dei cani. Anche fuori dal cimitero c’erano fascisti armati, forse erano lì per sorprendere eventualmente qualche partigiano; tra loro c’era un ragazzo giovanissimo, in divisa e col mitra59.
Un mese dopo, il 26 gennaio cadde Cesare Beccali, ventiduenne, fratello di Gianni. Si era recato con Giovanni Vitti presso il commissario prefettizio di S. Cristina e Bissone, dove avrebbero dovuto ritirare delle armi, secondo un precedente accordo. Cesare rimase colpito da colpi sparati da soldati
cecoslovacchi, presenti numerosi sul territorio, e consegnato alla GNR, che lo
torturò fino a farlo morire60. Gianni di notte si recò a casa a porgere l’ultimo
saluto al fratello. Si sentì torcere dal dolore e avvampare di rabbia: fu pervaso
da una forsennata voglia di ribattere colpo su colpo. Ritornato in montagna,
chiese di essere inserito ogni giorno in azioni rischiose, di essere designato
a tendere pericolose imboscate, per sfidare faccia a faccia il fantasma della
morte che gli aveva portato via prima il più caro amico poi il fratello. Gianni
si gettò ancor più a capofitto nella lotta, fu in preda a furori di morte per sé
e per gli altri, disposto a perdersi nell’estremo tentativo di afferrare le residue
ragioni per vivere.
Il rosario di morti non era però finito: il 19 marzo fu decapitata la
ASDPv, Liber Defunctorum…, cit., 1944, n. 56.
Testimonianza di Francesco Dalcerri a E. Ongaro, S. Colombano al Lambro 7 marzo 2008. Bruno
Dalcerri faceva il panettiere a Milano, era figlio di un operaio pilatore di riso.
60
ASDPv, Liber Defunctorum…, cit., 1945, n. 4. Il parroco Don Brusoni annotò: “Animam Deo
reddidit in Paroecia Bissone. […] Rinvenuto ferito da arma da fuoco e portato poscia morente nella
caserma di Corteolona. […] Sacramentali absolutione refectus a Sac. Alfredus Gatti parochus Bissone
sepultum est die 1 Februarii”.
58
59
23
167a Brigata Garibaldi: vennero sorpresi, grazie a una delazione, alla cascina
Montalbano di Monticelli Pavese De Vecchi, Monti, Franco Pappacena; li
ospitava Giuseppe Albanesi. Avendo visto colpito a morte l’Albanesi e ferita
sua nipote Alfonsa, i tre partigiani per non mettere a rischio gli altri familiari
comunicarono agli assalitori che si arrendevano, ma De Vecchi all’ultimo decise di togliersi la vita per non cadere vivo nelle loro mani. Monti e Pappacena
furono portati subito al cimitero di Chignolo e fucilati dopo aver ricevuto dal
parroco don Brusoni i conforti religiosi61. Fu scattata una fotografia ai due
corpi riversi: il volto di Ermanno, in primo piano, appare sfigurato da copioso
sangue sgorgato dalla bocca: dopo i primi colpi ricevuti, avendo egli ancora
gridato “Viva l’Italia!”, i suoi carnefici vollero dargli il colpo di grazia sparandogli in bocca62.
Il 23 febbraio invece uomini della 167a avevano compiuto un’azione
dimostrativa, descritta telegraficamente dal capo della Provincia al Ministero
dell’Interno:
Ore 0,30, Chignolo Po, circa 12 fuorilegge penetrati uffici comunali asportarono 2 Olivetti 1 ciclostile. Poscia dal balcone esponeva una bandiera rossa con
emblema della falce e martello e sui muri scriveva con gesso frasi inneggianti
alla fondazione delle Squadre d’Azione Po (SAP) ed all’armata rossa e denigranti i fascisti di Corteolona63.
La stagione autunno-invernale si concludeva con un bilancio pesantissimo per il movimento partigiano che faceva riferimento alla 167a Brigata
Garibaldi; ai morti qui ricordati, va aggiunta la fucilazione, avvenuta il 31 dicembre al Poligono di tiro di Lodi, dei cinque arrestati in ottobre. Un prezzo
altissimo era stato pagato per inseguire un obiettivo troppo azzardato e rischioso: radicare la guerriglia in pianura in maniera stabile, non episodica. Ma
era un sogno che stava all’interno di un sogno più grande, di portata storica:
la fine della guerra e della dittatura, l’inizio di un’era di pace e di libertà.
Ibidem, 1945, nn. 12-13. Il parroco riferì che Monti (21 anni), abitava a Milano in viale Monza
81, mentre Pappacena (20 anni) abitava a Roma in via Oristano 9.
62
Giacomo M. Bassi, Turano Lodigiano…, cit., p. 288.
63
Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (ISREC) di Pavia, fondo 24, cart.
3, fasc. 1 (copia di documento presso Archivio Centrale dello Stato di Roma, PS-RSI 1944-1945,
cart 25 fasc. Movimento comunista), Telegramma del capo della Provincia Tuminetti al Ministero
dell’Interno, Pavia 28 febbraio 1945.
61
24
La Liberazione
Gianni voleva essere a Chignolo nel momento dell’insurrezione per partecipare alla liberazione del proprio paese. Riuscì a convincere il comandante della sua Brigata, giunta alle porte di Piacenza assieme a molte altre formazioni
partigiane, a passare il Po e dirigersi verso Chignolo Po:
Alle ore 16 del 25 aprile la 10a Brigata Ferdinando Casazza Giustizia e Libertà entra in Monticelli. Ci prepariamo subito ad attaccare i tedeschi addetti
alla contraerea, i quali si danno alla fuga prima ancora che i partigiani arrivino
alle loro postazioni. Con due camion “FIAT 26” proseguiamo per Chignolo e
all’entrata del paese troviamo archi di trionfo fatti di fiori e una gran folla ad
attenderci64.
La fotografia del camion, sulla cui portiera si intravede la scritta “C[omandan]te
Da[nte]”65, carico di partigiani e circondato dalla popolazione riproduce emblematicamente l’atmosfera di quei giorni; i partigiani imbracciano per lo più
il loro mitra, ma un grande mazzo di fiori quasi nasconde un nastro di pallottole sul petto di Gianni, che ha un volto da ragazzo: dopo la stagione del furore nella lotta si annunciava il tempo della pace. Anche chi aveva imbracciato
un’arma lo aveva fatto non per il gusto della violenza, ma per cogliere e offrire
i fiori della pace, della libertà, della giustizia. Il volto serio di Gianni lascia
intendere la sofferenza di non avere accanto i compagni di lotta caduti.
Tutto si era svolto più facilmente di quanto si poteva sperare: nessuna
resistenza vi era stata da parte dei fascisti o dei tedeschi o dei cecoslovacchi,
presenti sulla sponda destra del Po. Il CLN di Chignolo, costituito da qualche
mese e presieduto da Eugenio Pozzi, designò a ricoprire la carica di sindaco
Egisto Chioffi, il sindaco destituito dai fascisti nell’estate 1922. Chioffi aveva
perduto la moglie un mese prima66 . Fu incaricato Gianni di portare la notizia
a Chioffi e scortarlo fino al Municipio. Le modalità dell’episodio sono del tutto inconsuete e rievocano lo stile austero che rimanda a tempi antichi. Gianni
lo racconta senza retorica:
Infra, p. 67. Già nel pomeriggio del 25 aprile i patrioti di Chignolo avevano bloccato sulla
provinciale per Cremona alcuni automezzi tedeschi; il 26 catturarono 22 tedeschi, che si erano
liberati delle armi gettandole nel Po (Giulio Guderzo, L’altra guerra…, cit., p. 756).
65
Dante Daturi (“Dante”) era il comandante della 10a Brigata Ferdinando Casazza Giustizia e
Libertà, cui apparteneva Gianni Beccali.
66
ASDPv, Liber Defunctorum…, cit., 1945, n. 15: Natalina Beria, di anni 49, “nupta Chioffi Egisto”, era stata sepolta con funerale civile, non religioso (“civiliter”).
64
25
Dietro di noi si formò un corteo con molte bandiere rosse e ci accompagnò a
casa sua. Ci fu riferito dalla figlia che era andato in collina a lavorare la terra
di sua proprietà. Decidemmo di andare in collina e, sempre seguiti dalla gente,
ci incamminammo a piedi. Lo incontrammo che stava ritornando, lo misi al
corrente dell’incarico avuto e, insieme al corteo che ingrossava sempre più,
arrivammo al municipio67.
Con l’insediamento del sindaco Chioffi, “dimissionato” violentemente nel
1922, veniva così simbolicamente ricomposta la frattura della legalità e della
pacifica convivenza costituita dal regime fascista.
Quei giorni di festa furono turbati il 13 maggio da un fatto tragico:
Eugenio Pozzi, 33 anni, presidente del CLN, fu ucciso accidentalmente da
un partigiano che stava maneggiando la propria arma68. Nonostante episodi
sporadici, come questo, si cercava il ritorno alla normalità, la risalita della china, grazie a un diffuso sentimento di speranza che accomunava classi sociali e
generazioni diverse.
Gli anni dell’impegno e della lotta
Per Gianni la stagione della libertà coincise con la stagione dell’amore: durante il percorso della lotta resistenziale si era innamorato di Piera Moro, giovane
donna che aveva fatto la staffetta partigiana, aveva dato sostegno a sbandati
e renitenti e nei giorni dell’insurrezione si era unita ai patrioti e alle forze
partigiane in armi. Sorpresa da alcuni militi della GNR a pulire dal sangue e
a ricomporre i corpi di Franco Pappacena e Ermanno Monti, le era stato chiesto a quale partito appartenesse: “Al partito dell’umanità”, aveva prontamente
risposto69.
Gianni voleva al più presto chiudere con i ricordi angosciosi del passato: nell’infanzia e nell’adolescenza gli era mancato l’affetto di una vera famiglia, nella lotta partigiana aveva perso il fratello Cesare, l’amico Porrini e
Infra, p. 42.
ASDPv, Liber Defunctorum…, cit., 1945, n. 26. Il parroco Don Brusoni annotò: “Fu colpito
casualmente da arma da fuoco in fronte casa denominata Convento. Sepultum est 15 Maii”.
69
Testimonianza di Piera Moro a E. Ongaro, Chignolo Po 5 marzo 2008. Piera ricorda che Ermanno aveva la testa, sul retro, devastata dal colpo di grazia sparatogli in bocca: aveva dovuto
ricomporgliela.
67
68
26
tanti compagni, aveva corso gravi rischi sfuggendo molte volte per un soffio
alla morte: sentiva dentro di sé una gran voglia di vivere. Sposò Piera il 28 luglio 1945 e nei primi undici anni di matrimonio ebbero quattro figli: Cesare,
Mariella, Paolo e Gilberto. La cosa più ardua, per molti anni, fu trovare un
lavoro stabile; si adattò a fare il panettiere, l’avventizio agricolo (abbattimento
delle piante, pulitura delle rogge, taglio dell’erba sulle rive), il levigatore di
pavimenti; soltanto alla fine degli anni Settanta fu assunto in Provincia (al
centro fotocopie).
Gianni non si ritirò dall’impegno politico. Diventò segretario del Partito comunista e visse in prima linea gli anni duri dello scontro ideologico tra
comunisti e democristiani. Subì parecchie denunce e processi nel contesto
di quel “processo alla Resistenza” che ha caratterizzato gli anni dallo scontro
elettorale del 18 aprile 1948 alla metà degli anni Cinquanta, gli anni in cui il
Ministero dell’Interno fu guidato dal democristiano Mario Scelba.
Chignolo Po riaccese e ravvivò nel dopoguerra la sua tradizione socialista. Questa emerse già alle elezioni per l’Assemblea Costituente: il 44%
dei voti andò al Partito socialista, il 16% al Partito comunista, mentre la Democrazia cristiana raccolse soltanto il 32%. Questi risultati trascinarono di
conseguenza l’esito del referendum istituzionale: alla Repubblica il 61% (in
Italia il 54%), alla Monarchia il 39% (in Italia il 46%)70.
Anche le elezioni politiche dell’aprile 1948 per il nuovo Parlamento
fecero registrare la vittoria del socialcomunismo, in difformità dal quadro nazionale, ma con un forte calo dei consensi rispetto al 1946: il Fronte democratico popolare (PCI-PSI) raccolse il 46% dei voti (31% in Italia), mentre la
Democrazia cristiana si fermò al 40,5% (48,5% in Italia); la lista di Saragat,
nata da una scissione del Partito socialista, ebbe il 9% (7% in Italia)71.
Sul piano amministrativo il Comune fu retto da maggioranze socialcomuniste fino al 1964, presiedute da Egisto Chioffi (fino al 1957) e da Francesco Panigada (1957-1964). Dopo due legislature rette da maggioranze di
centro-sinistra (1964-1975), il Comune ritornò a essere governato dall’alleanza tra socialisti e comunisti. Gianni Beccali fu eletto in Consiglio Comunale
dal 1956 al 1960 e di nuovo dal 1975 al 1990, prima come assessore (19751980) e poi come sindaco (1980-1990)72.
Pietro Scotti, Chignolo Po e la sua storia, cit., p. 272-273.
Ibidem, p. 275.
72
Ibidem, pp. 285-289. Sono anche focalizzate le principali realizzazioni delle Amministrazioni
di questi decenni (pp. 289-301).
70
71
27
Come leader dei comunisti chignolesi, e poi come sindaco, Beccali
cercò di interpretare i bisogni della popolazione, fu alla testa delle lotte dei
pendolari contro l’aumento del prezzo degli abbonamenti, promosse la difesa
del territorio e il potenziamento delle sue strutture, la crescita democratica
della comunità chignolese anche attraverso la memoria della Resistenza.
Nonostante le energie profuse nella militanza politica Beccali, guardando al complesso dell’evoluzione sociale italiana, è stato tentato da “considerazioni amare” (titolo di un paragrafo della sua storia): amarezza e delusione “per il tipo di società che ci siamo ritrovati”, perfino rimorso “di non aver
fatto tutto quello che forse era possibile fare per realizzare le aspirazioni per
cui sono morti tanti giovani compagni”73. Troppo forte è risultato lo scarto
tra i progetti del suo gruppo di “inguaribili romantici sognatori” e la realtà
della società italiana dei decenni seguenti. Oggi Gianni è consapevole che i
condizionamenti interni e internazionali sono stati fortissimi, per cui non si
può non valorizzare quello che con la lotta democratica si è comunque riusciti
a conquistare e conservare.
Ma il bilancio migliore, sul piano esistenziale, resta per lui quello del
periodo resistenziale:
Perché mi si era aperto un orizzonte. Ho incominciato a sapere cos’è la vita,
cos’è la politica, cos’erano i partiti. […]. Sapevamo perché lottavamo74.
Sapere per che cosa si lotta! Per che cosa hanno lottato Gianni Beccali e la
generazione di militanti come lui? Per una società più giusta, più democratica,
più solidale; per molti anni tutto questo è stato da loro sintetizzato in una formula: “per una società comunista”. Ma in fondo tutto può essere sintetizzato
in questa espressione: “per una società più umana”, dove ci sia rispetto per la
dignità di ogni persona, dove l’interesse più alto sia quello per il bene comune,
dove i principi della nostra Costituzione trovino applicazione concreta nell’esistenza quotidiana dei cittadini. È essenziale sapere per che cosa si lotta,
perché questo fonda il senso della lotta e aiuta a resistere, consapevoli che ne
“vale la pena…”. Vale sempre la pena… se è per una società più umana e più
giusta.
73
74
Infra, p. 72.
E. Ongaro, Intervista a G. Beccali, cit., infra, p. 121.
28
Da destra: Gianni Beccali, Carlo Porrini, Esterino Moro, Settembrina Pecchi,
Roberto Gaudenzi, Luigi Pecchi, 1938
Piera Moro, 1940
Piera Moro, 1943
29
30
Ermanno Monti e Franco Pappacena, fucilati al Cimitero di Chignolo Po, 19 marzo 1945
31
Gianni Beccali (seduto sulla cabina a destra) con i partigiani della 10a Brigata GL, Castel S. Giovanni 25 aprile 1945
Gianni Beccali in divisa da partigiano, 1945
32
Gianni Beccali con il figlio Cesare, 1947
33
34
Carta IGM dei primi decenni del ‘900
con segnalate molte delle località citate
nel testo (ACCP, cart. 31 fasc. 38)
35
36
Quadro commemorativo
di alcuni caduti
della Resistenza
37
.
Gianni beccali
RESISTENZA
CHIGNOLO PO 1943-1945
Il testo del 1983 è riprodotto integralmente, esclusa la “Premessa”.
Gli interventi del curatore sono indicati da [ ].
40
Chignolo Po 1943-1945
Ho aspettato inutilmente per tanti anni che qualcuno dei miei amici e compagni che si sono occupati della Resistenza nell’Oltrepò Pavese e Piacentino1
si decidessero (dopo avermelo promesso tante volte) di interessarsi del contributo che Chignolo diede alla Lotta di Liberazione.
Probabilmente la scarsa conoscenza della nascita e dello sviluppo del movimento partigiano nella nostra zona ha scoraggiato ogni volontà di ricerca. Non
è da escludere però che questi miei amici e compagni pensino che la Resistenza in
pianura non sia stata importante e degna di finire sulle pagine dei libri.
Se così fosse vorrebbe dire che i cultori di questa teoria sono riusciti
a fare proseliti. Io credo invece che dipenda dal fatto che non conoscono a
sufficienza né la Lotta Partigiana in pianura, e molto poco come si lottava in
montagna.
Comunque, avendo fatto ambedue le esperienze, ritengo doveroso che si riprenda questo discorso e si faccia giustizia una volta per tutte. Da parte mia
sarebbe poi ingiusto non far conoscere alle nuove generazioni chignolesi questo periodo di lotte popolari che nobilitò la nostra gente.
La mia memoria al riguardo è ancora fresca, in più posso avvalermi di
alcuni appunti che ho conservato. Appunti che risalgono alcuni al 1944, cioè
prima della Liberazione, altri al 1945 subito dopo la Liberazione2. Pensavo
che prima o poi a qualcuno sarebbero serviti. Non pensavo che sarei stato io
ad utilizzarli, proprio perché, come ho detto all’inizio, Chignolo e zona meritavano di entrare nella storia della Resistenza in provincia di Pavia con tutti i
crismi dell’ufficialità.
Se prima mi lamentavo ed ero dispiaciuto per questo mancato riconoscimento, ora sono convinto che è meglio così. Almeno ho la certezza di descrivere le cose come sono veramente accadute, senza nessuna manipolazione.
La tradizione socialista di Chignolo Po
È necessario evidenziare subito il fatto che il movimento partigiano a Chignolo ha avuto un ruolo molto originale e maggiormente importante rispetto
Si tratta degli amici Eugenio Boccadoro, suo compagno di partigianato, e di Annibale Sclavi,
autore di Fuochi di guerriglia nell’Oltrepò, Milano 1978.
2
Questi appunti sono andati perduti nel corso della redazione della precedente edizione.
1
41
agli altri paesi della Bassa Pavese. La forte tradizione socialista della nostra
gente ha certamente avuto un’influenza notevole e determinante al riguardo.
È vero che il nostro territorio, confinando con le province di Milano e Piacenza, ha messo il movimento antifascista locale in una situazione di privilegio
per i contatti ed i contributi che ne sono derivati. Ciò non toglie però che
fu proprio la tradizione di classe dei lavoratori chignolesi ad indirizzare la
nostra gente alla lotta armata contro la repubblica di Salò e contro l’invasore
nazista.
Già negli anni che precedono la prima guerra mondiale abbiamo a
Chignolo Po il primo Sindaco socialista, Assani Alfredo3, contadino intelligente, con una visione avanzata e progressista dei problemi del paese. Aveva
capito fino da allora che uno dei grossi nodi da sciogliere era in favore dell’agricoltura, proprietà molto spezzettata e terreno bisognoso di acqua per
dare ai contadini (che erano allora la stragrande maggioranza) un reddito superiore. Iniziò a costruire una cabina di pompaggio che doveva servire all’irrigazione delle terre che ne avrebbero beneficiato enormemente. Visti i risultati
positivi di questo progetto, gli agrari locali che detenevano nelle loro mani il
potere economico ed una forte influenza sull’opinione pubblica (perché potevano fare il bello e il cattivo tempo nella occupazione lavorativa), sabotarono
in tutti i modi questa iniziativa e la fecero fallire.
Dopo Assani, prima dell’evento4 del fascismo, fu eletto un altro socialista a capo dell’Ammistrazione comunale, Egisto Chioffi5, un uomo buono
e integerrimo, di ideali nobili e molto saldi. Fu più volte picchiato dai fascisti
e confinato. La sua legislatura coincise con l’evento del fascismo e finì anzitempo. Nei giorni della Liberazione è di nuovo Sindaco di Chignolo Po,
acclamato e voluto da tutto il paese, eletto successivamente quasi in modo
plebiscitario per diverse legislature6.
Il sottoscritto ha avuto il 26 aprile 1945 l’incarico dal CLN locale di
recarsi con un gruppo di partigiani della Brigata, scesa dalle montagne il giorno prima, a chiedere ad Egisto Chioffi di recarsi in municipio, ove centinaia di
persone lo attendevano per acclamarlo sindaco della Liberazione. Mi ricordo
che dietro di noi si formò un corteo con molte bandiere rosse e ci accompagnò a casa sua. Ci fu riferito dalla figlia che era andato in collina a lavorare la
Assani fu eletto il 5 luglio 1914 e rimase in carica fino al novembre 1920.
Avvento.
5
Chioffi fu eletto il 7 novembre 1920 e fu costretto alle dimissioni all’inizio del settembre 1922.
6
Chioffi rimase sindaco dalla Liberazione all’aprile 1957.
3
4
42
terra di sua proprietà. Decidemmo di andare in collina e, sempre seguiti dalla
gente, ci incamminammo a piedi. Lo incontrammo che stava ritornando, lo
misi al corrente dell’incarico avuto e, insieme al corteo che ingrossava sempre
più, arrivammo al municipio. Ho già detto delle centinaia di persone che lo
attendeva[no] e lo acclamava[no] Sindaco della Liberazione.
Anche nei duri anni del primo dopoguerra la Resistenza dei chignolesi all’affermarsi del fascismo fu tenace e dura. Ma anche dopo la marcia su
Roma, che portò il fascismo al potere, complice Vittorio Emanuele III, per
un paio d’anni ancora i chignolesi non si dettero per vinti. Per una descrizione
dettagliata e precisa di questo periodo sarebbe necessario interpellare qualche
anziano antifascista ancora vivente. È ciò che mi riprometto di fare perché
anche questa pagina di storia locale non vada completamente perduta7.
Essendo nato nel 1924, il sottoscritto ricorda, anche se un po’ vagamente, cosa è stato il fascismo degli anni trenta. Ogni scolaro era per forza
un balilla e doveva pagare una quota tessera di lire 5 annue. Le ragazze invece
erano chiamate piccole italiane e anche loro naturalmente dovevano pagare
le 5 lire per la tessera. Finite le scuole locali si diventava avanguardisti e, dopo
alcuni anni, giovani fascisti. Naturalmente la stragrande maggioranza era costretta dalla dittatura a seguire questa scala gerarchica, pochi invece erano
convinti della bontà del regime.
Ogni sabato pomeriggio e domenica mattina i giovani che avevano
compiuto i 18 anni dovevano recarsi in luoghi prestabiliti ed erano costretti a
fare lunghe marce, esercitazioni con moschetto scarico, ginnastica e tutto ciò
che passava per la mente degli istruttori del regime, che quasi sempre erano
dei fanatici, e dalla loro posizione traevano benefici incalcolabili.
Di queste persone ricordo in particolar modo Ferrari8, che abitava alla
Casottina. Sfoggiava una divisa molto elegante per quei tempi e portava tante
medaglie al valore e croci di guerra, anche se tutti sapevano che la guerra non
l’aveva nemmeno sentita in lontananza. Un altro che si distingueva per zelo ed
alterigia era Felice Brusoni, graduato dell’esercito (sempre in tempo di pace),
sotto la divisa di capitano portava la camicia nera.
L’invasione dell’Etiopia9 creò un tale entusiasmo tra i fascisti chignolesi, i quali sembrava aspettassero solo il momento di partire e di combattere
Beccali non ha realizzato questo suo progetto.
Bruno Ferrari svolse l’incarico di Commissario Prefettizio dal gennaio al settembre 1944.
9
La guerra contro l’Etiopia iniziò nell’ottobre 1935 e si concluse il 5 maggio 1936 con la conquista di Addis Abeba.
7
8
43
per conquistare il posto al sole e l’impero, come diceva Mussolini nei suoi discorsi. Quando si trattò di partire veramente i caporioni trovarono mille motivi per restarsene a casa a godere i privilegi del regime e obbligarono in molti
casi quelli che fascisti erano diventati unicamente per lavorare, a prendere il
loro posto.
Furono molti anche i richiamati dall’esercito e naturalmente la guerra
la dovettero fare i lavoratori che non avevano né voglia né interessi da difendere come purtroppo è sempre capitato.
I primi approcci con l’antifascismo
Negli anni [dal] 1936 fino al 1940 io sono quasi sempre a Milano come garzone panettiere. È questo il periodo e l’ambiente nel quale incominciai a sentire parlare di politica in modo diverso e a sapere che vi erano altri partiti,
oltre a quello fascista, che operavano nella clandestinità con lo scopo preciso
di abbattere la dittatura. Sentii parlare di anarchici, molto numerosi nella categoria dei panettieri.
Di loro non condividevo il modo di agire perché non riuscivo a vedere
in questi sistemi di lotta la possibilità di un successo definitivo. Sentii parlare
di Partito Comunista e la concretezza delle argomentazioni che un fornaio
sosteneva fece presto presa su di me. Seppi in seguito che da tempo lavorava
clandestinamente e faceva parte della cellula dei panettieri di Milano10. Il
contatto con questi antifascisti e la durezza del trattamento da parte del padrone fascista, a poco a poco mi fecero capire che era necessario ribellarsi e
non subire passivamente.
Cambiai diversi padroni e naturalmente incontrai altri lavoratori che
avevano sempre qualche cosa di nuovo da insegnarmi e il mio odio per i padroni aumentava proprio in conseguenza del loro comportamento.
È soltanto più tardi però, verso il ‘42-‘43, che incontrai le persone che
contribuiranno a cambiare la mia vita non soltanto per l’immediato, ma anche
per il futuro11. L’inizio della guerra ed i bombardamenti alleati su Milano costrinsero molta gente a sfollare. I disastri causati dai primi feroci bombardaNell’intervista a Beccali, da me raccolta, si accenna a due compagni di lavoro che avviarono
in lui la prima presa di coscienza politica: un certo Dino, anarchico, e Giacomo Pozzi; si tratta
quindi di quest’ultimo (E. Ongaro, Intervista a C. Beccali, cit., infra, pp. 102-103).
11
Si tratta delle due persone di cui parla il capoverso seguente: Cesare Callegari e Eugenio Pozzi.
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menti, in particolare su obiettivi civili, crearono il panico e chi poteva lasciava
Milano.
Ritornato a Chignolo Po per gli stessi motivi ebbi modo di conoscere
due persone iscritte da alcuni anni al PCI, Pozzi Eugenio (chignolese emigrato a Milano con esperienza anarchica e di famiglia antifascista per eccellenza)
e Callegari Cesare, anche lui di origine chignolese per parte materna. Cesare
oltre a un elevato grado di cultura era più preparato anche politicamente,
conosceva molto bene le regole della clandestinità ed esigeva da tutti un’applicazione molto rigida.
Ben presto attorno a questi compagni si formò un gruppo ben affiatato di antifascisti e di giovani dal quale presero il via tutte le azioni successive, gruppo che si collegherà poi alla 167a Brigata Garibaldi SAP Fratelli
Biancardi che operava nel lodigiano. Questa Brigata prese il nome dei fratelli
Biancardi per ricordare il sacrificio che insieme affrontarono coraggiosamente
a Lodi morendo fucilati uno accanto all’altro12. Alcune lettere scritte ai genitori
ed alle loro ragazze prima di morire danno l’esatta misura della forza d’animo e
della chiara convinzione che dopo di loro altri avrebbero portato avanti gli ideali
di Libertà e di Giustizia che erano stati la loro ragione di vita. Io li ho conosciuti
bene, Paolino e Pietro, e insieme abbiamo lavorato nella clandestinità.
Il primo impatto con l’organizzazione politica clandestina del PCI a
livello di funzionari, cioè con rivoluzionari di professione, l’avemmo il 13 agosto 1943.
Era molto importante per il gruppo chignolese questo contatto in
quanto il 25 luglio 1943, data che ha segnato la caduta di Mussolini da Capo
del Governo, a Chignolo, oltre alle iniziative degli antifascisti organizzati tendenti a legarsi maggiormente con la gente per le battaglie che già si intravedevano per il futuro, ci furono manifestazioni spontanee che misero in evidenza
la volontà di molti giovani di battersi per la restaurazione della Libertà. QueI due fratelli Biancardi, abitanti a Ca de’ Mazzi (frazione di Livraga), non morirono insieme.
Pietro Biancardi fu catturato dalla GNR il 18 ottobre, con Paolo Sigi di Fombio, sulla strada per
Castelnuovo Bocca d’Adda; Paolo invece fu ferito in uno scontro a fuoco nel centro di Livraga
il 24 ottobre e morì qualche giorno dopo a causa delle ferite. Nello stesso giorno nella zona tra
Livraga e S. Colombano vennero catturati anche Marcello De Avocatis, originario del Napoletano, Giuseppe Frigoli di Ca de’ Mazzi, e Ferdinando Zaninelli di S. Martino in Strada. Questi tre,
con Pietro Biancardi e Paolo Sigi, vennero fucilati al Poligono di tiro di Lodi il 31 dicembre (E.
Ongaro, Guerra e Resistenza nel Lodigiano 1940-45, Il Papiro editrice “Altrastoria”, Lodi 1994,
pp. 185, 191).
Domenica Frigoli in Fugazza, sorella di Giuseppe, abitante a S. Colombano al Lambro, conserva
l’ultima lettera dal carcere del fratello Giuseppe.
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ste manifestazioni oltre che di giubilo e di esuberanza giovanile dei ventenni
per la ingloriosa fine di Mussolini, evidenziarono la consapevolezza che non
era la fine della dittatura, ma l’inizio di una lotta che sarebbe stata ben più
dura per i mesi a venire.
Fu preso di mira tutto ciò che di inutile e dannoso aveva fatto il fascismo a Chignolo. Si sostituirono le targhe delle vie e delle piazze dedicate
ai caporioni13 con altre in legno, preparate al momento, che ricordavano le
vittime del fascismo stesso (Matteotti, Gramsci, Amendola, ecc.). Altri entrarono nel salone della Società Operaia14, costruito con tanto sacrificio dai
nostri nonni e trasformato in sede della gioventù italiana del littorio (GIL),
cercando di dargli un aspetto confacente alle sue origini.
Ci fu una dura reazione da parte del maresciallo dei Carabinieri Serenelli, un fascista sfegatato quanto volgare e crudele. Andò con alcuni carabinieri nelle case dei sospettati; quelli che ebbero la sfortuna di essere presi
vennero portati in caserma e picchiati a sangue. Il più colpito fu Giuseppe
Pizzoni. In seguito anche Pozzi Giovanni, fratello di Eugenio, fu portato in
cella e su di lui, che non era più tanto giovane, sfogò tutta la sua rabbia in
modo bestiale, conoscendo il passato antifascista del Pozzi.
Per la nostra organizzazione clandestina locale, anche se giovane, non
sfuggì l’importanza di indirizzare queste potenzialità a forme di lotta organizzate e collegate al movimento antifascista che andava sempre più sviluppandosi in tutta Italia. Quindi preparammo con cura questo incontro attraverso i
canali conosciuti da Eugenio Pozzi. Come ho detto l’appuntamento era fissato per il 13 agosto 1943.
Soltanto verso le otto di sera fummo a conoscenza dell’ora stabilita, le
Il podestà Gianni Barbaini nel 1931 aveva cambiato la denominazione di via Felice Cavallotti
in via Roma (dalla chiesa parrocchiale alla chiesa di S. Grato). Nel 1939 a Lambrinia: via Ca’
de Ballotta in via Adua e via Monte Biotto in via Montello; a Chignolo: cascina Cassinazza in
cascina Redenta e il largo di via Garibaldi in piazza Costanzo Ciano (ACCP, Registro delle deliberazioni del Podestà, 30 settembre 1931 e 17 marzo 1939). Nel 1937 alla frazione Camatta era
stato cambiato il nome in Lambrinia.
14
La Società di mutuo soccorso tra i Figli del Lavoro sorse a Chignolo nel 1880, su iniziativa
del prevosto don Antonio Borroni, per assistere i lavoratori in caso di malattia, disoccupazione e
vecchiaia. Era sorta sul modello delle società di mutuo soccorso promosse dalla borghesia liberale.
Nel 1933 il podestà aveva fatto assegnare i locali alla GIL, dietro pagamento di un canone annuo
di 800 lire, poi nel 1939 aveva sciolto la Società, facendo acquisire l’intero stabile dal Comune,
dietro attribuzione di un assegno funerario di 150 lire per ciascuno dei 103 soci: quindi il Comune acquisiva con 15.450 lire, dilazionati in molti anni, uno stabile che ne valeva il doppio (ibidem,
2 aprile 1933 e 27 giugno 1939).
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22, dietro il Castello di Chignolo Po dalle parti della Vigna Moranda15. Con
Pozzi eravamo io e Carlo Porrini. Nessuno di noi conosceva le persone con
cui ci saremmo incontrati. Mi ricordo che l’unico mezzo di riconoscimento
era la metà di un cinquecento lire di carta dell’epoca, l’altra metà naturalmente la possedeva chi dovevamo incontrare. Aspettammo quasi mezz’ora, (noi
eravamo arrivati puntualissimi) e già incominciavo a preoccuparmi, poi improvvisamente da un campo di granoturco sbucarono due persone16. Qualche
attimo di esitazione, un po’ di incertezza e tutto si accomoda quando le due
metà delle cinquecento lire si congiungono. Iniziò la discussione, domande e
risposte si intrecciano a ritmo serrato.
Da parte nostra una gran voglia di sapere tutto ciò che i giornali fascisti e la radio non dicevano sull’andamento della guerra, le previsioni sulla fine,
le condizioni organizzative del partito e notizie sui dirigenti nazionali. Da
parte loro invece si chiedeva insistentemente cosa pensava la gente, come era
giudicato il PCI dai lavoratori e quanto il partito poteva contare su di essi.
Ci lasciammo dopo la una di notte e la riunione fu molto positiva in
quanto scaturì quello che si può definire l’indirizzo generale di lavoro e di
lotta che praticamente fece da filo conduttore a tutte le azioni partigiane della
nostra zona fino alla Liberazione.
La creazione di una cellula comunista che promuovesse incontri politici con altri partiti esistenti in loco fu il primo atto importante che ci era
stato suggerito. La costituzione di gruppi armati pronti ad ogni evenienza
fu una conseguenza logica. Contatti intensi non solo con gli antifascisti di
diverso orientamento politico, ma soprattutto con filatrici che costituivano la
categoria di lavoratori più numerosa e con la popolazione tutta. Certo il lavoro
di contatto avvenne gradualmente e con molta cautela, applicando in modo
sufficiente le regole della clandestinità.
La consapevolezza dei chignolesi più legati o più vicini alla nostra organizzazione che una grande svolta democratica si iniziava, facilitava il nostro
lavoro e ci poneva sempre nuovi compiti.
Di notte era in vigore il coprifuoco e quindi era molto pericoloso essere sorpresi fuori casa.
Una di esse era il comunista Edoardo Pettinari di Turano. Nella già citata intervista, Beccali
parla di una sola persona (Pettinari), nel senso che l’altro, rimasto sconosciuto, si era limitato a
fare da accompagnatore (infra, p. 104).
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L’8 settembre
L’8 settembre 1943 quasi tutto il paese è mobilitato per aiutare i soldati che
nel fuggi fuggi generale si trovano a passare per Chignolo. Il problema consisteva nel reperire abiti borghesi, cibo e metterli in condizione di raggiungere
le proprie case senza cadere nelle mani dei tedeschi che già stavano invadendo
l’Italia del nord.
Una citazione particolare merita la famiglia di Porrini Carlo. Decine
e decine di soldati passano da loro per essere aiutati. La loro casa era aperta a
tutti e tutti erano aiutati, per questo alcuni giorni dopo i tedeschi tentarono di
bruciare quella casa. Soltanto la reazione della gente li fece desistere.
Anche i prigionieri inglesi, un centinaio circa, che erano stati messi in
una specie di campo di concentramento allestito dai fascisti presso la Segheria
del sig. Negri Luigi, nelle giornate che seguirono l’8 settembre sono aiutati a
fuggire in tutti i modi. Per loro purtroppo la situazione era ancora più grave
perché a differenza dei soldati italiani le uniche possibilità erano di passare le
linee nemiche e portarsi verso l’Italia occupata dagli Alleati, oppure tentare
la via della Svizzera. Comunque anche per loro fu fatto tutto il possibile: si
procurarono persino delle guide esperte per portarli a destinazione. Alcuni
raggiunsero gli Appennini e in seguito entrarono nelle formazioni partigiane
in montagna. Una decina rimasero a Chignolo nascosti nelle case e protetti
dalla popolazione.
Certamente per i giovani di oggi può sembrare molto confuso tutto
ciò che successe in quei giorni, anche perché la scuola non ha assolto il dovere fondamentale di insegnamento della storia contemporanea previsto anche
dalla Costituzione Italiana.
Infatti, il re Vittorio Emanuele III ed il capo del governo Badoglio,
vista ormai l’impossibilità di vincere la guerra a fianco dei tedeschi (Badoglio era diventato Capo del Governo dopo il 25 luglio 1943 con la caduta di
Mussolini), avevano trattato in segreto (ma non tanto per i tedeschi) la resa
incondizionata di tutte le truppe armate italiane agli Alleati. Prima ancora
dell’annuncio ufficiale erano già in fuga su una nave17 e viaggiavano verso
l’Italia occupata da inglesi ed americani lasciando la nazione nel caos più assoluto con la conseguenza che ho descritto sopra.
L’annuncio dell’armistizio fu dato da Badoglio, via radio, alle ore 20 dell’8 settembre. Il re,
Badoglio, i ministri e i capi militari lasciarono Roma all’alba del 9 settembre e si imbarcarono da
Ortona per Brindisi alla sera.
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Anche la stragrande maggioranza dei generali e degli ufficiali superiori si comportò alla stessa stregua ed i soldati si trovarono alla mercé dei comandanti fascisti che tentavano di consegnare le truppe ai tedeschi e in molti
casi ci riuscirono. Non mancarono però episodi di resistenza un po’ ovunque:
a Roma, Milano, Bologna, Firenze e altre città.
Ma la resistenza più accanita ed eroica si ebbe a Cefalonia con la quasi
totale distruzione del contingente militare italiano18. A Cefalonia però, come
negli altri luoghi di resistenza, comandavano ufficiali antifascisti.
Il 25 luglio fu un duro colpo per molti italiani che pur non essendo
fascisti erano affascinati dalla retorica impostata sul culto della personalità di
Mussolini. L’8 settembre costoro subirono un tale scossone che li costrinse
a misurare il vuoto che il fascismo aveva creato dentro di loro. Ecco uno dei
grandi mali del fascismo. Il fascismo aveva creato dei miti, ma non aveva mai
fatto niente per costruire l’individuo.
Alla data dell’8 settembre la parte di questi italiani che si trovava sotto
le armi tornò alle loro famiglie, non in cerca di un rifugio ma sicuri di trovare
la base per una nuova scelta di vita. Fu proprio in famiglia che si trovarono di
fronte a loro stessi, a riflettere sul passato e a cercare di capire la nuova realtà
che avanzava inesorabile.
I prigionieri inglesi
Con la costituzione della repubblichina di Salò19 si ha la presenza in paese dei
fascisti in divisa ed armati che sostituiscono nel servizio di ordine pubblico il
comando dei Carabinieri, creando un distaccamento e usufruendo dello stesso edificio della caserma.
Si rese quindi necessario fare espatriare i prigionieri inglesi clandestini
per sottrarli alla cattura che si vedeva ogni giorno più vicina causa la delazione di alcune spie, ed in modo particolare del segretario della neo costituita
sezione repubblichina di Chignolo Po. Si chiamava Paolo Ramelli, abitava
alla cascina Casottina; era a conoscenza della loro presenza in paese e faceva
A Cefalonia i tedeschi perpetrarono il massacro della Divisione Acqui: furono uccisi 9.500
soldati su 11.500 e 390 ufficiali su 525. I sopravvissuti furono deportati nei lager.
19
Mussolini, liberato dai tedeschi il 12 settembre 1943, diede vita nelle settimane seguenti alla
Repubblica sociale italiana (RSI), con capitale a Salò, che avrebbe collaborato con i nazisti nell’occupazione militare dell’Italia.
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di tutto per farli catturare. Molte e gravi responsabilità di ciò che successe a
Chignolo sono da addebitare a questo individuo.
Con la collaborazione della organizzazione clandestina milanese facciamo passare in Svizzera i prigionieri inglesi attraverso mille peripezie20. Una
delegazione militare inglese venne a Chignolo verso la fine di maggio del 1945
per raccogliere i dati inerenti i loro connazionali che erano stati prigionieri nel
nostro paese. Tramite il sindaco Egisto Chioffi ringraziarono la popolazione
chignolese a nome del Governo britannico.
Purtroppo un grave fatto indipendente dalla nostra volontà venne ad
offuscare l’iniziativa che era stata fino allora quasi perfetta. Uno dei prigionieri inglesi che aveva rifiutato il nostro aiuto si aggirava da alcuni giorni nelle
campagne attorno al paese. Fu visto da un cantoniere dell’Amministrazione
Provinciale di Pavia e subito denunciato dallo stesso al maresciallo Serenelli.
Tralascio il nome della spia perché ormai è morto. Serenelli arrivò subito con
alcuni carabinieri e l’inglese fu catturato. Lo legarono su un attrezzo agricolo,
quello che in dialetto chignolese si chiama “barachìn”, e obbligarono alcuni
lavoratori a trasportarlo così legato, come un forzato, fino in caserma. Non si
seppe più niente della fine di quel ragazzo. Chi abitava vicino alla prigione lo
sentì per una notte intera gridare e piangere. Cosa gli abbiano fatto è facile
intuirlo.
La Monterosa in azione
Gli ultimi mesi del 1943 indicano una prospettiva tragica per il futuro. Incomincia la caccia al renitente, cioè ai giovani che non si presentano ai bandi di
Mussolini, rimesso (come fantoccio dei tedeschi) a capo del Governo.
Ma è nel gennaio 1944 che si delinea più chiaramente cosa ci aspetta
nei prossimi mesi. Chignolo subisce il primo rastrellamento da parte della
Monterosa, appena rientrata in Italia dopo un periodo di addestramento alla
tecnica della antiguerriglia fatta in Germania21.
Una notte della seconda metà di gennaio più di cento militi stabiliBeccali accompagnò al confine svizzero un gruppo di ex prigionieri e, successivamente, un
gruppo di ebrei (E. Ongaro, Intervista a C. Beccali, cit., infra, pp. 106-107).
21
La divisione Monterosa era stata costituita dai militari italiani che, catturati dopo l’8 settembre
1943 e deportati nei lager tedeschi, avevano scelto di arruolarsi con la RSI dietro promessa di
ritornare in Italia.
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scono la base di tutta l’operazione nell’osteria “Tre Gradini” trovata ancora
aperta. Chiamano la guardia comunale e si fanno accompagnare nelle case
dei giovani che non si sono presentati alle armi e li prelevano di forza. Dove
non trovano il figlio portano via il padre. Alla fine nel nostro comune vengono
prelevate una cinquantina di persone. Le famiglie vengono anche depredate
di generi alimentari: salami, lardo, riso, farina di frumento, polli e tutto quello
che i militi riescono a trovare.
In questo rastrellamento una parte rocambolesca ha avuto il disertore
Gaudenzi Roberto il quale, per una circostanza banale, credendo di trovare
ai “Tre Gradini” i soliti ritardatari, praticamente si è consegnato. A questo
punto, vistosi in trappola, escogita uno stratagemma, chiede ed ottiene dal
comandante di essere accompagnato a casa per avvertire i genitori. Scortato
da un militare esce di strada, lo porta in un vicolo buio, lo spinge giù da una
gradinata e riesce così a fuggire. Il militare, ripresosi dalla sorpresa, spara diverse raffiche di mitra. Ritorna dal comandante, dice che ha visto cadere il
Gaudenzi in seguito alle raffiche sparate. C’è un momento di smarrimento
nei presenti. Parte una pattuglia con un camioncino per raccogliere il presunto
morto, ritornano solo con il cappello del Gaudenzi che gli era caduto durante
la fuga. È superfluo dire che andarono a prelevare il padre.
Anche il sottoscritto fu preso in quella circostanza; ma in virtù di una
domanda fatta all’età di 17 anni per entrare nel corpo della marina fui rilasciato. Fui però costretto a consegnarmi un mese dopo all’ufficio di Leva di Pavia
per evitare che portassero via mio padre. Mi aggregarono alla 10a MAS.
Il giorno stesso che mi presentai fui trasferito con molti altri giovani a
Novara. Scappai dopo alcune ore dall’arrivo, approfittando dell’oscurità e della
confusione che regnava nella caserma dove mi avevano portato. Mio padre
poté così dormire tranquillo in quanto per l’ufficio di Pavia risultavo sotto le
armi, anche se in effetti ero tornato a casa.
Pochissimi sono i giovani di Chignolo Po catturati in diverse occasioni
che rimarranno sotto le armi fino alla fine della guerra. Molti sono scappati a
casa, altri hanno preso la via delle montagne.
In una delle riunioni clandestine della cellula del PCI, tenutasi in casa
della signora Beria, madre di Cesare Callegari, si discusse come mettere in
pratica gli impegni assunti nell’incontro del 13 agosto 1943. Decidemmo di
prendere contatti con le filatrici e appena possibile entrare in fabbrica e creare
organismi di lotta atti a migliorare le condizioni di lavoro.
Un’altra decisione importante e rischiosa fu quella di effettuare continui attacchi notturni alla caserma dei repubblichini. Questa fu la prima a
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essere attuata. Per una settimana tutte le notti li attaccammo con raffiche di
mitra alle finestre, scomparendo poi verso la Roggia Gariga Nerone. Convinti
che prima o poi saremmo ritornati in forze per occupare la caserma si trasferirono definitivamente a Corteolona.
Tra questi fascisti c’era un ex carabiniere di nome Giuseppe che a Chignolo Po era stato trattato con tutti i riguardi possibili. Quando la Repubblica
di Salò impose ai carabinieri di scegliere tra divisa fascista e deportazione in
Germania, visse nascosto per più di un mese aiutato dai chignolesi. Un bel
giorno non si vide più, scoprimmo in seguito che era diventato un repubblichino esaltato ed in seguito commise diversi crimini.
Da quel giorno fino alla fine della guerra non si ebbero più a Chignolo
distaccamenti fissi di militari fascisti.
Si costituisce il primo distaccamento partigiano
Ritornando ai contatti da stabilire con le filatrici, questi avvennero in un periodo abbastanza felice per noi. Per sintetizzare, sono da mettere in evidenza
i risultati ottenuti dalla operaie con il nostro appoggio: commissione interna
che si riuniva due volte alla settimana durante le ore di lavoro, un trattamento
più umano e abolizione delle multe che in filanda erano all’ordine del giorno.
Ultima, ma più importante, la mensa interna a totale carico del datore di lavoro. In quei tempi di profonda carestia22 di generi alimentari significava la certezza di mangiare almeno una volta al giorno senza ricorrere alla borsa nera.
Intanto la nostra organizzazione cresceva, nella primavera del 1944 un altro
degli impegni presi a suo tempo si concretizza: si costituisce infatti il distaccamento della 167a Brigata Garibaldi SAP, discretamente armato, che si
sposta continuamente tra Chingolo Po, Lambrinia, San Colombano, Livraga
e Borghetto Lodigiano.
Circa una ventina di partigiani agiscono con la pratica della guerriglia
colpendo e ritirandosi nei boschi vicino al Po. Comandante del distaccamento
Ermanno Monti (Ermanno), commissario politico Gianni De Vecchi (Cavallini), il sottoscritto e una decina di altri giovani chignolesi facevano parte di
questo distaccamento, compresi Carlo Porrini e Vitti Giovanni.
Impossibile raccontare tutta la attività svolta da questi partigiani nel22
Carenza, insufficienza.
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l’arco di tempo che va dalla costituzione della Brigata fino al 25 aprile 1945,
data dell’insurrezione armata.
Alla fine del maggio 1944 è catturato, da una grossa pattuglia di militi
della GNR di Pavia in perlustrazione a Chignolo, il partigiano Luigi Curti
(Luisìn). L’arresto avviene nel negozio di meccanico del signor Arturo Albanesi in via Garibaldi, di fronte alla tabaccheria Sgaroni. Un altro partigiano
che era con lui riesce a fuggire inseguito in macchina da sei fascisti. Evita la
cattura, arriva nei pressi della cascina Gerra dove siamo accampati. Partiamo
subito con un camioncino sequestrato in precedenza ad un funzionario fascista delle FF. SS. Arriviamo in tempo a Chignolo per vedere l’automezzo dei
fascisti che si dirige verso S. Rocco; saltiamo a terra e vediamo Luisìn che nel
frattempo era riuscito a fuggire. In quel momento partono raffiche di mitra
che forano le gomme della macchina speciale sulla quale si trovano i fascisti.
La loro auto quindi si blocca in prossimità della Chiesetta. Vistisi in pericolo
i fascisti si asserragliano all’interno della Trattoria “Durigón”. Iniziamo la battaglia per catturarli e quando ormai sembra fatta arrivano due grossi camion
da Pavia stracarichi di repubblichini, sicuramente avvisati telefonicamente da
qualche fascista locale. Siamo costretti a ritiraci nei boschi vicino al Po.
Nel giugno 1944 la schiera dei renitenti ai bandi della Repubblica di
Salò si ingrossa. La maggioranza sono sbandati nelle campagne intorno al
paese. Pochi sono quelli che possono ugualmente lavorare la loro terra e non
pesare completamente sulle finanze della famiglia. Per gli altri il problema
diventa sempre più difficile in quanto sono costretti, per mangiare, a rivolgersi
al mercato nero pagando prezzi impossibili.
Nasce così l’idea di costringere le autorità comunali a trovare il sistema
per far arrivare anche agli sbandati le tessere per il razionamento dei viveri.
Un pomeriggio ci rechiamo in Comune e con le buone maniere, ma in modo
deciso, riusciamo nel nostro intento. Dopo alcuni giorni e per tutto il periodo
bellico anche i renitenti, ed erano la stragrande maggioranza, ebbero le carte
annonarie. A questa operazione parteciparono Carlo Porrini, Giovanni Vitti
ed il sottoscritto.
Ci fu qualche tafferuglio con l’allora segretario comunale Giovanni
Montani23 il quale, proprio mentre stavamo discutendo con il personale addetto alla distribuzione delle carte annonarie, si recò nel suo ufficio e si mise
al telefono. Il Vitti che lo aveva seguito sospettò qualcosa di intenzionale, gli
Dal 16 dicembre 1944 fino all’aprile 1945 Montani funse anche da Commissario Prefettizio
(ACCP, Registro delle deliberazioni del Podestà).
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strappò di mano il telefono e con un paio di forbici dell’ufficio tagliò i fili. Io
ho sempre pensato, e lo penso ancora, che il sig. Montani non stesse chiamando i repubblichini. Porrini e Vitti erano convinti del contrario.
I nascondigli dei partigiani
Erano diversi i posti che usavano i partigiani per nascondersi nelle nostre zone.
Anche il mastodontico edificio di proprietà dello arcivescovado di Pavia in località di Valbissera fu occupato da noi per una quindicina di giorni. Fummo
costretti ad abbandonarlo perché ci dava pochissima garanzia di sicurezza.
La zona più sfruttata, perché più sicura, fu Lambrinia e il suo territorio. Le caratteristiche ambientali sono più uniche che rare. Il fiume Lambro
che sfocia nel Po, il Colatore Reale che si getta nel Lambro lasciando quasi
isolato un lembo di terra abbastanza vasto e quasi irraggiungibile a chi non
lo conosce. Il tutto poi, a quei tempi, contornato da vegetazione, ed in modo
particolare da grandi boschi di pioppi. Anche la composizione del Paese è caratterizzata in modo tale che ci favoriva. Noi allora dicevamo: “Tutti i sentieri
portano al Castlàss24” e di conseguenza fuori pericolo.
Qui si trovava sempre qualcuno pronto a portarci con la sua barca sulla
sponda opposta del Lambro. Questi sono i motivi per cui un grosso distaccamento partigiano come il nostro poteva colpire fascisti e tedeschi, impiegando
in certe azioni anche 20 uomini e poi ritirarsi avendo le spalle sicure e la popolazione in nostro favore.
Successe qualche volta che fascisti e tedeschi fecero in tempo a spararci prima che raggiungessimo l’altra sponda, però senza mai colpirci. I luoghi
preferiti per le nostre azioni: la strada Pavia-Cremona, San Colombano, Chignolo Po, Castiglione d’Adda, Livraga, Borghetto Lodigiano e anche Casalpusterlengo, Codogno e naturalmente Lambrinia. L’impossibilità di stanarci
mandava in bestia i fascisti predisposti alla nostra cattura, in più anche la
stampa del regime sovente scriveva, certamente esagerando, che un gruppo di
“ribelli” operava indisturbato nella zona.
Più di una volta forti contingenti di militi della guardia nazionale repubblichina di Lodi e di Pavia vennero a Lambrinia con intenzioni punitive
e decisi a catturarci, ma non ci riuscirono mai. Provarono a prelevare dalle
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Termine dialettale che indica una vecchia costruzione denominata “Castellazzo” a Lambrinia.
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proprie case una decina di persone e le portarono a Lodi. Le sottoposero a
interrogatori snervanti e a maltrattamenti bestiali. Non ne cavarono niente e
tutti fecero ritorno alle loro case.
Non mancavano altre possibilità di trovare (in caso di emergenza e di
necessità) ospitalità per brevi periodi in casa di amici o compagni non sospettati. Un punto di riferimento certo era la casa del compagno Carlo Rossi. In
quel periodo abitava a Coste dei Grossi, quindi fuori paese, e in una posizione
abbastanza vantaggiosa. La sua casa era il luogo di ritrovo anche per le staffette che da Milano e Lodi portavano ordini e notizie.
Un lavoro molto utile di staffetta lo svolgeva lo stesso compagno Rossi
che in più occasioni si recò a Casalpusterlengo, Codogno ed in altri paesi del
Lodigiano per i contatti con il Comando di Brigata. Anche Milano e Lodi
furono meta obbligata della nostra staffetta, e proprio da Milano una volta ci
portò due mitra smontati, nascosti in una valigia. Altri rifugi come ho detto
li avevamo anche in paese, ma naturalmente ci fermavamo per poco tempo, il
pericolo di qualche delazione era sempre presente, anche in un paese antifascista come Chignolo.
Io stesso rimasi nascosto per una decina di giorni nella casa della famiglia Porrini nel periodo seguente la fucilazione del figlio Carlo. Questa
permanenza a Chignolo si rese necessaria per la grave situazione che si era
creata sulle montagne dell’Oltrepò in seguito al feroce rastrellamento iniziato
il 23 novembre 1944. Vi fu una sbandamento generale nelle file partigiane
con gravissime perdite di uomini. Il compito mio durante la permanenza in
casa Porrini era quello di prendere contatto con i partigiani che erano tornati
a casa ed indirizzarli nuovamente alle formazioni di montagna che incominciavano a ricostruirsi.
L’azione di Camporinaldo
Il 28 ottobre 1944 in contatto con i partigiani della 6a Brigata Giustizia e
Libertà che operava sulle montagne dell’Oltrepò Piacentino e Pavese (la sede
del comando era a Romagnese) Ermanno e Cavallini incaricano il sottoscritto, Carlo Porrini (Carlìn) e Boccadoro Eugenio (Genio) di affiancare quattro
partigiani di detta formazione in una azione da effettuarsi sulla strada PaviaCremona.
L’azione consisteva nella cattura di un alto ufficiale tedesco che da
informazioni in possesso di Capitano Giovanni, comandante della 6a Brigata
Giustizia e Libertà, doveva transitare verso le 15 a bordo di una macchina
militare tedesca nei pressi del sottopassaggio ferroviario, a circa due chilome55
tri da Camporinaldo. L’importanza dell’azione consisteva nel fatto che costui
portava con sé un piano militare che le forze tedesche e fasciste avrebbero dovuto attuare alla fine di novembre e consisteva in un rastrellamento in grande
stile sugli Appennini pavesi e piacentini.
Ci misero al corrente della scorta che avrebbe seguito l’ufficiale: un
motociclista armato doveva precedere la macchina, altri tre l’avrebbero seguito a circa duecento metri di distanza. La scelta del luogo dell’imboscata dipese
dal fatto che la strada in quel punto fa una curva a gomito e logicamente la
velocità ridotta avrebbe favorito il nostro intervento.
Purtroppo le cose non andarono come previsto; mentre si stava predisponendo l’attacco, improvvisamente sopraggiunsero in bicicletta due militi
della GNR. Erano le 14 e 45. Da parte nostra c’era l’intenzione di lasciarli
passare senza molestarli per non compromettere la riuscita dell’operazione.
Non così da parte loro. Forse impauriti nel vedere sette persone in mezzo
alla strada, convinti magari che volessimo tendere loro un agguato, lasciano le
biciclette e iniziano a sparare. C’è subito la nostra reazione e alla fine rimane
ucciso uno dei militi e l’altro ferito riesce a fuggire. Va a monte il nostro piano. Sul posto dopo pochi minuti si fermano molte persone di passaggio ed
altri che lavorano nei campi. Naturalmente siamo stati riconosciuti da molti
testimoni, che pur essendo dalla nostra parte potrebbero parlare. Il rischio di
qualche delazione era forte.
Raggiungiamo tutti l’accampamento del nostro distaccamento e, dopo
aver esposto i fatti ai comandanti, decidiamo di comune accordo che il sottoscritto, il Porrini Carlo ed il Boccadoro Eugenio si trasferiscano alle formazioni partigiane di montagna. Oramai, per noi che eravamo del posto, il pericolo era aumentato notevolmente. La sera stessa attraversammo il Po insieme
ai partigiani della Giustizia e Libertà che avevano partecipato con noi a quella
sfortunata azione.
In montagna
Giunti a Romagnese25 ci rendemmo conto della diversità in cui operavano i
partigiani della montagna. In quel periodo non solo il Penice ed il Brallo eraEra la sede del comando della 6a Brigata Giustizia e Libertà, di cui era responsabile Giovanni
Antoninetti (capitano “Giovanni”). Sulle vicende di questa brigata e del suo comandante si veda:
Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia 1943-1945, il Mulino, Bologna 2002, alla voce Antoninetti.
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no completamente controllati dalle formazioni partigiane, ma anche in tutta
la collina, nelle località più importanti, erano dislocate decine di distaccamenti delle varie formazioni.
Tranne puntate in qualche vallata da parte delle forze nazifasciste, peraltro quasi sempre agevolmente controllate, le azioni più importanti si svolgevano sulla Via Emilia26. La sua importante comunicazione con il fronte la
rendeva allora l’arteria principale per i rifornimenti di ogni tipo. Questo era il
motivo delle grosse imboscate partigiane che avvenivano indifferentemente di
giorno e di notte.
Comunque in noi la nostalgia per il nostro modo di fare guerriglia e per
la nostra zona era forte. Pochi giorni dopo arrivò a Romagnese Anna di San
Colombano27, una delle staffette che lavorava con noi in pianura. Ci informò
della situazione insostenibile in cui era costretto ad operare il distaccamento
della 167a dopo la nostra partenza causata, come ho già descritto, dallo scontro
avvenuto nei pressi di Camporinaldo. Tutti i giorni ingenti raggruppamenti
della GNR, affiancati e diretti da nuclei speciali tedeschi dell’antiguerriglia,
li braccavano. Ogni spostamento era conosciuto e seguito a causa dell’opera
delatoria di alcune spie. Anna ci comunicò anche che il distaccamento aveva
deciso di trasferirsi al completo in montagna.
Tutto fu studiato dettagliatamente dato che non si trattava di portare
nell’Oltrepò Piacentino soltanto uomini ma anche un numero ragguardevole
di fucili, bombe a mano e molte munizioni, il tutto nascosto vicino alla Cascina Gerra. Certo tutto questo non poteva farlo soltanto Anna, così decidemmo di mandare anche Porrini Carlo (Carlìn) e Boccadoro Eugenio (Genio).
Trovarono un camion che, scortato dai partigiani, caricò tutto e tutti e li portò
fino al Po.
Qui le cose si complicavano. Si trattava di convincere i barcaioli che
trasportavano pomodori sulla nostra sponda, di caricare materiale e uomini
La strada che da Castel S. Giovanni sale verso Broni.
Anna Paolina Passaglia, nome di battaglia “Anna”, era nata a Gragnano Trebbia (Piacenza) nel
1902. Nel 1920 si era sposata con il negoziante Giovanni Lanzani di S. Colombano al Lambro.
Rimasta vedova nel 1932, con cinque figli, esercitò il mestiere di sarta, ma acquisì anche una forte
coscienza politica antifascista. Durante la Resistenza aiutò gli ex prigionieri inglesi e i renitenti,
fece la staffetta partigiana, collaborò con i partigiani della 167a Brigata; fu arrestata, detenuta nel
carcere di Lodi, ma riuscì a fuggire. Era intrepida. A lei è intitolata la sezione ANPI di Chignolo
Po, Graffignana, S. Colombano al Lambro. Un brano di una sua intervista è riprodotto in: E.
Ongaro, Gianluca Riccadonna, Percorsi di Resistenza nel Lodigiano, Quaderni ILSRECO n.
16, aprile 2006, pp. 122-125.
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durante il viaggio di ritorno sulla sponda piacentina, tenendo presente che
questa era molto controllata dai tedeschi. Comunque trovarono chi acconsentì e, dopo il passaggio del Po, trovarono anche un trattorista che con il suo
trattore ed un grosso rimorchio arrivò fino in zona partigiana e precisamente
alla Villa Pelli, dove nel frattempo il nostro gruppo era stato destinato. Questa
località si trova tra Pianello Valtidone e Nibbiano, sulla strada per Genepreto.
Ma la nostalgia di Ermanno, Cavallini, Luisìn, Nèlu, Franchino e degli
altri fu più forte della nostra e non resistettero alla tentazione di scendere di
nuovo in pianura. Infatti una notte partirono tutti portandosi soltanto le armi
personali e ripresero a lottare quasi nella medesima zona. Fu un errore madornale ed il loro comportamento fu deplorato dal Comando della Brigata [...].
Ma a nulla valsero gli inviti a ritornare in montagna e purtroppo certi errori si
pagano a caro prezzo. Alcuni di loro pagarono con la vita.
Anna “la partigiana” (così era chiamata) fu molto dispiaciuta, quando
seppe della cosa. Ma nemmeno lei riuscì a convincerli. È doverosa una parentesi per descrivere, anche se in modo più che sintetico, la personalità di questa
donna che, in un contesto diverso da questo, meriterebbe ben altra citazione.
Io l’ho chiamata la nostra staffetta, perché nessuna penso lo sapesse fare meglio di lei. Ma il suo compito non si ridusse a questo, combatté con noi da
valorosa, rischiò decine di volte la vita, salvò decine di giovani ricercati.
Mentre scrivo questi ricordi Anna è ancora vivente e Le auguro di
vivere ancora per lunghi anni in buona salute28. Lo sai, Anna, l’ammirazione
che ho per te, e non soltanto come partigiana. Per me, Anna, tu sei la “Camilla
Ravera29” della nostra zona e questo, credimi, non è un complimento di circostanza.
Anna Passaglia è deceduta a S. Colombano al Lambro il 19 ottobre 1998, a 96 anni.
Camilla Ravera nacque ad Acqui Terme (Alessandria) nel 1889; fu tra i fondatori del Partito
comunista d’Italia, di cui assunse la guida dell’organizzazione femminile. Dopo la svolta dittatoriale del fascismo fuggì all’estero. Dal 1927 al 1930 fu segretaria generale del Partito comunista.
Rientrata in Italia nel 1930 fu arrestata e condannata dal Tribunale Speciale. Nel 1939 fu espulsa
dal partito perché condannò il patto tra Germania nazista e Unione Sovietica. Fu eletta al Parlamento dal 1948 al 1958. Il presidente Sandro Pertini nel 1982 la nominò senatrice a vita. Morì
a Roma nel 1988.
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Il giorno di Ognissanti funestato dai fascisti
Il 1° novembre 1944, festa di Tutti i Santi, un gravissimo episodio si aggiunge
ai tanti causati dalla ferocia dei militi fascisti. Molti giovani renitenti ai bandi
di Mussolini sono in Chiesa per ascoltare la messa in ricordo dei defunti. La
chiesa parrocchiale è stracolma di gente; all’improvviso si apre la porta centrale e compaiono decine di uomini in divisa con i mitra spianati, entrano in
chiesa, sono fascisti.
I giovani, in modo particolare, fuggono verso l’altare per raggiungere
una via d’uscita secondaria. Il Prevosto, don Giuseppe Brusoni, coraggiosamente va incontro ai fascisti cercando di fermarli, rimproverandoli per il sacrilegio che stavano consumando nella Casa di Dio. Viene travolto a forza e
minacciato di morte.
Molti riescono a fuggire, ma alcuni vengono presi e caricati sui camion. Sono: Gaudenzi Annibale, che in seguito verrà fucilato a Chiavari. Era
il fratello di latte del fascista Ferrari Bruno, organizzatore della bestiale azione
alla quale partecipa di persona. I due erano amici per la pelle, abitavano dalla
nascita vicinissimi di casa, alla Cascina Casottina, e insieme a Guasconi Giorgio, anche lui catturato nella medesima circostanza, avevano fatto parte della
Divisione Monterosa, e, insieme, avevano partecipato ad un periodo di addestramento in Germania. Appena rientrati in Italia il Gaudenzi ed il Guasconi
avevano disertato ed erano ritornati alle loro case.
Anche Guasconi Giorgio fu portato a Chiavari e molto probabilmente
avrebbe subito la stessa sorte del Gaudenzi, se fortunatamente circostanze
imprevedibili non l’avessero salvato. Rino Sgorbati, un altro dei catturati, viene affidato alla GNR di Villanterio, da dove in seguito riesce a fuggire.
Anche Pizzoni Tiziano sarebbe stato portato via; con prontezza di spirito però, approfittando di un momento di confusione, scappa di gran volata
verso l’asilo infantile. Riesce ad entrare e uscire dalla parte della Roggia; le
raffiche di mitra sparate contro di lui fortunatamente non lo colpiscono, anche perché il dott. Roberto Gianzini coraggiosamente deviò la prima raffica,
spingendo verso l’alto il mitra del Ferrari.
Sono in possesso di un documento dell’epoca con cui il Tribunale fascista di Chiavari condannò a morte il Gaudenzi; da esso emerge chiaramente
che Ferrari Bruno fu l’artefice principale della condanna.
59
Reclutamento alla TOT30
Un episodio che mi piace ricordare, perché presenta lati quasi umoristici, riguarda due militi repubblichini inviati a Lambrinia a precettare i lavoratori
da mandare alla TOT. Il quartiere generale di tutta questa operazione, che si
svolgeva contemporaneamente in diversi Comuni, era il Municipio di Chignolo Po.
Eravamo verso la metà di dicembre 1944; io, Porrini e Boccadoro avevamo urgente necessità di incontrare Ermanno, Cavallini, Luisìn, Cobianchi
e gli altri partigiani del distaccamento. Sulle montagne dell’Oltrepò Pavese e
Piacentino infuriava ancora il terribile rastrellamento iniziato il 23 novembre.
Il compito che dovevamo portare a termine era di trovare un nascondiglio
sicuro a due soldati inglesi paracadutati in missione in zona partigiana due
giorni prima che iniziasse l’attacco. Sapevamo che erano ricercati dai corpi
speciali di polizia tedesca e fascista di Piacenza. Li incontrammo in piazza a
Lambrinia, portavano divise tedesche e fasciste con i mitra pronti per essere
usati. Chiedemmo loro il perché di questo atteggiamento e ci informarono
che stavano dando la caccia a due repubblichini.
Uno lo avevano ferito mentre usciva dall’Osteria Bazzari e solo uno
per un caso fortuito riuscì a fuggire e raggiungere il Municipio di Chignolo.
L’altro lo trovammo quasi subito e tremava di paura. Lo portammo sull’altra
riva del Lambro e ci dirigemmo verso un cascinale nei pressi di Senna Lodigiana da persone nostre amiche. Passammo lì anche noi la notte e dovemmo
sorbirci i racconti del repubblichino. Sembrava, a sentire lui, una vittima del
fascismo. Era stato costretto a presentarsi, perché gli avevano portato via il
padre e tante altre scuse che quasi ci convinceva a lasciarlo libero. Purtroppo
per lui, il mattino seguente doveva arrivare a fare visita al distaccamento di
Ermanno un compagno del CLN di Lodi per portare informazioni e direttive. Lo riconobbe subito e sapeva che godeva fama fra i suoi camerati di essere
uno dei peggiori elementi, un picchiatore tra i più accaniti, che aveva sulla
coscienza più di un delitto consumato anche di sua iniziativa.
Così era chiamata popolarmente l’Organizzazione Todt. Costituita alla fine degli anni Trenta
da Fritz Todt, divenne il braccio costruttivo dello Stato tedesco in tutti i Paesi occupati dai nazisti: il governo forniva uomini e materiali, l’impresa si occupava degli aspetti tecnici. Durante la
guerra la manodopera fu costituita da prigionieri o da lavoratori coatti. Nella zona di Chignolo
e dei paesi rivieraschi del Po la Todt utilizzò lavoratori per costruire ponti, ripristinare argini e
strade bombardate.
30
60
Partimmo la stessa mattina dopo aver concordato un nuovo incontro
per definire il trasferimento dei due inglesi. Passando per Lambrinia fummo
informati dalla popolazione di ciò che era avvenuto il giorno prima. Era una
domenica, il repubblichino ferito era riuscito a farsi portare a Chignolo ed ai
suoi superiori aveva raccontato che erano stati attaccati da forze partigiane ingenti. Pieni di rabbia ma anche di paura, fecero assediare la piccola località da
più di duecento tra fascisti e tedeschi fatti arrivare da Lodi, Pavia e Piacenza
e rimasero fino a tarda sera. Non arrestarono nessuno, ma setacciarono ogni
angolo e ogni casa con la speranza di trovare i partigiani. Ancora una volta
avevano fallito l’obiettivo.
Penso però che dopo questo fatto abbiano incominciato a capire che
la strategia usata non avrebbe portato loro nessun risultato concreto. Infatti in
seguito, più che interventi massicci di fascisti armati, si ebbero tentativi di infiltrare spie nel distaccamento partigiano della 167a Brigata. Alcuni dei quali
ebbe[ro] anche successo. Purtroppo, per i partigiani, questo cambiamento di
strategia da parte dei fascisti produsse molti guasti e la morte di Ermanno,
Cavallini, Franchino e altri ancora è da mettere in relazione a ciò31.
Nel successivo incontro avuto poco tempo dopo vidi nel gruppo facce
nuove e uno in modo particolare non mi ispirava fiducia, lo chiamavano “il
padovano” e anche i sopravvissuti sono concordi nel ritenere questo individuo
una spia fascista.
Vicini alla morte
Quando fummo aggregati alla 6a Brigata Giustizia e Libertà il comando si
trovava a Romagnese, mentre il distaccamento nostro era staccato a metà strada tra Pianello Valtidone e Nibbiano. Era uno degli avamposti partigiani e
non fu scelto a caso. Si cercò di sfruttare il fatto che questo distaccamento era
formato quasi esclusivamente di “magòt”, come dicono i piacentini, cioè di
giovani che abitavano al di qua del Po. Si cercò così di abbreviare le distanze
alle soventi incursioni nell’estremo sud della Lombardia.
Per noi, che ancora sentivamo la nostalgia della pianura, era come un
invito a nozze. Il motivo di questi spostamenti consisteva nel rafforzamento
dei contatti con le formazioni che operavano nella zona compresa tra Pavia,
Lodi e Piacenza. Sviluppare l’azione di propaganda antifascista, raccogliere
31
Infra, p. 116.
61
fondi per le formazioni di montagna, prendere contatti con i soldati cecoslovacchi32 al fine di inviarne in montagna il maggior numero possibile, come
effettivamente avvenne, preparare i piani per disarmare qualche caserma di
fascisti, come si fece con quella di S. Angelo Lodigiano33.
Fu proprio in una di queste missioni che per poco non ci lasciavamo
la pelle, io, Porrini e Boccadoro. Non ricordo con precisione la data, ma sicuramente era autunno avanzato. Ci fermammo alla Cascinazza, in una casa
dei salariati affittata dal Boccadoro quando sfollò da Milano con la mamma.
Fortunatamente in casa non c’era nessuno, la mamma di Eugenio era andata
a Milano per qualche giorno. Ci fermammo tutti e tre a riposare per la notte,
dovendo partire molto presto la mattina seguente. Alle quattro partimmo con
le biciclette, ognuno per la propria missione, con l’accordo di ritrovarci alle ore
16 sempre in quella casa. Andò tutto bene e tutti fummo puntuali.
Prima di ripartire per la montagna alcuni salariati, vicini di casa, ci portarono latte appena munto e anche del pane. Non avevamo ancora finito di
mangiare, quando si spalancò l’uscio di casa ed entrò molto eccitato un lavoratore e ci grida che nel cortile del padrone aveva visto un gruppo di militi armati, che si stavano dirigendo verso le case dei salariati. Con l’aiuto dei lavoratori
riuscimmo appena in tempo a scavalcare il muretto dalla parte dei rustici e
allontanarci nella campagna antistante. Quando i fascisti se ne accorsero di essere arrivati in ritardo, tentarono di inseguirci. Ma a questo punto la situazione
si era rovesciata a nostro favore, sparammo una raffica, lanciammo una bomba
a mano e quindi si diedero alla fuga, guadagnando la strada provinciale per
Monticelli. Certo se fossero riusciti a bloccarci in casa, per noi sarebbe stata la
fine.
Tutto si svolse in modo così repentino che non ebbi neanche il tempo
di riconoscere il nostro salvatore. Soltanto dopo la Liberazione ho avuto la
certezza che si trattava di un compagno lavoratore già iscritto alla cellula del
Un forte contingente di cecoslovacchi si stabilì a Chignolo Po da fine dicembre 1944 al 9 aprile
1945; in archivio comunale è conservato l’elenco di 111 chignolesi che affittarono camere e stalle
ai cecoslovacchi (ACCP, cart. 20, fasc. 7, Elenco dei privati che hanno dato alloggio ad appartenenti alle FF. AA. Cecoslovacche, senza data ma 1945). Invece truppe tedesche si piazzarono
alle frazioni Alberone e Lambrinia, lasciando danneggiate le strutture alla loro partenza (ibidem,
cart. 20, fasc. 6, Lettera del Commissario Prefettizio Montani al Capo della Provincia, Chignolo
Po 19 aprile 1945).
33
Il diario della brigata partigiana di stanza a Romagnese, redatto da don Alberto Picchi riferisce che il 20 ottobre 1944 “una pattuglia travestita da militi repubblicani della San Marco va
ad assalire la caserma di S. Angelo Lodigiano”, riportandone “un camion carico di divise, armi,
munizioni e sette prigionieri” (Giulio Guderzo, L’altra guerra…, cit. p. 379).
32
62
PCI di Chignolo Po. Naturalmente anche in questa circostanza ci fu una spia,
e non è stato difficile scoprirlo.
Comunque è doveroso da parte mia ringraziare anche pubblicamente
tutte le famiglie dei salariati che a quel tempo abitavano alla Cascinazza, non
solo perché ci aiutarono a fuggire tutte le volte che ci capitò di fermarci in casa
di Eugenio. Alcuni di essi facevano persino la guardia, non appena si entrava
in casa. Non desistevano neanche di notte e ci svegliavano puntualmente all’ora stabilita. Questa è un’altra dimostrazione di quanto dicevo all’inizio sull’antifascismo Chignolese, e sul coinvolgimento della popolazione nella lotta
per la Libertà.
Fucilati Porrini e Dalcerri
Cattura e morte di Cesare Beccali
Il 23 dicembre 1944 vengono presi e barbaramente fucilati vicino al Cimitero
di Camporinaldo i partigiani Carlo Porrini di Chignolo Po e Dalcerri Bruno
di S. Colombano al Lambro.
Il grosso rastrellamento sulle montagne pavesi e piacentine, di cui ho
parlato prima, ebbe inizio il 23 novembre 1944 con mezzi eccezionali di uomini e armi. Inutile fu l’eroica resistenza partigiana per fermarli. A metà dicembre, io, Porrini e Dalcerri con altri partigiani della nostra Brigata, eravamo
riusciti a passare la linea tedesca e fascista e ritornare sui luoghi che occupavamo prima del rastrellamento.
Una puntata [venne] effettuata due giorni prima di Natale a Chignolo
Po per incontrare alcuni membri del CNL di Milano. Mentre si recavano il 23
dicembre in bicicletta a Camporinaldo, [Porrini e Dalcerri] vennero sorpresi
da una pattuglia di militi della GNR di Corteolona e subito fucilati. Ancora
una volta un delatore (abbastanza conosciuto) fu la causa della cattura. Andò
bene per me, in quanto nascosto in casa di amici colpito da febbre alta. Diversamente sarei stato con loro e probabilmente avrei subito la stessa sorte.
Questa per me fu una dolorosissima perdita in quanto tra noi vi erano
rapporti più che fraterni, in modo particolare con Carlo Porrini. Insieme abbiamo creato l’organizzazione antifascista a Chignolo Po, senza mai separarci
una volta, vivendo insieme tutte le peripezie della scelta politica e di lotta
fatta all’inizio del 1943. Inoltre persone come lui, con la sua carica umana e di
altruismo, leali e coraggiose fino all’inverosimile, sono molto rare. La sua vita
meriterebbe di essere scritta ed additata come esempio alle nuove generazioni.
63
Il 26 gennaio 1945 un altro grave fatto di sangue aggiunge un altro
lutto nelle file partigiane e in modo particolare mi colpisce personalmente.
Perde la vita mio fratello Cesare. Anche lui, con Cavallini Giuseppe, Gargioni Giuseppe, Musocchi Pippo era stato con i partigiani di Romagnese prima
del rastrellamento del 23 novembre. Sceso per le nostre stesse ragioni, mio
fratello si aggregò alla 167a Brigata Garibaldi. Ebbe l’incarico, insieme a Vitti
Giovanni, di recarsi dal podestà fascista di Santa Cristina e Bissone a ritirare
le armi che lo stesso si era impegnato personalmente, con Monti e Cavallini,
a consegnare.
Non si sa di preciso come andarono le cose, sta di fatto che risultò un’imboscata. Cesare rimase ferito gravemente, mentre il Vitti riusciva a salvarsi. Furono
i gardisti34 cecoslovacchi a sparare ed a consegnarlo alla GNR di Corteolona.
Nella notte tra il 26 e 27 gennaio, dopo essere stato torturato, moriva.
Una signora di Corteolona, che lavorava in caserma come cuciniera
dei repubblichini, mi disse, a Liberazione avvenuta, che lo torturarono cercando di sapere dove io mi trovavo in quel momento. Il Podestà fascista, per
giustificare la grave colpa di cui si era macchiato, fece spargere la voce che si
trattava di delinquenti comuni.
Camicia rossa sulla tomba dei caduti
Un altro fatto vide protagoniste due ragazze, Porrini Tina e Moro Piera35.
Dopo il funerale di Porrini, quando oramai la gente aveva lasciato il cimitero,
i fascisti rabbiosi per lo smacco subito distrussero le corone di garofani rossi,
trovate con tanta fatica a Lodi e Pavia.
La notte dopo il funerale, aiutate da mio fratello Cesare, [Tina e Piera] scavalcarono il muro di cinta del cimitero e deposero sulla tomba la camicia rossa, che era solito portare quando era in montagna. I repubblichini di
Corteolona lo vennero a sapere e diventarono furibondi e, oltre a distruggere
la camicia rossa, si accanirono sulla tomba quasi a renderla irriconoscibile.
Fu così anche per le tombe degli altri caduti: per diverso tempo, di
notte, si mettevano fiori e drappi rossi, al mattino i fascisti li distruggevano.
Questo finì quando capitammo a Chignolo per una missione di due giorni
io ed un altro partigiano. Messi al corrente della cosa, aspettammo i fascisti
34
35
Erano così denominati i cecoslovacchi filonazisti.
Tina era sorella di Carlo Porrini, Piera era fidanzata di Gianni.
64
all’interno del Cimitero e alle 6 del mattino, quando era ancora buio, mentre
aprivano il cancello li accogliemmo con raffiche di mitra. Fuggirono in bicicletta verso Corteolona. Da quel giorno non entrarono più nel cimitero.
La bandiera rossa sul balcone del Municipio
Fucilati Monti e Pappacena
Clamorosa per risonanza e per lo sbando creato fra le forze fasciste e tedesche,
che insieme a molti gardisti cecoslovacchi si erano stabilite di prepotenza
nelle case di moltissime famiglie chignolesi, fu un’azione che il distaccamento
della 167a Brigata Garibaldi (che operava in zona) decise e portò a compimento alla fine del febbraio 1945.
Entrarono di notte in municipio, esposero al balcone una bandiera
rossa. Scritte che incitavano il popolo all’insurrezione armata per conquistare
la Libertà apparvero sui muri del paese. Quel giorno nessun impiegato municipale entrò nel palazzo; la bandiera venne tolta verso le 12 dai tedeschi, che a
decine salirono in municipio con le armi in posizione di sparo.
Un ultimo fatto di sangue: prima della Liberazione, il 19 marzo 1945,
festa di S. Giuseppe, Monti Ermanno e Pappacena Franco vengono fucilati
fuori dalle mura del cimitero. Gianni Devecchi e Albanesi Giuseppe rimangono uccisi nella medesima imboscata in località Montalbano di Monticelli
Pavese. Anche qui ci fu un delatore, a noi non del tutto sconosciuto.
I partigiani avevano passato la notte sulla cascina dell’Albanesi; i fascisti li attaccarono all’alba a colpo sicuro, quindi per forza erano stati informati
da qualcuno. I partigiani erano ben armati e si difendevano con una certa facilità, anche se circondati. Vista l’impossibilità di catturarli, i fascisti iniziarono
a sparare direttamente nella casa dell’Albanesi uccidendolo e ferendo ad un
braccio la [nipote] Alfonsa. A questo punto Gianni De Vecchi, per evitare che
la moglie dell’Albanesi ed altri bambini venissero uccisi, decide di arrendersi
insieme agli altri. Invece di consegnarsi si sparò un colpo alla tempia. Questa
è la versione più plausibile del fatto36. Monti e Pappacena si consegnarono e
come ho detto furono fucilati a Chignolo.
Anche in questa circostanza a nulla valse l’intervento di Don Brusoni,
Questa versione sulla morte di De Vecchi fu testimoniata a Beccali da Alfonsa Albanesi (E.
Ongaro, Intervista a G. Beccali, cit., infra, p. 117).
36
65
che tentò in tutti i modi di opporsi alla fucilazione. Ancora una volta fu minacciato con le armi. I fascisti sfogarono così la loro rabbia, sperando che la
lezione potesse servire da monito ai chignolesi.
I funerali di Carlo Porrini e di mio fratello Cesare prima, di Ermanno
e di Franchino poi, furono il banco di prova del coraggio degli antifascisti
ed in modo particolare delle donne nostre concittadine, amiche e compagne. Guidate dalla compagna Passera Ernestina, iscritta alla cellula locale PCI
(dopo la Liberazione fu per molti anni responsabile femminile della Sezione
di Chignolo Po), organizzarono i funerali con una chiara impronta antifascista, incuranti delle minacce che la GNR di Corteolona fece attraverso manifesti e con la costante presenza di una ventina di “sbirri” fino a funerali avvenuti. Tentarono di intimidire le più impegnate, minacciandole di arrestarle e
di fucilarle, ma tutto fu inutile.
Molta gente, che organizzò e partecipò a quei funerali, ricorderà queste cose, e anche le migliaia di persone che vi parteciparono venute da tutte
le parti. Queste manifestazioni furono per tutti la certezza che il giorno della
Liberazione era molto vicino.
La Liberazione
Anche per la Liberazione del 25 aprile, a Chignolo Po è andata in modo diverso dai paesi vicini. Nella seconda metà del 1944 si costituisce il Comitato
di Liberazione Nazionale, composto da Pozzi Eugenio per il PCI, Cavallini
Gaetano PSI, Gallotta Luigi DC, Bernardelli Vittorio PLI, Carelli Pd’A, segretario Rossi Carlo PCI.
I contatti tra il CNL locale e quello di Lodi e Milano sono frequenti.
Di conseguenza, l’informazione sull’andamento della guerra è molto precisa,
in linea di massima si conosce la data dell’insurrezione con buon anticipo e ci
si prepara a questo avvenimento glorioso.
Non mancano contatti con le formazioni partigiane dell’Oltrepò Piacentino e in modo particolare con la 10a Brigata GL Ferdinando Casazza, alla quale
apparteneva il sottoscritto37. Come ho già detto, dopo lo scontro a fuoco avvenuto
il 28 ottobre 1944 nei pressi di Camporinaldo, il comando della 167a Brigata Garibaldi decise di inviare in montagna il gruppo che aveva partecipato allo scontro.
Dopo il terribile rastrellamento di fine novembre e dicembre, Beccali si unì a questa Brigata
GL, comandata da Dante Daturi (“Dante”).
37
66
Gli assidui contatti con i movimenti antifascisti organizzati di tre province, favoriscono il lavoro del CNL di Chignolo Po. Già nel primo mattino
del 23 aprile è in grado di radunare un forte numero di sbandati e di antifascisti (150 circa), formare dei gruppi armati e passare all’insurrezione. Si
svolgono combattimenti sulla statale per Cremona, dove vengono catturati
convogli tedeschi e fatti alcuni prigionieri. Proprio il 25 aprile viene ucciso ad
Alberone, alla Trattoria della Pesa, un patriota [C. Sposini] di Monticelli che
tenta di disarmare alcuni soldati tedeschi38.
Il CNL di Chignolo manda una squadra di insorti per catturare i tedeschi addetti alla contraerea sulla riva sinistra del Po. Dopo una furiosa battaglia, il minor numero di uomini e mezzi costring[e] alla fuga i patrioti.
Nel pomeriggio del 25 aprile riesco a convincere il comandante della
mia Brigata, attestata alle porte di Piacenza con altre formazioni partigiane
nel tentativo di liberare la città, ad attraversare il Po con tutti gli uomini diponibili. Alle ore 16 del 25 aprile la 10a Brigata Ferdinando Casazza Giustizia
e Libertà entra in Monticelli. Ci prepariamo subito ad attaccare i tedeschi
addetti alla contraerea, i quali si danno alla fuga prima ancora che i partigiani
arrivino alle loro postazioni.
Con due camion “FIAT 26” proseguiamo per Chignolo e all’entrata
del paese troviamo archi di trionfo fatti di fiori e una gran folla ad attenderci.
I giorni 26, 27 e 28 siamo impegnati in combattimenti sulla strada statale Pavia-Cremona e altrove, per impedire alle colonne tedesche di entrare in paese,
al fine di evitare saccheggi e fucilazioni, come purtroppo è avvenuto in altre
località.
Una nota molto triste in mezzo alla gioia generale di quei giorni. Il presidente
del CNL di Chignolo Po, Eugenio Pozzi, viene colpito mortalmente da un
colpo di pistola sparato inavvertitamente da un partigiano mentre provava la
sua arma. È il 28 aprile 194539, i funerali seguiti da una immensa folla hanno
luogo il 1° maggio. Passano i giorni e la vita si normalizza, tutti ritornano alle
proprie attività.
38
Dal quadro commemorativo (cfr. p. 36) risulta che Sposini fu ucciso il 26 aprile; per cui gli
avvenimenti qui raccontati sono da collocare in tale data.
39
Il tragico incidente avvenne il 13 maggio 1945 e il funerale si svolse due giorni dopo, come
risulta dal Liber Defunctorum della parrocchia.
67
Verso la fine
Chiudendo queste brevi note storiche su Chignolo ritengo doveroso mettere
in evidenza ancora una volta il grosso contributo che la stragrande maggioranza dei cittadini chignolesi ha dato alla Lotta di Liberazione. Penso sia giusto citare i nomi di coloro che si sono maggiormente distinti in quel periodo,
rischiando di pagare un prezzo altissimo, mettendo anche a repentaglio la
propria vita.
In prima fila il gruppo di donne che ha agito in maniera assidua e
intelligente: Passera Ernestina, Moro Piera, Passera Maria, Porrini Tina, Porrini Antonietta, Rapetti Clementina, Leccardi Cecilia, e molte altre. Questo
gruppo era legato più sentimentalmente che organizzativamente a tantissima
altra gente. Il movimento partigiano locale ha avuto da esse ogni tipo di aiuto: nascondigli sicuri, informazioni necessarie sulle azioni da compiere, aiuti
in vestiario, in generi alimentari, ecc. Hanno imposto i funerali con tutti gli
onori ai caduti partigiani, sfidando la ferocia della GNR di Corteolona.
Meritano pure di essere citati per la loro collaborazione con i partigiani un gruppo di antifascisti chignolesi: Cavallini Gaetano, Rossi Carlo, Varni
Carlo, Briola Galdino, Pozzi Giovanni, Ardemagni Aurelio e molti altri. Anche Ardemagni Angelo (Butòn) si rese utile in più occasioni, andando, quando è stato necessario, nella tana del lupo, come si suol dire, cioè nella caserma
repubblichina di Corteolona per il disbrigo di pratiche inerenti alla consegna
delle salme dei partigiani caduti. Anche questo era un compito pericoloso,
perché lo poneva agli occhi dei fascisti come un collaboratore dei “ribelli”.
Era proprio tramite queste persone che i partigiani della 167a Brigata
Garibaldi riuscivano ad avere contatti con tutta la popolazione. I nomi delle
persone citate figuravano, non a caso, in un elenco di trenta persone di Chignolo Po trovato dal sottoscritto nella caserma della GNR di Corteolona il 26
aprile 1945. Purtroppo questo documento storico per il nostro paese è andato
perduto. Lo consegnai subito al CNL di Chignolo Po e fece rabbrividire un
po’ tutti. Quando fu sciolto il CNL decidemmo di non consegnare questo
documento agli organi competenti, per avere una testimonianza viva di ciò
che poteva accadere se la Liberazione fosse avvenuta una decina di giorni più
tardi. Infatti il documento era intestato così: “Sovversivi di Chignolo Po da
passare per le armi come traditori della patria il 1° maggio 1945”. Chiudeva
con una nota in penna: “Il comando della GNR di Pavia dà il benestare”.
È inutile sottolineare la gravità di questo documento. Lo conservava il
compagno Carlo Rossi ed ebbi modo in seguito, consultando documenti del
68
CNL da noi trattenuti, di rivederlo. Purtroppo con la morte del compagno
Rossi non si è più riusciti a trovarlo.
Ho scritto che i chignolesi nella stragrande maggioranza erano antifascisti; non mancarono però delatori e spie già appartenenti al partito fascista e
qualcuno che invece aderì alla repubblichina di Salò senza esserlo stato prima.
L’attività di questi elementi era conosciuta da tutti e nei giorni della Liberazione qualcuno si consegnò spontaneamente al CNL di Chignolo Po, altri furono presi qualche giorno dopo (compreso il Ferrari Bruno, responsabile della
fucilazione di Annibale Gaudenzi), denunciati e portati alle carceri di Pavia.
Purtroppo non furono giudicati in modo imparziale e rimasero in prigione
solo pochi mesi. Questo fu un altro motivo di delusione per i partigiani e gli
antifascisti.
Altri appartenenti alle forze tedesche e fasciste, catturati nella zona
durante i cruenti giorni della insurrezione, dopo i necessari accertamenti furono giudicati dal CNL. Un ufficiale delle SS, dopo essere stato riconosciuto
colpevole di più delitti, fu condannato a morte e fucilato dai partigiani vicino
al cimitero di Chignolo Po. Altri, dei quali non si poté appurare in modo certo
la colpevolezza, furono portati ai paesi di origine.
Uno era in possesso di documenti da deportato politico nei campi di
concentramento tedeschi. Lo trattammo con molto riguardo e lo facemmo
accompagnare in macchina a Genova, sua città di residenza. Lo consegnarono
al CNL locale. Fu subito processato e condannato a morte. Era anch’egli un
massacratore delle SS italiane.
Vittime della guerra
Volutamente ho cercato di essere sintetico e penso di esserlo stato anche troppo, tralasciando purtroppo fatti che potevano servire a rinfrescare ulteriormente la memoria a chi l’ha troppo labile, a fare comprendere alle nuove generazioni quanti sacrifici e quante lotte sono state necessarie per conquistare
la libertà, maggiore dignità e un ruolo più importante alle classi lavoratrici
nella società. La coscienza mi impone però di non tralasciare completamente
altre cose, se pur non direttamente collegate alla lotta partigiana; fanno parte
del contesto generale della drammatica situazione che la più criminale delle
guerre ha creato, in modo particolare in Europa.
Oltre alle decine di soldati chignolesi morti sui vari fronti di guerra,
altre centinaia sono caduti prigionieri, subendo maltrattamenti e gravi umi69
liazioni, e non tutti ritornarono.
Ancor peggio fu per quelli che vennero presi in diverse circostanze
dai tedeschi, mentre tentavano di raggiungere le loro case, oppure si opposero
con le armi nei giorni che seguirono l’8 settembre. I campi di concentramento
tedeschi dove furono portati erano veri e propri “lager”.
Altri [furono] vittime dei mitragliamenti e dei bombardamenti. L’aviazione alleata infierì anche su inermi cittadini che si trovavano a passare per
strada o a lavorare nei campi.
Ancora morti sui treni passeggeri della linea Pavia-Cremona, bombardati e mitragliati più volte nelle vicinanze di Chignolo40. Non si è mai capito
perché gli alleati infierissero con tanto accanimento il più delle volte contro
obiettivi non militari, anche quando l’Italia si era schierata dalla loro parte41.
È inutile cercare spiegazioni a queste barbarie. Le bombe atomiche lanciate
sul Giappone a guerra ormai finita stanno a dimostrare che nessuna logica e
Il 5 novembre 1944 il Commissario Prefettizio ragguagliò il Capo della Provincia sui bombardamenti subiti dal paese o da suoi abitanti: “Le incursioni aeree sul territorio di Chignolo Po con
lancio di bombe e con mitragliamento si sono iniziate il 24 luglio e sono susseguite il 5 agosto, il
10 e 20 settembre, il 7 e 26 ottobre e il 4 novembre corrente. Nella prima incursione si sono avuti
6 morti per mitragliamento oltre a numerosi feriti, nelle altre incursioni si sono avuti danni ai
ponti della ferrovia; in quello di ieri il ponte di Mariotto è stato completamente demolito; danni
alle case con lesioni di muri, scoperchiamento di tetti, rottura completa di vetri; diverse campagne furono sconvolte per l’esplosione di grosse bombe: danni in complesso notevolissimi. Non
poche famiglie dovettero abbandonare le case, che per essere vicine a centri di presumibile offesa
erano esposte a grave pericolo” (ACCP, cart 19bis, fasc. 12, Lettera del Commissario Prefettizio,
5 novembre 1944).
Il bombardamento del 24 luglio avvenne tra le stazioni di Miradolo e S. Cristina ai danni di un treno di pendolari: morirono i chignolesi Amalia Bosoni di 19 anni, Dionigi Romolo Cerri, Giuseppe
Grossi, Mario Paina, Vincenzo Scotti (ibidem, fasc. 13, 6 febbraio 1945) e Luigi Marini.
Altri bombardamenti si ebbero il 15, 16 e 22 dicembre “causando danni alle case e vittime umane”
(ibidem, fasc. 12, 27 dicembre 1944).
La frazione Lambrinia fu colpita da bombardamento il 20 febbraio 1945; due le vittime, Giuseppe Bovera e Celeste Baroni (ibidem, fasc. 13, 27 febbraio 1945).
Sui bombardamenti della zona di Chignolo Po vi sono riferimenti in: Mario Scala, a cura di,
Bombardamenti di Pavia e Provincia, Ticinum Edizioni, Pavia 1982, pp. 57-58, 169-170, 202;
secondo questa fonte i morti dell’incursione aerea del 24 luglio (ma Scala riporta la data del 26
luglio) furono nove.
41
La storiografia ha ormai documentato che nel corso della seconda guerra mondiale il Bomber
Command degli Alleati, dopo una prima fase in cui puntò alla distruzione degli obiettivi classici
(industrie, scorte di carburante, strutture militari), modificò strategia mirando soprattutto ad
“abbattere il morale della popolazione civile”: la cosiddetta moral bombing (Giovanni Sale, Il
Novecento tra genocidi, paure e speranze, Jaca Book, Milano 2006, pp. 87-117).
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nessuna pietà umana può fermare i signori guerrafondai, impegnati a sperimentare mezzi di distruzione sempre più micidiali.
Ancora un’altra vittima, causata dalla crudeltà che porta una vita umana a morire in un campo di sterminio nazista. Un giovane, Pecchi Giovanni,
mandato a Belgioioso da un certo dott. Meo a prelevargli le sigarette presso
il magazzino del Monopolio di Stato (privilegio che avevano i pezzi grossi
della repubblichina di Salò, infatti questo tizio era il direttore della EICA di
Miradolo), incontrò un gruppo di soldati e ufficiali della Monterosa. Si fermò
e cercò di convincerli ad andare con i partigiani oppure a ritornare alle loro
case. Fu arrestato e consegnato alla GNR di Belgioioso. Di lui non si seppe
più nulla per lungo tempo. Dopo diversi anni, in seguito a ricerche svolte
dall’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati) siamo in grado di sapere
quanto segue:
Pecchi Giovanni, nato a Chignolo Po (PV) il 30 ottobre 1926, operaio renitente. Il 23 luglio 1944 viene arrestato a Belgioioso mentre cerca di convincere
alcuni alpini della Monterosa a passare nelle formazioni partigiane dell’Oltrepò. Dopo una breve prigionia a Genova, a Milano e a Bolzano viene deportato
a Flossenbürg; vi muore in data imprecisata.
Altri chignolesi furono deportati nei campi di sterminio nazisti, ma
per fortuna ritornarono. Il primo a fare questa terribile esperienza fu Giuseppe Risari, originario di Lambrinia. Operaio in una grande fabbrica di Milano,
venne deportato per attività antifascista. Ritornò in condizioni fisiche e psichiche molto precarie. Non riuscì mai a reinserirsi nella vita normale e alcuni
anni dopo si tolse la vita.
Anche Mario Milani tornò dalla detenzione molto provato. I ricordi
di questa triste esperienza lo accompagnarono fino alla morte. Pure il figlio
Franco, catturato dai fascisti a Pavia, assaporò le disavventure di deportato
politico in Germania, ove rimase fino alla fine della guerra.
Un fatto oscuro, rimasto tale fino a oggi, creò sospetti (per nulla fugati)
su alcune persone. Un giovane della classe 1925, Righini Luigi, si presentò
alla chiamata alle armi della sua classe unicamente per evitare l’arresto del padre. Si trovava a Verona con altri giovani di Chignolo. Non gli riuscì di fuggire
durante il primo tentativo messo in atto. Venne subito internato in Germania
ed altri seguirono la stessa sorte. Sta di fatto (e questo fu accertato) che alcuni
giorni prima della fine della guerra era vivo e in buona salute. Al ritorno di
coloro che stavano con lui nessuno seppe dare una spiegazione plausibile alla
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sua morte, anzi le contraddizioni in cui caddero aumentarono il sospetto che
qualcuno avesse interesse a nascondere la verità. Questo creò un certo scalpore nell’opinione pubblica, assopito soltanto col passare degli anni, ma non
dimenticato.
Questi fatti danno ancora una pallida idea del clima esistente durante
l’ultima guerra mondiale; naturalmente chi non ha vissuto quel periodo difficilmente riuscirà a capire fino in fondo il travaglio di quei terribili anni di
guerra.
Considerazioni amare
Avviandomi al termine di questi miei ricordi, scritti al solo scopo di recuperare una piccola ma importante fetta del patrimonio storico dei chignolesi,
spero che questo opuscolo venga apprezzato dai miei concittadini proprio e
solo per questo. Devo dire che mi è costato molto sacrificio, ma l’ho affrontato
molto volentieri, convinto della necessità di dare a coloro che fortunatamente
non vissero quel periodo, e a coloro che verranno dopo di noi, la possibilità di
conoscere anche questo capitolo della storia di Chignolo.
Don Gianfranco Mascheroni con una iniziativa lodevole, scrivendo un
libro molto apprezzabile, ha fatto conoscere a tutti noi le origini storiche e la
storia di Chignolo fino al 192542. Qualcuno doveva pur impegnarsi a colmare
un vuoto inconcepibile per Chignolo.
Chiedo scusa se chiudo con alcune considerazioni amare, non potevo
farne a meno. Ritengo doveroso dire che oltre alla amarezza ed alla delusione
nostra, cioè di coloro che sono scampati alla bufera, per il tipo di società che
ci siamo ritrovati, abbiamo anche rimorso di non aver fatto tutto quello che
forse era possibile fare per realizzare le aspirazioni per cui sono morti tanti
giovani compagni.
Noi possiamo disapprovare, lottare, cercare in qualche modo di opporci a questa società corrotta e ancora troppo ingiusta. Loro no, i fucilati, i morti
torturati nel castello di Cigognola, quelli della Villa Triste a Milano ed in centinaia di luoghi funesti come questi, i caduti in combattimenti, quelli rimasti
sulla via Emilia, tutti i nostri morti insomma, li sentiamo un po’ traditi.
Don Gianfranco Mascheroni, Il Borgo di Chignolo e la Chiesa di S. Maria e Lorenzo, Tipografia Bodoniana, Pavia 1981.
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La scelta della lotta partigiana è stata fatta, nella stragrande maggioranza, liberamente, da persone convinte degli ideali per cui lottare e creare una
diversa società. Lo Stato Repubblicano Italiano non è certo oggi corrispondente al disegno democratico ed alle idealità della Resistenza. Quegli ideali
miravano a creare un nuova realtà basata sull’indipendenza nazionale, sulla
libertà e sull’eguaglianza dei cittadini, sul pluralismo dei partiti e sul funzionamento democratico delle istituzioni, da cui fossero rimosse le situazioni di
privilegio e di corruzione.
Se ci fermiamo un attimo ad esaminare la situazione storica che permise la vittoria della primavera del 1945, dobbiamo riconoscere che essa fu
possibile per l’incontro tra le forze politiche diverse, che unite nel CLN chiamarono il popolo italiano alla lotta per la libertà e l’indipendenza della Patria. Nella Resistenza affluirono però, oltre agli operai ed ai contadini, anche
gruppi delle vecchie classi dirigenti borghesi, che non erano mai state fasciste
o che si erano staccate dal fascismo e passate alla opposizione. Questo era
l’indice della profondità e dell’ampiezza raggiunta dalla Resistenza italiana,
ma era anche la causa dei contrasti e dei limiti della Resistenza stessa, fra
chi, di fronte al crollo del fascismo, si offriva come personale di ricambio con
l’obiettivo di ritornare al regime dell’Italia prefascista e chi invece dalla lotta di
Liberazione voleva fare un Italia rinnovata politicamente e socialmente, nella
quale il popolo potesse partecipare alla direzione della vita del Paese.
La Resistenza non fece mistero di questi suoi programmi e fra i suoi
molti documenti basta ricordarne uno di grande importanza, e cioè la risoluzione del CLNAI del gennaio 1944 approvata all’unanimità da tutti i partecipanti, dal PCI al Partito Liberale:
Non vi sarà posto domani da noi per un regime di reazione mascherata e
neppure per una democrazia zoppa. Il nuovo sistema politico, sociale ed economico, non potrà essere che la democrazia schietta ed effettiva. Nel Governo
di domani, operai, contadini, artigiani, tutte le classi popolari, avranno un peso
determinante, e un posto adeguato a questo peso avranno i partiti che li rappresentano.
La Costituzione italiana ha incorporato nei suoi articoli grande parte di questi concetti, che però, a quasi quarant’anni dalla sua promulgazione, non sono
ancora stati realizzati. L’opposizione delle forze di occupazione alleate prima
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e la rottura del patto costituzionale poi43 hanno ritardato questa attuazione
e la storia di questi anni ci dice che la Repubblica, l’Assemblea Costituente,
l’esercizio dei diritti costituzionali democratici, le autonomie regionali provinciali e comunali, sono oggi realtà che si sono affermate per le lotte del popolo
italiano, cioè, della classe operaia e dei suoi alleati.
Questi desideri di cambiamento sono testimonianze per noi stessi e
per chi nella battaglia perse la vita. Una Italia più giusta, senza sfruttati e
sfruttatori. Una libertà concreta, non solo fatta di parole. Nei momenti di
riposo, oppure di notte, prima di addormentarci, affioravano i discorsi che
ognuno nella propria mente costruiva per il futuro dell’Italia che sarebbe sorta
dalle macerie della dittatura e della guerra fascista.
Il nostro gruppo in particolare, quando operava in pianura con Ermanno e Cavallini, era il più portato a questi discorsi, tanto da essere qualche
volta rimproverato dagli altri: ci vedevano più preoccupati per il futuro che per
il presente. Questo non era vero e anche loro lo sapevano. Qualcuno ci diceva
che eravamo degli inguaribili romantici sognatori. Anche ciò non era vero.
Forse l’inesperienza politica, una conoscenza molto superficiale della democrazia, ci portava un po’ ingenuamente ad un ottimismo esagerato.
Ognuno delineava il tipo di società quasi perfetta che l’Italia avrebbe
dovuto darsi. Le linee fondamentali concordavano, alcune sfumature erano
diverse. Non si pensava alla macchina, alla società dei consumi, perché i problemi erano ben altri. Si pensava alla scuola, ai nostri bambini che dovevano
essere trattati alla pari dei figli dei ricchi (anche se per la verità nei nostri
progetti non ci dovevano più essere ricchi e poveri, ma gente uguale). Pensavamo al lavoro che non doveva essere così massacrante, come lo era allora, più
remunerato e un dovere per tutti. Il diritto di accedere alle Università doveva
essere un diritto di tutti, in modo particolare dei più capaci e volenterosi, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. Il problema della libertà
era prerogativa di tutti, ma anche oggetto di molte disquisizioni. Legata ad
essa per alcuni di noi doveva esserci la convinzione che tutti dovevano fare
il proprio dovere, proprio per creare le condizioni di una libertà sostanziale.
La società nuova doveva dare all’individuo tutto ciò di cui ha bisogno e non
solamente libertà di parola.
Saremo stati, come detto, abbastanza immaturi politicamente e senza
Si tratta della rottura dell’alleanza tra i partiti del CLN, protagonisti della Resistenza, avvenuta
nel maggio 1947 con la formazione del secondo governo presieduto dal democristiano Alcide De
Gasperi: i partiti socialista e comunista furono mandati all’opposizione.
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esperienza perché troppo giovani, ma dobbiamo constatare che a trentotto
anni dalla Liberazione44 la classe operaia, ed i lavoratori in generale, sono costretti a lottare ancora per la conquista di molti di questi diritti sacrosanti.
Il problema più dibattuto però era quello del Governo dei Lavoratori
(così si diceva allora), anche perché eravamo convinti che la vittoria finale
avrebbe portato a questo risultato politico. Qui certamente l’inesperienza e
l’ingenuità dominavano i nostri discorsi. Parlavamo sì di elezioni (non a carattere universale, perché le donne erano del tutto ignorate45), ma doveva il
popolo decidere a priori chi meritava di essere candidato, questo per evitare di
mandare gente al Governo che ci potesse fregare.
Come si vede tutti pensavamo ad un avvenire roseo per l’Italia. Il più
infervorato sostenitore di questi scambi di opinioni era Carlo Porrini, che
però vedeva un mondo, quasi irreale, di gente responsabile, tutti pronti ad
aiutarsi l’uno con l’altro, a vivere collettivamente con quante e quali persone
preferiva, a seconda delle simpatie e delle amicizie. Per lui un vero amico doveva affrontare qualsiasi sacrificio per aiutare l’altro. Le sue non erano soltanto
parole dette in circostanze particolari; chi come me gli è stato amico sa come
si comportava, sa che in quello che diceva non vi era nulla né di retorico né di
falso.
Ecco, questi erano gli ideali che animarono i veri resistenti. Per questi
ognuno di noi era pronto anche a morire, purché si realizzassero. A Liberazione avvenuta piombarono nelle nostre città gli alleati, i cosiddetti liberatori, i
quali ci imposero il disarmo e dopo gli elogi iniziali incominciarono le persecuzioni. Processi, galera, umiliazioni per fatti inerenti alla lotta di Liberazione46.
Tutti sappiamo che l’Italia attuale è ben lontana dall’essere quella che non
soltanto pochi, ma la stragrande maggioranza dei resistenti voleva. Perciò noi
che la Resistenza l’abbiamo fatta con questi intenti, ci sentiamo traditi, sentiamo traditi i nostri compagni caduti, e al tempo stesso ci sentiamo un po’
colpevoli.
Quindi la versione definitiva della precedente edizione risale al 1983.
La contrarietà rispetto al voto delle donne era dovuta al timore che esse sarebbero state fortemente condizionate dalle indicazioni della gerarchia cattolica. I pronunciamenti in tal senso
furono infatti molto espliciti e pesanti (Testimonianza di G. Beccali a E. Ongaro, Chignolo Po
6 marzo 2008).
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La fase dei processi contro i partigiani per episodi tragici legati in particolare alla fase postinsurrezionale e alla mancata consegna delle armi si sviluppò soprattutto dalla fine degli anni
Quaranta. Ma ci furono denunce e processi anche per fatti non di sangue o violenti; ciò capitò
anche a Beccali.
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La lotta non è finita
Chiedo di nuovo scusa per questo sfogo che ritengo legittimo. Non vorrei però
che qualcuno lo interpretasse come la negazione delle scelte fatte a suo tempo,
cioè nel lontano 1943. Tali scelte influirono in modo determinante (malgrado
tutto) a fare di Chignolo uno dei paesi più antifascisti della nostra Provincia
ed a rafforzare spirito e mentalità dei chignolesi, che li fa distinguere per il
senso di ospitalità e di tolleranza nei confronti di chiunque, rompendo con
il campanilismo deteriore causa di tante incomprensioni fra i cittadini della
stessa zona.
Quindi approvo senza riserve tutto ciò che molti di noi hanno fatto e
penso che, se si potesse ripercorrere il cammino della storia individuale, ognuno rifarebbe tale e quale lo stesso percorso. Certo la via della giustizia è molto
più impervia di quanto credevamo, ma vale la pena intraprenderla e lottare
seriamente per la realizzazione di una società migliore che tenga sempre più
conto dei lavoratori, una società in cui i lavoratori stessi possano un giorno
diventare “classe dirigente”.
Sbandati
Ho volutamente lasciato questo capitolo alla fine dei miei ricordi perché penso che le citazioni fatte nel racconto non siano sufficienti a chiarire quello
che oserei definire il “fenomeno” sbandati. A Chignolo poi ha avuto caratteristiche specifiche e riuscì a coinvolgere la quasi totalità della popolazione. Il
“fenomeno” degli sbandati si sviluppò, come ho già avuto modo di dire, dopo
l’otto settembre 1943.
La maggioranza dei giovani che riuscirono a tornare a casa erano decisi a farla finita con la guerra e con il fascismo che l’aveva voluta; purtroppo
la speranza di una rapida soluzione del conflitto andò completamente delusa.
Le truppe alleate sbarcate a sud, vuoi per la tenace resistenza dei tedeschi, vuoi
per calcolo di opportunità politica e militare, impiegarono troppo tempo per
arrivare al nord, dando la possibilità ai fascisti di riorganizzarsi anche militarmente a fianco della Germania di Hitler, animati più che mai dal desiderio di
vendetta. Tentarono pure di rifondare l’esercito italiano richiamando sotto le
armi diverse classi di giovani, ma questo progetto in gran parte fallì.
Non servirono neanche i “Bandi”, che parlavano di fucilazione e di
morte, a cambiare le cose. A proposito di bandi, ecco il testo integrale di due
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di questi. Il primo è un appello pubblicato su tutti i giornali fascisti dell’epoca.
Riportato anche nel primo volume de “La Repubblica di Salò. Storia documenti immagini” di Sergio Bertoli, edito dalla Compagnia Generale Editoriale (p. 52). Logicamente questo appello fu pubblicato alcuni mesi prima,
quando ancora speravano di convincere gli italiani a riprendere le armi a fianco dei tedeschi. Il secondo evidenzia il fallimento quasi totale dei tentativi
fascisti di ricostituire l’esercito italiano; è un vero e proprio bando ed è stato
pubblicato dal giornale del mattino “La Repubblica Fascista” di venerdì 28
aprile 1944:
Soldati Italiani!
Tradendo la Patria e la Costituzione e passando al nemico, Vittorio Emanuele
III ha perso il diritto di chiamarsi re degli italiani, perché ha mancato al più
sacro dei giuramenti. Di conseguenza voi, ufficiali e soldati, siete sciolti dal
giuramento di fedeltà al re. Rimane invece sacra ed intangibile la parola data
alla Patria e al Duce.
Soldati Italiani !
La triste ora del tradimento e della vergogna è passata. Tenete fede al vostro
Duce! Unitevi alle truppe germaniche che lo hanno liberato e con loro difendete la vostra Patria contro i nemici del popolo italiano, contro i nemici
dell’Europa.
Seguite l’esempio di tanti commilitoni. Presentatevi al più vicino Comando
Germanico. Lì sarete accolti con grande cameratismo!
A mezzanotte del 25 maggio [1944] scade il termine di presentazione accordato agli sbandati.
Quartier Generale, 27
La “Gazzetta Ufficiale” ha pubblicato, in data 25 aprile, il decreto del Duce
circa le sanzioni penali a carico di militari e civili unitisi in bande operanti in
danno alle organizzazioni dello Stato, e al tempo stesso stabilisce che coloro i
quali entro il termine di trenta giorni dalla data di pubblicazione del decreto
medesimo si costituiranno volontariamente non saranno sottoposti a procedimenti penali e andranno esenti da qualsiasi pena. Dal 25 aprile sono cominciati a decorrere pertanto i termini del periodo di franchigia che cesserà alle
ore 24 del 25 maggio.
Ad evitare interpretazioni errate si avverte che il decreto non riguarda i richiamati delle classi 1916 e 1917 e di qualunque altra classe che potesse essere
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chiamata o richiamata in avvenire, i quali pertanto hanno l’obbligo di presentarsi secondo le disposizioni contenute nel manifesto di chiamata, perché
diversamente incorreranno nella sanzione prevista dai decreti 18 febbraio e 14
marzo che prevedono, tra l’altro, la pena di morte.
Come ho detto, nonostante tutto, la maggioranza dei richiamati e dei
giovani disertò, nascondendosi nelle campagne, dormendo nelle capanne in
estate, sulle cascine e nelle stalle in inverno. Per questo motivo la gente incominciò a chiamarli sbandati. Si formarono gruppi in ogni rione e frazione
ed ognuno batteva le zone più congeniali. Il nucleo più consistente era quello
del Boscone-Cina. Nei giorni di calma succedeva che l’incrocio di via Bonetti
con Via Rusca pullulava di sbandati e di gente del posto, ma non mancavano
uomini e donne che venivano dal paese. Non uno sbandato fu catturato in
queste circostanze, “radio popolo” funzionava alla perfezione. In caso di pericolo erano sufficienti pochi minuti per avvertire tutti.
Ci furono alcuni tentativi da parte dei fascisti di sorprendere gruppi
di sbandati, ma una sola volta ebbero successo, anche se molto limitato. Avvenne però in aperta campagna, nella zona dei maioli e fu catturato Luigino
Brambati, mentre Carletto Corona, ex maresciallo di marina, riuscì a fuggire.
Il Brambati fu portato a Villanterio nella caserma repubblichina e vi rimase
alcune settimane.
Prima di passare definitivamente alla clandestinità fui con loro per
qualche tempo. Naturalmente ero con quelli del Boscone e devo dire che anche quella vita randagia ci riservava qualche momento felice. Certo avere 20
anni, per quelli della mia generazione, voleva veramente dire gioia di vivere
anche in simili circostanze. L’attenzione della gente, e in particolare delle ragazze della nostra età, era sufficiente a farci dimenticare le amarezze che la
vita ci aveva riservato. Certo la speranza, anzi la certezza, che prima o poi
quella maledetta guerra sarebbe finita ci aiutava a sopportare.
A questo punto voglio ricordare alcuni sbandati che erano diventati
dei personaggi caratteristici del momento. Il più emblematico fra questi fu
sicuramente Luigi Pecchi, detto “cavìg” (purtroppo non è più tra noi). L’idea
di essere ripreso dai fascisti o dai tedeschi lo ossessionava ad un punto tale
che gli faceva assumere atteggiamenti grotteschi. Noi ci divertivamo e bonariamente lo prendevamo in giro.
Caro Luigi, nonostante la paura, la voglia di vivere e di sopravvivere
alla catastrofe della guerra che incombeva sull’Europa e sul mondo ti diede
la forza ed il coraggio di scappare dai tedeschi. Eri stato costretto a presen78
tarti all’inizio del 1944 per evitare guai alla famiglia, ti portarono a Verona
ed eravate abbastanza sorvegliati, però io ero sicuro che non saresti finito in
Germania. Luigi, voglio illudermi ancora una volta di parlarti, come se fossi
ancora qui. Mi torna in mente, mentre scrivo, e mi pare di rivederti al tuo
ritorno a Chignolo dopo la fuga da Verona. Indossavi abiti borghesi di taglia
molto inferiore alla tua, un cappello di paglia in testa ed una forca sulla spalla. Più che un contadino sembravi uno spaventapasseri! Mi viene ancora da
ridere e al tempo stesso mi sento in colpa per averti procurato volutamente
un grosso spavento. Sai, a 20 anni non si riflette molto su quello che si fa.
Eri in casa di tua zia Amalia, sdraiato sul letto cercando di smaltire la fatica
causata dai tantissimi chilometri fatti a piedi. Urlai con tutto il fiato che avevo
in corpo: “Mani in alto!”. Con uno scatto fulmineo, che soltanto tu avevi in
certe circostanze, tentasti di saltare dalla finestra del primo piano. Per fortuna
mi riconoscesti in tempo e frenasti lo slancio. Ci salutammo calorosamente
e, dimentico dello sgarbo ricevuto, mi raccontasti della fuga e dei giovani che
erano scappati con te. Due di questi erano stati raggiunti dalle pallottole tedesche ed erano rimasti uccisi. Questo fatto ti aveva talmente sconvolto che
tutte le volte che lo raccontavi (anche a distanza di molti anni) ti faceva piangere come un bambino. È finita la nostra chiacchierata Luigi, la realtà della
vita purtroppo si impone.
Altri mi vengono in mente. I fratelli Elio e Giovanni Chiereghin; lo
stesso Carlo Porrini; Piero Delfini (detto “il barbiere degli sbandati”); Esterino Moro; Gino Mazzola; Bruno Bovera; Chiesa Renato (che l’8 settembre
si trovava in servizio a Gaeta; scappò e fece tutta la strada a piedi attraverso
le campagne ed i sentieri di montagna, perché erano più sicuri; l’unico indumento che indossava era un paio di mutande); Roberto Gaudenzi, che meriterebbe una citazione particolare: non lo faccio, non so se gli farebbe piacere.
Certamente sarebbe bello fare la storia di ogni sbandato chignolese, i
ricordi e la volontà non mancano. Non so se a tutti farebbe piacere, comunque
spero che questa iniziativa serva a spronare un po’ tutti e creare le condizioni
per ritrovarci e fare, tutti insieme, un pensierino a questo progetto.
Alcuni anni fa sono stato chiamato in alcune scuole della zona a parlare della Resistenza: quando parlavo degli sbandati, alla fine, i ragazzini mi
chiedevano perché non aderirono in massa alle formazioni partigiane. Questa
è la domanda che fanno un po’ tutti coloro con cui mi capita di parlarne. Purtroppo il nostro territorio non era indicato per azioni di guerriglia di massa.
Soltanto gruppi molto contenuti avevano la possibilità di attaccare e scomparire nel più breve tempo possibile.
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Nonostante le difficoltà oggettive esistenti, gli sbandati chignolesi collaboravano in tutti i modi con i partigiani e il CNL di Chignolo Po. Il disarmo delle ronde tedesche e fasciste, istituite dopo l’episodio della bandiera
rossa sul balcone del Municipio, fu possibile anche e soprattutto per la collaborazione degli sbandati che, direttamente o indirettamente furono gli artefici principali. Le ronde venivano aumentate ogni giorno di più proprio per
cercare di fronteggiare un situazione divenuta ormai insostenibile per fascisti
e tedeschi.
Il CNL di Chignolo Po poteva essere informato a priori sulle decisioni
del nemico grazie ai rapporti instaurati dagli sbandati con i militari cecoslovacchi al seguito dei tedeschi. Durante l’invasione della Cecoslovacchia, da
parte delle truppe hitleriane, vennero fatti molti prigionieri. I tedeschi cercarono di integrarli e renderli utili alla loro causa, ma con scarso successo. Molti
di quelli che collaborarono con gli sbandati ed i partigiani furono costretti a
prendere la via della montagna per sottrarsi alle indagini del comando tedesco di Chignolo. Altri lo fecero con lo scopo preciso di combattere contro gli
invasori della loro Patria.
Fu determinante la collaborazione tra sbandati e soldati cecoslovacchi
per il recupero di armi e munizioni che servirono per l’insurrezione del 25
aprile. La direzione di tutte queste azioni, avvenute negli ultimi mesi a Chignolo, era nelle mani dei compagni Pozzi Eugenio e Rossi Carlo, a loro volta
collegati ai vari gruppi di sbandati.
P.S.
Forse qualcuno potrà ricavarne la sensazione che volutamente ho cercato di
dare maggior risalto alla funzione avuta dal PCI, e di avere magari sottaciuto
altrettanto volutamente l’apporto di altri partiti antifascisti. Non è così. Come
ho detto all’inizio, ho mantenuto fede all’impegno di non portare acqua al
mulino di nessuno. Ho descritto fatti, situazioni ed i protagonisti di questi,
nel modo più reale possibile. Il fatto poi che l’unico partito a Chignolo organizzato su basi clandestine, fosse il Partito Comunista Italiano, rende molto
credibile la mia versione.
Ho chiesto al mio amico Emiliano Raggi46 di descrivere in questo opuscolo
i suoi ricordi (anche se labili data la giovanissima età) del periodo della Re-
Emiliano Raggi ha sposato una chignolese; pur abitando a Milano, ha una casa a Chignolo e
ha un forte legame con il paese.
46
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sistenza, e di dare un suo giudizio spassionato. È interessante per me sapere
cosa pensano le generazioni divenute adulte dopo il 1945. Mi sono rivolto a
lui perché viveva fuori dalla realtà chignolese di quel tempo, di conseguenza il
suo giudizio è sicuramente scevro da influenze e condizionamenti locali. Un
secondo motivo che mi ha spinto a rivolgermi ad Emiliano, piuttosto che ad
altri, è il fatto che suo padre fu un antifascista attivo, con compiti particolari
che quasi mai vengono messi in evidenza da chi ha scritto e da chi scrive la
Resistenza. Ha accettato di buon grado e lo ha fatto in modo egregio.
Chignolo Po, 11 luglio 1982
Ho sentito parlare di resistenza da amici che l’hanno inventata giorno per
giorno. Ho letto di grandi scrittori. Forse anch’io, oltre che a viverla nei loro
racconti, ho dato il mio piccolo contributo.
Ho ascoltato i racconti di Gianni, che in molti anni di conoscenza (una
vita può essere per il nostro rapporto) e di stima reciproca, mi ha narrato
molte cose.
Ne ho sentito parlare da Nino (ha una trattoria a Milano in Via Maroncelli). Lui agiva nella zona Val Tidone a Pecorara; faceva parte delle
squadre volanti. La sera, dopo mezzanotte, quando tutti gli avventori se ne
erano andati, ci si radunava con altri, oggi giornalisti di chiara fama, davanti ad una bottiglia di vino e si tirava l’alba.
Ne ho sentito parlare da mio Nonno, che per essere antifascista finì a
Mathausen47. Riuscì a tornare a casa sopravvivendo ancora pochi anni; mi
ricordo i suoi racconti ed una cosa molto bella: un giorno si mise in “smoking” e
si fece fare una fotografia da mettere sulla sua tomba. “Chi ritorna da un lager
- diceva - e crede nella libertà deve essere ricordato come un gran signore”.
Non me ne parlò mai mio Padre, anche se fummo amici, ma di lui ricordo i fatti. Il giorno in cui morì di embolia ancora giovane, trovai tra le “sue
carte” la tessera di iscrizione al PSI del 1943. Non sapevo di questa sua scelta.
Con lui e grazie a lui vissi la mia piccola resistenza.
Nel 1943 avevo cinque anni. Per necessità di sopravvivenza io e mia
madre sfollammo a Luino. Sopra questa cittadina, adagiata sul lago Maggiore, c’è la frontiera con la Svizzera che si chiama Fornasette, e lì prestava servizio Papà, richiamato alle armi allo scoppio della guerra. Avevamo trovato
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Mauthausen. Lager in territorio austriaco.
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alloggio in una villa molto bella, dove noi occupavamo un semi-interrato di
due locali. In uno di questi locali c’era una scala che scendeva in cantina. La
notte, quando mi mettevano a dormire, ed io me ne stavo sveglio per paura
del buio e del rumore degli aeroplani, sentivo degli scalpitii e delle voci sommesse.
Avevo sentito parlare di catacombe, mi era stata data una spiegazione
sommaria, ed io mi immaginavo di essere immerso dove tutti parlano sottovoce, dove ci si nasconde. Le catacombe erano le cantine e l’ingresso era la
nostra abitazione. Lì sotto c’erano partigiani ed ebrei, che avevano necessità
di espatriare in Svizzera: chi per ragioni di sicurezza, chi per continuare la
resistenza oltre confine. Mio padre li faceva passare dai buchi della rete, che
lui conosceva, le notti senza luna, e teneva i contatti con agenti che erano in
Svizzera.
Così per parecchi giorni succedeva che rimanevano nascosti a casa nostra,
dove mia madre cucinava quel poco di cui disponevamo ed io la aiutavo a
portare i piatti nella cantina.
C’erano molte persone delle quali non ricordo i nomi né i volti. I nomi
perché non venivano detti, ed i volti perché c’era sempre solo una candela accesa.
Quando le cose non si sanno non si può nemmeno dirle. Ricordo solo quelle parole sussurrate, e molti che mi prendevano in braccio con qualche singhiozzo…
Queste sensazioni nella mente di un bambino (che non deve assolutamente parlare con nessuno di ciò che succede in casa sua) evocano molti pensieri di eroismi che si concretizzavano nel non dire nulla ai miei piccoli amici, e
nel portarli a giocare proprio nel giardino antistante le cantine. Dove ci sono
dei bambini che giocano, nessuno può pensare che ci sia del “pericolo”.
Un giorno vennero dei fascisti ad arrestare Papà, perché denunciato.
Non trovarono nulla e nessuno, ma lo portarono comunque in prigione. Andò
bene, perché tornò a casa, ma non parlò mai con me delle brutture cui venne
sottoposto, ed a cui senz’altro dovette assistere: ero invero ancora troppo piccolo.
La mia piccola guerra l’ho fatta: partigiano a cinque anni. Non è possibile ma mi piace pensarlo. Avrei dato molto per la “nostra causa”, come do
sempre molto, quando mi viene chiesto.
Senz’altro è perciò che Gianni mi ha chiesto di fare un pensiero sulla
Resistenza, perché Gianni mi conosce. Quella Resistenza che non ho potuto
fare all’epoca in cui era necessario per ridare un volto alla nostra terra, è forse
necessaria ora per dare uno scopo alla nostra vita. Allora c’era l’esaltazione di
combattere un nemico crudele e ben definito, oggi il nemico è ancora peggio... e
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non si vede. Possiamo tutti combatterlo solo essendo onesti con noi stessi, impegnandoci in ogni cosa e non barare con nessuno. I furbi barano, e la furbizia
è l’esaltazione dell’ignoranza.
Quanti furbi incontriamo per strada; cerchiamo di non essere come loro,
ma di fare parte di quei pochi, grazie ai quali, abbiamo una parvenza di
Stato, che, disastrato com’è, ha ancora uomini capaci di tenerlo unito e di dare
una direttiva agli altri. Il carisma del capo non c’è più. Solo l’esempio tacito
può essere un capo riconosciuto ed allora agiamo di conseguenza.
Grazie a Gianni,
Emiliano Raggi
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Gianni Beccali con Angelo Daccò, 1947
Gianni Beccali con il figlio Cesare
e il fornaio Polenghi, 1949
Gianni Beccali con Piero e Antonio Delfini e il figlio Cesare nell’Oltrepò Piacentino, 1954
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Gianni Beccali con i figli Cesare e Paolo
Gianni Beccali, 1958
Roma, Gianni Beccali e Carlo Maiocchi
al funerale di Palmiro Togliatti, 1964
Gianni con la moglie Piera e il figlio Paolo
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Francesco Raffaldi, Carla Maiocchi, Gianni Beccali, Delio Ferrari, Mariella Beccali e Franco Pedrazzini
Gianni Beccali in viaggio in Unione Sovietica
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Il sindaco Gianni Beccali nel municipio di Chignolo Po
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Gianni Beccali con Pietro Scotti presso una sezione elettorale
Delio Ferrari, Emiliano Raggi e Gianni Beccali
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Il sindaco Gianni Beccali nel municipio di Chignolo Po, 1980
Gianni Beccali, Camille Georges e Emiliano Raggi nel municipio di Lione, 1983
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Delio Ferrari, Gianni Beccali, Emiliano Raggi con la moglie Giovanna Ardemagni, Pierre Pelissier,
Lione 1983
Gianni Beccali
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Il sindaco Gianni Beccali commemora il 40° della Liberazione, aprile 1985
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Il sindaco Gianni Beccali inaugura il depuratore di Chignolo Po
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Da sinistra: Gianni Beccali, Giovanna Intropido, Lisòn, Dante Daturi (5°).
In basso: Rossana Lampugnani, Delio Ferrari, Paolo Beccali.
Gianni Beccali in viaggio in Unione Sovietica
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Gianni Beccali
Da destra: Giacomo Bassi, Luigi Albertini, Gianni Beccali, Duccio Castellotti
alla Fiera di Alberone, 2 aprile 1989
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Gianni Beccali con Luigi Curti
Gianni Beccali con il sindaco di Chignolo Po, Antonio Bonati a Marzabotto, settembre 2006
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Gianni Beccali, la moglie Piera e Delio Ferrari
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Castiglione d’Adda, Beccali con gli studenti della Scuola Media, aprile 2007
S. Colombano al Lambro, Gianni con Ercole Ongaro e Angelo Golzi, 25 aprile 2007
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Gianni Beccali con il sindaco Antonio Bonati, Chignolo Po, 25 aprile 2006
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Intervista a Gianni Beccali
a cura di Ercole Ongaro
Chignolo Po 12 gennaio 2007 1
Siamo a Chignolo Po, in casa di Gianni Beccali, che è nato a Chignolo il 21
aprile 1924. I tuoi genitori che lavoro facevano, tuo padre…
Mio padre faceva il carrettiere ed aveva due piccoli pezzetti di terreno e li
lavorava, ma il suo lavoro era il carrettiere.
E in che cosa consisteva fare il carrettiere negli anni Venti a Chignolo?
Consisteva nel trasportare le merci, anche le persone, ma più che altro le merci
da un paese all’altro. Mio padre per esempio andava a comprare la legna nella
bassa pavese e andava a fare piazza a Sant’Angelo, la vendeva a Sant’Angelo,
là c’erano i mediatori che andavano a vedere dai vari clienti.
E oltre la legna quali altri generi trasportava?
Ma anche traslochi…
Traslochi di contadini?
Traslochi in generale. Ne ha fatto uno a Genova, uno a Milano…
Anche su grandi distanze!
Sì, a Zavattarello. Qui ci abitava il maestro Renzo Bianchi, maestro di musica
che ha scritto anche delle opere, la “Proserpina” e alcune altre. D’estate andava
a Zavattarello a fare campagna. Zavattarello è a 600, 700 metri di altitudine.
Mio padre portava là certi mobili e poi li andava a prendere.
E tua mamma?
Mia mamma era casalinga e poi è morta che io avevo 9 anni.
È morta molto presto, ma di che cosa?
Allora si diceva mal di cuore.
Quindi un disturbo cardiaco.
Sì.
Ma legato a qualche evento, a qualche grossa disgrazia, dispiacere…
No, no… si era sposata che già l’aveva.
L’intervista è stata videoripresa da Giancarlo Volpari ed è conservata presso l’archivio dell’ILSRECO, Lodi.
1
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E quanti figli hanno avuto i tuoi genitori?
Tre. Il primo è stato ucciso dai fascisti.
Come si chiamava?
Cesare.
Di che anno è?
Lui è del ’22.
Il secondo?
Il secondo sono io, del ’24. Il terzo Luigi, del ‘ 28, è morto.
Quando è morto?
Da una decina di anni.
Invece Cesare è morto durante la guerra, ne parliamo dopo. Tuo padre aveva dei suoi convincimenti politici, che manifestava in famiglia?
Prima in famiglia non ha mai manifestato niente. Sì qualche volta quando
si parlava di un mio zio, il fratello di mia mamma che abitava a Miradolo e
che è dovuto scappare in Francia, è stato un fuoriuscito, perché lo cercavano
i fascisti. Ecco.
Dopo la “marcia su Roma” è fuggito in Francia?
Sì.
Come si chiamava questo zio?
Marchini Angelo, era nei carabinieri allora, in caserma qui a Chignolo.
Ed era fratello di tua mamma.
Era fratello di mia mamma, sì.
Tua mamma come si chiamava?
Giulia, Marchini Giulia.
E tuo papà invece?
Paolo.
Quindi vere e proprie manifestazioni di coscienza politica non ne avevi
colte in famiglia…
No, in famiglia no, non troppo. Un po’ cominciando dal 25 luglio in avanti…
E la scuola dove l’hai fatta?
Qui a Chignolo.
Com’era il clima nella scuola elementare a quel tempo?
Balilla, piccole italiane, giovani fascisti, avanguardisti e…
E quindi anche tu hai dovuto fare la trafila?
Non ho fatto il pre-militare.
Però hai fatto il balilla e così…
Eh, ma io non avevo mai la divisa da mettere, perché mio padre non me la
comprava…
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Questa era una manifestazione di coscienza politica, allora…
Sì, ma lui non mi ha fatto capire che lo faceva perché…, niente!
Perché non aveva i soldi…
Ecco.
Ma il vostro standard di vita com’era alla fine degli anni Venti, quando tu
eri bambino e dopo la morte di tua mamma?
Beh insomma, erano anni abbastanza duri.
Ma eravate un famiglia povera o una famiglia che se la cavava discretamente?
Proprio povera no, ma ce la cavavamo proprio appena, appena, appena.
E dopo la morte di tua mamma, chi si è occupato di voi tre bambini?
Mio padre si è risposato…
Ah si è risposato…
Si è risposato, comunque io a undici anni sono andato a Milano a fare il garzone panettiere… a undici anni.
Come facevi il viaggio a 11 anni tra Chignolo e Milano?
Si stava là.
Ah, andavi e stavi.
Si dormiva là, ti mettevano sull’abbaino, tutti i garzoni.
Era un grosso panificio?
Il primo che sono andato era abbastanza grosso, un certo Grignani e faceva
sui quattro, cinque quintali di farina. Era un bel panificio, in Corso Italia al
29.
E quanti dipendenti eravate?
Due, quattro, sei…. sette operai.
Sette operai, e a che ora iniziava il tuo lavoro?
Io, quando sono stato lì, mi alzavo sempre alle 6 del mattino. Dovevi prepararti il pane, perché lo si vendeva a numero. C’era la gerla, poi c’era sopra un
cestino così [indica con le mani], con tutto il pane numerato che costava un
tanto a panino. E quello nella gerla sotto, c’erano i sacchetti, chi mezzo chilo,
chi un chilo…
Sacchetti dei clienti…
Sacchetti dei clienti.
Quindi tu facevi il garzone che portava il pane fuori dalla bottega…
Poi sono andato in un altro panificio, ancora un Grignani anche quello, era
qui di Inverno, un fascista, serviva la Caproni, le fabbriche di Milano, il panificio comunale lo gestiva lui praticamente. Lì c’erano una quindicina o venti
operai, delle attrezzature abbastanza moderne: in modo particolare il forno,
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che non si infornava con la paletta ma c’erano delle cinghie…
Delle cinghie di trasmissione…
Con la tela sopra, che lo portava direttamente nel forno. C’era una compagnia
di santangiolini a lavorare.
Ti sentivi quasi a casa…
Quando prendevano la paga, la mensilità…. [di soldi] ne prendevano pochi,
perché se li facevano dare in anticipo, no? Poi quando prendevano il mese,
invece di venire a lavorare, non venivano… andavano…
Andavano in osteria?
Andavano in osteria. Allora chiamavano i garzoni. Andavamo giù, noi eravamo in una soffitta a dormire. Una volta mi hanno chiamato che ero ancora su
sul tetto, che ascoltavo un concerto di un tenore. Perché c’era quell’abitudine
lì, specialmente in periferia, dove c’erano delle trattorie che lavoravano tanto e
c’erano dei rioni lì intorno alla trattoria, venivano dei cantanti e c’era un pianoforte e facevano dei concerti. Noi andavamo su dal lucernario e stavamo sul
tetto, eravamo al quinto piano, e stavamo lì a sentire cantare.
Ma in che via eravate?
Qui ero in Corso Lodi. Allora era Corso 28 Ottobre. Quasi in Piazzale Corvetto.
Della guerra in Etiopia, ricordi qualche cosa?
Ero a Milano, quando hanno dichiarato guerra all’Etiopia.
Ma tra voi operai parlavate?
Ecco, ecco, è stato in quel momento lì che abbiamo incominciato a parlare.
C’erano due compagni di lavoro, di quelli già avanti con l’età, sui quarantacinquant’anni, e nei periodi di pausa che venivano fuori ogni tanto, si è incominciato a parlare di politica. Io non sapevo neanche cosa fosse, perché non si
sapeva cos’era la politica con il fascismo, perché loro non dicevano mai niente.
Abbiamo incominciato a sapere qualche cosa in più…
Di quello che c’era prima del fascismo…
Sapere un po’ qual era la visione del mondo, sapere il mondo com’era governato e sapere pressappoco…
Questi due compagni erano orientati politicamente? Erano per un partito?
Uno era un compagno iscritto al PCI, l’altro era più a sinistra, come si chiamano?
Era un anarchico?
Sì, un anarchico.
I loro nomi te li ricordi?
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Dunque, l’anarchico si chiamava Dino, non so neanche di dove era. L’altro
invece era Giacomo. Era uno originario di Chignolo, era un Pozzi. Questo
qui era un compagno; sono venuto a saperlo dopo la Liberazione che in quel
momento là era già iscritto al Partito comunista.
Con loro hai iniziato a prendere coscienza.
Poi ho cambiato posti di lavoro. Li ho cambiati abbastanza di frequente…
Restando sempre panettiere?
Restando sempre panettiere e poi… man mano… era proprio un modo di
essere dei panettieri, o anarchici o comunisti o socialisti.
Quindi tra i panettieri c’era una forte coscienza politica?
Sì, avevano una forte coscienza politica per quel momento là, però dopo, dopo
la guerra, almeno Giacomo era rimasto un estremista.
Un anarchico?
No, lui era comunista, iscritto al partito, ma era su posizioni estremiste.
E durante la guerra tu sei rimasto a Milano a lavorare?
Allora…
Nei primi anni di guerra…
Nei primi anni di guerra, via da Corso Lodi, sono andato…, è un’esperienza
che ho fatto, in Corso di Porta Nuova al 7, c’era l’istituto Leone XIII dei gesuiti… adesso l’hanno spostato. È stato un bene che non fossi stato là, perché
è stato bombardato. Quindici giorni prima che bombardassero l’istituto, ero
venuto a casa.
E sei rimasto poi a Chignolo?
E sono rimasto a Chignolo.
E a Chignolo la situazione com’era, come l’hai trovata?
A Chignolo pressappoco era come quando sono venuto via, tranne che era
arrivato qualche elemento da Milano, che erano sfollati…
Erano arrivati molti sfollati a partire dal ’42?
Sì, moltissimi. Ho incominciato a conoscere Pozzi Eugenio, che era un compagno, e poi però il più quotato si chiamava Callegari Cesare, anche lui era
di origine chignolese, sua mamma era di Chignolo Po. Questo era già dentro
nella clandestinità e portavamo a lui. Infatti noi andavamo a fare i traslochi
con uno qui di Chignolo, tal Cavallini che aveva il camion. Abbiamo saputo
che lui aveva già portato a casa, che poi portò nell’Oltrepò, dei cassoni, tramite
il corriere, con delle armi. Allora abbiamo preso contatto con lui e abbiamo
incominciato a formare un gruppo…
Questo è prima o dopo il 25 luglio del ’43?
Prima, prima.
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E c’era già tutta questa attività di collegamenti clandestini?
Quello del trasporto delle armi è avvenuto dopo, ma i contatti erano già avvenuti prima…
Quindi quando è caduto Mussolini la prima volta, il 25 luglio del ’43, voi
eravate già un gruppo, già collegati. Cosa è avvenuto a Chignolo?
Un gruppo, prendete il sottoscritto, il figlio di un falegname, altre sette, otto
persone: siamo entrati nel salone dell’ex Società operaia, quello che aveva preso la GIL, ed abbiamo portato fuori tutto quello che erano i quadri di Mussolini, e tutta la rappresentazione che c’era del fascismo.
I simboli del fascismo.
Li abbiamo levati e li abbiamo bruciati.
E c’era popolazione che assisteva?
Sì, dopo è venuto un sacco di gente. Il guaio è che c’è stato qualcuno che ha
parlato, e ai Carabinieri ha fatto il nome di Giuseppe Pizzoni, di Pozzi Giovanni; li hanno chiamati in caserma e li hanno picchiati. Gli altri no.
E durante questo periodo cosiddetto dei 45 giorni di Badoglio, avete avuto
qualche altro importante evento?
Uno importantissimo, l’incontro con Pettinari, dove abbiamo aderito al PCI.
Quando è avvenuto questo, ti ricordi il giorno?
Guarda, guarda sul libro che c’è.
Allora è l’appuntamento del 13 agosto, è questo?
Sì. È venuto Pettinari…
Ed era solo o con qualcun altro?
Da solo, era solo.
Come ricordi questo incontro?
Lui era venuto in bicicletta a San Colombano. A San Colombano era andato
da…
Anna Passaglia?
Anna Passaglia. Io avevo detto ad Anna dove ci saremmo trovati per l’incontro. Dietro il Castello, dalla parte della “Gariga”2.
Verso la collina…
Sì, verso la collina, ma proprio lì appena fuori dalle mura del Castello, e ci
siamo trovati, è venuto con cinque lire di carta, metà l’uno e metà l’altro, li
abbiamo messi insieme…
E vi siete riconosciuti!
Abbiamo acceso un fiammifero e ci siamo riconosciuti. E allora abbiamo co2
Colatore Nerone Guarniga (Gariga).
104
minciato a parlare.
Ma lui vi ha detto il nome? Lui vi ha detto come si chiamava?
No, no, no. Lui aveva il nome di battaglia, noi sapevamo il suo nome di battaglia, ma adesso non me lo ricordo più però.
Cosa è uscito da questo incontro.
Niente, dopo questo incontro abbiamo avuto più rapporti…
Con il centro del partito…
Con il centro del partito, con il Lodigiano, perché noi, qui siamo una zona
di confine. C’è Piacenza, Lodi, Milano. Ma noi eravamo più portati ad avere
contatti con il Lodigiano.
Quindi tu conoscevi già Anna Passaglia, ma da quando?
Da poco, da poco.
Come eri arrivato a lei?
C’è stato un incontro con alcuni di Borghetto, tra i quali c’era “Luisìn”/Luigi
Curti, e attraverso Luigi Curti sono andato con lui da Anna. Dopo ci sono
ritornato perché…
C’era questa vostra esigenza di ufficializzare un incontro con il partito. Insieme a te, a questo incontro con Pettinari, chi c’era?
C’era Porrini Carlo, che è morto. C’era… Pozzi Eugenio e c’era questo Callegari Cesare, quello di Milano che era qui (un ex maggiore della marina). C’era
anche un ragazzo che è morto tanti, tanti anni fa, che era il nipote di quel
Pozzi che avevo conosciuto a Milano e che era iscritto al partito comunista,
“Pusìn”.
L’8 settembre poi?
L’8 settembre è stata una data che ci ha visti impegnati in modo fenomenale.
A fare che cosa?
Qui da Piacenza scappavano tutti i militari…
I militari, già…, c’erano molte migliaia di militari a Piacenza?
Sì. E attraversavano quelli che abitavano da queste parti, e anche [quelli che
abitavano] in Piemonte. Passavano tutti qui da noi, per cui c’era da trovargli i
vestiti, accompagnarli fino a posti sicuri per non farli…
Catturare…
Catturare dai tedeschi. Perché c’erano molti tedeschi in giro. Poi qui c’era un
campo di concentramento di prigionieri…
Alleati?
Inglesi. Erano tutti inglesi.
Era proprio a Chignolo questo campo?
Sì, sì, a Chignolo, in centro. Quelli che c’erano a curarli, a far la guardia, sono
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scappati, e loro sono scappati anche loro.
Erano presso un’azienda agraria o…?
No, erano proprio lì. C’era una specie di campo di concentramento…
Un recinto…
Un recinto spinato, erano lì. Al mattino li portavano nelle aziende agricole,
quelle grosse, 10, 15, 20 a lavorare… da Salvi, al “Corìn”, all’”America”.
Ma quanti erano questi prigionieri?
Un centinaio. Tanti che abitavano dalle nostre parti li abbiamo accompagnati
quasi fino a casa… Questi inglesi, invece volevano tutti…
Andare in Svizzera.
“Partisan, Partisan, Partisan” o Svizzera. Fatto sta che ne sono rimasti quattro
qui a Chignolo.
Tutti gli altri sono partiti.
Chi da una parte, chi dall’altra…
Aiutati da voi…
Aiutati da noi se ne sono andati. Questi quattro, a un certo punto c’è stata
una soffiata che han fatto a noi, che il segretario del fascio della Repubblica
sociale, che abitava alla “Casottina”, Ramelli... era lo zio di quel Ramelli che
hanno ammazzato a Milano3. Ti ricordi, no?
Sì, nel ‘75-‘76 .
Nel ‘75-‘76, sì. E lo sapeva che c’erano qui i prigionieri inglesi e ha detto
che avrebbe fatto arrivare, un camion di GNR, di repubblichini da Pavia, e
li avrebbe catturati. Allora noi, questo qui di Milano, Cesare, è andato subito
su a Milano, e la mattina successiva siamo partiti con loro con la corriera.
Li abbiamo accompagnati in Svizzera. Loro li hanno accolti. Noi volevamo
fermarci in Svizzera, magari per poco, ma non c’è stato niente da fare. Non ci
hanno voluto.
Non vi hanno lasciati entrare?
No, no, no.
Ma dove eravate saliti? A Como e poi?
Se te lo dovessi dire adesso, non so più…
Non lo ricordi. Ma siete andati in montagna?
Abbiamo fatto tanta strada a piedi…
Sergio Ramelli, diciannovenne studente milanese dell’Itis “Molinari”, iscritto al Fronte della
Gioventù, fu aggredito nel marzo 1975 da esponenti di un gruppo della sinistra extraparlamentare e morì il 29 aprile 1975.
3
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Ma in montagna?
In montagna, sì, sì. In montagna.
Uno dei passaggi era per Moltrasio. Si saliva la montagna per Moltrasio.
Io non ricordo i paesi che abbiamo attraversato, perché l’ho fatto, l’abbiamo fatto un’altra volta che abbiamo portato via degli ebrei che c’erano qui a
Chignolo, però siamo saliti da un’altra parte e in quell’occasione è venuta una
guida.
Ad accompagnarvi?
A prenderci e ad accompagnarci.
Questi ebrei da dove venivano?
Sfollati da Milano. Però non lo so se erano sfollati da Milano o da dove, perché noi non l’abbiamo chiesto.
Presso chi erano nascosti qui?
Erano nelle case di Milani; lui, il padrone di queste case qui, era a Mathausen, e loro erano in una casa sua. Ormai tutti parlavano in paese di ebrei, di
ebrei….
E quindi li avete fatti partire.
E quindi li abbiamo fatti partire.
Tu che immagine hai dei tedeschi a Chignolo? Come si materializzano i
tedeschi occupanti a Chignolo?
Ma, vedi… a Chignolo i tedeschi non c’erano. C’erano un sacco di cecoslovacchi. Moltissimi. Sono venuti in due o tre riprese. I primi che son venuti
erano tutti gardisti, coloro che avevano aderito volontariamente ad andare
con l’esercito nazista, quelli che son venuti dopo invece erano tutta gente che
avevano rastrellato e che hanno portato di qua. Gli è costata un po’ cara anche
portarli di qua, perché dopo quando siamo andati in montagna ne abbiamo
fatti venire su parecchi di questi qua.
Quindi erano poco convinti del servizio che facevano.
Senz’altro.
E quando tu sei stato chiamato alle armi?
Io mi hanno preso una notte da Polenghi, che era il panificio presso cui lavoravo e dormivo.
Qui a Chignolo!
Son venuti una notte, adesso non ricordo più, ai primi di gennaio del ’44.
Erano già tutti quelli della Monterosa, alpini, che erano stati a fare l’istruzione in Germania, convinti che questi poi venissero a fare i rastrellamenti dei
partigiani. Alcuni l’hanno fatto, molti altri, tornati in Italia, sono scappati, son
venuti con noi o son andati a casa. Poi abbiamo avuto due di questi che sono
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andati… uno che non era per niente fascista.
Ma quando c’è questo setacciamento del paese da parte della Monterosa,
vengono presi degli sbandati?
Ne hanno presi 14 o 15. E sono stato preso anch’io. Mi hanno portato lì avanti, c’era un’osteria, l’osteria di “Tri gradìn”, e loro erano tutti lì. Qui vicino al
chiesino c’era una mitraglia piazzata e io ero a letto che dormivo. Prima sono
venuti a casa dei miei, in quella casa di lì, dove abitavo prima, in via Rusca.
Mio padre [ha detto]: “Non è a casa”.
Loro avevano preso la guardia comunale, Carletto la guardia, con i nomi di
tutti quelli del ’24, del ’25, quelli che dovevano presentarsi alle armi. Io per
combinazione a diciassette anni avevo fatto la domanda di andare in Marina,
sono andato alla visita a Venezia e non mi hanno preso, perché ho questa
mano qui [mostra la mano sinistra con due dita anchilosate], queste dita che mi
son tagliato mentre tagliavo il frumento.
Da bambino?
A quattordici anni. E non mi hanno preso [in Marina], ma non mi hanno
mandato nessun avviso di presentarmi, né niente. Allora avevo ancora la carta
che mi aveva mandato la Marina…
Di rinvio.
Sì, e allora mi hanno fatto accompagnare a casa. Mi hanno detto: “Guarda che
se non ti presenti quando sarai chiamato, porteremo via i tuoi genitori”. Allora, ci siamo presentati quando ci han chiamato, eravamo in tanti di Chignolo
e siamo andati a Pavia.
Da Pavia siamo arrivati dopo tante ore a Milano, e poi a Novara. A Novara
c’era una caserma con paglia sporca, pidocchi dappertutto. La mattina io e tre
di Voghera, siamo saltati giù dal secondo piano.
Dal secondo piano siete saltati… e siete scappati?
Siamo scappati. Abbiamo scavalcato la mura e siamo scappati. Uno di Voghera si era storto il piede e non riusciva ad arrivare, allora siamo andati sul
treno, ho pagato tutti i biglietti. Da Milano sono andato da mia zia alla sera e
il giorno dopo ho preso la corriera e sono tornato a casa.
Non mi hanno preso più.
A quel punto sei entrato in clandestinità?
Sì a quel punto sono entrato in clandestinità.
Dopo di che sono incominciati i contatti per costituire un distaccamento
partigiano?
Hanno incominciato a farsi vivi dalle nostre parti gli Ermanno e i Cavallini.
Ermanno Monti e “Cavallini”, che è Giovanni De Vecchi di Zorlesco.
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Monti di dov’era?
Monti era nato in colonia, adesso non ricordo più se in Libia.
In Libia. Invece qui, come paese, dove abitava?
Lui era a Milano. C’era lui, poi c’era “Luisìn”, c’era un altro di Livraga che si
chiamava Cobianchi.
E tu ti sei aggregato a loro.
Noi eravamo in quattro e ci siamo aggregati a loro.
Chi eravate?
Io, Porrini, Vitti Giovanni “Canèla”, e poi non ricordo più, perché poi ne sono
venuti su altri. Perché quando siamo andati con loro, abbiamo fatto un distaccamento qui in collina, a Valle Bissera.
In Valbissera?
Abbiamo fatto un distaccamento qui in collina, in Valbissera. C’era questo
grande palazzo del Seminario di Pavia e siamo rimasti lì 15 giorni e son venuti su un sacco di Chignolo, non so come hanno fatto a saperlo, ma comunque
sono venuti su. Dopo 15 giorni hanno tentato di prendere Luisìn a San Colombano, lui ha tirato fuori la pistola, ha fatto cilecca la pistola, ma è scappato
lo stesso.
Poi dove è andato?
Lui è venuto su in collina, ma l’oste dove erano dentro, ci ha fatto sapere che
i fascisti parlavano e sapevano che eravamo su in Valbissera e ci ha detto:
“Cercate di non farvi trovare”. Ho tralasciato un fatto che interessa in modo
particolare…
Raccontalo allora…
Luigi Curti, “Luisìn”, quando eravamo nei pressi di Chignolo, alla Cascina
“Gera”, eravamo accampati lì nei boschi, e lui è venuto su in paese, perché
doveva andare da Arturo Albanesi, che era un ciclista meccanico, doveva andare a ritirare qualche cosa, non lo so. È entrato, ed appena entrato, c’era un
carabiniere di Chignolo, che l’8 settembre era scappato, l’hanno aiutato tutti
e lui è andato nella “repubblica”, era vestito da repubblichino, “mani in alto”
e Luisìn, che era, è un uomo di un coraggio e una decisione non comune,
straordinarie, gli ha dato un pugno e l’ha buttato su un bancale che c’era là, e
poi è scappato.
È scappato fuori nel cortile, c’era una macchina e si è nascosto sotto. Il repubblichino è andato fuori anche lui e girava un po’ cercandolo. A un certo punto,
vuoi o non vuoi, vicino alla macchina è andato un cagnolino, ha visto “Luisìn”
che era sotto alla macchina e si è messo ad abbaiare. A quel punto il repubblichino si è accorto che era là. Gli ha intimato: “Vieni fuori, mani in alto…”,
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non ha fatto in tempo a dirlo che “Luisìn” gli era addosso e l’aveva già buttato
per terra, gli ha mollato quattro, cinque pugni ben assestati, poi ha preso la
bicicletta ed è scappato su, e loro dietro. Perché non era solo, lì vicino c’era…
C’erano altri repubblichini.
Lì vicino c’era l’osteria, un bar “da Sgaròn”, erano lì e gli sono andati dietro con
la macchina. Lui quando è stato a metà paese, c’era una strada di campagna,
quella che andava giù alla “Gera”, è andato giù di lì, e addio non l’hanno preso
più.
Era riuscito anche quella volta a sfuggire.
Sì…
Grande il Luisìn!
Ma non è finita …
In che senso?
Non è finita, perché mentre lui correva e andava giù alla “Gera”, c’erano “Cavallini” e gli altri che venivano incontro, perché non era ancora ritornato; lui
ha raccontato… ed allora loro… via in bicicletta, sono venuti in paese; la macchina dei fascisti che era ritornata quasi vicino al Castello, in un posto che noi
chiamiamo il San Rocco, ma erano ancora sulla via Garibaldi, la strada è diritta, e allora [i partigiani] hanno incominciato a sparare nelle gomme alla macchina, ma era una macchina grossa, un camioncino. C’ero anch’io quello volta
lì… Intanto che noi sparavamo, loro sono scappati, c’era di fronte un’osteria
da “Durigón”, sono scappati dentro lì e si sono asserragliati e sparavano dalle
finestre e noi non andavamo via, “dovete venir fuori!”. Poi mentre pensavamo
che stavamo tirando alla lunga e che poteva essere che ne venissero altri in
rinforzo, e quindi pensavamo di girare dietro gli orti per prenderli di sorpresa,
è arrivato un camion da Pavia, carico [di fascisti] che si son messi a sparare in
piazza, e son venuti lì.
E quindi voi vi siete ritirati.
Eh, per forza!
Ma in questi mesi estivi la brigata è aumentata molto di numero?
Sì, ma però, il fatto di non avere un distaccamento fisso, una base, non eri mai
in grado di sapere in quanti eravamo.
Eravate un bel gruppo, ma non mai insieme tutti.
Non stavamo mai insieme tutti, sì. Ecco siamo stati insieme un po’ quando
eravamo in Valbissera.
Quando è incominciata la situazione di perdite da parte vostra? L’autunno
e l’inverno sono stati tragici per la vostra brigata.
Dunque, vuoi che ti racconti un’altra di Luisìn? Quando l’hanno preso, lui
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abita in una cascina, a Prevede, i fascisti sono andati, lui era nascosto sulla
cascina4 a dormire e l’hanno preso. L’han preso e a piedi passano davanti al
cortile di Cècu5, un altro partigiano (non ricordo più la parentela) che stava
lì alla Barlassina, una frazione di Borghetto, ed allora Luisìn domanda ai fascisti: “Non andate a prendere Cecchino?”. Loro domandano: “Ma è a casa?”.
“Sì” risponde Luisìn. In realtà lui sapeva che non c’era. Sono andati dentro e
hanno lasciato fuori uno a fargli da guardia. Quando sono usciti, hanno trovato il loro camerata tutto pestato pieno di polvere…
E Luisìn non c’era più! Allora arriviamo al drammatico autunno del ’44.
Innanzi tutto c’è stato come primo episodio la cattura di Biancardi e di
Sigi, nel Basso Lodigiano, no? Intorno al 20 di ottobre, forse.
Sì, Biancardi, l’era un po’ un sacramènt…
Erano due i Biancardi, i fratelli Biancardi?
No, no i Biancardi, adesso mi sbaglio, Cobianchi…
No, stavo parlando di Biancardi…
I Biancardi li hanno presi…
Prima hanno preso uno, credo…
Prima hanno preso Piero, e poi hanno preso Paolìn. Paolo era più magro,
alto.
Paolo è stato ferito, no?
Sì.
E poi muore poco dopo in ospedale.
Invece Piero l’è stat füsilàt.
Viene fucilato dopo, sì.
Noi siamo andati poi…
Cioè dopo la cattura di Piero ed il ferimento di Paolo, c’è il vostro attacco a
Camporinaldo del 28 ottobre del ’44.
Stavo arrivando qui. Il 28 ottobre, noi stavamo alla cascina Contrada, e dormivamo lì nelle stalle e nelle cascine. È venuto uno di San Colombano, di
Campagna, un certo Pasetti, che poi è stato ucciso anche lui, veniva da Romagnese.
È venuto e che cosa vi ha detto?
Ci ha detto che c’era da fare un’azione sulla Pavia-Cremona, e ci chiedevano
di dare una mano, diversamente avrebbe dovuto far venir giù… “Non sappiamo quanti sono, possono essere 2 , 3, 4 o 5, e poi c’è il problema che c’è una
4
5
Fienile.
Francesco Bellinzona.
111
macchina che proprio a quell’ora passa su quella strada con dei graduati, ci
devono essere i piani del famoso rastrellamento”. Non credevo a questa cosa,
perché il rastrellamento è poi iniziato il 23 novembre.
Non credi che un mese prima avessero già i piani, è questo che vuoi dire?
No, non credo che i santangiolini, perché c’erano anche loro, siano venuti per
la macchina di questi graduati. Fatto sta che noi, siamo andati con Pasetti, io
ho portato via la bicicletta a Bianchini, un salariato che c’era lì al Quaino, altri
tre sono venuti sempre in bicicletta, da un’altra parte, passando il Po vicino a
Pieve Porto Morrone.
Tre partigiani.
Sì, tre partigiani. Ci siamo trovati, ci siamo presentati. Un momento dopo
vedo due che vengono avanti con una pistola, erano due repubblichini.
Sulla strada…
Sulla strada, “mani in alto, mani in alto”… Io ho cercato di tirar fuori la pistola
che era inceppata qui nel maglione, uno ha visto ed ha avvisato “guarda che ha
una pistola!”. Intanto uno di Sant’Angelo, Boccadoro, insieme a Porrini, hanno fatto in tempo a tirar fuori la pistola e l’hanno ucciso, là nel fossato. L’altro
è scappato, ho cercato di rincorrerlo, ma sulla strada c’erano delle macchine e
sulle macchine c’erano i fascisti, al 50% c’erano loro. Allora, abbiamo preso le
biciclette e siamo scappati. Il fascista è rimasto là nel fosso morto. Noi siamo
arrivati qui vicino a Chignolo, dove c’è una strada che va su alle Coste di San
Colombano, abbiamo attraversato la collina e siamo arrivati alla cascina Contrada. Il fatto è che ci ha visto un sacco di gente a Camporinaldo, gente che
c’era in campagna ci ha conosciuti. Abbiamo pensato, se adesso quelli parlano
siamo abbastanza in pericolo. Questo ragionamento lo facevano “Cavallini”
ed Ermanno, ed allora han detto: “È meglio che andate su in montagna”. Ci
hanno convinto e siamo andati in montagna.
E siete andati dove?
A Romagnese.
Che brigata c’era lì?
La 6a brigata “Giustizia e Libertà”.
E siete entrati in questa brigata?
Sì, entrammo in questa brigata. Eravamo io, Porrini, Boccadoro, uno di Lodi,
Mario, di cui non ricordo il cognome, Bruno Dalcerri, quello che hanno ucciso insieme a Porrini. Poi abbiamo trovato lì a Villa Pelli, prima di arrivare su
a Genepreto, come distaccamento, Stancièt di San Colombano, [soprannome
di] Anselmi, il meccanico, ed altri ancora di San Colombano.
Siete rimasti in rapporto con i vostri ex-compagni di pianura?
112
Sì, sì. Con Ermanno, “Cavallini”. Man mano venivamo giù noi, con i volantini
e via di seguito. Una volta siamo venuti giù poco prima del rastrellamento.
A Lambrinia, abbiam detto “vediamo se troviamo (sapevamo un po’ di posti) la 167a”, non sapevamo se c’erano ancora “Cavallini” ed Ermanno. Siamo
venuti lì, a Lambrinia, e proprio nel momento in cui noi arrivavamo, hanno
preso prigioniero un repubblichino che c’era a Badia. Erano andati lì in due
[repubblichini], perché alcuni non si erano presentati alla Tot a scavare, a fare
i lavori pubblici; loro erano lì in osteria, li hanno visti e uno l’hanno preso,
l’altro è scappato, tornato a Chignolo ha telefonato. In seguito a ciò [militi
fascisti] sono venuti giù da Pavia. Nel frattempo noi siamo andati con “Cavallini”, con Ermanno e con tutti gli altri della Brigata. Ad un bel momento
ci portiamo dietro il fascista per vedere se c’era la possibilità di scambiarlo
con qualcuno dei nostri a Lodi, ci siamo persi via un po’ e lui ha tentato di
scappare per i campi, Luisìn, con il mitra ha sparato. Poi noi siamo tornati a
Chignolo. Abbiamo attraversato un ponticello sul Lambro, siamo arrivati alla
Mostiola, lì c’era un’osteria, siamo entrati e ci hanno detto che i fascisti erano
appena andati via. Abbiamo perciò attraversato per i campi verso il Castello
di Chignolo e siamo arrivati a casa. Io mi sono fermato in Valle e poi mi ha
accompagnato a casa la figlia [di Elvira Scotti]. Era domenica e facevo finta
di essere a passeggio. Infine il giorno dopo siamo partiti per ritornare a Romagnese alla nostra brigata. Siamo riusciti ad avere una brigata per noi, un
gruppo, tutti del Pavese, del Lodigiano ed insieme dovevamo andare a Pometo. Eravamo per la strada, su un carretto dove avevamo caricato tutti degli
stracci per confondere, arriva una macchina in senso contrario, si ferma e vien
giù Franco Lombardi, quello di Sant’Angelo, [che] era su a Romagnese. Ci
domanda: “Dove andate?”, rispondiamo che stiamo andando a costituire un
distaccamento a Pometo. Lui ci risponde: “Andiamo, andiamo a Romagnese,
perché vedrete adesso che distaccamento arriva…”. Stava iniziando il grande
rastrellamento del 23 novembre.
Questo rastrellamento voi l’avete vissuto stando in montagna, o vi siete di
nuovo sganciati in pianura?
Mi sono sganciato in pianura e poi sono ritornato in montagna. Poi ci sono
stati un po’ di disguidi. C’erano quattro di Chignolo che erano appena arrivati, Pippo Musocchi, “Giuspòn” Gargioni, me fradèl, Pino Slas6. “Cavallini” e
Musocchi avevano pratica coi camion, a Romagnese avevano una trentina di
camion, tutti presi sulla via Emilia, e adesso han dovuto decidere, perché se
6
Giuseppe Cavallini.
113
venivano su sarebbero stati tutti mezzi che avrebbero usato loro [i fascisti]. Allora li hanno mandati su nel Tidone a scaricare, più avanti però. Io, Giuspòn, e
uno di Camporinaldo, il fratello di quello che è stato ucciso, siamo andati fin
sulla diga del Tidone, lì c’era il “Ballonaio”7, che voleva togliere le porte della
diga e fare andare giù l’acqua, ma sarebbe stato un disastro. Noi siamo andati
per vedere se potevamo fermarli, eravamo una cinquantina. Ma loro erano già
passati. Allora noi siamo ritornati e ci hanno detto di ritornare giù. Ed infatti
sono ritornato a casa. Dopo di me è venuto a casa anche Porrini, Boccadoro è
andato a Milano, Dalcerri Bruno era venuto a casa anche lui.
E poi c’è la morte di Porrini e di Dalcerri.
Ecco Porrini e Dalcerri. Dovevamo andare a Camporinaldo a prendere il
sale.
Loro muoiono il 23 dicembre del ’44. Ricostruisci questo episodio…
Ero a casa malato. Non dormivo in casa, dormivo da quel compagno di Milano, dalla signora Rosa, da Cesare Callegari. Son venuti, eravamo d’accordo
di andare…
E che cosa avviene?
Dovevo andare anch’io. Però sono arrivati lì, avevo la febbre, la signora Rosa
gli disse: “No, non fatelo muovere, perché la febbre è alta”. Sono andati loro.
Erano due caratteri uguali. Gli ho detto: “Fate i traversi, non andate per la
strada”. Invece hanno fatto lo stradone, son venuti su quello che va a Casale,
sono andati all’incrocio di Miradolo, son venuti giù, intanto “Ramera” aveva
visto che erano passati.
Ramera era un fascista…
Ramelli, era il segretario del fascio.
Ah, Ramelli.
Ramelli li ha visti, è andato al telefono pubblico e ha telefonato. Poi mi hanno
detto, la “pretaccia” quella del telefono, mi ha detto che era stato a telefonare.
Ha telefonato e sono arrivati subito da Corteolona e li hanno presi alle spalle.
Ma li hanno presi in strada.
In strada, in strada. In strada e li hanno fucilati.
In che zona?
Vicino al cimitero di Camporinaldo.
Giovanni Lazzetti di Castel S. Giovanni, nome di battaglia “il Ballonaio”, aveva costituito un
proprio gruppo nell’Oltrepò, che agiva prevalentemente sulla via Emilia tra Piacenza e Stradella
e poi si aggregò alle formazioni Giustizia e Libertà.
7
114
Quindi hanno fucilato Carlo Porrini e Bruno Dalcerri. Poi il 31 dicembre
viene ucciso Pietro Biancardi.
Che di quello io ho avuto sentore dopo la Liberazione.
Sì, viene fucilato a Lodi. Invece ai primi di gennaio8 viene ucciso tuo fratello.
Sì mio fratello.
Cesare come cade?
Loro erano andati dal podestà di Bissone, di Santa Cristina.
Loro chi?
Cesare e Vitti Giovanni. “Cavallini” e Monti gli han detto: “Andate là, che
hanno le armi da darvi”. Sono andati là e c’era la casa piena di slovacchi, allora
sono scappati, uno di qua e uno di là. Mio fratello è venuto giù da un burrone,
stava saltando una roggia, e l’han preso da dietro.
Allora il podestà, invece di dargli le armi, li stava facendo arrestare?
Li ha ammazzati. Dopo sono arrivati i repubblichini di Corteolona, han preso
mio fratello, perché Vitti “Canèla” era scappato. Mio fratello l’hanno portato
nella caserma di Corteolona, e mi ha detto la cuciniera che c’era lì, la chiamavano Italia, un donnone grosso, che tutta notte l’hanno fatto gridare e gli han
fatto venire un buco così [indica con le mani sul petto] dove era stato ferito…
con un temperino… volevano sapere dov’ero io.
E lui, Cesare, non ha parlato.
Se parlava, io ero a casa. Niente… è morto.
E tu poi l’hai visto? Ci sono stati dei funerali per tuo fratello?
È andata mia moglie, la mamma di Doris9, sono andate a Lodi in bicicletta,
e hanno rischiato il mitragliamento; sono andate a prendere i fiori per far le
corone, e hanno fatto il funerale. Io ero nascosto in casa di Porrini in quel
momento.
Quindi non hai partecipato.
Sono andato a casa, l’ho visto e poi sono andato via. Dopo sette, otto giorni
è venuto giù Boccadoro da Milano, è venuto giù con la sorella di Porrini, è
scappato da San Vittore ed è stato come una barzelletta.
La fuga di Boccadoro?
Sì, lui era un radiotecnico. Il “brigant”, quando era là [a S. Vittore], lo sapevano che era uno che se ne intendeva. Allora gli hanno fatto vedere delle radio.
Poi lui, quando era venuto il momento di scappare, ha tirato via un pezzo dalla
8
9
Cesare fu ucciso alla fine (26) di gennaio del 1945.
Maria Passera, mamma di Doris Delfini.
115
radio e questa non funzionava più. Ha detto “bisogna che vada a comperare
questo pezzo qui, che lo vendono in quel tal posto, così, così”. Loro gli hanno
mandato dietro uno con il mitra. L’ha portato in una osteria, l’ha fatto ubriacare, e poi lui è scappato anche con il mitra.
Tu avevi un nome di battaglia?
“Magòt” mi chiamavano.
“Magòt”, che era un termine dialettale per indicare che cosa?
Lo usano quelli dell’Oltrepò piacentino nei nostri confronti, per indicare noi.
“Magòt” vuol dire gozzo. Una volta la gente aveva il gozzo, perché mangiava
male, mangiava poco, e quelli dell’Oltrepò piacentino chiamavano così noi.
Mi chiamavano “Magòt”.
Poi c’è stato l’episodio della morte dei vostri due comandanti, Ermanno e
“Cavallini”/De Vecchi, il 19 marzo del 1945.
Sì.
Come è morto Ermanno.
Ermanno Monti e Franco Pappacena sono stati fucilati al cimitero di Chignolo, dietro il Cimitero.
Ma come mai sono stati catturati?
Un delatore li ha fatti catturare.
Ma loro erano in casa, erano fuori?
No erano sulla cascina, sulla cascina che dormivano…
E sono stati colti nel sonno?
E un fittabile, anzi non era un fittabile, era un agricoltore, il padrone…
Il padrone della cascina li ha denunciati?
Eh sì, li ha visti. E ha fatto la spia e [i militi fascisti] sono andati là. Se fosse
dipeso da loro, loro riuscivano a cavarsela, perché nel difendersi avevano ferito,
sia pure lievemente, due repubblichini.
Stando sulla cascina avevano del fieno per nascondersi. Il fatto è che quando
si sono resi conto che si metteva male, i fascisti hanno sparato in casa. Hanno
ucciso l’Albanesi, il padrone della casa10, e hanno ferito a un braccio la nipote,
l’Alfonsa.
Quando hanno capito che sparavano in casa, Ermanno e Pappacena sono
venuti giù dalla scala, “Cavallini” ha cercato di saltare nel cortile oltre la siepe
(questo me l’ha raccontato cento volte l’Alfonsa dopo la Liberazione). C’era
una siepe che delimitava il confine e lui ha cercato di saltare di là.
10
Era il salariato che li ospitava, non il “padrone” della cascina.
116
È saltato sulla siepe, è rotolato giù, ma quando ha visto che non riusciva a
scappare, si è sparato nella testa. Questo è quanto mi ha raccontato l’Alfonsa.
Ma non riusciva a scappare perché si è sentito circondato, non perché si sia
slogato un piede od altro.
No, no, no, si è sentito circondato, ha visto che sarebbe stato catturato e lui
piuttosto che finire nelle mani dei fascisti, si è sparato.
Questo Giuseppe Albanesi non era partigiano…
No, non era partigiano…
Ospitava voi quando scendevate, era una vostra base?
Era una base non nostra, ma di “Cavallini”, Ermanno e di tutta la brigata
quando si muoveva. C’era lì, c’era la Cassinazza, l’Oca, diversi posti, la Contrada, il Cantonale. Quella sera sono andati lì.
La brigata viene intitolata ai fratelli Biancardi prima che muoiano Ermanno e Cavallini?
Non lo so, questo non lo so. Penso che l’abbiano fatto dopo.
Quindi avete preferito intitolarla ai due fratelli Biancardi piuttosto che al
Comandante ed al Commissario della brigata?
Sì.
Ormai eravate alla vigilia dell’insurrezione. Allora raccontaci cosa accadde. Come l’hai vissuta tu?
Go gnanc sparàt un culp.
Un’ eccezione!
Sì, un’ eccezione. Niente, ho sempre detto al mio comandante Daturi Dante.
Ho detto: “Guarda che io con la brigata voglio andare a Chignolo per la Liberazione”. E lui: “La Madona! Gianni, mètem no nei pastìss”. Perché c’era
Fausto Cossu, il comandante di divisione, che voleva che andassimo tutti a
Piacenza, che non era stata ancora liberata.
Ho puntato i piedi e ci sono riuscito.
Abbiamo attraversato il Po, siamo arrivati a Monticelli, e l’indomani mattina
eravamo a Chignolo.
Che giorno siete arrivati a Chignolo?
Il 26 aprile, ma loro avevano già sgomberato tutto.
I tedeschi e i cecoslovacchi erano già scappati. C’erano già partigiani della
brigata, della 167a?
C’erano tutti gli insorti…
I patrioti di Chignolo?
I due Pozzi, i ragazzi del ‘25, ‘24, ‘22, ‘21… i renitenti, c’era mia moglie con in
mano un fucile che era più alto di lei. Non ero ancora sposato allora.
117
Non eri ancora sposato. Hai partecipato anche tu a questa festa?
Sì, c’erano già tutti gli archi di fiori… Non sono mancati certi allarmi, come
“c’è una colonna che sta arrivando qui”, noi [partigiani della montagna] eravamo giù con due camion nuovissimi, col muso rientrato, li abbiamo posizionati…
Quindi li avete messi in modo che il paese non fosse attraversato.
Si andava a vedere che queste colonne ci fossero davvero.
Ma anche per impedire che entrassero in paese.
Ah sì, senz’altro. E l’unica che abbiam trovato, l’abbiamo trovata all’incrocio
per Senna Lodigiana-Ospedaletto, che poi ha preso la strada che va a Lodi.
Ma questa insurrezione vede la direzione e il coordinamento di un CNL
locale?
C’era il CLN locale, il presidente era Eugenio Pozzi, che ha fatto una brutta
fine.
È stato ucciso in un incidente durante l’insurrezione?
È stato ucciso mentre provavano una pistola. Lui, si era affacciato al balcone
per dire di non sparare e nel mentre…
Un partigiano, no, un patriota…
No, era uno che era con me, era uno a cui hanno ammazzato un fratello come
a me, Calatroni. Niente…, è stato ucciso.
E invece il primo sindaco di Chignolo chi è stato?
Il sindaco socialista di allora…
Quello che c’era nel ’22. E come si chiamava?
Chioffi Egisto.
Come è avvenuto il suo insediamento?
Sì è riunito il Comitato di Liberazione…
Ma nel libro che hai scritto parli di un corteo…
Eh, te lo sto raccontando adesso. Si è riunito il Comitato di Liberazione e
tutti all’unanimità sono stati d’accordo che ancora lui fosse il sindaco. Allora,
mi hanno chiamato: “Gianni, bisognerebbe andare a prendere il sindaco”. “Va
bene” ho risposto, ho preso sette o otto partigiani, non mi ricordo neanche chi
c’era quella volta, siamo andati a casa sua e non c’era.
Ci dissero che era in collina. Era un uomo, abbastanza anziano, grosso. Ho
detto: “Va bene, andiamo in collina a prenderlo”.
Quando siamo stati alle Coste, di fronte alla stazione di Chignolo, abbiamo visto che veniva giù col suo “cavagnolo” al braccio. Ho chiamato: “Egisto,
‘ndum, gh’è d’andà a fa el sindech ”. Lui mi ha risposto “Oh! Chi l’ha detto?”.
“Il Comitato di Liberazione ha deciso che tu devi esser il sindaco di Chi118
gnolo”. Infatti quando siamo entrati in paese, la gente si è radunata dietro e
quando infine siamo arrivati alla sede del CNL, non so quante persone c’erano
dietro, almeno duecento.
Un corteo. Beh, una cosa molto bella questa. Investitura popolare del primo sindaco dopo la Liberazione! Tu dopo la Liberazione cosa hai fatto? Sei
tornato al lavoro di panettiere?
Son tornato a fare un po’ di tutto. Sono andato ad abbattere le piante, anche
se non era il mio mestiere…
Nel senso che non trovavi lavoro…
No, non trovavo lavoro.
Ma perché?
Perché in quei momenti là, se non c’era una raccomandazione del prete, non
andavi a lavorare.
E quindi per te è stato difficile.
Eh, è stato difficile. Per me e per lei [indica sua moglie].
Quindi hai fatto abbattimento piante e cosa hai fatto ancora?
Ho fatto un po’ il panettiere, che andavo a Lambrinia; una notte hanno tentato di farmi la pelle.
Chi?
I superstiti fascisti. Mi son venuti fino in casa. Non so se si ricorda [indica sua
moglie].
Eri già sposato. Tu quando ti sei sposato?
Il 28 di luglio del 1945.
Quando ti eri fidanzato con Piera?
Prima, già collaboravamo nella Resistenza.
Lì era nata la vostra storia d’amore, dentro la Resistenza?
Sì. [“Proprio” si sente la voce di Piera].
Quindi l’avete voluta coronare molto presto.
Però mi ha battuto Pesce11. Pesce si è sposato il 14 luglio.
E come è stata la vostra vita dopo il matrimonio?
All’inizio abbastanza dura. È incominciato che mi hanno fatto 13 processi.
Con quali accuse?
Una volta per le armi che hanno trovato a casa dei miei genitori…
Giovanni Pesce (Visone 1918 - Milano 2007), emigrato con la famiglia in Francia a 6 anni,
fu combattente nella guerra di Spagna. Rientrato in Italia nel 1940, fu arrestato e detenuto a
Ventotene fino al 1943. Medaglia d’oro al valor militare per i suoi eroici atti nella Resistenza,
sposò, subito dopo la fine della guerra, la staffetta partigiana con cui aveva collaborato, Onorina
Brambilla.
11
119
Dopo che avevano detto di consegnare le armi.
Eh, sì. Un’altra volta perché il prete ha protestato perché ballavamo nella sede
della Società operaia che è vicina alla chiesa. Perché secondo lui non potevamo. Poi per l’inaugurazione della Camera del Lavoro qui a Chignolo, e
secondo i Carabinieri non avevamo l’autorizzazione per fare il corteo e la
manifestazione.
Insomma tanti processi, ma finiti senza condanne?
Senza condanne.
Però trasmettevano questo clima di oppressione intorno a te.
Sì, sì.
Quando è finito questo clima così pesante?
E beh, è finito già da tanti anni.
Dopo il ’48 o più tardi?
Beh, fino al ’55.
Tu ti sei gettato nella lotta politica, dopo la Liberazione?
Sì, sì.
Ti sei iscritto al Partito comunista, o meglio, eri gà iscritto e hai continuato a iscriverti. Hai svolto un ruolo dirigente qui a Chignolo?
Ero segretario.
Eri segretario. Quindi da segretario hai vissuto le battaglie per il referendum, per il 18 aprile del ’48…
Ho fatto anche le battaglie dei pendolari.
In che senso?
Quando c’è stato l’aumento degli abbonamenti.
Delle corriere, dei treni…
Sono andato fino a Roma.
Ma questo, quando?
Nel ‘65.
Ah, quindi più avanti.
Abbiamo fatto manifestazione a Milano, dove c’era la sede della corriera, la
SILA. C’era polizia dappertutto. È stata dura. Questa linea è stata l’unica che
non ha avuto l’aumento.
Questa linea di corriere. Quindi avete ottenuto il vostro obiettivo?
Mi ricordo che sono stato a Roma e son venuti tutti i deputati di tutti i partiti
della zona. C’era quello che adesso è andato via. Il democristiano…
Rognoni?
Sì, Rognoni, e mi chiese: “Come va il partito a Chignolo”. “Ma se Lei mi chiede
del Partito comunista, va bene…”. Lui è rimasto, credeva, prima che parlassi,
120
che ero DC. Poi ho parlato anch’io. Siamo riusciti per un paio d’anni, poi…
Tu poi sei diventato sindaco…
Sì.
Che bilancio fai di quei dieci anni di Sindaco?
Se lo faccio io, posso dire che è stata una bella esperienza, abbiamo realizzato
cose importanti; però il bilancio lo lascio agli altri… alla gente giudicare.
Il bilancio della tua vita di partecipazione politica, di partecipazione alla
Resistenza, invece come lo tracci?
È stato il migliore della mia vita.
[Degli anni] della Resistenza e della guerra?
Sì.
In che senso il migliore?
Perché mi si era aperto un orizzonte. Ho incominciato a sapere cos’è la vita,
cos’è la politica, cos’erano i partiti. Con i fascisti non si sapeva nulla. Sapevamo
perché lottavamo.
Ed avevate grandi ideali di cambiamento.
Questo.
È questo che ha reso bella quella stagione?
C’è solo un rimpianto.
Quale?
Di averne ammazzati pochi di fascisti.
Questo come mai? Per tutte quelle morti di compagni che ti hanno fortemente segnato? Penso che l’uccidere non sia una bella cosa…
No, non è bello.
È una cosa terribile!
Se dovessi farlo adesso… non…
Non ce la faresti proprio! Però in quei mesi sei stato travolto da queste terribili morti: tuo fratello, i tuoi compagni…
Eh sì.
Cosa vivevi quando eri davanti a un tuo compagno morto?
Non riuscivo a piangere. Son riuscito a piangere solo quando è morto mio
fratello. Allora ho pianto un po’. Sono uno che non sa piangere ed è lì che ti
veniva questo desiderio di vendetta…
Di travolgere tutto…
Anche perché se fosse adesso, con l’esperienza e la preparazione politica che si
è avuto, si farebbe in un altro modo.
Si cercherebbero altre strade?
Sì, si cercherebbero altre strade, invece è stato così.
121
Tempi duri, come quelli rievocati in quella poesia di Bertolt Brecht…10
Sì.
Quindi tu hai vissuto questo dramma della morte dei compagni e l’hai anche data, hai cercato di colmare questi vuoti che si creavano uccidendo i
responsabili [delle morti] dei tuoi compagni…
Se uno non era nelle mie condizioni, così disagiate, non sarebbe andato tutti i
giorni sulla via Emilia a fare le imboscate. Avevo il 50% di possibilità di non
ritornare. Ma volevo sempre andare.
E tu volevi sempre andare a questi scontri. Avevi bisogno d’immergerti
nell’azione…
Sì, questo sempre. Mi ricordo, ho quasi vergogna a raccontarlo questo, che una
volta, siamo andati giù di giorno. E vediamo due ragazzi che vengono con un
furgoncino sulla strada, avevano su tre maialini piccoli. Uno che era insieme
a me di Castel S. Giovanni fa: “Ma questo è il fratello del…”, di uno che era
nella repubblica di Salò. Poi era anche lui un repubblichino, ma era in borghese. Li abbiamo portati su e rinchiusi in una stanza. Il mio amico Boccadoro è
andato da loro, vestito da prete, per farli confessare perché li avremmo uccisi.
Poi abbiamo fatto finta di ammazzarli e li abbiamo mandati a casa. Che cosa
dovevamo fare?
Sono i drammi della guerra…
Lo so. D’altra parte… allora se mi veniva in mano un fascista non resistevo più.
Questo è avvenuto dopo che sono incominciati a morire i tuoi compagni o
fin dall’inizio?
No, no, dopo, dopo. Anche perché sono venuto a conoscenza di quello che
facevano nel castello di Cigognola. È morto anche uno di Camporinaldo11,
che era nella mia brigata. A Cigognola sono andato con il camion io e Carletto il “bigulòtt”, a prendere il povero Carlón e c’erano dentro una ventina di
cadaveri nel pozzo. Li buttavano nel pozzo. Li ferivano…
E poi li buttavano nel pozzo…
Queste cose noi le sapevamo e quando noi prendevamo dei prigionieri, che
non avevamo la necessità di fare il cambio, li lasciavamo andare a casa. Certa
gente, che capivi che erano lì perché erano stai costretti… ma dopo …
Dopo la morte di tuo fratello le cose sono state diverse…
Sì, sono state diverse.
“Voi che sarete emersi dai gorghi / dove fummo travolti / pensate / quando parlate delle nostre
debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati. […] Anche l’odio contro la bassezza /
stravolge il viso. Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, noi non si poté essere gentili. ” (B. Brecht, A coloro che verranno,
in “Poesie di Svendborg”, 1939).
11
Carlo Vignali, classe 1923, ucciso il 19 dicembre 1944.
10
122
INDICE DEI LUOGHI
Alberone 11, 62n, 67, 94
Badia 113
Barlassina 111
Belgioioso 71
Bertonico 16n
Bissone 12n, 23 e n, 64, 115
Borghetto Lodigiano 20-21, 52, 54, 105, 111
Boscone 17, 78
Broni 57n
Ca’ de’ Mazzi 45n
Camatta vedi Lambrinia
Campagna 23, 111
Camporinaldo 22-23, 56-57, 63, 66, 111-112,
114, 122
Cantonale 117
Casalpusterlengo 21, 54-55
Casottina 43, 49, 59, 106
Cassinazza 46n, 62-63, 117
Castellazzo 54 e n
Castelnuovo Bocca d’Adda 45n
Castel S. Giovanni 12, 57n, 114n, 122
Castiglione d’Adda 54, 97
Castlàss vedi Castellazzo
Cefalonia 49 e n
Chiavari 18, 59
Chignolo Po 5-7, 9 e n-20 e n, 22, 24-27, 30,
41, 45-55, 57n, 60 e n-63, 66-72, 79-80 e n, 87,
89, 92, 98-101, 103-105, 107, 109, 112-113,
117-118, 120
Cigognola 72, 122
Codogno 54-55
Contrada 111, 117
Corteolona 10, 23n-24, 52, 63-66, 68, 114
Coste 55, 112, 118
Cremona 25n, 54, 67, 70
Flossenbürg 71
Fombio 45n
Gaeta 20n, 79
Genepreto 58
Genova 69, 71, 99
Gera vedi Gerra
Gerra 53, 57, 109-110
Graffignana 5-6, 21, 57n
Gragnano Trebbia 57n
Lambrinia 46n, 52, 54 e n, 60-62n, 70n-71,
113, 119
Lione 89
Livraga 20 e n-21, 45n, 52, 54, 109
Lodi 8n, 19, 21 e n, 24, 45 e n, 54-55, 57n, 6061, 64, 66, 99n, 105, 112-113, 115
Maiano 21
Marzabotto 95
Mauthausen 81 e n
Milano 8-10, 13, 20n, 22-24n, 42, 44-45, 49,
55, 62-63, 66, 71-72, 80n-81, 99, 101-103,
105-109, 114-115, 119n-120
Miradolo Terme 10n, 13n, 70n-71, 114
Montalbano 24, 65
Monticelli di Bertonico 16n
Monticelli Pavese 10n, 24-25, 62, 65, 67, 117
Mostiola 113
Nibbiano 58, 61
Novara 17, 19, 51, 108
Oca 117
Ospedaletto Lodigiano 118
Pavia 6, 9n12, 21, 24n, 41, 50-51, 53-54, 61, 64,
68-71,108-110, 113
Pecorara 81
Piacenza 25, 42, 60-61, 67, 105, 114n, 117
Pianello Valtidone 58, 61
Pieve Porto Morrone 10n, 112
Pometo 113
Prevede 111
Redenta 46n
Roma 8, 24n, 43, 49, 58n, 120
Romagnese 55-57, 61-62n, 64, 112-113
Salò 17, 42, 49en, 52-53, 69, 71, 122
San Colombano al Lambro 5-6, 16, 19-23 e n,
45n, 52, 54, 57n-58n, 63, 97, 104, 111-112
San Martino in Strada 45n
Santa Cristina 10n, 12 e n, 23, 64, 70n, 115
Sant’Angelo Lodigiano 21 e n, 62 e n, 99, 112113
Senna Lodigiana 60, 118
Turano Lodigiano 16 e n, 20n, 47n
Valbissera 20, 54, 109-110
Ventotene 119
Verona 71, 79
Villanterio 59, 78
Villa Pelli 58, 112
Voghera 108
Zavattarello 99
Zorlesco 20n, 108
123
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Albanesi Alfonsa 24, 65 e n, 116
Albanesi Arturo 53, 109
Albanesi Giuseppe 24, 36, 65, 116-117
Albertini Luigi 94
Antoninetti Giovanni 55-56n
Ardemagni Angelo 68
Ardemagni Giovanna 90
Ardemagni Aurelio 68
Assani Alfredo 10-11, 42 e n
Badoglio Pietro 48 e n, 104
Barbaini Gianni 46n
Baroni Celeste 70n
Bassi Giacomo M. 16n, 20n, 24n, 94
Beccali Cesare, figlio 27, 33, 84-85
Beccali Cesare, fratello 8, 17, 20, 23, 26, 37, 64,
66, 100, 106, 115 e n
Beccali Gianni 5-10, 12, 14-20, 23, 25 e n-29,
31-33, 43n-44n, 47n, 50n, 64n-66n, 75n, 8182, 84-99
Beccali Gilberto 27
Beccali Luigi 8, 100
Beccali Mariella 27, 86
Beccali Paolo, figlio 27, 85, 93
Beccali Paolo, padre 8, 100
Beccali Piera vedi Moro Beccali Piera
Bellinzona Francesco 20, 22, 58, 111 e n
Benzoni Edoardo 6
Beria 9
Beria Callegari 51
Beria Natalina 25n
Beria Silvio 13 e n
Bertucci I. 37
Biancardi Paolo 20-21, 45 e n, 111
Biancardi Pietro 20-21, 45 e n, 111, 115
Bianchi Giuseppe 13 e n
Bianchini 112
Boccadoro Eugenio 20, 22, 41n, 55-57, 60, 6263, 112, 114-115, 122
Bonati Antonio 3, 6, 95, 98
Bonati Romolo 11
Borroni don Antonio 46n
Bosoni Amalia 70n
Bovera Bruno 79
Bovera Giuseppe 70n
Brambati Luigino 78
Brambilla Onorina 119n
Briola Galdino 68
Broglia C. 36
Brusoni Felice 43
Brusoni don Giuseppe 18-19, 23n-24, 26n, 59,
65
Calatroni 118
Callegari Cesare 9, 44n-45, 51, 103, 105, 114
Campanella Vincenzo 6
Carbone Gennaro 13n
Carelli 66
124
Cassinari Barbara 6
Cassinari Cesare 6
Castellotti Duccio 94
Cavallini Gaetano 66, 68
Cavallini Giuseppe 64, 113 e n-114
Cavallini Martino 11
Cerri Carlo 15
Cerri Ciro 15
Cerri Dionigi Romolo 70n
Chiereghin Elio 79
Chiereghin Giovanni 79
Chioffi Egisto 10-12 e n, 14 e n-15n, 25 e n27, 42 e n, 50, 118
Cobianchi 20, 60
Corona Carletto 78
Corona Giovanni 15
Cremonesi Giuseppe 13 e n
Curti Luigi 20-22, 53, 58, 60, 95, 105, 109111, 113
Daccò Angelo 84
Dalcerri Bruno 20, 22-23, 63, 112, 114-115
Dalcerri Francesco 23 e n
Daturi Dante 25n, 66n, 93, 117
Delfini Antonio 84
Delfini Doris 115 e n
Delfini Piero 79, 84
De Vecchi Giovanni (Cavallini) 20 e n, 22, 24,
36, 52, 55, 58, 60-61, 64-65 e n, 108, 110, 112113, 115-117
Dino 9, 44n, 103
Durigoni (Durigòn) 53, 110
Equitani Rachele 6
Ferrari Bruno 43 e n, 59, 69
Ferrari Delio 88, 90, 93, 96
Ferrari Maria 16n
Frigoli Fugazza Domenica 21n, 45n
Frigoli Giuseppe 21, 45n
Galazzi Erminio 13 e n
Gallazzi Livio 15
Ganassali Giovanni 15
Gargioni Giuseppe 64, 113
Gatti Alfredo 23n
Gaudenzi Annibale 18 e n, 37, 59, 69
Gaudenzi Lina 18n
Gaudenzi Roberto 29, 51, 79
Georges Camille 89
Ghidotti Bruno 15
Ghislini Luigi 20n
Gianzini Roberto 59
Giraldi Franco 6
Giuspòn vedi Gargioni Giuseppe
Golzi Angelo 6
Grignani 101
Grossi Giuseppe 70n
Guasconi Giorgio 18 e n, 59
Guderzo Giulio 20n-22n, 25n, 56n, 62n
Intropido Giovanna 93
Jazzi A. 37
Lambri R. 37
Lampugnani Rossana 93
Lanzani Giovanni 57n
Lazzetti Giovanni 114 e n
Leccardi Cecilia 68
Livraghi don Ermanno 20n
Lombardini Franco 113
Maiocchi Carla 86
Maiocchi Carlo 85
Malinverni Ines 8
Marchini Angelo 100
Marchini Giulia 8, 100
Marini Luigi 70n
Mascheroni don Gianfranco 9n, 72 e n
Matteotti Giacomo 8, 13, 46
Mazzola Gino 79
Meucci Lino 21 e n
Milani Franco 71
Milani Mario 71
Montani Giovanni 53 e n-54, 62n
Monti Ermanno 19-20n, 22, 24 e n, 26 e n, 30,
36, 52, 55, 58, 60-61, 64-66, 108-109, 112-113,
115-117
Morelli Ugo 21 e n
Moro Esterino 29, 79
Moro Beccali Piera 3, 6, 18, 26 e n,-27, 29, 64
e n, 68, 85, 96, 119
Musocchi Pippo 64, 113
Mussolini Benito 11, 13, 15, 20n, 44-46, 4850, 59, 104
Negri Luigi 48
Oltrasi Carlo 11-12
Ongaro Ercole 5, 8n, 15n, 17n, 21n, 23n, 26n,
28n, 44n,45n, 50n, 57n, 65n, 97, 99n
Paina Mario 70n
Panigada Francesco 27
Pappacena Franco 22, 24 e n, 26, 30, 36, 58, 61,
65-66, 116
Pasetti 111-112
Passaglia Anna ved. Lanzani 5, 16, 19, 57 e n58 e n, 104-105
Passera Ernestina 66, 68
Passera Maria 68, 115n
Pecchi Giovanni 71
Pecchi Luigi 29, 78-79
Pecchi Settembrina 29
Pedrazzini Franco 86
Pelissier Pierre 90
Pertini Sandro 58n
Pesce Giovanni 119 e n
Pettinari Edoardo 16 e n, 47n, 104-105
Picchi don Alberto 62n
Pizzoni Giuseppe 46, 104
Pizzoni Tiziano 59
Polenghi 84, 107
Porrini Antonietta 68
Porrini Carlo 15, 19-20, 22-23, 26, 29, 37, 4748, 52-57, 60, 62-64n, 66, 75, 79, 105, 109, 112,
114-115
Porrini Tina 64 e n, 68
Pozzi Eugenio 9, 15, 25-26, 44n-47, 66-67, 80,
103, 105, 117-118
Pozzi Giacomo 9, 44n, 103
Pozzi Giovanni 46, 68, 104
Raffaldi Francesco 86
Raggi Emiliano 80 e n-81, 83, 88-90
Ramelli 106, 114
Ramelli Sergio 106n
Rancati Natalino 15
Ranza Oreste 10, 12
Rapetti Clementina 68
Ravera Camilla 58 e n
Re G. 36
Riccadonna Gianluca 57n
Righini Luigi 71
Risari Giuseppe 71
Rognoni Virginio 120
Romussi Carlo 10
Rosa don Michele 6
Rossi don Angelo 9n
Rossi Carlo 20, 55, 66, 68-69, 80
Rossi Pietro 13 e n
Salvi Lodovico 13-14n, 106
Scala Mario 70n
Scelba Mario 27
Sclavi Annibale 41n
Scotti Elvira 113
Scotti Pietro 9n-11n, 27n, 88
Scotti Vincenzo 70n
Serenelli 46, 50
Sgaroni (Sgaròn) 53, 110
Sgorbati rino 59
Sigi Paolo 21, 45n
Sposini C. 36, 67
Togliatti Palmiro 85
Tosca Ettore 15
Toscani Xenio 6
Varni Carlo 68
Vignali Carlo 37, 122 e n
Vignati Luigi 20 e n-21
Viola Luigi 13 e n
Visconti Oreste 14
Vitti Ernesto 15
Vitti Giovanni 20, 23, 52-54, 64, 109, 115
Vittorio Emanuele III 43, 48, 77
Volpari Giancarlo 8n, 21n, 99n
Zaninelli Ferdinando 21, 45n
125
INDICE
Presentazione, Antonio Bonati (sindaco di Chignolo Po)
p.
3
Presentazione, Ercole Ongaro (direttore ILSRECO)
5
“Ma vale la pena...”
Gianni Beccali, una vita di lotta per la dignità di tutti
di Ercole Ongaro
7
Inserto fotografico
29
Gianni Beccali
Resistenza - Chignolo Po 1943-1945
39
Inserto fotografico
84
Intervista a Gianni Beccali
a cura di di Ercole Ongaro
99
Indice dei luoghi
Indice dei nomi di persona
123
124
126
QUADERNI ILSRECO
1. Ercole Ongaro, Dove è nata la nostra Costituzione, Lettura scenica, marzo 1998, [pp. 24].
2. Francesco Cattaneo - A. Montenegro, Trent’anni fa il Sessantotto. Viaggio nel Sessantotto (e
dintorni) nel Lodigiano, novembre 1998, p. 58.
3. Ercole Ongaro - Francesca Riboni, Il Sessantotto a Lodi, aprile 1999, p. 55.
4. Ercole Ongaro, a cura di, Lodi sui muri. Manifesti 1859-1899, catalogo della mostra (Archivio
Comunale, sala del deposito, 16 aprile - 7 maggio 1999), aprile 1999, pp. 59.
5. Ercole Ongaro, Bambini esclusi. A dieci anni dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, novembre 1999, pp. 35.
6. Sara Ongaro, I colonialismi: fenomenologia dell’agire occidentale, aprile 2000, pp. 39.
7. Ercole Ongaro, a cura di, Lodi sui muri. Manifesti 1900-1950, catalogo della mostra (Chiesa
di S. Cristoforo 16 settembre - 8 ottobre 2000), settembre 2000, pp. 110.
8. Ercole Ongaro, a cura di, Giorgio Dossena. Scritti e discorsi 1946-1998, dicembre 2000, pp. 159.
9. Giacomo Bassi, 1901. Contadini in sciopero nella Bassa Padana, catalogo della mostra, aprile
2001, pp. 22.
10.Laura Coci - Isa Ottobelli - Francesco Cattaneo, a cura di, Perché non accada mai più, gennaio
2002, pp. 28.
11.Laura Coci, a cura di, Il revisionismo storico, dicembre 2002, pp. 66.
12.Francesco Cattaneo - Laura Coci - Isa Ottobelli - Gianluca Riccadonna, a cura di, La vita
offesa. Memorie di lodigiani, lettura scenica per la Giornata della memoria, marzo 2003, pp. 43.
13.Franco Galluzzi, Se potessi…, a cura di Gennaro Carbone, Annalisa Degradi e Isa Ottobelli,
aprile 2004, pp. 47.
14.Hans Kraza, Brundibar ovvero il suonatore di organetto, a cura di Isa Ottobelli, per la Giornata
della memoria, gennaio 2005, pp. 22.
15.Edgardo Alboni, Una vita tra sogni e realtà, a cura di Ercole Ongaro, marzo 2005, pp. 191.
16.Ercole Ongaro - Gianluca Riccadonna, Percorsi di Resistenza nel Lodigiano, aprile 2006, pp. 159.
17.Gian Paolo De Paoli, Diario della mia prigionia in Germania, a cura di Ercole Ongaro Gianluca Riccadonna, dicembre 2006, pp. 157
18.Batà Ivo - Francesco Cattaneo - Gennaro Carbone, a cura di, “Odio gli indifferenti”. Lettura
scenica dai testi di Antonio Gramsci, maggio 2007, [pp. 14].
19.Rinaldo Maraschi, Diario della prigionia, Un “internato militare” lodigiano nei lager tedeschi,
a cura di Ercole Ongaro, dicembre 2007, pp. 185.
L’ILSRECO ha pubblicato presso la casa editrice FrancoAngeli:
Ercole Ongaro, a cura di, Il Lodigiano nel Novecento. La politica, Milano 2003, pp. 509.
Ercole Ongaro, a cura di, Il Lodigiano nel Novecento. La cultura, Milano 2006, pp. 458.
Inoltre l’ILSRECO ha prodotto due documentari (in DVD):
Ercole Ongaro - Giancarlo Volpari, a cura di, I mulini nel Lodigiano, settembre 2006 (durata 14’)
Ercole Ongaro - Giancarlo Volpari, a cura di, La cascina nel Lodigiano, settembre 2007 (durata 17’).
127
finito di stampare
Aprile 2008
Coop. Sociale SOLLICITUDO Arti Grafiche
Via Selvagreca - Lodi
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