ARTICOLI
SULLA PRESUNTA MORTE DI
SALVATORE GIULIANO
di
Giuseppe Casarrubea
e
Mario J. Cereghino
giugno-settembre 2010
www.casarrubea.wordpress.com
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SALVATORE GIULIANO: DI SICURO C’È SOLO
CHE (FORSE) È MORTO
26.6.10
Obitorio di Castelvetrano, 5 luglio 1950 (“Pubbliphoto”, Palermo)
Ricorre, il prossimo cinque luglio, il sessantesimo anniversario della
“morte” di Salvatore Giuliano. Molti si preparano alla commemorazione
dell’evento. Anche se dovrebbero avere il pudore di tacere, visto che ad
essere ricordato è un criminale incallito con quattrocento fascicoli e
procedimenti penali aperti sul suo conto. Le accuse: stragi, insurrezione
armata contro i poteri dello Stato, assalto contro i lavoratori in festa e le
sedi della sinistra politica e sindacale, uccisione di carabinieri e civili,
molti del suo stesso paese, Montelepre. La storia ufficiale ci dice che il
bandito è trovato senza vita
all’alba del 5 luglio 1950 nel cortile
dell’avvocato De Maria, a Castelvetrano. Ma oggi, a distanza di oltre
mezzo secolo, forti dubbi nascono sulla scomparsa di questo terrorista
nero che inaugura, con l’eccidio di Portella della Ginestra, la lunga
catena dello stragismo italiano.
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Obitorio di Castelvetrano, 5 luglio 1950
Di fronte a uno Stato che ha sempre fatto carte false, è doveroso
dubitare persino di ciò che appare evidente. Specie se questa evidenza
riguarda i personaggi che ne sono, a vario titolo, protagonisti. Come il
“bandito” di Montelepre Salvatore Giuliano. Il primo attore italico sulla
scena del terrorismo nostrano e anche il primo ad essere ufficialmente
ammazzato, all’età di appena ventotto anni.
A certificarne la morte è il giornalista Tommaso Besozzi. Fa molta
strada prima di arrivare, come un militare in avanscoperta, sulla scena
del combattimento. E, quando arriva, più che certezze raccoglie dubbi.
Li descrive tutti in un articolo destinato a fare la storia del giornalismo
italiano: “Un segreto nella fine di Giuliano. Di sicuro c’è solo che è
morto”, uscito sul n. 29 de “L’Europeo” del 1950.
Si inaugura così la stagione del grande giornalismo di inchiesta, con gli
organi di stampa che si spostano sui luoghi dei delitti e trasformano i
reporter in combattenti per la verità. Esposti in prima linea, come in un
vero e proprio conflitto bellico.
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Sono i primi anni della Repubblica e quel cadavere che giace nel cortile
De Maria, dove il bandito avrebbe trascorso l’ultima notte della sua
vita, ne dichiara l’inaffidabilità e la spregiudicatezza. Il mistero sulle
circostanze di un conflitto a fuoco mai avvenuto e la certezza di un
omicidio annunciato e brutalmente eseguito. Come profetizzato qualche
anno prima dal leader comunista siciliano Girolamo Li Causi.
Ma chi è veramente questo morto? E, soprattutto, chi sono i
protagonisti di questa vicenda oscura?
Ad aiutarci a districare questo primo grande mistero del dopoguerra ci
sono venuti in aiuto, negli ultimi dieci anni, migliaia di carte provenienti
dagli archivi americani, inglesi e nostrani. Materiali che raccontano, ad
esempio, la scoperta di un Servizio ultrasegreto – “l’Anello” o “Noto
Servizio”– agli ordini diretti dell’allora presidente del Consiglio Alcide
De Gasperi. Come ci racconta Stefania Limiti nel volume “L’Anello
della Repubblica” (Chiarelettere, 2009). I suoi obiettivi sono ben
definiti: ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico con mezzi
illegali, ma senza sovvertirlo. Questa organizzazione ultrasegreta non è
stata una meteora, ha operato dal 1945 fino all’ inizio degli anni
Ottanta.
Certo, se in quella torrida estate del 1950, Salvatore Giuliano – alla
vigilia del processo di Viterbo, per gli eccidi siciliani della primavera
1947 – si fosse deciso a vuotare il sacco, sarebbe crollata l’Italia. A
cominciare dalle sue nuove istituzioni repubblicane.
Questo è un thriller che inizia in un’altra estate, quella drammatica del
’43, quando un picciotto “dal carattere forte e determinato” – come
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scrivono i Servizi americani di stanza in Sicilia – inaugura la sua
carriera terroristica nelle fila della rete nazifascista del Principe Valerio
Pignatelli e delle Ss di Herbert Kappler. In breve, il “re di Montelepre”
entrerà nei commandos della Decima Mas di Borghese inviati al Sud,
con il nome di battaglia di “Giuliani”. Come egli stesso si firma di fronte
a testimoni di sicura fede. Ad esempio, il giornalista Igor Man che lo
intervista nella primavera del ’45 per la rivista “Crimen”. I Servizi
militari alleati (Cic), al comando del colonnello americano Hill Dillon, lo
definiscono “leader of a fascist band in Sicily”. Ma è nel dopoguerra che
“Giuliani” si mette agli ordini dell’X-2 di Roma, il controspionaggio Usa
guidato dal capitano James Angleton. L’obiettivo è uno solo: liberare
l’isola dall’“infezione bolscevica”. Come Giuliano stesso scrive in diversi
appelli a sua firma diffusi in quegli anni. Fino alle stragi siciliane del
maggio-giugno ‘47.
Una rara foto del lato sinistro della testa del cadavere
Sono anni in cui il Sis, il Servizio informazione e sicurezza, lo segnala a
capo delle Sam (Squadre armate Mussolini) e dei Far (Fasci di azione
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rivoluzionaria) di Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito fascista
repubblicano della Rsi. In queste carte c’è anche lo “Scugnizzo di
Palermo”, Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, che la polizia considera
“un Giuliano e mezzo”. Nel giugno ‘47 un lungo rapporto del Sis ci dice
che Giuliano è “a totale disposizione delle formazioni nere”. E non è
forse casuale che in una foto pubblicata nel volume di Pasquale Chessa,
“Guerra Civile” (Mondadori), un giovane milite della Decima Mas –
ritratto assieme al comandante Junio Valerio Borghese e al tenente
Mauro De Mauro, in Galleria a Milano, il 10 aprile ‘45 – presenti una
forte somiglianza con Salvatore Giuliano. Ovvero, il “tenente Giuliano”
o “Giuliani” più volte segnalato dal colonnello Hill Dillon in quelle
stesse settimane.
Sono temi, questi, da noi ampiamente trattati nel volume “Lupara
Nera” (Bompiani, 2009).
Non sono da meno le carte desecretate a Londra e a Washington sul
capitano Antonio Perenze e sul colonnello Ugo Luca, entrambi
dell’Arma. Del primo, gli americani scrivono che nell’agosto ‘46 lavora
a contatto con l’X-2 di Roma e che, su mandato del capitano del Cic
Philip J. Corso, si incontra con Kappler, detenuto a Forte Boccea. I
Servizi Usa ottengono da Kappler e da Karl Hass gli elenchi degli agenti
nazifascisti attivi in Italia fino alla fine della guerra e che ora servono
per combattere il “bolscevismo”. Da qui la centralità della figura di
Perenze in tutto l’affaire Giuliano. Su Luca il materiale abbonda. Lo
spionaggio americano ci rivela che è sempre stato “vicino” al regime
fascista e a Mussolini in persona e che, in tale veste, compie delicate
missioni in Turchia, Spagna e in Medio Oriente fin dall’inizio degli anni
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Trenta. Anche l’Fbi se ne occupa. Nel ‘59, segnala che intrattiene
rapporti a Napoli con il superboss mafioso Lucky Luciano.
Insomma, il “re di Montelepre” si mette a capo di un esercito
clandestino anticomunista. Con i suoi squadroni della morte attacca
contadini e militanti socialisti, comunisti e sindacali. Mantiene la parola
data a suo tempo a ministri, terroristi neofascisti, agenti dei Servizi
italiani e americani. Come il “giornalista” Mike Stern, che è solito
incontrare “Turiddu” in piazza San Silvestro, a Roma, fin dal ‘45. Ma
Stern si vedrà con Giuliano anche l’8 maggio ’47, una settimana dopo
l’eccidio di Portella della Ginestra. E’ l’inizio della fine del capobanda.
Non serve più. L’Italia si avvia a diventare centrista e tale rimarrà per
molto tempo.
Montelepre, agosto 1947 (foto Chiaramonte)
Perché si arriva alla messa in scena di Castelvetrano, la notte tra il 4 e il
5 luglio ‘50? Perché Perenze redige un rapporto giudiziario totalmente
falso? Certo perché protetto da Luca e dall’Unione patriottica
anticomunista (Upa), composta unicamente da ufficiali dell’Arma.
Questo organismo occulto, attivo dall’autunno ’46, ha un ruolo
fondamentale nelle operazioni sotterranee contro la giovane democrazia
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italiana. Ce lo conferma, tra gli altri, l’inchiesta di Riccardo Longone
pubblicata su “l’Unità”, organo ufficiale del Pci, all’inizio del ’47. Il
giornalista ci svela l’esistenza delle manovre per un colpo di Stato e la
dipendenza diretta dell’Upa dai Servizi di Angleton.
Sarebbe stato quindi prudente diffidare degli strani eventi di quella
notte di luglio. Persino di quel cadavere che i carabinieri dissero, senza
mezzi termini, appartenere al famoso bandito di Montelepre.
Dopo le elezioni politiche del ’48, Giuliano si sente abbandonato dallo
Stato col quale, da ex terrorista nazifascista, ha iniziato a trattare per
trovare una via di fuga in Italia o all’Estero. Ma non succede nulla.
Tutti fingono di non sentire. E a “Turiddu” saltano i nervi. Alza il tiro e
il risultato è la strage di Bellolampo, il 19 agosto 1949, sullo stradale
Palermo-Montelepre. Muoiono sette carabinieri.
E’ un chiaro messaggio per il colonnello Luca. Quando l’ispettore
generale di Ps in Sicilia, Ciro Verdiani, accorre sul luogo dell’eccidio,
con lui c’è anche il futuro capo del Comando forze repressione
banditismo (Cfrb).
Altro personaggio equivoco, questo Verdiani. Secondo le carte del Sis,
nell’estate ’46, quando ricopre l’incarico di questore di Roma, è in
contatto con alcuni membri della banda Giuliano. Ossia, con Silvestro
Cannamela, ex membro dei commandos della Decima Mas al Sud, e con
il catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, referente della banda
Giuliano nella capitale, a Firenze e ad Arezzo.
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Luca, quindi, è in Sicilia prima ancora di essere investito dei suoi poteri.
Forse sta ambientandosi prima di assumere l’incarico di capo del Cfrb,
il 27 agosto 1949. Con Bellolampo, Giuliano lancia un messaggio preciso
ai vertici occulti dell’Upa e, indirettamente, al ministro dell’Interno
Mario Scelba. Non è casuale, visto che le carte inglesi desecretate nel
2005 e da noi pubblicate in “Lupara Nera”, ci raccontano che gli uomini
di Scelba si incontrano segretamente a Roma con i capi del fascismo
clandestino (Augusto Turati in testa) e con i vertici della Polizia e dei
Servizi italiani, sotto l’ombrello protettivo del capitano Philip J. Corso
dell’intelligence Usa.
Giuliano, insomma, ricorre ancora una volta al terrorismo per trattare.
Minaccia di vuotare il sacco. Ovvero, verità inconfessabili come i legami
tra Cosa Nostra e lo Stato, il ruolo stragista dei Servizi di Angleton e
Corso, la funzione degli ex uomini delle Brigate Nere e della Decima
Mas al Sud, il ruolo occulto de l’“Anello”, che fa capo a De Gasperi e a
Scelba.
La sostituzione di Verdiani con Luca è funzionale alla nuova linea del
governo. “Se Giuliano vuole trattare, trattiamo pure”, sembrano dire i
vertici dello Stato. Il momento è delicato. Si avvicina la data d’inizio del
processo di Viterbo per le stragi del ’47 in Sicilia. Il bandito potrebbe
cantare, preso alla gola. Salterebbe il banco. Ecco perché Luca è l’uomo
giusto al momento giusto. Con lui non ci sono più gli eserciti in
mobilitazione permanente, i soldati che in massa circondano villaggi e
paesi e arrestano centinaia di persone. Ora invece entrano in azione gli
uomini dei Servizi italiani, sotto la copertura del Cfrb. Sono nuclei in
borghese addestrati più all’intelligence che all’uso delle armi, secondo il
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modello sperimentato negli anni precedenti da Luca e Perenze.
Soprattutto all’estero.
Da questo momento nulla è affidato più al caso. Il giornalista Jacopo
Rizza intervista Giuliano il 17 novembre ‘49 in una masseria nei pressi
di Salemi, per la rivista “Oggi”. Verdiani lo incontra un mese dopo, a
cena, portandosi dietro panettone e marsala. Il reportage di Rizza esce
in tre puntate, tra il 22 dicembre ’49 e il 5 gennaio ’50. E’ uno scoop
mondiale e le foto, scattate a decine da Italo D’Ambrosio e Ivo
Meldolesi, fanno il giro del mondo in ventiquattro ore. Giuliano, ora,
appare sorridente e tranquillo e si fa riprendere da una cinepresa in un
contesto arcadico.
Cortile di casa De Maria, 5 luglio 1950
Ma perché un terrorista sanguinario, ricercato da sette anni, decide di
esporsi in maniera così plateale? Qualcosa non quadra. Scrive il cognato
di Giuliano, Pasquale “Pino” Sciortino, considerato l’intellettuale della
banda: “Un sosia di Giuliano, un giovane di Altofonte, eccezionalmente
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somigliante a Turiddu, aveva l’incarico di farsi vedere in giro, di
mettersi in vista, di farsi notare. Il suo compito era quello di
comportarsi in maniera tale da dare l’impressione alla gente di trovarsi
alla presenza di Giuliano. Questo giovane, sosia di Turiddu, sparì da
casa per sempre un giorno prima della ‘ammazzatina’ di Turiddu a
Castelvetrano, e non se ne seppe più nulla”. E aggiunge: “Nelle quasi
duecento foto scattate e nel film girato da D’Ambrosio e Meldolesi,
Giuliano appariva tranquillo, sicuro di sé e leggermente ingrassato”
(Cfr. Sandro Attanasio e Pasquale “Pino” Sciortino, Storia di Salvatore
Giuliano di Montelepre, Palermo, Edikronos, 1985, p. 209). I due autori
notano, in ultimo, che l’aria spavalda dimostrata dall’uomo che appare
nelle foto “non si confaceva con il carattere riservato del ragazzo di
Montelepre”.
Ma non è solo il marito di Mariannina Giuliano, sorella di Turiddu, a
mettere in dubbio molti eventi di quei mesi. A parlare, questa volta, è la
signora Elisa Brai, proprietaria dell’agenzia fotografica “Pubbliphoto”
di Palermo. La signora, figlia di un celebre fotoreporter siciliano, ci ha
raccontato di avere incontrato più volte Sciortino tra l’84 e l’85, quando
questi frequentava la sua agenzia per selezionare alcune foto da
pubblicare nel volume sopra menzionato. Sciortino le rivela che a
morire, a Castelvetrano, non è stato Turiddu ma un sosia. E che è
proprio questo sosia ad essere stato sepolto nella tomba della famiglia
Giuliano, a Montelepre.
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Salemi, 17 novembre 1949.
Non è l’unica novità. La signora Brai ci ha svelato altri dettagli. Negli
anni Novanta, quando preparava il libro “Il carabiniere e il bandito”
(Mursia), l’ex maresciallo dei Cc Giovanni Lo Bianco, uno dei tre
firmatari del Rapporto depistante sulla strage di Portella della Ginestra,
raccontò alla signora Brai che Salvatore Giuliano, nei primi mesi del
‘50, viveva sotto falsa identità nell’appartamento di un’ aristocratica
siciliana in via Marinuzzi, a Palermo. Naturalmente sotto la protezione
dell’Arma. Insomma, sia Giuliano sia il suo luogotenente Gaspare
Pisciotta sono nelle mani dei carabinieri. Così come Salvatore Ferreri,
alias Fra’ Diavolo, è il confidente numero uno del capo dell’ispettorato
di Ps in Sicilia, Ettore Messana.
Per non parlare delle analisi sulle fotografie del cadavere di
Castelvetrano, compiute qualche anno fa dal prof. Alberto Bellocco
(Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), autore di oltre mille
perizie legali in tutta Italia negli ultimi vent’anni. Secondo Bellocco, si
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rilevano differenze significative nelle immagini che ritraggono quel
corpo senza vita. E’ un tema sul quale ritorneremo.
I punti oscuri, insomma, abbondano in questa vicenda. A sessant’anni
dal fantomatico conflitto a fuoco di Castelvetrano del luglio ’50,
basterebbe che la Magistratura ordinasse l’esame del Dna sul cadavere
che risulta sepolto nella tomba della famiglia Giuliano, a Montelepre, e
su quello dei suoi parenti più stretti. Ecco perché, il 5 maggio scorso,
abbiamo scritto al Questore di Palermo chiedendo che le autorità
competenti facciano le verifiche del caso. Lo dobbiamo a tutte le vittime
delle stragi siciliane di quegli anni infami, che ancora oggi non hanno
avuto giustizia alcuna dallo Stato.
GC e MJC
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QUELL’ULTIMA NOTTE DI TURIDDU
3.7.10
Giuliano ritratto da Pisciotta, giugno ‘50 (“La Settimana Incom”, luglio
‘50)
L’entità del fenomeno Giuliano si può sintetizzare in pochi, scarni
numeri: 34 caserme assaltate; 100 carabinieri uccisi; 411 delitti
accertati, tra i quali diverse stragi di civili e numerosi omicidi di gente
inerme; armi, munizioni e vettovagliamenti militari sufficienti ad
armare 2.000 uomini. Un milione di lire al giorno il costo delle attività
del Comando forze repressione banditismo (Cfrb), al quale va aggiunto
il vitto e il salario di ufficiali e militi. Due miliardi di vecchie lire il costo
complessivo della lotta contro il fuorilegge; 589 i “banditi” arrestati in
sette anni.
Del “re di Montelepre” si occupa la stampa di tutto il mondo. Ma è solo
dopo le stragi siciliane del ‘47 che il bandito comincia a suscitare una
curiosità mai registrata prima nell’opinione pubblica. In quegli anni
infami nessuno poteva sospettare ciò che gli archivi inglesi, americani e
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italiani ci hanno restituito dopo il 2000 e che abbiamo raccontato in vari
libri. La gente comune però, armata di buon senso, si chiede chi sia
veramente questo criminale, da chi prenda ordini, di quale
organizzazione faccia realmente parte, chi lo abbia protetto e come si sia
potuto difendere da quanti avrebbero preferito vederlo morto.
Con il titolo “Nessuno ha mai visto il bandito Giuliano”, Tommaso
Besozzi inizia la sua inchiesta sul brigantaggio in Sicilia, pubblicata su
“L’Europeo” a partire dal 13 luglio ‘47. Sono trascorsi due mesi e
mezzo dalla strage di Portella della Ginestra e i dubbi che le cose siano
andate diversamente da come sono state raccontate dalle autorità
dell’epoca, cominciano a serpeggiare in varie redazioni giornalistiche.
Besozzi è un reporter a cinque stelle. Come un segugio, nelle settimane
successive agli eccidi di quella primavera segue piste ben precise,
guidato dal suo fiuto di grande cronista. Ci racconta, ad esempio,
assieme a Ludovico Tuccu, gli strani movimenti del superboss Lucky
Luciano nella provincia di Palermo. Parla anche della sua famosa
“Dodge” rossa, a bordo della quale i testimoni degli assalti alle Camere
del Lavoro della provincia di Palermo, il 22 giugno ‘47, scorgono alcuni
giovanotti elegantemente vestiti e armati di tutto punto.
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Giuliano in casa De Maria, giugno ‘50 (“L’Europeo”, 4 dicembre 1960)
Ma in quel primo articolo del 13 luglio, Besozzi avanza pesanti dubbi
sull’identità stessa del capobanda monteleprino. L’occasione gli è data
dal rapimento, ad opera della banda, di Giuseppe Geraci, un facoltoso
uomo d’affari palermitano. In quasi venti giorni di prigionia, Geraci
non vede mai in faccia il famoso Robin Hood siciliano e, interpellato dal
giornalista, afferma: “E che ne sai tu se Giuliano era più vicino a me
quando stavo a Roma? Chi l’ha mai visto Giuliano? Chi sarebbe in
grado di distinguerlo da un altro picciotto qualunque?”.
L’articolo è molto chiaro. Due mesi dopo Portella, i Carabinieri hanno
nel loro schedario ufficiale soltanto una foto del bandito, risalente a sei
anni prima, quando Giuliano aveva diciannove anni. Besozzi incalza:
“Come lui ce ne sono altri diecimila in Sicilia, capigliatura nera e
impomatata, due occhi scintillanti, un viso dalla pelle abbronzata e
dall’espressione comune”. E conclude: “Insomma chi l’ha mai visto?”.
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Anche all’inizio del processo di Viterbo, nel giugno ‘50, i giudici hanno
difficoltà a identificare l’imputato numero uno. Di foto non ne
circolano. L’unica, scattata in data incerta, in mano ai carabinieri, è
quella in cui il bandito appare in sella a un cavallo. All’Arma, secondo il
giornalista Renzo Trionfera, l’ha consegnata Salvatore Ferreri, il
famoso Fra’ Diavolo, numero due della banda e primo confidente
dell’ispettore di Ps in Sicilia, Ettore Messana.
Giuliano a cavallo (foto consegnata ai Cc da Fra’ Diavolo nel ‘47)
Ma quell’unica immagine è il risultato di uno sforzo di intelligence,
mentre le forze dell’ordine non hanno, di fatto, schedari dei principali
ricercati dalla legge.
Di uno o più sosia, o di controfigure di Salvatore Giuliano da utilizzare
al momento opportuno per fingerne la morte, parlano negli anni
Ottanta Pasquale “Pino” Sciortino, il cognato di Giuliano, e il
giornalista Sandro Attanasio, come abbiamo scritto nel post del 27
giugno 2010 intitolato: “Salvatore Giuliano: di sicuro c’è solo che (forse)
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è morto”. Una ipotesi, questa, non isolata. Nel numero de “L’Europeo”
dell’11 dicembre ‘60, intitolato “L’ho ucciso io, urlò Pisciotta. La verità
sulla drammatica notte in casa De Maria”, il giornalista Renzo
Trionfera scrive:
“Mentre i carabinieri preparavano una trappola in cui farlo cadere, lui
[Salvatore Giuliano] meditava adeguate contropartite nei confronti del
Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Come riferirono alcuni
confidenti, egli stava macchinando un’azione complicatissima. Aveva
incaricato i suoi collaboratori di cercare un giovanotto che avesse
pressappoco la sua età e la sua corporatura. Una controfigura,
insomma, alla quale Turiddu avrebbe riservato una sorte crudele.”
Tale mossa avrebbe avuto come effetto immediato l’interruzione delle
ricerche, permettendo al bandito di dileguarsi.
Il progetto che ci viene svelato da Trionfera sembra trovare la sua
definitiva attuazione nella messa in scena del luglio ’50, a Castelvetrano.
Sta di fatto che, compiute le stragi del ‘47 e dopo essersi impegnato nella
campagna elettorale per le politiche del ‘48, Giuliano pretende che si
stia ai patti. Ma da questo orecchio nessuno lo vuole sentire. Gli dà
ascolto solo il vecchio ispettore di Ps Ciro Verdiani, che lo avvicina in
tutte le maniere, attraverso Cosa Nostra e, in particolare, tramite la
famiglia Miceli di Monreale. Verdiani fa quello che può nel cercare di
controllare il capobanda, ma i suoi tentativi sono vani. Giuliano ha già
cambiato tattica dopo le elezioni del ’48 e, alle promesse non mantenute
della Dc e della mafia, risponde uccidendo in modo plateale due tra i
suoi più autorevoli rappresentanti: Leonardo Renda, ad Alcamo, e
Santo Fleres a Partinico, nel luglio ‘48.
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Di questo mutamento ci parla Trionfera su “L’Europeo” del 4 dicembre
‘60 (titolo “Il grande agguato”): “L’8 aprile 1949, all’alba, Giuliano fece
attaccare una pattuglia di carabinieri nella zona di Torretta (alla
periferia di Palermo). Morì un milite fulminato da una revolverata.
Altri otto restarono più o meno gravemente feriti. Il 2 luglio successivo,
fu assaltata una camionetta della polizia a Portella della Paglia. Il
bilancio di questa seconda azione fu ancora più tragico: rimasero sul
terreno cinque agenti”.
L’offensiva raggiunge il suo culmine la notte tra il 19 e il 20 agosto 1949.
E’ attaccata a colpi di mitra la caserma dei Cc di Bellolampo, a metà
strada tra Palermo e Montelepre. Il presidio dà l’allarme telefonico.
Partono autoblindo e gipponi. Ma, giunti sul posto, non trovano
nessuno. Dei banditi neanche l’ombra. Iniziano i rastrellamenti ed è solo
all’alba che Verdiani ordina a tutti il rientro a Palermo. A questo punto,
entrano in azione altri due gruppi di attentatori. Scavano sullo stradale
una buca e vi collocano una mina contenente diversi chili di tritolo. Il
detonatore è collegato a un lungo filo di ferro manovrato a distanza.
Quando il convoglio attraversa quel tratto, i terroristi fanno esplodere
la mina. Un gippone salta in aria. I morti sono sette, i feriti,
terribilmente mutilati, una ventina. Si inaugura così l’archetipo del
terrorismo contemporaneo in Italia, che tanti lutti provocherà nei
decenni successivi.
Con questi morti, il bilancio dei carabinieri uccisi dal capobanda, dal
1943, sale a cento. Ma non è tutto. Un altro gruppo di banditi si apposta
a Passo di Rigano e, al passaggio della macchina di Verdiani, spara
all’impazzata lanciando bombe a mano. L’ispettore ne esce vivo per
miracolo.
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Salemi, 17 novembre 1949
Secondo Trionfera, il bandito, a questo punto, si sente forte e ritiene di
potere aprire una trattativa definitiva per chiudere a suo vantaggio la
battaglia che sta conducendo, a modo suo, contro lo Stato. Giuliano
quindi torna a incontrarsi con Verdiani e, al contempo, cerca di
agganciare il colonnello Luca, che il 27 agosto ’49 ha assunto il comando
del Cfrb.
Quello che accade dopo è noto. Ma bisogna fare attenzione a mettere i
tasselli in ordine logico, dando priorità a ciò che sembra restare in
secondo piano. E sullo sfondo leggiamo i seguenti fatti: Verdiani,
nonostante non abbia più nessuna funzione, rimane in Sicilia e incontra
più volte il bandito. Contemporaneamente alcuni giornalisti, guidati da
Jacopo Rizza, si mettono sulle tracce di Giuliano. L’iniziativa parte
dall’editore Giorgio De Fonseca che, la mattina del 7 ottobre ‘49, negli
uffici della Rizzoli (editore del settimanale “Oggi”) in via Barberini, a
Roma, propone a Rizza di intervistare Giuliano. Del gruppo fanno parte
Italo D’Ambrosio e Ivo Meldolesi, entrambi fotoreporter dell’agenzia
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“Meldolesi”. Fissano il loro quartier generale all’hotel “Sole” di
Palermo, ma si recano spesso a Partinico, dove si incontrano con un
mediatore che li mette in contatto con Giuliano. L’incontro avviene in
una masseria, a circa dieci chilometri dal bivio per Salemi. I giornalisti
sono forniti di macchine fotografiche e cinepresa. Alla fine, il 17
novembre 1949, si trovano faccia a faccia con il bandito. Il luogo
dell’incontro è una stalla, dove Giuliano arriva con Pisciotta. “Turiddu”
svela al giornalista la sua intenzione di volere espatriare, come ha già
fatto Sciortino nell’estate del ’47, e gli confida di aver compilato un
diario dettagliato sulle vicende degli ultimi anni (cfr. “La Settimana
Incom illustrata”, 16 aprile 1961).
Ma c’è qualcosa che non torna nella cronistoria di quanto accade in
quella stalla nei pressi di Salemi. In un articolo scritto per la rivista
“Oggi” (“Come penetrai nel covo di Giuliano”, 17 dicembre 1959), Ivo
Meldolesi ci fornisce dettagli che si discostano dalla versione di Rizza. A
cominciare dalle date. Per Rizza, come abbiamo visto, i preparativi
dell’incontro risalgono al 7 ottobre ’49 e si chiudono con l’intervista del
17 novembre. Il tutto su iniziativa dell’editore De Fonseca. Meldolesi,
invece, scrive che “la grande avventura” inizia a Roma il 9 novembre,
quando lo stesso Meldolesi ne parla con Ugo Zatterin, il capo della
redazione romana di “Oggi”. A partire assieme a Meldolesi e a
d’Ambrosio, doveva essere proprio Zatterin, ma questi passa il
testimone a Jacopo Rizza, perché – dice – ha la “mamma ammalata”.
L’ultima, macroscopica discrepanza rispetto alla versione di Rizza sta
nella data dell’incontro. Secondo Meldolesi avviene, infatti, il 10
dicembre ‘49. Ovvero, più di tre settimane dopo quella indicata da
Rizza. Come spiegare questa divergenza?
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5 luglio 1950
Sul settimanale “Oggi” del 20 luglio 1950, nell’articolo “Tre ipotesi sulla
fine di Giuliano”, il giornalista Enrico Roda scrive che, all’inizio di
quell’anno, i giornali pubblicano la notizia che il capobanda
monteleprino è fuggito in America. Il Cfrb è costretto a divulgare un
comunicato ufficiale per smentire la voce, spiegando che Giuliano si è
semplicemente “trasferito in altra zona”. Qualunque sia questa zona, è
chiaro che è mutato lo scenario, meno sottoposto ai riflettori della
stampa e ad occhi indiscreti.
Insomma, tra l’autunno del ‘49 e l’inizio dell’estate del ’50 si svolge una
trattativa occulta. Infatti, in un articolo pubblicato da “Oggi” il 26
aprile ‘51 (non firmato), si legge: “Ci furono incontri tra Giuliano ed
esponenti del Cfrb? Durante queste settimane, questo è certo, si notò un
gran movimento attorno a Villa Carolina, nei pressi di Monreale, e le
squadriglie rimasero per quindici giorni a riposo nelle caserme. Luca
forse pensava ad avere un memoriale di Giuliano sulla strage di Portella
della Ginestra e non era restìo, come egli stesso confessò ad un
giornalista che lo aveva intervistato subito dopo la morte di Giuliano, ad
incontrarsi direttamente col bandito.”
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Certo è che Cosa Nostra non rimane alla finestra a godersi lo spettacolo.
A questo periodo risale un fitto carteggio tra Verdiani, Giuliano,
Pisciotta, Perenze, Miceli e Albano (capimafia, questi ultimi due, di
Monreale), datato tra il febbraio e il giugno del ’50.
E non è tutto: “Bisognava poi aggiungere l’elenco dei viaggi effettuati
da Palermo a Roma, e viceversa, dall’inseparabile coppia Ignazio
Miceli-Domenico Albano, tra l’agosto del ’49 e il 5 luglio del ’50. [...] E’
abbastanza evidente che, nei mesi che precedono la morte di Giuliano, si
svolge una frenetica azione sotterranea che ha i suoi referenti nelle
principali cosche mafiose della Sicilia occidentale e, attraverso di queste,
in certi ambienti romani controllati dal ministero dell’Interno, di cui
Verdiani è la punta più vistosa” (cfr. G. Casarrubea, “Salvatore
Giuliano”, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 150).
Nel luglio ‘51, durante una deposizione resa al processo di Viterbo,
Verdiani aggiunge dettagli ancora più inquietanti: “Nella seconda
decade di maggio ’50, io informai del rapporto avuto con Giuliano la
Direzione generale di Ps. Mi si disse di non occuparmi più della
faccenda Giuliano per essere sopravvenuta una nuova organizzazione.”
In definitiva, le trattative occulte iniziano dopo la strage di Bellolampo
e, alla vigilia di Castelvetrano, entra in scena una nuova, misteriosa
identità che prende il sopravvento su tutto e tutti, anche sulle funzioni
del Cfrb. Con la mediazione di Cosa Nostra. Di quale organizzazione si
tratta?
23
5 luglio 1950
Dunque, una trattativa è ammessa anche dai testimoni oculari del
tempo e non c’è dubbio alcuno che, da entrambe le parti, ci sia stata la
massima collaborazione per ottenere quanto si sperava. Per Giuliano
l’agognata libertà, per Luca la certezza che documenti scottanti sui sette
anni di “Turiddu” in Sicilia, in particolar modo sulle stragi della
primavera del ’47, non vedessero la luce.
Fu questa la misura dello scambio e lo Stato dovette scendere a patti,
come più volte aveva fatto fin dal ‘43. Che le cose siano poi andate in
questa direzione, ossia che la trattativa sia giunta a buon fine, è ciò che
la Magistratura dovrebbe finalmente appurare.
GC e MJC
24
IL “PAPELLO” DI TURIDDU
10.8.10
“Nessuno ha mai visto il bandito Giuliano” (“L’Europeo”, 13 luglio 1947)
Per mettere la mordacchia e impedire ogni discussione, qualcuno ha
inventato la storiella che i miti popolari non muoiono mai. Anche se
non sono miti ma diavolerie, il bollino del mito aggiunge all’oggetto che
ne deriva la qualità di essere inviolabile. Difficile da smontare. Ma io
non sono affatto sicuro che il popolo si sarebbe bevuto per decenni una
bevanda impotabile o che sarebbe stato disponibile a fare di un
criminale un santo. Perciò, quando nei miti si aprono falle, il popolo le
amplifica e, pian piano, ne lascia intravedere i punti deboli, i falsi
inverosimili. O l’artificio. Così, checché ne pensino certi studiosi,
abituati a usare gli autori di cui si servono a loro piacimento, la
questione che essi pongono sulla morte di Giuliano è priva di alcuni
elementi. Uno tra tutti. Il più importante: ci fu o no una trattativa da
parte di Giuliano con lo Stato per salvarsi la pelle? Già nei due post
precedenti (“Di sicuro c’è solo che forse è morto” e “Quell’ultima notte
di Turiddu”) abbiamo cercato di inquadrare il problema. E siccome
25
zucchero non guasta bevanda, è bene che qui di seguito si mettano
ancora meglio in sequenza le tappe di quella che appare come una vera
e propria trattativa. Fatta non a tavolino, naturalmente, ma a colpi di
mitra e agguati al tritolo.
- Dopo Portella della Ginestra e gli assalti alle sedi della sinistra della
provincia di Palermo (maggio-giugno ’47), Giuliano comincia a chiedere
il rispetto dei patti stipulati soprattutto con quanti hanno il potere di
mantenerli. E cioè i democristiani. Ma i tempi sono lunghi e Giuliano
non ha pazienza.
- Il primo a cadere è il colonnello Luigi Geronazzo, braccio destro
dell’ispettore di Ps Ettore Messana. E’ ucciso, mentre rincasa, la notte
del 29 novembre ‘47. Di lui il senatore Girolamo Li Causi scrive:
“Soldato valoroso fino all’ingenuità, credeva che i banditi si
affrontassero allo stesso modo con cui si affrontano i soldati.”
Individuati i favoreggiatori del delitto, si scopre che sono confidenti di
Messana. Come Salvatore Ferreri, che spara a Portella della Ginestra,
- Tre mesi dopo, il 22 febbraio ‘48, tocca all’avvocato Vincenzo Campo,
vicesegretario regionale della Dc e candidato alle elezioni nazionali del
18 aprile ‘48. Mentre si trova sullo stradale Alcamo-Castelvetrano, a
pochi chilometri oltre l’abitato di Gibellina, in direzione di Sciacca, è
colpito da una raffica di mitra.
- A luglio dello stesso anno, alcuni colpi di arma da fuoco sparati in
piena piazza, al cospetto di tutti, raggiungono il capomafia di Partinico
Santo Fleres, referente principale della Dc locale ed elemento di
collegamento con le alte sfere politiche romane. Il delitto rimane, ancora
26
oggi, senza un perché e senza colpevoli. Ma è sicuro che nella cittadina
non si muove foglia senza il consenso del patriarca locale. Fleres,
appunto.
- A dicembre tocca a un uomo di fiducia di Fleres, Carlo Guarino, con il
figlioletto di tre anni e un altro confidente, Francesco Gulino.
- Esattamente un anno dopo, nel luglio 1949, è pugnalato alla schiena e
poi finito a colpi di lupara, il segretario politico della Dc di Alcamo,
Leonardo Renda, compare dell’onorevole Bernardo Mattarella, già
ministro democristiano e fondatore del partito di Sturzo in Sicilia.
Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, lo accuserà di
essere uno dei mandanti della strage di Portella della Ginestra. I banditi
lasciano il cadavere di Renda in mezzo alla strada, con la carta di
identità posata sul petto. A significare che la persona colpita
rappresenta un’altra, vera identità: quella di un politico che non ha
mantenuto la parola data. L’ipotesi più fondata, anche attraverso gli
atti processuali, è che i banditi, vedendo che non erano state mantenute
le promesse di libertà e di restituzione al consorzio civile in cambio dei
voti procurati alla Dc, si siano vendicati. Materia scottante, questa, se è
vero che il commissario di Ps, dottor Carbonetto, che aveva avviato le
indagini, è trasferito in Sardegna.
- Lo stillicidio di tutti questi delitti non porta a nessuna apertura nei
confronti del capobanda. Giuliano capisce che deve alzare il tiro se
vuole ottenere qualcosa. Perciò, quando ad agosto ‘49 avviene il
passaggio di consegne dal vecchio Ispettorato di Ps al Comando forze
repressione banditismo (Cfrb) del colonnello Ugo Luca (Cc), il bandito è
pronto a dare la sua risposta. Organizza la strage di Bellolampo. E’ il 19
27
agosto 1949. Una colonna di autocarri militari, in località Passo di
Rigano, è colpita dall’esplosione di una mina collocata in una buca
scavata lungo il passaggio di un’autocolonna militare. Salta in aria un
convoglio. I morti sono sette, i feriti una ventina.
Ma Giuliano non ha dalla sua parte soltanto le promesse fatte e non
mantenute. Ha il memoriale autentico (altri due erano stati scritti sotto
dettatura ed erano stati consegnati ai giudici di Viterbo), dove è
annotata la carriera criminale del bandito. A partire, appunto, dal ‘43.
E’ questo memoriale l’oggetto del contendere.
In definitiva, lo Stato potrebbe avere ceduto, ma non per fatti analoghi a
quelli ai quali avremmo assistito in tempi più recenti a proposito del
cosiddetto “papello” di Totò Riina, ma per via dell’esistenza di un
documento che, stando a Pisciotta, è il vero fatto temibile da parte di
molti personaggi. In Italia e all’estero.
E’ in questo momento che le cose prendono una piega diversa. Giuliano
comincia a fare la spola tra Castelvetrano e Palermo, rientra sotto la
protezione dell’Arma. Secondo una testimonianza, va a vivere in via
Marinuzzi, in casa di una professoressa, a stretto contatto con alti
ufficiali dei carabinieri. Riviste e giornali divulgano, cosa mai fatta
prima
dell’inverno
’49-’50,
decine
di
sue
foto.
Il
bandito,
inspiegabilmente, si fa riprendere (17 novembre ‘49) persino in un
filmato di cinque minuti nella famosa masseria nei pressi di Salemi. Gli
è accanto Pisciotta, uomo dei Cc, che ne garantisce l’identità.
Dall’autunno ’49, quello è il vero Giuliano. Tranquillo e disinvolto.
Mai nessuno l’aveva visto prima dell’avvio della trattativa.
28
GC
29
CIAK, SI GIRA: MORTE DI UN BANDITO
19.8.10
“Fuori tutti” (foto Carnemolla, copyright Farinella)
Nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare, a proposito e a
sproposito, dei giorni in cui il bandito Salvatore Giuliano, come narrano
le fonti ufficiali, è trovato morto nel cortile di Castelvetrano (Trapani),
la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950. La più misteriosa nella biografia
criminale di questo terrorista nero.
Se ne attribuiscono il merito, di fronte all’opinione pubblica mondiale,
due valorosi combattenti della Patria, appartenenti all’Arma: il
colonnello Ugo Luca e il suo braccio operativo, il capitano Antonio
Perenze. Ma anche la mafia, specialmente quella dell’entroterra
agricolo, rappresentata dai vecchi numi tutelari di “Turiddu”, assolve il
suo compito. Fa sentire il suo peso specifico e dimostra la sua principale
dote di sempre: la capacità di mediazione.
Al di sopra di tutto ci sono gli strateghi della comunicazione. Quelli che
decidono come e cosa gli altri devono pensare, quale dev’essere
l’immaginario collettivo. Il capobanda di Montelepre è, infatti, e da
30
subito, l’assassino che uccide un carabiniere mentre contrabbanda un
sacco di grano, il 2 settembre ‘43. E’ l’eroe dei poveri, un protetto dalla
mafia e un perseguitato dalla legge. Un santo e un diavolo.
La stampa dell’epoca lo fa passare per Robin Hood, una specie di
benefattore dell’umanità. Ma il “picciotto dritto” che non si lascia
posare la mosca sul naso, ad appena 28 anni ha già sul groppone ben
411 omicidi accertati. Le sue vittime sono inermi cittadini, possidenti
rapiti, poveri carabinieri ignari che fanno solo il loro dovere. Onesti
lavoratori che hanno l’unico torto di vederlo come manutengolo dei
latifondisti, un killer prezzolato. Le sue vittime rivendicano giustizia e
libertà. Manifestano, come a Portella della Ginestra, la propria gioia per
la festa dei lavoratori, in un’Italia appena uscita dal fascismo e dalle
tragedie della guerra.
La confusione e le reticenze più o meno accademiche o giornalistiche,
per non dire le compiacenze nel deviare la corretta interpretazione di
ciò che questo capobanda rappresenta, scatenano le solite cortine
fumogene. Impediscono all’opinione pubblica di farsi un’idea corretta
del vero problema. Cioè il rapporto indissolubile tra la criminalità
organizzata egemonizzata dalla mafia, i membri del governo e del
sottogoverno del democristiano Alcide De Gasperi, i servizi segreti
americani e italiani. Ne sono insigni referenti, ad esempio, il capo della
polizia Luigi Ferrari, l’ispettore generale di Ps in Sicilia, Ettore
Messana, i responsabili dell’intelligence Leone Santoro e Pompeo
Agrifoglio. Noto, quest’ultimo, per avere firmato, nell’agosto ’45, a
Venezia, il decreto di “immunità garantita” per trenta sabotatori della
Decima Mas ricercati per crimini di guerra. In loro compagnia ci sono
anche i fratelli Scalera, membri di spicco del fascismo del defunto
31
regime, il capo del neofascismo armato Augusto Turati e altri loschi
figuri. Il tutto sotto la protezione di James Jesus Angleton (Ssu) e Philip
J. Corso (Cic), i capi del controspionaggio Usa in Italia.
Salvatore Giuliano, agosto ‘47 (copyright Chiaramonte)
Giuliano è un affare per molti. Anche oggi, dopo che – il cinque maggio
scorso, sulla scorta di dieci anni di lavoro sul tema – abbiamo
presentato al questore di Palermo, dott. Marangoni, tramite il capo
della Squadra Omicidi, dott. Mosca, un’istanza per la riapertura delle
indagini sulla presunta morte del “bandito” monteleprino. Fatto che ha
consentito, finalmente, l’apertura di un fascicolo per l’acquisizione di
notizie, da parte del pm Francesco Del Bene (Procura di Palermo). La
notizia è stata divulgata in esclusiva da Attilio Bolzoni con un servizio
speciale su “Repubblica”, il 27 giugno scorso. Ciononostante, molti
adesso cantano vittoria per meriti acquisiti. Li avranno pure. Ma non ci
pare corretto che alcuni di loro si nascondano dietro il paravento del
segreto professionale per proteggere personaggi ancora in vita che, a
suo tempo, presero parte alle operazioni dell’intelligence italiana e
statunitense per coprire un branco di stragisti. C’è dunque omertà di
casta, se non proprio complicità, in certi ambienti dell’informazione,
32
che impedisce ancora oggi, forse più di prima, che gli italiani conoscano
la loro vera storia recente e quali misteri l’abbiano resa inestricabile.
Non sono questioni di lana caprina, queste. Giuliano, infatti, è un
criminale paragonabile a quelli presenti nella nostra penisola all’epoca
dell’occupazione nazista. Prima serve gli interessi dei Servizi di
Kappler, Hass e del principe Valerio Pignatelli, poi è utilizzato contro
“la canea rossa”, per contrastare la vandea comunista che, si teme,
possa giungere a San Pietro da un momento all’altro. Poi, ancora,
diventa una bomba a orologeria che bisogna saper disinnescare. Con
competenze di alto livello. A questo servono le trattative che il
capobanda e lo Stato – spinti dal comune interesse di celare la verità su
quanto accaduto in Italia, nel retroscena, tra il ‘43 e le stragi del 1947 –
avviano per anni. Fino alla fatidica notte di Castelvetrano. Molti episodi
di questa trattativa sono spudoratamente epistolari. Nero su bianco. Al
processo di Viterbo (1950-52) per le stragi di Portella della Ginestra e
del 22 giugno 1947, sono esibite le seguenti lettere:
- da Ciro Verdiani (ispettore di Ps in Sicilia fino all’agosto ’49) a Nino
Miceli (boss di Monreale): “Carissimo amico Ignazio”, 26 febbraio
1950;
- da Verdiani a Salvatore Giuliano: “Carissimo Salvatore”, 23 febbraio
1950;
- da Gaspare Pisciotta (luogotenente di Giuliano) a Verdiani: 14 giugno
1950;
- da Giuliano a Verdiani: “Caro commendatore”, 18 febbraio 1950;
33
- da
Giuliano a Verdiani, “Commendatore carissimo”, 23 febbraio
1950;
Durante il processo, l’avvocato Anselmo Crisafulli (difensore di alcuni
membri della banda) rende pubbliche altre missive:
- da Giuliano a Verdiani, ricevuta a Roma il 14 febbraio 1950 e intestata
“Carissimo commendatore”;
- da Antonio Perenze a Pisciotta, intestata “Caro amico”, non datata ma
scritta prima della morte di Giuliano, firmata “Antonio”;
- da Perenze a Pisciotta, intestata “Mio caro amico”, non datata e
firmata “Antonio”.
Sono attestati di amicizia, di un rapporto colloquiale, di un cercarsi a
vicenda. In queste ultime, il capitano Perenze (Cc) fa riferimento a un
“amico di Roma” e a un “maestro” che egli, di fronte ai giudici,
identifica con il colonnello Ugo Luca (Cc). Questi non è né romano né
“maestro”. Ma in simili scambi le parole sono allusive, i silenzi contano
più delle parole. Il termine “maestro” si può meglio riferire a qualche
convitato di pietra, o appartenente a qualche alta identità ultrasegreta,
piuttosto che a un ufficiale dell’Arma. Aggiungiamo, per chi l’avesse
dimenticato,
che
Verdiani
incontra
personalmente
il
bandito
l’antivigilia di Natale del ’49. Cena con lui portandogli in dono una
bottiglia di Marsala e un panettone fresco di forno.
Alla corrispondenza bisogna aggiungere l’elenco dei viaggi effettuati, da
Palermo a Roma e viceversa, dall’inseparabile coppia mafiosa costituita
34
da Ignazio Miceli (Monreale) e da Domenico Albano (Borgetto), tra
l’agosto ’49 e il luglio ‘50. Per quanto non sarebbe costato molta fatica
provvedere a precisi accertamenti presso gli uffici della Lai (Linee aeree
italiane). E’ evidente che, nei mesi che precedono la scena del cortile di
Castelvetrano, si svolge una frenetica azione sotterranea che ha i suoi
referenti nelle principali cosche mafiose della Sicilia occidentale e,
tramite queste, in certi ambienti romani controllati dal ministero
dell’Interno. Verdiani ne è la punta più avanzata. E’ certo, ancora, che
il governo De Gasperi non è estraneo all’intrigo, essendo stato
informato direttamente dall’ispettore, come egli stesso dichiara ai
giudici di Viterbo. Verdiani fa una brutta fine. E’ trovato morto a casa
sua, qualche tempo dopo la sua deposizione del 26 luglio ‘51 al processo.
Le fonti ufficiali parlano di suicidio. Ma, guarda caso, è l’uomo dello
Stato che conosce più di tutti il capobanda monteleprino e il suo
retroterra nazifascista. Fino al ’46 è stato questore di Roma. Ed è
proprio lui a firmare vari rapporti del maggio ’46 in cui si esplicitano le
relazioni tra gli emissari della banda Giuliano a Roma e gli ambienti
delle squadre armate neofasciste. E’ Verdiani che ci parla, in ultimo, del
celebre “zoppo”, l’“emissario della banda Giuliano” nella capitale. E’
addentro alle segrete cose. Ecco perché è prescelto, nella fase finale della
trattativa (agosto ‘49-maggio ‘50), per definire una soluzione
ragionevole al cul de sac in cui tutti si sono infilati. Verdiani, dunque,
rappresenta la prima, lunga fase del negoziato, che prende il via dopo la
tempesta dell’eccidio di Bellolampo (Palermo), avvenuto il 19 agosto ‘49,
quando un camion di militari dell’Arma salta per aria a causa di una
mina collocata sullo stradale da un commando della banda. I vertici
della triangolazione sono, oltre a Verdiani, Salvatore Giuliano in
persona e le mafie locali rappresentate da Miceli e da Albano. Con il
beneplacito del governo nazionale, da cui la misteriosa “Nuova
35
organizzazione” dipende. A Verdiani segue Luca e, a questi, la “Nuova
organizzazione”. La sequenza è lineare e ce ne occuperemo tra poco.
Salvatore Giuliano, 5 luglio 1950 (foto di V. Montalto, Archivio Leonardo
Corseri, www.castelvetrano.eu)
Insomma, l’ispettore ha assolto egregiamente al suo compito. Il banditoterrorista, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del ‘50, gli invia una
lettera all’indirizzo romano di via Benaco, 7, offrendogli un memoriale
sulle stragi della primavera del ’47. Non è un’offerta spontanea e
gratuita, ma il frutto di un patto. Dopo circa due mesi, durante i quali
Giuliano e Verdiani mettono a punto il testo, la cosa sembra ormai fatta.
Poco dopo (siamo alla metà di maggio del ‘50), il procuratore Emanuele
Pili riceve a Palermo il prezioso atto. E’ così intestato: “Agli egregi
signori magistrati”. E’ indirizzato all’abitazione privata di Pili, al
quarto piano di via Emerico Amari 146. Il timbro postale in partenza è
quello di Roma, la data il 12 maggio ‘50. La spedizione è personalmente
effettuata dalla signora Piera Sartorelli, abitante nella capitale in via
Adda 24. E’ il primo memoriale scritto da Giuliano. Il procuratore lo
legge mz non lo ritiene adeguato alla bisogna. Lo restituisce al mittente.
Forse non gli piace che Giuliano scriva che non voleva la strage di
Portella, che ce l’aveva solo con i capi comunisti, ai quali voleva dare
una lezione. Ma le cose prendono un’altra piega e quello che accade – i
morti e i feriti del 1° maggio ’47 – non dipende dalla sua volontà.
“Così non va bene”, si lamenta Pili. Giuliano deve scrivere un altro
memoriale. Questa volta sotto attenta dettatura. Così l’autoaccusa sarà
36
precisa: “In questo processo – dichiara il monteleprino – vivamente
protesto di non esservi mandanti e responsabili all’infuori di me”.
Questo va bene. E quando il prezioso documento è ultimato, Giuliano lo
firma e vi appone una data: 28 giugno ‘50. Adesso è tutto a posto. Sette
giorni più tardi, il capobanda è trovato “morto” nel cortile di
Castelvetrano.
Che cosa accade dopo il primo memoriale, ce lo racconta Verdiani in
persona: “Nella seconda decade di maggio 1950, io informai del
rapporto avuto con Giuliano la direzione generale di Ps. Mi si disse di
non occuparmi più della faccenda Giuliano per essere sopravvenuta una
Nuova organizzazione”.
Quasi un anno è passato dalla nascita del Cfrb. Di quale “Nuova
organizzazione” parla quindi l’anziano ispettore? Evidentemente, di
un’entità ultrasegreta e iperprotetta a livelli altissimi. Forse, Verdiani
pronuncia una parola di troppo.
La mafia, lo Stato e l’ombrello protettivo Usa esprimono un sistema
organico che collauda un modello imperante fino ai nostri giorni. Il
problema è proprio questo: se, come ci dicono le carte americane e
britanniche che abbiamo studiato negli ultimi dieci anni, il bandito di
Montelepre è tutt’altra cosa da quanto ci è stato raccontato dagli storici
accademici e dai rotocalchi, è quindi legittimo ritenere che le cose siano
andate diversamente da come ci sono state descritte a proposito della
sua presunta morte.
Tutto lascia ritenere che si sia svolta una lunga ed estenuante trattativa
a base di incontri, lettere dalle formule allusive, pacche sulle spalle,
colpi di lupara e mine anticarro. Ma anche colloqui ufficiali e, appunto,
“memoriali” corretti fino alle virgole.
37
La trattativa, a modo suo, la comincia Giuliano subito dopo gli eccidi
della primavera del ‘47. E c’è un risultato importante. Prendono il volo
per l’America, ad agosto di quell’anno, alcuni membri della banda:
Pasquale “Pino” Sciortino, Francesco Barone e Giuseppe Cucinella. Poi,
però, tutto si blocca per mesi.
Nel novembre ’47 è ucciso il militare dei Cc Luigi Geronazzo, braccio
destro di Messana. Il messaggio è chiaro: “Non facciamo scherzi. Chi
ha orecchie per intendere, intenda.”. L’avvertimento ha un sapore
inequivocabile. Come in tempi a noi vicini l’assassinio di Salvo Lima, il
plenipotenziario della Dc in Sicilia fino al ’92.
Nel febbraio ‘48 cade l’avvocato Vincenzo Campo, membro autorevole
della Dc e candidato alle elezioni politiche di quell’anno. A luglio è la
volta di Santo Fleres (Partinico), capomafia e personaggio di spicco del
partito di De Gasperi. Giuliano non si ferma dinanzi a niente e a
nessuno, sicuro come un “trattore”. Segue a ruota l’uccisione
dell’alcamese Leonardo Renda, compare del ministro
Bernardo
Mattarella (Dc).
Nonostante questa sequenza di morte, lor signori non sembrano capire
la lezione. Giuliano, allora, alza il tiro. E’ la strage di Bellolampo,
nell’agosto del ‘49.
Il capobanda si sente protetto da una gabbia di Faraday, qualcosa di più
forte della mafia e del potere politico. E’ il suo vero memoriale, il terzo,
dove sta scritta la verità su fatti e persone coinvolte nelle stragi, tutto ciò
che è accaduto da Kappler, nella Roma occupata dai nazisti, fino ai Far,
38
all’Eca, alle Sam. Ne è testimone Pisciotta che ai giudici di Viterbo dice
che i primi due memoriali sono finti, che quello vero è altrove.
Nel cortile di Castelvetrano, luglio 1950
Dopo Bellolampo, le cose cambiano. Lo dimostra il silenzio che si
avverte nell’aria. Come la quiete dopo la tempesta. Ora le armi
tacciono, si fa posto alle discussioni. Faccia a faccia. Mafia, banditi e
polizia. Il 27 agosto ‘49 Ugo Luca diventa capo del Cfrb. Ma Verdiani,
imperterrito, non abbandona la scena. Anzi – come abbiamo visto –
prosegue la sua azione di contatto con Giuliano fino al maggio del ’50.
Forse, qualcuno capisce che deve essere lui a chiudere il primo tempo
della trattativa con Giuliano. Rimanga quindi in Sicilia. Senza di lui,
Luca non potrebbe muoversi. L’obiettivo strategico del negoziato è
chiaro: ottenere la falsa auto-accusa di Turiddu, non la verità dei fatti.
E Verdiane ci riesce, la sua funzione è quella di apripista.
Ma perché il bandito dovrebbe sottoscrivere le sue colpe? E’ certamente
un megalomane, ma non un autolesionista. Quale contropartita ottiene
dall’ammissione sconcertante dei suoi delitti? Arriviamo così al cuore
del problema. Ora il gioco è salvare la pelle in cambio della consegna del
memoriale, il terzo, quello vero e, soprattutto, scottante.
39
A Viterbo, i giudici impazziscono per cercare di venire a capo di queste
carte. Ma non approdano a nulla. Qualcuno, durante il dibattimento,
dice che sono state bruciate. Non può essere vero. Sono il salvacondotto
che deve consentire a Giuliano di uscire dal vicolo cieco in cui si è
infilato, tirandosi dietro, obtorto collo, anche lo Stato. I termini del
negoziato prevedono l’incolumità fisica di “Turiddu” negli anni
avvenire. Una sorta di immunità protettiva, come quella di cui
beneficiano i collaboratori di giustizia negli Stati Uniti. Un’idea tutta
americana.
Anche se non sempre le cose vanno per il verso giusto. Nel settembre del
’52, l’Fbi mette le mani su Pasquale “Pino” Sciortino, il cognato di
Giuliano, per ricondurlo in Italia, dove sconterà vent’anni di carcere.
Nel Texas, l’ex terrorista è da cinque anni un sergente della US Air
Force. Un episodio inquietante che ci consente di capire meglio alcuni
dettagli di questa infinita saga criminale.
Tra la metà di maggio e i primi di luglio del 1950, in Sicilia, il testimone
passa al colonnello Luca. Ora bisogna allestire il set di questo noir
all’italiana, dove le ombre prevalgono sulle luci. E, alla fine, qualcuno
trova sempre il cadavere scomparso. Ciascuno ha recitato la sua parte.
Con risultati, sul lungo periodo, più o meno vantaggiosi. In questo
copione abbiamo incontrato vari personaggi: i sosia di Giuliano, i
giornalisti, gli autori di un filmato, carabinieri, avvocaticchi, gente
comune, spie e uomini di governo. Alcuni si sono appena intravisti, sul
fosco scenario estivo di quella notte. Forse, è mancato soltanto il
protagonista della pellicola. Ma tant’è. Gli spettatori, ovvero gli
Italiani, come diceva Curzio Malaparte, sono un popolo che porta
sempre i pantaloni corti.
40
GC e MJC
41
SEPPELLITE CESARE
13.9.10
La verità sul bandito Giuliano (1949)
Sicilia, marzo ‘50. Strane voci circolano nell’isola. Riguardano un uomo
che ha fatto parlare di sé in tutto il mondo. Si chiama Salvatore
Giuliano. Di professione, capo di una banda di terroristi neri. Alcuni
dicono che è fuggito in Tunisia, nel dicembre ‘48, a bordo di un’
imbarcazione; altri, che sia andato nella Spagna franchista per
arruolare un esercito di liberazione della Sicilia; altri, ancora, che il
governo italiano ha organizzato la sua fuga nel Nuovo Mondo, dove il
bandito è stato concepito nel 1922 (cfr. Gavin Maxwell, Dagli amici mi
guardi Iddio, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 147).
Sta di fatto, comunque, che Antonino Terranova, alias “Cacaova” e
Frank Mannino, alias “Ciccio Lampo”, membri autorevoli della banda,
scappano a Tunisi. Hanno un amico e si imbarcano sul peschereccio
“Rosita”, con l’aiuto dell’ispettore di Ps Ciro Verdiani. E’ il 7 dicembre
‘48. Nell’agosto ’47, alcuni membri autorevoli della banda erano
42
espatriati negli Usa con passaporti falsi: Pasquale Sciortino, inteso
“Pino”, Francesco Barone, alias “Baruneddu”, e qualche altro. Anni
dopo, saranno tutti acciuffati e riportati in terra di Sicilia.
Secondo alcuni articoli de “l’Unità” dell’estate ‘47 – scrive il giornalista
(e spia) Mike Stern nel volume “No innocence abroad” negando la
circostanza (Random House, New York, 1953, pp. 63-113) – , il compito
di Sciortino consiste nel mantenere i contatti tra gli uomini di Stern, nel
New Jersey, e la banda Giuliano in Sicilia. La notizia è giudicata
erronea. Ma, guarda caso, Sciortino è catturato nel settembre ’52, nel
Texas. Non dalla Cia ma dall’Fbi. E’ un sergente della US Air Force e,
tornato in Italia, sconterà una pena di vent’anni per il suo
coinvolgimento nella strage di Portella della Ginestra.
Terranova, durante il processo di Viterbo nel 1951, spiega meglio le
cose: “Giuliano mi disse che gli istigatori del massacro di Portella si
erano rifiutati di osservare il patto [la promessa di libertà e di immunità
per tutti gli uomini della banda].” E aggiunge che l’ordine impartito da
Giuliano fu il seguente: “Dobbiamo far pressione su questi signori
perché mantengano la parola. ‘Vai a Castellammare del Golfo e
sequestra Mattarella [deputato siciliano della Dc] con tutta la sua
famiglia’, mi disse.”
Dunque, sono due i fatti che emergono. Il primo è che, dopo le stragi
della primavera del ‘47, la promessa di libertà è mantenuta solo per
alcuni uomini della banda. Quelli che, diciamo, eludono i controlli, la
fanno in barba alla legge. Il secondo è che il mancato rispetto dei patti
spinge Giuliano a colpire in un’unica direzione: i capi della Dc.
Liberare Giuliano non è una scelta di scarso rilievo. Egli è il capo
riconosciuto di uno squadrone terroristico e il depositario di molti
segreti inconfessabili. Custodisce il diario di bordo dove stanno scritti
nomi illustri, menti politiche e mandanti. Eliminarlo sarebbe molto più
comodo e sbrigativo che mantenerlo in vita. E non si può permettere che
vada via come una mina vagante. Da vivo, infatti, promuove tragedie e
lutti incalcolabili, che mette a segno dopo vari tentativi di persuasione
rivolti alla sua controparte. Cioè lo Stato. Pubblica, ad esempio, sul
“Giornale di Sicilia” un ultimatum al governo: “Se entro il 21 aprile
43
[1949] non mi sarà data una risposta, attaccherò le forze dell’ordine per
uscire da questa tormentata situazione.”
Dall’opuscolo intitolato “La verità sul bandito Giuliano” (supplemento
al n. 24 di “Propaganda” del Pci, 1949), apprendiamo che “Giuliano ha
una sua logica. Egli non si sa spiegare come mai coloro che si sono
serviti di lui per massacrare i contadini a Portella della Ginestra e per
organizzare le stragi del 22 giugno [1947], coloro che gli hanno indicato
i cittadini da sequestrare e da ricattare per dividere insieme i proventi,
coloro che gli hanno fatto eleggere il 18 aprile [1948], ora se la prendono
con lui e gli lanciano contro la polizia. La prima lettera di Giuliano al
governo è infatti una lettera di richiamo ai precisi impegni presi dalle
forze politiche al potere nei riguardi del bandito: ‘Onorevoli – scrive
Giuliano – queste donne che si trovano maltrattate in carcere [il
riferimento è alla madre e alle sorelle], sappiate che hanno votato le
vostre liste perché speravano in un senso di giustizia e soprattutto nelle
vostre promesse. Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi
abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre’
[…]”.
44
Ma gli onorevoli fanno orecchio da mercante. E, come abbiamo già visto
in altri post di questo blog, Giuliano alza il tiro. Prima l’imboscata di
Portella della Paglia, poi Bellolampo, nell’agosto ‘49. Tredici agenti di
Ps e carabinieri pagano con la vita i giochi di potere dei potenti che
siedono a Roma e che manovrano i loro manutengoli in Sicilia. Il 18
settembre, sulla strada per Menfi (Trapani), i banditi fermano e
rapinano due deputati democristiani: Addonnino e Borsellino. Il primo,
come scrive il quotidiano romano “Il Paese”, ha presentato
un’interpellanza al Parlamento prendendo le difese dei banditi, il
secondo avrebbe detto: “Io ho difeso gratuitamente i ‘Fratelli d’Italia’
(due noti banditi di Menfi).” Come a dire: “Noi abbiamo mantenuto la
parola data. Caro Giuliano, non prendertela con noi.”
Verdiani continua a muoversi dietro le quinte. Il ministro dell’Interno,
Mario Scelba, gioca le sue ultime pedine. Istituisce, nell’agosto ‘49, il
Comando forze repressione banditismo (Cfrb) con a capo il colonnello
Ugo Luca, ex uomo di fiducia di Mussolini, già membro autorevole del
Servizio informazioni militare (Sim) e, secondo alcune voci, agente del
Dipartimento di Stato americano.
Il rispetto dei patti stabiliti non può riguardare l’amnistia concessa da
Togliatti, ministro della Giustizia, ai separatisti e ai fascisti di Salò, il 22
giugno ’46. Posto che i banditi possano beneficiarne. La circostanza è
semplicemente impensabile. Ecco perché l’unica interpretazione che si
può dare alla promessa di libertà da parte dei pezzi grossi della politica
è l’espatrio, con documenti falsi. E cioè una operazione che soltanto una
organizzazione al di sopra di tutto e tutti può portare a termine e sulla
quale De Gasperi e altre forze internazionali possono personalmente
garantire.
45
La materia del contendere è, dunque, l’espatrio. Per incastrare
Giuliano, spingendolo all’esasperazione, Scelba fa arrestare i suoi
familiari. L’anziana madre e Giuseppina Giuliano, arrestate nell’estate
’49 assieme a Giuseppe Giuliano (spedito ad Ustica), sono poi scarcerate
nel gennaio ‘50 e rispedite a Montelepre. La stessa sorte tocca a
Mariannina, scarcerata il 25 ottobre ‘49. Ufficialmente, le tre donne
escono per motivi di salute. Poi subentra il silenzio, la calma. Giuliano è
più tranquillo. Verdiani ha fatto bene il suo lavoro. Gli rimane solo la
predisposizione di alcuni dettagli della scena finale.
Alla fine del ’49 le armi tacciono. Qualcuno decide di chiudere la
partita. In un modo ragionevole per tutti. Ma ci sono gli indizi lasciati
sul terreno, i dubbi, le contraddizioni. Sempre più estesi come in un
puzzle senza fine. Come nei film polizieschi, i dettagli svelano i conti che
non tornano. A fornirceli sono diverse fonti.
Ci sono i testimoni di quegli anni. Si parla in modo esplicito della
trattativa aperta dal terrorista monteleprino con lo Stato. Nel paragrafo
“Giuliano chiede che vengano mantenuti gli impegni”, il quadro è
46
inquietante. L’isola ha un’aria irrespirabile. Ben cinque ispettori
generali di Ps si avvicendano in meno di due anni. Sono, nell’ordine,
Messana, Coglitore, Modica, Spanò e Verdiani. Tranne quest’ultimo,
tutti scappano dopo pochi mesi di permanenza. Qualcuno, come
Coglitore, non ci mette neanche piede e dirige il suo Ufficio da Napoli.
Resiste il solo Verdiani. Questi avvia, e porta a termine, le trattative con
Giuliano fino al maggio ‘50, nonostante non sia più in carica. Dopo,
come egli stesso dichiara ai giudici di Viterbo, lo invitano a farsi da
parte perché è intervenuta – dice – una “nuova organizzazione”. Ha
fatto la sua parte fino in fondo.
“God Protect me from my friends” di Gavin Maxwell (Londra, 1956)
Nella scena finale della folle tarantella cui assistiamo, non è fuori luogo
ipotizzare soluzioni sperimentate altrove, magari in tempo di guerra. Ne
parla, ad esempio, Gavin Maxwell nel libro Dagli amici mi guardi Iddio
edito da Feltrinelli nel 1957. Lo scrittore scozzese, ex istruttore dello
Special Operations Executive (Soe) britannico durante la seconda
guerra mondiale, svolge proprio a Montelepre una delle prime inchieste
47
sul bandito. Forse qualcuno, in Gran Bretagna, gli ha raccontato come
sono andate realmente le cose.
Quando arriva tra quelle montagne, ne coglie la particolare cultura, gli
usi, gli atteggiamenti delle persone. Interroga testimoni, visita luoghi,
legge documenti, ricostruisce scene e ambienti di appena cinque anni
prima. Come un regista alle prese con un casting immaginario. Molte
sue affermazioni sono raccolte dal vivo, anche se lo stile del lavoro è di
tipo narrativo. Ma c’è da credergli perché nella rappresentazione
realistica che ci fornisce, tutto è verosimile, spinto dalla voglia di sapere.
Maxwell dice e non dice, usa metafore, allude a qualcos’altro, a fatti
inconfessabili. E ciò non gli impedisce di lasciar intravedere importanti
verità.
Si sta preparando il terreno per ciò che avverrà nell’estate del ‘50. Gli
Stati Uniti d’America sono una realtà ben presente nella famiglia
Giuliano. Vi emigrano nel 1903 il padre del futuro bandito, Giuseppe, e
Maria Lombardo, sua moglie. Si stabiliscono a New York, a Manhattan,
sulla Settantaquattresima Strada Est. Qui, all’inizio del ‘22, è concepito
Salvatore, ultimo di quattro figli. La vita è dura per questa famiglia
siciliana. Il padre, per vivere, fa lo scaricatore di merci nel quartiere. Ci
rimangono alcune rare foto del periodo americano. Sono pubblicate dai
rotocalchi italiani negli anni Cinquanta. Immagini che sembrano uscite
dal film Il padrino di Francis Ford Coppola.
Verdiani deve curare i particolari. “Il patto è già firmato”, svela
Maxwell. L’ispettore può tornare a Roma. Nel marzo ‘50 lo raggiunge il
boss Miceli, da Monreale. Hanno entrambi un compito da svolgere.
Maxwell non potrebbe essere più esplicito. Ha soggiornato parecchi
mesi nell’isola. E, come agente segreto di lungo corso, sa cose che non
48
può dire. Ma scrive: “A sipario abbassato, il pubblico in sala
chiacchierava e si agitava. Dietro il sipario, erano all’opera i servi di
scena, portavano via lo sfondo delle montagne biancastre su cui si
profilava, in lontananza, una caserma devastata, toglievano le quinte,
rappresentanti vigneti, uliveti, fichidindia, boschetti di vimini,
raccoglievano i poveri rustici strumenti che erano rimasti appoggiati al
muro di una capanna, e sostituivano a quella scena, ormai per noi
familiare, la veduta di una strada di Castelvetrano. Non più la luce dura
del Mezzogiorno sul cielo abbagliante di cobalto, ma il pallido
misterioso splendore di un’alba mediterranea, le ombre ancora lunghe
che disegnavano un cortile e un arco. Muri e gradini sbrecciati. Nei
camerini, un attore si rifaceva il trucco. Anche Luca, infatti, aveva
avuto un incontro segreto ‘nel cuore della notte’ con un uomo al quale
aveva indicato la parte che doveva recitare.”
Maria Lombardo, madre di Salvatore Giuliano, a New York nei primi anni
del ‘900
49
Maxwell ci racconta che, all’alba del 5 luglio ’50, “un giovane, come
immerso in un sonno pesante” giace a terra, in un cortile di via
Mannone, a Castelvetrano. Più tardi cominciano a circolare voci,
secondo le quali Luca ha fatto arrivare nel paese del capomafia
Giuseppe Marotta, un “autocarro con scritti sulle fiancate i nomi
dell’Istituto cinematografico “Luce” e di due giornali, “La Gazzetta
dello Sport” e “Il Paese”. Vi spicca la pubblicità delle “Avventure di
Paperino”. I tecnici di questo film, che non sarà mai girato, sono
carabinieri travestiti. E’ una carovana felliniana che si mette in mostra
per città e campagne nella zona di Castelvetrano. Come nella
promozione di uno spettacolo da circo equestre. Il maestro delle scene è
il colonnello Luca. Lo segue a ruota il capitano Perenze. Con i suoi
uomini in divisa.
L’autocarro con cui la troupe si muove è munito, stranamente, anche di
“un’antenna radio perfettamente visibile”. E’ da qualche giorno che la
gente, incredula, li vede. Uno spettacolo insolito. Ma a cosa serve
un’antenna in quelle circostanze? Chi è e dove si trova l’attore
principale? Il “camerino” di cui parla Maxwell (p. 148) può mai
trovarsi fuori da quell’autocarro, se le scene si stanno girando proprio a
Castelvetrano, in via Mannone e nel cortile dell’avvocato Gregorio De
Maria? E’ tutto un apparato degno di Cinecittà, destinato a chiudere lo
spinoso affaire del capobanda monteleprino.
50
La folla tenuta a distanza (foto V. Montalto, archivio Corseri)
Ma torniamo al cortile De Maria e a Gavin Maxwell: “Il corpo di
Giuliano giacque per tutta la mattina del 5 luglio là dove si diceva che
era caduto, nel cortile del numero civico 14 di via Serafino Mannone.
L’arco per cui vi si entra fu bloccato da una Fiat, intorno alla quale
stava a guardia un reparto di carabinieri, i quali impedivano l’ingresso
e la vista alla folla che si addensava nella strada”.
Il corpo rimane nel cortile fino a mezzogiorno e, adempiute le formalità
di rito (descrizione della posizione dell’individuo e degli oggetti intorno),
il procuratore generale Emanuele Pili ordina di trasportarlo all’obitorio
di Castelvetrano.
Scrive Maxwell, a pagina 162: “Lo sollevarono dolcemente, come un
compagno ferito, ed un carabiniere gli pulì la fronte che al contatto con
la terra, nel cortile, s’era sporcata di polvere.”
51
Ingresso al cortile di via Mannone ostruito da una Fiat, 5 luglio ‘50 (foto
Montalto, archivio Corseri, www.castelvetrano.eu)
Il periodo tradisce qualcosa di indicibile. I carabinieri usano molto
riguardo verso questo corpo, al punto che uno di loro gli pulisce la
fronte. Che, però, non è sporca di polvere, come si vede chiaramente
dalle fotografie scattate da Vincenzo Montalto. Quel gesto sembra,
piuttosto, l’atto caritatevole che un infermiere compie verso un
ammalato, forse leggermente sudato. A questo punto arriva un carro
funebre, sul quale i carabinieri depongono quel corpo. Poi il carro si
dirige verso l’obitorio, dove viene eseguito un “sommario post mortem”
da parte del prof. Ideale del Carpio, prima di eseguire la maschera in
gesso del volto.
Solo da questo momento sono ammessi i giornalisti e la folla, con il
seguito chiassoso dei fotografi. Ma che cosa accade nel lasso di tempo
che intercorre tra l’ingresso del carro funebre all’obitorio e il momento
in cui al pubblico è consentito di avvicinarsi al morto? E che
caratteristiche presenta questo corpo?
52
Su queste domande sta indagando la polizia scientifica di Roma.
GC e MJC
53
MEGLIO VIVO: I PERCHÉ SULLE ULTIME ORE DI GIULIANO
22.9.10
La storia delle origini dell’Italia post-fascista è ancora avvolta da molti
misteri. Valga per tutti la vicenda della vita e della morte del bandito
monteleprino Salvatore Giuliano, al quale quella storia è legata.
A tal punto che ci troviamo di fronte, ormai, ad un’icona che di quel
periodo è espressione. Ne rappresenta, anzi, i lati più oscuri,
difficilmente districabili. La saldatura, ad esempio, tra poteri
istituzionali e poteri criminali che proprio in quegli anni si realizza su
scala nazionale. Quando la criminalità politica diventa una necessità di
Stato. Fino al punto che è possibile ipotizzare un archetipo fondativo
della storia italiana lungo il filo nero che va dalla strage di Portella della
Ginestra (1° maggio ‘47) a quella di via D’Amelio (19 luglio ‘92).
Una costante di tale verità è la costruzione di stereotipi. Gli aiuti
americani alla rinascita del nostro Paese, il mito degli italiani “brava
gente”, la scomparsa del fascismo, l’insorgenza di una classe di
diseredati pronta a darsi il suo Robin Hood, la netta separazione tra
Stato e Cosa Nostra e via di seguito. Se si afferra un bandolo di questa
matassa, rotta in diversi punti, si può seguire il filo d’Arianna che porta
54
fuori dal labirinto. Non è un’operazione semplice. Occorre sgomberare
la mente dalle sedimentazioni che impediscono di scrivere una storia
mai raccontata.
Giuliano è una cartina di tornasole. Inizia la sua carriera paramilitare
come terrorista neofascista, prima nella Decima Mas badogliana e dopo
nelle fila delle formazioni nere gravitanti attorno alle Sam (Squadre
d’azione Mussolini), ai Far (Fasci d’azione rivoluzionaria di Pino
Romualdi), alla Brigata Nera “Raffaele Manganiello” o al Fronte
antibolscevico. Gli americani lo segnalano già nel gennaio ‘44 come un
“picciotto dritto” e, dopo, come “leader of a fascist band in Sicily”.
Ma Turiddu non è il bandito montanaro. Si muove molto per l’Italia. I
servizi segreti nostrani lo segnalano al bar “Traforo” o in quello di
piazza San Silvestro a Roma, frequentato da Mike Stern (Cic). Nella
capitale, il giovanotto – capelli impomatati e occhiali da sole – prende
ordini dall’aristocrazia nera di orientamento monarchico-eversivo.
Organizza così la strage di Portella della Ginestra e quella del 22 giugno
‘47. La mafia gli fa da scudo. A dirigerla, negli anni di piombo 1946-’47,
c’è un nuovo raìs. Il mitra subentra alla lupara; il tritolo al taglio delle
viti; la strage indiscriminata alla semplice vendetta personale. Quando
spunta l’alba del 22 giugno, il giorno è segnato da una carica di tritolo
che fa saltare per aria la centrale elettrica di Palermo. In serata,
seguono gli assalti contro le Camere del Lavoro e le sedi di sinistra in
ben sette comuni della provincia di Palermo. Questa volta l’obiettivo è
mirato. E’ “l’infezione comunista”. Giuliano agisce per conto terzi. A
tramare ci sono membri del sottogoverno De Gasperi e boss di Cosa
Nostra, mafiosi locali e personaggi politici. Tutti promettono e il
“picciotto dritto” di Montelepre sta ai patti.
55
Dopo le stragi, la parola data non è mantenuta. La promessa amnistia
anche per i criminali è ancora lontana e Giuliano perde le staffe. A
modo suo, inizia un’azione di forza. Come un Totò Riina ante litteram.
Bersaglio principale sono, questa volta, esponenti delle istituzioni e
democristiani di spicco. La loro eliminazione è una vendetta trasversale,
di avvertimento.
A novembre ‘47 è ucciso il militare dei Cc Luigi Geronazzo, braccio
destro dell’ispettore generale di Ps, Ettore Messana. Il messaggio è:
“Non facciamo scherzi. Chi ha orecchie per intendere, intenda”. Il
vecchio ispettore di Racalmuto, anche se destituito, è il referente
principale di Gaspare Pisciotta, di Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo,
e di altri criminali. Pisciotta dice che anche Giuliano è un confidente di
Messana. Nel caso di Geronazzo, dunque, il messaggio lanciato dal
capobanda è diretto. Come in tempi a noi vicini l’assassinio di Salvo
Lima, il plenipotenziario della Dc in Sicilia.
Nel febbraio ‘48 cade l’avvocato Vincenzo Campo, membro autorevole
della Dc e candidato alle elezioni politiche di quell’anno. A luglio è la
volta di Santo Fleres, a Partinico, capomafia e personaggio di spicco del
partito di De Gasperi. Giuliano va sicuro come un “trattore”. Segue a
ruota l’uccisione dell’alcamese Leonardo Renda, compare del ministro
Dc Bernardo Mattarella. Nonostante questa sequenza di morte, lor
signori non danno segnali di aver capito la lezione. E Giuliano alza il
tiro. E’ la strage di Bellolampo: sette carabinieri saltano in aria su una
mina. Il bandito ha attorno a sé una gabbia di Faraday, qualcosa di
grosso che lo protegge. Più forte della mafia e del potere politico. E’ il
suo vero memoriale, dove sta scritta tutta la verità su fatti e persone
coinvolte negli affari stragistici, e tutto ciò che accade da Kappler, nella
56
Roma ancora occupata dai nazisti, fino ai Far, all’Eca e alle Sam. Ne è
testimone Pisciotta, che ai giudici di Viterbo dice che i due memoriali,
esibiti dagli avvocati ai giudici, sono falsi, che il vero memoriale è
altrove.
Il corpo di Giuliano tenuto a distanza dalla folla (archivio Corseri,
www.castelvetrano.eu)
Questo rosario di morte è una trattativa in cui a parlare sono le armi.
Ma, sotterraneamente, le discussioni procedono anche attraverso
incontri diretti e lettere. Al processo di Viterbo ne sono tirate fuori una
dozzina. A trattare sono l’ispettore di polizia Ciro Verdiani e il capitano
Antonio Perenze, il braccio destro del colonnello Ugo Luca, già uomo di
fiducia di Mussolini. Sullo sfondo, Cosa Nostra copre gran parte delle
scene. Fino ai viaggi Palermo-Roma dell’inseparabile coppia dei boss
Miceli-Albano, alla vigilia del falso conflitto a fuoco di Castelvetrano.
Che quel morto non sia Giuliano, dunque, appare un dubbio legittimo e
doveroso. A suffragarlo con ulteriori elementi di sospetto intervengono
57
altri spunti di osservazione su cui sta indagando la polizia scientifica di
Roma, su mandato della Procura della Repubblica di Palermo:
1)
i corpi giacenti nel cortile e nell’obitorio di Castelvetrano, ad una
analisi medico legale condotta dal prof. Alberto Bellocco circa cinque
anni fa, sembrano molto diversi dal punto di vista somatico;
2)
elementi che avevano utilizzato lo Stato per coprire certe
operazioni antidemocratiche, sotto la copertura di forze estranee al
nostro Paese, avevano l’oggettivo interesse a consentire il mantenimento
degli impegni assunti con il bandito, consentendogli di espatriare in
tutta sicurezza e di avere per il resto della sua vita una sufficiente
protezione;
3)
al mantenimento di tali condizioni esisteva, di fatto, un organismo
di copertura ultrasegreto dipendente dal governo De Gasperi, di cui si
ha traccia in parecchia documentazione dei Servizi americani e inglesi.
Tale organismo avrebbe potuto essere, se non proprio identico, quanto
meno analogo al “Noto Servizio” o “Anello della Repubblica”, su cui ha
prodotto una approfondita ricerca Stefania Limiti;
4)
Diverse voci popolari, nell’area di Montelepre-San Giuseppe Jato,
hanno da sempre sostenuto la convinzione che Giuliano fosse vivo negli
Stati Uniti;
5)
A suffragio di tali voci, si è sempre registrata a Partinico, nelle
vicinanze di Montelepre, la voce che alcuni membri della banda
Giuliano fossero fuggiti via mare a Tunisi per imbarcarsi, da qui, per gli
Usa (Manhattan, New York City). Tale voce troverebbe sostegno nel
58
fatto che la banda Giuliano aveva realmente acquistato un motoscafo di
seconda mano presso un proprietario di Castellammare del Golfo, di cui
si ha ampia traccia nel dibattimento del processo di Viterbo per la
strage di Portella della Ginestra.
Risulta inoltre che, dopo le stragi del 22 giugno ‘47, Pasquale “Pino”
Sciortino e Francesco Barone s’imbarcarono per l’America, via
Genova. Un primo tentativo di espatrio collettivo risale al dicembre del
‘47; tutti si sarebbero dovuti trovare a Palermo; ma il piano fallisce
perché Giuseppe Passatempo giunge in ritardo. Altra decisione di
espatriare, “anche da parte di Giuliano” (secondo Mannino), risale al
marzo-aprile ‘48. Sul finire di quest’anno, si fa avanti una vecchia
amicizia di Antonino Cucinella, un certo Salvatore Milazzo, che presta
la sua opera per trasferire la banda di “Cacaova” a Tunisi, con la sua
motobarca “Rosita”. Il Milazzo è un personaggio dedito al traffico di
generi di contrabbando, tra cui il tabacco, ed è un latitante che ha al suo
attivo un mandato di cattura, emesso dal giudice istruttore di Trapani il
27 luglio del ‘48, per tentata estorsione ed altro. Ma, stando alle
dichiarazioni dell’8 maggio ‘51 del Mannino, poi contraddette davanti
alla seconda Corte di Appello di Roma, sarebbe esistito un “accordo
collettivo” di espatriare assieme a Giuliano (cfr. Città Giudiziaria di
piazzale Clodio, Roma, II Corte di Appello, Atti della Corte di Assise di
Viterbo,
CAV,
“Verbale
di
continuazione
di
dibattimento,
interrogatorio di Mannino Frank”, seduta dell’8 maggio 1951, cartella
4, vol. V, n. 2, f. 181).
C’è da aggiungere che, dal Rapporto inviato dall’agente Henry B.
Ingargiola (Cic, sezione di Napoli, zona 6, Ufficio di Bari) all’Allied
forces headquarters, al comando del Cic e al Pbs (Tna/Pro, Wo
59
204/12619, 28 gennaio 1946), risulta che gli uomini della banda Giuliano
potevano trovare ampio asilo a Tunisi in quanto qui esisteva un forte
movimento
separatista.
“A
Tunisi
–
leggiamo
–
opera
un’organizzazione composta da siciliani e da arabi che sostengono il
movimento separatista in Sicilia. Grazie agli sforzi di questo gruppo,
sono stati inviati nell’isola denaro e armi. I rifornimenti sono caricati a
bordo di alcune navi a Kelibia (Capo Bon) e trasportati a Granitola
(provincia di Trapani), dove vengono distribuiti ai combattenti.”
Una fonte di Partinico mi ha in ultimo riferito, qualche settimana fa, di
avere appreso dal cassiere della banda, Vito Mazzola, negli anni ’50, il
seguente fatto: Giuliano si imbarcò i primissimi giorni di luglio del ‘50,
nottetempo, nel tratto di costa tra Selinunte e Portopalo, per
raggiungere, poche ore dopo, la costa tunisina.
6)
Sul settimanale “Tempo” del luglio 1954 (pp. 34-36, articolo di
Umberto De Franciscis), compare una foto a mezza pagina che ritrae il
prof. Ideale Del Carpio, dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università
di Palermo, dinanzi al cadavere del presunto Salvatore Giuliano. La
didascalica è eloquente: “Del Carpio accanto al corpo di Giuliano
durante la seconda autopsia.” Qualche riflessione è d’obbligo: che
bisogno c’era di eseguire una seconda autopsia? E perché non si trovano
i verbali delle due autopsie?
Per questi motivi, ci è parso doveroso segnalare alla Magistratura un
insieme di elementi indiziari che, il solo sospetto che potessero essere
utili a una prova, non poteva esimerci dal dovere di parlare. Perché ci
pare un fatto molto grave che un criminale con 411 fascicoli aperti sul
suo conto per stragi, delitti, sequestri di persona, detenzione di armi da
60
guerra e quant’altro, possa essere ancora vivo o che possa avere
trascorso, con complicità istituzionali, gran parte della sua vita
impunemente e in barba alle sue stesse vittime, che ancora a oggi
reclamano e gridano giustizia. Per lo Stato, infatti, i delitti di cui si rese
responsabile Giuliano, non hanno alcun mandante.
GC
(pubblicato su “Narcomafie”, settembre 2010).
61
ALLEGATO
PADRE PIO SAPEVA DEL SOSIA DI GIULIANO
29.9.10
Il sosia di Giuliano?
Dopo sessant’anni, il mito di «Turiddu», Salvatore Giuliano, torna a
calamitare l’attenzione di storici, ricercatori e giornalisti. Si discute,
infatti, se il corpo crivellato di colpi la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950 e
fatto trovare a Castelvetrano, nel cortile dell’abitazione dell’avvocato
De Maria, sia stato davvero quello del «re di Montelepre» come i
giornali avevano preso a chiamare Salvatore Giuliano, il più noto
bandito d’Italia, accusato di aver eseguito, insieme agli uomini della sua
banda, la strage («la prima strage di Stato», si dirà in seguito) di
Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio del ’47.
Due accreditati studiosi come Giuseppe Casarrubea e Mario J.
Cereghino, che da anni si occupano di rapporti tra mafia e politica,
hanno consultato migliaia di documenti desecretati negli archivi
62
americani e londinesi e sono giunti alla conclusione che il corpo senza
vita fatto trovare nel cortile De Maria non era quello di Salvatore
Giuliano, ma di un suo sosia. Una messinscena per «proteggere»
l’espatrio clandestino di Turiddu negli Usa, per evitare che in Italia
potesse svelare segreti inconfessabili sugli apparati statali.
E non deve trattarsi di una semplice ipotesi di studio, quella di
Casarrubea e Cereghino, visto che la stessa Procura di Palermo ha
aperto un apposito fascicolo, a seguito di una formale segnalazione fatta
dai due al questore palermitano e poi giunta nelle mani del procuratore
aggiunto, Antonio Ingroia, il dinamico magistrato che si occupa di
scottanti inchieste sulla mafia.
La polizia scientifica sta quindi lavorando su alcune foto che, dieci anni
fa, sono state rinvenute in un archivio privato dal giornalista della Rai
Franco Cuozzo. Quelle foto ritraggono il cadavere del bandito di
Montelepre nel cortile di de Maria e poi quando viene portato
all’obitorio. Tra quelle immagini ci sarebbero delle discrepanze; le
stesse sulle quali sta lavorando il prof. Alberto Bellocco, docente di
Medicina legale alla Cattolica di Milano, che è stato già sentito dai
magistrati. Gli stessi magistrati che, se potessero, ascolterebbero, come
persona informata dei fatti, nientemeno che Padre Pio.
Il santo del Gargano – come certificò per prima la «Gazzetta del
Mezzogiorno» attraverso testimonianze dirette e contenute nello
«speciale» sui trent’anni dalla morte del Frate stigmatizzato, pubblicato
il 23 settembre 1998, pag. 13 – senza mezzi termini aveva parlato di un
sosia, «un povero figlio di mamma» fatto morire al posto del bandito
siciliano.
63
Il quale Turiddu, secondo i ricercatori Casarrubea e Cereghino, essendo
organico alla destra in funzione anticomunista, s’incontrava spesso a
Roma con il principe Junio Valerio Borghese, capo della Decima Mas.
Pasquale Sciortino, cognato di Giuliano, in un libro del 1985, rivela che
un giovane di Altofonte, sosia di Giuliano, veniva pagato per farsi
vedere in giro e confondere le acque. Ed è lo stesso che è ritratto in una
foto a fianco di Junio Valerio Borghese e davanti a Mauro De Mauro, il
giornalista foggiano che, quando lavorava a «L’Ora» di Palermo, fu
rapito e ucciso il 16 settembre del 1970 (per quei fatti è in corso a
Palermo il processo contro un unico imputato: Totò Riina).
Ma torniamo a Padre Pio. E’ ancora vivente un testimone di quei giorni.
Si chiama Giovanni Siena, scrittore e giornalista. Le sue parole sono
inequivocabili: «Per una ventina di volte mi sono trovato davanti alla
scena, diciamo, in un salottino del convento, e Padre Pio, ogni volta che
individuava fra i presenti un siciliano, un palermitano, gli poneva la
questione: se lui era dell’avviso, secondo quanto pubblicato dai giornali,
che Giuliano era morto. E quelli rispondevano: “Ma sì, è tanto evidente.
L’abbiamo crivellato di colpi, sul catafalco, la mamma che piangeva
disperatamente sul figlio morto”. Ma Padre Pio si burlava di questa
versione facendo capire che sotto c’era una cosa losca, una messa in
scena. Quella della cattura e dell’uccisione di Giuliano, diceva, era una
messa in scena che era costata la vita a un povero innocente che gli
somigliava. Salvatore Giuliano non è morto, aggiungeva. Lui ora se ne
sta in America».
Evidentemente, la «santa arrabbiatura » del Frate dovette giungere in
alcune stanze della Capitale, e l’allora ministro Mario Scelba giunse a
San Giovanni Rotondo, voleva parlare col Frate. «Padre Pio – spiega
64
Siena – non volle riceverlo. Si diede malato». Anche Mariannina, la
sorella di Giuliano, confidandosi con Padre Pellegrino, il Cappuccino
che assistette in punto di morte il Frate stigmatizzato, disse che suo
fratello si trovava in America: «Gli è stato detto di tacere, altrimenti a
tanti, troppi pezzi grossi potrebbe nuocere».
Per un momento, quindi, la vita di un santo si è incrociata con quella di
un fuorilegge, fino al punto che – come rivelò Padre Pio allo scrittore
Pier Carpi – lo stesso Turiddu scrisse una lettera al Frate offrendogli
l’incarico di cappellano della propria banda. E non era certo un sosia
quello che, travestito da Cappuccino, giunse a San Giovani Rotondo.
Era Turiddu.
Possibile? «Di questo, in famiglia se ne parlava spesso», sostiene
Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote del bandito che, a Montelepre,
gestisce l’albergo-ristorante dal nome «Giuliano’s Castle».
Lello Vecchiarino
La Gazzetta del Mezzogiorno
29 settembre 2010
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