ARTICOLI SULLA PRESUNTA MORTE DI SALVATORE GIULIANO di Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino giugno-settembre 2010 www.casarrubea.wordpress.com 1 SALVATORE GIULIANO: DI SICURO C’È SOLO CHE (FORSE) È MORTO 26.6.10 Obitorio di Castelvetrano, 5 luglio 1950 (“Pubbliphoto”, Palermo) Ricorre, il prossimo cinque luglio, il sessantesimo anniversario della “morte” di Salvatore Giuliano. Molti si preparano alla commemorazione dell’evento. Anche se dovrebbero avere il pudore di tacere, visto che ad essere ricordato è un criminale incallito con quattrocento fascicoli e procedimenti penali aperti sul suo conto. Le accuse: stragi, insurrezione armata contro i poteri dello Stato, assalto contro i lavoratori in festa e le sedi della sinistra politica e sindacale, uccisione di carabinieri e civili, molti del suo stesso paese, Montelepre. La storia ufficiale ci dice che il bandito è trovato senza vita all’alba del 5 luglio 1950 nel cortile dell’avvocato De Maria, a Castelvetrano. Ma oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, forti dubbi nascono sulla scomparsa di questo terrorista nero che inaugura, con l’eccidio di Portella della Ginestra, la lunga catena dello stragismo italiano. 2 Obitorio di Castelvetrano, 5 luglio 1950 Di fronte a uno Stato che ha sempre fatto carte false, è doveroso dubitare persino di ciò che appare evidente. Specie se questa evidenza riguarda i personaggi che ne sono, a vario titolo, protagonisti. Come il “bandito” di Montelepre Salvatore Giuliano. Il primo attore italico sulla scena del terrorismo nostrano e anche il primo ad essere ufficialmente ammazzato, all’età di appena ventotto anni. A certificarne la morte è il giornalista Tommaso Besozzi. Fa molta strada prima di arrivare, come un militare in avanscoperta, sulla scena del combattimento. E, quando arriva, più che certezze raccoglie dubbi. Li descrive tutti in un articolo destinato a fare la storia del giornalismo italiano: “Un segreto nella fine di Giuliano. Di sicuro c’è solo che è morto”, uscito sul n. 29 de “L’Europeo” del 1950. Si inaugura così la stagione del grande giornalismo di inchiesta, con gli organi di stampa che si spostano sui luoghi dei delitti e trasformano i reporter in combattenti per la verità. Esposti in prima linea, come in un vero e proprio conflitto bellico. 3 Sono i primi anni della Repubblica e quel cadavere che giace nel cortile De Maria, dove il bandito avrebbe trascorso l’ultima notte della sua vita, ne dichiara l’inaffidabilità e la spregiudicatezza. Il mistero sulle circostanze di un conflitto a fuoco mai avvenuto e la certezza di un omicidio annunciato e brutalmente eseguito. Come profetizzato qualche anno prima dal leader comunista siciliano Girolamo Li Causi. Ma chi è veramente questo morto? E, soprattutto, chi sono i protagonisti di questa vicenda oscura? Ad aiutarci a districare questo primo grande mistero del dopoguerra ci sono venuti in aiuto, negli ultimi dieci anni, migliaia di carte provenienti dagli archivi americani, inglesi e nostrani. Materiali che raccontano, ad esempio, la scoperta di un Servizio ultrasegreto – “l’Anello” o “Noto Servizio”– agli ordini diretti dell’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Come ci racconta Stefania Limiti nel volume “L’Anello della Repubblica” (Chiarelettere, 2009). I suoi obiettivi sono ben definiti: ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico con mezzi illegali, ma senza sovvertirlo. Questa organizzazione ultrasegreta non è stata una meteora, ha operato dal 1945 fino all’ inizio degli anni Ottanta. Certo, se in quella torrida estate del 1950, Salvatore Giuliano – alla vigilia del processo di Viterbo, per gli eccidi siciliani della primavera 1947 – si fosse deciso a vuotare il sacco, sarebbe crollata l’Italia. A cominciare dalle sue nuove istituzioni repubblicane. Questo è un thriller che inizia in un’altra estate, quella drammatica del ’43, quando un picciotto “dal carattere forte e determinato” – come 4 scrivono i Servizi americani di stanza in Sicilia – inaugura la sua carriera terroristica nelle fila della rete nazifascista del Principe Valerio Pignatelli e delle Ss di Herbert Kappler. In breve, il “re di Montelepre” entrerà nei commandos della Decima Mas di Borghese inviati al Sud, con il nome di battaglia di “Giuliani”. Come egli stesso si firma di fronte a testimoni di sicura fede. Ad esempio, il giornalista Igor Man che lo intervista nella primavera del ’45 per la rivista “Crimen”. I Servizi militari alleati (Cic), al comando del colonnello americano Hill Dillon, lo definiscono “leader of a fascist band in Sicily”. Ma è nel dopoguerra che “Giuliani” si mette agli ordini dell’X-2 di Roma, il controspionaggio Usa guidato dal capitano James Angleton. L’obiettivo è uno solo: liberare l’isola dall’“infezione bolscevica”. Come Giuliano stesso scrive in diversi appelli a sua firma diffusi in quegli anni. Fino alle stragi siciliane del maggio-giugno ‘47. Una rara foto del lato sinistro della testa del cadavere Sono anni in cui il Sis, il Servizio informazione e sicurezza, lo segnala a capo delle Sam (Squadre armate Mussolini) e dei Far (Fasci di azione 5 rivoluzionaria) di Pino Romualdi, ex vicesegretario del Partito fascista repubblicano della Rsi. In queste carte c’è anche lo “Scugnizzo di Palermo”, Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, che la polizia considera “un Giuliano e mezzo”. Nel giugno ‘47 un lungo rapporto del Sis ci dice che Giuliano è “a totale disposizione delle formazioni nere”. E non è forse casuale che in una foto pubblicata nel volume di Pasquale Chessa, “Guerra Civile” (Mondadori), un giovane milite della Decima Mas – ritratto assieme al comandante Junio Valerio Borghese e al tenente Mauro De Mauro, in Galleria a Milano, il 10 aprile ‘45 – presenti una forte somiglianza con Salvatore Giuliano. Ovvero, il “tenente Giuliano” o “Giuliani” più volte segnalato dal colonnello Hill Dillon in quelle stesse settimane. Sono temi, questi, da noi ampiamente trattati nel volume “Lupara Nera” (Bompiani, 2009). Non sono da meno le carte desecretate a Londra e a Washington sul capitano Antonio Perenze e sul colonnello Ugo Luca, entrambi dell’Arma. Del primo, gli americani scrivono che nell’agosto ‘46 lavora a contatto con l’X-2 di Roma e che, su mandato del capitano del Cic Philip J. Corso, si incontra con Kappler, detenuto a Forte Boccea. I Servizi Usa ottengono da Kappler e da Karl Hass gli elenchi degli agenti nazifascisti attivi in Italia fino alla fine della guerra e che ora servono per combattere il “bolscevismo”. Da qui la centralità della figura di Perenze in tutto l’affaire Giuliano. Su Luca il materiale abbonda. Lo spionaggio americano ci rivela che è sempre stato “vicino” al regime fascista e a Mussolini in persona e che, in tale veste, compie delicate missioni in Turchia, Spagna e in Medio Oriente fin dall’inizio degli anni 6 Trenta. Anche l’Fbi se ne occupa. Nel ‘59, segnala che intrattiene rapporti a Napoli con il superboss mafioso Lucky Luciano. Insomma, il “re di Montelepre” si mette a capo di un esercito clandestino anticomunista. Con i suoi squadroni della morte attacca contadini e militanti socialisti, comunisti e sindacali. Mantiene la parola data a suo tempo a ministri, terroristi neofascisti, agenti dei Servizi italiani e americani. Come il “giornalista” Mike Stern, che è solito incontrare “Turiddu” in piazza San Silvestro, a Roma, fin dal ‘45. Ma Stern si vedrà con Giuliano anche l’8 maggio ’47, una settimana dopo l’eccidio di Portella della Ginestra. E’ l’inizio della fine del capobanda. Non serve più. L’Italia si avvia a diventare centrista e tale rimarrà per molto tempo. Montelepre, agosto 1947 (foto Chiaramonte) Perché si arriva alla messa in scena di Castelvetrano, la notte tra il 4 e il 5 luglio ‘50? Perché Perenze redige un rapporto giudiziario totalmente falso? Certo perché protetto da Luca e dall’Unione patriottica anticomunista (Upa), composta unicamente da ufficiali dell’Arma. Questo organismo occulto, attivo dall’autunno ’46, ha un ruolo fondamentale nelle operazioni sotterranee contro la giovane democrazia 7 italiana. Ce lo conferma, tra gli altri, l’inchiesta di Riccardo Longone pubblicata su “l’Unità”, organo ufficiale del Pci, all’inizio del ’47. Il giornalista ci svela l’esistenza delle manovre per un colpo di Stato e la dipendenza diretta dell’Upa dai Servizi di Angleton. Sarebbe stato quindi prudente diffidare degli strani eventi di quella notte di luglio. Persino di quel cadavere che i carabinieri dissero, senza mezzi termini, appartenere al famoso bandito di Montelepre. Dopo le elezioni politiche del ’48, Giuliano si sente abbandonato dallo Stato col quale, da ex terrorista nazifascista, ha iniziato a trattare per trovare una via di fuga in Italia o all’Estero. Ma non succede nulla. Tutti fingono di non sentire. E a “Turiddu” saltano i nervi. Alza il tiro e il risultato è la strage di Bellolampo, il 19 agosto 1949, sullo stradale Palermo-Montelepre. Muoiono sette carabinieri. E’ un chiaro messaggio per il colonnello Luca. Quando l’ispettore generale di Ps in Sicilia, Ciro Verdiani, accorre sul luogo dell’eccidio, con lui c’è anche il futuro capo del Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Altro personaggio equivoco, questo Verdiani. Secondo le carte del Sis, nell’estate ’46, quando ricopre l’incarico di questore di Roma, è in contatto con alcuni membri della banda Giuliano. Ossia, con Silvestro Cannamela, ex membro dei commandos della Decima Mas al Sud, e con il catanese Franco Garase, alias “lo zoppo”, referente della banda Giuliano nella capitale, a Firenze e ad Arezzo. 8 Luca, quindi, è in Sicilia prima ancora di essere investito dei suoi poteri. Forse sta ambientandosi prima di assumere l’incarico di capo del Cfrb, il 27 agosto 1949. Con Bellolampo, Giuliano lancia un messaggio preciso ai vertici occulti dell’Upa e, indirettamente, al ministro dell’Interno Mario Scelba. Non è casuale, visto che le carte inglesi desecretate nel 2005 e da noi pubblicate in “Lupara Nera”, ci raccontano che gli uomini di Scelba si incontrano segretamente a Roma con i capi del fascismo clandestino (Augusto Turati in testa) e con i vertici della Polizia e dei Servizi italiani, sotto l’ombrello protettivo del capitano Philip J. Corso dell’intelligence Usa. Giuliano, insomma, ricorre ancora una volta al terrorismo per trattare. Minaccia di vuotare il sacco. Ovvero, verità inconfessabili come i legami tra Cosa Nostra e lo Stato, il ruolo stragista dei Servizi di Angleton e Corso, la funzione degli ex uomini delle Brigate Nere e della Decima Mas al Sud, il ruolo occulto de l’“Anello”, che fa capo a De Gasperi e a Scelba. La sostituzione di Verdiani con Luca è funzionale alla nuova linea del governo. “Se Giuliano vuole trattare, trattiamo pure”, sembrano dire i vertici dello Stato. Il momento è delicato. Si avvicina la data d’inizio del processo di Viterbo per le stragi del ’47 in Sicilia. Il bandito potrebbe cantare, preso alla gola. Salterebbe il banco. Ecco perché Luca è l’uomo giusto al momento giusto. Con lui non ci sono più gli eserciti in mobilitazione permanente, i soldati che in massa circondano villaggi e paesi e arrestano centinaia di persone. Ora invece entrano in azione gli uomini dei Servizi italiani, sotto la copertura del Cfrb. Sono nuclei in borghese addestrati più all’intelligence che all’uso delle armi, secondo il 9 modello sperimentato negli anni precedenti da Luca e Perenze. Soprattutto all’estero. Da questo momento nulla è affidato più al caso. Il giornalista Jacopo Rizza intervista Giuliano il 17 novembre ‘49 in una masseria nei pressi di Salemi, per la rivista “Oggi”. Verdiani lo incontra un mese dopo, a cena, portandosi dietro panettone e marsala. Il reportage di Rizza esce in tre puntate, tra il 22 dicembre ’49 e il 5 gennaio ’50. E’ uno scoop mondiale e le foto, scattate a decine da Italo D’Ambrosio e Ivo Meldolesi, fanno il giro del mondo in ventiquattro ore. Giuliano, ora, appare sorridente e tranquillo e si fa riprendere da una cinepresa in un contesto arcadico. Cortile di casa De Maria, 5 luglio 1950 Ma perché un terrorista sanguinario, ricercato da sette anni, decide di esporsi in maniera così plateale? Qualcosa non quadra. Scrive il cognato di Giuliano, Pasquale “Pino” Sciortino, considerato l’intellettuale della banda: “Un sosia di Giuliano, un giovane di Altofonte, eccezionalmente 10 somigliante a Turiddu, aveva l’incarico di farsi vedere in giro, di mettersi in vista, di farsi notare. Il suo compito era quello di comportarsi in maniera tale da dare l’impressione alla gente di trovarsi alla presenza di Giuliano. Questo giovane, sosia di Turiddu, sparì da casa per sempre un giorno prima della ‘ammazzatina’ di Turiddu a Castelvetrano, e non se ne seppe più nulla”. E aggiunge: “Nelle quasi duecento foto scattate e nel film girato da D’Ambrosio e Meldolesi, Giuliano appariva tranquillo, sicuro di sé e leggermente ingrassato” (Cfr. Sandro Attanasio e Pasquale “Pino” Sciortino, Storia di Salvatore Giuliano di Montelepre, Palermo, Edikronos, 1985, p. 209). I due autori notano, in ultimo, che l’aria spavalda dimostrata dall’uomo che appare nelle foto “non si confaceva con il carattere riservato del ragazzo di Montelepre”. Ma non è solo il marito di Mariannina Giuliano, sorella di Turiddu, a mettere in dubbio molti eventi di quei mesi. A parlare, questa volta, è la signora Elisa Brai, proprietaria dell’agenzia fotografica “Pubbliphoto” di Palermo. La signora, figlia di un celebre fotoreporter siciliano, ci ha raccontato di avere incontrato più volte Sciortino tra l’84 e l’85, quando questi frequentava la sua agenzia per selezionare alcune foto da pubblicare nel volume sopra menzionato. Sciortino le rivela che a morire, a Castelvetrano, non è stato Turiddu ma un sosia. E che è proprio questo sosia ad essere stato sepolto nella tomba della famiglia Giuliano, a Montelepre. 11 Salemi, 17 novembre 1949. Non è l’unica novità. La signora Brai ci ha svelato altri dettagli. Negli anni Novanta, quando preparava il libro “Il carabiniere e il bandito” (Mursia), l’ex maresciallo dei Cc Giovanni Lo Bianco, uno dei tre firmatari del Rapporto depistante sulla strage di Portella della Ginestra, raccontò alla signora Brai che Salvatore Giuliano, nei primi mesi del ‘50, viveva sotto falsa identità nell’appartamento di un’ aristocratica siciliana in via Marinuzzi, a Palermo. Naturalmente sotto la protezione dell’Arma. Insomma, sia Giuliano sia il suo luogotenente Gaspare Pisciotta sono nelle mani dei carabinieri. Così come Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, è il confidente numero uno del capo dell’ispettorato di Ps in Sicilia, Ettore Messana. Per non parlare delle analisi sulle fotografie del cadavere di Castelvetrano, compiute qualche anno fa dal prof. Alberto Bellocco (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), autore di oltre mille perizie legali in tutta Italia negli ultimi vent’anni. Secondo Bellocco, si 12 rilevano differenze significative nelle immagini che ritraggono quel corpo senza vita. E’ un tema sul quale ritorneremo. I punti oscuri, insomma, abbondano in questa vicenda. A sessant’anni dal fantomatico conflitto a fuoco di Castelvetrano del luglio ’50, basterebbe che la Magistratura ordinasse l’esame del Dna sul cadavere che risulta sepolto nella tomba della famiglia Giuliano, a Montelepre, e su quello dei suoi parenti più stretti. Ecco perché, il 5 maggio scorso, abbiamo scritto al Questore di Palermo chiedendo che le autorità competenti facciano le verifiche del caso. Lo dobbiamo a tutte le vittime delle stragi siciliane di quegli anni infami, che ancora oggi non hanno avuto giustizia alcuna dallo Stato. GC e MJC 13 QUELL’ULTIMA NOTTE DI TURIDDU 3.7.10 Giuliano ritratto da Pisciotta, giugno ‘50 (“La Settimana Incom”, luglio ‘50) L’entità del fenomeno Giuliano si può sintetizzare in pochi, scarni numeri: 34 caserme assaltate; 100 carabinieri uccisi; 411 delitti accertati, tra i quali diverse stragi di civili e numerosi omicidi di gente inerme; armi, munizioni e vettovagliamenti militari sufficienti ad armare 2.000 uomini. Un milione di lire al giorno il costo delle attività del Comando forze repressione banditismo (Cfrb), al quale va aggiunto il vitto e il salario di ufficiali e militi. Due miliardi di vecchie lire il costo complessivo della lotta contro il fuorilegge; 589 i “banditi” arrestati in sette anni. Del “re di Montelepre” si occupa la stampa di tutto il mondo. Ma è solo dopo le stragi siciliane del ‘47 che il bandito comincia a suscitare una curiosità mai registrata prima nell’opinione pubblica. In quegli anni infami nessuno poteva sospettare ciò che gli archivi inglesi, americani e 14 italiani ci hanno restituito dopo il 2000 e che abbiamo raccontato in vari libri. La gente comune però, armata di buon senso, si chiede chi sia veramente questo criminale, da chi prenda ordini, di quale organizzazione faccia realmente parte, chi lo abbia protetto e come si sia potuto difendere da quanti avrebbero preferito vederlo morto. Con il titolo “Nessuno ha mai visto il bandito Giuliano”, Tommaso Besozzi inizia la sua inchiesta sul brigantaggio in Sicilia, pubblicata su “L’Europeo” a partire dal 13 luglio ‘47. Sono trascorsi due mesi e mezzo dalla strage di Portella della Ginestra e i dubbi che le cose siano andate diversamente da come sono state raccontate dalle autorità dell’epoca, cominciano a serpeggiare in varie redazioni giornalistiche. Besozzi è un reporter a cinque stelle. Come un segugio, nelle settimane successive agli eccidi di quella primavera segue piste ben precise, guidato dal suo fiuto di grande cronista. Ci racconta, ad esempio, assieme a Ludovico Tuccu, gli strani movimenti del superboss Lucky Luciano nella provincia di Palermo. Parla anche della sua famosa “Dodge” rossa, a bordo della quale i testimoni degli assalti alle Camere del Lavoro della provincia di Palermo, il 22 giugno ‘47, scorgono alcuni giovanotti elegantemente vestiti e armati di tutto punto. 15 Giuliano in casa De Maria, giugno ‘50 (“L’Europeo”, 4 dicembre 1960) Ma in quel primo articolo del 13 luglio, Besozzi avanza pesanti dubbi sull’identità stessa del capobanda monteleprino. L’occasione gli è data dal rapimento, ad opera della banda, di Giuseppe Geraci, un facoltoso uomo d’affari palermitano. In quasi venti giorni di prigionia, Geraci non vede mai in faccia il famoso Robin Hood siciliano e, interpellato dal giornalista, afferma: “E che ne sai tu se Giuliano era più vicino a me quando stavo a Roma? Chi l’ha mai visto Giuliano? Chi sarebbe in grado di distinguerlo da un altro picciotto qualunque?”. L’articolo è molto chiaro. Due mesi dopo Portella, i Carabinieri hanno nel loro schedario ufficiale soltanto una foto del bandito, risalente a sei anni prima, quando Giuliano aveva diciannove anni. Besozzi incalza: “Come lui ce ne sono altri diecimila in Sicilia, capigliatura nera e impomatata, due occhi scintillanti, un viso dalla pelle abbronzata e dall’espressione comune”. E conclude: “Insomma chi l’ha mai visto?”. 16 Anche all’inizio del processo di Viterbo, nel giugno ‘50, i giudici hanno difficoltà a identificare l’imputato numero uno. Di foto non ne circolano. L’unica, scattata in data incerta, in mano ai carabinieri, è quella in cui il bandito appare in sella a un cavallo. All’Arma, secondo il giornalista Renzo Trionfera, l’ha consegnata Salvatore Ferreri, il famoso Fra’ Diavolo, numero due della banda e primo confidente dell’ispettore di Ps in Sicilia, Ettore Messana. Giuliano a cavallo (foto consegnata ai Cc da Fra’ Diavolo nel ‘47) Ma quell’unica immagine è il risultato di uno sforzo di intelligence, mentre le forze dell’ordine non hanno, di fatto, schedari dei principali ricercati dalla legge. Di uno o più sosia, o di controfigure di Salvatore Giuliano da utilizzare al momento opportuno per fingerne la morte, parlano negli anni Ottanta Pasquale “Pino” Sciortino, il cognato di Giuliano, e il giornalista Sandro Attanasio, come abbiamo scritto nel post del 27 giugno 2010 intitolato: “Salvatore Giuliano: di sicuro c’è solo che (forse) 17 è morto”. Una ipotesi, questa, non isolata. Nel numero de “L’Europeo” dell’11 dicembre ‘60, intitolato “L’ho ucciso io, urlò Pisciotta. La verità sulla drammatica notte in casa De Maria”, il giornalista Renzo Trionfera scrive: “Mentre i carabinieri preparavano una trappola in cui farlo cadere, lui [Salvatore Giuliano] meditava adeguate contropartite nei confronti del Comando forze repressione banditismo (Cfrb). Come riferirono alcuni confidenti, egli stava macchinando un’azione complicatissima. Aveva incaricato i suoi collaboratori di cercare un giovanotto che avesse pressappoco la sua età e la sua corporatura. Una controfigura, insomma, alla quale Turiddu avrebbe riservato una sorte crudele.” Tale mossa avrebbe avuto come effetto immediato l’interruzione delle ricerche, permettendo al bandito di dileguarsi. Il progetto che ci viene svelato da Trionfera sembra trovare la sua definitiva attuazione nella messa in scena del luglio ’50, a Castelvetrano. Sta di fatto che, compiute le stragi del ‘47 e dopo essersi impegnato nella campagna elettorale per le politiche del ‘48, Giuliano pretende che si stia ai patti. Ma da questo orecchio nessuno lo vuole sentire. Gli dà ascolto solo il vecchio ispettore di Ps Ciro Verdiani, che lo avvicina in tutte le maniere, attraverso Cosa Nostra e, in particolare, tramite la famiglia Miceli di Monreale. Verdiani fa quello che può nel cercare di controllare il capobanda, ma i suoi tentativi sono vani. Giuliano ha già cambiato tattica dopo le elezioni del ’48 e, alle promesse non mantenute della Dc e della mafia, risponde uccidendo in modo plateale due tra i suoi più autorevoli rappresentanti: Leonardo Renda, ad Alcamo, e Santo Fleres a Partinico, nel luglio ‘48. 18 Di questo mutamento ci parla Trionfera su “L’Europeo” del 4 dicembre ‘60 (titolo “Il grande agguato”): “L’8 aprile 1949, all’alba, Giuliano fece attaccare una pattuglia di carabinieri nella zona di Torretta (alla periferia di Palermo). Morì un milite fulminato da una revolverata. Altri otto restarono più o meno gravemente feriti. Il 2 luglio successivo, fu assaltata una camionetta della polizia a Portella della Paglia. Il bilancio di questa seconda azione fu ancora più tragico: rimasero sul terreno cinque agenti”. L’offensiva raggiunge il suo culmine la notte tra il 19 e il 20 agosto 1949. E’ attaccata a colpi di mitra la caserma dei Cc di Bellolampo, a metà strada tra Palermo e Montelepre. Il presidio dà l’allarme telefonico. Partono autoblindo e gipponi. Ma, giunti sul posto, non trovano nessuno. Dei banditi neanche l’ombra. Iniziano i rastrellamenti ed è solo all’alba che Verdiani ordina a tutti il rientro a Palermo. A questo punto, entrano in azione altri due gruppi di attentatori. Scavano sullo stradale una buca e vi collocano una mina contenente diversi chili di tritolo. Il detonatore è collegato a un lungo filo di ferro manovrato a distanza. Quando il convoglio attraversa quel tratto, i terroristi fanno esplodere la mina. Un gippone salta in aria. I morti sono sette, i feriti, terribilmente mutilati, una ventina. Si inaugura così l’archetipo del terrorismo contemporaneo in Italia, che tanti lutti provocherà nei decenni successivi. Con questi morti, il bilancio dei carabinieri uccisi dal capobanda, dal 1943, sale a cento. Ma non è tutto. Un altro gruppo di banditi si apposta a Passo di Rigano e, al passaggio della macchina di Verdiani, spara all’impazzata lanciando bombe a mano. L’ispettore ne esce vivo per miracolo. 19 Salemi, 17 novembre 1949 Secondo Trionfera, il bandito, a questo punto, si sente forte e ritiene di potere aprire una trattativa definitiva per chiudere a suo vantaggio la battaglia che sta conducendo, a modo suo, contro lo Stato. Giuliano quindi torna a incontrarsi con Verdiani e, al contempo, cerca di agganciare il colonnello Luca, che il 27 agosto ’49 ha assunto il comando del Cfrb. Quello che accade dopo è noto. Ma bisogna fare attenzione a mettere i tasselli in ordine logico, dando priorità a ciò che sembra restare in secondo piano. E sullo sfondo leggiamo i seguenti fatti: Verdiani, nonostante non abbia più nessuna funzione, rimane in Sicilia e incontra più volte il bandito. Contemporaneamente alcuni giornalisti, guidati da Jacopo Rizza, si mettono sulle tracce di Giuliano. L’iniziativa parte dall’editore Giorgio De Fonseca che, la mattina del 7 ottobre ‘49, negli uffici della Rizzoli (editore del settimanale “Oggi”) in via Barberini, a Roma, propone a Rizza di intervistare Giuliano. Del gruppo fanno parte Italo D’Ambrosio e Ivo Meldolesi, entrambi fotoreporter dell’agenzia 20 “Meldolesi”. Fissano il loro quartier generale all’hotel “Sole” di Palermo, ma si recano spesso a Partinico, dove si incontrano con un mediatore che li mette in contatto con Giuliano. L’incontro avviene in una masseria, a circa dieci chilometri dal bivio per Salemi. I giornalisti sono forniti di macchine fotografiche e cinepresa. Alla fine, il 17 novembre 1949, si trovano faccia a faccia con il bandito. Il luogo dell’incontro è una stalla, dove Giuliano arriva con Pisciotta. “Turiddu” svela al giornalista la sua intenzione di volere espatriare, come ha già fatto Sciortino nell’estate del ’47, e gli confida di aver compilato un diario dettagliato sulle vicende degli ultimi anni (cfr. “La Settimana Incom illustrata”, 16 aprile 1961). Ma c’è qualcosa che non torna nella cronistoria di quanto accade in quella stalla nei pressi di Salemi. In un articolo scritto per la rivista “Oggi” (“Come penetrai nel covo di Giuliano”, 17 dicembre 1959), Ivo Meldolesi ci fornisce dettagli che si discostano dalla versione di Rizza. A cominciare dalle date. Per Rizza, come abbiamo visto, i preparativi dell’incontro risalgono al 7 ottobre ’49 e si chiudono con l’intervista del 17 novembre. Il tutto su iniziativa dell’editore De Fonseca. Meldolesi, invece, scrive che “la grande avventura” inizia a Roma il 9 novembre, quando lo stesso Meldolesi ne parla con Ugo Zatterin, il capo della redazione romana di “Oggi”. A partire assieme a Meldolesi e a d’Ambrosio, doveva essere proprio Zatterin, ma questi passa il testimone a Jacopo Rizza, perché – dice – ha la “mamma ammalata”. L’ultima, macroscopica discrepanza rispetto alla versione di Rizza sta nella data dell’incontro. Secondo Meldolesi avviene, infatti, il 10 dicembre ‘49. Ovvero, più di tre settimane dopo quella indicata da Rizza. Come spiegare questa divergenza? 21 5 luglio 1950 Sul settimanale “Oggi” del 20 luglio 1950, nell’articolo “Tre ipotesi sulla fine di Giuliano”, il giornalista Enrico Roda scrive che, all’inizio di quell’anno, i giornali pubblicano la notizia che il capobanda monteleprino è fuggito in America. Il Cfrb è costretto a divulgare un comunicato ufficiale per smentire la voce, spiegando che Giuliano si è semplicemente “trasferito in altra zona”. Qualunque sia questa zona, è chiaro che è mutato lo scenario, meno sottoposto ai riflettori della stampa e ad occhi indiscreti. Insomma, tra l’autunno del ‘49 e l’inizio dell’estate del ’50 si svolge una trattativa occulta. Infatti, in un articolo pubblicato da “Oggi” il 26 aprile ‘51 (non firmato), si legge: “Ci furono incontri tra Giuliano ed esponenti del Cfrb? Durante queste settimane, questo è certo, si notò un gran movimento attorno a Villa Carolina, nei pressi di Monreale, e le squadriglie rimasero per quindici giorni a riposo nelle caserme. Luca forse pensava ad avere un memoriale di Giuliano sulla strage di Portella della Ginestra e non era restìo, come egli stesso confessò ad un giornalista che lo aveva intervistato subito dopo la morte di Giuliano, ad incontrarsi direttamente col bandito.” 22 Certo è che Cosa Nostra non rimane alla finestra a godersi lo spettacolo. A questo periodo risale un fitto carteggio tra Verdiani, Giuliano, Pisciotta, Perenze, Miceli e Albano (capimafia, questi ultimi due, di Monreale), datato tra il febbraio e il giugno del ’50. E non è tutto: “Bisognava poi aggiungere l’elenco dei viaggi effettuati da Palermo a Roma, e viceversa, dall’inseparabile coppia Ignazio Miceli-Domenico Albano, tra l’agosto del ’49 e il 5 luglio del ’50. [...] E’ abbastanza evidente che, nei mesi che precedono la morte di Giuliano, si svolge una frenetica azione sotterranea che ha i suoi referenti nelle principali cosche mafiose della Sicilia occidentale e, attraverso di queste, in certi ambienti romani controllati dal ministero dell’Interno, di cui Verdiani è la punta più vistosa” (cfr. G. Casarrubea, “Salvatore Giuliano”, Milano, FrancoAngeli, 2001, p. 150). Nel luglio ‘51, durante una deposizione resa al processo di Viterbo, Verdiani aggiunge dettagli ancora più inquietanti: “Nella seconda decade di maggio ’50, io informai del rapporto avuto con Giuliano la Direzione generale di Ps. Mi si disse di non occuparmi più della faccenda Giuliano per essere sopravvenuta una nuova organizzazione.” In definitiva, le trattative occulte iniziano dopo la strage di Bellolampo e, alla vigilia di Castelvetrano, entra in scena una nuova, misteriosa identità che prende il sopravvento su tutto e tutti, anche sulle funzioni del Cfrb. Con la mediazione di Cosa Nostra. Di quale organizzazione si tratta? 23 5 luglio 1950 Dunque, una trattativa è ammessa anche dai testimoni oculari del tempo e non c’è dubbio alcuno che, da entrambe le parti, ci sia stata la massima collaborazione per ottenere quanto si sperava. Per Giuliano l’agognata libertà, per Luca la certezza che documenti scottanti sui sette anni di “Turiddu” in Sicilia, in particolar modo sulle stragi della primavera del ’47, non vedessero la luce. Fu questa la misura dello scambio e lo Stato dovette scendere a patti, come più volte aveva fatto fin dal ‘43. Che le cose siano poi andate in questa direzione, ossia che la trattativa sia giunta a buon fine, è ciò che la Magistratura dovrebbe finalmente appurare. GC e MJC 24 IL “PAPELLO” DI TURIDDU 10.8.10 “Nessuno ha mai visto il bandito Giuliano” (“L’Europeo”, 13 luglio 1947) Per mettere la mordacchia e impedire ogni discussione, qualcuno ha inventato la storiella che i miti popolari non muoiono mai. Anche se non sono miti ma diavolerie, il bollino del mito aggiunge all’oggetto che ne deriva la qualità di essere inviolabile. Difficile da smontare. Ma io non sono affatto sicuro che il popolo si sarebbe bevuto per decenni una bevanda impotabile o che sarebbe stato disponibile a fare di un criminale un santo. Perciò, quando nei miti si aprono falle, il popolo le amplifica e, pian piano, ne lascia intravedere i punti deboli, i falsi inverosimili. O l’artificio. Così, checché ne pensino certi studiosi, abituati a usare gli autori di cui si servono a loro piacimento, la questione che essi pongono sulla morte di Giuliano è priva di alcuni elementi. Uno tra tutti. Il più importante: ci fu o no una trattativa da parte di Giuliano con lo Stato per salvarsi la pelle? Già nei due post precedenti (“Di sicuro c’è solo che forse è morto” e “Quell’ultima notte di Turiddu”) abbiamo cercato di inquadrare il problema. E siccome 25 zucchero non guasta bevanda, è bene che qui di seguito si mettano ancora meglio in sequenza le tappe di quella che appare come una vera e propria trattativa. Fatta non a tavolino, naturalmente, ma a colpi di mitra e agguati al tritolo. - Dopo Portella della Ginestra e gli assalti alle sedi della sinistra della provincia di Palermo (maggio-giugno ’47), Giuliano comincia a chiedere il rispetto dei patti stipulati soprattutto con quanti hanno il potere di mantenerli. E cioè i democristiani. Ma i tempi sono lunghi e Giuliano non ha pazienza. - Il primo a cadere è il colonnello Luigi Geronazzo, braccio destro dell’ispettore di Ps Ettore Messana. E’ ucciso, mentre rincasa, la notte del 29 novembre ‘47. Di lui il senatore Girolamo Li Causi scrive: “Soldato valoroso fino all’ingenuità, credeva che i banditi si affrontassero allo stesso modo con cui si affrontano i soldati.” Individuati i favoreggiatori del delitto, si scopre che sono confidenti di Messana. Come Salvatore Ferreri, che spara a Portella della Ginestra, - Tre mesi dopo, il 22 febbraio ‘48, tocca all’avvocato Vincenzo Campo, vicesegretario regionale della Dc e candidato alle elezioni nazionali del 18 aprile ‘48. Mentre si trova sullo stradale Alcamo-Castelvetrano, a pochi chilometri oltre l’abitato di Gibellina, in direzione di Sciacca, è colpito da una raffica di mitra. - A luglio dello stesso anno, alcuni colpi di arma da fuoco sparati in piena piazza, al cospetto di tutti, raggiungono il capomafia di Partinico Santo Fleres, referente principale della Dc locale ed elemento di collegamento con le alte sfere politiche romane. Il delitto rimane, ancora 26 oggi, senza un perché e senza colpevoli. Ma è sicuro che nella cittadina non si muove foglia senza il consenso del patriarca locale. Fleres, appunto. - A dicembre tocca a un uomo di fiducia di Fleres, Carlo Guarino, con il figlioletto di tre anni e un altro confidente, Francesco Gulino. - Esattamente un anno dopo, nel luglio 1949, è pugnalato alla schiena e poi finito a colpi di lupara, il segretario politico della Dc di Alcamo, Leonardo Renda, compare dell’onorevole Bernardo Mattarella, già ministro democristiano e fondatore del partito di Sturzo in Sicilia. Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, lo accuserà di essere uno dei mandanti della strage di Portella della Ginestra. I banditi lasciano il cadavere di Renda in mezzo alla strada, con la carta di identità posata sul petto. A significare che la persona colpita rappresenta un’altra, vera identità: quella di un politico che non ha mantenuto la parola data. L’ipotesi più fondata, anche attraverso gli atti processuali, è che i banditi, vedendo che non erano state mantenute le promesse di libertà e di restituzione al consorzio civile in cambio dei voti procurati alla Dc, si siano vendicati. Materia scottante, questa, se è vero che il commissario di Ps, dottor Carbonetto, che aveva avviato le indagini, è trasferito in Sardegna. - Lo stillicidio di tutti questi delitti non porta a nessuna apertura nei confronti del capobanda. Giuliano capisce che deve alzare il tiro se vuole ottenere qualcosa. Perciò, quando ad agosto ‘49 avviene il passaggio di consegne dal vecchio Ispettorato di Ps al Comando forze repressione banditismo (Cfrb) del colonnello Ugo Luca (Cc), il bandito è pronto a dare la sua risposta. Organizza la strage di Bellolampo. E’ il 19 27 agosto 1949. Una colonna di autocarri militari, in località Passo di Rigano, è colpita dall’esplosione di una mina collocata in una buca scavata lungo il passaggio di un’autocolonna militare. Salta in aria un convoglio. I morti sono sette, i feriti una ventina. Ma Giuliano non ha dalla sua parte soltanto le promesse fatte e non mantenute. Ha il memoriale autentico (altri due erano stati scritti sotto dettatura ed erano stati consegnati ai giudici di Viterbo), dove è annotata la carriera criminale del bandito. A partire, appunto, dal ‘43. E’ questo memoriale l’oggetto del contendere. In definitiva, lo Stato potrebbe avere ceduto, ma non per fatti analoghi a quelli ai quali avremmo assistito in tempi più recenti a proposito del cosiddetto “papello” di Totò Riina, ma per via dell’esistenza di un documento che, stando a Pisciotta, è il vero fatto temibile da parte di molti personaggi. In Italia e all’estero. E’ in questo momento che le cose prendono una piega diversa. Giuliano comincia a fare la spola tra Castelvetrano e Palermo, rientra sotto la protezione dell’Arma. Secondo una testimonianza, va a vivere in via Marinuzzi, in casa di una professoressa, a stretto contatto con alti ufficiali dei carabinieri. Riviste e giornali divulgano, cosa mai fatta prima dell’inverno ’49-’50, decine di sue foto. Il bandito, inspiegabilmente, si fa riprendere (17 novembre ‘49) persino in un filmato di cinque minuti nella famosa masseria nei pressi di Salemi. Gli è accanto Pisciotta, uomo dei Cc, che ne garantisce l’identità. Dall’autunno ’49, quello è il vero Giuliano. Tranquillo e disinvolto. Mai nessuno l’aveva visto prima dell’avvio della trattativa. 28 GC 29 CIAK, SI GIRA: MORTE DI UN BANDITO 19.8.10 “Fuori tutti” (foto Carnemolla, copyright Farinella) Nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare, a proposito e a sproposito, dei giorni in cui il bandito Salvatore Giuliano, come narrano le fonti ufficiali, è trovato morto nel cortile di Castelvetrano (Trapani), la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950. La più misteriosa nella biografia criminale di questo terrorista nero. Se ne attribuiscono il merito, di fronte all’opinione pubblica mondiale, due valorosi combattenti della Patria, appartenenti all’Arma: il colonnello Ugo Luca e il suo braccio operativo, il capitano Antonio Perenze. Ma anche la mafia, specialmente quella dell’entroterra agricolo, rappresentata dai vecchi numi tutelari di “Turiddu”, assolve il suo compito. Fa sentire il suo peso specifico e dimostra la sua principale dote di sempre: la capacità di mediazione. Al di sopra di tutto ci sono gli strateghi della comunicazione. Quelli che decidono come e cosa gli altri devono pensare, quale dev’essere l’immaginario collettivo. Il capobanda di Montelepre è, infatti, e da 30 subito, l’assassino che uccide un carabiniere mentre contrabbanda un sacco di grano, il 2 settembre ‘43. E’ l’eroe dei poveri, un protetto dalla mafia e un perseguitato dalla legge. Un santo e un diavolo. La stampa dell’epoca lo fa passare per Robin Hood, una specie di benefattore dell’umanità. Ma il “picciotto dritto” che non si lascia posare la mosca sul naso, ad appena 28 anni ha già sul groppone ben 411 omicidi accertati. Le sue vittime sono inermi cittadini, possidenti rapiti, poveri carabinieri ignari che fanno solo il loro dovere. Onesti lavoratori che hanno l’unico torto di vederlo come manutengolo dei latifondisti, un killer prezzolato. Le sue vittime rivendicano giustizia e libertà. Manifestano, come a Portella della Ginestra, la propria gioia per la festa dei lavoratori, in un’Italia appena uscita dal fascismo e dalle tragedie della guerra. La confusione e le reticenze più o meno accademiche o giornalistiche, per non dire le compiacenze nel deviare la corretta interpretazione di ciò che questo capobanda rappresenta, scatenano le solite cortine fumogene. Impediscono all’opinione pubblica di farsi un’idea corretta del vero problema. Cioè il rapporto indissolubile tra la criminalità organizzata egemonizzata dalla mafia, i membri del governo e del sottogoverno del democristiano Alcide De Gasperi, i servizi segreti americani e italiani. Ne sono insigni referenti, ad esempio, il capo della polizia Luigi Ferrari, l’ispettore generale di Ps in Sicilia, Ettore Messana, i responsabili dell’intelligence Leone Santoro e Pompeo Agrifoglio. Noto, quest’ultimo, per avere firmato, nell’agosto ’45, a Venezia, il decreto di “immunità garantita” per trenta sabotatori della Decima Mas ricercati per crimini di guerra. In loro compagnia ci sono anche i fratelli Scalera, membri di spicco del fascismo del defunto 31 regime, il capo del neofascismo armato Augusto Turati e altri loschi figuri. Il tutto sotto la protezione di James Jesus Angleton (Ssu) e Philip J. Corso (Cic), i capi del controspionaggio Usa in Italia. Salvatore Giuliano, agosto ‘47 (copyright Chiaramonte) Giuliano è un affare per molti. Anche oggi, dopo che – il cinque maggio scorso, sulla scorta di dieci anni di lavoro sul tema – abbiamo presentato al questore di Palermo, dott. Marangoni, tramite il capo della Squadra Omicidi, dott. Mosca, un’istanza per la riapertura delle indagini sulla presunta morte del “bandito” monteleprino. Fatto che ha consentito, finalmente, l’apertura di un fascicolo per l’acquisizione di notizie, da parte del pm Francesco Del Bene (Procura di Palermo). La notizia è stata divulgata in esclusiva da Attilio Bolzoni con un servizio speciale su “Repubblica”, il 27 giugno scorso. Ciononostante, molti adesso cantano vittoria per meriti acquisiti. Li avranno pure. Ma non ci pare corretto che alcuni di loro si nascondano dietro il paravento del segreto professionale per proteggere personaggi ancora in vita che, a suo tempo, presero parte alle operazioni dell’intelligence italiana e statunitense per coprire un branco di stragisti. C’è dunque omertà di casta, se non proprio complicità, in certi ambienti dell’informazione, 32 che impedisce ancora oggi, forse più di prima, che gli italiani conoscano la loro vera storia recente e quali misteri l’abbiano resa inestricabile. Non sono questioni di lana caprina, queste. Giuliano, infatti, è un criminale paragonabile a quelli presenti nella nostra penisola all’epoca dell’occupazione nazista. Prima serve gli interessi dei Servizi di Kappler, Hass e del principe Valerio Pignatelli, poi è utilizzato contro “la canea rossa”, per contrastare la vandea comunista che, si teme, possa giungere a San Pietro da un momento all’altro. Poi, ancora, diventa una bomba a orologeria che bisogna saper disinnescare. Con competenze di alto livello. A questo servono le trattative che il capobanda e lo Stato – spinti dal comune interesse di celare la verità su quanto accaduto in Italia, nel retroscena, tra il ‘43 e le stragi del 1947 – avviano per anni. Fino alla fatidica notte di Castelvetrano. Molti episodi di questa trattativa sono spudoratamente epistolari. Nero su bianco. Al processo di Viterbo (1950-52) per le stragi di Portella della Ginestra e del 22 giugno 1947, sono esibite le seguenti lettere: - da Ciro Verdiani (ispettore di Ps in Sicilia fino all’agosto ’49) a Nino Miceli (boss di Monreale): “Carissimo amico Ignazio”, 26 febbraio 1950; - da Verdiani a Salvatore Giuliano: “Carissimo Salvatore”, 23 febbraio 1950; - da Gaspare Pisciotta (luogotenente di Giuliano) a Verdiani: 14 giugno 1950; - da Giuliano a Verdiani: “Caro commendatore”, 18 febbraio 1950; 33 - da Giuliano a Verdiani, “Commendatore carissimo”, 23 febbraio 1950; Durante il processo, l’avvocato Anselmo Crisafulli (difensore di alcuni membri della banda) rende pubbliche altre missive: - da Giuliano a Verdiani, ricevuta a Roma il 14 febbraio 1950 e intestata “Carissimo commendatore”; - da Antonio Perenze a Pisciotta, intestata “Caro amico”, non datata ma scritta prima della morte di Giuliano, firmata “Antonio”; - da Perenze a Pisciotta, intestata “Mio caro amico”, non datata e firmata “Antonio”. Sono attestati di amicizia, di un rapporto colloquiale, di un cercarsi a vicenda. In queste ultime, il capitano Perenze (Cc) fa riferimento a un “amico di Roma” e a un “maestro” che egli, di fronte ai giudici, identifica con il colonnello Ugo Luca (Cc). Questi non è né romano né “maestro”. Ma in simili scambi le parole sono allusive, i silenzi contano più delle parole. Il termine “maestro” si può meglio riferire a qualche convitato di pietra, o appartenente a qualche alta identità ultrasegreta, piuttosto che a un ufficiale dell’Arma. Aggiungiamo, per chi l’avesse dimenticato, che Verdiani incontra personalmente il bandito l’antivigilia di Natale del ’49. Cena con lui portandogli in dono una bottiglia di Marsala e un panettone fresco di forno. Alla corrispondenza bisogna aggiungere l’elenco dei viaggi effettuati, da Palermo a Roma e viceversa, dall’inseparabile coppia mafiosa costituita 34 da Ignazio Miceli (Monreale) e da Domenico Albano (Borgetto), tra l’agosto ’49 e il luglio ‘50. Per quanto non sarebbe costato molta fatica provvedere a precisi accertamenti presso gli uffici della Lai (Linee aeree italiane). E’ evidente che, nei mesi che precedono la scena del cortile di Castelvetrano, si svolge una frenetica azione sotterranea che ha i suoi referenti nelle principali cosche mafiose della Sicilia occidentale e, tramite queste, in certi ambienti romani controllati dal ministero dell’Interno. Verdiani ne è la punta più avanzata. E’ certo, ancora, che il governo De Gasperi non è estraneo all’intrigo, essendo stato informato direttamente dall’ispettore, come egli stesso dichiara ai giudici di Viterbo. Verdiani fa una brutta fine. E’ trovato morto a casa sua, qualche tempo dopo la sua deposizione del 26 luglio ‘51 al processo. Le fonti ufficiali parlano di suicidio. Ma, guarda caso, è l’uomo dello Stato che conosce più di tutti il capobanda monteleprino e il suo retroterra nazifascista. Fino al ’46 è stato questore di Roma. Ed è proprio lui a firmare vari rapporti del maggio ’46 in cui si esplicitano le relazioni tra gli emissari della banda Giuliano a Roma e gli ambienti delle squadre armate neofasciste. E’ Verdiani che ci parla, in ultimo, del celebre “zoppo”, l’“emissario della banda Giuliano” nella capitale. E’ addentro alle segrete cose. Ecco perché è prescelto, nella fase finale della trattativa (agosto ‘49-maggio ‘50), per definire una soluzione ragionevole al cul de sac in cui tutti si sono infilati. Verdiani, dunque, rappresenta la prima, lunga fase del negoziato, che prende il via dopo la tempesta dell’eccidio di Bellolampo (Palermo), avvenuto il 19 agosto ‘49, quando un camion di militari dell’Arma salta per aria a causa di una mina collocata sullo stradale da un commando della banda. I vertici della triangolazione sono, oltre a Verdiani, Salvatore Giuliano in persona e le mafie locali rappresentate da Miceli e da Albano. Con il beneplacito del governo nazionale, da cui la misteriosa “Nuova 35 organizzazione” dipende. A Verdiani segue Luca e, a questi, la “Nuova organizzazione”. La sequenza è lineare e ce ne occuperemo tra poco. Salvatore Giuliano, 5 luglio 1950 (foto di V. Montalto, Archivio Leonardo Corseri, www.castelvetrano.eu) Insomma, l’ispettore ha assolto egregiamente al suo compito. Il banditoterrorista, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del ‘50, gli invia una lettera all’indirizzo romano di via Benaco, 7, offrendogli un memoriale sulle stragi della primavera del ’47. Non è un’offerta spontanea e gratuita, ma il frutto di un patto. Dopo circa due mesi, durante i quali Giuliano e Verdiani mettono a punto il testo, la cosa sembra ormai fatta. Poco dopo (siamo alla metà di maggio del ‘50), il procuratore Emanuele Pili riceve a Palermo il prezioso atto. E’ così intestato: “Agli egregi signori magistrati”. E’ indirizzato all’abitazione privata di Pili, al quarto piano di via Emerico Amari 146. Il timbro postale in partenza è quello di Roma, la data il 12 maggio ‘50. La spedizione è personalmente effettuata dalla signora Piera Sartorelli, abitante nella capitale in via Adda 24. E’ il primo memoriale scritto da Giuliano. Il procuratore lo legge mz non lo ritiene adeguato alla bisogna. Lo restituisce al mittente. Forse non gli piace che Giuliano scriva che non voleva la strage di Portella, che ce l’aveva solo con i capi comunisti, ai quali voleva dare una lezione. Ma le cose prendono un’altra piega e quello che accade – i morti e i feriti del 1° maggio ’47 – non dipende dalla sua volontà. “Così non va bene”, si lamenta Pili. Giuliano deve scrivere un altro memoriale. Questa volta sotto attenta dettatura. Così l’autoaccusa sarà 36 precisa: “In questo processo – dichiara il monteleprino – vivamente protesto di non esservi mandanti e responsabili all’infuori di me”. Questo va bene. E quando il prezioso documento è ultimato, Giuliano lo firma e vi appone una data: 28 giugno ‘50. Adesso è tutto a posto. Sette giorni più tardi, il capobanda è trovato “morto” nel cortile di Castelvetrano. Che cosa accade dopo il primo memoriale, ce lo racconta Verdiani in persona: “Nella seconda decade di maggio 1950, io informai del rapporto avuto con Giuliano la direzione generale di Ps. Mi si disse di non occuparmi più della faccenda Giuliano per essere sopravvenuta una Nuova organizzazione”. Quasi un anno è passato dalla nascita del Cfrb. Di quale “Nuova organizzazione” parla quindi l’anziano ispettore? Evidentemente, di un’entità ultrasegreta e iperprotetta a livelli altissimi. Forse, Verdiani pronuncia una parola di troppo. La mafia, lo Stato e l’ombrello protettivo Usa esprimono un sistema organico che collauda un modello imperante fino ai nostri giorni. Il problema è proprio questo: se, come ci dicono le carte americane e britanniche che abbiamo studiato negli ultimi dieci anni, il bandito di Montelepre è tutt’altra cosa da quanto ci è stato raccontato dagli storici accademici e dai rotocalchi, è quindi legittimo ritenere che le cose siano andate diversamente da come ci sono state descritte a proposito della sua presunta morte. Tutto lascia ritenere che si sia svolta una lunga ed estenuante trattativa a base di incontri, lettere dalle formule allusive, pacche sulle spalle, colpi di lupara e mine anticarro. Ma anche colloqui ufficiali e, appunto, “memoriali” corretti fino alle virgole. 37 La trattativa, a modo suo, la comincia Giuliano subito dopo gli eccidi della primavera del ‘47. E c’è un risultato importante. Prendono il volo per l’America, ad agosto di quell’anno, alcuni membri della banda: Pasquale “Pino” Sciortino, Francesco Barone e Giuseppe Cucinella. Poi, però, tutto si blocca per mesi. Nel novembre ’47 è ucciso il militare dei Cc Luigi Geronazzo, braccio destro di Messana. Il messaggio è chiaro: “Non facciamo scherzi. Chi ha orecchie per intendere, intenda.”. L’avvertimento ha un sapore inequivocabile. Come in tempi a noi vicini l’assassinio di Salvo Lima, il plenipotenziario della Dc in Sicilia fino al ’92. Nel febbraio ‘48 cade l’avvocato Vincenzo Campo, membro autorevole della Dc e candidato alle elezioni politiche di quell’anno. A luglio è la volta di Santo Fleres (Partinico), capomafia e personaggio di spicco del partito di De Gasperi. Giuliano non si ferma dinanzi a niente e a nessuno, sicuro come un “trattore”. Segue a ruota l’uccisione dell’alcamese Leonardo Renda, compare del ministro Bernardo Mattarella (Dc). Nonostante questa sequenza di morte, lor signori non sembrano capire la lezione. Giuliano, allora, alza il tiro. E’ la strage di Bellolampo, nell’agosto del ‘49. Il capobanda si sente protetto da una gabbia di Faraday, qualcosa di più forte della mafia e del potere politico. E’ il suo vero memoriale, il terzo, dove sta scritta la verità su fatti e persone coinvolte nelle stragi, tutto ciò che è accaduto da Kappler, nella Roma occupata dai nazisti, fino ai Far, 38 all’Eca, alle Sam. Ne è testimone Pisciotta che ai giudici di Viterbo dice che i primi due memoriali sono finti, che quello vero è altrove. Nel cortile di Castelvetrano, luglio 1950 Dopo Bellolampo, le cose cambiano. Lo dimostra il silenzio che si avverte nell’aria. Come la quiete dopo la tempesta. Ora le armi tacciono, si fa posto alle discussioni. Faccia a faccia. Mafia, banditi e polizia. Il 27 agosto ‘49 Ugo Luca diventa capo del Cfrb. Ma Verdiani, imperterrito, non abbandona la scena. Anzi – come abbiamo visto – prosegue la sua azione di contatto con Giuliano fino al maggio del ’50. Forse, qualcuno capisce che deve essere lui a chiudere il primo tempo della trattativa con Giuliano. Rimanga quindi in Sicilia. Senza di lui, Luca non potrebbe muoversi. L’obiettivo strategico del negoziato è chiaro: ottenere la falsa auto-accusa di Turiddu, non la verità dei fatti. E Verdiane ci riesce, la sua funzione è quella di apripista. Ma perché il bandito dovrebbe sottoscrivere le sue colpe? E’ certamente un megalomane, ma non un autolesionista. Quale contropartita ottiene dall’ammissione sconcertante dei suoi delitti? Arriviamo così al cuore del problema. Ora il gioco è salvare la pelle in cambio della consegna del memoriale, il terzo, quello vero e, soprattutto, scottante. 39 A Viterbo, i giudici impazziscono per cercare di venire a capo di queste carte. Ma non approdano a nulla. Qualcuno, durante il dibattimento, dice che sono state bruciate. Non può essere vero. Sono il salvacondotto che deve consentire a Giuliano di uscire dal vicolo cieco in cui si è infilato, tirandosi dietro, obtorto collo, anche lo Stato. I termini del negoziato prevedono l’incolumità fisica di “Turiddu” negli anni avvenire. Una sorta di immunità protettiva, come quella di cui beneficiano i collaboratori di giustizia negli Stati Uniti. Un’idea tutta americana. Anche se non sempre le cose vanno per il verso giusto. Nel settembre del ’52, l’Fbi mette le mani su Pasquale “Pino” Sciortino, il cognato di Giuliano, per ricondurlo in Italia, dove sconterà vent’anni di carcere. Nel Texas, l’ex terrorista è da cinque anni un sergente della US Air Force. Un episodio inquietante che ci consente di capire meglio alcuni dettagli di questa infinita saga criminale. Tra la metà di maggio e i primi di luglio del 1950, in Sicilia, il testimone passa al colonnello Luca. Ora bisogna allestire il set di questo noir all’italiana, dove le ombre prevalgono sulle luci. E, alla fine, qualcuno trova sempre il cadavere scomparso. Ciascuno ha recitato la sua parte. Con risultati, sul lungo periodo, più o meno vantaggiosi. In questo copione abbiamo incontrato vari personaggi: i sosia di Giuliano, i giornalisti, gli autori di un filmato, carabinieri, avvocaticchi, gente comune, spie e uomini di governo. Alcuni si sono appena intravisti, sul fosco scenario estivo di quella notte. Forse, è mancato soltanto il protagonista della pellicola. Ma tant’è. Gli spettatori, ovvero gli Italiani, come diceva Curzio Malaparte, sono un popolo che porta sempre i pantaloni corti. 40 GC e MJC 41 SEPPELLITE CESARE 13.9.10 La verità sul bandito Giuliano (1949) Sicilia, marzo ‘50. Strane voci circolano nell’isola. Riguardano un uomo che ha fatto parlare di sé in tutto il mondo. Si chiama Salvatore Giuliano. Di professione, capo di una banda di terroristi neri. Alcuni dicono che è fuggito in Tunisia, nel dicembre ‘48, a bordo di un’ imbarcazione; altri, che sia andato nella Spagna franchista per arruolare un esercito di liberazione della Sicilia; altri, ancora, che il governo italiano ha organizzato la sua fuga nel Nuovo Mondo, dove il bandito è stato concepito nel 1922 (cfr. Gavin Maxwell, Dagli amici mi guardi Iddio, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 147). Sta di fatto, comunque, che Antonino Terranova, alias “Cacaova” e Frank Mannino, alias “Ciccio Lampo”, membri autorevoli della banda, scappano a Tunisi. Hanno un amico e si imbarcano sul peschereccio “Rosita”, con l’aiuto dell’ispettore di Ps Ciro Verdiani. E’ il 7 dicembre ‘48. Nell’agosto ’47, alcuni membri autorevoli della banda erano 42 espatriati negli Usa con passaporti falsi: Pasquale Sciortino, inteso “Pino”, Francesco Barone, alias “Baruneddu”, e qualche altro. Anni dopo, saranno tutti acciuffati e riportati in terra di Sicilia. Secondo alcuni articoli de “l’Unità” dell’estate ‘47 – scrive il giornalista (e spia) Mike Stern nel volume “No innocence abroad” negando la circostanza (Random House, New York, 1953, pp. 63-113) – , il compito di Sciortino consiste nel mantenere i contatti tra gli uomini di Stern, nel New Jersey, e la banda Giuliano in Sicilia. La notizia è giudicata erronea. Ma, guarda caso, Sciortino è catturato nel settembre ’52, nel Texas. Non dalla Cia ma dall’Fbi. E’ un sergente della US Air Force e, tornato in Italia, sconterà una pena di vent’anni per il suo coinvolgimento nella strage di Portella della Ginestra. Terranova, durante il processo di Viterbo nel 1951, spiega meglio le cose: “Giuliano mi disse che gli istigatori del massacro di Portella si erano rifiutati di osservare il patto [la promessa di libertà e di immunità per tutti gli uomini della banda].” E aggiunge che l’ordine impartito da Giuliano fu il seguente: “Dobbiamo far pressione su questi signori perché mantengano la parola. ‘Vai a Castellammare del Golfo e sequestra Mattarella [deputato siciliano della Dc] con tutta la sua famiglia’, mi disse.” Dunque, sono due i fatti che emergono. Il primo è che, dopo le stragi della primavera del ‘47, la promessa di libertà è mantenuta solo per alcuni uomini della banda. Quelli che, diciamo, eludono i controlli, la fanno in barba alla legge. Il secondo è che il mancato rispetto dei patti spinge Giuliano a colpire in un’unica direzione: i capi della Dc. Liberare Giuliano non è una scelta di scarso rilievo. Egli è il capo riconosciuto di uno squadrone terroristico e il depositario di molti segreti inconfessabili. Custodisce il diario di bordo dove stanno scritti nomi illustri, menti politiche e mandanti. Eliminarlo sarebbe molto più comodo e sbrigativo che mantenerlo in vita. E non si può permettere che vada via come una mina vagante. Da vivo, infatti, promuove tragedie e lutti incalcolabili, che mette a segno dopo vari tentativi di persuasione rivolti alla sua controparte. Cioè lo Stato. Pubblica, ad esempio, sul “Giornale di Sicilia” un ultimatum al governo: “Se entro il 21 aprile 43 [1949] non mi sarà data una risposta, attaccherò le forze dell’ordine per uscire da questa tormentata situazione.” Dall’opuscolo intitolato “La verità sul bandito Giuliano” (supplemento al n. 24 di “Propaganda” del Pci, 1949), apprendiamo che “Giuliano ha una sua logica. Egli non si sa spiegare come mai coloro che si sono serviti di lui per massacrare i contadini a Portella della Ginestra e per organizzare le stragi del 22 giugno [1947], coloro che gli hanno indicato i cittadini da sequestrare e da ricattare per dividere insieme i proventi, coloro che gli hanno fatto eleggere il 18 aprile [1948], ora se la prendono con lui e gli lanciano contro la polizia. La prima lettera di Giuliano al governo è infatti una lettera di richiamo ai precisi impegni presi dalle forze politiche al potere nei riguardi del bandito: ‘Onorevoli – scrive Giuliano – queste donne che si trovano maltrattate in carcere [il riferimento è alla madre e alle sorelle], sappiate che hanno votato le vostre liste perché speravano in un senso di giustizia e soprattutto nelle vostre promesse. Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre’ […]”. 44 Ma gli onorevoli fanno orecchio da mercante. E, come abbiamo già visto in altri post di questo blog, Giuliano alza il tiro. Prima l’imboscata di Portella della Paglia, poi Bellolampo, nell’agosto ‘49. Tredici agenti di Ps e carabinieri pagano con la vita i giochi di potere dei potenti che siedono a Roma e che manovrano i loro manutengoli in Sicilia. Il 18 settembre, sulla strada per Menfi (Trapani), i banditi fermano e rapinano due deputati democristiani: Addonnino e Borsellino. Il primo, come scrive il quotidiano romano “Il Paese”, ha presentato un’interpellanza al Parlamento prendendo le difese dei banditi, il secondo avrebbe detto: “Io ho difeso gratuitamente i ‘Fratelli d’Italia’ (due noti banditi di Menfi).” Come a dire: “Noi abbiamo mantenuto la parola data. Caro Giuliano, non prendertela con noi.” Verdiani continua a muoversi dietro le quinte. Il ministro dell’Interno, Mario Scelba, gioca le sue ultime pedine. Istituisce, nell’agosto ‘49, il Comando forze repressione banditismo (Cfrb) con a capo il colonnello Ugo Luca, ex uomo di fiducia di Mussolini, già membro autorevole del Servizio informazioni militare (Sim) e, secondo alcune voci, agente del Dipartimento di Stato americano. Il rispetto dei patti stabiliti non può riguardare l’amnistia concessa da Togliatti, ministro della Giustizia, ai separatisti e ai fascisti di Salò, il 22 giugno ’46. Posto che i banditi possano beneficiarne. La circostanza è semplicemente impensabile. Ecco perché l’unica interpretazione che si può dare alla promessa di libertà da parte dei pezzi grossi della politica è l’espatrio, con documenti falsi. E cioè una operazione che soltanto una organizzazione al di sopra di tutto e tutti può portare a termine e sulla quale De Gasperi e altre forze internazionali possono personalmente garantire. 45 La materia del contendere è, dunque, l’espatrio. Per incastrare Giuliano, spingendolo all’esasperazione, Scelba fa arrestare i suoi familiari. L’anziana madre e Giuseppina Giuliano, arrestate nell’estate ’49 assieme a Giuseppe Giuliano (spedito ad Ustica), sono poi scarcerate nel gennaio ‘50 e rispedite a Montelepre. La stessa sorte tocca a Mariannina, scarcerata il 25 ottobre ‘49. Ufficialmente, le tre donne escono per motivi di salute. Poi subentra il silenzio, la calma. Giuliano è più tranquillo. Verdiani ha fatto bene il suo lavoro. Gli rimane solo la predisposizione di alcuni dettagli della scena finale. Alla fine del ’49 le armi tacciono. Qualcuno decide di chiudere la partita. In un modo ragionevole per tutti. Ma ci sono gli indizi lasciati sul terreno, i dubbi, le contraddizioni. Sempre più estesi come in un puzzle senza fine. Come nei film polizieschi, i dettagli svelano i conti che non tornano. A fornirceli sono diverse fonti. Ci sono i testimoni di quegli anni. Si parla in modo esplicito della trattativa aperta dal terrorista monteleprino con lo Stato. Nel paragrafo “Giuliano chiede che vengano mantenuti gli impegni”, il quadro è 46 inquietante. L’isola ha un’aria irrespirabile. Ben cinque ispettori generali di Ps si avvicendano in meno di due anni. Sono, nell’ordine, Messana, Coglitore, Modica, Spanò e Verdiani. Tranne quest’ultimo, tutti scappano dopo pochi mesi di permanenza. Qualcuno, come Coglitore, non ci mette neanche piede e dirige il suo Ufficio da Napoli. Resiste il solo Verdiani. Questi avvia, e porta a termine, le trattative con Giuliano fino al maggio ‘50, nonostante non sia più in carica. Dopo, come egli stesso dichiara ai giudici di Viterbo, lo invitano a farsi da parte perché è intervenuta – dice – una “nuova organizzazione”. Ha fatto la sua parte fino in fondo. “God Protect me from my friends” di Gavin Maxwell (Londra, 1956) Nella scena finale della folle tarantella cui assistiamo, non è fuori luogo ipotizzare soluzioni sperimentate altrove, magari in tempo di guerra. Ne parla, ad esempio, Gavin Maxwell nel libro Dagli amici mi guardi Iddio edito da Feltrinelli nel 1957. Lo scrittore scozzese, ex istruttore dello Special Operations Executive (Soe) britannico durante la seconda guerra mondiale, svolge proprio a Montelepre una delle prime inchieste 47 sul bandito. Forse qualcuno, in Gran Bretagna, gli ha raccontato come sono andate realmente le cose. Quando arriva tra quelle montagne, ne coglie la particolare cultura, gli usi, gli atteggiamenti delle persone. Interroga testimoni, visita luoghi, legge documenti, ricostruisce scene e ambienti di appena cinque anni prima. Come un regista alle prese con un casting immaginario. Molte sue affermazioni sono raccolte dal vivo, anche se lo stile del lavoro è di tipo narrativo. Ma c’è da credergli perché nella rappresentazione realistica che ci fornisce, tutto è verosimile, spinto dalla voglia di sapere. Maxwell dice e non dice, usa metafore, allude a qualcos’altro, a fatti inconfessabili. E ciò non gli impedisce di lasciar intravedere importanti verità. Si sta preparando il terreno per ciò che avverrà nell’estate del ‘50. Gli Stati Uniti d’America sono una realtà ben presente nella famiglia Giuliano. Vi emigrano nel 1903 il padre del futuro bandito, Giuseppe, e Maria Lombardo, sua moglie. Si stabiliscono a New York, a Manhattan, sulla Settantaquattresima Strada Est. Qui, all’inizio del ‘22, è concepito Salvatore, ultimo di quattro figli. La vita è dura per questa famiglia siciliana. Il padre, per vivere, fa lo scaricatore di merci nel quartiere. Ci rimangono alcune rare foto del periodo americano. Sono pubblicate dai rotocalchi italiani negli anni Cinquanta. Immagini che sembrano uscite dal film Il padrino di Francis Ford Coppola. Verdiani deve curare i particolari. “Il patto è già firmato”, svela Maxwell. L’ispettore può tornare a Roma. Nel marzo ‘50 lo raggiunge il boss Miceli, da Monreale. Hanno entrambi un compito da svolgere. Maxwell non potrebbe essere più esplicito. Ha soggiornato parecchi mesi nell’isola. E, come agente segreto di lungo corso, sa cose che non 48 può dire. Ma scrive: “A sipario abbassato, il pubblico in sala chiacchierava e si agitava. Dietro il sipario, erano all’opera i servi di scena, portavano via lo sfondo delle montagne biancastre su cui si profilava, in lontananza, una caserma devastata, toglievano le quinte, rappresentanti vigneti, uliveti, fichidindia, boschetti di vimini, raccoglievano i poveri rustici strumenti che erano rimasti appoggiati al muro di una capanna, e sostituivano a quella scena, ormai per noi familiare, la veduta di una strada di Castelvetrano. Non più la luce dura del Mezzogiorno sul cielo abbagliante di cobalto, ma il pallido misterioso splendore di un’alba mediterranea, le ombre ancora lunghe che disegnavano un cortile e un arco. Muri e gradini sbrecciati. Nei camerini, un attore si rifaceva il trucco. Anche Luca, infatti, aveva avuto un incontro segreto ‘nel cuore della notte’ con un uomo al quale aveva indicato la parte che doveva recitare.” Maria Lombardo, madre di Salvatore Giuliano, a New York nei primi anni del ‘900 49 Maxwell ci racconta che, all’alba del 5 luglio ’50, “un giovane, come immerso in un sonno pesante” giace a terra, in un cortile di via Mannone, a Castelvetrano. Più tardi cominciano a circolare voci, secondo le quali Luca ha fatto arrivare nel paese del capomafia Giuseppe Marotta, un “autocarro con scritti sulle fiancate i nomi dell’Istituto cinematografico “Luce” e di due giornali, “La Gazzetta dello Sport” e “Il Paese”. Vi spicca la pubblicità delle “Avventure di Paperino”. I tecnici di questo film, che non sarà mai girato, sono carabinieri travestiti. E’ una carovana felliniana che si mette in mostra per città e campagne nella zona di Castelvetrano. Come nella promozione di uno spettacolo da circo equestre. Il maestro delle scene è il colonnello Luca. Lo segue a ruota il capitano Perenze. Con i suoi uomini in divisa. L’autocarro con cui la troupe si muove è munito, stranamente, anche di “un’antenna radio perfettamente visibile”. E’ da qualche giorno che la gente, incredula, li vede. Uno spettacolo insolito. Ma a cosa serve un’antenna in quelle circostanze? Chi è e dove si trova l’attore principale? Il “camerino” di cui parla Maxwell (p. 148) può mai trovarsi fuori da quell’autocarro, se le scene si stanno girando proprio a Castelvetrano, in via Mannone e nel cortile dell’avvocato Gregorio De Maria? E’ tutto un apparato degno di Cinecittà, destinato a chiudere lo spinoso affaire del capobanda monteleprino. 50 La folla tenuta a distanza (foto V. Montalto, archivio Corseri) Ma torniamo al cortile De Maria e a Gavin Maxwell: “Il corpo di Giuliano giacque per tutta la mattina del 5 luglio là dove si diceva che era caduto, nel cortile del numero civico 14 di via Serafino Mannone. L’arco per cui vi si entra fu bloccato da una Fiat, intorno alla quale stava a guardia un reparto di carabinieri, i quali impedivano l’ingresso e la vista alla folla che si addensava nella strada”. Il corpo rimane nel cortile fino a mezzogiorno e, adempiute le formalità di rito (descrizione della posizione dell’individuo e degli oggetti intorno), il procuratore generale Emanuele Pili ordina di trasportarlo all’obitorio di Castelvetrano. Scrive Maxwell, a pagina 162: “Lo sollevarono dolcemente, come un compagno ferito, ed un carabiniere gli pulì la fronte che al contatto con la terra, nel cortile, s’era sporcata di polvere.” 51 Ingresso al cortile di via Mannone ostruito da una Fiat, 5 luglio ‘50 (foto Montalto, archivio Corseri, www.castelvetrano.eu) Il periodo tradisce qualcosa di indicibile. I carabinieri usano molto riguardo verso questo corpo, al punto che uno di loro gli pulisce la fronte. Che, però, non è sporca di polvere, come si vede chiaramente dalle fotografie scattate da Vincenzo Montalto. Quel gesto sembra, piuttosto, l’atto caritatevole che un infermiere compie verso un ammalato, forse leggermente sudato. A questo punto arriva un carro funebre, sul quale i carabinieri depongono quel corpo. Poi il carro si dirige verso l’obitorio, dove viene eseguito un “sommario post mortem” da parte del prof. Ideale del Carpio, prima di eseguire la maschera in gesso del volto. Solo da questo momento sono ammessi i giornalisti e la folla, con il seguito chiassoso dei fotografi. Ma che cosa accade nel lasso di tempo che intercorre tra l’ingresso del carro funebre all’obitorio e il momento in cui al pubblico è consentito di avvicinarsi al morto? E che caratteristiche presenta questo corpo? 52 Su queste domande sta indagando la polizia scientifica di Roma. GC e MJC 53 MEGLIO VIVO: I PERCHÉ SULLE ULTIME ORE DI GIULIANO 22.9.10 La storia delle origini dell’Italia post-fascista è ancora avvolta da molti misteri. Valga per tutti la vicenda della vita e della morte del bandito monteleprino Salvatore Giuliano, al quale quella storia è legata. A tal punto che ci troviamo di fronte, ormai, ad un’icona che di quel periodo è espressione. Ne rappresenta, anzi, i lati più oscuri, difficilmente districabili. La saldatura, ad esempio, tra poteri istituzionali e poteri criminali che proprio in quegli anni si realizza su scala nazionale. Quando la criminalità politica diventa una necessità di Stato. Fino al punto che è possibile ipotizzare un archetipo fondativo della storia italiana lungo il filo nero che va dalla strage di Portella della Ginestra (1° maggio ‘47) a quella di via D’Amelio (19 luglio ‘92). Una costante di tale verità è la costruzione di stereotipi. Gli aiuti americani alla rinascita del nostro Paese, il mito degli italiani “brava gente”, la scomparsa del fascismo, l’insorgenza di una classe di diseredati pronta a darsi il suo Robin Hood, la netta separazione tra Stato e Cosa Nostra e via di seguito. Se si afferra un bandolo di questa matassa, rotta in diversi punti, si può seguire il filo d’Arianna che porta 54 fuori dal labirinto. Non è un’operazione semplice. Occorre sgomberare la mente dalle sedimentazioni che impediscono di scrivere una storia mai raccontata. Giuliano è una cartina di tornasole. Inizia la sua carriera paramilitare come terrorista neofascista, prima nella Decima Mas badogliana e dopo nelle fila delle formazioni nere gravitanti attorno alle Sam (Squadre d’azione Mussolini), ai Far (Fasci d’azione rivoluzionaria di Pino Romualdi), alla Brigata Nera “Raffaele Manganiello” o al Fronte antibolscevico. Gli americani lo segnalano già nel gennaio ‘44 come un “picciotto dritto” e, dopo, come “leader of a fascist band in Sicily”. Ma Turiddu non è il bandito montanaro. Si muove molto per l’Italia. I servizi segreti nostrani lo segnalano al bar “Traforo” o in quello di piazza San Silvestro a Roma, frequentato da Mike Stern (Cic). Nella capitale, il giovanotto – capelli impomatati e occhiali da sole – prende ordini dall’aristocrazia nera di orientamento monarchico-eversivo. Organizza così la strage di Portella della Ginestra e quella del 22 giugno ‘47. La mafia gli fa da scudo. A dirigerla, negli anni di piombo 1946-’47, c’è un nuovo raìs. Il mitra subentra alla lupara; il tritolo al taglio delle viti; la strage indiscriminata alla semplice vendetta personale. Quando spunta l’alba del 22 giugno, il giorno è segnato da una carica di tritolo che fa saltare per aria la centrale elettrica di Palermo. In serata, seguono gli assalti contro le Camere del Lavoro e le sedi di sinistra in ben sette comuni della provincia di Palermo. Questa volta l’obiettivo è mirato. E’ “l’infezione comunista”. Giuliano agisce per conto terzi. A tramare ci sono membri del sottogoverno De Gasperi e boss di Cosa Nostra, mafiosi locali e personaggi politici. Tutti promettono e il “picciotto dritto” di Montelepre sta ai patti. 55 Dopo le stragi, la parola data non è mantenuta. La promessa amnistia anche per i criminali è ancora lontana e Giuliano perde le staffe. A modo suo, inizia un’azione di forza. Come un Totò Riina ante litteram. Bersaglio principale sono, questa volta, esponenti delle istituzioni e democristiani di spicco. La loro eliminazione è una vendetta trasversale, di avvertimento. A novembre ‘47 è ucciso il militare dei Cc Luigi Geronazzo, braccio destro dell’ispettore generale di Ps, Ettore Messana. Il messaggio è: “Non facciamo scherzi. Chi ha orecchie per intendere, intenda”. Il vecchio ispettore di Racalmuto, anche se destituito, è il referente principale di Gaspare Pisciotta, di Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo, e di altri criminali. Pisciotta dice che anche Giuliano è un confidente di Messana. Nel caso di Geronazzo, dunque, il messaggio lanciato dal capobanda è diretto. Come in tempi a noi vicini l’assassinio di Salvo Lima, il plenipotenziario della Dc in Sicilia. Nel febbraio ‘48 cade l’avvocato Vincenzo Campo, membro autorevole della Dc e candidato alle elezioni politiche di quell’anno. A luglio è la volta di Santo Fleres, a Partinico, capomafia e personaggio di spicco del partito di De Gasperi. Giuliano va sicuro come un “trattore”. Segue a ruota l’uccisione dell’alcamese Leonardo Renda, compare del ministro Dc Bernardo Mattarella. Nonostante questa sequenza di morte, lor signori non danno segnali di aver capito la lezione. E Giuliano alza il tiro. E’ la strage di Bellolampo: sette carabinieri saltano in aria su una mina. Il bandito ha attorno a sé una gabbia di Faraday, qualcosa di grosso che lo protegge. Più forte della mafia e del potere politico. E’ il suo vero memoriale, dove sta scritta tutta la verità su fatti e persone coinvolte negli affari stragistici, e tutto ciò che accade da Kappler, nella 56 Roma ancora occupata dai nazisti, fino ai Far, all’Eca e alle Sam. Ne è testimone Pisciotta, che ai giudici di Viterbo dice che i due memoriali, esibiti dagli avvocati ai giudici, sono falsi, che il vero memoriale è altrove. Il corpo di Giuliano tenuto a distanza dalla folla (archivio Corseri, www.castelvetrano.eu) Questo rosario di morte è una trattativa in cui a parlare sono le armi. Ma, sotterraneamente, le discussioni procedono anche attraverso incontri diretti e lettere. Al processo di Viterbo ne sono tirate fuori una dozzina. A trattare sono l’ispettore di polizia Ciro Verdiani e il capitano Antonio Perenze, il braccio destro del colonnello Ugo Luca, già uomo di fiducia di Mussolini. Sullo sfondo, Cosa Nostra copre gran parte delle scene. Fino ai viaggi Palermo-Roma dell’inseparabile coppia dei boss Miceli-Albano, alla vigilia del falso conflitto a fuoco di Castelvetrano. Che quel morto non sia Giuliano, dunque, appare un dubbio legittimo e doveroso. A suffragarlo con ulteriori elementi di sospetto intervengono 57 altri spunti di osservazione su cui sta indagando la polizia scientifica di Roma, su mandato della Procura della Repubblica di Palermo: 1) i corpi giacenti nel cortile e nell’obitorio di Castelvetrano, ad una analisi medico legale condotta dal prof. Alberto Bellocco circa cinque anni fa, sembrano molto diversi dal punto di vista somatico; 2) elementi che avevano utilizzato lo Stato per coprire certe operazioni antidemocratiche, sotto la copertura di forze estranee al nostro Paese, avevano l’oggettivo interesse a consentire il mantenimento degli impegni assunti con il bandito, consentendogli di espatriare in tutta sicurezza e di avere per il resto della sua vita una sufficiente protezione; 3) al mantenimento di tali condizioni esisteva, di fatto, un organismo di copertura ultrasegreto dipendente dal governo De Gasperi, di cui si ha traccia in parecchia documentazione dei Servizi americani e inglesi. Tale organismo avrebbe potuto essere, se non proprio identico, quanto meno analogo al “Noto Servizio” o “Anello della Repubblica”, su cui ha prodotto una approfondita ricerca Stefania Limiti; 4) Diverse voci popolari, nell’area di Montelepre-San Giuseppe Jato, hanno da sempre sostenuto la convinzione che Giuliano fosse vivo negli Stati Uniti; 5) A suffragio di tali voci, si è sempre registrata a Partinico, nelle vicinanze di Montelepre, la voce che alcuni membri della banda Giuliano fossero fuggiti via mare a Tunisi per imbarcarsi, da qui, per gli Usa (Manhattan, New York City). Tale voce troverebbe sostegno nel 58 fatto che la banda Giuliano aveva realmente acquistato un motoscafo di seconda mano presso un proprietario di Castellammare del Golfo, di cui si ha ampia traccia nel dibattimento del processo di Viterbo per la strage di Portella della Ginestra. Risulta inoltre che, dopo le stragi del 22 giugno ‘47, Pasquale “Pino” Sciortino e Francesco Barone s’imbarcarono per l’America, via Genova. Un primo tentativo di espatrio collettivo risale al dicembre del ‘47; tutti si sarebbero dovuti trovare a Palermo; ma il piano fallisce perché Giuseppe Passatempo giunge in ritardo. Altra decisione di espatriare, “anche da parte di Giuliano” (secondo Mannino), risale al marzo-aprile ‘48. Sul finire di quest’anno, si fa avanti una vecchia amicizia di Antonino Cucinella, un certo Salvatore Milazzo, che presta la sua opera per trasferire la banda di “Cacaova” a Tunisi, con la sua motobarca “Rosita”. Il Milazzo è un personaggio dedito al traffico di generi di contrabbando, tra cui il tabacco, ed è un latitante che ha al suo attivo un mandato di cattura, emesso dal giudice istruttore di Trapani il 27 luglio del ‘48, per tentata estorsione ed altro. Ma, stando alle dichiarazioni dell’8 maggio ‘51 del Mannino, poi contraddette davanti alla seconda Corte di Appello di Roma, sarebbe esistito un “accordo collettivo” di espatriare assieme a Giuliano (cfr. Città Giudiziaria di piazzale Clodio, Roma, II Corte di Appello, Atti della Corte di Assise di Viterbo, CAV, “Verbale di continuazione di dibattimento, interrogatorio di Mannino Frank”, seduta dell’8 maggio 1951, cartella 4, vol. V, n. 2, f. 181). C’è da aggiungere che, dal Rapporto inviato dall’agente Henry B. Ingargiola (Cic, sezione di Napoli, zona 6, Ufficio di Bari) all’Allied forces headquarters, al comando del Cic e al Pbs (Tna/Pro, Wo 59 204/12619, 28 gennaio 1946), risulta che gli uomini della banda Giuliano potevano trovare ampio asilo a Tunisi in quanto qui esisteva un forte movimento separatista. “A Tunisi – leggiamo – opera un’organizzazione composta da siciliani e da arabi che sostengono il movimento separatista in Sicilia. Grazie agli sforzi di questo gruppo, sono stati inviati nell’isola denaro e armi. I rifornimenti sono caricati a bordo di alcune navi a Kelibia (Capo Bon) e trasportati a Granitola (provincia di Trapani), dove vengono distribuiti ai combattenti.” Una fonte di Partinico mi ha in ultimo riferito, qualche settimana fa, di avere appreso dal cassiere della banda, Vito Mazzola, negli anni ’50, il seguente fatto: Giuliano si imbarcò i primissimi giorni di luglio del ‘50, nottetempo, nel tratto di costa tra Selinunte e Portopalo, per raggiungere, poche ore dopo, la costa tunisina. 6) Sul settimanale “Tempo” del luglio 1954 (pp. 34-36, articolo di Umberto De Franciscis), compare una foto a mezza pagina che ritrae il prof. Ideale Del Carpio, dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo, dinanzi al cadavere del presunto Salvatore Giuliano. La didascalica è eloquente: “Del Carpio accanto al corpo di Giuliano durante la seconda autopsia.” Qualche riflessione è d’obbligo: che bisogno c’era di eseguire una seconda autopsia? E perché non si trovano i verbali delle due autopsie? Per questi motivi, ci è parso doveroso segnalare alla Magistratura un insieme di elementi indiziari che, il solo sospetto che potessero essere utili a una prova, non poteva esimerci dal dovere di parlare. Perché ci pare un fatto molto grave che un criminale con 411 fascicoli aperti sul suo conto per stragi, delitti, sequestri di persona, detenzione di armi da 60 guerra e quant’altro, possa essere ancora vivo o che possa avere trascorso, con complicità istituzionali, gran parte della sua vita impunemente e in barba alle sue stesse vittime, che ancora a oggi reclamano e gridano giustizia. Per lo Stato, infatti, i delitti di cui si rese responsabile Giuliano, non hanno alcun mandante. GC (pubblicato su “Narcomafie”, settembre 2010). 61 ALLEGATO PADRE PIO SAPEVA DEL SOSIA DI GIULIANO 29.9.10 Il sosia di Giuliano? Dopo sessant’anni, il mito di «Turiddu», Salvatore Giuliano, torna a calamitare l’attenzione di storici, ricercatori e giornalisti. Si discute, infatti, se il corpo crivellato di colpi la notte tra il 4 e il 5 luglio 1950 e fatto trovare a Castelvetrano, nel cortile dell’abitazione dell’avvocato De Maria, sia stato davvero quello del «re di Montelepre» come i giornali avevano preso a chiamare Salvatore Giuliano, il più noto bandito d’Italia, accusato di aver eseguito, insieme agli uomini della sua banda, la strage («la prima strage di Stato», si dirà in seguito) di Portella della Ginestra, avvenuta il 1° maggio del ’47. Due accreditati studiosi come Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino, che da anni si occupano di rapporti tra mafia e politica, hanno consultato migliaia di documenti desecretati negli archivi 62 americani e londinesi e sono giunti alla conclusione che il corpo senza vita fatto trovare nel cortile De Maria non era quello di Salvatore Giuliano, ma di un suo sosia. Una messinscena per «proteggere» l’espatrio clandestino di Turiddu negli Usa, per evitare che in Italia potesse svelare segreti inconfessabili sugli apparati statali. E non deve trattarsi di una semplice ipotesi di studio, quella di Casarrubea e Cereghino, visto che la stessa Procura di Palermo ha aperto un apposito fascicolo, a seguito di una formale segnalazione fatta dai due al questore palermitano e poi giunta nelle mani del procuratore aggiunto, Antonio Ingroia, il dinamico magistrato che si occupa di scottanti inchieste sulla mafia. La polizia scientifica sta quindi lavorando su alcune foto che, dieci anni fa, sono state rinvenute in un archivio privato dal giornalista della Rai Franco Cuozzo. Quelle foto ritraggono il cadavere del bandito di Montelepre nel cortile di de Maria e poi quando viene portato all’obitorio. Tra quelle immagini ci sarebbero delle discrepanze; le stesse sulle quali sta lavorando il prof. Alberto Bellocco, docente di Medicina legale alla Cattolica di Milano, che è stato già sentito dai magistrati. Gli stessi magistrati che, se potessero, ascolterebbero, come persona informata dei fatti, nientemeno che Padre Pio. Il santo del Gargano – come certificò per prima la «Gazzetta del Mezzogiorno» attraverso testimonianze dirette e contenute nello «speciale» sui trent’anni dalla morte del Frate stigmatizzato, pubblicato il 23 settembre 1998, pag. 13 – senza mezzi termini aveva parlato di un sosia, «un povero figlio di mamma» fatto morire al posto del bandito siciliano. 63 Il quale Turiddu, secondo i ricercatori Casarrubea e Cereghino, essendo organico alla destra in funzione anticomunista, s’incontrava spesso a Roma con il principe Junio Valerio Borghese, capo della Decima Mas. Pasquale Sciortino, cognato di Giuliano, in un libro del 1985, rivela che un giovane di Altofonte, sosia di Giuliano, veniva pagato per farsi vedere in giro e confondere le acque. Ed è lo stesso che è ritratto in una foto a fianco di Junio Valerio Borghese e davanti a Mauro De Mauro, il giornalista foggiano che, quando lavorava a «L’Ora» di Palermo, fu rapito e ucciso il 16 settembre del 1970 (per quei fatti è in corso a Palermo il processo contro un unico imputato: Totò Riina). Ma torniamo a Padre Pio. E’ ancora vivente un testimone di quei giorni. Si chiama Giovanni Siena, scrittore e giornalista. Le sue parole sono inequivocabili: «Per una ventina di volte mi sono trovato davanti alla scena, diciamo, in un salottino del convento, e Padre Pio, ogni volta che individuava fra i presenti un siciliano, un palermitano, gli poneva la questione: se lui era dell’avviso, secondo quanto pubblicato dai giornali, che Giuliano era morto. E quelli rispondevano: “Ma sì, è tanto evidente. L’abbiamo crivellato di colpi, sul catafalco, la mamma che piangeva disperatamente sul figlio morto”. Ma Padre Pio si burlava di questa versione facendo capire che sotto c’era una cosa losca, una messa in scena. Quella della cattura e dell’uccisione di Giuliano, diceva, era una messa in scena che era costata la vita a un povero innocente che gli somigliava. Salvatore Giuliano non è morto, aggiungeva. Lui ora se ne sta in America». Evidentemente, la «santa arrabbiatura » del Frate dovette giungere in alcune stanze della Capitale, e l’allora ministro Mario Scelba giunse a San Giovanni Rotondo, voleva parlare col Frate. «Padre Pio – spiega 64 Siena – non volle riceverlo. Si diede malato». Anche Mariannina, la sorella di Giuliano, confidandosi con Padre Pellegrino, il Cappuccino che assistette in punto di morte il Frate stigmatizzato, disse che suo fratello si trovava in America: «Gli è stato detto di tacere, altrimenti a tanti, troppi pezzi grossi potrebbe nuocere». Per un momento, quindi, la vita di un santo si è incrociata con quella di un fuorilegge, fino al punto che – come rivelò Padre Pio allo scrittore Pier Carpi – lo stesso Turiddu scrisse una lettera al Frate offrendogli l’incarico di cappellano della propria banda. E non era certo un sosia quello che, travestito da Cappuccino, giunse a San Giovani Rotondo. Era Turiddu. Possibile? «Di questo, in famiglia se ne parlava spesso», sostiene Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote del bandito che, a Montelepre, gestisce l’albergo-ristorante dal nome «Giuliano’s Castle». Lello Vecchiarino La Gazzetta del Mezzogiorno 29 settembre 2010 65