leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Con la collaborazione di Dory D’Anzeo e Stella Teodonio Prima edizione: gennaio 2012 © 2012 Lit Edizioni Srl Largo Giacomo Matteotti 1 Castel Gandolfo (RM) Tutti i diritti riservati Nonostante la casa editrice abbia compiuto tutti gli sforzi necessari per rintracciare il proprietario dei diritti delle immagini qui riprodotte, ciò non è stato possibile. La casa editrice resta quindi a disposizione dei proprietari o dei loro eredi e, a tal fine, può essere contattata all'indirizzo in questa pagina Arcana Edizioni è un marchio di Lit Edizioni Sede operativa: Via Isonzo 34 00198 Roma Copertina: Laura Oliva www.arcanaedizioni.com Dario Salvatori Pop Story 1970-1979 Un ringraziamento speciale ad Amanda Ahronee e Lorenzo Fantacuzzi. INDICE Premessa Alla ricerca del ballo perduto Settanta mi dà tanta Equivoco progressive e ambizioni punk sfumate Dance! 9 11 18 29 35 La colonna sonora del decennio 1970. Bridge Over Troubled Water – Simon & Garfunkel 1971. BRIAN JONES PRESENTS THE PIPES OF PAN AT JOUJOUKA 1972. Without You – Harry Nilsson 1973. Money – Pink Floyd 1974. Autobahn – Kraftwerk 1975. Love To Love You Baby – Donna Summer 1976. Oxygene – Jean Michel Jarre 1977. Chanson d’amour – Manhattan Transfer 1978. Le Freak – Chic 1979. Video Killed The Radio Star – Buggles 37 37 38 39 40 40 41 42 43 43 44 1970-1979. BREVE STORIA SOCIO-CULTURALE 45 Le manie La moda I pantaloni a zampa d’elefante Zatteroni Super Tele Gli occhiali da sole Parrucche Anime di… carta. I cartoni giapponesi alla conquista del mondo “Se una radio è libera, ma libera veramente / piace ancor di più perché libera la mente” Le misteriose scimmie di mare Subbuteo, il gioco in un dito Il mondo catodico diventa a colori 75 77 79 81 83 85 87 Cantanti e gruppi italiani Claudio Baglioni Banco del Mutuo Soccorso Franco Battiato Lucio Dalla Francesco De Gregori Rino Gaetano Francesco Guccini Pooh Premiata Forneria Marconi Roberto Vecchioni Antonello Venditti Renato Zero 89 91 93 95 97 99 101 102 104 106 107 108 109 111 113 115 117 119 Cantanti e gruppi stranieri Abba Aerosmith Black Sabbath David Bowie The Clash Deep Purple Donna Summer Eagles Emerson, Lake & Palmer Genesis Jethro Tull Elton John Kiss Led Zeppelin Bob Marley Pink Floyd The Police Queen Ramones Sex Pistols Patti Smith Barry White 121 123 124 126 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 139 140 142 144 145 147 148 149 151 Hit parade Italia Hit parade USA Hit parade UK 153 167 179 PREMESSA Sul finire degli anni Settanta qualcuno disse che il mondo stava entrando in un periodo di pace. La previsione si rivelò drammaticamente sbagliata. Il 22 novembre 1970 il papa Paolo VI arrivò a Manila, capitale delle Filippine: l’occasione del viaggio più lungo del suo pontificato era motivata dall’incontro con il vescovo James Walsh, liberato dopo dodici anni di carcere in Cina. All’aeroporto, ad attendere il Papa, c’era il Presidente Marcos, con un vistoso e ricamatissimo baroon tagalo, la camicia di seta di palma che costituisce l’abito nazionale delle grandi circostanze. C’era l’affascinante Imelda con una corte di dame in bianco, drappeggiata al massimo dell’eleganza e della semplicità. C’erano ufficiali in alta uniforme, ministri, funzionari. C’era soprattutto una folla incredibile e i più eccitati premevano verso il pontefice. Tra questi, uno, con un crocefisso in mano si lanciò sul Papa. Nell’altra mano aveva un’arma acuminata. Vibrò un colpo verso il petto. Ma l’occhio infallibile e l’intuizione istantanea di monsignor Macchi erano già scattati. Un urto tremendo respinse il folle dalla sua presa. Gli astanti lo immobilizzarono e lo trascinarono fuori. Era il pittore Benjamin Mendoza, di nazionalità boliviana. Sarebbe stato incarcerato e processato. Non si sarebbe saputo mai perché l’avesse fatto. Pochi istanti dopo tutto proseguì come se nulla fosse avvenuto. Fu il Papa stesso a volerlo, noncurante della ferita, fortunatamente leggera. Monsignor Macchi avrebbe detto che in quel mo9 DARIO SALVATORI mento sul volto del Papa si era steso uno dei suoi più bei sorrisi, mentre a lui toccò un rimprovero per la violenza con cui aveva allontanato l’attentatore. Questo episodio di natura extra-musicale con cui si aprirono i Settanta è indirettamente legato a una vicenda accaduta anni prima. Proprio nelle Filippine, a Manila, si era chiusa di fatto l’attività concertistica dei Beatles. Una decisione che avrebbe cambiato totalmente il loro approccio, trasformandoli in musicisti di studio, attenti e accorti professionisti e non più urlatori davanti a platee ancor più urlanti. Un esempio che in breve sarebbe stato seguito da moltissimi loro colleghi. Cosa era accaduto a Manila? Terrorizzati da quanto era successo qualche settimana prima in Giappone – episodi di beatlemania al limite della sicurezza – gli organizzatori filippini avevano predisposto un servizio d’ordine paramilitare che finì per irritare molto i Beatles, i quali, non sentendosi protetti, se la presero con il loro manager, Brian Epstein. Sballottati come pacchi, umiliati dai continui controlli, stressati per tutto ciò che stava accadendo, i Beatles disertarono l’invito ufficiale di Imelda, desiderosa di esporli come scimmie ammaestrate. La situazione si complicò. A ciò si aggiunga che poche settimane prima John Lennon aveva pronunciato la sua famigerata frase: “I Beatles sono più popolari di Gesù e il rock and roll durerà più del cristianesimo”, opportunamente riciclata per colpirli. Il regime pilotò una sommossa anti-Beatles con tanto di falò pubblico dei loro dischi e delle loro immagini. Risultato: il 6 luglio 1966 i Beatles lasciarono Manila non solo senza aver ricevuto il cachet ma costretti a rimborsare una cospicua cifra non si sa bene a che titolo. Il già vacillante rapporto con Epstein ne uscì fortemente compromesso e una volta a Londra l’impresario venne colpito da una forte crisi depressiva poiché aveva capito che i suoi ragazzi stavano per abbandonarlo. Esauriti gli ultimi impegni in agosto, i Beatles, già stanchi dei tour, ormai inutili e addirittura dannosi dal punto di vista artistico, decisero di mollare e non salirono mai più su un palco. Una vicenda che aiuta a capire come i Settanta, figli inconsapevoli dei Sessanta, furono anni destrutturanti, con molte varianti positive. L’ago della bilancia, il pendolino del gusto, non passava necessariamente per la direttissima Inghilterra-Stati Uniti, ma, a seconda degli accadimenti e delle novità, anche dal resto del mondo. 10 ALLA RICERCA DEL BALLO PERDUTO Primi di marzo del 1972. Richard Nixon è Presidente da tre anni e Otis Redding è morto da più di quattro. James Brown, non ancora riconosciuto come godfather del soul, sforna un disco funky al mese. Sly Stone si è un po’ perso e la Motown Records riceve posta a Hollywood, non più a Detroit. Nonostante la non brillantissima situazione, c’è una canzone che sta stracciando le classifiche R&B. Qualcosa di insolito, certamente fuori dalle regole. Un coro celestiale di post-Supremes accompagnato da archi e fiati che scivolano leggeri sopra le voci smielate. Il tutto di una sofficità quasi inconsistente, eppure attraente. Non molta gente se ne accorse a quel tempo, ma la canzone, Walking In The Rain With The One I Love della Love Unlimited Orchestra, diretta da un certo Barry White, fu la prima proposta discografica di un brano suonato negli eventi sottoculturali popolati da omosessuali, neri e latini. Un anno e mezzo dopo sarebbe stato identificato come “disco music”, subito adottato dalla masse. Ma il disco della Love Unlimited segnò un momento critico nell’evoluzione della disco music, annunciando l’inizio del distacco della musica black dal più duro e acerbo soul degli anni Sessanta. Lo stucchevole stile di White tornò alla ribalta l’anno dopo con Love Theme e più tardi, sempre nel 1973, con Can’t Get Enough Of Your Love, la prima 11 DARIO SALVATORI delle sue opere cosiddette pillow talk. I puristi del soul, rimpiangendo i capolavori di Otis Redding e di Wilson Pickett, lo definirono il Mantovani nero. Forse avevano ragione, ma intanto la black music voltava pagina. Del resto gli archi nel R&B erano stati usati dai Drifters nel 1959 nel loro successo There Goes My Baby, e più tardi anche dagli artisti Motown. White stava soltanto aggiungendo una dozzina di dosi di saccarina. White spiegò che la sua musica era destinata a superare i confini razziali, così come quelli sessuali. Ugualmente importante, al pari di White, nell’evoluzione della disco music, fu il sound di Philadelphia, che dal 1972 era diventata un centro creativo della musica nera. Il Philly Sound fu manovrato ad arte dai due produttori Kenneth Gamble e Leon Huff, che potevano vantare profonde radici nella musica gospel. I principali gruppi di Philadelphia, come gli O’Jays o i Bluenotes, provenivano dal doo-wop. La trovata di Gamble e Huff fu quella di mettere in piedi uno straordinario gruppo di sidemen, MFSB (Mother, Father, Sister, Brother), addolcire gli archi e allestire una poderosa sezione ritmica, che più tardi sarebbe stata considerata l’autentica base del ritmo “disco”. Impressionante l’elenco di successi fra il 1971 e il 1974: Backstabbers e Love Train (O’Jays), The Love I Lost (Harold Melvin & Bluenotes), Zing Went The Strings Of My Heart (Trammps), TSOP (MFSB), che divenne la sigla del popolare spettacolo televisivo dedicato al ballo Soul train. A New York c’era una notevole frenesia per i nuovi locali notturni. Avevano chiuso Arthur e Peppermint Lounge, ma per il pubblico che amava ballare, soprattutto la comunità gay e quella afro-americana, le piste erano sempre calde. Si ripararono magazzini, si convertirono depositi in discoteche e in uno dei primi locali, il Sanctuary, Quarantasettesima ovest, nacque il mixaggio dei dischi, che sarebbe stato perfezionato rapidamente e destinato a diventare un’arte. Queste discoteche erano già molto più avanti rispetto a dove potesse arrivare l’occhio della cultura popolare del tempo. All’inizio degli anni Settanta la black-music stava uscendo da molte delle limitazioni che si era autoimposta e che l’avevano caratterizzata durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Molti degli elementi dell’acid rock degli anni Sessanta stavano filtrando nella musica nera 12 POP STORY 1970-1979 e in seguito sarebbero stati assorbiti dalla dance. I brani, in considerazione delle esigenze dei ballerini in pista, divenivano sempre più lunghi e del resto artisti già storici quali Stevie Wonder e Marvin Gaye, nati e cresciuti all’interno della Tamla Motown, si spingevano in avanti nell’esplorazione del loro potenziale creativo e nella dilatazione dei limiti del soul. Wonder cominciò a usare regolarmente il sintetizzatore. Lo strumento, Moog e derivati, in grado di produrre uno straordinario assortimento di suoni, era stato usato da artisti d’avanguardia, di musica contemporanea, dai minimalisti, da gruppi rock inglesi come Moody Blues o Emerson, Lake & Palmer, ma non da musicisti neri. Eccezion fatta per Sun Ra, leader della sua pittoresca Arkestra fin dagli anni Cinquanta. L’introduzione del sintetizzatore apportò una nuova dimensione al sound convenzionale del R&B. Gli Isley Brothers, uno dei più importanti gruppi dei primi anni Sessanta, aggiunsero alcuni degli Isley più giovani, compreso Ernie, la cui chitarra fu influenzata dall’ultimo Jimi Hendrix (anche lui fece un passaggio negli Isley Brothers). Curioso notare che Hendrix, sebbene fosse nero e popolare, ebbe scarsa influenza sulla black music di quegli anni, eccezion fatta per Miles Davis, gigante del jazz moderno, il quale, un po’ per invidia e un po’ per sincera ammirazione, lo venerava. Progettavano anche una collaborazione, sfumata con l’improvvisa morte del chitarrista nel settembre 1970. Uno dei trucchi favoriti di Hendrix, il pedale wah-wah, sarebbe stato perfezionato da Curtis Mayfield, in chiave melodica. Mayfield, già leader degli Impressions, impose quel suono in Superfly e Freddy’s Dead; poi fu la volta di Isaac Hayes, già autore di Memphis per la Stax, di imporsi con la sua voce roca in Hot Buttered Soul, precedendo lo stesso lavoro di Barry White. Stava emergendo una nuova consapevolezza della black music. Ad usare pesantemente percussioni latine e africane furono gli War, in brani come Slipping Into Darkness e The World Is A Ghetto, buoni risultati ottennero i Mandrill e più di tutti i Santana. È interessante notare come ancora all’inizio degli anni Settanta, dunque qualche anno prima del suo massiccio boom, la dance era vissuta negli Stati Uniti come un fenomeno prettamente urbano e decisamente underground. Certo, c’erano artisti popolari che facevano ballare e 13 DARIO SALVATORI vendevano milioni di dischi, per esempio James Brown e Sly Stone, ma il mondo della sottocultura notturna era altra cosa. Anche le radio – a parte la WBLS di New York – non diffondevano molto questo genere. Nell’estate del 1973 dalle radio arrivò Soul Makossa, grande successo internazionale di Manu Dibango, un musicista africano che viveva a Parigi. Le radio iniziarono a trasmettere il brano, anche se Manu Dibango era di fatto un musicista mediocre: un sax tenore anni Cinquanta vagamente shouter, ritmi jungle più parigini che africani. Stessa curiosità generò, qualche mese dopo, Rock The Boat degli Hues Corporation, un gruppo di New York, quasi una versione funky dei Fifth Dimension. Rock The Boat non venne lanciata da qualche solerte ufficio stampa o da faraonici budget promozionali; il merito fu tutto di 12 West e Liquid Smoke, due note discoteche di New York, dove oltre ai ballerini c’era anche chi andava per informarsi su novità discografiche che non avrebbe potuto ascoltare in radio. Pubblicata da una piccola etichetta, pur senza essere particolarmente innovativa, fu la canzone dell’estate 1974. La gente ballava di nuovo. Le discoteche si stavano spostando dai depositi ai centri commerciali. Un’economia non prospera facilitò il boom, visto che la discoteca, poco costosa, risultava eccitante, adatta ai tempi di recessione e oltretutto facilitava le amicizie, i flirt, gli incontri sessuali. Qualcuno cominciò a parlare di stile, di nightclubbing (ovvero: fare zapping da una disco all’altra nel corso della stessa notte) e soprattutto di un distacco definitivo dagli anni Sessanta. Fra la fine del 1974 e l’inizio del 1975 il settore dance, fra locali e piccole etichette, costituiva l’aspetto più dinamico e innovativo della scena musicale. Arrivò anche qualche classico, destinato a sonorizzare più di una stagione: Lady Marmalade delle Labelle, Reach Out I’ll Be There di Gloria Gaynor, Bad Luck di Harold Melvin & The Bluenotes, per non parlare della scena dance di Miami, che faceva capo all’etichetta TK (George McCrae, KC & The Sunshine Band). In pista l’inno diventò The Hustle, megahit internazionale per Van McCoy, un veterano autore e producer che ebbe l’idea di inventarsi un ballo che potesse essere eseguito da tutti. Opportunista e mestierante, Van McCoy, 14 POP STORY 1970-1979 in possesso di un notevole fiuto, fu talmente ingenuo da ammettere di non aver mai visto nessuno ballare l’hustle fino a che non era entrato in sala di registrazione. Un ballo formale, pretestuoso, tattile, anche seducente, che andava a scapito di chi in pista voleva dimostrare di esser davvero bravo. Fu al Mitzvahs che si diffuse l’hustle. Gli studi di registrazione cominciarono a sfornare brani a rotta di collo. Gli ingredienti erano sempre gli stessi: brani lunghi, possibilmente con molti cambiamenti, uso di archi, l’onnipresente ritmo thump-thump. Era nata una formula, uno standard, in cerca di una nuova visuale. L’errore fu quello di mischiare troppo. Proporre autentiche bufale ad artisti di classe, prodotti posticci nati in studio a gruppi con tutte le carte in regola dal punto di vista artistico, che magari avrebbero avuto successo anche debuttando in altri generi, per esempio le straordinarie Pointer Sisters e le notevoli Ritchie Family. Senza contare i vecchi leoni in cerca di rilancio che si buttarono a capofitto nel nuovo genere, dai Bee Gees a Barbra Streisand, dai Four Seasons ai Rolling Stones. Arrivò una buona risposta anche dall’Europa, principalmente da Monaco, dove venivano prodotti i dischi delle Silver Convention e soprattutto di Donna Summer. Le prime un’invenzione da studio, la seconda una buona cantante. I due produttori, Giorgio Moroder e Pete Bellotte, misero a segno un paio di trovate niente male. Non tanto i ventidue orgasmi simulati della Summer nei diciassette minuti di Love To Love You Baby, quanto il favorire la favola che Donna Summer non esistesse. Favola fino a un certo punto, visto che il principale business della dance si rivelò nel creare i cosiddetti cantanti di immagine. Prendi una stupenda ragazza, creale un look e un costoso servizio fotografico, metti in piedi un personaggio e soprattutto fai cantare qualcun altro. In discoteca ci vuole fascino, bellezza, individualismo, ricerca del piacere. Non c’è tempo per le coriste che vogliono diventare soliste. Meglio una modella che non sa cantare ma sa guardare in camera, in grado di salire su un palcoscenico e stupire. La grande forza dei cantanti dance, anche dei bidoni, è quella di produrre un proprio look, un identikit che funzioni da prolungamento della personalità. I canoni del saper cantare e del saper suonare saltano all’istan15 DARIO SALVATORI te, ciò che conta è l’effetto, il cattivo gusto, l’ostentazione. Il pubblico della dance qualche volta abbocca, altre volte scopre il trucco, ma di fatto non protesta. Vuole essere sedotto e stupefatto; conoscere il vero nome di chi c’era in sala di registrazione sembra non toccarlo minimamente. Nel 1976 è fin troppo chiaro che ciò che conta nella dance è il producer, mentre il cantante è relegato al ruolo di un’ombra sepolta in un mixer a trentadue piste. È l’anno in cui il genere invade a cascata il mondo. La maggior parte degli artisti – ma sarebbe il caso di parlare di marchi – sono fittizi, eppure qualcosa di buono affiora: Vicki Sue Robinson, Savannah Band, Village People. Non è un caso che uno dei maggiori successi discografici dell’anno sia THE BEST DISCO IN TOWN delle Ritchie Family, una sorta di mini-compilation che racchiudeva, citandoli, i maggiori successi degli ultimi due anni. Il successo aumentava, l’evoluzione diminuiva, così come il rapporto con la black music, fino a quel momento molto stretto. Proprio nel 1976 arrivò lo scacco matto alla black music. Esattamente come era accaduto negli anni Cinquanta alla nascita del rock’n’roll – allorché gli artisti bianchi scipparono repertorio e successo agli artisti di colore – il marketing cinematografico e discografico si impossessò del fenomeno. Robert Stigwood, esperto produttore, allestì il progetto Saturday Night Fever, film, disco e derivati, con lo scopo principale di rilanciare i Bee Gees, decisamente declinanti. Film di buona fattura, La febbre del sabato sera ebbe l’indubbio merito di mostrare un lato della notte che gli stessi cultori del rock non conoscevano. Quasi un documentario su usi e abusi di un settore con i contorni non proprio definiti. Così come La dolce vita aveva avuto il merito di mostrare a un’attonita Italia certi degradi romani relativi soprattutto ai rapporti interpersonali, ai costumi e a quelle che per i benpensanti di allora erano assolute scelleratezze, allo stesso modo La febbre del sabato sera – sempre in diretta, mentre il fenomeno era in corso tutte le notti – mostrò ciò che succedeva nelle discoteche. Fu un lampo. Una grande intuizione. Certo, i frontman del boom erano tutti bianchi, dai Bee Gees a John Travolta, e la colonna sonora era dei fratelli Gibb, fino a quel momento apprezzati per il loro pop melodico. Alla cultura 16 POP STORY 1970-1979 nera restava soltanto qualche contentino demagogico: John Travolta che sul finale del film consegna il trofeo appena conquistato alla coppia di ballerini portoricani, la presenza nella colonna sonora di artisti afro-americani quali Tramms e Tavares e poco altro. Nel mondo, quel fenomeno sorto attorno alla rinata frenesia per il ballo venne definito “travoltismo”. Probabilmente non sarebbe successo nulla se il nuovo genere non avesse potuto contare sulle proprie cattedrali, sui luoghi dove consentire ai suoni di liberarsi e di rendere il pubblico protagonista. Questi luoghi vennero definiti discotheque, termine francese usato fino ad allora solo per indicare una collezione di dischi. Ma non ci furono equivoci, perché tutti presero a chiamarla Disco, indicando un genere e definendo uno stile. 17 SETTANTA MI DÀ TANTA C’era la voglia di cambiare il mondo, certo, ma come dimenticare l’aspetto folcloristico dei Settanta? L’eskimo, la barba lunga, le gonne a fiori, gli zoccoli, il libretto rosso di Mao, gli opuscoli di Che Guevara, il femminismo duro, l’insubordinazione generale, il poco valore dato all’ostentazione economica… Elementi riproposti più volte, non soltanto all’interno della cultura giovanile ma addirittura nella moda e nella pubblicità, ovvero due settori da sempre trainanti per l’economia. Già, perché, come diceva qualcuno, la storia si presenta sempre due volte, la prima in forma di tragedia e la seconda come farsa. Un meccanismo che ha bisogno di alimentarsi continuamente e che qualche volta non utilizza trend setter, si mette in moto da solo. Mario Capanna, leader sessantottino del Movimento Studentesco, titolò il suo libro più venduto Formidabili quegli anni. Date le caratteristiche del personaggio, lo si volle leggere come una rievocazione del ’68, ma a ben vedere si tratta di un insuperabile manuale sugli anni Settanta, non a caso l’autore stesso venne soprannominato “Formidabili quei danni”. L’astrazione fatale dei Settanta si spinse anche al mondo dell’arte. In Germania, in Francia, in America, gli artisti riscoprono forme geometriche astratte, materiali inconsueti, oggetti quotidiani che aderiscono a progetti precisi e costruttivi. Peculiarità della cultura post moderna è tendere al superamento de18 POP STORY 1970-1979 gli schemi rivolgendo lo sguardo al passato. Il mixing alto e basso che propone lo scenario musicale anni Settanta – il glam-rock che convive con il punk, la canzone d’autore con la musica elettronica e così via – trova una ideale sponda nell’arte, che propone un nomadismo culturale a base di contaminazioni di vario tipo, dal piacere della citazione all’esplicazione attraverso l’edonismo del gesto pittorico. Non a caso si parla di Transavanguardia “calda” e “fredda”, nemmeno fosse il jazz anni Cinquanta, fra East e West Coast. Il nomadismo e il “gran wazoo”, per dirla con Frank Zappa, tocca anche l’abbigliamento, che ancora non si chiama look. Le infinite contestazioni in piazza propongono di fatto tre identikit: gli smoking e i vestiti da sera dei contestati, jeans e maglioni dei contestatori, rozze stoffe grigioverde dei poliziotti. Ma dura poco. Improvvisamente si mischia tutto. Maglioni peruviani, scarpe Clark’s o da tennis, eskimo verde, camicie militari, Marcuse, Woodstock, Easy Rider, Linus, Ray-Ban,Volkswagen, Canzoniere del Lazio, Canzoniere Italiano, Canzoniere Internazionale, Donne canzonate. Tutto omologato e condiviso. Al posto delle manifestazioni in ranghi serrati arrivano be-in, invece dei “collettivi quadri” e delle “assemblee cittadine” ecco pronte le riunioni di autocoscienza, soprattutto femministe, la sloganistica diventa hard (“Col dito, col dito, l’orgasmo è garantito!”, “Maschio represso, masturbati nel cesso!”) dove frammenti di pettegolezzo vengono affondati in nebbie verbali noiosissime. Si accomuna persino la vittoria sul divorzio al primo scudetto della Lazio (“Fanfani, nano maledetto, hai perso lo scudetto!”). Si va in vacanza a Filicudi senza corrente e poi si torna a Cerenova dai genitori, si mangia macrobiotico e poi a notte fonda si rincorrono le rosticcerie, non si guarda la televisione per principio. Convivono Fassbinder e Carmelo Bene, Wenders e Dario Fo. Che porta Pinelli e Fanfani in teatro. Umbria Jazz, almeno all’inizio, deve garantire trasporti e panini, al pari del festival di «Re Nudo» a Zerbo o a Ballabio. Giù le comuni su le ammucchiate, su Porci con le ali giù La strage di Stato. Scarsissima l’autoironia. È anche un decennio in cui non tutti stanno a guardare. Tutt’altro. “Ogni uomo, ogni donna può essere una star”, prometteva la più venduta T-shirt della linea Boy. Del resto Armani andava a braccetto con Fioruc19 DARIO SALVATORI ci e sovente proporzioni ed equilibri venivano sostituiti con esagerazioni ed estremismi. Non c’è ancora “la voglia di corpo”, che non si lega con i bollori sindacali, tantomeno con camicette strizzate, giubbotti dorati, stivaloni. Si annunciano le prime fashion victim, ma il coro sembra essere unanime: basta con il rigore, viva la ribellione. Ma a ben guardare, lo scorrimento dei Settanta propone nella musica accadimenti a cui forse non è stato riconosciuto il reale valore, né l’opportuno approfondimento. Eccezion fatta per la morte di Jimi Hendrix e Janis Joplin nel 1970 e quella di Jim Morrison nel 1971, episodi destinati a lasciare traccia vengono considerati marginali. In quell’anno viene arrestato Alfio Cantarella, batterista dell’Equipe 84, il gruppo italiano maggiormente popolare. Cantarella viene arrestato perché trovato in possesso di una ridicola quantità di hashish, ma in quegli anni chi fuma erba è un drogato, simbolo del male e della perdizione, dunque un elemento da emarginare. Non a caso Cantarella viene costretto ad abbandonare il gruppo per non danneggiare la carriera degli altri. La sua attività di musicista si chiude così. Nessuno lo vedrà più seduto dietro la batteria. Il 1971 è l’anno dell’esplosione del pop in Italia: un boom che si verifica su due livelli, concerti di gruppi stranieri e nascita di importanti formazioni nostrane. Suonano in Italia: Pink Floyd, Sly and The Family Stone, Atomic Rooster, Colosseum, Huriah Heep, Jethro Tull, John Mayall, Ten Years After, Yes, Family, Deep Purple, Grand Funk Railroad, Humble Pie, Jack Bruce. Da segnalare anche l’arrivo in Italia dei Led Zeppelin, che una disgraziata organizzazione colloca all’interno del Cantagiro. Il concerto si svolge al Vigorelli di Milano e darà luogo a incidenti destinati a chiudere per un lungo periodo la piazza milanese. In quell’occasione, infatti, non si trattò di organizzazioni alternative del tipo “il rock è di tutti, i concerti sono gratis”, bensì di una vera e propria provocazione poliziesca, con cariche di camionette e lancio indiscriminato di candelotti all’interno del velodromo. Anche i Pink Floyd furono danneggiati. Il loro concerto a Bologna venne cancellato all’ultimo momento e spostato a Brescia, dove il gruppo inglese si esibì davanti a pochi appassionati. Saltò an20 POP STORY 1970-1979 che il concerto dei Santana. I loro camion vennero bloccati per tre giorni alla dogana per accertamenti e alla fine Carlos Santana tornò in America senza nemmeno entrare in Italia. Numerosissimi i festival pop e le manifestazioni dedicate al nuovo rock, fra cui il Festival di Musica d’Avanguardia e Nuove Tendenze. Emergono formazioni come Premiata Forneria Marconi, Orme, Osanna, Banco del Mutuo Soccorso. Escono dischi memorabili, fra cui AFTER THE GOLD RUSH (Neil Young), EMERSON, LAKE & PALMER, STICKY FINGERS (Rolling Stones), GASOLINE ALLEY (Rod Stewart), MADMAN ACROSS THE WATER (Elton John). Intanto le beghe dei Beatles, divisi ormai da un anno, raggiungono livelli impensabili soltanto pochi anni prima. Paul McCartney fa causa agli altri tre per il dissesto finanziario della Apple e ottiene la nomina di un nuovo amministratore di suo gradimento. Il 1972 si apre a gennaio con la manifestazione Controcanzonissima, organizzata dal settimanale «Ciao 2001», un modo per prendere le distanze dal Festival di Sanremo e da Canzonissima, le manifestazioni che determinano l’andamento del mercato discografico. L’evento si svolge al Piper di Roma e vede la partecipazione, fra gli altri, di Orme, Delirium, Premiata Forneria Marconi, Osanna. Il pubblico rock inizia a prendere confidenza con termini quali rock decadente, oltraggio sessuale, polvere di stelle, dandysmo. Si assiste all’esplosione di personaggi del calibro di Alice Cooper, Marc Bolan, David Bowie, Roxy Music. Alice Cooper (primo artista maschile a usare un nome femminile), sconvolge l’America con il suo show grondante di orrore e sangue, in cui sbeffeggia violentemente i miti americani più radicati, dalla corsa al denaro al sesso vissuto in maniera alienante. Nel suo show ci sono pitoni e ghigliottine, vivono mostruose creature prodotte dalle nostre follie e dai nostri sogni rimossi, il tutto in una dimensione di farsa crudele sostenuta da una colonna sonora a base di hard rock. In Inghilterra spopola Marc Bolan, mito glam-proletario, figlio di una portinaia e di un operaio, ricciuto ragazzo con un sex-appeal molto ambiguo. Bolan scatena fanatismo e isteria, alternando ottimi single-hit e hard rock più dozzinale. Durante l’anno pubblica ELETRIC WARRIORS, uno dei suoi dischi migliori. Presenta le sue credenziali anche Da21 DARIO SALVATORI vid Bowie, non proprio un novellino. È lo starman venuto dagli spazi siderali, l’androgino messaggero con il suo carico di dubbi angosciosi e visioni apocalittiche sul futuro dell’esistenza umana. Fortunatamente è anche un buon compositore, un cantante originale e uno showman impareggiabile. In Italia arriva un po’ di tutto: dai tostissimi MC5 ai Bee Gees che si fanno accompagnare dall’orchestra della Rai. Curiosità per i Roxy Music, formazione guidata da Bryan Ferry e Phil Manzanera che suona un rock decadente e un po’ kitsch. Alle tastiere Brian Eno, che aggiunge spruzzate di elettronica. Fra le novità il debutto di Alan Sorrenti con ARIA, un disco estremamente valido con forti momenti di ricerca, a cui collabora il violinista francese Jean-Luc Ponty, molto noto nell’ambito jazzistico. Nascono due gruppi che avranno molta rilevanza negli anni successivi nel panorama italiano: Perigeo e Area. Il primo annovera alcuni fra i migliori jazzisti italiani (Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea) e persegue un progetto jazz-rock simile a quello dei Weather Report. Gli Area contano sulla notevole personalità del vocalist Demetrio Stratos e propongono un rock d’avanguardia, influenzato dalle armonie mediterranee con forti coloriture politiche. Molti i dischi da ricordare, fra cui LAST EXIT (Traffic), BARK (Jefferson Airplane), I SING THE BODY ELETRIC (Weather Report), WAKA JAWAKA (Frank Zappa), PER UN AMICO (Premiata Forneria Marconi), MADE IN JAPAN (Deep Purple). Il 1973 è un anno molto intenso per i tour internazionali. Toccano l’Italia con successo: Soft Machine, Black Sabbath, Elton John, Deep Purple, Traffic, Rod Stewart, Jethro Tull, King Crimson, Roxy Music, Stomu Yamashta. Ma i concerti di maggior prestigio sono quelli di Miles Davis, Weather Report, Sun Ra. Si comincia a parlare di Bruce Springsteen, incuriosiscono i Kraftwerk. I Pink Floyd pubblicano THE DARK SIDE OF THE MOON e sono il gruppo inglese più popolare in Italia, unitamente ai Led Zeppelin, che intanto stabiliscono il momentaneo record di presenze: 56 mila persone per un loro concerto in Florida. Momento felice per il jazz. I maggiori festival italiani ospitano musicisti di varie tendenze che entusiasmano il neofita pubblico giovanile; ad avere il maggior successo sono Duke Ellington, Dizzy Gillespie, Cannonball Adderley, B.B. King, Roland Kirk, Keith Jarrett. 22