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DELLA DOMENICA
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ANNO XV - N. 16-17
DOMENICA 29 AprIlE 2012
SPED. ABB. POST. - DL 353/2003
(Conv. in L. 27/02/2004 N° 46 Art.1, Comma 1, DCB) ROMA
TAXE PERCUE - TASSA RISCOSSA - ROMA ITALY
EURO 1,50
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Riccardo Nencini
Marco Di Lello
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Giuseppe Tamburrano Alessandro Orsini Bobo Craxi Luca Cefisi
Fabio Fabbri Mauro Del Bue Luigi Covatta Giuseppe Miccichè
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
Da Turati ai giorni nostri, un lungo cammino mai interrotto
LA COPERTINA
DI PAOLO TALANI
Un sole che non tramonta
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Giuseppe Tamburrano
DELLA DOMENICA
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ANNO XV - N. 16-17
DOMENICA 29 APRILE 2012
SPED. ABB. POST. - DL 353/2003
(Conv. in L. 27/02/2004 N° 46 Art.1, Comma 1, DCB) ROMA
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area socialista e di sinistra si appresta a celebrare il 120° anniversario della nascita
L’
del PSI con molteplici iniziative e manifestazioni.
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Marco Di Lello
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Giuseppe Tamburrano Alessandro Orsini Bobo Craxi Luca Cefisi
Fabio Fabbri Mauro Del Bue Luigi Covatta Giuseppe Miccichè
Riprendendo la prima tradizione
dell’Avanti! della domenica, quella che
ai primi del ‘900 portò tanti artisti famosi a illustrare la prima pagina del
settimanale socialista, tradizione poi
ripresa a metà degli anni ’80 sotto la
direzione di Ugo Intini, pubblichiamo
questo numero speciale avvalendoci
della gentile e preziosa collaborazione
di Paolo Talani. Questo artista, nel
150.mo dell’Unità, ha recentemente
donato un busto di Giuseppe Garibaldi al Presidente della Repubblica, non
solo come riconoscimento alla straordinaria passione civile di Giorgio Napolitano, ma anche per riempire un
vuoto tra le numerose opere che nel
palazzo del Quirinale ricordano i personaggi più illustri della storia italiana.
Nel bozzetto che riproduciamo, e su
cui Talani ha lavorato per realizzare il
busto, l’Eroe dei due Mondi stringe
una barchetta, a simboleggiare il suo
impegno internazionalista e una rosa,
quella del socialismo, di cui Garibaldi
è stato grande precursore e ispiratore.
è un dovere verso il paese ricordare l’avvenimento che ha dato vita al più importante partito
nella storia d’Italia. Il PSI ha concorso in modo
determinante a realizzare il celebre detto di
D’Azeglio: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli
italiani”. E gli italiani in grandissima parte ostili o indifferenti verso la “conquista regia” del
paese, grazie alle lotte e alle iniziative socialiste
si riconobbero cittadini di una comune patria.
Basterebbe ricordare la lotta socialista per l’allargamento del suffragio universale che fece entrare nello Stato operai, contadini, donne e trasformò un regime oligarchico in una comunità
democratica.
Ma i “titoli” sono numerosi: con le leghe, le cooperative, i sindacati, i circoli, le sezioni, con l’Avanti!, gli opuscoli, i maestri socialisti , le scuole,
le cattedre ambulanti, formarono cittadini che
impararono a leggere e scrivere ed acquistarono
coscienza dei loro diritti. Non fu facile: i socialisti
pagarono un grande tributo di agitazioni, morti,
feriti, processi, carcere che rafforzarono la consapevolezza di operai e contadini di essere parte
di uno stato e di una collettività. I socialisti promossero lotte sociali per il pane, il lavoro, la giusta mercede, l’assicurazione contro gli infortuni
e la pensione: le lotte per la festa del lavoro e per
le otto ore lavorative furono pagine gloriose di
questa ascesa. E sempre più numerosi i socialisti
entrarono in Parlamento e sempre più numerose
furono le bandiere rosse che sventolavano su palazzi del comune e della provincia.
In una parola, i socialisti contribuirono in modo
determinante a fare di servi apolidi cittadini coscienti. Prampolini predicava l’uguaglianza ed
esortava i contadini a parlare con il padrone col
cappello in testa , se il padrone conservava in testa il suo.
Le “svolte”, i periodi più importanti della storia
italiana – il “giolittismo”, la repubblica, il centro-
sinistra – furono possibili grazie ai socialisti di
Turati e di Nenni.
Ma la forza socialista è stata minata e indebolita
da un “male oscuro”: lo scissionismo. Pur con diverso nome vi sono state nel partito sostanzialmente due correnti, i riformisti e i massimalisti,
che miravano allo stesso fine – il socialismo – ma
da realizzare con mezzi diversi, la democrazia o
la rivoluzione. E le lotte intestine paralizzarono il
partito portandolo alla divisione.
Primo partito alle elezioni del 1919, i socialisti
potevano conquistare il governo se l’anticlericalismo del PSI e l’antisocialismo del PPI non li
avessero paralizzati. Una parte del PSI lascia il
partito per dare vita all’illusione rivoluzionaria
comunista: al congresso di Livorno (gennaio
1921) il PSI si spaccò e nacque il Pcd’I. Ma invece della rivoluzione proletaria, quella scissione
favorì l’ascesa del fascismo. Come se non bastas-
se, a quella divisione seguì la scissione riformista
di Turati e di Matteotti, che indebolì ulteriormente il fronte proletario. Ma per Matteotti è doveroso ricordare che egli aveva compreso la natura totalitaria del fascismo e si offrì in olocausto
per aprire gli occhi ai compagni e ai democratici,
primo caduto della lotta antifascista.
IL PSI fu nella Resistenza e nella Liberazione.
Ricordiamo la figura leggendaria del compagno
Sandro.
Subito dopo ripresero le lotte intestine tra filo e
anticomunisti. E il PSI, uscito secondo dalle urne
il 2 giugno 1946 (avanti di due punti al PCI), era
chiamato ad avere una grande funzione democratica, essere l’ago della bilancia nell’aspra lotta politica tra comunisti e democristiani. E invece filocomunisti e anticomunisti si divisero a Roma nel gennaio 1947 e divennero alleati subalterni uno della DC e l’altro del PCI.
Nel 1956 il PSI si riscattò dalla sudditanza al PCI
e riprese il suo cammino autonomo. E contribuì a
dare vita all’alleanza con i cattolici democratici
di Fanfani e Moro e al centro-sinistra.
Dopo una stagione altamente costruttiva, il centro-sinistra si appannò, presero radici il clientelismo e il ministerialismo. E io leggevo con tristezza il motto di Pertini che campeggiava nella mia
sezione, la sezione Centro di Roma: “I socialisti
servono, non si servono del partito”.
Il partito ha avuto il suo presidente, l’amato Sandro, ed ha conosciuto l’importante stagione di
Craxi che ha dato prova di saper governare e
contribuire a fare dell’Italia un paese moderno.
Questo in poche parole è stato il nostro lungo
cammino che ricorderemo a 120 anni dall’inizio.
Voglio concludere con una domanda: sarà una
celebrazione retorica senza progetti per il futuro
del socialismo che la crisi del capitalismo richiama all’impegno con formule nuove? Sarà cioè
una commemorazione retorica con un grande
omaggio al “caro estinto”, o una celebrazione che
aprirà nuovi orizzonti, “nuove vie”? Perchè – ne
sono fortemente convinto e i fatti mi danno ragione – vi è un avvenire per il nostro sole. Se lo
vogliamo!
A COLLOQUIO CON ALESSANDRO ORSINI
Gramsci e Turati, due visioni antitetiche della ‘sinistra’
Il suo fine “fu sempre lo stesso, chiudere la bocca agli avversari, con le buone o con le cattive, per instaurare
la dittatura del Partito unico” - Violento e fazioso, voleva distruggere tutto ciò che il leader riformista aveva costruito
Barbara Conti
rofessor Orsini, il suo libro,
Gramsci e Turati. Le due sinistre,
P
ha scatenato un dibattito molto ap-
passionato che continua a dividere i
lettori e gli studiosi. Roberto Saviano
lo ha definito “la più bella riflessione
teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni”. Il Presidente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo
ha invitato a utilizzare i suoi libri nelle scuole italiane per il loro valore pedagogico. Altri, invece, l’hanno attaccata duramente. Come spiega
reazioni così contrastanti?
Ho documentato che Gramsci, fino a
quando fu libero di esprimersi, invitò a
insultare gli avversari politici e a sopprimerli fisicamente. Su questo punto,
fu esplicito. Una volta conquistato il
potere – scrisse in un articolo del giugno 1920 - gli avversari devono essere
uccisi. Gramsci amava Lenin e non faceva altro che riprenderne la lezione
pedagogica: gli ostacoli al comunismo
si rimuovono eliminando le persone.
Molti studiosi obiettano che Gramsci, una volta in carcere, cambiò profondamente...
La pedagogia dell’intolleranza di
Gramsci rimase sempre la stessa. Nei
Quaderni del carcere, spariscono gli insulti volgari come “porco” e “straccio
mestruato”, ma la pedagogia dell’intolleranza rimane. Anzi, viene addirittura
affinata e sviluppata.
Alcuni dicono che la teoria della
guerra di posizione sarebbe la prova
del rispetto di Gramsci verso le idee
altrui. Gramsci propose di conquistare il potere attraverso l’egemonia
culturale. Non è così?
La guerra di posizione non prevede, in
alcun modo, il rispetto per gli avversari politici. Gramsci fu molto chiaro: la
rivoluzione perfetta è quella di Lenin.
Tuttavia, dopo una serie di terribili
sconfitte, constatò che la conquista
bolscevica del potere non era ripetibile
in Italia a causa dell’articolazione della società civile che si nascondeva dietro lo Stato.
Organo ufficiale del
Partito Socialista Italiano
aderente
all’Internazionale Socialista
e al Partito Socialista Europeo
Concretamente, in che cosa consiste
la gramsciana guerra di posizione?
Consiste nel fatto che il Partito comunista pone i propri uomini alla guida
delle case editrici, delle Università,
delle scuole, delle associazioni culturali, e inizia a plasmare il modo di pensare delle persone. Con le buone, se
nessuno si oppone. Con la denigrazione, l’insulto e la distruzione dell’immagine pubblica, se qualcuno si pone
in contrasto con il Partito.
E Turati, invece?
Turati aveva capito che, una volta accettate le premesse pedagogiche del leninismo, il socialismo si trasforma nella sua negazione. Turati fu chiarissimo: gli avversari politici meritano il
massimo rispetto; non è vero che gli
avversari sono sempre in errore; il Partito socialista deve coltivare il diritto
all’eresia; i militanti devono preserva-
E quindi?
E quindi giunse alla conclusione che,
Direttore Politico
della domenica
prima di conquistare lo Stato, bisognava impossessarsi dei pensieri delle persone attraverso una guerra culturale finalizzata a imporre una sola concezione della vita che fosse coerente con
l’ortodossia imposta dal Partito comunista. Invito a ricordare che, nei Quaderni del carcere, il Partito comunista è
concepito come una “divinità”. Il fine
di Gramsci fu sempre lo stesso, fuori e
dentro il carcere,: chiudere la bocca
agli avversari, con le buone o con le
cattive, per instaurare la dittatura del
Partito unico. Ricorderei anche che,
nelle pagine in cui Gramsci sviluppa
l’idea della guerra di posizione, Lenin
è indicato come il punto di riferimento.
Gramsci non ripudiò mai la violenza.
Riccardo Nencini
Segreteria di Redazione
Domenico Paciucci
Direttore Editoriale
Roberto Biscardini
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Nuova Editrice Mondoperaio srl
Direttore Responsabile
Dario Alberto Caprio
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di Amministrazione
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Redazione
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Impaginazione e stampa
re la libertà individuale e rifiutare l’ortodossia di Partito; il Partito socialista
deve educare alla cultura della nonviolenza; difendere il pluralismo dei partiti; condannare l’insulto, la denigrazione, l’offesa personale. Turati cercò di
porre un argine culturale alla pedagogia dell’intolleranza di Gramsci.
Eppure, Gramsci è considerato un
maestro di tolleranza e di libertà del
pensiero; mentre Turati è ignorato,
poco letto, mai citato.
L’immagine di Gramsci come uomo
tollerante e rispettoso degli avversari
del comunismo è un falso storico. Il
conflitto pedagogico tra Gramsci e Turati fu insanabile. Ecco perché Gramsci scriveva, nel 1924, che “Turati è un
semifascista”. Perché voleva chiarire
che Turati era la negazione più radicale di tutti i suoi principi educativi.
Gramsci disprezzava Turati con tutte le
sue forze. In una lettera a Togliatti del
maggio 1923, dichiarava che il suo
progetto era di distruggere tutto ciò
che Turati aveva costruito.
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
Matteo Morandini
Una lettera ai leader
dei partiti riformisti
S
egretario Nencini, il PSI celebra la sua storia a Genova, nella stessa sala in cui fu fondato 120
anni fa. è una storia che serve all’Italia di oggi?
Serve ancora di più, e non solo all’Italia. In tutta Europa, la destra si sta
dimostrando inadeguata a portarci
fuori dalla crisi. L’alternativa alle
destre - dalla Francia alla Germania,
passando dalla Spagna e dall’Inghilterra – si chiama con un solo nome:
socialista.
D’accordo, ma in Italia è tutta
un’altra musica...
Vero. Ma è proprio la storia a ricordarci che è grazie ai socialisti se l’Italia è più civile e più libera. Penso
al Novecento, secolo definito ‘breve’
ma che al contrario è stato lungo e
‘doppio’. Anni che hanno mescolato
la tragedia alla libertà, la miseria a
un diffuso benessere, le guerre più
terribili a lunghi periodi di pace. Se
dal sacco pescassimo a caso gli ingredienti che resero l’Italia più unita, ne troveremmo almeno quattro di
un peso maggiore: i carabinieri, il
Giro d’Italia, un certo spirito di adattamento, le lotte civili e parlamentari dei socialisti. Senza quest‘u1time,
un Novecento più aspro, irto di affilate iniquità e povero di diritti.
Costruiamo insieme
la Casa dei Riformisti
Nencini: dare vita a un movimento ‘Socialista e Democratico’, aperto alle culture laiche
e liberaldemocratiche, con quanti si riconoscono sotto il cielo del socialismo europeo
sinergia con la cultura cattolico-democratica. Fino agli anni Ottanta,
quando all’azione interna si sommeranno, vigorose, la passione civica di
Pertini alla Presidenza della Repubblica e una spinta risoluta in politica
estera, verso i movimenti di liberazione dalle tante dittature e in direzione di una più forte unità europea.
Certo, non mancarono gli errori.
Come racconteresti questa storia
a chi oggi ha vent’anni?
Come una storia di libertà, declinata
in tutte le forme, il cui filo viene tessuto presto, già sotto Giolitti. Conquiste sociali e allargamento del diritto di voto la prima frontiera. La
macchia rossa si allarga nel dopoguerra figlio di Caporetto e di Vittorio Veneto. Subito. Le otto ore di lavoro per i braccianti arrivano all’inizio del ‘19 con forti aumenti salariali
e il diritto a giorni di riposo; nelle
fabbriche la riformista CGL impone
alla Confederazione dell’Industria
tempi, stipendi e gestione dell’azienda. Se Turati viene sconfitto nel 1912
al congresso di Reggio Emilia dal
massimalista Mussolini - anche
Gramsci, Togliatti e Bordiga sosterranno il maestro di Predappio -, la
tradizione riformista viene mantenuta viva dal gruppo parlamentare, dal
sindacato e dalle leghe. Passano da
quella strada l’opposizione alla guerra, le misure riguardanti il sostegno
ai lavoratori in caso di malattia, le
pensioni, insomma gli albori dello
stato sociale in Italia.
Quali?
Il più grave: la scissione imposta da
Lenin tra i1 ‘20 e il ‘21. E poi le divisioni, ricorrenti e distruttive, la
valutazione che l’89 non avesse
prodotto una frattura dirompente
nell’universo mondo, l’imbrunire
di una spinta ideale.
Una storia con molte luci e qualche ombra.
Chi non ne ha? Eppure è la storia
che ha vinto perché - è il poeta Mario Luzi che parla - ‘la libertà è una
palestra nella quale occorre andare
ogni giorno per conservarla’. E i
socialisti, quella palestra, la tennero aperta a lungo da soli.
zo all’aia e cantando “L‘inno dei lavoratori”, gli uomini non osservando
la consuetudine di inchinarsi di fronte al nobile come il servo di fronte al
padrone. La dignità è la conquista irrinunciabile. Il confine oltrepassato
definitivamente. Il voto alle donne
nel ‘46 e la Repubblica portano una
firma: Nenni. La lotta alla mafia porta una firma - Placido Rizzotto - e la
croce dei tanti sindacalisti morti ammazzati per essersi battuti per la concessione delle terre incolte. Nel decennio che si chiude con i primi anni
Settanta, diritto all’istruzione pubblica gratuita, diritti fondamentali per il
mondo del lavoro, nazionalizzazione
delle fonti di energia, riforma agraria, divorzio, insomma la buona storia d’Ita1ia, le riforme decisive per
calare l’Europa dentro la penisola appartengono alle iniziative politiche
del riformismo socialista, spesso in
In cosa consiste secondo te la ‘rivoluzione’ del riformismo?
I deboli diventano persone, grazie all’organizzazione del partito trovano
il coraggio di difendersi, riunirsi,
manifestare, protestare, donne e uomini ‘uguali’ senza altri aggettivi. La
sfida è nel comizio, in piazza, di
fronte al mondo che fino a ieri ti ha
considerato una bocca da sfamare
con poco. E basta. Le contadine si ribellano cucendo le bandiere in mez-
DELLA DOMENICA
Lo scontro tra riformisti e massimalisti ha segnato le vicende della
sinistra italiana
è qui che si origina l’anomalia italiana, di cui ancora oggi scontiamo
le conseguenze. L’innamoramento
dei massimalisti per quello che Turati definì a Livorno, parlando del
bolscevismo, come l’ultima espressione del nazionalismo russo ha impedito la piena evoluzione della sinistra verso quel modello di socialdemocrazia riformista che ancora
oggi è competitivo e vincente in Europa. Per anni ‘riformismo’ è stata
una parola impronunciabile in parte
della sinistra.
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(indicare nella causale “contributo Avanti! della domenica”)
Veniamo ad oggi, ad un quadro politico che dopo il tramonto di Berlusconi è in fase di scomposizione e
ricomposizione. Casini accelera
per il Partito della Nazione, la Lega implode, l’antipolitica dilaga. E
a sinistra?
L’obiettivo è la costruzione della
‘Casa dei Riformisti’, un movimento
composto da quanti si riconoscono
sotto il cielo del socialismo europeo,
aperto - a cominciare dalla denominazione ‘Socialista e Democratico’ alle culture laiche e liberaldemocratiche eredi delle storie che hanno reso
l’Europa libera e civile e dialogante
con i nuovi raggruppamenti civici di
dimensione nazionale che ispirano i
loro programmi alla partecipazione e
alla valorizzazione dei diritti fondamentali del cittadino. I grandi filoni
della politica europea si rinnovano
senza tradire le loro identità. E’ la
strada che i riformisti italiani devono
battere con urgenza come servizio da
rendere all’Italia. Non fare presenta
un doppio rischio: avere buone idee e
non poterle spendere e restare oppressi tra un populismo radicale inneggiante all’antipolitica e l’area cattolico-moderata che si dà un progetto
alternativo.
mondoperaio
rivista mensile fondata da pietro nenni
S
“Il lavorio per ricomporre il
mondo moderato, sommato al difficile quadro politico e sociale di
questa Italia, devono obbligare la
sinistra delle riforme a tentare di
più”. E’ quanto ha scritto nei giorni scorsi il segretario nazionale del
PSI, Riccardo Nencini, in una
lettera aperta rivolta ai leader dei
partiti riformisti.
Secondo il leader socialista “l’obiettivo da raggiungere è la costruzione
della ‘Casa dei Riformisti’, un
movimento composto da quanti si
riconoscono sotto il cielo del socialismo europeo aperto, a cominciare
dalla denominazione – Socialista e
Democratico – alle culture laiche e
liberaldemocratiche eredi delle
storie che hanno reso l’Europa libera e civile e dialogante con i nuovi
raggruppamenti civici di dimensione nazionale che ispirano i loro
programmi alla partecipazione e
alla valorizzazione dei diritti fondamentali del cittadino”.
“I grandi filoni della politica europea si rinnovano senza tradire le
loro identità – conclude Nencini.
E’ la strada che i riformisti italiani
devono battere con urgenza come
servizio da rendere all’Italia. Non
fare presenta un doppio rischio:
avere buone idee e non poterle
spendere e restare oppressi tra un
populismo radicale inneggiante
all’antipolitica e l’area cattolicomoderata che si dà un progetto
alternativo”.
marzo 2012
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editoriale Luigi Covatta Puri
saggi e dibattiti Tommaso Gazzolo La costituente senza costituente Pietro Merli Brandini Si fa presto a dire gabbie
Paolo Allegrezza Il Novecento di Valiani Giuseppe Pennisi La donna senz’ombra
dossier/partiti e soldi Cesare Pinelli Il circolo vizioso Andrea De Petris Invece dei quattrini Paolo Caretti e Giovanni
Tarli Barbieri Giornali fantasma e milioni veri Roberto Borrello La par condicio e i suoi derivati Massimo Teodori Dieci regole
per cambiare Mario De Pizzo L’Abc della riforma Oreste Pastorelli intervistato da Giampiero Marrazzo I soldi contati Valdo
Spini La riforma ignorata Carlo Correr Il colpo di spugna
proposte decenti Gianni Ranieri Invece delle carceri Daniela Brancati Le rughe della Magnani Giulia Guazzaloca
Riformare non è fotografare
taccuino Gian Primo Quagliano Marchionne e gli incentivi Bruno Zanardi L’indice di Michelangelo
quale socialismo Mario Ricciardi La politica e l’utopia
memoria Antonio Ghirelli Una bella storia Enrico Traversa Marco Biagi, un socialista europeo
seconda repubblica Riccardo Nencini L’inverno della disperazione Marco Damilano Leader senza popolo
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
L’intesa programmatica nell’opposizione deve essere necessariamente anteposta al politicismo degli accordi di Palazzo
Un conto aperto con la storia
Bobo Craxi
socialisti che celebrano i propri centohanno un conto aperto con la StoIria.vent’anni
Fragilità e debolezze della struttura organizzata del PSI non giustificano una così larga indifferenza nei riguardi del primo movimento
politico organizzato del nostro paese; l’Italia
democratica deve un tributo più grande ai Socialisti e non c’è ragione e realismo politico
che tenga per stendere ipocritamente un velo
di ignoranza sulla lunga, complessa e affascinante Storia del Socialismo Italiano.
Cosa resta del tortuoso percorso del Partito
Socialista Italiano, al di là delle sue icone, dei
suoi indiscutibili meriti sociali, delle sue battute d’arresto, delle sue divisioni?
Scomparsa ed entrata in crisi la forma organizzativa dei movimenti che si facevano Partito animati e plasmati attorno all’ideale della
società libera e giusta il Socialismo contemporaneo non ha smarrito la sua ispirazione vitale verso la realizzazione di società che, pur tenendo conto dei cambiamenti strutturali e sociali, conservino i principi dell’uguaglianza
fra gli uomini, radicando e consolidando lo
spirito della solidarietà sociale della protezione e della tutela dei bisogni, della valorizzazione e dell’inclusione dei cittadini dotati di
un merito.
I nostri programmi d’azione rimangono ispirati dalla visione di un Socialismo liberale,
umanitario, ed anche cristiano, e al rispetto
doveroso verso le nostre tradizioni nazionali
ed internazionali che ancora oggi indicano le
strade da battere e da percorrere.
E’ vero che l’intero Occidente è attraversato
dalle difficoltà di carattere economico e sociale che finiscono per riverberarsi sulla democrazia, sul suo effettivo funzionamento, sulle
sue fonti di legittimità; in questa crisi trova
naturalmente spazio la critica e l’accusa rivolta ai partiti ed alla politica genericamente
intesa.
Il continente Europeo è frastornato dalle speculazioni finanziarie e dalle guerre commerciali che mettono in ginocchio unità e conquiste secolari, per questa ragione il messaggio, il
programma e l’azione del Socialismo democratico, che sono figli della razionalità, della
fiducia, della solidarietà e del senso di giustizia, ritornano più che mai di attualità e colmano il vuoto di idee, di valori e di proposte
da cui è circondata la politica Europea.
In Italia nella difficile e delicata situazione
sembrano riproporsi con eguale vigore le
stesse questioni che esattamente vent’anni orsono non risparmiarono la riflessione di noi
socialisti che ci trovammo a dover festeggiare
il nostro centenario nelle condizioni che tutti
ricordano.
Ed oggi come allora si ripropongono in forme
più acute le questioni che avevano circondato
l’Italia alla fine di un lungo ciclo politico e
l’Europa che ne stava aprendo uno.
Una questione morale, una questione economica, una questione nazionale alla quale sembra aggiungersi una questione europea, il rischio della sua dissoluzione in seguito all’esplosione del caso determinato dalla fragilità
della sua unita economica.
Oggi come allora la risposta resta quella di restare coerenti con i principi e gli orientamenti
di fondo delle culture democratiche che in tutto l’occidente hanno garantito il progresso
nella libertà di società un tempo oppresse, che
hanno saputo mantenere vivo l’impegno per
le garanzie di pace e di benessere nelle aree
più a rischio nel pianeta, che, ispirati dai valori universali del socialismo democratico ed
umanitario hanno lavorato e lavorano per ridurre le distanze nelle moderne società.
Un messaggio nazionale ed internazionale che
non può per nulla essere scambiato, come si
pretende, per un alfabeto morto, per una difesa ad oltranza di un identità perduta.
L’errore che viene commesso innanzitutto nel
campo nel quale per ragioni storiche noi apparteniamo, ma per il quale per nessuna ragione i socialisti intendono farsi guidare o egemonizzare nel nome di un generico e retorico
democraticismo.
Il nostro centoventesimo non è solo un retorico omaggio alle molteplici Storie nelle quali i
Socialisti in Italia hanno saputo indicare le
strade del progresso, delle libertà e, quando
hanno assunto responsabilità di Governo lo
hanno saputo fare sapendo rappresentare gli
interessi generali del paese e dei lavoratori, è
un atto di fede e di speranza verso il futuro
che in Europa ed in Italia non potrà prescindere dalla grande tradizione Socialista che noi
continuiamo a rappresentare.
Un percorso politico che ha portato negli anni il PSI ad assumere il profilo di una terza forza europea libera dalla disciplina dei blocchi della guerra fredda
La nostra bussola resta il socialismo europeo
Luca Cefisi
C
entoventi anni di storia socialista italiana
sono anche centoventi anni di storia del più
importante movimento politico laico internazionale della storia moderna. Fu il 14 luglio 1889, a
cent’anni esatti dalla rivoluzione francese, che a
Parigi venne convocato dalle Unions inglesi e
dai socialisti francesi e tedeschi il congresso
costitutivo della “Seconda” Internazionale, a cui
il nuovo partito socialista in Italia aderirà subito.
Archiviata la “Prima” Internazionale dei dissidi
tra marxisti, bakuniniani e mazziniani, il socialismo ha rinunciato alla prospettiva di un rivolgimento violento: è gradualista e legalitario. In
un’epoca in cui è ancora normale ricorrere al
fucile per risolvere i conflitti tra le nazioni, invece, ricorda il Turati dell’Inno dei lavoratori, i
nemici, gli stranieri/non son lungi ma son qui.
è nell’opposizione alla guerra mondiale, che il
PSI guadagna il suo prestigio internazionale, la
sua carta d’identità politica da presentare in
Europa: contro la guerra si esprime, tra gli altri,
Giacomo Matteotti, che intuisce che la retorica
guerrafondaia sta per produrre quello squadrismo che poi lo vorrà morto. Anche la partecipazione alla guerra internazionale contro il fascismo (Oggi in Spagna domani in Italia, dice Carlo
Rosselli) significa anche una nuova Europa unita
e pacifica. La Resistenza è patriottica e internazionalista, spiega Eugenio Colorni dal confino
che la contraddizione essenziale, responsabile
delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani.
Ecco quindi che il socialismo europeo è bussola e punto di riferimento; infatti il Partito socialista-Sezione italiana dell’Internazionale Socialista, che, appena finita la guerra, nel 1951
partecipa alla rifondazione a Francorte dell’Internazionale (in Germania !), e che l’anno
successivo assumerà il nome definitivo di Partito socialista democratico italiano, non è, come a
volte si dice troppo semplicisticamente, soltanto
il partito di Giuseppe Saragat, raccogliendo sì i
vecchi riformisti, ma anche gli azionisti di Codignola e Calamandrei, i socialisti autonomisti di
Romita, insomma tutti coloro che vedono bene
il nesso tra una terza forza in Italia libera dalle
chiese democristiana e comunista e una terza
forza europea libera dalla disciplina dei blocchi
della guerra fredda.
Infatti i grandi leader socialdemocratici europei, primo tra tutti Willy Brandt, si distingueranno proprio per la capacità di difendere le
ragioni della libertà e della pace nella guerra
fredda, senza sognare la guerra nucleare del
dottor Stranamore, ma guardando oltre i muri.
La riunificazione Psi-Psdi del 1967, fortemente voluta da Nenni e Saragat, riporta il “grande vecchio” Pietro Nenni (come lo chiamava
l’allora giovane Brandt), nell’Internazionale,
mentre lo sciagurato fallimento di quell’unità
crea l’anomalia italiana di due partiti a farne
parte. Anomalia ancora maggiore, quella dell’
Questo numero del 6 maggio del 1990, illustrato da Aldo Massari, era dedicato al rilancio del
Labour Party. Margaret Thatcher era primo ministro già da undici anni e con la svolta centrista di
Neil Kinnock alla guida del Labour Party, la possibilità di una vittoria appariva più vicina. Il partito conservatore invece avrebbe vinto ancora anche nelle elezioni del 1992, ma non con la Thatcher, costretta a passare la guida a John Major. Bisognerà attendere fino al 1997 prima che, con
Tony Blair, il ribattezzato New Labour, riuscisse a sconfiggere i conservatori.
“eurocomunismo”, il comunismo occidentalizzato guidato da Berlinguer, a cui Craxi
risponderà con l’eurosocialismo, la nuova
leva che avrà in Craxi, Gonzalez, Soares e
Mitterrand i suoi alfieri. Non è più esattamente bolscevismo contro socialdemocrazia, piut-
tosto è il dissidio tra coloro che pensano che ci
sia in Italia una “felice anomalia”, rappresentata dal Pci, e chi invece propone la “normalità europea” di un’alternativa socialista al
potere democristiano.
Certamente, l’analisi storica dimostra che le
feroci contestazioni comuniste alle iniziative del
Psi, accusato addirittura di tradire la sua identità di sinistra, non avevano giustificazione.
Non per la scelta degli euromissili, che Craxi
sostenne in accordo con il cancelliere socialdemocratico Schmidt (oggi novantenne grande
vecchio del socialismo europeo, attivo ed
eloquente oppositore della Merkel): per i socialisti italiani gli euromissili erano solo una carta
da giocare nella partita a poker con l’Urss, che
aveva già dislocato i suoi missili, ma prevedendo la “clausola dissolvente”, cioè non schierarli se Mosca toglieva i suoi, e così poi è andata
davvero a finire, non appena Gorbaciov decise
il disarmo.
Craxi fu poi il grande antagonista della Thatcher al vertice europeo di Venezia del 1985,
mentre il Pci scambiava per thatcherismo l’attenzione socialista ai nuovi ceti sociali dell’economia postindustriale. Occorre arrivare alla
caduta del muro di Berlino, e al cambiamento di
nome del Pci, perché il neonato Pds italiano
ottenga l’adesione all’Internazionale Socialista
e al nuovo Partito del Socialismo Europeo, che
viene fondato all’Aja nel 1992, con una conferma dell’anomalia italiana: tre partiti, tre segretari, Craxi, Vizzini, Occhetto (chi scrive era
all’Aja per fondare, più modestamente, poche
ore prima, la Ecosy, l’organizzazione della
gioventù socialista europea).
La grande crisi nazionale del 1993 impedisce
che il socialismo europeo divenga l’incubatrice
di un’unità della sinistra italiana, ma l’allora
presidente, Pierre Mauroy, sarà molto attento a
garantire al Psi di Ottaviano Del Turco, e poi ai
Socialisti Italiani, il seggio del Psi di Nenni e
Craxi, ed al Psdi di Schietroma il seggio di
Saragat nell’Internazionale, intervenendo più
volte nelle vicende italiane.
La priorità per i socialisti europei è di scoraggiare e sconfessare qualsiasi diaspora socialista
verso Berlusconi, giustamente considerata
inaccettabile, in un momento storico in cui
sempre di più le vicende nazionali devono essere ricondotte al conflitto su scala europea tra
socialisti e conservatori. Per questo, mentre
esponenti socialisti come Riccardo Nencini o
Pia Locatelli vengono accolti nel gruppo eurosocialista di Strasburgo, altri italiani, che si
dichiarano a parole socialisti ma ‘berlusconeggiano’, vengono rifiutati, o addirittura espulsi
dall’eurogruppo.
Per questo ancora Rasmussen e Papandreu
seguiranno personalmente la Costituente socialista del 2008 che darà vita al nostro partito,
giudicato piccolo ma importante. Ed anche
oggi, che la discussione sull’anomalia italiana o
normalità europea imperversa nel Pd, noi socialisti italiani abbiamo del lavoro da fare.
DELLA DOMENICA
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
Per fermare la demagogia e il populismo, l’alternativa si chiama socialdemocrazia
Marco Di Lello
C
elebrare i 120 anni dalla nascita del Partito
Socialista può avere il sapore della provocazione in un’ Italia in cui il vento dell’Antipolitica
soffia con crescente intensità e la voglia di nuovo
spinge in un angolo il vecchio.
La domanda se il Psi, il più antico partito d’Italia
possa ancora svolgere un ruolo di primo piano
può apparire anch’essa una provocazione, specie
se non declinata all’insegna del connubio che
unisca valori storici e facce nuove.
I Partiti in questi anni hanno contribuito molto ad
alimentare quel venticello dell’antipolitica che
oramai sembra sempre più assumere la forza di
un ciclone: dal fallimento dell’esperienza Prodi,
sconfitto dal potere di veto, e di ricatto, di piccoli o minuscoli partiti a quello clamoroso del decennio berlusconiano, incapace di lasciare la minima traccia di provvedimenti utili per i cittadini.
Ci hanno messo molto del loro, consentendo ruberie ed illegalità di varia natura, dal caso Lusi a
quello Bossi e della Lega Nord, dal caso Penati
agli amici di Formigoni ed il triste declino del
presunto “modello Lombardia”, ai furbetti del
Valterino (Lavitola), le cui gesta, insieme alle vicende che emergono dal processo “Ruby”, ben
disegnano l’etica del berlusconismo.
Ruberie ed illegalità ancor più gravi ed insopportabili in tempo di crisi.
Ma l’alternativa non è e non può essere l’antipolitica, la demagogia, il populismo. Non è e non può
essere l’incarnazione della cultura del non fare,
del no ai termovalorizzatori, no ai rifiuti, no alla
Tav, no alle infrastrutture, di cui si ciba avidamente il grillismo, versione moderna del populismo.
Non è e non può essere l’uomo solo al comando,
il novello Masaniello, il Salvatore della Patria,
modelli sperimentati due volte, in forme diverse,
nella prima metà del secolo scorso ed a cavallo
con il secolo nuovo: due esperienze, con le dovute differenze, tutt’altro che esemplari.
L’alternativa c’è se si assume il presupposto che
nel bene come nel male non si è tutti uguali, che
nei Partiti, come nella Chiesa ed in ogni comuni-
La buona politica
è la nostra ricetta
per battere l’antipolitica
tà larga ci sono malfattori e persone perbene! C’è
se i partiti, e gli uomini e le donne che li dirigono,
cambiano, diventano trasparenti, investono in sobrietà, cacciano le mele marce, ma soprattutto dimostrano di saper fare quello per cui sono votati
e, in molti casi, pagati: assumere scelte e decisioni utili a far crescere il paese, offrire opportunità
ai cittadini, tutelare chi è più indietro.
La crisi economica non è una dannazione piovuta
dall’alto, ma frutto di speculazione finanziaria, di
sete di danaro e di politiche all’insegna del laissez faire, dell’assenza di ogni intervento statale in
nome della libertà economica, delle politiche di
George Bush jr, di Angela Merkel, di Nicolas Sarkozy, della destra europea e dei tanti sedotti dal
neoliberismo.
Il risultato di queste politiche è drammaticamente
sotto gli occhi di tutti, come lo è l’impoverimento delle famiglie, la crisi di tante, troppe, aziende.
Il fallimento di queste politiche hanno confermato che si può e si deve cambiare: l’alternativa è la
stessa in Europa come in Italia, si chiama socialdemocrazia, ma presuppone un rinnovamento di
un pensiero che affermatosi nel novecento non
può non riformarsi, adeguandosi alle esigenze del
secolo nuovo.
Il 6 e 7 maggio milioni di italiani voteranno per
scegliere i propri amministratori locali: sarà anche l’ultimo voto prima delle elezioni politiche e
dunque il segnale che verrà dalle urne varrà per
l’oggi, ma anche per il domani.
Comunque vada resterà ineludibile un cambiamento della stessa forma partito: al centro e a destra stanno già dismettendo le vecchie insegne
per proporsi con altre, ma non saranno restyling
di nomi e simboli a regalare una patente di novità
che oggi appare come un necessario lasciapassare elettorale.
è un tema su cui la sinistra è ancora una volta in
ritardo, che va affrontato rapidamente e soprattutto liberandosi del fardello di un passato che troppe volte consente al morto di acchiappare il vivo.
Senza una profonda riforma del modo di essere,
della organizzazione interna, ed infine dei gruppi
dirigenti, il ciclone rischia di spazzare via tutti,
indebolire la democrazia e consegnare ai partiti il
ruolo marginale di meri comitati elettorali, lasciando alle lobby, più o meno trasparenti, il ruolo di influenzare il governo della cosa pubblica,
perseguendo interessi particolari spesso confliggenti con quello pubblico.
La celebrazione dei primi 120 anni di Partito Socialista in Italia può dunque essere utile per ragionare su quanto occorra dunque cambiare forma e sostanza: garantire trasparenza opportunità
e partecipazione nella vita interna e dimostrare di
saper ben governare, a partire dagli enti locali.
Sconfiggere l’Antipolitica con la Buonapolitica: solo così il ciclone potrà perdere forza e trasformarsi in un venticello utile ad un paese
boccheggiante.
Se è vero che si va verso un prolungamento, anche dopo il 2013, di questa anomala esperienza del governo di perenne emergenza nazionale
Non lasciamo il monopolio della critica ai grillini
Fabio Fabbri
ome sempre gli anniversari sono
C
occasione e stimolo per ripensare il passato. Gli storici sono al lavo-
ro e leggeremo con interesse le loro
opere.
Per chi ha militato nel PSI sono anche giorni di ricordi, di rivisitazione
di eventi lontani, nostalgie, rimpianti. Il cruccio delle occasioni perdute,
diceva Pietro Nenni. Mi vengono alla mente alcuni scritti e momenti
cruciali della mia formazione politica. Il discorso di Turati al Congresso
di Livorno del 1921. Il saggio di Pietro Nenni “Luci ed ombre sul XX
Congresso del PCUS”, che segnò la
fine del frontismo.
Ancora: le parole con cui Antonio
Giolitti motivò il suo abbandono
del PCI; un discorso di Riccardo
Lombardi al Convegno degli Amici
del Mondo, nei primi anni ’60,
quando si gettarono le basi del centro-sinistra, quello delle riforme di
struttura. Percepii allora il PSI come incarnazione di quella “terza
forza” che sognavano Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi. Poi la solenne allocuzione di Pertini alle Camere riunite che lo avevano eletto
Capo dello Stato. Lo incontrerò
qualche anno dopo nel corso delle
consultazioni che si conclusero con
il conferimento dell’incarico di
Presidente del Consiglio a Craxi:
“Io, nevvero, Bettino, l’incarico te lo
do. Tieniti pronto alla chiamata, ma
non sarà di venerdì”. Rivedo anche
i volti dei cinquanta senatori socialisti di cui sono stato presidente per
molti anni. La riflessione retrospettiva si nutre infine delle memorie
che riguardano la vita del socialismo parmense: le assemblee vibranti e affumicate (allora il vizio
non era proibito), le lezioni oratorie di Fernando Santi, lo sbarco a
Parma di Gaetano Arfè, gli incontri
affettuosi con i compagni del mio
Appennino.
“Cento anni di storia che sono cento
Evitiamo la gravitazione satellitare attorno al PD e puntiamo su un incubatoio
programmatico come fu quello degli “Amici del Mondo”
anni di gloria”. Così disse con dignitoso orgoglio Giorgio Ruffolo alla
scadenza del centenario della fondazione del partito. Sono passati da allora vent’anni. Dopo il crollo del
1994, un nucleo di compagni coraggiosi ha tenuto in piedi il partito, al
centro e alla periferia. Vita grama e
nessun aiuto a sinistra. Anzi, il PD,
faticoso meticciato fra post-comunisti e democristiani di sinistra, ha
propiziato la nostra fuoruscita dal
Parlamento. Eppure siamo culturalmente vivi, con l’Avanti! della domenica (che fastidio la profanazione di
Lavitola, l’unico carcerato per cui
non provo compassione!), con MondOperaio di Gigi Covatta e con la
Fondazione Socialismo di Gennaro
Acquaviva. è quel che resta, oltre alla presenza in qualche Regione e nei
Comuni.
Questa essendo la dura realtà, che
fare, dopo esserci incoraggiati ripensando ai nostri anni ruggenti?
Per agevolarmi il compito, comincio
col dire “cosa non fare”, ora che i
partiti protagonisti della sventurata
Seconda Repubblica sono tutti alle
corde, mentre l’Italia sta vivendo il
periodo più buio dal dopoguerra ad
oggi. Scrivendo per un foglio libero e
aperto al dibattito da 120 anni, confesso che lo spettro che si agita davanti ai miei occhi è la scelta della
gravitazione satellitare del PSI
nell’orbita del PD.
Traduco liberamente una famosa
frase latina: per sopravvivere perderemmo le ragioni della vita di una
forza socialista; che poi sono le ragioni della storia che ci accingiamo a
celebrare. Se è vero che si va verso
un prolungamento, anche dopo il
2013, di questa anomala esperienza
del governo di perenne emergenza
nazionale, quel che resta del socialismo italiano farebbe bene a chiamarsi fuori dalla “grande bonaccia”
(insomma, “Monti for ever”) dettata
dalla grande crisi europea e mondiale.
Semmai è giusto impiegare le nostre
energie in vista di un duplice obiettivo: unire tutte le forze laiche e liberalsocialiste e rinverdire la proposta
di quella Grande Riforma delle isti-
tuzioni che Craxi lanciò alla fine degli anni ’70. Se siamo nel pantano attuale è anche perché quel messaggio
di rinnovamento incontrò la resistenza di democristiani e comunisti.
Sul primo obiettivo. Nel processo di
scomposizione e ricomposizione degli attuali assembramenti politici ci
può essere posto per l’unificazione
delle forze dei liberali e dei socialisti.
Sarebbe certamente incomprensibile
il mancato incontro fra il PSI e il neonato movimento di Stefania Craxi.
Poi il dialogo e l’intesa con i radicali,
che vedo appannati nella loro nicchia
all’interno dei gruppi parlamentari
del PD, periodicamente sferzati dalla
sanfedista Rosy Bindi. Sono compagni scomodi, ma la Rosa nel Pugno fu
una novità e una speranza. è stato
un errore farla sfiorire.
Il secondo obiettivo. Anzitutto si deve insorgere nelle piazze contro il sostanziale rifiuto del trinomio ABC
(Alfano, Bersani e Casini) assistiti
dall’immarcescibile Luciano Violante, di approvare una decente legge
elettorale, incentrata sulla proporzionale e sul ritorno della preferenza. Anche l’ipotesi di riforma del
Parlamento è al ribasso. Poi la battaglia per l’Assemblea Costituente,
l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, sola possibile fonte di
un vero bipolarismo, la creazione
degli Stati Uniti d’Europa.
In campo economico, serve un progetto per lo sviluppo, che non vede
ancora la luce per mano dei tecnocrati. So bene che sono influenzato
dalla mia esperienza giovanile, ma
servirebbe un incubatoio programmatico simile a quello degli “Amici
del Mondo”. Forse possiamo radunare le forze per tentare l’impresa.
Non dimentichiamo che il governo
dei professori e delle tasse produrrà
una vasta sofferenza sociale. Sarebbe sbagliato lasciare il monopolio
della critica ai festanti grillini, al demagogo Di Pietro e, peggio, alla violenza estremista.
Buon lavoro, compagni.
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
Fu scelto come punto di riferimento dal Congresso di Palermo nel 198,1 ma fino a ieri il riformismo sembrava una parola impronunciabile
La priorità deve essere la questione giovanile
Mauro Del Bue
C’
era un tempo (non lontano) in cui essere definiti riformisti
equivaleva ad un’ingiuria. E neppure da poco. Significava
non voler mettere in discussione il sistema (come si affermava nel
confuso sessantotto) o addirittura tradire l’ideologia, quella marxista o marxista leninista, che prevedeva crolli improvvisi del capitalismo, dissoluzione di ceti intermedi, azioni rivoluzionarie per
la presa del potere, dittature più o meno transitorie del partitoproletario.
Questo naturalmente nel partito dominante della sinistra, il Pci, e
ancor più nei gruppi che pullulavano alla sua sinistra. E’ vero che
il togliattismo era capacità di coniugare moderatismo e stalinismo, realismo e rivoluzionarismo, ma anche il togliattismo e i suoi
epigoni non hanno mai accettato il riformismo, se non nella rivalutazione interessata di alcuni “venerati maestri” del passato (così li definì Togliatti nel settembre del 1946 nel suo discorso di Reggio Emilia dedicato al rapporto coi ceti medi). Il riformismo no, al
massimo le riforme di struttura, utili per aprire le contraddizioni e
poi l’avvento del socialismo. La politica della pianificazione economica era certo una moderna strategia di concepire l’economia
italiana da parte di Nenni e Lombardi e del primo centro-sinistra,
ma le difficoltà di applicarla (Lombardi scelse di non fare il ministro, mandò Giolitti nel dicembre del 1963 e nell’estate del 1964
ritirò la sua corrente dal governo) significava, anche per una parte del Psi (un’altra parte se ne andò nel gennaio del 1964 e fondò
il Psiup dall’opposizione), che in Italia non esistevano le condizioni per una coraggiosa politica di riforme. E se anche si chiedevano e si potevano fare alcune riforme, questo era per loro solo un
mezzo e non il fine.
Una cosa era infatti la strategia delle riforme, altra cosa l’assunzione del riformismo. La prima non presupponeva la seconda. Che
questa impostazione sia stata prevalente a sinistra in Italia lo dimostra che anche il Psi fino all’età demartiniana, non prediligeva
la tradizione riformista e men che meno la socialdemocrazia europea (allora non c’era alcuna Bad Godesberg all’orizzonte).
Anche nel mondo cattolico italiano il riformismo non fece mai
breccia. Forse solo con Ezio Vanoni e la sua innovativa riforma
tributaria, e anche nei convegni di San Pellegrino dei primi anni
sessanta che pilotarono la Dc al centro-sinistra, vi fece anche culturalmente capolino. In generale la sinistra democristiana, e in
particolar modo quella dossettiana, era più affine a un popolarismo di sinistra conciliabile con suggestioni presenti nel Pci e in
altri gruppi di sinistra, grazie a una sorta di integralismo ideologico che li accomunava, che non dal troppo laico e disincantato
riformismo in salsa turatiana.
Anche a destra parlare di riformismo era peccato: la destra contestava il sistema e rimpiangeva il passato, sognava avventure e
colpi di mano. Odiava la repubblica e la sua razionalizzazione.
Anche durante l’unità nazionale il Pci berlingueriano si definiva
Compito del moderno riformismo è quello
di lottare per battere questo sistema politico,
perché anche in Italia ritornino i partiti storiciche solo in Italia sono stati aboliti, e con loro
le identità politiche che sono poi
quelle dell’Europa di oggi e di domani
“rivoluzionario e conservatore”, sognando una terza via tra comunismo sovietico e socialdemocrazia europea, e perfino la Dc di
Zaccagnini affermava una strana identità, quella di un partito
“moderatamente rivoluzionario”. Il riformismo sembrava una parola impronunciabile. Ricordi sbiaditi, oggi.
Solo il Psi di Craxi scelse con coraggio (e a maggioranza) il riformismo come punto di riferimento al congresso di Palermo del
1981, mentre negli stessi anni ottanta alcuni comunisti come Napolitano venivano definiti spregiativamente “miglioristi” all’interno del Pci (l’accusa era un po’ meno grave di quella di riformisti). Adesso tutto è cambiato.
La sinistra, il centro e la destra si ritengono tutti e tre riformisti.
Usano un termine senza conoscerlo. Ne abusano il significato. Il
riformismo non è un’indistinta identità, un’occasione per vestire
altre casacche rispetto a quelle tradizionali; né è solo una posizione favorevole alle riforme.
Oggi ha un senso e cosa implica
essere riformisti?
La storia del riformismo è indissolubilmente legata al quella del
socialismo. E’ l’altra faccia della medaglia per la trasformazione
della società rispetto a quella rivoluzionaria e massimalistica. Implica la certezza che non vi saranno ore X (intanto le riforme e poi
il resto), comporta la consapevolezza che il socialismo non sia una
meta, ma un divenire continuo (“nelle teste e nelle cose”, come diceva Turati), determina il fatto che non esista dogmatismo e ideologismo superiori al bene comune, e in particolare al bene di chi
sta peggio, nonché l’esistenza di una la laica e suprema virtù della ragione e della tolleranza. Il riformismo non è solo un metodo,
è l’assunzione di un filone di pensiero. E’ questo che si continua a
non comprendere.
Oggi ha un senso e cosa implica essere riformisti? Domanda che
richiederebbe spazi adeguati. Condensiamo le risposte così.
In tutta Europa esistono partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Si tratta di forze anche diverse, ma che trovano nel Pse un
punto di sintesi. Penso tuttavia che la storia del socialismo italiano, e in particolare le intuizioni degli anni ottanta sul liberalsocialismo, che tanto hanno influenzato anche l’evoluzione di leader
e partiti europei, innanzitutto Tony Blair, debba restare per noi
punto di riferimento essenziale.
Senza l’unità politica dell’Europa
altri poteri governeranno
Oggi il socialismo, più che presupporre la socializzazione dei mezzi di produzione, deve infatti implicare la socializzazione degli individui. La liberazione degli uomini e delle donne da quelle che definimmo le vecchie e le nuove povertà. Oggi sono tornate d’un tratto e prepotentemente alla ribalta le prime. La crisi finanziaria ed
economica ha riportato l’Italia in una situazione di povertà che si
respira in modo sempre più preoccupante. Recessione, disoccupazione soprattutto giovanile, perdita continua dei posti di lavoro, calo vertiginoso dei consumi sono all’ordine del giorno, mentre l’Europa è sempre più dominata dalla Bce e dal governo tedesco, perdendo così la bussola che avrebbe dovuto condurla alla sua unità.
Penso che l’obiettivo del socialismo riformista debba sempre più
essere quello di costruire l’Europa politica. Senza l’unità politica
dell’Europa altri poteri governeranno in Europa e dunque anche
in Italia. L’Europa al primo posto, dunque. Poi una politica per il
lavoro. Altro che ideologismo e dogmatismo del passato. Oggi ci
sono due nemici da combattere a viso aperto: la disoccupazione
crescente e la chiusura delle imprese, con conseguente ulteriore
perdita di posti di lavoro. Tutto il resto deve essere messo in secondo piano. E questo, da settori del vetero-sindacalismo, non
viene compreso. Così si ingaggiano battaglie di secondaria importanza e si lasciano quelle rilevanti nel dimenticatoio.
Concentrarsi sulla formazione
sulla scuola, sulla ricerca
Perché gli operai italiani sono quelli meno pagati d’Europa, dopo
essere stati fino agli anni ottanta quelli più remunerati? E perché
il sindacato non ha fatto una seria politica salariale e solo una politica sindacale (cioè prevalentemente sul suo ruolo?).
Rilanciare la crescita, dunque, permettere, nella transizione che
non sarà breve, assunzioni senza creare eccessivi vincoli alle
aziende (la legge Biagi non è da buttare, signora Camusso) e investire nella formazione per i giovani. Liberarsi di molti dogmi e
aprirsi alle posizioni migliori e più vantaggiose (meglio Ichino di
Landini per un riformista).
Concentrarsi sulla formazione, sulla scuola, sulla ricerca. Far
emergere il merito, combattere la spesa improduttiva (la politica
oggi è considerata una spesa improduttiva e per questo è sotto gli
occhi della pubblica opinione). Anche nei momenti di crisi si deve
considerare un’opzione di fondo. E questa priorità deve essere la
questione giovanile. I giovani sono stati e sono oggi violentati da
uno stato sociale italiano sbagliato, che ha prodotto disuguaglianze e ingiustizie e che rischia di impedire loro di avere un futuro. I nuovi poveri devono essere liberati dall’oppressione dei
troppi garantiti, secondo una logica dell’equità (e non del generico egualitarismo) che già ci contraddistinse in quella meravigliosa Rimini del 1982. Ma su tutto emerge oggi il problema italiano,
la crisi e i guasti della cosiddetta seconda Repubblica.
Senza il superamento di questa fase politica si continuerà a
brancolare nel buio o a delegare il governo ai tecnici. Compito
del moderno riformismo è quello di lottare per battere questo sistema politico, perché anche in Italia ritornino i partiti storici
che solo in Italia sono stati aboliti, e con loro le identità politiche che sono poi quelle dell’Europa di oggi e di domani. Perché
questo sistema ha fallito, ha fatto crescere il debito pubblico
(dall’85 al 125 %), ha bloccato la crescita (dello 0,6% mediamente negli ultimi vent’anni), ha creato più disoccupazione, minore governabilità, maggiore distacco dei cittadini dalla politica
e anche più corruzione. Su questo il nostro riformismo deve essere davvero radicale.
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
La Seconda Repubblica non ha cambiato le regole e ha creduto di poter fare a meno dei partiti
Rifondarsi per superare la partitocrazia
Luigi Covatta
migliori del paese: degli azionisti le
cui vele non erano state gonfiate dal
“vento del nord”; dei comunisti che
non tolleravano l’invasione dei carri
sovietici a Budapest; dei cattolici che
non volevano morire dorotei.
A buon diritto, quindi. trent’anni fa, a
Rimini, si definì il partito della modernizzazione: e come tale osò sfidare le
regole del “bipartitismo imperfetto”.
Forse non seppe sfidare con altrettanta
chiarezza la partitocrazia ereditaria, e
comunque perse la sfida: apparentemente per avere osato troppo, in realtà
per avere osato troppo poco.
è
decisamente strano celebrare il
120° anniversario della fondazione di un partito in un periodo in
cui i partiti sono così fuori moda. Ed
ancora più strano è ricordare il 120°
compleanno di un partito che non
aveva potuto festeggiare il proprio
centenario. Ma tant’è: anche il governo in carica è “strano”, come ha
detto il presidente Monti; e non per
questo non ha un profondo significato politico
Conviene quindi approfondirle, queste “stranezze”, per cogliere il senso
della manifestazione che il Psi tiene
a Genova: per discutere cioè se sia
ancora proponibile la democrazia dei
partiti, e per comprendere perché essa oggi sia in una crisi così profonda.
La crisi sarebbe fin troppo facile farla risalire al centenario mancato di
vent’anni fa: magari ricordando, di
fronte agli scandali leghisti, la battuta del vecchio Nenni sul “più puro
che ti epura”; oppure osservando che
chi aveva augurato a Craxi “il rancio
di Regina Coeli” non poteva non sapere cosa faceva Lusi dei soldi della
Margherita. Ma col revanscismo non
si va da nessuna parte.
Più utile, invece, trarre qualche prospettiva di futuro ripercorrendo i
centovent’anni che abbiamo alle
spalle. A cominciare da quel ferragosto in cui, per fruire degli sconti estivi delle ferrovie, a Genova si incontrarono esponenti di leghe operaie e
bracciantili, promotori di cooperative agricole, fondatori di circoli in cui
si impegnavano le più fresche energie culturali del paese: portatori di
meriti e portatori di bisogni, si sarebbe detto novant’anni dopo a Rimini.
C’erano anche gli anarchici fra i promotori di circoli e leghe: ma i socialisti fondarono un partito proprio per
separarsene, con ciò scegliendo di essere partito di popolo e non populista.
Non c’erano, invece, gli ingegneri
elettorali, e non solo perché la stessa
partecipazione alle elezioni era oggetto di dibattito in seno al partito:
guerra e del dopoguerra: tanto che i
notabili, per sopravvivere, furono costretti ad intrupparsi nei “listoni” promossi da un partito (e che partito!).
Fu allora che un partito si fece addirittura Stato, come del resto era avvenuto per un altro partito nella Russia
di Lenin. E fu allora che i socialisti
ebbero vent’anni di tempo per meditare, in esilio o in clandestinità, sulla
sconfitta subita e sulle conseguenze
Perciò il sistema politico della seconda Repubblica, quello che in questi
giorni sta esalando l’ultimo respiro,
non ha cambiato le regole della parti-
...a Rimini, si definì il partito della modernizzazione: e
come tale osò sfidare le regole del “bipartitismo imperfetto”. Forse non seppe sfidare con altrettanta chiarezza la partitocrazia ereditaria, e comunque perse la sfida: apparentemente per avere osato troppo, in realtà
per avere osato troppo poco...
perché allora non veniva in mente a
nessuno che un partito si potesse fondare su mere convenienze elettorali.
A molti, per la verità, non veniva
neanche in mente che si potessero
fondare partiti: i collegi uninominali, magari con tanto di doppio turno,
sembravano fatti apposta per ridurre
il ceto politico a una casta di notabili locali. E solo l’esterofilia di qualche intellettuale poteva immaginare
di trasferire in Italia modelli politici
di altri paesi europei, a cominciare
dalla socialdemocrazia tedesca.
Anche dopo l’introduzione del suffragio universale i partiti in Italia non
erano ben visti: tanto che Giolitti, per
contenere il partito socialista e sostenere il tradizionale notabilato, invece
di formare un partito liberale preferì
strumentalizzare lo sdoganamento
dal non expedit delle masse cattoliche col patto Gentiloni. Come è noto,
la manovra non resse alla prova della
che da essa erano ricadute sul paese.
Quando il fascismo cadde, il suo lascito più peculiare (quello del partito-Stato) restò in eredità ai due partiti maggiori, come scrisse vent’anni
fa Luciano Cafagna descrivendo la
grande slavina che travolgeva la Repubblica: la partitocrazia, nata col
fascismo, gli era sopravvissuta a lungo. Ed è in quel contesto che il partito nato 120 anni fa a Genova ebbe
l’opportunità di tornare alle origini:
di tornare ad essere, cioè, il luogo
d’incontro elettivo (non obbligato,
cioè, da appartenenze classiste, religiose o localistiche) delle energie
tocrazia: peccato, però, che abbia pensato di poter fare a meno di partiti degni di questo nome. Perciò per i socialisti ha senso celebrare la fondazione
di quello che fu il primo partito dell’Italia unita: per costruire ancora una
volta (in perfetta antitesi col ventennio
che abbiamo alle spalle) un partito degno di questo nome; e per superare
una volta per tutte la partitocrazia.
Alle origini del Partito socialista
Giuseppe Miccichè
T
ra le forze che, incontrandosi tra il 1892 e il
1893, diedero corpo al Partito dei lavoratori,
successivamente Partito socialista Italiano, il
movimento dei Fasci dei lavoratori fu certamente una delle più cospicue per numero di organizzati, ricchezza di esperienze, qualità di proposte.
Se il centro - nord contribuiva al grande evento
con l’esperienza del Partito operaio, della Lega
socialista, ecc., per mezzo dei quali l’aggregazione dei lavoratori aveva compiuto i primi passi, la
Sicilia offriva un movimento che, sorto tra il dicembre del ‘91 e i primi del successivo anno, si
avviava a raggiungere dimensioni veramente
grandi.
A sollecitarne la nascita e la crescita era la somma di deficienze che caratterizzavano l’isola a
pochi decenni dall’Unità: l’incuria di cui era stata vittima unita all’arretratezza che in settori fondamentali l’avevano caratterizzata per secoli, i
latifondi, presenti soprattutto nelle province centro-occidentali, la prevalenza delle tradizionali
colture cerealicole e l’ancor debole presenza delle colture da esportazione (vitivinicole e agrumicole soprattutto), i patti agrari spoliatori, i salari
di fame, lo spirito conservatore della classe dirigente, l’estrema fragilità delle poche organizzazioni di lavoratori eredi delle esperienze mazziniane e garibaldine compiute negli anni 60 e 70.
La crisi da cui l’economia isolana venne rovinosamente investita dopo l’85, proiezione locale
del fenomeno che colpiva pesantemente l’intero
paese, con la paralisi delle attività produttive e
commerciali, la caduta dei prezzi agricoli, infine
I primi passi con i fasci siciliani
l’epidemia filosserica, gettando in condizioni di
vera miseria larghi strati di popolazione li rese
disponibili all’ascolto di una propaganda suscitatrice nella quale confluivano molti elementi di
socialismo.
Giuseppe De Felice, Luigi Macchi, Nicola Petrina, Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato,
Bernardino Verro, Giacomo Montalto, Francesco
De Luca e altri ancora, giovani che si erano formati in particolare sugli scritti del Colaianni ed
erano evoluti dal radicalismo al socialismo, chiamarono i lavoratori alla organizzazione e alla lotta per la soluzione dei problemi del momento interpretandone il bisogno incontenibile di moralità, democrazia, giustizia.
Dalle città pioniere - Catania, Messina, Palermo,
Niscemi, Trapani, Caltanissetta, Girgenti, ….- il
movimento degli “affasciati” iniziò allora la propria marcia.
La consistenza e l’articolazione del movimento,
rivelate tra l’altro dalle 150 sezioni comunali sorte nelle varie province e da quadri dirigenti sempre più rappresentativi, vennero accompagnate
dalla graduale precisazione di ideologia, programma e obiettivi, cui diedero importanti contributi il XVII Congresso delle Società affratellate (26-29 maggio 1892), e – sia pure con le difficoltà create da soffocanti misure adottate dalla
polizia - il I° Congresso regionale socialista e dei
Fasci (21-22 maggio 1893) tenuti a Palermo con
larga e interessata partecipazione.
In quest’ultima assise i Fasci si definirono “sezione siciliana del Partito dei Lavoratori italiani”
che si era ufficialmente costituito nell’agosto del
’92, e rivelarono di avere raggiunto un avanzato
livello di maturazione definendo in buona misura la propria natura, la struttura organizzativa, la
piattaforma programmatica, l’ambito delle possibili alleanze, l’azione politica da condurre.
Decine e decine di Fasci diedero seguito alla de-
cisione di aderire al Partito socialista rendendo
più corposa l’organizzazione che stava compiendo i suoi primi passi nelle varie regioni.
Nel partito, infatti, le organizzazioni dei lavoratori siciliani portavano 65.000 iscritti, esperienze e
contenuti programmatici capaci di sollecitare un
positivo dibattito per alcune specificità (adesione
di tipo federativo, questione agraria, funzione dei
contadini) in una fase di costruzione e di individuazione del soggetto politico nazionale che sarebbe stata travagliata e di non breve durata.
Il movimento dei Fasci suscitava la preoccupazione dei ceti dominanti. In esso si stringevano
braccianti, mezzadri, piccoli proprietari, artigiani, intellettuali avanzati, una forza alternativa che
sempre più pressantemente chiedeva riforme nelle campagne, lavoro e salari più elevati, un fisco
più equo, democrazia e trasparenza nella conduzione della cosa pubblica. A lungo andare sarebbe divenuto pericoloso per la sopravvivenza dei
vecchi gruppi di potere, che perciò sollecitarono
l’adozione di provvedimenti capaci di fermare la
sua azione suscitatrice e aggregativa.
Annunziato dagli eccidi proletari a Caltavuturo,
Gibellina, Marineo, Pietraperzia, Giardinello,
Santa Caterina, all’orizzonte dell’isola (e del
paese) si affacciava Crispi, che all’inizio del ’94
diede concretezza alle spinte reazionarie colpendo duramente il movimento dei lavoratori.
Il proletariato però, come scrisse Antonio Labriola, era ormai “venuto sulla scena” e nulla e
nessuno l’avrebbe a lungo fermato. Nelle condizioni via via create dallo scontro tra le forze in
campo il Psi ne sarebbe stato a lungo l’interprete e la guida.
DELLA DOMENICA
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ANNO XV - N.16-17 - DOMENICA 29 APRILE - 2012
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