UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
DOTTORATO DI RICERCA IN “ ISTITUZIONI, SOCIETA’,
RELIGIONI DAL TARDO ANTICO ALLA FINE DEL MEDIOEVO
XVI CICLO
TESI DI DOTTORATO
LITURGIA E SACERDOZIO
NEL COSTITUIRSI DELLA TRADIZIONE
BIZANTINA ORTODOSSA
Coordinatore:
Chiar.mo Prof. Giovanni Filoramo
Tutori:
Chiar.mo Prof. Mario Gallina
Chiar. Mo Prof. Giovanni Filoramo
Dottorando:
Carlo Restagno
2
PREFAZIONE
Il cardinale Umberto perse l’ultimo vestigio di pazienza. Alle tre del
pomeriggio del sabato 16 luglio del 1054, alla presenza di tutto il clero riunito per
l’esposizione del Santissimo, i tre ex-legati di Roma, un cardinale, un arcivescovo e
un cancelliere del papa, rivestiti i sacri paramenti entrarono nella chiesa di Santa
Sofia e salirono sull’altare maggiore sul quale deposero in forma solenne la Bolla di
scomunica (NORWICH J. J., I Normanni nel Sud. 1016-1130, vol. I, trad. it. Mursia
1971, p. 123).
Clodoveo era perplesso, dato che uno dei suoi figli infermo, nonostante il
battesimo era precedentemente morto. Clotilde tuttavia impose il suo
orientamento… Fu allora che Clodoveo volle essere asperso con l’acqua benedetta e
subito entrò in un proficuo rapporto con le organizzazioni ecclesiastiche esistenti
(GATTO L., Le Invasioni Barbariche, Newton 1997, Roma, p. 47).
E’ lecito domandarsi a che cosa possa servire la storia della liturgia
e quale tipo di contributo possa offrire agli studi medievistici. La risposta
la troviamo in questa stessa pagina, nei brani qui sopra riportati; se
infatti J. J. Norwich avesse letto una qualsiasi delle monografie a
disposizione già da un secolo, avrebbe saputo non solo che l’esposizione
del Santissimo non ha mai fatto parte del culto ortodosso, ma anche che
nel 1054 neppure la liturgia latina la praticava1. Il fatto inoltre che
secondo lui la bolla di scomunica fu deposta sull’altare maggiore non
significa solo che ignorava l’architettura delle chiese ortodosse, ma anche
che era all’oscuro del fatto che, sempre fino al 1054 ed ancora oltre, le
stesse chiese latine avevano solo un altare2.
1
Cfr. RIGHETTI M., Storia Liturgica, vol. III, ed. Ancora 1998, Milano, pp. 602-613.
Cfr. AA.VV., Tra Medioevo e Rinascimento. XIV – XVI Secolo. Storia della Chiesa Diretta
da Hubert Jedin, Vol. V/2, Jaca Book 1977, Milano, pp. 347-351.
2
3
Il nostro Ludovico Gatto sciupa così la possibilità di essere meno
approssimativo: pur avendo a disposizione una letteratura assai più
vasta e aggiornata in materia e centri di studio liturgico di prim’ordine
nella città dove insegna, non fa eccezione quando ci descrive
amabilmente il battesimo di Clodoveo come una infusione o aspersione
sul capo con l’acqua santa, in un epoca in cui anche la chiesa d’occidente
praticava il battesimo ortodosso e cioè immergeva completamente il
corpo del catecumeno nel fonte battesimale oppure nel fiume o nel
mare3. Le fonti che attestano tutto ciò sono numerose, gli studi scientifici
non mancano, eppure ci si può permettere di ignorare tutto questo
proprio là dove non ci si può permettere la minima imprecisione
bibliografica o filologica.
La stessa imprecisione la ritroviamo sulle questioni teologiche: c’è
chi spiega le discussioni dottrinali dei grandi concili ecumenici di Nicea
ed Efeso ricorrendo ora alla teologia della colpa di Anselmo d’Aosta, ora
alla Summa di Tommaso d’Aquino… Chi non si rende conto della
distanza che intercorre fra questi contesti dimostra in realtà di conoscere
assai poco del cristianesimo del primo millennio, non solo d’oriente, ma
anche d’occidente, che per almeno mille anni praticò riti liturgici
schiettamente ortodossi e riconosceva nella dottrina ortodossa la fede
apostolica. C’è ancora molto da studiare, dunque e con molta attenzione,
se si vuole evitare di apparire poco scientifici. Tanto più che la storia
liturgica è studiata con rigore crescente e mezzi non indifferenti; inoltre,
e questo è fondamentale, non di rado l’innografia o le rubriche di un
messale possono illuminare i fatti e gli avvenimenti a cui sono collegate.
Capire come pregavano le comunità cristiane nel tardo antico e nell’alto
medioevo significa conoscere meglio gli stessi primi secoli della
cristianità d’occidente, quando non c’era molto più della lingua a
differenziare greci e latini.
La storia liturgica, dunque, è indispensabile per ricostruire uno
scenario storico più verosimile; i riti liturgici erano, come si vedrà
l’espressione di una mentalità e di una cultura religiosa che coinvolgeva
tutta la società, non ciò che significano oggi in una società secolarizzata.
La liturgia era un elemento di struttura nel cristianesimo anche in
occidente, dal momento che le principali trasformazioni della società e
della religione in quest’area furono accompagnate da puntuali
3
Cfr. RIGHETTI M., Op. Cit., vol. I, pp. 475-477.
4
trasformazioni liturgiche. Solo qualche volta tali processi avvennero in
modo spontaneo; le trasformazioni più radicali venivano imposte
dall’alto e rispecchiavano le nuove scelte politiche e religiose. Le
differenze attuali tra cristianesimo d’occidente e cristianesimo d’oriente
sembrano, studiando la storia liturgica e teologica di entrambi, più che
un punto di partenza, un punto d’arrivo tutt’altro che scontato. Chi non
si accorge della portata di quei cambiamenti politici e religiosi che si
volle rimarcare anche attraverso le riforme liturgiche, corre il rischio di
fraintendere o addirittura di non comprendere le fonti storiche e questo
inconveniente si presenta più sovente di quanto non sembri; è il rischio
che corrono tutti coloro che sottovalutano la storia della liturgia.
Nel capitolo riguardante Il Prato di Giovanni Mosco si potrà
constatare quanto sarebbe servito ad illustri studiosi una preparazione
più completa ed obiettiva per una migliore comprensione del testo.
Innanzi tutto la scienza ne avrebbe tratto un vantaggio e un progresso
tutt’altro che modesti.
5
A mia moglie
6
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17
18
INTRODUZIONE
Il costituirsi del culto cristiano organizzato in quei modi e in
quelle strutture che ci sono state tramandate da più tradizioni non ha
lasciato tracce consistenti, soprattutto nei primi secoli. La storia della
liturgia non può avvalersi di testimonianze precise, univoche,
inequivocabili e questo senso di incertezza permane fino a gli ultimi
secoli del primo millennio. Procedendo dall'era costantiniana sino ad
epoche meno remote (secoli VIII - IX) le prospettive ci diventano assai
più familiari un po' in tutti i settori in cui noi oggi suddividiamo una
materia così complessa: liturgia eucaristica, liturgia delle ore, sacramenti,
riti di cattedrale, usi monastici4.
Una cosa è sicura: percorrendo a ritroso il sentiero delle fonti
siamo costretti ad abbandonare le categorie fisse e rigide con cui
studiamo il fenomeno al presente o in epoche a noi più vicine. Cercare,
per esempio, una distinzione tra preghiera liturgica e preghiera privata
nel monachesimo e nella chiesa del V secolo è un puro anacronismo,
foriero di spiacevoli incomprensioni. Allo stesso modo, nello studio della
liturgia comparata, ignorare che presso le chiese orientali questa stessa
distinzione, anche allo stato attuale è piuttosto fluida e che lo stesso
4
Cfr RIGHETTI, M. Storia liturgica, voll. 4, Milano, Ancora 1955; TAFT, R. F. La
liturgia delle ore in oriente e occidente. Le origini dell’ufficio e il suo significato per oggi,
trad. it. ed. Paoline 1988, Cinisello Balsamo.
19
termine "devozione" indica presso gli ortodossi una realtà diversa da
quanto maturato nelle vicende della spiritualità in occidente, rappresenta
una notevole tara valutativa in qualsiasi tipo di studio5.
E' comunque innegabile il fatto che nel tardo-antico la fine delle
persecuzioni romane, accompagnato dal fiorire della patristica registra
l'affermarsi di alcuni temi teologici invero non estranei al cristianesimo
dei primi secoli, ma che da allora verranno sviluppati ed estesi con vivo
e crescente interesse. Si approfondiranno, per esempio, le catechesi
liturgiche e battesimali; la preghiera e la contemplazione interesseranno
diversi trattati, per lo più opere di monaci e asceti e si comincerà a
riflettere sul sacerdozio. Basilio di Cesarea, Giovanni Crisostomo,
Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno, Cirillo di Gerusalemme e
Ambrogio di Milano rappresentano questa linea di approfondimento
basata sulla meditazione delle Scritture Sacre a supporto dell'esperienza
e dei riti della chiesa6. Essi inaugureranno in effetti un periodo di
5
E’ bene tener sempre presente che il fenomeno conosciuto come devotio moderna ha
riguardato esclusivamente la cristianità nord-occidentale; a quanto risulta non
solamente l’ortodossia, ma anche le comunità tradizionali anticalcedonesi e la chiesa
cosiddetta nestoriana ignorano sviluppi spirituali e teologici analoghi. Le
informazioni essenziali, insieme con una discreta bibliografia a proposito della
devotio moderna occidentale sono compendiate in AA. VV. Dizionario degli isituti di
perfezione, vol. 2, Paoline 1976, Roma.
6
Cfr BASILIO di CESAREA, Lo Spirito Santo, in PG 32, 67-218, trad. it. Roma, Città
Nuova 1987; CIRILLO e GIOVANNI di GERUSALEMME, Le catechesi ai misteri, in PG
33,369-156, trad. it. Roma, Città Nuova 1986; GIOVANNI CRISOSTOMO, Il
sacerdozio, in PG 48, 623-69, trad. it. Roma, Città Nuova, 1985 e dello stesso: Le
catechesi battesimali, in PG 60, 739-42, trad. it. Roma, Città Nuova 1986; GREGORIO di
NISSA, La grande catechesi, in PG 45,9-116, trad. it. Roma, Città Nuova 1988; NICETA
di REMESIANA, Catechesi preparatorie al battesimo, trad. it. Roma, Città Nuova 1991.
20
vivacità culturale che nell'impero romano d'oriente si protrarrà per
diversi secoli attraverso gli scritti di Massimo il Confessore, Giovanni
Climaco, Giovanni Damasceno, Teodoro Studita e altri ancora7.
L'occidente, tradizionale area periferica e per giunta invaso dai
barbari, perderà progressivamente la possibilità di aggiornarsi, pur
conservando a lungo il legame spirituale e teologico con quella che da
sempre era stata la culla originaria del pensiero e dell'esperienza
cristiana.
I frutti sovrabbondanti di questa vivacità culturale e spirituale
ridondano ancor oggi nei riti e nei formulari liturgici delle chiese
d’oriente, oltre che nei trattati teologici negli opuscoli agiografici e
spirituali
pervenuti.
Sarà
nel
periodo
lungo
e
travagliato
dell’iconomachia che tutto questo bagaglio verrà codificato e strutturato
in quelle forme oggi familiari a quanti hanno dimestichezza con il
cosiddetto rito bizantino8. Nelle epoche successive si aggiungeranno
7
Cfr GIOVANNI DAMASCENO, La fede ortodossa, in PG 94,781-1228, trad. it. Roma,
Città Nuova 1998; MASSIMO il CONFESSORE, Le centurie, in PG 90, 959-1080, trad.
it. in La Filocalia, vol. II, Torino, Gribaudi 1983.
8
Non è nelle nostre intenzioni sollevare una questione a proposito dell’uso del
termine bizantino; ci preme solo osservare come il termine sia una semplificazione
piuttosto impropria di una realtà assai vasta. Fu lo storiografo francese Du Conge,
che alla fine del 1600 ribattezzò come bizantino quello che fu l’impero romano
d’oriente; di conseguenza divenne bizantino tutto ciò che lo riguardava a livello
politico, culturale, religioso, artistico. La storiografia successiva ha dimenticato
troppo in fretta che i contemporanei, nemici o nemici che fossero, ignoravano questa
denominazione. Le fonti arabe, per esempio, non parlano mai di bizantini, ma di
Rum, romani; anche a livello religioso, ancor oggi in medio oriente il clero ortodosso
è chiamato romano (rumish), mentre quello cattolico romano, giunto al seguito delle
crociate viene detto franco. Le stesse fonti carolinge, per altro, notoriamente ostili a
21
depositi e arricchimenti, ma su una trama oramai ben consolidata e
destinata a subire poche e minime variazioni. Ed è in verità alquanto
arduo
ricostruire
dettagliatamente
una
sinassi
liturgica
tipo
costantinopolitano o antiocheno prima dell’opera voluta e diretta
dall’imperatore passato alla storia come Leone il Sapiente, lui stesso
autore di alcuni componimenti liturgici, ancor oggi regolarmente
salmeggiati nelle chiese ortodosse9.
Lo stato delle fonti è tale da suscitare sfiducia non solo per la loro
relativa scarsità, ma anche per l’approssimazione terminologica e i pochi
cenni dedicati agli aspetti che invece maggiormente interessano i
contemporanei che studiano la materia. Se gli scritti di Giovanni
Cassiano10 contengono qualche particolare in più, tuttavia il senso di
incertezza è confermato quando altre fonti coeve e altrettanto autorevoli
ci descrivono usi differenti11.
Costantinopoli, ignorano il termine bizantino e, dopo l’incoronazione di
Carlomagno, cominceranno a definire i romani d’oriente col termine di greci, che a
quell’epoca era usato come sinonimo di pagani.
9
L’opera innografia e nello stesso tempo squisitamente teologica di Leone il Sapiente
è raggruppata in un corpus di trentatre piccoli poemi liturgici, a commento
celebrativo degli undici vangeli della Risurrezione, proclamati ciclicamente nei
mattutini delle domeniche. Sono raggruppati in tre categorie a seconda della loro
collocazione all’interno del rito: Exapostilaria, Theotokìa ed Eothinà; cfr AA. VV.
Paraklitikì, Atene, ed. Fos 1994, pagg. 655-656. Per una buona traduzione italiana si
può consultare ARTIOLI, M.B. Anthologhion di tutto l’anno, vol. 1 Roma, Lipa 1999,
pagg. 79-83 e 86-89.
10
Cfr GIOVANNI CASSIANO, Le Istituzioni Cenobitiche, Padova, Abbazia di Praglia
1989, capp. 1 e 2.
11
Cfr TAFT, R.F. La liturgia delle ore in oriente e occidente, Roma, Lipa 2001, pagg. 8490.
22
Il cristianesimo dell’era patristica non conosceva distinzioni nette
tra teologia, preghiera, liturgia, dogma, sacramenti e spiritualità, come
riguardassero aree differenti. Non va assolutamente sottovalutato lo
studio dei riti e delle prassi di culto dell'epoca, visto l'impatto sociale che
essi avevano: se dobbiamo credere alle fonti - che in questo caso sono
unanimi - per i secoli che ci interessano ai riti svolti quotidianamente
nelle chiese si aveva una partecipazione di massa12. A quanto ci risulta
pochi sono gli storici ad aver riflettuto sul fatto che il cittadino romano
medio era solito partecipare al culto cristiano con una frequenza ben più
che settimanale: all'alba e al tramonto si tenevano regolari sinassi di
preghiera, le quali, pur senza essere obbligatorie, erano tutt'altro che
disertate. E' noto inoltre che la liturgia eucaristica era riservata alle
domeniche e alle grandi festività; dunque, quale tipo di sinassi si
officiava quotidianamente nei giorni feriali? Un eccellente lavoro di Taft,
dedicato alla liturgia delle ore in oriente ed occidente passa in rassegna
gran parte delle fonti conosciute per concludere che si trattava
di
celebrazioni di lode e ringraziamento incentrate sull'uso del Salterio, sul
canto di inni, intercessioni, talora, ma non sempre letture della Scrittura
ed omelie, benedizioni sacerdotali13.
Non c’è nulla di misterioso nella logica di questi uffici. L’ora di preghiera
del mattino era un servizio di ringraziamento e di lode per il nuovo giorno e per
12
Cfr EGERIA, Pellegrinaggio in terra santa, trad. it. ed. Paoline 1985, Roma, pp. 129133.
13
TAFT, Op. cit. pag.83.
23
la salvezza in Gesù Cristo. Era il modo cristiano di aprire e dedicare il nuovo
giorno. E il vespro era il modo cristiano di chiuderlo, ringraziando Dio per le
grazie del giorno, chiedendo il suo perdono per le colpe del giorno e supplicando
la sua grazia e protezione per una notte sicura e senza peccato. Il simbolo base di
entrambe le funzioni era la luce. Il sole nascente e il nuovo giorno con il
cambiamento dalle tenebre alla luce richiamava la risurrezione dalla morte di
Cristo, Sole di giustizia. La lampada serale richiamava la “luce del mondo”
giovannea che risplende tra le tenebre del peccato. E i cristiani facevano insieme
queste preghiere perché, come afferma Crisostomo e le Costituzioni Apostoliche,
la loro unica forza era in quanto corpo di Cristo. Assentarsi dalla sinassi era
indebolire il corpo e privare il capo delle sue membra.
Una notizia del genere non può passare inosservata: diversamente
dall'occidente franco-germanico, dove l’opus Dei, la preghiera delle ore,
nella classica definizione benedettina, diviene incombenza del clero e
all'interno dello stesso monachesimo occidentale privilegio dei soli
monaci chierici14, nell'impero romano d'oriente il popolo cristiano nel suo
14
Nel periodo delle riforme monastiche (1000-1100 circa) compare presso le
istituzioni monacali franco germaniche la distinzione dei monaci nelle classi: coristi o
chierici e conversi; ai primi spetta lo svolgimento delle attività nobili: governo
dell’abbazia, culto liturgico, lavoro intellettuale e tutti i compiti connessi col
sacerdozio, loro privilegio; ai secondi i lavori manuali più umili e faticosi.
L’istituzionalizzazione di questa situazione si afferma per la prima volta con la
fondazione di Citeaux e a questo proposito si può consultare: TERRYL N. KINDER, I
Cistercensi. Vita quotidiana, cultura, arte, trad. it. Jaca Book 1997, Milano, pp. 46-54.
L’istituzione dei conversi, espressione di una società rigidamente suddivisa in classi,
fu ben presto generalizzata, talora ricorrendo a termini differenti (coadiutore, fratello
laico…) e non risparmiò gli stessi ordini mendicanti, sebbene questi ultimi avessero
tentato fin dai loro inizi di ristabilire la tradizionale uguaglianza dei membri del
cenobio. Abolita nominalmente dopo il Concilio Vaticano II presso la gran parte
24
insieme continua a frequentare quotidianamente i mattutini e i vespri
ortodossi anche nelle epoche successive a quella che intendiamo
studiare. L'uomo "bizantino" viveva a stretto contatto col culto pubblico
cristiano ortodosso; di più ancora, la liturgia ortodossa con i suoi ricchi
rituali, fu sempre elemento di struttura nella cultura dotta e popolare
dell'impero romano d'oriente ben al di là della comprensione che ebbe il
cristianesimo nelle società createsi nei regni d'occidente in seguito alle
invasioni barbariche15.
Le tortuose vicissitudini del cristianesimo occidentale a partire dal
medioevo hanno di fatto provocato come benefico effetto collaterale la
nascita dello studio sistematico di diverse discipline ed il loro
conseguente approfondimento, come per esempio la storia della liturgia,
ma hanno anche diviso a lungo il campo - e ancor oggi lo dividono - a
seconda delle precomprensioni ideologiche o confessionali che si
volevano dimostrare. Il fatto che alcuni autori contemporanei di rilievo
vedano nelle austere ufficiature monastiche egiziane del IV secolo una
pratica simile alla contemplazione ignaziana fatta in comune deve
indurci a ritenere che anche là dove lo sforzo di lucidità e di equilibrio è
degli istituti religiosi, sopravvive di fatto nell’interdizione all’accesso delle cariche di
governo della congregazione da parte di religiosi non sacerdoti, mentre l’Ordine
Certosino continua ad annoverare ufficialmente ben due categorie di fratelli laici:
conversi e donati.
15
Cfr. TAFT R. F., Op. Cit., pp. 220-224.
25
encomiabilmente costante, la tentazione dell'anacronismo è sempre
insidiosamente all'agguato16.
Uno scoglio da evitare con attenzione e vigilanza in una materia
così delicata è lo sforzo della retrodatazione di questo o di quell'elemento
che noi oggi conosciamo o perché sopravissuto nella prassi attuale di
alcuni riti o comunque noto attraverso fonti recenziori. Altrettanta
cautela va usata nel considerare gli atteggiamenti culturali, religiosi e
spirituali del cristianesimo del primo millennio, a partire dall'uso delle
Sacre Scritture e dalla loro considerazione nella vita ecclesiale,
certamente differenti dalla sensibilità coltivata in tempi più recenti.
Un esempio fra tutti il più significativo è rappresentato da quanto
affermava con franchezza Giovanni Crisostomo nel Logos 1' in
commento al Vangelo di Matteo, su cui ritorneremo più diffusamente nel
corso di questo studio:
Dovremmo, cari fratelli, non aver bisogno dell'aiuto delle Scritture; se la
nostra vita fosse più pura la grazia dello Spirito Santo farebbe per le nostre
anime assai più di qualsiasi libro17.
16
Unire la preghiera alle altre attività, anche al sonno, era l’antico ideale. I canoni di Ippolito
27, una fonte egiziana del 336-340, dicono: Quando un uomo dorme nel suo letto, deve
pregare Dio nel suo cuore. Questo ideale è riesumato e adattato all’apostolato attivo in assiomi
più moderni quali l’ignaziano “trovare Dio in tutte le cose” e “contemplativo nell’azione”
oppure nelle pratiche spirituali santificate come la retta intenzione, la presenza di Dio, il
raccoglimento (TAFT, op. cit. pag. 102). Sembra esser dimenticato, in questo
collegamento, quel processo iniziato nel basso medioevo denominato devotio moderna
(cfr la nota 2 di questo capitolo), di cui la spiritualità ignaziana sarebbe uno sviluppo
coerente in epoca moderna.
26
All'inizio di questa fatica, nell'accingermi a disegnare un percorso
lungo i secoli, guidato da testimonianze scarse ed incomplete, mi vedo
costretto a restringere l'analisi sui temi principali che rappresentano
come dei punti di riferimento intorno ai quali concentrare i materiali
storiografici di un argomento che rischia di essere altrimenti
eccessivamente vasto. Mi occuperò del sacerdozio e della liturgia
eucaristica nella tradizione bizantina affrontando a ritroso la loro storia,
ma senza spingermi più indietro del IV secolo. Non eviterò di mettere in
rilievo i contatti con altre tradizioni liturgiche e ciò ci fornirà l'occasione
di riflettere su aspetti ancora poco noti dell'incontro tra culture nel
bacino mediterraneo - e anche al di fuori di esso - nel tardo-antico e
soprattutto nell'alto Medioevo.
17
GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Vangelo di San Matteo, in PG 57, 13, trad.
it. Roma, Città Nuova 1967, vol. 1, logos 1, pag. 25.
27
LITURGIA EUCARISTICA E REGNO DEI CIELI
La concezione secondo cui il sacerdote nel celebrare la liturgia
eucaristica agisce "in persona Christi" trova difficilmente riscontro nella
concezione del sacerdozio espressa dalla letteratura patristica e ancor
meno nella prassi liturgica cui essa si riferisce. L’azione liturgica
spettante al presbitero, come vedremo nei numerosi testi oggetto del
nostro studio, non veniva intesa dai Padri come una impersonificazione
del Cristo nell’atto di recitare le parole dell'istituzione eucaristica,
pronunziate nell’ultima cena: …Questo è il mio corpo… questo è il mio
sangue… La differenza di punti di vista è evidente anche al di fuori del
campo strettamente teologico e liturgico. Una diversa concezione del
sacerdozio si è sempre accompagnata ad una diversa concezione del
cristianesimo; una differente concezione del cristianesimo, a sua volta,
porta con sé una differente impostazione
dei rapporti tra chiesa e
autorità politica, fede e cultura, religione e società. Là dove il sacerdote è
visto come rappresentante del Cristo a tal punto e in modo così esclusivo
da detenere in eterno, ovunque e comunque il potere di trasformare il
pane e il vino in corpo e sangue del Cristo, solo col pronunciare le parole
consacratorie, non sarà difficile riscontrare un'evoluzione delle strutture
di governo ecclesiastico e del pensiero teologico in senso monarchico
assoluto; e questa è appunto l'esperienza conosciuta da una parte della
cristianità a partire dai secoli X e XI. Che si tratti di una evoluzione
28
posteriore e non di un dato teologico originario è certificato dalla lunga
sopravvivenza, presso i latini, di un'organizzazione dello spazio liturgico
e dei rituali secondo canoni più vicini all'ortodossia che alla teologia
posteriore tomista. Accade spesso, infatti di ritrovare nella liturgia
segmenti risalenti ad epoche remote, magari rivestiti di nuovi significati,
ma che ad un attento e minuzioso studio comparato rivelano tracce di un
pensiero teologico più antico. La storia dell'occidente, per altro, è segnata
profondissimamente da un certo tipo di sacerdozio, il cui esercizio ha
interessato notevolmente la società, la politica, la cultura in modo
irreversibile.
La semplice nudità di quel testo che ci è stato tramandato col
titolo di Liturgia di san Giovanni Crisostomo18, è piuttosto lontana dal
trasmettere una forma di centralità monarchica del sacerdote durante
l'azione liturgica. L'arcana semplicità che si vuole sempre più attribuire
ai primi secoli dell'esperienza cristiana non era così priva di simboli,
criteri, segni o tradizioni come si vagheggia da parte di molti.
Sono per noi evidenti queste cose e siamo scesi nelle profondità della
conoscenza divina. Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci
comandò di compiere nei tempi fissati. Egli ci prescrisse di fare le offerte e le
18
L’edizione ufficiale della Chiesa Ortodossa è a disposizione in varie edizioni presso
l’editrice Fos di Atene; in Italia esiste una elegante edizione con traduzione a fronte
stampata nel 1967 presso la Badia Greca di Grottaferrata; il testo presentato e
utilizzato dai cattolici di rito bizantino diverge pochissimo da quello ortodosso, ma
presenta una significativa forzatura del testo originale a pag. 114.
29
liturgie e non a caso e senz’ordine, ma in circostanze ed ore stabilite. Egli stesso
con la sua sovrana volontà determinò dove e da chi vuole siano compiute, perché
ogni cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua
volontà. Coloro che fanno le loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati.
Seguono le leggi del Signore e non errano. Al gran sacerdote sono conferiti
particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico e ai
leviti incombono propri servizi. Il laico è legato ai precetti laici
19
E soprattutto improvvisazione e spontaneismo erano tutt'altro
che modelli raccomandabili per le prime generazioni di cristiani, sebbene
le forme praticate fossero molteplici e alquanto flessibili. E' stato
abbondantemente e convincentemente documentato come la preghiera
in comune dei primi cristiani procedeva con alcune significative varianti
e aggiunte sul solco delle riunioni sinagogali20. Solo nei giorni festivi la
sinassi terminava con l'anafora eucaristica e la frazione del pane. Ed era
solo questa inizialmente la particolarità che distingueva la preghiera in
comune dei cristiani dalle sinassi sinagogali. Questa particolare forma di
19
CLEMENTE ROMANO, Lettera ai Corinti, XL, 1-5. Il testo critico seguito è stato
quello di A. Jaubert, Parigi 1971, S C 167, che tiene conto dell’edizione di Th.
Schaefer, S. Clementis Romani Epistula ad Corinthios quae vocatur prima graece et latine,
Bonn 1941, Florilegium Patristicum 44 e di J. A. Fischer, Die Apostolischen Vater,
Monaco 1956. L’autore è indicato dalla tradizione, e non c’è motivo di dubitarne,
come quarto vescovo di Roma, probabilmente martire. Si ritiene la sua lettera ai
Corinti composta tra il 95-98, cioè sotto l’impero di Domiziano o di Nerva ed ebbe
una grande risonanza. Secondo Dionigi vescovo di Corinto era letta nella liturgia
domenicale. Già ne parla Egesippo che fu a Roma tra il 155 e il 166. Venne tradotta
subito in latino e conobbe vasta diffusione, attirando l’attenzione di Ireneo di Lione,
Clemente d’Alessandria, Origene e di molti altri padri in tutte le epoche.
20
Cfr TAFT, Op cit. ,pagg. 20-31.
30
culto era allora denominata semplicemente eucaristia, ringraziamento. E'
interessante notare come il termine liturgia nel primo periodo era usato
per indicare specificamente il culto svolto nel tempio di Gerusalemme.
L'autore della Lettera agli ebrei sembra escludere con fermezza la
possibilità di forme cultuali similari nel cristianesimo; e se, argomenta
l'autore, il sacerdozio dell'Antico Testamento è motivato dal bisogno di
offrire sacrifici e olocausti per la remissione dei peccati, il Cristo, una
volta per tutte, offrendo in olocausto se stesso al Padre ha ottenuto una
volta per tutte la remissione dei peccati e quindi non è più necessario il
culto veterotestamentario, né trova spazio l'esistenza di una classe
sacerdotale deputata all'offerta di sacrifici ed olocausti. Ora, incalza
l'autore della Lettera, abbiamo un unico ed eterno sommo sacerdote che
è entrato una volta per tutte ad offrire il suo sangue innocente non in un
tempio materiale, ma nel tempio immateriale, sull'altare sovraceleste nel
Sancta Sanctorum su cui gli stessi angeli non osano fissare lo sguardo21.
Queste affermazioni sono piuttosto importanti: pur delegittimando la
continuazione del culto e del sacerdozio veterotestamentario dopo la
pasqua del Cristo, viene sostenuta chiaramente l'esistenza di un
sacerdozio, di una liturgia e di un tempio eterni e per quelli che all'epoca
erano gli effettivi destinatari dello scritto non si trattava semplicemente
di metafore o di allegorie. L'Apocalisse, che si propone per l'appunto
come una rivelazione, una finestra spalancata, o meglio, una porta aperta
21
Cfr. Ebrei 5, 1-5 e anche 9, 1-18.
31
sul mondo celeste, descrive le realtà del mondo immateriale come
un'eterna liturgia di lode che gli esseri incorporei e gli spiriti dei giusti
offrono alla maestà divina22, ampliando e arricchendo la descrizione del
libro di Isaia23. Tutto ciò, come vedremo, verrà recepito con immediato
realismo dal culto eucaristico ed un particolare su cui vale la pena
soffermarsi è il fatto è che nel cristianesimo la liturgia in quanto culto
non pare abolita per sempre, ma sostituita con la partecipazione alla
liturgia celeste, se accettiamo l'Apocalisse, ma anche la stessa Lettera agli
Ebrei24 come testi significativi per il primo cristianesimo: per il cristiano
non ha più senso la partecipazione al culto del tempio dal momento che
il culto cristiano lo introdurrebbe misticamente nel culto celeste25.
22
Cfr. Apocalisse 4,1-11; 19,1-8.
Isaia 6, 1-10.
24
Avendo dunque, fratelli libertà (parrisìa) d’ingresso al santuario nel sangue di Gesù per
quella via nuova e vivente che egli inaugurò per noi attraverso la tenda, cioè la sua carne e
avendo un grande sacerdote nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, in pienezza di
fede, purificati i cuori da ogni mala coscienza e lavati il corpo con acqua pura (Ebrei, 10,1922).
25
Sovrano Signore, Dio e nostro, che hai costituito nei cieli schiere ed eserciti di Angeli ed
Arcangeli a servizio della tua gloria, fa che al nostro ingresso si accompagni l’ingresso degli
Angeli santi, che con noi celebrino e glorifichino la tua bontà. (GIOVANNI CRISOSTOMO,
Divina Liturgia, trad. it. Roma, Grottaferrata 1967, preghiera del Piccolo Ingresso, pag.
58). Non è l’unico caso in cui la Divina Liturgia applica intenzionalmente la
terminologia neotestamentaria riguardante il culto celeste; altro interessante esempio
ci è fornito dalla frequentissima preghiera dell’incenso: Offriamo a te incenso, Cristo
Dio nostro, quale soave sacrificio spirituale: ricevilo sul tuo altare sovracelesti e tu in cambio
manda a noi la grazia del tuo Spirito Santo (GIOVANNI CRISOSTOMO, Ibidem, pag. 35).
Nel culto bizantino ortodosso è fortemente presente la convinzione che l’azione di
culto comunitario spalanchi le porte celesti, unendo le realtà terrestri con quelle
celesti; la liturgia cristiana non è ritenuta un eco terrestre della lode celeste, ma il
punto come vedremo, di un possibile contatto con la dimensione dell’eternità: I cieli e
la terra si rallegrino oggi profeticamente. Angeli e uomini celebriamo un’assemblea spirituale,
perché Dio, nato da donna, si è manifestato nella carne… GIOVANNI DAMASCENO, Litì
del Natale, in AA. VV. Minei, ed. Fos 1996, Athina, pag. 244 (nostra traduzione). Il
23
32
E' stato giustamente osservato come dal IV secolo in avanti i testi
liturgici cristiani subiscono un processo di arricchimento e ampliamento
quanto a richiami e risonanze bibliche anche veterotestamentarie26;
l'eucaristia diventa (o ridiventa) liturgia in senso tecnico, la semplicità
originaria parrebbe soffocata da riti simboli sempre più complessi e
ridondanti. Se da una parte la crescita e l'ampliamento dei testi e delle
rubriche liturgiche è innegabile, d'altra parte il recupero dell'Antico
Testamento non è di certo fine a se stesso. La stessa liturgia attribuita a
Giovanni Crisostomo, appesantita, o arricchita, da nuovi formulari come
il rito della Protesi o Proscomidia27 non è sicuramente incentrata sull'idea
del sacrificio espiatorio, sebbene non sia affatto ignorata la categoria
cultuale del sacrificio, bensì su quelle realtà invisibili che si ritengono
rivelate ai battezzati e da essi sperimentabili e conoscibili concretamente:
lo spazio e il tempo materiali verrebbero sostituiti dalla dimensione
dell'immateriale, in cui sarebbe in svolgimento eternamente la
dossologia trinitaria.
Prima di esaminare concretamente i testi è bene tener presente che
le intercessioni diaconali e le orazioni presbiterali sono da recitarsi in
direzione dell'altare da occidente verso oriente. Questa prassi è
testo della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo viene riportato anche dal
Migne: IOANNES CHRYSOSTOMUS, Ordo Sacrificii Sancti Chrisostomi, PG 63, 901-22.
26
Cfr. NICOLOTTI, A. Sul Metodo per lo studio dei testi liturgici. In margine alla liturgia
eucaristica bizantina, in Medioevo Greco, numero “zero”, edizioni Dell’Orso 2000,
Alessandria, pp.144-179.
27
GIOVANNI CRISOSTOMO, Divina Liturgia, trad. it. Roma, Grottaferrata 1967,
pagg. 6-45.
33
antichissima e non v'è dubbio che è una prassi originaria. Non siamo al
corrente di una sola testimonianza che contrasti con tale uso presso le
varie famiglie liturgiche. L'orientamento verso un punto esterno
identificato con l'oriente oltrepassa il valore puramente simbolico e va
messo in riferimento, a mio avviso, con l'Invisibile di cui s'è accennato.
Ben altra mi pare la situazione di una liturgia che pone al centro il
celebrante: il contatto o la tensione verso l'Invisibile sembrano assenti o
per lo meno sostituiti da un punto interno, per così dire, autoreferente28.
… l’origine dell’altare “rivolto al popolo” ha poco o nulla a che vedere
con il senso che gli si è attribuito nei tempi moderni … Tutto ciò che sappiamo
della celebrazione primitiva … indica un altare situato in fondo all’edificio o in
mezzo alla navata. Nel primo caso nessuno poteva trovarsi di fronte al
celebrante. Nel secondo solo una parte dei presenti si trovava di fronte a lui e
pare che fosse composta unicamente da donne. L’idea che una celebrazione di
fronte al popolo abbia potuto essere una celebrazione primitiva e in particolare
quella della cena eucaristica, non ha altro fondamento se non una errata
concezione di ciò che poteva essere un pasto nell’antichità, cristiano o no che
fosse. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea
stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi sul lato
convesso di una tavola a forma di sigma, oppure di una tavola che aveva
all’incirca la forma di un ferro di cavallo. L’altro lato era sempre lasciato libero
28
La lunga citazione che segue è presa da BOUYER, L. Architettura e liturgia, trad. it.
Magnano (Bi), QIQAJON 1994, pagg. 38-41, passim.
34
per il servizio. Da nessuna parte dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta
venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il
carattere comunitario di un pasto era proprio messo in risalto dalla disposizione
contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato
della tavola…
Bisogna aggiungere, inoltre che la descrizione del tardo altare romano
come di un “altare rivolto al popolo” è puramente moderna. L’espressione non è
mai stata usata nell’antichità cristiana. E’ sconosciuta anche nel medioevo.
Appare nelle rubriche dei messali romani stampati nel XVI secolo, in cui si
richiede al presbitero di girarsi “versus ad populum per dire “Dominus
vobiscum”… Come ha mostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia
veramente insistito e di cui si è fatta menzione è che (il presbitero) doveva dire la
preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente…
non era solo il presbitero a doversi rivolgere verso oriente: era l’assemblea intera
che lo faceva insieme con lui … Così dunque, nelle chiese che avevano quello che
noi chiamiamo oggi un altare rivolto al popolo, avveniva che una parte dei
fedeli… si trovasse a volgere le spalle all’altare durante tutta la preghiera di
consacrazione…29
Allo stato attuale delle mie conoscenze mi sembra ipotizzabile, nel
costituirsi del corpus liturgico ortodosso bizantino, ma anche latino,
29
Già Tertulliano, nel suo trattato sulla preghiera, suppone che sia una tradizione apostolica
quella di pregare, sia in pubblico, sia in privato, sempre rivolti a oriente. In questo simbolismo
si esprimeva l’attesa escatologica della cristianità primitiva, ossia l’attesa dell’ultimo giorno,
del giorno eterno che non finirà, in cui il “Christus Victor” apparirà come sole che sorge,
l’oriente che non tramonta mai (BOUYER, L. Op. cit. ,pag. 25).
35
l'incontro, o meglio l'interazione di due filoni di pensiero: il recupero
dell'Antico Testamento e quindi di elementi sacrificali, che vedrei più a
livello di memoriale, e l'approfondimento dell'esperienza o la fruizione
delle realtà invisibili ed immateriali rappresentate da quell'unica
dossologia eterna cui accennano quelle pagine del Nuovo Testamento
che abbiamo celermente esaminato più sopra.
L’incipit della Liturgia Eucaristica è come una didascalia completa
di ciò che viene inteso come il centro e il fine del culto:
Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e sempre
e nei secoli dei secoli. Amin30.
L'esordio è quanto meno singolare: oggetto della benedizione
viene proclamato quel regno dei cieli che nell'autentico pensiero
neotestamentario è molto più che una realtà escatologica, se l'apostolo
Giovanni vi fu assunto31 e lo stesso Paolo di Tarso sostiene di esservi
asceso32. La predicazione del Cristo, secondo i sinottici, sarebbe stata
incentrata su questo tema. Non è difficile ricostruire alcuni aspetti
30
GIOVANNI CRISOSTOMO, Divina Liturgia, trad. it. Roma, Grottaferrata 1967, p. 2.
Testo greco ufficiale ortodosso reperibile in varie edizioni presso la casa editrice Phòs
di Atene.
31
Dopo questo vidi, ed ecco, una porta aperta nel cielo e la prima voce, che avevo udito come
di tromba parlava con me, dicendo: Sali quassù e ti mostrerò quello che deve accadere dopo
queste cose. E subito fui rapito in spirito ed ecco un trono stava nel cielo e sul trono uno che
sedeva… (Apocalisse 4,1-2).
32
Se proprio bisogna vantarsi – non è una cosa buona – verrò alle visioni e rivelazioni del
Signore. Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa, non so se era nel corpo, né so se
era al di fuori del corpo: Iddio lo sa; un tale uomo fu rapito fino al terzo cielo. E so che un tale
uomo, se nel corpo o se al di fuori di esso non lo so, lo sa Dio, fu rapito nel paradiso e udì
parole inudibili, che nessun uomo può pronunciare ( I Corinti, 12,1-4).
36
politici e religiosi dell'epoca per immaginare il tipo di risonanza che
probabilmente aveva presso gli ascoltatori la predicazione di un
argomento del genere. Anche nelle epoche successive, in contesti
differenti, ma non del tutto estranei, la parola regno coinvolgeva aspetti
molto particolari della società e parlare di regno del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo poteva assumere un significato tutt'altro che ovvio.
Che cos'era e che cosa fu dunque la Basilèia nel mondo romano
orientale? Quale fu il valore e la dignità che le coscienze le attribuivano?
L'ideologia imperiale romana era chiamata a confrontarsi col Vangelo, la
sacralità dello stato bizantino con l'incorruttibilità del regno dei cieli, la
legge e l'ordine con i comandamenti e le beatitudini, lo spazio e il tempo
della storia con l'immateriale e l'eterno, il creato con l'increato. L'inizio,
dunque, della Liturgia di Giovanni Crisostomo creava una vistosa ed
intenzionale soluzione di continuità con l'assetto politico, per quanto
cristianizzato e, se vogliamo, sacralizzato. Nessun impero di questa
dimensione appartenente alla creazione poteva rispecchiarsi od essere
celebrata attraverso il rito ortodosso. E' vero che l'impero romano
cristiano, secondo gli ideali bizantini, simboleggiava il regno di Dio sulla
terra, ma nel momento culminante del culto cristiano ortodosso veniva
proclamata l'estraneità e la distanza tra simbolo e realtà rappresentata.
Ciò che si vedeva nell'impero non era altro, al massimo, che un pallido
simbolo creato di una realtà increata, senza nessuna reale analogia con
cose di questa terra; l'impero, in definitiva non poteva assolutamente
37
esser considerato come "incarnazione" del regno dei cieli sulla terra,
tanto meno la sua realizzazione nel tempo. All'interno di questa struttura
esisteva uno spazio svincolato da ogni legge e da ogni ordine davanti al
quale anche l'autorità dell'imperatore veniva meno. Non era solamente il
potere laico ad essere sospeso, ma anche la stessa struttura di governo
ecclesiastico, lo stesso prestigio del patriarca non erano che simboli, sia
pure autorevoli, ma non in grado di esaurire o incarnare da soli il regno
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Il discorso (lògos): Si è avvicinato il regno dei cieli non esprime, mi
33
pare, il senso di un raccorciamento temporale. Infatti, non viene in modo da
poter essere osservato, né diranno: Eccolo, qui, eccolo là , ma si indica così la
34
relazione con questo stesso regno che è nell’intima disposizione di quelli che di
esso sono degni. E’ detto infatti: Il regno di Dio è dentro di voi .
35
Il regno di Dio Padre si trova in potenza presso tutti i credenti. In atto si
trova in quelli che hanno completamente deposto dalla loro intima disposizione
ogni vita naturale dell’anima e del corpo e sono in possesso della vita dello
spirito soltanto e possono dire: Vivo, ma non più io: vive in me Cristo .
36
Alcuni dicono che il regno dei cieli è la vita nei cieli di quelli che ne sono
degni. Altri invece dicono che è lo stato di quelli che si salvano, simile a quello
33
Mt 3,2; 4,17.
Lc 17,20.
35
Lc 17,21.
36
Gal 2,20.
34
38
degli angeli. Altri ancora dicono che è la forma stessa della bellezza divina di
quelli che hano portato l’immagine dell’uomo celeste . A mio parere tutte e tre le
37
opinioni a questo riguardo corrispondono alla verità …
38
Il regno dei cieli è lo stato dell’anima libera dagli impulsi passionali,
accompagnato dalla conoscenza oggettiva delle realtà create.
Il regno dei cieli è la conoscenza della santissima Trinità…
39
Se vuoi pregare è necessario invocare il Dio che dona la preghiera a chi
prega , dicendogli: Sia santificato il tuo nome. Il tuo regno venga. Cioè, venga
40
la Spirito santo e il tuo Unigenito Figlio .
41
Né cesaropapismo, né teocrazia, allora, ma un'esperienza mistica
che l'evoluzione istituzionale della chiesa, la complessità della sua
collaborazione con lo stato romano, la solennizzazione del culto non
sarebbero mai stati in grado di soffocare. Il regno dei cieli, questa
dimensione mistica, non apparterrebbe per natura a questo mondo,
37
Cfr. I Cor 15,49.
MASSIMO IL CONFESSORE, Duecento Capitoli sulla Teologia e sull’Economia
dell’Incarnazione del Figlio di Dio, II, 91-93, in PG 90, 1167-1169, trad. it. in NICODEMO
L’AGHIORITA e MACARIO di CORINTO, La Filocalia, ed. it. a cura di ARTIOLI
M.B., LOVATO M.F., ed. Gribaudi 1983, Torino, p. 162.
39
EVAGRIO PONTICO, Ad Anatolio: Testi sulla Vita Ascetica, 2-3, in PG 40,1221.
40
La citazione proviene dal Cantico di Anna secondo la versione dei Settanta: Egli da
la preghiera a chi prega e benedice gli anni del giusto (Sept. I Re 2,9; nel primo libro di
Samuele del testo masoretico, che corrisponde a I Re della Settanta, il versetto è
omesso).
41
NILO SINAITA (in realtà: EVAGRIO PONTICO), Centocinquantatre Capitoli sulla
Preghiera, 58, in PG 79, 1180.
38
39
anche se può entrare in contatto con la dimensione creata provocando
come degli squarci all’interno del tempo e nella storia .
42
Un fatto ancora inosservato è costituito dall'assenza, nel culto
ortodosso di qualsiasi forma di celebrazione sia del potere politico, sia di
quello religioso; lo stesso sacerdote, sebbene figura del Cristo in senso
più appropriato rispetto all'imperatore, non giunse mai a proporsi come
rappresentante plenipotenziario della divinità su questa terra. Dunque,
né il regno politico dell'imperatore, né il regno della chiesa ricevettero
una consacrazione definitiva e compiuta attraverso i riti ortodossi: il
regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo rimangono al di là di
tutto, in una dimensione che non può essere catturata o posseduta, ma
pur sempre alla portata di chiunque voglia farne la conoscenza,
indipendentemente dal rango, dal censo , dal sesso, dalla cultura…
42
Massimo il Confessore vede anche una differenza fra l’espressione regno di Dio e
regno dei cieli: Alcuni cercano di sapere quale differenza ci sia tra il regno di Dio e il regno dei
cieli, se questa differenza sia nella realtà o nella rappresentazione concettuale. A costoro
bisogna dire che non differiscono nella realtà, ma nella rappresentazione concettuale. Regno
dei cieli, infatti, è il conseguimento della conoscenza pura, preesistente in Dio, degli esseri
conforme alle ragioni (katà toùs lògous) proprie. Regno di Dio è la partecipazione per grazia
dei beni per natura esistenti presso Dio. Il primo si riferisce al fine degli esseri,il secondo
esprime l’idea di ciò che è oltre il fine degli esseri (Ibidem, II, 90).
40
IL REGNO NEI SINOTTICI
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo
regno …43
Non v'è realtà alcuna cui possa essere ricondotto il regno dei cieli,
secondo i sinottici; non si tratterà della restaurazione del regno davidico,
oggetto di speranze da parte dei giudei dell'epoca. Sono abbondanti le
testimonianze intorno alla predicazione di Gesù di Nazaret; lo scontro
con la mentalità giudaica su questo tema è aspro; a quanto ci risulta lo
stesso Giovanni il Battista, predicatore dell'imminente venuta del regno
di Dio di pochissimo anteriore al Cristo, ebbe delle perplessità
sull'insegnamento e lo svolgimento della missione del Nazareno44. Nulla
toglie che la predicazione del Battista e del Cristo abbiano lo stesso
esordio: Fate penitenza, perché vicino è il regno dei cieli45. I sinottici
attribuiscono al Precursore anche altri insegnamenti che sembrano un
appropriato ed efficace preludio alla dottrina del Cristo sul regno dei
cieli. Per il profeta del deserto, infatti l’instaurazione da parte del Messia
del regno celeste avrà come caratteristica l’immersione nello Spirito
43
Cfr. Matteo 6,9-12; e anche Luca 11,2-4.
Cfr. Matteo 11,2-6; e anche Luca 7,18-23.
45
Cfr. per la predicazione di Giovanni: Matteo 3,3; per gli inizi della predicazione del
Cristo: Matteo 4, 17; Marco 1,15.
44
41
santo, paragonato ad un fuoco46; un’affermazione simile la si può
riscontrare in quel passo in cui Gesù di Nazaret descrive la sua missione
paragonandola non a quella di un predicatore, ma a quella di un
incendiario47. Sembra delinearsi una prospettiva particolare, se in queste
affermazioni, come in altre ancora, vogliamo scorgere una descrizione
della autentica missione del Messia: non si fa cenno alcuno alla per altro
molto ben documentata attività di predicazione, né ad altre opere, né agli
eventi della passione; come osserva il Crisostomo, commentando Matteo
3,2, Giovanni non si sofferma a considerare neppure il sacrificio della
croce, la morte e la risurrezione, ma preannuncia quello che sarà, per così
dire, il risultato finale: la Pentecoste:
Egli parla subito del dono che doveva essere il compimento (télos) e la
conclusione di tutti gli altri… 48
La considerazione che verrebbe rafforzata da quanto sostiene in
questo passo il Crisostomo, secondo cui gli stessi eventi pasquali sono
finalizzati alla Pentecoste non è affatto una novità, ma la sua esegesi
coglie un particolare interessante a proposito dell’espressione Spirito
santo e fuoco, riportata nei passi paralleli di Matteo e Luca:
46
Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me e al quale non
sono degno di portare i sandali, è più forte di me; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco
(Matteo 3,11). I passi paralleli negli altri sinottici sono questi: Marco 1,7-8; Luca 3,16.
47
Sono venuto a portare fuoco sulla terra e che cosa desidero, se non che si accenda? (Luca
12,49)
48
GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al Vangelo di San Matteo, in PG 57,197, trad.
it. Roma, Città Nuova 1967, vol. I, logos XI, 5, pag.175.
42
Se Giovanni parla di fuoco è senza dubbio per far loro ricordare i profeti
nelle cui visioni appare quasi sempre il fuoco. Così infatti Dio parlò a Mosè, in
un roveto ardente, e a tutto il popolo sul monte Sinai; così parlò a Ezechiele, in
mezzo ai cherubini circondati dalle fiamme49.
Il regno del Messia consisterebbe, dunque, in un’immersione
generale nello Spirito santo come in un fuoco divino, una teofania
immediata, non rimandata o semplicemente attesa; una soluzione di
continuità tra regno creato e regno increato, tra terrestre e celeste, una
porta d’accesso che il Messia aprirà per mettere in contatto il regno del
Padre, del Figlio e dello Spirito santo con questa nostra dimensione. In
altre parole il Messia renderà possibile ad ogni uomo esperire la teofania
mistica sperimentata da Mosè sul Sinai50, da Elia sull’Oreb51, da Isaia,52
non simbolicamente o per analogia.
Tali considerazioni, per altro comuni ad altri illustri e facondi
esegeti di epoca patristica, ci inducono ad una più attenta riflessione sul
significato, potremmo dire appunto, “pentecostale” di un formulario
liturgico come quello della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo
che esordisce con l’esclamazione:
Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito santo...
49
GIOVANNI CRISOSTOMO, Ibidem.
Cfr. Esodo 19,16-21; 33,18-23; 34,5-9. 29.
51
Cfr. III Re ( secondo il testo masoretico: I Re) 19, 9-13.
52
Cfr. Isaia 6, 1-5.
50
43
La presenza di una tale convinzione non esclude di per sé
elementi che potrebbero ricondurre a schemi cultuali di tipo
veterotestamentario:
Dapprima era infatti necessario che l’Agnello fosse sacrificato, il peccato
cancellato e che fosse distrutta l’inimicizia tra l’uomo e Dio; era inoltre
necessario che Gesù Cristo fosse seppellito e che risuscitasse e, allora, sarebbe
venuto lo Spirito santo53.
Il problema non è tanto, a mio avviso, riconoscere se vi siano o
meno riferimenti all’economia sacrificale legata al tempio dell’Antica
Alleanza, ma rendersi conto che per le prime generazioni di cristiani era
inconcepibile separare o contrapporre ciò che era accaduto prima e dopo
l’incarnazione del Logos; avvenimenti, inoltre, quali l’incarnazione
stessa, la passione, la risurrezione e la pentecoste, non potevano essere
scissi o separatamente celebrati e rivissuti: nella Divina Liturgia,
appunto, vengono a costituire, insieme con la creazione e la caduta, un
insieme; ma quello che dovremmo chiarire è che per i padri della chiesa
non si tratta di semplici temi di celebrazione, ma, nello svolgimento del
culto liturgico il cristiano è alla presenza dei grandi avvenimenti della
storia sacra, dal momento che verrebbe assunto nel regno celeste
attraverso lo Spirito e il fuoco di quella visione mistica di Dio davanti al
quale tutto è simultaneamente presente. Un rito, esteriormente simile
53
GIOVANNI CRISOSTOMO, Ibidem.
44
alle già note formule celebrative del memoriale, farebbe in questo caso
da supporto ad una teofania mistica dai connotati, secondo Cullmann,
molto precisi54. Un’esperienza possibile non solo perché legata ad un
certo formulario in grado di riprodurla, ma condizionata dalle
disposizioni dei partecipanti, i quali dovrebbero essere non solo
battezzati e rettamente istruiti, ma anche purificati e illuminati per unirsi
in Spirito e fuoco alla Divinità. Ciò che comunque accadrebbe a livelli
profondi, si potrebbe manifestare percepibilmente, allora, se gli spiriti
dei partecipanti sono progrediti in quell’affinamento ascetico che è
oggetto di un’imponente letteratura cristiana mistica, prima ancora che
monastica. In altre parole, come convincentemente dimostrato da
Cullmann, scopo della riunione di culto dei cristiani era, alle origini, la
manifestazione del Cristo in mezzo a loro nella luce increata della
risurrezione, potenzialmente presente nel credente perché depositata in
lui, o meglio, partecipatagli mediante il battesimo. L’esegesi più diffusa,
presso la letteratura patristica, del versetto nono del salmo 35: Nella tua
luce vedremo la luce, sviluppa appunto questa interpretazione teofanica;
questa luce verrà anche associata alla manifestazione della Nube
luminosa che accompagnava il popolo d’Israele mentre fuggiva
dall’Egitto55, ma soprattutto alla manifestazione luminosa avvenuta sul
54
Cfr. CULLMANN, O. La signification de la sainte-Cene dans le Christianisme primitif,
in « Revue d’Histoire et de Philosophie religiueses » 1936 ; trad. Inglese di DAVIES, J.
G. Essays on the Lord’s Supper, Richmond, Virginia 1958, pagg. 12-13.
55
Cfr. Esodo 13, 21-22.
45
Tabor56. La reale unione dei credenti con il corpo risorto del Cristo era
l’obiettivo, l’aspirazione, il fine, lo scopo di ogni battezzato; qualsiasi
altra attività era subordinata alla possibilità di esser fatti degni di vederlo
nella sua Gloria increata, in Spirito e fuoco, attraverso una conoscenza
empirica, consistente in uno sconfinamento oltre lo spazio e il tempo,
fino a che durava la loro unione col Cristo. Una tale apparizione del
Cristo fra i credenti in lui dava la possibilità di sperimentare l’arrivo del
regno dei cieli in Spirito e fuoco, partecipando in pratica alla vita di Dio,
ma non alla sua essenza57.
Tutto ciò, comunque non era affatto un processo automatico: non
ogni volta che i credenti si riunivano il Cristo doveva manifestarsi. Ciò
dipendeva, come si è detto dalla purezza della fede e dalla purificazione
interiore dei partecipanti alla riunione di culto. Se le condizioni erano
presenti nell’assemblea la teofania era possibile e quanti erano purificati
nello spirito (il nous) percepivano la propria metamorfosi mistica:
ciascuna apparizione significava l’assunzione nella vita divina, la
cessazione del regno terrestre e l’inizio del regno incorruttibile di Dio.
Come risultato di tali esperienze i partecipanti ottenevano una piena
conoscenza del passato, del presente, del futuro, essendo giunti a
56
Cfr. Matteo 17, 1-13; Marco 9, 2-13; Luca 9, 28-36.
Cfr. MAXIMOS LAVRIOTIS, Ecclesia Dei o chiesa istituzionale? In “Italia Ortodossa”
Genova 2000, vol. 2, pagg. 13-19.
57
46
condividere l’eredità incorruttibile del Cristo, nel regno dei cieli: saremo
simili a lui perché lo vedremo così come egli è…
58
Così si esprime in merito Massimo il Confessore, dando un saggio
di quella che è l’ecclesiologia dei padri della chiesa:
Dio ha saggiamente diviso tutte le epoche in due e ha deciso nella prima
di divenire uomo e nella seconda di fare l’uomo Dio59.
Queste convinzioni attraversano il Nuovo Testamento e sono
ampiamente riscontrabili nel corpus generale della patristica, anche
latina, almeno per i primi secoli. C’è un elemento ulteriore di sorpresa, se
è vero, per esempio che i destinatari dell’epistola ai Corinti erano
persuasi della loro appartenenza al corpo del Cristo in virtù della
partecipazione alla natura umana, prima ancora che per la loro fede
cristiana60; quest’ultima avrebbe dato compimento alla loro reale e
materiale unione naturale col Cristo, mediante l’economia della grazia
battesimale: Quando ciò che è perfetto è giunto, ciò che è parziale viene
eliminato61… e inoltre: Quanti siete stati battezzati in Cristo, di Cristo vi siete
rivestiti62… La fede e la grazia danno completamento, ma senza separare
rigidamente l’umanità in due categorie: puri e impuri, salvati e dannati,
illuminati e profani.
58
I Giovanni 3,2.
PG 90, col. 31.
60
Cfr. I Corinti 12,27.
61
I Corinti 13,10.
62
Galati 3,27.
59
47
Quanto la coscienza di ciò sia presente nelle dottrine dei padri,
può essere esemplificato da un altro passo di Massimo il Confessore:
Questo è il grande e sublime mistero. Questo è il benedetto Fine per il
quale tutto il creato è stato composto; questo è il preannunciato scopo divino per
il quale tutti gli esseri hanno principio e per il quale è annunciata la loro Fine,
per il quale ogni essere esiste. Egli stesso, tuttavia, non esiste a causa di alcuno.
Avendo codesto Fine si vede pienamente che Dio ha causato tutti gli esseri. Ciò
causa la pienezza di due realtà: della sua Provvidenza e di coloro per i quali la
Provvidenza agisce; attraverso il cui completamento le creature sono ricapitolate
e unite a Dio. E’ questo il mistero che circonda ogni epoca, mostrato innanzi dal
grande e sovrainfinito consiglio divino, preesistito molto prima di tutti i secoli.
L’Uno e consustanziale a Dio, il Logos stesso, l’ha annunciato dal momento in
cui è divenuto uomo, manifestando così sia come era, sia le intime profondità
della bontà del Padre Suo. Egli si è automanifestato come il Fine per il quale
indubbiamente le creature hanno ricevuto il loro inizio: perché era per il Cristo,
più propriamente per il mistero del Cristo, che tutte le epoche e qualunque cosa
esse contengono, hanno ricevuto il Principio e il Fine del loro essere. Per
l’unione
compresa
prima
d’ogni
epoca,
tra
realtà
misurabile
e
incommensurabile, finita e infinita, tra il regno delle cose limitate e quello delle
cose illimitate, tra Creatore e creazione, tra stabilità e moto; unione che è stata
compresa alla fine, in questi ultimi tempi grazie alla automanifestazione del
Cristo, che adempie la preveggenza divina63.
63
PG 90, 621b.
48
Il senso dell’inevitabilità dell’arrivo di un tale regno celeste,
indipendentemente da qualsiasi consenso, contributo o cooperazione
permea la letteratura patristica e la liturgia ortodossa, che intende
appunto collocarsi sulla soglia di questo mistero, affinché sia possibile a
quanti più uomini sconfinare già da ora tra le realtà sovracelesti. Da una
parte la consapevolezza che la realizzazione di un tale Fine non
coinvolgerà esclusivamente i battezzati, libera il cristianesimo patristico
dalle strettoie di un integralismo latente, eventuale conseguenza del
considerare necessario e indispensabile alla salvezza far parte della
chiesa a tutti gli effetti. Nessun padre ortodosso, nel senso patristico del
termine, sembra aver mai fatto coincidere il regno dei cieli con la
comunità
visibile
dei
credenti;
tanto
meno
con
l’istituzione
comunemente denominata chiesa. Tutto ciò, nel loro modo di vedere la
rivelazione cristiana, rimane un mezzo, non diventa il fine. Il Fine è
governato sempre dalla Provvidenza; né l’imperatore, né il patriarca, in
definitiva, possono essere considerati i depositari di una missione
esclusiva in relazione con la manifestazione del regno dei cieli in Spirito e
fuoco. Per questa esperienza non vi sono intermediari: è del tutto
secondario il fatto che un ordinamento terrestre si sforzi di riprodurre
con leggi e regole quello celeste. Nessun padre orientale sembra aver mai
stimato oltre il dovuto l’ordinamento statale; le stesse cariche
ecclesiastiche, pur nel riconoscimento di un
loro speciale valore, in
relazione alla tradizione apostolica, non sono affatto il compimento e il
49
fine dell’economia del regno increato. Ciò che è importante per l’uomo e
per il credente, dunque, non è tentare di riprodurre con i suoi sforzi un
tale regno a livello etico, politico, sociale, economico, ma disporsi
personalmente alla teofania, prepararsi alla manifestazione di quel regno
che verrà come un ladro nella notte64, in Spirito e fuoco; fuoco benefico
per chi avrà affinato il suo noùs mediante la purificazione, fuoco
divoratore65 inestinguibile per colui che verrà sorpreso con la facoltà
spirituale del noùs impreparato, non purificato, bloccato e per così dire
intorbidito da vizi e passioni.
Emerge un altro elemento interessante a questo punto: la
redenzione, di fatto, sembra essere implicitamente già presente nell’atto
creativo66, dal momento che le creature tutte condividono quell’unico
Fine. Potremmo dire che condividendo un’unica causa formale e finale,
esse, al momento di venir chiamate all’essere, ricevono la salvezza incisa
indelebilmente nella loro natura. Una salvezza potenziale, da tradursi in
atto nei tempi e nei modi previsti dall’economia celeste della
Provvidenza divina. La stessa caduta di Adamo, in questo ordine di cose,
risulterebbe un incidente di percorso, grave, ma non tale da corrompere
64
Cfr. I Tessalonicesi 5,2.
… Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha il ventilabro nella sua mano e
monderà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la pula con fuoco
inestinguibile… (Matteo 3,11-12).
Ecco viene, dice il Signore Sabaoth. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al
suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore…(Malachia 3,2-3).
66
Cfr. Romani 4,17.
65
50
irrimediabilmente la natura umana, la quale, sebbene vittima e certo
responsabile di un deragliamento, non smarrisce i connotati e le finalità
positive con cui fu plasmata dal Creatore67. Il male, provocato per invidia
dall’angelo ribelle, è nient’altro che un parassita esterno alla natura,
destinato ad essere debellato da Dio; e, anzi, esso in effetti è già debellato
nel corpo del Cristo e in quanti compiono la loro unione col Risorto.
La patristica ortodossa è, come si è detto, piuttosto reticente e
restia ad identificare il regno di Dio con un luogo o un momento
definito, contrapposto al mondo cosiddetto profano o laico; questa
visione cosmica della redenzione si è sempre retta su equilibri delicati ed
è sempre stata strenuamente difesa, nella varie epoche, dalla tendenza
alla riduzione in forme adattate ad uso e consumo da parte di ideologie,
istituzioni, gruppi, individui o progetti particolari. Per limitarci alla
comunità storica dei credenti nel Cristo, è riscontrabile in certi contesti
culturali e politici la tendenza a rinchiudere l’orizzonte dello
sperimentabile entro mere strutture di pensiero e di culto, il cui controllo
viene riservato alle gerarchie.
Nella patristica orientale, come nel pensiero cristiano antico
originario, si ammette volentieri che l’adesione alla fede nel Cristo
risorto, insieme con l’ingresso nella comunità ufficiale dei credenti
67
Cfr. ROMANIDIS, J. Il peccato originale secondo san Paolo, in “St. Vladimir’s
Seminary Quaterly” vol. IV, nn. 1-2, USA 1955-56; il testo non risulta reperibile in
traduzione italiana, se non in una copia dattiloscritta, gentilmente concessaci dal sig.
Pietro Chiaranz (Venezia 1999).
51
attraverso l’iniziazione sacramentale, la partecipazione ai suoi riti e al
suo culto facilitino particolarmente la possibilità di sperimentare
l’avvento del regno dei cieli, ma circoscrivere questo regno increato nei
confini creati della comunità visibile sarebbe parsa un’operazione errata
e pericolosa. Trasformare il punto di partenza in meta, il mezzo nel fine
equivale a sostituire il creato con l’increato, il regno dei cieli con un
regno terrestre, Dio con un uomo nei panni di mediatore, il Cristo risorto
con un improbabile vicario. Allo stesso modo il regno delle tenebre non
poteva essere semplicisticamente identificato con tutto ciò che è al di
fuori della chiesa, a meno di rinunciare in blocco alle posizioni fin qui
descritte. Un’opinione errata su queste cose- un cristianesimo eretico,
pertanto – risulterebbe più dannoso e pericoloso per il noùs umano, di
tutto il patrimonio filosofico antico pagano68.
Una cultura teologica del genere, piuttosto lontana dalle dottrine
maturate a medioevo inoltrato presso la cristianità occidentale, ha
conosciuto i suoi frutti in una lunga serie di avvenimenti, di scelte e di
situazioni, tra le quali la presenza di una moschea in Costantinopoli
durante la quarta crociata (1204) e la persuasione, diffusa presso la
maggioranza degli ortodossi poco prima della definitiva fine dell’impero
68
Interessante, a questo proposito, la nota teoria del Lògos Spermatikòs, secondo la
quale il Verbo di Dio, prima dell’incarnazione, non si era rivolto esclusivamente al
popolo d’Israele, ma aveva in qualche modo ispirato segretamente la cultura e la
filosofia dei pagani (cfr. GIUSTINO MARTIRE, Apologia del cristianesimo, in PG 6, 327440, BURINI, C.“Gli Apologeti Greci” Roma, Città Nuova, 1984).
52
romano d’oriente (1453), che fosse preferibile sottomettersi ad
un’egemonia politica del turbante piuttosto che della tiara.
53
IL RITO DELLA PROTESI O PROSCOMIDIA
Il continuo incremento degli studi sul cristianesimo orientale e la
loro progressiva settorializzazione, talora non sembra aver superato,
soprattutto in campo liturgico, gli schematismi dell’epoca precedente. La
sempre maggiore specializzazione tecnicista manifesta i suoi limiti
proprio là dove una conoscenza allargata di fonti e di contesti
permetterebbe nuove prospettive o addirittura la soluzione di problemi.
Lo studio della Divina Liturgia del rito cosiddetto bizantino ha
conosciuto notevoli progressi, ma in modo disomogeneo. Il rito della
“protesi”, che nella recensione attuale si trova all’inizio della
celebrazione, non trovando riscontro nel Ritus Missae Tridentinae è stato
considerato, a torto secondo quanto pensiamo, un’appendice secondaria,
sviluppo ridondante di un certo “barocco liturgico bizantino” da
attribuire ad un’epoca tarda. I primi studiosi ad occuparsene, entrambi
liturgisti di fede cattolica romana e preti uniati dell’abbazia cattolicabizantina di Grottaferrata, i religiosi Nilo Borgia e Marco Mandalà, non
dubitarono per un istante del presunto carattere intrusivo e pleonastico
di tale rituale e l’indirizzo attuale di molti loro epigoni non si è mai
distaccato da una tale linea. Gli studi su tale materia debbono ancora
moltissimo a quella convinzione astratta che vedeva nel rito romano la
perfezione del culto cristiano, il modello al quale uniformare o
ricondurre eventuali altri riti.
54
Dalla pubblicazione del minuzioso lavoro di p. Marco Mandalà, La
Protesi Della Liturgia Nel Rito Bizantino-Greco, nel lontano 1935, nessuno
ha più riaperto in modo significativo la questione e quanto è stato scritto
successivamente non si è mai distaccato da una tale linea.
Rimane, a mio avviso, assolutamente valido ed attuale lo schema di
lavoro proposto da Mandalà, che suddivide lo studio in tre fasi: storia
particolare del rito, simbologia e aspetto teologico. Ma è proprio sotto
l’aspetto storico che le conclusioni dei religiosi uniati e dei loro
continuatori potrebbero essere da ridiscutere, o almeno rivelarsi meno
fondate. Determinando la nostra questione, diciamo subito che il nostro
intento è di considerare la protesi della liturgia ortodossa nella sua
storia; considerazioni dogmatiche e simboliche, ovviamente, saranno
inevitabili, mentre ne osserveremo gli sviluppi attraverso i primi secoli in
cui ne abbiamo testimonianza. La lettura di una più vasta letteratura
religiosa del tardo antico può dare un contributo interessante, infatti,
non solo per la datazione della prima testimonianza certa che attesta
l’esistenza di un rituale chiamato Protesi o Proscomidia,
ma anche
arricchire alcuni aspetti di natura teologica riguardanti il sacerdozio e il
culto cristiano tra il IV e l’VIII secolo. Una insufficiente conoscenza o una
scarsa valutazione di testi quali, per esempio, Il Prato di Giovanni Mosco,
prete e monaco palestinese, vissuto nella seconda metà del VI secolo,
potrebbe rivelarsi fatale per la materia in questione. Non si può ignorare,
ad esempio, che in questa opera il termine Proscomidia compare almeno
55
una decina di volte, sempre ed esclusivamente riferito ad atti espliciti di
culto cristiano, come vedremo in seguito.
Al di là dell’intento dimostrativo ci preme in ogni caso aggiungere
un elemento di complessità ad un problema risolto, secondo noi solo
apparentemente, negli anni Trenta del secolo scorso.
DESCRIZIONE DEL RITO DELLA PROTESI O PROSCOMIDIA
Considerando la difficoltà di trattare un oggetto ignoto anche alla
gran parte degli studiosi e degli storici, ci sia consentito fornire una
sommaria descrizione del rito della Protesi o Proscomidia, basandoci sulla
forma attuale, per altro non dissimile da quella che le fonti medievali,
come vedremo, ci testimoniano.
Tradizionalmente gli studiosi della materia utilizzano come testo
base di riferimento la recensione contenuta nell’ Eucologio di Benedetto
XIV ( Ed. Roma 1873 ). Le differenze con le altre recensioni sembrano del
tutto trascurabili e non riguardano né la struttura, né la collocazione del
segmento liturgico stesso nell’economia generale dell’atto di culto.
Aprendo dunque l’Eucologio di Benedetto XIV, per ciò che riguarda
la Protesi, notiamo la presenza fin dall’inizio del sacerdote e del diacono,
56
i quali, rivestiti delle vesti liturgiche , si accingono alla preparazione
69
della materia del rito, pane e vino.
Non crediamo superfluo sottolineare, a questo punto, che il pane
da offrire per il culto eucaristico in genere, anche presso gli altri riti, non
è e non fu mai azzimo. La questione non ha mai mancato di suscitare
irritazione in coloro non vedono differenze fra pane lievitato e pane
azzimo. Nei primi secoli della Chiesa, invece, la differenza era nota: la
Pasqua ebraica si celebra con gli azzimi, quella cristiana con il pane
lievitato, l’àrtos di cui parlano i Vangeli e che è oggetto di riflessione
teologica approfondita di molti Padri della Chiesa .
70
Per voi, infatti, è conveniente e vantaggioso che mangiate una pasqua
nuova; vi offro da mangiare un fermento, gettate via l’azzimo; vi offro il calice
della vita, rifuggite un calice di fiele. In questa pasqua antica voi vedete una
pasqua nuova, voi riportate una speranza nuova da trasmettere in eterno. D’ora
in poi mangerete una pasqua monda e pura; un pane, cioè un fermento perfetto
69
Accenniamo brevemente al fatto che l’ingresso nel santuario e la vestizione dei
ministri del culto, presbitero e diacono, costituisce un segmento liturgico non
trascurabile. Preghiere, benedizioni, inchini profondi e appropriati versetti delle
Scritture accompagnano la vestizione di ogni singolo indumento sia diaconale, sia
sacerdotale.
70
Non può passare inosservato il fatto che là dove viene istituita la pasqua ebraica
(Es 12,15.18.33) viene usata l’espressione azzimi, non pani azzimi, mentre nei Vangeli
dell’ultima cena si parla di àrtos, senza specificazioni, pane comune. Considerando
inoltre che in 1 Cor 5,7 in riferimento agli usi giudaici si parla di azzimi e non di pani
azzimi, ci risulta difficile capire la perentorietà del Rigetti quando afferma che il
Cristo usò sicuramente del pane azzimo (cfr RIGHETTI, Op. Cit. vol. 3, p. 582). Come
s’è visto la Scrittura non confonde i termini e non utilizza il termine àrtos, pane, come
un termine generico; l’àrtos è pane comune, lievitato. Probabilmente non vide o non
volle vedere ciò che invece era chiaro fin dall’era apostolica.
57
che lo Spirito Santo ha impastato e cotto, cioè il corpo e sangue di Dio che si fa
vittima per voi…
71
Gesù all’inizio prese nelle sue mani un pane comune, lo benedisse, lo
segnò e lo santificò nel nome del Padre e nel nome dello Spirito Santo… chiamò
pane il suo corpo vivo e lo riempì di se stesso e dello Spirito…
72
L’autore citato, Efrem il Siro ( 306-373 circa ) , diacono di Edessa e
73
monaco, oltre a essere considerato il più significativo rappresentante
71
Efrem il Siro, Sermoni nella Settimana Santa 2,10; in T.J. LAMY, Sancti Eprhaem syri
hymni et sermones, 384-386.390 , Paris 1882-1890.
72
Ibidem, Sermo 4,4
73
Efrem (Afrem) nacque a Nisibi (Mesopotamia) o nei dintorni verso l’anno 306. Le
fonti biografiche degne di fede non sono molte. La Vita Syriaca, pervenuta in tre
recensioni assai diverse tra loro, non sembra molto attendibile, mentre le
testimonianze di Gerolamo (De Viris ill., 115, PL 23,746-7), di Sozomeno (Historia
Ecclesiastica, III, 16, PG 67, 1085-93), di Teodoreto (Historia Ecclesiastica, IV, 26; PG 82,
1189) e della Historia Lausiaca (cap. XL: ed. BUTLER C., II, Cambridge 1904, pp. 126-7)
vanno comunque lette con cautela. Nelle opere sicuramente autentiche ritroviamo di
tanto in tanto brevi cenni autobiografici, in ogni caso insufficienti a ricostruire con
certezza una biografia completa dell’autore. Si sa con certezza che nacque da una
famiglia cristiana (Contra Haereses XXVI,10) e che la sua educazione fu influenzata
dal vescovo di Nisibi Giacomo (303-338), un asceta di cui Efrem tesse più volte le lodi
esprimendosi con affetto filiale. Al tempo del vescovo Vologeses (346-361) Efrem è
già conosciuto e stimato come maestro spirituale. Nel 361 viene scelto come
consigliere dal nuovo vescovo di Nisibi, Abraham. Fu testimone oculare delle
onoranze funebri dell’imperatore Giuliano l’Apostata davanti alle mura della città e
vide pure la bandiera persiana sulle torri di Nisibi. Quando l’imperatore Gioviniano
fu costretto a cedere la città ai persiani, Efrem, con molti altri cristiani si trasferì a
Edessa, dove contribuì alla fondazione della celebre scuola detta dei Persiani. A
Edessa continuò la sua opera di maestro, predicatore, scrittore, innografo, consigliere
di vescovi e difensore dell’ortodossia. La sua ordinazione diaconale dovrebbe risalire
agli ani trascorsi a Nisibi. Morì probabilmente il 9 giugno 373 a Edessa. Non abbiamo
prove che confermino le notizie che la vasta agiografia sul suo conto ci fornisce a
proposito di un suo soggiorno nei monasteri d’Egitto o della sua partecipazione al
concilio di Nicea o del suo incontro con Basilio di Cesarea. L’opera a lui attribuita è
vastissima; gli scritti considerati autentici sono numerosissimi e furono presto
tradotti in armeno, greco, georgiano, copto, slavo, arabo e latino. E. Beck e L. Leloir si
sono dati molto da fare per mettere ordine nell’imponente letteratura che passa sotto
58
della patristica siriana, è universalmente riconosciuto come un anello
insostituibile nella tradizione di un giudeo-cristianesimo sviluppatosi ai
confini orientali dell’impero romano, discretamente lontano da influssi
ellenisti .
74
Decisamente antecedente è la descrizione della sinassi liturgica
riportata negli scritti del martire Giustino ( +165 circa ) e meno generica
di quanto sembrerebbe ad una lettura convenzionale. L’Apologista
utilizza per indicare la materia dell’offerta, il termine evangelico àrtos,
che nelle Scritture, sia del Vecchio, sia del nuovo Testamento, è tutt’altro
che generico e non indica mai l’azzimo; là dove si intende il pane
azzimo, la Settanta scrive semplicemente azymon .
75
il suo nome. Il pensiero di Efrem, come universalmente è riconosciuto, è di radice
schiettamente semitica, sicuramente influenzata da ambienti giudaico-rabbinici.
Sebbene possa riscontrarsi una certa conoscenza del pensiero filosofico sincretista
greco contemporaneo, tuttavia la sua dottrina è priva di influssi determinanti
provenienti da quella direzione. Nell’angelologia si trova anche un influsso
dell’ambito iraniano-persiano. Gran parte della sua opera è composta in metrica, se
non si tratta proprio di inni ad uso liturgico. Queste composizioni hanno l’aspetto di
omelie in versi e sono spesso rivolte alla trattazione di problemi dogmatici in
polemica decisa contro gli eretici e gli ebrei. Anche se la tradizione lo considera
anacoreta e padre del monachesimo siriaco, non sembra che Efrem abia praticato
veramente un’anacoresi estrema. Come si comprende dal suo profilo biografico, egli
visse molto intensamente le vicende del cristianesimo dei suoi tempi e gli incarichi
ecclesiastici che accettò al fianco dei vescovi escludono la possibiltà di prolungati
soggiorni nella solitudine del deserto. Nei suoi scritti sulla vita monastica si ritrova
una terminologia comune a quella di Afraate insieme con diversi riferimenti
all’istituzione dei figli del patto, che occupano una posizione di rilievo all’interno della
vita della Chiesa siriaca del IV secolo. Sempre nei suoi scritti troviamo notizie
riguerdanti l’eremitismo che iniziava a fiorire allora in Siria; Efrem elogia più volte
l’ideale eremitico, ritenendolo il cuore dell’esperienza ecclesiale. Nel calendario
ortodosso Efrem è commemorato il 28 gennaio.
74
Cfr F. RILLIET, in DPAC, s.v. Efrem Siro, op. cit., p.1104
75
GIUSTINO, Apologia 1,65-67.
59
Efrem il Siro si dimostra inequivocabilmente esplicito nel sesto
inno dedicato agli azzimi:
Il Signore ha mangiato la pasqua con i suoi discepoli; con il pane che ha
spezzato ha abolito gli azzimi. Il suo pane che vivifica ogni cosa, ha vivificato i
popoli; il pane (artos) ha sostituito gli azzimi: tutti quelli che li hanno mangiati
sono morti. La Chiesa ci ha dato il pane (artos) vivo, al posto degli azzimi che
aveva dato l’Egitto .
76
Non c’è dubbio che la fine della Vecchia Alleanza e del suo culto
sia associata e persino identificata nella novità del rito dell’ultima cena,
quando, al posto dell’azymon previsto dalla legge mosaica il Cristo
sollevò e benedisse un artos , indicandolo come il proprio corpo.
77
L’abolizione del culto giudaico assume un significato letterale e
definitivo nella considerazione del cristianesimo dei primi secoli, che
vedeva senza ombra di dubbio in Gesù di Nazaret l’autore e perfezionatore
della legge . Autore essendo apparso quale àsarkos Lògos, Verbo pre78
incarnato, sul monte Sinai per consegnare la legge al profeta Mosè ;
79
perfezionatore come ènsarkos Lògos, Verbo incarnato, Dio fatto uomo, che
76
EFREM SIRO, Inni degli Azzimi, 6, 4-6; in LAMY, 592ss.
Cfr. Mt 26, 26; Mc 14, 22; Lc 22, 19.
78
Eb 12, 2.
79
Oggi Simeone accoglie fra le braccia il Signore della gloria, che un tempo Mosè vide
nascosto nella caligine, quando sul monte Sinai gli diede le tavole della legge. Questi è colui
che parla nei profeti, questi è l’autore della legge; questi è colui che Davide annuncia,
tremendo per tutti, colui che possiede la grande e ricca misericordia. (GERMANO DI
COSTANTINOPOLI, Aposticon 4, Vespro del 4 febbraio; in Mineo di febbraio, Ed. Fos,
Atene, 1995, p. 32. L’autore è il patriarca Germano di Costantinopoli, vissuto tra VII e
VIII secolo).
77
60
abolisce una legge precedentemente da lui promulgata instaurando un
nuovo e definitivo regime. La cessazione della legge giudaica e del suo
culto, ovviamente, non si traduceva in un dato di fatto storico, vista la
permanenza
e
la
contemporaneità
della
Sinagoga.
L’insistenza
sull’argomento da parte di Efrem il Siro prova piuttosto con molta
probabilità l’esistenza di rapporti e scambi tra le due comunità religiose e
senz’altro il confronto e la disputa assumeva toni di accesa polemica da
ambo le parti.
Il pane azzimo è figura del pane della vita… Mosè ha rivelato il mistero
che rinnova ogni cosa, lo ha dato ai golosi che hanno desiderato le carni …
80
Fratelli, non mangiamo con il farmaco della vita gli azzimi del popolo, che
sono farmaco di morte. Il sangue di Cristo si è mescolato, infatti, con gli azzimi
del popolo e alla nostra oblazione. Chi lo riceve con la nostra oblazione, riceve il
farmaco della vita. Chi invece lo mangia con il popolo (giudaico), riceve il
farmaco della morte .
81
Il ritornello che intercala le strofe di quest’ultimo inno riassume il
concetto, rendendolo memorizzabile:
Gloria a Cristo che per mezzo del suo corpo ha abolito gli azzimi del
popolo con lo stesso popolo.
80
81
EFREM SIRO, Inno 17, 5-6; LAMY, 618.
Ibidem, Inno 19, 22-24; LAMY, 626-628
61
La distruzione del tempio di Gerusalemme, unico luogo di culto
giudaico possibile, sicuramente confortava questa certezza.
Cirillo di Gerusalemme (IV secolo) osserva come nel culto del
tempio di Gerusalemme erano previsti dei pani lievitati tra le varie
offerte prescritte dalla legge mosaica , ma proprio perché collegati con la
82
liturgia dell’Antico Testamento sono scomparsi insieme con la sua
abolizione.
C’erano anche nell’Antico Testamento i pani della protesi (àrtoi
prothèseos): ma essendo quelli dell’Antico Testamento sono terminati .
83
Le
testimonianze
occidentali
più
antiche
confermano
esplicitamente questa linea. Scrive Tertulliano ad una giovane cristiana:
Non sciet maritus tuus quid secreto ante omnem cibum gustes. Et si
sciverit panem, non illum credet esse, qui dicitur .
84
Se il pane eucaristico fosse stato differente dall’usuale forse il
marito pagano avrebbe potuto distinguerlo. Ambrogio di Milano nel De
Sacramentis risponde alla possibile obiezione: “è il mio solito pane”.
Tu forte dicis: meus panis est usitatus. Sed panis iste panis est ante verba
sacramentorum; ubi accesserit consecratio, de pane fit caro Christi .
85
82
Cfr Nm 4, 7; 8, 2.
CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi Mistagogiche, 4, 5, in PG 33, 1099.
84
TERTULLIANO, Ad Uxorem, 2, 5, in PL 1, 1296.
85
AMBROGIO, De Sacramentis, 4, IV, 14, in PL 16, 439-440.
83
62
Ancora al tempo di Gregorio Magno era in uso il pane fermentato,
perché solo così si spiega l’episodio di quella donna che rise
scetticamente vedendosi porgere nella Comunione quello stesso pane
che il giorno prima aveva cotto in casa e offerto poco prima della Messa .
86
Nella protesi ortodossa è invalso dall’antichità l’uso di imprimere
dei simboli sul pane liturgico mediante un apposito timbro. Gli affreschi
più antichi delle catacombe romane raffigurano di solito il pane
eucaristico in forma di pagnottella circolare, con un taglio a forma di
croce nella parte superiore. Già negli Atti gnostici di Tommaso (III
secolo) si dice che Cristo segnò con una croce il pane da lui consacrato
nell’ultima cena . Un uso protocristiano? Uno degli stampi liturgici più
87
antichi risale sicuramente al VI secolo ed è stato rinvenuto a Cartagine: si
tratta di un oggetto rotondo recante l’iscrizione: Hic est flos campi et
lilium . Non è affatto un reperto isolato, anzi: datato sempre al VI secolo
88
è lo stampo di Djebeniana, riportato nel terzo volume della Storia
Liturgica del Righetti .
89
Si deve attendere l’epoca carolingia per assistere alla novità
dell’uso di pane azzimo nella liturgia.
86
Cfr GIOVANNI DIACONO, Vita Gregorii Magni 2,41, in PL 75, 103.
Cfr QUASTEN, Monumenta, p.344.
88
LECLERCQ, in Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, art. Fer à hosties,
c.1347.
89
RIGHETTI, Storia Liturgica, vol.3, p.585, ed. Ancora, Milano rist. del 1998.
87
63
Panis, qui in corpus Christi conecratur, absque fermento ullius alterius
confectionis, debet esse mundissimus .
90
L’innovazione della chiesa franca aveva un antecedente: Epifanio
(+402) ci ha lasciato la notizia di alcune comunità giudaizzanti, esistenti
al suo tempo, delle quali segnala l’uso di celebrare la sinassi eucaristica
con acqua e pane azzimo . Ma l’abolizione del vino dalla liturgia esclude
91
l’appartenenza di tale comunità al corpo ecclesiale, essendo tratto
distintivo di quei circoli gnostici della tarda antichità, passati alla storia
con l’appellativo singolare di Aquariani .
92
Il vino, come elemento liturgico essenziale ed imprescindibile, ha
avuto meno vicissitudini. Nullo cum vino multum albo celebret, dichiara nel
1387 un sinodo di Benevento, si possit in loco rubrum reperiri et comode
inveniri, cum magis vinum rubrum quam album sanguini conformetur. La
proibizione probabilmente testimonia il progressivo diffondersi in
occidente dell’uso del vino bianco, meno adatto a fornire l’aspetto
materiale del sangue di Cristo.
90
ALCUINO, Epistola 15; PL 100, 289. L’epistola è del 798, Negli studi occidentali vi è
una facile confusione a proposito del termine ostia (dal latino: hostia), che nel
linguaggio comune indica la tradizionale particola di pane azzimo. Nei padri latini il
termine è invece utilizzato per indicare un pane che come si è visto è fermentato e
quindi la soluzione migliore è di rispettare il significato classico del termine: offerta,
sacrificio, vittima sacrificale, oblazione, che ha il suo equivalente greco tradizionale:
pròsfora. L’equivoco, non si sa fino a che punto involontario su questo termine,
domina tutt’oggi le traduzioni in italiano delle omelie dei Padri latini, qualche volta
coinvolgendo gli stessi Padri greci.
91
EPIFANIO, Haeres: 30, 16, in PG 41, 432.
92
Cfr RIGHETTI, op. cit. , vol. 3 p. 587.
64
E’ presente anche dell’acqua, almeno fin dai tempi del martire
Giustino, come si evince dalla Apologia I: …Viene presentato a colui che
presiede del pane e una coppa d’acqua e di vino annacquato… .
93
Presbitero e diacono, dunque, si accostano al tavolo della Protesi,
sul quale sono disposti il pane, il vino e l’acqua e, dopo tre profondi
inchini iniziano l’offerta. Il sacerdote, preso un coltello a forma di
94
93
GIUSTINO, Apologia I, 65. Cfr anche: IRENEO, Contra Haereses, V. 2, 3. Anche se i
Vangeli non menzionano esplicitamente l’acqua a proposito del calice sollevato e
consacrato da Cristo nell’ultima cena, tuttavia in tutti i riti e in tutte le epoche si
hanno testimonianze del suo utilizzo liturgico. Paradossalmente l’unico dei tre
elementi a non essere menzionato dalle fonti evangeliche, è anche l’unico a non aver
mai suscitato divergenze o interpretazioni differenti.
94
Gli inchini profondi consistono in un segno di croce che viene concluso abbassando
fino a terra la mano destra e rialzandola si ripete il segno di croce. Nel compiere
questo gesto di riverenza è prescritta la preghiera del pubblicano: O Dio, sii propizio a
me peccatore ed abbi pietà di me (Lc18,13). Nei testi liturgici ortodossi questo atto di
riverenza viene denominato piccola metànoia; la grande metànoia, invece consiste in
una prostrazione di tutto il corpo fino a toccare terra con la fronte, preceduta e
seguita sempre dal segno di croce. Il termine metànoia proviene, com’è noto, dai
vangeli: In quei giorni venne Giovanni Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo:
Convertitevi (metanoeìte)… (Mt 3,1-2)… Gesù venne in Galilea predicando il vangelo del
regno di Dio. Egli diceva: … convertitevi (metanoeìte)… (Mc 1, 14-15). Questo tipo di
mentalità religiosa, infatti, non separa l’anima dal corpo nelle attività spirituali;
pertanto, se ad un cambiamento dello spirito (noùs) verso l’umiltà è naturale far
corrispondere un atto di umiltà anche del corpo. L’applicazione in termini fisici di
questi precetti evangelici di umiltà e conversione non sorprenderà quanti hanno
confidenza con le fonti ascetiche bizantine, a partire dagli Apoftegmi, nei quali
abbiamo notizia di un modo di pregare che oggi a torto si ritiene tipicamente
islamico. E’ ancora assai poco noto, inoltre, il fatto che le stesse fonti latine tardo
antiche ad alto medievali riportano le stesse usanze. Cesario d’Arles, per esempio,
sostiene che la recita di un salmo non è completa se non segue la prostrazione
accompagnata da preghiera silenziosa (Sermo 76,1 in Corpus Christianorum, series
latina 103-104); una preghiera, sottolinea Cesario, da effondere a ginocchia abbassate,
capo chino e con i sentimenti del pubblicano della parabole evangelica. Ancora più
sorprendente è la testimonianza che si può reperire nelle fonti caroligie: Dovunque
risuoni il Gloria alla Santa Trinità, nell’oratorio come in qualsiasi altro luogo, i monaci se
sono in piedi si prostrano a terra per il tempo di dire “Santa Trinità”; se al contrario sono
seduti, alzandosi rendono gloria alla Santa Trinità stando in piedi e chinando il capo
(Commenti agli Atti Preliminari Del Primo Sinodo Di Aquisgrana, Ossia Statuti
65
piccola lancia incide un cubetto di pane in onore e memoria del Signore
nostro Gesù Cristo; ogni volta che affonda la lama ai quattro lati recita una
frase delle Scritture; per il lato destro usa questa formula: Come pecora fu
condotto al macello . Per il lato sinistro dice: Come agnello senza macchia
95
muto cavanti al tosatore, così egli non aprì la sua bocca . Per il lato superiore:
96
Nella sua umiliazione è stato esaltato il suo giudizio . Infine per il lato
97
inferiore: Chi narrerà la sua generazione? . Il diacono assiste ripetendo ad
98
ogni incisione: Preghiamo il Signore; dopo l’ultima incisione invita il
presbitero a sollevare l’amnòs; il sacerdote, affondando profondamente
nella parte inferiore del pane la lancetta, estrae l’amnòs dicendo : Poiché
viene tolta dalla terra la sua vita . Tolto in questo modo un cubetto di pane,
99
denominato amnòs, agnello, il Sacerdote lo depone al centro del
diskarion . Il diacono a questo punto dice: Immòla, signore (dèspota) ; ed il
100
101
Murbacensi, in ANDENNA G. BONETTI C., Benedetto di Aniane. Vita e Riforma
Monastica, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 1993.
95
Is 53,7
96
Ib.
97
Is 53,8
98
Ib.
99
Ib.
100
Si tratta di un vassoio generalmente metallico di forma piatta con il bordo
leggermente rialzato. Corrisponde alla patena del rito latino.
101
Con tale espressione, dèspota, il diacono si rivolge al celebrante principale.
Riteniamo indispensabile a questo punto precisare la differenza tra Kyrios e dèspota;
Kyrios nei testi liturgici viene riservato alla divinità; dèspota viene invece utilizzato
nell’innogafia e nelle orazioni come sinonimo di Kyrios e spesso lo accompagna senza
sostituirlo; se riferito alla divinità, infatti, dèspota è normalmente seguito o preceduto
da Kyrios, mentre quando è solo è riferito ad autorità umane. Nel caso di queste
rubriche liturgiche è da intendersi rivolto al celebrante principale, più il vescovo che
il presbitero, comunque. Queste formule dunque potrebbero risalire a quell’epoca
remota in cui la liturgia era celebrata dal vescovo attorniato eventualmente dai suoi
66
presbitero, sempre con la lancetta, incide una croce nell’amnòs dicendo:
Viene immolato l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo per la vita e la
salvezza del mondo . Il diacono continua: Trafiggi, signore. Allora il
102
sacerdote trafigge nel lato destro l’amnòs dicendo: Uno dei soldati con la
lancia gli trafisse il costato: e subito ne uscì sangue ed acqua. Ne dà
testimonianza chi ha visto e la sua testimonianza è vera . Nel frattempo il
103
diacono versa nell’àghion potìrion, nel calice, vino ed acqua, che vengono
immediatamente benedetti dal sacerdote in questo modo: Benedetta
l’unione dei tuoi santi doni, in ogni tempo, ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Amin. Il presbitero continua ad estrarre particole di pane con
quest’ordine: una di forma triangolare in onore e memoria della più che
benedetta, gloriosa,sovrana nostra, la Madre di Dio e sempre vergine Maria, che
viene collocata sul discàrion alla destra del cubetto denominato amnòs.
Nel compiere quest’azione il sacerdote recita un versetto del salmo 44,
tradizionalmente considerato una profezia mariana: Sta la regina alla tua
destra, avvolta in abito dorato, variamente adornato. L’operazione prosegue
staccando altre nove particole, più piccole, che vengono disposte alla
sinistra dell’amnòs in tre serie, commemorando Angeli e Arcangeli,
Profeti e Patriarchi, Apostoli ed Evangelisti; Gerarchi e Dottori della
presbiteri oppure potrebbe trattarsi dell’estensione di un formulario originariamente
archieratico o episcopale. Dall’epoca di Costantino ai vescovi cristiani viene attribuita
la facoltà di indossare la porpora e la corona imperiale; questo potrebbe spiegare
l’uso di un termine come dèspota, dal sapore meno religioso che giuridico o politico.
102
Cfr Gv 1,29.
103
Gv 19,34s.
67
Chiesa, Martiri , Monaci e Asceti; Anàrgiri e Taumaturghi, gli antenati
104
di Cristo Gioacchino ed Anna insieme col Santo del giorno e col patrono
della Chiesa in cui si celebra, e in ultimo san Giovanni Crisostomo.
Subito dopo viene commemorato il vescovo del territorio,
staccando una particella che viene collocata al di sotto dell’amnòs. Dopo
il vescovo si staccano particelle minuscole commemorando quanti hanno
chiesto il ricordo nella liturgia per tutte le necessità. Vengono ricordati
anche i defunti. Anche il diacono ha la facoltà di staccare particelle di
pane e di commemorare vivi e defunti. Per ultimo il sacerdote deposita
un frammento di pane per se stesso.
Terminate le commemorazioni il presbitero depone sul discàrion
l’asterìscos, un oggetto formato da due lame di metallo ricurve, che,
incrociandosi, formano un semicerchio: al loro punto di incrocio è incisa
una stellina; anche questa azione è accompagnata da una citazione delle
Scritture: Venne la stella e si fermò sopra il luogo dove era il bambino . Il
105
discàrion, sovrastato così dall’asterìscon, viene ricoperto con un velo,
senza che questo venga a contatto con l’amnòs e le altre particelle di pane.
Il sacerdote, coprendo il discàrion recita il versetto: Il Signore regna, si è
rivestito di splendore; il Signore si è rivestito di potenza e se ne è cinto . E
106
104
Anàrgiri sono definiti quei santi medici cristiani che, secondo l’agiografia
tradizionale, curavano gratuitamente i poveri non senza concorso di facoltà
taumaturgiche: i santi Cosma e Damiano, Ciro e Giovanni e Pantaleimon, a loro volta
martirizzati.
105
Mt 2,9.
106
Sal 92,1.
68
mentre ricopre il calice con un velo identico dice: La tua virtù ha ricoperto i
cieli, o Cristo, e della tua lode è piena la terra . Un ultimo velo, di maggiori
107
dimensioni, denominato aìr (aria) ricopre sia il discàrion, sia il potìrion,
mentre l’operazione è accompagnata dal versetto del salmo 16: Riparaci al
riparo delle tue ali, seguito da un ampliamento sullo stesso tema, nel quale
si chiede l’allontanamento di ogni pericolo e avversario e la salvezza
universale.
Dopo aver incensato, il sacerdote recita la preghiera della protesi:
O Dio, Dio nostro, che hai inviato il pane celeste, il cibo di tutto il mondo,
il Salvatore e dio nostro Gesù Cristo quale salvatore, liberatore e benefattore per
benedirci e santificarci: tu stesso benedici e santifica questa offerta e ricevila sul
tuo santo altare iperuranio. Ricordati, tu che sei buono e amico degli uomini, di
quelli che l’hanno offerta e di quelli per i quali l’hanno offerta. E custodiscici
senza condanna nel sacro servizio dei tuoi misteri. Poiché è santificato e
glorificato il venerabilissimo e magnifico tuo nome, Padre, Figlio e Spirito santo,
ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amin.
107
108
Ab 3,3.
L’offerta del pane liturgico da parte dei fedeli è universalmente attestata in tutte le
epoche e in tutti i riti. In occidente scompare all’epoca dell’innovazione dell’azzimo,
quando cioè l’ostia cessa di essere una tradizionale pròsfora lievitata e assume la
forma attuale che ha nel rito latino. Ireneo di Lione scriveva alla fine del II secolo che
dovere del cristiano era quello di compiere offerte ed oblazioni a Dio e prima fra
tutte le oblazioni era l’Eucaristia (Adveresus Haereses IV, 17, 6; 18, 8; IV, 11, 1).
Tertulliano ad un cristiano risposato che vuole suffragare la propria moglie
osservava polemicamente: Pro qua oblationes annuas reddis, stabis ergo ad Dominum cum
tot uxoribus, quot in oratione commemores? Et offerse pro duabus, et commendabis illas duas
per sacerdotem? (De Exhortatione Castitatis, 11; cfr anche De Monogamia, 10). Qui
l’oblatio pro mortuis significa chiaramente l’offerta del pane e del vino fatta dal vedovo
108
69
Al termine di questa orazione, che conclude il segmento liturgico
della Pròtesi o Proscomidìa il diacono incensa la santa mensa eucaristica, il
tavolo della protesi con quanto vi sta sopra e il resto della Chiesa.
E’ evidente l’aspetto immolatorio di un tale rituale, la cui
articolazione ricorda, senza nemmeno troppo sforzo, l’immolazione
cruenta degli olocausti nel tempio di Gerusalemme. Gesù, definito nel
Vangelo l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo
109
sostituisce una volta per sempre gli innumerevoli olocausti offerti dai
leviti per la remissione dei peccati. Il pane raffigura il suo corpo,
immolato volontariamente in olocausto; il recupero di un rituale
immolatorio, ripetuto nell’offerta del pane eucaristico sembrerebbe un
risposato. A Roma la Traditio Apostolica (N. 20) prescrive ai battezzandi una
oblazione... propter Eucharistiam. Decet enim ut quis dignus effectus est, offerta oblationem
eadem hora. Gli Atti di Pietro (200-225) mostrano i fedeli che pregano con san Paolo
oblationem offerentes ( LIPSIUS-BONNET, Acta Apostolica Apocrypha, II,46). Cipriano di
Cartagine (+258) rimprovera una donna ricca e avara che viene alla liturgia a mani
vuote: Tu vieni al rito del Signore senza il pane del sacrificio, ma poi ardisci ricevere una
parte del pane sacrificato, offerto dal povero (De Opere et Elemosina, XV). Il sinodo di
Elvira, in Spagna codifica formalmente l’antica prassi; il canone 28 specifica che non
può ricevere, né offrire l’Eucaristia chi non è in comunione con la Chiesa.
L’accettazione e l’atto di portarla all’altare con la relativa recita del nome
dell’offerente è un atto pubblico, segno di appartenenza alla comunità. Solo gli
epilettici e gli ossessi sono esclusi da quello che in Spagna è un obbligo per il
credente (canone 29). Ancora a Nicea (325) l’offerta del pane è preclusa ai penitenti
per tutto il tempo della loro penitenza. A Milano ne erano dispensati anche i neofiti,
per il primo periodo (AMBROGIO, Exspositio Super Ps. 118, prologus). Nei secoli IV e
V questa pratica è attestata in tutta la cristianità; abbondano le testimonianze a Roma,
a Milano e presso le chiese d’Africa. Le Chiese d’oriente non hanno abbandonato tale
prassi apostolica, mentre, illustre eccezione fra i riti occidentali, il rito ispanovisigoto, denominato mozarabico, praticato nella cattedrale di Toledo e in pochissime
altre chiese iberiche ha conservato l’uso del pane fermentato e la consuetudine della
sua confezione e offerta da parte dei fedeli.
109
Gv 1,36.
70
memoriale del sacrificio della croce, attraverso l’esplicito richiamo agli
olocausti legali, figura e profezia dell’unico olocausto eterno, compiuto
nella morte e risurrezione di Cristo. Il significato mistico e teologico degli
avvenimenti storici, narrati nei Vangeli avrebbe in questo caso una
efficacissima icona nel rito della Protesi ortodossa.
Non può non colpire lo svolgimento del rituale: ogni oggetto ed
ogni singola azione è accompagnata da una appropriata profezia
dell’Antico Testamento o da una citazione dai Vangeli della Passione,
non come semplici didascalie, ma come il manifestarsi e realizzarsi
storico di un disegno divino eterno. Le profezie sono compiute anche nel
particolare. Isaia , in questo caso, vide la passione del Cristo in una
110
visione profetica e la descrisse, come venne spiegato dal diacono Filippo
all’eunuco della regina d’Etiopia .
111
Viene da chiedersi quando compare per la prima volta la Protesi
nelle fonti liturgiche e storiche, o quando assume questo aspetto così
articolato e ricco? Si tratta di una evoluzione, della complicazione di un
rito più semplice? Il cerimoniale e l’apparato che l’accompagna sono
sempre stati quali li conosciamo noi oggi?
110
L’attribuzione del libro di Isaia al profeta Isaia stesso è in massima parte accettata
dagli studiosi biblisti, anche se sembrano autentici solo i primi quaranta capitoli. I
capitoli 40-55 non sembrano risalire all’VIII secolo, ma almeno a due secoli dopo e
vengono attribuiti ad un anonimo continuatore di Isaia, denominato Deutero-Isaia o
Secondo-Isaia. Così le profezie del capitolo 52, utilizzate per la preparazione del pane
eucaristico, fanno parte del materiale attribuito al Deutero-Isaia.
111
At 8,26-40.
71
FONTI DELLA PROSCOMIDIA O PROTESI
Il lavoro classificatorio delle fonti è già stato in gran parte
compiuto dal Mandalà, ma per utilità e comodità mi permetto di
riassumerlo anche in questa sede, vista la difficoltà di reperire l’opera
persino nelle biblioteche scientifiche. Mandalà aveva a disposizione
l’archivio criptense e comunque ammise di essere in debito nei confronti
delle ricerche eseguite dal p. Placido de Meester .
112
1. FONTI LITURGICHE
Secolo IV.
Costituzioni Apostoliche. Si tratta di una raccolta varia di formule e
testi liturgici; particolarmente importante, per il nostro studio, risulta
essere il libro VIII, nel quale è riportata la cosiddetta liturgia Clementina,
uno dei documenti più autorevoli, anche se non si hanno conferme sulla
sua ufficialità . E’ stata riscontrata una particolare analogia fra il testo
113
clementino e la liturgia di san Basilio ed è stato oggetto di studio
l’influsso che essa esercitò sul rito costantinopolitana del V secolo .
114
112
P. DE MEESTER O.S.B., Les Origines et les développements du texte grec de la liturgie
de S.J: Chrysostome. Crysostomikà, pp. 245-357.
113
F.E. BRIGHTMAN, Liturgies eastern and western, vol. I: Eastern liturgies. Oxford,
1896, p. XVII.
114
MANDALA’, Op. Cit. p. 20.
72
Secolo VIII.
Codice Barberiniano Greco 336. Uno dei primi e più significativi
documenti liturgici, un ricco eucologio custodito nella biblioteca
Vaticana. Il rito della protesi compare in una forma essenziale.
Secolo IX-X: Codice Criptense Gamma. B. VII: comprende tre eucologi.
Codice Criptense Gamma. B. XXIX: una miscellanea di ecologi.
Codice Porfiriano: è conservato nella biblioteca imperiale di San
Pietroburgo.
Secolo X.
Codice Sinaitico n. 958: è riportato dal Dmitrievskj nel secondo
volume dei suoi Euchologia.
Codice Sebastianov: la protesi è ridotta notevolmente.
Codice Vaticano Greco 2282: contiene la liturgia antiochena.
Secolo XI.
Codici Criptensi Gamma. B. II e B. IV.
Secolo XII.
Codice Vaticano Greco 1970: il celebre codice di Rossano,
comprendente anche la descrizione della liturgia di San Pietro. Riporta
gli usi della Magna Grecia e si avvicina molto ai testi più antichi.
73
Codice Vaticano Greco 1973: benché si tratti di un manoscritto
mutilo, esso tuttavia riporta una parte significativa del rituale della
Protesi. Le commemorazioni sono abbastanza estese.
Codice Criptense Gamma. B. VIII: i formulari per la protesi sono
addirittura due, uno in tutto simile all’attuale, l’altro addirittura di tipo
epicletico, secondo le valutazioni dello stesso Mandalà.
Codice Sinaitico n. 973: questo documento risulta essere un unicum,
per l’epoca, dal momento che riporta la sola preghiera finale della Protesi.
Bodl. MS. Auct. E. 5.13, ff. 6 sq : questo manoscritto proviene dal
monastero del Santissimo Salvatore di Messina
115
Secolo XIII.
Codice Barberini Greco 428. Un documento legato a singolari
circostanze storiche: l’applicazione dei dettami del concilio di Trento a
scapito delle ultime tracce d’ortodossia nell’Italia meridionale; tutti i testi
liturgici di “altri riti” venivano confiscati dall’Inquisizione e tradotti a
Roma, per correggerne eventuali errori dogmatici e liturgici. Il
manoscritto riporta infatti un’annotazione in cui si dichiara che fu
mandato a Roma da “ Mons. Rev.mo di Rhegghio al sig. Card. Di S.
Severina et revisto per ordine della Congregazione dei
Greci come
consta per una lettera di sua Signoria Ill.ma alli 8 di Agosto 1597”. Il fatto
115
Cfr BRIGHTMAN, Op. Cit. , p. 543.
74
che si trova ancora a Roma e che non tornò mai a “Rhegghio” dimostra
quali erano gli scopi reali di una tale “revisione” .
116
Codice Reginense Greco 66: è conservato nella Vaticana; da alcuni
elementi taluni lo ritengono del XIII o XIV secolo. Il suo arrivo a Roma è
probabilmente collegato con le circostanze storiche cui abbiamo
accennato sopra.
Secolo XIII.
Codice Criptense Gamma. B. XII: si tratta di un’edizione di materiale
esclusivamente liturgico, cioè usato solo nel rito eucaristico.
Manoscritto Bodl. Cromw. II, ff. 22 sq. : il presente manoscritto riporta
la datazione A.D. 1215 ed è riportato dal Brightman .
117
Codice Patmense n. 719: Contiene una recensione prolissa della
Protesi .
118
116
Sarebbe interessante studiare in questa prospettiva le vicende di quella
Congregazione dei Greci di cui parla l’annotazione, meglio nota come ordine Basiliano,
nel quale vennero raggruppati gli ultimi resti del monachesimo ortodosso un tempo
assai fiorente nell’Italia meridionale. Non si può negare che la relativamente tarda
comparsa di un ordine basiliano, organizzato alla maniera degli ordini religiosi latini
medievali coincida con la decadenza inarrestabile di un tale monachesimo. Il concilo
di Trento ha rappresentato il colpo di grazia per quanto rimaneva di usi ortodossi
tanto nei monasteri, quanto nelle diocesi. La stessa Badia di Grottaferrata (Roma) non
si è potuta sottrarre ad un tale destino. Il rito greco che vi è attualmente praticato non
è il frutto di una tradizione ininterrotta, viste le numerose riforme e controriforme a
cui è stato sottoposto e viene sottoposto fino ai giorni nostri. E in ogni caso un
monachesimo è fiorente non quando pubblica libri e studi, ma quando produce
quelle figure di asceti che abbondano, per esempio, nell’agiografia italogreca del X-XI
secolo.
117
Op. Cit. , p. 544, VIII.
118
Cfr DMITRIEVSKJ, Euchologia, p. 170.
75
Secolo XIV.
Codice Vaticano Greco 573: si tratta di una specie di rituale ad uso
del presbitero e del diacono, corredato di ampie rubriche; la protesi è
assai sviluppata, le commemorazioni ai santi sono numerosissime. Il
testo fa uso di frequenti abbreviazioni e riporta una scelta ampia di
sermoni dal contenuto vario.
Codice Criptense Gamma. B. III: la datazione è irrisolta, per il Goar
sarebbe del 1260 . IL rituale della Protesi appare in un’ottima recensione.
119
Codice Esfigmenou : riporta la datazione del 1306. La Protesi fornita
120
è definita dal Mandalà “esauriente” .
121
Secolo XV.
Codice Vaticano Greco 1228: riporta all’inizio della Liturgia di San
Giovani Crisostomo la sola preghiera finale della Protesi, come il Codice
Sinaitico 973. Tutto questo, però, non sembra sufficiente a stabilire una
sicura parentela fra i due.
Codice Criptense A. alpha. X: si tratta di un documento del secolo XIXII al quale, dal foglio 137 sono state successivamente aggiunti i testi
delle tre liturgie ortodosse, quella del Crisostomo, quella di San Basilio e
quella di San Gregorio il Dialogo, papa di Roma, utilizzata nei mercoledì
119
Cfr MANDALA’, Op. Cit., p. 22.
Esfigmenou è uno dei venti cenobi del Monte Athos.
121
Krasnoseltzev, descrivendo in Materialia (Kazan, 1889, p. 6 ss) un codice del
monastero atonita di san Panteleimon e confrontandolo con quello esfigmenita
sostiene essere entrambi copia di uno stesso manoscritto più antico.
120
76
e venerdì della Grande Quaresima e nei primi tre giorni della Settimana
Santa, conosciuta anche come Liturgia dei Presantificati. Un’epigrafe
riporta l’anno 1475; la datazione è inconfutabilmente confermata anche
dallo stemma del cardinale Giuliano Della Rovere, che fu abate
commendatario della Badia di Grottaferrata a cominciare dal 1473. Il
testo della Protesi è sufficientemente esteso.
Codice ms. n. 986: proviene dal Monastero della Meghìsti Làvra del
Monte Athos e riporta una recensione del Diaconicòn, il manuale liturgico
ad uso del diacono .
122
La comparsa e la diffusione della stampa rende superfluo
menzionare le pur numerose recensioni manoscritte del XVI secolo. Le
stesse fonti liturgiche elencate in questo contesto si limitano ai testi più
significativi, capostipiti di famiglie o gruppi più o meno estese o unici
esemplari pervenuti di tradizioni particolari. Alla vasta proliferazione di
trascrizioni e recensioni fluttuanti il patriarca di Costantinopoli Filoteo,
nel XIV secolo tentò di porre un argine stabilendo un’unica recensione;
lungi dall’ottenere i risultati sperati le costituzioni patriarcali di Filoteo
per lo meno risolsero alcuni problemi proprio per quanto riguarda il
rituale della Protesi, che rischiava, negli ultimi secoli del medioevo, di
assumere proporzioni esagerate. L’uniformità fu definitivamente
raggiunta con il diffondersi delle edizioni impresse a stampa.
122
Cfr DMITRIEVSKJ, Op. Cit. , p. 602.
77
2. FONTI GIURIDICHE.
I canoni conciliari, come pure le leggi imperiali romane si
occupano non di rado di questioni liturgiche, ma non sembrano mai aver
riguardato un punto così dettagliato. Manca uno studio capillare degli
epistolari dei vari patriarchi costantinopolitani; la materia liturgica
sicuramente è abbondante, soprattutto negli scambi con altri vescovi.
Abbastanza nota è, invece, la codificazione dei monasteri, ma tali
documenti difficilmente descrivono qualcosa di praticato su vasta scala,
considerando il fatto che quasi sempre i monasteri erano legati a speciali
obbligazioni in favore di fondatori, benefattori ecc.
123
Ma anche in questo
caso non abbiamo fonti particolarmente antiche; il Typicòn di Irene
Augusta, per monasteri femminili, infatti, risale al secolo XII e pure del
XII secolo è quello di Nicola il Mistico, come anche un Typicòn di san
Saba che ritroviamo in un codice atonita-patmense.
Nel secolo X viene redatto un testo didascalico avente per oggetto
la Protesi, o Proscomidia. Si tratta della Diàtaxis Tès Proscomidès parà toù
Patriàrchou Constantinoupòleos, ad opera di un certo Paolo di Gallipoli.
Del secolo successivo è l’interessante costituzione di Nicola il
Grammatico, patriarca di Costantinopoli (1084-1111) dedicata al modo in
123
Un esempio molto chiaro è il breve ufficio che apre la Preghiera del Mattutino nel
typikon liturgico ortodosso attuale: i salmi 19 e 20, insieme con strofe innografiche e
intercessioni per l’imperatore e la salvezza dello stato (cfr Horològhion To Mèga, pp.
33-35, “Astir Publishing Company”, Atene 1973). Tale segmento liturgico costituiva il
suffragio ufficiale quotidiano che i monasteri di fondazione imperiale tributavano.
78
cui conviene che il sacerdote compia la proscomidìa. Si dovrà attendere il
secolo XIV per un’altra Diàtaxis, quella di cui abbiamo già parlato, opera
del patriarca di Costantinopoli Filoteo.
Come si vede la situazione delle fonti giuridiche non è di grande
utilità per l’epoca di cui ci occupiamo ed è per questo che la limitiamo a
questo breve cenno, doveroso per lo meno per illustrare le più antiche
fonti.
3. FONTI STORICHE.
A differenza delle fonti giuridiche, le fonti storiche danno un
maggior sostegno a questo studio.
Un commentario liturgico, assai noto e trascritto con varie
attribuzioni, verosimilmente dell’VIII secolo, e probabilmente opera di
Germano I, patriarca di Costantinopoli (+ 740), viene tradizionalmente
considerato come la più antica descrizione di un rituale di protesi o
proscomidia .
124
Il testo, come vedremo più avanti, prende in esame il
significato simbolico degli spazi liturgici e degli elementi architettonici,
per poi passare in rassegna le vesti liturgiche, le suppellettili e i singoli
segmenti della liturgia. Le parti essenziali sono descritte e comprese tutte
124
Per un approfondimento dal punto di vista squisitamente critico e filologico
consigliamo la lettura di N. BORGIA, Il Commentario Liturgico di San Germano
Patriarca Costantinopolitana e La Versione Latina di Anastasio Bibliotecario, ed.
Grottaferrata, Roma 1912.
79
nel modo a noi noto. Per molti si tratta della prima testimonianza
accertante l’esistenza di un rituale denominato Protesi o Proscomidia.
Ma in realtà una lettura attenta del Prato di Giovanni Mosco ci
125
mostra in più punti l’esistenza, almeno nella metà del VI secolo di un
rituale, collegato con la liturgia eucaristica, denominato proscomidia, che
come abbiamo visto è un sinonimo di protesi.
125
Non mancano monografie sulla figura di Giovanni Mosco. Queste sono le
principali in ordine cronologico: S. VAILHE’, Jean Mosch, in Echos d’Orient, V
(1901/1902), pp. 107-116; è in pratica un tentativo di ricostruzione della sua biografia
utilizzando i soli dati ricavabili dalla sua stessa opera. E. PREUSCHEN, Moschos, in
Realencyclopadie fur protest. Teologie, XIII, (1903), pp. 483 ss. H. LECLERCQ, Jean
Mosch, in Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, VII/2 (1927), coll. 21902196. E. AMANN, Moschus, in Dictionnaire de Théologie Catholique et de la Liturgie, X/2
(1929), coll. 2510-2513. N.H. BAYNES, The Pratum Spirituale, in Orientalia Christiana
Periodica, XIII (1947), pp. 404-414. E. MIONI, Jean Moschus, Moine, in Dictionnaire de
Spiritualité, VIII (1973), coll. 632-640. H. CHADWICK, Jean Moschus and his Friend
Sophronius the Sophist, in The Journal of Theological Studies, n.s. XXV (1974), pp. 41-74.
P. PATTENDEN, The Text, of the Pratum Spirituale, in The journal of Theologian Studies,
n.s. XXVI (1975), pp. 38-54. KEETJE ROZEMOND, Jean Mosch patriarche de Jerusalem
en exile (614-634), in Vigiliae Christianae, XXXI (1977), pp. 60-67. M. GERAARD, Clavis
Patrum Graecorum, III, Turnhout, 1979, pp. 379-381.
80
GIOVANNI MOSCO: LA VITA E L’OPERA
L’autore di un opera ancora relativamente poco letta in Italia,
merita un cenno biografico particolare . Giovanni Eukratas, figlio di
126
Moschos, nacque molto probabilmente a Damasco (per altri in Isauria)
nella prima metà del 500. Abbracciò la vita monastica nel monastero di
san Teodosio il Cenobiarca, presso Gerusalemme, dove fu anche
ordinato presbitero, per poi trasferirsi nelle grotte del deserto di Giuda,
abitando fra gli anacoreti che risiedevano non lontano dalle rive del
Giordano. In un anno imprecisato tra il 568 e il 578 si trasferì nel cenobio
di Fara in Giudea. Si ha notizia anche di una successiva permanenza
nella Lavra degli Ailioti, sita nella penisola del Sinai, probabilmente tra il
580 e il 590. Il suo ritorno a Gerusalemme, dopo un periodo trascorso
nella Grande Lavra, fondata da san Saba nelle vicinanze di Gerico, risale
agli inizi del settimo secolo. Nel 604, in seguito all’invasione persiana
della Palestina, lo ritroviamo profugo prima ad Antiochia di Siria e in un
secondo momento, quando la minaccia persiana comincia a gravare sulla
stessa Antiochia (614), si trasferisce ad Alessandria, dove, data la
vicinanza, ha modo di visitare i celebri centri monastici del deserto
126
La vita di Giovanni Mosco è narrata in un prologo anonimo che una parte dei
manoscritti del Prato stesso tramandano. A questo attinge Fozio il Grande per le
notizie che dà nel codice 199 della sua Biblioteca (vol. III, pp. 96-97 dell’ed. Henry). Il
prologo è stato edito da USENER in Der Heilige Tychon, alle pp. 91-93. Se ne può
consultare una versione in italiano in GIOVANNI MOSCO, Il Prato, a cura di
MAISANO R., M. D’Auria editore, Calata Trinità Maggiore, Napoli, 2002, pp. 58-59.
81
egiziano. Quando poi, nel 616 i persiani invadono l’Egitto si dirige verso
la capitale dell’impero , non senza aver sostato in diverse isole (Cipro e
127
Samos, come si evince da alcuni episodi narrati nell’opera stessa).
Durante il soggiorno nella capitale, “la grande città dei Romei” , come
128
viene definita nel Prologo, Giovanni completa la stesura del Prato. Si
suppone che ciò sia avvenuto nel cenobio degli Eukratidi, come farebbe
appunto supporre l’epiteto ”Eukratàs” con cui i manoscritti lo citano.
La morte lo raggiunge dunque mentre si trova nella capitale, ma
prima di spirare si fa promettere dai suoi dodici discepoli, tra i quali
Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme, di traslare le proprie spoglie
mortali fino al Sinai; se però ciò non fosse stato possibile a causa dei
disordini provocati dal conflitto in medio oriente, lo avrebbero potuto
seppellire nel cimitero di san Teodosio, suo primo monastero. Il trapasso,
127
Si è discusso alquanto per identificare quale fosse la capitale dell’impero; per
alcuni, come il Gribomont, estensore del profilo biografico che compare in AAVV,
Dizionario degli Istituti di Perfezione, II, coll. 1284-1285, si tratta senza dubbio di Roma
antica. Due elementi non sono stati considerati, a mio avviso, da parte dei sostenitori
di questa tesi. Il primo e più evidente è il fatto che agli inizi del VII secolo molto
difficilmente i cittadini dell’impero romano potevano sentire l’antica Roma come
centro della loro vita politica e, quindi, come capitale. Il secondo elemento da
considerare è il motivo del viaggio stesso nella capitale: si tratta di una fuga da
territori minacciati da invasioni; normalmente chi fugge da tali minacce cerca di
mettersi al sicuro in luoghi a loro volta non minacciati da pericoli analoghi. In effetti
la Costantinopoli di quel periodo doveva offrire maggiori garanzie ai profughi di
guerra, piuttosto che una Roma accerchiata da nord e da sud dai Longobardi.
128
Forse è superfluo sottolineare come i cittadini dell’impero romano di quel periodo
non sapevano ancora di essere “bizantini” e che, anzi, in realtà non lo seppero mai,
continuando a chiamarsi “Romei”, cioè romani, secondo la pronuncia greca del tardo
antico, e ad essere chiamati così fino al XVIII secolo, quando alcuni studiosi
occidentali inventarono a scopo ideologico il concetto di “bizantino”, del quale
sembra ormai impossibile liberarsi, sebbene ormai molti storici contemporanei ne
abbiano riconosciuto i limiti e l’artificiosità.
82
come precisato nel Prologo, avviene all’inizio dell’ottava indizione, che
alcuni collocano nel 619, mentre altri ritengono trattarsi del ciclo di
indizioni successivo e quindi del 634 . La piccola comitiva di monaci
129
lascia, insieme con la salma del maestro, la capitale, ma, sbarcando ad
Ascalona si viene a sapere che la regione è nuovamente nel caos per “la
ribellione
e
l’usurpazione
degli
Agareni”.
Avendo
preso
atto
dell’impossibilità di addentrarsi nella penisola del Sinai i discepoli di
Giovanni Mosco decidono di orientarsi per la seconda possibilità lasciata
loro dal maestro e dopo aver trasportato il feretro fino a san Teodosio, lo
seppelliscono nella grotta dove secondo una tradizione locale i Magi si
sarebbero rifugiati per sfuggire ad Erode, quella stessa grotta in cui molti
anni prima Giovanni Mosco aveva iniziato le pratiche ascetiche,
rendendosi “degno del dono della grazia, che segue coloro che qui sono
sepolti, non solo in questa vita terrena, ma anche dopo la morte”.
129
L’indizione cui si fa riferimento è un ciclo di quindici anni utilizzato nell’antico
calendario romano e tuttora in uso nella Chiesa Ortodossa. L’anno ottavo
dell’indizione, l’ottava indizione, appunto, poteva essere il 619 oppure più
probabilmente il 634, se consideriamo che Giovanni Mosco non fu seppellito come
desiderava al Sinai a causa dei disordini provocati dagli Agareni. Il 634 in effetti è
l’anno in cui il califfo Omar inizia l’invasione dell’impero romano cominciando
proprio dai territori riconquistati ai persiani. In questo caso diviene molto chiara
l’affermazione del Prologo: “… Era impossibile raggiungere il santo monte Sinai per
la ribellione e l’usurpazione dei cosiddetti Agareni”. Inoltre Giovanni è anche
autore, insieme col discepolo Sofronio, di una biografia del patriarca d’Alessandria
Giovanni il Misericordioso (questa è l’esatta traduzione dell’epiteto greco Eleémon,
che altri rendono in italiano con il goffo appellativo di “elemosiniere”). Siccome
quest’ultimo morì l’11 novembre del 620, quanti vogliono Giovanni Mosco morto nel
619 devono anche provare che questo bìos gli viene erroneamente attribuito.
83
Alcune recenti ricerche compiute da Keetje Rozemond hanno
rivelato la possibilità che durante il soggiorno costantinopolitano il
nostro autore rivestisse addirittura la carica di patriarca di Gerusalemme
in esilio. L’arcivescovo Zaccaria, infatti, patriarca di Gerusalemme al
momento della caduta della città nelle mani dei persiani, era stato
deportato alla corte di Cosroe II. Non è impensabile supporre, pertanto,
che i non pochi vescovi e cristiani profughi prima ad Alessandria, presso
Giovanni il Misericordioso, e poi a Costantinopoli, considerassero
Zaccaria decaduto ed eleggessero Giovanni Mosco al suo posto. A
sostegno di questa ipotesi ci sarebbero alcune epistole inviate da
Massimo il Confessore ad un arcivescovo Giovanni in esilio, considerato
dallo stesso Massimo come suo vescovo. In effetti egli era originario di
un villaggio della Tiberiade, appartenente al territorio metropolitano di
Gerusalemme. Inoltre nella epistola del Damasceno sull’inno trisagio si
parla di un ”illustre Giovanni Mosco, patriarca della città santa di Cristo
nostro Dio”. Addirittura nel Manoscritto Coislin 369 della Biblioteca
Nazionale di Parigi il Prato è attribuito a “Giovanni e Sofronio, patriarchi
della città santa di Cristo nostro Dio”.
In ogni caso la figura del monaco viaggiatore non è inconsueta ed
ha degli illustri rappresentanti quali Giovanni Cassiano (360/365 – 435) e
Nilo di Rossano (910 –1004), tanto per limitarci a pochi, ma significativi
esempi. Dai viaggi e dalle innumerevoli esperienze Giovani Mosco trasse
materia inesauribile per le sue narrazioni, nella cui stesura collaborò lo
84
stesso Sofronio, futuro patriarca di Gerusalemme. Il medio oriente di
quel periodo immediatamente precedente l’invasione arabo-islamica,
attraversato da tensioni sociali e religiose, fornì la gran parte del
materiale narrativo collezionato nel Prato (Leimonàrion). Ebrei, monofisiti,
ortodossi e nestoriani popolano queste narrazioni alle quali le tormentate
vicende politiche e militari fanno da sfondo.
L’opera è stata nei secoli erroneamente attribuita allo stesso
Sofronio da parte prima di Giovani Damasceno, dal quale probabilmente
dipendono le versioni in lingua araba ed etiopica . I codici riportano
130
spesso il Prato in versioni mutile da compendiare fra loro, comunque
sempre accompagnato da altri testi di argomento simile e con struttura
narrativa simile, come gli Apoftegmata. Il Lavoro sulle fonti è arduo,
l’edizione migliore pervenuta si trova a Firenze ed è del XII secolo. La
versione latina del monaco camaldolese Ambrogio Traversari si basa su
130
Per la versione in lingua araba: GUARAMA R:, Al-Bustan, Tiflis 1965 (edizione del
testo arabo tratta da un manoscritto Sinaitico del sec. X, con traduzione e studio). In
etiopico: ARRAS V., Patericon Aethiopice, Lovanio 1967 (“Corpus Scriptorum
Christianorum Oreintalium”, 277-278; versione in quarantanove capitoli). In
georgiano: ABULAZDE I., Giovanni Mosco (in lingua georgiana), Tiflis 1960 (testo,
introduzione e glossario). In paleo-slavo: GOLYSENKO V. S. – DUBROVINA V. F.,
Sinajskij Paterik, Mosca 1967. In latino: LIPOMANI Al., Vitarum Sanctorum Patrum,
tomus VII, Roma 1558, pp. 289-370 (si tratta della già citata edizione del Traversari);
HOFERE M., Ioannis Monachi liber de miraculis, Wurzburg 1884 (versione di 27 capitoli
di Giovannei Monaco); HUBER P. M., Ioannis Monachi liber de miraculis, Heideberg
1913 (c.s.). In italiano: Le vite overo Legende de’ sancti Padri… per diversi eloquentissimi
Dottori volgarizzati, Venezia 1475 (in volume a sé: Il Prato Spirituale de’ Santi Padri,
recato in volgare da FEO BELCARI, Bologna 1884); GIOVANNI MOSCO, Il Prato, a
cura di MAISANO R., M. D’Auria editore, Calata Trinità Maggiore, Napoli 1982 (2°
ed. 2002). In francese: JEAN MOSCHUS, Le prè spiritual, introd. e trad. a cura di M. –
J. ROUET DE JOURNEL, Parigi 1946 (“Sources Chrètiennes”).
85
questo codice e risale al 1423; nel 1558 Lipomani diede alle stampe per la
prima volta la traduzione del Traversari riducendo i capitoli da 300 a 219
senza però mutilare il testo stesso. Si conoscono ancora numerose
ristampe fino all’edizione del Migne (PG 87, t. III, Paris 1865, coll. 28433116), il quale però ripubblicava una versione incompleta del testo greco
già comparsa in occidente ad opera
di Fronton du Duc e da
J.B.
Cotelier .
131
Le notizie raccolte nel Prato sono interessanti sotto diversi punti di
vista. Innanzi tutto ci permettono di approfondire la religiosità cristiana
dell’epoca e i rapporti fra le comunità religiose, insieme con gli attriti
dogmatici. Da non sottovalutare poi, sono le informazioni riguardanti il
culto cristiano ortodosso dell’epoca; non di rado esse risultano meno
vaghe e generiche di quanto non si immagini. E questo aspetto, come
dicevamo, che interessa particolarmente alla nostra ricerca. Giovanni fu
anche presbitero, una condizione piuttosto rara nel monachesimo
ortodosso fino ai giorni nostri. Forse, come s’è visto, fu anche vescovo e
patriarca; non si può quindi minimamente dubitare della sua
131
DUCAEUS, Bibliotheca Veterum Patrum seu Scriptorum Ecclesiasticorum, tomus II
Greco-latinus, Paris 1624, pp. 1053-1159; J.B. COTELERIUS, Ecclesiae Graeae
Monumenta, II, Paris 1681, pp. 341-456 (completamento dell’edizione precedente con
l’aggiunta di altri 101 episodi). Altre edizioni del testo greco: HESSELING D.-C.,
Morceaux Choisis du Pré Spiritual de Jean Moschos, Paris 1931 (antologia con
introduzione, traduzione e commento di 24 capitoli tratti dall’edizione del Migne);
NISSEN Th., Unbekannte Erzahlungen aus dem Pratum Spirituale, in Byzantinische
Zeitschrift, XXXVIII (1938), pp. 351-376 (pubblicazione di 14 capitoli inediti); MIONI,
Il Prato Spirituale di Giovani Mosco, in The Journal of Theological Studies, n. s. XXVI
(1975), pp. 38-54 (edizione di quattro capitoli finora noti nella loro completezza
soltanto attraverso la versione latina).
86
competenza tecnica nel riferirci particolari dettagli del culto cristiano
dell’epoca. Ed in effetti i riferimenti ai luoghi del culto, alla loro
disposizione, alla pratica dei sacramenti e alla liturgia eucaristica stessa
riportati nel Prato sono assai più abbondanti che non negli Apoftegmata, o
nella Scala di Giovani Climaco. La terminologia con cui si esprime è
molto vicina a quella divenuta poi tradizionale per tutto il medioevo fino
ai nostri giorni e ciò è importante perché è stata recentemente dimostrata
la corrispondenza terminologica e la somiglianza fra la cosiddetta
liturgia delle ore gerosolimitano-palestinese descritta da Egeria
132
e gli
attuali testi liturgico-innografici utilizzati dalla Chiesa Ortodossa . La
133
liturgia delle ore e la liturgia eucaristica, infatti, non viaggiano mai su
binari paralleli; le somiglianze strutturali e di testo riscontrate, per
esempio nel vespro , ma anche nelle singole ore diurne e notturne può
134
132
EGERIA, Pellegrinaggio in Terra Santa, Ed. Paoline, Roma 1985.
Lo studioso norvegese Stig Ragnvald Froyshov nell’autunno del 2003, presso
l’Istituto Teologico San Sergio di Parigi, difendeva con successo una tesi di dottorato
dal titolo: L’Horologe “georgien” du Sin. Iber. 34. Edition & traduction. Commentaire, che
cortesemente ci permetteva di consultare prima della pubblicazione. Buon
conoscitore del georgiano, Froyshov, esamina per la prima volta una serie
manoscritti liturgici georgiani, rinvenendo traduzioni di ufficiature utilizzate a
Gerusalemme e dintorni già nel IV secolo. Confrontando questi testi con le
descrizioni della monaca pellegrina Egeria e con il Typikòn liturgico ortodosso
attualmente in uso, giunge alla conclusione che quest’ultimo non è altro che un
compendio abbreviato e in parte modificato di quello praticato dalla Chiesa di
Gerusalemme in pieno IV secolo. La tesi del ricercatore norvegese è stata premiata
col massimo punteggio.
134
Ritengo utile fornire a questo punto almeno un breve esempio di somiglianza fra i
due riti. Il vespro feriale della Chiesa Ortodossa risulta composto dal salmo iniziale
(103), seguito dai salmi graduali (119-133), terminati i quali viene eseguito il rito del
Lucernario, consistente nei salmi 140, 141, 129 e 116, tra i cui versetti si intercalano sei
strofe innografiche; dopo il Dòxa Patrì si ha una strofa dedicata alla Madre di Dio e
l’inno del martire Atenogene: Phòs ilaròn. Si canta poi un versetto, vengono recitate
133
87
legittimamente incoraggiare altri parallelismi. Quando, ad esempio
Giovanni Mosco, nel VI-VII secolo, usa il verbo proscomìzein , e lo usa
135
spesso, come vedremo tra poco, è assai probabile che intenda proprio
quello che tradizionalmente è stato sempre inteso dal clero ortodosso di
lingua greca utilizzando per altro lo stesso e identico verbo fino ai giorni
nostri.
LA PROSCOMIDIA NEL PRATO DI GIOVANNI MOSCO
Esamineremo ora singolarmente i singoli capitoli del Prato in cui
abbiamo riscontrato riferimenti espliciti alla proscomidìa.
delle intercessioni e ai versetti del salmo 122 vengono intercalate altre quattro strofe
innografiche. Si conclude infine con l’ode di Simeone (Lc 2, 29-32), il trisagio col
Padre nostro e varie preghiere ed inni conclusivi (cfr Horologhion To Mega, ed. Phòs,
Athina 1999, pp. 145-158; oppure una antologia di testi tradotti in italiano a cura di
ARTIOLI M. B., Anthologhion di tutto l’anno, ed. Lipa, Roma 2000, vol. IV, pp.124-150).
Confrontando tutto ciò col manoscritto georgiano Sin. Iber. 34 (cfr Froyshov, Op. Cit.,
pp. 26-31) si deve constatare qualche differenza tra il Phòs ilaròn e i versetti del salmo
122, mentre la struttura è assolutamente identica possono variare i singoli testi
innografici da intercalare ai versetti dei salmi del Lucernario e del salmo 122, cosa
possibile ancora ai giorni nostri. Purtroppo per noi Egeria si dimostrò poco
interessata alle particolarità dello svolgimento della liturgia eucaristica vera e
propria. Certo è che essa annotò con cura le differenze, più che le somiglianze.
135
Alla voce proscomidìa il Lessico Patristico di Oxford da come primo significato
l’offerta sacrificale del pane e del vino per la divina liturgia. In Macario l’egiziano e
in Nilo d’Ancyra, come anche nel Crisostomo, il termine è conosciuto e utilizzato sia
in riferimento alla liturgia, sia in senso figurato e traslato. Basilio e Teodoro di
Mopsuestia lo utilizzano prevalentemente in riferimento alla liturgia eucaristica e
alla preparazione del pane e del vino. Dal VI secolo in avanti sarà utilizzato
esclusivamente per indicare una parte della liturgia eucaristica (cfr AAVV, A Patristic
Greek Lexicon, Oxford University Press 1961, p. 1173)
88
Abba Gregorio dal (monastero) degli Scolari ci diceva: C’era un fratello
nel cenobio di Choziba , il quale conosceva la proscomidìa della santa anafora .
136
137
Una volta fu inviato a portare le euloghìes , ed entrando nel monastero disse la
138
proscomidìa com’è nell’ordine della sticologia . E queste euloghìes i diaconi
139
136
Choziba è un toponimo ebraico-aramaico antico, che significa “sorgente o corso
d’acqua intermittente. La prima fonte ad attestarlo è il cosiddetto “Rotolo di rame”
(cfr MILIK J. T., Discoveries in the Judean Desert, III: Le “petites grottes” de Qumran,
Oxford 1962, pp. 242, 265), redatto dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme.
Questo termine si riferisce alla gola oggi denominata anche Wadi Kelt, nelle
vicinanze di Gerico. La presenza dell’acqua e di una modesta vegetazione, insieme
con l’isolamento favorirono l’insediamento monastico già all’inizio del V secolo. Le
primitive celle eremitiche furono poi trasformate in una costruzione cenobitica alla
fine del secolo, per opera di Giovanni l’Egiziano, un monaco originario di Tebe, che
poi fu fatto vescovo di Cesarea. Il monastero subì danni gravi durante entrambe le
invasioni, persiana e araba, ma vene comunque ricostruito e riabitato fino al XV
secolo. Dopo un periodo di abbandono a fine Ottocento venne ricostruito e il
monachesimo rifiorì anche nelle celle anacoretiche circostanti fino ai giorni nostri. La
chiesa principale del monastero è dedicata alla Dormizione della Madre di Dio. Il
calendario del Patriarcato Ecumenico del 2000 riporta la presenza di due soli monaci
residenti. Altre notizie sono reperibili in ANONIMO (PSEUDO-CIRILLO DI
SCITOPOLI, ANTONIO DI CHOZIBA, Nel Deserto Accanto ai Fratelli. Vita di Gerasimo
e di Giorgio di Choziba, a cura di LEAH COMPAGNANO DI SEGNI, ed. Qiqajon,
Magnano (VC), 1991. Nel Prato si citano spesso luoghi, persone e fatti avvenuti nel
monastero e nelle celle anacoretiche circostanti.
137
La proscomidìa della santa anafora in italiano si potrebbe rendere con: la
preparazione dell’Eucaristia. Si tratta di un vocabolario tecnico imprescindibile per la
lettura di questi testi. Purtroppo molti studiosi contemporanei continuano ad
accontentarsi delle conoscenze liturgiche e sacramentali fornite dalla chiesa cattolica
romana, ritenendole applicabili anche al cristianesimo di altre epoche. Non è
sufficiente, in questa materia saper citare correttamente una fonte, è anche
indispensabile comprenderla con precisione.
138
Euloghìa è un altro termine tecnico che indica realtà differenti, ma sempre collegate
fra loro. Letteralmente significa “benedizione” e viene utilizzato per indicare un
dono o il permesso che l’anziano concede al suo discepolo. In questo contesto
euloghìes sono il pane, ma anche il vino donati per il culto. E’ assai probabile che
insieme con i pani fosse stato offerto per la liturgia anche del vino.
139
Sticologia è un altro temine tecnico liturgico; indica la recita o anche il canto di un
testo suddiviso in versetti (in greco: stìchos = versetto). Non qualifica assolutamente,
però, il tipo di testo che viene recitato; infatti il testo specifica che cosa veniva recitato
dal fratello che recava i pani donati nel santuario.
89
deposero sul disco nel santo altare ; e a compiere la proscomidìa (proscomìzein)
140
141
era l’allora presbitero , abba Giovanni, soprannominato il Chozebita, che in
142
seguito divenne vescovo di Cesarea in Palestina. Non vide, come di solito, la
manifestazione dello Spirito santo. E addolorato al pensiero di aver forse lui
143
stesso peccato, e per questo allontanato lo Spirito santo, entrò nel diakonikòn
144
140
Il disco è quel vassoio detto anche discarion di cui s’è detto nella descrizione del
rito della Proscomidìa (vedi la nota 83 a pag. 44).
141
Letteralmente Thysiastèrion, luogo del sacrificio. Non può intendere in questo caso
la mensa eucaristica, giacché non era dato ai diaconi deporre nulla sulla mensa
eucaristica. Thysiastèrion è anche per estensione il santuario, erroneamente
denominato presbiterio, presente in tutti i luoghi di culto cristiani, mutuato più
dall’architettura sinagogale, che non direttamente dal tempio di Gerusalemme (cfr
BOUYER, L. Architettura e liturgia, trad. it. Magnano, Qiqajon 1994). Il santuario
risulta suddiviso in tre aree: quella centrale, in cui sorge la mensa eucaristica su cui è
deposto l’evangelario, al posto dell’arca in pietra contenente la Torah. A nord (le
chiese sono state sempre orientate; solo in occidente dal basso medioevo, si è
smarrita questa nozione architettonica e insieme teologica) della mensa eucaristica è
collocato il tavolo della Protesi dove vengono preparate, come già detto, le specie
eucaristiche; su questo tavolo vengono conservati il discàrion e il calice fino al grande
ingresso della liturgia. Su questo tavolo effettivamente i diaconi avevano il compito
di deporre le euloghìes. A sud dell’altare, poi, troviamo il diaconicòn, il luogo da cui
uno o più diaconi assistono il presbitero durante l’anafora eucaristica. Questo
episodio dimostra che non si tratta di luoghi differenti esterni alla chiesa, ma di
suddivisioni di un unico spazio sacro, le classiche ripartizioni del santuario.
142
La tradizione monastica, tuttora praticata nei cenobi ortodossi, vede l’ordinazione
sacerdotale come un’eccezione consentita per i bisogni liturgici e sacramentali del
monastero. Talora lo stesso superiore del monastero non è presbitero. Inoltre la
concelebrazione di più presbiteri è stata poco praticata nei monasteri, anche là dove
era possibile. Così l’allora presbitero Giovanni il Chozebita forse non era l’unico
presbitero presente in monastero, ma era stato designato dall’igumeno per la
celebrazione eucaristica. Questo permette di comprendere meglio il pianto e i graffi
al volto quando non vide l’illuminazione dello Spirito santo discendere sull’euloghìa:
riteneva di essere l’ignaro responsabile di un danno che ricadeva su tutta la
comunità, privata dell’eucaristia a causa del peccato del suo presbitero. E’ importante
non sottovalutare questo aspetto spirituale e teologico del sacerdozio ortodosso, assai
differente dal modello sviluppato nel tardo medioevo in occidente.
143
Epiphoìtesis, letteralmente la venuta, l’intervento o manifestazione. Il verbo
epiphoitào significa letteralmente venire, arrivare, far visita.
144
Vedi la nota 136.
90
piangendo e graffiandosi il volto; ed appare a lui l’angelo del Signore dicendo:
145
Da quando lungo la via il fratello che portava le euloghìes disse la santa anafora
sono state santificate e (ora) sono compiute. E da allora l’anziano stabilì un
ordine (logos), per il quale nessuno impara la santa anafora, se non ha la
chirotonìa , né, come accadde, la pronuncia in qualsiasi momento, al di fuori del
146
luogo santificato (Caput XXV, PG 87, t. III, coll. 2869-2872).
147
Ci sia consentita a questo punto qualche osservazione sulla
versione latina prodotta dal Migne; l’imprecisione dovuta senz’altro alla
carenza di conoscenze storiche e teologiche in cui comprensibilmente
versavano gli studiosi occidentali del secolo scorso è frequente. Per
quanto riguarda invece la traduzione in italiano di Riccardo Maisano è
148
evidente che dipende più dal latino della Patrologia Graeca, che non
dall’originale greco; infatti, là dove il
testo del Migne si dimostra
inadeguato, il Maisano non fa altro che ripeterne le imprecisioni, alcune
anche gravi. Nell’originale greco si dice che il monaco responsabile
dell’involontaria santificazione delle euloghìes conosceva la proscomidìa
149
145
Il testo non dice un angelo, ma o àgghelos e intende l’angelo messo da Dio a
guardia di quell’altare. Questo interessante aspetto verrà ampiamente discusso nei
paragrafi successivi.
146
La chirotonìa (letteralmente: imposizione delle mani) è l’ordinazione a uno dei tre
livelli del sacerdozio: diacono, presbitero ed episcopo. In questo caso si intende la
chirotonìa presbiterale.
147
Letteralmente: tòpou heghiasmènou. E’ sinonimo di Thysiastèrion e identifica, come
già visto, il santuario.
148
Vedi: GIOVANNI MOSCO, Il Prato, a cura di MAISANO R., M. D’Auria editore,
Calata Trinità Maggiore, Napoli 1982 (2° ed. 2002).
149
Mathòn nel testo originale.
91
della santa anafora; la versione latina non sa cogliere il significato letterale
di queste espressioni: sanctae oblationis verba ritumque didicerat, (aveva
imparato le parole e il rito della santa oblazione). E’ evidente in questo caso
che il traduttore in latino pensava all’offertorium della Missa latina. In
italiano troviamo una lezione più corretta: conosceva il rito della
preparazione delle offerte, ma dal punto di vista liturgico sfugge qualcosa
che invece leggendo il greco appare chiarissimo e cioè che la proscomidìa
e l’anafora sono due segmenti liturgici distinti che però venivano eseguiti
in successione l’uno all’altro . La proscomidìa è appunto il rituale della
150
protesi che abbiamo poc’anzi descritto, mentre l’anafora è quella che
viene chiamata anche la preghiera eucaristica. Inoltre il testo precisa che
il fratello si era limitato a recitare le parole del rito come un qualunque
testo sacro da meditare, quindi senza che avesse compiuto altro; è
evidente che questa osservazione sottintende che la proscomidìa del VI
secolo non era solo una formula da recitare sulle euloghìes del pane e del
vino. Quando infatti il presbitero Giovanni officia il rito il testo utilizza il
termine proscomìzein, non come per il fratello che ne aveva solo recitato le
formule versetto per versetto (eìpen ten proscomidèn os en tàxei tès
stichologhìas). E’ ancor più chiaro, dunque, che una cosa è proscomìzein,
compiere la proscomidìa, altra cosa è dirla (eìpen). Nella versione latina
150
Questa testimonianza è importante per rafforzare l’ipotesi che in origine la protesi
o proscomidìa venisse eseguita non prima dell’inizio della Divina Liturgia, ma al suo
interno, dopo il vangelo e prima dell’anafora eucaristica. L’uso attuale per altro
prevede che il vescovo compia la proscomidìa all’interno della liturgia, dopo il
vangelo.
92
l’equivoco si protrae inevitabilmente: verba sanctae oblationis quasi versus
aliquos caneret dixit. Per il traduttore quel monaco avrebbe canticchiato
sbadatamente le parole dell’oblazione eucaristica come una qualsiasi
filastrocca. Maisano, volgendo in italiano, non si avvede che la
descrizione del fatto è ben diversa e traduce: pronunciò la formula
dell’offertorio come se recitasse una poesia.
Poco più sotto notiamo la difficoltà per entrambi nel rendere il
termine tecnico diaconicòn. In latino troviamo sacrarium, mentre questa
volta
l’italiano
peggiora
decisamente
la
lezione
parlando
anacronisticamente di sacrestia. Evidentemente entrambi i traduttori
hanno in mente una liturgia diversa da quella cui fa riferimento il testo e
non si accorgono dell’equivoco.
L’apparizione dell’angelo deputato alla custodia dell’altare svela il
motivo per cui il monaco presbitero Giovanni il Cozebita non vide come
di solito l’intervento dello Spirito santo sulle specie eucaristiche: verba
sanctae oblationis in via dixit, troviamo in latino, mentre in italiano si
insiste a confondere l’anafora, questa volta, con l’offertorio: il giovane
monaco che portava le offerte ha pronunciato le parole del santo offertorio.
Quanto ai contenuti, poi, è interessante osservare tre messaggi che
emergono dal testo. Il primo è che lo Spirito Santo, come s’è visto, non
agirebbe sempre come e dove gli uomini se lo aspetterebbero. Il monaco
che recita, non come una filastrocca, ma come una meletè (meditazione)
93
monastica , le parole della proscomidìa e dell’anafora, recando le euloghìes
151
ai diaconi del monastero perché le dispongano nel luogo della loro
preparazione, non è presbitero, né diacono, eppure la trasformazione
avviene e si compie nella sostanza con la semplice recita del testo.
Il secondo è la presenza di un angelo custode dell’altare consacrato,
fatto riferito anche in altri passi del Prato.
Il terzo è la possibilità di possedere una vista spirituale come quella
del Presbitero Giovanni, in grado di accorgersi se e quando lo Spirito
santo interviene nel mistero eucaristico. Anche questo fatto è considerato
frequente e abbastanza normale da Giovanni Mosco.
La prima considerazione, come si diceva, è la conseguenza di due
informazioni che il testo stesso ci fornisce. In primo luogo, come già
sappiamo, le parole dei testi sacri venivano imparate a memoria per
essere poi recitate a piacimento durante il lavoro manuale o lungo i
viaggi. In questo caso il fratello aveva imparato semplicemente
ascoltando la proscomidìa e l’anafora e doveva essere solito ripeterle fra sé
come altri avevano imparato i salmi o i vangeli per poi recitarli durante
la
giornata.
L’improbabile
accade
grazie
ad
una
circostanza
imprevedibile: i pani offerti per la liturgia sono consegnati ad un monaco
che per la sua meletè usa recitare la proscomidìa e l’anafora, imparate,
151
A proposito della meletè o meditazione monastica si può avere un ottimo e
completo approfondimento in GARCIA M. COLOMBAS, Il Monachesimo delle Origini,
ed. it. Jaca Book 1990, Milano, tomo II, PP.338-348.
94
probabilmente, durante lo svolgimento stesso delle liturgie. In
conseguenza di ciò giunge il divieto di pronunciare quei testi al di fuori
del tempo e dello spazio loro consacrato e da parte di persone non che
non siano presbiteri.
Nel Prato, dunque, viene ammessa senza particolari apprensioni o
polemiche la possibilità che la santificazione del pane e del vino possa
compiersi anche al di fuori di quei criteri che la vedrebbero riservata a
luoghi, persone e circostanze particolari. Certo, se la cosa non è negata
come possibilità, nondimeno essa crea difficoltà e rende necessari
provvedimenti particolari.
Un esempio ancor più clamoroso è fornito dal capitolo CXCVI, in
cui un gruppo di pastorelli decide di cambiare gioco e mima una
celebrazione eucaristica, provocando la discesa di un fuoco spirituale che
consuma i pani, il vino, e la roccia stessa su cui erano deposti, rapendo
poi i fanciulli in un’estasi mistica da cui si distaccano dopo molto tempo.
L’episodio cita come fonte l’amico di Cristo, amico dei monaci e amico dei
poveri Giorgio personaggio noto all’epoca per essere stato prefetto
d’Africa. Inspiegabilmente la versione latina del Migne corregge il nome
in Gregorio, senza per altro spiegare. Il fatto che nel greco originale PG
lascia Gheòrghios, lascia supporre che si tratti di un errore involontario.
Della svista si accorse anche Maisano, che, volgendo in italiano, segue la
recensione greca.
95
Nel mio paese (era dalle parti di Apamea, la seconda provincia dei Siri ),
152
c’è un villaggio a quaranta miglia dalla città, chiamato Gonagòn. Ai confini
dunque dell’insediamento, a circa un miglio alcuni ragazzi pascolavano pecore.
E come accade ed è solito succedere a dei ragazzi, volevano giocare com’è
abitudine dei ragazzi. E mentre giocavano dicevano l’un l’altro: Venite,
facciamo sinassi ed offriamo una prosfora ; ed essendo piaciuta a tutti questa
153
154
cosa, misero avanti uno di loro al posto del presbitero e due di loro al posto dei
diaconi . E vengono ad una pietra eguale e giocavano. E sulla pietra, come
155
152
156
Il Migne, seguito dal Maisano (Op. cit. p. 210) identificano la città in questione con
Toraco.
153
Le fonti testimoniano un uso larghissimo di questo termine, che indicava
originariamente in modo generico ogni forma di preghiera in comune, dalla stessa
eucaristia all’ufficio divino. Nel caso degli anacoreti spesso la loro preghiera solitaria
è definita sinassi, in apparente contrasto con quanto appena detto. Infatti la preghiera
solitaria dell’asceta, per i padri del deserto riveste pienamente i caratteri della
preghiera ecclesiastica. In epoche successive la sinassi, senza smarrire i significati
originari, indicava anche il pasto comune che nelle feste riunisce gli anacoreti o la
riunione dei cenobiti, in luogo a sua volta denominato sinassi, dove il superiore
impartisce gli insegnamenti spirituali.
154
Ricordiamo quanto detto a proposito del pane eucaristico alla nota 70 di pag. 55.
La pròsfora è, in questo caso, sinonimo di euloghìes del capitolo 25. C’è da chiedersi
come mai il capo 25 utilizza il termine più generico di euloghìes? Forse perché,
appunto, non si trattava di pani soltanto, ma anche di vino. Difficile affermarlo con
sicurezza, anche se ci pare logica una tale spiegazione.
155
Ci viene probabilmente descritto un uso tipico del celebrare la sinassi liturgica a
quell’epoca: un presbitero assistito da due diaconi, uno a destra, l’altro a sinistra del
celebrante.
156
Alla lettera: pétran omalén. La versione latina di PG spiega con una perifrasi: erat
enim in planitiae, mentre in italiano Maisano preferisce essere più aderente alla
lezione greca e rende così: una roccia levigata (Op. Cit. p. 210). Secondo me, invece
Giovani Mosco allude al fatto che la pietra somigliava molto ad una mensa
eucaristica, la quale doveva essere in pietra e di dimensioni cubiche. Visto il tipo di
gioco scelto dagli incauti ragazzi, è chiaro il tipo di pietra che cercavano perché
fungesse da altare. Omalèn (letteralmente: uguale), in effetti, sembra alludere alle
caratteristiche riscontrate nel masso da parte dei ragazzi, che forse non si sarebbero
96
nell’ordinamento del santuario (thysiasterìou) deposero i pani ed in una tazza di
coccio del vino. E si mettono davanti l’uno come presbitero e i due come diaconi
uno da una parte e uno dall’altra. E quello diceva la proscomidìa, mentre gli
altri muovevano l’aria con pezze . Capitò che colui che fungeva da presbitero
157
conosceva l’anafora, siccome correva l’uso nella Chiesa di far stare dentro il
santuario i ragazzi durante le sante sinassi e di farli comunicare ai santi misteri
per primi subito dopo i chierici . Dato che in alcuni posti i presbiteri sono
158
abituati a recitare ad alta voce , capitò che i ragazzi avevano imparato la
159
preghiera della santa anafora, essendo essa ripetuta abitualmente ad alta voce.
accontentati che essa fosse levigata o liscia per poter avere una simulazione più
verosimile.
157
Ai diaconi,in effetti, sta il compito di assistere a fianco del presbitero sia durante la
proscomidìa, sia durante l’anàfora. I ragazzi mimavano con l’agitare di imprecisate
pezze il movimento che i diaconi imprimevano ai flabelli, oggi sopravissuto in
minima parte nella Liturgia cosiddetta bizantina. Si confronti a tal proposito la
ricostruzione del rito siro-antiocheno secondo le Costituzioni Apostoliche in
RIGHETTI, Op. Cit., vol. I, pp. 120ss. I flabelli non erano altro che dei ventagli. Sembra
certo che tali accessori venissero usati principalmente per allontanare gli insetti dai
santi misteri.
158
I santi misteri cui allude il testo sono ovviamente il pane e il vino consacrati.
Ancora oggi vengono così denominati non solo nei trattati di teologia ortodossa, ma
anche nel linguaggio popolare. Ricordiamo che il significato originario di mystérion
nell’uso protocristiano si riferisce ai segreti divini rivelati. L’uso di far assistere i
ragazzi all’interno del santuario e di comunicarli subito dopo i chierici, prima degli
adulti è normalmente praticato ancor oggi nella Chiesa Ortodossa. I primi a
comunicarsi sono i più piccoli, i neonati appena battezzati. Infatti, com’è noto,
battesimo, cresima e comunione sono ricevuti insieme lo stesso giorno, come prevede
l’uso cristiano antico.
159
Il Prato si colloca evidentemente in un periodo di transizione che porterà all’uso
universale di recitare l’anafora sottovoce. Ai suoi tempi il passaggio doveva esser già
quasi del tutto compiuto, se segnale come una particolarità di alcuni luoghi la recita
ad alta voce dell’anàfora e della proscomidìa.
97
Come dunque ebbero compiuto tutto secondo l’uso ecclesiastico, prima che
spezzassero i pani, un fuoco discese dal cielo e divorò tutto ciò che era stato
preparato (tà proscomisthènta) e bruciò tutta la pietra, sì da non lasciare il
minimo ricordo né della pietra, né di ciò che era stato offerto su di essa. E
vedendo questo fatto improvviso, i ragazzi caddero a terra per il timore e
rimasero mezzi morti, incapaci di parlare e di rialzarsi da terra. Non rientrando
al villaggio all’ora in cui erano soliti tornare, ma giacendo a terra per
l’impressione, uscirono i loro genitori dal villaggio per vedere per quale motivo
non erano ancora rientrati. E cercandoli li trovarono buttati a terra, non in
grado di riconoscere alcuno dei presenti, né di rispondere a chi parlava (loro).
Vedendoli così tramortiti i genitori li trasportarono al villaggio, ciascuno
sollevando il proprio figlio; E vedendo in una tale estasi i figli erano stupiti, non
potendo apprendere la causa dell’estasi. E sebbene li interrogassero spesso tutto
il giorno, non ricevevano alcuna risposta e a coloro che domandavano era
impossibile assolutamente venire a conoscenza di nulla fino a che tutto quel
giorno e la notte non trascorsero. Allora infatti i ragazzi ritornando un poco in
se stessi spiegarono loro tutto, come era stato fatto e quello che era poi avvenuto.
E prendendo i genitori e gli abitanti del villaggio uscirono e mostrarono il luogo
nel quale era accaduto questo strano prodigio, indicando alcune tracce del fuoco
disceso dal cielo .
160
160
Il fuoco divoratore disceso dal cielo, com’è noto, ha più di un precedente biblico.
L’avvenimento più famoso rimane la vittoria di Elia sui sacerdoti di Baal (I Re 18, 2140). Qualcosa di simile accade ancora all’annuncio della nascita di Sansone, quando
Manoach depone delle libagioni in onore di Dio su una pietra ed essa viene divorata
con quanto v’era sopra dal fuoco celeste (Gdc, 13,1ss). Il fuoco celeste ha un riscontro
98
Alcuni, avendo udito dell’accaduto e convinti del fatto da questo, corsero
in città e riferirono ogni cosa sull’argomento al vescovo della città. Meravigliato
dalla grandezza e novità di quanto dettogli, si recò in quel luogo con tutto il
clero. Vide i ragazzi e sentì da loro il racconto dell’accaduto. Poi dopo aver visto
i segni del fuoco celeste, mise i ragazzi in cenobio e trasformò quel luogo in uno
splendido monastero. Sul punto nel quale era caduto il fuoco costruì la Chiesa e
il santo altare .
161
Lo stesso signore Giorgio ci diceva di aver conosciuto uno dei ragazzi in
quello stesso monastero dove era avvenuto il prodigio e di averlo conosciuto da
monaco. E’ stato lui, il pio Giorgio, a raccontarci questo prodigio sovrumano,
curioso e assai poco noto in ciò che accade da epoche remote il sabato santo a
Gerusalemme, nella chiesa del santo Sepolcro durante i riti ortodossi. Il patriarca di
Gerusalemme entra nel santo Sepolcro a luci spente e durante l’intervallo in cui
prega all’interno, si manifesta qualcosa di difficile da descrivere. Un globo luminoso,
circondato da numerosi lampi attraversa il tempio dell’Anastasi accendendo col suo
passaggio tutte le lampade ad olio della chiesa e le candele spente che i fedeli recano
con sé. I primi minuti le fiamme accese da questo misterioso fuoco non bruciano e
non scottano e se spente si riaccendono spontaneamente; dopo diversi minuti
perdono una tale proprietà comportandosi come un fuoco comune. Il fatto è visibile a
chiunque e le numerose riprese video dimostrano non trattarsi di una illusione
collettiva, né di un miracolismo a buon mercato. Chi volesse vedere con i propri
occhi può recarsi il prossimo sabato santo a Gerusalemme oppure collegarsi col sito
internet: www.holylight.gr/agiosfos/holyli.html.
Oppure: digilander.libero.it/ortodossia/SantaLuce/Lucesanta.htm. Un fatto del
genere può essere senz’altro catalogato fra quei “misteri del medio oriente” che
potevano indurre all’ironia Peter Brown. Certo questo tipo di letteratura religiosa che
stiamo approfondendo talora è meno favolistica di quanto si vorrebbe, se soltanto si
accettasse anche nella storiografia il metodo della ricerca sul campo.
161
L’uso di edificare la mensa eucaristica nel punti preciso in cui si ritiene avvenuta
una manifestazione celeste è molto ben attestato. Ad esempio nella chiesa del roveto
ardente del monastero di santa Caterina del monte Sinai, l’altare è collocato nel
punto in cui si crede dovesse trovarsi il roveto ardente.
99
dicendo che è avvenuto ai nostri giorni (Caput CXCVI, PG 87, t. III, coll. 30793084).
Ciò che sorprende in questi due episodi è, appunto il non
imbarazzo (solo apparente?) da parte di Giovani Mosco nel presentare
questi fatti di cui ha avuto notizia. L’episodio successivo, quello narrato
nel capitolo 197 in effetti si presenta come un approfondimento della
questione. Giovanni deve ricorrere a Rufino, autore della Storia
Ecclesiastica per dimostrare che la questione è complessa e già nota ai
padri delle epoche precedenti. Egli cita a questo proposito un aneddoto
della fanciullezza di sant’Atanasio, quando insieme ad alcuni altri
ragazzi giocava in riva al mare imitando i misteri liturgici della chiesa. Il
gioco fu notato dall’arcivescovo Alessandro, il quale, appreso che
Atanasio, interpretando il ruolo di vescovo aveva già battezzato alcuni di
loro, si fece spiegare il formulario che avevano utilizzato per il gioco.
Dopo averli accuratamente interrogati capì che conoscevano a memoria
il rito del battesimo e che lo avevano riprodotto secondo l’uso corretto
della religione cristiana. Dopo una consultazione con il clero di
Alessandria, il vescovo avrebbe deciso di considerare effettivamente e
regolarmente battezzati quanti Atanasio era riuscito a battezzare prima
dell’intervento del vescovo. Dopo di ciò il vescovo Alessandro convinse
le famiglie di Atanasio e di quegli altri ragazzi che nel gioco avevano
impersonato il ruolo di presbiteri e diaconi ad affidarli alla chiesa perché
venissero istruiti ed educati in essa.
100
La questione della validità dei sacramenti in quell’epoca aveva,
dunque, altri risvolti.
Sarebbe facile trarre delle conclusioni, a questo punto, per coloro
che simpatizzano con la concezione del sacerdozio comune dei
battezzati, negando l’esistenza di un sacerdozio ministeriale nel
cristianesimo. Giovanni Mosco vive in un periodo e in una cristianità in
cui lo scontro su questi temi è assolutamente impensabile. Più che la
presenza di persone consacrate al culto è la potenza traboccante e
incontenibile del culto stesso, se si tratta esattamente di quel culto
praticato dalla chiesa ortodossa, come è evidenziato con chiarezza, a
provocare degli effetti imprevedibili. E’ questo che emerge dai racconti
riportati nel Prato. Il culto ortodosso, il suo cerimoniale articolato, il suo
formulario eucologico avrebbero in se stessi una potenza intrinseca
irrefrenabile, pronta a riversarsi alla prima occasione, anche là dove
sembrerebbero mancare alcune condizioni. E’ precisamente questo
aspetto misterioso dell’agire di Dio che induce i vescovi al timore e al
rispetto in entrambi gli ultimi due episodi menzionati. I ragazzi che
giocano col sacro non vengono puniti, ma nel primo caso, divenuti
testimoni di una teofania non sembrano più in grado di condurre una
vita ordinaria. Si costruisce un monastero per loro sul luogo della
teofania perché possano trasformare il resto dei loro anni in un unico
atto di culto al Dio che ha manifestato la sua gloria facendo loro
conoscere in anticipo mediante il rapimento estatico la gloria futura di
101
cui godranno nel regno dei cieli. L’esperienza mistica, come spesso
accade nei testi ortodossi, precede e promuove l’ascesi. Il fanciullo
Atanasio
nei
suoi
giochi
d’infanzia
impersona
pudicamente
e
inconsapevolmente la dignità episcopale a cui sarebbe stato elevato
alcuni anni più tardi e i ragazzi da lui battezzati per gioco sono
considerati veramente battezzati. Anche la terminologia è differente da
come viene trattata oggi la materia da cattolici e protestanti nel discutere
la validità dei sacramenti. Giovanni Mosco non parla mai di validità di
un santo mistero della chiesa. Per lui il mistero avviene se viene eseguito
al modo della chiesa, con quelle parole e quel rituale che la chiesa
utilizza. E queste opinioni, come si sa, non sono assolutamente condivise
dai partigiani del sacerdozio universale. La forza intrinseca ed oggettiva
del rito non può trovare condivisione nemmeno in campo cattolico
romano, là dove, appunto senza sacerdozio non potrebbero esserci
sacramenti e dove si ritiene possibile che esista un sacerdozio valido
anche al di fuori dei confini della chiesa. E’ evidente che il cattolicesimo
attribuisce al sacerdozio un potere intrinseco e oggettivo svincolato a tal
punto da essere teoricamente, ma anche di fatto, incontrollabile. Lo
stesso potere è invece attribuito da Giovanni Mosco,o meglio, dai suoi
testimoni, non a uomini abilitati alla gestione del sacro, ma alla potenza
misteriosa che vive all’interno della chiesa e che attende di manifestarsi
in luoghi e momenti imprevedibili. Nel primo caso sono gli uomini a
possedere un potere sovrumano e che possono disporre a loro
102
piacimento anche quando non dovessero più far parte della chiesa. Nel
secondo caso un tale potere rimane nelle mani di Dio e gli uomini,
compresi i vescovi, prendono atto del suo manifestarsi. Il culto è il luogo
principale di una tale teofania.
Questi testi ci danno anche la possibilità di apprezzare la distanza
fra le varie concezioni del sacerdozio e del culto cristiano, fatto a cui non
molti studiosi sembrano aver mai dato attenzione. Sono considerazioni
che dovrebbero far comprendere meglio quanto è anacronistico far
risalire all’epoca costantiniana l’origine dei problemi che portarono alla
nascita del protestantesimo.
Un terzo episodio, sempre attribuito a sant’Atanasio e narrato al
capitolo 198 viene citato dal Mosco per precisare i termini della
questione. Atanasio, rispondendo al quesito se è possibile essere
battezzati senza credere, fingendosi credenti per un qualche doppio fine,
ricorda l’apparizione angelica avuta dal martire Pietro d’Alessandria. Ai
tempi di un’epidemia molti si facevano battezzare credendo che il
battesimo immunizzasse dal contagio. L’angelo disse: Fino a quando ci
manderete qui delle borse sigillate, sì, ma completamente vuote, senza niente
dentro? In ogni caso, dunque, il mistero del battesimo provoca un effetto
solo se chi lo riceve ritiene di aver fatto bene.
Bisogna rilevare, inoltre, che questi testi sono conosciuti e letti fin
dalla tarda antichità e non sono mai stati ritenuti eretici o quanto meno
103
sospetti; nemmeno gli studiosi umanisti che si occuparono della loro
edizione in occidente hanno mai sollevato la benché minima difficoltà a
loro riguardo. Certo, come sappiamo, una tale lettura è sempre stata
riservata ai pochi cultori del Thesaurum Ecclesiae Graecae.
Un fatto simile è narrato anche nel Bìos del martire Porfirio, che
subì il martirio sotto Aureliano, tra il 270 e il 275. Una compagnia di
attori di mimo a Cesarea di Cappadocia inscena una parodia dei riti della
chiesa con tanto di vescovo, presbiteri, diaconi e lettori, ma al momento
del battesimo, non appena l’attore Porfirio esce dalla vasca battesimale e
viene rivestito della veste bianca, lo Spirito santo gli si accostò. Ed allora
ecco che gli angeli del Signore, reggendo fiaccole, si posero davanti a lui,
precedendolo e tutta quanta la città fu scossa dalla loro voce. Non piccolo fu lo
stupore della folla. Alcuni dicevano: Sono gli dei quelli che vediamo assieme a
Porfirio. Altri invece esclamavano: E’ una prodigiosa visione. E altri ancora: Se
il battesimo di Porfirio, pur essendo fittizio, possiede una tale forza, quanto più
grande sarà quella di coloro che si accostano con tutta la loro pienezza del loro
cuore a Cristo, Re dei cristiani e che saranno proclamati eredi del regno dei cieli.
In conseguenza di ciò, dopo aver lasciato subito i loro posti, si gettarono ai piedi
di Porfirio, bramosi di ottenere una tale grazia e gli dissero: Fratello Porfirio,
prega per noi meschini, in modo che giunga pure a noi il dono dello Spirito
santo. Ma il beato Porfirio udendo queste suppliche pur essendo profondamente
scosso non sapeva come pregare; gli si accostò allora l’angelo del Signore e lo
invitò a guardare verso oriente. Dopo che ebbe fatto ciò che l’angelo gli aveva
104
indicato, subito il Beato levò le sue sante mani in gesto di preghiera verso il
Signore. Mentre pregava ecco che sopraggiunse una nube di fuoco che ricoprì il
teatro ed essa riversò acqua e luce su coloro che si accostavano al santo
battesimo. E quelli si ritrovarono immersi in quella luce, indossando anche loro
la bianca veste; usciti dal teatro pieni della grazia dello Spirito santo e in
compagnia degli angeli, raggiunsero la santa chiesa di Dio. La cosa fu risaputa
dal venerabilissimo vescovo della città di Cesarea ed egli andò loro incontro e li
salutò col bacio santo, poi tutti assieme entrarono nella santa chiesa di Dio e il
tempio si riempì da un’estremità all’altra di molti angeli che accompagnavano
quegli uomini illuminati dal battesimo…
162
I guai iniziano quasi subito dal momento che il suo impresario,
Alessandro, era uno dei cittadini più ragguardevoli della città e non
aveva gradito l’esito imprevisto dello spettacolo. Si giunge così ad una
sfida con i sacerdoti di Apollo, i quali si dimostrano capaci di togliere la
vita ad un toro solamente invocando il loro nume, ma non di farlo
risuscitare come avevano assicurato. Dopo molte ore di invocazioni
lasciano il campo al neobattezzato Porfirio, il quale ottiene da Cristo il
segno della risurrezione del toro e provoca anche la caduta della statua
di Apollo, la quale, crollando rovina sul sommo sacerdote togliendogli la
162
MASPERO F., Santi Folli della Chiesa d’Oriente, ed. Piemme 1999, Casale
Monferrato (Al), pp. 306-308. La recensione su cui il Maspero basa la sua traduzione
è quella pubblicata la prima volta da P. Van den Ven negli Analecta Bollandiana (29,
1910), dove lo studioso olandese fornisce interessanti approfondimenti sui martiri
cristiani provenienti dal mondo della pantomima del tardoantico. Era frequente la
parodia del battesimo cristiano sui palcoscenici dell’epoca; ma anche gli stessi dei
pagani venivano comunemente sbeffeggiati per esilarare il pubblico.
105
vita . L’incredulo Alessandro in preda alla collera per quanto visto,
163
decide di far decapitare il neofita. Ricevuta la comunione ai divini
misteri dalle mani del vescovo, Porfirio, dopo aver pregato per un lungo
tratto a braccia levate, si segna in tutto il corpo e viene decapitato il nove
164
di novembre.
Oltre al prodigio, che svela la potenza intrinseca del rito cristiano,
di cui abbiamo già parlato, ci pare utile sottolineare ancora una volta
l’importanza dell’insegnamento che l’angelo impartisce a Porfirio sulla
163
L’episodio ricorda senza alcuno sforzo la sfida tra Elia e i sacerdoti di Baal (I Re
18,21-40), che abbiamo già menzionato a proposito del fuoco caduto dal cielo alla
nota 155. Si noti anche la somiglianza nell’esito delle due sfide: anche il vittorioso
Elia viene condannato a morte dalla regina Jezabel, che vede colpita e danneggiata la
sua politica religiosa dal segno dato da Elia.
164
Il segno di croce è un gesto antico, ma al quale pochi storici hanno dato attenzione.
Pochi sanno, per esempio che il segno di croce cosiddetto ortodosso era praticato
anche dalla chiesa latina fino al 1500. Papa Innocenzo III (+1216), scriveva ancora agli
inizi del XIII secolo: Signum crucis tribus digitis exprimendus est, ita ut a superiori
descendat in inferius et a dextra transeat ad sinistram (De Sacro Altaris Mysterio, lib. II, c.
45). Altra fonte, questa volta non cartacea è costituita da un celebre bassorilievo del
Duomo di Modena, risalente al XII secolo, nel quale sono raffigurati un presbitero
benedicente, oggi diremmo alla greca, e quattro fedeli che a loro volta si segnano con
le tre dita. Non siamo in grado di risalire con certezza alla nascita di tale gesto, ma
diverse fonti, tra cui Tertulliano e la Traditio Apostolica attestano già nel II secolo
l’esistenza di un segno di croce (cfr RIGHETTI, Op. Cit. , vol. I pp. 367 373). La sua
forma tradizionale è oggi conservata, come si diceva, dalla chiesa ortodossa ed
erroneamente ritenuta una particolarità del solo rito bizantino. Le tre dita unite
rappresentano la Trinità, mentre le altre due abbassate simboleggiano le due nature
di Cristo che discese dai cieli. Una fonte germanica del VI secolo testimonia
l’esistenza del segno di croce a mano aperta, come dal XVI secolo è in uso fra gli
stessi latini. La mano aperta sembrerebbe negare la Trinità e le due nature di Cristo e
quindi questo potrebbe essere l’antico segno di croce degli ariani; l’arianesimo era
infatti assai diffuso tra le popolazioni germaniche (cfr. Mon. Germ. Auct. Antiq., I, 28.
EUGIPIUS, narrando la morte di san Severino di Colonia, avvenuta nel 482, descrive
il segno di croce compiuto extenta manu). E’ da notare anche che il segno veniva
compiuto anche presso i latini portando le dita dalla fronte prima sulla spalla destra
e poi sulla sinistra, come abbiamo letto nella citazione di papa Innocenzo III.
106
preghiera. La preghiera pura del neofita, che volge le mani e lo sguardo
verso oriente, come indicato dall’angelo del Signore, attira la
manifestazione della nube luminosa che è chiaramente anch’essa una
vecchia conoscenza biblica:
E avvenne che sul far dell’aurora il Signore guardò dalla colonna e dalla
nube di fuoco verso il campo degli Egiziani e sbaragliò il campo degli Egiziani .
165
E mentre Aronne parlava a tutta l’assemblea dei figli d’Israele, si volsero
verso il deserto ed ecco, la gloria del Signore apparve sulla nube .
166
Disse il Signore a Mosè: Ecco, io verrò a te nella colonna di nube, perché il
popolo mi ascolti mentre parlo a te e ti credano nei secoli .
167
Già era venuto il terzo giorno ed era vicina l’aurora e ci furono tuoni e
lampi e una nube oscura sul monte Sinai e ci fu un grande squillo di tromba; ed
ebbe paura tutto il popolo nell’accampamento. E Mosè condusse il popolo
dall’accampamento verso l’incontro con Dio e si fermarono sotto il monte. Il
monte Sinai fumava completamente a causa della discesa di Dio su di esso nel
fuoco ed il fumo saliva come fumo di fornace e si turbò assai tutto il popolo; e
avvenne dunque che le trombe squillarono ancora più forte: Mosè parlava e Dio
gli rispondeva; discese allora il Signore sul monte Sinai sulla cima del monte e il
Signore chiamò Mosè sulla cima del monte e Mosè salì .
168
165
Esodo 14,24.
Ibidem, 16,10.
167
Ib., 19,9.
168
Ib., 19,16-21.
166
107
E Mosè terminò tutti i lavori (la costruzione della tenda di Dio). E la nube
ricoprì la tenda della testimonianza ed essa fu ripiena della gloria di Dio. E Mosè
non poté entrare nella tenda della testimonianza perché vi gettava la sua ombra
la nube e la gloria del Signore aveva riempito la tenda. Quando poi la nube
saliva dalla tenda i figli di Israele si mettevano in cammino con i loro bagagli; se
la nube non saliva, non partivano fino al giorno in cui la nube saliva;: la nube
infatti era di giorno sulla tenda e fuoco era su di essa di notte davanti a tutto
Israele,in tutte le loro soste .
169
E avvenne che quando i sacerdoti uscirono dal santuario la nube riempì la
dimora. E non poterono i sacerdoti restare a compiere la liturgia in presenza
della nube, poiché la gloria del Signore aveva riempito la dimora .
170
Nell’anno in cui morì il re Ozia, vidi il Signore assiso sopra un trono
eccelso ed elevato e ciò che era più in basso di lui riempiva il tempio… e gli
architravi tremavano sopra gli stipiti a quei cori di voci e la dimora si riempì di
fumo… .
171
E fu su di me la mano del Signore, e guardavo ed ecco un soffio che
sollevava venne da settentrione ed in esso c’era una grande nube ed un bagliore
intorno ad esso ed un fuoco guizzante .
172
169
Ib., 40, 28-32.
I Samuele (III Re), 8,10-11.
171
Isaia, 6,1. 4ss.
172
Ezechiele, 1,3-4.
170
108
Mentre (Gesù) pregava l’aspetto del suo volto fu mutato e la sua veste
divenne candida e risplendente. Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano
Mosè ed Elia apparsi nella gloria… mentre (Pietro) diceva queste cose venne
una nube e li ricoprì; ed ebbero paura nell’entrare nella nube e dalla nube ci fu
una voce che disse: Questi è il mio amato figlio, ascoltatelo .
173
Non vi siete infatti avvicinati ad un monte materiale, né ad un fuoco
ardente, né a caligine, né a tenebra, né a tempesta, né a clamore di tromba, né a
suono di parole… ma vi siete accostati a monte Sion e alla città del Dio vivente,
alla Gerusalemme celeste e alle miriadi di angeli, adunata e chiesa dei
primogeniti iscritti nei cieli e a Dio giudice di tutti e agli spiriti arrivati alla
perfezione e a Gesù mediatore del nuovo patto e al sangue dell’aspersione, più
eloquente di quello di Abele .
174
Ricompare, dunque, la shekinàh
che accompagna le teofanie
bibliche; ma lo stesso fuoco celeste, di cui abbiamo visto nel Prato varie
testimonianze, è una parziale apparizione di essa.
Tornando al Prato, la presenza di un angelo presso l’altare che
abbiamo visto accorrere a dare spiegazioni al presbitero Giovanni, viene
rafforzata da un'altra testimonianza, riportata al capitolo IV ed attribuita
ad un certo abba Leonzio del monastero di san Teodosio il cenobiarca.
173
174
Luca, 8,29-31.34-35.
Ebrei, 12,18-19. 22-24.
109
Dopo che furono cacciati dalla Nuova Lavra coloro che vi abitavano ,
175
andai a stabilirmi io in quella lavra. Una domenica scesi in Chiesa a prendere la
comunione. Appena entrato vidi un angelo fermo alla destra dell’altare. In preda
a grande terrore mi ritirai nella mia cella. Mi giunse allora una voce che diceva:
Ho avuto l’ordine di stare vicino a questo altare perché è stato santificato (PG
87, t. III, coll. 2857-2858).
Assai più interessante risulta essere il capitolo X, il quale presenta
alcuni elementi attestanti l’esistenza di altari anacoretici nelle grotte e
non solo più nelle chiese monastiche. Un anacoreta del Giordano aveva
edificato per la sua preghiera una mensa eucaristica nella sua grotta, ma
poi, a causa di un infortunio al piede è costretto a lasciare il suo luogo
d’ascesi ed essere ospitato nella Lavra delle Torri.
C’era un anacoreta nelle grotte del santo Giordano, il cui nome era
Barnaba… Dopo che abba Barnaba l’anacoreta salì dalla sua grotta alle Torri e
vi trascorse un po’ di tempo, un altro anacoreta andò nella sua grotta; ed
entrando vede un angelo di Dio stare
presso l’altare (thysiasterìou), che
l’anziano aveva costruito e santificato per la sua grotta . E dice l’anacoreta
176
175
Probabilmente la comunità monastica della Nuova Lavra, a un certo momento,
aveva aderito alle posizioni anticalcedonesi e quindi gli abitanti erano stati
allontanati. Fatti del genere all’epoca erano frequenti e l’insediamento di comunità
calcedonesi spesso era difficile: lo sfratto di monaci monofisiti poteva infatti
richiedere l’uso della forza pubblica. L’episodio vuole far intendere che nonostante la
separazione di quel cenobio dalla Chiesa, avvenuta un certo momento, Dio non
aveva ritirato l’angelo custode dall’altare che gli era stato consacrato ed è proprio per
questo che i monofisiti alla fine dovettero andarsene.
176
L’abitudine di edificare altari nelle grotte degli eremiti non è attestata negli
Apoftegmata, che risalgono ad un’epoca immediatamente precedente a quella di
110
all’angelo: Che cosa fai qui? Dice a lui l’angelo: Io sono l’angelo del Signore e da
quando è stato santificato, è stato affidato a me da parte di Dio (PG 87, t. III,
coll. 2859-2860).
Bisogna segnalare la mancata comprensione del Traversari, la cui
traduzione viene riportata su PG, del significato preciso dell’ultima frase.
Leggiamo infatti nel latino: Ex quo santificata sunt ista, a Deo ipso mihi
credita sunt . Maisano segue anche in questo caso la versione latina del
177
Migne: da quando le cose di questo santo luogo sono state consacrate, Dio le ha
affidate a me . I verbi usati, heghiàsthe (è stato santificato) e epistèuthe (è
178
stata affidato) sono al singolare, non al plurale e perciò non sono retti da
un generico neutro plurale sottinteso, come intese il Traversari, ma
dall’altare sorvegliato dall’essere celeste, sottinteso in quest’ultima
pericope.
Giovanni Mosco. Può essere collegata alla diffusione del sacerdozio fra gli anacoreti,
ma non significa che l’anacoreta Barnaba del racconto fosse presbitero e non è
nemmeno sicuro che qualcuno vi avesse mai celebrato i misteri eucaristici. L’altare
era innanzi tutto il luogo verso il quale si indirizzavano le preghiere, simbolo della
mensa di Cristo e anche del suo sepolcro, come si legge nel Commentario Liturgico di
san Germano di Costantinopoli, pubblicato da NILO BORGIA (Grottaferrata, Roma
1912). E’ probabile che fosse invalso fra gli anacoreti palestinesi del VI secolo l’uso di
edificare degli altari, per così dire privati, nelle loro celle, allo scopo di rivolgere le
loro intercessioni direttamente verso una santa mensa, così come si è abituati oggi a
veder pregare di fronte al crocifisso. Un ulteriore elemento ci è fornito dalla
narrazione stessa: il protagonista è chiamato semplicemente Barnaba l’anacoreta: se
fosse stato anche sacerdote Giovanni Mosco lo avrebbe precisato, come in tutti gli
altri casi. La meraviglia del secondo anacoreta, che vide l’angelo ritto nei pressi
dell’altare può essere causata dal fatto che probabilmente egli sapeva che si trattava
di un altare anacoretico, sul quale non si erano mai celebrati i divini misteri.
177
PG 87, t. III, coll. 2859.
178
MAISANO F., Op. Cit., p.71.
111
L’idea che lo spazio santificato è protetto da esseri invisibili posti
da Dio alla difesa di esso ha precedenti sia veterotestamentari che
neotestamentari. I testi che riguardano questo aspetto non mancano:
E parlerò a te da sopra il propiziatorio in mezzo ai due cherubini che sono
sopra l’arca della testimonianza…
179
Fece il velo di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso
ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore .
180
E avvenne che, quando doveva celebrare il culto, nel suo turno di servizio
davanti a Dio gli toccò in sorte di incensare entrando nel tempio del Signore; e
tutta la moltitudine del popolo pregava all’esterno nell’ora dell’incenso. Gli
apparve dunque un angelo del Signore ritto alla destra dell’altare (thysiasterìo):
e al vederlo Zaccaria si turbò e il timore cadde su di lui .
181
Anche il tesoro del tempio di Gerusalemme, se dobbiamo credere
ai libri dei Maccabei, è custodito da creature angeliche, soprattutto
quando Eliodoro tentò di prelevarne le ricchezze custodite , mentre le
182
figure di cherubini che Dio vuole ricamate sul velo dietro il quale
collocare l’arca significano due cose: la prima, ovviamente, è la
protezione angelica esercitata sul luogo sacro. La seconda, a sorpresa di
molti, è la presenza, nel culto giudaico stesso e nel suo luogo più santo,
179
Esodo, 25, 22.
Ibidem, 36,35.
181
Luca, 1, 8-12.
182
II Maccabei, 3,1ss.
180
112
di quelle aborrite immagini sacre che taluni vorrebbero attribuire a
forme di cristianesimo decadente da riformare. A questo proposito è
bene tener presente che, come s’è visto poc’anzi, anche sul propiziatorio
dell’arca Dio avrebbe ordinato a Mosè di far scolpire le figure dei
Cherubini. L’assenza assoluta di immagini nel culto, dunque, non è
precisamente una prerogativa giudaica, né cristiana, ma piuttosto
islamica .
183
183
Si è ricercata da varie parti l’origine prima dell’iconografia cristiana e, in particolare,
dell’iconografia attinente alla liturgia, e ciò ha dato luogo a ogni sorta di supposizioni più o
meno ingegnose. Ora queste origini ci sono diventate perfettamente chiare. Al pari di tanti
altri elementi del culto cristiano primitivo, anche questo proviene dal culto della sinagoga.
Sukenik, che ha studiato la maggior parte delle antiche sinagoghe di cui è rimasta qualche
traccia, ci mostra senza possibilità di dubbio che l’opposizione degli ebrei a qualsiasi
decorazione iconografica nelle sinagoghe non è affatto primitiva. Essa si è formata unicamente
come reazione anticristiana e non prima del III o gli inizi del IV secolo della nostra era. Le
sinagoghe antiche erano abbondantemente ornate di rappresentazioni di episodi biblici scelti.
Tali rappresentazioni erano viste chiaramente non come semplici ricordi del passato, ma come
l’espressione di una nozione soggiacente tutta l’aggadà (interpretazione tradizionale del culto
ebraico). Secondo quest’ultima, le feste ebraiche erano partecipazioni permanenti del popolo
agli eventi salvifici operati da Dio in suo favore nel passato. Le prime rappresentazioni
cristiane, che si trovano non solo nelle catacombe, ma anche neiprimi edifici adibiti a chiese,
seguono da presso l’antica selezione ebraica di tali eventi, applicando loro un’interpretazione
cristiana rinnovata. Ma, quale che sia la sua novità, questa interpretazione è in linea con
quella degli ebrei. Certo, il pasto degli Angeli con Abramo o il sacrificio di Isacco sono
l’immagine dell’alleanza perennemente rinnovata non più mediante i sacrifici nel tempio,
bensì mediante l’eucaristia. Ugualmente, Noè nell’arca non viene unicamente a ricordarci,
con la Pasqua, l’esodo e la salvezza attraverso il mar Rosso, ma viene ad evocare il battesimo.
E così via. Ma la selezione dei temi biblici e il modo di trattarli sono di una tale continuità che
certi archeologi ammettono ancora con difficoltà che la sinagoga di Dura Europos, per
esempio, sia veramente una sinagoga e non una chiesa giudeo-cristiana, a tal punto il suo
ornamento assomiglia in modo sorprendente a quello di una chiesa coeva che si trova nella
stessa zona. Ma, come ha dimostrato Sukenik, l’unica differenza tra la sinagoga di Dura
Europos e le altre sinagoghe dell’epoca è che a Dura Europos una serie di circostanze speciali
ha permesso la conservazione straordinaria di un complesso di affreschi di cui non si ritrova
l’equivalente altrove, se non allo stato di frammenti sparsi. L’iconografia cristiana troverà, per
la prima volta, nella chiesa bizantina la possibiltà di uno sviluppo completo e coordinato
(BOUYER L., Architecture et Liturgie, Les Editions du CERF 1967 e 1991, trad. it.
Edizioni Qiqajon 1994, Magnano, pp. 46-47). Il sito archeologico di Dura Europos, nel
quale è stata rinvenuta la più antica sinagoga del mondo (II-III secolo),
113
L’ultima considerazione che suscita il capitolo XXV, come già si
accennava, è la particolare facoltà di abba Giovanni, monaco e
presbitero, di vedere l’intervento (letteralmente: epiphoìthesis) dello
Spirito santo nel corso della proscomidìa e dell’anàfora. Giovanni Mosco
raccoglie con vivo interesse testimonianze di questo genere su tali
argomenti, come possiamo constatare poco più avanti, al paragrafo
XXVII, dove incontriamo un monaco presbitero troppo elevato per poter
essere compreso dalla gente del villaggio per cui solitamente celebra i
divini misteri.
A dieci miglia dalla città di Ege, in Cilicia, c’è un villaggio chiamato
Mardardo : in esso c’è una chiesa di san Giovanni Battista. Là viveva un
184
anziano (ghèron) presbitero . Egli era poi assai grande e un anziano virtuoso.
185
186
completamente affrescata con immagini bibliche, in effetti, avrebbe già dovuto far
rivedere la questione da tempo. Da notare anche che lo stile degli affreschi ricorda
abbastanza quello cosiddetto bizantino. Per approfondire la ricerca sull’arte
raffigurativa ebraica segnaliamo: SED-RAJNA G., L’Art Juif, Citadelles & Mazenod,
Parigi 1995.
184
Il Traversari traduce il nome del villaggio con Mardando, e questa è anche la
lezione seguita da Maisano (Op. Cit., p.78).
185
Con l’espressione ghèron presbyteros Giovanni Mosco non dice semplicemente che
si trattava di un prete anziano; avrebbe potuto trattarsi in questo caso di un chierico
sposato. Il termine utilizzato, invece è assai preciso ed equivale ad abba: lo ghèron,
infatti, indica l’anziano della tradizione monastica, e cioè il monaco provato e
spiritualmente maturo, in grado di guidare altri monaci e di dare consigli spirituali.
Non è detto, poi, che lo ghèron fosse anziano anche anagraficamente. I monaci ancora
in formazione, discepoli degli anziani, qui nel Prato, come negli Apoftegmata e in
qualsiasi altra opera monastica ortodossa, sono chiamati semplicemente fratelli
(adelphoì). La presenza in prossimità di villaggi di anacoreti ordinati presbiteri per la
liturgia domenicale del villaggio stesso non doveva essere rara, visto che si
riscontrano anche altri casi nelle fonti antiche: Il padre Macario raccontava di sé: Quando
ero più giovane e vivevo in una cella in Egitto, mi presero a forza e mi ordinarono chierico nel
villaggio. Ma poiché non volevo accettare, fuggii in un altro luogo (Apoftegmata, Macario 1,
in MORTARI L., Vita e Detti dei Padri del Deserto, vol. II, Città Nuova 1990, Roma, p.
114
Un giorno gli abitanti del villaggio si recarono a causa sua dal vescovo di
Ege, dicendo: Liberaci da questo anziano (ghèron), perché ci affligge. Viene
infatti domenica e compie la sinassi all’ora nona e non mantiene l’ordinamento
comandato per la santa sinassi . Il vescovo allora, prendendo in disparte
187
l’anziano gli dice: Monaco (kalòghere ), perché fai così? O non conosci la regola
188
della santa Chiesa? L’anziano, allora gli disse: In verità, mio signore, è proprio
10). L’informazione autobiografica fornitaci dallo stesso Macario è preziosa sotto due
punti di vista: da una parte ci conferma la possibilità che i villaggi scegliessero i loro
candidati alla carica di presbitero fra gli anacoreti più stimati che si erano insediati
nei loro paraggi; d’altra parte Macario ci mostra quanto questa scelta doveva essere
gradita agli anacoreti stessi. L’apoftegma, in effetti è una chiara esortazione rivolta a
quanti vogliono dedicarsi al monachesimo a non lasciarsi attirare da una possibilità
del genere, che in quel caso comporterebbe comunque un coinvolgimento con gli
affari e le beghe del villaggio, con conseguenze immaginabili.
186
La grandezza di questo Ghèron è probabilmente da intendersi più in senso
spirituale che di età anagrafica, visto il tipo di facoltà che il suo spirito aveva
sviluppato, come si vedrà poco oltre.
187
Il testo latino di PG sembra attingere ad un altro manoscritto, infatti si legge:
Accedit missam celebrare die Dominico, nunc hora termia, nunc autem hora nona, ut sibi
visum fuerit, neque servat solemnem ac legitimum ordinem sanctae oblationis (PG 87, t. III,
col. 2874). Purtroppo non viene attestata questa variante nell’edizione del Migne ed è
sempre fedele al Traversari il Maisano, che rende questo passo traducendo
letteralmente: La domenica viene a celebrare la funzione quando gli pare: una volta all’ora
terza, una volta all’ora nona, e non segue l’ordinamento liturgico prestabilito (Op. Cit., P.
78). Sinceramente a noi pare una recensione assai sospetta e non solo perché non
viene esibita la fonte che attesta l’eventuale variante del testo greco; l’anziano, infatti,
rispondendo dirà che viene a stare vicino all’altare subito dopo il termine del suo
canone notturno della domenica e da lì attende il manifestarsi dello Spirito santo. Più
che l’imprevedibilità dell’ora di arrivo in chiesa del presbitero, era il fatto di dover
spesso attendere l’ora nona per la sinassi eucaristica ad esasperare a tal punto la
gente da portarla a denunciare tumultuosamente al proprio vescovo il presunto
abuso.
188
Kalògheros, da kalòs ghèron, buon anziano è una variante nota per monaco ed è di
uso strettamente popolare. Il Traversari, che ignorava questo dettaglio cercò di
intuire e volse in latino con un rispettoso senior, al quale si accodò sprovvedutamente
il Maisano con l’ancor più rispettoso: venerando padre (Op.Cit., p. 79). Kalògheros,
invece, pur non essendo un insulto è un’espressione del linguaggio quotidiano del
popolino, il demotikòn, e udita dalla bocca di un vescovo, dal quale ci si attende un
linguaggio più elevato, assume il sapore di un amichevole rimprovero.
115
così e dici bene. Ma non so che cosa fare. Dopo il canone notturno della
domenica mi metto vicino al santo altare (thysiasterìo) e finché non vedo lo
189
Spirito santo adombrare il santo altare, non inizio la sinassi. Quando vedo
l’operazione dello Spirito santo, allora compio la liturgia . Meravigliandosi il
190
vescovo della virtù dell’anziano e, dopo aver informato quelli del villaggio, li
congedò in pace glorificando Dio (PG 87, t. III, coll. 2873-2874).
Anche questo testo offre parecchi spunti di riflessione, a partire
dalle lamentele della gente, costretta ad attendere l’ora nona per la
sinassi. Il torto dell’anziano, secondo i suoi esasperati accusatori, sarebbe
quello di sovvertire l’ordinamento (tàxis) e gli orari liturgici. L’orario
prestabilito, infatti, per la celebrazione della liturgia eucaristica viene
desunto dal testo stesso, quando l’anziano dichiara di presentarsi presso
il santuario una volta terminato il canone notturno. L’alba, o comunque
il mattino, infatti è l’orario classico della celebrazione dei divini misteri.
Questo perché l’alba è collegata con la risurrezione di Cristo, la mattina,
ancora, con la Pentecoste, avvenuta all’ora terza . Ed è dal Nuovo
191
189
Il Traversari nuovamente dimostra la sua comprensibile e scusabile parziale
incompetenza traducendo la lezione tòn kanòna tòn nykterinòn con: nocturnos hymnos;
egli era probabilmente a conoscenza dell’esistenza di una parte dell’ufficiatura
bizantina denominata canone e quasi esclusivamente costituita da materiale
innografico. Ignorava, però, che il canone notturno poteva anche essere, come in
questo caso, la preghiera personale che il monaco compie nella propria cella,
costituita da un certo numero prestabilito di salmi o altri testi religiosi, prostrazioni e
invocazioni. Se ne parla diffusamente in tutte le vite di santi monaci, la descrizione
del loro canone personale era considerata motivo di edificazione.
190
Maisano (Op. Cit., p. 79) omette del tutto una delle due frasi e rende così: Quando
vedo che lo Spirito santo è presente, allora celebro la funzione.
191
Atti, 2,15.
116
Testamento, come testimoniano gli Atti degli Apostoli, che la preghiera
comune e l’eucaristia vengono celebrati in un tale orario, avvalorato
dalle ripetute apparizioni di Cristo risorto. Questo criterio potrebbe
risolvere da solo, a nostro avviso, la questione riguardante che cosa
intendessero principalmente celebrare i primi cristiani quando si
riunivano per la sinassi eucaristica. L’ultima cena, infatti, era avvenuta di
sera, mentre la morte in croce all’ora nona…
Non passa inosservato il fatto che, questa volta, il ritardo della
discesa dello Spirito Santo non dipende dallo ghéron, uomo assai
spirituale e illuminato a tal punto da riconoscere non solo la discesa dello
Spirito, ma anche le varie fasi della sua operazione mistica sul pane e il
vino offerti. L’ostacolo, la causa del ritardo va perciò ricercata nella gente
del villaggio, talmente indifferente alla vita dello spirito, da non
accorgersi delle qualità del loro presbitero, anzi, giungono a
lamentarsene col vescovo!
Ancora una considerazione merita tòn kanòna ton nykterinòn, vista
la facilità con cui una tale espressione viene fraintesa anche da eminenti
studiosi. Per dare un’idea di quello che poteva essere in pratica il canone
personale di un monaco, tra gli svariati esempi a nostra disposizione, ne
scegliamo tre di epoche differenti. Il primo è il celebre canone di
sant’Arsenio (IV secolo), divenuto leggendario.
192
192
Arsenio nacque a Roma nel 354 e venne ordinato diacono da papa Damaso;
trasferitosi a Costantinopoli, forse come precettore dei figli dell’imperatore Teodosio,
117
Raccontavano di Arsenio che il sabato sera, quando già spuntava la
domenica, volgeva le spalle al sole e stendeva le mani al cielo in preghiera, finché
di nuovo il sole gli risplendeva in viso; allora soltanto si metteva seduto .
193
Il secondo esempio di canone notturno è quello praticato da un non
meglio identificato abba Filemone, vissuto nel deserto egiziano tra VI e
VII secolo e quindi contemporaneo a Giovanni Mosco. Il testo è stato
studiato e pubblicato nella celebre Filokalìa da Nicodemo l’Aghiorita, alla
fine del XVIII secolo (Venezia 1793). I fatti narrati, la descrizione del
deserto egiziano in cui visse Filemone, le questioni dogmatiche, lo
scisma monofisita, il vocabolario usato e altri riferimenti permettono di
collocare la vita di abba Filemone in un arco di tempo piuttosto
delimitato, che va dalla morte di Giustiniano fino all’invasione araba
esclusa.
Il canone del santo anziano era questo: nella notte recitava tutto il salterio
e le odi tranquillamente e diceva una pericope del vangelo. Poi si sedeva, da
194
decise in un secondo momento di unirsi agli asceti del deserto egiziano, prima a
Scete e, infine a Tura, nei pressi dell’attuale Cairo, dopo essere scampato alle due
incursioni di barbari che devastarono Scete in quegli anni. Come asceta è sempre
stato considerato uno dei più radicali, più che per le veglie notturne, nelle quali per
altro non fu il solo a cimentarsi, soprattutto per la sua volontà di nascondimento e di
isolamento e la durezza con cui difendeva il suo esilio volontario. La sua morte è
collocata tradizionalmente nel 449. La sua fama non ha mai conosciuto declino nella
Chiesa ortodossa, numerosi elogi e panegirici gli furono tributati persino dai padri
del cenobitismo, come Teodoro lo Studita.
193
Apoftegmata, Arsenio,30, in PG 65. La traduzione italiana migliore è stata curata da
MORTARI L., Vita e Detti dei Padri del Deserto, 2 voll., Città Nuova 1971, Roma. Il
paragrafo da noi citato si trova nel vol. I, a pag.105, della terza edizione del 1990.
118
solo, e diceva: Kyrie eléison
195
così intensamente e a lungo da non poter più
emettere la voce. Dopo prendeva sonno e poi intorno all’alba, recitava l’ora
Prima… .
196
Il terzo esempio di canone monastico notturno è di un epoca
decisivamente posteriore, la descrizione proviene dalla Vita di san Nilo
di Rossano (910 – 1005), il grande asceta calabro-greco, che trascorreva
194
Si tratta dei nove tradizionali cantici biblici, che nel salterio liturgico ortodosso
sono riportati in appendice, al termine dei salmi. Cfr. Psaltirion, ed. To Peribòle tes
Panaghìas, Thessalonìki 2001, pp. 213-232.
195
Kyrios (lat. Dominus) era un titolo cultuale dato agli Dei nel linguaggio pagano; ma
la primissima comunità cristiana lo associò al nome di Gesù Cristo, come Dio,
sull’esempio di san Paolo nel suo famoso inno ai Filippesi: Ogni lingua confessi che
Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre (la Volgata traduce male il testo greco di Fil
II,11…). Il titolo era l’espressione equivalente della fede dei battezzati nella
partecipazione di Gesù alla divinità del Padre… Kyrios, nella supplice prece
invocativa indirizzata genericamente a Dio, s’incontra molte volte nei libri sia del
Vecchio Testamento come nel Nuovo, e perfino nell’uso devozionale pagano. Noi
preghiamo Iddio, dicendogli Kyrie eléison, scrive Arriano nella biografia di Epitteto
(Diatribae Epiteti, II,7; cfr BISHOP, Kyrie eléison, A liturgical consultation, in Liturgica
historica, 1918, pp. 126-136; DOLGER F: I., Gebet und Gesang im christlichen Altertum,
Munster, 1920, p. 50 ss.). La formula liturgia invalse dapprima in oriente nell’area
della liturgia antiochena, attestata dalle Costituzioni Apostoliche e dal Crisostomo
(Hom. 71 in Matthaeum, 4; Const. App. VII, 6,9). In occidente non si conosceva ancora
al tempo di Egeria (395 circa), perché questa fa espressamente notare che, mentre a
Gerusalemme, ai diversi inviti del diacono, si rispondeva Kyrie eléison, nei suoi paesi
si dice Domine miserere (Itinerarium Egeriae, 24,5). Il Concilio di Vaison (Arles) nel 529,
raccomandando di adottare il Kyrie eléison nella Messa e nell’ufficio sull’esempio di
Roma, lascia supporre che la sua introduzione in Italia fosse recente. E’ stato dunque
non prima del V sec. che il Kyrie eléison dall’oriente venne importato a Roma e di qui
passò nelle Gallie e in Spagna mantenendosi nella sua forma greca. Pp. Gelasio
(+496), come tutto porta a credere, lo scelse quale risposta popolare alla Deprecatio
litanica, da lui introdotta nella Messa. Il Chrìste eléison fu aggiunto al Kyrie nella
Messa da S. Gregorio M. (+604)… (RIGHETTI, Op. Cit., vol. I, pp. 213-214).
196
ANONIMO, Discorso Utilissimo sull’Abate Filemone, in “La Filocalia”, vol. II, pp. 359360, trad. it. a cura di ARTIOLI M.B. e LOVATO M.F., Gribaudi 1983, Torino. Abba
Filemone è ritornato popolare dopo secoli di semi-oblio grazie alla pubblicazione
della Filocalia. Un ulteriore impulso alla sua fama è stato dato dalla pubblicazione
della sua vita in appendice all’edizione del 1884, curata da Teofane il Recluso, de I
Racconti di un Pellegrino Russo (ed. it. a cura di CAMPO C., ed. Rusconi 1977, Milano).
119
gran parte della notte e dello stesso giorno nel compimento delle sue
lotte spirituali.
Un’ora sola egli concedeva al sonno, poiché altrimenti non avrebbe potuto
fare la digestione; il restante della notte lo spendeva nella recita del salterio, in
fare cinquecento metanie , e nella recita degli inni del Mesonittico e del
197
Mattutino .
198
Come si vede il canone notturno può assumere diverse forme, a
seconda dell’inclinazione e delle possibilità dell’organismo, come già era
noto nel VII secolo all’autore della Scala Paradisi , che così riassumeva:
199
197
Si tratta delle grandi metanie o grandi prostrazioni di cui parlammo all’inizio
della descrizione del rito della Protesi. Se vogliamo una descrizione di come si
svolgeva la preghiera del canone notturno con le metanie, lo stesso Prato ci fornisce
una interessante testimonianza al capo CXLVI, in cui si narra una curiosa
apparizione del Martire Giuliano sotto l’aspetto di un arcidiacono suo omonimo,
un’esperienza toccata al patriarca d’Alessandria Eulogio mentre compiva il suo
canone notturno.
Una notte mentre recitava il suo ufficio da solo nella chiesa del Patriarcato, vide in piedi
accanto a sé l’arcidiacono Giuliano. Rimase turbato nel vederlo, perché aveva osato entrare
senza annunciarsi; tuttavia non disse niente. Completò la salmodia e si prostrò. Così fece
anche colui che gli era apparso con l’aspetto dell’arcidiacono. Quando però il Patriarca si alzò
per pregare, l’altro rimase inginocchiato a terra. Allora il patriarca si rivolse a lui dicendo:
Fino a quando resterai a terra? Rispose l’altro: Se non mi dai una mano per sollevarmi non
riuscirò ad alzarmi. Eulogio stese la mano, lo afferrò e lo fece alzare. Poi ricominciò a
salmodiare e quando si voltò non vide più nessuno.
198
GIOVANELLI G., S. Nilo di Rossano, Fondatore di Grottaferrata, Badia di
Grottaferrata 1965, Roma, pp. 33-34. Si tratta dell’unica versione in italiano del Bìos
del Santo, scritta nell’XI secolo dal discepolo Bartolomeo di Rossano. Ritengo utile
precisare che il titolo del lavoro del Giovannelli si dimostra erroneo, dal momento
che, come fra l’altro risulta dalla lettura del Bìos stesso, san Nilo non fondò il
monastero di Grottaferrata, ma vi morì.
199
Giovanni Climaco, asceta sinaita, vissuto tra VI e VII secolo, anacoreta e igumeno
del monastero di santa Caterina, autore della Klìmax, celebre trattato sulla vita
monastica, che gli meritò il soprannome con cui è ricordato fino ai giorni nostri.
120
Alcuni innalzano a lui (Dio) le mani nella veglia della sera e della notte in
preghiera, quasi dimentichi del corpo e spogli di ogni preoccupazione; altri
attendono in veglia alla salmodia. Certuni piuttosto perseverano nella lettura;
altri invece, benché deboli, mediante il lavoro delle loro mani lottano per vincere
virilmente il sonno .
200
Nelle pagine precedenti si considerava la concezione mistica
attribuita al rito ortodosso, che è provvisto, si potrebbe dire, di una sua
vita autonoma. L’attesa di segni da parte dello Spirito santo, che in
questo caso vediamo messa in atto dal santo presbitero, esclude ogni
possibilità di intendimento magico, come se, cioè, fosse sufficiente la
mera ripetizione di un tale formulario e di una tale ripetizione di gesti
per garantire sempre e comunque gli stessi effetti. Se così fosse il monaco
presbitero di Mardardo non avrebbe dovuto preoccuparsi se all’inizio
della sinassi, all’ora prestabilita dalla tàxis liturgica l’ombra dello Spirito
santo non si manifestava all’interno del santuario. Gli sarebbe stato
sufficiente iniziare il rito per attirare sempre e comunque lo Spirito
divino e per costringerlo a compiere le trasformazioni previste.
Dobbiamo anche ricordare che anche al capitolo XXV vediamo qualcosa
del genere, quando il presbitero Giovanni, ignaro dell’antecedente, non
vede i segni consueti dell’intervento dello Spirito santo, attribuisce a un
qualche suo peccato nascosto la causa di tale inconveniente. Era dunque
200
GIOVANNI CLIMACO, Scala XX,119, trad. it. a cura di RIGGI C., Città Nuova
1989, Roma. La Scala è nota in occidente col titolo di Scala Paradisi ed è pubblicata in
PG 88, mentre il Prato è al volume 87, tomo III.
121
noto il fatto che qualche cosa poteva essere in grado di contristare a tal
punto lo Spirito Santo da tenerlo lontano dalla sinassi ufficiale o da
ritardarne la discesa nel santuario di ben nove ore? I testi che abbiamo
studiato vano in quella direzione: in essi constatiamo, infatti, il
manifestarsi dell’intervento dello Spirito di Dio là dove non ce lo
saremmo aspettato, come nel caso del fratello che recitava la proscomidìa
dell’anàfora recando le euloghìes in chiesa, o come nel caso del gioco dei
pastorelli; ma anche nel caso dell’altare edificato dall’anacoreta Barnaba
in una grotta del Giordano e santificato dalle sue preghiere e dalla sua
ascesi. Mentre talora, dove sarebbe normale attenderci un tale intervento,
non lo riscontriamo affatto, anzi, le persone dotate di vista spirituale non
lo avvertono. In definitiva la chiesa ortodossa, secondo questa visione,
conoscerebbe i modi corretti con cui si svolge la sinassi, e si tratta delle
parole e dei gesti del culto, ma i tempi, i momenti e le condizioni in cui
Dio gradisce l’offerta e invia il suo Spirito continuano a dipendere
esclusivamente da lui. L’uomo spirituale, il vero spirituale, dotato, in
virtù di una vita di fede intensa, purificato dalle passioni, è in grado di
accorgersi di ciò che veramente succede.
Una persona in grado, inoltre, di rendersi conto della differenza fra
l’ombra e l’azione dello Spirito santo, di distinguere una gradualità di
fasi nascoste ai sensi del corpo, che accompagnano lo svolgersi della
liturgia, compare una sola volta in tutto il Prato. Questa, molto
probabilmente è la grandezza di cui parla Giovanni Mosco presentando
122
ai lettori lo ghèron che celebrava la liturgia a Mardardo. Il segnale che egli
attendeva per iniziare la proscomidìa era l’apparire dell’ombra dello
Spirito santo sul santuario; questo è in effetti l’inizio della sinassi.
L’anàfora eucaristica veniva recitata nel momento in cui lo Spirito santo
era visto intervenire direttamente sul pane e sul vino preparati ed offerti.
Si vede con chiarezza, a mio avviso, in questo racconto, la distinzione,
ma anche la consequenzialità dei due segmenti liturgici.
Certo, per quanto consta dalle stesse fonti che ne parlano, una tale
facoltà era comunque rara e raro, effettivamente, è sempre stato il
sacerdozio fra i monaci ortodossi. Viene da chiedersi, a questo punto, se
la scelta dei candidati al sacerdozio nei monasteri del VI secolo non
dipendesse dall’acquisizione di una tale facoltà. C’è chi lo sostiene con
forza ai nostri giorni; e non solo a proposito del monachesimo, ma in
tutta la chiesa dell’era apostolica. Ioannis Romanìdis, in uno dei suoi più
appassionanti articoli
201
201
cerca di ricostruire la vita spirituale che si
ROMANIDIS G., Gesù Cristo - La Vita del Mondo, in “Italia Ortodossa”, vol. I e II,
2003, pp. 30-54. Tale studio, tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia dalla
rivista teologica Italia Ortodossa, è stato presentato durante il WCC Orthodox
Consultation (Consiglio Mondiale delle Chiese- Consultazione Ortodossa) a
Damasco (5-9 febbraio 1982). Il suo titolo originale era Jesus Christ – The Life of the
World, ed è stato successivamente pubblicato in “Xenia Oecumenica” vol. 39, pp. 232278. Scopo dell’intervento di Romanidis era l’illustrazione dello scopo fondamentale
dell’esistenza della Chiesa, la terapia dell’uomo, attraverso vari approfondimenti
neotestamentari e protocristiani fino all’era patristica classica. Secondo Romanidis il
problema della Chiesa dell’era apostolica non era innanzi tutto e comunque come
convertire il mondo alla propria religione, ma come guarire lo spirito umano dagli
effetti del peccato, le passioni, di modo che possa essere abilitato all’esperienza della
glorificazione. Questa suggestiva interpretazione delle Scritture trova ampio
riscontro nella letteratura patristica di tutte le epoche ed è effettivamente il metodo
tradizionale con cui la Chiesa ortodossa si è sempre accostata alle Scritture. Il
123
svolgeva all’interno della Chiesa dei primi secoli, incentrata su criteri di
terapia per l’anima, più che aspetti morali o missionari. La chiesa
proponeva la sua terapia dello spirito umano attraverso un percorso di
purificazione, illuminazione e glorificazione, al termine del quale l’uomo
entrava in contatto diretto con la gloria divina. Lo stato di guarigione
coincideva con la vita mistica in senso vero e proprio, quell’esperienza
che verrà descritta pochi secoli più tardi come divinizzazione. La terapia
spirituale poteva essere somministrata solo da chi era, per così dire,
guarito e quindi glorificato. Diveniva presbitero e, a maggior ragione,
episcopo, solo colui che veniva riconosciuto guarito dal suo terapeuta.
Al centro della struttura (della Chiesa) c’era la diagnosi della malattia del
cuore e la sua terapia attraverso il mezzo dei carismi il cui fondamento era la
glorificazione e il cui sine qua non era la preghiera dello Spirito santo nel cuore.
Quando la comunità locale era composta dal Corpo di Cristo paolino,
l’ecclesiologia eucaristica era la sua normale e naturale espressione strutturale.
Comunque, attraverso le varie fasi d’indebolimento del centro di questa
congregazione locale, la struttura della Chiesa ha subito un’evoluzione risultata
pensiero di Romanidis è tutt’altro che isolato all’interno della Chiesa ortodossa, ma
rimane sostanzialmente sconosciuto all’occidente, che trova più corrispondenza in
autori ortodossi che ignorano tali tematiche e le cui opere maggiormente
rassomigliano a quelle dei teologi cattolici. Le numerose case editrici italiane, anche
quelle piemontesi, che traducono e pubblicano gli autori ortodossi contemporanei
hanno rifiutato finora di occuparsi delle opere di Romanidis, preferendogli studiosi
assai meno rappresentativi dell’ortodossia. Egli fu anche storico; il suo maggiore
contributo alla storia medievale, Franchi, Romani, Feudalesimo e Dottrina. Un Percorso
Storico e Teologico alle Radici della Separazione dell’Occidente dall’Oriente, sarebbe di
notevole interesse, ma rimane in attesa di pubblicazione. La sua scomparsa risale al
2003.
124
dalla determinazione di coloro che hanno trasmesso la tradizione della preghiera
dello Spirito santo di generazione in generazione, visto che questa è il cuore della
tradizione e della successione apostolica.
Si suppone che il clero fosse eletto dai fedeli, ossia da coloro che avevano
raggiunto lo stato della glorificazione o quello dell’illuminazione. Il processo
storico con il quale divenne possibile ad alcuni patriarchi e metropoliti ordinare
vescovi che non avessero raggiunto l’esperienza spirituale indicata dai dogmi il
cui mistero è inesprimibile, è descritto da san Simeone il Nuovo Teologo
(+1042), riconosciuto come uno dei più grandi Padri. Ciò significa che la sua
analisi è parte integrante dell’autocomprensione della Chiesa ortodossa.
In un lavoro sulla confessione, un tempo attribuito a san Giovanni
Damasceno, san Simeone spiega come coloro che nella Chiesa anticamente erano
laici furono ordinati vescovi simulando un’illuminazione che non avevano. Le
eresie apparvero nella Chiesa a causa di questi non illuminati…
“Incapaci di trovare simili candidati o, avendoli trovati, ma preferendo gli
indegni, alcuni patriarchi e metropoliti ordinarono vescovi coloro che non erano
nello stato di illuminazione. In luogo di questa essi richiesero solo che i nuovi
episcopi esponessero il Simbolo della fede per iscritto accettando di non avere
zelo per il bene, né di contrastare alcuno per il male, salvaguardando in questo
modo la pace nell’area della Chiesa a loro affidata, ciò che è peggio di ogni
inimicizia e di ogni gran disordine ””.
202
202
MIGNE, PG 95, col. 300.
125
Nella persona di san Simeone si può chiaramente distinguere la parte
della tradizione apostolica della diagnosi e della terapia, da secoli contrapposta a
coloro che volevano ridurre la salvezza alla fede confidando in dogmi e meriti
basati sulle buone opere e sulla moralità .
203
E’ significativo che gli insegnamenti di Simeone il Nuovo Teologo
furono aspramente contrastati negli anni in cui visse a Costantinopoli,
causandogli persecuzioni ed esilio. Ma veramente trionfale fu la sua
postuma riabilitazione e il sinodo della Grande Chiesa gli assegnò il
rarissimo titolo di Teologo, che la tradizione ortodossa riserva a
pochissimi grandi mistici: l’evangelista e apostolo Giovanni e Gregorio
nazianzeno. Egli è, per la sua Chiesa il Nuovo Teologo, dopo i primi due
grandi. Aveva ragione, quindi, Romanidis a sottolineare come la
descrizione del decadimento spirituale, che provoca l’insorgere degli
scismi e delle eresie, sia parte integrante dell’autocoscienza che la Chiesa
ortodossa ha di sé.
Nelle pagine del Prato che finora abbiamo studiate e in molte altre
riscontriamo affinità con tali idee e l’atteggiamento dei vescovi ortodossi,
che compaiono in questi racconti, rivela chiaramente l’utilizzo di criteri
conformi a quelli esposti da Simeone il Nuovo Teologo ed esaminati da
Romanidis. In tutti gli episodi notiamo l’attenzione e l’importanza
accordata al livello di conoscenza mistica; l’autorità diocesana che
203
ROMANIDIS G. Op. Cit., pp. 48-49.
126
compare a più riprese nel Prato, si preoccupa di accertare la realtà e la
natura teofanica del fatto e non ha difficoltà a riconoscerlo
pubblicamente. Siamo, è vero in un’epoca in cui il livello mistico risulta
più frequente nel monachesimo, che non nel resto della cristianità. Ma è
anche il periodo in cui si consolida l’uso di affidare le cattedre episcopali
ai monaci; quale poteva essere il motivo che spingeva i cristiani
dell’epoca ad una tale fiducia verso il monachesimo? Forse proprio la
possibilità di reperire più facilmente fra i monaci un terapeuta che fosse
anche un asceta: in poche parole per avere comunque un mistico alla
guida della Chiesa. Il glorificato, l’uomo divinizzato, il vero mistico,
insomma, sarebbe il criterio di verità risalente alla tradizione apostolica.
Né la Bibbia, né i Padri considerano la glorificazione come un’esperienza
riservata solo alla vita dopo la morte. I terapisti normativi non sono solo coloro
che possiedono la preghiera incessante dello Spirito santo nei loro cuori, ma
anche quelli che hanno sperimentato la glorificazione già in questa vita…
Ciò significa che, per profeti, apostoli e padri, questa tradizione non è
molto differente dalla tradizione scientifica odierna. Ipotesi e teorie non possono
essere separate dalla tradizione della verifica empirica. La medicina non può
essere separata dalla diagnosi e dalla terapia. Diagnosi e terapia non possono
essere ridotte ad atti cerimoniali che non producono un attestabile ristabilimento
della salute. Allo stesso modo i sacramenti e la liturgia dalla purificazione e
dall’illuminazione della facoltà noetica, così come la fede, la preghiera, la teologia
127
e il dogma non possono essere separati dalla verifica empirica dell’incessante
preghiera dello Spirito santo nel cuore e dalla glorificazione .
204
In breve lo scopo della Chiesa, come si diceva, è la terapia
spirituale, in grado di produrre in colui che vi si sottopone
completamente la guarigione ed il conseguente congiungimento con il
regno dei cieli in una esperienza reale, non immaginaria. Questo tipo di
uomo, oggetto dell’interesse di Giovanni Mosco, è il vero protagonista
degli episodi raccolti. L’esperienza mistica, in questo tipo di tradizione,
non era semplicemente il fine del monachesimo, ma del cristianesimo
stesso. Romanidis, allo scopo di definire in termini moderni la teologia
patristica ha coniato l’efficace espressione di “teologia sperimentale”,
perché basata su un metodo analogo a quello delle scienze sperimentali.
Chi non si accorge, egli continua, che molta letteratura patristica e
monastica cristiana, di cui il Prato è un esempio, si fonda su un tale
metodo, perde un elemento esegetico non secondario e rischia di
applicare i filtri interpretativi di altre epoche e di altre forme di
cristianità . E da come ancor oggi vengono condotte molte traduzioni di
205
testi religiosi cristiani in lingua greca siamo indotti a ritenere che il
pericolo in questo senso non è da escludere.
204
ROMANIDIS G., Op. Cit., p. 53.
ROMANIDIS G., Franchi, Romani, Feudalesimo e Dottrina…, p. 51ss., Venezia 1998,
traduzione pro manuscripto a cura del signor Pietro Chiaranz, che cortesemente ci ha
concesso una copia in consultazione.
205
128
Un altro passo del Prato di notevole interesse, attestante il termine
proscomidìa, lo incontriamo al capitolo XCVII. L’occasione, questa volta,
è fornita da un problema di rapporti difficili tra monaci e vescovi; un
monaco cieco, un certo Giuliano, originario dell’Arabia, ha difficoltà a
considerarsi in comunione ecclesiale con colui che lo ha offeso,
addirittura Macario, arcivescovo di Gerusalemme e, allo scopo di avere
un parere autorevole interroga, mediante epistola, abba Simeone del
Monte Ammirabile. Probabilmente il quesito aveva la forme di quella
che oggi noi potremmo definire una “lettera aperta”. La risposta non si
fa attendere e, oltre alla prevedibile raccomandazione di non estraniarsi
dalla Chiesa per motivi personali, abba Simeone aggiunge a sorpresa
alcune
notizie
sul
monaco
Patrizio,
originario
dell’Armenia
e
precisamente di Sebastopoli, che già era stato igumeno nel cenobio di
Abazano, ma poi aveva rinunciato per vivere in umiltà e nascondimento,
come l’ultimo dei monaci nel cenobio stesso di san Teodosio, dove
appunto viveva abba Giuliano il cieco.
Oltre a questo, sappi, fratello, che se c’è uno che può fare la proscomidìa
(proscomìsei) nel vostro cenobio, avete lì un anziano di nome Patrizio; questo
anziano sta fuori del santuario, al di sotto di tutti, vicino al muro occidentale
della Chiesa; e dice anch’egli la preghiera della proscomidìa, e viene considerata
la sua santa anafora (PG 87, t. III, coll.2953-2956).
Il testo non fu assolutamente compreso dal Traversari, il quale,
trovando strana la risposta apparentemente fuori tema correggeva il
129
verbo proscomìsei, a noi ben noto, con proskòpsei, e lo rendeva in latino
con inciderit , intendendo così: se qualcuno cadesse (in eresia), avete lì un
206
anziano di nome Patrizio… Questa volta Maisano si dimostra ben più
accorto e intende correttamente: se c’è uno che può celebrare l’offertorio… ;
207
poco dopo, però, cade nuovamente in equivoco, interpretando così
quanto segue: vive fuori del santuario, in posizione infima, vicino al muro
occidentale della chiesa, intendendo le parole di abba Simeone come una
descrizione del luogo dove si trovava la cella in cui il monaco Patrizio
viveva. In realtà è chiaro, proprio se si intende il contesto di tutto il
discorso e il significato preciso delle parole della risposta, che abba
Simeone intende ben altro e, anzi, molto più di quanto non dica
espressamente. In parole povere egli rivela con tale messaggio, che il
presbitero allora in carica al cenobio di san Teodosio non è
assolutamente adatto al compito, dal momento che in cielo non viene
accolta la sua anafora, bensì la preghiera silenziosa e umile del monaco
Patrizio, il quale assiste alle funzioni, ovviamente dentro la chiesa, ma
fuori del santuario; il suo posto in chiesa è l’ultimo lungo il muro
occidentale ed essendo l’ultimo di tutti non viene mai coinvolto nel
servizio all’altare. Ma al momento della proscomidìa e dell’anàfora, egli,
che conosce il rito a memoria, ne ripete segretamente le parole e questa
206
207
PG 87, t. III, col. 2955.
MAISANO, Op. Cit., p. 128.
130
sua orazione nascosta, non quella compiuta dal presbitero in carica, è
quella che in realtà attira lo Spirito santo sull’offerta del pane e del vino.
Il rescritto di abba Simeone, come si diceva, è solo apparentemente
fuori tema. La lite fra i monaci di san Teodosio e l’arcivescovo di
Gerusalemme rischiava, infatti, di trascinare nello scisma e nell’eresia
probabilmente monofisita l’illustre cenobio, con gravi conseguenze,
come si può facilmente immaginare.
L’asceta interpellato è dunque
arbitro di una questione che tocca non solo i rapporti disciplinari
all’interno del patriarcato di Gerusalemme; l’uscita dalla comunione
calcedoniana
di un monastero così
illustre avrebbe indebolito
notevolmente l’ortodossia in un momento delicato; il vasto prestigio
goduto dal cenobio all’interno della comunità cristiana palestinese
sarebbe andato tutto a favore degli anticalcedonesi, favorendone il
proselitismo. La seconda parte del rescritto, e nessuno finora sembra
averlo compreso, è collegata dunque strettamente con la risposta al grave
quesito. Abba Simeone, parlando di un monaco ignorato da tutti,
descrivendo a distanza il luogo da cui segue le funzioni in chiesa fornisce
la prova di possedere quel carisma spirituale che solo può garantire
l’autorevolezza necessaria alle sue raccomandazioni. Siamo di fronte
nuovamente a facoltà spirituali intese come il criterio di verità e autorità
della chiesa. Di fronte al pericolo della perdita di un monastero
importante abba Simeone è, per così dire, costretto a dare un segno che le
sue parole non sono semplici riflessioni umane, ma sono ispirate da Dio;
131
egli dichiara, pertanto, con un certo garbo, ma con chiarezza di conoscere
molte cose di quelle che accadono nel monastero di san Teodosio, anche
senza esservi andato, cose che soltanto in cielo sono conosciute; e cioè
che il presbitero del monastero non è degno dell’incarico e colui che è
degno è in realtà uno sconosciuto e apparentemente insignificante
ghèron, il più inosservato e meno calcolato del cenobio. La descrizione
esatta del posto assegnatogli in chiesa, da parte di una persona che non è
mai stata in quel monastero, è la prova che quanto abba Simeone dice
non è nient’altro che la pura verità. Come sappiamo dalla storia il
cenobio più antico della Palestina rimase al suo posto, fedele al concilio
di Calcedonia.
Un’ultima riflessione sul capitolo XCVI va fatta a proposito
nuovamente di una liturgia che si compie senza il concorso del
presbitero. Anzi in questo caso il presbitero sulla terra è sì presente, ma
nei cieli non è gradito. La liturgia terrestre viene accettata e unita a quella
celeste in virtù della proscomidìa e dell’anàfora recitate per devozione
personale da un monaco, sconosciuto sulla terra, ma ben noto nei cieli e
noto anche a tutti coloro che possiedono lo stesso livello spirituale.
Questa
narrazione
espone
chiaramente
e
anche
il
tema
del
riconoscimento reciproco fra carismatici, uno degli aspetti che fonda
l’autorità spirituale . Abbiamo dunque la testimonianza che nella Chiesa
208
208
Il riconoscimento fra uomini detentori dello stesso carisma spirituale è
testimoniato in molti altri passi del Prato. Per non dilungarci eccessivamente a
132
di quel periodo le scelte più importanti sono spesso fondate non su un
astratto principio di autorità, tipico di forme di cristianesimo di altre
epoche e altri luoghi, ma sulla parola autorevole di uomini in grado di
dare dei segni a garanzia di ciò che dicono. Ha ragione dunque
Romanidis quando parla di una teologia sperimentale, che non accetta
niente se non ci sono delle prove verificabili da chiunque. Privo di una
tale consapevolezza il Traversari, come abbiamo visto, non era in grado
di comprendere il testo e pertanto si sentiva in obbligo di correggere
arbitrariamente la lezione di proscomìsei in proskòpsei. Questo incidente,
occorso a un umanista di tale spessore, dovrebbe spingere molti ad
essere assai più cauti ad affrontare un tale genere di letture e di studi,
soprattutto se privi delle necessarie nozioni liturgiche e teologiche. La
sola conoscenza della lingua greca, la sola perizia filologica si
scapito del tema centrale della ricerca, ci limiteremo a riportare un solo altro
esempio, tratto dal capitolo CIV:
Una volta, prima del segnale dell'officiatura notturna, me ne stavo sdraiato sul mio lettino,
quando udii qualcuno che diceva: Kyrie elèison con voce dolce e tranquilla. Contai cinquanta
volte le parole Kyrie elèison. Per saper chi era quello che parlava mi affacciai alla finestra della
mia cella, guardai in chiesa e vidi l’anziano inginocchiato. Una stella luminosa splendeva sul
suo capo e mi rivelava chi era quel monaco.
Perdonateci un’ulteriore digressione inerente all’argomento, più come curiosità che
come prova scientifica. L’episodio che intendiamo ora riportare è molto simile a
quello del VI secolo che abbiamo appena citato e sarebbe avvenuto in un monastero
della Romania nel 1971 in presenza del celebre monaco Cleopa (1930-1998).
Non sapeva che c’era qualcun altro nella chiesa perché era buio, dato che era inverno…La
donna era in ginocchio nel mezzo della chiesa con le mani alzate e diceva con tutto il cuore
queste parole: Signore,non mi lasciare… Allora vidi una luce bianca attorno alla sua testa che
mi spaventò. La donna cadde con la faccia a terra e pregava senza voce. Il raggio di luce sopra
di lei divenne più grande e crebbe sulla sua testa. Dopo un po’ di tempo la luce si spense
lentamente. La donna si alzò e uscì dalla chiesa (BALAN I., Il Mio Padre Spirituale. Vita e
Insegnamenti di Cleopa di Sihastria, trad. it. A cura di Rus V., ed. Lipa 2002, Roma, p.
85).
133
dimostrano insufficienti alla comprensione di queste pagine, sulle quali
anche i migliori critici del testo hanno dato prova di essere inadeguati.
Ancora al capitolo CVIII raccogliamo notizie interessanti per la
209
nostra tesi. Il fatto sarebbe avvenuto a Samo ed è riferito dall’igumeno
Isidoro, prima di divenire vescovo dell’isola; il protagonista è un non
meglio identificato presbitero, che da giovane era stato costretto dalla
famiglia a rinunciare al proposito di diventare monaco: si era sposato
con la fidanzata che gli aveva trovato la famiglia e in seguito era stato
fatto presbitero. Il suo zelo spirituale era aumentato a tal punto da
coinvolgere la sposa, con la quale viveva segretamente in castità e nella
costante recita del salterio, che entrambi conoscevano a memoria.
Essendo stata ordita una grave calunnia sul suo conto, il vescovo, che
ignorava il valore del suo presbitero, fu costretto a imprigionarlo nel
carcere ecclesiastico, dove venivano rinchiusi i chierici colpevoli di gravi
crimini.
Mentre dunque si trovava nel carcere, giunse la santa Domenica, e la
notte gli appare un giovane di gran bell’aspetto e gli dice: Alzati, presbitero, vai
nella tua chiesa a fare la santa proscomidìa .
210
Il presbitero viene condotto fuori dal carcere e accompagnato fino
ad un miglio dal villaggio dove prestava servizio; a questo punto il
209
PG 87, t. III, coll. 29769-2972.
L’espressione usata non è questa volta il verbo proscomìzein che già abbiamo
incontrato, ma la perifrasi tèn aghìan poièses proscomidèn.
210
134
misterioso giovane si dilegua e mentre l’ignaro fuggitivo entrato nella
chiesa del villaggio inizia la proscomidìa, la fuga viene scoperta e riferita
al vescovo.
Pensando che fosse fuggito, il vescovo manda un servo dell’episcopio
dicendo: Và e vedi se il presbitero è nel suo villaggio, ma non fargli nulla.
Andando dunque il servo lo trovò nella chiesa mentre compiva la santa anafora
211
e tornando disse al vescovo: E’ là e l’ho trovato mentre faceva la proscomidìa .
212
Il vescovo a questo punto decide di salire al villaggio per
l’indomani, allo scopo di trascinare nuovamente il presunto fuggiasco in
prigione con gran disonore, ma quella stessa notte lo stesso giovane
sveglia nel sono l’ignaro presbitero e lo riconduce nel carcere da cui lo
aveva tratto. L’inusitata duplice evasione, prima in un senso, poi
nell’altro, suscita non poca perplessità; si fanno indagini per identificare
lo sconosciuto complice, ma senza esito. Alla fine il vescovo riconosce
nella singolarità del fatto l’intervento di una creatura angelica, e riabilita
pienamente il presbitero ingiustamente calunniato. L’intero episodio non
211
Letteralmente: tèn aghìan anaforàn poioùnta.
Letteralmente: òti proscomìzonta autòn èfthasa. Si noti che il servo in questo caso
utilizza proscomidìa come sinonimo di anàfora; questo non deve stupire, dal momento
che nell’epoca in cui sono avvenuti i fatti narrati da Giovanni Mosco la proscomidìa o
pròtesi e l’anàfora non erano separate come nell’uso successivo, ma avvenivano subito
dopo il vangelo senza soluzione di continuità. In effetti è solo dalla metà del
medioevo che vengono considerati due rituali disgiunti, mentre è assai più logico che
il pane e il vino, dopo essere stati preparati (la proscomidìa), vengano
immediatamente offerti (l’anàfora); la loro santificazione e trasformazione, nel VI
secolo erano considerate tutt’altro che automatiche, dal momento che si riteneva,
come s’è visto, che lo Spirito santo desse maggiore importanza a certe condizioni
spirituali, più che all’azione in persona Christi di un sacerdote validamente ordinato.
212
135
è privo di riferimenti alla miracolosa scarcerazione dell’apostolo Pietro,
narrata in At 12, 1-19.
Un altro caso di calunnie, questa volta a carico di un vescovo viene
riportata da abba Teodoro al capitolo CL.
Ci riferì abba Teodoro che a trenta miglia da Roma c’è una piccola città
chiamata Romella . In questa città c’era un vescovo assai grande e virtuoso.
213
Una volta, dunque, venero alcuni da Romella al beatissimo papa di Roma
Agapito e accusarono lo stesso vescovo davanti al papa dicendo: Mangia nel
214
213
Vani, finora, i tentativi di identificare la città di Romella.
Si tratta di sant’Agapito I, papa di Roma. Romano della gens Anicia, che aveva già
dato papa Felice II (o III), e che poco più tardi darà san Gregorio Magno, era figlio del
presbitero Gordiano, titolare della chiesa dei santi Giovanni e Paolo sul Celio. Dopo
l’assassinio del padre ad opera degli avversari di papa Simmaco (501-502) intraprese
egli stesso la carriera ecclesiastica; in qualità di arcidiacono della chiesa di Roma ebbe
rapporti con Cassiodoro, con il quale concepì il progetto di fondare un’università
cristiana sul modello delle già note istituzioni di Alessandria e Nisibi
(CASSIODORO, De Institutione Divinarum Litterarum Praefatio, in PL, LXX, coll 1105
sg.) e a tale scopo fornì l’abitazione che il padre gli aveva lasciato sul Celio di una
ricca biblioteca di cui si è conservata l’iscrizione (DE ROSSI G. B., Inscriptiones
Christianae Urbis Romae, II, Roma 1888, pp. 16 e 28). Il 13 maggio 535 succedette a
papa Giovanni II cinque giorni dopo la morte del predecessore ristabilendo la pace
nella città dilaniata dalla rivalità tra il partito ortodosso e quello filo-goto. Concepì
tutta la sua attività in funzione del rispetto delle tradizioni della chiesa e dei canoni
sinodali, guadagnadosi così stima e popolarità anche a Costantinopoli, dove fu
accolto trionfalmente nel 536. Il motivo della sua visita alla capitale dell’impero
romano riguardava l’imminente spedizione di riconquista dell’Italia che l’imperatore
Giustiniano si apprestava ad allestire: Teodoto, re degli Ostrogoti sperava di
scongiurare l’invasione inviando papa Agapito I come mediatore presso
l’imperatore. Sul piano politico la mediazione fallì, mentre sul piano religioso la sua
presenza a Costantinopoli fu determinante a sventare le trame dell’augusta Teodora
e del patriarca Antimo, già metropolita di Trebisonda, miranti a stabilire il
monofisismo a Costantinopoli. Antimo fu deposto e lo stesso Agapito, col consenso
del popolo e della chiesa costantinopolitana, consacrò patriarca l’ortodosso Mena. Un
mese dopo questi fatti, il 22 aprile del 536, mentre si accingeva a tornare a Roma, la
morte lo raggiunse inaspettatamente. Ebbe funerali quali non vi aveva mai avuto
alcun vescovo o imperatore. La sua salma fu poi traslata a Roma in una cassa di
214
136
diskàrion santificato.Il papa, stupito da quanto udito mandò due chierici ed essi
215
condussero legato e a piedi il vescovo a Roma e giunti lo gettarono in prigione.
Dopo che il vescovo ebbe dunque trascorso tre giorni in prigione, giunse la santa
Domenica. E mentre il papa dormiva, allo spuntare della santa Domenica , vede
216
in sogno uno che gli dice: Questa Domenica non fare la proscomidìa (mè
proscomìses), né tu, né alcun altro dei chierici, né dei vescovi che sono nella
città, ma hai (a disposizione) il vescovo che sta in prigione: lui voglio oggi a fare
piombo nel settembre dello stesso anno 536. La memoria e la popolarità di
sant’Agapito I papa di Roma antica erano ancora molto vive ai tempi di Giovanni
Mosco.
215
Si tratta del vassoio sul quale viene deposto il pane eucaristico. Ne abbiamo già
parlato all’inizio del paragrafo dedicato alla descrizione del rito della proscomidìa o
protesi. Non deve sembrare un trattamento esageratamente severo quello inflitto per
punizione all’innocente vescovo. I vasi sacri e le suppellettili utilizzate per il culto
non possono essere mai più utilizzati per altri usi. Quando questo accadeva non era
considerato un semplice abuso, ma un atto dei più empi. Può essere utile a questo
proposito menzionare l’ancor più severa punizione che Nilo di Rossano comminò al
suo stesso nipote per un caso analogo.
Costui, trovandosi in cammino con alcuni confratelli e portando seco un calice con una patena
(diskàrion nell’originale) d’argento, per via s’imbatté in una limpidissima fonte. Volendo bere
di quell’acqua, tratto fuori il sacro calice, ed invaghito dalla candidezza del metallo, vi bevve
egli e tutti i suoi compagni. Venuto ciò a conoscenza del Beato, questi si sdegnò assai con lui
e, fattogli un severo rimprovero, lo teneva lontano da sé, tanto che neppure gli parlava.
Questo alienamento da lui sembrava quasi una ripulsa da Dio… Il fratello, intanto,
sopraffatto dal dolore del rimprovero e rattristato per la ripulsa del Padre, cadde in una grave
malattia e ne morì. Il Beato, durante tutti i giorni della malattia del fratello, dovendo pure, per
entrare ed uscire di chiesa, passare davanti alla cella di lui, non lo volle mai vedere, né lo
degnò neppure di una sua visita fin dopo la morte… Dopo la morte del fratello, vedendo uno
dei monaci anziani che il Padre lo piangeva e ne lamentava la perdita, avvicinatosi a lui, in
disparte, gli disse tutto addolorato che quel fratello era passato di vita per l’afflizione d’essere
stato abbandonato da lui. Ed egli rispose: Se io non mi fossi in tal modo alienato da lui, Dio
non lo avrebbe ricevuto con sé; ed ora io sono persuaso che, per questa piccola tribolazione,
l’anima sua sarà fatta degna di un grandissimo gaudio; poiché Dio non è così ingiusto, che,
liberando uno da un carcere, lo confini poi in un altro carcere (BARTOLOMEO di
ROSSANO, Vita del Nostro Padre tra i Santi Nilo di Rossano, 82; trad. it. a cura di
GIOVANELLI G., Op. Cit., pp. 99-100).
216
Il giorno, secondo il calendario ecclesiastico, che dipende da quello ebraico, inizia
col tramonto del sole: …e fu sera e fu mattino, primo giorno (Gen 1,5).
137
la proscomidìa (ìna proscomìse). Quando dunque il papa si svegliò, andava
dicendo a se stesso a proposito dell’apparizione che aveva visto: Una tale accusa
ho accettato contro di lui e proprio costui deve fare la proscomidìa
(proscomìsai)? Gli giunse allora una seconda volta una voce da un’apparizione
che diceva: Ti dico che il vescovo che sta in prigione, lui deve fare la proscomidìa
(proscomìsai). Allo stesso modo poi apparve a lui che esitava queste cose
dicendogli. Il papa svegliatosi manda a prendere il vescovo dalla prigione e lo
interroga dicendo: Qual è la tua opera ? Il vescovo non rispondeva altro se non:
217
Sono un peccatore . Allora, siccome non poteva persuadere il vescovo a dire
218
217
L’opera (ergasìa) va intesa non come il tipo di professione, dal momento che la sua
professione, e cioè quella di vescovo, era nota al papa; la domanda ovviamente è
pertinente alle accuse rivolte per le quali si chiedono, in questo modo, delle
spiegazioni. Il papa è già convinto, suo malgrado, di avere di fronte un uomo molto
particolare e nell’interrogatorio che tardivamente compie cerca di scoprire le qualità
spirituali del vescovo ingiustamente accusato.
218
Il silenzio di fronte ad accuse ingiuste è un atteggiamento attestato in numerose
altre fonti apoftegmatiche o agiografiche. Che non si tratti dell’affettazione di una
falsa umiltà è certificato dai rischi che vengono corsi da coloro che rifiutano di
difendersi. L’apoftegma 1 di Macario ci offre un interessante esempio.
Avvenne che una vergine del villaggio, tentata, cadde in peccato. Quando si accorsero che era
incinta le chiesero: Chi è stato a far questo?Disse: L’anacoreta. Quelli del villaggio vennero a
prendermi, mi attaccarono al collo delle pentole nere di fuliggine e dei manici di vasi di
terracotta, percuotendomi e dicendo: Questo monaco ci ha violato la vergine, prendetelo,
prendetelo!… I genitori di lei dissero: Non lo lasceremo andare finché non avrà assicurato di
mantenerla. Lo dissero al mio servitore ed egli garantì per me; ed io, tornato nella mia cella,
gli detti tutti i canestri che avevo dicendogli: Vendili, e dà da mangiare a mia moglie. E dicevo
fra me: Vedi, Macario, hai trovato moglie; devi lavorare un po’ di più per mantenerla. Facevo
canestri notte e giorno e glieli mandavo. Venne per l’infelice il tempo di dare alla luce il
bimbo, e il travaglio durò parecchi giorni senza che riuscisse a partorire. Le dicono: Che cosa
significa ciò? Lo so, rispose, la ragione è che ha calunniato falsamente l’anacoreta accusandolo
falsamente. Non è stato lui, ma quel giovane. Il mio servo venne a raccontarmi felice che la
ragazza non poté partorire finché non ebbe confessato: Non è stato l’anacoreta, ho mentito
contro di lui. Ed ecco che, udito ciò, tutto il villaggio vuole venire qui per darti onore e
chiederti perdono. Ma io a questa parole, per non essere disturbato dalla gente partii e mi
rifugiai qui a Scete. Questo fatto è all’origine della mia venuta qui ( cfr MORTARI L., Op.
Cit., vol. II, pp. 10-11).
138
altro, il papa gli dice: Oggi tu devi fare la proscomidìa (proscomìsai). E stando
egli davanti al santo altare (thysiasterìo), e stando il papa accanto a lui, mentre i
diaconi circondavano (kigchlisànton) l’altare il vescovo iniziò la santa anafora
219
e compiuta la preghiera della santa proscomidìa, prima della conclusione della
preghiera rimanente, iniziò una seconda volta la santa anafora e ancora una
terza ed una quarta volta. Meravigliandosi tutti della lentezza, il papa gli dice:
Che cos’è questo, perché hai detto per la quarta volta la santa preghiera e non la
concludi? Il vescovo allora rispose: Perdonami, o santo papa, poiché non ho visto
come di solito l’intervento (epiphoìtesin) dello Spirito santo: e per questo non ho
concluso; piuttosto allontana dal santo altare il diacono che ha il flabello, perché
io non oso parlare. Allora il divino Agapito dà l’ordine e il diacono s’allontanò e
subito il vescovo e il papa videro la venuta (parousìa) dello Spirito santo; ma
anche il velo che stava sopra il santo altare si sollevò da solo e coprì il papa e il
220
vescovo e tutti i diaconi che assistevano insieme col santo altare per tre ore (PG
87, t. III, coll. 3013-3016).
Al termine della singolare esperienza il papa, addolorato per
l’immeritato trattamento che egli stesso aveva impulsivamente e troppo
219
L’espressione utilizzata in greco: kigchlisànton, potrebbe essere intesa anche con
l’alternarsi dei diaconi nel servizio alla mensa eucaristica, cosa prevista nel rituale
quando vi sono numerosi diaconi, come nella liturgia archieratica descritta.
220
La mensa eucaristica, anche presso i latini, era rinchiusa da un velo, che veniva
aperto solo durante l’anafora eucaristica. La presenza del velo là dove viene celebrata
l’eucaristia ed è collocato il libro dei Vangeli è un chiaro elemento sinagogale, che
trae la sua origine dal già citato passo di Esodo 36,35: Fece il velo di porpora e di bisso, di
scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore. Si tratta di
quello stesso velo dietro il quale stava l’arca, quel velo che, secondo i vangeli si lacerò
al momento della morte di Cristo in croce (Lc 23,45).
139
precipitosamente inflitto al vescovo calunniato, stabilì di non prendere
più provvedimenti disciplinari prima di aver compiuto i necessari
accertamenti.
Merita un cenno il prodigio del velo d’altare sollevato per tre ore.
Fino a medioevo inoltrato la mensa eucaristica rimaneva chiusa dal velo
e gli stessi celebranti si limitavano a deporvi le specie eucaristiche
sollevando
il
velo
quel
tanto
che
bastava
per
richiuderlo
immediatamente. L’anafora era recitata con il velo chiuso, così che
nessuno vedeva il pane e il vino durante la preghiera eucaristica . In
221
alcuni casi, per alcune persone illuminate si riteneva che lo Spirito santo
desse un segno della sua venuta e della sua operazione sui doni offerti;
qui abbiamo la descrizione appunto di un suo intervento spettacolare
che accomuna il momento della liturgia eucaristica al giorno della
Pentecoste: sull’altare della chiesa di Roma discende un vento che
221
L’uso di recitare l’anafora sul pane e il vino offerti e deposti sull’altare tenendo
chiuso il velo dell’altare stesso fu praticato anche in occidente almeno fino al XIV
secolo. Nel XIII secolo abbiamo diverse testimonianze: Circa hoc autem notandum est
quod triplex genus veli suspenditur in ecclesia, videlicet quod sacra operit, quod sanctuarium
a clero dividit, et quod clerum a populo secernit. Primum est nota littere legis; secundum nota
nostre indignitatis qua indigni sumus immo inpotentes celestia intueri; tertium coercitio
nostre voluptatis carnalis (DURANTI GUILLELMI, Rationale Divinorum Officiorum, I,35,
trad. it. a cura di FREGUGLIA G., Lib. Ed. Vaticana 2001, Città del Vaticano, pp.
60ss). Molte preghiere liturgiche accennano a tale pratica, come per esempio
l’orazione dopo il quinto vangelo nel rito dell’Olio Santo: Tu che hai chiamato anche me,
umile peccatore e indegno tuo servo, che mi trovo intrecciato in molti peccati e avvolto in
molte passioni e in tante maligne compiacenze, alla santissima e altissima e insuperabile
dignità sacerdotale e mi hai reso degno di entrare nella parte più interna del Santuario, nel
Santo dei Santi, ove i Santi Angeli desiderano affacciarsi e udire la voce evangelica del
Signore Dio, e di vedere con i propri loro occhi la Santa Anàfora e di godere la divina e santa
Liturgia… (cfr Mikròn Euchològhion, p. 206-207, ed. Apostolikì Diakonìa, Athina 1992).
140
solleva per tre ore il velo, mentre nel cenacolo di Gerusalemme
cinquanta giorni dopo la risurrezione di Cristo, si udì dal cielo un tuono
come di vento impetuoso che soffiando riempì tutta la casa . Anche nel
222
vangelo secondo Giovanni lo Spirito santo veniva accostato al vento:
Lo Spirito soffia dove vuole e tu ne odi la voce, ma non sai donde venga,
né dove va: così capita a ognuno che è nato dallo Spirito .
223
I segni dunque di una liturgia offerta in modo gradito e da persone
gradite potevano essere o il fuoco celeste o il vento impetuoso; entrambe,
comunque le manifestazioni avevano un riscontro nella narrazione della
Pentecoste. Il centro e il culmine del culto cristiano non era, dunque, la
crocifissione
del
Signore,
pur
commemorata,
o
se
vogliamo,
memorializzata, ma la discesa dello Spirito santo.
Dobbiamo ammettere che se il Prato fosse stato conosciuto in
occidente nel basso medioevo sarebbe senza dubbio stato utilizzato da
coloro che sostenevano che i sacramenti amministrati da chierici indegni
non erano validi . Ma prima di tradurre in termini di utilità apologetica
224
questa fonte, dobbiamo porci il quesito: come mai, là dove questi testi
sono stati scritti e furono sempre letti, la questione della validità dei
sacramenti non si è mai posta? Potremmo ipotizzare, senza dubbio
forzando la mano alla storiografia, che ciò accadde in occidente quando
222
Atti 2,2.
Gv 3,8.
224
Una trattazione di questo aspetto esula completamente dal nostro oggetto di
ricerca. Si può consultare MERLO G.G., Eretici ed Eresie Medievali, Bologna 1989.
223
141
fu chiaro il divorzio fra carisma ed istituzione, quando, cioè, fra i chierici
non vi furono più dei carismatici? Certo, nel Prato riscontriamo molti
esempi di anafore non gradite, di liturgie solo apparenti, di diaconi e
presbiteri la cui presenza presso la mensa eucaristica contristerebbe lo
Spirito santo a tal punto da impedirgli di intervenire sul pane ed il vino
225
offerti; ma dall’altro versante i carismatici non difettano, né nel clero
monastico, né in quello secolare; e nemmeno fra i vescovi è raro
trovarne. Non si può, comunque, negare che il papato agli inizi del
secondo millennio si accinse ad un’opera politica assai complessa
mirante all’instaurazione di una forma di dominio teocratico diretto e
che molte formulazioni teologiche e disciplinari elaborate nei vari
cosiddetti concili di riforma della chiesa romano cattolica dall’XI secolo
in avanti vanno in quella direzione, accentuando il potere assoluto del
sacerdozio in tutti i campi. Non si poteva e non si doveva dubitare di chi
era detentore di un’ordinazione valida e legittima, a prescindere da ciò
che intendeva compiere. L’ingresso diretto in politica, sempre evitato dal
clero ortodosso, fu dunque la pietra di scandalo che spinse la cristianità
d’occidente nei primi secoli del secondo millennio a dubitare di avere
ancora a che fare con una gerarchia ecclesiastica appartenente alla Chiesa
di Cristo? Non è oggetto del nostro studio trovare delle risposte ad una
tale domanda. Certo rimane interessante scoprire che nella Chiesa del
VI-VII secolo si riteneva che l’indegnità del clero avrebbe potuto
225
Efesini, 4,30.
142
contristare a tal punto lo Spirito santo da rendere vana la stessa
celebrazione dei divini misteri. Si riteneva anche che Dio non facesse
differenze fra persone e che a certe condizioni particolari avrebbe potuto
compiersi una liturgia anche in assenza di un presbitero; o nonostante la
sua sgradita presenza. Si riteneva infine che vi fossero ancora molti
vescovi e presbiteri carismatici e molti altri monaci e laici illuminati, in
grado di guidare la Chiesa locale e universale sulla retta via. Non
abbiamo altre spiegazioni alla domanda che ci siamo posti poc’anzi.
Rimane il fatto che la Chiesa ortodossa ha sempre stimato, diffuso e
raccomandato la lettura del Prato e che se vi avesse riscontrato delle idee
in contrasto con la dottrina da lei professata il testo e l’autore sarebbero
stati giudicati eretici immediatamente. Questo significa che le
convinzioni che abbiamo poco sopra riassunto erano ritenute ortodosse
già agli inizi del VII secolo, quando vene pubblicata l’opera di Giovanni
Mosco.
Potremmo aggiungere alcune considerazioni circa la liturgia
praticata nella Chiesa di Roma, che Giovanni Mosco descrive senza
precisare differenze e dotata comunque di proscomidìa; a nostro avviso
tutto ciò non è sufficiente a darci notizie sulla liturgia romana del VI
secolo. L’autore potrebbe aver fatto ricorso a una descrizione stereotipata
e in ogni caso lo studio e la classificazione dei riti con le loro
particolarità, differenze e somiglianze, era al di fuori degli orizzonti degli
scrittori ecclesiastici di quell’epoca. Per Giovanni Mosco la chiesa di
143
Roma era una chiesa calcedonese e la sua liturgia era una liturgia
ortodossa.
Certo, l’aver rilevato alcune interessantissime particolarità della
liturgia eucaristica nel rito mozarabico , come la presenza, a un certo
226
226
Con l’espressione un po’ imprecisa di rito mozarabico s’intende la liturgia vigente
nella penisola iberica assai prima dell’invasione araba; essa fu praticata fin oltre il
secolo XII. Il termine deriva dall’espressione: mustaarib, che significa: arabizzato. In
realtà il rito mozarabico non è una particolarità esclusiva della penisola iberica, ma era
comune con il nord Africa latino, nel quale il cristianesimo si spense rapidamente in
seguito all’invasione arabo-islamica. Con la conversione all’ortodossia di re
Reccaredo (589) il culto cristiano in Spagna subì l’intromissione di elementi
disciplinari e liturgici di provenienza germanica, non tali però da alterarne la
fisionomia; ed è per questo che il rito in questione è stato definito non senza ragione
come ispano-visigoto. BAUMSTARK, in Orientalisches in Altsspanicher Liturgie, in
Oriens Christianus, 1935, pp. 3-37, ha pure tentato di dimostrare l’influsso dell’oriente
bizantino, mediato dal contributo germano-visigoto ed in effetti alcuni elementi lo
fanno legittimamente supporre. Dagli usi delle Gallie giunsero poi altri elementi, fino
a cristallizzare la situazione al momento dell’invasione araba, avvenuta negli anni
711-712. A differenza però del nord Africa il cristianesimo iberico non venne
completamente cancellato, né sottomesso politicamente, anche se gli arabi
controllavano buona parte della penisola. Per prima è la Catalogna indipendente ad
essere spinta all’adozione del rituale latino-germanico consolidatosi ormai
definitivamente nella chiesa di Roma ad opera di papi di origine germanica fra il
1046 e il 1072 (Clemente II, Damaso II, Leone IX, Vittore II, Stefano IX, Gregorio VII):
nel 1068 il cardinale Le Blant, legato di Alessandro II, nel sinodo di Barcellona riesce
ad imporre per la prima volta, almeno teoricamente, il rito papale a quella chiesa. Nel
1085 lo stesso Gregorio VII, il ferreo assertore della superiorità del rito romano sugli
altri riti, invitava i re di Castiglia, di Lione e di Aragona a farsi carico di questo
mutamento, distaccandosi dagli antichi usi della chiesa di Toledo. Lo stesso anno al
sinodo di Burgos i desideri personali del papa vennero accolti in pieno ed anche lo
stesso re Alfonso di Toledo poneva limitazioni al rito della sua chiesa in modo tale da
segnarne la lenta eutanasia. Nelle terre controllate dagli arabi la situazione non
variava fin tanto che la reconquista non progrediva. Di fatto là dove gli arabi venivano
allontanati, quei cristiani ai quali l’islam aveva permesso di rimanere fedeli alle loro
antiche osservanze, erano costretti dai loro liberatori ad adeguarsi a modelli liturgici
e disciplinari più recenti e del tutto alieni alle loro tradizioni. L’intolleranza dei papi
di origine germanica nei confronti di altri culti cristiani non era evidentemente una
mera questione di rubriche liturgiche, ma andava insieme con l’affermarsi del peso
politico internazionale del papato. Adeguare la cristianità intera al modo di pregare
desiderato dal papa aveva indubbiamente un significato politico assai rilevante. Il
caso ispanico non era isolato, anzi. Negli stessi decenni i Normanni strinsero con la
144
punto dell’anafora, di una singolare forma di frazione del pane in nove
particelle, dedicate alla commemorazione degli eventi salvifici attuati da
Cristo, lascia molto pensare .
227
Un’altra cosa sicura è che il rito della Messa tridentina è alquanto
recente e non è possibile retrodatarlo rispetto al XVI secolo, essendo il
frutto di una riforma a tavolino piuttosto pianificata e condotta secondo i
criteri teologici apologetici e disciplinari di quell’epoca che vedeva in
occidente sfidarsi in tutti i sensi i partigiani della transustanziazione e
quelli della sola fide. A quanto sappiamo, e ci riferiamo a quanto già
esposto a proposito del pane lievitato e del vino, il rito romano del VI
secolo non doveva sembrare totalmente alieno a un contemporaneo
monaco palestinese. E lo stesso confine fra un rito e l’altro doveva essere
chiesa di Roma un’alleanza sotto forma di vassallaggio, impegnandosi a convertire
gradualmente al più recente rito latino-germanico della chiesa di Roma tutte le terre
da loro conquistate (Inghilterra, Italia meridionale). La sovversione del rito mozarabico
era quasi del tutto compiuta quando nel 1495 il cardinale Francisco Ximenes,
divenuto arcivescovo di Toledo, provvide alla recompilatio degli antichi codici; si
giunse così alla loro prima edizione a stampa e al ristabilimento del rito stesso nella
cattedrale di Toledo. L’approvazione di papa Giulio II, nel 1508, portò al
mantenimento della situazione fino ai giorni nostri.
227
La ripartizione del pane eucaristico avviene commemorando nove mysteria Christi;
il sacerdote, come recita la rubrica, distacca nove particelle e le depone sulla patena, il
corrispettivo latino del diskàrion, componendo la figura della croce. Mentre viene
compiuta questa operazione il celebrante enuncia semplicemente: Corporatio,
Nativitas, Circumcisio, Apparitio, Passio, Mors, Resurrectio, Gloria, Regnum. Come si
vede anche in questo caso è compendiato nell’evento liturgico tutto il percorso della
salvezza e della glorificazione. Regnum posto a conclusione non è solamente un
riferimento all’avvenimento storico della Pentecoste, ma esprime in modo tanto
conciso quanto completo l’aprirsi alla dimensione increata, il dischiudersi
dell’esperienza mistica del regno di Dio, la partecipazione alla gloria divina (Missale
Hispano-Mozarabicum, Conferencia Episcopal Espanola, Arzobispado de Toledo 1994,
p. 53).
145
alquanto labile; senza dimenticare, poi la presenza costante e
numericamente rilevante dell’elemento etnico ellenico, o meglio
ellenofono, nella città di Roma antica, in un periodo che vide non pochi
vescovi di Roma di origine o almeno di lingua greca . La cosiddetta festa
228
della candelora , per esempio, è una delle tante e consistenti tracce che
229
quel periodo ha lasciato alla cristianità d’occidente. Anche i testi
innografici latini dell’Epifania, consultabili reperendo una qualsiasi
copia del Breviarium Romanum, in uso presso il clero romano cattolico
fino a pochi decenni fa, sono una chiara traccia dell’influsso liturgico
orientale sulla chiesa di Roma, ma non si tratta di un caso del tutto
isolato e limitato al rito romano: gli studi di liturgia comparata hanno
228
Teodoro I di Grecia (642-649); Agatone di Sicilia (678-681); Leone II di Sicilia (682683); Giovanni V di Siria (685-686); Sergio I di Siria (687-701); Giovanni VI di Grecia
(701-705); Giovanni VII di Grecia (705-707); Sisinnio di Siria (708); Costantino di Siria
(708-715); Gregorio III di Siria (731-741); Zaccaria di Calabria (741-752); Stefano III di
Sicilia (768-772).
229
Si tratta della commemorazione dell’avvenimento evangelico della presentazione
al tempio di Gesù neonato e di sua madre al quarantesimo giorno (Lc 2,22–38) allo
scopo di espletare le purificazioni legali previste dalla legge mosaica (Es 13,2 ss., Lev
12,2-8). La sua prima attestazione storica ci viene dall’Itinerarium di Egeria alla fine
dal IV secolo. La sua diffusione in tutto l’oriente cristiano è ampiamente testimoniata,
per esempio da Cirillo di Scitopoli e da Severo di Antiochia, mentre la sua
introduzione a Roma fu voluta da Sergio I, papa di provenienza siriaca (687-701):
Constituit ut diebus Adnuntiationis Domini, Dormitionis et Nativitatis sanctae Dei
Geintricis semperque virginia Mariae, ac S. Simeonis, quod Hypapante Greci appellant,
laetania exeat aS. Hadriano et ad S. Mariam populus accurrat (DUCHESNE, Liber
Pontificalis I, 376). I testi liturgici stessi anticamente usati nel rito romano per tale
solennità mostravano eloquentemente la loro origine orientale. Negli altri riti
occidentali entrò in uso successivamente; infatti Alcuino (+804) annotava che al suo
tempo in molte parti dell’impero carolingio essa era ignorata. Se a Milano essa venne
accolta senza problemi nel rito ambrosiano, in Spagna essa s’impose con l’affermarsi
del rito della chiesa di Roma a scapito delle antiche consuetudini liturgiche
mozarabiche.
146
portato con sicurezza ad identificare nel rito ambrosiano una forma più
antica di rito romano o genericamente italico, nel quale i contatti e gli
influssi con l’oriente sono palesi . Non sembra dunque così improbabile
230
che un monaco orientale del VI-VII secolo vedesse l’Italia come un paese
ortodosso. Per esempio il salterio liturgico ambrosiano, purtroppo in
disuso dagli anni sessanta del secolo scorso, è suddiviso in dieci gruppi o
decuriae; ogni decuria è a sua volta suddivisa in sei sottogruppi di salmi,
corrispondenti con precisione, alle sessanta stasi del salterio liturgico
bizantino . Sappiamo fra l’altro che Carlomagno in persona tentò di
231
imporre altri usi liturgici alla chiesa di Milano, ma, in seguito alla
manifestazione di un prodigio ritenuto di provenienza divina, fu
230
RIGHETTI, Op. Cit., vol. I pp.169-179.
Il rito ambrosiano, eccezion fatta per il rito mozarabico, è l’unico rito alternativo a
quello cosiddetto romano che finì con l’imporsi definitivamente a tutta la cristianità
d’occidente solo verso la metà del secondo millennio. Come abbiamo visto la
penisola iberica aveva una sua tradizione locale collegata con quella dell’Africa
latina; la Gallia aveva una sua tradizione che gli studiosi definiscono come rito
gallicano; al di fuori dei confini stessi dell’impero romano, in Irlanda si era sviluppato
un rito denominato iberno-celtico. In Italia centro meridionale, ai confini con le
Calabria e la Puglia bizantine rimase in uso per molto tempo il rito beneventano.
Anche la chiesa di Aquileia, sede di un patriarcato d’occidente assai presto offuscato
dalle vicende politiche dell’alto medioevo, aveva un suo rito del quale abbiamo
purtroppo soltanto qualche frammento. L’uniformarsi al rito della Chiesa di Roma
aveva soprattutto un significato politico e ciò accadeva là dove veniva accettata o
imposta una forma di alleanza-vassallaggio almeno teorica a favore del papa di
Roma. Il colpo mortale alle tradizioni liturgiche locali venne inflitto al concilio di
Trento (1545-1564), quando fu imposta definitivamente una sorta di globalizzazione
liturgica, che provocava l’irrimediabile scomparsa di tutte quelle tradizioni non in
grado di dimostrare un’antichità superiore almeno ai duecento anni. L’adeguamento
fu drasticamente applicato anche oltre il limite dei duecento anni a danno di
tradizioni che in realtà erano più antiche del rito tridentino cui tutta la cristianità
d’occidente non interessata dalla riforma protestante dovette uniformarsi.
231
147
costretto a non insistere ; non di meno ottenne che la città di Monza, pur
232
rimanendo sotto la diocesi di Milano, passasse al rito propagandato dai
carolingi.
Il fatto che ai monarchi occidentali dell’alto medioevo stesse tanto a
cuore la pratica di un rito liturgico anziché un altro dovrebbe, a mio
avviso, portare gli storici contemporanei ad affrontare la questione con
minor sufficienza, anche solo per esaminare i rapporti fra liturgia e
politica. E’ un fatto molto ben testimoniato per esempio che l’impero
romano d’oriente non si occupava se non in modo molto marginale di
questioni liturgiche, mentre i carolingi, gli ottoni, i sovrani spagnoli e lo
stesso papato germanizzato dell’XI secolo
233
facevano coincidere la
sovversione delle tradizioni liturgiche locali con l’espansione della loro
egemonia politica. La cancellazione delle tradizioni locali a favore di una
232
LANDOLFO SENIORE, Historia Mediolanensis, II, 12, in PL 147, col. 852.
Nell’elenco dei papi compare, già alla fine del secolo X, con il nome di Gregorio V
(996-999) Brunone dei duchi di Carinzia e Sassonia, al quale succede Gerberto
d’Aurillac con il nome di Silvestro II (999-1003). La lista continua con Clemente II
(!046-1047): Suitgero di Morsleben e Honburg di Sassonia; Damaso II (!048): Poppone
di Baviera; Leone IX (1049-1054): Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg in Alsazia;
Vittore II (1055-1057): Gebeardo dei conti di Dollntein-Hierschberg; Stefano IX (10571058): Federico dei duchi di Lorena; Niccolò II (1059-1061): Gerardo di Chevron in
Savoia; Gregorio VII (1073-1085): Ildebrando di Soana. Numerosi pontefici romani
anche se di provenienza italiana, erano comunque discendenti da famiglie francotedesche e l’elenco, in realtà è assai più lungo. Gli avvenimenti politici di quegli anni
sono cruciali ed irreversibili per la storia della Chiesa di Roma antica e sono stati ben
ricostruiti da LAMPRYLLOS C., in: La Mystification fatale, ed. L’age d’Homme,
Lausanne 1987. I mutamenti liturgici e dogmatici iniziano con i papi tedeschi, fautori
dei cosiddetti concili di riforma, che porteranno la cristianità d’occidente sempre più
lontano dalle tradizioni precedenti. Quanto accadeva in campo liturgico, in quegli
anni, aveva un suo corrispondente immediato in politica. Allo scisma del 1054
seguirono le crociate, ma non solo. I normanni operarono diversi tentativi di
estendere il loro dominio a spese dell’impero romano d’oriente.
233
148
uniformità completa anche in fatto di culto venne perseguita con
maggiore o minore accanimento a seconda delle epoche e delle
ambizioni politiche dei singoli sovrani, ai quali effettivamente poco
poteva interessare di per sé il modo con cui si celebrava la liturgia.
L’interesse per il rito era piuttosto dettato dal fatto che esso era in grado
di
determinare
effetti
politici
interessanti,
come
per
esempio
l’allontanamento e l’estraniamento dalle tradizioni ortodosse precedenti
nei territori di recente conquista. Una Calabria o una Puglia latinizzate,
per esempio, non avrebbero più guardato a Costantinopoli come punto
di riferimento, sia religioso, sia politico. Ma anche una Roma, per così
dire germanizzata avrebbe vissuto i suoi contatti con l’oriente cristiano
in modo assai diverso rispetto all’epoca in cui non era impossibile per un
greco o un orientale in genere essere eletto papa.
L’ultimo brano del Prato ad offrire spunti interessanti alla nostra
ricerca è al capitolo 199.
Uno dei padri narrò che un anziano era puro e santo a tal punto che nel
compiere la proscomidìa vedeva angeli stare alla sua destra e alla sua sinistra.
Costui però aveva imparato la proscomidìa dagli eretici e siccome era inesperto
dei divini dogmi, mentre offriva con semplicità e innocenza, recitava senza
sapere di sbagliare.
Provvidenzialmente venne a trovarlo un fratello che aveva conoscenza dei
dogmi divini. Accadde dunque che in sua presenza l’anziano compisse la
149
proscomidìa: e disse il fratello (era infatti diacono): Le cose che tu, padre hai
detto alla proscomidìa non sono della fede ortodossa, ma di quella cacodossa234.
Ma l’anziano, che vedeva gli angeli mentre offriva, non diede attenzione alle cose
che gli erano state dette, anzi, le disprezzò. Il diacono insisteva dicendo: Stai
sbagliando, monaco235: la Chiesa non accetta queste cose . Mentre l’anziano
236
vedeva se stesso rimproverato e corretto dal diacono, vide come sempre gli angeli
e domandò loro: Perché il diacono mi parla così, che significa questo? Gli dissero:
Ascoltalo, sta parlando bene. L’anziano allora disse loro: E perché non me l’avete
detto voi? Gli dissero: Perché Dio ha così disposto: l’uomo sia corretto
dall’uomo. E da allora si corresse ringraziando Dio e il fratello237.
La mensa eucaristica, aghìa Tràpeza o Thysiastèrion è considerato
come il luogo per eccellenza in cui cielo e terra si uniscono e la liturgia
eucaristica il momento più intenso in cui questa unione può essere
sperimentata. Come abbiamo visto finora, nel Prato è chiaramente
espressa la convinzione che la chiesa sia una raffigurazione della dimora
234
Ortodossia ha il suo contrario in questa sorta di neologismo greco del tardoantico: all’ortodossia, retta dottrina, ma anche retto culto, modo corretto, cioè di
glorificare Dio, si contrappone la cattiva dottrina e il cattivo culto, che glorificano Dio
in modo errato. Nell’episodio in questione è evidente il duplice valore del termine
ortodossia: l’anziano era ortodosso perché, pur nella sua sprovvedutezza teologica,
era in comunione di fede con la chiesa ortodossa, anche se la proscomidìa da lui
compiuta era eterodossa o cacodossa.
235
Nel testo greco: kalòghere; vedi la nota 188 a pag. 113.
236
Il Traversari amplia decisamente il testo nella sua traduzione. Egli infatti rende
così: Non enim admittit fides catholica ista quae dicis, neque mater Ecclesia (PG 87, III, coll.
3087). Siccome non sono segnalate varianti nei codici, dobbiamo supporre che quanto
uscito dalla sua penna fosse dovuto ad un eccesso di zelo; forse addirittura un
tentativo di rafforzare l’ortodossia del Prato in chiave cattolica romana.
237
PG 87, III, coll. 3087-3088.
150
di Dio in grado di mettere in comunicazione reale con il santuario celeste
e la liturgia terrena ha come scopo la concelebrazione con la dossologia
celeste offerta dagli angeli davanti al trono di Dio. Tali elementi non
sono acquisizioni posteriori nell’immaginario teologico o semplici
rivisitazioni della teologia veterotestamentaria del tempio. Una
concezione in parte ereditata dall’ebraismo, nel quale, però si cercano
non tanto i canoni, ma le figure della Nuova Alleanza, e in parte
sviluppata secondo criteri e rivelazioni neotestamentarie, fra le quali
l’Apocalisse e la lettera agli Ebrei. L’interpretazione degli spazi
architettonici in cui il rito cristiano si svolge fu sistematizzata nella
Mistagogia di Massimo il Confessore238, la cui composizione risale
presumibilmente intorno al 630; Massimo il Confessore sistematizza, non
innova il pensiero teologico cristiano e il Prato dimostra che tali
considerazioni era già ben presenti e diffuse alla fine del secolo
precedente.
La convinzione che la presenza degli angeli accompagni lo
svolgimento della liturgia, quando essa è degnamente celebrata, è stata
sottolineata da alcuni importanti e significativi testi innografici ed
eucologici. Prima dell’inizio dell’anafora, ad esempio, quando nel rito
della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, il calice e il diskàrion
vengono solennemente trasferiti dal tavolino della proscomidìa alla mensa
eucaristica, attraversando tutta la navata del tempio, è previsto il canto
238
PG 91, 664-684.
151
del cosiddetto inno cherubico, che Taft ritiene introdotto dagli anni 573574, insieme con la preghiera del piccolo Ingresso che riporteremo poco
oltre:
Noi che misticamente raffiguriamo i Cherubini e alla vivificante Trinità
l’inno trisagio offriamo, deponiamo ogni preoccupazione della vita, così da
accogliere il re di tutti scortato invisibilmente dalle angeliche schiere. Alleluia239.
Il testo è previsto anche per lo svolgimento della liturgia di San
Basilio240 e viene cantato anche nella liturgia di San Giacomo fratello del
239
Il testo originale è reperibile nello Ieratikòn della chiesa ortodossa edito dalla
Apostolikì Diakonìa, Athina 1987, p.118. I codici liturgici medievali non riportano
varianti significative per questo inno.
240
Il culto ortodosso conosce cinque diversi formulari liturgici, che prendono il nome
dal santo che viene tradizionalmente ritenuto l’autore o comunque il compilatore
principale dell’anafora eucaristica. Le liturgie di san Giovanni Crisostomo e di san
Basilio presentano lo stesso svolgimento, mentre differiscono nell’anafora e in alcune
altre preghiere sacerdotali. Sono dunque due varianti dello stesso rito. Sensibilmente
diversa è, allo stato attuale la liturgia attribuita a san Giacomo, fratello del Signore,
che viene celebrata ormai soltanto nel giorno della sua commemorazione (23 ottobre);
il fatto che la proscomidìa si svolga in modo stringato dopo il vangelo e che sia
prevista l’offerta di cinque pani, uno solo dei quali destinato alla santificazione da
peso alla opinione tradizionale che essa sia rimasta fedele a forme assai più antiche
delle due precedenti. Non molto diversa da quella del Crisostomo è invece la
Liturgia di san Gregorio il Teologo (Nazianzeno), officiata il giorno della sua
memoria (25 gennaio). Un discorso a parte merita la Liturgia dei Doni Presantificati,
che in realtà non prevede alcuna preghiera eucaristica ed è invece una sorta di vespro
al cui termine viene distribuita la comunione conservata appositamente dalla
domenica precedente. E’ un rito esclusivamente quaresimale. Viene conservata in
alcuni codici liturgici una liturgia attribuita all’apostolo ed evangelista Marco, che
però non ha più una sua collocazione nel calendario liturgico ortodosso. Essa è
comunemente praticata dai copti e dagli etiopi. Si potrebbe ipotizzare che
l’abbandono di questo formulario da parte della chiesa calcedonese avvenne in
conseguenza dello scisma monofisita. In questo caso poteva essere appartenuta a
questo formulario liturgico la proscomidìa cacodossa che l’incauto asceta aveva
imparato. Al momento attuale è impossibile riscontrare spiegazioni sull’abbandono
da parte dei calcedonesi dell’anafora di san Marco, ma è significativo, comunque che
essi non nutrano sospetti dogmatici nei suoi riguardi già da molti secoli.
152
Signore241. Non si tratta dunque di un inserto tardivo, ma probabilmente
di un segmento abbastanza antico, previsto per lo svolgimento della
celebrazione eucaristica. Non si riscontra nell’ancora poco studiata
241
Il Sinassario bizantino, riportato anche in forma abbreviata nelle edizioni più
complete dell’Horològhion To Mèga, riporta la notizia di un primo matrimonio di
Giuseppe di Nazaret dal quale sarebbero nati quel Giacomo al quale ci stiamo
riferendo, Iosis Simone e Giuda, insieme con alcune imprecisate loro sorelle, secondo
quanto riferito dalla narrazione del vangelo di Matteo: Non è costui il figlio del
falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Iosis, Simone e Giuda?
E le sue sorelle non sono tutte con noi? (Mt 15,55-56). Il Sinassario lo identifica con il
primo vescovo di Gerusalemme, costituito per la sua parentela stretta con Gesù a
partire dall’ascensione ai cieli di quest’ultimo. Il suo ruolo di primo capo della
comunità cristiana, da lui guidata fino alla sua morte, è evidente negli Atti degli
Apostoli che riportano il suo intervento risolutivo sulla questione degli obblighi da
imporre ai pagani che volevano diventare cristiani (At 15,13-21); nell’epistolario
paolino riscontriamo una testimonianza di Paolo stesso sul timore di Pietro nei
confronti di Giacomo, sempre a proposito della missione ai pagani di Antiochia:
Infatti prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli (Pietro) prendeva cibo insieme
ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte per timore dei
circoncisi (At 2,13). Il Sinassario bizantino, dopo aver commemorato tali fatti e altre
notizie agiografiche conclude attribuendogli l’estensione della Lettera Cattolica di
Giacomo, facente parte del canone del Nuovo Testamento. A proposito del suo ruolo
di primato nella prima comunità cristiana troviamo un cenno interessante anche nel
Vangelo gnostico di Tommaso: I discepoli dissero a Gesù: Sappiamo che te ne andrai da
noi. Chi tra di noi sarà il più grande? Gesù rispose loro: Dal luogo ove sarete, andrete da
Giacomo, il Giusto, per il quale sono stati fatti il cielo e la terra (cap. 12,30). Per consultare
direttamente il Sinassario cfr Horològhion To Mèga, ed. To Perivòli Tis Panaghìas,
Thessalonìki 2002, pp. 261-262. Ovviamente l’agiografia del Sinassario non può essere
accettata indiscriminatamente come prova scientifica; in questo caso, però, ci aiuta a
comprendere la complessità della tradizione orientale, che non ammette la perdita di
nessun elemento rituale, anche quando succede, come nel caso della liturgia di san
Giacomo, che esso cada in disuso. I vari formulari eucaristici sono sopravvissuti a
lungo senza escludersi a vicenda e la loro sopravvivenza negli eucologi ortodossi è
stata collegata all’importanza della tradizione locale che essi rappresentavano: il rito
palestinese o gerosolimitano, storicamente perdente nei confronti del modello
antiocheno e costantinopolitano non è stato cancellato, ma conservato almeno per la
festa del primo vescovo di Gerusalemme. Lo stesso si può dire dell’anafora delle
chiese anatoliche, conservata per la festa di san Gregorio Nazianzeno, come per la
Liturgia di san Gregorio papa di Roma. Siamo davanti all’atteggiamento opposto a
quello della globalizzazione liturgica indiscriminata cui si accennava poc’anzi.
153
Liturgia dei Doni Presantificati242, che la tradizione liturgica ortodossa fa
risalire a san Gregorio il Dialogo243, papa di Roma. Essa viene celebrata
durante la Grande Quaresima limitatamente il mercoledì e il venerdì e in
alcuni altri giorni particolari, come i primi giorni della Settimana santa. Il
nome stesso specifica esaurientemente che si tratta di un atto liturgico
privo di anafora, mentre il pane e il vino che vengono comunicati sono
stati pre-santificati la domenica precedente e vengono conservati fino al
venerdì successivo. La celebrazione consiste fondamentalmente in un
vespro quaresimale, al quale, dopo le letture bibliche vengono aggiunte
alcune litanie proprie della liturgia eucaristica e l’ingresso solenne del
242
Ieratikòn, Op. Cit., pp. 202-221.
Si tratta di san Gregorio Magno, autore presunto dei Dialogi, la cui diffusione
presso l’oriente cristiano ha recato a questo padre latino una fama tale da meritargli
spesso un posto negli affreschi in varie ed importanti chiese ortodosse dal medioevo
ad oggi. Nel Prato vengono riferiti alcuni episodi che lo hanno come protagonista. Il
più significativo è al capitolo 151 ed è un elogio dell’umiltà del santo vescovo.
…Andai a Roma per venerare le reliquie dei santi apostoli Pietro e Paolo. Una volta,
mentre mi trovavo al centro della città, vidi il papa Gregorio che stava per passarmi accanto.
Pensai di andarlo a riverire. Quelli del suo seguito, appena mi videro, cominciarono a dirmi,
uno dopo l’altro: Padre, non ti prosternare. Io non capivo perché mi dicevano questo: mi parve
comunque fuori luogo non rendergli omaggio. Quando il papa mi fu accanto vide che mi
accingevo a prosternarmi e, ve lo giuro davanti a Dio, fratelli, lui per primo si prosternò fino a
terra e non si rialzò prima di me. Mi salutò con molta umiltà e di sua mano mi diede tre
monete d’oro, ordinando che mi si desse un mantello e tutto ciò che mi poteva servire. Io resi
gloria a Dio che gli aveva fatto dono di tanta umiltà, carità e amore per tutti gli uomini.
L’attribuzione di questo formulario liturgico per la comunione nei giorni
feriali della quaresima di Pasqua a san Gregorio Magno, non è privo di alcun
fondamento. A differenza delle chiese d’oriente, nelle quali la quaresima prevedeva
la sospensione della celebrazione eucaristica per i giorni di digiuno stretto (da lunedì
a venerdi), la chiesa di Roma celebrava la liturgia quotidianamente al termine del
vespro; e in effetti la liturgia cosiddetta di san Gregorio Il Dialogo, papa di Roma,
non è altro che un vespro al termine del quale viene distribuita la comunione.
243
154
calice e del discàrion recanti i doni eucaristici del pane e del vino preconsacrati, viene accompagnato da questa variante dell’inno cherubico.
Ora le potenze dei cieli con noi invisibilmente danno culto. Ecco infatti
entra il re della gloria. Ecco il sacrificio mistico compiuto viene accompagnato.
Con fede e amore accostiamoci, per diventare partecipi della vita eterna244.
Sia l’inno cherubico della liturgia del Crisostomo, sia quest’ultimo
previsto per la liturgia dei Presantificati non vengono cantati solo dal
coro, ma anche ripetuti tre volte in modo antifonale dal diacono e dal
presbitero. L’identificazione dunque con le potenze celesti riguarda
anche il sacerdozio, che anche in questo caso non viene identificato come
l’unico rappresentante della divinità. Anzi, in questo caso si comprende
meglio come sia stato impossibile per il sacerdozio ortodosso concepirsi
in un livello di vicariato divino esclusivo. La sua azione sarà pertanto
un’azione angelica, non un’azione in persona Christi. Lo spazio principale
all’interno del culto rimane proprietà di Dio, che è per natura invisibile,
ma per compassione e misericordia disposto a comunicarsi misticamente
ai puri di cuore. Così infatti dice la preghiera che viene recitata mentre il
coro canta l’inno cherubico:
Nessuno di quanti sono legati da desideri e piaceri carnali è degno
di avvicinarsi o di presentarsi o di servirti , re della gloria. Infatti servirti
è cosa grande e tremenda anche per le stesse Potenze sovracelesti…245
244
245
Ieratikòn, Op. Cit., p. 214.
Ibidem, p. 117.
155
Il culto cristiano è associato a quello angelico e anche l’azione del
sacerdote che offre come sacrifici incruenti il pane e il vino, l’incenso e le
preghiere246 è intesa come una partecipazione alla dossologia e alla
liturgia angelica. Vecchio e Nuovo Testamento contengono diversi
riferimenti a questo tema.
Sappiate dunque che, quando tu e Sara eravate in preghiera, io presentavo
il memoriale delle vostre preghiere davanti alla gloria del Signore247.
Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere
d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di
tutti i santi bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono. E dalla mano
dell’angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei
santi248.
La diffusione di questo tema fu vasta e va studiata nell’innografia
più che nell’omiletica. Gli studi storici e teologici hanno sempre
privilegiato quest’ultima senza rendersi conto che il cristianesimo delle
epoche passate era fatto più di inni e preghiere eseguiti in pubblico che
non di libri pubblicati e letti, sebbene la produzione letteraria cristiana
sia innegabilmente immensa. La scarsa alfabetizzazione, il costo
materiale dei libri, l’attitudine all’apprendimento mnemonico sono
elementi significativi per valutare meglio quali erano le fonti
246
Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini è costituito per il bene degli uomini nelle cose
che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati (Eb., 5,1).
247
Tobia 12,12.
248
Apocalisse 8,3-4.
156
dell’esperienza religiosa comune nei secoli passati. Il culto e la preghiera,
più che la lettura privata, costituivano e plasmavano la spiritualità.
Un’omelia
o
una
catechesi,
una
volta
pronunciate,
anche
se
eventualmente registrate da abili trascrittori, cessavano di essere
accessibili ai più. Le preghiere e gli inni della liturgia, invece, erano
ripetute ad ogni celebrazione. E’ su questo versante, dunque, che lo
studio del cristianesimo può offrire ancora elementi di sorpresa agli
storici.
Sempre secondo Taft nella seconda metà del VI secolo compare la
249
preghiera del piccolo ingresso, che precede la processione solenne del
vangelo. Essa è presente sia nel formulario di san Giovanni Crisostomo,
sia in quello di san Basilio.
Sovrano Signore, Dio nostro, che hai stabilito nei cieli ordini ed eserciti di
angeli e arcangeli, per la liturgia della tua gloria, fà che, insieme con il nostro
ingresso avvenga l’ingresso di angeli nostri concelebranti e conglorificanti la tua
bontà. Poiché a te si deve ogni gloria, onore e venerazione, Padre, Figlio e Spirito
Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen .
250
La presenza di Dio è dunque da ricercare in un’esperienza mistica,
non nella persona del sacerdote, che il cattolicesimo romano dal basso
medioevo in poi finirà con l’identificare nel celebrante nell’atto di
249
TAFT R. F., Storia Sintetica del Rito Bizantino, Libreria Editrice Vaticana 1999,
Roma, p. 45.
250
Ieratikòn, Op. Cit., p. 109.
157
ripetere le parole dell’ultima cena: Questo è il mio corpo… questo è il mio
sangue…
251
La concezione di una comunanza fra angeli e uomini nel culto
cristiano è abbondantemente testimoniata nell’innografia bizantina. E’
uno dei temi più ricorrenti, accentuato dal fatto che il monachesimo
ortodosso stesso ha iniziato ben presto a concepire se stesso come una
partecipazione integrale alla condizione degli esseri celesti . Molti
252
ritengono che la fondazione della grande Chiesa di Santa Sofia a
Costantinopoli, avvenuta pochi decenni prima ad opera dell’imperatore
Giustiniano, abbia giocato un ruolo determinante nell’affermazione di
questi concetti. La semplice lettura dell’Apocalisse o della lettera agli
Ebrei rivela, però, l’origine del tema in questione o almeno ne attesta la
presenza fin dall’era apostolica. Taft ammette in effetti che con Santa
Sofia gli ortodossi non inventarono il concetto di chiesa come immagine
biblica del cosmo, che si estende dal trono di Dio elevato sui cherubini
fino al regno inferiore; nella costruzione giustinianea venne espressa una
concezione mistica dell’architettura che ha un suo innegabile riscontro
nell’Antico Testamento, ma non si esauriva nella ripetizione del tempio
251
Mc 14, 22-23.
Monaco è l’ordine e la condizione degli incorporei compiute in un corpo materiale ed
impuro (GIOVANNI CLIMACO, Scala 1,2; PG); Il monaco è un angelo e l’opera sua è
misericordia, pace e sacrificio di lode (GIOVANELLI G., Op. Cit., p. 91). Le ultime parole
riportate sono tratte dalla vita di san Nilo di Rossano, composta da Bartolomeo di
Rossano, discepolo del santo; l’espressione: misericordia, pace e sacrificio di lode, sono
un segmento liturgico appartenente alla divina Liturgia, collocato all’inizio
dell’anafora eucaristica.
252
158
salomonico in chiave cristiana. Il culto stesso per cui era stata edificata
Santa Sofia non era incentrato sull’atto sacrificatorio in vista
dell’espiazione delle colpe, non c’erano olocausti cruenti da immolare, né
rituali complessi di purificazione legale da espletare. Il santuario
edificato doveva essere una icona del santuario celeste; l’icona era tratta
dalle descrizioni fornite da coloro che si riteneva lo avessero visitato di
persona: Isaia e soprattutto l’apostolo Giovanni, l’autore del libro
dell’Apocalisse.
Durante
la
liturgia
l’icona
poteva
trasfigurarsi
nell’archetipo e parteciparne in modo mistico. L’esigenza di riunire la
chiesa per la liturgia in un luogo che assomigliasse anche materialmente
al santuario celeste al quale si riteneva di poter comunicare misticamente
durante il culto, non sembra in netto contrasto con le precedenti
concezioni che avevano portato al distacco dal tempio di Gerusalemme;
quest’ultimo non serviva più perché il culto giudaico che vi si svolgeva
non serviva più, non perché la costruzione di edifici di culto pubblici
fosse contraria all’essenza del cristianesimo. Gli splendori imponenti, la
luminosità e la grandiosità di Santa Sofia rafforzarono sicuramente il
concetto di una liturgia cristiana intesa come concelebrazione angelica,
un tema che comunque ritroviamo ben presente e chiaramente espresso
anche là dove Costantinopoli non era e non fu mai presa a modello. E’
noto infatti che la costruzione voluta dall’imperatore Giustiniano venne
intrapresa e terminata quasi un secolo dopo il concilio di Calcedonia
(451), in seguito al quale si era prodotta una profonda lacerazione tra i
159
suoi sostenitori (calcedoniani) e i suoi oppositori (anticalcedoniani), una
lacerazione che dura fino ad oggi. Ciò che è comune fra la liturgia delle
ore dei calcedoniani cosiddetti bizantini e quella degli anticalcedoniani
copti e anche etiopi denota l’antichità della sua origine, come la struttura
delle preghiere canoniche previste a certe ore del giorno e della notte,
insieme con numerose composizioni innografiche e testi eucologici .
253
Considerata l’attenzione che si aveva da parte dei calcedoniani a non
utilizzare liturgie proprie dei non calcedoniani, e l’atteggiamento doveva
sicuramente
essere
ricambiato
dall’altra
parte,
come
ricaviamo
dall’ultimo episodio del Prato che abbiamo preso in esame, si deve
concludere che quanto hanno in comune gli Horologhia bizantino copto
ed etiopico dovrebbe essere precedente alla rottura. Ma ciò che colpisce
in questo caso non è la presenza di testi simili o identici inerenti questo
253
Per il rito bizantino si può consultare il già citato Horològhion To Mèga, ed. To
Peribòli Tis Panaghìas, Thessalonìki 2002; il manoscritto liturgico più antico in lingua
greca, purtroppo mutilo, ne riporta una recensione non molto dissimile. Si tratta del
famoso Codex sinaiticus graecus 863 del IX secolo. E’ stato pubblicato e commentato da
MATEOS J., in suo saggio pubblicato nel 1964 da Orient Chrètien, vol.III,2; lo studio
è intitolato: Un Horologion Inèdit de saint Sabas. Molto del materiale liturgico presente
sia nal codice sinaitico greco 863, sia nella stessa recensione attualmente in uso presso
la Chiesa Ortodossa è stato datato in modo convincente da Stig Ragnvald Froyshov,
autore di quell’ eccellente studio su un codice liturgico georgiano che abbiamo già
menzionato. Secondo lo studioso norvegese, molto di quello che riscontriamo oggi
nell’Horològhion bizantino risale alla chiesa di Gerusalemme del IV-V secolo. Il rito
copto utilizza un Horològhion denominato Agbìa; chi volesse rendersi conto di
persona delle somiglianze con la tradizione cosiddetta bizantina, può consultare:
O.H.E. KHS BURMSTER, The Horologion Of The Egyptian Church, ed. del Centro
Francescano di Studi Orientali Cristiani, Cairo 1973. Si tratta dell’edizione di un
manoscritto liturgico medievale in lingua copta ed araba; oltre a fornirne la versione
inglese, Burmster ne ha curato anche le ricche note. Per la tradizione etiopica, per
quanti ignorano l’amarico, è necessario ricorrere a VAN LANTSHOOT, Horologium
Aethiopicum iuxta recensionem Alexandrinam-Copticam, Typis Vaticanis 1941.
160
argomento, bensì lo sviluppo autonomo del tema della concelebrazione
angelica presso gli etiopi, con testi propri di cui non si ha una matrice
copta.
Questa Chiesa benedetta delle genti assomiglia alle potenze dei cieli;
giorno e notte, con cuore puro e animo saldo, così cantano e dicono: Miriadi e
miriadi di schiere del Signore lodano il Signore sul santo monte Sinai. I cieli e
quanto contengono si prostrano davanti a Te, pioichè tu sospendesti come
firmamento il cielo e stabilisti la terra sulle acque e separasti la luce dalle tenebre
e hai dato un nome a ciascuna stella fra la sterminata moltitudine…
254
Poiché solo il suo nome viene esaltato, o voi tutti che temete il Signore,
non siate pigri nel mezzo della notte; pregate perché in questa stessa ora le stelle
del cielo, la luce del sole e della luna, le folgori e le nubi, gli angeli, i loro
comandanti, i principati, le dominazioni e le loro schiere, gli abissi, i mari e i
fiumi, le fonti, il fuoco, l’acqua, la rugiada e tutto ciò che piove, i temporali e il
vento e tutte le anime dei giusti e dei santi lodano il suo nome e coloro che
sempre pregano sono assimilati all’essenza di Dio…
255
Difficilmente l’anonimo etiope che paragonò la chiesa delle genti
all’assemblea degli angeli poteva ritenere Santa Sofia di Costantinopoli,
la grande chiesa costrutita e officiata dai calcedoniani, come modello
ispiratore. Questi concetti, e lo riconosce ampiamente Taft, come s’è
detto, non erano una novità al momento della costruzione di Santa Sofia;
254
255
VAN LANTSHOOT, Op. Cit., p. 60.
Ibidem, p. 54.
161
si tratta dunque di un’acquisizione precedente che conobbe sviluppi
analoghi anche in aree geografiche lontane fra loro. Tutto ciò,
ovviamente, fu sviluppato con notevole ricchezza dall’innografia
ortodossa in lingua greca già nelle sua fase più antica ed è attualmente
raccolto in una sezione dell’ufficiatura del Mattutino prevista per la
quaresima .
256
Con tutte le potenze celesti acclamiamo come Cherubini a Colui che è
nell’alto dei cieli, intonando l’inno trisagio: Santo, santo, santo sei tu, o Dio…
Imitando le potenze superiori, noi che siamo sulla terra, a te eleviamo un
inno di vittoria, o Buono: santo, santo, santo sei tu, o Dio…
Come i cherubini glorifichiamo il Padre senza principio, il Figlio con lui
senza principio, lo Spirito coeterno, unica divinità: Santo, santo, santo sei tu, o
Dio…
Come le schiere degli angeli in cielo, così le nostre assemblee umane sulla
terra con timore ti offrono l’inno di vittoria o Buono: Santo, santo, santo sei tu,
o Dio…
Osando rappresentare i tuoi eserciti spirituali, a te, Trinità senza
principio, con bocche indegne acclamiamo: Santo, santo, santo sei tu, o Dio…
256
I testi quaresimali, più o meno in tutte le tradizioni liturgiche, ma soprattutto nel
rito bizantino, non sono altro che l’ordinamento liturgico più antico, risalente a un
epoca in cui il calendario festivo era assai ridotto. L’analisi di questo aspetto è opera
di Baumstark, l’inventore della Liturgia comparata come disciplina. Questa sua tesi è
stata ampliamente confortata e confermata.
162
Non osando guardarti i Cherubini volano e gridano tra le acclamazioni la
divina melodia del canto trisagio; con loro anche noi cantiamo: Santo, santo,
santo sei tu, o Dio…
257
Lo sconfinamento tra la terra e il cielo, provocato dall’intervento
(epifoìtesis) dello Spirito santo risulta essere lo scopo e la possibilità
offerta dal culto cristiano, secondo l’autore del Prato e la tradizione i cui
testi abbiamo accostato alla sua narrazione; altrimenti Govanni Mosco ci
avrebbe intrattenuto con altri prodigi e altre visioni incentrate sulla
passione di Cristo, per esempio, sul sacrificio della croce o sui dolori del
Redentore e della sua Madre. Lo sguardo della mente, l’attenzione dello
spirito ha invece come oggetto il mondo invisibile, o meglio il santuario
celeste, il regno di Dio, pronto a manifestarsi e ad assumere nello spazio
e nel tempo privilegiato della liturgia la chiesa dei credenti riunita nel
culto.
Il calendario ortodosso ha conservato la memoria della dedicazione
di alcune chiese importanti, tra cui anche quella di Santa Sofia, ma in
tutto l’anno liturgico viene commemorata solennemente soltanto la
dedicazione della chiesa della Risurrezione di Gerusalemme, avvenuta il
13 settembre probabilmente dell’anno 330. La dedicazione di Santa Sofia
è annotata nel Sinassario, ma non viene altrettanto solennizzata dal
calendario. Anche questa potrebbe essere una ragione per ipotizzare un
257
Horològhion To Méga, Op. Cit., pp.70ss.
163
eventuale ridimensionamento dell’influenza che la costruzione della
chiesa giustinianea contribuì a dare allo sviluppo architettonico e
liturgico delle epoche successive; Santa Sofia di Costantinopoli fu
costruita
applicando
un
modello
già
consolidato,
ampliandolo,
ufficializzandolo definitivamente. Il modello precedente, l’archetipo non
era, però a Costantinopoli, ma a Gerusalemme. L’innografia composta
per quella lontana occasione è conservata nei vari libri liturgici ortodossi
e vale la pena soffermarvisi per avere un’idea di come questi contenuti
fossero espressi in modo compiuto.
Come la bellezza del firmamento di lassù, tale hai mostrato quaggiù lo
splendore della santa dimora della tua gloria, Signore. Consolidala nei secoli e
accetta, per l’intercessione della Madre di Dio le suppliche che in essa ti offriamo
senza sosta, o vita e risurrezione di tutti.
Cielo dalle molte luci è stata resa la Chiesa, perché illumina tutti i fedeli;
tenendoci in essa noi gridiamo: Consolida, Signore, questa casa .
258
La copia terrestre del divino santuario celeste risplende della
partecipazione a questa gloria; è importante considerare che non si parla
in questi testi di una gloria futura che è stata promessa, ma di una gloria
che è presente, che si è manifestata in modo perfetto, in modo tale da
rendere cielo dalle molte luci il luogo terrestre di una tale gloriosa
258
Horològhion To Mèga, Op. Cit., pp. 241-242.
164
manifestazione. Il riferimento va sicuramente oltre alla sfarzosità
esteriore del culto, come appunto viene specificato dai testi che seguono.
Il brano successivo è tratto dall’ufficiatura del vespro ed appartiene
al genere denominato Doxastikàrion .
259
Celebrando la dedicazione del sacratissimo tempio della tua risurrezione,
noi glorifichiamo te, Signore, che lo hai santificato e portato a compimento con la
tua perfetta grazia e ti allieti per i mistici e sacri riti in esso celebrati dai fedeli,
accetti dalla mano dei tuoi servi i sacrifici puri ed incruenti e rendi in cambio, a
chi li offre rettamente, la purificazione dai peccati e la grande misericordia .
260
L’espressione purificazione dei peccati e grande misericordia possono
trarre facilmente in inganno. Non siamo davanti alla ripetizione del
tempio salomonico per due motivi. Il primo e più banale riguarda
l’assenza di sacrifici cruenti: l’immolazione di olocausti animali, l’offerta
di sacrifici di comunione non è prevista più nella nuova alleanza, il culto
compiuto e insegnato da Cristo richiede sacrifici puri e incruenti; la
259
L’innografia bizantina si è sviluppata come un ampliamento del testo biblico. Dal
punto di vista compositivo essa si basa sul tropario; il tropario non è altro che una
strofa mai eccessivamente lunga, anzi, talora non comprende altro che due versetti,
da intercalare ai versetti dei salmi o dei cantici biblici. Il tropario inframmezzato alla
salmodia del vespro o delle lodi è chiamato stìchiron prosòmion, mentre quello che
segue la prima metà della piccola dossologia (Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito
santo), prende il nome di doxastikòn. I tropari dedicati alla Madre di Dio vengono
invece definiti theotokìa, mentre quelli conclusivi, cantati al termine del Vespro o del
Mattutino sono detti apolytìkia. Il canone (kanòn: regola), genere innografico famoso e
studiato con attenzione non è altro che l’organizzazione di stichirà prosòmia da
intercalare ai versetti del canone degli otto cantici biblici del Mattutino. La
proliferazione di questi testi portò all’abbandono della recita del canone delle odi
bibliche a favore delle sole strofe innografiche, che ne ereditarono il nome.
260
Anthologhion, Op. Cit., vol. I, p. 609.
165
seconda e più importante ragione sta nella consapevolezza che l’effetto
del culto giudaico non era la discesa dello Spirito santo, ma la semplice
espiazione o cancellazione delle colpe. Le parole purificazione dei peccati e
grande misericordia, infatti, adombrano una realtà assai diversa dalla
semplice remissione delle trasgressioni. La preghiera che accompagna
l’offerta dell’incenso non deve sembrare fuori luogo in questo discorso;
l’incenso era compreso fra le offerte da indirizzare a Dio già nel tempio
di Gerusalemme
261
e il culto cristiano non ha mai ignorato la sua
simbologia . I mistici e sacri riti cui accena l’antichissimo doxastikàrion
262
della Dedicazione della chiesa della Risurrezione erano accompagnati da
abbondanti offerte d’incenso; l’incenso stesso, tra l’altro era considerato
una delle offerte simboliche ed incruente.
Offriamo a te incenso, Cristo Dio nostro, in soave sacrificio spirituale:
accettandolo sul tuo altare sovraceleste, in cambio fa scendere su di noi la grazia
del tuo santissimo Spirito .
263
Sotto la duplice espressione, dunque di purificazione dei peccati e
grande misericordia, si intende la discesa e l’intervento dello Spirito santo,
261
Farai poi un altare sul quale bruciare l’incenso… porrai l’altare davanti al velo che
nasconde l’arca della Testimonianza, di fronte al coperchio che è sopra la Testimonianza, dove
io ti darò convegno. Aronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina
quando riordinerà le lampade e lo brucerà al tramonto, quando Aronne riempirà le lampade:
incenso davanti al Signore per le vostre generazioni (Es 30,1.6-8).
Il sacerdote prenderà da essa una manciata di fior di farina e d’olio, con tutto l’incenso, e lo
brucerà sullaltare come memoriale: è un sacrificio consumato dal fuoco, profumo soave per il
Signore (Lev 2,2).
262
Salga la mia preghiera come incenso davanti a te (Sal. 140,2).
263
Ieratikòn, Op.Cit., P. 100.
166
la cui manifestazione è oggetto di grande interesse nel Prato di Govanni
Mosco. E’ interessante notare anche come venga usato il termine
purificazione (kàtharsin) e non perdono (sygchòresin) dei peccati, che pure
viene utilizzato spesso. Ciò vuol dire che i peccati sono considerati
perdonati da parte di Dio, ma che ciò non è sufficiente perché lo spirito
umano ne sia purificato. Il perdono divino è irreversibilmente concesso
da quando Cristo sulla croce pregava: Padre, perdonali, perché non sanno
quello che fanno , ma il peccato lascia come una scoria tossica nello spirito
264
umano e la guarigione, o purificazione da una tale infermità o infezione
non è istantanea. E’ ben chiaro, come esprime il Crisostomo, che non è in
questione la possibiltà di ricevere il perdono divino.
Entrate tutti nella gioia del Signore nostro: primi e secondi, godete la
mercede. Ricchie poveri danzate insieme in coro. Continenti e indolenti, onorate
questo giorno. Quanti avete digiunato e quanti non lo avete fatto, oggi siate lieti.
La mensa è ricolma, deliziatevene tutti. Il vitello è abbondante, nessuno se ne
vada con la fame. Tutti godete la ricchezza della bontà. Nessuno lamenti la
propria miseria, perché è apparso il nostro comune regno. Nessuno pianga le
nostre colpe, perché il perdono è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte,
perché la morte del Salvatore ci ha liberati .
265
Non è in gioco affatto, secondo questa visione, il perdono e la
remissione dei peccati da parte di Dio. Ciò che è in gioco è la
264
265
Lc 23,34.
GIOVANNI CRISOSTOMO, Catechesi Pasquale, in PG 59, 722-3.
167
purificazione interiore dell’animo umano, la sua disposizione soggettiva
nei confronti della misericordia divina, la sua possibilità di recepire ed
esperire la vita divina comunicata nella Pentecoste. Solo uno spirito
umano perfettamente guarito e ristabilito è in grado di reggere e di
sostenere l’esperienza dello Spirito santo, e ottiene così quel dono
gratuito voluto dalla grande misericordia divina. La discesa dello Spirito
santo, come abbiamo visto finora, non può avere altri caratteri che quelli
di un’esperienza mistica del regno increato di Dio.
E’ evidente, pertanto, che non siamo affatto davanti al ritorno a
categorie sacrificali giudaiche veterotestamentali. Alla materialità
dell’atto rituale corrisponde un atteggiamento interiore; non dobbiamo
dimenticare che il cristianesimo nasce in un mondo e in una cultura che
non concepisce la materia e lo spirito come antagonisti; soltanto là dove
l’influsso di filosofie e religioni dualiste si farà sentire, l’offerta
dell’incenso sarà vista come un atto imperdonabilmente materiale e
quindi, proprio in quanto materiale, per sua natura pagano. Altro fattore
da non sottovalutare, a favore dell’incenso, è la testimonianza dell’autore
dell’Apocalisse che abbiamo poco sopra ricordato: il santuario celeste,
che egli avrebbe visto dopo aver attraversato la porta aperta nel cielo è
266
provvisto di un altare, come risulta anche dalla stessa lettera agli Ebrei .
267
266
Apocalisse 4,1.
Noi abbiamo un altare del quale non hano alcun diritto di mangiare coloro che sono al
servizio del Tabernacolo (Eb 13,10).
267
168
Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di
coloro che furono immolati a causa del verbo di Dio e della testimonianza che gli
avevano resa …
268
Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere
d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere dei
santi. Poi l’angelo prese l’incensiere, lo riempì del fuoco preso dall’altare e lo
gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di
terremoto .
269
Non doveva pertanto sembrare fuori luogo l’offerta dell’incenso
nel culto cristiano a quanti erano a conoscenza di queste pagine del
Nuovo Testamento.
Per completare il discorso riguardante la dedicazione della chiesa
della Risurrezione, ma anche per segnalare come fosse chiara questa
concezione della diversità di scopo, o meglio, questa peculiarità
268
Apocalisse 6,9.
Ibidem 8,3-5. Sull’altare veterotestamentario degli olocausti, come indica la parola
greca stessa (òlon: tutto; caùso, variante di kaìo: bruciare), ardeva un fuoco
continuamente alimentato nel quale le vittime offerte in sacrificio venivano
consumate (Es 29,36ss). L’altare celeste dispone a sua volta di un fuoco celeste, lo
stesso che abbiamo più volte incontrato, la cui discesa sulla terra reca gli
inconfondibili segni della teofania pentecostale in spirito e fuoco. La discesa di Dio sul
monte Sinai, nella nube gloriosa, era accompagnata da clamori, tuoni, fumo e fuoco e
tutto il monte era scosso dalle fondamenta (Es 19,16-19). Lo stesso evento della
Pentecoste è accompagnato dal rombo violento di un soffio impetuoso e dal segno
visibile del fuoco che si divide in fiamme che siposano sul capo di ciascun apostolo
(Atti 2,2-4). La discesa dello Spirito santo è pertanto associata a questi segni, che non
mancano nelle stesse pagine del Prato.
269
169
pentecostale del culto cristiano patristico scegliamo fra tanti esempi un
ultimo testo presente nell’ufficiatura del Mattutino del 13 settembre.
Tutto hai illuminato Cristo con la sua presenza; ha rinnovato il mondo
con il suo divino Spirito, le anime sono rigenerate, perché ora è stata dedicata a
gloria del Signore una casa, dove il Cristo Dio nostro rigenera i cuori dei fedeli
per la salvezza dei mortali .
270
In queste parole troviamo confermata la centralità del dono dello
Spirito santo, ma anche la purificazione, qui chiamata rigenerazione delle
anime e dei cuori degli uomini. La rigenerazione (egkaìnia) o
rinnovamento è un’attività propria dello Spirito santo e dell’età, o
meglio, della condizione pentecostale. In definitiva: un edificio viene
edificato perché sia riservato al culto; il culto che vi si svolge ha come
scopo l’esperienza pentecostale e ciò viene espresso anche mediante
simboli, immagini e rituali ricavati dalle Scritture.
270
Anthologhion, Op. Cit., Vol. I, p. 610.
170
CONCLUSIONI SUL PRATO DI GIOVANNI MOSCO
Gli episodi narrati nel Prato da Giovanni Mosco contengono
numerosi riferimenti alla liturgia cristiana del VI secolo che esprimono in
modo diffuso e naturale una sensibiltà religiosa ricca di mistica e
incentrata sull’azione dello Spirito santo. Il rito della liturgia eucaristica
conosce una parte denominata proscomidìa ed una parte denominata
anàfora. Non si tratta di due sezioni separate, come avverrà poco dopo,
ma alla proscomidìa segue senza soluzione di continuità l’anàfora. Si può
supporre che nella proscomidìa avvenga la discesa dello Spirito santo,
mentre nell’anàfora si abbia l’intervento del medesimo Spirito. La
proscomidìa era incentrata sul memoriale dell’ultima cena, della passione
e morte di Cristo, mentre l’anafora, se gradita, era in grado di produrre i
segni di un rinnovamento della Pentecoste. La Pentecoste stessa risultava
essere l’evento liturgico per essenza. La liturgia era considerata compiuta
veramente non quando si svolgeva in conformità alle
regole
ecclesiastiche, ma quando lo Spirito santo rinnovava i segni della
Pentecoste.
Il sacerdote è presente non per attirare il fuoco, ma lo Spirito Santo; prega
per molto tempo, non perché un fuoco disceso dall’alto consumi le offerte, ma
perché, discendendo la grazia sul sacrificio (thysìa), si accendano per mezzo di
essa le anime di tutti e le renda più splendenti dell’argento purificato nel
171
fuoco… Ignori forse che, senza il grande aiuto della grazia divina, l’anima
umana non potrebe sopportare quel fuoco del sacrificio (thysìas), e che tutti
sarebbero completamente annientati? .
271
Leggendo queste parole non possiamo non rammentare l’episodio
del gioco liturgico dei pastorelli, che provocarono una inaspettata
teofania alla quale non erano affatto preparati; l’altare del tempio
giudaico aveva una fiamma materiale che consumava gli olocausti;
Crisostomo suggerisce ciò che abbiamo riscontrato spesso nel Prato: sulla
mensa eucaristica cristiana, altare della Nuova Alleanza, durante il culto,
arde una fiamma invisibile e spirituale che non solo trasforma la natura
delle specie offerte, ma purifica, illumina e glorifica quanti vi si
accostano.
La potenza di Dio era ritenuta incontrollabile e non costretta alle
condizioni dettate dagli uomini e l’evento liturgico poteva compiersi
anche al di fuori delle circostanze normali, mentre poteva succedere che
là dove le normali circostanze si verificavano apparentemente in modo
regolare, qualcosa di invisibile, ma allo stesso tempo di sostanziale,
impediva il compimento dell’evento liturgico e il culto rimaneva vuoto,
puramente esteriore, non in grado di comunicare la partecipazione al
regno increato di Dio. In particolare il clero doveva garantire il livello
spirituale adeguato per degnamente servire all’altare. Scriveva, infatti,
271
GIOVANNI CRISOSTOMO, Sul Sacerdozio, III, 4, in PG 48, col. 642.
172
ancora il Crisostomo: La Scrittura chiama angelo il sacerdote . In caso
272
contrario,
qualora il presbitero, a causa di una condotta non
propriamente angelica, non fosse all’altezza del compito spirituale, era
comunque possibile che la presenza, inosservata ad occhi umani, di
qualche altro spirituale nella chiesa potesse rimediare all’indegnità del
clero officiante. Il servizio di culto cristiano era concepito come una
concelebrazione angelica, ma ciò riguardava la chiesa in se stessa, intesa
come comunità di credenti: il ruolo del presbitero era, com’è facile
comprendere, senza dubbio centrale, ma questa centralità non lo
collocava in uno spazio riservato al clero, separato e non comunicante
con il resto della comunità; egli esercitava in prima persona un compito
ed un’attività proprie della chiesa, non di un sacerdozio di tipo
monarchico; le prerogative e i poteri esercitati erano prerogative e poteri
della chiesa; in parole povere il ruolo del presbitero era quello di
impersonare queste prerogative della chiesa, ma se per disavventura non
si trattava di una persona degna di stare accanto agli angeli, era possibile
che nella liturgia celeste qualcun altro, per economia divina, prendesse il
suo posto e venisse accolta la sua anima purificata come la vera anafora
eucaristica della chiesa. Da una parte la profondità spirituale, l’intensità
della vita interiore, che venivano sicuramente considerate prima del
regolamento ecclesiastico, dall’altra parte era tenuta in considerazione la
potenza intrinseca del culto ortodosso. Quando queste due componenti
272
GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, L, 4,260-262, PG 54,448.
173
si incontravano lo Spirito divino, secondo quanto leggiamo nell’opera di
Giovanni Mosco, interveniva anche in assenza di sacerdoti; o malgrado
la presenza di sacerdoti decaduti spiritualmente. Addirittura, la forza
della spiritualità personale, se unita all’adesione all’esperienza di fede
della chiesa ortodossa, poteva superare l’ignoranza del rito ortodosso,
come nel caso dell’anacoreta che conosceva l’anafora degli eretici e la
utilizzava ritenendola ortodossa.
174
GERMANO, PATRIARCA DI COSTANTINOPOLI
LA VITA E LE OPERE
Di Germano non è possibile precisare l’anno della nascita, che può
essere compreso tra il 631 e il 649. Il Sinassario Costantinopolitano colloca
la sua nascita in un non meglio precisato anno del regno dell’imperatore
Eraclio (5 ottebre 610, o 611-febbraio 641) e riferisce che la morte lo
raggiunse novantenne. Le scarse e contraddittorie notizie che riguardano
i suoi dati anagrafici non permettono nemmeno di ipotizzare con
approssimazione l’anno della sua morte. Alcuni suppongono che il
decesso avvene intorno al 733; in questo caso però non sarebbe nato al
tempo dell’imperatore Eraclio, ma almeno due anni dopo la sua morte.
Suo padre, il patrizio Giustiniano, era un discendente in linea
collaterale dell’imperatore Giustiniano I . Sotto Eraclio egli aveva
273
espletato importanti mansioni pubbliche, ma sarebbe caduto in disgrazia
sotto il regno di Costante II o Costantino Pogonato, imperatore dal 641 al
668. Probabilmente implicato nell’assassinio del Pogonato, avvenuto a
Siracusa il 15 settembre del 668, venne condannato a morte da
Costantino IV (668-685), mentre il figlio di lui, Germano, futuro patriarca
di Costantinopoli, venne mutilato e reso eunuco.
273
STEIN E., Die Abstammung des okumenischen Patriarchen Germaons I, in Klio, XVI,
1920, p. 207.
175
Dopo questi fatti Germano riuscì comunque a far parte del clero
della Grande Chiesa (santa Sofia), distinguendosi assai presto grazie alle
sue qualità. Una lettera (di discussa autenticità) indirizzata da papa
Gregorio II (715-31) all’imperatore Leone II ci informa che Germano,
insieme col patriarca Teodoro, avrebbe persuaso l’imperatore Costantino
IV a scivere a Roma per invitare il papa a mandare i suoi legati a
Costantinopoli in vista del grande Sinodo (il III costantinopolitano e VI
ecumenico) che doveva condannare il monotelismo (680-81). Ciò
suggerisce che in quella data (678) Germano occupasse un posto di
rilievo nel clero di Santa Sofia: comunque non è necessario che, per poter
prendere una tale iniziativa, egli fosse il cinquantenne immaginato dal
bollandista Hensckens . Ignoriamo tuttavia quale parte abbia avuto in
274
quel sinodo come anche nel sinodo Trullano convocato nel 691
dall’imperatore Giustiniano II, suo parente .
275
Poco dopo il suo ritorno dall’esilio (settembre del 705), Giustiniano
fece eleggere Germano metropolita di Cizico, nell’Ellesponto. In qualità
di metropolita partecipò al sinodo riunito dall’imperatore Filippico
Bardane a Costantinopoli nel 712 per abolire il concilio del 681 e
restaurare il monotelismo. Con il patriarca Giovanni e il vescovo Andrea
di Gortina di Creta, egli è citato in alcune cronache tra i prelati che
274
275
Acta SS. Maii, III, Parigi 1866, p. 158BC.
STEIN, art. cit.
176
cedettero kat’oikonomìan di fronte alla volontà dell’imperatore eretico ,
276
277
alla morte del quale, però, immediatamente ritrattarono.
L’11 agosto del 715, sotto l’imperatore Anastasio II, detto anche
Artemio (713-715), Giovanni venne trasferito da Cizico alla sede
patriarcale di Costantinopoli. L’atto di trasferimento fu compiuto con
l’approvazione… di tutto il venerabile clero, del sacro senato e del popolo
romano
278
amico di Cristo in presenza del santissimo presbitero Michele,
apocrisario della sede apostolica e degli altri sacerdoti e vescovi .
279
Lo stesso giorno della sua intronizzazione a Santa Sofia Germano
dovette benedire la madre di santo Stefano il Giovane, prossima al parto:
poi il patriarca battezzerà il santo pargoletto . Secondo il Synodikòn
280
dell’Ortodossia avrebe anatemizzato, forse già nel 715 in un sinodo di
281
cento vescovi, i fautori del monotelismo, nominalmente i partiarchi suoi
predecessori. Ma la testimonianza non è priva di difficoltà e la notizia
276
Letteralmente: per economia. Si intende un certo modo di applicare un’eccezione
alle regole mantenendo una riserva interiore. E’un’espressione tipica del linguaggio
teologico, entrato nell’uso quotidiano fino ai giorni nostri.
277
TEOFANE, Chronografia, ad. A. 6204, in PG, CVIII, col. 773; NICEFORO, Historia
Syntomos, in PG, C, coll. 952.
278
Si noti come le fonti storiche ignorano l’esistenza dell’impero cosiddetto bizantino
e continuino a riferirsi tranquillamente e senza nessuna forzatura ideologica
all’impero romano.
279
TEOFANE, Op. Cit., ad. A. 6207, in PG, CVIII, col. 780.
280
STEFANO DIACONO, Vita di santo Stefano il Giovane, in PG 100, coll. 1076-1080.
281
Si tratta del lungo testo che viene letto solennemente al termine della liturgia il
giorno della festa dell’Ortodossia, la prima domenica di Quaresima. Fu composto al
termine dell’ultimo periodo iconoclsta, quando, nell’843 furono definitivamente
restituite al culto le sante icone. E’ riportato nel volume dell’innografia quaresimale
denominato Triodion (ed. Phòs, pp. 155-66).
177
non sembra trovare conferma; anzi, l’epoca a cui risalirebbe il fatto non
era favorevole alla riunione di un numero così consistente di vescovi, dal
momento che i primi anni del suo patriarcato si svolsero in un clima di
piena anarchia politica: il thema
dell’Opsikion si era ribellato contro
Anastasio proclamando imperatore Teodosio III. Portatosi a Nicea
Anastasio aveva tentato invano di domare la sedizione; dopo un lungo
assedio Costantinopoli fu presa dai ribelli che riuscirono così ad
insediare l’usurpatore. Germano, accompagnato dai notabili della Città
dovette allora recarsi a Nicea per far capire ad Anastasio che ormai ogni
resistenza era inutile . Ma anche il nuovo regno di Teodosio fu di breve
282
durata. Fu nuovamente il patriarca Germano a fungere da intermediario
tra il primo usurpatore e il secondo, Leone Isaurico . Il 18 aprile del 716
283
Leone Isaurico era proclamato imperatore e, il 25 marzo 717, festa
dell’Annunciazione, veniva solennemente incoronato a Santa Sofia dal
patriarca . Il 24 dicembre 719 Germano incoronò la basilissa Maria,
284
sposa di Leone III e battezzò il loro primogenito, Costantino. Durante la
cerimonia si verificò lo spiacevole incidente che procurò al futuro
Costantino V il soprannome di Copronimo. Nell’accaduto Germano
avrebbe visto il presagio del grande male che il futuro imperatore
iconoclasta avrebbe causato alla Chiesa.
282
NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col. 956. TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 781.
TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 789.
284
NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col. 958.
283
178
In quegli stessi anni Germano, preoccupato per il problema dello
scisma monofisita, prese l’iniziativa di riallacciare relazioni religiose con
gli Armeni, separati dalla chiesa ortodossa dai tempi del Concilio di
Calcedonia (451). Approfittando della presenza a Costantinopoli verso il
715-20 di un sacerdote armeno, tale Stefano, futuro metropolita di Siunia,
fece pervenire tramite questi al katholikòs Giovanni III Ojnec (711-28)
una lettera di pace nella quale si esponeva la fede ortodossa, spiegando
bene il diofisismo calcedonese con frequenti riferimenti a san Cirillo di
Alessandria ed esplicita condanna a Nestorio e respingendo l’accusa di
nestorianesimo imputata a san Leone magno papa di Roma. L’esito del
gesto patriarcale resta poco chiaro, tuttavia non mancano argomenti in
favore di un temporaneo ristabilimento dell’unione tra la chiesa
ortodossa e quella armena . Invece è da scartare la leggenda secondo la
285
quale Leone III e Germano avrebbero invitato Stefano a recarsi a Roma
per rintracciarvi un’opera perduta di Cirillo alessandrino .
286
Da notare, inoltre, la parte che il patriarca Germano ebbe nel
sostenere l’animo della popolazione angosciata dalle frequenti incursioni
degli arabi, principalmente al tempo del terribile assedio del 718.
E’risaputo come il santo patriarca ponesse la sua fiducia nella protezione
285
KOGYAN L.S., L’Eglise Armènienne. Jusq’au Concile de Florance. Etude Historique (in
armeno con riassunto in francese), Beiruth 1961, pp. 272-274.
286
STEFANO VESCOVO DI SIUNIA, Storia della Casata di Sisakan (in armeno), ed. a
cura di EMIN J.B., Mosca 1861, p. 9.
179
della Madre di Dio, ma non affatto certo che egli abbia introdotto la festa
dell’inno Akàthistos per la quinta settimana di quaresima.
Il nome di Germano è collegato soprattuto alla prima fase della
crisi iconoclasta. Nel luglio del 721 il califfo Jasid II ordinò di distruggere
tutte le immagini, tanto negli edifici publici, quanto nelle case private .
287
Ispirata, si dice, da un ebreo di Siria , tale misura trovò un sostenitore
288
nel palazzo imperiale nella persona del favorito Beser, un apostata forse
anch’egli di origina sira. Germano intervenne immediatamente per
ottenere l’allontanamento da palazzo del losco individuo e sembra pure
che vi riuscì: ne abbiamo conferma da quanto leggiamo in una lettera del
723-24, indirizzata dal patriarca a papa Gregorio II (715-731).
Nel
frattempo l’iconclasmo si diffondeva, col sostegno dell’episcopato,
soprattutto in Asia Minore, trovando delle figure di spicco in Teodosio di
Efeso e Costantino di Nacolia.
proprio
metropolita
Quest’ultimo, essendosi urtato col
Giovanni di Sinnade, ricorse al patriarca,
verosimilmente per guadagnarlo alla causa iconoclasta; da parte sua
Giovanni informò Germano chiedendogli se era opportuno riunire il
sinodo provinciale per esaminare il caso. In una conversazione privata
che ebbe luogo a Costantinopoli, il vescovo di Nacolia promise a
Germano di conformarsi all’insegnamento tradizionale relativo alle sante
icone. Il patriarca pensò di averlo persuaso, poiché gli consegnò la sua
287
VASILIEV A.A., The Iconoclastic Edict of tehe Caliph Yazid II, in Dumbarton Oaks
Papers, IX-X, 1956, pp. 23-47.
288
TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 812.
180
risposta destinata al metropolita di Sinnade, ma di ritorno alla sua
diocesi Costantino rifiutò di riconciliarsi con il suo metropolita al quale
non trasmise la lettera patriarcale. Informato dell’accaduto, Germano
scrisse un breve messaggio all’irriducibile vescovo di Nacolia per
esortarlo, con autorità a mantenere le sue promesse. Più tardi, nel 725,
Germano fu sorpreso nell’apprendere che un altro vescovo, Tommaso di
Claudiopoli, da lui ben conosciuto e stimato, si era opposto al culto delle
sante icone. Perciò gli indirizzò una lunga lettera dogmatica in difesa
della dottrina tradizionale.
Ma il movimento guadagnava terreno, favorito principalmente
dall’imperatore che si era subito schierato dalla parte degli iconomachi.
In quell’anno Leone III iniziò a tenere conferenze pubbliche nelle quali
esprimeva chiaramente la sua intenzione di sottrarre le icone alla
devozione pubblica .
289
All’inizio dell’estate del 726 l’eruzione vulcanica di Santorini venne
interpretata dall’imperatore, così almeno si disse, come un funesto
presagio: per scongiurare l’ira divina occorreva dichiarare la guerra alle
immagini sacre . Il che fu fatto promulgando verosimilmente un editto,
290
ma la popolazione di Costantinopoli si oppose ai primi tentativi di
profanzione ai danni delle icone dell’isola di Chalki, la seconda
289
TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col.816. STEFANO DIACONO, Op. Cit., PG 100, col
1084.; cfr BREHIER L., Sur un Text Relatif au Début de la Querelle Iconclaste, in Echos
d’Orient, XXXVII, 1938, pp. 17-22.
290
NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col.964. TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col.816.
181
dell’arcipelago delle isole Principe, situate di fronte alla Città in
direzione dell’Asia Minore. La sgradita novità provocò la ribellione del
thema degli Elladi e di quello delle Cicladi .
291
Anche in occidente le iussiones imperiali provocarono scandalo e
tumulti. Papa Gregorio II, rispondendo con una lettera ad una missiva di
Leone III, esortava fermamente l’imperatore a non sovvertire gli antichi
dogmi della Chiesa . Nel frattempo Leone, dopo aver respinto
292
un’incursione di saraceni (estate del 727), riprendeva il controllo dei
themata ribelli. Non riuscendo ad allargare il consenso alla sua politica in
materia religiosa, l’imperatore tentò nuovamente di guadagnare alla sua
causa il papa e il patriarca, ma Germano fu irremovibile a tal punto da
definire Leone III come precursore dell’Anticristo . Vista l’indomabile
293
resistenza del patriarca egli decise allora di sbarazzarsene e il 17 gennaio
del 730 riunì nella sontuosa sala del suo palazzo detta “tribunale dei
294
XIX letti” un silention, ossia un’assemblea del senato e di alti dignitari,
davanti al quale fu fatto comparire sotto scorta militare lo stesso
Germano . Si tentò inutilmente di far sottoscrivere a Germano il decreto
295
iconoclasta, ma questi, dopo molta insistenza rassegnò le dimissioni,
291
Ibidem, col. 964.
TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 816.
293
Ibidem, col. 821.
294
GUILLAND R., Etudes sur le grand Palais de CP. Les XIX Lits, in Jahrbuch
Osterreichischen Byzantinischen Gesellschaft, XI-XII, 1962-63, pp. 85-113.
295
STEFANO DIACONO, Op. Cit., PG 100, col. 1085.
292
182
rifiutandosi di modificare la dottrina della fede ortodossa . Dopo aver
296
deposto le insegne della dignità patriarcale sull’altare di Santa Sofia , per
alcuni , o piuttosto, come altri ritengono , nella vicina chiesa del
297
298
Salvatore, si ritirò a vita privata in Platanion, dominio paterno sito a
nord della Città, nelle vicinanze del monastero di Cora.
Le fonti non precisano la durata della sua forzata abdicazione,
comunque sembra che egli abbia avuto la forza, nonostante l’età molto
avanzata e la mancanza di libri, di scrivere a memoria una storia delle
eresie. Meno attendibili sono le notizie fornite dal bìos, secondo le quali,
dopo essere fuggito a Cizico, si sarebbe nascosto in un monastero
femminile travestendosi da monaca; approfittando di questo curioso
anonimato avrebbe potuto così gettare in mare le icone del Salvatore e
della Madre di Dio di Lydda, le quali avrebbero per così dire navigato
fino a Roma dove il papa le avrebbe solennemente accolte, per poi
tornare con grandi onori a Costantinopoli alla fine dell’iconoclasmo .
299
Morì al termine di una breve malattia, il 12 maggio di un anno
imprecisato. Sembra poco fondata la notizia secondo cui Germano
sarebbe stato strangolato insieme con l’arcidiacono Antimo nel
monastero di Cora per ordine imperiale .
300
296
TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 825. NICEFORO, Op. Cit., PG 100, col. 965.
GIORGIO MONACO, Chronicon, IV, 248, in PG 90, col. 921.
298
Cfr EBERSOLT J., Le Grand Palais de CP., Parigi 1910, p. 115 e n. 16 della pianta.
299
GIORGIO MONACO, Chronicon, IV, in PG 110, col. 921.
300
FABRICIUS A.-HARLESS G.C:, Bibliotheca Graeca, XII, Amburgo, pp. 112-113.
297
183
Mancano argomenti validi per affermare, con la gran parte degli
storici occidentale contemporanei, che Germano morì nel 733 e tanto
meno nel 740, come sostengono gli orientali . Il luogo della sua sepoltura
301
non è il Ponto, conme sostiene Henskens , ma la stessa Costantinopoli,
302
non lontano dal cenobio di Cora.
Gli avvenimenti tumultuosi in cui fu coinvolto non gli impedirono
di produrre una certa quantità di opere; o meglio, forse fu proprio la
complessità e la drammaticità dei problemi che travagliavano la sua
epoca ad offrirgli lo spunto, se non proprio l’urgenza, di intervenire con
lo scritto e l’autorità di patriarca in questioni della massima gravità per
la storia della Chiesa. Il corpus delle sue opere è in massima parte
raccolto nel volume 98 del Migne. In esso figurano le sue epistole, alcune
delle quali abbiamo citato; ci è giunto sotto il suo nome un trattato
teologico sulla prescienza e provvidenza divina, intitolato De Vitae
Termino , composto in forma dialogica. Sono state conservate un certo
303
numero di omelie per le festività e i tempi liturgici, delle quali hanno
avuto una buona diffusione nei secoli successivi quelle mariane, alle
quali gli studiosi romano cattolici associano tradizionalmente il suo
nome. Germano si è occupato anche di storia nel trattato De Sanctis
301
STIERNON D., La Date de la nassaince et de la Mort de s. Germain, patriarche de
Costantinople, in Euntes Docete, XVIII, 1965.
302
HESKENS, Acta SS. Maii, III, Parigi 1866, col. 154.
303
PG 98, coll. 89-132.
184
Synodis et de Haeresibus , dedicato al diacono Antimo: si tratta di una
304
raccolta di tutte le eresie che hanno attraversato la storia del
cristianesimo dall’era apostolica (il primo eresiarca a comparire è Simon
Mago) fino all’iconoclasmo. Considerate le circostanze in cui venne
composta, in assenza totale, cioè di libri e altre fonti su cui documentarsi,
dobbiamo concludere che le lacune e le imprecisioni non sono tali da
compromettere la serietà dell’opera.
Una sua trattazione dal titolo De Vera et Legitima Retributione è
andata perduta. Secondo il riassunto che ci ha lasciato il patriarca Fozio
Germano scagionava in questo scritto Gregorio di Nissa dall’accusa
postuma di origenismo, in merito alla negazione dell’eternità della
condanna per i demoni e gli uomini dannati . Secondo il cardinale Mai
305
egli sarebbe anche l’autore di un Commentario su Dionigi l’Areopagita, fuso
con quello di san Massimo il Confessore . Altre opere sono andate
306
perdute, se è vera, come è probabile, la notizia riportata dal Bìos secondo
la quale Leone l’Isaurico avrebbe fatto distruggere tutte quelle opere che
era riuscito a rintracciare. Non è da sottovalutare la sua produzione
liturgica, soprattutto innografica. Enrica Follieri
304
307
ha raccolto ben
PG, 98, coll. 40-88.
PG 102, coll. 1105-1108.
306
MAI A., Spicilegium Romanum, VII, Roma 1858, p. 274.
307
FOLLIERI E., Initia Hymnorum Graecorum, 6 voll., Città del Vaticano 1960-1965; vol.
VI, indice.
305
185
centoquattro Stichirà
308
e ventidue Canoni liturgici a lui attribuiti e
disseminati nei Minei ortodossi. Oltre ai componimenti liturgici, che
nessuno è in grado, allo stato attuale, di attribuire con assoluta certezza,
ma che comunque non sembrano eccessivamente estranei, come
argomento, vocabolario e stile dalle omelie, ci è giunta sotto il suo nome
un’opera dedicata al commento delle liturgie di Giovani Crisostomo, di
Basilio e dei Presantificati, intitolata Istorìa Ekklesiastikè kaì Mystikè
Theorìa che ha avuto per molto tempo seri problemi d’attribuzione.
309
IL COMMENTARIO LITURGICO:
Mystikè Theorìa DELLA CHIESA
La sezione di cui stiamo per occuparci ha conosciuto una vasta
diffusione purtroppo non sempre lineare. Anzi, proprio la sua vasta
diffusione ha giocato un ruolo determinante nella confusione e
sovrapposizione delle recensioni manoscritte. Si contano almeno cinque
versioni mutile o anonime, mentre ve ne sono ben venticinque che
riportano questo testo come un’opera di Basilio Magno; tre sono quelle
che lo attribuiscono a Cirillo, una addirittura riporta il nome di Giacomo
apostolo, tanto per limitarci alle pricipali tradizioni manoscritte. In tutto
308
Il termine stychiron indica un particolare componimento lturgico solitamente
breve da intercalare ai versetti (stychon = versetto) dei salmi del lucernario o delle
lodi.
309
PG 98, coll. 384-454.
186
questo caos solo cinque manoscritti riportano il nome di san Germano,
patriarca di Costantinopoli . Il problema critico non era costituito
310
soltanto dall’attribuzione, ma dalle interpolazioni e dalle abbondanti
contaminazioni che appesantivano il testo rendendo irriconoscibile
l’originale. Né l’uno, né l’altro problema ormai dovrebbero sussistere
grazie alla scoperta del Pitra , dal momento che la versione latina che
311
Anastasio il Bibliotecario curò per il re dei franchi Carlo il Calvo venne
compiuta fra l’867 el’886 in un’epoca non troppo lontana dall’estensione
dell’originale e quindi, come documento antico, riveste una certa
importanza . Bisogna osservare che il Vat. Gr. 790, nonché il Neap. GR. II
312
B. 29 forniscono una recensione greca perfettamente sovrapponibile alla
versione latina in questione; questo fatto ci permette di ritenere di avere
una versione almeno non eccessivamente lontana dall’originale sulla
quale possiamo lavorare con tranquillità.
310
Chi volesse rendersi conto personalmente della situazione può consultare di NILO
BORGIA, Il Commentario Liturgico di S. Germano patriarca Costantinopolitano e la
Versione Latina di Anastasio Bibliotecario, Tipografia Italo-Orientale “S. Nilo” 1912,
Grottaferrata. A pagina 2 viene riassunta la situazione dei manoscritti. Il Borgia
nell’introduzione ricostruisce le circostanze della scoperta della versione latina di
Anastasio il Bibilotecario, che permise al Pitra di attribuire con certezza l’opera a
Germano di Costantinopoli. Bisogna comunque precisare che l’attribuzione di una
tale opera a Basilio o a uno dei due Cirillo era contraddetta dal testo stesso,
all’interno del quale si fa riferimento a particolarità del culto ortodosso che oggi
conosciamo come introdotte con certezza in pieno VI secolo, come per esempio l’inno
trisagio: Aghios o Theòs, àghios ischyròs, àghios athànatos, elèeson ymàs… Giustamente
dunque il Borgia ridimensiona l’entusiasmo del Pitra, che non seppe trattenersi dal
polemizzare contro quella che lui definiva la foeda spurcitia dei graeculi.
311
PITRA, Iuris Ecclesiastici Graecorum Historia et Monumenta, 1868, Parigi.
312
Due sono le versioni manoscritte del IX e x secolodi questa celebre versione giunte
a noi: Camerac. Bibl. Municip. 711 e Paris Bibl. Nat.
187
Non sappiamo assolutamente in quale periodo della sua
avventurosa quanto lunga esistenza Germano compose la Mystikè
Theorìa; in ogni caso l’opera è una testimonianza preziosa degli usi e
delle tradizioni liturgiche precedenti l’iconoclasmo. Possiamo affermarlo
con sicurezza dal momento che conosciamo perfettamente la posizione
di Germano circa le novità e i cambiamenti operati sulle tradizioni
dogmatiche e liturgiche: Se io sono Giona, gettatemi pure in mare; ma senza
un concilio ecumenico, o imperatore, mi è impossibile innovare in materia di
fede . Se furono proprio queste le parole con cui spiegò la sua posizione
313
al silention voluto dall’imperatore Leone III per costringerlo ad
appoggiare l’iconomachia, lo ignoriamo; certo esprimono ottimamente il
pensiero di un patriarca che si oppose
sempre e risolutamente
all’iconoclasmo perché in esso vedeva un sovvertimento dei dogmi e
delle tradizioni del culto cristiano. Quanto descritto, dunque, nella
Mystikè Theorìa in merito al culto cristiano era indubbiamente stato
ricevuto dall’Autore come una tradizione antica ed egli a sua volta
intendeva trasmetterlo come tale con questo scritto. Ci sorprenderebbe
scoprire innovatore proprio un uomo che interpretava la sua dignità e il
ruolo religioso e politico che ne derivavano, come custodia e difesa delle
tradizioni,
un
uomo
che
pagò
con
l’abdicazione
forzata
e
l’allontanamento dalla vita pubblica, la distruzione dei propri scritti e
con la diffamazione la sua opposizione a ciò che ai suoi occhi appariva
313
TEOFANE, Op. Cit., PG 108, col. 825.
188
come una novità che alterava il culto e il dogma della chiesa di cui era
gerarca.
Il fatto poi che egli visse solo il primo periodo dell’iconoclasmo,
rafforza
questa
considerazione:
la
vittoria
dell’ortodossia
sull’iconomachia portò al centro della vita religiosa, e non solo, il
monachesimo studita che aveva sopportato in prima persona un
particolare accanimento delle persecuzioni; gli anni dell’iconoclasmo
conobbero anche l’acquisizione di una svolta decisiva nella storia del rito
ortodosso. La svolta non è da intendersi come un mutamento, ma come
l’approfondimento di elementi già presenti, anche se fino ad allora in
forma meno consistente. Si è scritto molto sul contributo degli studiti
314
314
Il termine studiti indica i monaci appartenenti alla comunità del celebre monastero
di Stoudios in Costantinopoli (Istanbul), fondato intorno al 460 e dedicato a san
Giovanni. Il nome deriva dall’ex-console Stoudios (cfr DELEHAYE H., StoudionStoudios, in Analecta Bollandiana 52, 1934, 64s) che fondò il monastero nel quartiere
occidentale della Città accanto ad un altro famoso centro monastico, quello degli
Acémeti. Nel 798 vi si trovarono personalità monastiche di spicco, quali san Platone e
san Teodoro, entrambi passati alla storia con l’appellativo di studiti, e dal momento
in cui queste eminenti personalità ortodosse presero posizione a favore delle sante
icone, il monastero fu coivolto nelle aspre repressioni messe in atto dall’autorità
imperiale, durante le quali molti studiti persero la vita o subirono carcere, torture e
mutilazioni. La resistenza e le persecuzioni subite, insieme con la vasta cultura che vi
si coltivava e la profonda spiritualità vissuta, resero il monastero degli Studiti uno
dei centri monastici più importanti della cristianità. Fra i monaci più famosi vi furono
Simeone il Pio (+986-7), maestro spirituale di Simeone il Nuovo Teologo (+1022),
Niceta Stethatos (+ dopo il 954), Antonio III Studita (+ 9839, patriarca di
Costantinopoli, Giuseppe Bryennios (+1431), predicatore e apologista. Durante
l’occupazione della Città da parte dei crociati (1204-1261), la comunità fu dispersa,
ma nel 1290 Costantino Palelogo ricostruì il monastero. Nel 1453 la chiesa principale
fu trasformata in moschea (Miharor o Imrahor Camii) e nelle epoche successive il
resto degli edifici venne danneggiata dai terremoti, cosicchè delle antiche costruzioni
rimane ben poco.
189
alla cultura bizantina ortodossa e la loro influenza va cercata in primo
315
luogo, ovviamente, nella liturgia. Con le solite esagerazioni gli studiosi
romano-cattolici parlano di una vera e propria riforma liturgica studita
della quale nel 1999 stavano cercando assai faticosamente le tracce, per
conto di Arranz, alcuni laureandi del Pontificio Istituto Orientale di
Roma . Se però gli anni dell’iconoclasmo fungono da spartiacque,
316
Germano, che ne visse la prima fase, può ben essere considerato come
rappresentante dell’epoca precedente. Del resto non conosciamo rapporti
particolari fra il patriarca e gli studiti negli anni in cui Germano guidò la
chiesa di Costantinopoli. Inoltre gli studiti divennero protagonisti
particolari delle tortuose vicende del periodo iconoclasta negli anni
successivi alla morte di Germano e precisamente sotto la guida di
Teodoro Studita (+826), al quale si può ascrivere buona parte del peso
che lo studismo ebbe sulla società e sulla cultura religiosa.
Quanto sappiamo dunque rafforza senza alcun dubbio la posizione
tradizionalista di Germano e quindi gli elementi liturgici da lui descritti
nell’esposizione della Mystikè Theorìa hanno una buona probabilità di
essere tradizioni acquisite già prima dell’insorgere dell’iconoclasmo. Il
confronto con la Mystagogìa, un’opera che Massimo il Confessore
compose con l’identico scopo di illustrare la natura della chiesa e dei
suoi riti, come vedremo, mostrerà quanto già prima del patriarcato di
315
GALLINA M., Potere e Società a Bisanzio, Ed. Einaudi 1995, Torino, pp. 147ss.
TAFT R.F., Storia Sintetica del Rito Bizantino, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1999, pp. 59ss.
316
190
Germano fosse consolidata buona parte della teologia liturgica cristiana
ortodossa in una varietà notevole di elementi. A che punto però collocare
l’apparire dei singoli elementi? Se l’iconoclasmo e il monachesimo
studita fanno da spartiacque ideale fra due periodi del costituirsi del rito
bizantino ortodosso, un ulteriore spartiacque va, a nostro avviso,
ricercato nei concili ecumenici dei secoli precedenti, soprattutto
nell’epoca che segue Calcedonia, studiando le famiglie liturgiche
parallele mediante il metodo della liturgia comparata. E’ poco probabile,
infatti che gli anticalcedonesi, dopo che fu consumato lo scisma, con i
contrasti e le lotte ne seguirono, recepissero influenze liturgiche dai
calcedonesi e viceversa. Quanto dunque v’è di comune tra il rito copto o
siriaco e quello bizantino ha buone possibiltà di risalire ad un’epoca
precedente il Concilio di Calcedonia. Ma su questo punto torneremo più
avanti.
E’ utile, a questo punto soffermarsi brevemente sul titolo
dell’opera: Istorìa Ekklesiastikè kaì Mystikè Theorìa. La prima parte del
titolo, l’espressione, cioè, Istorìa Ekklesiastikè non ha bisogno di
approfondimenti, mentre la seconda parte Mystikè Theorìa, merita un
cenno particolare. Theorìa, archetipo del termine italiano teoria non
condivide con il suo calco italiano il significato; la radice è la stessa del
verbo Theoréo, il cui significato letterale equivale a: vedere, scorgere,
contemplare, guardare, assistere a, osservare, esaminare. Theorìa è quindi
un’esperienza, non uno schema mentale astratto, un modello, come
191
diremo impropriamente noi, teorico. L’aggettivo mystikè è collegato alla
radice del verbo myo, chiudere, serrare, tacere, stare quieto. La complessa
e ricca esperienza religiosa del tardo-antico aveva collegato a questa
radice e ai suoi derivati le iniziazioni, le dottrine e i riti che venivano
praticati a porte chiuse e quindi non erano visibili ai non iniziati.
L’etimologia, così arricchita di valenze e suggestioni religiose ci permette
di rendere Mystikè Theorìa, senza allontanarci eccessivamente, con
contemplazione segreta o anche visione arcana.
Il titolo dunque contiene o meglio, intende compendiare l’aspetto
visibile e storico, Istorìa Ekklesiastikè, e quello non immediatamente
visibile, la Mystikè Theorìa della chiesa stessa, secondo uno schema che
verrà rispettato fedelmente all’interno dell’opera, come vedremo.
La chiesa è tempio di Dio, santuario santo, casa di preghiera, adunanza di
popolo, corpo di Cristo: il suo nome è sposa di Cristo .
317
Ecco rispettate le premesse, come dicevamo: prima l’aspetto
visibile, storico, materiale della chiesa come luogo di culto consacrato a
Dio e assemblea dei credenti; poi l’aspetto mistico, quello nascosto ai
sensi corporei, ma visibile agli iniziati nello Spirito santo: il corpo di
Cristo, la sposa di Cristo. Teniamo a precisare che il tipo di visione
mistica non è da confondere con la visione intellettuale o allegorica, ma
si tratta di una esperienza dello spirito; altrimenti non sarebbe utilizzato
317
GERMANO, Mystikè Theorìa I, PG 98, col. 384.
192
il termine di Theorìa, che, come abbiamo visto, in greco non indica nulla
di intelletttuale o di astratto; ai greci non mancavano certo i termini per
indicare quella che noi intendiamo oggi come teoria: per esempio
ypòthesis. Quando affermiamo che l’esperienza dell’iniziazione veniva
intesa come un’iniziazione spirituale mediante una certa esperienza
mistica (questa volta nel significato attuale del termine), facciamo
riferimento alle numerose testimonianze che abbiamo esaminato nel
Prato di Giovanni Mosco. L’iniziazione completa è identificata, come
abbiamo visto, con l’esperienza pentecostale. E’ importante averlo
sempre presente, dal momento che l’equivoco intellettualista è una
trappola ricorrente per chi, come noi occidentali, utilizza una vasta
terminologia greca svuotata dell’etimologia originaria.
L’espressione casa di preghiera (oìkos proseuchès) è una doppia
citazione delle Scritture; la prima è dal profeta Isaia:
Li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di
preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare,
perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli .
318
Il brano di Isaia è citato ancora nel Nuovo Testamento nel celebre
episodio in cui Cristo caccia i mercanti dal tempio .
319
318
Isaia 56,7.
Mc 11, 15-17; Mt 21, 12-14; l’episodio è ricordato anche in Giovanni (Gv 2, 13-19),
ma la recensione in questo caso è priva della citazione di Isaia 56,7.
319
193
Come vediamo Germano utilizza il procedimento della climax per
passare dall’aspetto materiale a quello mistico: la chiesa è tempio,
santuario, casa di preghiera, assemblea di popolo, che è il significato
originario classico, e infine corpo di Cristo e sposa di lui; dal luogo
materiale, con le sue funzioni ed i suoi scopi, fino a ciò che vive
misticamente e invisibilmente ai più all’interno di ciò storicamente e
materialmente viene conosciuta come Chiesa.
Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le
membra, pur essendo molte sono un corpo solo, così anche Cristo… Ora voi siete
corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte .
320
E’ da notare che con queste semplici parole Germano intende
spiegare che la Mystikè Theorìa della chiesa storica e materiale,
l’esperienza
spirituale
contenuta
nell’aspetto
materiale,
consiste
nell’apparizione del corpo di Cristo risorto; è questa visione dunque
l’oggetto e la sostanza della Mystikè Theorìa. Inoltre, dopo aver citato
l’apostolo Paolo, nell’affermare che la chiesa è il corpo di Cristo, subito
aggiunge un’altra definizione neotestamentaria assai cara ai padri della
chiesa: il suo nome è sposa di Cristo .
321
Dall’acqua del suo battesimo purificata e aspersa dal sangue di lui e
adornata come sposa e sigillata dall’unguento dello Spirito Santo, secondo il
verbo profetico: “unguento effuso il nome per te” e “ nel profumo dei tuoi
320
321
I Cor 12, 12. 27.
II Cor 11, 2; Ef 5, 25ss; Ap 19, 7-9; 21, 2; 2, 17.
194
unguenti corriamo” e “come unguento profumato sul capo che discende sulla
barba di Aronne .
322
Le tre citazioni provengono da due libri dell’Antico Testamento e
precisamente, secondo il loro ordine: le prime due dal Cantico dei
Cantici (1,3), la terza dal Salterio (132,2). Inoltre nell’accostamento dei
due verbi purificata (kathartheìsa) e aspersa (rantistheìsa) è evidente
un’assonanza del Salmo 50: Aspergimi con issopo e sarò purificato .
323
Ma non è l’unico elemento da segnalare l’uso della Scrittura come
fonte; stilisticamente siamo di nuovo di fronte a quel procedimento
retorico denominato climax: su un piano materiale o storico, vediamo
riassunti i misteri, o sacramenti dell’iniziazione cristiana e cioè
nell’ordine in cui sarebbero citati: battesimo (la purificazione con
l’acqua), comunione (l’aspersione col sangue) e la cresima (il sigillo
dell’unguento dello Spirito santo). Ma il fatto che non sono citati
nell’ordine consueto: battesimo, cresima e comunione, ma invertendo
l’ordine del terzo e del secondo è alquanto sospetto; forse non è una
semplice
svista.
Se
proviamo
ad
abbandonare
l’interpretazione
sacramentale possiamo trovare delle risposte più soddisfacenti:
purificazione e aspersione, che costituiscono il primo gradino
alluderebbero piuttosto al primo livello spirituale, la purificazione; il
rivestimento degli abiti nuziali, che configura il secondo gradino,
322
323
GERMANO, Op. Cit.
Rantieìs me yssòpo, kaì katharisthésomai (Sal 50,79).
195
alluderebbe alla fase spirituale dell’illuminazione, quando lo spirito
umano riceve i primi doni carismatici, mentre il terzo livello spirituale è
associato al sigillo dello Spirito santo: il matrimonio spirituale, l’unione
mistica si compie con l’intervento dello Spirito santo; e ritroviamo
nuovamente l’evento pentecostale. Come si vede è assai rischioso
affrontare questo genere di testi avendo come unico orizzonte il
sacramentalismo romano-cattolico. Molti dimenticano che Germano di
Costantinopoli, come il Damasceno o lo stesso Crisostomo non avevano
letto, per esempio, la Summa di Tommaso d’Aquino.
La chiesa è cielo terrestre nel quale il sovraceleste Dio abita e passeggia,
raffigurante la crocifissione, la sepoltura e la risurrezione di Cristo; glorificata al
di sopra della tenda (skenè) del testimone Mosè, nella quale sta il propiziatorio
(ilastèrion) e il Santo dei Santi; prefigurata nei patriarchi, preannunciata nei
profeti fondata negli apostoli, abbellita nei gerarchi e completata nei martiri .
324
L’espressione cielo terrestre (epìgheios ouranòs) ricalca ottimemente
quei testi che abbiamo confrontato nei paragrafi precedenti: Come la
bellezza del firmamento di lassù, tale hai mostrato quaggiù lo splendore della
santa dimora della tua gloria, Signore… Cielo dalle molte luci è stata resa la
Chiesa, perché illumina tutti i fedeli…
325
mentre poco oltre, con il verbo
emperipateì (letteralmente: passeggia) si ha un esplicito riferimento alla
passeggiata di Dio nel giardino terrestre, avvenuta subito dopo la caduta
324
325
GERMANO, Op. Cit.
Horològhion To Mèga, Op. Cit., pp. 241-242.
196
di Adamo, come riportato nella narrazione del libro della Genesi ; la
326
chiesa viene associata al paradiso terrestre, il luogo dove Dio cammina,
passeggia insieme con l’uomo e comunica direttamente con lui, il luogo,
soprattutto, dove Dio cerca il peccatore per risanarlo come un tempo
cercò Adamo ed Eva, ma essi persero l’occasione nascondendosi e, una
volta costretti a confessare la caduta, si accusarono a vicenda. Essa è
ancora l’antitipo di alcuni prototipi fondamentali del dogma cristiano,
quali la crocifissione, secondo la pianta architettonica a forma di croce, la
sepoltura e la risurrezione, che fungono da tipo o modello sia per
l’architettura generale, sia per i singoli elementi, come intende spiegare
l’Autore. Nel riferimento alla crocifissione, che la pianta a croce stessa
riproduce, potremmo trovare giustificato un ulteriore riferimento alla
chiesa della risurrezione in Gerusalemme, la celebre basilica risalente
all’epoca costantiniana, chiamata nelle fonti di tutte le epoche l’Anàstasi,
la Risurrezione, all’interno della quale sorge il santo Sepolcro, ma in
questo caso ci saremmo aspettati piuttosto tàphos, sepolcro, che non
taphèn, sepoltura; nondimeno, anche se con riserva citiamo questa
possibiltà.
Vengono poi confrontate l’Antica e la Nuova Alleanza: il
propiziatorio, il coperchio dell’arca, sul quale veniva asperso il sangue
dell’olocausto davanti al Santo dei Santi sono un riferimento alla lettera
agli Ebrei che parla del rito del tempio giudaico precisando esattamente
326
E udirono la voce del Signore Dio che passeggiava nel paradiso al tramonto (Gen 3, 8).
197
la presenza oltre il secondo velo (skenè) del propiziatorio(ilastèrion); anzi,
tutta la frase è una reminiscenza di un passo della lettera agli Ebrei:
Dietro il secondo velo poi c’era una tenda (skenè) detta Santo dei Santi,
con l’altare d’oro per i profumi per l’Arca dell’Alleanza tutta ricoperta d’oro,
nella quale si trovavano un’urna d’oro contenente la manna, la verga di Aronne
che aveva fiorito e le tavole dell’alleanza. E sopra l’arca stavano i cherubini della
gloria che facevano ombra al propiziatorio (ilastèrion) .
327
La gloria della Nuova Alleanza risulta ovviamente superiore per il
ragionamento condotto nell’epistola agli Ebrei, che qui è implicitamente
ricordato mediante la concisa citazione: i patriarchi hanno solo
adombrato la gloria futura, mentre i profeti la preannunciarono . Questo
328
edificio spirituale, questo cielo terrestre dai molti splendori è fondato
sugli apostoli, il suo ornamento sono i gerarchi e i martiri l’hanno
completata; e rientriamo, con tali osservazione nell’ambito delle cose da
contemplare con una visione mistica, nella sfera della Mystikè Theorìa
vera e propria. La descrizione, insomma, dell’architettura degli spazi e
delle suppellettili consacrati al culto cristiano è il pretesto per ascendere
327
Eb 9, 3-5.
La grazia del Nuovo Testamento è misticamente (segretamente) nascosta nella lettera
dell’Antico… la legge contiene l’ombra del vangelo; il vangelo è immagine dei beni futuri.
L’una infatti proibisce le opere cattive, l’altro propone le azioni buone… La legge possedeva
l’ombra e i profeti l’immagine dei beni divini e spirituali che sono nel vangelo. E il vangelo a
sua volta ci ha mostrato nella realtà la verità stessa, quella che è adombrata dalla legge,
prefigurata dai profeti (MASSIMO IL CONFESSORE, Duecento Capitoli sulla Teologia e
sull’Economia dell’Incarnazione del Figlio di Dio, I, 90-93 passim, in PG 90, 1120-1121,
trad. it. in NICODEMO AGHIORITA e MACARIO di CORINTO, La Filocalia, a cura
di ARTIOLI M.B. e LOVATO M.F., Gribaudi1983, Torino, vol. II, p.133).
328
198
alla descrizione delle realtà gloriose che i padri della chiesa ritengono
presenti nella Nuova Alleanza e disponibili, o meglio, sperimentabili da
coloro che praticano intensamente il cristianesimo. La chiesa visibile,
storica e architettonica è tipo della chiesa invisibile; è la chiesa mistica
non fatta da mano d’uomo (acheiropìetos) di cui parlava già Massimo il
Confessore.
La Chiesa santa, dunque, come primo elemento di contemplazione, porta il
tipo e l’immagine di Dio, diceva quel beato anziano: così da averne in se stessa
l’energia grazie all’imitazione e al modello .
329
Per Massimo lo scopo della natura umana stessa è l’imitazione di
Dio, come leggiamo altrove nelle sue opere, e quindi la chiesa è la
realizzazione della vera natura dell’uomo; e in questo caso per chiesa si
intende, ovviamente, la sua realizzazione del modello archetipo divino;
si può dire che quanto realizzato in contrasto con tale finalità spirituale
non è vera chiesa, anche se promosso e attuato da esponenti autorevoli
dell’istituzione pubblica cristiana; ma si può anche conseguentemente
sostenere che tutto ciò che si accorda con una tale finalità, in qualunque
contesto possa essere riscontrato, appartiene alla vera chiesa mistica non
fatta da mano d’uomo, giacchè tutto ciò che imita intenzionalmente Dio
partecipa anche della sua energia vitale ed è appunto in questa attività di
imitazione-partecipazione che si manifesta la chiesa: l’umanità, per
329
MASSIMO IL CONFESSORE, Mystagogìa,I, 493, PG 91, col. 663.
199
Massimo e per Germano, ha come fine il diventare chiesa. In sostanza, la
mancata imitazione di Dio allontana l’uomo dalla chiesa, mentre la
realizzazione di una tale somiglianza unisce di fatto la persona alla
chiesa. Il vertice dell’esperienza ecclesiale, la sostanza dell’essere chiesa è
una realtà mistica, denominata divinizzazione. Il criterio classico
dell’imitazione che reca con sé la partecipazione, trova nella patristica
ortodossa un’applicazione spinta finio alle estreme conseguenze.
L’imitazione comporta la partecipazione all’energia e alla vita
dell’imitato.
Come già nei teologi alessandrini e cappadoci, così anche per
Massimo il compito principale del cristiano è l’imitazione di Dio. Questo
concetto risale in ultima analisi a Platone, come anche l’altro della
“assimilazione a Dio”, che fu ripreso da Filone d’Alessandria e fu
associato alla dottrina biblica dell’immagine e somiglianza impressa da
Dio nell’uomo nell’atto di plasmarlo conle sue stesse dita . Il concetto ha
330
avuto fortuna anche nella scuola alessandrina ed è stato analizzato da
Gregorio di Nissa .
331
330
Genesi 2,7.
Cfr MASSIMO IL CONFESSORE, Ambigua. Problemi Metafisici e Teologici su testi di
Gregorio di Nazianzo e Dionigi Areopagita, trad. it. e commento a cura di MORESCHINI
C., Bompiani 2003, Milano, pp. 119ss. Il Moreschini, però, come la gran parte dei suoi
colleghi, trascura di sottolineare come nel vangelo di Giovanni venga espresso
chiaramente un tale concetto, in quel passo in cui Cristo compie l’esegesi del salmo
81: Non è forse scritto nella vostgra legge: Io ho detto: Voi siete dei (sal 81, 1)? Ora, se essa ha
chiamato dei coloro ai quali si è rivolto il Verbo di Dio (e la scrittura non può essere
annullata), a colui che il Padre ha consacrato e inviato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi…
(Gv 10, 34-36). Una tale affermazione non è sfuggita alle prime generazioni cristiane,
che in queste parole attribuite a Cristo, ancor prima che in Platone, colsero sempre e
331
200
Come esista l’altra Chiesa non fatta da mano d’uomo, è reso manifesto da
questa che è stata sapientemente fatta da mano d’uomo .
332
La costruzione dell’edificio materiale, dunque, segue e deve
seguire norme e principi ispirati alla rivelazione di Dio e del suo regno
increato. Così è per la suddivisione in due spazi, il santuario (ierateìon),
erroneamente chiamato dai nostri critici d’arte presbiterio, e la navata
(naòs); la separazione in due spazi interni è compiuta proprio per
esprimere l’esistenza delle due chiese, quella visibile e quella invisibile,
la coesistenza dei due mondi, materiale e spirituale, delle due
dimensioni, creato ed increato. Non sono separate perché facenti parte
dello stesso edificio; sono distinte e comunicanti, ma a certe condizioni. E
soprattutto la porta si apre dall’interno del santuario.
Ancora, uno solo è il mondo (della Chiesa), le cui parti non sono separate;
al contrario, anche la distinzione per proprietà naturale di queste parti si
definisce nel rapporto con l’unione e l’indivisibilità .
333
La Chiesa, in definitiva, è il luogo dello sconfinamento tra creato ed
increato, quel luogo visibile, fisico e storico in cui è possibile entrare in
contatto con l’invisibile, fare l’ingresso nel regno celeste. Essa è il mondo
dove i mondi separati per natura si uniscono per energia divina. Ma è
fin dall’inizio un esplicito riferimento alla deificazione della natura umana. Per
approfondire questo aspetto si può iniziare con GIUSTINO, Dialogus cun Tryphone
Iudaeo, 124, in PG 6, 764-765; IRENEO, Contra Haereses 3, 6, 1, in PG 7, 860-861; 4, 38, 4,
in PG 7, 1108-1109; CIRILLO ALESSANDRINO, In Ioannem 1, 9, in PG 73, 128.
332
MASSIMO IL CONFESSORE, Mystagogia I, 496, in PG 91, col. 669.
333
Ibidem, 497.
201
pure, continua Massimo, tipo e immagine dell’uomo, la cui natura è
composta di anima e di corpo. A sua volta l’anima stessa dell’uomo è
composta di parti e di facoltà quali le pulsioni psichiche più elementari,
l’anima animale da una parte, il lògos, la potenza intellettiva e la volontà
dall’altra. E ancora la facoltà intellettiva è ripartita in un livello
denominato pràxis e in livello superiore denominato theorìa e così via .
334
Tutto questo è racchiuso misticamente nei simboli materiali che ornano
l’aspetto visibile e storico della chiesa. Il cosmo, visibile e invisibile,
l’uomo stesso, come radice e riassunto del cosmo e la sacra scrittura sono
compendiati nella chiesa, intesa come edificio architettonico, ma anche
come apparato di culto e di dottrina, come comunità e organizzazione di
uomini. Quelle realtà, che i sensi corporei non colgono, si offrono in essa
e in tutto ciò che la costituisce nei suoi vari livelli, in un’esperienza
contemplativa da non confondere, lo ripetiamo, con una attività
intellettuale o speculativa. L’esperienza contemplativa di cui parlano i
padri bizantini ortodossi si concretizza sotto forma di evento
334
Theorìa e pràxis sono un’espressione classica della letteratura ascetica e mistica dal
tardo-antico fino alla fine del medioevo; si tratta di due aspetti collegati l’uno
all’altro; il loro rapporto è perfettamente descritto nel tropario principale che
l’innografia bizantina de4dica a sant’Antimo, vescovo di Nicomedia e martire sotto
Massimino nel 288: Divenuto partecipe della vita degli Apostoli e successore sul loro trono,
hai posto la pràxis a fondamento della theorìa; per questo, insegnando il verbo della verità, hai
lottato fino al sangue per la fede, ieromartire Antimo;prega Cristo Dio di salvare le nostre
anime (Horològhion Tò Méga, ed. Tò Peribòle Tès Panaghìas 2002, p. 235).
202
pentecostale: Invocalo nella preghiera dicendo: Sia santificato il tuo nome. Il
tuo regno venga. Cioè, venga la Spirito santo e il tuo Unigenito Figlio .
335
Germano, da parte sua, si sofferma molto sui particolari anche
minimi dell’oggettistica, come l’uso del symantron, una grossa e ricurva
lama di bronzo che viene battuta con un apposito martelletto, anch’esso
metallico. Il symantron veniva, e viene ancora alternato alla campana per
segnalare non solo l’inizio delle funzioni, ma anche i momenti più
solenni dei riti stessi per quanti non potevano e non possono essere
presenti. Germano vede significate nel symantron le trombe degli angeli
che invitano gli uomini al combattimento contro i nemici invisibili. Dopo
aver ritrovato nella vasca o conca battesimale il simbolo protocristiano
del sepolcro da cui risorse il Cristo, ma anche un richiamo alla grotta
della natività , entrambi i luoghi, appunto erano aperture nella roccia,
336
l’Autore si sofferma sul punto centrale di tutto l’edificio, la mensa
eucaristica.
335
NILO SINAITA (ma: EVAGRIO PONTICO), Centocinquantatre Capitoli sulla
Preghiera, 59, in PG 79, 1180.
336
L’iconografia ortodossa della natività ha sempre trasmesso, nella raffigurazione
del bimbo avvolto in fasce (othònia), un esplicito richiamo alla sepoltura del Cristo,
nuovamente avvolto in fasce (othònia). Sembra che proprio i vangeli, nell’utilizzare
gli stessi termini per indicare le fasce del neonato e quelle del la sepoltura lascino ad
intendere il legame teologico fra la prima nascita e la seconda, la rinascita della
risurrezione.
203
La santa mensa è al posto del luogo in cui fu deposto nel sepolcro Cristo :
337
in essa è deposto il Pane vero e celeste, il sacrificio mistico, incruento e vivente,
che ha posto la sua carne e il suo sangue come cibo di vita eterna per i credenti.
E’ anche trono di Dio nel quale il Dio che siede sui Cherubini ,
338
incarnatosi ha riposato; presso questa mensa e nella sua mistica cena, sedendo in
mezzo ai suoi discepoli e prendendo pane e vino disse ai suoi discepoli e
apostoli : Prendete, mangiate e bevetene: questo infatti è il mio corpo e il mio
339
sangue. Prefigurata, invero, nella mensa legale, nella quale c’era la manna, che è
il Cristo che scende dal cielo .
340
Abbiamo riscontrato spesso nel Prato l’importanza del luogo della
mensa eucaristica ed è significativo che Germano ad essa accosti il
riferimento del Salmo 79: esso in effetti è il luogo originario verso cui e
davanti al quale si innalzano le preghiere e le offerte spirituali, sia
durante il culto, sia nella preghiera personale. Abbiamo visto nel Prato
quell’anacoreta che si era edificato una mensa eucaristica per così dire
privata nel suo eremo allo scopo di pregarvi innannzi; ma dovremmo
piuttosto riferirci agli studi di Louis Bouyer sull’architettura liturgica
cristiana e i suoi rapporti con la sinagoga, dalla quale è mutuata in realtà
337
L’espressione al posto di (antì) sembra alludere direttamente al Santo Sepolcro di
Gerusalemme come luogo reale e non semplicemente simbolico.
338
Sal. 79, 2.
339
La frase, così come suona è un’evidente assonanza dell’anafora eucaristica
crisostomiana: Prendendo il pane nelle sue mani… lo diede ai suoi santi apostoli e disepoli
dicendo… ( Cfr. Ieratikòn, Op. Cit., p. 125).
340
GERMANO, Op. Cit., IV, in PG 98, 388-89.
204
l’architettura della chiesa, per renderci conto che dal punto di vista
architettonico, ma non solo, la chiesa non è altro che la sinagoga di
Cristo. La mensa eucaristica, infatti, tiene il luogo che nella sinagoga
ebraica spetta all’arca, sulla quale sono scolpiti i due cherubini curvati in
atto d’adorazione: Tu che siedi sui Cherubini… (Sal. 79,2) . Ma mentre la
341
sinagoga era rivolta verso il Santo dei Santi di Gerusalemme, la chiesa è
rivolta ad oriente, come abbiamo visto, segno eloquente del fatto che la
Gerusalemme celeste, attesa negli ultimi tempi, non fu mai intesa come
la ricostruzione della prima Gerusalemme: questo perché il luogo della
341
Materialmente l’arca della tenda del convegno e poi del tempio era una sorta di cassa di
legno… Sebbene l’arca fosse utilizzata per deporvi cose sacre – e innanzi tutto le tavole della
Legge, la testimonianza data a Mosè -, non era tanto il suo interno ad attirare l’attenzione,
quanto piuttosto lo spazio vuoto al di sopra. L’arca infatti era un intesa come un trono, un
trono vuoto in cui non si doveva vedere nulla, soprattutto nessuna immagine scolpita. Ma su
questo trono si credeva che fosse presente Dio stesso, unico oggetto dell’adorazione di Israele.
Ecco perché ai due lati si vedevano due Cherubini, cioè una rappresentazione dei due spiriti
elementari – tà stoicheìa toù kòsmou, dirà Paolo (Gal 4,3) -, che a loro volta erano oggetto di
adorazione deviata degli altri popoli. Ma essi erano là, in adorazione dinanzi alla presenza
temibile, e le loro ali la proteggevano con rispetto da qualsiasi approccio profano, al pari del
velo, nascondendo l’arca. “Tu che siedi sui Cherubini…”: tale era l’invocazione abituale al
Dio del cielo, che aveva acconsentito, nella sua grazia e nell’amore per il suo popolo, a
dimorare liberamente in mezzo ad esso. Questa presenza localizzata nel tempio, nel Santo dei
Santi, sul coperchio (ilasèrion), tra i Cherubini, era chiamata shekinà. Questo termine vuole
indicare la presenza sotto la Tenda del convegno del Dio onnipotente, ospite del suo popolo. La
nube luminosa che aveva riempito prima la tenda e poi il tempio di Salomone (cfr. Es 40, 3435; I Re 8, 10-11), ne era la manifestazione… Da questa presenza tra i Cherubini si credeva
che Dio avesse parlato a Mosè e ad Aronne e più tardi a Samuele. In un’epoca molto più
tarda, la vocazione di Isaia prenderà la forma di una visione, nel tempio, di questa medesima
presenza, circondata non solo da Cherubini visibili, ma anche da Serafini, spiriti di fuoco
(come la colonna di fuoco celeste sotto la nube al Sinai), che cantano l’iino rituale di
adorazione della Shekinà: Santo, santo, santo il Signore Dio Savaòth: la terra è piena della sua
gloria (Isaia 6,3)… L’arca delle sinagoghe era e resta come un’eco dell’arca primitiva, il cui
coperchio (ilastèrion) veniva asperso ogni anno con il sangue dell’espiazione, come pegno di
riconciliazione tra Dio e il popolo… La sua arca (della sinagoga) indicava sempre la direzione
di qualcosa che la superava, cioè il fulcro ultimo del culto della sinagoga: il Santo dei Santi, il
solo e unico “debir” che si trovava a Gerusalemme… (BOUYER L., Op. Cit., pp. 16-18).
205
shekinà è ovunque si celebri la liturgia. Gli ebrei pregavano e pregano
nella sinagoga guardando verso l’arca e, al di là di essa, verso il luogo
del Santo dei Santi da essa evocato; i cristiani, per contro, rivolgevano il
loro culto indirizzandosi verso la mensa eucaristica, o altare della Nuova
Alleanza, sul quale si offrivano il pane e il vino e davanti al quale si
bruciava l’incenso in attesa della manifestazione potente della shekinà,
quell’esperienza pentecostale che i numerosi passi del Prato di Giovani
Mosco riferiscono .
342
La chiarezza con cui sono espressi tali elementi in Germano non
lascia dubbi: la coscienza di possedere la stessa realtà adombrata e, in
qualche modo già presente, sia pure in modo parziale, nel culto
veterotestamentario, non può che significare continuità con le forme
giudaiche; anzi, il culto giudaico, in quanto ombra delle realtà future, ne
possedeva le forme: il culto cristiano, invece, possiede la sostanza delle
forme un tempo adombrate. Come scriveva alcuni secoli prima
Ambrogio di Milano
Umbra Evangelii et Ecclesiae congregationis in lege, imago futurae
veritatis in evangelio, veritas in iudicio Dei; ergo quae nunc celebrantur in
Ecclesia, eorum umbra erat in sermonibus prophetarum, umbra in diluvio,
umbra in Rubro Mari, quando baptizati sunt patres nostri in nube et in mari,
umbra in petra quae aquam fluxit et populum sequebatur… Sed iam decessit
342
Cfr. BOUYER L., Op. Cit., pp. 23ss.
206
umbra noctis et caliginis Iudaeorum, dies appropinquavit Ecclesiae. Videmus
nunc per imaginem bona et tenemus imaginis bona…
343
L’assoluta certezza di essere la continuazione o meglio, il
compimento del culto giudaico era ben visibile nell’architettura come nel
rito della chiesa e ciò era un elemento strutturale: i complessi e non di
rado conflittuali rapporti con la sinagoga tradizionale in questa luce
vanno interpretati non come la rivalità fra due religioni estranee, che non
si riconoscevano e poco disposte a tollerarsi a vicenda, ma come un
conflitto all’interno della stessa religione fra riformatori e tradizionalisti.
Il successo politico del cristianesimo rese sempre più autonomo
quest’ultimo
dall’ebraismo;
l’accettazione
massiccia
di
proseliti
provenienti da altre etnie accentuò senza dubbio l’allargarsi della
distanza e dell’estraneità fra le due comunità, ma rimane il fatto
incontestabile che i pagani convertiti al cristianesimo, anche se non
venivano circoncisi, di fatto erano ammessi ad un culto le cui origini e
forme giudaiche erano chiarissime, o perché mantenute, come, per
esempio, l’architettura del luogo di culto o una parte consistente dei testi
sacri, o perché trasformate intenzionalmente da Cristo, come per
esempio il pane lievitato al posto dell’azzimo e così via.
Non è nostra intenzione seguire punto per punto le descrizioni di
Germano su ciascun arredo o elemento architettonico, però è da
343
AMBROGIO, Exsplanatio Psalmorum, 83, 25; PL 14, 1015-1052.
207
segnalare quanto afferma nuovamente, poco oltre, a proposito del
ciborio (kibòrion) , paragonato anch’esso all’arca dell’antica alleanza,
344
chiamata dalla sacra Scrittura Santo dei Santi e sua santificazione, sulla quale
Dio ordinò che ci fossero sui due lati due cherubini . Ma è ancora il
345
thysiastèrion, in questo caso inteso come sinonimo della mensa eucaristica
a provocare maggiori riflessioni e suggestioni: esso è il santo sepolcro di
Cristo e qui si allude più che alla sua passione, alla risurrezione.
In esso diede in sacrificio se stesso a Dio Padre attraverso l’offerta del suo
corpo, come agnello offerto e come sommo sacerdote e figlio dell’uomo, offerente e
offerto in mistico sacrificio incruento (anaìmakton) e culto (latreìan) razionale
(loghikèn) consacrato per i credenti, perché diventiamo per mezzo suo partecipi
della vita eterna ed immortale .
346
E in queste parole ritroviamo alcune espressioni tipicamente
crisostomiane, concentrate efficacemente nell’apice liturgico dell’anafora
eucaristica, l’invocazione per ottenere la discesa dello Spirito Santo,
quelle parole, cioè che incautamente ripetevano i pastorelli del Prato che
abbiamo ricordato più volte, come anche altri personaggi di Giovanni
Mosco:
344
Si tratta di uno scrigno nel quale viene conservata la riserva di pane eucaristico
per i malati; la sua normale posizione è sulla santa mensa. Il ciborio era utilizzato
anche dalla chiesa latina, che lo sostituì dal 1500 con il cosiddetto tabernacolo, non
più uno scrigno asportabile, ma fisso e sovrastante l’altare a muro delle chiese
barocche o rinascimentali.
345
GERMANO, Op.Cit., 6, in PG
346
Ibidem.
208
Ancora ti offriamo questo culto (latreìan) razionale (loghikèn) e incruento
(anaìmakton) e ti preghiamo e ti supplichiamo e chiediamo. Fa’ scendere il tuo
Santo Spirito su di noi e sopra questi doni offerti .
347
Non solo sul pane e sul vino è richiesta la discesa dello Spirito
santo, ma anzi, prima che sulle specie eucaristiche, sui partecipanti alla
liturgia; siamo di fronte ad una chiara e inequivocabile richiesta:
l’effusione invocata non è una generica assistenza o ispirazione dello
Spirito di Dio, ma una trasformazione della natura umana, così come la
natura del pane e del vino verrà mutata nella carne e nel sangue di
Cristo. La
metamorfosi dell’umanità
è, appunto, l’avvenimento
pentecostale, provocato dalla discesa potente del Paraclito.
La dipendenza, poi, del santuario cristiano dal santuario celeste e,
di conseguenza del culto cristiano dal culto angelico, piuttosto che dal
santuario e dal culto giudaico è asserita con assoluta certezza in quanto
segue:
L’altare è e viene detto a causa dell’altare sovraceleste e spirituale nel
quale sono raffigurate le forze gerarchiche, spirituali e liturgiche delle potenze
superne e immateriali: e i sacerdoti terrestri e materiali, assistendo e servendo
sempre il Signore, è necessario che siano fiamma ardente (pyr flégon) come
348
347
Ieratikòn, Op. Cit., p. 126.
Pyr flégon è una chiara reminiscenza del Salterio (Sal. 103, 5), dove è detto che Dio
ha fatto i suoi angeli come fuoco ardente: Colui che fa i suoi angeli spiriti, e i suoi servi
fiamme di fuoco (pyròs flòga).
348
209
loro. E infatti il servizio dei sovracelesti e l’ordinamento dei terrestri il Figlio di
Dio e giudice di tutti ha ordinato .
349
Rischiamo di ripeterci, ma, dopo l’esame delle fonti, non possiamo
che insistere nel far notare come i testi patristici collegano direttamente
la liturgia della chiesa con quella del santuario celeste, non con quella del
tempio di Gerusalemme. La natura del legame fra santuario celeste e
santuario terrestre è, per Germano, per Giovanni Mosco, per Massimo il
Confessore, per non citare lo Pseudo-Dionigi, il Crisostomo, Ambrogio
di Milano, Efrem il Siro, uno statuto divino: tramite le attività liturgiche e
spirituali della Chiesa, Dio avrebbe stabilito una porta d’accesso al cielo.
Liturgia, ma anche ascesi predispogono l’uomo all’attraversamento della
barriera che altrimenti sarebbe naturalmente insormontabile. Liturgia e
insieme ascesi non hanno più come obiettivo il perdono e l’espiazione
delle colpe, come nell’Antica alleanza, ma la purificazione dalle passioni
che ottenebrano lo spirito umano e lo rendono greve e incapace a
sopportare il peso della gloria di Dio, l’alta tensione, per così dire,
provocata dalla discesa e dall’effusione dello Spirito Santo. La liturgia
priva della purezza delle facoltà spirituale è inefficace, mentre l’ascesi
della purezza di cuore, se innestata nel corpo della chiesa ortodossa, può
venire considerata liturgia e sacerdozio angelico, come abbiamo visto più
volte nel Prato.
349
GERMANO, Op. Cit.,
210
Come la sinagoga, chiesa dei Giudei, anche la chiesa di Cristo, è
suddivisa al suo interno in due zone, delimitate da una tenda; Germano
ha iniziato, fin dal paragrafo dedicato alla mensa eucaristica, la
descrizione mistica dei singoli elementi ed arredi che stanno al di là della
tenda e a questo punto esamina il luogo definito béma già nella sinagoga
pre-cristiana, nel suo insieme. Esso è separato, si diceva da una prima
tenda, che viena aperta durante il servizio liturgico e vi si accede
attraverso tre porte o cancelli, nei quali Germano vede simboleggiata la
preghiera, che, grazie alla disposizione della chiesa è rivolta verso
l’oriente:
Il pregare rivolti ad oriente, è stato trasmesso insieme con le restanti cose
dai santi Apostoli: è così a causa del sole spirituale della giustizia, Cristo nostro
Dio che apparirà in terra dalla parte dell’oriente fisico, secondo il profeta che
dice: “Oriente è il suo nome ”, e ancora: “Adorate il Signore, terra tutta, colui
350
che è salito al cielo del cielo da oriente ”, e: “Adoriamo il luogo dove stavano i
351
suoi piedi ”. E ancora: “Stavano i piedi del Signore sul monte degli ulivi verso
352
oriente ”. Queste cose dissero i profeti e per questo speriamo di nuovo nel
353
350
Zaccaria 6, 12 nella versione dei Settanta.
Salmo 67, 34 nella versione della Settanta. La citazione non è letterale, dal
momento che il testo biblico esordisce, all’inizio del versetto 34 con un verbo diverso
da: Adorate (proskynésate) riportato da Germano: Cantate (psàlate) al Dio che è salito al
cielo del cielo da oriente. Come si vede nel versetto originale del salmo non c’è
nemmeno: la terra tutta (pàsa è ghè).
352
Salmo 131, 7 nella versione dei Settanta.
353
Zaccaria 14,4 nella versione dei Settanta.
351
211
paradiso dell’Eden atteso da oriente: e così dunque avremo l’oriente
dell’apparizione luminosa della seconda parousìa di Cristo nostro Dio .
354
Vista l’insistenza su questi temi ci sentiamo, a questo punto, di
negare
quel
regresso
veterotestamentali
conoscenza
a
categorie
sacrificali
ed
espiatorie
intravisto probabilmente da quanti hanno una
piuttosto
limitata
delle
fonti
patristiche.
Un’altra
considerazione va fatta, a nostro avviso, a proposito del perdono dei
peccati: il fatto che Cristo abbia perdonato tutto sulla croce e che tutti i
peccati, presenti passati e futuri sono perdonati da Dio e che non c’è
bisogno di ulteriori sacrifici ed espiazioni è chiarissimo:
Dio e Signore delle Potenze e Creatore di tutte le cose, che per la
misericordia della tua bontà senza limiti hai inviato il tuo Figlio unigenito
nostro Signore Gesù Cristo per la salvezza del genere umano e che per la sua
Croce veneranda hai lacerato il libello (Cheirògraphon) dei nostri peccati e su
355
di essa hai soggiogato i principati e le potestà delle tenebre…
356
Il testo di questa preghiera, attribuita a Basilio di Cesarea illustra
ottimamente l’acquisizione da parte dei Padri della chiesa di questa
nozione paolina, ma, come si diceva, il perdono dato da Dio mediante la
lacerazione del libello delle colpe dell’umanità non significa che gli
uomini, da una parte, abbiano smesso di peccare, né, dall’altra, che lo
354
GERMANO, Op. Cit.,
Col 2, 14ss; Ef 6, 12.
356
Horològhion Tò Méga, Op. Cit., p.144.
355
212
spirito umano non abbia bisogno di essere purificato dall’amore per il
peccato. L’esercizio della vita ascetica consisterebbe, allora, nella
purificazione dell’energia del desiderio, come dimostra con chiarezza
l’eccellente studio di Jean-Claude Larchet . Dio non condanna più
357
nessuno, ma non intende risanare l’uomo che non vuole essere risanato.
E’ su questa linea della terapia spirituale, e non sul filone della colpa che
si sviluppa il pensiero ortodosso, mantenedosi in continuità con le
origini protocristiane dell’era apostolica. Anche lo Pseudo-Dionigi, nel
descrivere la gerarchie ecclesiastica, rispecchiante la gerarchie celeste,
mette in luce l’aspetto terapeutico di essa, mentre per secoli i lettori
occidentali non sembrarono in grado di cogliere il tema di quest’opera.
La Gerarchia Ecclesiastica, infatti, associa a ciascuna delle tre classi un
compito terapeutico e una fase spirituale dell’animo umano: il diacono,
primo gradino del sacerdozio, ha come compito di accompagnare i
neofiti nella purificazione, prima fase della vita spirituale; il presbitero
riceve i neofiti purificati e li accompagna nell’illuminazione; l’episcopo,
nel terzo ed ultimo livello sacerdotale, accoglie a sua volta gli illuminati
per introdurli nell’ultimo livello spirituale, la glorificazione, ossia
l’iniziazione all’unione mistica con Dio, detta altrimenti divinizzazione.
357
LARCHET J.C., Thérapeutique des Maladies Spirituelles. Une Introduction à la
Tradition Ascétique de l’Eglise Orthodoxe, Les Editions du Cerf, Paris 1997, trad. it. a
cura di BORRIELLO L., ed. San Paolo 2003, Cinisello Balsamo (Milano), 63ss.
dell’edizione italiana.
213
L’episcopo è il terapeuta dei terapeuti e lo era alle origini solo chi era
stato glorificato.
L’ordine che purifica è quello dei diaconi, l’ordine che illumina è quello dei
sacerdoti e l’ordine che dà il compimento è quello dei vescovi simili a Dio .
358
Questa attività di guida verso la glorificazione veniva espletata
attraverso i riti liturgici, le catechesi, l’esercizio nelle virtù cristiane
(l’ascesi), accompagnate dalla diagnosi spirituale individuale che solo un
glorificato poteva compiere. Non v’è alcun dubbio che la natura di questi
riti sempre secondo lo Pseudo-Dionigi, ma anche in tutta l’ampia
letteratura patristica coeva era terapeutica. I riti non erano intesi come
espiazione o riparazione nei confronti di un dio adirato e offeso per una
qualche colpa ancestrale, bensì erano stati istituiti e venivano praticati
allo scopo di guarire lo spirito umano dal peccato, inteso come un cancro
dell’anima e del corpo; la guarigione avveniva introducendo nell’uomo
l’energia divina di cui i riti potevano pregni. Questa energia divina,
mischiandosi con l’energia umana
359
produrrebbe la purificazione,
l’illuminazione e la divinizzazione dell’uomo; l’anima umana in questo
modo risorgerebbe dalla morte spirituale e raggiungebbe la vita di Dio
che è immortale e il corpo condannato alla corruzione riceverebbe la
predisposizione alla resurrezione finale, quando sarà incorruttibile lui
stesso. Tutto ciò definisce con maggior precisione la natura dell’evento
358
359
PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA, Gerarchia Ecclesiastica, VI, 5, in PG 3, 549.
PSEUDO-MACARIO, Omelia 32, in PG 34, 733-741.
214
pentecostale secondo le fonti patristiche. La chiesa appariva, secondo
una descrizione del Crisostomo come un laboratorio spirituale, in cui si
preparano medicamente affinchè si possa trovare qualcosa per guarire le piaghe
che il mondo ci infligge .
360
Il fatto che una tale visione sia non un genere letterario, ma il tema
o almeno uno dei temi principali dell’esperienza ecclesiale è manifestato
con evidenza non solo nelle omelie, ma anche nelle preghiere liturgiche,
nei riti dei sacramenti e negli stessi testi canonici e legislativi dei concili .
361
L’uso della terminologia medica per esprimere la natura della liturgia e
360
GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento a san Giovanni, II, 5.
Occorre che colui che ha ricevuto da Dio il potere di sciogliere e di legare, consideri la
natura del peccato e la ferma risoluzione di conversione in colui che ha peccato e così dia un
rimedio appropriato alla malattia: per paura che, se in un modo o in un altro egli mancasse di
misura, non pregiudichi la salute di colui che è malato. Infatti la malattia del peccato non è
semplice, ma complessa e multiforme, quindi provoca molti sviluppi del male: attraverso di
essi il male si diffonde ampiamente e continuerà ad estendersi fino a che non venga fermato
dall’intervento di un medico. Per questo colui che professa la scienza della medicina
dell’anima deve osservare innanzi tutto le disposizioni di colui che ha peccato e considerare se
si orienta verso la guarigione o se, al contrario, per il proprio modo di vivere, favorisce la
malattia in se stesso; deve, altresì, considerare se, nel tempo, lungo la sua vita, egli è
preoccupato di mostrarsi ragionevole e convertirsi: e se egli non resiste al medico e se la piaga
dell’anima non aumenta per l’applicazione del rimedio; e così occorre che la misericordia gli
sia concessa secondo il merito. In realtà Dio fa tutto, e anche colui al quale è stato affidato
l’incarico di pastore, per radunare le pecore smarrite, per curare colui che è stato ferito dal
serpente, per non spingerlo attraverso i precipizi della disperazione, né tantomeno verso la
distruzione della vita e il disprezzo di sé allentando i freni: ma affinchè lotti contro ilmale
unicamente per mezzo di medicamenti sia più forti e astringenti, sia più dolci e più
rassicuranti, e affinchè egli lavori alla cicatrizzazione della piaga, esaminando i frutti del
pentimento, guidando e governando saggiamente l’uomo che è chiamato ad uno splendore
superiore. Occorre infatti sapere due cose: quelle che dipendono dallo stretto diritto e quelle
che appartengono all’uso comune; ora, per coloro che non accettano le misure estreme, occorre
seguire la tradizione, come ci insegna Basilio (Canone 102 del Concilio di Trullano, in
JOANNNOU P.P., Fonti, t. IX, Disciplina Generale Antica (II-IX), Roma 1962, pp. 239241).
361
215
dei sacramenti fu così vasto e generale da non lasciare alcun dubbio al
riguardo: siamo ben oltre al genere letterario e al simbolo.
Il sacerdote deve usare rimedi curativi. E’ un cattivo medico colui che
tratta con dolcezza gli ascessi tumefatti e che lascia il veleno proliferare nelle
parti interne del corpo. La ferita dev’essere aperta e incisa e, dopo l’asportazione
delle parti incancrenite, deve intervenire con una cura energica, anche se il
malato protesta, grida e si lamenta perché non può sopportare il dolore: in
seguito egli ringrazierà il medico dal momento che si sentirà in buona salute .
362
Entrate nella chiesa, fatevi penitenza: là risiede il medico che guarisce e
non il giudice che condanna; là non esiste il castigo del peccato, ma si ottiene la
remissione .
363
Emerge con chiarezza e vigore nella ricca letteratura cristiana
dell’era patristica, una massiccia serie di testimonianze che certificano la
presenza di una visione terapeutica dello scopo della chiesa e delle sue
attività, che avvicina il cristianesimo, più che alle grandi religioni
dell’epoca, alla medicina e addirittura alla moderna psichiatria.
Inquietudine, ansia, tormenti interiori, nevrosi e depressione, diremmo
oggi, sono interpretati come sintomi inequivocabili di un animo malato;
il peccato, più che una colpa da espiare veniva visto come una malattia
dello spirito, mentre la penitenza era condotta allo scopo di guarire la
malattia, non per placare l’ira divina. I peccati e le loro radici, le passioni
362
363
CIPRIANO di CARTAGINE, Sui “Lapsi”, 14, in PL 4, 491-92.
GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla Penitenza, III, 4, in PG 49, 297-98.
216
furono sempre oggetto di studi specialistici; da un certo secolo in avanti
fu il monachesimo ortodosso a dimostrarsene specialista attraverso la
pubblicazione di importannti opere ascetiche, quali la Scala di Giovanni
Climaco, le Collationes di Giovanni Cassiano, i vari trattati di Evagrio
Pontico…
Mancano in sostanza gli elementi, nell’epoca in questione, per una
teologia della colpa, premessa necessaria per un culto e un sacerdozio di
tipo espiatorio-sacrificale. Probabilmente Cullman non lesse abbastanza
o non prestò sufficientemente attenzione alle numerosissime fonti
patristiche, che mi esimo dal citare, ritenendo sufficienti quelle riportate.
La teologia della colpa, premessa necessaria per uno sviluppo in senso
espiatorio-sacrificale, andrebbe piuttosto ricercata storicamente in
occidente a partire dal XI-XII secolo, quando si afferma, grazie alla
riforma gregoriana, un sacerdozio di tipo monarchico. Non sarebbe un
caso che queste concezioni appaiono la prima volta in uno scritto di
Anselmo da Aosta. Il clero cristiano dell’epoca in questione, invece, non
era concepito, né concepiva se stesso come una classe addetta ad un culto
sacrificale, ma come i collaboratori specializzati nella cura dei mali che
affliggevano lo spirito umano. I sette concili ecumenici, in questa chiave
potrebbero equivalere ai congressi medici di oggi…
217
LA PROSCOMIDIA O PROTESI
NELLA Mystikè Theoria
Dopo aver esaminato ad uno ad uno i singoli paramenti diaconali e
sacerdotali, Germano offre la prima descrizione particolareggiata del rito
della proscomidìa o protesi, che ha luogo, come oggi, prima dell’inizio
della liturgia stessa. Possiamo innanzi tutto concludere che tra la morte
di Giovanni Mosco (probabilmente il 634) e la stesura della Mystikè
Theorìa la proscomidìa o protesi propriamente detta, venne separata
dall’anafora e collocata prima dell’inizio della Divina Liturgia.
Il pane della protesi, cioè (il pane) puro, rappresenta l’abbondanza della
ricchezza della bontà dello stesso Dio nostro, che, essendo Figlio di Dio, divenne
uomo ed offrì se stesso come sacrificio e offerta in riscatto e propiziazione per la
vita e la salvezza del mondo; assumendo tutto l’impasto della natura umana
eccetto il peccato, offrì se stesso come olocausto scelto ed eccezionale a Dio Padre
per l’impasto umano, come è detto: “Io sono il pane disceso dal cielo ” e: “Chi
364
mangia questo pane vivrà nei secoli ”; a questo proposito dice il profeta
365
Geremia: “Venite e mettiamo del legno nel suo pane ” indicando il legno della
366
crice nel corpo confitto .
367
L’elemento principale della proscomidìa, estrapolata dal suo luogo
tradizionale al centro della liturgia eucaristica, come inizio dell’anafora è
364
Giovanni VI, 51.
Ibidem, VI, 54.
366
Geremia XI, 19.
367
GERMANO, Op. Cit., 20.
365
218
il memoriale della croce, visto come l’archetipo dell’olocausto perfetto, il
riassunto, o meglio il compimento dei sacrifici veterotestamentari. Colui
che fu indicato dal Battista e indicò se stesso come l’agnello di Dio, puro
e immacolato, che prende su di sé i peccati del mondo, colui che,
mostrando del pane e del vino, disse nel cenacolo: questo è il mio corpo,
questo è il mio sangue offerto per molti, ha sostituito e abolito
definitivamente la dinamica del sacrificio espiatorio cruento. I suoi
discepoli, per suo comando, offriranno allora pane e vino in sua
memoria per ricevere i frutti del suo olocausto; e come nell’Antica
Alleanza
alcune
offerte
particolarmente
gradite
erano
state
contrassegnate dalla discesa del fuoco celeste, così nella Nuova Alleanza
l’offerta gradita del pane e del vino, accompagnati dalla purificazione
interiore, sono in grado di ottenere la discesa dal cielo di una fiamma
spirituale, sotto il cui effetto cielo e terra si uniscono, la natura divina e la
natura umana entrano in comunione, il regno dei cieli si manifesta con
potenza e gli uomini sperimentano l’ingresso nell’avvenimento della
Pentecoste.
Il pane e il vino della protesi, dunque, nei quali Cristo stesso indicò
il proprio corpo e il proprio sangue immolati in olocausto, vengono
trattati con il trattamento che nel tempio giudaico era riservato agli
agnelli da immolare. Ed è logico, allora, che questo segmento liturgico,
arricchitosi di reminiscenze veterotestamentarie, sia stato trasportato al
di fuori della Divina Liturgia e, soprattuto prima dell’acclamazione
219
iniziale: Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e
sempre e nei secoli dei secoli. Amin. Il rituale della protesi non consiste nella
ripetizione del sacrificio della croce; tale sacrificio non viene ripetuto
essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché è impossibile, in
secondo luogo esso è avvenuto una volta per tutte con pieno successo e
non servirebbe ripeterlo, anzi significherebbe che la prima volta non era
sufficiente al compimento del disegno di Dio. Taft è giustamente
convinto che lo sviluppo della categoria storica nella liturgia ortodossa
sia un contributo della sensibiltà teologica e religiosa del cristianesimo
siro-antiocheno . Il fatto che le suppellettili stesse che almeno dal VII
368
secolo sono necessarie allo svolgimento della proscomidìa, evochino allo
stesso tempo sia l’immolazione degli olocausti e dei sacrifici di
comunione che avvenivano nel tempio di Gerusalemme, sia i racconti
evangelici della passione e morte di Cristo, sottolineandone il legame
profetico, ci induce a vedere nello sviluppo intrapreso dal rituale della
protesi un forte influsso della cosiddetta scuola di Antiochia,
tradizionalmente più attenta al lato storico dei misteri cristiani. In
Germano, inoltre, per la prima volta compare in una fonte liturgica la
lancia (lògche), che abbiamo visto in precedenza:
Il fatto che venga inciso con una lancia significa questo: “Come pecora fu
condotto al macello e come agnello muto davanti al tosatore” .
369
368
Cfr. TAFT, Storia Sintetica del Rito Bizantino, Libreria Editrice Vaticana, 1999, Città
del Vaticano, pp. 52-55.
369
GERMANO, Op. Cit., 21.
220
La corrente teologica storicista non nasce, però, con Germano di
Costantinopoli, né si afferma solo ora, con l’accentuazione dell’elemento
sacrificale che essa sembra imprimere alla liturgia costantinopolitana. La
drammatizzazione della preparazione del pane e del vino offerti per la
liturgia, infatti vengono trasportati al di fuori dell’eucaristia e separati
dall’anafora forse proprio per non alterarne il senso cosmico e
pentecostale. Nessuno ha mai pensato che il pane e il vino una volta
terminata la loro preparazione, nell’intervallo che intercorre tra il
termine della proscomidìa e l’inizio dell’anàfora siano già trasformati. La
loro preparazione complessa è sì, una consacrazione, un’offerta
preliminare per la liturgia divina, durante la quale lo Spirito santo
getterebbe la sua ombra sopra di loro; ma il momento in cui lo Spirito li
trasformerebbe sarebbe nel corso dell’anàfora, come abbiamo letto nel
Prato di Giovanni Mosco, a proposito di quel monaco che aspettava di
vedere i segni dello Spirito Santo prima di iniziare a celebrare.
Il vino e l’acqua sono il sangue e l’acqua sgorgati dal suo fianco, come dice
il profeta: “Pane darà a lui ed acqua da bere ”. Al posto infatti della lancia che
370
trafisse Cristo sulla croce c’è quest’altra lancia.
Il pane e il calice sono propriamente e veramente ad imitazione di quella
cena mistica in cui Cristo, preso del pane e del vino, disse: “Prendete, mangiate e
bevete tutti: questo è il mio corpo e il mio sangue ”. Perciò anche il sacerdote,
371
370
371
Isaia 33, 16.
Matteo 26, 27-28, con variazioni.
221
prendendo nel paniere dal diacono o dal suddiacono la prosfora , prendendo la
372
lancia e pulendola, segnandola allora con il segno della croce, dice: “Come pecora
fu condotto al macello e come agnello muto davanti al tosatore” . Detto ciò,
373
deposta la prosfora sul discàrion indicandola col dito dice: “Così non aprì la sua
bocca: nella sua umiliazione fu esaltato il suo giudizio: la sua generazione chi la
narrerà? Poiché è stata tolta dalla terra la sua vita ”. E dopo aver detto questo,
374
preso il santo calice, mentre il diacono vimesce vino ed acqua, nuovamente dice
il sacerdote: “Uscì dal fianco di Gesù sangue ed acqua e colui che ha visto ne dà
testimonianza e la sua testimonianza è vera ”. Poi, dopo questo, deposto il santo
375
calice sulla mensa divina, indica col dito, intendendo l’agnello ucciso al posto del
pane e il sangue effuso al posto del vino, e dice ancora queste cose: “Tre sono
coloro che dano testimonianza: lo spirito, l’acqua e il sangue e questi tre sono
uno, ora e sempre e nei secoli dei secoli ”. Quindi prendendo l’incensiere compie
376
la preghiera della protesi .
377
Possiamo dire di essere di fronte alla proscomidìa di cui parlava
Giovani Mosco? Non dovrebbe essere stata troppo lontana da questa
forma, vista la vicinanza storica e geografica. La forma descritta, però, da
Germano è già scorporata dall’anàfora, dal momento che la Mystikè
372
Il pane liturgico è così denominato nelle fonti patristiche dal VII secolo in avanti.
E’ il nome ancor oggi utilizzato nella chiesa ortodossa.
373
Isaia 53, 7.
374
Ididem, 7.
375
Giovanni 19, 34-35.
376
I Giovanni, 5, 7.
377
GERMANO, Op. Cit., 22.
222
Theorìa, dopo queste descrizioni, si diffonde nella spiegare il canto delle
antifone iniziali, la processione del vangelo, il trisagio, la lettura
dell’epistola dell’apostolo, l’Alleluia, l’incensazione e il canto del
vangelo, la chiusura del velo e il rinvio dei catecumeni e tutto il resto
della liturgia, ormai fissata nella forma divenuta poi tradizionale e ancor
oggi praticata.
223
LA PROSCOMIDIA O PROTESI NEL RITO SIRIACO
Se il trattato del patriarca Germano contiene la prima notizia della
presenza di una lancia liturgica, in realtà un oggetto dalle dimensioni di
un coltellino, la cui forma riprende la sagoma di una punta di lancia
piatta, la presenza dell’asterìscos, la stelletta che ricopre il discàrion, che
abbiamo visto a suo tempo, viene riscontrata nella liturgia della chiesa
siro-giacobita. In realtà quest’ultimo paragrafo dovrebbe essere
un’appendice, dal momento che i testi che stiamo per esaminare
appartengono ad una tradizione non ancora studiata. Le fonti sono quasi
tutte in siriaco, le poche traduzioni reperibili sono in arabo classico e
pochissimi ricercatori hanno affrontato questa materia che dispone di
un’imponente massa di manoscritti dispersi in numerose biblioteche,
mal catalogati e, a causa delle note vicende politiche di questi ultimi
anni, per lo più difficilmente raggiungibili.
Il testo che riportiamo è a sua volta una mystikè theorìa della liturgia
in uso presso la chiesa siro-giacobita ed è stato tradotto dall’arabo da
parte dell’igumeo Andreij Wade del Patriarcato di Mosca, esperto
liturgista.
Il prete toglie il velo che copre le sacre suppellettili e prende la spugna e il
cucchiaio e li mette a destra del tavolino alla sua sinistra e pone il cuscino e la
stella alla sinistra del tavolino, alla sua destra e poi pone la copertura del piatto
(discàrion) alla sua destra e la copertura del calice alla sua sinistra e poi strofina
224
con la spugna il piatto e il calice. Poi prende dalle prosfore presentate quella più
bella fra di loro e la esamina molto bene perché non sia bucata o rotta o bruciata
o che ci sia in essa qualunque difetto come era la scelta del sacrificio di
presentazione e poi la prende nella sua mano con le dita delle sua mani e la
378
innalza diritto sopra il piatto significando i padri i quali offrivano le loro offerte
con l’innalzamento delle loro mani e poi la depone sul piatto indicando la discesa
del Figlio di Dio dal cielo e la sua incarnazione dal grembo di Maria, oppure
indicando ciò che fece la Vergine, quando prese Gesù e lo depose nella
mangiatoia; e quando ha fatto questo è necessario che il prete prenda le prosfore
avanzate, perché è necessario che avanzino delle prosfore al prete, disponendole
in ordine a forma del segno della croce, se il piatto è grande, oppure alcune di
loro sopra le altre, se il piatto è piccolo, come dice il Libro delle Offerte al capitolo
IV,4. Poi prende il calice del vino nella sua mano sinistra e la coppa dell’acqua
nella sua mano destra e mescola il vino con l’aggiunta di quanto conviene
d’acqua indicando il sangue e l’acqua che scorrevano dal fianco di Cristo sulla
croce e poi li versa nel calice e durante tutte le azioni menzionate recita
preghiere speciali che esprimono il significato e la chiesa ha l’offerta di pane e
vino separati l’uno dall’altro al modo che tenne Gesù quando insegnò questo
mistero. Poi egli copre il calice e il piatto con i loro coperchi e scende dalla scala e
spiega le sue mani recitando l’hosòio…
378
379
Cfr. Levitico 22, 18-25.
ISACCO SAKA, Spiegazione della Liturgia Secondo il Rito della Chiesa Siro-Antiochena,
II ed. 1977, tipografia di Babilonia, Baghdad, pp. 35ss. L’hosoio è un genere poetico
tipico della letteratura religiosa siriaca, dedicato ad argomenti penitenziali.
379
225
Tutto
ciò
viene
compiuto,
come
possiamo
leggere
in
BRIGHTMAN, Liturgies Eastern and Western (vol. I, Oxford 1896; p. 71
della ristampa del 1965) recitando le parole della profezia del DeuteroIsaia che abbiamo incontrato nel rito bizantino:
Come pecora fu condotto al macello e come agnello muto davanti al
tosatore Detto ciò, deposta la prosfora sul discàrion indicandola col dito dice:
Come agnello muto davanti al tosatore, così non aprì la sua bocca: nella sua
umiliazione fu esaltato il suo giudizio: la sua generazione chi la narrerà? Poiché
è stata tolta dalla terra la sua vita.
Il pane, poi, al momento della frazione, che avviene al termine
dell’anafora, subito dopo la recita del Padre nostro, viene suddiviso in
nove particelle , che il prete dispone sul piatto (il discàrion
380
costantinopolitano) componendo la figura dell’agnello . Il patrimonio
381
letterario
e
liturgico
dei
siro
antiocheni
è
purtroppo
ancora
irraggiungibile e perciò non ci è possibile spingerci oltre nelle analisi.
Quanto abbiamo appreso dai pochi testi al momento reperibili in
una lingua a noi nota, ci permette comunque di giungere ad alcune
conclusioni.
La
chiesa
siro-antiochena
o
Siro-giacobita
è
nata
dall’organizzazione dei dissidenti anticalcedonesi di lingua siriaca. Gli
elementi in comune con la chiesa di Costantinopoli possono così essere
380
Ricordiamo che in nove parti viene diviso anche il pane eucaristico nel rito ispanomozarabico e che ancora nove frammenti vengono staccati nella proscomidìa
cosiddetta bizantina in memoria di nove categorie di santi. Curiose coincidenze…
381
Cfr. BRIGHTMAN F.E., Op. Cit., pp. 99ss.
226
datati con buona probabilità di successo all’epoca precedente lo scisma.
Così la presenza di un rito particolare da svolgere nella preparazione del
pane e del vino, che prevede la recita delle profezie di Isaia, proviene
dall’antico rito antiocheno e risale molto probabilmente almeno al IV-V
secolo. L’elemento originario e costitutivo di questo rito è appunto
l’identificazione del pane e del vino offerti per la liturgia nella carne e nel
sangue di Cristo, mediante la recita della profezia di Isaia: è il memoriale
dell’olocausto di Cristo, seguito dall’infusione dell’acqua e del vino in
ricordo del sangue e dell’acqua che sgorgavano dal fianco trafitto di
Cristo; ma la liturgia non è ancora compiuta a questo punto.
Forse la liturgia siro-giacobita conserva la protesi nella sua fase più
antica e comunque, se non c’è la lancia, è previsto il cucchiaio, la spugna
e l’asterisco, tre suppellettili presenti nel rito della Grande Chiesa di
Costantinopoli. Difficile sostenere che dopo il 451 vi siano state delle
influenze reciproche fra calcedonesi e anticalcedonesi.
Un’ultima considerazione merita che sia spesa nei riguardi della
teoria di Nilo Borgia, seguito poi da Taft, secondo cui il rito della
preparazione del pane e del vino era inizialmenete compiuto dai diaconi:
se ha valore quanto abbiamo appena osservato nel rito della chiesa siroantiochena, se hanno valore le numerose testimonianze del Prato di
Giovani Mosco, la protesi o proscomidia era compiuta dal presbitero
assistito da uno o più diaconi.
227
Potremmo
ancora
considerare
gli
sviluppi
successivi
che
arricchirono la protesi ortodossa portandola alla forma attuale, già
comunque ben riconoscibile all’epoca degli Studiti, uno sviluppo che
presso i siro-antiocheni sembra non essersi verificato. In questo campo,
come in altri contesti, come l’innografia, la chiesa di Costantinopoli si
dimostrò più antiochena e cioè più semita che ellenista. E questo è il
paradosso ancora attuale della chiesa ortodossa, più debitrice nei
confronti
del
giudeo-cristianesimo
che
della
grecità
classica
o
tardoantica. Ma questo può essere valutato meglio studiandone le forme
di culto, più che nel cercare le fonti neoplatoniche di questo o di
quell’autore. E’ nel culto, infatti che l’esperienza religiosa si è tramandata
nei secoli.
228
Oggi sono sciolti i vincoli della sterilità: poiché Dio esaudendo
Gioacchino ed Anna promette loro che, contro ogni speranza,
genereranno la divina fanciulla: colei dalla quale egli stesso,
l’incircoscrivibile, divenuto mortale, è stato partorito, lui che, mediante
un angelo, ha ordinato di acclamare a lei così: Salve, piena di grazia, il
Signore è con te (Apolytìkion del 9 dicembre, memoria della concezione di
sant’Anna, madre della Santissima Madre di Dio).
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INDICE
Prefazione
Fonti antiche
Bibliografia moderna
Introduzione
Liturgia eucaristica e regno dei cieli
Il regno nei sinottici
Il rito della pròtesi o proscomidìa
Descrizione del rito della pròtesi o proscomidìa
Fonti della proscomidìa o pròtesi
Fonti liturgiche
Fonti giuridiche
Fonti storiche
Giovanni Mosco: la vita e l’opera
La proscomidìa nel Prato di Giovanni Mosco
Conclusioni sul Prato di Giovanni Mosco
Germano, patriarca di Costantinopoli. La vita e le opere
Il commentario liturgico: Mystikè Theorìa della chiesa
La proscomidìa o pròtesi nella Mystikè Theorìa
La proscomidìa o pròtesi nel rito siriaco
Indice
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