Associazione Teatrale associata Pescara Colli Domenica 18 aprile 2010 L’Associazione Teatrale PerStareInsieme, nel ringraziarvi per la partecipazione a questo importante appuntamento culturale che propone, vi augura una buona giornata con la speranza che il programma che è stato predisposto sia di vostro gradimento. Questo semplice opuscolo per le notizie generali sui luoghi da visitare, sul programma e su quanto ci è sembrato utile sottoporre alla vostra attenzione. Affinché possa essere garantita una buona riuscita dell’evento, è necessario attenersi agli orari ed al programma sotto riportati. Per qualsiasi informazione ed esigenza rivolgersi a Gianni (cell. 3357691590) o a Ferdinando (cell. 3401483349). Grazie e buona giornata a tutti. PROGRAMMA Ore 7,00 – Ritrovo – Via Di Sotto (davanti alle Poste) Ore 10,30 circa – Arrivo a Roma (Santuario Madonna del Divino Amore) Ore 11,00 – Partecipazione alla S. Messa. Visita alla Basilica e ai luoghi del santuario. Pranzo al sacco (individuale o condiviso) presso Casa del Pellegrino. Ore 14,00 – Trasferimento in pullman al centro storico (Piazza di Spagna). Pomeriggio libero. Ore 16,30 – Al botteghino del Teatro Eliseo per ritirare i biglietti Ore 17,00 – Inizio spettacolo Ore 19,00 – Termine spettacolo Ore 19,30 circa – Partenza per Pescara Ore 23,00 circa – Rientro a Pescara Note: il programma non è modificabile se non per cause di forza maggiore (es. condizioni atmosferiche sfavorevoli). Prevista una sosta in autostrada. 1 Storia La storia del Santuario è davvero inconsueta. Non è legata ad una apparizione della Madonna, ma ad una antica immagine della Vergine in trono con in braccio Gesù Bambino, sovrastati entrambi dalla colomba simbolo dello Spirito Santo (di qui il titolo di Madonna del Divino Amore). Il dipinto era posto su una delle torri di cinta di un antico castello, il castello dei Leoni (da cui la degenerazione in Castel di Leva), che nel 1740, anno del primo miracolo, appariva già diroccato, forse distrutto da un terremoto. Un giorno di primavera del 1740, un viandante, probabilmente un pellegrino diretto a San Pietro, si smarrisce per quegli squallidi e deserti sentieri di campagna nei pressi di Castel di Leva, una dozzina di chilometri a sud di Roma. Smarrirsi per quelle terre, significava essere esposti non solo alle intemperie, ma anche al rischio di cadere vittima in qualche imboscata tesa da briganti e banditi. Avendo però scorto alcuni casali e un castello diroccato in cima ad una collina, il viandante vi si dirige nella speranza di ottenere qualche informazione utile per rimettersi sulla giusta strada. Ma proprio mentre sta per fare ingresso nel castello viene assalito da una muta di cani rabbiosi. Le belve inferocite lo circondano e sembrano non offrirgli via di scampo. Impaurito, anzi letteralmente terrorizzato, il poveretto alza lo sguardo e si accorge che sulla torre, c’è un’immagine sacra. È la Vergine con il Bambino, sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo, che è il Divino Amore. Come un naufrago che si aggrappa alla sua scialuppa, con tutta la forza di cui è capace, urla: «Madonna mia, grazia!». È un attimo. Le bestie, che ormai gli sono addosso, di colpo si fermano. Sembra quasi che obbediscano mansuete ad un ordine misterioso. Al richiamo di quell’urlo disperato i pastori che sono nei pressi accorrono e, dopo avere ascoltato quell’incredibile racconto, rimettono il pellegrino sulla strada per Roma. Di quell’uomo non si saprà mai il nome. Sappiamo con certezza, invece, che non stette zitto, ma raccontò per filo e per segno tutto quello che gli era accaduto a chiunque incontrasse o dovunque andasse. Tanto che quel luogo, Castel di Leva, come riportano le cronache del tempo, divenne assai famoso: «Non si distingueva più il giorno dalla notte e continuamente era un accorrere di pellegrini sempre più devoti e numerosi, che ricevevano numerose grazie». L’eco di quanto era accaduto e il concorso di pellegrini, furono tanto vasti da spingere ben presto la gerarchia ecclesiastica a volerci vedere chiaro. Il Cardinale Vicario si recò in visita a Castel di Leva. Si decise, per volontà della Sacra Rota di far restare l’immagine sacra nello stesso luogo del ritrovamento, ma staccata dalla torre ormai diroccata e collocata in una chiesa che sarebbe stata costruita con le offerte dei pellegrini che già numerosi si recavano in quel luogo. 2 La chiesa fu costruita in un solo anno ed in essa venne solennemente collocata l’effigie della Madonna il 19 aprile, lunedì di Pasqua 1745. Le cronache del tempo annotano una gigantesca folla di romani e di abitanti dei Castelli, con tanto di gonfaloni e di confraternite, che fece da corona al carro che trasportò la prodigiosa effigie dalla chiesetta di Santa Maria ad Magos al Santuario appena eretto. Per l’occasione papa Benedetto XIV concesse ai partecipanti l’indulgenza plenaria, che potevano lucrare anche coloro che avessero visitato l’immagine in uno dei sette giorni seguenti quello del trasferimento. Il Santuario divenne rapidamente il centro di una fervente pietà popolare e quindi meta di numerosi pellegrinaggi. Era dunque necessario approntare l’assistenza spirituale a quanti arrivavano fino al Santuario di Castel di Leva per confessarsi e comunicarsi. Decine di ordini religiosi furono interpellati, ma nessuno se la sentì di affrontare un tale incarico in un posto così isolato ed esposto continuamente alle malefatte dei banditi. L’assistenza ai pellegrini fu così affidata dapprima a un sacerdote-custode e il Santuario otterrà così il suo primo viceparroco, con l’obbligo della residenza, soltanto nel 1802. I fedeli si recavano al Divino Amore soltanto in occasione delle festività maggiori e dei grandi pellegrinaggi. A riportare l’attenzione sul Santuario furono, nel 1840, i festeggiamenti per il centenario del primo miracolo. Per l’occasione si restaurarono la chiesa e l’altare. La stessa via Ardeatina venne sistemata. I festeggiamenti iniziati il 7 giugno 1840, domenica di Pentecoste, si protrassero per una settimana. I pellegrini continuavano ad accorrere, ma al fenomeno di autentica devozione popolare, ad un certo punto, se ne sovrappose un altro: quello delle cosiddette «madonnare». Si trattava di popolane romane, per lo più erbivendole e lavandaie, che festeggiavano la loro particolare festa annuale proprio nel lunedì di Pentecoste presso i vicini Castelli Romani. Siccome la festa della Madonna del Divino Amore avveniva il giorno di Pentecoste, esse avevano di rito una sosta davanti al Santuario, dove provocavano un gran baccano, per poi ripartire all’alba del giorno successivo. Tutto questo aveva finito per ingenerare un certo equivoco tra «madonnare», il cui spirito gaudente non testimoniava certo un senso di devozione, e Divino Amore. A questo tono di ridicolo, che durò per decenni, si aggiungeva poi il disagio per la presenza di venditori di cibi che si sistemarono stabilmente al Divino Amore: le bancarelle di porchetta, di pecorino, di fave e di vino vennero sistemate proprio a ridosso della chiesetta. Il pellegrinaggio al Santuario di Castel di Leva diventava l’occasione, quando non il sinonimo, di gita «fuori porta». 3 Il voto di Roma 4 giugno 1944: l’esercito nazista abbandona senza opporre resistenza la Città eterna, mentre le forze alleate vi entrano per Porta San Giovanni e per Porta Maggiore, accolte dai romani con straordinarie manifestazioni di esultanza. Dopo quasi nove mesi di occupazione, Roma è salva, intatta. Contro ogni previsione non è stata versata una sola goccia di sangue. Il pericolo è scampato. È dissolta la paura che incombeva come una nuvola minacciosa: l’incubo che si potesse assistere ad un assedio, ad una battaglia estenuante, ad una carneficina; che si potessero ripetere e moltiplicare i lutti e le distruzioni iniziati con il tremendo bombardamento del luglio del 1943, che fece terra bruciata nel popolare quartiere di San Lorenzo. E per il popolo romano, disorientato e ridotto praticamente alla fame, la liberazione incruenta della città ha una, e una sola artefice: la Santa Vergine del Divino Amore. A migliaia, obbedendo al suggerimento di papa Pio XII l’avevano implorata, facendo un voto solenne per la salvezza dell’Urbe. Si erano stretti in preghiera, proprio in quelle ore drammatiche e cruciali, nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, nel centro di Roma, dove la cara e familiare immagine della Madonna del Divino Amore era stata trasportata dal Santuario di Castel di Leva. Il 28 maggio ha così inizio l’ottavario della Pentecoste e la novena della Madonna del Divino Amore. I romani accolgono l’invito immediatamente. L’affluenza è così massiccia – La Civiltà Cattolica riferisce di 15.000 comunioni distribuite quotidianamente – che la basilica di San Lorenzo in Lucina non è più sufficiente a contenere le folle imploranti e l’immagine della Madonna viene quindi trasferita nella più ampia chiesa di Sant’Ignazio. Il 4 giugno, lo stesso giorno in cui termina l’ottavario, si decide la sorte di Roma. Tutto sembra preludere ad un’aspra battaglia «casa per casa». I tedeschi, determinati ad una forte resistenza, presidiano la città e hanno già minato i ponti del Tevere per coprirsi l’eventuale ritirata. Dall’altra parte, il generale alleato Harold George Alexander ha deciso che i suoi duemila carri armati avrebbero inseguito il nemico fino alla distruzione di Roma. Alle 18 nella chiesa gremitissima, rispondendo all’invito di Pio XII, viene letto il testo del voto dei romani alla Vergine perché alla città vengano risparmiati gli orrori della guerra. Per contro, i fedeli promettono di correggere la propria condotta morale, di rinnovare il Santuario e di realizzare un’opera di carità a Castel di Leva. Il voto viene espresso in gran fretta, per via del coprifuoco che sarebbe scattato alle 19. Pio XII, intanto, che avrebbe voluto partecipare personalmente alla preghiera, viene avvertito di non lasciare il Vaticano, per non essere deportato. A leggere il voto, in luogo del Papa, è il camerlengo dei parroci, padre Gremigni, che poi diventerà vescovo di Novara. Quasi contemporaneamente, l’ordine di resistenza viene revocato. I tedeschi lasciano la città e le truppe alleate vi fanno il loro ingresso, alle 19.45, senza colpo ferire. Il prodigio della salvezza di Roma, tanto implorato, si è compiuto. Lo strano modo in cui cessarono le ostilità stupì anche il primo ministro inglese Winston Churchill, il quale, nel suo memoriale Da Teheran a Roma, annotò che «la conquista era avvenuta in modo imprevisto». 4 IL DIVINO AMORE: UN SANTUARIO POPOLARE Per gli abitanti di Roma (e del Lazio in generale) il Santuario della Madonna del Divino Amore rappresenta un po' quello che per abruzzesi è il Santuario di San Gabriele. Infatti la tradizione devozionale ha da sempre stabilito un forte legame tra la devozione mariana e le vicende del santuario. L'ultimo esempio, in ordine di tempo, può essere la visita di Papa Giovanni Paolo II il 4 luglio 1999 che nell'occasione pronunciò una semplice, ma significativa supplica («Fa’, o Madre nostra, che nessuno passi mai da questo Santuario senza ricevere nel cuore la consolante certezza del Divino Amore. Amen»). Da ricordare anche il voto di Roma durante l'occupazione tedesca del 1944. Quindi può ben dirsi un santuario popolare, dando all'aggettivo quel giusto e ricco significato di vicinanza della spiritualità alle più intime e semplici esigenze dei fedeli. TRE ESEMPI (tra letteratura e spettacolo) della devozione popolare al Santuario. La devozzione der Divin’Amore Le notti di Cabiria Dimenica de llà Rinzo, Panzella, io, Roscio e le tre fijje der tintore vòrzimo annà a fà un sciàlo in carrettella a la madonna der divinamore. Che t’ho da dí, Sgrignappola? co cquella solina llà che t’arrostiva er core, eccheme aritornà la raganella, ecco arincappellasse er rifreddore. Credime, cocca mia, ma dda cristiano ce direbbe aresie: ch’è ’na miseria d’avé a stà sempre co ppilucce in mano. Mó er zemplicista me dà ’na materia appiccicosa: e un medico brugnano lo ssciroppo de radica d’arteria. In uno dei suoi film più famosi, Fellini inserisce la scena della prostituta, Cabiria, che con alcune sue compagne si accoda da Roma ad una processione verso il Santuario dove invoca con fervore la grazia di cambiar vita. Cabiria è interpretata da un grande Giulietta Masina. Il film, del 1957, prese l’Oscar come miglior Film straniero e ben 6 Nastri d’Argento. G.Gioachino Belli (1831) Il Marchese del Grillo Film del 1981 di Mario Monicelli con Alberto Sordi Nel corso del film ci sono due riferimenti al Santuario. Il primo quando il marchese, dopo aver mostrato, all’ufficiale francese che l’accompagna, di apprezzare l’inno della Marsigliese, si rammarica per quello pontificio (“Noi che ci-avemo, Noi vogliam Dio, Vergin Maria… ’ndo’ ci-annamo a la Madonna del Divin’Amore?”). Il secondo quando, recatosi a palazzo con ospiti francesi, non trova nessun familiare a tavola, neanche il canonico zio che ”è andato col quadro della Vergine Quartina al Divin’Amore”. 5 Costruito inizialmente in legno e dedicato a spettacoli di varietà con il nome di Arena Nazionale, negli anni assunse sempre più importanza, fino a subire un rifacimento nel 1938 che ne decretò l'aspetto attuale. Dal 1979 ampliò l'offerta artistica con gli spettacoli proposti nel ridotto Piccolo Eliseo, intitolato a Giuseppe Patroni Griffi, ex direttore artistico del teatro. L'Arena Nazionale nacque nella primavera del 1900 come teatro in legno, aperto, sito sulla terrazza di Palazzo Rospigliosi. Il nome fu scelto in onore della nuova via, omonima, che sorse per volontà del monsignore Francesco Saverio De Merode. Dedito agli spettacoli di varietà, nell'arco di sei anni si decise di farne un teatro in muratura su progetto dell'ingegner Serafini Amici, col primato di essere appunto stato il primo teatro del novecento romano costruito interamente in cemento armato, materiale del tutto nuovo. Il nome assunto dal teatro fu Teatro Apollo. Nel 1912 lo spazio che costituiva lo spazioso ridotto del Teatro Apollo fu staccato e reso indipendente, scelta forse operata per coprire alcuni costi di gestione. Mentre il teatro cambiò ancora nome, diventando il Cines, la piccola sala ormai indipendente prese il nome di Sala Apollo ma non fu teatro, bensì un locale notturno. Dopo due anni la facciata su via Nazionale viene ridisegnata in uno stile che coniuga il liberty con l'austera tradizione dei palazzi in stile piemontese: il 6 rifacimento del teatro sacrificò però degli spazi vitali per la comodità dello stesso accelerando il processo di trasformazione quasi radicale del Cines in sala cinematografica. Saltuariamente, però, sopravvisse la prosa. Il nome mutò nel corso della grande guerra in Gran Cinema. La fine della grande guerra vide un nuovo cambio di nome, trasformando il Gran Cinema nell’attuale Teatro Eliseo. La produzione era diversificata: inizialmente operette, quindi stagioni liriche e poi ancora prosa. Lo stile del teatro andò sempre più affinandosi, acquisendo eleganza e ricercatezza negli arredi interni e nella gestione. Per conquistare gli incentivi statali da parte del regime, nel 1923, venne fondata da Lucio D’Ambre, Mario Fumagalli e Santi Severino una compagnia, il Teatro degli Italiani, il cui scopo era quello di valorizzare la drammaturgia italiana. Il tentativo fallì per la mancata erogazione dei sussidi e tornò all’operetta mista alla prosa. Nel 1038 avvenne un ulteriore rifacimento ad opera di Luigi Piccinato, che trasformò l’Eliseo donandogli una forma più moderna e magnifica, molto simile all’attuale. Nel rifacimento delle gallerie, tuttavia, non si tenne conto dell’eccessiva angustia dei posti nelle balconate, penalizzate ulteriormente da un corrimanodi sicurezza che inficiava la visione della scena. L’allargamento dello spazio destinato agli spettatori duplicò la capienza del teatro (da circa 600 a 1300 posti, ridotti poi nuovamente a 1000 per la scarsa visibilità dei laterali alti), mentre operazioni di ampio respiro sullo spazio scenico permisero l’introduzione di nuovi macchinari ed un allargamento del boccascena di due metri, portandola ai 12 metri attuali. La particolarità che destò più critiche dai contemporanei fu la totale abolizione di palchi d’onore in epoca di monarchia e regime. Per due anni vi si insediò una compagnia teatrale diretta da Pietro Sharoff, e negli anni successivi il teatro produsse spettacoli in proprio. Nel 1979 si riconquistò lo spazio del Piccolo Eliseo, dove iniziarono ad essere rappresentate regolari stagioni di prosa in uno spazio destinato ad accogliere 300 spettatori. Nel 1982 Giancarlo Capolei ristrutturò l’Eliseo riducendo i posti agli attuali 956 ed ammodernando gli impianti, donandogli l’attuale forma. La scomodità dei laterali alti, in particolare della I e della II balconata, vennero in parte risolti: tuttora però persiste un problema di visibilità che abbassa il prezzo dei biglietti in corrispondenza dei settori a visibilità ridotta. Attualmente il Teatro Eliseo e il Piccolo Eliseo Patroni Griffi hanno un cartellone regolare che spazia dalla prosa classica alla contemporanea, confermandosi tra i teatri più frequentati. Da Wikipedia. 7 8 DA VEDERE IN ZONA 1. Piazza di Spagna – Così chiamata dal palazzo sede dell’ambasciata spagnola presso la Santa Sede. Su di essa si staglia la monumentale scalinata (135 gradini) di Trinità dei Monti. Al centro della piazza la celebre fontana La Barcaccia, opera di Bernini. All'angolo destro della scalinata vi è la casa del poeta inglese John Keats. All'angolo sinistro c'è, invece, la sala da tè Babington's fondata nel 1893. (700 m – 8 min) 2. Fontana di Trevi – Settecentesca fontana dallo stile tra il classicheggiante e il barocco. È opera di Nicolò Salvi. È l’elemento terminale dell’ acquedotto Vergine costruito per volere di Augusto. (600 m. - 6 min) 3. Piazza Barberini – Fontana del Tritone opera del Bernini e Fontana delle Api. Da qui si dirama la famosa Via Veneto. (200 m – 2 min.) 4. Via delle Quattro Fontane – Chiesa di S. Carlo, realizzata dal Borromini (1634-1644) è uno dei capolavori dell’architettura barocca. Non è visitabile l’interno. Quattro artistiche fontane ai 4 angoli della piazza che è il punto di raccordo di 3 diversi rioni del comune di Roma. (400 m – 6 min) 5. Piazza del Quirinale – Palazzo omonimo, sede della Presidenza della Repubblica dal 1946. Fu residenza estiva dei papi fino al 1870, poi residenza del re d’Italia. Sulla piazza le statue dei Dioscuri, colossi in marmo che fin dall'antichità adornano il Colle: sono copie romane di un gruppo in bronzo di Fidia e Prassitele il Vecchio. Nelle vicinanze la Chiesa di S.Andrea al Quirinale, stupendo esempio di arte barocca. (250 m – 3 min) Per informazioni artistiche ed architettoniche rivolgersi a Federica, per gli aneddoti sui monumenti e le piazze chiedere a Ferdinando, per tutto il resto domandare a Gianni. Ogni tanto uno sguardo all’orologio per trovarsi puntuali davanti al teatro alle ore 16,30 per ritirare i biglietti. L’ingresso del Teatro Eliseo è situato in Via Nazionale 183 di fronte alla Banca d’Italia Tra parentesi distanza e tempo percorrenza con la tappa successiva 9 TRE IMPORTANTI FONTANE e un monumento La fontana di Trevi è certamente la più scenografica e la più nota tra le fontane di Roma e costituisce la mostra dell'Acqua Vergine, proveniente dalle sorgenti di Salone, all'ottavo miglio della via Collatina. Marco Vipsanio Agrippa condusse a Roma l'acquedotto nel 19 a.C., per alimentare le Terme da lui costruite nella zona subito a nord del largo Argentina, tra corso Vittorio Emanuele II e piazza di S. Chiara. Leggendaria l'origine del nome Vergine che, secondo Frontino, sarebbe stato dato dallo stesso Agrippa in ricordo di una fanciulla (in latino virgo) che indicò il luogo delle sorgenti ai soldati che ne andavano in cerca. Secondo altri fu invece un rabdomante a scovare le sorgenti inutilmente ricercate da Agrippa e quindi il nome deriverebbe da virga, ossia la verga adoperata per le ricerche dell'acqua. Ma forse l'origine del nome potrebbe derivare dalla purezza e dalla leggerezza delle acque prive di calcare. In quella che sarà poi l'odierna piazza di Trevi, Agrippa alzò una mostra consistente in un alto muraglione, cui erano addossate tre vasche di raccolta. La fontana restò così fino al 1453, allorché Niccolò V, dopo opportuni lavori di riallacciamento dell'acqua alle sorgenti di Salone, diede incarico a Leon Battista Alberti di restaurare la fonte: in questa occasione furono tolte le tre vasche e sostituite con un unico vascone. La fontana iniziò a chiamarsi "di Trejo" perché situata nella località detta "dello Trejo", in riferimento al Trivio (cioè l'incrocio di tre vie) che corrispondeva all'attuale piazza dei Crociferi: il passo da "Trejo" a "Trevi" fu breve. Ma la fontana iniziò a prender corpo con Urbano VIII, il quale, volendone fare una grandiosa, incaricò del progetto il Bernini. Questi presentò diversi progetti, tutti costosissimi, a causa dei quali papa Barberini aumentò talmente le tasse sul vino che Pasquino si mise a parlare: "Per ricrear con l'acqua ogni romano di tasse aggravò il vino papa Urbano". Ma papa Urbano VIII fece di peggio: dette al Bernini un permesso scritto per demolire "...un monumento antico, di forma rotonda, di circonferenza grandissima e di bellissimo marmo presso S.Sebastiano, detto Capo di Bove...", vale a dire la tomba di Cecilia Metella. Ma stavolta i romani fecero il muso duro e Bernini si dovette accontentare di quel che aveva già smantellato (e non era poco). Urbano VIII e Bernini morirono senza che la fontana fosse stata ultimata: in quel periodo era soltanto un grosso lavatore con un vascone dinanzi e niente più. Quasi un secolo dopo, papa Clemente XII (1730-1740) decise di sostituirla con una fontana monumentale e, a tale scopo, invitò i migliori artisti dell'epoca a presentargli i progetti. Tra tutti i bozzetti inviati, fu scelto quello del romano Nicola Salvi, di evidente ispirazione berniniana. L'artista si mise al lavoro nel 1733, ma, ad 10 opera quasi ultimata, morì prematuramente: il successore, Giuseppe Pannini, terminò la mostra. Clemente XIII inaugurò la fontana nel 1762, così come la vediamo oggi. La grande fontana copre tutto il lato minore di palazzo Poli per una larghezza di 20 metri su 26 di altezza. Il prospetto ha nel mezzo un arco trionfale formato da un ordine di quattro colonne corinzie sormontate da un grandioso attico, a sua volta sovrastato dallo stemma di Clemente XII. Lo stemma, scolpito in marmo, è coronato da una balaustra con quattro statue che simboleggiano le quattro stagioni. Nel fronte dell'architrave è l'iscrizione: "CLEMENS XII PONT. MAX. / AQUAM VIRGINEM / COPIA ET SALUBRITATE COMMENDATAM / CULTU MAGNIFICO ORNAVIT / ANNO DOMINI MDCCXXXV PONT. VI". Al centro di una base rocciosa ricca di scogli e di figure dello scultore Maini, si erge imponente la statua di "Oceano" sopra un carro a conchiglione trainato da due cavalli marini, guidati da altrettanti tritoni. I cavalli, uno placido e l'altro agitato, simboleggiano i due aspetti del mare. Le due statue nelle nicchie laterali raffigurano "Abbondanza" (a sinistra) e "Salubrità" (a destra), mentre i bassorilievi sovrastanti ricordano uno la leggenda di Agrippa che approva il progetto dell'acquedotto e l'altro la vergine romana che indica ai soldati assetati le sorgenti dell'acqua. Lungo il piano stradale vi è la grande vasca a bordi rialzati simboleggiante il mare. Diverse le leggende e gli aneddoti legati alla fontana di Trevi: il più conosciuto è la credenza che, gettando un soldino nella fontana, rigorosamente di spalle, si ritorni a Roma. Più romantico l'uso di far bere l'acqua della fontana al fidanzato che parte per il servizio militare o per lavoro e spezzare poi il bicchiere, in modo che l'uomo non possa più dimenticarsi né di Roma né della fidanzata. Si narra che il grosso vaso posto alla destra della fontana (per chi guarda) e soprannominato "asso di coppe", sia stato collocato lì dallo stesso Salvi, affinché un barbiere, che lo disturbava con le sue continue critiche, non potesse più vedere i lavori. Nella piazza si trova anche una delle più famose "Madonnelle" di Roma, quelle bellissime edicole mariane sparse lungo le strade e che sono una preziosa testimonianza di una tradizionale fede popolare. La loro origine si ricollega alla religione romana antica, dalla quale il Cristianesimo ha tratto spunto: piccoli tempietti o "aediculae" venivano infatti eretti agli incroci delle vie o nei crocicchi di campagna in onore dei Lares Compitales, le divinità che proteggevano i viandanti. Durante il Medioevo, nel Rinascimento e più ancora dopo la Controriforma, le edicole mariane si diffusero in tutti gli angoli della città, tanto che nel più ampio catalogo che di esse fu redatto (quello di Alessandro Rufini della metà dell'Ottocento) ne erano elencate ben 1421. Questa di piazza di Trevi è posizionata così in basso da non poter passare inosservata. La Vergine dipinta sul muro (scarsamente visibile, in verità, a causa del vetro che la riveste) è circondata da una raggiera di stucco stellata. Due angeli poggianti su un piedistallo sostengono una ghirlanda. È presente anche il baldacchino e il solito lampioncino con eleganti volute in ferro battuto. Proprio perché espressione di arte popolare, l'autore, come per la maggior parte delle "Madonnelle", è anonimo, probabilmente un umile artigiano: solo raramente sono state eseguite da qualche artista più rinomato. Le Quattro Fontane, contrariamente al solito, vennero fatte edificare a spese di privati all'incrocio fra via Pia (oggi via XX settembre) e la Via Felice (oggi via Quattro Fontane) laddove solenne si innalza oggi la facciata del San Carlino Borrominiano, in prospettiva dei Dioscuri da una parte, del S. Bernardo e la lontanissima Porta Pia dall'altra. Siamo nel periodo di Sisto V e di Domenico Fontana, ma il pontefice, in questa occasione, degradò il suo architetto a semplice fornitore di materiali. Con uno scritto del 1589, gli ordinò di 11 consegnare ad un certo Muzio Mattei, cinque pezzi di peperino che provenivano dal distrutto Settizonio, ovvero quell'edificio che si trovava alle pendici del Palatino eretto da Settimio Severo. L'idea e la messa in opera di queste fontane si devono a Muzio Mattei, lo stesso personaggio che riuscì a far costruire (secondo la leggenda) davanti al suo palazzo, la fontana delle Tartarughe che sarebbe stata altrimenti destinata a piazza Giudea. In realtà, il Mattei aveva fatto realizzare solo tre delle quattro fontane. La quarta la dobbiamo ad un certo Giacomo Gridenzoni. Si tratta di quella dalla parte di palazzo Barberini, costruita nel 1593, erroneamente attribuita a Pietro da Cortona. E' costituita, come le altre, da una mezza vasca addossata all'edificio sormontata da una statua sdraiata con aria pacifica e sonnacchiosa, che rappresenta la Fedeltà,ma molti la identificano come Diana. Ella è fiancheggiata da un simbolico cane e appoggiata ad un trimonzio (simile a quello dello stemma sistino), ha come sfondo una bella finestra con ornati vegetali. La caratteristica principale delle quattro fontane è costituita dagli sfondi scenografici retrostanti le figure semiadagiate che le adornano. Le tre fontane realizzate dal Mattei furono costruite nel 1588 e rappresentano rispettivamente l'Arno, all'angolo dell'ex palazzo Mattei (ora Del Drago) dalla riccioluta capigliatura cui fanno da sfondo della canne simili alle piante di papiro (da cui l'ipotesi che il fiume in realtà sia il Nilo) e un leone, l'emblema fiorentino. Il Tevere posto di fronte alla precedente, all'angolo con la chiesa di S. Carlo alle Quatto Fontane, è rappresentato anch'esso con la folta capigliatura canuta e fluente, sostiene una grande cornucopia ricolma di frutta. Sullo sfondo una lupa, non bella in verità e una fitta vegetazione, la chioma dell'albero in primo piano che si confonde riportandoci ad antiche concrezioni calcaree di grotte nascoste. Infine la Fortezza rappresentata da una prosperosa Giunone posta, guardando Trinità dei Monti, sulla sinistra, colta con il capo reclinato in cui fra i capelli si scorge una corona, e si appoggia su un docile leone che le si sottomette e versa acqua nella vasca sottostante. Lo sfondo simile a quello della statua del Tevere è lussureggiante dominato da una snella palma,mentre nell'estremità sinistra si agita insolito un vociante palmipede. La fontana della Barcaccia è una celebre fontana di Roma, situata in Piazza di Spagna ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti, che deve il suo nome alla sua forma di barcone che affonda. L'opera, del 1627, fu realizzata da Pietro Bernini, che lavorò aiutato anche dal figlio Gian Lorenzo su commissione del Papa Urbano VIII. Pare che la sua particolare forma sia stata ispirata dalla presenza sulla piazza di una barca, portata fin lì dall'alluvione del Tevere del 1598. La sua realizzazione comportò il superamento di alcune difficoltà tecniche, dovute alla bassa pressione dell'acquedotto dell'acqua Vergine in quel particolare luogo, che non permettevano la realizzazione di zampilli o cascatelle. 12 Il Bernini tuttavia risolse l'inconveniente ideando la fontana a forma di barca semisommersa in una vasca posta leggermente al di sotto del piano stradale, con fontanelle di acqua (perfettamente potabile) da poppa e da prua. Completano la Barcaccia le decorazioni a forma di soli e api dello stemma della famiglia del Papa committente, i Barberini. Allo stesso Bernini, si deve anche l’ideazione di un fontanile ad uso dei viandanti collocato in origine sulla piazza, in angolo con la via Sistina, noto come Fontana delle Api (oggi sull’inizio di via Veneto) Le due statue virili della piazza del Quirinale raffigurano i Dioscuri, mentre trattengono per le briglie i cavalli scalpitanti, secondo uno schema iconografico raro che compare dall’età severiana (III sec. d.C.).La Fontana del Tritone, situata a Roma in Piazza Barberini, è opera di Gian Lorenzo Bernini, a cui fu commissionata dal Papa Urbano VIII Barberini, nell'ambito dei lavori complessivi di sistemazione di Palazzo Barberini e della zona a cui questo palazzo si affacciava. Fu realizzata tra il 1642 e il 1643, in concomitanza con la conclusione dei lavori che interessavano Palazzo Barberini. La fontana è stata realizzata interamente con il travertino e rappresenta un Tritone, inginocchiato su di una conchiglia sorretta da quattro delfini, nell'atto di soffiare dentro una conchiglia, da cui sgorga l'acqua della fontana, che si raccoglie in una vasca dalle linee curve. Tra le code dei delfini sono visibili le api, stemma di famiglia dei Barberini, e le chiavi, stemma dei pontefici, e quindi di Urbano VIII committente dell'opera. Le piccole colonne che circondano la fontana sono aggiunte ottocentesche, quando la piazza iniziava ad essere trafficata.Un tempo la fontana era nota tra i romani come la fontana del Tritone sonante a causa dell'acuto sibilo che emetteva l'altissimo zampillo che un tempo usciva dalla conchiglia. La fontana è stata sottoposta a diversi restauri, l'ultimo dei quali in ordine di tempo, risale al 1998. I Dioscuri (Castore e Polluce) Le sculture della Piazza del Quirinale, probabilmente pertinenti al cosiddetto Tempio di Serapide, furono riutilizzate sempre sul colle nelle terme di Costantino, in occasione dei rifacimenti successivi al terremoto del 443 d.C. L’interesse per i due gruppi scultorei si riaccese nel Quattrocento, quando papa Paolo II fece realizzare tra il 1469 e il 1470 un primo parziale restauro dei due colossi. E’ però nel secolo successivo con Sisto V che le sculture, inserite nel programma di ampliamento e abbellimento della piazza, furono oggetto di un restauro completo eseguito nel 1585 e furono trasferite ai lati di una vasca marmorea a costituire uno sfondo monumentale per l’asse viario proveniente da Porta Pia. Fu infine Pio VI nel 1786 a collocare il gruppo scultoreo nella posizione attuale, ai lati dell’obelisco proveniente dal Mausoleo di Augusto, mentre nel 1818 Pio VII fece sostituire la vasca originaria con una conca di granito proveniente dal Foro Romano. 13 Luigi Pirandello, secondo di sei figli, nasce la sera del 28 giugno 1867 ad Agrigento. Nel 1894 comincia a dedicarsi alla narrativa con racconti e romanzi d’ambiente piccolo-borghese nei quali prevalgono ancora i canoni naturalistici (L’esclusa). Nel 1903, in seguito al dissesto economico dell’azienda paterna e alla malattia della moglie, è costretto ad intensificare il proprio lavoro e scrive il romanzo Il fu Mattia Pascal che segna l’apparizione del primo personaggio pirandelliano, concepito fuori d’ogni giustificazione veristica. Tra il 1905 e il 1915 porta a maturazione quello sconcertante dissolvimento del personaggio che culminerà in Uno,nessuno e centomila. Contemporaneamente, si apre per Pirandello la grande avventura teatrale che lo porta nel giro di pochi anni alla fama internazionale. Nelle novelle (poi raccolte con il titolo definitivo di Novelle per un anno) sono già presenti i più intensi temi del teatro pirandelliano: la dolente visione del mondo, il gioco tra finzione e realtà, il dramma dell’essere e dell’apparire. Dopo le commedie in dialetto siciliano (Lumìe di Sicilia, Liolà, Il berretto a sonagli) l’autentica proiezione drammatica si rivela appieno nel 1916 con Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare) e con Il piacere dell’onestà (1917). Seguono a ritmo travolgente Ma non è una cosa seria (1918), Il gioco delle parti, L’uomo, la bestia e la virtù (1919), Tutto per bene e infine Come prima, meglio di prima (1920) che vale allo scrittore il primo successo di pubblico. Nel 1921 con Sei personaggi in cerca d’autore e nel 1922 con Enrico IV si apre la grande stagione pirandelliana che prosegue con Vestire gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca e La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo modo (1924), fino alle ultime produzioni I giganti della montagna (1932, dramma incompiuto e ritenuto unanimemente dalla critica come quello artisticamente più valido) e Non si sa come (1934). Dal 1929 fa parte dell’Accademia d’Italia e nel novembre del 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. L’apparizione di Pirandello può essere considerato l’avvenimento principale nella storia del teatro italiano del Novecento e uno degli avvenimenti chiave del teatro europeo contemporaneo. Il palcoscenico non è più la scatola magica per fornire un’illusione di fronte a un pubblico partecipante. Su questo nuovo palcoscenico, libero da ogni inutile elemento di distrazione o di abbellimento, Pirandello istruisce il suo processo alla società contemporanea, alle sue ipocrisie, alle sue menzogne, alle sue violenze, alle sue assurdità. Tutta la sua opera è imperniata sul problema della personalità: l’uomo non è sempre quello che crede di essere, né quello che altri credono che sia. Muore a Roma di polmonite alle ore 8,55 del 10 dicembre 1936. 14 Alcuni giudizi critici su Pirandello SILVIO D’AMICO: [Il] “più singolare dei fenomeni apparsi nella vita teatrale italiana, se non europea, della nostra età” [che] “di colpo diventa il più famoso drammaturgo dell’ora”. NATALINO SAPEGNO: “Il suo nome acquistò quasi d’un tratto risonanza non solo italiana, ma europea e mondiale, nell’ultimo ventennio della sua vita, da quando cioè egli si venne dedicando con maggior impegno e prevalentemente al teatro, con una originalità di temi, di impostazioni e di procedimenti tecnici, che si imponeva al pubblico costringendolo ad evadere dal solito repertorio di schemi convenzionali, e insieme con un vigore patetico ben più forte e persuasivo a paragone degli scenari artificiosi ed estetizzanti di un D’Annunzio.[…] L’umorismo mette allo scoperto le ipocrisie dei rapporti umani e la solitudine senza scampo dell’individuo. […] Senza il suo esempio, non si spiega gran parte del teatro moderno, non tanto italiano, quanto europeo ed americano”. GIOVANNI MACCHIA: “Il pubblico non doveva essere concepito come una massa inerte, senza volto, che seguite le alterne vicende del dramma, alla fine emetteva il suo verdetto. Per Pirandello il pubblico esisteva nella realtà e nella coscienza del drammaturgo. […] E nei momenti più alti della sua produzione […] finì per convincersi che ormai il pubblico non doveva essere lasciato in pace. Fu una delle ragioni del suo successo. Oltre la quarta parete ormai sfondata, lo spettaore, del tutto sveglio, pensava. Il teatro era dunque un tribunale, ma un tribunale cui lo spettatore era ammesso a partecipare, cosi che alcuni registi, recentemente, nelle pièces più problematiche, hanno preso l’estrema decisione di trasportare come in un dibattimento il pubblico tra gli attori, parte di tutto l’insieme. […] Il pubblico, da lui poco vezzeggiato, anzi maltrattato, messo dinanzi a spettacoli che non indicavano soluzioni, e ove, a differenza dei drammi gialli, alla fine non si riusciva a vedere da che parte fosse il colpevole, e gli enigmi restavano enigmi, spettacoli che alla fine procuravano un malessere vago, quel pubblico, dunque, al contrario di ogni aspettativa, non disertò le sale per assistere a spettacoli più eccitanti o più mansueti, o che almeno elargissero sicurezza e fiducia. […] Cos’era accaduto in quel pubblico, fatto anche di gente comune, di brava gente, forse non dotata di molta cultura, e che non amava ascoltare sulla scena i bei versi, in sogni o in misteri, ma parole dimesse, povere, a volte stridule e disaccordate, dette e non recitate da personaggi che quasi non sapevano esprimersi? Forse, dietro tante confuse parole che non riusciva bene a capire, concetti, interrogativi, sarcasmi,l artifici dialettici, quella gente ritrovava un nuovo modo di far teatro, qualcosa che non aveva mai visto, una vaga idea del mondo, o una concezione buia dell’esistenza, assai simile a quella che essa viveva nelle proprie case, spesso visitate dalla follia, ove la personalità alterata, appariva addirittura inafferrabile? Forse quel pubblico aveva provato nella sua vita, senza ben rendersene conto, gli stessi incubi, le stesse ossessioni e infinite crudeltà e dolori? Si riusciva a vedere qualcosa, ma come in uno specchio opaco. Non era la tragedia, l’assassinio o il sangue. L’angoscia era più profonda. quel teatro certo non sollevava, non purificava l’animo. Eppure l’onestà del drammaturgo nel non progettare alcuna soluzione tragica riusciva a dare stranamente un certo conforto, una certa consolazione. E a poco a poco quel pubblico occupò le platee d’Europa e le occupa ancora”. 15 Le vicende familiari e Il piacere dell’onestà «Al centro dei drammi e delle commedie in tre atti vi sono quasi sempre complicazioni familiari, rapporti deviati e raddoppiati entro lo schema di partenza del“triangolo”: i personaggi si muovono all’interno della contraddizione tra i loro sentimenti e la posizione richiesta dai rispettivi ruoli vissuti nel rapporto matrimoniale; e dall’assunzione di questa contraddizione sorgono situazioni artificiose e paradossali. […] La commedia […] che presenta una delle prime tra le situazioni paradossali che caratterizzano questo teatro, Pensaci, Giacomino!, animata da uno spregiudicato cinismo che fece scandalo, con la vicenda del vecchio professore che, per beffare lo Stato, prende per moglie una giovane dotata di amante e di figlio, a cui toccherà la sua pensione. Capolavoro di impetuosa aggressività, basato sull’accerchiamento che i personaggi dei protagonisti, il signor Ponza e la suocera la signora Frola, subiscono dalla società di un’intera cittadina, alla ricerca della vera natura di un personaggio che si rivela inafferrabile, è Così è (se vi pare), del 1917: con un furore che sa di inchiesta giudiziaria, tutti cercano di sapere se la moglie del signor Ponza è ancora la figlia della signora Frola, o è un’altra donna subentrata alla morte di quella, mentre ciascuno dei due la definisce secondo le proiezioni della presunta follia dell’altro; individuata e costretta a venire in scena, la donna vi appare velata, affermando di consistere solo nell’immagine che di lei hanno gli altri (con la celebre battuta “Per me, io sono colei che mi si crede”). Ne Il piacere dell’onestà (1917), il personaggio di Baldovino si impone con un estremistico compiacimento della legalità, muovendo da una situazione tutta irregolare i immorale; prestatosi a sposare una donna solo per coprire il concepimento di un figlio illegittimo, egli si cala fino in fondo nel suo nuovo ruolo di marito, pretendendo un rispetto totale delle forme e l’allontanamento dell’amante su richiesta del quale ha sposato la donna. Ma non è una cosa seria (1918) si svolge sul caso di un matrimonio fatto per mera scommessa, in cui il ruolo matrimoniale modifica alla fine la situazione di indifferenza del marito verso la moglie. Il capolavoro di questa prima fase del tetro pirandelliano è certamente Il giuoco delle parti (1918) dominato da Leone Gala, personaggio che vive il distacco dalla vita e la rinuncia ai sentimenti in una geometrica e astratta crudeltà. Separato dalla moglie Silia, ma continuando a sostenere formalmente la parte del marito, egli viene costretto da questo stesso ruolo a sfidare a un duello all’ultimo sangue un tale che ha offeso Silia, che in tal modo spera di sbarazzarsi definitivamente di lui: ma, fedele mal carattere tutto formale del suo ruolo, egli costringe a sua volta l’amante della moglie a prendere il suo posto nel duello, nel quale resta ucciso. Il dramma è dominato da un effetto di vertiginosa astrazione, nell’assoluta e mortale estraneità tra la cerebralità del marito e la corporeità irrazionale della moglie. Oltre all’artificioso viluppo erotico e familiare de L’innesto(1919), va ancora ricordato lo scatenato “apologo” comico de L’uomo, la bestia e la virtù (1919) che si pone come la parodia di un rito di fecondazione […] con la costruzione di un inganno che costringe un marito, indifferente alla moglie, ad esercitare le funzioni del suo ruolo, per nascondere un concepimento frutto del rapporto di questa con l’amante». Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, il Novecento,ed. Einaudi, pp.155-156 16 Due giudizi critici su Il piacere dell’onestà Allo scopo di sottrarsi a una vita di dissipazione e traviamenti e di crearsi una situazione tale che (marito di una signora per bene) egli sia obbligato da essa a vivere onestamente, Baldovino, protagonista del Piacere dell'onestà, sposa Agata che Fabio ha resa madre e che non può sposare perché ammogliato. Ma pone bene le mani avanti: onesto lui, onesti tutti! Agata e Fabio continuino pure ad amarsi, se vogliono, ma rispettino rigidamente lui, non lui Baldovino, ma lui onesto marito di una signora per bene, salvino scrupolosamente le apparenze non solo di fronte agli altri, ma di fronte a lui stesso. Così, se cattiva azione ci sarà, non la farà lui, la faranno loro. In tal modo Baldovino si costruisce una onestà perfetta, e vive non più come uomo, ma come forma artificiale e costruita di onestà. L'onestà di Baldovino ha come effetto immediato l'onestà anche formale di Agata: non volendo ingannarlo, essa interrompe ogni rapporto con Fabio. Ella non potrà più essere di Fabio se prima Baldovino non lasci la casa. Fabio ordisce una rete per indurre Baldovino a commettere un furto: allora egli lo svergognerà e caccerà di casa. Ma Baldovino che ha scoperto il raggiro accetta di passare per ladro e di andarsene a patto che a rubare non sia lui, ma Fabio. In un secondo momento, invece, è proprio lui che spontaneamente si mette in condizione di passare da ladro: egli si è accorto di amare Agata, e quest'amore, ponendolo dinanzi a lei uomo contro donna, e non più maschera di marito contro maschera di moglie, gli fa comprendere la necessità di partire. L'amore uccide in lui la maschera del marito. Ma Agata che anch'ella l'ama lo seguirà anche come ladro. Allora egli rimane. La forma dell'onestà ha ucciso in Agata l'amante e creato in lei la moglie, sul serio e non da burla. La Vita ha incenerito la Forma in cui la si era costretta e ne ha creato una nuova e superiore. ADRIANO TILGHER « Il piacere dell’onestà » di Pirandello al Carignano. Luigi Pirandello è un « ardito» del teatro. Le sue commedie ,sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. […] Così avviene nei tre atti del Piacere dell’onestà. Il Pirandello vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come programma, la vita come « pura forma ». Non è un uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto il torto di essere tale per cui la « pura forma » è in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si realizza per sé, ma scombussola tutto l’ambiente e arriva a questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché la « pura forma » si sviluppi in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro è il marchese, e che non impunemente si accettano dei contratti in cui la logica e la volontà uno deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno svolto pericoloso, e un po’ confuso. Le reazioni sentimentali hanno il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che non è un briccone un galantuomo, ma solo un uomo che vuole essere l’uno e l’altro, e sa essere effettivamente galantuomo, lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la volontà creano e alimentano. La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto alla virtù di persuasione insita nel processo fantastico dell’intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che contribuì a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di scorci della commedia. ANTONIO GRAMSCI (29 novembre 1917) 17 Il cast dello spettacolo è di indubbio valore artistico: interpreti di prestigio, sontuosa interpretazione di Leo Gullotta che dà vigore ad un difficile personaggio quale è Angelo Baldovino. Misurata ed efficiente la regia. Molto da apprendere per quanto riguarda costumi di scena, luci e scenografie: è un’occasione buona per far tesoro di quanto si vede e si ascolta. Una nota a parte meritano le musiche originali di Germano Mazzocchetti, socio onorario della nostra associazione, che sottolineano tutti i momenti più significativi della commedia con perizia tecnica e garbo, accrescendo la recitazione di quel pathos di cui ne è già carica di suo. 18 Due recensioni dello spettacolo Il Messaggero, 18 ottobre 2008 - Esplode come l'uragano il "Piacere dell'onestà" C'è da credere (dopo aver ricevuto in regalo da Leo Gullotta, all'Eliseo di Roma, un Pirandello di gran rango) che il teatro italiano, in tempo di vessazioni e di peste, si stia "vendicando" a colpi di bellezza. […] Il testo […] può definirsi verboso, iperargomentato, poco "recitabile". In realtà, si tratta forse di un copione cui serve il grimaldello capace di scardinarlo, di tradurlo in viva, vibrante evidenza teatrale. L'arnese da scasso, nel caso dell'allestimento dell'Eliseo, è proprio Gullotta, protagonista esemplare, nei panni di Angelo Baldovino, in un crescendo di lucidità, di titanica voglia d'imporre alla platea il sapore di una virtù difficile, l'onestà, ieri come oggi oltraggiata senza ritegno. Il regista esalta, con ragione, il momento interpretativo (che Leo sorregge con bravura entusiasmante, vocale e gestuale) isolando il mondo conformista in una casetta trasparente, dentro il bosco dell'inconscio, regno della Natura e delle sue manifestazioni. Lascia così a Baldovino, persona eticamente disinvolta fino al momento di sposare una donna messa incinta dall'ammogliato marchese Colli, la possibilità di esplodere nella selva come l'uragano, cioè "naturalmente". L'ometto, accettando di farsi garante dell'Onestà, esplode fra gli ipocriti e i maneggioni al pari della tempesta, li tortura, li incalza con la furia e l'acribìa dei neofiti. E mentre essi faticano a camminare sul tappeto erboso, come respinti dal ferro rovente della probità, esperisce fino in fondo quel valore disatteso, ricevendone lavacro spirituale, rispetto, prospettive di futuro. […] RITA SALA Repubblica — 10 ottobre 2008 pagina 16 sezione: ROMA Immaginate i prestanome nella giungla degli affari, i matrimoni fittizi per dare una nazionalità alle straniere, i transfert d' identità. A uno come Pirandello già nel primo '900 piacque studiare i meccanismi delle alterazioni di facciata, di nome o di ruolo degli esseri umani. Lo fece nel 1904 nel romanzo Il fu Mattia Pascal, e ad altro titolo analizzò l' integrazione in una parte altrui con la novella Tirocinio, ricavandone la commedia Il piacere dell'onestà battezzata da Ruggeri nel 1917. Ora questo testo sulla compravendita dell' onere di maritare una donna che è stata messa incinta da chi non può sposarla perché irrimediabilmente solo separato, con sfibrante (e toccante) fedeltà al compito famigliare ad opera del consorte "ingaggiato", è uno spettacolo che da martedì 14 avrà per protagonista Leo Gullotta al teatro Eliseo, in una messinscena di Fabio Grossi, con cast in cui figurano Martino Duane, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghi e Marta Richeldi. «Pirandello non è un classico, ma un contemporaneo - commenta Gullotta - perché drammatizza un consenso (quello di Baldovino, disposto per contratto a sposare la donna-madre Agata e a fungere da marito-padre), una scelta che ha a che fare con una manipolazione, dove c' è di fondo la solitudine onesta di un uomo, una solitudine da reputare un valore aggiunto». Conta il luogo. «Tutto avviene in una casa borghese ricca ma superficiale». Conta il tipo di onestà. «è come una casa di cristallo in cui non puoi nascondere nulla». Conta la misura. «Un Pirandello senza nessun trespolo recitativo, ristrutturato in due atti, senza i "codesto"». Conta anche un Gullotta attore più asciutto. «Pirandello ho cominciato a frequentarlo a Catania 47 anni fa, allo Stabile. E dopo esperienze di dramma, di commedia, di cinema e di varietà, da cinque anni ho sentito di voler essere più utile col mio lavoro in un mondo che si disfa. E allora...». RODOLFO DI GIAMMARCO 19 Nell’ambito delle attività sociali e culturali della Parrocchia di S. Giovanni Battista e S. Benedetto Abate di Pescara Colli si è legalmente costituita a maggio 2008 l’Associazione Teatrale “PerStareInsieme”. È un’associazione senza scopi di lucro, rivolta in modo particolare ai parrocchiani ed ha come finalità quella di creare fra i suoi componenti un positivo clima di condivisione di esperienze che conduca alla scoperta dell’importanza dello stare bene insieme. Obiettivi: - fruizione dei migliori spettacoli teatrali rappresentati sul territorio; - analisi e la comprensione del linguaggio e delle tecniche teatrali; - allestimento di spettacoli teatrali dialettali e in lingua. Commedie e spettacoli rappresentati dal luglio 2008 ad oggi Recital natalizio (4 repliche, 800 spettatori) Lu ziprete – da Eduardo Scarpetta (4 repliche, 580 spettatori) La cantata dei pastori – da Andrea Perrucci (2 repliche, 300 spettatori) Lu diavule e l’acqua sande – da Camillo Vittici (5 repliche,1290 spettatori) La condanna dell’Innocente – di Alberto Cinquino (7 repliche, 700 spettatori) …e volò libero – di Carmine Ricciardi (1 replica, 250 spettatori) a Sturno (AV) Titillo – da E. Scarpetta (4 repliche, 1310 spettatori) La fattura – di Evaldo e Isabella Verì (4 repliche, 1610 spettatori) Natale in casa Bongiorno di C. Natili e C.Giustini (2 repliche, 350 spettatori) Per la stagione estiva 2010 sono in allestimento Lu ziprete, e la nuova commedia Lu testamente di Michele Ciulli. Prossimo appuntamento giovedì 1 giugno 2010 in occasione della Sagra. Altre attività culturali Cineforum sul film La strada di Federico Fellini Gita a Roma per lo spettacolo La strada con Venturiello e Tosca Visione degli spettacoli teatrali proposti dal Teatro Comunale di Città Sant’Angelo, di Atri, di Pescara. Incontro di approfondimento sulla drammaturgia pirandelliana con particolare riferimento a Il piacere dell’onestà. Partecipazione alla Settembrata Abruzzese con lo spettacolo La fattura. Partecipazione alla Settembrata Abruzzese con lo spettacolo La fattura. Attività sociali Destinazione dell’incasso netto di uno spettacolo in beneficienza ad una famiglia aquilana colpita dal terremoto. Rappresentazione gratuita de Lu diavole e l’acqua sande a favore dell’AISLA Info: Associazione Teatrale “PerStareInsieme” Via Di Sotto n. 135/20 – 65125 Pescara Colli e-mail: [email protected] Carmine Ricciardi (presidente) 3489353713 20