la Capitanata Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia A. XXXII-XXXIII (1995-1996), n.s., n. 3-4 AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI FOGGIA Direttore responsabile Mario Giorgio Segretario di redazione Luigi Mancino Direzione e Redazione: Biblioteca Provinciale, V.le Di Vittorio 1 71100 Foggia - Tel. 0881 – 637526/7, Fax 636881 - P.I. 00374200715 Registrazione al n. 150 del Trib. di Foggia in data 6/VI/1962 e 16/IV/1963 Leone Editrice s.r.l. - Foggia S.S. 16 Km. 684 - Fraz. Zona Ind. Incoronata SOMMARIO 7 MICHELE DELL'AQUILA "Di questa caduta d'impegno..." (a vent'anni dalla nuova Biblioteca Provinciale) Saggi 15 PASQUALE CORSI Federico II e la Capitanata 43 LUIGI PAGLIA L'ungarettiano «Deserto e dopo»: dall'Egitto alla Puglia 87 MARCELLO ARIANO Stampa locale e riforma agraria in Capitanata (1945-1950) 141 LAURA LEONE Ancora sulle "Stele daunie" 171 PIERFRANCESCO RESCIO Tra castelli e cinte murarie di Puglia e Basilicata: un approccio archeologico 209 ANDREA AMATO Architettura religiosa e ceti dirigenti a Foggia tra Sei e Settecento 253 SAVERIO RUSSO Economia e società a Foggia tra Sette ed Ottocento 261 RAFFAELE COLAPIETRA I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi 299 ELISABETTA CIANCIO Il devoto nelle Lettere ecclesiastiche di Pompeo Sarnelli Tra cronaca e storia 355 GIUSEPPE DE MATTEIS Intervista a Nino Casiglio 369 GIUSEPPE SOCCIO Marmi e alabastri del Gargano 383 DAVIDE GRITTANI Sulle tracce di "Un amore" 389 VINCENZO DE STEFANO Il programma triennale 1991-1993 per la tutela ambientale: occasione di sviluppo per il Parco Nazionale del Gargano 395 MICHELE GALANTE Momenti del brigantaggio in Capitanata: la banda garganica di Del Sambro 405 TOMMASO NARDELLA Una lettera inedita di Antonio Salandra sul colera del 1886 in Capitanata Notiziario 415 a PALAZZO e in BIBLIOTECA (a cura di Antonio Ventura) 417 ANTONIO DE COSMO "Cinecento" e... altro 425 Vita civile Scaffale locale "Di questa caduta d'impegno..." (a vent'anni dalla nuova Biblioteca Provinciale) di Michele Dell'Aquila Il mito antico, ripreso da Esiodo nella Teogonia, diceva che le Muse, le quali presiedevano alle arti ma anche alla scienza dei numeri e degli astri, erano figlie di Giove e di Mnemosine. Avevano dimora sul Parnaso e in Elicona ed erano guidate da Apollo. Avevano nomi melodiosi ed affascinanti: Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania, Calliope. Quei nomi non erano senza significato, perché volevano dire rispettivamente: colei che rende celebri, colei che rallegra, la festiva, la cantante, colei che diletta con la danza, colei che suscita desideri, ricca di inni, la celeste, colei dalla bella voce. Loro madre era Mnemosine, che vuol dir la Memoria, come a significare che ogni facoltà d'arte e di scienza nasce da un rammemorare lontani archetipi radicati nel profondo dell'essere. Platone avrebbe detto le idee dell'Iperuranio e le Muse, così come ne offrivano il ricordo sublimato nell'arte, ne offrivano anche l'obblio a contrastare l'attrito doloroso che quella lontananza poteva produrre. La Memoria, dunque, madre delle arti e della scienza suprema dei numeri e degli astri, Mnemosine, a sua volta figlia di Gea e di Urano, cioè della Terra e del Cielo. Nel suo viaggio di beatitudine nel Paradiso Dante, poeta cristiano di altro millennio, si fa dire da Beatrice, in una delle tante spiegazioni sulle cose celesti che gli sono mostrate, "Apri la mente a quel ch'io ti paleso / e fermalvi entro; chè non fa scienza, / sanza lo ritenere avere inteso". Come a dire, con molta umiltà, quale si addice allo studioso, che l'intelligenza non basta, e serve la memoria a conservarne il frutto per usarne al bisogno. La memoria, dunque, non semplice accumulazione di notizie, ma scrigno e tesoro di conoscenze da servire a produrre altre conoscenze. Ho voluto ricordare questi due dati perché mi sembrano importanti e beneaugurali per la circostanza che ci vede qui raccolti. 7 Se l'uomo nello svolgimento della sua avventura ha prodotto una mole di conoscenze ed ha sentito l'esigenza di rompere l'involucro della sua creta terrestre volgendo lo sguardo agli astri, investigando la natura, ricercandone il segreto pitagoricamente racchiuso nel numero o ritmo biologico; se ha sentito la necessità di alleviare pena e sofferenza, l'aspro attrito con gl'istinti della sua natura e il contrasto perenne con gli altri soggetti della comune storia - le testimonianze di tutto questo, se vogliono essere preservate dalla polvere del tempo che foscolianamente "avvolve e traveste fin le rovine e le vestigia della terra e del cielo", devono essere custodite dalla Memoria. La stessa scrittura è segno di memoria, più duratura della tradizione orale cui anticamente era affidato il racconto e la fama degli eroi. Orazio, fiero della sua poesia che avrebbe sfidato i millenni consegnando a noi non solo la gloria di Augusto e l'immagine amica di Mecenate, ma la sua inquietudine di uomo, gli amori, la fragilità e la saggezza umana, dice di aver innalzato con la sua poesia un monumento più duraturo del bronzo, e perciò di non esser destinato a morire del tutto: "Non omnis moriar, exegi monumentum aere perennius". Questo anelito di sopravvivenza, questa aspirazione a sfuggire dal cerchio breve della vita e lasciare di sè qualcosa di duraturo, un esempio, una memoria, un'opera, è ciò che contraddistingue l'uomo e ne costituisce in qualche modo, anche laicamente, la nobiltà. Se non si crede ad una Beatrice celeste che, liberi da peccato, ci conduca ai piedi di Dio, la scrittura, ch'è poi la memoria, ci fa varcare le soglie negre della morte in un Elisio di sopravvivenza. “Le Pimplee (che sono poi le Muse) - dice Foscolo - col loro canto “Fan lieti i deserti ed è vinto così” di mille secoli il silenzio”. Sede di tale sacralità è certamente la Biblioteca, apparente luogo di morte e di conservazione; in realtà tempio di sopravvivenza e di rinascita. Non è un caso che le grandi civiltà accanto ai templi avessero le biblioteche. Quella di Alessandria, famosa e ricca nell'antichità, splendeva assai più del Faro del suo porto. Vi erano raccolti tutti i tesori del sapere, le testimonianze della storia dell’uomo. La sua distruzione, nell'assedio famoso in cui fu data alle fiamme, segnò la fine del mondo antico, fu avvenimento più nefasto del sacco di Roma ad opera dei Goti, della distruzione di Cartagine. Con essa perì la conoscenza che avevamo delle civiltà anteriori alla greca, dell'Egitto, del favoloso Oriente mesopotamo e indiano, dell'Africa nera, delle terre della regina di Saba, delle regioni oltre il Nilo. Fu come 8 se l'umanità avesse perduto una gran parte della sua memoria, fosse improvvisamente ed irrimediabilmente più povera. V'erano state prima ancora la mitica biblioteca di Assurbanipal a Ninive, quella di Policrate a Samo, quella di Pisistrato ad Atene, quella di Pergamo e le numerose della Roma imperiale. Tra i meriti più grandi del monachesimo, soprattutto benedettino, nei secoli bui del Medioevo, fu di aver salvato dai colpi della nuova barbarie i tesori della memoria antica in pazienti trascrizioni, in tenaci raccolte ed accumulazioni. Nel romanzo che s'intitola Il nome della rosa di Eco, dietro cui sono in qualche modo le pagine della Biblioteca di Babele del grande Borjes, la biblioteca era nella torre eccelsa della grande abbazia, ottagonale come quella; il suo incendio segna emblematicamente la fine della storia; così come la fuga dei superstiti s'accompagna ai pochi codici salvati, quasi una eredità per i tempi venturi; e per essi v'è chi rischia la vita nell'incendio. I grandi Colleges anglosassoni e le maggiori Università europee estendono i loro edifici intorno ad un corpo centrale ov'è la biblioteca, cuore pulsante della ricerca e scrigno di accumulazione del sapere. Vanno ricordate queste cose perché si considerino pienamente le benemerenze di quanti hanno posto mano alla fondazione o alla rifondazione di una biblioteca, ne hanno organizzato ed incrementato i servizi, offrendone alla comunità degli studiosi ed a quella più larga dei lettori. Io stesso ricordo con affetto e gratitudine quello che allora credevo il primitivo nucleo e l'antica ubicazione di questa biblioteca a pian terreno del Palazzo della Provincia, con ingresso ch'era quasi accanto all'imbocco della scalinata che portava al terzo piano ove era allocata una scuola media ove svolgevo i primi anni del mio servizio di professore. Ne ricordo la sistemazione nelle sale con volte basse, i ritratti alle pareti, i fondi Caggese, Zingarelli, Fraccacreta, i cataloghi che portavano ancora le segnature della vecchia Comunale confluita nella Provinciale, i funzionari, l'avvocato Simone, il dottor Cifarelli, il maestro Taronna, il ragionier Innelli, e l'allora giovanissimo amico Celuzza, già vicedirettore che mi fu generoso di cortesie e di affetto e, divenuto in breve direttore, poneva mano negli anni Sessanta tra mille difficoltà ad un disegno più largo ed ambizioso, di maggior respiro, che avrebbe preso corpo per la sua intelligenza e tenacia e per la lungimiranza benemerita di alcuni Amministratori - tra essi il Presidente avvocato Tizzani - che seppero darvi credito impegnandosi in un'opera che sarebbe stata una pietra miliare nella storia della Città di Foggia e della Provincia dauna. 9 Di questi anni di lavoro, di speranze e di successi Celuzza nell' ultimo fascicolo di "Capitanata" ci consegna un resoconto di grande interesse nel quale è possibile leggere l'entusiasmo di chi s'era posto all'opera, l'ampiezza della tela tessuta, le fruttuose relazioni nazionali ed internazionali tra studiosi che s'adoperavano a trasformare il concetto e la funzione stessa dell'istituto Biblioteca da luogo di mera conservazione o di studio elitario a public library, istituto di democrazia oltre che di cultura, anzi attraverso la cultura, moderno strumento di organizzazione e diffusione della cultura e di crescita sociale, fino al compimento di quel vero miracolo della costruzione del nuovo edificio che ora ci ospita, avvenuto - come ben dice il dottor Giorgio, attuale direttore - "per una irripetibile, favorevole congiunzione astrale e in clandestina complicità con i tecnici ed amministratori di quel tempo", tra i quali sarà da ricordare accanto al già citato Presidente Tizzani, l'assessore Magnocavallo, l'architetto Jarussi, il Presidente Galasso e quanti altri posero mano all'impresa. Ma in quelle pagine di Celuzza, che sono anche una storia personale, tanto se ne sente coinvolto, traspare non poca amarezza per l'appannarsi dell'entusiasmo iniziale, per la caduta di certi progetti, per l'abbandono del Sistema Bibliotecario Provinciale che con la sua Rete aveva collegato i terminali dei comuni al centro provinciale, in un interscambio di forze e sollecitazioni che poteva costituire il tessuto di rapida crescita della società dauna. Di questa caduta d'impegno, che non è solo ascrivibile a decisioni e scelte locali, ma forse ad un più generale arretramento del Mezzogiorno nella qualità della vita, come certificato anche da recenti statistiche, si trova riscontro nel saluto del dottor Pensato, succeduto a Celuzza, e nell'editoriale al fascicolo 1994 di “La Capitanata" del dottor Giorgio, attuale direttore. E certamente questa nuova Biblioteca, che oggi festeggia i vent'anni, ha conosciuto anch'essa momenti diversi nella sua pur giovane vita. Allo sforzo grande di fondazione e di organizzazione dei servizi, ai convegni, alle mostre, alle iniziative culturali, ai corsi di qualificazione ed aggiornamento, ha corrisposto un momeno espansivo forte che ne ha fatto un polo importante e vitale di sviluppo ed organizzazione della cultura, di innalzamento sociale delle diverse fasce della comunità: ed è stata additata quale esempio e modello in campo nazionale per altre iniziative del genere che stavano nascendo. Difficoltà finanziarie che hanno travagliato gli Enti territoriali non 10 solo nella nostra regione, ma l'affievolirsi dei flussi di finanziamento e di sostegno, insieme a ragioni contingenti riferibili a vicende istituzionali ed individuali, possono aver prodotto momenti di minor impegno o di riflessione. La storia registra accelerazioni e rallentamenti, e perfino inversioni di tendenza; così i progetti di più lunga durata devono fare i conti con le anse del grande fiume che scorre in alvei non prevedibili. Così, fin dalla fondazione della Biblioteca Comunale, nel lontano 1834, negli anni della cosiddetta rinascenza ferdinandea, l'Intendente cavalier Lotti nell'articolo I° dei Regolamenti per la Biblioteca Pubblica della Città di Foggia, affermava non senza enfasi burocratica, che "L'appartamento più nobile del Palazzo Comunale di questa Città è stato destinato ad uso di una Biblioteca pubblica, ove la gioventù studiosa potrà rinvenire la scelta di autori distinti per ciascun ramo dell'umano sapere". Quella biblioteca negli anni avrebbe spesso mutato dimora ed ambizioni, seguendo il mutamento dei tempi, gli ultimi decenni borbonici, i primi decenni unitari, la svolta di fine secolo, l'Italietta di De Pretis e di Giolitti, le due guerre, soprattutto la seconda che lasciò segni terribili, la fusione con la Provinciale frattanto costituitasi, in un unico istituto bibliotecario, negli anni della presidenza Serrilli. I decenni si susseguono, nascono nuovi progetti, s'aggiungono nuovi fondi che rendono angusti locali già descritti come splendidi e idonei, s'alternano gli uomini alla guida delle istituzioni, ogni epoca, ogni individualità con il contributo del suo ingegno e della sua passione. La ripresa nella nuova serie della rivista "La Capitanata" dell'Amministrazione Provinciale credo vada oltre l'impegno a non far cadere una testata che pur ha superato il traguardo dei trent'anni di vita, annoverando nei suoi indici autori e contributi della miglior cultura dauna e nazionale. Diventa un segnale di volontà politica, l'impegno ad una rinnovata partecipazione. Il nuovo insediamento universitario in Foggia, antica aspirazione che questa biblioteca ha reso possibile con l'offerta di un primo fondamentale presidio di ricchezza di libri e di tradizione culturale, apre oggi nuovi orizzonti alle aspirazioni della biblioteca stessa e della comunità provinciale. Non v'è più solo da raccogliere e conservare testimonianze, o promuovere iniziative e innalzare umili livelli di cultura: c'è da costituire, insieme e prima della stessa Università, quel patrimonio di testi e di tecnologie che possa consentire una rapida crescita degli studi ed una attività di ricerca non dimidiata. 11 La storia è fatta di innumerevoli apporti, come di tanti rivoli che per torrenti e affluenti convergono nel fiume reale per procedere verso il mare. Difficile prevedere dove debba sboccare, anche se l'alveo sembra segnato. Casualità? sagacità umana? provvidenza divina? Sono grandi interrogativi che hanno lasciato pensosi i filosofi e le anime semplici. Conviene prender atto degli eventi, soprattutto esser riconoscenti ai laboriosi costruttori, comprenderne la tensione, la lungimiranza, sostenerne l'impegno per la realizzazione, nei limiti del possibile, di quella che l'età dei lumi nel Settecento chiamava la "pubblica felicità". Una tale felicità auguro oggi alla Biblioteca, e quale studioso e comprovinciale che ha qui le sue radici, a tutta la società di Capitanata. 12 Federico II e la Capitanata di Pasquale Corsi Nel corso di questi ultimi decenni gli studi su Federico Il di Svevia hanno conosciuto un nuovo sviluppo1, in virtù di un complessivo riesame della sua personalità e dell'impatto della sua azione (politica, militare, economica ecc.) nel mondo che gli fu contemporaneo; altrettanta attenzione è stata riservata all'eredità da lui lasciata o a lui generalmente fatta risalire. Una ulteriore spinta in questa direzione è stata certamente data dalle celebrazioni connesse con la ricorrenza dell'ottavo centenario della sua nascita a Jesi, a partire dal 1994 e proseguita per tutto il corso dell'anno seguente. Pur essendo ancora troppo presto per una valutazione globale dei risultati conseguiti sul piano dell'analisi storiografica, mi sembra però già possibile affermare che l'occasione è servita ad un serio approfondimento delle tematiche emerse dalle più recenti analisi critiche, in modo da lasciare poco spazio alle parate di maniera. E’ evidente, di conseguenza, che sono venute alla luce interpretazioni di tipo molto diverso tra loro e spesso discordanti dai canoni tradizionali. Quel che è certo, a mio parere, è che neppure le revisioni più radicali2 sono state ispirate da intenti meramente iconoclastici. Piuttosto si è cercato, da un lato, di miglio_______________ 1 - Basti esaminare i titoli raccolti da C. A.WILLEMSEN, Bibliografia federiciana. Fonti e letteratura storica su Federico II e gli ultimi Svevi, Bari, 1982, (Società di Storia Patria per la Puglia. Bibliografie e Fonti archivistiche, 1) da integrare con la rassegna curata da R. IORIO, Studi recenti su Federico II, in "QUADERNI MEDIEVALI", Bari, 38 (dicembre 1994), pp. 184-207. Ovviamente si è in attesa di conoscere nella sua cornpiutezza la produzione stimolata dalla ricorrenza dell'ottavo centenario della nascita di Federico II. 2 - Come quella, di grande interesse, pubblicata da D. ABULAFIA, Federico II Un imperatore medievale, Torino, 1990 (tit. orig.: Frederick II A medieval emperor, London, 1988). 15 rare il livello di comprensione del personaggio e del suo ruolo, liberandolo (mercé l'affinamento dei metodi e l'ampliamento delle ricerche) da errori di fatto o da angustie di inquadramenti storici ormai datati; dall'altro, di enucleare le testimonianze fededegne, mediante ogni opportuna distinzione dalle parallele elaborazioni del mito, condizionate e finalizzate secondo parametri di varia o addirittura contrapposta faziosità 3. Nel caso concreto, si può ipotizzare che l'immagine di Federico Il perderà forse qualche orpello di troppo, attribuitogli nel corso dei secoli passati per i motivi più diversi, ma finirà con il presentarsi in una luce più veritiera ed equilibrata. Ciò premesso, occorre dire che non è mia intenzione proporre un bilancio delle attuali tendenze storiografiche riguardanti Federico Il e la sua epoca; ne ho fatto cenno, soprattutto perché non possono non avere dei riflessi anche rispetto ad un tema apparentemente ormai definito nei suoi più minuti dettagli. Mi riferisco al rapporto che l'imperatore svevo ebbe con quella parte della Puglia che (a partire dall'età normanna) venne chiamata Capitanata, per effetto dell'impronta che vi aveva lasciato il catepano bizantino Basilio Boioannes4. E’ opportuno prendere le mosse da questo illustre personaggio, noto anche per le sue vittoriose imprese contro i ribelli di Melo da Bari, perché egli fu il promotore di una profonda trasformazione e colonizzazione dell'antica Daunia, in buona parte spopolata e pericolosamente esposta alle invasioni nemiche, cioè dei circostanti Longobardi del Molise e del Sannio, per non parlare delle ricorrenti "discese" degli imperatori di Germania. Il Boioannes, dopo aver sconfitto le truppe di Melo, volle infatti promuovere la costruzione (o ricostruzione) di una serie di città, che venivano inoltre elevate al rango di sedi episcopali; alcune di queste scomparvero nei secoli successivi, altre ________________ 3 - Si veda quanto scrive in proposito F. M. DEROBERTIS, Federico II di Svevia nella rappresentazione delle fonti e delle posizioni della dottrina, in GIORNATE FEDERICIANE, IV^, 1977; Oria. Atti, Bari, 1980, pp. 25-54 (Società di Storia Patria per la Puglia. Convegni, X). 4 - V. VONFALKENHAUSEN, La dominazione bizantina nell'Italia meridionale dal IX all'XI secolo, Bari, 1978, pp. 57-59 (tit. orig.: Untersuchungen uber die byzantinische Herrschaft in Süditalien vom 9. bis ins 11. Jahrhundert, Wiesbaden, 1967); cfr. W. HOLTZMANN, Der Katepan Boioannes und die kirchliche Organisation der Capitanata, in "NACHRICHTEN DERAKADEMIE DER WISSENSCHAFTEN IN GÖTTINGEN, I, Phil. Hist. Klasse", Göttingen, 2 (1960), pp. 19-39. 16 invece sono tuttora esistenti. Le fonti5 ci hanno tramandato i nomi di Dragonara, Civitate e Fiorentino, lungo la linea pressappoco del fiume Fortore, che si aggiungevano all'insediamento di Ripalta; in corrispondenza dei contraffortí del Subappennino dauno vennero invece dislocate le città di Montecorvino, Tertiveri, Biccari e Troia, cui le preesistenti Bovino ed Ascoli (tante volte menzionate con Lucera per la loro posizione strategica) fungevano da raccordo con Melfi e Rapolla, a ridosso del massiccio del Vulture. Furono quindi le autorità governative bizantine a promuovere, come del resto era accaduto in precedenza in altre zone della Puglia e delle regioni limitrofe, la fondazione di città fortificate, i cosiddetti kastra6. In questa articolata linea difensiva spiccava per importanza il ruolo di Troia, entro la cui circoscrizione diocesana si andò sviluppando (nella seconda metà del secolo XI) la città di Foggia. I nuovi assetti politici determinati dalla conquista normanna non furono di ostacolo alla prosecuzione dello sviluppo economico e demografico della Capitanata, i cui segni (al di là delle motivazioni strettamente militari) si individuano in diversi settori dell'ampio territorio, prima ancora dell'arrivo dei nuovi signori. Anche nella vasta distesa pienaggiante del Tavoliere erano andati sorgendo numerosi insediamenti rurali, una parte dei quali promossi e sostenuti dai monasteri benedettini locali7. Del tutto trascurabile invece mi è sembrata l'incidenza dei grandi monasteri campani e molisaní, pur attivi con numerose dipendenze sul territorio 8, nella progressiva trasformazione dell'habitat altomedievale della Capitanata. Da questo punto di vista, credo che il rilevamento sistematico dei dati offerti dalle fonti possa fornire un utile contributo alla migliore definizione del problema del________________ 5 - Si trovano elencate in V. VON FALKENHAUSEN, La dominazione cit., pp. 193-201. 6 - Sulla tipologia degli insediamenti in età bizantina (e, in particolare durante la seconda colonizzazione) si vedano: A. GUILLOU, Aspetti della civiltà bizantina in Italia. Società e cultura, Bari, 1976, pp. 251-257; V. VON FALKENHAUSEN, La dominazione cit., pp. 145-149; EAD., I Bizantini in Italia in I BIZANTINI in Italia, Milano, 1982, pp. 3-136, particol. pp. 90-91. 7 - Si veda, a titolo di esempio, quanto riportato in P. CORSI, I monasteri benedettini della Capitanata settentrionale in Insediamenti benedettini in Puglia, a cura di M. S. Calò Mariani, I, Galatina, 1980, pp. 47-99. 8 - Circa la dipendenze cassinesi, restano indispensabili i volumi di T. LECCISOTTI, Le colonie cassinesi in Capitanata, I-IV, Montecassino, 1937-1957. 17 l'incastellamento del Mezzogiorno 9. Circa l'effettiva partecipazione dei monasteri benedettini locali (come San Pietro di Terramaggiore, San Giovanni in Lamis, Santa Maria di Tremiti ecc.) all'opera di colonizzazione delle aree circostanti ho già trattato più volte in altre sedi; pertanto mi esimo dal richiamarne analiticamente le caratteristiche e gli sviluppi, molti dei quali di lunga durata. Fasce sempre più consistenti di terreni seminativi e, ben presto, anche di vigneti ed oliveti, concentrate intorno ai nuovi borghi e via via diffuse soprattutto lungo le direttrici viarie, andavano man mano a sostituire l'incolto, le boscaglie e gli acquitrini, cui si aggiungevano vaste lagune periferiche a ridosso delle coste. La fase di sviluppo, che interessò anche il Gargano 10, continuò durante il secolo XII (di sicuro sino all'età ruggeriana), tanto da 'Influire notevolmente nella trasformazione dell'habitat, ma non sino al punto da cambiare radicalmente l'ecosistema, quale si era venuto a formare durante l'alto medioevo. L'equilibrio di questo contesto non era stato turbato da qualche fenomeno di segno negativo, forse inevitabile in una situazione tutt'altro che statica. A parte infatti un paio di villaggi scomparsi ai confini del Molise e dell'Irpinia, nei primi decenni dell'epoca sveva risulta in stato di abbandono solo il casale di San Trifone11 presso Apricena, dipendenza del monastero di San Giovanni in Piano. Eventuali abbandoni provvisori (a causa, in genere, di eventi bellici) non sono invece significativi dal nostro punto di vista. Permanevano, ad ogni modo, ampi spazi incolti ed un equilibrio demografico assai debole, sul quale anche interventi di portata modesta potevano incidere profondamente. Proprio queste caratteristiche di fondo permisero, probabilmente, _______________ 9 - Il tema è stato di recente ripreso da J. M. MARTIN E. CUOZZO, Federico II. Le tre capitali del Regno di Sicilia: Palermo - Foggia Napoli, Napoli, 1995, pp. 53-57. 10 - In riferimento a questa specifica area, mi sia consentito menzionare alcuni miei saggi: I Bizantini e il Gargano: problemi e prospettive, in ESPOSIZIONE ARCHEOLOGICA, VII^; 1983; Vico del Gargano. Il Medioevo e il Gargano. Foggia, 1984, pp. 9-22; Insediamenti medievali del Gargano: nuove indagini sulle fonti documentarie in IL GARGANO tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Corsi , Foggia, 1995, pp. 25-47 (Biblioteca Minima di Capitanata, 9); IL GARGANO e il mare nel corso del medioevo, in IL GARGANO e il mare, a cura di P. Corsi, Foggia, 1995, pp. 119-181 (Biblioteca Minima di Capitanata, 13). 11 - P. CORSI, I monasteri benedettini... cit., p. 78 e relativa bibliografia. 18 a Federico II di lasciare una vasta traccia del suo operato nel contesto territoriale in questione. E noto del resto quanto lo Svevo amasse il soggiorno in queste zone, di sicuro per la loro precipua amoenitas12 che gli permetteva tra l'altro di trovare quegli spazi e quelle particolari condizioni ambientali, che meglio si adattavano ai suoi diletti venatori. In particolare gli acquitrini e le paludi, esistenti all'epoca non solo nelle fasce costiere, ma anche nelle aree più interne della pianura e addirittura sugli altipiani garganici (come il pantano di S. Egidio, presso San Giovanni Rotondo), garantivano in maniera ottimale l'esercizio della caccia con il falcone alla fauna avicola, una passione che in Federico raggiunse la perfezione dell'arte e della scienza13. Non meno favorevoli si presentavano d'altro canto le condizioni per la pratica di altri tipi di caccia. A tal proposito, appare molto interessante la testimonianza del cronista Matteo Spinelli da Giovinazzo, riguardante (per il mese di gennaio del 1256) una straordinaria battuta di caccia di re Manfredi nel bosco dell'Incoronata presso Foggia, lungo le sponde del Cervaro: erano con lui ben mille e quattrocento persone, ciascuna delle quali mise in carniere una quantità eccezionale di selvaggina 14 . La nostra fonte non manca di aggiungere che tale abbondanza si spiegava col fatto che da sette anni (cioè pressappoco dall'anno precedente la morte di Federico) nessuno vi aveva più cacciato, sicché la fauna disponibile si era ovviamente moltiplicata senza alcuna perdita. La presenza di foreste regie in Capitanata sotto Federico II è tra l'altro attestata da numerosi accenni, sparsi qua e là nelle fonti, al variegato mondo della burocrazia venatoria fridericiana, come i forestarii, i falconerii, i venatores, i custodi, i valletti e così via; delle domus solatiorum e di altre residenze imperiali farò cenno tra poco. E comunque abbastanza ovvio riconoscere che, nella scelta dei propri luoghi di soggiorno, l'imperatore si attenesse ad una molteplicità di motivazioni, non escluse quelle di ordine meramente pratico. Se è vero che lo studio degli itinerari regi in riferimento ai sovrani medievali può rivelare importanti aspetti del disegno politico da loro _______________ 12 - E. KANTOROWICZ, Federico II, imperatore, traduz. ital. di G. Pilone Colombo, Milano, 1988, pp. 189-290 (tit. orig.: Kaiser Friedrich der Zweite). 13 - ID., op. cit., pp. 320-324 e passim. 14 - M. SPINELLI, Diurnali, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II: Svevi, Napoli, 1868, pp. 631-644, particol. p. 638, rr. 26-32. 19 concepito ed attuato, anche gli spostamenti della corte itinerante di Federico II evidenziano una serie di scelte ben precise15. Premesso che, nel periodo compreso tra il 1220 e il 1250, Federico II si trattenne per la maggior parte del tempo nelle regioni continentali del Regno di Sicilia, i soggiorni in Puglia (e soprattutto in Capitanata) risultano abbastanza elevati in percentuale; non mi sembra però che siano stati molto prolungati, a causa dei frequenti cambiamenti di sede dell'imperatore. Tra l'altro, si osserva che le caratteristiche del clima hanno probabilmente consigliato delle permanenze in pianura tra l'autunno e la primavera, mentre nel colmo dell'estate era certamente preferibile trasferirsi sui monti della vicina Basilicata: "... el verno stava a Foggia a uccellare, la state alla montagna a cacciare a suo diletto"16. Sembra che Federico II sia venuto per la prima volta in Capitanata nel febbraio del 1221, quando appunto si registra la sua presenza a Foggia. Sulla base di uno spoglio sommario delle fonti, che non ha quindi alcuna pretesa di esaustività, nel corso dei trent'anni considerati risulterebbe un massimo di 35 soggiorni a Foggia, di varia durata; a notevole distanza si collocano altre località (tra quelle sicuramente identificate) della medesima area, come Civitate, Apricena, Troia, San Chirico, Tressanti, San Lorenzo in Carmignano, Lucera, Ordona, Corneto e Salpi. Sia all'interno di questi semplici dati sia in relazione agli eventi che vi ebbero luogo, spicca senza dubbio la crescente importanza di Foggia, che viene ad assumere quasi il ruolo di capitale del Regno: non è certo un caso che Federico II vi soggiorni nella ricorrenza di grandi festività religiose (come del resto si riscontra anche per Apricena) o di solenni manifestazioni della sua augusta sovranità. L'8 aprile 1240, ad esempio, festa della domenica delle Palme, venne convocata a Foggia una solenne assemblea (un "parlamento generale"), allo scopo di promulgarvi nuove costituzioni per il Regno 17. Tra le città di Capitanata _______________ ni. 15 - J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II.. cit., pp. 13-14. 16 - ID., p. 104, ove si riporta una estesa citazione dalla Cronaca di Giovanni Villa- 17 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici secundi, a cura di J. L. A. Huillard-Bréholles, V, 2, Parisiis, 1859, pp. 793-798. Un'indagine molto accurata sulle leggi promulgate a Foggia in quella occasione è stata compiuta da A. CARUSO, Indagini sulla legislazione di Federico II di Svevia per il Regno di Sicilia. Le leggi promulgate a Foggia nell'aprile 1240, in "ARCHIVIO STORICO PUGLIESE", Bari, IV, 1 (1951), pp. 41-68. 20 invitate a mandare al "parlamento" ciascuna due rappresentanti, sono menzionate nelle elencazioni ufficiali solo Montesantangelo, Siponto, Civitate e Troia. A Foggia, nel dicembre 1241, morì l'imperatrice Isabella, sorella di Enrico III d'Inghilterra18. Se è vero che a Foggia, giustamente celebrata come "sede regale ed imperiale"19, Federico fece costruire il suo palazzo e che negli immediati dintorni (come al Pantano, presso San Lorenzo in Carmignano) volle che gli fossero edificate delle residenze per i suoi svaghi (le cosiddette domus solatiorum), occorre puntualizzare il significato politico della sua scelta. Più che alla città in se stessa, sembra meglio estendere all'intera Capitanata quel ruolo di "territorio regio centrale", che dalle ricerche del Brühl in poi si vanno evidenziando20, sulle orme di una rivalutazione (soprattutto per motivi politici) dei territori "continentali del Regno, già osservabile all'epoca di Enrico VI. E’ sembrato anzi operante una sorta di "modello bipolare"21 nelle strutture amministrative del Regno sin dalla metà del secolo XII, in corrispondenza delle diverse tradizioni ed influenze culturali riscontrabili, da un lato, in Sicilia e in parte della Calabria e, dall'altro, nelle regioni poste più a nord del fiume Sinni. Nel primo caso, i Normanni avrebbero riscontrato una prevalenza culturale arabo-bizantina; nel secondo, un'altra di stampo longobardo-romano. Questo modello bipolare sarebbe stato recepito, se non addirittura perfezionato, da Federico II, mediante una ulteriore suddivisione delle "capitanerie"; quella a nord di Roseto Capo Spulico e che raggiungeva versonord il fiume Tronto fu ulteriormente strutturata su due poli, l'uno incentrato su Napoli e l'altro sulla Capitanata ________________ 15. 18 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., VI, 1, Parisiis, 1860, p. 19 - L'espressione fa parte di una celebre iscrizione superstite, destinata appunto al palazzo imperiale di Foggia. Per una analisi epigrafica recente, si veda: F. MAGISTRALE, La cultura scritta latina e greca. Libri, documenti, iscrizioni in FEDERICO II: immagine e potere, a cura di M. S. Calò Mariani e R. Cassano, Venezia, 1995, pp. 125-141, particol. pp. 134-135. Per l'aspetto architettonico, si veda: FRESTA, Il portale del palazzo di Foggia, ivi, pp. 234-237. Tra i lavori precedenti, menta di essere ricordato almeno il saggio di M. BELLUCCI, Il palazzo imperiale di Foggia, in "ARCHIVIO STORICO PUGLIESE", Bari, IV, (1951), 1, pp. 121-136. 20 - C. BRÜHL, L'itinerario italiano dell'imperatore: 1220-1250 in FEDERICO II e le città italiane, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo, 1994, pp. 34-47, particol. p. 43. 21 - Cosi si esprimono J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II.. cit., pp. 100-102. 21 Lasciando da parte le questioni concernenti la città di Napoli22 , che hanno almeno in parte una loro specifica caratterizzazione, il suddetto bipolarismo "continentale" ha indotto la maggior parte dei ricercatori a spiegarlo come un effetto di una diversa visione politica rispetto all'età normanna. Federico II avrebbe infatti ritenuto opportuno spostare il centro direzionale dello Stato in zone strategicamente meglio collocate, donde i confini dei territori pontifici e le città della pianura padana potevano essere raggiunti più facilmente che dalla lontana Sicilia. Quale che sia stato il peso di queste valutazioni, tali da non poter essere ragionevolmente escluse dai calcoli politico-militari dello Svevo, è sembrato ad alcuni studiosi23 che esse abbiano tutt'al più permesso una felice concordanza di esigenze proprie di quella fase storica con elementi strutturali di antica origine. Pur essendo molto apprezzabile questo impegno esegetico, resta incontrovertibile (secondo un'opinione quasi unanime) la predilezione di Federico II per la Puglia e per la Capitanata in particolare. Ciò viene generalmente collegato a quel celebre appellativo (che è rimasto, più di altri, in auge nella tradizione storiografica e nel linguaggio comune) di puer Apuliae; egli stesso amava definirsi, più semplicemente, unus ex Apulia. Tra le fonti in proposito, ci limitiamo a menzionare quelle provenienti da ambienti di ispirazione profetica e gioachimita. A Michele Scoto, il celebre astrologo di corte, è d'altro canto attribuita la descrizione di Federico II come giustiziere e martello del mondo (malleus orbis), destinato a regnare nella pace su tutta la terra: infatti, egli concludeva profeticamente, "Et puer Apuliae terras in pace tenebit”24. E’ appena il caso di ricordare che il significato di questo appellativo è stato esaminato da parecchi studiosi nelle sue varie potenzialità ed estensioni; non si è mancato anzi di cogliere, nell'epistolario fridericiano, qualche espressione volta a celebrare le radici germaniche della sua stirpe. Mi sembra però, a questo proposito, che la prova di ________________ 22 - ID., op. cit., pp. 81-111 (l'intero cap. IV). 23 - ID., op. cit., pp. 101-102. 24 - Per l'intera tematica e la relativa bibliografia (concernente sia le fonti che la letteratura), si veda il mio saggio Federico II e Fiorentino fra storia e leggenda, in CONVEGNO DI STUDI MEDIOEVALI DELLA CAPITANATA, I; 1984; Torremaggiore, Federico II e Fiorentino, atti a cura di M. S. Calò Mariani, Galatina, 1985, pp. 2337, particol. p. 24 e nn. 13-15. Si aggiunga J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II.. cit., p. 101. 22 una eventuale contraddizione risulterebbe assai debole, oltre che spiegabile (allo stato attuale delle conoscenze) con la tipologia stessa delle fonti utilizzate. Per tornare all'appellativo di puer Apuliae, si è osservato (ad esempio) che il primo termine richiama evidentemente il concetto della giovinezza dell'imperatore, quale apparve ai suoi sudditi tedeschi nel corso dell'avventurosa impresa contro Ottone IV. Vi era insita però anche l'idea di una "giovinezza" fuori del tempo, espressione e simbolo di precocità di intelligenza, di inesausta curiosità intellettuale e di instancabilità nell'azione; a queste doti si aggiungeva una quasi innata maturità di giudizio, acquisita nei duri e desolati anni della sua infanzia palermitana. Il secondo termine rievoca sì l'Apulia, ma sostanzialmente in riferimento all'intero Regno, col quale veniva comunemente a identificarsi l'ambito geografico definito dall'appellativo. Sta di fatto comunque, al di là della sua indiscutibile valenza storico-lessicale, che l'appellativo di puer Apuliae nel suo significato più circoscritto (limitato cioè solo alla parte settentrionale della Puglia) ben si addice a Federico II, che amò soggiornare in quella "magna Capitana", cui faceva cenno re Enzio nel suo nostalgico canto ("e vanne in Puglia piana, la magna Capitana"). Ancor più chiaramente, l'imperatore stesso rievoca i soggiorni suoi e della sua corte in Capitanata, con espressioni di grande effetto per queste terre di Puglia: "Cum solatiis nostris Capitinate provinciam frequentius visitemus et magis quam in aliis provinciis regni nostri moram sepius trahimus ibidem... "25. Nel suo palazzo di Foggia, nei numerosi castelli e loca solatiorum disseminati in ogni angolo del territorio, tra i suoi fedeli saraceni di Lucera, Federico trascorse probabilmente la parte migliore della sua vita e lasciò indelebile ricordo della sua presenza imperiale. A questo punto è opportuno esaminare un po' più da vicino gli effetti provocati sul territorio e sulle popolazioni della Capitanata dalle scelte di Federico II. Di recente è stata avanzata una proposta interpretativa molto interessante e che ha una sua indubbia suggestione, anche se manca la prova della reale programmazione di un piano consapevolmente elaborato in tutti i suoi aspetti. In Capitanata dunque Federico avrebbe progettato di ricostruire il paesaggio e le strutture che aveva _______________ 25 - J. L. A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia... cit., VI, 2, p. 943 (1240 maggio 2, da Orta). 23 conosciuto in Sicilia, a Palermo e nei suoi dintorni26. Il territorio circostante Foggia doveva essere perciò piegato alle esigenze proprie del soggiorno di un grande sovrano, con le sue riserve di caccia, i palazzi e le residenze di campagna; tutto il resto inoltre doveva servire di supporto e per le esigenze logistiche, sotto il controllo e la diretta amministrazione dei funzionari imperiali. Il modello era evidentemente quello normanno, con il Palazzo regio di Palermo ed una corona di residenze suburbane, come quelle celebri della Favara, della Cuba e della Zisa, adorne di mosaici e giochi d'acqua.27 Per quanto riguarda la Capitanata, le testimonianze circa il tipo di interventi effettuati da Federico II sono proporzionalmente abbastanza esigue, ma soprattutto quasi sempre ambigue o reticenti rispetto alle loro finalità. Di sicuro a partire dagli anni Venti, dopo il suo ritorno dalla Germania, ma ancor più sistematicamente dagli anni Trenta del secolo XIII, si procede alla formazione ed al rafforzamento di nuovi assetti territoriali. Un impegno notevole è innanzitutto riscontrabile, analogamente del resto a quanto si osserva per le altre regioni del Regno, nella creazione o nel restauro di una cospicua rete castellare, che cingeva dal Gargano all'Appennino la pianura del Tavoliere e che si integrava, in linea con il concetto strategico di difesa “passiva”21 elaborato da Federico, con le cinte murarie delle città. Nella serie dei castelli esistenti in età fridericiana si possono annoverare, in pianura, quelli di Tressanti e Versentino; a nord, verso il Molise, quelli di Termoli, di Serracapriola e di San Marco La Catola; raggiunti con quest'ultimo i contrafforti del Subappennino dauno, la linea di castelli continuava ad ovest con Lucera, Biccari, Troia, Castelluccio Valmaggiore, Bovino, Deliceto, Sant'Agata di Puglia (con la menzione anche di una Rocca Sant'Agata) ed infine Monteverde, verso Melfi; in area garganica abbiamo i castelli di Lesina, Devia, San Nicandro, Vico, Peschici, Vieste, Monte Sant'Angelo e Castelpagano, cui sono da aggiungere le fortificazioni esistenti nell'isola di San Nicola delle ______________ 26 - J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II... cit., pp. 45-49. 27 - ID., op. cit., pp. 21-22; cfr. H. BRESC, I giardini palermitani in FEDERICO II: immagine... cit., pp. 369-375. 28 - J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II.. cit., pp. 69-72 e passim; cfr., per la difesa militare della Capitanata, ID., op. cit., pp. 72-78, e R. LICINIO, Castelli medievali, Bari, 1994, pp. 131-134. 24 Tremiti; alla difesa del fianco meridionale provvedevano ovviamente i castelli della fascia settentrionale della Terra di Bari. A parte quelli ricordati nello Statutum de reparatione castrorum, dovremmo tener conto anche delle altre fortificazioni di cui ci è nota l'esistenza, ma che non sono menzionate nel suddetto documento perché di pertinenza feudale; abbiamo inoltre delle torri (come quella di Torre Mileto, che subì varie vicissitudini) e dei monasteri fortificati (come Sant'Angelo di Orsara), che sono quindi da aggiungere ai castelli di Civitate, Dragonara, Pietra Montecorvino, Montecorvino, Tertiveri, Ascoli Satriano e, probabilmente, Panni. In alcuni casi sussistono forti dubbi circa la loro datazione, se non addirittura circa la loro effettiva individuazione, come ad esempio in riferimento a San Severo29. All'imponenza di questo sistema castellare, che inevitabilmente venne a pesare sulla popolazione non solo per costituirlo, ma ancor più per mantenerlo costantemente in perfetta efficienza, corrispondeva la complessità della rete delle domus solatiorum, in Capitanata molto più numerose che nelle altre province del Regno: ne sono state contate infatti ben ventotto, ventidue delle quali nel Tavoliere e le restanti nella fascia pedegarganíca30. Non mette conto, a mio parere, riportare ancora una volta l'elenco di queste domus, di solito contigue ad insediamenti rurali (come i casali) o ad agglomerati urbani di maggiore importanza; talvolta erano invece completamente isolate o vicine a qualche chiesa. Se infatti le loro caratteristiche generali sono da tempo note, mancano in molti casi delle indagini particolareggiate, che potrebbero di sicuro fornire ulteriori elementi per una esatta valutazione del fenomeno. La questione è tanto più rilevante quanto maggiore è attualmente l'interesse per riconoscere l'impatto sul territorio delle scelte di Federico II, con i relativi contraccolpi nell'habitat preesistente. Da questo punto di vista andrebbero esaminati anche i criteri riguardanti l'installazione e la regolamentazione delle masserie regie31, volti a garantire _______________ 29 - A. CASIGLIO, "Bellumvidere". Il castello e le mura di San Severo, Foggia, 1995 (I Quaderni del Rosone, 10). 30 - Si vedano gli elenchi approntati da R. LICINIO, Castelli... cit., pp. 132-133, e da J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II.. cit., pp. 25-26. 31 - Per questo argomento è utile la consultazione di R. LICINIO, Uomini e terre nella Puglia medievale. Dagli Svevi agli Aragonesi, Bari 1983. Molto interessanti 25 loro non solo la stabilità economica ed un autonomo sviluppo, ma soprattutto il loro inserimento in un contesto territoriale organicamente coerente. In relazione alle nuove esigenze dell'imperatore potrebbero porsi, ad esempio, la scomparsa o almeno le alterne vicissitudini dì alcuni casali preesistenti. Abbiamo notizia, a tal proposito, della scomparsa del casale di Fabrica32, appartenente al monastero della SS. Trinità di Cava e sito tra Ordona e San Lorenzo in Carmignano, a sud di Foggia. E’ anche vero però che il casale venne ripopolato qualche tempo dopo con una colonia di Armeni, in base ad accordi stipulati nel maggio 1272. Abbastanza eloquenti, ma oscuri circa le cause e le circostanze connesse, sono alcune notizie riguardanti gli abitanti di San Lorenzo in Carmignano 33. In alcuni atti, risalenti al 1237, si fa cenno infatti ad una trasmigrazione degli abitanti di San Lorenzo in altri casali di proprietà dell'imperatore ("tempore transmigrationis Laurentinorum per nova imperialia casalia"); da queste stesse dichiarazioni si ricava.però anche che il casale di origine rimase abitato e centro di trasformazione dei prodotti agricoli. Vi è citato infatti un trapetum (cìoè un frantoio) di proprietà della curia episcopale di Troia, per la macinazione delle olive, delle quali era evidentemente abbondante la produzione nei dintorni; sì fa inoltre esplicito riferimento agli abitanti attuali del casale e, soprattutto, ad un pubblico notaio del luogo (un Iacobus castri Sancti Laurentii publicus notarius"), che provvide a rogare tutti e tre gli atti in questione. A parte ogni altra possibile interpretazione, queste testimonianze ci permettono di osservare (come sì può costatare anche in altri casi _______________ e stimolanti sono le considerazioni espresse da F. SINATTI D'AMICO, Territorio, città e campagna in epoca federiciana: exemplum Apuliae, in GIORNATE FEDERICIANE, VI^; 1983; Oria. Atti. Bari, 1986, pp. 75-112 (Società di Storia Patria per la Puglia. Convegni, XVII). 32 - J. M. MARTIN - G. NOYÉ, La Capitanata nella storia del Mezzogiorno medievale, Bari, 1991, pp. 74-75 (Società di Storia Patria per la Puglia. Studi e ricerche, IX). Un'analisi dettagliata della presenza degli Armeni si trova ora in P. CORSI, Bisanzio e la Puglia. Linee di ricerca per la storia del Mezzogiorno nel Medioevo, Bari, 1994, p. 27. 33 - Si veda il cap. IX del volume di J. M. MARTIN - G. NOYÉ, La Capitanata... cit., pp. 231-261, che riproduce in traduzione italiana un saggio già apparso in francese nel 1987. Gli atti sono stati duplicati da J. M. MARTIN, Les chartes de Troia, I, 1024-1266, Bari, 1976, docc. nn. 153-156, pp. 422-427 (Codice Diplomatico Pugliese, XXI). 26 affini), che la vicinanza di un insediamento imperiale consigliava, quando era già disponibile, di non lasciar disperdere una popolazione in grado di fornire eventualmente la manodopera necessaria per i servizi della domus. Quella detta “del Pantano”34, nei pressi appunti di San Lorenzo in Carmignano, era dotata di un vivarium, cioè di uno specchio d'acqua all'interno di un parco, in modo da offrire un habitat ottimale soprattutto per gli uccelli acquatici: Federico II, ci riferisce Giovanni Villani, "fece il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia in Puglia"35. I trasferimenti cui si è fatto cenno possono probabilmente essere annoverati tra i modi di redistribuzione di una popolazione localmente esuberante, a vantaggio di altri nuclei carenti di braccia. Nulla esclude, a tal proposito, che l'imperatore abbia applicato il metodo, divenuto consueto dagli inizi degli anni Trenta, delle revocationes36: si trattava cioè di recuperare al demanio quanto (in beni e in uomini) era stato usurpato dai signori feudali o da chiunque altro, approfittando del prolungato e tormentato periodo di crisi attraversato dalla Corona, a partire dalla morte di Enrico VI. Un po' più difficile risulta individuare quali siano stati gli altri casalia imperialia beneficiari dei suddetti trasferimenti. Uno potrebbe essere stato Ordona 37, di cui risultano abitanti i personaggi che, nella documentazione in precedenza menzionata, rivendicano le loro proprietà nel territorio di San Lorenzo. Federico II non solo avrebbe ripopolato Ordona, ma vi avrebbe fatto costruire una delle sue domus, collegata ad un preesistente castellum e contigua appunto al casale. Ordona, tra l'altro, è menzionata con la sola Lucera tra le località fondate da Federico II in Puglia, in un elenco largamente incompleto ed impreciso riportato dallo pseudo-Iamsilla38. Di altri casali eventual_______________ 34 - M. S. CALÒ MARIANI, Lo spazio dell'ozio e della festa in FEDERICO II: immagine... cit., pp. 357-363. 35 - G. VILLANI, Cronica, in Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani secondo le migliori stampe e corredate di note filologiche e storiche, I, Trieste, 1857, libro VI, c. 1, p. 76. 36 - J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II... cit., pp. 36-37. 37 - R. LICINIO, Castelli... cit., pp. 151-152; cfr. J. M. MARTIN - G. NOYÉ, La Capitanata... cit., p. 237. 38 - NICOLAI DE JAMSILLA, De rebus gestis Frederici II imperatoris eiusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae regum, in G. DEL RE, Cronisti... II, cit., pp. 105-200, particol. p. 106. 27 mente fondati da Federico II in Capitanata non si hanno notizie certe; si può solo ritenere, in genere, che tra di loro vada annoverato qualcuno di quelli (e sono abbastanza numerosi) che appaiono documentati per la prima volta in età sveva; L'incertezza in proposito non permette però di utilizzarli per fl nostro argomento. Abbastanza numerose in Capitanata, più che in qualsiasi altra parte del Regno, erano anche le masserie regie (come quelle di San Chirico, Versentino, Castelluccio, Visciglito, Tressanti, Celano, Foggia ed Apricena), per le quali mancano però notizie adeguate riferibili all'epoca sveva39. Di sicuro sappiamo che Federico II, con un mandato dell'8 aprile 1240 da Foggia ed un altro, del 2 maggio successivo da Orta (per la cui masseria regia ci è rimasto un importante inventario del 1279), vi custodiva gli armenti e le greggi che faceva venire dalla Calabria e dalla Sicilia40. Nel primo caso, si trattava di cinquemila castrati (o, in alternativa, altrettanti arieti ben nutriti, pingues) e di mille vacche ("che siano buone da mangiare", anzi "que sint habiles ad edendum"), oltre a seimila pezze di formaggio. Nel secondo caso, si trattava invece di seimila pecore con i loro arieti (dieci ogni cento) e cinquecento vacche con i relativi tori; queste mandrie dovevano servire, scriveva l'imperatore, "ad usum familiae nostrae". Di solito le masserie regie erano utilizzate per l'allevamento del bestiame, ma non mancavano i seminativi. In qualche caso, come a Corleto (non lungi da Ascoli Satriano), ci troviamo dì fronte ad una marescalla, cioè ad una fattoria per la riproduzione degli equìni41. Alla Capitanata, e mi sembra che questo fugace cenno sia davvero minimo rispetto all'importanza dell'insediamento, si collega il trasferimento dei superstiti saraceni dalla Sicilia a Lucera 42 , a cominciare dal _______________ 39 - Supra, nota n. 31. 40 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia cit., V, 2, pp. 884 (Foggia, aprile 8) e 943-944 (Orta, maggio 2). 41 - QUATERNUS de excadenciis et revocatis Capitinatae de mandato imperialis maiestatis Frìderici secundi, a cura di A. Amelli, Montecassino 1903, p. 15: item est ibi domus domini Imperatoris que est marescalla, extra Cornetum non longe a Fonte". 42 - P. EGIDI, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912; F. GABRIELI, La colonia saracena di Lucera e la sua fine, in GIORNATE... IV^, cit., pp. 73-79; ID., Storia, cultura e civiltà degli Arabi in Italia in Gli ARABI in Italia, Milano, 1979, pp. 15-269, particol. pp. 103-104 e 146-147. Si vedano inoltre i saggi 28 1224-25; nel giro di poco più di un decennio, la città assunse un'impronta nettamente musulmana. L'impatto sul territorio circostante dì questa popolazione, trapiantata dalla Sicilia, fu notevole, sia per effetto della sua vivacità ed intraprendenza, sia in conseguenza (diretta o indiretta) del suo isolamento di origine religiosa rispetto al contesto circostante. Dal punto di vista dell'imperatore, non vi fu scelta politica più felice, dato che egli potè sempre contare sul valore e la fedeltà delle sue truppe saracene (particolarmente rinomate nel tìro con l'arco), prive com'erano di altri legami o di altri punti di riferimento. I musulmani di Lucera si segnalarono ben presto anche per l'operosità e la bravura delle loro maestranze in vari campi della coeva produzione artigianale, nello sviluppo dell'agricoltura (per la cui promozione Federico II fornì mille buoi degli armenti imperiali)43 e nella cura del serraglìo, ove erano costoditì ed ammaestrati animali esotici di vario genere (come leopardi, cammelli ecc.), dei quali l'imperatore amava circondarsi. A Lucera, probabilmente per adornare la sua residenza, Federico fece trasportare nel 1240 da Napoli alcune statue; anzi, per timore di eventuali incidenti di percorso, ordinò che l'operazione avvenisse esclusivamente mediante l'impiego di uomini a tal fine incaricati, che dovevano trasportarle sulle proprie spalle44. La presenza dei Saraceni, i "figli di Belial" (in contrapposizione ai "figli della luce", cioè dei cristiani)45 fu ovviamente mal sopportata dalle autorità religiose e costituì sempre uno dei ricorrenti capi di accusa nella libellistica antimperiale. A rinfocolare l'ostilità delle popolazioni cristiane circostanti concorrevano ovviamente gli occasionali contrasti d'interesse e la stessa prosperità della colonia saracena, _______________ pubblicati nella Miscellanea di storia lucerina, II. (Atti dei CONVEGNO DI STUDI STORICI, III); Lucera, 1989. Si tratta, più precisamente, delle relazioni svolte da J. M. MARTIN, I Saraceni a Lucera. Nuove indagini, pp. 11-34; P. CORSI, Aspetti di vita quotidiana nelle carte di Lucera del secolo XIII, pp. 37-75; N. TOMAIUOLI, La fortezza di Lucera. Indagini e scavi dall'800 ad oggi, pp. 105-119 e tavv. 12. Di quest'ultimo autore si veda anche La fortezza di Lucera, Foggia, 1990 (Guide 1). 43 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., V, 1, Parisiis, 1857, pp. 627-628 (Pisa, 1239 dicembre 25); cfr. P. CORSI, Federico II e Fiorentino... cit., pp. 27 e 32, note nn. 44 e 45. 44 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia ... cit., V, 2, p. 912 (Foggia, 1240 aprile 22); cfr. P. CORSI, Federico II e Fiorentino ... cit., pp. 27 e 32, note n. 47. 45 - P. CORSI, Federico II e Fiorentino... cit., pp. 27 e 32-33, nota n. 48, 29 che cercava inevitabilmente di consolidare e di ampliare i propri spazi vitali. Del resto, la densità demografica del nuovo insediamento, cui forse si aggiunse precariamente qualche altro nucleo (come quello di Stornara) non poteva che sconvolgere gli assetti già consolidati delle popolazioni confinanti e provocare scontri e tensioni. Tra i primi casali ad essere coinvolti e a subire con l'abbandono o la distruzione le estreme conseguenze, si possono annoverare i casali di San Pietro in Bagno e di San Salvatore "dell'abate Aldo" (Abbatis Aldi), per citare solo gli inizi di una conflittualità prolungatasi sino all'alba del Trecento 46. E noto infatti che i Saraceni non esitavano ad occupare i terreni delle universitates vicine ed anche quelli demaniali; il risvolto positivo di questa pericolosa intraprendenza si riscontra nella crescita della produzione cerealicola, che non compensa tuttavia lo sconvolgimento sociale ed economico provocato dalla loro venuta in Capitanata. Dal punto di vista degli assetti territoriali, grande importanza ebbe (com'è ovvio) la normativa imperiale circa le revocationes di terre e di uomini e le modifiche delle strutture amministrative. La politica di Federico II, a partire già dal 1220 (ma, ancor più decisamente, dal 1230) fu intesa ad incorporare nel demanio il maggior numero possibile di terre feudali. In Puglia, molte contee, ancora esistenti nei primi decenni del secolo XIII, finirono per essere incorporate nel regio demanio. Ne fu esclusa solo l'area (corrispondente all'incirca al promontorìo garganico ed a qualche zona circostante) compresa nel cosiddetto Honor Montis Sancti Angeli47, tradizionalmente destinato alla funzione di dotario delle consorti del sovrano, come fu appunto per Costanza d'Aragona e le altre che seguirono, di fatto perciò anche l'Honor era amministrato dai giustizieri del governo centrale. Con le sue disposizioni testamentarie Federico lo lasciò in eredità a Manfredi, insieme al principato di Taranto 48. _______________ 46 - J. M. MARTIN, I Saraceni... cit., p. 21; P. CORSI, San Severo nel Medioevo in STUDI per una storia di Sansevero, a cura di B. Mundi, I, San Severo, 1989, pp. 165-337, particol. p. 294. 47 - P. F. PALUMBO, Honor Montis Sancti Angeli, in "ARCHIVIO STORICO PUGLIESE", Bari, VI (1953), pp. 306-370. 48 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., VI, 2, Parisiis, 1861, pp. 805-810, particol. p. 807: "Concedimus etiam eidem civitatem Montis Sancti Angeli cum toto honore suo, onnibus civitatibus, castris et villis, terris, pertinentiis et 30 In pochi casi ci sono sufficientemente noti i risultati di alcune specifiche vicende, concluse a vantaggio del fisco imperiale; molto spesso però ci sfugge la validità giuridica delle ragioni accampate e le vere motivazioni dei fatti. Riccardo da San Germano 49 fa risalire al 1234, senza però fornire adeguate spiegazioni, l'ordine dell'imperatore di distruggere alcuni casali della Puglia e di confiscare quello di Castiglione, di proprietà di Montecassino, provvedendo inoltre al suo ripopolamento; al monastero vengono tuttavia riconfermati i beni posseduti ìn Troia50. Subisce la confisca anche il castrum di Apricena, ove venne costruita una domus verso il 1225, a danno del monastero di San Giovanni in Piano. Come si specifica in un privilegio all'abate Roberto dell'aprile del 1221, la "villa nostra Precine" non era da ritenersi compresa nell'originaria donazione che il conte Petrone di Lesina aveva compiuto in favore del monastero51. Venne invece confermato, con tutti gli altri privilegi di cui godeva, il possesso del casale di San Trifone (di cui si è fatto cenno in precedenza) e della chiesa dì San Nazario di Caldule, con la vicina sorgente e il fiume che ne scaturiva, anch’essi beni donati dal conte Petrone. Da confische più o meno pesanti vennero colpiti due altri importanti monasteri della Capitanata.- A quello di San Giovanni in Lamis52 (oggi San Matteo) Federico tolse i casali di Fazioli e di Sala; in quest'ultimo vi avrebbe costruito "palacium unum soleratum cum camera", tre (o addirittura cinque) case ed un trappetum. Sembra inoltre che questo monastero sia stato spogliato anche del casale di San Giovanni _______________ justitiis et rationibus cidem honori pertinentibus, scilicet que de demanio in demanium et que de servitio in servitium". 49 - RYCCARDI DE SANCTO GERMANO NOTARII Chronica, ed. C. A. Garufi, Bologna, 1938, p. 189 (RJ.S., VII, 2). Questo casale risulta già distrutto in un atto del 1162: T. LECCISOTTI, Le colonie... cit., IV: Troia, Montecassino, 1957, doc. n. XXXI, pp. 99-100, particol. p. 99, rr. 4-5: "... considerantes destructionem casalis Castellionis quod est nostri monasterii situm in territorio Troianae civitatis". 50 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., VI, 2, pp. 795-797; cfr. T. LECCISOTTI, Le colonie... cit., IV, doc. n. XLII, pp. 113-117 (Troia, ottobre 20), con una redazione più ampia. 51 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., II, 1, Parisiis, 1852, pp. 166-169, particol. p. 168, rr. 17-21; cfr. per altra bibliografia, P. CORSI, Federico II e Fiorentino... cit., p. 25. 52 - J. L. A, HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia.. cit, V, 1, pp. 249-258, particol. p. 252; cfr. P. CORSI, Federico II e Fiorentino…. cit., p. 26 e bibliografia ivi citata. 31 Rotondo, una delle sue principali dipendenze. Si diceva infatti che Enrico VI, padre dell'imperatore Federico II, avesse distrutto l'antico insediamento (il Castellare) posto in cima ad un monte, per ricostruirlo alle sue pendici nell'attuale sito. Vera o falsa che fosse questa tradizione, essa servì a Federico per impadronirsi di San Giovanni Rotondo. Col monastero di San Pietro di Terra Maggiore" (oggi Torremaggiore), i cui ricchi possedimenti si estendevano nella parte settentrionale del Tavoliere, i rapporti furono abbastanza tempestosi. Nel dicembre 1227, ad esempio, Federico Il proibiva al monaco cassinese Gregorio de Carboncello dì assumere le funzioni di abate del monastero; nessun problema invece ci fu nella conferma di una disposizione del defunto Matteo Gentile, conte di Lesina, circa la consegna della consueta quantità di anguille al monastero54. Ben più grave fu ovviamente la confisca dei casali di Sant'Andrea de stagnis e di San Severo55, cioè delle più prospere e popolate dipendenze di Terra Maggiore. Già nel 1236, mentre si trovava all'assedio di Mantova, l'imperatore si preoccupava di rispondere in proposito alle accuse di Gregorio IX; ci ritornava su nel 1238, in maniera più dettagliata, ma le sue giustificazioni continuano ad apparire un po' confuse56. In sintesi, Federico dichiarava in primo luogo che egli aveva dato corso solo ad una permuta consensuale, indennizzando il monastero di San Pietro con il casale di Riccia, ai confini del Molise, e con 500 once d'oro; San Severo inoltre, a quel che gli risultava, non apparteneva in totum all'abbazia, che vi esercitava solo dei diritti feudali; ne conseguiva che anche un'eventuale confisca sarebbe stata comunque giustificata. Federico II non tralascia_______________ 53 - Si veda, in proposito, la monografia di T. LECCISOTTI, Il "Monasterium Terrae Maioris", a cura di M. Fuiano, Torremaggiore, 1983 (1^, ediz.: Montecassino 1942). 54 - RYCCARDI DE SANCTO GERMANO..., Chronica.... cit., p. 149, rr. 9-10 e 1314; cfr. T. LECCISOTTI, Il "monasterium..." cit., pp. 38 e 94, regesto n. 38. Per le anguille: J. L. A. HIILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., V, 2, pp. 755-756; cfr. P. CORSI, I monasteri benedettini... cit., p. 76, e ID., Federico II e Fiorentino... cit., p. 26. 55 - T. LECCISOTTI, Il "monasterium..." cit., p. 39; cfr. P. CORSI, Federico II e Fiorentino... cit., p. 26. 56 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., IV, 2, Parisiis 1855, pp. 905-913, particol. p. 909 (Mantova, 1236, settembre 20) e V, 1, pp. 249-258, particol. p. 252 (Cremona, 1238, ottobre 28); cfr. P. CORSI, I monasteri benedettini... cit., p. 26, e ID., San Severo... cit., pp. 190-195. 32 va neppure l'accusa di aver punito gli abitanti di quell'insediamento per la loro ribellione, ma di ciò si farà cenno tra poco. Non mancano tuttavia neppure testimonianze circa l'esistenza di rapporti meno traumatici con gli enti ecclesiastici della Capitanata. Nell'agosto del 1209, ad esempio, concedeva a Benedetto, priore del monastero di Santa Maria del Gualdo e al monastero di San Matteo di Sculcola (dipendenza del precedente, da cui prende nome l'Ordine dei Gualdensi) la sua protezione e la conferma dei possedimenti e dei consueti privilegi57. Al dicembre 1220 risale la conferma dei privilegi e dei possedimenti di Monteverginell, dal conte Matteo Gentile di Lesina: "Insuper concedimus et confirmamus ipsi monasterio habere et percipere perpetuo de lacu Alesine annuatim sexaginta sertas anguillarum de grossis et supergrossis...". Di notevole importanza, per il cospicuo numero di dipendenze menzionate, è la conferma del maggio 1225 in favore del monastero di Santa Maria di Pulsano"; altrettanto significativi sono i privilegi in favore di Cava, di San Lorenzo di Aversa, dei Gerosolimitani e dei Cavalieri del S. Sepolcro. Tra il 1230 e il 1231 si datano una conferma e una donazione dell'imperatore in favore dell'Ordine dei Teutonici, nella persona del suo gran maestro Errnanno di Saltz60. La prima riguarda, tra l'altro, i possedimenti in località Belvedere, fra Apricena e San Nicandro; la seconda concerne invece delle terre seminative in territorio di Ascoli, nelle località Aqualata e Bisciglieto. Per quanto poi si può cogliere circa l'atteggiamento di Federico II nei confronti dell'episcopato di Capitanata, ci limitiamo a segnalare i _______________ 57 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., I, 1, Parisiis 1852, pp. 14915 1; cfr. P. CORSI, I monasteri benedettini... cit., p. 85-86, e ID., Federico II e Fiorentino... cit., p. 25. 58 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., II, 1, pp. 86-91 (San Germano, 1220 dicembre), particol. p. 89; cfr. Pp. 404-409 (MELFI, 1224 FEBBRAIO), PARTICOL. P. 406, E 435-438 (SIRACUSA, 1224 GIUGNO), PARTICOL. P. 437. SI VEDA, INOLTRE, P. CORSI, Federico II e Fiorentino... cit., p. 26. 59 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., II, 1, pp. 479-483; cfr. P. CORSI, I monasteri benedettini... cit., p. 65-66, e ID., Federico II e Fiorentino... cit., p. 25. 60 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., III, Parisiis 1852, pp. 195197 (Foggia, 1230 maggio), particol. p. 196, e 302-304 (Melfi, 1231, settembre), particol. p. 303; cfr. P. CORSI, Federico II e Fiorentino... cit., p. 26. 33 casi delle diocesi di Ascoli e di Bovino 61. Rispetto al vescovo di Ascoli, Federico II provvide (dopo apposita inchiesta) a confermarne i diritti sulla riscossione delle decime e della baiulazione nelle città di Ascoli e di Candela; analogo riconoscimento riguardò i diritti episcopali sul casale di Corneto e sui redditi "plateatici" dei chierici e degli ebrei di Ascoli e di Candela. Nel 1223 vennero confermati i privilegi della Chiesa di Bovino, nella persona del vescovo Pietro62. Al 1240 risale invece un mandato imperiale al giustiziere di Capitanata, Riccardo di Montefuscolo, di procedere contro l'arciprete di Rocca Sant'Agata che, senza chiedere l'assenso preventivo del sovrano, aveva tentato di ottenere il seggio episcopale di Bovino. Le scelte adottate da Federico II nella sistemazione complessiva del territorio ebbero conseguenze notevoli anche sugli equilibri urbani. Di Foggia si è già fatto cenno, mentre rinvio per una analisi dettagliata dei primi secoli della sua esistenza ad uno specifico saggio 63; è sufficiente pertanto ricordare ancora una volta che le fortune di Foggia, dal punto di vista politico-istituzionale, raggiunsero il culmine proprio durante il regno di Federico II. Nonostante ciò, l'orgoglioso spirito civico della città, che a lungo aveva alimentato e continuò ad alimentare una tenace contrapposizione al predominio religioso di Troia (capoluogo della diocesi omonima, in cui era compresa anche Foggia), mal sopportava gli inevitabili paesi derivanti dalla presenza della curia imperiale. La stessa situazione di disagio, più o meno aggravata dalle particolari condizioni in cui si trovavano i principali centri demici della Capitanata, finì per sfociare o in episodi di aperta rivolta (con le conseguenti repressioni) o in una fase di decadenza, che investì alcuni di essi in maniera irreversibile. _______________ 61 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., II, 2, Parisiis 1852, pp. 700702 (1226, dicembre); cfr. N. KAMP, Kirche und Monarchie im Staufischen Königreich Sizilien, I, Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfè dos Königreichs 1194-1266, 1, Abruzzen und Kampanien, München, 1973, pp. 229-233, particol. pp. 230-232 (episcopato di Pietro, dal 1205 al 1237), (Münstersche Mittelalter-schriften, 10/I, 1). 62 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., II, 1, pp. 315-317 (San Gerinano, 1223 gennaio); cfr. N. KAMP, Kirche und Monarchie ... cit., pp. 244-248, particol. pp. 246-247, (episcopato di un altro Pietro, che mori nel 1238). 63 - Pubblicato senza le note bibliografiche in un fascicolo ad uso didattico: P. CORSI, Città e villaggi nella Puglia del Medioevo, II, Bari, 1995, pp. 5-108. 34 Per quanto riguarda il primo aspetto, non si può non menzionare la clamorosa decisione di Foggia di passare, con altre città della Capitanata (tra cui San Severo e Casalenovum), dalla parte dei ribelli filopontefici64 La vicenda è riportata dalle fonti con qualche dettaglio, che non ci fornisce però alcun indizio circa le motivazioni dei rivoltosi, troppo semplicisticamente inquadrati nella categoria dei fedigrafi. Gli eventi prendono le mosse dalla partenza, nel giugno del 1228, di Federico II per quella crociata tante volte rinviata e che gli era già costata la scomunica da parte di papa Gregorio IX. Durante l'assenza dell'imperatore, protrattasi per circa un anno, erano scoppiate nel Regno numerose rivolte, fomentate dagli emissari del papa e dalle ricorrenti voci circa la morte di Federico II. Accanto ai consueti motivi propagandistici antighibellini, è probabile che si sia fatto leva (almeno per le città più grandi del Regno) su promesse di concessioni di privilegi e di autonomie (come appunto vennero chiamati dalle loro insegne con le chiavi di san Pietro al posto della croce), al comando di Giovanni di Brienne. La resistenza delle truppe imperiali, comandate dal gran giustiziere Enrico de Morra, cominciò a indebolirsi nei mesi iniziali del 1229, sicché nella primavera di quell'anno le schiere degli invasori cominciarono a penetrare in Puglia. L'aggravarsi della situazione dovette indurre Federico II a tornare immediatamente in Italia, per riprendere il controllo degli eventi. Sbarcato inaspettatamente a Brindisi il 10 giugno del 1229, Federico riuscì a riportare rapidamente l'ordine in tutta la Puglia, mettendo in fuga l'esercito invasore. Abbandonate al loro destino, le città ribelli soggiacquero alla punizione loro inflitta dall'imperatore. Sembra dunque che Federico II abbia fatto colmare i fossati difensivi ed abbattere le mura di Foggia, di Casalenovum e di San Severo; non è da escludere che nella repressione siano state coinvolte anche altre città della Capitanata, come ad esempio Civitate. Ad ogni modo, il caso più eclatante fu certamente quello di Foggia, che rimase per molto tempo priva di mura. Naturalmente l'opera di punizione dei ribelli non si fermò alle mura cittadine, del resto un simbolo poco gradito delle autonomie locali, ma si estese con ogni probabilità a coloro che si erano maggior_______________ 64 - P. CORSI, San Severo... cit., pp. 191-195; ID., Federico II e Fiorentino... cit., p. 26, J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II... cit., p. 42. 35 mente esposti nel compiere attività ostili all'imperatore ed a coloro che avevano osato capeggiare la rivolta. I colpevoli dovettero subire gravi punizioni, non escluse la condanna a morte e la confisca dei beni. Sono probabilmente una traccia di queste severe repressioni (ma, ovviamente, riferibili anche ad altri e successivi avvenimenti) i lunghi elenchi di case e terre, passate in proprietà della Curia imperiale e trascritte dettagliatamente nel celebre Quaternus de excadencfls et revocatis Capitinatae, compilato verso la fine del regno di Federico II65. Nonostante il trattato di pace di Ceprano del 28 agosto 1230, che garantiva tra l'altro l'impunità a coloro che erano stati partigiani della politica pontificia, è da ritenere che continuasse l'epurazione di coloro che si erano compromessi. Perciò Gregorio IX fu costretto ad intervenire in loro favore, come sappiamo da un'epistola da lui inviata all'imperatore, nella quale si raccomandava di usare clemenza nei confronti dei suoi sudditi già ribelli66. Questo documento, indubbiamente fondamentale per la comprensione di quanto era accaduto in una vasta zona (all'incirca, tutta la parte centrale) della Capitanata, è datato da Anagni, il 15 ottobre 1230. Nella sua lettera il papa invitava l'imperatore a non dare ascolto ai malvagi istigatori (a cui, diplomaticamente, si attribuiscono le colpe del sovrano) e quindi a non mostrarsi troppo duro, nel vendicare le offese patite, nei confronti degli abitanti di Foggia, Civitate, Casalenovum, San Severo ed altri luoghi della Puglia ("... ut iniuriam propriam immisericorditer prosequens homines tuos de Fogia... et alios quosdam de Capitinata minus humane pertractes"). Il pontefice insiste a lungo, con tutti i mezzi offerti dal consueto armamentario retorico, per indurre l'imperatore a preferire la misericordia alla vendetta, ad essere paziente delle offese e, in accordo con il papa (loro che erano "duo magna luminaria"), portare la pace e la gioia tra gli uomini. Per quanto riguarda Foggia, le cui mura erano state in precedenza riedificate o rinforzate proprio da Federico II, sappiamo che venne investita nel maggio 1230 dalle truppe imperiali67. Sarebbe stata questa _______________ 65 - Se ne veda l'analisi, da me compiuta, in Città e villaggi... cit., pp. 91-108. 66 - DOCUMENTI tratti dai Registri Vaticani (da Innocenzo III a Nicola IV), a cura di D. Vendola, Trani, 1940, doc. n. 173 (Anagni, 1230, ottobre, 15), pp. 150151. 67 - RYCCARDI DE SANCTO GERMANO.... Chronica... cit., p. 167, rr. 3-4; cfr. J. L. A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia... cit., III, pp. 197-198. 36 l'occasione di quel componimento poetico indirizzato, secondo ben note leggende locali, dall'imperatore alla città, per rinfacciarne il tradimento". In effetti, non pare che gli abitanti abbiano opposto resistenza all'abbattimento delle mura ed allo spianamento dei fossati; sembra anzi che la situazione perdurò in tal modo sino alla fine dell'epoca sveva. Lo comproverebbe innanzitutto un episodio riportato da Niccolò Jamsilla69, databile al 1251, che attesta per di più la partecipazione della città ai moti antisvevi, scoppiati in varie città della Puglia poco dopo la morte di Federico II. Per difendersi dal previsto attacco di Manfredi, appoggiato dai Saraceni di Lucera, i Foggiani avevano infatti cominciato a costruire delle fortificazioni intorno alla città (" ... iam Fogitani aggeribus circumcirca vallare se coeperant"), che furono però costretti di nuovo ad abbattere dopo la loro resa ("... aggeres, quibus se circumquaque vallaverant, explanari mandavit"); furono inoltre condannati a pagare una certa somma a titolo di ammenda. Tutto ciò viene di nuovo confermato qualche anno dopo, nel 1254, allorché l'esercito pontificio,, arroccato in Foggia contro Manfredi, si affrettava a scavare fossati (" ... exercitus papalis qui erat in Fogia, multum se quotidie roboraret vallando se circumcirca in fossatis") e a cingerli di palizzate, tagliando gli alberi del bosco di Palmula ("intendendo et iam succidere nemus Palmulae civitati Fogiae propinquum"), allo scopo ovviamente di rafforzare le difese; una parte almeno dei fossati si rivelò tuttavia poco profonda quindi inidonea a fermare l'assalto dei nemici ("Cum ergo fossata, quae Fogitani, et illi de papali exercitu fecerant circumcirca, non essent multum elevata ... )70. _______________ 68 - Molte furono le città pugliesi destinatarie di versi quasi sempre denigratori, talvolta celebrativi. Sono stati più volte pubblicati, come ad esempio da R. CORSO, I presunti motti di Federico II di Svevia, in "ETHNOS - Bollettino dell'Istituto nazionale di demopsicologia", Napoli, II, 1 (1922), pp. 1-4, da B. PAOLILLO, I distici di Federico II in dileggio delle città di Puglia, Bari, 1924, e da C. Di TARANTO, La Capitanata al tempo dei Normanni e degli Svevi, a cura di A. Ventura, Foggia, 1994, pp. 104-106 (I^, ediz.: Matera 1925). Se ne vedano, da ultimo, la ristampa e la traduzione in italiano, a cura di C. Muserra, in Appendice al Catalogo della Mostra biblio-iconografica della Biblioteca Provinciale di Foggia FEDERICO in biblioteca, Foggia, 1994, pp. 89-113. 69 - NICOLÀ DE JAMSILLA, De rebus gestis... cit., p. 111, rr. 4-9 e 36-38. 70 - ID., op. cit., p. 149, rr. 7-18, e 151, 61-152, 5. 37 A questo elenco, abbastanza significativo circa gli umori della maggioranza degli abitanti, bisogna aggiungere la notizia di un'altra ribellione di Foggia verso il 1234-35, quando la città fu condannata a pagare la grossa ammenda di ben 3600 once d'oro71. Poco meno (3400 once d'oro) dovettero invece pagare, forse in relazione a quella medesima circostanza, gli abitanti di Troiá72, che si era schierata anch'essa nel 1229 dalla parte di Gregorio IX. La tradizione locale ha dettagliatamente descritto le varie fasi della lotta sostenuta dalla città contro l'imperatore, tornato a fare le sue vendette sui ribelli73. Vi è tuttavia, nonostante l'abbondanza di particolari coloriti, una notevole incertezza circa l'evoluzione degli eventi. Verso il 1233 sarebbe stato ordinato l'abbattimento delle mura74 e, poco dopo, il pagamento dell'ammenda di cui si è detto. La dura punizione dovette certamente prostrare l'economia cittadina, come sembra ricavabile anche dalla povertà della documentazione databile in quegli anni e sino alla scomparsa di Federico 75. Sembra anzi che, proprio nel 1250, Troia sia stata abbandonata dai suoi abitanti o che tale sia stato il progetto elaborato dall'imperatore, ma poi non attuato. Tali vicende, per quanto gravi siano state, non impedirono tuttavia che la vita di questa città riprendesse man mano i suoi ritmi consueti, anche se bisognò attendere la morte dell'imperatore per il riscontro di un'effettiva normalità. Sia le fonti che la tradizione non hanno invece tramandato nulla intorno a ciò che avvenne realmente a Civitate ed a Casalenovum. Almeno per quest'ultima località (un florido insediamento tra Foggia e San Severo, non lungi dalla fascia pedemontana del Gargano), sembra poco probabile che ci fossero mura da abbattere; la repressione _______________ 71 - J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II... cit., p. 42. 72 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., IV, 2, pp. 780-783. 73 - Una ricostruzione assai partecipe della rivolta di Troia e della dura repressione ordinata da Federico II si legge in V. STEFANELLI, Memorie storiche della città di Troia (Capitanata), Napoli, 1879, pp. 131-136; cfr. quanto scrive F. TATEO, Atti delle GIORNATE.... VI^, Cit., pp. 195-204, particol. 202-204, in riferimento al Ristretto della città di Troia e sua diocesi di Pietrantonio Rosso. 74 - RYCCARDI DE SANCTO GERMANO..., Chronica cit., p. 184, rr. 14-15. 75 - J. M. MARTIN, Les chartes... cit., p. 72 dell'Introduzione. Circa i progetti dell'imperatore, si vedano: J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., VI, 2, pp. 795-797, particol. p. 797 ("occasione de mandati nostri de exhabitations Troie"); J. M. MARTIN - E. CUOZZO, Federico II.. cit., p. 46. 38 fridericiana dovette quindi limitarsi allo spianamento dei fossati e alla distruzione di eventuali palizzate di legno. Civitate, sita nei pressi del Fortore, è l'insediamento più settentrionale della Capitanata che appare coinvolto in questa catena di ribellioni e di repressioni. Fondata, com'è noto, ai tempi del catepano Basilio Boioannes, era sede episcopale e poi anche centro dell'omonima contea normanna; la sua decadenza fu lenta, ma continua, al punto da risultare abbandonata tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento 76. Qualche indizio più preciso circa i torbidi che sconvolsero gran parte della Capitanata intorno agli anni Trenta, si hanno in riferimento a San Severo (in origine più noto come San Severino)77, l'insediamento che si era andato sviluppando nella zona settentrionale della Capitanata, a partire dagli inizi del secolo XIII. Sembra dunque che nel giugno del 1229 a San Severo o nei suoi pressi venisse ucciso il baiulo Paolo di Logotheta e che venissero predati gli armenti di proprietà del fisco imperiale78. Al ritorno di Federico, anche San Severo (come le altre città ribelli) dovette arrendersi senza condizioni, "ad mercedem suam" (cioè dell'imperatore). Per quanto riguarda questa città, pare che Federico II si sia limitato, nel maggio 1230, a colmare il fossato di recinzione ed a spianare le mura; secondo alcuni79, vi avrebbe costruito un castello o, forse meglio, una rocca; A parte questa ipotesi, che merita ulteriori analisi, la tradizione che attribuisce a Federico la distruzione completa della città non risulta suffragata da alcuna prova sicura. L'unico appiglio in tal senso è costituito da una lettera imperiale del 1238, in risposta alle accuse che a Federico erano state mosse da una delegazione pontificia. Egli dichiarava infatti che il "casale... Sancti Severi... per iudicium fuit iuste distructum 80, in punizione delle colpe dei suoi abitanti. Non credo però che sia il caso di intendere alla lettera questa espressione, che si inserisce in un contesto molto generico e che, soprattutto, non _______________ 76 - Nel 1580 papa Gregorio XIII trasferiva a San Severo la sede episcopale delle ormai diruta Civitate: P. CORSI, San Severo... cit., pp. 312-313. 77 - ID., Op. Cit., pp. 172-186. 78 - RYCCARDI DE SANCTO GERMANO..., Chronica... cit., p. 161, rr. 3-4. 79 - Si veda, da ultimo, N. CASIGLIO, "Bellumvidere..." cit.; cfr., supra, nota n. 29. 80 - J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., V, 1, p. 252; cfr. P. CORSI, San Severo... cit., p. 192. 39 trova alcun riscontro oggettivo. Tra l'altro, se facciamo un confronto con la tradizione riguardante Troia, si nota che nella serie documentaria di San Severo non vi è alcuna rarefazione sospetta, perché già nel 1231 si trova un importante documento ivi regolarmente rogato 81. Più tardi, probabilmente, sono da datare alcuni oscuri cenni all'incendio di oliveti di proprietà della regia Curia e alla distruzione della domus imperiale di Belvedere, di incerta identificazione82 . Di sicuro l'imperatore respinse con decisione, in una lettera a Gregorio IX, l'accusa di aver distrutto o profanato le chiese in genere e, quindi, ancor meno quelle di San Severo. Piuttosto, questo borgo venne tolto (come s'è già visto) al monastero di San Pietro di Terra Maggiore in data anteriore al 1236, quando appunto Federico II scrive al papa, per giustificarsi di questa come di altre accuse. Un'altra importante città della Capitanata, fiorente sin dai tempi dell'impero romano e prestigiosa sede episcopale sin dall'età paleocristiana, evidenzia nel corso della prima metà del secolo XIII un sempre più accentuato declino: si tratta di Siponto 83, che venne certamente danneggiata dalla politica economica promossa da Federico II. In particolare, la città dovette risentire negativamente degli effetti derivanti dal monopolio statale della produzione del sale (a causa dei prezzi fissati d'autorità) e dal declino del commercio, non essendo stata scelta come sede di una delle sette grandi fiere del Regno; a ciò si può aggiungere la sistematica confisca delle terre migliori da parte dell'imperatore, che colpi anche gli Agostiniani del monastero di San Leonardo di Lama Volara. Non vi è dubbio che tali cause siano state più che sufficienti, per innescare ed alimentare dei processi involutivi nella vita di questo insediamento; a ciò si aggiunsero gli effetti nega_______________ 81 - Le PERGAMENE dell'Archivio capitolare di San Severo (secoli XII-XV), a cura di P. Corsi, Bari, 1974, p. XII, nota n. 1 dell'Introduzione. 82 - P. CORSI, San Severo... cit., pp. 193-194. 83 - F. M. DE ROBERTIS, Le comunità monastiche al tramonto del dominio svevo nell'Italia meridionale: il caso emblematico di S. Leonardo di Siponto, in CONVEGNO DI STUDI, IV; 1989; Siponto. Siponto e Manfredonia nella daunia. Atti.... Foggia, 1990, pp. 121-130; ID., Siponto nel XIII secolo: sua recessione socio-economico e cause determinanti, in CONVEGNO DI STUDI, IV; 1993; Manfredonia. Siponto e Manfredonia nella Daunia. Atti.... Foggia, 1995, pp. 62-73. 40 tivi di eventi naturali, come ad esempio i terremoti (forse verso la metà dei secolo) ed un probabile insabbiamento del porto 84. La fine di Federico II giunse quasi improvvisamente, all'età di circa 56 anni; la sorte volle che ciò avvenisse proprio in Capitanata. Ai primi di dicembre 1250 l'imperatore si trovava a Foggia, donde si allontanò per recarsi forse a Lucera o per andare a caccia. Fu invece costretto a fermarsi nella piccola città di Fiorentino, sita tra Torremaggiore e Lucera, a causa di un forte attacco di febbre; ivi, il 13 dicembre ("che fo lo dì di Santa Lucia") spirò85. Il suo corpo venne trasportato per la sepoltura a Palermo, evidentemente dopo un sommario trattamento di imbalsamazione. A tal proposito è interessante ricordare che a Foggia la tradizione riconosceva in un piccolo monumento sepolcrale, esistente sino al terremoto del 1731 nella chiesa cosiddetta Palatina, il posto ove erano stati inumati il cuore e le viscere di Federico II86. Da quanto si è finora detto, senza affatto presumere di aver.esaminato in modo esauriente tutti gli aspetti dell'opera fridericiana, credo che risulti abbastanza chiaramente l'opportunità di una approfondita revisione critica, che sia ugualmente aliena da ipoteche meramente celebrative e da teorizzazioni pregiudizievolmente avverse. Quel che appare certo, in occasione di questo ottavo centenario della nascita di Federico II, è che la poliedricità del personaggio (di sicuro uno dei massimi rappresentanti del mondo medievale) si lascia difficilmente inquadrare nei consueti parametri della storiografia e genera pertanto ambiguità e incertezze nei giudizi. Nel nostro caso, il rapporto tra Federico II e la Capitanata risulta (alla luce degli ultimi studi) ancor più profondo e personale di quanto generalmente non si pensasse. Da questo punto di vista, davvero l'imperatore svevo ha impresso un'orma indelebile nel mondo circostante, quasi un novello demiurgo che riesce a piegare ai suoi voleri le forze stesse della natura e gli animi degli esseri umani. Ai posteri resta il compito di capire nelle loro diverse valenze (politiche, economiche, estetiche ecc.) i risultati conseguiti, negativi o positivi che siano stati, e di inserirli nel grande flusso della storia. _______________ 84 - Sul porto di Siponto e il suo spostamento, si veda P. CORSI, Il Gargano e il mare... cit., p. 145. 85 M. SPINELLI, Diurnali... cit., p. 634. 86 J. L. A. HUILLARD - BRÉHOLLES, Historia... cit., I, 1, Parisiis 1852, p. DXLVIII. 41 L’ungarettiano «Deserto e dopo»: dall’Egitto alla Puglia (*) di Luigi Paglia 1. Le prose ungarettiane del Deserto e dopo¹, come hanno notato alcuni studiosi², tendono irresistibilmente verso la poesia, sia per i costanti intarsi poetici (di poesia colta o popolare, e dello stesso Ungaretti) che ________________ (*) Viene qui pubblicata la parte centrale (limitata all’esame di alcuni motivi) di uno studio dedicato globalmente alle prose di Ungaretti, nel contesto della sua produzione poetica. 1 - Le prose ungarettiane di viaggio e di invenzione, apparse per la prima volta come articoli giornalistici negli anni 1931-1934 sulla "Gazzetta del popolo" di Torino, furono poi raccolte dal poeta in successive ondate di pubblicazioni: 1) il libretto Il povero nella città (Milano, Edizioni della Meridiana, 1949) che raggruppa alcuni brani del 1931 e del 1932, oltre a due poesie e al saggio sul Don Chisciotte del Cervantes; 2) nel numero speciale della rivista "Letteratura" dedicato ad Ungaretti nel 1958, la sequenza di Quademo egiziano che raccoglie le prose egiziane confluite nella prima sezione, dallo stesso titolo, del successivo libro; 3) Il Deserto e dopo, Milano, Mondadori, 1961 (d’ora in poi citato con la sigla DD), che raggruppa la quasi totalità delle prose di viaggio e di invenzione ungarettiane (su cui, quindi, si concentrerà l’attenzione critica) e che è articolato in sei sezioni (ciascuna delle quali è divisa in numerosi ‘capitoli’): Quaderno Egiziano, Monti, marine e gente di Corsica, Mezzogiorno, Il paese dell’acqua, Fiandre e Olanda, Le Puglie, mentre la settima sezione del libro, Páu Brasil, presenta una serie di traduzioni di poeti brasiliani contemporanei, di favole indie della Genesi e di un Canto popolare sertanegio, realizzate da Ungaretti); 4) l’ultimo libretto, Viaggetto in Etruria, Roma, ALUT, 1966, che contiene due scritti del 1935: Sfinge etrusca e Inno al ponte etrusco. A queste opere bisogna aggiungere, o, per meglio dire, premettere, un articolo della "Gazzetta del popolo" del 24-10-1934, Egitto di sera, ripubblicato in "Beltempo", Almanacco delle Lettere e delle Arti, Roma, ed. della Cometa, 1940; e un brano (Lucifero) dei progettato romanzo autobiografico Storia di Turlurù in "Critica Magistrale", a. III, n. 6, 15 marzo 1915, meritoriamente scoperto da U. Sereni (cfr. U. SERENI e C. OSSOLA, L’atto di Lucifero»: Ungaretti apuano, "Lettere italiane", XIII, 1990, n. 3, pp. 388-413). 2 - Cfr. G. CAMBON, La poesia di Ungaretti, Torino, Einaudi, 1976, p. 5, 139; e C. OSSOLA, Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1982 (2a ed.) p. 23 ss. 43 costellano il tessuto delle enunciazioni, sia per lo straordinario scatto ritmico che a volte le percorre, sia per le folgoranti figurazioni metaforiche, sia per il movimento visionario (e\o surreale o barocco) delle rappresentazioni paesaggistiche, sia ancora per l’alta qualità musicale (e ‘pittorica’) delle loro modulazioni; ed, inoltre, perché alcune di esse riecheggiano precedenti testi poetici (Le stagioni, Di luglio, D’agosto, Ti svelerà, Sereno) o perché si sono tradotte successivamente in poesia, avendo costituito la cellula germinativa di composizioni poetiche (come è avvenuto per Monologhetto³, o per il XXIV degli Ultimi cori per la Terra Promessa, o per E’ dietro?) le quali, comunque, trovano nei precedenti o successivi testi prosastici?, che pure sono dotati di assoluta autonomia e qualità estetica, la loro illuminazione o motivazione. Le prose ungarettiane sono definibili, contemporaneamente, come racconti di viaggio e come arabeschi d’invenzione, in quanto sul tronco delle esplorazioni dei luoghi e delle realtà dei singoli Paesi fiorisce la sinuosa divagazione intellettuale e fantastica dell’io narrante6: lo stesso ________________ 3 - In Monologhetto (Cfr. G. UNGARETTI, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969 , pp. 257-62) si intrecciano e si susseguono flashback dell’esperienza còrsa, su cui si innesta una rapida visione pugliese ("Da Foggia la vettura/ a Lucera correndo"), e di quella egiziana (che conclude, specularmente, il poemetto con un ‘ritorno alla nascita’), ed anche di quella brasiliana. 4 – E’ dietro ("E’ dietro le casipole il porticciuolo/ Con i burchielli pronti a scivolare/ Dentro strette lunghissime di specchi,/ Ed una vela, farfalla colossale,/ Ha raso l’erba e, dietro le casipole,/ Va gente, con le vetrici s’intreccia") è quasi un calco di alcuni passaggi della prosa Il mare addomesticato: "Ed ecco il porticciuolo dietro la casipola con i burchiellini pronti a scivolare sulle mille strade liquide. Ecco una vela come una grande farfalla che passa a taglio sull’erba [ ... ] Per il giunco e il vimine che, dietro le casipole sull’acqua, fanno i loro intrecci?’ (DD, pp. 287-8). 5 – E’ possibile disegnare, come ha fatto Cambon (cfr. op. cit. pp. 139-140), la mappa degli itinerari (avanti e indietro nel tempo, delle anticipazioni e dei riecheggiamenti) e delle interazioni o innesti tra prosa e poesia. 6 - Su tale argomento si notino i punti di vista convergenti di Ossola (cfr. op. cit., p. 340: “i «viaggi» di Ungaretti [...]: agnizioni della memoria, agglomerati onirici sul deserto del reale, «galleria» preziosa di reperti salvati dalle rovine, museo di una storia e di una vita che il poeta visita con gusto archeologico, «quale immagine di prima in mente», ultimo «viaggiatore di rovine» che la nostra letteratura abbia prodotto, ideale erede dei poeti romantici, da Goethe alla Corinne ou l’Italie di M.me de Staël), di Cambon” (op. cit., p. 139: “la cronaca è storia interiore; la descrizione, sondaggio?’) e di Giorgio Baroni (Giuseppe Ungaretti, Firenze, Le Monnier, 1980, p. 116: "I luoghi visitati hanno indubbia importanza, quindi, nella traccia delle singole composizioni, ma 44 Ungaretti nell’introduzione al Povero nella città, raccogliendo le prose di più aperta invenzione, propone la dimensione del libero gioco della fantasia innestata sulle evoluzioni del viaggio: “Sono paesaggi e persone e epoche visti a lume di fantasia e di proposito sottratti quindi ad ogni precisa informazione obiettiva. Rispecchiano solo miei stati d’animo, attimi fuggenti del mio sentimento”?. A volte, dalla designazione di particolari minimi, si leva il volo della fantasia e del sogno, coordinato alle procedure della metafora poetica, della visione, o della meditazione, o della folgorante, anche se talvolta monoprospettica, rivelazione dell’anima di un popolo, fino alla divinazione fantastica del mondo. In Nevica (nella sezione Monti, marine e gente di Corsica), appare un esempio, tra i tanti altri proponibili, dello scatto inventivo e meditativo, che si innesta sulla designazione di alcuni particolari del paesaggio: “Il paesaggio incomincia pepe e sale. Paesaggio contraddittorio: a momenti con mille ruscelli che di primavera debbono stridere e saltare come grilli, fatto per ospitare Dafni e Cloe; e, a momenti, catastrofico, con un vocione da Minosse. Sotto il cielo svenato è, quando si fa tragico, all’altezza di Sofocle” (DD, p. 132). Questi tratti paesaggistici, già immessi in un movimento di sublimazione mitica ("per ospitare Dafni e Cloe", "Minosse"), di connotazione metaforica ("debbono stridere e saltare come grilli", "vocione da Minosse") e di traslazione temporale ("di primavera"), rappresentano il punto di avvio, quasi il presupposto genetico e il correlativo oggettivo, per l’accanita investigazione sulle caratteristiche psicosociali dei Còrsi, che vengono ulteriormente rapportate agli elementi del paesaggio, e alle corrispondenti figure analogiche ("un principio d’idillio [ ... ] una cecità disperata. Il sentimento loro, vorrei paragonarlo a questi graniti per rabbie di polifemi; e la loro tenerezza, a quelle acque luminose che diventano fossati, e a quelle nuvole dispensatrici a questi pietroni, di lievità malinconica"): ________________ non si deve pensare che Ungaretti faccia la classica e fedele descrizione della realtà locale. Sembra piuttosto che questa o, meglio, qualche particolare di essa, sia spunto di visioni che saranno l’autentico tema del racconto. Così storia e leggenda appaiono strettamente intrecciate al pari di documento con allucinazione"). 7 - Il povero nella città, Milano, Edizioni della Meridiana, 1949, p. 9. 45 Ho già qualche idea della natura dei Còrsi, ed è che dietro un principio d’idillio troverete sempre una cecità disperata. Il sentimento loro, vorrei paragonarlo a questi graniti per rabbie di poliferni; e la loro tenerezza, a quelle acque luminose che diventano fossati, e a quelle nuvole dispensatrici a questi pietroni, di lievità malinconica per la pietra che trapela [ ... ] L’eccesso di sentimento va sempre posto in relazione con un eccesso di serietà. Se c’è popolo che, per la sua stessa formazione, manchi d’ironia, e cioè della facoltà di adattarsi di buon umore a condizioni che minacciano d’essere diverse da quelle affrettate dal sogno, è questo. E’ anzi pessimista, e non concepisce la felicità se non per mettersi in grado di schierarsi contro una fortuna avversa. (DD, p. 132). Un altro esempio luminoso della straordinaria dialettica tra la rappresentazione della realtà e lo scatto della fantasia è costituito dalla pagina iniziale di Luce di Rembrandt (nella sezione Fiandre e Olanda): Se andate lungo il Heerengracht o per uno dei tanti altri passaggi che a Nord formano il nocciolo della città e fiancheggiano i canali che a semicerchi concentrici vanno fino al golfo detto Ij componendo come un guscio fantastico d’ostrica; se andate lungo le case difese dalla muffa con i catrami, se guardate le facciate, di due o, tutt’al più, quattro finestre per piano, strette a brevi rettangoli lisci, ciascuna col suo triangolo del tetto, come un pennone irrigidito; se vedete in cima alla facciata il braccio colla puleggia per trasportare gli oggetti voluminosi, che vengono fatti entrare o uscire dalle finestre; se vedete la scalinata interna che va su stretta ed erta quasi come una scala di corda; se salite la scala di fuori, che conduce all’ingresso prima di fianco, poi bruscamente di fronte; se chinandovi a guardare l’acqua dei canali v’accorgete che anche le case sono chine sull’acqua e, non, come vi spiegheranno, per tenersi riparate dalla pioggia, e nemmeno perché si reggano sulle palafitte, -che è un po’ come stare sui trampoli; se girate per Amsterdam vecchia, nata in funzione del suo slancio, come farete a sottrarvi all’illusione che da un momento all’altro tutta questa città, tutte queste case schierate funebri e leggere prenderanno come navi il largo? (DD, p. 302). 46 Dalla serie di particolari, fortemente scanditi dalle reiterate ricorrenze, ad inizio di frase, dal costrutto "se" e l’indicativo presente ("se andate lungo le case difese dalla muffa con i catrami, se guardate le facciate, di due o, tutt’al più, quattro finestre per piano, strette a brevi rettangoli lisci, ciascuna col suo triangolo del tetto, come un pennone irrigidito; se vedete in cima alla facciata il braccio colla puleggia [ ... ]; se vedete la scalinata interna") scatta la straordinaria visione metaforica ("come farete a sottrarvi all’illusione che da un momento all’altro tutta questa città, tutte queste case schierate funebri e leggere prenderanno come navi il largo?") preannunciata dall’altra figurazione analogica dell’incipit del brano ("i canali che a semicerchi concentrici vanno fino al golfo detto Ij componendo come un guscio fantastico d’ostrica"); mentre, subito dopo, dalle enunciazioni sulla casa ("La casa, un popolo, se la fa a sua immagine") scaturisce fulminea la rivelazione, anche se da un solo angolo di prospettiva, delle caratteristiche psicosociologiche (e religiose) del popolo olandese: La casa, un popolo se la fa a sua immagine. E queste sono bene prima di tutto case di Calvinisti. Si vede bene che furono ideate da chi usava dare della Scrittura l’interpretazione più feroce. Può esserci forse maggiore individualista e formalista di chi credendo che dall’eternità è stata decretata la salvezza o la dannazione di ciascuno, e che le opere buone o cattive non possono modificare tale predestinazione, pone già nella mente divina e nei suoi doni la disuguaglianza di condizione degli uomini? E affiderà quindi all’arbitrio e a distanza nella benevolenza, i rapporti colle persone che riterrà di ceto sottoposto al proprio. Del resto non darà molta confidenza a nessuno. Case dunque queste, di mercanti, di conquistatori e di credenti fanatici, bene uniti per resistere, lottare, vincere, ma gelosissimi ciascuno del proprio grado sociale e, salvate le apparenze, della propria libertà (DD, pp. 303-4). Ma la rivelazione, e l’elaborazione concettuale conseguente, vengono illuminate dalla suggestiva ‘pittura di interni’ e nuovamente immesse nella suggestione metaforica: "Le finestre prendono quasi tutta la facciata, perché nel Nord si può essere avidi di luce; e si può vedere passando, se sono a tavola, o se il ragazzo tornato da scuola fa i compiti, o avere davanti agli occhi un’altra delle tante scene che ha illustrato la loro pittura. Sono chiusi 47 lì dentro come in una nave, o in un baraccamento di colonia, in una solitudine esposta ai quattro venti; ma che i vetri e i muri rendono inviolabile" (DD, p. 304). L’ulteriore balzo dell’astrazione dalla realtà fisica, della riduzione del paesaggio a luminoso miraggio, con la perdita della dimensione della profondità e della consistenza materica, avviene nel segno della pittura, della vibrazione del colore, spalancando le prospettive più alte della fantasia: Riprendiamo dunque a badare ai colori, qui dove i vetri delle vaste finestre sono tanto attraenti, riducendo su un piano di due le tre dimensioni, in pittura risolvono per il passante la vita stessa delle case; facciamo ritorno a facciate che non hanno giuochi di volumi e non vivono se non di colore, ritorniamo all’acqua dove e interni attraverso i vetri e i toni paralleli delle facciate trovano l’estremo allontanamento della fantasia, dove le apparenze a poco a poco si sono fatte fantasmi (DD, p. 305). La visione di questo mondo raggiunta per forza di divinazione poetica e fantastica si innesta e si trasfonde nell’altra luce della visione pittorica del ‘divino’ Rembrandt (ma anche, per contatto-contagio in quella di Ungaretti). Il mondo, così, si costituisce come miraggio della fantasia, come vaghe apparenze di fantasmi, fino a ritrovare la sua allucinatoria verità nella poesia: "Città di Rembrandt. Quest’uomo certo, non s’è tenuto il suo segreto per sé, e ha lacerato le apparenze e l’ha sviscerata e non ha avuto vergogna di farlo davanti a tutti; ma imitandola, ma considerando la realtà del mondo come pura apparenza e fantasia, la verità spettando a Dio, a tutti ignota, non sarà per ciascuno se non fonte di maggiore, o minore tormento a seconda del personale grado di sentire la poesia" (DD, pp. 305-6). Ungaretti, infatti, grazie alle straordinarie intuizioni sull’arte, alle notazioni riguardanti l’essenza e le modalità della pittura, e alle suggestive analisi dei pittori (capacità che fanno di lui un acutissimo e originale critico d’arte antica e, soprattutto, contemporanea: sono memorabili gli articoli e le presentazioni nei cataloghi di molti artisti: da Capogrossi a Burri, e tale aspetto dell’attività ungarettiana meriterebbe un’analisi più 48 approfondita da parte degli studiosi?), propone, spesso nel corso del libro, la prospettiva del mondo visionario dell’arte (oltre che della poesia), ed, in filigrana, la vanità e l’inconsistenza del reale, il miraggio e il carnevale della vita. Si vedano, ad esempio, nella prosa Breughel il vecchio (DD, p. 256), le osservazioni generali sull’aspetto visionario, deformante e ‘mostruoso’ degli artisti fiamminghi (“a furia di esaminare gli uomini e le bestie, specie in ciò che particolarmente possono avere di strano e di ridicolo, finirono, volendo nei loro inferni rappresentare i vizi, per creare e muovere furiosarnente un mondo completo di mostri inverosimili: uomini senza busto colla testa attaccata alle gambe, facce umane con corpi di pipistrelli, facce bestiali e braccia umane scheletrite e pance di rana, donne la cui oscenità nuda ha l’innocenza e la sorpresa di un pulcino che scatti dal guscio, ecc. Arte, come si vede, fondamentalmente deformante, amara e comica insieme e popolare: un carnevale!”) e le notazioni particolari dedicate alle opere di Giovanni Van Eyck, di Breughel il vecchio, di Rubens, e di Jordaens: Vediamo pure Giovanni Vari Eyck. Eccovi la Madonna del Canonico Van del Paele (Museo di Bruggia). Sono cinque figure. Quattro - un vescovo, un guerriero, la Madonna col Bambino restano nel quadro volutamente immaginarie […] La quinta figura [ ... ] è il Canonico [ ... ] guardiamo la faccia, che è dipinta, all’opposto delle altre, con una ricerca affannata della verità, della natura: per le rughe, passa sulle guance con l’aratro; si trattiene, come se non potesse staccarsene, sulle vene delle tempie - soffriva d’arteriosclerosi, il Canonico? - tormenta in giro agli occhi le zampe d’oca e le borse. Ecco: tormentare; tormentare, tormentare quella povera carne, finché avendo voluto metterci troppa natura non rimanga nel quadro - ne salta anzi fuori - che un fantasma: un incubo, anzi, un finto incubo (DD, pp. 254-5). ________________ 8 - Del rapporto Ungaretti-pittura del ‘900 si è recentemente occupata Francesca BERNARDINI NAPOLETANO nel bel saggio Parola e immagine. Giuseppe Ungaretti e l’arte italiana del Novecento in POESIA italiana del Novecento, FM 1993, Roma Ed, Riuniti, 1993, pp. 49-78 (Annali del dipartimento di Italianistica dell’Università “La Sapienza”, Roma). 49 E poi fui colpito che quei ciechi, che pure Breughel aveva attentamente osservato, e dipinto con impeto, non dessero il senso della cecità, che specie a un pittore deve parere tremendo, e che se ne andassero – perché? - con un passo di danza. E fui colpito che non avesse nessun rapporto con i ciechi il paesaggio che faceva da sfondo, e che così essi prendessero l’aspetto d’un’apparizione, d’un sogno faticoso. La medesima cosa mi colpi nel Misantropo, che pure dalla sua vecchia faccia d’eremita spira una malinconia così pungente... Sono cose umane - e perché, nello stesso tempo, più che facce sono maschere? (DD. p. 258). E, per esempio, nel Cristo pianto [del Rubens] di questo Museo di Anversa che cosa commuove di più se non quelle due figure appena accennate del centro, quel Gesù e quella Madonna dentro una luce? Non c’è già più memoria, ma sogno: solo, il sogno non è più nel disegno, nella caricatura; ma nel colorire imparato dagli Italiani. In secondo luogo, nella sua verità Rubens è enorme, cioè dà alla verità proporzioni romantiche che non sono precisamente quelle della verità, e, come un romantico, procede per antitesi e finisce sempre per dare ai suoi quadri un movimento d’apoteosi, il movimento un po’ d’una finzione. Jordaens mi sembra più grande pittore del suo condiscepolo Rubens. Si possono fare anche per lui i nomi dei Veneti, e aggiungervi il Bassano. Ma è più vicino al Caravaggio. Se la luce nel Caravaggio casca con una forza tremenda, rompe tutto, e simultaneamente ricostruisce, come vuole il senso antico del tragico, un ordine nuovo, in Jordaens non serve, come in Pane e Siringe del Museo di Brusselle, che a rendere incubo la nuda ninfa (Roma nelle Fiandre, nella sezione Fiandre e Olanda, DD, pp. 264-5). 2. Nel Deserto e dopo si sovrappongono e si intrecciano come la trama e l’ordito due ordini stratificati di motivi a livello più superficiale e più profondo: da una parte la rivisitazione dei luoghi della geografia sentimentale dell’io narrante: il natio Egitto, l’Italia (in particolare, Napoli, tanto 50 cara ad Ungaretti9), e il Brasile,ricordato, con la mediazione dei suoi poeti e delle sue ‘favole antropologiche’ (per non parlare della Corsica, a mezza strada tra i suoi caratteri originari e la francesizzazione¹°); e, dall’altra parte, la dialettica tra i princìpi vitali, e archetipici, fondamentali nella poesia di Ungaretti, dell’arido e dell’umido, del sole e dell’acqua, il primo elemento incentrato nell’Egitto (e nel Brasile), il secondo nel “paese d’acque” del Polesine e dell’Olanda, mentre la mediazione e l’incontro dei due motivi si realizza nella Puglia, con l’accecante “sole-belva” della Capitanata che si specchia nelle fontane, col “Sahara diventato Tivoli” (DD p. 327), con la voce dell’acqua che “Spezzando la luce del sole è la più festosa di tutte (DD p. 328), ma anche nell’ Egitto e nel Brasile, paesi di grande caldo e di grandi fiumi. E’ lo stesso io narrante a squadernare in Alle fonti dell’Acquedotto (nella sezione Le Puglie) tale mappa dell’umido e dell’arido, evidenziata dalle martellanti anafore "Ho conosciuto", nonché dall’andamento sintattico, fluido e ricorsivo indotto dalla paratassi e dalle ritmiche ondate reiterate del lessema “acqua” (nominato 11 volte + altre 2 volte con termini della stessa area semantica: “idropico” e “fiurni”): tali modalità sottolineano e moltiplicano sul piano del significante 11 il motivo semantico ________________ 9 - Afferma Ungaretti, durante la presentazione del libro delle poesie di Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, presentazione avvenuta a Napoli il 10 febbraio 1966, e della quale in Saggi ed Interventi, Milano, Mondadori, 1971, viene riportato il testo scritto: "Mi si offrono stasera qui tre occasioni felici: di ritrovarmi a Napoli, in una delle città del mondo più amate [...] Napoli è per me un grande ricordo che incomincia sino dal nascere della mia fama di poeta. Nel ‘16, cinquant’anni fa giusti, venni qui, ci venni dalle trincee, vestito da soldato, scalcinato, con gli ottanta esemplari stampati a Udine del mio primo libro, Il Porto Sepolto. Avevo collaborato alla "Voce" e a "Lacerba"; ma era stata la "Diana" di Gherardo Marone, a pubblicare a una a una quelle poesie via via che mi riusciva di fermarle sulla carta, era stato Gherardo a farne sentire la novità prima che le raccogliessi in volume. Gherardo mi ospitò nella casa dei suoi, e da essa partì per l’Italia e per il mondo Il Porto Sepolto". 10 - Cambon parla dell’itinerario del Deserto e dopo che ripercorre quello mentale dei Fiumi: "Né sfuggirà, nella susseguenza delle parti principali che, consumata ormai l’occasione giornalistica, è divenuta qui struttura generale del libro, quel passare dall’Egitto natio (e straniero) all’Italia terra promessa [ ... ] per via di una Corsica [ ... ] che è un’Italia insularmente appartatasi dalla madrepatria linguistica in seno all’orbita francese” (cfr. op. cit., p.139). 11 - Ibidem, p.155: “prorompe poi senz’altro freno che la propria sintassi iterativa la forma metrica di Alle fonti dell’acquedotto [ ... ] L’ordine paratattico, l’anafora solenne, il variare e il dilagare dei versi come lo stesso empito dell’acqua a cui si inneggia, ci 51 della fluidità dell’elemento acqueo che viene, inoltre, collegato alla ‘serie attributiva o dichiarativa (“chiara e viva”, “che s’insacca”, “che s’ammala”, “colle croste”, “venefica”, “torrenziale”, “rovinosa”, “che bisogna asserragliare”, “nemica”) connotante i campi semantici alternati della fertilità distruttività: La sete. Ho conosciuto il deserto. Da lontano, un filo improvviso di acqua chiara e viva faceva nitrire di gioia i cavalli. Ho conosciuto Paesi di grandi fiumi. Ho conosciuto terre più basse del mare. Ho conosciuto l’acqua che s’insacca, l’acqua che si ammala, l’acqua colle croste, con fiori orrendamente bianchi, l’acqua venefica, i riflessi metallici dell’acqua, la terra come una tonsura tra rari ciuffi d’erbe idropiche. Ho conosciuto l’acqua torrenziale, l’acqua rovinosa, l’acqua che bisogna asserragliare Ho conosciuto l’acqua nemica. Ho conosciuto Amsterdarn dove si vive come navi ferme collo sguardo sott’acqua" (Alle fonti dell’Acquedotto, DD, p. 371). Nelle prose del Deserto e dopo è viva più che la guerra degli opposti, la dialettica dei complementari: dell’arido e dell’umido, del sole ‘furente’ e dell’acqua, della luce e dell’oscurità, dialettica che si dilata fino a investire la dimensione totalizzante della vita e della morte. I due archetipi che presentano la maggioranza degli investimenti sono quelli dell’acqua e del deserto. I due elementi appaiono in rapporto complementare (e vitale) tra di loro, rapporto che presenta la massima emblematicità nelle prose dedicate alla Capitanata (ed anche, con diversa prospettiva, all’Egitto): Non saprei dirvi dove potreste trovare una cosa più sorprendente e commovente , e augurale, delle tante fontane che ________________ dànno una struttura ritmica libera e costante al tempo stesso, sul modello di Whitman, del Rimbaud di Illuminations (ma anche dell’Apollinaire più informale), e di Francesco d’Assisi”. 52 s’incontrano oggi fra le palme,arrivando a Foggia. Foggia e le sue fontane! Non è quasi come dire un Sahara diventato Tivoli? [ ... ] Fontane monumentali! Certo in tutta la Puglia l’acqua potabile ha un valore di miracolo, e c’erano nella regione zone più secche, tutto sasso; ma dove più amabile mi parrà la voce della volontà, se non in quest’acqua ultima arrivata? Spezzando la luce del sole, è la più festosa di tutte. L’amante del sole, l’hanno chiamata i poeti. Egli il sole, la copre di gioie, come s’è visto. Non solo, e subito mi viene incontro l’altro suo simbolo: il fulgore d’uno scheletro, nell’infinito. Quale merito ci sarebbe altrimenti ad addomesticarlo? Sarà perché sono mezzo Affricano, e perché le immagini rimaste impresse da ragazzo sono sempre le più vive,.non so immaginarlo se non furente e trionfante su qualche cosa d’annullato. Mi commuoverebbe altrimenti così a fondo, un sole reso gentile? Voglio dire che anche qui ha regno il sole autentico, il sole-belva. Si sente dal polverone, fatti appena due passi fuori. Penso con nostalgia che dev’essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d’estate, quand’è la sua ora, e va, nel colmo della forza, tramutando il sasso nel guizzare dei lacerti. Non c’è un rigagnolo, non c’è un albero. La pianura s’apre come un mare. Vorrei qui vederlo nel suo sfogo immenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito. E’ il mio sole creatore di solitudine; e, in essa, i belati che di questi mesi vagano, ne rendono troppo serale l’infinito; incrinato appena dalla strada che porta al mare. (Il Tavoliere, DD, pp. 327-329). Sul versante dell’aridità, della petrosità (“c’erano nella regione zone più secche, tutto sasso”; “tramutando il sasso nel guizzare dei lacerti”: enunciati che riecheggiano “le rocce tarlate, tigna biancastra” della Risata dello dginn Rull e “Sino ad orbite ombrate spolpi selci” in D’agosto12), ________________ 12 - Per le poesie D’agosto, Ti svelerà, Di luglio, Sereno, Le Stagioni, e il 24° degli Ultimi cori per la Terra Promessa, cfr. G. UNGARETTI, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969 , pp. 124, 127, 122, 130, 105, 281. 53 della polvere e del vento rovente (“Si sente dal polverone”; “nel suo sfogo immenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito” in cui risuona l’eco di Ti svelerà: “E della polvere più fonda e cieca”, ed ancora di D’agosto: “prostrate messi”) che si collega alle raffigurazioni del fulgore abbagliante della luce solare, della sua forza distruttrice e annientatrice (“furente e trionfante su qualcosa d’annullato”; “dev’essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d’estate, quand’è la sua ora, e va, nel colmo della forza”, notazioni che hanno la stessa carica dirompente di “Arso tutto ha Pestate”, in Sereno, e dei “suoi occhi calcinanti” in Di luglio), tradotte nella metafora animalesca del “sole-belva”, del sole che asciuga e che spolpa (e nella figura emblematica del “fulgore d’uno scheletro, nell’infinito” che rimanda alla poesia Di luglio: “Va della terra spogliando lo scheletro”) si innesta il motivo dell’acqua che induce l’incontro e la dialettica dei due elementi (“ma dove più amabile mi parrà la voce della volontà, se non in quest’acqua ultima arrivata? Spezzando la luce del sole, è la più festosa di tutte. L’amante del sole, l’hanno chiamata i poeti. Egli il sole, la copre di gioie [ ... ] Quale merito ci sarebbe altrimenti ad addomesticarlo? [ ... ] Mi commuoverebbe altrimenti così a fondo, un sole reso gentile?”). E come se venissero realizzate la compresenza e l’interazione del “mondo comico” e del “mondo tragico”, per usare la terminologia del Frye¹³: la città, le fontane, il grano, i belati delle pecore insieme al deserto metaforico, ai sassi, al sole-belva, alla mancanza di alberi nella pianura-mare, e al mare Adriatico in lontananza. Un’altra figurazione, di sotterranea allusività e di straordinaria suggestione e penetrazione semantica, della dialettica aridità-fertilità, spostata sul piano della terra nella sua doppia denotazione (la superficie “sconvolta, secca, accecante di polvere” che rinserra come un tesoro il frutto della terra ferace: il grano ricco del colore della luce solare) è offerta nella prosa Da Foggia a Venosa, ed è moltiplicata nella prospettiva della plurispecularità mediante le modalità della transizione temporale (il tempo della semina, della raccolta ed ancora quello della conservazione del grano) e della stratificazione topologica: il livello superficiale della piazza (che rinvia all’orizzontalità del terreno coltivato) e quello sotterraneo delle “fosse” nella cui profondità è avvenuta la discesa del grano conservato, che ri________________ 13 - Cfr. N. FRYE, Anatomia della critica, Torino, Einaudi, 1969, pp. 171-208. 54 specchia -nella diversità- quella della semina: specularità che si intreccia con l’insinuazione dei motivi latenti di morte-sepoltura e di vita-rinascita, nella prospettiva della reviviscenza del passato: Il Piano delle Fosse Piazza ovale, che non finisce più, d’una strana potenza. E’ tutta sparsa di gobbe, sconvolta, secca, accecante di polvere [ ... ] Mi sono avvicinato ad una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre una piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto, s’è aperto un pozzo e dentro s’alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d’occhio nasconde dunque l’uno accanto all’altro un’infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che ne produce 3.000.000 di quintali, e più. Altro che grotta di Ali Baba. Ho visto cose antiche, nessuna m’è sembrata più antica di questa, e non solo perché forse il Piano c’era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogia fra “Foggia” e “fossa”, ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a tempi patriarcali quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo un incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni. Nessun luogo avrebbe più diritto d’esser dichiarato Monumento Nazionale (DD, p. 365-6). La dialettica arido-umido attiva nelle prose daunie è una pallida figura di quella elevata a dimensioni di eccezionale forza (e di significato, rivelato dallo scrittore anche per mezzo delle analogie e delle raffigurazioni mitiche) che si realizza nell’Egitto tra il deserto (che dà il titolo alla prosa del 29 agosto 1931) ed il grande fiume, il Nilo, ed, in filigrana, tra la sterilità (e la morte) e la fecondità (e la vita), ed, inoltre, tra il serpeggiamento nell’orizzontalità dello spazio e la ramificazione nella nascosta profondità: E’ il dono del Nilo, il quale, in quell’ultimo tratto di percorso, tra l’ombra grassa delle sue palpebre fa all’amatore di stilizzazioni, sopra il piatto del deserto, l’effetto che lo stelo dell’azzurro loto d’Iside dirami e sveli, reggendo il Delta, il fine disegno delle vene del proprio calice spettrale. In nessun luogo - e qui per millenni - furono con pari fervore pre55 diletti sonno, sogno, e la morte, e i nomi, i simboli, i beni, la materia l’imperituro. Come ciò che si vedeva serpeggiare ferace corrispose a ciò che in segreto si andava ramificando? Come corrisponde a se stessa la vita? (DD, p. 75). La dialettica tra i due elementi percorre tutto il libro, dando luogo ad una serie di raddoppiamenti speculari e di rovesciamenti significativi, come suggerisce Cambon14: “Il Polesine si rispecchia nei Paesi Bassi (acqua nemica onnipresente, acqua da dominare). I Paesi Bassi a loro volta si invertono con perfetta simmetria nella sitibonda Puglia, dove la nemica torna ad essere l’aridità, e l’acqua il trofeo estortole dagli assidui sforzi dell’uomo: perché il Mezzogiorno assolato è ancora in parte l’Egitto, riecheggia il deserto”. Lo scambio interno più ‘abbagliante’ scoppia sul piano luminoso (parallelo o collimante con quello del calore e dell’aridità) nella mirabile prosa La risata dello dginn Rull (nella sezione Quaderno egiziano) che, nella sua ricchezza e densità semantica, anticipa, o riprende, motivi e temi della produzione poetica ungarettiana. La manifestazione accecante della luce solare, nella turbata sospensione della vita (“tutto ora è sospeso e turbato” riecheggiante il “domita e turbata” delle Stagioni), che, superando il passaggio intermedio dell’ombra (“Non è un’ora d’ombra, né un’ora di luce. E’ l’ora della monotonia estrema” che ricorda il “Monotono altomare” in D’agosto) e giungendo alla negazione estrema (“direste che questo è il nulla”), si rovescia nel polo opposto dell’oscurità abbagliante: “l’ora cieca” (nella bellissima figurazione si attua l’incisiva doppia torsione semantica indotta dalla metonimia, relativa al rapporto effetto-causa, e dalla metafora: la luce che acceca, in modo figurato), “l’ora di notte”, “l’ora non [ ... ] meno nera” (nella reiterazione dell’ossimoro luminoso fondamentale che ricorda l’ “Ora di luce nera” della lirica Ti svelerà e “oscura e fonda/ l’ora d’estate” delle Stagioni), totalizza, e contemporaneamente annulla, le dimensioni vitali ed ambientali: Il sole già cade a piombo; tutto ora è sospeso e turbato; ogni moto è coperto, ogni rumore soffocato: Non è un’ora ________________ 14 - Cfr. CAMBON, op. cit., p. 144. 56 d’ombra, né un’ora di luce. E’ l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca; questa è l’ora di notte del deserto. Non si distinguono più le rocce tarlate, tigna biancastra tra la sabbia. Le fini ondulazioni della sabbia anch’esse sono naufragate nella fitta trama dei raggi che battono uguali da tutte le parti. Tutto ha un rovente ed eguale colore giallo grigio, nel quale vi muovete a stento, ma come dentro a una nube. Ah! se non fosse quella frustata che dalla pianta dei piedi vi scioglie il sangue in una canzone rauca, malinconica, maledetta, direste che questo è il nulla. Essa entra nel sangue come l’esperienza di questa luce assoluta che si logora sull’aridità [ ... ]. Non c’è una locusta a quest’ora, non un camaleonte, non un porcospino, non una lucertola, non uno scorpione; non c’è una quaglia, né uno sciacallo, né uno scarabeo, né una vipera cornuta; ma inciampo nello scheletro di un mehari che farà musica stanotte quando il vento marino gli passerà tra le costole; a quell’ora esso sarà come un erpice della luna; allora lo Ualad-Ali per sorprendermi col suo bastone scaverà la sabbia e mostrerà con un inchino la testa del mehari che s’è mummificata; poi, senza toccarla, facendo cadere la sabbia col piede, la ricoprirà con cura [ ... ] ecco, tutto diventa un ondeggiamento biondastro, con qualche macchia fugace come di succo di tamarindo; e orla tutto - ogni oggetto visto - una bruciacchiatura gialla morente in viola [ ... ] Riaperto lo sguardo con prudenza, vedo orinai il cielo; ma non si può dire che sia chiaro: c’è sull’azzurro che si sbianca, un granirsi rosso, e la solita bruciacchiatura d’orlo, giallo morente in viola (DD. pp. 84-87). Tutti i campi sono investiti dalla totale corrosione del sole che “cade a piombo”, della “luce assoluta che si logora sull’aridità”. Si va dalla sospensione di ogni movimento al soffocamento del rumore (“ogni moto è coperto, ogni rumore soffocato”), a cui fa da contrasto “la cosa orrenda” del “vento del deserto” (p.87); dalla indistinguibilità degli elementi del mondo minerale (“Non si distinguono più le rocce tarlate, figna biancastra tra la sabbia. Le fini ondulazioni della sabbia anch’esse sono naufragate nella fitta trama dei raggi"; Il suolo è stato talmente martoriato” ) alla monotonalità o, al contrario, alla transizione del 57 colore del cielo attraverso la scala cromatica (“Tutto ha un rovente ed eguale colore giallo grigio”; “tutto diventa un ondeggiamento biondastro, con qualche macchia fugace come di succo di tamarindo”; “vedo ormai il cielo; ma non si può dire che sia chiaro: c’è sull’azzurro che si sbianca un granirsi rosso, e la solita bruciacchiatura d’orlo, giallo morente in viola”); dalla scomparsa degli animali viventi e, correlativamente, dall’allucinante apparizione dello scheletro del dromedario (“Non c’è una locusta a quest’ora, non un camaleonte, non un porcospino, non una lucertola, non uno scorpione; non c’è una quaglia, né uno sciacallo, né uno scarabeo, né una vipera cornuta; ma inciampo nello scheletro di un mehari [ ... ] allora lo Ualad-Ali per sorprendermi col suo bastone scaverà la sabbia e mostrerà con un inchino la testa del mehari che s’è mummificata; poi, senza toccarla, facendo cadere la sabbia col piede, la ricoprirà con cura”), la cui figurazione ritornerà, trasferita all’io lirico, nel XXIV degli Ultimi cori per la Terra Promessa (“Poi mostrerà il beduino,/ Dalla sabbia scoprendolo/ Frugando col bastone,/ Un ossame bianchissimo”), alla ingannevole percezione delle prospettive spaziali (“è l’ora degli errori della distanza”) fino alla sparizione delle coordinate fondamentali del cielo e della terra (“Non c’è più né cielo né terra”). L’inganno prospettico e le modalità delle apparizioni (insieme alla straordinaria metafora atmosferica) preannunciano il miracolo illusionistico di Defunti su montagne15, e il parallelismo semantico-lessicale dei due testi, già individuato acutamente da Ossola16, è notevolissimo nei passaggi fondamentali: l’azzurro che si sbianca […] Le distanze che ora possono misurarsi sono tutte frutto d’errore: è l’ora degli errori della distanza [ ... ] Le rarefazioni dell’aria cambiano salendo [ ... ] E ora può succedere che un punto alto della pianura [ ... ] succede che l’immagine di quel punto, dalla sua lastra più opaca, si stacchi, per alzarsi e specchiarsi in una lastra più vaga, imbrogliando di più ogni nostra idea di distanza [ ... ] a pochi passi da me, le persone attraversano uno sciame di ali di zanzare di brace; e saprò che ________________ 15 - Cfr. G. UNGARETTI, Tutte le poesie, op. cit., p. 226. 16 - Cfr. op. cit. 1982 (2a ed.), p. 361. 58 della gente mi precede da quell’aureola che la nasconde e con essa avanza, e misurerò lo spazio dalla diversa intensità delle varie aureole e, raggiunta la buca vicina al cielo - spettrali - le persone finalmente m’appariranno (DD, p. 87). Defunti su montagne Pallore, al Colosseo su estremi fiumi emerso, Col precipizio alle orbite D’un azzurro […] Come nelle distanze Le apparizioni incerte trascorrenti Il chiarore impegnando A limiti di inganni, Da pochi passi apparsi I passanti alla base di quel muro Perdevano statura Dilatando il deserto dell’altezza, E la sorpresa se, ombre, parlavano. La luce, rovesciandosi nell’oscurità vertiginosa, oltre che accecare (ed è evidente il richiamo di “acceca mete” in Di luglio), provoca quando “i raggi cominciano ad obliquare” un altro straordinario fenomeno di conversione: lo “scherzo sadico della luce”, l’ “ombra ladra”, l’“ombra libera” investono, almeno metaforicamente, il terreno opposto dell’acqua, anche se sul versante della degenerazione: l’ombra che procede dall’eccesso di luce si trasforma nell’apparenza degli attributi fondamentali dell’acqua, degenerati o svuotati della loro sostanza profonda: Quando i raggi cominciano ad obliquare, l’ora non è meno nera; ma abbaglia diversamente. A un punto franto del dirupamento, nasce una maschera d’ombra. Chi ha assistito alle cautele di una di queste ombre nell’avanzarsi, non troverà strano l’aggettivo che mi suggerisce: ombra ladra [ ... ] Se fisso quell’ombra, a poco a poco essa si concentra, è il nucleo del quadro fra grandi frange di luce brulicanti; e, se insisto a fissarla, essa prende la trasparenza, vitrea e metallica d’un’acqua morta. Ma, balenante da un’interna secchezza, consumata come una calce e come una cenere, è un’acqua senza umidità, 59 un’acqua crudele: non è l’acqua che, anche se malata, anche se corrotta, può blandire la sete: è scherzo sadico della luce” (DD, p. 85). L’accecante bagliore della luce, lievito vitale, come si è rovesciato nella vertigine dell’oscurità e nella degenerazione metaforica dell’acqua (“l’ora non è meno nera [...] acqua morta. Ma, balenante da un’interna secchezza, consumata come una calce e come una cenere, è un’acqua senza umidità”), così rivela i segni della corrosione (“rocce tarlate, tigna biancastra fra la sabbia” della corruzione, e la mascheraemblema della morte: lo scheletro, e la testa mummificata del mehari, accuratamente ricoperta da Ualad-Ali, quasi come un seme nella terra. E proprio nel panorama desolato del deserto, lievita prepotente, come “dono del Nilo”, la fecondità (e la vita). La dimensione allucinante della morte si coniuga con l’espansione vitale dell’acqua del grande fiume. 60 APPENDICE Si riportano qui gli articoli ungarettiani riguardanti Le Puglie, pubblicati nelle pp. 325-79 del Deserto e dopo, Milano, Mondadori, 1961 (volume da molti anni esaurito, e di cui si auspica la pronta ristampa da parte dell’editore) nei quali, accanto alla “rivisitazione ed illuminazione” dei monumenti e dei paesaggi pugliesi, in particolare della Capitanata, viene fatto rivivere per forza di fantasia il grande Federico II, e ciò rappresenta un ulteriore straordinario omaggio al grande imperatore, a conclusione dell’anno federiciano. Un altro personaggio, più vicino ai giorni nostri, viene ricordato dal poeta: Gian Battista Gifuni (Lucera 1891-1977), uno dei più competenti ed appassionati bibliotecari pugliesi, che seppe potenziare e valorizzare la biblioteca civica “R. Bonghi” di Lucera, di cui fu per molti anni il direttore. Le prose pugliesi di Ungaretti videro per la prima volta la luce come articoli della “Gazzetta del Popolo” con titoli diversi da quelli proposti nel volume, dei quali si dà il raffronto: 1) Foggia / Fontane e Chiese, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 20 febbraio 1934, npreso in “Il Gazzettino”, Foggia, 24 febbraio 1934 (in volume col titolo Il Tavoliere); 2) Il Gargano favoloso, ovvero la giovane maternità, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 6 marzo 1934 (in volume col titolo La giovine maternità); 3) Pasqua in Capitanata / L’angelo nella caverna, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 1° aprile 1934 (in volume: Pasqua); 4) Lucera, città di Santa Maria, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 15 maggio 1934 (in volume: Lucera, città di Santa Maria); 5) Lucera dei Saraceni, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 5 giugno 1934 (in volume: Lucera dei Saraceni); 6) Appunti per una poesia di viaggio da Foggia a Venosa / Il piano delle fosse, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 22 agosto 1934 (geminato in volume nelle due prose: Da Foggia a Venosa ed Alle fonti dell’Acquedotto); 7) Alle sorgenti dell’acquedotto pugliese, “Gazzetta del Popolo”, Torino, 9 settembre 1934 (in volume: L’Acquedotto). Per completare il panorama ungarettiano della Puglia, si presentano due “coro posizioni” pubblicate dal poeta nel numero del 2 maggio 1946 della “Fiera Letteraria”: ACQUEFORTI I. Si sappia bene, vuole il sole, che questo lungo giorno è tutto quanto la sua preda. D’un fulgore polveroso investendo la vecchia croce sulla pietra ulcerata non si stancherà più di renderle più lievi, tra i due bracci di ferro, martello e lancia, chiodi e tenaglia. Già ha fulminato la seconda rondine. Ma prima delle sette, e a avemmaria suonata, la sua autorità appena si denota, ore sempre accoglievoli, e adagio ne lima lo spazio. Le ombre che vi rinchiude, 61 pallide bruscamente o subitaneamente rosse, non possono essere che i pensieri d’un giovane passante innamorato. Alle sette ha finito di coprire ogni cosa di deserto, salvo il rantolo d’una bestia errante che, di tanto in tanto, a un minimo accenno al fiuto, di vaporosità, tuffa e ritrae, rimasta ingenua, delusa il muso e, non mai disperando, può a mezzogiorno ancora farsi percepire, fitta in sassosità dell’aria che, come nei secoli accade se si casca, dal cielo incenerito ruzzolano, non cadendo. Le quattordici, - il luogo desolato si commuta in burroni di calce dove, pazza alla fine, va colla lingua fuori la bestia moltiplicandosi, branco forse di capre. Poi, tra altre ore passate, il sole tetro colle pelose rampe delle tarantole, stupito per la cecità perduta incomincia a distinguersi dai campi. Lucera, luglio 1934 II. Deposto dal torrente c’è un macigno Ancora morso dalla furia Della sua nascita di fuoco. Non pecca in bilico sul baratro Se non con l’emigrare della luce Muovendo ombre alle case Fermate sulla frana. Attinto il vivere segreto Col sonno della valle non si sperde E dalle cicatrici ottenebrate Isola lo spavento e ingigantisce. Venosa, agosto 1934 La datazione e la tematica delle due composizioni rimandano alle prose pugliesi, ed, inoltre, la seconda “acquaforte” compariva già, con alcune varianti, nell’articolo Appunti per una poesia di viaggio da Foggia a Venosa / Il piano delle fosse (e poi verrà accolta nel Deserto e dopo). Le due “acqueforti”, con ulteriori modifiche, saranno poi pubblicate nel Povero nella città, Milano, Edizioni della Meridiana, 1949, con i titoli mutati: Calitri, e Il Tavoliere di Luglio, e quest’ultima farà parte del corpus di Tutte le poesie, nella sezione Altre poesie ritrovate, ancora con un cambiamento del titolo (Preda sua) e con notevoli varianti, esaminate con acume interpretativo da Carlo Ossola nel suo fondamentale libro sul poeta: Giuseppe Ungaretti, Milano, Mursia, 1975, 2a ed. 1982, pp. 467-79. 62 Foggia, il 20 Febbraio 1934 IL TAVOLIERE Fontane Non saprei dirvi dove potreste trovare una cosa più sorprendente e commovente, e augurale, delle tante fontane che s’incontrano oggi fra le palme, arrivando a Foggia. Foggia e le sue fontane! Non è quasi come dire un Sahara diventato Tivoli? L’acquedotto non c’era. Finalmente questi Pugliesi a furia di sperare e di gridare avevano ottenuto che fosse progettato e s’incominciasse a costruire. Questo lavoro da Romani era stato intrapreso: l’uomo, così forte, come dicono i santi, perché l’unico fra gli esseri viventi a sapersi debole, aveva raccolto e alzato nelle sue povere braccia un fiume, l’aveva con una grazia mitica voltato dall’altra parte del monte... alla fine, sì, c’era l’acquedotto; ma in mezzo ai litigi andava in malora. Alcuni tratti di diramazione, sì, erano arrivati sino alla Capitanata; ma chi credeva più che dovessero portarci l’acqua? Ed ecco che negli abitati ora è arrivata, l’acqua e le fognature, l’acqua e l’avvenire. Ed ecco che antiche città hanno ritrovato una furia di sviluppo così lieta come se ora appena fossero state fondate. *** Fontane monumentali! Certo in tutta la Puglia l’acqua potabile ha un valore di miracolo, e c’erano nella regione zone più secche, tutto sasso; ma dove più amabile mi parrà la voce della volontà, se non in quest’acqua ultima arrivata? Spezzando la luce del sole, è la più festosa di tutte. *** L’amante del sole, l’hanno chiamata i poeti. Egli, il sole, la copre di gioie, come s’è visto. Non solo, e subito mi viene incontro l’altro suo simbolo: il fulgore d’uno scheletro, nell’infinito. Quale merito ci sarebbe altrimenti ad addomesticarlo? Sarà perché sono mezzo Affricano, e perché le immagini rimaste impresse da ragazzo sono sempre le più vive, non so immaginarlo se non furente e trionfante su qualche cosa d’annullato. Mi commuoverebbe altrimenti così a fondo, un sole reso gentile? Voglio dire che anche qui ha regno il sole autentico, il sole belva. Si sente dal polverone, fatti appena due passi fuori. Penso con nostalgia che dev’essere uno spettacolo inaudito qui vederlo d’estate, quand’è la sua ora, e va, nel colmo della forza, tramutando il sasso nel guizzare di lacerti. Non c’è un rigagnolo, non c’è un albero. La pianura s’apre come un mare. Vorrei qui vederlo nel suo sfogo immenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito. È il mio sole, creatore di solitudine; e, in essa, i belati che di questi mesi vagano, ne rendono troppo serale l’infinito; incrinato appena dalla strada che porta mare. 63 *** E a notte, ancora solo le pecore saranno a muovere le ombre, ammucchiate sotto i portici d’una masseria sperduta. Santa Maria Maggiore Sipontina Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a pochi passi, su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi ciechi, reggono in una facciata deserta il ricco portale di Santa Maria Maggiore di Siponto. Questa è dunque quell’arte solenne che dicono pisana, che un giorno a Lucca dolcemente mi svelò la Patria, che mette nel silenzio d’una pagina d’orazioni il rilievo prezioso dell’iniziale miniata. Non me ne intendo, ma non stupirei se questa cattedrale in mezzo al prato fosse davvero il primo esempio del costruire monastico e guerriero nel quale il Medioevo si provò a fondere le esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall’innocente epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La nascita d’un’architettura significa il principio d’una chiarezza spirituale e d’una volontà vittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra, questo ponte dei Crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata, un’unità fra Occidente e Oriente? Sono le cose che mi commuovono di più, come di vedere, dopo la spedizione d’Alessandro, il canone di Fidia insinuarsi nella scultura indiana di 23 secoli fa. Perché questa regione pietrosa non dovrebbe essere una madre d’architettura? E venuta su dal tormento della pietra: dalla pietra, vittoria della forma sopra un immemorabile caos. Prolifica d’ogni sorta di pietre; dura, macerata, terra della sete: ci vorrebbero forse altri eccitamenti per inventare una forma? Nella sua desolata vecchiaia, Santa Maria Sipontina impartisce difatti oggi ancora la lezione più moderna. Dal faticoso svolgersi di due quadrati, guardate come al terzo la sua pianta ottiene che, sovrapponendosi di volo, 4 pilatri e 4 ogive e... 4 muri, e... (avete indovinato!) «quattro» colonne compongano alla cupola la salita potente d’un doppio spazio di cubi. Più cubisti di così... Non c’è da ridere: semplicità e ordine apriranno sempre le vie del sogno. *** Siamo usciti. I passi del sagrestano sono silenziosi come se andasse a piedi nudi. Per uno strano mimetismo anche i nostri passi si sono fatti impercettibili. Siamo scomparsi. *** Al poco chiaro che può mandare un sanguigno di colonne, ci siamo ritrovati, sorpresi. 64 Scorgiamo all’altare in fondo, in un cavo d’abside, gli occhi sbarrati d’una statua di legno dipinto. Sono gli enormi occhi bizantini, dimentichi del tempo. Solo Picasso potrebbe dirci perché i Bizantini sono così vicini ai selvaggi. Ripensavo cogli occhi fissi a quello sguardo insensato, laggiù... - allo Scima che per occhi mette all’idolo pezzetti di specchio. Sarà mai rappresentata meglio l’insensibilità d’una vista eterna davanti al passare? Sparse come guardie, le gentili colonne - e sono... (bravi!) 4x4 - per il loro regolare i giuochi ora evidenti della volta, via via che avanziamo sembrano dividere il buio addirittura a tende, a scostarle. Vediamo anche quattro colonnoni; ma ci devono stare per prolungare e fortificare da questa cripta, i pilastri della chiesa di sopra; cercano di non disturbare e ritraggono più che possono nell’ombra la loro corpulenza. In tali penombre, presso la statua di legno arrampicandosi negli angoli, appariscono apparecchi ortopedici, grucce a mucchi, e vestitucci di tulle polverosi, inverosimili sulla durezza e la freddezza della pietra. *** A questo punto scopriamo appesi al muro - è uno scoppio - tutto un fiorire di quadri su rame. Di solito il popolo racconta bene, è la sua facoltà, e ne è prova questo genere di quadretti di voto. Ma questa volta le immagini hanno una vivacità straordinaria: sia che si faccia vedere uno che con una tavola sotto il braccio si getti dal piroscafo squarciato da un siluro, e riesca a raggiungere riva coll’aiuto di quella tavola; o si discorra d’un bambino che, caduto sotto cavalli impennati, attaccati ad un carro pesantissimo, passato il carro, mentre gli astanti urlano ancora disperati, si alzi e sorrida; ovvero s’indichi un albero schiantato dal fulmine mentre lo potano, e il potatore resti a cavallo d’un ramo della mezza pianta rimasta ritta, e guardi in giro come per dare i numeri al lotto; ecc. ecc. Il dramma è nel mare e nella nave, è nei cavalli impennati e negli astanti, è nell’albero e nel fulmine; non è mai in chi si salva. Ci sia o meno la volontà, c’è sempre il miracolo, c’è sempre la fede che rasserena. *** Stanno nella polvere e nel grigio, lì abbandonati i ricordi della sofferenza. L’uomo, si diceva incominciando, è debole e lo sa, e perché lo sa, per miracolo divino o per volontà, che è miracolo umano - e di solito le due forze si alleano - la sua condizione, e la sua dignità, è di superarsi. Per questo quando s’è salvato - come ha visto l’artista - è al di là di sé, al di là del dramma, egli è valore spirituale, e il dramma langue e perisce nella natura delle cose. *** Allora il sotterraneo mi s’è riempito di pellegrini. Non c’era nessuno. 65 C’erano impronte di piedi, impronte di mani, graffi sulla pietra, e un nome dentro ciascuna mano o ciascun piede. Pellegrini che erano arrivati qui cantando, anzi grigando: a piedi scalzi con il loro passo rapido, anzi impetuoso com’è la fede. E finalmente il loro piede aveva calcato il suolo sacro, la loro mano aveva toccato la pietra benedetta. Ne resti memoria per sempre! *** Sentirò per tutto questo mio correre dietro l’acqua, in su e in giù, dal Gargano a Caposele, il passo del pellegrino. E se non ne sentirò il passo, ne vedrò la traccia. *** Siamo tornati al prato. È il tocco. Ora si vede meglio come qui il sole detesti l’inverno. Ora ha potuto finire di aprirgli - direbbe Leonardo Sinisgalli, un giovane poeta delle parti d’Orazio, quasi di queste parti la mano superba e la noia del giorno ed esso, vinto, può prendere, come un presagio di primavera, un calore carnale. Manfredonia, il 6 Marzo 1934 LA GIOVINE MATERNITÀ Là fu Siponto Siponto non è più che un nome musicale. Un Diomede laureato e il giavellotto fendente l’aria sopra la fuga d’un cinghiale: la celebrazione del fondatore d’una città in maremma, nel suono d’oro d’una moneta. Per tutta la riviera adriatica - come è del Tirreno, Enea - corre voce di questo Diomede dalla barba fiorita, e sono indecisi perfino quelli di Comacchio se vantarsi di discendere da lui o da Noè. La moneta è visibile nei musei. Ma perché il mito che porta i due rivali omerici a prosperare sui due lati della terra italica, non dovrebbe essere verità? È come una prima figura di quel mistero che avvierà sempre ogni sogno epico a sciogliere i suoi drammi sotto la chiarezza del nostro cielo. Un mucchio di monete nelle vetrine: Diomede e la ragazza con la corona di spighe, e l’uomo che rovescia un leone. Più alcune anfore piantate bene: memorie di braccia che, alzandosi per trattenere un peso nell’armonia rigogliosa dei passi, facevano irnpazzire. È tutta qui, Siponto? *** 66 Ci sarebbe anche la cattedrale di cui si parlava l’altro giorno. E una città, finché una sua pietra sta ancora ritta, non può dirsi scomparsa e meta solo della memoria. Ma la speranza, perennemente attuale, in un certo senso ha strappato Santa Maria Maggiore al suo luogo e al suo tempo. Gridando aiuto, si chiama un generoso. Dov’è, che importa? E colla divinità che verrà mai a fare la storia? Eh, lo so che non si ha storia senza l’arrampicarsi verso lassù come un’edera, delle nostre passioni. E che, dopo tutto, all’uomo non resta che un pugno di storia. Che verrà mai a fare la storia? Questa Madonna dai grandi occhi non ha se non ricovero palese, fra gli unici muri di una metropoli rimasti ritti. Per miglia in giro, varcando solitudini, dal mare e dalla corona dei monti tutto un popolo nei suoi dolori la sogna. Una chiesa non ha bisogno di dominare visibilmente un pigiarsi d’abitati per essere non il segno superstite d’una rovina, ma un nucleo vivo d’umanità. Anche come semplice lavorata pietra, è cosi poco ormai Siponto, decrepita pietra com’è. L’arte non la distacca più dalla natura. E, come la stessa Siponto, terreno anch’essa, stravaganza del terreno. Non è quasi più nemmeno una memoria anche l’acqua malata che a un re animoso fece ordinare l’esodo totale degli abitanti e fondare a qualche chilometro più in là, la città cui dette il nome. Ma forse la malaria non fu che un pretesto, e la necessità d’avere braccia per la costruzione d’un porto potente consigliò invece il guerriero. La memoria delle Paludi Sipontine stanno disperdendola le idrovore. Non ne resta ormai che un raro barlume viola nel vento. E in linea diritta davanti alla fu Siponto, l’arco di Manfredonia si volta giusto nel punto dove, pieno di freschezza e di appetito per l’abbondanza di seppie, lo sguardo dell’acqua marina si fa moro come quello di gitane. Azione e fede Torri, torri che a volte emergono da fondamenta marine e acquistano bellezza nel variare perenne dei riflessi, torri che si mantengono, nonostante l’altezza, d’una rotondità cospicua, torri, così carnali, malinconiche sotto i colpi della luce, torri che a volte armano una cattedrale ai quattro venti, guerra e preghiera, azione e fede alleate e fuse, ancora e sempre, è ciò che qui non ha paura del tempo. È il modo cordiale, diremmo, di celebrazione: è celebrare la divinità nell’uomo, cioè soltanto un momento umano particolarmente intenso, e quella luce che non ci abbandona mai e che vediamo così bene quando ci facciamo piccini piccini per amore e nei nostri momenti di disperazione. Un Italiano nella sua arte, anche parlando di morte, celebrerà sempre la vita. Se sono occhi, non avranno l’esorbitata fissità dell’icona, né tanto meno saranno quelli ghiacci e ancora più tremendi del feticcio sudanese. Noi non abbiamo mai pensato d’annientare la carriera del tempo immaginando, come gli Egiziani, una lancetta che ne avrebbe segnato senza fine il vano ripetersi. È un’idea di gente che il deserto circonda. Non mi sono mai meravigliato vivendo laggiù, che quegli Antichi pensassero che il tempo sia vinto dal tempo stesso, e cioè, il tempo essendo una misura, sia vinto dalla sua misura. Meridiane colossali, piramidi, una saetta d’ombra 67 che i secoli non denaturano. E l’eterno? Morte! Mummie nell’orrore, nella cecità delle fosse di quelle piramidi. Per un Italiano poesia invece - anche se un’idea come quella degli Egiziani gli servirà da termine di rapporto - sarà l’illusione di perpetuare l’attimo che ci ha rapito il cuore, di perpetuare la vita d’un nostro attimo: ecco dove cerca pietà e forza e il divino, la nostra arte. La casa azzurra e gialla Con qualche torre che ci seguita, bruscamente entriamo in una selva di fichidindia Il ficodindia non è una rarità. L’abbiamo incontrato tante volte a fare da siepe, o addossato a un rialzo di macerie, o come un’elefantiasi contendere lo spazio nei campi d’agrumi. Ma un intrico assoluto di questo verde idropico che tolga il respiro così a lungo, fino ai piedi del monte, può essere una sorpresa. Con che gioia uno di quegli «ahuan» che mangiano il vetro e i serpenti entrerebbe qui dentro e divorerebbe le foglie spinose, che evocano perfino la roccia nella loro mostruosità. Ma, sarà per un dolce venticello che muove quella pesantezza, ora tutte quelle foglie, quelle enormi orecchie sorde, sembrano essere salite sul naso di pagliacci equilibristi. E alle radici del Gargano, mentre la selva grottesca continua la sua risatina e ora vi ride alle spalle, e voi tornate invece a pensare a muri merlati nascenti dal mare, una casa azzurra e gialla vi accoglie sola sola. Un altro miracolo. Nel progetto di massima del 1902 per la distribuzione dell’acqua non erano compresi i comuni di Montesantangelo. E se l’acqua non riusciva mai ad arrivare dove avevano allora stabilito che dovesse arrivare, come avrebbe fatto ad arrivare un giorno lassù in cima? Nel 1925 si dà ordine che si compili un progetto di massima perché l’acqua vada fino lassù. Nel 1928 vengono compilati altri progetti esecutivi e i lavori vengono senz’altro rapidamente eseguiti. Non era una cosa facile. Sono stati risolti ardui problemi d’ingegneria che si presentavano per la prima volta: con semplicità, come sempre quando si fa sul serio. Ed ecco che, nella casa gialla ed azzurra, ora si muove l’impianto di sollevamento: sono pompe a stantuffo accoppiate a motori Diesel: sono le braccia e i polmoni d’acciaio di migliaia di ciclopi che mandano, senza affannarsi, silenziosamente, come nulla fosse, dallo spazio di poche decine di metri, una quarantina di litri d’acqua al secondo a un’altezza di quasi mille metri. Tutto questo organismo nero fa l’effetto di un’enorme dissimulata violenza che basta una mano d’uomo a dominare e a regolare senza sforzo. Conquista del sasso Il Gargano è il monte più vario che si possa immaginare. Ha nel suo cuore la Foresta Umbra, con faggi e cerri che hanno 50 metri d’altezza e un fusto d’una bracciata di 5 metri, e l’età di Matusalemme; con abeti, aceri, tassi; con un rigoglio, un colore, l’idea che le stagioni si siano incantate in sull’ora di sera; con caprioli, 68 lepri, volpi che vi scappano di fra i piedi; con ogni gorgheggio, gemito, pigolìo d’uccelli... Ma queste pendici che vanno giù verso Manfredonia sono tutto sasso. Salendo da questo lato verso Montesantangelo la vegetazione è tutt’altro che facile. Ma questa è la giornata degli spettacoli commoventi. Giù, vedete, si estende a perdita d’occhio la pianura: terra, terra. E con tanta terra a due passi, guardate questi montanari: vanno a cercare la loro terra avara col cucchiaino; e quando trovano nel sasso un interstizio: giù quel granellino di terra. Sono arrivati così, conquistando un millimetro dopo l’altro, a rendere fruttuoso anche questo versante, e ora è tutto diviso a terrazze che fanno l’effetto di snodarsi sul suo dorso come lentissimi bruchi. Mi dice uno che sta zappando: «Avresti dovuto vedere quest’estate! Il nostro grano era alto così! Il più bello di tutta la Capitanata!» Mi dava del tu, davvero era un Antico! La tomba di Rotari Ora ci appare Montesantangelo. Le sue case, per le porte sormontate dalla finestra a balconcino, a questa distanza le diresti una greca che coroni il monte. Arrivati a Montesantangelo, correte a vedere la cosiddetta tomba di Rotari. Un’architettura degna di Ispahan! t un monumento misterioso. All’esterno s’alza come una mole che faccia da testa al monte, e pure portando i segni netti d’un’arte molto avanzata, non riesce nel suo ritmo a dissimulare non so quale violenza caotica della natura ancora vergine. Misterioso monumento! Il suo nome la dichiara Tomba di Re Rotari longobardo. Ma, pare, perché si lesse male una scritta che diceva “Rodelgrirni”. Quante volte i dotti ce l’hanno data a bere, leggendo male! Il popolo la chiama la Tomba di San Pietro perché attigua alla chiesa di questo nome. Chi la ritiene un campanile, chi un “sontuoso tipico battistero del XII secolo”, chi tomba e torre di vedetta da principio e poi battistero e chiesa... Possono avere tutti ragione. Ma come pensa il prof. Giovanni Tancredi che vuole essermi guida gentile e che questo monumento ha studiato con amore in tutti i suoi particolari, mettendone alcuni egli stessi in luce, quanto alla data di costruzione si dovrebbe risalire alla prima metà del XII secolo. Quanto all’essere tomba, anche a non credere agli esametri incisi che dicono: Incola Montani Parmensis Prole Pagani Et Montis Natus Rodelgrimi Vocitatus Hanc Fieri Tumbam Jusserunt Hi Duo Pulchram Vale a dire: Un abitatore del monte di origine parmense, Pagano, Ed uno nativo di Monte, chiamato Rodelgrimi, Fecero fare questa bella tomba. 69 Perché andare a immaginare che tumba, volendo dire volta o cupola, non potrebbe essere una tomba? Tomba la dice il popolo, tomba la dichiarava la leggenda dotta. E tomba sia, per il fortunato visitatore che in essa si sprofonda. Vita trionfante Il suo colore interno è d’un rosa secco. Un colore che verso l’alto diventa d’una accalorata luce diffusa. Si ha veramente l’impressione d’essere scesi in una profondità di tomba, circondati da visioni infernali, come quel potente groviglio che rappresenta l’avarizia tormentata. Ma alzando gli occhi in questo luogo di sogno, ecco un primo conforto: fra l’accidia e la lussuria, ecco la maternità, ecco la vita trionfante! Teniamo gli occhi alti, seguiamo gli spazi che salendo prendono a gradi una forma più raccolta, arriviamo alla sommità, lassù, lassù - l’occhio si fa piccolo per arrivare a vedere - e vedremo un’aria soprannaturale, contenuta come in un guscio d’uovo trasparente che una freschezza illumina... Molto probabilmente questa tomba sarà anche un battistero. Non è il battesimo un sacramento dei morti alla grazia? E non li risuscita? E sembra che ora possano essere sfidate tutte le pesanti leggi che tengono i nostri passi giù. Si è veramente morti alla materia, è veramente un nascere allo spirito. Non conta più il nostro peso a questo punto dell’aggirante salita. Conta una felicità ritmica, conta una divina precisione, è superato e oltrepassato l’inutile, conta la grazia. Com’è pura in quest’aria di sogno, la giovine maternità... San Michele del Gargano, il 1° Aprile 1934 PASQUA L’angelo nella caverna Dall’alto, così muoversi a perdita d’occhio, non avevo mai visto il grano giovane. Soggiace appena al suo alito in fiore; ma è un alito immenso, un alito di felicità finalmente palese, davvero da terra risorta. Un alito di Pasqua, davvero di terra finalmente di luce. E non lo definisce luce la sua incertezza stessa? Quell’essere ancora il tremito d’un calore libero da poco lungo lo stelo dalla zolla, d’un calore che ancora tralasciare non può, nello scorrere oltre la tenerezza dell’erba, qualche ombra di violenza segreta? Calando dai monti portato all’infinito in palma di mano, è stamani il Tavoliere d’una freschezza e d’una felicità... Ma ecco che una rivolta della strada ce lo nasconde. 70 *** Pasqua! Li sentite gli agnellini? Siamo nel paese del grano e delle greggi. *** Un giorno un’idea, e conteneva in sé fuse tante altre forme, da una proda bizantina prese il volo e, chiamatasi San Michele Arcangelo, venne a posarsi su questo monte. Gli sono venute dietro tutte quelle case bianche che vedete, che s’arrampicano l’una dietro l’altra piene di 20.000 Cristiani, sormontate da fitti comignoli lunghi lunghi, che formano una strana roccia con mille feritoine per farci il nido. Gli è venuto dietro quel campanile angioino che alza - all’angolo d’un piazzale, chiuso dentro un’inferriata, ma non è feroce - i suoi 25 metri, come un enorme cero pasquale, imitando il poderoso e grazioso slancio delle torri ottagonali di Castel del Monte. Ha persino un portale della medesima breccia picchiettata di sangue del monumento svevo. Dal quinto secolo in qua, gli è venuta dietro questa città di Montesantangelo, brulicante a 900 metri sul Gargano. *** Il suddetto piazzale - noi diremmo corte; atrio esterno, direbbe il saccente: culonne, dice meglio di tutti la gente di qui, perché una volta c’era un elce secolare nel mezzo. La culonne è fatta per li sammecalere - da San Michele - venditori ai loro banchi di statue del loro santo, da essi stessi lavorate in alabastro che pare allume. Sono due dinastie di artigiani: gli lasio e i Parla, e dal tempo dei Re aragonesi hanno il privilegio di fare e vendere le statue. Circolano anche nella culonne gridi cristallini di montanine: offrono li mazzaredde, e con li mazzaredde ciuffi di pino di Aleppo e nastri e tutto l’occorrente perché il pellegrino non se ne torni a casa senza il suo bordone. Potrà acquistare anche schegge di calcare da portarsi al collo o da attaccarsi al cappello, e se avesse farne, li fascinedde, l’ostia chiene, li pupratidde, carrube, croccanti, ciambelle di cacio... *** Apparve in origine l’angelo all’uomo, dicono, impugnando una spada di sole che ci chiuse l’Eden. Gli angeli furono da allora le stelle, inaccessibili misure che guidavano i passi erranti nel deserto. Compresa la stella che condusse alla grotta i Magi, furono nature pure, assoluta fissità, segnali sicuri, operai adibiti all’eterna creazione del mondo, api mediatrici fra la divina potenza e l’umano fallire, vaghezza o terribilità balenanti da uno stato di beatitudine perduto, bramato, promesso. Erano i numeri dello strologare caldeo, e già erano i messi biblici che balenando gli occhi umani non disdegnavano prendere sembianze umane. E noi, dalle parti nostre, pronti non eravamo già a togliere le ali a Mercurio; a Ercole, il drago e la 71 forza; a Apollo, la perfezione d’un corpo che dirada la notte - per cedere a Michele ogni cosa e farne, quando avrà da piombare sugli idoli, una famigliare immagine? *** Qui per la prima volta apparve chiaro in Occidente che il Cristianesimo poteva vantarsi d’avere schiacciato il drago, il quale era tutte le altre fedi: esse avevano dovuto trasmettere all’Angelo ogni loro speculazione e ogni loro seduzione. L’apparizione garganica abbagliò tutta l’Europa. Perché stupirsi che i Normanni, tornando dai Luoghi Santi, salissero il Monte per acclamarla? E perché quindi stupirsi che sino dal settimo secolo, a imitazione di questo San Michele di Puglia, il San Michele a Pericolo del Mare sul Monte Tomba nella Neustria, trovasse in un sasso druidico rifugio, stringendo tra i due santuari mistico patto di guerrieri? *** In un angolo della culonne, fra l’incrociarsi dei gridi, c’è un parlottare che solo qualcuno ode. È Melo da Bari che nel 1016 chiede ai Normanni d’aiutarlo a cacciare i Bizantini dalla sua Patria. Ah! qui è nata una cosa da nulla: il Regno delle Due Sicilie, un avvenimento che darà per quasi mille anni un giro diverso alla storia d’Italia e alla storia d’Europa e alla Storia. *** In fondo alla culonne c’è una facciata con due archi che aprono un portico nell’ombra, dove una fata con uno spillo dev’essersi gingillata a ricavare figure e fogliame per due portali ogivali. Entriamo. Dentro buio ai lati indoviniamo i laboratori delle due tribù de li sammecalere: rappresentano la prima, quattro paia di baffoni scurissimi. Una scalinata ruzzola giù. Udiamo: Scala sante, pietra sante, Patre, figliuole e spirite sante... È il lamento di persone che fanno la scala in ginocchio. Pastori che incominciano a giungere prima di tornare ai loro monti, per ringraziare l’Angelo della buona svernagione? Come Santa Maria Maggiore di Siponto è la chiesa dei pescatori, questa è la chiesa dei pastori. S’è già detto: ogni apparizione d’angeli ci riporta prima di tutto all’infanzia del mondo: patriarchi, armenti, stelle, solitudine, smarrimento ... : pastori... Non sono più tante migliaia come ai tempi del pascolo forzoso nel Tavoliere; ma quando saranno quassù in gran numero nella prima ottava del prossimo maggio, si vedrà che sono ancora molti, per fortuna nostra. Una nazione che ha ancora di questi cuori semplici, non invecchierà mai. *** La scala va giù, va di qua, va di là, trova un raggiolino di sole, lo perde; 72 s’incontrano nella penombra a ogni pianerottolo: porte murate, altari, tombe... In fondo alla scala, finalmente ci siamo. C’è una porta, entriamo: eccoci tornati in pieno giorno in un cortile; su s’affaccia una ringhiera; a sinistra, al nostro fianco, delle arcate chiuse da cancelli: altre tombe, un vero cimitero. In fondo, la facciata con la sua mirabile porta di bronzo eseguita “da mano greca per Pantaleone Amalfitano” nella “regal città di Costantinopoli”, nel 1076. Sono, dal punto di vista dell’arte, il tesoro del santuario. Nei 23 riquadri dei 24 che formano le due imposte - nel 24° c’è un’iscrizione - appaiono figure bislunghe delle quali il bulino ha inciso il contorno, fatto risaltare da un filo d’argento premuto nel cavo. Alle estremità di ogni contorno intarsiato e dentro uno sparpagliamento di piastrine d’argento intagliate, s’irrigidiscono piedi, mani e facce. E un giocherellare sottile e goffo di lucettine sopra una piatta e dura tenebra: non resta di solito molto di più d’una grande tradizione giunta all’ultimo ieratismo della sua decadenza; ma qui è giunta, nel suo tremolare, a quella smemoratezza senile che annuncia la primitività. Entriamo. Attraversiamo una navata gotica. C’inoltriamo. Ci rinveniamo poi affondati nell’antro. Il luogo è umido, e in mezzo all’oscurità a poco a poco si rivela una statua corazzata d’oro, attorniata da un tremolare di lucette di candele. È l’Angelo! Vicino a me, aguzzando gli occhi, e per via della corazza di latta che portano, vedo che ci sono alcuni bimbi. Stanno in ginocchio con l’elmo di latta in mano, e giocherellano con la spada di latta. Mi fermo dove l’oscurità è più densa. Ecco, sono bene a contatto ora della natura cruda. Carverna: luogo d’armenti, e d’angeli dunque: luogo d’apparizioni e d’oracoli. Ma forse c’è anche stato in questo cuore della terra un uomo anteriore ai terrori, vicino alla sua origine divina: profetico fantasma di sé, del suo penoso incivilirsi. *** Fantasma, dice un poeta, ed è, nella sua cieca sottomissione a certe contingenze d’ora e di luogo, l’immagine finita d’un tormento che può darsi sia eterno. Può darsi che una vita umana spesa bene, altro non sia se non un’aspirazione a lasciare di sè simile immagine. Angeli o fantasmi; ma per chi cerca il valore religioso dell’arte, per chi ci crede, quale prova questo tendere a esprimersi dell’uomo in tale modo che, per effetto di poesia, la sua presenza, dipendente da una brevità di vita e da un variare, permanga sciolta dalla sua vita, e da un luogo e da un’ora. Per gli uni, non essendo loro ancora negata la grazia incantevole, ci sono sempre gli angeli; per gli altri che possono essere solo uomini di buona volontà e conoscere solo la grazia militante, prevarrà l’uomo, quell’uomo che, sulla tela che sogna immortale, non vorrà stampare se non il proprio fantasma. È quest’ultimo il modo della pietà dell’uomo verso l’uomo: ma, in chi lo pratichi, c’è una fermezza e un’audacia, non so quale grande fondamento morale; c’è, in questo cercare la storia in se stessi, cercando un barlume nella notte dei proprio bruciare, quasi ricuperata la originale virtù umana. *** 73 Uscimmo. Già era sera. La sera dei paesi è data dalle donne che vengono sulla porta di casa, dalla piazza che s’affolla d’uomini, dai ragazzi che s’agitano di più senza che s’oda più il loro chiasso, dall’attesa d’un avvenimento che è, in questo nascere di primavera, già tutto nell’aria, anche più che nei cuori. Ora di rapimento. Ora di tono petrarchesco: Passa la nave mia colma d’oblio... L’unico modo di rompere il silenzio è di chiudere gli occhi; E m’è rimasa nel pensier la luce... Lucera, il 15 Maggio 1934 LUCERA, CITTA DI SANTA MARIA Scriveva Gregorovius ricordando la sua entrata a Lucera: “Ti viene incontro la quiete tutta propria in Italia delle città storiche di provincia. È cosa d’una seduzione che non ha l’uguale nel mondo”. In un delta oblungo, e come sposando il silenzio, il Duomo è fermo su una terra a onde. Duomo della città di S. Maria. Ma commemora lo scatenamento d’un furore. La pietra cotta e la cruda, stinte, patinate, penetrate l’una nell’altra, hanno avuto dal tempo un’unità di giallo leggermente ombrato: è una facciata alta, impettita, piallata, orba con quel suo finestrino nel rosone, tagliente, coperta dal tempo di un colore di grido represso. Ora che l’archeologo può sbucare segreto da una stradicciola e frugare in giro dietro le lenti cogli occhi affamati, si può gettare un’occhiata nei solenni portali settecenteschi di cui la città è ricca, arrivare a quello del Palazzo Raniamondi, di gesso ercolanense, affondato in quinte, e a bell’agio vedere che tutti finiscono in una corte piena di carri, carrette, d’arnesi per lavorare la terra e d’una carrozzella nel mezzo, così decrepita che le mani vi scappano a turarvi gli orecchi per paura che non si metta anche da ferma a cigolare; possiamo incontrare ragazzi del Real Collegio dove fu alunno Salandra, che passeggiando ripassano le lezioni con una serietà di statue; su e giù per la stessa strada, potrete osservare avvocati calmi discutere ore intere e accanto, passando, un prete in orazione può sentirsi come in un chiostro, e alzare appena gli occhi dal breviario per un salutino; ecc.: è questa la quiete? *** Giambattista Gifuni, direttore della Biblioteca Municipale, che m’accompagna e che conosce mirabilmente la storia della sua città per un amore che da secoli hanno da padre in figlio nella sua famiglia, mi fa segno d’avviarci. Ed ecco per dare il garbo all’abside, che la terra a onde s’è messa a girare come dentro una chiocciola, e i nostri passi con essa; ma presto tutto sembra immutabile e lo stesso colore dell’aria, arrivati come siamo a un punto dove è unico motore l’architettura. 74 Ora, per l’annodarsi stretto dei contrafforti, la mole fa da sporgenza a sporgenza effetto di galoppare tra altissimi agguati: è un’elegante mole con un nonnulla di calligrafico, pericolosa e anche serena, come s’addice a fabbrica provenzale trecentesca ancora ammaliata d’Oriente, sorta sotto il più largo cielo del mondo sulle rovine fumanti d’una moschea. Ma appare più di tutto, assediata e presa d’assalto dalle cose così com’è rimasta, nave gonfiata dall’affanno umano, veramente la forza dalla quale nascono o rinascono e vanno alla ventura città. Città di S. Maria! Ci basterà del resto fare due altri passi ed entrare nel Duomo per vedere gli stessi fantasmi approvare Gifuni d’avere nel suo scritto intorno alle “Origini del ferragosto lucerino”, opposto all’Egidi che non tanto la ragione economica quanto la passsione religiosa mosse Carlo II a radunare un esercito e, al comando del “valoroso” Maestro Razionale della Curia Reale Giovanni Pipino da Barletta, spedirlo addosso a Lucera a farvi “macello” dei “tanto arditi et grandi Saracini cani” che la popolavano. *** Entrati in Duomo, il primo fantasma a farsi riconoscere - e che or ora, a quell’esterno dell’abside frutto di un’educata violenza, già avremmo potuto immaginare presente - è Dante. Carlo I d’Angiò, Carlo Il d’Angiò: il Nasuto, il Ciotto, come Dante li ha crucciato soprannominati per sempre, sono qui nel centro del loro trionfo. Dicono che il Ciotto sia quel giovanotto di marmo dagli occhi pieni di sonnolenza, il cui viso paffuto chiede il grazioso ovale al mento sottile e che giace coi piedi poggiati sui cagnolini in una cappella laggiù in fondo. Era uso tramandare sui cenotafi il più leggiadro aspetto d’uno scomparso? E quindi d’un uomo attempato non doveva rimanere che la memoria del suo corpo giovane? Uso amabile, il che non impedisce alla statua d’essere d’un’esecuzione dozzinale, nonostante il giudizio di Riccardo Bacchelli, il quale, avendo una volta da interpretare in modo penetrante come sa il carattere del Ciotto, le dedicò alcune delle sue frasi ornate. Opera più originale, o anzi addirittura geniale, è un altro giacente che entrando vedrete alla vostra destra, tenuto in alto da due mensole. Da quel suo vestire che infagotta dall’inguine in su sbuffando alle spalle e in giù fascia, si capisce che è un gentiluomo della seconda metà del Cinquecento. Ma guarda un po’ e chissà perché, la gente l’ha voluto Pier delle Vigne. Eppure è gente che qui s’è stabilita al posto dei “Saracini cani”, cari e fedeli agli Svevi; e dunque non certo perché tradì Federico - che non tradì - gli sputano in faccia, lo chiamano “Segnato da Dio!”, “Sansone”, “Traditore!”. O, maltrattandolo, vogliono essi manifestare il loro atavico e cattolicissimo rancore nel medesimo tempo che contro lo scomunicato Federico, e contro i suoi “grandi et arditi Saracini”, contro specialmente Pier delle Vigne che fu l’atleta, il Sansone, appunto, dell’Impero, l’uomo dotto che dettava le grandi pagine nella polemica di fuoco con Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV? Questa schiettezza d’animo dei Lucerini, quest’ostinazione nell’odio, anche questo è dantesco. Spostano le mensole, Piero giace sempre più su, cercano colle buone e colle 75 cattive di convincerli che non è educazione; ma uno schizzo ogni tanto, ciac, lo raggiungerà sempre: mirano a quel suo povero naso acciaccato. Statua orrenda nella sua impeccabile eloquenza: è uno scheletro beffardo, uno scheletro vivente: tutta l’amarezza del Seicento... *** Gli sputi sono una bella prova dell’errore dell’Egidi. Ma ce n’è ancora un’altra: siamo entrati in sagrestia e ci fanno vedere alcuni oggetti dei tesoro, e il sagrestano alza un vecchio camice di lino, lo alza colle braccia in alto e non basta, sale su una sedia e non basta, sale su una scala: è un camice di quasi tre metri, c’è entrato dentro il fantasma d’un gigante. Appartenne al Beato Vescovo Agostino Cassiota da Traú, il quale era un Domenicano, e non bastava, era uno che, anche senz’essere Domenicano, al solo vederlo si era piccini e si tremava. Fu qui dal 1317 al 1323 per sradicare i resti dell’eresia musulmana. Compito per il quale nella mente del popolo è rimasta l’idea che a finire di schiacciare tanto mostro ci voleva Ercole in persona, e un Ercole spietato. Omaggio reso al valore del nemico, valore dunque leggendario, e prova lampante - poiché dal sentimento alla fantasia non trova altra via per manifestarsi se non nella leggenda - del carattere in prevalenza religioso di tale inimicizia. *** Vollero perfino cambiarle nome. Urlarono i fanatici neo-Lucerini: «Città di Santa Maria!». Ma è più difficile cambiare di nome che di naso, e Lucera rimase Lucera, come la chiamano le storie antiche di Roma che la segnalano per la sua fedeltà. *** Gifuni torna alla sua biblioteca e mi fermo nel giardino del Municipio. È un vasto rettangolo che dà strapiombando nell’infinito della pianura. Fra le piante vi sorprende duramente un enorme leone di scavo, un leone romano di bardiglio, steso minaccioso sulle zampe anteriori. Fu trovato nel 1830 insieme a un altro uguale, ma a pezzi, “le cui ossa - come dice in un suo quaderno un antenato di Gifuni - furono buttate al vento”. *** Ora guardo la città nel suo panorama e penso: «L’Egidi non deve avere avuto tutti i torti ragionando come ragionava. L’errore suo fu di non far dipendere mezzi - quelli economici nel caso che esamina - da ciò ch’è sempre fondamentale negli impulsi umani: la nostra vita morale». E penso che l’argomento meriterebbe uno svolgimento apposito tanto più che mi permetterebbe di rivedere certe mie riflessioni sull’architettura. E la Lucera dei Saraceni col Federico e il Manfredi rimpianti da Dante non merita forse un articolo? 76 Starò dunque a Lucera coi miei quattro lettori, anche la prossima volta. C’è un’altra memoria di Federico: un segno vivo: non ci sono piccioni qui in piazza; ma, come sulla Leonessa e il Leone, sul campanile si alza il falco, e si ferma sull’aria: ha trovato nelle ali infiniti equilibri.. . Figli dei figli di quei falchi ch’egli ha fatto venire qui per mettersi in grado di dettare il suo trattato di falconeria? *** Mentre starai per partire, il tempo si guasterà. Apparirà nel cielo un affrettarsi di nuvole nere. Come succede sempre, alla imminente bufera le pietre balzeranno. Nell’arretrarsi dei loro sangui e dei loro ori che fra il Leone e la Leonessa incupiranno, esse assumeranno una nettezza strana: un giorno consumato ringiovanirà, astratto, eterno, nudità finalmente lucida... Lucera, il 5 Giugno 1934 LUCERA DEI SARACENI Quando t’apparirà da lontano l’arco ogivale di Porta Troia e vedrai, in un volgersi immenso di solitudine, Lucera, dal chiarore infinito del grano, balzata sui suoi tre poggi, potrà succederti che alcuni fra i più avventurosi fantasmi della storia vengano a mettersi allato. Avvolto nel vento leggero che muove la loro invisibile cavalcata, seduto in fondo a una carrozzella stridula, forse di loro, che per accompagnarti corrono lentissimi, t’accorgerai mentre, a poco a poco vedendo dall’ombra d’un muro la povera bestia attaccata alla tua vettura uscire con tutto il lungo tenebrore del suo corpo, udendola nel sole accrescere la solitudine col suo trotto invalido, andavi pensando che la grande malinconia superstite dell’800 è il cavallo. Ti sembrerà che uno dei fantasmi stia dicendo: «Ben Abu Zunghi, farete ordinare per ciascuna delle nostre signore un manto foderato di martora, due camicie e due veli di lino, una gonnella colla mazzetta a fibbia... Capito?» L’altro ha risposto baciandosi la mano e portandosela solennemente alla fronte e al cuore. Ha capito: ha capito la lode indiretta; ma non ve ne accorgereste che da segni impercettibili: da vero enunco ha una pelle senza età, e ora dalla gioia gli s’è tesa sulla faccia più del solito; da vero guardiano di harem ha gli occhi giallastri, che per un momento ora la crudeltà non oscura. L’Imperatore, senza parlare, alzando un dito, lo rimanda con quelli del seguito, gli sorride di nuovo... Legata al cavallino impaziente di Federico II, ora t’accorgerai che dietro la sella c’è una bestia dagli occhi bendati. Bruscamente egli s’è girato, la scioglie, la prende in braccio, la lancia, e di lì a poco quella bella pantera di Barberia gli torna con una gazzella fra i denti... Senza lasciare la preda, la bella fa le fusa, strusciandosi alle gambe del cavallo... 77 A questo punto, il “Poeta e Fautore di Poeti” crederà giunto il tuo turno della sua attenzione: «Vedi, m’è caro d’essere Cesare (“l’ultimo” Cesare, dirà Dante) e (saranno ancora, a suo riguardo e del suo bennato figliuolo Manfredi, parole di Dante) M’è caro quindi di seguire in modo eroico e non plebeo la superbia. E per questo alla mia Corte, e dandone io stesso l’esempio, la lingua parlata salirà i primi gradini della poesia colta, e dal luogo del nostro Seggio Regale le prime poesie scritte in italiano si chiameranno per sempre siciliane... Sei sorpreso di trovarti qui fra questi Arabi, di vedere là quei cammelli? Lo so, dolce sorpresa per te, che ti fa ritrovare l’infanzia e la prima giovinezza trascorse nei loro focosi paesi... In Sicilia baroni e... monaci me li avevano messi contro... Li ho sconfitti, e, sottomessi, li ho trasferiti in massa qui: ventimila Infedeli fra vecchi, donne, fanciulli, uomini ... Su quelle alture segregate e come sole al mondo, è il loro accampamento vivace ... In quella città peripatetica, li ho trasformati da nemici nei miei cavalieri più sicuri ... Non è stato difficile: anch’io li conosco e voglio loro bene da quando ero piccolo ... Perché ho scelto Lucera? Guardala: per la stessa natura del terreno, città non solo alta, ma tonda: città militare di quella perfetta forma che Vitruvio prevedeva “affinché il nemico sia da più lungi scoperto”... Ora, guarda quella strada scoccata come una freccia: si conficca laggiù a venti chilometri, nel cuore di Foggia... Ecco: ho capito che Lucera poteva essere come il mastio di Foggia, come il possesso di tutto il Tavoliere... Pane e armenti e tributi a volontà: ti sembra poco per uno che fa la guerra? «Dunque avrebbero ragione l’Egidi e il Lenormant sostenendo che Vostra Maestà, e il Nasuto e il Ciotto, e più tardi Francesi e Spagnuoli contendendosi il possesso del Regno di Napoli, non avevate precipitandovi sulla Capitanata se non motivi economici?» «Economici? Ai miei tempi, questa parola non c’era ancora... Certo, certo... Avevo la mia fede... Nessun vero Capitano, né Alessandro, né Cesare, né Napoleone hanno fatto la guerra se non per una fede... Ogni tempo ha la sua ... » E così dicendo colui che da piccolo chiamavano “il fanciullo di Puglia”, sparve... *** Federico è quello che è: un uomo grande, e cioè un uomo più che dei suoi tempi, di tempi che aiuterà a nascere. Impersona il Medioevo, la parte epica del Medioevo che è germanica, che è feudale, e nello stesso tempo si dà a promuovere l’Umanesimo, il che è come dire che s’era gettato a capofitto in un’azione contro se stesso. Economia, economia? No, sono tanti i lieviti, era la natura, la storia, la Provvidenza: l’uomo è condotto misteriosamente... *** Quando sarai arrivato già dentro Lucera, al Belvedere, e da quell’ameno paesaggio ti sporgerai sul precipizio che va a cadere dove la pianura fugge, la città ti 78 apparirà che si inalbera sirnile a un promontorio, a un salire dalle sue porte militari per amabili pendii verso il brusco orrore del vuoto. Tenderai allora l'orecchio per sentire se dall'alto d'un minareto non s'alzi ancora almeno un grido... Non ci sono più rninareti in questa che fu 1a Città senza Croci!". E come saranno state, come sono immaginabili di mattoni, "non bianche", le moschee? Dei "Saracini cani" non è rimasto nulla: qualche vasetto, qualche pezzetto di ceramica... Le memorie qui sono romane o angioine. Roma, Roma, Roma qui non finirà maì di risuscitare: la sua antichità in questa terra è inesauribile e l'altro giorno ancora in mezzo al Belvedere s'è aperta una fossa e s'è messa a buttare pargoli in fasce, giovi, veneri, bracci, piedi, falli: una vera montagna di terrecotte votive... *** Di Federico II non è rimasto se non un enorme slancio di pietre come una cappa sbranata che sta su per miracolo; se non un movimento raccapricciante di pietre paragonabile per audacia solo alla volta della Basilica di Massenzio. D’una residenza che dovette essere una delle meraviglie del mondo a giudicare da Castel del Monte, questo rimane... Ma come nascenti da questo bellissimo rudere, ecco dal Belvedere vedrai che là in cima si svolgono, invece della Cittadella araba, i 900 metri di cinta della fortezza alzata dal Nasuto. E come una corona posata, e da questo punto sembra che basterebbe un venticello a smuoverla, Salirai. La vedrai nelle sue pietre sbiadite, d'un rosso e d'un giallo quasi bianchi, mossa e annodata nella sua quadratura da ventidue torri poligonali, e dal Leone e la Leonessa, moli cilindriche altissime e grosse d'una vertigine unica sulla ripidità della scarpa. Dal lato meridionale, sotto ci sono le fornaci, coi loro laghetti fra il grigio della creta che verrà cotta: una miniatura: un vero presepio colle pecore che ora passano: ahimè, una gran disgrazia per la fortezza! Quei fornaciai coi loro scavi hanno fatto si che ora sono lesionate e pendono la Leonessa e tutta la cortina colle torri da quella pane. Trattandosi di terreni appartenenti al Comune, non dovrebbe essere difficile concedere ai fornaciai altre cave in punti, che non mancano, dove la loro opera non sarebbe se non proficua. Entrerai nella fortezza: nessuna rovina produce un maggior effetto di ampiezza disabitata, di piazza morta e senza confine... Nessuna m'ha lasciato un uguale senso d'opacità del destino, un senso così esagerato di scoramento... *** Vedrai ancora i fantasmi; il deserto della fortezza si popolerà dei Provenzali di Giovanni Pipino da Barletta... E, ecco, dal lato di Levante che guarda Lucera e Foggia, i "Saracini cani" tentano un estremo assalto: lo squallore della fame ha reso sguaiati quegli artigiani fini, e i Provenzali li uccidono come per giuoco, e agli 79 uccisi alle volte spaccano sghignazzando lo stomaco per mettere allo scoperto la poltiglia del poco trifoglio strappato e divorato eludendo la sorveglianza... *** Lo Svevo non ha lasciato qui che un brandello di muro? C'è qui un altro suo segno: l'altare del Duomo e quella sua mensa di Castel Fiorentino, alla quale invitava a sedere insieme vescovi e ulema per ridere nel vederli guardarsi in cagnesco. Non fu guerra religiosa? E perché quella mensa è stata messa lì, se non in segno di riparazione? Venosa, il 22 Agosto 1934 DA FOGGIA A VENOSA Il Piano delle Fosse Piazza ovale che non finisce più, d'una strana potenza. tutta sparsa di gobbe, sconvolta, secca, accecante di polvere. Da un lato la chiude una fila di carri obliqui sulle ruote nelle profondità dei quali i fichidindia messi in mostra fanno come un mosaico coi loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c'è chi arriva a mandarne giù anche cento. Mi sono avvicinato a una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre una piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto, s'è aperto un pozzo e dentro s'alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d'occhio nasconde dunque l'uno accanto all'altro un'infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che ne produce 3.000.000 dì quintali, e più. Altro che grotta di Ali Baba. Ho visto cose antiche, nessuna m'è sembrata più antica di questa, e non solo perché forse il Piano c'era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogia fra “Foggia” e “fossa”, ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a tempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo un incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni. Nessun luogo avrebbe più diritto d'essere dichiarato Monumento Nazionale. Tomba di Boemondo Un poggio declina, salite gli scalini di un vicolo cieco colle sue ombre che palpano la parete, col suo tonfo nell'ombra. Vedete bene che non mancano di memorie qui a Canosa e possono tirare su anche i muri di povere case incastrandoci il segno di nobiltà di qualche lapide romana. 80 Tendete l'orecchio a uno scalpitio confuso che arriva sino a voi pei lastroni della Piazza, poi per quelli del Corso. Vi mescolate allo sciamare d'echi, siete portato a entrare in Chiesa, vedete sugli elefanti la Cattedra di mille anni fa del Vescovo Orso. Vi trovate fuori intorno alla Tomba di Boemondo. Nel grido sordo del sole: Boemondo eroe della 1a Crociata - quei gatti d'Antiochia, dove fu colpito, che hanno un occhio verde e l'altro turchino, le figurine con damaschinature d'argento e i dischi arzigogolati delle imposte dissimili della porta di bronzo, la cupola di bella forma d'uovo sorgente dagli otto lati d'un tamburo. Lo sgolarsi d'un galletto di primo canto. La Via Traiana Non vi sorprenda d'avere incontrato gli elefanti da queste parti. Ne hanno sentito parlare dai tempi d'Annibale, per lo meno. Né vi sorprenda che Canosa occupando i tre quarti d'un colle apparisca, straordinario giuoco di bussolotti, sull'incurvarsi di una strada storica. E se non una città di fatalità omeriche e designata a fiorire prima forse che fosse nato Omero, quale poteva ambire d'essere scelta fra quelle che avrebbero legato ufficialmente Roma al mare? E’ una collina come un'onda gonfia più che non dovrebbe consentire la calma che le si stende ai piedi. Ma la Valle dell'Ofanto dalla quale esce Canosa è tutt'altro che calma, se "calma" non fosse vocabolo capace come uno di quegli inganni messi in opera da Annibale e proprio da queste parti - che convincevano il nemico a schierarsi anche contro il vento, il polverone e il sole. Un sole torturante, come non può essercene un altro, degno d'una valle che è uno di quei quadrivi dove i popoli si sono gettati senza trovare nemmeno nel sangue sparso a fiumi la fusione che li aveva spinti nella mischia, e che non sarà mai trovata s'è necessario credere e vivere. Questo è il campo dove si sono scontrati i Continenti: Africa e Roma, Bizantini e Barbari. Questo è il Quadrivio dei Continenti dove, da Canne a Benevento, fu vista la traiettoria, l'alba e il tramonto d'una grandissima impresa umana, secondo i limiti che amaramente le fissava Dante pensando alla sconfitta di Manfredi, chiamando Federico II ultimo Cesare. Ma se le strade maestre le hanno sempre allargate i calcoli militari, è la favola che le ha tracciate e aperte: uno se ne va, gliene capitano di tutti i colori, per caso arriva dove si ferma, e dopo di lui tre o quattro sono partiti, perché chi è lontano anche se non si sa dove è andato a sbattere, è come una calamita. Questa favola o un'altra: le strade che dureranno sempre nella memoria sono queste, con precisione non si sa quando nate, alle quali da un punto all'altro della terra i popoli finiscono sempre per tornare, aperte prima di tutto a furia di passi che non sapevano dove andavano a finire. Il primo è sempre stato un puro eroe, uno partito solo per partire. 81 I vasi dell'ipogeo Al Museo di Bari. E’ fatta scorrere una tendina di velluto verde. M'hanno scoperto in quella vetrina tutta la Puglia in un miracolo d'arte popolare: il miracolo di Canosa. In quel Museo non mancano vasi apuli d'ogni epoca. Ne ho visto uno che porta disegnato un giovane colle scarpe da funambolo: botas de fota, mi suggerisce il fine Soprintendente Aru; su un altro, un giovane ha in testa un sombrero: ladri di bestiame, iniziatori di piantagioni, forse l'arte greca si era messa qui a immaginare un romanzo di pianura vergine. Ma il vasaio canosino un giorno impazzisce. Ha mandato in giro tanti mai vasi sui quali il disegno è più o meno vivo, più o meno accademico, ora è sul punto di doversi riposare e diventa naturalmente come un bambino e sarebbe meglio dire: diventa come uno che abbia ritrovato se stesso: la tecnica delle figure rosse su fondo nero è abbandonata, e a nausea gli è anche venuto quell'untume che hanno i soliti vasi. I nuovi vasi di una cottura incompleta, è abbandonata, come era giusto in Puglia, la cera per la calce: immersi in un bagno di calce, il bianco è lasciato alle figure coprendo il resto d'un rosa acre, e al rosa verranno presto a tenere compagnia altri colori anch'essi dati a fresco: il rosso cupo e il nero per i capelli, l'azzurro, il vermiglio... S'è ottenuto così un effetto assetato e abbagliante, com'è questa natura. Questa non è la sola novità: nel vaso è penetrato come un lievito, e il vaso si è gonfiato, s'è fatto trabocchevole di ornati in rilievo; le teste dei cavalli d'una quadriga hanno sfondato la pancia d'un orciuolo, dai fianchi d'un secondo vaso fanno capolino vispi ippocampi, dalla bocca d'un terzo escono brontolando un tritone e una tritonessa, un quarto ha addirittura la forma d'una'testa femminile e due testine giovanette le sbocciano lateralmente da quattro petali che formano calice. Insomma il Barocco più straordinario e più genuino si manifesta in questi vasi rinvenuti in un ipogeo di 22 secoli fa. Sveglia a Venosa Sono le sei di mattina. Come sarò arrivato quassù?' «Tu - tu - tum Tum! Si venDe! Carne di vitello a 4 lire e 30 al chilo Trippa A lire una Altra carne buona Al macello Santa Maria! Tu - tu - tum Tum!» E’ il modo di suonare la sveglia quassù: uno a passo di parata, fermandosi di 82 scatto: tamburo, tre colpi e uno, la filastrocca su riportata; venti passi: tamburo, tre colpi e uno; venti passi, tamburo... In Piazza c'è in marmo Orazio con un rotolo: è giusto, è nato quassù. Incomincia quassù la Puglia o finisce la Lucania? Nessuno l'ha mai saputo, nemmeno Orazio. Vedo delle antiche epigrafi ebraiche. Anche questo era un punto d'incrocio di strade romane. Anche qui è rammentato Boemondo. Questo, oggi, è il punto strategico dell'Acquedotto Pugliese. Caposele, il 9 Settembre 1934 ALLE FONTI DELL’ AQUEDOTTO La sete. Ho conosciuto il deserto. Da lontano, un filo improvviso di acqua chiara e viva faceva nitrire di gioia i cavalli. Ho conosciuto Paesi di grandi fiumi. Ho conosciuto terre più basse del mare. Ho conosciuto l'acqua che s'insacca, l'acqua che s'ammala, l'acqua colle croste, con fiori orrendamente bianchi, l'acqua venefica, i riflessi metallici dell'acqua, la terra come una tonsura fra rari ciuffi d'erbe idropiche. Ho conosciuto l'acqua torrenziale, l'acqua rovinosa, l'acqua che bisogna asserragliare. Ho conosciuto l'acqua nemica. Ho conosciuto Amsterdam dove si vive come navi ferme collo sguardo sott'acqua. L'architettura delle stesse case, prive di volume, incatramate, non trova lì consistenza se non nello specchiarsi. Sovrapponete a un'architettura quanti ornati vorrete, sarà sempre uno scheletro; ma lì non è nemmeno uno scheletro: è un sogno. E difatti guardando dall'alto un tram fuggente con i suoi lumi, nel vederlo giacente nella sua crisalide capovolta sotto le velature e le trasparenze d'un'acqua putrefacente, ho conosciuto la verità di Rembrandt: sogno. Ora andremo sino alle fonti del Sele. Se gli Estensi volevano vedere in giro vivente la loro nostalgia, e portavano Ferrara a Tivoli, se forse le grandi acque di Versaglia sono un canto ferrarese dei Francesi, questi Italiani del Novecento non hanno insegnato al mondo il modo di sbizzarrirsi coll'acqua, hanno semplicemente dato da bere a chi aveva sete. Ma per questo non ci voleva meno fantasia che a quei tempi, e ci voleva una volontà molto più umana. Ne è nata un'opera che, come si vedrà in prossime note, sfida qualsiasi altra anche per bellezza. 83 Acquaforte Rotolato dall'acqua c'è un macigno Ancora morso dalla furia Della sua nascita di fuoco. In bilico sul baratro non pecca Se non coll'emigrare della luce Muovendo ombreggiature a casamenti Tenuti sulla frana da bastioni. Attinto il vivere segreto, Nell'esalarsi della valle a sera Sono strazianti le sue cicatrici. Caposele, il 9 settembre 1934 L'ACQUEDOTTO Lasciando Venosa, non possiamo fare a meno di fermarci a guardare una vecchia opera romana. Questa è anch'essa un acquedotto e vivo ancora, e in grado di trasportare alle fontane per tanti altri secoli quelle sue acque prese sui monti di Sud e abilmente convogliate da pozzi antichi in un letto naturale. Beviamo l'acqua alla fontana millenaria, e non è vero che sia solo una illusione crederci ora, meglio preparati a capire un'opera colossale come l'Acquedotto pugliese. Opere di civiltà simili il mondo s'è abituato a chiamarle Lavori da Romani", e infatti questa è la civiltà che hanno insegnato a tutti: di grandi opere pubbliche. E se fossi giurista vorrei dimostrare come l'immortalità del diritto romano sia dovuta alla sua facoltà d'animare a grandi opere pubbliche. Qui l'Acquedotto pugliese si biforca, e un ramo va verso Bari e Lecce e l'altro verso Foggia. E un'informazione che mi dànno mentre scendiamo nella Vallata del Torrente Lapilloso che circonda Venosa. Entriamo in un canale: sopra e sotto una volta a sesto acuto, in mezzo una passerella. Ci aprono una porta di ferro, c'infiliamo in una galleria che va nel cuore della collina per 200 metri. Ora siamo davanti a cinque scalini, andiamo su, aprono un'altra porta di ferro: già ecco, è l'acqua che corre, alta quattro metri, increspandosi per l'irruenza: 6000 litri al minuto secondo e, da Caposele, sono già 52 km. che va in canale. Limpida è l'acqua che per natura doveva andare dalla parte del Tirreno e per volontà degli uomini andrà verso l'Adriatico e il Mar Jonio. Questo è il punto, mi dicono, dal quale l'Acquedotto pugliese incomincia la distribuzione dell'acqua ai Comuni. t un'informazione importante. Ma non m'importerà di ricordare se non il nostro andare sottoterra in un tubo, titubanti, in fila per uno, con una lanterna, e senso di cassaforte, e senso di tabernacolo, il senso di miracolo del fiume apparso improvvisamente in un segreto. Quell'apparizione di acqua: sorprendente come una grande contentezza immaginaria fra il sonno nell'oscurità della mente. Mi torna in mente la casina visitata sul Gargano. Una gronda versava in un 84 angolo dentro la casa l'acqua piovuta e raccolta sul tetto, e l'acqua rara andava a finire in un pozzo dove era conservata come una reliquia. E negli anni di siccità? Non c'era nemmeno quella poca provvista. Ora l'Acquedotto pugliese ha portato l'acqua potabile anche in Capitanata e anche sul Gargano come l'ha fatta zampillare dalle fontane dappertutto anche nelle provincie di Brindisi, di Lecce e di Taranto: 1500 km. di canali e di condotte costruiti. Non solo, ma i 244 km. del canale principale - di cui questo di 52 km. che ora andremo a vedere sino alle sue origini a Caposele è il primo tronco - erano nel 1923 in tali condizioni di abbandono che è stato necessario ricostruirli, e molto più solidamente di prima. Pensate: un'opera eseguita interrompendo a tratti l'acqua, ma in modo che non venisse mai interrotto il servizio ai Comuni. Per farci un'idea di come possa farsi un'interruzione, torniamo al punto dove c'è apparsa la fuga di 6000 litri al minuto secondo: vedremo due paratoie di ferro battuto che manovrate da ingranaggi speciali chiuderanno occorrendo il canale e l'acqua allora per un'apertura a sinistra della galleria di 200 metri si precipiterà nel Lapilloso, e allora il canale non ricevendo più acqua andrà vuotandosi e i muratori con i loro stivaloni di gomma potranno entrare a ripararne un tratto: c'è per questo una porta di ferro. Torniamo a rivedere il sole; e ci avviamo verso Ripacandida. E prima incontriamo il Vulture: nero con i suoi quattro o cinque dentacci. Acqua, fuoco: eruzioni e alluvioni hanno dato l'impronta ai pietroni d'intorno. E così arriva Ripacandida, collina ovale, levigata, con un paesino in cima, avvolgendo la quale giù come un serpe striscia l'acqua della Fiumara. E’ ora la seconda stazione dell'Acquedotto verso le sue sorgenti. E’ un casotto di pietra calcarea, di bella linea; questa volta, aperta la porta di ferro, è una china che ci si presenta, e in mezzo fra due scale, come due file di denti appena sporgenti, è un viale che va giù fino dove non arriva più l'occhio. Scendiamo, ci aprono un'altra porta di ferro: c'è un pianerottolo e sotto rivediamo, mentre passa proprio sotto la Fiumara, l'acqua che si muta alla velocità di 6000 litri al minuto secondo. Uscendo da Rionero, vediamo un enorme masso di verde boschivo che s'innalza cupo al cielo: è il Vulture che torna a farsi vedere. Gli corriamo ai piedi sino ad Atella dove, entrati nel panorama dominato dal Monticchio, lo perdiamo di vista. Scesi nella Vallata della Fiumara d'Atella, siamo alla terza stazione; è un ponte alto quasi 40 metri con un'altezza di luci che arriva sino a venti metri, e sta fra due colline uscendo dalla spalla dell'una per entrare in quella dell'altra: porta da una collina all'altra, in un canale murato sulle arcate, l'acqua fuggente alla velocità che orinai sapete. Ho voluto avere un'idea di come fossero i Lillipuziani, e siamo scesi giù al cancello del ponte: è venuto ad aprirci un uomo dal fiero aspetto: il custode ch'è anche cacciatore di cinghiali, volpi e lontre. Ai piedi del ponte ci si sente difatti persi di statura. Rimessici in viaggio, entriamo nella vallata del San Fele dove si sono date convegno grandi stranezze: Monte Fioni che sembra un siluro, Monte Pernazzo simile a una piramide bislunga, e Monte San Fele, altra piramide, su una faccia quasi a picco della quale le case aggrappate viste così a distanza sembrano tanti ordini di palchi d'un teatro di formiche. 85 Poi s'apre la Vallata dell'Ofanto e per un'altra strada a girandola arriviamo in cima a Calitri, paesino bianco a 600 metri, colle case che si tengono strette sulla frana. Fatta colazione ripartiamo, e dopo poco arriviamo alla quarta stazione, presso il torrente Ficocchia. La stazione questa volta si presenta sotto forma d'una botola. Per scala ci sono dei ramponi alla parete verticale, e di particolare vediamo in fondo a un pozzo come due grandi bocche di cannone: chiuse da piatti d'acciaio servono a tenere ferma l'acqua; ma il loro scopo, quando occorra, come di quell'apertura vista alla prima stazione, è di vuotare il canale per visite o riparazioni. Salita la Sella Conza, che divide il Versante Adriatico dal Tirreno, con il senso d'un'altr’aria, più fresca, penetriamo nel primo gruppo di Vallate del Versante del Sele. Si faceva sera, e dalle colline qua e là apparivano i primi lumi: «Quei lumi è Castelnuovo, quelli è Laviano, e quelli è il paese più ricco d'Italia: Calabritto ... » Ed eccoci, per curve vicinissime l'una all'altra, arrivati a Caposele! Entrando in paese ci viene incontro una gola di una cinquantina di metri per dieci, spaccata nella roccia e sparsa di macigni ruzzolati e piombati dalla montagna; qui si vedono le sorgenti del Sele lasciate in libertà e che alimentano ciò che rimane del fiume che va dalla parte di Pesto: un boccalone vomitante in cima, e sotto un'infinità di fontanini che intrecciano le loro vene fra gli olmi, l'edera, le acacie, il sambuco, un fico che ha l'età di Matusalemme: in fondo fra i pietroni l'acqua scivola sveltissima, in una specie di foro tenebroso, e si perde in quell'occhio. A questo punto, davanti a tanti scrosci e fruscìi, un vecchio che avrebbe potuto fare da modello a un apostolo caravaggesco mi viene accanto e mi dice all'orecchio: «Non mi vogliono dare nemmeno l'acqua da bere ... » Rifletto che se fossi andato in cerca della misura della pazzia non l'avrei mai trovata più esatta, e vado oltre. Entriamo in un luogo solenne. Ha come sfondo Monte Rotoli che sale da 4 a 700 metri, Monte Calvello di 1200 metri, Monte Cerviali di 1200 metri: per gli interni alambicchi di questi monti l'acqua del Sele arriva alle sue sorgenti. E proprio ai piedi della buia parete verde del Monte Rotoli è captata l'acqua per l'Acquedotto. Ora sono polle non meno vive di prima, ma sepolte. Al loro posto dove formavano lago a ferro di cavallo, appare un prato, e da un lato nello sfondo sorge su un salto un povero campanile distaccato dalla sua chiesa trasportata altrove. Nel mezzo del prato si notano quattro botole ermeticamente chiuse: sono gli accessi al canale che, afferrate le polle, le svia per una brusca storta, ed eccole dentro una stanza di manovra. Poi m'hanno aperto, sotto un arco di mattoni a forma di turbante, un finestrino: con un continuo rombo, un'acqua che si slancia come un toro: qui incomincia l'Acquedotto: Laudato si mi Signore per sora acqua La quale è multo utile... 86 Stampa locale e riforma agraria in Capitanata (1945 - 1950) di Marcello Ariano Subito dopo lo sbarco degli alleati e la ritirata delle truppe italo-germaniche, i primi giornali dell'Italia occupata escono in Sicilia, a Palermo e a Caltanissetta, nell'agosto 1943. Però, essendo il governo Badoglio alleato della Germania ed ancora in guerra contro gli anglo-americani, le attività politiche sono vietate; è il comando alleato a dettar legge in fatto di diffusione di notizie sia a mezzo radio che a mezzo. stampa. L'organizzazione ed il controllo della stampa e della radio sono disposti da un servizio speciale dell'esercito occupante, il Psychological Warfare Branch; in esso lavorano giornalisti inglesi, americani, meglio se italoamericani, già con precedenti esperienze di lavoro maturate nel nostro Paese. Prima dell'autunno 1943 il territorio occupato dalle truppe alleate si allarga alla Calabria, alla Basilicata, alla Puglia e a gran parte della Campania e viene sottoposto all'AMGOT (Allied Military Governement Occupied Territory). Nel documento di armistizio firmato fra il governo italiano e gli anglo-americani si fa riferimento pure alla soppressione delle leggi fasciste sulla stampa ma non al ripristino della libertà di espressione, subordinata, come già in Sicilia, alla volontà e agli interessi delle autorità alleate. Oltretutto sono gli Alleati che detengono il materiale per stampa e ne autorizzano l'uso insieme con le attrezzature tipografiche. La situazione migliora a mano a mano che il governo italiano si impegna sempre di più a fianco degli anglo-americani fino a dichiarare guerra all'ex-alleato germanico: i partiti politici ed i giornali acquistano allora una maggiore libertà di movimento ma è solo agli inizi del 1944 che il governo italiano riacquista i suoi poteri amministrativi sulle regioni meridionali e quindi anche la facoltà di autorizzare le pubblicazioni di giornali, che viene delegata alle prefetture1. ________________ 1 - P. MURIALDI, La stampa italiana del dopoguerra, vol. I, Bari, 1978, pp. 5-15. 87 Nel 1944 giornali di partito o di raggruppamenti politici, perlopiù settimanali, compaiono anche in Capitanata. A Foggia, escono tra gli altri, “Ricostruzione Dauna", organo provinciale di Democrazia del Lavoro, che fa derivare il suo nome dall'omonimo "Ricostruzione" giornale romano del partito demolaburista2 e "La Capitanata ", che ha come riferimento politico il partito liberale. A San Severo si verifica il caso, non raro nel periodo di occupazione, di una pubblicazione direttamente curata e stampata dalle truppe occupanti: si tratta di "Dealine", una specie di quaderno monografico 3 scritto in inglese; c'è un po' di storia locale, fotografie ed una rubrica sportiva, un modo, forse, di avvicinare l'esercito alleato ai territori ed ai paesi occupati4. Non va dimenticato inoltre, sempre a San Severo, il numero unico di "Roma Liberata " del giugno 1944 curato dal locale comitato del Partito d'Azione e dedicato all'occupazione di Roma da parte degli eserciti alleati5. Ma è fra il 1945 ed il 1950 che il risorgere dei sentimenti democratici e il riaccendersi delle rivalità politiche determinano la nascita di fogli locali. Domenico Fioritto, leader dei socialisti di Capitanata nel dopoguerra, sul numero di saggio di "Avanti Daunia!" del 3 marzo '45 considera il sorgere delle nuove testate 'Tenomeno naturale degli spiriti umani, che, dopo la torchiatura fascista dei cervelli, riprendono la loro elasticità". Sono gli anni, in Italia, di un confronto duro ma aperto, contrassegnato da grandi dibattiti e dal proporsi di drastiche alternative: economia liberale o controllata? monarchia o repubblica? e, per quanto riguarda le lotte contadine contro il latifondo: riforma agraria sì, riforma agraria no. Ad essi si accompagnano i contrasti all'interno del movimento sindacale; lo scontro del 18 aprile 1948 che suggella l'appartenenza dell'Italia al blocco occidentale e determina, da una parte, il ruolo di partito-cardine della D.C. nel nuovo, sistema politico e, dall'altra, istituzionalizza nel ruolo di antagonista la presenza del P.C.I. ________________ 2 - IB., p. 22. 3 - L'unico numero superstite è reperibile in fotocopia presso la Biblioteca Comunale di San Severo. Presso la Biblioteca Provinciale di Foggia è conservato anche il settimanale “FOGGIA OCCUPATOR” relativo all'anno 1946. 4 - P. VOCALE - M. POLLICE - B. MUNDI, Stampa periodica di San Severo e di Capitanata, San Severo, 1981, p. 41. 5 - IB., p. 108. 88 I periodici locali partecipano al più generale dibattito, contribuendo da un lato ad avvicinare la gente ai problemi della quotidianità politica, dall'altro a proiettare questi ultimi in un quadro più vasto che non sia quello della comunità locale in cui operano. In linea generale vale per tutti i periodici del tempo quanto viene affermato da "La squilla liberale" sul n° 2 del 1° novembre 1945: « [ ... ] Si farà quel che si potrà, coi mezzi tipografici a nostra disposizione, con una maestranza improvvisata e con un corpo redazionale di giovanissimi, ma animati da una sola fede: contribuire ad una chiarificazione sempre maggiore del momento politico, prospettando e discutendo i problemi dell'ora secondo la maggiore loro aderenza alle necessità della Patria». Uno dei temi maggiormente dibattuti e su cui vorrei soffermarmi, analizzando la stampa della Provincia di Capitanata6, è quello della riforma agraria. Occorre subito dire che, se è vero che le posizioni assunte in proposito dai periodici locali sono riconducibili alle divisioni che attraversano l'intera stampa nazionale, è però anche vero che, dato il coinvolgimento diretto, quasi fisico direi, con i luoghi e con i fenomeni oggetto della disputa, i problemi sono vissuti con una immediatezza ed una intensità che i quotidiani nazionali forse non riescono a raggiungere. Nella pluralità di voci, tre sono le correnti che fondamentalmente contribuiscono al dibattito sui temi della riforma agraria in Provincia di Capitanata: una liberale, una di sinistra, una cattolica. L'andamento del dibattito risente dell'evolversi della situazione politica nazionale nel quinquennio 1945-1950 e va letto, quindi, alla luce di questo quadro generale di riferimento. I momenti di questo periodo sono contrassegnati da una prima fase dei governi di unità nazionale fino all'esclusione della sinistra socialcomunista dal governo; una seconda fase culminante il 18 aprile 1948; una terza fase che si conclude con la Legge "stralcio" di riforma fondiaria, nel 1950. ________________ 6 - Ho ritenuto utile preparare delle schede conoscitive sui periodici della provincia di Foggia con dati il più possibile omogenei, indicando le biblioteche in cui essi sono conservati; le note sono state compilate grazie ad un lavoro di ricerca sui numeri disponibili dei periodici stessi, talvolta con il supporto di pubblicazioni al riguardo, tal'altra confortato dalle preziose informazioni, fornitemi dagli amici Mario Giorgio e Anacleto Lupo, che sentitamente ringrazio. 89 Limiti alla proprietà privata, ruolo dello Stato nell'attività economica, funzione dei ceti medi: questi sono i termini del dibattito che si svolge, anche a Foggia, tra le forze politiche. In tale ambito si inserisce ampiamente la questione agraria, e il dibattito è incentivato da molteplici fattori, dall'assetto fondiario della Capitanata in cui la proprietà e l'impresa latifondistiche svolgono ancora un ruolo preponderante sotto il profilo economico, politico e sociale; dalle opportunità e prospettive di rinnovamento che il momento politico sembra consentire; dalla grandezza dei danni subiti dal comparto agricolo nazionale nel corso del conflitto. 1 danni si aggirano sui 550 miliardi di lire ma, oltre a quelli monetizzabili , ci sono i danni difficili da valutare come la diminuita produttività dei terreno conseguentemente alla carenza di concimi e del lavoro umano negli anni del conflitto. La produzione agraria nel 1945 cala del 60 per cento rispetto ai livelli prebellici: da un ettaro a cereali si ottengono 13 quintali circa rispetto ai 16 quintali ottenuti nel 19387. C'è una diffusa consapevolezza tra le forze politiche che la riforma agraria rappresenti uno dei pilastri per la ricostruzione del Paese. Tale consapevolezza emerge con chiarezza anche sul giornale dei demolaburisti di Foggia allorché si afferma che «una delle formule che trova il più largo consenso e diremo quasi l'accettazione senza discussione, è la riforma agraria; l'accolgono senz'altro i comunisti, socialisti e altre frazioni democratiche, che dicono di essere su questo punto perfettamente d'accordo[ ... ]»8 . Periodici di sinistra In Capitanata, ad aprire il dibattito sui problemi della riforma agraria è "Ricostruzione Dauna", l'organo provinciale del Partito di Democrazia del Lavoro. Questo partito se nelle regioni settentrionali non esiste, nel Sud è praticamente un artifizio di taluni dirigenti antifascisti e costituisce il necessario supporto elettorale per il vecchio leader Ivano Bonomi9. ________________ 7 - G. MAMMARELLA, L'Italia dalla caduta del fascismo ad oggi, Bologna, 1978, p. 143. 8 – “RICOSTRUZIONE DAUNA”, 1945, 25 febbraio, n° 9. 9 - A. GAMBINO, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere DC, vol. I, Bari, 90 I demolaburisti, mentre i grandi partiti di massa elaborano tesi e proposte sulla questione agraria, avviano, a Foggia, un primo approccio non tanto generico ai temi di analisi sociale ed economica delle campagne, dei conflitti che le agitano e dei ceti che in queste operano. Essi indicano nella classe borghese il soggetto più titolato a ricercare una soluzione al problema agrario: «La borghesia attuale che vuole sopravvivere sa che cosa l'attende se non saprà essere intelligente e previggente e se non saprà risolvere da sé il problema agrario, nel proprio ambiente secondo i bisogni, le possibilità e gli interessi così vari da paese a paese». I demolaburisti sono consapevoli della grandezza e della rilevanza del problema agrario: «La riforma agraria è soltanto una faccia del prisma di ricostruzione, ma ne è certamente la più importante» e ritenendo insufficiente la legislazione sulla compartecipazione e sulla mezzadria, sostengono che nelle condizioni attuali « [è] meglio e più proficuo ridurre il problema a quello che occorre fare ora per soddisfare, od anche alleviare, i bisogni di tutta o quasi una popolazione che vive della terra» accettando che «la terra sia data in proprietà od alcunché di simile ai contadini [e che] il problema delle grandi proprietà che si adagiano nella coltura estensiva [ ... ] deve indubbiamente essere risolto»10. Il periodico di Democrazia del Lavoro, però, pone una pregiudiziale sulla media e piccola proprietà: «si intende o meno di rispettare i diritti di questa immensa moltitudine, che è costituita di piccoli e medi proprietari agricoli [ ... ],che non hanno affatto concordanza di interessi né con le grandi coalizioni industriali, né con gli agrari latifondisti?» E sottolinea l'importanza di questo strato sociale che «ha più affinità [ ... ] coi principi ________________ 1978, p. 22. Il settimanale locale DC “IL SOLCO” denuncia la "complicità del demolaburismo spuntato nella fungaia politica al solo fine di determinare la maggioranza numerica dei partiti di sinistra" (IL SOLCO", 1948, 30 aprile, n. 14). Anche per il repubblicano pugliese Egidio Reale il partito di Democrazia del Lavoro è "una formazione politica del tutto artificiale, creata nel Mezzogiorno dopo la completa liberazione. V'è gente di ogni specie, ma vi sono soprattutto uomini politici di quella democrazia e di quel radicalismo meridionale, che abbiamo avuto agio di conoscere prima del fascismo. Nel sistema della uguale rappresentanza dei partiti, è servita a procurare posti ad alcuni uomini politici, che altrimenti sarebbero stati disoccupati, ed a creare attorno a quegli uomini alcune clientele". (G. SALVEMINI, Lettere dall'America, vol. I, Bari, 1967, p. 188). 10 - "Ricostruzione Dauna", 1945, 5 agosto, n. 32. 91 della democrazia» ma il cui umore politico è anche il più sensibile alle alternative autoritarie11. La risposta formulata dall'organo ufficiale di Democrazia del Lavoro in Capitanata, sottolinea in primo luogo la centralità della "borghesia" nel momento storico attraversato dalla Nazione: i settori sociali intermedi hanno pari diritto, rispetto ad altre componenti della società, di essere soggetti di titolarità e di negoziazione politiche e di non essere emarginati nella ricostruzione e nel processo di avviamento ad una democrazia pluralista in atto nel Paese. Ma, collegandosi più strettamente alla questione agraria, implica una definizione a due interrogativi pressanti ed essenziali insiti nella questione stessa: "chi" deve attuare la riforma e "perché". "Ricostruzione Dauna " interpreta la consapevolezza di taluni segmenti della borghesia rurale secondo cui o si prende atto della esigenza di ristrutturare l'assetto fondiario e si dà una spinta risolutiva al ridimensionamento del latifondo - e quindi il "chi" è il ceto borghese stesso che può guidare il processo di riforma - oppure ci si sottopone al rischio di una riforma agraria generalizzata - e questo è il "perché" - e quindi punitiva "contro"12 di essa. Viene così individuata un'area culturale e politica, suscettibile di aggiustamenti, modifiche e mediazioni, nella quale, nel giro di qualche anno, convergeranno opinioni provenienti dalla stampa di area più marcatamente liberista. Sui giornali socialcomunisti le firme più frequenti sono, sull’"Avanti Daunia! ", quelle di Domenico Fioritto, segretario provinciale del partito, di Francesco Fiume, entrambi appartenenti al socialismo prefascista, e di Carlo Ruggiero. Quest'ultimo è tra i fondatori del Partito Socialista post bellico a Foggia e in qualità di rappresentante socialista ha partecipato al ________________ 11 - IB. 12 - Su questo argomento, Arrigo Serpieri, «uno dei migliori tecnici che ebbe il fascismo» (R. DE FELICE, Mussolini il duce: gli anni del consenso 1929-1934, vol. I, Torino, 1974, p. 143) cosi si esprime: «La riforma agraria, che tutti i partiti hanno posto nel loro programma, se collegata organicamente con la bonifica eseguita dai proprietari, potrà essere la loro salvezza ed un bene per il paese; ma se essi non sapranno affrontare, per iniziativa propria, l'opera di trasformazione, dandole quei fini anche sociali che la riforma si propone, e quindi aprendo la via anche a quella ascensione dei contadini alla proprietà della terra, che è per molti di essi secolare aspirazione, la riforma agraria si farà egualmente, contro i proprietari anziché con la loro cooperazione, in modo tumultuoso dal quale essi saranno travolti, mentre il paese subirà gravi rovine« (A. SERPIERI, riportato in F. MERCURIO, La frontiera del Tavoliere, Foggia, 1990, p. 178). 92 1° Convegno dei CLN a Bari. Su "Il lavoratore di Capitanata ", periodico comunista, i nomi di spicco sono quelli di Luigi Allegato, segretario provinciale del PCI, e di Filippo Pelosi, dirigente locale. Entrambi i periodici escono tra il marzo '45 ed il giugno '46. Per quanto riguarda quello comunista, sono dell'avviso che la cessazione delle pubblicazioni sia da mettere in relazione a due fattori competitivi e pratici: nel marzo 1946, nasce a Bari il quotidiano "La Voce", giornale comunista a diffusione regionale, e, dal 1947, "l’Unità" riserva una pagina alle cronache provinciali. Non tralascerei, però, la variante ideologica rappresentata dalla monoliticità del PCI che si riflette anche nella organizzazione centralizzata della informazione e dei mezzi di comunicazione. L'Avanti Daunia!, il cui maggiore animatore è Carlo Ruggiero, riformista, che al momento della scissione di Palazzo Barberini si schiera con Giuseppe Saragat, risente della difficile coabitazione nel partito socialista fra i riformatori della corrente di "Critica sociale" e gli uomini della sinistra. Carlo Ruggiero, che firma gli articoli anche con lo pseudonimo Larco, dirige, poi, nel 1948 il periodico socialdemocratico 'Tre frecce" sul quale adotterà gli pseudonimi Dauno e CierTe. Questo giornale, però, si preoccupa maggiormente di giustificare la scissione, affronta i temi politici generali tralasciando i problemi connessi alla questione agraria. “Tre frecce" ha una vita molto breve. Sulle cause della sua scomparsa terrei presente quanto afferma P. Murialdi, il quale nel tracciare l'andamento complessivo della stampa socialdemocratica, rileva che nel 1948 «scompaiono [ ... ] tutti i quotidiani del partito social democratico [ ... ]. I lettori sono pochi,i mezzi anche»13. Questa osservazione può essere trasferita sulpiano locale, in quanto il neonato partito socialdemocratico non trova, almento, a Foggia, un consistente e favorevole consenso. Una considerazione da fare su "Avanti Daunia!" riguarda l'assetto politico della redazione del periodico che, essendo costituito da personale che ha concezioni culturali diverse del socialismo, comporta un pregiudizio ed una disarticolazione alla collocazione stessa dell'Avanti Daunia!, proiezione dell'immagine del partito all'esterno e all'economia del partito politico locale. Il dato "redazionale" diventa una spia del dissidio cova all'interno del Partito Socialista di Capitanata e, probabilmente, ________________ 13 - P. MURIALDI, op. cit., p. 225. 93 è determinante per l'uscita di scena del settimanale dal panorama pubblicistico locale. L'Avanti Daunia! sottolinea l'esigenza, di fronte alle nuove istanze sociali, di affiancare i lavoratori e intuisce la necessità di concretezza rispetto al momento politico poiché il socialismo «uscito [ ... ] dalla fase apostolica, entra a gonfie vele nella realtà». Il giornale socialista ritiene che per un nuovo assetto democratico del Paese e per la sua ricostruzione «[ ... ] La classe lavoratrice, per la sua peculiare natura, è chiamata sola a tale funzione, poiché essa sola possiede l'unico capitale che ci resta, il lavoro, né per organizzare tale lavoro si può fare appello ad una classe che ha fallito al suo compito storico» 14. Se questo deve essere il nuovo compito della classe lavoratrice, condizione non secondaria è l'atteggiamento da tenere rispetto alle altre componenti sociali. Il settimanale, abbandonando preoccupazioni di ordine dottrinario, sostiene che «il socialismo combatte la borghesia grassa, capitalista, monopolizzatrice di ricchezze, la borghesia [ ... ] che coltiva il latifondo e tiene centinaia di capì di bestiame [ ... ] la borghesia che gestisce la grande industria e disciplina e regola i mercati [ma che non combatte contro] un'altra borghesia: quella fatta dagli impiegati, dai professionisti, dagli artigiani, dai piccoli industriali, dai piccoli proprietari, dai piccoli agricoltori [in quanto essa] è elemento fondamentale della nostra vita nazionale, [ ... ] è depositaria della nostra civiltà [ ... ] »15. Nel corso del dibattito sui temi del riassetto fondiario e della promozione dell'agricoltura l'Avanti Daunia! propone queste soluzioni: «[ ... ] trasformare un certo numero di braccianti in coltivatori diretti di piccoli appezzamenti di terreno [oppure distribuire terre] in enfiteusi o in affitto, a contadini senza terra, con l'obbligo di trasformarle». L'attivazione di queste forme di esproprio da parte dello Stato con un finanziamento agli assegnatari o almeno, come si precisa successivamente, con l'utilizzazione di strumenti giuridici quali l'enfiteusi a bassi canoni, serve ad impedire che le spese per le terre gravino sui patrimoni economici dei contadini. Si vuole in tal modo far si che i risparmi servano ad avviare le nuove imprese senza rendere precaria, nel lungo periodo, l'autonomia e la sopravvivenza stessa delle nuove proprietà. ________________ 14 - "AVANTI DAUNIA!", 1945, 3 marzo, numero di saggio. 15 - "AVANTI DAUNIA!", 1945, 14 luglio, n. 17. 94 In mancanza, infatti, di queste agevolazioni iniziali «il contadino, anziché impiantare la vigna, mette la terra ad una coltura inferiore [ ... ] o in breve cede la terra a chi abbia la possibilità di disporre di denaro»16. A parte l'accusa, che assume una valenza politica, alle classi borghesi di non poter succedere a sé stesse nella gestione dei nuovo Stato in quanto sono state proprio esse a causare il fascismo17, due elementi si evidenziano nella posizione del periodico: primo, la rivendicazione orgogliosa per il proletariato chiamato dagli eventi a ricostruire il Paese su basi più solide politicamente e più giuste economicamente; secondo, l'apertura e l'appello ai ceti medi. Questi approcci ai problemi politici generali offrono lo spunto per qualche considerazione di prima mano: l'addebito, alle classi medie, del fascismo inserisce un motivo di tensione e carica di significati minacciosi la linea politica complessiva della sinistra. L'esaltazione dell'antifascismo, della Resistenza e del ruolo nuovo che il "proletariato" deve assumere nel nascente Stato democratico vengono infatti recepiti dall'opinione pubblica moderata come una minaccia alle proprie posizioni. L'antifascismo viene interpretato da questi ceti come una rivincita sociale di "classe" e finisce per alimentare le divisioni nel Paese; esso suscita diffidenza ed avversione ,nei moderati verso la sinistra, non per "nostalgismo", ma perché si paventa ________________ 16 - "AVANTI DAUNIA!", 1946, 9 marzo, n. 9. 17 - Ripercorrendo i punti salienti del dibattito storiografico sul fascismo, è possibile esaminare le diverse tesi a proposito della crisi dello Stato liberale e del sorgere e svilupparsi del fascismo. La bibliografia che segnalo non vuol essere naturalmente esaustiva, ma piuttosto indicativa delle diverse linee interpretative che sono state avanzate. Oltre all'opera di G. SALVEMINI, Le origini del fascismo in Italia, (Lezioni di Harvard), Milano, 1966, si possono consultare A. TASCA, Nascita e avvento del fascismo, 2 voll., Bari, 1982; N. VALERI, Da Giolitti a Mussolini, Milano, 1974; G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, Voll. VIII - X, Milano, 1984-1985; Z. STERNHELL, Nascita dell'ideologia fascista, Milano, 1993; G. B. GUERRI, Fascisti, Milano, 1995. Punto fondamentale d'arrivo del dibattito storiografico, negli ultimi tempi, è il monumentale studio biografico di Renzo De Felice su Mussolini, che è da considerare anche una vera e propria storia d'Italia del periodo. L'autore tende a una rivisitazione del fascismo attraverso la categoria storica di movimento come elemento di dinamismo e di sviluppo della società italiana. Nel contempo corregge, con dovizia di documenti, molti giudizi e valutazioni dettate più da preoccupazioni ideologiche che da vero "scandaglio" storico. Si vedano di R. DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario, Torino, 1976; e, inoltre, R. DE FELICE, Mussolini il fascista, 2 voll., Torino, 1976; e, ancora, R. DE FELICE, Mussolini il duce, 2 voll., Torino, 1976. 95 che dietro la facciata dell'antifascismo resistenziale si celino progetti di sovvertimento sociale' 18. Tale elemento, inoltre, crea delle difficoltà sul cammino che la sinistra, in quegli anni va intraprendendo sul tema dei collegamenti sociali tra classe operaia e ceti intermedi e produttivi per ricostruire il Paese. Quindi il riconoscimento che non è possibile per il processo di ricostruzione affidarsi solo al "lavoro" ed emarginare l'iniziativa privata assume, nelle realtà locali, una cadenza rituale e petizione di principio. Questa situazione è maggiormente visibile se la si confronta con i comportamenti politici generali che la Democrazia Cristiana assume in proposito: una maggiore duttilità rispetto al trascorso regime, una interpretazione più morale, che politica della Resistenza, una "concezione non militante dell'antifascimo". Questa serie di fattori favorisce la confluenza verso la DC, dei consensi dì vaste fasce dei ceti sociali intermedi 19. In terra di Capitanata, come nel resto del Paese, l'aumento della disoccupazione, l'insufficienza dei mezzi più elementari di vita, il risentimento dei reduci dalla guerra e dalla prígionìa20, il clima di libertà sono le micce innescate pronte a far esplodere tutte le tensioni. I partiti e le istituzioni volgono la propria attenzione ai problemi di quanti, dopo anni di guerra e prigionia, tornano alla vita civile. A Foggia, su iniziativa dell'Ufficio Diocesano dì Azione Cattolica, vengono allestiti dei posti di ristoro per gli ex-internati nei campi di prigionia, che transitano per il Capoluogo, presso la sede vescovile e la Chiesa di Santa Maria della Neve21. A San Severo, si dà vita ad un comitato pro-reduci. I compiti di tale organismo consistono nel fornire i primi aiuti a coloro che rientrano dopo la guerra: da un sussidio per i bisogni più urgenti all'assistenza sanitaria, ________________ 18 - G. MAMMARELLA, La prima Repubblica dalla fondazione al declino, Bari, 1992 pp. 19-20. È opportuno riportare che l'antifascimo così inteso « [ ... ] non mancherà a nuocere alla democratizzazione del paese, poiché enfatizzandosi gli aspetti ideologici del dibattito politico, ne venivano svalorizzati quelli pratici di metodo e di costume. Si perderanno così alcuni dei significati più genuini della democrazia, come quello della solidarietà sociale e dello spirito comunitario, e se ne confermerà una visione schematica e prevalentemente istituzionale che sì manterrà a lungo nella mentalità del paese, impedendo la maturazione di una concezione più dinamica della politica e della società» (IB.). 19 - IB. 20 - A. GAMBINO, op. cit., p. 72. 21 - "CIVILTA NOSTRA", 1945, 24 maggio, n. 1. 96 dall'aiuto a cercare un alloggio all'agevolazione a reinserirsi nella vita sociale con un lavoro22 . A Trinitapoli la locale sezione democristiana accoglie i reduci e istituisce un corso di scuola serale gratuito 23. Il malcontento fra i lavoratori foggiani è largamente diffuso: molti, inseriti in attività indotte dalla permanenza delle truppe alleate, si ritrovano in condizioni di precarietà con la partenza di queste. La situazione è altresì aggravata dall'impiego, come manodopera,,dei prigionieri tedeschi e dalla presenza, sul mercato del lavoro di Foggia, di lavoratori provenienti dai comuni della provincia, i quali allettati dai guadagni, legali e non, vivono arrangiandosi alla giornata24 La gravità del problema disoccupazionale, per cui enormi masse di contadini, braccianti, reduci vengono ad essere coinvolti impone al settimanale comunista foggiano “Il lavoratore di Capitanata” una esplicitazione degli obiettivi e delle linee di azione del PCI25. L'articolo si presta ad una diagnosi della posizione del PCI rispetto al problema della riforma agraria e ai risvolti politici più generali. ________________ 22 - Il LAVORATORE DI CAPITANATA", 1945, 2 agosto, numero di saggio. 23 - "CIVILTA NOSTRA", 1945, 21 giugno, n. 5. 24 - "AVANTI DAUNIA!", 1945, 27 ottobre, n. 32. 25 - «Ormai non v'è nessuno che non riconosca la necessità di una profonda riforma agraria in Italia, e in gran parte questa riforma agraria concerne proprio quella che si chiama questione meridionale Oggi la situazione per la soluzione di questo problema è completamente favorevole, perché è in marcia una vera rivoluzione democratica: lo è negli uomini e nelle cose. Questione meridionale e riforma agraria sono due aspetti di un medesimo problema della unità italiana. Non si può parlare di unità nazionale se non si raggiunge l'adeguamento economico del mezzogiorno al settentrione[ ...]. il mezzogiorno deve avere uno sviluppo industriale adatto alla sua agricoltura e quindi la riforma agraria deve tener conto di questo problema e favorirne le condizioni di sviluppo[ ...] I forti lavoratori pugliesi debbono avere fede e tranquillità, perché ormai è giunto il momento che entro la legalità si risolverà il loro problema in modo concreto [ ... ]. Vogliamo che cori la riforma agraria, accanto al piccolo proprietario, questo "piccolo artigiano" dell'agricoltura, sorgano le grandi aziende agrarie che siano come aziende di paragone ed incentivo al piccolo e al medio proprietario per migliorare i metodi di cultura ed attrezzarsi con mezzi meccanici, per seguire il lento, ma sicuro processo dell'industrializzazione dell'agricoltura stessa. La riforma agraria, intesa in questo senso, oltre a migliorare l'economia del paese, ci darà la pace sociale. Con essa si risolverà il problema del bracciantato agricolo, del contadino povero, con la espropriazione della grande proprietà terriera progrediranno le altre forme di conduzione, adattandosi ai tempi nuovi [ ... ]». ("IL LAVORATORE DI CAPITANATA", 1945, 6 settembre, n. 4). 97 Viene indicata la grande scelta di operare “entro la legalità” frutto della svolta togliattiana di Salerno: Togliatti sottolinea costantemente che l'Italia non è matura per una rivoluzione socialista e che, nella situazione presente, il modello di “democrazia progressiva”, cioè una democrazia borghese con la presenza attiva e necessaria dei comunisti al governo, è il solo perseguibile26. Anzi sui temi della ricostruzione economica Togliatti afferma che i comunisti farebbero ricorso alla iniziativa privata anche se fossero da soli al potere27. Inoltre vengono individuati gli schieramenti di forze contrapposti in campo e le alleanze sociali che devono portare avanti il discorso riformatore; infatti, si distinguono le piccole e medie aziende da quelle di tìpo latifondistico - anche per i comunisti come per le altre forze politiche è centrale la questione dei ceti medi - e si cerca di evitare le condizioni della formazione di un "blocco agrario" che vedrebbe coltivatori diretti, piccoli e medi proprietari coinvolti nelle posizioni degli agrari. Da questa analisi, il partito comunista fa derivare la strategia della collaborazione governativa e di alleanze sociali che, sebbene accettata, data la disciplina del partito e della componente comunista della CGIL, non sempre viene recepita dalla base e viene spesso intesa come una linea tattica temporanea, che verrà presto sostituita da una strategia rivoluzionaria; anzi «le enunciazioni gradualistiche e "nazionali" di Togliatti sono accettate dalla maggioranza dei comunisti proprio perché non vengono credute, vengono considerate un semplice espediente tattico ed esterno per ingannare la borghesia» 28 Ma è proprio su questo aspetto “ambiguo”29 che sì fonda il rapporto fra il PCI e la sua base: e questo vale sia quando i comunisti sono partecipi del governo, sia allorché nel giugno 1947 si troveranno all'opposizione. Con una capillare organizzazione e con questa “ambiguità” il partito comunista - lasciando che le masse vivano nell'attesa di poter saldare il conto con le forze capitalistiche e che tale attesa si esaurisca da sola badando ________________ 26 - D. MARUCCO - R. TOS, Capitalismo e lotte operaie in Italia: 1870-1970, Torino, 1976, p. 181. 27 - P. TOGLIATTI, Discorso al Convegno Economico del PCI, tenuto a Roma il 21-23 agosto 1945, riportato in A. GRAZIANI (a cura di), L'economia italiana: 1945-1970, Bologna,1972, p. 113. 28 - A. GAMBINO, op. vit., p. 186. Sulla linea della "doppiezza" dei PCI, vedi anche G. MAMMARELLA, La prima Repubblica dalla fondazione al declino, cit., pp. 18-19. 29 - IB. 98 però che non prevalga un senso di sfiducia - riesce a tenere i fili dell’azione della base e a conservare, al proprio interno, una sostanziale unità. L’esigenza di allargare le alleanze sociali, frutto di una elaborazione generale e verticistica del partito comunista - a partire dalla svolta togliattiana di Salerno - trasportata sul piano locale, e recepita passivamente, genera un processo di contraddizioni fra le esigenze espresse a livello nazionale dal PCI e le realtà effettuali del territorio dove, peraltro, c’é una maggiore sensibilità alle vocazioni “bracciantiliste”. Per cui quando il periodico e il partito comunisti, a Foggia, si richiamano a schemi di alleanze sociali, nei quali sono incluse la piccola e media proprietà, non portano un contributo chiarificatore ai termini del dibattito perché all’interno del PCI locale permane una visione fortemente dogmatica e massimalistica e manca la consapevolezza di individuare e sviluppare nuove alleanze sociali. Occorre sottolineare che è «di dominio comune un atteggiamento fortemente ostile nei confronti dei piccoli proprietari, acriticamente additati all’odio e al disprezzo di classe. Le lotte di tipo rivendicativo e contrattuale del bracciantato agricolo si sviluppano anzi con maggiore intensità proprio nelle piccole aziende coltivatrici dove esso imponeva spesso livelli retributivi superiori a quelli stabiliti nei contratti di lavoro»30. _______________ 30 - M. MARINELLI, Le lotte per la terra in Capitanata e l’eccidio di Torremaggiore, Milano, 1978, p. 70. L’opera di Michele Marinelli è incentrata sull’episodio sanguinoso del novembre ‘49, a Torremaggiore, nel contesto delle agitazioni sociali del periodo. L’autore prende spunto da tale avvenimento per considerare, esaminare e valutare, dall’interno, questioni e temi rapportati all’azione politica del PCI nella Capitanata del dopoguerra. L’instaurazione d’un legame organico fra ceti medi rurali e le organizzazioni bracciantili e contadine del PCI e le difficoltà che emergono in questo rapporto, sono, negli anni del dopoguerra, al centro dell’attenzione politica dei massimi dirigenti del Partito Comunista. Essi svolgono un’opera costante di sensibilizzazione verso gli organismi comunisti perché il lavoro politico del movimento contadino si inserisca in un quadro più vasto di alleanze sociali. A tale proposito così afferma Ruggiero Grieco: «Preoccupatevi di approfondire i legami necessari con tutte le categorie dei lavoratori della terra. Non trascurate il piccolo lavoratore diretto, non trascurate il piccolo proprietario. Sino ad oggi la grande massa dei piccoli e medi coltivatori è stata una delle masse più grandi della conservazione, della reazione». L’uomo politico comunista sottolinea l’importanza fondamentale «della conquista delle masse dei coltivatori diretti e dei piccoli e medi proprietari della terra, per lottare insieme ad essi contro la reazione e per la riforma agraria. L’amicizia con questi lavoratori deve essere approfondita ogni giorno nell’azione». (R. GRIECO, Scritti scelti, vol. II, Roma, 1968, p. 94). 99 Il PCI foggiano, sostanzialmente, non riesce a presentarsi come portatore di un programma di generale rinnovamento della Capitanata, trovando solo occasionali contatti con le masse contadine e dei disoccupati. Le sempre più forti agitazioni di braccianti e dei reduci, le continue manifestazioni di piazza, gli episodi di occupazione di terre o gli “scioperi a rovescio” non trovano uno sbocco politico significativo. I sintomi di questa situazione sono riscontrabili, a livello locale, in diversi momenti del quinquennio 1945-1950: una prima volta sul finire del ‘45, a San Severo, dove è il PCI che mobilita i suoi attivisti per mettere fine all’invasione di terre olivetate31. Le difficoltà del PCI a guidare questi movimenti, in tali occasioni, derivano pure dal timore di creare intralci ai governi di coalizione dei quali, allora, fa parte. E in un momento politico successivo, nel ‘48, in occasione della mobilitazione per l’attentato a Togliatti, le difficoltà avvertite dal Partito Comunista e dalle forze di sinistra a livello nazionale, si ripercuotono e si registrano puntualmente anche nella realtà locale. La mobilitazione per lo sciopero politico è scarsa in grossi centri della provincia come San Severo, Margherita di Savoia e finanche nel capoluogo32. Una valutazione dell’avvenimento implica questioni di natura organizzativa derivanti dalla difficoltà e dalla precarietà di rapporti delle organizzazioni sindacali sia con la categoria bracciantile che con altre fasce di lavoratori. Ma dietro la facciata dei problemi organizzativi è possibile individuare più complesse questioni che il movimento comunista di Capitanata si trova ad affrontare nella situazione aggravata dai risultati elettorali del 18 aprile: «una debolezza politica della direzione, una difficoltà del sindacato a radicarsi non nella categoria, ma nella realtà foggiana, diventandone un protagonista permanente, capace di sviluppare una presenza costante e su un ventaglio ampio di temi»33. Rispetto ai movimenti e alle esigenze sociali nelle campagne, il PCI non riesce, sin dall’inizio, a predisporre un piano originale di riforma agraria, piuttosto «l’iniziativa del partito [comunista] è indirizzata al so_______________ 31 – “IL LAVORATORE DI CAPITANATA”, 1946, 10 gennaio, n. 2. 32 - F. DE FELICE, Il movimento bracciantile in Puglia nel secondo dopoguerra (1947-1969), in CAMPAGNE e movimento contadino nel Mezzogiorno dal dopoguerra ad oggi, Vol. I, Bari, 1979, pp. 279-282. 33 - IB. 100 stegno delle rivendicazioni spontanee e tradizionali dei contadini»34. Il “Progetto di Riforma Fondiaria” pubblicato il 10 agosto 1948 su “l’Unità”35, peraltro, risulta fortemente ancorato a schemi ideologici, più fedeli ai “testi sacri” del comunismo che commisurato alle condizioni di ordine politico, economico e sociale della Nazione: sono previsti il limite di proprietà privata della terra a 100 ettari, organi collettivi di gestione agraria, consigli di cascina. In generale, il PCI, il sindacato socialcomunista e le organizzazioni della sinistra stentano a produrre atti politici concreti in direzione della riforma agraria e del Mezzoggiorno 36. Lo stesso Piano del Lavoro della CGIL «rientra perfettamente nell’orizzonte di una terapia congiunturale»37 eludendo le problematiche di _______________ 34 - R. VILLARI, La crisi del blocco agrario, in L’Italia contemporanea 1945-1975, a cura di V. Castronovo, Torino, 1976, p. 134. 35 - Tale progetto è riportato integralmente in R. GRIECO, Introduzione alla riforma agraria, Torino, 1948, p. 291 e segg. 36 - Sull’azione generale svolta dal PCI, non mancano, nell’ambito dello stesso artito, giudizi critici sui limiti che il partito Comunista registra in quegli anni. Uno dei più autorevoli leaders del PCI, Giorgio Napolitano, ammette che « […] abbiamo noi stessi cercato di individuare alcuni degli errori commessi nel periodo successivo alla Liberazione: errori commessi sul piano dell’azione per le riforme e una nuova litica economica; errori o insufficienze sul piano dell’azione per il rinnovamento dello Stato». (G. NAPOLITANO, Intervista sul PCI, a cura di E. I. Hobsbawn, Bari, 1976, pp. 20-21). Di notevole interesse risulta, altresì, l’analisi effettuata, da S. G. TARROW, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, 1973. 37 - D. MARUCCO - R. Tos, op. cit., p. 214. «Il ‘piano’ della CGIL - osserva S. Turone - non si poneva [ ... ] l’obiettivo di una pianificazione generale dell’economia italiana [ ... ] ma si collocava nel sistema sociale esistente come un tentativo di sottrarre, almeno in parte, il processo di ricostruzione del paese all’arbitrio dell’iniziativa privata, sulla cui vitalità spontanea facevano assegnamento le forze politiche di governo per rilanciare l’economia italiana in chiave essenzialmente liberistica. Il tentativo della confederazione sindacale più avanzata non fu però immune da errori: un indubbio limite del “piano” stava nel fatto che esso si fondava soprattutto […] su un programma di spesa pubblica, senza porsi ancora l’obiettivo concreto di un’organica politica antimonopolistica, e senza mettere in esplicito rapporto la necessità di maggiori investimenti con l’esigenza di evitare o ridurre gli squilibri che si andavano accentuando fra regioni industrializzate e regioni sottosviluppate. Al problema del mezzogiorno il “piano” si interessava solo a proposito dell’agricoltura, e osservandolo in un’ottica marginale; soltanto vent’anni dopo il movimento sindacale avrebbe fatto di questo nodo origine di tutte le disarmonie e contraddizioni - un elemento centrale 101 interventi strutturali complessivi. Emergono, da ciò, gli effetti e i limiti della politica della sinistra che, dopo l’esclusione dal governo e le scissione della CGIL unitaria, si fa più sensibile ai tradizionali richiami di classe. Nel 1949-50 l’azione delle forze di sinistra, pur articolandosi con una maggiore organizzazione non elude il problema di fondo: la carenza di un progetto politico complessivo consono alla specifica situazione del Paese, e alle reali condizioni italiane. Anzi, l’iniziativa “riformatrice” dispiegata dalla compagine governativa, guidata dalla Democrazia Cristiana, spiazza le sinistre smorzandone la combattività. Contro la legge “stralcio” l’opposizione delle sinistre è subito durissima. Quando la polemica si trasferisce nelle aule del Parlamento per la discussione del progetto di legge, il PCI impegna nel dibattito i suoi esponenti più autorevoli, Ruggero Grieco in primo luogo38. Nel dibattito al Senato, nell’autunno ‘50, è ancora Ruggero Grieco che si incarica di formalizzare l’opposizione del PC 39, ormai serrato nella logica del rifiuto. _______________ del proprio impegno di lotta» (S, TURONE, Storia del sindacato in Italia 1943-1969, Bari, 1974, p. 230). 38 - «[...] la Legge “Stralcio”, che è nello stesso tempo figlia e madre della legge generale, non mantiene la promessa conclamata di limitare ‘la forza economica della proprietà fondiaria’. [...] Essa abbandona ogni e qualsiasi criterio di limite [...] e si affida ad un prelevamento sulla proprietà di quote di terra (scorpori), fatto con criteri non razionali, a certe condizioni particolari, con certe eccezioni, allo scopo di costituire un fondo-terre da distribuire, a determinate condizioni, a una piccola parte dei contadini senza terra e con poca terra». (Relazione presentata per la minoranza al Senato della Repubblica - Settembre 1950, in R. GRIECO, Problemi della riforma fondiaria, Milano, 1951, p. 174). 39 - «Non approviamo - afferma il parlamentare comunista - questa legge perché non taglia le unghie al grande proprietario terriero. Limitate una volta per sempre la grande proprietà fondiaria e saremo con voi! Non approviamo questa legge perché essa tende - è un fatto evidente ed obiettivo - a dividere, non ad unire i contadini, e non recepisce la maggior quantità di terra per darla al maggior numero possibile di contadini senza terra o con poca terra, cominciando con l’assicurare intanto il possesso terriero a quanti già lavorano la terra con contratti precari e in modo che restino sulla terra dove lavorano. [...] Non approviamo questa legge perché impone oneri e vincoli esosi al contadino assegnatario, che lo minacciano in partenza di soccombere. [...] Non approviamo questa legge perché i contadini non sono chiamati ad intervenire nella assegnazione delle terre espropriate. [...] Non approviamo questa legge perché essa è impostata sulla concezione che non tutta la grande proprietà sia da sottoporre alle leggi fondiarie, mentre l’art. 44 della Costituzione dice che, pur tenendo presenti le condizioni delle varie ione e regioni agrarie, il limite deve essere fissato per tutte le proprietà, in generale». 102 La partecipazione al dibattito dell’organo locale del PCI “Il lavoratore di Capitanata” offre, oltre all’interesse dei contenuti degli articoli, elementi per interpretare il ruolo del giornale stesso e il rapporto tra questo e il Partito Comunista. La redazione de “Il lavoratore di Capitanata” non è composta da un nucleo di “intellettuali” in grado di elaborare programmi compatibili con la realtà locale o quantomeno di adeguare una “filosofia” generale al territorio e di offrire una cultura alternativa allo scontro sociale in atto nella Capitanata. I redattori del periodico sono quadri e dirigenti locali del partito, cioè membri di un apparato che costituiscono un gruppo politicamente compatto, solido e ideologicamente preparato - ma anche minoritario rispetto alle spinte ribellistiche e alle caratteristiche caotiche del movimento contadino spontaneo nelle campagne - che non esiterei a definire massimalista e verticistico per la serrata struttura ed organizzazione. Questa cultura “ideologizzata” del PCI e dei suoi organismi dirigenti di massa ha profonde radici nella storia del partito così come si è andata enucleando dalle origini, nella omologazione al partito leninista “bolscevico” russo che ha esercitato un forte richiamo sui comunisti italiani nel prefascismo, si è consolidata durante la clandestinità sotto il regime fascista e, almeno nel Nord Italia, si è accentuata durante la fase resistenziale armata. Subisce, nel dopoguerra, il fascino e l’egemonia dell’URSS stalinista e “liberatrice” dal nazismo. Molti quadri dirigenti, anche periferici, sono reduci da tali esperienze e sono permeati da questa formazione accentuatamente ideologicizzata, settaria e classista. Allorché con la caduta del fascismo si determinano nuove opportunità di gioco politico, le scelte effettuate dal vertice del partito e accettate per le regole ferree vigenti all’interno del PCI, cadono sui quadri comunisti provocandone uno “spiazzamento”. Ma è a questo personale politico, è a questi quadri intermedi, che costituiscono la spina dorsale del partito, che vengono peraltro demandati i compiti di mettersi alla guida del movimento nelle campagne e incanalarlo verso obiettivi che includono alleanze sociali con i ceti moderati. Essi, nella realtà quotidiana, devono verificare, rinnovare e rinsaldare il rapporto con quei settori di lavoratori che guardano al Partito Comunista quasi come soggetto “profetico”, riferimento “rivoluzionario” ,e portatore esclusivo dei propri interessi e, contestualmente, “ri-formare” _______________ (Discorso pronunciato al senato della Repubblica il 6 ottobre 1950, in R. GRIECO, ,Problemi della riforma fondiaria, cit., pp. 122-123). 103 sé medesimi ed attuare una conversione nelle modalità di approccio alla cultura delle nuove alleanze40. Ai dirigenti periferici e ai quadri più vicini alla base sociale del partito si pone, dunque, lo sforzo di reinterpretare il PCI come soggetto mediatore e negoziatore di interessi non meramente “classisti”. Compiti e ruoli che vengono altresii acutizzati da un antifascismo esclusivo, molto caratterizzato socialmente, dogmatico e intransigente nella questione delle “epurazioni” degli elementi fascisti locali41. Emerge, allora, da tale contesto il ruolo del giornale comunista “Il lavoratore di Capitanata” il quale, oltre che come attore sulla scena del dibattito sulla riforma agraria opera come agente “ri-formativo” dei quadri periferici del PCI operanti sul territorio. Più che uno strumento di informazione anche per lettori-contadini, lettori-braccianti, lettori - disoccupati, peraltro alle prese con le dure leggi di sopravvivenza del dopoguerra, ai quali le parole d’ordine del partito giungono attraverso i dirigenti, i capi cellula e gli attivisti, il giornale ha un compito organico e “mediato” di comunicazione. _______________ 40 - Manlio Rossi Doria al fine di mettere in luce l’inadeguatezza della linea politica dei partiti di sinistra, di fronte alle esigenze dei ceti medi rurali, mentre dà atto al partito comunista «che nelle campagne è stato ed è il più attivo, di aver saputo rappresentare, organizzare e guidare gli spontanei movimenti contadini» e che la sua presenza si è rafforzata «perché le campagne erano in movimento [...] e non [...] che le campagne si sono messe in movimento» in seguito all’azione dei comunisti, osserva che tale linea politica presenta un punto debole. Esso è costituito dalla tendenza a voler tenere costantemente aperto il conflitto in agricoltura «forse nella speranza di poter più largamente influenzare gli strati contadini». E cosi, prosegue nell’analisi sullo stato dei rapporti fra partiti di sinistra e classi rurali della borghesia: «[...] il nostro è un paese con una larga e forte piccola e media borghesia agraria. Quando si parla dì ceti medi non la si deve dimenticare; bisogna anzi attribuire ad essa il peso quasi sempre decisivo che le è proprio. [ Essa ] rappresenta e rappresenterà anche in avvenire, uno degli strati più attivi e progressivi della nostra agricoltura, [...] una delle chiavi di volta della situazione italiana» (M. Rossi DORIA, Riforma agraria e azione meridionalista, discorso tenuto il 2 aprile 1947 al II° Congresso del Partito d’Azione in Roma. Successivamente in Riforma agraria e azione meridionalista, cit. pp. 210-213. 41 - Sul problema dell’«epurazione» così si esprime Giorgio Amendola: «[...] è una pagina dolorosa, un ostacolo contro il quale ci siamo rotti la testa, e che ha continuato a spostare a destra vasti strati della popolazione». (G. AMENDOLA, Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Bari, 1976, p. 179). Per la campagna di “epurazione” condotta dal PCI nell’ambito della realtà locale, cfr. anche F. GIULIANI, La piazza rossa ed il vento di destra, San Severo, 1994, pp. 15-19. 104 Periodici democratico-cristiani Nell’immediato periodo post-bellico, il periodico democristiano “Civiltà nostra” assegna un ruolo di primo piano, per il processo di ricostruzione, alla DC che «sembra chiamata ad assolvere la grande funzione storica che con diverse tendenze, metodi e mezzi, il cattolicesimo liberale perseguì e realizzò nel secolo scorso»42. Il settimanale tende a mettere in luce le caratteristiche popolari della DC ed ad avere un confronto netto e deciso con le posizioni dei comunisti43. Le proposte politiche del periodico attingono diffusamente al pensiero sociale cattolico e sono connotate dalla aspirazione in una struttura economica stabile, socialmente interclassista, che affida un ruolo sociale alla proprietà privata. Tali prese di posizione sono anche riconducibili .all’esperienza di tanti giovani democristiani che hanno avuto una formazione, negli anni del fascismo, nei ranghi dell’Azione Cattolica. E, quindi, a proposito della funzione della proprietà privata così si esprime “Civiltà nostra”: « [...] la proprietà non è un furto, ma neppure un comodo retaggio di pochi fortunati; per noi democratici cristiani, è missione, è carità, e soprattutto privilegio per venire incontro a chi soffre e si sacrifica»44. L’attività pubblicistica democratico-cristiana, in Capitanata, iniziata da "Civiltà nostra " viene ripresa e continuata dal periodico “Il solco” che è presente nel 1948, anno cruciale per lo scontro politico in atto nel nostro Paese. I temi che negli anni precedenti avevano trovato spazio nel dibattito politico continuano ad essere dibattuti in un contesto politico diverso. L’uscita delle sinistre dal governo è un fatto di estrema rilevanza in quanto non manca di avere i suoi riflessi sull’orientamento e sulle modalità di comportamento che le forze politiche adotteranno da questo momento _______________ 42 - "CIVILTA NOSTRA", 1945, 10 ottobre, n. 18. 43 - Il settimana le democristiano si esprime con questi termini: «[…] la democrazia cristiana deve meglio andare incontro al popolo: non con l’idea meschina, tipicamente di abbatter una classe per il dominio spietato di un’altra: [...] La democrazia cristiana può evolversi verso il proletariato; il comunismo non può evolversi verso l’odiata afflitta borghesia, senza cadere nel più stridente contrasto con sé stesso. L’avvenire è nostro». (“CIVILTA NOSTRA”, 1946, 11 aprile, n. 31). 44 - “CIVILTÀ NOSTRA”, 1946, 4 aprile, n. 30. 105 rispetto al problema agrario. Nell’imminenza della competizione elettorale, “Il solco” si premura di specificare la propria linea programmatica «di combattimento e di fierezza nella imminente battaglia politica»45 e il ruolo della DC: «Noi non guardiamo, non possiamo guardare, né a destra né a sinistra: noi siamo al centro e vogliamo restare al centro»46. Anche “Il solco” affronta i temi che sono all’ordine del giorno della discussione politica e che trovano ampi spazi in occasioni delle elezioni politiche. Il tono è, talvolta, polemico e prelude al linguaggio denso dell’anticomunismo degli anni ‘50. La lettura degli articoli consente di osservare più da vicino, anzi dall’interno, il punto d’arrivo della elaborazione delle ipotesi democratico-cristiane rispetto ai problemi dell’assetto proprietario e della riforma agraria47. In essi è possibile cogliere alcuni punti del programma sociale cattolico: ruolo della proprietà privata, giusto salario, la ristrutturazione del latifondo. Nell’esistenza del monopolio della proprietà agraria è indicato l’impedimento alla formazione di un libero mercato di terre e l’emarginazione dal processo produttivo di larghe zone agricole; un simile assetto fondiario non riesce, altresì, ad assorbire il forte peso demografico. “Produttività” del comparto agricolo e “funzione sociale” della proprietà agraria costituiscono quindi i parametri entro i quali si svolge l’ipotesi _______________ 45 – “IL SOLCO”, 1948, 3 gennaio, n. 1. 46 – “IL SOLCO”, 1948, 10 gennaio, n. 2. 47 - Il periodico “IL SOLCO”, prendendo lo spunto da un convegno di studio sulla riforma, tenutosi a Foggia il 6 e 7 marzo 1948 e organizzato dai giovani della DC, svolge una serie di valutazioni circa il problema della proprietà privata agraria e della sua funzione. [Viene prospettata] «la imperiosa indifferibile necessità di una radicale trasformazione fondiaria ed agraria [...] senza perdere di vista la realtà oggettiva della nostra agricoltura ed eliminando le cause eventuali di contrazione della produzione». [Viene pronunziata una severa condanna] «nei confronti degli attuali detentori della ricchezza fondiaria [che lasciano] infeconde larghe zone talvolta bisognevoli di bonifiche ovvero praticando in talune altre vaste plaghe una cultura estensiva [...]» [Si richiede] «l’intervento dello Stato per ricondurre alla sua funzione la proprietà imponendole dei limiti [ e di ] creare nelle campagne più umani rapporti sociali». [I proprietari che dovessero persistere] «nella loro tipica indifferenza e nell’insensibilità verso i bisogni insopprimibili di larghe schiere contadine, non solo non concorreranno al consolidamento della pace sociale, ma non eviteranno gli interventi inesorabili della legge». (“IL SOLCO”, 1948, 20 marzo, n. 10). Cfr., inoltre, “IL SOLCO”, 1948, 14 febbraio, n. 7; “IL SOLCO”, 1948, 9 aprile, n. 12. 106 riformatrice sostenuta dalla Democrazia Cristiana: una interpretazione siffatta della riforma è finalizzata all’attivazione di un ruolo più dinamico per la proprietà privata, ad una “pace sociale” nelle campagne e, attraverso l’insediamento stabile di contadini sulla terra, a favorire condizioni di maggior benessere sociale. Questa ipotesi di riforma, peraltro, risulta coerente con le opzioni sociali dei cattolici orientati verso una società dove la- piccola proprietà rurale di tipo familiare sia largamente diffusa48. Un elemento importante di questo articolo, inoltre, è costituito dal riferimento al “limite di proprietà”. Sull’argomento, all’indomani del 18 aprile ‘48, in una mozione del Consiglio Nazionale, la DC si dichiara pronta, relativamente alla riforma fondiaria, ad applicare l’art. 44 della Costituzione “in modo da eliminare la grande proprietà”49. Dopo la vittoria elettorale la maggioranza governativa centrista si trova di fronte al compito di dare sostanza effettuale allo Stato democratico associando ad esso quelle masse popolari che sono all’opposizione è di mantenersi l’appoggio- di quanti avevano votato sì anticomunista auspicando però un assetto sociale più giusto e non intendendo lasciare ai comunisti un ruolo primario nella tutela delle classi lavoratrici50. La coalizione del quadripartito (DC - PLI - PSDI e PRI), peraltro, sembra adatta ad assicurare un periodo abbastanza lungo di relativa sta_______________ 48 - P. BARUCCI, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Bologna, 1978, p. 76; e, inoltre, DEMOCRAZIA CRISTIANA, Atti e documenti della D.C. 1945-1959, Roma, 1959, p. 7. 49 -Mozione del Consiglio Nazionale della D.C. sulla riforma agraria, in "Rigenerazione Italica", 1948, 19 giungo, n. 16. A proposito del “limite di proprietà”, così si esprime il periodico monarchico “RIGENERAZIONE ITALICA”: « [Il limite di proprietà] sarebbe dei più nocivi [...] perché più che alla ridistribuzione delle terre, bisogna pensare alla loro massima intensificazione colturale produttiva». [Attuando il limite di proprietà deriverebbe ] «un onere gravissimo perché lo Stato dovrebbe sopportare una spesa non indifferente per la costruzione dei bacini di irrigazioni, per la trasformazione dei terreni, per l’appoderamento delle terre» e l’esito di tale operazione sarebbe «indubbiamente negativo, perché l’assegnatario, non avendo alcun controllo, [...] produrrebbe il solo necessario per sé e per gli oneri gravanti il fondo, senza curarsi del benessere collettivo» (IB). 50 - Un’eco di tale atteggiamento è ravvisabile pure a livello locale. “IL SOLCO”, infatti, commentando i risultati elettorali così dice: «La vittoria del 18 aprile, più che un punto d’arrivo, è quasi la pedana di lancio per un avvenire [...] Ecco perché i cattolici, d’ora in poi, devono adeguare il proprio pensiero e l’azione ad una seconda esigenza non in minor guisa necessaria: quella della giustizia sociale» (“IL SOLCO”, 1948, 30 aprile, n. 11). 107 bilità per rafforzare le neonate strutture costituzionali della Repubblica ed utili ad un assestamento dell’economia di mercato. Quanto ai timori di un “limite alla proprietà” la situazione complessiva del paese non permette di fissarne alcuno, né basso perché tale direttiva provocherebbe un «inizio di anarchia e di disordine per tutta l’agricoltura» né alto perché «il giorno in cui lo si volesse applicare, si vedrebbe che la grande proprietà non esiste più o quasi in Italia»51. Si potrebbe dire che forse mai, come in questo periodo, il dibattito politico sulla riforma agraria assuma una grandissima rilevanza, sia per la posizione egemone detenuta dalla DC a livello parlamentare e governativo soprattutto, sia perché nella DC la sinistra dossettiana esplicitamente sottopone e continue verifiche la linea Pella e si pone come alternativa a questa, sia perché mai, come in questo periodo, si manifesta l’esigenza di attuare qualche aspetto del programma sociale dei cattolici52. Nel 1950 la DC si trova su posizioni favorevoli, pur fra contrasti e dibattiti al proprio interno, ad un’ipotesi di riforma agraria non potendo sfuggire alle esigenze reali espresse da taluni settori della propria base sociale e al confronto posto in essere dalle proposte della sinistra - che si estrinseca con agitazioni, occupazioni di terre e “scioperi a rovescio” – ma _______________ 51 - M. ROSSI DORIA, Riforma agraria e azione meridionalista, cit. p. 223. I proprietari terrieri, comunque, per tutelarsi da una minaccia di riforma agraria di cui, peraltro, non sono ancora chiari né i connotati né i criteri mettono in moto un lavorio legalenotarile suddividendo la proprietà tra «moglie e marito, tra figli e nipoti, in modo che il giorno in cui la si andasse a cercare, non si troverebbe più» (IB.). Emblematico di questa situazione, oltre che sorprendente, perché ad esserne protagonista non è uno dei tanti e soliti agrari del Mezzogiorno, è il caso di Benedetto Croce. In una lettera scritta il 2 agosto 1948 all’ingegnere Raffaele Tramonte, amministratore dei suoi beni in Capitanata, il filosofo così si esprime: « [...] mi occorre sin da ora l’elenco dei singoli appoderati, e presto il contratto che. le mie figliuole dovranno approvare,cioè munire di visto. Per il visto le mie figliuole vorrebbero dare mandato a Lei, e per questa parte La prego di prendere accordi col notaio. Lei stesso, caro Tramonte, richiamò la mia attenzione sulla necessità che l’appoderamento della masseria Ricciardi sia rimesso nella regolarità con la quale prima fu attuato. Nel mese prossimo, cominceranno le discussioni in Parlamento sulla Riforma Agraria, e bisogna trovarsi in condizioni ineccepibili. (“SERVIRE”, Bollettino dei Lions Club Foggia, 1966, 30 aprile, n. 10). Oltre alla preoccupazione circa un’eventuale riforma agraria, l’elemento sostanziale della lettera è che una divisione della proprietà tra le figlie, B. Croce l’ha già effettuata, come si deduce dalla sua richiesta all’amministratore di fargli pervenire il contratto perché le figlie lo approvino. 52 - P. BARUCCI, op. cit., p. 399. 108 nello stesso tempo per impedire un’aggregazione a sinistra delle forze interessate alla trasformazione della struttura agraria. Anche i ceti del capitalismo industriale italiano sono schierati a favore di interventi riformatori nel settore agricolo, ben consci che un’agricoltura non al passo coi tempi è di intralcio ad uno sviluppo complessivo del paese su moderne e più agili basi capitalistiche53. Al Parlamento è in discussione un progetto di legge per la riforma agraria, formulato dal Ministro dell’Agricoltura, Antonio Segni, nell’aprile 1949. L’opera di De Gasperi si va consumando nel tentativo di mantenere l’equilibrio fra la domanda di una maggiore giustizia sociale espressa dall’ala sinistra democristiana secondo cui la riforma agraria costituisce «la prova del fuoco della democrazia italiana e delle capacità e volontà del governo di affrontare una situazione riconosciuta intollerabile»54 , e i rifiuti dei conservatori che si sentono traditi dalla DC e da De Gasperi. Inoltre l’ipotesi di una riforma agraria, pur se limitata, urta gli interessi dei grossi agrari: nella accezione culturale del liberismo post-bellico, ogni accenno al ruolo dello Stato viene equivocato per “statalismo, pianificazione, premessa al collettivismo”55. In sede di elaborazione e promulgazione della legge “stralcio” di riforma, il “limite di proprietà” viene superato dal corpo di norme che fissa i criteri secondo i quali la proprietà agraria privata compresa in alcune aree della penisola è soggetta ad un parziale esproprio e ad una. successiva redistribuzione a contadini assegnatari. I territori interessati dalla riforma comprendono la Maremma toscana, il Delta padano, il bacino del Fucino, quello del Flumendosa, alcune aree della Lucania e della Puglia, ivi compreso il Tavoliere di Capitanata, e altre zone del Molise, della Campania e della Sardegna 56. _______________ 53 - M. L. SALVATORI, Storia dell’età contemporanea: dalla restaurazione all’eurocomunismo, Torino, 1976, pp. 1037-1038. 54 - P. VICINELLI, Le ragioni di una riforma agraria in Italia, i n “C RONACHE SOCIALI, 1947-1951”. Antologia a cura di M. Glisenti e L. Elia, vol. II, San Giovanni Valdarno, 1961, pp. 730-736. 55 - P. BARUCCI, op. cit., p. 328. 56 - Legge 21 ottobre 1950, n. 841 - Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini, riportata in R. GRIECO, Problemi della riforma fondiaria cit., pp. 231-243. Gli espropri si articolano seconda una tabella di “scorporo” fino ad esonerare del tutto le aziende “modello” così dette perché riconosciute altamente produttive. Ai pro- 109 Nel 1950, su posizioni fiancheggiatrici della DC si colloca, a Foggia, “Il Mezzogiorno d’Italia”. Sono pochi numeri ma offrono una traccia per svolgere una rapida riflessione. Il periodico, infatti, pur riconoscendo una funzione centrale alla Democrazia Cristiana nell’assetto politico del Paese, testimonia che c’è, in quel periodo, uno stato di disagio negli ambienti agricoli conservatori vicini alla DC preoccupati per la linea “riformatrice” governativa. L’atteggiamento di non benevolenza del “Mezzogiorno d’Italia” nei confronti della riforma57, rinvia a considerare quelle voci di dissidenza che, in Capitanata ed altrove, all’interno della DC sorgono rispetto alle scelte effettuate dal partito di De Gasperi sui problemi della questione agraria. I capifila di questa opposizione interna democristiana sono, nella provincia di Foggia, i parlamentari Gerardo De Caro e Michele Vocino. Il primo, a motivo della propria dissidenza, viene espulso dalla DC nel 1951. Alle consultazioni politiche del 1953 si presenterà nelle liste del Partito Cristiano Militante; raccoglierà a Foggia 99 voti e 203 in provincia58. Successivamente passerà nelle file monarchiche. _______________ prietari espropriati sono riconosciuti, quale indennizzo, titoli del debito pubblico al 5% al portatore. Nel loro insieme i provvedimenti di riforma interessano circa 8 milioni di ettari, pari al 30% della superficie agraria e forestale del paese. Di questi, 800 mila circa saranno oggetto di esproprio. I terreni espropriati sono destinati a famiglie contadine. L’estensione dei poderi risulta, in media, di 6-7 ettari, con un massimo di 30-35 ettari per le aziende pastorali. Le quote si aggirano dai 2 ai 3 ettari. Onde assicurare un insediamento stabile degli assegnatari sulle terre, la “stralcio” prevede che, mediante il pagamento di trenta annualità, essi diventino proprietari del terreno ricevuto. Inoltre, tramite investimenti per l’edificazione di abitazioni e borgate rurali, si tende a spezzare i tradizionali insediamenti accentrati nel Mezzogiorno e a popolare le campagne con nuovi insediamenti sparsi. I complessi degli edifici prevedono tutti i servizi necessari: scuola, chiesa, spaccio con circolo sociale, dispensario medico. 57 - NE “IL MEZZOGIORNO D’ITALIA”, 1950, 13 luglio, n. 19, infatti, si sostiene che lo scorporo di terreni a coltura intensiva «è concetto aberrante, puramente demagogico, antieconomico e antigiuridico, perché se è legittima l’azione dello stato diretta a colpire, e duramente, quei proprietari che, per inerzia, incapacità o errato calcolo economico, sottraggono la loro proprietà fondiaria alla sua naturale funzione economico- sociale, non altrettanto legittima e comunque di sapore marxista, sarebbe che fosse diretta a limitare la proprietà di coloro che invece hanno fatto il possibile, e quando non vi era obbligo alcuno, per far sì che essa rispondesse alla sua funzione economico- sociale». 58 – “IL FOGLIETTO”, 1953, 18 giugno, n. 23. 110 La posizione di Michele Vocino è più articolata. Egli fa parte della corrente cosiddetta “vespista” sorta su ispirazione vaticana. Ad essa aderiscono numerosi parlamentari democristiani in maggioranza eletti nelle circoscrizioni meridionali più di 50 su 74 - che con il documento “Problemi dell’ora e azione governativa” si dichiara apertamente ostile al programma riformatore del governo 59. Nelle elezioni politiche del ‘53 è, comunque, candidato nelle liste democristiane ma non viene eletto. Egli stesso, "vespista punito" come si definisce, commenta all’indomani delle consultazioni che il proprio insuccesso è da porre in relazione al mancato appoggio del partito e al dissenso dimostrato verso gli indirizzi politici del governo, in particolare verso la riforma agraria60 Per un quadro completo, va aggiunto infine che le elezioni del ‘53 consolidano, all’interno della DC locale, le posizioni di esponenti attestati su posizioni riformatrici. Michele Del Vescovo, leader della Comunità dei braccianti61 nelle provincie di Foggia e Bari, è uno di questi; interpreta meglio l’immagine riformatrice della DC e può contare su un retroterra elettorale agevolmente manipolabile. Nella realtà locale, per rintracciare la matrice "ideologica" della DC di Capitanata rispetto ai problemi agrari, ma anche verso le questioni politiche più generali, l’osservazione unitaria di "Civiltà nostra" e de "Il solco" può costituire un’ipotesi di ricerca interessante. Anche qui partirei dal personale politico che è nelle redazioni o che gravita attorno ad esse. Vi si denota la tendenza, per organizzare la presenza del partito sul territorio, a quel processo di mobilitazione, tessitura ed omogeneizzazione che avviene fra energie provenienti dall’Azione Cattolica, rappresentanti dell’intellettualità di provincia, esponenti ‘convertiti’ del liberalismo e del qualunquismo, quadri sindacali e una dose di atteggiamento moderato assunta rispetto al problema della "epurazione" perché, come afferma "Civiltà nostra", «non si grida contro ciò che non esiste, non si parte in guerra contro un nemico sconfitto ed umiliato». In questo processo di attività politica dei cattolici che si svolge ad ampio raggio verso i vari segmenti della società locale che precede la data della riforma e, dopo questa, diventerà più insistente è possibile valutare l’evoluzione della DC _______________ 59 - P. A. ALLUM, Il Mezzogiorno e la politica nazionale dal 1945 al 1950 in: Italia 19431950. La ricostruzione, a cura di S. J. Woolf, Bari, 1974, p. 184. 60 - 1L FOGLIETTO", 1953, 18 giugno, n. 23 cit. 111 che, da un iniziale impianto culturale proprio del popolarismo prefascista, assume una connotazione più precisa di partito democratico collettore di consenso in fasce diverse dell’elettorato 62. _______________ 61 - La Comunità dei braccianti, organizzazione collaterale del clero, svolge un ruolo di orientamento politico e di controllo dei lavoratori delle campagne in Puglia. In taluni comuni è diretta in prima persona da personale ecclesiastico. La Comunità dei braccianti sorta con finalità assistenziali, svolge un ruolo preminente nel campo dei ,cantieri scuola e di lavoro, ma la sua azione si dirige, nella fase di attuazione della Legge di riforma, anche sul piano delle assegnazioni di terre. 62 - La Democrazia Cristiana non ha «forti connotati ideologici e programmatici» (A. GAMBINO, op. cit., vol. II, p. 524), imposta il proprio disegno politico su basi pragmatiche e opera su coordinate settoriali con strumenti ed organismi mirati in un quadro unitario di riferimento e di idealità ‘umane, sociali e cristiane’. Nell’ambito agricolo, lo strumento di approccio democristiano con i piccoli proprietari è costituito dalla Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti (Coldiretti) che, a Foggia, già nell’immediato dopoguerra è presente sul territorio «con una propria posizione politica che tentava di accreditare il ruolo politico della piccola proprietà contadina» (E MERCURIO, op. cit., P. 179). Il disegno politico della DC - che peraltro è tranquillizzata sul fronte sindacale dalle rappresentanze cristiane della CISL - individua un’altra traccia di svolgimento per la propria azione nel rapporto con i ceti medi della ruralità foggiana. Il Consorzio Generale di Bonifica si qualifica, in Capitanata, come luogo privilegiato di avvicinamento e di incontro fra il partito della Democrazia Cristiana e la borghesia agricola. Alla DC urge l’«entratura» politica nei segmenti rurali medi per isolare gli ambienti agrari più conservatori e a questi, rispetto alle pressioni dello schieramento di sinistra e alle agitazioni sociali, occorre un referente politico e negoziale attraverso il quale formulare le proprie esigenze e stabilire un rapporto "pacifico" con i nuovi ordinamenti democratici. I ceti rurali, che hanno nella ‘Trasformazione agraria" uno strumento culturale da contrapporre alla tesi di riforma agraria, compiono una scelta decisiva verso la DC quando la legge "stralcio" si profila nei suoi lineamenti riformatori ma "garantisti" rispetto alla media proprietà agraria. Non si tratta, tuttavia, di un’adesione unilaterale da parte dei ceti medi, quanto piuttosto di reciprocità perché la DC onde rapportarsi a questi segmenti della borghesia agraria adopera un progetto di riforma sostanzialmente moderato. Il processo, alla fine, non è indolore e comporta dei costi per la strutturazione stessa del Consorzio. Dopo il 1950, in una fase di ridefinizione di funzioni, infatti, il Consorzio di Bonifica - anche per la presenza al suo interno di organici e quadri fascisti, comunque di riconosciuto valore professionale (F MERCURIO, op. cit., p. 171) che verranno gradualmente cooptati - viene svuotato dei compiti politici di guida dello sviluppo agricolo provinciale ed assume un ruolo direttivo tecnico del sistema di infrastrutture delle campagne di Capitanata, e le competenze, di valenza politica, in materia di distribuzione delle terre, di appoderamento e di assistenza alla nascente proprietà coltivatrice diretta, vengono assegnate dall’Ente Riforma, costituito ad hoc e con personale di sicura fede al nuovo regime politico, ad una Sezione Speciale istituita con D.P.R. n. 67 del 7 febbraio 112 Dall’esame dei periodici di area democristiana, due sono le conclusioni essenziali che si possono dedurre. La prima è che essi si qualificano come punto di osservazione per rilevare la formazione graduale del "blocco sociale" che si determina attorno alla Democrazia Cristiana, di straordinaria importanza ai fini della "gestione" della riforma. La seconda è che i periodici democristiani, oltre che strumenti di comunicazione verso l’esterno, sono preposti al dibattito e alla comunicazione interni, e sono luogo di formazione di giovani democristiani come Gustavo De Meo, Vittorio De Miro D’Ayeta, Volfango Rosenberg, Gaetano Pinto ed altri che, in breve tempo, assumono compiti dirigenziali del movimento cattolico-democratico provinciale e negli anni successivi svolgeranno ruoli determinanti nel partito, nelle istituzioni locali e nazionali e nei vari enti “logistici” territoriali, o comunque saranno punti di riferimento nel contesto sociale. Periodici liberisti I giornali dell’area liberale, o sarebbe meglio dire di orientamento liberista, sono quelli che complessivamente ma non singolarmente tranne ‘Il Corriere di Foggia" presente durante l’intero periodo 1945-1950 -occupano un maggior spazio temporale. Già questo è un elemento che predispone ad una riflessione: la forte presenza in Capitanata di un ceto medio agricolo del quale la molteplicità di testate è un riflesso. Sui giornali di questo versante si distinguono, fra gli altri, Vincenzo Ciampi, direttore de "Il Foglietto", liberale, che collabora pure a "Il Giornale d’Italia", quotidiano a tiratura nazionale e molto vicino alle posizioni della Confagricoltura; Maurizio Mazza, monarchico, direttore de "Il Gazzettino Dauno"; Vittorio Colabella, esponente monarchico, ospitato sulle pagine de "Il Gazzettino Dauno"; Paolo Nazzaro, liberale, che dirige "La Capitanata " e che successivamente, è direttore del periodico DC "Il solco "; Candido D’Amelio che dirige "Daunia Agricola "; Giuseppe Spagnoli, fondatore e direttore de "Il Corriere di Foggia ". Con l’ingresso sullo scenario politico di nuovi soggetti sociali e dei forti partiti comunista e socialista, l’atteggiamento della borghesia agricola _______________ 1951 (D. PRINZI, La riforma agraria in Puglia, Lucania e Molise nei primi cinque anni, Bari, 1956, p. 76). 113 è stimolato ad un adeguamento anche nella strumentazione per il confronto politico; nella realtà quotidiana del dopoguerra, peraltro, il "proprietario", figura cardine dell’assetto sociale del Mezzogiorno, avverte le insidie alle sue prerogative imprenditoriali dai decreti governativi, dalle norme sull’imponibile di manodopera e dal fenomeno di occupazione delle terre. Questi ceti intuendo, altresì, la fase nuova del processo politico - avvento di un sistema democratico di massa - che comincia a svilupparsi negli anni post-bellici, si trovano a dover affrontare questioni estremamente significative che riguardano il proprio "status " e la propria collocazione e rappresentatività in termini politici. In un primo periodo, compreso orientativamente dal 1944 al 1946, alla stampa e ai partiti della sinistra che, in Capitanata, amplificano le agitazioni e le rivendicazioni dei braccianti e dei disoccupati e danno scarsa importanza ai problemi dei ceti medi agricoli, i quali, come abbiamo visto, vengono assimilati alla grande proprietà, sul versante liberista si contrappone, in sostanza, la riproduzione di uno schema di analisi, rigido e conflittuale, che presenta un blocco indifferenziato nel quale sono situati sia i grandi agrari che i medi e piccoli proprietari. Rispetto ai problemi che il movimento contadino pone, l’azione della stampa di orientamento liberista è diretta al mantenimento del diritto di proprietà e a neutralizzare la serie di vincoli e limitazioni al godimento dello stesso che in sede politica si vanno elaborando. I periodici come "La Squilla liberale" e la "La Capitanata", che si richiamano alle tradizioni liberali di Foggia, sono caratterizzati da una vigorosa e insistente polemica antistatalista. In polemica con i Decreti Gullo 63, relativi all’assegnazione di terre incolte a cooperative contadine, "La Capitanata " sostiene che tale indirizzo legislativo costituisce una svolta verso la socializzazione della terra. La posizione al riguardo è ferma: «la proprietà privata è la chiara manifestazione di libertà econornica e, quindi, di libertà spirituale»64. _______________ 63 - Si tratta delle leggi n. 279 e n. 311 emanate a mezzo decreto luogotenenziale il 19 ottobre 1944. La prima riguarda la concessione di terre incolte alle cooperative di contadini, la seconda disciplina i contratti di colonia parziaria, di compartecipazione e di mezzadria impropria. Con tali provvedimenti si tende a riportare nell’ambito della legalità il fenomeno dell’occupazione delle terre incolte che dalla fine del 1943 era in corso da parte di gruppi di contadini, affamati e senza terra, in particolare nei territori di Sicilia e Calabria, e, in forme più episodiche, nelle altre zone del Mezzogiorno. 64 – “LA CAPITANATA", 1945, 2 settembre, n. 19. 114 Perciò il periodico ritiene che, scartati gli indirizzi impositivi dello Stato con un «soprattutto giammai dello Stato!», le sorti dell’economia potranno essere risollevate soltanto attraverso «l’opera mirabile, responsabile, intelligente di questa nostra vecchia gloriosa, e sempre risorgente borghesia! »65. L’individuazione dell’elemento borghese quale soggetto sociale prioritario porta a squalificare le iniziative dei partiti di sinistra e a definirle demagogiche in quanto rappresentano «soltanto un elemento di odio di classe, di comune miseria, di disordine sociale» 66 Il giornale insiste nel suo attacco ai partiti e alle organizzazioni di sinistra sottolineando anche il carattere, a suo giudizio, fallimentare dei governi postfascisti dovuto proprio alla presenza nell’area governativa «dei rappresentanti delle cosiddette masse proletarie contadine e operaie» e quindi conclude categoricamente: «la classe dirigente in Italia deve ritornare ad essere la borghesia»67. Gli interventi effettuati dalla stampa liberale sono dominati dai timori di una rivoluzione sociale e dall’ansia di stigmatizzare le ricorrenti agitazioni e manifestazioni di occupazione di terre. Afferma "La Capitanata": «si pianta la bandiera rossa nei solchi della terra. La meta è raggiunta. Ma davvero è conquistata?»68 E successivamente: «Ci troviamo di fronte ad un piano prestabilito[…] e questo piano ha il fine di illudere la massa dei contadini col solito specchietto della terra altrui da far propria» 69. "La Squilla liberale" sostiene che «fra scioperi, agitazioni, occupazioni di terre[…]ora proclamando un’agitazione contro gli agrari, ora contro il Governo ora contro il Sindaco, si mantiene un popolo in ebollizione generale»70 . "Il Corriere di Foggia" parla di "violenze e sopraffazione nelle forme più incivili".e “di bande armate di contadini” 71. Il “Gazzettino Dauno” di fronte ai fatti di Torremaggiore, importante comune agricolo del Tavoliere, dove il 29 novembre 1949 nel corso di agitazioni e di scontri con la polizia perdono la vita due dimostranti «nella colluttazione e nel clamore gene_______________ 65 - "LA CAPITANATA", 1945, 7 ottobre, n. 24. 66 - IB. 67 - "LA CAPITANATA", 1945, 4 novembre, n. 28. 68 - "LA CAPITANATA", 1945, 2 settembre; n. 19, cit. 69 - "LA CAPITANATA", 1945, 30 settembre, n. 23. 70 - "LA SQUILLA LIBERALE", 1945, 22 novembre, n. 5. 71 - "IL CORRIERE DI FOGGIA" 1945, 24 dicembre, n. 16. 115 rale»72, commenta che tali episodi sono la conseguenza di «una sconsiderata istigazione dì pochi che, ad ampie mani, gettano un seme di discordia, laddove esso può germogliare»73. L’elemento culturale che caratterizza ì periodici liberisti va indubbiamente ricondotto alla dottrina della trasformazione fondiaria che costituisce un "corpus" relativamente ampio e flessibile in grado di fornire una guida ad una strategia politica di resistenza sul larga scala. Del resto, in Capitanata, il Consorzio Generale della Bonifica è una struttura ben radicata nel territorio e svolge compiti determinanti di indirizzo politico e di sviluppo delle campagne ed è nettamente appoggiato dalla media proprietà agraria che, negli anni del fascismo, ha avuto un notevole incremento 74. Perciò, il Consorzio di Bonifica, quale impianto culturale, è funzionale, al momento, alle posizioni liberiste nel confronto con le linee riformatrici e costituisce un’occasione di potere residuale per quei ceti di consolidata cultura liberale che hanno il problema di riaffermarsi socialmente dopo l’esperienza dirigista del fascismo75. Ampio spazio, quindi, è dedicato da molta parte della stampa liberista al I° Convegno sui problemi della trasformazione fondiaria76, celebrato a Foggia dal 18 al 20 gennaio 1947. Questo convegno - nel quale si impegnano organizzazioni di tecnici, esperti di politica agraria come Manlio Rossi Doria ed esponenti sindacali - sottolinea come sia viva, nei ceti rurali di Foggia, la necessità del confronto con il movimento in atto nelle campagne e con le ipotesi di riforma prospettate dai grandi partiti di massa. _______________ 72 - M. MARINELLI, op. cit., P. 194. 73 - "ILGAZZETFINO DAUNO", 1949, 19 dicembre, n. 6. 74 - G. MOTTURA - E. PUGLIESE, Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, 1975, p. 24. 75 - F. Mercurio osserva che: «I gruppi agrari del Tavoliere, che pure avevano opposto una tenace resistenza alla bonifica integrale, erano usciti dalla guerra profondamente logorati dal decennale braccio di ferro con l’impostazione autarchica e corporativa dell’economica fascista. Erano certamente riusciti a difendere il loro sistema di convenienze, ma avevano nel contempo alimentato nell’opinione pubblica la convinzione che quel sistema da loro difeso fosse dal punto di vista politico e sociale conservatore ed arretrato, destinato ad essere modificato nell’interesse di tutto il Paese» (F. MERCURIO, op. cit., p. 169). 76 - Per una panoramica delle diverse posizioni cfr., CONSORZIO GENERALE PER LA BONIFICA E LA TRASFORMAZIONE FONDIARIA DELLA CAPITANATA, Foggia, I Convegno per la trasformazione fondiaria della Puglia e della Lucania, Foggia, 1953. 116 La stampa liberista guarda insomma alla trasformazione fondiaria come alla soluzione più concreta e fruttuosa del problema della terra e di rimozione del persistente problema disoccupazionale. I periodici locali di questo orientamento temono che la cessione di terre ai contadini possa provocare la trasformazione stessa dell’economia in senso collettivistico. La bonifica, l’irrigazione e il potenziamento della produzione come alternativa alla distribuzione di terre scorporate dal latifondo, sono recepiti da questa stampa come l’unica vera strada della modernizzazione delle aziende agrarie, l’unico efficace antidoto ai mali tradizionali del latifondo. Così, infatti, sintetizza il "Gazzettino Dauno ": «Rendere positivo questo fattore [il latifondo] dovrebbe essere lo scopo precipuo della riforma agraria»77. La distribuzione delle terre, secondo il periodico monarchico "Rienerazione italica " 78 provocherebbe una inutile e dannosa polverizzazione della proprietà terriera dal momento che allo spirito imprenditoriale dell’agrario, che solo potrebbe garantire l’incremento della produttività e quindi dell’occupazione, subentrerebbe una moltitudine di contadini diseredati, sprovvisti di mezzi finanziari e tecnici e del necessario spirito imprenditoriale, preoccupati soltanto di far quadrare i conti familiari e quindi poco disposti ad utilizzare manodopera esterna al proprio nucleo familiare. Un mutamento di orientamento politico dei periodici liberisti rispetto alle problematiche della riforma agraria e ai temi politici più generali, è avvertibile già in occasione del referendum istituzionale del 2 giugno ‘46: “Il Corriere di Foggia" titola a caratteri cubitali "Repubblica e Democrazia Cristiana". Il nuovo indirizzo politico va assumendo contorni più precisi dopo la scelta degasperiana di escludere le sinistre dal governo e con le elezioni del 18 aprile ‘48, fino a risultare del tutto chiaro con le scelte ‘riformiste’ effettuate dalla DC nel biennio 1949-5079. In quest’ultima fase, _______________ 77 - "IL GAZZETTINO DAUNO", 1950, 30 settembre, n. 37. 78 - "RIGENERAZIONE ITALICA", 1948, 19 giugno, n. 16, cit.; "RIGENERAZIONE ITALICA", 1948, 20 marzo, n. 3. 79 - Il Congresso Nazionale della DC a Venezia (2-5 giugno 1949) rappresenta una svolta importante per queste scelte dalle quali scaturiranno la linea di intervento pubblico nel Meridione con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, prima, e l’avviamento, poi, della legge "stralcio" di riforma. Per queste tematiche cfr. P. BARUCCI, op. cit., pp. 400-403. In questa sede mi preme rilevare l’atteggiamento assunto, rispetto a tale indirizzo politico, dalla stampa liberista di Capitanata. "IL FOGLIETTO", 1950, 26 ottobre, n. 4, auspica, che attraverso gli interventi della 117 la necessità di una riforma fondiaria viene riconosciuta da taluni giornali liberisti, seppure riferita alla grossa proprietà assenteista’80. E’ individuabile, allora, nella legge "stralcio" il punto di aggregazione e di saldatura di un nuovo blocco sociale e lo strumento d’una base moderna di consenso nelle campagne81. La definizione di punto di saldatura discende dalla opzione e dall’applicazione dì un riformismo agrario che si estrinseca, da parte della Democrazia Cristiana, nell’opportunità di aggirare il "limite di proprietà" e nell’impulso dato alla diffusione della piccola _______________ Casmez, si possa «veder risoluto il secolare problema della sua [cioè della Capitanata] redenzione economica e della sua rinascita agricola con le grandi sicure possibilità di una più vasta, cospicua e qualitativamente migliore produzione agricola». 80 - "DAUNIA AGRICOLA", 1950, 15 aprile, n. 7, mette in risalto la notizia del convegno regionale delle associazioni degli agricoltori pugliesi, tenutosi a Foggia il 20 gennaio 1950, nel corso del quale viene approvata una mozione in cui si afferma che la legge di riforma «deve avere carattere selettivo al fine di escludere da ogni intervento le aziende efficienti e progredite anche sotto l’aspetto dei rapporti sociali [e deve] riguardare essenzialmente e prevalentemente i territori ad economia latifondistica, intendendosi per tali congiuntamente caratterizzati da nulli o quasi investimenti fondiari, da coltura estensiva di tipo cerealicolo pastorale, da basso ed irregolare impiego unitario di lavoro, da insediamento della mano d’opera in centri lontani dalle terre coltivate». "Il CORRIERE DI FOGGIA" sostiene che per le grosse proprietà terriere, oltre una data superficie, si possa giungere ad un esproprio ragguardevole che, comunque, non dovrebbe essere superiore al 50%. L’importante è che «resti fermo il principio che non vi sia limite assoluto alla proprietà fondiaria». Sempre secondo "Il CORRIERE Di FOGGIA", 1950, 5 gennaio, n. 1, gli altri punti caratterizzanti la riforma dovrebbero essere: l’esonero totale dalla riforma di un limitato numero di aziende «in premio della grande massa di opere fondiarie ivi ammesse dal proprietario» e il pagamento in contanti dei terreni espropriati. Non mancano, inoltre, gli interventi a favore dei medi proprietari. «Si tratta - osserva "IL CORRIERE DI FOGGIA", 1950, 9 gennaio, n. 2, di 4.266 agricoltori che nella maggior parte delle zone, rappresentano il nerbo e la spina dorsale della nostra agricoltura [ ... ]. Ebbene questi 4.266 agricoltori devono essere esonerati dalla riforma fondiaria. Deve magari essere loro imposto un qualche obbligo di rniglioria relativo soprattutto alle abitazioni rurali, talvolta scadenti, e all’attrezzatura meccanica ei servizi delle aziende, ma non si deve operare esproprio nei loro confronti». 81 - P. Scoppola, al riguardo, argomenta: «Il partito dei cattolici [ ... ] nato con il disegno di un vasto rinnovamento sociale si è trovato a svolgere il ruolo preminente di offrire una base di massa - in larga parte contadina - ad una nuova fase di egemonia della borghesia capitalistica» (P. SCOPPOLA, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, 1977, p. 311). 118 proprietà contadina familiare in grado, altresì, di fronteggiare l’infiltrazione comunista nelle campagne82. Il passaggio della stampa liberista di Capitanata al consenso alla politica democratico-cristiana, tuttavia, non è né generalizzato, né meccanico, né immediato. Giornali come "Il Gazzettino Dauno" e le opposizioni interne alla stessa DC testimoniano un’agguerrita presenza di componenti sociali e culturali nettamente schierate sul fronte antiriformatore. In definitiva, relativamente alla stampa di orientamento liberista, l’elemento caratterizzante deriva dall’assetto redazionale dei periodici e dalle caratteristiche dei collaboratori: essi, perlopiù, non concepiscono la politica come "militanza", a differenza dei redattori dei giornali della sinistra, e, in misura minore, dei collaboratori dei periodici democristiani. Questo elemento redazionale rende i giornali del versante liberista più aperti verso collaborazioni provenienti dalla "società civile" e da gruppi di interesse organizzati e offre d’essi l’immagine di giornali di ‘opinione’. Il minor peso ideologico, inoltre, li rende tendenzialmente duttili - ma non va comunque sottovalutato il fattore "convenienza" - nella selezione e nella rielaborazione dello svolgimento di fatti e dati politici: gradualmente si distaccano da una concezione di difesa "tout court" della proprietà terriera _______________ 82 - M. Rossi Doria non nasconde la "qualità" anticomunista della legge stralcio; a suo giudizio l’intervento legislativo è stato concepito ed attuato in funzione anticomunista, anzi tale scopo ne costituisce l’intima essenza. Ma spiega pure che non può essere altrimenti. «A me sembra - egli dice - che la caratterizzazione politica della riforma in Italia risulti da due suoi fondamentali aspetti. Dal fatto, anzitutto, che essa viene attuata da un Governo e con la responsabilità prevalente di un partito, la cui base sociale è e resterà sostanzialmente conservatrice, nel quadro di una politica generale ispirata ad esigenze di stabilità economica e sociale, e perciò molto, fin troppo cauta in fatto di riforme sociali in altri campi e che, di conseguenza, essa non può che essere concepita come strumento capace di allargare e consolidare i settori stabili della società e non l’inverso. In secondo luogo dal fatto che la riforma si imposta e si attua in una fase di sostanziale depressione del movimento contadino, la si concepisce, per così dire, al di fuori del movimento contadino, col proposito anzi di piegarne e correggerne le attuali manifestazioni e la si affida, perciò, ad organi tecnici dello Stato, il cui compito fondamentale è quello di mantenere i processi entro il quadro delle leggi e dei piani predisposti» (M. Rossi DORIA, Conferenza tenuta al Circolo "La Consulta ", l’8 giugno 1951. Successivamente col titolo "La riforma anno due", in Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Laterza, 1958, p. 89). Cfr., inoltre, G. DE RITA - A. COLLIDÀ - M. CARABBA, Meridionalismo in crisi?, Milano, 1966, pp. 74, 81-82, 89. 119 privata, nella quale è incluso il latifondo, per approdare ad una condivisione del riformismo degasperiano. Si può dire, per concludere, che la stampa liberista svolge, in Capitanata, un ruolo che non è solo di informazione e di orientamento politico dei ceti che in essa si riconoscono ma assolve ad un compito di legittimazione dei segmenti rurali della borghesia nel contesto democratico e di "ricompattamento" sociale che consente al partito della Democrazia Cristiana di conquistare ed essere perno di zone nodali dell’opinione pubblica moderata. 120 SCHEDE (Bibliografiche) L’AZIONE DEMOCRATICA Settimanale della Provincia di Foggia Direttore: Pasquale Soccio Inizio e luogo di pubblicazione: (?), Lucera Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1944-45-46 (lacunose); il primo numero presente è il n°9 del 29 luglio 1944; l’ultimo è il n°26 del 28 giugno 1946. NOTE: Il periodico persegue una linea azionista e mira pertanto ad un superamento delle antinomie e ad una chiarificazione fra liberali e socialisti. Attorno ad esso sono raccolti giovani e intellettuali di Foggia e provincia: fra questi anche il giovane Giuseppe Cassieri che da "L’azione democratica" riceve il «battesimo» letterario (così si è espresso il prof. Pasquale Soccio in un recente colloquio avuto con me) scrivendo alcune belle pagine di sapore garganico. Alcuni di questi giovani non disdegnano di autodefinirsi “liberali progressisti” (lo stesso Soccio ha definito ‘socialisteggiante’ Emanuele Tetta, uno dei collaboratori del settimanale) e guardano con simpatia “al partito dalle cui decisioni dipenderà forse gran parte del futuro d’Italia: al partito socialista”. E’ la posizione che emerge dall’editoriale “La sconfitta dei conservatori” curato da uno dei collaboratori più assidui del giornale, Federico de Peppo - dedicato ai risultati delle elezioni in Gran Bretagna che sanciscono la sconfitta di W. Churchill - sul n° 31 del 4 agosto 1945. Non mancano, tuttavia, le ricorrenti polemiche con i giornali dell’area di sinistra, primo fra tutti l’«Avanti Daunia!» ed anche gli appunti e i moniti severi. E il caso della “Lettera aperta agli amici socialisti” del direttore Pasquale Soccio, sul n°6 dell’8 febbraio 1946, nella quale vengono rivolte critiche circostanziate ai socialisti “prigionieri di un altro partito”. Il giornale dà conto della vita interna del PLI foggiano, al quale comunque è legato, con un’apposita rubrica «Vita del Partito». I legami con il PLI sono evidenti e si rafforzano, peraltro, quando alcuni di questi giovani ne assumono compiti di dirigenza politica: Arduino Giuliani è presidente del Comitato Direttivo Provinciale e tra i componenti 121 di tale organismo figurano Federico de Peppo, Enrico Balsamo e lo stesso direttore del settimanale Pasquale Soccio. Sul n°2 del 13 gennaio 1945, sui temi della ricostruzione in Capitanata risulta interessante l’articolo di fondo “L’industrializzazione del Mezzogiorno” nel quale vengono indicate le linee di politica economica da adottare per la provincia di Foggia: la costruzione di un articolato complesso agro-industriale per la trasformazione, in loco, dei prodotti agricoli, congeniale al territorio e premessa per lo sviluppo dell’intera Capitanata. Questa opzione viene ulteriormente ribadita e sviluppata, in termini più approfonditi, da Arduino Giuliani in un editoriale sul n°26 del 30 giugno 1945 “I diritti del Mezzogiorno”. In esso si afferma che “[...] il Meridione deve avere una economia propria e non deve essere considerato solamente come colonia e mercato nei confronti di altre parti d’Italia. Sì che non si verifichi [...] che tutta l’economia Meridionale venga esaminata in funzione degl’interessi prevalenti, poniamo, della Fiat e della Montecatini, cui, in definitiva, i nostri interessi resterebbero infeudati e i nostri risparmi, frutto di sudato lavoro, affluirebbero. Non si verificherà parimenti che certo progressismo si attui in Italia ad esclusive spese di una riforma agraria (che poi non è tale) nelle nostre terre bruciate, su puri rapporti di estensione calcolati in base ai conferimenti di produttività propri delle opime e ben dissetate terre del Nord. Noi invece, pel completamento di un normale ciclo economico abbiamo bisogno dell’Industria. Essa da noi tenderà prima alla specificazione dei prodotti agricoli e contemporaneamente alla creazione di manifatture sussidiarie e strumentali dando maggiore sfogo ai già fiorenti opifici artigiani, gradualmente, poi, ad opere più vaste e profonde di trasformazione e di produzione industriale propriamente detta. In proposito ogni regione, ogni provincia studierà e prospetterà i suoi bisogni e le sue possibilità”. “L’azione democratica”, inoltre, interpreta le esigenze e si fa portavoce di quelle fasce di ceto medio, specie dipendenti pubblici che appartengono alla “gente provvista di un titolo di studio che proviene dalla buona e sana nostra borghesia, che ha un nome degno di ogni rispetto, che ha una dignità da tutelare” (N°3 del 20 gennaio 1945). RICOSTRUZIONE DAUNA Organo Provinciale del Partito Democratico del Lavoro Redattore responsabile: Remigio Gabriele Garofalo 122 Inizio e luogo di pubblicazione: 14 ottobre 1944, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1944-45 (numeri vari) NOTE: Il primo numero del giornale esce abbinato a “L’uomo che ride” settimanale satirico e si chiama “Ricostruzione” con il sottotitolo “settimanale politico”. Sul secondo numero appare l’aggettivo “Dauna” accanto al nome originario, e viene cambiato il sottotitolo in “Organo Provinciale del Partito Democratico del Lavoro”. In tale veste il giornale è schierato su posizioni moderatamente progressiste, si erge a difesa della piccola e media proprietà agricola e - cfr. N°2 del 2 dicembre 1944 - propugna la «eliminazione delle formazioni monopolistiche e vigilanza dello Stato sul campo lasciato all’iniziativa ed alle imprese private [e la] abolizione dei residui del feudalesimo terriero ed adeguate riforme agrarie». Nel panorama dei periodici locali “Ricostruzione Dauna” ha un certo rilievo in quanto uno dei suoi assidui collaboratori è l’avvocato Luigi Sbano che, su designazione del C.L.N., ricopre la carica di Sindaco di Foggia (30.9.1944 - 25.12.1945). LA CAPITANATA Settimanale politico indipendente Direttore: Carlo Cavalli, poi Paolo Nazzaro Inizio e luogo di pubblicazione: 10 dicembre 1944, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1944-45-46 (lacunose) NOTE: Il giornale è fondato da Carlo Cavalli, appartenente ad una famiglia di proprietari agricoli. Egli ne è il direttore. Inizialmente il periodico ha pure una redazione romana in piazza S. Silvestro (Palazzo Marignoli), fino al 29 aprile 1945. Con la chiusura della redazione a Roma coincide il cambio nella direzione: a Carlo Cavalli subentra l’avvocato Paolo Nazzaro. Circa le tendenze politiche del giornale, esso è orientato in senso conservatore. Entra in polemica con “Il lavoratore di Capitanata”, comunista, dal quale è accusato (N°7 del 27 settembre 1945) di «difesa a spada tratta dell’Uomo Qualunque». “La Capitanata” è fautrice di accuse durissime contro i decreti Gullo e difende il ruolo egemone della borghesia. 123 AVANTI DAUNIA! Organo della Federazione Socialista di Capitanata Redattore capo responsabile: Carlo Ruggiero Inizio e luogo di pubblicazione: 3 marzo 1945 (numero di saggio), Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1945-1946 (l’ultimo numero è del 1 giugno 1946) NOTE: Nell’editoriale del primo numero “Noi diciamo” firmato da Domenico Fioritto, segretario della federazione provinciale e uomo di primo piano del Partito Socialista nella Capitanata del dopoguerra, viene subito dichiarata la volontà di schierarsi a fianco dei ceti popolari «per rnanifestarne le aspirazioni, per accompagnarne le battaglie». Sin dai primi numeri viene lanciata una campagna di sottoscrizioni per mantenere in vita il giornale, nuovo strumento di lotta nella competizione democratica. Il periodico risente molto della presenza attiva di elementi riformisti all’interno del partito. Carlo Ruggiero, che ne è il leader, firma su “Avanti Daunia!” molti articoli. Proprio a proposito di temi e fatti relativi alla questione agraria egli segue una linea che non è molto in sintonia con le tesi ufficiali del Partito. CIVILTA NOSTRA Settimanale della Democrazia Cristiana Direttore: Gerardo De Caro Redattore responsabile: Gustavo De Meo Inizio e luogo di pubblicazione: 24 maggio 1945, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca comunale di Lucera (FG): Annate 1945-1946 (lacunose); l’ultimo numero, il 32, è del 18 aprile 1946. NOTE: Il settimanale è il portavoce della DC locale; in tale veste si occupa di precisare gli obiettivi e il ruolo del partito nel contesto post-bellico. Il direttore del periodico, Gerardo De Caro, sul N°31 dell’11 aprite 1946 si incarica di definire il percorso politico della DC e afferma che: «[...] La democrazia cristiana deve rendersi più popolare, deve ascoltare il grido dei diseredati, dei poveri, degli affamati». 124 Ed è questo tono cattolico-popolare che caratterizza il giornale democristiano. L’ipotesi “popolare” che sovrintende all’intera struttura ideologica del periodico è altresì chiaramente espressa formalmente: “Civiltà Nostra”, infatti, secondo gli schemi dei giornali popolari pre-fascisti, riserva degli spazi ai notiziari per coltivatori diretti, artigiani, etc. Attorno al periodico si raccolgono i giovani emergenti dell’area cattolica, fra essi Vittorio De Miro D’Ayeta e Gustavo De Meo, il quale, insieme con Antonio Tarquinio, guiderà in Capitanata la scissione cristiana all’interno della CGIL, nel 1948. IL LAVORATORE DI CAPITANATA Organo della Federazione Provinciale del Partito Comunista Direttore: Filippo Pelosi Inizio e luogo di pubblicazione: 2 agosto 1945 (numero di saggio), Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca comunale di San Severo (FG): Annate 1945-1946 (numeri vari); l’ultimo numero è del 25 aprile 1946. NOTE: Nel numero di saggio l’editoriale è dedicato alla vittoria elettorale dei laburisti in Inghilterra. Si plaude all’avvenimento e ci si augura che il popolo italiano «non mancherà di esprimere la propria volontà di rinnovamento quando gli sarà data la possibilità di manifestarla liberamente, dopo tanto tempo di traviamenti, di inganni e di menzogna». Sullo stesso numero viene presentato un profilo di Luigi Allegato, bracciante autodidatta, Segretario della Federazione Provinciale del Partito, più volte condannato sotto il regime fascista «per costante e persistente avversione alle istituzioni del regime». Sul lato destro della testata figurano, a volte, frasi o slogan come «Niente sussidi ma lavoro per tutti» (N°3 del 30 agosto 1945); «La reazione si organizza. Lavoratori stringiamo le nostre file» (N°6 del 20 settembre 1945); «Gli squadristi vengono assolti. Chi agisce nell’ombra?» (N°8 del 4 ottobre 1945); «La rivoluzione Russa ha segnato l’inizio di una nuova era per la emancipazione delle classi lavoratrici» (N’ 12 dell’8 novembre 1945). Conduce una dura campagna per “epurare” i quadri fascisti. Il giornale comunista è in aperta polemica con i giornali locali di orientamento politico opposto “La squilla liberale”, “L’azione democra125 tica” e, in particolare con il settimanale “La Capitanata” che accusa esplicitamente di essere sorretto e finanziario dagli agrari. IL CORRIERE DI FOGGIA Settimanale indipendente d’informazioni Direttore: Mario Ciampi; successivamente Giuseppe Spagnoli Inizio e luogo di pubblicazione: 10 settembre 1945, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1945-1950. NOTE: Il proprietario e, poi, anche direttore del periodico, Giuseppe Spagnoli, appartiene alla borghesia rurale di San Marco in Lamis. E un appassionato di giornalismo e profonde i propri beni nella gestione del giornale. Egli nutre l’ambizione di fare de “Il Corriere di Foggia” il quotidiano della provincia, senza tuttavia riuscirvi. «Vi è apatia, sfiducia ed incomprensione quanto mai diffusa e deleteria» è il commento sul N°12 del 25 marzo 1946. “Il Corriere di Foggia”, a differenza di altri fogli locali, si presenta con una buona veste sotto il profilo editoriale perché per un certo periodo, dal 1947-48 fino al 1952, può contare nella propria redazione su un giornalista professionista, Livio De Luca, già redattore capo al “Corriere dell’Impero” e successivamente passato al “Corriere di Taranto”. Il giornale appartiene all’area politica liberale. Conseguentemente assume un atteggiamento di condanna rispetto al fenomeno di occupazione di terre, e di critica alle ipotesi di riforma agraria. Le pubblicazioni interrotte nel 1952 riprenderanno il 10 novembre 1963 per concludersi definitivamente, dopo alterne vicende, nel 1973. LA SQUILLA LIBERALE Settimanale dei liberali di Capitanata Direttore: Giuseppe Amoruso Inizio e luogo di pubblicazione: 25 ottobre 1945, Bovino (FG) Periodicità: settimanale Biblioteca comunale di Lucera: Annate 1945-1946 (numeri vari) 126 NOTE: Il settimanale dichiara i propri propositi sul primo numero, affermando che intende partecipare al dibattito politico in maniera «nitida, pacata, senza eccessi, ma ferma ed energica per la tutela della libertà di tutti [....]» Sposa la causa dei ceti medi rurali dei quali difende energicamente il ruolo sociale. Polemizza sovente con il periodico socialista “Avanti Daunia!”. TRE FRECCE Organo di Capitanata del Partito Socialista Lavoratori Italiani Direttore: Gennaro Selvaggi - Antonio Ciano, dopo Carlo Ruggiero Inizio e luogo di pubblicazione: 1° gennaio 1948, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annata 1948 (numeri vari) NOTE: È il giornale dei socialisti foggiani seguaci di Giuseppe Saragat. Innanzitutto una spiegazione del nome del periodico: “Tre armi: contro la dittatura. Contro la guerra. Contro il sistema capitalistico”. Il giornale si apre con l’avviso che «[...] Esso riprende in terra di Capitanata, la difesa della idea socialista quale ci è stata tramandata dalle parole e dalle opere di Giacomo Matteotti e di Filippo Turati. [...] Attraverso il contrasto esasperato e intransigente delle opposte concezioni politiche, noi vogliamo inserire una nuova corrente di energia che possa placare e comporre un dissidio altrimenti insanabile e gravido di pericoli». Inizialmente la periodicità settimanale non è molto rispettata. Il primo numero è del 1° gennaio 1948, il secondo dell’11 gennaio, il 3° è del 26 gennaio, il 4° è del 7 febbraio. Inoltre la testata cambia aspetto di continuo; sul primo numero, accanto al titolo, nella “manchette” a sinistra sono raffigurate, stilizzate, tre frecce; sul numero dell’11 gennaio oltre alle tre frecce compaiono i simboli classici del socialismo italiano: libro aperto, falce e martello. Una variazione sostanziale avviene dal 14 febbraio 1948 allorché il periodico diviene “Organo delle Federazioni di Foggia e Potenza del Partito Socialista Lavoratori Italiani” dandosi carattere interprovinciale. In pari data a Gennaro Selvaggi e Antonio Ciano subentra nella direzione del giornale l’avvocato Carlo Ruggiero, già deputato alla Costituente ed esponente numero uno del socialismo saragattiano in Capitanata. 127 In tal modo il giornale avvia una nuova serie. Sul numero 2 di quest nuova serie appaiono modificati i caratteri tipografici del titolo e alla sinistra di questo è raffigurato il simbolo del PSLI - sole nascente con la scritta socialismo - già simbolo elettorale dei socialisti nelle ultime elezioni prima dell’avvento del fascismo. IL SOLCO Settimanale della DC di Capitanata Direttore: Paolo Nazzaro Inizio e luogo di pubblicazione: 3 gennaio 1948, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca comunale di Lucera: Annata 1948 (numeri vari) NOTE: Il settimanale è diretto dall’avvocato Paolo Nazzaro, di provenienza liberale (era stato nel 1945 direttore de “La Capitanata”). Fra collaboratori, Gaetano Pinto. Perché “Il Solco”?: la strada che il periodico intende percorrere «è quella maestra di ieri, è il solco buono e fecondo di sempre», è la dichiarazione raccolta sul primo numero. Nell’imminenza del grande scontro politico - siamo alla vigilia delle elezioni del 18 apri 1948 - il giornale sa ben interpretare, anzi si preoccupa di ribadire senza mezzi termini, la posizione di “centro” della Democrazia Cristiana. E relativamente alla questione meridionale, in aperta polemica con i comunisti “collettivisti” e con il partito liberale “vecchio” e incapace di “guadagnare le tappe e il tempo perduti”, il settimanale ritiene che solo la DC essendo nel Mezzogiorno «[...] un partito ‘nuovo’, e non compromesso con il passato [...] con le sue grandi masse rurali, l’artigianato e la piccola borghesia intellettuale e commerciale, può organizzarsi per il Mezzogiorno nell’interesse e per gli interessi del Mezzogiorno» (N°3 del 17.1.48). RIGENERAZIONE ITALICA Voce patriottica del Mezzogiorno Direttore: Pompilio De Santis Inizio e luogo di pubblicazione: 6 marzo 1948, Foggia Periodicità: prima settimanale, poi quindicinale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1948-’49-’50 (lacunose) 128 NOTE: è possibile ricavare un profilo politico del giornale dalle affermazioni fatte nel N°3 del 20 marzo 1948: come l’Italia risorgimentale seppe trovare nel regno dei Savoia la propria strada, così l’Italia d’oggi «solo nel medesimo segno ritroverà sè stessa». Con l’anno 1949, oltre a variare la periodicità da settimanale in quindicinale, viene modificata la testata sia nella struttura dei caratteri sia nel sottotitolo che diventa “Voce libera di Capitanata”. Il giornale fa annotazioni molto severe sul fenomeno delle cooperative contadine. DAUNIA AGRICOLA Periodico dei rurali di Capitanata Direttore: Candido d’Amelio Inizio e luogo di pubblicazione: 28 febbraio 1949, Foggia Periodicità: quindicinale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1949-1950. NOTE: Esprime le posizioni dell’Associazione degli agricoltori della provincia di Foggia. Nasce con il sottotitolo “quindicinale di propaganda agricola”, successivamente modifica il sottotitolo in “periodico dei rurali di Capitanata” ed esce con cadenza decadale, poi ritorna a cadenze quindicinali. Il programma del giornale si può condensare in questa frase: «Ci ripromettiamo di offrire all’agricoltore tutto ciò che in qualunque modo possa interessare la sua azienda» (N°1 del 28 febbraio 1949). Offre, infatti, informazioni di natura tecnica, si sofferma sulle questioni sindacali concernenti la categoria. Inoltre riserva spazi alla pubblicità di prodotti e attrezzi per l’agricoltura. Ma offre anche indicazioni politiche; sul primo numero del periodico si afferma la necessità dell’unità organica dei ceti agricoli: «Si assiste [...] che i coltivatori diretti, gli affittuari battono strade diverse dai proprietari conduttori e da quelli con beni affittati, quando i loro problemi vitali si identificano e richiederebbero difesa comune». E, a proposito della riforma agraria, così si esprime: «Riforma agraria? Non è il pezzo di terra, trasferito dall’uno all’altro, che risolve o riduce la nostra vecchia e onorata povertà [...] Qui, la poca terra, rimanga nel pieno diritto di chi la possiede, questi sia incoraggiato a farla rispondere a fini sociali» (IB.). 129 IL GAZZETTINO DAUNO Indipendente d’informazioni Direttore: Maurizio Mazza Inizio e luogo di pubblicazione: 14 novembre 1949, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annate 1949-1950. (complete) NOTE: Sul 2° numero il sottotitolo è “Indipendente d’informazioni del Lunedì”, dal terzo numero scompare la specifica del giorno d’uscita. Come cornice della testata figurano due scritte, una a destra: «Che il mare tenga in basso la perla e in alto l’alga, è colpa del mare: la perla resta perla e l’alga, alga», mentre a sinistra l’altra “manchette” dice: «Cadendo goccia a goccia, l’acqua riempie a poco a poco una brocca; tale è la legge per tutte le scienze, e per la virtù, e per la ricchezza». L’esordio delle pubblicazioni è sottolineato da un articolo di Carlo Palmieri nel quale ci si impegna «avendo iniziato una partita [a] condurla nel migliore dei modi, anche con qualche energia, allo scopo di protrarne la durata». Nonchè da un altro articolo, non firmato, nel quale, constatato che «insoluti premono ancora sul quadrante della nostra storia tanti problemi sociali ed economici che assillano la nostra gente», “Il Gazzettino” dichiara che «a quest’opera di valorizzazione e riedificazione dedicherà la sua esistenza». Il giornale è nettamente schierato su posizioni anti-riforma. Le pagine de “Il Gazzettino” sono il podio da cui l’esponente monarchico Vittorio Colabella lancia ampie requisitorie contro la legge “stralcio”. È presente talora con una intervista tal’altra con uno scritto, ospite illustre agli appuntamenti anti-riforma, anche il parlamentare democristiano De Caro. IL FOGLIETTO - nuova serie Giornale della Daunia Direttore: Vincenzo Ciampi Inizio e luogo di pubblicazione: 5 ottobre 1950, Foggia Periodicità: settimanale Biblioteca prov.le di Foggia: Annata 1950 (completa) NOTE: “Il Foglietto” vanta un’antica e ricca tradizione. Esce la prima 130 volta, a Lucera, il 19 dicembre 1897: il suo fondatore è il lucerino Gaetano Pitta, nato il 18 marzo 1857 e morto a Roma il 21 gennaio 1950, definito «un autentico maestro di giornalismo e di vita» (cfr. “Il Foglietto” - nuova serie - N°1 del 5 ottobre 1950). Il giornale diretto dal prof. Pitta si ispira agli ideali del socialismo riformista. A distanza di anni lo stesso Pitta ci tiene a sottolineare in un lettera (cfr. “Rigenerazione Italica”, N°9 del 30 aprile 1948) che egli è un socialista “non nenniano” più vicino agli insegnamenti di Turati e di Giacomo Matteotti. Gaetano Pitta dirige il giornale fino al 1913. Ne lascia la direzione in seguito all’esito delle elezioni che lo vedono perdente, come candidato socialista, nello scontro con Antonio Salandra, candidato conservatore nel collegio di Lucera. Rimasta vacante, la poltrona della direzione del periodico viene di lì a poco, nel gennaio 1914, occupata dall’avv. Massimo Frattarolo che la detiene per l’intero anno. Dal 1915 al 1917 la direzione del giornale passa nella mani del dr. Ciro Angelillis, medico e studioso di storia, assistito da un comitato di redazione formato dagli avvocati Gabriele Canelli, Vincenzo Ciampi, Michele De Meo, e Alfonso de Peppo. L’orientamento politico del giornale, in questo periodo, viene modificato in senso liberale. Tale indirizzo politico viene conservato anche con Vincenzo Ciampi che assume la direzione de “Il Foglietto” nel gennaio 1918. Negli anni del 1° dopoguerra il giornale, da posizioni vicine all’on. Salandra, passa gradualmente al fascismo. Nel 1926 si trasferisce da Lucera a Foggia e, a seguito del fallimento di un progetto che doveva trasformarlo in quotidiano, unito al periodico “Il Popolo nuovo”, cessa le pubblicazioni col numero del 22 dicembre 1932. Il 5 ottobre 1950 il giornale riprende le pubblicazioni con questo programma: «valorizzazione delle energie della nostra terra in funzione degli ideali e degli interessi supremi della Patria». Ne è direttore, ancora una volta, Vincenzo Ciampi. L’indirizzo politico seguito dal periodico è quello liberale. IL MEZZOGIORNO D’ITALIA Bisettimanale indipendente Direttore: Renato Vernola Inizio e luogo di pubblicazione: 11 maggio 1950, Foggia 131 Periodicità: bisettimanale, il lunedì e il giovedì Biblioteca prov.le di Foggia: Annata 1950 (dal N°1 al N°28 del 25 settembre 1950) NOTE: Toni enfatici annunciano la nascita del giornale: «Mezzogiorno d’Italia, terra nostra, passione nostra, destiniamo a te questo foglio con dedizione filiale [...] nell’iniziare la nostra fatica noi ci proponiamo di contribuire alla conoscenza ed alla soluzione di problemi che ti interessano, e che interessano noi come uomini, come padri, come meridionali, come italiani, [...]. Il nome dato a questo foglio è insieme una bandiera, una fede, un simbolo». Ampio spazio è riservato alle attività del parlamentare DC che domina la scena politica locale: Raffaele Pio Petrilli. Il giornale simpatizza per la Democrazia Cristiana alla quale assegna una funzione centrale. Questo è dato leggere nell’editoriale dell’11 settembre 1950: «La DC [...] rappresenta pur sempre nella vita nazionale e provinciale, una corrente politica di notevolissima importanza, intorno alla quale gira tutto il nostro mondo politico e la stessa vita nazionale». Però in pari tempo si dichiara in disaccordo con la linea riformatrice perseguita dalla DC in quanto «[...] nella fretta di varare queste leggi [che] potranno mutare la struttura degli attuali ordinamenti economici e giuridici, si è incorsi in errori madornali che se non verranno eliminati […] potranno mostrarsi contro producenti». Ne deriva, quindi, un atteggiamento di non benevolenza nei confronti della legge “stralcio” di riforma agraria. 132 Ancora sulle “Stele daunie” di Laura Leone La lettura interpretativa qui avanzata riguarda, essenzialmente, le statuestele femminili del gruppo daunio, contraddistinte da particolari raffigurazioni, che si ipotizza debbano identificarsi nel papaver somniferum, cioè la pianta dell’oppio. Nella storia religiosa e medica del bacino mediterraneo, il potente anestetico naturale ebbe un ruolo di non trascurabile rilievo nei campi della taumaturgia e della mantica; e, sicuramente importante, se considerato nello stretto rapporto uomo-natura. La storia della medicina conosce, molto più dell’archeologo, l’importanza e l’utilità delle droghe nell’antichità e quanto ci si affidasse alla magia delle piante. Compito dell’archeologo è, anche, di scoprirne le tracce e ricostruirne la storia. Di qui la necessità, ne caso specifico, di andare oltre la Daunia e, con l’ausilio di conoscenze ormai acquisite, poter rilevare che le grandi e piccole civiltà del passato non solo conoscevano molto bene le droghe, ma le consideravano sacre e spesso le avvicinavano a figure divine: medici, chimici, botanici e antropologi hanno profuso un impegno notevole nel ricostruire storia e funzioni degli allucinogeni presso le antiche società, anche se i risultati di tali ricerche restano, ai più, ignorati. Gli indizi appresso considerati si sono rivelati essenziali per reinterpetrare una parte del logos più intimo dei numerosi monumenti dauni colorati. Con l’acquisizione di questi dati, su sculture tra le più misteriose ed interessanti dell’archeologia italica, si scopre il profilo umano dei loro autori, con tutto il carico di speranze e paure del loro tempo. Questi monumenti, le “stele”, racchiudono il resoconto di vite vissute attraverso storie e racconti mitici. Dietro determinati elementi simbolici si intuiscono messaggi straordinari di gente che soffriva, si curava e sperava, credeva. I simulacri, ora, appaiono muti, nella loro moderna dimora: il 141 castello federiciano di Manfredonia. Dopo secoli di fulgore e dispersione sono bloccati in sostegni metallici, strappati dal contesto originario e ancorché non privi del fascino conferito dalla patina della veneranda età di circa 2700 anni; mentre un tempo parlavano a chi era ben in grado di cogliere il messaggio celato nelle complesse figurazioni. Le stele, cronologicamente inquadrabili tra la seconda metà dell’VIII e gli inizi del VI sec. a.C., ci sono diventate note solo negli ultimi trent’anni, grazie agli studi e alle pubblicazioni di Silvio Ferri e di Maria Luisa Nava. Dopo secoli di sconosciute visissitudini, c’è stata un’intensa opera di recupero e restauro di una parte di esse, circa 1500 pezzi. Alcune vengono ancora alla luce, molte altre sono andate e vanno perdute. I dati in nostro possesso documentano, in tutta la loro entità, una produzione d’arte, con la quale i Dauni, nel corso di alcuni secoli, hanno espresso la propria concettualità esoterica: mito dopo mito, episodio dopo episodio, stele dopo stele, fino a quando qualche evento imprevisto non ne sconvolse il delicato microcosmo religioso. Eccezionali manifestazioni d’arte, oltre che fascinose e singolari espressioni narrative, le sculture, in origine, sorgevano in luoghi sacri ad esse dedicati, nella pianura compresa tra le antiche Siponto e Salapia, ai piedi del Gargano (fig. 2). Molto sporadiche sono le presenze fuori di questo ristretto confine geografico. Oggi, il patrimonio culturale registrato su questi documenti non deteriorabili, può rappresentare un suggestivo strumento per evocare tradizioni e consuetudini dell’antico popolo che le ha prodotte, e con esse, una parte della storia della Capitanata, finora nascosta dall’oscurità di un profondo passato. Statue-menhir e statue-stele Il fenomeno delle statue-stele daunie, e delle stele antropomorfe in genere, va inquadrato nel mondo che generò la prima statuaria monumentale antropomorfa, appunto le statue-menhir e le statue-stele, convenzionalmente chiamate stele. Le prime sono massi dall’aspetto antropomorfo, con parziali modificazioni; le seconde sono lastre intenzionalmente modellate. Il culto delle pietre antropomorfe si diffuse tra fine Neolitico ed età dei Metalli. Da allora l’uomo ha cominciato a conferire aspetto umano alla realtà del cosmo e ad entità soprannaturali, trasfigurandole su pietre monumentali. La loro iconografia rispecchia, nel tempo, una 142 nuova concezione dell’essere umano e dell’universo preistorico. I mutamenti sociali e tecnologici, che caratterizzarono l’ultimo periodo del neolitico, incisero sulle convinzioni religiose ed escatologiche di quei popoli. Così, mentre nel Paleolitico Superiore e nel Neolitico si esaltava, quasi esclusivamente, la figura della donna, interpretabile come dea madre, con l’affacciarsi dell’era dei metalli le si affianca la figura dell’uomo, magnificato e valorizzato nei suoi attributi e competenze; mentre più rare sono le figure asessuate o ermafrodite. Attraverso una lunga fase, questo fenomeno religioso si canonizza, in una sua forma complessa e particolare, proprio in Europa: sulle Alpi in Valcamonica. Le statue-menhir di questa regione sono istoriate da segni identificabili in oggetti reali e astratti: animali, armi, monili, che, insieme, compongono la metaforica sintassi dell’uomo-cosmo di allora. Le diverse zone del corpo stanno a significare la compresenza di tre mondi e sfere d’influenza: in alto, sulla testa, vi sono i dischi astrali, che rappresentano il cielo, la luce, l’energia; al centro, il busto, con le armi ed i segni del potere terreno, rappresenta il mondo e la sua vita; in basso, il sesso e le gambe sono raffigurati da linee che demarcano la sfera degli inferi, dell’arcano e del ciclo rigenerativo1. Geograficamente, i luoghi sacri si situano, presso vallate o sorgenti fluviali, zone di transito migratorio, boschi e tombe importanti. La nascita delle statue-stele e statue-menhir coincide anche con il tramonto di vecchie strutture sociali e con l’affermarsi di una potente classe aristocratica, che dovette trovare una sua identificazione in queste nuove entità. Infatti, la realizzazione di imponenti strutture megalitiche implicava l’esistenza di una stratificazione sociale, in cui i più, asserviti dalla classe dominante, prestavano forza lavoro. Anche le stele dei Dauni dovettero rappresentare metafore di guerrieri valorosi e potenti, sacerdotesse, amministratori del mondo spirituale, venatorio e marziale, come fedelmente riportato nelle istoriazioni. Il fenomeno delle grandi pietre antropomorfe si manifestò a più ondate: la prima nell’Eneolitico o Calcolitico, caratterizzata da una maggiore presenza di statue-menhir; la seconda nell’età del Ferro, con una prevalenza di stele. Tra le due ondate, per circa tutta l’età del _______________ 1 - E. ANATI, Origine e significato storico-religioso delle statue-stele, in BOLLETTINO C AMUNO ST. PREIST., Capo di Ponte, 1977, 16, pp. 45-56; ID., I Camuni alle origini della civiltà europea, Milano, 1982. 143 Bronzo, il loro culto subì forme di attenuazione e pause di interruzione. L’iconoclastia di questa fase ha spesso causato la rottura e la relativa dispersione, dei monumenti: questo iato, può essere interpretato come fase di passaggio, in cui le stele non scompaiono del tutto, ma offrono, certamente, testimonianze meno numerose e significative. Le stele dei Dauni appartengono alla seconda ondata e si potrebbe dire che rappresentino la più singolare manifestazione del fenomeno nell’Europa Occidentale. Sulle stesse si ritrovano tutte le caratteristiche del simbolismo antropomorfico, relative alle diverse parti del corpo, con, in più, una rinnovata vena narrativa. Nella provincia di Foggia ci sono anche stele della prima ondata: quelle di Sterparo (Castelluccio-Bovino), sorte tra 2500 e 2000 a.C., più un altro piccolo gruppo di monumenti, recuperati presso l’insediamento dell’età del Ferro di Monte Saraceno 2. Di recente si vanno identificando tracce di menhir, vagamente antropomorfi, nel Subappennino Daunio, che lasciano supporre l’esistenza di espressioni arcaiche, simili a quelle dei grandi complessi megalitici della Sardegna e Corsica3. Nel resto della Puglia ritroviamo tracce di stele nel Salento, presso il sito messapico di Cavallino, nella tomba eneolitica di Arnesano e presso il sito megalitico di Giurdignano (fig. 1). Si tratta di un piccolo insieme disomogeneo, di circa sei reperti molto interessanti4. Due stele di Cavallino presentano elementi morfologici ed istoriativi affini a quelli delle stele daunie; esse costituiscono il solo punto di riferimento fuori la Daunia per eventuali legami ideali ed artistici tra le etnie japigie5. La statua fallica di Arnesano, che, tipologicamente, può rien_______________ 2 - M. O. ACANFORA, Le stele antropomorfe di. Castelluccio dei Sauri, in Riv. Sc. PREIST., Firenze, 1960, XV, pp. 95-123. M. L. NAVA, Nuove stele antropomorfe da Castelluccio dei Sauri, in ANNALI M US. CIV., La Spezia, 1979/80, pp. 115-132. A. M. TUNZI SISTO, Il complesso delle stele antropomorfe di Bovino, in Atti del C ONV. PREIST. PROTOST. ST. DAUNIA, 10.; 1988; San Severo. San Severo, 1989, pp. 101-123. 3 - A. M. TUNZI SISTO, La statua-menhir di Serbaroli, S. Agata (Foggia), in TARAS, Taranto, XI, 22, p. 3-4. 4 - F. G. L O PORTO, La tomba neolitica con idolo in pietra di Arnesano, in Riv. Sc. PREIST., Firenze, 1969, XXVII, pp. 357-372. O. PANCRAZZI, Cavallino, scavi e ricerche 1964-67, Galatina, 1979. 5 - F. D’ANDRIA, Nuovi dati sulle relazioni tra Daunia e Messapia, in Atti del C ONV. PREIST. PROTOST. E ST. DELLA DAUNIA, 3.; 1981; San Severo. San Severo 1984, pp. 232-236. 144 trare tra gli idoletti, anche detti “tappo”, di Sardegna e dei monti Lessini, fa parte, comunque, del mondo magico-religioso delle pietre antropomorfe, nel quale si colloca come variante strutturale. La stele recentemente individuata a Giurdignano dalla scrivente, e ancora in corso di studio, è connessa ad un ampio contesto megalitico, con dolmen e menhir, inquadrabile nell’Età del Bronzo. L’insieme di queste espressioni antropomorfe, fanno della Puglia un’area molto significativa, anche se geograficamente lontana dalle aree più famose dell’arco alpino (Trentino, Valcamonica, Valtellina, Aosta e Sion), Liguria e Sardegna; e, con le sue testimonianze delle due ondate migratrici nel corso dell’Eneolotico e dell’età del Ferro, costituisce la propaggine più meridionale e orientale di queste espressioni in Italia. Morfologia, decorazioni e trasformazioni stilistiche Le statue-stele daunie sono lastre, ricavate da un calcare garganico, con l’aspetto di una figura slanciata, dalle spalle diritte o appena accennate o anche molto rialzate. Hanno un collo sul quale, in origine, s’innestava, direttamente o tramite un perno, una testa che poteva essere arricchita con occhi, naso e bocca, a seconda della tipologia del monumento. Le loro dimensioni, rilevate su un campione di esemplari pressoché integri, oscillano tra cm. 31,5 e 125,7 in altezza, cm. 23,7 e 52,8 in larghezza, cm. 4,5 e 11 in spessore. I soli elementi anatomici riportati sulla superficie sono braccia e mani. Il corpo è ricoperto da un costume, che riproduce l’armatura, per le stele maschili, ed una specie di tunica cerimoniale per le stele femminili. E anche ricoperto da mobili, armi e grafemi sferoidali, importanti attributi simbolici da ricondurre allo status dell’entità raffigurata. Negli spazi liberi tra questi oggetti s’inseriscono scenette, popolate da personaggi e animali, eseguite ad incisione e spesso ricoperte da colore (rossoviolaceo-rosa e nero-marrone), che, in origine, ebbero la funzione di riprodurre pittoricamente anche alcuni degli oggetti oggi scomparsi. La sintassi decorativa è costante, ma i motivi geometrici che la compongono variano e segnano le tappe di un’evoluzione 145 stilistica6, di cui si descrivono, sinteticamente, solo le quattro fasi principali. - Nella prima i monumenti sono generalmente di dimensioni grandi, anche se non mancano quelli più piccoli, ed hanno esclusivamente decorazioni a motivi circolari. Le scene sono molto frequenti e sulle stele femminili gli attributi principali, costituiti da pendenti sferici, sono grandi e numerosi. Le spalle sono diritte. La resa grafica, come in un fresco bozzettismo, è veloce e sommaria. - Nella seconda fase si riscontrano tracce di trasformazioni decorative, con graduale introduzione di motivi quadrangolari, nei quali s’inseriscono quelli circolari. Lo stile dei monumenti si perfeziona, la forma si slancia e le spalle tendono a rialzarsi. Le scene ed i pendenti sferici sono ancora dominanti. Nella terza molte cose cambiano: la morfologia antropomorfa del monumento, generalmente di grandi dimensioni, è imperiosa, slanciata, con spalle più alte rispetto a prima. Le scene appaiono sintetizzate in quadretti distinti. I pendenti sferici sono molto più ridotti di numero e dimensioni. Le stele maschili cominciano a rarefarsi notevolmente. Al ridursi dei brani narrativi fa riscontro la l’adozione di un repertorio, per così dire, “classico”. - Nell’ultima fase i monumenti maschili sono scomparsi del tutto e le stele femminili sono ormai prive di braccia. Sono assenti scene o singole figure. Compaiono, isolatamente, sporadiche fibule e pendenti sferici piccolissimi. La decorazione è precisa e meandriforme, le spalle sono nuovamente diritte, come nella prima fase. Questi quattro momenti, fra i quali esistono delle varianti, potrebbero rispecchiare sia le peculiarità stilistiche dei diversi ateliérs, sia l’evolversi del gusto artistico dei committenti. Il mutamento stilistico e contenutistico nelle stele daunie non è un fatto riferibile a questa sola area, ma investe l’intero fenomeno in tutta la sua estensione geografica. Alla base di questa trasformazione sta l’emergere di nuovi atteggiamenti culturali e religiosi. Si possono seguire le tappe di questa evoluzione; nelle stele ricche di narrazioni, infatti, pur se i particolari delle figure sono meno curati e l’anatomia è molto sommaria, vi è una veloce ma intensa pennellata descrittiva. Al contrario, nelle stele della terza fase, il contenuto delle _______________ 6 - M. L. N AVA, Stele Daunie, Firenze, 1980, voll. 2. 146 scenette appare come congelato, ridotto a condensati quadretti descrittivi (pinakes), in cui le figure e gli animali si riducono di numero; malgrado questo, l’anatomia dei corpi e la cura dei particolari è veramente notevole, al punto da rappresentare l’acine del realismo nella storia dell’arte daunia. La narrazione si contrae in un sintetismo altamente simbolico, in cui i messaggi sono come bloccati, reiterati sulla scia di una tradizione ancora esistente ma che si appresta al tramonto. Paradossalmente, in questa fase la produzione stelare è al culmine dell’ispirazione artistica, perché si esprime tanto nella perfezionata e raffinata geometria delle linee quanto nell’ornato ossessivo e complicato. Le ultime stele, quelle senza alcuna istoriazione, appaiono come il ricordo di ciò che significarono in altri tempi: persistenze, ormai, di un culto in netto declino. Mondo narrativo e identificazione del papavero Le scene sono come incastonate nel busto, sulle spalle, sotto la cintura, intorno agli oggetti che identificano lo status sociale della persona rappresentata, ma, al tempo stesso, trascendono una caratterizzazione meramente biografica. È un mondo che si esprime in storie di vita e di sacrificio, di quotidianità, di credenze magiche ed ultraterrene, attraverso le quali si possono ricostruire i vari aspetti della vita, delle abitudini e della tecnologia del tempo: imbarcazioni, corazze, elmi, scudi e spade, bardature di cavalli, vesti, capigliature, mobili, strumenti musicali ed altro ancora. Sono, inoltre, rappresentati vari momenti sociali, come processioni, liturgie e cerimonie iniziatiche, offerte e scambi di doni; incontri tra araldi; scontri in battaglia; navigazione; caccia con la fionda, con le bolas, con il boomerang e con l’ausilio del falco e del cane. Il contesto ambientale è ricco di animali selvatici oppure domestici o di fantasia: pesci, uccelli d’acqua e di terra, foche, cinghiali, cervi, lepri, canidi, cavalli, cioè il reale scenario che doveva caratterizzare la laguna tra Siponto e Salapia. Silvio Ferri si occupò a lungo della loro esegesi narrativa, inquadrandola - in definitiva - nell’ottica funeraria ed epica della storia classica. Sono note le sue interpretazioni del “riscatto del corpo di 147 Ettore” e la lettura dell’èpos omerico, reinterpretato in chiave autoctona daunia7. L’interpretazione di questi monumenti richiede, verosimilmente, uno studio interdisciplinare e la necessità di avvalersi anche dell’antropologia sociale, della storia delle religioni e dell’analisi formale di particolari tecniche per poter leggere, forse più approfonditamente, sulle due superfici principali delle stele, i fogli di un racconto costruito mediante disegni connessi tra loro in una sorta di scrittura ideogrammatica. Le stele maschili armate appaiono generalmente istoriate da scene di caccia e scontri marziali; quelle femminili hanno una varietà narrativa molto più estesa, in cui predomina la presenza di donne pettinate con una lunga coda chiusa da una specie di pon pon. Sembrano adepte di una casta sacerdotale, che usava quella acconciatura come segno di riconoscimento sociale: sono ritratte in processione, accompagnate da un citaredo, mentre trasportano vasi o mentre colloquiano con altri personaggi di rango superiore e svolgono azioni varie (figg. 6-16). Le stele maschili, in particolare, riproducono, nell’enfasi antropomorfa del guerriero, un’entità marziale connessa al mondo venatorio e, quindi, alla celebrazione della forza virile. Invece le stele femminili riflettono un’entità legata alle sfere del naturale e del soprannaturale, garante del benessere fisico (ma non solo), dotata di poteri magici, in qualche modo connessi col papavero da oppio. La pianta viene resa attraverso la geometra dei pendenti circolari e sferici appesi alle cintole. Questi strani oggetti, che dominano la metà inferiore del monumento, per Silvio Ferri costituiscono dei cerchi metallici di risonanza, cimbali (kymbala) con funzione apotropaica, se hanno forma di cerchi concentrici, e melagrane, se più realistici (figg. 9-12)8. Entrambi gli oggetti compaiono sulle stele femminili come ipotetici amuleti; assumono forme diverse, ma sembrano riprodurre sempre l’ideogramma _______________ 7 - EAD, op. cit., ma, soprattutto, Le STELE della Daunia. Dalla scoperta di Silvio Ferri agli studi più recenti, a cura di Maria Luisa Nava, Milano, 1988, dove sono riportati, quasi tutti, gli interventi del grande archeologo lucchese; S. FERRI, Stele Daunie: veste classica e contenuto protostorico, in BOLL. C AMUNO ST. PREIST., Capo di Ponte, 1971, VII, pagg. 41-54. 8 - Cfr. Le STELE... cit., passim. 148 del papavero. Infatti essi sono strettamente associati e sono caratterizzati da particolari grafici che ne rivelano la comune origine vegetale (figg. 8-9-10). Ed esistono alcuni elementi significativi per risalire all’origine vegetale dei pendenti sferici: alcuni di essi mostrano le stesse foglie delle acconciature femminili, nelle quali i capelli erano avvolti allo stelo ligneo del papavero, la cui capsula è ravvisabile nelle terminazioni a pon pon. Tuttavia la presenza delle foglie è molto rara e questo si spiega con la ragione che esse, soggette a rapido essiccamento, non rivestono alcun valore, mentre la parte preziosa della pianta risiede proprio nella capsula, dalla quale si estrae il bianco lattice dell’oppio. Nei pendenti sferici, che costituiscono il principale attributo delle stele femminili, lo stelo ed il cerchio rappresentano la base del grafema papavero; gli altri elementi, come il peduncolo dei petali, la corolla e le foglie, vengono, di volta in volta, aggiunti al grafema base. In alcuni casi le due espressioni grafiche si trovano accostate, come se si trattasse di oggetti diversi (cimbali e melagrane per il Ferri), ma, in realtà, si è di fronte ad un solo -oggetto con più significati: la pianta e i suoi effetti. La grandezza, il numero e l’enfasi dei kymbala-papaveri variano parallelamente alla tipologia dei monumenti: dove vi sono molte scene, i papaveri sono grandi e numerosi, fino a nove unità; a mano a mano che lo stile si irrigidisce, diminuiscono di numero, dimensioni, varietà e significati. Generalmente si collocano nel registro inferiore: forse a significare che il sonno profetico e l’aldilà viaggiano su binari paralleli. I fiori sono appesi alla cintola per lo stelo, con la capsula in giù, forse per far cadere i semi nella terra, onde fecondarla: in probabile parallelismo con le fasi di caduta o ascesa di personaggi e oggetti collegati alla pratica sciamanica9: caduta o ascesa, quindi volo, sono le condizioni dell’estasi e dell’invasamento dello sciamano o, anche, del suo cliente. La posizione rovesciata, “in caduta”, dei papaveri delle nostre stele può avere una forte relazione con queste rappresentazioni. In tal _______________ 9- M . ELIADE, Miti, sogni e misteri, Milano, 1967; C . C ITRONI, Lo sciamanismo ed alcune rappresentazioni in caduta dell’arte rupestre in Valcamonica, in VALCAMONICA Symposium, Capo di Ponte, 1991. 149 caso ci troveremmo difronte ad una sorprendente affinità di compor-tamenti rituali, riscontrabili in diversi orizzonti geografici e culturali. L’interpretazione dei pendenti sferici, porta a riconsiderare l’importanza dell’oppio nel passato, quando fitoterapia e magia erano i soli mezzi a disposizione per intervenire su malesseri e alterazioni psicologiche dell’uomo. Il papaver somniferum è una pianta anestetizzante dotata di grandi proprietà ottundenti e analgesiche; è anche noto come papavero nero, indiano o gigante, risultato di una selezione attraverso la quale si è ottenuta una specie migliorata e “maggiorata”, con capsule dalle dimensioni di una piccola arancia, mentre il fusto ha foglie lunghe e raggiunge l’altezza di un metro e mezzo. Il lattice bianco, che si estrae dalle capsule ancora verdi, è ricco di alcaloidi, quali morfina, narcotina, codeina, eroina ecc. Ognuna di queste sostanze genera uno stato di semi insensibilità al dolore ed alla paura, a seconda delle dosi. Medici, guerrieri e sciamani furono conoscitori dell’oppio e dei suoi derivati. Certamente sciamani e sacerdoti, come terapeuti ed indovini, ebbero il monopolio di queste sostanze, in alcuni casi elargite per affrontare i pericoli e le ferite della caccia e della guerra. La dipendenza che ne poteva derivare dovette essere sapientemente gestita, o anche sfruttata, da esperti sacerdoti. La qualità e la bellezza del papavero sonnifero hanno influenzato l’iconografia di oggetti sacri e profani: scettri, gioielli, elementi architettonici ed attributi di divinità. Le tracce più remote risalgono al Paleolitico Superiore di Cro-Magnon (Svizzeza), dove capsule fossilizzate sono state recuperate nelle sepolture. Da Tell Abu Zureiq (Israele) e da altre località costiere del levante mediterraneo, provengono vasetti ciprioti a forma di capsule di papavero, detti Bilbil, risalenti all’età del Bronzo recente, 1500-1200 a.C.10. Da Ghazi, a Creta, proviene una statuetta con diadema sormontato da tre capsule di papavero, risalente al 1400-1200 a.C.. E, ancora, in ambiente greco, troviamo il “papaver somniférum” come uno degli attributi di Demetra (rilievi di un’ara a Villa Albani), poi trasmesso a Dionisos, divinità _______________ 10 - E. ANATI, Exavation at the cementery of Tell Abu Awam (1952), in ANTIQUOT JOURNAL OF THE ISRAEL DEPT. OF ANTIQ., Gerusalem, 1959, voll. II; P. M ELLER PADOVANI, Una statuetta cipriota a Tell Abu Zureiq, Israele, in BOLL. C AMUNO ST. PREIST., Capo di Ponte, 1982, vol. 19, pp. 49-62. 150 dell’estasi mistica e in qualche caso dio guaritore e indovino, (su un vaso apulo al Museo Nazionale di Taranto)11. Scettri-bastoni in rame a forma di papavero, sono stati trovati all’interno della grotta del tesoro a Nahal Mishmar, nel deserto di Giudea, e risalgono al periodo Calcolitico 12; mentre dalla Cecoslovacchia, dalla Svizzera e dalla Francia provengono spilloni in bronzo con la stessa forma (figg. 14-15)13. Stele e ceramica geometrica: gli “sphageion” L’identificazione del “papapaver somniferum” sulle stele aiuta a riconoscere alcuni grafemi di queste, che hanno, talvolta, ispirato la ceramografia e la tettonica vascolare. Un grafema riconoscibile come papavero gigante è riprodotto nella scena dipinta su un frammento dell’orlo di un’olla, recuperata in superficie a Salapia (fig. 13-A). I due mondi, quello dell’entità superiore femminile e quello dell’entità superiore maschile, convergono nell’unico quadretto sintetico e descrittivo di cui, finora, si disponga. Nell’ístoriazíone c’è una elegante figura di donna con un lungo abito, come in una stele femminile, di fronte ad un guerriero armato di spada; alle spalle di quest’ultimo due cavalieri armati di lancia, proprio come sulle stele maschili; e dietro la donna c’è il papavero. E interessante notare che, in questo caso, la pianta, a sinistra della donna, appare antropornorfizzata, esattamente come lo è la figura femminile dipinta su un altro frammento ceramico, trovato in un’ipogeo di Herdonia (fig. 13-B)14. Su di esso sono rappresentati gli stessi personaggi del frammento di Salapia, ritratti in uno schema ripetitivo di simbolica ierogamia e di donazione della pianta da parte della donna al guerriero con le lance. Ma la cosa più sorpredente è che questa figura 1990. 11 - M . SEEFELDER, Oppio. Storia sociale di una droga dagli egizi a oggi, Milano, 12 - P. BAR ADON, The cave of the treasure. The finds from the caves, in N AHAL M ISHMAR, Gerusalem, 1980. 13 - J. D ECHELETFE, Manuel d’archèoIogíe preffistorique celtique et gallo-romaine, vol. II, Paris, 1924. V. FURMANEK, Rdzovce, osada l’udu popolnicovych poli, Bratislava, 1990. M . GIMBUTAS, Bronze age cultures in central and eastern Europe, Paris, 1965. 14 - R. IKER, Les tombes du VI et da debut da III siècle a.C., in ORDONA VII/2, Roma, 1986, pag. 700 e segg. 151 di sacerdotessa o di dea, bella nelle fattezze fisiche ma mostruosa nella forma della testa, ha il corpo ricoperto di foglie e il capo sovrastato da un vaso o da un’enorme capsula di papavero: donna e pianta si fondono in una allegorica complicità di poteri. Non è infrequente, nell’arte tribale e preistorica, trovare personaggi invasati ed inebriati da droghe, con il capo mostruoso e trasformato nell’oggetto che ha provocato lo stato allucinatorio: le figure di danzatori volanti, con la testafungo, dipinti su una pittura rupestre nel Tassili, in Algeria, sono uno tra i molti esempi (fig. 18-E)15. Si tratta, a ben considerare, di episodi di normale sintassi pittogrammatica, tipica dei popoli, come i Dauni, che non conoscevano ancora la scrittura alfabetica16. La decorazione e le forme vascolari della ceramica indigena, traggono ispirazione, naturalmente, dal mondo circostante e trasmettono messaggi sociali e religiosi. Alle forme base, puramente funzionali, si affiancano quelle di uccelli, bovidi, oggetti rituali, e gli stessi motivi decorativi spesso sono interpretazioni geometriche dell’acqua, del sole, di figure antropomorfe o zoomorfe, di semi vegetali, di piante. Dietro l’aspetto puramente estetico del manufatto si nasconde, tuttavia, un preciso valore simbolico: è il caso degli originali e bellissimi “sphageion” dauni, la cui forma globosa, con labbro esageratamente espanso, trova analogia nella capsula, e relativa coroncina, del papavero (fig; 12). Questo vaso, raffigurato sulla testa delle adepte nelle scene di processioni riprodotte nelle stele, riproduceva, e forse conteneva, il cuore di quella pianta magica. Di conseguenza le quattro anse, due a forma di mani e due a forma di uccelli, potrebbero nascondere un qualche significato particolare: le mani potrebbero rappresentare un segno ieratico e gli uccelli gli spiriti protettori. Anche a Creta è possibile riscontrare un legame tra papaveri e uccelli, nelle statuette di Gliazi e di Karphi rappresentate con il diadema sormontato da uccelli. Si è già fatto cenno ai vasetti ciprioti Bilbil, i quali potrebbero testimoniare un commercio di derivati dall’oppio già nell’età del Bron_______________ 15 - G . SAMORINI, Sciamanismo, funghi psicotropi e stati alterati dì coscienza: un rapporto da chiarire, in BOLL. C AMUNO ST. PREIST., Capo di Ponte, 1990, vol. 25-26, pp. 147-150. 16 - E. ANATI, Origini dell’arte e della concettualità. Milano, 1989. 152 zo, sulle coste del Vicino Oriente. Talvolta essi sono stati trovati all’interno di sepolture insieme ad una statuetta femminile detta “a testa d’uccello”: ulteriore esempio della compresenza dell’elemento della droga con quello del volo. Nell’America precolombiana, dove l’uso di droghe è una realtà archeologica e antropologica molto più recente che non nelle antiche popolazioni mediterranee, sono state trovate riproduzioni artistiche del cactus allucinogeno sormontato da un volatile. Si può, quindi, concludere che l’uomo, dal continente americano al Tassili algerino, da Creta alla Daunia, ha sempre associato, visivamente e concettualmente, lo stato allucinatorio al volo. Ma per i Dauni gli uccelli furono qualcosa di più che una simbologia psicotonica: le facce ornitomorfe dei personaggi riprodotti sulle stele e sulle protomi vascolari, inducono a pensare che gli uccelli fossero gli anirnali totemici delle tribù daunie. Essi personificavano il mondo nel quale vivevano e dal quale traevano ricchezza economica: l’habitat lagunare, popolato da milioni di volatili di specie diverse, e da rispettare e rappresentare. Una nuova ipotesi interpretativa Probabilmente non sapremo mai, con assoluta certezza, perché i Dauni creassero quel particolarissimo tipo di manufatti; chi, veramente, intendessero rappresentare nelle due tipologie, diverse per struttura narrativa e caratterizzazione sociale, e perché le innalzassero in un territorio vicino alle lagune; forse le dedicavano a due entità soprannaturali: i reggenti del loro pantheon, oppure celebravano una coppia di personalità realmente esistenti. In ogni caso, se l’ipotesi sopra avanzata dovesse rivelarsi esatta, si aprirebbe la via ad una diversa esegesi, che potrebbe consentire di giungere a comprendere la più probabile delle loro funzioni e, quindi, alla possibile interpretazione delle figure rappresentate. L’analisi degli attributi figuratori delle stele, la tematica di alcune scene essenziali, la stima numerica dei monumenti raccolti e la loro caratteristica distribuzione geografica, concorrono a ipotizzare teorie divergenti da quella della funzione funeraria. Monumenti così ugualmente e continuamente riprodotti con le fattezze fisiche di due prototipi fissi, senza differenziazioni cronologiche o sociali, se non quella aristocratica, non sembrano riproporre né l’aspetto né la situazione 153 commemorativa di un defunto. Oltretutto la grande maggioranza delle stele femminili non troverebbe giustificazioni, perché è impensabile che morissero più donne o sacerdotesse di maschi guerrieri o cacciatori. Sarebbe più logico il contrario. I dati archeologici hanno fornito rarissimi casi di ritrovamenti in tomba; la maggior parte sono, invece, il risultato di condizioni di riutilizzo a posteriori. Purtroppo le stele non sono state trovate in un contesto stratigrafico e la episodica vicinanza a sepolture è dovuta al sovvertimento archeologico, che regna in questi territori, infelicemente devastati da lavori agricoli e tombaroli. A tutto ciò si deve aggiungere un dato significativo, e cioè che in nessuna necropoli daunia, lontana da Arpi, Siponto e Salapia, sono state trovate stele così numerose, mentre le loro sporadiche tracce, sparse tra Melfi, Bovino, Herdonia ecc., sono da attribuire ad una dispersione tardiva. Un esempio di tale reimpiego tombale vede riutilizzate, a Herdonia, due teste ed un fram-mento di stele femminile come materiale da costruzione nell’ipogeo N. 29, datato al primo terzo del VI sec. a.C.17. Questo è segno che, già tra il 600 e 570 a.C., l’atteggiamento dei Dauni nei confronti delle loro stele era cambiato a tal punto da averle sconsacrate, disperse e reimpiegate proprio come le troviamo noi oggi. Se le stele avessero, effettivamente, funzione di sèmata funerari per tombe di personaggi prestigiosi, ogni necropoli di città daunia, con una presenza sociale di rilievo, dovrebbe restituirci stele; queste, invece, provengono in numero cospicuo solo da una parte del territorio: quello costiero. Dalla loro alta concentrazione lungo il litorale, si deduce che furono oggetti di un culto religioso importante, professato presso santuari o altri specifici luoghi consacrati. Tali zone furono sede di un comportamento religioso ancora misterioso, ma certamente connesso anche alla laguna. Qui non mancarono materie prime come argilla, canneti, sale, e quando, durante l’età del Ferro, il clima più freddo fece innalzare il livello dell’acqua, rendendo navigabili i corsi idrici interni, la laguna fu eletta a luogo sacro18. Le immagini di pietra rivelano l’opulenza di questo habitat, ricco di volatili e di selvaggina, probabile residenza preferenziale dell’ari_______________ 17 - J. M ERTENS, Herdonea, scoperta di una città, Bari, 1995. 18 - M . C ALDARA - L . PENNETTA, Evoluzione ed estinzione dell’antico lago di Salpi in Puglia, in “BONIFICA”, Foggia, VIII, 1993, 3, pp. 91-112. 154 stocrazia sociale di allora e meta di pellegrini per la pratica di quel culto religioso, nel quale si riconobbero, etnicamente, almeno fino agli inizi del VI sec. a.C.. Se si esclude la funzione sepolcrale delle stele, si può ipotizzare, dato il loro elevato numero, che esse obbedissero ad un’esigenza religiosa pratica e funzionale. Pietre propiziatorie, forse, o ex voto per una guarigione, una buona caccia, un matrimonio, un sogno rivelatore da interpretare. La stele costituiva un fatto di fede da dedicare a chi elargiva favori, e, di conseguenza, andrebbe considerata un monumento alla vita, i cui diversi aspetti venivano “presentati” alla divinità. Le scene riprodotte sono lo specchio di una esistenza varia e intensa, in cui le attività dell’economia alimentare si alternano a quelle della difesa dai pericoli delle armi, all’esaltazione della forza virile nei duelli, ai cerimoniali di società, alle formule magiche e iniziatiche, all’evocazione dei miti. Il tutto coivolge più personaggi di uno stesso ambito sociale differenziato, mentre il tema del singolo individuo è assai sommesso, quasi invisibile, e traspare come un assecondamento ai temi celebrativi della casta politicamente dominante, insieme alla quale sembra che tutti dividessero il frutto delle principali attività economiche. I destinatari dei simulacri potevano essere gli aristocratici capi cacciatori e guerrieri, discendenti da una divinità o figura ancestrale, fondatrice della stirpe (magari il mitico Diomede) e le sacerdotesse, seguaci di una divinità femminile connessa a culti esoterici e del benessere fisico (forse assimilabile a Demetra). È il caso di ricordare che questa dea greca è spesso ritratta con spiga e papavero e che la donna delle scenette dipinte sui frammenti di Salapia ed Herdonia è significativamente impiantata nella terra. Le due categorie di stele daunie, rifletterebbero i principi di un’ideologia religiosa e sociale, affidata ad entità, di cui si esaltano le caratteristiche virili e femminili; nelle stele maschili si valorizzano, soprattutto, atti eroici; in quelle femminili possiamo, invece, rintracciare segni di un mondo sacerdotale, con poteri e conoscenza del soprannaturale, effigiato con la capsula del papavero, come la statuetta micenea di Ghazi. Le conoscenze sull’oppio donano carisma a chi è capace di alleviare atroci dolori e di far viaggiare in un mondo ultrareale, dove si incontrano spiriti mostruosi, rivelatori di cose arcane e sconosciute. Molte furono le profetesse, le maghe e le sacerdotesse in grado di farlo: ad alcune donne, nella Daunia antica, dovette toccare il compito della mantica e della taumaturgia. Infatti, in alcune scene si riconosco155 no interventi operatori, mentre il paziente è sotto l’effetto della droga, di cui quei bastoni-scettro, mossi nel rituale magico-terapeutico, ne costituiscono la metafora; in altre è invece rappresentata l’offerta di una bevanda ad un personaggio seduto e scosso, oppure soggetti in preda a stati allucinatori circondati da animali mostruosi (figg. 17-18-B-D). Così i Kymbala-papavero, insieme alla veste talare e ad altri elementi, rappresentano lo status symbol della casta dalla quale traggono origine i monumenti femminili, i quali, forse, ritraevano una divinità protettrice o la grande sacerdotessa del sistema ierocratico. L’uso dell’oppio in contesti sacri ha fini suggestionali ci riveda, però, anche risvolti sociali, politici ed economici. Nelle stele, infatti, si individuano scene con segni di stratificazione sociale e divisione dei compiti: si riconoscono gli alti sacerdoti, le portatrici di vasi, i suonatori di lira che dirigono le processioni, i guerrieri ed i cacciatori. Nessuna entità assume carattere dominante. Tuttavia la stele con lunga veste, riprodotta in un alto numero di monumenti, ha valore polisemantico e investe anche i temi maschili della caccia e della lotta armata. La “Signora” delle stele non ha solo un significato militare ma interferisce in una serie di compiti propriamente maschili: non si dimentichi che nei due frammenti vascolari di Salapia ed Herdonia, è lei che fa offerta di un vegetale al guerriero suo eletto sposo. Per lungo tempo i Dauni hanno conservato nella scultura e nella ceramica un’autonomia culturale che ha fortemente caratterizzato la genuinità etnica della loro arte. t importante valorizzare sfumature di questo individualismo, che non ha avuto i caratteri dì un limite o una chiusura, anzi, rivelandosi in tutto il suo potenziale creativo, ha restituito le manifestazioni vernacolari di un popolo importante fra le genti italiche. Immortalando sulla pietra una buona parte della loro filosofia, i Dauni hanno vissuto una tradizione intellettuale conservatasi intatta per qualche secolo. Ma cosa c’era prima? C’erano le stele di Monte Saraceno e prima ancora quelle di Sterparo. Anche se culturalmente e cronologicamente lontane, tutte le sculture antropomorfe del Foggiano ebbero in comune una matrice ideologica, la stessa che accomuna le statue-stele e le statue-menhir. I Dauni potrebbero aver acquisito comportamenti religiosi precedenti, riproposti con nuovi significati e con nuove liturgie. Così le stele 156 daunie avrebbero avuto origine da particolari condizioni culturali, nate dalla fusione di una consuetudine locale preesistente con l’instaurarsi di un nuovo comune sentire. t difficile spiegare l’improvvisa fioritura delle stele se non si consideano gli antefatti, anche perché i simulacri hanno una sintassi grafica ben canonizzata sin dalle prime fasi, per cui non è improbabile che il primo tentativo di linguaggio artistico e simbolico appartenesse a monumenti precedenti, ricavati da materiale deperibile. L’analisi stilistica ci rivela la possibile vicenda evolutiva delle stele: a partire da un certo momento, qualche avvenimento ha fatto perdere l’originaria importanza alla narrazione figurata e la statua è venuta, pertanto, ad assumere un aspetto più distaccato, rigido e maestoso. Scomparvero, così, le statue dei guerrieri e la Daunia sembrò cadere, per un certo periodo, in una sorta di “monoteismo”. Non molto tempo dopo le stele scompaiono e, con esse, i pilastri ideologici del mondo che le aveva ispirate. Quel che realmente è accaduto forse non lo sapremo mai, ma i rari ritrovamenti ceramici figurati dimostrano che qualche soggetto della scultura delle stele fu riportato su alcuni vasi, tra V e IV sec. a.C.. Ma già, dal VI secolo, stava iniziando una nuova storia. Riferimenti bibliografici ANATI E., The sates of the resarch in rock art. The Alpine menhir-statues and the indoeuropean problem, in BOLL. C AMUNO ST. PREIST., Capo di Ponte, 1990, pp. 13-44. ARIAS P. E., L’arte della Grecia, Torino, 1967. BRAY W. - TRUMP D., Dizionario di archeologia, Milano, 1973. BORDA M., Ceramiche Apule, Bergamo, 1966. BRACCESI L., Grecità adriatica. Un capitolo della colonizzazione greca in Occidente, Bologna, 1979. C IANFARANI V., Antiche civiltà d’Abruzzo, Roma, 1969. DELANO SMITH C., Daunia vetus. Terra, Vita e Mutamenti sulle coste del Tavoliere, Foggia, 1978. DE JULIIS E. 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L’articolazione fra archeologia e documento scritto può essere vista anche in termini di valutazione e strategia della campionatura, che, seppur debitorie dell’archeologia stratificata, rendono concreta quella che poteva rappresentare solo una ipotesi1. Un primo passo verso la soluzione del problema è il cosidetto rnetodo di scavo, al quale va il merito di contribuire alla ricostruzione della storia economica e sociale di un sito, ma la cui analisi, però, può anche limitarsi all’indagine delle stratificazioni conservate in alzato 2. Soprattutto negli edifici più antichi ed in alcuni di epoca seriore può esistere una continuità stratigrafica ed in alcuni di essi si può utilizzaere l’analisi delle tecniche costruttive. _______________ 1 - A. C ARANDINI, Archeologia e cultura materiale, Bari, 1979, passim; A. M ORENO, Dal documento al terreno. Storia e archeologia dei sistemi agro-silvopastorali, Bologna, 1990, passim. 2 - G . P. BROGIOLO, Archeologia dell’edilizia storica, Como, 1988. 171 La presente nota, di mero carattere estensivo, propone lo studio di una delle modalità in cui si è sviluppata l’edilizia storica, attribuendo, per quanto possibile, una precisa connotazione cronologica alle strutture. Il metodo di documentazione non è applicato in occasione di uno scavo, ma rivela una sua utilità in via preventiva, per un eventuale e completo restauro. 2. Il castello di Barletta, per la speciale ubicazione, vanta una colossale mole, dovuta alla ricostruzione di Carlo V, con un impianto quadrilatero e bastioni angolari, con i lati più lunghi che misurano m. 40 e quelli più brevi, perpendicolari alle cortine, di m. 14. L’inclinazione dei salienti è di 56°, lungo tutto il perimetro vi sono tre ordini di cannoniere, due a casamatta ed uno a cielo aperto 3. L’ingresso, che si apre sul lato sud, porta ad un androne ad L, che reca sul muro di fronte lo stemma di Carlo V e l’iscrizione: CAROLVS QUINT / VS IMPERATOR RO / MANORVM SEM / PER AVGVSTVS / MCCCCCXXXVII. Dall’androne si procede per la piazza d’armi di m. 35 di lato, dove sono visibili una scala, diretta al primo piano e, ad ovest, una rampa a gradoni per il trasporto del materiale bellico. Sempre nel settore est si conservano alcuni tratti di una fronte sveva, dove si aprono tre finestre ad arco acuto, due delle quali conservano nelle lunette scolpite le aquile federiciane. Partendo dal cortile, si può accedere ai vasti locali e ad una cappella, che fu parrocchia sino al 18224 . La tradizione vuole che il castello sia sorto in epoca normanna 5, ma il primo documento che ne attesti la presenza è del 12026 . Ampia_______________ 3 - Per la descrizione della fortezza, G . BACILE DI C ASTIGLIONE, Castelli pugliesi, Roma, 1927, p. 73 sgg.; R. D E VITA (ed.), Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, 19842 sub voce. 4 - Secondo Bacile di Castiglione (p. 83, nota 1) la cappella ebbe il suo ultimo restauro nel 1768. Essa conteneva molte iscrizioni sepolcrali, tra le quali quella del castellano Agnello De Mauro, morto nel 1760, di Giuseppe Mariconda, patrizio napoletano, morto nel 1736 e di Don Giovanni Castriota Scanderberg morto nel 1762. 5 - Così S. L OFFREDO, Storia della città di Barletta, Trani, 1893, pp. 82-88; G . BACILE DI C ASTIGLIONE, op. cit., p. 74; M . GRISOTTI, Barletta (BA). Castello, in RESTAURI IN PUGLIA 1971-1983, vol. II, Fasano, 1986, p. 98. 6 - E. STHAMER, Dokumente zur Geschichte der Kastellbauten. Kaiser Friedrich II. und Karl I von Anjou (Ergänzungband II, in Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien), band II, Apulien und Basilicata, Leipzig, 1926, n. 648. 172 mente documentato è, invece, l’intervento angioino, a partire dal 20 aprile 12697, così anche con gli Aragonesi nel 1458, 1465 e 14818. I primi anni del XVI secolo, che videro la spartizione del Regno di Napoli, segnarono la ricostruzione del castello. Durante il conflitto fra Luigi XII e Ferdinando il Cattolico, Consalvo da Cordova, comandante delle forze spagnole, scelse Barletta come quartier generale del suo esercito 9. Nel settembre 1502 la città venne cinta d’assedio dal Duca di Nemours per sette mesi, fino alla battaglia di Cerignola (1503), dove lo stesso vide la morte e la Francia subì completa disfatta. Fu dopo la Pace di Cambrai, nel 1529, che Carlo V si decise a costruire la nuova ed imponente fortezza. Si vedrà in seguito il problema del progetto, che, comunque, fu inviato da Don Ferrante de Alargon, castellano di Brindisi e soprintendente di tutte le fortificazioni pugliesi10. I lavori, iniziati il 30 gennaio 1532, furono assunti dal Maestro Giovanni Filippo Terracino della Cava, il quale eseguì alcuni lavori di demolizione, fra cui quelli “de abbatter la torre vecchia della prima porta del Castello verso Trani, et per abbatter lo torrione vecchio sopra la marina 11”. Il materiale costruttivo utilizzato proveniva dalle migliori cave della zona, probabilmente quelle fra Trani e Barletta quali l’Avvantag_______________ 7 - Nel 1269 si decide il restauro, ma solo nel 1273 si computa la stima dei lavori. Nel 1276 iniziano i lavori ma vengono sospesi. Nel giugno dello stesso anno appare per la prima volta il nome di Petrus de Angicuria a capo dei lavori che verranno completati per il mese di agosto. Nel giugno 1277 si rinforza il castello con mura esterne e lo si correda di cappella e postierla. Nel luglio 1278 crolla il muro verso il porto e si progetta la ricostruzione; nel 1280 si cerca di completare la torre rotonda e nel 1281 si prescrive la realizzazione di una cisterna. 1 lavori,vengono completati solo sotto Carlo 11, nel 1291. La cinta doveva misurare m. 55,9 a ovest, m. 8,4 a nord e la metà del fianco sud m. 34,3, con una forma pseudotrapezia e quattro torri (tre angolari ed una rotonda nell’angolo sudovest). M . G RISOTTI, op. cit., Bari, c.s. 8 - M . G RISOTTI, op. cit., p. 98. 9 - T. PEDIO, Napoli e Spagna nella prima metà del Cinquecento, Bari, 1971, p. 35; S. ZOTTA, Politica e amministrazione nel periodo spagnolo; in STORIA della Puglia, II: ÈTA moderna e contemporanea, Bari, 1970, pp. 5-26. 10 - M . G RISOTTI, Barletta. Il castello, Barletta, 1988. 11 - La notizia è-nell’ARCHIVIO DI STATO DI N APOLI, Sezione Finanze, inv. 3°, fascio 192; G . BACILE DI C ASTIGLIONE, op. cit., p. 79. 173 gio, del Puro e Tufare, testimoniato dall’utilizzo di martellina, martello, mazzetta, martello a penna, bocciarda, piano subbia e gradina. Non è possibile rintracciare l’uso di utensili più specializzati, ad eccezione che dettagli ornamentali e per l’importanza di particolari ambienti, che, nel nostro caso, hanno solo carattere militare. Tra il 1532 e il 1537 vi fu una prima fase dei lavori, mirati al rinforzo dello spigolo sud-est, esterno alla città, mentre dal 1552 al 1559 si desume una massa di opere imponente, che comprende il completamento del bastione sudest (detto della Nunziata) inclusa la merlatura, le cortine di raccordo est, nord ed ovest, i due bastioni di nord-est (di S. Antonio, poi S. Giacomo), di nordovest (di S. Vincenzo), completi di parapetto ma non delle merlature nell’ultimo ordine, il bastione di sud-ovest (di S. Maria), i sotterranei dei lati nord ed ovest, due grandi cisterne nel cortile e il nuovo ingresso posto sul lato sud. Seguirono i lavori datati 1559-1570, nei quali si eseguono pavimentazioni al primo piano del lato ovest e la grande scala del cortile; nel 1564 si lavora nell’ala nord. Nel 1581-1582 si costruisce il primo piano del lato sud e la gradonata est, e si prosegue la cortina interna ovest; nel 1585-1586 si completano la coperture dei bastioni di S. Antonio e di S. Vincenzo; nel 1595 si scava il fossato, che, nel 1597, raggiungerà la punta della Nunziata12. Nel 1622 Filippo IV fa realizzare il laboratorio degli artificieri, sul terrazzo ovest, con una fascia disposta lungo la facciata che reca la scritta: QUESTA OPERA SI t FATTA PER ORDINE DE SUA MAESTÀ A.D.M. 62213. Altri lavori furono eseguiti nel 1754, nel 1758 la cappella, per tutto il XIX secolo il castello perse importanza, fino a quando, nel 1876, il Comune di Barletta lo acquistò all’asta per 30.100 lire. Descritta sommariamenta la storia di questa grandiosa fortezza, l’attenzione va concentrata, dopo alcune esplorazioni, nel settore occidentale, dove i sotterranei non hanno subito ancora un intervento di restauro, se non il completo svuotamento degli ambienti. La mancanza _______________ 12 - La descrizione dei lavori sarà pubblicata da M . G RISOTTI, Il castello di Barletta, op. cit. Grisotti sostiene che l’andamento dei lavori, le cui fonti sono presso l’ARCHIVIO DI STATO DI N APOLI, Sezione Finanze, inv. 3°, fasci 192, 193 e 194, evidenzia alcune “incertezze” di carattere difensivo, riguardanti le linee di tiro delle cannoniere e l’assenza di un ingresso al bastione di S. Maria. 13 - L’iscrizione è ancora, in parte, visibile. 174 di deposito archeologico ha permesso di registrare solo eventuali fasi costruttive e le caratteristiche tecniche delle murature, utili alla comprensione di una strategia della campionatura nel centro urbano. È interessante notare che tale settore fu costruito in soli sette anni, un periodo che si trasforma quasi in cronologia assoluta. Pur rimanendo alla sola disposizione dei conci e alla segnalazione delle preesistenze, è obbligatorio un accenno al legante impiegato. I campioni, analizzati macroscopicamente, provengono dalla volta del vano 123, di colore giallo-beige con inclusi sabbiosi e particelle calcaree, grana fine e setacciata. L’intonaco, lisciato con un attrezzo piatto, ha grana bianca, finissima, con piccoli inclusi di carbone. Dal vano 122 proviene un altro campione, risultato dal riempimento di una volta a botte, costituito da malta, poco mescolata, di pietre calcaree, tufina e sabbia in piccole percentuali. Un ultimo esemplare, associato a tegole con ingobbio chiaro e argilla rossa con margini arrotondati e scanalati, è stato campionato nel vano di guardia al bastione di S. Vincenzo, molto compatto, difficile alla scalfittura. Tale durezza è superiore a quella degli altri leganti descritti. Analizzando per vani: 127 (402). Corsi suborrizontali, raddoppiati con pietre di piccolo taglio. Modulo circa cm. 80. Pietre di grosso taglio in due corsi alternati con un filare prima dell’imposta della volta. Martellina. 127 (403). Corsi orizzontali. Nella parte inferiore utilizzo di pietre grezze. Quattro letti di posa. Martellina. Accenno di arco a destra. 126 (407). Tomba. Profonda circa cm.7 dal piano di calpestio dello stesso vano 126. Orientata su di un asse ovest-est. Largh. m. 0,70; lungh. m. 2,10. Sono visibili all’interno tre lastre calcaree per l’appoggio della bara. Costruita in trincea, è costituita da pietre piatte di sfaldamento. t probabile un suo utilizzo come colatoio, il cui terminus post queni può essere il XV sec., mentre fu dismesso nel 1552. Può essere pertinente ad una preesistente area necropolare. 126 (412). Corsi suborizzontali con inzeppature. Conci lavorati a inartellina. Raro l’uso del laterizio. 126-125 (ingresso 411). Cantonali lavorati a bocciarda. Sono seriori all’intervento del XVI secolo. 125 (413-414). Accenno di volta,formato da conci squadrati e giunti sfilati. Modulo cm. 82. Lavoro con gradina. Campioni di legante e intonaco. 124 (425). Corsi suborizzontali, squadrati, con inzeppature. Giunti non stilati. Modulo cm. 80. Lavorati a martellina e piano. Sono visibili 175 alcune modifiche nei letti di posa e soprattutto negli allineamenti verticali che potrebbero far supporre un primo progetto di uscita. 124 (429). Corsi suborizzontali, non perfettamente squadrati, a volte raddoppiati con piccole lastre. Stilatura dei giunti. Modulo cm. 90. E ammorsato ad un muro, 428, distrutto, preesistente. 123. Grande vano con volta a botte in tufo, con molti interventi nella copertura che doveva essere diversa. All’esterno del castello (fossato ovest, cortina fra i bastioni di S. Vincenzo e di S. Maria) e nel cortile interno sono visibili modifiche negli attacchi verticali. La volta del vano s’imposta su di un’alta risega di fondazione che si appoggia su un muro preesistente con una fila di pietre oblique poste di piatto, e con un’altra arcata ribassata. La copertura in tufo ha subito l’apertura volgente nel vano 118 e poggia sull’USM 435, costituita da cinque corsi di pietre lunghe cm. 60 e cm. 20 (altezza totale, corrispondente al modulo, cm. 88-90). Sul rinfianco della volta è presente un riempimento che mostra la sua natura seriore. 123 (434). Struttura muraria con corsi perfettamente squadrati e poi bugnati. Modulo cm.112. Si tratta di una superfetazione databile al XVIII secolo. 123 (435). Cinque corsi regolari di pietra con funzione di volta a botte. Modulo, corrispondente all’altezza totale, cm. 92. 122 (440). Scala ricavata in muri, con conci perfettamente squadrati con andamento regolare e orizzontale.Lavorati a martellina . 116 (448). Muro in tufo dell’imbarcadero, degradato da fenomeni meteorici. Funzioni di sostegno alla volta a botte, anch’essa in tufo, USM 449. 115 (459). Muro con otto letti di posa orizzontali, con un minimo di due corsi ed un massimo di dieci. Modulo cm.121. Gli si appoggia una volta in tufo con quattro fori per travature. 114. Vano che unisce i due bastioni di S. Vincenzo e di S. Giacomo (già S. Antonio). 114 (469). Bucatura (“batteria traditore”), con elemento di reimpiego lavorato con gradina. È una semicolonnina con tre foglie scolpite in bassorilievo, pertinente ad una finestra e perciò di un elemento esterno. 471. Corridoio che conduce al bastione di San Vincenzo, costruito con i primi cinque corsi in calcare compatto, mentre quelli superiori sono in tufo; il che dimostra la necessità di alleggerire i riempimenti nell’ispessimento delle strutture. In quest’area sono stati raccolti dei campioni di tegole in argilla rosso-arancio e beige sotto ingobbio 176 paglierino, pertinenti alle coperture di strutture preesistenti. Il tipo di tegola poi, con leggere scanalature ai lati, è abbastanza comune nel territorio di Barletta e si trova impiegato anche nella torre a mare in loc. Falce del Viaggio 14.In effetti non si è mai trovata una congruenza stringente fra i due siti di Barletta, il cui castello mostra i suoi singolari bastioni con il doppio ordine di casamatte e cannoniere, con doppia modanatura e scarpa lavorata a bugnato. Vi sono altresì delle somiglianze con il castello di Copertino, con pianta quadrata e circostante fossato, la cui realizzazione si deve ad Evangelista Menga, su incarico di Alfonso Castriota, che muni di ventitrè torrioni le mura di Coperfino 15. E vero che i bastioni di Barletta sono successivi al castello di Copertino, ma le affinità con il bastione lanceolato dei castello di Trani, e cioè la doppia modanatura e la disposizione delle cannoniere, dimostrano che queste fortificazioni del nord barese sono associabili ad un lavoro di ateliers specializzati, che hanno i primordi nel costruttore di terrazzamenti divenuto poi artigiano. Essi infine operarono, nel settore occidentale, in una zona occupata certamente da una necropoli databile al XIV-XV secolo 16. _______________ 14 - Cfr. P. RESCIO, Stratigrafia delle fortezze federiciane dallo scavo del castello di Trani, in ARCHIVIO STORICO PUGLIESE, 1995, in stampa. 15 - V. PANDOLFINO, Copertino (LE). Castello, in RESTAURI... cit., pp. 411416. Vi son altre affinità con altri due castelli del Salento, Lecce e Acaia. La fortezza di Lecce, iniziata sotto Carlo V e proseguita con Filippo II, di cui abbiamo anche una descrizione di Galateo nel Liber de situ Japygiae (Basilea, 1558) è datato a dopo l’aprile del 1539. La realizzazione impose la demolizione del monastero di S. Croce e della SS.ma Trinità e la richiesta di una tassa speciale (N . VACCA, Per la storia della fabbrica di S. Croce in Lecce, in RINASCENZA SALENTINA, Lecce, XI, 1943, pp. 193-204). Il progetto è dello stesso Giacomo dell’Acaya, feudatario di Vanze, Strudà, Segine e Pisignano, militante nel 1528 contro i francesci di Lautrec, che realizzò il famoso castello di Acaia, ben inserito nelle mura datate al 1501: G . C osi, La famiglia di Gian Giacomo dell’Acaya, in Il castello di Lecce, Galatina, 1983, pp. 81-82; M . FAGIOLO - V. C AZZATO, Lecce, Roma-Bari, 1984, p. 73). Le opere messe a disposizione per realizzare il castello di Barletta provocarono certamente l’imposizione di nuove collette tra la popolazione. 16 - P. RESCIO, L’apporto dell’archeologia nel restauro dei monumentì: processi deposizionali e postdeposízíonali per lo studio delle camere sepolcrali tra XV e XVIII secolo, in SOCIETA e Cultura in Puglia e a Bitonto nel XVIII secolo, Bitonto, 1994, p. 392; ID., Archeologia dei sepolcri, in L . BERTOLDI L ENOCI (ed.), Confraternite. Cultura e Società, Fasano, 1994, p. 91. 177 3. In un territorio che può essere anche vasto il castello perviene ad una valenza strategicamente importante. L’insediamento castellare assume nelle forme architettoniche un’icnografia varia ed unica. Questa però viene a volte considerata avulsa dal contesto archeologico e ciò comporta una lettura ostacolata se non fuorviante. Un esempio a dir poco quasi completamente trascurato è il castello di Canosa, posto sulla principale collina della città chiamata “dei Quaranta Martiri”, a circa m. 142,50 s.l.m., a guardia dell’Adriatico, del Gargano, del Vulture e della valle dell’Ofanto. L’edificio è allo stato di rudere, ma è interessante notare l’imponenza delle torri, che fecero impressione anche a Saint-Non nel suo viaggio 17,nelle cui rappresentazioni sono visibili una torre centrale più alta e un suggestivo complesso di strutture massicce. Sebbene siano ancora in piedi sei torri18 raccordate da una cortina muraria a grossi blocchi estesa complessivamente 2.000 mq., la fortezza è probabilmente un nucleo di una struttura più articolata. Intorno ai primi anni del XX secolo si poteva notare un’altra cinta più avanzata ed in opera poligonale, in connessione con i camminamenti a protezione di una scarpa del castello 19. Mentre di questa si può anche pensare ad una certa anteriorità, data la sua posizione sull’acropoli preclassica, i ritrovamenti casuali di ceramica medievale sul versante prospiciente la valle ofantina, in particolare: a) una coppa con piede ad anello decorata con uccello palustre in bruno, giallo e verde ramina; _______________ 17 - J. R. C . DE SAINT-N ON, Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, III, Paris, 1782, p. 17 e p. 31. 18 - Secondo le notizie fornite in R. D E VITA (ed.), Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, 19842 s.v. “Canosa”, l’ordito della parete inferiore, costruito in blocchi parallelepipedi e di reimpiego, risalgono all’epoca più antica, ma non è credibile che quei resti, a parte l’ubicazione, siano ascrivibili al tempo di Autari (584-590), anche perché la loro datazione è regolata dallo spessore delle murature. Si tratta, in sostanza, di una costruzione del XIII secolo e oltre. In effetti durante il regno di Carlo I il castello subì numerose riparazioni ad opera di Pierre d’Angicourt (vedi infra), passando poi agli Aragonesi e nel 1704 alla famiglia CapeceMinutolo, restando proprietà privata sino al 1956. 19 - Naturalmente si tratta solo di un’ipotesi di lavoro, scaturita dal materiale fotografico riportato in N . IACOBONE, Canusium. Un’antica e grande città dell’Apulia, Lecce, 1925, figg. 1-2. 178 b) una coppa a piede distinto decorata in rosso, verde e bruno manganese, al cui centro è raffigurato un volto di donna con una coiffure a cornes, un’acconciatura tipicamente francese20, sotto rivestimento stannifero21, datano la frequentazione alla fine del XIII secolo e agli inizi dei successivo, periodo questo in cui sono registrati interventi condotti da Pietro d’Angicourt nel 1271 e negli anni successivi 22 Dai Registri Angioini sappiamo che la fortezza ospitò un certo numero di armamen-tario e vettovaglie23 e possedeva un forno, un ponte di accesso e due cisterne24. Le torri, con il loro evidente stato di usura, con i blocchi di carparo e calcare di reimpiego, non possono che essere sveve. Il degrado e l’abbandono, però, sono certamente dovuti alla ventilazione della collina, totalmente sfavorevoli per una struttura palaziale. 4. Più circostanziabile è la datazione del castello di Gravina di Puglia, situato in aperta campagna a nord della stazione ferroviaria. Conservato per una lunghezza di m. 29,50x58,50 solo nelle pareti perimetrali, è un rettangolo rinforzato sulla cortina ovest da tre torri “false”, apparentemente prive di funzione come l’unica posta ad est, che rendono l’aspetto del castello più severo e più ampio. Esso comprendeva due piani realizzati con blocchi regolari di calzarenite e lunghi finestroni con arco a pieno centro, tipici di una dimora di caccia (nel 1307 è nominata una sala dei falconi) ed era organizzato all’interno in un cortile stretto ed allungato 25, su un modello che, secondo Vasari, fu _______________ 20 - G . D ONATONE, Maiolica antica di Puglia, Cava dei Tirreni, 1982, p. 17 e tav. I, a, b. Il materiale, che sarà oggetto di prossima pubblicazione, proviene da terreno dilavato sulla collina. In particolare il primo pezzo proviene da un butto in una casa adiacente al castello, mentre l’altro proviene da una tomba (?) del castello (p. 17). 21 - G . D ONATONE, Ceramica medievale di Canosa di Puglia, in L a CERAMICA medievale di San Lorenzo Maggiore in Napoli, 2, Napoli, 1984, pp. 387-391. 22 - Con richieste precedenti a partire dal 1270: E. STHAMER, Op. cit.,n. 714 sgg. L’Angicourt è nominato nel doc. n. 716. Nel n. 719 si parla di opere per le finestre e le porte. 23 - ID., op. cit., n. 722. 24 - ID., op. cit., n. 723-724. 25 - D . N ARDONE, Il castello svevo di Gravina di Puglia, in JAPIGIA, Bari, V, 1934, pp. 19-28; C . A. WILLEMSEN, I castelli di Federico II nell’Italia meridionale, Napoli, 1979, p. 20. 179 attribuito all’architetto e scultore Fuccio, nel 123126 . Lo svuotamento di alcuni settori ha mostrato e disperso materiale archeologico ritenuto di scarso valore durante i restauri27. Può dirsi che di questo castello si è conservato solo il neces-sario, senza, tuttavia, che ne siano stati studiati i rapporti stratigrafici; come il castello di Palazzo San Gervasio, invece, che ha subito la medesima sorte, ma che consente una futura possibilità di recupero. Posto su una collina a 500 metri di altitudine è noto a partire dal XIII secolo quando gli Angioini trasformano il palazzo e le difese di San Gervasio per l’allevamento dei cavalli28. Di forma grosso modo quadrata, presenta un ingresso moderno attraverso cui, tramite uno stretto corridoio, si giunge al cortile centrale, che offre poco per una lettura completa del complesso più antico. Il lato nord, invece, oltre a far notare le diverse tecniche ed alcuni tamponamenti, è rinforzato da due torri angolari definite da cantonali in pietra calcarea che fanno pensare a stringenti confronti con il castello di Sant’Agata di Puglia. 5. Lo stato di trascuratezza, nella quale versano le cinte urbane, denota l’assoluta mancanza di una finalità, cui prima erano destinate. Si consideri però, un problema essenziale, quale il loro stato di conservazione e l’affidabilità stratigrafica che si può ricavare. A Bari, dove non è possibile seguire un criterio di analisi, se non di tipo occasionale, si verifica che, in una parte delle mura, viene ricavato un percorso interno, sul tratto che porta da via Venezia verso il cosiddetto Fortino di S. Antonio 29 ; mentre a Bitonto e a Polignano vi insistono, sempre nei limiti del centro storico, scale di accesso a piccole piazze sopraelevate, cui fanno riferimento alte torri, che si protendono verso l’esterno della cinta, con funzione di bastioni. Se, però, si dovesse effettuare una ricerca finalizzata alle tecniche _______________ 26 - D . N ARDONE, op. cit., P. 19. 27 - M . R. SALVATORE, Ceramica medievale da alcuni restauri e recuperi in Puglia e Basilicata, in Faenza, LXVI, 1980, p. 255. L’autrice afferma che il materiale invetriato policromo proviene da un pozzo in uso sino al XVII sec. 28 - Cfr. con molti errori G . L EONE, Palazzo S, Gervasio e il suo castello, Fasano 1985. Nel 1280 si decidono riparazioni (E STHAMER, op. cit., n. 1032). 29 - Tale percorso non è neanche descritto nel volume C ONOSCERE la città. Bari. Il castello e le mura medievali, Bari, 1988, passim, nel quale si propone anche un progetto di restauro. 180 costruttive si dovrebbe premettere che non esiste alcun lavoro utile ad indicarci un aspetto od un elemento base per una classificazione delle aree sottoposte ad esame. Tra i siti più antichi - per i quali si può intraprendere uno scavo archeologico utile per comprendere tecniche costruttive “transizionali”, cioè distinte da quelle bizantine, normanne, sveve e poi angioine - gli abitati di Canne ed Egnazia, poichè abbandonati in antico, ci offrono uno spunto interessante. Si tratta davvero di due siti imponenti: Canne - collegata con la via Traiana e, lungo la sponda orientale dell’Ofanto, con la via Venusium-Canosa-Aufidum e attraversata da un’altra strada per Barletta con una direzione sud-nord sull’altopiano collinare, rioccupata dai Bizantini nel 542 - durante il conflitto greco-gotico, fu coinvolta direttamente negli scontri del 546-547, che ne provocarono un abbandono in massa30. Il fenomeno forse non ebbe un effetto immediato, se è vero che le strutture emerse durante gli ultimi decenni mostrano abitazioni alto e bassomedievali. Esse sono, a loro volta, circondate da un’imponente muratura realizzata con blocchi locali posti di testa e di taglio, alternati ed aggettanti come in un ordito a bugnato,unita ad un rifacimento di corsi calcarei con modulo di m. 0,70. A nord è presente una fortezza, che, stando alle fonti, è di età aragonese31, ma una carta dell’852 parla della donazione di Gontario, abate di S. Modesto in Benevento, di una casa con la restante substantia, che cernitur iuxta eundem castellum, nello stesso luogo32. La survey, concentratasi sull’abitato di Cannae, ha dimostrato che il castello non è tutto aragonese e che alcune sue strutture, come le coperture in opus spicatum e le mura addossate alle abitazioni, sono certamente più antiche. Lo stesso può dirsi del “castello”, posto sul fianco sud dell’acropoli di Egnazia, dove si è formato un accumulo dei resti dell’insediamento su una piattaforma rocciosa, con abbondanti tracce di opere edilizie classiche e medievali. _______________ 30 - P. RESCHIO, Città altomedievali: prima valutazione dei depositi archeologici, elaborato per la cattedra di Metodologia e Tecnica dello scavo, Scuola di Specializzazione in Archeologia, Università della Basilicata, a. a. 1993/94. Relatore Prof. Paul Arthur. 31 - R. D E VITA, Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, 19842, s. v. Canne; G . FUZIO, Castelli: tipologia e strutture, in La PUGLIA tra Medioevo ed Età Moderna. Città e Campagna, Mílano, 1980, p. 178. 32 - R. IORIO, Canne nell’altomedioevo, in Q UADERNI M EDIEVALI, Bari, 10, 1980, p. 53. 181 Con un’estensione di circa mq. 272, lungo la statale 379 per Brindisi, la costruzione quadrangolare (m. 25x25), in blocchi isodomi e con torri angolari sul lato sud, presenta un’apertura sul lato settentrionale ed una porta sul lato orientale. I due soli saggi di scavo effettuati sull’acropoli hanno attestato una stratificazione postclassica complessiva di m. 0,53, di cui l’ultima fase può essere ascritta al periodo primoangioino 33; tuttavia considerazioni di carattere icnografico e costruttivo inducono a ritenere che si tratti di un castello del X-XI secolo, cioè precedente all’invasione normanna e certamente di tipologia bi-zantina. Non risulta che altre strutture così importanti, e soprattutto così antiche e riferibili all’altomedioevo, siano così ottimamente conservate. Un dato certo è che, ad esse, si sono sovrapposti altri elementi in un periodo durante il quale i siti non erano ancora del tutto abbandonati e, quindi, ancora in funzione. Il medesimo fenomeno, su scala pianificata, è documentato ad Altamura, dove il governatore Sparano, rinforzò l’apparato difensivo, il cui primo impianto era di età preclassica34. In un casale abbandonato presso Bari, Balsignano, a circa 3 km. da Modugno, è presente un complesso di costruzioni, testimoniato da una serie discreta di documenti. La prima fonte, riportata nel “Codice Diplomatico Pugliese” lo disegna come locus che ha nel suo tenimento varie talie, ossia piantate di olivi, peri, amarene, termiti e calabrici. E anche presente un castellutzo de ipsi dalmatini che ha fatto pensare ad una sua origine orientale, ma il toponimo, Basilinianum, deriva dal prediale Basilius: nel documento 35, dove il barese Theofilactus dichiara _______________ 33 - P. RESCIO, op. cit. 34 - Sparano da Bari governò la città dal 1285 al 1294 ed utilizzò l’andamento delle mura megalitiche come basamento per le nuove strutture, che dovevano contenere la città abitata. Il circuito doveva essere più esteso di quello medievale. Tale notizia è riportata in T. BERLOCO (ed.), Storie inedite di Altamura, Altamura 1985, p. 56 e nota 76. L’interesse per le fortificazioni a dispetto della struttura castellare, che ha sempre funzioni anticittadine, è documentato a Bari la cui ristrutturazione delle mura costringe Carlo II nel 1283 a far interrompere i lavori. Cfr. R. L ICINIO, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari, 1994, p. 298. 35 - Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo greco (939-1071). A cura di F. N ITTI DI VITO, Bari, 1900, doc. n. 2 (Codice Diplomatico Barese, IV). 182 la sua proprietà nella divisione dei beni stabili fatta con i fratelli Mauro e Niceforo, si parla anche di una via antica e di una viuzza (stricta). Il casale è nuovamente citato nel 1092, quando il duca Ruggero, figlio di Roberto il Guiscardo e Adele, lo dona, con tutte le sue pertinenze, alla Badia di S. Lorenzo di Aversa36. Questo documento dimostra che per un certo periodo il borgo doveva trovarsi nelle in-fluenze benedettine di Aversa, ma già, alla fine del XIII secolo, è in concessione a vari signorotti, con un canone annuo che varia dalle 25 alle 50 once. Nel 1292 vi troviamo Ruggero della Marra;dopo il 1311 vi fu un nuovo contratto con il barese Goffredo da Montefuscolo. Nel 1342 fu concesso per cinque anni al nobile Amerucio de Ferraris, parente di Carlo da Durazzo. A questi successe Franco de Carofilio, il quale, nelle contese tra il ramo napoletano e quello ungherese della famiglia angioina, parteggiò per quello ungherese, restando sconfitto. In questo periodo il castello risulta munitissimo e i napoletani riuscirono ad occuparlo solo con l’inganno e lo concessero a Giovanni di Carbonara. Con la la pace del 1352 Franco de Carofilio riprende il possesso del casale, ottenendo di pagare un canone dimezzato per poter restaurare le fortificazioni danneggiate37. Percorrendo le mura, dall’esterno sino al settore ovest e sud-ovest, è possibile individuare i resti meglio conservati. Si tratta di torri quadrate che aggettano dalle mura, tagliate nella parte superiore e coeve con le cortine di raccordo. I corsi sono più o meno regolari in pietra calcarea locale, lavorati a martellina e martello a penna, a volte raddoppiati, costituenti filari grosso modo alternati con andamento perfettamente orizzontale; il modulo è di circa cm. 60; il riempimento a sacco e la malta compatta. Lungo i muri, dove si è conservata l’altezza originaria, sono presenti dei camminamenti, i cui accessi, realizzati con scale, sono visibili nel paramento interno e per tutto lo spessore delle cortine. La cinta mostra chiaramente un restauro localizzato nel settore est - dove si _______________ 36 - Le pergamene di S. Nicola di Bari. Periodo greco (939-1071). A cura di F. N ITTI D i VITO, Bari, 1900, doc. n. 150 (Codice Diplomatico Barese, V).; Regii Neapolitani Archivi Monumenta, V, 1857, passim; P. RESCIO, Il “castello” e le mura di Balsignano, in FOGLI DI PERIFERIA, Putignano, a. V, 1993, n. 1, pp. 47-52. 37 - P. RESCIO, op. cit., p. 48. 183 trova la chiesa di S. Felice, a cupola in asse e a croce contratta (primi del XII sec.) evidenziato dall’avanzamento della cortina e da un allineamento di feritoie strombate verso l’interno, ascrivibile ai secoli XIII-XIV, ovvero proprio al restauro di Franco de Carofilio 38. Nel complesso castrale, oltre ai resti monumentali e ad altri edifici addossati, si erge il castello, costituito da due torri più antiche raccordate dal corpo di fabbrica più basso. L’edificio, che versa in precarie condizioni statiche essendo in più punti crollato (in particolare la torre ovest), all’esterno è affiancato da un poderoso contrafforte, mentre sul lato sud-ovest della cortina in appoggio è rinforzato da un ispessimento di oltre due metri. Trovandosi su un declivio a gradoni, conserva complessivamente un deposito di circa m. 3, ancora da indagare, poichè gli scavi effettuati nel complesso di Balsignano sono stati finalizzati allo studio delle due chiese medievali e non sull’organizzazione dello spazio interno, per il quale poteva essere intrapresa una accurata raccolta di superficie. Al periodo più cruciale del casale, infatti, sono associate in particolare una ciotola decorata con un medaglione in bruno manganese, che descrive due rettangoli in croce, inscritti in un cerchio con decorazioni in rosso e bruno sotto rivestimento piombifero, circondato, a sua volta, da ritocchi in verde e da un altro cerchio in bruno; un frammento di piatto con linee parallele in bruno campite da una serie di S rovescitate sotto rivestimento piombifero, ed un frammento di corpo vascolare in argilla rossa, con spirali in bruno sopra ingobbio chiaro e sotto rivestimento piombifero. Tutti i reperti sembrano essere di produzione locale, almeno dell’area barese, soprattutto a nord sino all’Ofanto. Proseguendo, uguale approccio metodologico va utilizzato nello studio delle cinte urbane. Poiché non si può trascurare che la loro funzione fu essenzialmente difensiva, e perciò anche cittadina, non è possibile una datazione se questa non è correlata alle strutture abitative connesse. E perché ciò possa verificarsi, è bene considerare i centri urbani che hanno subito poche manomissioni o che hanno conservato caratteristiche tali che possano dirsi datanti. Nei casi precedenti si è trattato di siti abbandonati pluristratificati, ma resta, comunque, il problema di discuterli in contesti ancora frequentati. _______________ 38 - Questa mia ipotesi è suffragata solo da una serie di accorgimenti architettonici differenti dalla cinta più antica. 184 L’area dove si può dare inizio a una ricerca preliminare non comprende, o non ancora, gli abitati di pianura, bensì quelli d’altura. Non si tratta di evidenze più marcate, ma piuttosto di constatazione che deriva dagli impianti urbanistici che, nell’ultimo caso, si sviluppano non per sovrapposizione - aggiungerei stratigrafica -, ma per ampliamento a “gradoni”. Così a Ripacandida,menzionata nel Catalogus Baronum39, il circuito viario si protende per tornanti, mentre, pur essendo naturalmente difeso, il paese viene rinforzato nei fianchi franosi da torri-bastioni a pianta quadrata. Non vi sono, in questo e nel caso di Forenza, sul Vulture40, differenziazioni fra struttura abitativa e difensiva, poíché è la natura insediativa a renderle complementari. E siccome questo tipo di impianto rende alquanto difficoltosa una. lettura archeologica per i _______________ 39 - Il toponimo, assai chiaro nel suo significato (G . ARENA, Territorio e termini geografici dialettali della Basilicata, Roma 1979, p. 123) potrebbe indicare un insediamento piuttosto antico. Le prime notizie risalgono appunto intorno alla metà del XII secolo. Riporto l’elenco fornito da E. Jamison (ed.), Catalogus Baronum (1154-1169), Roma, 1972, p. 45 sgg.; n. 278: “Rogerius Ma [rescalcus] tenet Ripam Candidam jeudum trium militum et cum augmento / obtulit milites sex”; n. 279: “Matheus nepos presbiteri Leonis dixit quod tenet villanos quatuor et cum augmento obtulit / mílitem unum”; n. 280: “Robbertus Guimundi tenet villanos duos et cum augmento obtulit militem unum”; n. 281: “Joczolinus sicut inventum est tenet villanos duos et cum augmento obtulit militem unum”; n. 282: “Pantaleon nichil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se ipsum”; n. 283: “Andreas Guarnerii nichil tenet set pro auxilio magne expe itionis obtulit se ipsum”; n. 284: “Guillelmus frater Panteleonis nil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se ipsum”; n. 285: “Gregorius nil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se i . psum”; n. 286: “Robbertus inboldo nil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se ipsum”; n. 287: “Gregorius Montanarius nil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se ipsum”; n. 288: “Ugo filius Ugerii nil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se ipsum”; n. 289: “Petrus Cetilia nil tènet set pro auxilio magne expeditionís obtulít se ipsum”; n. 290: “Guillelmus presbiteri Leonis nil tenet set pro auxilio magne expeditionis obtulit se ipsum”; p. 47: “Una sunt de Ripa Candida milites duodecim quibus debet respondere Rogerius Marescalcus”. Il feudo di Ripacandida, dipendente dalla corriestabulia di Tricarico, era quindi tutto nelle mani di Ruggero Marescalco, ma nel 1152, come dichiara il breve del papa Eugenio III, le sue chiese dipendevano dal vescovo di Rapolla. Esse sono San Donato, San Pietro, San Zaccaria e San Giorgio: cfr. G. FORTUNATO, Santa Maria di Vitalba, Trani, 1898, p. 23. 40 - Su questo ed altri insediamenti del Vulture è in preparazione una monografia. 185 difficili accessi e per il materiale utilizzato nelle trasformazioni funzionali successive, è necessario un ulteriore passo che si leghi ad una stratigrafia comparata. Sul ciglio dello sperone occidentale della collina di Fiorentino, luogo dove si ritiene sia deceduto Federico II, si conserva un muro, per un’altezza massima di m. 5, riempito di pietre calcaree sbozzate con una malta biancastra. Sul declivio forma una scarpata che può essere indice di un intervento seriore41 , e forma una struttura non isolata dal castello, anzi lo circonda sull’acclività naturale, rendendolo difendibile. Certo è che, tra le cinte murarie, solitamente cinquecentesche, quelle di S. Agata di Puglia e di Rapolla sono più antiche. Esse sono realizzate con un doppio paramento di corsi regolari, non perfettamente squadrati, a volte con lastre di sfaldamento poste come listelli e non come inzeppature. In particolare a S. Agata di Puglia sono visitabili, nell’arca antistante il castello 42 i ruderi di una delle torri, realizzata con una copertura a cupola e due finestre diametralmente opposte ed ubicate nei fianchi, a difesa delle cortine di raccordo. Non appare che si possa escludere che tale sistema sia stato costruito prima del castello e, comunque, non è di tipologia bizantina, ma normanna 43. Sempre per affinità tecniche, ma più difficilmente ricostruibili, si deve procedere per la cinta normanna di Rapolla, la cui attribuzione all’XI, ma più allo scorcio finale dell’XII secolo, tiene conto dell’intera organizzazione urbana, della sua origine ed evoluzione. Rapolla è un paese ubicato a 439 metri sulle falde nord-orientali del Vulture. Di origini incerte, il suo toponimo pare derivi dal lucano rappa, con il significato di ‘spina’ o ‘luogo di spine; il significato di _______________ 41 - F. PIPONNIER - P. BECK, Il sito: edifici e topografia, in FIORENTINO. Prospezioni sul territorio. Scavi (1982), Galatina, 1984, p. 22. 42 - Sul castello, R. D E VITA (ed.), Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, 19842, sub voce. 43 - Lo storico locale Agnelli perviene alla stessa conclusione, argomentando però solo su una distinzione fra castello e strutture murarie (L . AGNELLI, Cronaca di Sant’Agata, Sciacca, 1869, p. 12). In G AUFRIDUS M ALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, in E. PONTIERI (ed.), R. I. S., 2, parte I, Bologna, 1927-28, p. 60, nel 1075 il “castrum sancti Agadii” è “natura, munitione, defensalibus firmissimo”. Per le origini della città e del suo territorio nell’antichità cfr. D . D ONOFRIO D EL VECCHIO, Da Agdos di Pessinunte a Sant’Agata di Puglia. Alle radici della nostra storia, Bari, 1982. 186 rappa in latino è, invece, ‘località coltivata a vigneto’, attività nota nel territorio. Diversamente Alessio la fa derivare da rapulla, diminutivo di rapula, ‘ravanello’44. Comunque sia, il dato del toponimo non indica certo l’antichità della zona, anzi, sembra che anche questo possa svantaggiare chi si ostini a credere ad una presenza uniana dal passato glorioso 45. I più antichi ritrovamenti fanno riferimento ad un popolamento sparso fra tardoantico ed altomedioevo (il sarcofago microasiatico trovato in località Albero in Piano, ora al Museo Nazionale di Melfi; sul bordo del Lago Rendina le tracce di una villa dai muri in opus incertum; mura romane presso la stazione ferroviaria), ma dati più sicuri provengono da una bolla di papa Giovanni XX datata 14 luglio 1028, e da un’altra bolla di Urbano II del 1089, dove pare che la diocesi di Rapolla fosse subentrata a quella di Cisterna, che nel 46 secondo documento non viene più menzionata46. Rivedendo inoltre la cronotassi episcopale, questa inizia con Oddone, mentre per Ughelli è Orso, anno 1079 mense Julio47 , quello stesso che vedremo trasferito sulla cattedra arcivescovile di Bari in ruolo di stretta collaborazione con Roberto il Guiscardo48. Seguono tra i vescovi un Giovanni nel 1092, un anonimo presente a Trani in occasione della traslazione delle reliquie di San Nicola Pellegrino ed un altro anonimo sotto il pontificato di Innocenzo III49. Nel periodo in cui si succedono i quattro vescovi è probabile che la città fosse considerata una piccola roccaforte preesistente alla diocesi di Oddone, come ten_______________ 44 - G . RACIOPPI, Origini storiche investigate nei nomi geografici della Basilicata, in ARCHIVIO STORICO PER LE PROVINCIE NAPOLETANE, Napoli, I, 1876, p. 475; G . ALESSIO, Lexicon etymologicum. Supplemento ai dizionari etimologici latini e romanzi, Napoli, 1976, p. 343. 45 - P. RESCIO, Storia, archeologia e survey sul monte Vulture (I): nuove ricerche su Rapolla medievale, in RADICI, Rionero in Vulture, 14, 1994, p. 12. 46 - F. C HIAROMONTE, Cenno storico sulla Chiesa Vescovile di Rapolla, Melfi 1888; ID., in ENCICLOPEDIA DELL’ ECCLESIASTICO, IV, Napoli, 1846, p. 916. 47 - F. UGHELLI, Italia sacra, VII, Venezia S. Coleti, 1721, col. 879 D. 48 - IB., col. 879 I; H. HOUBEN, Urkundenfälschungen in Sfiditalien: das beispiel Venosa, in Falschungen im Mittelalter. Internationaler Kongress der Monumenta Germaniae Historica, Hannover, 1988, pp. 35-65; ID., Medioevo monastico meridionale, Napoli, 1987, p. 143; ID,, Meffi, Venosa, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle GIORNATE (decime) GIORNATE NORMANNO-SVEVE, Bari, 1993, p. 319. 49 - Aggiunte di S. Coleti in F. UGHELLI, op. cit., col. 880 A. 187 derebbe a dimostrare un documento, falso, del 967, dove un Pandolfo si dichiara signore di Conza e Rapolla50. Sebbene altre argomentazioni facciano ritenere che l’estensione della diocesi sia stata indice di ricchezza, in effetti il Catalogus Baronum fa desumere che la consistenza patrimoniale del feudo, nelle persone di Lisiardo, Sanson e Guidone fosse davvero misera51. Di certo la penuria delle fonti scritte lascia intravvedere che il popolamento medievale fosse avvenuto in un tempo dilatato e per opera di monaci italo-greci e non, come riporta Ughelli, per il conflitto fra Normanni e Bizantini52. La pianta di Rapolla mostra chiaramente uno sviluppo urbanistico che ha seguito le regole degli insediamenti d’altura, e, tra i resti monumentali, le mura segnano un elemento ormai in estinzione. Da una veduta di Pacichelli notiamo la posizione anomala che la chiesa di Santa Lucia presenta. Di impianto basilicale con corpo longitudinale, sul quale si ammorsano due transetti non sporgenti coperti da volta a botte e cupole, richiama episodi ciprioti quali le chiese di San Lazzaro a Larnaca e di San Barnaba presso Famagosta. Lo stile indusse Giustino Fortunato a ritenere che la chiesa fosse sorta durante la domìnazione bizantina (1027-1042), mentre venne eretta in età normanna e non fu, come ancora si crede, sede del vescovo di Rapolla, poichè un’altra chiesa sorgeva nel luogo dell’attuale chiesa Cattedra_______________ 50 - G . FORTUNATO, La Badia di Monticchio, Trani, 1904, pp. 25-26: “Ego Pandolfus princeps de consia et de rapolla”. Argomentazioni sul falso alle pp. 27-28. 51 - Così L . D ’AMATO, Note storiche su Rapolla medievale, in RADICI, Rionero in Vulture, 1, 1989, p. 99, ma in effetti il Catalogus è chiaro: E. JAMISON (ed.), op. cit., p. 44, n. 269: “Liardus Isic] tenet in Rapolla feudum paperrimum [sic] unius militis et cum augmento / milites duos”; n. 270: “Sanson de Rapolla tenet pauperrimum feudum unius militis et cum augmento / milites duos”; n. 271: “Guido de Rocca dixit quod tenet in Rapolla feudum unum [sic] militis et cum augmento / obtulit milites duos”. Come è noto il Catalogus Baronum era un elenco della consistenza patrimoniale dei singoli feudi normanni tenuti al servitium feudale in proporzione al loro beneficium, creato in previsione della grande spedizione per opporre resistenza contro la coalizione degli imperatori Federico I Barbarossa (1152-1190) e Manuele I Comneno (1143-1180). Per milites si intendono i cavalieri messi a disposizione e per augmentum l’aggiunta in caso di estremo pericolo. 52 - P. RESCIO, Storia, archeologia... cit., p. 15, nota 17. 188 le)53. Tutto concorre, quindi, nel datare le fortificazioni di Rapolla, consistenti in un tratto di muro che unisce due bastioni, con andamento da nord ad est, a protezione dell’antico episcopio e del castello di cui si ha solo la memoria54. Pertanto è solo possibile affermare che, anche in questo caso, castelli e mura, sebbene differenti, offrono potenzialità d’indagine notevoli e se non altro importanti. Ed, in effetti, è solo il centro urbano a contenere i limiti cronologici, limiti che devono essere descritti per tecniche e non per periodi, vaghi e privi di ogni contesto. 6. Durante l’esplorazione del territorio di Rocchetta Sant’Antonio, in provincia di Foggia, mi sono imbattuto in un complesso singolare costituito dal castello e dal centro storico di questo paese, posto a circa 633 metri sul livello del mare e a metà strada fra Sant’Agata di Puglia (FG) e Lacedonia (AV)55. Prima di esporre i risultati di questa ricerca, è utile premettere una descrizione dell’insediamento alla luce della survey svoltasi nell’aprile-maggio 1994: a partire dal neolitico superiore si documenta in tutta la zona una serie di insediamenti sparsi, dei bronzo, classici e tardoromani, in una sovrapposizione senza soluzione di continuità sino all’altomedioevo. Quasi tutte le aree archeologiche sono inedite e sono poste su alture e lì dove la presenza dell’acqua è costante e perenne56. Certamente la natura degli stanziamenti è completamente trasformata: tracce di antichi boschi si trovano a nord e a sud, presso Melfi, che è a breve distanza, depositi archeologici spostati per riporto meccanico, dovuto a lavori agricoli; ma cosa avvenne prima di questo recentissimo radicale cambiamento, lo si può intravvedere rileggendo un discreto numero di documenti dell’Abbazia di Cava57. Nel 1087 Gaitelgrima, figlia di Roberto il Guiscardo, dona all’Abbazia il monastero e il casale di S. Stefano in Giuncarico, le cui _______________ 53 - ID., op. cit., p. 15. 54 - M . I. PAOLINO - P. RESCIO, Itinerario retrospettivo tra le memorie medievali del Vulture, in RADICI, Rionero in Vulture, 13, 1993, p. 111. 55 - Su queste due città, supra 43; G . C OPPOLA - G . M UOLLO, Castelli medievali dell’Irpinia, Milano, 1994, pp. 80-86. 56 - Le ricerche sono state realizzate dai dottori Giuseppina Noviello, Carmelo Chitano e da chi scrive. 57 - C . C ARLONE, Documenti cavensi per la storia di Rocchetta S. Antonio, Altavilla Silentina, 1987, con una stimolante introduzione di Giovanni Vitolo. 189 vigne si trovano intra Laquedonia et Rocce, evento “da cui si ricava senza ombra di dubbio che già esisteva allora la Rocca di Sant’Antimo”58 che divenne ancora di più centro autonomo e insediamento stabile quando si verificò uno spostamento della popolazione verso la vicina altura, secondo il tipico processo di ìncastellamento pugliese e lucano. Dopo un lento ma efficace accentramento sino al XIII secolo, si registrano, con l’età angioina, crisi demografiche che si concludono con lo spopolamento delle campagne, dovuto all’eccessivo fiscalismo, richiesto dalla politica espansionistica di Carlo I e della guerra del Vespro59. La nuova crescita demografica non viene solamente descritta nei documenti, ma è anche rappresentata in un castello che per le sue forme originali merita la dovuta attenzione. Sebbene in una posizione decentrata, esso è ben inserito nel centro storico di Rocchetta, che, come indica il toponimo stesso, denominava una struttura fortificata, i cui ruderi si trovano sulla parte sommitale del paese. Già riconosciuta come tale dal cronista locale Giovanni Gentile60, è, in effetti una costruzione almeno asincrona, in quanto realizzata in pietra calcarea bianca, diversamente da tutti i restanti edifici, i cui blocchi provengono da cave in loco. Del nucleo più antico della fortificazione restano una torre disposta nel mezzo del declivio, che va da via Castelvecchio a largo Cisterna, composta da conci regolari, lavorati a martellina con modulo di cm. 58-60, ed una cortina che presenta degrado e tracce di spoliazione. Entrambi sono composti di un doppio paramento e da una malta biancastra o grigia con inclusi calcarei, mentre le altre cortine addossatevisi hanno una fattura diversa, irregolare, con conci di colore scuro e perciò seriori. _______________ 58 - ID., op. cit., p. X. 59 - R. L ICINIO, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari, 1994, p. 272 sgg. 60 - G. G ENTILE, Cronistoria di Rocchetta S. Antonio, Melfi 1888, pp. 41-42: “L’antico castello in cima ad una collina coll’abitato di forma circolare, cinto da mura, con una sola porta ad oriente, inaccessibile da tutti i lati per alpestre rocce, posto in sito vantaggiosissimo alla difesa, non ci dà l’immagine di una piccola fortezza, costruita ad arte in tempi difficili e calamitosi? Di questo modesto baluardo feudale prese il nome d’origine la nostra Rocchetta. Lo additano le mura crollate sulla vetta del colle, che ancora si chiama cittadella; lo indicano i ruderi del vecchio castello (…)”. 190 Il centro storico di Rocchetta non ha solo la peculiarità di possedere un edificio in pietra calcarea che non è del luogo, e che per sua icnografia può essere databile all’XI-XII secolo, ma è suddiviso nella parte più alta, che è detta “Cittadella”, delimitata a sud da un dirupo e quindi ben difesa, dall’agglomerato a nord-ovest, detto “Lampione” e, a sud-est, dalle case del borgo “Pescaredda”. E probabile che l’abitato originario si dovesse estendere proprio nella “Cittadella” e “Lampione” perché, anche qui, come in altre località d’altura, le strade principali formano dei semicerchi concentrici il cui fuoco, è proprio nel castello vecchio. Non è da escludere che si fosse sviluppato anche un altro insediamento, a prosecuzione del “Lampione”, nella collina di San Pietro, dove, alla fine del XIX secolo, si notavano ancora i resti di una cappella dedicata al Santo: una prima esplorazione ha registrato, per ora, una grotta, forse preistorica, dove è depositato materiale proveniente dallo svuotamento degli ossari posti sotto la Chiesa Madre, dedicata all’Assunta, prodotti prima e dopo la peste del 1837. Il terzo nucleo, “Pescaredda” (cioè “roccia affiorante”) secondo la tradizione venne formandosi dopo la costruzione dell’attuale castello. Questo, sullo stesso dirupo della “Cittadella” e posto al limite della stessa, è più variamente articolato del castello antico. E a pianta triangolare, ma con il puntone a mandorla più elevato e coronato da mensole. La facciata principale ha un solo ingresso, sormontato da uno stemma che raffigura uno scudo diviso in sei bande, dove, tra la quarta e la quinta, vi è un leone rampante e la scritta: LADISLAUS DE AQUINO IUNIOR BARONIE CRIPTE DOMINUS CUM OPPI DUM HOC ROCHECTE MERCATUS ESSET ARCEM HANC ERE SUO A FUN DAMENDIS CONSTRUI IUSSIT SALUTIS ANNO MCCCCCUII Lo stemma è a sua volta affiancato da due incassi dove poteva alloggiare la catena del ponte levatoio. Il castello è perfettamente organizzato in due ale distinte: il puntone, a mandorla conserva al suo interno due casamatte a cupola intercomunicanti tramite una scala, che corre lungo lo spessore del muro e presenta, sulla parte superiore, una ricostruzione del XVIII-XIX se191 colo in blocchi calcarei bianchi, forse di spoglio; gli altri due puntoni e l’ambiente centrale, cui si accede tramite il vano vicino all’ingresso dove è presente un pozzo originale, hanno carattere per lo più residenziale (evidenziato dalle balconate, che però sembrano essere successive, del XIX secolo), e sembrano costruiti in un secondo momento, ma sempre prima del 1507. Sulla facciata, infatti, si nota un leggero cambiamento della costruzione, che nel puntone coronato e su tutto l’or-dine inferiore, delimitato dal cordone marcapiano, ha blocchi regolari disposti sul lato più lungo, mentre per l’altra parte si nota, tramite una linea verticale spezzata, che seguono dei blocchi leggermente più piccoli, dove si alternano, lungo tutto il secondo ordine della fabbrica, i fori per travicelli lignei. Se non tutto il complesso, quasi certamente la sua parte più vistosa, rappresentata dal bastione a mandorla, fu realizzata dal grande architetto senese Francesco di Giorgio Martini, la cui attività e presenza è documentata a Monte Sant’Angelo, dove il castello si articola in una serie di strutture preesistenti attorno alla “Torre dei Giganti”. Lo spessore dei muri (m. 3,70) e l’irregolarità della struttura di quest’ultima possono far ipotizzare una preesistenza. Parallelamente, infatti, un diploma del 979 conferma a Landolfo II, arcivescovo di Benevento, la chiesa di S. Michele “simulque cum integro ipso castello”. Sulla struttura originaria, quindi, furono eretti, in età aragonese, gli antemurali e il torrione a mandorla, su un fossato scavato nella roccia largo m.11 e profondo m. 3, che presenta, in rilievo, la data 1493, inducendo ad attribuirlo a Francesco di Giorgio Martini,durante il periodo in cui intercorsero rapporti di alleanza tra il Regno di Napoli, il ducato di Urbino e la Repubblica di Siena. L’architetto senese fu amico del figlio di Re Ferdinando, Alfonso duca di Calabria, il quale, probabilmente, lo ospitò durante un pellegrinaggio al santuario micaelico 61. Nel 1491, stando ai registri forniti dall’archivio di Stato di Napoli62, furono pagati 150 ducati per la prestazione professionale di Francesco di Giorgio “per li serviti che ha prestati in lo designar et veder _______________ 61 - M . AZZARONE, L’intervento di Francesco di Giorgio Martini nel castello di Monte Sant’Angelo, in G ARGANOSTUDI, Monte S. Angelo, VII, 1984, p. 69. 62 - M . AZZARONE, Il castello di Monte Sant’Angelo: il quaderno delle spese dei lavori negli anni 1490-91, in G ARGANOSTUDI, Monte S. Angelo, X, 1987, pp. 29-50. 192 le fabbriche, et fortezze di questo regno”63, dal quaderno delle spese del 149091, risulta che “ad un certo Martino” furono comprate un paio di lenzuola ed una coperta presa a Barletta per l’alloggio di costui a Monte Sant’Angelo dal 25 marzo al 24 giugno 149164. Anche Ladislao II, costruttore del castello di Rocchetta, ma sarebbe meglio dire committente, fu consigliere di Ferdinando d’Aragona, e non è improbabile che durante la visita nel Regno di Francesco di Giorgio avesse anch’egli conosciuto e chiesto al grande architetto militare di far erigere il castellopalazzo, il cui elemento bastionato ha forti affinità con quello di Carovigno 65. Il raffronto fra i due mostra che in quello di Rocchetta la parte superiore è ricostrutita e quello di Carovigno non ha l’eleganza che contraddistingue l’opera dell’architetto senese66. _______________ 63 - M . AZZARONE, op. cit., p. 69. 64 - M . AZZARONE, op. cit., p. 43. Il documento allo studio dell’ing. Azzarone, è così intitolato: “Quaderno facto per me Antonio Jo. Visco tesorero della fabrica et fosso delo Castello di Monte Sancto Angelo decto et ordinato per lo Mag.co messer Thomaso Baroni gubernat. de la Citate de Monte Sancto Angelo contenento introyto et exito del presente anno nona edizione (1490-1491)” (ARCHIVIO DI STATO DI N APOLI, Dipendenze della Sommaria prima serie, fascio 188). 65 - R. D E VITA (ed.), Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, 19842, sub voce. 66 - Cfr. R. PANE, Architettura del Rinascimento a Napoli, Napoli 1947, passim. Sulla via dell’architetto senese si veda l’Introduzione di C. Maltese a F. di G. Martini, Trattati di Architettura Ingegneria e Arte Militare, I, Milano, 1967, pp. XI-LXVIII; S. PEPPER - Q. HUGHES, Fortification in late 15th century Italy: the treatise of Francesco di Giorgio Martini, BAR, Supplementary Series, II, 41, pp. 541-559. 193 Architettura religiosa e ceti dirigenti a Foggia tra Sei e Settecento di Andrea Amato La città di Foggia assume, nel corso del Seicento e del Settecento, un ruolo sempre più importante nella politica economica, commerciale e fiscale del Viceregno prima e dei Regno di Napoli poi, in virtù del dislocamento degli Uffici della Regia Dogana della mena delle pecore. I rapporti diretti con la Capitale, le iniziative promosse da figure di rilievo come i vescovi Mons. Cavalieri e Mons. Faccolli, la presenza di artisti provenienti da Napoli, l’emergere di maestranze locali professionalmente preparate; tutti questi elementi concorrono a determinare una maturazione del gusto e delle manifestazioni artistiche e, più specificatamente, architettoniche. E possibile seguire questa evoluzione partendo da un esame degli orientamenti culturali ed artistici espressi, in questo periodo, dalla committenza ecclesiastica e privata. 1 - Committenza privata ed ecclesiastica nel Seicento I primi Vescovi che si succedono nel Seicento si rivelano poco interessati alla città di Foggia e continuano a prestare le loro maggiori attenzioni al centro di Troia. Aldobrandini (1593-1607) e De Ponte (1607-1622), teatino, per i loro incarichi presso la Nunziatura di Napoli e presso quella di Germania sono, addirittura, assenti dalla Diocesi per lunghi periodi1. F. Siliceo, (l623-l626)2 già Arcidiacono di Troia, oltre a “registrare l’Archivio” e a “porre in chiaro […] gli averi della _______________ 1 - G. ROSSI, Vita di Mons. D. E. G. Cavalieri, Napoli, 1741, p. 107. 2 - Per la successione dei Vescovi cfr. C. DELL’AQUILA (a cura), Cronotassi, iconografia e araldica dell’Episcopato pugliese, Bari, 1984, p. 302. 209 Mensa” a Troia, fa’ ampliare il Monastero delle Religiose Benedettine3. Le prime opere di rilievo, realizzate a Foggia, sono promosse da Mons. Astalli (1626-1644) e riguardano le Cappelle dell’Iconavetere e dei SS. Protettori nella Cattedrale: mille ducati sono stanziati, a tal fine, dall’Università nel 16314. Di lui si ricorda un altro intervento, ma questa volta a Troia, e cioè l’ampliamento del Palazzo Vescovile5. Superata la crisi politica del ‘48 che vede direttamente coinvolto Mons. Sacchetti (1648-1662), l’Episcopato mostra di voler estendere il suo raggio di intervento nella cittadina foggiana. Mons. Sorrentino (1663-1675), nel 1665, fa ristrutturare e ampliare l’ex Ospedale annesso alla Chiesa della SS. Annunziata per ospitarvi una seconda comunità di Clarisse6. Si tratta di un passo certamente importante perché l’istituzione del nuovo Convento consolida i rapporti tra Vescovato e ceti nobiliari, da cui provengono le novizie. Più incisiva è l’azione di Mons. de Sangro (1675-1694), teatino, il quale oltre a riammodernare il convento della SS. Annunziata7 e a ricostruire nel 1688 dalle fondamenta, a proprie spese, la Chiesa omonima8, contribuisce personalmente al completamento della nuova sede dei Teatini9, uno degli Ordini più importanti e tra i più impegnati nel promuovere la politica controriformista della Curia romana. Tutti segni questi che stanno a dimostrare come la città di Foggia assuma un nuovo ruolo nella strategia diocesana dei Vescovi di Troia, finora piuttosto assenti. Chiuso in un’ottica particolaristica e in un’aristocratica affermazione del primato della Cattedrale e delle due parrocchie di S. Tommaso e di S. Angelo, si presenta il Capitolo della Collegiata. Paralizzato dalla conflittualità con la Diocesi di Troia e spiazzato dalla sorprendente vitalità degli Ordini regolari, il clero secolare resta ai margini dei grandi processi di ecclesializzazione della società promossa dalla Controriforma. _______________ 3 - G. ROSSI, op. cit., pp. 107-166. 4 - M. DI GIOIA, Il Duomo di Foggia, Foggia, 1972, p. 87. 5 - G. ROSSI, op. cit., p. 107. 6 - M. DI GIOIA, Foggia sacra ieri e oggi, Foggia, 1984, p. 206. 7 - G. ROSSI, op. cit., p. 160. 8 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 44. 9 - ID., Foggia... cit., p. 192. 210 Università e nobiltà trovano nella Chiesa Matrice il loro principale punto di riferimento. L’istituzione cittadina si segnala, in questa fase, per i finanziamenti concessi alla Cattedrale nel 1631 e nel 1681. Parallelamente all’intervento di Mons. de Sangro, l’Università, nel 1673, dona ai Teatini l’area su cui essi insediano la loro Chiesa10. La presenza dell’aristocrazia foggiana nella Cattedrale la si può rilevare dal patrocinio delle cappelle. I Brancia, una delle più antiche famiglie di Foggia, sono titolari degli altari dell’Ascensione e dell’Incoronata; i De Julianis dell’altare di S. Caterina 11. Nel 1681 il patronato della Cappella dell’Iconavetere appartiene a G. B. della Porta e C. Pisani, mentre negli anni immediatamente precedenti si erano succeduti nella carica di Governatori della stessa Cappella uomini come G. Caracciolo, D. Morelli, G. B. De Angelis, C. Petrea, T. del Tudone, D. Coda, tutti di origine aristocratica12; l’altare dei SS. Protettori, costruito dai de Finabellis, diventa successivamente beneficio dei Terenzio; l’altare di S. Biagio viene affidato al patronato dei De Maio 13; i Marzano curavano la Cappella del S. Spirito, poi passata ai Tafuri14. Gli interventi nella Cattedrale si limitano ad abbellimenti parziali come, nel 1646, la ridecorazione dell’arco trionfale su commissione di D. Falcigliall. Solo nel 1681 viene varato un ampio programma di ristrutturazione che modificherà l’aspetto del tempio. La grandiosità di queste opere manifesta l’avvio di una nuova fase in cui la Collegiata cerca di imporsi come polo principale della vita religiosa cittadina. Gli anni ‘80, dunque, segnano una svolta per la Chiesa secolare grazie all’intervento congiunto del Vescovo, del Capitolo e dell’Università. L’uscita dalla crisi degli anni ‘50, la convergenza di forze sinora contrapposte e un più preciso orientamento controriformistico rendono possibile questo mutamento. Siamo solo agli inizi ma si traccia una direzione precisa. _______________ 10 - ID., Foggia ... cit., p. 67. 11 - ID., Foggia ... cit., p. 172. 12 - Per l’indicazione nominativa cfr.: C. CALVANESE, Memorie per la Città di Foggia, Foggia, 1931, p. 175 e pp. 190 e sgg. Per le origini nobiliari dei canonici cfr.: S. CODA, Difesa della Città di Foggia.... Napoli, 1728. 13 - A.D.T., Relazione della visita di Mons. Cavalieri compiuta nel 1706, vol. XVIII, p. 7 v. 14 - S. CODA, op. cit., p. 30. 15 - M. DI GIOIA, Il Duomo... cit., p. 87. 211 Tutto il ‘600, fin dai suoi esordi, è contraddistinto dalla considerevole attività degli Ordini regolari che trova una immediata ripercussione nel fervore costruttivo dei loro insediamenti. Nel 1579 si fonda il Convento dei Cappuccini e nel 1618 viene ampliata l’annessa Chiesa di S. M. di Costantinopoli16. Nel 1615 i Fate-Bene-Fratelli restaurano la Chiesa di S. Giovanni di Dio 17. Gli Agostiniani avevano già provveduto nel 1599 a ricostruire il loro luogo di Culto 18. I Teatini, insediatisi a Foggia nel 1625, riedificano la loro chiesa nel 1673. Infine, nel 1686, il Terz’Ordine di S. Francesco costruisce la cappella di S. Ciro, presso Gesù e Maria19. In questa fase i rapporti tra Comunità Monastiche Regolari e ceti cittadini sono testimoniati dalle numerose donazioni a loro favore: G. A. Elanco lascia una cospicua eredità ai Teatini20; G. B. Remestino contribuisce all’erezione del Conservatorio delle Orfane presso S. Giovanni di Dio dei Celestini21. I Francescani sono sostenuti da comunità abruzzesi e dai locati, in particolare, che contribuiscono all’ampliamento della chiesa di S. M. di Costantinopoli dei Cappuccini e, nel 1693 sostengono pure il progetto della costruzione delle Cappelle delle Croci. L’incontro con la Comunità dei pastori è favorito dalla ubicazione degli insediamenti di questi Ordini, in prossimità del Piano delle fosse, dove si svolgeva la fiera e dove gli abruzzesi facevano tappa durante la transumanza. Gli Ordini regolari si distinguono anche nella promozione di Confraternite. Nascono, infatti, dietro sostegno degli Agostiniani, la Congregazione di S. Monica, sorta nel 1597 e composta da artigiani22 , e quella del Carmine, formata da muratori, e già attestata nel 164623. Il primo criterio su cui si basa la committenza laica è quello della territorialità. I Belvedere, ad esempio, hanno un rapporto privilegiato _______________ 16 - G. SPIRITO, Foggia e l’antico Convento dei Cappuccini, Foggia, 1985, p. 35. 17 M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 153. 18 ID., Foggia... cit., p. 259. 19 D. FORTE, I Francescani a Foggia, Bari, 1981, pp. 45 e sgg. 20 M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 192. 21 ID., Foggia ... cit., p. 174. 22 ID., Foggia ... cit., p. 413. 23 E. BOAGA, Per la storia della Confraternita del Carmine in Puglia, in CONFRATERNITE in Età Moderna, a cura di L. Bertoldi Lenoci, vol. II, Fasano, 1990, p. 447. 212 con la chiesa di S. Tommaso, dove hanno un altare24 e con S. Chiara, le due chiese prossime alla loro residenza su via Arpi (v. carta allegata). I Rossignoli, che, possedevano un palazzo alle spalle di S. Domenico, in questa chiesa, nei primi decenni del Seicento, erigono l’altare maggiore e vi installano l’organo 25; i Della Posta, il cui palazzo era ubicato sull’attuale via Manzoni (v. carta allegata), stabiliscono la sepoltura di famiglia presso la chiesa dei Cappuccini26. Interessi economici, invece, orientano i Sacchetti a privilegiare la Chiesa di Gesù e Maria e l’annesso convento degli Osservanti, presso il quale essi hanno i loro depositi. In questa chiesa costruiscono una propria cappella e vi tumulano numerose sepolture27. Non tutte le famiglie stabiliscono un rapporto esclusivo con un singolo luogo di culto. Alcune estendono la loro presenza a più chiese. Gli Stanco, ad esempio, realizzano due cappelle, una in S. Gaetano, presso i Teatini, e l’altra nella chiesa degli Osservanti28; i Sacchetti, oltre che in quest’ultimo luogo di culto, hanno un’ “abbadia Concistoriale” nella Cattedrale29; i Falciglia sono presenti sia nella Chiesa Madre che in quella dei Morti, dove provvedono a decorare il soffitto 30. La committenza privata si esprime anche attraverso le Confraternite. Merita di essere menzionata l’iniziativa della Congregazione della SS. Annunziata riguardante la fondazione del Monastero delle Clarisse; si può aggiungere la costruzione della Chiesa del Carmine nel 1656 ad opera dell’omonima Confraternita31. Ma la più importante realizzazione compiuta da una Confraternita è quella della Chiesa dei Morti32. In questo caso, si può dire che si mobilita una parte considerevole della nobiltà foggiana, iscritta nell’omonimo sodalizio. _______________ 24 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 377. 25 - S. CODA, op. cit., p. 37. 26 - G. SPIRITO, op. cit., p. 35. 27 - D. FORTE, op. cit., p. 42. 28 - S. CODA, op. cit., p. 39. 29 - M. DI GIOIA, Il Duomo..., cit., p. 172. 30 - M. DI GIOIA, Foggia… cit., p. 353. 31 - CASIMIRO DI S. M. MADDALENA (Padre), Cronaca della Provincia de’Minori Osservanti Scalzi, Napoli, 1729, p. 430. 32 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 353. 213 2 - Mons. Cavalieri e la nuova identità cittadina Mons. Cavalieri (1694-1726)33 è certamente una delle figure di spicco nel panorama religioso e culturale foggiano dell’epoca; la sua opera di risanamento morale e di orientamento civile fu intensa ed incisiva e, alla fine, determinò una trasformazione profonda dei modelli di comportamento e degli equilibri della società foggiana. Questi risultati furono possibili grazie alla sua forte personalità e al particolare momento storico in cui si trovò ad operare. Rientra nella politica di restaurazione del potere vescovile, promossa dalla Chiesa post-tridentina, il varo di un programma di rigore morale indirizzato sia al clero che al corpo sociale, rilanciando alcuni temi controriformistici. Esso passerà anche attraverso un progetto di ridefinizione dell’assetto organizzativo della Chiesa, fondato su una solida base culturale. Questa politica, già avviata da Innocenzo XI, giunge al culmine con Benedetto XIII, al secolo V. M. Orsini. Anche in Puglia questa linea trova una larga applicazione e, quasi contemporaneamente, più Vescovi, operanti in diverse diocesi, si muovono nella stessa direzione. Qui si prende in esame l’attività di tre di essi: V. M. Orsini, Vescovo di Manfredonia dal 1675 al 1680, poi titolare della diocesi di Cesena e Benevento e, infine, assurto alla carica pontificia nel 172434; Mons. P. Sarnelli, Vescovo di Bisceglie dal 1692 al 172435 e già collaboratore dell’Orsini; e Mons. G. E. Cavalieri, anch’egli in rapporto diretto con l’Orsini. Nell’azione di questi tre ecclesiastici si possono individuare delle _______________ 33 - Sulla vita e l’opera di Mons. Cavalieri si confronti la seguente bibliografia: G. Rossi, op. cit.; D. VIZZARI, Mons. E. G. Cavalieri e la Compagnia di Gesù, Montalto Uffugo, 1977; D. VIZZARI, E. Cavalieri da inquisitore napoletano a Vescovo di Troia, Napoli, 1976. Si noti che P. Rossi fu anche collaboratore del Papa Benedetto XIII. 34 - Su V. M. Orsini si confronti la seguente bibliografia: P. SPINELLI, Cronologia de’ Vescovi et Arcivescovi Sipontini, Manfredonia, 1680; G. A. GENTILE, Manfredonia testimonianze vecchie e nuove, Trento, 1970; M. BASILE-BONSANTE, Architettura e committenza religiosa..., in “ARCHIVIO STORICO PUGLIESE”, Bari, XXV, 1982; L. von PASTOR, Storia dei Papi, vol. XV, Roma, 1943. 35 - Le notizie riportate su P. Sarnelli sono tratte dal citato saggio di M. BasileBonsante. 214 costanti, che, per la loro ricorrenza, fanno pensare ad un vero e proprio modello di episcopato codificato e da essi applicato. Il primo strumento, previsto da questo modello, riguarda l’adozione di mansionari per i preti e per gli altri membri del clero; Orsini “ha eretto quattro mansionarij della Chiesa Cattedrale Sipontina [ ... ] et altri quattro mansionarij nella veneranda Basilica di S. Michele Arcangelo”36, ma anche Cavalieri mostra “un zelo sopragrande in lasciar memorie per la guida e regolamento dei Vescovi futuri” e, in più, indice “per fugare la ignoranza del Clero [ ... ] varie Accademie di casi morali” 37. La formazione del clero è un punto nodale nella loro strategia. A tal fine risponde la particolare attenzione da essi prestata per l’apertura e il potenziamento dei Seminari. Orsini ha eretto il Seminario sipontino 38; Cavalieri istituisce a Troia un Seminario che, per l’alto livello di preparazione, si impone in tutto il Meridione39; la “Basilicografia” del Sarnelli raccomanda l’organizzazione del Seminario 40. Il secondo mezzo utilizzato è quello della visita pastorale presso i vari centri della Diocesi, attraverso la quale si impone il rispetto di regole di decoro nel mantenimento delle chiese, se ne controlla l’amministrazione, si impongono regole di comportamento. Orsini, dopo la nomina a Papa, fa approvare dal Concilio Provinciale Romano la regola dell’obbligo della visita annuale delle diocesi da parte del Vescovo41. Gli inventari degli Archivi diocesani di Troia e di. Foggia attestano che Mons. Cavalieri ha svolto questo compito puntualmente ogni anno. Sul piano più strettamente edilizio, la cura principale viene dedicata alla Chiesa Madre, senza con ciò escludere interventi in altre chiese o l’apertura di nuovi luoghi di culto. A Manfredonia, il Vescovo si dedica ad opera di ricostruzione “rifacendo a proprie spese l’Arcivescovile Palagio, e la Chiesa Metropolitana”; lo stesso Sarnelli a Bisceglie conduce profonde trasformazioni nella sede vescovile e nella _______________ 36 - P. SARNELLI, op. cit., p. 419. 37 - G. ROSSI, op. cit., pp. 119-149. 38 - P. SARNFLLI, op. cit., p. 420, 39 - D. VIZZARI, Mons. E.G. Cavalieri e la Compagnia.... cit., p. 28. 40 - M. BASILE-BONSANTE, op. M., p. 29. 41 - L. von PASTOR, op. cit., p. 536. 215 Cattedrale42, e Cavalieri interviene a Troia nella Cappella dei SS. Protettori e “vi spese molte e molte centinaia per ripararlo” e, inoltre, dota la Chiesa di “un magnifico coro di bellissima noce” 43. L’unico punto in cui egli si discostò dall’operato degli altri due Vescovi è quello dei Sinodi provinciali che Cavalieri evita. “Avrebbe voluto usare ben tosto quel rimedio [ ... ] inculcato da’ PP. di Trento [ ... ] cioè convocare un Sinodo Diocesano, ma il toccar corda per le gare de’ due Capitoli della Cattedrale di Troja, e Collegiata di Foggia era un disperare dell’armonia, né mai in trentadue anni gli riuscì perciò si rivolse agli Editti” 44 . Ma se questo è il quadro generale entro cui opera Mons. Cavalieri, attenendosi ad un modello di gestione della Diocesi di derivazione post-tridentina, sicuramente l’esito favorevole della sua applicazione dipese dalla sua forte personalità. Il Vescovo di Troia “sin da giovane, fu un uomo di cultura eccezionale, e la sua scienza si estendeva in tutti i rami del sapere45”; legge opere in ebraico, latino, greco, francese e spagnolo e ha “fama [ ... ] non solo [ ... ] in Italia [ ... ] ma di là da’ monti”; infine, dispone di una ricchissima biblioteca, tanto vasta che l’elenco dei testi posseduti occupa ben 34 pagine dell’inventario dei suoi beni46. Proveniva da una facoltosa famiglia e dei beni familiari fece ampie donazioni. Infatti, per consentire la costruzione del Seminario dei Gesuiti a Foggia, fece omaggio alla Compagnia di Gesù, tra le altre cose, anche di “alcuni bellissimi quadri portatisi da casa sua di raro pennello, e due comperati apposta per Altari del celebre Solimene [ ... ] e con essi molti parati di Damasco avuti dal padre [ ... ] e vari altri mobili preziosi di argento e seta suoi propri”; mentre alla Chiesa di Troia offrì “bellissimi quadri di nobile pintura portati seco da Roma”47. In questo si adegua ad un altro concetto della politica post-conciliare che punta sulla “magnificenza” della Chiesa. Ed è anche certa_______________ 42 - Le notizie relative agli interventi promossi da mons. Sarnelli sono riportate in: M. BASILE-BONSANTE, op. cit., pp. 207-227. 43 - G. Rossi, op. cit., pp. 205-151. 44 - ID., op. Cit., P. 131. 45 - D. VIZZARI, Mons. E.G. Cavalieri..., cit., p. 25. 46 - G. Rossi, op. cit., pp. 219-201. 47 - ID., Op. cit., pp. 203-213. 216 mente in linea con l’altra indicazione controriformista dell’ “excitatio per sensibilia”, cioè della partecipazione dell’uomo allo spirito religioso attraverso tutti e cinque i sensi, compresa, quindi, la vista per mezzo della quale si giunge alla contemplazione della potenza divina attraverso il godimento delle bellezze del creato e della magnificenza della chiesa, intesa come architettura e come preziosità dei suoi arredi”. Ma al di là di queste coerenze, resta un gusto personale che dimostra una grande sensibilità estetica. Mons. Cavalieri è soprattutto esempio di notevole rigore morale e di spirito mistico. Infatti, “molto per tempo la mattina, anzi poco dopo la mezzanotte levavasi per l’orazione mentale [ ... ] prostrato a terra colla faccia al suolo o inginocchione colle braccia distese in croce, come fu trovato talora fuori di sé rapito”49. Simili comportamenti, in realtà, si inseriscono in un più generale fenomeno di fervore etico e religioso che attraversa in quel periodo una corrente interna alla Chiesa e che trova la sua massima espressione in Papa Benedetto XIII. Questo ritorno ad un tale fervore religioso trova giustificazione, in parte, così come era accaduto nel Cinquecento all’epoca della Controriforma, nella necessità di porre un argine al pericoloso degrado morale di consistenti settori della struttura ecclesiastica, in parte nella particolare situazione storica. Non possiamo dimenticare che, a partire dalla metà del Seicento e fino ai primi decenni del Settecento, la chiesa di Roma fu percorsa da un altro pericolo ereticale rappresentato dal movimento giansenista. Non a caso Papa Benedetto XIII nel 1725 deve affrontare una sottile e insidiosa disputa sorta in Francia fra Gesuiti, Domenicani e Giansenisti sul problema della Grazia e della predestinazione50. La personalità di Mons. Cavalieri si inserisce, dunque, in questo contesto storico e culturale e il suo operato si esplica in una realtà bisognevole di interventi correttivi. A Foggia, infatti, nel corpo ecclesiastico e nell’intero vivere civile sono chiari i segni di decadimento. _______________ 48 - Sui concetti di “magnificenza” e di “excitatio per sensibilia” si consulti il già citato saggio di M. Basile-Bonsante. 49 - G. Rossi, op. cit., pp. 114-111. 50 - ID., op. cit., pp. 567 e sgg, 217 pagna, vignaiuoli e guardiani” di “[differire] la fatica per quel giorno festivo”57. Inoltre, egli coglie l’importanza strategica di Foggia come nessun altro Vescovo aveva fatto precedentemente; di qui la decisione di permanere più a lungo in questa città, della quale individua la vocazione commerciale; non a caso viene privilegiata la zona del Piano delle Fosse per i nuovi insediamenti religiosi. È certo l’interessamento di Mons. Cavalieri per la costruzione della nuova Chiesa di S. Giovanni Battista ad opera della Confraternita della S.S. Annunziata. Di Gioia dice, infatti, che il Vescovo “con tutta la solennità del rito, procedette alla posa della prima pietra”58. Sappiamo anche dei buoni rapporti esistenti tra la Confraternita e , il Prelato, visto che i confratelli il 15 aprile 1724 sollecitano il ritorno del missionario gesuita Cacciottoli, fatto venire una prima volta a Foggia proprio su richiesta di Mons. Cavalieri” 59. In ogni caso il sostegno dato dal Vescovo alla edificazione di una Chiesa più grande come sede di una delle Confraternite più importanti di Foggia, proprio in prossimità dell’incrocio dei due tratturi regi, dimostra come fosse stato lungimirante nel prevedere la necessità di una presenza diretta del clero secolare in un’area dove vi erano le fosse per il deposito del grano, dove si svolgeva la fiera e dove faceva tappa la transumanza (v. carta allegata). Non è un caso che qui già si trovassero gli insediamenti dei Conventuali e dei Cappuccini. Lo stesso Vescovo si occupa del completamento delle Croci del Calvario. Un primo tentativo di costituzione della omonima Confraternita, composta da commercianti, avvenne nel 1703 ed è lo stesso Cavalieri a promuoverla; infatti “quando si infiammò la querelle tra il Vescovo di Troia e il Provinciale dei Cappuccini il punto più contrastato verteva sulla fondazione di una Congregazione che avrebbe dovuto gestire le cappelle da erigersi sul luogo delle Croci” 60. _______________ 29. 57 - ID., op. cit., p. 209. 58 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 308. 59 - D. VIZZARI, Mons. E.G. Cavalieri... cit., 1977, p. 53. 60 - G. CRISTINO - F. MERCURIO, Guida alla Chiesa delle Croci, Foggia, 1982, p. 219 Le cappelle sono particolarmente care alla devozione della cittadinanza perché costruite per ricordare l’esito positivo della preghiera e dell’intercessione di P. Antonio da Olivadi per scongiurare, nel 1693, il pericolo di carestia61 e diventano, col tempo, il luogo della sosta conclusiva della transumanza: qui i pastori simbolicamente ripercorrono le tappe del loro viaggio fermandosi in preghiera davanti ad ogni cappella. Mons. Cavalieri sosterrà contro i Cappuccini una lunga vertenza legale, ma per il momento deve desistere dal suo intento. Un grande impegno, inoltre, dedica alla costruzione del Seminario dei Gesuiti fuori Porta Reale, laddove si realizzerà in seguito il Palazzo della Dogana (v. carta allegata). I motivi di tale scelta in parte sono uguali a quelli indicati per le precedenti due Chiese: insediare centri religiosi legati all’azione dell’Episcopato in prossimità dei nodi strategici della città. Per la realizzazione di quest’opera fa venire un architetto da Roma62 città dove egli aveva a lungo soggiornato. Il progetto del Seminario dei Gesuiti è preventivamente esaminato dal Generale della Compagnia P. Tamburini e ai lavori presiedono prima P. Bernardi e poi P. Cirillo 63 . Lo stesso accade per la chiesa di S. Pasquale degli Alcantarini, il cui direttore dei lavori è P. Felice della Croce, stretto collaboratore del Vescovo, nominato, dietro intervento dello stesso Cavalieri, “diffinitore” provinciale del suo Ordine64 . Per quel che riguarda la committenza privata, Mons. Cavalieri riesce a convogliare sulle sue iniziative le energie sia della vecchia nobiltà che dei ceti emergenti. Sono proprio questi ultimi a offrire al Vescovo il terreno su cui edificare il Seminario dei Gesuiti65 . Nel 1726, dopo la morte del Cavalieri, l’Università rappresentata in quell’anno da figure come P. Braida, S. Coda e M. Marzano, supplica il Papa di non sospendere i _______________ 61 - IB., op. cit., p. 12. 62 - C. Rossi, op. cit., p. 202. L’autore non riporta il nome del tecnico incaricato. 63 - D. VIZZARI, Mons. E.G. Cavalieri… cit., pp. 48-62. 64 - CASIMIRO DI S. M. MADDALENA (Padre), op. cit., pag. 429. Su P. F. della Croce riferimenti si trovano anche in: D. VIZZARI, op. cit., e in G. Rossi, op. cit. 65 - R. COLAPIETRA, Élite amministrativa e ceti dirigenti fra Seicento e Settecento, in STORIA di Foggia in età moderna, a cura di Saverio Russo, Bari, 1992, p. 112. 220 lavori del Seminario offrendo, contestualmente, una rendita annua per il suo mantenirnento 66. È G. De Carolis, nobile di origine napoletana, ad offrire 1.080 ducati per la costruzione della chiesa di S. Pasquale67; mentre è la Confraternita della S.S. Annunziata, che ora annovera tra i suoi ranghi “mercadanti”, come F. e B. Mascoli, G. Celentano, M. Taliento e altri, a erigere la chiesa di S. Giovanni B.68. Le figure di maggior rilievo che emergono in questo periodo condividono l’orientamento del Cavalieri. Ci riferiamo, in modo particolare, a Saverio Celentano, chiamato più volte a cariche importanti: nel 1724, nel 1727 e nel 1750. Educatosi nelle “umane lettere nel Seminario di Troia, retto in quel tempo dalla felice memoria di Mons. Cavalieri”; egli completa i suoi studi a Napoli prima presso i Gesuiti e poi all’Ateneo partenopeo, dove nel 1721 si laurea in legge” 69 . Formatosi al tempo di Cavalieri, l’opera di questo erudito si sviluppa nei decenni successivi ed è lui, nel 1732, in qualità di Eletto, a chiedere al Governo di Napoli “sollievi nell’emergenza della città di Foggia”70. Egli è uno dei promotori delle Cattedre di insegnamento pubblico, e, ancora nel 1750, si adopera presso il Reggimento e presso la R. Camera per finanziare la ricostruzione di Gesù e Maria71. La famiglia Celentano, inoltre, realizzerà nel 1729 una propria cappella presso la chiesa S. M. di Costantinopoli e la decorerà con affreschi del Preste72 . 3 - Mons. Faccolli e la fine dello spirito controriformistico Mons. Giovanni Pietro Faccolli73, nato a Lecce, laureatosi in “utroque juris” presso la Sapienza di Roma, già capitolare della Diocesi di _______________ 66 - D. VIZZARI, op. cit., p. 82. 67 - CASIMIRO DI S. M. MADDALENA (Padre), op. cit., p. 435. 68 - D. VIZZARI, op. cit., p. 54. 69 - G. CALVANESE, Memorie per la Città di Foggia, cit., pp. 52-56-60. 70 - V. PILONE, Storia di Foggia dalla venuta di Carlo di Borbone al 1806, Foggia, 1971, p. 60. 71 - D. FORTE, op. cit., p. 50. 72 - G. SPIRITO, op. cit., pp. 58 e sgg. 73 - Di Mons. Faccolli mancano biografie complete; notizie sulla sua figura si 221 Otranto 74, si insedia sulla cattedra episcopale di Troia l’ 11 settembre del 1726 e la tiene fino al 2 gennaio del 175275 . Durante il suo episcopato diversi eventi contribuiscono a mutare l’orientamento della politica ecclesiastica. Nel 1730 muore Papa Benedetto XIII Orsini, ultimo campione della Controriforma. Nel 1773 i Gesuiti saranno definitivamente soppressi. Si affacciano già le prime idee illuministe e i Sovrani d’Europa avviano ovunque programmi riformisti. La Chiesa deve ora affrontare un confronto serrato con una cultura laica e liberale e vede assottigliarsi i margini della sua presa sociale. “Le ondate successive della politica riformatrice da quella anticuriale della reggenza tanucciana fino alla legislazione ferdinandea, [sottraggono] a colpi di maglio al controllo ecclesiastico la fitta base patrimoniale e sociale degli enti pii laicali” 76. Le misure fiscali e finanziarie del governo di Napoli contribuiscono ad erodere il peso della manomorta ecclesiastica e con essa si ridimensiona l’influenza esercitata dalla Chiesa sulla società e sulle istituzioni civili. Questo graduale ritiro dalle sue tradizionali posizioni egemoniche favorisce l’avanzamento dell’autonomia e del pluralismo della società civile. Nella stessa direzione si muove anche la politica di moderato decentramento attuata dai governi partenopei. Sono fenomeni di carattere generale da cui Foggia, ovviamente, non è esente. Subito dopo la catastrofe del terremoto del 1731 paradossalmente le contese politiche nella città cessano e inizia un periodo di stabilità che durerà fino ai sommovimenti di fine secolo. La classe politica cittadina si apre a nuovi soggetti sociali e ha termine il monopolio della nobiltà più conservatrice. Uomini di sicuro valore come S. Celentano e A. Ricciardi assurgono alle massime cariche istituzionali. L’Università, dopo aver risanato nel 1748 le sue finanze77 concede _______________ possono trovare in: D. VIZZARI, Mons. E.G. Cavalieri... cit.; G. Rossi, op. cit.; C. DELL’AQUILA (a cura), op. cit. 74 - D. VIZZARI, op. cit., p. 84. 75 - C. DELL’AQUILA (a cura), op. cit., p. 302. 76 - L. DONVITO, La nuova religione cittadina, in STORIA di Bari nell’antico regime, tomo II, Roma-Bari, 1992, p. 133. 77 - V. PILONE, op. cit., pp. 68 e sgg. 222 il suo sostegno a numerose iniziative e un nuovo impegno viene pro-fuso per assicurare decoro alla città; basti ricordare i lavori della “seliciata” in alcune strade cittadine78, e la grande ristrutturazione della Cattedrale, avviata nel 1751 e affidata al Regio Ing. F. Bottiglieri. L’intervento del Governo, però, riguarderà anche la ricostruzione di molteplici luoghi di culto. Negli anni che vanno dal 1742 al 1750 ricevono finanziamenti i Cappuccini, gli Alcantarini, i Celestini e i Frati Minori di Gesù e Maria79. L’evento disastroso del terremoto aveva avuto, intanto, ripercussioni, oltre che politiche, anche sociali. L’opera di ricostruzione richiese il ricorso a ingenti risorse finanziarie che nessuno dei soggetti sociali o istituzionali, preso isolatamente, era in grado di sostenere. Fu necessario fare appello a tutte le forze della società e questa mobilitazione, alla fine, determinerà una più ricca articolazione sociale e un rinnovato dinamismo. In virtù di tutti questi fattori, la società, complessivamente, acquista nuovi margini di autonomia e anche all’interno della Chiesa si riapre una certa dialettica, come dimostra la nuova vivacità degli Ordini regolari: dal convento di Gesù e Maria, a S. Chiara, a S. Giovanni di Dio, ai Domenicani, ai Cappuccini, tutti impegnati in onerose opere di ricostruzione. Tutto ciò significa che il controllo della Chiesa sulla società è sì ancora esteso ma non è più diretto e, probabilmente, viene ricondotto ad un’azione di coordinamento delle varie istanze e delle diverse forme associative. Mons. Faccolli deve tenere conto di questo insieme di elementi nuovi. Tuttavia, egli non rompe con tutte le iniziative intraprese dalla precedente gestione. Innanzi tutto il ruolo strategico di Foggia nella Diocesi non viene disconosciuto. Occorre ricordare che con Mons. Faccolli viene portata a termine la Chiesa delle Croci, ultimata nel 1742 da Leonardo Romito 80, cioè un’insediamento religioso per il quale lungamente e inutilmente Mons. Cavalieri aveva sostenuto una vertenza legale con i Cappuccini e sulla cui importanza ci si è soffermati. _______________ 78 - ID., op. cit., p. 72. 79 - D. FORTE, op. cit., p. 50. 80 - G. CRISTINO - F. MERCURIO, op. cit., p. 11. 223 Saranno promosse, inoltre, nuove Confraternite, come aveva fatto il Cavalieri. Nel 1742 viene eretta la Confraternita di S. Filippo Neri, della quale fa parte quasi tutto il Clero secolare della città81. Allo stesso Prelato si deve la costituzione della Confraternita di S. Nicola Vescovo, composta di artigiani82; come pure col suo permesso viene istituito il Sodalizio della S.S. Trinità, cui aderiscono gli sfossatori83. Altre Confraternite sorgono probabilmente, per iniziativa spontanea di alcune categorie. Nel 1728 viene fondata la Confraternita di S. Eligio, composta da “carrettieri e ferrari” 84; nello stesso anno si forma la Congregazione di S. Maria della Croce85; mentre, nel 1746, gli artigiani si costituiscono in Confraternita di S. Maria delle Grazie86. Questa espansione del fenomeno dell’associazionismo confraternale, strettamente legato a una condizione cetuale, conferma sia la più ricca articolazione della società, sia la presa di coscienza del proprio ruolo da parte delle sue varie componenti. Nell’ambiente sociale dell’epoca, queste erano le uniche forme associative professionali possibili. Il Vescovo di Troia promuove anche la ricostruzione e riconsacra, nel 1740, la Chiesa di S. Maddalena, voluta da Mons. Cavalieri nel 172387. Muta, però, la destinazione dell’annesso Conservatorio, che viene adibito a ricovero di donne oneste ed ospita anche un certo numero di monache del Terz’Ordine di S. Francesco 88. L’azione di recupero della Chiesa in questo campo, tuttavia, è continuata grazie all’altro Conservatorio, quello di S. Teresa, ristrut_______________ 81 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 199. 82 - ID., op. cit., p. 219. 83 - ID., op. cit., p. 412. 84 - SAVINO RUSSO La Chiesa di S. Eligio, Foggia, 1991, pp. 13-14. 85 - M. Di GIOIA, op. cit., p. 409. 86 - ID., op. cit., p. 410. 87 - ID., op. cit., p. 91. 88 - ID., op. cit., p. 236. 224 turato ed ampliato nel 174611 e sostenuto dalla protezione di grossi nomi della borghesia locale come Francesco Filiasi, della città di Venezia, e Francesco Mascoli, della città di Foggia, percettore della Dogana 90. Un primo elemento di discontinuità rispetto alle scelte precedenti, invece, lo si può rilevare in una “non scelta” operata da Mons. Faccolli, quella di non portare a termine il Seminario dei Gesuiti a Foggia. Il capitolo di Troia, già nella breve vacatio della Sede Episcopale, intraprende una controversia legale, avverso la Compagnia del Gesù, tesa ad annullare le ultime volontà testamentarie di Cavalieri con le quali si dichiaravano i Gesuiti unici eredi. Mons. Faccolli prosegue questa azione legale che approderà alla rinuncia, da parte dei Gesuiti, al costruendo Seminario foggiano in cambio di un risarcimento in denaro91. La disputa si chiude nel 1733, dopo il terremoto, che, con i danni provocati alla struttura, rende non più conveniente per i Gesuiti il compimento dell’opera. Ma tale disputa è stata avviata ben prima di questo evento e non sembra che il nuovo Vescovo l’abbia proseguita solo per rimpolpare le esauste casse vescovili. In realtà, in nessun momento il Prelato cerca di scindere il problema della riacquisizione del patrimonio di Cavalieri dalla possibilità di completare una così impegnativa iniziativa. E molto probabile che Mons. Faccolli non condivida le posizioni controriformiste da sempre sostenute dai Gesuiti e non voglia, perciò, attribuire loro un ruolo così importante negli equilibri tra le varie componenti del mondo religioso. Molto chiare sono anche le opzioni artistiche del nuovo Vescovo che si esprimono subito nei lavori della Cattedrale di Troia, dove, nel 1733, si procede al restauro della Cappella dei SS. Patroni, con progetto redatto dal capomastro Francesco Delfino e controfirmato dall’ing. regio Giustino Lombardo, lo stesso che, nel 1733, sarà chiamato per la costruzione di Palazzo Dogana a Foggia. È prevista la realizzazione di una cappella a pianta ottagonale con cupola e lanternino terminale. _______________ 89 - A.C.A., Atto notarile del dott. C. A. Ricca, 1746, collocazione provvisoria. 90 - A.C.A., Atto notarile del dott. A. Margiotta, 1739, collocazione provvisoria. 91 - D. VIZZARI, Mons. E.G. Cavalieri... cit., pp. 78 e sgg. 225 Anche a giudicare dall’aspetto attuale è evidente la decisa connotazione barocca92. Questo orientamento sarà largamente condiviso non perché si affermi un’influenza totalizzante e compiuta della Chiesa, ormai improponibile, ma per autonoma adesione dei diversi committenti. La committenza, in questo periodo, mostra una marcata preferenza per un rapporto diretto con artisti della Capitale chiamati appositamente a Foggia. Questo, in assoluto, non è un dato nuovo, lo è, invece, per l’ampiezza e l’importanza di tale presenza. Giovanni Chiarizio (finanziatore dei lavori nella chiesa di S. Chiara) fa venire a Foggia il marmoraro Francesco Raguzzino per l’altare di casa93; mentre nel 1730 Giuseppe Celentano impreziosisce la Cappella di famiglia presso la chiesa di S. Maria di Costantinopoli con un quadro di Sofimena 94; ancora, nel 1745, il mastro organaro Domenico Mancino esegue un organo “da situarsi in Foggia”95; nel 1728 opera in città il maestro Giuseppe Pucci, che realizza l’altare maggiore della Cattedrale, poi spostato nella Cappella dell’Iconavetere96. Più tardi, nel 1754, vengono commissionati al Guarinelli i busti argentei dei SS. Protettori 97 , e, nel 1767, il Sammartino esegue il maestoso altare maggiore nella Cattedrale98. In S. Domenico l’altare maggiore del 1755 è opera di artigiano napoletano 99; mentre, forse, opera del Colombo sono le statue dell’Immacolata100 e di S. Giuseppe101 nella Cattedrale. Ma tanti altri altari, quadri e statue, sparsi in tutte le chiese fog_______________ 92 - R. MASTRULLI, Elementi di arte barocca nella Cattedrale di Troia, Foggia, 1985, pp. 22 e sgg. 93 - M. PASCULLI - FERRARA, Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII sec., Fasano, 1983, p. 28. 94 - ID., op. cit., p. 27. 95 - ID., op. cit., p. 29. 96 - ID., op. cit., pp. 30 e sgg. 97 - ID., op. cit., p. 42. 98 - ID., op. cit., p. 36. 99 - P. SCOPECE, Un Convento... una Chiesa, storia della Chiesa di S. Domenico in Foggia, Foggia, 1991, p. 32. 100 - M. DI GIOIA, Il Duomo di Foggia... cit., p. 139. 101 - ID., op. cit., p. 128. 226 giane, sono attribuiti a famosi artisti napoletani (tra cui il De Mura) o ad autori di scuola napoletana. Il disastro del terremoto attiva una numerosa committenza che si esprime, in forma associata, anche attraverso le Confraternite che si fanno promotrici della costruzione di chiese, come nel caso della chiesa dell’Addolorata e della chiesa di S. Giuseppe. Si è già detto delle iniziative intraprese dalla famiglia Celentano; l’altra figura che in questi anni si distingue è quella di A. Ricciardi, un altro Reggimentario, grande proprietario agrario di origine molisana 102. Di lui un’epigrafe presente in S. Domenico ricorda che “[...] fece lastricare con pietre quadrate le vie della città rovinate e sdrucciolevoli; infine, uomo di prodiga generosità fornì di arredamento prezioso il tempio dell’Iconavetere e ampliò a proprie spese la maggior parte delle mura del collegio destinato alle fanciulle orfane” 103. Lo stesso Ricciardi, nel 1731, provvide ad un restauro del monastero di S. Chiara104. Singoli privati, Confratemite, Università, Chiesa: il quadro si fa più mosso, i protagonisti sono tanti e le loro posizioni non sempre coincidono. Alla fine degli anni ‘50 si apre una nuova fase e il dibattito politico e culturale registra un nuovo scatto con l’affacciarsi di posizioni più apertamente riformiste e laiche. Mons. Faccolli è stato il Vescovo di questa difficile fase di transizione: se non altro, ha avuto il merito di prendere atto della fine dell’età della Controriforma. 4 - La ritardata penetrazione del barocco a Foggia A causa del terremoto del 1731 e dei bombardamenti del 1943, dell’attività edilizia a Foggia nella prima metà del Seicento restano oggi scarse testimonianze. Sappiamo che la chiesa dei Celestini (S. Giovanni di Dio) e quella _______________ 102 - R. COLAPIETRA, op. cit., p. 116. 103 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 287. 104 - ID., op. cit., p. 178. 227 dei Cappuccini (S. M. di Costantinopoli)105 furono entrambe ampliate, rispettivamente nel 1619106 e nel 1618107. All’interno della Cattedrale, nel 1646, il nobile Decio Falciglia “volendo emulare la magnificenza dei suoi antenati che avevano edificato ed ornato il capoaltare, cioè l’arco trionfale che copre l’altare maggiore, chiese di poter rifare la decorazione con stucchi ed altri ornamenti dorati, unitamente con le basi, i capitelli e l’architrave, rappresentando il trionfo di Cesare Augusto”108. In che cosa consistesse precisamente il programma narrativo di questi dipinti ce lo dice il Calvanese quando, con una certa indignazione, si chiede chi sia mai stato “l’autore che permise” “all’archi sopra l’ara massima [...] l’opera a stucco con le immagini di Giano, di Medusa, de’ Satiri, di fanciulli alati, che non sono angioli, i timpani, le tartarughe e li due fanciulli con li pifferi, denotanti il passaggio di Cesare al Rubicone che invase la libertà della Patria, et altre larve degne di essere da una Chiesa cattolica rimossa, et affatto abolite” 109. Ancora a metà Seicento, quindi, un ceppo nobiliare per ricordare i fasti familiari ricorre alla realizzazione di una decorazione, il cui tema ci riporta alla cultura rinascimentale proponendola, non in una residenza privata o in una cappella gentilizia, ma nello spazio che rappresenta il fulcro in una Chiesa cattolica. Se si aggiunge che questo viene consentito in piena epoca controriformistica si coglie, allora, in pieno lo spessore e il significato culturale di questo intervento. Sullo sfondo si può leggere l’enfatizzazione, non solo della storia di una famiglia, ma dei remoti splendori di Foggia, nata, secondo la tradizione locale, dall’antica Arpi, già fiorente cittadina dauna e poi ricca colonia romana. Anche la chiesa foggiana è legata alla storia cittadina, di cui si è servita più volte per giustificare la sua richiesta di autonomia dalla diocesi di Troia. Non ci sembra un caso che poco tempo prima, nel 1630110 sempre nella Cattedrale, vengano recuperate due colonne di marmo verde, _______________ 105 - L’intero complesso oggi non è più esistente. 106 - M. DI GIOIA, op. cit., p. 130. 107 - G. SPIRITO, op. cit., p. 35. 108 - M. DI GIOIA, Il Duomo di Foggia... cit., p. 87. 109 - G. CALVANESE, op. cit., p. 171. 110 - ID., op. cit., pp. 167-174. 228 provenienti dal palazzo di Federico II, per la costruzione dell’altare maggiore della nuova cappella dell’Iconavetere. Questa, insieme con la simmetrica cappella dei SS. Protettori, viene commissionata dal Vescovo Giovan Battista Astalli, romano, che resse la diocesi dal 1626 al 1644111. Due interventi, questi dell’Astalli e del Falciglia, che, per la loro connotazione fortemente laica e classicista, ci fanno rimpiangere la scarsità di notizie sui due interessanti personaggi. Questa componente culturale cinquecentesca non sarà mai completamente sradicata da Foggia e, presumibilmente, condiziona in un primo momento l’introduzione del linguaggio barocco nella città. Foggia, del resto, fino a questo periodo ha conosciuto una crescita economica, ma non ancora uno sviluppo civile e culturale e, per dare lustro alla sua nuova posizione economica, guarda indietro, cercando riferimenti storici antichi e, perciò, prestigiosi e propone modelli artistici classicheggianti. La situazione cambierà dopo il biennio 1647-48, quando si aprirà una dialettica tra vecchia nobiltà e nuova borghesia e quando la classe dirigente locale entrerà in contatto con una dimensione politica più ampia, diventando protagonista di un nuovo cielo storico. In questa fase emergeranno nuove esigenze culturali che si manifesteranno nella ,volontà di aggiornamento del gusto, anche se ciò non determinerà la scomparsa del vecchio retaggio culturale che cercherà di convivere con nuovi modelli. Nella seconda metà del secolo la città vede la fondazione ex novo delle chiese di due importanti confraternite: quella dei “Fabbricatori”, o del Carmine, e quella dei Nobili, o del Suffragio. Nella Chiesa del Carmine è ancora leggibile l’impaginazione data al momento della sua costruzione fuori le mura a SO, nel 1656. L’impianto, pur potendosi definire barocco per il verticalismo del doppio ordine in facciata, per il frontone ricurvo e spezzato del portale, per l’andamento leggermente concavo dei comparti laterali della facciata, denota ancora un certo rispetto per le regole classiche nella disposizione dell’ordine dorico al primo livello e di quello corinzio al secondo _______________ 111 - C. DELL’AQUILA (a cura di), op. cit., p. 302. 229 e nell’adozione del fregio dorico al di sotto dell’aggettante cornicione marcapiano. E la Chiesa dei Morti, però, la vera punta avanzata della penetrazione del barocco a Foggia. Realizzata nel 1650 ad opera dell’omonima Confraternita112, che raccoglieva alcuni dei maggiori esponenti cittadini, espressione di un primo organico e autonomo intervento di rilievo nella città, da parte dei suoi gruppi dirigenti, questa Chiesa, per i suoi schemi compositivi e per le opere d’arte in essa raccolte, rappresenta il massimo di apertura verso la Capitale e verso le forme artistiche in essa dominanti e si pone, specie per i suoi arredi, come uno dei luoghi di culto più prestigiosi di Foggia, dopo la Cattedrale. La sua facciata è caratterizzata da un festone di ossa e di teschi incrociati che attraversa tutto il prospetto. Tipici elementi barocchi sono individuabili nelle bizzarre volute del portale sormontate da teschi e spezzate da una targa, nella elegante modanatura delle nicchie e nella mossa incorniciatura delle finestre, i cui profili sono decorati con gli stessi motivi del festone. Il programmatico aggiornamento ai modelli della capitale è testimoniato, al livello più alto, dalla realizzazione da parte di Lorenzo Vaccaro nel 1687113, dell’altare maggiore, certamente una tra le più significative testimonianze della cultura barocca napoletana in tutta la Puglia. Per il significato innovativo, per il valore degli interventi in essa condotti, per la continuità e la coerenza formale, la Chiesa dei Morti rappresenta un caso unico a Foggia. Le altre opere, compiute in seguito nella città almeno fino alla fine del secolo, dimostrano una moderazione delle istanze barocche, proposte sempre nelle maniere più sobrie, sviluppate in forme non sempre coerenti e cercando di contemperare le novità in voga con i caratteri di una Koiné locale ancora attenta a schemi prebarocchi. 5 - Dialettica barocco-classicismo e adesione alle prescrizioni controriformistiche La via che si afferma a Foggia sembra essere, quindi, quella di un _______________ 112 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 353. 113 - M. PASCULLI FERRARA, op. cit., p. 23. 230 incontro, non conflittuale, tra cultura barocca e retaggi cinquecenteschi. Un riflesso evidente di tale processo è rintracciabile anche nell’edilizia residenziale di alcune grandi famiglie foggiane. Ad esempio, Palazzo De Vita, in via Arpi, ristrutturato nel 1698, assomma elementi barocchi, come i balconi bombati, i timpani spezzati e decorati delle finestre o i pinnacoli che sormontano le paraste del portone, a motivi cinquecenteschi, come il loggiato superiore con colonnine ioniche. Anche i duchi di Civitella della famiglia della Posta, di ascendenze nobiliari angioine, ai primi dei ‘700 costruiscono un palazzo, oggi purtroppo perduto, che presenta lo stesso motivo del loggiato con colonne ioniche114. La fusione tra queste due culture è possibile riscontarla anche nel complesso dei Teatini. Il loro linguaggio punta ad un connubio tra rigorosi schemi rinascimentali e modelli più aggiornati. Nel 1673, vicino a Porta Grande, questi ricostruiscono la loro chiesa di S. Giuseppe, (o di S. Gaetano). Anche se distrutta dai bombardamenti del 1943, sappiamo che aveva “un grande atrio” ed “era di forma rettangolare a tre navate” 115. Il grande atrio antistante ricorda le chiese napoletane del Cavagna, del Guglielmelli o del Fanzago; mentre la pianta a tre navate è ormai rara non solo a Napoli ma anche a Foggia, dove, a quella data, esiste solo nella Cattedrale e in Gesù e Maria degli Osservanti. L’attività di committente di Mons. Antonio de Sangro, nato a Napoli, di origine aristocratica e appartenente all’ordine dei Teatini, Vescovo della diocesi di Troia dal 1675 al 1694116, è nella linea di un cauto accostamento alla cultura barocca. Di lui sappiamo che procedette al restauro complessivo della Cattedrale di Troia117. Nell’occasione, affidò la decorazione delle volte e delle pareti a Giuseppe De Rosa, “pittore di nobile ispirazione e di singolare sobrietà per l’epoca sua di gusti chiassosi e scenografici” 118. _______________ 114 - Per i riferimenti a Palazzo De Vita e a Palazzo della Posta, cfr.: U. JARUSSI, Foggia: genesi urbanistica, vicende storiche…, Bari, 1975, pp. 91-98 115 - M. DI GIOIA, Foggia.... cit., p. 68. 116 - C. DELL’AQUILA, op. cit., p. 302. 117 - R. MASTRULLI, op. cit., p. 14. 118 - M. DE SANTIS, La “Civitas Troiana” e la sua Cattedrale, Napoli, 1976, p. 171. 231 Durante il suo episcopato a Foggia vengono realizzati, nel 1693, il portale e le cappelle delle Croci. Sull’importanza e sul significato di questa realizzazione ci siamo già soffermati119 ma, proprio per l’alto valore di questo complesso, assume maggiore pregnanza la scelta operata di esporre quasi un catalogo delle più differenti culture, mentre la diversità dell’apparato decorativo delle attuali cinque cappelle rimanda alla invenzione libera e casuale della decorazione medioevale. I simboli della Passione di Cristo sono pienamente conformi allo spirito devozionale controriformistico; nel portale il gusto classicheggiante è più evidente nel registro inferiore, con l’arco tra lesene su alto basamento, con i simboli del sole e della luna nei pennacchi, con l’architrave che ne definisce i limiti. Nel fastigio questo gusto, ancora presente nello specchio centrale con moderate volute su conci a punta di diamante, è sopraffatto dalla forte caratterizzazione barocca dei pinnacoli e delle statue. Il tema della “rnagnificenza cristiana” è qui risolto mediante la dimostrazione di una “radicale elaborazione dei modelli preesistenti” e di una “originalità dei risultati” 120. Ma i lavori più importanti, eseguiti a Foggia durante l’episcopato di Mons. de Sangro, riguardano la più radicale ristrutturazione mai compiuta della Cattedrale. Questi interventi, per la loro complessità e significatività, ci offrono anche il più prezioso materiale di riflessione sulle tendenze architettoniche prevalenti in quel periodo e sull’affermarsi della normativa tridentina nella diocesi. Si realizzeranno, infatti, in tutto questo decennio, finestre sui lati della chiesa, dietro il coro, nelle Cappelle del Crocifisso e dell’Iconavetere e, preliminarmente, si provvederà a sopraelevare tutti i muri perimetrali della Chiesa, senza, per altro, compromettere le belle decorazioni medioevali del cornicione esterno. Partendo da necessità concrete si introducono due principi costruttivi basilari per gli edifici espressi dalla cultura della controriforma: la verticalità e la luminosità. I due aspetti marciano di pari passo, perché solo elevando i prospetti si possono realizzare le alte finestre luminose. La luce, nella simbologia controriformistica, sta ad indicare la presenza divina e sottolinea, in particolar modo, l’evento sacramentale della _______________ 119 - Si veda, supra, il paragrafo 2. 120 - M. BASILE-BONSANTE, op. cit., p. 215. 232 Messa come momento di comunione dei fedeli con il Signore, mentre la grandiosità delle strutture allude sia alla preminenza della Cattedrale in quanto chiesa del Vescovo, sia alla superiorità della Chiesa di Roma. Non sappiamo quanta consapevolezza avessero di tutti questi principi gli artefici delle opere menzionate, ma quando le esigenze di funzionalità, da loro avvertite, partono da una diversa considerazione del rapporto fedele- struttura, cui si riferisce il bisogno di dare più luce, quando cioè il referente è l’uomo concreto con i suoi bisogni di comodità, allora si avverte, implicitamente, che è cambiato il modo di intendere la religiosità. In questi interventi sono impegnati numerosi mastri fabbricatori locali e tra essi alcuni, come A. Smeraglia, D. A. Vera, D. Serafino e C. Barbato, sono abilitati a pattuire le condizioni contrattuali con i rappresentanti dell’Università e del Capitolo 121. Successivamente si stabilisce di “rifare la nave di basso”122, in quanto non si poteva “dall’inferiore vedere le funtioni ecclesiastiche, che si fanno nella superiore, già che nel mezzo della Chiesa si saliva con più di quindici scale alla superiore” 123. Tali lavori vengono realizzati dal partitario D. Serio di Toma. Sopravvivono, in questi interventi, alcuni caratteri che ci riportano ancora una volta in un clima classicista: sia quando si propone “l’ordine delli capitelli dorico con li suoi architravi, fregio e cornicione in giro [...]”124; sia quando, per l’intera struttura, si rispetta un rapporto 1:2, assai semplice, ligio a canoni aulici e assai distante dalle complicazioni barocche: “il vano delle cappelle (sarà di) palmi 17, l’altezza degli archi sarà di palmi 34”; la porta maggiore larga palmi otto e alta palmi sedici; il finestrone “nel vano di detta affacciata [...] di palmi otto e sedici, et alli lati due nicchie di palmi sei e dodici” 125. D’altro lato, però, rispetto ai primi lavori degli inizi degli anni ‘80, sembra manifestarsi una più netta impostazione decorativa e un contraddittorio aggiornamento formale di alcune opere. Relativamente a questo ultimo aspetto, l’ing. Bottiglieri, che interverrà nella ristruttu_______________ 121 - G. CALVANESE, op. cit., pp. 190-93. 122 - M. DI GIOIA, Il Duomo di Foggia... cit., p. 89. 123 - ID., op. cit., p. 167. 124 - ID., op. cit., p. 94. 125 - ID., op. cit., pp. 90 e sgg. 233 razione del 1751, definisce “di architettura moderna” la “scalinata (di fuori della facciata) e boccale allo vano di porta di pietra bianca detta di S. Giovanni”. Infatti, anche la facciata viene rimodernata con la terminazione superiore a volute e pinnacoli, col “finestrone in mezzo” ovale entro l’ogiva medioevale, con i due nicchietti laterali. L’interno della Chiesa, invece, viene abbellito da un “pavimento d’astrico battuto, ripartito in liste di pietre vive piane da fronte a fronte ad ogni pilastro, con la croce in mezzo”; anche i pilastri della “nave di basso” hanno “tutte le fascie di pietra viva”126. Bottiglieri nella sua ricognizione dice che “riguardo la decorazione dell’altari, ve ne sono quattro nelli archi di poco fondo nella nave grande di lavoro di stucco alla milanese”, allo stesso modo le "due navette si trovano decorate di stucchi detti alla milanese con li suoi pilastri isolati, anche vestiti di stucchi dalla detta parte” 127. Modelli formali, quindi, non sempre coerenti, ma tesi, per lo più, a coniugare vecchio e nuovo. Con Mons. Cavalieri si registra un mutamento di prospettiva. L’incontro tra linguaggi formali diversi, finora motivato dalla ricerca di una continuità tra passato e presente, con il nuovo Vescovo continua, ma acquista un significato più ampio. Si perde la dimensione localistica e ci si riallaccia all’attività di personalità della Chiesa di sicuro prestigio, come P. Samelli, Vescovo di Bisceglie, e V. M. Orsini. Per l’esecuzione dei suoi programmi Mons. Cavalieri chiama a Foggia anche architetti romani, come nel caso della costruzione del Seminario dei Gesuiti128, e assume come base teorica la numerosa trattatistica sull’architettura religiosa fiorita intorno agli anni ‘80 del Seicento. Appare utile, in proposito, rifarsi ai disciplinari scritti dall’Abate F. M. Cavalieri, collaboratore di F. M. Orsini presso la Diocesi di Benevento, e a quello di P. Sarnelli, già menzionato”129. _______________ 126 - ID., op. cit., pp. 90-91. 127 - ID., op. cit., p. 180. 128 - G. ROSSI, op. cit., p. 202. 129 - Per la trattazione di queste tematiche si fa costante riferimento, al già citato saggio della Basile-Bonsante. 234 Il primo si caratterizza per il suo approccio più pratico e flessibile, il secondo, invece, ha un intento erudito e tende ad una assolutizzazione delle norme. Questi trattati, però, presentano alcune caratteristiche in comune, che si possono così riassumere: il passaggio “da implicazioni pauperistiche, che accompagnano il mito della Chiesa primitiva [...] (al)l’esaltazione del culto attraverso elementi visivi (“la magnificenza delle cose”)” 130; la valorizzazione dell’altare maggiore e del tabernacolo; l’adozione della pianta a croce latina. L’adozione di tale planimetria a navata unica in Samelli si carica di valori simbolici medioevali (“come se fosse un corpo umano il cui capo sia la tribuna o il santuario, le braccia le due navi laterali, il corpo la nave di mezzo, i piedi la porta maggiore”)131. Nell’interpretazione del Cataneo la stessa simbologia del corpo "risulta finalizzata alla dimostrazione della validità teorica delle proporzioni” 132. Negli interventi promossi a Benevento nella Chiesa Metropolitana dal Card. Orsini nel 1687, il riferimento a questa interpretazione più aggiornata della simbologia dell’impianto ecclesiale consente di introdurre, nella iconografia dell’edificio, un criterio di simmetria degli spazi133. Nel 1702 i nuovi lavori di ristrutturazione della stessa Chiesa Metropolitana sono affidati a Filippo Raguzzini, il cui stile concilia “partiti saldi ed equilibrati di una monumentalità quasi cinquecentesca” con “ornati fanzaghiani, resi più sobri e misurati” 134. Lo stesso tecnico, nei lavori nella Basilica di S. Bartolomeo a Benevento, può realizzare il suo programma di riduzione delle navate da tre ad una 135. Come si vede, l’adesione alle norme controriformistiche, in questi casi, non è interpretata in senso vincolante, ma riesce ad aprirsi a nuovi modelli formali; questo perché nell’Orsini, a differenza del Sarnelli che prende le distanze dai cosiddetti “novatori” 136, il rispetto della _______________ 130 - M. BASILE-BONSANTE, op. cit., pp. 215 e sgg. 131 - ID., op. cit., p. 217. 132 - lD., op. cit., p. 218. 133 - ID., op. cit., p. 223. 134 - ID., op. cit., pp. 225-26. 135 - ID., op. cit., p. 226. 136 - ID., op. cit., p. 212. 235 normativa architettonica post-tridentina non è sentita in senso antimoderno. È lo stesso modo di intendere il rapporto tra presente e passato da parte di Mons. Cavalieri: anche le chiese costruite a Foggia durante il suo episcopato rispettano i tre principi sopra ricordati dell’esaltazione dell’altare maggiore, della magnificenza e dell’adozione della pianta a croce latina. E si è già detto di come il Vescovo esercitasse sull’esecuzione delle opere attenta vigilanza, attraverso persone di sua fiducia. Anche il Vescovo di Troia non considera le prescrizioni controriformistiche in senso antimoderno; anzi planimetrie e verticalismo di stampo controriformistico e scenografia barocca esprimono, insieme, la grandezza della Chiesa. Questi caratteri si possono tutti riscontrare nelle chiese edificate in questo periodo; e cioè S. Giovanni Battista, aperta al culto nel 1725 e realizzata dalla Confraternita della SS. Annunziata; S. Pasquale, costruita dagli Alcantarini nel 1724 e S. Agostino, riedificata nel 1714. Comune ai tre edifici religiosi è la riproposizione della pianta a croce latina, che è esplicità in S. Giovanni Battista, mentre in S. Pasquale è, in qualche modo, mascherata dalla presenza di cappelle laterali intercomunicanti però di profondità inferiore rispetto ai bracci del transetto, che ospitano due altari. Anche la chiesa di S. Agostino si distende su una pianta longitudinale benché “incompiuta”, dato che ha un solo braccio, essendo l’altro impedito dalla struttura conventuale addossata alla chiesa su questo lato. Accomuna ancora le tre chiese la ricerca, in forme a volte ingenue, di una certa complessità. Il livello più alto, in tal senso, è raggiunto in S. Giovanni Battista, dove non solo la soluzione planimetrica è chiara e compiuta, ma è evidente, nell’interno, una ricerca di monumentalità che si evince dai pilastri compositi, dall’eleganza degli archi degli altari laterali, dalla potente trabeazione aggettante, dalla accentuata luminosità delle finestre poste in corrispondenza delle velettature della volta. Quanto alla decorazione, questa è una delle Chiese più ricche di Foggia. “Una lamia tutta stucchiata” e tre altari, “uno maggiore di pietra dipinta” e “due di un marmo lavorato” sono attestati già da un documento del 1783137. _______________ 137 - A.D.T., vol. XL, p. 27. 236 Va anche sottolineata la copertura a semicalotta all’incrocio del transetto. Al di là delle cupole della Cattedrale e di Gesù e Maria, realizzate certamente per lo meno un secolo prima, non si trovano a Foggia, fino a questo periodo, che soffitti piani o volte a botte unghiata. La copertura a semicalotta è estranea alle esperienze delle maestranze locali. Anche nelle altre due chiese viene proposta una medesima distribuzione degli spazi, lungo l’asse centrale della Chiesa, secondo questa sequenza: cantoria, navata, una zona presbiteriale intermedia e il catino absidale. Complessivamente si conferma l’intento di mediare linguaggio classicista e linguaggio barocco. Questa sintesi, però, nel giro di pochi anni, viene superata da una più decisa connotazione barocca e rococò dell’architettura religiosa cittadina: la svolta è sorretta dalle motivazioni storiche e culturali già anticipate e che, di seguito, brevemente si richiamano. 6 - Il barocco nella piena maturità Dopo la morte di Mons. Cavalieri (1726) il mutamento del clima culturale in città è determinato da una serie di avvenimenti che si possono sinteticamente ricondurre: 1) alla diversa politica culturale del nuovo Vescovo Mons. Faccolli; 2) al disastroso evento del terremoto, che rende indispensabile la utilizzazione di ingenti risorse finanziarie nell’opera di ricostruzione e che mobilita una pluralità di soggetti non più riconducibili ad un orientamento culturale unitario; 3) alla ritrovata stabilità politica delle classi dirigenti, che possono muoversi, ora, con una autorevolezza e un’autonomia maggiore. Più specificatamente in architettura, la vera svolta è segnata dalla venuta da Napoli di architetti regi e dalla loro collaborazione con le maestranze locali. Abbiamo già visto 138 come l’ing. Giustino Lombardo, nel 1733 circa supervisioni la perizia del capomastro Francesco Delfino per la _______________ 138 - Cfr., supra, il paragrafo 3. 237 Cappella dei SS. Patroni nella Cattedrale di Troia139. Questa cooperazione è confermata da due altre coincidenze. I lavori di ristrutturazione di S. Giovanni di Dio dei Celestini sono in un primo tempo affidati al Lombardo. In una lettera scritta nel 1741 dal Priore del convento, si legge: “la Chiesa [...] sin dal passato terremoto del 1731 patì in maniera che dal R. Ing. Sig. D. Giustino Lombardo allorché fece la ricognizione e l’apprezzo delli danni [...] riferì che vi volevano in denaro per detta Chiesa di S. Caterina docati cento [...]”. Ma questi primi interventi non furono mai eseguiti. Nel frattempo nella Chiesa “dal di anno 1731 in avanti di giorno in giorno andavano crescendo le lesioni di modo tale che minacciava evidente pericolo di cascare”, cosicché si fu costretti a “smantellare affatto detta Chiesa”, visto che “era principiato a patire l’ospedale”. Questa volta gli interventi furono portati a termine sotto la direzione dei capimastri foggiani F. Delfino e Michele Vera140. Anche nella costruzione del nuovo Palazzo Dogana, avviata nel 1733, all’ing. Lombardo, per un breve tempo nel 1743, subentra Delfino in alcune opere al piano terra dell’edificio 141. Appare verosimile che questo lavoro, fianco a fianco tra ingegneri regi e maestranze locali, abbia accresciuto il livello tecnico di queste ultime, che, in seguito, si siano mosse autonomamente, dimostrando coscienza delle esperienze acquisite. Complessivamente il tono degli interventi si eleva e Foggia; seppure con soluzioni più provinciali, si pone l’ambizioso obiettivo di un confronto con il linguaggio della Capitale. L’influenza dei modelli napoletani sulla produzione artistica locale è dimostrata dalla acquisizione di tecniche e di schemi costruttivi fino ad allora del tutto assenti a Foggia, e che sono di evidente importazione napoletana. Uno di questi riguarda l’adozione di un andamento più mosso nelle facciate, tutte piane nelle Chiese costruite prima del terremoto, ad esclusione di una leggera ondulazione nel prospetto della Chiesa del _______________ 139 - Si consultino, a riguardo, i documenti pubblicati da R. MASTRULLI, op. cit. 140 - Le notizie sulla Chiesa di S. Giovanni di Dio sono in: A.S.F, Documenti relativi alla perizia per la ricostruzione della Chiesa di S. G. di Dio, redatta nel 1741 da F. Delfino, fasc. 6197, pp. 10 v. e 11 r. 141 - V. SALVATO, Palazzo Dogana dalle origini ai giorni nostri, Foggia, 1976, p. 28. 238 Carmine, e che, da questo momento in poi, acquisiscono, invece, un più complesso gioco di concavità e di convessità. La quasi totalità delle Chiese costruite dopo il terremoto presenta questa caratteristica: da Gesù e Maria, all’Addolorata, a S. Chiara, a S. Giovanni di Dio. Una particolarità si nota nella accentuata concavità di S. Domenico, che presenta analogie, in ambito provinciale, soltanto con la Chiesa di S. Pietro Celestino a Manfredonia progettata da mastro Giuvo di Sante, abruzzese di Pescocostanzo 142. Uguale andamento presenta la facciata di S. Tommaso. La chiesa, distrutta dal terremoto, risulta già funzionante nel 1736, anno in cui ospita le funzioni liturgiche della Chiesa di S. Angelo ancora in costruzione143. Un riferimento a modelli abruzzesi, molto condizionati dagli esempi romani, lo ipotizza N. Tomaiuoli, che cita, fra gli altri, anche S. Agostino a L’Aquila144. A conferma di ciò, si ricorda che due chiese foggiane sono legate alla presenza abruzzese. Si pensi al contributo dato dai “locati” abruzzesi per l’ampliamento di S. M. di Costantinopoli nel 1618145 ed alla ristrutturazione di S. Nicola operata da maestranze abruzzesi nel 1736146. G. Celentano nel 1730 chiama a Foggia il marmoraro di Pescocostanzo F. Faustino Mancino per adornare la sua Cappella in S. Maria in Costantinopoli147. Anche nella provincia, operano capimastri molisani ed abruzzesi come Ludovico di Tullio a Lucera, Silvestro e Sebastiano Pollice a Rocchetta S. Antonio 148. Infine, sono da ricordare le origini abruzzesi di molte illustri famiglie di Foggia e, tra queste, i Marchesani, i Giordano, i Freda, i della Posta, i Ricciardi; trasferitisi qui in virtù dei legami economici con la Capitanata dovuti alla transumanza. _______________ 142 - N. TOMAIUOLI, Il Monastero dei Celestini, Manfredonia, in INSEDIAMENTI Benedettini in Puglia, a cura di M. S. Calò-Mariani, vol. II, Galatina, 1981, p. 148. 143 - A.D.T., vol. XXXIV, foglio colonna 49. 144 - N. TOMAIUOLI, Convento e Chiesa di S. Domenico, in “VITA ECCLESIALE”, Foggia, XVI, 1, 1990. 145 - G. SPIRITO, op. cit., p. 35. 146 - R. COLAPIETRA, op. cit., P. 115. 147 - M. PASCULLI-FERRARA, op. cit., p. 27. 148 - N. TOMAIUOLI, Architetti e Ingegneri nella Capitanata del ‘700, S. Severo, 1988. 239 Il movimento nelle facciate, rappresenta un elemento di integrazione tra edificio e ambiente circostante e corrisponde ad una visione più ampia del fare architettura, nel senso di porsi un problema di rapporto urbano, o da creare, a partire dall’architettura, o da raccordare, armonizzando il nuovo al preesistente. La dimensione più ampia adottata è già, di per sé, elemento di complessità e questa complessità si riproduce, in scala minore, nel prospetto della struttura. Tale complessità assume anche valore una maggiore libertà compositiva. I due termini sono inscindibili, giacché solo una tecnica più audace può ampliare i margini di libertà. Già, a partire dal ‘500, molti elementi architettonici, come le colonne o le paraste, avevano perso il loro carattere strutturale in funzione decorativa, e ciò aveva determinato un loro uso più libero. Il Seicento prosegue su questa linea, disarticolando la muratura continua della facciata, aprendo una dialettica tra rientranze e sporgenze, tra primo e secondo ordine, tra prospetto principale e laterale. La superficie, così mossa, intesse un dialogo continuo con la luce nelle diverse ore del giorno. La seconda conquista progettuale, acquisita dall’architettura foggiana, riguarda il tipo di coperture. Si è detto che a Foggia, finora, si era utilizzata la volta a botte e, più spesso, la volta a botte unghiata, per coprire i grandi ambienti delle navate. Nelle ricostruzioni posteriori al terremoto si farà ricorso anche a coperture a volta ellittica (S. Domenico), a semicalotta (Addolorata e Croci) e a cupola (S. Chiara). La maggiore difficoltà presentata dalle cupole barocche risiede nel raccordo tra pianta, tamburo e cupola vera e propria. Wittkower, analizzando la struttura di S. Carlo alle Quattro Fontane, apprezza, in Borromini, la capacità di conciliare “tre differenti tipi di struttura: la zona più bassa ondulata la cui origine si trova in piante tardoantiche [...]; la zona intermedia dei pennacchi che deriva dalla pianta a croce greca; e la cupola ovale che, secondo la tradizione, dovrebbe ergersi su una pianta della stessa forma”149. È un raccordo che, a volte, non riesce nemmeno ad architetti di valore, come accade al Vaccaro nella Chiesa della Concezione a Mon_______________ 173. 149 - R. WITTKOWER, Arte e Architettura in Italia: 1600-1750, Torino, 1972, p. 240 tecalvario, dove il Mormone è costretto ad ammettere che “nell’attacco della cupola sulla fabbrica sottostante” si palesa “l’unica incertezza”. “Non essendo la pianta ellittica, i pennacchi triangolari, allargandosi verso l’alto, rompono la simmetria delle strutture [...] rivelando una diversa curvatura delle superfici, più lenta verso il transetto, più accelerata verso l’ingresso e il presbiterio”150. A Foggia tutto è risolto in maniera più semplice: in S. Chiara la cupola è suddivisa in “spicchi” della stessa ampiezza dello spazio di un intercolumnio. Tuttavia è notevole la reintroduzione della cupola, che, come si è detto, a Foggia ha due unici precedenti, molto anteriori, nella Cattedrale e in Gesù e Maria, mentre, più recentemente, era stata abbozzata nella copertura a calotta ribassata dell’incrocio dei transetto in S. Giovanni Battista. La terza significativa novità strutturale la si riscontra nell’adozione della pianta centrale allungata nelle sue diverse versioni. Anche da questo punto di vista si conoscevano soltanto l’impianto a croce latina a unica o a triplice navata, quest’ultima presente in Gesù e Maria ed in S. Gaetano, oppure la pianta longitudinale monoaulata, con o senza cappelle laterali. La pianta centrale allungata ha il significato di un invito più scenografico alla zona dell’altare maggiore, che rappresenta il fulcro della struttura. In realtà, gli architetti, pur proponendosi, attraverso tale soluzione, di superare alcune incongruenze della pianta a croce latina, non sempre riescono a raggiungere tale risultato. Gli esiti più coerenti si registrano in ambito romano, dove l’articolazione della pianta non compromette mai l’unità della struttura. In questo modo nessuna area dell’edificio assume un ruolo prevalente rispetto alle altre e anche quando Borromini o Cortona valorizzano il vano centrale rispetto all’atrio o al coro, questi non risultano mai emarginati o, isolati, rispetto al corpo centrale che, al contrario, funge da elemento di snodo e di raccordo fra le diverse zone della Chiesa. S. Agnese del Borromini e SS. Matina e Luca del Cortona ne sono un valido esempio. La navata unica e la pianta centrale tendenzialmente rotonda, a _______________ 150 - R. MORMONE, D. A. Vaccaro Architetto, in “NAPOLI NOBILISSIMA”, Napoli, IV, 1961, p. 148. 241 differenza della croce latina controriformistica, sono spazi dominabili dall’occhio umano e, perciò, possono essere colti nella loro unitarietà. Il fedele non occupa uno spazio gerarchicamente subordinato e l’unità degli spazi rievoca l’unità tra Dio, la Chiesa e l’uomo. A questo punto, è opportuno soffermarsi sulle quattro chiese a pianta centrale allungata, costruite a Foggia in questo periodo - S. Chiara, Addolorata, Croci e S. Domenico - e tentare un confronto tra esse. Si parta da un’analisi delle planimetrie. S. Domenico, S. Chiara e la chiesa delle Croci hanno pianta elittica; solo nell’Addolorata si ha una pianta rettangolare allungata. Gli spazi sono variamente articolati. L’Addolorata ha un endonartece appena accennato e un’area absidale alquanto profonda. Nella chiesa delle Croci l’endonartece è assente. Simmetriche sono, invece, la disposizione e le dimensioni di coro ed endonartece in S. Chiara, mentre in S. Domenico sussiste una sproporzione tra l’ambiente posto all’ingresso e lo smisurato coro terminale, probabilmente una preesistenza non armonizzata dagli interventi di ricostruzione. In particolare, la Chiesa dell’Addolorata si sviluppa su una pianta rettangolare di larghezza pressocché uniforme, appena 15 metri. Questa è l’unica chiesa, ad eccezione di Gesù e Maria, a non realizzare in facciata un uguale sviluppo in larghezza dei due ordini, il che comporta un incongruo raccordo tra il prospetto ed il tamburo della copertura, che, lateralmente, resta sgradevolmente visibile. Un analogo inconveniente, seppure meno evidente, lo si rileva anche a Napoli nella chiesa di S. Anna a Porta Capuana, realizzata da Giuseppe Astarita, tra il 1745 ed il 1750. L’Addolorata, insieme con la quasi coeva S. Giovanni di Dio ricostruita nel 1741, è tra le chiese foggiane quella che, in facciata, mostra una maggiore ricchezza decorativa. Essa presenta molte affinità con la chiesa di S. Lorenzo a San Severo, realizzata dall’Astarita, nel 1738151. I lavori dell’Addolorata iniziano verso la fine del 1739 quando viene concluso il contratto per l’acquisto di suoli e di casupole dirute tra il Priore della Confraternita Francesco Maselli, della città di Na_______________ 151 - M. BASILE-BONSANTE, Gli esordi dell’architetto napoletano G. Astarita in Puglia, in Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia, vol. I, Fasano, 1980, pp. 272-273. 242 poli, ed i rappresentanti del Conservatorio delle Orfane152. Nel 1740 vi si tiene una riunione della congrega alla presenza del Vicario Generale di Troia153, ma forse in ambienti provvisori. Un documento del 1741 afferma che “già detta Chiesa stà principiata”154, e nello stesso anno, come si legge su una lapide murata all’interno della chiesa, essa venne consacrata155. A parte la contemporaneità, tra la chiesa di Foggia e quella di San Severo vi sono molteplici altre analogie. Simili sono i portali con gli angoli rialzati; ugualmente ricca è la modanatura delle finestre; i comparti laterali della facciata sono campiti da specchiature; identico è il leggero movimento concavo-convesso del prospetto. All’interno le paraste sono in tutti e due i casi decorate da ovali o tondi; le membrature architettoniche si presentano “polite” come in S. Severo, dove “eliminando le linee sinuose, escludendo coronamenti ed elementi decorativi naturalistici, semplificando i capitelli, Astarita riduce le interruzioni e rallenta i ritmi spezzati e sincopati del maestro (Vaccaro), chiaramente privilegiando le linee rette e continue forme geometriche […]”156. A S. Severo “la lamia si rifece due volte, perché la prima volta si trovò bassa e niente simile al disegno dell’architetto […]”157. È noto che anche l’Addolorata, oggi coperta a tetto, originariamente doveva presentare una cupola ellittica, come dimostra la presenza di piccoli contrafforti esterni aventi la funzione di deviare le spinte laterali della copertura nelle murature portanti158. Copertura questa che si diffonde a Foggia solo dopo il terremoto. Non va dimenticata l’origine napoletana del Priore della Confraternita, né che Astarita ha lavorato in vari centri della Capitanata e che a Foggia, tra il 1755 (data di inizio dei lavori) ed il 1770 (data di conclusione della controversia legale tra Capitolo e monache della SS. _______________ 152 - A.C.A., Atto notarile del dott. A. Margiotta, 1739, collocazione provvisoria. 153 - A.D.T., Contenitore “Confraternite e luoghi pii”, collocazione provvisoria. 154 - A.C.A., Atto notarile del dott. A. Margiotta, 1739, collocazione provvisoria. 155 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 256. 156 - M. BASILE-BONSANTE, Gli esordi... cit., p. 280. 157 - ID., op. cit., p. 278. 158 - F. ONORATI, Relazione per il 250.mo Anniversario della fondazione della Chiesa dell’Addolorata, in corso di pubblicazione. 243 Annunziata) procede alla stima delle opere realizzate nella Cappella del Tesoro della Cattedrale159. Mancano elementi decisivi per l’attribuzione della chiesa dell’Addolorata al Regio Architetto di Napoli, ma sussistono numerosi indizi. Riprendendo dall’ultima caratteristica, accennata per la chiesa dell’Addolorata, e cioè il tipo di copertura, si può continuare il confronto tra le quattro predette chiese. S. Domenico ha una volta ellittica, la più slanciata tra quelle foggiane, essendo priva di tamburo. Tale accorgimento la rende una delle più scenografiche soluzioni adottate a Foggia in tema di coperture. Molto basso, invece, è il tamburo della chiesa delle Croci e la stessa volta si presenta piuttosto come una calotta molto schiacciata. Probabilmente non era questo l’aspetto originario della chiesa. Nel “1757 la cupola stava per far cadere tutto il tempio, ma per la divina provvidenza i muri resistettero. La congrega, a proprie spese, fece restaurare la chiesa, abbellendola di stucchi e pitture” 160. Si è già detto che la chiesa fu costruita da L. Romito 161, uno dei più accreditati tecnici locali dell’epoca. Lo stesso tecnico, nel 1755, durante i lavori di ristrutturazione della Cattedrale, sarà sostituito con il Regio Ing. F. Bottiglieri162. Questa vicenda segna anche la rottura della già avviata collaborazione tra maestranze locali e ingegneri regi, e sarà lo stesso Bottiglieri a chiedere espressamente di non ricorrere ai partitari per l’esecuzione dei lavori, perché “nella maestranza non vi risiede più, né stima, né decoro, oltre di quelli sono nemmeno scienziati della loro arte, e la tirano avanti a fare, ma in questo particolare devesi usare tutta la diligenza ed attenzione di persona giusta per capo [...] lasciando incaricato alli medesimi capimastri di rendermi conto, dove troveranno qualche difficoltà o di perizia, o di misura, che non si fosse considerata, o per lunghezza di scrittura non descritta”163. Sarà Bottiglieri dunque, e non _______________ 159 - F. STRAZZULLO, Documenti del Settecento per la storia dell’edilizia e dell’urbanistica nel Regno di Napoli, in “NAPOLI NOBILISSIMA”, Napoli, vol. XXII, fascc. V - VI, 1983, pp. 228-228. 160 - A. PETTI, Guida di Foggia e Provincia, Foggia, 1931, p. 186. 161 - G. CRISTINO - F. MERCURIO, op. cit., p. 11. 162 - M. Di GIOIA, Il Duomo... cit., p. 98. 163 - ID., op. cit., pp. 189-190. 244 più Romito, a portare ad un’altezza insolita, per le chiese foggiane, la volta a botte lunettata della Cattedrale. La cooperazione tra i tecnici del posto e quelli della Capitale darà forse i massimi risultati nella ricostruzione della chiesa di S. Chiara, la sola a presentare una cupola vera e propria, che insiste sull’ambiente centrale della chiesa. A questo proposito, si può avanzare l’ipotesi di una collaborazione tra il regio ing. Giustino Lombardo e il capomastro foggiano F. Delfino, il quale, insieme a L. Romito, nell’ottobre del 1743 presenterà un preventivo dei lavori di completamento della chiesa (documenti Archivio Diocesano di Troia). Ma prima di verificare questa ipotesi è necessario ripercorrere la storia delle vicende costruttive del monastero e della chiesa. I danni subiti dal complesso conventuale delle Clarisse in occasione del terremoto del 1731 sono notevoli e vengono descritti in alcuni documenti dell’epoca, laddove si ricorda che “per l’orribile terremoto seguito lì 20 di Marzo scorso, colla rovina totale della maggior parte degli edifici, il monastero patì gravissimo danno [...]164. È detto in un altro documento che “fu la loro chiesa este-riore abbattuta dalle fondamenta onde gli convenne rifabbricarla [...]”165. L’opera di ricostruzione è graduale e parte dal riattamento del monastero, che già nel 1731 doveva essere di nuovo agibile, giacché, ancor oggi, nel cortile del monastero, vi è una lapide che ricorda come “le rovine del terremoto sono state restaurate sotto la direzione della Badessa Suor M. Celestina De Angelis e la protezione dell’illustre dottore F. Antonio Ricciardi. Nell’anno del Signore 1731”166. È probabile, però, che si tratti solo di un primo intervento urgente, dato che soltanto nel settembre del 1731 veniva richiesto l’assenso vescovile a “potere vendere parte di essi stabili per monastero rifare [...]”167. Tali alienazioni continuano ancora per alcuni anni e costituiscono una delle fonti di finanziamento _______________ visoria. 164 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, richiesta assenso vescovile, 1731, collocazione prov- 165 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, Prestito della novizia D. A. Nisi, 1740, collocazione provvisoria. 166 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 178. 167 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, richiesta assenso vescovile, 1731, collocazione provvisoria. 245 dell’opera di risanamento del patrimonio edilizio del convento. Per altro verso si attinge, invece, a donazioni o a prestiti privati, concessi a condizioni vantaggiose. Nel 1740 si prendono “a censo docati mille e cinquecento alla ragione del cinque per cento l’anno, che è il minor frutto che possa trovarsi nel Paese da S. Antonia Nisi attualmente educanda nel loro monastero dopo la professione della quale, per non avere eredi, dovrà detto capitale cedere in beneficio dell’istesso monastero [...]”168. Don Giovanni Chiarizio concede “gratis e senza interesse alcuno [...] la somma di docati seimila e duecento [...]”169 probabilmente nel 1742 come attesta, nella chiesa, una lapide in cui è detto che “la pietà delle sacre Vergini sotto la direzione della loro Badessa M. Celestina De Angelis e sotto il patronato di Giovanni Chiarizio; nell’anno del Signore 1742, a spese del Monastero, fece risorgere con una forma più sfarzosa e più spaziosa il tempio di S. Chiara [...] affinché [...] con la sua nuova e più elegante forma presentasse a ciascuno uno spettacolo più lieto [...]”170. Questo stesso benefattore nel 1743 si dice disposto a “somministrare” “gratis e senza interesse” “altri docati duemila e cinquecento” “per terminarla e ridurla in istato proprio che le Monache claustrali possino celebrarvi li divini uffici”, essendosi fino ad allora “fatto il solo rustico”171. Dunque, il rifacimento del monastero e della chiesa prosegue per tappe successive. Le prime notizie relative alla ricostruzione della chiesa si ricavano dal già ricordato documento del 1740, relativo al prestito della Nisi, dove le monache si lamentano di non avere “modo di poter continuare la fabrica” della “Chiesa abbattuta dalle fondamenta”; ma nel preventivo dei lavori di completamento, stilato nel 1743 dal capomastro F. Delfino, si ricorda che la chiesa “dopo qualche tempo già incominciata a rifare dalle fondamenta, come infatti fu ridotta fino al terzo della fabrica, che non potendo esso Monastero quella compire all’attuale _______________ 168 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”,, Prestito della novizia D. A. Nisi, 1740, collocazione provvisoria. 169 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, Prestito di G. Chiarizio, 1743, collocazione provvisoria. 170 - M. DI GIOIA, Foggia... cit., p. 53. 171 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, richiesta assenso vescovile, 1731, collocazione provvisoria. 246 perfezione, cessò, e sospese a fabricare per più anni, per esserli mancato il denaro [...]”172. Se, quindi, ci è possibile ripercorrere, almeno in parte, i diversi momenti della ricostruzione del monastero e della chiesa, non è altrettanto possibile, però, procedere nell’individuazione dei tecnici incaricati della progettazione delle opere. Abbiamo già detto che a L. Romito e a F. Delfino viene affidato il preventivo dei lavori di completamento 173, che, si apprende altrove, dovevano consistere nel “farvi lo stucco per potersi in essa Chiesa cominciare la celebrazione dei divini officii”, lavori dell’importo stimato da “un’accurato scanaglio (fatto) dalli periti” per cui “vi bisogna per detto stucco, altari, gelosie ed altro la spesa di docati duemila e cinquecento [...]”174. Tuttavia non conosciamo chi ha diretto gli interventi nella chiesa nelle prime fasi quando questa è stata “ridotta al terzo della fabrica” e quando poi è stata completata al “solo rustico”. Possiamo solo constatare che Delfino mostra, nei documenti a noi pervenuti, una conoscenza dell’iter costruttivo superiore a quello di Romito. Il suo preventivo, seppure stilato “eodem rescripto die” di quello presentato dal L. Romito e, sebbene ricalchi quasi pedissequamente il testo di quest’ultimo, se ne distingue nella già citata ricapitolazione delle diverse fasi di costruzione della chiesa, laddove appunto ricorda che questa “doppo qualche tempo fu incominciata a rifare dalle fontamenta”. La eventuale riconferma di F. Delfino, affiancato da L. Romito, può avere il significato di una garanzia nella continuità ed omogeneità dei lavori conclusivi rispetto a quelli precedenti. L’ipotesi di una supervisione da parte dell’ing. regio G. Lombardo sugli elaborati progettuali presentati da F. Delfino ci può essere suggerita dalla già ricordata concomitanza delle due firme nei lavori di P. Dogana, S. Giovanni di Dio e la Cappella dei SS. Protettori nella Cattedrale di Troia. Proprio qui, la cupoletta con lanternino terminale 172 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, Apprezzo del Capomastro F. Delfino, 1743, collocazione provvisoria. 173 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”, Apprezzi dei Capimastro L. Romito e F. Delfino, 1743, collocazione provvisoria. 174 - A.D.T., Contenitore “S. Chiara”; Richiesta assenso vescovile per un ulteriore prestito di 2500 ducati da parte di G. Chiarizio, 1743, collocazione provvisoria. 247 e la complessa “pianta ottagonale inscritta in una fabbrica quadrangolare” (risale al 1733)175 ci riportano all’analoga cupola e all’articolata planimetria di S. Chiara. La presenza diretta o indiretta del tecnico napoletano è suffragata, inoltre, da alcuni riscontri formali tra il cortile del monastero e quello di Palazzo Dogana, da lui progettato nel 1733. Uguale è l’alternanza di prospetti a loggiati con facciate a muratura continua, nelle quali si aprono finestre, reali o tompagnate, di varie forme; identica è l’adozione di paraste che si allungano oltre i capitelli fino al cornicione sovrastante e che sono affiancate da semiparaste a mezza altezza; simile è l’uso di finestre modanate con centine e fasce laterali di architrave. Tuttavia, al di là di questi raffronti, resta da considerare la novità della cupola, che insiste al centro della navata ellittica, esaltando questo spazio rispetto all’endonartece ed al coro e che, come soluzione tecnica, risulta estranea all’esperienza delle maestranze locali. Ultimo grande tema proposto dal movimento barocco è quello della unità delle arti. Cattivi restauri e ridipinture impediscono oggi di cogliere, negli interni degli edifici foggiani, quella integrazione cromatica e plastica, che derivava loro dalla interrelazione tra le varie arti così connaturata alla cultura settecentesca. Questo era reso possibile dal fatto che “spesso il progettista non era solo il cordinatore delle varie attività, ma egli stesso poteva parteciparvi dipingendo, scolpendo, decorando, applicandosi integralmente alla riuscita dell’opera […]”176. Tuttavia possiamo immaginare come potesse spiccare il rosso della tunica del Cristo e del vestito del soldato romano o il cielo tempestoso squarciato da un lampo di luce tra i bianchi stucchi della volta della Chiesa delle Croci, dove è collocata la tela della “Salita al Calvario” attribuita al De Mura177. Analoga sensazione doveva suscitare il soffitto della Chiesa dell’Addolorata, che attualmente ha perso completamente il suo originario aspetto ed oggi ospita un dipinto di Tullio Spadaccino, eseguito nel 1967 e raffigurante “I sette beati fondatori _______________ 175 - R. MASTRULLI, op. cit., p. 25, 176 - M. PASCULLI-FERRARA, op. cit., p. 17. 177 - G. CRISTINO - F. MERCURIO, op. cit., p. 26. 248 dell’Ordine dei Servi di Maria”178. Nella stessa chiesa, però, ancora oggi si può osservare sulla cantoria un “Cristo morto portato al Calvario”, di Vincenzo De Mita, datato 1805179. Ma è nella Cattedrale che la controfacciata si dispone quasi come un grande schermo su cui si proietta la tela della “Moltiplicazione dei pani” del De Mura180, il cui ritmo ascensionale, partendo dalla folla dei pellegrini per arrivare ai gruppi di angeli posti in semicerchio in alto, sembra voglia seguire l’analogo movimento dal basso verso l’alto segnato dagli stipiti della porta, dalla grande cornice bianca del quadro e dall’ovale della finestra superiore. Architettura, pittura e scultura: tutto porta il segno di una grande apertura verso il gusto e le ricerche artistiche della Capitale e tutto esprime un livello formale assai alto e maturo. Ma la parabola tardo-barocca e rococò volge al termine in tutta Europa e, ormai, anche a Napoli. Nuove idee avanzano e l’epoca illuminista sconvolgerà anche le forme e i contenuti dell’espressione artistica. Complessivamente, nel corso del Settecento, il volto architettonico della città di Foggia cambia e assume un aspetto omogeneo nel segno di un maturo barocco. Oggi questa immagine della città è stata compromessa dalle numerose manomissioni, intervenute nel corso dei secoli successivi, ed è offuscata dal degrado in cui si trovano alcune chiese e case palaziate, ma le testimonianze tuttora esistenti (e non sono poche) ci lasciano immaginare una città certamente dotata, a suo tempo, di una grande suggestione. Non si esagera dicendo che Foggia raggiunge in questo periodo il momento del suo massimo splendore. _______________ 178 - M. T. MASULLO, Una Chiesa, una Confraternita: l’Addolorata, in “Il QUOTIDIANO DI FOGGIA”, Foggia, 30/9/89. 179 - IB. 180 - M. PASCULLI-FERRARA, op. cit., p. 11. 249 ELENCO ABBREVIAZIONI A.S.F. = Archivio di Stato di Foggia A.S.L. = Archivio di Stato di Foggia, Sezione di Lucera. A.C.F. = Archivio Capitolo di Foggia. A.C.A. = Archivio Confraternita dell’Addolorata. A.D.T. = Archivio Diocesano di Troia LEGENDA DELLA PIANTA DI FOGGIA 1) Chiesa di S. Eligio 2) Chiesa delle Croci 3) Chiesa di S. G. Battista 4) Chiesa dei Morti 5) Chiesa di Gesù e Maria 6) Chiesa di S. F. Saverio 7) Chiesa di S. Domenico 8) Chiesa dell’Addolorata 9) Chiesa di S. Chiara 10) Chiesa di S. Tommaso 11) Chiesa di S. Agostino 12) Chiesa di S. Giovanni di Dio 13) Chiesa del Carmine 14) Chiesa di S. Pasquale 15) Chiesa della M. delle Grazie 16) Chiesa di S. Giuseppe 17) Chiesa di S. Rocco 18) Basilica Cattedrale 19) Chiesa SS. Annunziata 20) Palazzo Figliolia 21) Museo 22) Palazzo Buongiorno 23) Palazzo Rosati 24) Vecchia Dogana 25) Pozzo Rotondo 26) Palazzo Villani 27) Palazzo Marzano-Tafuri 28) Palazzo De Vita 29) Palazzo Farina 30) Palazzo Saggese 31) Palazzo Vescovile 32) Palazzo Freda (nuovo) 33) Palazzo Cimaglia 34) Palazzo De Angelis 35) Palazzo Trisorio-Villani 36) Palazzo Mongelli-De Paola 37) Palazzo Ricciardi 38) Ex sede Monti Uniti di Pietà 39) Palazzo De Carolis 40) Palazzo Siniscalchi-Ceci 41) Palazzo Dogana 42) Palazzo Galiani-Filiasi 43) Palazzo Barone-Perrone 44) Palazzo Perrone 45) Palazzo De Nisi-Pepe 46) Palazzo Celentano 250 Economia e società a Foggia tra Sette ed Ottocento di Saverio Russo “La città cresce di giorno in giorno di abitatori forestieri, li quali fuggendo, per cosí dire, le Terre e luoghi Baronali intorno a Foggia, tutti concorrono alla libertà di questa città mercantile, con l’esempio di vedersi li forestieri in un istante giunti o a ricchezze, o a commodità, alle quali i cittadini tra centinaia d’anni giunger non vi possono. Di modo che si verifica l’adagio comune esser Foggia per li forestieri, e patria favorevole a’ mercanti e negozianti1”. Così Calvanese, alla vigilia del terremoto dei 1731, caratterizza le funzioni economiche della città, racchiudendo, non senza enfasi, sotto l’emblema del mercato - un mercato tuttavia dipendente e dominato sostanzialmente da operatori forestieri, ma che sovente si stabiliscono in città - una sua sintetica connotazione. Quindi mobilità sociale e della ricchezza, fluidità nelle relazioni all’interno dell’élite, impossibilità di politiche di serrata nobiliare altrove così frequenti. Sessant’anni dopo è Longano a descriverla come città nodale, “la più florida, la più popolata, e la più ricca del Regno”, “emporio di una industria, che non ha pari del Regno”, sede di “Tribunale, arrendamenti, Percettoria «che» richiamano quivi tutti gli interessati” 2. Giuseppe Maria Galanti, in quegli stessi anni, la connota più sinteticamente come “una gran piazza di commercio”, introducendo tuttavia alcuni elementi differenziali: la città è sicuramente ricca “come mostrano _______________ 1 - G. CALVANESE, Memorie per la città di Foggia in BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA, Manoscritti, 20, e. 12 v. Alcuni dei temi di questo contributo, sono presenti, in altro contesto, nel nostro saggio L’articolazione socio-professionale tra Sette e Ottocento, in STORIA di Foggia in età moderna, a cura di Saverio Russo, Bari, 1992, pp. 155-185. 2 - F. LONGANO, Viaggio per la Capitanata, a cura di Renato Lalli, Campobasso, 1981, p. 63. Sulla città vista dagli altri, cfr. anche il contributo di A. VENTURA, Fuggi da Foggia, in “La CAPITANATA”, a. XXIV, luglio-dic. ‘87, p. II, pp. 165-177. 253 le sue carrozze e i suoi equipaggi”, ed i suoi abitanti, al contrario dei lucerini “ufficiosi”, “mostrano quell’orgoglio che pare inseparabile dalla ricchezza”3. Pochi anni dopo, accanto alle generiche connotazioni di Giustiniani, sui foggiani “industriosi” e sulla città, “il più ricco granaro della Puglia, il più esteso magazzino dei formaggi, e delle lane” 4, sarà il frate Manicone a proporne una gustosa e perspicace caratterizzazione: la città del “negozio” non è vittima di quel determinismo geografico, di cui pure aveva parlato l’abate Longano, tant’è che i foggiani, oltre che “dotti ed illustri avvocati, gravi e cospicui economisti”, saranno descritti come “gli Olandesi di Sicilia, i primi calcolatori del Regno nel negozio, e nel commercio”5. Ma la rappresentazione della città sta mutando: accanto a Ceva Grimaldi, che nel 1818 l’attraverserà notando “nello stesso cortile un’elegante carrozza con un tiro di due superbi cavalli ed un carro grave de’ doni di Cerere” 6 qualche anno dopo è Colletta nella Storia del Reame di Napoli a proporre un giudizio ben diverso da quelli precedenti. Ricordando l’episodio su cui l’erudizione e l’araldica locale si sono sovente soffermati (la nobilitazione di alcune famiglie foggiane nel 1797, in occasione del matrimonio, celebrato nella città del Tavoliere, del principe ereditario Francesco di Borbone con Maria Clementina d’Austria), così scriveva: “Il Re diede a parecchi foggiani titolo di marchese, a ricompensa del meraviglioso lusso nelle feste delle regali nozze: e subito mutarono i costumi di quelle genti, che agricoli o pastori, si volsero alle soperchianze del gran commercio ed agli ozi dei nobili, ozi crassi perché nuovi ed insperati. Così le dignità mal concesse accelerarono il decadimento della città, compiendo in breve ciò che lentamente i vizi della ricchezza producevano”7. Non è la sua una posizione isolata, né solo è imputabile ad un’eco della settecentesca polemica sul lusso o ad un precetto della filosofia _______________ 3 - G. M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di Franca Assante e Domenico Demarco, vol. II, Napoli, 1969, pp. 536-9. 4 - L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, t. IV, rist. anast. Bologna, 1969, p. 302. 5 - M. MANICONE, La fisica appula, t. IV, Napoli, 1807, p. 55. 6 - G. CEVA GRIMALDI, Itinerario da Napoli a Lecce e nella provincia di Terra d’Otranto nell’anno 1818, Napoli, 1821, p. 16. 7 - P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli, a cura di Nino Cortese, Napoli, 1951, p. 338. 254 tardo-fisiocratica. Qualche anno dopo è Giuseppe del Re, che utilizza a piene mani memorie locali (nel nostro caso quelle di Casimiro Perifano) a ritornare sull’argomento con una connotazione in chiaroscuro dell’élite. Riprende certo il giudizio sulla solerzia, attività, laboriosità del foggiano, ricorda “parecchi negozianti che fanno grandi affari di ragione e di commercio con que’ di Napoli”, ma denuncia “il lieve avanzamento dell’intellettual cultura nelle persone molto distinte e ricche”. Causa “di questa scioperatezza è anche una certa vanità introdotta da molto tempo nelle loro classi, le quali si pascono di giornaliere dimostrazioni di lusso ne’ vestimenti e di eleganza ne’ trattamenti”, abitudini trasmesse anche agli “umili borghesi” 8. Certo l’ozio non è separato dalla “cura delle faccende delle campagne”, ma certo siamo lontani non solo dai modelli di certa aristocrazia padana, ma anche dai tentativi di innovazione - pur entro i limiti di un modello mediterraneo - dei proprietari di San Severo o di Cerignola, come ripetutamente rileveranno di lì a poco numerosi osservatori. Non è più il mercato, i suoi valori e le abilità che richiede, il simbolo della città, ma sempre più la terra, la proprietà, dissociata tuttavia dall’intrapresa e dall’innovazione. Che cosa c’è dentro questo mutamento della rappresentazione della città e della sua élite, questo passaggio dalla crescita impetuosa alla difficile tenuta del secondo Ottocento, da una struttura caratterizzata da un’elevata mobilità sociale all’irrigidimento delle gerarchie? Muoviamoci, un po’ a raggiera, tra nuovi indizi e ricerca di cause. Una conferma indiziaria, puo’ essere ricercata nella struttura socioprofessionale della città, che rinvia anche in buona misura ai meccanismi di autorappresentazione, di cui la definizione censuaria fa sicuramente parte. Nell’Onciario di Foggia, redatto tempestivamente già alla fine del 1741, emerge - da una lettura differenziale che prenda a confronto altri centri di analoga dimensione demografica - la centralità del mercato e di quelli che definiremmo servizi all’economia (trasporti, immagazzinamento), compresi i mestieri peculiari della città, come quelli degli sfossatori o dei pesatori di lane e vettovaglie. Non c’è solo il numero, pur significativo, di “mercadanti” e negozianti, ma è rilevante la diffusione del commercio, di derrate soprattutto, e dell’intrapresa agricola, accanto e dietro altre qualificazioni pro_______________ 8 - G. DEL RE, Descrizione topografica, fisica, economica, politica de’ Reali Domini di qua dal Faro, vol. III, Napoli, 1836, p. 257. 255 fessionali: non sono rari i casi di professionisti, “civili” e viventi “nobilmente” che hanno fondaci e trafficano in granaglie. La mancanza dell’Udienza, inoltre, non priva la città delle funzioni burocratiche e amministrative, e delle attività libero-professionali: professionisti, funzionari, impiegati e militari, grazie soprattutto alla Dogana e al suo Tribunale, superano a Foggia l’8,5% del totale degli attivi, percentuale oltremodo significativa, se si tien conto che a Bari queste categorie non raggiungono che il 3,6%. Non sono certo questi i settori numericamente prevalenti, giacché gli addetti all’agricoltura di rango medio basso sfiorano il 30% degli attivi. Si tenga conto, tuttavia, che a Barletta tale percentuale è più che doppia rispetto al dato foggiano, che rinvia alle caratteristiche del territorio posto attorno al capoluogo dauno, coltivato prevalentemente da salariati immigrati per specifiche fasi agricole o utilizzato per i sette mesi da novembre a maggio da pastori abruzzesi (entrambi i gruppi non sono di norma registrati dal catasto). Significativamente, infine, a metà Settecento solo l’1,4% dei censiti si qualifica come rentier (proprietario, “vive del suo”, “vive nobilmente ecc.)9. Ottant’anni dopo, nel 1826, uno stato d’anime abbastanza completo ci restituisce un’immagine della struttura socio-professionale della città in buona misura mutata: il “negozio in grande” appare in regresso, crescono in termini assoluti e percentuali, gli addetti alla burocrazia. Ancor più significativamente aumentano quelli che si definiscono o sono definiti proprietari o possidenti, insomma rentier, che passano al 3,1%. L’élite cittadina si “terrierizza”, investe prima nel consolidamento - ricordiamo l’oneroso riscatto dalle servitù della Dogana -, poi nell’estensione della proprietà fondiaria, sceglie sempre di più la proprietà come valore di riferimento. Non a caso nei ruoli degli eleggibili aumentano sensibilmente i proprietari10. Il mercato è nel frattempo profondamente cambiato: non sono mutate solo le destinazioni finali, ma si sono dissolte le vecchie “nazioni” i veneziani o i bergarnaschi, ad esempio, che avevano controllato in un primo tempo anche il mercato dei cereali e al tempo di Calvanese continuavano a commerciare la lana. Si è quasi completamente interrotto l’asse nord-sud per il grano, mentre cresce il mercato interno, che però e ferreamente _______________ 9 - S. RUSSO, L’articolazione socio-professionale... cit., p. 160. 10 - IB., p. 170-5. 256 regolato dai vincoli dell’annona e gestito dai grandi granisti privilegiati11. Per la lana i mercati della terraferma veneta e talvolta anche quello internazionale (francese, ad esempio) saranno perduti anch’essi, qualche decennio dopo, compensati faticosamente dalla più debole domanda locale delle manifatture del Regno. Operatori che erano, se non prevaletemente, almeno parzialmente impegnati sul mercato delle derrate, o della lana, investono sempre più nella terra che, grazie ai livelli sostenuti della rendita, assicura rendimenti soddisfacenti del capitale. Non c’è quindi solo la ricerca di un investimento rifugio o di un assetto patrimoniale orientato verso una logica di status nel nuovo rapporto con la terra, ma una solida - per quanto immobilista - razionalità economica. Una rapida indagine sui titolari dell’affitto sessennale e poi sui censuari del Tavoliere nella locazione di Castiglione, situata in buona parte attorno a Foggia, ci consente di misurare approssimativamente questo processo. Consideriamo le circa 300 carra di terre a pascolo di questa locazione (circa 60 mila versure): nel 1789 due terzi della terra fittata è detenuta da locati - privati o enti ecclesiastici - prevalentemente abruzzesi di Lucoli, Roccaraso, Scanno e Casteldisangro. Le presenze foggiane si riducono a quelle, peraltro non vistose, di Filiasi, Freda, Celentani e Bruno. Dopo il 1806 la presenza abruzzese si è ridotta su non più di un terzo della terra censita, sono scomparsi del tutto le Cappelle e i locati di Lucoli, mentre tra i pugliesi, accanto alle presenze già segnalate e ulteriormente rafforzate, emergono figure del mondo delle professioni di Foggia (Bucci, Corona), negozianti come i Curato di Troia e Benedetto del Sordo di San Severo, il mercante già nobilitato La Greca, marchese di Polignano, e massari-negozianti come gli Antonellis di Foggia12. Vent’anni dopo la situazione è di nuovo ulteriormente modificata: la presenza abruzzese ormai non supera il 12% del totale della superficie censita (e del canone corrisposto). Intanto è in corso un processo di pugliesizzazione della stessa élite armentaria abruzzese che trasferisce _______________ 11 - Per il secondo Settecento, cfr. P. MACRY, Mercato e società nel Regno di Napoli: commercio del grano e politica economica nel Settecento, Napoli, 1974; per il prirno Ottocento, J. DAVIS, Società e imprenditori nel Regno borbonico (1815-60), Roma-Bari, 1979. 12 - Dobbiamo questi dati alla cortesia di Stefano d’Atri che ha svolto una impegnativa ricerca sul possesso della terra nel Tavoliere tra l’affitto sessennale e gli anni Venti dell’Ottocento. È auspicabile che questo lavoro trovi al più presto uno sbocco editoriale adeguato. 257 nell’asse economico delle aziende e spesso anche la residenza personale nel Tavoliere. Tale processo di “conquista della terra non è un’acquisizione del tutto nuova”. Ne avevano già parlato due secoli fa Galanti13 e Patini14 e più di recente, partendo dall’ottica della fiera di Foggia e dei venditori di lana, vi si è soffermato Colapietra, che segnalava la “pugliesizzazione del mondo armentario che rappresenta - scrive - l’elemento sociale ed ambientale più caratteristico e vistoso di fine Settecento ed uno dei fattori più determinanti della liquidazione di quel mondo”15. Né tale processo ha solo quelle caratteristiche speculative che gli attribuisce gran parte della pubblicistica abruzzese, non senza qualche ragione, a fine Settecento, e che de Salis Marchlins riprende: “I ricchi signori di Foggia sono considerati come la causa principale della diminuzione delle rendite reali del Tavoliere [...] perché monopolizzano ogni anno i lotti migliori ad un prezzo bassissimo, per poi riaffittarli ad alto prezzo ai proprietari dell’Abruzzo”16. Come abbiamo visto, il processo continua oltre la cesuazione. In molti casi tale ampliamento di attività prelude alla generalizzazione di aziende miste cerealicolo-pastorali, ma non va oltre. Gli ordinamenti colturali restano significativamente bloccati, sia pure con oscillazioni congiunturali. A metà Settecento nella locazione di Castiglione delle 800 carra di superficie complessiva meno del 50% è coperto dal seminativo17. All’interno dei quadri colturali regolati dalle norme della Dogana si registra tuttavia una certa flessibilità: alla probabile espansione della semina negli anni Sessanta, segue un nuovo ripiegamento tra gli anni Settanta ed Ottanta18. _______________ 13 - G. M. GALANTI, Della descrizione... cit., p. 531. 14 - V. PATINI, Saggio sopra il sistema della Regia Dogana della Puglia, suoi difetti e mezzi di riformarlo, Napoli, 1783, p. 157. 15 - R. COLAPIETRA, La Fiera di Foggia dalle origini alla fine del Settecento, in ID., A. VITULLI, Foggia mercantile e la sua Fiera, Foggia, 1989, p. 164. 16 - C. U. DE SALIS MARCHLINS, Viaggio nel Regno di Napoli in M. VOCINO, Alla scoperta della Daunia con viaggiatori di ogni tempo, Foggia, 1957, p. 16. 17 - Piante topografiche e geometriche delle ventitre locazioni di Agatangelo della Croce in ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA, Dogana, s. I, atl. 21, Ristretto delle ventitrè locazioni del Regio Tavoliere, c. 88 r. 18 - Ci permettiamo di rinviare al nostro Grano, pascolo e bosco in Capitanata tra Sette e Ottocento, Bari, 1990. 258 Nell’ultimo decennio del secolo, prima Longano 19, poi Giustiniani20 (che probabilmente attinge da Longano) stimano che pascolo e seminativo si equivalgono attorno al 50%, con piccole superfici a vigneto e alcune centinaia di versure a bosco. Nel catasto provvisorio infine il seminativo raggiunge solo il 45% del totale della superficie censita - il che significa che solo il 21-22% è effettiva-mente seminato ogni anno -, mentre il 53,8 è pascolo. “Il territorio della città di Foggia addetto ad uso della semina - si leggeva in una memoria in materia di annona di qualche anno prima -è molto angusto allo stato attuale della sua popolazione” 21 tanto che attorno all’annona scoppiano frequenti conflitti nella città. La maggiore libertà nell’uso della terra dopo la censuazione non determina rilevanti mutamenti nel rapporto pascolo-seminativo, ed anche la deroga al rinnovato blocco, a tutela del pascolo, disposto dalla legge sul Tavoliere del 1817, sarà qui poco utilizzata. L’élite cittadina - quale che sia la destinazione colturale della proprietà fondiaria - si è quasi del tutto “terrierizzata”, ma non ha acquistato, come si è accennato, la propensione all’innovazione che palesano altre realtà vicine. “L’agricoltura foggiana resta ancora quasi qual’era”, scriverà negli anni Settanta Galileo Pallotta, riprendendo quanto aveva affermato con toni non dissimili più di vent’anni prima. Nell’ “ostinata condotta della maggior parte dei possessori territoriali, meno un piccolo numero”, egli vedrà la conseguenza “della mancanza del bisogno (di) essere o divenire agricoltore” 22, consentito dall’espansione burocratica e terziaria della città, dalla crescita delle professioni liberali, forse anche in termini di status. Il commercio sembra ormai un settore del tutto secondario - nonostante l’enfasi ripetuta sull’affluenza della Fiera, sempre più estranea alla città23 - tanto che il prefetto Scelsi nella Capitanata postunitaria scossa dalla _______________ 19 - F. LONGANO, op. cit., p. 63. 20 - L. GIUSTINIANI, op. cit., p. 302. 21 - ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Ministero degli interni, II, inv. f. 2339 (memoriale del 14-7-1803). 22 - G. PALLOTTA, Miglioramento del contadino e cittadinatico della pianura pugliese, Napoli, 1879, pp. 44-5. 23 - Sulla vicenda della Fiera nell’ottocento numerose sono le testimonianze di co ntemporanei. Si veda un rapido excursus in A. VITULLI, La Fiera di Foggia, dal 1800 ai giorni nostri, nelle cronache cittadine, in R. COLAPIETRA - A. VITULLI, op. cit., p. 193-414. 259 “potenza del vapore”, collegata al nord Italia dalla ferrovia Adriatica, potrà con compiacimento notare che alcuni “proprietari ed industrianti” anche di Foggia, "han preso a spingersi con buonissimi auspici nella via del commercio”24. Una funzione così tipica - la mercatura - sarà perciò riappresa, ma solo per un breve tratto: le opportunità legate alla crescita dimensionale e funzionale della città, i nuovi sconvolgimenti del mercato nazionale ed internazionale, le non mediocri fortune della rendita daranno poco respiro alle funzioni commerciali25. _______________ 24 - G. SCELSI, Statistica generale della provincia di Capitanata, Milano, 1867, p. XX. 25) Una vicenda esemplare, per certi versi analoga, ma con esiti profondamente diversi, è ricostruita per Piacenza, in A. M. BANTI, Terra e denaro. Una borghesia padana dell’Ottocento, Venezia, 1989. 260 I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi* di Raffaele Colapietra Vi era forse Carlo Lauberg tra gli Scolopi, ed i loro allievi, che la mattina del 7 marzo 1788, dalle alte finestre posteriori del loro collegio chietino, la fondazione secentesca patrocinata dall’arcivescovo genovese Stefano Sauli nella quale aveva trovato conforto e rifugio (ed opportuna base mediatrice per i suoi contatti col ribelle Carafa di Castelnuovo) Francesco d’Andrea1 assistevano alla discesa del corteo funebre per l’interramento del marchese Romualdo de Sterlich, morto il giorno prima, dall’ampio e movimentato palazzo sulla sinistra alla sottostante chiesa di S. Francesco di Paola. La venuta di Lauberg, l’anno prima, ed i suoi scritti di aggiornato scientismo naturalistico e di garbata tradizione empiristica lockiana, tra la dedica ad Acton ed il ricordo di Genovesi2 non aveva fatto altro, in verità, che ratificare e suggellare il ruolo del tutto particolare che, nel corso degli anni Ottanta, e magari già prima, era stato ricoperto dagli Scolopi di Chieti, malgrado i posteriori forse immeritati sarcasmi del Galanti3 in un contrappunto precisamente con De Sterlich che sarebbe tutto da precisare e da chiarire in una chiave determinata4. _______________ * -Relazione letta al Convegno di Studi su: “Le istituzioni nel Mezzogiorno e l’opera di Francesco Ricciardi” tenuto a Foggia il 15 aprile 1993. Sullo stesso tema saranno pubblicate, in seguito, le relazioni dei dott. Antonio Vitulli e dei prof. Saverio Russo. 1 - Per una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti, insieme con una discussione delle tesi all’epoca prevalenti in proposito, non modificate sostanzialmente a tutt’oggi dall’ed. Ascione degli Avvertimenti ai nipoti, mi permetto di rimandare essenzialmente al mio vecchio articolo Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in età mderna in “STORIA E POLITICA” Milano, 1980, V, pp. 557-642 e, 1981, 1, pp. 1-46 qui lV, 612-633 il cui contenuto ,è ripreso ne L’amabile fierezza di Francesco d’Andrea - Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea, Poria, Milano, 1981, pp. 95-113 e, più stringatamente, in STORIA del Mezzogiorno diretta da G. Galasso e R. Romeo, VI Napoli, 1988, pp. 115-121. 2 - B. CROCE, La vita di un rivoluzionario Carlo Lauberg in Vite di avventura di fede e di passione, Bari, 1953, pp. 365 ss. per la venuta a Chieti del venticinquenne scolopio di origine vallone e per i suoi rarissimi scritti, personalmente posseduti dal Croce, ed editi prima del ritorno a Napoli a fine 1788, Analisi chimico fisica sulle pvprietà de’ quattro principali agenti della natura seguita da un saggio sulle principali funzioni degli esseri organizzati e Riflessioni sulle operazioni dell’umano intendimento entrambi con dedica al ministro Acton, all’ epoca all’apice della sua autorità. 3 - Nella relazione 25 marzo 1792 in G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a m di Franca Assante e Domenico Demarco, Napoli, 1969, pp. 479-512 passim. 4 - Mentre scrivo (primavera 1992) è in corso l’edizione dei carteggi letterari e filosofici di De Sterlich col Lami e col Bianchi, nonché con minori corrispondenti, a cura di Umberto Russo e dei suoi collaboratori, a cui io affiancherò l’esame, d’indole più specificamente proprietaria ed antropologica, intesi i termini con tutte le virgolettature 261 Resta il fatto che presso gli Scolopi aveva anzitutto studiato, sullo scorcio iniziale del decennio precedente, Antonio Nolli, nato nel 1755 da Camillo, barone di Tollo, e da Rosaria Petrini, una dama bergamasca la cui tenera amicizia con De Sterlich aveva dato molto da ridire, ed era stata comunque senza dubbio all’origine di un vincolo singolarmente stretto fra l’attempato patrizio ed il giovane virgulto di una famiglia di alto artigianato lombardo, trasferitasi nell’Abruzzo aquilano e poi nel chietino nel secondo Seicento, e che appunto con Camillo, morto nel febbraio 1777, aveva acquistato per 25 mila ducati dai De Ruggero, poco più di due anni innanzi, il ricco feudo nelle pertinenze della città5. Antonio si trovava all’epoca nella capitale, dopo gli studi universitari compiuti a Bologna, e, rientrato in patria, vi aveva ricoperto nel 1779 la carica di camerlengo, a Chieti investita di potestà e privilegi del tutto particolari nel panorama meridionale6 prodromo di ben più delicato e significativo ufficio, nell’ottobre 1788, all’indomani della scomparsa di De Sterlich (e di quella, di poco posteriore, e ben più de stabilizzatrice, di Filangieri), la presidenza della società patriottica istituita a Chieti da Nicola Codronchi in contemporaneità e coordinamento con gli altri due capoluoghi abruzzesi7. Senza che qui sia possibile entrare nel dettaglio di un’iniziativa così significativa e complessa, ci limiteremo ad osservare anzitutto che essa coinvolgeva a Chieti, fin dal suo esordio, in qualità di segretari del sodalizio, almeno un paio di importanti personaggi, il lancianese Vincenzo Ravizza, di vent’anni più anziano del Nolli, letterato ed erudito che aveva mandato a studiare agli Scolopi, e poi a Napoli, entrambi i suoi figli, Gennaro, che avrebbe ripreso autorevolmente nel primo Ottocento la tradizione erudita paterna 8 e Giuseppe, futuro segretario generale dell’intendenza di Abruzzo Citra dall’istituzione nel 1806, per oltre vent’anni fino alla morte nel 1828, e Tommaso Durini, del ramo cadetto dei baroni di Bolognano, che avrebbe avuto in Giuseppe Nicola, cugino del Nostro, un ben noto scrittore di cose economiche, collega di Tommaso come consigliere d’Intendenza sin dalle origini (quest’ultimo vi sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1827, a segnare una continuità rimarchevole d’indirizzo murattiano-borbonica, analoga a quella di Giuseppe _______________ possibili, di un altro carteggio scoperto solo di recente, quello col cugino aquilano marchese Gaspare da Torres. Ma il problema degli Scolopi andrebbe impostato ed indagato su moduli assai diversi. 5 - G. BONO, Le ultime intestazioni feudali nei Cedolari degli Abruzzi, Napoli, 1991, p. 33. 6 - Si veda in merito la classica ed interessante trattazione, sottilmente polemica in senso anti aristocratico tanto da costargli la vita, in seguito anche alla successiva asperrima schermaglia con Niccolò Toppi (anche per questo, forse, i Nicolini di Tolto, dei quali stiamo per fare menzione, avrebbero tanto tenuto alla loro discendenza da lui), di G. NICOLINO, De auctoritate Camerarii Regiae Civitatis Theatinae, Ascoli Piceno, 1639. 7 - Sulla vicenda, che andrebbe ripensata e riconsiderata alla luce di quanto ci ha fatto conoscere A. PLACANICA Galanti e la Calabria saggio introduttivo all’edizione critica di G.M. GALANTI, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Napoli, 1981, si vedano per il momento le puntualizzazioni tematiche e cronologiche di G. DE LUCIA, Le società economiche abruzzesi 1788-1845 già apparso in “ABRUZZO”, Pescara, 1967 e che ora si può rileggere in ABRUZZO borbonico - Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Vasto, 1984, pp. 105-140, qui pp. 108111. 8 - Si vedano fin d’ora di lui, per quanto attualmente ci concerne, e perché profondamente connesse con l’atmosfera culturale che viene tratteggiata nel testo, Notizie biografiche che riguardano gli uomini illustri della città di Chieti e domiciliati in essa, Napoli, 1830, con relativa appendice edita a Chieti nel 1834, da vedere alle pp. 36-38, 56-57 e 101-105 per le biografie rispettivamente di Antonio Nolli, Tommaso Durini, Vincenzo e Giuseppe Ravizza. 262 I collaboratori abruzzesi di Francesco Ricciardi* di Raffaele Colapietra Vi era forse Carlo Lauberg tra gli Scolopi, ed i loro allievi, che la mattina del 7 marzo 1788, dalle alte finestre posteriori del loro collegio chietino, la fondazione secentesca patrocinata dall’arcivescovo genovese Stefano Sauli nella quale aveva trovato conforto e rifugio (ed opportuna base mediatrice per i suoi contatti col ribelle Carafa di Castelnuovo) Francesco d’Andrea1 assistevano alla discesa del corteo funebre per l’interramento del marchese Romualdo de Sterlich, morto il giorno prima, dall’ampio e movimentato palazzo sulla sinistra alla sottostante chiesa di S. Francesco di Paola. La venuta di Lauberg, l’anno prima, ed i suoi scritti di aggiornato scientismo naturalistico e di garbata tradizione empiristica lockiana, tra la dedica ad Acton ed il ricordo di Genovesi2 non aveva fatto altro, in verità, che ratificare e suggellare il ruolo del tutto particolare che, nel corso degli anni Ottanta, e magari già prima, era stato ricoperto dagli Scolopi di Chieti, malgrado i posteriori forse immeritati sarcasmi del Galanti3 in un contrappunto precisamente con De Sterlich che sarebbe tutto da precisare e da chiarire in una chiave determinata4. _______________ * -Relazione letta al Convegno di Studi su: “Le istituzioni nel Mezzogiorno e l’opera di Francesco Ricciardi” tenuto a Foggia il 15 aprile 1993. Sullo stesso tema saranno pubblicate, in seguito, le relazioni dei dott. Antonio Vitulli e dei prof. Saverio Russo. 1 - Per una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti, insieme con una discussione delle tesi all’epoca prevalenti in proposito, non modificate sostanzialmente a tutt’oggi dall’ed. Ascione degli Avvertimenti ai nipoti, mi permetto di rimandare essenzialmente al mio vecchio articolo Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in età mderna in “STORIA E POLITICA” Milano, 1980, V, pp. 557-642 e, 1981, 1, pp. 1-46 qui lV, 612-633 il cui contenuto ,è ripreso ne L’amabile fierezza di Francesco d’Andrea - Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea, Poria, Milano, 1981, pp. 95-113 e, più stringatamente, in STORIA del Mezzogiorno diretta da G. Galasso e R. Romeo, VI Napoli, 1988, pp. 115-121. 2 - B. CROCE, La vita di un rivoluzionario Carlo Lauberg in Vite di avventura di fede e di passione, Bari, 1953, pp. 365 ss. per la venuta a Chieti del venticinquenne scolopio di origine vallone e per i suoi rarissimi scritti, personalmente posseduti dal Croce, ed editi prima del ritorno a Napoli a fine 1788, Analisi chimico fisica sulle pvprietà de’ quattro principali agenti della natura seguita da un saggio sulle principali funzioni degli esseri organizzati e Riflessioni sulle operazioni dell’umano intendimento entrambi con dedica al ministro Acton, all’ epoca all’apice della sua autorità. 3 - Nella relazione 25 marzo 1792 in G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a m di Franca Assante e Domenico Demarco, Napoli, 1969, pp. 479-512 passim. 4 - Mentre scrivo (primavera 1992) è in corso l’edizione dei carteggi letterari e filosofici di De Sterlich col Lami e col Bianchi, nonché con minori corrispondenti, a cura di Umberto Russo e dei suoi collaboratori, a cui io affiancherò l’esame, d’indole più specificamente proprietaria ed antropologica, intesi i termini con tutte le virgolettature 261 Resta il fatto che presso gli Scolopi aveva anzitutto studiato, sullo scorcio iniziale del decennio precedente, Antonio Nolli, nato nel 1755 da Camillo, barone di Tollo, e da Rosaria Petrini, una dama bergamasca la cui tenera amicizia con De Sterlich aveva dato molto da ridire, ed era stata comunque senza dubbio all’origine di un vincolo singolarmente stretto fra l’attempato patrizio ed il giovane virgulto di una famiglia di alto artigianato lombardo, trasferitasi nell’Abruzzo aquilano e poi nel chietino nel secondo Seicento, e che appunto con Camillo, morto nel febbraio 1777, aveva acquistato per 25 mila ducati dai De Ruggero, poco più di due anni innanzi, il ricco feudo nelle pertinenze della città5. Antonio si trovava all’epoca nella capitale, dopo gli studi universitari compiuti a Bologna, e, rientrato in patria, vi aveva ricoperto nel 1779 la carica di camerlengo, a Chieti investita di potestà e privilegi del tutto particolari nel panorama meridionale6 prodromo di ben più delicato e significativo ufficio, nell’ottobre 1788, all’indomani della scomparsa di De Sterlich (e di quella, di poco posteriore, e ben più de stabilizzatrice, di Filangieri), la presidenza della società patriottica istituita a Chieti da Nicola Codronchi in contemporaneità e coordinamento con gli altri due capoluoghi abruzzesi7. Senza che qui sia possibile entrare nel dettaglio di un’iniziativa così significativa e complessa, ci limiteremo ad osservare anzitutto che essa coinvolgeva a Chieti, fin dal suo esordio, in qualità di segretari del sodalizio, almeno un paio di importanti personaggi, il lancianese Vincenzo Ravizza, di vent’anni più anziano del Nolli, letterato ed erudito che aveva mandato a studiare agli Scolopi, e poi a Napoli, entrambi i suoi figli, Gennaro, che avrebbe ripreso autorevolmente nel primo Ottocento la tradizione erudita paterna 8 e Giuseppe, futuro segretario generale dell’intendenza di Abruzzo Citra dall’istituzione nel 1806, per oltre vent’anni fino alla morte nel 1828, e Tommaso Durini, del ramo cadetto dei baroni di Bolognano, che avrebbe avuto in Giuseppe Nicola, cugino del Nostro, un ben noto scrittore di cose economiche, collega di Tommaso come consigliere d’Intendenza sin dalle origini (quest’ultimo vi sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1827, a segnare una continuità rimarchevole d’indirizzo murattiano-borbonica, analoga a quella di Giuseppe _______________ possibili, di un altro carteggio scoperto solo di recente, quello col cugino aquilano marchese Gaspare da Torres. Ma il problema degli Scolopi andrebbe impostato ed indagato su moduli assai diversi. 5 - G. BONO, Le ultime intestazioni feudali nei Cedolari degli Abruzzi, Napoli, 1991, p. 33. 6 - Si veda in merito la classica ed interessante trattazione, sottilmente polemica in senso anti aristocratico tanto da costargli la vita, in seguito anche alla successiva asperrima schermaglia con Niccolò Toppi (anche per questo, forse, i Nicolini di Tolto, dei quali stiamo per fare menzione, avrebbero tanto tenuto alla loro discendenza da lui), di G. NICOLINO, De auctoritate Camerarii Regiae Civitatis Theatinae, Ascoli Piceno, 1639. 7 - Sulla vicenda, che andrebbe ripensata e riconsiderata alla luce di quanto ci ha fatto conoscere A. PLACANICA Galanti e la Calabria saggio introduttivo all’edizione critica di G.M. GALANTI, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Napoli, 1981, si vedano per il momento le puntualizzazioni tematiche e cronologiche di G. DE LUCIA, Le società economiche abruzzesi 1788-1845 già apparso in “ABRUZZO”, Pescara, 1967 e che ora si può rileggere in ABRUZZO borbonico - Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Vasto, 1984, pp. 105-140, qui pp. 108111. 8 - Si vedano fin d’ora di lui, per quanto attualmente ci concerne, e perché profondamente connesse con l’atmosfera culturale che viene tratteggiata nel testo, Notizie biografiche che riguardano gli uomini illustri della città di Chieti e domiciliati in essa, Napoli, 1830, con relativa appendice edita a Chieti nel 1834, da vedere alle pp. 36-38, 56-57 e 101-105 per le biografie rispettivamente di Antonio Nolli, Tommaso Durini, Vincenzo e Giuseppe Ravizza. 262 Ravizza) e più tardi sottointendente a Vasto ed a Penne, intendente di Teramo e consigliere di Stato 9. Non solo: ma l’attività della società patriottica si apriva, sullo scorcio finale del 1788, con la presentazione di una memoria di un giovane concittadino lancianese dei Ravizza, l’avvocato venticinquenne Pasquale Liberatore10 il quale, con la concretezza nervosa che gli sarebbe stata riconosciuta ed elogiata in morte da un ben noto scritto del Mancini, sul cui intervento torneremo a suo tempo, poneva l’accento sulle cause dell’arretratezza economica della provincia, l’ignoranza dei proprietari, la mancanza di buoi da lavoro, la brevità degli affitti, “l’abusivo consumo dei grano d’India”, una tematica perfettamente armonizzata, insomma, con le prospettive del Codronchi, e che non a caso, i li a tre anni, sarebbe stata largamente riecheggiata nel Galanti. Si accingeva intanto a partire per Napoli, a completarvi gli studi, un giovanissimo precocissimo vassallo del Nolli (avrebbe compiuto diciassette anni il 30 settembre 1789, partenza verificandosi il 3 novembre successivo) che grazie ad una versatilità singolare improvvisatore in rima avrebbe ricordato l’episodio con un sonetto indirizzato alla madre Teresa De Horatiis11 ed allo zio e protettore, l’abate Luigi Nicolini12. Si trattava lo si è compreso già dall’accenno a Tollo, anche a prescindere da quest’ultima esplicita indicazione, di Nicola Nicolini, che quarant’anni più tardi, prendo spunto dal necrologio di uno degli esponenti di spicco di quel cenacolo di giovani d’eccezione che negli anni Ottanta si era raccolto intorno a De Sterlich, ed al dioscuro insostituibile della generazione post genovesiana, Melchiorre Delfico, il marsicano Franco Saverio Petroni, da lui appena incontrato dialetticamente, per così dire, quale indente di Chieti, dopo una carriera tipica di tutta questa generazione medesima, ormai _______________ 9 - I Durini richiamano ben più prestigiosamente dei Nolli all’ambiente milanese e lombardo, donde in effetti provenivano quali grossi mercanti all’Aquila ed a Chieti già nel primo Seicento, il fondaco suggellato dal feudo a danno degli aquilani Branconio, ed in una localizzazione che non va ambientalmente sottovalutata, al pari di quella di Tollo, quest’ultima al centro della migliore zona vinicola abruzzese facente capo ad Ortona, Bolognano, falde della Maiella a controllo del passaggio dei Pescara a S. Clemente a Casauria. 10 - Lo ricorda egli stesso, e ne riassume il contenuto, in P. LIBERATORE, Pensieri civili economici sul miglioramento della provincia di Chieti umiliati al regal trono, II, Napoli, 1806, 8-11, l’opera di fondamentale importanza su cui avremo modo di tornare con ampiezza, e nella quale si fa parola sia del sostanziale fallimento, perché sottoposte a Napoli, delle scuole normali d’agricoltura istituite nella circostanza, sia della presentazione nel 1791 di una seconda memoria sul commercio, che anch’essa viene sintetizzata dall’autore. Si ricordi che nel 1788 al Nolli si affiancavano nella società patriottica Francesco Valignani, che s’intitolava duca d’Alanno quale crede defunta consorte Anna Leognani Ferramosca (in realtà il feudo sarebbe andato alla loro figlia Giovanna, e per essa al di lei marito Michele Bassi, nipote di Francesco Saverio arcivescovo di Chieti fino alla morte nel 182 1, più tardi primo sindaco di Chieti ed intendente all’Aquila ed a Capua) ed una dozzina di altri soci, sulla base di un No regio di 250 ducati annui. La menzione dei Bassi, infine, già generale dei Celestini, ed il cui trentennale i ed articolato governo epíscopale meriterebbe uno studio specifico, ci richiama ad un suo confratello, Francesco Saverio Durini, fratello di Tommaso, anch’egli allievo degli Scolopi, più tardi vescovo dei Marsi e di Aversa, un ambiente, quello tardosettecentesco dei Celestini, che non andrebbe perso di vista, sia per i suoi co ntatti con De Sterlich (Gutierrez, Ciavarella) sia soprattutto per l’eredità del Galiani senior, il soggiorno teatino del cui fratello Matteo, com’è fin troppo noto, aveva occasionato la nascita abruzzese di Ferdinando. 11 - Appartiene alla famiglia il sacerdote Cesare, a lungo segretario perpetuo della Società Economica di Abruzzo Citra, del quale dovremo far parola tra breve. 12 - Vedilo in N. NICOLINI, La musa di famiglia memorie domestiche, Napoli, 1849, p. 9. 263 identificatasi tout court col riformismo murattiano 13 ne tracciava un ritratto indimenticabile, a partire appunto dal Delfico, che, poco più che quarantenne, rappresentava una sorta di transizione tra l’ortodossia genovesiana di De Sterlich ed i nuovi tempi di Filangieri (proprio dalla proposta di quest’ultimo per l’affitto sessennale del Tavoliere, l’estrema sua fatica riformistica, avrebbe preso le mosse, sempre nel 1788 da cui siamo partiti, il Delfico per il suo Discorso ultraprivatistico e modernamente proprietario, con in prospettiva il Palmieri) e nella casa chietina del giovane Nolli formava il suo incanto, meno per le conoscenze, che vastissime, come ognuna, e svariatissime erano in lui, che per la sobrietà nel fame uso, per l’intelligenza onde giudicava gli uomini e le cose, e per quella sua perpetua serenità onde, o lieto o triste il presente, ce lo dipingeva sempre nella ridente prospettiva d’un felice avvenire. Accanto a lui, appunto, il pupillo di De Sterlich men rispettivo, più fervido d’ingegno, più pronto e decisivo ne’ giudizi, più impaziente di freno e poi ancora il barone Durini, Giuseppe Nicola, “d’indole più placida”, i fratelli Ravizza “di assai facil natura”, lui, il Petroni, e finalmente il coetaneo e l’amico con cui fin dal 1787 si era trasferito a Napoli, sui vent’anni entrambi, a consigliere saviamente come _______________ 13 - Nato nel 1766, un anno prima di De Thomasis, di cui stiamo appunto per far parola nel testo, ad Ortona dei Marsi, nella valle dei Giovenco, e perciò nella contea di Celano, all’epoca feudo dei romani Sforza Cesarini (un legame, questo con Roma, che si riproporrà per un altro dei nostri protagonisti, Pasquale Borrelli, ponendo un problema plurisecolare, e non soltanto culturale, che andrebbe affrontato organicamente) il Petroni era stato subito chiamato nell’agosto 1806 come segretario generale del primo intendente Pietro De Sterlich, figlio di Romualdo, a Teramo, dove aveva rappresentato, con i successivi intendenti francesi, una continuità “nazionale” napoletana sulla quale torneremo più avanti, ancora con le parole suggestive di Nicolini, fino al 1812, allorché era stato traslocato in Terra di Lavoro, prima come sottointendente a Piedimonte e poi ancora quale segretario generale a Capua, dove aveva incontrato come intendente il Bassi duca d’Alanno di cui appena si è fatta menzione, proveniente dall’Aquila. Incaricato in Terra di Lavoro della divisione dei demani del Matese, in un chiaroscuro tutto da precisare con Biase Zurlo, che curava il versante molisano del massiccio, Petroni era passato nel 1814 in Calabria Ultra come intendente al posto del vecchio amico De Thomasis, ed aveva provveduto al delicatissimo compito di dividere l’ampia provincia nelle due ripartizioni i cui capoluoghi venivano fissati a Catanzaro, nuovamente al posto di Monteleone, ed a Reggio. Mantenuto, anche qui sintomaticamente, in servizio dall’amministrazione borbonica sino al fatale, e per tanti versi discriminante 1821, Petroni era stato intendente di Basilicata e di Abruzzo Ultra Primo (Teramo) salvo essere richiamato da Ferdinando 11, nel 1831, all’intendenza di Chieti, dove appunto Nicolini lo aveva incontrato nell’assumere la carica di presidente di quel consiglio generale. Le parole che riportiamo o riassumiamo nel testo sono infatti tratte dal N. NICOLINI, Discorso pronunciato all’apertura del consiglio generale della provincia di Chieti nel dì 1° maggio 1835 in risposta al discorso dell’intendente Francesco Saverio Petroni, Napoli, 1835, e più precisamente dall’appendice contenente la biografia del Petroni, scomparso settuagenario di lì a qualche mese, biografia che sarebbe stata ripresa ed ampliata da Nicolini in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI”, Napoli, l’intelligente iniziativa di Pasquale de Virgiliis di cui torneremo a far parola a suo tempo, nel fascicolo gennaio-giugno 1838, pp. 166-183, donde felicemente cita (e citererno anche noi, qui di seguito) G. DE LUCIA, La cultura abruzzese nel periodo borbonico già in “ABRUZZO”, Pescara, 1968 ora in ABRUZZO borbonico... cit. pp. 23-42 qui pp. 26-27. 264 giureconsulti più che a fervidamente arringare quali avvocati, Giuseppe de Thomasis da Montenerodomo, uno di quei feudi di periferia nei quali l’aristocrazia illuminata, nella circostanza il principe di Caramanico, sul quale non è certo il caso qui di dilungarsi, lasciava più vivi e fiorenti che mai gli “abusi” di antica e magari retorica memoria (ma tutto l’argomento meriterebbe di venir rimeditato a dovere) giovane di alta mente, grave, poco sofferente, e di pronta quanto placabile ira, tutto inteso fin d’allora alla scienza dell’uomo e de’ suoi rapporti sociali14. Da questo lieto e già prestigioso sodalizio l’adolescente Nicolini si distaccava per godere nella capitale delle musiche alla moda di Cimarosa e di Paisiello, circa le quali si confida con lo zio Luigi in occasione del carnevale 1790, ma anche, più sostanziosamente, per prepararsi ad arringare a Castel Capuano, dove esordiva, non ancora ventenne, il 16 aprile 1792, dinanzi all’auctoritas leggendariamente terrifica del Sacro Consiglio, su una piattaforma storicomatematica dell’interpretazione del diritto Sol poche linee Euclide, e poche rime Dettommi Clio che induce a riflettere15. Mentre infatti, nonostante le sue profferte di rigore più o meno moralistico, Nicolini si abbandonava per lunghi anni a Napoli alle seduzioni dell’improvvisazione poetica, che lo avrebbero introdotto nel clima cortigiano al più alto livello 16 a Chieti la tradizione della “sapienza” di Lauberg tra gli Scolopi era tutt’altro che spenta, e l’avrebbe rievocata di ri a qualche anno 17 col consueto fervore il più giovane di quei sodali, Pasquale Borrelli, _______________ 14 - La vicenda degli abusi feudali, come è noto, occupa buona parte della monografia dedicata a Montenerodomo in appendice a B. CROCE, Storia del regno di Napoli, Bari, 1953, pp. 317-356 sulla base di uno scritto specifico del Nostro, che era stato segnalato da E. GRILLI, Giuseppe De Thomasis la vita e le opere in “RIVISTA POLITICA E LETTERARIA” Roma, maggio 1900 estratto di pp. 36 e pubblicato da Croce col titolo Sulla terra di Montenerodomo in Abruzzo in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, XLIX, 1919 (particolarmente a De Thomasis sono dedicate le pp. 315-320 della Storia ecc. nell’edizione 1925, che ho sott’occhio, e sulla quale torneremo). Egidio Grilli, la cui pluridecennale devozione a De Thomasis è restata purtroppo senza esiti apprezzabili, prima delle irreparabili distruzioni cagionate dalla seconda guerra mondiale (si ricordi comunque di lui, ad indispensabile integrazione del lavoro precedente, Giuseppe De Thomasis in Atti e memorie, II, del CONGRESSO STORICO ABRUZZESE-MOLISANO, Casalbordino, 1935, pp. 577603) ricorda un incontro napoletano dei Nostro nel 1783, e quindi a sedici anni, con Ferdinando Galiani, che ha suggestionato R. FEOLA, Dall’illuminismo alla Restaurazione - Donato Tommasi e la legislazione delle Sicilie, Napoli, 1977, p. 251 fino a definire De Thomasis “attento discepolo” dell’abate, ma sul quale né egli né lo scrivente saprebbero dire di più. 15 - N. NICOLINI, La musa difamiglia, cit. pp. 10 e 23. 16 - Ibidem p. 26, e più avanti a p. 7 degli schiarimenti biografici posti in appendice, per il suo esordio estemporaneo alla reggia, il 7 luglio 1797, di ritorno da Foggia, dove Maria Carofina, alla quale il Nostro era stato presentato da Giuseppe Saverio Poli, il famoso scienziato molfettese, lo aveva chiamato ad improvvisare dinanzi all’arciduchessa Maria Clementina, durante il soggiorno della Corte in quella città per le nozze dell’erede al trono. 17 - P. BORRELLI, Principi di zoaritmia scoverti da Pasquale Borrelli e preceduti da un ragionamento istorico su la modema medicina matematica, Napoli, 1807, pp. 12-13 (l’accenno allo scolopio Aquila come erede della “sapienza” di Lauberg è nella biografia che del Borrelli sarebbe stata tracciata dal citato Cesare de Horatiis in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE, LETTERE ED ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1840, pp. 106-112). 265 nato nel giugno 1782 a Tornareccio, uno dei tanti feudi abruzzesi del gran connestabile Filippo Colonna principe di Paliano e duca dei Marsi, che alla metà degli anni Novanta era salito anche lui a Chieti a fare il suo noviziato tra gli Scolopi: La geometria e l’algebra, timidamente introdotti fra i monti aprutini da un uomo capacissimo di misurarne il vigore e dilatarne la stima, presentavano in essi appena appena l’aurora del giorno matematico. Quest’uomo era Paolo Aquila, uno scolopio di Rivello in Basilicata, del quale purtroppo sappiamo pochissimo, e solo assai recentemente, grazie alla benemerita attenzione dedicatagli da Carmelita Della Penna quale estensore della relazione per Abruzzo Citra della statistica murattiana 18 e, poco prima, da Domenico Demarco nella medesima prospettiva19. Accanto a lui, nella Chieti di fine Settecento, che col 1790 aveva assistito ai primordi di un’attività teatrale, e soprattutto ad una riforma municipale grazie alla quale era stato abolito il “dispotismo” del camerlengo e del decurionato a vita, un nutrito stuolo di amici, come Tommaso Maria Verri, il distinto letterato vicario vescovile di Ortona, e di condiscepoli più o meno brillanti del Borrelli, a cominciare dal compaesano Vincenzo Daniele, che sarebbe finito rettore del liceo dell’Aquila, e poi il Gaetani lettore di filosofia e matematica nel collegio di Vasto, il Berardini suo collega ad Ortona, il chietino Vincenzo De Ritis, il vastese Benedetto Betti, filologo e filosofo, l’abate Coletti di Atri, l’altro teramano, di Mosciano, medico e matematico, Giuseppe Saliceti. Tutto questo mondo aveva una sua precisa e circoscritta connotazione culturale, che ancora Pasquale Borrelli si preoccupa di definire20 allorché si appella agli Scolopi di Caravaggio, dai quali era stato ospitato a Napoli nel 1798, per dimostrare che all’epoca egli non avea letto né Rosseau né Voltaire ma aveva esposto in conclusioni solenni i principi matematici della filosofia naturale di Newton, e conosceva egli gli offici di Cicerone. _______________ 18 - C. DELLA PENNA, Aspetti della vita sociale ed economica dell’Abruzzo marittimo nella statistica murattiana, Chieti, 1990, che arricchisce con opportuna documentazione le parafrasi delle relazioni di Giovanni Thaulero e Paolo Aquila. Ne risulta che quest’ultimo espletò il suo compito fra l’ottobre 1811 ed il giugno 1813, con un’attenzione ai salari agricoli, al disboscamento, alla situazione sanitaria e cosi via, che farebbe pensare ad una qualche forma di collegamento con i precedenti Pensieri del Liberatore, sui quali ci soffermeremo tra breve. 19 - La “statistica” del regno di Napoli nel 1811 a cura di Domenico Demarco, Roma, 1988, p. LXXII. Aquila era venuto a Chieti appena ventiseienne, nel 1795, e vi si sarebbe trattenuto fino alla morte, quarant’anni più tardi (il nome non figura negli accuratissimi elenchi di T. PEDIO, Dizionario dei patrioti lucani, vol. V, Bari, 1991, dove vi sono bensì i Dall’Aquila, ma sono di Calvello). È da ricordare che Aquila sarebbe stato a più riprese presidente della Società Economica, e che il primo suo cenno biografico ed elenco degli scritti sono in G. TRAVAGLINI, Religione e storia, Pescara, 1932, pp. 230-231, senza peraltro che si riesca a seguire bene il nesso fra il retroterra schiettamente matematico, e perciò scientifico e filosofico, delineato da Borrelli, e la successiva attività compilativa, informativa e riformistica in senso lato. 20 - Memoria storica sulla condotta politica di Pasquale Borrelli in SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA, ms. XXX A 9 ce. 118-127 dove si fa cenno anche della liberazione a furor di popolo che lo scrittore aveva ottenuto nel ‘99 a Sanseverino dinanzi alle masse di Barrella che lo avevano arrestato. 266 E c’è da credergli, con l’analogo esempio eloquente di Nicola Nicolini il quale, indotto dalle burrasche giacobine e sanfediste, e più dalle incertezze della prima restaurazione, a riparare in patria (lo fa infatti soltanto nel giugno 1800, nei giomi di Marengo e dell’occupazione napoletana di Roma) vi si dedica significativament ed espressamente, risiedendo tra l’altro a Vacri, nel feudo tradizionale dei Valignani, a studi danteschi e vichiani che caratterizzeranno con forza la linea culturale della sua età matura, con la più volte asserita e difesa fratellanza d’armi tra filologia e filosofia: E qualor pur ricado in basso loco Tra gli empi dell’Inferno e degli Annali La Scienza Nuova e il Paradiso invoco... Voi (scil. le Muse) fra l’ire civili al patrio tetto Mi riduceste illeso: e a Dante e a Vico Gli ozi miei deste in guardia e l’intelletto 21. Tacito è dunque a tutte lettere, e con lui le nequizie del dispotismo (e dell’anarchia) il nemico da battere: e perciò non è meraviglia che, tra una meditazione e l’altra, l’ottimo Nicolini torni alla prediletta improvvisazione poetica, e vi tomi per celebrare la pace, che gli sta per restituire Napoli e l’arringo forense, non solo la pace internazionale di Firenze, nei suoi risvolti per tutt’altro che trascurabili di circolazione rinnovata delle merci e delle idee, quanto soprattutto la pace interna, che non può non fondarsi appunto, in via preliminare, sul debellamento dell’anarchia. Viene fuori così La pace poemetto in verso sciolto di D. Nicola Nicolini per il dì 24 giugno di S. Giovanni Battista nome che porta S.E. il signor marchese Rodio preside e comandante delle armi in provincia di Teramo che il maggiore Giuseppe Clary fa mettere a stampa precisamente nel capoluogo aprutino con dedica al Rodio come opera “del celebre vate estemporaneo D. Nicola Nicolini” a glorificazione del quale si evocano in folla Anacreonte, Orazio, Virgilio, Petrarca, l’Alighieri e, sintomaticamente buon ultimo, il Gessner. Don Nicola, quanto a lui, data il suo poemetto Torre dei Passeri 22 giugno 1801, mentre sta tornando a Chieti reduce da Pietranico, alle falde del Gran Sasso, dove si è imbattuto in Rodio, il primo preside recatosi di persona in quelle alpestri contrade, ed ivi amministrante patriarcalmente giustizia nel bel mezzo di una processione, come si narra diffusamente nel poemetto, e da Castiglione a Casauria, dove era avvenuto il primo incontro col giovane eroe, poi accompagnato dal Nostro a Pietranico, ospiti entrambi della marchesa Maria Anna Marciano Simonetti Depetris Fraggianni, la cui figurina suonante al piano fa da delizioso suggello per tutta l’arcadica scenetta. Ma, naturalmente, la pace non è soltanto l’Arcadia, così come Dante e Vico non servono soltanto alla metodologia interpretativa del diritto. Nicolini lo afferma a chiare note: Oh Astrea figlia del Ciel! tu sola formi Il desio delle genti: e se di Pace Tu compagna non sei, vive ancor Marte In false forme _______________ 21 - N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit. pp. 28 e 30, sonetti datati, rispettivamente, Vacri 10 maggio e Chieti 30 ottobre 1801. 267 come appunto in Abruzzo, dove era “surto un mostro infernal” il quale, in mezzo ad altri affini spaventevoli atteggiamenti, al tuono Che già dal Po fremer si udia, ei l’ire Ralluma alto ululando.... Ma ecco che sopraggiunge Rodio e il mostro è spento. Salve, o Alcide novello... un’immagine scontatissima, quest’ultima, ma che pure non possiamo fare a meno di riscontrare identica in Nicola Palma22 Rodio fu l’Ercole che distrusse tanti mostri e per questo titolo la provincia gli ha una obbligazione infinita a sancire il respiro di sollievo con cui tutto il moderatismo abruzzese accolse la repressione degli strascichi dell’anarchia sanfedista, una volta chiusa in parentesi, per così dire, la persecuzione antigiacobina. Ma in Nicolini, l’abbiamo detto, c’è anche altro, c’è la preoccupazione, viva dai tempi tempestosi di Latouche-Tréville e di Nelson, dell’indispensabilità della pace marittima per garantire le città costiere, a cominciare dalla capitale, dai pericoli dell’apparizione improvvisa di una flotta ostile, e specialmente per ripristinare il rapporto con l’Europa ormai da gran tempo minacciato o interrotto: E tu dell’arti nudritor... Industre padre, che trasformi e cangi Il superfluo in ricchezza, ed il selvaggio In colto cittadin, languente cadi Tu, o Com-mercio infelice: ed ogni colpo Che si vibra sul mar, fere il tuo petto. Vi erano per la verità altri colpi da cui guardarsi, come quelli di cui si lagna Pasquale Borrelli, divenuto nel frattempo, appena ventenne, professore straordinario presso l’ospedale di S. Giacomo degli Spagnoli, nel proemiare nel 1803, con dedica al cappellano maggiore Agostino Gervasio, ai suoi Principia Zoognosiae medicinam physicae legibus scientifica methodo superstruentia concinnata ad usum domestici auditorii allorché denunzia polemicamente23 la persecuzione subita da falsi teologi naturali recentium systematum, imo veritatis, patriaeque hostes, obscuriorum epocharum barbariem stuite revocantes. In realtà, molti anni più tardi, nella piena e tarda età ferdinandea, tomando su questo periodo immediatamente precedente al decennio, tanto Borrelli quanto Nicolini, nella _______________ 22 -L. COPPA ZUCCARI, L’invasione francese negli Abruzzi 1798-1810, II, Aquila, 1928,749, doc. CDLXXXV annotazioni alla cronaca dei Tullj. 23 - P. BORRELLI, Principia... cit, pp. VIII-IX. 268 prospettiva essenziale della continuità e dello sviluppo sulla quale avremo modo di tornare più volte, avrebbero sottolineato la solidità del momento politico e culturale, temperato le ombre, presentato il tutto come semplice, e robustissima, fase preparatoria ai successivi, pressoché naturali, risultati riformistici. Scriveva Borrelli, nel novembre 1832, in una circostanza particolarmente impegnativa e per sé stesso e per il personaggio trattato 24 che il Giampaolo arciprete di Ripalimosani presso Campobasso aveva ribadito e sancito il ruolo degli ecclesiastici nelle riforme, sia con la sua “morale mistica”, sia col suo appoggiare la metafisica alla fisica, e col conseguente rifiutare, pur non esaurendo nella sensazione la sua prospettiva gnoseologica, quelle distinzioni affollate e ricercate e sottili le quali, a luogo di chiarire, assiepan lo spirito sicché bene aveva fatto Giuseppe Bonaparte a chiamarlo nel Consiglio di Stato, poiché stimò sanamente che a consigliare il sovrano non occorresse che il senno, e non già quello degli avi, che son polvere ed ombra, ma il proprio. Ed incalzava Nicolini, a proposito dell’amico Petroni25 e del clima che aveva accompagnato il suo noviziato nel quindicennio 1790-1805, che era pure, lo sappiamo, sostanzialmente il suo: Tutto spirava repressione degli abusi feudali, ripristinamento dell’unità e della forza legale nelle amministrazioni municipali, equità nella ripartizione de’ dazi, restituzione all’agricoltura de’ demani sottrattine dal pregiudizio e dall’orgoglio, bonificazione delle terre paludose, abolizione de’ passi e de’ dritti proibitivi, svolgimento il più ampio e consentaneo alla pubblica utilità de’ rapporti della pastorizia d’Abruzzo con la coltura del tavoliere di Puglia. Non solo: ma a dire del Borrelli26 i metodi antecedenti al 1806 erano “alcune volte più semplici e meno dispendiosi de’ moderni”, e si collocavano sulla via regia che, addirittura dallo “spirito della disciplina” di Accursio e dall’estro di Dante, esempio insigne della “forza pensante che ispira i poeti”, aveva condotto a Galileo col suo “spirito osservatore e geometrico”, alla filologia di Vico, all’indulgenza di Beccaria, ed infine al “Cosmopolismo scientifico” di Antonio Genovesi, il quale non solo “non ascese alle acute e nebbiose sommità dei priorismo" avendo reso la logica "capitale delle scienze” e non _______________ 24 - P. BORRELLI, Elogio dedicato alla memoria del cavaliere Paolo Nicola Giampaolo dal suo successore nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli Pasquale Borrelli e letto nella seconda tornata del novembre 1832 (cito dalla seconda edizione riveduta e corretta, Napoli, 1836, pp. 10, 16, 23, 26). 25 - Leggiamo sempre il testo del “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE E ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1838, p. 171. 26 - Ibidem gennaio-giugno 1840 pp. 21-27 intervento 4 febbraio 1840 del Borrelli all’Accademia delle Scienze intorno alle considerazioni del marchese di Pietracatella sulle opere pubbliche delle Due Sicilie. 269 “ergastolo isolato”, ma si rese benemerito per aver promosso le riforme dei principi anziché quelle dei popoli, dal momento che le une procedono “blandendo” e le altre “devastando”27. Pasquale Liberatore non era stato esattamente, a suo tempo, in quell’ordine d’idee, mentre Antonio Nolli, il solo, insieme con lui, dei “novatori” degli anni Ottanta rimasto in Abruzzo Citra a misurarsi con la seconda, e più modesta generazione, il padre Aquila ed i suoi allievi al di fuori di Borrelli, per intenderci, girava l’Europa col fratello Giustino, dopo aver avuto "molta parte in conservar la quiete" tra le burrasche del Novantanove, per dirla con Gennaro Ravizza, a studiare nuove tecniche agricole, ed in particolare l’introduzione di prati artificiali, anche questo un tenersi in riserva, insomma, che l’avrebbe abilitato non a caso ad assumere la presidenza della giunta esecutiva incaricata di amministrare il gettito della censuazione e della fondiaria all’indomani immediato della legge 21 maggio 1806 sul Tavoliere di Puglia, nonché della cassa d’amministrazione a questo scopo istituita, in attesa di succedere a Giuseppe Poerio quale secondo intendente di Capitanata27 bis . Proprio quella legge, che sanciva le vedute proprietarie e privatistiche di. Melchiorre Delfico nel 1788, l’anno dal quale abbiamo preso le mosse, induceva presumibilmente Liberatore, nel giugno-luglio 1806, a dare l’ultima mano ai suoi Pensieri ed a metterli a stampa, con un breve cenno in appendice a prendere atto della legge del 6 agosto abolitrice della feudalità. Anche Borrelli stava lavorando in quei mesi ai suoi Principi di zoaritmia, che sarebbero stati pubblicati ai primi dell’anno successivo, con una dedica “all’ombra di Rosina Scotti” ed un ricordo dello zio Marcello, annoverato tra i “forti immolati per la mano della barbarie” che non ci interessano esclusivamente in chiave patetica e patriottica: Ricevi, o figliuola della virtù, se non i primi i più teneri omaggi del talento e del cuore... I primi le sono stati resi dall’attuale giudice del tribunale straordinario della Calabria Pasquale Liberatore28 ne’ suoi eruditi, sensatissimi e patriottici Pensieri civili economici. La provincia di Chieti debbe ad essi i migliori progetti di riorganizzazione29. _______________ 27 -P. BORRELLI, Su’ principali restauratori della civiltà italiana discorsi dedicati al settimo congresso degli scienziati italiani, Mendrisio, Lampati, 1845, soprattutto pp. 64 e 68. 27 bis - Nel frattempo Nolli era stato nominato per brevissimo tempo preside di Teramo, di cui in seguito avrebbe rifiutato di diventare intendente, lasciando l’ufficio al suo antico e più giovane amico e concittadino Pietro De Sterlich figlio del marchese Romualdo (G. CIVILE, Appunti per una ricerca sull’amministrazione civile delle provincie napoletane in “QUADERNI STORICI: Notabili e funzionari nell’Italia napoleonica”, Bologna, gennaio-aprile 1978, p. 235). 28 - A. DE MARTINO, Antico regime e rivoluzione nel regno di Napoli crisi e trasformazione dell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, p. 139 fissa al 10 novembre 1806 la data della nomina ma parla di presidenza, mentre la testimonianza di Borrelli avvalora il cenno biografico di R. AURINI, Dizionario bibliografico della gente d’Abruzzo, III, Teramo, 1952 e ss., 129-136 che fissa a Matera la sede del tribunale. 29 - I Principi di zoaritmia non sono altro che un’applicazione più o meno adattata della teoria dell’eccitabilità di Brown alla filosofia di Condillac. Notevole, benché canonica, a p. 20, l’evocazione di Genovesi “il distruttore della barbarie patria” che sembra confermare Borrelli nella linea moderata caratteristica di Nicolini, mentre Liberatore avrebbe aderito più animosamente a certi “estremismi” di Filangieri, come meglio vedremo nel testo, e qui di seguito in nota. 270 In realtà era proprio quest’ultima, nel senso tutto francese e moderno del termine, al centro dell’esordio di Liberatore, a confermare non solo la prontezza con cui egli recepiva le novità del 1806 ma anche e specialmente l’analogia di presupposti e di obiettivi sulla quale si era preparato a recepirle: Nell’imminente organizzazione che vanno a ricevere le nostre provincie, quella di Chieti osa far pervenire i suoi voti fino ai piedi dei rigeneratore della nazione napoletana. Ché in verità di rigenerazione, e radicale, si trattava, a cominciare dal codice, in uno stato di cose le mille miglia distante dalle rievocazioni ottimistiche di Borrelli e di Nicolini (sulla strenua e coraggiosa militanza di quest’ultimo in favore della continuità prima e dopo il 1806 avremo modo di soffermarci ampiamente) che viceversa anche il tardo Liberatore non avrebbe mai fatto proprie30 fermo nella raffigurazione di un regno di Napoli la di cui legislazione è formata da quell’immenso complesso di casi presso che tutti particolari, che mette capo nella grandezza e nelle vicende del Lazio, nel vario dispotismo de’ Cesari, nella diversa barbarie de’ nuovi conquistatori, nelle pie frodi chiesastiche, nella conculcatrice politica vi-ceregnale31, nel cieco ni coerente impero de’ re, e nell’ammasso indigesto di usi eterogenei e di giudizi sovente contradditori secondo la dimostrazione fornita, una volta per tutte, da Melchiorre Delfico, la cui stroncatura della giurisprudenza romana il Nostro non si sarebbe peraltro sentito di condividere sino in fondo32. Il codice, dunque, quanto alla cui coerenza col sistema politico napoletano Liberatore si astiene da ogni decisione, rimettendosi a Giuseppe e riservandosi in tal modo implicitamente il suggerimento di modifiche che avrebbe caratterizzato il saggio del 1814. _______________ 30 - In questo senso è da leggersi P. LIBERATORE, Filangieri vindicato dalle ingiurie di M. Lerminier in “FILOLOGIA ABRUZZESE”, Napoli, giugno-agosto 1836, pp. 23-28 e 7889 (è il primo fascicolo di quello che in seguito sarebbe stato il “GIORNALE”, Napoli, di De Virgiliis, e l’intervento di Liberatore riproduce una memoria letta alla Pontaniana). Nel contestare le tendenziose interpretazioni dello scrittore francese, e prima di lui, naturalmente, di Constant, il Nostro si preoccupa, rifacendosi significativamente al classico parallelo con Beccaria ed all’elogio 1788 di Donato Tommasi, di collocare Filangieri su una linea che risale a Vico, ma che inserisce anche quest’ultimo in una tradizione scaturita da Bruno e da Campanella, anticipatrice di Montesquieu nello studiare il diritto “colla fiaccola della storia” secondo quanto suggerito dall’Aulisio fino a Giuseppe Pasquale Cirillo ed appunto a Filangieri, che perciò precede anche Savigny e si apparenta degnamente a Muratori nel rifiutare le aberrazioni del diritto romano. “Un dritto tutto nuovo - conclude Liberatore, quasi condensando all’ombra di Filangieri quella che potrebbe chiamarsi la filosofia del 1806 - proclamò egli che fosse necessario, profittando delle lezioni de’ nostri padri in.ciò che fosse conveniente allo stato delle nazioni... allontanandosi egualmente dalla servile pedanteria di coloro che niente vogliono mutare e dall’arrogante stranezza di coloro che vorrebbero tutto distruggere”. 31 - È questo, s’intende, un ormai consolidato luogo comune, su cui vedremo tornare con eloquenza, ed in occasione solenne, il Nicolini. 32 - P. LIBERATORE, Introduzione allo studio della legislazione del regno delle Due Sicilie, Napoli, 1832, pp. 32-33. 271 Per il momento, nel 1806, e prima della legge del 6 agosto, il problema pressante è quello della feudalità, a proposito del quale Liberatore preferisce attestarsi sulla linea di Filangieri e Palmieri, recupero dell’aristocrazia come ordo a sostegno della monarchia ma non privilegiato, conservazione di titoli, rendite e ordini cavallereschi, l’honneur, insomma, tanto caro a Montesquieu, ma niente diritti feudali “odiose usurpazioni e mezzi atroci di oppressione” secondo quanto già si è cominciato sistematicamente a fare per iniziativa del Di Gennaro duca di Cantalupo: Non sono il nemico del baronaggio, né mi lascio trarre dalla corrente de’ publicisti moderni i più accreditati, che pel bene universale ne declamano l’abolizione... Io non so se nella costituzione che forse avremo rimarranno i feudi, ma... dovrebbero assolutamente riunirsi allo Stato le giurisdizioni... per togliere quell’odiosa differenza tra città demaniali e terre baronali che tanto distrugge la politica eguaglianza. Liberatore aveva l’occhio alla sua Lanciano ed alla causa più che secolare contro gli Avalos marchesi del Vasto, un municipalismo appassionato che più avanti gli avrebbe suggerito di proporre la riapertura del porto di S. Vito, la restituzione della fiera, soprattutto l’installazione di un tribunale di prima istanza, che nel gennaio 1809 si sarebbe eretto addirittura in forma di magistratura d’appello, non sappiamo fino a qual punto per interessamento dei personaggi chietini dei quali ci stiamo occupando (ma della provincia, nessuno del capoluogo!) e solo nel maggio 1817 si sarebbe trasferito all’Aquila33. Per il momento, a parte l’excursus storico su Lanciano, culminante con Championnet, che l’aveva dicharata “centrale della provincia”, una soluzione amministrativa che il Nostro non vedrebbe di malocchio in bilanciamento a Chieti, le istanze riformistiche generali sono le più assillanti, da quelle giudiziarie ed amministrative (gratuita amministrazione della giustizia, abolizione della venalità degli uffici con risarcimento, unificazione della giurisdizione locale con pronta eliminazione di quella doganale, eleggibilità dei giudici da parte di un parlamento universale comunitario opportunamente rinnovato e dinamizzato) alle riforme dell’istruzione, accentrate su università provinciali, ed a quelle finanziarie, miranti a proporzionare i tributi alle capacità abolendo il focatico e concentrandosi sulla fondiaria e sulla liquidazione dei demani “avanzo delle barbarie de’ nostri padri” al pari dei diritti proibitivi, a cominciare da quello delicatissimo del sale. _______________ 33 - Nel 1806, infatti, Liberatore prevedeva Chieti quale sede della gran corte civile, e perciò capoluogo giudiziario dell’intero Abruzzo. Queste sue proposte, d’altronde, non temperavano l’assidua polemica, che si direbbe di eredità galantiana, e che, ancora una volta, non si sarebbe trovata mai in Nicolini, contro la “turba immensa di legali cavillosi”, un’espressione di Cose patrie in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoli, luglio 1838, pp. 3-15 dove si deplora anche l’abbandono della strada Frentana per Palena a Roccaraso, sulla quale, come vedremo, tre anni prima si era intrattenuto Nicolini. Già nei Pensieri, peraltro, è plasticamente, e qui si direbbe sulla traccia di Genovesi, vivissima la polemica contro il pagliettismo, e più latamente lo pseudo culturalismo improduttivo, allorché si parla di Agnone e del suo “splendore non atteso” in mezzo ad una natura straordina-riamente ingrata per difficoltà di comunicazioni, l’arte del rame donde scaturisce “il denaro, e seco tutti comodi della vita” salvo peraltro “quei bravi artefici” cominciare a trascurarla “e, vedendo la gran considerazione del passato governo per gli oziosi (sic!), sono in procinto di passare alla classe de’ medesimi, col procurare a’ figli le lauree, e far consumare il frutto de’ loro sudori nella capitale”: e poco prima aveva scritto incisivamente, 272 Quanto specificamente ad Abruzzo Citra, l’intervento governativo avrebbe dovuto aver di mira l’identificazione delle “sorgenti della ricchezza” nell’agricoltura, nelle arti e nel commercio, allo scopo di “rapprossimar gli estremi al più che sia possibile”, secondo l’ammonimento di Rousseau. La forbice tra l’emigrazione bracciantile e la scarsezza dei raccolti, l’insicurezza delle campagne donde l’impossibilità di una colonizzazione razionale, la mancata utilizzazione delle acque del Sangro e dell’Aventino per i lanifici di Palena e della zona contermine, le prepotenze feudali che impediscono il completamento della litoranea della Puglia e soprattutto il passaggio dei fiumi, insieme con le rivalità municipali, tutto ciò tratteggia per Abruzzo Citra un quadro largamente prevedibile ma non per questo meno suscettibile d’interventi particolari, che Liberatore sostanzia nella rivitalizzazione della struttura confraternale in forma di “compagnie agrarie” o altrimenti assistenziali, appoggiate dai monti frumentari, nella canalizzazione del Pescara, in una rete organica di ponti34. I Pensieri costituivano la testimonianza concreta, tangibile, della maturità con cui la classe dirigente formatasi in Abruzzo Citra nell’ultimo quindicennio del Settecento era in grado di recepire, assimilare e soprattutto far rapidamente fruttificare le sollecitazioni del nuovo regime. Perciò esso si avvalse con prontezza, ed al più alto livello, della sua collaborazione, Nolli e Liberatore, l’abbiamo visto, rispettivamente in Capitanata ed in Calabria, donde l’avvocato lancianese sarebbe passato nel 1808 procuratore generale alla gran corte criminale dell’Aquila, dove avrebbe lasciato fama duratura di rigore35, Borrelli nel 1807 alla segreteria della commissione feudale e due anni più tardi a quella della prefettura di polizia, che gli avrebbe procurato un’ardua convivenza col ministro Maghella ed il trasloco, con pratico danno finanziario, alla gran corte civile di Napoli36, Nicolini rimasto avvocato dei poveri alla conquista francese e solo nel novembre 1808, a quanto pare contro la sua volontà, designato alla procura generale della gran corte criminale di Terra di Lavoro, il De Thomasis, infine, subito nell’ottobre 1806 sottintendente di Sulmona, e dopo pochi mesi, nel luglio successivo, intendente di Calabria Ultra. _______________ mostrando di aver già assimilato a dovere il vichismo di Filangieri: “Non più la filosofia e la storia sono le basi della scienza legale”. 34 - Ho citato e riassunto dai Pensieri civili economici sul miglioramento dellaprovincia di Chieti umiliati al regal trono, Napoli, 1806 soprattutto 1, 1-3, 16-27 passim, 31-32, 51, 60-77 passim, 85 ss., 92, 116-125 passim e II, 4, 38-39. 35 - Se ne rende interprete ancora in “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENTE LETTERE ED ARTI”, Napoli, aprile 1840 pp. 41-47 il ben noto sacerdote liberale ed educatore sulmonese Leopoldo Dorrucci, in un profilo biografico di Liberatore che ricorda il suo cancellierato, nel 1798, alla doganella di Abruzzo Citra, da lui così acremente stigmatizzata nei Pensieri, dove avrebbe avuto modo di conoscere Pasquale Borrelli. 36 - A queste vicende, senza che qui sia possibile, s’intende, approfondire né tanto meno documentare l’argomento, accenna la citata Memoria con lo specificare che Borrelli avrebbe combatutto lo spionaggio, eliminato il delitto di Stato ed i provocatori e macchinatori di cospirazioni politiche, con la conseguente frequenza di condanne a morte più o meno arbitrarie. La repressione del contrabbando, l’istituzione di un consiglio medico e la sistemazione igienica delle carceri sono altre benemerenze rivendicate in Bibliografla di Pasquale Borrelli, Koblentz, 1840, pp, 6-7, mentre F. NICOLINI, Nicola Nicolini e gli studi giuridici nella prima metà del secolo XIX, Napoli, 1907, p. XXXVIII accenna all’inflessibilità di Pietro Colletta e di altri magistrati militari nei cui confronti Nicolini aveva 273 L’atmosfera del trapasso sarebbe stata rievocata col consueto fervore, trent’anni più tardi, nell’agosto 1835, nell’Elogio dedicato alla memoria di Amodio Ricciardi che Pasquale Borrelli pronunziava in casa di Giuseppe Poerio sintetizzando l’esperienza dì una generazione in quella di uno dei suoi più cospicui e rappresentativi esponenti proprio in quell’ordine giudiziario e più latamente giuridico che è il protagonista del nostro discorso37: Innanzi di spiegare presso questo collegio (scil. la magistratura) le proprie funzioni, era uopo formarlo. Era uopo bandire, senza punto irritare, le antiche abitudini: era uopo farne sorgere gradatamente delle nuove, senz’aver l’aria d’imporle: era uopo insegnare, senza prender giammai la fisonomia del maestro: ed a forza di lodare il poco era uopo spingere destramente gli animi al molto. In opera si disagevole e la soverchia lentezza e la fretta soverchia avrebbero potuto essere fatali all’amministrazione della giustizia. Indamo il saper legale avrebbe avuto l’ambizione di giunger da sé solo al fine prefisso. Era mestieri congiungergli quella modestia disinvolta che, senza urtar l’amor proprio, istruisce e dirige: quella purità d’intenzione che disarma la calunnia: quell’amor di giustizia che sorprende ed edifica, pur quando dispiace. Quasi contemporaneamente ad Amodio Ricciardi, come sappiamo, scompariva il Petroni, e qui era il Nicolini38 a calare nel concreto dell’attività quotidiana del, responsabile di un’amministrazione periferica ciò di cui Borrelli aveva delineato la “filosofia”: Sue furon la divisione territoriale, la formazione de’ decurionati e de’ consigli distrettuali e provinciali, la istituzione de’ collegi e delle scuole primarie, la forma e la ripartizione della coscrizione militare e de’ tribunali, le prime traccie delle strade interne, le prime linee di separazione tra l’amministrativo e il giudiziario nella provincia39, le prime applicazioni delle leggi abolitrici della feudalità e de’ dritti proibitivi. _______________ dovuto competere in un’atmosfera di tensione analoga a quella di Borrelli, tensione che viene ampiamente ridimensionata in A. DE MARTINO, Antico regime... cit. p. 134. 37 -L’Elogio, stampato in opuscolo nello stesso 1835 presso la stamperia dell’Aquila, è oggi riprodotto, privo di note, in A. RICCIARDI, Memoria sugli avvenimenti di Napoli nell’anno 1799 edizione critica a cura di R. Lalli, Campobasso, s.d., pp. 111-120. È il caso di ricordare che il Ricciardi, molisano di Trivento, di ricchissima famiglia originaria dell’altra sponda, quella abruzzese, del Trigno, era uno dei tanti magistrati richiamati in ufficio da Ferdinando II dopo un decennio di decadenza a seguito dell’elezione a deputato nel 1820, che faceva seguito alla nomina a procuratore generale presso la gran corte civile di Napoli nel 1808 (il Ricciardi si era ritirato a Torino, e già lì era entrato autorevolmente nella magistratura subalpina), a consigliere di Cassazione nel maggio 1812, presidente nella gran corte civile appena trasferita all’Aquila nel giugno 1817, intervallati questi ultimi uffici dalla presidenza del consiglio generale di Molise. La citazione del testo è a p. 10 dell’opuscolo. 38 - Facciamo sempre, e conclusivamente, capo a “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETFERE ED ARTI”, Napoli, gennaio-giugno 1838, p. 174, lo stesso fascicolo, si noti, nel quale, alle pp. 115-123, era apparsa una prima Bibliografia di Giuseppe De Thomasis a firma P.C. (Pasquale Castagna) contenente il famoso aneddoto dell’inginocchiamento reciproco a cui il Nostro avrebbe costretto un postulante calabrese, poi ripreso dal Croce e divenuto pressoché emblematico della gravitas del De Thomasis. 39 - Si tratta, l’abbiamo visto, di Teramo, dove Petroni era stato segretario generale dal 1806 al 1812. 274 L’uomo che aveva saputo meglio congiungere nella propria personale attività la poesia di Borrelli e la prosa di Nicolini, per così dire, era stato il loro amico e comprovinciale Giuseppe De Thomasis, quanto meno per quel che sappiamo di lui dall’abruzzese Egidio Grilli, in attesa che opportune ricerche ci facciano conoscere qualche cosa di più della sua successiva molteplice attività in Calabria e nella capitale40. Dall’ottobre 1806 al luglio 1807 sottintendente di Sulmona paese mancante di ogni risorsa, avvilito dalle passate sciagure, nel quale le piaghe dell’anarchia sono ancora fresche (il riformatore intransigente che è De Thomasis non parla, naturalmente, dell’abolizione del regime doganale e dell’avvio dell’affrancamento del Tavoliere, che aveva sovvertito alla lettera una vasta zona appenninica tradizionalmente e compattamente armentaria) egli avanzava infatti con immediata concretezza la proposta, che si sarebbe realizzata tra il marzo ed il luglio 1807, per la bonifica di circa 8 niíla ettari della conca peligna grazie alla riapertura ed al riassestamento dell’antichissimo canale di Corfinium, ora diventata Pentima, allo scopo di far rientrare dall’Agro romano la gioventù emigrata nella stagione invernale, e cosi sottrarla al brigantaggio. Coinvolgeva inoltre il De Thomasis la pubblica opinione con l’immissione di una sorta di assegnati mensili e con una serie di appalti particolari, il cui governo peraltro non poteva non rimanere affidato all’aristocrazia ex feudale, con le conseguenze e le vischiosità del caso. Quest’ultima clausola, ed il paternalismo tanto dei presupposti quanto delle finalità dell’impresa, s’inquadravano perfettamente e precocemente nella filosofia della continuità propria della monarchia amministrativa in Abruzzo a livello ambientale, ma che vedremo tra poco ragionata compiutamente da Nicolini nella sua cornice culturale, e nella più impegnativa delle circostanze. Essa s’irrobustiva, peraltro, nel sistema di De Thomasis volto alla formazione di una classe dirigente post gesuitica (a Sulmona c’era stata la Compagnia, non c’erano stati gli Scolopi, come invece, in Abruzzo, oltre che a Chieti, soltanto a Lanciano ed a Scanno) con un collegio regionale d’istruzione ed educazione istituito a Sulmona nel maggio 1807, affiancato da scuole di disegno e da una biblioteca, che sarebbero rimaste di massima sulla carta. Simile sorte sarebbe parimenti toccata all’ambizioso progetto per un’autentica università provinciale (si rammentino le analoghe idee di Liberatore), anch’esso comunque indicativo della necessità di prendere le cose da lontano, se s’intendeva riassestare lo sbandamento strutturale della società post armentaria, denunziato cosi drasticamente _______________ 40 - R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit. p. 251 reputa De Thomasis “uno dei fautori della ri forma del contenzioso amministrativo e in perfetta sintonia con l’opera riformatrice del ministro della Giustizia (scil Donato Tommasi) in questo campo” ma in realtà non riesce ad andare oltre Grilli (pp. 217 e 251) a parte alcune importanti precisazioni che si vedranno più avanti. È Grilli, infatti, che ci informa della corrispondenza con Murat durante la permanenza a Monteleone e delle dimissioni respinte dal sovrano nel febbraio-marzo 1809, prima cioè del ritorno in Abruzzo, nell’ottobre dello stesso anno, sul quale ci soffermeremo più avanti, sempre peraltro sulla traccia esclusiva del benemerito Grilli, che è altresì la fonte di ciò che si dice nel testo. 275 dall’insorgenza, e soprattutto dalla disoccupazione od emarginazione di migliaia d’individui e d’intere comunità e zone appenniniche, che intorno alla pastorizia si erano strutturate. Il 14 novembre 1808, mentre gli amici e conterranei Borrelli, De Thomasis e Liberatore lavoravano rispettivamente a Napoli, Monteleone ed Aquila, il Nicolini era nominato a S. Maria di Capua. All’infelice D’Astrea raggiunto dalla spada ultrice Scudo io finor, d’un Dio non senza aita, La stessa ultrice spada ecco ho brandita, Campion d’Astrea... Ma d’alto imposte, e non richieste, io prendo Le insegne sue.... Sembra sincerissimo, e significativamente sincero, in questo rammarico per lo scambio della toga d’avvocato con quella di magistrato, Nicola Nicolini in questo sonetto datato 7 gennaio 180941 lo stesso giorno del discorso d’insediamento quale procuratore generale nella gran corte criminale, stampato col titolo istruttivo ed eloquente Del passaggio dall’antica alla nuova legislazione nel regno delle Due Sicilie42 e che qui riassumiamo e citiamo nei suoi fondamentali, importantissimi concetti. Una successione di leggi, nella progressione assidua de’ bisogni civili e de’ lumi, dettandolo le cose stesse, le ha si portate a questo termine che noi, per isnodare ed applicare le leggi nuove, non faremo altro che richia-marle, con la storia legale alle antiche. Nicolini enuncia in esordio il postulato machiavelliano del “ritiramento a’ principi” che gli sarà sempre carissimo, ma vi affianca, nella prospettiva comune della continuità, il concetto tutto vichiano della “storia legale” che attende di essere schiarito nello svolgimento del discorso. Oggi si è fatta di tante leggi una sorta di revision secolare; ed il passaggio dalla vecchia alla nuova legislazione è assai meno sensibile di ciò ch’ogni volgare può scorgere... Nel regno dove nacque Filangieri nulla può esser nuovo di quanto andrò divisando... La legge penale, lungi dall’esser copia della legge penale francese, ha le sue prime disposizioni generali tratte dal Filangieri (è notevole questo discrimen analogo a quello di Liberatore, ma con un’accentuazione polemica e formalistica assai più risentita che in lui). E Nicolini prosegue, affrontando un tema sul quale Liberatore sarebbe stato assai meno ottimistico nei confronti del passato e Francesco Ricciardi, come ministro, legalisticamente intrattabile: _______________ 41 - Vedilo in N. NICOLINI, La musa di famiglia...cit. p. 32. 42 - Lo leggiamo nella seconda edizione, Napoli, 1840. 276 Noi dobbiamo celebrare nei giudizi i principi umanissimi che, sviluppati da’ nostri giuspubblicisti, temperavano appo noi quell’arbitrio il quale imperava nelle cause per l’applicazione delle pene. Senonché oggi ogni arbitrio è cessato: niun fatto può dichiararsi punibile se non è tale espressamente dichiarato dalle legge; niuna pena può essere applicata se non è dalla legge indicata qual sanzione espressa dell’infrazione. Sembra invece che Nicolini sottovalutati in certo senso ciò che con maggior fervore di novità aveva auspicato Liberatore nell’attesa legislazione francese La parte che può apparire più nuova è la giurisdizionale... Ridotte ad unità tutte le giurisdizioni, l’abolizione della feudalità, di questo flagello ignoto ai nostri paesi quando Capua era Capua (sic!), cospira meravigliosamente alla restaurazione della forza necessaria a’ giudizi prima di tornare, una volta dissoltisi i fantasmi della barbarie gotica, all’illustrazione di ciò che gli sta massimamente a cuore: Noi non cominciamo con la novella legislazione una novella civiltà ma proseguiamo in quella che si godeva (sic!), sciolti però dalle difficoltà del numero e contraddizione delle leggi43, distrigati dalle autorità incerte di oscuri scrittori, purgati nell’aperta luce di semplici e ben collegati e fecondi principi, certi di noi per forme sicure d’interpretazione, rendute intelligibili e popolari per la sostituzione del linguaggio universale d’Italia al gergo barbaro e basso insinuato nelle leggi e ne’ giudizi dalla ignoranza e da municipale mal inteso amor proprio 44. La civiltà di cui godeva il regno di Napoli è quella che viene sintetizzata nell’introduzione storica, ferma nel prendere le distanze, anche qui in sintomatico dissenso da Liberatore, dall’empietà e dallo scetticismo di Giordano Bruno, ma tenace nel rivendicare ad una linea costante dall’inevitabile Ciccio d’Andrea del Redi fino a Giuseppe Pasquale Cirillo, attraverso Niccolò Capasso, la riduzione ad unità quanto meno concettuale della legislazione del regno, grazie ad un diritto romano visto anche qui ben più favorevolmente che non da Liberatore, a non parlare di Delfico. Ed anche nella conclusione pare di poter vedere una certa divergenza rispetto a quel “tempio dell’alleanza tra la filosofia e la storia del diritto” che Mancini avrebbe plasticamente scorto nella mente di Pasquale Liberatore45 allorché Nicolini si risolve ad espli_______________ 43 - Anche qui si ha la sensazione che Nicolini non intenda conferire il dovuto rilievo ad un risultato capitalissimo come questo. 44 - Mezzo secolo più tardi, nell’ultimo suo scritto, che esamineremo tra breve, il vecchio Nicolini avrebbe rinnegato anche quest’altra caratteristica affermazione delle lumières. 45 - P.S. MANCINI, Della vita e delle opere di Pasquale Liberatore, Napoli, 1842 (è una lettura tenuta alla “Pontaniana” l’11 settembre, a pochi giorni dalla scomparsa del vecchio maestro lancianese, avvenuta a Gragnano il 21 agosto: Mancini, prima di riassumere e valutare il Saggio, come vedremo più avanti, e di esporre ottimamente 277 citare la densità vichiana del concetto di storia legale in termini forse leggermente deludenti: Filologia e giurisprudenza sono i due motori che svolgono a poco a poco e rendono popolari le massime della filosofia civile, dal che i mezzi e l’opportunità al legislatore di ricondurre tutta la sparsa legislazione a’ principi suoi in un codice non altro, insomma, quest’ultimo, se non una sorta, essenzialmente, di razionalizzazione restauratrice, nella continuità di filosofia civile. Nel novembre 1809, intanto, mentre il procuratore generale Nicolini, proprio in vista di una tale razionalizzazione, metteva a stampa e diffondeva una Circolare agli ofiziali della polizia giudiziaria della provincia di Terra di Lavoro, ed all’indomani del ritorno di De Thomasis in Abruzzo in qualità di ripartitore demaniale (vi torneremo tra breve) il portafoglio della Giustizia veniva assunto, dopo Cianciulli e la breve permanenza di Zurlo, da Francesco Ricciardi, la cui grandeggiante personalità si stagliava subito come protagonista, tra l’altro con la circolare sulla sorte dei detenuti e la riforma penitenziaria, emanata a pochi giorni dall’incarico ministeriale, il 22 novembre 1809, che poneva non a caso l’arbitrio al centro della propria riflessione e sarebbe stata citata e lodata come esemplare proprio da Nicolini46: Chiuse le prigioni a’ mandati illegali, e perseguitandosi con egual severità gli arresti arbitrari, scomparirà per sempre questo abuso distruttore d’ogni sicurezza individuale, la quale costituisce un oggetto così essenziale del vostro ministro come lo è la persecuzione de’ delinquenti. Questo dell’arbitrio e dell’illegalità in genere, ampia a coinvolgere eventualmente i possibili risvolti deteriori della giurisdizione militare, sarebbe stato, com’è noto, terreno di asperrimi e caratteristici scontri tra Ricciardi e Zurlo ministro dell’Interno, sia che nel maggio 1811 il gran giudice si pronunciasse per l’amnistia e contro le esorbitanze di Manhés I preti, i canonici, i parroci, sono costretti a marciare armati. Questo spettacolo contrario alle leggi ecclesiastiche scandalizza il popolo; bisogna rispettare anche i pregiudizi, quando sono generali, non si deve urtare l’opinione47 _______________ i presupposti ed i risultati del quindicennio d’insegnamento privato 1821-1837 del Liberatore, aveva esattamente ritenuto che egli nei Pensieri ragionasse “de’ bisogni dell’agricoltura, delle arti e del commercio non, come purtroppo si suole anche oggi, intermini vaghi e generali, ma in modo concreto e positivo”). Sull’argomento si veda ultimamente G. OLDRINI, La missione filosofica del diritto nella Napoli del giovane Mancini in PASQUALE Stanislao Mancini: l’uomo, lo studioso, il politico, introduzione di Giovanni Spadolini, Napoli, 1991, p. 402. 46 - N. NICOLINI, Instruzione.per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace, Napoli, 1812, pp. 229-231 (vi torneremo più avanti). 47 - Su questo aspetto constateremo il diverso avviso di Nicolini, anche se non indirizzato specificamente contro Ricciardi. 278 sia che nell’aprile 1814 si elevasse a massime generali dal particolare dibattito circa l’adozione di misure straordinarie in Abruzzo: L’arbitrio è il principale difetto di un governo... Lo spirito pubblico non si dirige né con fogli pubblici né con scritti incendiari. Sono queste anni che hanno perduto la loro forza. Nel regno le popolazioni sono divise, altre sono nemiche, talune inclinate al male, la maggior parte indifferenti. Contro le inclinate al male si debba procedere con molto rigore ma nelle forme legali... Da tutta la classe dei proprietari del regno si desidera l’adempimento delle promesse, molte volte reiterate, di presentarsi la costituzione48. Ma forse di maggior interesse, nel nostro ambito attualmente circoscritto, è la valutazione che di Francesco Ricciardi e della sua opera fornì il gruppo abbastanza omogeneo, ed a lui di massima profondamente affine, di cui ci stiamo occupando, sia nella dialettica quotidiana e, per così dire, militante, dell’esercizio della magistratura, sia nella più riposata prospettiva e considerazione storica. Ci sia consentito peraltro a questo punto aprire una sorta di parentesi per seguire l’iter di Giuseppe De Thomasis, il cui ufficio di ripartitore demaniale lo poneva ovviamente in assai più stretto contatto con Mosbourg e con Zurlo anziché con Ricciardi, fino almeno all’aprile 1812 quando, avendo rifiutato la designazione ad intendente di Cosenza, anch’egli entrò, come consigliere di Cassazione, alle dipendenze del giurista foggiano, dove sarebbe restato fino all’ottobre 1813, allorché avrebbe assunto l’ufficio di procuratore generale della corte dei Conti. Fin dal luglio 1807, nei rapporti conclusivi su biblioteca e scuole di disegno a Sulmona prima della partenza per la Calabria, De Thomasis aveva insistito sulla priorità d’iniziative del genere distruggendo gli errori a furia d’istruzione e diradando l’ignoranza con la luce delle umane coscienze, Ora che tornava in Abruzzo, con sede regionale a Chieti, donde il 20 maggio 1810 emanava un primo proclama circa i criteri da seguire nella ripartizione dei beni feudali e demaniali, biblioteca e scuole di disegno erano state messe nel cassetto in favore della gran corte civile istituita a Lanciano ma soprattutto della repressione militare di Manhès, sicché l’aspetto sociale, di disoccupazione di massa, del problema post pastorale erompeva con tutta la sua forza. Non a caso il proclama di Chieti precedeva di pochi giorni l’impostazione del canale del Sagittario come corrispondente di quello di Corfinio sul versante opposto della conca peligna, mentre se ne progettava uno analogo per il medio Aterno, le cui acque venivano nel frattempo restituite all’uso comunitario, e si studiavano strade che dalle gole del Pescara a Popoli s’irradiassero in direzione dell’Adriatico e di Teramo. _______________ 48 - A. VALENTE, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, 1976 (edizioni precedenti 1941 e 1965), pp. 70-72 e 196-197. 279 Ma soprattutto con una lettera a Delfico 5 luglio 1810 ed un rapporto ministeriale dell’11 settembre successivo, seguito il 30 ottobre da un secondo proclama collegante intelligentemente il fiorire del brigantaggio con la ripartizione demaniale in corso, e minacciante perciò “come i veri nemici dell’umanità” coloro che dissuadessero e spaventassero i poveri perché non richiedessero la terra, De Thomasis, avendo l’occhio a vecchie abitudini migratorie dalle zone attualmente scottanti dell’insorgenza, proponeva il trasferimento degli abitanti della valle Castellana e della montagna di Roseto, sul versante teramano del Gran Sasso, nella zona del basso Chietino compresa fra il Sangro ed il Trigno. Si sarebbe trattato, nel pensiero del Nostro, di subordinare i turbolenti albanesi molisani ed abruzzesi, protagonisti del Novantanove e dei suoi strascichi “anarchici”, al comunitarismo ben più organico e disciplinabile dei pastori appenninici, ed intanto chiudere la pagina dell’insorgenza e dell’armentizia ad un tempo nella montagna teramana, che di entrambe era stata la roccaforte inesauribile sin da fine Cinquecento. Il progetto di De Thomasis non ebbe neanche un principio d’attuazione, mentre nel dicembre 1810 la sua proposta d’istituire un liceo a Sulmona si fondava sull’importante riflessione che nel resto degli Abruzzi l’educazione materiale e morale è tuttavia la pro-prietà dei preti, il che sotto molti rapporti è un male, ma nella provincia di Aquila è la proprietà di niuno, il che è assai peggio. Anziché la colonizzazione in grande stile, alla quale si era opposto specialmente il ministro Zurlo, fu adottato, tra il febbraio 1811 e l’aprile 1812, quando De Thomasis lasciava l’ufficio abruzzese dopo essersi a più riprese lamentato della mancata collaborazione di Teramo e del sabotaggio di Winspeare, tutte cose che andrebbero definite e chiarite, l’alquanto più modesto criterio di popolare i feudi rustici di Roccapizzi e Carcere sull’alto Sangro, a cui fu imposto il classicheggiante nome di Ateleta in quanto esenti da tributi. Si trattò di una realizzazione circoscritta ma quanto mai significativa perché, insieme con i canali peligni e con la strada considdetta Napoleonica sull’opposto versante dell’altopiano delle Cinque Miglia, rimane il solo grosso risultato tangibile di modificazione ambientale nel periodo murattiano in Abruzzo, e proprio ai margini o nel cuore del mondo pastorale, a ribadirne la centralità, quanto meno problematica, all’interno del tessuto regionale. Torniamo ora a Francesco Ricciardi ed anzitutto a quella sorta di bilancio del suo primo triennio ministeriale che viene tracciato da Nicola Nicolini49 interrompendosi significativamente a fine 1812, allorché, per ordine del gran giudice, egli scrive l’Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace di cui parleremo tra breve. Ricciardi, esordisce Nicolini con parole che vanno lette in controluce a quanto si è visto più sopra, si distingueva come avvocato _______________ 49 - N. NICOLINI, Le notizie sulla vita di Francesco Ricciardi in SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA, ms. XXX A 9 cc. 114-117 (subito prima la citata Memoria del Borrelli) sono anonime ma autografe di Nicolini, secondo quanto Fausto Nicolini persuasivamente afferma in Nicola Nicolini... cit., p. XLII. 280 pel sistema di trarre non già da’ forensi, le cui citazioni fissavano a’ suoi tempi la ragione di decidere le cause, ma dall’intima filosofia e dal diritto pubblico le sue difese. La vichiana storia legale sembra pertanto qui assumere una densità ed un ritmo più propriamente storicistici rispetto alla giurisprudenza un po’ formalistica ed esteriore delle precedenti formulazioni nicoliniane. Comunque ciò sia, ecco Francesco Ricciardi subito nel 1806 segretario di Stato nel consiglio di Stato con diritto di voto e nel novembre 1809 ministro della Giustizia in uno stato di cose troppo evidentemente egemonizzato da Cristoforo Saliceti al dicastero della Polizia (dove, non si dimentichi, era Borrelli, un chiaroscuro che andrebbe seguito con cura) donde l’esigenza di eliminare codesta egemonia, di rivendicare l’indipendenza dei magistrati, di proibire a Saliceti di corrispondere con essi se non tramite il Guardasigilli. Nicolini si era trovato al centro di queste radicali novità, perché Ricciardi non aveva tardato, nell’agosto 18 10, a chiamarlo da Capua alla presidenza della gran corte criminale A Napoli, e ad insediarlo nel novembre successivo, accanto a Poerio, Winspeare, Saponara e Amodio Ricciardi, nella commissione incaricata di tradurre ed adattare i codici francesi, che avrebbe concluso i suoi lavori tre mesi più tardi. Nel frattempo, ricorda Nicolini, lavorava in un’altra commissione, quella del consiglio di Stato per lo scrutinio dei magistrati e la valutazione dei meriti che avevano fatto concedere la toga, un compito delicatissimo, che era stato espletato nell’aprile 1811 con la messa a ritiro, ad un terzo del soldo, di una buona trentina di magistrati, per i quali tra stata accertata non più che una vera o presunta persecuzione antigiacobina. Sappiamo quanto placidamente e contemplativamente Nicolini avesse attraversato le burrasche del Novantanove ed i loro riflessi napoletani e provinciali50. Ma è molto significativo che trent’anni più tardi anche Pasquale Borrelli, nel suo Discorso pronunziato presso al feretro del conte di Camaldoli Francesco Ricciardi presidente interino della Società Reale Borbonica51 si soffermasse in particolare sull’epurazione della magistratura, e sulle sue conseguenze, come uno dei risultati più consistenti e durevoli del governo di Ricciardi: Non la sua ambizione, ma la riputazion del suo merito lo indicò agli stranieri che nel 1806 occuparono il regno. Dopo il volger di pochi anni ei fu collocato nell’apice dell’amministrazione della giustizia: e parve allora che si assidesse nel natural suo posto 52... Una magistratura sapiente, _______________ 50 - Nicolini era tornato a Napoli nel novembre 1801 e, almeno in pubblico, aveva abbandonato una volta per sempre la cetra del poeta in pro della toga dell’avvocato. 51 - Apparso primamente sull’OMNIBUS, Napoli, 22 dicembre 1842, fu raccolto subito dopo in opuscolo dal Porcelli, e va letto istruttivamente, s’intende, col discorso pronunziato tre mesi prima da Mancini in morte di Pasquale Liberatore, in una dialettica interpretativa che fa riflettere. Ricciardi, com’è noto, era morto il 17 dicembre. 52 - Questo era diventato per la verità una specie di luogo comune a proposito di Francesco Ricciardi. Tessendo infatti un Elogio del conte Giuseppe Zurlo, Napoli, 1832 (il discorso era stato pronunziato il 17 gennaio nell’Accademia delle Scienze presieduta da Ricciardi, e co mmemorava con sintomatico ritardo Zurlo, morto nel novembre 1828) Gaspare Capone aveva retto il portafoglio della Giustizia “che poscia passò a chi per lungo tempo il resse in modo da non lasciare ad alcuno di saper immaginare il meglio”. 281 incorrotta, operosa, circondò questo capo: e benché di fresco educata nelle nuove leggi civili, potè sostenere il confronto con le più illuminate d’Europa53. All’interno di questa magistratura, nell’aprile 1812, mentre si deliberava di far entrare in vigore col 1° ottobre successivo il nuovo codice penale, Nicola Nicolini assumeva l’ufficio di avvocato generale della Cassazione, avendo a colleghi Winspeare e Filippo Cianciulli, Poerio come procuratore generale, e Giuseppe De Thomasis sedendogli dirimpetto, quale consigliere, nella magistratura giudicante. Fa che l’util di ognun forte io ritiri Verso i principi e l’unità del dritto invocava il Nostro della Giustizia personificata54 nell’atto d’insediarsi, il 2 giugno 1812, con un discorso 55 che Raffaele Feola giudica “bellissimo” in quanto conferma che i limiti imposti alla Cassazione dovevano essere un baluardo contro il mai sopito potere dei magistrati56 ma probabilmente va letto in ambito più vasto, come caposaldo cospicuo di quella filosofia della continuità che abbiamo visto caratteristica di Nicolini, e che sostanzia il suo concetto di storia legale. Il tema preso a trattare dal Nostro, infatti, ci informa Fausto Nicolini57 è significativamente La Corte Suprema di Giustizia nelle sue relazioni con le antiche istituzioni del regno, e l’esordio non ne potrebbe essere più pugnace nel ravvisare non più che “miglioramento e continuazione” nella nuova rispetto all’antica legislazione, entrambe rinvenendo il proprio fondamento comune nel diritto romano ancorché alterato, sicché l’una poteva dirsi dall’altra “non solo preconizzata ma quasi germogliata” attraverso un processo a sua volta definibile “non pur analisi ma filiazione”. E Nicolini prosegue, con un linguaggio tutt’altro che equivoco: Noi, prima delle leggi nuove, non eravamo certo senza legge né giurisprudenza... Sì mancava, è vero, come mancava a tutta l’Europa, un corpo _______________ 53 - La conclusione del discorso (di cui ci si tiene a notare che era stato pronunziato dinanzi ad un’adunanza “delle più solenni che abbiano mai avuto luogo”, e cioè la Società Reale a classi riunite ed una folla d’invitati e d’intervenuti) è anch’essa assai deludente, nel topos del grand’uomo fine a sé stesso: “Fu in certa guisa il confluente delle celebrità viaggiatrici. Così niuna ve n’ebbe alla quale non paresse di aver poco veduto in questo nostro paese, se non avesse veduto il conte di Camaldoli” (le citazioni alle pp. 4 e 6). 54 - N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit., p. 33. 55 - N. NICOLINI, Discorso dell’avvocato generale Nicola Nicolini pronunziato all’udienza della Corte di Cassazione nel dì 2 giugno 1812 ristampato con note relative alla giurisprudenza e alle leggi posteriori, Napoli, 1835 (le citazioni del testo sono alle pp. 6-9, 14-15, 19, 21, 28, 42). 56 - R. FEOLA, Dall’illuminismo ... cit., p. 283. 57 - F. NICOLINI, Nicola Nicolini ... cit., p. XLVI con ampie citazioni. 282 intero e concorde di leggi58... Non vi ha dubbio però che in ogni materia luminosi erano i nostri principi... Tutto qui menava alla unità e perfezione de’ principi legali, ed alla fusione di tante e sì diverse leggi in un codice solo. Uno dei consueti excursus storici giova a confermare un’affermazione impegnativa come questa ed il mito che le è irresistibilmente alle spalle, quello dell’indipendenza napoletana, dal momento che l’età vicereale, nella più classica delle presentazioni possibili, fu l’epoca che spopolò, impoverì e rendette nidi di malfattori e di briganti le provincie del regno... Se qualche vicerè ha sentito mai alcun stimolo di gloria, niun d’essi al certo fu accessibile a’ sentimenti di vera giustizia e di amor nazionale. E riprende la rivendicazione della continuità, avendo Roma e Vico quali strutture portanti: La pubblicità della discussione, intesa a ridestar ne’ giudici il pudore della giustizia, veniva appo noi portata quasi all’eccesso 59... Le leggi propriamente dette civili, se per la maggior parte ci son venute di Francia, ritengono in ogni articolo la fisonomia ed i principi della romana origine e della italica sapienza: le leggi penali e di procedura penale meno dalle francesi che dalle romane o dalle nostre patrie leggi dipendono? La conclusione formale, dice bene Feola, è l’ammonimento alla Cassazione “corpo conservatore delle leggi” a non esorbitare dalle proprie ben precise funzioni: Voi dichiarate nulli e rescindete tutti gli atti che travalicano il segno. Ma la conclusione sostanziale, storica, che vorrebb’essere storicista, ed è senza dubbio squisitamente politica ben al di là dell’opinabilità estrema della definizione, è tutt’altra, è quella che ravvisa nella Cassazione d’importazione francese né più né meno che _______________ 58 - Ancora una volta si ha l’invincibile sensazione che Nicolini pretenda di poter sottovalutare un risultato fondamentale come questo. 59 - Che vi potesse essere in merito un eccesso sarebbe parso probabilmente inconcepibile a Pasquale Liberatore. Si veda con quanta appassionata convinzione disserti Della pubblica discussione ne’ giudizi penali con Giuseppe Devincenzi in “FILOLOGIA ABRUZZESE”, Roma, settembre-dicembre 1836 pp. 15-21 allorché si parlava di farla rimanere soltanto per i misfatti capitali, suscettibili di condanna a morte o all’ergastolo: “Non è il riguardo alla pena che deve farci desiderare la pubblica discussione, ma il riguardo alla verità de’ giudizi; che difficilmente può trovarsi senza questo validissimo aiuto; e, tolta la verità suddetta, ogni pena, per minima che sia, è capitale, perché ingiusta, ogni giudice un carnefice, se non della vita almeno dell’onore e della libertà d’un condannato, ogni società odiosa, perché mancante al suo fine di assicurare la pubblica e privata tranquillità”. 283 l’immagine, anzi l’erede ex asse di quell’antichissimo Sacro Consiglio de’ di cui presidenti si formò poscia la camera reale60. L’unità più o meno machiavelliana del diritto “richiamato a’ suoi principi” è dunque essenzialmente l’unità infrangibile della tradizione giuridica napoletana e della storia legale sollevatasi attraverso la giurisprudenza a filosofia civile: questo è il punto d’arrivo sistematico di Nicola Nicolini dinanzi a Francesco Ricciardi, per ordine del quale compila in quell’estate 1812 la Instruzione per gli atti giudiziari di competenza dei giudici di pace sicché, lo afferma a tutte lettere nella dedica datata 12 settembre al gran giudice il mio lavoro è più un repertorio di disposizioni ministeriali che un’opera mia. Essa dovrà dunque leggersi in filigrana, in contrappunto, fra Ricciardi e Nicolini, con in testa una sentenza di Filangieri che per la verità si sarebbe potuta applicare solo con grandissimo stento a quella tradizione di Castel Capuano della quale il giurista di Tollo andava tanto orgoglioso: La parte della legislazione destinata a regolare la procedura criminale dev’essere e la più semplice e la più chiara e la più inviolabilmente eseguita: altrimenti non vi è delitto, per manifesto che sia, che non possa rimanere impunito; e non v’è innocenza, per conosciuta che sia, che possa essere sicura della sua tranquillità e della sua pace61. Questo contrappunto si fonda, per quanto concerne Ricciardi, essenzialmente sulle sue dense e robuste circolari62 mentre Nicolini interviene con una serie di commenti e _______________ 60 - Si ricordi che ancora nel discorso Dell’ufficio più proprio della Corte Suprema: ritirare i giudizi verso i principi pronunziato il 7 gennaio 1835 (vedilo in N. NICOLINI, Discorsi di Nicola Nicolini pronunziati in adunanze solenni, Napoli, s.d., p. 7) il Nostro avrebbe ribadito la derivazione di quel consesso dal Sacro Consiglio, i cui membri “ricchi di propria luce, prima ancor degli aiuti della seconda giurisprudenza francese... si elevaron magnanimi a contemplar le occasioni, la ragione e la volontà vera della legge”. In questa medesima raccolta non si trascuri De’ resti di sangue commessi per effetto di un pregiudizio con cui, il 27 novembre 1833, Nicolini fa respingere dalla Corte Suprema il ricorso per un omicidio per fattura verificatosi a Barile in Basilicata, mostrando con ciò maggior rigore rispetto a quel che abbiamo letto più sopra in Ricciardi, ed anche nei confronti della bella sensibilità antropologica che egli stesso avrebbe mostrato nel brano che stiamo per leggere nel testo: “Gli errori della mente - afferma qui invece Nicolini non scusano mai un reato quando nascono da folli e risibili pregiudizi”. 61 - Filangieri, è appena il caso di dirlo, costituiva con Gravina e Vico un “illustre triumvirato” alla cui ombra Nicolini si poneva nell’atto di aprire la cattedra di diritto penale, il 1° dicembre 1831 (si veda il discorso nella raccolta testè citata p. 21). In uno dei suoi corsi, nel 1833, egli avrebbe trattato Della discussione pubblica nei giudizi penali, ritenendola, riassume A. DE MARTINO Antico regime... cit.,pp. 150 e 211, insieme con l’obbligo di motivare le sentenze sulla base delle leggi, “elementi fondamentali del nuovo tipo di processo penale”, a proposito del quale, a giudizio dello studioso (che avrebbe potuto forse tenere opportunamente presente l’opinione analoga, e che abbiamo visto ancor più rigida, di Pasquale Liberatore) il Nicolini e il Poerio “dalla loro disposizione favorevole alle riforme murattiane avevano tratto motivo di elogi troppo spesso eccessivi”. 62 - Si vedano ad esempio quella dei 22 novembre 1809 già citata, quella del 24 novembre integrata il 20 dicembre 1809 intorno alla gendarmeria ed ai suoi rapporti con l’autorità giudiziaria in Terra di Lavoro dove Nicolini, lo sappiamo, era ancora procuratore generale presso la gran corte criminale, la circolare 24 luglio 1811 284 di richiami che dimostra come e quanto l’esigenza di efficientismo e di razionalizzazione sia stata assimilata da lui Invano io mi ho aspettato finora quella uniformità, quella precisione, quella esattezza di procedura che, stabilita dalla legge per garantire il giudice da ogni funesta omissione, lo conduce passo a passo, e quasi per mano ma anche con una seria e fattiva distinzione tra il compito dello storico e quello dell’inquisitore, tenuto, quest’ultimo, ad una rigorosa applicazione della lettera della legge, senza doverne indagare pericolosamente lo spirito: Se non si vuol rischiare di sostituire all’opera della verità quella della fantasia, del sempre aversi presente che il processo è tanto più lodevole quanto è più fedele. L’Istruzione è peraltro soprattutto, forse, per l’antico avvocato che è Nicolini, e che le circostanze lo costringeranno di lì a pochi anni a tornare ad essere sino alla fine della sua lunghissima vita, compreso il prestigioso insegnamento universitario 63 una sorta di patto solenne stretto con i magistrati nel senso di ravvivare insieme, grazie alla giurisprudenza, ed alla razionalizzazione intervenuta, il vecchio tronco della legislazione, che rischiava di poter rimanere infecondo, fine a sé stesso, senza la profonda, radicale trasformazione della società che magistrati ed avvocati hanno insieme il compito di comprendere ed interpretare nelle sue più riposte articolazioni e strutture: È singolare come gli scrittori i più profondi si scaglino sempre contro l’ignoranza e la balordaggine de’ magistrati, mentre la sapienza di questi corrigeva riduceva al giusto la barbarie de’ legislatori... Fortunatamente i tempi son cangiati. Il sommo legislatore ha troncato dalla radice ogni male... Quale ufizio difficile e penoso è egli mai questo nostro? Fondato principalmente sulla profonda conoscenza del cuore umano, nulla di ciò che ci circonda è ad esso estraneo; il mondo fisico, il morale, il civile, tutto _______________ sulla facoltà di delegare, quelle 28 dicembre 1811 e 22 agosto 1812, alla vigilia della compilazione nicoliniana, ricche di direttive particolarmente interessanti, allorché Ricciardi reputa che i giudici di pace “nel più immediato contatto con le popolazioni possono avere molta influenza così nel male come nel bene delle famiglie” o li ammonisce con una tinta di moralismo non infrequente in lui (si veda anche la circolare 29 aprile 1812 sulle competenze): “Dai funzionari amministrativi voi dovete esigere più rettitudine che istruzione” (N. NICOLINI, Instruzione... cit., pp. 10-11, 33, 39, 43, 50). 63 - In quest’attività di avvocato troviamo spesso e vigorosamente ripresi i temi centrali della continuità che avevano contraddistinto l’opera dello studioso e quella del magistrato. Leggiamo ad esempio nelle allegazioni a stampa per le cause Fersini contro Macri e Villani, e De Nola contro Della Ratta-Bozzicorsi, discusse dinanzi alla Corte Suprema rispettivamente nel 1821 data dell’edizione presso De Bonis e p. 8 e 25 novembre 1823 p. 27: “Quando le leggi francesi si promulgaron fra noi, non cessammo d’esser napoletani. Niuna legge fondamentale di Francia fu nostra: il nostro diritto pubblico rimase l’istesso; e se qualche alterazione vi si produsse, esso fu tutto ripristinato nel 1815... La commissione feudale fu un tribunale nuovo, ma non tutti i suoi arresti furon pronunziati sull’appoggio delle leggi nuove”. 285 entra nella sua sfera; e finanché le usanze, i costumi, le particolari inclinazioni, il linguaggio de’ più negletti borghi e de’ mestieri più vili gli sono utili, anzi indispensabili. Chi non porta queste vedute nella investigazione de’ fatti morali, sarà sempre scrivano e non giudice64. Francesco Ricciardi intendeva ed apprezzava a dovere il concetto informatore che aveva presieduto alla fatica di Nicolini65 e gliene dava atto il 24 febbraio 1813 mostrando di aderire soprattutto al criterio organicistico che gli era alle spalle: Tutto è a suo luogo, tutto è giudiziosamente adoperato, specialmente l’erudizioni di cui l’opera è ricolma, e che, lungi dal turbare l’ordine delle idee, spargono anzi del lume così sull’antico come sul rito attuale, e su quel che avrà luogo dopo la pubblicazione del nuovo codice d’istruzione criminale, e mostrano il nesso che tutt’e tre han fra loro. Perciò il gran giudice ne disponeva l’invio d’ufficio ai procuratori dei tribunali di prima istanza66, il duca di Campochiaro ministro di polizia generale lo imitava il 17 marzo per gli intendenti lo stesso Zurlo ministro dell’Interno diramava l’8 maggio una circolare per farla acquistare dai sindaci, mentre ancora nel 1815 Donato Tommasi avrebbe giudicato in via ufficiale lo scritto del Nicolini pieno d’idee utili e giuste relative alla vecchia ed all’attuale legislazione... adatto ad agevolare il passaggio alla nuova legislazione che S.M. è intesa a pubblicare67. A quella data, peraltro, molte cose erano cambiate, e non soltanto nella chiave meramente politica della restaurazione borbonica. Il 13 febbraio 1814, mentre Petroni si accingeva a realizzare il disegno di De Thomasis per la suddivisione amministrativa di Calabria Ultra e Liberatore stava per scambiare la procura generale alla gran corte criminale dell’Aquila tenuta per sei anni, con quella di Napoli, dove già era stato presidente il più giovane Nicolini, Giuseppe De Thomasis, da soli quattro mesi, come sappiamo, procuratore generale alla corte dei Conti, veniva nominato da re Gioacchino commissario governativo per Benevento, dove avrebbe trovato quale segretario Pasquale Borrelli, anche lui, l’abbiamo visto, consigliere alla gran corte civile di Napoli dal 1812, e che due anni prima, su consiglio di Melchiorre Delfico 68 aveva pubblicato nella “Biblioteca analitica di scienze e belle arti” e poi in _______________ 64 - N. NICOLINI, Istruzione... cit., pp. 31, 82, 114, 213. 65 - Essa veniva completata con un terzo volume di formulari (in appendice i brani e le notizie del testo) e con un Supplimento che nel 1818 raccoglieva tutto il corso della posteriore legislazione sui giudici di pace per i tipi di Giovanni De Bonis. 66 - Nelle Notizie… cit., Nicolini sottolinea la predilezione di Ricciardi per la corrispondenza con i rappresentanti del pubblico ministero, incaricati della vigilanza universale sulla pubblica amministrazione, e la sua estrema severità in proposito. 67 - R. FEOLA, Dall’illuminismo… cit., p. 277. 68 - Lo afferma F. FIORENTINO, Pasquale Borrelli in G. GENTILE, Ritratti storici e saggi critici raccolti da 286 opuscolo presso Nobile un trattatello Su la imitabilità de’ poemi di Ossian che qui non abbiamo motivo di esaminare, benché l’estrosità eccezionale dell’autore vi si confermi in chiave preromantica, risolvendosi il quesito in senso negativo senza l’intervento della spontaneità e della passione. De Thomasis, com’è noto, si sarebbe trattenuto a Benevento quindici mesi, fino al 21 maggio 1815, prima di riprendere il suo ufficio alla corte dei Conti69 un periodo breve, ma non tanto da non consentirgli di stendere un quadro della situazione ed un rapporto analogo, andati, come tutto il resto della documentazione che lo concerne, deplorevolmente dispersi, dopo l’arduo braccio di ferro che l’aveva opposto ad un avversario degno di lui, Louis de Beer, commissario di Talleyrand nel principato di Benevento. Nel frattempo, il 21 maggio 1814, il ministro Ricciardi aveva insediato la commissione per la revisione generale dei codici presieduta da Poerio, e della quale faceva parte Nicolini, ma evidentemente sollecitava in privato anche altre collaborazioni, se è vero che il 20 dicembre Pasquale Liberatore avrebbe dedicato a lui, per i tipi di Agnello Nobile, il meritatamente famoso Saggio sulla giurisprudenza penale del regno di Napoli. Parecchi anni più tardi, ridotto all’esercizio dell’avvocatura e dell’ insegnamento privato dal “ripurgo” della primavera 1821, e dissertando, nel 1828, per Tramater, Sulle istituzioni giudiziarie del regno delle Due Sicilie cenno storico70 Liberatore avrebbe ricordato queste vicende, partendo dall’adozione del codice penale francese, dopo le interminabili incertezze protrattesi dal febbraio 1811 all’ottobre 1812, con picciole variazioni che onorano la commissione incaricata del suo esame; e non v’ha dubbio che questo nuovo codice riempì innumerevoli vuoti, rifuse molti articoli, rese più complete le definizioni, classificò meglio i delitti, accrebbe e proporzionò il numero delle pene, diè più campo al magistrato, e presentò alla società una sicurezza maggiore. Ma... _______________ Giovanni Gentile, Firenze, 1935, pp. 280-287 e già in “GIORNALE NAPOLETANO DELLA DOMENICA”, Napoli, I, 10, 5 marzo 1882 e in Commemorazioni di giureconsulti napoletani: biografie. Napoli, 1882, pp. 1-17 nel centenario della nascita ed in occasione dello scoprimento del busto a Castel Capuano. Tutto il problema rilevantissimo dei rapporti di Borrelli con Delfico rientra nell’ambito dei suoi preminenti interessi filosofici, che in questa sede non ci interessano, e per una puntualizzazione bibliografica dei quali si veda G. OLDRINI, L’Ottocento filosof ico napoletano nella letteratura dell’ultimo decennio, Napoli, 1986, p. 51 n. (il Delfico, si ricordi, avrebbe fatto nominare, sempre secondo Fiorentino, il ventiquattrenne Borrelli, fin qui noto esclusivamente come medico, segretario della commissione feudale, donde un altro viluppo di problemi che andrebbe districato e chiarito). 69 - Sull’episodio rimane fondamentale A. ZAZO, L’occupazione napoletana e austriaca e i primordi della Restaurazione in Benevento (1814-1816), Napoli, 1958. 70 - L’opera è presentata come epitome da servire da appendice a Jonas Daniel MEYER, Esprit, origine el progrès des istitutions judiciairés desprincipaux pays de l’Europe che, edito ad Amsterdam-L’Aja tra il 1819 e il 1823, Liberatore presentava tradotto al pubblico colto napoletano, nell’ambito di un imponente lavoro critico di legislazione comparata, la cui valutazione lasciamo agli specialisti, e che costituisce il maggior titolo di benemerenza culturale del Nostro, dalle osservazioni a Le leggi della procedura civile di Guillaume Louis Justin CARRÉ, cominciate a pubblicare tradotte nel 1825 e completate nel 1831, a Claude Etienne DELVINCOURT, Corso di codice civile (1828-1832), a Jean-Baptiste SIREY, Codice di istruzione criminale annotato aggiuntovi il confronto del diritto romano e delle leggi di procedura penale delle Due Sicilie (1829), a Jean DOMAT, Le leggi civili nel loro ordine naturale (1839) fino al Corso di diritto civile secondo il codice francese di Alexandre DURANTON, che, cominciato ad uscire nel 1841, sarebbe stato ultimato nel 1845, dopo la morte di Liberatore. Le citazioni sono tratte dalle pp. 71-72. 287 questo codice tanto encomiato in Francia non soddisfece in questa meri-dionale Italia al voto dell’universale. La patria di Briganti, di Pagano, di Filangieri, attendeva qualche cosa di meglio. L’analogia letterale nell’espressione non deve far trascurare il ben diverso spirito con cui Liberatore si riferisce alle novità francesi rispetto a Nicolini. Comunque, nominata la commissione di revisione e dedicato il Saggio a Ricciardi, furono il successore di costui Tommasi ed il nuovo consesso borbonico nominato il 2 agosto 1815, su una linea che faceva capo ampiamente a De Thomasis71, a quasi tutte adottare e proporre le deboli mie osservazioni secondo quanto Liberatore constata con legittimo compiacimento, fino alla legge organica 29 maggio 1817 da lui incondizionatamente elogiata per i suoi tre caposaldi fondamentali (il potere giudiziario subordinato esclusivamente alla sua propria gerarchia, medesimezza di condizione identificata con quella di giurisprudenza, nessuna privazione di diritto se non per sentenza passata in giudicato) e forse non a caso di poco precedente l’assunzione da parte sua, il 12 luglio 1817, della presidenza della gran corte criminale di Napoli, di cui per tre anni era stato procuratore generale. Quali erano state, a fine 1814, le “deboli osservazioni” di Pasquale Liberatore? Mancini le riassume con brillante efficacia, lodando a buon diritto nel Saggio filosofia di principi, originalità di pensieri, aggiustatezza di ordine, ed anche vivacità di stile e segnalandone le denunzie emergenti, l’equiparazione fra il tentativo e il delitto consumato, il ricorso frequente alla pena di morte ed alle anacronistiche pene infamanti dei marchio e della gogna, la sproporzione nei gradi della complicità, il silenzio sul pentimento, sull’ubriachezza, sull’omicidio in rissa, l’assenza di criterio quanto alla gravità delle ferite, l’ambigua impunità per il furto tra consaguinei, l’esclusione delle attenuanti nell’infanticidio per onore o nell’uccisione della figlia sorpresa dal padre “in turpe flagranza”, ed ancora le considerazioni sul giurì, sulla grazia, e così via, che rendevano il Saggio, dopo trent’anni, tuttora attualissimo72. _______________ 71 - R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit., p. 217 ricorda che, avendo De Thomasis, tornato alla corte dei Conti, fornito un parere radicalmente contrario a qualsiasi modifica legislativa in materia feudale, Donato Tommasi avrebbe affidato a lui, il 27 gennaio 1816, le attribuzioni già di Winspeare procuratore generale della commissione feudale. 72 – “Reso l’ultimo supplizio più frequente - scrive Liberatore - togliesi quel salutare ribrezzo che sempre si estenua colla reiterazione degli atti”: ed aggiunge, con fine penetrazione politica: “Quante volte l’evento ha fatto comparir eroe un traditore, e viceversa?”. Quanto invece all’ubriachezza, che la legislazione inglese esclude come attenuante nella sua ipocrita austerità (è un’osservazione di Bentham, che Liberatore fa propria, al pari di quella sua e di Beccaria circa l’infanticidio per onore, o di quella del non nominato Galanti quanto allo stupro, nel quale “la mancanza dei consenso non indica sempre l’uso della forza”) c’è da notare che Nicolini non è dell’opinione di Liberatore, e fa confermare una condanna per omicidio volontario, mentre invece è del tutto con lui circa i gradi della complicità e il tentativo, che vanno accuratamente differenziati, tanto che Nicolini avrebbe dedicato a que- 288 Vale la pena s’intende, soffermarsi anzitutto su questi rigorismi di costume, che inducono Liberatore a sollecitare l’aggravante (e l’avrebbe ottenuta) per i furti commessi in chiesa o in tribunale, e ad appellarsi concitatamente a Filangieri contro la non punibilità del ratto consensuale della maggiore di sedici anni: Questo distrugge l’idea della pubblica morale, il riguardo all’ordine della famiglia, il rispetto alla patria potestà. Un tale rigorismo a fondo sacrale e sessuale trova la sua origine, oltre che in profondissime stratificazioni della mentalità collettiva, ancora una volta nello “spirito di perfezione” di Filangieri e di Palmieri che, in via generale (e lo si era visto all’Aquila!) il Nostro fa incondizionatamente proprio: La legge sotto l’austera sua forma non attende che l’obbedienza, già per sé stessa spiacevole, né sa spogliarsi della sua inflessibilità per parlare agli uomini il linguaggio del buon padre di famiglia a’ suoi figli. Lo scrittore che vi supplisce teme sempre di violarne la santità o scemare il rispetto che le è dovuto, e dubita che i suoi sforzi innocenti non si uniscano alle grida ingiuste o sediziose de’ malvagi che aspirano a romperne il freno. E tuttavia proprio dall’austerità inflessibile della legge, che non ammette “l’abuso della filosofia impiegata in difesa dell’umanità”, che rifiuta, con Bentham, di preferire la libertà del colpevole alla condanna dell’innocente, che severamente denunzia, l’abbiamo visto in Nicolini, il pericolo cui si esporrebbe il cittadino se si accordasse al giudice la facoltà d’interpretare la legge penale, specialmente se col pretesto d’indagarne lo spirito si opponesse questo all’espressione letterale proprio da quell’austerità scaturiscono da un lato la dialettica della clemenza, e perciò della grazia, come unico mezzo che, al di là dell’onore invocato da Montesquieu, consente all’Inghilterra, e soprattutto alla giovane società nordamericana, di avviare “la riforma dei malfattori”, secondo le vedute, sociali meglio che filantropiche, di Francesco Ricciardi, dall’altro la denunzia implacabile dell’arbitrio, che avvicina ancora una volta Liberatore al gran giudice, e non gli permette di aderire senz’altro alla prospettiva di continuità così cara a Nicolini, e preminente, lo vedremo ancora, nelle sue vaste ricostruzioni. Liberatore confessa di limitarsi a riassumere ciò che con “somma robustezza” aveva scritto intorno al processo criminale Mario Pagano: ma ciò non toglie che la presentazione del mondo giuridico napoletano anteriore al 1806 sia in lui assai più scura che non nel giurista di Tollo: _______________ st’ultimo un’apposita trattazione (si vedano N. NICOLINI, Discorsi... cit., rispettivamente le cause 9 marzo 1835 e 8 marzo 1837). 289 Furon questi i grandi difetti dell’antica nostra legislazione criminale, mancanza di proporzione, mancanza di precisione. L’una e l’altra produssero l’arbitrio, e, tolto per conseguenza il pregio maggiore della legge, sconvolsero le idee della maggiore della legge, sconvolsero le idee della giustizia... Tutte le pene furono straordinarie, niuna legge potea citarsi perché non era essa ma il magistrato che dettava la pena: si sostennero tutti gli errori, tutti i paradossi... Oltre al favorir l’impunità de’ colpevoli, (la procedura) metteva spesso in pericolo la libertà e la vita degl’innocenti... essendo posta l’impunità del reo e l’oppressione dell’imputato nelle mani dell’inquisitore donde l’indicibile “gioia del regno” al ritorno al processo accusatorio pubblico, che si staglia nella commossa pagina di Pasquale Liberatore come un’autentica liberazione, una Bastiglia napoletana che aveva finalmente fatto crollare vetuste tirannidi73. Altre tirannidi ed altri imperi, è ben noto, si dileguavano in quel tramonto del 1814 e schiudersi dell’anno successivo, così fatale all’Europa ed a Napoli: ed è interessante osservare come i nostri protagonisti sintetizzassero e valutassero quest’esperienza a più o meno grande distanza di tempo, allorché la prospettiva cominciava a potersi strutturare come autenticamente storica, a cominciare ancora da Liberatore nel 183774: Quel terribile uragano che sconvolse tutta Europa quando il grande de’ troni crollò si fè sentir anche tra noi, e ci rese, meno per conquista che per lacrimevole abbandono (sic!) soggetti ad altra dinastia: ed ogni speranza di commercio svanì per i decreti di Milano e di Berlino che, dettati dal dispotismo e dall’ingiustizia, non ammisero potenze neutrali in tempo di guerra, ed attentarono al diritto pubblico universale; il che produsse l’ultima coalizione, e la caduta del despota ambizioso, che non cessò neppure allora di esser grande. _______________ 73 - Ho citato e riassunto da P. LIBERATORE, Saggio... cit., pp. 15-22 passim, 26, 34, 56, 76, 90-92, 114, 134, 142,149,153,244-245 e 258. Si ricordi, sempre nello spirito rigoroso di legalità che accomunava così congenialmente Liberatore e Francesco Ricciardi, che a p. 217, pur ammettendo una procedura speciale solo a danno dei briganti e dei malfattori recidivi, il Nostro (che compie in merito un originale excursus storico, distinguendo correttamente il fuoruscitismo ed il banditismo della tradizione dal moderno termine criminalizzante francese) osserva che soltanto da pochi mesi, tra il maggio ed il luglio 1814, sono stati definiti briganti “coloro che scorrono armati in campagna ad oggetto di rovesciare il governo”, ed allora occorre specificare ulteriormente che si tratta di assassini preparati mediante attruppamenti armati, che vanno giudicati da corti speciali, sempre peraltro i magistrati in maggioranza sui militari. 74 - Della polizia commerciale p. 12 quarta parte delle Istituzioni della legislazione amministrativa vigente nel regno delle Due Sicilie, Napoli, 1837 preceduta in organica connessione dai Prolegemoni della amministrazione pubblica considerata nei suoi principi e nella loro applicazione, Napoli, 1836, nei quali, alle pp. 133-181, Liberatore aveva pubblicato la prolusione letta alla “Pontaniana” nello stesso anno Della economia politica base fondamentale della pubblica amministrazione e de’suoi più celebri scrittori, fra i quali principalissimo Romagnosi, di cui erano stati riproposti i Principi fondamentali del diritto amministrativo con l’applicazione da parte di De Gerando (fin dal 1832, all’indomani dell’autorizzazione ufficiale, un’ennesima novità di Ferdinando II, a tener scuola privata, che il Nostro aveva tenuto in pratica già lungo il decennio precedente, Liberatore aveva precisato che tutta l’Italia attendeva da Romagnosi la formulazione scientifica del diritto amministrativo cfr. P. LIBERATORE, Introduzione allo studio... cit., p. 28). 290 Liberatore resta dunque fermo al giudizio d’inadeguatezza politica per un riformismo borbonico ormai esaurito e, se scorge e denunzia i pericoli dell’egemonia napoleonica, non ne sottovaluta i risultati radicalmente innovativi, che solo fino ad un certo punto si sono riusciti ad integrare e perfezionare con la restaurazione75. Tutt’altro è il panorama che l’ottantaquatrenne Nicolini, dal 1854 primo presidente della Corte Suprema, traccia meno di tre mesi prima della morte, il 12 dicembre 1856, parlando dinanzi alla classe di scienze morali dell’Accademia delle Scienze nella Società Reale Borbonica Della vita del marchese Giovanni d’Andrea. L’insania e le infernali bestemmie della rivoluzione francese, coalizzate contro la metafisica e la teologia, sono infatti quelli che hanno sorpreso e commosso il ventenne Nicolini e il di poco più giovane discendente di Francesco d’Andrea all’interno del cenacolo del marchese Palmieri, in testa, più frenetica ancora, l’Italia dei Nord, la quale corrotta anch’essa, e insieme corruttrice... insorse contro la patria gloria e la sapienza italica antichissima... e sconobbe la stessa lingua del Lazio 76. A questo punto, peraltro, Nicolini introduce una presentazione singolarmente vichiana, e solo formalmente ed esteriormente manzoniana, di Napoleone, che gli giova a strutturare ancora una volta una continuità storicistica il cui banco di prova è costituito dall’empietà fine a sé stessa, dall’irreligione, dalla “pagana licenza del divorzio” alla quale d’Andrea non si era voluto sottomettere, rinunziando dopo appena due mesi, nel gennaio 1809, all’ufficio di giudice della gran corte civile di Napoli77 e cioè da un postulato morale, e magari da un pregiudizio moralistico che, lo vedremo, aveva sommerso anche Liberatore nei suoi ultimi anni, e dinanzi al quale il discorso giuridico, è più latamente politico, chiaramente si arresta: Intanto volgeva al suo termine, affrettando il moto vorticoso della breve sua ruota, la trista genia... Ella, caduta dall’intera giustizia, facea tutto il diverso da essa, e con più furore anche il contrario, per servire a’ bisogni variabili, dettati, come a’ bruti, da’ sensi esterni corporei: indi intempera_______________ 75 - Un bilancio in proposito è quello che Liberatore traccia nel trattato Degli ufiziali di polizia giudiziaria nella istruzione delle pruove ne’ processi penali, Napoli, 1826, che prende espressamente a modello l’analoga compilazione sui giudici di pace del “nostro ottimo amico, co mprovinciale e collega” Nicola Nicolini già avvocato generale presso la Corte Suprema (il “ripurgo” del 1821 non lo aveva risparmiato, nonostante che egli avesse fatto di tutto per sottrarsi alla “aura popolare” cfr. il sonetto 22 agosto 1820 in N. NICOLINI, La musa di famiglia... cit., p. 34). Liberatore si compiace che la legge 22 settembre 1817 abbia fissato attribuzioni e limiti della polizia giudiziaria e amministrativa, cosa “assai difficile di stabilire per tutto il tempo dell’occupazione militare” ed enumera con altrettanta soddisfazione i buoni esiti legislativi suggeriti dal Saggio, ma deplora di non aver ottenuto il risultato fondamentale, che cioé “tutte le materie penali si fossero riunite in un solo codice, anche perché il cittadino sapesse quale sia l’azione vietata, e come punibile” (cfr. P. LIBERATORE, Degli ufiziali... cit.). 76 - Abbiamo già segnalato questa significativa involuzione del Nicolini, a cui qui è da aggiungere l’evidente strumentalizzazione di Vico, che si accentua e trionfa nel successivo brano citato nel testo. 77 - È appena il caso di ricordare che proprio per aver sposato una donna divorziata, caso unico e clamoroso nel regno di Napoli, Pasquale Borrelli era stato allontanato dalla medesima gran corte civile di Napoli nello stesso anno 1817 che vedeva Liberatore ascendere alla presidenza della gran corte criminale. Le successive turbinosissime vicende politiche di Borrelli, insieme con la sua parabola filosofica, non ci interessano in questa sede. 291 tissima, e di proprio peso in ruina, la sua forza scevra di consiglio. Ma Dio sempre provvidente, nell’Europa lacerata da guerre fraterne, suscitò un italo ingegno (sic!), che a passioni sì incomposte freno impose e silenzio, ed arbitrio in mezzo ad esse si assise. Costui i popoli dissociati costrinse a vivere con giustizia e celebrar la cognazione, che per la loro socievolezza nativa la Provvidenza Divina costituì in prima tra gli uomini. Quindi il codice, che prese tosto il nome di lui, si arricchì dell’antichissima sapienza degl’itali giureconsulti. Senonché, forse contro il grido della propria coscienza (sic!) non sempre ei ne fecondò il principio massimo, con l’unità del culto esteriore verso Dio. Però che dove la cattolica religione esige che sia sancita in suo nome e renduta sacra da’ suoi ministri la indissolubilità del nodo coniugale, ivi per l’appunto ci discese a transazione con l’empietà non ancor doma...78. Non vi è dubbio, tuttavia, che il frutto più maturo e più organico della riflessione di pensiero del nostro gruppo sull’esperienza riformistica di governo che l’aveva visto protagonista sia rappresentato dall’Introduzione allo studio del diritto pubblico e privato del regno di Napoli di Giuseppe De Thomasis79 che, quantunque pubblicata postuma nel 183180 per i tipi della Pietà dei Turchini, circolava già da qualche anno manoscritta, o comunque era a sufficienza conosciuta nel suo contenuto, se è vero che Pasquale Liberatore aderisce già nel 1828 alla “dimostrazione rigorosa” dei dieci casi identificati da De Thomasis come quelli nei quali il giudice può contravvenire alla legge, donde l’intervento e la competenza della Corte Suprema, che il giurista di Montenerodomo circoscrive esattamente negli stessi termini precisati da Nicolini81 e che nel 1830 ancora Liberatore anticipa vivamente e diffusamente il concetto “dogmatico” della proprietà che, affermato da De Thomasis, sarebbe stato confutato con altrettanta vivacità, come vedremo, da Niccolò Tommaseo 82. _______________ 78 - P.S. MANCINI, Della vita... cit., pp. 18-19 e 25-26. 79 - Come per Borrelli, anche per De Thomasis ci asteniamo dal soffermarci sulle importantissime vicende politiche del nomimestre costituzionale e sul successivo e conseguente esilio toscano. 80 - De Thomasis era morto il 10 settembre 1830, subito dopo essere rientrato in contatto con la Corte a livello confidenziale di cui purtroppo ci manca la documentazione, ed a Raffaele Liberatore, il ben noto letterato figlio di Pasquale, era stato impedito di tenerne un pubblico necrologio. 81 - Nell’opuscolo Della Gran Corte di Cassazione ultimamente denominata Suprema Corte di Giustizia s.l., s.d. (ma post 1815) De Thomasis, senza nominare Nicolini, illustra le funzioni di rescissione, e non di riforma delle sentenze affidate a quel consesso, sull’interessante criterio secondo il quale (p. 5) “gli uomini per naturale istinto tendono ad ampliare i loro poteri, e spesso disfanno il fatto unicamente per voglia di rifarlo a loro modo... Le autorità superiori credono di buona fede che la maggioranza del grado dia sempre la superiorità del sapere”. Il brano di Liberatore su De Thomasis è in Sulle istituzioni giudiziarie ... cit, pp. 83-85. Si veda anche R. FEOLA, Dall’illuminismo... cit., p. 281. 82 - “Il rispetto dovuto al diritto individuale di proprietà è uno di quei dogmi politici che l’uomo in qualunque posizione si trovi, non può non riconoscere facendo uso della sua propria ragione... Tutti i titoli del Codice civile non sono che un’esposizione delle regole relative all’esercizio del diritto di proprietà... Chi non sa... che l’assoluta eguaglianza è la chimera dell’età dell’oro non esistente che nella fantasia dei poeti?... L’ineguaglianza delle fortune va perfettamente d’accordo con l’ordine pubblico, e questa verità è così evidente che sarebbe superfluo lo svilupparla” (N TOMMASEO, Osservazioni per servir di comento alle leggi civili del regno delle Due Sicilie, Napoli, 1830, 292 Testimonianza critica autorevole di tale organica maturità dell’opera di De Thomasis è nella pagina di Benedetto Croce83 secondo la quale l’Introduzione ha singolar valore di documento, perché attesta la meraviglia e lo scon-certo onde furono presi coloro che, educati nell’intellettualismo settecentesco, avevano bramato e domandato con tanta insistenza l’unificazione delle molteplici antiche legislazioni, e la formazione dei codici, per far cessare l’incertezza nell’interpretazione delle leggi; e ora, avuti i codici, vedevano risorgere perplessità, incertezze e dissidi d’interpretazione. Il De Thomasis, esso stesso uno di cotali illusi, s’industriava a ricercar le cause contingenti e a proporre i rimedi di quell’impreveduto ripresentarsi del vecchio inconveniente e non sospettava ciò che un suo tardo conterraneo e filosofo ora potrebbe dirgli, che questo inconveniente (se tale può chiamarsi) è nella natura stessa delle leggi, cioè di qualsiasi legge e di qualsiasi loro formula, e nasce dalla vita, che non si sta mai ferma e sempre si muove e cangia. La testimonianza, s’intende, è da leggere in chiave, per così dire, rovesciata, giacché ciò che a Croce appare meraviglia, sconcerto, industria, destinato ad infrangersi miseramente contro i ben solidi baluardi della Filosofia della pratica, è in realtà esso stesso la vita “che non si sta mai ferma e sempre si muove e cangia”, i giovani che vanno istruiti con le leggi vigenti e l’attuale terminologia senza disturbar Giustiniano ma senza altresì far propria la stroncatura di Melchiorre Delfico, il quale mirò a ritrarre il carattere politico del legislatore, i vizi della costituzione di Roma, più che il merito delle loro dottrine e delle loro leggi dal momento che i difetti vistosissimi di legislazione penale nel diritto romano o non sono colpe o imputar si debbono alla costituzione politica di que’ tempi, anziché al poco senno de’ loro autori uno storicismo che richiede prudenza e discrezione, e non la “profonda ideologia” di Savigny e della scuola storica, che vanno “ingombrando di tenebre la giurisprudenza attuale” 84. _______________ II, 55 opportunamente cit. in A. DE MARTINO, Tra legislatori e interpreti. Saggio di storia delle idee giuridiche in Italia meridionale, Napoli, 1974, p. 5). 83 - B. CROCE, Storia del regno di Napoli... cit., p. 318. 84 - Prontissima a tal proposito l’adesione di Pasquale Liberatore nelle Nozioni preliminari all’Introduzione allo studio... cit. (che, come si è visto, è del 1832) e l’esplicita attestazione di una comune collaborazione che lo induce a seguire De Thomasis anche quanto alle riserve su Delfico ed alla polemica sul “metodo vizioso” che impedisce un collegamento seriamente critico tra il nuovo codice civile e l’antica legislazione (le Nozioni occupano le pp. 1-83 dell’opera, cfr. pp. 32-33, 39 ss.; sulla derivazione vichiana di Hegel e Gans e della loro scuola giuridica e “filosofica”, 60 e 64). 293 Quanto all’unificazione legislativa prodromo indispensabile dell’uniformità operativa, essa costituisce un presupposto razionalizzatore su cui tutti i riformatori, a partire, l’abbiamo visto, da Nicolini, non possono non trovarsi d’accordo, dal momento che, scrive polemicamente De Thomasis, ogni uomo del Foro ha una sua propria religione, una moral sua, i suoi particolari pregiudizi che coltiva come Dei familiari. Questo presupposto metodologico ha due corrispondenti sistematici, la proprietà e la famiglia, su cui De Thomasis costruisce rigorosamente la nuova filosofia civile, per dirla con Nicolini, che scaturisce dal codice: I moderni, trattando ogni economia politica in modo da insinuar l’idea che ella possa star senza la morale e la giustizia, ne sottraggono le più solide basi... Il rispetto de’ figli a’ padri, delle mogli ai mariti, e di tutti alle obbligazioni contratte, sono i primi garanti dell’ordine sociale85... Il pregio della proprietà consiste precisamente nella facoltà di goderne e disporne come più ne aggrada. È precisamente su questo secondo caposaldo, definito nel senso che da De Thomasis veniva dicharata naturale sia la proprietà esclusiva dei prodotti della natura sia quella territoriale, sia pure per quest’ultima con l’intervento delle leggi sociali86 che si sarebbe concentrata la tarda critica di Tommaseo 87 significativa tanto per l’autorevolezza dello scrittore, appartenente ormai ad una generazione che poco o nulla aveva in comune con i superstiti murattiani, quanto soprattutto perché, malgrado questa obiettiva sfasatura di criterio e di giudizio, Tommaseo fa ampiamente propria, in prospettiva storica, la filosofia della continuità tanto cara a Nicolini88 strumentalizzandola, magari, ai fini di quella democratizzazione della coscienza giuridica, per così dire, che è nel fervido auspicio della sua mentalità progressista e romantica. _______________ 85 - P. LIBERATORE, Introduzione... cit., pp. XI-XVIII passim, 228, 330. Si ricordi viceversa la spigliata opinione di Borrelli (“La civiltà sociale e l’oppressione della donna non fecero giammai dimora in una terra medesima” cfr. Bibliografia... cit., p. 28) che lo differenzia nettamente dagli amici del gruppo chietino. 86 - P. LIBERATORE, Introduzione... cit., pp. 284 e 423. 87 - “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoli, aprile 1839, pp. 20-31 da Parigi, col rammarico, espresso in esordio dello scrittore, di non aver conosciuto di persona De Thomasis. 88 - Di Nicolini sono nel frattempo da ricordare i due discorsi pronunziati nella qualità di presidente di consiglio generale, quello del 1835 a Chieti, di cui già si è fatta menzione, e che qui ricordiamo per la ribadita e sottolineata importanza della strada Frentana per i lanifici di Palena, già proposta da Liberatore nel 1806 (ma lo stesso Liberatore, l’abbiamo visto, ne avrebbe constatato nel 1838 il fallimento) e Della importanza de’ consigli generali di provincia discorso pronunziato il 1° maggio 1836 a Caserta per l’inaugurazione di quello di Terra di Lavoro che va tenuto presente per il ritorno, promosso dal nuovo giovane sovrano, a quelle rappresentanze comunitarie più o meno tradizionali ed efficienti di cui ancora nel 1839 avrebbe parlato positivamente Tommaseo (“Fin da’ primi tempi di sì salutare istituzione quegli stessi che fra di noi la introdussero la tennero più come vana forma che come mezzo efficace di miglioramento civile. E da ciò di anno in anno lo scadimento sempre crescente della importanza e della riputazione de’ consigli generali... Ma salì Ferdinando II sul trono...”). 294 L’antico ordinamento, osserva Tommaseo, presentava infatti senza dubbio confusione strana che alla giustizia veniva dalle inopportune suddivisioni de’ poteri e dall’accumulazione peggio che importuna. Né già la presente ordinazione è condotta, cred’io, alla possibile semplicità... Ma in questo miscuglio degli ordini antichi l’intenzione sovente era buona, santa l’origine... (Dinanzi alle) antiche istituzioni municipali dalla francese prepotenza (sic!) abolite... ciascun vede le municipali franchigie (che gl’ignari di vera libertà chiaman privilegi) esser state innanzi la francese invasione più rispettate che poi... In quest’ambito di libertas comunale guelfa chiaramente, e naturalmente, prediletta dal Tommaseo, i giudici conciliatori venivano ad assumere un rilievo circa il quale ci dice molte cose l’attenzione riservata ad essi da Nicolini e, in subordine, da Liberatore, mentre, in campo giurisdizionale, pur reputando “inevitabile e cristiana” l’abolizione del tribunale misto, di cui singolarmente De Thomasis non parla, Tommaseo presta probabilmente a lui i suoi propri sentimenti allorché ritiene che egli sentiva che fino a tanto che non sia popolare la conoscenza delle istituzioni le quali governano le sorti nostre, il popolo sarà sempre bestia tosata e macellata a piacere di pochi. Un protagonista tutto moderno e romantico, insomma, fa la sua irruzione impetuosa tra lo Stato e la Chiesa di giurisdizionale memoria, ed appunto per questo Tommaseo non può consentire a De Thomasis una rivendicazione così schiettamente individualistica come quella della proprietà in quanto diritto naturale, tutt’al più acconsentendo a prenderlo per “transitorio”, mezzo e non fine, con sullo sfondo insomma una persona umana, e più o meno cristiana, che ha ben poco da spartire col suddito, ma anche col cittadino e col borghese oltre i quali De Thomasis non aveva certo inteso procedere. E non lo intende Pasquale Liberatore in quella che sarebbe stata l’ultima fatica della sua laboriosissima vita ottuagenaria, il trattato Della pubblica educazione che viene fuori dai torchi napoletani di Palma nel 1840, l’anno dopo della recensione di Tommaseo sulla rivista di De Virgiliis, che continuerà ad ospitare un paio di scritti sparsi di Liberatore, divenuto, si direbbe, “contento e pio” come il figlio Raffaele nella feroce satira leopardiana dei Nuovi credenti, qui L’alfabeto reso grazie alla stampa ‘9 più grande strumento della civilizzazione... madre di tutte le utili riforme" grazie a cui l’uomo eseguirà ciò che Cristo ha decretato “il regno cioè della pace, è la pratica della carità e di tutte le virtù sociali”, lì, postumo, Dell’alto incivilimento, sue pretenzioni e suoi prodotti, echeggiante un simile e non meno graffiante Leopardi, quello della Palinodia e della “comun felicitade”, nel deplorare stavolta il danno della stampa, che ha provocato l’insubordinazione dei domestici, la fine della vita patriarcale, l’indifferenza esteriore nel vestire e nel comportamento, l’autodistruzione del l’aristocrazia dinanzi agli speculatori ed ai giocatori 295 di borsa, ed altre siffatte calamità infinite, dimentichi come sono i moderni, ammonisce Liberatore, che “più si migliora la condizione fisica dell’uomo più diventerà necessario aumentare la sua moralità”89. Della pubblica educazione è dunque, dal punto di vista del costume e della mentalità collettiva, quella che i giovani chietini raccolti intorno ad Antonio Nolli a ricevere ed ascoltare Delfico 90 avrebbero chiamato filosofia morale, un punto d’arrivo pressoché definitivo, analogo a quello che, nella filosofia civile, la lunghissima vita avrebbe consentito a Nicola Nicolini di continuare più o meno pateticamente a testimoniare fin nel pieno di quegli anni cinquanta che avrebbero assistito al definitivo esaurirsi politico della parabola murattiana. Al centro dell’una come dell’altra filosofia è, modernamente ed irrevocabilmente, anche quando l’istruzione e l’educazione debbano di necessità affidarsi agli ecclesiastici, lo Stato: Tutti i cittadini di uno Stato debbono avere costumi e cognizioni relativi ai bisogni e al bene di quello Stato medesimo, e perciò l’educazione anche privata dev’essere analoga ai bisogni ed alla costituzione di quella società. Pilastro di quest’ultima è la proprietà, ed è significativo che Liberatore riprenda alla lettera nel 1840 la sua definizione di dieci anni prima di “dogma politico” per la proprietà antica quanto l’uomo, non risultamento di convenzione umana o di legge positiva, nella stessa costituzione del nostro essere e nelle diverse nostre relazioni cogli oggetti che ci circondano. Sia lo Stato che la proprietà, peraltro, hanno a proprio elemento mediatore quella società a cui Tommaseo aveva rivolto modernamente lo sguardo, e che Liberatore è pronto a recepire sul piano del costume, anche se non altrettanto su quello del diritto, dove la sua adesione a De Thomasis permane ostentata e fermissima. Al centro di questa società è la donna in quanto moglie e madre, a cui il Nostro attribuisce compiti e funzioni del tutto particolari, col latino che non esclude il ballo nella formazione della personalità, e perciò, si potrebbe dire, la dama ottocentesca, a governare il salotto non meno che il focolare: Ciò che per l’avvenire bisogna soprattutto tentar per le ragazze è di dar loro una istruzione necessaria per intervenire utilmente in ciò che tocca gl’interessi de’ lor mariti, per preparare con intelligenza i loro figli ai gravi studi di collegio, e per seguir senza neja que’ serii trattenimenti che ne’ nostri circoli son succeduti al vagare de’ farfallini. _______________ 89 - “GIORNALE ABRUZZESE DI SCIENZE LETTERE ED ARTI”, Napoligennaio 1841 pp. 3-16 e marzo 1843 pp. 173-180. 90 - Il primo era morto fin dal 1830, l’anno stesso dell’assai più giovane De Thomasis, ritirato a Chieti a vita privata lungo tutta la Restaurazione, Delfico lo aveva seguito nella tomba, vecchissimo, due anni più tardi. 296 Ma la donna e la famiglia non esauriscono atomisticamente la società, il cui protagonista genuino, e collettivo, è lo spirito pubblico, per seguire ed analizzare il quale è indispensabile anzitutto, classicamente, tener presente il condizionamento climatico, poi quello religioso, nelle sue manifestazioni superstiziose e meramente devozionali ma anche negli esercizi di pietà, a cominciare dall’accompagno dei morti in quanto primario servizio sociale, e poi ancora gli spettacoli, l’alimentazione, i pregiudizii e le “false idee”, che sono da combattere con un rigorismo alla Nicolini, e così via, fino agli asili infantili della più recente tematica assistenziale. Al vertice dell’educazione sociale sono peraltro l’informazione e la lettura, e qui sembra davvero di scorgere in controluce, nelle pagine del vecchio Liberatore, ciò che di sé stesso, e della sua giovane generazione, in quegli anni medesimi, a Napoli, avrebbe scritto Francesco de Sanctis: I gabinetti di lettura sono, o almeno dovrebbero essere, l’emporio del sapere e della dottrina, il convegno dei dotti e degli studiosi... Noi crediamo al piacere che ispirano i buoni romanzi, perché presentano un’immagine abbellita dell’esistenza, trasportandoci in un mondo in cui le facoltà dell’uomo agiscono con più libertà, in cui gli esseri spiegano maggior forza pel bene come pel male, ed in cui le avventure, uscendo dalla ristretta sfera delle nostre abitudini, aprono più vasto campo all’umana attività91. È difficile sintetizzare meglio, con maggiore efficacia, la temperie romantica, con sullo sfondo il Quarantotto: averla saputa cogliere ed intendere senza farsene travolgere, ma anche senza rifiutarla per partito preso, costituisce la migliore testimonianza di freschezza mentale, di agilità metodologica, per il gruppo chietino che mezzo secolo prima aveva lasciato le colline adriatiche e la montagna appenninica per la Napoli del riformismo, della rivoluzione e della monarchia amministrativa. _______________ ss. 91 - F. DE SANCTIS, Della pubblica educazione... cit., pp. 91, 94, 118, 171, 223-224, 232 297 Il devoto nelle Lettere ecclesiastiche di Pompeo Sarnelli* di Elisabetta Ciancio Insieme a Lume a' principianti e ai Comentari intorno al Rito della Santa Messa le Lettere ecclesiastiche costituiscono l’eredità spirituale e dottrinale di Pompeo Sarnelli1. Si tratta di opere in forma epistolare dallo stile piano e familiare che raccolgono indicazioni della morale cattolica, norme comportamentali del devoto laico ed ecclesiastico, spiegazioni della dottrina cristiana; esse mettono in luce i forti intenti pedagogici di Sarnelli come erudito e uomo di fede ed esprimono quel diffuso bisogno di «riforma» avvertito tra i cattolici impegnati del Mezzogiorno. Un forte fervore intellettuale e una religiosità tutta permeata dal Tridentino sembrano infatti costituire il filo conduttore delle Lettere in cui l’epistola diventa l’emblema di un impegno attivo per il rinnovamento dell’istituzione, dove disciplina pastorale e tendenze al misticismo vanno di pari passo verso la stabilizzazione del ruolo della Chiesa nell’ordine politico e morale2. _______________ * Viene qui utilizzata l’edizione di Venezia, Antonio Bortoli, 1716-18. 1 - P. SARNELLI, Lume a' principianti nello studio delle Materie Ecclesiastiche e Scritturali esibito secondo i Sagri Interpetri in diversi Quesiti…, Venezia, A. Bortoli, 1725; ID., Comentari Intorno al Rito della Santa Messa…, Venezia, A. Bortoli, 1725 (I^ ed. Venezia, Poletti 1684). 2 - Sulla storia della Chiesa in età moderna cfr. La SOCIETA religiosa nell'età moderna, a cura di G. De Rosa, Napoli, 1973; G. DE ROSA, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 1978; ID., Vescovi, popolo e magia nel sud, Guida, Napoli 19832; SOCIETA’, Chiesa e vita religiosa nell'Ancien Règime, a cura di C. Russo, Napoli, 1976; M. ROSA, Religione e società nel Mezzogiorno tra '500 e '600, De Donato, Bari 1976; ID., La Chiesa meridionale nell'età della Controriforma, in STORIA d'Italia, Annali, 9: CHIESA e potere politico dal medioevo all'età contemporanea, Torino, 1986, pp. 293-345; PER la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso e C. Russo, Napoli, 1980-82, voll. 2; STORIA 299 L’impegno educativo di Sarnelli nella raccolta epistolare data alle stampe si individua nella tradizione del libro religioso, in particolare in quella del filone morale-edificatorio che ha le sue origini nella cultura occidentale cristiano-monastica del manoscritto medievale che, riadattato ai nuovi parametri socio-culturali, trova fertile terreno di applicazione nella produzione religiosa a stampa dell’età tridentina e postridentina, volta a delineare il modello dell’ideale devoto. Questo tipo di produzione tra Cinque e Settecento resta immutata nella sua varietà. In particolare si tratta di volgarizzamenti della Bibbia, testi scritturali, libri legati a pratiche cultuali, come confessionali e quaresimali, edizioni delle opere dei Santi Padri, biografie e leggende di santi antichi e moderni, libri di poesia religiosa, nonché una cospicua parte di testi devozionali. Dagli opuscoli in 8° e 12° di poche carte stampati male e su carta scadente, a ciò che Quondam ha definito un «campo in forma di “specchio” per la devozione quotidiana del cristiano lettore di libri a stampa» «”meditazioni”, “precetti”, “consigli”, “regole” / “summole”, “esortazioni” / “consolatorie”, “rivelazioni”, “corone”, allegrezze”, “aura verba” / “parole devote”, “tesauri spirituali”, “giardini d’orazione”, “libri dei comandamenti”, “scale della vita spirituale”, “regole della vita spirituale”»3 - e che rappresenta la risposta ufficiale della Chiesa alla pluralità di forme ed espressioni della religione, oltre che riflettere l’adeguamento del mondo editoriale al programma di cristianizzazione promosso dalla Chiesa della Controriforma. Alla fine del Cinquecento la Chiesa postridentina rilancia la religione popolare nelle sue forme collettive, plateali e scenografiche dei culti di Cristo, della Vergine e dei santi: una «Controriforma devozionale», secondo l’espressione di M. Rosa, che nell’Italia meridionale _______________ dell'Italia religiosa, a cura di G. De Rosa - T. Gregory - A. Vauchez, 2: L'età moderna, Roma-Bari, 1994. 3 - A. QUONDAM, La letteratura in tipografia, in LETTERATURA italiana, vol. II, Torino, 1983, pp. 555-686: 595. Sulla stampa popolare religiosa cfr. L. BALDACCHINI, Bibliografia delle stampe religiose popolari del XVI-XVII secolo. Biblioteche Vaticana, Alessandrina, Estense, Firenze, 1980; ID., Per una bibliografia delle stampe popolari religiose, in “ACCADEMIE E BIBLIOTECHE D’ITALIA”, Roma, XLIV (1977), n. 2, pp. 255-258; U. Rozzo, Editoria e storia religiosa (1465-1600), in STORIA dell'Italia religiosa cit., pp. 137-166. 300 contribuì all’affermazione politica e spirituale delle istituzioni ecclesiastiche attraverso la capillare azione condotta dagli ordini regolari4 . In questo programma di rinnovamento che coinvolge le strutture pedagogiche della Chiesa e, con particolare efficacia, l’essenza stessa del suo misticismo, convogliato ora verso una devozionalità certamente non nuova nelle sue tematiche, ma saldamente tenuta insieme nei suoi sistemi di rappresentazione e significato dalla vigilatrice presenza delle istituzioni, la stampa, già diffusamente affermata nei paesi protestanti, diventa efficace strumento di educazione e controllo delle masse. Essa viene gestita dagli stessi ordini religiosi e dalla censura ecclesiastica e utilizzata come strumento di divulgazione della dottrina cristiana e della spiritualità devota in più ambiti della società «da intellettuali organici al potere, ai fini di mediazione del consenso, ma anche da intellettuali organici alle masse ed esprimenti, in modo più o meno esplicito, l’insieme dei loro bisogni»5. Il libro religioso non fu quindi soltanto un fortunato prodotto commerciale, ma uno strumento determinante nella storia delle idee e delle mentalità, in quella delle coscienze, degli stili di vita e dei comportamenti, e il cui ruolo, secondo un’idea totale di cultura, deve essere inquadrato nel contesto sociale in evoluzione, nelle reti di commercio e di committenza, nei suoi usi da parte del pubblico, nella sua circolazione nei differenti livelli e ambiti culturali, nell’incontro di tradizione scritta, orale e iconografica6. Simbolicamente, nel suo excursus la produzione religiosa manoscritta e a stampa si lega alla metafora dello specchio, rappresentativa della spiritualità cristiana che trova nella pagina scritta il modello a cui _______________ 4 - Cfr. M. ROSA, La Chiesa meridionale cit. 5 - C. GALLINI, Forme di trasmissione orale e scritta nella religione popolare, in “RICERCHE DI STORIA SOCIALE E RELIGIOSA”, Roma, XI (1977), pp. 96-108:106; cfr. anche A. BIONDI, Aspetti della cultura cattolica post-tridentina, in STORIA d'Italia, Annali, 4: INTELLETTUALI e potere, Torino, 1981, pp. 253-302. 6 - Sulla storia del libro cfr. A. PETRUCCI, Per una nuova storia del libro, introduzione a L. FEBVRE - H-J. MARTIN, La nascita del libro, Roma-Bari, 19852; ID., Libri, lettori e pubblico nell'Europa moderna, Roma-Bari, 1989. Sul processo della trasmissione culturale nell’ambito “semiletterario” e “semiorale” cfr. R. SCHENDA, Folklore e letteratura popolare: Italia - Germania - Francia, Roma, 1986; sulla circolarità della cultura cfr. P. BURKE, Cultura popolare nell'Europa moderna, Milano, 1980. 301 ispirarsi e in cui riconoscersi. La meditazione della lettura religiosa procura infatti quella divina sapienza che è il mezzo per mettere a nudo l’anima: il devoto può riconoscersi in mirabili casi di vita e scoprire la propria persona secondo la massima «conosci te stesso» che da Senofonte attraversa l’antichità e passa all’età moderna con Agostino, e che vale come sorta di viatico per un pellegrinaggio spirituale in cui l’individuo vive interiormente la lettura creandosi uno spazio intimo, rispecchiandosi, e al contempo estraniandosi, con la mente e con il cuore, nel testo della pagina7 . La simbiosi fra l’anima tormentata e la pagina scritta, «specchio», ancora, in cui l’autore guarda dentro sé e il lettore si riconosce, fa del libro lo «specchio» in cui il devoto deve rimirarsi, confrontandosi con casi di santità, con le spiegazioni della Sacra Scrittura e le norme suggerite8 . Non a caso la raccolta di biografie esemplari di Sarnelli si intitola Specchio del clero secolare, in cui è raffigurato il secolare estaticamente abbagliato dalla divina sapienza riflessa dal libro, riproponendo in quest’immagine quella di tanta iconografia sacra, colta e popolare, in cui Cristo crocifisso o risorto, o la Vergine o i santi di celestiale lucentezza abbagliano il fedele in preghiera9. Le Lettere ecclesiastiche sono raccolte in dieci tomi, rispettivamente dedicati a Gesù Cristo, ai santi martiri Mauro, Pantaleone e Sergio, protettori di Bisceglie - di cui Sarnelli fu nominato vescovo nel 1692 - a san Pietro, a sant’Agostino, a san Giuseppe, a Maria _______________ 7 - Cfr. A. QUONDAM, op. cit. Sulla tradizione medievale del libro religioso cfr. I. ILLICH, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano, 1994; sulla metafora dello specchio cfr. ivi, capp. 1 e 6; sul libro come vigna, giardino di un avventuroso pellegrinaggio ivi, pp. 32 sgg. 8 - Sarnelli stesso, nel tomo quarto delle Lettere, dedicato ad Agostino, dice del santo che “la vostra Vita non è altro che una lettera Ecclesiastica mandata da Dio a noi peccatori [ ... ] Dovendo Voi essere iniziato Maestro della più sublime dottrina vi è comandato dal Cielo che prendiate il libro, nello specchio della cui pagina avendo rimirate le vostre immondizie per lavarle, trasferiste negli occhi vostri le lagrime di Vostra Madre”: P. SARNELLI, Lettere ecclesiastiche... Tomo quarto.... Venezia, 1716, cc.n.n.. 9 - P. SARNELLI, Specchio del clero secolare overo Vite de ' SS. Cherici secolari ... Parte prima.... Napoli, Antonio Bulifon, 1678; ID., Specchio del clero secolare overo Vite de ' SS. Cherici secolari ... Parte seconda .... ivi, 1678; ID., Specchio del clero secolare overo Vite de ' SS. Cherici secolari ... Parte terza.... ivi, 1679. 302 Vergine della Pace, a san Tommaso d’Aquino, a sant’Ambrogio, a san Basilio e a san Giovanni Crisostomo. Nel secondo tomo Sarnelli dichiara di averle messe insieme «così alla rinfusa»: esse sono «disuguali in quanto a grandezza o picciolezza [ ... ] altre hanno più specie di trattato che di lettere». E in proposito riporta l’opinione del «Giornale de’ letterati» di Parma, a cui decide di rispondere al momento della pubblicazione del secondo tomo (Roselli, Napoli 1699) in merito alle quaranta lettere del primo, pubblicate nel 1686 a Napoli presso Antonio Bulifon. Sul «Giornale» scrissero che le lettere «benché non habbiano alcuna distinzione, ponno però distinguersi in due classi: l’una è di quelle che immediatamente pare che habbiano per oggetto l’istruire; l’altra di quelle che sembra appartengano all’erudire»10. Tuttavia Sarnelli, esperto pubblicista e collaboratore dell’editore Antonio Bulifon, ha intenzionalmente pubblicato le lettere così come le era andato raccogliendo «perché più allettino ad esser lette colla diversità e col passaggio dall’istruzione all’erudizione, tolgano il tedio che potrebbe recare la continuazione». Una dichiarazione, questa, che non smentisce affatto il «Giornale de’ letterati», ma che giustifica quel disordine a cui il lettore dell’opera può andare incontro con le palesi finalità di Sarnelli di istruire senza pedanteria, suffragate ancora dalle modestia con cui lo stesso vescovo dichiara il suo impegno: dopo le prime quaranta decide infatti di tacere il nome dei destinatari delle lettere «perciocché essi stessi per lo più persone che sanno più di me, non paja che io habbia voluto far loro da Maestro non essendo il gran fatto che tal’uno o per non aver tempo da volger libri, o per non aver libri da rivolgere, ricorra ad altri per soddisfarle»11 e afferma inoltre che «studiare per le risposte m’è giovato imparare io stesso»12. Le più di seicento lettere raccolte da Sarnelli si occupano di vari argomenti: oltre l’interpretazione dei passi evangelici, biblici e dei versi dei salmi, numerose riguardano il comportamento religioso. In particolare, qui seguiremo con Sarnelli le modalità della preghiera _______________ 10 - P. SARNELLI, Agli studiosi lettori l'Autore, in Lettere ecclesiastiche... Tomo secondo, Venezia, 1716, c.n.n.. 11 - IB. 12 - P. SARNELLI, Lettere ecclesiastiche ... Tomo terzo._ Venezia, 1716, c.n.n.. 303 dell’ideale devoto nell’ambito ell’ordinamento interiore ed esteriore dello spazio sacro13. Lo spazio interiore Sostenere che «l’orazione mentale è di precetto divino per maniera che senza quella, niuno si può salvare è una eresia condannata da S. Chiesa»: infatti l’orazione deve essere «consigliata» dal confessore come mezzo a disposizione del fedele per raggiungere la perfezione della vita spirituale e per una «maggiore intelligenza» dello stesso mistero della fede14. Essa «non è posta né nella suspensione d’ogni atto, né nel solo ricevimento, overo in un certo stato passivo, né meno nella sola specolazione, né nel solo amore, ma negli Atti dell’intelletto e della volontà riportati al culto e all’amor di Dio nella meditazione, overo considerazione delle cose divine e del nostro niente e delle nostre indigenze, e nell’amor di Dio e nel desiderio delle cose eterne ed in altri pietosi affetti»15. Sarnelli distingue quindi due tipi di orazione mentale: quella vocale in cui il devoto è costantemente attento e vigile a ciò che recita pregando, e l’altra di pura meditazione, contemplazione intellettuale delle cose divine o rivelate, non sempre accompagnata dalla preghiera recitata, anzi preferibilmente tenuta nel segreto del proprio intimo silenzio 16. _______________ 13 - Sullo “spazio” della preghiera cfr. R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera, Brescia, 1948, in particol. pp. 24-43. 14 - P. SARNELLI, Alla Signora Brigida Sarnelli, mia sorella carissima, Della .Orazione mentale, Lettera XXI, in ID.,Lettere ecclesiastiche ... Tomo primo…Venezia, 1716, pp. 90-93; lettera datata Napoli, dal Convento dei Padri Predicatori S. Brigida di Posillipo, 15 agosto 1685 . Sull’orazione mentale cfr. R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera cit., pp. 123 e sgg.. 15 - P. SARNELLI, orazione mentale, che cosa sia; contra gli errori de’ Quietisti, Lettera XXXVI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo ottavo.... Venezia, 1716, pp. 72-74, in particol, 73. 16 - P. SARNELLI, Perché la S. Chiesa ha proibito la celebrazione della Messa in volgare. E perché ha voluto che alcune Orazioni si pronunciassero segretamente. Lettera XCVI, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo decimo…, Venezia, 1718, 204-206. 304 Distinguendo «la cosa necessaria assolutamente e semplícemente», indispensabile per il raggiungimento dello scopo che ci si prefigge, da quella necessaria «secondo qualche cosa» che rappresenta il modo per ottenere «più agevolmente l’effetto», l’orazione mentale meditativa e contemplativa non è «semplicemente e assolutamente necessaria» per conseguire la salute eterna, dato che nessuna cosa o pratica può ritenersi indispensabile per la vita del devoto se non è stata stabilita da Dio come tale. E’ comunque utile considerare alcune prescrizioni fondamentali riguardanti l’orazione: Dicasi a’ fedeli che ciascuno due volte il dì almeno, se più spesso non può, faccia orazione, cioè la mattina e la sera, dicendo il Simbolo o l’orazione Domenicale, overo: qui plasmasti me, miserere mei, o pure: Deus propitius esto mi . hi peccatori; e ancora: Deo gratias: pe ‘l cotidiano sostentamento ch ‘l Signore somministra e perciocché egli degnato si sia di crearlo a immagine sua. Ciò fatto e adorato Dio creatore invochi i Santi e preghili che vogliano per lui intercedere presso alla M.D. E quegli che sieno vicini ad alcuna Basilica facciano queste cose in essa. Ma chi si trova in cammino o per qualsiasi cagione nelle selve o nella campagna quivi le faccia sapendo che Iddio è presente in ogni luogo, dicendo il Salmista: In ogni luogo del dominio di lui etc.17. Sarnelli ne deduce che l’orazione mentale vocale - il Simbolo o il Padre nostro, nonché altre pie preghiere - è strettamente necessaria al cristiano devoto. L’orazione domenicale, ossia il Pater noster, è da considerarsi tra i «Sacramentali» istituiti dalla Chiesa. Difatti non esiste una particolare festa dedicata al Padre, per poter lasciare l’individuo libero di venerarlo in qualsiasi momento della sua giornata18. Il Pater dispone quindi al «Sacramento» che vale come conferimento della _______________ 17 - P. SARNELLI, Alla Signora Brigida Sarnelli cit., p. 91. 18 - P. SARNELLI, Come la Santa Chiesa celebri la festa del Padre Eterno. Lettera LIII, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo nono…, Venezia, 1716, pp. 116-119. 305 grazia divina 19 ed è la preghiera «eccellente» fra tutte perché composta da Cristo stesso che «la fece brevissima, acciocché ogn’uno la impari e la tenga a mente ed è piena di sostanza poiché comprende tutto ciò che si de’ domandar a Dio»20. Impararla richiede un minimo sforzo di memoria: Leggesi che un ricco mercante essendo ito a confessarsi ad un S. Religioso, dimandato se sapea il Pater nostro, rispose di no, per non aver capacità d’apprenderlo. Come dunque, gli disse il Religioso, tu puoi applicare a’ negozj? rispose: se bene non so leggere, né scrivere, pure tengo a memoria i nomi di coloro con cui negozio e la quantità della roba. Allora il Padre fingendo di aver un negozio con lui mandò diversi a’ quali disse che dimandati de’ lor nomi dicessero qualche particella di Pater nostro e così egli tenendo a mente i nomi non veri imparò da vero l’Orazione domenicale21. Tuttavia l’orazione contemplativa e meditativa, ossia la preghiera interiore e incessante, può essere considerata «implicitamente» richiesta, più precisamente «consigliata» come veicolo di salvezza poiché essa è quella che congiunge l’intelligenza del significato e del valore del divino al rispettoso amore del fedele nei confronti di Cristo 22. Ciò è vero perché ogni opera di pietà e ogni azione onesta è meritevole e spetta al devoto trovare i mezzi per acquisire la perfezione. _______________ 19 - P. SARNELLI, Se la Chiesa ha istituito i Sacramentali, come fra questi si annovera il Pater noster istituito da Christo, Lettera XXXVI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 72-73. 20 - P. SARNELLI, Perché il San Matteo fa il Pater noster di sette petizioni e San Luca di cinque. Lettera XXXIV, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo sesto cit., pp. 68-69. 21 - Ivi, p. 69. 22 – “Come mai dalla bocca può meditarsi la sapienza se la meditazione appartiene solo alla mente? (che s’intende per lo cuore). Eccolo: la bocca dee regolarsi colla mente e non proferir parole che non sieno ponderate dalla ragione”: P. SARNELLI, Come s’intende che la bocca mediti e gli occhi pensano, in Id., Lume a’ Principianti nello studio delle Materie Ecclesiastiche e Scritturali cit., Parte prima, Quesito IV, pp. 129-131:129. 306 L’orazione dispone alla perfezione e all’unione con Dio: il fedele deve infatti diventare semplice, puro ed essenziale e mettersi così in grado di cercare Dio, avvicinarsi a lui per vivere la comunione divina. La preghiera meditativa è superiore in «perfezione» a qualsiasi altro tipo di orazione poiché consente di imitare Cristo che continuamente pregava con la mente, anche quando recitava ad alta voce. La contemplazione del mistero divino consente alle anime innocenti e pure di raggiungere l’estasi soprannaturale e mistica, l’alienazione della mente umana dai sensi corporei. La preghiera meditativa tende quindi a svelare una verità che non è quella fornita dall’immediata esperienza del mondo e della vita quotidiana, ma è quella divina della rivelazione23. Essa, spiega Samelli, perviene direttamente da Dio che si compiace di donare le virtù e i benefici del suo divino amore in sette modi: 1. O in sogno a’ dormienti 2. o colla sola voce sensibile a’ vigilanti 3. o colla voce e apparizione insieme 4. o con apparizione senza voce sensibile 5. o con interne locuzioni, ritrovandosi l’huomo in eccesso di mente 6. o pure venendo l’Anima rapita in estasi dall’Orazione e contemplazione delle divine perfezioni 7. o con rapire anche il corpo in aria e tenerlo sollevato da terra. […] In quanto al ratto del corpo, permette il Signore che alle volte questo si sollevi miracolosamente da terra, mentre i suoi servì stanno colla mente alzata a lui nell’Orazione, parla a’ medesimi e fa sentire ad essi la sua voce e le sue celesti locuzioni. Di questi ratti son piene le leggende de’ Santi24. Tuttavia non commette alcun peccato chi non prega di continuo e chi non riesce nell’orazione meditativa, pur essendo vero che gli atti interiori della fede, della speranza, della carità, della penitenza e del pentimento dei peccati, nonché del proponimento di non peccare in avvenire, sono indispensabili per il conseguimento della salvezza dell’anima. Inoltre l’orazione vocale, a cui invece il devoto è obbligato _______________ 23 - Cfr, R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera cit., pp. 126-128. 24 - P. SARNELLI, Delle Divine Apparizioni e Locuzioni. Lettera XLIV, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo nono cit., pp. 99 e 101. 307 dal precetto, non può essere valutata sufficiente se non si accompagna a un certo impegno intellettuale dell’orante che può renderla in questo modo quasi un aspetto dell’orazione meditativa. Durante la preghiera non ci si deve distrarre e «quanto all’ufficio della bocca si pronunci senza syncope e distintamente in quanto all’ufficio del cuore è l’attenzione della mente»25, come altrettanta attenzione deve essere prestata alla modalità gestuale della preghiera: «l’orazione si dice in piedi o colle ginocchia piegate, secondo il tempo [ ... ] la salutazione Angelica così detta è adorazione del Mistero della Incarnazione ineffabile del Verbo Divino e si de’ genuflettere»26; «le Litanie che chiamiamo de’ Santi si dicono in ginocchio» e «dicendosi AVE MARIS STELLA si de’ genuflettere e lo stesso si de’ fare in tutte le antifone della Beata Vergine»27. Dio comunica con il devoto «scriptum gratiae et precum» e l’esercizio attento e costante della preghiera è la strada che conduce alla integrità morale e alla sapienza28. Ne consegue che per il devoto è auspicabile l’applicazione all’orazione mentale meditativa poiché essa congiunge con Dio. Durante la contemplazione il senso sente e dal sentire nasce poi l’imaginazione, da questa procede la cogitazione, da questa la meditazione. Meditando si aguzza l’ingegno e comincia a discorrere; discorrendo trova la ragione delle cose; la ragione illumina l’intelletto; l’intelletto partorisce come una prole l’intelli_______________ 25 - P. SARNELLI, Breviario donde sia detto e da quanto tempo e come si de’ leggere. Lettera XL, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo sesto cit., pp. 82-85 in particol. 84. 26 - P. SARNELLI, Del segno della salutazione Angelica, il quale suol darsi tre volte il giorno. Lettera XXX, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo settimo.... Venezia, 1716, pp. 6163 in particol. 61. 27 - P. SARNELLI, Se nella venerazione dovuta a’ Santi sia lecita la genuflessione. Lettera LXII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo settimo cit., pp. 123-125 in particol. 124. Sulle litanie cfr. ID., Della istituzione delle Rogazioni o Litanie minori e di altre Processioni. Lettera XXXV, in Id., Lettere ecclesiastiche ... Tomo nono cit., pp. 75-77. 28 - P. SARNELLI, Esser lodevole vestire i fanciulli d’habito religioso ed esser profittevole che le Monache recitino l’ufficio Divino ancorché non l’intendano. Lettera IV, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo terzo cit, pp. 10-12 in particol. 10. 308 genza della verità; la mente in questa intelligenza si affissa, per amore e carità insieme si diletta e si compiace29. L’anima che contempla si solleva sulle vanità terrene, considerando liberamente Dio e le cose divine. A questo grado di meditazione, a questo disvelamento del messaggio divino, non raggiungibile semplicemente attraverso una «volgare» osservanza dei divini precetti30, ma con uno strenuo studio e con una continua mortificazione della propria cupidigia, vi pervengono solo le anime libere dagli affetti materiali e dalla corruzione terrena 31 provate dal continuo esercizio dell’adempimento delle virtù cristiane e dalla contemplazione del sacrificio di Cristo 32. All’orazione contemplativa non si giunge con la «scienza», ma con la «fede, colla carità e col conoscimento della propria debolezza» e coloro che vi riescono sono tenuti ad esercitarsi continuamente, con maggior studio e fervore senza mai tralasciare «gli atti frequentissimi di religione, di adorazione e di umiltà atti della fede, della speranza e della carità»33. Chi non riesce a raggiungere questo profondo livello di meditazione è tenuto al precetto della preghiera vocale. Ciò non rappresenta una sconfitta per il fedele: Sarnelli invita sua sorella Brigida a non rammaricarsi se non tiene a mente le regole della preghiera e a non preoccuparsi se non riesce a leggere «con tutta applicazione» i libri religiosi che il suo confessore le ha fornito, e in proposito, per avvalorare il suo ragionamento, ricorda l’insegnamento di San Francesco di Sales, ossia che prerogativa essenziale per pregare facendo cosa gradita al Signore, è principalmente la fede: _______________ 29 - P. SARNELLI, Orazione mentale cit., p. 73. 30 - Cfr. IB.: La “Dottrina della Sapienza” non si acquisisce solo con il rispetto dei sette precetti, ossia “dilezione del prossimo, onora tuo padre e la tua madre, non fomicare, non uccidere, non rubare, non farai falsa testimonianza, non desiderare la moglie del tuo prossimo, ne meno desiderare la roba del tuo prossimo”. 31 - Cfr. in proposito P. SARNELLI, Disinganno dell’inganno di chi con arti illecite va dietro a trovar tesori, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto..., Venezia, 1716, pp. 122-129. 32 - “Questa è la vera via della Salute: frequentare la meditazione della Santissima passione del Redentore”: P. SARNELLI, Di quali spine fosse intessuta la Corona del Salvatore. Lettera XL, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo quinto cit. pp. 78-80 in particol. 79. 33 - P. SARNELLI, Orazione mentale cit., p. 74. 309 S’ingannarono grandemente quelli che credendo bisognarvi tanto metodo per far l’orazione. Lo spirito di Dio non è sì delicato che dipenda dal metodo. Dobbiamo sapere esser solo una cosa necessaria al ben orare: cioè haver Nostro Signore nelle braccia, come il S. Simeone: voglio dire tra’ nostri affetti; così la nostra orazione sarà sempre ben fatta in qualunque maniera noi la facciamo34. La pratica costante costituisce un apprendimento salutare per l’anima, una vera e propria «lezione», anche se questa può svolgersi inconsapevolmente: conviene che voi leggiate ed oriate assiduamente, perlocché la vita dell’homo giusto s’ordina bene colla lezione ed egli pur con essa si rafforza contro il peccato [...] essendo queste le arme, cioè la lezione e la orazione, colle quali si combatte e si vince il diavolo [...] E se talora dall’orazione si cessa bisogna colle mani operare, imperciocché l’ozio è nemico dell’anima e l’iniquo spirito di leggieri sospigne ne’ peccati colui ch’egli trova senza lezione, overo senza orazione35. Brigida è quindi dispensata dalla difficile prova dell’orazione mentale: inoltre, le replica ancora il nostro autore, «che vale sepellirsi in un cantone della casa ed intanto lasciar fare a’ figliuoli ed alla famiglia ciocché vogliono? [...] la buona educazione de’ suoi figliuoli è per lei una diritta strada al Cielo [...] I libri che non ben si capiscono, si lasciano dalle donne e sian suo’ libri i figliuoli e questi si studi di educar bene»36. Le preghiere costituiscono un mezzo per offrire l’anima a Dio, per preservare il fedele dalla tentazione, per garantire la salute eterna, per _______________ 34 - P. SARNELLI, Alla Signora Brigida Sarnelli cit., p. 93. 35 - IB. 36 - ID. Alla Signora... cit., p. 84: “Si deve recitare quello che si può, siccome chi non può digiunare tutta la quaresima è tenuto digiunare alcuni giorni se può”. 310 chiedere la grazia. Vale saperle recitare, poiché di esse non è richiesto di comprenderne il significato e il solo replicarle ha valore di per sé. Il beato Giordano alla domanda se sono gradite a Dio le preghiere delle monache che recitano senza conoscere il significato di ciò che pronunciano, risponde: «siccome la gemma in mano del rustico che non sa il prezzo, val tanto quanto quando è in mano dell’orefice che ne sa il valore, così le preghiere tanto vagliono in bocca del dotto, quanto dell’ignorante». Il precetto divino a cui il fedele è tenuto, ossia, come si è visto, l’orazione vocale, implica che il devoto, laico o religioso esso sia, pronunci nella preghiera «distintamente, perfettamente e riverentemente le parole»: anche se è preferibile coglierne il senso e «applicare l’affetto» a ciò che significano, questa attenzione non è necessaria, tant’è che se lo fosse, la Chiesa non avrebbe proposto le preci latine ai «dotti», agli «ignoranti», al «popolo comune». Essendo la preghiera dettata dallo Spirito Santo, questo supplisce laddove non arriva la l’intelligenza del fedele37. Esso diventa il principio attivo della comunicazione con Dio, veicolo di mistica unione: in virtù del suo tramite, l’anima viene «cristificata», ossia Cristo parla nel cuore del fedele attraverso lo Spirito Santo garantendo il contatto col divino 38. Chi non intende le parole latine che pronuncia durante la preghiera è certamente più umile, pio e devoto, più meritevole e vicino a Dio, poiché gli si accosta con la riverenza del mistero: santa Lutgarda «haveva ella tal grazia da Dio che colla saliva della sua bocca subito curava i morbi»; essendo quindi spesso impegnata nella cura dei malati e talvolta trascurando l’esercizio della preghiera, chiese a Dio di farle comprendere il significato del Salterio per accrescere il valore della sua devozione: «le concedette Iddio, secondo la dimanda, d’intendere il Salterio, ma si accorse che con questa grazia non facea tanto profitto quanto sperava, imperciocché la riverenza del nascosto mistero è la madre della divozione e la cosa nascosta più avidamente si cerca e con _______________ 37 - P. SARNELLI, Esser lodevole vestire i fanciulli cit., p. 12. 38 - Difatti nessuna orazione è diretta allo Spirito Santo perché “essendo lo Spirito Santo dono, dal dono non si chiede dono, ma dalli donanti, dalli quali egli procede”: P. SARNELLI, Perché niuna Orazione o sia Colletta della S. Messa sia diretta allo Spirito Santo. Lettera XXIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 45-46, in particol. 46. 311 maggior venerazione si brama». Lutgarda disse quindi al Signore: «che importa a me monaca semplice e.idiota intendere i segreti della Sacra Scrittura: dammi più presto, o Signor mio, il tuo santo amore»39. La preghiera rende immuni da tentazioni e lontano da ogni «sinistro pensiero»: mentre si recita - almeno tre volte al giorno i laici, mattina, mezzogiorno e sera, e sette volte gli ecclesiastici - si deve quindi pensare a Dio e meditare la Passione di Cristo, così come ordina la Chiesa, implorando aiuto per il sacrificio del Salvatore e iniziando quindi ogni orazione con il segno della Croce40. Un’assidua pratica del recitare quotidianamente le preghiere soccorre i bisogni spirituali e temporali dell’individuo, gli concede indulgenze, gli salva l’anima dalla cattura del demonio, sia esso devoto che peccatore, lo contrassegna come marchio distintivo: quanto valga recitare l’ufficio della Vergine o il Rosario secondo le indicazioni sin qui riportate, è dimostrato dalla costanza con cui Maria interviene a favore dell’orante. Un monaco cistercense spagnolo era «sì servente e divoto nell’ossequio della B. Vergine e sì attento nel recitare il di lei piccolo ufficio che non solamente in ogni verso, ma in ogni sillaba havea memoria della S. Genitrice di Dio», tanto che Maria lo soccorse in punto di morte, non dispensandosi comunque di salvare «un cherico colmo di vizii che altro ben non havea che recitare attentamente e divotamente l’ufficio piccolo della B. Vergine»41. Or passando un giorno il fiume per irne a soddisfare certe sue sozze voglie gli venne in mente che non havea detto bene il Mattutino della Vergine e cominciò a dirlo Ave Maria gratia plena ed ecco in quell’istante crescer la piena e sommergerlo e mentre diceva Dominus tecum lo soffocò. Corrono i demonj alla preda, ma la Vergine vuole che sia condotto innanzi a Christo, dove dopo molte altercazioni, disse la S. Madre al figliuolo benché costui sia malamente vissuto, ha però finito la vita nelle mie lau_______________ 39 - P. SARNELLI, Esser lodevole vestire i fanciulli cit., p. 12. 40 - IB. 41 - P. SARNELLI, Della origine e del progresso dell’Ufficio piccolo della Beatissima Vergine Maria Madre di Dio. Lettera XVII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto cit., pp. 32-36, in particol. 35-36. 312 di, quali sempre fu attento ed assiduo [...] e se i demonj non credono così gli guardino in bocca, e vedendovi i demonj vi trovarono scritto a lettere d’oro: Ave Maria gratia plena e tosto confusi partirono 42. Fra l’orazione vocale e quella meditativa vi sono forme di preghiere ripetute come le litanie e la «Corona», o «Rosario», che hanno la funzione di aiutare il devoto a memorizzare l’orazione oltre che valorizzarne l’impegno nella ripetizione mnemonica, la quale, a sua volta, introduce a una più intima esperienza di Dio. Il Rosario, in cui si contempla la vita del Salvatore e i misteri della Madre, viene istituito da san Domenico a vantaggio dei cristiani come preghiera meritevole di innumerevoli grazie43. L’uso di un oggetto da parte del fedele viene approvato dalla Chiesa con l’affermazione dell’autenticità della visione della Madonna avuta da san Domenico all’inizio del tredicesimo secolo, durante la lotta agli albigesi. Consegnato dalla stessa Madre di Dio con l’obbligo per i cristiani di invocare ripetutamente il suo nome facendo scorrere fra le dita i grani, la corona del Rosario diventa santa e taumaturgica perché di origini celesti e comunicata all’umanità durante una mistica visione. La ripetizione induce nel fedele uno stato quasi ipnotico in cui la luce spirituale inonda l’anima: le formule ripetute, ricche di significato, creano uno spazio nel quale l’animo può indugiare lentamente, progredendo nella meditazione44. Spiega Sarnelli che Né questa ripetizione della stessa orazione è superflua [...] Né solo la ripetizione di queste Divine Preghiere è santa, ma santo ancora è il ripeterle per qualche numero misterioso [...] Io so un mio amico divoto della B. Vergine che recita ogni giorno le cinquanta Ave Maria del Rosario, aggiugnerve tante altre quanti sono gli anni che vive più da cinquanta, ringraziando la B. Vergine del suo patrocinio 45. _______________ 42 - ID., Dell’origine... cit., p. 37. 43 - P. SARNELLI, Perché Sant’Onofrio si dipinge con una Corona di più globetti per recitar preci. Lettera V, in ID., Lettere ecclesiastiche... Torno sesto cit., pp. 12-14. 44 - Cfr. R. GUARDINI, Il Rosario della Madonna, Brescia, 1944. 45 - P. SARNELLI, Perché Sant’Onofrio cit, p. 13. 313 Recitarlo quotidianamente - almeno una parte - e con attenzione, consente quindi di guadagnare un tesoro d’indulgenze, nonché di meditare e commemorare la vita della Vergine e le sue feste, in cui sono riflessi vita e destino del Salvatore. Nella Salutazione angelica Ave corrisponde all’Immacolata Concezione, Maria alla Natività, Gratia plena alla Presentazione al Tempio, Dominus tecum all’Annunciazione, Benedicta tu in mulieribus alla Visitazione, Benedictus fructus ventris tui commemora il virgineo parto, Sancta Maria Mater Dei rappresenta la Purificazione, Ora pro nobis peccatoribus rievoca l’Assunzione al Cielo, e le parole nunc et in ora mortis nostrae rappresentano i sette dolori, ossia la sua sofferente assistenza al Figlio crocifisso, che fanno di Maria la madre e la benefattrice di tutte le creature46. Accanto alle preghiere ufficiali promosse dalla Chiesa esistono altre forme di preghiera, più spontanee, vive e sincere, nate dallo stesso orante, spinto dal proprio sentimento a richiedere l’aiuto divino, il miracolo, a cui segue, generalmente, l’assolvimento del voto pronunciato durante la stessa preghiera. Non sempre però l’individuo sa trovare in se stesso le parole esatte con cui pronunciare la preghiera. Quella ufficiale supplisce a questa povertà, un’aridità che possiede anch’essa valore e significato nella vita del devoto, in quanto egli deve saper mettere alla prova se stesso e il proprio orgoglio di individuo nella fedeltà e nell’ubbidienza a Dio, senza ricorrere al sentimento. Le preghiere della Chiesa sono quelle che custodiscono le esperienze e le vittorie morali dei santi che hanno fatto la storia dell’umanità e che hano consegnato alla collettività un patrimonio di simboli entrato a far parte del linguaggio della preghiera e da cui quindi il devoto non può prescindere47. Durante l’età moderna il richiamo alle norme istituzionalizzate consente alla Chiesa controriformistica di frenare quelle forme di devozione sorte spontanee e rivelatesi nel tempo poco controllabili dagli organi preposti. Esse potevano costituire una minaccia al dominio politico e morale della collettività da parte della Chiesa, e venivano pertanto canalizzate verso modelli comportamentali - la _______________ 46 - P. SARNELLI, Della Salutazione Angelica contiene tutte le feste della Be-atissima Vergine, Quesito XXXXI, in ID., Lume a’ Principianti cit., Parte seconda, pp. 225-226; cfr. anche ID., Perché nel Santissimo Rosario non si fa menzione dell’Epifania, Quesito XVI, ivi, pp. 160-162. 47 - R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera, cit., pp. 110-116. 314 Vergine e i santi - che, al contempo, potevano garantire al fedele quel processo di appropriazione individuale su cui necessariamente si basa anche la fede48. Sarnelli ricorda che nelle litanie si invocano i santi affinché essi intercedano presso Dio (Pio V scelse per esse i santi «più nobili» e ne proibì l’aggiunta senza il permesso della Santa Sede al fine di ridurne le possibili devianze)49; che il Rituale Romano e il Messale raccolgono inoltre molte devote orazioni da pronunciare per la salute dei malati; che il Pater e il Simbolo possiedono immediato valore terapeutico: san Tiburzio guarì un uomo «recitantandogli continuamente l’Orazione domenicale e ‘l Simbolo sopra le ferite’, per maniera [che] si consolidarono l’ossa, il capo e tutte le viscere»50. Con le preghiere non ci si deve attendere un effetto assoluto e infallibile, ma condizionato al volere divino attraverso l’intercessione della Vergine o dei santi: le orazioni possono infatti includere forme superstiziose per le circostanze in cui vengono recitate, per le modalità del loro esplicarsi, per le immagini cui fanno riferimento, per i nomi che invocano, nonché per la causa stessa per cui si chiede la grazia. I concili Cameracense del 1565 e Mecliniense del 1570 proibiscono che si presti fede a quelle preghiere che promettono la certezza di un risultato rapido e felice. Così quell’«ensalmo» contro la peste che recita «Crux Christi salva me...», come le preghiere di un libretto intitolato manuale precationum che contenea molte preci e Figure [...] e tra le altre vi si vedea una Figura che come dice il libro era la misura della sagra piaga del costato di Cristo Nostro Signore della quale così vi è scritto: Tanta est virtus, ut ne ignis, nec Aqua, nec Ventus, nec tempestas, nec lancea, nee ensis, nec diabolus _______________ 48 - Cfr. G. GALASSO, Santi e santità, in ID., L’altra Europa, Milano, 1982, pp. 64-115. 49 - P. SARNELLI, Chi è l’Autore delle Litanie. Quesito XXVIII, in ID., Lume a’ Principianti cit., Parte seconda, pp. 190-192. 50 - P. SARNELLI, Se sia lecito dire delle Orazioni sopra gl’infermi per la salute corporale. Quesito XVII, in ID., Lume a’ Principianti cit., Parte seconda, pp. 162-169 in particol. 162. 315 possint nocere ei qui eam secum fert. E però meritamente fu proibito 51. La Chiesa quindi promuove e diffonde la formulazione esatta delle orazioni di richiesta di grazia: Padre Ribadeneira nella vita di san Biagio, ricorda ancora Sarnelli, riporta che Aezio Antiocheno, fra i rimedi prescritti contro il soffocamento indica che «preso l’infermo per la gola gli si dicano queste parole: Blasius Martyr et servus Christi dicit: a’ut ascende, aut descende» corrette dalla Chiesa in «Per intercessionem P. Blasii Martyris liberet te Dominus a malo gutturis»52 a sottolineare che la preghiera ha effetto solo se viene affidato a Dio il potere di elargire la salute e non se viene attribuito un potenziale taumaturgico alle parole pronunciate, ossia solo con una matura fiducia del devoto nel valore del mistero divino. Credere in un potere magico della parola può avere anche effetti deleteri e contrari alla bramata grazia: Martin del Rio racconta di un guardiano di maiali che aveva infilato nel suo bastone una «cartuccia» - probabilmente un’immaginetta - con su scritto il nome di san Biagio, e che al solo bastone aveva affidato la custodia dei suoi animali. Avvenne che essendo egli assente un huomo che passava vide che il demonio guardava i porci, il dimandò quell’huomo com’egli ch’era persecutore degli huomini ora era fatto custode de’ porci, rispose che l’huomo pastore di quelli havea un bastone su cui era scritto il nome di S. Biagio e che a quella cartuccia scritta attribuiva della divinità contra la sua legge e per mantenerlo in quella credenza mi son messo a guardar i porci53. Non è in dubbio il ricorso all’orazione come rimedio per la salute dell’infermo, né tantomeno quello ad oggetti di supporto alla preghiera come, si è visto, la catena del Rosario. L’importante è affidarsi alle sanzioni della Chiesa, ricorrendo all’aiuto del sacerdote, dimostrando _______________ 51 - ID., Se sia lecito... cit., p. 164. 52 - IB. 53 - IB. 316 durante l’orazione di avere rette intenzioni, e vale l’ausilio di oggetti se questi vengono istituzionalizzati dalla Santa Sede perché comunicati all’umanità tramite una prodigiosa rivelazione. Oltre alla devozione del Rosario, il richiamo di Sarnelli è a quella dell’«abitino» della Madonna del Carmine che promette la liberazione delle anime dal fuoco del Purgatorio o altra sorta di aiuto nel giorno di sabato. Tale devozione nasce dall’apparizione mariana al Padre Simone Anglico approvata dal decreto dell’Inquisizione durante il pontificato di Pio V, nel 1613, e sancisce il valore della pia credenza se l’effetto della grazia viene richiesto dal devoto nel doveroso «debito di decenza» che si deve avere nei confronti della pietà della Vergine, maternamente impegnata a favorire i suoi adepti54. Lo spazio esteriore L’esercizio della preghiera che abbiamo seguito fin qui riguarda l’ordinamento interiore, ossia lo spazio del raccoglimento intimo del devoto in cui si determinano quelle condizioni meditativo-riflessive che consentono di eseguire l’orazione correttamente, nel suo pieno valore e significato di comunione con Dio. L’ordinamento esteriore che accompagna quello interiore viene scandito innanzi tutto dallo scorrere del tempo, rappresentato nella vita del fedele oltre che dai quotidiani impegni della vita lavorativa, dalle ricorrenze liturgiche in cui ricorre la preghiera: l’Avvento, il Natale, l’Epifania, la Quaresima e la Pasqua, quindi la Pentecoste a cui seguono le successive settimane dell’anno in attesa del nuovo avvento di Cristo. Un altro elemento ordinatore è lo spazio esterno, che nella vita della comunità è rappresentato dal centro religioso, la chiesa, elemento ordinatore dello spazio sociale e punto di riferimento della vita spirituale della collettività55. _______________ 54 - IB. 55 - M. ELIADE, Il sacro e il profano, Torino, 1967, pp. 19 sgg. e P EVDOKIMOV, L’ortodossia, Bologna, 1985, pp. 326 e sgg. Sui santuari cfr. C. CRACCO, Tra santi e santuari, in J. DELUMEAU, Storia vissuta del popolo cristiano, a cura di F. Bolgiani, Torino, 1985, pp. 249-272. Sulla parrocchia in età moderna nel Mezzogiorno cfr. 317 Rispetto ai mitici tempi del primo cristianesimo in cui anche «persone di bassa condizione» conoscevano a memoria i versi dei salmi e i passi della Sacra Scrittura e frequentavano notte e giorno gli uffici divini, Sarnelli lamenta una certa rilassatezza da parte della popolazione nei confronti degli obblighi di frequenza alla messa56 nella chiesa cittadina, spesso trascurata, anche nei giorni festivi, a favore di quella che si svolgeva negli oratori privati, sorti numerosi in quegli anni57. Responsabile il parroco e in generale la Chiesa stessa, perché «a dirla come sta, se si dasse al popolo il pascolo spirituale che desidera, la Chiesa sarebbe sempre piena. [...] tanto il popolo non fa quanto il Prete non vuole»58. Tant’è che sono ammesse in chiesa quelle devozioni di massa le cui particolari cerimonie, attestate nella tradizione, esulano da quelle prescritte dalla Chiesa: esse infatti sono permesse «perché sono di gloria a Dio e d’utile al nostro prossimo, purché non vi sia mescolata qualche superstizione, che si de’ togliere». A tale fine, è giusto insistere, sono necessarie quattro condizioni: 1. Che la grazia si de’ aspettare da Dio per intercessione della SS. Vergine. _______________ G. DE ROSA, Organizzazione del territorio e vita religiosa nel Sud tra XVI e XIX secolo, in La SOCIETA religiosa cit., pp. 11-29; A. CESTARO, Strutture ecclesiastiche e società nel Mezzogiorno, Napoli, 1978; L. DONVITO, Società meridionale e istituzioni ecclesiastiche nel ‘500 e ‘600, Mìlano, 1987. 56 - Sul significato della messa cfr. P. SARNELLI, Se il sagrificio della S. Messa sia uno o più. Lettera XLII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 81-83 e ID., Non essere stato mai permesso il S. Sagrificio della Messa sotto una sola specie. Lettera XLIII, ivi, pp. 83-85. 57 - Un limite alla diffusione degli oratori privati, per la promozione della messa della cattedrale o della parrocchia, la Chiesa lo tenta con il decreto De celebratione missarum emanato dalla Santa Sede il 15 dicembre 1703 il quale vieta l’abuso di alcuni vescovi e regolari di celebrare messa nelle case dei laici e negli oratori privati, trasportandovi altari portatili: cfr. P. SARNELLI, Della celebrazione degli Oratori privati. Lettera XLV, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 88-89. 58 - P. SARNELLI, Dell’antica frequenza del popolo agli uffici Divini. Lettera XXIII, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo secondo cit., pp. 52-54: 54. Sulla figura del parroco cfr. L. ALLEGRA, Il parroco: un mediatore fra alta e bassa cultura, in STORIA d’Italia, Annali, 4: INTELLETTUALI e potere, Torino, 1981, pp. 895-947. 318 2. Che non si adoperino parole non legittimamente istituite. 3. Che chi dimanda la grazia procuri di star in grazia. 4. Che siano preparati nell’animo, che se a Dio piace di farla, bene, se no, rassegnarsi nella sua SS. Volontà59. Il parroco è obbligato per precetto a offrire il sacrificio della messa nelle domeniche e nei giorni festivi ai propri parrocchiani, il cui «frutto» è «generalissimo», perché ne usufruiscono primariamente pontefice e vescovo, «specialissimo», perché ne gode il sacerdote celebrante, «medio», proprio perché è lo stesso sacerdote che lo applica a tutti quelli per cui celebra60. Pertanto il Concilio di Trento (sess. 22) avverte che parroci e predicatori devono costantemente ammonire il popolo a frequentare la parrocchia almeno nelle domeniche e nelle feste principali, ricordando che i benefici che si ottengono dalla partecipazione alla celebrazione della messa ufficiale sono certamente maggiori rispetto a quelli che si possono ottenere assistendo a una messa privata. In generale la messa gode del favore divino «in quanto al frutto ex opere operantis, sì anche ex opere operato, meritorio, impetratorio e soddisfattorio»: E in quanto al frutto ex opere operantis che sia maggiore è chiaro perché dove è maggiore divozione negli offerenti, dove si esercitano maggiori atti di religione, ivi è maggiore il frutto del sagrificio rispetto agli offerenti e cooperanti in esso [...] Or nella Messa solenne si eccita maggior divozione, precisamente dove il canto è religioso. Esercitano più atti di religione nella moltitudine de’ ministri, nell’incensazione dell’Altare e della materia offerta. Lo stesso si de’ affermare ex opere operato. Le ragio_______________ 59 - P. SARNELLI, Se sia lecitano far passare, come dicono, i figliuoli che patiscono d’Ernia in alcune Chiese della SS. Annunciata. E del Sacco di S. Francesco. Lettera XCI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo decimo cit., pp. 193-195, in particol. 194. 60 - Cfr. in particolare P. SARNELLI, Esser tenuto il Parroco applicare nelle Domeniche ed altri dì solenni il Sacrificio per li suoi Parrocchiani. Lettera XXI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto cit., pp. 42-44. 319 ni sono molte e precisamente perché Christo, il quale ha istituito questo sagrificio, ha voluto che si offerisse alla Chiesa non solo con semplice rito, come nella Messa privata; ma anche con rito solenne, come nella Messa Ponteficale, nella cantata con più ministri [...] adunque fu congruo che Christo Signor Nostro habbia voluto che provvenga maggior frutto ex opere operato dall’oblazione del Sagrificio fatta con rito solenne con l’intervento di tutti i ministri [...]61. La messa parrocchiale ha pertanto le sue positive prerogative. In chiesa si celebra il sacrificio di Cristo per il suo popolo che pertanto usufruisce primariamente dei frutti che da quello provengono; nella comunione di tutte le orazioni ed opere pie consacrate nella fraternità della Chiesa nel nome di Cristo e dello Spirito Santo, si impetrano più efficacemente la grazia di Dio e la remissione di tutti i peccati; la chiesa parrocchiale è inoltre la «Madre» dei suoi battezzati e somministra loro tutti gli altri sacramenti; nella messa parrocchiale il popolo riceve la benedizione con l’acqua santa e gode dei benefici che da essa derivano, può partecipare alle processioni per allontanare le punizioni e i flagelli divini, per chiedere la fertilità della terra e altri benefici spirituali e temporali, per ottenere la salute degli infermi e degli agonizzanti, può pregare per i defunti e fare l’elemosina ai poveri della stessa comunità. In particolare, l’acqua benedetta, un «sacramentale»62 che rappresenta l’incarnazione di Cristo, è contro ogni sorta di maleficio, per cui si tiene esposta in chiesa a vantaggio di tutti i fedeli. Essendo «mate_______________ 61 - P. SARNELLI, Si commanda l’assistenza alla Messa solenne. Lettera XLIV, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 85-88 in particol. 86-87. 62 - I “sacramenti” si differenziano dai “sacramentali” perché questi ultimi non raggiungono l’effetto del sacramento che è quello di conferire la grazia, ma fungono come disposizioni ai sacramenti. Oltre l’acqua benedetta, i “sacramentali” sono: la consagrazione della Chiesa e degli Altari e de’ vasi parimente a tal uso destinati. La benedizione delle vesti per riverenza della SS. Eucaristia. [...] la benedizione dell’Abbate. La consagrazione delle Vergini. La benedizione degli Sposi.Le Imagini benedette. Le Reliquie de’ Santi. Gli Esorcismi. I Funerali ed altre sacre Cerimonie”: P. SARNELLI, Se la Chiesa ha istituito cit., p. 72. 320 ria», necessita della «forma» che consiste in invocazioni e orazioni da recitare: Si debbono però leggere le orazioni attentamente e fare i segni della Croce come vanno fatti perché dice S. Vincenzo Ferrerio che vi era un ossesso dal demonio sopra il quale gittavano dell’acqua benedetta ed egli non voleva uscire, dicendo che quella non era acqua benedetta, perché il Sacerdote ci havea fatto i circoli. Presero altra acqua benedetta e si partì il demonio e trovarono che quel Sacerdote non faceva bene i segni della Croce e non proferiva le parole distintamente63. Nessuna cosa si benedice senza essa, pertanto si tiene esposta per le virtù che possiede grazie all’intercessione della Chiesa. San Vincenzo Ferreri distingue tali prerogative in quattro per l’anima, quattro per il corpo e quattro contro i pericoli della vita spirituale: I. Raccoglie la mente delle persone distratte dalle occupazioni temporali, se si prende divotamente colla croce in fronte, dicendo Jesus. E però comunemente si tiene presso la porta della Chiesa. II. Purifica la mente dalli mali pensieri che il demonio suggerisce e però se ne deve tenere anche in casa. III. Rimette i peccati veniali a chi però non è in istato di peccato mortale attuale. E questo è un gran guadagno perché si trova che una persona stette nel Purgatorio un anno per un peccato veniale. IV. Discaccia i dimonj. [...] I. In quanto al corpo. Dà la fecondità corporale, la Donna che ne beverà e divotamente si farà la Croce sopra il ventre, bavrà prole se Dio non permettesse altrimenti [...] II. Dà ancora la fertilità a’ Campi, cospargendoli coll’acqua benedetta nel nome dì Giesù, com’è detto di Eliseo, e libera dalle locuste e da’ topi. III. Sana le infermità, se la curazione non è contra la salute dell’anima _______________ 63 - P. SARNELLI, Essendo gli Olei Santi Sacramentali, come l’Acqua benedetta, perché quelli si tengono custoditi e quella esposta? Lettera XVIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 35-37 in particol. 36. 321 […] IV. Esclude la mortalità e la pestilenza con benedire le case e le campagne. I. Circa a’ pericoli della humana vita. Giova a chi va in viaggio [ ... ] II. Giova contra le fiere [ ... ] III. Giova contra le tempeste del mare e seda i flutti orgogliosi. IV. Giova contra il fuoco [ ... ]64. Durante la messa parrocchiale, spiega il Tridentino (sess. 24), si predica la parola di Dio che il popolo è tenuto a sentire con attenzione e riverenza, cogliendo il significato e il valore delle cose sacre, pregando e onorando Dio, congiungendo la propria orazione a quella del sacerdote, evitando di distrarsi e di chiacchierare con gli astanti e recitando con devozione l’ufficio divino. Se poi replichi che la moltitudine non ti fa stare così vicino che tu possa udire il Sacerdote ti rispondo - aggiunge ancora Sarnelli che per soddisfare al precetto di ascoltar la Messa basta la presenza morale ed humana, cioè basta che il fedele o senta o veda il sacerdote celebrante o almeno in caso di straordinario concorso sia vicino agli altri che vi assistono, sentono o vedono, ancorché non potendo entrare nella Chiesa per la moltitudine del popolo o per legittimo impedimento; tutta la forza sta assistervi con divozione [ ... ] Ma chi in tempo della Messa notabilmente o ciarla o dorme o ride con altri o legge storie, scrive, dipinge, in maniera che totalmente s’impedisce l’attenzione, non soddisfa al precetto […]65. _______________ 64 - Ivi, pp. 36-37. 65 - P. SARNELLI, Si commanda l'assistenza cit., pp. 87-88. Il Catechismo Romano spiega in quali opere il devoto deve esercitarsi durante i giorni festivi: “Andare alla Chiesa e quivi con divozione assistere al Santo Sagrificio della Messa; frequentare i Santissimi Sacramenti della Confessione e Comunione; sentire attentamente la predica; esercitarsi studiosamente nelle preghiere e nelle divini laudi e apprendere quelle cose che appartengono alla instituzione della vita Christiana: praticare gli uffici di pietà con far limosine a’ poveri, con visitare gl’infermi e consolare gli afflitti”: ID., Della frequenza del popolo ne’ dì festivi al vespro nelle Cattedrali. Lettera XLVIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo sesto cit., pp. 98-99 in particol. 98. Al fine di sottolineare l’importanza della frequenza alla messa Sarnelli spiega 322 Non è quindi per la mancanza di fedeli che il curato deve cessare di adempiere ai suoi obblighi: «chi predica per motivo di carità può scusarsi quando non ha copiosa udienza. Ma chi predica per debito di giustizia non de’ negarlo anche a que’ pochi che concorrono. [ ... ] a ciò viene costretto dalla legge divina, naturale ed humana»: la legge divina impone al pastore una missione, non un semplice titolo; la legge naturale vuole che nessuno trascuri l’assolvimento del primario obbligo per cui gode benefici; circa la legge positiva, si richiama il canone tridentino (sess. 6 e sess. 23) che prescrive il tempo e il modo di proporre la predica al popolo, durante la messa e «con facilità di parlare»66 . _______________ anche le modalità della musica in chiesa, il cui uso è ammesso purché questa sia “grave, modesta e divota”. Coloro che, in età controriformistica, biasimarono la musica, intesero infatti quella di tipo teatrale irreligiosamente introdotta in chiesa da musici o suonatori che lavorano negli spettacoli. La musica deve essere “armonica”, il canto e il suono tanto moderati che “non tutto l’animo attragga al diletto di sé, ma lasci la miglior parte al senso di quelle cose che si cantano e all’affetto della pietà”: ID., Al Signor Abate Giuseppe Crispini Hoggi dignissimo Vescovo di Bisceglie: Qual debba essere la Musica nelle Chiese. Lett. IX, in ID., Lettere ecclesiastiche…., Tomo primo cit., pp, 30-35 in particol. 35. Il musico ha licenza di cantare dal vescovo che la rinnova di anno in anno in base al parere del parroco circa i suoi buoni costumi e la sua integrità morale. Anche se laico, nel coro - le cui grate devono essere di altezza tale da non far scorgere i cantori - usa l’abito chiericale con sottana, cotta, collari e manichetti e quando non canta deve rigorosamente osservare il silenzio. L’intento è di non distrarre il fedele in chiesa dalla musica o dalla presenza di laici e di fornirgli un ausilio alla sua concentrazione durante la preghiera. Difatti, per quanto concerne la composizione del canto, si insiste sul non far adoperare “quel tumulto di voci che non lascia intender le parole [ ... ] Né meno siano le voci anzi oppresse”: ivi, p. 34. Le disposizioni della Santa Sede vogliono che le musiche delle messe, dei salmi, antifone, motetti, inni, cantici abbiano uno stile “ecclesiastico, grave e divoto”, che nelle messe non si cantino se non le parole prescritte dal Breviario e dal Messale Romano, senza aggiungerne altre, che durante i vespri non si cantino se non le antifone correnti, che non si canti “a voce sola tanto grave quanto acuta”, che in tempo di Passione si canti senza organo: pena la privazione dell’ufficio, una cifra di cento scudi ed altre pene corporali (ivi, p. 35). Sulle antifone, le cui “o” iniziali rievocano “i sospiri de’ SS. Padri che ardentemente desideravano la venuta del Redentore” cfr. ID., Delle antifone maggiori nell'Avvento. Lettera X, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 20-22. 66 - P. SARNELLI, Non doversi dal Curato intermettere la Predicazione, benché vi . sia della gente che si stanchi d'udirlo. Lettera XLVIII, in ID., Lettere 323 Gli esempi di santi che con la sola predica riuscirono a raccogliere una folta schiera di seguaci e a convertire gli eretici sono numerosi. San Francesco di Sales predicò costantemente e anche quando gli eretici riuscirono a ridurgli notevolmente il pubblico «seguitò a predicare a sì poco numero con tanta industria, sollecitudine ed apparato quanto se havesse predicato ad una copiosa moltitudine [ ... ] per tre anni intieri cotidianamente [ ... ] facendo quattro o cinque miglia a piedi per celebrare, predicare e fare le funzioni benché alle volte vi avesse trovato due sole persone e spesso ancora una sola vecchiarella e se ne trovava così contento come se havesse predicato a qualche numerosa moltitudine»67. _______________ ecclesiastiche ... Tomo terzo cit., pp. 144-146 in particol. 145. Sulla predicazione cfr. R. RUSCONI, Predicatori e predicazione, in STORIA d'Italia, Annali 4, cit., pp. 951-1035, in particolare sull’età moderna pp. 986 sgg. 67 - P. SARNELLI, Non doversi dal Curato intermettere la Predicazione cit., p. 146. Sulle missioni cfr. ID., De' notabili effetti delle Sante Missioni. Lettera XLII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo sesto cit., pp. 88-90. (Sul ruolo svolto dagli ordini regolari attraverso le missioni cfr. C. GINZBURG, Folklore, magia, religione, in STORIA d'Italia, I: I caratteri originali, Torino, 1972, pp. 603-676; G. GALASSO, L'altra Europa cit., pp. 94 sgg.; M. ROSA, Pietà mariana e devozione del Rosario nell'Italia del Cinque e Seicento, in ID., Religione e società cit., pp. 217-243; M.G. RIENZO, Il processo di cristianizzazione e le missioni popolari nel Mezzogiorno. Aspetti istituzionali e socio-religiosi, in PER la storia... cit., vol. I, pp. 441-481; E. NOVI CHIAVARRIA, L'attività missionaria dei Gesuiti nel Mezzogiorno d'Italia tra XVI e XVII secolo, ivi, vol. 11, pp. 159-185.) Gli ammonimenti a un maggiore senso di responsabilità e a un più profondo impegno del curato verso il popolo si accompagnano agli inviti a una più puntuale morigeratezza di costumi e abitudini che possa consentire al popolo di distinguere i chierici anche solo esteriormente, e al clero di adempiere rispettosamente e con la debita decenza agli obblighi imposti dal ruolo: cfr. in proposito le numerose lettere di Sarnelli sul clero. Sulla tonsura, Lettera XII (primo tomo); sull’abbigliamento in generale, Lettere XVI (primo tomo), XXVIII, XXIX, XXX(secondo tomo) ; sull’uso e abuso del berrettino, Lettere XIV, XV (primo tomo), Lettere XXV, XXVI (quarto tomo); sull’uso degli occhiali durante la messa, Lettera LXIX (quarto tomo); sulle abitudini alimentari, la frequenza alla taverna, il gioco delle carte e l’uso del tabacco, Lettere XIX, XXV (primo tomo), Lettera XXX (sesto tomo); sulla proibizione per i chierici di indossare le parrucche Lettera XXVI (secondo tomo), e il Discorso historico e morale contra l'abuso delle Perucche negli Ecclesiastici. Non esser maraviglia che insorgano gli abusi nel Clero, come il presente dell'abito alla moda de' laici e della Perrucca; ma doversi adoperare i Vescovi per isvellergli (terzo tomo, pp. 151-163); sulla bassa statura, se essa sia o meno disdicevole per l’ecclesiastico, Lettera XXXVIII (primo tomo); sullo stato sociale, Lettera XXXVI (quinto tomo). 324 Neppure il vescovo può sottrarsi all’obbligo di predicare - il Tridentino non ammette sostituto alla predica per il vescovo inadempiente (sess. 24) - soprattutto quando i predicatori che affollano le piazze e le strade e il cui uditorio è per la maggior parte costituito dalla plebe incolta e ignorante, recitano prediche ben composte e imparate a memoria, in maniera però che il pubblico non ne comprenda nulla. Alla predica del vescovo, invece, condotta con stile «Dogmatico, Critico, Parenetico» - a seconda che voglia insegnare la dottrina cristiana, o voglia censurare i cattivi costumi o voglia parlare con stile familiare - e che è quella più precipuamente istruttiva perché vi si predicano i misteri della fede e i sacramenti, i fedeli concorrono più volentieri perché «intendono»68. Alla predica di chi invece «recita», spesso invece il pubblico si annoia e diserta e se invece vi partecipa, lamenta la difficoltà di non poter stare seduto - giustificazione peraltro poco accettabile poiché qualsiasi predica deve essere seguita sempre con «attenzione e riverenza» - e talvolta si addormenta, risvegliandosi poi al racconto di favolose storie69. Nella chiesa il devoto prende i sacramenti (battesimo, unzione cresimale, eucarestia, penitenza, estrema unzione, ordinazione sacerdotale e matrimonio 70) distinti per «necessità di mezzo», «di precetto», «di mezzo e di precetto» o per non avere né l’una né l’altra «neces_______________ 68 - P. SARNELLI, Non potersi il Vescovo esimersi al tutto dal predicare. Lettera LIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 104-106. 69 - P. SARNELLI, Come si de' stare a sentir la Predica. Lettera LXXXII, in ID., Lettere ecclesiastiche. ..Tomo decimo cit., pp. 175-177. Da una lettera di san Francesco di Sales a un novello vescovo Sarnelli trae alcuni consigli sul predicare: “bisogni che vi preghi humilmente che non lasciate trasportarvi da alcuna considerazione che vi possa impedire o ritardare dal predicare. Quando prima cominciarete, maggior riuscita farete: il predicare spesso è il vero modo per diventar Maestro. Voi potete e DOVETE farlo: la vostra voce è a proposito, la vostra dottrina è sufficiente, il vostro capitale è riuscibile, la vostra azione è conveniente, la vostra condizione e il vostro ordine è illustrissimo nella Chiesa. Dio lo vuole, gli huomini lo desiderano, questo sarà per la gloria di Dio e per la salute dell'anima vostra. [ ... ] Cominciarete una volta agli Ordini, un’altra in occasione di qualche Comunione, dite quattro parole, poi otto, poi dodici, arrivate fino a mezz’hora e poi salite sul pulpito. L’amore rende ogni cosa facile [ ... ] Ridetevi di chi lodarà la dottrina di Monsignore vostro predecessore, perché egli cominciò come voi”: ID., Non potersi il Vescovo cit., p. 106 70 - Sui sacramenti cfr. P. EVDOKIMOV, op. cit., pp. 381 sgg. 325 sità». La necessità di mezzo è quella senza la quale non si può ottenere il fine, come il battesimo per i bambini, non essendoci per loro altra possibilità per conseguire la salute eterna, mentre per gli adulti il battesimo è necessità di mezzo e di precetto vel in re, vel in voto, come pure il sacramento della penitenza se dopo il battesimo hanno commesso qualche peccato mortale. Il sacramento dell’eucarestia in re non è di necessità di mezzo sia per i fanciulli che per gli adulti, quello in voto è invece di necessità di mezzo a entrambi, essendo il voto incluso nel battesimo sia per la grazia che rende il battezzato idoneo a ricevere l’eucarestia, sia per la «propensione» che la grazia battesimale infonde nella vita spirituale del devoto 71. Per battesimo in voto si intende il desiderio e il proposito di ricevere il sacramento congiunto con la fede e con la «perfetta contrizione», ossia non con il desiderio «nudo e semplice», ma con il pentimento profondo dei propri peccati in quanto determinato dall’amore di Dio: quando è tale, il Concilio di Trento (sess. 6) lo dichiara veicolo di salvezza, preceduto quindi dalla penitenza in voto che lo stesso Tridentino (sess. 14) la esplicita come «Contrizione perfetta col desiderio di fare quanto si deve». La contrizione è «animi dolor» perché non consiste nell’«appetito inferiore, ma nella volontà, né meno nel dolore sensibile, ma nello spirituale che è proprio della sola volontà»; si dice «detestatio per esprimere l’odio del peccato commesso da cui suol nascere quel dolore o che si contiene almeno virtualmente nello stesso dolore»; si dice «de peccato commisso» quando l’oggetto del dolore è «il peccato fatto da noi o per omissione o per commessione come offesa a Dio sommo bene» distinta da quella che si deve esprimere quando si incorre in qualsiasi altro tipo di peccato perché «se taluno fosse così affetto ad un peccato mortale, che di tutti gl’altri si dolesse eccetto che di quell’uno, non sarebbe vera la contrizione»; si dice «cum proposito non peccandi de caetero» perché si deve avvalere del proposito di non ripetere il peccato 72. Gli scrittori delle regole di vita spirituale consigliano ai loro devoti la comunione in voto, quando è sopraggiunto un evento a impedirla. _______________ 71 - P. SARNELLI, De' Santissimi Sagramenti che possono riceversi in voto non havendosi in re. Lettera XLVII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo terzo cit., pp. 139-144 in particol. 139. 72 - ID., De' Santissimi... cit., pp. 140-141. 326 In questo caso (come indica il Concilio di Trento, sess. 13) si dice «spirituale», nasce da un «acceso desiderio», da una «fede, viva» e ha privilegio di poter essere presa senza alcuna licenza, ogni giorno e anche più volte al giorno e di predisporre spiritulmente il fedele alla unione «sacramentale». Il valore di questa pratica è spiegato da Sarnelli con le parole di Cristo che parla all’anima del devoto: sappi che ogni volta che ti ti prepari alla santa communione con ispeciali orazioni, esercizj e divozione e nondimeno tu lasci di communicare per ragioni di obbedienza o di discrezione o di humiltà o per altra cagione, allora io ti sazio del torrente del mio divino influsso e non se’ priva de’ grandissimi frutti ed utilità del mio Sagramento. Or vedi quanto bene ed utile è all’anima il prepararsi con grande studio, divozione e dilligenza alla Communione, quantunque la persona non ci vada attualmente. Però studiati di fare ogni giorno questa debita e degna preparazione speciale per la Communione e mi faria cosa grata ed acquisterai grandissimi beni ed utilità all’anima tua73. Pertanto le anime devote, oltre alla comunione sacramentale che si prende nel tempo stabilito dalla Chiesa, «si pascono» con quella ,spirituale, seguendo l’insegnamento esemplare dei santi. La beata Giovanna della Croce affermava di recepire durante la comunione spirituale quelle grazie che si ricevono durante la reale funzione del sacramento. Amava dire sospirando: «0 eccellente metodo di communicarsi, in cui non è bisogno, né licenza del Confessore, né del Superiore, né.d’altro parlamento se non con te o Dio mio!». Santa Gertruda che spesso si comunicava spiritualmente, avvicinatasi un giorno al costato di Gesù, sentì dirsi: «Bibe nunc de corde meo spiritualiter suavissimae Divinatis meae efficacem influxum». La beata Angela della _______________ 73 - ID., De' Santissimi... cit., pp. 141-143. Sull’eucarestia in particolare cfr. P. SARNELLI, Degli undici miracoli che si considerano nella SS. Eucaristia: e della esposizione, processione ed orazione delle 40 ore. Lettera XXXVII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto cit., pp. 73-75. Sull’eucarestia cfr. anche ID., Della benedizione dell'acqua che si mescola col vino nella S. Messa, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo nono cit., p. 29. 327 Croce consapevole dei benefici della comunione spirituale la reiterava duecento volte al giorno. Bartolomeo da Gaeta, in pericolo di vita, ripeteva per suo conforto le parole di sant'Agostino «Crede et manducasti»: la notte gli apparve san Francesco con in braccio l’agnello divino ardentemente desiderato e «per la cui virtù» guarì miracolosamente74. Nella comunione spirituale il desiderio è acceso di così tale fervore «che il Signore si è compiaciuto andar dall’Altare sotto le specie sagramentali nella bocca delle persone divote»: santa Caterina da Siena, non potendo comunicarsi sacramentalmente per una sua certa infermità, lo soleva fare spiritualmente. «Ed un giorno sentendo la messa di Padre Raimondo, che ciò non sapea, subito quegli s’accorse che gli mancava una picciola particella dell’ostia consacrata ed havendola cercata invano, ne restò molto afflitto. Discorrendo poi colla Santa da essa intesa che Christo gli l’havea communicata.» Imelda, del monastero bolognese di San Domenico, desiderava tenacemente ricevere il sacramento dell’eucarestia a lei proibito data la sua giovane età. Una mattina, durante la messa, rimasta sola al posto suo tosto sollecitava il Signore con brame sì infocate e sì intense a venir in lei che lasciandosi vincere l’amoroso Giesù si partì dalle mani del Sacerdote e per un sentiero di luce, volando in aria si fermò in alto su’l capo dela fortunatissima Giovanetta. A questo prodigio [ ... ] il Sacerdote dapprima s’inorridì, poi giudicando che fosse giusto il communicare quell’anima che era approvata dal Cielo con sì gran segno, pose ad Imelda l’Hostia sagra ed Imelda a quell’improvviso favore, raddoppiando le vampe, aumentò sì fattamente l’incendio del suo bel cuore che di puro amore e di pura allegrezza se ne morì, andando subito in Cielo a trovar lo Sposo ed a compire con esso lui le nozze tra le Vergini già beate75. _______________ 74 -P. SARNELLI, De’ Santissimi Sagramenti cit., p. 143. 75 - Ivi, pp. 143-144. 328 Durante l’estrema unzione, sacramento di fondamentale importanza per la vita spirituale del devoto 76, l’orazione per i defunti garantisce che l’anima non diventi preda del demonio, così come l’aspersione della salma con l’incenso garantisce l’offerta a Dio del defunto «in odore» delle buone opere77, preservandolo dagli inferi, il cui terrore viene bene espresso nelle parole dei predicatori e nell’immaginario collettivo che vede l’inferno come luogo «molto grande [ ... ] tanto che basti a capire l’innumerabile moltitudine de’ dannati che infino alla fine del Mondo dovranno essere gettati in quelle fiamme eterne», una sorta di fornace di fuoco di ducento miglia, ove i dannati sono e gettati e trascinati, indi in que’ volumi di fiamme ora salgono, ora scendono, ora sono involti e girati per ogni parte giorno e notte per tutta l’eternità […] Che se non ci basta l’animo di tener per un quarto d’hora un dito sopra la fiamma d’una candela, come si potrà soffrire aver dentro le viscere un fuoco eterno?78 _______________ 76 - Ricevere i sacramenti alla morte è un precetto che fonda la sua tradizione nella leggenda del martirio di santa Barbara la quale ottenne per grazia che nessuno dei suoi devoti fosse costretto a morire senza ricevere i sacramenti: cfr. P. SARNELLI, Come S. Barbara ottiene a' suoi divoti il non morire senza i Santissimi Sagramenti. Lettera LIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo sesto cit., pp. 106-108. 77 - Cfr. P. SARNELLI, Spiegazione dell'Offertorio della Messa de' fedeli defunti, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo terzo cit., pp.119-121; ID., Perché si dia l'incenso a' morti nelle loro esequie. Lettera XLVI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto cit., pp. 88-90; ID., Del Sacramento dell'Estrema Unzione e delle parole Chrisma, Eucharistia e Mithra in altri significati. Lettera XXI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo sesto cit,, pp. 42-45; ID., Che vuol dire applicare le Indulgenze de' vivi per modo di suffragio a'fedeli defonti, e come che ne concede ne partecipa? Lettera XXI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo ottavo cit., pp. 47-49; ID., Dell'officio de' Morti. Che vuol dire inquietare i Morti? e quando de' recitarsi il Vespro de' Morti? Lettera XVII, in ID. Lettere ecclesiastiche ... Tomo nono cit., pp. 36-38. 78 - P. SARNELLI, Se alcuno sia andato in anima e corpo all'inferno e della sua grandezza. Lettera XLIX, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto cit., pp. 96-97: 97. Sul demonio cfr. anche ID., Se un huomo possa essere trasformato in bestia dal Demonio. Lettera IV, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo ottavo cit., pp. 8-10. L’immagine del Dio sommo giudice pronto a punire i peccatori con catastrofi naturali ed epidemie e che viene placato grazie all’intercessione della Vergine e dei 329 L’altro elemento che caratterizza lo spazio sacro della chiesa e che, nel contempo, rappresenta un aspetto fondamentale del culto mariano e dei santi79, è l’immagine sacra. Essa deve innanzi tutto ispirare devozione. A tale scopo non servono le «stravaganze di panneggiamenti e di positure» o le «sciocche fantasie», i «fantasmi» o «le regole dell’arte» a cui fanno appello gli artisti, ma è indispensabile che essa - la cui decenza nell’esposizione sull’altare maggiore o su quelli laterali80 in chiesa viene richiesta con fervore da parte del clero di competenza81 - rinvii al prototipo, come indica la disposizione consanti presso il Figlio è presente in tutta la letteratura sei-settecentesca. Sarnelli riporta un lungo catalogo dei terremoti da cui deduce che “esserne la cagione la ingratitudine degli homini verso Dio, tanto più grande da che è venuto l’Unigenito suo figliuolo a sopportare acerbissima Passione e morte per noi [… ] Si replica bene spesso il terremoto perchè ci ricordi la medesima SS. Passione [… ] Che meraviglia è dunque se il più terribile castigo è il più frequente quando i peccati sono i più mostruosi? Oltre a che [ ... ] quanto più ci accostiamo al di là del giudicio universale, tanto più si adoperano i segni che lo dimostrano”: P. SARNELLI, Perché dalla venuta di Christo al Mondo siano più frequenti i terremoti. Lettera XXXIX, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo terzo cit., pp. 103-111 in particol. 111. Cfr., in proposito, J. DELUMEAU, Il peccato e la paura, Bologna, 1987. 79 - Sul culto mariano e dei santi cfr., come ovvio, MATER Christi, Roma, 1959; M. WARNER, Sola fra le donne. Mito e culto di Maria Vergine, Palermo, 1980; P. BROWN, Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religione, Torino, 1983; G. GALASSO, Santi e santità cit.; G. DE ROSA, Storie di santi, Roma-Bari, 1990 . 80 - In particolare gli altari, la cui costruzione deve farsi con precisione ed esattezza, in modo che siano lisci e perfettamente levigati, devono quindi essere interi e fissi poiché rappresentano l’unità della persona di Cristo: viene quindi proibito di celebrare messa sugli altarini portatili, di quelli che si aprono e chiudono “a modo di libro”. Cfr. P. SARNELLI, Degli altari fissi, Lettera XL, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 79-80. Numerosi sono quindi gli altari fissi di cui si dotano le chiese del periodo controriformistico: per averne un’idea, il cardinale Orsini, arcivescovo di Benevento, tra il 25 marzo 1675 e il 26 luglio 1709 consacrò 1012 altari con 279 chiese: ivi, p. 80. Cfr., in proposito, V. TAPIE’, Iconografia barocca e sensibilità cattolica, in SOCIETA’, Chiesa cit., pp. 309-350. 81 - I canoni conciliari tridentini insistono sulla decenza dell’icona e dell’altare: in proposito cfr. quanto suggerisce al suo interlocutore Sarnelli sul restauro delle immagini sacre mirante a ripristinare l’originale per conservarne con cura il culto in Se sia lecito ritoccare alcune Imagini che sono state miracolose, logorate dal tempo e difformate. Lettera XXXIX, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo sesto cit., pp. 81-82: “non abbia scrupolo di farla rinnovare co’ medesimi lineamenti perché non torna il decoro della Religione vedere simiglianti figure disfigurate” (p. 330 ciliare (sess. 25) a cui tutta la letteratura religiosa sei-settecentesca si richiama: il culto che si dà alle immagini si riferisce al prototipo che in quelle è rappresentato, cioè che non si dà l’onore al legno, all’oro, al metallo o ad altra materia assolutamente, come se avessero in sé qualche divinità, ma come rappresentanti Cristo e i santi suoi. E questa è la perpetua consuetudine della Chiesa che ha origine dallo stesso Cristo che lasciò impresso il suo volto nel bianco lino della S. Veronica ed i lineamenti del suo corpo nella Sacra Sindone che si venera in Torino. [ ... ] E così l’huomo si fa ospite de’ Santi, con accoglierne le loro figure, benché non sian al naturale, ma fatte per divozione e quanto bastano a farci ricordare de’ medesimi e far le nostre case colonie del Paradiso 82. L’immagine sacra deve essere antica, o possedere caratteristiche che ricordino la tradizione dei primi cristiani, preferibilmente a mezzo busto; pudica così non può essere oggetto del demonio o sua creazione – nell’espressione dei santi e nelle effigi di Cristo crocifisso che, nota Sarnelli, sia nella pittura che nella scultura, «sono da una come camicia ricoverte, per honestà». Deplorabile «licenza» degli artisti è difatti quella di dipingere le sacre pitture in maniera tale che non possano essere adorate data la sconcezza degli atteggiamenti. In proposito si narrano casi leggendari che ammoniscono gli artisti a osservare il rispetto delle cose sacre, come quello di un tale artista che volle dipingere Cristo sotto forma di Giove e a cui si inaridì la mano al punto che necessitò un miracolo per guarirlo; o quello di Eutichio, vescovo di Costantinopoli, che guarì la mano di un artista gravemente ferito dal _______________ 81). Sul culto delle immagini cfr. A. VECCHI, Il culto delle immagini nelle stampe popolari, Firenze, 1964; in particolare, per il Mezzogiorno, cfr. R. DE MAIO, Pittura e Controriforma a Napoli, Roma-Bari, 1983. 82 - P. SARNELLI, De' Ritratti dell'Idolatria: della venerazione delle Sacre Immagini. Lettera XLI, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo decimo cit., pp. 88-91 in particol. 90. 331 demonio mentre stava trasforinando un dipinto di Venere in uno intitolare alla Vergine Maria83. Il Tridentino aveva affermato la liceità della raffigurazione del Padre con la figura di vecchio, così come si mostrò al profeta Dani perché con tale pittura Dio si esprime «agli occhi humani che altrimenti capaci non sono di vederlo se non sotto figure, non già perché dipinga la divinità»84. Sarnelli fornisce al Solimena le indicazioni che doveva seguire le tavole che gli aveva commissionato per uso personale, essendo m diffuso l’uso di tenere in casa, specie se si trattava dell’abitazion un religioso, sacre immagini, seguendo in questo la tradizione devoti russi adoratori di icone85. Seguiamo i suggerimenti dati, al fine di vederne il modello proposto. Cristo, secondo Niceforo, ha il volto egregio e vigoroso: la statura del corpo di sette palmi; la chioma alquanto bionda, ma non troppo densa e che _______________ 83 - P. SARNELLI, Al Signor Angelo Solimena Nocera de’ Pagani: Come debban dipingere le sacre immagini. Lett. XXXVII, in ID., Lettere ecclesiastiche…Tomo primo cit., pp. 154-164: 155. Altrettanto può essere considerata illecita lic za la consuetudine degli artisti di non rispettare le notizie fornite dalle Sacre Scritture: l’Annunciazione viene ambientata in una casa, mentre avvenne in una grotta; il presepio viene raffigurato come angusto tugurio, quando invece la grotta Redentore è di circa “quindici passi lunga e di cinque in sei larga”; la circoncisi del santo bambino è dipinta nel tempio, mentre avvenne nella grotta, come pure SS. Epifania che invece viene raffigurata tra “portici ed altre architetture”; Cri nel tempio appare seduto in trono, quando, all’età di dodici anni, doveva a, rispettato la priorità degli anziani; la sacra cena non poteva svolgersi su una tavola, ma “sopra i letti discubitorii de’ Triclinii”; nella Passione la Vergine appare a destra sotto la croce e invece Cristo inclinò verso sinistra la testa sulla spalla rivolgendosi alla madre; la Resurrezione rappresenta il sepolcro di Cristo aperto, quando invece questo restò serrato: P. SARNELLI, Delle licenze che si prendono i Dipintori. Lettera LV, in ID. Lettere ecclesiastiche...Tomo quinto cit., pp. 108-110. Sulle immagini della Vergine dipinte da san Luca cfr. ID., La Vergine Santissima dipinta ab anti col suo divino figliuolo in braccio. Lettera XII, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo nono cit., pp. 24-26. 84 - P. SARNELLI, Al Signor Angelo Solimena cit., p. 156. L’immagine di Dio deve essere spiegata nel suo significato mistico e morale dal clero ai fedeli: cfr. ID Se si debba dipingere il Padre eterno in forma humana. Lettera XIII, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo sesto cit., pp. 2729. 85 - P. SARNELLI, Al Signor Angelo Solimena cit., p. 156. 332 verso il fine s’inanellava; le ciglia nere, non molto inarcate; gli occhi vivaci, le pupille alquanto bionde e mirabilmente graziose; il naso lunghetto; la barba bionda come i capelli, ma non molto lunga; il collo mediocre ìn maniera che la statura non era troppo svelta; la faccia non rotonda ne acuta, ma convenevolmente lunga, come quella della Madre; il colore simile a quello del grano, cioè alquanto fosco, ma rosseggiante e finalmente in tutto somigliante alla sua SS. Madre86. La Madre fu di mediocre statura il colore simile a quello del grano; i capelli biondi, gli occhi vivaci, le pupille del colore come d’ulive, alquanto bionde, le ciglia inarcate graziosamente nere; il naso alquanto lungo; le labbra ben formate e di molta soavità nel parlare; la faccia non rotonda, né acuta; le mani e le dita pure lunghe; l’aspetto grave e modesto senza alcuna sorte di fasto o d’affettazione, ma semplice ed humile. Le vestimenta sue non erano tinte, ma del color natio, il che fino al presente dimostra il santo velo ch’ella portava in testa; e per recare le molte parole in una, in tutte le sue cose si scorgeva una grazia celeste e divina 87. San Pietro «di statura alto, non grasso, bianco di faccia, ma scolorito; i capelli del capo e peli della barba erano crespi e folti, ma non troppo lunghi; gli occhi negri e come tinti di sangue per le continue lagrime che spargeva; le ciglia quasi senza peli; il naso alquanto lungo e non acuto, ma schiacciato e curvo»; san Paolo doveva essere «picciolo di corpo ed alquanto piagato; di faccia bianco e nel sembiante _______________ 86 - Si prosegue, p. 158, lodando la bellezza di Cristo e riportando in proposito l’opinione di alcuni autori, fra cui san Tommaso, che, nel salmo 44, lo descrive di “ottima e perfettissima bellezza e dignità e maestà di volto conveniente all’ufficio di Salvatore e Redentore del genere humano per lo qual fine volle havere tale temperamento che ne risultasse la bellezza di quella sorte”. 87 - IB. 333 mostrava più anni che non haveva; la testa picciola; gli occhi graziosi, le ciglia che pendevan all’ingiù, il naso con grazia curvo ed alquanto lungo, la barba folta e parimente lunga e tanto essa, come la chioma, sparsa di canuti capelli»88. Si consiglia quindi all’artista di dipingere le sacre immagini con quelle caratteristiche che si ritrovano nelle descrizioni dei Padri della Chiesa. Sembra che tale criterio valga soprattutto per una devozione strettamente personale se alla domanda di Monsignor de Ferrarj, proposto e ordinario di Canosa, su come doveva far dipingere la nuova tavola di sant’Antonio abate - in sostituzione della precedente, rovinata dal tempo - ossia se si doveva far dipingere il santo con il piviale, la mitra e il pastorale, Sarnelli risponde che nonostante gli attributi cardinalizi non fossero in uso al tempo del santo, poiché la popolazione era abituata a riconoscerlo con quegli abiti, si poteva anche trascurare di rispettare l’obiettività dell’immagine antica, per andare incontro alla «divozione» generale89. Insistendo quindi sul valore simbolico delle immagini, Sarnelli ricorda che le immagini di S. Maria di Costantinopoli che si venerano nelle chiese del Regno di Napoli differiscono l’una dall’altra per la diversa fattura dell’artista, ma ciò non sminuisce la devozione dei fedeli, abituati a possedere immagini uniformi a quella di cui hanno particolare fiducia e cura: la «sostanza della devozione di S. Maria i Costantinopoli non è che l’immagine sia simile all’Hodigitria, ma che sia sotto quel titolo, sotto cui è riverita come Madre di Dio». Si insiste che il culto non vada attribuito all’immagine, ma a ciò a cui essa rinvia. Difatti la sacra immagine della Vergine che si venera in chiesa e che viene riproposta nelle stampe figurative, riporta la storia del celebre miracolo del suo ritrovamento o del suo salvataggio dai turchi infedeli e, nel caso dell’immagine di S. Maria di Costantinopoli - una delle più diffuse dell’età controriformistica -, viene dipinta su una _______________ 88 - Altre istruzioni su come dipingere le sacre immagini in P. SARNELLI, Se sia lecito pingendosi figure di Santi, fare ne’ loro volti comparire ritratti di persone particolari. Lettera VII, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo terzo cit., pp. 17-18. 89 - P. SARNELLI, Al Reverendiss. Monsignor Carlo de Ferrarj, Proposto e Ordinario di Canosa: Se S. Antonio Abate debba dipingersi co’ Pontificali. Lettera III, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo primo cit., pp. 9-12. Lettera datata Napoli, 20 agosto 1680. 334 cassa portata dai due monaci di S. Basilio 90. «Né quando in Italia si moltiplicarono le Chiese della Santa Genitrice, ciò fecesi per ragion dell’immagine, ma per alzar tanti archi trionfali ad honor di Maria, lebrata coll’impareggiabile titolo di Madre di Dio»91. Numerose riproduzioni a stampa o su tavola ripropongono l’immagine antica della Vergine «alla greca», simile a quella leggendariamente dipinta da san Luca, con il Bambino nella sinistra, come quella che elli invia in dono il quale, «se non è ricco di gioje, è adorno di erudizione»: Somigliante immagine ha da eccitare la divozione al prototipo, non la curiosità colla figura. Alla stessa Immacolata Vergine non piacciono le mode della sua S. Immagine onde il P. Rho [...] afferma: quanto sono più antiche, tanto pare che siano più venerabili di Nostra Signora le Immagini; come che non sempre di maniera migliore. E [...] riafferma: Vuole Idio che non alla bellezza o pregio materiale delle Sacre Immagini, ma alla somiglianza che portano per cui sono venerabili; noi ci avvezziamo e sì anco per le meno belle quasi per ordinario, sue maraviglia adopera92. Proprio perché le immagini sacre possiedono un significato simbolico che esprime i sacri misteri e che a sua volta, raccomanda il Tridentino (sess. 25), non deve sublimare la priorità della rappresentazione del santo, di Cristo e della Vergine e che il devoto deve saper interpretare giovandosi dell’ausilio del parroco, del confessore, della parola del predicatore, le immagini dei santi non rappresentano necessariamente un episodio della loro vita. Se santa Apollonia è l’avvocata di chi soffre mal di denti, a lei strappati durante il martirio, e «se sant’Agata intercede per chi ha male _______________ 90 - P. SARNELLI, Lettera di Monsignor Sarnelli Vescovo di Bisceglia. Con cui si trasmette ad un divoto la vera notizia della celebrità di S. Maria di Costantinopoli, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo secondo cit., pp. 101-108. 91 - Ivi, pp. 107-108. 92 - P. SARNELLI, Del nome che si de’ imporre al novello Battezzato; e di una Imagine all’antica della B. Vergine. Lettera XXXVIII, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo quarto cit., pp. 75-76 in particol. 76. 335 nelle mammelle» che a lei strapparono con ferocia93, san Giorgio armato a cavallo che con la punta della lancia ammazza il dragon difendendo la vergine ai suoi piedi, rappresenta la sconfitta del demonio nonostante in nessuna delle leggende della sua vita si legga di u episodio simile, tranne che in quella di Jacopo da Varagine che la racconta, spiega Sarnelli, senza l’autorità dei maggiori autori. La figura di san Cristoforo di gigantesca statura con Cristo sulla spalla mentre attraversa un torrente, esprime nella statura la grandezza e robustezza dell’anima, nel portare Cristo l’attestazione della sua fiducia nel Salvatore e l’imitazione dei suoi costumi, nell’attraversare il torrente la, furia della persecuzione cristiana vinta con la fede e l’accettazione de patimenti del rnartirio. Così sant’Antonio abate si dipinge con il fuoco in mano, simbolo dell’amore divino e dello zelo che il santo aveva nell’adorare Cristo; il maialino ai piedi per rappresentare gli affetti sensuali domati e vinti; il Tau sulla spalla per simboleggiare la croce di Cristo, quindi lo studio delle Sacre Scritture e la mortificazione de corpo; il campanello per indicare la vigilanza del santo verso gli obblighi devoti, ammonimento per tutti i fedeli. Questa spiegazione moral possiede un riscontro storico e culturale che gravita attorno alla capacità prodigiosa del santo di guarire gli infermi: il fuoco è la capacità del santo di intercedere per liberare i suoi devoti dal «morbo del fuoco sagro», nonché la sua arma per colpire gli irriverenti; il maiale rinvia all’uso che negli ospedali napoletani si faceva del grasso animale, rienuto efficace rimedio per coloro che soffrivano di «fuoco sagro»; il Tau ricorda l’insegna dei «Ministri degl’infermi di fuoco sagro» organizzati nel 1095 con Urbano II; il campanello rappresenta la disciplina cenobitica, essendo Antonio il gran patriarca dell’ordine monastico 94. Il leone che accompagna l’immagine di san Girolamo rappresenta la sua costanza e la sua forza nel perseguitare gli eretici e il «suo forte grido a guisa del leone contra di essi»; i cani che appaiono accanto al martire Vito rinviano alla capacità che il santo possiede di liberare dai _______________ 93 - P. SARNELLI, Perché S. Lucia comunemente si dipigne cogli occhi in una Tazza che tiene in mano. Lettera XXIV, in ID., Lettere ecclesiastiche...Tomo settimo cit., pp. 50-52. 94 - P. SARNELLI, Delle figure simboliche usate nella Chiesa e se sia lecito esporle su gli altari alla pubblica venerazione. Lettera VI, in ID., Lettere ecclesiastiche…Tomo terzo cit., pp. 14-17. 336 morsi dei cani rabbiosi; la figura di santa Lucia che mostra i suoi occhi ,in una tazza sta a significare che Dio le ha dato la possibilità di guarire i ciechi - essendole provvidenzialmente toccato un nome che rievoca la luce - e non che la santa si sia inflitta il supplizio della perdita degli occhi per sfuggire alle insidie dell’uomo che la perseguitava95. Così le immagini di Cristo crocifisso sul Calvario con ai piedi ,della croce il teschio, stanno a ricordare che su quel monte venivano giustiziati i condannati e in particolare il teschio simboleggia Adamo primo peccatore96, come pure significato mistico su cui il devoto è invitato a meditare, hanno i legni della croce - cedro, cipresso, bosso e pino -, la natura delle spine della corona di Cristo, i chiodi della croce: «come cedro uccise i serpenti dell’inferno; come cipresso fece il funerale alla morte; come Palma vinse i nostri nimici; come ulivo pacificò quae in terris et quae in Coelis»97. Le spine che gli artisti dipingono come corona del capo del Salvatore, in realtà erano una sorta di casco che premeva ferocemente da ogni parte: chiedersi di che tipo fossero, come fa l’interlocutore di Sarnelli, che venera la spina infinta di sangue custodita nella cattedrale di Andria, vale solo come mezzo per meditare la passione e il sacrificio di Cristo 98 insieme ai -.chiodi custoditi e venerati in molte chiese del regno, di cui, pur ammettendo la falsa origine, se ne accetta il culto, «non venerandosi da alcun fedele il ferro come tale, ma la Passione di Christo nel ferro»99: la devozione infatti non va mai attribuita all’oggetto, immagine o reliquia essa sia, ma a ciò che essa rappresenta. Per essere sacro all’altare della chiesa deve essere assegnato un angelo e deve necessariamente custodire le reliquie di un santo 100. _______________ 95 - Vedi nota 93. 96 - P. SARNELLI, Perché nelle Imagini di Christo Signor Nostro Crocifisso si metta la testa di morto sotto i piedi. Lettera XXVII, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo quinto cit., pp. 54-56. 97 - P. SARNELLI, Di qual legno fosse quello della S. Croce di Christo. Lettera XXXIX, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo quinto cit., pp. 76-78 in particol. 77. 98 - P. SARNELLI, Di quali spine cit. 99 - P. SARNELLI, Come s’intenda essere il Corpo di un Santo in più luoghi e similmente delle loro Sante Reliquie. Lettera VIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo terzo cit., pp. 18-21. 100 - P. SARNELLI, Se le Reliquie de’ Santi siano di sostanza alla Consagrazione dell’Altare. Lettera IX, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo terzo cit., pp. 21-27. 337 Anche se è indubbia la forza e la potenza di un unico angelo - come si evince dalla tradizione biblica101 - nel Sei e Settecento l’idea prevalente è quella di una schiera di angeli102 attraverso cui Dio governa le cose terrene, gli elementi, le province e le città, le chiese e gli altari gli eserciti e le famiglie e tra i quali ne sceglie uno o più a cui affidare la cura dell’individuo 103. La divina provvidenza e la carità degli ange verso l’umanità si manifestano infatti ancora più illustri quando non u solo angelo quello «ordinario custode» - viene designato alla salvezza dell’anima e del corpo di un «alunno», ma più angeli, insieme, vi concorrono con le loro virtù e le loro amorevoli cure: «così u Serafino purgò le labbra d’Isaia Profeta col carbone infocato. Isai. 6.6. Gabriele illuminò Zaccaria e riprese la incredulità di lui. Luc. 1.19. Raffaele sanò Tobia il vecchio, accompagnò il giovane, liberò Sara da Asmodeo; e quelli non erano de’ loro custodi»104. San Francesco, racconta san Bonaventura, vide un angelo mentre riceveva le stimmate; a santa Francesca Romana, oltre all’angelo custode che ebbe sin dalla nascita, per consolarla delle sue sofferenze le fu assegnato anche un arcangelo con cui conversava giorno e notte, vedendolo sempre accanto a sé; a santa Teresa apparvero di notte due _______________ 101 - “Un Angelo solo uccise cento ottantacinque mila soldati nell’esercito di Sannacherib Re degli Assiri (4 Reg. 19.35) [...] Un Angelo solo trasportò dalla Babilonia in Giudea Abacuch Profeta col pranso sopra il lago de’ Lioni, in cui era Daniello (Dan. 14.35) [...] Un Angelo solo trasportò Filippo Diacono dalla strada dove avea battezzato l’Eunuco della Regina Candace in un momento della Città d’Azoto ch’era distante da Gerusalem miglia sessanta in circa (Act. 8.39)”: P. SARNELLI, Se solo l’Angelo custode procuri la nostra salute e non altri ancora di altro ordine. Lettera XCIV, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo decimo cit., pp. 199202 in particol. 200. 102 - Nella rivelazione di santa Brigida si dice esserle stato svelato, col favore della Vergine, che il numero degli angeli è dieci volte superiore a quello degli, uomini. San Bernardino da Siena afferma che “il numero degli angeli supera quello delle stelle, dellle arene del mare, della polvere della terra ed il numero di tutte le cose corporali”: P. SARNELLI, Se gli Angeli Santi sono mai appariti in figura di donna. Quesito XXXVI, in ID., Lume a’ Principianti cit., Parte prima, pp. 107-109 in particol. 109. 103 - P. SARNELLI, Se solo l’Angelo custode cit., p. 201. Sullo stesso argomento cfr. Id., Se sia vero che siccome Idio ci assegna un Angelo per la nostra custodia, così ci sia deputato un Demonio per impugnarci. Lettera LXI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo settimo cit., pp. 121-123. 338 angeli con le torce accese a farle da guida fino all’ospizio; a san cedonio, vecchio eremita, gli angeli accendevano il fuoco durante fredde giornate invernali; a sant’Isidoro contadino, mentre si intratteneva ad ascoltare la messa e a recitare le orazioni, gli angeli custodivano i buoi e aravano i campi; gli angeli aiutavano sant’Omobuono o a imbastire e a cucire le vesti e santa Maria Maddalena sette volte al giorno veniva elevata al cielo dagli angeli per beneficiarla della loro celeste armonia105. Gli angeli sono essenze spirituali, non sono né maschi, né femmine t1`perché rappresentano le anime degli uomini. Nella pittura sacra, nelle chiese, nelle sante immagini appaiono a coronare Dio, la Vergine e i santi, a proteggere con il patrono intere città o a vegliare l’anima devota, a guidarla nel suo cammino o durante la recita della preghiera. Si pingono colle ali per significare la loro pronta ubbidienza, per la quale pare che volino a’ comandamenti di Dio. E le loro due ali sono l’intelletto e la volontà, colle quali volano di continuo a Dio, vedendolo ed amandolo. Si dipingono giovani per dinotare che mai s’invecchiano, ma sono sempre vigorosi per la partecipazione all’eternità. Si dipingono nudi e scalzi perché siano intesi che essi non hanno bisogno d’ornamento esteriore, perché sono vestiti del lume della gloria ed anche perché sappiamo la loro immortalità, perché le scarpe e calzari facendosi di pelle di morti animali sono segni della mortalità106. Il devoto può ritrovare in chiesa un riscontro immediato con la pittura sacra, come narra la leggenda della beata Giovanna di Orvieto del Terz’ordine dei Domenicani. Orfana di madre all’età di tre anni e di padre a cinque, «dimandata da una delle sue compagne se sapeva ch’ella non aveva Madre? come senza Madre? disse: Vieni e te la _______________ 104 - P. SARNELLI, Se solo l’Angelo custode... cit., p. 200. 105 - ID., Se solo l’Angelo custode... cit., p. 201. 106 - P. SARNELLI, Se gli Angeli Santi... cit., p. 109. 339 mostrierò. E portandola nella Chiesa e mostrandogli l’Angelo nel muro dipinto disse: Scito hunc Angelum mihi esse in Matrem»107. Le Sacre Scritture non definiscono mai il sesso dell’angelo, nelle leggende di santi si parla talvolta di angeli come creature femminili. Ruffino e san Bonaventura raccontano che mentre san Gregerio Nazianzeno stava applicato agli studi vide due bellissime damigelle che si rivelarono essere la Sapienza e la Carità. A san Lorenzo Giustiniano, primo patriarca di Venezia, apparve la Sapienza come bellissima donna che gli disse di voler contrarre con lui matrimonio; nel libro delle vite dei Santi Padri si legge che un monaco tenacemente provato dalla tentazione vide una notte la Grazia di Dio con le sembianze di una vergine che «pregollo [...] e confortollo [...] perché Dio l’aiuterebbe finalmente»; nella vita di san Francesco si legge che al santo apparvero «tre donzelle povere e molto simili di statura, di faccia, di età, che erano la Povertà, la Castità e l’Ubbidienza»; così San Goderico inglese fu accompagnato nel suo pellegrinaggio al sepolcro di sant’Egidio oltre che da sua madre da una donna «di nobile e divoto aspetto» che si accompagnò con loro «discorrendo di cose celesti con una grazia mirabile e modestia infinita»; che san Giovanni Limosiniere una notte vide in sogno la Misericordia come «donzella ornatissima e più splendente del sole, coronata d’ulivo». Cesareo narra che la portinaia di una casa religiosa fuggì con un uomo lasciando le chiavi sull’altare della Madonna: «un Angelo in forma di essa Portinara esercitò quell’ufficio per quindici anni fino che detta donna pentita del suo errore ritornò al suo ufficio senza offesa della sua fama»108. Sono immagini ideali, trasfigurazioni dell’arte. Gli angeli difatti sono sempre incorporei e sono creature celestiali così come la Chiesa li ha definiti contro l’eresia di Origene: quando appaiono agli uomini perché possano essere visti «si fanno colla loro virtù i corpi d’aria o d’altra materia mescolati, come sono le nuvole»109. Si è detto che l’altare viene consacrato dalle reliquie dei santi. fondamentale, in merito, ricordare con il Tridentino che il culto della SS. Trinità è culto di latria, culto che si deve al solo Dio in segno del suo dominio sul creato, quello dei santi è di dulia, adorazione «reli_______________ 107 - P. SARNELLI, Se solo l’Angelo custode... cit., p. 201. 108 - P. SARNELLI, Se gli Angeli Santi... cit., pp. 107-108. 109 - ID., Se gli Angeli Santi... cit., p. 109. 340 giosa e pia» per le loro virtù, comunemente detta «venerazione», quello della Vergine è di hyperdulia, onore speciale con il quale la Chiesa la riverisce sopra ogni santo, ma dulia e hyperdulia, sono indirizzate comunque a Dio, di cui la Vergine e i santi sono intermediari e per il cui tramite si possono ottenere la salute eterna, gli aiuti materiali e spirituali: «questa fiducia si può riporre nella Beata Vergine e ne’ Santi di maniera però che la salute e qualunque cosa appartenente a conseguire la beatitudine non si speri da esse, come da Agente primario, come da Dio; ma da secondario, in quanto che colle loro preghiere possiamo tutte queste cose ottenere»110. Il culto dei santi non nasce in età controriformistica, ma ciò che adesso cambia è l’intervento della Chiesa nella canonizzazione dei santi, parere ritenuto infallibile perché nella valutazione delle testimonianze la Chiesa viene guidata e preservata dagli errori dalla Divina Provvidenza, come il Papa viene istruito dallo Spirito Santo nella scelta di quei santi che sono da canonizzare111. La vita eremitica costituisce un esempio di santità tutto incentrato sull’astinenza, la mortificazione della carne, i supplizi corporali, la preghiera. La vita sobria «regolata e temperata» stabilisce un certo ordine nel bere e nel mangiare che supplisce e non va oltre a ciò che la costituzione corporale necessita «in ordine alle funzioni dell’animo»; l’astinenza impedisce «la crudità degli umori ed i mali che ne seguono ci munisce contro le cagioni esterne», mitiga incurabili malattie, placa le ire, gli affetti e le passioni in generale; dà una lunga vita «a cui segue una morte senza dolore dissolvendo il vincolo tra l’anima ed il corpo con semplice risoluzione e consumamento dell’humido radicale», l’ingegno «si mantiene vigoroso e atto a pensare, discorrere e ritrovare e giudicare ed anche ricevere le divine illustrazioni»112. _______________ 110 - P. SARNELLI, Se nella venerazione dovuta a’ Santi cit., p. 124. In proposito si pronuncia il canone tridentino nella sess. 25, cap. de invocatione. 111 - P. SARNELLI, Come s’intenda quel detto attribuito a S. Agostino: Multa corpore Sanctorum veneramur in terris, quorum Animae cruciantur in inferno. Lettera XXXIV, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo quarto cit., pp. 69-70. Cfr. anche ID., Della solenne cerimonia con cui il Sommo Pontefice canonizza i Santi. Lettera XXXVII, in ID., Lettere ecclesiastiche... Tomo sesto cit., pp. 73-80. 112 - P. SARNELLI, Onde avvenisse che i Santi Padri dell’Eremo, vita laboriosissima vivendo, ad una età lunghissima giugnessero. Lettera VI, in ID., Lettere 341 Oggetto di culto sono le sante salme, significativamente denominate tabernacoli «perché tabernacolo è lo stesso che tetto e casa onde nel salmo 26,5: Abscondit me in tabernacolo suo, è lo stesso che dire: mi ha protetto sotto il suo tetto e mi ha nascosto nel suo nascondiglio»113 che sta ad indicare la protezione di cui il devoto può usufruire nella venerazione della salma del santo, assimilata al tabernacolo, all’altare, alla chiesa, ossia a quello spazio sacro che distanzia il santuario dal mondo profano, creando una zona di sicurezza e di aurea atmosfera di cui il devoto gode i benefici. Il corpo del santo o le sacre reliquie possono essere venerati in più luoghi contemporaneamente: le traslazioni dei corpi non avvenivano infatti per l’intera salma, ma per una parte di essa, al fine di non lasciarne prive le popolazioni presso cui erano gelosamente custodite, valendo il principio che anche una porzione ridotta di reliquia si può rivelare prodigiosa: «In quanto poi ad esser più teste, più mani, più braccia dello stesso Santo devesi intendere non del capo, mano o braccio intero, ma di parte di quello. Imperocché havendo dimostrato l’esperienza esser la stessa virtù [ ... ] in una picciola parte di qualche Reliquia del Martire che in tutta la medesima Reliquia»114. Intorno al corpo di san Francesco d’Assisi si è instaurato un forte culto, accresciuto dalla venerazione delle stimmate che il santo «portò vivo due anni e dopo morte, come fosse ancor vivo, stando in pie’ nella Sagra Tomba, fresche e vivo le conserva, sicché quegli che prima di morire parea morto, dopo morte par vivo»: il suo corpo emana «odori soavissimi» e non è di carne arida, secca e aspra, ma tenera e bianchissima [ ... ] Nelle mani e piedi ha quattro chiodi, ma lucenti che si ponno muovere, ma non levare. La piaga del costato sembra una rosa vermiglia, come parimente le lab_______________ ecclesiastiche ... Tomo primo cit., pp. 15-22: 18-19. E’ un breve trattato sulla sobrietà di vita, con precise indicazioni anche alimentari. Sullo stesso argomento cfr. anche, ID., Come si de’ trattare il nostro corpo. Lettera XLVIII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo settimo cit., pp. 95-97. 113 – P. SARNELLI, Perché San Pietro e S. Paolo chiamano i corpi loro Tabernacoli. Lettera XVI, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quinto cit., pp. 30-32 in particol. 30. 114 - P. SARNELLI, Come s'intenda... cit., p. 20. 342 bra delle piaghe intorno a’ chiodi. Nel contemplare il Duca [Francesco Sforza] quello stupor di miracoli più gettò lagrime che preghiere [ ... ] disse che ogni più duro cuore di qualsivoglia nemico di S. Chiesa si sarebbe ammollito a quell’evidenza incontrastabile [ ... ]115. Niccolò V nel 1449 in visita alla santa salma nello scoprirgli le ferite nelle mani e nei piedi e nell’osservare la ferita al costato viva e fresca di sangue «come se per allora l’immenso amor divino glie l’havesse col ferro formata», riconobbe «ravvivata in tutto e conservata la memoria della nostra Redenzione». Sisto V nel 1478 «con timore e riverenza baciolli divotissimamente la bocca, le sagre piaghe delle mani, del costato e de’ piedi e poi tagliatoli alcuni di que’ capelli che formano su ‘l capo la corona, conservolli a se stesso reliquie carissime». Accanto alle testimonianze di questi illustri devoti, Sarnelli riporta anche quella di un ricco cittadino di Assisi, tale Galeotto Bistocchi, che ne volle lasciare memoria al figlio «con sincerità e simplicità di proprio pugno descritta»: Io Galeotto di Giacomo ho veduto il Santissimo Corpo del mio Padre S. Francesco, il quale ancora pare vivo e la sua carne è senza macchia. Quando il P. Custode apri la sua Cassa (che sta in piedi) gettò tanto grande odore che non si poteva dir più: le sue piaghe sono così belle, come se fosse vivo e sta con gli occhi (modestamente) aperti, che pare sia vivo. Lo vedemmo alli 18 di Novembre 1509 che potevano essere tre hore innanzi dì [ ... ] Et io per vederlo spesi molti fiorini [ ... ] Il P. Custode, il Sagrestano ed io dicemmo un Pater Noster e un’Ave Maria per gradile [sic]. Vedremo quanto viveremo. Lascio questa memoria a te Francesco figlio mio e cerca, se vivi, haver tanta grazia che sarai consolato e a S. Francesco benedetto ti raccomando116. _______________ 115 - P. SARNELLI, Delle Sagratissime Stimmate del Gran Patriarca S. FRANCESCO. Lettera XXXII, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo quarto cit., pp. 64-67: 65. Cfr. anche ID., Delle stimmate di varie sorti e di quelle di S. Francesco. Lettera LVIII, in ID.,Lettere ecclesiastiche ... Tomo decimo cit., pp. 124-127. 116 - P. SARNELLI, Delle Sagratissime Stimmate... cit., pp. 65-66. 343 Reliquie possono essere considerate tutto ciò che apparteneva al santo, sull’esempio di Cristo, la cui veste, toccata, guarì un’inferma (Luca 8; Matteo 9; Marco 5); lo stesso si legge di san Paolo (Atti c. 19.12) e di san Pietro si sa che la sua ombra curò diverse malattie; come pure le vesti degli infermi e dei morti lasciate sugli altari dei santi, o i fiori e l’olio della lampade lasciati sui loro sepolcri, acquisiscono virtù taumaturgiche al solo contatto con la santa salma117. Nella casa il senso definito dal luogo sacro, la chiesa, viene mantenuto creando un ambiente in cui sia possibile il raccoglimento. Le immagini sacre, o il crocifisso, rappresentano questa possibilità, oltre che costituire il segno tangibile della presenza divina nella vita familiare, una presenza che va a creare un ordinamento speculare a quello che il devoto vive nello spazio interiore, ossia nel suo intimo, e in quello esteriore, collettivo, della chiesa. Il terzo aspetto dell’ordinamento della preghiera è infatti determinato dalla vita del fedele, dalle sue stesse azioni: la benedizione della mensa, la preghiera familiare e tutte le circostanze della vita - malattie e guarigioni, nascite e morti - richiamano il fedele al cospetto divino e propongono sempre nuove occorrenze di preghiera 118. Anche la lettura dei testi religiosi rientra nell’esercizio quotidiano che il devoto deve compiere. La lettura del libro religioso è difatti la lectio per eccellenza perché impartisce una condotta morale prendendo a modello la Sacra Scrittura, parola di Dio rivelata a nutrimento dell’anima, e a cui ci si accosta con umiltà, semplicità e fede, e con doverosa riverenza verso il riposto senso «accomodatizio» per cui le parole della Sacra Scrittura si adattano a rappresentare un significato e un valore mistico 119. Il libro religioso viene considerato da Sarnelli al pari della preghiera meditativa circa gli effetti positivi che se ne possono dedurre con la sola lettura o con l’ascolto, e se chi vi si accosta non lo fa con intenti superstiziosi, ma per ricevere un aiuto ai travagli dell’anima: _______________ 117 - P. SARNELLI, Come s'intenda... cit., p. 20. 118 - Cfr. R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera... cit., pp. 38-41. 119 - P. SARNELLI, Che gli scolastici disprezzar non debbano l'Ecclesiastica, semplicità, né far degl’Intendenti, dove la capacità loro non giunge ancora, in ID.,: Lettere ecclesiastiche... Tomo terzo cit., pp. 30-32. 344 un’esortazione spirituale, un ausilio, dunque, per purificare la coscienza dinanzi a Dio. Nella tradizione cristiana ne sono stati esempi Daniele Stilita, Uberto vescovo lodiense, Eriberto, Agostino, Antonio abate, di cui è noto che «con osservare entrando in chiesa le parole che allora si cantano o leggono [ ... ] habbiano mutato vita e siansi dati a Dio da cui credettero esser chiamati». E Nero, il discepolo di san Filippo Neri, racconta del santo che «conosceva la coscienza delle persone,perché più volte havendomi fatto aprire un libro mi faceva legger sempre quelle cose che più mi travagliavano la coscienza, e dopo d’haver io letto, mi diceva, guardandomi fisso e sorridendo: Che ne dici tu di questo libro? ed io gli rispondeva: Padre, sento che dice il vero». Sant’Ignazio di Loyola soleva fare lo stesso con il De imitazione Christi di Tommaso da Kempis e insegnava ai suoi adepti a utilizzare i libri per ricavarne una massima morale e una consolazione dalle insidie della tentazione120. Pertanto il fedele deve evitare la lettura dei libri profani, dei romanzi di cavalleria, dei libri osceni che parlano d’amore e di intrighi e che riferiscono i colloqui e gli incontri degli amanti, delle storie fantastiche di incantesimi meravigliosi e di astrologi e indovini e streghe ammallianti, che allontanano l’anima dalla contemplazione delle cose spirituali, ingannandola e facendola preda dei demoni, corrompendola irremediabilmente - santa Teresa confessò che la lettura dei libri di cavalleria le aveva «rilassato l’animo alquanto dal fervore delle cose spirituali» -, così come avviene assistendo alle commedie profane che «appartengono alle pompe di Satana [ ... ] commuovono cattivi effetti e cupidiggie [ ... ] estinguono il senso della pietà e dissolvono i nervi della virtù [ ... ] rendono molli a’ profani amori ed a’ piaceri […] sono occasione di peccato e incitamento alla libidine [ ... ]»121. Il libro religioso può diventare oggetto di consolazione e soccorso alle personali esigenze del fedele, perché fornisce le risposte ai bisogni dell’anima, anche «aprendolo a caso» e applicando al problema la _______________ 120 - P. SARNELLI, Se sia lecito aprire a sorte i libri che trattano le materie spirituali per applicare alla sua spirituale necessità la sentenza che s'incontra, in Id., Lettere ecclesiastiche.... Tomo seco ndo.- Venezia 1716, pp. 8-13 in particol. 12. 121 - P. SARNELLI, Del danno de' libri osceni e del pericolo della lezione de' libri amatorii e delle comedie profane. Lettera II, in ID., Lettere ecclesiastiche ... Tomo sesto Venezia 1716, pp. 4-7 in particol. 4 e 6. 345 «sentenza» che è stata così individuata. Questa sentenza entra poi in rapporto con le diverse circostanze della vita e costituisce per il fedele una forma di devota e profonda meditazione122 . E’ questo il tema di una lettera di Sarnelli in cui il suo interlocutore chiede se sia lecito o meno utilizzare per scopi divinatori il libro spirituale. Il nostro autore risponde premettendo che sull’argomento se ne potrebbe fare un vero e proprio trattato e introduce il suo discorso distinguendo tre tipi di sorte: la divinatoria, la divisoria o elettiva e la consultorial23. La sorte divinatoria è quella per cui si pretende di poter prevedere il futuro e può essere condotta «divinitamente, cioè con indebita usurpazione della cognizione divina» - aspetto che ha in sé il peccato della superstizione e quello del sortilegio -, oppure «non divinitamente, ma chiedendo a Dio e dalla rivelazione di lui ciocché debba accadere [ ... ] Questo però nella legge della grazia non è lecito [ ... ] non havendo le sorti divinatorie altro fine che la curiosità sono un tentar Dio e perciò vi s’ingeriscono i demonj»124. La sorte divisoria «è quella per cui le cose che sono a la rinfusa, si dividono». E’ lecita se si verificano quattro circostanze: l’evento della sorte deve essere atteso da Dio e non dal demonio, dalle stelle, dal fato o dalla fortuna; la richiesta deve essere fatta a Dio «con animo semplice e colla dovuta riverenza» senza l’aggiunta di forme superstiziose o l’abuso delle cose sacre e della Sacra Scrittura; coloro per i quali si cercano le sorti devono avere «ugual ragione o degni di pena uguale»; la sorte non deve essere cercata per risolvere discordie ecclesiastiche, come possono invece fare i laici125. La sorte consultiva risolve dubbi e casi ambigui, fungendo da consiglio. Essa è quella verso cui sembra propendere Sarnelli, consigliandola come migliore approccio alla lettura religiosa e come idoneo accompagnamento alla preghiera: difatti in questo caso la ricerca è ammessa perché non è richiesta per conoscere il futuro, ma soltanto per «togliere le dubbiezze che per lo più occorrono nel progresso dell’humana vita» ricorrendo all’aiuto divino. Due condizioni la ren_______________ 122 - Cfr. R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera ... cit., pp. 120-121. 123 - P. SARNELLI, Se sia lecito aprire a sorte i libri ... cit. 124 - Ivi, p. 8. 125 - Ivi, p. 9. 346 dono lecita: «che ciò si faccia colla debita riverenza, spargendone prima a Dio fervorose preghiere; la seconda, non farlo se non per grave necessità e per prender consiglio in qualche negozio spirituale», come insegna Agostino l26. Vita e opere di Pompeo Sarnelli La biografia di Sarnelli, le sue esperienze di intellettuale e uomo di Chiesa aiutano a mettere in luce la spiritualità e la pastoralità delle Lettere, a comprendere il significato della devozione verso cui il vescovo indirizza i fedeli127. Pompeo Sarnelli nasce a Polignano, il 16 gennaio del 1649 e muore a Bisceglie nel 1724. All’età di sette anni riceve la tonsura e a quattordici si trasferisce a Napoli al fine di perfezionarsi nelle lettere. Nella Regia Università segue legge dal celebre Francesco Verde, futuro vescovo di Vico Equense, e nel Collegio di S. Tommaso d’Aquino apprende teologia dal cardinale Tommaso Maria Ferrari, allora lettore presso il Collegio. Scrive il Poema di S. Anna che pubblicherà a Napoli presso Girolamo Fasulo nel 1668. Dopo essere stato promosso ai sacri ordini e al sacerdozio fa stampare il Filo di Arianna, commentari intorno a un epigramma che si legge nel chiostro di San Domenico Maggiore in Napoli (Fusco, Napoli, Luc’Antonio 1672). A Roma pubblica l'Alfabeto Greco (Mascardi, 1675) e a Napoli la Parafrasi elegiaca de' Sette Salmi Penitenziali (Girolamo Fasulo, 1675). Da Clemente X viene eletto nel 1675 protonotario onorario. Con il nome di Salomone Lipper scrive il Diario Napoletano e il Donato _______________ 126 - Ivi, p. 10. 127 - Su Pompeo Sarnelli cfr. G. GIMMA, Elogi accademici della Società degli Spensierati di Rossano, vol. 1, Napoli, Carlo Troise stamp. accademico, 1703, pp. 283-303; G. MORONI, Dizionario di erudizione storico ecclesiastico da san Pietro ai nostri giorni, Venezia, 1840, vol. 61-62, pp. 197-198; L. VOLPICELLA, Bibliografia storica della provincia di Terra di Bari, Napoli, 1884, pp. 287-289; C. VILLANI, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni, contemporanei, Trani, 1904, pp. 955-958; LETTERATURA italiana. Gli Autori. Dizionario bio-bibliografico e Indici, Torino, 1991, voll. 2, ad vocem. 347 distrutto rinovato (Napoli, Novello de Bonis, 1675; ristampato da Antonio Bulifon a Napoli nel 1690). Onorato nell’anno seguente dalla corte arcivescovile del privilegio di «Napoletano» scrive, con lo pseudonimo di Masillo Reppone, gli Avvenimenti di Fortunato e de' suoi figli. Istoria Comica tradotta ed illustrata (Napoli, Antonio Bulifon, 1676 e Riccaldini, Bologna 1681); stampa l'Ordinario gramaticale (Bulifon, Napoli 1677) e fa pubblicare il Quadresimale di Giovan Nicolò Bodoni (Vita del P. D. Giovan Nicolò Bodoni Barnabita premessa al Quadresimale dello stesso, Napoli, Giacinto Passari, 1677), traduce e dà alle stampe la Natural Magia di Della Porta e la Chirofisonomia contro i chiromanti (Napoli, Bulifon, 1677) 128; scrive Specchio del clero secolare in tre tomi, in cui pubblica anche Vita e martirio di Vito santissimo fanciullo e de' suoi educatori Modesto e Crescenza (Napoli, Antonio Bulifon, 1678). Nel 1679 Vincenzo Maria Orsini, futuro Benedetto XIII, lo chiama come segretario a Manfredonia, dove nel. 1680 Sarnelli pubblica la Cronologia degli arcivescovi sipontini, più volte commentata da Monsignor Marcello Cavalieri. Viene trasferito nel 1680 alla chiesa di Cesena, prende la laurea in teologia a Roma e quella in giurisprudenza a Cesena dove viene eletto abate di S. Omobuono e dove esercita la carica di vicario generale nominato da Orsini. Scrive il Bestiarum Schola (Cesena, Petrum Paulum Receptum, 1680; poi ripubblicato corne Scuola dell'Anima, Riceputi, Cesena 1682) e nel 1685 il Ritratto di S. Pompeo (Cesena 1682). Ancora con lo pseudonimo di Masillo Reppone scrive la Posillicheata (Napoli, Giuseppe Roselli, 1684)129, le Frasi (ms.)e i Comentarj intorno al rito della S. Messa (Venezia, Poletti, 1684) che furono proposti da Orsini, nel primo concilio provinciale di Benevento, a uso dei preti nel decreto che sanciva l’osservanza del sacrificio della messa e del Messale Romano. Scrive la Guida de' forestieri per Napoli e per Pozzuoli (Napoli, Napoli 1685) . Nel marzo del 1686 prende possesso della chiesa di Benevento a nome del cardinale Orsini eletto arcivescovo di quella metropoli, e viene nominato _______________ 128 - G. DELLA PORTA, Della magia naturale, Milano, 1970, ristampa anastatica a cura di M. Gliozzi della traduzione di P. Sarnelli. 129 - Posilicheata, MDCLXXXIV. Ristampa di CCL esemplari curata da Vittorio Imbriani, Napoli, D. Morano, 1885; Posilecheata, a cura di Enrico Malato, Roma, 1986 (Collana di testi dialettali napoletani, 7). 348 auditore generale. Scrive l'Antica Basilicografia (Napoli, Bulifon, 1686). Viene poi nominato abate di S. Spirito, di cui scrive le Memorie (Napoli, Roselli, 1688), seguite dal trattato della vita clericale (Il Clero secolare nel suo splendore, overo Della vita comune Chericale, Roma, Stamp. della Cam. Apostol., 1688). Dopo la morte di Innocenzo XI viene eletto conclavita sempre da Orsini, poi con il titolo di «Patrizio Beneventano», con il privilegio dell’uso dei pontificali nella città e diocesi di Benevento, viene nominato, ancora da Orsini, abate della stessa città. Scrive le Memorie Cronologiche de' Vescovi ed Arcivescovi della Santa Chiesa di Benevento (Benevento, Roselli, 1691)130. Nell’ottobre del 1691 da Innocenzo XII viene nominato vescovo di Bisceglie dove il 25 maggio del 1692 fa il suo ingresso avviando subito il primo sinodo e dando istruzioni per celebrarlo annualmente131; successivamente stabilisce le «Regole» del Sacro Monte della Pietà e delle Confraternite del SS. Corpo di Cristo e dei Santi Martiri Padroni e crea la Congregazione dei Casi e dei Riti, esercitando il suo ministero nella chiesa collegiata di S. Matteo e in S. Maria Incoronata dei Romitani di S. Agostino, oltre che in quelle di S. Domenico, S. Francesco e dei due monasteri delle monache della S. Croce e di S. Luigi. Scrive le Memorie de' Vescovi di Bisceglie e della stessa Città (Roselli, Napoli 1693) 132 , L'Arca del Testamento in Bisceglia. Istoria de' SS. martiri Mauro Vescovo, Pantaleone e Sergio (Venezia, Andrea Poletti, 1694), la Regola di S. Chiara (Benevento, 1694)133. Partecipa, inviato da Orsini e con diritto di voto, ai concili provinciali di Benevento, dove, nel 1698, declama il Fico Mistico, discorso per la traslazione del corpo di san Bartolomeo (Benevento, 1698). L’amicizia con Orsini costituisce un aspetto determinante della sua vita di ecclesiastico: Gimma riferisce negli Elogj che da lui Sarnelli apprende la dottrina, lo spirito e la maniera del predicare, perfezionan_______________ 130 - Ristampate in facs. da Forni, Sala Bolognese, 1976. 131 - Cfr. Diocesanae Costitut. Synodal S. Vigiliensis Ecclesiae Pompejo Sarnellio Episcopo editae in Synodis celebratis diebus 28 et 29 Junij, annis 1692, 1693, 1694, Beneventi, in Typograph. Archepis., 1694. 132 - Ora ristampate, in facs., con presentazione di G. Spizzico, Milano, Cortese, 1983. 133 – L’elenco delle opere di Sarnelli in G. GIMMA, op. cit., pp. 301-303, cui va aggiunto Lume a' principianti... cit. 349 dosi nelle sacre dottrine. Con Orsini Sarnelli condivide un’idea di pastoralità che muove dalla amara consapevolezza della scarsa sensibilità etica e della diffusa ignoranza del clero e del popolo meridionali, per promuovere un profondo e radicale rinnovamento moralizzatore. Un percorso che si individua significativamente nelle esperienze di Orsini, di Giuseppe Crispino e di Alfonso de’ Liguori134 e che, per quel che riguarda Sarnelli, può essere esemplificato dalle parole di Gimma quando, a proposito dell’attività di Sarnelli vescovo, ci informa che «si adoperò tosto a non permettere che alcuno deviasse dalla buona strada e non attendesse a coltivar la sacra dottrina e che mancasse al suo gregge quel che appartiene al profitto ed accrescimento della vera Fede. Sono pur questi i due uficj richiesti in ogni buon Prelato poiché a loro non solo è necessaria la scienza per poter ben istruire, ma la cura e vigilanza colle quali debbono a guisa d’industriosi cacciatori acquistar l’anima a Cristo»135. Le stesse opinioni di Sarnelli circa il «gregge» da governare e la diocesi da amministrare e guidare, confermano l’idea che il vescovado di Bisceglie viene assunto con un profondo senso di responsabilità e di servizio alla causa della Chiesa che già si era rivelato in tutta la sua maturità e consapevolezza negli scritti dati alle stampe nonché nelle Lettere ecclesiastiche dove, si è visto, sono numerose e dettagliate le istruzioni sulla vita clericale, sui modi di impartire i sacramenti e sulla costanza nel predicare, insieme con i precisi suggerimenti che vengono forniti nella gestione delle quotidiane abitudini, dall’abbigliamento alle consuetudini alimentari, accanto alle puntuali spiegazioni teologiche. Sono norme che non vanno a costituire un patrimonio esteriore di comportamenti, ma che invece vanno a far parte di una più alta profonda idea di cultura del clero da indottrinare, responsabile di una riforma che partendo dalle basi dell’istituzione deve coinvolgere la popolazione laica guidandola alla devozione di Cristo, della Vergine e dei santi secondo i canoni conciliari tridentini. _______________ 134 - Cfr. DE ROSA, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno cit.; in particolare su Crispino cfr. ID., Giuseppe Crispino e la trattatistica sul Buon Vescovo, pp. - ; 103-143; e anche ID., Vescovi, popolo e magia nel sud cit.; su Vincenzo Maria Orsini cfr. A. DE SPIRITO, Personalità e stile di vita di Benedetto XIII vescovo e papa meridionale, in “CAMPANIA SACRA”, Napoli, 21 (1990), pp. 205-279. 135 - G. GIMMA, op. cit., p. 295. 350 Nella lettera a Forniceto Carini l’argomento trattato - ossia l’opinione che i vescovi devono avere dei sacerdoti - tocca da vicino un aspetto importante del rapporto che il vescovo deve instaurare con il suo clero, investito di una responsabilità che non è quindi un’aderenza formale, ma che comprende un’idea di riforma intesa come vincolo morale per il rinnovamento dell’istituzione, e che pertanto necessita anche dell’umiltà e del rispetto da parte dei vertici della Chiesa. Richiamandosi alle indispensabili «virtù», alla «dottrina», alla «bontà» e al «sapere» dei sacerdoti che i prelati sono tenuti a trattare non come «vassalli», ma come «Consacerdoti», Sarnelli afferma che «nella Chericale milizia non la nobiltà del sangue ma quella dell’animo è tenuta in gran pregio [ ... ] qual nobiltà di sangue può mai paragonarsi colla nobiltà del grado Sacerdotale a cui asceso tanto il nobile quanto l’umile di natali, perché sollevati ad una dignità ogni umana grandezza eccedente, amenduni sono uguali. Aggiungete poscia al grado sacerdotale la virtù e la dottrina proprie di quello stato, eccovi costruito un uomo tanto più nobile di chi non ha altra nobiltà che quella del nascimento» 136. A Bisceglie si impegna nell’abbellimento della basilica, del palazzo vescovile, della cattedrale e nella fondazione di un cimitero presso la chiesa del Purgatorio, oltre che accrescere la mensa vescovile. In proposito, a coronare la sua azione pastorale, la sua solerzia in sermoni e omelie, la difesa dei beni diocesani dalla dissipazione dei «parassiti» a favore del «gregge», cediamo in ultimo la parola a un suo contemporaneo, ancora Forniceto Carini, che elogia lo «zelo» moderato e prudente di Sarnelli, in conformità alle norme tridentine, somma virtù del «pastore» «costretto a calar giù per satollare i corpi de’ lupi, i quali sbucando a torme da’ vicini paesi haverebber divorato in un tratto il patrimonio de’ poveri»137: _______________ 136 - Di Pompeo Sarnelli ora Vescovo di Bisceglia a Forniceto Carini che i Preti debbono essere tenuti in gran pregio da' Vescovi, in A. BULIFON, Lettere memorabili, storiche, politiche ed erudite, vol. primo, Pozzoli, A. Bulifon, 1698, pp. 217-228 in particol. 220. 137 - Di Forniceto Carini a Monsignor Pompeo Sarnelli Vescovo di Bisceglia. De' Parassiti, detti in Napoli appoggiatori di Alabarde, in A. BULIFON, Lettere memorabili... cit., terza racco lta, Napoli, 1698, pp. 216-230 in particol. 217, lettera datata Roma, 31 gennaio 1693. 351 «maggior lustro promettesi cotesta nobilissima Città, ove la cura pastorale è tutta vostra, amministrar fin’ora con maraviglia ed invidia de’ vicini e de’ lontani; facendo conoscere essere propria dell’apostolato la mansuetudine: derivar maggior riverenza al Culto divino dalla vostra affabilità che dall’altrui contegno: a costumar gli animi n’uscir di maggior giovamento la clemenza che ‘l rigore; nuocendo talvolta molto più della connivenza la vigilanza smoderata; e che ove richiedesi in mano il flagello, ben sa la vostra prudenza unire alla severità la misericordia, al gastigo la piacevolezza, ricordandovi di esser non percussor, ma pastore: alla cui diligenza e alla cui pietà appartiene di applicare agl’infermi i soavi medicamenti prima di venire a’ rimedi più forti che son riserbati alla gravità del malore ostinato (Concilio Tridentino cap. I, sess. 13 de reform.). Queste virtù tanto maggiormente rilucono quanto minor pompa ne fate; e quanto più v’ingegnate di oscurarle col sentir così bassamente di voi, e delle cose vostre; fra le quali ogni pensiero impiegando a privarvi non pur del convenevole, ma del necessario sostentamento per distribuirlo a’ poveri ed a tutti porgendo con le continue predicazioni ed insegnamenti loro spirituale alimento, cesseran per voi le querele [ ... ]138 ». _______________ All’ammirazione dovuta ai vescovi che lo hanno preceduto, all santità dei martiri venerati nella Cattedrale di Bisceglie, conclude Forniceto Carini, non è, quindi, da meno la pastoralità del vescovo Sarnelli unitamente alla sua cultura e al suo ingegno, essendo egli già autore di una ormai famosa “sacra libraria”. Ringrazio la professoressa Elisa Miranda per l'aiuto e i suggerimenti che mi ha dato durante questo lavoro. _______________ 138 - Di Forniceto Carini... cit., p. 229. 352 Tra cronaca e storia Intervista a Nino Casiglio* di Giuseppe De Matteis Partendo dal suo primo romanzo, Il conservatore, considera quella sua produzione ancora attuale, per i messaggi in essa contenuti? “I miei romanzi sono apparsi tra il ’72 e l’’83. La loro stesura ha dunque un preciso terminus ante quem. Nonostante ogni tentativo di razionalizzare la vita intellettuale, intendendola come un continuum ancorato a valori costanti e precisi, la realtà procede discontinuamente. La “fortuna” pesa più della logica. Quando scrivevo, era possibile ancora aspettarsi la curiosità del nuovo. Non si poteva ancora immaginare una prevalenza dello sforzo di occupazione dello spazio culturale, per cui tendono a sommarsi nella stessa persona il ruolo del critico e quello del narratore, il ruolo del saggista e quello dell’inventore di trame. Il numero delle copie vendute misurava certamente i diritti d’autore, ma non necessariamente la qualità del prodotto. _______________ * All’età di 75 anni, il 16 novembre 1995, si è spento Nino Casiglio, considerato dalla critica italiana uno dei più autorevoli narratori di questi ultimi decenni ed una delle figure più rappresentative della cultura pugliese. Era nato a San Severo il 28 maggio 1921 e lì è sempre vissuto come preside nei licei e come studioso attento e scrupoloso di problemi storici, letterari e filosofici, svolgendo anche un’intensa attività giornalistica (si ricordano i suoi brevi ma pungenti interventi su «Il Rosone», «Il Provinciale», «ll Corriere di S. Severo» e su altri noti settimanali della nostra provincia). Casiglio aveva una formazione di stampo classico: si laureò prima in filosofia a Roma con Pantaleo Carabellese, e successivamente in lettere classiche con Gino Funaioli. Conosceva bene gli autori greci, latini ed italiani; fu anche socio corrispondente della prestigiosa «Accademia Pontaniana» di Napoli. I riconoscimenti della critica non tardarono ad arrivare: nel 1977 vinse il Premio Napoli con il romanzo Acqua e sale (Milano. Rusconi) e, nel 1980, il Premio Scanno con La strada francesca (ivi). 355 C’è una distanza di lustri, che pesano però come secoli. L’editoria ha puntato nettamente sul best-seller. Nessuno dice più: - Per te ti ciba. - La regola è di portare per mano il pubblico dei lettori. Metà accetta per ignoranza ed ignavia; metà per interesse a stare al gioco. Il risultato è che si scrive, si stampa, si legge, si recensisce e si conversa in base ad un solo sottinteso: che i libri non debbano modificare alcun comportamento e che debbano anzi aiutare a restare uguali a sé stessi. Eco insegna: la moltiplicazione dei significati esclude il significato. E una strana applicazione alla cultura del principio secondo cui bisogna che tutto cambi perché nulla cambi. Quando ho cominciato a scrivere, vivevano ancora Gadda e Silone: presenze per nulla opprimenti o costrittive. Non sono cose di altro secolo? E vengo a Il conservatore. Quando lo scrissi, mi pareva di cogliere una piega degli eventi che ho sintetizzato dicendo che il mio protagonista era morto in tempo: perché tutte le tautologie tautologizzassero in pace. Non mi pare che gli eventi mi abbiano dato torto. E mi riferisco al fat che la crisi delle ideologie e il crollo del socialismo reale, invece di avere conseguenze liberatrici, stanno in realtà coltivando la moltiplicazione delle micro-ideologie e delle piccole tirannidi personali. Ma chi è disposto oggi a discutere di questo? Basta sfogliare i giornali per accorgersi che è sistematicamente evitata la discussione ampia delle questioni di importanza comune (la storia del “mattarello” e del “tatarello” insegna), e sono invece dilatate in nome dell’attualità questioni fasulle ed opinioni fasulle di gente fasulla gabellata per portatrice di autorevoli pensamenti. Le tautologie tautologizzano in pace. Né sono dell’idea che i valori estetici possano essere seriamente intesi come valori chiusi e indipendenti dal flusso vitale. Si può seriamente credere che il Gogol de L'Ispettore Generale non abbia relazione alcuna con la successiva storia russa, con lo stacanovismo o con le vicende tortuose del Bolscioi? E Papà Goriot è solo un caso remotamente possibile di rapporto tra padri e figli? E Madame Bovary è forse solo l’ombra di Flaubert? E Bouvard e Pecuchet non hanno nulla da suggerire ai gestori delle rubriche “Cultura e spettacoli”? Del protagonista de Il conservatore qualcuno si è chiesto fino a che punto ne condividessi limiti ed esitazioni. Il problema mi sembra mal posto. L’importante è che quando il mio personaggio muore è ben chiaro che non c’è posto per lui nel mondo in cui vive. Come per Socrate, per lasciar stare Cristo. E’ questo il punto. Il mondo difficilmente rifiuta i difetti, ma è implacabile nel rifiutare le virtù. Il che 356 aiuta a farsi un’idea delle qualità di coloro che meglio e più a lungo sono bene accolti e galleggiano. La mente corre alla sconfitta dell’individuo, ma le sfugge che a volte questa è il segno di una sconfitta più grande, della sconfitta del suo ambiente. Dicendo questo, non ho inteso introdurre alcuna graduatoria di valori estetici, in cui inserire il mio “ritratto di borghese”. Ho solo parlato per il diritto che mi viene dall’aver scritto solo perché mi pareva di avere qualcosa da dire. Durante tutta la sua carriera letteraria lei ha scritto, intercalandoli ai romanzi, diversi racconti: cosa significa per lei adoperare tale forma di narrazione? E’ un modo per potersi “rivelare” in maniera più aperta ai lettori, descrivendo ricordi d'infanzia (come ne La signorina, La ragazza di Via dei Ciliegi, Le nuvole etc.) o una strada alternativa per fornire ulteriori messaggi, magari sperimentando l'uso del “flusso di coscienza” o del “monologo interiore” (come ne La conoscenza di terzo genere)? Se dovessi dare una giustificazione semplice dei racconti, direi che i racconti brevi sono in genere anteriori a Il conservatore e sono stati per me il primo esercizio narrativo, in direzioni diverse, intimista e sperimentale. Ma la definizione di “racconti di scuola” si rivela inadeguata. L’autobiografia? Ma io sono stato sempre lontanissimo dal cullare e rimasticare gli eventi della mia esistenza. Quel che conta non è l’autobiografismo, ma la selezione di alcune esperienze personali e il rifiuto di molte altre. M’importava l’infanzia come processo di scoperta in condizioni difficili, non la “mia” infanzia in sé stessa. Se avessi pensato che certe cose accadevano solo a me, avrei evitato di scriverne. Alla selezione delle esperienze si accompagna anche la loro censura. E forse il tentativo di abbandonarmi al flusso di coscienza è stato un modo per sfuggire all’autocensura. Un modo insoddisfacente, devo dire, né sono ancora riuscito a superare integralmente questo che considero il mio principale limite di scrittore, non riuscire a dire “tutto”. Mi sorregge tuttavia la convinzione che l’esibizione di sé di alcuni scrittori non è che autocensura rovesciata. La selezione resta condizione essenziale del processo espressivo. Occorre che non si trasformi in autocensura. Ma il rischio è inevitabile. Quanto alla dimensione del racconto, che oscilla tra limiti amplis357 simi, dalle poche pagine al romanzo-fiume, sono convinto che non il genere governa la materia narrativa, ma quest’ultima determina l’estensione. Questo, ovviamente, in condizioni fisiologiche, non cioè nel caso che la dimensione venga predeterminata a freddo. Qual è il rapporto con le tradizioni della sua terra? In Acqua e sale sembrava voler riportare il lettore ad un mondo forse più semplice, fatto di gioie più umili (pur se in un contesto “malato”, quale quello dell'Italia pre e post-bellica), mentre in racconti quali Vergi- nità o La promessa, con approcci diversi, manifestava un profondo spirito polemico nei confronti di certe “abitudini”, legate ad una concezione molto antiquata della relazione tra uomo e donna. Non ho mai pensato che la civiltà contadina, dalla quale pure sento di provenire, fosse un bene da conservare sotto vetro. Aveva aspetti di crudeltà, grossolanità e iniquità non accettabili. Ma aveva certamente anche aspetti di straordinaria positività: il senso del lavoro, per esempio, e il rifiuto dei fannulloni, poveri o ricchi che fossero. Il ricco improduttivo era disprezzato non meno della così detta “falce stagliata”, del disoccupato per vocazione. E poiché il problema del mutamento sociale è sempre problema di dosaggio del mutamento e non di pura sostituzione di nuovi contesti ai vecchi contesti comportamentali, non la fine della civiltà contadina mi ha turbato, ma la fine delle innegabili virtù contadine. La sostituzione della nozione di “occupato” a quella di lavoratore è una falsificazione orribile della dignità umana: tutti ugualmente produttivi, se occupati, e improduttivi solo se disoccupati. E i medici, i professori? Tutti ugualmente bravi, una volta in cattedra o al capezzale del malato. La civiltà contadina avrebbe dovuto cedere il posto ad una civiltà diversa, in cui tuttavia pur sempre la produttività distinguesse i soggetti e rendesse possibile una democrazia di produttori, un governo di anziani nella grande tribù. Ma quando l’occupato ha sostituito il lavoratore produttivo e la promozione culturale ha coinciso col possesso del “pezzo di carta”, la finzione ha preso il sopravvento sulla cruda verità propria della civiltà contadina. Di qui la riduzione della politica e della cultura a puro spettacolo; la riduzione dell’esistenza stessa a spettacolo, compatibile con la persistenza proprio di quegli aspetti rozzi della civiltà contadina che più meritavano di essere cancellati. L’uso dell’automobile con la medesima mentalità 358 con cui un tempo si parcheggiava a stanghe alzate il carro agricolo accanto all’uscio di casa è l’orripilante segno di qualcosa che ha cessato di essere civiltà contadina ed ha perso l’occasione di diventare civiltà senza aggettivi. Dicendo questo, credo di aver spiegato come la mia attenzione si sia concentrata di volta in volta sulla ristrettezza morale di certi aspetti della civiltà contadina (un’espressione, se vogliamo, alquanto generica, che andrebbe meglio determinata) e sul carattere, prevalentemente politico, del suo distorto processo di trasformazione. La politica dovrebbe essere appunto la predisposizione di corrette condizioni generali di mutamento dei comportamenti. Che cosa sia stata invece è a tutti evidente: un gigantesco sforzo per accaparrare rendite di posizione e per indirizzare ogni più modesto miglioramento del generale tenor di vita all’alimentazione di queste rendite differenziali: gabellate per democrazia ed apertura sociale. Lei sembra molto interessato ai modi di dire ed ai proverbi della nostra regione (ne La strada francesca e, meno, ne La dama forestiera ne riferisce diversi): il suo è un impegno che si risolverà in un lavoro saggistico o è una pura e semplice curiosità? Posso escludere in me ogni curiosità di tipo folcloristico. Implicherebbe ricerche sistematiche, da cui mi sento lontanissimo. Ricorrere a detti popolari e dialettali e italianizzarli è per me un’operazione del tutto spontanea ed empirica. Non credo che il meglio sia in questa tradizione, ma che il buono sia anche in questa tradizione. Ho notato che la maggior parte dei detti dialettali trova il suo corrispettivo nel lessico italiano, magari in quello che si definisce antiquato in confronto con l’uso corrente. D’altronde l’attuale linguaggio corrente (per intenderci, quello dei dibattiti televisivi) si presenta così arido, povero, presuntuoso e sostanzialmente meschino, che si avverte il bisogno di utilizzare linguaggi umanamente più vitali. Allargare l’uso del lessico verso l’antiquato e il dialettale è una forma di difesa, una necessità. Immagino Policarpo Petrocchi a rifare oggi il suo dizionario, alle prese col dosaggio dell’uso vivo. Resto dell’idea che il tratto più serio del carattere di D’Annunzio fosse nell’abitudine, apparentemente esibizionistica, di viaggiare accompagnato dal Tommaseo-Bellini in apposita valigetta. Queste note si collegano strettamente al successivo punto 6. 359 Il filo conduttore che potrebbe unire quasi tutti i racconti de La chiave smarrita sembra essere l'apparenza, l'ambiguità del mondo, l'inconoscibilità della realtà nella quale viviamo: crede accettabile tale interpretazione? La verità è che La chiave smarrita raccoglie racconti composti in tempi diversi ed uniti soltanto dalla dimensione, media o corta. Già stampati quasi tutti isolatamente, se raccolti in volume correvano meno il rischio di andare dispersi. I miei quattro romanzi, sì, sono nati da alcune mie certezze. Non dico che fossero certezze matematiche. Ma un mondo che espunge il mio “conservatore”, delude il mio “contadino”, conserva sotto l’apparente scintillìo delle novità modi degni del barocco peggiore, travisa con straordinaria concordia l’idea generosa della mia “dama forestiera”; un mondo così fatto è, almeno per me, evidentemente e sicuramente discutibile. Ma non tutto il mondo ha lo stesso grado di certezza. E che si proceda attraverso approssimazioni e mezze verità è stato riconosciuto da filosofi eminenti. Può un narratore partire da un’ipotesi che non sia quella di un mondo sfuggente ed instabile? Anche le certezze di Manzoni si fermavano dinanzi al, guazzabuglio del cuore umano. Più di quanto non sia stato notato, lei è interessatissimo al linguaggio, alle sue molteplici valenze (culturali, foniche, suggestive, etc .... ). Può approfondire, con riferimento specifico ai romanzi e a qualche racconto, tale aspetto? Odio la pagina “ricca” e tendo a quella normalizzata. Mi spiego in questo modo l’insufficiente attenzione dedicata alla struttura linguistica di quanto ho scritto. Eppure ho sentito un critico, che va per la maggiore e che tuttavia non mi è simpatico, dire di me (non scrivere) che nei miei libri c’è sempre la “pagina”, anche se non la trama. Infatti nessuno dei miei libri ha un intreccio romanzesco, ma presenta piuttosto sequenze di eventi. Se dunque per ricerca linguistica si intende quel certo lambiccamento espressivo che distingue alcuni nostri contemporanei molto apprezzati (ed escludo dai cultori della pagina scoppiettante proprio Gadda, per il quale sarebbe da fare tutt’altro discorso), niente è più lontano da me della ricerca linguistica, un’espressione che da sola mi fa uscire dai gangheri. Ma se per ricerca linguistica 360 Marmi e alabastri del Gargano di Giuseppe Soccio Il 14 dicembre 1867 a Firenze, con atto stipulato dal notaio Giuseppe Salucci della Vipera, un “comitato promotore”, composto dal cav. Sebastiano Fenzi, dall’ing. Ulisse Guarducci, dall’avv. Giovanni Piceni, dall’ing. Carlo Giaconi, dall’ing. Gio. Carlo Landi e dal cav. Giuseppe Bava, pone le basi giuridico-amministrative per la formazione di una “Società per l’acquisto, estrazione, lavorazione e vendita di marmi e alabastri esistenti nei monti della Capitanata e [che] sarà denominata Società Anonima Gargano”. Scopi, strutture e mezzi di tale società sono ampiamente descritti in un opuscolo a stampa a cura dello stesso comitato promotore1, il quale si era costituito proprio per lo stupore suscitato dalla notizia che “una collezione di marmi, alabastri e stalattiti provenienti del Gargano” era stata spedita “dalla R. Società Economica e Camera di Commercio alla Esposizione universale di Parigi”. Per di più questi campioni “fornirono materia a profondi e accurati studi geologici, [ancora] inediti2 del chiarissimo Professore Leopoldo Pilla”. L’autorevolezza _______________ 1 - Questo il titolo completo dell’opuscolo: Il Gargano. Illustrazione geologica dei preziosi marmi ed alabastri garganici del chiarissimo professore Leopoldo Pilla tratta dagli autografi che servì di base al rapporto topografico statistico dell’ing. F. Paltrinieri presentato al comitato fondatore della società anonima per l’esportazione dei marmi ed alabastri suddetti e progetto di statuto sociale, Firenze, 1867, pp. 68 e 3 tav. f.t. Cfr. anche M. PESCATORE, Il Tavoliere di Puglia e il Gargano, Cerignola, 1898, p. 38, che indica nell’avvocato Luigi Manzini il principale protagonista dell’iniziativa. 2 - In realtà le relazioni di Pilla erano già state pubblicate. Cfr. “GIORNALE DEGLI ATTI DELLA REALE SOCIETA’ ECONOMICA DI CAPITANATA”, VOl. V, Napoli, 1839-1840, pp. 92-109. Il rapporto del 20 gennaio verrà pubblicato anche negli “ANNALI CIVILI”, Napoli, fascicolo XLIII, vol. XXII. 369 dell’illustre geologo3 contribuì ulteriormente a spingere verso la formazione di una “società promotrice” che “si pose in relazione con persone cospicue ed influenti della provincia, dalle quali, oltre alle più minute e preziose informazioni sull’argomento, potè attingere la sicurezza che l’intrapresa desiderata, sospirata anzi da quelle popolazioni, come la sorgente della futura loro prosperità, otterrebbe efficacissimo e numeroso concorso anche dai capitalisti locali” 4. Sempre tale società promotrice, quindi, “spediva persona dell’arte la quale in appoggio ad altri suoi colleghi di Foggia improntasse un rapporto dettagliato delle cave illustrate geologicamente dal Pilla. Nel frattempo che si stava compilando il rapporto di cui sopra, la società promotrice stessa gettava le basi di un progetto di statuto sociale”. La persona di fiducia della società che eseguirà i rilevamenti topografici e statistici è l’ing. Filippo Paltrinieri, il quale curerà anche un cospicuo corredo di note alle relazioni del geologo Pilla. Quanto finora esposto, unitamente a lettere e documenti dei sindaci di San Marco in Lamis e di Apricena ed alla riproduzione dei rapporti del Pilla, è sostanzialmente il contenuto dell’opuscolo cui abbiamo fatto riferimento: vediamo ora come era nata questa speranza di sviluppo economico, già coltivata da Francesco Della Martora e non adeguatamente incoraggiata dalle poco paterne disposizioni del governo borbonico” che vedeva di mal’occhio qualunque impresa avesse per base il principio di associazione”. _______________ 3 - Leopoldo Pilla nacque a Venafro il 20 ottobre 1805. Studiò a Napoli e si affermò prestissimo quale valente scienziato, riuscendo a diventare Conservatore del Museo di Scienze Naturali di quella città. Scrisse moltissimo sul Vesuvio e fu chiamato dal Gran Duca di Toscana a svolgere l’attività di professore di geologia e mineralogia a Pisa, dove diresse anche il Museo Mineralogico. L’Istituto di Francia lo annovera tra le “memorie dei dotti stranieri”. Partecipò alle lotte risorgimentali e trovò la morte, alla testa di un drappello di studenti, nella battaglia di Curtatone il 29 maggio 1848. Le notizie, riprese dalla NUOVA ENCICLOPEDIA ITALIANA, Torino, 1863, p. 373, sono riportate anche nell’opuscolo Il Gargano. Illustrazione geologica... cit., pp. 8-9. tali e trovò la morte, alla testa di un drappello di studenti, nella battaglia di Curtatone il 29 maggio 1848. Le notizie, riprese dalla NUOVA ENCICLOPEDIA ITALIANA, Torino, 1863, p. 373, sono riportate anche nell’opuscolo Il Gargano. Illustrazione geologica... cit., pp. 8-9. 4 - Il Gargano. Illustrazione geologica... cit., pp. 4-5. 5 - IB. 370 Tutto inizia con la passione e la testarda determinazione di un medico di San Marco in Lamis: Leonardo Cera6. Egli, infatti, si diede ad investigare il territorio garganico alla ricerca di luoghi da cui cavare marmi e alabastri e raccolse quei campioni che saranno poi spediti alla Esposizione Universale di Parigi, oltre che a mostre che si tennero a Napoli7. Per verificare la consistenza delle scoperte del Cera, con R. Rescritto 17 luglio 1839 veniva inviato in Capitanata il professor Leopoldo Pilla, che compilò due rapporti, rispettivamente in data 8 gennaio 1840 e 20 gennaio 1840, diretti al Ministro Segretario di Stato degli Affari Interni Nicola Santangelo, e una relazione diretta all’Intendente _______________ 6 - Leonardo Cera nacque a San Marco in Lamis il 25 maggio 1781. A soli 23 anni “fu laureato Protomedico nella R. Università di Napoli”. Esercitò per breve tempo la professione di medico, poiché la sua vera passione erano gli studi geologici che lo portarono a scandagliare il territorio garganico alla ricerca di giacimenti di marmi ed alabastri. Le sue scoperte “provocavano il R. Rescritto 17 luglio 1839, che chiamava il Professore di geologia e mineralogia Leopoldo Pilla a verificarle tanto nella quantità, che nella qualità”. Il Gargano. Illustrazione geologica... cit., pp. 9-10. 7 - Cfr., ad esempio, REALE SOCIETA’ ECONOMICA DI CAPITANATA, Foggia, Indicazione de’ prodotti industriali e naturali che d’appresso ai ministeriali provvedimenti del sig. Direttore del Ministero e Real segreteria di Stato dell'Interno si sono raccolti in Capitanata ordinati e spediti dalla Reale Società Economica della Provincia per la solenne mostra industriale che sarà celebrata in Napoli nel 30 maggio 1853, Foggia, 1853, pp. 10-11. Questo l’elenco dei saggi che ci riguarda: “... tre pezzi di Alabastro che s’incontra nelle montagne addomandate Strascino e Meliscio nel tenimento di S. Marco in Lamis - Tre saggi di Marmi fiorati, le cui masse stanno nel luogo detto la Civita - Un pezzo di Breccia mendolata nera, che trovasi a Lamapuzzo - Un pezzo di Rosso ordinario del Calderoso - Un pezzo di Marmo amendolato rosa della località prossima a S. Matteo - Marmo breccia di Francia alle Croci presso S. Marco - Due pezzi di Marmo giallo, ed un altro Travertino della Valle del Volture. Tutti luoghi del suddetto tenimento di S. Marco. Un pezzo di Rosso antico Falde di Montecalvo tra S. Marco e S. Giovanni. Breccia persichina alle falde di Castelpagano in tenimento di Apricena - Bardiglio in S. Giovanni in Piano del tenimento medesimo, due pezzi. Due pezzi lavorati ed uno grezzo di Marmo nero, che sta abbondevolmente alla Torre di Fortore nel tenimento di Lesina; nel qual luogo s’incontra la Lavagna di cui si mandan pure due pezzi. Due tronchi di stalattiti della Grotta di Montenero in tenimento di S. Marco in Lamis”. Più o meno le stesse notizie sono riportate negli “ANNALI CIVILI”, Napoli, vol. L, pp. 33-35, nell’articolo intitolato Della solenne pubblica esposizione di arti e manifatture del 1853. 371 di Capitanata, Gaetano Lotti, datata 29 gennaio 1840 e letta in una tornata straordinaria della Società Economica di Capitanata8. In questa peregrinazione geologica sul Gargano, Leopoldo Pilla è accompagnato dal russo conte Pierre de Tchihatchev che con lui divideva “l’amore passionatissimo per la scienza geologica”9. La prima osservazione, che Pilla registra, è quella sulla composizione delle falde del promontorio che guardano a scirocco, formate da calcare terroso, a grana grossolana: si tratta del tufo che, tagliato in forma di piccoli parallelepipedi, viene adoperato “per uso di costruttura nella maggior parte dei paesi della Daunia”10. Ma ecco, appena inerpicatosi per le balze del Gargano, un vasto altopiano denominato Calderoso, dove il geologo ha la possibilità di ammirare “il più bel marmo brecciato” che avesse visto fino ad allora. E, da questo luogo “furono cavati i marmi brecciati, de’ quali molto uso si fece nell’edificio della Reggia di Caserta, e la cava tuttora esiste e si addimanda la Cava del Re”11. Su questa cava l’ing. Paltrinieri stende una lunga nota, dopo che nella precedente aveva fatto rilevare che i marmi del Calderoso erano stati fatti osservare “dal valoroso artista della capitale di Ricca”12, per spiegarne anche la denominazione. Per la costruzione della vanvitelliana opera fu commissionata all’ing. Giuseppe Canard la scelta dei marmi nel regno e da documenti, “forniti di Chirografo in idioma Spagnuolo di Re Carlo III”, si attingono notizie circa l’impiego di marmi estratti dal giacimento del _______________ 8 - Per completezza di informazione segnaliamo anche un rapporto che lo studioso di Venafro compilò “sul combustibile fossile di Alberona”, contenuto nello stesso numero del “GIORNALE DEGLI ATTI DELLA REALE SOCIETA’ ECONOMICA DI CAPITANATA”, vol. V, Napoli, 1839-1840, pp. 109-111. 9 - Pierre de Tchihatchev, geologo russo, dal viaggio nell’Italia del Sud compiuto nel 1840, come testimonia il Pilla, ha tratto un volumetto scientifico intitolato Coup d’oeil sur la constitution géologique des Provinces méridionales du Royaume de Naples, suivi de quelques notions sur Nice et ses environs, Berlino, 1842. La parte che riguarda il Gargano, in più punti coincidente con le relazioni del Pilla, e non poteva essere diversamente, è stata tradotta da Giovanni Dotoli ed è contenuta nel volume di G. CIOFFARI, Viaggiatori russi in Puglia dal ’600 al primo ’900, Fasano, 1991, pp. 123-130. 10 - Il Gargano... cit., p. 18. 11 - Il Gargano... cit., p. 20. 12 - Il Gargano... cit., p. 19. 372 Calderoso, che non si limitò esclusivamente alla Reggia di Caserta: infatti, anche per la “costruzione del nuovo braccio del R. Palazzo di Napoli” furono impiegati marmi brecciati del Calderoso e di Lamapuzza e, come notato anche dal Galanti, dal Manicone e dal Fraccacreta , dalla stessa cava provengono marmi che si trovano nel Museo di Portici. Da un marmo della Cava del Re, dimenticato nel porto di Manfredonia da quando Carlo III richiese dei campioni, il tagliapietre Raffaele Petrino, vivente all’epoca dell’incarico dell’ing. Paltrinieri, costruì, su commissione municipale, le vasche del “pubblico Giardino di Foggia”, mentre nella chiesa di San Pasquale, nel 1821, lo stesso Petrino costruiva l’altare maggiore, i due gradini che portano i candelieri e l’altare dedicato a S. Lorenzo sempre con materiali della Cava del Re, da cui provengono anche quelli usati per le vasche dell’acquasanta della chiesa di S. Gaetano, per il battistero e per le vasche dell’acquasanta della chiesa parrocchiale di S. Tommaso Apostolo. E ancora: a Bovino, sempre il Petrino, utilizzò marmi garganici per il pavimento della chiesa dell’Annunziata; i due pilastri che, a Foggia, si trovano davanti all’ingresso del palazzo dei fratelli D’Andreani sono del Calderoso, mentre da Castelpagano, oltre che dalla Cava del Re, provengono i pilastri del pozzo rotondo di fronte al municipio di Foggia; inoltre, Luigi Ragucci, nell’opera Principii di pratica e di Architettura, stampata a Napoli nel 1859, attesta che il pavimento della chiesa di S. Carlo all’Arena è lastricato di marmi provenienti dal Gargano 14. _______________ 13 - Cfr. G. M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di Franca Assante e Domenico Demarco, vol. I, Napoli, 1969, pp. 516-517 (In realtà in questo testo il Galanti si limita a un generico accenno ai marmi del Gargano, mentre non siamo riusciti a reperire il riferimento fatto dal Paltrinieri); M. MANICONE, La Fisica Appula, tomo 1, Napoli, 1806, pp. 101-102; M. FRACCACRETA, Teatro topografico storico-poetico della Capitanata e degli altri luoghi più memorabili, e limitrofi della Puglia, tomo II, Napoli, 1832, p. 117. 14 - L’ing. Paltrinieri non risparmia notizie circa l’utilizzo di marmi garganici in monumenti ed edifici con l’evidente scopo di convincere il Comitato Promotore alla intrapresa economia e, perciò, non si preoccupa di verificarne la fondatezza e la rispondenza alla realtà. Tali notizie, quindi, non sempre sono attendibili: ad esempio, egli afferma che l’altare maggiore del Convento di S. Matteo è una “ricca esposizione dei marmi ed alabastri garganici nuovi del tutto all’arte, e di un prezzo incognito al commercio”, così come sarebbero del Gargano i marmi lavorati “che si rilevano nella Chiesa di S. Antonio Abate e nella Chiesa delle Grazie di San Marco in Lamis”. Ora, su queste notizie non esistono riscontri, mentre Paltrinieri 373 Dal Calderoso il Pilla si sposta verso il centro abitato di San Marco in Lamis, attraverso la Valle del Volture15, e nelle coste dei monti a Nord del paese, in località Strascino e Meliscio, si trovano alcuni degli alabastri fatti estrarre da Leonardo Cera a sue spese che pure andranno ad abbellire la Reggia di Caserta, mentre da un masso cavato dal “monte” Strascino lo scultore Ricca, prima citato, ricaverà una Sfinge portante una vasca del diametro di un metro, “venduta a Napoli per oltre 10.000 lire” 16 Interrotte dalla molta neve e dal tempo cattivissimo, le osservazioni del Pilla riprendono, con la compagnia del Cera, di nuovo dalla Valle del Volture dove è possibile osservare un marmo assai simile al cosiddetti giallo di Siena, mentre in località Durante vi sono “ammassamenti” di marmo che rassomiglIano alla cosiddetta breccia coralina di color rosso carmino e di marmo fiorito “di color rosso di rosa con punteggiature brune”. Percorrendo, poi, la Valle di Stignano, in contrada Piano de’ Pastini vi è dell’alabastro bianco e nelle vicinanze del monastero un bel palombino di color ceroide. Alle falde di Castelpagano, in tenimento di Apricena, si trova un’altra cava da cui l’ing. Canard attinse per l’incarico ricevuto da Carlo III di reperimento di marmi per la Reggia di Caserta ed altre opere17. _______________ è credibile quando afferma che “le pietraie di San Giovanni in Pane [Piano], di San Nicandro, d’Ischitella e di Monteguti e Monte Pucci somministrano bellissime lastre lavorate da Mastri scalpellini, [che] si adoperano per lastrico di pubbliche strade, o per gradini, cornici, davanzali e balconi”. Cfr. Il Gargano... cit., pp. 26, 30. 15 - Pilla italianizza il toponimo Vadda de Veture. Proprio in questa località, che è anche un sito archeologicamente rilevante, con dubbi passaggi burocratico-amministrativi, è stata aperta di recente una cava. 16 - Il Gargano... cit., p. 22. 17 - In una delle tante note al testo di Pilla, a conferma della ricchezza e dell’ottima qualità dei marmi della zona, l’ing. Paltrinieri riporta questo brano tratto dal vol. VIII, dove si parla della Reggia di Caserta, dell’opera di GIUSEPPE SIGISMONDI, Descrizione della città di Napoli e suoi borghi: “Il vestibolo superiore ove conduce questa scala, è ottagono, è circondato da 24 colonne di 18 piedi romani d’altezza e di un solo pezzo di marmo che viene da Apricena nelle Puglie”. Il Paltrinieri poi aggiunge: “In una delle colonne dell’atrio della Cappella della Reggia suddetta, le quali sono di marmo proveniente dal Gargano, si rileva fatta dalla natura (cosa che sorprende!) l’intiera figura di un Cappuccino col suo mantello”. Il Gargano... cit., p. 27. 374 Ma è verso Poggio Imperiale, e soprattutto nella collina di S. Giovanni in Pane, che il calcare “si converte in un bel marmo bardiglio” di cui la tradizione vuole che siano i due leoni che sono all’ingresso dello scalone della Reggia di Caserta. Spostandosi verso Lesina, presso la torre Fortore, Pilla incontra le cosiddette Pietre Nere, mentre nei pressi della Torre di Miletto si imbatte in giacimenti di marmo palombino e, nei pressi di Cala Roscia, di marmo di color rosso vivo. Ed a Cala Roscia terminano le osservazioni del Pilla “sopra i marmi garganici, poiché in tutto il rimanente di quel montuoso promontorio mancano al tutto pietre di questa natura perché differente è la sua geologica struttura”18. E sulla struttura geologica del Gargano verte la relazione, datata 20 gennaio 1840, diretta all’intendente Gaetano Lotti, che si occupa dell’intero promontorio e delle Isole Tremiti, di sicuro interesse per la storia naturale, in quanto vi si registrano, oltre che osservazioni sulle stratificazioni e sulla conformazione del terreno, rinvenimenti di fossili che permettono di risalire ad ere geologiche. Il 1 febbraio 1840, il ministro Nicola Santangelo fa pervenire all’intendente Lotti le sue risoluzioni sui rapporti del geologo che prevedono un compenso per il Pilla stesso e per Leonardo Cera che potrebbe ricavarsi da quanto i comuni otterrebbero dagli “estagli locativi”, dalle concessioni per l’estrazione di marmi rilasciate ad “imprenditori” sotto la direzione di un ingegnere provinciale e con l’ausilio di “giornaliero de’ naturali del Gargano”. Insomma una raccomandazione cui tenderà l’orecchio Francesco Della Martora ma che resta inascoltata da altri, anche perché paternalistica e poco convinta, fino a quando il Paltrinieri non rassicurerà il comitato promotore di Firenze circa l’attendibilità dei rapporti del Pilla, ma siamo già in periodo postunitario. Per verificare la fattibilità del progetto, il comitato stabilisce contatti, attraverso la sottoprefettura di San Severo, con Francesco Centola, sindaco di San Marco in Lamis, e con Michele Zaccagnino, sindaco di Apricena, che, rispettivamente in data 22 e 25 maggio 1867, manifestano con missive al rappresentante della società la soddisfazio_______________ 18 - Il Gargano... cit., p. 30. 375 ne e le attese delle popolazioni che finalmente troveranno “lavoro e pane” 19. Al termine, poi, dei rilevamenti e dei riscontri del Paltrinieri, gli stessi sindaci gli rilasceranno un attestato per certificare che effettivamente si è recato sui luoghi indicati dal Cera e studiati dal Pilla e che ha svolto il suo incarico con “zelo ed energia”. Tutto è pronto, quindi, per concludere i contratti con i due comuni. Quali sviluppi abbia avuto la vicenda per Apricena è sotto gli occhi di tutti, anche se comunque sarebbe interessante individuare fasi e protagonisti di uno sviluppo economico basato in buona parte sulla estrazione e lavorazione di una “pietra” che oramai è tutelata da un marchio di qualità; per San Marco, invece, le cose andarono diversamente. Stabiliti, come si è visto, i contatti tra il comune e la società fiorentina, il 23 aprile 1868 il consiglio comunale di San Marco in Lamis si riunisce “per deliberare intorno alla tanto questionata impresa di Marmi e Alabastri del Gargano”20. La relazione introduttiva viene tenuta dal sindaco dott. Giuseppe Tardio, che sottolinea l’importanza dell’affare “sotto il duplice aspetto morale e materiale, ché li preziosi minerali celati nelle viscere del Monte Gargano saranno sorgente inesauribile d’industria e commercio e quindi di ricchezza pubblica, e l’industria e commercio sono i fattori principali della civilizzazione di un Popolo. Sicché puossi dire senza jattanza od ostentazione di sorta, che l’attuazione di tanta impresa, importante come essa è dal lato industriale commerciale, sin dai primordi della scoverta dei Marmi fatta dal benemerito Cittadino Signor Leonardo Cera e massime dietro i dettagliati e profondi studi del Dottissimo Leopoldo Pilla, divenne l’unica aspirazione dei naturali di Sammarco in Lamis - aspirazione non compresa […] per causa dei _______________ 19 - Come attesta una fitta corrispondenza, un ruolo di primo piano nella vicenda lo ebbero Vincenzo D’Ambrosio, domiciliato a San Severo, che sarà socio fondatore della società costituitasi a Firenze, e Giuseppe Tardio, sindaco di San Marco in Lamis, succeduto a Francesco Centola. Cfr. ARCHIVIO PRIVATO DI TOMMASO NARDELLA (d’ora in poi A.P.T.N.), Carteggi di Giuseppe Tardio. 20 - ARCHIVIO COMUNALE DI SAN MARCO IN LAMIS (d’ora in poi A.C.S.M.L.), Registri delle deliberazioni del Consiglio Comunale. Successivamente, il 9 maggio 1868, con altra deliberazione il consiglio comunale perfeziona le clausole del contratto. 376 tempi e per la mancanza dello spirito di associazione nelle nostre Provincie. [ ... ] Ora che (fortuna per noi) un gruppo di uomini rispettabili per probità, sapere e buona volontà si è costituito in Comitato Promotore in Firenze con atto notarile del dì 14 dicembre 1867 onde creare una società Anonima sotto il titolo - Gargano, e ci mette sott’occhi un progetto col quale tradurre in atto l’aspirazione del popolo Sammarchese: escavare i marmi ed esportarli, prego il Consiglio di esaminare seriamente detto progetto prima di pronunciarsi trattandosi di un affare che si può dire il più vitale per l’avvenire del nostro Paese”. Prima di passare alla discussione ed all’approvazione, poi, il Tardio dà lettura “di una lettera del nostro bravissimo Sig. Cassitto 21 Prefetto di Massa e Carrara, diretta all’onorevole Sig. D’Ambrosio”, che, per la sua autorevolezza, il Tardio ritiene debba allegarsi alla deliberazione. Il consiglio comunale, dopo aver, tra l’altro, fatto rilevare che “nell’attuazione di detta impresa trova pane e lavoro la Classe degli Operai”, deliberò all’unanimità di “revocare ogni antecedente deliberazione sull’obietto” e di porre, nel contratto da stipulare con la società di Firenze, determinati patti: a) la concessione per l’escavazione ri_______________ 21 - La lettera di Raffaele Cassitto è datata 1 aprile 1868 ed è allegata al contratto che successivamente sarà stipulato. In essa il Prefetto di Massa Carrara fornisce alcuni dati del più importante centro italiano di estrazione e lavorazione di marmi: vi sono impiegati ottimila addetti ed operano circa 140 studi di “scultura ed ornato”. ARCHIVIO NOTARILE DI FOGGIA, Atti del Notar Giambattista Franco. Raffaele Cassitto nacque a Lucera il 15 settembre 1803 da Francesco Paolo, celebra avvocato, e da Irene Gasparri. Sulle orme del padre, intraprese la carriera forense a Lucera ma fu costretto a ritirarsi per qualche tempo ad Alberona per le condanne e per le multe, che lo costrinsero alla svendita del suo patrimonio, inflitte al padre e ad altri congiunti per motivi politici dal regime borbonico. Ed è durante tale soggiorno, quasi obbligato, che si dedica a studi di mineralogia e geologia “che gli valsero l’alta rincuorante estimazione e una visita del celebre naturalista molisano Leopoldo Pilla”. Entrò, poi, nell’amministrazione del Ministero dell’Interno e, l’indomani dell’Unità, fu promosso alla carica di Governatore di Reggio Calabria. In seguito, sarà prefetto a Noto, Pesaro, Grosseto e Massa Carrara. Il 9 novembre 1872 fu nominato senatore, il primo della Capitanata. Si spense, dopo breve tempo, a Portici il 4 dicembre 1873. Cfr. G. GIFUNI, Profili e scorci di storia, Napoli, 1942, pp. 143-168. 377 guardava tutto il territorio comunale22, ad eccezione di fondi sativi, sia pure di proprietà comunale, in possesso di cittadini; b) la concessione veniva qualificata enfiteutica ed aveva la durata di cinquanta anni; c) regolamentava la costruzione e l’uso di strade; d) per ogni metro cubo di marmo grezzo la società avrebbe pagato dieci lire italiane, dopo averlo esportato (i primi duecento metri cubi erano concessi gratuitamente quali saggi); e) il municipio avrebbe avuto cento metri di marmi ed alabastri gratuitamente sulle cave, salvo le spese di trasporto e senza pregiudizio per i diritti del vescovo della diocesi previsti dalla Ministeriale del 1860; f) il salario degli operai, da scegliersi tra i “naturali” del luogo, non doveva essere inferiore a quello corrisposto abitualmente nella località; g) i lavori dovevano iniziare non oltre sei mesi dalla stipula del contratto senza interruzione e la società doveva “tenere sui lavori non meno di venti operai al giorno”; un’interruzione di oltre 15 giorni comportava lo scioglimento del contratto; h) in caso di inadempienza sui tempi da parte della società, il comune sarebbe rientrato nel pieno possesso del territorio; i) dopo cinquanta anni la società avrebbe potuto abbandonare l’impresa senza penalità ed esportare quanto già estratto; l) altri minerali, oltre marmi e alabastri, erano comunque di proprietà comunale; m) la società si impegnava a dare gratuitamente agli eredi di Leonardo Cera venticinque azioni nominali; n) la cessione a terzi non variava i termini del contratto. Altre clausole riguardavano le spese e le modalità di stipula del contratto. Sottoscritto l’atto, tutto sembrava volgere per il meglio e, finalmente, la popolazione di San Marco in Lamis avrebbe potuto, dopo gli anni terribili del brigantaggio, imboccare la strada dello sviluppo economico con le necessarie e benefiche conseguenze sul piano sociale e civile. E, in effetti, questo sogno doveva entusiasticamente essere accarezzato e ritenuto realizzabile da molti dal momento che all’impresa per l’estrazione e la lavorazione dei marmi si affiancò una iniziativa _______________ 22 - Al contratto è allegato un quadro sinottico dei territori che ricadono in questa clausola. Le località interessate sono: Piscina Re, Montenero, Coppa di Mezzo, Coppa Ferrara, Cardinale, Stazzo, Monte di Mezzo, Valle Larga, Sambuchello, Lagorosso, Cerasa, Difensola, Calderoso, Schiavonesche, Casarinelli, Valle di Volture, Faranello e Farannone. Si tratta, solo per i terreni non sativi, esclusi quelli sempre di proprietà comunale ma dati in diverso modo in concessione, di ben oltre 8.894 ettari. Tanto rende l’idea, tra l’altro, dell’ingente quantità di territorio di proprietà pubblica che mano mano verrà usurpato. 378 per la costruzione di una ferrovia garganica. Intestata a G. Piceni, uno dei primi soci, come si è visto, del comitato promotore, si costituì una “ditta”, anch’essa rappresentata in loco dall’ing. Paltrinieri, che, “a mente del Decreto del Ministero dei Lavori Pubblici datato 19 febb. 1869”, ebbe “la concessione di studi per una Ferrovia Garganica”. Il comune di San Marco in Lamis deliberò subito per concorrere alle spese occorrenti per tale progetto 23. Ma tanto entusiasmo e tanto fervore di iniziative ben presto si raffreddarono ed insorsero i primi contrasti tra il comune e l’impresa fiorentina. In data 3 luglio 1869, ad esempio, già il cav. Bava, a nome di quella che oramai era diventata la Società Italiana Gargano per la Estrazione ed Esportazione dei Marmi, Breccie ed Alabastri della Capitanata, scrive al sindaco di San Marco in Lamis per lamentare la non completa disponibilità della Difesa S. Matteo 24. Molto probabilmente, i contrasti si acuirono man mano fino al punto che il 7 dicembre 1873 il consiglio comunale decide di intraprendere una azione legale contro la Società Anonima Gargano che sfociasse nella risoluzione del contratto “per la trasgressione alle condizioni principali” in esso previste. In altri termini il comune denunciava la inoperosità dell’impresa e la violazione della clausola riguardante le interruzioni dell’attività estrattiva, che naturalmente comportava il mancato impiego di operai ed il mancato introito nelle casse municipali di quanto stabilito per ogni metro cubo di marmo estratto. Inoltre, il comune lamentava la sottrazione del marmo estratto ad ogni controllo ed il suo trasporto in altri luoghi senza pagare quanto dovuto 25. Contro tale deliberazione consiliare, il cav. Bava propose alla deputazione provinciale, che esercitava il controllo sugli atti, un esposto che venne inviato al consesso sammarchese per le proprie deduzioni. Il 10 febbraio 1874 l’assemblea cittadina si riunisce e conferma la propria volontà, pregando la deputazione provinciale di approvare il precedente deliberato, dopo un’ampia relazione che viene svolta dal _______________ 23 - Cfr. A.P.T.N., Carteggi di Giuseppe Tardio. In una lettera della Ditta G. Piceni e C. al Tardio, allora sindaco, datata 4 settembre 1869, si parla della convocazione di una riunione con tecnici, da tenersi a Foggia, per meglio definire la questione. 24 - A.P.T.N., Carteggi di Giuseppe Tardio. 25 - Cfr. A.C.S.M.L., Registri delle deliberazioni del Consiglio Comunale. 379 sindaco Giovanni Villani. Dalle argomentazioni di quest’ultimo si desume che la società fiorentina giustificava la propria condotta con la scarsità di materiale, contrariamente a quanto il clamore provocato dai rinvenimenti di Leonardo Cera, l’invio a mostre ed esposizioni anche internazionali, nonché le relazioni del Pilla avevano fatto presumere26 . Dall’intervento, poi, si evince che l’amministrazione del Villani prende le distanze dai sindaci Centola e Tardio, che non avevano fornito le mappe catastali richieste, ma che erano “gli identici soggetti che per buona ventura erano alle vivide pratiche del Paltrinieri”. La società, tra l’altro, lamentava l’impedimento da parte del guardiano di Freda e dei guardaboschi della Difesa di S. Matteo dell’accesso ai fondi dati in concessione. A queste e ad altre accuse, il sindaco controbatte con accuse altrettanto dure e precise, mantenendo ferma la determinazione per la rescissione del contratto. Di fronte a tanta ostinazione, intervennero, per mitigare le posizioni, le autorità amministrative e di governo superiori. Il giorno 9 marzo 1874, infatti, con la mediazione della sottoprefettura, si tiene un incontro a San Severo tra il sindaco Villani ed i rappresentanti della società, D’Ambrosio e Bava, e “si conchiude che la vertenza potrebbe essere conciliata”, tra l’altro, a condizione che il rappresentante della società elegga il proprio domicilio legale nel comune e che l’opificio del lavoro dei marmi sia stabilito nel territorio comunale, e non a San Severo come era già avvenuto, in una località a scelta della società stessa, escludendo il convento di San Matteo su cui precedentemente erano state avanzate proposte27. Tentativo inutile, anche questo, di ripristinare un contratto che non si sapeva più neanche da chi dovesse essere rispettato, dal momento che il 2 ottobre 1881, sempre il sindaco Villani mette in discussione l’esistenza stessa della società per l’escavazione dei marmi, la quale non ha mai seriamente perseguito gli scopi per i quali si era costituita _______________ 26 - A.C.S.M.L., Registri delle deliberazioni del Consiglio Comunale. Un passaggio interessante del discorso del Villani è quello riguardante l’accusa secondo cui il municipio era stato inadempiente, all’indomani dell’Unità, nel non pubblicizzare adeguatamente la possibilità di una simile attività economica. Nel 1860, dice il Villani, “eravi ben altro pensiero”, ed il riferimento al brigantaggio è più che evidente. 27 - A.C.S.M.L., Registri delle deliberazioni del Consiglio Comunale, Verbale della seduta del 16 aprile 1874. 380 e, pertanto, senza più mezzi termini, invoca “lo scioglimento del contratto, facultandosi il Sindaco ad adire la giustizia”28. Sfumava così, e veniva rimosso completamente dall’interesse dei singoli e della collettività, un tentativo di valorizzazione economica di parte del territorio garganico, che, al di là di ogni possibile critica, esprime tuttavia la volontà, sia pure di pochi lungimiranti, di unire al nuovo corso politico, l’Unità d’Italia, un diverso sviluppo che, utilizzando le risorse del luogo, favorisse una aperta e moderna mentalità imprenditoriale. Secondo Michele Vocino l’impresa fallì “per la deficienza dei mezzi di trasporto” e, perciò, per la carenza di infrastrutture diremmo oggi, mentre secondo M. Pescatore essa “dovè morire in sul nascere per quel fatale abbandono che pesa su tutte le cose del Mezzogiorno”29. Ambedue colgono aspetti importanti delle ragioni che non hanno consentito una trasformazione economica delle regioni meridionali; ambedue, però, indulgono verso un atteggiamento di rassegnazione che ancor oggi è duro a morire. E, forse, proprio la riflessione su occasioni mancate, o ritardate nel tempo, di decollo produttivo, che avrebbe senz’altro indotto anche un ben diverso livello di maturità civile e sociale, deve spingere ad una cultura del territorio meno improvvisata, meno gridata e maggiormente orientata verso la concreta ed intelligente tutela e valorizzazione di questa risorsa in tutte le possibili direzioni che dovessero prospettarsi e che bisogna percorrere con inventiva e capacità di “intrapresa”. _______________ 28 - A.C.S.M.L., Registri delle deliberazioni del Consiglio Comunale. 29 - Cfr. M. VOCINO, Lo Sperone d'Italia. Roma, 1914, p. 233; M. PESCATORE, Il Tavoliere... cit., p. 38. 381 Sulle tracce di “Un amore” di Davide Grittani Sebbene molto antico il palazzo conserva un aspetto borghese che a guardarlo mette grande soggezione. Tuttavia a spaventarmi non fu la sua albagia quanto l’increscioso affanno che sopraggiunse non appena intravidi il portone. Ancora oggi lo stabile porta il nome di Casa della Fontana, e a sorvegliarne gli inquilini si erige mastodontico una specie di Poseidone, una statua di Dio marittimo che veglia sulla fragilità umana dall’alto di una decina di metri. Quanto basta per tenersi a galla sull’oblio. Se in tutto il mondo esiste un luogo dove invertire le usanze diventa abitudine inviolabile questo è Milano, dove il pranzo si chiama colazione, la cena focolaio delle mascelle, e la notte è solo un’alba un pò più livida di quella solita. Incontrarla appena dopo colazione mi soggiogava anche le intenzioni più bellicose, sarei certamente capitolato sotto le incessanti pulsioni di quello che si annunciava come un memorabile caffè. «Chi è?» «Sono Grittani, vengo per Buzzati.» «Ah finalmente. Salga, salga. Ultimo piano.» E’ ridicolo che a casa di Buzzati io ricordi il movente di questa visita guidata, ma l’emozione m’ha preso sottobraccio e non riesco a fare a meno di sorreggermi. «Bella lì, lo sa che è in ritardo giovanotto?» «Mi dispiace ma c’era abbastanza traffico ... » Sono imperdonabile lo so, ma come faccio a confessarle il rispetto incestuoso che ho per il tempo: più sono in ritardo e più cresce l’interesse ‘che m’accompagna a un appuntamento, tanto che avrei preferito consacrale questa giornata non venendoci affatto. «Allora, lei vorrebbe visitare casa di Dino vero?» «E’ stata davvero gentile, signora, ad accogliermi.» 383 «Si figuri. Cominci però col fare attenzione a dove mette i piedi perché ogni mattonella che schiaccia custodisce un pezzo di letteratura nazionale. Prende un caffè?» «Bello forte, se vuole che resti in piedi.» L’Almerina conobbe Dino Buzzati all’età di vent’anni, quando lo scrittore veneto viveva da tempo a Milano con sua madre e si occupava di cronaca al Corriere della Sera. A presentarli fu un amico in comune, forse in una sera viziata dal destino, scavata dal mistero, in cui ti accorgi che l’incontro che sta per avvenire in qualche modo risulterà fatale. Presto cominciarono a uscire insieme, da soli e senza un pretesto di scorta che potesse giustificare quella complicità così sfacciata tra lui, già gagliardo del successone del Deserto dei Tartari, e lei famosissima modella di un collirio, con i suoi occhi felici a spasso su tutti gli autobus e i tram della città. «Ma lei come ha scoperto Buzzati?» mi chiese. «La prima cosa che ho letto è stato Un amore?» «Ah sì, bel romanzo quello - quasi rinvenendo -… che storiaccia però.» «Ma è proprio vero che Buzzati passò tutto quell’inferno?» «Ma si che è vero. Ma scherza, io l’ho conosciuto qualche tempo dopo, ma i suoi amici m’assicurano che non riuscivano più a tenerlo lontano da quella ragazza. Si era come ammalato, durante il giorno non faceva altro che pensare a lei, a questa maschietta che - si dice - gliene abbia fatte passare di tutti i colori.» L’ipotesi che davanti a me potesse sedere proprio il personaggio femminile di quel bellissimo romanzo, la Laide, si dissolse quindi dopo poche battute, miseramente. Mi aveva chiaramente messo in guardia, non era lei la bambola spietata che aveva fatto di Buzzati un uomo profondamente infelice. Si sa che un lettore volentieri difenderebbe – qual’ora fosse chiamato a farlo - il suo autore preferito, ne renderebbe il capezzale inaccessibile, conserverebbe il suo maestro a debita distanza da ogni raffreddore, e se necessario lo tumulerebbe vivo in una campana con una macchina per scrivere. Veicolo di sogno e nient’altro. Eppure qualcosa non tornava, qualcosa mi consigliava di indagare a fondo nei ricordi e nelle date. Di Buzzati conosco tutto a memoria, se solo avesse provato a mentire mi avrebbe servito su di un piatto d’argento la nuda verità. 384 «Allora le dicevo di Dino - proseguì come riapparsa dopo un’assenza -: era un uomo molto elegante, davvero lasciava poco al caso. Tutta Milano lo conosce per le sue abitudini borghesi, ma un borghese di quelli alla buona. Uno che quasi si pentiva di esserlo, un po’ vittima della noiosa vita dei nobili.» «Chi lo conosceva bene? Chi erano i suoi amici?» «Di amici Dino ne aveva tanti, eppure la sua discrezione più di una volta lo ha reso difficile da interpretare agli occhi di qualcuno. Con Montanelli, per esempio, vissero insieme le prime soddisfazioni, i primi incarichi importanti come inviati. Si fidava molto anche di Gaetano Afeltra, di Sergio Quinzio, di Montale e di molta parte della redazione letteraria del Corriere.» Se continuo a darle tanto filo finirò per farmi seminare dagli aneddoti di Buzzati. Toccherà inventarmi qualche stratagemma per sapere se Almerina assomiglia o meno alla Laide di Un amore. «Ecco vede: questa è la macchina di Dino. Qui ha scritto fino a quando ha potuto. Gliela regalarono quando la malattia non gli permise più di andare al Corriere.» E come faccio a distranni, a fare finta di niente, a insinuare come un pettegolo di fronte alla sua macchina per scrivere. Ho così infantilmente sperato di toccare quei tasti, di ascoltare il ticchettìo di un maestro, di celebrare come un sacramento il giorno in cui avrei visitato la fabbrica di Paura alla Scala, I sette messaggeri e In quel preciso momento. Ho sempre creduto che degli scrittori bastasse - e talvolta avanzasse – l’opera letteraria in sé, il frutto clandestino delle vicende umane e personali, che insomma farne la diretta conoscenza non sarebbe valso a niente se non a dissiparne la stima. Le pagine scritte sono il loro volto, il titolo dell’opera le loro mani, la copertina il loro abito liso. Conoscerli non serve, se non alle vanità della memoria. Eppure già dall’atrio di Casa della Fontana m’era parso di vederlo, da lontano di spalle, col volto asciutto, la sagorna spossata, il suo andare incerto e vissuto. Allegramente perduto nel mondo. «Con quale collega Buzzati riuscì a diventare veramente amico?» le chiesi con curiosità. «Sicuramente con Chiara. A dire il vero Piero l’ho conosciuto prima io, quando girava voce che ci provasse con tutte quelle che incontrava. Un giorno venne a trovarmi a casa, senza però sapere che io abitassi già con Dino. Continuò serenarnente nella sua serie infinita di avance senza neppure impensierirsi quando gli confessai che ero già impegnata. Erano le otto di un sabato sera, e Dino tornò a casa dal Corriere. Quando lo 385 presentai a Piero Chiara come il mio compagno per poco non svenne lungo sul pavimento. Da quel giorno sono diventati grandi amici, tanto che io e Dino riuscimmo anche a mitigargli quel triste mal vezzo dell’avarizia.» Dal terrazzo di questo appartamento si amoreggia con l’anima di una Milano addirittura bella. Appena appena le guglie del Duomo, mentre agli occhi segreti del mondo, immobili come gli involucri dell’eternità, appaiono tutte intere le vesti della Madonnina. Che strano. Avevo a mia disposizione l’infinito tempo dell’incoscienza quando mi trovai invece a dover elemosinare la scaltrezza della celebrità. Solo grazie a quel caffè, in ritardo di venti secoli, imparai che anche la fama è un castigo di Dio. Non potevo concedermi altre pause, non potevo permettere che la poesia mi prendesse la mano. Nata sotto la stella del dubbio, quella visita in casa Buzzati era diventata la tana segreta della mia inquietudine. Niente altro mi doveva allontanare dal segreto della Laide. «E al corrente delle segnalazioni per il Nobel che alcuni quotidiani mossero in favore di Buzzati?» «Premio Nobel? Questa non la sapevo?» «Come non la sapeva? Che studioso è, fece molto scalpore. Oltre ai giornali francesi anche quelli tedeschi segnalarono Buzzati come favorito, tant’è che si attendeva il parere decisivo del Corriere della Sera.» «E come andò a finire?» «Quando si dice la fortuna. All’epoca, se non ricordo male ai principi degli anni settanta, il direttore era Giovanni Spadolini, e l’imbarazzo nel segnalare un redattore della sua stessa testata giocò un ruolo determinante. Spadolini finì per indicare il nome di Moravia, così le segnalazioni risultarono insufficienti sia per lui che per Buzzati.» Dino Buzzati è stato anche un bravo pittore, “anzi un grande pittore, forse l’ultimo vero pittore del nostro secolo.” Fotografando i volti dei suoi quadri si finisce per essere defraudati delle proprie certezze, come esangui di fronte a tanta scomoda bellezza del vivere. Il pomeriggio in casa Buzzati finì quasi al tramonto, mi toccava tornare uomo e scendere di nuovo sulla terra. Anche l’aroma invadente del caffè svanì nelle follie del centro. Adesso toccava a Milano. Al solito la città si sarebbe data a un’animazione forsennata. Le genti si sarebbero perse in un pranzo affrettato per riaversi poco più tardi lungo le vie della fatalità, degli amori clandestini. In poco tempo la sera cambierà scenario, dagli operai alle puttane, dal sole coraggioso di aprile alla notte delle lucciole leggere. Per fortuna, prima di andar via, convinsi l’Almerina a 386 incontrarci ancora per andare a prendere un gelato dal Peppino, pasticciere di razza che sembra aver retto bene gli urti feroci della modernità. «A dopodomani Almerina, e scusi il disturbo.» «Ma si figuri. Sapesse quali invadenti ho conosciuto che lei in confronto sembra un angelo.» Allora avrà fatto davvero imbarazzanti conoscenze, amicizie sconvenienti che le hanno cambiato i modi e le maniere. L’indomani non avrebbe avuto tregua. «0 me lo confessa o glielo chiederò io stesso.» Quel giorno però era un timido bocciolo, un furtivo amplesso di primavera: lei l’Almerina, unica sposa del grande Buzzati. Milano, 1994 387 Il programma triennale 1991-1993 per la tutela ambentale: occasione di sviluppo per il Parco Nazionale del Gargano di Vincenzo De Stefano L’Ente Parco Nazionale del Gargano ha provveduto alla redazione del programma per la tutela ambientale 1991-93, utilizzando i finanziainenti previsti dal capoverso D dell’art. 4 e dal capoverso 5° dell’art. 38 della legge quadro 6.12.1991 n° 394 e della delibera CIPE 21.10.1993. Detto programma è stato approvato con deliberazione del Comitato di Gestione provvisoria in data 17.10.1995. Su di esso la Comunità del Parco ha espresso parere favorevole in data 30.10.1995. Il programma, attualmente all’approvazione del Ministero dell’Ambiente, si articola in dieci diversi interventi, che possono essere così specificati: Attività di studio Intervento n. 1 ad oggetto “Definizione del Piano previsto dall’art. 12 della legge 394/91 e prima fase di acquisizione di competenze e di strumenti territoriali” - spesa di £. 3 miliardi. L’intervento tende all’acquisizione degli strumenti di base per la stesura del Piano e precisamente: a) rilevazione aerofotografica; b) acquisizione dei PRG dei comuni dei parco e loro sovrapposizione con la cartografia di base; c) acquisizione dei fogli di mappa e sovrapposizione della citata cartografia di base. All’acquisizione, inoltre, degli strumenti primari per la definizione del piano e, precisamente, censimento delle: a) specie botaniche, silvicole e faunistiche; b) emergenze naturalistiche 389 c) caratteristiche geornorfologiche ed idrogeologiche; d) aree archeologiche. Sulla scorta degli strumenti di base e primari sarà possibile una stesura del Piano del Parco con individuazione delle risorse e delle potenziali strategie di sviluppo, con conseguente pianificazione temporale e finanziaria delle attività, oltre che la redazione di uno studio socio-economico comprendente i vari aspetti di turismo, artigianato, commercio, miglioramento agricolo, ma, soprattutto, particolarmente attento al problema dell’occupazione. Attività di recupero e conservazione Intervento n. 2 ad oggetto “Analisi, pianificazione e programmazione di un piano di interventi antincendio” - spesa di £. 2 miliardi 772 milioni e consistente in: a) studio del soprassuolo dell’intero territorio del Parco; b) studio e misurazione dei venti; c) realizzazione di uno strumento informatico per la pianificazione e la previsione degli interventi antincendio; d) studio sul coordinamento delle forze antincendio presenti nel territorio; e) formazione professionale del personale; f) acquisto di attrezzature; g) installazione di ripetitori e di unità radiomobili per la copertura radio dell’intero territorio del Parco. Intervento n. 3 nel comparto agro-ambientale, cofinanziato dai Ministeri dell’Ambiente e delle Risorse Agricole - spesa di £. 2 miliardi 665 milioni, con i seguenti obiettivi: a) acquisire competenze in relazione alle specie vegetali minacciate; b) promuovere il miglioramento della razza podolica della capra garganica e degli ovini; c) promuovere la produzione dell’olio del Gargano attraverso l’introduzione di tecniche di produzione compatibili con la tutela dell’ambiente. Intervento n. 8 di manutenzione forestale - spesa di £. 4 miliardi, articolato in: a) attività di bonifica e manutenzione (potatura, taglio, raccolta e carico del materiale); 390 b) raccolta, trasporto e scarico del materiale presso le aziende di trasformazione e di utilizzazione del legno esistenti nel territorio del Parco. L’utilizzazione di manodopera locale è lo scopo precipuo dell’intervento. Intervento n. 4 ad oggetto “Attività nei centri storici del Parco”- spesa di £. 2 miliardi e 100 milioni. Tenderà al recupero del decoro ambientale, sostituendo porte e finestre in anticorodal con infissi in legno, procurando lavoro alle imprese artigianali locali; e di realizzare, sottotraccia, le linee telefoniche ed elettriche attualmente aeree. Intervento n. 9 ad oggetto “Recupero del patrimonio edile rurale, presente nel Parco e nelle zone contigue” - spesa di £. 2 miliardi 150 milioni. Obiettivi sono: a) recupero del patrimonio rurale per finalità turistiche naturali; b) favorire la presenza umana (pastori, agricoltori, raccoglitori ecc .... ) nelle aree interne; c) organizzare una offerta turistica credibile (agriturismo e turismo rurale); d) riutilizzazione degli edifici recuperati come centri e laboratori di educazione ambientale. Intervento n. 10 ad oggetto “Recupero ex ‘trenino carbonai’’’- spesa di £. 1 miliardo 350 milioni. E’ previsto il recupero di una vecchia tratta ferroviaria, a scartamento ridotto, che operava nel cuore del Gargano per trasportare tronchi di legno dalla Foresta Umbra agli impianti della falegnameria Mandrione (di proprietà regionale). Il trenino, riattato, permetterà ai turisti, e specialmente ai portatori di handicap e loro famiglie, di visitare le zone interne del Parco in modo autonomo. Attività di informazione Intervento n. 5 ad oggetto “Rete di sentieri nel Parco Nazionale del Gargano” - spesa di £. 1 miliardo 100 milioni. L’attività consisterà in: a) identificazione, ripristino e riuso di mulattiere, carrarecce e percorsi sterrati già esistenti; 391 b) installazione di apposita segnaletica indicativa e educativa dell’inizio e fine dei percorsi, dei punti di sosta e delle postazioni di avvistamento degli animali selvatici; c) pulizia dei rifiuti da tutti gli ingressi dei sentieri e manutenzione degli stessi; d) costruzione o recupero di fontanelle, in corrispondenza di sorgenti naturali. Intervento n. 6 ad oggetto “Realizzazione di n. 18 infosportelli in tutti i Comuni del Parco” - spesa di £. 2 miliardi 163 milioni. Si tratta della rete necessaria per l’erogazione di servizi informatici ai visitatori del Parco, per un raccordo naturale di tutte le attività ambientali, turistiche ed educative dell’Ente e per consentire, ad ogni singolo Comune, di accedere a tutte le informazioni esistenti presso gli altri Comuni. Gli sportelli saranno ubicati principalmente presso le sedi comunali o in locali di proprietà comunali di mq. 30/40. Intervento n. 7 ad oggetto “Acquisto sede dell’Ente Parco e realizzazione di 4 centri visita e di educazione ambientale” - spesa di 4 miliardi 800 milioni. Saranno realizzate almeno 4 strutture, posizionate strategicamente, da destinare a servizi di: - ospitalità, - ristorazione, - offerta di servizi per i visitatori, - attività didattico-ambientale, - attività didattica per agricoltura eco-compatibile, - attività economiche ed escursionistiche. L’intero circuito dovrà autosostenersi finanziariamente, vendendo beni e servizi, secondo logica imprenditoriale privata. I centri saranno localizzati nelle zone umide a Nord e Sud del Parco, sul litorale e sull’itinerario storico-religioso della Via Langobardorum dal Comune di S. Marco in Lamis, per S. Giovanni Rotondo fino alla Basilica-grotta di S. Michele Arcangelo di Monte Sant’Angelo. Si tratta, come pare evidente, di un quadro di interventi molto articolato e distribuito sul territorio; costituisce una prima risposta alle attese dei molti garganici, che vedono nel Parco solo la sovrapposizione, a quelli già esistenti, di altri vincoli e divieti e, quindi, la creazione di un freno, imposto dall’alto, allo sviluppo sociale ed economico del promontorio. 392 Gli interventi del primo Piano Triennale, cui faranno seguito quelli dei piani successivi, contribuiranno, certamente, a superare le residue resistenze degli oppositori oltranzisti del Parco, per realizzare finalmente, con e non contro, le popolazioni garganiche, quel modello di conservazione attiva del territorio, che pone al primo posto, come sostiene autorevolmente sostenuto, l’esigenza di conciliare lo sviluppo socio-economico delle popolazioni locali, in un’ottica compatibile e sostenibile, con la salvaguardia dell’ambiente naturale. E’ singolare che, mentre qualche amministratore garganico si attarda in una sterile contrapposizione all’attività del Parco, per altro agli inizi, altri sindaci della nostra Provincia, quelli della Comunità Montana del Sub-appennino Dauno Settentrionale, chiedono, unanimemente, che anche nel loro comprensorio - non certo inferiore al Gargano per ricchezza di beni ambientali, storici ed archeologici - si realizzi, al più presto, un’area protetta, un parco regionale. 393 Momenti del brigantaggio in Capitanata: la banda garganica di Del Sambro di Michele Galante Tra le numerose bande di briganti che infestarono il promontorio garnanico nella tormentata fase di passaggio dai Borboni alla monarchia sabauda la più nota rimane quella che faceva capo ad Angelo Maria Del Sambro, detto “Lu Zambro”, figura a quel tempo conosciuta in Capitanata, ma successivamente poco studiata1. Nato a San Marco in Lamis il 24 marzo 1827 da Michelangelo e da Maria Michela Palma, entrambi contadini, si trovò ben presto ad affrontare la vita dura dei campi con il relativo carico di miseria e di monotonia, per cui fin da giovane cominciò la sua vita avventurosa e rischiosa, mostrandosi poco incline alla passiva rassegnazione. Prestò servizio di leva nell’esercito borbonico, dal quale disertò, dedicandosi ben presto ad attività malavitose “radunandosi in comitiva armata” in compagnia di altri giovani contadini che allora si stavano affacciando sul territorio garganico, scorrendo le pubbliche strade e commettendo misfatti e delitti. Questi giovani erano Michele Battista, detto Incotticello, Angelo Raffaele Villani, alias Recchiomozzo, e Nicandro Polignone, soprannomi_______________ 1 - Sulla figura di Del Sambro costituisce un prezioso punto di riferimento il lavoro di P. Soccio, Unità e brigantaggio, Napoli, 1969. Di qualche interesse è anche l’articolo di T. NARDELLA, Angelo Maria Del Sambro, comparso sul periodico “Il GARGANO” del 30 marzo 1961. Uno studioso serio e attendibile come il Molfese lo confonde invece con l’altro brigante sammarchese Angelo Raffaele Villani (cfr. Storia del brigantaggio dopo l'Unità) e, sulla sua scia, altri incorrono nello stesso errore. Sempre a proposito di Del Sambro va segnalato che all’anagrafe comunale il suo nome risulta essere non Angelo Maria, ma Antonio Angelo (cfr. COMUNE DI SAN MARCO IN LAMIS, Registro atti di nascita, anno 1827, fol. 152). Questo stesso nome viene confermato altresì dall’atto di matrimonio che il Del Sambro contrasse con Maria Rachele Tantaro il 14 luglio 1847 (cfr.COMUNE DI SAN MARCO IN LAMIS- Registro atti di matrimonio, anno 1847, fol. 38). 395 nato Licandrone, tutti e tre personaggi di spicco, che segneranno i tempi tristi del brigantaggio post-unitario garganico e di Capitanata. Il primo arresto Del Sambro lo subì il 30 novembre 1859 da parte della guardia urbana, che lo sorprese insieme al Villani in una casetta di campagna a poca distanza da San Marco in Lamis, dove erano annidati. “All’intimidazione di arrendersi Recchiomozzo non oppose difese, non così il Del Sambro che, con baionetta, opponeva viva resistenza scagliandosi contro la forza, cagionando ferite ai componenti della stessa. Dopo un sì vivo attacco, finalmente il De Sambro cadeva in potere di quelle guardie, le quali requisirono ai banditi tre fucili con rispettive baionette ed anche munizioni di polvere da sparo e di palle” 2 . Processati dalla Gran Corte di Capitanata, vennero condannati il 16 ottobre 1860 a pene varianti dai diciannove ai venticinque anni di ferri attribuiti allo “Zambro”, e al pagamento di ducati 276 e 11 grana per le spese processuali3. Nella confusione e nell’anarchia causata dal rivolgimento politico in atto nel Mezzogiorno, riesce ad evadere con altri suoi compagni dal carcere di Bovino, dove vi era rinchiuso, come attesta un dispaccio del sottogovernatore di San Severo indirizzato all’allora sindaco di San Marco in Lamis Antonio De Theo il 5 gennaio 18614. E’ evidente che senza il repentino crollo della monarchia borbonica e la traumatica transizione al nuovo stato unitario, questi briganti avrebbero senz’altro oscuramente trascorso la loro esistenza come forzati nelle galere borboniche. La crisi dissolutrice dell’estate del 1860 valse a restituire loro non solo la libertà, ma anche l’insperata occasione di potersi dare ad un banditismo prima assolutamente impensabile per proporzioni e pericolosità. Comincia così, organicamente, il cammino di brigante di Del Sambro, nel corso del quale si fa portavoce della riscossa sociale e legittimista e dell’ansia di riscatto dei tanti nullafacenti che popolavano San Marco in Lamis e che vivevano in una condizione subumana di miseria e di ignoranza, concorrendo ad alimentare una catena di odi e di vendette che di lì a poco sarebbe esplosa in forme virulente, causando lutti e rovine. _______________ 2 - ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA - Sezione Lucera, Gran Corte Criminale di Capitanata, f. 952, f. 7567. 3 - IB., f. 952, f. 7567. 4 - P. SOCCIO, op. cit., p. 131. 396 Gli esordi di questa banda furono caratterizzati da reati di abigeato, che nel territorio garganico conosceva una sua consolidata tradizione ed un suo radicamento. Abigeato assumeva un ruolo decisivo in una società che aveva nell’allevamento e nella trazione animale degli strumenti economici di primaria importanza. “La pratica dell’abigeato, infatti, mobilita persone di condizione sociale diversa, consente una ricollocazione nell’ambito della comunità di appartenenza, aggrega clientele e gruppi politici” 5. L’esordio politico questa banda lo ebbe a Mattinata, nell’invasione del 10 maggio 1861, con la partecipazione di numerosi briganti capitanati da Agostino Nardella, alias Potecaro. Il ruolo di Del Sambro, all’inizio, non era quello del capo, che apparteneva indiscutibilmente al “Potecaro”, il quale, sia per ragioni di età sia per capacità militari, coraggio e autorevolezza, si era guadagnato i galloni di capo nelle turbinose vicende dell’ottobre 1860, allorché si pose con ardore e coraggio - novello Farinata6 - a difesa degli interessi dei suoi concittadini, respingendo una provocazione proveniente da alcuni briganti di San Giovanni Rotondo ed evitando in tal modo lo scorrere di sangue; dopo che lo stesso era stato elemento di punta del movimento che aveva portato i sammarchesi a disertare le ume per il plebiscito fissato per il 21 ottobre 1860 e al quale il Del Sambro, essendo rinchiuso in carcere, non potè prendere parte. Ma sono soprattutto gli avvenimenti del 2-4 giugno 1861, allorché si verificò l’insurrezione di San Marco in Lamis e di Rignano Garganico, nel corso della quale ebbero luogo gravissimi torbidi accompagnati da morti, che sanciscono la leadership di Del Sambro, anche a seguito della morte di Agostino Nardella, che, fino ad allora, era stato autorevolissimo capo della banda dei sammarchesi. La banda Del Sambro, della quale assunse il comando con il titolo di “generale di campagna”, operava per lo più nel triangolo San Marco in LamisApricena-San Severo, compiendo numerosi furti ed anche sequestri di persona, come a danno di un certo Santelli, al fine di incamerare danaro. Scarsi o quasi inesistenti erano, invece, i collegamenti con le bande _______________ 5 - R. MANGIAMELI, Banditi e mafiosi dopo l'Unità, in “MERIDIANA - Rivista di storia e scienze sociali”. Roma, n. 7-8, sett. ’89-genn. ’90, p. 89. 6 - P. SOCCIO, op. cit., p. 52. 397 che facevano capo ad altri briganti garganici come Palumbo e Gatta, operanti, prevalentemente, nel versante sud-orientale del promontorio. La banda di Del Sambro crebbe in pochissimo tempo, alimentandosi degli sbandati, che, incorporati nell’esercito italiano, disertavano, arruolandosi sotto la bandiera bianca dei Borboni e, soprattutto, dei tanti giovani che affluivano nelle bande per motivi diversi. In primo luogo perché i giovani potevano con facilità sganciarsi di casa perché non avevano figli a cui pensare; poi perché volevano sfuggire al servizio di leva; infine ,perché il mancato mantenimento delle promesse del nuovo regime provocò in loro una profonda delusione, spingendoli a diventare i più accaniti oppositori. In poco tempo l’agro di San Marco in Lamis divenne il rifugio di tutti i malviventi e di tutti gli sbandati, mentre la banda Del Sambro allargava il suo raggio d’azione attraverso una frenetica ed incessante attività, fino a coprire buona parte del territorio garganico e dell’Alto Tavoliere, andando in tal modo a costituire un “distretto brigantesco” di discrete dimensioni. Lu Zambro e la sua combriccola accrebbero le file, formando una banda di oltre cinquanta individui armati di tutto punto e a cavallo, la quale sovente si divideva in frazioni comandate dallo stesso Del Sambro, da Recchiomozzo e da Licandrone. Queste bande, a cui di volta in volta si aggregavano quelle di minore consistenza guidate dal terranovese Leonardo d’Aloia, dall’apricenese Nicandro Barone, detto Licandruccio, dal Magnocavallo, taglieggiavano la zona garganica, il Tavoliere e tutti i paesi circostanti, arrivando alla sponda destra del Fortore, congiungendosi, talvolta, con le grosse accozzaglie di Michele Caruso, il cavallaro di Torremaggiore, il brigante più famoso e conosciuto di quella zona, di Varanelli da Celenza Valfortore e di Minelli, che infestavano le due sponde del Fortore. Per tutto il 1861 e fino alla sua morte il De Sambro partecipò alle più importanti azioni brigantesche o direttamente o attraverso i suoi luogotenenti: all’invasione di Poggio Imperiale nel giugno 1861, alla rivolta di Vieste nel luglio, agli scontri con i lancieri nel territorio di San Marco in Lamis e di Rignano Garganico, ai combattimenti presso la masseria Petrulli in agro di Torremaggiore, all’invasione di Ischitella nel mese di settembre, alla cruenta battaglia di fine 1861 in località Ciccallento 7. _______________ 7 - T.LA CECILIA, A caccia di briganti in terra di Puglia a cura di T. Nardella, Manduria, 1985, p. 39. 398 In questi scontri la banda Del Sambro inflisse sempre pesanti perdite all’esercito, anche perché il capo era dotato di grandi capacità militari e di uno straordinario senso tattico, che gli consentivano di “scansare la forza, minore o maggiore come si fosse stata, essendone a tempo avvisato del più piccolo movimento da persone prezzolate, le quali facevano a gara a chi il primo li portasse notizie, per la grossa mancia che poi si riceveva”8. Gli incendi, i ricatti, le uccisioni di persone e di animali, i sequestri di persona da parte di Del Sambro continuarono fino a metà anno 1862, allorché, nel corso di quella calda estate, si cominciò da parte dell’esercito a preparare una controffensiva contro il brigantaggio, colpendo più efficacemente gli appoggi occulti, che costituivano la vera forza dei briganti. Il 28 giugno, infatti, il nuovo comandante della guarnigione di San Marco in Lamis, il maggiore Rajola Pescarini, uomo coraggioso e militare accorto, riesce ad intrappolare, con l’aiuto del capitano Cavallero e del tenente Federici, il Del Sambro, che si trovava in località “Cardinale”, vicino alla strada che da San Marco in Lamis conduce a Sannicandro Garganico, presso la tenuta di don Giuseppe Luigi Ciavarella, ricco possidente, che a quel tempo era uno dei capi del locale comitato borbonico. In quell’occasione trovarono la morte i compagni d’armi di Del Sambro: i fratelli Giovanni e Giuseppe Antonio Vincitorio, il medico cerusico don Nicola Perifano e Pietro Argentino, renitente alla leva del 1861. Il Del Sambro, invece, fu catturato, portato a San Marco in Larnis e fucilato il giorno dopo, il 29 giugno 1862, alla presenza di migliaia di persone, perché essendo un brigante di primo piano (“generale riformatore di comitiva”), la decisione ultima era demandata alle massime autorità provinciali. Si chiudeva così l’esperienza umana di un vero capobrigante, che tuttavia non riuscì mai a varcare la fama di capo essenzialmente locale e i confini di un territorio piuttosto ristretto, diversamente da quanto capitò ad altri due briganti famosi, Michele Caruso e Giuseppe Schiavone, il cui raggio d’azione fu molto più ampio e la cui esperienza politico-militare superò i confini della loro area di provenienza. Il Del Sambro non costituì una precisa dimensione politico-sociale o, comunque, allo stato della documentazione è difficile rinvenirla. A differenza di altri briganti, che rappresentarono una forma di banditismo sociale come Vardarelli o Nicola Morra, o, anche, di altri briganti, come il suo _______________ 8 - P. SOCCIO, op. cit., p. 203. 399 concittadino Agostino Nardella, che, pure, non era insensibile ad alcune problematiche sociali. Uomo dal carattere forte e deciso, fu un capobanda capace e riconosciuto; seppe tenere in pugno, con autorevolezza e carisma, ma anche con autoritarismo, una banda composita e variegata, che, dopo la sua morte, conobbe un vero e proprio processo centrifugo, sfaldandosi progressivamente, a causa del risveglio di vecchie gelosie ed inimicizie, temporaneamente sopite. Come capita sempre nel fuoco di una lotta, capo non è chi è designato a tavolino, ma colui che si rivela il più energico, il più abile, il più coraggioso e persino il più spietato. E la disciplina che vige all’interno delle bande non proviene da leggi o regolamenti, ma unicamente dal prestigio personale e dal timore che ispira il capo. Del Sambro da un certo punto di vista fu un brigante del tutto particolare. Temuto e rispettato, ma non amato, suscitatore di speranze, non capopolo. Suo scopo era quello di accrescere il suo potere di intimidazione e il suo potere economico in particolare, accumulando non soltanto un enorme patrimonio zootecnico, che toccò punte elevate, ma anche oro e danaro. Per questa ragione, oltre che per motivi di consenso sociale, egli con i suoi seguaci assaltava le masserie, i luoghi ricchi della pianura, piuttosto che le misere casupole di montagna. Fu tra quei briganti che, con il cambio di regime politico, accarezzarono l’idea di poter finalmente mutare le modestissime condizioni di una vita, condotta fino ad allora tra tante umiliazioni ed altrettante privazioni, ricorrendo alla violenza criminale come strumento di ascesa sociale per acquistare prestigio, potere, agiatezza. Ma nella sua avventura le vicende politiche rimangono molto sullo sfondo, per cui non si può dare completamente torto al giudice istruttore di Trani, che, a proposito dei moti di San Marco in Lamis del giugno 1861, sottolineò che lo scopo precipuo di quel movimento fu la rapina, il furto e la vendetta privata, e la causa politica vi concorse come secondaria ed accidentale” 9. Affermare che la finalità principale di quella rivolta fosse criminale e non politica non significa però nascondere o sottovalutare le collusioni occulte e _______________ 9 - CORTE D’APPELLO DELLE PUGLIE, Trani, Sentenza ed atto di accusa pei fatti criminosi accaduti in San Marco in Lamis e Rignano nei primi giorni di giugno 1861, Trani, 1864, p. 13. 400 palesi che, anche localmente, esistevano tra la banda Del Sambro e i maggiori rappresentanti del comitato borbonico, che cercavano con tutti i mezzi di promuovere la reazione antiunitaria, fornendo alle bande protezioni, e appetitosi finanziamenti, oltre che una forma di legittimazione politica. Per i briganti accumulare capitali e ricchezze era il fine essenziale, non diversamente da quanto oggi accade per la moderna criminalità che sulle vicende politiche, vuole esercitare un potere di condizionamento per salvaguardare i propri interessi ed accrescere i propri beni illeciti e che al potere politico presta il suo aiuto e i suoi favori, nella logica di un reciproco accordo, anche se non ufficializzato. Era questo il corrispettivo di una vita trapazzosa, piena di incognite e di troppi rischi, contrassegnata da troppe notti passate all’addiaccio, con la spada del ricatto o del tradimento permanentemente sulla testa. La condizione dei briganti era quella che il famoso brigante calabrese Carmine Talarico descrisse: “Un brigante deve stare sempre attento ad eventuali pericoli, girando la testa prima in una direzione, poi nell’altra. Egli vive in uno stato di paura, soprattutto di sfiducia e di vigilanza. E’ nemico di tutti e tutti gli sono nemici” 10. I briganti possedevano sì ricchezze, ma potevano goderle solo per poco tempo, consapevoli come erano che la loro vita era destinata ad essere breve e che la morte poteva sorprenderli da un momento all’altro. Quando Del Sambro fu catturato, addosso gli trovarono un ricco bottino di danaro ed oggetti di oro. Non diversamente accadde a Ninco Nanco, il quale venne colpito da un colpo di fucile che “lo fece estinto e gli si trovarono indosso molti danari e due medaglie, una in bronzo al merito di un istituto militare, l’altra un fregio di un’armatura antica che rappresentava un elmo con dei rabeschi” 11. Cannone da Casoli, il capo della banda di Atessa, portava orecchini, anelli, orologio, il tutto massicciamente in oro, ma anche strisce di argento alla giacca e scarlatte ai calzoni12. _______________ 10 - A. SCIROCCO, Briganti e società: il caso Calabria, Cavallino, 199 1, p. 53. 11 - G. BOURELLY, Il brigantaggio politico dal 1860 al 1865 nelle zone militari di Melfi e Lacedonia, Venosa, 1987, p. 218. 12 - R. COLAPIETRA,Ilbrigantaggio post-unitario inAbruzzo, Molise e Capitanata nella crisi di trasformazione dal comunitarismo pastorale all'individualismo agrario, in “ARCHIVIO STORICO PER LE PROVINCE NAPOLETANE”, Napoli, a. CI, 1983, p. 308. 401 Ad un altro esponente garganico, appartenente alla banda di Angelo Raffaele Villani, del quale forse era il cassiere, venne trovato addosso al momento della morte avvenuta in combattimento presso Cagnano il 6 marzo 1863 un vero e proprio tesoro. Così un cronista militare dell’epoca raccontò la sua uccisione: “Allora uno dei soldati sparò nella buca e, dopo poco, tirando ancora il piede, il corpo esanime fu estratto. Era un giovane poco più che ventenne, bella figura scultorea, impuntabile nella sua uniforme brigantesca con ogni ben di Dio nelle tasche: lunga borsa fornita di 200 piastre, un grosso involto di gioielli, orecchini e spille di brillanti di valore, fili di coralli comuni, parecchi anelli con pietre varie, un orologio ed ancora una magnifica pipa di schiuma con buoni sigari napoletani...” 13. Una descrizione che fa pensare più ad un giovane aristocratico che ad un bandito. Sempre sul Gargano, a Rignano, nel corso di un’incursione una compagnia di briganti si “ammutina contro il loro capo, lo disarma, lo spoglia di ducati 1700 che aveva in oro e in argento”14. Una cifra non disprezzabile, considerato che un ottimo cavallo era venduto a cento ducati. Tornando al Del Sambro, va detto che il suo carattere aspro, spigoloso, e persino malvagio, talora conosceva barlumi di vera umanità, come gli capitò in più occasioni. Nel corso dei moti del giugno 1861 mise sotto protezione, salvandogli la vita, il medico Giuseppe Tardio disobbligandosi “per un servizio che io gli resi nel dicembre ’59, allorché, ferito, fu medicato da me nel carcere criminale senz’ombra di diffidenza e di timore, mentre altri medici rifiutarono l’opera loro, temendo di lui come belva feroce” 15. Non meno generoso si rivelò, nel mese di luglio 1861, nei confronti di diciotto lancieri, che, fatti prigionieri in territorio di Rignano Garganico, furono da lui non sgozzati, ma posti in libertà con in più un regalo di quattro piastre16. Con la morte del “generale riformatore di comitiva” inizia il processo di disfacimento e di disgregazione della sua banda, che si va frazionando in più ‘comitive’, talora in guerra tra di loro, tant’è che dopo la morte di _______________ 13 - T. MARIOTTI, Una pagina del brigantaggio in Capitanata negli anni 1862-1865, in “RIVISTA MILITARE ITALIANA”, Roma, 1951, p. 36. 14 - P. SOCCIO, op. cit., p. 209. 15 - G. TARDIO, I giorni del brigantaggio a San Marco in Lamis, Foggia, 1962, p. 20. 16 - P. LA PORTA, Ricordi del brigantaggio garganico, S. Marco in Lamis, 1995, p. 37. 402 Del Sambro vengono uccise alcune sorelle dello stesso da parte di bande rivali. La durezza della repressione intanto e la perdita di consenso che i briganti subivano presso la popolazione, spingevano molti ad abbandonare le file e favoriva il processo di distacco e di dissociazione dalle bande. La “legislazione premiale”, che veniva praticata con lo sconto della pena per chi si presentava ‘spontaneamente’ e i premi in danaro elargiti a favore di quanti concorrevano a segnalare la presenza delle bande o ad agevolare la loro cattura, determinarono una crisi acuta all’interno delle stesse, inserendo anche un clima di lotta intestina e di sospetto reciproco, che toglieva forza e vigore alla lotta contro i militari impegnati nella repressione. I comandanti delle compagnie schierate su quei teatri di lotta sempre più praticavano, con il concorso delle autorità locali, un’opera di pressione, di intimidazione e, nello stesso tempo, promettevano riduzione di pene, protezione e lavoro alle famiglie più incerte e tentennanti, per indurre i ‘tristi’ a costituirsi e a collaborare con il nuovo stato. Questa condotta introdusse un cuneo formidabile nella compattezza delle bande e ne determinò lo scompaginamento. Il 15 aprile 1863, tradito da due briganti, suoi cugini, venne ammazzato, in uno scontro presso il convento di Stignano, il capobanda Nicandro Polignone. Quattro giorni dopo il regio delegato Giuseppe Santelli, che nel cornune di San Marco in Lamis aveva sostituito il sindaco e il decurionato, distribuì simbolicamente in pubblica piazza, alla presenza del popolo e dei soldati parati in armi, un premio di mille lire ai due fratelli cugini, assassini del Polignone. Dopo l’uccisione di “Licandrone” il processo di disfacimento delle bande che operavano nel territorio garganico conobbe una fase di accelerazione, ed insieme ai sammarchesi furono coinvolti quei gruppi armati che operavano attorno ad Apricena. Il 1° giugno del medesimo anno venne ucciso in agro di Sannicandro Garganico, dove aveva tentato di trovare scampo, il brigante Nicandro Barone, detto Licandrino, colpito da fucile della guardia nazionale Nino Maglio 17. Dei briganti di un certo peso che costituivano la banda dello “Zambro” l’unico rimasto in vita era il famoso Recchiomozzo. Ma il cerchio si stava stringendo attorno a lui da parte delle autorità militari provinciali, _______________ 17 - T. MARIOTTI, op. cit., p. 19. 403 che cercavano di incentivare il fenomeno del pentitismo e della dissociazione, promettendo benefici. Il prefetto di Capitanata De Ferrari il 1° giugno 1863 emise apposito bando contro Schiavone, Caruso, Villani e Palumbo, ricevendo per queste operazioni fondi speciali da parte del ministero dell’interno. Infatti promise un premio straordinario e fortissimo, pagabile immediatamente “a chi contribuirà alla cattura di uno almeno dei briganti o di qualche complice. Colui che renderà tale servigio, se bandito e presentandosi, oltre il premio godrà della diminuzione della pena di un grado e sarà raccomandato alla grazia divina”18. Il 17 agosto del ’63 venne ucciso sempre a San Marco in Lamis, in contrada Lavorelli, dopo un lungo scontro a fuoco con un gruppo di guardie nazionali, capeggiato dai fratelli Carlo e Luigi De Carolis. La fine del Villani fu resa possibile grazie ad un tranello teso dalle guardie nazionali con il concorso di alcuni appartenenti alla banda Villani e di una donna, Gaetana D’Apolito, che ebbe in premio trecento lire da parte della Commissione provinciale per la repressione del brigantaggio. Con la morte di Recchiomozzo nei fatti veniva sgominata quella che era stata la più temibile, agguerrita e impietosa banda del Gargano, che aveva fatto riferimento a Del Sambro, e il comune di San Marco in Lamis, considerato dai responsabili dell’ordine pubblico ‘vergogna nazionale’, poteva considerarsi pressoché normalizzato. Questo episodio, avvenuto per mera coincidenza due giorni dopo la promulgazione della “legge Pica”, che istituiva nel Mezzogiorno infestato dal brigantaggio lo stato di polizia, rappresentò per la Capitanata una svolta nella lotta al brigantaggio, che, seppure non completamente debellato sul piano militare, sempre più appariva agli occhi delle popolazioni un fenomeno con il quale non bisognava avere nulla da spartire. Una lotta disperata senza più alcuna possibilità di successo. _______________ 18 - N. C. D’AMELIO, Quel lontano 1860, Foggia, 1989, p. 115. 404 Una lettera inedita di Antonio Salandra sul colera del 1886 in Capitanata di Tommaso Nardella Nella lunga estate del 1886 in Capitanata diverse furono le comunità cittadine colpite dall’epidemia colerica i cui effetti si mostrarono particolarmente devastanti a San Marco in Lamis che allora contava 15.400 abitanti con 910 famiglie “pari a seimila persone segnate nei registri dei poveri” miste ad un’imponente massa bracciantile disoccupata pur se saltuariamente utilizzata in lavori agricoli stagionali. Un antico popoloso centro garganico sorto, agli albori del secolo XI, sul fondo di un’ampia valle tettonica con vocazione agricolo-pastorale soggetta a ricorrenti crisi economiche acuite dall’endemico contrasto tra “cesinaroli”, piccoli proprietari di terreni boschivi, e pastori per il possesso di un frusto di terra su cui la piovra delle usurpazioni demaniali non aveva ancora allungato i suoi tentacoli. Sempre inadeguato, nonostante il funzionamento di dodici classi elementari, l’impegno municipale di ridurre il numero degli analfabeti e sempre più ampio il divaricamento della forbice sociale tra la “cenciosa povertà” e il ceto dei “galantuomini” appartenenti alla media borghesia terriera e di toga nelle cui mani ben salda restava la gestione di Palazzo Badiale che, mutatis mutandis, rappresentava pur sempre nella coscienza popolare il simbolo di un vassallaggio politicoamministrativo contro il quale non mancavano voci di protesta e di dissidenza da parte delle nascenti società di mutuo soccorso e dei liberali di ispirazione ricciardiana. Ma a tenerle a freno, più che le scarse forze dell’ordine, provvedeva la paternalistica influenza di un numeroso clero, nostalgico dei tempi andati e timoroso di novità ritenute “esiziali per il rispetto delle leggi e della religione”. Su 120 cittadini aventi diritto di voto, a partire dal 1860, ben 63 erano sacerdoti che avevano frequentato i seminari di Troia, Manfredonia e Molfetta mossi da indubbia vocazione religiosa ma anche dalla possibilità di una scalata sociale che abolisse nell’altrui ricordo l’estrema umiltà delle loro origini. Questo, a larghi tratti, allo spirar del XIX secolo, la temperie socio-politica cui fa da sfondo un ambiente fisico chiuso da una cinta di aridi monti, mortificato da un’infinità di condizionamenti di vario genere e natura. 405 tra i quali un secolare diffuso degrado igienico da cogliere a piene mani, in tutta la sua drammatica realtà, nella ufficialità di una sincrona relazione sanitaria1 della quale si riportano alcuni brani di raccapricciante quotidianità esistenziale. “Tranne i due corsi Umberto I e Giannone, e quattro strade intermedie, che sono lastricate a pietre vulcaniche, tutte le altre strade di San Marco, tra cui diversi angiporti, vicoletti stretti e bassi, a cul di sacco, sono ciottolate, malissimamente ciottolate, se non ciottolate affatto con sottosuolo superficiale permeabilissimo. E nelle strade vengono versate dalle case tutte le immondizie e le sostanze di rifiuto, e spesso anche gli escrementi, specialmente dei malati, diluiti nelle acque luride, da rendere applicabile qui, meglio che altrove, il detto del Budd: ‘le vie sono una continuazione dell’intestino malato’. E per la mancanza di regolare pavimentazione, le acque non scorrono tutte, ma soffermano e ristagnano nelle vie, da formare, con le immondezze, tante pozzanghere permanenti, le quali emettono esalazioni putride, e molto più quando vengono smosse per farne, impastandovi paglia scadentissima, concime, di cui le vie si vedono continuamente ingombrate”. Anche l’allevamento dei maiali, oltre 15.000 nella primavera del 1886, notevole fonte di sussistenza per diverse famiglie, divenne, per inadeguatezza di condizioni abitative e per assoluta carenza di impianti igienici, causa scatenante per il diffondersi e il ripetersi di letali malattie epdemiche. Davvero desolante il quadro delle promiscuità abitative: “E nelle case malsane, nelle abitazioni umide, sporche, fetide, dove vivono spesso agglomerati di diverse famiglie con animali diversi e vari, che si annida la ‘miseria fisiologica’, e, con essa, il ‘degradamento morale’ anche dell’individuo e della famiglia”. Insomma “come nelle strade insalubri spesseggiano i morbi infettivi, nello stesso modo una casa con aria poca e cattiva, con scarsa luce, lurida ed umida, diventa centro di infezione, dove le epidemie possono sviluppare facilmente e fortemente”. Inevitabile, in situazioni del genere, l’infuriare di pestilenziali flagelli su di una dolente umanità priva, tra l’altro, di un qualsivoglia asilo di mendicità e di una sufficiente assistenza medica, che nelle ricorrenti gravi emergenze della vita si affida all’aiuto divino e a quello della privata carità non in grado certo di fronteggiare l’assalto di devastanti calamità epidemiche. Oltre quella “terribile” del 1836-37, la comunità sammarchese fu colpita dal colera del 1865 e del 1867 cui seguirono nel 1880 quelle del vaiolo “con strage di bambini non vaccinati” e di febbri tifoidee, nell’anno seguente, _______________ 1 - P. LA PORTA - A. LA SELVA, Relazione al sindaco di Sammarco in Lamis sul servizio medico-chirurgico ai poveri nel triennio 1890-91-92 e sulle presenti condizioni igieniche e sanitarie del Comune, Sansevero, 1893, pag. 20 e sgg. 406 unite “in modo epidemico a meningiti cerebro-spinali, di erisipila, febbri puerperali e morbillo nel 1886-87 con un alto numero di decessi e “fatti codardi e vili in persone, che per la loro carica o posizione sociale non avrebbero dovuto venir meno a quanto loro richiedeva la gravità degli avvenimenti” 2. Con inesorabile puntualità ciclica, quasi un predestinato amaro destino, dal luglio al settembre 1886, pur lievemente migliorate le condizioni igieniche del paese e nonostante il generoso contributo di tanti volontari3, il morbo asiatico “crassò” 400 cittadini 170 dei quali perirono con il seppellimento, per misure profilattiche, dei loro corpi “in una comune fossa cimiteriale” ordinata dal sindaco dott. Giovanni Villani che, avendo già prosciugato le già esauste fonti del bilancio municipale e non riuscendo più a soddisfare le pur minime, elementari richieste di aiuto di una popolazione messa a così dura prova, pensò bene di rivolgersi all’on. prof. Antonio Salandra che in San Marco contava “carissimi amici” ed estimatori per ottener un conforto, un aiuto onde tentare una possibile via di uscita da una situazione così drammatica. Ecco da Troia, il 19 settembre 1886, la risposta4 dell’illustre parlamentare: _______________ 2 - G. TARDIO, Rimembranze - Diario di vita politica e amministrativa di un paese garganico (1860-1899) a cura di Tommaso Nardella e Giuseppe Soccio, Foggia, 1995, pag. 96 e sgg. 3 - Il 18 agosto nella sede delle scuole municipali si riunirono in assemblea gli aderenti alla “Compagnia di soccorso ai colerosi”, sotto il titolo della Croce Rossa, per l’elezione del comitato cittadino che risultò così composto: Raffaele Centonza, presidente; Antonio La Selva, vicepresidente; Matteo Tardio, segretario; Alfonso Piccirella, tesoriere. Tra gli aderenti si distinsero Pasquale Martino, maestro elementare di anni 28, Gabriele Leggieri, barbiere di anni 22 e Michele Calvitto, agricoltore di anni 28 che nell’adempimento del loro dovere “in servizio della pubblica salute” sacrificarono le loro giovani vite e i cui nomi saranno ricordati in una lapide cimiteriale con epigrafe dettata da Vito Fornari. Sulla complessa e circostanziata attività assistenziale il Centonza, direttore didattico, compilò una Relazione del servizio prestato durante l'epidemia colerica del 1886 che vide la luce, l’anno successivo, in San Severo per i tipi di Vecchi e De Girolamo. Del Centonza è inoltre da segnalare un appello all’umana solidarietà nei confronti “di chi, martire di una carità sublime, per la salvezza della vita altrui sacrifica modestamente la propria” apparso sui giornali foggiani “L’UNIONE” del 15 settembre 1886 e “L’APE” dell’undici settembre 1887. In merito cfr. anche P. LA PORTA, Per i caduti della Compagnia della Croce Rossa - Discorso letto nel Cimitero di San Marco in Lamis addì 9 settembre 1887, San Severo, 1910. 4 - Carte Villani-D’Orsi in possesso dello scrivente. 407 “Egregio Sig. Sindaco, avrei potuto scriverle da più giorni relativamente all’affare che Ella mi raccomandò; ma non l’ho fatto, pensando alle gran cure che hanno dovuto preoccuparla durante il fiero scoppio dell’epidemia colerica in cotesto Comune. Ora che un miglioramento - speriamo rapido e persistente - si è verificato tengo ad esprimerle che, immediatamente dopo la sua lettera, scrissi al Direttore del Credito Fondiario del Banco di Napoli. N’ebbi in risposta che cotesto Municipio potrà ottenere il mutuo richiesto, purché si conformi alle condizioni imposte al riguardo, in casi simili, ai previsti salvo, com’Ella ben sa, l’ottenere preventivamente l’assenso dell’autorità tutoria. Quando Ella mi ha presentato la domanda, corredandola degli indispensabili documenti in conformità delle cennate istruzioni, s’Ella vorrà tenermene avvertito, io mi presterò volentieri, per quanto potrò, ad agevolare la conclusione dell’affare, sia per le perizie, sia per le difficoltà che potessero per avventura insorgere circa l’esame dei titoli. In tale intelligenza auguro cordialmente a Lei ed a tutti i carissimi amici di costà di uscire incolumi dal presente travaglio; e, pregandola dei miei ossequi al commendatore fratello, ne Le soffermo. Devotissimo Antonio Samandra”. Seguì con vigile cura, come era suo costume, l’iter burocratico della richiesta comunale che, nel volgere di un bimestre, venne accolta dalla direzione del Banco di Napoli con la concessione di un mutuo di lire duecentomila da rateizzare in vent’anni al tasso agevolato del 31/ 2 per cento. Grazie ad un così tempestivo e provvidenziale intervento il sindaco poté prolungare l’assistenza ai convalescenti, assegnare a vedove e orfani un sia pur modesto sussidio mensile rendendo a tanti poveri infelici meno grigi i giorni della disperazione e riprendere i lavori di “basolamento” di vicoli e strade “su cui ristagnavano da secoli acque putride e puzzolenti” 5. Sembrava che il peggio fosse ormai alle spalle e che la vita, anche se a gran fatica, riprendesse il suo ritmo normale che l’alba tragica del nuovo secolo interromperà adducendo nella Valle dello Starale nuovi lutti mentre altrove si inneggiava al trionfo del progresso civile e dell’umana felicità. _______________ 5 - Lettera del 20 dicembre 1886 del sindaco Villani al comm. Emilio Manfredi prefetto di Foggia. Carte Villani-D’Orsi. 408 Notiziario a PALAZZO DOGANA e in BIBLIOTECA (a cura di Antonio Ventura) a PALAZZO Elezioni del Consiglio Provinciale. Il quattro dicembre 1994 si sono tenute le elezioni per il rinnovo del Consiglio Provinciale di Capitanata, secondo le nuove disposizioni della Legge n. 142/90. Candidati alla carica di presidente sono stati: Antonio Pellegrino, per la Lista ‘Lavoro e Libertà’; Francesco Paolo Fantini, per il ‘Polo delle Libertà’; Leonardo Lioce, per ‘Rifondazione Comunista’; Anna Maria Novelli, per ‘Progressisti di Capitanata’ e Salvatore Trombetta, per ‘Ambiente Club’. Il risultato delle urne ha visto un lusinghiero successo di Antonio Pellegrino, eletto presidente dell’Amministrazione Provinciale di Capitanata alla prima tornata. I venti seggi della maggioranza sono stati così distribuiti: nove al P.D.S., Salvatore Trombetta (Apricena), Antonio Donatiello (Cerignola), Antonio Summa (Cerignola), Antonio Pettolino (San Marco in Lamis), Rocco Frascaria (Sannicandro Garganico), Luigi De Rosa (San Severo), Antonio Garabba (San Severo), Luigi Colangelo (Torremaggiore), Andrea Patruno (San Ferdinando di Puglia); sei al P.P.I., Angelo Sciretta (Rocchetta Sant'Antonio), Vito Colangelo (Monte Sant'Angelo), Antonio Iuso (Roseto Valfortore), Giovanni Ritrovato (San Giovanni Rotondo), Angelo Cera (San Marco in Lamis), Costantino Vocino (Serracapriola); tre alla lista ‘Lavoro e Libertà’, Pasquale Morgante (Accadia), Bernardo Lodispoto (Margherita di Savoia), Luigi Mazzamurro (Monte Sant'Angelo); uno al ‘Patto Segni’, Giorgio Ianzitti (Serracapriola). Per l’opposizione, di ‘destra’ e ‘sinistra’: il ‘Polo delle Libertà’, oltre a Francesco Paolo Fantini, annovera tra le sue file, Antonio Giannatempo (Cerignola, A.N.), Giovanna Irmici (Foggia, A.N.), Bellisario Masi (Foggia, Forza Italia), Andrea Cardinale (Foggia, C.C.D.), Antonio Marinari (Foggia, A.N.), Vincenza Marrano (Ortanova, A.N.), 411 Fabrizio Fabiano (San Severo, A.N.) e Vincenzo Caruso (Vieste, A.N.). ‘Rifondazione Comunista’ ha avuto due consiglieri: Leonardo Lioce (Troia) e Leonardo Lombardi (Bovino). La Giunta Provinciale è risultata così composta: presidente, Antonio Pellegrino; assessore ai Lavori Pubblici, Vincenzo Tropea; assessore al Bilancio, Finanze e Patrimonio, Matteo Vigilante; assessore all’Ambiente ed Ecologia, Matteo Fusilli; assessore alla Pubblica Istruzione e Cultura, Valeria De Trino Galante; assessore al Personale, Ciro Mundi; assessore alle Attività Produttive, Matteo Valentino. Al neo presidente, prof. dott. Antonio Pellegrino, e ai suoi Assessori, un saluto beneaugurante di proficuo lavoro. in BIBLIOTECA Ventennale della nuova sede e Mostra bibliografico-documentaria “Federico in biblioteca”. Con un “incontro” di gran richiamo, la Biblioteca Provinciale ha ricordato, il 7 dicembre 1994, due importanti ricorrenze: i venti anni della inaugurazione dell’attuale sede e l’ottavo centenario della nascita di Federico II. A due cattedratici dell’Università degli Studi di Bari, il prof. Michele Dell’Aquila ed il prof. Pasquale Corsi, il compito di celebrare le due date ed animare la manifestazione, che si è conclusa con la consegna di tre targhe: al commissario della Provincia, prefetto Vittorio Orefice; all’avvocato Berardino Tizzani, presidente dell’Amministrazione Provinciale al momento in cui furono deliberati i lavori della nuova Biblioteca, ed all’allora direttore, dott. Angelo Celuzza. Dopo un’introduzione del direttore, che ha sostenuto la necessità “di passare da una forzata, statica difesa delle posizioni sin qui acquisite alla rivendicazione di un ruolo più dinamico e, al tempo stesso, più immediatamente percepibile e visibile, in primo luogo attraverso una più congrua e attenta considerazione degli attuali amministratori”, il prof. Dell’Aquila ha ripercorso le tappe dell’istituto bibliografico foggiano, dall’origine, per opera del sindaco Angelo Siniscalco nel 1834, sino ad oggi. La sua relazione - che appare in apertura del presente fascicolo - traccia anche un sintetico profilo de “la Capitanata”, dal primo numero, apparso nel 1962 col titolo “La Biblioteca Provinciale di Foggia”, sino all’attuale nuova serie - in altra veste tipografica e contenuti - della quale, nell’occasione, è stato presentato il secondo numero. 412 Nella seconda parte della manifestazione, il prof. Pasquale Corsi ha ricostruito - in altro luogo se ne riporta il testo - il vasto mosaico dei rapporti tra Federico II e la Capitanata, riprendendo ed ampliando i temi politici, culturali, sociali ed economici svolti nella mostra bibliografico-documentaria ed iconografica “Federico in biblioteca”, allestita nella sala dei “Fondi Speciali”. Nell’elegante catalogo, articolato in oltre quattrocento titoli e corredato con immagini di rare incisioni, sono descritte, divise in sezioni, le raccolte diplomatiche, le cronache e le pubblicazioni recenti, riguardanti i personaggi e le vicende della Capitanata e del Mezzogiorno dal 1194 sino al 1266, ossia la storia del Regno di Sicilia dall’ultimo sovrano normanno alla scomparsa degli Hohenstaufen, con la sconfitta di Manfredi a Benevento ad opera di Carlo d’Angiò. In appendice, una singolare testimonianza dei rapporti tra Federico II e le città pugliesi: le ‘invettive’ – nell’originale testo latino con relativa traduzione in italiano - attribuite all’Imperatore, quando, al ritorno dalla crociata in Terrasanta, trovò la ribellione nel Regno. La mostra, aperta dal 7 dicembre 1994 al 25 gennaio 1995, è stata visitata dalle scuole del capoluogo; successivamente è stata ospitata dal Liceo artistico statale, aggregato al Liceo Classico “G. Perrotta” di Termoli, dal 30 gennaio al 20 febbraio; nella ‘Sala ducale’ del Castello di Torremaggiore, dal 29 marzo al 16 aprile; presso il Comune di San Marco in Lamis, dal 22 aprile al 10 maggio e presso la ‘Pro Loco’ di Sant’Agata di Puglia, dal 4 al 30 agosto 1995. *** Quasi a chiusura ideale delle celebrazioni federiciane - nel corso di un altro “incontro in biblioteca” - il 19 aprile 1996 è stato presentato il volume “Federico II. Le tre capitali del Regno di Sicilia: Palermo - Foggia - Napoli" - Napoli, 1995. Gli illustri autori, Errico Cuozzo e Jean-Marie Martin, sono stati presentati dal prof. Aurelio Cernigliaro, dell’Università di Foggia. Mostra bibliografico-documentaria su Alfredo Petrucci. In occasione dell’intitolazione di una piazza di Rodi Garganico ad Alfredo Petrucci, la Biblioteca Provinciale ha allestito, dal 20 al 26 maggio 1995, presso il locale Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri 413 “Mauro del Giudice”, una ricca mostra bibliografico-documentaria su “Alfredo Petrucci e il suo Gargano”. L’inaugurazione è coincisa con il convegno di studi omonimo, promosso dall’Amministrazione Provinciale, dalla Società di Storia Patria per la Puglia e dai Comuni di Rodi e Sannicandro Garganico. Circa un centinaio, tra disegni, acqueforti, volumi e manoscritti, i pezzi esposti, per illustrare l’eclettica personalità di Alfredo Petrucci, storico, narratore, acquafortista, critico d’arte ed autore di importanti opere su vicende artistiche italiane, e pugliesi in particolare. Concorso video-indagine. Nel 1995, la Sala Ragazzi, d’intesa con il 32° Distretto Scolastico, ha promosso la prima edizione del Concorso “Video-indagine”, sul tema “Vecchi mestieri scomparsi”. Hanno aderito all’iniziativa le seguenti Scuole medie inferiori: “Sacro Cuore” di Orsara di Puglia; “G. Palmieri” di Deliceto; “G. Garibaldi” di Trinitapoli e “Giovanni XXIII” di San Ferdinando di Puglia. Sono risultati vincitori gli alunni della Scuola “Sacro Cuore” di Orsara di Puglia con il video “Immagini di un mondo perduto”. Ad essi, nel corso della manifestazione conclusiva del 6 novembre presso l’Auditorium della Biblioteca, è stato consegnato il premio, consistente in una videocamera, messa in palio dalla Camera di Commercio di Foggia. “Cinecento”. Per ricordare i cento anni del Cinema, in collaborazione con altri soggetti culturali presenti sul territorio, è stata allestita una serie di iniziative, le cui vicende forniscono oggetto, in altro luogo, di apposita ‘narrazione’. “Omaggio a Maria Teresa Di Lascia”. Il sette ottobre 1995 una intensa serata d’omaggio è stata dedicata, nell’Auditorium della Biblioteca, a Maria Teresa Di Lascia, la giovane scrittrice di Rocchetta Sant’Antonio, scomparsa prematuramente e autrice di “Passaggio in ombra”, il romanzo vincitore del Premio Strega 1995. Alla manifestazione - alla quale sono intervenuti il presidente della Provincia prof. dott. Antonio Pellegrino, il sindaco di Foggia on. avv. Paolo Agostinacchio e il sindaco di Rocchetta ing. Angelo Sci414 retta – hanno preso parte: il prof. Stefano Giovanardi dell’università di Roma; gli scrittori Raffaele Nigro e Roberto Pazzi; il marito dell’autrice Sergio D’Elia; gli amici Mario Acquaviva e Anna Angioni ed il fratello Franco. Collaborazioni. La Biblioteca ha prestato la sua collaborazione alla Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Bari, fornendo rare edizioni per la “Mostra sulla civiltà pastorale”, allestita - a lato del convegno di studi su “L’allevamento ovino in Capitanata tra memoria storica e futuro” - presso il Museo Civico di Foggia e restata aperta nel dicembre 1995 - gennaio 1996. Infine, in occasione del convegno “Nicola Zingarelli: Umanità e scrittura”, organizzato dal Comune di Cerignola il 29-30 marzo ’96, ha contribuito, con partecipazione fondamentale, alla mostra documentaria annessa, attraverso pregevoli edizioni dantesche, opere di letteratura e filologiche dell’omonimo fondo della Biblioteca Provinciale, che costituiva la biblioteca personale dell’illustre studioso cerignolese. 415 “Cinecento” e... altro di Antonio De Cosmo “Cinecento” e... altro. La delibera n. 2748 adottata dalla Provincia il 21.12.88, dotò la Biblioteca Provinciale di Foggia (al costo di L. 7.500.000) di una raccolta di manifesti cinematografici: oltre 17.000 pezzi di vario genere e dimensioni, di epoche diverse e in stato di conservazione più o meno buono. Il “collezionista” che la cedette, non sembra abbia avuto un criterio selettivo nel raccogliere il materiale. O almeno, è difficile individuarne uno, nella raccolta acquisita dalla Biblioteca. Per questo non ci riferiamo ad essa in termini di collezione. Che si tratti di raccolta e non di collezione non significa che sia qualcosa di minor valore. Anzi, nel suo insieme, essa rappresenta un nutrito documento del tipo di proiezioni che si sono avvicendate nelle sale cinematografiche italiane nel primo e, ancor più, nel secondo dopoguerra; ma soprattutto negli anni ’60 e ’70. Documento significativo, perché i film proposti in quegli anni al pubblico italiano non sono stati una selezione, ma proprio un insieme indifferenziato, come è tipico dell’industria culturale. Si sarebbe forse detto meglio, al pubblico nostrano, perché suppongo che questi manifesti siano stati “pescati”, prevalentemente, nelle sale locali e del circondario. Indifferenziato è certamente l’insieme, almeno sotto certi aspetti; per esempio la qualità e i contenuti. In rapporto alla produzione, invece, la parte maggiore è naturalmente di origini hollywoodiane. Più si va in dietro più diventa improbabile trovare nomi come Tamara Cernova, interprete di Uomini coraggiosi (1950). Il cinema russo fu pochissimo importato negli anni democristiani. Lo stesso cinema italiano non è presente in modo prevalente, segno, anche questo, di un certo rapporto di forze fra le capitali della produzione cinematografica. L’industria, la grande industria americana, anzi statunitense, come si sa, sommerse con le sue storie e immagini tutto e tutti, non solo l’Italia: questo dice e conferma questa raccolta. 417 L’uso, che, dopo l’acquisto, se ne sarebbe potuto fare di quei pacchi, in carta da imballaggio, non era chiaro. E nemmeno come se ne potesse avere una conoscenza più adeguata, che non fosse quella consentita dagli elenchi manoscritti che li accompagnavano. Un primo tentativo di catalogazione sommaria fu effettuato nel 1989 e, con interruzioni e riprese, continuò, volontario e spontaneo, per tutto il ’90, arenandosi a quota 7.834: “Passaporto per Canton” di Michael Carreras, interpretato da Richard Basehart, Athene Seyler, Lisa Gastoni. Le primissirne 1.573 locandine (un computer dice sempre il numero) erano di piccole dimensioni, circa 30x50: un foglio di album per disegno con una foto di scena contornata da un piccolo bozzetto. Si trattava dei film più vecchi, quelli da sale parrocchiali. Poi, dai pacchi cominciò a srotolarsi il formato più comune, il 33x70, che avrebbe rappresentato più di un terzo della consistenza. Questo lavoro fu condotto su un S’32 (sigla di Sistema 5432) una macchina della IBM, prototipo dei moderni personal. Era infatti un computer, come si dice, mono-utente, che, a differenza dei PC attuali, pesava 3 quintali. Grande quanto una comune scrivania, emetteva un rumore costante di lavatrice in fase di centrifuga; e, in caso di stampa, poi, c’era uno sferragliamento supplementare. Aveva un display di 6 righi da 40 colonne: una feritoia da carro armato attraverso la quale, più che leggere, pareva di spiare sul disco fisso. Non era veloce, ma per l’epoca sembrava che lo fosse. A volte si avviava un ordinamento la mattina per averlo concluso a sera inoltrata. E tuttavia, nonostante tutti questi difetti, questa macchina merita una parentesi. Il S’32 fu adottato dalla Provinciale alla fine del ’79, sicché nel ’90, epoca della prima catalogazione dei manifesti, era ormai fuori produzione. Usarlo ancora costava sempre di più e cominciava anche ad avere frequenti guasti. E molte volte, specie dopo la fermata nella catalogazione dei manifesti, era stato suggerito, chiesto, consigliato, di disdire il contratto di affitto. Finalmente, dopo reiterate insistenze, fu mandato al macero; fu un triste giorno di aprile del ’90: pareva febbraio. Su quel computer si erano avvicendati i progetti, le idee, forse nient’altro che le fantasie dell’automazione nella Biblioteca Provinciale di Foggia. E non solo le fantasie: anche le speranze di tante persone. Per la sua piccola, ma volenterosa memoria (24 K) erano passati gli esperimenti di catalogazione della Sala Ragazzi, della Sala Adulti, di una parte dei Fondi Speciali, della biblioteca del liceo-ginnasio “Lan418 za”, della biblioteca “Forense” dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori, della biblioteca della SSSSS (tremenda sigla della Scuola Superiore di Sicurezza e Servizio Sociale). E anche, per l’appunto, di gran parte)delle locandine della raccolta di grafica cinematografica. Quel giorno di aprile fu portato via come un pesante pachiderma da un prodigioso cingolato su gomma, semovente e telecomandato, i cui motori elettrici lo facevano sibilare come un rettile, mentre, mostruosamente, scendeva anche per le scale: vorrei poter dire che, per l’evento, nessuno sospirò né di rimpianto, né di sollievo. Chiusa la parentesi su più di dieci anni di “convivenza” con un aggeggio siffatto, sembrava chiusa anche la questione della catalogazione dei manifesti. Invece, anche se molto tempo dopo, siamo nel ’93, nel segno del PC, leggero, quasi portatile, silenzioso e caldo, con un leggero ronfo come di gatto che fa le fusa, con un immenso monitor di 25 righe per 80 colonne, inopinatamente la questione si riaprì e prese avvio il secondo tentativo (attenzione al termine) di catalogazione: il software di base veniva da Bruxelles, copyright by UNESCO, passando per la Toscana. L’applicazione specifica fu progettata, realizzata e testata localmente; cominciarono le immissioni. Verso l’estate del ’94 era stato registrato il manifesto numero 13.594: “Fanny Elssler” di P. Martin, del 1935 con Lilian Harvey e Willy Birgel. La task-force dei catalogatori di grafica, presa da entusiasmo, decise di coinvolgere, in un party casareccio e bonario a fine giornata di lavoro, quella parte dei colleghi, che, in qualche modo, montando scaffali, recuperando palchetti, allineando cartelle di opportune dimensioni, aveva contribuito a sistemare la raccolta. Si voleva mettere un’allegra parole fine su un’impresa: non è un gioco da nulla catalogare, in un anno e mezzo, oltre 13.000 pezzi. Una fetta di panettone e un innocente bicchiere di spumante nostrano in candidi flûtes di plastica, sembrava la cosa più salutare, prima di passare a una seconda fase di coordinamento puramente catalografico e di revisione della base dati: fase, prevedibilmente, impegnativa, ma, contemporaneamente, ancor più interessante. Se non che, c’era ancora nell’aria il calore delle reciproche strette di mano, quando arrivò una doccia fresca, non fredda perché la notizia in sé non era cattiva: dalle profondità dei depositi salì la voce della scoperta dell’esistenza di altri pacchi di manifesti: si trattasse di ritrovamento casuale o di un rigurgito di memoria, il lavoro che pensavamo concluso non lo era affatto. Fine del secondo tentativo di catalogazio419 ne: la speranza è di concludere tutto l’anno prossimo, aggiungendo i circa 3.500 ancora avvolti in carta da imballaggio. Per il ’95 il programma di lavoro era già stato definito. Il 1995 è stato l’anno del centenario del cinema. Si poteva rimanere estranei alle iniziative che i cinefili avrebbero messo in “cantiere” per l’occasione? No di certo; si decise di dar luogo ad una serie di mostre. Inizialmente le mostre avrebbero dovuto essere un certo numero. Raggruppate sotto il titolo di Cinecento (accettato anche in grafia Cine100) si sarebbero susseguite per tutto l’anno secondo uno schema dapprima cronologico con cadenze decennali (origini-1939, 1940-1949, ecc.). Il contenuto, invece, avrebbe avuto un orientamento socio-culturale, per intendersi a mezza strada fra le considerazioni di E. Morin e quelle di M. McLuhan, A. Hauser e così via. Una volta giunti all’epoca moderna, Cinecento avrebbe presentato i manifesti dei film di tutti i registi italiani presenti nella raccolta, anche questi in sequenza cronologica e alfabetica, a partire da Oreste Biancoli: Penne nere (1952), Amicizia (1938), Alessandro Blasetti: Nerone, medico per forza (1931), 1860 - I Mille di Garibaldi (1934), La cena delle beffe (1941), Nessuno torna indietro (1943), Bragaglia, Brignone, Calandri, Camerini. Attraverso i manifesti, autori noti e, almeno per me, meno noti, come Corrado D’Errico, regista di Diamanti (1938), sarebbero stati proposti ai visitatori andando avanti fino ai nostri giorni. Invece, dopo le prime due mostre cronologiche, il Circolo “Lumière” e l’associazione AIACE di Foggia proposero un’azione parallela, che prese il nome, in vero un po’ prosaico, di “Sogni di Celluloide”. In essa erano previste attività comuni e attività autonome. Il “segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima” fu istituito presso l’Assessorato provinciale alla Cultura. Dopo qualche riunione per le classiche dichiarazioni di intenti e per definire una programmazione cominciarono le manifestazioni per il centenario. Fu così che, in apertura, Gianni Volpi, critico cinematografico, tenne a battesimo ai primi di aprile la mostra sul Neorealismo, mentre a maggio Emidio Greco, regista di “Una mostra semplice” (1991), proiettata nell’auditorium della Biblioteca, fu ospitato in una cornice, dal nostro punto di vista, sontuosa di oltre 60 manifesti, riassuntivi dei principali generi cinematografici: sei sezioni intitolate: Politico, Erotico - sottinteso Cinema, si capisce - Horror, Western, Parodia e Peplum (riferimento antonomastico ai film a carattere mitologico), con 420 l’avvertenza, espressa in sede di introduzione alla conversazione col regista, che i filoni del Neorealismo e della Commedia all’italiana erano esclusi in quella occasione, perché, nel programma generale, per essi era previsto un trattamento particolare. A novembre Luciano Emmer ebbe occasione di narrarci alcuni retroscena del suo “La ragazza in vetrina” (1961): alcuni mafiosi di Amsterdam avevano prima consentito che si girassero alcune scene del film nella famosa strada, pretendendo in cambio una certa cifra, poi avevano avuto un ripensamento, alzando in modo esorbitante le loro richieste. Al rifiuto avevano aggradito e precipitato in acqua (mare o fiume, non ricordo) regista, macchina da presa e qualche altra persona della troupe. Nei giorni seguenti l’incidente però le cose si erano “accomodate” e le riprese erano continuate, non solo per via di un pagamento meno esoso, ma secondo Emmer, soprattutto perché era stata “apprezzata” la mancata denuncia alla polizia. Davanti a quelle locandine questo gentile e anziano signore ci ha confidato un debito di riconoscenza, indicando una signora che vi era raffigurata, come la vera “anima” del film per i suoi suggerimenti sulla scenografia e per la sua apprezzatissima attività di cuoca. Abbiamo riferito la cosa perché il signor Emmer parla a bassa voce e nell’atrio della Biblioteca c’era un po’ di confusione, come sempre, in attesa del pubblico. Contemporaneamente a questi eventi culturali, dal 15 marzo all’8 dicembre l’originaria mostra Cinecento, con la storia sociale del cinema dalle origini al 1949, veniva esposta in 14 comuni: S. Ferdinando, Orsara, Vico del G., Peschici, San Severo, Pietra M., Apricena, San Marco in L., Troia, Cerignola, Deliceto, Lucera, Torremaggiore, Rignano. Manfredonia vi ha rinunciato per le incertezze e gli avvicendamenti politico-amministrativi. Fra le iniziative autonome, oltre a quelle promosse localmente dall’associazione AIACE, merita rilievo quella curata a San Marco in L. dal Circolo “Lumière” su Francesco De Robertis (1902-1959), nativo di quel comune. Il centenario del cinema nella nostra provincia è stato celebrato in modo certamente più ricco di quanto possa apparire da questo punto di osservazione. Così, per esempio, a Torremaggiore oltre alla mostra di manifesti, per alcune sere sono state eseguite musiche tratte da colonne sonore cinematografiche. Allo stesso modo, non sono rientrate nel programma, ma sono state ugualmente rilevanti, tutte le iniziative promosse (ovviamente in assolutissima autonomia) all’interno dell’estate 421 viestana. L’amministrazione comunale di Rimini, qualche anno fa, utilizzò i manifesti della nostra raccolta per un’iniziativa estiva su Nino Rota: viene il sospetto che il Gargano estremo sia più distante della costa romagnola. Infine, l’anno del cinema si sarebbe potuto concludere, a Foggia, in modo natalizio e solidaristico, in occasione della partenza del treno che accompagna la raccolta dei fondi di Telethon. Il computer, rovistando fra i titoli, aveva individuato una serie di manifesti di film come Il treno ferma a Berlino (J. Tourneur, 1947), Un treno va in Oriente (J. Rajzman, 1947), L’ultimo treno da Bombay (F. Sears, 1952). Quel treno per Yuma (D Daves, 1957), ma anche Cafè express (N. Loy, 1979), per l’aggettivo, tutto ferroviario in comune col famoso Assassinio sull'Orient Express (S. Lumet, 1974). Per conto nostro si era completato l’elenco con Destinazione Piovarolo (D. Paolella, 1955), Amici miei (M. Monicelli, 1975), ed altri, dal momento che questi titoli non sarebbero mai venuti in mente a un computer: insomma si progettava di allestire, presso la stazione ferroviaria, una mostra tematica su “il treno”. Purtroppo il convoglio di questa iniziativa non è riuscito a partire. Le ricerche per temi e per registi e tutte le altre operazioni, naturalmente, sono state possibili perché, nel frattempo, si correggeva, rettificava, scriveva, uniformava, aggiungeva, riportava, immetteva, si provvedeva, cioè, a tutte le operazioni di coordinamento bibliografico. Attraverso quel lavoro è stato possibile compiere delle osservazioni, che meritano di essere citate. Così, ad esempio, si è scoperto che Demofilo Fidani, regista di A.A.A. Massaggiatrice, bella presenza, offresi (1972) è lo stesso regista che nei western all’italiana preferisce colorarsi col nome di Miles Deem, come in ... E vennero in quattro per uccidere Sartana (1969) o con quello di Sean O’Neal, regista di Passa Sartana... è l'ombra della tua morte (1969, anno prolifico per questo terribile pistolero), mentre Dino Strano in questo film, pur portando il cinturone, preferisce il suo nome al più solito Dean Stratford. E non solo le persone del cinema assumono pseudonimi, nomi d’arte o d’occasione, ma anche i film e le pellicole: la distribuzione, infatti, modifica talvolta i titoli di vecchi film, stampa semplici strisce di carta con nuove diciture, le attacca sui vecchi manifesti e mette in circolazione il tutto come film nuovi che nessun repertorio, ovviamente, ricorda siano mai stati prodotti. In questi casi i catalogatori, come i NAS (i nuclei antisofisticazioni dei carabinieri) devono esaminare, 422 controllare, leggere in controluce, sbirciare fra le parti microscopiche della stampa per venire a capo della vera natura del prodotto. Non sempre, però, si tratta di una furbizia, che, nel peggiore dei casi, rischia di farci vedere due volte lo stesso spettacolo: ci sono film che cambiano nome quando vengono riediti: La pattuglia invisibile -[Gli eroi del Pacifico] (E. Dmystryk, 1945), i titoli in parentesi quadra sono quelli, per così dire, d’origine, di prima programmazione, Una storia moderna: l’ape regina - [L’Ape Regina] (M. Ferreri, 1962), il film fu prima messo in circolazione col titolo breve, poi fu ritirato, rimaneggiato, anche abbreviato e ridistribuito col nuovo titolo, che rappresenta quello vero e ufficiale, anche se è più noto l’altro, il più breve. Arcipelago in fiamme - [Forze aeree] (H. W. Hawks, 1943), caso più complesso, perché non solo è cambiato il titolo del film, ma anche il regista; sul manifesto, infatti, si legge: Walsh Raoul. Ristabilire la verità storica è stato faticoso, ma penso sarà più faticoso, e comunque interessante, stabilire chi e come ha prodotto l’errore. Quando tutto sarà finito si prevede un ulteriore affascinante lavoro. Sarà composto di due parti e riguarderà i grafici. I grafici firmano i manifesti come un biglietto di auguri. Si dovranno sciogliere tutte le grafie incomprensinili, appena visibili, troppo ridotte a sigle, scippi e scarabocchi per essere capite e ricondotte a un nome e a una forma standard del nome, che, nell’indice, possa essere, e sia poi, effettivamente cercata. Per ora queste firme, esistenti ma illeggibili, sono state indicate da [ ... ]: le parentesi quadre nel gergo dei bibliotecari delimitano una notizia non presente sul documento, ma ricavata da fonte esterna; i puntini, di solito, indicano una sospensione; i puntini in parentesi quadra cercano di suggerire il concetto complessivo che dalle altre fonti non è venuta alcuna indicazione, per lo scioglimento del criptogramma. In definitiva stanno a dire che qualcosa, un segno scritto sul manifesto c’è, ma è illegibile, per cui occorre qualche ulteriore elemento per decifrarlo, indicano quindi un rinvio ad altra occasione. Occorre sapere che non solo i grafici firmano in maniera illeggibile molti manifesti, ma tantissimi non li firmano affatto. C’è chi sostiene che quei manifesti, in realtà, sono stati firmati, solo che, poi, c’è stato un attacco proditorio e vile di graficlastia, parente alfabetizzata dell’iconoclastia, da parte della distribuzione che vi ha sovrastampato gli stemmi della MGM o della 20th Century Fox, riducendo l’artista all’anonimato; ma sarebbe possibile secondo qualcuno riconosce423 re il segno, la mano del grafico a partire dal disegno: e non saremo noi, armati di regolamentari parentesi quadre, a dubitarne. Con l’attribuzione delle opere agli artisti il lavoro sarà, finalmente, concluso; e per il ciclo di mostre allestito, nel ’95, nell’ambito di Cinecento, bisognerebbe ringraziare e nominare come usa, dopo il cast dei protagonisti, tutte le maestranze, professionalità, addetti alla produzione e... distribuzione ecc.: si tratterebbe, ancorché classici, pur sempre dei titoli di “coda”. E’ preferibile: The End. 424 Vita civile Sul finire del ’94, con nomina a Ispettore Archivistico Onorario per la Puglia e conferimento - dal Presidente della Repubblica - della Medaglia d’argento quale Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte, una figura istituzionale, tanto valorosa quanto discreta, del mondo culturale di questa provincia, è stata collocata in pensione per raggiunti limiti di età. Direttore del locale Archivio di Stato e della Sezione staccata di Lucera dal 1959, Pasquale di Cicco è stato, nella sua lunga carriera - oltre che un’amabile presenza - punto di riferimento, obbligato e imprescindibile, per molti di quei ricercatori, che, a partire dai primi anni ’60, hanno riletto e ricostruito, sulle fonti, parte della storia-civile ed economico-sociale della nostra provincia e dell’intero Mezzogiorno: “è stato della massima generosità - gli testimonia con gratitudine, per tutti, John A. Marino - nel farmi partecipe della sua profonda conoscenza delle problematiche e delle fonti doganali...”. Organizzatore, attraverso mostre, di vario livello, con relativi impeccabili cataloghi, e operatore di cultura - nel senso alto e originario di ‘opus’ - di Cicco ha acquisito un’altra benemerenza, della quale, forse, non è dato a tutti di coglierne l’importanza: quella della formazione, sul campo e in loco, di una nutrita pattuglia di archivisti in grado di continuare ed, eventualmente, di arricchire il suo ultratrentennale lavoro; incentrato, per una parte, sulla preparazione di fondamentali strumenti bibliografici per la ricerca altrui e, per l’altra, su personali e originali contributi di studio e di approfondimento, dei quali, qui sotto, se ne fornisce un dettagliato percorso. E il fatto - in un ambiente, che, acriticamente, viene bollato come “senza memorie”, ma che a noi appare, questo sì, distratto, disattento o smemorato - è sembrato costume civile non farlo passare sotto silenzio, appunto. 425 BIBLIOGRAFIA 1 - Nuove ricerche e documenti inediti per la Città di Foggia, in “la CAPITANATA Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, Foggia, a. I (1963), n. 3-4, pp. 71-78; n. 5-6, pp. 139-153. 2 - Censuazione ed affrancazione del Tavoliere di Puglia (1789-1865), Roma, 1964 (Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato, 32). 3 - Il Libro rosso della Città di Foggia, Foggia, 1965 (Documenti e monografie della Biblioteca Provinciale di Foggia). 4 - Un documento di molto valore per la storia del Tavoliere e della Dogana di Foggia, Foggia, 1965. 5 - Un istituto governativo di credito agrario nel Regno di Napoli, in “RASSEGNA DEGLI ARCHIVI DI STATO”, Roma, a. XXV, n. 1, genn.-apr., 1965, pp. 75-82. 6 - La Ricevitoria del Tavoliere e il suo archivio, in “RASSEGNA DEGLI ARCHIVI DI STATO”, Roma, a. XXVI, n. 1-2, genn.-ag., 1966, pp. 101-120. 7 - Documenti su Giuseppe Rosati nell'Archivio di Stato di Foggia, pubblicato a cura del Comune nel CL della morte di Giuseppe Rosati (1814-1964), Napoli, 1966, pp. 23-32 (Quaderni di Foggia, 1). 8 - Il Tavoliere di Puglia nella prima metà del XIX secolo, Foggia, 1966 (Raccolta di studi foggiani, n.s., 3). 9 - Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, in “la CAPITANATA - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, Foggia, a. VI (1966), n. 1-6, pp. 63-72. 10 - La Suddelegazione dei cambi presso la R. Dogana di Foggia, Napoli, 1970 (Quaderni di “la Capitanata”, 10). 11 - I documenti antichi dell'archivio comunale di Foggia, Foggia, 1970 (Quaderni di Foggia, 2). 12 - Archivio di Stato di Foggia: L'archivio del Tavoliere di Puglia, Roma, 1970-1991, vol. 5 (i primi 4 in collab. con Dora Musto). 13 - Sull'archivio del Tavoliere di Puglia, Foggia, 1971. 14 - La Dogana delle pecore di Foggia. Elementi per una pianta generale del Tavoliere, Foggia, 1971 (Quaderni di Foggia, 5). 15 - Notizie sulle gabelle dell'Università di Foggia nel XVIII secolo, in “NoTIZIARIO DEL COMUNE DI FOGGIA”, Foggia, n. 40, mar-apr., 1971, pp. 84-91. 16 - Su di un manoscritto foggiano del Settecento e sul suo autore, Foggia, 1971 (Quaderni di Foggia, 8). 17 - Produzione e commercio della lana nella Dogana di Foggia e relativo commercio con Terra di Lavoro nella seconda metà del '600, in “ARCHIVIO STORICO PUGLIESE”, Bari, a. XXIV (1971), fasc. I-II, pp. 3-59. 18 - Gli statuti economici dell'Università di Lucera, in “ARCHIVIO STORICO PUGLIFSE”, Bari, a. XXV (1972), fasc. III-IV, pp. 317-383. 19 - Contributo documentario per una biografia del molisano Antonio Belpulsi, in “SAMNIUM”, Benevento, a. XLVII, lu.-dic., 1974, nn. 3-4, pp. 42. 20 - Una fonte per la storia di Foggia: il “Giornale Patrio” della famiglia Villani, in “RASSEGNA DI STUDI DAUNI”, Foggia, a. I, n. 1, ott.-dic., 1974, pp. 136137. 426 21 - Le pergamene della Capitanata ed il codice di Lucera, in “RASSEGNA DI STUDI DAUNI”, Foggia, a. I, n. 1, ott.-dic., 1974, pp. 23-32. 22 - Il Libro rosso dell'Università di Manfredonia, Napoli, 1974. 23 - I manoscritti della Biblioteca Provinciale di Foggia, Foggia, 1977 (Fondi della Biblioteca Provinciale di Foggia, 1). 24 - L'ultimo episodio borbonico di colonizzazione agraria in Capitanata: San Ferdinando di Puglia, in STUDI di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. VI, Galatina, 1977, pp. 115-135. 25 - Il carteggio politico di Salvatore Tugini, in MOMENTI e figure di storia pugliese, Studi in memoria di Michele Viterbo (Peucezio), II, Galatina, 1981, pp. 249-273. 26 - Progetti archivistici in provincia di Foggia in esecuzione della L. 285/77, in RICERCA storica e occupazione giovanile. Le fonti archivistiche per la storia del Mezzogiorno nell'età moderna e contemporanea, Lecce, 27-28 ottobre 1981, Lecce, 1983. 27 - Le fonti documentarie della Restaurazione nell'Archivio di Stato di Foggia, in L’ETA’ della Restaurazione 1815-1830 (Convegno di Studi), Bari 10-12 dicembre 1981, Bari, 1983, pp. 593-601. 28 - Molise. Economia e territorio, in “ARCHIVIO DI STATO DI CAMPOBASSO”, Documenti di vita comunale. Il Molise nei secoli XII-XX. Catalogo della mostra, Campobasso, 1981, pp. 31-47. 29 - ANDREA GAUDIANI, Notizie per il buon governo della R. Dogana della mena delle pecore di Puglia, Foggia, 1981 (Testi e documenti per la storia della Capitanata della Società Dauna di Cultura, 5). 30 - Il mosaico della Medusa ed il castello di Lucera nel Settecento, in “ARCHIVIO STORICO PUGLIESE”, Bari, a. XXXV, fasc. I-IV, genn.-dic., 1982, pp. 281-312. 31 - Padre Bonaventura da Volturino ed un suo studio religioso politico, in I FRANCESCANI in Capitanata (Convegno di Studi), S. Marco in Lamis, 24-25 ottobre 1980, Bari 1982, pp. 253-268. 32 - L'Archivio di Stato di Foggia e la Sezione di Lucera. Scheda storica di un bene culturale 1820-1982, Foggia, 1982. 33 - Giacinto Scelsi e la sua indagine sulla Capitanata, in “ARCHIVIO DI STATO Di FOGGIA”, 1860-1870: I problemi dell'Unità in Capitanata. Catalogo della mostra (Foggia 6-20 febb. 1983), Foggia, 1983, pp. 13-24. 34 - Archivio di Stato di Foggia, in GUIDA Generale degli Archivi di Stato Italiani, II, Roma, 1983, pp. 200-230. 35 - Documenti inediti sulla Dogana delle pecore di Puglia nel periodo aragonese, in GIORNATE internazionali di studio sulla transumanza, L’Aquila-SulmonaCampobasso-Foggia, 4-7 nov. 1984. L’Aquila 1990, pp. 211-336 (pubblicato anche in “ARCHIVIO STORICO PUGLIESE”, Bari, a. XLII, fasc. III-IV, luc.-dic. 1989, pp. 277-321, in parte e tutto come “Quaderno XXXII” dell’ARCHIVIO STORICO PUGLIESE, Bari, 1989). 36 - La transumanza e gli antichi tratturi del Tavoliere, in PROFILI della Daunia Antica, Foggia, 1986, pp. 205-217; poi in CIVILTA’ della transumanza, Castel del Monte, agosto. 1990, L’Aquila, 1992, pp. 23-33. 37- ANTONIO E NUNZIO MICHELE, Atlante delle locazioni della Dogana delle pecore di Foggia, Cavallino di Lecce, 1984. 427 38 - Il “Giornale Patrio” Villani, I, 1801-1810, Foggia, 1985 (Testi e documenti per la storia della Capitanata della Società Dauna di Cultura, 6). 39 - Una cronaca bovinese del Seicento, in “la CAPITANATA - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, Foggia, a. XXIII, 1985-1986, p. I, pp. 53-91. 40 - Felice Maria Zanni, in “ARCHIVIO OGGI - Notiziario dell’Archivio di Stato di Foggia”, Foggia, 1987, pp. 3-5. 41 - La cartografia tratturale. Comunicazione fatta all’Incontro di studio su FONTI cartografiche e storia, Napoli, Archivio di Stato, 3-4 luglio 1987, in “la CAPITANATA - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, Foggia, a. XXIV, 1987, p. II, pp. 51-57. 42 - Una giurisdizione speciale nel Regno di Napoli: il Tribunale della Dogana delle pecore di Puglia (secc. XV-XIX), in “la CAPITANATA - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, Foggia, a. XXIV, 1987, pp. 37-87. 43 - Dispacci diplomatici da Costantinopoli sulla crisi serba del 1889, in CONGRESSO SULLE RELAZIONI TRA LE DUE SPONDE ADRIATICHE, 5, Ancona, Iesi, Fabriano, Senigaglia, S. Marino, febbraio-marzo 1987, I rapporti politici e diplomatici, Roma, 1988, pp. 229-254. 44 - Fonti per la storia della Dogana delle pecore nell’Archivio di Stato di Foggia, in “MÉLANGES DE L’ÉCOLE FRANCAISE DE ROME, Moyen Age, Temps modernes”, Tome 100, Roma, 1988, 2, pp. 937-946. 45 - Il demanio di Bisceglie nella locazione d’Andria dal XVI al XIX secolo, in BISCEGLIE nella documentazione grafica dal ’500 al ’900, Catalogo della mostra, Molfetta 1988, pp. 125-129. 46 - Documenti diplomatici a Foggia: i dispacci politici di Tugini da Carlsruhe, Costantinopoli, Budapest, in LA FORMAZIONE della diplomazia italiana 1861-1915, Lecce, febbraio 1987, Milano 1989, pp. 292-337. 47 - I compassatori della Regia Dogana delle pecore in Il Disegno del territorio. Istituzioni e cartografia in Basilicata, 1500-1800. Catalogo della mostra organizzata dall’Archivio di Stato di Potenza. Roma-Bari, 1988, pp. 10-17. 48 - Le carte Pignatelli d’Aragona e Centola nell’Archivio di Stato di Foggia (Relazione presentata al Convegno internazionale di studi sugli archivi di famiglia e di persone Il futuro della memoria, Capri, settembre 1991), in “RISORGIMENTO E MEZZOGIORNO - Rassegna di studi storici”, Roma, a. VI, 1, giu. 1993, pp. 87-102. 49 - Sulla mappa del Tavoliere di Puglia di Agatangelo della Croce, in ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA, Cartografia e territorio in Capitanata dal XVI al XIX secolo, Foggia 1993, pp. 67-70. 50 - Lucera nel 1621. Popolazione, classi sociali, famiglia (Relazione presentata al Convegno internazionale di studi su Fonti archivistiche e ricerca demografica, Trieste, aprile 1990), in “STUDI STORICI MERIDIONALI”, Bari, 1993, fasc. II, pp. 117-139. 51 - La pubblica beneficenza nel Mezzogiorno. Dalle Opere pie all’Ente comunale di assistenza, in “la CAPITANATA - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, Foggia, a. XXV-XXX (1988-1993), pp. 73-84. 52 - Due disegni settecenteschi di colonie albanesi nel Tavoliere di Puglia, in CONGRESSO SULLE RELAZIONI TRA ITALIA E ALBANIA, Ancona-Fabriano-Senigaglia, gennaio-febbraio 1992, Bari, s.d.. 428 53 - Documenti di interesse abruzzese nell’Archivio di Stato di Foggia (17891815) in RIVOLUZIONE francese e governo napoleonico in Abruzzo 1789-1815, Teramo, 1992, pp. 197-202. 54 - I formulari notarili conservati nell’Archivio di Stato di Foggia (secc. XVII-XVIII), in I protocolli notarili tra Medioevo ed Età moderna, novembre 1992, in “ARCHIVI PER LA STORIA - Rivista dell’Associazione Nazionale Archivistica Italiana”, Roma, a. VI, n. 1-2, gen,-dic. 1993, pp. 111-148. 55) Istituzioni e vicende annonarie del Regno di Napoli. Relazione presentata al Convegno di Studi Gli Archivi per la storia dell’alimentazione, Potenza-Matera, settembre, 1988), in “ARCHIVIO STORICO PER LE PROVINCE NAPOLETANE” Napoli, a. CXI dell’intera collez., 1993, pp. 421-446. In corso di stampa - Guida alle fonti della transumanza d’origine molisana nel Tavoliere di Puglia conservate nell'Archivio di Stato di Foggia (secc. XVI-XX). - Fonti di interesse storico -scientifico nell'Archivio di Stato di Foggia (con M. C. Nardella). 429 Scaffale locale Antonio VITULLI, I teatri di Foggia nei secoli XVIII e XIX. Foggia, Daunia Editrice, 1993, pp. 634. L’imponente, documentatissimo ed originale lavoro dell’amico Vitulli ha già ricevuto in sede competente i meritati apprezzamenti, sicché quelli che seguono non sono che appunti volti a sottolineare aspetti del lavoro medesimo meglio suscettibili di approfondimento e discussione. L’obiettivo preminente della ricerca è quello di smantellare il chiché pregiudiziale di cui si fa eco il Nicolini, e con lui un certo ambiente persistente e diffuso, intorno a Foggia “città barbarica dedita alla tosatura delle pecore ed alla semina del frumento” e ciò attraverso un discorso essenzialmente di costume quale quello teatrale, di cui a sua volta si rendeva moralistico interprete già nel 1806 l’ottimo Manicone allorché deplorava nei cittadini dell’imminente capoluogo della Capitanata “la frega e la voglia spasimiata” per l’opera lirica, quell’insieme di espedienti artistici e tecnici “artefici del sollazzo e guaritori della noia” che spostano l’atmosfera spirituale d’assieme dal generico costume alla moda propriamente detta, quella moda che fa le veci della morte nel secolo della morte, per dirla col Leopardi dell’operetta morale del 1824 e con le sue parole epigrafiche poste precisamente in bocca alla moda (“Ho levato via quell’usanza di cercare l’immortalità ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse”). Questa moda aveva preso a strutturarsi a Foggia tra Sei e Settecento intorno alla sala del teatro nel palazzo del Doganiere nell’apprezzo steso all’indomani del terremoto del 1731 da uno dei più distinti funzionari dell’epoca, Giuseppe Stendardo, quella sala che, si noti, da un lato richiama “il gran salone per comodo de’ locati”, con ogni probabilità l’assemblea della generalità ma anche un certo gusto particolare che nella Roccaraso di fine Seicento aveva preso vita nel primo teatro stabile abruzzese, per iniziativa, ai vertici del mondo armentario, degli Angeloni baroni di Montemiglio, dall’altro si collega ad una serie di Doganieri variamente inseritisi nella società dauna, dal Vidman a Foggia al Mazzaccara a Lucera, precursore in merito, per quanto attiene all’attività musicale tanto cara al duca di Medina Coeli, il Guerrero, che di quel vicerè era stato notoriamente intrinseco. Lo specifico fondatore del teatro, negli anni quaranta del Settecento, e quindi in piena epoca carolina, è peraltro Francesco Marchant nel nuovo palazzo della Dogana sorto fuori Porta Reale, un tema a cui l’A. dedica doverosa dettagliata attenzione, a cominciare dalla progettazione, dalle maestranze, dai contratti, dai bilanci, a proposito dei quali ultimi si può notare la loro corrispondenza media al ricavato di tre-quattro quintali di lana nella fiera di maggio all’epoca rispettivamente per le entrate e per le spese, nonché l’espediente di una lotteria alla cui promozione prendeva parte l’aquilano Francesco Rivera arcivescovo di Manfredonia, fortemente interessato, attraverso i congiunti Vespa di Pacentro, al mondo dell’armentizia. Marchant moriva nel gennaio 1748 ma non per questo veniva meno a Foggia l’attività teatrale e più genericamente musicale, sempre patrocinata dai ceti mercantili (i De Angelis) ed armentari (i Della Posta di Civitella Alfedena) col maestro di cappella e l’organista che vivacizzano il mondo ecclesiastico, ma anche e soprattutto con una serie significativa di violenze e di scandali che, essendo ovviamente documentati a livel433 lo archivistico, in quanto turbamento della pubblica tranquillità, con assai maggiore abbondanza rispetto al profilo strettamente artistico del fenomeno, contribuiscono ad accentrare di quest’ultimo il risvolto di costume, protagonisti dell’immanitas aristocratica non a caso gli stessi Freda ed i medesimi Bruno che sarebbero stati più tardi al centro del Novantanove. Questo risvolto non è tale peraltro da appannare l’accennato profilo artistico, che si mantiene rigoroso e prestigioso, nel 1773, due anni dopo che si è inaugurata l’attività teatrale a Chieti, l’esordio foggiano del poco più che trentenne Paisiello, nel 1781 quello di Cimarosa, nel 1783, quattro anni prima del capolavoro mozartiano, Il convitato di pietra del pugliese Giacomo Tritto, librettista quel Giambattista Lorenzi che già era stato scoppiettante collaboratore del Galiani, che qui confermava la sua verve introducendo Pulcinella al posto dei molieresco Sganarello o del Leporello di Lorenzo da Ponte, e che sarebbe finito nel Novantanove, proprio accanto a Paisiello (per il quale aveva scritto il libretto di un Don Chisciotte della Mancia), e Cimarosa, nella commissione repubblicana dei teatri, ed in seguito “maestro di cappella nazionale”. Secondo i gusti napoletani dell’epoca, e perciò alla luce di un gusto che andava rendendosi obiettivamente provinciale rispetto a ciò che negli stessi decenni erompeva a Parigi ed a Vienna, sul palcoscenico foggiano non apparivano che opere buffe, al cui allestimento contribuivano sempre più di frequente gli aristocratici dilettanti così tipici dell’epoca, mettendo nell’ombra la musica sacra ed organistica che altrove nel Mezzogiorno conosceva intanto una stagione di rigogliosa fioritura. “L’occasione della fiera, piena di gente rispettabile, non permetteva che il teatro ristasse chiuso” osservava uno dei più autorevoli scrittori doganali, l’avvocato fiscale di origine teramana Francesco Nicola De Dominicis: e l’osservazione non fa che ribadire ancora una volta l’atmosfera essenzialmente di mentalità e di costume da cui viene fuori, nella primavera 1797, durante il ben noto soggiorno della Corte a Foggia per le nuove nozze austriache, il prodotto culturalmente più significativo dell’epoca, a cui l’A. ha dedicato cure singolarissime, La Daunia felice di Paisiello su libretto del foggiano Francesco Saverio Massari. Benché in quest’ultimo la presenza concorde di Cerere e Pale quali divinità entrambe civilizzatrici lasci trasparire l’attualità difensiva di agricoltura e pastorizia “sorelle” rispetto all’intransigenza polemica dei Delfico e dei Palmieri, non vi è dubbio che il clima ideologico della composizione sia assai più massonico che non riformistico, quell’oracolo e quella renovatio che anticipano irresistibilmente il programmatico opus maximum del genere, che ancora il vecchio Paisiello sarebbe stato chiamato a musicare nel marzo 1808 sul testo ben più prestigioso di Vincenzo Monti, I Pittagorici. Proprio questo sottofondo inevitabilmente politico e propagandistico dell’attività teatrale fa sì che essa venga largamente meno con la prima restaurazione borbonica, solo i ritrovi privati e le fragorose bande militari che tanto colpiscono l’immaginazione nelle prime annate del diario Villani mantenendo viva una tradizione che non sfugge comunque alle sagaci cure di Giambattista Rhodio nella sua qualità di commissario straordinario (come Preside ed in prospettiva di concordia ordinum aveva realizzato qualche cosa di simile a Tera434 mo) e che si mantiene viva nel fondaco dei Scolopi dalle parti dell’Epitaffio, finché col Decennio essa assume un ritmo addirittura alluvionale, persino i mesi estivi e le settimane di quaresima assistendo a spregiudicati calendari teatrali. Deve peraltro dirsi che dopo il 1815 la censura ecclesiastica si fa avvertire forse con maggiore pesantezza di quella politica, che lascia passare, malgrado tutto, le tragedie di Alfieri e Monti in un repertorio di prosa che ha cominciato a farsi strada, quantunque sempre nettamente minoritario rispetto a quello musicale. Quest’ultimo assiste nel 1823 alla prima de Il Barbiere rossiniano due anni dopo la ripresa al S. Carlo del contrastatissimo esordio dell’Argentina di Roma, e conclude il suo ciclo nel 1828, nel vecchio teatro già intitolato a Maria Carolina, con una produzione in onore di Giuseppe Rosati, l’“enciclopedico” la cui scomparsa chiude anch’essa un’epoca, “ut quidquid doctrinarum politicum in Daunia efferuerit ipsi unice referendum”, come è scritto con eleganza in suo onore nella cattedrale di Foggia. In realtà, il problema del teatro aveva assunto, subito dopo il 1815, un’insolita dimensione urbanistica, che avrebbe rapidamente preso la testa nei confronti di quella musicale in senso stretto. Il personaggio che era stato investito in un primo momento, sotto gli auspici di un Intendente provinciale d’eccezione, Nicola Intonti, era anch’egli di primissimo ordine nel panorama professionale napoletano dell’epoca, Giuliano De Fazio, noto per la sistemazione dell’Orto Botanico e dello stradone per Capodimonte nella capitale, ma forse soprattutto per i progetti di proseguimento del lago Fucino tornati di grande attualità a fine Settecento, salvo la sua proposta foggiana del 1818 rapidamente scartata a causa della sua ispirazione troppo scolasticamente teorica, sulla traccia del restauro neoclassico che Antonio Nicolini aveva apportato al S. Carlo (ma è interessante notare che l’Intonti aveva collegato al progetto De Fazio la novità di un ridotto quale casa di conversazione per il controllo della pubblica opinione, la soluzione istituzionale, insomma, per ciò che Rhodio aveva realizzato informalmente ai prirnissimi dell’Ottocento). Il nuovo teatro era comunque un dato di fatto imprescindibile per la “nuova Foggia” e non a caso il 30 maggio 1819, per l’onomastico del vecchio sovrano, si parlava senz’altro di Ferdinando come nome per un edificio da far sorgere di pianta, secondo l’unico ed esclusivo modello settecentesco del S. Carlo napoletano a ridosso di palazzo reale, ed a differenza di tutti i contemporanei teatri di provincia, dal Piccinni di Bari che sarebbe stato ricavato all’interno del convento dei Domenicani, ai Gesuiti che avrebbero fatto lo stesso a Chieti, agli Agostiniani all’Aquila e così via dicendo, fino alla sistemazione lucerina nel palazzo Mozzagrugno o a quello che sarebbe stato macchinosamente il teatro Paisiello a Lecce o quello Rendano, prospettante scenograficamente l’intendenza, a Cosenza. Ma dove far sorgere il nuovo teatro di Foggia, appunto anch’esso a ridosso dell’Intendenza secondo il vecchio rapporto privilegiato settecentesco col potere, oppure a S. Rocco, a ridosso di porta Arpi, nonostante la presenza ingombrante ed insostituibile nel breve periodo delle fosse del grano, o ancora a Gesù e Maria, nell’ambito del rimaneggiamento generale dell’ambiente del grande tratturo, che avrebbe condotto, allo spostamento della Madonna della Croce nella prospet435 tiva dell’apertura dell’“agreste passeggio” della villa comunale, con connessa apoteosi arcadica e classicheggiante non a caso di Giuseppe Rosati? Travolto Intonti dalle burrasche del 1820, la terza soluzione, quella ariosamente urbanistica, sembrava doversi imporre nel 1823, all’indomani della venuta come intendente di Nicola Santangelo, col quale la prospettiva neoclassica e postnapoleonica risulta non solo vincente ma dilagante, col pronao della Villa disegnata da Luigi Oberty e Camillo Di Tommaso, con l’orfanotrofio Maria Cristina, col San Francesco Saverio, non senza che la produzione meramente teatrale si allineasse in modo omogeneo, ad esempio col Diomede in Puglia di Camillo Perifano, nel 1822, che sembrava riattaccarsi al clima ed alle utopie de La Daunia felice. Già nel 1826, peraltro, la soluzione latamente ed ambiziosamente urbanistica veniva abbandonata in favore di quella più modesta di S. Rocco, che avrebbe conosciuto la sua solenne definitiva inaugurazione il 10 maggio 1828, sulla traccia di un significativo auspicio del diario Villani 15 gennaio 1827, a norma del quale il pronao della Villa e, appunto, il teatro, avrebbero fatto “distinguere sicuramente Foggia tra le città principali del regno”. Questa mi sembra in realtà la chiave per intendere obiettivamente la soluzione del centro storico rispetto a quella della grande espansione urbanistica a sud-est, la “filosofia” del prestigio che prevale sullo spirito comunitario, Gesù e Maria che è “fuori mano”, la Villa che non sostiene abbastanza un’espansione che si vuol mantenere circospetta e prudente, discorsi che si sentivano ripetere negli stessi anni in altri giovani capoluoghi di provincia, a Campobasso e ad Avellino, dove il carcere veniva a segnare una sorta di colonna d’Ercole “razionalistica” dell’espansione medesima (e proprio da Avellino veniva l’appaltatore di Foggia, quel Saverio Curcio che anche a Foggia avrebbe voluto impostare un discorso di carcere, vanificato dalla sua assoluta irrilevanza urbanistica). L’amico Vitulli ha mille ragioni di deplorare la mancata moderna soluzione di Gesù e Maria ma ci si deve mantenere nei panni di un ceto proprietario tutto sommato ancora abbastanza giovane e gracile rispetto alle solidità armentarie e mercantili settecentesche, con la sua preoccupazione di evitare un degrado irreversibile del centro storico e di mantenere un qualche rapporto col tradizionalismo delle fosse del grano e dei grandi edifici variamente rappresentativi fuori porta Arpi, una mentalità riduttiva e massaia, insomma, che si conferma persino nell’eliminazione, dopo appena un decennio, delle sei monumentali colonne doriche della facciata, per restringere le ambizioni al Ridotto con le statue completate tra il 1829 e il 1841, alle novità tecniche, alle macchine sceniche realizzate dall’abruzzese Taddeo Salvini di Orsogna, che ancora nel 1841 avrebbe completato il teatro di Lanciano, realizzato anche qui nell’antico convento degli Scolopi su progetto di Eugenio Michitelli. Foggia aveva comunque definitivamente e stabilmente il suo teatro, e qui la cronaca dell’A. si fa fittissima ed eccezionalmente documentata non solo per il succedersi quotidiano delle ingerenze poliziesche, delle esigenze pubblicitarie, delle inadempienze contrattuali, dell’andamento dei prezzi, delle disponibilità scenografiche e così via, ma anche e soprattutto in riferimento alla vera e propria presenza melodrammatica nel suo rapporto con l’evolversi nazionale del genere e del relativo gusto. Se perciò Rossini, sia il semiserio 436 (Cenerentola) che il grand'opera (Otello e Semiramide) continua ad arrivare con una decina d’anni di ritardo rispetto alle “prime, per Donizetti e specialmente per Bellini, tra il 1829 ed il 1836, si registra un’eccezionale precocità e tempestività, a ribadire come appunto il gusto si uniformi nella circostanza prontamente alla moda (ho potuto compiere riscontri analoghi a Campobasso ed all’Aquila) salvo poi una lunga eclissi, a cui corrisponde una ripresa più distaccata e, diciamo così, “contemplativa”. Quanto a Verdi, le censure prequarantottesche si abbattono prevedibilmente un pò su tutta la sua produzione più scopertamente patriottica e romantica, salvo l’aggiornamento rendersi rapidissimo dopo le burrasche rivoluzionarie, 1853 Luisa Miller, 1855 trilogia dei capolavori, a soli tre anni dalle “prime”, salvo nei successivi anni procedersi ad una sorta di rivisitazione “globale” del musicista, sia quello prequarantottesco de I due Foscari e de I masnadieri (1857) sia, due anni dopo, quello più moderno e complesso de I vespri e del Simon. Il 1859 era anche l’anno, nel corso del suo ultimo fatale viaggio in Puglia, della quarta visita di Ferdinando II a Foggia, una presenza dettata da motivi politici ed economici ben comprensibili, che erano peraltro anche quelli che contribuivano a segregare a Goldoni e Metastasio, con qualche incursione a Scribe, il repertorio in prosa, escludendosi perché plebea la produzione in vernacolo e solo il Quarantotto avendo consentito, anche qui secondo copione, un’enfatizzazione tribunizia dello spazio teatrale. Si giunge cosi all’Unità, su una serie documentata di appalti e d’interventi svariati dell’Intendente sul sindaco che testimoniano da un lato un costume interessante e curioso, ma intimamente quanto mai precario, dall’altro il coinvolgimento costante del potere politico centrale sull’attività culturale di periferia. Questo coinvolgimento viene meno precisamente con l’Unità, cioè con la libertà formale che viene consentita alle forze locali, donde una decadenza precipitosa, che l’A. stigmatizza vivacemente, pur non nascondendosi l’incidenza di concause più che rilevanti, a cominciare dall’affrancamento definitivo del Tavoliere. E’ un fatto che la festa teatrale del 7 ottobre 1860 che fa da prologo al Plebiscito “per spegnere L’idra infernal dell’anarchia feroce... voce del duol, voce d’affanni” inaugura la serie dei banchetti liberali e dei comizi democratici che conferiranno al teatro una nuova dimensione sociale, insieme, perché no? ai veglioni, nell’ambito della quale quella musicale e più propriamente melodrammatica non è che una delle componenti, e non sempre la principale. Non a caso, sino a fine Ottocento, dove la fatica dell’A. si arresta, Aida e Carmen arrivano con una quindicina d’anni di ritardo, Faust e La forza del destino con più di venti, indizio questo di una perdita di ritmo che non sarà recuperata che parzialmente col verismo, a cominciare dal concittadino Giordano, ma con un importante risvolto nella prosa, dove da Torelli e Ferrari ci si comincia ad aprire ad Ibsen, la Foggia borghese della “mentalità massonica” staffilata da Croce, insomma, che non è l’ideologia massonica e riformistica del La Daunia felice ma non è neppure il tradizionalismo degli armentari o l’“enciclopedismo” di Rosati, un mondo moderno che va facendosi faticosamente strada e per il quale la ferrovia, la vigna, la camera del lavoro, magari la banda municipale, stanno prendendo il posto delle belle statue neoclassiche di Tito 437 Angelini e del primo atto de I Capuleti e i Montecchi. (Raffaele Colapietra) Leonardo GIULIANI, Storia statistica sulle vicende e condizioni della città di S. Marco in Lamis con un saggio di Tommaso Nardella. San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1994, pp. XXXII - 60 (Biblioteca Minima di Capitanata, 8). Tommaso NARDELLA, La chiesa dell’Addolorata di San Marco in Lamis e la sua arciconfraternita (1717-1937). San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1994, pp. 51 ill. (Biblioteca Minima di Capitanata, 10). L’amico A. mi consentirà di sbrigarmi con ogni rapidità del secondo opuscolo, suggerito a lui da un sentiniento di pietas comprensibile e rispettabile ma che non arreca elementi davvero nuovi alle nostre conoscenze nè dal punto di vista della devozione mariana settecentesca, particolarmente accentrata sulla liturgia penitenziale dei Sette Dolori con tutti i risvolti di esaltazione misticheggiante collettiva del caso (si pensi, tanto per restare in Puglia, a Molfetta) né da quello della “invocazione” di reliquie in grande stile, e della relativa incetta, che parimenti caratterizzano l’epoca un pò in tutta la provincia meridionale né infine da quello statutario ed iconografico, proposti con ampiezza ma non tali da discostarsi dai moduli consueti. Tutt’altro è da dirsi per l’operetta scritta dal Giuliani “ad utile e vantaggio dei suoi concittadini”, stampata nel 1846 da un tipografo barese in quegli anni particolarmente attivo, Sante Cannone, e diventata a tal punto una rarità bibliografica che la sua riproduzione anastatica ne risulta più che opportuna. Nardella ci presenta un personaggio che si direbbe a lui congeniale, sia come uomo che quale cittadino, che nella vita ottuagenaria protrattasi dalla vigilia della Rivoluzione all’indomani dell’Unità ebbe modo per ben quattro volte “caso unico” di ricoprire l’ufficio di sindaco di una località che proprio negli anni intorno alla sua nascita ed alla sua puerizia si era sottratta ad un regime feudale plurisecolare, acquisendo nello spazio di pochissimo tempo il rango ed il ruolo di città (i due episodi sono tra di loro in un qualche rapporto di causa ed effetto? gioverebbe approfondirlo) ed immettendosi così a pieno titolo in un trend di trasformazioni radicali che, nell’ambito del Mezzogiorno, investivano in modo specialissimo la Capitanata. Notaio per quasi mezzo secolo, padre, ca va sans dire, di un notaio e di due preti (varrebbe la pena di conoscerlo anche sotto quest’angolatura professionale e familiare) Giuliani si dedica con frequenza e competenza, lo si comprende benissimo dalle pagine dell’opuscolo, alla “difesa dei terreni demaniali dall’assalto delle dissodazioni”, sposa cioè correttamente la causa dell’universitas in un ambiente che, a Foggia ed a Napoli, gli si manifesta tutt’altro che favorevole, sicché si deve ricorrere più di una volta ai “provvedimenti dell’ottimo nostro Augusto Sovrano”, per dirla col Nostro, un “filo diretto” che non va trascurato per intendere uomini e cose al di là delle etichette più o meno ideologiche. Con Giuliani sindaco a fine anni trenta, avrebbe ricordato in sua morte l’anonimo panegirista, “questo popolo, nell’ammirazione istessa dei primi indigeni del nuovo mondo, vidde la corriera” sulla strada per Foggia, aperta a ricevere in carrozza l’intendente Gaetano Lotti, la “modernizzazione” che conviveva alla 438 meglio con l’usurpazione più che mai imperversante, oltre 12 mila ettari sottratti al patrimonio comunale, in maggioranza al confine dei tutto cervellotico ed artificioso con S. Giovanni Rotondo, e nella ribadita confermata assenza dell’autorità cosiddetta tutoria, se è vero che un accordo in merito, cioè in sostanza una ratifica dello stato di fatto, si raggiunse soltanto nel 1907, in piena età giolittiana, quando, malgrado tutto, l’autonomia amministrativa e specialmente la coscienza civica avevano fatto qualche passo innanzi rispetto alla “vita patriarcale” ed alla “opulenza” degli “aborigeni pastori” più volte rimpianta e mitizzata dal Giuliani. Il quale, Nardella non ce lo nasconde, ottimo e corretto nei principî, non lo è altrettanto nell’applicazione, se è vero che se la prende con i “miseri cenciosi” fino al sequestro degli attrezzi agricoli, senza investire davvero il cuore del problema, con i 31 mila ovini ed i 6 mila animali grossi che, sempre a fine anni trenta, e quindi alla vigilia della stesura dell’opuscolo, si trovavano attanagliati da un lato dalla mancanza d’acqua per la privatizzazione delle cosiddette piscine, dall’altro dalla censuazione coattiva della statonica, che sottraeva l’erbaggio estivo e decimava l’allevamento. Giuliani, l’abbiamo visto, è di massima fautore della pastorizia, la quale, scrive nel 1838 all’Intendente, “deve essere altamente protetta se non si vuole far cadere il cittadino nell’ozio e nell’indigenza”, un problema, dunque, di prevenzione sociale e di ordine pubblico assai più che non strettamente economico, come, anche qui, dovrebbe ricordarsi un po’ più spesso agli amici “modernizzatori”. Certo, tutto ciò non evade da un paternalismo intimamente borbonico, di cui la fondazione di un monte frumentario “per soccorrersi in tempi di semina la classe dei coloni” rappresenta il pendant agricolo nei confronti della pastorizia. E’ perciò perfettamente coerente l’assunzione del sindacato alla vigilia del plebiscito dell’ottobre 1860 da parte del Giuliani, nella prospettiva di “traghettare” la comunità garganica dall’antico al nuovo regime in forme pressoché indolori, magari rivolgendosi, ad homines, agli autentici comunisti e lodandoli, in quelle supreme ristrettezze, per essersi “ritirati speranzosi dalle sconsigliate dissodazioni sopra i demani comunali”. Forse, visto come andarono le cose, la lode era un pò troppo ottimistica, ed il vecchio Giuliani dovette avere la sensazione di essere superato e tagliato fuori già prima della morte. Perciò, anziché nel 1860, è opportuno conoscerlo all’epoca dell’opuscolo, nel 1846, quando la partita sembrava ancora fino ad un certo punto aperta, e la “statistica”, cara all’amico Francesco Della Martora, in grado di somministrare lumi proprio in quella chiave sociale che si è accennata. Miglioramento della silvicoltura ma non ripristino del bosco comunale che contraddirebbe il principio sacrosanto ed indiscusso della proprietà privata, consacrato dal diritto di chiusura, diffusione più o meno utopistica delle “arti” e dei prati artificiali con le solite scuole e gli inevitabili catechismi, enfiteusi degli erbaggi demaniali “suscettivi di miglioramemo” questo il nucleo delle proposte di Giuliani dopo l'excursus storico introduttivo che, naturalmente, non ci dice molto sulle vicende di S. Marco. Neppure le proposte, s’intende, brillano per originalità: ma l’interesse complessivo dell’opuscolo non è in ciò, bensì, per dirla incisivamente con Antonio Motta, che lo presenta e lo commenta, 439 nella “passione civile”, nel “certo tono di memoria” di un probo professionista ed impegnato cittadino. (Raffaele Colapietra) Tommaso NARDELLA, La chiesa dell’Addolorata di San Marco in Lamis e la sua arciconfraternita (1717-1937). San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1994, pp. 74 (Biblioteca Minima di Capitanata, 10). Da qualche tempo si nota un forte risveglio di interesse per le confraternite. A dire il vero, anche in questo caso, come per tutto ciò che attiene all’area della pietà popolare, l’ interesse dei teologi e della gerarchia è stato spesso preceduto da quello di Istituti Universitari e di Ricerca laici; e se oggi le confraternite tentano di rinascere sulla scorta di una legislazione ecclesiastica più fresca, il merito va anche a questi studiosi laici. Ricordo le Ricerche di storia sociale e religiosa dirette da Gabriele De Rosa che hanno dato, almeno per l’area veneta e campana, alcuni quadri di riferimento molto validi sia sul piano metodologico che su quello più strettamente storiografico. Per quanto riguarda la Puglia, le ricerche più valide sono attestate attorno ai seminari del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia dell’Università di Bari. La Capitanata è scarsamente presente in queste ricerche, anche se, a livello di censimento, esiste già la base costituita dai dati pubblicati dalla prof. Liana Bertoldi Lenoci in uno dei citati seminari baresi. Agli studiosi laici va quindi riconosciuto il merito di aver tenuta viva l’attenzione su un aspetto non piccolo della vita di fede del popolo cristiano. D’altra parte, però, va sottolineato che la prevalente enfasi data in questi studi agli aspetti giuridico- istituzionali, a quelli patrimoniali e a talune particolarità operative in campo sociale, ha privato spesse volte questi studi della percezione del dato fondante delle confraternite: quella pietas, che è nello stesso tempo amore di Dio e del prossimo, tensione verso l’alto e attenzione verso il vicino come esplicitazione della conversione del cuore. La stessa interpretazione dei fenomeni è rimasta a volte in uno stadio embrionale con conseguente impossibilità di collocarli in un quadro totale di vita religiosa. Bisogna dire, tuttavia, che l’evidenziazione delle peculiarità istituzionali, patrimoniali ed operative, è un pò il peccato di origine delle confraternite moderne, particolarmente nell’area meridionale. Se il Concilio di Trento ha segnato l’inizio della perdita d’autonomia delle confraternite nei riguardi dell’autorirà ecclesiastica, il Concordato intercorso nel 1741 fra Carlo III di Borbone e la Santa Sede, ha consacrato definitivamente la fase finale del processo di secolarizzazione delle confraternite, almeno di quelle laicali, identificate con un pizzico di semplificazione, come delle pure e semplici società di assistenza, e quindi, sottoposte, secondo gli stilemi giurisdizionalisti, al quasi esclusivo controllo dello Stato. E vero che il Concordato del 1741 può essere più facilmente accusato di bigottismo che di manifeste velleità secolarizzanti; è indubbio, tuttavia, che il rigido controllo statale imposto a realtà fondamentalmente religiose, i cui atti rivolti all’esercizio della beneficenza e della publica assistenza restano pur sempre espressioni profonde di esigenze religiose, è servito a dirigere la legislazione e la prassi governativa verso una 440 scarsa considerazione dei valori religiosi fondanti e, quindi, in prospettiva, ad abolirli come radici culturali e ideali. La letteratura giuridica sulle confratemite, pressocché sterminata, stabilisce da se stessa una linea di ricerca, parziale, ma certo interessante. Questa pista di ricerca si è arricchita, nei tempi attuali della percezione della forte incidenza esercitata dalle confraternite nella vita della comunità attraverso la pratica della solidarietà più o meno intensa, più o meno disinteressata. Il libro di Tommaso Nardella si potrebbe anche leggere come un racconto popolare la cui trama, abbastanza scontata, si svolge fra personaggi dai cognomi conosciuti, se non fosse per quella forza che in questa, come nelle altre confraternite, si intuisce viva e vitale nonostante i palesi sforzi che lo stato borbonico e l’organizzazione ecclesiastica profondono per inglobarla in rigidi schemi burocratici, che non sanno andare oltre il controllo diffidente e privo di fantasia. Questa forza consiste nella coscienza del proprio valore religioso e della propria dignità di uomini liberi e pensanti del popolo cristiano, che nella libera e religiosa associazione trova un luogo privilegiato e totale di espressione. La si direbbe orgogliosa, ma è la semplice affermazione del proprio essere figli di Dio. Il lavoro di Tommaso Nardella rifugge, tuttavia, dalle facili mitizzazioni: di fronte a situazioni particolari, anche la confraternita si rivela inadeguata a difendere gli aderenti dalla tentazione del potere e del denaro. Si coglie qua e là un senso di disagio di fronte alle difficoltà. Il verbale del 20 dicembre 1831 (pag. 17) rivela situazioni non del tutto puntualizzate dalla vita della confraternita: la cappella dell’Addolorata è già di proprietà dell’arciconfraternita, o la famiglia Iannacone si è limitata a cedere in perpetuo lo jus di usarne come cappella propria alla neonata confraternita? Se dal punto di vista giuridico la questione non è affatto chiara, almeno dal punto di vista dei documenti, da quello morale è piuttosto evidente il gioco delle parti sul filo di un’affermazione di diritto che non si sa bene se vantata o millantata. Affiora poi qua e là nella vicenda, anche con preoccupante frequenza, un’altra verità: spesso l’autonomia organizzativa e amministrativa, vantata senza mezzi termini di fronte all’autorità ecclesiastica, tentata anche di fronte a quella civile, celava pure e semplici operazioni di potere: priorati che si prolungano oltre misura con la vecchia tecnica dell’acclamazione; opere di carità a volte pelose; interpretazioni favorevoli degli atti di fondazione; l’ondeggiare, alla ricerca della parte più favorevole, fra la giurisdizione ecclesiastica e quella civile; il ricorso ai faccendieri di dubbia moralità per ottenere il rescritto reale con qualche sodalizio sammarchese, da “Confraternita”, veniva elevata ad “Arciconfraternita” senza che la dichiarazione si giustificasse con altra motivazione al di fuori della semplice operazione di immagine, ovverosia, di propaganda spendibile in un futuro più o meno immediato dagli attuali dirigenti. L’operazione compiuta nel 1838 costò ai confratelli un piccolo patrimonio: 350 ducati! Non è piccola cosa, quindi, per San Marco in Lamis il libro di Tommaso Nardella a cui, speriamo, segua la pubblicazione degli statuti settecenteschi della confraternita del Carmine e quelli ottocenteschi della confraternita di Santa Maria Bambina, già acquisiti all’esame degli studiosi. A questo proposito si rivela utilissimo il libro del Nardella il 441 quale nella parte iconografica ha pubblicato una vera e propria pista di ricerca: l’elenco ottocentesco di tutte le chiese e cappelle del comune garganico. (Mario Villani) Molfetta 1799 - Galantuomini e popolani, giacobini e realisti, sangue e tumulti in un comune pugliese di fine Settecento a cura di Massimo M. Memola e Ignazio Pansini. Molfetta, Mezzina, 1994, pp. 222. Il sottotitolo un pò sesquipedale ed enfatico, che rispecchia del resto i gusti del primo dei curatori e l’atmosfera dichiaratamente teatrale che ha circondato l’iniziativa nel molto bene e nel pizzico di male, è forse l’unica cosa non condivisibile in, un libro originale ed intelligente pur nel tornare ad affrontare temi arcinoti, in un clima peraltro di solidarietà comunitaria e di rigoroso civismo che rende doveroso omaggio in limine all’episodio davvero d’antico regime del quale è restato compianta vittima il sindaco Carnicella. E’ la città di Molfetta dunque come tale, più che opportunamente, che si volge a riflettere su un episodio famoso del suo passato, drammatizzandolo in una vera e propria forma teatrale conclusiva (tutt’altro che spregevole, anche perché ci fa rileggere il testo dell’inno repubblicano musicato per tradizione da Cimarosa), sceneggiandolo attraverso una serie di quadri, anch’essi dignitosi, del pittore Sciancalepore, ispirati a brani della cronaca del notaio Francesco Saverio Pomodoro, ma soprattutto, s’intende, commentandolo, interpretandolo ed arricchendolo grazie all’appassionata collaborazione di egregi studiosi concittadini. Il primo di essi è prevedibilmente Angelantonio Spagnoletti, che tiene comunque il discorso sulle generali, con quella sottolineatura della neapolitanitas del regno, del ruolo dei togati, della funzione incondizionatamente progressiva del giurisdizionalismo, che è propria di una scuola, e che non finisce di persuadere, mentre felicissima, specie nella Puglia di Palmieri, è l’insistenza sull’evoluzione, che predetermina i tempi nuovi, di almeno una parte del baronaggio verso l’aziendalismo della proprietà fondiaria modernamente intesa. Segue un’utilissima cronologia delle vicende nazionali intrecciate con quelle cittadine, che pone subito certi problemi di differenziazione e gerarchia territoriali che meriterebbero chiarimenti, Terlizzi “piccola Parigi” nei confronti della Molfetta anarchica che tuttavia è in grado di soverchiare l’onesta Giovinazzo, cose che non nascono nel 1799, così come non viene fuori dal nulla la dialettica tra Gioia ed Acquaviva, con tutto ciò che ne consegue e che, come un pò in tutto il Mezzogiorno, andrebbe indagato e ricostruito molto a monte, forse addirittura al di là dello stesso Settecento. Si leggono quindi, sobriamente annotati dal De Santis con attenzione lodevolissima alla topografia storica ed alla relativa toponomastica, i brani della cronaca del Pomodoro, vivacemente illustrati da Sciancalepore (l’assassinio di Benedetto Samarelli richiama in modo tragico, nelle modalità rituali, quello del sindaco di Molfetta dei giorni nostri, i Giovene cominciano a grandeggiare, l’arciprete per l’acutezza delle sue osservazioni, il fratello Michele per il tatticismo spregiudicato e votato al successo) per passare più avanti ad Arcangelo Ficco, che riprende con nuovi elementi il suo prediletto tema antropologico della 442 “trasgressione” a cui, ovviamente, il Novantanove si presenta in modo particolare, non soltanto a Molfetta. In queste pagine, peraltro, Ficco si preoccupa soprattutto di tracciare l’antefatto dell’esplosione anarchica, il mutamento di mentalità che si sostanzia in una indifferenza di fondo per le pratiche religiose, anche quando esse non s’irrigidivano nel precettismo penitenziale e devozionale della tradizione, ed in una istanza latamente carnevalesca di sovversione, l’inzaccheramento che può anche significare l’aspirazione di un coinvolgimento collettivo più o meno nichilistico, nei cui confronti le deplorazioni vescovili sulle bestemmie e sui concubinati risultano francamente fuori tempo, quasi che proprio i moduli ecclesiastici di giudizio non riuscissero a tener dietro alla torbida ebollizione della società. Pansini si dedica infine da par suo all’accennato arricchimento documentario della già preziosa bibliografia molfettese, e qui debbono riscontrarsi davvero stimoli e suggerimenti molto fecondi, il ruolo ambiguo e soperchiatore dei fratelli Tortora, la sostanziale e benemerita dirittura di uomini così diversi come il vescovo Antonucci ed il capopopolo Felice Ragno, il conformismo innocuo dei grandi intellettuali cittadini dell’epoca, da Minervini a Poli, i retroscena ed i sottofondi delle amministrazioni straordinarie e delle occupazioni militari, e così via di seguito. Un libro teatrale, abbiamo detto, e che anche tipograficamente si presenta in modo che si direbbe scenografico: ma su quel palcoscenico ci sono persone che sanno il fatto loro, studiosi ferratissimi, uomini di buon gusto, che si sono tutti riconosciuti quali cittadini di buona volontà, ed alla loro città hanno dedicato un’opera importante, nello scorrere la quale il diletto di prammatica è senza dubbio superato da un profitto consistente e duraturo. (Raffaele Colapietra) Felice PELLEGRINI, Testimone di Libertà. Per una biografia di Vincenzo Calace prefazione di Mario Spagnoletti. Molfetta, Mezzina, 1994, pp. 499. Nel centenario della nascita, ed a trent’anni dalla dolorosa e sofferta scomparsa, dopo che la città natale, Bisceglie, gli ha doverosamente dedicato un ricordo monumentale inaugurato da Pertini, presidente della repubblica, ed il suo nome è variamente tornato nelle non poche ricostruzioni del pensiero e delle vicende del partito d’azione che si sono succedute negli ultimi anni, era opportuno che a Vincenzo Calace venisse dedicata altra specie di monumento, e cioè una ricerca approfondita e documentaria al di là dell’appassionato profilo tracciato nell’86 da un personaggio per più versi a lui congeniale, Giuseppe Andriani. Ho parlato di personaggio, e l’ho fatto pesantemente, perché costoro, tra Bovio e Salvemini, che rimangono i loro modelli e maestri, non sono cittadini e democratici qualsiasi, bensì invincibilmente protagonisti libertari, individualisti impenitenti, testimoni conclamati, con tutto ciò che di turgido nel linguaggio e di caricato e declamato nell’atteggiamento ciò comporta, uomini dell’Ottocento, coturnati, alfieriani, con o senza il cappellaccio a larghe tese d’Imbriani o di Giacinto Francia, che sono altri nomi che vengono irresistibilmente sotto la penna, trattandosi di cose pugliesi. L’esigenza documentaria è dunque perfettamente rispettata ed esaudita in questo ponderoso volume, grazie alla 443 disponibilità, di cui l’A. ha potuto godere, dei grossi quaderni in cui Calace annotava e trascriveva la propria corrispondenza in partenza nel secondo dopoguerra, insieme con parecchi significativi frammenti, variamente reperiti, di quella in arrivo. Non si può dire che a questo punto manchino le pezze d’appoggio per elaborare un giudizio d’assieme su colui che dovrebbe essere un uomo politico quanto mai rappresentativo della democrazia meridionale, ma che in realtà, proprio grazie a questa massa ricchissima di documentazione che l’A. presenta con incondizionata adesione, che moltiplica a mille doppi il fervore ed il pathos già presenti ad abundantiam in quella prosa, si conferma, ormai in modo definitivo, tutt’altro che tale, e dunque esclusivamente, com’è ben detto nel titolo, con una istanza tutta etica ed individualistica, un “testimone di libertà”, intesa quest’ultima, s’intende, nel senso eminentemente “antitirannico” che si è accennato sopra. In realtà, culturalmente parlando, ed applicando la sua cultura alla politica, Calace non va al di là di Mazzini, e di un Mazzini non felicemente filtrato attraverso Bovio, sia agli esordi non precocissimi del suo appassionamento politico squisitamente antifascista in quanto tale, fine a sè stesso (sottolineo con forza questi corollari) sia quando si atteggia a socialista in nome di un connubio tra giustizia e libertà che non va al di là dell’enunciazione sommaria, il governo della gente onesta, la redenzione delle plebi, e così via, in pratica non andandosi oltre (è l’A. a documentarlo largarnente) l’assistenza agli operai pugliesi emigrati in Svizzera, grazie alla collaborazione di Egidio Reale e di Riccardo Bauer, un altro “isolato”, quest’ultimo, la cui amicizia con Calace si distende senza ombre per decenni, ma con un campo d’attività, l’Umanitaria di Milano, ben più prestigioso e gratificante che non la rissosa e sterilissima Bisceglie. Tutta la prima parte del libro rispecchia perciò l’esemplare militanza repubblicana in quanto “salvazione d’anima” di un professionista non più giovanissimo, che si è tirato su con le proprie forze, in un quadro di solidarietà democratica antifascista, tipica dei pieni anni venti, col consueto contorno di violenze intorno all’interessante candidatura politica, nel 1924, di Carlo Pasquale. Poco si sa purtroppo dell’attività politica del Nostro a Milano, dove nel 1927, a trentadue anni, assume responsabilità direttive clandestine nel ricostituito partito repubblicano che presupporrebbero una preparazione ed una militanza ben diverse da quelle pugliesi, fino all’atmosfera terroristica che condurrà all’arresto di fine 1930 ed alla lunghissima detenzione, la cui cronaca, diciamolo subito, e con tutto il rispetto e l’ammirazione possibili, non si distacca gran che dal prevedibile cliché di gusto risorgimentale, non ravvisandosi in Calace alcuna consistente evoluzione di pensiero politico nei confronti della pregiudiziale intransigenza etica antifascista che, lo ripetiamo, è fine a sè stessa, e prefigura semmai, attraverso l’amicizia con Fancello, una piattaforma libertaria che si manterrà ben a lungo per entrambi, con risvolti importanti all'interno del PSI del frontismo. Per il momento, comunque, internazionalista ed anticlericale alla garibaldina com’egli è, Calace è ben lungi dal socialismo (non si parla di marxismo) e confluisce naturaliter nel partito d’azione, al cui interno, com’è noto, assume un ruolo spiccatissimo d’inflessibilità antimonarchica ed antibadogliana, dalla tribuna de L'Italia del Popolo a quella 444 napoletana della Giunta Esecutiva dei comitati di liberazione dopo il congresso di Bari del gennaio 1944. Abdicazione del re e Costituente, cioè istanze serissime, s’intrecciano e si confondono in questo clima con altre quanto meno azzardate, la reggenza dei savants, i magistrati al posto dei prefetti e dei questori, l’atto d’accusa contro il re, i “pieni poteri del momento d’eccezione”, tutta la stamburata, insomma, che eccitava Croce all’insofferenza più viva, ed alla quale Calace (che pur aveva detto cose assennate sulla “defascistizzazione”) aggiungeva “l’intervento diretto dal popolo per la presa di possesso dei Comuni e la immediata costituzione del Governo straordinario che dichiari senz’altro la deposizione del re... le masse popolari ponendo in atto il loro proponimento anche con la forza”, prosa che leggiamo a p. 174 sotto la data 24 febbraio 1944, e che non richiede davvero commento, fino al corollario del “dovere d’insorgere”. Intendiamoci, Calace avrà tutte le ragioni, contro Togliatti, di sostenere le pregiudiziali della collegialità della giunta e dell’impegno per la Costituente, ma non le avrà altrettanto quanto alla non collaborazione con Badoglio, che era davvero obiettivamente preliminare a qualsiasi altra pregiudiziale, come avrebbe confermato l’indignato rifiuto di Croce a fornire egli la soluzione all’impasse in cui si era cacciata l’intransigenza di Calace. Quest’ultima conduce pertanto ad una sconfitta politica personale netta e definitiva, anche sul piano d’intrattabilità morale su cui aveva preferito di attestarsi, si veda in merito una nobile protesta di Mario Berlinguer, a non parlare di quello della sensibilità sociale, che rirnane vago e fumosissimo, ai limiti del paternalismo, o del piano istituzionale, con la polemica contro “Roma ladrona” infarcita di luoghi comuni ai quali purtroppo ci siamo dovuti abituare. Quando nel febbraio 1946, per giustificare la propria permanenza nel partito d’azione dopo il congresso di Roma e la relativa scissione, sentiamo Calace parlare di “repubblica del lavoro” e di “più profonda concezione di trasformazione e rinnovamento etico, politico, sociale, che pone per ciò stesso il Partito su un piano storicamente rivoluzionario”, possiamo farci un’idea di quanto datate ed approssimative siano le sue convinzioni politiche. Seguire la cronaca del decennio successivo in cui il Nostro è ancora intellettualmente valido, prima del triste tramonto finale (che ha motivazioni psicologiche e psicanalitiche evidentissime, che non si dovrebbero sottovalutare anche in chiave d’interpretazione politica) diventa a questo punto superfluo nei limiti attuali della presente nota, a parte il garbuglio che obiettivamente contraddistingue la sinistra democratica e socialista in questi anni. Calace, quanto a lui, ed a partire dalla campagna per la Costituente, rimane sostanzialmente repubblicano, pur non aderendo mai al PRI, vagheggia un “partito del lavoro” e (gennaio 1947) “una nuova società umana nella quale tutti i valori dello spirito e tutte le esigenze economiche vengano difesi in una più civile ed umana concezione attraverso una profonda riforma del costume” (sic!), aderisce al PSI a fine 1947 su linee di autonomismo risentito nei confronti del PCI, che costituiranno la sua maggiore e più limpida benemerenza in quegli anni di ferro, ma con sullo sfondo un federalismo europeo sempre più utopisticamente mazziniano rispetto al “fascismo clericale” imperversante, si apre a Salvemini, si confida con Riccardo Lombardi (molto bella e vera la lettera 19 dicem445 bre 1949), polemizza con Togliatti, ma sempre come un sopravvissuto, che rievoca, che recrimina, che non si prende sul serio (ed in questa sua solitudine di “spostato”, fino al tardo lavoro per la Cassa del Mezzogiorno, dovrà pur esserci un nesso di causa ed effetto non trascurabile). Coerentemente, logicamente, espulso dal PSI, alla ricerca di un socialismo autonomo che riflettesse in qualche misura le proprie aspirazioni e speranze di vecchio azionista “libertario”, l’approdo di Calace non poteva che essere l’Unìtà Popolare e la battaglia democratica contro la “legge truffa” del 1953. E qui preferisco lasciarlo, perché qui la sua vicenda di un democratico meridionale ottocentesco si confonde con la mia di giovanissimo intellettuale di una diversa generazione ed esperienza, che mi trovai altrettanto naturaliter su quelle medesime posizioni e che non ho ovviamente alcun motivo per dolermene o pentirmene. Ma qui, quarant’anni più tardi, ho dovuto fare il mio mestiere di studioso di storia: e la figura rispettabilissima di un antico compagno d’armi e di un uomo moralmente superiore non può essere sufficiente purché io mi esoneri dal ricercare le “ragioni” della storia e perciò quelle della storia e perciò quelle della sconfitta politica di un uomo, di una tradizione, di una corrente di pensiero, che ci hanno dato molto, a cui restiamo fedeli, ma sulle cui linee non possiamo e non dobbiamo, se abbiamo studiato e vissuto, reverentemente rimanere immobili. (Raffaele Colapietra) Saverio Russo, Storie di famiglie - Mobilità della ricchezza in Capitanata tra Sette ed Ottocento. Bari, Edipuglia, 1995, pp. XIV, 173 (Mediterranea - Collana di Studi Storici, 6). La scuola modernistica di Pasquale Villani ha già da alcuni anni recuperato a Napoli ed in Terra di Lavoro, si pensi rispettivamente a Macry ed a Civile, la dimensione familistica e la prospettiva biografica quale approccio metodologico più produttivo per l’indagine strutturale, al di là del mero rilevamento quantitativo, fino agli esiti “immateriali” del consenso, del prestigio, dell’egemonia, mediante l’intervento delle cosiddette strategie matrimoniali, delle coperture e degli inserimenti nella vita pubblica. Si dirà che è la scoperta dell’ombrello, che si è ancora lontanissimi non solo dall’ariosità e dal ritmo della biografia ottocentesca ma dalla stessa complessità di suggerimenti e di spunti che una metodologia del genere tiene in vita soprattutto in Inghilterra. E tuttavia ci si deve rallegrare come di un passo avanti fondamentale, che quanto meno comincia ad eliminare le emarginazioni, i compartimenti stagno, che per decenni avevano contribuito progressivamente a rendere asfittica e a paralizzare la ricerca storica nel Mezzogiorno. Da questa svolta si era fin qui tenuta immune la Puglia, ferma con Massafra e Salvemini ad una visione “rigorista” dei lunghi periodi, degli atteggiamenti di ceto, dell’interpretazione del territorio. Una buona disponibilità archivistica privata, egregiamente integrata con quella pubblica, ma in special modo, non c’è dubbio, una sensibilità ed una curiosità finalmente ridestatesi a nuovi orizzonti, consente una buona volta di liquidare anche questa immunità, grazie allo spaccato che l’A. dedica a Cerignola. In questa parabola all’incirca secola446 re del catasto onciario alla vigilia dell’Unità c’è un elemento nuovo e deciso, che l’A. non enfatizza a dovere, ma che non può fare a meno di sottolineare a più riprese e con forza, il ruolo ben calcolato degli ecclesiastici nell’escalation familiare, l’incidenza determinante del capitolo cattedrale nella gestione della cosa pubblica, soprattutto quando, come a Cerignola, il capitolo sia ricettizio e l’assenza tanto del barone quanto del vescovo garantisce ai canonici un campo d’intervento pressoché illimitato. Non c’è ancora (e sarebbe stata troppa grazia che ci fosse) la politica, sicché all’A. non passa per la mente che il Mercadet di paese, quale viene raffigurato Paolo Tonti nelle pagine notissime di De Cesare e di La Sorsa, possa essere una costruzione retorica post eventum dei liberali per squalificare nel ridicolo e nella goffagine plebea il buon conformista borbonico che in realtà era stato don Paolo, né che i Chiomenti ed i Tortora possano recuperare sul piano politico liberale pre e post quarantottesco quel ruolo che andava appannandosi sotto il profilo economico, nel primo caso proprio sotto l’offensiva di don Paolo, la cui ricostruzione litigiosa e controversistica è una delle cose migliori dell’A., fino al tramonto esistenziale ed alla burrasca del testamento, col don Basilio di turno (figurarsi, un redentorista pugliese alla Celestino Cocle!) ed un pò tutti gli altri personaggi della relativa commedia dell’arte, la bagascia, la sorella proterva, i queruli mendicanti e cosà via, con sullo sfondo la cupola del Duomo, quale nuova piramide del novello faraone. La politica, s’intende, c’è di fatto, anche se non viene trattata ex professo, e la costante fortissima copertura terriera del Tonti, insieme col filantropismo paternalistico dei parenti Fornaro, rimane un elemento settecentesco legato allo sfruttamento del mercato “protetto” istituzionale che sfocia in un privatismo privilegiato, ben lontano dalla più moderna prospettiva schiettamente creditizia di Casimiro Cirillo, per il quale il negozio di cereali non è fine a sè stesso, non s’immobilizza nella rendita, ma è solo uno strumento per disporre di una liquidità da reinvestire immediatamente in un contesto tutto finanziario. Quest’ultimo, com’è naturale, è un gusto pienamente ottocentesco, rispetto al quale il Tavoliere, la regia corte, i Certosini di S. Martino, i locati abruzzesi, con cui ancora schermeggia Francesco Tonti, sono un ricordo del passato cancellato dal Decennio con le sue forniture e gli investimenti in grande stile tutt’altro che localizzati esclusivamente nella terra (quella terra, notiamolo en passant, che Paolo Tonti continuerà a gestire in economia fino alla morte a metà Ottocento, riluttando persino all’affitto e confermando anche in ciò la coloritura antico regime del suo inconfondibile borbonismo). Altre cose andrebbero tenute presenti, il modo di abitare, ad esempio, la partecipazione al mercato immobiliare ai fini delle modificazioni urbanistiche che a Cerignola sono particolarmente rilevanti, così come rilevantissimo e decisivo, molto ben valorizzato dall’A. attraverso tutti i suoi eroi, è il ruolo degli immigrati, che peraltro pone altri problemi, d’insediamento, appunto, di convivenza a livello antropologico e così via, a partire dalle difficoltà d’inserimento, che l’A. illustra in negativo col caso drammatico del “napoletano” Michele Biancardi rimasto legato alla clientela e ad una sorta di endogamia psicologica, che a sua volta si confronta e si scontra con l’affine atteggiamento, non esclusivamente psicologico, dei canonici della cattedrale. 447 Ma siamo sulla strada buona, vediamo gli uomini con i loro umori e non soltanto con i loro cartellini di lavoro: e c’è da rallegrarsene con l’A. (Raffaele Colapietra) Giuseppe TARDIO, Rimembranze - Diario di vita politica e amministrativa di un paese del Gargano (1860-1899), a cura di Tommaso Nardella e Giuseppe Soccio. San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1995, pp. 165. A cura di Tommaso Nardella e Giuseppe Soccio è stato recentemente pubblicato il diario di Giuseppe Tardio, medico e uomo politico di S. Marco in Lamis, vissuto tra il 1836 e il 1899, uno dei tanti intellettuali meridionali che durante il processo di unificazione nazionale hanno contribuito all’avanzamento sociale e civile del Mezzogiorno d’Italia. Il diario, intitolato “Rimembranze dei momenti più memorabili della mia vita”, è tratto dal ricco fondo documentario dell’archivio di Tommaso Nardella, e racconta la vita politica e amministrativa di un paese dei Gargano attraverso le pagine di un democratico, mazziniano convinto, che partecipò con impegno e passione civile alle contese politico-amministrative della popolosa comunità garganica e della Capitanata fra tradizione e innovazione. I fatti della reazione borbonica e del brigantaggio a San Marco in Lamis sono descritti con avvincente partecipazione e concreta interpretazione critica degli avvenimenti e del fenomeno suggerendo rimedi e provvedimenti improntati a responsabile saggezza. Aperto verso le masse più povere, vede però ancora lontano il processo di emancipazione delle classi egemoni. Convinto assertore dell’unità e dell’indipendenza dell’Italia, ha sempre di mira il riscatto degli umili mediante l’istruzione e l’azione di governo per gli indispensabili miglioramenti delle condizioni di vita civile e sociale, oltre che economica. A tali finalità è rivolta infatti la sua attività di consigliere comunale e provinciale, di sindaco e di delegato scolastico provinciale, oltre che di presidente della Banca Cooperativa, di socio della Società Economica di Capitanata e di rappresentante del Comune di S. Marco in Lamis nel Consorzio per le strade garganiche. Egli mirò allo sviluppo delle attività produttive, alla costruzione di infrastrutture, dalla pubblica istruzione, che egli considerò “importante molla del progresso”, alla sanità, dal razionale utilizzo delle finanze comunali alle opere pubbliche, dall’assetto idrogeologico e dalla salvaguardia del territorio alla questione demaniale e alla solidarietà sociale. La lettura delle pagine del diario e delle note, precedute da una illuminante introduzione dei curatori, rivela la forte tempra di un uomo e amministratore amante dei “fatti” e non di “paroloni belli e sonanti”. Egli lamenta, fra l’altro, “in una popolazione di 18 mila abitanti esserci appena 162 elettori dei quali 63 preti”, e che le istituzioni non riescano a “rendere evidenti e palpabili i beni che vengono da un governo costituzionale”. Critica anche la locale borghesia, sollecita solo a trarre profitto dal controllo della pubblica amministrazione, e auspica il superamento degli egoismi e dello sfruttamento della reazione contro le ingiustizie e le violenze che “mettono in pericolo l’unità e la concordia nazionale”. Sono parole che acquistano particolare significato anche nel momento attuale. 448 La lettura di queste pagine di diario, dense di riferimenti ad avvenimenti locali e nazionali, che si consiglia specie ai più giovani, offre un chiaro racconto, anche letterariamente ben costruito, della vita di un intellettuale e uomo politico meridionale, che, ancor oggi, in una società confusa e a corto di veri ideali come la nostra, può costituire un valido esempio di onestà democratica e di equilibrio morale e politico. Arricchiscono il volume un’ampia documentazione fotografica e l’appendice costituita da tre documenti, anch’essi inediti, riguardanti la condizione operaia, la situazione economica del paese e la storia delle finanze del comune garganico dal 1864 al 1888, un periodo, come si sa, denso di notevoli e importanti avvenimenti storici nazionali. (Cristanziano Serricchio) 449 Norme per i collaboratori la CAPITANATA - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia e Bollettino della Biblioteca Provinciale, pubblica materiali che diffondano la conoscenza storica del suo territorio, considerato in tutti i suoi aspetti ed inserito nel contesto del Mezzogiorno d’Italia. Per la collaborazione - gratuita ed aperta a tutti - è richiesta, soltanto, genuinità ed originalità dei contributi ed elaborazione critica degli stessi. I materiali proposti, che non si restituiscono, sono sottoposti a valutazione insindacabile della redazione, che si riserva libertà di decisione in merito a pubblicazione, tempi ed eventuali modifiche. I collaboratori sono invitati ad attenersi alle seguenti norme: 1) Gli elaborati, in forma definitiva, vanno inviati in duplice copia e non devono superare, salvo intesa diversa, le 30 cartelle. Preferibilmente su microdisk per computer Macintosh o con questo compatibili. 2) Le parole, o frasi, che vanno composte in corsivo, devono essere sottolineate una volta; due volte se vanno in MAIUSCOLETTO e con una linea ondulata o irregolare se in neretto. 3) Le note, espresse nel testo con numero tra parentesi tonde, devono avere numerazione araba progressiva ed essere riportate a pie’ di pagina. 4) Nelle note, l’autore o gli autori (fino a tre) vanno indicati con l’iniziale del nome e col Cognome in maiuscolo - al contrario e con nome completo nella eventuale bibliografia finale - ; il titolo dell’opera va sottolineato od in corsivo, con indicazione - in successione - di luogo, data di edizione e paginale; senza editore o casa editrice. Esempio: U. Iarussi, Foggia. Genesi urbanistica. Vicende storiche e carattere della città. Bari, 1975, pp. 206 fig. 5) Se la citazione è riferita ad opera di più di tre autori, si deve indicare in MAIUSCOLO - la prima parola del titolo, mentre il resto dello stesso va sottolineato, indicando altresì, laddove compaia, il nome del curatore. Lo stesso si faccia, precisandone le pagine, per lo scritto di un singolo autore contenuto nella raccolta. Evitare la indicazione: AA.VV. Esempi: a) Storia di Foggia in età moderna, a cura di Saverio Russo, 451 Bari, 1992, pp. 317 fig. b) J. A. Marino, La fiera di Foggia e la crisi del XVII secolo in Storia di Foggia in età moderna, a cura di Saverio Russo, Bari, 1992, pp. 57 - 77. 6) Le citazioni successive alla prima vanno abbreviate, indicando, oltre all’autore, la prima o le prime parole del titolo, seguite da cit. e dal numero di pagina. Esempio: J. A. Marino, La fiera cit., p. 60. 7) I titoli di giornali e riviste vanno citati tra virgolette, seguiti dal numero (in cifra romana) dell’annata, dall’anno (in cifra araba tra parentesi tonde), dall’eventuale numero del fascicolo e dall’indicazione di pagina/e. Esempio: O. Parlangeli, Testimonianze linguistiche della Daunia preromana, in “la Capitanata - Rassegna di vita e di studi della Provincia di Foggia”, A.V. (1967), n. 1-3 (gennaio - giugno) pp. 39-50. Gli elaborati non conformi alle norme suindicate non saranno presi in considerazione. Le prime bozze di stampa saranno riviste personalmente dagli autori, che eviteranno di apportare aggiunte o modifiche sostanziali al testo; agli stessi sarà fatto omaggio di 10 estratti. 452