Terrorismo
Brigate Rosse
Via Fracchia
VIA FRACCHIA 12, INTERNO 1:
LA STRAGE DI GENOVA
Se non si trattasse di uno dei capitoli più tragici e per molti versi tra i più
cupi della stagione del terrore, si potrebbe cominciare con lo scrivere nella migliore tradizione dei romanzi d'appendice - che a Genova era "una
notte buia e tempestosa". Già, perché quella notte del 28 marzo 1980 su
Genova pioveva a dirotto. Pioveva e tuonava.
Ma il dato meteorologico, in quelle ore tenacemente ostinate a non voler
lasciare spazio ad un'alba uggiosa e bagnata, non ha molto peso in questa
storia di morti ammazzati, di giovani carabinieri feriti, di terroristi "pentiti",
di generali decisi a tutto e di uomini politici intenti a barcamenarsi fra
ragion di Stato, figlioli prodighi (di sangue?) e interventi legislativi. Quello
che si solleva a Genova, in quella orribile notte che dà sull'alba, in via
Fracchia 12, interno 1, è un sipario che mostra più ambiguità che certezze,
che lascia intravedere più che vedere. Un sipario che nessuno ancora oggi,
a distanza di anni ed anni, ha avuto il coraggio di sollevare del tutto.
Poteva essere una data importante, forse fondamentale, nella lotta che si
combatte da otto anni contro il terrorismo e che lo Stato ha mostrato di
voler intensificare dopo la morte di Moro. Si rivelerà invece un giorno
debole. Un giorno colmo di vergogna. Forse uno dei giorni più brutti e
odiosi degli anni di piombo.
L'operazione scatta alle 4.10. Gli uomini che circondano la palazzina al 12
di via Fracchia, una costruzione un po' trasandata, affacciata su una curva a
gomito che in discesa porta dal quartiere Oregina, verso la parte bassa della
città, sono in gran parte in borghese. Ma la loro presenza, nonostante l'ora
prossima alle prime luci, non sfugge ai pochi occhi indiscreti che da dietro
le persiane socchiuse osservano intimoriti i movimenti silenziosi e
percepiscono, alla lontana, gli ordini impartiti sottovoce. Che quelle figure
che si muovono furtivamente siano poliziotti o carabinieri non ne dubita
nessuno.
Sono carabinieri. Carabinieri un po' particolari, quelli che fanno parte, da
quasi un anno, dello speciale nucleo creato dal gen. Carlo Alberto Dalla
Chiesa per combattere l'eversione armata di sinistra in modo deciso e
frontale. Quegli occhi indiscreti scompaiono all'improvviso dall'ombra
delle persiane socchiuse, quando una gragnuola incessante di spari travolge
il silenzio del quartiere.
Come è spesso accaduto in questi terribili anni è un flash dell'Ansa a
diffondere le prime notizie che subito i giornali radio trasmettono. Alle
6.53, quando ancora le redazioni dei quotidiani sono deserte, le
telescriventi battono queste poche righe:
"Secondo le prime notizie giunte a Roma, quattro presunti terroristi sono stati uccisi in
un conflitto a fuoco con i carabinieri avvenuto all'alba a Genova. Nella sparatoria è
rimasto ferito anche un sottufficiale dell'Arma. Le persone morte sono tre uomini ed
una donna".
La segnalazione, stringata ma esatta nei pochi particolari, è giunta ad un
giornalista dell'agenzia svegliato a casa dal Comando generale dei
carabinieri. Anche le successive notizie che l'Ansa trasmette alle 6.59 e alle
7.42 sono essenziali e precise. Contengono dapprima l'indicazione del
quartiere e l'ora in cui il "conflitto a fuoco" è avvenuto e poi anche l'esatta
indicazione della via e del numero civico. La terza notizia dell'agenzia
sottolinea un particolare importante:
"È trapelato che nell'appartamento di via Fracchia sono stati trovati numerosi
documenti che potrebbero essere di notevole interesse".
Attorno alle 9.00 il comando generale dell'Arma diffonde sull'operazione
un comunicato che per ben 11 giorni sarà l'unica notizia ufficiale per chi
vuole conoscere la verità dei fatti:
"L'operazione antiterrorismo condotta stamane in Italia settentrionale e coordinata dal
Comando generale dei carabinieri, dopo laboriose indagini che avevano consentito la
localizzazione di covi e basi logistiche di formazioni eversive a Genova, Torino e Biella
- afferma il comunicato - è scattata simultaneamente poco dopo le quattro di stamane
con largo spiegamento di mezzi e militari dell'Arma dei gruppi di Genova, Torino e
Vercelli e delle sezioni anticrimine, che nella circostanza indossavano giubbotti e
caschi protettivi. A Genova i carabinieri, fatti segno a colpi di arma da fuoco, hanno
reagito prontamente, sostenendo un violento conflitto nel corso del quale i quattro
occupanti dell'appartamento, tre uomini e una donna, sono rimasti uccisi, mentre un
sottufficiale dell'arma è rimasto ferito. A Torino e Biella sono state localizzate due basi
logistiche ed arrestati sei presunti brigatisti e fiancheggiatori. Sono stati rinvenuti
esplosivi, armi, materiale e documenti che sono tuttora al vaglio dei carabinieri. Il
comandante generale dell'Arma, gen. Umberto Cappuzzo, ha fatto pervenire ai militari
operandi il suo vivissimo elogio. L'operazione è tuttora in corso".
E "in corso" lo resterà, se è vero che mai come in questa occasione le
notizie fluiranno con il contagocce, per giorni e giorni.
Ma cosa è successo in via Fracchia?
Chi sono i quattro brigatisti uccisi?
Perché il sottufficiale Rinaldo Benà è rimasto gravemente ferito (si saprà
quasi subito ad un occhio, che perderà dopo un intervento chirurgico)? Non
indossava, come il comunicato del comando si è affrettato a sottolineare, il
casco protettivo?
Al di là del comunicato ufficiale, i carabinieri - sempre così prodighi di
informazioni quando una loro operazione riesce - questa volta tacciono
oppure forniscono a mezza bocca ai giornalisti versioni smozzicate,
confuse e contraddittorie. Non solo: il cordone che dalle 4 si è stretto
attorno a via Fracchia è quanto mai impenetrabile. Tempi tecnici per
vuotare il covo brigatista degli "importanti documenti" trovati? La
necessità di non "bruciare" un'"operazione tuttora in corso"? Oppure un
certo malcelato imbarazzo per la carneficina avvenuta all'interno
dell'appartamento?
1. Via Fracchia: la verità sequestrata
I giornalisti che nella prima mattinata arrivano a Genova si trovano di
fronte ad uno strano ed insolito muro di silenzio. Fanno appena in tempo a
vedere da lontano quattro bare, fatte con legno grezzo, trasportate fuori
dall'androne dello stabile di via Fracchia e due pulmini dei carabinieri sui
quali vengono caricati pacchi e grossi sacchi neri di quelli usati per le
immondizie con dentro, si ritiene, il materiale trovato nell'appartamento.
I carabinieri - questa l'impressione dei giornali - hanno "sequestrato"
l'operazione. Letteralmente.
Scrive Antonio Ferrari, inviato del Corriere della Sera:
"Fuori dal condominio di via Fracchia giungono le auto della Digos. Ma sono costrette
a rientrare in questura. A dieci metri dalla casa c'è un cordone insuperabile. Non si
passa. Compongo il numero di telefono di Annamaria Ludmann. Risponde un
carabiniere 'Sono un giornalista, quando possiamo entrare?' 'Né ora, né dopo. Si
1
rivolga al comando'. Al comando dell'Arma dicono che gli "ufficiali sono fuori" .
Un nome comunque è spuntato: è quello di Annamaria Ludmann.
È figlia dell'intestatario dell'interno 1 di via Fracchia 12, il capitano di
lungo corso Corrado. Lei è un'insegnante di francese di 33 anni, separata,
una ragazza modesta, bruttina, strabica, militante delle Brigate rosse, nome
di battaglia "Cecilia". Una semplice militante che, lo si apprenderà subito,
non era ricercata, né all'interno dell'organizzazione svolgeva un ruolo
importante. Non aveva partecipato ad alcuna azione. Aveva un solo e
semplice compito, quello di mettere a disposizione delle BR l'appartamento
di via Fracchia, lasciatole in eredità dal padre, morto nel '77. Insomma
Annamaria Ludmann è sì una brigatista, ma un pesce davvero piccolo. La
proprietaria di un "covo", la vivandiera di un gruppo di terroristi della
1
Cfr. Il Corriere della Sera (30-3-1980).
colonna genovese che si riuniva a casa sua. Chissà, forse lavava e stirava
loro la biancheria. Quello della Ludmann è il primo nome che salta fuori.
Ma non sono i carabinieri a fornire l'informazione. Loro continuano a dire
di non sapere nulla. E non stanno mentendo. Di quel massacro sanno
davvero poco. Praticamente solo di averlo fatto.
Chi sono gli altri tre brigatisti? Nessuno lo sa.
Sono pesci piccoli come la Ludmann o clandestini? Brigatisti di supporto
come Annamaria o regolari? Fornitori di vitto e alloggio come l'insegnante
di francese o membri della direzione strategica?
E ancora: se i carabinieri hanno colpito a colpo sicuro in via Fracchia cosa
aspettavano di trovarvi e soprattutto chi? Uomini o materiale?
Quest'ultimo interrogativo è quanto mai lecito se si tiene conto di quanto
confiderà quasi due anni dopo a Massimo Caprara, giornalista di punta, ex
segretario di Palmiro Togliatti, il procuratore capo di Genova Squadrito:
"La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi... Soprattutto una
2
trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla DC, al Paese" .
Allora Dalla Chiesa e i suoi uomini cercavano terroristi o documenti? E che
terroristi e quali documenti?
Ancora Massimo Caprara scrive:
"Qualcosa in particolare impegna il generale Dalla Chiesa nell'inverno del 1980. La
lunga serie delle lettere del presidente incarcerato non è completa. Nella lettera del 25
aprile (1978. NDA) Moro minaccia testualmente: 'Io sarò ancora come punto
irrinunciabile di contestazioni e di alternativa'. La dichiarazione ha avuto un seguito
materiale scritto di suo pugno... In via Montenevoso (a Milano. NDA) è conservato un
testo manoscritto del presidente della DC mai fatto circolare. Il 28 marzo in via
3
Fracchia... perché uccidere visto che si erano arresi?" .
L'allusiva prosa di Caprara non è delle più chiare, ma sta di fatto che
certamente gli uomini di Dalla Chiesa non sanno chi troveranno in via
Fracchia, se è vero che ancora il giorno successivo al massacro brancolano
nel buio circa l'identità degli altri tre terroristi.
Il 29 marzo sono le BR a farsi vive con un volantino in cui indicano in
"Pasquale, operaio della Lancia di Chivasso", "Roberto, operaio
marittimo" e "Antonio, operaio Fiat" i nomi di battaglia dei tre brigatisti
2
3
Cfr. Pagina (25-2-1982).
Ibidem. Da notare che Caprara, riferendosi al covo brigatista milanese di via Montenevoso, parla di un
“manoscritto del presidente della DC mai fatto circolare”, particolare questo che emergerà solo otto anni
dopo, quando questo documento salterà fuori quasi per caso, nascosto dietro ad un tramezzo. Questo
particolare riferito da un giornalista significa che quel documento, in realtà, era già noto, certamente al
gen. Dalla Chiesa e ad ai suoi uomini. E che non fu trovato casualmente, otto anni dopo, ma fu fatto
trovare per chissà quale gioco politico.
sconosciuti. Due di essi, aggiungono, "Roberto" e "Antonio" fanno parte
della direzione strategica dell'organizzazione, il vertice massimo delle
Brigate Rosse. Due pezzi da novanta dell'eversione, quindi. Ma Dalla
Chiesa e i suoi carabinieri lo sapevano?
Nel maggio 1980, a neppure due mesi dalla strage di via Fracchia, davanti
ai parlamentari della commissione Moro, lo stesso Dalla Chiesa dirà:
"Non potevamo pensare di trovare la Ludmann, che poteva essere e restare solo colei
che dava l'appartamento (...). Noi non potevamo sapere che fossero quattro. Sapevamo
4
che potevano essere rintracciati due latitanti e due 'regolari'" .
Quindi un'operazione al buio? Un'irruzione alla cieca? Non era forse
proprio il gen. Dalla Chiesa il teorico dei lunghi appostamenti, delle
investigazioni laboriose e meticolose, dell'uso delle macchine fotografiche?
E allora perché tanta fretta nell'irrompere in via Fracchia dove tutto lascia
pensare che il superaddestrato nucleo del generale non sapesse né cosa, né
tantomeno chi avrebbe trovato? Chi aveva accelerato tanto i tempi
dell'operazione? E, soprattutto, chi aveva indicato loro quell'appartamento
di via Fracchia?
2. L'imprendibile colonna genovese
Ma facciamo un passo indietro. L'operazione di via Fracchia, che segna una
sconfitta di portata eccezionale per le BR, anche perché con essa crolla il
mito dell'imprendibilità della colonna genovese, ha un antefatto ed un
contesto politico, entrambi di particolare rilevanza.
L'antefatto è l'arresto di Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle BR,
primo "pentito" del progetto armato di sinistra.
La cattura di Peci e di Rocco Micaletto, quest'ultimo della direzione
strategica brigatista, viene resa nota il 21 febbraio 1980 e sarebbe avvenuta
due giorni prima, il 19, in una piazza di Torino, Ma c'è chi dice che Peci, in
realtà, sia stato catturato due volte, la prima addirittura il 13 dicembre
1979, più di due mesi avanti e che sia stato utilizzato da Dalla Chiesa come
infiltrato. Sarà quanto sosterranno le BR un anno dopo, durante il sequestro
di Roberto Peci, fratello di Patrizio. E sarà anche quanto "confesserà" alle
Br - con dovizia di particolari - lo stesso loro "prigioniero" Roberto.
Sta di fatto che la cattura di Peci resterà per sempre un mistero.
4
Cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo
Moro e sul terrorismo in Italia - Doc. XXIII n 5 - vol. quarto - Roma 1984, pag. 256.
Dubbi ne solleverà anche l'allora deputato radicale, lo scrittore Leonardo
Sciascia quando, come facente parte della commissione Moro, rivolto al
generale Dalla Chiesa gli dirà:
"Ho troppa considerazione per lei per credere che i carabinieri non sapessero e lo
5
lasciassero fuggire così" .
Era infatti emerso che i carabinieri controllavano già da diversi mesi Peci e
Micaletto che poi diranno di aver arrestato il 21 febbraio 1980.
"I terroristi sono stati pedinati, fotografati con il teleobiettivo e la foto appare sui
giornali (...). Sono braccati e identificati da tempo ma non si conoscono - non li
conoscono neppure i giudici - le modalità e il luogo dove i carabinieri hanno stabilito il
contatto e quando e come l'hanno perso e quando l'hanno ristabilito. Si parla di
6
infiltrati all'interno delle BR, si dice che vi operino già da un anno" .
Si sa anche che la base di corso Lecce a Torino, abitata da Peci e Maria
Giovanna Massa, era già stata individuata da tempo e che in essa erano stati
trovati i contenitori degli ordigni anticarro utilizzati per gli attentati, falliti,
del 15 e il 24 novembre 1979 contro i blindati dei carabinieri e la caserma
Lamarmora.
Si sa ancora, per certo, che Peci era già controllato dalla polizia e che in
corso Lecce i carabinieri precedettero gli agenti - con i quali avevano
peraltro stretto il patto di agire insieme - ottenendo però il risultato di
trovare la base vuota.
"Si viene a conoscenza di un'altra notizia: una volta Peci, pedinato dai carabinieri (...)
Si rifugia in una base bR. La luce dell'alloggio è accesa, i carabinieri attendono... Peci
7
scompare da un'altra porta" .
Insomma i dubbi sulle modalità dell'arresto di Peci sono molte e del tutto
irrisolti8.
5
6
7
8
Ibidem.
Cfr. C. Stajano - Op. cit. - pag. 184.
Ibidem.
Dubbi sul modo e sulla data dell'arresto di Patrizio Peci vengono avanzati anche dalla commissione
d'inchiesta sul caso Moro, non soltanto attraverso le domande rivolte al gen. Dalla Chiesa dal deputato
radicale Sciascia. Infatti, dopo l'audizione dell'alto ufficiale dei carabinieri dell'8 luglio 1980, la
commissione decide di rivolgergli dei precisi quesiti, inviandogli una lettera il 23 luglio. Dalla Chiesa
risponde, sempre per lettera, quasi un anno e mezzo dopo, esattamente il 13 dicembre 1981, fornendo una
"ricostruzione cronologica della vicenda Peci" che, nella sostanza, ribadisce la versione ufficiale dei
carabinieri.
In tale "ricostruzione" è detto che:
I)
"Due uomini le cui caratteristiche fisico somatiche appaiono molto vicine a quelle dei noti
latitanti br Peci Patrizio e Micaletto Rocco" vengono intercettati a distanza nel novembre 1979;
II)
I1 26 novembre 1979 Peci e "l'infermiera Massa Maria Giovanna" vengono pedinati dai
carabinieri mentre compiono il tragitto tra la loro abitazione in corso Lecce 25, a Torino, e una
cartoleria e viceversa;
Si sa soltanto che una volta arrestato e portato in carcere Peci chiede di
incontrare Dalla Chiesa. La molla del "pentimento" è scattata. È lo stesso
generale a raccontare, nei dettagli, questa seconda fase che porterà il capo
della colonna torinese, un altro BR dopo Moretti che viene dalle Marche, a
dare il via al fenomeno del "pentitismo": ossia alla trattativa che lo Stato
decide di aprire - non sempre alla luce del sole - con vasti settori del partito
armato. E che di una trattativa vera e propria si tratti starebbe a dimostrarlo
il contesto in cui la strage di via Fracchia si inserisce.
Sta infatti per nascere il secondo governo presieduto da Francesco Cossiga,
già ministro dell'Interno all'epoca del caso Moro. Un governo che segna il
rientro effettivo del PSI nell'esecutivo.
I carabinieri arrivano in via Fracchia venerdì 28 marzo: manca una
settimana esatta al varo del nuovo governo. Per lunedì 31 è già stato
convocato il vertice di maggioranza sul tema "lotta al terrorismo e tutela
dell'ordine pubblico". A Montecitorio c'è clima di ottimismo e sui giornali
è cominciato il "totoministri". Il presidente della Repubblica Pertini quel
giorno è a Pozzuoli al giuramento degli allievi piloti. Da Parigi, per la
seconda volta in pochi giorni, il leader comunista George Marchais attacca
Berlinguer per il suo incontro con Mitterrand che starebbe a simboleggiare,
per i comunisti francesi, una politica di eurosinistra, contrapposta all'ormai
morente strategia eurocomunista. Il dollaro sfiora le 900 lire.
Il blitz di Genova assume i connotati di un'operazione concertata in grande
stile. Non a caso il 22 marzo, sei giorni prima dell'assalto in via Fracchia, il
gen. Dalla Chiesa ha chiesto ed ottenuto di incontrare proprio Cossiga che
III)
IV)
V)
Subito dopo i due spariscono, nonostante l'appartamento di corso Lecce 25 sia sempre sotto
osservazione dei carabinieri;
Il 14 dicembre i carabinieri, stanchi di attendere, irrompono nell'appartamento brigatista dove la
luce è accesa da giorni. Non vi trovano persone, ma solo armi e documenti;
Dopo diversi arresti di brigatisti della colonna torinese (lo stesso 14 dicembre 1979 viene
catturato Giuseppe Di Cecco che transitava in corso Lecce; il 15 la sorella gemella Mari
Carmela, assieme ad Angela Vai e Giuseppe Mattioli; poche ore dopo Mario Volgarino e
Antonio Delfino), il giorno 19 febbraio 1980 "finalmente Peci e Micaletto - è scritto nella
'cronologia' firmata di pugno da Dalla Chiesa - sono arrestati in piazza Vittorio Veneto di
Torino".
C'è da notare che la "cronologia" del generale dei carabinieri aggiunge due particolari inquietanti.
Scrive lo stesso Dalla Chiesa: "I1 16 marzo (1980, 12 giorni prima della strage di via Fracchia a Genova,
quando Peci ha già avuto due colloqui con il generale nel carcere di Cuneo ed è già avviato al
'pentimento'. NDA), intanto, si avverte la sensazione che si tenda ad estraniare l'Arma dall"affare Peci,
tant'è che l'ufficiale generale è costretto ad intervenire per affermare l'esclusiva competenza dei Reparti
Speciali Anticrimine dei Carabinieri, in funzione della precedente complessa operazione (...). Avendo
avuto la sensazione di manovre diversive di origine non potuta precisare, la magistratura torinese nella
nottata del 21 marzo dispone il trasferimento del Peci da Cuneo a Torino per lo stesso giorno 21".
Di “persone qualificatesi come appartenenti alla Digos" che avrebbero parlato con Patrizio Peci nel
carcere di Cuneo, promettendogli 500 milioni e la fuga se avesse "confessato" a loro le cose che sapeva
sulle BR, parla anche il fratello di Patrizio, Roberto nelle "dichiarazioni" rese alle Brigate Rosse di cui
era prigioniero Cfr. nota (21) di questo stesso capitolo.
Per la "ricostruzione cronologica della vicenda Peci" fornita dal generale Dalla Chiesa alla commissione
Moro si veda: Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio
di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia - Doc. XXIII n. 5 - vol. ventisettesimo - Roma 1988, pag. 89.
da lì a poco sarà colui che formulerà la famosa legge sui "pentiti" che
entrerà, però, in vigore due anni dopo.
Quali ipotesi è possibili formulare?
a) che Peci, catturato molto prima del 2 febbraio e rimesso in circolazione
per ridisegnare la mappa delle postazioni brigatiste a Torino, abbia
contrattato con Dalla Chiesa un "trattamento di favore" che poi avrà in
cambio di alcune rivelazioni;
b) che per poter dare garanzie a Peci, Dalla Chiesa abbia bisogno a sua
volta di garanzie politiche che Cossiga gli promette;
c) che a Peci, Dalla Chiesa chieda a sua volta informazioni per
un'operazione di ampia portata che servirebbe a dimostrare al "palazzo"
che i "pentiti" servono;
d) che per questo Peci racconti a Dalla Chiesa di un appartamento a
Genova in via Fracchia dove...
3. Gli "angoli bui" di via Fracchia
Via Fracchia, come abbiamo visto, si trova nella parte alta della città.
Oregina è un quartiere abitato da piccola borghesia impiegatizia e da una
certa "aristocrazia operaia". Ad un centinaio di metri c'è l'abitazione di
Guido Rossa, l'operaio-sindacalista dell'Italsider ucciso l'anno prima dalle
BR.
Per accedere all'interno 1, del n. 12 di via Fracchia, 17 appartamenti in
tutto, si salgono sette scalini che conducono al portone dello stabile. Si
entra in un androne, poi si scende una scala ripida e stretta di 12 scalini e ci
si trova in un seminterrato di cinque metri quadrati sul quale si affacciano
due porte: quella di destra immette in cinque cantine, quella di sinistra ha
sul campanello il nome: "Corrado Ludmann".
L'appartamento è composto di sette vani: la porta dà su un piccolo ingresso
che conduce, sulla destra, ad un corridoio lungo e stretto sul quale si
affacciano nell'ordine la cucina, la sala da pranzo, il bagno. Poi il corridoio
gira a destra e sulla sinistra c'è il salone. Un piccolo ripostiglio sta di fronte
alla cucina dalla quale, così come dalla sala da pranzo, attraverso un
balconcino, si accede ad un giardinetto che con una serie di piccole scale
porta sul retro della palazzina.
Data questa descrizione c'è quindi da chiedersi perché i carabinieri
decidano di fare un'irruzione nell'appartamento, pur sapendo che,
considerata la posizione angusta in cui l'appartamento è situato, i rischi di
un massacro sono altissimi.
Chiunque abbia visto l'ubicazione dello stabile di via Fracchia e il luogo
quasi sotterraneo dove è situato l'appartamento può capire, infatti, che
l'irruzione aveva solo due possibilità: la strage dei brigatisti o quella dei
carabinieri.
Ma per il momento nessuno può entrare nell'appartamento, neppure i
giornalisti. Il 29 marzo, il giorno successivo al blitz, i carabinieri
diffondono in un comunicato l'elenco del materiale trovato
nell'appartamento9.
Si diffonde anche la voce, ripresa da qualche giornale, che i carabinieri,
dopo aver catalogato tutto il materiale trovato nell'appartamento, stiano
scavando in giardino. Avrebbero infatti trovato una cartellina con
l'appunto: "materiale da decentrare sotto terra"10.
È evidentemente grande, per i carabinieri, l'interesse per qualcosa che
resterà misterioso e che doveva trovarsi in via Fracchia. Forse, chissà,
magari proprio seppellito in giardino.
4. Perché tanti silenzi?
Grande comincia anche ad essere lo sconcerto di una parte dell'opinione
pubblica.
Il Secolo XIX, in un corsivo non firmato, pubblicato in prima pagina il 1°
aprile, scrive tra l'altro:
"comprendiamo le esigenze collegate al difficile lavoro degli inquirenti. Ma a distanza
di quattro giorni il silenzio imposto sulla sparatoria li via Fracchia e il riserbo
categorico su una tragedia che ha il peso li quattro morti e di un ferito grave appaiono
inaccettabili. L'immagine di una magistratura disinformata, di giornalisti seccamente
respinti, di un governo che non riferisce, di forze politiche che non chiedono, di polizie
che si contrastano rappresentano un prezzo che non figura nei patti di una democrazia
che combatte, ma che deve farlo su due fronti, contro il terrorismo e contro le
conseguenze del terrorismo".
L'immagine di una lotta contro l'eversione che va imbarbarendosi comincia
a farsi strada. E non è un'immagine fumosa.
Nel frattempo sono stati identificati altri due brigatisti crivellati di proiettili.
Sono Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli. Il primo è un dirigente di primo
piano delle BR, operaio della Fiat. Un altro brigatista insospettabile. Così
come sconosciuto era Panciarelli.
Fino al 3 aprile dei quattro cadaveri di via Fracchia tre risultano essere
brigatisti che nessuna polizia ricercava e il quarto è ancora un corpo senza
nome. Sarà necessaria una telefonata anonima delle stesse Brigate Rosse
9
Ecco l'elenco del materiale trovato cosi come è stato fornito dai carabinieri: "5 pistole di fabbricazione
estera; 2 pistole automatiche 'sterling', 1 fucile; 2 000 cartucce; 2 bombe 'energa'; 2 mine anticarro;
quantità imprecisata di esplosivo plastico; un riproduttore fotografico; macchine da scrivere e
registratori; drappi rossi con la stella BR: materiale per falsificare documenti; carte d'identità; patenti e
passaporti in parte di provenienza furtiva, in parte falsificati alcuni dei quali interamente compilati;
targhe rubate e opuscoli BR; vario materiale documentario dell'organizzazione terrorista; un elenco con
3.000 nominativi, probabili obiettivi di attentati".
10
Vedi, ad esempio, Il Corriere della Sera (2-4-1980).
all'ANSA per sciogliere il mistero: il quarto uomo di via Fracchia è
Riccardo Dura, 30 anni, uscito da Lotta Continua nel 1973, ritenuto un vero
capo, anzi un "duro" dell'organizzazione, colui che autonomamente decise
di uccidere Guido Rossa e che - come riferisce il quotidiano
dell'organizzazione in cui aveva militato, prima di scegliere la lotta armata
- era solito minacciare di morte, con una pistola puntata alla nuca, coloro
che avevano intenzione di lasciare la guerriglia.
Quattro brigatisti venuti dal nulla, quindi. Ecco il colpo grosso del gen.
Dalla Chiesa che, se anche riesce ad eliminare due capi brigatisti,
certamente ignorava chi avrebbe trovato nell'appartamento, ma sicuramente
sapeva che cosa.
C'è chi dice che sia un qualcosa cercato, ma non trovato, meno di due anni
prima a Milano nell'appartamento-archivio di via Montenevoso. Forse le
due borse sottratte dall'auto di Moro il 6 marzo 1978? Mistero.
Soltanto il 5 aprile, ossia addirittura otto giorni dopo il blitz, la magistratura
riceve il rapporto dei carabinieri su quanto accaduto quella notte. È un
rapporto scarno, contraddittorio, che comincia ad alimentare dubbi anche
nella stampa che nel suo insieme si è mostrata fino a quel momento assai
"poco curiosa".
Il rapporto dei carabinieri - secondo quanto la magistratura genovese
renderà noto - così spiega il blitz del 28 marzo: i carabinieri circondano via
Fracchia e un gruppo di uomini si presenta davanti all'int.1 dello stabile,
armati e protetti da giubbotti e caschi con visiera antiproiettile. Intimano di
aprire la porta. Qualcuno da dentro, di certo una voce femminile, quindi
quella della Ludmann, risponde: "Va bene, ora apro" e invece dà tre
mandate di serratura.
I carabinieri allora sfondano la porta e, al di là di una tenda, intravedono un
corridoio buio. Ordinata la resa si sentono rispondere: "Va bene, siamo
disarmati", proprio mentre viene sparato un colpo di pistola che colpisce
all'occhio il maresciallo Rinaldo Benà. Costui, tranquillizzato dall'annuncio
di resa, si era imprudentemente alzato la visiera del casco. A questo punto sempre stando alla ricostruzione ufficiale - i carabinieri aprono a loro volta
il fuoco e sentono il tonfo di un corpo che cade, mentre notano due uomini
e una donna avanzare carponi nel corridoio. Viene accesa una fotoelettrica
che permette loro di vedere uno dei due uomini con in pugno una pistola e
la donna con in mano una bomba a mano. Infine i carabinieri aprono
nuovamente il fuoco. La carneficina è terminata11.
11
Ecco il testo integrale del comunicalo emesso dalla magistratura genovese il 5 aprile 1980, dopo aver
ricevuto il rapporto dei carabinieri:
"Dalla ricostruzione riferita dai carabinieri sul conflitto a fuoco avvenuto venerdì scorso, 28 marzo, nel
corso del quale hanno perso la vita Ludmann Anna Maria, Betassa Lorenzo, Panciarelli Piero e Dura
Riccardo è emerso che i medesimi, portatisi all'esterno dell'appartamento int.1 di via Fracchia n.12,
dopo ripetute intimidazioni ad aprire, rimaste, nonostante la dichiarata accettazione, senza effetto,
colpivano la porta di accesso, che cedeva spalancandosi. Potevano cosi intravedere, al di là di una
Dal comunicato della magistratura emerge anche un particolare: la pistola
da cui è partito il colpo che ha ferito Benà subito dopo si era inceppata.
Nulla viene invece detto sul numero di colpi d'arma da fuoco sparati dai
brigatisti e dai carabinieri. Soltanto una visita dei giornalisti nel "covo"
potrebbe chiarire alcuni particolari, ma l'autorizzazione tarda ad arrivare.
Perché?
La stampa comincia ad innervosirsi.
Il 6 aprile, giorno di Pasqua, in un fondo in prima pagina sulla Repubblica
dal titolo "Non si poteva prenderli vivi?", Gianni Rocca scrive:
"l'impressione generale che si trae dalla lettura del documento (il comunicato della
magistratura. NDA) non induce certo ad una positiva valutazione (...). La dinamica del
blitz genovese in via Fracchia lascia ritenere che l'azione avrebbe dovuto essere
concepita con un coefficiente di sicurezza maggiore. (...) Abbattere la porta di un
appartamento, sia pure dopo aver ricevuto assicurazioni collaborative da parte dei suoi
abitanti, è atto estremamente rischioso, soprattutto se in partenza si sa che quegli
abitanti sono pericolosi terroristi armati fino ai denti. Irrompere al buio in un alloggio
può portare il poliziotto o il carabiniere a non avere chiara la percezione del pericolo e
a mettere in forse lo scopo dell'operazione, che è quella della cattura e non
dell'uccisione del brigatista ricercato. In Italia, le azioni di guerra e la ricerca del
morto a tutti i costi sono patrimonio dei soli terroristi: ed è proprio per questo che essi
sono fuori dalla legalità. Dall'altra parte stanno le forze dell'ordine che agiscono in
virtù di un mandato che promana dalla legge e che a questa devono rendere atto.
L'irruzione, così com'è avvenuta, e il suo successivo svolgersi dimostrano che i
carabinieri sono stati esposti a gravi pericoli. La domanda che sorge spontanea è
dunque: una volta circondata la casa dalle scale, dai vari accessi esterni, non si poteva
ordinare la resa? E se necessario non si potevano usare i candelotti lacrimogeni per
snidare e comunque fare uscire allo scoperto i terroristi?
Se il blocco era totale, le possibilità di fuga dovevano essere minime. Si obietterà che i
brigatisti erano forniti di bombe a mano e addirittura di esplosivo e che la soluzione
dell'accerchiamento avrebbe presentato anch'essa pericoli. Ma si pone allora un'altra
domanda: perché non ricorrere alla tecnica dell'agguato al gruppo terrorista quando
cioè fosse uscito di casa? Avrebbe agito qui il fattore sorpresa, quello decisivo in ogni
azione militare, lo stesso del resto, che tanto spesso rende imprevedibili i terroristi che
lo usano nei confronti delle loro vittime predestinate (...). Non dovremmo mai stancarci
di ripetere che la pena di morte in Italia viene applicata solo dai terroristi. Ma è
proprio per questo che il paese li condanna e isola".
tenda, un corridoio buio, dal quale non proveniva alcun rumore. Intimavano allora agli occupanti la
resa, ed una voce maschile rispondeva: 'va bene, siamo disarmati'. Subito dopo però dal fondo del
corridoio veniva esploso un colpo di pistola che colpiva al capo il m.llo Benà. I carabinieri aprivano il
fuoco e udivano il tonfo di un corpo che cadeva a terra. Intimata nuovamente la resa, essi potevano
notare due uomini e una donna avanzare carponi nel corridoio provenendo da una stanza laterale. A
questo punto era possibile far luce con un faro in dotazione. Seguiva immediatamente da parte dei tre
una brusca reazione, ed i carabinieri, notato che uno dei due uomini impugnava una pistola e la donna
una bomba a mano. riaprivano 1l fuoco con tutte le armi. Cessato il fuoco si constatava che i tre erano
stati colpiti a morte.
Per incarico della Procura della Repubblica i periti stanno svolgendo sul fatto accertamenti di carattere
medico-legale e balistico. La pistola dalla quale è partito il colpo che ha colpito il m.llo Benà è stata
trovata con un proiettile in canna percosso ma non esploso. Nell'appartamento, oltre a vario materiale
documentale e a strumenti per la falsificazione di carte d'identità e patenti, sono stati rinvenuti fucili
mitragliatori, bombe da fucile antiuomo e controcarro, pani di esplosivo plastico e numerose munizioni".
5. Finalmente nel ''covo della strage''.
Il comunicato della magistratura è del 5 aprile, però soltanto tre giorni
dopo, l'8, i magistrati entrano nell'appartamento di via Fracchia, rimasto in
pieno possesso dei carabinieri per ben 11 giorni.
Perché tanto ritardo?
Perché tanta fideistica certezza in ciò che i carabinieri hanno scritto nel loro
rapporto?
Lo stesso 8 aprile anche i giornalisti sono finalmente ammessi
nell'appartamento. E possono così constatare di persona che molte cose
riferite in forma ufficiale dai carabinieri non combaciano con ciò che con i
loro occhi possono vedere.
La "visita" al "covo della strage" è permessa per soli tre minuti e i
giornalisti entrano uno alla volta, accompagnati da un ufficiale dell'arma.
Così Piero Valentino, corrispondente della Repubblica da Genova, racconta
la visita:
"Sul pianerottolo di ingresso, di fianco alla porta, quattro fori allineati a quaranta
centimetri da terra sono il primo mistero non risolto (...). La porta che si apre al
cronista è stretta, non ha alcun segno di forzatura e neppure un colpo. 'La porta cadeva
spalancandosi', dice la versione ufficiale, ma in che modo sia stata aperta nessuno lo sa
ancora (...). Lo spazio dell'ingresso è di 4 metri quadrati: un citofono, un portabiti, un
lampadario abbastanza lussuoso. Tutto, secondo la versione ufficiale, si è svolto da qui
al corridoio di fronte, sul quale si affacciano tutti i vani dell'alloggio, tranne la cucina
che è subito a sinistra (...) tra il corridoio e l'ingresso c'è però una porta laccata di
bianco che appare chiaramente forzata: si vede dagli infissi. In più, ad altezza d'uomo,
ci sono i segni di sei proiettili che l'hanno trapassata. Anche questo è un altro mistero
che la ricostruzione ufficiale non risolve (...). In fondo, all'incrocio dei traghettoni degli
ingressi sulle altre stanze e più su fin quasi al soffitto, altri buchi di proiettili, otto in
tutto, molto vistosi. È qui che i carabinieri, 'dopo aver intimato nuovamente la resa',
dicono di essere riusciti a notare, nel buio, 'due uomini e una donna avanzare carponi
provenendo da una stanza laterale', ed è qui che accendono il faro potente che fa
scattare la 'brusca reazione' dei tre brigatisti.
Da quale stanza laterale stavano 'sbucando'? E perché i colpi sono arrivati così in alto
12
se i tre 'strisciavano', uno con pistola e l'altro con bomba a mano?" .
Anche il cronista del Secolo XIX ha molti dubbi e scrive:
"La porta dell'abitazione non presenta alcun segno di forzatura. Come hanno fatto i
carabinieri ad entrare? C'è un'altra domanda: come hanno potuto i carabinieri
accedere all'interno dell'edificio, se il portone esterno infatti era dotato di una
12
Cfr. La Repubblica (9-4-1980).
serratura molto particolare? Probabilmente i militari ne possedevano la chiave, e forse,
13
qualcuno fa notare, si erano procurati persino quella dell'appartamento" .
Si diffonde, in corrispondenza a questa ipotesi, "una voce", fatta filtrare
proprio dalla caserma di via Valfrè a Torino, dove hanno la loro sede gli
uomini della brigata antiterrorismo di Dalla Chiesa: si sarebbe arrivati a via
Facchia grazie a un mazzo di chiavi (tre piccole e una grossa) trovato in
tasca al brigatista Rocco Micaletto, catturato - secondo la versione ufficiale
- assieme a Patrizio Peci il 19 febbraio 198014. È un modo come un altro
per coprire il "pentimento" di Peci e la mancanza di segni di sfondamento
sulla porta dell’appartamento di via Fracchia?
Anche il giornalista del Corriere della Sera non crede alla veridicità della
versione fornita dai carabinieri e scrive:
"Prima di entrare si notano, accanto alla porta d'ingresso in basso, ad una decina di
centimetri da terra, alcuni buchi: hanno tutta l'aria di una sventagliata di mitra. Ma,
dalla ricostruzione fornita dai carabinieri, non si parla di sparatorie sul ballatoio: oggi
nessuno ha dato spiegazioni, (...) ma in quell'alba del 28 marzo può essere successo di
15
tutto, anche che qualcuno abbia sparato dove non ce n'era bisogno" .
6. A via Fracchia muore anche Dalla Chiesa?
Al di là dei silenzi dei carabinieri e del comportamento della magistratura
genovese - che sembra completamente tagliata fuori da questa operazione e
per nulla interessata ad accertare quale sia stata l'esatta dinamica
dell'assalto in via Fracchia - ci sono alcune considerazioni da fare.
La prima è che mai, prima d'ora, nonostante le decine e decine di "covi"
scoperti e brigatisti arrestati, si era verificata una simile carneficina.
Il quotidiano Lotta continua, ad esempio, fa notare che
"a Parma, lo scorso febbraio, in via Santa Caterina 33, la Digos 'prese' un covo di
Prima linea che conteneva un grosso arsenale (3 mitra, 10 pistole, 4 bombe a mano, 5
ordigni diversi, migliaia di pallottole, un giubbotto antiproiettile) e catturato quattro
terroristi con una tattica completamente diversa: circondarono l'edificio, invitarono la
gente ad allontanarsi dal portone, attesero che quelli di Prima linea - del tutto ignari 16
scendessero in strada" .
13
Cfr. Il Secolo XIX (9-4-1980).
14
La “voce” è riportata dalla Repubblica (29-3-1980).
15
Cfr. Il Corriere della Sera (9-4-1980).
16
Cfr. Lotta continua (5-4-1980).
La seconda considerazione è, come già accennato, che non è mai stato
chiarito se gli uomini di Dalla Chiesa - giunti in via Fracchia su indicazione
di Patrizio Peci - cercassero uomini o documenti.
Se cercavano uomini, certamente non sapevano né che uomini, né di che
"statura" nell'organizzazione, altrimenti non sarebbero occorsi sei giorni
per aver tutti i nominativi dei quattro terroristi uccisi. Forse Peci, che
operava a Torino ed in precedenza era stato a Milano, ma mai a Genova,
aveva sentore soltanto di un indirizzo e di un appartamento frequentato da
brigatisti, alcuni "di rilievo"?
Oppure i carabinieri cercavano a Genova una vendetta e insieme un'azione
esemplare?
La vendetta, cioè, per i quattro carabinieri uccisi dai brigatisti nel
capoluogo ligure tra il 21 novembre 1979 (il maresciallo Vittorio Battaglin
e il carabiniere Mario Tosa) e il 25 gennaio 1980 (il col. Emanuele
Tuttobene, definito dalle BR "uomo di punta di Dalla Chiesa", e
l'appuntato Antonio Casu)? E allo stesso tempo un'azione esemplare e di
ampia risonanza per mostrare la capacità d'attacco dell'Arma, un'azione
che, aumentandone il prestigio agli occhi dei politici, accelerasse la messa
in opera, cosa che regolarmente avvenne, della "legge sui pentiti",
preparata da Cossiga, votata dal Parlamento, ma voluta e caldeggiata
proprio da Dalla Chiesa?
Oppure in via Fracchia il nucleo di Dalla Chiesa cercava qualche
documento particolare sul quale non dovevano restare in vita testimoni? Ad
esempio documenti sul caso Moro, forse gli originali del suo "memoriale",
forse le bobine dei suoi "interrogatori", magari un filmato, oppure lettere
dello stesso leader democristiano di cui ancora oggi non conosciamo il
contenuto?
Quello delle lettere è, come abbiamo già visto (vedi cap. IX), uno dei tanti
"misteri" del caso Moro. Non si è mai saputo con esattezza quante Moro ne
abbia scritte e se quelle rese note siano tutte quelle redatte nel "carcere del
popolo" delle Br.
Sorprende, ad esempio, che ancora il 12 maggio 1988, cioè dieci anni dopo
il caso Moro, il SISDE (il servizio segreto del ministero dell'Interno) - su
richiesta della Commissione parlamentare d'inchiesta di poter pubblicare
lettere e comunicati relativi alla vicenda di quei 55 giorni - abbia risposto
dicendosi "contrario"17.
17
Cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sull'assassinio di Aldo Moro e sul
terrorismo in Italia - Doc. XXIII n. 5 - vol. ventottesimo, Roma 1988, pag. 13.
Tra gli altri documenti su cui il SISDE si è detto "contrario" alla pubblicazione da parte della
commissione Moro figurano: un appunto su "visita delegazione SISDE al Servizio Israeliano"; "attività
svolta all'estero da Giovanni Senzani"; "collegamenti internazionali terrorismo e campi addestramento
Sud Yemen"; "caso Hyperion (la scuola di lingue di Parigi diretta da alcuni personaggi delle primissime
BR. NDA)"; "rapporti terrorismo italiano con centrali straniere"; "Appunti su fotocopiatrice e
stampatrice sequestrate nella tipografia di via Pio Foà a Roma".
Non sapremo mai la verità su via Fracchia. Non conosceremo mai il perché
di quell'eccidio che certo non esalta la correttezza democratica dello Stato
nella lotta all'eversione. Non sapremo mai neanche cosa c'era di tanto
importante in via Fracchia, oltre a due capi brigatisti e a due semplici
militanti.
E forse resterà per sempre il dubbio che il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa,
ucciso in un agguato mafioso il 3 settembre 1982, abbia cominciato a
morire proprio in quella piovosa alba del 28 marzo 1980.
A ben vedere, infatti, il suo "declino" per così dire politico, e di certo
quello della sua carriera militare, cominciano proprio con il "colpo"
assestato alle BR a Genova.
Di lì a poco, pur continuando nella sua lotta vincente al terrorismo, Dalla
Chiesa si troverà improvvisamente sbarrate molte porte. E soprattutto sarà
costretto a dire il suo "obbedisco", accettando la carica di prefetto di
Palermo.
Non avrà mai i "superpoteri" per la lotta alla mafia ampiamente concessi,
poi, dopo la sua morte, ai suoi successori (a De Francesco prima e quindi in
misura ancora maggiore a Sica). E finirà crivellato di proiettili in una via
del capoluogo siciliano18.
Di lui ha detto Beppe Niccolai, che fu anche commissario dell'antimafia:
"Quando Dalla Chiesa viene ucciso sono in molti a tirare un sospiro di sollievo: i
mafiosi ed i politici, quelli di Palermo e di Roma. Perché Dalla Chiesa era anche il
19
custode di tanti segreti raccolti nella lunga stagione del terrorismo" .
Ma al di là delle ipotesi e dei dubbi, restano le ombre che quel 28 marzo
1980 si sono proiettate su via Fracchia. Tre studiosi del fenomeno terrorista
ne tracciano i contorni.
Scrive Giorgio Bocca:
"Si procede secondo la legge del taglione: quattro carabinieri uccisi a Genova, quattro
brigatisti giustiziati (...). La stessa stampa lascia cadere un'indagine che sarebbe
facilissima, non chiede perché mai si sia arrivati a uno scontro a fuoco quando la casa
20
era circondata e i brigatisti senza via di scampo" .
E lo scrittore Leonardo Sciascia aggiunge:
18
Per una ricostruzione della personalità di Carlo Alberto Dalla Chiesa, specie in relazione alla sua scelta
di accettare l'incarico di prefetto di Palermo, si veda il libro scritto dal figlio: Nando Dalla Chiesa Delitto imperfetto - Mondadori, Milano 1984.
19
Da un colloquio con gli autori.
20
Cfr. G. Bocca - Op. cit. - pag. 171.
"Molti sono i punti della vicenda Peci che non mi convincono; e non ultimo quello
dell'uccisione dei brigatisti in via Fracchia a Genova. Non sono per nulla convinto,
voglio dire, che quelle persone non potessero essere catturate vive e senza rischi per
21
quei carabinieri che partecipavano all'azione" .
Infine Corrado Stajano:
"Quale è stato il 'pacchetto della trattativa' tra Peci e il gen. Dalla Chiesa, perché la
magistratura non è stata informata, perché i brigatisti sono stati ammazzati in quel
modo? L'operazione coinvolge misteriosi 'livelli superiori'?
Che cosa avrebbero potuto dire quei quattro brigatisti sul delitto Moro e sulla catena di
rivelazioni che Peci stava facendo proprio in quei giorni al generale? Si sono volute
forse far sparire tracce di complicità imbarazzanti e puntellare le verità più fragili della
confessione di Patrizio Peci? Oppure è necessario ancora una volta rifiutare l'uso di
ragione chiamato 'dietrologia' e cercare le cause di quanto è accaduto in via Fracchia
12 soltanto nell'incompetenza e nella precipitazione dilettantesca del nucleo dei
22
carabinieri addestrato ad operare senza uccidere?" .
7. Ancora coni d'ombra, ancora misteri.
Ma le macchie oscure che il 1980 porta con sé non sono finite.
L'operazione di via Fracchia deve avere avuto un certo effetto a livello
politico e alcune garanzie a favore dei "pentiti" devono essere state date da
quegli ambienti a Dalla Chiesa, e più in là ancora, alle forze di polizia, se
non solo il fenomeno non si arresta con Peci, ma da quel momento andrà
generalizzandosi all'interno del partito armato delle BR, e ancor
maggiormente tra gli altri partitini armati, con progressione quasi
geometrica.
Ma torniamo per un momento a Peci e alla valanga delle sue confessioni.
Intanto chi è costui?
Proviene dai gruppi della sinistra extraparlamentare (Lotta continua per
l'esattezza). A metà degli anni '70 lascia la nativa San Benedetto del
Tronto, nelle Marche, per aggregarsi alle BR milanesi e poi passare a
Torino a guidarne la colonna. Peci ha scarsi rapporti politici con il vertice
dell'organizzazione, ma sa quel tanto che basta per accreditarsi agli occhi
dei carabinieri con le sue informazioni. Che in verità sono molte.
Egli sa tutto della struttura combattente che agisce nel torinese, conosce
luoghi ed indirizzi dei depositi di armi, sa dove vivono gli altri militanti, i
loro collegamenti e conosce molto anche Prima Linea che a Torino ha una
21
Cfr. L 'Espresso (20-2-1983).
22
Cfr. C. Stajano - Op. cit. - pag. 191.
sua presenza attiva. Se decide di collaborare con quelli che sono stati per
anni i suoi "nemici", le forze dello Stato, lo fa con estrema consapevolezza.
Prima tratta, poi, per avere contropartite, dà a Dalla Chiesa la segnalazione
di via Fracchia, quindi, ottenute le necessarie promesse, apre il rubinetto
delle confessioni. Tutto calcolato.
Peci è un pentito?
"No. Io credo sia soltanto un generale fellone - afferma Emilio Vesce - un capo che sa
che la guerra sta per essere persa e allora si consegna al nemico, apre con esso una
trattativa e poi contribuisce a sconfiggere l'esercito che fino a poco prima guidava. Una
23
scelta lucida la sua, calcolata nei minimi particolari" .
Tanto calcolata che proprio contro di lui le BR si accaniranno,
sequestrando ed uccidendo suo fratello Roberto l'anno successivo, durante
la loro campagna contro il "pentitismo"24.
23
24
Da un colloquio con gli autori.
Durante il suo sequestro Roberto Peci racconterà ai carcerieri delle BR la storia del "vero arresto" di
suo fratello Patrizio. La "dichiarazione" di Roberto Peci sarà diffusa in forma autografa e inviata dalle BR
ad alcuni giornali. Soltanto Vita, Il Quotidiano dei Lavoratori e Lotta Continua ne pubblicheranno il testo
integrale.
La "dichiarazione" di Roberto Peci alle BR, con tutti i limiti che può avere, data la sua situazione di
costrizione, sarà oggetto di un'interrogazione parlamentare rivolta al governo dal gruppo radicale e di un
esposto alla magistratura dell'on. Marco Boato.
Per documentazione ecco una sintesi, per punti, di quanto da lui affermato:
1) Patrizio Peci sarebbe stato arrestato, con il suo consenso e quello dei suoi familiari, il 13 dicembre
1979, alle 9, vicino alla stazione di Torino, dopo una serie di contatti avuti con la famiglia a partire
dal maggio dello stesso anno. Nel corso del primo contatto, Patrizio disse che "era stanco e non ce la
faceva più e che si sentiva sbandato; dicendo queste cose - aggiunge Roberto Peci - pianse
ripetutamente. I carabinieri intercettarono la telefonata e la passarono ad uno psicologo che la
analizzò, concludendo che Patrizio stava perdendo colpi ed era in piena crisi".
2) Patrizio Peci sarebbe stato sottratto ai giudici e interrogato in un appartamento privato di Torino.
3) I1 gen. Dalla Chiesa, dopo aver ottenuto informazioni sulla colonna torinese delle BR, avrebbe
"rilasciato" Peci perché fornisse maggiori informazioni sull'organizzazione armata e per consentire ai
carabinieri, attraverso il pedinamento, di acquisire prove sull'attività delle BR.
4) Dalla Chiesa avrebbe autorizzato Peci a partecipare alle azioni terroristiche delle BR.
5) I1 giudice Giancarlo Caselli, di Torino (futuro procuratore capo di Palermo), informato solo
successivamente dell'arresto di Peci da parte dei familiari, avrebbe poi collaborato all'operazione
gestita dai carabinieri.
6) I1 19 febbraio 1980 Peci sarebbe stato arrestato una seconda volta, in questa occasione assieme a
Rocco Micaletto, dopo essere stato preventivamente informato dai carabinieri sulla necessità di
interrompere l'operazione in seguito alle preoccupazioni e sollecitazioni provenienti da non definite
autorità romane. La notizia dell'arresto suo e di Micaletto viene data alla stampa il 21 febbraio.
7) Dalla Chiesa avrebbe convinto Peci a fornire ulteriori informazioni ed in particolare quelle relative al
covo di via Fracchia, sostenendo che per ottenere dai "politici" "garanzie" per provvedimenti di
clemenza, sarebbero stati necessari successi clamorosi nelle operazioni antiterroristiche.
8) L'uccisione di tutti i BR presenti nell'abitazione di via Fracchia, quindi, sarebbe stata premeditata per
precise finalità politiche e di propaganda.
9) Una volta conclusa l'operazione di via Fracchia, Dalla Chiesa si sarebbe recato a Roma dove avrebbe
incontrato Cossiga, all'epoca presidente del Consiglio e Pertini, capo dello Stato, "i quali si
impegnarono a fare una legge in breve tempo sui pentiti. Cossiga e Pertini - sostiene Roberto Peci dissero anche di essere d'accordo di fare avere a Patrizio un lavoro all'estero con dei soldi per
sistemarsi".
8. Dai verbali manca "un foglio"... o "un figlio''?
Intanto, proprio grazie a Peci, un altro cono d'ombra si proietta sulla vita
politica italiana, portando a galla, ancora una volta, il ruolo dei servizi
segreti. È la storia dei verbali degli interrogatori di Peci che il vice-capo del
SISDE, Silvano Russomanno, "passa" al giornalista del Messaggero, Fabio
Isman (finiranno entrambi incriminati ed arrestati).
A parte il danno che la pubblicazione dei verbali, con nomi e indirizzi,
provoca alle operazioni imbastite da Dalla Chiesa, c'è da registrare un fatto:
proprio da quelle carte emerge uno "scandalo" che assume subito
dimensioni politiche.
Peci ha infatti parlato, anche se non in maniera esplicita, durante le sue
confessioni, del ruolo importante svolto in Prima Linea da Marco Donat
Cattin, il "comandante Alberto", figlio del senatore e vice-segretario della
Dc, Carlo.
Peci ha fatto riferimento ad "un piellino" (Roberto Sandalo) con cui si
sarebbe incontrato, molto amico del figlio di un ex ministro. Nei verbali
passati alla stampa del fatto non si fa cenno, ma pubblicandoli a sua volta
Lotta continua aggiunge - in una parentesi inserita nel testo - la dizione
maliziosa "manca un figlio", anziché "un foglio".
Ai primi di aprile la notizia che il figlio di Carlo Donat Cattin sia un
pericoloso terrorista di Prima linea, fuggito in Francia, si diffonde. Il
"piellino" di cui parla Peci, cioè Roberto Sandalo, viene arrestato a Torino
il 29 aprile. Ha da poco abbandonato PL, ormai allo sbando, e ha cercato
qualche protezione dal padre del suo amico Marco che a suo dire sarebbe
stato informato dal presidente del consiglio Cossiga dell'imminente
disarticolazione di Prima Linea. Lo stesso Cossiga - secondo Sandalo avrebbe suggerito a Donat Cattin padre di far espatriare suo figlio25.
Ne nasce una bagarre politica di enormi dimensioni. Carlo Donat Cattin si
dimette dal suo incarico in seno alla DC e Francesco Cossiga rischia di
essere rinviato davanti all'Alta Corte. Lo salverà prima, il 31 maggio, la
commissione inquirente che con 11 voti (DC, PSI, PSDI) contro 9 (PCI,
PR, MSI-DN e indipendenti di sinistra) decide per l'archiviazione del caso
e poi, il 23 luglio, l'assemblea del Parlamento, a Camere riunite, che con
10)
entre Peci, convinto delle promesse di Dalla Chiesa, comincia con le sue confessioni fiume, "si
presentarono tre persone, qualificatesi come appartenenti alla Digos, le quali dissero a Patrizio afferma Roberto - che se avesse detto le cose che sapeva a loro, lo avrebbero fatto scappare il giorno
dopo con 500 milioni; mio fratello rifiutò perché era convinto che gli avrebbero sparato mentre
scappava".
25
Davanti ai magistrati torinesi Roberto Sandalo riferisce queste parole del sen. Carlo Donat Cattin:
"Cossiga mi ha anche detto: 'Noi cercheremo di tenere la notizia il più coperta possibile, tu vedi, se
riesci, di mandare tuo figlio all'estero. Un conto è che lo prendano, un conto è che sia all'estero".
M
507 voti contrari e 406 favorevoli respingerà una richiesta avanzata dal PCI
per un supplemento di indagini.
Eugenio Scalfari sulla Repubblica scrive:
"Il senatore Carlo Donat Cattin ha provocato con il suo comportamento la crisi forse
più grave che la Repubblica abbia attraversato nei trentacinque anni della sua pur
tormentata esistenza (...). Credevamo di aver toccato il fondo con l'assassinio di Moro.
26
Invece lo tocchiamo ora" .
9. Un criminologo rallenta la frana brigatista.
L'arresto di Peci per le Brigate rosse è una vera frana.
Non c'è solo il massacro di via Fracchia, che nei fatti taglia la testa alla
colonna genovese e colpisce duramente la direzione strategica
dell'organizzazione. Non ci sono solo gli arresti di militanti indicati dallo
stesso Peci. Non c'è soltanto l'abbandono precipitoso di basi logistiche che
Peci potrebbe conoscere.
C'è un dato ben più importante: il referente politico che, nonostante
l'esasperato militarismo di Mario Moretti, resta al primo posto nella
strategia brigatista, ossia gli operai delle grandi fabbriche, è in crisi. Alla
Fiat sono partiti i licenziamenti e le casse integrazioni. È cominciata la
grande ristrutturazione aziendale accettata senza troppa combattività dai
sindacati. La mitica classe operaia italiana appare in ginocchio.
È il dato di fatto che farà dire ad un fondatore delle Brigate Rosse come
Alberto Franceschini:
"Mi dispiace dirlo, ma le BR sono state sconfitte da Agnelli. La grande ristrutturazione
della Fiat, portata avanti da Romiti nel 1980, ha rappresentato per noi anche un dato
simbolico: i licenziamenti, i 20.000 cassintegrati. Per noi fu uno shock che tutto questo
passasse senza alcun tipo di risposta da parte degli operai. Anzi il corteo dei 40.000
capetti della fabbrica fu per noi il segnale che il movimento rivoluzionario aveva
registrato una grande sconfitta. Una sconfitta strategica che per le Brigate Rosse
significa l'inizio dell'isolamento più totale. Come abbiamo reagito a questi mutamenti
radicali? In primo luogo nascondendoci il fatto che, a quel punto, non avevamo più
alcuna capacità progettuale. Poi accelerando al massimo gli elementi di violenza. È un
paradosso: ma quando le BR hanno cominciato davvero il terrorismo, allora sono
27
scomparse" .
E il "vero terrorismo", come lo definisee Franceschini, ossia il terrorismo
gratuito, senza più alcuna finalità, le BR lo cominciano dopo le
“confessioni” di Patrizio Peci anche per un altro motivo: all'interno
26
Cfr. La Repubblica (1-6-1980).
27
Da un'intervista di Alberto Franceschini a "Speciale GRI" (15-3-1988).
dell'organizzazione - anche, ma non solo - a causa delle difficoltà della
mitizzata classe operaia, va tacitamente accendendosi un dibattito serrato
sulle reali prospettive della lotta armata.
Un "chi siamo e dove andiamo?" ancora timido che si era però già proposto
nel 1979 con l'uscita di Valerio Morucci e di Adriana Faranda con soldi e
armi dalla colonna romana (formeranno il MPRO, Movimento Proletario di
Resistenza Offensiva che avrà brevissima vita), poi con l'insubordinazione
dimostrata da Riccardo Dura (ucciso in via Fracchia) nell'esecuzione del
tutto personale dell'omicidio Rossa all'inizio dell'80.
Episodi emblematici di una situazione divenuta insostenibile perché le BR
stanno scoprendo di non aver più un vero ''cervello". Mario Moretti, infatti,
dopo il caso Moro, pur restando il capo dell'organizzazione, non ha più il
carisma di prima. Il nucleo di fedelissimi raccolti attorno a lui appare
quanto mai artificioso. Il suo carattere incerto trova riflessi nella mancanza
di una strategia politica reale per le BR che stanno lentamente, ma
inesorabilmente, diventando una banda di assassini che uccide senza più
avere alcun collegamento né nelle fabbriche, né a livello di settori
dell'autonomia, ormai del tutto ripiegati su se stessi. Una banda armata che
fa sempre più fatica a reclutare nuove leve; che ha talmente ideologizzato il
simbolo che spesso colpisce alla rinfusa, senza programma, né
coordinamento tra un'azione e l'altra. Una banda che oltretutto ha tagliato i
ponti con i brigatisti in carcere i quali criticano sia l'atteggiamento che
Moretti ha nei loro confronti (li usa di fatto solo per fare i documenti), sia
la mancanza di un vero "programma rivoluzionario".
Ma c'è di più. Dopo che è stato reso noto l'arresto di Peci, ogni colonna ha
preso ad andare per proprio conto.
I genovesi, dopo via Fracchia, sono letteralmente scomparsi dalla scena28 e
quelli rimasti - come Gregorio Scarfò o Livio Baistrocchi - o sono
"emigrati" a Roma oppure direttamente all'estero.
La colonna veneta è ancora in formazione e il 12 maggio ha scelto come
obiettivo l'attacco diretto contro le forze dell'ordine, uccidendo a Mestre
Alfredo Albanese, funzionario della Digos, un "alziamo il tiro", anche
questo, del tutto simbolico, venato da un certo isterismo azionista.
In formazione è anche la colonna napoletana che ha fatto il suo esordio il
16 marzo a Salerno, colpendo a morte il procuratore capo Girolamo
Minervini.
La colonna milanese, che dispone di pochissimi militanti, si è invece
rifondata da poco, dopo i colpi ricevuti nel '78 con la scoperta del
"prezioso" covo di via Montenevoso. Si chiama "colonna Walter Alasia",
ma ormai con le Brigate Rosse ha poco a che spartire. È in aperta polemica
con la direzione strategica ed ha scelto, sotto la guida di un ex militante
28
L'ultima azione delle Brigate rosse a Genova risale al 24 marzo 1980, esattamente quattro giorni prima
della scoperta dell'appartamento di via Fracchia. Si tratta del ferimento del consigliere comunale DC,
Giancarlo Moretti.
dell'autonomia con esperienze sindacali e una visione molto operaista,
come Vittorio Alfieri, di accentuare la linea "fabbrichista", da tempo
abbandonata dalle BR morettiane. Tiene nel suo mirino dirigenti di
aziende, come Pietro Dellera dell'Alfa Romeo (ferito il 21 febbraio), ma sta
preparandosi al “salto” verso l'omicidio (cadranno in novembre il capo del
personale della Marelli, Renato Briano e il direttore di uno stabilimento
della Falk, Manfredo Mazzanti). A Moretti quelli dell'"Alasia"
rimproverano tutto: la mancanza di strategia in generale, l'isolamento
politico in cui ha cacciato le BR in particolare, il tradimento dei legami con
la classe operaia. Verranno espulsi sul finire dell'80.
Il "cuore" delle Br è quindi a Roma, dove l'organizzazione dispone del
maggior numero di basi e militanti e dove soprattutto sta mettendosi in luce
un nuovo "cervello": Giovanni Senzani.
Chi è Senzani?
"Per me - risponde Franceschini, che ammette però di non averlo mai conosciuto,
anche se la sua linea politica per un po' lo ha convinto - potrebbe essere chiunque. Un
pazzo. Un estremista della peggior specie. Qualcuno ha parlato anche di servizi segreti.
Non so davvero come definire Senzani. Sicuramente in una certa fase, direi dalla fine
dell'80 al suo arresto, ha dimostrato di essere uno dei pochi cervelli delle Brigate
29
rosse" .
A distanza di anni, se c'è nel panorama eversivo italiano una figura che non
ha mostrato per intero la sua faccia costui è proprio Giovanni Senzani.
Cognato di Enrico Fenzi (ritenuto da alcuni un ideologo sottile, fedelissimo
di Moretti), Senzani è un professore di criminologia che non si sa con
esattezza né come, né quando approdi alla lotta armata. È infatti, ad oltre
vent’anni dalla sua cattura (gennaio 1982), proprio Senzani l'unico
brigatista di rilievo che non abbia accettato interviste e che si è sempre
sottratto a qualsiasi dichiarazione.
Le biografie ufficiali lo vogliono in contatto con l'estremismo armato fin
dal 1974-75 quando, impiegato alla biblioteca comunale di Torre del
Greco, vicino Napoli, fa da “consulente” ai NAP per il sequestro del
magistrato Giuseppe Di Gennaro.
C'è però chi lo vuole in contatto con ambienti del ministero della Giustizia
nel 1977-78 e lo indica come "la talpa" delle uccisioni avvenute, entrambe
nel '78, dei magistrati Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, ambedue
funzionari del settore carceri presso il ministero.
C'è perfino un "pentito" che lo indica in contatto con settori dei servizi
segreti militari30.
29
Da un colloquio con gli autori.
Le notizie certe parlano invece di Senzani, arrestato nella primavera del
1979 in quanto componente del comitato toscano delle Brigate rosse dal
giudice fiorentino Pierluigi Vigna e rimesso in libertà poco dopo. Sarebbe
in questo periodo che comincia la sua scalata all'interno dell'organizzazione
dove prende in breve tempo il posto di Prospero Gallinari, arrestato nel
settembre 1979, all'interno della direzione strategica delle BR.
Ritenuto da Moretti uno dei pochi "veri intellettuali", assieme a Fenzi, da
lui conosciuti nelle Brigate Rosse, Senzani assume nell'estate 1980 il
compito di ricostruire la colonna napoletana, dopo le perdite subite (arresto
di Luca Nicolotti e Bruno Seghetti) con l'azione che ha portato all'uccisione
del consigliere regionale democristiano della Campania, Pino Amato
(Napoli, 19 maggio).
Ma Senzani si muove molto, sul finire dell'80, tra Napoli e Roma. Il suo
scopo è quello di assumere il comando di tutta l’organizzazione armata e
suo è il progetto e la messa a segno di un'azione vincente sotto diversi
profili che rilanci in modo deciso il ruolo finora confuso e inutilmente
sanguinario dell'organizzazione: il sequestro del giudice romano Giovanni
D'Urso, un alto funzionario delle carceri presso il ministero di Grazia e
Giustizia.
Nell'ottica delle BR, per i risultati che darà, si tratta di un'azione esemplare:
D'Urso non verrà ucciso, ma liberato dopo una trattativa fruttuosa per i
terroristi; l'operazione aprirà gravi contrasti nel mondo della stampa sul
"pubblicare-non pubblicare" i comunicati delle BR; un filo verrà
riallacciato con i brigatisti detenuti perché a loro viene affidata l'ultima
parola sulla sorte del magistrato.
Spetterà infatti al "comitato unitario" del carcere di Palmi e al "comitato di
lotta" di quello di Trani decidere se D'Urso debba essere ucciso o meno.
Sequestrato il 12 dicembre 1980 (ancora una data simbolica, trattandosi
dell'undicesimo anniversario della strage di piazza Fontana), D'Urso viene
rilasciato dopo 24 giorni di prigionia, il 5 gennaio 1981, legato e
30
I1 "pentito" è Roberto Buzzati - condannato nel 1988, con sentenza definitiva, per il sequestro di
Roberto Peci - secondo il quale Senzani avrebbe mantenuto rapporti con i servizi proprio durante quel
sequestro.
Ad indicare Senzani come legato al SISMI è anche Luciano Bellucci, in rapporti con Alvaro Guardili,
intimo del faccendiere Francesco Pazienza (costui agente dichiarato del SISMI). Bellucci, nel periodo
1968-72, aveva coabitato con Senzani.
C'è inoltre da segnalare che il deputato radicale Massimo Teodori, che ha fatto parte della commissione
parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2, nel citare un documento agli atti della stessa commissione,
sostiene: "non si può affermare che Senzani era un infiltrato, ma appare sempre più chiaro che
all'interno delle BR abbia fatto strani giochi. Ed è certo che tra parte delle BR e parte dei servizi segreti
il discorso era aperto, da tempo" (Cfr. Panorama 13-8-1984).
Si tratta, quindi, non di prove, ma di supposizioni in qualche modo avallate soprattutto dal ruolo avuto da
Senzani nel sequestro dell'assessore democristiano della Campania, Ciro Cirillo, liberato grazie
all'intervento, oltre che della camorra, dello stesso SISMI.
Altri dubbi sui reali legami di Senzani con apparati statali sono nati quando si è diffusa la notizia che, pur
essendo un detenuto in isolamento, era stato affidato proprio a lui il compito di insegnare l'italiano al
turco Ali Agca, l'attentatore del Papa.
imbavagliato nel bagagliaio di un'auto (un altro simbolo che ci riporta al
bagaglio della Renault 4 che conteneva il cadavere di Moro, come a voler
sottolineare la diversa conclusione dei due sequestri, il primo gestito da
Moretti, il secondo da lui, Senzani).
In cambio le BR - che il 31 dicembre 1980, a sequestro ancora in corso,
hanno ucciso, sempre a Roma, il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi ottengono la chiusura del carcere dell'Asinara, la "cayenna italiana".
Galvaligi è stato ucciso come se nella sua rinnovata strategia Senzani abbia
voluto mettere "una ciliegina di morte" sulla "torta del caso D'Urso".
Il 29 dicembre sono stati, infatti, proprio i carabinieri dei reparti
specializzati del GIS a soffocare la rivolta brigatista nel carcere di Trani e
Galvaligi era il vice responsabile dell'ufficio che sovrintende ai carabinieri
di guardia all'esterno delle carceri.
Il comunicato finale delle BR sfugge ai soliti toni paleorivoluzionari e
sposa in pieno un cinismo che ben si addice alla figura di Senzani:
"La borghesia ha, adesso, un altro problemino: che fare di un aguzzino pentito? Perché
D'Urso è proprio un aguzzino pentito. Ha collaborato con la giustizia proletaria, ci ha
rivelato nei minimi dettagli i progetti, le strutture e gli uomini che, a partire dal
ministero di Grazia e Giustizia fino ai nodi periferici, sovrintendono alla strategia
dell'annientamento. In questo comportamento non ravvisiamo un ravvedimento morale
di cui è incapace, ma una scelta politica di cui sappiamo tenere conto. Per anni la
stampa di regime si è affannata a trovare una talpa del ministero di grazia e giustizia.
Adesso gliene forniamo una noi, con nome e cognome: Giovanni D'Urso. Avevamo
detto che l'opportunità di eseguire o di sospendere la condanna a morte di Giovanni
D'Urso doveva essere valutata politicamente dalle Brigate Rosse e dagli organismi di
massa rivoluzionari dentro le carceri. Gli obiettivi politici e militari sono stati
ampiamente raggiunti. Il movimento dei proletari prigionieri, il movimento
rivoluzionario, le Brigate Rosse hanno conseguito una grande vittoria In considerazione
di tutto ciò la giustizia proletaria acconsente ad un atto di magnanimità.
La sentenza viene sospesa e il prigioniero D'Urso rimesso in libertà".
Il magistrato Giovanni d’Urso - contrariamente a quanto affermato nel
comunicato brigatista – ha sempre smentito qualsiasi sua forma di
“collaborazione” con i suoi rapitori.
10. Prima linea: verso l'ultima spiaggia
Se Giovanni Senzani e le sue "nuove" BR rilanciano con il caso D'Urso
l'immagine di un'organizzazione ancora capace di tenere in scacco lo Stato,
ben diversa è la sorte che spetta a Prima Linea. In eterna competizione con
le stesse Brigate Rosse, PL - dopo la conclusione del sequestro Moro - ha
scelto una collocazione più movimentista, ma non per questo meno
militarista, proprio per continuare affannosamente a distinguersi. E per
farlo meglio colpisce quasi a casaccio, ferendo dirigenti d'azienda, medici,
assessori di piccoli comuni della cintura torinese, architetti che progettano
carceri, magistrati che curano l'esecuzione degli sfratti.
Uccidono anche un criminologo napoletano, Alfredo Paolella, reo di
collaborare con i funzionari degli istituti carcerari. Poi, dopo l'assurdo
omicidio del giudice Alessandrini - e siamo agli inizi del '79 - Prima Linea
va completamente in tilt. I suoi ragionamenti, solo all'apparenza tanto
sofisticati (abbiamo visto le giustificazioni proprio per il delitto di
Alessandrini), diventano incomprensibili persino per la zona politica più
attigua, quella dell'autonomia operaia.
Una strana forma di esistenzialismo paranoico sembra assalire il gruppo.
Ma non è una malattia. È solo la continuità, portata al parossismo, della
loro premessa politica. Quel sentirsi paladini di un mondo di sfruttati che
vedono contrapposto a quello degli sfruttatori. Il loro progetto non sta
nell'abbattere questo tipo di Stato, ma nell'essere la "prima linea", appunto,
di un immaginario anti-Stato. E quando se ne accorgono, lo "spontaneismo"
prende il sopravvento.
Nel '79 hanno ucciso un barista, Carmine Civitate, per vendicare due loro
compagni, Barbara Azzaroni e Matteo Cageggi, morti ammazzati dalla
polizia, pare chiamata proprio da quel barista. Poi, nel dicembre dello
stesso anno, hanno assaltato una scuola di formazione aziendale a Torino,
mettendo cinque docenti e altrettanti studenti contro un muro e sparando
loro alle gambe. Convinti cosi di attaccare un "laboratorio" della
ristrutturazione capitalista.
Il 1980 è invece l'anno della follia pura: punire un presunto "pentito", che
ha soltanto sfiorato l'organizzazione (William Waccher); uccidere un
magistrato che ha preso il posto di Alessandrini e continua le indagini su
PL (Guido Galli); sparare alla testa di un architetto romano incaricato di
ristrutturare il carcere di Rebibbia (Sergio Lenci). Poi il tracollo. La slavina
dei "pentiti".
11. Pentirsi è bello?
L'organizzazione armata, la clandestinità, le prospettive di una vita in gioco
e per sempre sono diventate sempre più un fardello enorme per coscienze
inquiete, ma al fondo mosse da una ideologia fragile, che dietro le sbarre
frana con lo stesso rigore con cui si è sedimentata. Da Peci in poi, fino al
31 agosto 1982, saranno 357 i terroristi "pentiti"31.
Checché ne dicano ancor oggi diversi brigatisti del nucleo storico, il
"pentitismo", se ha distrutto completamente organizzazioni come Prima
Linea, ha rappresentato anche per le BR un rospo duro da digerire. In fondo
31
L'elenco completo dei terrorisiti "pentiti" al 31 agosto 1982 è stato pubblicato in: Comnissione
parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l'uccisione di Aldo Moro e sul terrorismo
in Italia - Doc. XXIII, n. 5 - vol. ventottesimo - Roma 1988, pagg. 159-531.
il "progetto pentiti", studiato a tavolino da Cossiga e Dalla Chiesa, ed
avallato in tutte le sue forme dall'intero arco politico, con esclusione dei
radicali, dei missini e di una parte esigua dell'ex "nuova sinistra", era la
chiave di volta, la mossa vincente dello Stato. Si trattava di battere il
terrorismo sul suo stesso terreno: respinto il rischio della trattativa globale,
veniva imboccata la via della trattativa con il singolo. Una strategia
vincente proprio grazie all'indebolimento ideologico e politico che il
fenomeno eversivo, con l'andare del tempo, stava subendo.
È il "pentitismo" che ha sconfitto politicamente l'ipotesi della lotta armata
in Italia oppure è stata la sconfitta politica che, attraverso il "pentitismo",
ha ridotto quantitativamente – e in modo progressivo - l'area eversiva
presente nel paese?
Per chi è convinto che i progetti di ribellismo armato in Italia siano esauriti
la domanda non può che sembrare retorica.
Ma così non è. Come ogni fenomeno che riesca ad assumere dimensione
nazionale, anche il terrorismo ha in Italia un suo “zoccolo duro". È lo
"zoccolo duro" dell'ideologia, della convinzione personale ed
interpersonale del diritto - per quanto sbagliato esso possa essere giudicato
- alla opposizione armata. Ed è per questo che, all’inizio del terzo
millennio, la parola terrorismo anche in Italia non è un’espressione desueta
e che uomini armati facciano ancora la loro comparsa sulla scena della vita
quotidiana.
In pochi si sono chiesti chi sono davvero i "pentiti" del terrorismo italiano.
Nessuno ha mai analizzato, ed è una ricerca tutta da fare, quali personalità
individuali, che tipo di militanti, quali scelte politiche si nascondano
realmente dietro le scelte dei "pentiti".
Nessuno si è mai chiesto perché non esista un solo terrorista del "nucleo
storico" che, pur avendo davanti a sé anni e anni di galera, abbia imboccato
questa via.
La risposta è semplice e sta nell'ordine delle cose: il "pentitismo" è la scelta
di chi non ha alcun "background" politico.
Di chi è giunto alla scelta armata sulla spinta della sola "ideologia
dell'azione" senza alcuna "ideologia del pensiero".
Non si tratta, come qualcuno ha lasciato intendere, soltanto di pure scelte di
comodo del tipo: "mi pento così evito di stare in galera per troppo tempo".
Oppure: “mi pento perché non credo più in quello che ho fatto".
Il discorso è più complesso: il "pentitismo", pur restando una scelta nella
sfera del personale, rappresenta un atteggiamento politico complessivo. Il
"pentito" non è "un miserabile" tout court, come ha osservato Oreste
Scalzone. Non è "un miserabile" perché fa arrestare decine e decine di
persone con cui fino ad un attimo prima ha condiviso scelte sbagliate. È
"un miserabile" perché impregnate della miseria del suo pensiero erano le
sue scelte politiche precedenti. Perché ha scelto di diventare un terrorista,
ignorando che prima di mettere la vita degli altri in gioco, stava ponendo la
sua esistenza a disposizione di qualcosa che un gioco non era.
Ed è facile "pentirsi" di ciò in cui non si crede. O in cui si crede solo con il
velleitarismo parolaio. E non è un caso che la maggiore percentuale di
"pentiti" si sia registrata, ancor più che in Prima Linea e nei gruppetti del
"terrorismo diffuso", nelle fila delle organizzazioni armate nere32.
Dice, a questo proposito, un "non pentito" come il leader di estrema destra
Paolo Signorelli:
“Io ritenevo che la peculiarità della nostra Weltanschauung non avrebbe consentito il
manifestarsi del fenomeno del 'pentitismo' tra le nostre file; ma evidentemente per molti
era stato più importante sembrare che essere. Tant'è che numerosi giovani, e meno
giovani, che si atteggiavano a 'guerrieri senza sonno', posti dinanzi alla prospettiva del
carcere duro hanno scelto la via della resa, della delazione, dell'impostura, dell'infamità
(...). Aleandri, che su Costruiamo l'azione aveva scritto nel 1978 'vogliamo la morte
degli infami... E fosse per un giorno, fosse per un'ora, ritorneremo ad alzare il grido di
guerra... Che trionfi la Rivoluzione!', diverrà 'infame' subito dopo o e verrà ritenuto uno
'studioso sereno e distaccato'. Calore aveva scritto sempre su Costruiamo l'azione nel
1983 un articolo estremamente virulento contro i magistrati, minacciandoli di fargli fare
la fine di Occorsio, diverrà amico e collaboratore stimatissimo dei giudici di tutta Italia.
Ebbene, con Aleandri e Calore sostenni una serie di scontri perche io venivo accusato
da loro di rimanere troppo ancorato a posizioni di 'destra', mentre io esternavo a loro la
preoccupazione che i colpi di acceleratore verso 'sinistra' avrebbero condotto a snaturare
l'iniziativa sorta con l'obiettivo di creare un'area nuova per idee nuove"33.
Un velleitarismo parolaio quindi che arriva all'azione sull'onda emotiva,
senza alcun retroterra politico.
Lo stesso vuoto che avvolge anche una formazione di "ragazzini" come
quella della Brigata XXVIII marzo, stroncata, pur essendo infiltrata dai
carabinieri34, solo dopo l'omicidio del giornalista Walter Tobagi (Milano,
28 maggio 1980).
32
Secondo l'avv. Stefano Menicacci (colloquio con gli autori) difensore di numerosi imputati per reati di
terrorismo dell'estrema destra, fra cui anche Stefano Delle Chiaie, nell'analizzare la validità delle
confessioni di un pentito, la magistratura dovrebbe tenere conto di tre punti: "In primo luogo andrebbe
condotta un'indagine sulla personalità dei pentiti per valutare l'attendibilità delle loro dichiarazioni;
secondo: bisognerebbe accertare di volta in volta se le informazioni rese dai pentiti siano state acquisite
al processo in maniera legale; terzo: che le loro informazioni legalmente acquisite siano verificate con i
criteri da sempre adottati della prova penale, escludendo che premesse costruite su criteri astratti e
massime giurisprudenziali, valide solo nel processo in cui furono rese, possano automaticamente servire
come chiavi atte ad aprire anche in certi processi la difficile porta della verità".
33
34
Da lettere scritte dal carcere agli autori da Paolo Signorelli. Cit.
L'infiltrato è Rocco Ricciardi, confidente dei carabinieri per quasi un anno e mezzo (dal marzo 1979
all'ottobre 1980) il cui ruolo emergerà, con molto clamore, soltanto nel 1985, durante il processo di primo
grado per il delitto Tobagi. Secondo quanto lo stesso Ricciardi riferirà durante il dibattimento, i
carabinieri sarebbero stati da lui avvertiti che un attentato era in preparazione contro "qualcuno della
stampa". Ai carabinieri - stando alle sue dichiarazioni - Ricciardi avrebbe fatto anche il nome di Walter
Tobagi: "fu una mia ipotesi personale e in questi termini la riferii ai carabinieri" (Cfr. brani della
deposizione di Rocco Ricciardi in L 'Unità 14-6- 1985) .
È proprio per l'assassinio di Tobagi che Marco Barbone, 22 anni, una volta
arrestato, non esiterà a fare i nomi di decine e decine di giovani militanti di
movimento (è stato detto addirittura centinaia), alcuni dei quali per nulla
passati alla lotta armata o in essa con ruoli del tutto marginali.
Tant'è che la logica del "pentimento" (che resta pur sempre un modo facile
per uscire di galera e cancellare il proprio passato) - come abbiamo già
detto - non ha coinvolto chi, come i brigatisti del "nucleo storico", un
retroterra politico lo aveva e - per quanto dannatamente sbagliato sia stato lo difende oggi come ieri quando sparava o si organizzava in banda armata
contro lo Stato.
La storia dei "pentiti" è storia tremenda. Storia di coscienze, di
opportunismi, di madri in lacrime che convincono i figli. Di drammi
personali. Ma e anche una storia di intrighi, di vendette personali. Di strane
morti. Come quella del "superpentito nero" Stefano Tisei, trentunenne, ex
parà, ex militante di Ordine Nuovo, protagonista discusso e ambiguo di
quasi tutte le inchieste sull'eversione di estrema destra, trovato morto in
uno squallido alberghetto di Milano con una siringa infilata nel braccio.
Causa della morte: overdose di eroina. Una morte davvero strana la sua,
come strana era la sua figura, a metà tra l'informatore dei Servizi (gli
inquirenti lo chiamavano scherzosamente "il maresciallo") e il provocatore
vecchio stile. Un uomo d'ordine, ma al tempo stesso uno sbandato,
eroinomane, millantatore e ricattabile che con le sue accuse ha spedito in
galera più di 150 persone.
Lo trovano la mattina del 26 novembre 1988 sdraiato sul letto di una stanza
d'albergo nei pressi della stazione centrale, sul prezzo della quale aveva
ottenuto uno sconto, mostrando il tesserino da poliziotto. Tisei, condannato
a sette anni di reclusione per i suoi trascorsi neofascisti, aveva scontato solo
qualche giorno di carcere, poi, misteriosamente, era uscito di galera. E
misteriosamente era morto, qualcuno dice "suicidato" perché forse, anche
lui, sapeva troppo.
Ma, si dirà, la storia dei "pentiti" resta una storia efficace perché ha
permesso di disarticolare militarmente un fenomeno endogeno alla società
italiana. Ma un fenomeno che è politico Si può sconfiggere solo sul piano
militare? Oppure basta dire che "il terrorismo" è stato sconfitto
politicamente perché non ha trovato il retroterra necessario? Che cosa ha
fatto lo Stato per battere sul terreno dell'ipotesi politica futura l'eversione?
Oppure l'importante è relegare il pensiero armato nell'ambito del solo
pensiero perché le armi non sparino più?
Interrogativi a cui nessuno, ancora oggi, può dare una risposta netta ed
inequivocabile.
La risposta è affidata alla storia di questo paese. Come le è affidata un'altra
risposta. Lo Stato ha davvero fatto tutto per porre fine all'ipotesi armata?
Fonte: Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato – La notte più lunga della
Repubblica. Ideologie, estremismi, lotta armata – Serarcangeli, Roma 1989.
Ripubblicato in: A che punto è la notte? – Vallecchi, Firenze 2003.
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